Diventando Indiana Jones

di IndianaJones25
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Princeton, New Jersey, luglio 1899 ***
Capitolo 2: *** Green Mountain National Forest, Vermont, aprile 1904 ***
Capitolo 3: *** Princeton, New Jersey, maggio 1905 ***
Capitolo 4: *** Porto di Southampton, Inghilterra, febbraio 1908 ***
Capitolo 5: *** Piana di Giza, Chedivato d’Egitto, maggio 1908 ***
Capitolo 6: *** Vienna, Impero austro-ungarico, novembre 1908 ***
Capitolo 7: *** Africa Orientale Britannica, settembre 1909 ***
Capitolo 8: *** Atene, Grecia, aprile 1910 ***
Capitolo 9: *** Princeton, New Jersey, giugno 1910 ***
Capitolo 10: *** Bedford, Connecticut, febbraio 1911 ***
Capitolo 11: *** Moab, Utah, luglio 1912 ***
Capitolo 12: *** Moab, Utah, giugno 1914 ***
Capitolo 13: *** Messico, aprile 1915 ***
Capitolo 14: *** Somme, Francia, ottobre 1916 ***
Capitolo 15: *** Vienna, Impero austro-ungarico, marzo 1917 ***
Capitolo 16: *** Alpi Giulie, Regno d’Italia, agosto 1917 ***
Capitolo 17: *** Parigi, Francia, dicembre 1918 ***
Capitolo 18: *** Fiume, Reggenza italiana del Carnaro, ottobre 1919 ***
Capitolo 19: *** Princeton, New Jersey, novembre 1919 ***
Capitolo 20: *** Chicago, Illinois, novembre 1919 ***
Capitolo 21: *** Chicago, Illinois, aprile 1920 ***
Capitolo 22: *** Bedford, Connecticut, marzo 1921 ***
Capitolo 23: *** Chicago, Illinois, dicembre 1921 ***
Capitolo 24: *** Isole Trobriand, Nuova Guinea, maggio 1922 ***
Capitolo 25: *** Isole Filippine, gennaio 1923 ***
Capitolo 26: *** Palmira, Mandato francese di Siria, luglio 1923 ***
Capitolo 27: *** Scozia, Regno Unito, febbraio 1924 ***
Capitolo 28: *** Chicago, Illinois, giugno 1925 ***
Capitolo 29: *** Bedford, Connecticut, giugno 1925 ***
Capitolo 30: *** Foresta Amazzonica, Brasile, luglio 1925 ***



Capitolo 1
*** Princeton, New Jersey, luglio 1899 ***


I.
PRINCETON, NEW JERSEY, LUGLIO 1899

   Era una giornata bellissima, calda e assolata. Non una sola nuvola lambiva il cielo terso. Nel giardino, le chiome degli alberi frusciavano adagio, smosse da una lievissima e tiepida brezza che, di quando in quando, soffiava da oriente; un venticello estivo, che dissipava l’umidità e rendeva più piacevole l’aria. A contornare e a rendere ancora più gradevole quel quadretto contribuivano le cicale, il cui frinire incessante e festoso entrava nella stanza attraverso il vetro socchiuso della finestra.
   Il professor Jones, che aveva gettato un breve sguardo a quel bel paesaggio, tornò a rivolgere le sue attenzioni a un’immagine ancora più dolce e deliziosa. Il suo petto si sollevò in un lungo sospiro.
   Per alcuni lunghissimi istanti, Henry era stato sicuro che suo figlio, venuto al mondo soltanto da un’ora, fosse una specie di furia della natura. Non avrebbe saputo come altrimenti definirlo.
   Si era comportato come un forsennato, stringendo e agitando i piccolissimi pugni e urlando con una voce da spaccare i timpani. Era riuscito persino a coprire i latrati di Indiana che, chiuso fuori dalla porta, abbaiava e graffiava per farsi aprire.
   Soltanto quando aveva avvicinato una mano, il piccolo Junior sembrava essersi calmato. L’aveva osservata con curiosità e, subito, aveva stretto le sue microscopiche manine attorno al suo pollice. In quel momento, Henry si era sentito sciogliere il cuore e si era reso conto di quale incredibile miracolo gli fosse capitato. Lui, che aveva fatto della ricerca del Santo Graal lo scopo della propria esistenza, nel volgere di pochi istanti aveva compreso che il vero miracolo non stava racchiuso in una coppa misteriosa nascosta chissà dove, bensì lì, in quella piccola creaturina pimpante in cui, mischiati per sempre, scorrevano il sangue suo e di Anna. Il frutto più dolce, più bello, più desiderabile del loro amore.
   Alzò gli occhi al volto stanco ma gioioso di sua moglie. Il parto l’aveva sfibrata, era sudata e lunghe ombre le contornavano le palpebre, eppure irraggiava una felicità e una serenità che, una volta di più, gli lambirono il cuore e lo resero felicissimo.
   «Anna…» mormorò, con un sorriso.
   Lei non rispose. Non era il momento di parlare. Ciò che era appena avvenuto tra di loro era un qualcosa che andava ben oltre ciò che avrebbero potuto esprimere le semplici parole. Si limitò a ricambiare il sorriso, con una dolcezza sconfinata.
   Junior staccò le piccole dita dal pollice di Henry e ricominciò a urlare, se possibile ancora più forte rispetto a prima. Il padre lo fissò con un misto di panico e di curiosità, domandandosi che cosa potesse aver combinato per scatenare quella reazione.
   Senza sapere perché, si sentì colpevole. Non poteva nascondere a se stesso di avere paura. Il loro bambino era stato pensato, era stato cercato a lungo ed era arrivato come sognavano; eppure, dentro di sé, non si sentiva ancora pronto a essere genitore. Poteva soltanto sperare che il tempo gli insegnasse a compiere anche quella sacra missione, la più difficile e insieme intrigante di tutte. Crescere un figlio.
   Anna, invece, comprese subito, senza nemmeno bisogno di riflettere, ciò che le stava chiedendo il suo bambino. Slacciò il nastro che le chiudeva attorno al collo la camicia da notte e snudò il seno. Poi avvicinò Junior alla mammella e il piccolo si quietò all’istante, cominciando a poppare serenamente.
   Henry ammirò quella scena meravigliosa cercando di non far notare che aveva le lacrime agli occhi per la commozione. Gli sembrava di stare contemplando una Madonna del latte rappresentata dai grandi artisti del passato. Era la sua personale natività, e non poteva esserne più orgoglioso e contento.
   Henry Jones Senior - Attila il Professore, come lo chiamavano i suoi studenti - si sentì la barba inumidita. Intollerabile, per un uomo nella sua posizione, mostrare quelle emozioni così umane.
   Per non dare nell’occhio, andò ad aprire la porta per far entrare Indiana, in maniera che la smettesse con quel suo concerto di latrati. Mentre tratteneva il grosso cane per il collare, impedendogli di saltare sul letto, si rese veramente conto che, da quel giorno in avanti, la sua vita non sarebbe più stata la stessa.


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Capitolo 2
*** Green Mountain National Forest, Vermont, aprile 1904 ***


II.
GREEN MOUNTAIN NATIONAL FOREST, VERMONT, APRILE 1904

   Il viaggio in carrozza, organizzato per il lunedì di Pasqua, era sembrato interminabile, specialmente agli occhi del piccolo Junior; si erano messi in viaggio che era ancora buio ed erano giunti a destinazione con il sole già alto nel cielo del mattino. Ma ne era davvero valsa la pena e la stanchezza era stata dimenticata molto in fretta.
   Il luogo era meraviglioso, una vera fiaba da vivere a occhi aperti. La foresta si snodava sui versanti delle alte e aguzze montagne, tra anfratti e rocce in mezzo alle quali gorgogliavano i torrenti cristallini e si tuffavano le ardite cascate dalle acque gelide e spumeggianti. I raggi del sole, cadendo perpendicolari al suolo, formavano fantastici giochi di luce tra gli aghi intrecciati degli abeti e le foglie ancora tenere delle querce.
   Mentre, porgendole una mano, aiutava Anna a scendere dal cocchio, Henry ebbe appena il tempo di ordinare: «Junior, resta dove possiamo vederti!», che suo figlio e il grosso cane si erano già lanciati sui declivi erbosi e punteggiati di piccoli fiori variopinti su cui danzavano le api e altri insetti, ridendo e abbaiando come matti.
   Ogni svolta nascondeva un segreto, ogni saliscendi un tesoro, ogni cascatella sembrava un fiume impetuoso, da affrontare con il medesimo ardire dei protagonisti dei suoi romanzi preferiti, quelli di Jules Verne e di Henry Rider Haggard, che la mamma gli leggeva ogni sera prima di metterlo a letto. Era tutta un’avventura fantastica e Junior giurò a se stesso che, in vita sua, avrebbe voluto vivere mille altre imprese fantastiche proprio come quella.
   «Vieni, Indiana!» gridò, percorrendo di corsa il perimetro di uno stagno, attorno alle cui rive crescevano canne nel cui fitto gracidavano placide le rane. Ma lui, invece di un laghetto vi vedeva un mare misterioso e senza confini, solcato dai galeoni dei pirati; e la sponda era in realtà una spiaggia sotto le cui sabbie era nascosto un forziere pieno di dobloni d’oro, che attendeva soltanto di essere riportato alla luce.
   Dietro una pietra, poi, scoprì un bellissimo serpente, verde e grigio, la cui pelle liscia risplendeva nella luce. Indiana abbaiò, diffidente. Junior, invece, restò a guardarlo incantato mentre, dopo aver saettato un paio di volte la lingua, srotolava le sue lunghe spire e si allontanava con movimenti sinuosi in cerca di un posto più tranquillo dove poter continuare a riposare in pace. Era davvero stupendo e non riusciva a capire come facessero certe persone - per esempio, la mamma - ad avere paura di animali tanto curiosi e affascinanti. Inconcepibile!
   Anna, dopo aver steso in terra una tovaglia, cominciò a imbandirla con uova sode, torte, panini imbottiti e altre leccornie che aveva preparato; Henry, invece, pur tenendo un occhio attento al figlio per accertarsi che non si facesse male, prese dalla carrozza uno sgabello che aveva portato con sé e, tolto dalla tasca della giacca il suo taccuino e inforcati gli occhiali, cominciò a leggerlo e a scriverci sopra di quando in quando con aria assorta.
   Finalmente, venne il momento del pranzo, e tutti si riunirono per il pic-nic. Junior, sudato e felice, assaporò i manicaretti preparati dalla mamma dividendo ogni boccone con Indiana, che gli avvicinava il muso al volto ogni volta che desiderava qualcosa da mangiare. E forse fu a causa di un bicchiere di vino di troppo che, subito dopo mangiato, a Henry venne l’idea di insegnare a suo figlio ad arrampicarsi sugli alberi.
   «Ecco qua, Junior» disse, tra il serio e il faceto, dando una manata al tronco di un grosso e alto abete secolare. «Sta’ a vedere.»
   Tolti giacca e cappello, abbracciò il legno e, dopo averlo studiato per alcuni istanti, iniziò a salire verso la chioma con l’agilità di una scimmia.
   Junior cominciò a ridere e Indiana si mise a saltellare tutt’attorno, scodinzolando e abbaiando. Anche Henry rideva, arrampicandosi sempre più in alto. Soltanto Anna sembrava piuttosto apprensiva.
   «Henry, per l’amor di Dio, fa attenzione!» continuava a ripetere, agitando la mano come per poterlo prendere al volo nel caso che fosse precipitato. «Va bene, sei bravo, sei salito abbastanza in alto, ora però scendi! Non credi che sia sufficiente? Henry, attento! Mio Dio, Henry, mi pare che ormai abbiamo capito tutti le tue doti da rocciatore, no?» Eppure si vedeva benissimo che, sotto l’apprensione, si stava divertendo anche lei.
   Henry Senior balzò finalmente in terra e si prodigò in un teatrale inchino di ringraziamento al battimani che gli fu tributato da moglie e figlio. Poi spazzolò la camicia e il panciotto dalla polvere e dalla corteccia che vi erano rimaste sopra, si pulì le mani in un fazzoletto e, ripresa la giacca, disse: «Ora però ho proprio bisogno di un altro goccetto. Arrampicarsi mette sete, sapete?»
   Junior guardava suo padre come non lo aveva mai visto. Era abituato a vederlo freddo e distaccato, seduto dietro la sua scrivania. Chi avrebbe potuto immaginare che, sottosotto, quell’uomo sempre tanto distaccato nascondesse uno spirito avventuroso?

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Capitolo 3
*** Princeton, New Jersey, maggio 1905 ***


III.
PRINCETON, NEW JERSEY, MAGGIO 1905

   Il signor Julius Steinman, il severissimo maestro di scuola, che da oltre mezzo secolo insegnava i fondamenti della grammatica, della storia e della geografia ai ragazzini di Princeton e di tutto il circondario, faceva stridere atrocemente il gessetto tracciando sulla lavagna le prime lettere dell’alfabeto.
 
A B C D E F

   Il compito degli scolari era copiarle con diligenza e con mano ferma perché, come aveva detto l’insegnante il primissimo giorno di scuola, «la prima cosa fondamentale nell’istruzione è imparare a scrivere e a leggere. Chi non lo sa fare, è destinato a farsi prendere in giro per tutta la vita, ed è giusto che sia così, perché i somari non meritano altro. Ma io non voglio che si dica che i miei studenti sono diventati dei falliti. Sono stato chiaro, ragazzi?» In verità, per lui, le nuove generazioni erano talmente impregnate di ignoranza da essere intimamente convinto che la scrittura, di lì a pochi anni, sarebbe stata una scienza dimenticata e perduta, riservata a pochi eletti soltanto.
   Il problema era che Junior conosceva già alla perfezione non solo l’alfabeto latino, bensì anche quello greco.
   Suo padre si era premurato di insegnarli a leggere e a scrivere fin da quando era piccolissimo, deciso a farlo diventare un serio studioso di letteratura, proprio come lui. E non si era limitato a quello. Se gli altri bambini si addormentavano ascoltando le fiabe di Cappuccetto Rosso o le avventure di Sindbad il marinaio, a lui, ogni sera, toccava ripetere a memoria un passo della Gerusalemme liberata oppure del Racconto del Graal di Chrétien de Troyes. Per fortuna che aveva almeno il pomeriggio a sua disposizione, per leggere i suoi romanzieri preferiti.
   Dire, quindi, che adesso si stesse annoiando, sarebbe stato un eufemismo.
   La giornata primaverile che splendeva fuori dall’alta finestra, poi, era così invitante e tentatrice che, più volte, dovette farsi forza per non sgattaiolare dietro le spalle del maestro e tagliare la corda; e aver scorto Indiana che si aggirava per il prato dall’altra parte della strada, senza una sola preoccupazione al mondo all’infuori di annusare qualcosa in mezzo all’erba o inseguire i passeri, aveva soltanto aggiunto ulteriore voglia ai suoi proponimenti.
   Annoiato, Junior scrisse velocemente e con mano sicura sul suo quaderno le lettere che il maestro aveva vergato sulla lastra nera della lavagna con tratti un po’ tremolanti. Poi, non sapendo come fare a impiegare il tempo, sostenendosi la testa con la mano sinistra, aggiunse, distrattamente:

 
G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z

   Quell’ulteriore aggiunta, tuttavia, gli portò via soltanto una manciata di secondi. Troppo pochi, perché potessero essere considerati come un efficace passatempo. Rimanevano altre interminabili ore di scuola, prima di conquistare la libertà. Tanto per fare qualcosa, pensò bene di vergare anche altre lettere. Un altro esercizio che richiese poco più di una decina di secondi.
 
Α Β Γ Δ Ε Ζ Η Θ Ι Κ Λ Μ Ν Ξ Ο Π Ρ Σ Τ Υ Φ Χ Ψ Ω

   A quel punto, Junior appoggiò il pennino, abbandonò la testa sul banco e chiuse gli occhi. Nella sua mente vedeva i prati fioriti su cui avrebbe tanto desiderato scorazzare in rapide rincorse e capriole. Cominciò a vagabondare con la mente, giocando e divertendosi all’aria aperta, lontano dall’oppressione dei banchi di scuola.
   Non passò molto tempo prima che il signor Steinman, facendo ondeggiare l’ampia palandrana nera che gli conferiva l’aspetto di un grosso pipistrello, gli si avvicinasse, sottraendolo alle sue fantasticherie.
   «Lei non scrive, signor Jones?» domandò il vecchio, con tono beffardo, il pizzetto a punta che fremeva di malcelata contentezza, il pince-nez in precario equilibrio sul naso adunco che già annusava il trionfo più totale. Evidentemente, era convinto di aver trovato un altro sempliciotto destinato a fallire completamente, nella vita. «Forse per lei le lettere dell’alfabeto sono troppo difficili da riprodurre? Magari potremmo trovarle qualcosa di più facile e adatto a lei, come pulire una stalla o andare a rigovernare le pecore, che ne direbbe?»
   Junior sollevò il volto assonnato e il maestro afferrò il suo quaderno, pronto a schernirlo davanti a tutta la classe. Lo osservò per alcuni istanti, con le labbra che iniziavano a tremolare per lo sconcerto. Poi indicò la porta.
   «A casa, signor Jones! Per la sua insolenza, è sospeso da scuola fino a domani!»
   Junior non aspettava altro. Per fortuna aveva imparato a conoscere molto bene il signor Steinman e la sua suscettibilità.
   Cercando di non mettersi a urlare dalla gioia, gettò tutte le sue cose alla rinfusa nella cartella, se la passò a tracolla, si ficcò in testa il berrettino grigio a scacchi e corse fuori senza perdere un solo secondo di troppo. Il tepore del sole lo accolse come un balsamo e gli lambì tutto il corpo con gradevole gioia.
   «Indiana!» chiamò, in un grido gioioso. «Indiana!»
   Il cane arrivò al galoppo e insieme cominciarono a correre per i prati, tra i fiori, le farfalle e la api, facendo giungere fino al cielo terso le loro urla di felicità.

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Capitolo 4
*** Porto di Southampton, Inghilterra, febbraio 1908 ***


IV.
PORTO DI SOUTHAMPTON, INGHILTERRA, FEBBRAIO 1908

   «Presto, Henry, non ti attardare!»
   Indy stava osservando due giovani ragazze, molto belle anche se un po’ sciupate nel fisico e nell’aspetto, dall’aria piuttosto disinibita, che sembravano indaffarate in una contrattazione serrata con alcuni marinai ridanciani. Miss Seymour, quando le aveva notate, gli aveva rapidamente detto che si trattava di donne di malaffare da cui doveva stare il più possibile lontano.
   «Forza, Henry!» lo incitò ancora l’anziana educatrice, agitata.
   La donna era stata l’insegnante privata di Henry Senior prima del suo trasferimento in America e, quando le avevano fatto visita a Oxford, suo padre l’aveva convinta ad accompagnarli nel lungo viaggio attorno al mondo che li attendeva, perché si occupasse dell’educazione e dell’istruzione di Junior.
   «Dobbiamo salire a bordo!»
   Il transatlantico dallo scafo nero e con alti fumaioli attraccato alla banchina era gigantesco. Gigantesco proprio come il mondo che aspettava solo di essere scoperto e visitato in tutte le sue più svariate sfaccettature. Il Regno Unito era stata solo la prima di una lunga serie di tappe, che avrebbero toccato numerosissime località parecchio lontane tra loro.
   Indy si sentiva euforico all’idea di quella grande avventura che gli si snodava di fronte e dalla quale non sapeva esattamente che cosa aspettarsi. Di una cosa era certo: l’orizzonte era molto più vasto di quello che aveva sempre visto nei dintorni di Princeton, e presto lo avrebbe varcato, per scoprire i segreti che si celavano al di là di esso.
   E dire che era tutto merito di un noiosissimo e lungo libro che suo padre aveva scritto. Il successo era stato tale che il professor Jones era stato invitato a presentarlo con delle conferenze presso le più prestigiose accademie e corti d’Europa, Africa e Asia. Certo, sarebbe stato tutto più bello se, con lui, mamma e papà non fosse dovuta andare anche miss Helen Seymour, con l’incarico di insegnargli la storia, la matematica, la filosofia, le lingue e chissà cos’altro ancora. Tutta robaccia di cui avrebbe fatto volentieri a meno!
   Ciò che gli dispiaceva di più, però, era aver dovuto lasciare Indiana. Il suo amato cane non avrebbe potuto accompagnarli e, così, era stato lasciato in affidamento al signor McGovern, un vicino di casa che se ne sarebbe preso cura fino al loro ritorno. Junior, abbracciandolo, gli aveva promesso che sarebbe tornato ancora da lui, e il cane aveva rinsaldato quella promessa leccandogli il viso. E, per rammentarsi meglio le sue parole e non dimenticarsene mai e poi mai, Junior aveva deciso che, da quel momento in avanti, lui stesso si sarebbe chiamato Indiana, proprio come il suo migliore amico.
   «È un bellissimo nome» gli aveva risposto sua madre, accarezzandogli la testa. «Ma ti dispiace se ti chiamo semplicemente Indy, qualche volta?»
   Suo padre, invece, non era stato affatto d’accordo con quella scelta che considerava oltremodo offensiva.
   «Tu ti chiami come me, Junior, e questo è il tuo unico nome. Mi rifiuto categoricamente di utilizzare su di te il nome che abbiamo dato al cane. Neppure se ti stesse crollando il terreno sotto i piedi o tu fossi sul punto di precipitare in un abisso ti chiamerei in quella maniera ridicola.»
   Suo padre poteva dire quello che voleva e intestardirsi fin che ne aveva voglia a continuare a chiamarlo Junior. Lui non avrebbe cambiato idea.
   Strinse il manico della valigia e, muovendosi alle spalle di miss Seymour, cominciò a incamminarsi in mezzo alla folla che si avviava verso la grande nave.
   Il suo sguardo curioso, però, come ipnotizzato da una forza magnetica e irresistibile, corse di nuovo alle due donne. Nonostante l’aspetto un poco trascurato, erano proprio belle e, per di più, erano le donne più svestite che avesse mai visto in vita sua. Una, dai lunghi capelli ricci e rossi, aveva le spalle nude; l’altra, con i capelli neri raccolti in una crocchia, si era  addirittura aperta la veste per far intravedere ai marinai ciò che poteva offrire loro. A Indy si contorsero le budella, davanti a quella visione, e si domandò istintivamente se sarebbe mai successo che una donna tenesse un tale comportamento anche per lui.
   La mano di miss Seymour gli artigliò il braccio.
   «Lascia perdere quelle donnacce, Henry, e sbrigati, o la nave partirà senza di noi!»
   Rassegnato, Indy si dispose a seguire la sua educatrice. Quando lei gli volse le spalle, però, il suo sguardo corse di nuovo verso le due donne.

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Capitolo 5
*** Piana di Giza, Chedivato d’Egitto, maggio 1908 ***


V.
PIANA DI GIZA, CHEDIVATO D’EGITTO, MAGGIO 1908

   «E queste, quindi, sono la piramidi?» mormorò Indy, stupefatto da quella visione, spalancando gli occhi per la meraviglia.
   Lo spettacolo era straordinario. Così abituato alle campagne sterminate e alle piccole case di legno verniciate di bianco del New Jersey, non si era mai davvero reso conto di quali fantastiche architetture l’essere umano fosse stato capace di realizzare nel corso della sua storia millenaria. Aveva letto molti libri, d’accordo, ed era stato preventivamente istruito su moltissime cose, ma trovarsi di persona davanti a tali creazioni era tutto un altro paio di maniche. Di certe cose non ci si può davvero rendere conto finché non le si ha davanti agli occhi, a riempire la vista e la mente.
   Con gli occhi colmi di stupore, fece vagare lo sguardo sugli edifici appuntiti, che si innalzavano in maniera ardita verso il cielo quasi a voler sfidare il tempo, e sul volto sereno della Sfinge, che lo scrutava con aria enigmatica da sotto la coltre di sabbia che la ricopriva.
   «Proprio così» rispose Sallah, fermo al suo fianco.
   Sallah Mohammed Faisel el-Kahir era il figlio di uno dei più importanti scavatori del Cairo. Lui e Indy si erano conosciuti qualche giorno prima nella Valle dei Re, dove la famiglia Jones, sempre accompagnata da miss Seymour, era andata a visitare gli scavi di Theodore Davis, impegnato da tempo a dissotterrare le tombe degli antichi faraoni, con metodi archeologici non propriamente ortodossi.
   Sallah si trovava laggiù insieme a suo padre e, non appena aveva posto gli occhi su Indy, era diventato suo amico. Era come se fosse scattato qualcosa, dentro entrambi, che li aveva uniti prima ancora che si fossero rivolti una sola parola. Si erano intesi al volo, comprendendosi senza difficoltà: Sallah masticava un po’ di inglese e di francese, essendo l’Egitto pieno di europei e americani, e Indy stava cominciando a imparare i primi rudimenti della lingua araba. Miss Seymour, infatti, sosteneva che la conoscenza delle lingue fosse fondamentale, per non rischiare di mancare di rispetto ai diversi popoli con cui, di volta in volta, sarebbe venuto in contatto.
   Quando avevano fatto ritorno tutti insieme al Cairo, Sallah aveva insistito perché Indy visitasse le piramidi. Il giovane Jones non aveva ancora avuto modo di vederle, neppure in lontananza, perché quando erano salpati la prima volta era ancora buio, ed era altrettanto buio quando il battello era tornato in porto una settimana più tardi.
   Indy doveva riconoscere che il suo nuovo amico aveva avuto una grandissima idea, a condurlo fin lì. Nella luce radiosa del sole egiziano, quello spettacolo millenario non aveva pari. Non aveva mai visto nulla di tanto bello ed elettrizzante. Persino i grandi e bellissimi monumenti che gli erano sfilati davanti agli occhi durante il viaggio in battello lungo il corso del Nilo non sembravano in grado di reggere il confronto con queste costruzioni ardite e imperiose.
   Soltanto miss Seymour, che li accompagnava, non sembrava condividere il loro entusiasmo. Teneva alto un ombrellino per ripararsi dai raggi roventi del sole e, mentre si faceva aria con un ventaglio di stecche di bambù, pareva non desiderare altro che tornare nella frescura ombrosa della loro residenza.
   «Bene, ragazzi, le piramidi sono molto belle e sono state in grado di sfidare i millenni» disse, affannata. «Ora che ne dite se andiamo a sederci sotto quel pergolato laggiù? Così, potremo approfittare dell’occasione per ripassare un poco di storia dell’antico Egitto. Vi potrei parlare dell’architetto e medico Imhotep, l’inventore delle piramidi…»
   Indy e Sallah la guardarono come se fosse impazzita.
   «Sederci?» ripeté Indy, sconvolto.
   «Non possiamo sederci adesso!» gli fece eco il ragazzo egiziano. «Indy, miss Seymour, venite con me! Vi voglio condurre dentro la piramide!»
   Indy, entusiasta al solo pensiero, partì di corsa alle spalle dell’amico. L’educatrice, rassegnata, si affrettò a seguirli.
   L’interno della piramide era cupo, caldo, profondo. I disagi, tuttavia, non si avvertivano minimamente. Muoversi in quello stretto cunicolo soffocante equivaleva a muoversi nella storia. Ogni passo era un passo nella gloria dell’uomo: un essere destinato a invecchiare e a soccombere, ma le cui opere immortali sarebbero state capaci di sfidare il trascorrere di tutte le ere. Ogni centimetro di pietra, ogni segno lasciato dagli antichi scalpelli comunicava la grandezza delle epoche passate.
   E, al termine del grande corridoio, all’interno della Camera del Re, l’antico sarcofago di granito parve parlare, rivelando segreti misteriosi e arcani prodigi, e nascondendo altri enigmi che, presto o tardi, sarebbero stati rivelati.
   Una voce che soltanto Indy poté udire. Una voce che parlò dentro di lui, comunicandogli quale sarebbe stata la sua strada. La strada della sua vita si stava tracciando dinnanzi a lui, in quella camera oscura, rovente e soffocante, testimone del passato, del presente e del futuro.
   In terra d’Egitto, in quei giorni indimenticabili, Indiana Jones non trovò soltanto un grande amico. Scoprì anche qualcos’altro, una passione che non lo avrebbe mai più abbandonato. E d’ora in poi, se qualcuno gli avesse domandato che cosa gli sarebbe piaciuto fare da grande, avrebbe avuto la risposta subito pronta.
   «Voglio fare l’archeologo.»

 

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Capitolo 6
*** Vienna, Impero austro-ungarico, novembre 1908 ***


VI.
VIENNA, IMPERO AUSTRO-UNGARICO, NOVEMBRE 1908

   E dire che Indy era stato messo in guardia nientemeno che da Sigmund Freud e da Carl Gustav Jung in persona, riguardo le possibili e tragiche implicazioni di un innamoramento. Forse avrebbe fatto meglio a prestare orecchio a loro e alla loro scienza, anziché restare impressionato davanti a quei due uomini che discorrevano in piena libertà di argomenti che, di solito, erano totalmente banditi dalla sua vita, un tabù da passare sotto  completo silenzio.
   In verità, Anna avrebbe preferito che non ne parlassero davanti a lui; Henry, al contrario, aveva obiettato che era molto meglio che Junior imparasse quelle cose fin da piccolo, anziché farci i conti da solo una volta diventato più grande, senza sapere a che cosa stesse andando incontro di preciso. E, così, dopo la fine della cena, era rimasto seduto a tavola con loro, annusando l’odore asprigno dell’interminabile sigaro di Freud e ascoltando i due psicanalisti intervallarsi in una specie di monologo alternato e dai ritmi serrati.
   L’amore, il sesso, l’attaccamento… concetti nuovi e proibiti, da fargli girare la testa.
   Solo che, invece, la testa gliel’aveva fatta girare - e il cuore glielo aveva fatto battere impazzito - una bellissima ragazzina che aveva conosciuto alla pista di pattinaggio. Avevano volteggiato insieme per tutto il pomeriggio, piroettando sul ghiaccio e sfidando l’aria fredda dell’inverno, giunto con largo anticipo, che arrossava le guance e screpolava le labbra; e Indy si era a poco a poco reso conto di un fatto che, fino a quel momento, non lo aveva mai riguardato: si era innamorato di lei, e adesso non riusciva più a togliersela dalla testa.
   Ripensava al suo sorriso, alla sua voce deliziosa, a quegli occhi che si riempivano di lieto divertimento ogni volta che lo vedevano compiere una qualche ardita acrobazia seguita dall’immancabile volo con atterraggio duro. Quel riso che lo aveva accompagnato per tutto il pomeriggio gli risuonava ancora nelle orecchie.
   Allora ciò che era successo dopo era stato tutto così ovvio e naturale che nemmeno era servito rifletterci.
   Le aveva fatto recapitare un bigliettino, a cui lei aveva risposto quasi subito. Le aveva chiesto di poterla rivedere; a quel punto, però, lei aveva obiettato e messo innanzi le prime difficoltà che si opponevano a quel proponimento: anche se sarebbe stata molto felice e lusingata di poterlo incontrare di nuovo, in casa sua non si poteva semplicemente suonare il campanello e chiedere il permesso di accomodarsi come se nulla fosse.
   Ma Indy non era il tipo da fermarsi davanti ai primi ostacoli.
   Camminando adagio per non svegliare miss Seymour, era sgusciato dalla sua stanza in piena notte e, affrontando le buie e gelide strade viennesi, si era diretto verso la dimora di Sophie. L’avrebbe rivista come desiderava e, se si fosse resa necessaria una fuga d’amore, l’avrebbe rapita e portata con sé, verso una nuova vita. Poco importava che lui avesse solo nove anni e lei sette; e importava ancora meno che, il suo nome completo, fosse Sophie Marie Franziska Antonia Ignatia Alberta, principessa di Hohenberg, figlia dell’Arciduca Francesco Ferdinando d’Austria-Este e nipote dell’Imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo-Lorena. Che cosa potevano mai valere, l’età e tanti nomi altisonanti, dinnanzi alla forza dell’amore?
   In un modo o nell’altro c’era riuscito. Era riuscito a sgusciare attraverso le guardie, i domestici e gli invitati alla festa in corso al Palazzo Imperiale e aveva raggiunto le stanze di Sophie.
   La bambina non era sembrata affatto sorpresa di trovarlo lì. Evidentemente, aveva capito anche lei che, quel ragazzino arrivato dalla lontana e tanto favoleggiata America, era un tipo fuori dal comune, proprio come doveva essere stato il suo prozio Rodolfo, che per amore si era addirittura tolto la vita. Era scesa dal letto, si era infilata una sopravveste di seta sopra la camiciola da notte e gli era venuta incontro, scalza. Avevano parlato, forse a lungo o forse soltanto per pochi istanti; e Indy, ascoltando le sue argomentazioni, aveva dovuto accettare che, la loro, sarebbe stata una storia d’amore impossibile.
   Sophie però non aveva voluto dirgli addio come se non si fossero mai incontrati. Gli aveva donato una catenina d’argento a cui era attaccato un piccolo medaglione con dentro un suo ritratto.
   «Così potrai vedermi sempre e non ti dimenticherai mai di me» gli aveva detto, facendogli una carezza sul viso.
   Poi lo aveva gratificato con un bacio sulla guancia e lo aveva aiutato a fuggire.
   Solo che la ritirata, al contrario dell’assalto, era andata male e, adesso, si trovava al cospetto nientemeno che dell’Arciduca in persona. Era stata Sophie stessa, quando si era resa conto che Indy era stato catturato da alcune guardie che lo avevano notato mentre cercava di sgusciare per lo scalone, a chiedere che fosse condotto da suo padre, anziché arrestato. E, dinnanzi all’augusto genitore della ragazzina, il giovane Jones aveva persino avuto l’ardire di insistere nel suo folle innamoramento e chiederla in sposa.
   «Apprezzo il tuo coraggio, ragazzo» disse Francesco Ferdinando, lanciandogli un lungo sguardo, profondo e penetrante. «Il mondo sarebbe un posto migliore, se tutti gli uomini fossero di valore e coraggiosi proprio come lo sei tu. Tuttavia, devi comprendere che non sempre le storie d’amore sono realizzabili. Tu ami mia figlia e forse lei ama te. Ma questo non è possibile che avvenga. Sei abbastanza maturo da capire che - al di là del fatto che, per via della sua età, Sophie non sia ancora pronta per il matrimonio - c’è un ostacolo anche maggiore, oserei dire insormontabile, che si frappone tra te e lei: mia figlia è una principessa, discendente di numerose nobili e antichissime stirpi; e, come tale, ha dei doveri, prima ancora che dei diritti. Essere di sangue nobile e appartenere a una famiglia reale non sempre può dare origine a delle fiabe. E il suo dovere è infatti quello di unire il proprio sangue alla nobiltà europea, rinunciando anche all’amore se necessario, per perpetuare le antiche dinastie e fare sì che continuino a risplendere. Capisci?»
   Indy annuì. Capiva il discorso, anche se non lo condivideva affatto.
   L’Arciduca gli si avvicinò e gli pose una mano sulla spalla. Lui sollevò lo sguardo e lo fissò dritto in viso.
   «Ragazzo mio, l’amore è una faccenda pericolosa. Le donne, poi, sono ancora più pericolose. Non bisogna cedere alle loro lusinghe, perché portano più guai che altro. Te ne ricorderai?»
   Indy annuì di nuovo.
   «Prometto che lo terrò a mente» riuscì a dire, con un filo di voce.
   Eppure, dentro di sé, era più che pronto a scommettere che non se ne sarebbe ricordato mai.
   Addio, allora, dolce Sophie. Che il tuo destino ti sia propizio e che possa permetterti di trovare davvero l’amore, nel solco già tracciato della tua esistenza.

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Capitolo 7
*** Africa Orientale Britannica, settembre 1909 ***


VII.
AFRICA ORIENTALE BRITANNICA, SETTEMBRE 1909

   Le ampie savane rinsecchite, simili a distese di paglia ingiallita, si scontravano all’improvviso con le impenetrabili foreste assetate che si stendevano verso il meridione. All’orizzonte, sulle cime delle basse montagne che parevano baluginare nel calore, di quando in quando si levavano verso il cielo pennellato di blu nugoli di fumo grigio: piccoli incendi spontanei, dovuti al forte calore e al riverbero dei raggi solari che non trovavano ostacoli e incendiavano le sterpaglie. Alberi scheletrici si scambiavano sussurri nel silenzio irreale. Rinoceronti, zebre ed elefanti si muovevano placidamente nel solleone, brucando il poco cibo o dissetandosi a qualche pozza fangosa sopravvissuta alla canicola. Di quando in quando, dalle profondità della prateria, si levava alto e possente il ruggito affamato del leone. Un arido spettacolo, che nel volgere di pochi giorni soltanto, con il sopraggiungere della stagione delle piogge, sarebbe mutato completamente.
   Nonostante il clima arido, però, nell’accampamento si stava molto bene, sia durante il giorno che nel corso della notte. Sotto la tenda di lino si riusciva a godere di un poco di frescura e a riposare, almeno se si imparava a ignorare il costante ronzio delle zanzare e non ci si lasciava suggestionare dai mille rumori che provenivano dall’immensa oscurità circostante.
   Comunque, il campo era dotato di ogni comodità a cui potessero ambire dei viaggiatori europei e americani giunti a nord-est del lago Vittoria. C’era persino una doccia, perlomeno se si potevano chiamare in quella maniera le assi di legno legate insieme con il fil di ferro a formare una stretta cabina, al di sopra della quale, appeso a un palo, si trovava un secchiello bucherellato, che all’occorrenza veniva riempito di acqua.
   A Indy piaceva da impazzire quella specie di doccia. Si divertiva da morire a stare nudo sotto quel getto discontinuo e tiepido, accarezzato dal sole africano che splendeva alto nel cielo, mentre la mamma gli insaponava i capelli o lo cospargeva di talco. Chi avrebbe mai pensato che sarebbe dovuto arrivare in quei luoghi selvaggi per avere un contatto così intimo con sua madre, per trovarsi tanto vicino alla più bella, dolce e buona donna che gli fosse mai capitato di conoscere?
   Anche Anna sembrava divertirsi tantissimo. Messa da parte la sua innata pudicizia, attraversava l’intero accampamento con indosso soltanto un asciugamano e con i capelli sciolti sopra le spalle, sfidando con un sorriso radioso gli sguardi dei numerosi presenti; poi entrava nella stretta cabina con suo figlio e se lo sfilava di dosso. E lì, finalmente soli, madre e figlio giocavano e ridevano, divertendosi a schizzarsi addosso acqua e sapone, dividendo l’intimità di quei momenti che appartenevano soltanto a loro.
   Qualche volta, colto dal buonumore, anche Henry prendeva parte allo scherzo. Con un secchio di acqua fredda tra le mani, si avvicinava di soppiatto alla doccia, lo sollevava sopra le testa e lo rovesciava addosso ad Anna e a Junior, strappando loro grida e risate. Aveva però smesso con quel suo lazzo da quando, pensando che Anna si stesse lavando, aveva invece rovesciato l’acqua gelida addosso a una stupefatta miss Seymour, mentre sua moglie se la rideva dalla grossa nascosta sotto una tenda.
   C’era un altro uomo, in quell’accampamento, molto interessato a quella famigliola. I suoi occhi attenti seguivano non tanto la pur bellissima Anna, capace di far girare parecchie teste, bensì suo figlio, Henry Junior, senza mai perderlo di vista un solo istante. Perché l’ex Presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt sapeva riconoscere al volo delle potenzialità, e in quel bambino ne aveva viste davvero tante.
   «Ragazzo mio, vieni qui» gli disse un giorno, mentre sedeva sopra un masso, facendogli cenno di avvicinarsi.
   Indy obbedì, guardingo. Sapeva bene chi fosse quell’uomo dallo sguardo arcigno e ne era un po’ intimorito. Ma Teddy Roosevelt sapeva rivelarsi un tipo affabile e alla buona, anche se dai modi un po’ spicci.
   «Lo sai cos’è, questo?» gli disse, mostrandogli un revolver dal calcio in noce e con la canna tirata a lucido.
   «Una pistola, signore» titubò Indy, che fino a quel momento aveva visto oggetti simili soltanto tra le mani degli intrepidi eroi raffigurati sulle copertine dei suoi romanzi preferiti.
   «Questo, figliolo, è il solo e unico giudice del vecchio West» disse l’ex presidente. «Il suo era un giudizio inappellabile e, per molti aspetti, lo è ancora. Il vecchio giudice Samuel Colt ha una sola sentenza e, quando questo verdetto è emesso, non c’è corte o giuria che possa mutarlo o presidente che possa concedere la grazia. Vieni, voglio insegnarti la maniera più efficace per adoperarlo. Ora potrebbe sembrarti strano, ma ti assicuro che, nella vita, ricorrere a lui può salvarti la pelle. Tieni presente questa cosa, ragazzo mio: non è chi parla di più e meglio, che vince, per quanto possano cercare di convincerti del contrario. Vince chi spara per primo, senza perdersi in inutili chiacchiere o in futili e sciocchi destreggiamenti, sia con la lingua che con la spada. Questa era la filosofia della frontiera, ed è la filosofia ancora oggi più valida nel mondo. La penna e la lingua possono ferire, ma è il revolver che fa fuori gli avversari più ostinati. E, naturalmente, un fucile ne fa fuori ancora di più, e da più lontano. Tienilo sempre a mente.»
   Così, da quel giorno, Indy cominciò ad allenarsi nel sparare a bottiglie e a sassi. Presto la sua mira si fece più sicura e il suo braccio cominciò a controllare al meglio il rinculo. Nel volgere di pochi giorni poteva già dirsi un discreto tiratore, che sapeva anche smontare, pulire e rimontare l’arma in una manciata di minuti soltanto.
   Anna, da principio, non fu molto d’accordo; ma Henry, come sempre in quei casi, minimizzò la cosa, dicendo che a loro figlio sarebbe servito parecchio conoscere quel tipo di utensili, per non avere poi la tentazione di prenderli in mano per sbaglio, se ne avesse trovato uno per caso.
   «Imparare a sparare gli farà bene» sentenziò un mattino, osservando il figlio che si allenava. «Così, conoscendo la brutalità delle armi da fuoco, non le vorrà mai utilizzare. La conoscenza è la vera chiave, Anna.»
   E più volte, mentre prendeva con attenzione la mira, Indy si domandò se avere Teddy Roosevelt come maestro di tiro gli sarebbe davvero servito a qualcosa, oppure se, dopo quell’esperienza in Africa, non avrebbe mai più sparato un solo proiettile in tutta la sua esistenza.

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Capitolo 8
*** Atene, Grecia, aprile 1910 ***


VIII.
ATENE, GRECIA, APRILE 1910

   «E questo, Junior, è il Partenone, il più celebre tempio di Atene, voluto da Pericle e realizzato da un gruppo dei più famosi architetti del loro tempi, supervisionati dallo scultore Fidia, che si occupò anche delle decorazioni» spiegò Henry, alzando la mano in direzione del grande tempio che sorgeva di fronte a loro.
   Indy, ammirato, studiò con attenzione l’ennesima meraviglia che si innalzava davanti ai suoi occhi, riempiendolo di stupore e mettendolo in soggezione. Sentì una lacrima involontaria solcargli il viso. L’asciugò con una mano, sperando che suo padre non se fosse accorto. La sua emozione, dinnanzi alle straordinarie opere dell’ingegno umano, era immensa.
   «E immagina» continuò a parlare Senior, lo sguardo che spaziava tutto attorno. «Immagina di trovarti in questo stesso luogo, duemilacinquecento anni or sono. Tutto attorno a te non rovine o avanzi di un’epoca passata, bensì edifici intatti nella loro magnificenza, che rispondeva ai canoni aurei. E, dove ora si trovano queste pietre rovesciate, avresti potuto vedere passeggiare Socrate con il suo codazzo di seguaci, intenti in una dissertazione filosofica. Là, forse, avresti incontrato Apelle, assorto nella contemplazione di un’immagine da tramutare in dipinto, e laggiù si sarebbe magari soffermato Aristotele, ragionando tra sé e sé sulle leggi della natura; e, secoli dopo, avresti potuto imbatterti nell’imperatore Adriano, meditabondo, la testa rivolta alla grandezza dell’Impero Romano, che di Atene poteva ben dirsi l’erede e il degno successore.»
   Henry si voltò a fissare suo figlio con molta intensità.
   «Junior, questo che ci circonda non è soltanto un sito archeologico privo di vita. Comprendi tu stesso che è molto di più. Questo luogo può, e deve, essere considerata la culla della nostra civiltà e del nostro pensiero. Se il mondo occidentale ha raggiunto il progresso che conosciamo, lo si deve a tutto ciò che ha avuto inizio proprio qui, millenni or sono. Tutto ciò che siamo io, te, tua madre, miss Seymour, e tutti gli europei e gli americani insieme a noi, lo dobbiamo agli uomini che, da questa acropoli, posero le basi di una civiltà nuova. Ricordati che, quando i Greci resistettero eroicamente contro i Persiani a Maratona, alle Termopoli, al Capo Artemisio, a Salamina e a Platea, non salvarono soltanto se stessi da un conquistatore che aveva già invaso mezzo mondo; fecero molto di più, anche se non potevano neppure immaginarlo. Con i loro atti di coraggio, con il loro sprezzo del pericolo e della morte, quando decisero di non tremare e di non fuggire dinnanzi a un esercito di dimensioni così immense da richiedere giorni interi di marcia per poterlo vedere tutto, resero possibile la salvezza di tutto ciò che noi conosciamo. Il mondo in cui siamo tanto abituati a vivere oggi non esisterebbe affatto se qui, duemilacinquecento anni or sono, non si fosse deciso di combattere e di resistere. Quel sacrificio, che forse a te sembra così lontano nel tempo, ha permesso a tutti noi di essere quello che siamo… di esistere, probabilmente. Non dimenticarlo mai e poi, Junior, e fai tesoro di questo insegnamento: combattere per ciò in cui si crede, per difendere una giusta causa, per salvare una civiltà dalle armate delle tenebre, non è mai un errore. Sacrificio ed eroismo si accompagnano sempre a qualcosa di molto più grande, di cui noi stessi fatichiamo a scorgere i confini.»
   Più suo padre parlava, e più Indy subiva il fascino imperituro del passato. Anche se il presente lo interessava, non poteva negare a se stesso che era nel passato che si racchiudevano i momenti più interessanti, le conoscenze più profonde e importanti. E quelle parole inerenti antichi sacrifici e salvezza del mondo intero gli penetrarono nel cuore e lì rimasero infisse, salde e inamovibili.
   Poco lontano, un vecchio cieco, seduto sotto a un ulivo, con un lungo bastone tra le mani, stava narrando una storia ad alcune persone che si erano radunate tutto attorno. Junior e Senior, incuriositi, gli si avvicinarono per ascoltare a loro volta le sue parole.
   «Quando Alessandro il conquistatore giunse nella grande e opulenta Babilonia alla testa del suo immenso esercito di cui nessun nemico era stato in grado di avere ragione» stava dicendo il vecchio, fissando il vuoto e vedendo con gli occhi della mente chissà quali fantastici paesaggi, «vi trovò il più grande tesoro che fosse mai esistito. Egli lo consegnò quasi per intero ai suoi generali, perché lo distribuissero ai soldati come bottino e ricompensa per le loro innumerevoli fatiche. Ma l’imperatore tenne alcuni dei gioielli più belli per sé. Tra questi ve n’era uno che proveniva dalla lontana e misteriosa India, di indicibile bellezza; se Alessandro, giunto alla rive dell’Indo, si era fermato e non aveva potuto conquistare quella terra favolosa, almeno ne avrebbe conservato come cimelio un tesoro di raro splendore. Quel prezioso oggetto rappresentava un pavone d’oro e d’argento, con la coda aperta a ventaglio. Le piume della coda erano fatte di lapislazzuli e i suoi cento occhi erano altrettanti diamanti di indicibile bellezza. Alessandro volle che quella statua senza eguali ornasse il suo sepolcro. Ma i secoli passarono, gli eserciti si avvicendarono e le razzie non ebbero mai termine. La statua, sottratta dalla tomba, venne fusa, i diamanti fatti a pezzi e venduti. Soltanto un occhio restò intatto. Un diamante brillante come il cielo, capace di riflettere tutte le luci dell’arcobaleno. L’Occhio del Pavone, così fu chiamato. Uomini uccisero e compirono le più ardite avventure per impadronirsene, ma ancora oggi quel diamante maledetto rimane nascosto e sfuggente. Eppure esso è reale e verrà un giorno in cui un grande esploratore riuscirà a stringerlo tra le sue mani, e quando lo farà egli non avrà sul palmo un semplice minerale. Perché l’Occhio del Pavone plasmerà per il suo possessore fortuna e gloria… fortuna… e gloria…»
   Henry sorrise per quella storiella fantasiosa. Indy, invece, restò pensieroso.
   La sua fervida immaginazione si accese mentre vedeva se stesso sfidare nemici e superare trabocchetti insidiosi per poter trovare il diamante. Fortuna e gloria, aveva sussurrato il vecchio, con ammirazione. Due concetti che gli procurarono un brivido lungo la schiena.
   E, mentre si allontanavano a passo lento dall’Acropoli, accompagnati da una tiepida brezza primaverile che portava con sé un sentore di fiori e di erba nuova, la sua determinazione non fece che crescere: a costo di doverci impiegare tutta la vita, lui avrebbe trovato l’Occhio del Pavone.

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Capitolo 9
*** Princeton, New Jersey, giugno 1910 ***


IX.
PRINCETON, NEW JERSEY, GIUGNO 1910

   Erano trascorsi quasi due anni e mezzo da quando avevo lasciato la loro casa di Princeton. Fare ritorno adesso, dopo quel lunghissimo viaggio attorno al mondo, sembrava strano; eppure gli avvenimenti erano stati tanti e tali che, a conti fatti, il tempo era volato via davvero in fretta.
   Indy aveva lasciato quella città che si sviluppava sempre più sottraendo spazio alla campagna e le mura familiari di casa che era ancora un bambino e vi faceva ritorno ormai alle soglie della prima adolescenza. Ma non erano stati soltanto l’età e lo sviluppo fisico a irrobustirlo, a renderlo più alto e più forte. Era stato tutto ciò che aveva visto e conosciuto a mutarlo per davvero. Nel volgere di quei lunghi mesi, aveva vissuto esperienze che, ne era sicuro, lo avrebbero cambiato per sempre.
   Adesso aveva una nuova percezione del mondo e, con essa, aveva una nuova coscienza di sé. Ora si rendeva conto alla perfezione di come l’universo fosse quanto di più lontano e vasto dai luoghi della sua infanzia. D’ora in poi, quelle mura, quella strada e quei campi non avrebbero rappresentato altro che una nuova partenza, non il suo orizzonte. Lui era andato nel mondo una volta e ci sarebbe tornato per sempre. Si sentiva il sangue rimestare nelle vene, sentiva addosso a sé una nuova energia e una nuova consapevolezza di tutto: niente e nessuno sarebbe più stato in grado di tenerlo fermo in un solo luogo troppo a lungo.
   Suo padre, trascinandolo in quell’interminabile ma affascinante viaggio, ricco di spunti che lo avevano segnato per sempre in maniera indelebile, aveva inconsapevolmente fatto emergere la sua vera natura; e, facendogli conoscere luoghi meravigliosi e persone straordinarie, lo aveva incamminato per davvero sulla strada della sua vita. Ormai non si sarebbe più potuti tornare indietro: il solco era stato tracciato, pensare di cambiarlo adesso sarebbe stato assurdo.
   A dire il vero, nel proprio intimo, Henry era ancora convinto di poter fare del ragazzo uno studioso serio e ponderato di letteratura; non faceva altro che parlare di quando Junior avrebbe raggiunto l’età giusta per affrontare gli studi universitari, diventando un letterato come suo padre. La sua speranza, di cui non faceva nessun mistero, era che il figlio, apportando nuove scoperte alle sue ricerche, guardando le cose con mente più fresca ed elastica, lo avrebbe aiutato a condurre a termine la sua impresa di ritrovare il Santo Graal.
   Ma Indy, ormai, era più che certo che non sarebbe stato quello il suo destino. E, ironia della sorte, era stato proprio Senior a incamminarlo verso un traguardo assai differente da quello che lui stesso aveva scelto per l’unico erede.
   Non sapeva di preciso dove ciò lo avrebbe condotto, ma ormai il dado era stato tratto e niente e nessuno avrebbe più potuto rimescolare le carte in tavola. Alle soglie degli undici anni di età, Indiana Jones aveva già compreso che la sua vita era mutata e aveva capito in quale direzione si sarebbe snodata. Non sarebbe mai divenuto uno studioso di letteratura come sognava suo padre; né sarebbe mai stato lontano dai guai come sperava sua madre. Queste erano cose che non facevano per lui.
   Tuttavia, c’era una cosa che, in quei due anni e mezzo, non era affatto mutata. Qualcosa che non aveva fatto altro che attendere il suo ritorno con una fedeltà di cui nemmeno il più onesto tra tutti gli esseri umani sarebbe stato capace.
   Si preannunciò con un sordo tamburellare sulle assi del pavimento, subito seguito da una serie di latrati sempre più alti. Con una spinta, la porta venne spalancata e sbattuta contro il muro, mentre l’abbaiare festoso riempiva tutta la stanza.
   «Indiana!» gridò il ragazzino, con le lacrime agli occhi per l’emozione.
   Si inginocchiò e il grosso cane gli si gettò tra le braccia, leccandogli il viso e rotolandosi in preda a una gioia incontenibile.
   Sogni di avventura e illusioni sul futuro scomparvero dalla sua mente. Ora c’era solo la felicità di essere di nuovo insieme al suo più grande amico. Tesori e nuovi giri del mondo avrebbero dovuto attendere. Adesso c’era un’intera estate da spendere, come in passato, tra rincorse sui prati e giochi arditi e spericolati in mezzo ai campi, senza nessun altro pensiero nella mente al di fuori del divertirsi insieme.
   Perché, anche se a volte scorre fin troppo in fretta, in certi casi il tempo sa pure rimanere sospeso.

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Capitolo 10
*** Bedford, Connecticut, febbraio 1911 ***


X.
BEDFORD, CONNECTICUT, FEBBRAIO 1911

   Il museo era polveroso e trascurato, ma a Indy sembrava ugualmente di essere entrato in uno scrigno delle meraviglie, come se avesse messo piede nella mitica caverna di Aladino. Non poteva esistere definizione più appropriata per descrivere un simile luogo. Ovunque volgesse il suo sguardo stupito, vedeva teche colme di tesori e di preziosi cimeli.
   «E qui» annunciò Marcus Brody, facendo un ampio gesto con le braccia, «ci sono le nostre bellissime collezioni spagnole.»
   Il curatore del museo si fermò dinnanzi a una vetrinetta che conteneva delle monete romane e si grattò la testa su cui spiccavano i capelli neri lucidi di brillantina, confuso.
   «Ah no, scusatemi» borbottò. «Qui ci sono i reperti dell’antica Roma. Le collezioni spagnole sono di là. Sapete, non mi sono ancora orientato bene…»
   Anna e Henry si scambiarono un’occhiatina divertita e sorrisero amabilmente. Marcus era sempre lo stesso e, lo sapevano, non sarebbe mai riuscito a orientarsi tra quelle sale, nemmeno se ci fosse rimasto per mezzo secolo.
   Marcus Brody e Henry Jones avevano studiato insieme in Gran Bretagna, durante la loro giovinezza. Poi le loro strade si erano divise quando il professor Jones aveva deciso di venire a cercare maggiore fortuna negli Stati Uniti. Tuttavia la loro amicizia non era mai venuta meno. Quando era nato il piccolo Junior, Marcus aveva affrontato ben volentieri la traversata dell’Atlantico per venire a fargli da padrino. E infine, un mese prima, aveva accettato l’incarico che gli era stato offerto, venendo così assunto come curatore di quel museo annesso al Marshall College, un’università piccola ma prestigiosa.
   Era stata una gioia potersi riabbracciare tutti. A dire il vero, però, Indy era molto più interessato ai reperti esposti, che non a Marcus.
   «Junior, non andare così di fretta» lo ammonì severamente suo padre, vedendo che si allontanava per andare ad ammirare alcune anfore.
   «Lascialo in pace, Henry» disse Brody, in tono bonario. «Capita di rado che un ragazzo della sua età sia incuriosito da cose del genere. Dovresti incoraggiarlo, invece.»
   Henry parve rabbuiarsi.
   «Non vorrei che si facesse venire in mente strane idee» commentò. «Junior ha già manifestato troppe volte una discreta ammirazione per la professione degli archeologi. Ma non se ne parla proprio. Per mio figlio voglio un avvenire da letterato, non da spalatore di fango.»
   Anna fece un sorriso indulgente.
   «Henry, pensavo che ne avessimo già parlato» disse, posando con dolcezza la mano sulla sua. «Quando sarà il momento, Junior dovrà scegliere da solo quale strada seguire. Non possiamo obbligarlo a compiere scelte che potrebbero non piacergli.»
   «Io voglio solo il meglio, per mio figlio» ribatté Henry, testardo. «Non voglio che si dica in giro che il figlio del professor Jones è uno che per lavoro scava nella terra, come un manovale qualunque.»
   Lasciando marito e moglie alla loro pacata discussione, Marcus si allontanò di qualche passo e si fermò dietro a Indy. Gli posò le mani sulle spalle e seguì il suo sguardo, che stava osservando il frammento di una statua di marmo. Era un mezzo busto femminile, a cui era rimasta attaccata una parte di testa.
   «Ti piace?» domandò. «Eppure, è solo un pezzo. Il resto della statua è andato a distrutto, perduto sotto la polvere dei secoli.»
   «È vero, è solo un pezzo» rispose Indy. «Ma a me sembra di vedere tutta la statua intera. E riesco a immaginare anche lo scultore che ci lavorò, tanti secoli fa, e tutte le persone che la guardarono e la toccarono con ammirazione mentre era intatta. E penso che, la parte mancante, sia solo sepolta da qualche parte, pronta per essere trovata.»
   Brody sorrise, fiero del suo figlioccio.
   «Questo è lo spirito giusto, Indy» disse. «Quando si guarda un reperto archeologico, non bisogna vedere soltanto un oggetto morto riposto dietro un vetro. Bisogna invece riuscire a figurarselo com’era un tempo, quando faceva parte della vita delle persone che ci hanno preceduto. Non dobbiamo pensare ai musei come a sepolcri di reliquie, bensì come a luoghi magici in cui il passato torna a risorgere giorno per giorno.»
   Marcus lasciò scivolare lo sguardo sopra le vetrine. Molte erano impolverate, altre vuote. Il resto del museo versava nelle medesime condizioni. Qua e là, vasi e altri oggetti erano ammucchiati alla rinfusa. Certe statue erano semplicemente appoggiate su assi di legno, senza etichette o indicazioni, ancora da catalogare. Le pareti erano scrostate e annerite dall’umidità, e dagli angoli del soffitto pendevano parecchie ragnatele vecchie di molti anni.
   «Essere il curatore di questo museo non sarà un’impresa semplice. Negli ultimi anni è rimasto in stato di abbandono e ci sarà moltissimo lavoro da fare per risistemarlo a dovere e per realizzare un catalogo dettagliato con l’inventario di tutto ciò che custodisce. Ma voglio mettercela tutta. Desidero farlo tornare a splendere, un vero faro della cultura. Intendo dedicarmi anima e corpo a questo luogo.»
   Indy si voltò a guardare negli occhi il suo padrino.
   «E io intendo aiutarti» promise. «Quando diventerò archeologo, compirò le mie ricerche per arricchire proprio questo museo.»
   Marcus Brody sorrise di nuovo e gli batté la mano sulla spalla.

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Capitolo 11
*** Moab, Utah, luglio 1912 ***


XI.
MOAB, UTAH, LUGLIO 1912

   Forse era stato il dolore a spingere suo padre a voler abbandonare la casa in cui era vissuto felicemente con sua moglie, ormai piena soltanto di ricordi e di fantasmi. Forse era stato il continuo patire che provava nel rimanere da solo nei luoghi in cui si erano amati profondamente a deciderlo a trasferirsi in quello sperduto paesino dello Utah, ai margini del deserto, e a chiedere di essere assunto come docente alla Four Corners University di Las Mesas, nel vicino Colorado.
   Anna se n’era andata in silenzio, durante una notte, mentre era immersa nel sonno. Un male terribile se l’era portata via, nel fiore e nello splendore dei suoi trentaquattro anni. Una malattia incurabile, di cui lei era consapevole da tempo, ma di cui non aveva mai fatto parola con nessuno. Aveva tenuto nascosto il suo deperimento fisico, attribuendo il pallore e la perdita di peso che l’affliggevano a una leggera e passeggera stanchezza. Era stata strappata troppo presto all’affetto di suo marito e di suo figlio, che erano sprofondati nell’angoscia. E la cosa peggiore era che non se ne erano resi conto, specialmente Henry, sempre così impegnato con le sue ricerche da non accorgersi di niente altro.
   Indy, distrutto, aveva versato lacrime copiose mentre guardava il feretro della sua amata mamma venire calato nella fossa del cimitero di Princeton, nei pressi una quercia secolare; Henry, dal canto suo, non era riuscito nemmeno a piangere, sconvolto da quella perdita inaspettata e terrificante. Era rimasto impassibile, ferreo, immobile.
   In verità, il dolore di essere stato lui stesso la causa di quella malattia lo aveva dilaniato, perché niente era riuscito a togliergli dalla testa l’idea che Anna avesse contratto quel brutto male durante il lungo viaggio a cui l’aveva costretta. Forse, si diceva di continuo, si era ammalata proprio in Africa, quando era apparsa tanto felice e così diversa dal solito. Probabilmente già allora, consapevole del proprio destino, aveva voluto mascherare la propria sofferenza sotto un velo di gioia e di spensieratezza.
   Poi, pochi giorni dopo il funerale, se n’erano andati, lasciando Princeton; la nuova meta, dunque, era stata lo Utah.
   Ma se Indy si era illuso che, almeno, lui e suo padre avrebbero potuto consolarsi e sorreggersi a vicenda in quel momento tanto difficile, aveva presto e con amarezza dovuto affrontare il disinganno di una realtà difficile e sempre più pesante da sopportare: per sfuggire ai suoi cupi fantasmi, Henry si era fatto assorbire totalmente dal lavoro e dallo studio e aveva praticamente finito col dimenticarsi di avere un figlio. Nel giro di pochissimo erano diventati due estranei sotto lo stesso tetto.
   Così, il ragazzino non aveva potuto fare altro che distrarsi unendosi ai boy-scout o trascorrendo lunghe ore in biblioteca. Aveva studiato la storia locale, aveva scoperto della ricerca di Cibola da parte di Francisco de Coronado; e aveva anche saputo che il conquistador aveva nascosto in quei luoghi una croce d’oro di grande valore.
   Il desiderio di trovarla lo aveva conquistato quasi alla pari del vecchio e mai sopito sogno di rinvenire l’Occhio del Pavone. Tuttavia, per settimane era stata niente altro che una semplice fantasia da rincorrere per non pensare ad altro.
   Solo che, inaspettatamente, quella fantasia si era tramutata in realtà proprio davanti ai suoi occhi.
   Così, quando aveva visto quei ladri saccheggiare la cappella sotterranea e trafugarne proprio la croce di Coronado, aveva deciso di intervenire, senza badare ai pericoli in cui si stava cacciando. Il suo antico sogno fanciullesco di diventare archeologo era rinato, quel giorno, nell’esatto momento in cui si era detto che quella croce andava salvata e posta al sicuro dietro la teca di un museo, dove tutti avrebbero potuto ammirarla.
   Però aveva perso. Era stato sconfitto dalle sue forze, troppo deboli per competere contro tanti uomini. I ladri si erano ripresi la croce grazie alla complicità dello sceriffo e l’avevano consegnata al farabutto che aveva finanziato le loro ricerche, quel maledetto zoppo con il cappello di Panama, un uomo il cui volto Indy giurò che non si sarebbe dimenticato mai più.
   La colpa non era stata solo sua. La sua sconfitta era avvenuta anche a causa di suo padre, che non aveva voluto muovere un dito per venirgli in aiuto. Ancora una volta, Henry si era dimostrato egoista e del tutto disinteressato a ciò che combinava il suo unico figlio. E mai, come in quel momento, Indy aveva odiato suo padre.
   Adesso, come segni indelebili di quella sconfitta, gli erano rimasti una cicatrice sul mento, una paura terribile dei serpenti - di cui non sopportava più nemmeno il nome - e il cappello di feltro marrone che gli aveva donato il capo di quei banditi. Quel ladrone lo aveva osservato con una luce di ammirazione accesa negli occhi e gli aveva rivolto poche ma sagge parole: «Oggi hai perso, ragazzo. Ma non significa che debba piacerti.» Poi gli aveva messo in testa il suo cappello.
   Quell’uomo di nome Garth gli aveva dato la più importante delle lezioni. Gli aveva insegnato più lui in cinque minuti che non suo padre in tutta una vita. Gli aveva insegnato a non arrendersi mai, nemmeno davanti alle difficoltà e alle sconfitte, perché è proprio da queste circostanze che nascono le migliori occasioni di rivalsa. Cadere non significa nulla, se poi si è ancora capaci di rialzarsi.
   Ora, seduto sotto il portico della loro casa, con gli occhi rivolti al deserto buio, mentre si massaggiava la ferita che si era procurato sul mento maneggiando con scarsa maestria una frusta e che il dottor Flanagan gli aveva ricucito alla meglio, Indy prese una decisione che avrebbe mantenuto per tutta la sua esistenza.
   Non si sarebbe mai più sbarazzato di quel cappello. Lo avrebbe portato con sé, sempre. E non sarebbe stato il simbolo della sua sconfitta, bensì quello della sua capacità di non arrendersi di fronte a niente, di reagire sempre con tenacia e determinazione, davanti a tutto e a tutti.

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Capitolo 12
*** Moab, Utah, giugno 1914 ***


XII.
MOAB, UTAH, GIUGNO 1914

   Da quando aveva perduto sua madre, Indy avvertiva molto forte l’assenza di una figura femminile accanto a lui. Un’assenza che, con l’avanzare dell’adolescenza, si stava facendo sentire anche in una maniera differente, molto marcata. Il tempo aveva mitigato il dolore, ma questo non toglieva che si sentisse ancora parecchio solo. Era cresciuto con due donne al suo fianco: la madre e miss Seymour. Ora nessuna delle due era più vicina a lui, e questo gli stava insegnando quanto fosse fondamentale, per un ragazzo, avere sempre presente una donna su cui fare continuo affidamento. Era una lontananza non soltanto emotiva, ma anche fisica.
   A dire il vero sentiva pure la mancanza di un uomo adulto e saggio che lo guidasse e gli desse saggi consigli, ma quello era un altro discorso che non voleva in nessun modo affrontare. Anzi, più suo padre si allontanava da lui, chiudendosi in se stesso, e più se ne compiaceva, perché sentiva che il suo crescente rancore nei suoi confronti era più che giustificato.
   Per sua fortuna, aveva scoperto di poter ovviare un po’ a quei vuoti della sua vita nella casa di Joe Anderson, un allevatore della zona, che possedeva un ranch a qualche chilometro di distanza dal centro abitato di Moab. Quando non era a scuola o nel cortile di casa ad allenarsi con la frusta - aveva scoperto da un paio d’anni che gli piaceva maneggiare quell’arnese e, da allora, non aveva più smesso - lo si poteva senza dubbio trovare nella proprietà di Anderson.
   Indy, pressoché instancabile, si divertiva parecchio ad aiutarlo a rigovernare il bestiame, a tenere pulite le stalle e ad innaffiare i grandi orti, seminati principalmente a mais. Il gioviale proprietario lo aveva preso in simpatia e, oltre a invitarlo spesso a cena, gli versava anche un piccolo stipendio in cambio dei suoi servigi.
   L’unico inconveniente di quel lavoro erano i numerosi serpenti che si nascondevano nei posti più impensati; un tempo li avrebbe scansati senza curarsene, ma da quando era caduto in quella dannata vasca piena di rettili, due anni prima, il solo pensiero di imbattersi in un viscido serpente strisciante e con la lingua saettante e biforcuta lo faceva rabbrividire. Una volta, scostando una pietra, si era trovato faccia a faccia persino con un velenosissimo serpente a sonagli. L’orrore lo aveva paralizzato e gli aveva portato via ogni stilla di calore dal corpo. Per sua fortuna, Indiana era nei paraggi e, con vero sprezzo del pericolo, si era avventato abbaiando e digrignando i denti contro il pericoloso crotalo, mettendolo in fuga.
   A parte i serpenti, però, lavorare per Joe Anderson lo svagava e gli faceva dimenticare la pesante situazione domestica in cui si trovava immerso ogni giorno. Joe era un buon uomo, per quanto avesse modi rozzi e ruvidi, che gli dava molti consigli, e la signora Anderson lo trattava sempre bene, alla stregua di una figlio: con loro era un po’ come avere di nuovo quella famiglia che aveva perduto. Ma la cosa che, in assoluto, più gli piaceva, era essere osservato di continuo dalle tre figlie di Joe, specialmente dalla più giovane.
   Le tre ragazze - Sue, Mary e Caroline - erano più grandi di Indy di alcuni anni; la più piccola delle sorelle, infatti, era Caroline, che aveva diciotto anni. Mentre con le altre due - già prossime al matrimonio - il ragazzo intratteneva un rapporto piuttosto distaccato, per quanto cordiale, con Caroline, libera come l’aria, non si faceva alcun riguardo, specialmente perché lei sembrava incoraggiarlo, senza mostrarsi in nessun modo pudica. Sguardi lascivi, abbracci veloci, pacche un po’ troppo impertinenti, erano all’ordine del giorno per loro due, quando nessuno li osservava.
   Forse, agli occhi di altri uomini, Caroline sarebbe apparsa poco più che una ragazzina, nemmeno troppo bella e aggraziata. Di certo, non la si sarebbe potuta definire tale, con quella sua pelle cotta dal sole, il fisico grossolano, le ginocchia e i gomiti perennemente graffiati e sbucciati, i capelli raccolti a casaccio sotto il cappellone di paglia e i modi ruvidi della contadina abituata a maneggiare attrezzi e a gettare cibo ai tacchini; ma ai suoi sguardi di adolescente, nel cui corpo gli ormoni impazziti esplodevano con l’allegria e il vigore dei fuochi artificiali, appariva come una bellissima donna già completamente formata, una vera e propria dea in terra che rivolgeva a lui tutte le sue attenzioni. E lei, a sua volta, non nascondeva di provare un certo interesse verso quel ragazzino che lavorava sodo e che, di sovente, si toglieva la camicia per sudare di meno, mostrando un fisico asciutto e già abbastanza muscoloso, che per lei non era niente male.
   Nella tarda mattinata di un afoso giorno di inizio estate, mentre si stava sciacquando il volto accaldato e impolverato a un abbeveratoio, Indy si sentì improvvisamente toccare la spalla nuda da una mano che, seppur callosa, riusciva ad apparire morbida e delicata. Si voltò di scatto e si trovò davanti agli occhi il viso sorridente e arrossato di Caroline.
   Erano soli al ranch, perché Joe era andato a vendere delle bestie al mercato accompagnato dal suo lavorante, mentre le altre due sorelle, insieme alla madre, si erano recate in visita ai loro futuri suoceri.
   «Come sei bello» mormorò Caroline, accarezzandolo sul petto sudato e disegnandogli ghirigori con le dita sul ventre piatto. «Bello e bollente…»
   Indy aveva la gola secca e il respiro affannato, ma si rese immediatamente conto che, quelle condizioni, non c’entravano nulla con il sole alto nel cielo tinto di cobalto e con l’aria immobile. Si lasciò toccare per qualche istante e poi, istintivamente, sentì il desiderio di fare altrettanto con il corpo di lei. Mille sensazioni lo invasero e lo stomaco gli si contorse quando lei slacciò il bottone che chiudeva il colletto del lungo abito a fiorellini per permettergli di infilare la mano sotto la stoffa, contro cui premeva il suo ampio e florido seno.
   Fu come esplorare un mondo sconosciuto e nuovo, di inenarrabile bellezza. Gli tornarono fugacemente alla memoria le parole dell’Arciduca d’Austria, che anni prima lo aveva messo in guardia contro le donne. Lo mandò volentieri al diavolo, e che ci restasse pure secco per un colpo di pistola, impiccione che non era altro.
   Senza chiedere il permesso, che lei comunque gli concesse con uno sguardo incoraggiante, cominciò a tastare e a palpare il seno di Caroline. Era la sensazione più bella che avesse mai provato prima. Era tenero e vellutato come nessun’altra cosa che gli fosse mai capitato di toccare; ed era caldo, più caldo del sole di mezzo giugno che picchiava sopra le loro teste. E, ciò nonostante, gli provocava i brividi, che gli scorrevano lungo la spina dorsale facendolo fremere.
   Eppure, migliore ancora di quello fu sentire le loro bocche che, spinte dall’istinto e dal desiderio, si univano in un bacio, appassionato per quanto goffo, mentre le loro lingue si intrecciavano e iniziavano a combattere un’epica battaglia personale.
   «Sei… sei meravigliosa…» riuscì a dirle, staccandosi per un istante dalle sue labbra.
   Per tutta risposta, lei tornò di nuovo all’assalto, toccandolo con ancora maggiore vigore. La sua mano scese oltre la cintura e si insinuò all’interno dei suoi pantaloni, frugando senza pudore. Indy mugolò qualcosa di indefinibile persino alle sue orecchie, ma non si lasciò prendere in contropiede e reagì a sua volta toccando Caroline con ancora più audacia. Poi la ragazza lo prese per la mano e lo trascinò in fretta dentro casa, sollevando nuvolette di polvere rossiccia dal terreno riarso.
   Deglutendo a fatica, Indiana Jones la seguì, affacciandosi così a un mondo nuovo, ancora tutto da scoprire.

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Capitolo 13
*** Messico, aprile 1915 ***


XIII.
MESSICO, APRILE 1915

   Quando aveva sentito lo sceriffo e i suoi uomini raccontare che certi banditi avevano acquistato un prezioso cimelio archeologico da un mercato del Marocco - dove era possibile trovare numerosi oggetti trafugati da musei e siti - e lo avevano condotto in Messico con la speranza di poterlo rivendere a caro prezzo a qualche ricco collezionista, Indy non aveva esitato un solo istante a partire per andare a prenderlo lui stesso. Dopo aver perduto la croce di Coronado, sperava almeno di potersi riscattare recuperando quel cimelio e mettendolo nell’unico luogo in cui sarebbe dovuto stare: un museo.
   Da tempo, ormai, la convivenza con suo padre era diventata quantomeno intollerabile, una guerra silenziosa che stava mettendo a dura prova la sua resilienza; il ragazzo, quindi, non stava aspettando altro che l’occasione giusta per tagliare la corda e seguire la sua strada. Del resto, si diceva, non poteva rimanere per sempre confinato in quel buco sperduto in mezzo allo Utah, che non aveva assolutamente nulla da offrire al di fuori di sabbia e crotali schifosi. E, considerato che il suo amato Indiana scorazzava e abbaiava felice da ormai un mese nel paradiso dei cani e che la sua intensa ma breve storia d’amore con Caroline aveva avuto termine quando Joe Anderson aveva venduto il ranch e si era trasferito lontano con la moglie e l’unica figlia ancora nubile, nel dicembre dell’anno prima, non c’era proprio più stato nulla a trattenerlo.
   Si era infilato in tasca i suoi pochi risparmi, aveva ficcato in una borsa lo stretto indispensabile, aveva assicurato la frusta alla cintura, si era calcato in testa il suo inseparabile cappello ed era partito all’avventura, da solo, senza avere la minima idea di dove andare di preciso, né di ciò che lo avrebbe atteso una volta giunto in Messico. Quella del cimelio da recuperare, lo sapeva, era soltanto una scusa come un’altra per affrettare il momento di dare l’addio a suo padre, che attendeva da parecchio.
   E quell’addio era stato tra i più assurdi che si potessero ricordare, sempre che valesse qualcosa il ricordarlo.
   «Esco» aveva detto il ragazzo, la borsa da viaggio stretta in una mano, avvicinandosi alla porta.
   Henry, chino allo scrittoio, la lampada da tavolo accesa davanti a sé a illuminare un vecchio libro, non aveva neppure alzato gli occhi dalla pagina ingiallita che stava leggendo.
   «Se quando torni sono a letto, vedi di non fare rumore e di non disturbarmi» aveva detto, con il solito tono indifferente che, negli ultimi anni, era stato il solo che gli avesse riservato.
   «Stai tranquillo, papà, non ti disturberò mai più» aveva pensato Indy, reprimendo a stento la collera.
   Così, si era avviato nella notte, diretto verso il lontano confine.
   Aveva attraversato l’Arizona viaggiando a scrocco sulle carrozze dei treni merci in compagnia di altri vagabondi e, dopo alcuni giorni, passando lontano dalla dogana per non dover dare complicate spiegazioni agli agenti di confine, era finalmente entrato nel deserto di Sonora. In quel momento si era sentito euforico come poche altre volte gli era capitato, perché stava andando incontro all’ignoto da solo, potendo contare solamente su se stesso. Si era sentito un uomo, completo nella sua essenza, ancora più di quanto si fosse sentito tale quando aveva fatto per la prima volta l’amore con Caroline.
   Subito, però, aveva imparato una nuova lezione, che gli sarebbe stata molto utile, in futuro: mai spostarsi in luoghi sconosciuti senza prima essersi informati a fondo sulle situazioni politiche del luogo. Il mondo è un luogo ostile, non adatto agli sprovveduti e ai faciloni.
   Il Messico, infatti, era in preda ai fermenti della rivoluzione. Le violente battaglie tra gli uomini di Pancho Villa e i vecchi e ostinati sostenitori del deposto dittatore Victoriano Huerta erano all’ordine del giorno. E Indy, suo malgrado, si trovò a transitare proprio in mezzo a uno di questi scontri.
   «Dannazione!» esclamò, mentre i colpi dei fucili gli esplodevano tutto attorno, sollevando nubi di polvere e spandendo tutto attorno schegge di pietra frantumata.
   Provò a trovare rifugio dentro una vecchia casa diroccata, sperando di passare inosservato, ma alcuni uomini a cavallo si gettarono al suo inseguimento. In quel momento più che mai, Indy comprese che cosa avesse voluto dirgli Roosevelt, quando gli aveva insegnato l’importanza di avere sempre con sé un’arma e di saperla adoperare al meglio.
   «Fermo dove sei o sei morto!» gli intimò un uomo corpulento e con i baffi a manubrio, parlando con un forte accento francese.
   Indy cercò di fare dietrofront, ma ormai i cavalieri lo avevano circondato.
   «Caricatelo sul carro e portatelo dal comandante!» comandò sbrigativo l’uomo con i baffi a manubrio.
   Rassegnato, Indy si lasciò legare i polsi e portare via. La sua grande avventura in Messico era partita davvero male.
   Così, da quel giorno, per avere salva la vita, fu costretto controvoglia a tramutarsi in un guerrigliero, diventando nientemeno che un rivoluzionario messicano al servizio di Pancho Villa. Chissà che cosa avrebbe detto suo padre, se avesse scoperto quello che ne era stato del figlio a cui aveva ordinato di non fare rumore rientrando!
   Imparò a parlare la lingua quechua, molto diffusa tra i guerriglieri, e cominciò a vestire come i suoi nuovi compagni, indossando un poncho di lana colorata; ma non rinunciò mai al suo cappello, preferendolo ai larghi, e a suo dire scomodi, sombreri che utilizzavano gli altri. E neppure, per quanto comprendesse il loro punto di vista, abbracciò mai gli ideali socialisti che animavano i rivoluzionari.
   Per fortuna, l’uomo che lo aveva arrestato si rivelò essere un affabile e bonario cuoco belga di nome Remy Baudouin, giunto in Messico alcuni anni prima per dimenticare il dolore di una vedovanza che lo aveva colpito troppo presto. E di conseguenza, sebbene in maniera tanto movimentata e inaspettata, Indy poté stringere con lui un rapporto di fraterna amicizia, e sperare di trovarvi quella figura paterna che non aveva più avuto da troppo tempo.

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Capitolo 14
*** Somme, Francia, ottobre 1916 ***


XIV.
SOMME, FRANCIA, OTTOBRE 1916

   Inferno. Non avrebbe saputo in quale altra maniera definire quella vita. Sempre che di vita si potesse ancora parlare. Stare fermi in trincea, tra il fango, il fumo, le granate, i gas asfissianti, i morti che si accumulavano uno sull’altro mentre i topi gli rodevano i lineamenti, i volti degli amici che si spegnevano uno a uno, le urla strazianti dei feriti, i bagliori spettrali degli incendi, era semmai una non-vita. Era un’attesa continua, lunga, logorante, orribile, della fine, una fine che non sembrava più poter essere rinviata. L’esistenza in trincea era un semplice tirare avanti in attesa che tutto avesse termine, che il mondo finalmente scoppiasse, annientando tutte le forme di vita, a cominciare dagli uomini che, colti da follia, avevano deciso di suicidarsi in quella guerra logorante e interminabile, fatta soltanto di assalti e di ritirate, all’infinito.
   Quando Remy gli aveva parlato della guerra in Europa, Indy aveva deciso senza nessuna esitazione di seguirlo fin laggiù dal Messico. Per Remy rispondere alla chiamata alle armi dell’esercito belga era stato un dovere di patria, per Indiana Jones soltanto una nuova avventura. Dopo un anno e due mesi di guerriglia in Messico, cambiare divisa e indossare quella grigio-blu dei belgi non avrebbe fatto alcuna differenza, per lui. Gli interessava scoprire il mondo e studiare la natura umana, e quale modo migliore per riuscirci se non andare a vedere le cose da vicino?
   Ora, però, si stava rendendo conto che arruolarsi dando false generalità - e l’ufficiale addetto al reclutamento, consapevole della penuria di uomini validi, si era ben guardato dal verificare che quell’Henri Defense fosse davvero chi diceva di essere - non era stata per nulla una buona idea.
   La guerra non era affatto come se l’era immaginata. Era molto diversa dalle battaglie eroiche di cui aveva letto tra le pagine dei suoi romanzi preferiti o dai romantici duelli cavallereschi a singolar tenzone che erano l’ossessione di suo padre. Non assomigliava nemmeno agli scontri che aveva sostenuto in Messico, che il più delle volte si erano risolti in azioni di sabotaggio dove solo di quando in quando qualcuno poteva restare ferito o, se proprio era sfortunato, ucciso.
   In Messico, tra decadenti caballeros e folli sognatori, tra prostitute che si tramutavano in eroine e campesinos pronti a far valere i propri diritti contro gli oppressori, poteva sul serio sostenere di aver trovato qualcosa di romanzesco; qui, sui campi di battaglia d’Europa, non c’era niente di simile. La poesia non era di casa nelle trincee, tra il fetore dei cadaveri insepolti e l’ossessiva paura dei gas asfissianti o dei lanciafiamme.
   In quell’inferno di ferro, di fuoco e di fango, gli ultimi residui della sua infanzia erano stati spazzati via definitivamente. Lo spazio per i sogni e le illusioni era scomparso dalla sua mente, riempito dal quotidiano faccia a faccia con la morte e l’annullamento. E più passavano i giorni, i mesi e le settimane, tra il freddo, gli assalti e le fucilate, e più Indiana Jones si stava rendendo conto di star diventando cinico e miscredente; se fino ad allora aveva creduto in tutto ciò a cui gli era stato sempre detto di credere senza porsi nessuna domanda, ora si stava rendendo conto che, se mai un qualche dio era esistito davvero, doveva essere morto anche lui, in mezzo alla trincee, spazzato via da qualche cannonata. Sul suo cuore stava calando il gelo. Poteva soltanto sperare che la pazzia non prendesse il sopravvento sul suo cervello, come aveva già fatto su quello di molti suoi commilitoni, che avevano perduto la ragione a causa delle condizioni e delle visioni inumane che li perseguitavano giorno dopo giorno.
   Eppure, qualche tara doveva essere nata pure dentro di lui. Come giustificare, altrimenti, il sogghigno svergolo che gli compariva sulle labbra ogni volta che si rendeva conto di aver mandato a segno un colpo o di aver causato qualche danno irreparabile agli avversari? Forse, si diceva nei rari momenti in cui era possibile fermarsi a pensare, impazzire era il solo modo per sopravvivere, non solo a questa dannata guerra, ma anche a questo mondo che pareva intenzionato ad annientarsi.
   Per il momento, non poteva fare altro che continuare a combattere, sperando che finisse presto. E se gli avessero fornito un pretesto, uno soltanto, per togliersi da lì, lui lo avrebbe accettato. Al diavolo l’avventura, per quella volta: era partito cercando chissà che cosa, e aveva trovato tutt’altro, quello che non avrebbe mai voluto trovare. Ma chissà mai se sarebbe giunta, una simile opportunità. Sembrava più che altro una vana e ridicola speranza, l’illusione di potersi ancora salvare, di sottrarsi alla più becera follia.
   Per adesso, era persino difficile comprendere quale sarebbe stato l’esito finale della guerra. Ogni volta che giungeva la notizia che la prima linea era stata sfondata, gli si gelava il sangue nelle vene. Perché un giorno o l’altro, lo sapeva, sarebbe toccato anche a lui. E non poteva controllare il tremito quando pensava di doversi gettare all’assalto, rapido e sanguinoso contro le mitragliatrici avversarie.
   Anche così, dalle retrovie, non si sfuggiva comunque alla carica. Quando la tromba squillava e i fischietti si levavano acuti, incitando gli uomini allo scontro, bisognava andare. Andare senza sapere se ci sarebbe stato un ritorno.
   Proprio come adesso.
   Scambiò uno sguardo disperato e allo stesso tempo rassegnato con Remy, sapendo che sarebbe anche potuto essere l’ultimo, come sempre. Il suo si sarebbe potuto rivelare l’ultimo volto amico contemplato prima che un proiettile, una granata, un colpo di mortaio o chissà cos’altro ancora ponesse fine alla sua corsa, alla sua strada, alla sua vita.
   Poi pensò a sua madre, a sua padre, al suo cane, a tutte le persone a cui aveva voluto bene, e si lanciò all’assalto, il fucile nel pugno, la baionetta innestata, il fumo negli occhi, l’odore della polvere da sparo nelle narici e il fango tra i piedi.

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Capitolo 15
*** Vienna, Impero austro-ungarico, marzo 1917 ***


XV.
VIENNA, IMPERO AUSTRO-UNGARICO, MARZO 1917

   Vienna era molto cambiata rispetto ai tempi della sua prima visita, nove anni prima.
   Sembrava davvero trascorsa un’eternità da quei giorni lontanissimi in cui aveva sperimentato la sua prima cotta. E bastava guardarsi attorno per rendersene conto: facce cupe, sguardi bassi, luci spente, file di camion che trasportavano le derrate alimentari d’emergenza e ambulanze cariche di feriti provenienti dal fronte. In giro c’erano molte donne e parecchi vecchi, ma pochissimi giovani.
   Indy e Remy avevano accettato senza nessuna esitazione l’incarico che gli era stato affidato: agenti segreti al servizio dell’Intesa. Spie, in pratica. Qualche ufficiale aveva fatto indagini e aveva scoperto che entrambi si erano distinti in Messico, che parlavano molte lingue ed erano piuttosto abili con i travestimenti: ora la loro esperienza sarebbe potuta servire anche in Europa.
   Sapevano entrambi molto bene che l’essere scoperti dai nemici avrebbe comportato l’immediata condanna alla fucilazione. Ma, dopo essersi scambiati poche parole, avevano entrambi convenuto che tutto sarebbe risultato più accettabile che continuare a rimanere sepolti vivi nelle trincee. Meglio correre dei rischi ragionati, piuttosto che restare stesi nel fango aspettando di essere colpiti da un proiettile vagante o di venire asfissiati dal gas, o magari di finire rosi dai topi e dalle malattie.
   Quello di Vienna era soltanto uno dei numerosi incarichi che avrebbero dovuto affrontare in questa loro qualità. Non il primo, non l’ultimo. Sempre, beninteso, che ne uscissero vivi.
   Entrambi, comunque, sapevano bene ciò che facevano.
   Remy, a dispetto delle apparenze dovute al suo fisico grassoccio e allo sguardo bonario, era un uomo molto capace e versatile, che non dava mai nell’occhio, una qualità davvero utile, in casi come quello; e Indy, ormai, poteva ben dire di essersi fatto le ossa e di conoscere abbastanza bene i rischi. Il ragazzino che si era lasciato stupidamente rapire dagli uomini di Pancho Villa o che si sentiva cogliere dall’emozione di fronte a una bella ragazza che gli offriva le sue grazie forse esisteva ancora, ma era sepolto molto a fondo dentro di lui.
   Giunto a questa fase della sua vita, poteva ben definirsi un vero cinico dal cuore duro. A non ancora diciotto anni, contava sulle proprie spalle molte più esperienze di uomini assai più vecchi di lui. Ormai non guardava più in faccia nessuno e, in qualsiasi cosa che facesse, cercava solo un personale tornaconto. Persino il suo arruolamento come spia non era mosso da ideali patriottici: amava combattere, amava il rischio e l’azzardo, voleva visitare di continui luoghi mai visti in precedenza; era tutto ciò che desiderava per sé, e tanto gli bastava.
   Anche nelle relazioni con l’altro sesso era cambiato. L’amore non faceva più parte della sua vita. Si limitava alla fisicità, priva di emozioni e di sentimenti; e il gioco gli piaceva ancora di più quando finiva a letto con presunte spie della parte avversaria, che avrebbero potuto tradirlo da un momento all’altro. Lo trovava eccitante e si divertiva parecchio.
   Indiana Jones aveva bisogno di continue emozioni, di correre forti rischi, perché soltanto in questa maniera aveva l’impressione di essere vivo. Quando restava per qualche giorno senza nulla da fare, fosse anche soltanto senza una ragazza da corteggiare e portare a letto, si sentiva apatico, inutile, privo di uno scopo. Era un adolescente, ma ragionava ormai da vero e consumato uomo di mondo, pronto a tutto, abituato a ogni cosa.
   E quindi eccolo qui, insieme a Remy, intento all’ennesima missione, conscio che, da un istante all’altro, la fortuna che fino a quel giorno lo aveva sempre accompagnato avrebbe potuto girare e metterlo in grossi guai. Non gliene importava nulla. Aveva costruito la sua vita sul rischio e in questa maniera voleva condurla. Non aveva nessuno con cui giustificarsi, perché nessuno lo stava aspettando a casa.
   Si fermarono in un vicolo sudicio e maleodorante, mantenendosi nell’ombra mentre attendevano il passaggio di un drappello di militari, i cui stivali rimbombavano sull’acciottolato della via principale.
   «La casa è quella» disse Remy, indicando un alto palazzo dalla facciata color giallo ocra che si innalzava sull’altro lato della strada. «Se tutto va come previsto, dovremmo sbrigarcela in un’ora.»
   «Andiamo» replicò Indy, avviandosi.
   E allora avanti così, lungo la sua strada irta di pericoli e di emozioni che lo facevano sentire vivo e forte.

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Capitolo 16
*** Alpi Giulie, Regno d’Italia, agosto 1917 ***


XVI.
ALPI GIULIE, REGNO D’ITALIA, AGOSTO 1917

   Se aveva creduto di essere diventato immune ai sentimenti, allora Indiana Jones poteva dire di essersi ingannato sul proprio conto. Forse non era il suo cuore a essersi indurito; era semplicemente il mondo tutto attorno che era diventato un posto orribile. E combattere per farlo tornare quello di un tempo, per restituire la libertà a tutti, per far cessare il disastro della guerra, era fatica ben spesa.
   Ma il suo cuore batteva ancora come un tempo ed era ancora capace di riempirsi d’amore. Né la guerra ancora in corso né le tante avventure vissute fino a quel momento erano riuscite a renderlo inumano come, per un periodo, aveva creduto lui stesso. Nemmeno il ricordo dell’ormai distrutto legame con suo padre era bastato a farlo diventare un mostro.
   Indy era ancora un essere umano, con le sue debolezze, le sue illusioni e le sue speranze. E, naturalmente, con tutti i suoi sentimenti. Era stata una vera epifania rendersene conto e, dentro di sé, doveva riconoscere di esserne felice.
   Il pensiero di aver perduto quel lato di umanità che, da bambino, lo aveva fatto giocare felice con il suo cane o correre tra le braccia di sua madre - momenti che, adesso, sembravano lontanissimi - lo aveva tormentato per mesi come un incubo ricorrente a occhi aperti. Scoprire di essersi sbagliato era davvero confortevole, lo aveva riempito di sollievo e gli aveva fatto rinascere la passione che aveva sempre avuto per la vita. Non avrebbe mai smesso di cercare nuove avventure, né avrebbe esitato a gettarsi in imprese disperate; però, finalmente, lo avrebbe fatto sapendo di non essere del tutto il grande conglomerato di cinismo che aveva pensato di essere diventato.
   A fargli comprendere tutto questa era stata una bella ragazza che viveva sulle montagne del Nord Italia, a non molti chilometri dalla linea del fronte orientale dove, in quegli stessi giorni, sull’Isonzo, si combatteva più strenuamente per le nuove offensive lanciate dall’esercito italiano contro le armate nemiche.
   Indy l’aveva conosciuta in un periodo di congedo, mentre si riprendeva da una brutta ferita riportata al fianco in un’azione di combattimento a cui gli era stato chiesto di partecipare. Seduto sopra un masso a fianco di un sentiero alpino, l’aveva guardata mentre tornava a casa con un cesto di vimini sotto braccio e si era sentito catturato da quello sguardo dolce e ingenuo. Si era innamorato, innamorato davvero, per la prima volta dopo anni. O, probabilmente, per la prima volta in assoluto.
   E, proprio perché il suo cuore batteva in quella maniera per Giulietta, non si era buttato subito all’assalto come faceva di solito. Con le donne, fino a quel giorno, si era comportato esattamente come in guerra: un assalto all’arma bianca per conquistare il terreno, cercando di assaltare proprio le parti meno fortificate e peggio difese, fino a costringerle alla capitolazione completa. Con lei, invece, non voleva fare nulla di tutto questo.
   Voleva corteggiarla, invece. Desiderava dimostrare di tenere davvero a lei. Forse ci sarebbe riuscito o forse no. Forse sarebbero rimasti insieme tutta la vita oppure pochi giorni soltanto, magari nemmeno quelli. Magari, alla fine, sarebbe riuscito a convincerla a donargli almeno un bacio, il cui ricordo avrebbe tenuto per sempre con sé. Probabilmente lei non gli avrebbe donato neppure quello.
   Non si faceva illusioni né si prendeva la briga di fantasticare sull’avvenire. Non sapeva nulla di come sarebbe andata e nemmeno gli importava. Pensava soltanto al presente, non al futuro. E il presente consisteva nel stare vicino a Giulietta, con galanteria e romanticismo.
   Ciò a cui Indy pensava davvero, mentre si piegava in mezzo ad alcune rocce a margine di un ruscello cristallino e gorgogliante per raccogliere alcuni profumatissimi ciclamini selvatici da legare insieme e da portarle in dono - ah, come si illuminavano i suoi bellissimi occhi, quando riceveva quei regalini semplici ma provenienti dal cuore - era quanto fosse bello essere innamorato.
   Era la sensazione più dolce e meravigliosa del mondo, dinnanzi alla quale tutto il resto passava in secondo piano, persino lo scenario disastroso e terribile della guerra, i cui fumi, pure, si levavano soltanto a pochi chilometri di distanza, dietro i picchi rocciosi e frastagliati che si innalzavano verso il cielo immobile e imperscrutabile, ormai rassegnato agli orrori di cui l’essere umano era capace. E, anzi, proprio il pensiero dell’amore gli faceva intuire che, prima o poi, quell’inutile carneficina avrebbe avuto termine.
   Per una volta, Indiana Jones sognava l’amore e non le avventure.

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Capitolo 17
*** Parigi, Francia, dicembre 1918 ***


XVII.
PARIGI, FRANCIA, DICEMBRE 1918

   La guerra era finita.
   I cannoni avevano cessato di tuonare la loro canzone di morte, il fumo non si innalzava più come un cupo fantasma dai campi di battaglia. Il fango e il sangue si dissecavano nelle trincee tornate vuote e silenti, le baionette infine appagate riposavano nelle rastrelliere. I corpi senza nome dei soldati, a centinaia di migliaia, venivano tumulati in larghe fosse, in attesa che fossero eretti austeri sacrari che avrebbero perpetuato il ricordo immortale del loro sacrificio per i secoli a venire. L’erba verde tornava a crescere nei prati, i fiumi ricominciavano a scorrere placidi senza più mormorare con tono sommesso.
   Ciò che era stato era stato, e un nuovo futuro si levava nei cieli, ancora nuvolosi eppure attraversati da raggi di sole che lasciavano intravedere sprazzi azzurri. Un futuro incerto, eppure colmo di nuove speranze.
   Ora si contavano i danni, si enumeravano i morti, i feriti e gli invalidi a vita, si inventariavano i depositi conquistati alle armate volte in fuga, ci si organizzava per spartirsi le briciole degli imperi distrutti, si facevano piani per la ripartenza, per il ritorno alla normalità.
   Dopo quattro anni e mezzo, l’Europa era quietata e silenziosa, e si stava a fatica riabituando a quella strana pace. Gli antichi imperi non esistevano più, nuove ideologie e nuove coscienze erano sorte dal fango e dalla cenere. Quella guerra, con tutte le sue devastazioni e i suoi milioni di morti, sarebbe stata ricordata per sempre come lo spartiacque tra un passato ormai obsoleto e un avvenire ancora tutto da comprendere e da scrivere.
   L’ieri era morto, il domani doveva ancora nascere.
   Quel Natale, però, si stava preannunciando molto meno felice del previsto. Non erano solo i morti ancora insepolti che giacevano ovunque a renderlo tale. E non era nemmeno la paura del comunismo, che dalla Russia minacciava di sollevare il suo sguardo verso il resto del mondo. Un nuovo fantasma aleggiava ovunque, uno spettro terribile e subdolo che metteva spavento e toglieva il fiato.
   Una paura estremamente antica e insieme nuovissima, a cui non si era più abituati, che aveva svuotato quasi completamente persino i locali abituati a risuonare di musiche e di voci festose.
   A uno dei tavoli davanti alla vetrata appannata sedevano gli unici due avventori di quel piccolo bistrot di Montmartre. Le pareti erano state addobbate con ramoscelli di agrifoglio e palline colorate, che contribuivano a mitigare la cupezza generale che sembrava essersi abbattuta sull’intera città. In un angolo, una stufa accesa irraggiava il suo dolce tepore.
   «Ci mancava appena la pandemia» borbottò Remy, abbassando il giornale che annunciava le ennesime misure adottate dalle autorità cittadine per contenere l’influenza spagnola, che minacciava di provocare ancora più vittime di quante ne avesse fatte la guerra.
   Indy scrollò le spalle e osservò il suo bicchiere colmo di un forte e dolce liquore alle erbe dal colore giallo brillante.
   «È passata la peste. È passato il colera. È passata persino la guerra, pensa un po’. Passerà anche questa» disse, con tono da filosofo stoico. «Basta avere pazienza e lasciare che la natura faccia il suo corso» aggiunse, senza alzare lo sguardo.
   «Sì, certo, ma non si può mai starsene un attimo tranquilli, in questo pazzo mondo» commentò l’amico, afferrando a sua volta un bicchiere. «Sembra che siamo fatti per passare da un guaio all’altro senza un solo attimo di tregua. Sbattuti a casaccio come palline su un tavolo da biliardo o qualcosa del genere.»
   «Così è la vita e, siccome ne abbiano una sola da vivere qui e non altrove, facciamocela andare bene per come è e non per come vorremmo che fosse» disse Indy, sollevando il calice in un brindisi. «Prendiamola come viene e, se serve, beviamoci su per non pensarci troppo.»
   Remy fece tintinnare il bicchierino contro il suo.
   «Non ti facevo tanto esperto di filosofia» osservò. «Perché non vai a studiarla all’università? Ora di tempo ne avrai parecchio, da buttare…»
   Un sorriso amaro increspò le labbra di Indiana Jones.
   «Ho avuto molti maestri. Compresa la guerra. Mi ha insegnato moltissime cose.»
   Remy abbassò il bicchiere da cui aveva bevuto un piccolo sorso.
   «A me l’unica cosa che ha insegnato è che è meglio non averci niente a che fare. Spero proprio che la prima guerra mondiale sia anche stata l’ultima.»
   «Mah, chi può dirlo» fece Indy, pensieroso. «Dipenderà tutto dalle trattative di pace. Se non andranno come previsto, non ci vorrà molto ai contendenti per riorganizzarsi e pretendere a cannonate che vengano rispettati gli accordi. Sempre che, una volta messi tutti d’accordo, non decidano di andare a scacciare i bolscevichi dalla Russia.»
   «Olé, che allegria!» sbottò Remy, con una smorfia di disgusto. «E allora noi per che cosa ci siamo dati tanto da fare? Per ricominciare tutto da capo un’altra volta? E che noia!» Poi, scuotendo la testa, soggiunse: «Ora che cosa farai?»
   Il ragazzo fece un cenno insicuro.
   «Di preciso non lo so. Prima di tutto dobbiamo ricevere il congedo, poi si vedrà. Immagino che non sarà facile tornare alla normalità, dopo tutti questi anni. Un giornale mi ha offerto un posto da cronista, e poi… ho molte cose in mente, ma nessuna certezza, per adesso. Penso che accetterò, almeno per qualche tempo, giusto per mettermi in tasca qualche spicciolo. Tu scherzi sempre, ma io a volte ci penso davvero, a una carriera universitaria…»
   «Filosofia?» domandò subito il belga, increspando i baffoni in un grande sorriso.
   «Non è esattamente ciò che avrei in mente…» confessò l’amico, ricambiando il sorriso.
   «Non vorresti tornare a casa?» chiese Remy, guardandolo profondamente. «Da tuo padre, intendo?»
   Indy si rigirò il bicchiere tra le mani, fissandolo con intensità ma senza realmente vederlo.
   «A volte sento un po’ di nostalgia» ammise. «Ma non so come sarebbe, un nostro nuovo incontro. Sai, non credo che senta poi troppo la mia mancanza.»
   «È tuo padre!» esclamò Remy. «Certo che sente la tua mancanza! E sarà preoccupato da morire!»
   Il ragazzo si strinse un’altra volta nelle spalle.
   «Preoccupato non credo… gli ho scritto, qualche volta. Sa che sono vivo, perlomeno. E quelle due o tre volte che si è degnato di rispondermi non ha certo usato dei toni molto lusinghieri, nei miei confronti.»
   Indy aveva fretta di cambiare argomento.
   «E tu, Remy? Che cosa mi dici di te? Sai già che cosa farai?»
   L’amico si arricciò i baffi con le dita e, dopo essersi guardato attorno, abbassò il tono con fare cospiratorio.
   «Indy, volevo che fosse una sorpresa… ma… te la ricordi Suzette? Suzette Chambin, intendo…»
   L’americano frugò nei suoi innumerevoli pensieri, cercando di abbinare un volto preciso a quel nome che era certo di aver già sentito pronunciare. All’improvviso gli tornò in mente. Era la proprietaria di un ristorante in Belgio, che avevano conosciuto durante una delle loro tantissime missioni.
   «Ah, sì, la vedova… quella con quattro figli…» disse, annuendo. «Allora?»
   Remy arrossì vistosamente.
   «Allora il mese prossimo ci sposiamo!» esclamò. «Tu… mi faresti da testimone, vero? Niente abito da cerimonia, sarà una cosa piuttosto intima e informale. Puoi indossare la divisa, se vuoi. Faresti un figurone.»
   Quella notizia riempì di allegria il cuore di Indy, ma gli fece anche salire un groppo in gola. Se Remy si fosse sposato, non lo avrebbe più seguito verso nuove avventure. Ancora una volta, si sarebbe trovato ad affrontare il mondo intero da solo. Ma a questo avrebbe pensato a tempo debito. Ora non era il momento di lasciarsi scoraggiare per così poco.
   «È meraviglioso, Remy! Congratulazioni!» disse, sollevando di nuovo il bicchiere. «A te e a Suzette e alla vostra vita insieme!»
   Anche Remy brindò di nuovo.
   «E a te, Indy. Perché possa davvero trovare il tuo posto nel mondo.»
   Indiana Jones sorrise, anche se irrequieto.
   Si sentiva ansioso e preoccupato nei riguardi di ciò che lo avrebbe atteso.
   Per tutta la durata del conflitto non aveva avuto necessità di porsi domande sul futuro, perché il futuro, in quei giorni tumultuosi, erano altri combattimenti, altri rischi di morire ammazzato da un giorno all’altro. Ora l’avvenire era invece soltanto una macchia nera e informe, un fumo impalpabile a cui spettava a lui dare dei connotati riconoscibili.
   Sapeva che non sarebbe stato facile, eppure ci sarebbe riuscito, in un modo o nell’altro.

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Capitolo 18
*** Fiume, Reggenza italiana del Carnaro, ottobre 1919 ***


XVIII.
FIUME, REGGENZA ITALIANA DEL CARNARO, OTTOBRE 1919

   Da tempo un’idea fissa e sempre più insistente tormentava Indiana Jones.
   Era iniziata come un sogno, andato e venuto nel corso degli anni. Negli ultimi tempi, però, gli si era riaccesa nella mente con forza preponderante, e non sembrava più intenzionata ad abbandonarlo. Anche in questo la guerra gli aveva dato una spinta non indifferente: si era reso conto, vedendo le macerie dei paesi distrutti e delle chiese devastate, di quanto le opere dell’uomo, persino le più grandiose, sapessero essere fragili ed effimere, destinate a scomparire nel volgere di un lasso di tempo breve come il lampo.
   Non riusciva a tollerare che l’ingegno umano andasse perduto. Tutto ciò che l’uomo aveva fatto andava studiato e preservato, per essere consegnato intatto alle generazioni future. E, ciò che era stato perso, andava riscoperto, per apportare nuove conoscenze alla storia dell’umanità, le cui tracce più remote si perdevano nell’alba dei tempi.
   Così, dopo aver lavorato diversi mesi come reporter per un quotidiano parigino - per conto del quale era anche stato inviato ad assistere alla combattuta e sofferta ratifica del trattato di pace di Versailles, che aveva lasciato più delusi e scontenti che altro - aveva maturato la decisione di dimettersi e, dopo quasi cinque anni di assenza, fare ritorno negli Stati Uniti per coronare quel suo vecchio sogno: diventare archeologo.
   Sapeva bene, naturalmente, che tale scelta lo avrebbe allontanato per sempre dalla vita avventurosa a cui era stato abituato fino a quel giorno; avventure e archeologia, è risaputo, non vanno di pari passo e non possono legarsi. Ma era anche consapevole che un po’ di tranquillità non gli avrebbe fatto per niente male, dopo tante fatiche e tanta tensione. Con l’ultimo stipendio e con la poca liquidazione ricevuta, quindi, si era procurato alcuni libri di archeologia, per cominciare a darsi un’infarinata generale in vista della sua iscrizione all’università.
   Prima di partire, tuttavia, avrebbe dovuto svolgere un ultimo incarico per il servizio segreto. E lui, il capitano Jones - perché questo era il grado che si era guadagnato con la sua perseveranza - non si era potuto sottrarre a quell’ultima richiesta che gli era pervenuta dal comando.
   In fondo, non gli sembrava nemmeno un’impresa troppo difficile: raggiungere Fiume, la città-stato affacciata sul golfo del Carnaro occupata dal poeta Gabriele d’Annunzio e dai suoi legionari, e cercare di scoprire che cosa avesse davvero in mente il Vate. La paura dei pezzi grossi era che d’Annunzio, che Lenin ammirava senza farne alcun mistero, potesse cercare di mettere in atto in piena Europa una sommossa di stampo bolscevico.
   Quando era giunto a Fiume, celandosi dietro l’identità di un giornalista - mesi interi di quella professione gli avevano insegnato qualcosa - Indy si era tuttavia trovato di fronte a qualcosa di inaspettato: più che una città occupata militarmente, quella sembrava essere una vera e propria festa continua.
   I legionari bevevano, mangiavano e si divertivano, praticando l’amore libero e sfrenato sia con le donne sia tra uomini, senza che qualcuno ci trovasse alcunché di scandaloso; il governatore stesso sembrava essere più interessato a fare dentro e fuori dai teatri, ascoltando l’opera e godendosi gli spettacoli, per poi apparire di quando in quando al suo balcone per leggere qualche proclama colmo di roboanti e incomprensibili arcaismi, piuttosto che occuparsi di politica.
   E nessuno, pertanto, sembrava avere minimamente in testa di mettersi a combattere un’altra guerra, men che meno di far scoppiare una rivoluzione per portare anche lì le rigide regole del mondo socialista, che di certo non si adattavano all’atmosfera spensierata e festosa che aveva invaso la città. Le uniche azioni a cui si prestavano i legionari, in effetti, erano le scorrerie piratesche sull’Adriatico per catturare navi da cui trarre il vettovagliamento con cui continuare a gozzovigliare.
   Indy, abbagliato da quell’atmosfera che non gli era mai capitato di respirare in nessun altro luogo, aveva quasi subito perso di vista il suo incarico e si era abbandonato ai bagordi. E, in uno dei numerosi postriboli della città, aveva conosciuto una ragazza veramente carina di nome Mila, con cui era un piacere immenso trascorrere ore felici, dimenticando tutto il resto. Lui stesso, mentre la giovane prostituta gli faceva sperimentare sensazioni di cui non aveva mai neppure supposto l’esistenza, tendeva a scordare il vero motivo che lo aveva condotto fino a lì. Solo che, mentre lui si divertiva, occhi sospettosi lo seguivano con insistenza, tenendo conto di ogni suo movimento.
   Una mattina, mentre lasciava il bordello in cui lavorava Mila, si era trovato circondato da alcuni uomini in uniforme. Gli avevano messo le manette ai polsi, lo avevano perquisito e poi lo avevano trascinato fino al palazzo in cui, lo sapeva benissimo, risiedeva il governatore della città.
   Aveva deglutito, cercando di pianificare una via di fuga; ma i legionari lo stringevano da vicino e lo avevano condotto proprio davanti a lui, davanti a Gabriele d’Annunzio in persona.
   Basso, gracile, orbo da un occhio, calvo, a tratti persino claudicante, il Comandante era un ometto all’apparenza fragile. Eppure, dinnanzi a lui, Indy si era sentito microscopico. Non aveva capito un granché di ciò che d’Annunzio gli aveva detto con il suo aulico e altisonante linguaggio infarcito di latinismi e di parole che parevano inventate sul momento; le sole cose che aveva compreso era che d’Annunzio sapeva benissimo che lui era una spia e che, per questo gravissimo motivo, si sarebbe meritato una condanna alla fucilazione. Poi, a un suo cenno, i legionari lo avevano trascinato via.
   Ma anche quella volta era stato fortunato. Il poeta doveva essere anche un gran burlone, perché nessuno aveva alzato un’arma contro di lui. Si erano limitati a condurlo al confine pattugliato dalle truppe italiane spedite lì dal governo di Roma per tenere sotto controllo la situazione e a sbatterlo fuori.
   Così, in una maniera piuttosto vergognosa, aveva avuto termine l’ultima missione da agente segreto di Indiana Jones. In quel momento, aveva compreso che la calma e la tranquillità erano davvero ciò che voleva per sé, e soltanto lo studio dell’archeologia gliele avrebbe potute donare. Era giunto il momento di chiudere una volta per tutte con l’avventura e di dedicarsi a scopi differenti.
   Basta con i rischi e con gli azzardi, nella sua vita.
   Aveva raggiunto il comando, che si trovava a Venezia, e si era congedato definitivamente. In cambio aveva ricevuto una stretta di mano, un documento e una piccola medaglia che si era infilato in tasca. Poi, recuperati i suoi libri e i pochi bagagli, era andato al porto e si era imbarcato sul primo piroscafo diretto in America.
   Stava tornando a casa.

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Capitolo 19
*** Princeton, New Jersey, novembre 1919 ***


XIX.
PRINCETON, NEW JERSEY, NOVEMBRE 1919

   Suo padre aveva fatto ritorno nella loro vecchia casa di Princeton dopo soltanto pochi mesi dal giorno in cui Indy era partito per il Messico.
   Fu davvero una strana sensazione, come muoversi attraverso un sogno dai contorni sfumati, ripresentarsi dinnanzi a quella porta da cui, tante volte, era corso fuori insieme al suo cane Indiana, accompagnato dalla mamma; dall’ultima volta che se l’era chiusa alle spalle, in procinto di trasferirsi nello Utah, erano successe così tante cose che pareva essere trascorsa una vita intera. Se ne era andato un bambino, e ora tornava un uomo.
   Ma Henry, abbassando la maniglia e ritrovandoselo di fronte, lo accolse come se ne fosse uscito soltanto il giorno prima e non fosse accaduto assolutamente nulla. Di certo, non fu il ritorno del figliol prodigo da festeggiare uccidendo il vitello grasso. Soltanto una fugace scintilla parve attraversagli lo sguardo; durò per così poco, per meno di un secondo, che suo figlio pensò di essersela immaginata.
   «Salve, Junior» lo salutò, con tono tranquillo e cordiale.
   Il tempo, per Henry Jones, sembrava aver accelerato. La barba gli si era ingrigita, i capelli parecchio diradati e, ormai, non toglieva più gli occhiali. Profonde rughe gli solcavano la fronte, sempre più alta a causa della calvizie, e gli avevano scavato le guance attorno alla bocca. Se non fosse stato per quegli occhi grigi dallo sguardo profondo e severo, forse Junior avrebbe persino stentato a riconoscerlo. Indy, dal canto suo, non poté fare a meno di domandarsi se anche lui apparisse tanto diverso, agli occhi di suo padre. Due perfetti estranei che si incontravano per un puro caso dopo tanti anni.
   Forse per stemperare la tensione di dover stare da soli tra le mura domestiche, il pomeriggio andarono insieme in un locale del centro a bere qualcosa. Indy prese un frappé, che sorseggiò lentamente nel tentativo di vincere l’imbarazzo che li divideva. Nessuno dei due, a parte qualche frase di circostanza o qualche commento sul tempo, che dopo gli ultimi sprazzi di sole autunnale si stava mettendo al peggio, riuscì a dire qualcosa di sensato.
   Il problema sorse la sera, quando sedettero al tavolo della cucina per la cena. La prima cena insieme dalla primavera del 1915.
   Fu Henry a sollevare l’argomento di cui, evidentemente, gli premeva parlare.
   «Allora, Junior, sei tornato» constatò l’ovvio. «Ora che hai finito di divertirti e di bighellonare in giro per il mondo, che cosa hai intenzione di fare?»
   Senza guardarlo negli occhi, a disagio, cercando di reprimere la collera che gli dava il solo pensiero di poter definire come un divertimento gli orrori di cui era stato testimone sui campi di battaglia, Indy sussurrò la sua risposta.
   «Intendo iscrivermi all’università e prendere la laurea» rivelò.
   «Molto bene, Junior. Approvo la tua scelta di mettere finalmente la testa a posto e sbarazzarla di tutti gli sciocchi e vani grilli che l’hanno abitata finora. Qui a Princeton c’è un’ottima facoltà di linguistica, credo che sarebbe la scelta migliore per te, considerato che hai sempre avuto una buona predisposizione per l’apprendimento delle lingue. La mai abbastanza compianta miss Seymour lodava con molto entusiasmo questa tua grande capacità. Certo, avrei preferito saperti laureato in letteratura, ma so riconoscere una causa persa, quando me la trovo davanti. E, una volta laureato, io potrei fare in maniera di trovarti un posto sicuro.»
   Indy strinse il pugno sotto il tavolo. Non aveva bisogno dell’aiuto di suo padre. E, tantomeno, voleva che fosse lui a decidere per il suo futuro. Non riusciva a credere che, dopo tutti quegli anni, dopo tutto quello che era successo, non fosse cambiato assolutamente nulla. Eppure sembrava proprio che, una volta di più, stesse cercando di mettersi di mezzo.
   «In verità, pensavo di andare a studiare a Chicago» disse, tentando con scarsi risultati di controllare il tremito nella voce.
   «Chicago» ripeté Senior, pensoso, grattandosi il mento. «Nell’Illinois. È piuttosto lontano. E che cosa c’è di tanto speciale, a Chicago, che non ci sia anche qui?»
   «Abner Ravenwood» rispose Indy, secco.
   «Ravenwood» ribatté Senior, aggrottando le sopracciglia.
   Sentire Henry ripetere di continuo le sue parole cominciava a dargli ai nervi, ma di nuovo Indy riuscì a mantenere il controllo e a non sbottare.
   «Ah, sì. Ora rammento» proseguì Senior. «Uno studioso di archeologia biblica. Marcus mi ha parlato di lui, una volta.» Il suo tono divenne pungente e sarcastico. «È un tipo eccentrico, anzi un po’ uno svitato, da quel che si dice in giro; ossessionato dalla ricerca di una città perduta di nome Tanis e dall’Arca dell’Alleanza. Pare che trascorra ogni momento libero di cui dispone a fare ricerche in tal senso. Spreca le primavere andando su e giù a fare buche tra Egitto e Palestina. Sì, credo che non sbagli, chi lo definisce un po’ tocco.»
   Indy non replicò nulla. Gli sembrava quantomeno assurdo, però, che proprio suo padre, che da anni compilava quel suo stupido e inutile libretto del Graal, accusasse altri di avere un’ossessione per qualcosa, e che addirittura per questo arrivasse a dargli del pazzo.
   «Ne arguisco, Junior, che tu vorresti studiare archeologia» concluse Henry.
   Il ragazzo trovò finalmente il coraggio di alzare lo sguardo su suo padre. Trovarsi gli occhi penetranti di Senior puntati addosso non fu una bella esperienza, ma riuscì a reggere la prova.
   «Sì» disse. «E quindi? Pensi che non vada bene?» Le sue parole erano cariche di un accento di sfida.
   Henry restò impassibile.
   «Penso che sarebbe la professione giusta per un operaio, Junior» replicò. La sua voce era bassa, calma, come se stesse facendo un dettato in classe. «E allora perché non fare domanda per andare a interrare le condotte dell’acquedotto o come addetto alla pulizia dei porcili? Tanto, sempre di spalare il fango, si tratta. Lavori umili, sottopagati, ma che perlomeno potresti iniziare subito, senza sprecare fatica e denaro a studiare robaccia su manuali compilati da uomini di dubbia levatura morale.»
   «L’archeologia è una disciplina seria!» grugnì Indy. Ormai il suo sguardo fiammeggiava.
   «La letteratura, la matematica e la storia sono discipline serie, Junior!» lo redarguì Henry, questa volta alzando il tono della voce. «Non l’archeologia! Quella non è affatto scienza! Quella è solo una perdita di tempo! Ricostruire il passato tramite i reperti… sciocchezze!» Scosse il capo, come se lo esasperasse il solo pensiero. «Il passato è già scritto nei libri e nelle conoscenze che i nostri giganteschi antenati, sulle cui spalle noi siamo come nani, ci hanno tramandato! È già tutto lì, quello che serve! Non nascosto sottoterra! E tu vorresti andare a studiare con un vecchio folle che crede che sotterrato da qualche parte ci sia un manufatto biblico che è senza dubbio mera invenzione simbolica? Ma non farmi ridere, per favore!»
   Indy stava perdendo sempre più velocemente la pazienza. Puntò un dito minaccioso contro il viso del padre, che non batté ciglio.
   «A me non interessa quello che Revenwood crede o non crede! Io voglio studiare con lui perché è il più celebre archeologo d’America! E poi, Cristo santo, non venirmi a fare questi discorsi proprio tu, che da anni sei ossessionato da uno stupidissimo bicchiere…!»
   «Junior!» ruggì Henry, questa volta balzando in piedi con tale impeto che la sedia si rovesciò dietro di lui. «Non osare mai più bestemmiare in questa maniera davanti a me! Fallo ancora una volta e ti darò uno schiaffone, promesso!» I suoi occhi lampeggiarono sinistramente, dando a intendere che, quella promessa, non l’avrebbe scordata mai. «Tu sei ancora minorenne, e quindi studierai quello che io ho deciso e non farai niente senza il mio permesso!»
   Anche Indy si alzò. Si costrinse a ficcarsi le mani nelle tasche dei pantaloni per non colpire suo padre con un pugno. Non voleva arrivare a tanto, sebbene fosse certo di non essere mai stato così vicino dal compiere un’azione di cui si sarebbe pentito amaramente per tutta la vita. Ma era mai possibile che quell’uomo fosse tanto arrogante e ottuso da non rendersi conto che era di lui, e del suo futuro, che si stava parlando?
   «Non sono venuto a chiedere il permesso a te!» sibilò. «Se tu sei abituato a comandare a bacchetta i tuoi studenti, non credere di poter fare lo stesso con gli altri! E se non ti va a genio quello che ho scelto per me, non me ne frega nulla!»
   «Ti rovinerai la vita a frequentare quel Ravenwood! Farà di te uno spalatore di fango senza futuro!» gridò Henry, furibondo. «Quell’uomo segnerà la tua rovina!»
   «Se è questo che pensi, non abbiamo più nulla da dirci» replicò Indy, secco. «Addio.»
   Si girò e si avviò fuori dalla cucina.
   «Non voltarmi le spalle!» sbraitò Henry, pestando un pugno sul tavolo. «Junior! Torna qui!»
   Ma Indy era già nell’ingresso e stava staccando dall’attaccapanni il suo cappotto. Lo infilò e prese il cappello.
   «Junior! Aspetta! Dove stai andando?! Junior! Junior…!»
   Era una sua impressione, o il tono di suo padre adesso era cambiato e si stava facendo supplichevole, come se lo implorasse di non lasciarlo solo un’altra volta? Non gli interessò minimamente di scoprirlo. Non voleva avere più niente a che fare con quell’uomo. Mai più.
   Aprì la porta e, proprio come aveva fatto quasi cinque anni prima nello Utah, si allontanò nella notte.

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Capitolo 20
*** Chicago, Illinois, novembre 1919 ***


XX.
CHICAGO, ILLINOIS, NOVEMBRE 1919

   Il suo primo incontro con Abner Ravenwood era avvenuto in uno dei corridoi della facoltà. Indy non aveva mai visto in faccia quell’uomo a cui aveva deciso di affidare tutto il suo futuro; non aveva la minima idea di come fosse fatto il professore. Poteva almeno addurre questa, come scusa per quel pessimo, primo scambio di saluti.
   Si era perso tra i labirintici corridoi dell’Università di Chicago e, ben presto, si era trovato a gironzolare senza sapere dove stesse andando di preciso, aprendo porte a casaccio e salendo rampe di scale che non aveva idea di dove conducessero. Mai come in quel momento aveva compreso che cosa dovesse provare Marcus Brody ogni volta che smarriva la strada nel suo museo.
   A un certo punto, quando cominciava a perdere le speranze di potersi orientare all’interno di quell’immenso edificio di stile neogotico, il ragazzo intravide in fondo a una scalinata un uomo alto e possente, con i baffi castani e il pince-nez sul naso, avvolto in un’ampia e antiquata palandrana nera, che teneva per la mano una bambinetta dai capelli corvini e mossi; stava parlando con voce roboante con un tizio smilzo e i capelli pettinati all’indietro. A giudicare dall’abbigliamento scialbo e dai modi rozzi che ostentava a ogni singolo movimento, doveva trattarsi di un inserviente.
   «Mi scusi» disse Indy, avvicinandosi, «lei è il bidello, vero? Saprebbe indicarmi l’aula del professor Ravenwood? È il mio primo giorno e temo di essermi perso…»
   Aveva parlato molto bruscamente, perché era quasi un’ora che camminava ed era stanco, teso e nervoso. Non aveva quasi neppure guardato negli occhi il suo interlocutore, continuando a lanciarsi sguardi tutt’attorno. Non voleva arrivare in ritardo, ma ormai mancavano soltanto pochi minuti all’inizio della lezione.
   Il tizio smilzo, da dietro le spalle dell’omone, gli fece un cenno eloquente, mentre la bambina gli rivolse uno sguardo intenso, come se stesse cercando di scoprire come fosse fatto sotto i suoi abiti un po’ sciupati e dimessi. Indy, però, ignorò entrambi e, dopo aver dato altre occhiate in varie direzioni, tornò a guardare l’omaccione, che si volse di colpo verso di lui.
   «Come si chiama, lei?» interloquì bruscamente l’uomo, con fare inquisitorio. «È uno studente di archeologia? Ha già delle conoscenze pregresse, sulla materia? Sa che non è facile come sembra? Ha una buona preparazione storica? Conosce qualche lingua antica? È consapevole che scavare in un sito archeologico non è affatto come fare una buca nell’orto per piantarci i pomodori?»
   Erano trascorsi appena tre giorni dal feroce litigio con suo padre e Indy era ancora piuttosto scosso. Di certo, non aveva voglia di mettersi a raccontare i fatti propri al primo venuto.
   «Senta, le ho chiesto se poteva darmi una semplice informazione, non che mi facesse il terzo grado!» sbottò, indispettito. «Se vuole darmela bene, altrimenti mi arrangio!»
   I baffi dell’uomo fremettero come se il loro proprietario fosse sul punto di esplodere come una bomba. Tuttavia, si mantenne calmo e il suo tono non salì nemmeno di mezza ottava.
   «Molto bene, molto bene, molto bene» commentò. Gli girò le spalle. «Harold, Marion, venite con me. E anche lei, signor sconosciuto bisognoso di una semplice informazione, mi segua. Le mostrerò personalmente l’aula del professor Ravenwood e la introdurrò alla sua presenza.»
   L’uomo si incamminò a grandi falcate, trascinandosi dietro la bambina, che non staccava più gli occhi di dosso a Indy, e fu seguito subito dal tizio smilzo di nome Harold. Il ragazzo li fulminò tutti e tre con lo sguardo e, per un momento, fu tentato di lasciar perdere e continuare a cercarsela da sola, l’aula. Ma il tempo stringeva e non voleva arrivare in ritardo alla prima lezione. Così, si rassegnò a seguire quell’uomo indisponente.
   Avanzarono per vari corridoi, superarono saloni e transitarono accanto a diverse aule. Studenti e docenti si muovevano in tutte le direzioni. Indy disse a se stesso che non sarebbe mai riuscito a trovare quel posto e che, per i giorni seguenti, si sarebbe dovuto disegnare una mappa, con una grossa X a indicare il posto giusto.
   «Ci siamo» grugnì l’uomo con i baffi, fermandosi finalmente davanti a una porta. «Questa è l’aula del professor Ravenwood.»
   «Bene, grazie tante e addio» borbottò Indy, superandolo senza guardarlo ed entrando.
   Il docente per fortuna non era ancora arrivato. Individuò un posto libero in prima fila, si tolse il cappello e andò a sedersi accanto a un ragazzo con i capelli riccioli, vestito in maniera molto elegante. Quello gli lanciò un’occhiata, studiò con attenzione il suo aspetto, come se lo stesse valutando, e poi gli porse la mano.
   «René Belloq» si presentò, con accento francese.
   Indy, avvertendo un’istintiva simpatia, gliela strinse volentieri.
   «Indiana Jones» rispose.
   «Conosce già il professor Ravenwood?» domandò René, voltandosi a osservare la cattedra deserta, ingombra di libri, cartelloni arrotolati e curiosi reperti di vario genere.
   «Solo di fama» replicò Indy. «Quando sono stato al fronte, ho letto spesso di lui sui giornali. Le sue ricerche sono sempre state molto importanti, al punto da meritarsi spazio persino in mezzo ai bollettini e alle cronache belliche.»
   «Nemmeno io l’ho mai conosciuto, ma ho letto parecchio di lui e sono davvero curioso di scoprire che cosa avrà da insegnarci. Sono appena giunto a Chicago e non conosco nessuno, qui.»
   «Vale anche per me» rispose Indy. «A parte che con lei, ho parlato soltanto con un vecchio antipatico che spero vivamente di non vedere mai più in vita mia.»
   In quel preciso momento, il vecchio antipatico entrò in aula. Indicò al ragazzo di nome Harold un posto in prima fila, non lontano da dove sedevano Indy e René, e gli affidò la bambina perché la tenesse vicino a sé. Poi salì sulla pedana della cattedra, si rassettò la palandrana e fece fiammeggiare lo sguardo arcigno su tutti i presenti. Quando giunse su Indy, parve indugiare un po’ troppo a lungo, attraversato da un brillio che non prometteva niente di buono. Infine si mise a sedere.
   «Buongiorno a tutti!» tuonò, in segno di saluto. «Io sono il professor Abner Ravenwood! Non farò molte premesse, prima di iniziare con il corso. Vi dico solo una cosa, una regola fondamentale che dovete apprendere ora e non dimenticare mai più: qui dentro, voi fate quello che dico io e obbedite a me! Se vi sta bene, saremo tutti amici. Altrimenti, la porta è quella e la strada per tornarvene da dove siete venuti la conoscete di sicuro, o potete farvela spiegare da un bidello, se avete difficoltà di orientamento. E ora, cominciamo subito parlando dello scavo archeologico di Ur dei Caldei, che ha avuto luogo proprio la scorsa estate…»
   Indy deglutì a fatica e si concentrò sui fogli che aveva disposto davanti a sé per prendere appunti.
   La sua carriera da studente di archeologia era cominciata.

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Capitolo 21
*** Chicago, Illinois, aprile 1920 ***


XXI.
CHICAGO, ILLINOIS, APRILE 1920

   Indy era consapevole del fatto che suo padre ricevesse uno stipendio così alto da non sapere neppure che cosa farsene, dei soldi che guadagnava; inoltre, da quello che gli era stato raccontato un giorno di tanti anni prima, suo nonno, l’ammiraglio britannico Walton Jones IV, morto prima che lui nascesse, aveva lasciato una sostanziosa eredità, con un codicillo che vincolava Henry a suddividerne un quarto tra i suoi eventuali figli, una volta divenuti maggiorenni. E, siccome lui era figlio unico, quel quarto gli sarebbe spettato di diritto e per intero di lì a pochi mesi.
   Ma non aveva nessuna intenzione di domandare niente a suo padre; non voleva in nessun modo che si dicesse che ce l’aveva fatta grazie all’appoggio di quel vecchio ipocrita. Anche perché, lo immaginava fin troppo bene, Henry avrebbe colto al volo quell’opportunità per schernirlo e denigrarlo. Le lettere che gli spediva quasi quotidianamente - nelle quali alternava implorazioni accorate, previsioni nefaste di un cupo futuro senza speranze e vere e proprie minacce - per indurlo a tornare sui suoi passi e intraprendere la strada della linguistica, la dicevano molto lunga sul fatto che non avesse ancora digerito la sua scelta.
   Così, senza stare a pensarci troppo, aveva preso la decisione di lavorare per pagarsi gli studi. Dopo alcune ricerche, era riuscito a farsi assumere nel ristorante di Jim Colosimo, un bonario emigrante italiano che, mentre lui lavava i piatti, lo intratteneva con le sue allegre e buffe storielle. E in quel locale, Indy aveva scoperto una passione che, fino a quel momento, non aveva mai conosciuto: quella per la musica.
   Ogni sera, nel ristorante si esibivano musicisti jazz tra i più gettonati di quei giorni ruggenti. Quelle sinfonie scatenate trascinavano in allegria verso un mondo nuovo, che si era finalmente lasciato alle spalle gli orrori che avevano dominato gli anni precedenti e che, così si sperava, non sarebbero tornati mai più.
   Tra tutti i musicisti che si susseguivano di volta in volta nel locale di Colosimo, quelli che il ragazzo preferiva ascoltare erano senz’altro Sidney Bechet e la sua orchestra. Si perdeva spesso tra le note sferzanti del sax e tra le vibranti sonorità del pianoforte, accompagnate dal rullare ritmico della batteria e del contrabbasso e dal graffiare delle chitarre, al punto da dimenticarsi di essere lì per lavorare e non per assistere agli spettacoli.
   Quella tensione, quell’alchimia che si creavano tra i suonatori, unendoli con un filo invisibile ma saldo, lo affascinavano. Gli sarebbe tanto piaciuto poter provare l’emozione di suonare, la sensazione di far parte di qualcosa di grande, che poteva funzionare solo in gruppo, seguendo ritmi e controtempi.
   Così, al culmine di una di quella scatenate notti, mentre uno dei musicisti beveva qualcosa al bar, Indy si era fatto coraggio e, preso tra le mani il suo sassofono rimasto appoggiato sopra una sedia, lo aveva studiato con attenzione e aveva provato a soffiarci dentro.
   Dapprima incerto, poi sempre più sicuro, Indy aveva iniziato a suonare. Non conosceva le note, ma era riuscito ugualmente a indovinarne alcune a orecchio, traendo un allegro motivetto dall’ottone dorato e ricurvo. Bechet e i suoi ragazzi si erano dati di gomito, guardandolo; alla fine, si erano uniti a lui, accompagnandolo con i loro strumenti.
   «Tu hai la musica nel sangue, ragazzo!» aveva commentato Sidney, entusiasta, prima di cominciare a soffiare con immensa bravura nel suo sassofono soprano. Indy, pur con le sue mille incertezze, gli era andato dietro, perdendosi in un mare di crome e di semicrome.
   E tutti insieme avevano continuato a suonare, riempiendo di note e di allegria la serata, e sarebbero andati avanti in quella maniera per tutta la notte, fino all’alba, se Colosimo non fosse venuto a reclamare a gran voce il suo lavapiatti, che aveva molto più da fare in cucina che non nel palchetto d’angolo.
   Da quella sera indimenticabile, però, Indy aveva scoperto di possedere un hobby di cui non aveva mai sospettato; e, quindi, aveva iniziato a risparmiare sullo stipendio, per potersi acquistare un suo sassofono e poter suonare ogni volta che ne avesse avuto voglia.

   Per il resto, la sua vita all’università procedeva tranquilla.
   Aveva stretto amicizia praticamente subito con René Belloq e, dopo qualche giorno, rotti gli indugi, si era avvicinato anche a quello che tutti consideravano il cocco di Ravenwood, ossia Harold Oxley. Harold era un inglese dal carattere mite, a tratti parecchio timido, un po’ più vecchio di loro, la cui più grande passione erano le civiltà precolombiane. E ciò che scoprirono molto presto fu che, più che il favorito del docente, era il suo personale valletto, a cui più che altro l’archeologo affidava l’incarico di badare a sua figlia Marion. Ma Oxley non si lamentava e, anzi, sembrava ben contento di occuparsi della piccola, che considerava quasi come una specie di sorellina.
   Grazie all’intercessione di Harold, Indy poté chiarirsi con Abner e mettere da parte i malumori che avevano caratterizzato il loro primo incontro. Anzi, molto presto, il professore cominciò a manifestare un vero interesse nei suoi confronti, dimostrando di tenere particolarmente alla sua vicinanza. In questo modo, il ragazzo poté conoscere sempre meglio quell’uomo intelligente e di grande acume che si celava sotto un aspetto da vecchio orso ferito e dietro modi burberi, sgarbati e sbrigativi.
   Spesso, infatti, quando Indy non era impegnato con altri corsi o sul suo posto di lavoro, lo chiamava nel suo studio e, fattolo accomodare, cominciava a porgli domande sempre più insistenti riguardo ai suoi interessi e, nel frattempo, a impartirgli delle vere e proprie lezioni private.
   «L’archeologia» gli disse una sera mentre, volgendogli le spalle, fumava la pipa guardando dalla finestra il panorama della città su cui iniziavano ad accendersi le prime luci, «non si fa nelle università, Jones; tantomeno nelle biblioteche. Qui si vengono ad apprendere le basi, i primi rudimenti, si fa un po’ di storia della materia, e soprattutto si inizia a separare i semi dalla pula… ma è là fuori che la si impara davvero. Sul campo. Un vero archeologo lo puoi incontrare soltanto là. Diffida di chi non si muove mai dal suo tavolino.»
   «E lei ha passato molti anni sul campo, professore?» domandò il ragazzo, osservando i numerosi reperti antichi allineati sugli scaffali che contornavano le pareti dell’ufficio.
   «Tutta la vita» precisò Ravenwood. «Praticamente, è là che mi sono fatto le ossa e che ho preso la laurea. Non ho imparato nulla, in aula, ma soltanto sul campo. E ci torno ancora, sempre, a ogni occasione possibile, e d’ora in avanti anche tu verrai con me, e così vedrai che cosa significhi davvero, la parola archeologia.»
   Quella prospettiva era intrigante. Indy sognava ogni notte il momento in cui, finalmente, avrebbe affrontato il suo primo scavo.
   «Non vedo l’ora» ammise.
   «Ma ci sono aspetti dell’esistenza che possono rendere più complicata la vita sul campo…» andò avanti a parlare Abner. «Ed è bene che tu lo sappia, per essere preparato.»
   Si voltò verso di lui e accennò a una fotografia color seppia in una cornice d’argento appoggiata sulla scrivania. Incuriosito, Indy la prese e la guardò. Mostrava un Abner più giovane, accanto a una bella donna di aspetto minuto, dai lunghi capelli neri e lucenti, che teneva tra le braccia un fagottino che il ragazzo immaginò fosse Marion appena nata.
   «Sua moglie?» tirò a indovinare.
   «Si chiamava Kathleen» rivelò Abner, con tono piatto, prendendo il ritratto dalle mani del suo studente e osservandolo con sguardo luccicante. «Era la mia dolce metà. Era parecchio più giovane di me, eppure ci amavamo sul serio. Lei mi capiva, comprendeva il perché di ciò che facevo. Poi, dieci anni fa, una malattia me l’ha portata via. E io mi sono ritrovato da solo con Marion ancora in fasce. Non è stato per niente facile e, per un momento, ho persino pensato di non farcela più. Mi sono trovato a dover scegliere tra mia figlia e l’archeologia… sono riuscito a trovare un equilibrio tra entrambe, ma non so quanto potrà durare. Non potrò trascinarmi sempre dietro quella piccoletta in ogni spedizione in giro per il mondo. Per fortuna che, adesso, ho trovato Harold, la sua vicinanza e il suo attaccamento a Marion mi stanno dando un grande aiuto e parecchio conforto. Oxley in futuro sarà un bravo docente, un grande studioso, ma non diventerà mai un uomo da campo. Lui è più per la teoria che per la pratica.» Un sospiro gli sfuggì dalle labbra. «Non voglio correre troppo, eppure… non ti nascondo che, un giorno, quando sarà il tempo adatto, non mi dispiacerebbe sapere Marion legata a lui…»
   Indy lo osservò in silenzio, domandandosi se Abner avrebbe desiderato che la figlia si unisse ad Harold Oxley per saperla felice o, più semplicemente, per togliersela di torno. In ogni caso, gli pareva che il professore si stesse spingendo un po’ troppo in là con le previsioni: Marion era una bambina, Cristo!
   Abner Ravenwood alzò la testa dalla fotografia e fissò con intensità il ragazzo.
   «Tu hai un potenziale immenso, Jones, e io intendo fare di te un grande archeologo. Il più grande. Ti ho scelto, non come semplice studente, bensì come allievo. Ma ricordati quello che ti dico adesso: questo tipo di vita non è per tutti. Avere una famiglia, in un campo come il nostro, può rivelarsi un grosso, grossissimo ostacolo. Essere un archeologo significa vivere all’addiaccio, passare moltissimo tempo lontano da casa, raggiungere luoghi molto lontani e selvaggi, dover affrontare pericoli di ogni sorta. Non certo qualcosa che sia facile, quando si deve badare a una figlia di undici anni. So che ti piacciono le donne, di tutte le forme e di tutte le età. In pochi mesi che sei qui, hai già una discreta fama di amatore, stando a quello che mi riferiscono i bene informati… ebbene, non ci trovo niente di sbagliato: divertiti, portatele a letto anche a gruppi, ma non impegnarti. Non impegnarti mai con una donna, perché quando lo farai la tua carriera giungerà al termine e potrai scordarti la vita avventurosa a cui io ti sto preparando.»
   Indy annuì, imprimendosi bene in mente quelle parole. Non aveva nessuna intenzione, comunque, di sposarsi o, soprattutto, di diventare padre; ogni volta che una simile nefasta idea gli attraversava la mente, pensava a Senior, e si diceva che non voleva correre in nessun modo il rischio di diventare come lui. Adesso, Ravenwood gli stava offrendo una scusante più che valida per perseverare in quella decisione.
   Non lo avrebbe deluso, mai. Abner lo aveva scelto come proprio allievo personale e lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per dimostrargli che non si era affatto sbagliato, nell’accordargli la propria fiducia.

   Essere il pupillo del docente aveva però anche un rovescio della medaglia.
   Sebbene la loro amicizia si mantenesse intatta - specialmente quando si trattava di organizzare insieme dei piani di conquista per portarsi a letto qualche studentessa o, perché no, una matura insegnante - René non faceva niente per nascondere l’invidia che provava per il rapporto privilegiato tra Indy e Ravenwood che, invece, non si estendeva anche a lui.
   «Fa così solo perché io sono francese e prova diffidenza nei miei confronti» dichiarò una sera Belloq, guardando torvo gli amici. «È un vecchio razzista maledetto, pieno di vecchi pregiudizi.»
   Erano da Gino’s, una pizzeria che frequentavano ogni martedì, quando Indy aveva la serata libera. René rivolse l’occhiolino ad Audrey, la bella figlia del proprietario, che passò ancheggiando accanto al loro tavolo con dei piatti in bilico sul braccio, e proseguì: «Ma è chiaro che la sua sia soltanto paura. Ha capito con chi ha a che fare e teme di poter essere messo in ombra. Be’, sapete una cosa? Ha perfettamente ragione a temermi. Io non ho per niente bisogno di Ravenwood. Più lui mi metterà da parte e più io brillerò di luce mia, fino a farlo offuscare del tutto. Quel vecchio ipocrita ha fatto il suo tempo e deve rassegnarsi a essere messo in ombra da una nuova generazione di archeologi, molto più capace ed esperta di lui.»
   «Non credo proprio che Abner abbia diffidenza per te» tentò di rincuorarlo Indy, seguendo con lo sguardo il morbido didietro di Audrey mentre si piegava ad appoggiare le ordinazioni sul tavolo vicino. «Devi solo concedergli un po’ di tempo in più. È un brav’uomo.»
   Belloq fece una risatina sarcastica.
   «Senti chi parla» commentò, socchiudendo gli occhi. «Chi era che diceva di non volerlo mai più vedere in vita sua? E di già non è più nemmeno il professor Ravenwood; ormai è solo Abner, proprio come un vecchio amicone.»
   Harold, come sempre, assecondando la sua propensione alla tranquillità, cercò di fare da paciere e di riportare la tranquillità.
   «È vero che il professor Ravenwood ha un temperamento piuttosto complicato e che, spesso, bisogna riuscire a prenderlo per il verso giusto» disse. «Ma Henry ha ragione: è un brav’uomo. Sono sicuro che riconoscerà i tuoi meriti, René.»
   «Proprio tu parli» lo schernì il ragazzo. «Lui ti usa come balia a titolo gratuito e tu lo difendi pure!»
   «Questo poi non è assolutamente vero» arrossì Oxley, evitando accuratamente di guardarlo.
   «Be’, un po’ lo è» si intromise Indy, colpendogli il braccio con una gomitata e rivolgendogli un sorrisetto, mentre ripensava ai proponimenti matrimoniali che il professore covava in segreto. «Secondo me, sottosotto, Marylin ti piace pure.»
   «A parte il fatto che si chiama Marion, e non so proprio come tu faccia a dimenticarlo ogni volta, Henry» si schermì Harold. «In ogni caso, quella bambina è una stellina e io le voglio bene come a una sorella. Quindi è ovvio che mi piace, ma in una maniera che voi due, proprio, non potete capire.»
   «Uuhh, Harold ama Marion» ridacchiò René, subito imitato dall’amico.
   «A quando le nozze, Harold?» domandò Indy, sporgendosi verso di lui, il ghigno stampato sul viso. «Mi inviterete, non è vero? Voglio proprio esserci, al matrimonio della signorina Ravenwood… al posto giusto, però… lontanissimo dall’altare del sacrificio. Quello è tutto tuo…!»
   Oxley li guardò come se fossero impazziti ma poi, rendendosi conto che stavano scherzando, si unì alla risata.
   Indy si sentiva lieto, in totale pace, libero come mai era stato.
   Quei giorni erano fantastici, forse i migliori che avesse vissuto in vita sua, e sapeva che, anche se avesse vissuto cento anni, non se li sarebbe scordati mai, perché gli si stavano conficcando nel cuore in maniera indelebile. Anche se, di quando in quando, la guerra gli si presentava ancora davanti agli occhi sotto l’aspetto di incubi che lo strappavano al sonno in piena notte, sudato e affannato, ormai si sentiva benissimo. La parte più cupa della sua esistenza era sepolta dietro di lui. Ora poteva finalmente dirsi felice e sereno, insieme a grandi amici e con la possibilità di studiare ciò che amava. Dinnanzi a sé aveva mille prospettive, una migliore dell’altra, per quanto suo padre si ostinasse a sostenere il contrario nelle lettere che gli scriveva, e non vedeva l’ora di sperimentarle tutte.
   Alzò il boccale di birra e bevve un lungo sorso colmo di spensieratezza.

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Capitolo 22
*** Bedford, Connecticut, marzo 1921 ***


XXII.
BEDFORD, CONNECTICUT, MARZO 1921

   «Un prestito» ripeté Marcus Brody, pensoso, guardandolo attentamente da dietro la scrivania, il mento appoggiato alla mano sinistra. Le dita della destra tamburellavano rapide sul ripiano ingombro di carte, libri, penne e oggettini di vario genere.
   Indy annuì, tenendo gli occhi bassi, incapace di guardarlo in faccia.
   Aveva davvero l’acqua alla gola. Da quando Colosimo era stato assassinato davanti al suo locale, nel maggio dell’anno precedente, si era trovato senza un impiego fisso, e quindi in ristrettezze economiche. In un primo tempo, questo non gli aveva creato troppi disagi, perché subito dopo era partito per il suo primo scavo insieme a Ravenwood; il professore lo aveva trascinato nel Delta del Nilo, in Egitto, e lo aveva tenuto lì a lavorare fino agli inizi dell’autunno. Un’esperienza che Indy aveva trovato fantastica e indimenticabile e che, nel tempo libero, gli aveva permesso di rivedere il suo amico Sallah, che abitava al Cairo.
   I veri guai erano sorti quando, tornati negli Stati Uniti, aveva deciso di trovare un altro lavoro, magari sempre come cameriere in un locale, dato che aveva ormai una certa dimestichezza con piatti e stoviglie. Inizialmente, aveva pensato di tornare nel locale di Colosimo, presentandosi a chiunque lo avesse ereditato, ma il ristorante aveva le porte sprangate e non sembrava più essere stato aperto dal giorno della tremenda sparatoria.
   Aveva quindi cercato di farsi assumere altrove, ma ormai la notizia che il buon Jim Colosimo fosse in realtà uno dei peggiori gangster mafiosi di Chicago si era sparsa dappertutto a macchia d’olio, e quindi la diffidenza si era estesa anche a coloro che avevano lavorato per lui, seppure inconsapevoli del vero volto di quell’uomo.
   A parte qualche lavoretto saltuario e un ruolo da comparsa in un film di John Ford - un diversivo momentaneo e divertente, doveva riconoscerlo, sebbene male pagato - Indy non aveva potuto beneficiare di molte entrate, in quell’ultimo anno. Per fortuna aveva messo da parte qualche risparmio, su cui aveva potuto contare per tirare avanti fino in primavera, ma la sua riserva si era andata esaurendo.
   Alla fine, pur di non rivolgersi a suo padre, si era risolto a chiedere aiuto al suo padrino.
   «Indy, io non intendo concederti nessun prestito.»
   Il ragazzo abbassò la testa, sconfitto. Si sentiva deluso e amareggiato; non a causa di quel rifiuto, che era più che legittimo, bensì per via di se stesso. Significava dover riconoscere di aver fallito. Quella sarebbe davvero stata la sua ultima risorsa. Se non avesse trovato in fretta dei soldi, avrebbe dovuto abbandonare gli studi, perché di certo l’Università non gli avrebbe fatto sconti sulle tasse, e la possibilità di entrare in possesso di una borsa di studio non sarebbe arrivata prima che fossero trascorsi altri sei mesi. Troppo tanti, per lui.
   Ma Brody non aveva ancora finito.
   «I soldi che ti servono io te li voglio donare senza se e senza ma, e non voglio assolutamente sentir dire che poi dovrai restituirmeli. Non ci devi nemmeno provare. Mi faresti un torto, se pensassi davvero che io possa dare del denaro al mio figlioccio per poi domandarglielo indietro, come un qualsiasi bancario.»
   Il ragazzo alzò di scatto la testa. Il volto affabile del curatore fu illuminato da un ampio sorriso.
   «In cambio, ti chiedo soltanto di ricordarti di quella promessa che mi facesti tanti anni fa» proseguì Marcus, unendo le dita. «Quando sarai diventato archeologo, mi aiuterai ad arricchire le collezioni di questo museo. Io, da solo, non posso farcela. Sai, fino a cinque anni fa sarei potuto partire io stesso per qualche ricerca, ma adesso… ho bisogno di qualcuno di giovane e abile che si occupi delle faccende pratiche, mentre io sono qui sommerso dalle scartoffie e dalla burocrazia. Insomma, io… anzi no: non io. Il museo del Marshall College ha bisogno di te, Indy.»
   «Marcus…» balbettò il ragazzo, sconvolto. «Io… davvero… non so che cosa dire…»
   Brody fece un cenno affabile.
   «Quando non si sa che cosa dire, Indy, è meglio rimanere in silenzio. È un buon metodo per evitare di dire sciocchezze, non lo sapevi?»
   Il curatore del museo si alzò dalla poltrona e girò attorno al tavolo per venire al suo fianco. Gli porse la mano.
   «Siamo d’accordo, allora? Potrò contare sul tuo aiuto, quando sarai archeologo?»
   Indy si alzò e gliela strinse con tutto il calore di cui sapesse essere capace.
   «Farò ogni cosa che mi sarà possibile, Marcus, e se necessario anche l’impossibile. Ti prometto che questo diventerà il più bello dei musei d’America.»
   Brody lo guardò in silenzio, mentre il suo sorriso si accigliava leggermente.
   Indy intuiva che cosa gli stesse passando per la mente. Marcus avrebbe tanto desiderato che, finalmente, padre e figlio Jones si riconciliassero. La crepa che si era aperta tra di loro era una ferita profonda che sembrava pulsare ancora più forte per Marcus Brody, che per loro. Probabilmente era il suo grande legame che li univa a entrambi a farlo soffrire tanto.
   Il ragazzo, però, non voleva saperne niente. Henry, sebbene ultimamente avesse rallentato il ritmo rispetto a un anno prima, di quando in quando gli spediva ancora delle lettere, tutte dello stesso tenore: insisteva con rara ostinazione nel dire che si stava rovinando, che stava gettando alle ortiche quella che sarebbe potuta essere una grande e promettente carriera in altri campi.

   “Io conosco i tuoi meriti, Junior. So quanto vali, perché sei mio figlio. Hai il mio sangue nelle vene. È ovvio che, avendo preso anche soltanto un poco da me, tu debba essere intelligente e dotato. Ma tu ti intestardisci a volerti umiliare inseguendo una professione degna soltanto di un operaio delle più basse classi sociali. Nessuno, tra i tuoi illustri antenati, ha mai dovuto maneggiare il badile per guadagnarsi da vivere. Ricordati che io sono uno stimato docente universitario - il più stimato, modestamente - e che tuo nonno era un ammiraglio di Sua Maestà Britannica, a sua volta figlio di un altro ammiraglio, il cui padre era invece uno dei più grandi avvocati del foro legale di Edimburgo, nientemeno: non credi che dovresti avere un po’ più di rispetto per le tue origini e per la tua stirpe, se pure non vuoi averne per te stesso? Ti esorto, quindi, a ripensarci, a tornare sui tuoi passi e a compiere la scelta migliore per la tua vita.”

   Questo era scritto nell’ultima missiva che aveva ricevuto. Indy l’aveva fatta a pezzi e gettata nell’immondizia prima ancora di finire di leggerla. Di quello che avrebbero potuto dire di lui i suoi antenati riuniti in consesso nei verdi pascoli dell’aldilà gliene importava ben poco.
   Ricambiò lo sguardo del curatore e fece un vago cenno con il capo.
   «So che cosa stai pensando: avrei potuto domandarli a mio padre, quei soldi» borbottò.
   Marcus ritrovò subito il sorriso di prima, mentre l’ombra che gli aveva offuscato per un istante le pupille scompariva in maniera repentina.
   «Non ho mai nemmeno pensato di poter pensare a una cosa del genere» commentò, ilare. «Perché pensi che io possa pensare questi pensieri?»
   Indy lo ignorò.
   «Be’ non lo farò, Marcus. Per lui sono soltanto uno spalatore di fango. Non avrà mai la soddisfazione di vedermi tornare da lui.»
   «Eppure tuo padre sente la tua mancanza, Indy» gli rammentò Brody. «Io lo vedo spesso e ti assicuro che si sente davvero molto solo…»
   «Lo ha voluto lui» tagliò corto il ragazzo, inacidito. «Era ciò che voleva, no? Potersene stare in pace e in solitudine a continuare i suoi studi sul Graal. Bene, l’ho accontentato.»
   Marcus parve sul punto di voler replicare qualcosa, ma poi preferì rimanere in silenzio. Dentro di sé conosceva la verità. Sapeva che era soltanto questione di tempo, e poi padre e figlio si sarebbero resi conto di aver davvero bisogno l’uno dell’altro. Poteva soltanto sperare che, tale consapevolezza, non giungesse troppo tardi.
   In quanto a Indy, quell’assenza dalla sua vita lo faceva soffrire moltissimo, anche se non lo dava a vedere.
   Sentiva un grande senso di vuoto dentro di sé, e aveva cercato di porvi rimedio cercando altrove una figura paterna. L’aveva trovata prima in Remy Baudouin, poi in Abner Ravenwood e in Jim Colosimo, ora anche in Marcus Brody. Eppure, tutti loro, non erano suo padre, bensì degli estranei: una dura e difficile realtà con cui era costretto a scontrarsi quotidianamente.
   Sollevò nuovamente lo sguardo che aveva abbassato per un istante e rivolse un sorriso al curatore.
   «Grazie, Marcus. Grazie di tutto. Ti sarò debitore per tutta la vita.»
   Brody non fu affatto d’accordo con quell’affermazione.
   «Toglitelo dalla testa, Indy, e non pensarci mai più» replicò. «Siamo amici, e tra gli amici non esistono obblighi, né debiti e crediti.» Fece un cenno verso la porta del suo ufficio, oltre la quale il museo aspettava soltanto di ricevere nuovi cimeli da esporre nelle sue teche. «Tra gli amici possono esistere soltanto fiducia e promesse.» Gli batté la mano sulla spalla. «E io ho piena fiducia in te, Indy. So che ce la farai e diventerai un grande archeologo… il più grande di tutti.»

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Capitolo 23
*** Chicago, Illinois, dicembre 1921 ***


XXIII.
CHICAGO, ILLINOIS, DICEMBRE 1921

   Abner, seduto a capotavola, appariva allegro e sorridente. Per una volta, aveva messo da parte lo sguardo arcigno e i modi bruschi e stava dimostrando un lato di sé che teneva quasi sempre celato. In questo lo stavano aiutando anche i numerosi calici di vino che aveva già provveduto a svuotare.
   Indy si sentiva un po’ imbarazzato con indosso un vestito elegante. Ma non avrebbe mai potuto presentarsi a casa del suo professore, a festeggiare il Natale insieme, con i soliti abiti sciupati, logori e scoloriti che utilizzava quando seguiva le lezioni. Per fortuna René aveva quasi la sua stessa corporatura e aveva acconsentito a prestargli un completo scuro che gli aveva conferito un aspetto davvero signorile, che non avrebbe mai creduto di possedere, sebbene si sentisse un po’ troppo simile a un pinguino. L’unico vero disagio, comunque, era dover sopportare il penetrante profumo di Acqua di Colonia di cui era intriso.
   A parte l’imbarazzo, si sentiva davvero felice. Era proprio come avere di nuovo una famiglia. E poi quell’invito inaspettato era giunto in tempo per sottrarlo alla malinconia dell’ennesimo Natale solitario a cui si stava preparando: Harold aveva infatti fatto ritorno in Gran Bretagna per stare con i parenti, e René avrebbe trascorso le festività nel New Jersey, dove aveva una specie di amante più grande di lui, una ricca e annoiata signora di mezza età che gli pagava gli studi. Marcus Brody, invece, gli aveva scritto che avrebbe passato il Natale insieme a Henry; per non andare incontro a un’atmosfera cupa e funesta, Indy aveva declinato l’invito a unirsi a loro.
   Così, si era già rassegnato a trascorrere un Natale in completa solitudine, gironzolando per Chicago come un cane randagio, quando era arrivata la chiamata di Abner.
   A tavola erano in tre, lui, il professore e Marion. Lei sembrava una vera principessina, nel suo elegante abito bianco con ricami azzurri a fiorellini. Forse a causa dell’età dello sviluppo in cui era appena entrata, la ragazzina non faceva che chiacchierare amabilmente, raccontando di tutto e di più, con un entusiasmo adolescenziale davvero straripante. Quando taceva, poi, lanciava a Indy degli sguardi così intensi da riuscire a metterlo a disagio, al punto che più di una volta il ragazzo dovette voltarsi da un’altra parte, sentendosi arrossire.
   Aveva frequentato e sedotto più donne di quante riuscisse a ricordare, eppure nessuna di loro gli aveva mai fatto lo stesso effetto che gli provocava Marion, pur essendo quasi ancora una bambina; e dire che si sentisse in difficoltà era dire poco. Non aveva mai rivolto un solo pensiero a quella ragazzina, di cui spesso confondeva persino il nome, ma quegli sguardi gli facevano quasi paura; soprattutto, temeva il modo in cui avrebbe potuto reagire Abner se si fosse accorto di quella specie di intesa che, in realtà, non esisteva affatto tra loro. Pur essendo innocente e non avendo fatto assolutamente nulla che gli si potesse imputare come torto, Indy si sentiva inspiegabilmente colpevole ogni volta che si limitava soltanto a guardare Marion.
   E quando, nell’allungare una mano per prendere il bicchiere dal tavolo, aveva involontariamente sfiorato quella piccola e vellutata di Marion, si era sentito attraversare da una specie di scossa elettrica. L’aveva ritratta di scatto e nel farlo aveva rovesciato il calice, spargendo vino rosso su tutta l’immacolata tovaglia di Fiandra.
   Il suono della risata cristallina di lei, che gli era giunto alle orecchie mentre borbottava: «Chiedo scusa, sono proprio un imbranato, spero non resti una macchia…» e tamponava in fretta il liquore con il tovagliolo, lo aveva messo ancora più in difficoltà. In quel momento, avrebbe di gran lunga preferito essere seduto a tu per tu con Henry, oppure alle prese con un serpente schifoso. Anzi, affrontare suo padre con in mano un serpente sarebbe probabilmente stato molto più semplice che non badare a quegli sguardi e a quelle risatine.
   Abner, per fortuna, non sembrava rendersi conto proprio di nulla. Il professore aveva la testa altrove e, quando Marion ebbe finalmente finito di ridere per la goffaggine di Indy, si decise ad approfittare del momentaneo mutismo della figlia per affrontare il solo argomento che avesse in mente, la vera ragione di quell’invito a pranzo che aveva rivolto al suo studente.
   «L’Arca dell’Alleanza» disse, puntellando con forza i gomiti sul tavolo. «Se voglio avere qualche opportunità di trovarla, devo prima di tutto individuare con precisione la città di Tanis. In base ai miei studi, l’Arca deve essere celata proprio laggiù, in una camera segreta chiamata Pozzo delle Anime. Per questo, la prossima estate comincerò a fare dei rilievi. Partendo dalle scoperte effettuate da Petrie, intendo localizzare con esattezza la città. Non sarà una passeggiata, ma ormai ho abbastanza elementi in mano per potermi dare da fare. A maggio, al termine delle lezioni, partirò di nuovo per l’Egitto. Ho chiesto ad Harold di accompagnarmi, ma…»
   Il suo sguardo, da dietro le lenti dei pince-nez, parve brillare, mentre si chinava verso Indy.
   «Jones, vorrei averti nuovamente con me. In questi ultimi due anni ti ho messo alla prova più e più volte, e ciò che pensavo di te è stato ampiamente confermato dai fatti. Sei tra i migliori studenti che abbia mai avuto, se non addirittura il migliore. Sei uno spostato, e su questo siamo tutti d’accordo, vero?»
   Si voltò verso Marion, quasi a cercare la sua approvazione, e lei, fatto un cenno d’intesa, rivolse a Indy un ampio sorriso che gli fece torcere le budella.
   «Ma sei anche il più dotato di tutti» continuò, annuendo. «L’archeologia per te non è solo una materia di studio. È una vera fede, proprio come lo è per me. E vorrei quindi averti al mio fianco in questa ricerca importantissima, perché il tuo aiuto mi sarebbe fondamentale.»
   Il ragazzo deglutì con una certa fatica. Non era sicuro di stare capendo bene. Che cosa voleva dirgli davvero, Abner?
   «Professore, io…» balbettò, ancora scosso dalla risata e dal sorriso di Marion. «Sono venuto con lei agli scavi, in questi due anni e…»
   Ravenwood gli fece cenno di tacere.
   «Intendo che non ti voglio più soltanto come studente, Jones, bensì come assistente personale. Da quando ti ho conosciuto, ho capito subito che insieme ce l’avremmo fatta. Ti ho insegnato tutto quello che potevo e, ormai, ho fatto di te un vero archeologo. Da solo sarei stato destinato al fallimento. Insieme, invece, ci riusciremo. Me lo sento dentro.»
   Indy trattenne a stento un grido di gioia. Quello era il coronamento di tutte le sue fatiche. Era come se, quel percorso che aveva intrapreso quando lo aveva colpito quello strano e appassionato fuoco interiore nella piramide, tanti anni prima, fosse sul punto di raggiungere la meta. Abner gli aveva già mostrato innumerevoli volte di aver trovato in lui molto più che un semplice studente: glielo aveva già detto a chiare lettere, del resto; si era assunto il ruolo di suo maestro, e lo aveva portato a compimento con dedizione, seppure con i suoi modi bruschi e sgarbati.
   E, a quanto pareva, lui gli aveva dimostrato di aver fatto tesoro dei suoi insegnamenti, altrimenti quella proposta non sarebbe mai arrivata. Assistente del professore. Per fortuna era seduto, perché al solo pensarlo si sentì le gambe molli. Un ruolo del genere era molto più in alto di qualsiasi altra cosa a cui avesse mai aspirato. Tuttavia, adesso, c’era un problema insormontabile.
   «Ne sarei oltremodo lusingato e questa proposta mi riempie di orgoglio, ma purtroppo non posso» confessò, sconsolato.
   «In che senso non puoi?» lo inquisì Abner, fissandolo in cagnesco. «Non sarà mica per quella storia di Eldorado, vero?»
   Il ragazzo fece un sospiro.
   Lui, René e Harold, dopo aver effettuato alcune ricerche, si erano convinti di poter trovare la mitica città perduta dell’Amazzonia che i conquistadores avevano cercato invano per decenni. Era iniziato come uno scherzo durante un’allegra serata al bar, e si era tramutato presto in qualcosa di molto più serio e concreto.
   A dire il vero, tutto era partito da Oxley: era stato lui il primo a parlare dei teschi di cristallo e ad associarli alla storia di quel luogo leggendario, che Harold, più correttamente, chiamava Akator. Per tutti e tre era divenuta quasi una specie di ossessione. Per questo motivo avevano fatto un patto: non appena i loro percorsi universitari si fossero conclusi con il conseguimento della laurea, sarebbero partiti per l’Amazzonia alla ricerca della città dell’oro, per svelarne i segreti.
   Abner, quando aveva saputo di questo loro proposito, si era messo a ridere della grossa, schernendoli e asserendo che si trattava solo di una sciocca e inutile perdita di tempo, che non avrebbe condotto a nulla. Un atteggiamento che a Indy aveva ricordato fin troppo quello di Henry quando parlava dell’archeologia e di Ravenwood.
   In ogni caso, non era per quel motivo che non sarebbe potuto andare con Abner in Egitto.
   Scosse il capo.
   «Ho preso accordi con Brody» rivelò. «Sta già raccogliendo dei finanziamenti: in maggio andrò nel Pacifico a fare una ricerca per suo conto. Gli ho dato la mia parola che lo avrei aiutato.»
   Indy lasciò andare un altro sospiro, consapevole di star rinunciando a tanto, tantissimo. Ma era anche tantissimo ciò che Marcus aveva fatto per lui, e non se sarebbe potuto dimenticare per il suo egoismo.
   «Io non penso che sarebbe giusto tirarmi indietro proprio adesso» soggiunse.
   Il professor Ravenwood annuì gravemente, tormentando i baffi con la manona.
   «Non sarebbe giusto, no. Hai dato la tua parola ed è corretto rispettarla. Ma dalla stagione successiva non voglio sentire scuse di alcun genere e non transigo: tu sei mio studente e dovrai fare quello che dico io. E se ho detto che ti voglio come assistente, tu lo farai, Brody o non Brody. Se ti ho fatto diventare uno degli archeologi più brillanti della tua generazione, non l’ho mica fatto perché te ne andassi alla prima occasione buona. A Marcus Brody ti potrai dedicare dopo che ti sarai laureato.»
   Quelle parole confortarono Indy. Non aveva perduto la sua grande occasione. Era soltanto rimandata di un anno. E, chissà, in questo modo aveva forse guadagnato ancora più stima da parte di Ravenwood, che adesso sapeva di avere di fronte a sé non un opportunista, bensì un giovane talentuoso e sempre pronto a prestare fede alla parola data.
   «Dalla stagione di scavi successiva sarò ai suoi ordini, professore» promise.
   «Non ai miei ordini» precisò Abner, fiero. «Al mio fianco, Jones.»

   Più tardi, mentre Abner sonnecchiava sopra una poltrona, con una coperta di lana sulla pancia e i piedi allungati verso il caminetto acceso, Indy e Marion sedettero al tavolo a giocare a carte insieme.
   «Mi dispiace che non sarà dei nostri la prossima estate, signor Jones» disse la ragazzina, fissandolo da sopra le carte aperte a ventaglio. «Mi sarebbe tanto piaciuto visitare Il Cairo in sua compagnia, girare tra i bazar, perderci in quell’incanto da Mille e una notte… sono certa che lei ne avrebbe davvero tante, di cose da mostrarmi e di storie da raccontarmi…»
   Indy incrociò per un momento il suo sguardo. Non aveva mai notato quanto i suoi occhi fossero bellissimi. Due splendidi zaffiri lucenti color del mare. Il disagio gli attanagliò la bocca dello stomaco e tornò in fretta a concentrarsi sulle figure che aveva in mano: due re e un fante, insieme a un quattro di fiori e a un tre di cuori.
   «Non credo che il professore lascerà molto tempo per allontanarsi dal Delta, dove dovrebbe essere ubicata Tanis» borbottò. «In ogni caso, cara Marion, si tratta solamente di rinviare di un anno. Ha sentito anche lei l’imperativo categorico: dalla stagione successiva sarò tutto per voi.»
   Marion sorrise e lasciò cadere sul tavolo una scala di cuori: re, donna e fante.
   «Lo ha promesso, signor Jones: tutto per noi» disse, con tono soave. «Non vorrà far arrabbiare papà…»
   Indy osservò con attenzione quelle tre figure e avvertì uno strano presentimento farsi largo dentro di lui.
   Che cosa gli stava capitando? Perché si sentiva così strano, davanti a quella ragazzina di cui a stento rammentava il nome? Doveva mettersi in testa che era soltanto una bambina, la bambina di Abner.
   La guardò di nuovo, studiando ancora una volta i suoi occhi color del mare - non poteva negare che fossero gli occhi più belli che avesse mai visto - le sue morbide labbra stirate in un ampio sorriso, i suoi dolci e delicati lineamenti e i suoi capelli accuratamente pettinati, e si domandò se anche lei, quel concetto, lo avesse ben chiaro in testa.

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Capitolo 24
*** Isole Trobriand, Nuova Guinea, maggio 1922 ***


XXIV.
ISOLE TROBRIAND, NUOVA GUINEA, MAGGIO 1922

   Anche se erano trascorsi ormai molti anni da quando aveva sentito narrare quella storia da un vecchio cieco che chiedeva l’elemosina tra le vie di Atene, Indy non era mai riuscito a togliersi dalla testa il leggendario diamante noto come Occhio del Pavone.
   Aveva continuato a tenere le orecchie aperte e i sensi all’erta, deciso a impossessarsi di quell’oggetto di inestimabile valore. Una pietra preziosissima per le sue qualità economiche, certo; ma, anche e soprattutto, perché aveva vegliato il sonno eterno di Alessandro il Grande. Così, quando nel novembre dell’anno precedente aveva sentito dire che, forse, il diamante si trovava celato da qualche parte in un’isola del Pacifico, era stato colto dall’ansia di andare laggiù e cercarlo.
   Non certo una bazzecola. Al di là del fatto che l’Oceano Pacifico fosse immenso e contasse qualcosa come venticinquemila isole, c’era anche un altro problema, all’apparenza insormontabile: le spese da coprire. Viaggiare costava, e impegnarsi in una ricerca archeologica costava ancora di più.
   La soluzione gli si era presentata quasi spontaneamente: ne aveva parlato con Marcus. Il curatore aveva ascoltato con interesse la sua proposta. Se le cose fossero andate come previsto, lui si sarebbe fregiato della gloria di un rinvenimento tanto importante, compiuto prima ancora di conseguire la laurea, e il museo del Marshall College avrebbe potuto esporre il gioiello tra i pezzi forti della sua collezione.
   Brody, naturalmente, subodorando un ottimo investimento, aveva accettato subito. Si fidava di lui e, proprio per questo, si era subito impegnato a raccogliere finanziamenti. Però, riguardo a un punto era stato irremovibile: Indy non sarebbe andato in quei luoghi selvaggi da solo. Anche se, ormai, il ragazzo si riteneva più che maturo, il suo padrino aveva insistito perché si facesse accompagnare da una persona capace ed esperta.
   «Non lascerò che tu vada su quelle isole da solo» gli disse, chiaro e tondo, mentre mettevano a punto i dettagli nell’ufficio adiacente al museo. «Quei posti sono ancora pieni di cannibali. Non potrei chiudere occhio, sapendoti in balia degli antropofagi.»
   Indy, comprendendo di non potersi rifiutare di obbedire, aveva riflettuto a lungo e, alla fine, aveva pensato di rivolgersi al vecchio amico Remy Baudouin. Gli aveva parlato spesso dell’Occhio, in passato, e più di una volta, durante le loro missioni per l’Intesa, avevano effettuato delle lunghe deviazioni per provare a rintracciarlo; Baudouin ne era rimasto affascinato quanto lui ed era stato dunque sicuro che non avrebbe esitato ad accompagnarlo in quella ricerca.
   E, infatti, Remy non aveva rifiutato. Il matrimonio non era riuscito a smorzare il suo spirito da avventuriero. Aveva acconsentito più che volentieri a seguire Indiana Jones in un’ultima, straordinaria ed eccitante impresa.
   «Comme au bon vieux temps, mon ami!» gli aveva scritto, entusiasta, dandogli appuntamento all’estate.
   Per quanto si fossero dati da fare, impegnando tutte le loro risorse, tuttavia, non erano riusciti a raggiungere nemmeno un risultato. Alla fine non avevano potuto fare altro che dichiararsi sconfitti. Se il diamante esisteva, non si trovava nella Nuova Guinea, dove invece avevano creduto di poterlo trovare. Ciascuna delle piste che avevano seguito non avevano condotto a niente, rivelandosi niente altro che vicoli ciechi.
   Indy, sempre più abbattuto nel constatare il fallimento, si era trovato a rimpiangere di essere lì. Sarebbe stato meglio trovarsi in Egitto, insieme ad Abner, a fare carriera per diventare archeologo. Sì, sarebbe stato decisamente molto meglio.
   «Non ti devi lasciare scoraggiare da una sconfitta» gli disse una sera Bronislaw Malinowski, mentre sedevano di fronte a un allegro falò scoppiettante.
   Indy e Remy avevano posto la loro base in un villaggio di nativi trobriandesi. Qui, con loro sorpresa, avevano incontrato un occidentale: il grande antropologo Malinowski, che da anni studiava quelle culture.
   «E, allo stesso tempo, non devi lasciare che essa si tramuti in un’ossessione» proseguì il saggio uomo.
   «Che intende dire?» domandò Indy, distogliendo lo sguardo dal fuoco per voltarsi verso di lui.
   «Intendo dire, ragazzo» continuò l’antropologo, «che il mondo è pieno di occasioni. Quel diamante esiste, o forse è solo una fantasia, chi lo sa. O, magari, entrambe le cose al medesimo tempo: studiare le culture umane mi ha insegnato che non esista una sola verità che ne escluda per forza un’altra. Sia come sia, tu non puoi sprecare la tua vita rincorrendo un fantasma. Non ha alcun senso. Non sprecare inutilmente le tue energie. Rivolgiti verso qualcos’altro. Il tuo avvenire ti aspetta, ma devi essere tu stesso a scriverlo, non idee decise da altri o strade tracciate da qualcuno che non sia tu.»
   Indy a quelle parole aveva sospirato, comprendendole appieno. Sapeva bene che cosa significasse essere ossessionati da qualcosa: bastava vedere come la ricerca del Graal aveva ridotto suo padre. Lo stesso professor Ravenwood, seppure riuscisse ancora a controllarsi, alle volte aveva una luce di follia accesa nello sguardo, quando parlava della sua preziosa Arca. Lui non voleva fare quella fine. Non voleva diventare come l’uomo di cui portava il nome. Con poche parole, Malinowski gli aveva aperto gli occhi.
   Il giorno dopo ne parlò con Remy, comunicandogli la sua decisione di tornare in America.
   «Ma ci sono ancora tantissime piste da battere!» aveva insistito Baudouin, che si era già ripreso dallo scoramento iniziale. «Non possiamo arrenderci così!»
   «Remy, bisogna saper riconoscere quando una partita è conclusa da una sconfitta.»
   Il belga lo fissò con espressione disgustata. Un’espressione che il ragazzo non gli aveva mai visto ma da cui si sentì ferire in profondità, come se Remy lo avesse appena colpito con una coltellata.
   «Tu non sei più l’Indiana Jones che ho conosciuto in Messico» disse, in tono duro. «Un tempo ti saresti gettato a capofitto nella mischia senza pensarci due volte. Vivere in città ti ha rammollito. Chi lo avrebbe mai creduto che ti saresti tramutato in un autentico damerino, proprio tu che mi hai insegnato a non avere paura di nulla, nemmeno delle granate.»
   Indy scosse il capo, cercando di non mostrare il proprio sconforto davanti a quello che appariva come un vero e proprio atto di accusa da parte dell’amico.
   «Io non sono cambiato affatto, Remy» rispose, con tranquillità. «Sono lo stesso di sempre, te lo assicuro. Semplicemente, sono in grado di riconoscere quando andare avanti sarebbe del tutto inutile.»
   L’altro si impuntò.
   «Be’, evidentemente io non ne sono capace. Per questo intendo proseguire con questa ricerca, anche da solo, se necessario. Però, se dovessi farcela, non aspettarti di venire poi a dividere insieme a me la gloria che mi sarò meritato con le mie sole forze.»
   «Ma Remy, pensaci bene. Tu hai famiglia. Tua moglie e i tuoi figli ti attendono a casa. Non vorresti tornare da loro?»
   «Ci sono cose ben più importanti della famiglia, Indy!» sbottò Baudouin, la voce carica di veleno. «Tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro, visto che te ne sei andato di casa che non avevi ancora quindici anni, per sfuggire a una realtà che ti opprimeva. L’Occhio del Pavone è una di queste. Trovarlo conta più di qualsiasi altra cosa al mondo»
   Indy lo ascoltò incredulo e profondamente deluso. Il suo amico Remy stava ragionando esattamente come Henry. In lui aveva visto molto a lungo una figura paterna, senza rendersi conto di aver trovato soltanto una replica dell’uomo da cui si era sentito abbandonato.
   Stando così le cose, non avevano davvero più niente da spartire. Era tempo che le loro strade si separassero di nuovo. E, questa volta, per sempre.
   «Devi fare ciò che ritieni giusto per te, Remy, come io devo fare lo stesso per me» rispose, forse con un tono di voce più duro e secco di quanto avesse desiderato. «Ti auguro buona fortuna e…»
   Non seppe cos’altro aggiungere. Dirsi addio non era facile e, forse, a giudicare dagli sguardi rancorosi di entrambi, sarebbe stato meglio farlo in silenzio. Quella era una di quelle occasioni, come gli aveva detto Brody una volta, in cui era preferibile non sprecare il fiato in inutili parole.
   Si limitarono a una veloce e fredda stretta di mano, poi ciascuno proseguì la propria vita in direzioni diverse, che non si sarebbero incrociate mai più.

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Capitolo 25
*** Isole Filippine, gennaio 1923 ***


XXV.
ISOLE FILIPPINE, GENNAIO 1923

   Il paesaggio che si stava lasciando dietro le spalle era di una bellezza incomparabile.
   Picchi rocciosi, vere e proprie pareti di pietra screziate di verde, racchiudevano lagune di un azzurro iridescente, simili a scrigni colmi di meravigliose gemme. Cascate purissime mischiavano il loro suono ai canti degli uccelli tropicali. Mille essenze vegetali si intrecciavano spandendo profumi inebrianti, capaci di filtrare in profondità. Dove terminavano le grandi e impenetrabili foreste, si stendevano spiagge di rena finissima e bianca, come raggi di sole distesi al suolo. E, al di là di queste, l’oceano sterminato, infinito, dipinto di un blu eterno, un orizzonte senza fine che si fondeva con il cielo, di cui era una propaggine estrema. L’Oceano Pacifico, l’immensa distesa d’acqua di Magellano, di Pigafetta, di Tasman e di Cook.
   Nonostante le sue buone intenzioni, Indy non era riuscito a sottrarsi, un’altra volta, sempre con l’appoggio economico di Brody, a tornare nel mezzo di quella vastità per andare alla ricerca del mitico Occhio del Pavone. Aveva approfittato della sospensione natalizia delle lezioni per concedersi una seconda - e ultima - possibilità.
   «Perderai il tuo tempo» aveva predetto Abner, guardandolo in modo arcigno mentre preparava i bagagli.
   «È probabile» rispose Indy, gettando alla rinfusa nella valigia lo stretto necessario. «Ma ne vale la pena solo per il pensiero che, mentre qui a Chicago adesso si gela, alle Filippine si scoppierà di caldo. Odio il freddo.»
   «A Marion non sarebbe dispiaciuto averti da noi anche quest’anno, per Natale» rivelò a quel punto il professore, infilandosi le mani in tasca.
   «Magari verrò a salutarla, prima di partire…»
   Abner fece un grugnito incomprensibile, prima di dire: «Meglio di no. Non so che cosa si stia mettendo in testa, quella pazzerella. Non fa che parlare di te e la cosa, te lo confesso, mi annoia da morire. Non mi bastava avere il tuo brutto muso davanti agli occhi ogni giorno. Ora mi tocca pure sentire il tuo panegirico quando sono a cena.»
   Suo malgrado, Indy si scoprì ad arrossire.
   «Professore, le assicuro che io non ho fatto assolutamente nulla per…»
   «Ma lo so, lo so» lo interruppe Abner, brusco. «È lei, non tu. Il collega che insegna psicanalisi e quello di chimica mi hanno detto che è normale, alla sua età. Uno mi ha spiegato che si tratta degli ormoni, l’altro si è messo a cianciare di complessi mentali e via discorrendo. In un caso e nell’altro non ci ho capito granché, ma mi fido di loro. Comunque, questa volta ho invitato Harold a trascorrere da noi il Natale, dal momento che non è rientrato in Gran Bretagna. Chissà che non riesca a combinare qualcosa, tra di loro…»
   A quel punto, Indiana Jones era scoppiato a ridere.
   «Ancora con questa idea di organizzare un bello sposalizio tra quei due, Abner?» lo derise. «Pensavo che ormai avesse riposto ogni speranza. Ad Ox non interessano le donne e, in ogni caso, non gli interessa Marion. E Marion… be’, siamo nel secolo sbagliato per pensare di poterla controllare come se niente fosse. È una ragazza moderna, e non si lascerà mai manipolare…»
   «Già» bofonchiò Abner, scuotendo il testone. «E questo mi preoccupa. Dovrò tenerla d’occhio, per evitare che si cacci nei guai.» Tolse le mani di tasca e allargò le braccia in un gesto plateale. «Immagino di dovermi rassegnare ai tempi che passano. Non siamo più nell’Ottocento, purtroppo.»
   «Purtroppo?» ripeté Indy con un sogghigno. «Io direi, invece, per fortuna.»
   Abner, nonostante tutte le sue preoccupazioni per la figlia, riuscì ad atteggiare le labbra  a un sorriso.
   «Ma sì, Jones, in fondo hai ragione tu. Viviamo in un tempo nuovo che ci riserverà grandi sorprese, anche se molte di esse, per me, non hanno futuro. Un po’ come le automobili… catorci pericolosissimi! Tempo dieci anni e la gente se le sarà già scordate.»
   Indy richiuse la valigia.
   «Quindi, per tornare a Marion…» riprese.
   «Te la saluterò io» tagliò corto il vecchio archeologo. «Ora sbrigati, o perderai il treno. Naturalmente, io ti auguro di riuscire in questa tua impresa, anche se non nutro grandi speranze. In ogni caso, vada come vada, ti informo che mi sono preso la libertà di scrivere a Marcus Brody. Gli ho fatto capire chiaro e tondo che la prossima stagione di scavi sei mio. Ti voglio come assistente, te l’ho già detto e non cambio idea. Per qualche tempo, dovrà rassegnarsi ad andarseli a cercare da solo, i tesori per il suo museo, oppure potrà rivolgersi a qualche altro archeologo. A Princeton ce n’è uno molto bravo, si chiama Forrestal…»

   Così, per la seconda volta in quell’anno, Indy era tornato nel Pacifico per condurre quella sua ricerca, e vi si era dedicato fino a dopo Capodanno. Trascorrere le festività tra le selve, i picchi, i fiumi e le cascate, a sottrarsi a pericoli costanti, anziché seduto a tavola a rimpinzarsi, lo aveva fatto sentire vivo e libero. Il suo concetto di divertimento, ormai lo aveva compreso, era molto differente da quello della maggior parte delle altre persone.
   Come aveva profetizzato Abner, tuttavia, si era trovato nuovamente dinnanzi a un fallimento totale; e, questa volta, dopo oltre un mese di lavoro infruttuoso, prese la decisione di abbandonare per sempre quell’impresa. A meno che l’Occhio del Pavone non gli si fosse presentato proprio davanti al naso, non avrebbe più fatto nulla per cercarlo. Malinowski aveva avuto ragione: l’ossessione non era una bella cosa, e lasciare che governasse l’esistenza era sbagliato. La cosa, a dire il vero, non lo rattristava nemmeno un po’: sentiva di avere di fronte a sé moltissime occasioni. Perderne una non avrebbe fatto alcuna differenza, anzi, lo avrebbe aiutato a non montarsi la testa prima del tempo.
   Perlomeno, questa volta aveva guadagnato qualcosa di assai più prezioso di un diamante: un nuovo amico. Un amico di cui, fin dal primo momento, aveva sentito di potersi fidare ciecamente. Era stato qualcosa di istintivo, che aveva sentito a pelle.
   Wu Han era un contrabbandiere cinese di lontane origini olandesi. Dopo essersi salvati la vita a vicenda, avevano collaborato insieme nell’esplorazione delle Filippine. E, pur non essendo riusciti ad approdare a nulla di concreto, dovevano riconoscere di essersi divertiti davvero tanto, insieme. Adesso che si avvicinava il momento di ritornare in America, Indy provava già nostalgia per lui e ne sentiva la mancanza.
   «Sai, conoscerti mi ha fatto capire molte cose su cui non avevo mai riflettuto come si deve, prima» rivelò Wu Han mentre, a bordo della sua giunca, si allontanavano dalla costa, diretti verso il mare aperto. Le isole, custodi di meraviglie senza fine, rimpicciolivano con lentezza alle loro spalle.
   Si trovavano sul cassero di poppa. Il vento tiepido scompigliava loro i capelli e gonfiava le vele bianche. Il profumo salmastro era inebriante e trasportava il sentore di antiche leggende, di mostri marini, di galeoni scomparsi nella spuma con i loro carichi preziosi, celati per sempre sui fondali.
   «Spero cose buone» replicò Indy, appoggiato alla murata, gli occhi fissi sulla superficie del mare lievemente increspata.
   «Oh sì, assolutamente, dalla prima all’ultima» disse ancora Wu Han, facendo scivolare i polpastrelli lungo la barra del timone, laccata di un rosso cupo. «Fino a oggi non ho ottenuto granché dalla vita e nemmeno le ho mai chiesto molto: mi sono limitato a rubare e a vendere merce sul mercato nero, insieme ai miei fratelli, come mi ha insegnato a fare mio padre. Grazie a te, però, ho compreso di poter fare di meglio e di potermi rendere più utile a tutti. Posso ottenere uno scopo più grande, da me stesso.»
   L’amico fece uno dei suoi soliti sorrisetti sghembi.
   «Non vorrai mica dirmi che vuoi diventare archeologo anche tu?» chiese, voltandosi per guardarlo in viso.
   «L’archeologia mi appassiona e mi affascina molto, ma non è ciò che avevo in mente» ammise. «Invece, non mi dispiacerebbe affatto trasferirmi per qualche tempo in Europa e studiare legge. La Repubblica cinese è traballante e ostacolata da ogni parte. I comunisti e i signori della guerra che la minacciano dall’interno, i nostalgici dei tempi imperiali che vorrebbero una restaurazione monarchica, i giapponesi con le loro mire espansionistiche, le potenze coloniali che ancora si disperano al pensiero di averla perduta… è come una pentola a pressione sotto cui sia stato acceso un fuoco troppo forte. Aspetta solo di esplodere. Mi sono convinto che potrei fare molto di più per il mio paese ponendomi al suo servizio, piuttosto che frodarlo di continuo con il mio attuale mestiere.»
   Il sorriso di Indy si fece sincero. Non aveva mai creduto di potersi rivelare tanto fondamentale nel migliorare il proprio prossimo; era una sensazione che non gli dispiaceva affatto. Certe volte gli sarebbe piaciuto essere tanto convincente anche verso se stesso.
   «È una decisione che ti fa molto onore, Wu Han» disse, annuendo con parecchia convinzione. «Sono molto fiero di te. Ma spero che questo non ti impedirà, in futuro, di accompagnarmi ancora in qualche impresa pazzesca come quella che abbiamo appena compiuto. Collaborare con te mi ha aiutato davvero tantissimo, e senza il tuo aiuto adesso sarei già sepolto sotto un buon metro di terra.»
   Wu Han fece un lieve inchino.
   «Sono pronto a seguirti in mille avventure, Indy» promise. «Anche a scendere con te nel Regno del Grande Mistero, se necessario.»
   Indiana Jones guardò il riverbero rossastro del sole che cominciava ad abbassarsi all’orizzonte e si sentì sciogliere dentro un nodo. Il sordo dolore che lo aveva accompagnato da quando aveva detto addio a Remy, mesi prima, poté finalmente dissiparsi in quelle acque, mentre la consapevolezza di aver trovato un nuovo e grande amico, su cui poter sempre contare, gli invase l’animo.
   «Magari, un giorno andremo a visitare anche quel posto, chissà» disse.
   Strinse gli occhi, fissando ancora il cielo e il mare. Provò a vedere il futuro, ma il futuro non si mostra mai. Lo si può soltanto provare a immaginare, anche se, poi, tende sempre a disattendere ogni aspettativa. Aveva perduto l’Occhio del Pavone, ma aveva trovato Wu Han. Esattamente come, dopo aver perso suo padre, aveva trovato Abner, che lo attendeva negli Stati Uniti, insieme a Marion.
   No, di certo non avrebbe saputo dire che cosa gli avrebbe riservato il suo futuro, ma era certo che sarebbe stato ancora più grandioso di tutte le esperienze vissute fino a quel momento.
   «Chissà…» ripeté.

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Capitolo 26
*** Palmira, Mandato francese di Siria, luglio 1923 ***


XXVI.
PALMIRA, MANDATO FRANCESE DI SIRIA, LUGLIO 1923

   Ragazze dalla bellezza leggiadra e incantevole danzavano armoniosamente nella penombra. I loro veli semitrasparenti, avvolti attorno ai lunghi capelli, scendevano fino ai piedi scalzi, frusciando con la vaporosità di nubi argentate. Oltre a qualche tintinnante collana di perle e a nastri colorati che ricadevano morbidi attorno ai fianchi a cui erano legati, non indossavano altro. Ondeggiavano leggere come l’aria, al suono di una musica celestiale che pareva scaturire dall’atmosfera profumata, muovendo ritmicamente le mani e i piedi e ammiccando verso di lui con fare lascivo. Di quando in quando, una di loro lasciava scivolare il velo in terra, per poi chinarsi a raccoglierlo con movimenti sensuali che mettevano in risalto le forme perfette dei corpi e che gli procuravano le vertigini.
   Vertigini unite a spossamento, arsura implacabile, bruciori alla pelle e lieve ma persistente senso di nausea. I sintomi di quella che lo sbrigativo medico che lo aveva visitato aveva definito “forte insolazione”.
   Indiana Jones era appena cosciente del fatto di stare vaneggiando o, meglio, delirando. Troppo sole gli aveva dato alla testa e lo aveva scottato. Anche se era disteso sopra la brandina completamente nudo, nell’ombra oscura della tenda, si sentiva come se si trovasse ancora in pieno sole, avvolto in due o tre coperte di lana. La febbre altissima non gli dava tregua e il calore che trasudava dalla sua carne non poteva essere mitigato nemmeno dalle pezze imbevute di acqua fredda e aceto che, di continuo, gli venivano appoggiate sulla fronte e sul petto da uno degli inservienti del campo base. Il medico aveva detto di avere troppo da fare, per occuparsi a lungo di lui, e si era ritirato nel suo alloggio, con una buona bottiglia con cui combattere la calura della bollente estate mediorientale.
   Tutto era successo perché Ravenwood, quell’anno, non era riuscito a ottenere il permesso per continuare i suoi scavi in Egitto.
   «Maledetti!» aveva gridato, entrando con foga e sbattendo la porta del suo ufficio, nell’Università che si andava svuotando in vista delle vacanze estive prima della prossima sessione di esami. «Tre volte maledetti! Ottusi idioti che non sono altro! Non si rendono conto della fortuna che hanno!»
   Indy, che con una lente d’ingrandimento stava esaminando un vaso greco in ceramica a figure rosse risalente alla prima metà del V secolo, alzò gli occhi verso di lui.
   «Che cosa succede, professore?» domandò, sbigottito da quella scenata inattesa.
   Furente, Abner aveva mollato un pugno all’anta di un mobiletto. Si era ferito le nocche.
   «Succede che, per quest’anno, salta tutto!» sbraitò, con i baffi che vibravano in maniera pericolosa.
   Indy era letteralmente cascato dalle nuvole. La partenza per il Delta del Nilo era già fissata alla settimana successiva da molto tempo.
   «Salta tutto?» ripeté, credendo di non aver compreso. «In che senso salta tutto? Vuol dire che non andiamo…?» Non era affatto difficile, in fondo, capire a che cosa si stesse riferendo Ravenwood. C’era soltanto un argomento che lo rendeva tanto sensibile e in grado di mandarlo in quella maniera fuori dai gangheri.
   «No, non andiamo in Egitto» borbottò Abner, appoggiandosi con le mani alla scrivania, chino in avanti. Era rosso di collera e il torace gli si alzava e gli si abbassava molto velocemente.
   «Ma perché?» sbottò Indy, deluso. «Stiamo preparando tutto quanto da mesi. Ormai, la localizzazione di Tanis è praticamente certa e…»
   «A loro non interessa!» sbraitò Ravenwood, sempre più infuriato. «Il consiglio direttivo è convinto che la mia ricerca dell’Arca dell’Alleanza sia ormai durata abbastanza a lungo per poter essere considerata una spesa superflua. Quei vecchi becchini vogliono risultati concreti, e a sentire loro io non gliene sto portando!»
   Sollevò lo sguardo e fissò con crescente intensità il suo studente.
   «Un giorno anche tu sarai un archeologo a tutti gli effetti, Jones» disse, con un sibilo sinistro nella voce, il respiro affannoso, «ma se posso darti un consiglio, tieniti lontano dalle università: meglio essere indipendenti, che dover sottostare alle richieste di vetusti tromboni vestiti da beccamorti.»
   Indy trasalì. Non aveva mai visto Abner perdere le staffe a quel modo.
   «Professore, mi dispiace. Se vuole posso provare a mettere una buona parola e…»
   Ravenwood scoppiò in una risata che si tramutò subito in un attacco di tosse che durò quasi due minuti. Sembrava un cane che latrava e annaspava allo stesso tempo.
   «Non… farmi… ridere… Jones…» riuscì finalmente a dire, quando si fu calmato. «Tu… hai una pessima reputazione, lo sai, vero? Ti sei portato a letto mezza università, comprese le più rispettabili delle mie colleghe - donne onestissime, prima di incontrare te, posso assicurartelo - e hai combinato un guaio dopo l’altro. Se non ti hanno buttato mai fuori è soltanto perché io mi sono sempre assunto le tue difese. Qualche volta ho persino dovuto alzare la voce, per poterti salvare. Ma non ti degnerebbero di uno sguardo, se provassi a dire loro qualcosa. Anzi, potrebbero prendere la tua insubordinazione come scusa valida per espellerti una volta per tutte.»
   Con un sospiro profondo, Abner andò alla finestra aperta e fece scorrere lo sguardo sul cortile soleggiato. Gruppetti di studenti con i libri sottobraccio passeggiavano in ogni direzione. Sotto un albero, vide René Belloq che addentava una mela. Poco lontano, Harold Oxley camminava in compagnia di Marion. La ragazza chiacchierava come un fiume in piena, e Harold, le mani dietro la schiena, annuiva a intervalli regolari. Il cielo splendeva, illuminato da un bellissimo sole, e l’aria profumava d’estate. Ravenwood, però, non riusciva ad assaporare la dolcezza della bella stagione.
   «No, ormai la decisione è presa e dovremo fare come vogliono loro» bofonchiò. «Andremo in Siria e mapperemo le rovine di Palmira, come richiedono. Gli porteremo i loro risultati concreti, ubbidendo come cagnolini ben addestrati.»
   Si voltò a guardare il suo studente. Indy deglutì nel trovarsi di fronte quello sguardo allo stesso tempo arcigno e fiero.
   «Ti devo confessare una cosa, Jones» borbottò, interrompendosi subito dopo per mordersi le labbra.
   Il ragazzo rimase in rispettoso silenzioso, attendendo che il professore trovasse le parole adatte da dirgli. Finalmente, Ravenwood parve superare il disagio che lo aveva colto.
   «L’insegnamento non mi entusiasma più» rivelò. «Vent’anni fa, quando ho iniziato, andavo fiero del mio ruolo. Pensavo che un giorno avrei istruito qualcuno che sarebbe potuto essere il mio degno successore. Ma in tutti questi anni non ho trovato nessuno che rispondesse a colui che stavo cercando. Almeno, finché sei arrivato tu. Ti ho incontrato, e ho capito che tu eri l’uomo che stavo cercando da tanto tempo.»
   Indy fece un vago cenno. Si sentiva in imbarazzo.
   «Istruirti, trasmetterti tutto ciò che so, mi ha rinvigorito. Mi sono sentito di nuovo giovane. Mi è tornata la voglia di trascorrere ogni momento della mia vita sul campo, senza più dover sfruttare il poco tempo libero che mi è concesso dalla vita universitaria. Grazie a te ho capito di potere - e volere - tornare di nuovo a essere quello che ero una volta, e ora questo luogo mi sembra una prigione.»
   «Professore…» borbottò Indy, sempre più a disagio, ma Abner scosse il capo, facendogli cenno di lasciarlo continuare.
   «Questo rifiuto di aiutarmi da parte del consiglio direttivo mi ha risolto a prendere una decisione su cui ho meditato molto a lungo. Ormai ho deciso: non appena tu ti sarai laureato - che succeda l’anno prossimo, o tra due, non ha importanza - io rassegnerò le mie dimissioni. Voglio tornare a occuparmi interamente di archeologia. Basta libri e scartoffie, per me. E mi auguro che tu vorrai seguirmi in questa follia.» La voce di Ravenwood si era fatta roca, e una scintilla di pazzia gli illuminava lo sguardo. «Perché sì, lo so, questa è follia pura. Ma io sono certo che l’Arca sia sepolta a Tanis, e farò di tutto per dimostrarlo. E se l’Università di Chicago ha deciso di non appoggiarmi, ebbene farò a meno del loro aiuto.»
   Indy cercò di mettere insieme tutte quelle parole. Sul serio Abner Ravenwood era ossessionato da Tanis e dall’Arca al punto da volersi spingere tanto oltre? Eppure, per come la vedeva lui, lasciare l’Università avrebbe comportato molti più problemi che vere soluzioni. Una su tutte, era di certo la questione economica.
   «Ma… se lascia il suo impiego… come farà per i soldi?» domandò, con qualche titubanza.
   Ravenwood si strinse nelle spalle.
   «Il mondo è pieno di ricconi annoiati che non sanno che cosa farsene, di tutto il denaro che hanno da parte, e che non vedrebbero l’ora di poter legare il loro nome alla più grande scoperta archeologica di tutti i tempi» disse.
   «Lei lo crede?» domandò il ragazzo, non del tutto convinto.
   «Oh, sì. Accorreranno a frotte, pur di finanziare le nostre ricerche» profetizzò Abner.
   A Jones non sfuggì il riferimento al plurale: ormai, Abner lo considerava a tutti gli effetti una parte importante di sé. Se ne sentì enormemente orgoglioso, ma anche spaventato: quel futuro gli sembrava così incerto, pieno di incognite.
   «Se dipendesse da me, mollerei tutto in questo preciso momento e manderei volentieri al diavolo quei tromboni dei consiglieri» andò avanti a dire Abner. «Ma non posso. Perché tu possa laurearti, è necessario che io mantenga il mio posto. Così, fino a quel giorno, dovrò rassegnarmi a obbedire agli ordini. Per cui, Jones, cambio di programma: si va in Siria.»

   La rassegnazione del professor Ravenwood ad accettare di rinunciare per un’intera stagione alla ricerca di Tanis non bastò in alcun modo a sbollire la sua rabbia. Così, furente per tutto il tempo che stava perdendo, si sfogò sottoponendo i suoi studenti a lunghissime e brutali ore di massacrante lavoro sotto il sole cocente, costringendoli a turni abominevoli e non concedendo mai neppure un minuto di tregua.   
   Una mattina particolarmente afosa, riparato all’ombra di un albero dalla corteccia calcinata, non aveva fatto altro che abbaiare ordini su ordini, riprendendo con rabbia tutti coloro che si fermavano per tirare una boccata d’ossigeno o per bere un sorso d’acqua. Indy, per cercare di sfuggire alla calura che lo opprimeva sempre più, si era tolto la camicia madida di sudore, restando a torso nudo.
   Si era reso conto troppo tardi di quale pessima idea fosse stata la sua. Verso le quattro del pomeriggio aveva cominciato a sentire fastidio alle spalle e alla schiena e, prima di sera, gli era salita la febbre. In breve era finito steso sulla brandina, al buio, accompagnato dall’ovvio verdetto del medico: insolazione.
   Nel delirio che lo aveva colto appena dopo il calare del sole, si era visto circondato da molte cose, che aveva dimenticato alla svelta; soltanto le danzatrici semi-svestite erano ancora impresse nella sua memoria quando, infine, dopo un giorno e mezzo, ancora molto debole, poté alzarsi e sgranchirsi le gambe.
   «Buone notizie» rivelò il medico, riponendo il termometro nella sua borsa. «La febbre è passata e il peggio è scongiurato. Ma per almeno una settimana dovrai sottoporti a impacchi giornalieri e cospargerti di lozione, e farai meglio a restartene all’ombra.»
   «Hai una fibra dura e la pellaccia resistente, Jones» disse Abner, che era presente. Gli mollò una pesante pacca sulle spalle ancora infiammate, coperte di pelle morta che si staccava a brani, strappandogli un gemito che Indy soffocò a stento tra le lacrime che non fu in grado di controllare. «Ma mi hai fatto preoccupare per davvero. Dovrai restare in forma, se un giorno dovrai venire con me alla ricerca dell’Arca perduta. La prossima volta non fare l’eroe e rimani coperto come si deve.»
   Indy annuì ed evitò di ribattere che, la prossima volta, Ravenwood avrebbe potuto dimostrarsi anche un poco meno schiavista nei confronti di chi lavorava per lui. Si sentiva ancora troppo debole per affrontare una discussione di quel genere con il professore.
   Perlomeno, aveva imparato un’altra lezione. Meno pelle avrebbe tenuto esposta, quando si trattava di fare qualcosa in posti caldi e assolati come quello, e molto meglio sarebbe stato. Una camicia inzuppata di sudore e i capelli appiccicati sotto il cappello, del resto, sarebbero stati un inconveniente assai preferibile rispetto a un’altra esperienza dai tratti mistici come quella.

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Capitolo 27
*** Scozia, Regno Unito, febbraio 1924 ***


XXVII.
SCOZIA, REGNO UNITO, FEBBRAIO 1924

   Il compito che gli aveva affidato Marcus Brody si era rivelato molto più rapido e semplice del previsto, da portare a termine.
   «Pensi di farcela?» gli aveva chiesto l’amico, prima della sua partenza. «Te la senti di affrontare tutto questo da solo?»
   Anche se si stava mostrando lo stesso uomo affabile di sempre, si poteva cogliere un accento, se non di dubbio, almeno di sottile ironia, nel tono del curatore.
   Indy era consapevole - a dispetto di tutte le promesse in cui si era impegnato - di non essere ancora riuscito a fare granché per Brody, fino a quel giorno. Lui gli aveva finanziato due missioni di ricerca nel Pacifico e, in entrambi i casi, era tornato a casa a mani vuote. Era più che comprensibile che, questa volta, ci volesse andare con i piedi di piombo. Indiana Jones, però, era più che deciso a farsi valere e a dimostrare tutto il suo valore. Brody aveva voluto scommettere su di lui e lui, in cambio, gli avrebbe fatto comprendere di non aver sbagliato.
   «Non ti deluderò, Marcus» aveva garantito. «Ti riporterò ciò che mi hai chiesto.»
   Così, era partito per la Scozia, pronto ad affrontare quella nuova impresa.
   Il vecchio maniero diroccato e dall’aspetto spettrale che sorgeva sperduto in mezzo alle Highlands fredde e ventose, nei pressi di un grande lago dalle acque buie e profonde, custodiva di certo più di un segreto, che ora lui non aveva tempo - né la voglia - per svelare; ma la spada dei MacLeod non era stata difficile da trovare come si sarebbero invece aspettati lui e Brody.
   Il passaggio segreto era celato dietro un arazzo tarlato che raffigurava una scena di battaglia. L’esercito degli Scoti, riconoscibile dai tartan, era impegnato in una dura e cruenta lotta contro gli invasori Vichinghi. Indy, esaminandolo da vicino, aveva toccato in maniera involontaria la stoffa ormai sfibrata, che si era sfaldata in una nuvola di polvere sotto le sue mani. E la porta segreta, così, gli si era aperta davanti.
   Aiutandosi con la luce di una fiaccola, aveva seguito la nuova strada, scendendo in un sotterraneo segreto, tetro e umido. Lì aveva scoperto una cappella circolare, in cui erano inumati i maggiori membri del clan dei MacLeod. E la loro leggendaria spada - quella che aveva spiccato le teste di nemici dal nome fantasioso e al medesimo tempo spaventoso, come Erik il Conquistatore, Odin il Massacratore e Freysteinn l’Invincibile, o fatto a pezzi gente che portava il nome di Thor il Tonante e Grettir dalle Trecce Fulve - era riposta proprio nel centro, sopra un piedistallo.
   Un’arma splendida, di perfetta costruzione, dall’elsa istoriata con magnifiche pietre preziose, intatta nonostante le numerose prove a cui era stata sottoposta. Il ragazzo l’aveva presa con le mani che tremavano per l’emozione, mentre si trovava a tu per tu con la Storia. L’aveva guardata a lungo, ammirandola in ogni suo millimetro, prima di decidersi a tornare indietro.
   Adesso era riposta al sicuro dentro il suo baule da viaggio, avvolta nella carta da pacchi stretta dallo spago, pronta per essere trasportata dall’altra parte dell’Atlantico, dove avrebbe impreziosito la sala del museo dedicata ai reperti dell’età medievale. Marcus non avrebbe avuto alcunché di cui lamentarsi, questa volta - anche se, a dire il vero, non gli aveva mai sentito uscire di bocca un solo lamento.
   Una vera soddisfazione, per Indy: poteva ben dire che, quello, fosse il primo, vero recupero che portava a termine senza incorrere in fallimenti. Questo lo aveva resto euforico e, finalmente, si era sentito per davvero un archeologo fatto e finito, a cui ormai mancava soltanto un titolo sopra un pezzo di carta per potersi a tutti gli effetti definire membro di quella categoria.
   Poteva soltanto sperare che, quel successo, si rivelasse il primo di una lunga serie.

   Gli altipiani della Scozia settentrionale, in quei giorni, erano molto freddi, afflitti da un vento forte e persistente. Le nubi grigie si addensavano nel cielo e, non di rado, durante la notte e le mattine rovesciavano al suolo vere e proprie tormente di neve. Nel tardo pomeriggio, poi, si abbassavano verso terra, creando impenetrabili cortine di nebbia.
   Anche con il cappello calcato in testa, la sciarpa stretta attorno al collo, abiti pesanti, guanti di pelle e un tabarro di lana nera ad avvolgerlo completamente, Indy continuava a patire quelle temperature. Il gelo non gli si confaceva per nulla e, proprio, non riusciva a spiegarsi come avessero fatto i suoi avi a vivere per tanti secoli in quelle contrade desolate, perennemente spazzate dal vento e tormentate dalle intemperie. Se di almeno una cosa poteva essere grato a suo padre, era di non averlo fatto nascere in un luogo tanto inospitale.
   Nondimeno, nonostante avesse concluso in fretta e con estrema gratificazione personale il suo lavoro, e pur essendo perseguitato da quell’umido gelo che toglieva anche il fiato, il ragazzo non aveva nessuna fretta di ripartire.
   Le lezioni, a Chicago, avrebbero ripreso soltanto alla metà di marzo, e dal momento che aveva già sostenuto tutti gli esami della sessione, non c’era proprio bisogno di tornare indietro troppo alla svelta. Tanto più che il signor Bond, rappresentante di una ditta che fabbricava armi, era trattenuto sul continente da importanti e inderogabili affari, e questo gli aveva lasciato campo libero con la sua bellissima consorte.
   Indy aveva fatto conoscenza con Monique Delacroix poco dopo il suo arrivo in Scozia. Svizzera di lingua francese, di una decina d’anni più grande di lui, affascinante come poche altre donne gli fosse mai capitato di incontrare, Monique era la moglie di Andrew Bond, importante uomo d’affari scozzese. Ma era anche una donna triste e insoddisfatta, perché il coniuge legittimo la lasciava sola per molto tempo a causa dei suoi continui viaggi di lavoro all’estero.
   «Lo sa, signor Jones, io la invidio moltissimo» gli aveva mormorato la sera in cui si erano incontrati per la prima volta.
   Si erano conosciuti nella piccola locanda - Al cavallo impennato - in cui Indy aveva affittato una camera. Una vecchia struttura di pietra, dagli interni polverosi rivestiti di legno scurito dal tempo, con ritratti tondi e ingialliti di personaggi irriconoscibili appesi alle pareti. Lì dentro si respirava soltanto odore di whisky, sidro e birra forte.
   Lei era venuta lì a cenare e, vistolo solo al tavolino più vicino al camino scoppiettante, gli aveva domandato se potesse sedere con lui, per stare più al caldo. Indiana Jones non aveva mai saputo dire di no a una signora, specialmente se molto attraente; si era subito alzato e, con soverchia galanteria, un po’ fuori luogo in un locale rozzo e spartano come quello, le aveva scostato la sedia perché si accomodasse.
   Avevano subito iniziato a chiacchierare. Le aveva narrato le sue avventure, che lo avevano già portato a compiere più di una volta il giro del mondo, affrontando pericoli di ogni sorta e rischiando più volte la vita. Sembravano i racconti che uno sfaccendato avrebbe potuto inventare per fare colpo su una sconosciuta; e, invece, era tutto vero. Ma più parlava, e più si domandava se lei gli stesse credendo davvero.
   Tuttavia, anziché deriderlo, Monique lo aveva colto di sorpresa con quella frase a malapena sussurrata, appena percettibile al di sopra del vociare che riempiva la locanda e del vento che sbatteva contro le imposte serrate.
   «E come mai, signora Bond?» domandò.
   Lei fece un sorrisetto triste. Un sorriso su cui Indy avrebbe voluto posare le proprie labbra per riempirlo di nuova felicità.
   «Mio marito» rivelò, «è spesso assente per lavoro. E io resto qui, sempre sola. Mi piacerebbe poter godere di più libertà, viaggiare per il mondo, vedere gente e luoghi esotici, proprio come fa lei. E, invece, mi tocca restare confinata in questo luogo, sempre freddo e umido, con la sola compagnia di gente rozza e gretta. Lei è davvero fortunato, glielo assicuro. Cerchi di non cambiare mai, la prego. Lo faccia per me.»
   Se c’era una cosa che Indiana Jones non poteva sopportare, era di vedere una bella donna dall’aria affranta. Per lui era inconcepibile e intollerabile che una così leggiadra ragazza fosse costretta a soffrire senza nessuno che si prendesse cura di lei e che la consolasse nella sua solitudine. Era qualcosa che sovvertiva le leggi della natura.
   «Lo farò per lei, glielo prometto» disse, porgendosi avanti.
   La mano di lei era appoggiata sul tavolo. Con audacia la sfiorò, la accarezzò, la strinse. Lei lo lasciò fare, senza curarsi dei tanti occhi indiscreti e avidi di curiosità da tramutare in pettegolezzi che li spiavano da ogni angolo del locale. Anzi, la cosa parve eccitarla, perché ricambiò la stretta, intrecciando le dita alle sue.
   Si guardarono negli occhi e, come in uno specchio, lessero in entrambi lo stesso bruciante desiderio.

   Così, da quella sera, avevano iniziato a vedersi regolarmente.
   Il giovane trascorreva le giornate al castello e, alla sera, sebbene spossato, si intratteneva per lunghe ore in compagnia di quella donna dalla bellezza incomparabile. Molto presto, non avevano più cenato alla locanda, perché l’americano era diventato ospite fisso a casa Bond. Monique metteva tutta la sua maestria di cuoca per preparargli i piatti più raffinati, e lui la ricambiava con la cosa che sapeva fare meglio: esaltando la sua bellezza e facendola sentire più donna di quanto non si fosse mai sentita in vita sua.
   Non si era affatto sorpreso di scoprire di aver perso la testa per lei.
   Di solito, in quelle situazioni, il ragazzo metteva in pratica ogni sua arte per corteggiare la bella di turno. Questa volta non si era nemmeno reso necessario. Monique si era infatuata di lui allo stesso modo, e forse ancora più intensamente, di quanto a Indy fosse accaduto nei suoi confronti. E, così, giorno dopo giorno, Indy aveva lavorato nel castello dei MacLeod pregustando le delizie che lo avrebbero atteso la sera, di cui la cena sarebbe stato solo il gustoso antipasto.
   Per quasi tutta la durata del loro breve ma intenso rapporto, in verità, si erano limitati a lunghi baci e a carezze più o meno intime e bollenti; lei, infatti, forse per non sentirsi colpevole di un vero e proprio tradimento verso il marito, non aveva mai acconsentito a compiere un vero e proprio atto sessuale con il giovane americano.
   Non che questo non avesse ugualmente soddisfatto Indy. Usando le mani e le labbra, grazie a un’abilità di cui lui non avrebbe mai nemmeno sospettato, Monique gli aveva donato orgasmi il cui parossismo era risultato indimenticabile, appagante, meraviglioso; e, naturalmente, aveva permesso che la lingua e la bocca ardenti del ragazzo esplorassero ogni volta con maggiore minuzia il suo corpo, fino a condurla all’estasi.
   «Sei incredibile» gli disse una notte, accarezzandogli piano la testa.
   Era ansante, sudata, con il florido petto solcato da macchie rosse di lussuria, i capelli spettinati che le incorniciavano il volto come una corona. Le dita di Indy avevano appena finito di muoversi con sapienza dentro di lei, strappandole un orgasmo così intenso da farla urlare.
   «È tutto merito tuo…» sussurrò lui. «Sei una creatura divina. Sei Afrodite in persona. Infonderti piacere è quanto di più ovvio e naturale esista al mondo. Sei fatta per essere amata. Davvero, non so come possa tuo marito riuscire a restarti lontano…»
   Monique era rimasta in silenzio. Si era limitata a un sorriso delicato, senza smettere di accarezzarlo. Quelle parole sembravano averla colpita in profondità.
   Poi, però, era venuta l’ultima sera. Il giorno seguente, che ne avesse voglia o meno, il ragazzo sarebbe dovuto tornare negli Stati Uniti. Le lezioni incombevano e, se quello non fosse bastato, il visto sul suo passaporto stava per scadere; rischiava di tramutarsi in un clandestino, ed era meglio evitare di distruggersi la reputazione e macchiarsi la fedina penale prima ancora di conseguire la laurea.
   Monique, allora, per dargli l’addio migliore che si potesse ricordare, lo aveva invitato come al solito a cena e si era fatta trovare con indosso un elegantissimo abito di raso rosso. Un abito che, se possibile, era riuscito a farla sembrare ancora più bella del solito, anche grazie al sapiente strato di maquillage con cui si era truccata il volto. Più tardi, accomodati sul divano davanti al fuoco acceso nel camino, abbracciati e uniti per la bocca, Indy l’aveva aiutata a sfilarselo di dosso, mettendo in mostra una biancheria di pizzo dal gusto raffinatissimo.
   Il corpo nudo di Monique, su cui far scorrere le labbra e le mani per infonderle piacere, era sempre una meraviglia da scoprire e riscoprire. Era l’armonia, era Galatea uscita dalle mani magiche di Pigmalione.
   «Sei l’incarnazione del piacere, non ne ho dubbi…» mormorò, abbassandosi a lasciare una scia calda di baci sul suo collo e sul suo petto. Quando raggiunse il seno ancora racchiuso nel reggiseno, lo baciò e lo accarezzò come un tesoro di valore inestimabile.
   Quella volta, però, lei non aveva intenzione di accontentarsi di così poco. Non quando lui si preparava a uscire per sempre dalla sua vita. Aveva riflettuto a lungo su ciò che le aveva detto. Non capita tutti i giorni, del resto, di incontrare qualcuno che reputi una donna alla pari di una divinità. Voleva essere completamente sua, almeno per una volta soltanto.
   Gli prese la mano, fermandolo, e si chinò su di lui.
   «Stasera non avere paura, Indiana» gli sussurrò all’orecchio, con quel suo accento francese così colmo di sensualità che avrebbe saputo far sciogliere una pietra. «Stasera non temere le conseguenze del voler cogliere il fiore più bello e profumato…»
   Indy comprese, attraversato da un fremito che lo scosse da capo a piedi. Lei lo stava accogliendo dentro di sé. Le ultime barriere che erano esistite tra di loro avevano infine ceduto e ormai erano distrutte. Non si lasciò pregare.
   Terminò di spogliarla, poco a poco, con lentezza esasperante, senza smettere di baciarla nemmeno per un istante. Le loro mani si toccarono in continuazione, i loro petti dai capezzoli turgidi si avvicinarono, i loro sessi eccitati e umidi si sfiorarono.
   Si lasciarono scivolare sul tappeto, accoccolandosi uno di fianco all’altra. Occhi negli occhi, mani che si muovevano febbrili, gambe incrociate come unite da nodi invisibili, respiri profondi e rochi. Il profumo fragrante di Monique e il leggero odore di sudore di Indy si mischiavano insieme, unendosi all’aroma resinoso del ciocco in fiamme nel camino e al sentore della polvere di cui era intriso l’ordito del tappeto. Una fragranza al medesimo tempo soave e fastidiosa, quasi a sottolineare quanto quel loro dolcissimo atto forse in realtà sbagliato, rubato a qualcun’altro e dunque proibito.
   Il ragazzo e la donna non si lasciarono ostacolare da nulla. Nessun pensiero lì turbò. Le loro menti si svuotarono da ogni idea, mentre si abbandonavano a se stessi come naufraghi alla corrente.
   Le loro labbra si unirono, le dita delle mani si intrecciarono, le lingue si scontrarono. Le gambe di Monique si allargarono lievemente, Indy vi si insinuò in mezzo ed entrò in lei, iniziando a dare delle spinte leggere, e poi via via più forti.
   Poi, improvvisa e potente, fu soltanto l’estasi.

   Monique Delacroix alzò un’ultima volta la mano in segno di saluto. Il torpedone si allontanava traballando sulla strada dissestata, nella prima mattina limpida e soleggiata dopo lunghi giorni di freddo, di neve e di nebbia.
   Indiana Jones si voltò a guardarla attraverso il finestrino, e per l’ultima volta nelle loro vite i loro occhi si incontrarono. Monique non avrebbe saputo dire come si sentisse davvero, in quel momento. Sola? Svuotata? Oppure felice all’idea che quell’amore clandestino, che aveva rischiato di consumarle l’anima, fosse finalmente finito?
   Eppure, era certa che, in un modo o nell’altro, lui sarebbe rimasto con lei per sempre. Se lo sentiva nelle viscere, glielo comunicava quello strano e misterioso fuoco che sentiva ardere dentro di sé. Era sicura che lui avesse piantato qualcosa di indelebile in lei, anche se non avrebbe saputo dire di preciso che cosa fosse.
   Solo una sensazione? Oppure c’era dell’altro, dietro quella strana consapevolezza? Per il momento, non avrebbe saputo dirlo.
   Si accarezzò piano il ventre, ricordando quante volte lo avevano fatto le sue mani callose eppure delicate, e si voltò per tornare indietro.

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Capitolo 28
*** Chicago, Illinois, giugno 1925 ***


XXVIII.
CHICAGO, ILLINOIS, GIUGNO 1925

   «Henry Jones, Jr., in virtù dei poteri conferitimi dal rettore dell’Università di Chicago, io la proclamo dottore in archeologia.»
   L’ultimo anno era stato parecchio faticoso.
   Indy lo aveva trascorso quasi per intero chino sui libri e con la penna in mano, compiendo mille sacrifici per terminare tutti gli esami che ancora gli mancavano. Per mesi interminabili - specialmente quando fuori dalla finestra splendeva il sole - aveva vissuto con la compagnia costante dell’emicrania che non mancava mai di presentarsi puntuale quando i suoi occhi vagavano troppo a lungo sulle pagine stampate, sugli schemi degli scavi e sugli appunti scribacchiati a mano.
   Era stato Abner a mettergli una certa fretta; senza parlare troppo velatamente, gli aveva fatto capire che, prima si fosse laureato, e prima le cose sarebbero migliorate per tutti: per Indy, che senza più il pensiero degli esami avrebbe potuto intraprendere per davvero la propria carriera; e per Abner stesso, che non avrebbe più avuto alcun motivo per restare legato all’Università e avrebbe così potuto mettere in pratica i propositi che rimuginava da anni.
   Una fretta che, però, anziché pesargli addosso, era servita da sprone a impegnare tutto se stesso in quell’impresa. Vi si era buttato a capofitto, senza più nessun timore, proprio come aveva fatto negli anni passati, quando aveva partecipato alle imprese eroiche della Grande Guerra.
   E, alla fine, aveva dovuto riconoscere che affrontare nidi di mitragliatrici e nemici assetati di sangue si era rivelata un’impresa molto più semplice che imparare tutte le nozioni necessarie per superare gli esami che, negli anni, reputandoli troppo pesanti, aveva lasciato da parte. Ma la soddisfazione che ne era derivata era anche maggiore.
   Il più arduo da superare fu quello di letteratura medievale. Non che non fosse preparato, in merito. Anzi, a riguardo aveva conoscenze profondissime, che affondavano le radici ai tempi lontani della sua infanzia. Probabilmente, di quella materia ne sapeva più lui dell’anziano e scorbutico professore che lo aveva interrogato - chissà perché, i docenti di letteratura medievale erano tutti uguali. Ma quell’esame gli aveva rammentato momenti spiacevoli e dolorosi del passato che avrebbe preferito dimenticare per sempre, e forse anche per questo motivo fu l’ultimo che affrontò prima della tesi.
   Comunque, ce l’aveva messa tutta, senza lasciarsi fermare da nulla, superando una per una tutte le difficoltà che gli si erano parate di fronte.
   Aveva studiato, aveva scritto la tesi, si era preparato per la discussione finale. Indiana Jones si era dedicato ai libri come mai aveva fatto in vita sua e, oltre ai perenni mal di testa, aveva sperimentato la spiacevole sensazione dei crampi alla mano dovuti all’aver impugnato troppo a lungo la penna. In una delle prime lezioni, Abner aveva dichiarato che la maggior parte del lavoro di un archeologo si svolge in biblioteca. All’epoca pensava che scherzasse. Adesso si rendeva conto che era tutto dannatamente vero.
   Per un anno e tre mesi, da quando cioè aveva fatto ritorno dalla Scozia, non aveva più abbandonato Chicago, deciso a tutto pur di raggiungere il suo obiettivo. E, grazie all’aiuto di Harold e di René, alla vicinanza gradita di Abner e a quella sempre più ambigua di Marion, era riuscito ad andare fino in fondo. Era stato un tormento, per uno come lui, rimanere relegato nel campus, un vero e proprio strazio; rinunciare tanto a lungo a nuovi viaggi e a nuove emozioni gli era costato tantissimo, ma adesso doveva riconoscere che era servito per davvero. Un sacrificio di cui sarebbe stato grato per il resto dei suoi giorni.
   Indy sorrise e strinse la mano al professor Ravenwood, che si trovava a capo della commissione di laurea. Al di sotto dello sguardo arcigno, il ragazzo lesse fierezza e felicità. Abner Ravenwood, in quegli anni universitari, era stato come un padre, per lui. E, esattamente come un padre, si sentiva orgoglioso dei successi del proprio figlio.
   Ce l’aveva fatta, infine. Nonostante tutte le difficoltà in cui era incorso in quegli anni, alla fine era riuscito a coronare il suo antico sogno di diventare archeologo. Quel suo desiderio che aveva maturato tanti anni prima, come un gioco fanciullesco dinnanzi alla sacralità delle opere antiche, era infine divenuto la realtà. Adesso quella era sul serio la sua vita. Aveva trovato un vero posto nel mondo, proprio lui che lo aveva attraversato con fare irrequieto verso tutte le latitudini. Quasi non gli pareva possibile, come se stesse soltanto sognando, ma le mani dei membri della commissione che stringevano la sua e le loro congratulazioni erano lì apposta per rammentargli che era tutto reale, concreto, che non se lo stava semplicemente immaginando.
   Qualche cruccio a rovinare quel momento di festa, a dire il vero, lo aveva. E non erano cose da poco.
   Per esempio sospettava che René, che aveva conseguito la laurea con qualche mese di anticipo rispetto a lui, si fosse impadronito della sua tesi inerente la stratigrafia. Non aveva voluto farne parola con nessuno, nemmeno con Harold, che certo avrebbe saputo come aiutarlo o quale consiglio dargli per provare a fare luce per intero sulla strana vicenda. Aveva preferito scacciare quel sospetto, dicendosi che i risultati ottenuti da René fossero il semplice frutto delle lunghe ore trascorse a discutere insieme riguardo a quegli argomenti.
   Si voltò all’indietro, volgendo lo sguardo verso i suoi due amici, che sedevano al capo opposto dell’aula, in mezzo agli altri invitati.
   Erano entrambi sereni e i loro sorrisi erano sinceri. Negli occhi di ambedue, poi, brillava una comprensione sull’avvenire: ora che erano tutti e tre archeologi - Oxley si era laureato un anno e mezzo prima ed era già diventato celebre grazie ai suoi brillanti articoli e ai numerosi libri inerenti le civiltà mesoamericane, che scriveva con un ritmo a dir poco maniacale - nulla più avrebbe impedito loro di partire alla ricerca di Akator. Quel proponimento che li accompagnava sin dal primo anno stava finalmente per concretizzarsi. Avevano già messo mano ai loro risparmi e avevano panificato ogni cosa: di lì a venti giorni, ai primi di luglio, si sarebbero imbarcati dal porto di New York per l’America meridionale, verso quella che si preannunciava come una grande avventura.
   Accanto a Oxley c’era Marion. Sorrideva, radiosa e serena. Si stava facendo sempre più bella, non poteva non riconoscerlo. La bambina che aveva incontrato il primo giorno in cui aveva messo piede in Università, tenuta per mano dallo scontroso padre, era sbocciata come un fiore di meravigliosa bellezza, impreziosito da quegli occhi incantevoli che avevano tutte le sfumature del mare. Stava diventando una donna, ormai, e questo in qualche modo lo spaventava, gli faceva seccare il palato; e, quel che era peggio, era che non avrebbe saputo spiegare a nessuno, nemmeno a se stesso, perché provasse simili sensazioni quando la figlia di Abner era nei paraggi…
   Indy girò la testa e incrociò lo sguardo di Marcus Brody, che batteva le mani insieme agli altri presenti, congratulandosi per l’ottima discussione appena conclusa. Brody sorrideva, eppure i suoi occhi apparivano offuscati da un velo di tristezza. Il neolaureato archeologo sapeva perfettamente a che cosa fosse dovuto e pregò vivamente di non avere addosso i sintomi manifesti della medesima malinconia.
   C’erano moltissime persone, in quella vasta e soffocante sala dalle alte vetrate ad arco che, in un certo senso, gli rammentava una versione più spaziosa - ma non per questo meno opprimente - dell’aula della sua scuola elementare a Princeton; decine di volti, conosciuti e sconosciuti, maschili e femminili, vecchi e giovani, che si complimentavano con il nuovo dottor Jones. Eppure, in mezzo a loro, Indy e Marcus avevano notato l’ingombrante assenza dell’unico che si sarebbe davvero dovuto trovare lì.
   Henry Senior non aveva voluto assistere alla laurea di suo figlio. Anzi, dire che non avesse voluto era sbagliato. Se n’era semplicemente disinteressato, senza nemmeno prendersi la briga di addurre una scusa qualsiasi per giustificare la sua assenza da quel momento tanto importante, fondamentale, nell’esistenza dell’unico erede. Non aveva scritto - le lettere con cui aveva tempestato il figlio agli inizi, per indurlo a tornare sui suoi passi, col trascorrere del tempo si erano diradate fino a interrompersi del tutto - e non si era presentato. Indy lo aveva inutilmente atteso fuori dalla porta fino all’ultimo secondo, quando l’usciere era venuto a convocarlo per la terza volta, sollecitandolo a sbrigarsi e dicendo che mancava solo lui.
   «No, io ci sono» aveva mormorato Indy, seguendolo. «Io ci sono…» Si era dovuto sfregare un occhio, umido e bruciante. Forse vi era entrato un granello di polvere.
   Ma quella era una giornata di festa. Non poteva lasciarsi avvinghiare dai rimpianti. Se un capitolo della sua vita si era infine chiuso, un altro se ne stava aprendo. Un capitolo enorme, lo sentiva. E a lui interessava guardare soltanto a quello, mentre del passato avrebbe conservato solo i ricordi più dolci, racchiusi nel fondo del suo cuore. Tutto il resto, le cose inutili e brutte, le avrebbe gettate vie.
   Aveva raggiunto il suo scopo. Aveva ottenuto ciò per cui aveva faticosamente lottato per anni. Aveva seguito la sua strada, come si era sempre ripromesso, e aveva raggiunto e superato la prima tappa; ora lo attendevano molte altre mete, non meno facili di quella, da affrontare con lo spirito indomito di sempre.
   La prima, però, era conquistata, era sua, e nessuno gliel’avrebbe più sottratta.
   Indiana Jones era diventato un archeologo.

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Capitolo 29
*** Bedford, Connecticut, giugno 1925 ***


XXIX.
BEDFORD, CONNECTICUT, GIUGNO 1925

   La giornata era calda e soleggiata. L’aria profumava d’estate e tra le fronde degli ippocastani che ornavano il parco si rincorrevano i canti gioiosi degli uccellini e il frinire ritmico e senza sosta delle cicale, un vero inno alla gioia per la bella stagione. In mezzo all’erba, di quando in quando, si potevano scorgere alcuni scoiattoli che si inseguivano squittendo. Le api instancabili andavano di fiore in fiore alla ricerca di polline.
   I quattro uomini passeggiavano con calma lungo i vialetti che circondavano la struttura dell’Università.
   «Per me sarebbe un onore» ammise Indy, con lo sguardo acceso di una luce nuova. «Essere già assunto come docente di archeologia dopo soltanto pochi giorni dalla laurea…» Agitò la testa, cordialmente incredulo. «Mi sembra quasi un sogno.»
   Rammentò la conversazione che aveva avuto con Abner proprio il giorno in cui si era laureato. Il docente, senza perdere tempo, era sgusciato in direzione a rassegnare le tanto attese dimissioni, poi era tornato a cercarlo.
   «Ora non ci saranno più ostacoli alla nostra ricerca dell’Arca» gli comunicò, con tono gioviale. Notò il suo sguardo lievemente accigliato e soggiunse: «Sarai con me, non è vero?»
   «Abner, certo» lo rassicurò. «Solo che… mi domandavo… dove prenderai i soldi per…?»
   «Soldi, soldi, sempre soldi, hai in mente solo e sempre quelli!» brontolò Ravenwood.
   Si trovavano in quello che sarebbe stato il suo ufficio ancora per pochi giorni soltanto, il tempo di raccogliere le sue cose e andarsene per sempre. Erano soli, ma gli altri invitati alla cerimonia attendevano nel cortile esterno dell’Università. La finestra era chiusa, e il sole che ci picchiava contro rendeva l’ambiente quasi asfissiante. Su tutto, aleggiava la vaga malinconia degli addii.
   «Quest’estate incontrerò dei finanziatori, mi sto già organizzando» spiegò. «I fondi per la nostra impresa non mancheranno. Ma voglio la tua parola, Jones, che mi seguirai ovunque andrò.»
   Una lieve esitazione attraversò la mente di Indiana Jones. Era un impegno non indifferente, quello che Ravenwood gli domandava di assumersi. Ma, in fondo, lui a quell’uomo doveva tutto. Se non fosse stato per i suoi insegnamenti, non sarebbe mai diventato archeologo. Erano legati a doppio filo. E c’era da considerare un’altra questione. Restare accanto ad Abner avrebbe significato restare anche accanto a Marion. E questo non gli sarebbe affatto dispiaciuto…
   «Sarò sempre con te, Abner, te lo prometto» disse il giovane archeologo. «Però, se dovesse presentarsi una buona occasione, penso che dovrei accettarla… sai, non navigo certo nell’oro, e non posso continuare a chiedere prestiti a Brody…»
   Il professore gli batté una pacca sulla spalla, paternamente.
   «Devi pensare al tuo futuro, Jones, ed è giusto che sia così. E so anche che hai un debito di riconoscenza con Marcus Brody e che, qualche volta, dovrai lasciare me per collaborare con lui. Lo capisco, e non sarò certo io a ostacolarti. Ma fai in maniera che, questo futuro, vada di pari passo al mio e conduca a Tanis e all’Arca.»
   Per la prima volta da quando lo conosceva, Indy sentì un tono supplichevole nella voce di Abner Ravenwood.
   «Ti prego, Jones. Ho bisogno di te. Sto cominciando a essere vecchio, non posso più farcela da solo. Ma se tu sarai al mio fianco, sento che ci riusciremo…»
   Indy si sentì stringere lo stomaco.
   «Abner, verrò con te ovunque me lo chiederai, anche sulla luna, se sarà necessario…» rispose. «Tu sai che, per questa estate, ho un impegno che rimando da anni. Ma tornerò in tempo, quando tu avrai raccolto i fondi necessari. E, allora, partiremo.»
   Abner Ravenwood lo fissò con intensità. Aveva gli occhi lucidi. Improvvisamente, fece l’ultima cosa che Indiana Jones si sarebbe mai aspettato di vedergli fare.
   Lo abbracciò.
    
   L’occasione per il futuro di cui avevano parlato lui e Ravenwood non tardò a presentarsi. Marcus gliene accennò il pomeriggio stesso della laurea, mentre uscivano dal ristorante Gino’s dove avevano festeggiato tutti insieme. E, dopo pochi giorni, si concretizzò con quella convocazione a Bedford, a cui Indy rispose subito.
   L’uomo corpulento che passeggiava al suo fianco, le mani composte dietro la schiena, sorrise affabilmente.
   «Il dottor Brody mi ha parlato solo bene di lei, dottor Jones, e siccome qui al Marshall College abbiamo necessità di affiancare un docente al professor Parkette, che è il direttore del dipartimento di archeologia, ho pensato di fare il suo nome al rettore. E lui, dopo aver letto la sua scheda e aver ricevuto un parere positivo anche da parte del professor Parkette, è stato ben disposto ad assumerla.»
   Brody fece un sorrisetto.
   «Il vicerettore Stanforth esagera, Indy» si schermì. «Io mi sono limitato a dargli qualche informazione, tutto qui, facendogli notare come quella bellissima spada scozzese, che ha attirato numerosissimi visitatori lo scorso anno, sia giunta qui per opera tua. È stato il professor Oxley, piuttosto, a tessere le tue lodi.»
   Ad Harold, che camminava accanto a Charles Stanforth, si imporporarono le guance e si infiammarono le punte delle orecchie a sventola. Anche lui era stato assunto al Marshall College da pochi mesi, come docente di storia e cultura dell’America precolombiana.
   «Oh, io non ho fatto proprio nulla, sul serio» bofonchiò, imbarazzato.
   Stanforth ridacchiò, palleggiando lo sguardo dall’uno all’altro.
   «Ebbene, nessuno mi ha detto nulla. Vorrà dire che, se me lo chiederanno, dirò che ho avuto in sogno una visione del professor Jones come docente del Marshall College. Lei se la sentirebbe, dottor Jones, di essere chiamato professore?»
   Professore lui. Proprio lui che aveva trascorso gli ultimi anni a passare da un guaio all’altro. Diventare un docente avrebbe significato moltissime cose. Una su tutte, lo immaginava, era il dover chiudere in maniera definitiva con le avventure e con le fugaci storie amorose. Basta imprese pazzesche in giro per il mondo e basta seduzioni di dolci fanciulle pronte a farsi irretire dalle sue lusinghe e dalle sue doti di navigato amatore: se fosse diventato professore, sarebbe stato un uomo rispettabile, obbligato a osservare un certo comportamento e una certa etica.
   La cosa, lo riconosceva, non lo infastidiva minimamente. Ormai era prossimo a compiere i ventisei anni e, di conseguenza, presto sarebbe anche scoccata l’ora di mettere la testa a posto. Non poteva continuare in eterno a comportarsi come un ragazzino, sempre pronto a cacciarsi nei guai.
   Era dunque arrivato il momento di darsi una regolata. Non avrebbe ancora appeso al chiodo frusta e cinturone - Abner, che contava su di lui, avrebbe preteso la sua presenza ogni volta che fosse stato libero da altri impegni, e Marcus non avrebbe dimenticato tanto in fretta la sua promessa di aiutarlo ad arricchire le collezioni museali - ma, di certo, moltissime cose sarebbero cambiate, di lì a breve.
   Prima di chiudersi di nuovo tra le pareti di un’aula, comunque, avrebbe concesso al suo spirito avventuriero un ultimo momento di gloria, a cui non intendeva sottrarsi.
   «Io accetterò molto volentieri il posto che mi viene offerto, e mi adopererò in ogni modo per dimostrare di essermelo meritato» sottolineò, «purché non si richieda la mia presenza qui prima di settembre. Ho un impegno inderogabile. Questa estate, infatti, io, Harold e un altro amico abbiamo deciso di recarci in Brasile per un lavoro di una certa importanza che stiamo rimandando già da parecchio tempo.»
   Charles annuì.
   «Il professor Oxley me ne ha parlato e per me non c’è alcun problema. Anzi, se - come vi auguro - la vostra spedizione avrà successo, porterete lustro al Marshall College prima ancora di cominciare a insegnare. L’importante è che siate entrambi presenti per l’inizio delle lezioni, il sette di settembre. E…» qui assunse un tono cospirativo, «vi consiglio la puntualità. Il rettore è un tipo abbastanza ostinato, da questo punto di vista.»
   «Oh, non si preoccupi, professor Stanforth» assicurò Indy. «Non intendo in nessun modo tardare. Vada come vada la nostra spedizione, saremo di ritorno in tempo, glielo prometto.»
   Si fermarono all’ombra di un acero che si trovava nel centro del cortile e Indy ne approfittò per far scivolare lo sguardo su tutta la struttura del Marshall College. Non vi aveva mai rivolto molta attenzione, fino a quel giorno, perché nelle sue visite precedenti si era limitato a entrare nel museo, che era il regno di Brody.
   Adesso, però, era tutto molto diverso. Ora poteva guardare quel luogo con occhi nuovi.
   Il Marshall College avrebbe rappresentato il suo futuro, il suo avvenire. Lì si sarebbe plasmata la sua carriera, dunque. Quel sogno di diventare archeologo, nato in un luogo tanto lontano, lo avrebbe infine condotto lì, in una piccola università del Connecticut.
   Altri, forse, avrebbero potuto desiderare di meglio, ambire a qualcosa di più prestigioso, come, per esempio, il Barnett College di New York. Non lui, non Indiana Jones. Per lui, che fino a pochi giorni prima era soltanto uno studente combinaguai che saltava da un letto femminile all’altro, quell’incarico era il coronamento di una vita di fatiche e di rinunce. Adesso, quando qualcuno avesse parlato del professor Jones, non si sarebbe più riferito soltanto al vecchio Henry Senior.
   E le finestre del Marshall College parvero ricambiare il suo sguardo, pronte a riservargli nuovi giorni, mesi e anni di cui, ancora, non avrebbe saputo immaginare l’esito.

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Capitolo 30
*** Foresta Amazzonica, Brasile, luglio 1925 ***


XXX.
FORESTA AMAZZONICA, BRASILE, LUGLIO 1925

   Il cielo era invisibile, celato dall’ampia copertura di foglie che si intrecciavano in un intrico inespugnabile. Richiami di uccelli tropicali si susseguivano senza sosta, e il gorgogliare dei ruscelli si avvicinava o si allontanava a seconda di come si muovevano. Gli insetti ronzavano in maniera incessante, le scimmie urlavano invisibili tra le fronde fitte e impenetrabili. L’aria, umida, impregnata di miasmi, era difficile da respirare. Il sudore stillava da ogni poro, le zanzare assalivano ogni singolo centimetro di pelle disponibile. Stare in mezzo a quello che alcuni chiamavano l’inferno verde era spossante, ma anche elettrizzante, una marcia continua e difficoltosa verso l’ignoto, sfidando tutto, persino la morte.
   I due ragazzi, armati di lunghi machete per sfrondare le foglie e i rami che impedivano con ostinazione il cammino, si facevano strada a fatica nel mezzo della foresta.
   Il francese indossava una sahariana e pantaloni verdi, lucidi stivali neri e aveva il capo coperto da un elmetto coloniale; era così elegante che sembrava pronto a partecipare a un ricevimento in mezzo ai maggiori rappresentati dell’alta società. L’americano, invece, in camicia, pantaloni e scarponi, aveva la frusta al fianco, la borsa a tracolla e il solito cappello di feltro marrone sulla testa, ed era coperto di sudore dalla testa ai piedi.
   Entrambi erano determinati, risoluti, sebbene tra di loro si notasse una certa differenza: mentre René appariva sano e arrossato dal calore, Indy era pallido e si sentiva febbricitante; la sua mano tremante correva di continuo alla fronte per detergersi il sudore freddo che gli colava negli occhi. Ma Belloq non sembrava affatto rendersi conto delle condizioni di salute del compagno, e Jones non era per niente intenzionato a farne parola. Si trattava soltanto di una lieve debolezza passeggera, nulla di cui doversi preoccupare. Si ripeteva di continuo che, dopo aver trascorso oltre un anno a prepararsi per la laurea, il suo fisico doveva semplicemente riabituarsi alla vita all’aria aperta e all’addiaccio. Tutto qui.
   La sola cosa da tenere ben presente nella mente, adesso, era il loro obiettivo, che si avvicinava sempre di più.
   I due archeologi erano partiti da soli per l’America meridionale. Harold Oxley, pur essendo la vera anima di quell’impresa, all’ultimo momento aveva trovato una scusa per non accompagnarli. Entrambi sapevano che, a frenarlo, erano stati il timore delle malattie endemiche del luogo e le troppe incertezze legate a quella loro ricerca. Non potevano biasimarlo, ma neppure si sentivano di condividere le sue paure: erano troppo giovani, testardi e robusti per farsi spaventare da così poco.
   Nonostante quella defezione, Indy e René erano dunque voluti partire ugualmente.
   Akator e le sue ricchezze erano un richiamo troppo forte e seducente, per i loro giovani cuori pieni di impulsività. E i primi scavi che avevano effettuato, seguendo le indicazioni fornite dagli appunti lasciati loro da Harold, sembravano già voler dare ragione alla loro tenacia e caparbietà: tra le altre cose che avevano dissotterrato, avevano rinvenuto un piccolo teschio di cristallo. Era rozzo, male rifinito, appena distinguibile da un qualsiasi altro sasso dalla forma curiosa, tanto che per vedervi la forma di un cranio si doveva lavorare molto con la fantasia. Per loro, però, era stata una prima e fondamentale tappa.
   Ora non restava che andare avanti, proseguire con le scoperte. Akator, Eldorado, sembrava proprio davanti a loro, così vicina che sarebbe bastato tendere una mano per toccarne le rovine.
   «Fortuna e gloria, sto arrivando» pensò Indy, ormai certo della vittoria.
   Si fermarono dinnanzi a un ammasso di canne e di foglie, oltre cui la foresta si faceva ancora più fitta e più oscura. Al di là di quell’ostacolo, si celavano misteri ed enigmi che attendevano soltanto di essere scoperti e riportati alla luce. Erano pieni di domande. Le risposte erano là, a portata di mano.
   Il francese era davanti e voltava le spalle all’americano. Senza girarsi a guardarlo, chiese: «Pronto?»
   Indy fece un cenno affermativo; poi, come rendendosi conto solo allora che l’altro non poteva vederlo, replicò: «Sì, sono pronto.» La sua voce era roca, impastata, faticava a risalirgli dalla gola. Stanchezza, niente di cui preoccuparsi. E l’arsura che gli bruciava nel petto era semplice sete, che avrebbe facilmente placato se avesse avuto la forza di afferrare la borraccia. Adesso non ce la faceva, a compiere quel gesto, perché non aveva quasi più vigore nelle braccia; ma più tardi ci sarebbe riuscito.
   René Belloq diede un fendente all’intrico di vegetazione e si addentrò nel buio, scomparendo nel mezzo del fogliame.
   Dopo un lungo attimo di esitazione, sorreggendosi ai tronchi per non barcollare e crollare al suolo, Indiana Jones lo seguì.


   [scritto: dicembre 2020]

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