Red Room Blue Room

di daffodil_damask
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [indice] ***
Capitolo 2: *** 18 ***
Capitolo 3: *** Home ***
Capitolo 4: *** Click, clack, click- ***



Capitolo 1
*** [indice] ***


Indice delle storie

Le storie sono in ordine cronologico degli eventi, che può non coincidere con quello di pubblicazione.






18

Non è il primo incontro tra Carven e Argon, ma è di certo quello che più la sorprende.


Home

Carven ha sentito il bisogno di allontanarsi, tuttavia la solitudine non è sempre la scelta giusta.


Click, clack, click-

Avere qualcuno che ti guarda le spalle può fare la differenza tra tornare a casa e marcire in uno scantinato di metallo.







Thread twitter dei personaggi (immagini e aesthetic): CLICK

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Capitolo 2
*** 18 ***


18

 

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I wanna know, when it get real

Who gon' be out on the front line in the field?

Who gon' be there for the good times and the bad?

I'm already knowin' ain't nobody got my back

 

 

 

 

«E va bene, vieni con me. Andiamo via di qui.»

Questo è inaspettato. Non sembra vero. Averle sognate per tutti questi mesi aveva reso tali parole sempre più distanti e utopiche, al punto di credere che non le avrebbe mai sentite.

Lui è accovacciato sul cassone posteriore di un vecchio fuoristrada, con la targa resa illeggibile da un'abbondante dose di fiamma ossidrica. Lei è in ginocchio sull'asfalto, con i pantaloni strappati e le ginocchia graffiate, aggrappata con la mano destra al rollbar del veicolo.

«Mi hai sentito? Muoviti!»

Gli occhi di Carven si abbassano sulla mano metallica che l'androide le sta porgendo, poi ritornano sui suoi occhi gialli privi di pupilla. Sembrerebbe umano, se non fosse per il braccio sostituito con una protesi metallica e il viso per metà deformato da quelle che sembrano vecchie ustioni da acido. La sua corporatura imponente, tuttavia, scoraggia qualsiasi domanda a riguardo.

La ragazza ha le labbra socchiuse, forse per pronunciare qualche parola di ringraziamento o per esprimere la sua incredulità; nonostante il fiume di parole che aveva riversato fino a un attimo prima, ora non riesce a pronunciare nemmeno una sillaba.

 

Due secchi spari di pistola la riportano alla realtà. Non è questo il momento di parlare. «Sì,» balbetta, annuendo velocemente e afferrando la mano che le è stata posta, «andiamo.»

L'androide la solleva di peso e la carica sul veicolo, prima di mettersi lui stesso alla guida. Preme il piede sull'acceleratore, prende velocità appena in tempo per girare a sinistra sulla 58esima e far perdere le loro tracce dopo qualche altra curva. Le sirene della polizia sono ormai lontane, sembra.

 

«Non so ancora come ti chiami,» azzarda Carven quando lui ferma il veicolo in un angolo riparato di una strada secondaria, vicino a un cassonetto della spazzatura. È ormai notte e i traballanti lampioni di periferia non illuminano molto, quando sono accesi.

L'androide scende senza dire una parola. Le fa cenno di fare lo stesso, poi copre il veicolo con un telone e vi getta davanti un paio di sacchi del pattume. Solo una volta completata la sua opera si volta verso di lei.

«Argon,» risponde sbrigativo. «Non siamo ancora al sicuro. Sai nasconderti?»

La ragazza annuisce. Si sistema al meglio i vestiti ma è certa che l'odore che ha addosso non sia dei migliori. La puzza dei fumogeni le gratta ancora le vie respiratorie.

«Sai sparare?» Chiede lui.

«Non ho fatto molta pratica, ma sì.»

Argon le allunga un'arma. È una pistola dalla canna lunga, carica laser, un po' unta e sporca di polvere scura. «Mirino anteriore. Mirino posteriore. Sicura. Grilletto.» Lui nomina le parti mentre le indica con il dito metallico. «Se sei nei guai, spara. Ma meglio se ti nascondi, prima. Prima ti nascondi e poi, se non puoi fare altro, spari, intesi? Hai dieci colpi.»

Carven ascolta nel silenzio più totale. Non ha mai taciuto così a lungo in presenza di Argon. «Ricevuto.»

«Dietro di te.»

 

Carven impiega un attimo di troppo per capire cosa fare. La sua testa non fa in tempo a registrare il suono del proiettile; girandosi, vede un corpo vestito di blu e grigio cadere inerme.

«Lezione uno: sopravvivere. Impara a proteggere te stessa,» la rimprovera l'androide, prendendole la mano e premendole la pistola sul palmo. «Ora hai nove colpi. Tieni il conto.»

Un brivido freddo scuote la schiena di Carven. Una parte di lei si chiede se chiedere l'aiuto di uno sconosciuto sia davvero la scelta giusta.

«D'accordo,» annuisce ancora, voltando le spalle al poliziotto a terra.

«La polizia mi sta ancora cercando. Ce ne andiamo prima che ci trovino.»

Argon estrae dallo zaino alle sue spalle una lancia priva di punta e preme una coppia di pulsanti a metà di essa, rivelando con un rumore ipnotico tre fiamme di energia rossa sulla parte alta dell'asta. Fatto ciò, si incammina verso strade più buie, guardandosi in giro sospettoso e annusando l'aria. Carven lo segue, qualche passo dietro di lui, stringendo la propria pistola in mano.

Poco dopo Argon si ferma, ma non si volta. Davanti a lui c'è una via angusta e completamente buia, in cui dopo pochi metri non si vede più nulla. Non c'è luce nemmeno in lontananza, Carven non può stimare quanto sia lunga. Ammesso che abbia una fine.

«Hai paura del buio?»

Sembra una domanda infantile, ma il tono usato da Argon è tutt'altro che giocoso. Anzi, è come se la risposta a quelle quattro parole possa determinare il destino di Carven.

«No. Non ho paura del buio.»

Deve ripeterlo, perché la prima volta le labbra si muovono senza che le corde vocali producano suono. Sente lo stomaco stringersi e il petto gonfiarsi, come se avesse firmato un patto con diavolo e allo stesso tempo si fosse liberata da un macigno. Come se fosse un passo più vicino a una nuova vita.

L'androide volta il viso e parte del busto, guardandola oltre la propria spalla destra. È un po' difficile da distinguere, ma sulla parte di volto non deformato di Argon pare essersi disegnato un sorriso. «Allora seguimi,» mormora prima di addentrarsi nell'oscurità.

Carven inspira, poi si affretta a seguire Argon. Le passano davanti tutti i dubbi di una vita, tutte le ramanzine fatte dai genitori, tutti i bei momenti che ha passato con Ryker, tutte le atrocità a cui è stata testimone dopo aver perso il lavoro e la casa.

"È tempo di cambiare", continua a ripetersi man mano che avanza. "Domani sarà migliore." Una promessa che fa a sé stessa da troppo tempo e che è ora di realizzare.

 

Nonostante la determinazione, la via da percorrere sembra terrificante. Il buio, il silenzio, i pericoli nascosti nell'ombra, il fatto di non sapere di chi fidarsi. 

"...Al diavolo. Meglio morire provandoci che vivere con il rimorso."

La luce rossa dell'arma di Argon è l'unica lanterna in quella strada buia.

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Capitolo 3
*** Home ***


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Now tell me: how did all my dreams turn to nightmares?

How did I lose it when I was right there?

Now I'm so far that it feels like it's all gone to pieces

Tell me why the world never fights fair

I'm trying to find-

 

 

 

 

Stazione Spaziale Demos, sezione Ovest, 2963 Lake Avenue. All'ottavo piano di una palazzina con l'intonaco macchiato dalla pioggia, interno 34, un campanello reca il nome solitario di "Emerson, Catherine". È un appartamento spoglio, affittato da poco: gli arredi stonano tra loro, sembrano i resti di chi aveva abitato lì in precedenza. Non c'è molto che racconti la personalità di chi ci vive adesso.

A Carven, in fondo, va bene così. Un appartamento anonimo e assurdamente normale è quello che ci vuole per iniziare una nuova vita. Un cellulare, un portatile e l'ologramma di un fiore blu elettrico sono le uniche cose che la ragazza ha voluto portare con sé. I vestiti sono tutti nuovi, così come la carta d'identità e la carta di credito; almeno i vestiti non sono contraffatti.

Tutto il Clan del Re Scorpione era stato avvertito della decisione della ragazza. Non tutti erano d'accordo ma, saggiamente, nessuno si era permesso di obiettare. Nichrom era scettico ma aveva rispettato la sua scelta; le aveva solamente chiesto un ultimo bacio profondo e mozzafiato, che lei gli aveva dato con non poco entusiasmo. Salutare Argon era stata la parte peggiore e le aveva quasi fatto cambiare idea sui suoi propositi, ma ormai era fatta. Avrebbe provato a tagliare i ponti con tutto ciò che riguardava il Clan, le lotte clandestine, la malavita, per tornare ad una vita "normale".

 

Erano passate poco più di due settimane. Prendere il cellulare in mano le sembra l'azione più naturale del mondo. Le sue dita trovano il numero di Argon in automatico.

La prima chiamata cade nel vuoto, nessuno risponde. Dopo un altro paio di squilli si sente un «Huh? Carven?» dall'altro capo del telefono. Il familiare borbottio fa sorridere la ragazza per la prima volta dopo giorni.

Sospira. «Hey, 'Gon. Non ce la faccio più.» Non vorrebbe, eppure non riesce a non sentirsi sollevata. Dire la verità la fa stare meglio. «Avevi ragione. Mi sto decomponendo. Questa vita non fa più per me. …Passi a prendermi?» chiede infine, incrociando le dita della mano libera.

Un attimo di silenzio, poi un basso gorgoglio che sembra una risata. «Dove ti trovi?»

La ragazza rimane a bocca aperta, lo sguardo perso nel vuoto. Vorrebbe scattare in piedi ed esultare, ma rimanda tutto a dopo. «Ho affittato un monolocale all'angolo tra la 92esima e la Lake. Se hai ancora quel programma che ti avevo installato sul cellulare, dovresti riuscire a localizzarmi.»

«Certo che ce l'ho, non ho mica buttato niente. La tua roba è ancora qui.»

 

Nonostante gli avesse detto chiaramente che non si sarebbero più rivisti e gli avesse dato il permesso di liberarsi di tutto ciò che Carven non si era presa con sé, Argon aveva conservato le sue cose. Forse non aveva nemmeno creduto alle parole di addio di lei eppure non l'aveva trattenuta, anzi l'aveva riaccompagnata a Demos di persona. Si era solo permesso di darle un nuovo numero da chiamare, nel caso avesse avuto bisogno di lui. Oh, cazzo, aveva intuito tutto fin dall'inizio.

Incapace di rispondere qualcosa di più intelligente, Carven balbetta infine: «Vega come sta?». La memoria riportò in superficie tutti i dettagli di quella navicella spaziale modesta ma accogliente, con quel sistema operativo dal sapore vintage e il secondo motore di destra che aveva sempre bisogno di attenzioni. Riusciva ancora a ricordare gli adesivi che lei aveva attaccato sopra alla plancia e l'espressione confusa di Argon quando li aveva visti, perché Carven ma come fai a non ricordarti la differenza tra carrello e alettoni?

«Fa le fusa come un gattino. Però in effetti avrebbe bisogno di un po' di manutenzione, sai com'è, le solite cose. Serve qualcuno che sappia come aggiornare i computer di bordo senza fare danni.» 

Carven sente che Argon sta sorridendo, e non può non sorridere a sua volta. «Cinque minuti e sono pronta. Promesso.» Conclude, scattando in piedi e cominciando a radunare le proprie cose con una mano sola.

«Muoviti, sono quasi sotto casa tua,» ridacchia Argon, prima di chiudere la chiamata.

 

Carven getta dentro lo zaino tutto quello che può essere utile, dal cibo confezionato ai travestimenti più disparati a tutto ciò che potrebbe essere in qualche modo sospetto. Va talmente di fretta che dimentica perfino di aderire alla propria identità fittizia, indossando vestiti sportivi e lasciando la parrucca di Catherine Emerson sul fondo dello zaino. Sbatte la porta dietro di sé e lascia la chiave sotto lo zerbino, volando giù per le scale mentre scrive una mail all'affittuario per interrompere in anticipo il contratto. Garantisce che pagherà la rata corrente e che ha lasciato tutto in ordine, adesso non è davvero ora di perdersi in discorsi inutili.

Una volta fuori, ansimando un po' per tutte le rampe di scale percorse, non fa in tempo a controllare di aver chiuso bene lo zaino che un famigliare sibilo attira la sua attenzione. Gli occhi le brillano quando rivede Argon, riparato tra le mura di una strada laterale per non attirare troppo l'attenzione.

 

Lo zaino le scivola dalla spalla ma non importa; la corsa di Carven termina con un balzo e le sue braccia si stringono al collo dell'androide. Lui fa appena in tempo ad accorgersene e a stringerla per non farla cadere, riuscendo a sorreggerla nonostante la sorpresa. «... Non ti sembra un po' esagerato?» Ride lui, dandole qualche amichevole pacca sulla schiena.

Carven scuote con decisione la testa, senza accennare ad allentare la presa. La verità è che sta per piangere e spera di calmarsi prima di farsi vedere in viso da Argon. «Grazie,» sussurra soltanto, con un filo di voce.

A quella parola l'androide aspetta pazientemente, in silenzio, tenendo la mano posata sulla schiena di lei. È confortante venire capiti all'istante. Basta questo per convincerla di aver fatto la scelta giusta.

 

Argon la posa a terra solo quando sente l'abbraccio allentarsi. Carven ha un sorriso euforico stampato in viso e gli occhi lucidi; non taglia i capelli dall'ultima volta che si sono visti e indossa vestiti trasandati, ma tutto sbiadisce davanti alla felicità che irradia, così intensa, così pura. «Prendi il tuo zaino, torniamo a casa,» la incoraggia Argon.

La ragazza annuisce energicamente, si volta e cerca di asciugare di nascosto la lacrima che è sfuggita al suo controllo; l'androide fa finta di non accorgersene. «Sì. Torniamo a casa,» ripete Carven con voce esile, incamminandosi fianco a fianco con Argon.

 

 

 

 

Home

A place where I can go

To take this off my shoulders

Someone take me home

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Capitolo 4
*** Click, clack, click- ***


Click, clack, click-

 

 

È quasi fatta.

Sono arrivati tutti e quattro in quella stanza sterile e metallica, riuscendo grazie a chissà quale divinità ad uscire quasi indenni dal mare di proiettili che gli era stato scaricato addosso. Carven ha appena stretto una fasciatura improvvisata alla caviglia, Gotung sta controllando quanti proiettili gli rimangono nel caricatore. Argon spedisce una testa mozzata contro una delle pareti causando un cupo rimbombo metallico. Sei uomini in divisa mimetica sono a terra, Reju ne ha appena messo K.O. un altro. Ne manca solo uno, è quasi finita.

 

Fzz.

Un rumore metallico, aspro e dissonante, fa congelare il respiro.

«Bene bene bene, vedo che qui la festa è iniziata senza di me?»

Il ticchettio metallico dei tacchi di Tox Mckie risuona sul pavimento, accompagnando la sua secca risata. Il cappello da cowboy, la camicia con le frange, tutto contrasta con il suo aspetto ibrido tra umano e squalo. Le fedeli pistole vengono fatte roteare con maestria attorno alle sue dita. «Che scortesi.»

Clack-boom. Il primo colpo vola senza che nessuno possa nemmeno aprire bocca.

Carven fa appena in tempo a recuperare il proprio coltello, ma è troppo vicina per evitare il proiettile che le taglia la pelle dell'avambraccio. «Figlio di puttana...!»

«Grazie del complimento,» ghigna lui, scoprendo i denti affilati e sporchi.

Argon, in risposta, alza la propria arma e, con un ringhio terrificante, la cala sul petto dell'uomo pesce, ferendolo. La fiamma brucia il tessuto, lacerandolo e annerendolo fino a mostrare la pelle squamosa. 

Trionfante, l'androide tenta un altro attacco e riesce a cogliere di sorpresa l'avversario, danneggiandolo ancora. Mckie sembra aver perso la patina di superiorità con cui si era coperto, almeno quando guarda Argon; quando punta le pistole contro Reju, Gotung e Carven, invece, sembra giocare al tiro a segno con delle mosche. Clack-boom. Clack-boom. Clack-boom.  

 

Reju, sistemato l'ultimo tirapiedi, dirige la sua spada contro Tox Mckie. Mentre si avvicina ha premura di ricordarsi ciò di cui quell'essere si è macchiato, della disperata richiesta di aiuto avanzata dalla sacerdotessa degli uomini scimmia, del genocidio di cui ha visto gli effetti. La rabbia si rafforza da sola e le dà lo slancio di alzare la propria arma e colpire ancora e combattere per ciò che ritiene giusto.

Non tutti i colpi vanno a buon fine, e Tox Mckie sembra saperne una in più del diavolo. I suoi colpi sono precisi e pericolosi ed evitarli non è affatto facile. «Deboli, siete troppo deboli per vincere!»

Ormai gli insulti non scalfiscono più la determinazione di Reju. Nonostante i colpi che lui para lei continua a combattere, a colpire, ad attaccare con tutta la sua forza.

 

Non può però funzionare all'infinito. Un colpo particolarmente ben assestato le buca il polpaccio, perforandole il muscolo da parte a parte. Con un lamento si sbilancia all'indietro, riesce a mantenere l'equilibrio giusto il tempo di arrancare fin dietro alla colonna più vicina. 

I nervi urlano, la ferita sanguina ed è difficile non andare nel panico. Reju inspira ed espira, ancora e ancora, fissando un punto fisso e sperando di non perdere i sensi. La visione periferica è sfocata, battere gli occhi sembra richiedere un'infinità di tempo.

La mano ancora stretta sull'elsa trema di adrenalina, come tutto il resto del corpo. La donna prova a richiamare qualche nozione che la aiuti a controllarla ma gli spari continuano, è impossibile concentrarsi, non ha idea di come-

 

Gotung le si para davanti, o meglio, Reju riconosce la luce emanata dal suo visore. Sente due fresche mani appoggiarsi sulle sue guance e una litania incomprensibile pronunciata sottovoce. Man mano che le parole scorrono, la visione di Reju si fa più nitida e il dolore meno intenso. È come sentire acqua gelida gettata sulla ferita, solo che quando scivola via si porta con sé anche il dolore.

Alla fine, rimane solo un leggero fastidio; non è guarita del tutto, ma quella che prima era una ferita da trapasso ora sembra una banale sbucciatura. «Grazie» mormora, riconoscente.

Il simbolo arcano smette di ruotare e svanisce dal visore dell'androide, lasciando tornare il famigliare occhio fatto di pixel. «Di nulla. Va',» le risponde Gotung, togliendo le mani dal suo viso e rimettendosi al riparo dietro l'angolo del muro.

La ragazza gli sorride appena, mentre si rimette in piedi e rinsalda la presa sulla propria arma.

 

«Ah! Cazzo!» Si sente Carven imprecare mentre il suo coltello sorvola la testa di Mckie, andando a finire chissà dove. Lui non la degna nemmeno di un insulto, dirige la propria attenzione soltanto all'androide che ha davanti. Sono entrambi coperti di ferite, Mckie più che Argon.

 

Chk-boom.

Il cappello da cowboy fa una capriola in aria e atterra dolcemente, come se cadesse al rallentatore. Mckie lo segue con occhi sbarrati, poi si volta e ringhia contro l'autore di quel gesto sconsiderato. Le branchie ai lati del suo viso si gonfiano con un sibilo soffocato, facendo sembrare il suo volto ancora più deforme. Le squame blu e verdi sopra un cranio ibrido non erano abbastanza. 

«Stai molto meglio senza!» Commenta Carven da dietro una colonna, guadagnandosi un'occhiataccia da parte di Gotung.

«Vediamo come starà il tuo cadavere,» replica Mckie, abbandonando ogni convenevole e sparando a raffica su quella ragazza tanto incosciente.

 

Lo scontro si inasprisce con allarmante velocità. Mckie ha perso parte della sua precisione, ma continua a fronteggiare dignitosamente tre avversari. Argon colpisce con la furia cieca del guerriero in battaglia, Reju porta a segno i colpi come se la spada fosse estensione del suo stesso braccio, Gotung tiene sotto controllo la situazione da una distanza di sicurezza, in mano una piccola sfera di luce pronta a venire scagliata. Carven è lontana, impegnata a cercare di aprire una porta che non ne vuole sapere.

«Ora basta!» erompe Mckie, dopo aver parato l'ennesimo colpo di lancia energetica che Argon prova a infliggergli. Sta sanguinando copiosamente, rivoli di liquido rosso scuro gli macchiano le vesti lacerate e le squame graffiate dalla lotta. Le pistole portano sui fianchi i segni delle parate, sottili tagli intaccano la bellezza del metallo decorato. La situazione sta precipitando velocemente.

 

Non possiamo morire adesso, è questo il pensiero ricorrente di Carven. Mentre è concentrata sulla battaglia una piccola parte di lei, forse il senso di colpa, le ricorda che vuole fare tutto questo per aiutare la gente che abita questo mondo. Lo fa perché, per una volta, vuole fare la cosa giusta.

È la cosa giusta soprattutto quando le pupille verticali di Mckie si piantano su Argon e dirigono entrambe le pistole contro la sua fronte.

Succede tutto in un attimo. Reju stacca coi denti una spoletta e una densa nebbia arancione riempie la visuale. Carven si abbassa sugli occhi un visore viola e rinsalda la presa sul fucile.

 

«Hai ragione, Mckie. Ora basta

 

Un rumore di osso perforato e una risata che si spegne di colpo. Null'altro, prima del tintinnio metallico delle pistole che rimbalzano a terra.

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