Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
ATTENZIONE: Avvenimenti e
personaggi contenuti in questa Fan Fiction sono frutto dell’immaginazione
dell’autrice. Ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale.
L’utilizzo di titoli di canzoni di Michael Jackson come nomi dei chappy della
suddetta FF non è a scopi di lucro.
WHEN EVERYTHING CHANGE
1.2 BAD
Told me that you're doin'
wrong
Word out shockin' all alone Cryin' wolf ain't like a
man Throwin' rocks to hide your hand
You ain't done enough for me
You ain't enough for me
You are disgustin' me
(Yeah, yeah)
You're aiming just for me
You are disgustin' me
Just want your cut from me
But too bad, too bad
Mi ero svegliata alle sette
quella mattina, talmente tanta era l’ansia. Era il mio primo provino; in
diciannove anni non ero mai stata così agitata: il cuore stava per uscirmi dal
petto e dovevo più volte prendere una boccata d’aria, o avrei rischiato di
svenire dinanzi alla giuria… Rabbrividii al pensiero. Non potevo neanche
contare sull’appoggio di qualcuno, perché – ovviamente – nessuno della mia
famiglia sapeva che mi trovassi qui.
Ai miei genitori non faceva molto
piacere la mia innata passione per la danza (avevo scoperto questa mia
“vocazione” alle elementari, e mi esercitavo quasi ogni giorno nel garage di
casa mia per non farmi scoprire)… in verità non era proprio il ballo a dare
loro fastidio, quanto il fatto che io imitassi il mio idolo: Michael Jackson.
Vivevo in una famiglia di bianchi, ma lo stesso i miei non vedevano di buon
occhio il fatto che un uomo abbia cambiato colore della pelle così
improvvisamente. Inutile spiegare loro che era a causa di una malattia, e che a
lui non faceva di certo piacere vedersi mutato in così poco tempo… avevano i
loro pregiudizi e quando una cosa era tale, non c’era nulla che avrebbe fatto cambiare
loro idea, neanche se il Signore in persona fosse sceso dal cielo nella nostra
cucina in un trionfo di luce e accompagnato da cori angelici che innalzavano un
Alleluia per questa sua venuta. Immaginavo già la reazione di quell’ignorante
di Stephan (non lo chiamavo mai papà da un periodo di tempo piuttosto lungo):
-Ma guarda un po’ cosa è in grado di fare la tecnologia…-.
Per evitare quindi una punizione,
avevo accuratamente evitato di dire loro del provino… anche perché si trattava
di quello che mi avrebbe permesso di accompagnare Michael Jackson in uno dei
suoi tanti tour in giro per il mondo.
La versione ufficiale era che io
mi trovavo a casa della mia migliore amica Helen, magari per condividere
qualche smalto o per fare una passeggiata (Helen mi copriva sempre in questi
casi – il mio angelo custode – e aveva raccontato ai suoi genitori che avremmo
passato un lungo, lungo pomeriggio di
studio nella biblioteca…). Purtroppo, c’era un piccolo inconveniente:
differentemente da me, che ero figlia unica, Helen aveva una sorella più
piccola – Rose – dotata di un’astuzia inversamente proporzionale alla sua
altezza. Il soldo di cacio – così la chiamavamo io ed Helen – aveva ricattato
la sorella dicendole che non avrebbe spifferato ai suoi genitori quello che stavamo
combinando se Helen le avesse dato dei soldi. La piccola Rose esigeva 50
bigliettoni e una manicure tre volte a settimana se avessimo voluto comprarci
il suo silenzio. Non potevamo rischiare di farci scoprire, ma non avevamo
neanche la minima intenzione di dare tutti quei soldi ad una ragazzina di 13
anni.Helen riuscì a convincerla che
aveva speso tutti i suoi risparmi comprando la splendida borsa di Gucci che le
aveva regalato a Natale, e la somma da sganciare scese magicamente a 25
dollari, utili per una manicure decente.
Helen sei grande!, pensai.
Mi divertivo ogni volta che
davamo vita a quelle nostre scorribande, ma in fondo ci soffrivo. Ormai avevo
perso ogni speranza di chiarimento con i miei genitori, sebbene mi avrebbe
fatto enormemente piacere vedere che almeno per un giorno non mi guardavano
come se fossi una malata mentale tutte le volte che muovevo la testa a ritmo se
sentivo una canzone. Capii che i miei sedicenti mamma e papà possedevano
un’intelligenza un po’ scarsa, nonché una concezione della famiglia e dei
giovani ferma a quarant’anni prima. Una volta provai a parlare con loro e
capire il perché del loro comportamento. Ricordo ancora quando entrai decisa e
orgogliosa nel salotto dove mia madre era impegnata a lucidare i mobili (sì,
alle nove di sera: è la sua fissazione e la sua maledizione) e mio padre a
guardare un programma idiota in TV. Nessuno di loro due si accorse di me. Mi
schiarii la gola per attirare l’attenzione, ed ebbi solo occhiate annoiate.
Cominciamo bene…, pensai.
Mi feci coraggio e presi fiato.
Fui bloccata subito da un’imprecazione di mio padre.
-Porca vacca, vuoi tirare bene
quella cazzo di palla??-.
-Oh, Stephan, non fare così! I
vicini si scandalizzeranno!-, disse mia madre voltandosi verso di lui
lentamente.
-Ma chi se ne fotte dei vicini?
Che vadano a quel paese anche loro! Bastardi…-.
Io rimasi spiazzata. Cioè,
nessuno dei due si era accorto del fatto che io stessi parlando? Sentii montare
la rabbia.
Calma, Wendy, non avere reazioni sconsiderate…,pensavo tra me e me
per calmarmi.
Quando fui sicura che i miei
nervi erano sotto controllo, tentai nuovamente di attirare la loro attenzione.
-Lucy, chiudi quella maledetta
porta che mi arriva l’aria addosso, merda!-.
-Subito, caro-, rispose mia madre
affrettandosi ad obbedire. Pur di passare – io stavo ancora impalata davanti
alla porta – mi stava quasi per venire addosso e mi diede una gomitata negli
stinchi.
-Ahio!-, esclamai, ma lei non mi
chiese neanche scusa, tornando al suo lavoro di lucida-mobili-come-se-fossero-monili-dal-valore-inestimabile.
No, Wendy, non mollarle uno schiaffo in piena faccia o non ti faranno
uscire per tutta la settimana… e tu come farai a provare?
Presi un altro respiro e mi
schiarii nuovamente la gola.
-Bene-, iniziai, -non me ne frega
un cavolo se mi ascoltate o no, io parlo e voi non potete fare nulla per
fermarmi. Allora, io amo il ballo – certamente più di quanto io ami voi – e
vorrei capire perché non rispettate questa mia passione. So che siete ottusi,
superficiali e poco intelligenti, ma davvero non mi aspettavo fino a questo
punto-.
Finalmente mi degnarono di uno
sguardo, anche se non si poteva dire che fosse proprio amichevole.
-Quindi, se avete un minimo di
coscienza, provate a chiedervi cosa avete fatto perché vostra figlia ha questa
bassa concezione di voi. Se davvero ci tenete alla vostra reputazione,
chiedetevi se potete fare qualcosa affinché io possa cambiare idea su di voi.
Se v’importa almeno un po’ di me… allora lasciatemi ballare-.
Mi sentivo come se mi fossi
appena tolta un peso di dosso. Quella sensazione però mi abbandonò appena
Stephan aprì la bocca per lasciarsi scappare un sonoro e disgustoso rutto. Poi
mi disse con la sua voce irritante e rivoltante: -A me non me ne frega un cazzo
se tu ami il ballo, chiaro? Ci vuole fisico e grazia e tu non hai nessuno dei
due. E poi quegli strani movimenti che tu chiami passi non ti faranno andare da
nessuna parte: ti tireranno pomodori appena salirai sul palco. E non me ne
fotte un cazzo neanche di quel che pensi di noi. Il tuo rispetto me lo ficco
nel…-.
Fu come ricevere uno schiaffo in
piena faccia. Quell’uomo mi disgustava talmente tanto da farmi venire il
voltastomaco.
-Tu non sei mio padre-, sibilai.
-E ne sono fiero-, rispose.
-Mai quanto me-.
-Quello che mi dici non mi fa né caldo
né freddo-, disse.
Ah, sì? Vediamo se sei indifferente anche a questo, stronzo.
Mi guardai attorno, conscia che
la mia pazienza era ormai estinta peggio dei dinosauri.
Crash.
Il vaso greco che mia madre
ricevette come regalo da sua sorella si schiantò a terra, con un fracasso che
fece sobbalzare Lucy e Stephan.
-Ops! Scusate, ma Michael Jackson
amava molto questo passo-, dissi fingendo di scusarmi per la piroetta che aveva
appena mandato in frantumi il vaso.
-Tu! Brutta…-, esclamò Stephan,
ma non finì la frase che io continuai la mia imitazione rompendo oggetti appena
lucidati da Lucy.
-Tu non sai nulla di fisico né di
grazia!-, urlai, -e non lo saprai mai! Eppure, guarda! Con i miei passi guarda
cosa sono capace di fare!-.
Causai altri guai al salotto così
amato da loro, e più lo facevo, più volevo continuare.
-Questo è per avermi ruttato in
faccia prima-, e diedi un calcio alla sedia di mogano davanti a me.
-Questo è per la gomitata nei
fianchi che tu, puttana, mi hai dato per chiudere la porta-, e mandai in
frantumi una bomboniera.
-Questo è per aver strappato il mio poster del mio Michael nella mia
stanza-, urlai gettando un posacenere di ceramica dalla finestra.
-E questo-, aggiunsi, in preda ad
un collasso di nervi e brandendo pericolosamente il bastone da baseball che
comprò mio padre per 1000 dollari, -è PER NON AVERMI MANDATA AL CONCERTO
L’ALTRO IERI!!!-.
Scaraventai il bastone contro la
vetrina con il maglione firmato da Michael Jordan appeso al muro dietro di me:
era il cimelio più prezioso di mio padre.
Ero preda di una folle
eccitazione e la mia sete di vendetta si era finalmente placata. I miei
pensieri furono bloccati da un urlo
Stephan si era alzato in piedi,
il volto paonazzo.
-Vieni qui, disgraziata!-, urlò,
correndo verso di me.
Mi precipitai fuori, ma non fui
abbastanza veloce. Mi agguantò per i capelli e mi sbatté a terra.
Fui colpita da una sensazione di
stordimento che mi fece girare la testa vertiginosamente e subito dopo sentii
qualcosa di caldo che mi colava dalla fronte. Sangue. Riuscii a rendermi conto
solo del fatto che Stephan aveva una cintura in mano prima di affannarmi per
scappare. Inutile. Il colpo mi giunse dietro la schiena, micidiale, malefico.
Non avevo mai sentito così tanto dolore in vita mia. Ero scioccata e terrorizzata,
e iniziai a piangere e gridare.
-Così impari!-, urlò Stephan,
mentre mi assestava altre cinghiate dietro la schiena.
Tentavo di scappare, ma il dolore
mi aveva bloccato. Ardere nelle fiamme
dell’inferno sarà più bello, pensai.
Continuò per un’altra mezz’ora,
finché non persi sensibilità alla schiena e non fui più in grado di reggermi in
piedi.
Per tutto il tempo, Lucy restò
barricata nel salotto.
Quando mi svegliai, la prima cosa
che vidi fu un uomo accanto al mio letto.
-Alla fine sono diventata come
te…-, allungai una mano verso di lui. -Michael…-.
Chiusi gli occhi e mi
riaddormentai cullandomi fra quegli occhi di cartone.
Avevo quattordici anni.
-Wendy Moira Angela Darling!-.
Sobbalzai quando sentii il mio
nome provenire da un angolo recondito della mia mente. Mi ero nuovamente persa
in quel ricordo sgradevole.
Diamine.
-Sono io-, esclamai alzandomi.
La donna che mi aveva chiamato
aveva corti capelli neri e la carnagione scura; mi sorrise.
-Vieni, è il tuo turno-.
Annuii e presi lo zainetto, avviandomi
verso la porta che conduceva ad un corridoio. Lo attraversammo per un po’,
finché non ci fermammo davanti un’altra porta.
La donna la aprì e mi sentii
svenire.
Di fronte c’era un tavolo lungo
color marrone chiaro e dietro vi erano seduti circa sei persone, tra cui…
Mi venne un tuffo al cuore: era
lui.
Aveva i capelli lunghi e ricci
legati in una coda di cavallo, e indossava una camicia bianca. Mi guardò per un
attimo e mi sorrise. Non potei fare a meno di arrossire.
-Prego, entra-, mi disse con la
sua voce da bambino vedendo che rimasi impalata davanti la porta.
Obbedii e tentai di calmarmi.
Guardarono il mio curriculum.
-Wendy Moira Angela…-, sussurrò
Michael. Poi mi guardò. -Per caso conosci Peter Pan?-, mi chiese sorridendo.
Dapprima non seppi cosa pensare,
ma quando capii che era una battuta divenni rossa come un peperone e risi
nervosamente.
Calma, calma, calma, calma, calma, calma!
-Bene-, disse uno dei giudici.
-Quale pezzo ci mostri?-.
-2 bad-, risposi, decisa.
Fece un gesto con la mano per indicarmi
che potevo proseguire e posai lo zainetto a terra. Mi misi al centro della
sala.
-Quando sei pronta-, disse
Michael.
Pensai ai miei genitori e a
Helen. Pensai alle burle dei miei compagni quando sapevano che mi piaceva
Michael Jackson. Pensai alle mie innumerevoli prove in garage.
Non puoi sbagliare. È una canzone di Michael Jackson, e ne sai il ritmo
a memoria. Ti sei preparata a questo da una vita: non rovinare tutto.
Annuii e lui fece partire il
pezzo.
Mi voltai dando le spalle alla
giuria e improvvisai qualche piccolo passo hip-hop nel momento in cui parlavano
i rappers. Quando stava per arrivare la prima strofa urlai come Michael nel
video e con un mezzo giro ebbi la giuria di fronte… per il resto della canzone
non rimase altro da fare che lasciarmi trasportare dalle note.
Rimase impalata davanti la porta,
e mi fissava con un’espressione vacua. In quel momento capii subito che poteva
farcela. Fisico da modella a parte, c’era qualcosa in quei suoi occhi così
incredibilmente azzurri che mi aveva attirato fin da subito. Desideroso di
sapere di più su di lei, presi il suo curriculum ed ebbi appena il tempo di
leggere il suo nome che subito Wendy Moira Angela Darling mi fu simpatica.
-Conosci per caso Peter Pan?- ,
le chiesi con una punta d’ironia nella voce. Lei rimase per qualche secondo
senza dire nulla, per poi arrossire e dare il via ad una risatina alquanto
nervosa.
-Bene-, disse improvvisamente
Uriah, un giudice seduto accanto a me. -Quale pezzo ci mostri?- .
Lei spostò la sua visuale da me a
lui e rispose, pronta: -2 Bad-.
Probabilmente non se ne accorse,
ma sorrisi.
Uriah le indicò che poteva
partire, e i suoi occhi si accesero. Si vedeva che non aspettava altro. Posò il
suo zainetto in un angolo e si posizionò al centro della sala.
-Quando sei pronta-, dissi, e lei
iniziò a tremare. Smise dopo qualche secondo, per poi annuire. Schiacciai il
pulsante PLAY e la musica partì. Nel pezzo iniziale fece qualche piccola mossa
hip-hop, e a pochi secondi dall’inizio della prima strofa gridò proprio come
facevo io. Mi vennero i brividi: i miei stessi passi, i miei stessi movimenti…
ma visti in un’altra persona. Era fenomenale! Se non fosse stato un provino mi
sarei catapultato anch’io sulla pista da ballo per danzare con lei. Non ci fu
alcun dubbio: era quello che cercavo. Fosse per me non avrebbe neanche
continuato il resto della prova – ovvero delle sfide contro gli altri ballerini
– : già la vedevo sul palco che ballava le mie canzoni ripetendo i miei stessi
passi…
Sì, Wendy Moira Angela Darling
sarebbe diventata parte del mio cast.
-Basta così-.
Una voce mi bloccò proprio nel
bel mezzo della mia performance.
La musica si stoppò
improvvisamente e mi ritrovai al centro della sala. Mi sentivo come se fossi
stata risvegliata di botto dopo un sogno bellissimo. La giuria mi guardava
severamente. Non ebbi il coraggio di verificare l’espressione di Michael.
-Signorina Darling… in realtà
quello che sto per dirle dovrebbe essere ufficiale solo tra qualche giorno, ma
è meglio essere chiari fin da subito-, cominciò togliendosi gli occhiali. Lo
guardai speranzosa: di solito questa frase precede una buona notizia.
-Lei non ha fatto altro che
ripetere gli stessi passi del qui presente Michael Jackson durante tutta la
prova. Non abbiamo bisogno di questo. Noi cerchiamo ballerini che siano in
grado di affrontare nuove coreografie che non si limitano ad imitare, ma a creare nuovi movimenti-.
-Ma io credevo che il provino si
basasse sulla verifica delle proprie capacità… c’era scritto sull’inserzione… e
io vi ho mostrato ciò che so fare-, risposi, incredula e confusa.
-Non basta. Lei ha talento, ma
non lo sfrutta a dovere. Noi cerchiami ballerini, non sosia. Ci dispiace,
signorina, ma non ha passato la prova-.
Mi sentii vuota e ferita. In
confronto le punizioni di mio padre non erano nulla. Ripensai ai suoi
maltrattamenti e sentii la rabbia impossessarsi di me.
-Faccio questo da quando avevo 5
anni-, dissi trattenendo a stento le lacrime, -e ho dovuto esercitarmi nel
minuscolo garage di casa mia, perché se mio padre veniva a sapere che ballavo
di nascosto mi picchiava. Solo Dio sa quello che ho dovuto passare per arrivare
fin qui, e sentirsi dire che i miei sacrifici sono stati buttati al vento non è
una bella cosa-.
-Signorina Darling, ci rincresce
molto la sua storia, ma se cerca in tal modo di comprarsi il provino non ha
capito con chi lei stia parlando-, disse acido lo stesso giudice.
-Io non sto cercando di far pena
a nessuno, se questo è quel che intende dire. Sto solo dicendo che non è facile
subire una sconfitta se hai lottato tutta la vita per vincere la guerra-.
Detto ciò mi voltai, punta
nell’orgoglio e col cuore a pezzi.
-Aspettate-.
Quella voce! Quante volte l’avevo
ascoltata cantare? Quante volte avevo sperato di sentirla dal vivo? Il mio
desiderio era stato esaudito, e mi sembrava che stessi ascoltando un coro
angelico.
Mi fermai e mi girai nuovamente.
Tutta la giuria aveva lo sguardo rivolto verso Michael, che, a sua volta,
guardava me.
-Io credo che bisogna dare una
chance alla ragazza… a Wendy. Ha buone potenzialità, ed è molto sciolta, una
caratteristica propria solo dei grandi ballerini. Tecnica e grazia sono in
perfetto equilibrio fra loro. E poi ha ripetuto le mie stesse movenze in modo
strabiliante! Tutte le altre persone che ci provano o sono portate via di peso
dalla polizia, o non ci riescono. Insomma, una rarità così non possiamo
sprecarla!-, esclamò Michael.
Non so descrivere quello che
sentii in quel momento. Ero così felice e così strabiliata che dissi a gran
voce con un sorriso enorme stampato in faccia: -So fare persino il moonwalk-.
Gli occhi di Michael divennero di
fiamma.
-Fammi vedere-.
Lo accontentai e il volto di
Michael si allargò in un sorriso splendente che per poco non mi procurava un
attacco cardiaco.
-Visto?-, chiese poi alla giuria
con un tono stile te-l’-avevo-detto.
-Non possiamo far passare il
provino ad una che non ha fatto altro che imitarla, signor Jackson-.
-Sbaglio, o forse non è questo
ciò che devono fare i ballerini sul palco? E poi non spetta a me decidere se
qualcuno è in grado o meno di far parte del mio cast?-, chiese con sfida lui.
Il giudice non disse nulla, e
Michael continuò:-Per quanto riguarda gli altri passi, può benissimo impararli…
glieli insegnerò io-, propose, e mi sentii la ragazza più felice della Terra.
I giudici non ebbero nulla da
ridire, e Michael si rivolse a me con un sorriso a trentadue denti: -Signorina
Darling… in realtà quello che sto per dirle dovrebbe essere ufficiale solo tra
qualche giorno, ma è meglio essere chiari fin da subito. Lei ha passato la
prova con gran successo. Mi complimento con lei e la informo anche del fatto
che non ha alcun bisogno di presentarsi qui altre volte. Si presenti tra un
mese…-.
-Aspetti! Vuole dire che solo
perché ha fatto quattro volteggi e una specie di piroetta non deve affrontare
gli altri livelli della prova? Adesso sta esagerando, signor Jackson!-, urlò il
giudice antipatico che aveva parlato poco prima. Mi trattenei dal non
lanciargli uno sguardo omicida.
-Non sto esagerando, questa
ragazza deve far parte del cast o manderò a monte tutto e farò tornare a casa i
ballerini che avete scelto-.
-Che abbiamo scelto, vorrà dire-, lo corresse l’antipatico.
-Io ho solo dato il mio parere,
per il resto avete provveduto voi-, rispose con lo stesso tono Michael.
-Nessuno vi ha chiesto di non
farlo-.
-Mi sono semplicemente limitato
ad avvalorare o meno le vostre decisioni, che finora mi sono sembrate giuste e
motivate. Ma non sono in grado di condividere la vostra opinione su Wendy, mi
dispiace-.
-Dispiace anche a noi, signor Jackson,
ma la signorina Darling qui presente deve superare anche le altre prove, o non
saremmo corretti nei confronti degli altri ballerini che invece si esibiranno
sul palco dopo aver sudato quattro camicie per superare ogni singola prova… e
poi, se manderà a monte tutto, le ricordo che lei ci perderà, e non certo noi-.
Michael stava per ribattere
quando io mi interposi fra loro – la situazione stava letteralmente degenerando
–e dissi a voce alta e con un tono del
tutto innocente:
-Per me va bene-.
Michael mi guardò sorpreso e
deluso, e io mi spiegai: -Ho combattuto tutta la vita con le unghie e con i
denti per ottenere ciò che volevo, e il più delle volte ci sono riuscita.
Ringrazio il signor Jackson per avermi dato questa opportunità a dir poco
allettante, ma non mi sento di accettare. Mi basta di aver passato questa prima
prova, e se non riuscirò a far parte del suo cast… beh, spero che mi contatti
per un altro ruolo, magari in uno dei suoi splendidi video-, aggiunsi con un
sorriso che lui ricambiò dopo un attimo di incertezza. -Se poi mi ritrovassi
sul palco a ballare “Black or White” o “Thriller”… beh, avrò dimostrato al
mondo intero che sono capace di stare accanto al grande Michael Jackson, e che
i miei passi così simili ai suoi mi hanno portato in alto-.
L’espressione di Michael passò
dalla delusione alla felicità e malizia più totali. Non aveva ottenuto ciò che
voleva, ma da quanto io avessi capito di lui non si sarebbe arreso così
facilmente
È proprio un bambino, pensai.
L’altra prova sarebbe stata due
settimane dopo. Stavo già per andarmene quando Michael mi bloccò, di nuovo.
Questa volta però mi prese per un braccio e mi sussurrò all’orecchio parole che
avrebbero cambiato la mia vita per sempre: -Denuncia tuo padre-.
-Cosa?-, esclamai, con la vaga impressione
di non aver sentito bene.
-Io non ho potuto farlo quando
ero piccolo-, mi sussurrò con un tono triste, -perché ero troppo debole. Tu
invece no. Nonostante sapessi che tuo padre ti avrebbe certamente punita, lo
stesso ti sei presentata qui. Devi essere abbastanza forte da compiere questo
piccolo gesto. Ti assicuro che se non lo fai ora, passerai il resto della tua
vita immaginando cosa saresti diventata se quel giorno avessi ascoltato il mio
consiglio-.
Un groppo mi bloccò la gola e
poco dopo le lacrime presero a scorrere senza che potessi fermarle.
-Non lo so…-.
-Ti prego Wendy… fallo per me-.
Lo guardai negli occhi, dritto in
quelle iridi così incredibilmente nere, e desiderai perdermi in esse per
dimenticare tutto…
Tirai su con il naso ed annuii.
E, senza che potessi rendermene
conto, improvvisamente Michael mi abbracciò. Ricambiai la stretta, per poi
staccarmi delicatamente.
-Non deludermi-, mi ordinò con un
tono al contempo dolce e iussivo.
-Mai. Promesso-, risposi, conscia
del fatto che quel frammento di vita trascorso fino ad allora stava per
cambiare.
Nota dell’autrice:
Salve!
Sono resuscitata dalle mie ceneri! XD!
Spero
che questo primo chappy vi sia piaciuto, o perlomeno vi abbia mosso qualcosa
dentro di voi… magari un piccolo Michael che vi suggerisce di seguire i vostri
sogni e di non arrendervi mai…
Ringrazio
di cuore tutti coloro che hanno aggiunto le mie scorse storie sui preferiti,
chi ha recensito e chi ha semplicemente letto. Un grazie particolare a
Alchimista, TanyaCullen e Crazy_klara: senza il vostro supporto non sarei
arrivata fin qui.
Il
prossimo chappy s’intitola “Leave me alone”, e ne vedrete delle belle…
Un
saluto affettuoso a tutti voi, e con la speranza che mi facciate sapere la
vostra con una recensione,
So che molti di voi si aspettavano un ritorno di Wendy, ma purtroppo non
è così (dalle recensioni lasciate per il primo cap è stata questa la mia
impressione)
So
che molti di voi si aspettavano un ritorno di Wendy, ma purtroppo non è così
(dalle recensioni lasciate per il primo cap è stata
questa la mia impressione). Essendo questa una raccolta ogni capitolo è un
racconto diverso, con differenti protagonisti. Questo che ho appena postato è
il più…”cattivo”, in un certo senso.
Quindi,
vi prego, non spegnete il computer mentre leggete
questo chappy! Sappiate che ho sofferto mentre lo
scrivevo… poi capirete…
1.LEAVE ME ALONE
I don't care what you
talkin' 'bout baby I don't care what you say Don't you come walkin' beggin' back mama I don't care anyway Time after time I gave you all of my money No excuses to make Ain't no mountain that I can't climb baby All is going my way ('Cause there's a time when you're right) (And you know you must fight) Who's laughing baby, don't you know? (And there's the choice that we make) (And this choice you will take) Who's laughin' baby?
RE DEL POP
O MANIACO SESSUALE?
I FANS: “NON LO RICONOSCIAMO PIÙ”
“Lasciatemi
stare”, diceva il grande Re. “Non m’importa di cosa voi stiate parlando, perché
non vi amo”. Chi, almeno una volta nella sua vita, non ha ascoltato “Leave me
alone” di Michael Jackson? Allora avrete certamente riconosciuto questa strofa.
Perché ormai tutti, e ripeto, tutti, lo conoscono. Perché è il Re, perché sa
ballare, perché ha una bella voce. Certo. E
poi? Sapete perché molti hanno ben presente il nome “Michael Joseph Jackson”?
No? Allora vi do qualche indizio: chi ha cambiato colore della pelle? Chi ha
praticato sesso orale con i bambini invitati nel suo ranch? Chi ha speso
milioni di dollari per poi scoprire di essere indebitato fino al collo? A chi è
sfuggito il naso durante un live? Chi si chiude in una
camera iperbarica per non far trasparire la pelle raggrinzita e le rughe? Ecco,
ora avete capito chi è veramente Michael Jackson. Perché, diciamocelo, l’era in
cui il monarca ballava con gli zombie è ormai lontana.
Lì sì che faceva paura con quei non-morti che gli
volteggiavano attorno. Adesso invece l’unico nostro timore è
ritrovarcelo nel letto dei nostri figli, mentre magari combina qualcosa
descritto molto bene nella canzone “In the closet”. Più alto è il piedistallo più rovinosa è la caduta. E
il nostro Michael lo sa bene. Sembra infatti che
neppure i fans credano totalmente alla sua innocenza – e dovevano aspettare
alla seconda denuncia per pedofilia –, a tal punto che nei sacchi della
spazzatura sono stati trovati CD del cantante e una targa con su scritto “WE
LOVE MJ”. Proprio per tale motivo la popstar ha
deciso di concedersi un lungo periodo di vacanza invece di continuare il suo “DangerousTour”. Non si sa quanto
tempo si dia di tregua, ma molti sono fermamente
convinti che Michael Jackson non tornerà troppo presto sulla scena musicale.
Forse vorrà trovare altri bambini con cui giocare a mamma e papà, o forse avrà
in programma di riscattarsi da queste accuse non infondate con qualche nuovo
pezzo mirante a provare la sua innocenza? Tutto inutile. Ormai la pedina finale
di Jacko si è infangata, e nemmeno l’assoluzione
dalla colpevolezza può purificarla. È la fine del Re del Pop;
il mito è tramontato per colpa di un bambino.
SUSIE K. RIGHT
Il bar era affollato come sempre
mentre leggevo il mio articolo di giornale. Era venuto molto bene, tutto quello
che dovevo dire l’avevo reso pubblico. Era finalmente ora che tutti sapessero.
Nessuno escluso, compresi i fan, quegli stupidi esseri
che ritenevano una persona innocente o colpevole quando nemmeno l’avevano mai
conosciuta.
Sorseggiai il mio caffé e
ripiegai il giornale; se non mi sbrigavo rischiavo di far tardi al lavoro… e
chi lo sentiva al boss…
Quel giorno c’era un importante
evento alla Casa Bianca, ed ero stata scelta fra i miei molti colleghi per
documentare il tutto. Il capo considerava molto le mie capacità, a tal punto da
affibbiarmi gli articoli più importanti. Lui sosteneva che la buona stampa
doveva essere perseverata, ma sapevo che di me non gli interessava la penna,
quanto la disponibilità. Thomas J. Hunter non era famoso solo per il suo essere il direttore di
uno dei più grandi giornali d’America, ma anche per aver “distratto” centinaia
di nubili, single, divorziate e sposate – di cui le ultime sono le sue prede
preferite.
Non ero ancora entrata nella
lunga lista delle sue conquiste, e dubitavo fermamente di farne parte un
giorno. Amici certo, ma il rispetto viene prima di
tutto, soprattutto nei confronti di una propria dipendente.
Salii nel taxi che mi avrebbe
accompagnato all’aeroporto, dove avrei preso un volo per Washington; lì avrei
soggiornato in un albergo in cui veniva ospitata la
stampa durante queste convention.
Avevo portato con me solo un piccolo trolley con una
miserrima quantità di vestiti dentro: ciò di cui avevo davvero bisogno era un
taccuino per gli appunti, una penna e un registratore, che in quel momento si
trovavano nella mia borsa, accanto a me.
-Dove la porto?-,
chiese il tassista, un uomo abbastanza corpulento sulla cinquantina.
- All’aeroporto, grazie-,
risposi.
Presi lo specchietto dalla borsa
per verificare se i capelli erano in ordine. Dopo
essermi accertata che il mio cuoio capelluto si trovava in condizioni
abbastanza presentabili, presi il volantino-guida arrivatomi il
giorno prima direttamente in redazione, su cui c’era scritto tutto
quello che i giornalisti che arrivavano alla Casa Bianca dovevano sapere
sull’argomento; ero appena arrivata a metà del secondo rigo, quando il tassista
mise una cassetta nella radio. Feci una smorfia quando
la canzone partì.
-Michael Jackson?!-.
-“BillieJean”, per la precisione. La conosce?-, mi chiese.
Annuii tentando di fermare i
conati di vomito. Il tassista parve non accorgersene perché picchiettò le dita
sul volante e continuò: -Anche se lei è giovane, non mi stupisco se dice di averla già ascoltata: questa canzone ha scritto la storia
della musica. Ricordo che io e mia moglie la ballavamo
sempre…-, si perse per un attimo fra i ricordi. -Sarà il ritmo,
ma “BillieJean”
riesce sempre a trascinarmi. Eppure non sono neanche
un bravo ballerino… Qualcosa non va?-, chiese, notando la mia espressione disgustata.
-Sì, mi da fastidio la canzone.
Può chiudere, per favore?-.
Il tassista mi guardò per un
attimo dallo specchietto retrovisore, per poi spegnere la radio.
Continuai a leggere.
-Le da fastidio ascoltare musica
mentre legge, o è la canzone proprio?-.
-Credo che dalla precedente
risposta abbia già capito da sé…-, guardai il suo nome
sul cruscotto.
-… signor Heatherby-,
aggiunsi.
Lui rimase in silenzio, e io ne approfittai per continuare a leggere il volantino.
-Non le piace Michael Jackson?-,
chiese il tassistacon
un filo di voce.
-Diciamo
che non gli do tanta importanza. Ma se fossi nei suoi
panni, non farei altre domande-, risposi con tono neutro, faticando a restare
calma. Le note di quella maledetta canzone mi erano entrate in testa,
rendendomi acida come tutte le volte che vedevo quell’orrenda faccia di un
cantante da quattro soldi.
-Perché?-.
-Di quale dei miei tanti affronti
volete sapere il motivo?-, domandai con un pizzico di
sfida nella voce.
-Perché avete
scritto quell’articolo stamattina, signorina Right?-, ebbi un sussulto e
i miei occhi incrociarono quelli tenebrosi e profondi del tassista, fermi
all’altezza del mio petto, lì dove c’era un tesserino con sopra scritto il mio
nome e quello del giornale per cui lavoravo.
Solo allora mi accorsi le iridi,
la pupilla e la pelle avevano lo stesso colore: era nero. O
meglio caffelatte. Proprio come me.
-Perché è
la verità-, risposi con un sospiro.
-Oh, certo. Giuri che ha ragione,
perché se è così io sono Stevie Wonder-, disse con
tono sarcastico.
E a quel
punto scoppiai.
-È la gente come lei che mi ha
fatto odiare Michael Jackson: lo venerate come se fosse un Dio! Ogni volta che
fa quella specie di movimento con i piedi o mette la mano sul pube tutti lì ad
idolatrarlo! Nessuno si rende conto del fatto che sembrate ridicoli?-.
-Io non ci trovo nulla di male ad
andare al concerto del proprio idolo o tentare di imitarlo-, rispose lui, senza
un accenno di emozione.
-Bene, allora non dovrò stupirmi
se un giorno vedrò uno vestito con mocassini, calzini
di pailettes e in testa un cappello che violenta un bambino per strada e dice:
“Guardatemi sto imitando il mio idolo!”-.
-È la gente come voi che sta rovinando la fedina penale di una brava persona come
Michael Jackson-, rispose, ora visibilmente arrabbiato.
-Essere accusato di pedofilia per
la seconda volta dovrà pur significare qualcosa…-.
-Oh, andiamo,
chi vuole che creda a queste cose?-.
-TUTTI!-, urlai io
improvvisamente, facendo sussultare il tassista. –Altrimenti,
perché si sarebbero messe in giro tali dicerie?-.
-Soldi. Gelosia. Cinismo. Le dicono niente queste parole?-, rispose, con un pizzico di
malizia.
-Quindi secondo lei coloro che lo hanno accusato lo hanno fatto solo per
spillargli soldi?-, chiesi, dubbiosa.
-Certo. Logico, no?-.
-No-,
risposi. –Che cosa dovrebbe esserci di logico in tutto
ciò? Insomma, accusare qualcuno di un crimine così grave solo per mandarlo in
bancarotta… è esagerato secondo me-.
-No invece, signorina. È la vita-, rispose con un tono da saggi.
Sbuffai.
La vita. Ma per piacere…, pensai.
-Ma come fa a dire
che è colpevole?-, chiese lui, senza arrendersi.
-E lei come fa
a dire che è innocente?-, risposi imitandolo.
Stette un attimo a pensare.
-Una ragazzina potrebbe
risponderle che lo legge nei suoi occhi. Ma sono del parere che un uomo con due
figli che ha scritto una canzone bella come “Heal the
world”, e che si è attivato per rendere questa catapecchia di mondo un posto
migliore, non può semplicemente essere un maniaco sessuale-.
-Belle parole,
ma molte lacune. Innanzitutto: Michael Jackson
– questo lo ammetto – è un ottimo attore. Può aver finto anche mentre cantava o
mentre ospitava i malati terminali nel suo ranch, o mentre faceva il bambino-.
-Oh, sì, invece. Come è strano tutto l’amore che si prova verso Michael
Jackson, così anche il suo odio è immotivato. Chiunque ascoltando le sue parole
l’avrebbe mandata a quel paese. Ma siccome io sono una
brava persona, non mi tolgo questo sfizio-.
Mi aveva spenta.
Non sapevo come controbattere. Aprii bocca, poi la rinchiusi.
Niente. Non trovavo nulla da dire.
-Beh, visto che nessuno dei due
dice nulla… almeno ascoltiamo della buona
musica-. Detto questo accese la radio.
-Ascolti questa prima di
giudicare qualcuno che non conosce-, mi disse, e
schiacciò il pulsante play.
Hai mai visto la mia infanzia?
Sto ancora cercando il mondo da cui provengo
Perché mi sono guardato attorno
Tra la perdita e il ritrovamento del mio cuore…
Nessuno mi capisce
Mi vedono come un’anomala eccentricità
Perché continuo a scherzare
Come un bambino, ma perdonatemi…
Le persone dicono che non sto bene
Perché amo le cose elementari
È stata la mia sorte per compensare l’infanzia
Che non ho mai avuto…*
[…]
Era “Childhood”.
Tentai di fare l’indifferente, ma
mi si bloccò il respiro. L’avevo ascoltata già qualche tempo
prima, eppure mai quelle parole mi arrivarono al cuore come durante
quella maledetta e benedetta giornata in un taxi decrepito.
Quelle parole d’inchiostro
sembravano risucchiarmi. Non riuscivo a capire perché mi sentissi così male:
d’altronde, non era la prima volta che scrivevano una cosa del genere. Avrei
dovuto abituarmi, prima o poi. Eppure
qualcosa era diverso. Lo sentivo già quando lessi il
titolo, e man mano che proseguivo il respiro si faceva sempre più affannato.
Poi, il colpo di grazia. Ecco perché quelle reazioni
sconsiderate per un articolo che non meritava nemmeno di essere letto. I
miei occhi caddero sul nome dell’autrice di cotanta falsità. E
mi sentii mancare.
Corsi di filato nello studio,
dove presi il telefono. Il centralino mi rispose dopo due squilli, che mi
parvero venti.
-Posso aiutarla?-.
-Sì-,
risposi con veemenza. -Mi può dare il numero della direzione del “Real Magazine”?-.
Mi fece attendere qualche minuto,trascorsi a
picchiettare le dita sul banco e lanciare sguardi sempre più frequenti
all’orologio. Quando la signorina riprese la
telefonata dovetti sforzarmi di non chiederle perché ci avesse messo così tanto
tempo. Mi dettò il numero e biascicai un “grazie” per non sembrare maleducato.
Attaccai e composi
le dieci cifre. Cinque squilli, e dall’altro capo del filo mi rispose una voce
femminile.
-Pronto, qui è la redazione di
“Real Magazine”-.
-Salve, vorrei parlare con il
direttore del giornale-.
-Chi lo desidera?-.
Rimasi un secondo in silenzio,
indeciso se rivelarmi o no. Presi la decisione che in quel momento mi sembrava
migliore.
-Sono Michael Jackson-. La
verità. Sempre ottima alleata.
Silenzio. Poi una forte risata.
-Certo! Lei è Michael Jackson! E io sono Lady Diana!-.
Sospirai.
-Può passarmi il direttore, per
favore?-.
-Oh, sì. Subito!-, esclamò,
continuando a ridere. –Rimanga in linea-.
La sentii mormorare: -Michael
Jackson… come no…-, prima che la sua voce venisse
sostituita da una musichetta che mi mandò sui nervi.
Ancora.
Dovevo aspettare ancora.
Quella volta restai attaccato
alla cornetta del telefono per ben mezz’ora prima che mi decidessi ad
attaccare.
Stupido giornale, pensai, mentre ricomponevo il numero.
Dalla voce capii che mi rispose
un’altra segretaria: evidentemente quella di prima era fuggita per continuare a
ridere. Davvero era così ironico il fatto che io telefonassi alla direzione di
un tabloid? La risposta arrivò da sola, e feci una
smorfia.
-Sono James Keith-,
improvvisai, -presidente di un’agenzia pubblicitaria. Mi chiedevo se era possibile parlare con il direttore del vostro giornale
riguardo una questione di estrema urgenza-. Le bugie. A volte ottime nemiche.
-Attenda,
prego-, mi rispose.
La musica non durò più di un
minuto. Una voce maschile mi riempì l’orecchio destro.
-Pronto?-.
-Credo che lei debba cambiare
personale, signor Hunter: prima ho dichiarato il mio
nome e la sua segretaria mi ha riso in faccia. Non credeva possibile che fossi
io-.
Il direttore non fiatò. Passarono
alcuni secondi interminabili.
-Signor Jackson! Vogliate
perdonare Gwen. È una brava ragazza, nonché ottima
assistente, ma spesso ci sono buffoni scansafatiche che chiamano qui fingendo
di essere delle star… mi scusi, la starò annoiando… in cosa posso aiutarla?-.
I giornalisti. Quanto
li odiavo. Dalla faccia doppia e la coscienza pari a zero.
-Vorrei parlare con la
giornalista che ha scritto l’articolo su di me stamattina-.
Il direttore parve un po’
soprappensiero.
-Susie Right?-.
-Sì, esatto. È lì?-.
-Ehm… no, veramente no. In questo
momento si trova a Washington-.
-Ah-,
risposi. –E quando tornerà?-.
-Fra due giorni. Precisamente
lunedì sera. Potrebbe richiamare martedì mattina, signor Jackson. Però se è
qualcosa di urgente può riferirmi tutto-.
La sera torna a casa e la mattina
è già a lavoro?
Sospirai.
-Mi chiedevo se era possibile avere un’intervista con la signorina Right-.
-Un’intervista?-, chiese, scettico.
-Esatto. Racconterò ogni cosa di
me stesso. È impensabile che io sia stato dichiarato innocente
tre anni fa e ci sono ancora persone che pensano che io sia un
pedofilo-, dissi tutto d’un fiato.
Attimo di silenzio.
-Per me non ci sono problemi, ma dovrebbe chiedere a lei…-.
-Non c’è problema. Richiamerò
martedì. Grazie mille. Ah! Se per favore quello che le ho
detto può rimanere fra noi due, non so se mi spiego…-. Ecco, e adesso mi
sentivo un perfetto idiota. Un giornalista che tiene nascosto uno scoop come
una telefonata del grande Michael Jackson? Accidenti, ma perché proprio a me?
-Naturale, signor Jackson. A
domani e grazie a lei-.
-Arrivederci-,
e agganciai.
Emisi il solito sospiro. Speriamo…
Quando entrai nell’ufficio di Thomas capii subito che qualcosa non andava. Primo: non mi
aveva mai chiamata lui fino ad allora, ma ero sempre
io che andavo nel suo ufficio per portargli articoli, news, e quant’altro.
Secondo: quando mi guardava non gli luccicavano gli occhi come quella mattina
di 22 giugno. Terzo: se mi aspettava non lo faceva mai girovagando per la
stanza, ma seduto sulla poltrona.
-Susie!-, esclamò tirandomi
letteralmente nell’ufficio e chiudendo la porta alle mie spalle.
-Cosa succede,
direttore?-, gli chiesi.
-C’è una telefonata di estrema urgenza per te-, mi disse solamente, per poi
pigiare il dito su un tasto del telefono.
-Gwen? Passami la telefonata
sulla linea 1-.
-Subito, direttore-, rispose lei.
Thomas tolse il vivavoce e alzò
la cornetta.
-Eccola, è qui. Ora gliela
passo-, e mi fece cenno di avvicinarmi a lui.
Perché
mi tremavano le gambe? Perché il mio cuore stava per
scoppiare?
-Pronto?-, dissi.
-Ciao Susie. Sono Michael
Jackson-.
Chissà perché, ma me lo
immaginavo.
-Buongiorno signor Jackson-,
risposi con voce atona, contenendo la rabbia.
Sospirò.
-Ah, giusto, le formalità.
Testarda come sempre, vero?-.
-No, signor Jackson. Solo precisa
nel mio lavoro e rispettosa nei confronti degli
estranei-.
-Oh, sì, certo. E anche il tuo articolo dell’altro giorno voleva
rispettarmi?-.
Sospirai. –Cosa
vuole?-.
Rimase per un
attimo in silenzio, poi disse: -Un’intervista-.
Mi bloccai.
-Eh?-. Vidi con la coda
dell’occhio Thomas ridere sotto i baffi.
-Hai sentito
bene-, mi rispose. –Voglio che tu m’intervisti. Ti racconterò tutto su
di me. Ogni minimo particolare-.
-So già tutto su di lei, signor
Jackson-.
-Ah, non sapevo che i miei fans
mi considerassero pedofilo-, ironizzò.
-Devo informarmi si ogni minima cosa quando scrivo un articolo. E comunque non sono sua fan, dovrebbe saperlo-.
-Uhm… oh, certo, informarsi-.
Lo immaginai scuotere il capo e
farsi beffe di me senza che io potessi vederlo. Quel pensiero mi fece urtare
ancora di più i miei nervi di per sé già provati.
-Sì, informarsi. La regola d’oro
dei giornalisti. Ma cosa vuole che ne sappia lei di cose che
vanno al di fuori del campo di bambini e sesso?-.
-La tua frase è
alquanto sgrammatica. Strano, ti facevo più intelligente per essere una
giornalista-.
Sbuffai.
Ma va’, idiota…
-Alle 15, oggi pomeriggio
nell’albergo “Sun” di NewYork. La mia camera è la 25. Non tardare-, e
riattaccò.
Rimasi per un minuto buono senza fiatare
con la cornetta in mano. Quando la posai, Thomas mi
chiese: -Allora?-.
-Allora niente. L’intervista è
per oggi pomeriggio-.
-Fantastico! Allora va’ a
preparare domande e tutto, e non dimenticare il registratore. Il tuo articolo
sarà un figurone! Già immagino i titoli in prima pagina: MICHAEL JACKSON MESSO
A NUDO. L’INTERVISTA DEL SECOLO-.
E uscì
dall’ufficio con le speranze già rivolte ad un articolo inesistente. Non sarei
mai andata da Michael. Non l’avrei mai perdonato. Mai.
***
-Michael! Michael!-.
Una bambina dai capelli ricci e la pelle color caffelatte correva raggiante nel cortile verso il suo cugino preferito.
Il ragazzino si girò verso di lei e le sorrise, uno spettacolo da
togliere il fiato.
-Susie!-, esclamò, abbracciandola.
La bambina inspirò profondamente il suo profumo. Gli voleva tanto bene,
forse perfino più di quanto ne volesse a sua madre.
-Sei stato bravissimo stasera! Mi hai fatta piangere! Hai cantato benissimo!-, disse la piccola.
-Grazie! Però, ti prego, non piangere! Lo sai
che non sopporto le lacrime su quel tuo bel visino da angioletto!-, la pregò lui e lei sorrise.
-Visto? Sei più bella ora. Scommetto che
quando ti farai più grande un sacco di maschietti ti pregheranno
per mettersi insieme a te!-.
La piccola scosse la testa.
-No,sei
tuil mio futuro marito!-.
Il ragazzino rise, e lei si sciolse.
-Aspetta un attimo! Prima ero il tuo cugino preferito, poi tuo padre, poi il tuo fratellone… e adesso addirittura tuo
marito?-.
La bambina annuì.
-Tu per me sei tutto!-, esclamò lei, facendolo
cadere sull’erba.
Risero entrambi, felici come solo i bambini potevano esserlo.
La ragazza lo guardava con sguardo furioso. Si era di nuovo lasciato
mettere i piedi in testa, e – come al solito – non
aveva fatto nulla per impedirlo.
-Perché non reagisci?-, gli chiese lei,
cercando di incontrare quegli occhi che fuggivano il suo sguardo.
-Ti prego, Susie…-,mormorò lui sprofondando
con la testa nel cuscino.
-No, Michael, ti prego un bel niente!-, gridò
lei facendolo sobbalzare. –Perché non li mandi tutti a
quel paese? Lo sanno che la tua è una malattia, non devono prenderti in giro!
Mio fratello è un ignorante! E, scusa se lo dico, ma tuo padre
lo è ancora di più! Non puoi permettere che continuino a farlo! Devi porre fine
a tutto questo! In questo mondo non esiste solo il perdono, ma anche la
vendetta! Reagisci, cavolo, reagisci!-. La ragazza lo
strattona e riesce a guardarlo negli occhi. Gli venne un tuffo al cuore. Il
piccolo Michael, il suo adorato cugino, stava piangendo.
-Non posso …-, bisbigliò fra le lacrime.La guardava come se fosse un gattino
sperduto. -Non voglio …-, disse infine, voltandosi
dall’altra parte.
La ragazza lasciò la presa. Rimase a guardarlo singhiozzare ancora, per
poi avviarsi verso la porta.
-Stupido…-, disse ad alta voce, e uscì dalla stanza con le lacrime agli
occhi e le mani che le prudevano.
Quando entrò in casa, solo Susie rimase di sasso.
-Che cosa hai fatto?-,gli chiese,
avvicinandosi a lui.
-Non vedi?-, disse zio Joseph, il padre del
ragazzo. –Ha cambiato colore-.
Lei lo guardava stranita. Lui si sentiva a disagio da quello sguardo
strano, e abbozzò un sorriso.
-“Thriller” ha avuto un successo inaspettato… mi hanno chiesto di
pubblicizzare delle marche… l’intero mondo ora sa chi sono… e con i soldi
ricavati hopagato
il chirurgo che mi ha… ehm…-, e si indicò il viso e le mani non più caffelatte,
ma rosee.
Impossibile, pensò Susie, continuando a guardarlo frastornata.
-Perché? A me piacevi com’eri prima…-, biascicò lei.
Lui sospirò.
-Sto avendo troppa notorietà. Non posso rischiare di farmi vedere in
pubblico con queste macchie addosso. Immagino già cosa diranno i media…-.
-Non diranno un bel niente! Tu sei malato! Ti perseguiteranno invece se
ti vedranno così! Penseranno che l’hai fatto perché
non ti accettavi, perché preferivi nascere bianco piuttosto che nero!-, esclamò
lei.
Lo sguardo del ragazzo era triste.
-Non ho avuto altra scelta…-, mormorò.
Gli occhi le iniziarono a bruciarle e le lacrime presero a scorrere da
sole.
-Sì, invece. C’è sempre un’altra scelta. Potevi farti accettare così
com’eri, e invece hai deciso di trasformarti. Potevi fregartene altamente del
giudizio degli altri, e invece hai deciso di subire tutte le ingiurie delle
persone senza dire nulla e serbare tutto dentro. Allora sappi che dovrai
soffrire ancora. Non finiranno qui le ingiustizie, anzi… ogni giorno
peggioreranno. Purtroppo però non ci sarò più io ad asciugare le tue lacrime e
a farti forza. Mi dispiace, Michael, ma da ora in poi io per te non sarò più
niente. Addio-.
E fuggì via lasciandosi alle spalle il suo vecchio cugino che urlava
dalle scale: -Susie! Susie!-.
***
Qualcuno bussava alla porta
insistentemente.
-Un attimo, arrivo!-, urlai,
posando il piatto sul tavolo.
-Ma che
modi…-, mormorai, abbassando la maniglia.
Rimasi impalata
quando vidi chi era il rompiscatole.
-Che
modi? CHE MODI?? Dovrei dirla io questa frase! Ti ho aspettata tutto il pomeriggio e non sei venuta! Ti sembra
educazione, questa?-.
Michael Jackson si trovava
davanti a me, in carne ed ossa, con i capelli lisci sul viso e gli occhi che
fumavano.
Rimasi impalata, incapace di
parlare. Poi mi accorsi di avere la bocca.
-Che diavolo ci fai tu qui?!-, esclamai, irata.
-Beh, visto che tu non sei venuta…-, mi disse, entrando.
-Ehi! Non ti ho dato il permesso di entrare!-.
Mi guardò. Poi scrollò le spalle.
-Fa niente-.
-Che
maleducato…-, dissi, chiudendo la porta alle sue spalle.
-Io maleducato?-, esclamò. –E allora tu come sei? Ti
aspettavo oggi pomeriggio per quell’intervista! Mi hai fatto cancellare tutti i
miei impegni, per poi scoprire che tu non venivi… come credi che mi sia
sentito?-, mi chiese, furioso.
Mi accigliai.
-Dovresti saperlo che io di
pomeriggio lavoro-, risposi, acida.
-Ma
davvero? E come mai il tuo direttore ti ha mandato via prima?-.
-Che ne sai tu?-.
Adesso aveva anche la facoltà di leggere nel pensiero, oltre che ballare come
se fosse sulla Luna?
-Me l’ha detto
lui stesso-, rispose semplicemente.
Ovvio, no?
Lo guardai ancora un po’. Era
diverso dall’ultima volta che l’avevo visto – di persona, intendo.
Ovvero, ai tempi di “Bad”, quando avevo 23 anni.
Sapevo che non si era rifatto il naso più di due volte –
sebbene nei miei articoli scrivevo che lo aveva modificato almeno 7
volte –, ma il suo cambiamento mi fece male ancora una volta.
Perché sei così cambiato?
Mi sedetti sul divano, e lo
guardai.
-Non c’è bisogno dell’intervista.
Domani inventerò qualcosa per giustificare me e te. Non ne hai bisogno, e io
non ho alcuna intenzione di ascoltare nuovamente la
storia della tua vita. La so a memoria-, gli annunciai.
Mi aspettavo qualcosa tipo
“Nemmeno per sogno, io non torno indietro”, ma come al
solito Michael mi sorprese.
Sorrise.
-Veramente… non sono io quello
che devi intervistare…-.
Lo guardai, interdetta.
-Eh?-.
Andò verso la porta e l’aprì.
-Adesso potete
entrare-, disse affacciandosi, per poi lasciar passare tre strane figure
mascherate. Uno aveva i capelli biodo platino, l’altra
marrone chiaro e l’altro ancora marrone scuro. Si avvicinarono a
Michael, che disse: -Ora potete togliervi le maschere-.
Loro obbedirono.
E io
rimasi incantata.
Erano bellissimi.
Erano i suoi figli: Prince, Paris
e Blanket, e mi guardavano incuriositi.
Rimasi senza
fiato, prima di registrare le sue parole.
-Vuoi che io intervisti… loro?-, e li indicai.
-Certo-,
rispose scrollando le spalle come se io fossi una sciocca a non aver capito
prima quello che intendesse dire.
Lo guardai stralunata.
-Tu sei matto!-.
-Quindi accetti?-.
-Io non ho detto ques…-.
-Bene! Accettato!-, esclamò
battendo le mani. –Bambini, sedetevi-, ordinò.
Scossi la testa. Una volta che si metteva
qualcosa in testa nulla e nessuno l’avrebbe distolto dai suoi obiettivi.
Strano che dopo tutto quel tempo passati in lontananza
io mi ricordassi ogni minimo particolare del suo carattere fanciullesco.
Mi sedetti sulla piccola poltrona di fronte il divano e
Michael prese posto su una sedia accanto a me.
-Non vuoi infondere coraggio ai tuoi
figli?-, gli chiesi, guardandolo.
Scosse la testa.
-Devo suggerirti le domande-.
-Giusto…-, mormorai, annuendo.
Guardai i tre bambini. Erano uno
più bello dell’altro. Mi persi nella profondità dei loro occhi.
-Da dove devo iniziare?-, chiesi a
Michael.
-Sei tu la giornalista-, mi disse
sorridendo.
-Sei odioso-.
-E tu paranoica. In fondo sono solo
dei bambini!-.
Lo guardai di sbieco e presi fiato.
-È vero che sei nostra zia?-, chiese Blanket con voce
sottile.
Rimasi un momento allibita.
-Non può essere nostra zia-, gli rispose
Prince. –Non l’abbiamo mai vista. Non è mai venuta a trovarci. Di solito gli
zii fanno i regali-.
Aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono.
-I-io… non…-, farfugliai.
-Ma guardala!-, esclamò Paris. -È
uguale a papà!-.
-Sì, però non l’abbiamo mai vista prima! Chi ci dice che sia veramente nostra zia?-, obiettò Prince. Non
potei non dargli ragione.
-Se siamo qui ci sarà un motivo…-,
disse Paris.
Il fratello maggiore annuì.
-Infatti…-, disse.
Il più piccolo mi guardava in modo strano, come se volesse
dirmi qualcosa. Ricambiai lo sguardo e la sua voce mi giunse cristallina e
terribile nelle orecchie.
-Perché non ci hai mai cercati?-.
Tutti fecero silenzio, compresa io. Mi sentivo un groppo in
gola e gli occhi iniziarono a luccicarmi.
-N… non… potevo, io… io non sapevo…-,
mormorai abbassando lo sguardo.
Perché stavo piangendo? Perché non ero ma corsa dai miei nipoti? Perché
avevo detto quelle cose tremende a Michael? Perché? Perché? Perché?
All’improvviso, tra la confusione della mia mente, sentii
qualcosa. Una stretta soffice. Un profumo dolce. Un cuoricino che batteva sul
mio.
Blanket mi stava abbracciando.
Non ce la feci più e scoppiai in singhiozzo, ricambiando la
stretta. Anche Prince e Paris si unirono all’abbraccio
e mi sussurravano: -Sssh… non piangere, zia Susie… noi sappiamo chi sei… papà
non ha fatto altro che mostrarci le vostre foto…-.
Mi allontanai, mi asciugai le lacrime e guardai Michael. Mi
accorsi che anche lui stava piangendo come me.
-È vero?-, gli chiesi, anche se sapevo
già la risposta.
Lui mi sorrise e annuì.
Mi alzai e lui fece lo stesso. Sprofondai la testa nel suo
petto e lui mi cinse le spalle con un braccio e la vita con l’altro.
-Mi dispiace…-, mormorai,
stringendolo forte a me.
-Non importa. Io già ti ho perdonata-,
mi rispose.
Risi pensando che litigammo proprio perché lui non conosceva
la vendetta, ma aveva sempre perdonato chiunque, anche chi non lo meritava.
-Cugini come prima?-, chiesi, guardandolo negli occhi.
-Più di prima, piccola Susie-, rispose sorridendo
sciogliendomi il cuore.
Il bar era affollato come sempre mentre leggevo il mio
articolo di giornale. Era venuto molto bene, tutto quello che dovevo dire
l’avevo reso pubblico. Era finalmente ora che tutti sapessero. Nessuno escluso,
compresi i giornalisti, quegli stupidi esseri che giudicavano una persona quando nemmeno l’avevano mai conosciuta.
Sorrisi ripensando al giorno prima.
Le lacrime, gli abbracci, i chiarimenti…
Presi il mio diario e una penna.
Ripensai al volto di Michael e sulla mia bocca comparve un
sorriso.
Da ieri, 23 giugno
2009, questo piccolo frammento di vita sta per cambiare.
Note
dell’autrice:
Ed ecco a voi
il nuovo chappy!!! Adesso avete capito perché soffrivo
mentre lo scrivevo? Solo all’inizio, però: alla fine ho deciso che avrei voluto
farvi diventare simpatica la cuginetta… sì, io amo il “e vissero felici e
contenti”… si è capito? XD! Spero che non vi siate arrabbiate
troppo con me, e che questo chappy vi sia piaciuto. L’asterisco accanto il testo di “Childhood” indica che la traduzione è
stata fatta da me, e non copiata da nessun sito o forum, se vi trovate qualche
errore, vi prego di segnalarmeli tramite una recensione. E
adesso, passiamo ai ringraziamenti:
X
eclipsenow: Grazie, grazie
mille!! Mi sto emozionando… oddio, divina…
Lo so, il pezzo
della lotta con i genitori è piuttosto triste… però
devi ammettere che quando rompe tutto è divertente…XD! Grazie, spero che anche
questo capitolo ti sia piaciuto… un bacio!
X
Porsche: Sono davvero
contenta che ti sia piaciuto! Grazie per i bei complimenti! Spero che questo
nuovo capitolo non abbia deluso le tue aspettative… un
bacio!
X
rara193: Grazie mille…
erto, continuerò a scrivere per me, per voi e – dulcis in fundo – per Michael,
che chissà se ora mi sta sussurrando ciò che devo scrivere… un bacio!
X
Eutherpe: Dai, non farmi
tutti questi complimenti, che poi arrossisco. Ad ogni modo, grazie mille, le tue
recensioni mi rendono sempre felice, e non smetterò mai di ringraziarti. Sono
contenta che ti piaccia il personaggio di Wendy, ci ho
messo anima e corpo per darle carattere… Per quanto riguarda l’ultima parte
anche io concordo nel dire che Michael è incantevole (hehehe…); inoltre ho
immaginato come dovesse sentirsi Mike vedendo che – nonostante avesse perdonato
suo padre – questo non l’aveva mai trattato come un figlio… sì, il fan che
veniva trascinato dalla polizia mi ha sempre fatto una pena…;) Ah, lo sai che
anch’io sono iscritta sul forum FanSquare? Però il mio
nick è “MichaelInTheHeart”… magari ci becchiamo lì, okay? A presto! Un bacio!
X
Alchimista:
Tesoooooooooooooooro!!!!!!!!!!!!! Che bello, grazie mille!! Al solo pensare che ti ho contagiata e che stamattina non hai fatto altro che
ascoltare la stupenda “Heal the World” mi vengono le lacrime agli occhi… posso
sempre contare su di te, e grazie mille ancora… di tutto. Ti voglio un mondo di
bene!!! Un bacio!
Ringrazio
inoltre coloro che mi hanno aggiunto questa storia ai preferiti e alle seguite,
a chi mi ha aggiunto tra gli autori preferiti, e a coloro che
hanno letto e basta. Il prossimo chappy s’intitolerà
“Ben”… spero di riuscire a postare presto…
Ancora grazie
mille a tutti voi! Alla prossima! Bad_Mikey!!
Dedicato alle mie migliori amiche: Alchimista, TanyaCullen, Crazy_klara,
Anna…
Dedicato alle mie migliori amiche: Alchimista, TanyaCullen,
Crazy_klara, Anna…
Senza il loro supporto tutte le mie fan fiction sarebbero
solo utopia.
Grazie mille,
ragazze!
3. BEN
Ben,
the two of us need look no more
We both found what we were looking for
With a friend to call my own
I'll never be alone
And you my friend will see
You've got a friend in me
(You've got a friend in me)
Ben,
you're always running here and there
You feel you're not wanted anywhere
If you ever look behind
And don't like what you find
There's something you should know
You've got a place to go
(You've got a place to go)
I used to say, "I" and "me"
Now it's "us", now it's "we" (X2)
Ben, most people would turn you away
I don't listen to a word they say
They don't see you as I do
I wish they would try to
I'm sure they'd think again
If they had a friend like Ben
Like Ben
Like Ben
Dicono che il destino non esiste… e do loro
ragione. Ma a volte succede qualcosa che ti fa cambiare idea. Tipo quando lo
vidi per la prima volta; non potevo credere che fosse accaduto tutto per caso.
Quando ascoltai per la prima volta il Re del Pop mi trovavo nel pancione della
mamma. Quando tremai per una sua canzone avevo poco più di quattro anni. Quando
Michael Jackson entrò nella mia vita… beh, semplicemente non sapevo che era
lui.
Mia madre aveva in mano un pezzo
di stoffa nera. Lo manteneva solo con due dita, il pollice e l’indice, come se
ne avesse paura.
Mio padre era… spaventato. E
anche stupito. Sì, o almeno credo. A dieci anni non riesci a decifrare tutte le
emozioni della gente…
Io guardavo la scenetta da dietro
la porta della stanza da letto dei miei; non capivo nulla di quello che stava
accadendo, ma sentivo che quella situazione non era molto bella… era come se
avessi un qualcosa dentro di me che mi sussurrava: “Scappa… andrà a finire male…”.
Ma per qualche insolito motivo
decisi di restare. E non mi pentirò mai della scelta che feci quel giorno.
-Cosa ci fa questa nel mio letto?-, mormorò mia madre indicando lo strano
oggetto che aveva in mano. Solo allora mi accorsi che era una mutandina di
pizzo nero. Ma perché era così arrabbiata? E perché papà stava sudando così
tanto?
-Hannah… lasciami spiegare…-,
disse lui, avvicinandosi a lei e posando le sue mani sulle sue spalle. Lei si
scostò.
-Voglio sapere cosa cazzo ci fa
questa mutanda nel mio letto-,
ripeté.
Ma prima che lui potesse
rispondere, mia madre iniziò a gridare.
-Come hai potuto? Hai una
famiglia a carico! Un figlio! E hai preferito portarti a letto un’altra!-.
Trattenei il respiro.
-I…io… mi dispia…-.
-Non dire quella parola! Se
davvero eri “dispiaciuto” non ti scopavi una puttana!-, lo interruppe lei.
-Non gridare, ti prego…-.
-No, io grido quanto mi pare e
piace, invece! Che tutti sentano! I vicini, l’altro quartiere, tutta la città…
tutti devono sapere che sei uno STRONZO!-.
Iniziò a prendere a calci la
poltrona e il letto.
-Ferma! Ferma, cosa fai?-, urlò
mio padre. L’agguantò da dietro, ma lei si liberò dalla stretta e lo spinse
verso la porta.
-Via! Via da qui! Non ti voglio
più vedere qui! Tu. Non. Sei. Mio. Marito!-, disse, mano a mano che lo portava
fuori dalla stanza da letto.
Mi scostai evitando per un pelo
di essere travolto da mio padre, che cadde con la faccia a terra. La porta si
rinchiuse. Io rimasi a fissarlo ancora per qualche secondo, guardandolo alzarsi
a fatica e sospirare di resa. Poi i suoi occhi incontrarono i miei.
-Michele…-, sussurrò.
Mi voltai e mi avviai verso la
porta d’ingresso.
Sentii mio padre gridare, e
subito dopo la sua stretta. Mi aveva preso prima che potessi raggiungere
l’uscita. Non ricordo quello che mi disse: pensavo solo a staccarmi dalla sua
stretta, perché per lui provavo solo odio.
Riuscii a scrollarmelo di dosso e
aprii la porta di casa. Uscii fuori e iniziai a correre. Corsi fino a star
male, fino a non sentire più le gambe, pur di andare il più lontano possibile
da quella casa.
Avrei continuato a correre per
ore, ma mi fermai. Mi guardai indietro. Di mio padre nessuna traccia.
Tirai un sospiro di sollievo e
alzai gli occhi. Di fronte a me si ergeva in tutta la sua imponenza il
Colosseo.
Cavolo, ero arrivato fin lì? Da
casa mia al monumento ci voleva come minimo un quarto d’ora… a piedi… ah,
allora non avevo fatto molta strada.
Sospirai e mi sedetti su una
panchina.
Mio padre aveva tradito mia
madre. Non sapevo bene cosa significasse, ma di sicuro era una cosa cattiva se
aveva fatto piangere mia madre. Rividi quelle guance bagnate quando disse a mio
padre di andarsene… presi le ginocchia fra le mani e vi immersi il volto.
Poi, inaspettatamente, sentii un
tocco caldo sulla spalla.
-Why are
you crying, child?-.
Alzai la testa e vidi tre uomini
davanti a me. Uno aveva i capelli biondo scuro e occhi azzurri, l’altro era
moro e l’altro ancora aveva i capelli corti biondo platino e portava un berretto
e gli occhiali da sole.
Scossi la testa.
-You don’t understand me, right?-, mi chiese quello col berretto. Solo
allora mi accorsi che la sua voce era tenera e cristallina come quella di un
bambino.
-Vi capisco-, risposi in inglese.
–Non preoccupatevi, sto bene-.
-Non mi pare. Stai piangendo-, mi
fece notare il tizio che aveva parlato prima.
Mi asciugai in fretta le guance.
-No, queste non sono lacrime!-,
risposi.
-Certo… è pioggia, giusto? A fine
giugno è normale-, disse ironico.
Abbassai la testa.
-Che volete da me?-, gli chiesi.
-Eravamo preoccupati, tutto qui.
Ti abbiamo visto… ehm… bagnato per colpa della pioggia e ho pensato che sarebbe
stato bello se ti avessi dato un ombrello-.
Lo guardai stupito.
-Eh?!-.
-Okay, parlo normalmente, però
non ti lamentare. Ti abbiamo visto piangere e abbiamo pensato che sarebbe stato
bello se ti avessimo… consolato-.
Sorrisi.
-Grazie mille, ma adesso passa
tutto-, risposi.
-Sicuro?-.
Annuii.
-Grazie-, dissi di nuovo, e mi
alzai dalla panchina.
Li sentii borbottare fra loro.
Non capii quello che dicevano, ma
per un attimo mi parve di sentire il mio nome.
Mi voltai.
-Mi avete chiamato?-, chiesi, e
li vidi scambiarsi occhiate strane.
-No…-, rispose quello moro.
-Non avete detto Michele?-,
domandai dubbioso.
Quello con il berretto aveva
un’espressione strana.
-Ti chiami Michele?-, mi chiese.
Annuii.
Lui sorrise.
-Il mio cantante preferito si
chiama come te! Michael, però…-, disse.
Gli occhi mi luccicarono.
-Non dirmi che stai parlando di
Michael Jackson! Perché anche a me piace tantissimo! Sono fiero di chiamarmi
come lui!-, esclamai tutto d’un fiato.
Le due persone dietro
s’irrigidirono e il tizio sorrise; chissà perché, ma per un attimo ho creduto
che fosse felice.
-È bello vedere come un cantante
così conosciuto possa piacere anche ai bambini-.
-Ma a tutti piace! La sua musica
entra nell’anima! O almeno, è quello che mi dice mia madre…-, dissi io, e per
un attimo ricordai perché ero scappato. Stavo per piangere di nuovo, quando
sentii di nuovo la voce del tizio col cappello.
-Anche tua madre è una fan di
Michael Jackson?-.
Annuii, frenando le lacrime.
-E mio padre. Si sono conosciuti
ad una festa e hanno scoperto di avere gli stessi gusti musicali. Mia madre si
trovava in Italia da due mesi, e conosceva solo la ragazza che aveva fatto la
festa. Mio padre, che sa parlare bene l’inglese, l’aveva vista sola e le aveva
fatto un po’ di compagnia, e così…-.
-Ah, allora tua madre non è
italiana… ecco perché sai parlare così bene la nostra lingua!-, esclamò lui.
-Sì, infatti, è americana. Viene
da Phoenix-.
Lui fece un cenno con la testa.
–Arizona… ci sono stato un paio di volte. È molto bello lì-.
-Mia madre me lo dice spesso. E
voi di dove siete?-, chiesi, curioso.
-Di Los Angeles-, rispose il
moro.
Rimanemmo un po’ in silenzio, fin
quando il tizio col berretto mi chiese: -Ti va un gelato?-.
Lo guardai per un attimo. In
fondo non c’era niente di male, no?
-D’accordo. Grazie-.
-Ah, comunque mi chiamo Thomas-,
disse lui.
Gli sorrisi e lo presi per mano.
-Piacere di conoscerti, Thomas-,
risposi, e ci avviammo al chiosco.
Il Colosseo era un monumento
sensazionale. Era enorme, stabile… in tutti quegli anni era rimasto in piedi
per infondere paura e timore ai nemici e a farsi ammirare da coloro che
venivano in pace nella sua terra.
Desideravo da anni di venire a
Roma e poter dire che anche io, il famoso Michael Jackson, ho visto il Colosseo
e sono rimasto colpito dalla sua grandezza e dalla sua magnificenza. Era come
se mi fossi prostrato davanti a lui e gli chiesi di rendermi grande, forte e
coraggioso, e di farmi vivere per sempre proprio come lui. Eterno, saldo e
capace di infondere ammirazione fra gli animi di tutte le persone. Ecco come mi
immaginavo. Ma in quel periodo le cose non andavano proprio a meraviglia. E non
si trattava dei dischi, “Bad” in pochi mesi aveva raggiunto le milioni di
vendite… anche se non avrebbe mai superato “Thriller”. No, il problema era un
altro. Il problema era che da quando avevo cambiato colore della pelle i
tabloid non facevano altro che attaccarmi. Approfittavano di ogni mia minima
azione per ingigantirla e trasformarla in articolo di prima pagina, per cui
dovevo stare molto attento a quello che combinavo.
Ma quella volta era diverso. Io dovevo andare a Roma. Lo dissi
categoricamente ai miei produttori, e loro non ebbero nulla da ridire. Restava
solo da decidere come sarei sopravvissuto
a Roma. Se i miei fans lo avrebbero scoperto addio giri turistici, benvenuti al
bagno di folla e all’orda di giornalisti. Per cui, avevamo attuato un piano di
riserva: mi sarei travestito.
Ci volle meno di un’ora per fare
in modo che i miei tratti somatici cambiassero con il trucco. Poi indossai
altri accessori, in modo da rendermi praticamente irriconoscibile.
Per tutta la mattinata non ci fu
alcun problema, e finalmente riuscii a vedere il Colosseo. Mi guardai attorno
per cogliere ogni minimo particolare di quella città stupenda, quando vidi un
bambinodai capelli biondi rannicchiato
su una panchina con la testa fra le ginocchia.
Senza fregarmene delle due
guardie del corpo accanto a me, mi avvicinai a lui. Solo allora mi accorsi che
singhiozzava.
No, perché sta piangendo?, pensai.
Non sapevo cosa fare, anche
perché molto probabilmente era italiano e non capiva l’americano…
Oh, ma che t’importa, Michael? Sta piangendo! Ed è solo un bambino!
Così mi feci coraggio e gli
chiesi con un filo di voce: -Why are you crying, child?-.
-Allora, quale gusto vuoi?-, mi
chiese Thomas.
-Ehm… io non ho soldi…-, mormorai
imbarazzato.
Lui mi guardò stupito. Poi mi
sorrise. Ma perché mi sembravano così familiari quei gesti?
-Secondo te ti faccio pagare un
gelato? Ad un bambino? Naturalmente te lo offro!-, esclamò. –Quindi? Il
gusto?-, aggiunse.
Stetti un attimo a pensare se era
il caso o no. Di certo non potevo tornare a casa, non volevo rivedere il volto
triste di mia madre. Ma i miei genitori mi ripetevano sempre: -Non accettare
mai nulla da uno sconosciuto!-. Però… era strano, non riuscivo a spiegarlo…
eppure, mi sembrava che conoscessi Thomas da una vita, sebbene durante il
tragitto fino al chiosco io abbia parlato solo di me. Sospirai.
-Tiramisù e nocciola-, risposi.
Poi, dopo una breve pausa:-Con la panna-.
Thomas mi guardò divertito.
-Ah, allora non sei poi così timido!-,
rise lui.
Sorrisi fingendo di essere
imbarazzato e mi misi le braccia dietro la schiena.
Vidi Thomas che si avvicinava a
me correndo e mi spaventai. Poi mi abbracciò.
Io ricambiai la stretta e ridemmo
entrambi. Mi trovavo proprio bene con lui: saremmo diventati ottimi amici, lo
sentivo.
-Perché piangevi prima?-.
Eravamo seduti su una panchina
non lontana dal chiosco con i gelati in mano – a parte i due amici strani di
Thomas che stavano in piedi e si guardavano attornocome se stessero cercando qualcuno.
Abbassai la testa.
-Nulla…-.
-Se è qualcosa che ti fa
soffrire, scusami. Però io credo che ti servirebbe proprio sfogarti con
qualcuno. Ovvio, se non vuoi parlare nessuno ti costringe-, disse Thomas.
Lo guardai e vidi il mio riflesso
nei suoi occhiali.
-Sono scappato di casa-.
Non disse nulla.
-Mio padre ha tradito mia madre-,
continuai.
-Ah-, disse solamente.
-Non so bene cosa significhi…-,
mormorai pensieroso, -…ma mi sa tanto che non è una cosa bella…-.
-No, infatti-, rispose Thomas.
–Ma sono convinto che tutto si sistemerà-, aggiunse, rassicurante.
Annuii.
-No, non piangere…-, mormorò
asciugandomi una lacrima. Poi si batté la testa con una mano. –Ah, già! È
pioggia, vero?-, domandò sorridendo.
Risi.
-Visto? Sono riuscito a farti
ridere!-, esclamò trionfante.
Gli feci una boccaccia e lui
iniziò a farmi il solletico.
-No! No, ti prego!-, lo implorai
fra una risata e l’altra.
-Ah, lo soffri?-, e continuò più
veloce.
-Sì! Ti prego, smettila!-.
-E tu promettimi che non
piangerai più!-, esclamò.
Non riuscivo a parlare, mi stavo
soffocando. Lui fraintese il mio silenzio in un segno di testardaggine e iniziò
anche a pizzicarmi.
-NO! Lo prometto! Lo giuro!-.
-Cosa giuri?-, domandò lui senza
fermarsi.
-Giuro che non piangerò più!-,
gridai alla fine, esasperato.
Mi lasciò.
-Bravo. Così si fa. E mi
raccomando: mantieni la tua promessa, altrimenti verrò a punirti fin dentro
casa tua-.
Annuii.
-E adesso torna a casa, perdona
tuo padre e sta’ vicino a tua madre, ha bisogno di te-, mi disse.
Abbassai la testa, ma non piansi.
No, gli avevo promesso che non l’avrei fatto.
-D’accordo-, e lo abbracciai.
Lui mi accarezzò la schiena e i
capelli.
-Adesso siamo amici?-, gli
sussurrai all’orecchio.
-Fin quando mi vorrai
accogliere-, rispose.
Non capii la sua risposta, ma non
ci pensai più di tanto. Thomas mi capiva e mi voleva bene, e saremmo rimasti
attaccati anche se lui viveva lontano. Avevamo trovato entrambi ciò che
cercavamo: un amico vero. E io non l’avrei mai tradito.
-Michele? Michele, è per te!-.
Mia madre mi chiamava dalla
cucina. La sua voce era più viva, più rilassata. Da quando lei e mio padre
avevano divorziato si sentiva più serena. C’era stato un periodo in cui credevo
che non avrebbe mai superato il dolore, ma mi sbagliavo: ormai stava bene. E io
anche. Era passato qualche mese dall’incontro con Thomas, e l’unica notizia che
avevo da lui era una lettera in cui diceva che era appena partito e che voleva
sapere se stavo bene.
Io gi risposi di sì, che ormai i
miei stavano per divorziare, che soffrivo – quello è ovvio – ma che non ho mai
pianto, perché gliel’avevo promesso.
Aspettavo con ansia qualche sua
notizia, ma non era arrivata nemmeno una cartolina. Col tempo ho cercato di non
pensarci più, ma ogni mattina mi svegliavo con la speranza di trovare nella
cassetta della posta una sua lettera, o foto, o anche uno straccio di carta con
la sua firma. L’importante era sapere che stava bene.
Quando mia madre mi chiamò non pensai
a nulla. Tuttavia, quando la vidi con un pacco in mano, mi incuriosii. Me lo
porse e io guardai il foglietto attaccato sopra. C’era scritto “Los Angeles”.
Trattenei il fiato rumorosamente
e presi velocemente un taglierino dal cassetto alla mia sinistra. Aprii il
pacco e guardai dentro.
C’era carta.
La tolsi.
Cellophane.
Tolsi anche quello.
Poi lo vidi.
In fondo alla scatola c’era
qualcosa.
Un altro pacco.
Lo presi e lo aprii tremante.
C’erano due pezzi di carta e un
rettangolo incartato.
Guardai prima i pezzi di carta.
E mi si fermò il cuore.
Erano due biglietti per la prima
fila al “Bad Tour” di Michael Jackson a Roma.
Aprii il rettangolo.
C’era la figura di un uomo con i
ricci e addosso una giacca nera di pelle con borchie varie.
Il vinile di “Bad”.
Lo girai.
Sul retro era appeso un
biglietto. Quando lo lessi, iniziai a piangere.
Al mio fan numero uno,
a cui ho offerto un gelato ai sensazionali gusti tiramisù e nocciola
con panna.
Con l’augurio che ora non soffra più e che
Verrà a trovarmi al mio concerto.
Un bacio, il tuo grande amico
Thomas / Michael Jackson
Strinsi a me quei meravigliosi
regali mentre piangevo di gioia e mia madre mi abbracciava.
Sì, grazie a lui quel frammento
di vita stava per cambiare. Per sempre.
Note dell’autrice:
Eccomi
di nuovo! Scusate se vi ho fatto attendere molto!! *si prostra umilmente
dinanzi a tutte implorando perdono con le lacrime agli occhi*
Ed
ora, per non farvi più aspettare, un saluto e un grazie grandissimo a tutte
coloro che hanno recensito, che hanno aggiunto la storia alle preferite e alle
seguite, a coloro che mi hanno aggiunto tra gli autori preferiti e anche a chi
ha letto e basta.
Un
saluto particolare non solo alle mie amiche di sempre, ma anche ad eclipsenow
ed Eutherpe: un bacione affettuosissimo ad entrambe, siete fantastiche e troppo
buone con me! A presto! Bad_Mikey!
Forse questo è il chappy più triste finora, e sono abbastanza convinta
che piangerete più di quanto non abbiate fatto con i precedenti capitoli
Forse
questo è il chappy più triste finora, e sono abbastanza convinta che piangerete
più di quanto non abbiate fatto con i precedenti capitoli.Spero però che non mi abbandonerete. Buona
lettura!
4. GONE TOO SOON
Like
a comet
Blazing 'cross the evening sky
Gone too soon
Like a rainbow
Fading in the twinkling of an eye
Gone too soon
Shiny and sparkly
And splendidly bright
Here one day
Gone one night
Like the loss of sunlight
On a cloudy afternoon
Gone too soon
Like a castle
Built upon a sandy beach
Gone too soon
Like a perfect flower
That is just beyond your reach
Gone too soon
Born to amuse, to inspire, to delight
Here one day
Gone one night
Like a sunset
Dying with the rising of the moon
Gone too soon
Gone too soon
Il centro commerciale non era molto affollato
quel giovedì mattina. Io e le ragazze ci eravamo messe d’accordo per farci un
giro e festeggiare la fine della scuola. Era una giornata tersa, serena, tipica
di fine giugno, e il centro commerciale la rispecchiava perfettamente: era
tutto così splendente e allegro e meraviglioso… il nostro gruppo sembrava un
insieme di creature nate direttamente dal sole dalla felicità e l’allegria che
sprizzavano dai nostri pori. Ero spensierata e felice, quel giorno più che mai.
Strano, per me che ero sempre la più timida, riservata e malinconica del
gruppo. Stavo bene e non sapevo nemmeno io perché. Ma in quel momento non
m’interessava il motivo di cotanta positività. Avrei respirato il favoloso
profumo della contentezza per il resto della giornata.
-Ambra?-.
Mi voltai sentendo il mio nome. La ragazza
dai capelli e gli occhi scuri che mi aveva chiamata guardava una vetrina.
-Dimmi, Joanne-, le risposi.
-Vieni a vedere-, mi disse solamente
indicando una vetrina.
Mi avvicinai a lei e guardai ciò che
indicava.
-Mio Dio…-, mormorai.
Davanti a me si ergeva in tutta la sua
bellezza un poster a grandezza naturale che raffigurava un uomo dai lunghi
capelli neri e ricci che mi sorrideva. Per un attimo mi si fermò il cuore. Non
capivo cosa mi succedeva, né tanto meno quello che accadeva attorno a me. Ero
completamente assorbita dai suoi occhi neri, profondi e dolcissimi.
-Mio Dio-, ripetei, questa volta più forte.
–Ma è vero?-, chiesi, scioccata.
-Certo che no, Bra! Secondo te Michael Jackson si fa trovare così
facilmente? In una vetrina di un negozio? E poi adesso ha i capelli lisci, non
ricci!-, osservò intelligentemente Dora, un’altra mia amica dai corti capelli
platinati.
-Ah-, dissi, delusa.
Ovvio che
non è lui, Ambra… mica ti aspettavi che venisse da te a braccia aperte?, mi domandai.
Cavolo, stavo di nuovo precipitando nel mio
stato di perenne malinconia. No, dovevo essere allegra, allegra!
Entrai di corsa nel negozio.
-Ambra, che fai?-, chiese Kate.
-Un po’ di spesa-, risposi, e mi diressi al
bancone.
-Salve-, mi salutò il commesso, un uomo sulla
quarantina. –Posso fare qualcosa per lei?-.
-Sì. Quanto costa quel poster gigante di
Michael Jackson in vetrina?-, chiesi.
-15 euro-, rispose.
Sorrisi maliziosa.
-Lo compro-.
-Ambra, sei cosciente del fatto che questo
poster non ti farà dormire la notte, vero?-.
Annuii.
-Certo, Joanne, ma saranno notti trascorse in
paradiso con lui che mi sorride-, risposi sognante.
Joanne scosse la testa.
-Spero di non arrivare ai tuoi livelli, un
giorno…-, mormorò.
Io risi.
-Allora quando ci vediamo?-, chiesi.
-Questo sabato James ci ha invitati ad una
festa a casa sua. Vieni?-, mi domandò Kate.
-Uhm… credo di sì… devo chiedere, ma non
credo che ci siano problemi! Allora a sabato!-.
-Okay, a sabato! Ciao!-.
Ci salutammo e mi diressi a piedi a casa.
Durante il tragitto non facevo altro che
pensare a come sarebbe stato bello guardare quel poster accanto il mio letto al
mio risveglio, con che gioia avrei iniziato la giornata… sorrisi felice e presi
l’mp3. Mi infilai gli auricolari e dopo alcuni secondi le note di “Thriller”
riempirono le mie orecchie.
Che giornata
meravigliosa…, pensai, felice mentre mi rinchiudevo la porta di
casa alle spalle.
-Mamma, sono tornata!-, urlai.
Nessuno rispose, stranamente, alla mia
chiamata.
-Mamma? Papà? Ci siete? Maria?-, chiamai.
-Ambra?-, era la voce di mia madre.
-Sì, sono qua-, risposi.
Entrai in cucina, dove c’era tutta la
famiglia davanti il televisore.
-Guardate cosa ho comprato!-, esclamai,
prendendo il mega poster e mostrandolo a tutti.
Mi guardarono strabiliati e mamma scoppiò a
piangere.
-Che succede?-, chiesi preoccupata, e mia
madre mi abbracciò forte.
-Non hai saputo?-, mi domandò.
-Saputo cosa?-.
Mi guardò con quei suoi splendidi occhi blu
uguali ai miei e indicò la televisione.
Non avevo fatto caso al fatto che fosse
accesa. Trasmettevano l’edizione straordinaria del telegiornale. Alla mezza?
Strano. Cosa ancora più ambigua era il fatto che parlavano di Michael. Ma che
diavolo…
-Michael Jackson è morto circa mezz’ora fa
per arresto cardiaco. Inutili i soccorsi dell’ambulanza: quando è arrivato
all’ospedale il suo cuore non batteva più. Grande il dolore dei fans che
aspettavano il suo ritorno a luglio col suo ultimo tour “This is it”. I
testimoni della sua morte…-.
Il poster mi cadde da mano.
No…
Non sentii il resto del telegiornale.
Non è
possibile…
È indescrivibile ciò che provai in quel
momento.
Non può
essere vero…
Un misto di emozioni negative cancellarono
perfino la felicità provata fino ad allora.
-NON È VERO! NON PUÒ ESSERSENE ANDATO, NON È
POSSIBILE! NON È VERO!-.
Scoppiai a piangere e mi accasciai sul
divano.
-Non è vero…-, mormorai, coprendomi il volto
con le mani.
Pensai al suo sorriso. Pensai alla sua voce.
Pensai ai suoi passi. Pensai alla malvagità di chi lo aveva attaccato per tutti
quegli anni.
E sentii qualcuno che mi abbracciava.
Alzai la testa, convinta che fosse stato lui
che mi stringeva forte e che mi avrebbe sorriso dicendomi: “Sto bene, non
preoccuparti”.
Ma dovetti ricredermi. Era mia madre che
aveva preso posto accanto a me, non Michael.
Ovvio che
non è lui, è morto, disse una vocina nella mia testa.
Non ce la feci più. Mi alzai e corsi di
sopra.
Volevo stare da sola, in quel momento più che
mai.
Entrai nella mia stanza e sbattei la porta.
Poster, cuscini, dvd, cd, foto, perfino un
fotomontaggio di me e lui abbracciati.
C’era dappertutto.
Mi aveva fatto sempre compagnia e consolata
nei momenti più bui.
E io gli avevo voltato le spalle.
Stavo bene e lui si sentiva male.
Ero allegra e lui soffriva.
Ero felice e lui moriva.
Mi gettai sul letto e continuai a piangere.
Non poteva essersene andato, e invece era
proprio così.
Di solito sentivo la sua presenza, invece
ora… l’unica cosa che provavo era dolore, tristezza e un’angoscia che venivano
direttamente dal cuore.
Presi l’mp3 dalla tasca del pantalone e misi
“Gone too soon”.
Sentivo il bisogno di piangere.
Era l’unico modo che avevo per far passare il
dolore.
Far passare?
No, non avrei mai smesso di soffrire, né
avrei mai dimenticato tutto quello che era successo, tutte quelle immagini
terribili che avevo visto poco prima in televisione.
L’ambulanza…
I fans in lacrime…
Quel corpo ricoperto da un telo bianco che
veniva portato nell’elicottero…
-Te ne sei andato troppo presto… proprio come
l’arcobaleno dopo un giorno di pioggia…-.
Buio. Buio pesto. Totale. Non vedevo assolutamente
nulla.
Credo che mi guardai intorno, ma non ne sono
tanto sicura, perché era tutto così uguale emaledettamente tenebroso.
Mi sentivo oppressa, i polmoni reclamavano
aria… pensai, per un millesimo di secondo, che io stessi per morire.
Tristezza, sopraffazione, tenebre… se quella
non era la morte…
Poi, un luccichio lontano.
Era piccolo, ma mi ridiede la speranza.
Corsi verso quello spiffero di paradiso e il
buio non fu più tale. Al mio fianco si aprivano strade, case ed edifici. Era
scuro, sì, però c’era quella luce. Correvo a perdifiato verso di essa, non
potevo perderla. La città sfrecciava accanto a me.
Mi stavo avvicinando, ed esultai. Vidi una
sagoma in quel fascio di speranza. Una persona.
Corsi più veloce, e le gambe iniziarono a
dolermi.
Ancora un
po’, ci siamo quasi.
Lo vedevo. Vedevo chi era. Quel volto l’avevo
ammirato ogni giorno della mia vita, ogni secondo della mia esistenza… non
potevo crederci… eppure qualcosa non andava: perché era girato di spalle? Perché
si stava allontanando? Perché fuggiva da me?
Provai a chiamarlo, ad urlare il suo nome, ma
dalla mia bocca non usciva alcun suono.
No! No!
Torna qui!
Correvo, ma non sentivo più le gambe. E lui
si allontanava… lontano, lontano, sempre di più…
Non potevo fermarmi, perché se l’avessi fatto
lui sarebbe scappato… ed io non potevo vivere senza di lui…
Improvvisamente, non sentii più la terra
sotto i piedi. Precipitai nel vuoto, ma in alto potevo ancora vedere la sua
luce. Non potevo gridare, non potevo chiamarlo… non esistevano suoni. Nulla.
Ma allora cos’era quel bisbiglio nelle mie
orecchie che ogni secondo si faceva più insistente?
“Lasciami andare”, diceva.
Addio.
Mi svegliai urlando e con le lacrime agli
occhi.
Guardai la sveglia digitale sul comodino.
Erano le cinque di pomeriggio.
Mi portai le mani nei capelli e le lacrime
continuarono a scorrere.
Era solo un sogno, ma mi aveva scossa
profondamente.
Perché in fondo quell’incubo nascondeva una
verità che, per quanto dolorosa, era realmente accaduta.
Se n’era andato. Si era allontanato da me.
-Ambra!-, urlò mia madre entrando nella
stanza.
Mi vide piangere e si sedette sul letto. Mi
abbandonai sul suo ventre.
-E Prince? Paris? Blanket? Come faranno senza
un padre, eh? Come faremo noi fans senza di lui? Come farò io?-, singhiozzai mentre continuavo a piangere.
-Non serve a nulla essere tristi… prova a
pensare che adesso lui sta bene…-.
-Bene? Bene!?
Mamma, lui è morto! Morto! E io… io…-.
-Tu non potevi saperne nulla, bambina mia…-.
-Io credevo che quando succede qualcosa di
brutto ad una persona che ami tu senti qualcosa… tipo dolore fisico o
psicologico… invece io non ho provato niente. Niente. Anzi, vuoi sapere una cosa? Ero felice. Sì, felice, e
invece lui stava malissimo… lui è morto, e io non ho mai fatto nulla per fargli
capire che non era mai solo, non potevo aiutarlo, non potevo dirgli di stare
più attento alle persone che lo circondavano…-.
Mi sdraiai sul letto, afflitta.
-Lasciami stare-, dissi, una frase così
simile a quella con cui lui mi aveva pregato nel sogno… lasciami andare…
Mia madre mi carezzò i capelli.
-Sorridi perfino quando il tuo cuore si
spezza-, mormorò accanto al mio orecchio, per poi poggiare qualcosa sul letto e
andarsene.
Rimasi qualche secondo immobile; decisi
infine di alzarmi e vedere cosa mia madre aveva posato sul letto. Era il poster
che avevo fatto cadere a terra quel pomeriggio e che avevo dimenticato di
riprendere.
Adesso dimenticavo perfino il suo poster?
Non contava più nulla per me lui?
Era questo quello che era accaduto?
Avevo smesso di amarlo?
No, non era possibile!
Non avrei mai potuto fare una cosa del
genere!
Mi passai nuovamente le mani nei capelli.
Posai il poster nel cassetto. Non ce la
facevo a guardare il suo sorriso. Era troppo doloroso.
Mi sedetti sul letto e sospirai.
-E adesso?, mi chiesi. –Cosa faccio?-.
Ascoltare le sue canzoni mi avrebbe solamente provocato maggior dolore.
Vivere senza di lui però era assolutamente impensabile.
L’intero mondo era vuoto e inutile senza la sua voce e il suo sguardo da
bambino.
Ma allora?
Che senso aveva una vita piena di dolore? Che senso aveva continuare a
respirare se la persona che ami non l’avrebbe più fatto?
Mi alzai e presi un biglietto e una penna.
Se questa è l’unica soluzione…
Cara mamma,
so che sarà
troppo tardi quando leggerai questo biglietto.
Sappi che ti
ho voluto bene e te ne vorrò per sempre, a te, papà e Maria.
Siete stato
un punto fermo nella mia vita, ma non mi basta. Non basta perché il dolore si
plachi. Addio.
P.S. Non giudicatemi: non riesco a vivere senza di
lui.
Non posso
vivere senza il suo sorriso.
E adesso lo
rivedrò finalmente risplendere solo per me.
Piegai il biglietto e mi diressi alla porta.
Guardai un’ultima volta la mia stanza con i suoi occhi dappertutto, ma
non piansi.
Tanto lo avrei rivisto tra poco.
Scesi giù.
Feci il giro della casa , ma non c’era nessuno.
Poggiai il foglio sul tavolo in cucina e aprii la porta d’ingresso.
Addio, pensai, e uscii fuori da quella casa, fuori
dal mondo.
La città sfrecciava al mio fianco.
Correvo, correvo perché ero impaziente, correvo per non sentire la
sofferenza, correvo per non farmi raggiungere da nessuno che mi conoscesse e
che avrebbe potuto fermarmi.
Correvo e correvo.
Le gambe mi dolevano, ma non m’interessava.
Ora avevo qualcosa di più importante a cui pensare.
-Michael, aspettami-, mormorai.
La vedevo correre per la città con le lacrime agli
occhi. Quanto dolore c’era nel suo cuore… una sofferenza enorme ed unica. Aveva
tante altre cose da imparare, tante altre esperienze da vivere in quel mondo, tanto tempo da trascorrere
felice e spensierata…
-La prego, lasci che io l’aiuti-, lo pregai.
In un attimo fu accanto a me.
-Ci tieni così tanto a lei?-, mi chiese.
Non so descrivere la sua voce, è come se tentassi di
mettere insieme il rumore della pioggia, del vento, del fuoco, dei fiori, delle
rocce, delle foglie e delle altre meraviglie del mondo con il verso di una
fenice o di un unicorno… assolutamente indescrivibile.
-Gli altri non sono riusciti a salvarli
semplicemente perché io non ero ancora qui. Ma quella ragazza… posso fare
qualcosa per salvarla. Almeno ora. La prego-.
Sospirò, ma a me quel rumore parve più quello che
faceva il vento passando fra le foglie.
-Va’-, mi disse, e io volai sulla Terra.
Altri dodici erano appena morti per causa mia… no,
non potevo permettere che se ne andasse anche lei.
Il cuore batteva forte.
Il vento mi scuoteva i capelli.
Era tutto così piccolo dall’alto.
Un altro po’ riuscivo a toccare le nuvole con un dito.
I fidanzati avrebbero trovato il tutto piuttosto romantico, ma quello non
era il momento adatto per pensare alle sdolcinerie.
Era tutto così calmo… così silenzioso…
Riuscivo a sentire il rumore del vento…
Sembrava che mi stesse chiamando…
Poi la vidi. Si trovava
su un grattacielo e aveva gli occhi chiusi.
-Ambra! Ambra!-,
urlavo, ma non mi sentiva. Ancora non l’avevo raggiunta.
-Ambra, non farlo!-.
Ambra… Ambra…
Sì, il vento sussurrava proprio il mio nome…
Mi stava dicendo che mi avrebbe cullata… che non avrei dovuto avere
paura…
Chiusi gli occhi e feci un piccolo passo avanti, verso il cornicione.
-Ambra! No! Non farlo! Aspettami!-.
Aspettami… cosa avrei dovuto aspettare?
Che la polizia mi impedisse di ritrovare il mio Michael?
Che mia madre leggesse il biglietto prima che io avessi potuto coronare
il mio sogno?
No… ormai avevo deciso. Nulla e nessuno mi avrebbe impedito di tornare
indietro.
Lasciai scorrere l’ultima lacrima sulla mia guancia.
-Questo è per te, Michael…-.
Presi un bel respiro, aprii le braccia e mi tuffai nel vuoto.
La vidi abbandonarsi
fra le braccia del vento con un’espressione serena sul volto.
Rimasi pietrificato.
Non poteva averlo
fatto realmente…
No…
-Ambra!-, urlai più
forte. –AMBRA!-.
Era stupendo.
Il vento che sembrava cullarti, la sensazione di libertà…
Poi, qualcosa andò storto.
Aprii gli occhi e vidi il cielo che si allontanava sempre di più.
Ma allora… non serviva a nulla… non l’avrei mai raggiunto…
Alzai il braccio verso le nuvole… solo allora mi accorsi che non le avrei
mai toccate…
Rividi i volti di tutti i miei familiari e, per ultimo, quello di
Michael.
Sentii una voce.
Solo quella.
Mi chiamava.
Gridava il mio nome come un ossesso.
Poi il buio.
Vidi il terrore e il dolore nei suoi occhi… aveva
capito che non mi avrebbe mai incontrato…
Alzò il braccio verso il cielo… verso di me.
-Ambra! Ambra!-.
Mi avvicinai velocemente a lei.
La raggiunsi, finalmente.
E le nostre mani si incrociarono.
Luce.
Luce bianca.
Allora era il Paradiso…
Aprii gli occhi… o li avevo già aperti?
Mi guardai attorno.
-Ma che…-.
Mi trovavo di nuovo sul grattacielo.
Mi ero immaginata tutto?
Non mi stavo suicidando?
Mi sedetti.
Poi sentii un tocco sulla mia spalla.
Mi voltai, impaurita.
E mi bloccai.
Era lui.
Ed era bello, bello come il sole, bello come l’avevo sempre immaginato.
La sua pelle era candida e i suoi capelli nero carbone avevano la stessa
consistenza delle nuvole. Gli occhi avevano dentro tutta la bellezza
dell’arcobaleno.
Inoltre, cosa che non stonava affatto con il suo volto, aveva le ali. Ali
bianche, da angelo.
-Stai bene, Ambra?-, mi chiese con una voce che assomigliava ai cori del
Paradiso e che mi riempì il cuore di gioia.
-Sì… ma sono morta?-, chiesi, titubante.
Lui sorrise, e il mio cuore si fermò.
-No… a meno che io non sorrida di nuovo-.
Abbassai lo sguardo. Mi sentivo così… strana.
-Sei un fantasma?-, chiesi.
-No-.
Sospirai.
-Menomale… perché ho un po’ paura dei fantasmi… quando ho visto il video
di “Ghost” se non ci fossi stato tu sarei scappata via terrorizzata…-,
balbettai senza sapere il perché di quella rivelazione.
-Sì, lo so-.
Lo guardai scettica.
-Davvero?-.
Mi sorrise.
-Lascia perdere. Non è di questo di cui volevo parlare-.
La sua espressione divenne improvvisamente seria e severa. Non potevo
guardarlo, e abbassai lo sguardo.
-Perché stavi per buttarti?-.
-Volevo solo incontrarti…-.
-E io no-, rispose secco lui.
Quelle parole mi pugnalarono, e iniziai a piangere.
Come poteva dire una cosa del genere?
-Non in quel modo-.
Mi bloccai e lo guardai.
Sorrideva.
-Ti sei mai chiesta perché tu ti sia sentita felice durante tutta la
mattinata?-, mi chiese.
Io scossi la testa.
-Perché io ero felice. Non è
vero che tu non hai sentito nulla. Quando hai visto il mio poster, io stavo
esalando il mio ultimo respiro e tu ti sei sentita malinconica: io in quel
momento pensavo a voi, e ai miei figli. Ho provato un po’ di dolore, ma poi sono
diventato felice. E tu lo sei stata con me. Poi hai saputo la notizia e sei
rimasta sconvolta. Io in quel momento stavo trapassando e sentivo tutte le
emozioni di coloro che mi avevano amato, quindi ero in balia di milioni di
sensazioni messe insieme. Poi tu ti sei fatta trascinare dall’oblio e dal
dolore, e non ti ho sentita più. Così ti ho “spiata” dall’alto, visto che ormai
mi trovavo nell’aldilà e avevo capito le tue intenzioni. Sono sceso sulla Terra
apposta per salvarti e... menomale che ci sono riuscito!-, concluse trionfante.
Io lo guardavo allibita.
-Allora io non ti ho mai abbandonato…-, mormorai.
-Mai. Nessuno di voi l’ha mai fatto. E io non vi ho mai persi di vista.
Beh, a parte…-.
Abbassò il capo e tirò un sospiro.
-A parte?-, lo incitai.
Lui alzò lo sguardo incrociandolo con il mio.
-Dodici ragazzi hanno preso la tua stessa decisione oggi, ma non sono
riusciti a salvarli-.
Una lacrima brillò sul suo volto lucente.
Io l’asciugai prontamente.
-Non piangere-, gli dissi.
Lui sorrise.
-Questo dovrei dirlo io a te…-.
-Ma tu sei solo un bambino e devi essere consolato. Io sono più grande e
devo assumermi questa responsabilità-.
Mi accarezzò una mano. Era la prima volta che mi toccava, e mi sentii la
ragazza più felice della Terra.
-Ma tu sei solo una mortale e devi essere vegliata. Io sono un angelo e
devo assumermi questa responsabilità-, rispose lui, dolce.
-Se sei tu a proteggermi allora mi fido-.
-Devi farlo, perché non ti lascerò mai-.
Strinse la mia mano, ma non mi sentivo a disagio pensando che stavo
parlando con una persona morta. Strano, ma il suo tocco era caldo, e non freddo
come tutti immaginavano.
-Come farai a capire che ho bisogno di te?-.
-Lo so e basta-, rispose semplicemente.
-Spiegati meglio-.
Iniziò ad accarezzarmi la mano con il pollice.
-È difficile da descrivere… ogni tanto “vedo” quello che fanno tutti
coloro che mi amano… è come se avessi delle visioni.
Per esempio, so che in Germania due ragazzi – Gustav e Viktor – si stanno
abbracciando e piangono perché alla radio hanno appena ascoltato “Childhood”.
So che in Francia una bambina di nome Charlotte sta intonando le note di “Heal
the world”, e che in Cina una ragazza chiamata Ko-Ni ha appena dato un soldo ad
un bambino povero dedicando questo suo gesto a me. So che fra due mesi circa in
Italia due mie grandi fans – Orsola ed Elena – mi dedicheranno delle storie, e
diverranno grandi amiche insieme ad una ragazza che ha il tuo stesso nome-.
Lo fissai allibita.
-Wow-, dissi solamente.
Lui annuì.
-Quindi mi basterà pensarti...-, mormorai.
-Beh, allora dovresti proprio aggiungere un letto nella tua stanza,
perché tu mi pensi ogni secondo di ogni minuto di ogni ora di ogni giorno!-.
Scoppiai a ridere, e lui si unì a me.
Che bella sensazione la sua voce nelle mie orecchie!
-Basterà che tu mi nomini, o che mi dedicherai una buona azione, o che
tenterai di ballare come me, e io sarò lì a ringraziarti, perché senza di voi
ora non sarei proprio nulla-.
Gli sorrisi.
-Senti anche i tuoi figli?-.
-Ovvio. Loro sono la mia vita. Però è diverso, perché riesco a sentire e
vedere tutto quello che fanno, dalla
mattina alla sera, 24 ore su 24. Non li perdo mai di vista, insomma. Invece coi
fans solo a volte. Però è stupendo vedere quante persone mi vogliano bene anche
se non i hanno mai conosciuto di persona-.
-Noi sappiamo quello che traspare dalle tue canzoni. È come se ti
conoscessimo da una vita, alla fin fine-.
Lui annuì.
-Spero che i piccoli non soffrano a lungo…-, mormorai.
-È dura perdere un padre, ma ce la faranno. Supereranno questo momento.
Io sarò con loro sempre, ogni giorno. Neanche la morte può separare persone che
si vogliono bene-.
Annuii.
Quanto era dolce quando pensava ai figli… erano davvero la sua vita…
Mi balenò un’idea in mente, ma chissà se lui sarebbe stato d’accordo.
Beh, tanto valeva chiederglielo, no?
-C’è una cosa che ho sempre voluto fare…-, iniziai, arrossendo.
-E cioè?-.
Mi avvicinai a lui finché non rimasero cinque centimetri di distanza fra
il mio volto e il suo.
I suoi occhi non tradivano alcuna emozione, erano innocenti e puri come
sempre.
Sorrisi.
-Once all alone I was
lost in a world of strangers, no one to trust on my own, I was lonely…-,
iniziai ad intonare la prima strofa di “You are my life”, ma Michael mi
guardava come se non capisse quello che stessi dicendo.
Sospirai e mi voltai.
-You suddently appeared,
it was cloudy before, now it’s so clear. You took away the fear, you brought me
back to the life…-.
La sua voce mi arrivò inaspettata e meravigliosa nelle orecchie. Era
ancora meglio che sentire quella canzone dalle cuffie. Quel suono magnifico
sembrava impregnare l’aria e riempirti il cuore.
Mi avvicinai a lui.
-Insieme?-, chiese.
Lo guardavo dritto negli occhi. Nessuna visione era più bella.
-Insieme-, risposi.
-You are the sun, you
make me shine, or more like the stars who twinkle at night. You are the moon
that glows in my heart. You’re my daytime, my night time, my world…-.
Sorridemmo entrambi.
-…you are my life…-.
Conclusi quel duetto felice come non lo ero mai stata prima.
Ma c’era un’altra cosa che volevo fare. Un’ultima cosa prima che se ne
andasse.
Michael vide quello che avevo intenzione di attuare e sorrise.
-Ovvio che puoi, piccola-, disse, precedendo la mia domanda.
Io sorrisi e lo abbracciai.
Poi alzai il volto e gli lasciai un piccolo bacio sulle labbra.
-Questo non era previsto, però…-, disse lui.
Arrossii.
-E… ehm… è stata un’improvvisata…-, mentii. Da tutta la vita aspettavo
quel momento.
Temevo però che si fosse offeso, ma – riusciva sempre a stupirmi –
Michael iniziò a ridere.
-Improvvisata… sicuro…-.
Anche io risi. Come poteva offendersi?
Quando finimmo, sospirò.
-Ora devo proprio andare. Devo consolare… ehm… almeno qualche milione di
persone-, terminò sorridente e modesto come sempre.
Io gli sorrisi.
-Certo. Ti capisco. Ma tanto sarai sempre vicino a me, vero?-, domandai,
anche se sapevo benissimo la risposta.
-Contaci, piccola. Sempre accanto a te. Ah!-, esclamò improvvisamente. Si
avvicinò a me e mi prese le spalle. I nostri volti si avvicinarono di nuovo.
-Ricorda: “Ora mi sveglio ogni giorno con il sorriso sul mio volto.
Niente lacrime, niente dolore, perché tu mi ami”. Ogni volta che sarai triste,
Ambra, tieni sempre in mente queste mie parole, chiaro?-.
Annuii.
-Lo farò per te. Promesso-, dissi.
Si librò in cielo e – dovevo aspettarmelo – attorno a sé si creò una
splendente luce bianca.
-Sorridi perfino quando il tuo cuore si spezza-, mormorò salutandomi con
una mano.
Ricambiai il saluto e lo vidi sparire fra la luce.
-Prega per noi da lassù, Michael-, mormorai. –E continua a proteggerci
come hai fatto finora-.
Mi parve di sentire la sua risata da bambino diffondersi nel cielo, e per
un attimo una nuvola prese la forma del suo volto.
Sorrisi e tirai un profondo sospiro.
Sì, tutta la mia vita stava per cambiare. Ora più che mai.
Note dell’autrice:
Ed eccomi con questo nuovo chappy. Spero che non vi
abbia fatto piangere molto. Ci ho messo anima e cuore per scriverlo, e più
volte appariva quel maledetto nodo in gola… però continuavo, pensando che
eravate impazienti di leggere il nuovo capitolo e che io ero in enorme ritardo.
Vogliate perdonarmi per l’orario sconveniente, ma non ho potuto terminare
prima.
Ed ora, passiamo ai ringraziamenti!
X eclipsenow: Tesoro!!!
Grazie mille! È vero, Michael è dolcissimo, infatti ho voluto “ricalcare”
questa parte del suo carattere quando consola Michele… anche io sarei tanto
voluta andare ad un suo concerto, ma purtroppo… beh, fa niente, vuol dire che
mi accontenterò dei DVD!
Perdonami, ma c’è stato un blocco dello scrittore
lungo 3 giorni, in cui non facevo altro che maledirmi perché non mi veniva
neanche un’idea in mente… Un beso! Ti voglio bene!
X Heartagram: Grazie per i tuoi complimenti, non sai quanto mi renda felice vedere che
la mia storia piaccia a tutte queste persone! Hai perfettamente ragione,
Michael è stato un grande non solo professionalmente, ma anche e soprattutto
umanamente… Spero che anche questo nuovo chappy sia stato di tuo gradimento… Un
bacio!
X Eutherpe:Gioia! Hai visto? Ho chiamato la protagonista proprio come te! Vabbè che
già lo sapevi, però… spero che non ti sia offesa vedendo che ti ho fatto fare
la fine di una che voleva suicidarsi… Grazie mille, i tuoi complimenti mi
lasciano sempre senza fiato, mi fanno sentire bene ogni volta! Però devo
ammettere che lo scorso chappy non è stata tutta farina del mio sacco…
innanzitutto, l’idea del gelato è stata di Alchimista, che mi ha dato anche dei
consigli sui genitori di Michele: in pratica, se dovevo farli divorziare o
meno. Secondo: Michael è DAVVERO venuto in Italia ai tempi di “Bad” e DAVVERO
l’avevano travestito per non farlo riconoscere… che poi si fosse messo la
parrucca bionda, un cappello e gli occhiali da sole e avesse consolato un bambino…
ah, questo non lo so! Immagini se fosse accaduto realmente? O.O
Anche io adoro il
tiramisù, è il mio gusto preferito, e “Bad” è stata la canzone che mi ha fatta
innamorare di Michael (con annesso video… pensa che mi sono ritrovata a fare
certi pensieri su Michael Jackson senza che l’avessi mai considerato prima…
XD!).
Ancora grazie mille per
tutti i tuoi complimenti, tesoro! Un bacione! Ti voglio bene!
X Alchimista:Amore! Prima come sempre… XD! Scusami se non ti ho avvisata prima, ma non
ho avuto proprio tempo… per quanto riguarda il PS… ma no, dai, perché dici che
è una cretinata?! Oddio, non so se qualcuno ci ha pensato, però… *rimane
inorridita vedendo una sua fan brandire pericolosamente il bastone da mille
dollari di Stephen Darling e rincorrendo Alchimista*. Okay, è finita la pazzia.
Comunque spero che anche questo chappy sia stato di tuo gradimento, e perdonami
se l’ho postato tardi! Ancora grazie mille per il tuo contributo nella stesura
di questa storia: senza di te e delle K.A.T.O. non so proprio come farei. Un
bacione! Ti amo di bene!
Ed ora, prima di
salutarci definitivamente, devo lasciarvi un avviso. Sì, lo so che li odiate,
ma proprio non posso farne a meno.
Siccome la settimana
prossima ricomincerà la scuola, non so se riuscirò a postare velocemente la
storia. Per cui, se notate un ritardo un po’ più lungo, anche di una o due
settimane, non temete: non ho abbandonato la ff né sono morta: semplicemente
non ho avuto il tempo di postare.
Spero che non abbandoniate
la storia, comunque.
Ancora un’ultima cosa:
stasera, oltre al solito pensiero per Michael, una preghiera in più anche per
il grande Mike Bongiorno, che ieri ci ha lasciati. Addio, Mike.
Bene, ora vi lascio! Un
bacione a tutti voi! Alla prossima!
I
don’t need to dream when I’m by your side
Every moment takes me to paradise
Darlin’, let me hold you
Warm you in my arms and melt your fears away
Show you all the magic that a perfect love can make
I need you night and day
So baby, be mine (Baby you gotta be mine)
And girl I’ll give you all I got to give
So baby, be my girl (All the time)
And we can share this ecstasy
As long as we believe in love
Guardavo quei pezzi di carta
bianca come se fossero doni caduti dal cielo.
Beh, più o meno stavamo lì.
Il fatto era che non riuscivo
ancora a credere che fosse vero.
-M…ma… sono pe-per me?-.
-Ovvio, Diane. Sono due. E puoi
portarci chi vuoi-.
Per la prima volta da quando li
avevo in mano guardai i miei genitori. I loro occhi erano puri, ma anche
divertiti: di sicuro trovavano buffa la mia reazione.
-Non è una balla? State facendo
sul serio?-, chiesi, titubante.
-Certo. Altrimenti non te li
avremmo mai fatti vedere-, rispose mio padre calmo.
-No, aspettate un attimo-, dissi
decisa a capire meglio quella situazione assurda.
Mi portai le mani nei capelli e
tornai a guardare ciò che avevo in mano.
-Volete dire che voi mi avete regalato di vostra spontanea volontà due biglietti per il
Dangerous Tour di Michael Jackson a Bucharest?-, domandai tutto d’un fiato,
assumendo un’espressione shockata – che, d’altronde, avevo già dall’inizio di
quella conversazione con i miei…
Loro si scambiarono degli
sguardi.
-Oddio, di nostra spontanea
volontà no, però… sì, alla fine hai avuto quello che desideravi-, rispose mia
madre.
Io li guardavo come se fossi
appena arrivata sulla Terra.
-Non ci posso credere… allora è
tutto vero…-, mormorai.
Loro annuirono.
Sorrisi raggiante e li
abbracciai.
-Grazie, mille volte grazie! Non
so proprio che dire!-.
-Una cosa c’è: non ringraziare
noi, ma tua zia Karol. È stata lei a convincerci-, disse mio padre.
Annuii.
-Ah, ecco, mi sembrava strano…-,
mormorai.
Fortunatamente, i miei genitori
non hanno mai fatto storie sul fatto che mi piacesse Michael… però non sopportavano
le fissazioni, tra cui: ascoltare
sempre le sue canzoni, comprare CD e gadget come spille o maglie, tappezzare i
muri di suoi poster e foto e camminare per la strada cantando a squarciagola
“Thriller”. Beh… per me quelle non erano fissazioni… erano la normalità.
Per cui, dovevo stare molto
attenta a come mi comportavo: se mi facevo beccare inginocchiata mentre tentavo
di ballare come lui, o a baciare lo schermo della televisione perché
trasmettevano un suo video… altro che addio Michael: addio, mondo crudele!
-Stai pensando a chi devi portare
con te?-.
La voce di mia madre mi riscosse
dai miei pensieri e mi riportò alla realtà.
-E…ehm… veramente… non…-,
farfugliai, spiazzata sia dalla domanda improvvisa sia dal fatto che non ci
avevo mai pensato prima.
Riflettei sul fatto che i miei
amici rispettavano i miei gusti ma non amavano Michael… e l’unica che lo amava
non sarebbe potuta venire con me… no, non mi avrebbero accompagnata.
Riflettei sul fatto che i miei
genitori sarebbero potuti venire con me… ma se fossi stata scelta per salire
sul palco e abbracciare Michael… possibilità alquanto remota, ma se fosse
successo… non me l’avrebbero permesso… mi avrebbero costretta a rimanere
accanto a loro per tutta la serata.. senza muovermi… no, non mi avrebbero
accompagnata.
Riflettei sul fatto che i miei
cugini amavano altri tipi di canzoni… che non sopportavano Michael e che mi
prendevano in giro tutte le volte che mi facevo scappare una parola di troppo
su di lui… no, non mi avrebbero accompagnata.
Riflettei sul fatto che…
-Ma come cavolo ho fatto a non
pensarci prima?-, esclamai. –Torno subito!-, e sfrecciai accanto al telefono.
-Io avrei un presentimento…-,
mormorò mia madre mentre componevo il numero.
Dopo pochi secondi iniziò a
squillare.
-Pronto?-, mi rispose una voce
femminile dall’altro capo del filo dopo tre squilli.
-Ciao zia Karol, sono Diane!-,
dissi, frizzante.
-Oh, ciao, Diane! Che cos…-.
-Grazie mille!-, urlai
interrompendola.
Lei rimase qualche secondo in
silenzio, per poi scoppiare a ridere.
-Ah, i tuoi ti hanno fatto vedere
il mio regalo?-.
-Sì, sì! Non so davvero come
ringraziarti!-, urlai (letteralmente).
-Oh, cara, ma non…-.
-Anzi, no!-, la interruppi ancora
una volta. –So come ricambiare il favore!-.
Mia zia stette in silenzio.
Sospirai.
-Vuoi venire al live di Bucharest
con me?-, chiesi.
In quel momento compresi appieno
la frase: “Fa’ prima sedere la gente e poi dai loro delle notizie shockanti”.
Ah, e poi capii anche cosa
significava perdere i timpani.
Se fino a poco tempo prima mia
zia è stata muta il tempo necessario che il suo cervello registrasse meglio le
mie parole, pochi secondi dopo dovetti staccare la cornetta dal mio orecchio,
perché zia Karol iniziò ad urlare. Perfino i miei genitori sentirono le sue
grida di gioia, e scuoterono la testa.
-Grazie, grazie mille! Non ci
posso credere! E io che credevo che avessi portato qualche tua amica con te!-.
Io risi.
-Consideralo un ringraziamento
per quello che tu hai fatto per me l’anno scorso… senza di te proprio non so
come avrei fatto… sei speciale e indispensabile nella mia vita proprio come
Michael-, le dissi, raggiante e grata. E fanculo i miei se mi sentivano
nominare Mike: ero troppo felice per badare alle loro parole!
-Oh, cara, grazie! Mi fai
commuovere!-, disse imbarazzata.
Sbuffai.
-Ma vaff…-, ma non finii la frase
che ricordai dell’esistenza dei miei genitori, i quali mi stavano guardando di
sbieco. -Ehm… volevo dire… ma no, non piangere!-.
-Ci sono i tuoi, vero?-.
-Eh, già-.
-D’accordo, allora vieni a casa
mia che parliamo meglio-.
Sorrisi raggiante.
-Vengo subito!-, e agganciai.
Corsi nel bagno, mi lavai, mi
pettinai e mi truccai. Poi indossai le scarpe, corsi nell’ingresso, presi le
chiavi sul mobile accanto la porta e prelevai dall’appendiabiti una giacca nera
con la fascia bianca sulla manica e un cappello completamente nero.
Mi guardai allo specchio.
Mancava solo una cosa.
Corsi di nuovo sopra e presi dal
cofanetto sulla scrivania della mia stanza una bustina. Presi otto cerottini e
li misi attorno le dita.
Ecco, ora sì che stavo bene.
Scesi di corsa le scale.
-Ciao, vado da zia Karol!-,
gridai ai miei.
-Quando torni?-, mi chiese mia
madre.
-Non so… forse rimango a mangiare
lì… ti faccio sapere comunque, chiamerò dal telefono di zia, non preoccuparti!
Ciao, a dopo!-, e uscii di fretta fuori.
La giornata era stupenda e
respirai a fondo.
Volevo gridare, volevo far sapere
a tutto il mondo che andavo al concerto del grande Michael, del mio Michael…
Improvvisamente, mi venne una
canzone in mente, i miei piedi e la mia bocca si mossero da soli e mi ritrovai
a saltellare e a cantare in mezzo alla strada “Black or White”.
Ero così felice, così allegra,
così contenta che non me ne fregava un corno se la gente mi guardava e mi
considerava una pazza: avrei finalmente incontrato il mio amore, l’unico della
mia vita.
Saltavo e cantavo, cantavo e
saltavo.
-If you’re thinking about my baby I don’t
matter if you’re black or white!-, urlai.
Mi girai di spalle e iniziai a
fare l’unico passo di danza di Michael che avevo imparato: il moonwalk.
Mi veniva davvero bene, e per
farlo ancora meglio pensavo ai movimenti di Michael, e tentavo di imitarlo
quanto più fedelmente possibile. Sapevo che non sarei mai riuscita ad eseguirlo
come lui… simile sì, ma uguale mai. Come si fa ad eguagliare la perfezione? Lui
è perfetto… unico… inimitabile… bono…
cavolo, quest’ultimo termine mi sembra alquanto riduttivo… in pratica ogni
volta che lo vedevo… che guardavo dritto nei suoi occhi…
Stump.
-Ahia!-.
-Ahi! Ma che…?-, esclamai.
Mi girai di scatto e vidi un
ragazzo che si teneva il piede con una mano. Capii di aver travolto un povero
innocente a passo di moonwalk.
-Oddio! Scusami!-, esclamai
portandomi le mani sulla bocca. Il ragazzo alzò gli occhi, e incontrai delle
splendide iridi di un tenero castano. Ne rimasi incantata per qualche secondo
prima di accorgermi che mi guardava furioso… infine, tutta la mia ammirazione
che provavo per quello sconosciuto solo guardandolo negli occhi svanì quando
aprì bocca.
-E sta’ un po’ attenta a dove
metti i piedi!-, esclamò acido.
Io non potei fare a meno di
sentirmi offesa, ma tentai di fare la gentile.
-Mi dispiace, davvero, non ti
avevo proprio visto!-.
-Me ne sono accorto...
cavolo...-, mormorò lui, abbassandosi per massaggiarsi il piede destro.
-Ti ho fatto male?-, chiesi, preoccupata,
avvicinandomi a lui.
Si scostò alzando il volto.
Abbassò la testa, ma poi la rialzò. Mi osservò attentamente... anzi, osservava
come mi ero vestita.
Inarcò un sopracciglio.
-Che oca...-, mormorò, per poi
passare oltre e andarsene.
Quella volta mi offesi davvero.
-Ehi! Questo è perché ti ho
chiesto scusa!-, gli esclamai dietro.
Lui non si girò. E io divenni
ancora più furiosa.
-Ma vaffanculo, stronzo!
Ucciditi!-, gli urlai, per poi girare i tacchi e incamminarmi verso la casa di
mia zia.
Chiamarmi oca... ma come si
permetteva?
Io che devo sorbire le calunnie,
le prepotenze e le prese in giro dei miei conoscenti... io che devo camminare
con questa consapevolezza che – nonostante Michael fosse un cantante affermato
e famoso in tutto il mondo – chiunque poteva offendermi e farmi sentir male...
no, quel bastardo non l’avrebbe vinta!
Mi girai di scatto.
E me lo trovai a pochi centimetri
dal mio viso.
Rimasi per un momento bloccata,
stupita dell’improvvisa vicinanza.
Mi guardava strano, come se
tentasse di analizzarmi solo con lo sguardo.
Provai vergogna, fastidio e
ribrezzo per quel ragazzo che non sapeva nulla di me e che mi guardava in quel
modo.
Mi accigliai e gli mormorai
sadica: -Io non sono oca. Sono solo una grande fan del meraviglioso Michael Jackson,
costretta ogni giorno a sopportare maldicenze e commenti velenosi. Ma io vado
avanti pensando che lui ha passato cose peggiori delle mie, che lui ha dovuto sopportare le botte del
padre e i soprusi della gente e dei giornalisti, lui soffre di vitiligine, lui
ha sofferto decisamente più di me e ha sempre sorriso, non si è mai lamentato, mai! Ma non mi va che mi si dia
dell’oca, cosa che non sono mai stata, chiaro? Smettila di parlare così, e
prova a conoscere le persone prima di giudicarle, bastardo-.
Lui non staccava gli occhi dai
miei. Era assolutamente irritante essere fissata in quel modo, ma non staccai
lo sguardo. Chi abbassa lo sguardo o cammina con la testa china è un vigliacco.
E io non lo ero. Se quella era una sfida, allora l’avrei vinta.
Rimanemmo qualche minuto solo a
fissarci; era fastidioso, iniziavo a stancarmi e gli occhi mi bruciavano, ma
non demorsi.
Improvvisamente, si mosse. Si
fece indietro e sospirò. Mi guardò ancora per due secondi e disse:
-Sei diversa-. Girò i tacchi e se
ne andò.
Io rimasi impalata pensando
ancora a quella frase misteriosa, e guardandolo allontanarsi. Ma che diavolo
significava quella frase? Cosa voleva dire? Ma soprattutto, chi diavolo era
quello?
Scossi la testa e, decisa a non
pensarci, mi voltai nuovamente e presi per l’ennesima volta la strada verso
casa di mia zia.
Il disco di “Thriller” girava per
la milionesima se non la miliardesima volta e riempiva come al solito la mia
stanza di note magiche.
Mi buttai di peso sul letto e mi
portai il braccio davanti il viso.
Cavolo. Ma che diavolo mi era
successo?
Non ero padrone delle mie azioni,
ho offeso una tizia che non conoscevo e per giunta l’ho pure fissata come un
demente dopo averla giudicata per il suo modo di vestire... uguale al mio,
anche se lei non se n’era accorta... no, non si era accorta che condividevamo
le stesse passioni, non si era accorta che i miei occhi esprimevano gratitudine
e consapevolezza di ciò che stava dicendo, perché io provavo i suoi stessi
sentimenti quando offendevano Michael Jackson, il mio mito. Non ne avevano il
diritto, e dovevano smetterla di farlo.
Credevo che lei fosse un’altra
delle solite, che si fermavano solo all’apparenza e non conoscevano la vera
storia di Michael... ma mi sbagliavo. Lei non era come le altre. Lei non era
una ragazza qualunque. L’avevo visto dalla sincerità, dall’affetto e dal dolore
che trasparivano da quegli splendidi occhi verdi quando parlava di Michael...
era come se provasse la stessa sofferenza che provava lui, e che con quei
sentimenti gli desse man forte per fargli capire che lui non era solo...
Non ho mai visto nessuno come
lei. Lei era diversa dalle altre, ne ero sicuro. E mi era bastato solo
guardarla negli occhi... impressionante, certo... ma forse non dovevo fidarmi
subito... forse non dovevo azzardare conclusioni affrettate...
Mi sedetti di scatto e guardai
quel pezzo di carta sul comodino, l’unica ragione per cui ero ancora in vita: i
biglietti per il Dangerous Tour Live a Bucharest. I miei genitori... unici.
Finalmente potevo dire che di Michael
non ascoltavo solo le canzoni a tal punto da fondere i 48 giri di tutti i suoi
album. Anch’io sarei stato testimone di uno dei più grandi spettacoli del mondo
di cui si sentirà parlare negli anni avvenire.
Finalmente potevo vedere dal vivo
l’uomo che per me era un amico oltre che un’icona. L’uomo sensazionale con cui
condividevo lo stesso destino crudele.
-Christian? La cena è pronta!-,
urlò mia madre.
-Arrivo!-, risposi, e mi alzai.
Mi guardai attorno e aprii
l’armadio. Fissai il mio riflesso nello specchio. I capelli mori ribelli
schizzati in tutte le direzioni e gli occhi castani, quella pelle così
chiara... c’era un motivo. Abbassai lo sguardo e guardai le mie mani. Tolsi i
cerottini, e anche i guanti.
Le fissai a lungo.
-Lo stesso destino...-, mormorai.
-...l’unica differenza è che tu sei un angelo... io un mostro dalla pelle
screziata-.
Mi rimisi i guanti e i cerottini,
per poi chiudere l’anta e togliere il disco di “Thriller”.
-...e se n’è andato, senza dire
nient’altro. Non lo trovi strano?-.
Finii di raccontare la mia storia
e guardai zia Karol. I suoi occhi azzurri mi fissavano attenti e un po’ ironici
mentre parlavo continuando a sistemare una ciocca ribelle dei miei capelli
dietro l’orecchio destro e a gesticolare come ero sempre abituata a fare
durante i miei discorsi.
Avrà pensato che solo una pazza
poteva preoccuparsi così tanto per una cosa talmente idiota.
Già, e se succedeva a lei non si
sarebbe comportata allo stesso modo?
-Bah. Ma sei sicura di non averlo
mai visto prima?-, mi chiese.
-Sicurissima-.
-E quindi non hai idea di cosa lo
avrà spinto a comportarsi così...-.
-No-, risposi, esasperata.
Si portò le mani sul mento.
-E se fosse anche lui un fan?-,
propose come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Io la guardai scettica, e scoppiai
a ridere.
Era talmente sciocco quello che
diceva che non potei farne a meno.
Gli occhi mi lacrimavano e
dovetti mantenermi la pancia.
-Perché stai ridendo?-.
La guardai con gli occhi ancora
gocciolanti.
La sua espressione non accennava
al minimo scherzo: era assolutamente seria.
Smisi di ridere e la fissai
ancora più stupita di prima.
-Stai scherzando, spero!-,
esclamai. –Mi ha chiamata oca! Capisci, zia? Oca. E lo sai perché? Perché ha visto come mi ero vestita. Mi ha
offesa perché ho i pantaloni a sigaretta, il cappello, i cerottini, la fascia
al braccio e le Ray-Ban. Un sacco di fans si vestono come Michael, e quelli che
condividono la stessa loro passione non li offendono, ma li appoggiano. Chi lo
offende sono solo le persone che odiano Mike e non possono proprio
sopportarlo-.
-Beh, può darsi che abbia pensato
sbagliato...-.
-In che senso?-, chiesi.
Scrollò le spalle.
-Forse credeva che la tua fosse
una passione temporanea, che ti piace solo perché va di moda...-.
-Di moda?! Michael non è mai
stato di moda! La moda passa, lui resterà per sempre-, filosofai assumendo
un’aria saggia.
Zia Karol sbatté più volte le
palpebre.
-Ooooh...-, esclamò fingendosi
ammirata, -e da quando in qua ti dai anche alla filosofia?-.
Io risi.
-Hai mai sentito parlare di Effetto-Michael?-,
risposi, ammiccando.
-Mmh... l’ho sentito nominare
qualche volta...-, disse, per poi ridere insieme a me.
Era così bello parlare con lei...
era la mia zia preferita, forse per il suo essere bambina nonostante avesse
superato i trenta, forse perché era l’unica a capirmi, forse perché era
talmente pazza che si era tinta i capelli biondo platino in rosa shocking...
ricordai ancora la faccia di sua sorella – ovvero mia madre –quando la vide... mi viene a ridere tuttora
solo al ricordo. O forse perché era così esuberante, ma dietro i suoi modi
vispi c’era nascosta una ragazza dal cuore d’oro e dall’animo dolce che sapeva
ascoltarmi e consolarmi come mai nessuno aveva mai fatto... o forse perché era
stata lei, un anno prima, a farmi innamorare di Michael...
Il rumore di una macchina cattura la mia attenzione e mi affaccio alla
finestra. Vedo solo che l’auto minuscola parcheggiata sotto casa mia è di un
forte e spiccante giallo canarino, per poi precipitarmi fuori dalla mia stanza.
-È arrivata zia Karol!-, urlo, aprendo subito la porta.
Mi ritrovo davanti una donna con una camicia bianca aperta e una
maglietta di cotone sotto sempre bianca, un paio di pantaloni a sigaretta neri
con una cintura dello stesso colore, due mocassini neri con dei calzettoni
bianchi di pailettes e una specie di
guanto sul braccio destro.
Non so cosa mi piace di quel suo modo di vestire così strambo... fatto
sta che rimango incantata dai suoi abiti.
-Salve, bella gente! Come va?-, chiede, guardando radiosa me e mia
madre.
-Alla grande, ora che ci sei tu!-, esclamo, saltandole al collo.
Corriamo di gran carriera nella mia stanza e lei mi mostra un CD.
-Di chi è?-, le domando, guardando l’oggetto curiosa.
-Del cantante più bravo e meraviglioso del mondo... anzi, no,
dell’universo intero!-, esclama con gli occhi che le luccicavano.
-Wow... non ti vedevo così contenta da quando hai scoperto che ti
piaceva lo yoga...-.
Lei non perde quel suo luccichio negli occhi.
-Adesso è assolutamente diverso... questo rimarrà nel mio cuore per
sempre...-.
-Cavolo, ma allora ti ho persa davvero!-, esclamo, ironica.
Lei sorride.
-È da quando sono piccola che lo conosco... ho vissuto con le sue
canzoni nelle orecchie... e ora che è tornato un mese fa con questo nuovo
disco... mi sono innamorata di nuovo-, dice estasiata.
Io la guardo a bocca aperta. Poi inizio a fare 2+2...
-Ed è per questo che ti sei vestita così oggi?-, chiedo, e il suo
rossore confermò le mie supposizioni.
-In un video... dovessi vederlo!-, esclama, gli occhi che le luccicano.
- farebbe fondere perfino i ghiacciai dell’Antartide!-.
-Se è per questo, ci sta già pensando il riscaldamento globale...-,
ironizzo, e lei mi da un pizzicotto.
-Ahi! Guarda che mi hai fatta male!-, esclamo.
-Ma va’...-, risponde, e mette il CD nel lettore.
- Com’ è che si chiama, tanto per sapere?-.
Lei schiaccia sul pulsante “Play” e mi risponde con un luccichio negli
occhi: -Michael Jackson-.
La prima cosa che sento di quella canzone è un rumore di vetri
infranti.
Ed è subito amore.
Accendiamo la radio nella macchina sgargiante di zia Karol mentre
facciamo un giro per le strade di Bucharest. Poco dopo l’abitacolo viene
riempito delle note di “Bad”.
“Your butt is mine, gonna tell you right! Just show your face in
broad daylight…!”
Urliamo a squarciagola le parole della canzone che avevo imparato a
memoria durante quei due mesi, e molte persone si girano a guardarci.
-È fantastico! Mi sento viva!-, grido.
Mia zia ride.
-Ecco cosa provo io tutti i giorni!-, mi rispose.
-Ah, è per questo che ti vedo sempre così esuberante e solare-,
esclamo, e lei annuisce.
-Michael mi ha proprio cambiato la vita…-.
Io sorrido. Ricordo quanto era malinconica zia dopo che Adam l’aveva
lasciata… non usciva di casa, non parlava con nessuno, neanche con mia madre.
Era come caduta in stato catatonico. Invece, da qualche tempo… beh, forse
davvero Michael aveva davvero contribuito a renderla più felice…
Fu in quel momento che iniziò “Man in the mirror”. Non credevo che
stessimo a girovagare per tutto quel tempo, e invece è proprio così.
Le note di quella canzone come al solito mi riempiono l’anima, e mi
assale la malinconia… di nuovo.
-Spero che la cambi anche a me-,
mi faccio sfuggire.
Mia zia non risponde, ma si gira verso di me.
Io non la guardo, ma so già quello che vuole dire il suo sguardo: -Solo
perché non sono i tuoi veri genitori non significa che non ti vogliano bene-.
Infatti, sono proprio le parole che pronuncia.
Me lo aspetto, ma non posso fare a meno di non pensarci.
-Perché mi hanno abbandonata? Ero un peso per loro?-, domando, e le
lacrime prendono a scorrere da sole.
Lei ferma la macchina e porta la mano alla radio.
-No, non chiudere!-, esclamo.
Lei mi guarda comprensiva e abbassa solo il volume in modo che si possa
parlare senza urlare.
-Non eri un peso, e non lo sei mai stata. Forse non ce la facevano con
i soldi… forse si aspettavano che tu vivessi una vita migliore…-, mi risponde.
Io continuo a piangere. Non m’importa di quello che dice mia zia, anche
se ha ragione. Non avrei mai incontrato i miei genitori, e non avrei mai saputo
perché mi avevano abbandonata…
-Non piangere, piccola… adesso hai una mamma e un papà… e poi ci sono
anch’io… non sarai mai sola…-, mi consola, e io annuisco.
-Grazie-, mormoro, e lei mi abbraccia forte.
Riuscivo a sentire il suo cuore battere all’unisono con il mio. Non ci
saremo mai separate.
-Diane! Mi è venuta un’idea
grandiosa!-, esclamò improvvisamente mia zia facendomi sussultare e quasi
volare via la forchetta che avevo in mano.
Fingo di guardarla stupita.
-Ah, e tu pensi pure?-, la prendo
in giro.
Lei mi fulminò con lo sguardo e
mi fece una boccaccia.
Io scoppiai a ridere.
-Ti adoro quando ti arrabbi!
Vabbè che ti adoro sempre… comunque, sì, dì pure-, aggiungo vedendo che
brandiva pericolosamente un coltello in mano, che – fortunatamente – posò sul
tavolo.
Guardai i suoi occhi farsi
maliziosi, troppo maliziosi, e
iniziai seriamente a preoccuparmi.
-Vuoi venire a casa di certi miei
amici? Hanno un figlio fan che conosco da quando è piccolo, ha la tua stessa
età… anzi, no, ha due anni in più a te, 19. Potresti conoscerlo… sono sicura
che vi divertirete un mondo insieme!-, ammiccò.
-Oh Dio…-, mormorai, portandomi
la mano sugli occhi. –Vabbè, dai, andiamo. Sono sicura che non mi farà male
conoscere qualcuno-.
Lei annuì.
-Fatti bella… stasera farai
conquiste!-, esclamò lei alzandosi e uscendo dalla stanza.
-Sì, certo…-, mormorai. –Proprio
una bella conquista…-.
La casa era molto carina.
Aveva due piani e una mansarda,
ed era colorata di un tenue bianco perlato. Il giardino di fronte era ben curato
e dal portone all’ingresso vi era un piccolo e breve sentiero; dalle finestre
s’intravedevano delle tende, anch’esse bianche, tranne una di un rosso
scarlatto che spiccava in mezzo a tutto quel chiaro.
Mi guardai attorno. Quella casa
mi metteva soggezione, ma non sapevo perché.
-Sei pronta?-, mi chiese zia
Karol.
Io la guardai ironica.
-Guarda che non devo mica andare
nell’arena dei leoni!-, esclamai.
Lei fece una strana smorfia e
spense la macchina. Scendemmo e bussammo.
-Chi è?-, chiese una voce femminile.
-Iosefina, sono Karol-.
-Karol! Sei arrivata! Un attimo,
scendo subito!-, rispose la voce.
-Okay, ti aspettiamo-.
Poco dopo una sagoma nera avanzava verso di
noi nel crepuscolo e aprì il portone.
La guardai sbigottita.
Era la più bella donna che avessi
mai visto.
Alta e formosa, poteva avere una
quarantina d’anni, ma ne dimostrava venti. I capelli ricci e neri le arrivavano
alla vita; i grandi occhi di un profondo marrone scuro e le labbra carnose
spiccavano sulla sua carnagione chiara. Le mani, affusolate e aggraziate,
sembravano quelle di una pianista.
-Karol! Da quanto tempo!-,
esclamò gettandosi come una bambina al collo di mia zia.
-Iona! Visto, finalmente sono
venuta a trovarti! E ho portato anche un’altra ospite...-.
Si staccò dall’abbraccio e mi
spinse delicatamente avanti in modo tale che la donna potesse vedermi.
-Iosefina, ti presento mia nipote
Diane Alecsandri, quella di cui ti ho tanto parlato. Diane, lei è Iosefina
Horia in Petrescu, una mia cara amica d’infanzia con cui ho mantenuto i
contatti durante tutto questo tempo, ed è stata la stessa persona che mi ha
fatto conoscere Michael, tanti anni fa-.
Io la guardai ammirata, incapace
di spiccicare parola.
Fu lei a rompere il ghiaccio.
-Ah, tu sei la famosa Diane!
Finalmente ti conosco, tua zia non ha fatto altro che parlare di te!-, esclamò
raggiante. Io sorrisi timida maledicendo mia zia dentro di me.
-Molto piacere, Iosefina-, disse
porgendomi la mano.
Gliela strinsi – stranamente –
forte e le risposi: -Il piacere è tutto mio, signora Petrescu!-.
-Oh, non chiamarmi signora, ti
prego! Mi fai sentire vecchia! Puoi chiamarmi Iona-.
Annuii, sorridente.
-Vada per Iona, allora!-.
Lei mi diede un pizzicotto sulla
guancia.
-Brava. Adesso però entrate!-, e
ci fece strada.
Se da lontano l’abitazione mi
sembrava bella, l’interno era sconvolgente. Assolutamente meraviglioso.
Era tutto molto luminoso e
pulito. A destra si apriva il salone stile etnico e a sinistra una cucina
moderna. Di fronte una scala dello stesso legno scuro del portone conduceva al
piano superiore, da cui proveniva una musica... davvero molto familiare...
Il cuore iniziò a battere
velocemente.
-Ma questa... è “Baby be mine”!-,
esclamai.
Iona e mia zia si girarono a
guardarmi sorridenti.
-Esatto-, rispose Iona. –Vuoi
perdonare mio figlio, ma quando ascolta Michael Jackson alza sempre il volume
al massimo... dice che così si sente meglio...-, un’ombra di tristezza
attraversò gli occhi di Iona. Zia non se ne accorse, ma io sì. Eccome.
-Vabbè, vado a chiamarlo, non
sente alcun rumore quando mette i CD di Mike...-, si riprese Iona.
Io sorrisi e mia zia rise.
-Sì, possiamo immaginare-, disse
lei.
Iona sorrise e si avviò sopra.
Dopo qualche secondo “Baby be
mine” venne stoppata a metà del secondo ritornello e un rumore di passi ci
annunciò che Iona e suo figlio scendevano le scale.
Io ero stranamente agitata, e mi
tentai di distrarmi fissando le ciocche rosa scuro dei capelli di mia zia.
-Diane, ti presento mio figlio-,
disse Iona.
Mi voltai lentamente.
-Christian, lei è Diane-.
Incrociai gli occhi marroni del
ragazzo e...
Sgranai gli occhi e feci un passo
indietro.
Lui mi imitò.
-Tu!-, esclamammo all’unisono,
con l’unica differenza che il mio tono era arrabbiato, mentre il suo...
semplicemente stupito.
Di fronte a me c’era lo stesso
ragazzo che quel pomeriggio si era permesso di chiamarmi oca.
-Tu!- ripetei, irata. –Tu sei un
fan di Michael Jackson! E mi hai offesa perché mi vesto come... come...-. Mi
bloccai. Ora che lo guardavo bene... che guardavo i suoi vestiti... maglietta
di cotone bianca... camicia nera... fascia sul braccio bianca... cerottini
sulle dita... guanto lungo e bianco... pantaloni a sigaretta neri... mocassini
neri... calzini bianchi...
Aprii e rinchiusi bocca.
-Tu... tu ti vesti come lui! Tu
ti vesti come... come me! E... e ti
permetti di dirmi che sono un’oca?!-, esclamai allibita e furiosa.
Lui non fiatava. Si limitava solo
a guardarmi come un ebete. L’aria della stanza si era congelata.
-Perché non parli? Eh? Non ne hai
il coraggio?-.
Continuava a stare zitto, e
m’incazzai ancora di più.
-Scusa tanto, Iona, ma non posso
stare qui. Zia, se vuoi accompagnarmi bene, altrimenti me ne vado a piedi.
Arrivederci e scusate il disturbo-.
Girai i tacchi e mi diressi
all’uscita.
-Sei diversa dalle altre-.
La sua voce mi giunse nelle
orecchie e mi bloccò.
Mi voltai lentamente, tentando di
frenare la mia rabbia.
-Continui a ripeterlo, ma non ho
capito un cazzo di quello che dici. Addio-.
Aprii la porta e uscii fuori.
Bastardo.
Note dell’autrice
Wellà,
bella gente!!! Scusate l’enorme ritardo, ma già dal primo giorno di scuola ci
hanno assegnato i compiti... quella strega della prof di filosofia già ha dato
delle pagine da imparare, e stiamo a solo due settimane... quanto mi manca
l’estate!
Vabbè,
pensiamo al chappy.
Come
molti di voi avranno notato (Ehm... Alchimista, Kla, Tanya... non mi riferisco
certo a voi” XD!) i protagonisti assomigliano molto a James Potter e Lily
Evans, i genitori di Harry Potter, non solo fisicamente ma anche per il fatto
che prima si odiavano e poi si sono sposati... beh, veramente Lily odiava
James, però vabbè...
Siccome
questo capitolo è abbastanza lungo e non me la sentivo di farvi aspettare così
a lungo ho deciso di dividerlo in due parti... spero che non vi siate annoiate
e che la trama vi abbia incuriosite un po’!
Ora
non ho tempo di rispondere alle vostre recensioni, ma ringrazio comunque tutti
per il vostro sostegno! Mi dispiace avervi fatto piangere, ma il mio intento è
quello di farvi capire che Michael non ci ha mai abbandonati e non lo farà mai,
e che adesso ci protegge come solo un angelo sa fare!
Un
bacione a tutte voi, che con le vostre recensioni e i vostri complimenti mi
riempite il cuore di gioia!
X mcj: ciao! Scusa, ma la prossima volta puoi
scrivere la recensione nell’ultimo capitolo che posto? Così ti ricorderò nei
ringraziamenti per le tue recensioni! Un bacio!
Ancora
grazie! Alla prossima con “Baby be mine (parte seconda)!
Me la vidi apparire davanti come se fosse un miraggio.
La pelle chiara… il viso ovale… le labbra sottili… i lunghi capelli lisci
di un tenero rosso scuro… il naso piccolo e grazioso… quei suoi splendidi occhi
verdi che mi guardavano confusi tentando di capire dove avessero già visto quel
volto così familiare…
Tornai improvvisamente alla realtà, e fu quantomeno traumatico: ricordai
le offese, il dolore che ha dovuto provare quando
l’avevo chiamata oca, la rabbia e l’ira che bruciavano mentre difendeva
Michael, e che ora vedevo materializzarsi nelle sue iridi smeraldo…
Trattenei il respiro e sgranai gli occhi.
Che ci faceva lei qui con Karol?!
-Tu!-, esalammo entrambi, ma – come immaginavo – il suo tono era di gran lunga più arrabbiato del mio.
-Tu! Tu sei un fan di Michael Jackson! E mi hai offesa perché mi vesto come… come…-, balbettò
infine, scrutandomi dall’alto in basso con sguardo shockato.
“Come me?”, pensai.
-Tu… tu ti vesti come lui!-, esclamò.
Sì, Diane, è l’unico modo per farmi sentire a mio agio.
-Tu ti vesti come… come me!-.
Avrai finalmente capito che anch’io, come te, non vivo senza di lui?
-E… e ti permetti di dirmi che sono un’oca?!-.
Non sai quanto mi dispiace, piccola, non era
mia intenzione offenderti…
Ma non parlo, non apro bocca per scusarmi e dirle quelle parole,
rimango a fissarla mentre aspetta – invano – una mia
reazione.
Forse credeva che le avessi chiesto scusa, che le avrei
fornito delle spiegazioni, o che l’avrei cacciata di casa a calci nel sedere.
Qualunque fossero state le sue supposizioni,
erano tutte sbagliate.
Non dissi nulla, rimasi a fissarla credendo che con il mio silenzio
avrebbe capito che le davo ragione.
-Perché non parli? Eh? Non ne hai il coraggio?-.
Continuavo a guardarla, dicendole con gli occhi quello che con la bocca
non riuscivo a cacciare fuori: “Hai ragione,
perdonami”.
I suoi occhi divennero due fessure e disse con un tono che rasentava la
furia: -Scusami tanto, Iona, ma non posso stare qui. Zia, se vuoi accompagnarmi
bene, altrimenti me ne vado a piedi. Arrivederci e scusate il disturbo-.
Si voltò e si avviò verso la porta.
Rimasi basito: mi aspettavo che avrebbe continuato a sfogarsi, che
sarebbe rimasta a casa mia tenendomi il broncio o ignorandomi fingendo che non
esistessi per dimostrarmi che non le importava nulla di me…
Possibile che non chiedesse nemmeno una spiegazione?
“Forse tu le devi dare questa
spiegazione”.
Saggia, la vocina nella mia testa.
Appariva quando meno me l’aspettavo, e mi era sempre
tornata utile nei momenti in cui necessitavo di un consiglio ma nessuno era in
grado di farlo. Ricordo quando una volta un mio amico…
“Smettila di blaterare, idiota, la pollastrella se ne
sta filando!”.
“Non chiamarla pollastrella, il suo nome è Diane”.
Diane… Diane… che bel no…
“Insomma, ti sbrighi, bradipo intontito senza cervello?!”.
“Scusa”.
E, nella fretta di darle una spiegazione e nello stupore di parlare con
una voce immaginaria nel mio cervello, pronunciai la prima frase che mi venne
in mente: -Sei diversa… dalle altre-.
Lei si bloccò mentre stava per abbassare la
maniglia, e si girò lentamente.
Per un attimo ho creduto di vedere stupore e gratitudine nei suoi
occhi, ma mi sbagliavo ancora una volta.
Stupore sì, ma la sua espressione era più confusa e arrabbiata di
prima.
-Continui a ripeterlo, ma non capisco un cazzo di quello che dici.
Addio-.
E senza troppe cerimonie uscì fuori.
Rimasi impalato sulle scale per qualche secondo: la sua uscita teatrale
mi aveva colto alla sprovvista.
“Davvero credevi che si sarebbe gettata al tuo collo ringraziandoti con
le lacrime agli occhi?”.
Ancora una volta la vocina.
“Beh… forse un po’ ci speravo…”, pensai, incredulo delle mie stesse parole.
Ma in fondo era la verità, no?
“Allora non hai capito manco ‘na canna di
quella ragazza, rimbecillito”.
Annuii, sempre mentalmente.
“Sì, lo so. Ma non chiamarmi rimbecillito, per
piacere”.
Sbuffò, o forse era solo immaginazione.
D’altronde non è molto normale parlare con una voce immaginaria nel
proprio cervello. Avrei dovuto farmi visitare da un buon
psichiatra…
“Perché? È quello che sei”,
replicò la voce.
“No”, risposi. “Non sono un rimbecillito. Sono solo
un bastardo”, ammisi infine.
La vocina nella mia testa applaudì.
***
Non lo vidi più da quella sera.
In effetti
non sarebbe stato difficile incrociarsi per la strada; Bucarest era una città
grande, ma i punti d’incontro erano sempre gli stessi. A dirla tutta ero io che
tentavo in ogni modo di non vederlo: evitavo per esempio i luoghi di raduno dei Jacksoniani – anche se non l’avevo mai visto da quelle
parti, ma era meglio non rischiare –, i bar o i locali affollati, e di passare
davanti casa sua, che non distava poi così tanto dalla mia, quindi da quella di
mia zia.
Già, zia…
Non mi parlava mai di quello che
era accaduto, ma notavo il suo dispiacere e la sua
tristezza. Dapprima pensavo che queste sue emozioni fossero
dovute alla brutta figura che aveva fatto davanti a Iona, oltre alla
malinconia ormai diventata mia compagna, malinconia che non capivo da cosa
fosse scaturita… ma dovetti ricredermi: lei sapeva tutto.
Quando le descrissi
l’aspetto fisico del bastardo lei già aveva capito chi fosse. Ecco perché pronunciò quella frase: “E se fosse anche lui un fan?”.
Quando
me lo disse – due giorni dopo quel venerdì sera – non potevo crederci.
-Avevo intuito che fosse Christian, e per confermare le mie supposizioni ti ho
portata da Iona… la tua reazione ha spazzato via tutti i miei dubbi: ero sicura
che fosse lui il misterioso ragazzo che ti aveva offesa-.
Io la guardai stupita e
incredula.
Non diedi una risposta al suo
sguardo addolorato: semplicemente mi alzai e me ne
andai. Non seppi spiegare il perché, ma mi sentivo tradita.
Le tenni il broncio per cinque
giorni, e ogni volta che il telefono squillava facevo rispondere i miei
genitori; se era zia Karol le dicevano che ero uscita,
o che riposavo, o che mi trovavo da una mia amica. Zia chiamava spesso –
diciamo ogni cinque minuti –, ma io non intendevo risponderle
comunque.
Capitò che alla ventesima
chiamata del quinto giorno mia madre, scocciante, urlò: -Diane sta ascoltando a tutto volume Michael Jackson in camera sua
e non vuole essere disturbata per alcun motivo!-. Attaccò e da allora zia non
richiamò più.
Logorata dai sensi di colpa,
decisi di smetterla di comportarmi da bambina viziata e andai a casa sua.
Bussai col cuore in gola.
Nessuno si affacciò né rispose al
citofono.
Bussai di nuovo.
Nessuna risposta.
Riprovai ancora, e per farmi
sentire rimasi premuto l’indice sul bottone per un minuto intero.
Nulla.
Persi completamente la pazienza e
iniziai a prendere a calci il portone.
-Apri!-, urlai.
–Ho detto apri! Cazzo, zia, vuoi
aprire?-. Ero in preda di una crisi isterica, cosa che negli ultimi tempi mi
accadeva alquanto facilmente.
Fortunatamente non c’era nessuno in strada, altrimenti mi avrebbero trascinato di
corsa e senza troppe cerimonie nel più vicino manicomio.
-Apri! Maledizione!-.
Nervosa e avvilita, scoppiai a
piangere, appoggiando le spalle al portone e scivolando lentamente a terra,
sull’asfalto. Affondai il volto fra le ginocchia, che strinsi fra le braccia.
Mi ero comportata malissimo con
lei, e adesso non voleva più vedermi.
Aveva tutte le ragioni del mondo
per farlo: l’avevo ignorata per un futile e infantile motivo, ovvio che adesso
fosse adirata con me.
Per colpa del mio comportamento
immaturo avevo perso l’unica persona che era in grado di capirmi e consolarmi,
l’unica che condividesse le mie stesse emozioni e passioni, l’unica che davvero
mi era stata vicina nei momenti di bisogno, l’unica che avesse mai saputo far
allargare la mia bocca in un sorriso quando ero triste
e giù di morale…
E nel
mare di quelle sensazioni negative, sentii un leggero tocco sulla spalla.
-Diane?-.
Alzai gli occhi.
Mi asciugai frettolosamente le
lacrime.
-Che vuoi?-,
sputai, acida.
-Mi hai fatto preoccupare, ti ho
vista seduta a terra e mi sono avvicinato per vedere cosa ti fosse
successo-, rispose calmo Christian, senza fare una piega al mio tono.
Stavo per rispondergli per le
rime, ma poi ricordai che era colpa del mio orgoglio se ora Karol non mi
parlava più.
Aprii la bocca, poi la rinchiusi.
Lo guardai sconfitta e sospirai.
-Mia zia è arrabbiata con me.
Fingevo di non trovarmi a casa quando lei chiamava, e
adesso non mi apre neanche-, mormorai, mentre un’altra piccola lacrima ribelle
solcava il mio volto.
Lui rimase qualche secondo in
silenzio.
-Sei sicura che non sia uscita?-,
propose, tentando (credo) di consolarmi.
Io indicai la vecchia FordAnglia del 1967 (da lei
ristrutturata e ricolorata) giallo canarino nel cortile di casa.
Lui seguì il mio dito, per poi
sospirare.
Lo guardai.
-Le passerà, fidati. Fa sempre
così-, mi disse.
Strano che,
nonostante non lo potessi sopportare, quelle due semplici frasi furono in grado
– anche se minimamente – di farmi calmare. C’era qualcosa nel suo tono
che mi convinse dell’onestà delle sue parole.
Annuii, e sorrisi.
-Brava, così si fa. Sorridi perfino quando il tuo cuore prova dolore-, mi disse,
poggiando delicatamente la mano destra sulla mia spalla.
Quel tocco non mi dava fastidio,
anzi: sentivo che era ciò di cui avevo bisogno.
-Charlie Chaplin?-,
domandai.
Lui annuì.
-Il mio mito, con Michael-,
rispose.
Voltai il capo e feci una
smorfia, al che lui sospirò.
-Mi dispiace-.
Trattenei il respiro, ma forse
lui non se ne accorse.
-Non avevo
alcun diritto di offenderti, sono stato un arrogante, un presuntuoso
e…-.
-Un bastardo?-, gli suggerii
alzando gli occhi verso di lui.
Il suo sguardo era davvero
pentito.
-Sì… -, mormorò.
Mi morsi il labbro.
-Perdonami, ti
prego. Pensavo che tu fossi come le altre,
invece…-.
Una luce si accese nella mia
mente spazzando via i dubbi.
-Per questo mi hai detto che sono diversa…-, mormorai, e la mia, più che una
domanda, era una certezza.
-Perspicace…-, mormorò, e
sorrisi. –Comunque sì. Intendevo diversa da coloro che
lo fanno solo perché va di moda…-.
-Michael non è mai stato di moda:
la moda passa, lui resterà per sempre-. Ripetei quella
frase che già una volta avevo recitato solennemente davanti
mia zia, e in quel contesto non ce n’era un’altra più azzeccata.
-Hai
completamente ragione-, disse lui.
-Lo so-.
-Senza complimenti, eh…-.
-Oh sì, di modeste come me ce ne
sono poche-.
Poi accadde ciò che speravo non accadesse mai.
Christian sorrise.
E rimasi
folgorata.
I suoi denti erano bianchi e
perfetti, e mi parve che il mio cuore fosse trafitto dalla luce che
irradiavano.
Conoscevo solo una persona capace
di far scatenare quella reazione in me: Michael.
Avvampai ai pensieri che mi
riempirono la mente in quei pochi secondi di pazzia, e mi alzai di scatto.
-Sarà meglio che vada a casa ora,
tanto zia non mi aprirà nemmeno se mi accampo qua-,
dissi velocemente, utilizzando l’escamotage della pulizia del pantalone per
nascondere il mio rossore.
Anche
Christian si alzò.
-Vuoi un po’ di compagnia?-,
chiese.
Lo fissai scettica.
-In che senso?-, domandai, e la
mia mente malata già iniziava a fare strane congetture… Diane, ma che cavolo
pensi??
Scrollò le spalle.
-Devo andare a
comprare la videocassetta di “Capitan EO”… vuoi venire con me?-.
Tutte le mie supposizioni
crollarono come castelli di carta al vento.
Non potevo credere alle sue
parole. Possibile che lui…
-Non hai la videocassetta di
“Capitan EO”?! E che razza di fan sei?-, esclamai.
Lui rimase spiazzato, e io
scoppiai a ridere alla sua espressione.
-Scherzo!-, dissi in fretta, e
lui si rilassò.
-Però mi
sono vendicata-, aggiunsi maliziosa; lui si strinse nelle spalle e mi guardò di
sottecchi.
Scoppiai a ridere: assomigliava
proprio ad un bambino.
-Allora?-, chiese infine dopo che
mi fui ricomposta con un tono che non ammetteva
repliche. –Vuoi venire con me?-.
Io rimasi qualche secondo in
religioso silenzio. Non che non volessi… ma mi
sembrava tutto strano… troppo strano.
Oh, smettila di farti mille complessi mentali!, pensai.
In fondo non c’era nulla di male,
no?
Annuii.
-D’accordo.
Una passeggiata non mi farà certo del male-, risposi
infine.
Lui mi abbagliò nuovamente con un
suo sorriso.
Cazzo, Diane, smettila!,
esclamai mentalmente, stupita di me stessa.
-Mi fa piacere che tu abbia accettato. Ah, la scorsa sera non ci siamo
presentati…-.
-È vero!-, esclamai battendomi la
fronte con la mano. –E siccome la colpa è stata solo
mia… piacere, Diane-, dissi sorridente porgendogli la mano.
Lui la prese delicatamente
guardandomi malizioso. Non so perché, ma quel piccolo contatto mi fece uno
strano effetto.
-Christian. Incantato dalla
vostra bellezza, madamigella-, e mi baciò la mano.
Sentii il cuore sciogliersi come
un gelato al sole e le guance fondersi.
-Il piacere è tutto mio-,
continuò languido, mentre però il suo sguardo malizioso si posava impertinente
sul rossore del mio volto.
Io tentai di ricompormi alla bell’e meglio, ma fui capace solo
di sorridere timidamente.
Sentii il citofono bussare. Controllai da dietro la tenda. Era Diane. Sorrisi, vittoriosa.
“Finalmente…”.
Sapevo che sarebbe stata questione di poco tempo prima che
perdesse la pazienza, quindi corsi al telefono.
Dopo tre squilli rispose una voce
maschile.
-Christian? chiesi. –Vieni qui da
me, devo dirti una cosa. Ah, non dire a Diane che ti ho chiamato, è abbastanza nervosa-.
-D’accordo, Karol…-, rispose lui. –Ma sicura che va tutto bene?-.
-Sì, sì, però sbrigati. Ciao-.
-A dopo-, e attaccò.
Corsi nella stanza da letto e presi le cuffie. Tornai in
cucina e le collegai allo stereo. Qualsiasi cosa dicesse Diane, non avrei
potuto sentirla: le mie orecchie erano totalmente occupate dalla voce di
Michael. Vidi Diane accasciarsi sull’asfalto; sembrava sfinita. Chissà cosa aveva combinato…
Poco dopo arrivò Christian. Parlarono, e alla
fine Diane si decise ad alzarsi da terra. Vidi solo che mia nipote gli tende la mano, e il ragazzo gliela bacia.
Sghignazzai. “Proprio come immaginavo… Christian non si
smentisce mai…”.
Dopo qualche minuto, la vidi andare via con lui.
“Sono un genio”, pensai, e in preda ad un’euforia che
sembrava non mia, iniziai a saltellare per la stanza dalla gioia.
Trovammo la cassetta velocemente
e ci concedemmo un lungo giro
turistico per il centro commerciale – come se non lo conoscessimo già a
memoria…
Quello fu uno dei pomeriggi più
belli della mia vita.
Mi divertii come non mai, e
grazie a Christian riuscii a dimenticare tutti i problemi che mi affliggevano.
Quel ragazzo era capace di farmi sorridere ogni due minuti e cominciai
seriamente a ricredermi su di lui. Insomma, mi aveva offesa, però mi ha chiesto
scusa, no? E poi era così gentile, dolce, simpatico, divertente… e… beh, sì, e
poi era anche carino con quegli occhi profondi e i capelli ribelli
che non avevano né capo né coda…
Vabbè, a parte questo, c’era
qualcosa che mi attraeva in lui, ma non sapevo cosa.
Forse quei suoi
modi di fare così schietti e sinceri; o il suo sguardo puro e innocente, che
celavano la saggezza che solo gli uomini maturi hanno. O forse quella
misteriosa aura di malinconia che sembrava avvolgerlo completamente… ci avevo fatto caso dall’inizio: nonostante si fosse prodigato
tutto il tempo per farmi sorridere, ogni tanto sembrava isolarsi dal mondo, e
sul suo viso leggevo una profonda tristezza; i suoi occhi diventavano un
baratro di silenziosi rimpianti, cupa inquietudine e… sì, quella che notavo –
sebbene fosse nascosta per bene – era proprio autocommiserazione.
Ma per
cosa?
-Qualcosa non va?-, chiesi
all’ennesimo dei suoi black-out mentali che l’avevano costretto a lasciare il
gelato che stava mangiando ad un tavolo del bar dove ci eravamo
fermati.
Lui trattenne il respiro e si
girò di scatto verso di me. Non avevo previsto la
vicinanza dei nostri volti e dovetti fare i conti con la mia sbadataggine,
perché le sue iridi sembravano volessero risucchiarmi. Sentii un brivido che
dal collo attraversava tutta la mia schiena, per poi fermarsi dispettoso al
basso ventre.
Lui si avvicinò di un millimetro
– o forse fu solo frutto della mia immaginazione – e, d’istinto, mi ritrassi.
Sensazioni ingovernabili
falciavano la mia mente e il mio petto, confondendomi
e mozzandomi il respiro.
“Che
diavolo mi sta succedendo?”, mi chiesi. “Perché tutte
queste reazioni improvvise?”.
Evidentemente lui non si accorse
di nulla, perché sorrise e rispose: -No, no, sto bene-.
Annuii, e mi sforzai di curvare
le labbra all’insù, ma molto probabilmente fui capace solo di una smorfia
indistinta. Mi voltai verso il frappé ancora intatto davanti a me. Ne presi un
po’ e lo portai alla bocca, ma dopo averlo inghiottito mi venne la nausea: lo
stomaco mi si era completamente chiuso.
Emisi un gemito e posai il
cucchiaino sul fazzoletto.
-Non hai fame?-.
La voce di Christian era musica
per le mie orecchie: sentivo di non poterne fare a meno.
Sgranai gli occhi.
“Ma che
cazzo dici?”, esclamai mentalmente, ancora una volta in quel giorno anormale.
Scossi la testa e mi alzai.
Lui mi fissò meravigliato.
-Scusami, ho ricordato di avere
un impegno importante, devo proprio andare! Grazie per la giornata stupenda,
saprò ripagare. A presto, ciao!-, dissi tutto d’un fiato, e uscii
di corsa dal bar.
Non riuscii a sentire cosa
rispose: in meno di due minuti ero già nel parcheggio, ansimante e col cuore in
gola. Ma non dalla corsa, no: bensì dalla potenza e dal
fascino magnetico delle iridi di Christian.
Il giorno dopo mi ero ripresa,
seppur leggermente. Mi diedi della stupida per il mio atteggiamento
inspiegabile, e decisi di chiedergli scusa. Quindi lo
chiamai. Scoprii che mia madre aveva il suo numero: gliel’aveva dato zia Karol quando andai per la prima volta a casa di Iona, nel
caso in cui avesse voluto contattarci. Quando mi mostrò il biglietto non potei
crederci e lo afferrai come una furia, nascondendolo in camera mia, in attesa del momento più propenso per effettuare la
telefonata lontana da occhi indiscreti. La fortuna volle che i miei genitori
proprio quel giorno dovessero uscire per un affare urgente, lasciandomi la casa
libera. Di solito, quando accadevano questi inconvenienti
(anche se io li chiamavo botte di cu… di vita! Le chiamavo botte di
vita! XD ) me la davo alla pazza gioia, schizzando il volume dello stereo al
massimo stile Macaulay Culkin nel video “Black or
White”, e saltando sul divano nella cucina, tentando di imitare Michael.
Ma quel
giorno fu diverso: appena l’auto sparì dietro il vialetto, presi il biglietto
nascosto nella tasca del pantalone e composi il numero scritto sopra.
Uno squillo.
Due squilli.
Tre squilli.
Cavolo…
-Pronto, qui
casa Petrescu. Chi parla?-.
La sua voce mi colse di sorpresa:
mi aspettavo Iona, o il padre… ma non lui… e mi bloccai.
-Pronto?-, ripeté.
Rispondi, stupida, rispondi!, mi ordinai.
-C…ciao, Christian… sono Diane…-, balbettai.
Attimo di silenzio.
-Ciao, Diane-, rispose
semplicemente.
Rimasi di stucco. Mi aspettavo un
“Ehi, ciao, come va?”, oppure un “Ma che ti è preso l’altra
volta?”, o anche “Finalmente, non vedevo l’ora di ascoltare nuovamente la tua
voce angelica, capace di farmi venire i brividi e farmi volare fino al
Paradiso, e…”.
Merda, non di nuovo! Smettila!
-Oh, ehm…-, mi portai una mano
alla fronte. –Ciao, senti… volevo scusarmi per ieri, è che a casa avevano
bisogno di me e l’avevo completamente dimenticato…
scusami tanto, davvero, prometto che non succederà più…-. Le mie scuse
suonavano patetiche, ma non me ne venivano in mente altre.
-Ma no,
Diane, non preoccuparti, non mi sono offeso-, disse, rassicurante.
Sospirai di sollievo.
-Menomale… cavolo, per un attimo
ho pensato che non mi avresti mai perdonata…-.
-Addirittura perdonata!
Esagerata, dai!-.
-Uhm… forse hai ragione…-.
-Ma no,
scherzo. Comunque sei carina a preoccuparti tanto per
me… non so se lo merito, però…-. Ecco che ritorna quella tristezza smisurata
nella sua voce.
No, no, no!
.Ovvio che te lo meriti! Diamine,
senza di te non so proprio come sarei sopravvissuta a
quella giornata!-.
-Grazie...-, mormorò.
-Guarda che non ho finito-, replicai.
Immaginai la sua faccia perplessa
e sghignazzai.
-Ricordi quando ti dissi che ti avrei ripagato? Bene, è giunto il momento di
farlo-.
Pausa di silenzio da entrambi.
-Vuoi venire a
casa mia?-, chiesi. –Vediamo “Moonwalker” e ascoltiamo buona musica?-, chiesi.
Per qualche secondo non proferì
parola.
Ma fu
questione di un attimo.
-Mi farebbe molto piacere,
soprattutto se la “buona musica” è ciò che penso io-, rispose.
Io sorrisi raggiante.
-Allora siamo telepatici, perché
io intendo proprio lui-.
Christian rise, e io lo imitai.
-Tra un’ora?-, chiese.
-Anche
adesso-, risposi.
Era la scena finale, la mia
preferita.
Ogni volta che la vedevo
cominciavo a piangere. Primo, perché il film stava per finire; secondo perché
vedere Michael scomparire per poi tornare e dire che
era vivo… beh, non sapevo bene il motivo, ma nella mia gola si formava un
groppo troppo difficile da far svanire.
E anche il quel frangente le lacrime non mi risparmiarono.
-Che
fai, piangi?-, chiese Christian, asciugandomi una guancia. Il suo tocco era
vellutato e leggero, assomigliava al battito d’ali di una farfalla.
Io sorrisi mesta.
-Mi capita sempre
quando vedo questo film, è più forte di me-, risposi, asciugando l’altra
guancia.
-Su, dai, piccolina. Non c’è
alcun bisogno di arrossire quei tuoi splendidi occhi verdi-.
Io sorrisi e lui mi carezzò una
guancia.
-Grazie per il complimento-,
risposi.
-E di
che? Dico semplicemente la verità-, replicò lui.
Io arrossii.
Mi sentivo bene. Ero appagata,
serena… felice.
Piangevo, ma qualcuno era vicino
a me per consolarmi. Ridevo, e nessuno mi prendeva in giro per questo.
Ero Jacksoniana, e lo era anche
lui.
Il film terminò, e tolsi la
videocassetta.
-Cosa vuoi
ascoltare?-, gli chiesi, prendendo dallo scaffale accanto la TV tutti gli album
che avevo, da “Got to be there” a “Dangerous”. Quelli dei “Jackson 5” e dei “The Jacksons” non li
comprai perché tutte le volte che ascoltavo determinate canzoni mi veniva in mente la brutta faccia di Joseph
“Mostro” Jackson.
Christian sostenne il mento fra
le mani.
-Scelta ardua…
beh, siccome sono del parere che dopo aver pianto bisogna scatenarsi…-.
Prese uno dei CD centrali.
-Che ne
dici di questo?-, chiese, mostrandomi la copertina.
-Un classico-, risposi.
-Il mio preferito-.
-Immaginavo. Da’ qua-.
Presi il CD e lo misi nello
stereo.
Dopo qualche secondo partì “Wanna
be startin’ something”.
Eccolo, il brivido.
L’adrenalina che scorreva nelle
vene.
La voglia di far totalmente parte
della musica e di fondermi con essa.
Non ebbi più il controllo dei
miei arti, e iniziai a muovermi a ritmo. Non ballavo come Michael, anche se a
volte improvvisavo un moonwalk, ma mi parve lo stesso di volare.
Christian si alzò e partecipò a
quell’alchimia fra corpi e note con me.
Io lo fissai allibita.
-Cavolo, ma tu balli come lui! come fai?!-, esclamai, guardandolo ammirata.
-Lo faccio da
sempre, sono cresciuto con lui e la sua musica. Ormai mi esce spontaneo.
Oddio, non sarò uguale a lui, questo è ovvio: la perfezione non si eguaglia. Però devi ammettere che mi avvicino molto al suo modo di
ballare-, mi disse ammiccando.
-Alla faccia dell’essere simile!
Tu sei un grande!-, esclamai.
Lui rise.
-Grazie!-.
-Ma
figurati!-, sbuffai, e ricominciai a volteggiare.
Tra una coreografia e un’altra parlavamo del più e del meno, e spesso di noi. Beh, più che altro parlavo io. Mi bombardò di domande,
facendomi sentire come un criminale che confessa un
delitto.
Quanti anni avevo, che scuola frequentavo, colore, fiore, materia preferiti… non mi dava
il tempo di porne una anch’io, che già la sua mente elaborava i dieci quesiti
successivi. Era frustrante, ma mi stavo divertendo: sentivo di aver bisogno di attenzioni, ed era quello che lui stava facendo; sembrava
che Christian fosse in grado di leggermi dentro e scovare fra gli angoli più
reconditi del mio animo tutti i segreti che portavo dentro.
O
almeno, così credevo.
-Sei figlia
unica?-, fu la sua centesima domanda.
Il sorriso sul mio volto si
spense e un senso di oppressione mi pervase il cuore.
Abbassai il capo e strinsi forte le braccia al petto.
-Sì…-, risposi.
I miei genitori adottivi non
potevano permettersi un’altra adozione: sebbene il loro stipendio poteva far sì
che questo sogno diventasse realtà, avevano preferito non rischiare, anche se
immaginavano il mio dolore sapendo che non avrei potuto avere qualcuno con cui
giocare e parlare che non fosse zia Karol.
-Qualcosa non va?-,
mi chiese.
Io scossi la testa: -No, no,
tutto bene…-.
-Sicura?-.
-Sì, grazie-.
Respirò profondamente.
-Perché non ti credo?-,
replicò.
Mi morsi il labbro inferiore e mi
passai una mano tra i capelli.
-Non lo so…-,
risposi, scrollando le spalle.
Lui non disse nulla.
E io mi
sentii in colpa per avergli raccontato una frottola.
-E va
bene. Ti ho detto una bugia-.
Alza lo sguardo, e mi tuffai nella profondità dei suoi occhi neri. Non vidi
rabbia, né rancore, né pena, né offesa. Solo comprensione.
E capii che potevo fidarmi.
-Octav
e Floarea non sono i miei veri genitori-, dissi.
Lui rimase in silenzio, ma nei
suoi occhi passò una piccola scintilla.
Mi persi sulla forma perfetta
delle sue ciglia, così incredibilmente lunghe…
-Loro non potevano avere figli, per cui decisero di adottare un bambino. Io ero nata in
Francia, Tolosa, e quando arrivai per la prima volta in casa Alecsandri avevo appena quindici giorni di vita. Ho saputo
che non ero la loro figlia biologica all’età di undici
anni, e da allora cerco incessantemente i miei veri genitori-.
Il suo sguardo divenne curioso.
-Come mai?-, mi chiese.
Ripensai alla conversazione con
zia Karol quella lontana sera d’estate di circa un anno prima, e tornò l’ormai
familiare magone alla gola.
Io mi morsi un labbro, e
sospirai, ricacciando indietro le lacrime.
-Voglio sapere perché mi hanno abbandonata, se l’hanno fatto perché erano poveri, oppure
perché per loro ero un peso… se mi vogliono bene, o se me l’hanno voluto…-.
Abbassai il capo.
Non ce la facevo a continuare, e
tutti i tentativi di lasciarmi quella storia alle spalle fallirono miseramente.
Lacrime silenziose caddero sulla
coperta, lasciandovi dei piccoli aloni; lacrime che portavano con sé la storia
di tutta una vita.
Diane, smettila. Non serve a nulla.
Ma come
facevo? Dove trovavo la forza di non piangere?
Sentii una stretta che mi avvolse
completamente, e una soffice carezza fra i capelli. Sgranai gli occhi quando capii che Christian mi stava abbracciando, ma
non mi staccai.
Avvolsi il suo collo fra le mie
braccia e scoppiai a piangere.
Rimanemmo così per
mezz’ora minimo, durante la quale non feci altro che cacciare fuori
tutto il dolore e la rabbia che avevo covato per 17 lunghi anni.
Quando
finii, Christian staccò l’abbraccio e iniziò ad accarezzarmi la guancia.
-Non avrebbero mai potuto
abbandonare una bambina dallo sguardo così significativo…
e se l’hanno fatto avranno avuto di sicuro un motivo valido. Non pensare agli
altri, lascia scorrere su di te tutto il resto, nessuno merita
le tue lacrime-, mi sussurrò.
Io sorrisi.
-Grazie…-, mormorai, e lui mi
abbracciò di nuovo.
Non opposi resistenza: il suo
contatto mi faceva stare bene, non mi dava alcun fastidio.
-Di niente, piccola. E ricorda: se avrai bisogno di qualcuno con cui sfogarti
potrai venire da me, saprò essere un ottimo ascoltatore e consolatore… se tu
vorrai e me lo permetterai, ovviamente-.
Io lo guardai dapprima stupita,
poi commossa, e infine grata.
-Certo-,
risposi, annuendo.
Lui sorrise, e fu lo spettacolo
più bello del mondo.
-Amici?-, chiese, porgendomi la
mano.
Io la guardai come se fosse un
insetto. Con un rapido gesto del braccio la scostai e strinsi forte Christian a
me.
-Amici-,
sussurrai.
Trascorsero all’incirca
due settimane da quella “promessa”, e il nostro rapporto si consolidò
sempre di più. Diventammo grandi amici, condividevamo tutto, e se avevamo bisogno
di sfogarci trovavamo ognuno un punto di riferimento nell’altro. Con zia
m’incontrai il giorno dopo, e confessò tutto.
-Di…dici sul serio?-, chiesi quando terminò di raccontarmi il suo piano per farmi
incontrare con Christian.
Lei annuì.
Io non sapevo cosa dire: la
guardavo stranita e basta.
Poi mi alzai.
Chiuse gli occhi, come se si
aspettasse una mia sfuriata.
Una sfuriata che non arrivò mai.
Gridai di felicità e le saltai
addosso; il mio fervore fu talmente grande che per poco non cadevamo dalla sedia.
Lei rimase qualche secondo imbambolata, per poi iniziare a ridere come una
matta e stringermi ancora più forte.
-Prego,
piccolina-, rispose tra una risata e l’altra.
Mi staccai da lei e le porsi il
mignolo.
Lei sorrise e lo strinse forte.
-Unite per
sempre-, recitammo insieme, per poi scoppiare a ridere e saltare come
due bambine sul letto di zia.
-Diane? È
Christian!-, esclamò mia madre fuori la porta della mia stanza.
-Chi?-, chiesi, credendo di non aver
sentito bene. Io e Christian non avevamo un
appuntamento… o ricordavo male?
Mi alzai, ma prima che potessi
toccare la maniglia, la porta si aprì.
Christian era davanti a me, e
mamma lo guardava stupita da dietro.
Entrò senza tante cerimonie e si
sedette sulla sedia di fronte la scrivania, per poi passarsi una mano fra i
capelli.
-Non preoccuparti, mamma, va
tutto bene, scendiamo tra un po’-, le dissi per
rincuorarla e chiusi la porta.
Quando mi voltai,
Christian ancora non aveva abbandonato la sua posizione.
-Cosa succede?-,
gli chiesi.
Non c’era bisogno delle parole:
quando c’era qualcosa che non andava lo intuivamo semplicemente dai nostri
sguardi.
Lui alzò la testa e mi guardò a
metà fra lo sconfitto e il timoroso.
-Io… io devo
dirti una cosa, Diane…-, mormorò. –Una cosa… un po’ difficile da
confessare… ma sento di potermi fidare di te, e… e ho deciso di dirtelo…-.
Mi avvicinai a lui e mi abbassai
alla sua altezza.
-Dirmi cosa?-, chiesi.
Il suo sguardo divenne triste e
sperduto. Assomigliava proprio ad un bambino… un bambino
senza amore.
-Non so da dove cominciare…-,
sospirò, afflitto.
Io sorrisi.
-L’inizio
di tutto ti sembra troppo distante?-, chiesi e, presa
una sedia, mi accomodai accanto a lui.
Lui abbassò il capo e sospirò.
Mi sentivo
oppresso, per questo ero andato da lei. Lei doveva sapere la verità, lo
meritava: mi era stata accanto nei momenti difficili, e ora mi toccava essere
onesto in tutto e per tutto.
I suoi occhi vagavano preoccupati
sul mio volto mentre tentavo di trovare le parole
giuste. Le sue iridi mi risucchiavano in un vortice di emozioni
che, per la prima volta nella mia maledetta vita, sentivo totalmente mie.
Dovevo avere un aspetto orribile, perché la sua espressione era davvero
preoccupata. Non potevo lasciarla in quello stato penoso, era
arrivato il momento allo stesso tempo tanto temuto e tanto agognato. Ma il mio
cervello era confuso, i miei nervi non riuscivano a collegarlo con la bocca per
farle pronunciare quelle parole che premevano sul cuore da troppo tempo… e se
mi avesse giudicato? Se la
nostra amicizia sarebbe terminata?
Oh, ti prego, smettila di fare il melodrammatico e parla, idiota!
“Non ci riesco, merda, non ci
riesco!”,.
Mi lasciai sfuggire un gemito, e lei mi carezzò un braccio.
-Calmati, non preoccuparti. Ci sono io qui…-, mormorò.
Rabbrividii, ma non seppi mai il perché:
Il contatto con la sua pelle era
un toccasana per la mia agitazione: rasserenava i miei
nervi e infondeva una pace in me mai provata prima.
“Forza, Christian…”, mi dissi.
“Fidati di lei”.
Annuii mentalmente e presi un bel
respiro.
-Quando ti vidi
per la prima volta…-, cominciai, pensando che se proprio dovevo partire
dall’inizio, allora il nostro incontro quel lontano pomeriggio di settembre era
il momento ideale. –Beh, a parte il tuo look così simile
al mio, ci fu qualcos’altro di te a colpirmi, e a farmi capire che non eri come
le altre che avevo conosciuto fino ad allora-.
Alzai il capo e incontrai il suo
sguardo curioso.
-I tuoi occhi-, continuai. –Così puri e cristallini da far vedere tutto ciò che hai dentro,
con quel colore che li fa assomigliare a smeraldi incastonati nel tuo volto…-.
Lei arrossì, ma non disse nulla.
Interpretai quel silenzio come un incoraggiamento, e continuai:
-Ogni tua parola, ogni tuo gesto erano testimoni della tua gentilezza e della bontà d’animo…
non credo di aver mai visto una ragazza buona come te prima d’ora… a parte
Karol… ma questo non c’entra…-.
Sospirai per l’ennesima volta e
ripresi il racconto.
-È stato tutto
questo a farmi capire che di te posso fidarmi… ed eccomi qui. Pronto a smascherarmi di fronte a te, Diane: l’unica che ha capito
fin da subito quello che provavo. Ecco perché sono qui-.
Terminai quella prefazione tanto
sofferta, e controllai se nelle sue iridi meravigliose c’era
un minimo di turbamento o paura, o comunque qualche altra emozione che avrebbe
potuto farmi cambiare idea all’istante e uscire da quella stanza. Solo pazienza e affetto. E
dolcezza. Solo lei poteva avere uno sguardo così…
-Anch’io
sono diverso, Diane. Ma in senso negativo… diverso
dagli altri, eppure così simile al mio modello di vita… è difficile da
spiegare… siamo accomunati dallo stesso destino, eppure c’è un baratro
incolmabile che ci divide, e che mi fa sentire totalmente differente da lui…-.
Lei parve riflettere un attimo.
-Parli di Michael?-, chiese.
Io annuii, e la sua espressione
divenne seriamente preoccupata. Forse dovevo smetterla di farla stare sulle
spine.
-Dopo questa conversazione sarai libera di scegliere se continuare ad essere o meno mia
amica, io non ti costringerò in nessun caso…-, le annunciai.
I suoi occhi divennero un mare di
tristezza.
-Io non ti lascerò
mai solo…-, mormorò, accorata e leggermente triste.
Io strinsi i denti. Sentirla dire
quelle cose mi faceva male: non avevo alcun diritto di farla soffrire, non
l’avrei mai avuto.
Mi alzai improvvisamente,
stupendo ancor di più Diane.
-È arrivato il momento della verità. Ho deciso di aprirmi a te in tutto e per
tutto, perché sei stata l’unica amica a non avermi giudicato… spero che tu
continuerai a non farlo anche ora-, dissi.
Mi avvicinai a lei. La guardavo
come per verificare il suo tasso di affabilità, ma lei
non faceva una piega al mio sguardo: era pronta.
Alzai un braccio e mi tolsi i
guanti e i cerottini alle dita. Alzai le maniche della camicia mostrandole la
mia pelle.
La vidi ritrarsi e sgranare gli
occhi.
-Capisci ora perché dico di avere
il suo stesso destino?-, le chiesi, mentre inspirava
profondamente alla vista delle macchie bianche sulla mia cute.
Quando
aprì bocca, ne uscì solo una parola:
-Vitiligine-.
Io annuii.
-Esatto. Soffro della stessa
malattia di Michael Jackson. Solo che lui si è potuto fare bianco per
nasconderla… io non posso. Lui è amato da milioni di persone
in tutto il mondo… io no. Lui è un angelo sceso dal cielo… io invece
solo un mostro orribile. E i mostri sono continuamente tagliati fuori dagli altri. Scusami tanto per averti trascinata nel
mare dei miei guai, Diane, ma d’ora in poi sarà diverso. Non ti darò più
fastidio, né ti costringerò a fingere con me: ti provoco solo ribrezzo, e ne
sono cosciente. Perdona il mio egoismo: ho sempre desiderato che tu mi vedessi
in un’altra ottica, ma ora che sai la verità nulla
sarà più come prima. Non voglio essere guardato ogni maledetto giorno della mia
esistenza con pena e compassione. Io non ho bisogno di questo, né tanto meno
voglio che tu mi guardi in tal modo. Quindi è meglio
se me ne vado… per sempre. Addio, Diane-.
Ecco, l’avevo detto. Mi stavo
lasciando alle spalle l’unica persona con cui non serviva mentire. Mi sentivo
una merda, ma era la cosa più giusta da fare. Non avevo alcun diritto su di
lei, non potevo costringerla a far parte di una vita dolorosa che non le
apparteneva. E il distacco era l’unico modo per non
farla soffrire. Un’occasione sprecata? Forse. La cosa più giusta? Ovviamente.
Ne sei sicuro?
La voce mi prese
alla sprovvista, e inizialmente non feci caso a quello che mi accadeva intorno.
Fu solo dopo pochi secondi che mi
accorsi di una figura di fronte a me.
E, prima
che potessi metterla a fuoco, prima che avessi il tempo di reagire, sentii un
dolore allucinante alla guancia sinistra. Mi ritrassi di colpo e mi portai una
mano al viso dolorante.
Un misto di emozioni
mi pervasero tutta una volta: tristezza, rabbia, rancore, malinconia,
dispiacere… emozioni negative, come sempre. Emozioni che vennero
annullate subito dopo, quando sentii una stretta calda che copriva tutto il mio
corpo.
-Come puoi dire una cosa del
genere, eh?-, esclamò Diane, e mi accorsi con
rimpianto che piangeva. -Come puoi minimamente pensare che io non ti voglia
accanto a me? Quando ho saputo della malattia di
Michael non ho smesso di amarlo, eppure non l’ho mai conosciuto in vita mia. E adesso, solo perché tu, il mio migliore amico, hai lo stesso suo problema… io devo denigrarti?
Ma stiamo scherzando! Per chi mi hai presa? Io non ho
mai lasciato solo nessuno, neanche quelli che non meritavano la mia amicizia, e
dovrei abbandonarti al tuo destino come i cani si
abbandonano lungi i cigli delle strade? Mai, Christian, mai. E
non m’importa se tu non mi vuoi accanto, io per te ci sarò sempre, perché…-.
Alzò la testa e mi guardò.
I suoi occhi gridavano muti una
richiesta che non potevo rifiutare in alcun modo.
E fu
allora che capii cosa fare.
Asciugai tutte le sue lacrime,
per poi spostare la mia mano di lato, accarezzandole la parte sinistra del
collo. Lei capì cosa stavo per attuare, ma non si ritrasse. Anzi, vedevo i suoi
occhi indugiare sul mio volto e, per ultimo, sulla mia
bocca. Abbassai leggermente il capo, annullando definitivamente la distanza fra
noi.
Fu così che le nostre labbra
s’incontrarono per la prima volta.
Non ci furono dubbi, né
tentennamenti: entrambi sapevamo come comportarci, anche se non ci era mai capitato nulla di simile prima. Sentivo le sue
braccia attorno al collo e la sua stretta che ogni secondo si faceva più
intensa. Con una mano le sostenevo la nuca e con l’altra percorrevo il profilo
della sua schiena.
Quando
ci staccammo avevamo entrambi il fiatone.
Sorridemmo, felici di aver
trovato quella cosa che cercavamo da una vita intera.
-Perché?-,
chiesi io, ansioso di scoprire il continuo del suo discorso.
Non potevo negare la verità.
Dopo tutto quel
tempo trascorso a nasconderla e a mentire a me stessa, era ormai arrivato il
momento. Lui era stato onesto con me, ora dovevo
ripagare.
Desideravo solo stare con lui,
nient’altro. Desideravo vedere il suo sorriso che irradiava le mie giornate e
mi metteva allegria, desideravo…
-Perché ti amo-,
risposi.
Lui sorrise dolce e raggiante al
tempo stesso.
-Anch’io-,
disse, e poggiò di nuovo le sue labbra morbide e delicate sulle mie.
Desideravo amarlo, e l’avrei fatto.
Ora sapevo che non potevo più
tornare indietro.
Oramai quel piccolo frammento di
vita vissuto fino ad allora stava per cambiare. Ed era tutto merito di un bacio.
Note dell’autrice
Salve
a tutti!!!!Edeccoci alla fine di un altro capitolo (Finalmente! Ci
voleva tanto a postare???N.d.Tutti)
Avete
ragione, sono stata davvero cattiva, ho proprio la cazzimma!
(Vero, Ambra?? XD!) Cazzimma
è un termine prettamente napoletano… cosa significa? Non ve lo voglio dire!
Questa è la cazzimma!!!!
XDDDDDDDDD!!!!
Vabbè,
a parte questo… spero che il continuo del chappy vi
sia piaciuto e che non vi abbia deluse… ho cercato di
farlo quanto più realistico possibile… ma alla fine la romanticona
che è in me ha avuto il sopravvento… ^^
Un
grazie speciale a tutte voi che continuate a seguirmi e a darmi sostegno in
questa ff… non sapete quanto mi faccia piacere
leggere tutti i commenti positivi sulla mia storia...
davvero, mi danno la carica per scrivere ancora di più e sempre meglio… spero
che il mio intento di non annoiarvi sia riuscito…^^
Ora
non ho tempo di rispondere a tutte voi, ma sappiate che vi voglio un bene
nell’anima e che vi ringrazio ad una ad una, tutte… ah,
se qualcuno di voi ha notato che non recensisco più storie… non temete, non ho
abbandonato le vostre ff spettacolari (sì, mi
riferisco a voi, eclipsenow e Angel_SilverJ): semplicemente non ho avuto proprio
tempo di farvi sapere la mia opinione… ah, comunque ritengo fantastiche entrambe
le vostre storie, ma credo che voi già lo sappiate^^
Inoltre
ringrazio infinitamente il grande, fantastico, unico e meraviglioso William
Shakespeare, con la cui meravigliosa opera “Romeo e Giulietta” mi ha fornito la
giusta ispirazione per questi due chappy… thankyou!!!!
Solo
un’ultima cosa prima di lasciarvi: beh… non ammazzatemi, ma… la ff sta per giungere al termine.
Eh,
sì, mi dispiace… ma purtroppo… comunque non temete, ci
saranno altri due capitoli denominati “Beat It” (in
cui descrivo la splendida giornata del FalshMob a Napoli il 4 ottobre, al quale io ho avuto l’onore dio
partecipare e ballare per Michael… ç.ç) e “Wheneverything ch’ange” (di cui,
purtroppo, non posso anticiparvi nulla…); seguirà una breve traccia bonus
ancora senza titolo e infine l’epilogo, in cui vedremo il gran finale così come
l’abbiamo sempre immaginato… poi capirete… cavolo, quanto sono sibillina
stasera!!!!
Ancora
un grazie a tutti, a chi mi ha aggiunto fra i preferiti, chi fra le seguite,
chi ha recensito e chi ha letto e basta… grazie ancora a tutte per il vostro
supporto, non so proprio come ringraziarvi!!!ç.ç
A dimostrazione del fatto che non posso permettermi di anticipare
capitoli ancora non iniziati … beh, mi dispiace moltissimo, ma non sono
riuscita a scrivere “Beat It” T_T
A
dimostrazione del fatto che non posso permettermi di anticipare capitoli ancora
non iniziati … beh, mi dispiace moltissimo, ma non sono riuscita a scrivere
“Beat It” T_T
Quindi,
vi lascio con il terz’ultimo capitolo di questa raccolta… sperando che sia di
vostro gradimento… e che non offenderò nessuno né tanto meno infangherò i
ricordi di Michael ^_^’
PS:
la prima parte dell’avviso messo all’inizio di questa ff (quello scritto in
rosso che diceva: “Ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale”)…
beh, non vale più. In questo racconto mi accingerò a scrivere un evento che –
per l’immensa felicità di Michael – è accaduto realmente… la seconda parte però
vale ancora:
QUESTA
FF NON È A SCOPI DI LUCRO!!!!
PS2:
Vi consiglio, mentre leggete, di ascoltare “I’ll be there” dei Jackson 5 o “You
are my life”, o “Speechless”… sono queste le canzoni che mi hanno ispirata
maggiormente… ma potete scegliere
comunque
una canzone che abbia lo stesso ritmo calmo e morbido, anche non di Michael^^
Bene,
detto questo… enjoy the chapter!!! J
7. WHEN EVERYTHING CHANGE
13 Febbraio 1997, Beverly Hills, California
Le pareti bianche dell’ospedale
correvano veloci mentre sfrecciavo alacre nel corridoio, con il cuore in gola.
Alle narici mi arrivava il classico tanfo di medicinali e strumenti
antisettici; per via delle mie numerose visite mediche conoscevo ormai ogni
minima sfaccettatura di quei lezzi… eppure ogni volta ne ero disgustato a tal
punto da provocarmi – a volte – dei conati di vomito. Quel giorno, per mia
fortuna, ero troppo preoccupato per farmi venire qualcosa. Non ero più io il
protagonista: ne era un altro. Anzi, un’altra. La protagonista della mia vita.
-Signor Jackson!-.
Una voce maschile mi fece
miracolosamente fermare e voltare. Davanti a me c’era il volto del dottor Evan
Miller: era lui che mi aveva chiamato.
-Dov’è?-, chiesi.
-Di là-, rispose, indicando il
corridoio alla mia sinistra.
Io annuii e imboccai quella
strada correndo.
Non sentivo nulla dall’esterno:
l’unico rumore che mi arrivava nelle orecchie era il battito accelerato del mio
cuore e del respiro affannoso.
Cavolo, cavolo, cavolo, cavolo… fa’ che sia arrivato in tempo, fa’ che
non sia successo nulla di brutto… cavolo, cavolo…
Poi davanti a me comparve una
porta.
E da dove era sbucata?
Ma che te ne? Va’, entra!
Quella preziosa vocina nella mia
testa… quanto la adoravo…
Gli occhi mi luccicarono quando
mi ritrovai ad un passo dalla maniglia…
-Fermo!-, esclamò una voce
riportandomi brutalmente nella realtà dal fantastico mondo dei sogni in cui mi
ero rintanato… come al solito.
Mi voltai stralunato con la mano
a mezz’aria che non attendeva altro che sentire il contatto del ferro freddo su
di essa.
-Cosa c’è?-, chiesi al dottor
Miller con un tono che rasentava la maleducazione.
-Deve indossare i guanti, la
mascherina e il camice per poter entrare, signor Jackson-, mi ricordò con tono
paziente.
Impiegai qualche secondo prima di
registrare la frase.
Accidenti!
-Ha ragione, mi scusi…-,
mormorai, ad un passo dal prendermi a schiaffi se non l’avesse fatto lui.
-Non importa-, mi rassicurò lui
con un sorriso, che ricambiai dopo qualche secondo.
Mi disinfettai le mani e indossai
tutto il necessario per entrare in sala operatoria.
-Pronto?-, mi chiese quando ebbi
finito.
Mi si chiuse lo stomaco.
-Non lo so… lo spero-, ammisi,
affranto.
Lui sorrise comprensivo.
-È la prima volta, vero?-, mi
chiese.
Io annuii mordendomi il labbro
inferiore.
Lui mi carezzò il braccio con la
mano.
-Non si preoccupi: andrà tutto
bene-.
Il contatto della sua mano e la
frase che seguì servirono – anche se minimamente – a farmi rilassare.
-Speriamo…-.
Lui mi sorrise ancora una volta e
mi fece un cenno con la mano: potevo entrare.
Io spostai lo sguardo da lui alla
porta.
Sospirai.
Poi annuii.
Ci siamo, Michael. Fatti valere.
Abbassai la maniglia ed entrai.
La visuale che mi si presentò
davanti agli occhi mi tolse il fiato.
Al centro della stanza c’era un
letto… o almeno, mi sembrava tale da quel poco che s’intravedeva: era
circondato da luci e da macchinari. Intorno ad esso, inoltre, vi erano alcuni
infermieri e una dottoressa, affannati attorno ad una strana ed alta figura
coperta da un telo, anch’esso bianco come tutto il resto. Mi guardai attorno,
stordito. Che diavolo ci facevo lì?
-Signor Jackson!-.
Per la terza volta durante quella
giornata cascai dalle nuvole udendo il mio nome.
Mi voltai con lo sguardo sperduto
e intravidi tra la confusione della mia mente un’infermiera che mi veniva
incontro.
-Finalmente è arrivato! Non
faceva altro che chiedere di lei-, esclamò, trascinandomi di peso verso il
letto.
Su di esso era distesa una donna
dai capelli biondi, sudata e ansimante, coi capelli appiccicati sulla fronte e
il volto contratto in una smorfia di dolore. La guardai per qualche secondo,
prima che si accorgesse di me.
-Michael…-, sussurrò Debbie, mia
moglie e fra poco futura madre del mio primo figlio.
-Ci siamo quasi, forza!-.
Le stringevo la mano
convulsamente, tentando di infonderle coraggio. Avevo paura, ma ero anche
eccitato: finalmente diventavo padre, il mio sogno stava per avverarsi.
Debbie era stremata, urlava e si
contorceva come se la stessero crocifiggendo. Il suo dolore fu una fitta al
petto: la vedevo patire e mi chiesi che cosa avesse fatto di male per meritarsi
tutta quella sofferenza. E, per giunta, era colpa mia.
Maledizione, Michael, non farti venire questi assurdi pensieri in
mente! Ne avete parlato molto, ne avete discusso, entrambi sapevate a cosa
andavate incontro con questa scelta, soprattutto lei: non rovinare questo
attimo.
Annuii mentalmente. “Voce, quanto
ti adoro!”, pensai.
Mi feci coraggio e provai a
destarlo anche in mia moglie.
-Dai, Debbie, non mollare, forza!
Ci sono io qui con te, te lo giuro, sarò sempre accanto a te, non ti lascerò
mai... tu non sarai mai da sola…-.
Debbie emise un gemito.
-Sì, lo so… ma dovevi proprio
parlare di quella canzone?!-, esclamò fra un affanno e un altro.
La fissai allibito.
-Perché? Non ti piace “You are
not alone”?-, chiesi, triste e spaesato.
Lei emise un altro urlo ed io le
strinsi la mano ancora più forte.
-No, per niente!-, esclamò.
-E perché?-, replicai, offeso.
La stretta era così forte che per
poco le sue unghie non mi facevano sanguinare. Inspirai profondamente per il
dolore, ma non fiatai
-Perché nel video stavi con la
tua ex-moglie!-, sbottò, per poi lasciarsi scappare un altro urlo.
Anche quella volta mi trattenei
dal non prendermi a schiaffi.
Che idiota…
Mi abbassai all’altezza del suo
volto e dissi: -Ma ora ci sei tu, non pensare a Lisa, stai per fare una cosa
che lei non ha mai fatto: darmi un figlio… il regalo più bello che una donna
possa dare all’uomo che ama. Adesso concentrati e impiega tutte le tue forze
per far nascere il nostro piccolo, ok? Sei una super-mamma, lo sarai sempre ed
oggi è venuto il momento di dimostrarlo. Forza, Debbie, continua così, ti
amo!-.
Lei annuì, rossa in viso.
-Anch’io ti amo-, rispose.
-Spingi, Debbie, spingi!-,
ripeteva Honey, un’infermiera sua amica.
Lei obbedì.
-No… non ci siamo, Debbie, non ci
siamo! Dai, più forte! Il bimbo vuole nascere!-, la incitava Honey.
-Ci sto provando!-, replicò lei
con voce stremata.
Io entrai nel panico.
Perché ci metteva così tanto, eh?
Perché?
“Oh, Signore”, pensai, “ti
prego, fa’ che nasca, ti prego, fa’ che se la cavi… che se la cavino entrambi…
farò qualunque cosa… qualsiasi… ma, ti scongiuro: fallo nascere!”.
Pregavo, pregavo per trovare un
aiuto, pregavo guardando il crocifisso appeso al muro di fronte a me. Sapevo
che mi stava ascoltando, me lo sentivo…
“Tiprego!”.
Il problema era se avesse
risposto…
“Ti prego…”
Guardavo mia moglie soffrire e
urlare…
“Farò qualsiasi cosa…”.
-Debbie, non mollare… ce la
farai, basta che spingi più forte… ti prego, Debbie…-, le mormorai.
Lei reclinò la testa all’indietro
digrignando i denti.
-Ci sto provando…-, ripeté.
-Brava, ma non è abbastanza. Più forte,
tesoro, più forte-.
Lei strinse le labbra come se
trattenesse qualcosa che voleva ma non poteva dire. Evidentemente la sua forza
di volontà vacillò all’ultimo.
-Merda, lo sto facendo!-, urlò, e
spinse.
Quella frase fu cruciale.
-Lo vedo! Lo vedo! Vedo i
capelli!-, esclamò l’infermiera.
Io mi bloccai.
E sorrisi.
“Oh, Dio, grazie! Grazie!”.
-Hai sentito, amore?-, le chiesi,
-Hai sentito? Sta per uscire! Capisci? Sta per nascere! Però non ce la può fare
senza il tuo aiuto: continua a spingere, ti prego, continua!-.
Per un attimo dimenticai che
stavo vicino a mia moglie e feci un passo avanti, alla mia destra, verso
l’infermiera. La mano di Debbie scivolò facilmente dalla mia presa. Mi resi
conto della stranezza della situazione e mi voltai, guardandola interrogativo.
-Non preoccuparti per me-,
rispose decifrando subito la mia espressione e cancellando via tutti i dubbi.
Un passo.
Due passi.
Tre passi.
Ed eccomi, accanto ad Honey.
Per un attimo rimasi sconvolto da
quella vista.
L’apertura era ingrossata a
dismisura e ricoperta di sangue scarlatto. Tutta quella quantità di rosso mi
provocò delle leggere vertigini, seppure per un attimo.
No, Michael, non farti venire niente, ti prego.
Chiusi gli occhi e inspirai
profondamente. Quando ebbi acquistato coraggio li aprii.
Guardai nuovamente.
Vidi della paglia.
Feci una smorfia.
Paglia?!
Guardai meglio.
Non era paglia.
Sussultai.
Erano capelli.
I capelli di mio figlio.
La prima cosa che vidi.
-Vai, Debbie, un’ultima spinta!-.
Fuoriuscì la fronte.
Forza, Debbie.
Ed eccola la testa.
Era enorme, come quella di mio
nonno e di mio fratello Randy.
-Oh mio Dio…-, mormorai,
vedendola.
-Bravissima, Debbie!-, esclamò Honey.
-Michael? È il tuo turno-, mi chiamò.
-Eh?-, domandai, cascando dalle
nuvole.
-È il tuo turno-, ripeté.
La guardai stranito per qualche
secondo prima di capire le sue parole.
Sorrisi e mi avvicinai al
bambino.
Piano, con delicatezza, lo
afferrai nei punti indicatimi da Honey.
Io ero ansiosissimo, ma tentavo
di mostrare quanto più coraggio e sangue freddo possibile.
Lentamente lo feci sgusciare
fuori e, con un ultimo sforzo, lo strappai definitivamente dall’interiorità
della madre per portarlo in vita.
Guardai quella sagomina che avevo
appena estratto.
Era sporco e pieno di sangue, uno
spettacolo che metteva i brividi.
Ma a me parve la cosa più bella
del mondo.
Furono emozioni indescrivibili
quelle che provai in quel momento. Neanche esibirsi in concerto può essere
paragonabile alle mille emozioni che pervadevano il mio cuore.
Fu un rumore a farmi capire che
ce l’avevo fatta.
Quell’unico, strano rumore.
O meglio, strana fu la mia reazione
ad esso.
Mi era familiare, eppure mai come
quella volta il pianto di un neonato mi scosse così profondamente e mi allargò
il cuore come nessun altro bambino avesse mai fatto prima.
-Eccolo-, disse Honey. -Michael,
vuoi tagliare il cordone ombelicale?-.
Guardai l’infermiera.
Sorrisi.
-Sì-, risposi. –Grazie-,
continuai, con tono riconoscente.
Prese il piccolo e mi porse una
forbice dalla foggia ambigua.
La guardai meglio, e scoppiai a
ridere.
Era a forma di cicogna.
Misi il pollice e l’indice nei
due buchi e mi avvicinai al piccolino.
Il cordone era di un rosso scuro,
e c’erano anche alcune linee bianche e nere. Appoggiai l’utensile su di esso e
lo chiusi con un gesto secco.
-Fatto-, annunciai, commosso.
L’infermiera avvolse il piccolo
in un panno, per poi venire verso di me.
Credevo che stesse per darmelo in
braccio, ma passò oltre, dirigendosi verso Debbie.
Glielo mostrò e fece per
passarglielo.
-No-, disse lei.
La guardai allibito, e Honey mi
imitò.
-Dallo a Michael-, continuò.
Trattenei il respiro e guardai
dapprima Debbie, che aveva uno sguardo sicuro, poi Honey, nelle cui iridi
c’erano dipinti solo stupore e smarrimento.
Allungai le braccia verso quel
fagotto e Honey capì.
I’ll reach out my hand
to you…
Venne verso di me, e pochi
secondi dopo mi porgeva il piccolo.
I’ll have faith in all
you do…
Era un batuffolo di seta sporco e
piangente quello che stringevo forte al mio petto, incurante del fatto che
potesse sporcarmi i vestiti.
Lo guardai negli occhi.
Erano impiastricciati, ma potevo
vedere il loro colore: un azzurro chiaro e intenso.
Gli occhi di mio figlio, il mio
piccolo fagottino morbidone.
-Come lo chiamate?-, chiese Honey
mentre stringevo la mano del piccolo nella mia.
-Per me è uguale, decide
Michael-, rispose Debbie,
Io la guardai allibito, felice e
riconoscente.
-Davvero?-, mormorai, con la voce
incrinata.
Lei annuì sorridendo, le occhiaie
in bella mostra.
Tornai a guardare il fagottino.
-Il figlio del Re del Pop deve
avere un nome degno di un principe-, iniziai io.
Gli accarezzai dolcemente
quell’ammasso di sangue, acqua e paglia che erano i suoi capelli.
-Prince-, dissi. -Prince Michael
Jackson-, aggiunsi.
Le due donne sorrisero.
-Un po’ troppo da principe, ma… sì, direi che va bene-, giudicò Honey.
-Il nome di tuo nonno materno…-,
sussurrò Debbie.
Io la guardai sorridente e
annuii.
-Aspetta, vediamo se gli piace-.
Guardai quel fagottino che
piangeva ancora e lo chiamai: -Prince? Prince Michael Jackson, ti piace? Little
Prince, Piccolo Principe, Piccolo Prince. Come ti sembra?-.
Mi guardò per un attimo e smise
di piangere.
Just call my name and
I’ll be there…
Sorrisi e una lacrima di gioia
solcò la mia guancia.
Lo alzai e lo mostrai
all’infermiera e a mia moglie, attento a non fargli del male.
-Prince Michael Jackson. Mio
figlio-, decretai, raggiante.
Eravamo soli io e Debbie, nella
sala.
Gli infermieri erano andati tutti
a lavare Prince e il dottore invece doveva fare alcuni accertamenti.
Le asciugavo il sudore sulla
fronte e la sistemavo.
-Grazie…-.
Mi guardò.
Le sorrisi, e lei fece lo stesso.
-Grazie per avermi dato un
figlio… grazie per aver esaudito il mio più grande desiderio… grazie, Debbie-,
mormorai.
Lei si alzò un po’ e mi carezzò
la guancia sinistra.
Le presi la mano tra la mia e le
baciai le dita; lei mi carezzò le labbra.
-Sapevo che lo desideravi da
tempo, per questo l’ho fatto. Non ringraziarmi: il mio è un segno d’affetto-.
Io annuii.
-Posso portarlo a casa?-,
domandai.
-Se è quello che desideri…-,
rispose, scrollando le spalle.
Le sorrisi.
-Ti ringrazio-.
Honey entrò disparata bloccando
quel momento di puro idillio. Si fermò accanto al letto guardandoci in modo
grave.
-Che succede?-, le domandai.
Lei mi guardò tentando di
mascherare – inutilmente – la sua preoccupazione.
-Beh… ecco… c’è… c’è un
problema-, balbettò.
-Che tipo di problema?-,
domandai, ansioso.
-Si tratta di Prince… non respira
bene-, disse infine.
Io e Debbie ci guardammo
angosciati.
-Dobbiamo portarlo urgentemente
in terapia intensiva, oppure…-.
-Oppure?-, la spronai, nervoso.
Lei mi guardò afflitta.
-Oppure potrebbe non farcela-.
Quella frase mi colpì il cuore
come una freccia.
No… no, ti prego, no…
-N… no… no… NO! Lui… lui… è
appena nato… non può, non può… no…-, balbettavo, confuso e incredulo.
Mi alzai improvvisamente e
raggiunsi correndo Honey.
-Voglio vederlo!-, esclamai.
-Non puoi, Michael, lo sai-.
-Non m’importa, voglio vederlo.
Adesso!-.
-Michael, smettila di fare il
bambino! Ora sei padre, tu devi
accudire tuo figlio, non il contrario, chiaro?-.
Rimasi imbambolato a fissarla.
Quella frase mi aveva trafitto il
petto come un dardo facendomi mancare il respiro. Iniziai a ricredermi
seriamente sulle mie capacità di essere un genitore responsabile.
Il fatto che fosse stata Honey a
pronunciare quelle parole mi stupì più del loro reale significato: eravamo amici,
ci conoscevamo da tempo… per aver detto quelle cose avevo proprio esagerato. Aveva
ragione, aveva completamente ragione.
Abbassai lo sguardo e mi morsi il
labbro inferiore.
-Scusa…-, mormorai. -È che…-,
-No, Michael, scusami tu. Non
avevo il diritto di dirti quelle cose. Siamo tutti nervosi, è normale. L’unica
cosa da fare è aspettare e sperare in un miracolo-, disse lei.
Io annuii.
-Ora però non puoi restare qui:
Debbie deve essere lavata-.
Mi voltai verso mia moglie, e mi
accorsi che aveva gli occhi lucidi.
Le andai vicino e le carezzai i
capelli, mentre asciugavo una lacrima sul suo volto.
-Andrà tutto bene, non temere-,
la rassicurai.
Uscii fuori guardandola per
un’ultima volta e mandandole un piccolo bacio con la mano. Mi diressi verso
l’ufficio del dottor Miller, l’unico posto in cui non potevo essere disturbato:
quei maledetti paparazzi erano riusciti quasi ad arrivare nella sala d’attesa.
Fortunatamente, c’erano le forze dell’ordine e le guardie del corpo che erano
riusciti a frenare la loro corsa prima che raggiungessero la saletta dove era
ricoverata Debbie… ma per cautela gli addetti alla sicurezza mi avevano evitato
di poter scorrazzare libero per l’ospedale, scusandosi ripetutamente per
l’inconveniente e promettendomi che in futuro non ci saranno di questi
problemi. Io potevo solo obbedire.
Alla faccia del Re del Pop…
Entrai nella stanza del dottore
col cuore in gola come se stessi penetrando in un appartamento per derubare. Mi
guardai attorno per accertarmi che non ci fosse nessuno; la stanza era gremita
di libri di medicina: ce n’erano sugli scaffali, sulla scrivania di fronte a
me, su una specie di mobiletto grigio chiaro e uno perfino sul davanzale della
finestra che dava sul giardino nel retro.
Mi avvicinai ad essa e mi
affacciai.
Il vento sottile scuoteva le
fronde del salice.
Il salice…
Associato al mito lunare perché
prediligono l’acqua, nel calendario celtico il Salice era il quinto mese,
corrispondente a quello della grande
madre… il salice è il simbolo della terra… dei fiori… della nascita…
Chiusi gli occhi.
Di fronte a me vedevo l’ombra
delle foglie dell’albero che si muovevano a ritmo del vento…
Ascoltami…
…il loro fruscio…
Ascoltami…
Non so quanto tempo trascorsi in
quella posizione. Ero così sereno…
Aprii di scatto gli occhi e mi
precipitai fuori dalla stanza.
Sul mio tragitto non incontrai
nessuno, e quei pochi che c’erano erano tutti impegnati nei loro affari per
badare a me.
Raggiunsi l’uscita secondaria in
poco tempo e mi trovai nel giardino.
Di fronte a me si ergeva in tutta
la sua maestosità quel salice meraviglioso. Era forte e imponente, sebbene la
sua chioma si abbassasse verso il suolo a mo’ di lacrime che scendono dagli
occhi.
Mi ricordava molto il Colosseo,
che vidi per la prima volta quasi dieci anni prima.
Lo guardai per non so quanto
tempo, rapito dalla sua bellezza.
Lo contemplai rapito, incurante
dello scrosciare di ogni minuto, di ogni secondo… ricordo solo che mi avvicinai
lentamente ad esso con fare timoroso e posai delicatamente una mano sulla sua
dura corteccia. Chinai il capo in segno di rispetto e sottomissione e toccai il
tronco ruvido con la mia fronte.
Rimasi in quella posizione per un
periodo di tempo indeterminato, per poi alzare lo sguardo.
Fa’ che viva…
Il vento mi carezzava il volto e
mi faceva giungere alle orecchie lo splendido suono della voce del salice…
era calda…
serena…
rassicurante…
-Signor Jackson!-.
Può una semplice frase portarti
via da uno stato di pura estasi quale quello che avevo vissuto fino a quel
momento?
Sì, può.
Lo aveva appena fatto.
Mi voltai lentamente e mi
ritrovai naso a naso con il dottor Miller.
-Le avevamo detto di non
uscire!-, esclamò.
Sorrisi mesto.
-Lo so… ma ho visto questo
splendido albero e non ho potuto fare a meno di recarmi qui… è un salice
stupendo…-, mormorai con aria sognante girandomi a guardare l’oggetto dei miei
miraggi.
Lui mi guardò attonito.
-Beh, ehm… sì, lo è… oh, ma che
sto dicendo?!-, balbettò confuso. –Signor Jackson-, ripeté con tono perentorio,
costringendomi – mio malgrado – a far incrociare le nostre iridi.
-Devo darle una notizia…-,
continuò.
In un attimo ricordai perché mi
ero recato nel giardino, il motivo alla mia preghiera silenziosa a quella
maestosità che si ergeva alle mie spalle, il mio affanno e le mie
preoccupazioni.
Il mio cuore fu di nuovo oppresso
dall’ansia, crudele assassina della mia serenità.
-Suo figlio Prince…-.
Dimmi che è vivo… dimmi che ce l’ha fatta… ti prego…
-…può respirare. Sta bene. Ora si
trova con la madre-, disse lui con un sorriso.
Senza parole, senza parole: ecco come mi fai sentire…
Ecco come mi sono sentito.
Senza parole.
Sorrisi e mi voltai verso il
salice.
“Grazie…”, pensai.
Abbassai il capo e lasciai che
una piccola lacrima solcasse la mia guancia.
-Wooo!-, urlai, per poi iniziare
a correre per il giardino verso l’ospedale.
Mia moglie mi stava aspettando.
E con lei c’era mio figlio.
Il piccolo piangeva.
-No, Prince, per favore, non
piangere…-, lo pregavo.
Ma non mi sentiva.
Eppure era strano: gli avevo dato
da mangiare, l’avevo cambiato, avevo tentato di farlo addormentare, ma non
voleva… che diavolo dovevo fare di più?
-Prince? Dai, smettila,
principino… non piangere… dai, poi fai piangere anche me… e non vuoi che il tuo
bel paparino pianga, vero?-.
Ma secondo te ti capisce? E poi “bel paparino”… mio Dio…
-Vedi? Mi hai fatto piangere,
visto? Buaa!!-, esclamai, fingendo di piangere.
Ecco, ora stai dando i numeri.
Sbuffai.
“Colui che sa incantare milioni
di persone nel mondo non riesce a far smettere di piangere suo figlio di tre
mesi… il colmo…”, pensai.
Poi mi balenò un’idea in mente.
Era una follia, e avrei potuto
passare per ridicolo, ma… insomma, ma chi mi vedeva? Stavo a casa mia, giusto?
No paparazzi a Neverland. Assolutamente.
-Prince! Mio principe! Guarda
papà che ti fa!-, esclamai.
Poggiai il piccolo nel sediolone
e misi un CD nello stereo.
Mi piazzai di fronte a lui.
Dopo qualche secondo mostravo i
miei famosissimi passi di danza a mio figlio sulle note di “Thriller”.
Fu questione di poco tempo.
Prince smise di piangere.
“Ci sono riuscito!”, esultai.
Dalla gioia feci una piroetta
velocissima, mi gettai a terra e alzai le braccia verso il cielo gridando:
“Aaow!”.
Un rumore caldo e rassicurante
arrivò alle mie orecchie.
La risata di Prince.
Prince rideva.
Il mio piccolino rideva.
Rideva perché mi aveva visto
ballare.
Rideva perché aveva visto il suo
bel paparino ballare.
Rideva per me.
Lo guardai stralunato.
Mi alzai e andai verso di lui.
Aveva smesso di ridere e mi
guardava sognante, aspettando la prossima coreografia.
Non poteva aver riso…
No, aspetta, adesso devo
controllare…
Feci una mossa strana con le
spalle e la testa.
Sentii ancora quel rumore.
Guardai Prince e vidi le sue
gengive.
Rideva.
Stava ridendo.
Avevo fatto ridere tanti bambini
nella mia vita, ma… no, quello che provai in quel momento fu indescrivibile.
Impossibile da spiegare.
Insomma, mio figlio rideva!
Rideva!
Il mio principino rideva… e lo
faceva solo per me.
Solo per suo padre.
Ricordava quando il padre gli raccontò di quel
giorno… i suoi occhi brillavano e la bocca era spesso propensa a tendersi in un
dolce sorriso che riscaldava i cuori… un sorriso che non avrebbe mai più
rivisto…
-Addio, papà-, mormorò Prince guardando per
l’ultima volta quella bara dorata.
3 Aprile 1998, Los Angeles, California
Un cielo terso e un sole splendente,
prati verdi e fiori dai mille colori, ruscelli e fiumi con tanti piccoli pesci,
laghi profondi in cui potersi specchiare.
Correvo in quella bellezza,
guardando le farfalle che danzavano sulla mia testa. Ogni tanto saltavo per
prenderle, e talvolta una di loro si posava delicatamente sulla mia mano o sul
mio naso.
Mi fermai e mi sdraiai sull’erba
fresca, beato.
Una brezza morbida mi carezzava
il viso e penetrava nella camicia; ero così rilassato…
“Michael…”.
…così sereno…
“Michael…”.
…così…
“Michael…?”.
…così…
“MICHAEL!”.
Mi svegliai di botto, col cuore
che stava per fuoriuscire dal petto e i polmoni in fiamme.
Ero nella buia stanza da letto, e
gli unici rumori che sentivo era quello del mio respiro affannoso… e… acqua che gocciola?!
-Michael…-. Di nuovo quella voce.
Mi alzai e raggiunsi l’ombra di
fronte il mio letto.
-Cosa succede?-, chiesi.
Debbie guardò prima me, poi il
pavimento bagnato sotto i suoi piedi.
Sgranai gli occhi.
-Si sono rotte le acque-,
mormorammo all’unisono.
-Pronto?-, rispose una voce
femminile assonnata.
-LaToya!-, esclamai. –Debbie ha
rotto le acque, stiamo arrivando all’ospedale, avvisa tutti!-.
-Quale acqua?-, domandò lei.
-L’acqua, l’acqua! L’acqua di
Debbie!-, esalai, non ricordando il nome del liquido nell’utero. –Si è
allagata!-.
-Vi siete allagati?! Ah, si sono
rotti i tubi! E perché chiami me? Meglio un idraulico, no?-.
E attaccò.
Io rimasi a bocca aperta.
-Ma che…-, sbottai, bloccandomi
all’ultimo, mentre componevo il numero di Janet.
Vai, Michael, dillo!
Uno squillo.
Forza, Michael, dillo!
Tre squilli.
“Ma che…”.
E dai, dillo!
Cinque squilli.
Serrai le labbra picchiettando
insistentemente le dita sul comodino.
“…che…”.
Ma che ti costa? Dillo!
Sei squilli.
“…che…”.
La mia volontà si distrusse
quando aprii bocca.
-Pronto?-, mormorò Janet.
-Che puttana!-, esclamai.
Attimo di silenzio.
-Michael?-, domandò sconcertata
lei.
Mi sentii gelare.
-Janet! Cavolo, scusa, io… no,
no, scusa, non ce l’avevo con te, sorellina! Scusa, scusa, scusa, scusa…!-,
dissi d’un fiato, maledicendomi.
-Michael?-, ripeté. –Ti rendi
conto del fatto che hai appena detto una parolaccia? Ciò che in quasi 40 anni
non hai mai fatto?-.
Sospirai.
-Sì, lo so…-, mormorai. Poi
scossi violentemente la testa. –Non è di questo che voglio parlare! Ascolta,
Janet: Debbie ha rotto le acque. Sì, esatto, quelle acque-, dissi dopo una
breve pausa. -Stiamo andando all’ospedale, vieni qui, okay? Sai Prince dorme…
sì, lo so che c’è la tata, però con te mi sento più sicuro…-.
-Oh! Okay, io… vengo subito…-,
balbettò.
-D’accordo, sorellina. A dopo,
avvisa anche gli altri, okay? Ah, fammi un piacere: va’ da LaToya, dalle una
martellata in testa e dille che gli unici tubi rotti sono quelli del suo cervello-.
-O…okay…-, rispose, basita.
-Grazie mille, a dopo-, e
attaccai.
Mi voltai verso Debbie, che
intanto aveva preso delle asciugamani e mi guardava.
-Andiamo-, dissi.
Stessa scena, stesso affanno,
stesso corridoio albino. Solo la città cambiava, il resto era uguale.
Trasportavano Debbie su un
lettino con le rotelle, e io le correvo dietro.
-Signor Jackson, si disinfetti,
poi potrà entrare-, mi informò un infermiere mentre trasportavano mia moglie
nella sala e la porta si chiudeva davanti a me.
Rimasi per qualche secondo
immobile, prima di scuotere la testa nel tentativo di risvegliarmi dal
momentaneo stato di torpore. Mi diressi a sinistra, dove il dottor Thompson mi
aspettava; mi porse tutto il necessario. Lo indossai con velocità, preoccupato
e idealmente già presente nella stanza.
-Pronto?-, mi chiese, quando ebbi
finito di prepararmi.
-Spero di sì…-, risposi con un
sorriso.
-È il primo figlio?-.
-Ehm… no, veramente è il secondo.
Anzi, la seconda-, risposi.
-Oh. La facevo più giovane…-,
disse lui.
-Ah. Ehm… grazie…-, mormorai,
imbarazzato.
Mi voltai. Di fronte a me c’era
la porta della sala di ricovero.
Il cuore mi batteva all’impazzata
e le gambe mi tremavano. Però ero pronto. Sì, ce la potevo fare, se ci sono
riuscito con Prince perché non sarebbe dovuto accadere lo stesso ora?
Ci siamo, Michael. Fatti coraggio.
Presi un bel respiro e abbassai
la maniglia.
Era un dejà-vu.
Al centro della stanza
troneggiava una figura bianca e indistinta e numerosi infermieri si affannavano
attorno ad essa. Per un attimo mi sentii mancare: e se fosse accaduta la stessa
cosa di Prince? Se la bambina non avesse potuto respirare?
-Michael!-.
Fu quella voce così familiare a
riportarmi sulla Terra, ancora una volta.
Veniva verso di me la donna
sorridente dai lunghi capelli color miele e gli occhi blu.
-Honey!-, esclamai,
abbracciandola.
-Non puoi proprio fare a meno di
me, eh?-, mi rimbeccò con tono falsamente di rimprovero.
-Eh, già…-, dissi solamente.
Mi prese per mano e mi condusse
accanto a mia moglie. Affannava, sudava, il viso era contratto.
Sì, proprio tutto uguale.
Ogni minima cosa.
La mia stretta nella sua mano,
l’ansia, le grida, gli incoraggiamenti, i pensieri belli e meno belli…
Sgranai gli occhi.
No, non sarebbe andata come con
Prince. Non avrei sentito Honey che diceva: “C’è un problema”, non sarei stato
in pena per cinque ore, non avrei sentito brutte notizie.
Ma dovevo escogitare un piano.
Dovevo portar via la bambina da
quell’ospedale prima che me la strappassero via dalle braccia.
E intanto mia moglie strillava…
-Vai, Debbie, spingi!-.
Gridava…
-Forza, ci siamo quasi!-.
Soffriva…
Ti prego…
Un ultimo urlo, enorme,
lancinante, entrò prepotente nella mia mente scuotendomi. Mi vennero i brividi
ad ascoltarlo: era come se la natura avesse gridato all’uomo tutto il male che
le aveva provocato in quei millenni.
Le mie orecchie erano frastornate
da quello strillo, per un attimo i miei timpani smisero di funzionare.
Poi capii, dal rumore che seguì,
che potevo ancora sentire. Che la natura non si era ribellata, ma che si stava
mostrando in tutta la sua magnificenza.
Quel suono… quella musica
sublime… era un pianto… ma mi parve una delle risate più gioiose che potessero
esistere…
-Eccola…-, mormorò Honey.
You suddently appeared…
it was cloudy before, now it’s so clear…
L’aveva estratta lei quella
volta. D’altronde non potevo farlo sempre, no?
-Oh mio Dio…-, mormorai vedendo
la bambina.
You tookaway the fear… and you brought me back to the
light…
Era piccola, era sporca, era
piena di sangue…
Era stupenda…
Era il mio sole…
You are the sun…
Era la mia luna…
You are the moon…
Era mia figlia.
You are my life…
Tagliai il cordone ombelicale
anche quella volta (questo me lo potevo permettere!).
-La vuoi prendere in braccio?-,
mi chiese Honey.
Annuii, le lacrime già pronte ad
uscire.
-Come si chiama?-, mi chiese.
Guardai Debbie, che mi sorrise
con coraggio.
Tornai a guardare la piccolina.
-Paris-Michael Katherine Jackson. Ti
piace?-, le domandai.
Honey annuì.
-Bello… profondo. Sì,
aggiudicato!-, esclamò.
Io la fissai ironico.
-Veramente dicevo alla bambina-,
la informai, e lei arrossì.
-Ah… scusa-.
Risi.
-Macchè! Figurati…-. Il fagottino
si guardava attorno con quei suoi occhi luccicanti impastati dal sangue e dal
resto.
-Allora? Che ne dici? Paris e
Katherine, come le tue nonne. E Michael come il tuo papà, così sarò sempre con
te… ti piace?-.
E la piccolina, che fino a quel
momento si guardava attorno spaesata e piangeva per l’aria che le bruciava i
polmoni, si voltò verso di me e mi sorrise.
You are beautiful…
Bellissima.
You’re wonderful…
Meravigliosa.
Incredibile…
Incredibile.
E con un impeto di affetto
improvviso la strinsi forte a me per non lasciarla sfuggire mai.
I love you so…
-Ti voglio bene, Paris-.
-La porto a casa-.
Honey si fermò sbigottita mentre
stava per prendere la bambina che tenevo in braccio.
-Eh?!-, esclamò.
-Ho detto che la porto a casa. La
bambina. La porto con me. Non c’è bisogno che la lavi, lo farò io. Anzi, vieni
anche tu così mi darai una mano-, dissi, sicuro di me stesso.
Honey sbatté più volte le
palpebre. Poi alzò il braccio destro e mise la sua mano sulla mia fronte.
-Mike, sei sicuro di stare
bene?-, domandò.
Sbuffai e la tolsi con un gesto
secco.
-Smettila di scherzare-.
-No, smettila tu. Ti rendi conto
di quello che mi hai appena chiesto?-.
-Certo-, risposi, scrollando le
spalle.
Lei mi fissò per qualche attimo
allucinata prima di scuotere la testa.
-Sei impossibile… non capisco chi
tra lei e te sia il bambino-, mormorò, esasperata.
-Oh, allora? Vuoi aiutarmi o
no?-, chiesi infine impaziente mentre Paris aveva ricominciato a lamentarsi.
Lei alzò gli occhi al cielo.
-Me ne pentirò amaramente un
giorno, ma… uffa, e va bene, portala da te!-.
Io sorrisi raggiante.
-Grazie mille, Honey!-.
Lei scosse la testa.
-Muoviti, o le verrà qualcosa!-,
esclamò.
Io annuii.
-Debbie?-, chiamai mia moglie.
Lei mi guardò stanca.
-Sai quello che penso-, fu la sua
unica risposta.
Capii subito.
-Grazie-.
Era Natale.
Paris aveva tre anni, e per
l’occasione la tata le aveva fatto indossare un bellissimo vestito di velluto
rosso scuro. Era una bambola di porcellana con quei suoi riccioli che cascavano
tenui sul collo accarezzandole la pelle lattea.
Vagava felice, allegra e
spensierata per la casa sul suo nuovo triciclo che un mio amico le aveva
regalato.
-Papà, papà!-, esclamava.
Io correvo e lei mi inseguiva,
ridendo.
-Aiuto!-, fingevo, mentre
scappavo dappertutto tentando di non farmi acciuffare dalla mia bambolina.
-‘Cappa, ‘cappa!-, urlava, mentre
mostrava in tutta la loro magnificenza i suoi piccoli dentini brillanti.
Prince poi, preoccupato per la
sorella minore – come se fosse più grande di qualche decina d’anni… – le
correva dietro dicendo: -Paris, non veloce!-.
Per un attimo mi parve che il più
maturo fra i tre fosse proprio lui.
Continuammo così per circa una
mezz’oretta, fin quando Janet ci chiamò.
-Bambini? I biscotti sono
pronti!-, esclamò.
I due tesori si voltarono di
scatto con gli occhi lucidi verso la zia.
-Sììì!!-, esclamarono, correndo
veloci verso il vassoio sul tavolo lasciando stare i giochi.
Io rimasi impalato al centro del
corridoio con un’espressione ebete dipinta in faccia.
-Ehi! Ma noi stiamo facendo una
gara!-, esclamai.
Janet mi guardò esasperata.
-Michael, è da quasi un’ora che
continuate a “cacciarvi”… ergo, vieni qui e mangia!-, ordinò con un tono che non
ammetteva obiezioni.
Sbuffai, falsamente contrariato.
-E va bene…-, mi arresi,
sedendomi accanto ai miei gioielli.
Presi un biscotto dalla forma ad
albero di Natale e lo assaggiai.
Gli occhi mi luccicarono.
-Ma sono buonissimi!-, esclamai.
-Li ho fatti io!-, disse
raggiante Jen.
Lo sguardo che le lanciai fu uno
di quanti più scettici e ironici avessi nel mio repertorio.
-Davvero? Allora lo poso-,
continuai schifato.
Lei mi guardò offesa e agguantò
un cuscino dal divano alle sue spalle, lanciandomelo dispettosa. Prevedendo la
sua mossa, riuscii a schivarlo e le feci una boccaccia.
-Cilecca!-, esultai.
-Scemo-.
Io risi e corsi da lei
abbracciandola forte.
-La mia piccola Trilli… -,
mormorai.
Lei rise.
Poi sentii un singhiozzo.
Ma non era Janet.
Mi guardai attorno preoccupato.
Fu allora che vidi Paris
piangere.
No…
Corsi da lei e le misi le mani
sulle spalle.
-Piccola? Tesoro, cos’hai?-, le
domandai.
Lei scosse la testa.
-Dai, dimmelo. Sono il tuo papà,
no? Dimmi cosa ti è successo-.
Lei alzò la testa e le lacrime in
quei suoi occhi così profondi mi colpirono il cuore.
Mi fissava triste e arrabbiata,
come se avessi fatto qualcosa di male.
Bravo, Michael. Hai fatto piangere tua figlia.
“Ma io non ho fatto nulla…”,
pensai. “Non le ho detto niente!”.
Trattenei il respiro.
Ma certo.
Ecco spiegato tutto.
Non le avevo detto nulla.
-No, amore mio, non piangere…-,
mormorai accarezzandole i capelli. -Scusami tanto non volevo… piangi perché non
ti ho chiamata “piccola Trilli”, vero?-.
Lei abbassò gli occhi.
Sospirai afflitto.
-Ma no, non fare così… scusa,
dolce stella, non volevo farti diventare triste… dai, ti prego, poi piango
anch’io!-.
Lei alzò la testa di scatto ed
esclamò spaventata: -No, papà, non piangere!-.
Il mio cuore iniziò a battere
velocemente e mi ritrovai Paris stretta al mio petto.
Allungai un braccio verso il
bambino biondo accanto alla piccolina, che ci guardava felice.
Prince venne vicino a me e ci
abbracciò forte, nascondendo il viso nel mio collo.
-Smile,
though your heart is aching… smile, even though it’s breaking… when there are
clouds in the sky, you’ll get by… if you smile though your fear and sorrow…
smile, and maybe tomorrow you’ll find your life is still worth while… if you
just… SMILE!-, cantai la
“Smile” di Charlie Chaplin, che da sei anni era diventata “mia”.
Paris e Prince capirono, e
sorrisero.
-Bravi, così si fa. Non
smettetela mai di sorridere, è forse uno dei dono più belli che il Signore ci
ha regalato nella nostra vita. Anzi, lo è di sicuro-.
I miei gioielli annuirono.
-Il mio principe…-, mormorai
arruffando i biondi capelli del primogenito, facendolo ridere. Poi mi voltai
verso la bambolina alla mia sinistra dagli occhi ancora arrossati. -… e la mia
Trilli-, dissi.
Lei sorrise.
La mia bambina sorrise.
Trilli sorrise per il suo Peter Pan.
Sarebbe sempre rimasto il suo Peter, l’uomo che
avrebbe amato più di chiunque altro, per sempre.
Ma Peter Pan era immortale… lui, invece, se n’era
andato…
-Proteggici, papà…-, mormorò Paris, guardando
verso il cielo, mentre i suoi zii portavano via la bara dorata.
28 Febbraio 2002, San Diego, California
-Sappi che non smetterò mai di
ringraziarti… non sai quanto tu mi abbia reso felice, oggi-.
La donna dinanzi a me mi guardò
con i suoi occhi neri così profondi.
Quando la vidi la prima volta
seppi che solo lei sarebbe stata in grado di offrirmi quello che la mia ex
moglie Debbie non avrebbe più dato: un altro figlio. Per cui avevo chiesto
aiuto… e lei me l’aveva concesso.
Un utero in affitto.
Una mamma solo per i nove mesi e
per il parto.
Avrei cresciuto io il bambino,
l’avrei mantenuto a mie spese e l’identità della donna sarebbe stata mantenuta
segreta. Lei non avrebbe avuto alcuna influenza sulla vita del piccolo… in
cambio di soldi.
Molti soldi.
Fa niente.
-Non ringraziarmi… consideralo un
piacere-, mi rispose.
Io annuii e uscii fuori, in
attesa che sistemassero tutto.
Mi preparai, fisicamente e
psicologicamente, ad affrontare un altro cambiamento.
Un altro figlio.
Un’altra responsabilità.
Ma ce l’avrei fatta.
L’avrei cresciuto come avevo fatto
con Prince e Paris, sarebbe diventato grande e… no, cosa pretendevo? Che non
chiedesse mai di sua madre? L’avrebbe fatto, e io avrei risposto alle sue
domande.
Dovevo farlo: aveva il diritto di sapere.
-Pronto?-, chiese il dottore alla
mia destra.
Mi voltai verso di lui.
La stessa domanda ripetuta tre
volte.
Destino, un po’ di fantasia mai,
eh?
-Per queste cose non si è mai
pronti, dottor Hughes-, risposi sorridente.
Mi voltai, quella volta deciso e
sicuro – anche se l’ansia era sempre presente – verso la porta.
Presi un respiro e aprii.
Il concepimento non fu molto
lungo o difficoltoso. Tutt’al più un po’ sofferto, come gli altri due, del
resto… ad ogni modo, io le fui vicina per tutto il tempo, senza lasciarla mai.
Non voleva il mio appoggio, ma poco m’interessava: non le avrei stretto la mano
per infonderle coraggio, ma alla nascita del mio terzo figlio non potevo
mancare.
-Sta per uscire!-, esclamò
l’infermiere.
Il cuore mi batté fortemente e le
mie gambe si mossero da sole.
In un attimo mi ritrovai a
fissare la testa scura di mio figlio che usciva dall’interiorità della madre.
-Oh mio Dio…-, mormorai per
l’ennesima volta incantato dalla magnificenza di quello spettacolo.
Il piccolino venne fuori
piangendo tra l’emozione generale.
Era un fagottino… proprio come i
suoi fratelli, che ora lo stavano aspettando…
Gli infermieri gli tagliarono il
cordone ombelicale mentre io mi limitavo a guardarlo con aria sognante.
-Posso?-, chiesi, indicando con
la testa il piccolo e le mie braccia.
L’infermiera che lo manteneva mi
guardò un attimo perplessa, per poi sorridere e annuire.
Me lo porse senza indugi.
Era leggero come una piuma e
tutto sporco.
Era una meraviglia, una forza
della natura.
Una ragione di vita.
Il mio piccolo principe.
-Ciao…-, mormorai.
Lui continuava a guardarsi
intorno stordito, ma non piangeva più.
Nel momento in cui l’avevo preso
in braccio aveva smesso di lamentarsi.
E ciò mi rese felice.
-Ehi, piccolino? Sono il tuo
papà. Sì, proprio il tuo papà. Però non posso chiamarti sempre “piccolino” o “bambino”
o “zuccherino”… insomma, dovrai pur avere un nome, no?-.
Lui mi fissò per qualche momento.
Per un attimo mi illusi che potesse capire quel che dicevo.
-Mmh… che ne dici di “Prince
Michael Jackson”? Secondo, però. C’è già tuo fratello con questo nome. Eh, sì,
hai un fratello. E anche una sorella. Tutti più grandi. E stanno aspettando te,
lo sai? Non vedono l’ora di conoscerti… ah, e avrai un soprannome, altrimenti
dovrò chiamarti “Secondo” e non mi va… mmh… che ne dici di “Blanket”? (à
“Coperta”)-.
Il piccolo si voltò nuovamente
verso di me e mi sorrise.
Edio mi sentii l’uomo più felice della Terra.
-Prince Michael Jackson II-.
Mio figlio.
Un nuovo figlio.
Ma ero pronto.
Io ero pronto.
L’avrei accolto nella mia
famiglia e l’avrei protetto… costi quel che costi.
Eravamo a casa ed erano piazzate
delle telecamere nella mia casa.
Il giornalista inglese Martin
Bashir(*) mi aveva chiesto di intervistarmi sulla mia vita, ed io l’avevo
accolto a Neverland. Sarebbe stata la mia occasione di rifarmi di fronte alla
gente e smentire una volta per tutte le voci che circolavano sul mio conto.
Non ero un pedofilo, non lo ero
mai stato e non lo sarò mai.
Prince II piangeva.
Gli avevo nascosto il volto con
una coperta verde e tentavo di dargli la bottiglia di latte senza scoprirlo.
-Non riesce ad acchiappare il
biberon-, osservò intelligentemente(**) Bashir.
Allungò le mani verso di lui per
togliergli la coperta che lo avvolgeva. Io lo fermai giusto in tempo, alzandola
solo sopra il naso. Non volevo che le telecamere lo vedessero. Era troppo
piccolo, ci sarebbe stato tempo.
Gli diedi il biberon.
-Ecco qua, ce l’ha fatta!-.
Ma lui continuava a piangere.
No, piccolino, non versare lacrime …
Per calmarlo facevo degli strani
versi con la bocca.
-Sì, Blanket! Blanket, Blanket!-,
esclamavo, e smise di piangere. –Ti voglio bene, Blanket… sì, sì… ti voglio
bene… ti voglio tanto bene…-.
Anche lui gli voleva tanto bene… ma tanto… non
immaginava nemmeno… glielo diceva sempre…
-Papà, ti voglio bene…-.
Ma non gliel’avrebbe più ripetuto… quella bara
sarebbe stata portata via per sempre…
-Mi mancherai, papà…-, sussurrò Blanket.
E quei pensieri volavano leggeri, fluttuavano
dinanzi a me…
Tanti pensieri, pensieri di fans e parenti che
mi arrivavano nelle orecchie…
Ma ce n’era uno…
pPiù
forte…
Più
sentito…
Più
dolce…
Che
mi dava la forza…
Ti vogliamo bene, papà…
Note dell’autrice
Salve
a tutte!!!!
*Una
serie di sguardi assassini la inceneriscono all’istante*
*piange
disperata*
Lo
so che vi ho fatto aspettare molto… *sniff* ma la scuola, poi il computer che
fa capricci, poi msn… uffi, scusate!!!!
*s’inginocchia
ai piedi di tutti chiedendo perdono*
Va
bene, adesso vi devo spiegare tutti quegli asterischi…
(*)
“Serpe”: uno dei tanti nomignoli dati a quel giornalista di merda che voleva
mettere in cattiva luce Michael, e che dopo il 25 giugno ha detto: “Ho
mentito”… ma tu e Chandler vi siete messi d’accordo, per caso? O_O
(**)
Chi, tu un intelligente? Ma fammi il piacere… *sgrunt*
Okay,
finito!
Spero
che vi sia piaciuto questo chappy, anche se i pezzi delle nascite di Paris e
Blanket sono più corti… scusate davvero, scusate!!
Ora,
non mi dilungherò molto nei ringraziamenti, ma giuro che nel prossimo chappy vi
ringrazierò ad uno ad uno!!
Un
bacione e un abbraccio ad Alchimista, TanyaCullen, Looney Queen, Eutherpe ed
Eclipsenow, le mie stelle… grazie mille ragazze… per tutto…
Un
grazie infinito anche agli altri, non sapete quanto vi voglia bene!! *.*
Allora… prima di iniziare questo chappy, è giusto che io vi spieghi
alcune cose:
Era luglio.
Orsola stava in
spiaggia.
Era all’ombra,
aveva appena terminato di prendere il sole, operazione che occupava all’incirca cinque minuti della sua giornata, visto che non
amava molto la tintarella.
Pensava un po’,
Orsola.
Pensava alla
Calabria, dove alloggiava da tre giorni per le vacanze estive.
Pensava alle
sue sorelle che stavano facendo il bagno.
Pensava al
ragazzo scuro di pelle seduto cento metri più lontano da lei che assomigliava
tanto a un personaggio di uno dei suoi libri
preferiti.
E poi, pensava al suo mito.
Era poco meno
di un mese che l’aveva lasciata, che aveva lasciato
quel mondo e i suoi fans e lei ancora crogiolava nel
dolore. Un dolore a volte sollevato dalle distrazioni, altre dal solo odore
della salsedine, dal rumore delle onde e dalla calura dei raggi del sole.
Pensava alla
ragazza con la maglia di MJ incontrata la sera prima…
“There’sonly
one King of Pop” recitava la scritta bianca sulla
stoffa blu scuro.
Le aveva fatto
i complimenti per la scelta dell’abbigliamento, al che la ragazza alzò la testa e fissando gli abiti di Orsola le disse: “Beh,
anche la tua non è niente male!”.
In effetti,
quella sera Orsetta aveva indossato una maglia bianca con scritto I LOVE KING
OF POP MJ a caratteri cubitali. Beh, decisamente non passava inosservata con le RayBan e le Converse nere
tappezzate di scacchi (da lei disegnati) e con una frase che recitava: “Heal the World” (da lei scritta). No, decisamente
inosservata.
Una voce la
distolse da quel turbine di pensieri.
Era Lina.
-Tieni, Orsola,
ho comprato questo giornale, ma non so che farmene… dallo a
mamma, glielo regalo-, le disse.
-Ok, grazie-,
rispose e fissò la rivista.
La foto di
un’attrice faceva da sfondo alla copertina, completamente ricoperta da immagini
di volti famosi e frasi.
-Elena Sofia Ricci… Silvio Berlusconi…
la salute… intervista esclusiva con la moglie segreta di Michael Jackson…-.
Orsola sgranò
gli occhi.
-Eh?!-.
Aprì il
giornale e prese la pagina, sormontata da un’intervista a Grace Rwaramba, tata di Prince, Paris e Blanket.
La lesse senza
indugi.
E se ne pentì.
“Michael
è sempre stato un genitore molto severo.”, c’era scritto. “I figli tremavano solo a vederlo […]
Ricordo che una volta Blanket stava ballando “Billie Jean” come regalo per il
mio compleanno… è molto bravo, sciolto, proprio come il padre… poi arrivò Michael. Di solito le sue guardie del corpo ci
avvisavano prima, ma quel giorno terminò in anticipo il suo impegno. Quando lo vide, Blanket smise di ballare. Tutti e quattro sbiancammo alla vista della sua espressione furiosa; lui
prese il piccolo e lo portò con sé in una stanza. Restarono lì per due ore, e a
volte sentivo le urla furiose di Michael […] Una volta usciti, Blanket tremava
e aveva gli occhi rossi.”
Il giornale
mangiò la sabbia.
Orsola si alzò
con gli occhi lucidi, si tolse le RayBan e con una corsa raggiunse la riva. Prese un bel respiro
e si tuffò.
Le sue lacrime calde
si dispersero nell’acqua salata del mare.
Era sera e
Orsola non aveva toccato l’mp3 da quella mattina.
Ed era grave.
Aveva cercato
per tutto il tempo in quelle parole un briciolo di
falsità… non c’era riuscita.
E si sentiva in colpa.
E non aveva il coraggio di ascoltare la
voce di Michael.
Temeva di
trovare una conferma alle sue supposizioni.
E continuava a piangere…
Prese l’mp3.
“Chi me lo fa fare?”.
Lo prese e basta, senza chiedersi il perché.
Aveva il
bisogno di stare meglio… e solo con quella voce ci riusciva…
Avanzò a
casaccio tra le canzoni senza guardare il display.
Si fermò
improvvisamente.
Non guardò il
titolo.
Semplicemente
schiacciò il pulsante PLAY.
“In the newstoday…”.
Orsola sgranò
gli occhi.
Conosceva
quella canzone.
Ne
aveva letto la
traduzione qualche giorno prima di partire e le era rimasta impressa nella
mente.
-M… ma… non è
possibile…-.
“Solo perché lo leggete nei magazine o lo
vedete su uno schermo televisivo non rendetelo vero…”.
Ecco
cosa diceva il ritornello di “Tabloid Junkie”.
E lei arrivò a crederci.
Lei sorrise.
E una visione,
un’immaginazione, un’altra trama iniziò a
impossessarsi della sua mente e della sua penna…
8. SOLO, NON SARAI NESSUNO
Perché tu, mia musica, la
musica ascolti triste?
Dolcezza brama dolcezza
e gioia di gioia vive:
perché tu ami quel che non
lieto accogli,
oppure accogli lieto quello che
ti tedia?
Se la perfetta armonia di ben accordati
suoni,
insieme uniti, l’orecchio tuo
offende,
è perché dolcemente ti
rimprovera di fondere
in un a-solo le parti che
distinguere dovresti:
vedi come ogni corda a
un’altra unita
vibra con quella in mutua
rispondenza,
come padre e figlio e felice
madre,
che tutti insieme cantano lo
stesso dolce canto:
un canto senza parole, di
molti che paion uno
e che a te dice: “Solo,
non sarai nessuno”.
William Shakespeare, Sonetto VIII
Aveva sempre amato suo padre.
Lo considerava un modello, una
guida, qualcosa da seguire costantemente, sia dal punto di vista umanitario che
da quello artistico.
Sì, a lui piaceva
quando cantava e ballava e desiderava ardentemente diventare come lui.
Ci aveva provato più volte ad
imitarlo, a riflettere quei passi magici con cui sapeva incantare il mondo.
Sapeva a memoria tutte le coreografie delle canzoni, e
ogni volta che aveva qualche minuto di svago ed era libero da occhi indiscreti,
si chiudeva nella sua stanza e improvvisava un moonwalk, o i passi di “Dangerous”, “Thriller”, “Smooth Criminal” o “Beat It”… spesso miscelava il tutto con
una sporadica quanto fenomenale “mossa stringi-pacco”
o il classico e immortale urletto “Aoow!”.
Si sentiva bene, si sentiva importante,
si sentiva speciale: assomigliava al padre, al suo eroe, al suo modello di
vita, alla sua ispirazione primaria quando muoveva i
piedi o solleticava le corde vocali.
Dimostrava finalmente di essere degno di portare quel nome:
Prince Michael II.
Blanket.
-Secondo me
dovresti farlo vedere a papà-.
La voce femminile proveniente
dalla porta alle sue spalle lo bloccò facendolo trasalire.
Blanket si voltò di scatto, ma
quando vide chi l’avesse interrotto tirò un sospiro di
sollievo.
-Paris…-.
Lei sorrise e si sedette sul
letto di fronte a lui.
Guardò per un istante la sua
sorellina preferita, per poi chinare il capo.
-Io non sono
bravo come lui…-, mormorò, sconfortato.
-Ma che dici?-,
esclamò la sorella. –Balli “Billie Jean” benissimo, quasi meglio di papà! Dai,
piccolino, non abbatterti!-.
Lui la guardò di sottecchi.
-Dici sul serio?-.
-Certo! Io non sbaglio mai!-, declamò, con aria da imperatrice.
-Sembri la Signorina Trinciabuenel film “Matilde sei mitica!”…-.
Un’altra voce, quella volta
maschile, penetrò nella stanza facendo sussultare i due bambini.
Prince era appoggiato allo
stipite della porta che aveva aperto poco prima, ascoltando l’intera
conversazione dei suoi due fratelli minori.
-Ehi!-, esclamò Paris. –Ci stavi
spiando!-.
Lui scrollò le spalle.
-E poi io non assomiglio a quella
strega!-, continuò lei, tirandogli il cuscino alle sue spalle che lo colpì in piena faccia con un tonfo sordo.
Paris e Blanket portarono
entrambi le proprie mani alla bocca.
-Ops…
scusa…-, balbettò la ragazzina guardando preoccupata l’espressione del fratello
maggiore dopo che la soffice arma cadde a terra, per poi essere agguantata e
ri-lanciata verso Paris. Questa però riuscì a schivare il colpo per un pelo e
con sguardo malizioso fece una boccaccia.
Prince alzò gli occhi al cielo e si
sedette accanto la sorella.
-Io avrei un’idea
migliore-, disse lui, incrociando le braccia.
Lo fissarono. –E
qual è?-, chiese Blanket con un filo di voce.
-Domani è il compleanno di Grace,
giusto? Perché non le fai vedere quello che sai fare?
Così non solo avrai un regalo di compleanno bell’e pronto, ma le mostri anche come balli e sarai
pronto per quando lo farai vedere a papà… che ne dici?-.
Blanket lo fissò per qualche
secondo, incerto sul da farsi.
Voleva tanto vedere il padre
orgoglioso di lui… però… però aveva paura…
-E se si
arrabbia?-, chiese abbassando la testa.
Prince e Paris si guardarono per qualche istante allibiti; evidentemente
avevano avuto lo stesso pensiero: “Papà non ci ha mai trattati male…”.
Poi, un’intuizione improvvisa
colpì contemporaneamente le menti dei due fratelli, facendo sciogliere i loro
cuori…
-Oh, Blanket…-, sussurrò accorata
Paris. –ma non è la stessa cosa… papà non ci ha mai obbligati
a ballare come nonno Joe faceva con lui…-.
-Infatti!-,
esclamò Prince. –Lui ci ha sempre detto che siamo
liberi di fare quello che vogliamo. Non si arrabbierà mica perché sai
imitarlo!-.
Blanket si morse il labbro
inferiore.
“Ha ragione”, pensò. “Però…”.
Però nulla: fallo.
Alzò la testa e sorrise.
-Okay-,
disse infine. –Va bene. Domani ballerò per Grace!-.
I due fratelli sorrisero.
-E la
prossima volta per papà!-, esclamarono.
Lui sorrise e annuì.
Per papà… solo per papà…
“…That Billie Jean is not my lover…”
Moonwalk,
piroetta, calcio, inginocchiarsi a terra, “grab of crotch(*)”… tutti movimenti che sapeva a memoria.
Bastava ascoltare quella voce… sentire quelle note…assaggiare quel ritmo… un
ritmo che veniva accompagnato da un battito di mani…
-Vai, Blanket! “But
the kid is not my son…”!-, urlavano, in coroisuoifratelli
e Grace.
Il piccolo traeva forza da tali
incoraggiamenti.
La voce di quel ragazzo che vent’anni dopo sarebbe diventato
suo padre guidava i suoi passi.
Si estraniò completamente dal
mondo circostante, senza curarsi di ciò che accadeva attorno a lui.
Non si accorse dei passi fuori la
porta, del silenzio improvviso del suo pubblico, di quella sensazione di gelo
che sembrò pervadere la stanza quando la porta si aprì
con un leggero cigolio, dell’uomo che guardava stupito e confuso suo figlio che
continuava ancora a ballare, ignaro di tutto.
Fu un nome a riportarlo
brutalmente alla realtà, facendogli rizzare i peli sulla nuca.
-Signor Jackson…-, mormorò Grace,
alzandosi.
Blanket si bloccò di scatto e con
una mezza giravolta si ritrovò davanti una scena che sarebbe rimasta impressa
nella mente durante gli anni a venire.
Il padre, suopadre, Michael Joseph
Jackson, lo guardava impalato sull’ingresso da dietro le lenti scure degli
occhiali da sole. Non sapeva cosa quegli occhi celati
dicessero… vedeva solo la piega rigida della bocca.
Blanket abbassò il capo con gli
occhi lucidi.
“Lo sapevo… sapevo
che si sarebbe arrabbiato… lui non vuole che io diventi come lui…”, pensò.
Andò verso il giradischi alla sua
destra per togliere il vinile di “Thriller”.
-Blanket!-, la voce di Michael lo
bloccò con il braccio proteso e lo fece voltare di scatto, tremante.
Vide per un attimo il padre
correre verso di lui, poi il buio e la sensazione di non poter respirare. Fu
dopo qualche secondo che capì che Michael lo stava abbracciando. Una
consapevolezza che gli sciolse il cuore e le lacrime.
-Papà… mi dispiace…-,
mormorò tra i singhiozzi.
-Blanket…-, ripeté Michael
accarezzandogli la testa, per poi staccare l’abbraccio a malincuore e togliersi
gli occhiali.
Non era severo il suo sguardo, né
arrabbiato, né furioso. Ma Blanket non sapeva come
fosse in realtà. Sembrava triste, ma poi si accorgeva che invece era felice;
esprimeva orgoglio, ma sotto c’era anche paura. Era uno sguardo un po’ strano…
-…sei bravissimo-, disse Michael,
al che il piccolo sgranò gli occhi dall’emozione. –Balli meglio del mio fan numero 1… beh, sei mio figlio, come potrebbe essere
altrimenti?-, sorrise.
Blanket non smetteva di piangere,
ma i sentimenti che albergavano in lui erano ora più radiosi.
-Però…-,
continuò lui rabbuiandosi.
Il piccolo restrinse la bocca e
chiuse gli occhi per evitare di scoppiare in singhiozzi.
-…però
devo insegnarti a fare meglio il moonwalk. Sei troppo rigido,
devi rilassarti. Devi arrivare a non sentire il pavimento
sotto i piedi, devi pensare di trovarti realmente sulla Luna. Capisci?-.
Blanket alzò lo sguardo ancora
arrossato e annuì.
-Bene. Allora… che ne dici se
proviamo insieme?-.
Il piccolo sgranò gli occhi.
Aveva sentito bene? Il padre gli
aveva realmente chiesto quella cosa? Davvero aveva la possibilità di ballare
con il suo mito? Non era uno scherzo? Era la verità?
Sì, Blanket. Credici.
Sorrise e con uno scatto felino
abbracciò forte il padre, che ricambiò ridendo felicemente.
-Lo considero
un sì-, disse, per poi staccare l’abbraccio e alzarsi di malavoglia.
-Aspettami, torno subito-, gli disse, e sparì da una porta.
Il piccolo era ancora incredulo quando si girò a guardare dapprima i fratelli e
poi la tata, tutti sorridenti.
-Visto? Ti avevamo detto che non sarebbe successo nulla…-, disse Paris.
Blanket annuì, raggiante.
-Eccomi!-, esclamò Michael ritornando
nella stanza con un cappello nero in mano. -Cominciamo?-, chiese al figlio, che
annuì e si mise in posizione.
Grace riportò la canzone
dall’inizio.
Le note riempirono la stanza.
E i due, padre
e figlio, cominciarono a ballare.
Erano sincronizzati, l’uno lo
specchio dell’altro.
Si correggevano a vicenda, senza
aver bisogno delle parole: bastava guardare i movimenti dell’altro.
E
intanto Billie Jean continuava a suonare…
“People
always told me be careful, what you do? Don’t go
around breaking young girls’ hearts…”
La canzone scorreva…
…e il Re e il suo Principe la rendevano vera…
…insieme…
…perché
soli non si è nessuno…
Insieme si può cambiare il mondo…
E anche la vita…
Grazie a quel ballo la mia esistenza è cambiata…
Per sempre…
Note dell’autrice:
Salve
miei gentili lettori e lettrici di tutte le età! *i suoi occhi diventano a
forma di cuore*
Come
state? Spero che non abbiate sentito la mia mancanza…
(-.-‘’)
Okay,
okay, lo ammetto: ho manie di grandezza! XDD!
“Bando
alle ciance, cocca!”.
Uffa,
e va bene! -_-‘’’
Allora…
come vi è sembrato questo super mini-miniaturizzato striminzito capitolo? Spero
vivamente di non avervi annoiati!^^
“Ce sei riuscita! Maanvedi ‘n po’ questa…”.
*sgrunt*
Ma la vuoi finire di… di… O.o
Ma
hai l’accento romano!! Claudiaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!!! *love love*
MihaChan: oh, ciao Daniela! *.*
Grazie
mille per i tuoi complimenti! Oh, no, non piangere! Mi fa star male vedervi
piangere, sul serio, eppure spesso è la cosa che mi riesce meglio… ^_^’’’
Spero
che con questo capitolo tu non abbia lacrimato come prima… un bacione!!
PS:
ti ho mandato un’e-mail, la recensione al tuo ultimo
capitolo si trova lì… spero che tu l’abbia ricevuta! J
Laban: O.o
È
arrivata Billie Jean!!“That Billie Jean is not my lover… aoow!”
Okay, basta! ù_ù
Ma ciao, Fabiana! *.*
Che bei complimenti, cara! Mi fa davvero piacere che la mia
storia ti piaccia, sul serio!
Un
bacione e alla prossima!
But the kid is not my son… woo!
Alchimista: tesoro
mio, finalmente ce l’hai fatta a recensire! *O*
Ma lo sai che anche se tu non avessi scritto nulla avrebbe
fatto lo stesso! Mmh… no, in quel caso probabilmente
ti avrei ammazzata con le mie mani… sì, decisamente.
ù_ù
Ma dai, scherzo, amore! <3
Scusa
tanto se te lo chiedo, eh… ma che fine hanno fatto
tutti i motivi per cui avresti dovuto uccidermi? XD!
Sono
davvero contentissima che questo capitolo ti sia piaciuto… eh, sì, le nascite
più belle del mondo… la venuta al mondo delle 3 stelle più belle del
firmamento… delle 3 ragioni di vita di Mike… ah, sì, e la nascita più bella insieme alla loro è stata anche quella di mia sorella
Francesca! ù_ù
Tesoro,
grazie mille! Anche il tuo silenzio per me è oro!
Ti
amo infinitamente!!!
LooneyQueen:
Squillo di tromba per
Claudia rimbomba!!!Ciaooooooooooo
mon amour!!!!! *O*
La mia mogliettina… sì, esatto, popolo di EFP!! Io a
la qui presente Looney ieri ci siamo unite nel
sacro vincolo del matrimonio!! Ovviamente non sul serio, ma su Facebook siamo registrate come sposate, quindi…ù_ù
Vabbè
tornando al capitolo… mi sa che è meglio…XDDD!
Ehm…
sì, comunque dicevo…
La
mia cara reginettaha
avuto talmente tanta intelligenza da capire che l’”ergo” pronunciato da Janet
era irrimediabilmente riferito a lei… weeeeeeeee
quanto ti adoro quando dico ergo!! *.*
Tesoro
mio, anche tu hai pianto? ç.ç Cavolo, ma chi sono, una macchina spargi-lacrime?!
Beh,
comunque ti è piaciuto, e questo mi rende davvero
orgogliosa! ^^ Sai, con te ho finalmente capito cosa provava Michael
quando vedeva i suoi fans… beh, vabbè, a parte
questo, mi hai fatto scoprire un mucchio di cose… conosco l’amicizia, ma con te
è stato un po’ diverso… insomma, è normale che dopo nemmeno un mese che ci
conosciamo già ci siamo sposate?? Io credo di no, ma comunque…
Grazie,
grazie mille. Di tutto. E non scherzo.
Ti
voglio un bene nell’anima… ah, sì, e ti amo da impazzire!!
ò_ò
Ehi,
che avete da guardare voi? Siamo sposate, avrò pure il
diritto di dichiararle il mio amore no? XD!
Ehm…
sì, direi che ho finito con i ringraziamenti.
Un
bacione a tutti e scusate l’orario sconveniente, ma
non ho potuto postare prima! ^_^’
Ciao, ragazzi... so che vi
aspettavate un capitolo, ma non è così. Vi tocca invece leggere questo insulso,
sgradevole e irritante avviso del cavolo. No, non ho abbandonato la storia...
solo che ho pochissimo tempo per scrivere e quando lo faccio mi ritrovo a
portata di mano solo carta e penna, non il mio PC. Come se non bastasse, ci si
mette anche l’ispirazione che spesso e volentieri se ne va a farsi benedire... -__-
Non so quindi quanto tempo
dovrete ancora aspettare e mi scuso con voi per questo inconveniente... spero
comunque che ritornerò quanto prima in scena con il mio ultimo capitolo... sì,
esatto, il prossimo chappy è l’epilogo... ed è piuttosto lungo, per questo ci
metto così tanto tempo. Scusate ancora, davvero, prometto che quando torno
saprò sdebitarmi! Credetemi, sono più dispiaciuta di voi... T.T