Huracàn

di Ciuscream
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Figlia della Dea ***
Capitolo 2: *** Frammenti di passato, bagliori di futuro ***
Capitolo 3: *** Fuga - Parte Prima ***
Capitolo 4: *** Fuga - Parte Seconda ***
Capitolo 6: *** Fuga - Parte Terza ***



Capitolo 1
*** Figlia della Dea ***


Huracàn
 
CAPITOLO I. FIGLIA DELLA DEA
 
“Quando il fuoco ed il vento incontreranno le spade e la morte,
ci sarà una sola corona, un solo regno, un solo Dio.”
 
L’odore che esalava dalle fiamme era dolciastro ed inebriante; aveva l’incoerente e incontrollato sapore del sale, del sandalo, della potenza della Terra e del Mare, del loro proteggere ed intrappolare. Le nenie delle donne salivano leggere oltre gli strepitii del grande fuoco, le preghiere del Santero si inframmezzavano a queste, le sovrastavano per volume e per importanza e s’indirizzavano in ogni dove. La circonferenza umana stava stretta attorno a quello spettacolo usuale e, al contempo, magicamente nuovo ad ogni anno che si succedeva al precedente. Il rituale aveva la sacralità delle tradizioni divine e la cadenza di quelle terrene, la loro folkloristica abitualità, la loro febbricitante attesa.
Sette ragazzi, due maschi e cinque femmine, stavano allineati – tremanti, ebbri di paura e di quelle effusioni stucchevoli e narcotiche – al centro di quello scudo umano, in attesa che venisse svelato loro chi, nei cieli, avrebbe vegliato sul loro destino, li avrebbe mossi con dita di burattinaio e protetti con materno o paterno ardore. Izar – così era chiamata la ragazza alla fine della breve fila – era una di queste: suo padre, il Santero, fin dalla nascita l’aveva preparata a quel momento che avrebbe legato, indissolubilmente, la sua anima a quella di uno degli Dei che proteggevano l’arcipelago di Pentidad. Le aveva raccontato ogni più piccolo dettaglio del loro essere, i loro vezzi ed i loro capricci, le loro virtù ed i loro difetti, non mancando mai di sottolineare come sarebbe stato per lei onore ed onere essere scelta da uno qualsiasi di quelli. L’aveva educata fin da piccola ad una fede cieca, incorruttibile, ad una vita prostrata ai loro voleri, per fedeltà e, Izar lo aveva capito maturando considerazioni meno acerbe di quelle di bambina, per personale tornaconto. Le aveva anche narrato di una leggenda, una di quelle che, nelle comunità povere e arretrate dell’Isola degli Stracci, fluivano di bocca in bocca da secoli, serpeggiando da orecchio ad orecchio, con la solennità della verità e con il mormorio etereo delle favole della buonanotte. Le aveva spiegato come mai la figlia maggiore e il figlio minore di Trunt, Dio padre di tutti gli Dei, non avessero più scelto giovani da proteggere nelle terre dell’arcipelago perché troppo impegnati in una guerra logorante ed intestina, che non aveva fatto altro che accrescere superstizioni e paura nelle popolazioni, ingrandendo ed attizzando storie che avevano come sfondo le tinte fosche della fine del mondo. Si mormorava – suo Padre lo faceva con lei nella stanza che condivideva con i molti cugini – che, una volta che i loro figli si fossero incontrati, sarebbero stati destinati uno a mettere fine all’esistenza dell’altro, sancendo così la vittoria di uno dei due Dei e la successione al trono di Trunt.
Izar si era sempre chiesta come mai gli Dei lasciassero in mano a esseri volubili e vulnerabili come gli uomini, il districarsi del loro Destino; suo padre l’aveva ripresa per quelle domande singolari, tarpando velocemente le ali della sua sfavillante curiosità, sottolineando come il volere degli Dei non fosse cosa su cui era ammesso disquisire. In realtà, il Santero non riteneva quei racconti molto più che una leggenda: Oyàla e Seruh erano troppo occupati a farsi la guerra per addossarsi l’incombenza dell’educazione di umani fragili e volatili; erano troppo presi per ascoltare le loro suppliche e le loro preghiere, i mugolii feriti dell’amore e della fame. Questa era la sua misera e pragmatica spiegazione: non avevano lasciato i loro destini nelle mani di nessuno; si erano semplicemente disoccupati di esseri mortali e lontani regni dalla loro casa e dal terreno della loro inesauribile battaglia.
Per consolarla di quella lontananza che le faceva sorgere così tante, irriverenti domande, i suoi racconti avevano spesso ad oggetto Marlia, la figlia mediana di Trunt, che aveva deciso di appoggiare e proteggere quanti più fanciulli possibili, per supplire alle mancanze dei suoi due fratelli – lei, protettrice della prosperità e della fertilità, aveva aperto le braccia armoniose di Dea, così come avevano fatto i figli suoi ed altri dèi minori. Aveva promesso che nessuno che avesse offerto il suo cuore e le sue mani al servizio di un Dio, sarebbe rimasto senza la protezione di questo.
Le parole di suo padre l’avevano rincorsa per tutta l’infanzia, avevano impregnato i suoi sogni delle vicende di quelle donne meravigliose e forti e di quegli uomini coraggiosi ed intrepidi che immaginava essere gli Dei. Aveva bisbigliato nel cortile, giocando con bambole raffazzonate con pezzi di stoffa, scenari che scrivevano i loro destini, li aveva intrecciati, rotti, raccolti, mescolati. Aveva dipinto spesso l’immaginaria e temibile guerra tra Oyàla e Seruh, ne aveva vividamente descritto le più terribili conseguenze, aveva tratteggiato i volti e le azioni di quei loro figli destinati allo scontro. Ai giochi, però, ben presto si erano intervallate le incombenze di giovane donna che sboccia: il rammendo, la cucina, le faccende domestiche, che avevano tolto a quelle fantasie ogni tempo e ogni guizzo d’immaginazione. Erano rimaste le preghiere, quelle che in quella sera rimbombavano attorno a lei, prorotte dalla bocca di suo padre e dalle centinaia di altre che attorniavano il manipolo di giovani, rendendolo protagonista della nottata appena iniziata.
 
Quella sera, nel giorno dell’Iniziazione, tutti i ragazzi dell’arcipelago che avessero compiuto il dodicesimo anno di età, erano chiamati a prestare la loro fedeltà al Pantheon, in cambio del supporto incondizionato degli Dei; erano pronti a dirsi servitori leali e alleati terreni, figli degni d’amore e protezione. Il brulicare d’eccitazione e paura animava ognuno di loro e li mescolava uno all’altro; erano cresciuti vicini, nelle case semplici e spoglie del loro quartiere. Avevano, fino a quel momento, avuto la confortante sensazione di essere ancora dei bambini, di potersi nascondere dietro le sottane colorate delle madri, di reclamare il loro soccorso. Quella sera, però, sarebbero diventati anche figli di qualcun altro; non sarebbero più stati fanciulli ma giovani uomini e donne, avrebbero lacerato il cordone ombelicale una volta per tutte e sarebbero divenuti grandi. Questo pensiero rendeva umide le mani di Izar molto più dell’afa asfissiante che da giorni teneva in trappola l’intera Pentidad.
 
Era immersa nelle trame e nei sentieri sconnessi di quei pensieri quando la voce di suo padre risuonò sopra tutte le altre e spense il vociare leggero delle nenie ed ogni chiacchiera amichevole. Il silenzio scese morbido ma densissimo su quella circonferenza fatta di occhi curiosi e cuori scalpitanti. I ragazzi si scambiarono una fugace sbirciata tra loro e poi quelle sette paia d’occhi si posarono, senza più altalenare, sul Santero. Questo allargò le braccia con fare volutamente teatrale, beandosi di quella sconfinata attenzione, e poi parlò di nuovo.
«Benvenuti, miei fratelli, ad una nuova cerimonia di Iniziazione. Presto, i nostri figli conosceranno chi, tra gli Dei, sarà la loro guida ed il loro faro.» Gli occhi si posarono su Izar per un brevissimo istante, instillando in lei – in quella brevissima frazione di secondo – il peso di un’aspettativa covata dalla sua nascita fino a quel finale istante, che le premette sul petto un fastidioso peso di macigno.
«Vi invito ad essere come sempre rispettosi e pazienti: la festa arriverà presto. Prima, prendiamo tutto il tempo necessario ad introdurre questi giovani uomini e queste giovani donne, nel posto che spetta loro nella nostra comunità. Iniziamo!» Un applauso si levò gioioso dalla folla; Izar fissava alcuni dei volti mulatti scavati dalla fame e dalla miseria, cotti da lavori sfiancanti sotto al sole o distrutti dalla fatica della miniera, che ululavano una felicità ed una trepidazione che erano ben lontane da quella fedeltà sacrale che suo padre le aveva rimembrato per anni. Era piuttosto un’attesa estenuante per la festa ed il ricco banchetto – ricco, per le loro possibilità – che vi sarebbe stato una volta terminata la celebrazione; probabilmente sarebbe stato l’unico pasto degno di questo nome del loro intero anno.
Suo padre fece cenno al primo della fila di avanzare; era Gabre, amico di ogni avventura nella terra brulla intorno al quartiere, complice di forzieri di pirite nascosti, delle vicende degli Dei immaginate da bambini. Era alto, per la sua età: aveva le spalle grandi di chi si è già fatto uomo da un pezzo, le mani callose di chi è abituato a stringere la pala ma il viso dai tratti morbidi non ancora induriti dalle prove della vita. Gli occhi neri del giovane si posarono per una frazione di secondo su Izar, prima di tornare sul Santero; non fece in tempo a scorgere il sorriso che lei gli donò in risposta.  Tremavano tutti nella loro breve fila, nonostante il caldo torrido dell'estate imperlasse la loro fronte con gemme d'acqua e sale e le lunghe tuniche bianche aderissero ai loro corpi bagnati. Come chiamò lui, fece anche con gli altri due che gli stavano a fianco, creando un piccolo gruppo di tre persone – come era usanza. Uno ad uno, vennero benedetti di fronte agli Dei, venne invocata la loro massiva misericordia e il loro sconfinato potere. La formula era sempre quella, sempre era stata quella, le aveva detto il padre; parole semplici e dirette, un attestato vibrante e solenne di fede: 
«Giuri di onorare il Dio tuo padre o la Dea tua madre e tutto quello che loro ti hanno così generosamente offerto e generosamente ti offriranno?»
«Lo giuro.»
Così, le voci maschili e incerte della pubertà si mischiarono a quelle cristalline delle ragazze – in entrambi i casi, tremule, eccitate, pronte ed impaurite al tempo stesso.
I primi tre si avvicinarono al Santero: da una pila di pietre benedette poste sopra un artigianale tavolo in paglia, ne estrassero una a testa; la portarono tutti alle labbra, posando sulla stessa la copia pallida di un bacio e le avvicinarono alle fiamme il tanto che bastava a fare sentire alle stesse le lingue del fuoco, facendole solleticare di calore e di scintille. Le posarono, poi, delicatamente ai piedi del Santero, che si chinò a leggervi sopra la lingua degli Dei, a loro sconosciuta; per loro erano solo ghirigori, un personale e imperscrutabile linguaggio che solo alla più alta carica sacerdotale era concesso conoscere. Ogni runa impressa sulle pietre fiammeggianti era il simbolo univoco che riconduceva ad una divinità – il padre del ragazzo o della ragazza che le aveva avvicinate alle fiamme.
«Gabre…» Proclamò il padre di Izar con sguardo e tono solenne, osservando la prima pietra che era stata poggiata ai suoi piedi. Il ragazzo allargò le pupille di un’impazienza palese mentre i secondi ticchettavano dentro il suo petto e il cuore martellava fuori fase. Il Santero prese un piccolo, finale, respiro; il ragazzo, invece, sembrava quasi in apnea.
«È Fukh a volerti come figlio. Fukh, dio del lavoro e della fatica, protettore dei fabbri e degli spadaccini.» Alzò lo sguardo sul ragazzo che sorrise, sollevato che il suo turno stesse scemando e che l’attenzione sarebbe stata morbosamente rivolta ad un altro paio di occhi spaventati. Prese finalmente fiato, abbozzando una smorfia che sembrava avere l’intenzione di assomigliare ad un sorriso.
«Un grido ed un ringraziamento per Gabre, figlio di Fukh!»
La folla rispose con grida ed applausi, in ululati al cielo e a quel Dio che doveva essere lì, in ascolto, mentre migliaia di cerimonie di Iniziazione si svolgevano in tutte le comunità dell'arcipelago, abbagliando la notte di fuochi e clamore. Izar batté le mani, ancora intorpidite dalla paura, con meno slancio di quello che avrebbe voluto; Gabre le sorrise comprensivo: sembrò aver apprezzato lo sforzo.
Il secondo trio avanzò verso le fiamme e le urla, gli strepiti, le fiumane di applausi, non si stancarono presto. Venne poi il turno di Izar, rimasta vittima solitaria di tutta quella sconsiderata attenzione. Non era per la sua solitudine, però, che le centinaia di occhi le serpeggiavano addosso occhiate cariche di interesse, avide di dettagli da far scivolare l'indomani con schiocchi di lingua. Chi avrebbe preso in figlia la vera figlia del Santero? La nobile Marlia, secondogenita di Trunt, protettrice feconda delle messi che sfamavano la loro gente? O l'ignobile Akas, dio della lussuria e del buon vino, disattento padre ed indecoroso figlio?
Questa era la succosa storia che molti di loro avrebbero voluto raccontare, il giorno a venire. Avrebbero voluto dirsi, fra le risa e fra i bisbigli, che quella fanciulla dalle labbra piene e dallo sguardo fermo, freddo, con quelle iridi che sfumavano in un chiarore così stridente con l'incarnato ambrato, non era la degna figlia di suo padre, né degli Dei. Avrebbe fatto dormire qualcuno con un sordido sorriso sulle labbra, per la sconcertante visione di quella capitolazione.
Suo padre era stato molto duro, con molti di loro: aveva requisito refurtiva, aveva scacciato i mendicanti dalle vicinanze di ogni luogo di culto e preghiera, aveva cercato di ripulire una comunità insozzata dalla miseria e dalla carestia. Ma l'Isola degli Stracci aveva quel nome per un motivo preciso: nessuno stava meglio, nessuno stava peggio. Erano tutti immersi nel grigiore di un'esistenza povera e mediocre, in cui le invidie erano distrazioni confortanti e consolatorie, dove gli uomini si spezzavano la schiena e, con loro, donne e bambini. La loro comunità non era diversa dalle tante altre che affollavano l'Isola. Per questo, Izar non capì e non giustificò quel brulicare eccitato che si mosse tra la folla, adesso caduta in un silenzio totalizzante, talmente denso che le sembrava facesse rumore anche l'afa sfiancante o la goccia che attraversava, con debole attrito, un angolo della sua fronte. Ogni suo passo era uno scalpiccio che pestava erba secca e rametti e scandiva l'incedere verso la risposta che tutti aspettavano, appetivano. Lei per prima.
Si avvicinò a suo padre ma non alzò gli occhi su di lui; sentì comunque lo sguardo dell’uomo pesare su di lei, scrutarla attento e guardingo, con una curiosità che non era meno febbrile di quella che animava il pubblico intorno a loro. Cercò di fare più in fretta possibile: si limitò ad acchiappare, stringere e far aderire alle labbra la pietra; la avvicinò al fuoco un istante dopo – la vicinanza era insostenibile in quel clima soffocante. Restò con la mano tesa lo stretto necessario e poi si ritrasse dalle fiamme. Un leggero alito di vento si alzò sulla folla, dando respiro e rigenero alle decine di visi sudati: dapprima, non sembrò che soltanto un soffio volatile ma poi crebbe d'intensità, scompigliando i capelli lunghi di Izar stretti in mille, sottili, trecce e facendo danzare in modo improvviso le lingue del fuoco. Molte delle fiammelle in mano alla folla si spensero, così come i loro sorrisi che fecero posto ad espressioni di stupore per quell’improvviso ed insolito spostamento d’aria. Il clima era caldo e pesante da giorni: Izar poteva sentirlo premere sulle sue spalle magre e piccole, sul seno acerbo, sul collo sottile e scoperto.
Un brivido leggero la colse e la attraversò con delicatezza; era come se quel fiato l'avesse svegliata da un torpore in cui non si era accorta di essere immersa: affrettò il passo verso suo padre, ai cui piedi posò la pietra. Con gli occhi bassi, tornò in fila dagli altri, accelerando tanto che il suo incedere parve quasi una breve corsa. 
Il Santero si chinò a prendere quella risposta e la folla trattenne il fiato all'unisono. Il viso dell'uomo e la sua espressione erano, come sempre, imperscrutabili; solo nei suoi occhi, Izar colse uno scintillio sinistro, inusuale. Poteva essere paura o rammarico, poteva essere disappunto. Sentì le gambe crollare: cosa avrebbe detto se fosse stata davvero figlia di Akas? Quale destino vi era in serbo per lei? La prostituta, la ballerina in qualche squallida taverna disadorna? Trattenne il fiato lei stessa, in quella disamina che le parve infinita. Sentiva il suo stomaco strizzarsi e contorcersi per la paura e l'attesa.
Doveva sapere, voleva sapere. 
Suo padre fissò la pietra per un ultimo, interminabile, istante e poi poggiò gli occhi su di lei. Non parlò alla folla, non si mosse con la sua teatrale confidenza, con il suo modo accogliente di dirigere quello spettacolo. Solo la voce era la solita: forte e chiara, ma non calma - vibrante, tesa. La folla non sembrò accorgersene; solo lei e sua madre sembrarono notare che vi era qualcosa di storto, di disallineato, in quella proclamazione così composta.
«Izar...» Nella sua testa, la ragazza si ripeteva soltanto un interminabile ritornello: “Non Akas, non Akas…”
«Izar...» Ripeté ancora, come se stesse scavando nelle pieghe del cervello a ritrovare qualche formula che sembrava perduta. Pareva smarrito, quasi spaventato, come se vi fosse qualcosa che non riusciva a comprendere appieno. Poteva essere incredulità, poteva essere sconcerto; Izar non sapeva dirlo, non aveva abbastanza ossigeno nei polmoni per ragionare lucidamente e le esalazioni del fuoco l’annebbiavano leggermente. Si riscosse quando il Santero parlò di nuovo.
«È...» Sembrava un balbettio. Molti nel pubblico presero a bisbigliare parole con il vicino, scambiando supposizioni per quell’emozione che si era fatta più palese. Vergogna? Tensione nell’officiare l’Iniziazione di sua figlia? Era impossibile, per alcuno di loro, dirlo per certo; era impossibile anche per lei.
«È Pedira a volerti come figlia.» Izar sentì lo stomaco allagarsi di una sensazione di benessere talmente disarmante che quasi non esplose in un gridolino. Anche la folla sembrò aver ricominciato a respirare più compiutamente; qualcuno accennò già un piccolo applauso, qualcuno sembrò deluso per la normalità di quella scelta.
«Pedira, dea delle arti e della bellezza, protettrice di scrivani e pittori. Un grido ed un ringraziamento per Izar, figlia di Pedira!»
Un nuovo forte vento si alzò tutt’intorno; vento che alimentò ancora il fuoco, zampillante fiamme dalle vette alte e dalle lingue roventi, protese verso il cielo limpido di quella notte.
Gli occhi del Santero erano allargati e puntati su sua figlia, adesso oggetto degli applausi di giubilo della folla, pronta a banchettare e cantare per l'intera notte a venire. La maschera che lo animava aveva in sé i tratti di troppe emozioni; più di tutte, quella che Izar gli leggeva trapunta in viso, era probabilmente la paura. Lo fissò di rimando mentre i lunghi capelli corvini, oscillati dal vento, le screziavano il viso di una texture informe, che cambiava ad ogni nuovo soffio la sua geometria. Sapeva che avrebbe preferito fosse la grande Marlia, figlia di Trunt, a sceglierla. Ma che cosa vi era di così sbagliato, di così ingiusto, in quella decisione? Era davvero paura o era delusione? Era l’espressione sofferente del fallimento? Non fece in tempo a rispondersi che il fluire impazzito dei suoi pensieri venne interrotto da una mano che le puntellò leggera il fianco; si scostò impaurita e Gabre rise della solita risatina roca ed irriverente. Le allungò la sinistra.
«Izar, figlia di Pedira.» Il tono era volutamente solenne e altrettanto canzonatorio; il sorriso dalle labbra carnose era tagliato verso sinistra, in un ghignetto divertito. Izar era ancora smarrita; fissò la mano del ragazzo con la confusione del dormiveglia, come se quei pensieri l’avessero avvolta talmente tanto da trascinarla quasi in un sonno alienante. Cercò gli occhi neri di lui con i propri; le iridi della ragazza sfumavano da un color nocciola ad un turchese plumbeo, che ne affogava la parte inferiore.
«Mi concedereste il primo ballo della serata?»



 
Nda: Alcune - brevissime, lo giuro - note alla storia: questa è la mia prima storia originale; è una storia di cui ho in testa l'ossatura ma la cui stesura è ancora tutta in divenire. Spero di essere il più costante ed ispirata possibile, così da aggiornare, se non con cadenze precise, nemmeno troppo sporadicamente. Ogni consiglio ed ogni pensiero sono più che ben accetti; anche i pomodori lo sono, basta che almeno dentro abbiano un messaggino con una critica costruttiva.
Premetto già che il rating potrebbe subire un po' di innalzamento, andando avanti con la narrazione. Nel frattempo, vi ringrazio per essere arrivati fin qui. Un abbraccio

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Capitolo 2
*** Frammenti di passato, bagliori di futuro ***


CAPITOLO II. FRAMMENTI DI PASSATO, BAGLIORI DI FUTURO
 
 
Tutta Pentidad stava festeggiando l’Iniziazione; quella era l’unica ricorrenza, l’unico sprazzo che riuscisse a far sembrare unite ed eguali tutte le genti delle cinque Isole. Per una notte, nessuno era oppresso e nessuno oppressore, nessuno straccione o signore, Re o bestia. Per quelle poche ore, ogni persona proveniente da ogni parte del Regno, sarebbe stata semplicemente un uomo, un servitore mortale del volere degli Dei – piccolo, insignificante e terribilmente ebbro.
I festeggiamenti a Nerva, l’Isola degli Stracci, erano perlopiù composti d’alcool e clamore: i tamburi si confondevano con il rumore di bicchieri rotti, colmi fino ad un istante prima di forti distillati ai cereali, in cui soltanto gli uomini potevano affogarsi con sfacciata ingordigia. Alle donne era concesso sorseggiare del vino rosso, mescolato alla poca frutta di cui disponevano in quelle terre brulle; le più audaci, una volta capitolati i mariti sotto le mannaie alcoliche, sdraiati, ululanti e stremati al suolo, si spingevano a prendere qualcosa anche per sé, per assaggiare a fior di labbra quel sapore che sapeva di forte e di proibito.
Izar si era ritrovata spesso a disprezzare quella così ostentata scompostezza: in realtà, si era limitata ad imitare quel cipiglio infastidito del padre, quel suo assottigliare gli occhi per osservare quei festeggiamenti del tutto dimentichi della sacralità dell’evento, ad esso del tutto sconnessi. L’aveva redarguita spesso, quando con gli amici aveva esagerato nei canti o nei balli, l’aveva sgridata di aver troppo danzato con Gabre o con qualche altro ragazzo del villaggio. Non era opportuno, le aveva sottolineato. Non per una bambina, non per una femmina. Sua madre ascoltava da lontano quei discorsi, senza riuscire ad inserirsi in modo incisivo, per impedire che, anche a sua figlia, quell’uomo tanto rigido sottraesse la gioia dei piedi nudi che calpestano la terra al ritmo delle percussioni, delle mani che sbattono contro i tamburelli, facendoli esplodere del loro tintinnante rumore di felicità. Izar amava cantare, lo faceva di continuo: mentre rappezzava l’orlo scucito di una sottana, mentre preparava la grande pentola sopra il camino della cucina, anche mentre si chinava per raccogliere qualche tubero maturo nella terra. Cantava quando sua madre raccoglieva, con pazienza, quei suoi capelli lunghi e corvini nell’intarsio di mille minuscole treccine. Più di tutto, però, cantava nelle feste dopo l’Iniziazione, dove aveva un piccolo pubblico a battere le mani della sua voce insolitamente grattata per una ragazzina, di quelle sue note flautate ed ardenti, al tempo stesso. Cantava e danzava ad un ritmo morbido, con le movenze acerbe di una poco più che bambina, con la stessa scanzonata mancanza di malizia. Suo padre, però, la richiamava all’ordine con le sue occhiate cariche di un qualcosa di denso e gassoso, al contempo; Izar lo sentiva premere sul petto con il peso di un macigno ma, al contempo, se lo sentiva scivolare nei polmoni, attraverso il respiro, fino a farle mancare la voce, a farle fermare l’altalenare morbido delle gambe nude.
 
«Lasciala ballare, Miguel. È solo una bambina!»
«E quando pensi le vada insegnata l’educazione? Vuoi che finisca come questi? Potrebbero provenire benissimo da Avern, per come si comportano. Sembrano animali!»
 
Izar si era trattenuta spesso perché non aveva alcuna intenzione di finire come un abitante qualsiasi dell’Isola delle Bestie. Avern – questo il vero nome di quel paese infernale – era un luogo che aveva suscitato i racconti più macabri e scabrosi che avesse mai udito nella sua breve vita. Alla verità si confondeva la leggenda; le parole di bocca in bocca si plasmavano e moltiplicavano, ma l’unica certezza, l’unica verità era che, una volta condotto lì, nessuno vi aveva più fatto ritorno. L’Isola prendeva questo nome dalle tante tipologie di relitti umani che vi erano confinati: vi erano condannati per cui non era sufficiente la morte – la morte sarebbe stata una consolazione troppo rapida e indolore, per il loro crimine. Molti traditori del Re, infatti, marcivano fra le paludi di quella terra putrida, abitata dai peggiori ceffi: attentatori, assassini di nobili, nati deformi, pazzi. Quando qualcuno mostrava segni di delirio mentale irrecuperabile e pericoloso per la comunità, veniva semplicemente etichettato come una bestia e confinato dalle strade di Pentidad – quelle lastricate di marmi e mosaici dell’Isola Madre, patria e dimora del Re e, indistintamente, da quelle dell’Isola degli Stracci o dei Commerci o degli Ori, tutte così sostanzialmente diverse ma ugualmente repellenti a quella piaga.
Chi veniva destinato ad Avern, diventava semplicemente un difettato, un dimenticato dagli Dei, un oggetto rotto ed irrecuperabile, che nessuno si sarebbe preso la briga di provare a riparare. L’Isola delle Bestie era la discarica di ogni persona che non meritasse più di portare questo nome – una cloaca a cielo aperto, una prigione senza sbarre e senza chiavi ma con la stessa, asfissiante, mancanza di futuro e di libertà.
 
Quella sera, però, non era la paura di comportarsi come una bestia agli occhi del padre a frenare la sua voglia di danzare, come se la musica che si levava già intorno gli fosse diventata invisa, fosse diventata lei stessa sorda alle lusinghe dei tamburelli e delle maracas. Quell’ombra che aveva ritrovato negli occhi del Santero era scivolata fin dentro la sua cassa toracica e aveva preso a schiacciarle i polmoni, di un’ansia ed un’urgenza che le erano sconosciute e, per questo, letali. Rimase qualche secondo a fissare la mano tesa di Gabre che aveva ancora dipinto in viso quel sorrisetto sardonico; lui la scostò e rise di quella sua stessa galanteria mimata, facendo ricadere il braccio lungo il fianco e studiando, con l’attenzione di cui sono capaci i giovani uomini, il viso di Izar – alla fine, ovviamente, non capendo niente.
 
«Che succede, Iz?» I pozzi di pece degli occhi del ragazzo cercarono le sue pupille con insistenza; queste erano distratte, però, dirette altrove. Seguì la traiettoria di quella preoccupazione e finì sulla figura del Santero, che si era ritirato su una sedia malferma lontano dalla festa e teneva il viso immerso nelle mani. Nascondeva il volto agli occhi di tutti i membri festanti della comunità, del tutto dimentichi di lui o del rito officiato poco prima. Vide il viso di Izar contrarsi per un piccolo istante, le labbra piegate in una smorfia di dispiacere.
«Cos’ho sbagliato, Gab? Non riesco a capire…» La voce della ragazza, così roca e morbida, era solo un sussurro appena percettibile sopra il vociare e il tamburellare sempre più insistente che attorniava il battuto polveroso della piazza.
«Lascialo stare, lo sai che non gli sarebbe andato bene niente, in qualsiasi caso. Avrebbe avuto da ridire anche se ti avesse scelto Trunt stesso. Dai, andiamo a giocare!»
La voce di Gabre l’aveva rassicurata spesso, negli anni trascorsi a preoccuparsi di non muovere troppi falsi in quel sentiero che le sembrava tracciato di fronte agli occhi; era stato il primo a farle prendere spesso qualche fuori strada, a farla addentrare per i vicoli sconosciuti e affascinanti di una vita che le sembrava così povera e disadorna. Si erano raccontati storie di loro due, ben vestiti, ben nutriti, dalle spalle alte e fiere, intenti a chiacchierare con gentilezza e un po’ di vanità con qualche avventore dell’Isola degli Ori. In quelle fantasie di bambini, erano un Principe ed una Principessa, avevano gli abiti scarlatti e blu notte che erano riservati a quella classe, finemente intarsiati con fili d’oro e d’argento. Izar specificava che sarebbe stata lei a descrivere quelle trame fitte e delicate sulla stoffa: nessuno l’avrebbe potuta battere con l’ago e con il filo; sarebbe stata la più grande sarta che Pentidad avesse mai conosciuto. Gabre la rimbeccava: Che ti importa di essere un’ottima sarta se sei la Principessa di Vraen? Lei rispondeva che importava tutto, invece. Le Principesse non smettono di essere brave.
Quei ricordi le sembravano di una vita precedente, in cui quei sogni sembravano reali e fattibili, in cui aveva sperato di fuggire da quell’esistenza infima e logora, di non rimanere immersa in quelle tuniche e quelle stoffe lacere, di smettere di percorrere quelle strade di sassi e polvere. Sperava avrebbe dimenticato gli zigomi sporgenti della fame, le labbra secche della sete e i nasi spellati dal troppo sole, quelle lentiggini che le invadevano il viso mulatto quando rimaneva tutta la giornata ad aiutare suo padre nei campi; voleva mani morbide ed accoglienti, voleva conoscessero lo spessore minimo di un ago e quello fresco e duro del ditale, non quello delle pentole ruvide e consumate o delle pale e delle canne scheggiate.
Gabre, come sempre, la richiamò alla realtà mentre i suoi occhi erano lontani e vacui, immersi in pensieri altri. La strinse per un polso e la strattonò piano.
«Dai, Iz. Gli assomigli quando fai così! Andiamo!» L’amico conosceva a menadito i punti sui quali far leva per scuotere la sua coscienza e farla tornare quando si ritrovava con la testa a girovagare altrove; infatti, la ragazza trascinò le pupille su di lui con uno scintillio fiammeggiante e vagamente sinistro, svettò un sopracciglio in alto e allungo l’indice della mano che lui non teneva fra le sue, con fare accusatorio.
«Non ti permettere, sai?»
Si ritrovò a ridere, quasi senza volerlo; quasi se quelle poche sillabe fossero arrivate ad allentare quella stretta di spire sul suo cuore, quell’azzeramento d’aria e fiato. Decise di non pensarci troppo, non quella sera, non ancora; abbandonò ogni pensiero rivolto a suo padre e a Pedira, mentre seguiva Gabre, inciampando tra i molti ciottoli e radici del terreno sconnesso. Il villaggio era irriconoscibile: c’erano musica e colore, sorrisi e un profumo di alcool e cibo, un fruttato sapore di libertà che si mischiava all’odore del sale e del sandalo, che ancora aleggiavano e svaporavano dal fuoco vibrante. Aveva caldo, la tunica le concedeva poco movimento; avevano riciclato quella dell’Iniziazione di una sua cugina, molto più esile e minuta di lei, e le gambe avevano difficoltà a compiere un passo senza essere impedite dalla stoffa.
Molti giochi artigianali e rozzi erano stati costruiti nei vari angoli della grande piazza: un’altalena di legno e fune, dei percorsi a terra tracciati con stecchi e candele, un albero della cuccagna alto e povero, che attirava comunque molti coraggiosi scalatori. C’era un’atmosfera insolita e piacevole, quella che aleggiava nell’aria solo in quella specifica notte dell’anno; l’avevano vissuta diversamente, fino a quel momento. Adesso erano di diritto anche loro nel mondo dei grandi, quel mondo che tanto avevano discusso e, in fondo, disprezzato.
«Diventeremo come loro?» Izar trattenne Gabre facendo leva sul polso che stava stringendo e lo costrinse ad osservare quello spettacolo inusuale, quei volti che tradivano così tanta fatica e tanto sgomento, anche nella felicità – soprattutto, nella felicità, quella a cui non erano mai stati abituati.
Gabre le sorrise di un ghignetto meno convinto dei precedenti; si chiuse nelle spalle poi, cercando i suoi occhi. Sembrava stranamente serio, quasi solenne.  
«Probabilmente…» le confessò a bassa voce, annuendo impercettibilmente con il capo. Il viso mulatto era illuminato dalle fiamme solo per metà; quella strana prospettiva della luce metteva in risalto piccole cicatrici che intarsiavano la sua guancia, segno di una malattia che pochi anni prima l’aveva avviluppato e di qualche schiaffo ben piazzato dalle mani unghiate della madre. Sorrise, poi, cercando ancora i suoi occhi. «Ma non stasera.»
Ridacchiò ma, alla fine, risultò soltanto uno sbuffo d’aria a labbra schiuse; terminò così quel momento così inedito per il suo carattere irruento e giocoso, e se la trascinò dietro fino ad un grande sacco di stoffa lisa, appeso ad un albero con una fune. Era grande e decisamente ricolmo, penzolava pericolosamente, come attaccato per un gancio sottile e piuttosto malfermo. Izar lo fissò di sbieco con un’espressione perplessa e divertita al contempo, incrociando le braccia al petto.
«La Pignatta? Davvero?»
Gabre rise e se la tirò davanti: le strinse piano le spalle nelle mani ruvide, a tenerla ferma esattamente di fronte a sé. Lei tremò impercettibilmente di quel tocco innocente ma, allo stesso tempo, così intimo, anche per loro.
«Sì, la Pignatta, Izar. Non ti sentirai già mica troppo grande, mh?» Lei gli dava le spalle; le si era avvicinato piano all’orecchio, a sussurrarle direttamente sui timpani quelle poche parole. Prese un piccolo pezzo di stoffa e glielo legò stretto attorno agli occhi, ad immergerla nel buio dolciastro al sapore di festa. Era una sensazione piacevole e confondente quella di averlo così vicino, di sentirlo sfiorare la sua pelle ambrata con questi gesti leggeri e noncuranti. Era carezzata dalle sue mani e da quel vento che aleggiava ancora sopra la terra, spettinandoli e rinfrescandoli, facendo frusciare leggere le fronde degli alberi. Izar rimase in silenzio ma ogni sensazione, privata della vista, si era moltiplicata, quasi avesse preso la forza anche del senso perduto. Si spaventò appena quando sentì il freddo del legno vicino alla mano; Gabre rise ancora e la tranquillizzò, poggiando leggero una mano sulla tunica, all’altezza del centro della sua schiena, sfiorando le punte ultime delle lunghe treccine.
«Ecco, prendi. Vediamo se sei migliorata!»
«Se colpisco la tua testa, cosa vinco?» Izar mugolò infastidita il suo disappunto, mentre le dita si muovevano leggere ad arpionarsi contro il piccolo bastone. Era sempre stata pessima, a quel gioco. Fendeva l’aria con colpi decisi ed irruenti ma mai, praticamente mai, aveva colpito il sacco e fatto precipitare il contenuto. Ricordarle la sua incapacità era uno dei passatempi preferiti dello Stracciano, che ancora le ghignava accanto, invisibile alle sue iridi sfumate.
«La mia testa è molto più dura di quel bastone, quindi concentrati sull’obiettivo!» Si voltò verso la poca folla che era lì attorno; alcuni troppo ebbri per vederli chiaramente, altri, pochi, bambini a giocare su percorsi improvvisati nel pestato polveroso. Altri ragazzi della loro età li fissavano un po’ perplessi: se Gabre era amico di ciascuno di loro, Izar era pur sempre la figlia del Santero che, ultimamente, stava mettendo in difficoltà le loro famiglie con regole troppo stringenti per una realtà così degradata: chi chiede, deve offrire. E lui, oltre a parole pregne di grande dignità e rispetto, offriva poco altro – moriva di fame come tutti gli altri.
 
«La tua amica non dovrebbe nemmeno stare qui. Fosse per suo padre, nulla di tutto questo ci sarebbe.» Il ragazzo parlò, nel buio in cui era immersa, con la violenza di un colpo di frusta; sentì le sue parole distintamente, sopra tutto il clamore, come se le fossero state pronunciate direttamente sul lobo. Questo si interruppe per un istante e si prese quella piccola pausa, prima di continuare; Izar lo immaginò allargare le braccia verso Gabre, ad indicare quell’allestimento scarno ma colorato, un unicuum nel panorama del villaggio.
«Dovremmo stare tutti zitti e buoni. Lavorare e pregare, lavorare e pregare, finché non crepiamo di fame o di fatica. Vero, Izar?»
L’acredine nella voce del ragazzino ritornò alle sue orecchie con uno stridio scivoloso; nel buio in cui la immergeva la benda che aveva ancora addosso, colse ogni sfumatura di quelle parole astiose che non si sentiva di condannare. Il villaggio, l’Isola, erano sempre stati in ginocchio, da quando aveva memoria; suo padre aveva chiesto rigore e rettitudine, ma rigore e rettitudine sono parole di cui riempirsi la bocca quando la vita offre spirargli d’ingordigia e frivolezze. Lì, in mezzo a quella terra brulla ed afosa, nulla di tutto ciò era presente. Vi erano solo restrizioni e rinunce e nessuno era pronto a lasciare le poche briciole raccolte sul fondo del barile.
Izar fece scivolare la benda giù dagli occhi, il bastone ancora stretto fra le dita; si rese conto che la presa su questo era così serrata da farle imbiancare le nocche. Gabre fece per rispondere ma lei lo zittì alzando la sinistra libera, con un movimento leggero delle dita. Piantò le sue iridi sfumate su quelle nocciola del ragazzo di fronte a lei – aveva le braccia conserte, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo duro e fermo del risentimento.
«Hai ragione, Santiago. Fosse per mio padre, non ci sarebbe tutto questo.» Concesse, con la voce – già di per sé lievemente roca – ancora più grattata dal groppo che le sue sillabe le avviluppato in gola. «Io non sono come mio padre, però.»
«Adesso no, eh? Marlia non ti ha scelta, adesso sei un disonore come tutti quanti noi. Povera Izar, dovrà fingere di divertirsi alle feste dell’Iniziazione.» Mugolò un’espressione piagnucolante, una vocina minuta e caricaturale; Izar lo fissò con un sopracciglio alzato e lui abbozzò un sorrisetto e così altri due ragazzi accanto a lui.
«Ti conviene girare a largo, figlia del Santero e di Pedira.» Lo scherno era così palese nella sua voce che, a malapena, poteva distinguersi tra le sillabe; Gabre le strappò il bastone di mano, senza dire una parola, pronto probabilmente a giocare alla Pignatta con la testa di tutti i presenti.
Izar lo ignorò – ignorò tutto, per un lunghissimo ed interminabile istante: si sentì svuotata e poi riempita, nuovamente; vuota e piena al tempo stesso di una rabbia che non aveva corpo e non aveva nome, una sensazione che avrebbe potuto descrivere come un viscerale e malsano desiderio di rivalsa, una sconfinata brama di vittoria, alimentata da una frustrazione antica che mai aveva conosciuto in quel suo corpo e in quei suoi giorni di ragazzina. Le sue mani tremavano appena, i capelli erano scompigliati da un vento che, da leggero, si fece via via più potente, spazzando su di loro con violenza morbida. Non era ancora irruento ma era insolito, scompigliava le vesti ed i rami con folate dalla forza sconosciuta per le terre secche di Nerva, per la sua asfissiante afa. Izar e Gabre erano ancora fermi; quest’ultimo fece per parlare, ma l’altro di fronte a loro riprese, allargando le braccia proprio come aveva immaginato poco prima sotto la benda.
«Mi hai sentito o no? Vattene!»
Izar lo aveva sentito ma non riusciva a muoversi né a rispondere; desiderò soltanto che tacesse, che quella sua bocca fosse erosa dalla sua stessa pelle, fosse inghiottita dentro il suo corpo e questo dentro la terra, fino al nucleo morbido e cocente della stessa, fino a liquefargli quell'espressione aggrottata, a farlo sparire, corroso dalla sua inutilità, plasmato di materia pronta a generare forme di vita più splendenti e capaci, fino a ridurlo in brandelli di carne irriconoscibile, sanguinolenta, molle, sfinita.
Elaborò questi pensieri confusi e sconnessi – estranei – in frazioni di secondo in cui si sentì altra da sé stessa; quello che ne seguì, accadde troppo velocemente: una folata di vento molto più irruenta delle precedenti, fece precipitare da un ramo alcune delle molte lanterne che addobbavano e rischiaravano il perimetro della festa. Una di queste, cadde ai piedi di Santiago e si ruppe con uno schianto secco, rilasciando in un istante la potenza di una fiamma molto più forte di quella della candela; come se il suo corpo e la sua tunica fossero cosparse di liquido infiammabile, il fuoco salì dalla sua caviglia, la avvolse e si arrampicò lungo la tunica, in quello che ad Izar parve il tempo di un battito di ciglia. Il ragazzo non fece in tempo a lanciare il primo lancinante grido di paura, che il fuoco ne avvolgeva la parte inferiore, mischiando al terrore anche un dolore sordo ed insopportabile, lancinante.
Quello che sentì dopo, furono solo gli strilli di Gabre e degli altri, colpi di stracci sopra quel suo corpo avvinto dalle fiamme; lo vide divincolarsi, ululare per il dolore per la carne sfrigolante, sentì suo padre urlare di far largo alla folla che si era premuta sulle vesti ormai quasi spente di Santiago mentre lei era immobile, piantata a terra, con il palmo ancora schiuso dove Gabre le aveva sottratto il bastone. Ansimava: poteva udire soltanto i battiti impazziti del suo cuore che sentiva rimbalzare in ogni dove, i timpani ovattati e sibilanti come dopo una deflagrazione immensa, devastante, quella che le sembrava fosse esplosa nella sua mente dove una potenza di pensieri orrendi ed estranei si era insinuata, l'aveva posseduta, le aveva smosso le angosce con spunzoni arroventati.
Avvertì le gambe diventare deboli, le forze scivolare via dal suo corpo esile; l’unica cosa che riuscì a sentire distintamente, sopra i lamenti della folla spaventata, era la voce di sua madre che si chinava sul suo corpo quasi esanime e quella di suo padre che continuava a ripetere di chiamare le guaritrici.

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Capitolo 3
*** Fuga - Parte Prima ***


CAPITOLO III. FUGA – parte prima
 
Fece sogni agitati, confusi, elettrici: era in piedi, vicino alla pignatta intonsa, e fissava Gabre, il suo viso mulatto, la piccola cicatrice che ne rigava la guancia. Scendeva poi alle sue mani, tagliate da una linea della vita troppo corta, agli occhi di un nero denso e liquido, macchiato di paura e sgomento. Scivolava poi, in un andirivieni incessante, a quelli chiusi di Santiago, riverso su un pagliericcio morbido nella casa della guaritrice – sembra dormire, si continuava a mentire, non sta dormendo, qualcuno la correggeva. Tentava invano di parlare: sputava solo sillabe vuote, incomprensibili, sospiri che si mischiavano a mugugni. Respirava, non riusciva, cercava di chiedere scusa ma Gabre la allontanava dal letto del giovane e, nonostante provasse e provasse ancora, non riusciva ad avvicinarsi di un metro; mani la stringevano per i polsi, per la vita, migliaia di mani l’aggrappavano ovunque – le solite due, ripetute all’infinito: erano quelle di sua madre, che la tirava a sé con allacci da piovra, sussurrandole una nenia confusa. Le ripeteva che non aveva colpa, di dormire, di riposare, il viaggio sarebbe stato lungo, doveva tenersi in forze. La scena si ripeteva in susseguirsi infinito, sempre più ardente, in cui i palmi si arrossavano sempre più, fino a prendere il calore e la consistenza delle fiamme. Urlava, correva, cercava una fonte dove immergerle, dove poter spegnere quella potenza aliena; vari flash comparivano di tanto in tanto, anche quando il sogno si era acquietato e lei era immersa nel buio. Le vesti di Santiago mangiate e risalite dalle fiamme, le grida di suo padre, il volto spaventato e confuso di Gabre che si gettava su di lui e, con il suo corpo, gli schiacciava addosso della terra raccolta dalla piazza, per provare a domare l’incendio. Null’altro.
Si rese conto soltanto al risveglio, madida di sudore in un giaciglio scomodo, che le parole di sua madre non le stava soltanto immaginando ma lei gliele stava davvero sussurrando all’orecchio, mentre tamponava sulla sua fronte con uno straccio bagnato. Immaginò di essere nella stanza che condivideva con i quattro cugini, di trovarla immersa in un silenzio interrotto solo dal loro respiro pesante e dal cigolio di una persiana che altalenava sotto il vento. Sotto di lei, invece, il terreno si muoveva sconnesso e il corpo era scosso da colpi di ruote contro gli ostacoli sassosi del terreno. Aprì agli occhi d’improvviso, impaurita: ciò che vide, fu solo un buio denso, rischiarato soltanto da un leggero bagliore che penetrava dalle piccole crepe nelle assi del carro, lasciando entrare il sole con lame deboli e polverose. Anche i suoi pensieri, ovattati dal sonno denso in cui era caduta, ci misero qualche secondo a ricordare e ricomporsi; per quei pochi istanti, si concesse il privilegio della dimenticanza, frazioni di attimo di serenità, di normalità. Ma fu quasi con un balzo che il pensiero sfumò alla sera precedente, dandole un brivido che la scosse da capo a piedi. Non ricordava nulla di preciso: le grida, le fiamme, una rabbia spropositata, antica, aliena. Le immagini del sogno si mescolavano a quelle reali e le rendevano impossibile distinguere la verità dall’onirico, ciò che aveva fatto e ciò che la paura e il senso di colpa le avevano dipinto sulle sinapsi.
Un groppo le si strinse in gola – cosa aveva fatto davvero?
 
Si mise a sedere di scatto ma la testa prese a vorticare ed ogni parte del corpo, ancora intorpidita dal sonno e dolente come dopo una grande fatica, rispose malamente al gesto. Si rotolò appena di lato, sfregandosi contro la pelle del viso contro la poca paglia che copriva la seduta in cui era sdraiata e, strizzando le palpebre, si rese conto che gli occhi di sua madre erano a pochi centimetri dai suoi, preoccupati, guardinghi. Le sue mani arrivarono presto a cercare di farla sdraiare ancora, spingendola verso il pagliericcio.
«Non alzarti, non ancora. Riposa.» Mugugnò mentre riprese la pezza bagnata che le era scivolata in grembo e la immerse in un secchio d’acqua che aveva a fianco. La strizzò e la posò di nuovo sulla sua fronte, mentre Izar – per inerzia o per sgomento – si fece ricadere all’indietro. Ci volle qualche frazione di secondo perché riuscisse a ricomporre la voce – rotta dal lungo silenzio e da un accenno di pianto – che le sorse sulle labbra, schiudendole appena.
«Cos’è successo? Dove siamo? Dove stiamo andando?» Rotto l’argine, le parole sgorgarono veloci oltre le sue labbra, fiume pieno di dubbi e di spavento, che fece scivolare fuori in un sussurro appena udibile. Uno scossone forte del carro fece sussultare entrambe e la pezza bagnata balzò dalla sua fronte al centro del suo petto, molto vicina all’altezza del cuore. Andò a stringerla, prima che riuscisse la mano di sua madre, e strizzò l’acqua, ad allagarle la stoffa lacera di quella che era ancora la veste da notte, come se potessero quelle poche gocce spegnere il fuoco che sapeva essere nato dentro di lei. Chi altro sapeva?
«Mi uccideranno, mamma? Te lo giuro, non è colpa mia, non volevo, non sono stat-…» Le parole si mischiarono presto alle lacrime e sbrodolarono fuori salate, arrochite, tremanti. Sua madre si chinò su di lei e le carezzò piano la fronte fresca, l’attaccatura dei capelli bagnata.
«Non è colpa tua, Izar. Non è colpa tua.» Le baciò piano una tempia: un bacio di labbra tremanti, impaurite esattamente come quelle della figlia, scosse da un terrore identico. «È stato un incidente, questo pensano tutti. Il vento, la lampada…» Non sembrava stesse cercando di convincere lei quanto se stessa, come se fosse una melodia, una filastrocca che si era ripetuta in testa dalla sera precedente, per ammutolire ed azzerare ogni sospetto, per acquietare domande a cui temeva di trovare risposta.
Izar colse ogni minima sfumatura di quelle poche sillabe e se le sentì frizionare sulle tempie, come una lama di accusa nascosta sotto coltri di negazione. D’improvviso, sbarrò di nuovo gli occhi e fece per alzarsi, repentinamente bloccata dalla madre che la sospinse all’indietro, vincendo l’esigua forza di quel corpo già solitamente esile, esangue. Il tono di Izar si fece d’improvviso più urgente, alto, sputacchiato mentre lacrime più silenziose si facevano strada oltre le ciglia ed immagini a tinte fosche si spintonavano nella sua mente.
«Dov’è papà?» Sua madre arrivò a farle scivolare la mano sulla bocca, allarmata, tamponando le ultime sillabe con la sua pelle, facendole diventare nient’altro che leggeri mugugni.
«Shh! Izar… non nominarlo, non nominarlo!» La bambina alzò le iridi sulle sue e le lesse negli occhi una paura antichissima, le pupille allargate da quella penombra, che stazionavano sul viso stravolto della figlia e rendevano, di riflesso, stravolto il suo, la poca pelle del viso adesa e tirata contro gli zigomi.
Izar strattonò il viso dalla presa di quel palmo e scostò le labbra per riuscire a parlare ancora. La voce adesso era soltanto un sussurro rotto, un conato di paura.
«L-lui… lui pensa che sia stata io…v-vero?»
Sua madre non rispose e quel silenzio le rimbombò in testa come il gong alla fine di un incontro di lotta, uno di quelli con cui si risolvevano le faide di minori dimensioni, lì nell’Isola degli Stracci. Era finita, per lei. Quello era il suo gong. Immagini sparse di ogni lugubre favola, quelle dell’Isola delle Bestie, delle sue immonde creature, del suo putridume, sorsero ad affollarle il retro degli occhi, facendole scorrere davanti spettacoli spaventosi e sinistri. Un singhiozzo le esplose al centro del petto e il corpo si tese così repentinamente, che si trovò ad alzarsi di scatto, furiosa, terrorizzata, impazzita, mentre le tende del carro iniziarono a sfrangiarsi e a sbattere per il forte vento che adesso le circondava. Tremava da capo a piedi, i nervi scossi da fiottate di sgomento. Afferrò il polso della madre con una violenza inconsueta, con una confidenza di cui si sarebbe sentita, in altri momenti, priva.
«Non sono stata io! Non può mandarmi là! NON SONO STATA IO!» Gridò e sua madre cercò di farla tacere ancora, premendole tutte le dita sulle labbra, schiacciandole contro la sua pelle con la violenza della rabbia.
«Taci, Izar!» Si avvicinò al suo orecchio e le sibilò quelle parole con una cattiveria ed una stizza che non le erano proprie, con un’impazienza sinistra. C’era uno scintillio inedito nelle iridi scure, qualcosa di potente che Izar non aveva mai scorto in quella sua indole remissiva, sottomessa al marito da immemori anni – madre, moglie, serva.
Adesso, però, come emersa da qualche anfratto nascosto che lei stessa aveva dimenticato di avere, sua madre le parlava con un cipiglio fermo ed autoritario, che aveva tratti più somiglianti alla figura paterna. Questa similarità la spaventò appena: arretrò di qualche centimetro da lei, scivolando sul pagliericcio che le strisciò le gambe di qualche graffio superficiale, controllando dentro le sue pupille la verità del suo essere, una conferma che quella fosse davvero sua madre e non il frutto di un sogno – di un incubo – che sembrava non avere fine, né inizio preciso.
Sua madre riprese a parlare, la voce ridotta a nulla più che ad un sibilo. «Non ti sto portando .» Quel luogo, tanta era la coltre di paura che lo ammantava, non era nemmeno nominato, non da loro, che vi si riferivano con vaga referenza, come ad evitare che – pronunciandolo a voce alta – potesse prendere consistenza e diventare reale.
«Non puoi più rimanere al villaggio, devo fare in modo che non ti trovi. Lui sa… e non importa che tu sia sua figlia, mia figlia…»
Izar tacque, per lunghissimi ed interminabili istanti; come se quelle parole avessero azzerato ogni brusio di pensiero, come se fossero così prive di significato da non essere reali. Le domande le si affollarono in testa ad una ad una ma non riuscì a formularle – boccheggiava. Dove, avrebbe voluto chiedere. Come? L’avrebbero trovata, ovunque. Trovata e rinchiusa, spedita all’Isola delle Bestie. Come avevano fatto a fuggire? Cosa avrebbe pensato Gabre? L’avrebbe odiata, se non per aver fatto del male a Santiago, per averlo abbandonato, per averlo lasciato lì, da solo, perso, per aver infranto ogni promessa di affrontare la secchezza di quella loro sorte grama, insieme. Era ancora in silenzio e tremava; tremava così forte che le dita delle mani sbattevano una contro l’altra, mentre altre lacrime scesero calde ad inondarle il viso, a scurire la pelle mulatta del loro solco. Sua madre le afferrò il viso tra le mani, con talmente tanta veemenza da bucarle coi polpastrelli la poca pelle del viso. Due occhi identici, dalle iridi gemelle, si specchiavano uno nell’altro: un paio acquosi, distrutti, persi; gli altri risoluti, perentori.
«Non permetterò ti facciano niente.» Anche nelle sillabe della voce c’era un tono diverso dalla morbidezza solita che Izar conosceva, che la spaventava e la faceva sentire protetta, al tempo stesso. Le credeva. «Adesso tutti dormono. Quando si sveglieranno, sarai lontana ed al sicuro.»
«D-dormono?» Chiese la ragazzina, esitante, con le pupille a cercare, oltre le crepe del carro, quanto il sole fosse alto, quanto potessero effettivamente ancora dormire. Sua madre aprì un leggero sorriso di lato, che nascondeva pieghe di non detto.
«Sì, non preoccuparti.» Sua madre, prima di essere moglie madre e serva, era stata allieva; allieva di guaritrici ed erbaliste e, nonostante i ricordi sopiti e lontani, sapeva come mischiare belladonna ed oppio, sapeva come trasformare un respiro in un sonno lunghissimo, profondo ed estremo. Questo lo tenne nascosto da sua figlia – ogni membro di quella casa affollata, quel giorno, avrebbe dormito fino al pomeriggio, ignaro, anestetizzato. Nessuno avrebbe visto che la figlia del Santero, vittima di quell’incidente tanto strano, era scomparsa, mentre il corpo di Santiago, piagato dalle fiamme, languiva in una casa poco distante – non molto lontano dallo scomparire a sua volta.
 
 
Le domande di Izar erano state tutte liquidate con brevi e perentori inviti a tacere. Erano sole, su quel carro dall’aspetto putrido, in cui marcivano in qualche angolo patate e avanzi, di qualcun altro, probabilmente, trasportato prima di loro. Sua madre non le permetteva di pronunciare nemmeno una parola che riguardasse il padre o la loro provenienza; l’unica altra figura, che si sentiva di tanto in tanto tossire e sputare, era l’uomo alla guida, che intimava e insultava il vecchio cavallo, che la ragazzina non era ancora riuscita a scorgere ma di cui sentiva qualche sporadico nitrito.
Non avrebbe saputo dire l’effettiva durata di quello strano viaggio: aveva la testa così colma di interrogativi senza risposta, di paure che le sgorgavano dagli occhi in forma di lacrime copiose e salate, che non sarebbe riuscita a distinguere tra un’ora o un anno intero. Sentiva lo stomaco languire dalla fame, che le dava pizzichi di morsa di tanto in tanto, ma non erano questi a preoccuparla – a quelli aveva fatto l’abitudine. Era quella mancanza che si faceva più pressante man mano che sentiva di allontanarsi dal villaggio; le facce degli abitanti si affollavano a gruppi dietro ai suoi occhi – quella di Gabre, glieli faceva pizzicare un po’.
«Quando potrò tornare?» Chiese, d’improvviso, cercando lo sguardo di sua madre, che adesso vagava sulla sporcizia lì intorno, evitando deliberatamente di incocciare il suo.
«Mamma, potrò tornare… vero?» Le parole erano incastrate fra i denti, quasi non volesse tirarle fuori, per non far diventare le sue paure talmente ingombranti da occuparle la gola ed impedirle il respiro.
 
Il carro frenò all’improvviso e la voce del conducente interruppe qualsiasi tentativo di risposta; l’uomo batté contro le assi che lo dividevano dalle due donne, rintoccando di violenti pugni la fine del viaggio.
«Fuori, forza! Non ho tempo da perdere!»
Sua madre si premette un indice sulle labbra, intimando ancora alla figlia di tacere, e scivolò per prima fuori, spalancando le pesanti tende. Un vento leggero carezzava il limitare della foresta in cui si erano fermati, sventolando leggero sulle vesti cenciose della donna e quelle leggere, da notte, di Izar. Le fissò gli occhi – erano stanchi ma insolitamente vivaci, scintillanti. Sua madre le indicò un albero e la spinse, mimando gesti che le dicevano inequivocabilmente di tacere e nascondersi. Izar ubbidì celere, saggiando con le mani la corteccia, sporcandosi le mani di muschio e paura.
L’uomo scese dal carro con un tonfo sordo; piccoli rami scricchiolarono sotto il suo peso, spezzandosi piegati dai sandali lisi. Izar si guardò intorno: era tutto estremamente diverso dalla cappa polverosa del suo villaggio. Un fitto intrico di tronchi e fronde si spandeva a perdita d'occhio e costeggiava il sentiero sconnesso, risucchiandone il percorso dietro i rami più bassi. Il cielo era nascosto e il percorso era affogato in un buio che strideva con l’accecante bagliore con cui il sole condannava la terra del suo villaggio e del resto della strada che avevano percorso, rendendole aride e polverose.
Izar perse solo per qualche istante lo sguardo in quella geometria così inedita ai suoi occhi, respirando a pieni polmoni quell'aria che le sembrava più pulita, meno secca, sconosciuta ai suoi dodici anni confinata nel perimetro del villaggio del Santero.
Tornò poi a sua madre, che sfilò dietro il carro; non riusciva a vedere né lei né l’uomo, solo i loro piedi sbucavano semi-nascosti dalle ruote. Scostò il viso fuori dal nascondiglio, lasciando il viso mulatto sorpassare per metà il tronco. Un solo occhio fissava quella parzialissima frazione di ciò che stava accadendo. Vedeva i piedi dell’uomo muoversi di fastidio, tremolando in un andirivieni spazientito. Sentì i toni delle loro voci alzarsi, riuscendo, però, solo a cogliere qualche parola biascicata da lui, sputata più seccamente da lei. Non vedeva altro: una danza delle loro posture che poco le diceva su quanto stava realmente accadendo. Una confusione le rimbombava in testa: dalle fiamme della sera precedente al fresco riparo sotto quelle fronde, le sembravano passate mille – lunghissime – ere. Il cuore le martellava impazzito e perdeva un battito solo quando sentiva qualche stralcio della conversazione che pian piano diventava sempre più rumorosa, rimbombando nell’eco di quel silenzio denso. Quello che accadde, non lo seppe mai con precisione: sentì soltanto l’imitazione pallida di un gorgoglio, il tonfo di un peso che crolla, qualche cinguettio di un pappagallo alzato in volo.
Gli occhi del conducente, scivolato a terra, le rimandavano lo sguardo, racchiusi tra i raggi di una delle ruote: erano vitrei, spalancati, morti. Trattenne un grido a stento, premendosi sul viso entrambe le mani, affondando le dita nelle guance magre. Era terrorizzata, congelata e tremante, nel caldo afoso che piegava l’Isola degli Stracci ma non quella distesa d’ombra. Attese per un lunghissimo istante, poi sgusciò fuori dal suo nascondiglio. Era incapace di formulare richieste d’aiuto, di accertarsi che sua madre fosse incolume, che non fossero stati attaccati da qualche brigante delle strade. Mise qualche passo goffo tra gli alberi, le radici ad ostacolo di quei passi confusi. Poi, quando un raggio di sole le trafisse lo sguardo e la costrinse a socchiudere le palpebre, le gambe non ressero più: sua madre – lo sguardo stravolto e trionfante al tempo stesso – uscì da dietro il carro. Aveva un piccolo sacchetto in una mano e un coltello sporco di sangue nell’altra.
 
(continua…)


 
Nda: mi scuso per il mostruoso ritardo con cui arrivo a pubblicare questo nuovo capitolo. Alcune cose mi avevano bloccata sull’andare avanti in questa storia, quindi ho dovuto prendere un attimo fiato e poi, adesso, tapparmi il naso e pubblicare. So che sembra impossibile visto il tempo infinito che ho impiegato ma è stata una stesura di getto, soprattutto per l’ultima parte. Siate clementi, spero che ogni cosa sarà più chiara andando avanti nella lettura. Grazie a chiunque abbia avuto (se è arrivato fin qui) la voglia di aspettarmi e spero di riuscire ad essere più ispirata, costante e motivata possibile in futuro. Vi mando un abbraccio grande!

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Capitolo 4
*** Fuga - Parte Seconda ***


CAPITOLO IV. FUGA – parte seconda
 
Questo capitolo è dedicato a Vanessa,
che per questa storia (e per me) è davvero preziosa.
 
Aveva lo sguardo fisso sullo scintillio rossastro che bagnava la lama di quel piccolo pugnale; il sangue scendeva copioso ad inzuppare la terra ancora secca, fuori dall’ombra della foresta, e non riusciva a capacitarsi che fossero quelle di sua madre le mani che tenevano la lama fra le dita. Aveva ancora entrambi i palmi premuti sulla bocca, a soffocare un grido, un conato od entrambe le cose. Le ginocchia tremarono appena, non riuscendo a reggere nemmeno l’esiguo peso del suo corpo gracile: le sentiva della stessa consistenza del pane ammollato nel latte, quello che la stessa donna che aveva di fronte le aveva preparato ogni giorno, in ogni mattina che aveva preceduto quella che stava vivendo – che la trovava spaesata, spezzata e spaurita. Non riusciva a capacitarsi di nulla: pensieri le ronzavano sulle tempie senza prendere consistenza concreta, senza trovare logicità alcuna.
Spostò lo sguardo sotto le ruote del carro, dove gli occhi vuoti e spenti del conducente le rimandavano uno sguardo vitreo e morto. Gocce di sale le si affollarono ai lati degli occhi e, solo in quel momento, slacciò l’intreccio delle dita sulle labbra, per mormorare le sole sillabe in grado di emergere dal profondo del suo sgomento.
«Ch-che hai fatto?»
Fissava sua madre con incredulità, mentre questa strusciava la lama su un lembo della veste cenciosa, a macchiarla di un rosso densissimo e terrificante. Il sole batteva su entrambe –  ignaro –, facendo scintillare il pugnale ad ogni movimento che incocciava un raggio. Izar avrebbe voluto si spegnesse, sparisse dietro una nuvola gonfia di una pioggia salvifica e purificatrice; avrebbe voluto non illuminasse con sfacciataggine quello scempio che aveva di fronte, quel viso morto colmo di sorpresa e smarrimento, quello di sua madre che sostava a metà tra una gloriosa vittoria e la più misera delle sconfitte.
«MAMMA!» Izar riempì ancora quel silenzio che le aveva donato in risposta; copiose lacrime avevano ripreso a scenderle lungo le guance, a raccogliersi sotto il mento in un’unica, più grande, cascata di paure.
«Rispondimi! Perché?»
La donna – i lunghi capelli corvini, sfilacciati di sfumature biancastre, erano stretti in una treccia ormai disfatta ed informe e sospiravano sotto la leggera brezza proveniente dalla foresta – alzò gli occhi su di lei; avevano il colore della terra bagnata, quella che profuma di pioggia e di vita. Erano rare, lì, le piogge. Per questo Izar amava tanto quella tonalità, perché gli ricordava la limpidezza dei profili delle cose dopo un lungo acquazzone, l’aria ripulita e colma di ossigeno.
«Nessuno deve sapere che sei qui.» Sua madre le rispose soltanto, dopo qualche altro interminabile istante di silenzio. Era un tono sbrigativo, pratico, come se quella misera asserzione potesse giustificare, senza possibilità di replica, l’aver spezzato una vita di fronte agli occhi di sua figlia.
Ad Izar, sembravano solo parole vuote, orribili, indegne di lei – di suo padre. Il pensiero volò a lui: cosa avrebbe pensato di entrambe? Erano finite macchiate di quelle colpe che lui aveva sempre definito indelebili, imperdonabili dagli Dei. I ricordi della sera precedente pungevano come spilli sulle tempie: lo sguardo allarmato e sorpreso di suo padre, Pedira, le fiamme che aveva sentito nascere dentro – si era sentita conquistata prima e poi abbandonata ai suoi errori, a subirne le conseguenze non volute e non cercate. Dov’era la Dea che avrebbe dovuto sostenerla? Dov’era, ora che aveva bisogno di lei? Era una sua figlia e una sua protetta ma era sola. Era testimone di un omicidio, probabilmente artefice di un altro e stava fuggendo, con una donna che di sua madre aveva solo il profilo morbido della mascella, le labbra piene che gli aveva lasciato in eredità – la sola cosa che avrebbe potuto – e le vesti lacere. Null’altro vi era in lei che le ricordasse la donna che, dolcemente e docilmente, l’aveva cullata nelle notti in cui i racconti di suo padre sugli Dei l’avevano tenuta sveglia. Stava fuggendo e non sapeva da cosa, non sapeva per dove.
Un rigurgito di tutte quelle paure le salì alle labbra, strozzato in un grido che aveva tutta la parvenza di un rantolo incastrato all’altezza del suo cuore – ormai ingombro e strapazzato.
«Lo hai ucciso! Lo hai ucciso!» Puntò l’indice contro il corpo morto dietro il carro e, come in un impeto di follia improvviso, corse verso questo. Le gambe risposero malamente alla sua volontà: erano ancora troppo indebolite di spavento e incredulità ed ogni passo risultò goffo e strascicato. Fece in tempo solo a trovarsi di fronte al corpo caduto a terra dell’uomo, ad osservare l’innaturale geometria dei suoi arti sparpagliati e la linea – definitiva – che gli solcava la gola, allagata del suo sangue più rosso, in gran parte seccato e scivolato ad inzuppargli le vesti. Gridò.
Si sentì trascinare un istante dopo, la destra di sua madre ad arpionargli l’avambraccio; la forza era tale che le unghie le si conficcarono nella carne, rigandola del loro segno delebile. La ragazza tentò di divincolarsi come poté; singhiozzi sparsi le scuotevano il petto e le pupille non riuscivano a lasciare quel corpo morto che sentiva fissarla ad ogni minimo movimento.
«Lasciami! Tu sei impazzita!»
«Smettila di urlare o ci scopriranno! Sbrigati!» Prese a trascinarla, letteralmente, di peso: Izar piantò i piedi, i talloni puntati nel terreno secco e polveroso, che alzava piccole nuvole ad ogni loro minimo movimento. Le era quasi consolatorio: non aveva voglia di vederla. Immersa così, in quella polvere rossastra che le sue orme esalavano, poteva immaginare che fosse qualcun altro, che non fosse sua madre la donna che aveva aperto da parte a parte la gola di uno sconosciuto e gli aveva rubato il piccolo sacchetto che gli aveva visto legato alla cinta. Questo era ben stretto nella mano della donna che non stringeva la poca carne della figlia e tintinnava di un rumore scintillante ad ogni suo movimento. Dentro, qualcosa di metallico rimbalzava ad ogni loro passo e si faceva più rumoroso ad ogni nuova resistenza di Izar. Notò che non vi erano più tracce della lama; se ne era liberata, probabilmente, gettandola lontano dalla vista di possibili avventori, nell’intrico dei rami e dei cespugli bassi che addobbavano il limitare del sentiero.
«Dimmi dove stiamo andando! Non voglio venire! Non voglio venire con te!» Sua madre lasciò la presa del suo braccio e – per la prima volta, in dodici brevissimi e ubbidienti anni – le colpì il viso con uno schiaffo secco e sonoro, che rimbombò nel silenzio che avvolgeva la foresta e ne immergeva l’ombra con il suo sapore denso.
Izar rimase immobile per qualche istante: un gusto caldo e ferroso le si spanse sulla lingua, il labbro spaccato da quella violenza tanto inconsueta. Gli occhi di sua madre si allargarono appena, di sorpresa, come se si fosse trovata anche lei colta in fallo da quel gesto. Le prese il viso tra le mani, le pupille fisse sulla carne rotta e sanguinante. Izar non trovò la forza di muoversi; rimase lì – impaurita, come non era mai stata, della donna che aveva di fronte.
«Ascoltami, Izar» Sussurrò, avvicinandosi al suo viso, sillabe dal tono colpevole, con i pollici ruvidi di fatica che le solleticavano gli zigomi sporgenti della fame. «Non ti chiedo di capire, non ti chiedo di essere d’accordo. Ti chiedo di fidarti di me. Devo portarti via, c’è molto altro per te, lontano da qua» Izar schiuse le labbra per replicare ma sua madre la azzittì con uno sguardo eloquente.
«Capirai tutto, te lo prometto. Adesso vieni con me»
Incastrò le pupille nelle sue, a sondarne probabilmente gli intenti di resa. Quelle della figlia si allargarono appena, mentre annuiva: non si sa se di paura o a causa della luce che andava via via perdendosi, sotto l’intreccio stretto dei rami che oscuravano sempre più il cielo.
«Va bene, scusami» Mormorò soltanto, mentre il sapore di sangue tra le sue labbra scemava e lasciava il posto a quello solito di polvere e umidità.
«E smettila di scusarti, quando non ce n’è motivo»
 
*
 
Camminavano da minuti lunghi e sdrucciolevoli, così come lo era il terreno, intricato di radici ricoperte di muschio e fanghiglia. I sandali leggeri, adatti alla secchezza del villaggio, erano ormai intrisi di umidità e i piedi cuocevano dove la stoffa, diventata morbida, sfregava la pelle. Izar respirava quell’aria pesante a pieni polmoni, assaggiando e curiosando quella mescolanza di odori per lei del tutto inediti – che credeva impossibili, lì a Nerva. Non aveva mai visto una foresta così fitta e rigogliosa: non conosceva il verde così intenso delle foglie, i colori così accesi da sembrarle iridescenti. Si chiedeva se avesse vissuto, fino a quel momento, un’esistenza appannata, se – fuori da quella foresta – l’Isola fosse avvolta da un manto polveroso e inscalfibile, non dalla pioggia, non dalle mani. Si rese conto, con un moto di vergogna e uno più piccolo di sconcerto, che non sapeva nulla. Non di Pentidad, non della sua piccola Isola. Era abituata ad essere la più acculturata, nel villaggio; suo padre le aveva insegnato fin da piccola a leggere e scrivere, le aveva raccontato degli Dei, delle scienze erboristiche e curative. L’aveva allevata non come una donna, non come le sue amiche o gli altri compagni, non come Gabre. Per questo lui l’aveva sempre guardata come se, dentro di sé, una fiamma viva vi fosse sempre stata, anche prima dell’incidente della sera precedente. Gli avevo letto, riflessa negli occhi, la luce che lei stessa irradiava, e spesso se ne era compiaciuta. Ma adesso lui non c’era e non c’era nemmeno luce: quella che sentiva dentro di sé faceva paura e non osava andarla a cercare, andare a controllare se ancora fosse in grado di provare così tanto. Era stanca, affamata, debole e avrebbe voluto soltanto fermarsi, riposare.
«Manca molto?»
Aveva rinunciato a chiedere la destinazione finale ma adesso che le gambe si erano fatte molli, i piedi dolenti e lo stomaco gorgogliava il suo fastidio e la sua vuotezza, non riusciva più a resistere – a denti e labbra strette. Lei e sua madre non si erano più scambiate nessuna parola, dopo quelle che avevano seguito quello schiaffo; il labbro le doleva ancora, ogni tanto ne accarezzava l’apertura con la punta della lingua, facendo pizzicare quel male morbido, quasi avvolgente, quotidiano. Gli sembrava la tenesse ancorata a quella realtà conosciuta, le cui certezze si andavano via via sfaldando.
«No… da quell’albero, soltanto qualche migliaio di piedi.»
La donna si muoveva tra le fronde dei rami, tra le radici che emergevano a sorpresa dal terreno, con una familiarità e una destrezza che Izar non le avrebbe mai attribuito. Non sapeva come conosceva quella foresta, né il luogo dove stavano andando; non riusciva ad immaginare dove avesse imparato a cogliere gli intagli nelle cortecce che a lei sembravano identiche ed interpretarli come direzioni. Non si ricordava un giorno qualsiasi in cui fosse stata da sola, al villaggio, senza di lei. Non ricordava un solo momento in cui avesse abbandonato i suoi confini, in cui avesse potuto scoprire quei luoghi. Forse era stato prima della sua nascita, quando non era una madre e le era concesso il lusso di imparare, di fantasticare.
Ogni tanto si fermava a saggiare coi polpastrelli qualche pianta, a raccoglierne gocce di brina con le mani ed annusarne l’odore dalle pieghe delle impronte digitali. Soppesava i bivi, come a ricercare nella memoria le indicazioni corrette e poi la sospingeva con piccoli colpi tra le scapole, ad invitarla a procedere. Non era mai stata una donna di molte parole, aveva preferito sempre le carezze fra i capelli quando li intrappolava in quella cascata di treccine che adesso le invadevano le spalle, ma il silenzio di quella mattina – i suoi trascorsi, le sue prospettive – pesavano sulla gola di Izar come un cappio. Un circolo di vizioso di silenzio che ne porta altro, che impedisce di parlare, che secca domande e risposte.
 
Un rumore di rami rotti, di una corsa scomposta, inciampante fra le radici e i rovi strappati, fece voltare di scatto entrambe, verso la loro destra. La foresta era così fitta e scura che era difficile scorgere ciò che vi era anche a distanza di pochi metri. Sua madre allungò un braccio a coprirle il corpo e le snocciolò qualche parola, così sottile da sembrare un sibilo.
«Non muoverti, stai dietro di me.»
Per un istante, Izar la maledisse per aver gettato la lama lontano. Si stupì e inorridì allo stesso tempo di quel pensiero, ma la paura la attanagliava così stretta alle caviglie che si sentì esposta ed impotente, in quei pochi cenci che la vestivano. Si rannicchiò dietro il corpo di sua madre – pochi centimetri più alta e larga di lei, sui fianchi di chi ha generato un figlio – ma ugualmente esile. Eppure, si sentiva protetta come dietro un grande masso o una solidissima parete. Trasudava, in qualche modo, potenza e autorità, la capacità poliedrica di dare e togliere protezione.
Attesero, nascoste dietro un tronco più grande, che qualsiasi cosa si stesse avvicinando comparisse; erano suoni scomposti e aumentati dall’eco che si spandeva in quel silenzio densissimo. Izar era un fascio di nervi, ogni suo muscolo ed ogni sua sinapsi viveva di una tensione granitica, che la rendeva ritta ed immobile. Potevano averle scoperte – potevano aver scoperto il corpo del conducente, poteva essere suo padre che aveva mandato qualcuno a cercarle, poteva essere lui.
Tremò e aggrappò il palmo contro la veste di sua madre, strattonandola di un’ansia che l’aveva resa di nuovo una bambina, in un gesto identico a quando afferrava la sua gonna per chiederle aiuto o conforto. Adesso era poco più grande: la stessa identica bambina, solo dalle gambe più lunghe e il seno meno acerbo, iniziata agli Dei ma, comunque, ignara di cosa volesse dire conoscere il mondo.
Le fronde più vicine iniziarono a vibrare convulsamente; sotto la sua stretta, Izar sentiva sua madre rigida allo stesso modo, pronta a scattare – fuggire o attaccare, la stessa dicotomica scelta di sempre, di fronte al terrore. Passarono interminabili frazioni di secondo, attimi in cui si sentiva il cuore battere contro i timpani, voler scapparle dalla gabbia toracica, evadere: il sangue le fiottava impazzito, nelle vene. Non riusciva ad elaborare nemmeno le conseguenze che avrebbero potuto attenderle: la scoperta, la morte, il dolore. Non riusciva a capacitarsi di come, solo qualche ora prima, era intirizzita di fronte alla paura di una scelta, di un rituale qualsiasi. E adesso bramava di tornare indietro, di cancellare tutto, di non sentire quel suono di rami. Voleva il rumore della festa, i tamburelli, i rimproveri di suo padre. Voleva la normalità.
Uno scossone mosse le frasche poco lontane da loro e, con un ultimo rumore confuso e allarmato, da queste emerse quello che mai si sarebbero aspettate: una ragazzina, dagli abiti laceri, impigliati di foglie e spine, strappò le ultime fronde e, districandosi alla bell’e meglio tra le radici informi, continuò a correre in loro direzione. Aveva gli occhi più grandi che Izar avesse mai visto: erano spalancati di terrore e contornati da occhiaie violacee; le iridi spiccavano per un azzurro quasi innaturale, quello dei fiori che Izar, per la prima volta, aveva scorto in quella boscaglia. Correva ed inciampava, lanciando più volte occhiate all’indietro, come se temesse che qualcosa la stesse inseguendo, come se fosse una preda – non solo di spaventi, ma di mostri veri e propri. Aveva i capelli di un biondo cenere spento, sporchi e adesi al viso lacerato in più punti da graffi superficiali dovuti, probabilmente, alle fronde più basse. I connotati erano del tutto estranei a quelli degli altri abitanti dell’Isola: aveva tratti affilati e spigolosi, di un pallore quasi spettrale – quello di chi non è abituato a vedere il sole – e indossava una lunga tunica chiara, molto simile a quelle utilizzate per le Iniziazioni.
Izar e sua madre, che avevano trattenuto il respiro all’unisono, nel vederla si sciolsero in un sospiro di sorpresa e sollievo. La ragazzina alzò lo sguardo su di loro: gli occhi di lei e quelli di Izar si scontrarono a metà strada e mescolarono terrori dalle tinte identiche ed opposte. Sentì la pancia contorcersi, come se la fiamma che adesso le covava all’interno si fosse risvegliata, identica a quella che la sera precedente l’aveva invasa, un attimo prima che la lampada cadesse ai piedi di Santiago. Fece un piccolo passo indietro, strattonando sua madre, quasi volesse invitarla a fare lo stesso, a fuggire da quella sensazione che si stava dipanando lungo i suoi nervi elettrizzati. La ragazzina le restituì uno sguardo identico: spalancò ancora di più quegli occhi già grandi come il plenilunio e, accennando qualche passo a ritroso – le mani in avanti in posizione di difesa – prese a scappare in direzione opposta a quella dove loro si trovavano, sfrangiando i rami con movimenti bruschi e scomposti delle braccia. Vedendola allontanare, Izar notò le ciocche dei suoi capelli, tagliate in modo scomposto, irregolari e asimmetriche, come se li avesse tagliati da sola, in tutta fretta, con un coltello qualsiasi.
Mille pensieri si mescolarono su quella figura esile già scomparsa alla loro vista, mentre il cuore non accennava ad acquietarsi e il blu di quelle iridi infinite le invadeva lo spazio fra le tempie, come un mare in cui si sentiva di annaspare ma in cui avrebbe voluto nuotare ancora. Scosse la testa, impaurita da come quel breve incagliarsi d’iridi le avesse squassato così tanto dentro, e si accorse di stare ancora tirando sua madre per la veste, con una forza tale da arrivare quasi a lacerarla, a sfaldare la stoffa. Lei abbassò il braccio che le aveva posizionato davanti, a mo’ di scudo, e si voltò ad osservarla. Izar lesse nei suoi occhi una sorpresa identica ma taciuta, in favore dell’obiettivo più grande. Le strinse di nuovo il polso contro l’avambraccio, senza accennare nulla sulla sconosciuta che aveva brevemente incocciato il loro cammino, e la trascinò verso una fila di cespugli dalle bacche di un’arancione innaturale, quasi cangiante.
«Andiamo, cerchiamo di arrivare prima che cali il sole. Riesci a camminare ancora?»
Avrebbe voluto rispondere di no, che era esausta, che i piedi le bollivano di vesciche e dolore; invece, annuì debolmente e si lasciò trascinare – la mente totalmente dirottata altrove.
 
*
 
Quando gli alberi iniziarono a diradarsi e a rivelare più copiosi raggi di sole, le pupille di Izar erano così abituate alla penombra che si fessurizzarono appena. Era esausta. Le palpebre accolsero quella novità con entusiasmo, elettrizzate all’idea di chiudersi, di riposare, di non doversi alzare per un’altra giornata infernale come quella che era appena trascorsa – e non ancora terminata. Davanti a loro, fra i radi tronchi, si intravedeva una piccola radura che dava sul mare, un molo malconcio e un grande edificio dall’aria fatiscente, di fattura più complessa di quelli del villaggio. L’aria era insolitamente quieta, profumata di sale, avvolta in un silenzio che pareva artificiale. Non vi era l’ombra di nessun essere umano: oltre la strana ragazzina incrociata nel bosco, tutt’intorno sembrava dimenticato e disabitato. Alle loro spalle, il silenzio del bosco era interrotto solo dal verso gracchiante di qualche pappagallo, da sfarfugli d’ali e corse di topi. Nient’altro. Solo i loro respiri sommessi e i battiti dei loro cuori risuonavano nello spazio aperto, come persi nel vento, dimenticati a loro volta, inutili.
Il sole stava ormai per tuffarsi dietro la pozza calma del mare; un venticello leggero carezzava le vesti lacere e malconce, strappate dai rovi e sporcate di terra e qualche goccia di sangue. Solo il lembo inferiore dei cenci di sua madre era ancora intriso di un sangue ormai rappreso, che aveva disegnato un alone sinistro. La ragazzina la fissò per un istante e un’ansia senza nome né corpo la invase di nuovo, insieme ad una colpa più totalizzante: l’aveva rimosso. Era così esausta da aver dimenticato che, molte ore prima, sua madre aveva trapassato la gola di un uomo per salvarle la vita, per portarla lontano. Un nuovo conato le prese la bocca dello stomaco e traballò appena sulle gambe. Sua madre se ne accorse e l’aggrappò per un braccio, sostenendola alla bell’e meglio.
«Resisti, dobbiamo arrivare solo fino a lì. Pochi passi soltanto.» Con un brevissimo cenno del mento, le indicò l’edificio che occupava una parte defilata della radura, la cui ombra nel tramonto si stagliava lunga, allargando il suo perimetro a quasi tutto lo spiazzo. L’aria era tinta di sfumature rossastre ed accoglienti ma Izar non riusciva a fare a meno di essere spazzata da venti di emozioni confuse ed assorbenti, incapaci di tenerla in piedi ancora per molto. Aveva le labbra secche per la sete e lo stomaco ormai assopito, non più in grado nemmeno di chiedere ciò che da ore ormai gli era negato.
Si trascinò sulle gambe molli e le ginocchia deboli, il viso ormai affilato di stanchezza. L’edificio era di una muratura grezza, consunta dal tempo e dalle intemperie. Il portone esterno, di un legno spesso e robusto, era scheggiato in più punti da vari tipi di ferita. Molte, sembravano punte di coltelli conficcate, di frecce o di qualche altra arma dall’estremità affilata. Le sinapsi erano troppo anestetizzate per fare qualsiasi congettura aggiuntiva. Si voltò soltanto verso sua madre, gli occhi allargati di nuovo di paura.
«Cos’è questo posto?»
Sua madre, prima di rispondere, battè due forti colpi di pugno sul legno e qualcosa, di là, scattò quasi all’istante.
«Stanotte dormiremo qua, in attesa di partire»
«Partire per dove?»
«Domattina te lo dirò, promesso»
La porta si aprì prima che ad Izar fosse concesso di replicare; un uomo robusto, dalla barba corta e disomogenea, le fissò dall’alto. Era vestito di un’armatura leggera, un arco appoggiato mollemente alle gambe e uno sguardo che spaziava dal truce all’annoiato, in una mescolanza a tratti piuttosto stridente. Fissò gli occhi sulla madre di Izar e allungò la mano, senza ulteriori convenevoli.
«Una per la notte, due per il viaggio.»
Sua madre estrasse dalle larghe tasche della veste, il sacchettino che aveva rubato alla cinta dell’uomo che aveva ucciso. Questo tintinnò debolmente mentre scioglieva l’intreccio del nodo; vi infilò dentro indice e pollice, per snocciolare sulla mano della guardia una serie di oggetti in metallo, tondeggianti e lucenti. Suo padre le aveva detto che si chiamavano pesilas e servivano come merce di scambio, nelle altre Isole del regno. Lì, a Nerva, ogni scambio avveniva di merce con merce, baratti di prodotti alimentari, vestiti, utensili. Non vi erano pesilas – non capiva il senso di scambiare farina o accoglienza o qualsiasi altra cosa con un pezzo di metallo, buono forse a funzionare da zeppa per i tavoli traballanti. Osservava, quindi, rapita quel suo accumulare metallo su metallo, stupita che sua madre ne conoscesse l’utilità e l’utilizzo e che a quell’uomo bastasse soltanto quello per ospitarle.
Si appoggiò debolmente allo stipite, troppo stanca per rimanere ancora in piedi e formulare anche quei pensieri confusi e curiosi – una curiosità non assopita nemmeno dal gorgoglio sinistro del suo stomaco e dai piedi cotti e costellati di vesciche. L’uomo le scoccò un’occhiata infastidita, che poi si trasferì alla madre.
«C’è del pane secco dentro, cercate di rimanere vive. Non ho voglia di gettare corpi in mare, mi fa male la schiena»
Izar spalancò gli occhi di paura mentre sua madre li assottigliò di un fastidio sinistro e poco promettente.
«Sia mai che vi diamo questo incomodo, Signore.» L’ultima parola risuonò fin troppo ironica ma anche l’uomo sembrava non aver voglia di discutere ulteriormente, quindi si scansò pigramente di lato per farle passare, tirando un calcio a qualcosa per permettere alla porta di aprirsi a sufficienza. Un mugolio di dolore si alzò dalla cosa che aveva colpito e Izar si accorse che, sparpagliati sul pavimento, seduti o sdraiati, decine di uomini, donne e bambini – dall’aspetto cencioso quanto il loro – stavano rannicchiati, svegli o dormienti, in una penombra silenziosa e annichilita.
«Mettetevi dove trovate posto. Solo due regole: state zitte e non rompete le palle. La partenza è per l’alba, un’ora prima c’è la preparazione»
Sua madre annuì, Izar non stava ascoltando. Aveva lo sguardo perso fra quelle decine di corpi ammucchiati uno sopra l’altro, che esalavano un odore di sporco, sudore ed umidità, che le affollava le narici in modo nauseabondo. Non era riuscita a mettere in fila più di due passi: ogni movimento la portava ad impattare contro la schiena di qualcuno e contro i suoi improperi e le sue maledizioni strette e strizzate tra i denti. Lo sguardò le scivolò su una madre che allattava al seno il figlio, le ginocchia così strette al petto dal poco spazio che quasi non vi era posto per il neonato. Aveva lo sguardo affranto dalla vergogna di mostrare a tutte quelle paia d’occhi quella scena così intima e un terrore cieco negli occhi – forse quello che il fagottino potesse iniziare a strillare e piangere.
«Donna!»
La guardia chiamò sua madre, mimandole bruscamente di avvicinarsi, mentre lo sguardo osservava le pesilas che gli aveva depositato in mano.
«Qua vedo solo quattro monete» Le mise sotto il naso il palmo della mano e lei lo scansò in modo aspro, infastidita da quel gesto tanto invadente.
«Uno per la notte, due per il viaggio, no?»
«Sì, ma due a testa. Due per te e due per la ragazzina. Stai cercando di fare la furba o non sai nemmeno contare?» Non sarebbe stata la prima volta; molti, sull’Isola degli Stracci, non sapevano far di conto e non avevano idea di come si usassero le monete. Aveva guadagnato molto di più, quella guardia, imbrogliando sulla reale quantità di monete dovute, costringendo quei poveracci a lasciargliene più del necessario.
Sua madre annuì infastidita e abbassò la voce, così che – anche in quel particolare silenzio costretto – Izar non potesse sentirla.
«Io resto solo per la notte, domani partirà soltanto mia figlia»
 
(continua…)
 
 
 

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Capitolo 6
*** Fuga - Parte Terza ***


CAPITOLO V. FUGA – parte terza
 
La stanza puzzava di umanità in eccesso, di umori, sudori e umidità. Izar stava stretta in quei pochi centimetri di spazio che si era ritagliata; vista la corporatura, era riuscita ad insinuarsi in un anfratto che le permetteva di avere la schiena appoggiata al muro, così da poter posare la testa all’indietro e tentare – almeno – di chiudere per qualche istante gli occhi. Era abituata a condividere la stanza con altre persone; fin da bambina aveva dormito con i cugini – maschi e femmine, più grandi e più piccoli. Ma tutte quelle persone, quegli occhi spaventati, quei respiri pesanti, quell’odore acre di urina e cibo avariato, le dava la nausea e un senso di costrizione all’altezza del petto. Sua madre riposava poco lontano; era stata meno fortunata, stava dormendo praticamente seduta, retta dalla schiena di altri due sconosciuti e della donna con il neonato che aveva intravisto appena arrivata. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato, dal loro ingresso: i minuti le sembravano infinitamente lunghi e sfiancanti e, nonostante la stanchezza della giornata trascorsa, il suo corpo non aveva intenzione di arrendersi: era teso e all’erta come non mai. Una leggera tachicardia segnava il ritmo del suo tempo, sbattendo contro lo sterno quel suo personale tormento, che sentiva come uno dei tanti, lì, in mezzo a quel gregge di disperazione tutta uguale e tutta diversa.
Il pane duro che le aveva porto una guardia al suo arrivo le era rimasto incastrato fra i denti e il cattivo sapore del grano le sporcava ancora la lingua; quelle gocce d’acqua che le erano state concesse erano riuscite appena a bagnarle le labbra secche e scivolarle lungo la gola arida, evitando che il cibo la grattasse con i suoi angoli irregolari.
Non sapeva dire come stesse e mai, prima di quella volta, se l’era chiesto con così tanta insistenza. Era stanca, stanca tanto da non riuscire a dormire, stanca di una stanchezza che nemmeno il sonno – ne era sicura – avrebbe potuto lavare via. Non avrebbe mai pensato, nemmeno nelle fantasie più vivide che aveva spennellato con Gabre, che tutto quello che era successo nelle ultime ventiquattro ore, sarebbe potuto capitare a lei. Aveva osservato la vita delle donne del villaggio, l’aveva detestata ed invidiata, al tempo stesso. Avevano la tranquilla stabilità della normalità, del succedersi delle cose tutte uguali; le aveva sempre dato un senso di capogiro e un senso, invece, di fermezza, quel destino. Aveva iniziato ad elaborarlo presto, aveva iniziato a prendere confidenza con quella che era la vita che le era stata destinata alla nascita; ci era venuta a patti. Non aveva smesso di sognare, però: avevano poco pane, poca acqua pulita e pochi vestiti. Di sogni, invece, abbondavano; non ne erano mai diventati saturi, perché si sogna meglio, si osa di più, quando si è certi che ogni fantasia non sarà mai avverata. Ma adesso quelle fantasie sembravano un ricordo lontanissimo e vacuo, come se – a dividerla dalla pignatta e dai giochi – non fosse poco più di un giorno ma secoli densissimi.
Due guardie, in fondo alla stanza, giocavano ad un gioco semplice, con dei dadi; il rintocco di questi contro il bicchiere di legno che si passavano, le dava un senso di fastidio a premerle sui timpani. Era un suono ritmico, intervallato dalle loro risate roche e sguaiate, completamente indifferenti alla distesa di corpi che li contornava, al loro sonno o al tentativo di cadere nello stesso. Izar li sentiva parlare: comprendeva le loro parole ma avevano un accento strano e un abbigliamento insolito. Aveva visto una sola volta quelle sottili armature, in occasione di una rivolta dovuta ad una carestia che aveva decimato la popolazione di un villaggio vicino al suo; molte persone avevano protestato, non sapevano di preciso contro chi – gli Dei, il Re – ma era arrivato solo quest’ultimo ad occuparsi di loro. Anzi, aveva mandato le sue guardie e, salve donne e bambini, gli uomini erano stati deportati all’Isola delle Bestie – “è lì, il vostro posto”. Le prime, invece, erano state stuprate, alcune deportate, i secondi risparmiati perché inutili a qualunque fine, anche a quello del piacere misero del sesso. Erano soldati ma avevano pur sempre un limite che nemmeno loro si sognavano di oltrepassare, con gli Dei lì a guardare.
Di lì a poco, un colpo di uno dei due soldati sul piccolo tavolinetto che avevano di fronte rimbombò con potenza di tuono all’interno della stanza; il bicchiere coi dadi e il tavolo si ribaltarono, schiantandosi a terra con violenza. Le guardie si fissarono l’un l’altra in silenzio per un secondo poi scoppiarono in una risata quasi grottesca, carica di vino e sporcata dal ricordo del cibo, mentre molte delle persone che erano riuscite ad addormentarsi spalancarono gli occhi con un sussulto. In particolare, il neonato tra le braccia della donna dalle lunghe trecce corvine prese a divincolarsi: un urlo di sirena esplose dalla piccola bocca, un urlo di fame, di sete e di sonno, che esalava la disperazione antica che solo chi non ha ancora freni può sprigionare. Sua madre lo guardò allarmata; gli posò una mano sulle labbra, ma le grida erano talmente potenti da sfilare oltre le pieghe delle dita e allagare la stanza del loro eco. La guardia all’ingresso si tirò su di scatto; l’arco ai suoi piedi cadde con un gran fracasso e questo lo calciò alla bell’e meglio lontano. Aveva gli occhi spalancati e feroci, diversi da quelli annoiati che Izar aveva visto al suo arrivo. Puntò un dito contro la donna, mentre gli occhi di tutti gli altri altalenavano tra il suo polpastrello e il terrore dipinto sul viso della giovane.
«Dimmi che cazzo ti ho detto! Che dovevi farlo stare zitto o vi avrei buttato fuori tutti e due! Fallo star zitto!»
«S-sì, certo, adesso...» Le parole della madre si percepirono appena, invase dagli strilli del bambino; lei gli poggiò le labbra sulla fronte che, si accorse, scottava di una febbre che sperò non venirgli da dentro, di quelle che ti corrodono in pochi giorni l’anima, di quelle che né erbaliste né preghiere riescono ad assopire. Ma non riuscì nemmeno ad essere preoccupata di quella prospettiva: pregava soltanto che la voce di suo figlio gli si spegnesse in gola. Sapeva che non avrebbe smesso: era stremato dal sonno e dalla fame, come chiunque altro lì dentro, ma non aveva la forza né la capacità di resistere, con quella manciata di giorni di vita che portava sulle spalle. Avrebbe voluto poterglielo dire, avrebbe voluto che potesse capire: lo stava facendo per lui, lo stava portando via, alla ricerca di un futuro diverso da quello secco e polveroso di Nerva, lontano dalle fatiche senza scopo, dai giorni tutti uguali, dall’intervallarsi incessante ed inesauribile di giorni di sforzo e di lotta con la propria stessa esistenza. Glielo doveva perché lei lo aveva messo al mondo e, quindi, lo aveva condannato a quel vivere infame. Glielo doveva e lui adesso doveva stare solo stare zitto.
«Ti prego, Joao, ti prego… piano amore, piano, shhh…» Il pianto folle del bambino non accennò a quietarsi nemmeno quando quella piccola nenia gli capitolò sul timpano; sembrava sordo a quella richiesta insistente della madre perché prestava orecchio solo alle morse della fame, del caldo asfissiante, del prurito dato da quella coperta lacera che aveva addosso probabilmente da giorni e che era sporca di ciò che non sapeva ancora trattenere. Sua madre, però, lo supplicò ancora mentre la guardia iniziava a farsi spazio, puntellando i piedi contro i corpi, a creare un sentiero per raggiugerla.
«Per Trunt, fallo star zitto o vi ammazzo! Vi ammazzo adesso!»
Izar fissò con occhi spalancati quella scena, impietrita, immobile di una paura molto più antica di quelle che aveva provato fino a quel momento. Una paura fredda e opprimente – quella che avrebbe scoperto poi essere la paura della morte. Sentiva la donna tremare, la vedeva impercettibilmente sbattere contro sua madre, con le dita a perdersi una contro l’altra in un tintinnio lugubre, mentre provava a portarle ancora al viso del bambino.
«Shhh, ti prego, ti prego…» La donna glielo soffiò ancora addosso, sopra gli strepiti, un attimo prima che la guardia la raggiungesse e allungasse una mano su di lei.
La schiena dell’uomo arrivò a coprirle la visuale. Nella stanza, oltre quel pianto disperato, regnava un silenzio irreale, densissimo, come se tutti quei corpi avessero anche smesso di respirare, nell’attesa di ciò che sarebbe venuto. Un attimo dopo, sentì solo il grido strozzato della donna mescolarsi a quello del bambino che aveva tra le braccia; vide le sue gambe alzarsi in modo innaturale e, con orrore, capì. L’uomo l’aveva afferrata per i capelli, stringendo le dita sporche e tozze contro le trecce crespe della donna e tirandole con forza. L’aveva afferrata con così tanta violenza da farla staccare da terra, facendole perdere l’equilibrio più volte, mentre inciampava sui corpi dei tanti altri avventori.
«Piano, piano, per pietà! Il bambino…» Quel piccolo fagotto di carne e rumore aveva rischiato di scivolare dalle mani della madre parecchie volte, con la coperta cenciosa a coprirlo che si srotolava pericolosamente. La donna continuò a pregare, pregare e gridare del dolore, per tutto quel breve percorso mentre la guardia la trascinava fuori e il neonato non accennava a chetarsi.
«Adesso vi faccio stare zitti io, entrambi. Una volta per tutte!» Se la strascicò dietro per quei pochi passi difficoltosi che separavano entrambi dalla porta. L’uomo la spalancò con un colpo secco della punta del piede e una leggera brezza si levò dal mare, a rinfrescare i visi orripilati che Izar scorse intorno. Si disgustò di quel piccolo piacere che aveva provato, mentre il venticello le solleticava il viso, concomitante a quella scena di una violenza così gratuita, a cui mai aveva dovuto assistere.
Le altre due guardie, nel frattempo, avevano risollevato il piccolo tavolo e adesso fissavano ognuno dei presenti, tutti identicamente rivolti alla porta, le pupille larghe sul legno che andava richiudendosi.
«Fatevi i cazzi vostri, o i prossimi siete voi.»
Gli strilli del bambino sparirono pian piano, come se si stesse allontanando sempre più dalla piccola struttura; a contrario, quelli della madre si facevano via via più alti e disperati, spezzando l’aria di parole laceranti e confuse. Izar si premette le mani sulle orecchie perché aveva paura che quella disperazione non riuscisse a rimanere confinata nello spazio attorno ma finisse per penetrarle nell’anima, a puntellarla fino all’eternità di quel suono così acuto di dolore. Non sapeva che sarebbe stato davvero così. Per questo pregò Pedira di farla smettere o di farla diventare sorda o di farla sparire e basta da quel luogo di incubo. Non funzionò.
La donna continuò ad implorare e alle sue parole si mischiarono le lacrime; non le vedeva ma poteva immaginarle scendere copiose su quel viso magro e sfinito, segnato nonostante la giovane età. Le parole non erano che mugugni ormai, accrocchi di sillabe incomprensibili che sfociarono, d’improvviso, in un grido più acuto che mai, quello che ad Izar sembrò preannunciare la fine.
Un colpo secco si stagliò contro il muro alla sua destra, facendo sobbalzare di nuovo tutti i presenti. Le urla della donna si chetarono di colpo e la guardia ci mise un po’ più del previsto a rientrare.
 
*
 
I minuti che separarono quel colpo dall’alba furono i più lunghi che Izar avesse sperimentato nella sua breve vita. Tutti all’interno di quella stanza erano rimasti immobili, non avevano più osato pronunciare una sola parola. Anche respirare sembrava essere diventato un lusso ed ogni esalazione era stata misurata e praticamente impercettibile. Nessuno aveva osato fare domande alla guardia, nessuno aveva azzardato di chiedere della sorte del neonato o della ragazza, ognuno troppo occupato a difendere strenuamente la linea sottile della propria esistenza. Questa, seppur misera, era almeno affacciata su un ignoto profondo e scurissimo rischiarato dalla debole luce della speranza.
Izar scoccò un’occhiata rapida alla madre: per lei, non vi era questa consolazione. Ogni attimo trascorso dalla sera precedente era un interrogativo che si accumulava ad un altro e tutte quelle persone intorno a lei le sembravano disperati allo stesso modo, fuggiaschi, magari assassini, come sua madre, magari solo dei poveri sfortunati, come la donna che era appena scomparsa. Non sapeva dove sarebbe finita né perché sua madre l’avesse trascinata in quell’incubo che aveva i tratti crudi e secchi della realtà. Non fece in tempo, però, a ricercare di nuovo il suo sguardo, come molte altre volte aveva fatto senza successo, perché la guardia all’ingresso si risvegliò dal torpore in cui era caduta. Sbatté forte due colpi a terra con il tacco dello stivale e il suono rimbombò con colpo di frusta nel silenzio tetro della stanza. Deboli spiragli di luce filtravano dalle imposte, segno che il sole stava timidamente affacciandosi a illuminare un nuovo giorno impregnato dell’odore acre della paura. I corpi delle persone lì attorno iniziarono a riscuotersi da quell’immobilità che aveva seguito la scena di poco prima. Corpi cenciosi che sbattevano l’un l’altro, mugugnando delle imprecazioni o delle scuse a mezza voce, sibili più che sillabe, pensieri che si erano tramutati in parole solo per metà.
«In piedi, forza! Fate veloci, raccogliete quello che vi siete portati e vedete di non far troppo rumore. Avete dieci minuti»
La guardia parlò ancora e, in mezzo ai mormorii, la sua voce svettò cristallina, nonostante la raucedine, e raggiunse le orecchie di tutti senza sforzo. Il comando era stato chiaro ma nessuno aveva molto altro se non le sue stesse membra, da raccogliere. Le due guardie che prima giocavano stavano ancora stiracchiandosi nell’angolo, risvegliate da un sonno scomodo e da un mal di testa al gusto d’acino. Gettarono in un angolo il piccolo tavolo da gioco e il bicchiere con i dadi cadde a terra, facendoli rotolare entrambi lontano dai loro piedi. Uno capitolò contro il sandalo di Izar, che se ne accorse per caso, mentre risaliva la parete con i palmi delle mani, per trovare l’appoggio stabile che non avevano i piedi, con troppo poco spazio per poter fare pressione. Il dado le mostrò un due malconcio, eroso, bucato alla bell’e meglio sul legno graffiato; sembravano due occhi dallo sguardo perplesso, come a riflettere probabilmente quello che Izar donava loro. Si perse per una manciata di secondi a fissare quei deboli solchi, come se dentro nascondessero un messaggio che non era in grado di interpretare, come le rune che suo padre leggeva sui sassi.
La distrasse soltanto la voce di sua madre, il cui tono, dopo così tanto silenzio, le donò una sensazione di allagante tepore al centro del petto che, per un attimo, acquietò ogni ansia e spense ogni timore.
«Preparati, stiamo per andare.» Le snocciolò, con le dita a stringere con leggera pressione il piccolo polso della figlia.
Izar le si avvicinò piano, mentre, ad ogni passo, qualcuno le si aggrappava alle vesti per mettersi in piedi. Alcuni, quelli più in difficoltà, erano afferrati e sollevati di peso direttamente dalle due guardie che si facevano spazio verso la porta.
«Dove, mamma?»
«Tra poco saprai. Fidati di me» Il tono era perentorio e supplichevole al contempo, macchiato da un dispiacere così sfacciato da venire in superficie tra le lettere e non poter essere nascosto nemmeno dietro la diga delle labbra. Izar non ribatté ulteriormente ma, ammetterlo anche a sé stessa le provocava fastidio, non si fidava di lei né di quelle persone che le stavano attorno. Le sembravano tanto diverse da lei e tanto diverse da suo padre, lontano, probabilmente impegnato nel cercarla per condannare la sua stessa figlia, quella che aveva speso la vita ad indirizzare, ad istruire.
Un brivido le contorse la bocca dello stomaco.
Le guardie che erano in fondo alla sala iniziarono a spintonare i corpi sparpagliati per cercare di creare una sottospecie di fila, pungolando i più all’altezza degli stinchi con calci e colpi con l’arco; la gente si spostava a fatica, trascinando piccoli passi, quelli concessi dalla stanchezza imperante e dallo spazio più che esiguo. La guardia all'ingresso, nel frattempo, aprì la porta, affacciandosi giusto con il naso ed osservando con movimenti rapidi la radura allagata di sole. Dopo qualche secondo, fece cenno agli altri due di farsi avanti. Questi spezzarono la fila appena creata per farsi spazio, spintonando qua e là, e mentre si allontanavano, la madre di Izar la trascinò in fondo alla fila, posizionandosi per ultima e tenendo la figlia stretta di fronte a sé.
«Mettiamoci qua, saremo meno schiacciate»
Izar si limitò ad annuire.
 
*
Sfilarono fuori dalla stanza in un silenzio cupo e, allo stesso, fibrillante; anche le guardie sembravano aver poca voglia di parlare, biascicando ordini poco chiari e mimandoli, perlopiù, con gesti ampi delle braccia. L’aria del primo mattino era piacevole e frizzante: il mare poco lontano faceva salire una brezza leggera ed era sporcato dalle sfumature rosate che Izar aveva visto spesso ma che riflesse sull’acqua creavano giochi cangianti e mutevoli, a lei inediti. Se ne stupì, una volta svoltato l’angolo e trovatasi di fronte alla grande distesa piatta dell’acqua. Sua madre richiamò la sua attenzione poggiandole una mano dietro la schiena e, come per un riflesso incondizionato, il viso di Gabre, le sue piccole cicatrici ad allagargli il viso, comparvero di fronte agli occhi di Izar come un lampo improvviso. Mancò un battito, per un istante soltanto. Sognò di essere al villaggio: lì, il sole che non aveva lo schermo della foresta alle sue spalle, doveva già allagare la piazza ed i campi, quella che un tempo era la sua casa e la casa dell’amico. Non solo: avrebbe invaso presto le imposte di Santiago, quel dolore che, alla luce, sarebbe divento più reale. Si immaginò le sue bruciature, quelle che doveva aver lasciato la scia del fuoco lungo le sue gambe. Non osò pensare oltre, non osò pensare suo padre scavare nel piccolo cimitero un posto per lui. Non osò. Si limitò a tremare appena.
«Tutto bene?»
La voce di sua madre la ridestò da quel pensiero, facendola tornare bruscamente alla realtà. Non c’era il villaggio, non c’erano visi amici: c’erano paia e paia di occhi spalancati, alcuni arrossati dalla brezza, altri lucidi per paura, stanchezza o febbre. Ognuno aveva scritto sulle pupille un desiderio diverso, un destino diverso; solo lei si sentiva di non averne idea, di essere a navigare in un mare molto più burrascoso di quello che adesso si trovava di fronte. Prese un lungo respiro e mise l’ultimo passo dietro la lunga fila che adesso si avvicinava alla riva.
Un’imbarcazione piuttosto fatiscente e non troppo grande increspava il pelo dell’acqua lì vicino e un uomo, al di sopra, armeggiava con grandi matasse di funi, piegato oltre il parapetto.
«Dobbiamo salire lì sopra?» Izar guardò, con un rimpallo veloce, la nave, la madre e gli altri avventori, con le pupille che man mano si allargavano rapide. «Non ci staremo mai tutti»
Sua madre scosse debolmente il capo: la guardò bene per la prima volta dal giorno precedente. La luce dell’alba le cadeva sul viso che adesso le sembrava stremato: aveva occhiaie profonde e severi solchi ai lati degli occhi, come se quelle poche ore le avessero rubato molti giorni di vita. L’avevano sempre scambiata per sua sorella, perché né il sole né la dura vita del villaggio avevano sciupato la sua bellezza fanciullesca. Ma, adesso, di fronte a quel viso stanco, anche Izar si sentiva fremere e sentiva che, se non avesse retto lei l’urto, non ce l’avrebbe mai fatta da sola. Se quello che stavano facendo avesse spezzato sua madre, lei sarebbe rimasta un germoglio scosso dai venti, perso in balia di questi.
Non ebbe tempo di pensare oltre; la fila si era quasi esaurita di fronte a loro e sciami di cenci, di facce finite e mani callose, sfilò prima dentro l’acqua, fino alla fune che pendeva oltre la nave. Alcuni fecero più fatica di altri a risalire, con il corpo debole e la corda muschiosa, quei pochi centimetri di spazio. L’uomo che aveva intravisto prima si era fatto più vicino ed aiutava senza grazia le persone ad issarsi, scaricandoli a mo’ di sacchi di sale alla sua destra, una volta scavalcato il parapetto.
«Muovetevi, per Trunt! Muovetevi!» La voce era spezzata così come il suo viso; adesso Izar poteva vederlo con chiarezza. Lo avrebbe definito il viso di un giovane vecchio: si vedeva che doveva essere non più che un ragazzino ma aveva perso l’occhio sinistro e la pelle era rotta e cotta dal sale e dal sole. Non aveva abiti cenciosi come i suoi o quelli della gente che li circondava: aveva una camiciola pulita, seppur bagnata in più punti, e dei pantaloni di un tessuto spesso e che, a lei, sembrava estremamente morbido, ben lontano da grattare la pelle come quello che toccava a loro.

I corpi intorno al ragazzo iniziarono ad aumentare e lo spazio, sulla barcarola, si face sempre più esiguo. Izar, se fino a quel momento aveva temuto di partire per quella direzione ignota, adesso si sentì mancare l’aria all’idea di essere lasciata a terra, braccata da mostri invisibili e paure indicibili, che non osava nemmeno figurarsi nella testa. L’Isola delle Bestie era ancora più macabra, lì dentro.
La guardia le fece uno sbrigativo cenno di venire avanti.
«Forza, ragazzina. Non abbiamo tutto il giorno!»
La madre, da dietro, le diede una piccola spinta; lei allungò la mano alle sue spalle, per aggrapparle piano la veste, quasi a costringerla a seguirla mentre metteva i primi passi nell’acqua fresca del mattino. Si fissò per un istante i piedi: l’acqua le rimandò il suo riflesso scaruffato, con quell’abito da notte che si era dimenticata di indossare e che la fece avvampare alla base del collo.
«Allora? Ti muovi?»
Izar annuì velocemente e sua madre le sciolse la stretta dei polpastrelli contro la stoffa, lasciandola proseguire da sola. Non si chiese il perché, intenta com’era ad addentrarsi dentro l’acqua in cui sprofondava sempre più velocemente. In pochissimi passi, il freddo del mare le lambiva il seno acerbo. Si voltò indietro ad osservare la madre che, ancora oltre il limitare della riva, la fissava con uno sguardo che trasudava qualcosa che non aveva la forza di riconoscere. Urlò, mentre le dita andavano ad aggrappare la corda e paia e paia di mani la aiutavano ad issarsi.
«Mamma, sbrigati!»
Sua madre continuò a fissarla mentre piano sfilava oltre il legno, andandosi a perdere tra le decine di altri corpi, precipitandoci sopra senza grazia. Izar non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, mentre tentava di mettersi in piedi, schiacciando e spingendo, per raggiungere il lato della barca rivolto verso la foresta e la casa diroccata che aveva appena lasciato.
«Mamma! Cosa stai aspettando?»
Nella voce, un tono di allerta e terrore sembrava allagarla sempre di più mentre i decibel frizionavano l’aria con potenza di lama. Gridava; gridò e gridò ancora. Le sillabe sporcate di una paura senza nome.
«Mamma! Sbrigati, sbrigati! C'è ancora posto!» Mentì, non ce n'era; ma non poteva figurarsi l'idea che non la raggiungesse, non riusciva a comprendere il perché non si fosse ancora immersa.
La guardia rimasta sulla riva piazzò l’arco davanti alla donna, sbarrandole la strada.
«Te lo ripeto, donna. Se vuoi imbarcarti, sono altre due monete.»
Izar non poté cogliere quelle parole: vide solo sua madre scuotere appena il capo mentre la guardia alzava il braccio armato con un colpo. Era evidentemente un segnale, perché il ragazzo cominciò a tirare su le corde e a buttarle alla bell'e meglio su legno e corpi. Izar si aggrappò al suo avambraccio con veemenza, imbiancandosi le nocche di forza e terrore, scuotendolo per farlo fermare.
«Cosa fai? Mia madre!» allungò una mano verso di lei, indicandogli la riva.
«Mia madre deve salire! Mamma! MAMMA!» Strattonò ancora per le braccia il ragazzo, che la respinse via con un colpo brusco del gomito, piantandolo con violenza in mezzo alle sue costole, tanto da mozzargli il fiato e fargli morire ogni parola sulle labbra.
«E stai ferma!» 
Gocce di sale diverse da quelle del mare le salirono all’orlo delle ciglia, mentre il petto doleva troppo per implorare sua madre ancora. Questa era ancora sulla riva, le mani conserte in una preghiera muta, a cui Izar e gli dei erano sordi. Aveva gli occhi chiusi ma copiose lacrime le rigavano le guance secche e smunte, illuminate dai primi riflessi del mattino che ne disegnavano la traiettoria  fiume riunito all'altezza del mento.
Izar si aggrappò al legno con tutte le sue forze, mentre il fuoco le infiammava le costole e le toglieva il respiro. Continuò a fissare sua madre mentre diventava un punto sempre più piccolo, una sfumatura di dolore lontana, a confondersi con le onde di quel mare piatto. Il petto non era più scosso da grida ma da singhiozzi violentissimi, che tossivano fuori tutta la sua paura, la sua rabbia e il suo sgomento. L'aveva ingannata, l'aveva lasciata andare, l'aveva lasciata sola. Non sapeva dov'era diretta, non aveva il coraggio di chiederlo nemmeno a sé stessa. Le fiamme che poche ore prima avvolgevano Santiago adesso se le sentiva vibrare dentro, se le sentiva crescere oltre le pieghe delle impronte digitali. 

Non seppe mai che, ad ondeggiare sotto di lei e sotto di loro, nel mare profondissimo dell’ignoto e del suo tormento, c'era il corpo di una giovane donna dalle trecce corvine, con una freccia conficcata in mezzo agli occhi.

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