Libertà e dovere

di Regen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mattino ***
Capitolo 2: *** Pomeriggio ***
Capitolo 3: *** Sera ***



Capitolo 1
*** Mattino ***


Mattino

 

 

La luce della tarda mattinata di quel lunedì di fine aprile era strana, insolita. Il cielo plumbeo minacciava pioggia, tuttavia alcuni raggi del sole primaverile facevano la loro timida comparsa attraverso le nubi violacee. Era il 1945, e l’Italia fascista contava ormai i suoi ultimi respiri.

Romano attraversò velocemente il cortile interno della caserma e si fermò di fronte al Capo Manipolo suo superiore.

“Sotto Capo Manipolo Damiani ai vostri ordini, signore,” si annunciò, facendo il saluto romano.

Il superiore rispose al saluto per poi volgere immediatamente lo sguardo ai militi radunati di fronte.

“Vi ho mandato a chiamare per assegnarvi una missione che reputo importante, Sotto Capo Manipolo. In questi anni ho avuto modo di osservarvi da vicino, e vi ritengo più che adatto a svolgere un compito simile in un periodo delicato come questo. In voi ho riscontrato una fedeltà ed una diligenza nei confronti della nostra Milizia che raramente ho visto altrove. Ciò che esigo da voi, dunque, è che conduciate questi uomini a setacciare la campagna a nord del paese alla ricerca di ribelli. Sono consapevole della nostra situazione nazionale e locale, Damiani, non prendetemi per folle; tuttavia, personalmente scelgo di lottare fino all’ultimo uomo piuttosto che arrendermi ai comunisti o agli inglesi. Siete d’accordo con me, non è vero?”

Romano diede un’occhiata ai ragazzi radunati sul cortile: ad occhio e croce non parevano più di una decina. Dovevano avere all’incirca sedici, diciassette anni, tutti militi dell’ultima ora, improvvisati come sicuramente era improvvisata la loro preparazione alle operazioni militari. In tempi passati, il loro addestramento sarebbe stato più lungo e migliore. Si trattava di una missione pressoché suicida contro bande intere di partigiani armati che ormai avevano conquistato quasi del tutto la regione. Romano trattenne un sospiro. Se il suo destino era di morire per il Fascismo, ebbene, l’avrebbe fatto con onore.

“Accetto la missione, Capo Manipolo Ferrarini.”

 

Le vetture sulle quali viaggiavano erano improvvisate quasi quanto i soldati. Cosa potevano saperne quei ragazzi della guerra? Romano sperava che non fuggissero via al primo cenno di sparatoria, altrimenti il loro disperato arruolamento non avrebbe avuto senso. No, quei ragazzi dovevano aver scelto di combattere e di morire, dato che, con ogni probabilità, sarebbe stata quella la loro sorte. Nei loro occhi animati dall’ardore patriottico gli parve di rivedere se stesso solo qualche anno prima, quando anche lui avrebbe scelto - no, attendeva - lo stesso senza esitare. Ed ecco che ora l’occasione gli si presentava davanti, servita su un piatto d’argento. Sorrise appena, prima di ordinare all’autista della vettura di fermarsi. Romano si reputava un fascista convinto: o l’Italia del Duce o la morte.

“Voi quattro, pattugliate il sentiero a destra. E voi altri, quello di sinistra. Mi raccomando, nessuno deve passare.”

Impartì gli ordini e si posizionò lui stesso al centro, davanti ai campi di granoturco dai quali in pochi mesi i contadini avrebbero raccolto la messe. Nella sua mente cercò di immaginare le azioni dei partigiani: sarebbe stato stupido da parte loro seguire la strada principale sulla quale passavano ancora indisturbati fascisti e tedeschi fuggitivi, quindi avrebbero preso necessariamente i sentieri che lui aveva ordinato di sorvegliare.

 

“Fascisti! Ci sono fascisti che bloccano i sentieri!”

Francesco si massaggiò lentamente le tempie. Erano due giorni che non dormiva e la stanchezza cominciava a farsi sentire, oltre che a rendere l’ansia più attanagliante. Da due mesi era a capo della banda partigiana che tanto infastidiva le Camicie Nere della zona. Il capo precedente, Giovanni, era stato fucilato sulla piazza del paese dopo aver tentato un assalto alla caserma locale. Francesco l’aveva avvertito che si trattava di una mossa azzardata, che i tempi non erano ancora maturi, ma niente, quello non aveva voluto ascoltare ragioni.

“Va bene, vengo tra un minuto,” asserì, accendendosi una sigaretta. Giusto il tempo di una sigaretta, un paio di minuti da solo, e sarebbe tornato in azione.

 

Il capo partigiano prese il cannocchiale dalle mani di Maria, la staffetta che ormai staffetta non era più, dopo essere stata scoperta ed interrogata dalle Camicie Nere. Solo dopo tre giorni era riuscita a raggiungerli, il volto tumefatto e rigato dalle percosse, rilasciata per insufficienza di prove per cortese intercessione del sindaco suo zio.

“Va bene, andiamo. Antonio, Oreste, Giuliano: seguite la formazione che vi ho indicato. Marco, Paola ed Adriano, invece, verranno con me.”

Nel mezzo dei campi coltivati si trovava una piccola altura, una sorta di collinetta artificiale costruita per migliorare il flusso dell’irrigazione. Al di là di questa si trovava il rifugio dei partigiani, che una volta era stato un semplice granaio.

Procedettero con lentezza e tentando di fare meno rumore possibile fino a pochi metri dal ciglio della strada. In mezzo al granoturco, però, nessuno dei membri dei due schieramenti seppe individuare il punto preciso in cui andò a cadere la prima sparatoria. Francesco e Romano seguirono l’udito, alla destra dell’uno e alla sinistra dell’altro.

Il partigiano gridò:

“Fuoco a volontà!”

Il fascista ebbe solo due secondi di tempo per ordinare:

“Tutti a terra! Prendete le granate!”

Ma quei due secondi non furono sufficienti. Presto, il Sotto Capo Manipolo si ritrovò a fronteggiare quattro partigiani con i fucili puntati contro i suoi soldati. Non vedendo altra soluzione disponibile, con lentezza alzò le mani in segno di resa.

“Le armi! Poi le mani di nuovo in alto, lentamente!” Impose uno dei partigiani, fissando tutti loro con uno sguardo pieno d’odio e di disprezzo.

I militi lasciarono scivolare a terra le armi per poi portare le mani in alto.

“Che umiliazione,” pensò Romano, “non siamo durati nemmeno un’ora”. Con una seconda occhiata ai partigiani che aveva di fronte, tuttavia, riconobbe un viso ovale, incorniciato da capelli biondi dal quale spiccavano due occhi azzurri come il cielo, e rimase quasi sgomento per la sorpresa.

“Francesco Cerioli… Sei proprio tu?”

Lo sguardo del capo partigiano, che fino ad allora aveva prestato attenzione più alle armi dei fascisti che ai loro volti, inquadrò quello del loro ufficiale.

“Ma tu… tu sei Romano Damiani!”

Occhi azzurri come il cielo estivo incrociarono occhi neri come la pece. Occhi azzurri come il cielo che Francesco avrebbe voluto essere di un Paese libero; occhi neri come la camicia che Romano aveva indosso. Vicini di casa e compagni di scuola elementare, vent’anni prima, in una città così vicina ma così lontana per via degli spostamenti della guerra.

“A volte il destino gioca degli strani scherzi, non ti pare?”

Il viso di Romano si aprì nell’accenno di un timido sorriso. La ferrea forza di volontà di Francesco, per una volta, vacillò. Conosceva quel giovane da sempre, ed ora faticava a credere di ritrovarselo di fronte proprio alla fine, dopo tante vicissitudini, e sullo schieramento opposto. Già, il destino giocava davvero strani scherzi. Perché, tra tutti, proprio lui? Lui che era stato il migliore amico che avesse mai avuto, lui che considerava come un fratello? Anzi, più di un fratello: il suo alter ego, la sua parte complementare.

“Capo… Ehi, capo?”

La voce di Paola lo richiamò alla realtà.

“Cosa dobbiamo farne di questi qui?” La ragazza partigiana indicò con un cenno del capo i militi a mani alzate, che si guardavano intorno spaesati.

“Portateli via.”

“Dove?”

“E che ne so? Portateli dove vi pare…!”

Stentò a riconoscere se stesso, solitamente così calmo e razionale, nel tono della sua stessa voce. Era inquieto, stanco, sorpreso: la tensione e migliaia di ricordi che riaffioravano dalla sua memoria lo facevano sentire agitato, come febbricitante. Quasi nemmeno si accorse che, nel frattempo, gli altri tre compagni li avevano raggiunti, puntando i fucili alle spalle dei fascisti rimasti.

Di fronte all’estemporanea paralisi del loro capo, a prendere in mano la situazione per primo fu Adriano.

“Va bene, ci penso io. Avranno quello che si meritano. Forza, camminate!” Ordinò ai militi, spintonandone un paio con il calcio del fucile.

Romano fece per seguirli, ma Francesco lo fermò: “No, tu no. Tu resti qui.”

“Ma io non posso abbandonare i miei soldati, sono il loro comandante,” protestò.

“Non me ne frega un accidenti delle vostre dinamiche di gerarchia. E presto non importerà più nemmeno a voi: il Fascismo è morto.”

“Ti sbagli. I grandi ideali non muoiono con una guerra. Aspettate!”

Un paio di partigiani si voltarono.

“Dove li state portando?”

Quelli gli risposero con un ghigno sardonico. I loro occhi arrossati dalla carenza di sonno parevano assetati di sangue. Un brivido di terrore attraversò il corpo dell’ufficiale: terrore non per se stesso, ma per i soldati che gli erano stati affidati.

“No! Non fucilateli, sono solo dei ragazzini!”

“Sì, dei ragazzini che avrebbero potuto scegliere meglio da che parte stare.”

Romano guardò Francesco, che nel frattempo non l’aveva abbandonato con lo sguardo nemmeno per un istante. Il Sotto Capo Milite sapeva che stavano andando incontro ad una missione suicida, ma non se l’aspettava così: avrebbe dovuto essere diverso, avrebbero dovuto combattere, e non arrendersi senza opporre resistenza; invece, nessuno dei suoi militi aveva fiatato, nessuno aveva avuto il coraggio di dire niente. Tutti zitti, muti, impauriti. Romano non avrebbe mai dovuto accettare quell’incarico, ed ora si sentiva in colpa. Doveva assolutamente salvare quei ragazzi che si erano gettati a capofitto in un qualcosa di più grande di loro.

“Francesco, ti prego. Lasciali tornare a casa dalle loro famiglie. Ti dò la mia parola d’onore che non imbracceranno mai più un’arma in vita loro. Te lo giuro. Se dovete proprio uccidere qualcuno, prendete me: io sono il loro comandante, io ho ordinato loro di seguirmi. Loro hanno solo eseguito degli ordini, non hanno alcuna responsabilità.”

“É il giuramento di una carogna fascista, capo. Non dargli retta, questi nemmeno sanno cosa sia, l’onore,” lo avvertì Oreste.

“Non è vero, e tu lo sai bene. Mi conosci, sai che non sono mai venuto meno alla parola data.”

“Certo, finché i tuoi commilitoni non torneranno con il doppio degli uomini e non ci faranno fuori tutti,” si intromise un altro partigiano.

Romano non sapeva più cosa fare. Era solo contro tutti. Tuttavia, percepì una lieve speranza quando vide Francesco voltare il capo verso i campi, meditabondo. Era in preda ad una lotta interiore non indifferente, lo vedeva anche nel modo spasmodico in cui stringeva il fucile. Sotto quella strana luce primaverile, il suo profilo appariva identico a come l’aveva visto l’ultima volta, quasi sei anni prima. Prima dei bombardamenti, prima della guerra vera e propria e prima che Francesco si trasferisse in un’altra città. Allora si era sentito tradito, abbandonato dall’unica persona che contasse veramente qualcosa per lui. Ma poi si era arruolato nella Milizia, e quello che aveva visto là, nel bel mezzo della guerra, delle persecuzioni e degli abusi, gli aveva fatto perdere il senso della realtà. Tuttavia, ecco che ricompariva all’improvviso, Francesco, sbucato dal nulla in mezzo al granoturco, con un fucile e il fazzoletto rosso al collo. Aveva provato quasi un tuffo al cuore, al cuore che credeva non essere più in grado di provare emozioni tanto violente. Anche in quel momento tanto critico, Romano stava lottando disperatamente contro le lacrime, ma lui era un fascista, e sapeva che i fascisti erano forti e non piangevano mai.

Francesco voltò il capo verso i campi, indeciso sul da farsi. Tra l’impulso di abbracciare stretto il suo vecchio amico e la fortissima tentazione di picchiarlo correva solo un sottilissimo filo. E poi c’erano gli altri, tutti gli altri, e quella stramaledetta decisione da prendere… Il suo cuore batteva all’impazzata. Si sforzava di non pensare al passato, ma quei giorni lontani affioravano di continuo dalla sua mente, offuscandogli gli occhi, la coscienza, il cuore, la ragione… tutto. Fu il suo inconscio a fargli muovere le labbra.

“Lasciateli andare.”

I suoi compagni lo guardarono sbigottiti, forse incerti di avere sentito bene.

“Ma…capo…”

Probabilmente Francesco avrebbe dovuto mordersi la lingua, ma ormai il dado era tratto, non poteva tirarsi indietro. Non poteva mostrarsi tentennane davanti alla sua banda, e soprattutto non davanti ai suoi nemici.

“Avete sentito quello che ho detto. La guerra è giunta al termine, troppe vite sono state sacrificate. Nel nostro Paese, in quello che costruiremo, questi ragazzi verranno puniti a sufficienza con il disprezzo e l’emarginazione. Ma l’Italia non ha bisogno anche del loro sangue.”

Per qualche istante, sulla campagna piombò il silenzio più totale. Ci fu silenzio tra i partigiani, che si ponevano mille mute domande riguardo all’ordine del loro capo, alla sua correttezza, a cosa fosse veramente giusto fare; e tra i fascisti, che con gli occhi spalancati per la sorpresa cercavano di capacitarsi di quanto avevano appena udito, sperando non fosse una qualche sorta di trucco.

“Se li lasciamo andare ora, questi qui torneranno, vedrai. E la prossima volta saranno più preparati. Suvvia, rifletti! Credi che se fossero al nostro posto ci lascerebbero andare?”

Francesco sospirò. Osservò ad uno ad uno, con calma, i volti delle Camicie Nere.

“Forse sì, forse no. Ma appunto per questo dobbiamo farlo noi, per dimostrare che non siamo assassini come loro. Se ad un passo dalla libertà ci macchiamo ancora di più le mani di sangue, che esempio possiamo dare all’Italia futura?”

Giuliano, il più giovane dei partigiani della banda, lentamente e quasi con timidezza ammise: “Credo che dopotutto il capo abbia ragione, ragazzi.”

“Sì, lo credo anch’io. Basta con i massacri di gruppo. Già ce se sono stati e ce ne saranno abbastanza in futuro. Un conto è combattere e difendersi, un altro conto è infierire,” si aggiunse Paola.

Con riluttanza, anche gli altri partigiani abbassarono le armi.

“Ammazzarli no, ma pestarli sì!”

Marco tirò un pugno al fascista più vicino, subito imitato dagli altri tre compagni. Nè Francesco né Romano dissero nulla, consci del fatto che, a quel punto, qualunque parola sarebbe stata ignorata. I militi cercarono di proteggersi come poterono, ma la rabbia e l’odio dei partigiani erano troppo forti in confronto alla paura e allo smarrimento che provavano loro.

 

“Sotto Capo Milite, signore, a nome di tutti vi ringrazio,” disse infine uno dei ragazzi, avvicinandosi a Romano con il labbro inferiore spaccato e un occhio pesto, dopo che i partigiani si furono sfogati. Ma Romano scosse la testa per poi volgere lo sguardo verso Francesco.

“Non è me che devi ringraziare.”

“Se mi permettete una domanda, signore… Cosa dobbiamo fare noi, ora?”

Il comandante sorrise mestamente. “Tornare a casa vostra. La guerra è finita, ormai.”

“Ma signore…! Saremo tutti considerati come dei disertori, e come tali puniti!”

Romano posò una mano sulla spalla del ragazzo e si sforzò di accentuare il sorriso.

“Non credo proprio che il Capo Milite Ferrarini abbia il coraggio di uscire per strada e di venirvi a cercare personalmente ad uno ad uno in tempi come questi. E gli uomini rimasti in caserma sono pochi e spaventati, non si schioderebbero di là per niente al mondo.”

“É per questo che hanno invece mandato fuori degli idioti come noi,” avrebbe voluto aggiungere ironicamente.

“Basta cianciare, carogne fasciste! Sparite, prima che ci ripensiamo!” Irruppe un partigiano spazientito.

Francesco sia avvicinò a Romano, ormai l’unico milite rimasto in mezzo a loro. Ovviamente, l’ufficiale in comando era stato obbligato a rimanere. Lui sì che sarebbe stato fucilato. I suoi compagni, dopo avere rischiato la vita ad avventurarsi in mezzo ai campi a causa sua, ne esigevano la morte. E a ragione, certo. Dopotutto, Romano non aveva nemmeno la scusa dell’età: era giovane, sì, ma non un ragazzino inesperto. Non si era arruolato nella Milizia in uno slancio di coraggio adolescenziale alla fine della guerra. A Francesco dispiaceva da morire di non potere fare nulla per evitarlo, dopo tutto quello che li aveva legati in passato. Tuttavia, la giustizia era giustizia, e persino l’amico aveva scelto di essere giustiziato al posto dei suoi commilitoni. Lo guardò, e l’altro gli restituì lo sguardo. Ripensò a tutte le bravate che avevano fatto insieme, a tutte le risate che avevano condiviso, alle liti, alle serate, ai progetti, e si sentì quasi mancare.

“Capo, dato che vi conoscevate prima della guerra, è giusto che te ne occupi tu,” gli disse Giuliano.

Francesco annuì, gli occhi sempre piantati in quelli di Romano. Anche lui annuì. Certo, non era esattamente un onore, ma nessuno dei due avrebbe voluto che fossero altri ad “occuparsene”. L’avrebbe condotto al limitare dei campi, lontano dalla strada: nonostante tutto, non meritava di morire abbandonato sul terreno polveroso, dove chiunque fosse passato in seguito l’avrebbe visto e ne avrebbe riso.

 

O partigiano, portami via…” Canticchiò inaspettatamente Romano durante il tragitto, quando ormai gli altri non potevano più sentirlo. Francesco lo immaginò sorridere davanti a sé, mentre procedevano verso il boschetto di pioppi. Nonostante stesse lottando per non piangere, il comunista si finse risentito.

“Ma che dici?”

“É la vostra canzone, no? Come si chiama…? Ah, sì, O bella ciao.”

Francesco scosse la testa, con un piccolo sorriso che contrastava con i suoi occhi velati dalle lacrime. Romano, che camminando davanti con le mani alzate fortunatamente non poteva vederlo, non era cambiato affatto: il suo senso dell’umorismo era ancora come lo ricordava, nonostante la situazione. Provò una punta di invidia.

“Ecco, siamo arrivati.”

Il fascista si fermò e si voltò. Voleva guardarlo negli occhi. Tuttavia, appena lo fece, un’onda di sentimenti e di emozioni si impossessò di lui, e allora cominciò a ricordare…

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Capitolo 2
*** Pomeriggio ***


Pomeriggio

 

 

“Passami la palla!”

Il ragazzino moro cercò di aggiustare al meglio il lancio, prese la mira e tirò. Il compagno di squadra biondo intercettò il tiro e calciò direttamente in porta.

“Centro! Punto nostro!” Il fautore del vantaggio fece un salto in alto e si lanciò di corsa ad abbracciare l’amico. “Romano, siamo grandi! I migliori, nessuno potrà mai batterci!”

L’altro sorrise, le braccia strette attorno al busto dell’amico in un partecipe gesto di esultanza.

“Sì, siamo grandi. Abbiamo vinto tre a zero contro la squadra di quartiere, Francesco, te ne rendi conto?!”

In un istante, anche gli altri compagni furono addosso ai due ragazzini, festanti.

Ma il momento di ilarità non durò a lungo. Un uomo grande e grosso raggiunse a larghe falcate il centro del piccolo campo da calcio del quartiere, afferrò Romano per un braccio e lo tirò su di peso.

“Tu!” Gridò, colpendolo con un ceffone in pieno viso. “Quante volte ti ho detto di stare alla larga da questi appestati rossi?!”

Il ragazzino si portò d’istinto la mano alla guancia bruciante per lo schiaffo, ma non abbassò lo sguardo di fronte al volto rubizzo di suo padre.

“Loro sono i miei amici, papà! Perché non posso giocare con loro?”

“Te l’ho già spiegato un milione di volte, testa di legno che non sei altro! I rossi sono nemici dell’Italia, della nostra amata Patria. Lo vuoi capire, sì o no?”

Una seconda sberla fece cadere a terra Romano. Aspettò che suo padre si sfilasse la cintura dei pantaloni, per continuare a picchiarlo con quella come era sua abitudine fare quando il figlio gli disobbediva, ma invece del suono metallico della fibbia sentì la voce di Francesco.

“Vi prego, signor Damiani, lasciatelo stare,” si intromise il ragazzino biondo, mettendosi di fronte all’amico per fargli da scudo, “non facevamo mica niente di male. Abbiamo vinto una partita, e vostro figlio è stato molto bravo.”

“Tu non impicciarti. È mio figlio e ho il diritto di sgridarlo quanto voglio. Ed ora levati, non ho tutto la giornata.”

“No, non vi permetterò di picchiarlo ancora.”

“Togliti di mezzo. Vuoi forse prenderle anche tu?”

Nonostante il minaccioso tono di voce dell’uomo, Francesco non si mosse. Continuò a sfidarlo con uno sguardo risoluto, diretto, molto più maturo dei suoi undici anni. Forse fu proprio questo a fare infuriare il signor Damiani, perché mollò un ceffone anche a lui.

“Sei un cocciuto e un ribelle, proprio come tuo padre. Ma vedrai, le cose stanno già cambiando. Presto, in Italia non ci sarà più posto per i rifiuti sociali come voi.”

Erano parole forti da usare di fronte a ragazzini di quell’età. Tuttavia, presto, come predetto dal padre di Romano, essi avrebbero dovuto assistere a scene di gran lunga peggiori di questa.

Francesco tornò a fissare gli occhi in quelli dell’uomo, e questi vi lesse due cose che per un istante riuscirono quasi a turbare la sua anima rozza e dura: rabbia e desiderio di vendetta, di giustizia. Come se quel ragazzino avesse già consacrato il proprio cuore e il proprio futuro alla lotta. Fu incapace di continuare. Ordinò al figlio di rimettersi in piedi e di seguirlo a casa. Romano si rialzò e, nel passare accanto a Francesco, gli prese per un istante la mano nella sua e gli sussurrò all’orecchio:

“Non lo dimenticherò, te lo prometto. Un giorno ti restituirò il favore.”

Francesco gli sorrise di rimando e alzò le spalle, come a dire che non era necessario. Tuttavia, nel vedere l’amico allontanarsi dietro al padre, provò come una fitta al cuore, un sentimento che non sarebbe mai stato in grado di descrivere. E quella fu solo la prima volta.

 

“A cosa stai pensando?”

La voce di Francesco riscosse Romano dai ricordi.

“A quella volta in cui ti sei preso un bel ceffone da mio padre, al campo di calcio. Hai avuto un bel coraggio, nessuno aveva mai osato contraddirlo prima di allora.”

Il partigiano sorrise.

“C’è sempre una prima volta.” Disse, ma poi la sua espressione s’incupì improvvisamente.

Si alzò il vento e le nubi si addensarono ancora di più sulla campagna.

“Forza, fallo ora. Sono pronto.”

Il ragazzo biondo annuì e prese la mira. Portò il dito al grilletto dell’arma. Passarono diversi secondi, e poi minuti, ma lui non aveva ancora premuto il grilletto.

“Cosa c’è, ti fai dei problemi a sparare ad un fascista?”

Romano poteva sentire il proprio cuore battere all’impazzata per l’attesa, e non soltanto per quella. “È questo, allora, il tanto decantato coraggio dei partigiani? Siete solo dei codardi, mi fate pena!”

Gli mancava il fiato e ogni parola pronunciata gli era costata uno sforzo immane, ma voleva che Francesco lo ricordasse forte fino all’ultimo. L’idea di implorare pietà non l’aveva sfiorato nemmeno per un istante, e d’altronde il suo onore non glielo avrebbe mai permesso.

“Tu… come osi dire questo… Proprio tu, carogna fascista!”

Il partigiano ora era davvero infuriato, ma invece di sparare come l’altro si sarebbe aspettato, lasciò cadere il fucile e in un attimo gli fu addosso. Caddero a terra entrambi, rovinando in una lotta pari che si concluse quando si ritrovarono senza più forze e con il respiro affannato, sdraiati sull’erba l’uno accanto all’altro. Lentamente, tutti e due voltarono la testa fino a incrociare gli sguardi, e un istante dopo scoppiarono a ridere. Risero fino alle lacrime, così tanto da sentirsi quasi male, del tutto incuranti del resto del mondo per qualche attimo.

“Non posso farlo, Romano. Non ora che ci siamo ritrovati. Non ci riesco, e dammi pure del codardo, se vuoi, ma è così.” Esordì infine Francesco, con un braccio ancora premuto sullo stomaco che gli doleva per i pugni ricevuti e per la risata.

Romano si voltò su un fianco e distese un braccio verso di lui. Stupidamente, l’altro ragazzo pensò quasi che gli avrebbe preso la mano come aveva fatto tanti anni prima. Ma il soldato lo ritrasse subito, portandolo invece a sostenere il capo mentre lo guardava con quegli occhi così neri da sembrare ossidiana fusa.

“Non so se ringraziarti o scoppiarti a ridere in faccia di nuovo.”

“Fai un po’ come ti pare.”

Un lampo squarciò il cielo in quel momento, seguito poi dal rombo di un tuono.

“Quasi quattro chilometri.”

“Cosa?”

“Il fulmine. Sono trascorsi dieci secondi tra il lampo e il tuono, il che significa che il fulmine è caduto a quasi quattro chilometri da qui.”

“È questo che vi insegnano in caserma? Non mi meraviglio che abbiate perso la guerra.”

Romano scosse la testa. “Comunisti ignoranti.”

Cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia, che presto si infittirono e si trasformarono in un temporale.

Francesco si alzò in piedi e raccolse il fucile.

“Dai, vieni. Conosco un posto in cui potremo aspettare che il temporale passi.”

L’amico si rialzò a sua volta e gli rivolse un’occhiata obliqua. “Se ti riferisci al vostro covo partigiano, non ci tengo proprio ad essere vostro ospite.”

“Ti pare che ti riporterei in mezzo a loro? Muoviti, prima che siano loro a venire a cercarci.”

Il bel viso del fascista si distese in un sorriso di riconoscenza, ricambiato dal partigiano, e si avviarono nel boschetto di pioppi fianco a fianco.

 

Il capanno della legna era vecchio ma asciutto, e Francesco era certo che nessuno sarebbe mai andato a cercarli lì. Il pavimento era ricoperto di paglia e in un angolo era depositata ancora un po’ di legna, accatastata dai contadini l’autunno precedente. I due ragazzi erano ormai completamente bagnati, e gli abiti che avevano indosso erano diventati pesanti, aderenti ai loro corpi.

Francesco si liberò del fucile e della giacca con pochi movimenti spicci. Prese fiato dopo la corsa sotto la pioggia e si guardò intorno: quel luogo era esattamente come lo ricordava, come la prima volta in cui vi si era rifugiato per sfuggire ad un inseguimento dei fascisti. Ed ora vi ci aveva condotto uno di loro di sua spontanea volontà. La vita aveva sempre in serbo delle sorprese.

Romano esitò un istante prima di imitarlo, slacciandosi lentamente i bottoni della giacca dell’uniforme. Prima di posarla a terra accanto a quella del partigiano estrasse dalla tasca una scatoletta di sigarette e un accendino.

“Fumi?” Chiese all’altro, porgendogliela.

“Sì, grazie. Io le ho finite.”

Rimasero in silenzio per un po’, seduti sulla paglia a fumare. Fuori il temporale non accennava a smettere, e alcuni spifferi di vento raggiungevano l’interno del capanno attraverso le fessure tra le assi di legno. Romano rabbrividì nella camicia bagnata.

“Hai freddo?”

“Un po’, ma mi asciugherò presto.”

“Togliti la camicia e mettiti questo,” gli disse Francesco, sfilandosi il maglione e lanciandoglielo da dove era seduto, vicino alla porta, “sicuramente è meno bagnato.”

Il fascista guardò prima il maglione che aveva in grembo e poi l’amico. Non si aspettava tanta premura da parte sua, soprattutto non dopo che si erano quasi ammazzati a vicenda.

“Che hai? Ti fai le paranoie a toglierti la camicia nera?” Sogghignò il comunista.

“Idiota,” ribatté lui alzandosi in piedi mentre si sbottonava la camicia, infilandosi poi il maglione. Era ancora caldo del corpo di Francesco.

Questi si sorprese da solo quando si ritrovò a fissare il corpo del milite. Le spalle, il petto, il torace, le braccia; aveva un fisico asciutto e aggraziato, ma forte dell’addestramento militare ricevuto e impartito più volte alle nuove reclute. Anche se il proprio corpo era abbastanza simile al suo, senza sapere il perché, Francesco deglutì a fatica e distolse lo sguardo. Doveva essere la stanchezza, certo. Che altro poteva essere? Solo un momento di debolezza, perché lui non aveva mai fatto pensieri simili su un altro uomo. Aveva avuto molte ragazze, sapeva di essere attraente e aveva giocato parecchio su questo fatto.

“Mi stavi fissando, per caso?”

Romano reclinò appena la testa di lato e lo guardò negli occhi, incuriosito. Non che fosse nuovo agli sguardi sul proprio corpo: alla caserma capitava spesso che i militi si divertissero a confrontarsi tra loro durante le ore libere, e lo aveva fatto anche lui stesso più volte. Tuttavia, il fatto che fosse stato proprio Francesco a guardarlo in quel modo proprio gli fece provare una sensazione strana, insolita.

“No, ti sbagli,” rispose in fretta l’altro, senza riuscire a nascondere l’imbarazzo che gli trapelò dalla voce.

“Anche se lo avessi fatto, non importa.”

Il ragazzo biondo gli restituì lo sguardo.

“Davvero non ti importa che un altro uomo ti guardi?”

“Non vedo perché dovrebbe importarmi. Può capitare, soprattutto in uno spazio angusto come questo dove non sai dove mettere gli occhi.”

Francesco gli sorrise, grato per averlo tolto dall’impiccio dell’imbarazzo con una scusa.

“Già.”

Il ragazzo moro tornò a sedersi, questa volta più vicino a lui. Nel poco spazio a disposizione, non c’erano che pochi passi a separarli.

“Com’è che ci siamo persi di vista all’improvviso? Non ci siamo neanche mai scritti, non avevamo neanche degli indirizzi a cui fare riferimento.”

“Me lo sono chiesto spesso anch’io, in questi anni. Non lo so, ma credo che la guerra abbia reso tutto più difficile. E poi, cosa avremmo avuto da raccontarci? Tu saresti stato tra le tante bande fasciste che mi inseguivano con i cani, e io sarei stato tra quelli nascosti nei i boschi a spararvi contro.”

“Forse hai ragione. Ma ciò non toglie che mi dispiace.”

“Anche a me.”

Tra di loro cadde nuovamente il silenzio. Questa volta, però, era un silenzio carico di muti interrogativi da parte di entrambi, domande che nessuno dei due ebbe il coraggio di formulare per primo. Domande sul passato e sul presente, e persino su quello stesso momento che entrambi percepivano inconsapevolmente allo stesso modo, senza sapergli dare un nome. Era curiosità, e nostalgia, e affetto, e tanto altro.

“Mi pare che abbia quasi smesso di piovere.”

Infine, fu Romano a rompere per primo quel pesante silenzio. Si rialzò e fece per aprire la porta per controllare la situazione all’esterno, ma inaspettatamente Francesco lo fermò, cingendogli il polso con una mano. L’ufficiale si voltò di scatto verso di lui, con un’espressione di sorpresa negli occhi.

“Aspetta, per favore. Non andartene di nuovo.”

“Guarda che sei stato tu il primo ad andartene.”

“Non è un buon motivo per cui ora debba farlo tu.”

Romano guardò la mano che gli tratteneva il polso, ma non fece nulla per liberarsi.

“Vuoi rimanere qui? E per quanto, fino alla fine della guerra? Sai benissimo che non possiamo, come non possiamo uscire da qui insieme. In quel caso ci sarebbero entrambi gli schieramenti a spararci addosso,” gli disse mestamente, ammorbidendo lo sguardo.

In quel momento, Francesco non riuscì più a lottare contro le lacrime che gli pizzicavano gli occhi più o meno da quando si era allontanato dai suoi compagni. Forse si vergognò di piangere a quel modo davanti a Romano, ma dopotutto le emozioni sono umane, ed era certo che l’amico non gliele avrebbe rimproverate.

Circondò il fascista con le braccia e lo strinse a sé. Anche l’altro, dopo il primo secondo di sorpresa, ricambiò l’abbraccio.

“Forse non possiamo rimanere qui fino alla fine della guerra, ma per ora questo è l’unico posto in cui voglio essere,” gli sussurrò piano all’orecchio il partigiano.

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Capitolo 3
*** Sera ***


Sera

 

 

Non avrebbero saputo dire chi tra i due fu il primo ad avvicinarsi. Sapevano solo che un attimo prima erano stretti l’uno all’altro, e un attimo dopo i loro volti erano così vicini da respirare la stessa aria. Infine, le loro bocche si erano unite con un trasporto che nessuno dei due aveva mai provato.

Si strinsero ancora più forte l’uno all’altro, in un abbraccio spasmodico, da togliere il fiato. Quasi avessero voluto fondersi. Rosso e nero, sinistra e destra, ribelle e soldato; i due volti dei loro schieramenti, della loro epoca, del loro Paese.

In poco tempo, i loro vestiti erano finiti dimenticati in un angolo del capanno, e i loro corpi, avvinghiati sulla paglia, si esplorarono imparando a conoscersi. O forse ritrovandosi. Nonostante fosse la prima volta, era come se ogni carezza, ogni parola sussurrata sulla pelle nuda, ogni bacio fossero il ricordo di una parte di loro stessi, impressa a fuoco nei loro cuori. Un ricordo del presente, del passato e del futuro. Di casa.

Fu un’unione di corpi e di anime che, seppur divise, non avevano mai smesso di chiamarsi, di cercarsi; due anime così diverse, eppure così uguali. Separate da un destino più grande di loro, realizzarono in quegli istanti di essersi appartenute da sempre, di essere indissolubilmente legate da un filo che nessuno mai sarebbe stato in grado di spezzare. Ogni movimento dei loro corpi, ogni brivido di piacere, ogni volta che l’uno sussurrava il nome dell’altro, ancora e ancora nella quiete del bosco, era quel filo che si accorciava, e che li avvicinava sempre più. All’orgasmo del corpo, che raggiunsero insieme respirando l’uno sulla bocca dell’altro; alla fusione delle loro essenze, che avvenne quando si guardano negli occhi e ciò che videro fu loro stessi, ciascuno riflesso nelle iridi dell’altro.

 

“Allora non eri un sogno.”

Francesco si stiracchiò e si passò una mano sugli occhi per liberarsi dell’ultimo velo di sonno che ancora lo avvolgeva. Romano rise, scompigliandogli affettuosamente i capelli.

Dopo quell’amplesso appassionato, quasi disperato, il ragazzo partigiano era rimasto a lungo a guardarlo con la testa reclinata sul braccio e con gli occhi pieni di emozione, accarezzandogli il viso ancora e ancora, finché l’infinita stanchezza non aveva avuto la meglio e si era abbandonato al sonno. Romano l’aveva allora accolto tra le braccia, per trasmettergli un po’ di calore in quel tardo pomeriggio primaverile e per vegliarlo, come era certo che l’amico avrebbe fatto con lui.

“E adesso?”

“Adesso…” Rispose Francesco con calma, intrecciando le dita a quelle dell’altro e accarezzandogli piano il dorso della mano. “Adesso andiamo insieme dal tuo comandante, chiunque egli sia, e gli proponiamo un patto di resa.”

Romano rise di nuovo. Una risata amara. “Stai scherzando, spero.”

“Tu stai scherzando, se credi che permetterò ancora a questa assurda guerra di separarci.”

“E tu credi davvero che il mio superiore si arrenderebbe così, senza lottare? Forse dimentichi chi siamo noi, Francesco. Noi siamo il braccio armato dell’Italia, il nostro dovere è difendere la patria da chiunque la minacci. Anche dagli stessi italiani, se necessario.”

Francesco si trasse a sedere e lo guardò dritto negli occhi. Le sue iridi chiare erano incendiate da un ardore incredibile, mentre parlava. “Quante stronzate. Siamo stati noi altri a salvare l’Italia dalla rovina che voi avete portato e che… Beh, lasciamo perdere questo per un momento; ho la sensazione che non cambierai idea e ora non c’è tempo per cercare di farti ragionare. Dimmi, allora: sei davvero disposto a rinunciare a questo… a noi, senza lottare?”

Romano quasi sussultò. Non fu tanto la veemenza con cui aveva parlato Francesco, no; fu quella parola, quel “noi” pronunciato con una semplicità disarmante, a far vacillare per un istante tutte le certezze che aveva. Sospirò e scosse lentamente il capo, abbassando lo sguardo.

“In nessun tempo e in nessun luogo potrebbe mai esistere ciò che intendi. Lo sai benissimo.”

“Pensi davvero che me ne importi?” Asserì l’altro, prendendogli il mento tra due dita e costringendolo a guardarlo negli occhi. “Se siamo ancora qui, nonostante la guerra, i morti, i feriti e la distruzione… Se nonostante tutto questo siamo ancora qui, adesso, l’uno di fronte all’altro, è proprio per questo momento. Possiamo cambiare il destino, Romano: possiamo cambiare il nostro destino e quello di altre persone. Io non voglio che altro sangue italiano venga versato inutilmente in questa guerra fratricida. Non voglio che le fondamenta della nuova Italia si poggino su questo.”

“Ipotizziamo per un istante che tu abbia ragione, e che andiamo quindi a presentare la tua proposta al mio superiore; ipotizziamo anche, per assurdo, che lui accetti. Anche così, tra noi e voi non siamo più di una trentina: che differenza vuoi che faccia?”

“Sarebbe già un inizio, per Dio!” Gridò Francesco infervorato, sbattendo una mano sul pagliericcio. “Possibile che tu non capisca? Se il tuo superiore accetta di firmare la resa della vostra caserma, io metterò per iscritto la mia garanzia di capo partigiano che non ci saranno ritorsioni nei vostri confronti.”

Romano sorrise mestamente. “Non cambierai mai, vero? Vuoi sempre fare l’eroe, cercare di salvare tutto e tutti.”

“Dimmi in che modo questo è un male.” Ribatté il partigiano, accennando un sorriso a sua volta.

“Non lo è. È anche per questo che io ti…” Si fermò.

“Che tu mi…?”

Silenzio.

“Oh, lascia stare,” disse infine il fascista, cambiando tono. “Piuttosto, dimmi come pensi che reagiranno i tuoi compari, una volta che sapranno quello che hai in mente di fare.”

Francesco alzò le spalle. “Semplice. Non lo sapranno.”

“Alla faccia della democrazia che tanto decantate,” sogghignò il fascista.

“Non fraintendermi: lo sapranno, ma dopo. Li metteremo di fronte al fatto compiuto, e allora non potranno più opporsi. Certo, lì per lì, magari alcuni si incazzeranno un po’… Ma alla fine sono tutti dei bravi ragazzi, e arriveranno a capire che era la cosa giusta da fare.”

Con lentezza, Romano, che era rimasto, indolente, sdraiato fino a quel momento, si trasse a sedere a sua volta e posò la testa sulla spalla dell’amico, il quale lo strinse prontamente a sé.

Il pensiero del fascista tornò, per l’ennesima volta quel giorno, ai ricordi che li univano, dall’infanzia fino a quel preciso momento. Nonostante la ragione e il suo senso del dovere gli gridassero che quella era un’assurdità, un azzardo, per la prima volta in vita sua non li ascoltò. Scelse invece di ascoltare il cuore. Scelse Francesco.

“Sarebbe bello se, quando tutto questo sarà finito, potessimo andare da qualche parte lontano da qui. Magari in qualche posto da cui si può sentire il rumore del mare, e delle onde che si infrangono sugli scogli…” Il milite chiuse gli occhi, immaginando un posto del genere e loro due lì, insieme. “Da qualche parte dove nessuno saprebbe mai chi siamo e da dove veniamo.”

Il giovane partigiano fece scorrere la mano lungo la schiena dell’altro ragazzo, in una lenta carezza. “Piacerebbe tanto anche a me…” Sussurrò.

Poi, all’improvviso, capì. “Aspetta un attimo… Quindi quello era un sì?”

Senza sciogliere l’abbraccio, voltò il capo quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi e l’altro annuì, l’ombra di un sorriso a tendergli le labbra. La felicità riempì improvvisamente il cuore di Francesco fin quasi a scoppiare.

“Lo sapevo! Lo sapevo che avresti accettato!” Gli prese il viso tra le mani e lo baciò, ancora e ancora, in preda all’euforia.

Romano rise di fronte a quello slancio, intrecciando le dita tra i capelli biondi dell’amico d’infanzia.

 

“Non per fare l’uccello del malaugurio, ma come puoi essere tanto sicuro che il tuo piano funzionerà?” Gli domandò Romano, mentre si stavano rivestendo.

“Perché lo porteremo avanti insieme,” rispose Francesco con un sorriso, con quella sua semplicità disarmante. “Da ora innanzi, qualunque cosa accadrà, noi saremo sempre insieme. Te lo prometto.”

L’altro ragazzo sorrise di rimando. Era tutto ciò che voleva sentire. Di tutto il resto, delle possibili - e probabili - complicazioni, di un eventuale fallimento, e persino della morte, non gli importava.

“Senti… So già che questa è una domanda stupida, ma te lo voglio chiedere comunque.”

Francesco, che si stava allacciando gli scarponi consunti, alzò lo sguardo incuriosito. “Chiedermi cosa?”

“In questi anni… In mezzo a tutte le privazioni, i combattimenti, le fughe e i nascondigli… Hai mai pensato, anche solo per un secondo, di cambiare schieramento? Di unirti a noi?” Non lo guardò negli occhi, Romano, mentre pronunciava quelle parole. Finse invece di essere particolarmente concentrato ad allacciare il polsino della camicia.

“No, mai.”

“Lo immaginavo.”

“Perché tu, invece? Hai mai pensato di passare dalla nostra parte?”

“Cielo, no!” Romano si sentì quasi offeso da quella domanda, ma l’immagine che aveva davanti in quel momento, di Francesco che si annodava al collo il suo amato fazzoletto rosso, lo indusse inconsapevolmente ad ammorbidire il tono. “Posso essere d’accordo con questo tuo piano, capo partigiano; ma ciò non significa che sia d’accordo con tutte le tue idee.”

“Lo immaginavo.”

Si guardarono, e per qualche istante i loro volti furono seri come quella mattina. Un attimo dopo stavano ridendo di nuovo, insieme.

“Strano che la tua banda sgangherata non sia ancora venuta a cercarti. O a cercare me, nel caso pensassero che ti ho fatto fuori.”

Francesco inarcò un sopracciglio, scettico, ma aveva ancora il sorriso sulle labbra. “Tu, fare fuori me? Ma neanche tra cento anni! Piuttosto, è più probabile che i ragazzi mi abbiano cercato tutto il pomeriggio, e che ora siano tornati al rifugio. Ultimamente non ci muoviamo con il buio, se non è strettamente necessario. Penseranno che ho avuto bisogno di una pausa dopo gli avvenimenti di oggi, e che voglia starmene un po’ per i fatti miei.”

“Succede spesso? Che tu abbia bisogno di una pausa, intendo.”

“Vuoi sapere se faccio quelle cose con ogni ufficiale delle Camicie Nere che catturiamo?” Sogghignò il ragazzo biondo.

“Idiota.”

Lo scappellotto dietro la nuca che ricevette dall’altro non fece che accentuare il sorriso divertito di Francesco. Era forse gelosia, quella? Scoprì che non gli dispiaceva affatto quella nuova componente del loro rapporto. Non c’era stato abbastanza tempo per soffermarsi a riflettere su tutto ciò che avrebbe implicato quella nuova dinamica, ma lui era senza dubbio impaziente di scoprirlo.

“Comunque, per rispondere seriamente alla tua domanda, sì, mi capita abbastanza spesso di aver bisogno di qualche momento per starmene da solo con i miei pensieri. Ma come puoi immaginare date le circostanze, le occasioni per farlo sono veramente poche.”

Il milite annuì, comprensivo. “Capisco quello che intendi. Anche per me è così. E credo tu possa immaginare che ritagliarsi dei propri spazi in caserma sia altrettanto impossibile.”

“Già,” commentò il partigiano, prendendo il fucile in spalla. “Quindi, cosa stiamo aspettando? Andiamo a sistemare questa faccenda una volta per tutte.”

Una volta accertatosi che non ci fosse nessuno nei paraggi, Francesco uscì dal capanno, seguito da Romano.

Il piccolo bosco odorava della pioggia appena caduta e del polline dei fiori che le api avevano da poco iniziato a raccogliere. Gli alti pioppi creavano una volta naturale sopra il sentiero coperto dei loro piccoli semi raccolti in candidi batuffoli bagnati, che alla luce della luna parevano fiocchi di neve appena caduti. Il silenzio regnava ovunque, interrotto solo dal canto di qualche civetta che si era appena svegliata dal letargo invernale.

Nel buio quasi totale, Romano per poco non inciampò e si lasciò sfuggire un’imprecazione; Francesco allora gli prese la mano e lo guidò premurosamente, passo per passo, su quei sentieri che ormai conosceva come il volto della propria madre e che avrebbe potuto percorrere anche ad occhi chiusi. Quando giunsero al limitare del bosco, dal lato del paese, il capo partigiano si fermò di colpo.

“Anche io,” disse, inaspettatamente, al soldato.

“Come, scusa?” Chiese l’altro, confuso.

“Quello che stavi per dire prima, al capanno. Voglio che tu sappia che per me è lo stesso.”

Non vide il meraviglioso sorriso che gli rivolse il ragazzo moro nel buio, ma sentì le sue labbra sulle proprie così come sentì, nel cuore, tutti i significati che quel bacio implicava.

 

Il Capo Milite Ferrarini era inquieto, lo era stato per tutta la durata di quella giornata maledetta. Aveva saputo che i suoi soldati avevano sì incontrato i ribelli, ma erano stati sconfitti senza colpo ferire e non solo: erano stati lasciati liberi di tornare a casa come se nulla fosse successo.

“Strano, molto strano,” ragionò tra sé e sé per l’ennesima volta in quel giorno, percorrendo il suo ufficio avanti e indietro. “Qui deve per forza esserci sotto qualcosa… Un trucco, sì… Deve essere per forza così. Ma quale?”

Qualcuno bussò alla porta, e lui ingiunse loro di entrare.

“Signor Capo Milite, signore,” disse un giovanissimo soldato trafelato, “c’è il Sotto Capo Milite Damiani davanti al cancello che chiede di parlare con voi.”

“E allora cosa state aspettando, per diamine?! Fatelo passare subito!” Tuonò l’ufficiale. “Era ora che tornasse, Damiani se l’è presa comoda!” Aggiunse mentalmente.

“Purtroppo c’è un problema, signor Capo Milite, signore,” lo informò il ragazzo.

“Problema? Che genere di problema?”

“Il Sotto Capo Milite non è solo, signore. È accompagnato dal capo dei ribelli, che chiede anch’egli di parlare con voi, e…”

Il Capo Milite Ferrarini non gli lasciò il tempo di finire la frase. Si fiondò immediatamente fuori dall’ufficio, attraversò il cortile a grandi falcate e si diresse al cancello della caserma.

Passò in mezzo ai suoi uomini, tutti schierati in posizione con i fucili puntati verso la strada, e si fermò davanti all’inferriata. A pochi metri di distanza dall’altra parte c’era il suo sottoposto, Romano Damiani, accanto a colui che aveva riconosciuto come il capo partigiano della banda della zona, anche se non ne aveva mai saputo il vero nome: i ribelli usavano dei soprannomi in battaglia, in modo da non poter essere poi rintracciati.

“Sotto Capo Manipolo! Pretendo che spieghiate immediatamente il significato di questa pagliacciata!”

“Non si tratta di una pagliacciata, Capo Manipolo Ferrarini. Sono tornato a fare rapporto solo ora perché sono stato impegnato in una lunga trattativa con il qui presente Francesco Cerioli, il capo della banda dei ribelli. Se mi consentite di esprimere il mio parere, signore, ritengo che abbiamo raggiunto un accordo più che ragionevole per entrambe le parti; con tutto il dovuto rispetto, vi chiedo quindi il permesso di poterlo esporre anche a voi, nell’interesse della nostra Milizia.”

Ma l’ufficiale in comando delle Camicie Nere aveva ascoltato solo le prime due frasi.

“Finalmente osi uscire allo scoperto, comunista dei miei stivali! Dì un po’, Francesco Cerioli, mi prendi forse per stupido? Credi che non sappia che la tua banda di pidocchi si nasconde da qualche parte nel buio lì dietro, aspettando solo che apriamo questo cancello per attaccare e prendersi la caserma? Credi che non sappia riconoscere uno sporco trucco?”

“Signor Capo Milite, vi garantisco sul mio onore che…” Tentò di intercedere Romano Damiani, ma la sua voce non giunse mai alle orecchie del suo superiore.

“Fuoco!”

 

Francesco non avrebbe mai immaginato che sarebbe potuta andata così. Un attimo prima si trovava al fianco di Romano, con il fucile in spalla certo, ma non puntato e nemmeno carico, davanti alla milizia fascista; un attimo dopo, all’ordine del loro superiore, quelli avevano preso la mira e avevano sparato nella sua direzione.

Quello che non avrebbe potuto immaginare nemmeno nel peggiore degli incubi, però, era che Romano si sarebbe gettato davanti a lui per fargli da scudo con il suo corpo contro i proiettili dei suoi stessi commilitoni.

Francesco si era trovato innumerevoli volte di fronte alla morte, così tante che aveva ormai perso il conto. Tuttavia, quella sera fu come la prima volta. Solo cento volte peggio.

Mentre spalancava le braccia per afferrare al volo il corpo esanime dell’amico d’infanzia, fu come se fosse lui stesso, a morire. Tutti gli ideali, i sogni, i progetti e le lotte di una vita scomparvero in un frammento di istante. Ogni cosa perse significato, colore e valore. Anche la vita stessa.

Sotto gli occhi dei fascisti sgomenti, poggiò delicatamente a terra il corpo che aveva stretto a sé per un pomeriggio intero - il più bello della sua vita - e si chinò per depositare un ultimo bacio sulla sua fronte. Poi imbracciò il fucile e lo puntò sui militi della caserma.

Una raffica di proiettili lo centrò in pieno.

“Non lo dimenticherò, te lo prometto. Un giorno ti restituirò il favore.”

Con i suoi ultimi respiri udì la voce di Romano, ovattata dal tempo. Aveva rispettato la sua promessa.

“Da ora innanzi, qualunque cosa accadrà, noi saremo sempre insieme. Te lo prometto.”

Come lui aveva rispettato la sua.

 

Non c’era stato nessun attacco, nessuna sparatoria, dopo. Il Capo Manipolo Ferrarini era basito. Lui, un rude militare di carriera con alle spalle tante e tante battaglie, era sconvolto dall’orrore e dalla drammaticità della scena che si era svolta sotto i suoi occhi. I suoi militi erano subito usciti a controllare i corpi - deceduti, entrambi - e gli avevano portato anche un’altra notizia: l’arma del partigiano non era carica.

Nessun trucco, nessuna trappola.

“Mio Dio, cosa ho fatto…?” Pensò, invocando un Dio che non credeva l’avrebbe più ascoltato. Così come lui non aveva ascoltato quei due ragazzi.

“Signor Capo Milite, quali sono gli ordini?” La voce di uno dei suoi soldati lo riscosse.

“Date loro una degna sepoltura.” Ordinò.

Il ragazzo che era entrato nel suo ufficio si fece timidamente avanti. “Ma… Signor Capo Milite, signore…intendete anche al ribelle?”

L’ufficiale lo guardò. “Ricordami il tuo nome, soldato.”

Questi si mise subito sull’attenti. “Arcuri Alberto, signor Capo Milite, signore.”

“Milite Arcuri, Francesco Cerioli, il capo dei partigiani, era un combattente valoroso. Lui e i suoi uomini hanno mostrato indulgenza nei confronti dei nostri camerati in tempi in cui assai pochi sono disposti a farlo. Noi siamo coloro che tengono alto l’onore dell’Italia, e l’onore ci impone di mostrare loro il dovuto rispetto. Anche tra nemici ci deve essere, il rispetto. Ricordati questo, soldato, e portalo con te fino alla vecchiaia.”

“Signorsì, signore. Grazie per l’insegnamento, signore.”

Il milite Arcuri Alberto non sarebbe mai arrivato alla vecchiaia, così come nessuno di loro, in quella caserma. L’errore che il loro comandante aveva fatto quella sera aveva segnato la loro sorte. Ma questo il Capo Milite Ferrarini non ebbe il cuore di dirglielo. L’indomani i partigiani si sarebbero avventati su di loro, e nessun’arma e nessun cancello sarebbero stati in grado di salvarli.

Non aveva un animo cattivo, il Capo Milite Ferrarini: sapeva riconoscere il valore degli avversari sul campo di battaglia e li rispettava per questo, nonostante ciò non lo avesse mai ostacolato dal compiere il proprio dovere. Tuttavia, per quanto ci ragionasse, non riuscì a capire cosa avesse spinto quei due ragazzi, nemici tra loro, a compiere quel gesto suicida; ma lui non era mai stato un gran pensatore, e si rassegnò al fatto che non sarebbe mai venuto a capo di quell’enigma. L’ufficiale delle Camicie Nere si ritirò nel proprio ufficio a stendere il rapporto della giornata, più per occupare l’attesa che per necessità. Non c’era più nessuno a cui fare rapporto, non ci sarebbe mai più stato.

Lentamente, l’oscurità della notte lasciò il posto al bagliore rossastro dell’alba. L’alba che illuminò con la stessa luce la caserma dei fascisti e il rifugio dei partigiani; l’alba che rischiarò le tombe di due ragazzi che, seppur su schieramenti opposti, avevano entrambi amato la loro patria. L’alba che rischiarò l’Italia intera.

L’alba del 25 aprile.

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