Behind Blue Eyes

di Spoocky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Occhi chiusi ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Una situazione complicata ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Una veglia difficile ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Occhi chiusi ***


Disclaimer: i personaggi riconoscibili appartengono agli aventi diritto.
Scrivo solo per piacere e non guadagno nulla.

A Snehvide, che spero apprezzi questo piccolo regalo.

Buona Lettura ^^


Erwin Smith affrontò a denti stretti la cavalcata di ritorno al Wall Rose.
Il braccio gli pulsava di un dolore sordo, specie nell’area stretta dal laccio che si era avvolto con i denti attorno al moncone per arrestare l’emorragia.
Cominciava a sentirsi debole e stordito, la vista gli si andava appannando. Ormai proseguiva per un puro sforzo di volontà.
I suoi uomini contavano su di lui: non poteva permettersi di cedere di fronte a loro e privarli della fiducia nelle, pur inadeguate, capacità del loro leader.
Solo quando giunsero sulla cima delle mura e smontò da cavallo l’emorragia e lo sforzo ebbero il sopravvento. Tutto intorno a lui venne consumato dal buio e dalle urla mentre crollava tra le braccia dei suoi subordinati, incapace di reggere oltre.



Servirono ben quattro uomini per sollevare il comandante Smith di peso e distenderlo su un carro, tale e quale ai feriti di grado inferiore. Il caposquadra Hange in persona si occupò di sfilargli l’imbrago e si tolse il mantello per piegarlo sotto la testa del comandante a mo di cuscino. Usò quello più ampio dello stesso Erwin per avvolgerglielo attorno alle spalle. Sia per tenerlo al caldo che per nascondere l’entità della sua ferita alla truppa ed ai cittadini curiosi che avrebbero potuto mettersi a sbirciare il rientro del Corpo di Ricerca.
Grazie al cielo era notte fonda e non ci sarebbe stata la solita folla ad accoglierli al ritorno.

Hange non aveva voluto soffermarsi con lo sguardo sull’orrenda lacerazione che deturpava il corpo del suo superiore, ma non dubitava che dovesse provocargli un dolore infernale.
Erwin però doveva essere troppo debole o troppo stanco, perché il suo volto cereo rimase immobile e non emise un gemito per tutta la durata del viaggio.
Al caposquadra non restò altro da fare che tergergli il sudore freddo dalla fronte con il proprio fazzoletto e sperare che Levi non fosse a conoscenza di quanto accaduto.
 


Per sua sfortuna, Levi in qualche modo era venuto a sapere della ferita subita da Erwin.
Appena il carro che trasportava il comandante ferito svoltò nel cortile interno del Quartier Generale del Corpo di Ricerca, Hange lo vide usare la gamba sana per prendere ostinatamente a calci una cassa di legno.
Il capitano stava borbottando qualcosa tra i denti ma, quando le ruote dei carri smisero di sbattere sui ciottoli, lo si sentì chiaramente esclamare: “Bastardo! Maledetto bastardo con la paglia nel cervello!” ogni parola fu sottolineata da un poderoso calcio.
Il caposquadra esitò un momento, in dubbio se ignorare il subordinato o se cercare di disinnescarlo in qualche modo.  Non riuscì, però, a venire a capo delle sue incertezze, perché Levi si girò di scatto puntando un dito accusatore nella sua direzione e sibilando minaccioso: “Tu! Idiota quattrocchi con la merda nel cervello! Come hai potuto permettere che si riducesse così?! Una talpa guercia ci vedrebbe meglio di te!”
“Calmati, Levi!” sospirò Hange smontando dal carro “E’ vivo e sta bene.”
“Col cazzo che mi calmo, quattrocchi di merda!”sbraitò il capitano portando, non per la prima volta, Hange a domandarsi come fosse possibile per un essere così piccolo emettere grida tanto potenti “Io non c’ero! Era tuo dovere proteggerlo ed impedire che facesse cazzate!”
“Come potevo impedirglielo, scusa?! Stavo troppo male per partecipare alla missione!”
“Basta litigare, voi due.” Proruppe una voce dal carro, una voce flebile ma tanto familiare da pietrificare i due soggetti belligeranti.
Senza aggiungere altro, i due saltarono sul carro e si chinarono sul loro superiore.

Erwin era, se possibile, ancora più pallido, e ansimava come se lo sforzo di pronunciare quella breve frase avesse prosciugato tutte le sue forze.
Levi si trattenne dal pestarlo solo perché si rese conto dello stato pietoso in cui versava: “Idiota bastardo!” furono le uniche parole che riuscì a proferire prima che la voce gli si spezzasse in gola.
Il comandante fece scivolare una mano tremante da sotto il mantello che gli avevano steso addosso per posarla sul ginocchio del suo capitano.
Rimasero così, in silenzio, per alcuni minuti.

Poi Levi afferrò il braccio superstite del suo comandante e se lo mise sulle spalle, tirandoselo addosso come se fosse un bimbo indifeso. Apparentemente indifferente al gutturale verso di dolore che emise il ferito, scosso dalla manovra.
“Fermati, Levi!” Tentò di dissuaderlo Hange “Vi farete male in due!”
“Va a farti fottere, idiota ipovedente! Non sono affari tuoi.” E scese dal carro con un balzo, ma la gamba ferita cedette sotto il peso combinato di entrambi.
Prima che qualcuno potesse intervenire, tuttavia, il caparbio capitano si raddrizzò e prese a trasportare il ferito semincosciente verso l’infermeria, sotto lo sguardo attonito dei membri superstiti del Corpo di Ricerca.
 


Quando Levi lo depose sul tavolo operatorio, Erwin era pallido come un fantasma e respirava con evidente fatica. Il volto apparentemente impassibile era contratto in uno spasmo perché, oltre il muro impenetrabile delle sue labbra esangui, aveva i denti stretti in una morsa.
Il personale medico accorse al tavolo con la rapidità di un branco di formiche che s’avventa sul miele.
Levi non arretrò di un passo, deciso a non abbandonare il fianco dell’amico e superiore. Osservò in silenzio mentre lo spogliavano, mettendo a nudo il suo ampio torace e le cicatrici profonde che lo straziavano, ricordo degli artigli di un gigante che lo aveva scaraventato lontano dal suo cavallo.

Era opinione comune che gli ufficiali superiori fossero mostri senza cuore che mandavano a morire i loro uomini senza rimorsi. Ciò che la gente non sapeva era che i comandanti non soffrivano meno dei soldati. Anzi: oltre al peso del dolore fisico vi era per loro quello della responsabilità del comando e la consapevolezza di aver ordinato la morte di tante persone.
Un peso nascosto fin troppo bene dietro lo sguardo in apparenza freddo di Erwin.

L’ampio torace del comandante s’alzava e s’abbassava in sussulti irregolari.
“Serve qualcuno che gli tenga su la testa: bisogna metterlo seduto. ”
“Ci penso io.” Intervenne Levi senza pensare.
La decisione con cui si mise in maniche di camicia e scattò verso il tavolo operatorio impedì ai medici di replicare. Gli fecero solo lavare le mani e raccogliere i capelli con una calotta simile alle loro prima di lasciarlo passare.
Con una delicatezza insolita per chi non lo conoscesse, il capitano passò la mano dietro la nuca del suo superiore e lo tirò a sedere, reggendogli la fronte nell’incavo del collo e prendendo la sua mano superstite nella propria.
Gli ansiti si trasformarono in grida di dolore mentre il movimento sollecitava la ferita.

Un’infermiera s’avvicinò con una siringa d’antidolorifico ma il comandante liberò la mano per fermarla: “Date… datela… ai soldati. Loro… ne hanno più bisogno.”
“E’ sicuro, comandante? L’intervento per ridurre un arto amputato è molto doloroso…”
“Fate come dice.” Insistette Levi “E’ un idiota, ma… fate come dice.”
La donna ripose la siringa ed estrasse una striscia di cuoio che aveva visto giorni migliori: “Almeno cerchi di mordere questa. L’aiuterà a sopportare il dolore.”
“Coraggio, vecchio.” L’apostrofò Levi aiutandolo a stringere il bavaglio tra i denti “Se non altro eviterai di morderti la lingua.”
“Noi siamo pronti, comandante.” Li informò il chirurgo. “Quando vuole.”

Erwin trasse un respiro profondo e annuì.
Solo Levi percepì il tremito che lo scosse da capo a piedi e strinse la presa sulla sua mano, tirandolo verso di sé e coprendogli il viso con il palmo per impedirgli di vedere.

Per prima cosa procedettero a pulire la ferita, inondando i tessuti superstiti con una soluzione salina. Il bruciore che ne conseguì fece scoprire i denti del comandante, che emise un verso gutturale a metà tra un conato ed un grido. Levi non poté far altro che passargli le dita tra i capelli e stringergli la mano, mormorandogli a mezza voce incoraggiamenti nell’orecchio.
Da lì in poi le cose peggiorarono ancora.
I medici impiegarono quasi mezz’ora a sbrigliare la ferita, liberandola di tutti i frammenti di tessuto necrotico, per poi ritrarre la pelle e creare un lembo sufficiente a permettere la copertura del moncone.
A quel punto legarono i vasi sanguigni e procedettero a regolarne la lunghezza.
Quando dovettero fare lo stesso con i nervi il dolore giunse al parossismo ed Erwin crollò inerte sul petto del capitano. La fronte, madida di sudore freddo, nell’incavo del suo collo.
Cullando tra le braccia il corpo tremante di Erwin, Levi ringraziò che avesse finalmente perso i sensi. Almeno non avrebbe sentito la lima che gli segava le ossa e non avrebbe visto cosa restava del suo braccio una volta concluse le suture.

Si rifiutò di lasciarlo andare anche quando lo spogliarono del tutto per lavarlo.
Si rifiutò persino di delegare ad altri quell’incombenza: passò egli stesso la spugna bagnata sul corpo prostrato del comandante, tergendolo con cura da ogni residuo di terra, sangue e sudiciume, lasciandolo tanto immacolato da far risaltare le cicatrici profonde che ne deturpavano la pelle chiara, scolorita dall’emorragia.
Era talmente concentrato che non si rese nemmeno conto del momento in cui finirono di medicarlo.
Si riscosse solo quando un infermiere grosso quasi come il comandante stesso lo prese per le spalle e, con garbata fermezza, lo allontanò perché potessero stendere Erwin su una barella e ricoverarlo in una stanza privata.

 


Steso immobile nel letto, gli occhi inesorabilmente chiusi, il comandante faceva, se possibile, ancora più impressione.
Era assurdo vedere una figura tanto imponente così debole da sembrare fragile. Gli avevano rimboccato le coperte fino alle spalle perché, a causa dell’abbondante emorragia, tremava di freddo. Se il viso non fosse stato così smunto, si sarebbe detto che stesse solo dormendo.
Levi avrebbe voluto abbandonarsi a quell’illusione, se solo lo sguardo non avesse continuato a cadergli sulla piega innaturale delle coperte, che scivolavano sul moncone, evidenziando inequivocabilmente un’assenza del tutto anomala.

Se non altro, Erwin sembrava riposare tranquillo. Era già qualcosa dopo tutto il dolore che aveva patito quel giorno.
Il ciuffo biondo gli si era scompigliato tanto da ricadergli sul viso e Levi si sporse per scostarglielo con il palmo. Il comandante esalò un sospiro, ma non riaprì gli occhi.
Il capitano sibilò un’imprecazione a denti stretti sentendo la pelle dell’amico sensibilmente più calda sotto il palmo. Visto che aveva avuto la geniale idea di andarsene in giro con una ferita spaventosa dopo essere stato masticato dalle fauci lerce di un gigante, la febbre era una conseguenza scontata, ma non si aspettava che insorgesse così presto.
La situazione doveva essere più grave del previsto.

Bussarono alla porta ma, al posto dell’infermiera che sperava di vedere, entrò Hange con una bacinella, una brocca ed uno straccio: “Sei ancora qui, Levi?” Il suo tono non era polemico, come invece si sarebbe aspettato lui, bensì gentile, addirittura premuroso.
Pur toccato dalle sue parole, Levi si guardò bene dal farlo notare: “Che cazzo ci fai qui, quattrocchi di merda? Vuoi dargli il colpo di grazia?”
Il caposquadra rise di cuore: “L’hai presa bene alla fine. Comunque, no: sono qui per darti il cambio.”
“Non te l’ho chiesto.”
“Infatti.” Rispose il caposquadra posando il suo armamentario sul comodino al capezzale del ferito “Ma sei ancora convalescente: hai bisogno di riposare.”
“Riposerò quando ne avrò voglia. Non puoi costringermi a farlo.”
“Hai ragione: non posso. E nemmeno voglio arrivare a tanto. Tu, però, cerca di ragionare: stai crollando dal sonno e non saresti utile a nessuno. “ indicò Erwin addormentato con un cenno del capo “Lui non vorrebbe che ti autodistruggessi.”
Colpito al cuore, Ackermann dovette distogliere lo sguardo per ostinarsi a non dargliela vinta.
“Almeno fatti una doccia.” Insistette Hange, ormai consapevole di aver avuto ragione “Sei stato con lui mentre lo operavano: sei sporco di sudore e sangue. Non è igienico.”
Il ringhio che proruppe da Levi diede solo una maggiore soddisfazione al caposquadra, che gli aveva rivoltato contro la sua ossessione per la pulizia: “Bada a te, talpa troppo cresciuta. Spero che sia ancora vivo quando torno o ti affetto e ti trasformo in mangime. Così finalmente coronerai il tuo sogno di diventare sterco di gigante.”
E se ne andò sbattendo la porta.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Una situazione complicata ***


Eccoci al secondo capitolo, dove il povero Erwin dovrà soffrire ancora.
Il testo citato appartiene alla canzone che dà il titolo alla storia ed è degli aventi diritto, non certo mio.

Buona lettura ^^


La situazione non era affatto facile.
Anche nell’incoscienza, il volto pallido di Erwin era contratto per il dolore ed il respiro gli si era fatto affannoso.
Hange gli scostò il ciuffo, ormai fradicio di sudore, dalla fronte e non si sorprese di trovarla bollente: nelle ultime ore la temperatura del comandante era aumentata in modo preoccupante, senza dare cenno di abbassarsi: “Tieni duro, Erwin.” Gli sussurrò mentre, con un gesto ormai automatico, strizzava la pezza nel catino prima di passargliela di nuovo sul viso arroventato “Non lasciarci così.”

Il comandante però rimase impassibile, del tutto ignaro delle sue parole.
Aveva perso molto sangue, e aveva la febbre alta: se non fosse riuscita a fargli bere almeno qualche sorso d’acqua, le sue possibilità di sopravvivenza si sarebbero molto ridotte. Ma come poteva dargli da bere mentre era incosciente?
Davanti all’apparente inutilità dei suoi sforzi, il caposquadra poté solo prendersi la testa tra le mani mentre fissava il pavimento, l’orecchio teso per captare ogni possibile variazione nel respiro del superiore.
 


 
No one bites back as hard on their anger,
 none of my pain and woe
Can show through


But my dreams, they aren't as empty
As my conscience seems to be



Gli sembrava di essere rinchiuso in una fornace.
Tutto il suo corpo bruciava di un fuoco invisibile: la gola arida gli bruciava, ad ogni respiro gli sembrava di ingoiare sabbia, aveva la bocca del tutto asciutta e deglutiva a vuoto.
Persino gli occhi, sotto il velo sottile delle palpebre, gli pulsavano spaventosamente. Come se al posto delle pupille avesse dei tizzoni ardenti.
Il braccio destro, in particolare, era un grumo di dolore atroce. Ogni pulsazione del suo cuore sembrava rimbombare al suo interno, esacerbando la sua sofferenza con ogni battito.
Doveva esserci qualcosa di profondamente sbagliato in quel braccio, ma non ricordava cosa.
Ricordava di aver spronato i suoi uomini: “Avanzate! Avanzate!”
Nel momento esatto in cui la sua mente formulò quella parola, un improvviso senso di smarrimento e terrore s’impadronì di lui. Temeva di essere sul punto di morire.
Gli venne in mente suo padre, in quell’aula di scuola. Ancora non sapeva niente. Era ancora troppo presto.
Troppo presto.
Non poteva andarsene senza conoscere la verità.
Tentò di alzare il braccio, come quel giorno, per domandare a suo padre cosa ci fosse da sapere. Ma il braccio non rispose. Sentì solo una stilettata di dolore che gli trafisse il torace e tutta la schiena.
Da qualche parte risuonò un grido terribile e, subito dopo, si ritrovò piegato in due, il petto sconquassato da feroci colpi di tosse.
 


All’improvviso, Erwin iniziò ad agitarsi sotto le coperte.
Tremava come una foglia e gli occhi gli schizzavano sotto le palpebre come biglie impazzite, mentre rivoltava le spalle sul materasso e la testa sul cuscino, facendo cadere la pezzuola che aveva sulla fronte mentre il ciuffo sudato gli si appiccicava al viso.
“Erwin.” Lo chiamò, cercando di tenere un tono di voce basso per tranquillizzarlo. “Erwin sta tranquillo: va tutto bene.”
Prese uno straccio pulito e lo intinse nel bacile, per poi premerlo dolcemente sulla fronte del superiore, che emise un singhiozzo, per poi crollare di nuovo ansante sul cuscino.
“Ecco.” Sussurrò Hange, tamponandogli con cura il sudore dalla fronte “Ecco. Così, così.”

In un primo momento, il comandante parve calmarsi grazie alle sue cure, ma poco dopo cominciò ad agitarsi di nuovo sul cuscino: “Avanzate.” Sussurrò, con voce roca “Avanzate.”
Intuendo che la febbre alta lo aveva portato al delirio, Hange gli passò una mano tra i capelli sudati, cercando di calmarlo: “Tranquillo, Erwin. Va tutto bene: sei al sicuro, adesso.”
Il comandante, però, continuò ad ansimare agitato, il moncone del braccio tremante per gli spasmi, finché una fitta più profonda delle altre non lo fece sussultare.
Sotto gli occhi impotenti del caposquadra, Erwin emise un grido straziante e si rannicchiò in posizione fetale, sobbalzando per una serie di violenti colpi di tosse.

Attenta a non fargli male, Hange s’arrampicò sul letto accanto a lui e, manovrandolo con cura, lo mise in posizione seduta, puntellandolo con il proprio torace per permettergli di respirare meglio.
Il comandante era troppo debole per tenere la testa dritta da solo e la sua fronte crollò nell’incavo del collo del caposquadra, facendola sussultare per il calore che emanava.
Mentre Erwin riprendeva fiato, Hange allungò la mano e prese un bicchiere d’acqua dal comodino.
Sempre muovendosi con cautela, lo accostò alle labbra smorte del superiore, inumidendole nel tentativo d’invogliarlo a bere: “Coraggio, Erwin. Cerca di prenderne almeno un sorso, per favore.”
Impossibile stabilire se il ferito avesse ripreso i sensi o stesse reagendo in modo puramente istintivo, ma questi schiuse le labbra e lasciò che la donna gli versasse in bocca qualche sorso del liquido di cui aveva così disperatamente bisogno.
Hange riuscì a fargli mandare giù mezzo bicchiere prima che il comandante crollasse di nuovo con la testa sulla sua spalla. Non ebbe il cuore di scostarlo.
 


Dopo un sonno inquieto, Levi si presentò lavato e sbarbato nella stanza di Erwin.
Entrando, si guardò bene dall’aprire la porta più del dovuto e se la richiuse rapidamente alle spalle. Aveva già un’idea di cosa avrebbe trovato ma lo spettacolo avrebbe potuto facilmente turbare una qualsiasi recluta di passaggio.
Seduta con la schiena contro la testata del letto, e la testa rovesciata all’indietro, Hange russava sonoramente.
Erwin, invece, giaceva addormentato con la fronte nell’incavo del suo collo e una guancia arrossata dalla febbre posata sul suo seno.
Il capitano era ormai avvezzo a scene di quel genere ma chiunque non avesse familiarità con la stretta cerchia dei veterani ne sarebbe di certo rimasto sconvolto.

Con delicatezza, per non svegliarlo, Levi prese il corpo inerte di Erwin tra le braccia e lo riadagiò con cura sui cuscini.
Nel farlo, gli cadde lo sguardo sul moncone del braccio destro. Subito lo stomaco gli si strinse in una morsa, e dovette sforzarsi per trattenere un conato.
Non fu l’aspetto dell’arto mutilato, né l’odore emanato dalle bende macchiate di sangue ed essudato, a turbarlo, quanto piuttosto la consapevolezza che Erwin non avrebbe mai più potuto usare la mano destra.
“Un mutilato è un uomo a metà.” La voce di Kenny risuonava ancora forte e chiara nelle sue orecchie ma, a farlo soffrire, era la realizzazione che non avrebbe più visto la cicatrice sul palmo di Erwin.
Quell’unico segno, tra i tanti sul suo corpo, che era stato Levi a procurargli.
Una ferita quasi insignificante, in confronto alle altre, ma che aveva avuto il potere di cambiare la sua vita: l’uomo che era stato mandato ad uccidere aveva versato il proprio sangue per lui. Senza rimorsi, senza rimpianti, si era lacerato una mano sulla sua lama pur di dar prova delle sue intenzioni.
Questo Levi non aveva mai potuto dimenticarlo e gli straziava il cuore sapere che avrebbe perso quel segno così tangibile dell’impegno di Erwin.
Uno dei pochi rimandi concreti a ciò che albergava nel pozzo più profondo dell’animo del Comandante.
Un dolore così profondo non poteva essere espresso a parole, e Levi si limitò a adagiare il suo superiore sui cuscini e ad avvolgerlo nelle coperte, un gesto compiuto con una reverenza che aveva più a che vedere con l’uomo che con il grado che portava.

I suoi movimenti non bastarono a riscuotere Hange dal suo torpore, ma il lamento che sfuggì dalle labbra esangui di Erwin la fece scattare come un pupazzo a molla.
In meno di un secondo fu in piedi china sul suo paziente, pronta ad aiutare Levi a premerlo sui cuscini mentre il suo corpo massiccio era scosso da violenti spasmi improvvisi.
“Che cazzo hai combinato, quattrocchi di merda?!” l’apostrofò Levi “Che cazzo gli hai fatto per farlo stare così?!”
“Non è colpa mia.” Si giustificò la donna “Ha la febbre molto alta: è normale che gli vengano le convulsioni.”
Un altro, straziante, lamento si levò dalle labbra del comandante. Un lungo gemito che non aveva nulla di umano.
Sotto lo sguardo attonito dei due, dalle palpebre serrate di Erwin iniziarono a stillare lacrime amare: “Basta. Basta.” Supplicava, con la voce rotta dal dolore “Non ce la faccio più. Basta. Basta.”
Tremando e ansimando, con le lacrime che scorrevano libere sul suo volto pallido, s’accasciò nel guanciale, agitandosi sotto le coperte nel vano tentativo di trovare una posizione in cui la ferita non gli provocasse dolore.
Sentendosi impotente, Levi non poté far altro che strizzare la spugna al capezzale nella bacinella d’acqua tiepida e tamponargli collo, viso e fronte, cercando di dargli un po’ di sollievo.
Erwin mosse istintivamente il capo nella sua direzione, anelando ancora un poco di quella frescura.
Il capitano intinse un angolo della spugna nella bacinella e gliela premette sulle labbra, cercando di alleviare un poco l’arsura che di certo gli straziava la bocca.
Non poterono fare altro se non aspettare che il dolore prendesse il sopravvento, riducendo di nuovo il Comandante all’incoscienza.

“Non può andare avanti così, quattrocchi. Bisogna fare qualcosa.”
“Purtroppo è una situazione terribilmente complicata, Levi. Ma non è ancora il momento di disperarci: credo di aver capito come fare per aiutarlo.”
“Prega per te che funzioni, qualunque cosa sia, o scoprirai di persona come si forma la merda di gigante. E non vivrai per raccontarlo.”
 

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Capitolo 3
*** Capitolo III - Una veglia difficile ***



Disclaimer: vedasi capitolo I.

Buona lettura ^^

Moblit si aggirava circospetto nei vicoli di Trost.
Hange gli aveva disegnato una mappa indicativa del percorso da seguire ma, per quanto fosse abituato ad interpretare i suoi scarabocchi, la realtà del distretto era notevolmente più complessa di quanto scritto sul foglietto che aveva in mano.
Era tanto concentrato sul seguire le indicazioni che inciampò in un gatto e per poco non finì lungo e disteso per terra.
Il felino soffiò indignato nella sua direzione e s’infilò in un vicoletto, sfuggendo alla sua vista.
Il giovane attendente si scrollò di dosso lo spavento e si guardò intorno. Con enorme sconcerto si rese conto di non avere la più pallida idea di dove fosse.
Solo, appiedato, senza il dispositivo di manovra tridimensionale per poter studiare la cittadina dall’altro, Moblit aveva solo il biglietto scarabocchiato di Hange a cui fare riferimento.
Con un sospiro rassegnato, se lo rimise sotto gli occhi, cercando di cavarne qualcosa.

Trovò quello che stava cercando quasi per caso.
La stradina dov’era inciampato nel gatto era in discesa e dava su una piazzetta con una piccola fontana.
Sulla destra, s’affacciava una bottega in legno verde con una vetrata piena di piante, barattoli e fiale di vari colori e dimensioni.
Accanto alla porta, cigolando nella brezza mattutina, un’insegna con scritto “Apotecario” e un fiore identico a quello che Hange gli aveva disegnato sul retro della mappa approssimativa.
Per fortuna di Moblit, il caposquadra disegnava meglio di come scriveva.
Ripiegò con cura il biglietto e lo ripose nel taschino della giubba, per cavarne invece una lista di cose da comprare.
Poi entrò con passo deciso nel negozietto.



Levi diede un ultimo spintone alla schiena di Hange e si chiuse la porta alle spalle, perentorio.
Rimase qualche minuto con l’orecchio teso, pronto a captare qualsiasi suono prodotto dal caposquadra che tornava sui suoi passi e ricacciarla in corridoio.
Non sentì nulla che facesse anche solo presagire una minaccia simile, e si rilassò un poco: la quattrocchi di merda non poteva fare niente di utile se era tanto stanca da mettersi a russare accanto al suo paziente e, non da ultimo, iniziava anche a puzzare. Aveva bisogno di farsi un bagno, e subito: non era igienico restare in quelle condizioni nella stanza di un ferito.
Soprattutto, però, aveva bisogno di tranquillità per portare a termine il compito che si era imposto.
Per prima cosa, chiamò un’infermiera e le chiese una bacinella d’acqua calda.
Poi s’avviò al capezzale di Erwin.

Il Comandante sembrava dormire profondamente, ma più probabilmente era svenuto: stremato per l’attacco che lo aveva appena sconvolto. Non era certo un sonno sereno, visto che gli occhi gli si muovevano erratici sotto le palpebre chiuse ed il suo respiro era rapido e superficiale e gli zigomi, che ormai sporgevano dopo i giorni di privazioni, erano di un rossore malsano, in netto contrasto con il pallore del resto.
Il Capitano gli posò le nocche su una tempia per saggiarne la temperatura, ma subito le ritrasse con disappunto: scottava ancora per la febbre.
Standogli così vicino notò l’alone giallastro lasciato dal sudore sulla federa, e storse il naso. Non gli piaceva per niente quella situazione e ancora meno gli andava a genio il fatto di non poter cambiare le lenzuola. Erwin aveva un bisogno disperato di riposare, non solo per recuperare almeno un poco le forze, ma soprattutto perché, mentre dormiva o era incosciente, non sentiva dolore. Sarebbe stato crudele, da parte sua, scuoterlo e svegliarlo, anche solo per mettergli addosso delle lenzuola fresche.

C’era qualcos’altro, però, che poteva fare per lui.
Aveva appena finito di predisporre tutto l’occorrente quando vennero a portargli la bacinella ancora fumante.
Levi la prese dalle mani dell’infermiera senza dire una parola, le sbatté la porta in faccia e andò a posarla sul comodino accanto al letto del comandante. Si sfilò la giacca ed arrotolò le maniche della camicia fino al gomito, prima di saggiare la temperatura dell’acqua: calda ma non bollente. L’ideale per quello che doveva fare.
Prese delle salviette di spugna dal comodino e le intinse nella bacinella prima di posarle sul viso e sul collo di Erwin. Non erano l’ideale, con la febbre così alta, ma gli avrebbero ammorbidito la pelle e reso il lavoro di Levi più facile. Li lasciò in posizione solo il tempo necessario a terminare gli ultimi preparativi.
Una volta rimossi gli asciugamani caldi, spalmò le guance di Erwin con il sapone, creando uno spesso strato di schiuma, prima di passare il rasoio. Chino su di lui, cercando di ignorare il respiro che gli arroventava la pelle del collo, passò con cura la lama affilata sulla sua pelle, togliendo con delicatezza la ricrescita della barba lasciata incolta negli ultimi giorni. Per qualche miracolo, Erwin rimase immobile mentre finiva di raderlo e riuscì a portare a termine quel compito senza troppi problemi.
Non appena ebbe terminato, pulì con cura il viso del ferito dal sapone e preparò un impacco freddo che gli stese sulla fronte e sugli occhi, strappando un sospiro di sollievo alle sue labbra esangui.

Dopo avergli lavato il viso ed il collo gli pose un catino vuoto sotto la testa e, facendo attenzione a non fargli andare l’acqua negli occhi, gli bagnò i capelli con una spugna. Li lavò con abbondante sapone, massaggiandogli con cura il cuoio capelluto, e li risciacquò reggendogli la nuca con la mano.
Passò poi al torace ed al braccio sinistro, scoprendo di volta in volta lo stretto necessario per le operazioni di pulizia e avvolgendolo con asciugamani per non bagnare il letto.
Il moncone del braccio destro e la schiena li aveva già lavati con l’aiuto di Hange al momento di cambiare la medicazione. Impossibile farlo da solo: Erwin avrebbe sofferto troppo.
Gli lavò con cura le gambe, massaggiando in profondità i suoi muscoli contratti e strofinandole per favorire la circolazione. Non provò particolare imbarazzo nel dover lavare le sue parti più intime: le aveva già viste diverse volte durante le missioni e, all’insaputa del diretto interessato, si era occupato in altre occasioni della sua igiene intima mentre era impossibilitato e costretto a letto.
Procedette con la calma ed il tatto che una parte così delicata richiedeva, assicurandosi poi di asciugare scrupolosamente ogni piega della pelle, per evitare la formazione di piaghe.
Quando ebbe terminato, avvolse Erwin nelle coperte, rimboccandogliele attorno alle spalle.

Il comandante tremava ancora, ma i suoi non erano, non potevano essere brividi di freddo.
Non uniti ad un respiro così rapido e superficiale, in cui l’aria sembrava inciampare tra i denti scoperti dalle sue labbra esangui. Non insieme ai sussulti che scuotevano tutto il corpo del comandante ed i suoi lamenti. No, non era freddo.
Era dolore crudo e violento, che aveva strappato di dosso ogni parvenza di dignità al comandante, costringendolo a mostrarsi in tutta la sua umana fragilità. C’era ben poco che potesse fare per alleviare la sua sofferenza e, a quel punto, era chiaro che impacchi freddi e carezze non erano lontanamente sufficienti. Anzi: si erano accorti di non poterlo nemmeno toccare più di tanto perché stava talmente male che anche solo carezzargli la mano lo faceva urlare di dolore.

Levi detestava quel senso di forzata impotenza.
Non era da lui restare seduto a vegliare in silenzio su qualcuno che soffriva oltre ogni sua capacità di aiuto. Gli ricordava dei momenti orribili della sua infanzia che aveva giurato a sé stesso di non ripetere mai più.
Eppure, in quel momento non poteva fare altro che sedere al capezzale di Erwin, rinnovare meccanicamente l’impacco fresco sulla sua fronte, tergergli il sudore e, ogni tanto, stringergli la mano o parlargli piano, cercando di tranquillizzarlo e farlo sentire meno solo.
Non poteva sapere quanto fosse utile quello che stava facendo, il tormento di Erwin sembrava ripetersi sempre uguale davanti ai suoi occhi, senza nessun apparente miglioramento, per quanto piccolo.
Poteva solo vegliarlo in silenzio e sperare che non gli venisse un’altra crisi come quella di poco prima, perché da solo non avrebbe saputo cosa fare per aiutarlo.
 


Proprio in quel momento, ad insaputa di Levi, Moblit stava salendo di corsa le scale che portavano al laboratorio dove si era ritirata Hange.
Gli infermieri del reparto l’avevano costretta a farsi una doccia e a mangiare qualcosa. Quando la trovò aveva ancora i capelli umidi e un vassoio disordinato in bilico su una pila di libri in un angolo di una scrivania.
“Caposquadra Hange! Ho quello che mi aveva chiesto.”
La donna, che era a un metro da terra sul precario equilibrio di una scala a pioli, balzò a terra, portandosi dietro tre volumi rilegati che precipitarono sul pavimento con uno schianto, e accorse dall’assistente al settimo cielo: “L’hai trovato! L’hai trovato!”
Lui fecce appena in tempo a produrre un sacchetto da una tasca dell’uniforme prima che lei glielo strappasse di mano e lo osservasse con una luce inquietante negli occhi. Addirittura, le tremavano le mani per l’emozione mentre, con pochi agili movimenti, scioglieva lo spago che sigillava il sacchetto, liberando nella stanza un intenso profumo d’erbe.
Moblit trattenne a stento uno starnuto, ma lei parve galvanizzarsi, ispirando a pieni polmoni direttamente da sopra il sacchetto: “Bravissimo, Moblit! Ero certa che ci saresti riuscito!”

Senza aggiungere altro, corse subito dall’altra parte del laboratorio dove stava facendo sobbollire dell’acqua in un pentolino.
Borbottando tra sé e sé, si servì di un misurino per versare nel liquido una dose generosa della mistura che Moblit le aveva procurato. Mescolò vigorosamente il tutto e abbassò la fiamma, lasciando il tutto a cuocere a fuoco lento.
Versò altre erbe in un mortaio e prese a pestarle con forza, mescolandole a quella che sembrava polvere d’argilla.
Se tutto fosse andato come previsto, quella mistura avrebbe agevolato significativamente la convalescenza del comandante.

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