Redde rationem

di syila
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I° ***
Capitolo 2: *** Capitolo II° ***
Capitolo 3: *** Capitolo III° ***



Capitolo 1
*** Capitolo I° ***


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Capitolo I°

Possiamo scegliere quello che vogliamo seminare, ma siamo obbligati a raccogliere quello che abbiamo piantato.
Proverbio cinese


La città di Singapore era come una foresta primigenia: un luogo torrido e brulicante di vita, al tempo stesso splendido e marcescente, sensuale e crudele.
Cominciava con la palude delle giunche e delle capanne che dilagavano sull'acqua dello Stretto, così fitte che era impossibile distinguere dove cominciasse effettivamente il mare e dove finisse la terra.
Era un posto affascinante ma pericoloso, tutto cunicoli tortuosi e anfratti oscuri, abitato da gente delle più varie etnie ma accomunata dall'avere poco o niente da perdere.
Lì si trovavano le più sordide fumerie d'oppio, le mescite in cui si servivano alcolici di contrabbando e le botteghe che vendevano merci sconosciute, provenienti da tutti gli angoli del mondo.
Vi era poi il sottobosco dei primi edifici in muratura, dei magazzini del porto e delle abitazioni dei mercanti meno ricchi.
Lì c'erano modesti negozi e strade lastricate. I risciò passavano trasportando armatori cinesi e faccendieri europei.
E poi si saliva. Via via la città diventava più ariosa, le strade si allargavano, i negozi cedevano il passo a eleganti caffé e teatri e chiese bianche come pani di zucchero, fino a raggiungere la sommità della foresta pluviale, la cima svettante dei grandi alberi, costituita dagli alberghi di lusso e dai palazzi governativi britannici.
Il caldo però regnava ovunque, umido e soffocante.

Gli ultimi raggi del tramonto tingevano di un arancio intenso le acque dello Stretto, facendole assomigliare a una colata di metallo incandescente.
Il mare era calmo e le poche giunche che ancora non avevano attraccato per la notte vi scivolavano sopra senza rumore, spinte da un leggero vento di libeccio.
Il riflesso delle prime lanterne cominciava a tremolare nell'acqua: pennellate di rosso, porpora e verde che si spargevano sulle onde come manciate di gemme.
Nell'aria aleggiava l'odore di brace e cibi arrostiti delle bancarelle cinesi, misto al sentore penetrante della salsa di arachidi malese e a quello raffinato dell'antica cucina dei Baba Nyonya, i misteriosi cinesi dello Stretto sulla cui ricchezza si raccontavano fantastiche leggende.

“È bello qui,” disse Sigvard Ohlsen, lasciando vagare lo sguardo sull'acqua che si faceva sempre più liscia e immobile.
Sedeva ad un tavolino che si trovava sul terrazzo di una vecchia casa coloniale. L'edificio aveva di certo visto tempi migliori, e decenni di rimaneggiamenti avevano portato la sua architettura da un insieme di linee ortogonali a un susseguirsi tortuoso di stanzette e corridoi, ma ciò che la vecchia casa aveva perso in funzionalità l'aveva senza dubbio guadagnato in fascino. Il terrazzo che si affacciava sull'acqua doveva essere stato in passato un patio per i ricchi mercanti che l'avevano fatto edificare, poi un molo, poi una rampa di carico, poi forse un deposito approssimativamente coperto, e adesso era tornato alla sua funzione originaria, ovvero quella di ospitare persone tranquille e desiderose di bere qualcosa di fresco lasciando vagare lo sguardo sulla baia.
Seduto di fronte al giovane svedese, Justus van Loo rispose: “Tutte le volte che mi trovo a Singapore faccio una visita al locale del vecchio Qiang. Lo trovo molto rilassante.”
“Ci vieni spesso a Singapore?”
“Ci venivo quando...”
Si interruppe.
La frase completa sarebbe stata: ci venivo quando prendevamo qualcosa di particolarmente grosso e c'era da piazzare il carico.
Corresse il tiro: “Ci sono venuto qualche volta.”
A Sigvard non piaceva che lui fosse stato un pirata. Non vi alludeva mai, naturalmente, ma Justus sapeva che l'argomento gli era particolarmente sgradito.
Alzò gli occhi sul ragazzo, che però era voltato verso l'acqua. Ostentatamente voltato, parve all'olandese.
“Sigvard?”
“Scusami, è più forte di me,” disse l'altro con franchezza.
Justus spinse la mano sulla superficie del tavolo fino ad incontrare quella del suo giovane amante. “Ho chiuso con quella vita, quante volte te lo devo dire?”
“Anche se noi chiudiamo col passato, non è detto che il passato chiuda con noi.”
“E questo che significa? Per caso hai paura che un giorno mi prenda un raptus di follia e mi rimetta a percorrere il mare a bordo di una giunca di tagliagole?”
Lo svedese si limitò ad aggrottare appena la fronte. Non l'avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma il suo timore era proprio quello.
Che un giorno il comandante van Loo si stancasse della cosiddetta vita onesta e decidesse di ricominciare a fare il pirata. La belva che assaggia carne umana difficilmente poi si rassegna a mangiare di nuovo animali selvatici, è un fatto risaputo.
Quella era la cosa che gli faceva più paura in assoluto, perché se Justus fosse tornato a fare il pirata lui non avrebbe potuto seguirlo.



Il passato raggiunse l’olandese qualche giorno dopo, in uno degli affollatissimi mercati di Singapore.
Il Capitano cercava del buon tabacco per la sua pipa e Sigvard lo aveva accompagnato nelle strettissime viuzze dei quartieri vecchi, che s’inerpicavano tortuose fino alle prime colline.
I negozi, ingombri di ogni genere di mercanzia, dalle più ovvie, come il riso e le stoffe, alle più misteriose, sembrava che avessero esaurito lo spazio interno rigurgitando sulla strada i loro prodotti, che costringevano la brulicante folla di compratori a vere e proprie gimcane tra casse di volatili starnazzanti e pingui sacchi di spezie.
Nonostante il signor Olsen avesse una scarsa predisposizione a soffermarsi su qualcosa che non fosse un timone, una carta nautica o l'orizzonte, non poté fare a meno di stupirsi davanti alle bottegucce che vendevano i rimedi tradizionali della medicina cinese: lucidi scorpioni essiccati, uova di drago, zanne di tigre, spacciate come panacea universale, suscitavano in lui uno stupore infantile unito ad un vago senso di ribrezzo
Quando la minuscola proprietaria della “farmacia”, dall'aspetto rugoso come quello delle arance che si appendevano sull’albero di Natale, provò a rifilargli qualcuno di quei rimedi il giovane ufficiale faticò a scollarsela di dosso a causa della sua melliflua cortesia, che lo obbligava a risposte altrettanto cortesi.
“Un tonico per la virilità…” ripeteva sommessamente sorridendo tra sé “Non credo di averne bisogno Justus… Justus?”
Il Capitano doveva essere entrato nel negozio dirimpetto dove lo aveva visto intavolare una trattativa col proprietario su alcune scatole di tabacco d’importazione.
Attese qualche minuto, ma dall’angusta rivendita non uscì nessuno.
Attorno a lui la folla di piccoli cinesi continuava a vorticare, apparentemente indistinguibili gli uni dagli altri, apparentemente indifferenti allo straniero biondo.
Una vaga inquietudine cominciò ad impadronirsi del giovane, mosse qualche passo fino al punto in cui la strada principale s’incrociava con un vicolo ancora più stretto e buio dove a malapena due persone potevano muoversi affiancate. La sensazione di disagio crebbe nonostante Sigvard s’imponesse di rimanere calmo; Van Loo non era un bambino e non c’era bisogno che vivessero appiccicati, forse aveva semplicemente deciso di tornare alla locanda da solo e di aspettarlo lì.
Tuttavia dell’Olandese si poteva dire tutto tranne che fosse un irresponsabile; lo avrebbe avvisato del suo allontanamento, invece era semplicemente svanito nel nulla, come se non fosse mai esistito.
Domandare ad una di quelle formiche insaccate in stracci di tela blu o grigia era inutile, del formicaio avevano lo stesso spirito di sacrificio e la stessa monolitica compattezza; se avevano visto sparire l’olandese lì in mezzo, o se qualcuno lo “aveva fatto sparire” nessuno di loro avrebbe collaborato.
Il signor Olsen inspirò profondamente l’aria umida e troppo carica di odori poi entrò deciso nel piccolo vicolo laterale.



Non c'era nulla nel vicolo. O perlomeno nulla di interessante. Era stretto e sporco, ingombro di detriti. Lungo le pareti si susseguivano porte sbarrate di magazzini, uscite di servizio di locande e fumerie d'oppio, qualche abitazione privata e un piccolo tempio alquanto dimesso, ormai coperto di rampicanti e sporcizia.
Persone non se ne vedevano. Si sentiva qualche voce provenire dalle cucine delle locande, una donna che cantava, il vagito di un bambino, ma non c'era nessuno in giro.
Sigvard si affacciò alle rare porte aperte, ma non vide nulla che potesse spingerlo a varcare una di esse.
Lì Justus non c'era.
Tornò sulla via principale, che lo accolse con una caotica accozzaglia di suoni e odori.
Si guardò intorno, ma sarebbe stato facile notare l'olandese, se fosse stato da quelle parti: era biondo, più alto di tutta la testa rispetto alle persone che affollavano la strada e vestito con un'elegante uniforme blu dai bottoni dorati.
Qualcuno lo urtò. Si girò di scatto, ma era solo un venditore di frutta che camminava bilanciando le sue ceste sulle spalle.
Di nuovo fece girare uno sguardo irresoluto tutt'intorno. Justus non c'era, quello sembrava essere l'unico dato chiaro di tutta la faccenda.
Guardò un'altra volta nella bottega del tabacco alla ricerca di una stanza secondaria invisibile dalla strada, ma fu nuovamente deluso.

Tornò sulla strada, guardò in qualche altra bottega. Una sorda inquietudine stava cominciando a impadronirsi di lui. Conosceva Justus, e quel comportamento era del tutto alieno alla sua natura. Non sarebbe mai andato via senza dirgli qualcosa, non l'avrebbe mai lasciato in quel modo.
A meno che...
Forse si era sentito male? Gli sembrava improbabile che un uomo forte come van Loo fosse stato assalito da un malessere improvviso così intenso da costringerlo a dileguarsi senza una spiegazione, ma quell'idea lo indusse a tornare alla locanda presso cui abitavano.

Giunse alla piccola pensione in preda a tetri presentimenti. Se davvero Justus stava così male da comportarsi in quel modo, la rosa delle patologie che potevano averlo colpito lasciava ben poche speranze. Vi erano malattie tropicali che non solo non avevano alcuna cura, ma erano talmente strane e rare da avere a stento un nome. Le conosceva solo con i termini locali, e sapeva che tutte conducevano inesorabilmente alla morte.
Andò alla ricerca del padrone della locanda, un orientale legato al comandante van Loo da un pluriennale rapporto di amicizia. Sigvard sospettava che quell'amicizia si fosse consolidata durante gli anni in cui il comandante era stato un gentiluomo di fortuna, ma non era quello il momento di sottilizzare.
Trovò l'uomo in un angolo della sala principale, intento a consumare una ciotola di riso.
“Signor Chen!” lo chiamò, dirigendosi a grandi passi verso di lui.
L'altro si alzò e si inchinò cerimoniosamente.
“Signor Chen, il comandante è rientrato?” domandò lo svedese.
L'orientale si inchinò di nuovo e con grande cortesia rispose: “Comandante non qui.”
“Non è rientrato?”
“Lui non qui,” ripeté il signor Chen, scuotendo desolato la testa.



Gli imprevisti accadono e ci colpiscono senza usare la cortesia di avvisarci per tempo, altrimenti si definirebbero “previsti”, invece una “leggerezza” è ampiamente prevedibile e si può evitare attuando alcune semplici contromisure.
Il Capitano Van Loo aveva commesso la più imperdonabile delle leggerezze: ovvero credere che appendendo al chiodo i panni del pirata si sarebbe lasciato alle spalle anche le vittime delle sue audaci rapine; quale motivo avrebbe avuto per non farlo?
La maggior parte dei mercantili che aveva alleggerito era ben assicurato da qualche solida compagnia europea o americana, tolti i danni collaterali del carico e di qualche facinoroso che si era messo in testa di voler fare l’eroe (ogni nave aveva il suo e uno addirittura lo aveva salvato ed era diventato il suo compagno di vita e di viaggio) agli ufficiali in comando bastava solo presentare regolare denuncia per vedersi rimborsato il mal tolto.
Tuttavia nel mar della Cina non circolavano solo rispettabili cargo mercantili e rispettabilissime giunche pirata come la Seung, questi soggetti si dividevano le rotte con una fauna d’imbarcazioni dedite a traffici molto meno leciti dove l’oppio e le merci di contrabbando facevano la parte del leone.
Occasionalmente l’olandese si era imbattuto in questi carichi clandestini e, forte del numero di uomini, aveva provveduto ad impossessarsene lasciando agli sventurati l’arduo compito di spiegare ai loro padroni che un ladro non può lagnarsi se qualcuno lo deruba.
Il fatto di trovarsi in una stanza pulita e profumata d’incenso non lo rassicurò; nei brevi momenti di lucidità, subito prima di sentirsi sprofondare nel pavimento che lo avvolgeva e si rinchiudeva sopra di lui, Justus Van Loo era riuscito a farsi un’idea più o meno chiara di quello che era successo al mercato.


Prima leggerezza.
Aveva iniziato una serrata contrattazione col mercante di tabacchi, lasciando che Sigvard esplorasse le meraviglie esotiche delle bottegucce adiacenti, l’uomo; un piccolo, insignificante, servile insetto dagli occhi a mandorla lo aveva invitato nel retrobottega con la scusa di mostrargli certe pipe in radica e avorio che un intenditore come lui avrebbe sicuramente apprezzato. A pensarci meglio il mercante era di una cortesia che andava oltre la sudditanza, sorrideva troppo e questo doveva metterlo sull’avviso.

Seconda leggerezza.
Una volta entrato nel retrobottega qualcuno lo aveva colpito dietro le spalle, abbastanza forte per intontirlo, ma non abbastanza da tramortirlo.
L’Olandese aveva reagito con la prontezza del fuorilegge consumato, temprato all’uso della forza; riuscì ad atterrare un primo e poi un secondo aggressore, ma ben presto si trovò a lottare contro cinque avversari nell’angusta stanzetta, mentre il proprietario aveva sprangato la porta divisoria e si era dileguato nel vicolo.
Poteva chiamare Sigvard, a quella distanza lo avrebbe sentito sicuramente, però che senso aveva metterlo in pericolo quando si era trovato da solo in situazioni ben peggiori?

Terza leggerezza.
Quando spuntò il primo coltello Justus si rese conto che il suo era rimasto alla locanda e fu costretto a servirsi di quello che c’era nel retrobottega per parare i fendenti; uno riuscì ad andare a segno nella confusione generale e dopo qualche istante l’uomo avvertì un forte dolore al fianco destro.
Istintivamente portò le mani sulla ferita per saggiarne la gravità, ma in quel modo offrì un facile varco agli avversari, che gli furono addosso e riuscirono a bloccarlo, mentre uno di loro gli iniettò qualcosa nel collo che lo fece precipitare nell’incoscienza.



Calava la sera e ancora Justus van Loo non si vedeva.
Sigvard era tornato alla bottega dei tabacchi, solo per trovarla sbarrata come se fosse chiusa da decenni.
Aveva chiesto in giro, ma era stato come domandare a delle maschere: si era visto rivolgere sorrisi vuoti, inchini cerimoniosi e nient'altro.
Aveva cercato nel locale di Qiang, al tempio buddhista, al circolo dei commercianti europei e in tutti i luoghi che il suo amante era solito frequentare, con nessuna speranza di trovarlo, ma con la consapevolezza che era preferibile muoversi e darsi da fare piuttosto che stare a languire alla locanda.
Là c'era il signor Chen, che lo avrebbe fatto avvertire alla comparsa del minimo indizio, quindi non avrebbe avuto senso stare ad aggirarsi come una belva in gabbia nella camera o rimanere nella sala principale con lo sguardo fisso sulla porta d'ingresso.
Quando alla fine si persuase che non avrebbe trovato van Loo da nessuna parte, mestamente tornò sui suoi passi.
“Ancora niente?” chiese al signor Chen entrando.
L'uomo scosse la testa.
“Chiamatemi subito se c'è qualche notizia,” gli disse, poi salì le scale che portavano alle camere.
Entrato in quella che divideva con il comandante van Loo, si stese sul letto con un sospiro di frustrazione e rimase ad ascoltare assorto il chiasso della strada, nella speranza di udire anche i familiari passi del suo amante lungo il corridoio.

La stanza sembra tutta d'oro. Ha pareti d'oro sulle quali si intrecciano corpi smaltati di dragoni, e ha anche il soffitto d'oro, che si intravede al di sopra di un intrico di travi intagliate. Il pavimento invece è nero e lucido come uno specchio.
Il fumo di incenso rende l'atmosfera opaca e azzurrina.
I raggi di luce che entrano da una finestra rotonda diventano come lame nella caligine.
A terra c'è un corpo riverso. È il corpo di un uomo dalla corporatura possente, ha spalle larghe e si indovina che è di alta statura. La pelle chiara e i capelli biondi lo identificano come europeo.
L'uomo è sofferente, sta molto male. Perde anche sangue, che gocciola sul pavimento lucido macchiandolo.
Poi d'un tratto si volta.


“Justus!” gridò Sigvard svegliandosi di soprassalto. Si guardò intorno disorientato, realizzando di non essere nel tempio d'oro ma nella sua solita camera.
“Justus...” ripeté, passandosi sul viso una mano leggermente tremante. Di nuovo fece girare lo sguardo tutt'intorno come alla ricerca di qualcosa. Quello che aveva sognato non poteva essere un caso, il suo amante era da qualche parte ferito e aveva bisogno di lui. Saltò giù dal letto e corse nella sala principale della locanda.
“Signor Chen!” cominciò a chiamare, già a metà della scala, “Signor Chen, dove siete?”
L'orientale si avvicinò con gran sfoggio di inchini. “Ancora niente, comandante non qui!” chiocciò.
“Lo so che non è qui,” rispose bruscamente Sigvard “è prigioniero in qualche posto e io devo trovarlo, quindi ora mi direte per filo e per segno chi è che gli vuole male qui a Singapore.”
Il signor Chen fece qualche debole tentativo di sottrarsi, ma lo sguardo dello svedese diceva chiaramente che l'avrebbe ucciso se si fosse rifiutato di aiutarlo, quindi seppur a malincuore si rassegno a mettere a parte il focoso ragazzo dei segreti di alcuni anni di onorata pirateria.


Fine prima parte


⋆ La voce della coscienza ⋆

Carissimi come promesso, anche se a qualche mese di distanza, io e Old Fashioned siamo tornati col seguito delle avventure dei nostri naviganti vittoriani, che stavolta li vedono impegnati sulla terra ferma, in circostanze non meno pericolose.
Questi tre capitoli coprono il breve arco temporale che li separa dalla partenza per l'Europa dove li abbiamo lasciati nell'ultimo racconto; il Capitano Olandese ha parecchi conti da saldare prima di lasciarsi il passato da pirata alle spalle.
Può il Signor Olsen restarne fuori?
Ovviamente no!
Chi volesse recuperare la prima parte della storia in salsa esotica, coloniale, piratesca e vittoriana può farlo qui:
https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3885996&i=1
Ringraziamo anticipatamente chi vorrà avventurarsi nelle strette e tortuose stradine di Singapore, qualsiasi riscontro sarà sempre molto apprezzato!



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Capitolo 2
*** Capitolo II° ***


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Capitolo II°



“Il nostro ospite ha ripreso conoscenza, bentornato nella terra dei vivi Kap’tin… O dovrei chiamarvi Von Golven… Oppure l’Olandese Volante?”
“Di-dipende da chi me lo sta chiedendo…”
Il viso del cinese incombeva su di lui occupando interamente il suo campo visivo, come un cerchio perfetto delimitato in alto da una lucida calotta di capelli corvini e in basso da un pizzetto corto e rado. I suoi lineamenti, appena rilevati nella superficie piatta della faccia emersero gradualmente dalle nebbie indistinte della febbre, ma per quanto si sforzasse di ricordare, gli risultavano completamente ignoti.
Era un cinese, simile, per lui europeo, alle migliaia di altri abitanti di Singapore, forse più benestante rispetto alla media, data la sua accentuata pinguedine.
Fu il tono di untuosa cortesia con cui si esprimeva a metterlo in allerta; troppo sicuro di sé, troppo ironico per un mangiariso qualunque; con la sua esperienza Van Loo intuì che quello era un uomo pericoloso.
“Oh, vi risparmio la fatica Kapi’tin, non ci conosciamo di persona, eppure avete un debito con me.”
“Potevate dirlo subito che era una questione di soldi.” il Capitano si sforzò di sorridere, quando respirava il dolore al fianco diventata una stilettata rovente “Non c’era bisogno d’inscenare tutta quella gazzarra al mercato se bastava mettere mano al portafogli, tra persone civili ci si accorda sempre… Ma dubito che voi siate una persona civile… Ah!”
Una forte pressione sulla ferita gli strappò un grido, qualcuno gli aveva assestato un calcio sul fianco costringendolo a piegarsi da quella parte, il grassone non era solo e quando riaprì gli occhi vide un paio di scarpe lucidissime, diligentemente allineate accanto a lui, le scarpe di uno scagnozzo d’alto rango.
“La verità… fa male a quanto pare.”
“Solo a voi in questo caso Olandese, solo a voi e io mi godrò la vostra agonia finché la febbre o l’oppio strapperanno la vostra anima dalle budella.”
“Non è un prezzo eccessivo per qualche cassa di rhum?”
“Non è per merce Olandese!” rispose una voce stridula oltre il viso pieno del cinese “Tu mi hai umiliato davanti a mio equipaggio e mio padre davanti a suoi soci!”
“Taci Xiao-yi!”
“Padre! Voglio essere io a strappargli l’anima dalle budella!”
L’uomo grasso sbraitò un ordine secco in mandarino e nella stanza calò un silenzio irreale.
Finalmente Justus cominciò a fare un po’ di chiarezza: doveva essersi imbattuto in qualche spregevole trafficante a cui aveva alleggerito la giunca e quei maledetti delle triadi se le legavano al dito certe cose, qualcuno dei suoi doveva averlo visto alla pensione ed era corso a riferirlo al suo capo. La buona notizia riguardava Sigvard, che era rimasto fuori da quella brutta faccenda. La Cattiva era che Sigvard lo avrebbe cercato per tutta Singapore rivoltando ogni singolo sasso o tegola smaltata per trovarlo.
Conoscendo le sue indubbie qualità, Van Loo cominciò a preoccuparsi.
“Il nostro ospite ha bisogno di riflettere ancora un po’ sulle sue cattive azioni, Xiao Mei…” al nome corrispose un ordine o un invito, Van Loo percepì un odore delicato di fiori e un frusciare di sete preziose prima che la puntura sottile di un ago nel braccio lo gettasse nuovamente in un angosciante giostra di allucinazioni.



“Ho visto una stanza tutta d'oro,” ripeté Sigvard per l'ennesima volta, “Su una parete c'era dipinto un drago smaltato, dall'altra c'era una tigre, e tutti e due gli animali avevano i piedi dentro un lago. Il soffitto era di travi intagliate, fatte di legno scuro, e al di sopra si vedeva il bagliore dell'oro. Il pavimento era nero e lucido. C'era una finestra rotonda, con le sbarre fatte come canne di bambù.”
“Io non so dove è questo posto!” piagnucolò il signor Chen, “Forse qui, forse Shanghai. Chi può dirlo?”
“Voi lo sapete!” ringhiò lo svedese con sguardo fiammeggiante, “voi lo sapete, ve lo leggo negli occhi!”
“No, no! Io non so nulla!” L'orientale cercò di dileguarsi, venendo prontamente riacciuffato dall'ormai furente Sigvard. “Prego, non so nulla!” ripeté, cercando vanamente di liberarsi.
Il giovane si trovava in uno stato di furore gelido che poche volte aveva raggiunto nel corso della sua breve vita. Pallido d'ira, a denti stretti, sollevò di peso il piagnucolante signor Chen e lo fissò dritto negli occhi.
“Quant'è vero Dio, io ti ammazzo con le mie mani se non mi dici quello che sai,” sibilò con minacciosa lentezza, “io ti strappo il cuore e me lo mangio, brutto bastardo. Tu sai dov'è la stanza d'oro!”
“Pietà, signore! Loro uccidono me se sanno che ho parlato!”
“Dimmelo, scarafaggio maledetto. Dimmelo e dimenticherò che quasi sicuramente sei stato tu ad avvertirli che Justus era nella tua topaia!”

Sulle prime Sigvard credette che il signor Chen l'avesse ingannato. Il posto che il cinese gli aveva indicato era non più di una porticina rosa dai tarli, sotto un portico ingombro di masserizie. Non molto diversa, in definitiva, da tutte le altre porte che si affacciavano sul vicolo.
A ben guardare, però, c'era una testa di drago incisa in un angolo, ormai talmente sbiadita che solo un occhio attento avrebbe potuto coglierla.
Sigvard spinse la porta, che cedette stridendo appena sui cardini. Al di là c'era un corridoio, dalla luce che proveniva dal fondo, lo svedese dedusse che si affacciava su un cortile.
Si guardò intorno circospetto, ma non vide nessuno.
Avanzò cauto, tenendosi rasente al muro. Dappertutto regnava il silenzio, il luogo sembrava immobile e in attesa.
Quando sbucò all'aperto, faticò a trattenere un'esclamazione di sorpresa: dinnanzi a lui si ergeva il più splendido palazzo che si potesse immaginare: era una pagoda tutta d'oro, col tetto coperto di figure di ceramica dai vividi colori, sormontato da due draghi che reggevano fra le zampe un globo di vetro trasparente.
Vi si accedeva tramite una scala ornata di statue di bronzo.
Dappertutto vi era una profusione di ori e ceramiche, vividamente illuminate da enormi lanterne scarlatte.
Sigvard attraversò lentamente lo spiazzo, mostrando le mani per far capire che non aveva armi. Il fatto che non avesse visto nessuno, infatti, non significava che il luogo fosse disabitato.
Quando giunse dinnanzi al sontuoso edificio, due guardiani si materializzarono come dal nulla e gli puntarono contro le armi. Sigvard alzò le mani in silenzio. Poteva battere quei due, certo, ma non le altre decine che di sicuro erano nascoste lì in giro, inoltre sapeva bene che non era nelle condizioni di combattere, poteva solo trattare.
“Cerco Xiao-Jianxiong,” disse lentamente, “ho un affare da proporgli.”



La droga che gli avevano iniettato non aveva tardato ad entrare in circolo; tra i molti effetti collaterali il solo a non essere sgradevole era che il dolore al fianco si attenuava fino a diventare una vaga pulsazione, in compenso perdeva completamente la percezione del tempo, mentre i suoi sensi si acuivano fino allo spasimo.
Gli sembrò di sentire qualcuno che affettava delle verdure su un tagliere, il rumore della fibra carnosa dei peperoni che si spaccava sotto la lama affilata del coltello; colse distintamente lo sgocciolare denso della salsa di soia in una ciotola di porcellana e il rumore paziente di un tarlo al lavoro nelle fondamenta dell'edificio.
Quei suoni entravano come aghi nel cervello e rimbombavano all'infinito sulle ossa della scatola cranica; ma il più angosciante di tutti era la voce di Sigvard che domandava di lui in un luogo neppure troppo lontano da dove pensava o credeva di trovarsi l'olandese.

“Justus mi auguro che tu abbia valutato bene le conseguenze di questa vicenda, se insisterai a portare la denuncia davanti al vescovo non sarà solo Padre Atanasius ad essere messo all'indice, ma anche e soprattutto il giovane De Wit, senza contare la tua posizione, mancano pochi messi alla tua ordinazione sacerdotale...”
“Ma Haino è venuto da me a confidarsi Padre, il mio dovere...”
“Il tuo Justus è seguire la Volontà di Dio e obbedire ai superiori, ti prometto che farò in modo di risolvere il problema.”
“Allontanerete Padre Atanasius dall'insegnamento?”
“Risolverò il problema.” ribadì seccamente il Rettore e lo congedò.
Fu il giovane De Wit a risolvere il problema invece, qualche giorno dopo lo trovarono impiccato ad una delle travi del refettorio, nessuna lettera, nessuno scritto alla famiglia, nulla che potesse giustificare un tale orribile gesto.
Quella stessa notte il guardiano durante il suo solito giro d'ispezione trovò il povero Padre Atanasius che rantolava appeso ad una corda sulla stessa trave da cui era stato staccato il corpo del seminarista quella mattina. Prima di rendere l'anima a dio (o al diavolo) cercò invano di dire qualcosa, ma le sue parole erano i farfugliamenti di un moribondo che di lì a poco spirò.
Due fatti del genere obbligarono il Rettore e il vescovo ad aprire in fretta un inchiesta che venne altrettanto rapidamente chiusa con conclusioni inoppugnabili: De Wit non aveva retto alla nevrosi e all'eccessivo carico di studi e Padre Atanasius, suo insegnate nonché consigliere spirituale schiacciato dai sensi di colpa per aver preteso troppo dal ragazzo si era tolto la vita.
Negli atti formali dell'inchiesta non venne fatta alcuna menzione circa la scomparsa lo stesso giorno dei tragici fatti del diacono Van Loo; sul suo nome venne semplicemente tirata una riga a penna e il suo fascicolo fu sepolto in qualche polveroso archivio del seminario.




Xiao-Jianxiong era un uomo di mezz'età, eccezionalmente alto per essere un cinese, robusto e ben piantato anche sotto la pinguedine che lo rendeva simile a un Buddha. Portava sontuose vesti di seta e sedeva su una specie di trono fatto d'ebano e madreperla.
In piedi accanto a lui vi era un giovane di circa venticinque anni, a sua volta molto alto e riccamente abbigliato.
I due fissarono con curiosità Sigvard Ohlsen che veniva spinto brutalmente in avanti dalle guardie e costretto a inginocchiarsi dinnanzi al seggio.
Infine il più vecchio con sussiego chiese: “Chi sei tu, straniero?”
“Chi sono non ha importanza,” ringhiò lo svedese, “vengo per proporti un affare.”
L'altro rise. “Ne ha molta, invece,” replicò con irritante calma, rivolgendo al suo interlocutore in sorriso condiscendente, “ Xiao-Jianxiong non fa affari col primo che passa.”
Seguirono lunghi secondi di silenzio. Le guardie fissavano con diffidenza lo straniero inginocchiato, e sembravano attendere con ansia l'ordine di abbatterlo.
L'ordine non arrivò.
Quando il silenzio si fece troppo pesante, Sigvard dovette declinare le proprie generalità.
Il cinese più anziano lo fissò con interesse. “E dimmi, signor Ohlsen, cos'hai da propormi? Oppio? Gioielli? Armi?”
Lo svedese strinse i denti obbligandosi a rimanere impassibile. Era certo che l'altro sapesse bene chi era, e quell'estenuante gioco del gatto col topo era snervante.
“Soldi.”
“Soldi? In cambio di cosa? Ho merci che ti interessano così tanto da spingerti a introdurti nel mio palazzo e a sfidare le mie guardie?”
“Hai una persona che mi interessa. Dimmi quanto vuoi per la sua liberazione.”
Xiao-Jianxiong rise. Una lunga risata di scherno, alla quale si unì anche l'uomo più giovane. Infine con un sorriso compiaciuto disse: “I soldi non possono comprare tutto. La vendetta non ha prezzo, ad esempio. Inseguo quel cane da anni, e ora che finalmente l'ho in mio potere dovrei cedertelo in cambio di qualche sterlina?”
“Posso pagare bene,” rispose Sigvard impassibile.
L'altro accentuò il suo sorriso. “Non ne dubito. Ma ripeto, non sono le sterline che mi interessano.”
“Che intendi dire?”
“Avvicinati,” disse il cinese, facendo un gesto con la mano.
Quando Sigvard fu a un passo da lui, sempre tenuto sotto controllo dalle guardie armate, i due cinesi confabularono un po' in una lingua che lui non capiva. Infine il più giovane fece un cenno d'assenso verso quello che doveva essere il padre.
Quest'ultimo allora disse: “Il comandante olandese ha depredato la giunca di mio figlio, facendolo vivere nella vergogna, e quindi ora io farò vivere lui nella vergogna.”
E allo sguardo interrogativo di Ohlsen chiarì: “Tu sarai suo schiavo per una notte, o l'olandese morirà.”
Sigvard deglutì. Con voce incolore mormorò: “Io... non capisco. Perché fare questo a me farebbe vivere lui nella vergogna?”
“È molto semplice,” rispose compiaciuto l'altro, “ogni volta che ti vedrà, ogni volta che ti toccherà, lui ricorderà quello che hai dovuto subire per far sì che fosse liberato. Tutto questo se accetti l'accordo, ovviamente.”
“Fatemelo vedere,” fu l'unica risposta che il giovane si degnò di fornirgli, “voglio essere sicuro che sia vivo.”



Xiao-Janxiong si mostrò estremamente conciliante nell’accondiscendere alla richiesta dello straniero biondo, in parte perché sapeva che una volta dentro gli sarebbe stato difficile scappare o mettere in salvo il prigioniero, in parte era estremamente compiaciuto da quell’insolita trattativa e già pregustava il poi.
Avrebbe lasciato a suo figlio il piacere, mentre lui si sarebbe preso la parte più divertente: guardare.
Condussero Sigvard in un dedalo di corridoi che facevano somigliare quel tempio ad un vecchio mobile, con cento cassetti e scomparti segreti, dove ogni svolta portava nuove sorprese; un giardino interno, un porticato, piccole cappelle dove fumavano incensi votivi.
Il giovane però rimaneva teso e concentrato sul suo obiettivo, solo quando l’ultimo pannello scorrevole si aprì la sua espressione mutò in sconcertato stupore: dal pavimento lucido alla finestra rotonda, tutto era una riproduzione fedele del sogno che lo aveva tormentato la sera innanzi.
Perfino Justus era al suo posto, dove lo aveva visto lui; coricato su una stuoia di paglia di riso col volto disfatto dalla febbre e dall’oppio.
Il suo primo istinto fu quello di correre dal Capitano, ma seppe trattenersi, ogni minima manifestazione d’angoscia e dolore non faceva che accrescere la soddisfazione dei suoi carcerieri.
Contrasse la mascella e disse con voce bassa e dura “Voglio parlarci, da qui non si capisce nemmeno se è vivo.”
“Lo hai visto! Non ti basta straniero?” rispose la voce stridente del figlio del boss.
“Scusa mio figlio, a volte ignora le regole dell’ospitalità” le parole del capo della triade si sovrapposero alle sue con avvolgente lascivia “Ed è impaziente come tutti i giovani… Oh quasi tutti, tu sei molto paziente straniero, saggio da parte tua, prendere certe cose con la fretta è come inghiottire una pietanza prelibata senza masticare.”
Il giovane norvegese sentì scorrersi addosso lo sguardo appiccicoso dell’uomo grasso, era fin troppo chiaro a cosa stava alludendo. “Vai a parlare all’olandese, sempre che lui possa sentirti!”
Sigvard impose calma e misura ai suoi passi, sapeva che i due malviventi spiavano ogni sua mossa e chinandosi accanto al capitano gli posò semplicemente la mano fresca sulla fronte che bruciava mormorando “Justus ce ne andremo presto da qui, devi resistere.”
L’uomo aprì gli occhi, velati dalla nebbia dell’oppio e dopo aver scrutato per qualche istante la figura del giovane biondo gli rivolse un sorriso malfermo “Ma certo Hes… Prendiamo il calesse di zio Panfilus e torniamo in città, non fare quella faccia triste… saremo di nuovo qui l’estate prossima.”



A Sigvard fu chiara una cosa: non aveva molto tempo per salvare Justus. L'uomo stava decisamente male, aveva la febbre alta e delirava, inoltre era stato pesantemente drogato e probabilmente aveva perso molto sangue.
“Fate quello che dovete fare,” disse serio, abbandonando a malincuore il suo amante riverso a terra, “ma fatelo in fretta.”
“Tutto dipende da te, mio giovane e impaziente straniero,” chiocciò lascivo Xiao-Jianxiong, “prima soddisferai mio figlio, e prima potrai portarti via l'olandese, ma ti avverto: Xiao-Yi è molto esigente, non te la caverai con dei trucchetti da quattro soldi come quelli che sicuramente usi con il tuo amante.”
Lo svedese non replicò.
“E ora, se vuoi seguirci...” disse Xiao-Jianxiong compiaciuto.

Albeggiava quando finalmente a Sigvard fu consentito di lasciare la sontuosa camera da letto dove era stato condotto ore prima.
Era esausto e dolorante in tutto il corpo, aveva la schiena segnata dalla frusta, i polsi e le caviglie escoriati dalle catene e dappertutto segni di percosse.
Il dolore fisico però era nulla rispetto alla vergogna.
La cosa meno umiliante che Xiao-Yi aveva preteso era stata che ingoiasse il prodotto del suo piacere, naturalmente sotto lo sguardo lascivo e compiaciuto del genitore.
Il resto era stato peggio.
Sigvard avrebbe dato qualsiasi cosa per dimenticare, ma sapeva che certe immagini l'avrebbero tormentato fino alla fine dei suoi giorni.
“Ora puoi avere il tuo compenso,” gli disse Xiao-Jianxiong, “come ogni puttana che si rispetti.”
Il giovane rimase in silenzio. Ogni volta che tentava di ribellarsi era van Loo che ne faceva le spese, l'aveva capito nel corso della notte da incubo che aveva trascorso, quindi preferì ingoiare quell'ennesima umiliazione senza reagire.
Il cinese diede un ordine e due dei suoi uomini scomparvero all'interno del palazzo, per poi tornare poco dopo trascinando per le braccia l'ormai inerte olandese. Lo lasciarono cadere come uno straccio, si inchinarono a Xiao-Jianxiong e se ne andarono.
A quella vista, Sigvard dimenticò ogni dolore fisico e corse ad inginocchiarsi accanto al suo amante: Justus respirava appena e bruciava di febbre. Le labbra aride facevano capire che aveva un disperato bisogno d'acqua.
“Mi serve un carro!” esclamò preoccupato, “devo portarlo via subito!”
“Oh, come siamo diventati autoritari,” lo derise Xiao-Jianxiong, “hai dimenticato come devi rivolgerti a me e a mio figlio, ingrata puttana?”
Sigvard strinse i denti fin quasi a farli scricchiolare. “Per favore, posso avere un carro?” domandò con voce incolore, fissando ostinatamente il suolo.
“Andiamo già meglio,” approvò il cinese, quindi si rivolse al figlio e disse: “Hai visto, Xiao-Yi? Alla fine l'ha imparata anche lui l'educazione. Si credeva tanto superiore, eppure vedi adesso come ha abbassato la cresta?”
“Sì, padre.”

“Vuoi qualcos'altro da lui?” “No, padre. È freddo e inetto, non conosce nessuna delle arti che danno piacere a un amante. L'ho usato solo perché è il giocattolo di quell'olandese bastardo. È stato quel pensiero a darmi piacere, non altro.”
“D'accordo, allora fagli avere il carro e che si levi di torno.”


Fine seconda parte


⋆ La voce della coscienza ⋆

Carissimi Sigvard è riuscito a trovare e a salvare il capitano Van Loo dalle grinfie del suo rapitore, che, come si poteva intuire aveva un conto in sospeso con lui.
Il nostro coraggioso ufficiale ha pagato un prezzo piuttosto alto però e dopo una notte da incubo riesce a portare via l'olandese in condizioni pietose.
Riuscirà a curarlo e a liberarlo dai devastanti effetti dell'oppio?
E come cambierà (se cambierà!) il rapporto tra i due?
Lo scopriremo nell'epilogo che arriverà in tempi mediamente brevi su questi schermi :3
Nel frattempo vorrei ringraziare chi legge, commenta e preferisce la nostra piccola avventura in salsa esotica!



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Capitolo 3
*** Capitolo III° ***


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Capitolo III°



Del viaggio angoscioso verso la locanda Sigvard non percepì quasi nulla. Rimase tutto il tempo sul pianale del carro accanto a Justus, bagnandogli il viso e le labbra e parlandogli a bassa voce.
Quando arrivarono a destinazione, il signor Chen non c'era. Li accolse una delle sue figlie, una ragazza di nome Mei-Li, che subito diede ordine di portare il comandante van Loo nella sua stanza e mandò a chiamare un dottore.
Quando la figlia del locandiere aveva parlato di “dottore” intendeva ovviamente un medico cinese; un omino delicato, incartapecorito e fragile come certe antiche pergamene e una schiena curva che lo faceva somigliare ad una tartaruga.
Mei Li lo trattava con estremo riguardo e Sigvard ne dedusse che doveva essere una specie di luminare del posto, confortante, ma avrebbe preferito un banale medico occidentale, fosse anche un missionario.
Il signor tartaruga però sembrava che sapesse il fatto suo: pulì e disinfettò la ferita che Justus aveva al fianco e che era all’origine dell’infezione, salmodiando una sorta di spiegazione che Mei Li si affrettava a tradurre sommariamente a beneficio del giovane svedese. Secondo l’opinione del medico occorreva riportare in equilibrio le energie disperse con dei cataplasmi sulla cui composizione la ragazza prudentemente glissò.
Prescrisse un infuso che il Capitano doveva bere a intervalli regolari per liberarlo dal veleno della droga e uno per controllare la febbre, poi insistette per esaminare le condizioni di Sigvard. Davanti alle sue rimostranze usò un argomento inoppugnabile che Mei Li tradusse solerte: per assistere il ferito doveva essere nel pieno delle sue forze.
Il giovane si rassegnò a farsi medicare e accettò l’ennesimo infuso che il signor tartaruga aveva prescritto. La figlia del locandiere avrebbe dovuto lavorare solo per loro a giudicare dal numero di medicamenti e tisane in elenco e che per Sigvard si somigliavano un po’ tutte nel gusto e nel colore.
Cominciò un periodo in cui gradualmente perse la nozione del tempo, giorno e notte finirono per perdere significato sciogliendosi in un continuum scandito dalle tazze di infuso e il cambio delle bende.
Lui, forte del suo retaggio vichingo, si era ripreso in fretta, mentre i progressi del Capitano era lenti, quasi impercettibili; alternava periodi di sonno letargico ad altri in cui la febbre tornava a manifestarsi sotto forma di delirio, evocando sconosciuti fantasmi di un passato lontano, che evidentemente avevano ancora il potere di tormentarlo.



Era seduto sulla riva di un fiume, e l'acqua del fiume era rossa. Anche il cielo era rosso, il rosso aranciato di un tramonto che non diventava mai notte.
E lui seduto aspettava.
Sapeva di dover aspettare qualcosa, anche se non sapeva cosa.
Provava dolore. Le spalle erano rigide per la lunga immobilità, la schiena gli faceva male. Anche le gambe, costrette da chissà quanto nella posizione del loto, erano intorpidite e doloranti.
Gli sembrava di aspettare da una vita. Perchè? Cosa?
L'unica che speva era che doveva aspettare. Non doveva addormentarsi, neppure per un secondo. Non doveva muoversi.
L'aria era immobile, pesante e gonfia d'umidità. Il silenzio era tale che Sigvard riusciva quasi a sentire il battito lento e regolare del proprio cuore.
Sul fiume comparve una sagoma scura in lontananza e di colpo lo svedese seppe che era la cosa che stava aspettando.
Si alzò lentamente in piedi senza distogliere nemmeno per un attimo lo sguardo dalla sagoma, che man mano si faceva più nitida e precisa.
Quando la cosa fu vicina, egli si accorse che si trattava di un drakkar funebre. L'elegante vascello nero aveva come polena una testa di lupo e scivolava solenne e silenzioso sull'acqua. Sul ponte giaceva una figura distesa, intorno alla quale erano ammucchiati armi e altri oggetti.
Sigvard rimase a guardarlo pervaso di uno strano senso di angosciosa aspettativa.
Quando il drakkar si fu avvicinato a sufficienza, egli si accorse con orrore che la figura distesa altri non era che Justus van Loo, con il volto cereo e l'alta uniforme da capitano di lungo corso.
Sotto i suoi occhi inorriditi, il funesto vascello modificò il suo lento procedere prendendo velocità. Si girò ella direzione della corrente e si accorse che il fiume non era più placido e lento: era diventato impetuoso, e all'orizzonte vi erano delle rapide.
Di colpo realizzò che doveva portare via Justus, o il suo amante sarebbe stato trascinato via per sempre dalla corrente.
Saltò sul drakkar, afferrò spasmodicamente il corpo inerte, ma era come se una forza sconosciuta si opponesse a tutti i suoi tentativi.
Disperato lanciava occhiate all'orizzonte, nel quale la violenza delle rapide già creava una sinistra nebbia rossastra, e calcolava quanti secondi mancassero ancora alla fine, rifutando caparbiamente di arrendersi, continuando ancora e ancora a trascinare il corpo e a tentare di portarlo via.


Sigvard si svegliò faticosamente.
La stanza era piccola e buia, appena rischiarata da un lume rosso che tremolava in un angolo. L'aria sapeva di chiuso e di erbe medicinali e vi era un caldo opprimente.
Justus giaceva immobile. Lo svedese lo controllò per l'ennesima volta, alla disperata ricerca di un segno che gli consentisse di sperare in un accenno di ripresa, le condizioni del comandante erano invariate.
Prese il panno umido che aveva sulla fronte, lo bagnò di nuovo con acqua fresca, lo strizzò e glielo sistemò nuovamente.
“Ecco fatto, Justus,” parlava piano, appena un bisbiglio lieve, “così la febbre non ti darà fastidio. Presto le erbe del dottore faranno effetto, vedrai, e tornerai come prima.”
Si piegò in avanti, lo baciò piano sulle labbra.
“Scendi dalla nave prima che finisca nelle rapide,” gli sussurrò accarezzandogli il viso.
Altrimenti mi ci butterò anch'io.
Questo lo pensò senza dirlo. Anche se Justus era nell'incoscienza, era certo che sentisse, e non voleva turbarlo senza motivo. Controllò che non avesse bisogno di altro e si stese accanto a lui chiudendo gli occhi.



Alla fine il Capitano trovò il metaforico approdo; la sua nave aveva smesso di andare alla deriva e lui aveva posato i piedi su un suolo sicuro dopo giorni e giorni in balia di una mare infido e agitato.
Aprendo gli occhi provava ancora quella fastidiosa sensazione di rollio che i marinai esperti definiscono ironicamente “mal di terra”, tuttavia riconobbe subito le travi intagliate che decoravano il soffitto della sua camera alla locanda e il profilo familiare di Sigvard, che si era addormentato accanto a lui su una stuoia intrecciata, col braccio piegato sotto il capo a fargli da cuscino.
Aveva l’aria esausta, un’ombra azzurra sotto gli occhi, le guance smagrite, e la fronte coperta da un leggero velo di sudore.
Faceva un caldo soffocante in effetti e perfino la lanterna di carta rossa sembrava emanare calore, se solo fosse riuscito ad alzarsi avrebbe aperto le imposte lasciando entrare la brezza notturna, che non rinfrescava, ma almeno dava l'idea di un piacevole ricambio d’aria.
Fu in quell’istante che la porta scorrevole si dischiuse costringendolo a voltarsi verso l’ingresso, cosa che gli provocò un forte senso di nausea; non ricordava ancora il motivo, ma una figura femminile che reggeva tra le mani un vassoio gli suscitava un forte istinto di pericolo.
“Kap’tin ti sei svegliato!” bisbigliò Mei Li che era scivolata sul pavimento lucido leggera come un petalo sull’acqua ed era andata ad accoccolarsi vicino a lui. Con grande sollievo dell’olandese la ragazza profumava modestamente di spezie e riso bollito, non di fiori e se socchiudeva gli occhi poteva distinguere i lineamenti rotondi della figlia del locandiere.
“Mei Li… Ti dispiacerebbe aprire le persiane?”
Le luci delle baracche e delle chiatte ormeggiate al porto entrarono nella camera insieme a tutti gli odori e i suoni di quelle latitudini, però Sigvard continuava a dormire profondamente.
Van Loo si sentì in dovere di giustificare la presenza del giovane ufficiale di rotta al suo fianco, ma c’era un enorme buco forse di ore o di giorni di cui assurdamente non ricordava nulla.
Fu la giovane a trarlo d’impaccio e, mentre lo aiutava a bere dell’infuso da una piccola ciotola, gli svelò l’arcano.
“Ti ha vegliato per due settimane, dopo averti riportato qui” parlava a bassissima voce per non infastidire il sonno del ragazzo “né lui né papà mi hanno raccontato cosa ti è successo, tuttavia il dottore era molto in pensiero per te, abbiamo avuto paura di perderti Kap’tin.”
“Grazie e ringrazia tuo padre da parte mia.” aveva fretta di congedare la ragazza e rimanere solo con Sigvard; un sguardo rivolto al suo amante addormentato sarebbe stato sufficiente a tradire i suoi veri sentimenti.
Adesso toccava a lui vegliare sul sonno del giovane e in quel lasso di tempo avrebbe pazientemente riordinato nomi, facce, ambienti sui quali costruire la sua vendetta.
Non aveva diritto di lamentarsi della sua sorte, ma a causa della sua leggerezza Sigvard c’era andato di mezzo e questo non poteva tollerarlo.



Sigvard riemerse tempo dopo da un sonno pesante e appiccicoso come la melassa.
La prima cosa che notò fu la luce nella stanza, e il fatto che la piccola lanterna rossa fosse spenta. Per qualche motivo, quei due elementi di novità gli instillarono una sorda angoscia. La prima cosa che pensò fu: Justus è morto e stanno riordinando la stanza dopo aver portato via il corpo.
Perché non mi hanno svegliato? Fu il secondo pensiero che formulò.
In preda alla disperazione tentò di alzarsi, muovendosi pesantemente per la stanchezza accumulata. Barcollò e incespicò, cadendo pesantemente sulla stuoia.
“Sigvard!” chiamò una voce, ed era la voce di Justus van Loo.
Il giovane svedese s'immobilizzò, sul volto un'espressione indescrivibile di confusione e speranza a un tempo.
“Sigvard,” ripeté la voce, “sono qui.”
L'altro si voltò di scatto, e si trovò a fissare gli occhi del suo amante. Lo sguardo era lontano dall'avere l'energia che ben conosceva, era ancora spento e l'espressione del viso era stanca e tirata, ma per Sigvard, che aveva passato le ultime due settimane a lottare contro la disperazione e lo sfinimento, fu quanto di più bello potesse vedere sulla faccia della terra.
“Ma tu... tu sei sveglio!” disse semplicemente, poi d'impulso lo abbracciò stretto. Justus sentì qualcosa di vagamente bagnato sulla guancia, proprio dove il viso del ragazzo poggiava contro il suo.
“Sei sveglio,” lo sentì ripetere, come se Sigvard ancora non se ne capacitasse.
Van Loo sollevò a fatica una mano per accarezzargli i capelli e per un po' rimasero semplicemente così, stretti l'uno all'altro senza muoversi né parlare, incuranti del fatto che potesse entrare Mei Li da un momento all'altro.

“Sei vivo,” disse poi il giovane sollevandosi per guardarlo con affetto. Nel frattempo si era asciugato le lacrime, ma van Loo conosceva ogni sfumatura del suo volto e vedeva chiaramente quanto fosse turbato.
“Sì, sto bene, non preoccuparti,” lo rassicurò.
Non era proprio vero che stesse bene, ma in effetti essere lì con Sigvard gli faceva dimenticare quasi completamente la stanchezza e il malessere che ancora lo affliggevano. “E tu come stai?”
“Io... bene, bene. Sto bene.”
Van Loo fissò dubbioso il giovane amante. Non era da lui rispondere in quel modo, e la cosa lo insospettì subito.
“Qualcosa non va?” gli chiese.
“Sono solo stanco,” rispose Sigvard accarezzandogli il viso, “nulla che una notte di sonno non possa curare.”
Ma van Loo continuava a sentire una strana nota stonata nella voce del ragazzo, e non riusciva a convincersi che la causa fosse solo la stanchezza.



“Sigvard…”
“E’ tutto a posto.” sillabò lentamente il giovane; un leggero rumore di passi e un discreto colpo di tosse preannunciarono la visita di Mei Li, subito dopo l’anta scorrevole si aprì e la ragazza entrò portando un’altra tazza d’intruglio fumante che propinò al Capitano nonostante i suoi blandi tentativi di rifiuto.
Non è tutto a posto… Pensò mentre la mente e il corpo cedevano ad un piacevole stato di rilassatezza, dato dall’infuso antidolorifico Xiao-Janxiong non è tipo da fare regali.
La sua era la generosità dell’usuraio che dava dieci perché sperava di ricavare cento.
Quello che Sigvard gli aveva dato in cambio della sua vita doveva valere molto di più e dato che il norvegese non navigava nell’oro, né aveva mezzi per corrompere politici o guardie di frontiera, l’unica cosa che cosa che poteva interessare quel laido cinese era Sigvard stesso.
Il suo ragazzo era bello, Justus non si perdeva in svenevolezze poetiche, ma nei momenti d’intimità trovava sempre il modo di fargli capire quanto apprezzasse ogni cosa di lui.
Non era solo la bellezza dei lineamenti a renderlo attraente; la fierezza del portamento, lo sguardo acceso e risoluto, l’audace eleganza dei suoi gesti, tutto contribuiva a costruire ed illuminare il suo involucro esteriore e adesso che lo guardava di sottecchi, rischiarato dalla luce afosa del pomeriggio tropicale, comprese che quella luce si era affievolita.
In quello stesso momento cominciò a meditare la sua vendetta e fu dolce abbandonarsi al sonno accompagnandolo al pensiero di tutto quello che avrebbe fatto patire a Xiao-Janxiong e a suo figlio.


Fine


⋆ La voce della coscienza ⋆

Carissimi naviganti siamo giunti al termine delle peripezie sulla terra ferma dei nostri eroi.
Quest'ultima impresa ha lasciato strascichi pesanti, che hanno messo a dura prova l'ex pirata e il giovane ufficiale, però la loro relazione sembra aver retto bene.
Per la coppia adesso è tempo di lasciare gli esotici scenari del mar della Cina per tornare nei rassicuranti lidi europei.
Ma saranno davvero così tranquilli?
C'è una nuova avventura che attende questi due lupi di mare e spero di condividerla con voi in tempi mediamente brevi.
Nel frattempo io e Old Fashioned vi ringraziamo per aver letto, seguito e commentato la nostra mini epopea marinaresca!

PS: se vi chiedete in che modo Justus metterà in atto la sua vendetta nei confronti del laido mercante cinese vi risponderò con le sue parole: la vendetta è un piatto che va consumato freddo, quando la vittima si sente al sicuro ed è convinta di averla scampata... :)



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