Piccola raccolta di fiabe

di SSJD
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cozza e Scorfano ***
Capitolo 2: *** Il giorno in cui una vecchia lumaca conobbe una giovane coccinella. ***
Capitolo 3: *** Eventi naturali. ***
Capitolo 4: *** Storia di letarghi, biscotti ed energie interiori. ***



Capitolo 1
*** Cozza e Scorfano ***


Cozza e Scorfano.
 
 
Giù, in fondo al mare, da una qualche parte mai ben identificata, esiste un popolo di creature marine note ai più col nome di Sirene, creature mezze umane e mezze ittiche. Stupende ragazze, con code iridescenti, capelli vaporosi, lucidi e splendenti, sorrisi ammalianti e graziosi bikini fatti da conchiglie rare e colorate. Anche il genere maschile non ha nulla da invidiare alla bellezza femminile. Adoni con code argentee mostrano senza imbarazzo corpi muscolosi e perfetti, mani robuste che reggono tritoni dorati, o argentati, usati egregiamente come strumenti di pesca, lotta, difesa.
Insomma, il solito cliché sulla bellezza di sirene e rispettivi partner.
Nel piccolo villaggio vive tuttavia una coppia ‘alternativa’, la classica eccezione che conferma la regola.
Cozza e Scorfano.
Cozza non è il vero nome di lei. Il problema è che nessuno, lei compresa, si ricorda anche solo vagamente come si chiami realmente. Il nome deriva da due inconfondibili caratteristiche. La prima è che Cozza è una sirena nata con una strana e inconsueta bruttezza. Dei capelli raggrinziti e crespi, della stessa consistenza di una scopa di saggina e di un orribile colore verde marcio, le ricoprono la testa e due occhietti neri, piccoli, da topolino, scrutano il mondo con uno sguardo che dire perso è dir poco. Cozza non ha un dente che sia nel posto giusto dove sarebbe dovuto crescere e ha un naso paragonabile a quello di un pesce martello. Non ha seno per cui, per darsi una certa forma, un numero imprecisato di anni orsono ha deciso di utilizzare, anziché delle bellissime conchiglie, come quelle sfoggiate dalle sue coetanee, due anonime e tristissime cozze. Da qui il nome, che la giovane si trascina da sempre in giro con lo stesso entusiasmo con cui si deve portare l’umido nell’apposito contenitore di raccolta. Inoltre, non si può nemmeno dire che la sua oggettiva mancanza di bellezza sia compensata da una qualsivoglia qualità manuale o intellettiva.
Cozza è l’abnegazione del tutto.
L’unico mestiere che ha imparato a svolgere, dopo anni di intenso praticantato, è quello di aprire cozze al  cozzificio di famiglia. Mentre molte altre sirene della comunità trascorrono le giornate ad aprire le ostriche e cercare le perle, al cozzificio, Cozza si occupa di trovare cose.
Cose di tutti i tipi: cicche di sigarette, filo interdentale, elastici per mascherine anticovid, carte di caramelle, cottonfioc, gomme masticate… Insomma, ogni genere di porcheria.
L’unica fortuna di Cozza è stata quella di incontrare, qualche tempo fa, alla mensa della cozzeria (tra parentesi gestita da sirene cinesi che hanno come piatto forte, nonché unico, gli involtini di alghe), proprio la sua anima gemella: Scorfano.
Un sireno dall’aspetto triste e dimesso. Un giorno girava per la mensa come una trottola lanciata a caso nello spazio sconfinato, con in mano una forchetta al posto del tritone dorato, che i suoi coetanei mostravano e lustravano con grande orgoglio, e nel suo vagare senza meta, era finito a sedersi proprio al tavolo al quale stava pranzando Cozza. Un colpo di fulmine aveva colpito entrambi. Doveva averli colpiti all’intestino, visto che i due avevano passato la settimana successiva a letto con la dissenteria.
Comunque.
Di per sé il sireno non è un tipo triste, ma tutto nel suo aspetto lascia pensare il contrario.
Scorfano è il suo vero nome. Arrivati all’ottavo figlio, dopo Stupendissimo, Bellissimo, Stupefacentissimo, Illuminato, Muscolo, Magnificissimo e Ammaliantissimo, alla nascita dello sgorbio che era Scorfano, i genitori non poterono fare a meno di appioppargli il nome del pesce più brutto di tutto il mare.
Scorfano, a differenza di Cozza, si porta in giro il suo nome con la stessa noncuranza con cui si toglie la polvere dallo zoccolino a pavimento.
In pratica non gliene frega un emerito ca…
Insomma, non gli interessa proprio.
A dire il vero non gli interessa assolutamente alcunché.
Ciononostante, terminato il periodo di quarantena post dissenteria, i due si erano sposati. I mesi seguenti li avevano passati cercando di dare una risposta alla domanda che tutti, sulla terra ferma, ma anche loro, nel mare, si ponevano:
Come diavolo si riproducono le sirene?
Domanda rimasta senza risposta anche per l’autore che rimanda alla fantasia di chi legge. Magari con un rating un po’ più interessante di ‘sto verdino marcio alga. Comunque, la risposta non è nemmeno troppo importante, visto che da qualche parte le sirene continuano a saltare fuori: Disney, Pirati dei Caraibi, Ulisse… tanto basta.
Cosa più importante è il lavoro appassionante, è il caso di sottolinearlo, che Scorfano e Cozza svolgono alla cozzeria.
Un bel giorno infatti, arrivata alla diecimilacinquecentoventiseiesima cozza, l’ultima di una giornata interessantissima alla cozzeria, Cozza infila il coltello tra le valve e lo ruota fino a che le due parti non si aprono completamente.
La giovane sirena ne osserva per qualche istante il contenuto, poi chiama Scorfano, tutta emozionata:
“Scorfano, vieni a vedere che meraviglia!”
Il marito accorre, ammesso che questo sia il termine giusto, visto che Scorfano non ha le gambe, ma una pinna, per giunta storta.
Comunque, arriva velocemente e osserva l’interno dell’ultima cozza aperta dalla moglie.
Come la consorte spalanca la bocca esterrefatto.
“Ma è bellissima!” esclama estasiato.
Una piccola sfera bianca giace proprio nel mezzo del mollusco divelto sul tavolo di lavoro.
Cozza l’afferra, la rigira fra le dita davanti agli occhietti rattici e poi esclama:
“Ne farò una collana bellissima!”
Entusiasta prende un filo e lo intreccia attorno alla piccola sfera, che in realtà è una semplicissima biglia di plastica made in Bangladesh, finita in quella cozza per una serie rocambolesca di eventi più o meno tragicomici, e se la lega al collo.
Ed ecco… la magia.
La sirena si sente subito bellissima tanto che, presa dall’euforia, decide di partecipare al ballo a cui le coetanee l’avevano invitata insieme al marito.
Torna a casa, si chiude in bagno, si depila le ascelle con un tosalghe preso in prestito dal suo vicino, che ha notoriamente il giardino di alghe più verde del suo, si pettina i capelli con la forchetta tridente del marito e se li acconcia legandoli in una treccia indefinita, che riempie di anemoni di mare. Si fa la manicure, la pedic… no, aspè, la pinnacure, si cambia il bikini, sostituendo le consuete valve di cozze con due pregiatissime telline. Raccatta il marito, che tra parentesi si è preoccupato solo di levare gnocchi di pelo raggrinzito della moglie dalla sua amata forchetta, ed esce di casa.
Quando arriva alla festa, entra nella sala principale, già piena di sirene e sireni bellissimi, e tutti si voltano a guardarla, faticando per tre nanosecondi a riconoscerla.
Non perché lei sia particolarmente bella o meno brutta del solito, ma perché acciecati dalla strana luce emessa dalla piccola sfera che la sirena porta al collo.
Cozza stessa di stupisce di quella luce che sembra sempre più intensa.
“Cozza, potresti spegnerla? Ci sta abbagliando!” si sente dire dal fondo della sala.
In preda al panico e come ipotizzata da quella luce, Cozza la prende tra le dita, la guarda per qualche secondo e, subito dopo, sotto gli occhi basiti di tutti, la mette in bocca e se la mangia.
Ora tutti penseranno che il giorno dopo Cozza si sveglierà bellissima, simpaticissima e intelligentissima.
E invece no.
La sfera di Cozza si è illuminata della bellezza delle altre sirene.
Tutte nel villaggio, da quella sera, sono diventate cozze.
Cozza invece…
È rimasta tale e quale.
Con il problema in più di dover espellere la sfera dal suo corpo.
Questo perché, dato il suddetto problema del non capire come le sirene si riproducono, sussiste lo stesso identico problema per intuire da dove le creature espletano i loro bisogni.
Povere stupide creature, non hanno mai capito che basta abbassare la zip del costume pinnato…
 
***
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NA: Chiedo umilmente scusa, per questa… cosa (cosa?) che ho scritto. Ma non è del tutto colpa mia, ma di una bambina pestifera che qualche settimana fa mi ha chiesto di inventarmi una storia da raccontarle. Complice l’iniziativa di Soul e il prompt di Fiore, ne è uscita questa boia**… ehm… questo capolavoro.
Spero vi strappi almeno un sorriso.
Ringrazio L. per il disegno di Cozza e tutti voi per essere passati.
Alla Prox!
SSJD
 

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Capitolo 2
*** Il giorno in cui una vecchia lumaca conobbe una giovane coccinella. ***


Il giorno in cui una vecchia lumaca conobbe una giovane coccinella.


All’ombra dello steccato in legno, che delimitava i confini di un grande orto, viveva Zelinda, una vecchia lumaca annoiata e ormai stanca anche solo di svegliarsi al mattino. 

Brutta, raggrinzita, semi rinsecchita e col guscio sbiadito dalla pioggia e dal sole. 

Ciondolava tutto il giorno tra un paletto della staccionata e un cespo d’insalata, aspettando solo che la sera le desse la scusa per tornare a riposare. 

Di giorno, si spostava solo per andare a divorare qualche fogliolina e poi, affaticata per la scorpacciata, si rannicchiava nella sua casina.

E così passava le sue giornate la vecchia lumachina, senza nemmeno accorgersi della solitudine che riempiva le poche ore di veglia. 

Fretta, di sicuro, non ne aveva; ‘il tempo è interessante solo per chi se ne cura,’ pensava, osservando la frenesia degli insetti che trascorrevano le loro giornate a faticare nell’orto. 

“Giochiamo?” le chiese un giorno una giovane coccinella, cogliendola alla sprovvista e facendola ricredere sulle consuete e noiose attività degli esserini a sei zampe. 

“Ho sonno, lasciami dormire in pace,” le rispose l’anziana chiocciola, raggomitolandosi ancora di più nel suo guscio scolorito.

“Io mi chiamo Verdina,” continuò la coccinella, ignorando completamente le proteste della vecchina. 

La lumaca a quel punto srotolò la testa e le antenne fuori dal guscio, per poter finalmente osservare chi le stesse dando fastidio. 

“Ma tu sei rossa a pallini neri. Com’è possibile che ti chiami Verdina?” chiese con fare davvero incuriosito. 

“Non so, forse appena nata ero ancora acerba. Giochiamo?” insistette.

“Ohibò, vuol dire che sei nata da una pianta?” continuò la vecchia lumaca per cercare di venire a capo del mistero.

Presa alla sprovvista, la coccinella non seppe cosa rispondere e pensò quale fosse il modo migliore per uscire da quella che a lei sembrava solo una gran perdita di tempo. 

“Quando sono nata ero piccola. Come posso ricordarlo? Ora giochiamo?” sbuffò il piccolo insetto ormai sfiduciato.

Reticente e un po’ confusa, la vecchia chiocciola le si avvicinò per osservarla meglio. 

Sorrise al pensiero che una coccinella le stesse riempiendo la giornata. 

Tra un gioco e l’altro, una corsa, per modo di dire, nel grande prato e una merenda dopo l’altra per saziare la fame, arrivò finalmente il tramonto.

Una nuova amicizia era nata nel piccolo orto.

Vicine, vicine, le due simpatiche creature si accoccolarono in un cantuccio protetto del muro di cinta e, poco prima di addormentarsi, la piccola coccinella mormorò:

“Zelinda, domani ti coloro il guscio di rosso e ci disegno anche i pallini neri, così sembriamo sorelle. Buonanotte, Zelinda, fai solo sogni belli”. 

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***




NA: ringrazio Lady.Palma per aver indetto questo contest. È stata una bella sfida riuscire a far iniziare ogni frase con lettere differenti dell’alfabeto.

Grazie a chiunque passi a leggere e a L. per il disegno!

Alla prox!

Ssjd


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Capitolo 3
*** Eventi naturali. ***


Eventi naturali.


“Non ho mai avuto paura del vento”.

“Certo, come potresti? Sei un sasso”.

“Cosa c’entra? Potrebbe arrivare un vento fortissimo, in grado di farmi rotolare via da qui”.

“E, perdonami, cosa cambierebbe, nel tuo essere sasso, stare in questo punto preciso o due metri più in là?”

“Che poi, per parlare con te, dovrei gridare. E lo sanno tutti che se gridi controvento le parole vanno nella direzione opposta. In pratica, tu non potresti più sentirmi. Tu hai paura del vento?”

“Secondo te? Ho delle radici minuscole, aggrappate a un terreno secco e roccioso. Un lieve alito di vento mi fa piegare fino a terra. Quando è forte ho paura di volare via, chissà dove. Certo che ho paura del vento!”

“Ma se tu voli via io come faccio a raggiungerti? Metti che il vento arrivi all’improvviso e tu finisci laggiù, vicino a quelle rocce. Poi per sentirci dovremmo gridare come matti! Per non contare il disagio nelle calde giornate estive!”

“Ma cosa c’entrano ora le calde giornate estive?”

“Beh, tu mi fai ombra… Se tu finissi laggiù a causa del vento, nelle calde giornate estive io diventerei rovente e mi ustionerei da solo. Come potrei sopravvivere? Forse potrei addirittura sciogliermi. Tu invece hai lo stesso colore del sole e quel simpatico ombrellino fatto di petali”.

“Anche io soffro il caldo, sai? Per fortuna che ci sei tu a tenermi un pochino al fresco le radici, con la tua ombra. Anche se purtroppo non è sufficiente, ho costantemente bisogno di acqua per poter vivere”. 

“Ah! L’acqua, un altro bell’argomento. Sai quanto è pericolosa per noi sassi l’acqua? Quella sì che potrebbe farmi rotolare molto, molto lontano da qui. Se si formasse un rivolo, potrebbe spostarmi di diversi metri”.

“A me non ha mai fatto paura l’acqua”. 

“Certo, hai le radici che ti tengono ancorato, tanto meglio se il terreno si bagna: le radici si fortificano”. 

“Già,” confermò pensieroso il giovane dente di leone. 

“Ehi! Mi è venuta un’idea!” esclamò dopo qualche istante. 

“Un’idea?” domandò il sasso incuriosito. 

“Cosa ne pensi se quando piove o c’è il vento ci abbracciamo forte? Così tu non potrai mai essere portato via dall’acqua e io non volerò mai via con il vento. Cosa ne pensi?”

“Penso che sia un’ottima idea! E sai cosa ti dico? Ora l’acqua non mi fa più paura!”

“Anche a me il vento non fa più paura!”


***



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Capitolo 4
*** Storia di letarghi, biscotti ed energie interiori. ***


Storia di letarghi, biscotti ed energie interiori.
 
 
 
L'inverno è un momento di riflessione, la natura si ritira in se stessa per ritrovare la propria forza interiore…”
Lili guardava fuori dalla finestra. Il vetro appannato dal suo stesso respiro non le impediva di vedere che fuori era tutto solo grigio. Giardino grigio, erba grigia, fiori grigi e rinsecchiti, altalena grigia, piante senza foglie, grigie anche loro.
La fitta pioggerellina invernale aveva fatto diventare le ragnatele simili ad antichi lampadari pieni di gemme preziose.
Erano giorni che il tempo non cambiava. Altro che ritrovare la propria forza interiore. In tutto quel grigio, c’era poco da stare allegri.
Lili guardava fuori e sospirava sconsolata.
“Puff… che noia…” sbuffò sonoramente.
Il vetro della finestra si appannò di nuovo e Lili decise che fosse arrivato il momento di scarabocchiare qualcosa che rappresentasse al meglio il suo stato d’animo. Con il dito fece due puntini, uno a fianco all’altro e, poco più in basso, una piccola bocca ripiegata all'ingiù.
“Lili? Che fai di bello? Vuoi venire ad aiutarmi? Sto preparando i biscotti!”
La voce della sua mamma le arrivò alle orecchie come una specie di sveglia.
In effetti non stava facendo proprio nulla. Pensava solo alle parole che il suo papà le aveva detto quella mattina, riguardo all’inverno e al ritirarsi in se stessi e al ritrovare la propria forza interiore…
La piccola si chiedeva cosa c’entrasse tutto quel popò di discorso con la sua semplice ed elementare domanda:
“Papà, dove sono finite le mie tartarughe?”
Ciò che era chiaro era che fino a qualche giorno prima le sue bestioline giravano felici per il giardino. Poi d’un tratto erano sparite.
Lei le aveva cercate per giorni. Sotto al rosmarino, dietro alla salvia, tra le grosse foglie dei pochi cavoli spelacchiati che erano rimasti nell’orto, ma niente.
Poi aveva iniziato a piovere e lei era dovuta stare a casa a guardare il giardino dalla finestra, sperando di vedere le sue tartarughe risbucare fuori da un momento all’altro.
Quando quel mattino si era svegliata e aveva visto che fuori pioveva ancora, aveva posto a suo papà la famosa domanda.
Più delusa che confusa dalla risposta che aveva ricevuto, decise di andare ad aiutare sua mamma coi biscotti, magari lei sapeva meglio di suo papà dove fossero le bestiole.
Di malavoglia si trascinò fino in cucina e si mise in ginocchio su uno sgabello posizionato dalla parte opposta del tavolo rispetto alla sua mamma.
“Ti sei decisa, finalmente”, le disse con un sorriso.
“Mamma, dove sono le mie tartarughe? Sono giorni che non escono più”, chiese, senza perdere tempo.
“Tesoro, sono in letargo”, le rispose la mamma.
“Letargo? E che cos’è?”, chiese Lili mentre con le manine iniziava a fare delle palline di pasta.
“Molti animali vanno a dormire, per tutto l’inverno”, le spiegò con calma la mamma.
“E perché lo fanno?”, insistette Lili.
“Per ritrovare la propria forza...
“Interiore,” la interruppe Lili alzando gli occhi al cielo, scocciata.
“Non puoi darmi una spiegazione, anziché trovare una scusa come papà? Ditelo che non lo sapete dove sono le mie tartarughe!” si lamentò.
La mamma la guardò intenerita e decise di raccontarle una storia per farle capire meglio cosa fosse il letargo e cosa volesse dire il papà con quella risposta.
“La sai la storia del riccio che incontrò l'albero di pesche e la gallina?”, le chiese.
La bambina scosse la testa, ma fece capire di essere interessata alla vicenda. Cosa potevano avere in comune una pianta di pesche, un riccio e una gallina?
“C’era una volta…
“Una volta, quando? Non puoi essere più precisa? Tutte le storie iniziano sempre con queste parole, ma qualcuno ha idea di quanto tempo fa si sta parlando?”, la interruppe subito Lili.
La mamma, un po’ stupita, decise di non farsi scoraggiare e continuò, cambiando versione.
“Sai, quando ero piccola, mio nonno aveva nel giardino un enorme albero di pesche. In primavera era come una nuvola rosa. C’erano talmente tanti fiori che l’albero, visto da lontano, sembrava un   gigantesco zucchero filato. Poi arrivava l’estate, col caldo molti dei fiori si trasformavano in piccoli frutti e i rami si riempivano di verdi foglie. Per tutta l’estate le pesche crescevano e, quando diventavano gialle e succose, mio nonno le raccoglieva. Erano così tante che bastavano per fare marmellate, succhi di frutta, macedonie e vasi di pesche sciroppate. I miei nonni passavano molto tempo, in autunno, a preparare conserve coi frutti del loro orto e delle loro piante da frutto. Mentre le foglie ingiallivano o arrossivano o imbrunivano e a una a una cadevano, i nonni se ne stavano in cucina, a preparare tutto ciò che gli sarebbe servito per l’inverno.
Quando io ero piccola, c’erano inverni molto freddi. Un anno nevicò così tanto che chi abitava a piano terra non poteva più uscire di casa, tanta era la neve davanti alla loro porta d’ingresso. Il giardino del nonno molte volte si è ricoperto di neve. Gli alberi, l’erba, l’orto, tutto sotterrato da cumuli e cumuli di neve che rendevano tutto… uguale, bianco.
Quando smetteva di nevicare era un gran divertimento perché tutti uscivano a fare pupazzi di neve o a giocare con lo slittino. Ma era quando iniziava a nevicare, che io mi mettevo a guardare fuori dalla finestra perché ero curiosa di vedere se il piccolo riccio, ormai di casa nel giardino del nonno, avrebbe ascoltato il consiglio del pesco, anziché le sciocchezze della gallina che viveva nel pollaio”.
“Quale consiglio? E cosa diceva la gallina?”, chiese Lili troppo curiosa di conoscere il seguito della storia.
“Devi sapere”, continuò con pazienza la mamma, mentre infornava i biscotti, “che la sera, mentre aspettavo che la mia mamma mi venisse a prendere, mi mettevo a guardare fuori dalla finestra, proprio come facevi tu prima. Una sera d’estate vidi sbucare fuori da un angolo del giardino un piccolo riccio in cerca di qualcosa da mangiare.
Hey tu, tu, cococoso rotondo cococon le spine, chi sei?’ gli chiese la gallina.
Il pesco scoppiò a ridere. Ricordo che gli caddero addirittura due frutti, tanto fosse divertito. Una delle pesche, cadde proprio vicino al riccio che guardò in alto e disse:
Oh, grazie, signore! Cercavo giusto da mangiare!’
Non devi ringraziare me, ma quella stupida gallina che non sa nemmeno che sei un riccio!’, rispose l’albero cercando di smettere di ridere.
Va bene, allora grazie, signora gallina’, disse con un tono educato il piccolo riccio.
Ahahah! Signora gallina! Non sto più nella corteccia!’, rise di nuovo la pianta, facendo cadere altri tre frutti.
Sei proprio un maleducato, per fortuna c’è questa piccola palletta ricocococoperta di aghi che sa già ricococonoscere una signora cococome me. Sai cosa ti dicocococo? Visto che è cococosì gentile, gli regalo un uovo appena fatto!’, si arrabbiò la gallina.
Grazie! Mi piacciono molto le uova!’, disse allegro il riccio.
Ragazzo, puoi avere tutte le pesche che sono cadute per terra e potrai averne una da qui alla fine dell’estate!’, disse la pianta cercando di fare la gara di generosità con la gallina.
A quel punto, lei, tutta contenta, annunciò:
Cococo! Allora io gli darò un uovo per ogni giorno per tutto l’anno, visto che tu, in autunno, in inverno e in primavera non gli puoi regalare più nulla!’
‘Davvero? Che bello! Grazie!’, disse allegro il piccolo riccio.
Ma grazie di cosa? Fra meno di due mesi te ne starai già a dormire! Non ti servono tutte quelle uova!’, lo rimproverò il pesco.
 
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Mi ricordo che vidi il riccio mettersi a sedere sul suo sederino e guardare triste l’albero.
Perché dici così?’, chiese il piccolino.
Ma come, non lo sai? Tu sei un riccio. Sei uno dei tanti animali che d’inverno vanno in letargo!’, spiegò l’albero un po’ sorpreso che il piccolo non lo sapesse.
In letargo?’, chiesero a quel punto assieme Cocò, la gallina e il riccio.
Ma certo, anche io d’inverno mi prendo una pausa. Lascio cadere tutte queste foglie che, quando arriva il freddo, non posso alimentare e mi riposo fino all’arrivo della primavera!’, raccontò con molta calma il pesco.
E io perdo tutti gli aghi, quando vado a dormire?’
‘Cococosa? Vuol dire che io perdo tutte le mie bellissime piume?’, si mise a piangere la povera gallina.
Ma no! Tu non perderai nessun ago e tu, sciocca gallina, quando mai sei andata in letargo? Le galline non ci vanno! Possibile che non te lo ricordi?’, domandò il pesco.
No. Non me lo ricococordo. Va bene? Vi auguro una buona dormita. Tornerò nel mio posticino caldo a cococovare le mie uova. Addio!’, così dicendo se ne andò offesa, lasciando il riccio solo coi suoi pensieri.
Devi trovarti un posticino caldo, per passare l’inverno e raccogliere le tue energie. Puoi scavare una tana lì, vicino a quel muretto’, concluse l’albero guardando il piccolo animaletto.
Ma ti ritroverò quando mi sveglierò?’, chiese preoccupato.
Certo! Forse non mi riconoscerai perché indosserò il mio vestito più bello!’
Il riccio a quel punto camminò fino al tronco e lo abbracciò forte.
Poi venne l’autunno e poi l’inverno. E tutto andò come il pesco aveva detto.
In primavera, quando il riccio uscì affamato dalla sua tana, il grande albero gli suggerì di andare a salutare l’amica gallina. Sicuramente avrebbe ottenuto un bell’uovo in premio”.
 
 
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Drin-drin.
Il rumore della sveglietta indicò la fine della cottura dei biscotti.
La mamma andò a tirare fuori la teglia dal forno e subito la casa si riempì di profumo.
Lili rimase in silenzio, mentre la mamma prendeva i biscotti uno per uno e li metteva su un piatto, formando una specie di piramide.
“Ne vuoi uno?”, chiese spingendo il piatto verso la bambina.
La piccola prese quello più in cima e se lo infilò in bocca intero.
Lo masticò un po’ a fatica e, con ancora il boccone tra i denti, disse:
“Quindi le mie tartarughe non usciranno più finché non spunteranno i fiori sulla pianta di pere che c’è in giardino?”.
“Sì, devono riposare e ritrovare le energie per poter giocare con te per tutta la prossima estate!”, esclamò la mamma soddisfatta che la bambina avesse finalmente capito.
“Ma io cosa faccio per tutto l’inverno? Almeno la gallina del nonno aveva da fare le uova. E io?”, chiese sconsolata.
“Noi prendiamo le uova e facciamo i biscotti!”, concluse la mamma felice.
Lili andò ad abbracciarla e disse: “Grazie! Senza biscotti come farei a recuperare le energie?”.
 
 

 
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NA: cari bambini che vi siete fatti leggere questa storia da un adulto, grazie per averla ascoltata fino alla fine. I disegni del riccio, del pesco e della gallina sono opere di L. e G., le mie disegnatrici di fiducia, che ringrazio vivamente. Spero vi piacciano.
 
NA per le giudici: la scelta delle singole parole di questa favola è stata fatta con la consapevolezza dell’età media dei piccoli lettori per i quali è stata scritta.
Grazie a chiunque sia passato a leggere e ancora di più a chi spenderà due minuti a scrivermi cosa ne pensa il bambino a cui l’avete letta o semplicemente il bambino che è in voi.
Alla prox!
Ssjd

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