Un'altra volta ancora

di Per_Aspera_Ad_Astra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Settembre 1998 ***
Capitolo 2: *** Uguali ***
Capitolo 3: *** Genitori e figli ***
Capitolo 4: *** Quarantatre mesi ***
Capitolo 5: *** Yakusoku ***
Capitolo 6: *** Josuke ***
Capitolo 7: *** Requiem aeternam ***
Capitolo 8: *** Una calda notte d'estate ***



Capitolo 1
*** Settembre 1998 ***


Chapter one

Settembre 1998



Fu la quarta deglutizione che portò la contrazione del diaframma, l’apertura dell’esofago e la chiusura della trachea a vuoto creando una  acida sensazione di rigurgito tale da far portare la mano sulle labbra carnose per coprire quel leggero suono che l’anidride carbonica creò in quel movimento millesimale. Gli occhi vitrei di un colore cangiante tra l’azzurro del cielo ed il blu della tempesta si spostavano con una lentezza esasperante su ogni piccolo dettaglio dell’interlocutore, stancamente seduto, davanti a lui: i piccoli tagli sul lato dell’occhio destro formavano rughe incavate e  leggermente umide a causa della continua lacrimazione degli occhi di un colore totalmente diverso dall’altro ma con una scintilla gemella; il naso dalla forma sottile e dritta leggermente all’ingiù caratterizzato dai pori più presenti e dalla pelle meno tesa; le guance poco più incavate e gli zigomi alti debolmente coperti dall’ispida barba grigiastra che più folta copriva l’arco di cupido ed il mento facendosi poi più rada sul collo e verso le guance.
L’uomo più giovane sospirò ancora in modo più deciso prima di schiarirsi la voce con un colpo di tosse, le mani tornate conserte si intrecciarono tra di esse premendosi sulla liscia superficie del tavolo di vetro dove una New York alle prime luci dell’alba si rifletteva gelida.
« Ne sei sicuro quindi, jiji?» l’accento giapponese strinse la mano a quel misto anglosassone che ormai aveva preso piede nella parlata bassa e rauca del ragazzo. Forse adulto in realtà anche se, il ventisettenne scuro in viso, presentava una giovinezza tale da rendere difficile quantificarne gli anni.
Dall’altra parte quel vecchio sulla settantina annuì debolmente il capo socchiudendo gli occhi stanchi di un verde smeraldo. No, non era normale che a quella età le gambe cedessero ad ogni passo, il respiro si spezzasse ad ogni parola e l’udito fosse ormai un vago ricordo.
No, si ripeteva Joseph ogni qual volta riusciva a riconoscere la propria figura davanti ad uno specchio; alcuni avrebbero potuto scambiare quello sguardo triste in ingenua vanità ma in cuor suo il Joestar non riusciva a togliersi tutti quegli anni di fatica volti al solo ed unico obiettivo di vivere, di far vivere serenamente quella famiglia che con il sangue aveva dovuto proteggere.
«...oi jiji » ripeté ancora il più giovane facendo destare l’altro dai pensieri che gli avevano catturato la mente alla vista di un riflesso di luce più lucente del solito.
«Sono sicuro, » iniziò a dire «quando la Fondazione mi recapitò i documenti ho sentito qualcosa. Non so decifrarlo ma è la stessa che sentii alla nascita della mia piccola Holy o di quando tua madre ti presentò a me per la prima volta.» il respiro dell’anziano si fece più debole tanto da stirare l’ultima parola formando un vero e proprio sussurro. La mano destra tremante e non guantata, afferrò con non poche difficoltà il bicchiere riempito d’acqua che parve muoversi in un movimento diffuso fino a scomparire tra le labbra pieghettate. Pochi sorsi e con un rumore sordo il bicchiere rifece il tragitto iniziale per posarsi nella stessa posizione di prima. Quei secondi parvero interminabili, ore per colui che ancora, con le orecchie dritte, lo stava ascoltando «… non voglio affidarmi alla Fondazione, non adesso e per questa questione cosi delicata. Mi fido di te, nipote mio e penso tu sia l’unico che possa far capire a tutti gli interessati la peculiarità della situazione»
«Ti interessa sapere se anche lui è portatore di Stand.» lo interruppe senza esitazioni il giovane ora in piedi in una posizione molle della schiena, entrambe le mani nascoste nelle ampie tasche di quei pantaloni bianco ottico dalle linee morbide ed un cappello con la visiera che gli oscurava gli occhi cangianti.
La risposta dell’anziano non arrivò anzi parve, anche solo per un istante, che tutto quello che i due si fossero detti fino a quel momento non aveva avuto senso, che tutto doveva essere riavvolto come in un mangianastri e da capo ricominciare. Jotaro però non ci fece caso, sospirò una seconda volta sussurrando un leggerissimo “yare yare daze” allungando la mano destra per abbassare ancora di più la visiera sul viso. Fece qualche passo facendo echeggiare nel silenzio di quell’enorme salone vetrato i solidi tacchetti dei mocassini blu e neri; appoggiò la grande mano segnata da impercettibili ispessimenti della cute sulle dita che stringevano solitamente una penna e, facendo strisciare il fascicolo chiuso da una copertina gialla sul tavolo, trovò una foto e le indicazioni che gli servivano. Lesse ad alta voce
«Higashikata Josuke.»





 
 
 
La cornetta del telefono a gettoni era sorretta stancamente dalla mano destra segnata da calli sulla parte superiore del medio e l’incurvatura del pollice, gli occhi erano chiusi ed un sorriso delicato si nascondeva nell’ombra della visiera bianca.
La voce stridula, e leggermente macchiata da qualche difetto di pronuncia, della piccola dall’altro capo del telefono, produceva un eco tanto forte da creare una sorta di bolla in cui l’uomo poggiato con le spalle all’intonaco crema ci si trovò del tutto dentro. Mosse il capo quasi la piccola potesse vedere quel movimento e, dopo l’ennesimo sospiro, alzò gli occhi sperando di trovare in quell’immensa distesa di acqua salata la risposta adatta alla ingenua domanda “perché non sei qui?”.
Dovette trattenere il respiro per almeno dieci secondi, o almeno cosi gli erano parsi,  lasciare ossigenare il cervello per far muovere le sinapsi che lo avrebbero aiutato a  trovare la risposta adatta. Avrebbe voluto dirle che le mancava tanto, che ogni notte, in ogni letto diverso, sperava di vederla arrivare correndo con quell’enorme delfino di peluche tra le braccia esili e diafane. Avrebbe voluto chiederle scusa per non essere arrivato in tempo alla sua festa di compleanno e di averla trovata riversa sul divano con ancora il suo costume da Trilly indosso, la fatina luccicante della storia di Peter Pan che le piaceva tanto.
Ci sarebbero state molte parole ma tra tutte nessuna avrebbe potuto colmare il senso di vuoto che lentamente stava avvolgendo la piccola ancorata ad una cornetta rossa nella sua cameretta in Florida.
«Ti prometto che sarò a casa prima che tu te ne accorga. Dobbiamo andare allo zoo e finire quello strama— il puzzle che ti ha regalato la nonna.»
Respira Jotaro, respira.
Si ripeté gonfiando il petto e premendo, cosi come la schiena, il capo sul muro.
«Va bene.» risposte la piccola dopo interminabili secondi ma con lo stesso tremolio della voce che fece ben sperare all’anglo-giapponese. Quella corda della fiducia poteva essere tirata ancora per un po’.
La telefonata si prolungò per qualche minuto ancora fin quando l’altoparlante posto su una delle torri dell’imbarcazione avvisava i passeggeri che il porto della città di Morio-cho sarebbe stato raggiunto a breve, lì l’intera barca si sarebbe svuotata rimanendo ancorata nel golfo per una settimana prima di ripartire e ripercorrere lo stesso tragitto. La stessa settimana di tempo si era dato l’uomo per la ricerca che aveva preso in carico dal nonno: qualsiasi altra soluzione al problema oltre al ritrovamento, non avrebbe assolutamente intaccato alla promessa che aveva fatto poco prima alla figlia.
Priorità. Era il momento di far valere le proprie.






ANGOLO CHIACCHIERE
Hello everyone! 
Dopo un immemore lasso di tempo, sono tornata a scrivere! Sono immensamente contenta di essere tornata.
Altro genere e altro metodo di scrittura.  Devo dire che la voglia di scrivere l'ho "catturata" leggendo bellissime storie ( devo dire grazie, infatti, ad autrici come macabromatic, AlsoSprachVelociraptor, Plastic Blue - ed un milione di tanti altri - ) sentendo nascere di nuovo la voglia di vedere una storia con il mio nome.
Ringrazio già tutto coloro che utilizzeranno un po' del loro tempo per leggerla e, magari, seguirla nel corso della sua formazione.
Cercherò di spiegarmi man mano tutto quello che c'e da sapere.
Buona Pasqua <3 ( e buon Stone Ocean <3)

SpeedMary


 

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Capitolo 2
*** Uguali ***



Chapter two

Uguali




 
Erano passati già due giorni e di quel Higashikata nessuna traccia.
Seduto in modo composto con la schiena dritta, le spalle ben aperte ed entrambe le mani poggiate sul tavolino fresco di pietra, il biologo marino aveva cercato di non far caso ad alcuni commenti sussurrati e seguiti da fastidiosi risolini sommessi pronunciati da ragazze sedute ad un tavolo non troppo lontano dal proprio; cercò in qualche modo di concentrarsi sul quaderno ad anelli aperto sotto il proprio naso dove, annotato, poteva leggere solo poche informazioni sul luogo: alcuni monumenti particolari, abitazioni famose come quella di un rinomato magaka di cui il nome gli fuggiva sempre, ma niente che potesse essere rilevante alla ricerca.
Una settimana e ancora si trovava in alto mare. A pensarci quasi gli venne da ridere.
L’indice ed il medio della destra facevano ballare la biro nera producendo dei piccoli colpi macchiando leggermente il foglio ancora del tutto bianco mentre, gli occhi, chiari ed illuminati da un sole forse troppo timido per la stagione, puntati sul fumo quasi scomparso dalla tazza di ceramica accanto al quaderno aperto.
Quel tè verde non poteva essere paragonato alla minuziosità dei movimenti delle mani di Holy.
Chissà come l’avrebbe presa. Jotaro sospirò seccato al pensiero.
Rumorosa, chiacchierona ed ingenua com’era avrebbe alzato le spalle con quel suo solito fare e architettando uno dei suoi migliori sorrisi, avrebbe aperto le braccia al nuovo arrivato. Avrebbe preparato la sua migliore miscela di tè servendolo in quel piccolo, odioso, servizio di porcellana dalle leggere sfumature rosa candido permettendosi di preparare anche dei biscotti qualora il commensale non gradisse il retrogusto amaro; si sarebbe concessa il privilegio di accomodarsi vicino a lui parlando sguaiatamente, muovendo senza freno le dita lunghe e laccate da uno smalto di un orribile color ciclamino, delle vicende che fino a quel momento aveva perso. Poi lo avrebbe abbracciato. In quell’abbraccio caldo, dolce da fermare il tempo e farlo poi ripartire con un delicato bacio sulla guancia.
Quella donna. Quella stupida, sempliciotta, sciocca e tremendamente vittima donna. Quella che aveva abbassato il capo all’ennesima litigata coprendo le lacrime silenziose sul viso nel momento in cui il figlio varcava la soglia per capire cosa fosse successo; quella che avrebbe dato la vita per il marito lontano e impegnato in lavori che ancora oggi non riusciva a spiegarsi; quella che dopo l’ennesimo rifiuto del figlio non aveva esitato un attimo nell’accoglierlo nuovamente a casa e consolarlo dopo una delusione d’amore.
Quella donna.
Le labbra carnose del ventisettenne lasciarono sfuggire un sorriso impercettibile camuffato da un sospiro sarcastico provocato dal un suono nasale alla sola vista del cerchietto dorato sull’anulare sinistro.
Tale padre tale figlio.
Al solo pensiero un brivido gelido gli percorse la colonna vertebrale bruciando al contatto con il cervelletto, destandolo dalle immagini che si erano palesate durante quella lunga presa di coscienza facendolo, in qualche modo, distrarre dalla situazione creatasi sulla via ciottolata davanti al café.
Un ragazzo, sui quindici forse sedici, coperto dalla divisa scolastica di un color blu notte tendente al nero, ciondolava sulla staffa corrimano argentea con la cartella di cuoio sotto braccio mentre parlottava con fare altezzoso con altri ragazzi vestiti come lui. Beh, non proprio come lui data la particolarità delle spille dorate che decoravano l’apertura della divisa.
In realtà sembrava una scena come un’altra: ragazzi che parlano, una parola tira l’altra forse detta in malo modo, forse su qualcosa particolarmente delicata che i toni tesero ad alzarsi, le divise strattonarsi e i lividi colorare il viso. Quante volte lui era stato protagonista di scene del genere? Forse anche troppe.
Ma quella volta sembrò diverso.
Il ragazzo ciondolante sulla sbarra, disinteressato dal chiacchiericcio, si alzò dalla barra corrimano, si portò entrambe le mani in tasca, si voltò verso una ragazza poco più bassa di lui e da un sorriso estremamente luminoso. Fecero qualche passo tali da rimanere ancora nel raggio visivo dell’uomo seduto tra i tavolini poco affollati del café francese, lo stesso che al momento dell’accaduto scattò in piedi cosi velocemente da far cadere a terra con un suono sordo la sedia di vimini intrecciato.
I due adolescenti, animati da un interessante discorso, si erano leggermente esposti verso le strisce pedonali in procinto di attraversarle quando, sfrecciando alla sinistra dei due, un’automobile scura prese a suonare il clacson non riuscendo a frenare in tempo evitando, quindi, l’impatto. Accadde in una frazione di secondo impossibili da captare ad occhio umano eccetto quelli di Star Platinum: un’aura violacea comparve alle spalle di quel giovane dallo strano abbigliamento producendo una figura umanoide che afferrò la giovane ad un passo dallo scontro riportandola sul marciapiede. Non furono i gesti, l’evocazione dello Stand a preoccupare l’occhio vigile del biologo, quanto due caratteristiche peculiari dello Stand stesso: un elmo, forse un casco che copriva interamente il viso dalla forma appuntita rendendogli lo sguardo tagliente e quattro enormi tubi metallici facenti da propulsori dietro la schiena.
No, non era possibile.
Nella frazione di secondo in cui l’immagine venne ricollegata ad un ricordo tramite il movimento tra le sinapsi, Jotaro sentì una sensazione simile ad un pugno in pieno stomaco che lo portarono a boccheggiare; le gambe lunghe e toniche non riuscirono a reggerne più il peso lasciandolo cadere sulle ginocchia.
No, ripeté in testa.


 
 
Con ancora le ginocchia a terra, le mani strette tra i ciottoli scuri, l’ossigeno parve riprendere piede tra i polmoni. Un respiro ampio dilatò le pareti spugnose allargando le costole facendosi spazio tra cuore e stomaco.
Avrebbe dovuto smettere di fumare o non sarebbe più riuscito a regolarizzare il respiro.
Alzandosi da terra e pulendosi le spalle del lungo cappotto bianco si accorse di non essere più circondato da tavolini di pietra, sediole di vimini ed il vociare fastidioso di ragazzi appena usciti da scuola. Dov’era finito il tè verde? Il quaderno ad anelli? Il cameriere dalla falsa aria bonaria? Il ragazzo con lo Stand uguale...
Gli occhi azzurro cielo si alzarono con lentezza, quasi non volesse realmente costatare di non essere più tra le vie timidamente soleggiate di Morioh immerse nella tardiva estate ma di essere tornato nella buia, oscura e uggiosa città de Il Cairo. Tutto era fermo. Le persone che spaventate guardavano nella sua direzione; le automobili distrutte all’incrocio davanti a lui, persino il movimento del fumo sembrava immobile davanti al naso dell’uomo.
«One second has passed» pronunciò una voce più simile ad un ruggito di un leone echeggiare nella propria testa.
Non era solo il paesaggio ad essere immobile. Era anche lui ad essere bloccato.
No. Non è possibile. È il millenovecentonovantotto.
«Two seconds has passed» quella stessa voce ringhiò, ma niente davanti gli occhi di Jotaro parve palesarsi se non quell’ombra umanoide dorata.
Avrebbe voluto urlare. Strapparsi i vestiti e correre a perdifiato. Era ripiombato di nuovo in quel loop senza fine.
Non era vero. Niente di quello che vedeva davanti agli occhi era vero.
Prima che la voce intorno a lui potesse scandire altre parole, la voce femminile della dottoressa Melfi diede l’impressione di sovrastarla.
«Mi chiamo Kujo Jotaro. Ho ventisette anni. Ho conseguito la laurea in biologia marina presso la Kaiyodai. Sono sposato. Ho una figlia di nome Jolyne di sei anni..»




«Presto! Presto! Chiamate i soccorsi!» il grido della cameriera riuscì a toccare decibel altissimi procurando nell’uomo accasciato accanto alla sedia in vimini riversa a terra, una leggera smorfia del viso.
Aveva funzionato.
«Sto— sto bene» aveva cercato di dire mentre si rimetteva in piedi, certo ora, di essere nella città di Morio-cho e che fosse il mese di settembre del millenovecentonovantotto.
Deglutì sonoramente inumidendosi le labbra carnose e dalla graziosa forma a cuore con la punta della lingua sperando, in cuor suo, che il colorito del viso non facesse trasparire come realmente si sentiva. Volendo pulirsi la spallina del lungo cappotto alzò la mano destra costretta, però, da una presa: qualcuno aveva creduto che fosse meglio sostenerlo ancora per un po’. Gentili in quella cittadina.
Si sporse verso lo sconosciuto benefattore quando nuovamente la sensazione di vuoto accolse pienamente il proprio corpo. Lui, il ragazzo vestito da scolaro con enormi spille dorate, gli si trovava accanto con un sorriso gentile stampato sul viso.
Poteva sentire la presa forte delle dita sul braccio contratto, il profumo di dopobarba schiaffeggiargli il viso e gli occhi preoccupati scalfirlo come un diamante.
«Non mi toccare.» sentenziò lapidario il biologo scansandosi malamente dalla presa sicura del giovane, sbigottito dalla reazione dell’uomo alto quasi due metri.
Afferrò tutto quello che riuscì a ricordare infilandoli frettolosamente nella tracolla di cuoio e, scavalcando le occhiatacce severe e le preoccupate dei clienti del cafè, riuscì a sparire dietro l’angolo lontano da occhi indiscreti.
Solo quando poté sentirsi al sicuro si lasciò scivolare contro il muro prendendo il capo tra le mani scoprendolo dal cappello.
L’aveva trovato.
Higashikata Josuke, figlio di Joseph Joestar possedeva uno Stand.
Possedeva lo Stand.






ANGOLO CHIACCHIERE
Hello everyone!
Simo finalmente arrivati al secondo capitolo! Finalmente un po' più di movimento. 
Da come ho cercato di descrivere, Jotaro ( cosi come credo tutti i Crusaders -vivi-) subisce costantemente ripercussioni dal famoso viaggio del 1987, e sarà parte importantissima della storia. Cosa c'è di meglio di un bella cucchiaiata ti ANGST?
Spero di poter mantenere questa costanza nella pubblicazione ( due volte alla settimana, i giorni possono variare) perché la storia deve iniziare a carburare. Ho cercato di far tesoro, quanto possibile, di tutti i consigli che sono assolutamentissimamente  bene accetti.
Come sempre vi ringrazio qualora volesse lasciare qualsivoglia tipo di commento.


P.s: si, la dottoressa Melfi è proprio la famosa psicologa dei Soprano. Mi andava una sorta di crossover :D

Bacini.
SpeedMary

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Capitolo 3
*** Genitori e figli ***


Chapter three

Genitori e figli

 








 
L’azione che portò all’uscita della stanza 324 del Morioh Grand Hotel impiegò una intera giornata. Una lunghissima giornata.
Il corpo stanco del biologo era rimasto disteso sul grande divano dalle tinta rosate posto davanti alle enormi vetrate che specchiavano la deliziosa cittadina di Morioh facente parte della prefettura della Città S.
Per quanto l’aria estiva, il cinguettio piacevole degli ultimi usignoli, il verde crescente delle foglie portasse un leggero sollievo nell’animo, non bastava a calmare l’altalenante sensazione di inadeguatezza che si faceva strada nelle viscere dell’unica figura stesa nella stanza.
L’ennesima Marlboro era stretta tra i denti ed insieme alle altre, disordinatamente poste all’interno del posacenere, avevano composto un alone denso e bianco più leggero dell’aria stessa tanto che, galleggiando sopra di lui, pareva creare una enorme nube.






Il panificio per strada, St. Gentleman’s, offriva una vastissima scelta per iniziare la giornata: da freschi e fragranti panini appena sfornati e fagottini dolci e morbidi. La figura flessa di Jotaro aveva creato una sorta di angolo retto, la sua altezza, infatti, non lo aiutava quando i banconi di esposizione erano cosi bassi. Il proprietario dietro di esso glielo fece notare con una nota allegra ma lui, con viso contratto ed inespressivo indicò senza parlare una focaccina di anpan, lasciò poi un pugno di yen e si allontanò gustandosi la colazione scelta.
Certo, avrebbe potuto gustarsela in camera la colazione. Un dissetante tè verde, degli ottimi chinsuko fragranti e poi una buona sigaretta ancora seduto sul comodo divano. Avrebbe voluto ma il piano che aveva deciso non glielo permetteva.
Leccandosi via dal pollice la marmellata di anko con passo svelto si era nascosto dietro l’enorme albero che affacciava sulla dimora Higashikata: se voleva portare a termine la promessa che aveva fatto al nonno non poteva parlare direttamente con il sedicenne… no, o avrebbe nuovamente rischiato di spaccargli la faccia. Il biologo aveva tacitamente capito che non sarebbe bastata una settimana per abituarsi al fatto che, lo Stand del ragazzo lo riportasse in balia di incubi passati. In qualche modo doveva avvicinarsi alla persona più diretta a lui e, ovviamente, legata a quella storia. Chi meglio della madre avrebbe convito Josuke ad incontrare il padre?
Almeno cosi sperava Jotaro.
Aspettò quasi un’ora dietro l’arbusto non lasciando mai lo sguardo dalla porta di ingresso aspettando l’uscita del figlio.
Non lo avrebbe visto. Almeno per adesso.
Stretta la mano destra a mo’ di pugno busso per tre volte prima di rimettere entrambe le mani nelle ampie tasche dei morbidi pantaloni bianchi. Prese un respiro profondo immagazzinando quanta più aria nei polmoni per ossigenare il cervello e fare in modo che le parole uscissero chiare dalle labbra; prima che però, iniziasse a fantasticare sull’ipotetico discorso il rumore della serratura lo destò guardando con attesa la figura che gli sarebbe apparsa davanti.
Una donna sulla trentina, lo squadrò dalla testa ai piedi e con fare cagnesco incrociò le braccia al petto mettendo in risalto la figura slanciata.
«Desidera?» iniziò subito la donna dai capelli corvini raccolti da una morbida acconciatura fermata da un cerchietto rosso, i lineamenti delicati marcati solo da zigomi alti e sodi e labbra rosee e carnose.
Vecchio marpione, pensò.
«Sono Kujo Jotaro, lei è la signorina Higashikata Tomoko?» l’uomo non la lasciò neanche rispondere con un gesto. La donna ancora spaesata nel vedere quella figura alta quasi due metri davanti la porta «sono qui perché è importante che lei mi ascolti. Le ruberò poco tempo.»
Dopo qualche secondo di esitazione visibile con il morso del labbro inferiore, Tomoko fece qualche passo indietro e facendogli spazio offrì ospitalità a quell’uomo sconosciuto.
Tomoko, figlia del poliziotto Ryohei, non era per solita concedere asilo a sconosciuti, intrattenersi in chiacchiere se non con fidi confidenti. Cresciuta con sani e rigidi principi di un uomo di legge, Tomoko aveva sempre fatto valere il proprio carattere tanto da non avere mai bisogno della forza mascolina. Era indipendente, forte e sicura ma, quel giorno, quando quel fantomatico Kujo Jotaro aveva bussato alla propria porta, la parte schiva, attenta e responsabile parve abbassare le difese e non perché quegli occhi azzurri erano cosi penetranti da far salire la temperatura corporea – oltre a quello, certo – ma perché era tremendamente somigliante a qualcuno di cui si era fidata ciecamente in passato.
Lasciati i mocassini blu e neri sotto lo scalino dell’ingresso, Jotaro seguì silenziosamente Tomoko verso la stanza che aveva scelto per parlare di “questioni importanti” mentre gli occhi schizzavano da una parte all’altra registrando tutte le informazioni possibili. Quella casa, in realtà, gli ricordava la propria con quell’aria di famiglia e di tradizione a cui pareva che i cittadini delle contee non volessero rinunciare. Foto di persone sorridenti incorniciate graziosamente alle pareti, premi scolastici e sportivi in gran mostra sulle mensole diligentemente spolverate.
«Prego, si accomodi pure. Gradisce del tè?» esordì la donna che, percependo come assenso la tacita risposta dell’altro si voltò per versare dalla teiera di ceramica l’acqua bollente lasciando poi scivolare dentro il colino le foglie finemente pestate dentro il mortaio lì vicino.
L’uomo iniziò subito a parlare cercando di omettere quello che avrebbe in qualche modo destato dei sospetti  da parte della donna: la presenza di Dio Brando, le lotte tra Italia ed Egitto o anche gli stessi Stand. Le parlò dei Joestar, della madre Holy, del bisnonno Jonathan e del nonno Joseph; le spiegò con accuratezza l’indivisibilità di quella famiglia, le origini nobili e la fortuna che il padre di Josuke aveva creato fino ad adesso. Le parlò della prima famiglia del vecchio, della moglie e del legame che li univa da cinquant’anni, di come ciò avrebbe portato trambusto ma non sarebbe stato centro di litigio.
Capì di aver parlato per diverso tempo quando, a tè finito e terza sigaretta spenta, la gola aveva iniziato a bruciare chiedendo idratazione. Per tutto quell’infinito monologo la donna Higashikata era rimasta lì immobile a seguirlo con occhi attenti sembrando quasi non sbattesse mai le palpebre per non perdere il filo del discorso.
«Credo che si,» esordì Jotaro alla fine buttando nel posacenere il mozzicone di sigaretta appena concluso « ho detto tutto. Ovviamente il vecchio è disposto a sobbarcarsi  di tutte le spese precedenti o meno che siano anche inerenti allo studio di.. vostro figlio. Vorrebbe spostarsi e conoscerlo di per-»
«No,» incominciò Tomoko alzandosi in piedi destandosi da una posizione quasi assopita assunta fino a quel momento «la mia famiglia non desidera nulla. Viviamo bene, non ci manca nulla e Josuke è inondato da tutto l’amore del mondo o almeno tutto quello che io e mio padre possiamo dargli. Non abbiamo bisogno della vostra carità.»
«Non si tratta di carità» cercò di intromettersi nel discorso il biologo realmente sorpreso dalla risposta data della donna.
«Quel che è non lo vogliamo. Mio figlio non lo vuole. Abbiamo passato sedici anni senza che nessuno si sia mai fatto vivo. Josuke sa di essere nato da un amore forte e questo gli è bastato. Ora, per favore, può andare via.. e la prego, non metta più piede in questa città.» il tono utilizzato era tutto fuorché minaccioso. Sembrava avesse letto le parole da un enorme tomo davanti a lei. Jotaro, senza proferire altro, acconsentì.
Ringraziò con un inchino del tè offritogli e, rimettendosi le scarpe lasciate sotto lo scalino si voltò per guardare un’ultima volta quella donna che era stata cosi paziente da ascoltare la storia ma cosi risoluta da non accettare condizioni.
«Tomoko,» le disse mantenendo lo sguardo contro il suo dai lineamenti orientali e fini «ricordi che l’errore del genitore non equivale all’errore del figlio.»
Senza che potesse dargli una concreta risposta, l’uomo dal cappotto bianco era già sparito.






Chissà come la prenderà il vecchio. Aveva pensato Jotaro sporgendosi dal corrimano che garantiva il safe space tra lo strapiombo della poppa e l’’acqua dell’oceano. Ancorati al molo si aspettavano gli ultimi ritardatari per partire verso il porto di Tokyo lasciando che, i passeggeri sopra la nave come lo stesso Jotaro, potessero godere di quella frizzante brezza che solo l’aria ricca di iodio poteva regalare.
«Kujo! Kujo! Aspetti!» gridò una voce in lontananza.
L’uomo richiamato all’appello strinse entrambe le mani sull’asta orizzontale di un freddo acciaio iniziando a dare un fisico alla voce che lo stava richiamando: una mano diafana si muoveva velocemente, capelli neri all’indietro, corpo esile ed atletico.
«Non posso privare mio figlio di tutto questo, non se lo amo davvero! Gli errori dei genitori non possono essere gli errori dei figli! Accetto signor Kujo, accetto!» la voce parve lentamente calare cosi come la figura slanciata si fermò per prendere aria. Dall’altra parte  l’uomo con le mani ancora strette sospirò un leggero “ yare yare daze” lasciando la destra dalla posizione solo per abbassarsi la visiera del cappello.
Gli errori dei genitori non possono essere errori dei figli.
Si ripeté in testa mentre allontanandosi dalla postazione aveva cercato delle monete dalla tasca per inserirle nell’apposita fessura del telefono a gettoni.
«Pronto?» aveva risposto dopo una manciata di minuti una vocina delicata
«Tesoro, sono papà. Mi sei mancata tanto.»












ANGOLO CHIACCHIERE
Eccomi di nuovo qui, bella gente <3
Giuro che piano piano ingranerà la storia. Tutto a suo tempo anche se può sembrare ESTREMAMENTE noiosa. Fare un buon cappello iniziale, magari, riuscirà a farvi capire ( cosi come è ben limpido nella mia testa :D) i personaggi che andrò a presentare meglio dopo. E poi, quanto è cutiepie Tomoko? <3
Siamo ancora nel lasso di temporale antecedente alla parte quarta. Appena le cose si modificheranno sulla linea del tempo vi avvertirò - cosi come eventuali spoiler.
Come sempre, accetto ogni tipo di commento che possa migliorare la stesura della storia. Spero di farvi passare qualche minuto  in completa spensieratezza ( godetevelo adesso perché poi BOTTE DI ANGST <3) mentre leggete la storia.
Un bacino.

SpeedMary 

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Capitolo 4
*** Quarantatre mesi ***




 
IMPORTANTE:
Il capitolo sottostante si svolge nel periodo successivo agli avvenimenti di Diamond is Unbreakble. Ci troviamo nel 2002. 
Sono presenti degli SPOILER della parte quarta. ATTENZIONE  per chiunque non l'abbia visto/letto.

 





Chapter four

Quarantatre mesi







 
La cittadina di Morio-cho si estendeva sulla costa frastagliata e rocciosa lungo il versante orientale giapponese affacciandosi sull’enorme distesa cristallina che è l’Oceano Pacifico. Piccola frazione della metropoli S., donava asilo a circa sessantamila abitanti occupati dalle aziende, banche e piccoli negozietti dislocati nella superficie ampia della cittadina. Era una delle classiche città in cui non succedeva niente, il giornale veniva consegnato dal postino alle prime luci dell’alba, gli studenti camminavano leggiadri sui marciapiedi ciottolati parlottando di compiti infiniti ed insegnanti dal costante malcontento; gli impiegati di banca sostavano all’ingresso delle stesse altezzosi nei loro completi, muniti di ventiquattrore; gli sportivi si concedevano una scarica di adrenalina mattutina con canzoni spacca-orecchie riprodotte da walkman alla moda.
Una cittadina dove non succedeva niente.
Aveva pensato proprio a quello, Kira Yoshikage, mentre spingeva l’aletta metallica del tagliaunghie con il pollice destro facendo saltare via l’unghia cresciuta in quelle settimane. Soddisfatto raccolse lei e le altre riponendole garbatamente nella bustina dove, con bella calligrafia, era segnato il mese e l’anno.
Una cittadina dove non succedeva niente.
Aveva pensato ancora l’impiegato del Market Regional Management con abiti di marca Versace, capelli impomatati all’indietro mentre sceglieva un grazioso anello ornato da piccoli diamanti.
Una cittadina dove non succedeva niente.
Ancora una volta in testa quel pensiero tanto da farlo sorridere con un ghigno soddisfatto, con il suo katsu sando tra le dita sottili e ben curate, un buon bicchiere di vino rosso e delle candele profumate a sigillare quella romantica cenetta.
Una cittadina dove non succedeva niente.
Quello fu il titolo utilizzato da Watanabe Sota stagista ventenne del quotidiano Morioh News il quale si ritrovò davanti agli occhi una raccapricciante scena di omicidio colposo accidentale. Quelle erano cose che non accadevano in una cittadina come Morio-cho. Quelle erano cose da film d’azione con alle spalle budget milionari da spendere. Invece era proprio lì, nell’angolo tra la drogheria Owson ed il palazzo della Pepsi: un uomo sulla trentina era stato travolto dalla stessa ambulanza che avrebbe dovuto aiutarlo; come un manichino snodato si trovava riverso sull’asfalto e quel che restava del viso, strisciato via dagli pneumatici.
I dettagli, Watanabe, cercò di ometterli.







Quarantatre mesi ed ancora sui giornali della zona era presente in prima pagina il resoconto di quella macabra storia, tutti i dettagli erano scritti in modo ridondante e preciso quasi fosse qualcosa da ricordare con estrema minuziosità: la descrizione della scena del crimine, le interviste ai parenti più stretti della vittima, copiose opinioni di giornalisti e criminologi. Come si poteva dimenticare un fatto del genere?
Jotaro alzò lo sguardo dal quotidiano schioccando più volte e nervosamente la lingua sul palato asciutto ed arido cacciando, con un gesto veloce, le pagine poste sulle gambe contratte in quella posizione.
«Mi ha detto che posso lasciarla alla stazione?» chiese il tassista dai lunghi, sporchi di caffè, baffi mentre allungava una mano per muovere distrattamente la manopola del volume. Non ricevette risposta. L’interlocutore era impegnato a guardare fuori dal finestrino polveroso a causa della salsedine, incantato, forse, dai primi ciliegi in fiore e dal loro delicato colore.
Ciliegi.
Una distesa di petali rosa tinteggiavano le vie poco trafficate della città, il profumo delicato copriva il solito odore di focaccine appena sfornate del St. Gentleman’s. Il movimento morbido dei petali durante la discesa a terra si congiungeva alla fragilità degli stessi una volta schiacciati dai passi frettolosi dei passanti. Jotaro ne provò quasi pena lasciando sì che quelli ora sulle spalle, del lungo cappotto bianco dalle striature azzurre, rimenassero protetti dalla propria figura. Una visione romantica della primavera alle porte.
Strinse le spalle nel lungo cappotto bianco nella ricerca di un punto di riferimento che lo facesse orientare. Perché queste striature azzurre? Perché il cappello pieno di spille? Quante volte aveva dovuto ascoltare quelle inutili domande e per quante volte aveva finto di non udirle. Jolyne fu la sola ad attribuirne una gradevole somiglianza: durante una delle molteplici visite al Sea Life Aquarium, la piccola aveva indicato con il paffuto dito l’elegante ballo della manta. Il pesce cartilagineo si muoveva come una foglia mossa dal vento nella barriera d’acqua salata incantando gli occhi color chartreuse della piccola attribuendo, poi, al padre la stessa leggiadria.
Le mani, sole, si mossero a toccare le cuciture in rilievo procurando una scarica improvvisa che si tradusse in un sorriso leggero. Malinconico.
«Jotaro-san! Jotaro-san!»
«Oi..oi  Koichi, abbassa questa voce da gallina.» lo rimproverò Okuyasu portandosi entrambe le mani tra i capelli più corti di un colore argenteo. Solo Hirose Koichi parve mostrarsi realmente contento dell’arrivo dell’uomo verso il tavolo. Il ragazzino dal naso schiacciato, era balzato all’impiedi curvandosi in avanti con un inchino mostrando un taglio di capelli alquanto discutibile: nessuno dei tre al tavolo, aveva in realtà, un taglio comune. Ma questo pensiero, Jotaro, lo tenne per sé.
«Jotaro-san! E’ un piacere rivederla a Morioh! Non sa quante cose sono cambiate. Sa, Kishi-» la parlata contenta di Koichi faceva da colonna sonora ai movimenti del biologo che, prendendo una sedia libera, l’aveva trascinata al tavolo dei ragazzi sedendosi di fronte a loro.
«Oe Koeche, » alzò lo sguardo il ragazzo seduto vicino ad Okuyasu intromettendosi nella cantilena dell’amico. Il tono parve minaccioso accompagnato dalla postura delle braccia incrociate al petto e lo sguardo oscurato per metà dalla gonfia capigliatura « lascia che Jotaro spieghi perché è venuto qui. Che sia forse per scusarsi di aver mandato te in Italia e non me?» la domanda venne seguita da uno scatto  furioso in avanti che produsse un suono sordo anche a causa delle mani puntate sul tavolino «Io sono tuo zio!» iniziò col dire indicandosi con il pollice «Io posseggo Crazy Diamond che certamente sarebbe stato più utile della tua lucertola» sibilò come un serpente ancora con occhi infuocati non prestando attenzione allo sguardo divertito dell’amico in questione.
«Josuke? Ma l’estate scorsa non abbiamo studiato insieme per gli esami di riparazione?» chiese con un’aria confusa Nijimura « sai potrei sbagliarmi non sono cosi intelligente..» continuò a dire alzando lo sguardo verso l’alto con l’indice sotto il mento quasi potesse aiutarlo a pensare.
«Beh,» intervenne subito Josuke messo con le spalle al muro portandosi la destra dietro la nuca con fare imbarazzato, sperando di distogliere l’attenzione sulla gaffe che aveva appena fatto.
Higashikata Josuke avrebbe compiuto diciannove anni tra qualche settimana ma di crescere non ne voleva proprio sapere. Dotato di perspicacia ed intelligenza, il ragazzo si era sempre fatto notare tra i banchi di scuola eccellendo sia nelle arti scientifiche che in quelle sociali. Bravo negli sport, dalla grande capacità comunicativa ma soprattutto da sensibilità ed umanità che lo contraddistinguevano. Il suo modo di essere cosi genuino lo portava spesso ad essere al centro dell’attenzione di ragazze ed d’invidiosi… ma a lui andava bene cosi. A lui piaceva essere sempre un tantino distaccato dagli altri, un po’ diverso quasi distante dal contesto. Il perché non se l’era mai chiesto. Era cosi e basta, pensava.
Da quando, però, il millenovecentonovantanove passò portando via la crudeltà dell’uomo senza volto, anche lo scintillio degli occhi di Josuke era svanito: che fosse stata l’adolescenza, l’impatto dell’accaduto o il solo pensiero di dover intraprendere un altro percorso di vita. Josuke era cambiato. Era perso, era solo. E di questo ne era consapevole.
«Ho bisogno di parlare con te, Josuke» parlò per la prima volta Kujo senza mai voltare lo sguardo verso gli altri due «da solo» l’ultime parole vennero rimarcate tanto da far capire ad Okuyasu e Koichi di non essere ben accetti in quella conversazione.
I due, senza proferire nulla a riguardo, si alzarono e diligentemente ringraziarono con un inchino allontanandosi dal café entrambi verso la stessa direzione.
«Oe, oe Jotaro non pensi di essere stato un po’ scortese?» chiese il più piccolo facendo scattare gli occhi in direzione degli amici ormai scomparsi dal raggio visivo
«Devo parlarti del vecchio. E’ importante.» Il silenzio calò tanto da ghiacciare i respiri dei due. Josuke non ebbe il coraggio di dire altro aspettando delucidazioni dal nipote che, stranamente, sembrava guardarlo con compassione. Tristezza, quasi.  «Non volevo parlartene al telefono per questo sono qui a Morioh, anche perché… di queste faccende me ne sono sempre occupato io.»
«Non dirmi che papà è- » la risposta improvvisa di Josuke fece gelare il sangue del biologo che si ritrovò ad abbassare lo sguardo cercando le parole adatte per continuare il discorso; non gli era mai capitato di rimanere senza parole o almeno, non gli era mai capitato di doverne dosare l’impatto per non ferire qualcuno. Gli occhi dello studente avevano tutta l’aria di esplodere in un pianto disperato.
«E’ grave, ma non è in fin di vita.» mentì non riuscendo a sostenere lo sguardo abbassandosi con la destra la visiera sperando, in qualche modo, di poter rimediare a quella bugia in seguito «Abbiamo il traghetto che ci porterà a Tokyo domani pomeriggio per prendere poi l’aereo. In due giorni saremo a New York, » le parole vennero unite da movimenti leggiadri ed eleganti. Dalla tracolla di cuoio uscirono due biglietti aerei ed alcuni documenti targati “SWF” i quali, Josuke, non guardò nemmeno. «durante il viaggio ti preparerò dei documenti: servirà la tua firma per mandare avanti i progetti di Joseph, le sue  proprietà ed anche la stessa collaborazione con la Fondazione..»
«Aspetta, aspetta,» lo interruppe Josuke con le braccia conserte sul tavolino ed il viso leggermente inclinato per non far scorgere all’uomo davanti a sé l’espressione del viso. «Io non sono convinto di voler entrare in queste faccende. Non voglio essere direttamente interessato alle incombenze della Fondazione, dall’avere uno Stand o cose simili. Ho diciannove anni,» la voce diede l’impressione di tremare scossa da un brivido che solo il pianto poteva creare ma, con un colpo di tosse venne scacciata via «voglio diventare un restauratore, iscrivermi alla Geidai, conoscere l’amore, viaggiare, scoprire tutto quello che non so, appassionarmi a qualcosa. Io non— voglio essere come il vecchio, come te e dimenticare di avere qualcosa per cui vivere.»
Pugno forte, ben assestato, in pieno viso, arrivò dopo le parole di Josuke. Il biologo chiuse gli occhi per far smettere quel mal di testa simile alle costanti emicranie di cui soffriva ma sapeva bene non si trattasse di quello; sapeva bene che le parole del ragazzo non erano cosi lontane dalla verità, ma fondamentalmente mai nessuno aveva messo a tavolino quella situazione.
« Jotaro-san, gomen. Non intendevo questo. Non volevo mancarti di rispe-»
«Va bene, Josuke.» lo interruppe «Hai tutto il tempo per pensarci durante il viaggio. Porterò i documenti con me.» l’uomo si alzò dalla posizione in cui era rimasto per quella frazione di tempo e, con la stessa espressione del viso gelida e corrucciata, allungò il biglietto verso il più piccolo che ancora, con aria spaesata sperava di farsi perdonare. «Cerca di essere puntuale. Le festività dell’ Ogon shukan ti permetteranno di non saltare gli studi.»
Prima che Higashikata potesse dire altro, Jotaro con mani in tasca e falcate lunghe era sparito dalla sua visuale.
Non voglio dimenticarmi di avere qualcosa per cui vivere. Jotaro ripensò a quelle parole e senza volerlo strinse con forza i pugni nelle tasche ampie, conficcando le corte unghie dentro la pelle.






ANGOLO CHIACCHIERE:
Heylà bella gente <3
Siamo arrivati al quarto capitolo e, da come avrete capito il salto temporale è stato cospicuo. Gli avvenimenti che non sono stati compresi nella stesura del capitolo sono uguali a quelli raccontati da Araki. Da questo capitolo in poi i riferimenti a capitoli successivi al quarto saranno parecchi.. quindi ATTENTI AGLI SPOILER! Con ciò voglio precisare, che tutto ciò che racconterò è frutto della mia fantasia e non sono assolutamente legati ad avvenimenti descritti da "Jojo's Bizarre Adventure".
Ringrazio tutti coloro che hanno visionato ed hanno perso qualche minuto in più per commentare. Mi aiutate davvero moltissimo a migliorarmi <3
Un abbraccio grande ( al prossimo mercoledì <3)

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Capitolo 5
*** Yakusoku ***


Chapter five

Yakusoku

SPOILER!
QUESTO CAPITOLO CONTIENE SPOILER INERENTI ALLA PARTE TERZA.








Un quarto alle sei.
Il sole iniziava ad uscire timido da dietro i bassi colli che racchiudevano la cittadina di Morioh rendendola più isolata dagli altri quartieri, ma anche la più caratteristica date le insenature rocciose a strapiombo della costa, la bellezza di prati sconfinati e l’oceano immenso a bagnarne i confini.
Avrebbe tanto voluto vivere qui insieme a Jolyne. Farla studiare nella stessa scuola di Koichi, Josuke ed Okuyasu; lasciare che fosse lei a decidere cosa intraprendere come hobby; spiarla dietro le auto mentre al Café DeuxMagots, usciva per la prima volta con un ragazzo. Avrebbe voluto tanto lasciare che conoscesse Josuke, che sviluppasse con lui uno Stand e che serenamente vivessero una vita tranquilla lontana dai tormentati albori della famiglia Joestar. Avrebbe voluto tante cose per quella piccola anima che aveva messo piede sulla terra da pochi anni ma, in cuor suo, sapeva che la normalità sarebbe stata solo qualcosa a cui ambire.
Sperando di cacciare quei pensieri dalla testa, il dottor Kujo, aveva acceso la seconda sigaretta della giornata aspettando pazientemente il suo compagno di viaggio. Il suo arrivo in anticipo gli aveva permesso di sondare la zona: aveva controllato che tutto fosse nella norma, che nessun animale, cosa o persona nei dintorni fosse animata da Stand. Voleva ed esigeva un viaggio tranquillo anche se il solo pensiero di un ipotetico pericolo e quindi alla conseguente ispezione, era diventato una stancante routine non solo fisica ma anche mentale. Dal suo ritorno dalla città de Il Cairo, niente era stato più come prima. Tutto era diventato potenzialmente pericoloso insidiando nel corpo dell’uomo una costante sensazione di insicurezza che non gli permetteva di abbassare le difese.
L’ultima boccata e lasciò cadere a terra il mozzicone pestandolo con il piede per far terminare la combustione. Sei e trenta segnava l’orologio da polso. Ed alle sei e trenta, in orario, vide apparire in lontananza una figura assai familiare: i cargo che erano fermi nel porto creavano un via vai di gente diversa da quella che ordinatamente si stava imbarcando nel traghetto dietro le sue spalle e, tra coloro che si muovevano, Josuke avanzava con passo lento e decisamente assonnato. Lui e la madre Tomoko.
Lo sguardo di Jotaro divenne glaciale. Cosa avrebbe dovuto inventarsi se all’arrivo a New York fossero arrivati il figlio bastardo e la madre?
«Buongiorno signor Kujo, sono venuta qui solo per accompagnare Josuke.» Tomoko, con quella frase,  riuscì a far rilassare muscoli facciali dell’uomo che, se avesse potuto in quel momento, si sarebbe sciolto come neve al sole. Sembrava quasi avesse letto il terrore nei suoi occhi. «Credevo fosse una buona mossa venire qui. Non mi sarei mai permessa di scombinare i piani. Sono contenta che— mio figlio sia nelle sue mani.» le parole non furono capite subito tanto che, Tomoko, certa che il figlio non fosse nelle vicinanze, si leccò le labbra e continuò «Intendo… intendo dire che sono contenta che abbia qualcuno che lo protegga. Mi fido di lei Jotaro, non so dirle il motivo ma mi fido di lei. Per questo le chiedo di riportarmelo indietro
«Oe, Jotaro-san se non ci sbrighiamo dovremmo farcela a nuoto!» il grido del Higashikata destò entrambi gli interlocutori. La donna, facendo qualche passo indietro salutò entrambi con un gesto della mano, l’uomo, invece, rimase per qualche minuto pietrificato da quella richiesta. Josuke avrebbe fatto la sua stessa fine rinchiudendosi in sè stesso diventando una pedina del fato. Per giorni avrebbe cercato di distogliere il pensiero da ciò che aveva vissuto focalizzandosi sulla realtà delle piccole cose: il pianto a perdifiato di un bambino, le gocce di pioggia battenti che solcavano i vetri appannati, le conversazioni univoche della madre dietro la porta, quel fottutissimo ciliegio in fiore davanti casa.




 
 
 
«In tre ore saremo a Tokyo. Aspetteremo in aeroporto la coincidenza,» La porta della cabina si spalancò davanti a loro a causa della gravità instabile alla partenza del traghetto. Graziosamente arredata, la stanza non possedeva un letto o qualsiasi cosa gli assomigliasse data la breve durata del viaggio. Era munita, però, di molti altri comfort come un piccolo frigo bar, un televisore a tubo catodico, due enormi poltrone ed una meravigliosa vista sull’oceano. Il cielo ancora bruno non lasciava trasparire molta luce dalla grande vetrata e ciò consentiva ai viaggiatori di riposarsi «vado a prendere da mangiare. Vuoi che ti porti qualcosa?» per la prima volta Jotaro provò sulla propria pelle lo stesso trattamento che solitamente riserbava agli altri. Josuke, infatti, dopo una lunga occhiataccia si era seduto svogliatamente sulla poltrona in modo scomposto. Non gli aveva rivolto la parola da quando erano sull’imbarcazione. Anzi, se avesse potuto avrebbe utilizzato il suo Crazy Diamond per costruirsi una corazza.
L’uomo si strinse nel cappotto bianco richiudendo la porta alle spalle per incamminarsi verso l’atrio principale.
Ordinatamente disposti, i tavolini e i divanetti della sala, erano quasi completamente occupati da coloro che, frettolosamente, avevano messo piede in quella sala prima di ritrovarsi in piedi e gustarsi una scomoda colazione. Una lunga tavolata era stata adibita a buffet dove i passeggeri sarebbero stati serviti dai camerieri dietro di essi porgendo loro piatti di alta qualità. Mettendosi in fila per aspettare il proprio turno, Jotaro pensò all’ultima volta che si fosse trovato in quella situazione. E la mente ripiombò a quella fantomatica gita di cinquanta giorni: passati per la frazione di Benopol prima di raggiungere Calcutta, insieme a Polnareff avevano deciso di fermarsi in qualche negozio che potesse assomigliare ad un tabacchi per fare il consueto rifornimento di sigarette ma, quello che trovarono davanti fu un ginepraio di culture mischiate impacchettate e servite in piatti che di pulito non avevano nulla. E quello stupido di un francese ebbe persino il coraggio di chiedere il bis. In fila, proprio come in quel momento, un indiano paffuto e dall’aria gentile li aveva serviti consegnandogli un cono di cartone ricco di triangolini in pasta fillo ricolmi di qualcosa di indecifrabile al palato.. ma buono.
Stupido di un francese.
«Preferisce le uova strapazzate, signore?» la cameriera richiamò la sua attenzione la quale venne ammutolita con un gesto della mano, consentendole, di creare il piatto a suo piacimento.
Tornare a New York avrebbe significato rivedere tutta la famiglia Joestar al completo a partire dalla nonna tremendamente preoccupata per il marito e la mamma, fattasi coraggio e ritornata nella città natale il tempo necessario per risolvere la faccenda. Probabilmente anche Anne e Jolyne sarebbero state presenti, la moglie aveva rimarcato la necessità della piccola di vedere il padre ed aveva, quindi, preso la decisione più sbagliata. Ma Jotaro non aveva replicato, era rimasto in silenzio alla notizia prima di chiudere la telefonata. Sapeva bene come sarebbe andata a finire altrimenti.
Magari la piccola dagli occhi cangianti avrebbe portato una ventata di serenità, si sarebbe comodamente messa tra il padre e la madre e li avrebbe costretti a darsi un bacio. Avrebbe rasserenato Suzie Q cantandole, con voce stridula, la canzoncina del suo cartone preferito ed infine, si sarebbe lanciata verso il nuovo arrivato inondandolo di domande. Lo stesso che, in quel momento, si trovava rannicchiato sulla stessa poltrona su cui l’aveva lasciato.
La maglia gialla ed i pantaloni blu notte che indossava, erano arricciati creando pieghe scomposte che difficilmente si sarebbero lisciate con la mano. Un solo ginocchio flesso era stretto dalle braccia toniche e muscolose che nascondevano il viso lasciando fuoriuscire la capigliatura gonfia e perfettamente in ordine.
«Josuke» richiamò l’attenzione ma dall’altra parte ancora silenzio. Lo fece per altre due volte ancora, prima di udire uno stridio simile ad un miagolio seguito da un gemito sommesso. Se Star Platinum non fosse apparso per riprendere in mano i piatti e mantenerne l’equilibrio sulle dita, questi sarebbero caduti rovinosamente a terra sporcando il parquet lucido sotto i loro piedi.
«Josuke» disse ancora capacitandosi solo ora che il ragazzo davanti a lui fosse in preda ad una crisi di pianto. Il cuore perse un battito prima si pompare veloce colto dall’ansia della situazione: non sapeva come comportarsi, cosa fare, cosa dirgli. Perché stava piangendo? Perché non parlottare, come il suo solito?
Si mosse senza che il proprio cervello gli desse delle indicazioni precise, lasciò che Star Platinum poggiasse i due piatti di ceramica lontano da lui, tolse il cappello con visiera bianco attaccandolo al gancio vicino la porta, scoprì il petto coperto dal maglione dolce vita violaceo e coprì le spalle del ragazzo con il cappotto che fino a poco prima aveva tenuto lui al caldo; si piegò sulle ginocchia e accolse il peso del capo sulla propria spalla in un abbraccio consolatorio. Poteva sentire il respiro incerto annaspare tra un gemito ed un ansimo, le mani agganciarsi come uncini al proprio petto ed il viso nascondersi inumidendo la maglia all’altezza della propria spalla. Strinse maggiormente la presa ma non disse nulla. Lasciò che quel pianto fosse l’unico suono tra le mura unito dal movimento leggero della mano sulla spalla. Sentire in silenzio il proprio dolore pareva esorcizzarlo.
«Gomen--» furono le uniche parole pronunciate da Josuke che, a fatica, si tirò in piedi pulendosi il viso arrossato ed umido con i palmi. Continuò schivo a fuggire dallo sguardo indagatore rifugiandosi tra le stesse mani che lo avevano ripulito, ma il corpo scosso da continui singulti non gli diede la possibilità di rimanere in silenzio. «Mi sento completamente in trappola. Ho paura di vedere.. il vecchio in fin di vita, di trovarmi davanti una famiglia che non ho mai conosciuto e, di non sentire niente. Sto cercando di sforzarmi almeno a sentire compassione. Ma non ci riesco, » nonostante il tremolio tipico del pianto, le parole fuoriuscirono veloci dalle labbra leggermente arrossate cosi come le guance leggermente umide e gonfie per il continuo sfregamento dei palmi. Gli occhi turchesi erano rimasti bassi per tutto il tempo sperando che le insenature del legno si potessero fare della larghezza giusta per nascondercisi dentro. Jotaro, infatti, era rimasto ancora in ginocchio di fianco alla poltrona seguendolo con lo sguardo con un ciuffo mosso che gli ostacolava la vista. Non aveva detto una singola parola. 
«…non so che mi sta succedendo. Sento di aver perso l’empatia persino per me stesso. Sono stanco.» il peso del corpo venne nuovamente accolto dal divanetto e le ginocchia si portarono entrambe al petto; il viso schiacciato sulle ginocchia producevano una smorfia imbronciata. «Sono stanco di essere un Joestar.» sbuffò via l’ultimo singhiozzo che gli aveva fatto tremare la voce.
«Questo tuo pianto dimostra tutto il contrario di ciò che pensi. Ti passerà. Dovresti riposare.» il biologo si mise in piedi, si passò la destra tra i capelli mossi e recuperò il capello per tenerli fermi sotto di esso. Lasciò che il cappotto rimanesse indosso a Josuke che, strettamente ne stringeva i lembi. «Ti lascio i documenti di cui avevamo parlato. Non sentirti in dovere di visionarli, hai bisogno di prenderti un momento di pausa e fare colazione.»
«Vorrei tanto avere la  tua risolutezza,» esordì Josuke «il modo in cui riesci a oltrepassare il problema fregandotene delle conseguenze.»
Le parole fecero da orchestra ai movimenti del biologo il qualche estraeva con delicatezza i documenti dalla tracolla di cuoio e li posizionava sul tavolino accanto il televisore spento. Con gli occhi puntati sul foglio, seguiva il susseguirsi della parole con la solita biro di colore nero «Joseph mi parlò della vostra missione per salvare Holy. Di come siete stati travolti dagli eventi e di come tu, sia sempre riuscito a rimanere un freddo stratega. Non so come tu faccia a rimanere sereno dopo tutto quello che vi è successo»
Pop.
Fu il rumore che la biro tra le mani di Jotaro fece spezzandosi a metà. L’inchiostro macchiò le dita chiare scendendo tra le pieghe ed il palmo salvando miracolosamente il foglio ancora immacolato.
«J—Jotaro » ripeté Josuke guardando il nipote dallo sguardo completamente assente nonostante l’inchiostro gli avesse macchiato le dita «Jotaro» solamente al secondo richiamo capì cosa aveva fatto. Abbassò lo sguardo sulle mani ricoperte di inchiostro nero che prese a gocciolare anche sul foglio immacolato. Fulmineamente si mise a cercare qualsiasi cosa potesse consentirgli di pulirsi notando come, i palmi, rimanessero macchiati. Sfregava, sfregava ma rimaneva lì. Perché non riusciva a togliere quel maledetto sangue?
«Jotaro-san»
«E’ tutto apposto. E’ tutto apposto, Josuke.» si affrettò a dire notando che il ragazzo si fosse pericolosamente alzato nella propria direzione preoccupato di quel repentino cambiamento. «Trovo un posto dove lavarmi. Vengo io a bussare alla tua camera quando è il tempo di scendere»
Uno.
Due. Tre.
Dieci. Diciassette.
Ancora due. Poi quattro.

Perse il conto di quanti passi aveva fatto ma sapeva di compierli velocemente come se stesse scappando da qualcosa, come quando da bambino spegni la luce della camera e corri a perdi fiato verso un luogo sicuro. Si sentiva cosi, costantemente braccato fino all’arrivo della cabina 21.
Apri la porta.
Chiudila senza far rumore dietro le spalle.
Aspetta.
Aspetta e respira.

Il freddo del legno levigato sembrava dare conforto al lancinante dolore che gli stava martellando le tempie. Strisciò le grandi mani sulla superficie sperando di mantenere l’equilibrio in quel mare in tempesta che il pavimento sembrava essere. Passarono minuti prima che gli occhi cristallini si aprissero percependo la realtà davanti a sé: la zigrinatura del muro color crema produceva microscopici puntini ruvidi al tatto. I polpastrelli passarono lenti su di essi strisciando su ogni punta e su ogni intervallo.
Zigrinature.
Il muro color crema.

Le palpebre si chiusero e si riaprirono più volte, prima lentamente e poi in modo più veloce costatando di avere la stessa visuale a pochi millimetri. Si voltò dando le spalle al muro: la città egiziana si estendeva sotto i suoi piedi.
«Merda» pronunciò a denti stretti facendo urtare i talloni contro il muro dietro di sé appurando che fosse in cima ad un altissimo palazzo di foggia antica. Le piccole case quadrate, le strade illuminate, i passanti e le auto facevano da cornice alla vista. Solo l’orologio a torre spiccava più in alto.
Di nuovo. Ci era cascato di nuovo.
«Mi chiamo, mi chiamo…» prese un profondo respiro chiudendo gli occhi. L’unico modo per allontanarsi da quella realtà fittizia, secondo il medico, era pronunciare come una cantilena la propria presentazione. In questo modo la parte razionale, critica e logica lo avrebbe portato nel mondo reale. «sono un biologo marino, ho un dottorato alla Kayodai. Ho una figlia di nome Jolyne, sono sposato con Anne da quattro anni ed il mio nome è--»
«JOTARO!» il grido disperato e di aiuto si propagò nell’aria squarciando il silenzio che solo il vento, fino a quel momento, aveva infranto.
Gli occhi cristallini si mossero velocemente verso il suono riconoscendo quella voce tra mille altre. Era lui. Era sicuramente lui.
Conscio di non poter richiamare Star Platinum fece leva sui muscoli delle braccia e delle gambe percorrendo a passi stretti l’intero cornicione dell’area, sperando in quel modo di arrivare in un punto in cui fosse più facile comunicare con la voce. Lo stridore del vento accarezzava la pelle contratta dallo sforzo ed i capelli scuri e ribelli che uscivano da sotto la visiera bianca; sebbene conoscesse alla perfezione il luogo in cui si trovava e ciò che avrebbe trovato, quella sensazione data dal vento placava l’animo tormentato e le viscere in subbuglio. Sentiva i polpastrelli stretti sulla ruvida superficie, avanzare passo dopo passo, sempre più caldi. Bollenti.
«J—Jotaro. Sei qui.» la voce rantolante echeggiò cosi forte da fermare persino il vento.
Noriaki Kakyoin, diciassette anni, frequentava la stessa scuola superiore di Jotaro anche se non l’aveva mai notato nei corridoi o negli spazi comuni fuori dall’edificio. Con quel suo fare raffinato era riuscito a convincere tutti gli altri della sua redenzione e partecipare a quel viaggio senza ritorno. Schivo e dalle poche parole si era ritrovato spesso ad essere la nota fuori corda, per questo aveva legato cosi tanto con Jotaro: che fosse la stessa età, la stessa scuola, lo stesso rapporto con i genitori… i due avevano capito fin da subito che ci fosse qualcosa di più grande che li accomunasse. Ma non avevano mai indagato. Avevano accolto tacitamente quel rapporto di complicità, diventando ogni giorno qualcosa di sempre più importante.
«Ho scoperto il potere di Dio. Lui ferma— lui riesce a fermare il tempo.» accasciato su se stesso con le mani strette al ventre cercava di coprire la voragine ricolma di liquido scarlatto, quasi se ne vergognasse. Il rantolio del suo respiro si alternava ad uno strano rumore cupo e metallico quasi come se, la forza che lo avesse colpito fosse ancora presente nel suo corpo.
La mandibola scattò in un’espressione di sorpresa. Non ricordava nemmeno di averlo mai visto cosi. Allungando il busto e tenendo i piedi saldi sulla sporgenza allungò la mano destra cercando di tirare la pelle e sentire, ancora una volta, il velluto morbido della verde divisa.  «Afferra la mia mano, Kakyoin. Sono in grado di mettere fine a questa battaglia. So come--»
«Il mio Hierophant ha creato una rete consentendomi di conoscerne la posizione,» lo interruppe continuando il suo discorso in una sorta di trance «ma il suo Emerald Splash non ha potuto niente contro di lui» sorrise amaramente portando il capo contro il muro. La potenza del proprio Stand aveva rovinosamente fallito contro colui che lo aveva reso una pedina. La sua voglia di rivalsa era niente in confronto alla malvagità e carisma che gli si era parata davanti.
«Non devi preoccuparti. Fidati di me.» ripeté ancora Jotaro compiendo un passo azzardato ma che gli consentisse di allungare di qualche centimetro la mano. «Aggrappati a me, per favore.»
La richiesta svegliò il ragazzo dai capelli folti e rossissimi. Il dolore nei suoi occhi non traspariva in nessun gemito. Il corpo si mosse incerto verso la mano ma prima di toccarla si ritirò su di sé provocando nell’altro uno sguardo atterrito. «Avevo diciassette anni quando ho deciso di sacrificare la mia vita per salvare tua madre, tuo nonno, te e la tua famiglia. Pensavo di redimermi dalla pessima scelta che avevo compiuto diverso tempo prima… ma rimarrò per l’eternità un diciassettenne»
«Ma che stai facendo?! Prendi la mia mano, cazzo!» gli urlò spaventato più che arrabbiato «Devi fidarti di me. Star Platinum è in grado di sconfiggerlo. Non ti lascerò qui da solo.» volle ancora allungarsi verso di lui ma il vuoto sotto di loro parve allargarsi.
I solchi scuri sul viso di Kakyoin si riempirono di lacrime bagnandone il volto squadrato mischiandosi alla coltra di sangue tra il petto ed il pavimento. Singulti continui sconquassavano il corpo giovane anche se il torace fermo non veniva mosso da nessun respiro. «Chissà se i miei genitori si sono accorti della mia mancanza. Se a scuola qualcuno ha parlato di me. Ho dato la mia vita e la mia giovinezza a te. Passerò l’eternità a rivivere i secondi prima che un fascio di luce lacerasse la mia carne.»
«Smettila! Smettila di dire queste stronzate!» impegnato a sostenere il corpo in una stretta pericolosa per allungarsi verso l’amico, non si accorse che la propria voce aveva preso a tremare, gli occhi tremendamente pizzicare e la gola chiudersi. «Ti porterò da qualcuno che ti possa curare: Joseph ha un figlio di nome Josuke. Il suo Stand, Crazy Diamond, sarà in grado di rimetterti in sesto. Ti farò vedere una bellissima città piena di ciliegi in fiore, proprio come piacevano a te. Sono sicuro che tua madre ti sta ancora aspettando. Ti prego, afferra la mia mano. Fidati di me.» le parole si erano tramutate in una cantilenata preghiera. Sebbene le stesse ripetendo per convincere l’amico, queste sembravano dette per convincere lui stesso.
Non era stata  colpa sua se Kakyoin era stato sventrato dalla forza dirompente di The World.
Non era stata colpa sua se Abdul e Iggy erano stati risucchiati dal vortice di Vanilla Ice. Non era colpa sua. Non era colpa sua.
Allora perché ogni volta che lo ripeteva sentiva lo stomaco stringersi?
Le labbra carnose avevano continuato a sibilare delle preghiere verso la figura davanti a sé accasciata sulla torre. Gli occhi guardavano ogni dettaglio farsi sempre più sbiadito, mischiarsi allo sfondo tetro ed immobile intorno a loro.
Perché era sul quel palazzo? Perché non riusciva a ricordarne più il viso?
«NO. NO, ASPETTA» l’urlo si propagò nel momento in cui le pupille non riuscirono più a distinguere nessuna figura umana davanti a lui «Io devo salvarti! Aspetta... Aspetta Ka..» si interruppe sgranando gli occhi.
Come si chiamava?
«E’ inutile. E’ inutile ricordare.»
La stessa voce che anni prima lo aveva fatto ripiombare in un incubo nella città di Morioh, era ancora presente nella propria testa. Fece forza voltandosi ma niente era presente intorno a lui.
«Devo— devo salvarlo. Glielo devo.» lasciando le mani dal muro che lo aveva sorretto fino a quel momento  le posizionò sul capo: avrebbe voluto aprirsi la testa, infilare la mano nella materia grigia e cercare il ricordo di quel ragazzo. Chi era, come si chiamava, perché era scomparso.
«Lascia che i morti rimangano tali. E’ inutile riportarli in vita con il ricordo. Inutile
No. No, non era possibile.
Lui era qui per salvarlo. Ka— No—
Come si chiamava?













ANGOLO CHIACCHIERE:
Hello! Eccomi qui tornata con un altro capitolo della serie. Mi dispiace molto non aver rispettato il giorno, ma tra lavoro e corsi è stato molto difficile portarla avanti. Con questo, voglio dirvi, che anche - molto probabilmente - la prossima settimana risulterà Difficile pubblicare il mercoledì (slittando alla settimana successiva o alla domenica).
Iniziamo con le prime dinamiche della storia. Tengo molto a questo capitolo cosi come ai prossimi che verranno dopo di questo, uno in particolare che mi sta facendo penare. 
Ringrazio anticipatamente, come sempre, tutti coloro che "sprecheranno" un po' del loro tempo per poter leggere e rimanere a commentare. Spero di non annoiarvi!
Un abbraccio <3

SpeedMary

 

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Capitolo 6
*** Josuke ***


Chatper six

Josuke






 
Dal porto di Morio-cho a quello di Tokyo ci erano volute tre ore.
Dal porto di Tokyo all’aeroporto Tokyo-Haneda solo quattordici minuti.
Tempo ad aspettare la coincidenza per New York: interminabile.
Tokyo – New York la bellezza di tredici ore.
Dieci lunghissimi anni erano stati impiegati da Ulisse per ritornare nella sua amata Itaca, riabbracciare sua moglie e riprendere in mano il trono che i Proci volevano sottrargli. La stessa terra che Ulisse, dopo essere sbarcato, aveva stretto, baciato ed annusato.
Nel momento in cui il piede destro aveva toccato con la punta il pavimento liscio e lucido dell’aeroporto, Josuke si sentì come il regnante di Itaca al ritorno del suo viaggio: un brivido di piacere gli percorse velocemente la colonna vertebrale.
Ma quanto era bella la gravità?
Assonnato ed ancora decisamente provato dal discorso intrapreso con il nipote, si era trascinato per tutto il perimetro che lo separavano dall’uscita e dalla vista di quella metropoli di cui aveva sentito solo nei telegiornali o descritta nei videogame. Jotaro e lui non si erano rivolti più la parola. Distanti uno dall’altro avevano recuperato i bagagli ed aspettato silenziosamente un taxi giallo sul limite del marciapiede. Che baggianata americana, pensò.
Le pupille nerissime si muovevano veloci come la pallina madre in un incontro di tennis a Wimbledon carpendo ogni minuzioso dettaglio dal piccolo finestrino posteriore: grandissimi grattacieli disposti in modo geometricamente distante, passanti affaticati e indaffarati in commissioni ipotetiche, catene di fast food colme di clienti ingordi e sudici, auto in fila, clacson e rumore. Se quella città doveva rappresentare l’occidente e lo stile di vita americano, era felicissimo di vivere nella calma e soleggiata Morioh.
Quella dannatissima cisti fra i capelli faceva un male cane.
Era stato uno stupido a lasciarla crescere cosi tanto. Sembrava quasi muoversi.
Dio, avrebbe voluto grattarsela via.

Chissà cosa Okuyasu stesse facendo. Quell’imbecille si era presentato davanti casa sua il giorno prima della partenza piagnucolando come una femminuccia e con la scusa dello studio per i test universitari lo aveva tenuto sveglio tutta la notte, con le sue conversazioni da rincitrullito. Come se non bastasse, gli aveva chiesto in prestito persino la console  – cosi per esercitarsi un po’ – . Al suo ritorno doveva fargliela pagare. Avrebbe dovuto trovare un giusto pegno. Magari Koichi in questo lo avrebbe aiutato. In quel metro e cinquanta di uomo, si annidava un senso di giustizia innato.. e pensare che quando lo aveva conosciuto, con quel suo modo di fare gentile all’estremo dell’umano, era certo di averlo odiato.
Era il primo giorno di scuola di quel fantomatico millenovecentonovantanove ed alle calcagne si era trovato, non solo un omone di due metri, ma anche un ragazzino che non faceva altro che domandargli come stesse. Poi tutto aveva iniziato a intrecciarsi inesorabilmente: la scoperta di un assassino in città, la freccia al petto, l’anziano dentro la foto… e niente era sembrato più lo stesso. Tutti tranne Hirose Koichi parvero influenzati dagli avvenimenti, lui, invece, rimaneva ancorato al senso di giustizia che lo rendeva una costante nella vita di Josuke e in quella di tutti coloro che gli erano vicini. Proprio per questo quella matta di Yukako ebbe un debole per lui. 
Non aveva mai capito le vere intenzioni di quella ragazza, anzi più le stava a distanza e meno l’intestino si contorceva, ma ogni qual volta gli occhi color violetto si posavano sulla figura minuta di lui, qualcosa in lei cambiava; sembrava illuminarsi, volteggiare come una foglia mentre danza col vento, diventare un pomodoro, irrigidirsi prima di sciogliersi e cadere ai suoi piedi. Totalmente, tremendamente, costantemente innamorata di lui.
E tutto questo lo faceva sorridere.
Era questo, per Josuke, l’amore. Qualcosa che andava oltre il piacere fisico o mentale. Doveva prenderti e scuoterti cosi forte da farti girare la testa, farti rabbrividire ed avere cosi caldo da far mancare l’aria. Travolgerti completamente ed essere, allo stesso tempo tornato bambino mentre, urlando parole senza senso sul cuscino, scopri un tremore incontenibile di quell’emozione impossibile da frenare. Farti svegliare di soprassalto di notte, con il cuore in gola ed una mano sul petto e riscoprire la beatitudine di avere quella persona accanto.
E poi, l’amore doveva essere accolto in qualsiasi modo colpiva. Bello o brutto che fosse.  E Josuke l’avrebbe fatto qualora fosse arrivato. Di tutti i tipi. Di tutti i generi.
Infondo sapeva di star già amando a modo suo tutti coloro che nella sua vita avevano contato qualcosa. Sua madre Tomoko, il vecchio Joseph, Koichi, in qualche modo strano e particolare anche Rohan. Come spettatori, tutti avevano un loro posto. Si, anche quello stupido di Okuyasu.
Forse proprio in quello strano rapporto di amicizia aveva compreso cosa fosse l’amore e che non fosse possibile concepirlo in un unico modo.
Non avrebbe mai potuto dimenticare come il proprio cervello reagì alla vista del corpo, che pareva, senza vita dell’amico: le palpebre chiuse a serrare la pupilla vitrea, il torace immobile cosi come il polso privo di battito. Non ricordava nulla del dopo, ma era certo che in cuor suo aveva sperato di morire, che Yoshikage preso da uno dei suoi momenti di follia lo avesse colpito lasciandolo stramazzato al suolo.
Non riusciva più a resistere.
Cazzo, ma quanto era grande? E poi, prudeva cosi tanto.
Si, appena fossero scesi dal taxi l’avrebbe controllata.

Incurvò leggermente la schiena sul sedile morbido della Nissan conscio di aver passato metà viaggio in silenzio a fantasticare sulla vita e sull’amore. E si, perché qualcuno in quella lista enorme l’aveva dimenticato, anche se era a nemmeno venti centimetri da lui.
Che sentimenti provava nei confronti di Jotaro? Del nipote che era piombato una mattina nella sua vita e gli aveva buttato addosso una miriade di informazioni e che ora rimaneva distante, quasi un muro li separasse?
Amore. E non aveva dubbi.
Beh, si, in realtà li aveva eccome ma avrebbe tenuto la boccaccia chiusa.
In quel tempo in cui aveva potuto imparare a conoscere Kujo Jotaro, di una cosa era totalmente sicuro di aver appreso: non aspettarsi assolutamente nulla.
No, forse cosi la frase suonava del tutto fraintendibile: non aspettarsi nulla da lui dal punto di vista emozionale. Fisico. Perché era fatto cosi e questo doveva bastare.
Non gliene aveva mai fatto una colpa, anzi quasi aveva imparato a non farci più caso, a passarci sopra ed alzare le spalle quando qualcuno di nuovo gli faceva notare la freddezza del consanguineo. Il suo comportamento non era scaturito, e di questo ne era certo, da fattori emozionali generici come la timidezza, il cinismo o il solo fatto di essere introverso; aveva capito che in lui si annidava qualcosa di talmente profondo da ricondursi alla nascita stessa. Una mancanza enorme. Josuke, infatti, era convinto che Jotaro avesse quel carattere perché fondamentalmente nessuno gli aveva insegnato diversamente. Nonostante le loro vite, sotto un certo aspetto, potessero essere molto simili, Josuke era stato continuamente imboccato di amore da parte della madre e dal nonno; aveva assimilato che il suo concepimento fosse scaturito da un amore forte e profondo e che proprio quel tipo di amore doveva ricercare negli altri.
Ecco, forse al nipote mancava proprio quel tassello: l’insegnamento.
Prima che potesse farsi avanti, dopo quell’interminabile tempo in silenzio, magari con un semplice tocco della gamba, un colpo di tosse forzato, o qualsiasi altra cosa riuscisse a catturargli l’attenzione, fu lo stesso biologo ad abbassare le difese e rivolgergli finalmente da parola.
«Josuke. Siamo arrivati.» la voce impastata era sottile e rauca come se avesse paura che l’interlocutore non fosse attento. Si meravigliò, infatti, quando voltando il capo, gli occhi del ragazzino erano puntati su di lui. Completamente incatenati.
Ancora silenzio. Il rumore della città viva fatta di clacson, urla, risate, rombi d’auto e moto, suonerie di cerca-persona attaccati alla vita, rendeva il contesto in cui erano decisamente insolito rispetto ai loro canoni. La città natale degli Higashikata era sempre – e unico – luogo dei loro incontri. Poche erano le scelte che concedeva ma erano sempre apprezzate per la scarsa densità e per il completo menefreghismo delle persone. Ora, lì, dispersi in quel trambusto stroboscopico neanche si riconoscevano. Appianare quella situazione, però, era di vitale importanza per Jotaro. «Questa è la dimora di Joseph e sua moglie Suzie Q. Vivono qui da quando ne ho memoria.»
Ecco qui, ci siamo con lo spiegone.
Jotaro era fatto cosi, prima si presentava come l’omone brutto e cattivo di cui avere paura, poi intromettendosi nelle vite altrui regalava gesti plateali e commuoventi rendendo alquanto difficile il sentimento da provare verso di lui ed infine, cosi senza saperne il motivo, si chiudeva in se stesso facendoti capire palesemente che della tua morte non gliene sarebbe fregato un tubo.  Josuke roteò gli occhi blu, cristallini e liquidi per via delle poche ore di riposo e facendo leva sui muscoli facciali riuscì a contenere lo sbadiglio evitando di ricevere un cazzotto in pieno viso. Gliene era bastato uno a suo tempo.
Il taxi, intanto, si era fermato dove Jotaro, prima dell’immenso silenzio, aveva indicato. L’enorme grattacielo svettava luminoso nella sua copertura di ferro e acciaio rendendo impossibile da individuare la sua fine da quella altezza: il sole, in quella giornata, picchiava forte e le vetrate lunghe e rettangolari ne riflettevano la luce creando particolarissimi giochi di colore simili all’arcobaleno. Davanti all’entrata coperta da un lungo ed ampio tendone parasole di un color bordeaux, si trovava l’usciere composto nella sua divisa e con le braccia poste dietro la schiena; la sua aria bonaria era resa simpatica da un paio di baffi folti e grigi che coprivano le labbra sottili. Lui insieme al facchino, presero le valige degli ospiti di casa Joestar accogliendoli dentro la hall cosi da registrarli e poi portarli al piano.
Josuke dovette sbattere più volte le palpebre poiché totalmente profano al mondo del lusso, alberghi a cinque stelle, cibi pregiati e operatori gentili pronti ad aiutarlo. Un pesce fuor d’acqua in quell’oceano talmente lontano dalla solita vita che conduceva da sembrare un sogno, quasi uno scherzo. Afferrò con le labbra la cannuccia arancione che usciva dalla bottiglietta di plastica, colma della famosissima bevanda frizzante mentre seguiva con passi lenti ed incerti le falcate lunghe e militaresche di Jotaro che continuò a parlare. «Saranno presenti i medici della Fondazione Speedwagon i quali a turnazione controllano giorno e notte Joseph. Abbiamo deciso per questa scelta invece di un ospedale. Avrebbero potuto riscontrare anomalie causate dagli Stand e questo non possiamo permettercelo. I medici della Fondazione sono molto affidabili.» spalle contro la parete marmorea rossa dell’ascensore. Uno di fronte all’altro si guardarono per interminabili minuti. Josuke scandì il tempo succhiando il liquido gasato procurando suoni sordi e continui che fecero arricciare il naso al nipote «Inoltre,» continuò Jotaro alzando la visiera del cappello bianco cosi da permettergli di fulminarlo con lo sguardo all’ennesimo suono tanto che l’altro, consapevole di aver irritato il leone in gabbia, sgranò gli occhi e sputò via la cannuccia. «incontrerai alcuni membri della famiglia Joestar mai conosciuti. Holy, mia madre nonché la tua sorellastra; Suzie Q la prima moglie. Se questo potrà creare in te un senso di insofferenza, non serve che tu me lo dica esplicitamente, andremo via. Troveremo un altro modo, qualora fosse, per farti vedere tuo padre.»
Era proprio su quelle basi su cui si fondava il discorso di Josuke: piccoli gesti premurosi che non erano dettati dal contesto sociale in cui si trovavano, ma venivano  guidati dal cuore. Jotaro aveva premura in questo modo – forse neanche se ne rendeva conto – ma accudiva coloro a cui teneva proteggendoli sotto la sua la ala. Non riuscì a trattenere un sorriso avvicinandosi ancora la cannuccia tra le labbra carnose per prendere un altro sorso.
Mai fu scelta più sbagliata.
All’ennesimo sorso, Jotaro preso dal suo flusso di coscienza, inserì una insignificante informazione in più, cioè la remota presenza di sua moglie Anne e sua figlia Jolyne, credendo fosse realmente tale. Non riuscendo bene a deglutirla, l’anidride carbonica della bevanda risalì fin sopra le narici bruciando durante il percorso procurando continui colpi di tosse che portarono a bagnare l’enorme specchio davanti a loro.
«Cosa.. tu. Aspetta tu, cosa?!» chiese con voce sottile chiudendo entrambi gli occhi per lo sforzo.
«Cosa?»
«Che aspettavi a dirmelo?! Cioè io sono tuo zio! Siamo parenti e vengo a scoprire solo ora / in questo modo / che tu hai una figlia!»
«Ci sono cose più importanti che conoscere la mia vita sentimentale.» lapidario concluse il discorso. In realtà il “discorso famiglia” non lo aveva mai aperto con nessuno se non con sua madre il giorno in cui la rese partecipe delle nozze e poi della nascita di Jolyne.  Anche lì, Jotaro, prese tutti alla sprovvista. Nessuno era mai stato reso partecipe della sua vita una volta trasferitosi a Tokyo per iniziare l’università. Non si era mai chiesto se fosse un argomento di cui dover parlarne con amici o colleghi di lavoro. Era qualcosa che era successa.. come farsi la doccia la mattina. Era importante raccontare della propria routine mattiniera agli amici?
«Signor Kujo, sono cosi lieto di vederla qui. Prego sono tutti in sala.» Roses li accolse alla porta. L’uomo sulla settantina con segni ormai visibili dell’età, era stato per tutta la sua vita il braccio destro di Joseph Joestar, di sua moglie e di tutto ciò che di più caro aveva. Affidabile, serio e coscienzioso si era preso carico della indifesa Suzie durante il viaggio nella città de Il Cairo; era stato l’unico a difendere con le unghie e con i denti il sentimento prezioso dopo la scappatella dell’anziano Joestar. Non gli aveva mai voltato le spalle anche quando il tempo e le necessità remavano contro.
Con un leggero inchino, i due, entrarono in casa. Un vociare leggero li accolse cosi come la luce filtrante tra i vetri enormi che illuminavano la stanza, ma niente di più. Quel luogo un tempo culla di freschezza, gioventù e famiglia ora pareva aver perso totalmente quel fascino trasformandosi in un ospedale asettico e vuoto; due medici stavano vociando con fare concitato dando loro le spalle mentre, più lontano, sedute sullo stesso tavolo dove Joseph e Jotaro si scambiarono le prime informazioni sul nuovo Joestar, due donne dall’aria stanca e provata parlottavano tra di loro. La più anziana delle due era Suzie Joestar raccolta in uno scialle nero ed incurvata verso il tavolo a guardare, con fare distratto, la tazza di tè bollente stretta tra le dita nodose ma ben curate; il volto ben truccato mal nascondeva la preoccupazione e i segni dell’età che avevano fatto il loro percorso. Era difficile quantificarne gli anni ma di certo la notizia del marito in fin di vita aveva marcato maggiormente la sua stanchezza. L’altra, invece, seduta in modo composto e dall’acconciatura aggraziata dietro la nuca doveva essere Holy Kujo cosi Jotaro, poco prima, l’aveva presentata come sua madre. Seduta di spalle ai due ospiti appena entrati, rendeva impossibile studiarne i lineamenti ma il portamento elegante faceva sospettare fosse una bellissima donna. La conversazione, tra le due, era flebile alla stregua dell’udibile ma la silenziosità del luogo aveva reso palese l’argomento principale: Josuke.
Il tradimento palesatosi dopo più di cinquant’anni di matrimonio fu un’incombenza di difficile gestione. Nonostante, negli anni, i due coniugi Joestar avessero provato sulla loro pelle non pochi problemi, l’arrivo di una nuova donna, e di conseguenza un figlio illegittimo, mise alla luce le fratture di quell’amore: certo, i due avevano scartato fin da subito l’ipotesi del divorzio o di un allontanamento ma la questione fiducia era diventata di ardua soluzione. Suzie, che aveva passato l’intera vita di fianco ad un uomo che aveva idolatrato, follemente amato ed incoraggiato, si era ritrovata catapultata in una situazione più grande di lei; d’altra parte, Joseph, consapevole dello sbaglio ma anche dell’amore provato per la giovane donna, non era riuscito a gestire la crisi credendo che scappare fosse la soluzione migliore. Ed ora, con l’arrivo del ragazzo nella loro vita, quello sbaglio veniva reso reale.
«Mamma,» Jotaro cercò di frenare la conversazione chiamando all’attenzione le due donne ancora completamente ignare del loro arrivo. Il guaio, però, era stato commesso.
In diciannove anni di vita era stato chiamato in molti modi tanto da aver creato una sua classifica personale. Al primo posto c’èra Josuke-kun di sua madre nei rari momenti di dolcezza o quando era in procinto di staccare via la luce e tenerlo lontano dai videogames. Al secondo posto il Bro di Okuyasu. Il modo in cui lo pronunciava lo faceva sempre ridere ma, al tempo stesso, nei momenti in cui dimenticava di appellarlo in quel modo, lo allarmava. In ultima posizione si trovava Kishibe Rohan ed il suo Tu: lo usava in mille modi, ma quello che utilizzava maggiormente era intriso di odio.
Mai nessuno, però, l’aveva chiamato sbaglio e mai, fino a quel momento, aveva pensato di esserlo. Sua madre ed il nonno Ryohei avevano lavorato sodo durante l’intera infanzia del piccolo Josuke, avevano spiegato lui cosa fosse la famiglia, i componenti ed i loro ruoli ma nello stesso tempo tutto ciò che poteva separarli ed allontanarli. La mancata presenza di una figura maschile era stata del tutto colmata dalla forza e tenacia della madre, dalle coccole e vizi da parte del nonno. Sebbene quel triangolo familiare parve funzionare, il piccolo Josuke era stato incapace di dosare le emozioni; spesso era solito conficcarsi le unghie sottili nei soffici e diafani palmi gustandosi il frammento di tempo che intercorreva tra la fine dell’adrenalina e l’inizio del fastidio tramutato in dolore. Era facile trovare sul corpicino esile e spigoloso violacei ematomi o profondi graffi, inspiegabilmente riconducibili a giochi di cui sia la madre che in nonno non approvavano la frequenza. Forse per questo motivo, o almeno cosi si era sempre convinto, era nato Crazy Diamond: la figura umanoide dall’elmo corinzio e dai colori accesi gli permetteva di curare, restaurare, mettere a posto le cose che l’animo esagitato del giovane non riusciva a contenere. Tutto ciò su cui riversava il forte turbamento poteva essere incredibilmente riparato.
Piatti, bicchieri, muri, posters, libri.
Tutto, tranne lui.
Per questo, in quel preciso momento, maledisse il suo Stand. Avrebbe voluto inondare quella stanza del suo stesso sangue, urlare, scalciare e far rimanere solo della inutile e leggera polvere.
Poi tutto si sarebbe aggiustato.
Lo sguardo abbassato era lontano dall’agitazione che le dita, ora, gli stavano facendo provare: strette una con l’altra tanto da sbiancare le nocche.
Perché… perché non poteva semplicemente voltare i tacchi, andarsene, lasciare che  lo additassero come un errore e tornare a casa.
Perché non poteva liberare i propri sentimenti e confessare al mondo intero quanto  solo, si fosse sempre sentito sotto i panni di un eterno felice.

La testa iniziò a fargli male.
«Jotaro, tesoro. Non vi— avevamo sentiti.» Holy interruppe quell’imbarazzante momento alzandosi dalla sedia con uno scatto. Le avevano sentite e questo era palese. Colpevole, la donna, si morse il labbro inferiore tinto di un rosa ciclamino soffermandosi a guardare la stretta con cui lo sbaglio, stava cercando di isolarsi. «Pensavamo arrivaste con leggero ritardo..»
«Torneremo in un altro momento» il biologo aggiunse provato dall’imbarazzo che si era creato tanto che allungò un braccio per coprire Josuke, ma egli si distaccò facendo qualche passo indietro.
«No! No, aspettate» la donna, allarmata compì qualche passo incerto facendo risuonare i tacchi sul pavimento lucido «Josuke» disse richiamandone l’attenzione «Mi dispiace tanto. Quelle parole non volevano essere un rimprovero ma uno sfogo. Deve essere molto difficile per te ritrovarti in questa situazione, essere stato catapultato in un mondo completamente diverso dalla tua isola felice. Da adesso in poi..qualsiasi cosa tu desideri, o hai voglia solo di parlare, sono qui.» le mani delicate e fredde bloccarono quell’intreccio stretto e doloroso che erano diventate le mani di Josuke, si intrecciarono ad esse e le coprirono con una dolce carezza. Gli occhi di entrambi si incrociarono e per un solo secondo, Holy, rivide in quelli del ragazzo gli stessi del padre. Gli occhi della donna divennero lucidi. «E poi, sai.. ho smesso di fare la mamma di questo bambinone da un pezzo. Potremmo farci forza a vicenda.»
Josuke non parlò. Fermo ed immobile si beò del contatto umano e delle parole che in quel momento parvero cullarlo.
Alla fine si, per tutti gli sbagli esiste una soluzione.








Joseph Joestar, ottantuno anni, magnate della finanza, si trovava in uno stato di coma indotto da due settimane. Il corpo dell’anziano era steso sul letto matrimoniale della stanza patronale, colmo di tubi e tubicini a cui macchine evidenziavano i segni vitali. La camera da letto era stata adibita a sala ospedaliera dai medici e dagli infermieri della Fondazione coprendo con macchine, utensili e divise, la preziosità di arazzi e sculture che particolareggiavano quell’ambiente. La luce naturale filtrante dalle grosse vetrate era stata resa fioca da panelli divisori che non rendevano subito palese la visione del degente.
Smagrito, dalla pelle grigiastra, aveva perso tutta la muscolatura che un tempo lo aveva reso avvenente e possente. Josuke, alla vista, dovette ricordare come l’avesse visto l’ultima volta per non lasciare che la mente avesse impresso solo quel ricordo. Si accinse al bordo del letto e timidamente toccò i filamenti delle flebo e la pelle rugosa e tremendamente tiepida: non era lui. O almeno non era nulla di ciò che ricordava. Ma cosa ricordava in realtà? L’unica volta che era riuscito a vederlo, un serial killer aveva minato alla sua vita creando scompiglio in una cittadina della periferia. Sporadiche telefonate e nulla più. A dirla tutta, e di questo se ne vergognava ad ammetterlo, Jotaro era stato un padre molto più di lui: si era preoccupato della sua salute e della sua istruzione, era sempre stato aggiornato sui suoi spostamenti ed era stato, persino, solito fargli visita.
Ma no, non poteva dargli colpe. Era vecchio, era stanco e soprattutto era stato consapevole di avere un figlio solo da pochi anni. Come poteva biasimarlo.
I pensieri vennero interrotti dall’arrivo dei due medici che aveva incontrato appena avevano varcato la soglia. Fu difficile mettere a fuoco i loro dettagli. Uno di loro, probabilmente l’infermiere, portava una strana capigliatura argentea che risaltava il suo colorito mulatto, l’altro, presumibilmente in medico, era corrucciato da una strana espressione di dissenso e da quelli che sembravano profondi graffi sul viso ma, la mascherina indosso, non gli permetteva di capirne la reale forma. Non dissero nulla, continuarono le loro faccende lasciando che Josuke rimanesse seduto accanto al letto sulla stessa sedia dove Suzie Q passava le giornate intere.
Josuke non era il tipo che se ne intendeva molto di medicina, anzi, il fatto che il suo Stand potesse riparare le cose lo rendeva ancora più lontano da tutto ciò che comprendeva quel campo; certo però, era che quella sacca vuota e trasparente appena istallata dall’infermiere non avrebbe dovuto riempirsi del sangue scarlatto del paziente, al contrario, sarebbe dovuta servire allo stesso nello stato in cui si trovava.
«L’ha visto.» pronunciò l’infermiere rivolgendosi preoccupato al medico che solo in quel momento lasciò cadere giù la maschera che copriva metà viso.
«Sai, Enrico, ho imparato che più attentamente pianifichi, più si verificano eventi inaspettati»











ANGOLO CHIACCHIERE
Heylà bella gente <3 - oserei dire buonanotte

Mi è mancato tanto non pubblicare la settimana scorsa mancando al consueto appuntamento, ma data la mia ansia era importante finire il capitolo che verrà subito dopo di questo ( che mi ha portato via parecchi e parecchi giorni) ed anche, in qualche modo, migliorare questo.
Questo chap è un po' il mio tesoro. Mi voglio spiegare bene: Josuke è il mio Jojo preferito, indipendentemente da tutto - tratti fisici e caratteriali - c'è una sorta di connessione tale che mi fa  apprezzare moltissimo il suo arco. Scrivere di lui - in un certo senso - mi è venuto molto più facile, quasi riuscissi realmente a comprenere come muoverlo in determinate situazioni. Date anche la delicatezza delle tematiche ( la famiglia, l'abbandono, la depressione infantile etc.) utilizzare lui mi è parso molto più semplice. Con questo non voglio dire che mi sia venuto SPLENDIDAMENTE, ma almeno spero di avervi fatto entrare nella mia visione di Josuke. <3
Entriamo  - finalmente - nel vivo dove qualcuno di nostra conoscenza si è fatto finalmente vivo ( cercate di capire la citazione dell'ultimissima frase <3)

Manca davvero poco per capirne le dinamiche quindi stay tuned!
Ringrazio tutti coloro che si prenderanno qualche minuto per leggere la storia e di commentare, se vi va, e far accrescere la mia esperienza.
Se siete arrivati fin qua vi mando un bacino ed un grande abbraccio
SpeedMary <3


P.s:
Vorrei precisare che pur avendomi messo la pulce nell'orecchio ( e si mi riferisco a tutte quelle bravissime scrittrici che fangirleggiano sulle coppie del fandom di Jojo - non vi citerò ma si, siete proprio voi che leggete care <3 - ) nelle mie storie non c'è nessun sentimento amoroso da parte dei protagonisti ( in questo caso JotxKak; JosxOku) ma solo un profondo senso di amicizia anche se si, Josuke non lo inserirei in nulla se non un grande amante dell'amore e dei sentimenti puri ( ma quanto è un cutiepie <3)
Chissà, un giorno ptorei cascarci anche io ( si, comunque farò in modo di potervi dare materiale su cui fangirleggiare <3)

 

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Capitolo 7
*** Requiem aeternam ***


ANGOLO CHIACCHIERE#1: Sono presenti TANTISSIMI spoiler in questo piccolo bimbo di capitolo. 
Spoiler presenti:  Parte 6 "Stone Ocean"
<3 
 





Chapter seven 

Requiem aeternam




 

«Per la quinta volta vieni qui, ti siedi, mi guardi e non dici una sola parola» la montatura sagomata color ossa di tartaruga rifletteva sulle lenti la luce battente del sole che, dalla finestra aperta, entrava liberamente illuminando calda l’intero mobilio antico. Le dita lunghe, diafane si mossero per pizzicare l’asta vicino l’orecchio destro lasciando che i capelli racchiusi in quella acconciatura si liberassero coprendo metà viso.
La donna, seduta comodamente sulla poltroncina di pelle in stile barocco, sospirò socchiudendo le palpebre. Non disse nulla per una manciata di interminabili minuti. Il canto dei pettirossi sui pioppi americani riecheggiavano nella stanza dalla porta chiusa. Una distesa di libri copriva l’intera parete, si affacciavano nomi come Hegel, Dostoevskij, Tolstoj ridondanti in quei tomi accuratamente decorati da dorati arzigogoli, ma anche romanzi più leggeri come le storie per bambini targate Grimm. La scrivania ottocentesca svettava imponente nell’angolo dove la luce del sole batteva diretta illuminando la superficie estremamente liscia e lucida, fascicoli plastificati e carte disposte disordinatamente che davano un’aria più vissuta.
Per un giorno alla settimana, per cinque settimane, era rimasto a fissare ogni minuzioso dettaglio della stanza: dalla disposizione del libri in ordine alfabetico, le cornici lucide e leggermente corrose dal tempo raffiguranti facce sorridenti e smorfie divertenti, attestati in bella mostra su pareti nude  bianche. Ad ognuno di essi aveva cercato di imporre loro una storia che si legasse al contesto, magari, per esempio, il bambino ridente nella fotografia agganciato con un braccio ad un uomo anziano dall’ aria bonaria, doveva essere stato trascinato lì con la forza permettendo alla madre contenta di sfoggiare una fotografia che non lo ritraesse costantemente triste o annoiato; le lauree e gli attestati accuratamente posti sulle pareti bianche rappresentavano la voglia insita di mostrarsi, far credere di essere riuscita a superare i propri problemi di alcolismo, quelli del marito violento solo perché una cartaccia le aveva dato il diritto di sentirsi superiore. Di riuscire a consolare i problemi degli altri annebbiando i suoi.
O forse, chi lo sa, stava dando una visione troppo pessimistica della vita di quella donna, probabilmente dopo anni di studio aveva voluto dedicare la propria conoscenza per aiutare gli altri.
Banale.
La volta in cui fu lui a sospirare abbassandosi sul capo il cappellino nero dalla visiera corta, la psicologa ruppe il silenzio con un colpo di tosse costringendolo a unire gli sguardi. Ci riuscì per pochi secondi, ma ci riuscì.
«Jotaro, intuisco quanto sia difficile per te essere qui. Ho conosciuto diversi ragazzi come te in questa stanza. Chi aveva solamente bisogno di sfogarsi, chi si sentiva tradito da una generazione troppo pretenziosa o chi, solamente, si sentiva abbandonato. Tutti però sono venuti di loro spontanea volontà. Per questo credo di capire quanto per te sia difficile adesso» accuratamente il ciuffo castano morbidamente caduto su metà viso, venne ricacciato dietro l’orecchio piccolo ed ornato da due minuscoli cerchi dorati sul lobo penzolante. Gli occhi di una sfumatura simile al cioccolato cercarono di perlustrare ed andare a fondo oltre le iridi glaciali, la smorfia corrucciata e le mani strette in pugni posati sulle gambe, ma niente, assolutamente niente, riusciva a pescare in quel mare inesplorato; oltre ad occhiatacce e grugniti, le sedute terminavano sempre con un pugno di yen gettati sul tavolo, facendola sentire una puttana ed un forte rumore seguito dallo sbattere della porta. Niente di più. E, ciclicamente, la settimana seguente se lo ritrovava davanti, seduto con le sue due gambe lunghe ed incrociate, stretto in quella divisa scolastica.
Non mancava mai alle sedute, però.
Nonostante stesse in silenzio come un pesce rosso, immobile come una statua, ogni volta che varcava la soglia dello studio lui era pronto ad aspettarla quasi con uno sguardo di rimprovero qualora tardasse di qualche minuto. Che fosse questo l’inizio della sua terapia? Era assolutamente plausibile trovare sollievo, quasi sicurezza, nel ripetere costantemente un’azione, una routine diventandone una ecolalia rassicurante: vederla entrare, sedersi, raccontare di sé e della sua vita, accennare a persone sconosciute sedute su quello stesso divano blaterando dei loro problemi e poi andare via a cuor leggero.
«Voglio darti un compito che possa essere più nelle tue corde» flettendo le gambe, facendo peso sui piedi e dandosi lo slancio con le mani ancorate ai braccioli, la dottoressa Melfi si alzò facendo qualche passo verso la scrivania ancora illuminata in quel pomeriggio estivo cosi caldo, si chinò in avanti e, facendo attenzione a non far cadere tutto il materiale dal tavolo, recuperò un quaderno ad anelli dalla copertina verde bosco porgendolo, poi, al diciassettenne ancora in silenzio ma con uno sguardo curioso. «E’ un semplice quaderno. Vuoto. Prova a scriverci sopra ogni volta che ne senti il bisogno. Sentimenti, pensieri, sogni ricorrenti o anche solo parole che illustrino il tuo stato d’animo,» continuò riprendendo posizione ed accavallando elegantemente le gambe fasciate da nere calze di nylon «puoi farlo in ogni momento della giornata. Puoi anche non farlo in realtà. Quando torni a casa posalo sulla scrivania e dimenticatene... vedrai che sarai tu a cercarlo. Se poi, te la sentirai, potremmo condividere insieme quello che hai scritto. Non dovrai mai parlarmi se questo può creare in te del malcontento. Lascia solo che ti aiuti, però.»
Quella racchia dai capelli corti aveva avuto ragione. Non aveva mai scritto cosi tanto in vita sua, neanche per una ricerca a scuola: arrivato a casa si era dimenticato persino di togliersi il cappello e la tunica scolastica, si era dileguato dalle pressanti domande della madre e, rinchiuso in camera, aveva iniziato a scrivere senza sosta tanto da sentire i tendini della mani dolere. Aveva scritto tutto. Con minuziosità chirurgica aveva scavato in ogni dettaglio lasciando che la punta della biro scorresse da sola,  tirando fuori  quella merda che si era depositata sulle spalle come un peso incombente, come un senso di pesantezza alla bocca dello stomaco cosi penetrante da fargli mancare l’aria. Solo il pianto lo liberò: lacrime calde, bollenti, silenziose, scesero sulle guance scavate arrivando sino alle labbra, sorpassando il mento e cadendo a piccole gocce sulla scrivania scura. Quella volta non cercò di opprimerlo stringendo il labbro inferiore, dando un pugno sonoro e doloroso al muro che aveva già provato quella rabbia incontenibile, oppure fumando una decina di sigarette.
Scrivo solo questa volta. Solo per questa volta, promesso.
La realtà non fu uguale. Le giornate a venire divennero nebulose, portate avanti per inerzia fino al momento della scrittura su quel preziosissimo quaderno che portava sempre con sé. Solo in quel momento riusciva a cacciare via i pensieri beandosi di secondi di vuoto, di pace, comparabili ad un orgasmo potente, deciso, viscerale prima di ripiombare nell’opprimente sensazione di errore. Quasi con fierezza portava il lavoro finito a quella donna dagli occhi dolci e comprensivi che in silenzio leggeva i suoi pensieri e, garbatamente senza commentarli, scriveva qualche appunto riprendendo, poi,  discorsi del tutto fuori dal gusto amaro del quaderno. Non lo rivolle mai indietro, le bastava leggerlo, annuire per un po’ e darlo di nuovo al legittimo proprietario che, quasi fosse una gemma preziosa, lo stringeva al petto coprendolo dagli occhi scrutatori.
L’intera vita del biologo marino Kujo Jotaro era scritta lì dentro.
Questa convinzione lo portò a cercare disperatamente il nome di quel ragazzo dai capelli rossi, il quale urlando il suo nome si era disintegrato con la stessa velocità con cui era sparito il ricordo lasciandolo, cosi, spaesato ed impaurito nella cabina galleggiante del traghetto verso Tokyo. Le grandi mani si erano spostate con bramosia alla ricerca di informazioni tra le pagine, sfogliandole veloci mentre le iridi chiare si spostavano computando ogni singola parola con la stessa velocità di una macchina.
Il primo giorno alla Kyodai riempieva una decina di pagine tra scarabocchi di insetti, ominidi traballanti su funi e frasi sconnesse riguardanti un professore dalla strana e goffa statura. E cosi era stato per i giorni successivi: un copricapo che lo aveva fatto sorridere; la sensazione euforica dopo il primo esame; la scomoda brandina per il suo abbondante metro e novanta; l’incontro alla caffetteria di una fantomatica Anne. Il quaderno, da lì in poi, si era riempito solo delle sue informazioni, di quel nome che scriveva con scrittura piccola e precisa anche durante sproloqui sulla propria vita; lo trovava nella barra di margine, tra un kanji ed un altro.
La frequenza della scrittura, dopo quell’incontro, divenne sempre più rada ed i pensieri si assottigliavano ad una sola frase. Sto bene, scriveva spesso. Una pagina era completamente riempita da questo.
Adesso sto bene.
Adesso sto bene.
Adesso sto bene.

Poi, il soggetto delle pagine, cambiò.








Guardare intensamente l’orologio stretto al polso sperando che la lancetta andasse avanti più in fretta possibile. Aveva sperato che Star Platinum fosse in grado di comandare le leggi del tempo e dello spazio, non solo di fermarlo come era stato possibile fare contro The World. La possibilità di comandare il passato e renderlo migliore per far funzionare meglio il futuro. Una sorta di gomma per cancellare tutti gli errori fatti.
«Kujo. Kujo Jotaro. Può entrare, la aspettano.»
Una voce leggera, delicata, da sembrare riprodotta dal proprio cervello, echeggiò dietro di lui attirando la sua attenzione: una giovane infermiera stretta in quella divisa bianca e rossa lo guardava con occhi contenti e luminosi racchiusi in quel viso paffuto che la mascherina non riusciva a contenere. Con la destra tenne aperta una delle ante a ventola incitandolo ad entrare nella sala dietro di lei illuminata da enormi vetrate che davano sulla sala neonatale.
Sento di svenire.
Credo di morire.
Voglio sparire.

Dovette stringere la mano su una delle sedie che formavano una lunga panca d’attesa per non ritrovarsi a terra con le gambe molli. I passi in avanti li fece aiutandosi quasi fossero un bastone e, quando il sostegno venne  mancare, utilizzò il braccio dell’infermiera che non ritirò la presa. Rimase al suo posto, senza toccarlo, senza domandargli nulla. Rimase lì, al suo fianco immobile per dagli tempo. Tutto quel tempo che fino a quel momento aveva perso, quel tempo che era trascorso troppo velocemente rendendolo uomo, quel tempo, che ora, avrebbe voluto fermare.
Il corridoio lungo si diramava in molteplici stanze dalla porta a vetri abilmente coperti da tendine a soffietto, anch’esse bianche, migliorandone la privacy; tutte erano nominate con dei numeri e delle lettere accanto le quali, probabilmente, identificavano il tipo di degenza.
Quella dove si fermarono era la centoventotto NICU.
La zona intorno a loro sembrava essere deserta nonostante le luci interne alle stanze ed i suoni dei macchinari facessero intendere il contrario; persino parlare veniva difficile. Il soffitto bianco, illuminato da plafoniere tubolari rifletteva sulle mattonelle di resina lucide che distorcevano le ombre delle due persone davanti alla porta. Nel completo silenzio, con una forza di volontà a lui sconosciuta, afferrò la maniglia di acciaio gelida e la spinse verso il basso riuscendo a vedere cosa ci fosse nella stanza.
Sento di svenire.
Credo di morire.
Voglio sparire.

Le iridi di un particolarissimo verde chiaro si mossero per l’intero perimetro bianco ed asettico constatando come, nella stanza, fossero presenti due postazioni ma solamente una fosse occupata. Le macchine producevano suoni cadenzati ma leggeri concedendo una sorta di silenzio artificiale scandito solo dai respiri ritmati dell’uomo; la luce artefatta dalle sfumature violacee e bluastre si univano a quella naturale soffusa dalle stesse tendine bianche che coprivano i vetri della porta, adesso chiusa dietro le spalle possenti e grandi dell’uomo che pochi mesi prima aveva compiuto ventidue anni.
Si, era un moccioso. Se lo ripeteva in testa spesso anche lui.
A breve avrebbe terminato il primo ciclo dell’università: grazie ai voti molto alti sarebbe riuscito a prendere una borsa di studio, sarebbe entrato nel ramo specialistico che più lo intrigava, avrebbe dedicato anima e corpo a ricerche e documentazioni per un dottorato e finalmente, dopo anni e anni di sacrifici, sarebbe diventato ciò che più amava. O almeno questo era stato il suo progetto di vita fino a nove mesi prima.
Lui, di amore, non ci aveva mai capito un emerito tubo. In realtà, nessuna emozione oltre la rabbia e la violenza era riuscito a materializzare, o meglio, a far venir fuori da quella espressione che costantemente corrucciata manteneva il viso. Per un certo periodo di tempo aveva persino pensato di essere asessuato, o qualsiasi altra cosa lo portasse a non avere nessun contatto fisico con nessun essere vivente, nonostante gli anni dell’adolescenza si facessero sentire: neanche gli ormoni di quell’età parvero smuoverlo. Poi, d’improvviso, una sola parola, un solo sorriso, un solo gesto gentile ed il cuore gli era scoppiato in petto, i muscoli diventarono morbidissima pasta e la testa andò completamente tra le nuvole. Non era passato giorno, da quel fantomatico incontro alla caffetteria dell’università, senza incontrarla per chiacchierare di futili conversazioni o scambiarsi importanti appunti. In realtà, aveva capito dopo notti e notti insonne, gli sarebbe bastato vederla ogni giorno della sua inutile ed incostante vita per sentirsi – paradossalmente – felice senza volere altro. Il giorno stesso della celebrazione dei laureandi, volle renderla partecipe di quei sentimenti buttando via quelle parole in un flusso di pensieri, tanto da seccargli la bocca e la lingua conscio di dover salire, poco dopo, sul quell’enorme palco e ringraziare timidamente chi fosse venuto per incoraggiarlo. E lei non obiettò nell’ascoltare la sua posizione. Lo fermò con un bacio.
Il suo primo bacio.
Il suo primo ed intenso bacio.
Da quel momento in poi il quaderno, il suo unico e solo amico e confidente, era stato messo da parte per coltivare quel sentimento nuovo e fiammeggiante nelle ossa; passavano ore tra le lenzuola fresche di bucato tra risolini e carezze, tra i banchi colmi di libri durante gli esami più difficili, tra i cuscini del primo divano che si erano potuti permettere nella loro nuova casa in Florida.
Cosa era successo in quel lasso di tempo?
Perché il tempo continuava a giocare con la sua vita?
Sento di svenire.
Credo di morire.
Voglio sparire.

«Jo,» un sospiro stanco uscì dalle labbra piene e carnose della giovane seduta sul lettino dalle sponde alte e resistenti. «vieni qui.»
Anne gli rivolse un sorriso reale, forse l’unico che aveva visto in vita sua oltre a quelli pieni di pietà della madre e di tutta la casata Joestar-Kujo, e come era solita fare, con il solo sguardo era riuscita a frenare quel moto di agitazione che aveva visto crescere nel corpo del compagno già boccheggiante sull’uscio della porta. Fece qualche passo in avanti, scoprendo solo in quel momento, che tra le braccia di lei, in quel fagottino di coperte era nascosta una bellissima bambina.
Diavolo, si, era meravigliosa.
«Prendila. Prendila in braccio, Jojo.»
Il profilo paffuto, delicato e roseo della piccola si univa alle guance leggermente più rosse, la pelle poco più ruvida a causa dello sforzo dovuto dal parto. Gli occhi chiusi ed il respiro leggero le davano un’aria angelica: lui, con quelle manacce grosse, sporche con cui aveva stretto vite e senza pietà le aveva spezzate, l’avrebbe contaminata, rotta e questo non se lo poteva permettere. Quella creaturina appena nata non doveva subire la sua presenza.
Anne, però, non la pensava cosi. «Mi fido di te. Prendila» gli disse ancora mentre, allungando le braccia, fece leggermente leva lasciando che il piccolo batuffolino potesse essere protetto dalle braccia forti, potenti e grandi del padre.
E’ bellissima. Mia figlia è bellissima.
Tutto quel sentimento di paura, frustrazione e instabilità scomparve in un istante alla sola vista di quel nasino tondeggiante, delle manine piccole e rugose e di quelle labbra a forma di cuore socchiuse per far trapassare un sospiro leggerissimo.
«È nostra figlia,» ripeté come autoconvinzione «è nostra figlia ed è bellissima.» le calde parole si mischiarono al vibrare leggero del pianto che rimase intrappolato tra le lunghe ciglia nere ma, in quel momento, non se ne sarebbe curato. «Benvenuta al mondo, Jolyne. Benvenuta al mondo, piccola mia
 




Ancora, diciassette anni dopo, in quel lurido abitacolo di taxi newyorkese, gli occhi guardavano le linee guida di quel quaderno lievemente sgualcito ma pieno zeppo di parole. Non aveva tralasciato neanche un momento della propria vita ma, ancora non era riuscito a trovare niente sul ragazzo dai capelli rossi, sulla ferita che gli aveva squarciato l’addome e sul modo bizzarro con cui l’aveva redarguito.
Era certo di sapere chi fosse, di averlo conosciuto e di essere stato legato a lui in qualche modo.. ma perché tutto gli continuava a sfuggire?
Persino durante la discussione con la madre e la nonna Suzie Q, non era riuscito a far nulla, nulla aveva fatto per difendere Josuke e non farlo sentire completamente solo in quel marasma di emozioni, e di sensi di colpa che lo avevano travolto.
Era rimasto lì, in silenzio ed indirettamente aveva guardato la scena. Anche lui, senza volerlo, era stato complice di quella carneficina di sentimenti sparsi per terra lasciando, solo, il giovane a raccoglierli con fatica.
«Vuoi… vuoi venire con me per vedere ojiisan?» fu Josuke a cercare aiuto. Essere schietto, diretto e senza freni lo rendeva oggetto di invidia agli occhi di Kujo poiché lui, questo tipo di abilità non l’aveva mai posseduta neanche quando aveva provato nel farlo. Parlare gli veniva difficile cosi come esprimere un’emozione, condividere esperienze o semplicemente conversare. Non erano abilità di cui poteva vantare.
«Credo sia meglio tu vada da solo. Prenditi il tuo momento» ed un mano grande, calda di posò sulla spalla leggermente incurvata e sporgente. Unico tocco che si lasciava concedere: quell’abbraccio sul traghetto era stato fatto in una situazione in cui il tempo di calcolo, per prevedere qualsivoglia risultato, era stato minimo.
Doveva bastargli. Ed a Josuke, bastò.
Con un sorriso accennato lo vide sparire nel corridoio accompagnato da Holy, la quale, non aveva smesso di raccontare aneddoti passati e di sorriderci su, quasi da poter abbracciare il nuovo arrivato anche moralmente.
Come ci riusciva ogni volta, ancora non sapeva spiegarselo.
Probabilmente li stordiva con la sua intensa parlantina. Non c’era altra spiegazione.
Il vento leggero e fresco accarezzava il viso dalla carnagione tendente all’olivastro ma schiaritasi nel tempo, liscio e glabro ma dai grandi e profondi solchi sotto gli occhi scurendogli ancora di più lo sguardo contratto e torvo. Le labbra strette attorno al bastoncino di tabacco rimanevano carnose e modellate ma, anch’esse, parevano aver perso vitalità come l’intero corpo decisamene più asciutto rispetto alla massa muscolare posseduta da giovane.
L’età iniziava a  farsi sentire, non poteva negarlo. A diciassette anni avrebbe spaccato il mondo distruggendo tutto quello che gli si parava davanti con tutta quella energia che aveva in corpo; non riusciva a rimanere a digiuno di sigarette per più di due ore ma non era mai a corto di fiato; il colore degli occhi vibravano per quanto erano lucenti. Adesso, nonostante avesse toccato solamente i trenta, tutto pareva aver un peso enormemente diverso, pesando su di un corpo che non credeva più suo.
Anche ora, fumando quella terza sigaretta sentiva il respiro manca-
«PAPÁ!» non ebbe molto tempo per pensare, neanche per buttare via la sigaretta per cui si era sempre ripromesso di non fargliela vedere, che si era ritrovato agganciato al busto la piccola Jolyne con un sorriso smagliante dai diversi denti mancanti. I capelli scuri erano disordinatamente raccolti in una coda alta e dei ciuffi più chiari le ricadevano sul viso: quella piccola si muoveva cosi tanto che era difficile ritrovarla nella stessa maniera con cui l’aveva vista uscire di casa.
Con un gesto fulmineo aveva gettato via la sigaretta dal balconcino del piccolo patio e, flettendosi sulle ginocchia era riuscito ad arrivare alla sua altezza: fingere con lei era maledettamente semplice. Architettò uno dei suoi migliori sorrisi venendo travolto da quei baci umidi e stampati per tutta la guancia.
«Ti ho sempre detto che non mi piace quando urli.» cercò di rimproverarla nonostante sulle labbra fosse stampato un sorriso strabordante di gioia che dovette nascondere in un abbraccio. Non era cambiata di una virgola. I suoi capelli folti e leggermente crespi odoravano ancora di gelsomino misto a quello shampoo dal sapor di lavanda che la madre si ostinava a comprare.
«Lo sai che— lo sai che, » balbettò ancora fremente dall’eccitazione saltellando su posto mentre strattonava senza sosta il cappotto bianco del padre «la maestra mi ha premiato dopo che le ho fatto vedere il disegno della farfalla? Quella tutta colorata che abbiamo fatto insieme!»
«Avrebbe dovuto premiarti per quello del delfino»
«È nello zaino! » continuò a zampettare contenta lasciando che l’uomo potesse rimettersi in piedi ed osservarla dall’alto «Aspetta qui che lo prendo!» e cosi come era entrata, come un tornado in piena tempesta, era sparita lasciando la felpa e la bambola, lanciate alla vista del padre, per terra.
Lei, invece, era rimasta in disparte ad aspettare che i due potessero nuovamente riabbracciarsi dopo tutto quel tempo separati. Quietamente si era avvicinata facendo passi stretti e continui sorpassando l’uscio della porta finestra ma, mantenendo le distanza adatte all’uomo che da anni ormai, non riusciva a riconoscere più.
«Hey»
Silenzio.
«So bene cosa pensavi di questa nostra visita. Probabilmente non ho ragionato molto, ma Jolyne fremeva ed ero a corto di scuse questa volta. Poi, tua madre è stata cosi gentile da prenotare, per noi, una camera d’albergo e—»
«Potevi semplicemente dire “mi sei mancato tantissimo Jotaro”» le parole soffiate arrivarono alle orecchie di Anne che, sorpresa, non poté omettere una smorfia di meraviglia trasformandola, qualche secondo dopo, in un sorriso divertito dovendolo nascondere per non risultare troppo rossa in viso. Abbassò il capo facendo schioccare la lingua al palato e, nello stesso momento, spostò lo sguardo altrove mantenendo le mani in tasca.
Che brutto vizio le aveva insegnato.
«Dickhead» pronunciò con il suo marcato accento americano e, senza che l’altro potesse replicare, avanzò passi tali da spezzare la distanza e serrarla con un bacio sottile, schioccato ma che fece rimanere sulle labbra di Jotaro quel sapore che non sentiva più da tempo.
Jolyne, rientrata in scena, aveva mostrato contenta il disegno ancora in bianco e nero rappresentante uno scarabocchio ben formato dalle sembianze di un delfino. Qualunque fosse il gene responsabile, era certo non avesse preso da lui: se non fosse stato per Star Platinum le uniche cose capace di rappresentare su di un foglio bianco comprendevano delle linee e dei pallini. E sinceramente, prima di capire quanto il disegno fosse utile, gli era bastato. Jolyne, invece, non era mai contenta dei propri limiti.
Era pronta a spingersi continuamente oltre, a provare strade nuove e ammettere lo sbaglio qualora lo avesse commesso: nell’albo dei suoi dieci anni, poteva dire fermamente, aveva vissuto con molta più risolutezza e decisione della propria intera vita.
Non contenta del lavoro svolto, si era ritirata nuovamente all’interno dell’appartamento rovesciando l’astuccio rosa zeppo di brillantini, facendo fuoriuscire l’enorme quantità di colori sul tappeto scegliendo quelli che l’avrebbero aiutata a migliorare il disegno.
Jotaro, spiata la situazione all’interno, aveva afferrato la seconda sigaretta che aveva nascosto dietro l’orecchio portandola tra le labbra per accenderla con un movimento veloce delle dita  contro l’accendino.
«Dovresti smettere di fumare.»
«Me lo dici ogni volta che mi vedi accenderne una.»
«Significa che è una cosa che voglio che tu faccia.»
Silenzio.
«Come… come è andato il viaggio?»
Silenzio. Ancora. Jotaro era troppo impegnato ad ignorare le sue domande e fumare la sigaretta per poterle rispondere.
«Vuoi ignorarmi perché sai già dove voglio andare a parare.»
«Mhm.»
«Jo, almeno ascoltami.»
In silenzio voltò gli occhi verso di lei facendole capire che forse non l’avrebbe ignorata ancora, almeno per quel momento.
«Tra un mese e mezzo saranno dodici anni che ci conosciamo. In realtà, sono dodici anni che devo pagarti la parcella della tintoria.. strano non me la chiedesti la prima sera che siamo usciti.»
«Non continuare.» lapidario la fermò.
«Jo, non mi hai fatto neanche inizia—» tentennò incerta spostando il peso del corpo esile su di un piede, andando leggermente in avanti, sperando in qualche modo di azzerare la distanza che costantemente Jotaro si imponeva di mantenere.
«Appunto,» continuò abbassandosi la visiera del cappello sul viso «non voglio sentire altro perché so già dove vuoi andare a parare ed io non voglio ascoltarlo»
Gli occhi verde smeraldo non si alzarono mai sulla figura davanti a lui portandoli a guardare le punte dei grattacieli, i piccolissimi puntini che dall’alto di quel luogo potevano ammirare. Solitamente, o almeno prima che qualcosa in lui gli facesse mollare l’ancora, non riusciva a intrattenere un discorso senza guardare negli occhi l’interlocutore: sapeva bene, infatti, di riuscire a studiarli nel minore dei dettagli e anche, di intimorirli. Con lei, però, questa tecnica, non aveva mai funzionato.
«Inizierai ad intortarmi la pillola amara spiegandomi quanto bene siamo stati insieme, quanto siamo cresciuti e quanto ci siamo formati. Mi parlerai di cose che sai bene ne sia consapevole ma che, nonostante questo, io non abbia fatto in modo di cambiarle. Mi parlerai di troppi cambiamenti nella tua vita che prima potevi accettare ma che ora, non ne sei più disposta a fare. » le parole uscirono velocemente, sradicando ed abbattendo ogni muro creatasi tra di loro ma, la calma che contraddistingueva l’uomo rimaneva lì presente lasciandolo parlare in modo scandito e preciso; era come una magia – o forse prestigio – il modo in cui riusciva a combinare il suo essere calmo e pacato con l’emozione ridondante della rabbia presente negli occhi
«Nel momento in cui le tue labbra la pronunceranno, questa tua idea si concretizzerà ed io sarò costretto ad accettarla. E no, non voglio assolutamente» gracchiò rauco sentendo la gola bruciare « Pensi che non abbia visto i documenti per il divorzio che avevi preparato? Che non senta come ogni sera, nelle poche volte in cui possiamo dormire nello stesso letto, fai in modo che Jolyne si metta tra di noi azzerando qualsiasi contatto? Se te ne avessi parlato tu saresti stata costretta a dirmelo e ne avremmo dovuto parlare.» la piena ammissione di Jotaro e la sua solita schiettezza lasciò interdetta la donna davanti a lui con le mani strette forti in due pugni lasciati cadere vicino ai fianchi. Come il biologo, anche Anne non era solita mostrarsi in eccessivi sbalzi umorali, ma dopo quel discorso le era praticamente impossibile non lasciarsi andare. Trattenne il respiro sperando di fermare la contrazione involontaria del diaframma che la colpiva, spesso, durante i suoi picchi di ansia ed agitazione: avrebbe voluto spiegargli tutto e fargli capire come realmente andavano le cose ma, nuovamente, Jotaro la fermò «Mi prenderò carico dell’amore che tu in questo momento non puoi darmi. Lo farò io per entrambi.»
Amore.
Tutto l’amore che poteva donare era stato calpestato dall’unica persona ad essere stata in grado di guardarlo oltre il proprio aspetto, passare oltre ad un atteggiamento ostico ed oppositivo.
Lo stesso amore che, adesso, era assente negli occhi della salvatrice.
Se perfino Lei avesse perso le speranze a lui restava solo un’ eternità di inesistenza.
Pensò a quello sentendo la stretta feroce sul polso una volta sorpassata per rientrare dentro e capire cosa, realmente, la piccola stesse combinando: quella stessa presa cosi forte che solo a lei era concessa. Un altro si sarebbe ritrovato con in naso sanguinante ed un braccio contuso.
«Lasciami.»
«Se avessi voluto farlo, lo avrei fatto da tempo.» aggiunse solo lasciando la presa ma sfiorò le dita grandi e ruvide, e queste, stranamente, rimasero lì in quel contatto che tanto avevano aspettato.



«No! Non il verde chiaro, quello scuro, voglio il verde scuro!» sbottò come una cornacchia Jolyne puntando le mani sul tavolino basso cercando di allungarsi oltre la figura del padre che, imponentemente, si metteva tra lei ed i suoi preziosissimi pennarelli dalla punta grossa.
«Devo colorare prima questo prato,» disse lui con lo sguardo attento posato sui contorni precisi di quel disegno decisamente astratto che, ritraeva, un immenso prato verde ed una miriade di animali ovviamente lontani anni luce da quel habitat «tu che devi farci?» alzò lo sguardo notando le dita piccole e paffute tamburellare sulla stampa di un delfino dai colori sgargianti ed accesi «spero non sia per quello.»
«Ma dai, papà! Non lo devi vedere!» continuò a dire alzando la voce facendola diventare sempre più stridula mentre cercava di coprire con le braccia sottili e nude, il disegno che doveva essere – ovviamente – una sorpresa.
«I delfini sono grigi, Jolyne— » con le braccia conserte ed un aria saccente che poco gli si addiceva, Jotaro, avrebbe iniziato il suo consueto spiegone sull’importanza del colore grigio dei delfini, sulla loro mimetizzazione e su una miriade di concetti che la piccola Jolyne aveva sentito persino come ninnananna e, se non fosse stato per il brontolio del suo stomaco, li avrebbe sentiti ancora adesso.
Il gorgoglio continuò per alcuni secondi tanto da farle mettere due mani su di esso per coprirlo dalla vergogna ma, lo sguardo divertito del padre alla vista della scena, scacciarono quel rossore timido che era apparso sul viso.
«Ritieniti fortunata che la nonna ti abbia preparato la torta alle noci» le parole si unirono ai movimenti. Si alzò districando le gambe incrociate sotto il tavolino e, con un movimento delle ginocchia, si mise in piedi sui propri abbondanti metri d’altezza. «Colora bene il disegno.» cercò di redarguirla ma, il movimento della mano sul ciuffo scomposto dei capelli della bimba provocarono un effetto del tutto diverso.
Nonostante il completo silenzio dell’appartamento posto al cinquantesimo piano dell’immenso grattacielo, i passi di Jotaro risultarono inudibili sebbene la sua stazza ed i suoi movimenti non risultassero sempre molto delicati. La cucina, cosi come le altre stanze di cui aveva memoria, erano rimaste tali e quali ai suoi ricordi d’infanzia tanto che muoversi in quell’ambiente gli risultò facile: Holy aveva lasciato in bella vista la torta che aveva preparato con amore e che, molto probabilmente avrebbe voluto offrire lei alla piccola.
Se ne sarebbe fatta una ragione.
La grande mano destra afferrò l’impugnatura del coltello affilato intanto che la lama entrasse morbidamente nel ripieno della torta sprigionando un intenso odore di cannella e zucchero. Una noce pecan rotolò sull’alzatina di vetro e, in men che non si dica, finì tra le labbra  dell’uomo che non poté fare a meno di assaggiarla anche lui: quel dolce sapeva di casa, di tutti i ricordi in compagnia di una famiglia che ora vedeva persa e lontana.
Una tazza di caffè avrebbe aiutato a fargli digerire il boccone amaro che la mente stava iniziando a partorire.
«Ne gradiremo una anche io ed il mio collega»
Jotaro, di spalle alla porta, non si accorse subito dell’entrata dei due uomini ora posizionati entrambi uno vicino all’altro. In realtà non ebbe neanche molto tempo per razionalizzare i loro volti, i loro sguardi ed il modo in cui comodamente lo intrappolarono. Ci volle tempo prima che, voltandosi, riuscisse a capire che realmente quei due uomini avessero ben poco in comune con la Fondazione Speedwagon e che, molto probabilmente non avessero dato la men che minima attenzione al corpo morente di Joseph.
«Dio.» furono le uniche parole pronunciate prima che The World, scintillante nell’armatura dorata, venne evocato dietro il primo uomo dal viso completamente coperto di graffi e rughe azionando il suo potere. Tutto si fermò tranne per il portatore decisamente irriconoscibile dentro quel corpo non suo.
«Oi, oi, oi, oi…Jotaro » pronunciò scandendo ogni sillaba facendo rimbombare ogni passo nella stanza completamente immobile, consapevole che, il proprio interlocutore avrebbe ripreso presto conoscenza «le mie sentite condoglianze per il vecchio. Dovresti dare una controllata più approfondita la prossima volta che decidi di lasciarlo per tanto tempo da solo. Sai, non sai proprio di chi fidarti al giorno d’oggi—»
«Yamero» lo stridio gutturale parve rompere le corde vocali di Jotaro ancora immobile nella presa tempo/spaziale di The World ma ormai consapevole di conoscere benissimo chi avesse davanti; per un piccolissimo momento sperò di essere ricaduto nei suoi soliti momenti di trance dove una cantilena ecolalica lo avrebbe riportato alla realtà ma, il suo subconscio cosi profondamente legato ai ricordi, non avrebbe mai potuto formulare una rielaborazione del presente cosi capziosa.
Star Platinum si mosse alle sue spalle volteggiando come sott’acqua ma, sebbene il suo pugno fosse rimasto della stessa velocità di diversi anni prima, la precisione di The World di fermare il tempo parve migliorarsi. Jotaro, consapevole, ne ebbe paura e Dio, guardandone i risultati gongolò «Non pensarci neanche, verme. Ho passato tredici anni a meditare su questo momento e non sarà il tuo impotente guerriero maya a distruggere i miei piani,» l’uomo, nel parlare, pareva sgretolarsi ad ogni parola come se il tempo, per lui, invece di fermarsi, stesse andando più velocemente accelerando il processo di invecchiamento « hai distrutto completamente tutto quello che mi legava al corpo terreno obbligandomi ad una eternità di completo nulla. Tredici anni di sofferenza dove nessun corpo poteva ospitarmi, nessun essere umano che avesse la forza e la bontà d’animo paragonabili a Jonathan… e poi di nuovo tu. Tu e la tua famiglia che mi donate nuovamente una vita» lo Stand dorato appoggiò i piedi sul parquet di legno sostenendo il portatore decisamente affaticato da quella prova mentale ma, nonostante ciò, fosse ancora in grado di gettare veleno e godesse nel farlo «Joseph Joestar mi salva la vita per la seconda volta» ridacchiò mostrando i denti gialli e scheggiati sotto una bocca rugosa e screpolata «lui e suo figlio… come si chiama quel moccioso, Josuke? L’ultimo sei rimasto tu. Proprio per te sono qui, per pareggiare i conti che sono rimasti aperti per troppo tempo.»
Il tempo riprese a scorrere e lo Stand bluastro dai grandi e possenti muscoli definiti si scaraventò senza successo oltre le due figure ancora in piedi lasciando che, il portatore contraesse lo sguardo in una espressione tra il furioso ed il terrorizzato.
«Significa che questa volta dovrò riempirti di cazzotti.» si lasciò andare in quella retorica frase atta solo a prendere tempo per studiarne la situazione: Dio, dopo tredici anni dalla sua morte, era riapparso davanti ai propri occhi. Come nei peggiori dei suoi incubi tutto era ritornato da capo.
«I tuoi non ti hanno insegnato le buone maniere? Ad essere un gentiluomo? Lascia che ti presenti il mio amico… Enrico, presentati pure.»
Da dietro l’ombra dell’esile corpo martoriato dell’uomo che diceva di chiamarsi Dio, sgusciò un ragazzo dall’aria decisamente pulita in contrasto con la malvagità che negli occhi era possibile vedere. Non disse nulla. Evocò il suo Stand con la sibilante parola “Whitesnake
«E’ tempo, per te, di risanare i conti, Jotaro. Non ho intenzione di farti uccidere poiché sarebbe una perdita di tempo, ma solo di farti assaggiare la tua stessa pillola. Goditi un’eternità di completo nulla. » mormorò facendo dei passi in avanti avendo, nuovamente attivato The World ora capace di fermare il tempo per undici secondi «Ah! Quasi dimenticavo. Non preoccuparti per Jolyne, me ne occuperò io.»
Buio.
Poi la luce.
Poi di nuovo buio.



Mi chiamo Kujo Jotaro ho da poco compiuto diciassette anni…no, che sto dicendo.
Mi chiamo Kujo Jotaro ed ho trentadue anni, si.
Ho frequentato la Kayodai ed ho un dottorato in biologia marina. Sono sposato ed ho una figlia di nome Jolyne.
Mi chiamo Kujo Jotaro e credo di essere morto.









ANGOLO CHIACCHIERE#2:  Bentrovat*!
Sono super contenta di essere tornata dopo una settimana di fermo. Questo, come lo scorso capitolo, mi ha dato non poche difficoltà ma - nello stesso momento - credo di essere riuscita, in qualche modo, ad esprimere i primi indizi di questa storia intricata. Voglio dirvi subito che "Un'altra volta ancora" non avrà vita lunghissima: tra qualche capitolo potremmo chiudere questa breve lettura particolare della famiglia Joestar <3 Posso darvi - PERO' - un piccolo spoiler: ci sono delle ideucce per altri bei lavoretti che... potrebbero avere tematiche molto differenti * inserire risata malefica  *
Cosa dirvi a riguardo? Volevo pubblicare questo chap tempo prima ma, si lo so sono cattiva, sono sicura che per qualche tempo non pubblicherò il prossimo ancora in cantiere e.... si questo capitolo è proprio spezza trama! (cosi, per farvi rimanere un po' sulle spine)
So di non essere molto brava con i salti temporali e che molto spesso, per citare i flashback, si usa il corsivo ma per rendere la storia più fluida ho voluto """"""provare""""" in questo modo.
Spero davvero che possiate apprezzare questo capitolo e la storia come la sto apprezzando anche io mentre la scrivo e, rinnovo il ringraziamento, a tutti coloro che lasceranno un commento a riguardo e perderanno del tempo a leggerla <3
Buonanotte e buona lettura da letto <3 <3


SpeedMary

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Capitolo 8
*** Una calda notte d'estate ***


(SPOILER ALLERT) - PART 6





 
Chapter eight

Una calda notte d’estate





Mistero.
/mi·stè·ro/  
Quanto rimane escluso dalle normali possibilità intuitive o conoscitive dell'intelletto umano o ne preclude un orientamento ragionevole, provocando una reazione di incertezza non necessariamente ansiosa né penosa, talvolta non priva di fascino.

 
L’essere umano, per essere definito tale, nel corso della sua evoluzione ha costantemente cercato un appiglio concreto a dinamiche non sempre giustificabili della vita: perdersi in racconti e parole datate con la speranza che da esse si possa trarne il succo della verità infinita. Quella verità, che sotto un certo aspetto, ci fa sentire sicuri e non solo anime in balia di un gioco senza scopo e senza nome.
Lo spettacolo a cui siamo abituati giornalmente ci delizia con sapori che toccano l’inspiegabile, l’oscuro. Il mistero.
Sui libri enciclopedici, sui tomi enormi e impolverati di biblioteche scolastiche e comunali, sulle prime piattaforme internet ad una velocità di 32kb, con una certa minuziosità di ricerca, era possibile trovare testi che parlassero e spiegassero chiaramente i misteri irrisolti dell’umanità: esistenziali, religiosi, basati su credenze e fede ancora del tutto poco chiare; fino ad arrivare quelle di lettura più semplice che lasciavano andare a smorfie sbalordite o a brividi impauriti.
Tra queste storie erano presenti le raccapriccianti vicende di omicidi irrisolti.
L’intero globo ne contava a iosa: il Mostro di Firenze in Italia colpevole di inspiegabili omicidi contro coppiette ignare appartatesi il luoghi sperduti; il famosissimo killer dello Zodiaco – o anche soprannominato Zodiac – per la sua pragmaticità nel compiere efferati femminicidi; lo Squartatore di Lisbona e la sua scelta occasionale ma precisa delle vittime. Ed i nomi continuavano senza sosta acuendo la voglia di conoscere degli appassionati.
Certo, il mistero, in quanto tale, affascina e quasi richiama a sé, ma tutte le storie di cui parlavano perfino i giornali avevano dei nomi riconducibili ai soggetti incriminati, i potenziali sospettati che giacevano in cella o ancora braccati dalla polizia: ciò creava un senso di sicurezza.
Il mistero è godibile solo se è conoscibile.
Ci sono, però, dei casi in cui è davvero difficile porre la parola fine, dove rimangono aperti e irrisolti per l’eternità, affossati dal tempo e da politiche strategiche.
Cosi accadde per il mistero della città del Il Cairo. Il mistero della calda notte ’89.
Il capoluogo egiziano, alla fine del ventesimo secolo, era meta di milioni di turisti da tutto il mondo creando un giro d’affari spropositato.
Spiagge bianche, temperature e suoni da far invidia ai tropici, paesaggi mozzafiato ed abbronzatura da urlo, si scontravano con le reali dinamiche di quei tempi in cui le potenze mondiali avevano messo al chiodo le armi da fuoco ed erano pronte ad utilizzare quelle nucleari. Con un occhio strizzato alla lontana Unione Sovietica nelle politiche estere, non era difficile trovare forze armate in giro nella città per appianare i disordini che spesso provocavano decine di feriti, causati da una modernità troppo lontana dalle radici profonde e tradizionaliste del popolo egiziano. Era facile incontrare anche personalità di spicco nel mondo dello sport, del cinema ma soprattutto della politica: soliti, erano i magnati esteri che sostavano per qualche tempo sulle spiagge egiziane per godersi il clima di un’estate eterna.
Nella notte del 1989 i gradi superarono i quaranta. I telegiornali ne parlarono per settimane. Quella temperatura eccezionale aveva rovinato coltivazioni annuali, messo a rischio specie animali e procurato anche numerose vittime. Il caldo anomalo abbattutosi tra le vie ciottolate della capitale, aveva portato i cittadini ad uscire fuori in strada congestionando il traffico già intasato nelle ore di punta: turisti, famiglie ed adolescenti con le loro capigliature cotonate camminavano spensierati tra le vie del centro, ammirando le vetrine colorate dei moltissimi negozi aperti anche la sera.
Una normalissima serata di un normalissimo mese in un normalissimo anno.


Le vittime conteggiate dalle forze armate sul posto ammontavano a trentasei. I dispersi, invece, un centinaio. Diverse furono le polemiche emerse dopo l’evento tragico puntando il dito sull’organizzazione delle ronde poste alla ricerca degli scomparsi, al numero fittizio delle vittime e dei continui accordi celati tra potenze mondiali: palese fu l’influenza dei Potenti pronti a scatenare comizi diplomatici più distruttivi di armi nucleari. Questa incessante attenzione, da parte di diplomatici americani e  sovietici, era dovuta alla presenza – particolarmente importante – del senatore Wilson Phillips ai fatti. 
Nato da Phillips Morgan e Jackson Candice, due immigrati inglesi sbarcati in America per cercar fortuna, non ebbe vita facile durante l’adolescenza passata a farsi strada tra coloro che lo additavano come diverso.. ed effettivamente lo era: studioso, ligio alle regole e sempre pronto a dare una mano agli altri. Un bambino prodigio, un ragazzo d’oro e un adulto d’ammirare. Le sue doti comunicative e diplomatiche lo portarono a sbarcare facilmente nel mondo della politica lasciandosi dietro le spalle l’immagine di povertà con cui aveva dovuto combattere fin da piccolo. Lodato e apprezzato dal presidente in carica Nixon durante il delicatissimo periodo dello Yom Kippur, fu inviato nella caldissima casa egiziana per mitigare i primi disagi di quel lunghissimo 1989 che avrebbe portato alla distruzione di uno dei simboli di divisione per eccellenza.
L’unico indagato per la tragedia fu proprio il mite e diplomatico Wilson Phillips. Almeno cosi lo descrissero i giornali americani in lutto per la dolente perdita.
Quel caldo giorno dell’estate ’89 la Chevrolet Caprice nera, dai grandi fari luminosi con targa diplomatica, venne catturata dalle immagini di una videocamera di sorveglianza nei pressi della downtown della capitale verso le sei pomeridiane. Sfrecciava ad una velocità sopra i limiti di legge.
Quella stessa auto dopo ventisei minuti esatti fu ripresa per l’ultima volta da un'altra videocamera di sorveglianza di una banca. La velocità della vettura, secondo dei calcoli balistici, era addirittura triplicata. L’ultima immagine della Chevrolet era racchiusa nei reperti della scientifica: il muso era completamente inserito all’interno di una gioielleria rendendo irriconoscibili coloro che sfortunatamente si erano trovati al passaggio. Venne accusato di omicidio plurimo, omicidio colposo con aggravante di abuso di potere essendo, in quel momento, in carica.
Il senatore Wilson Phillips con carica diplomatica presso l’ambasciata statunitense nella città de Il Cairo, annebbiato dall’uso di sostanze stupefacenti come oppiacei e derivati anfetaminici, alla guida di una autovettura Chevrolet Caprice di colore nero targata 001KG con suffisso diplomatico, si era reso colpevole di trentasei omicidi. Tutti imputabili allo stesso alla guida della suddetta automobile.
Cosi era stato chiuso il caso. Trentasei morti, nel centro della città, investiti dalla furia omicida di un uomo sessantenne dalle vesti di Dr.Jekyll e Mr. Hyde: di giorno uomo politico stimato e di notte efferato assassino kamikaze.
Si, Wilson Phillips era stato ritrovato senza vita, nella sua stessa macchina della morte e praticamente irriconoscibile. Solo gli effetti personali ancora presenti sul luogo riuscirono a decifrare chi fosse il crudele pianificatore di quel gesto; il sessantenne venne ritrovato con il volto completamente tumefatto, il torace letteralmente esploso nell’impatto lasciando un’immagine raccapricciante per coloro che si ritrovarono sul luogo del misfatto in cerca di prove.
 

Diversi furono gli interrogativi che iniziarono a saltar fuori dopo la scoperta del misterioso carnefice: perché accanirsi in quel modo sulla folla ignara, perché scegliere proprio quel giorno in quell’ora di punta,perché proprio lui aveva deciso di compiere quel gesto? Che la sua vita invidiabile fosse troppo pretenziosa?
Per gli appassionati di mistero, la vicenda della calda notte’89 rappresentava il Santo Graal del mondo dell’ignoto, dell’oscuro, dell’occulto. Troppi erano i punti nebulosi della faccenda: il primo tra tutti era proprio il protagonista Wilson Phillips ed il suo modus operandi. Il modo in cui era stato ritrovato era tutto fuorché l’immagine di un disperato alla ricerca di vendetta, del classico mostro da mettere in prima pagina: un uomo che decideva di compiere un gesto tanto spietato non poteva essere lo stesso che decideva di porre fine alla propria vita tra il muro di una gioielleria e la carcassa di un automobile.
Di certo qualcuno l’aveva costretto a farlo. Cosi, parlavano gli scettici.
I dispersi: altro punto poco chiaro della vicenda. Tra i nominativi apparsi nella lista pubblicata dalle maggiori testate giornalistiche, comparivano nomi che poco c’entravano con quel luogo: Mohammed Avdol, chiromante professionista e Noriaki Kakyoin studente diciassettenne. Entrambi scomparsi dalle loro abitazioni – una in Arabia Saudita e l’altra in Giappone – da oltre cinquanta giorni e completamente estranei ai fatti della strage. Quei due erano stati magicamente inseriti nella lista quasi come un monito di avvertenza per le famiglie preoccupate del loro improvviso allontanamento; infine, come ultimo elemento, c’erano stati strani avvistamenti subito dopo gli eventi tragici di quella notte: tre persone – non ancora identificate – erano rimaste nel circondario della zona in cui si commisero i fatti rimanendo impunemente fin dopo l’alba.
Di quei tre si erano persi totalmente le tracce.
Mistero o meno, l’accaduto pesò sulle vite di trentasei innocenti vittime, sulle loro famiglie disperate dalla perdita e su di un paese del tutto ignaro delle conseguenze che avrebbe portato. Come segno di fratellanza e solidarietà, diverse associazioni di volontariato sociale inviarono volontari, quote solidali e beni di ogni genere tali da diminuire il senso di oppressione generato dalla vicenda. Tra i volontari arrivati con voli della Caritas, uno colpì il cuore dell’intera popolazione: un giovane prete italiano celebrò una messa commemorativa nel ricordo delle vittime innocenti.
Quell’uomo era Enrico Pucci.



Tredici mesi prima.

«Mio signore, il ragazzo è arrivato.»
La vecchia dalla bassa statura e dalla gobba prominente allungò la mano verso la maniglia dorata per socchiudere la porta della stanza ombrosa e oscura, utilizzata dal padrone della dimora come stanza da letto. Le tende rigonfie e dal tessuto pesante di un color borgogna ricadevano sul pavimento ingrossando la bordatura d’orata e dalle mille pieghe creando un movimento simile a quello del mare in tempesta; queste non permettevano alla luce solare di entrare prepotentemente  dalle grandi finestre con struttura in metallo, ben incastonate nella pietra, che forgiava la muratura dell’intero palazzo, ma solo di filtrarla timidamente creando una penombra godibile solo ad occhio abituato.
L’intera struttura galleggiava in un silenzio ultraterreno rendendo il clima all’interno decisamente più basso da quello percepito all’esterno: la dimora di costruzione antica pareva esser costruita in un tempo e spazio parallelo da quello corrente, una volta sorpassato il vistoso cancello d’entrata tutti i sensi perdevano d’intensità lasciando il corpo galleggiare in quell’immensa distesa di fredda oscurità.
Enrico si sentiva cosi, totalmente perso e disorientato nonostante gli occhi color carbone fossero rimasti ancorati alle spalle possenti del giovane che garbatamente si era presentato come Terence D’Arby. Dallo sguardo impenetrabile e tagliente, il giovane ragazzo lo aveva accolto con un inchino a mezzo busto ed un sorriso di circostanza e, oltre al suo nome soffiato con tono gentile, non aveva pronunciato altre parole, se ne stava teso e dritto mentre camminava facendo ondeggiare elegantemente le braccia vicino al busto.
«Credevo fossi stato inviato in Egitto per una missione umanitaria,» interruppe il silenzio cadenzato solo dai passi, il giovane Enrico, che di anni ne aveva compiuti appena sedici. «non pensavo di ritrovarmi in questo casale. Non vorrei aver letto malamente le indicazioni..»
«Questa è una missione umanitaria.» la voce suadente di D’Arby arrivò prima che il seminarista potesse finire la propria frase. Non disse molto altro per l’intera durata del percorso in quel labirinto di muri e scale di cui era composto l’alloggio descritto minuziosamente nella lettera di convocazione da parte della Caritas di Roma. In realtà vista da fuori era decisamente diversa: le pietre che costituivano il mattonato esterno, erano logore dal tempo e dalle intemperie trasformando il limpido color sabbia del mattone, in uno sporco ruggineo dall’aria decisamente datata cosi, come il giardino rigoglioso all’ingresso ed al centro del maestoso palazzo ma, anch’essi, lasciati crescere tanto da sembrare disordinatamente selvaggi per il luogo in cui erano. Tutto pareva lussuoso e ricercato ma nello stesso tempo datato e lasciato al disuso. In quel luogo, e ne era certo, c’era qualcosa di sinistro e malvagio.
Gli occhi lucenti ma neri come la pece, si persero ad ammirare i dettagli incisi su ogni piccolo mattoncino che formava l’immenso mosaico disteso ai loro piedi dalle fattezze del Dio Nettuno: ogni volta che gli capitava di perdersi in dettagli impercettibili, quelli che l’occhio umano decide di sorpassare dando una visione più generica del panorama, tutto il mondo intorno a sé si fermava.. o meglio, tutto continuava ad avere il suo percorso lineare del tempo ma lui riusciva a muoversi con una lentezza estenuante raccogliendo ogni minimo minuzioso particolare da cui ne traeva ispirazione. Anche quella volta, in quella maestosa ca—
«Non pensavo saresti venuto cosi in fretta, mio caro Enrico.»
Come ci era finito da solo in quella stanza?
Dove era finito il Dio Nettuno dalla nera silhouette?
E Terence D’Arby, il giovane dalle spalle enormi ed il viso gentile?
Le palpitazioni del giovane salirono mostruosamente: se si faceva attenzione, con l’orecchio attento, era possibile udire ogni singolo battito fare eco durante la pulsazione e lo scorrere del sangue nelle vene; sentì il sudore scendere piano tra i ciuffi corti e chiarissimi anche se la schiena, parte del corpo dove solitamente si accumulava più liquido corporeo, era asciutta anzi infreddolita dai brividi che tutta la pelle aveva iniziato a provare.
Una risata echeggiò nell’aria. La stanza parve allargarsi cosi tanto da non permettere ad Enrico di capire chi o cosa avesse davanti. Un letto, una sagoma, o semplicemente uno spazio aperto.
«Ricordavo fossi di poche parole, ma non che ti facessi prendere cosi facilmente dall’emotività.»
«Non… non riesco a vederti. Non riesco a vedere niente in realtà. »
«Non è questa la fede, Enrico?»
«Dio.» riuscì a pronunciare solamente con le labbra completamente serrate. In realtà non capì neanche se l’avesse pronunciato davvero o se fosse solo nella sua mente ma era certo che davanti a lui, anche se non riuscisse a vederlo, ci fosse lo stesso uomo che anni prima l’aveva miracolosamente guarito dalla malformazione fisica che lo aveva reso inabile fin dalla nascita; lo stesso uomo dalle idee bizzarre e dal pensiero contorto ma nonostante questo fosse affascinante ai suoi occhi ancora adolescenti.
Gli bastarono pochi passi per poterne capire la posizione e bearsi dei lineamenti che già in passato lo avevano colpito: morbidamente seduto su di una poltrona il corpo di Dio assumeva una posizione d’attesta con entrambe le gambe incrociate e il gomito sorretto dal ginocchio in quella posizione. Non poteva vederne il viso o l’espressione, ma Pucci era sicuro lo stesse guardando con desiderio e curiosità.
Cosa lo spingesse a rimanere lì immobile come una statua alla mercé degli occhi indagatori dell’interlocutore invece di scappare a gambe levate senza voltarsi indietro e magari, contare quei maledettissimi mattoncini del mosaico, non lo sapeva neanche lui; una forza grande e forte lo tratteneva in quei pochi centimetri che i suoi piedi occupavano sopra l’immenso pavimento di quello se sembrava legno. Immobile senza produrre un suono, neanche quello del suo stesso respiro, aveva lasciato che le sinapsi si attivassero e la mente formulasse un ipotetico piano di fuga che comprendesse, anche, la possibilità di far del male a qualcuno.
Ma non fece assolutamente nulla. Rimase in silenzio. Fermo a guardare il buio.
«Ti starai chiedendo perché sei qui. Comprendo la tua paura,» Dio si alzò in piedi scoprendo la pelle bianchissima della spalla nuda, unica parte visibile del suo corpo sotto la luce fioca attraverso le tende borgogna. Fece qualche passo in avanti ed il tessuto dei morbidi pantaloni sfregò tra di essi producendo un suono ovattato permettendo ad Enrico di  puntare gli occhi ancora immersi nel buio della stanza « e ne sono quasi invidioso. Voi, umani, e la vostra paura dell’ignoto. Vi fa essere cosi piccoli ma anche cosi grandi. Quella mattina nella chiesa di Santa Maria dei Miracoli sentii perfettamente quanta paura tu avessi e, sebbene lo si poteva leggertelo negli occhi, rimanesti lì con me ad ascoltarmi. Ti lasciasti toccare e ti fidasti. Enrico—»
Enrico.
«—non mi sbaglio mai. Tu sei la persona di cui mi posso fidare.»
«Fidarti di me? Per cosa?»
«Non avere fretta. Tutto a suo tempo.»
E non ebbe fretta. Non gli si diede il diritto di averla.
Non ebbe tempo di pensare. Non ebbe tempo di parlare. Non ebbe tempo di guardare, capire cosa fosse successo ed urlare. Rimase fermo, al centro della stanza, anche in quel momento come lo era rimasto per tutta  la durata di quella strana conversazione con l’uomo di cui non aveva più visto il volto… forse, per qualche secondo, era riuscito a tracciare il suo profilo perfetto ma poi si era ritrovato accasciato a terra nello stesso buio con cui la stanza l’aveva accolto.
Enya, l’anziana donna dal ripugnante difetto fisico che l’aveva portata ad avere due mani sinistre, era rimasta per tutto il tempo in un angolo remoto della stanza ad ascoltare la conversazione e, nel momento giusto, con movimenti leggiadri e delicati aveva tirato con forza la corda tesa dell’arco scoccando rapidamente la freccia ornata dentro il petto del giovane. Di quel gesto rimase solo il rumore fulmineo del vuoto strappato dalla velocità della punta. Niente più.
Enrico non capì molto, non capì neanche se quello che stesse provando fosse dolore.
Perché a lui.
Perché in quel posto.
Perché in quel modo.
Essendo un uomo di fede, nella sua breve vita, aveva sempre pensato di sapere quando sarebbe giunto il momento: il Creatore avrebbe dato modo di redimersi dai peccati prima di accoglierlo nell’alto dei cieli e garantirgli la pace eterna. Lui ne era sicuro non fosse arrivato il momento perché doveva redimersi, doveva scusarsi con il fratello e chiedere perdono allo stesso Signore per essersi tratto in inganno.
E allora perché, quando la punta dorata della freccia strappò via gli abiti, i tessuti epidermici, gli organi e le costole trafiggendolo da parte a parte, sentì che la fine fosse vicina. Il metallo dorato completamente macchiato di un denso color scarlatto, portava con sé brandelli della tunica nera che per quell’incontro aveva deciso di indossare. L’impatto fu cosi travolgente da impedirgli di provare dolore se non, quello di essere travolto da una continua scarica elettrica provocata dall’adrenalina.
Le ginocchia ceddettero sbattendo con tutto il peso del corpo che, dopo qualche secondo si prostrò in avanti lasciandolo boccheggiante di aria e saliva.
Non è il mio momento. Si ripeteva in testa.
Non è il mio momento.
Non è il mio momento.



 



Dio Brando fu una delle vittime di quella calda notte del 1989. Quella stessa notte di cui giornali, radio e televisioni non avevano smesso di parlare scavando a fondo di un mistero che tale doveva rimanere. Nonostante la tragedia fosse stata attribuita ad un unico carnefice guidato dalla sua folle mente, nessun familiare delle vittime, cittadino o solo ascoltatore dell'altra parte del mondo, sembrò convinto della storia: anche se Wilson Phillips venne etichettato come il Mostro de Il Cairo; se le organizzazioni no profit ripagarono profumatamente i familiari delle vittime distrutti dall’accaduto; se i potenti appianarono i discordi politici, non ci fu mai prova certa di quello che poi venne raccontato.
Di Dio Brando, a differenza degli altri uomini e donne riversi sull’asfalto agonizzanti per l’impatto con l’auto, non era rimasto assolutamente niente. Niente che potesse rimanere in suo ricordo o che permettesse a coloro che lo conoscevano, di commemorarlo. Neanche cenere.
Di chi fosse la colpa della sua morte, cosi come delle altre persone, rimase un mistero. O meglio, ufficialmente cosi fu.
Il reale colpevole rimase impresso nei suoi occhi fino alla fine, fino a che il respiro gelido uscisse dalle labbra sottili producendo un denso fumo bianco inghiottito dalla tempra di quella notte. La figura alta, scura e con occhio torvo l’aveva guardato dritto negli occhi prima di sferrare un colpo talmente potente da frantumare tutte le ossa del corpo, lasciandolo in balia dello stesso silenzio che più di cento anni prima lo aveva inghiottito nel bel mezzo di una tempesta.
Non avere paura, Dio.
Solo i vigliacchi hanno paura. Tu sei un vigliacco?

Ne aveva avuta? Aveva provato quel tremolio fastidioso e continuo, quello che afferra lo stomaco e lo stringe – lo stringe – fino a che boccheggiante lo senti salire fino alla nuca provocando quella fastidiosissima sensazione di gelo tra le fibre dei muscoli.
Tutti i giorni.
Tutti i giorni da quando era nato.

Ne scoprì la natura una lontana sera di fine Ottocento, quando elettricità e acqua potabile erano un sogno per la gente dell’epoca. Dai vetri sottili ed appannati, con i suoi occhi color d’ambra, poteva scorgere leggeri fiocchi di neve cadere morbidi sulla coltra perlata, nascondere le punte aguzze e brune degli alti pini, il ciottolato grezzo delle strade. Persino William, il barbone del quartiere, aveva il naso tozzo e rosso nascosto dalla coperta ghiacciata e delicata: nonostante Londra rappresentasse le brutture delle nuove città industriali, i cristalli abbondanti donavano quel tocco di spensieratezza che un bambino come lui cercava.
Tutti erano incantati, come in una favola trasformati da ranocchi in principe e principesse.
Tutti tranne lui. Scomposto in quei passi scoordinati, avanzava con tonfi poco aggraziati sul viale appena innevato.
Dio conobbe la paura negli occhi della madre. La vide impaurita guardare la porta di casa spalancarsi e la mano destra del padre brandire una bottiglia.
Per la prima volta nella sua vita capì cosa volesse dire paura. Cosa significasse tapparsi le orecchie e nascondersi in un luogo remoto della baracca in cui viveva. Rimanere nel buio e piangere, piangere fino a che fosse stato scoperto dalle stesse mani che avevano stretto il collo senza indugio della donna stesa per terra.
Quella stessa sensazione la rivide spesso negli occhi altrui: lucidi, gonfi e dilatati in cerca di un appiglio sicuro mentre la paura li divorava vivi, mentre, svanendo, pregavano sottovoce.
E di quella stessa paura, Dio, se ne cibò. Agognava vederla crescere ed imbottire fino a far esplodere il corpo del suoi nemici; come anatre imbottite, li guardava agonizzanti in preda a lancinanti guaiti per poi cibarsene assaporando quell’unico sapore che la lingua di pietra poteva donargli.
Solo lui riuscì a sfuggirgli. Fu l’unico a stillare in Dio la paura di non farcela, di aver perso la battaglia e la guerra. Tra le braccia stanche ed indolenzite lo aveva cullato mentre chiudeva gli occhi e si lasciava andare ad un profondo e pacifico sonno eterno mentre Dio, esterrefatto invidiava la sua purezza d’animo.
La nave cadde a picco. Le fiamme colorate di un rosso e giallo splendente erano corse per tutte i corridoi interni, divorando passeggeri ignari ancora intenti a gustare la loro cena ed ascoltare musica dal vivo. Jonathan non si perse d’animo, ed a costo della vita, usò tutte le sue forze per non far ereditare, alla piccola creatura in grembo alla giovane Erina, la sfortuna della casata. Lottò senza sosta, anche quando fu certo di perdere e di dover dire addio al suo unico amore.
Negli occhi di Jonathan, Dio, non vide mai la paura.



Enrico, però, la vide.
Guardando con occhi spenti e pieni di una finta misericordia, riuscì a distinguerla nello sguardo della puttana che era corsa disperatamente da lui cercando soccorso: mentre affondava la lama nella morbida pelle del petto ornata da due grandi seni calanti e divisi dal largo sterno, apparve nella smorfia delle labbra e nella giuntura delle sopracciglia rimanendo pietrificato anche dopo l’ultimo respiro. Come un quadro, giaceva immobile nel lurido vicolo egiziano mentre i gatti, non più spaventati, si erano mossi per sperare in un probabile pasto.
Whitesnake, mosso solo dal volere del portatore, era apparso in una nube densa spingendo senza bontà alcuna, un disco nella fronte della malcapitata ancora agonizzante in una pozza di sangue e saliva.
Ci erano voluti tanti sacrifici. Tante anime devote al Signore alla ricerca del paradiso. Tante donne. Tanti uomini. Tanti bambini.
Tutti erano stati uccisi per una sola ed unica ragione. Ed il Creatore gli avrebbe accolti con misericordia.
Il numero imprecisato di vite umane erano servite a manovrare al meglio lo stand dalle fattezze umanoidi; capire che tipo di potere avesse e come sfruttarlo; comprendere i movimenti e guidarli nella giusta direzione; intuire le capacità ed abilità al fine dell’unico e solo scopo. Quello per cui era ancora vivo.
La prima vittima era stata proprio Georgette, o almeno cosi credeva di aver sentito, mentre apriva la bocca emettendo grugniti di paura. Era rimasta agonizzante nel vicolo buio illuminato fiocamente dal lampione dietro l’ombra enorme di Enrico… o almeno cosi pensava: nel momento in cui la possente mano di Whitesnake aveva spinto il disco nell’apertura sulla fronte, una luce accecante lo aveva fatto indietreggiare facendogli, istintivamente, coprire gli occhi color carbone che avevano iniziato a lacrimare. Il corpo della vittima, scosso da tremiti, era diventato molle, snodato e senza giunture pareva muoversi autonomamente prima di dilaniarsi come la carta regalo di un pacco di Natale.
Enrico, in quel frangente, ebbe la prontezza di prendere immediatamente il disco prima di essere risucchiato dentro il caliginoso vortice che aveva inghiottito, poi, il corpo.
Di Georgette nessuno ebbe più traccia. Anzi, mai nessuno chiese di lei. Un’altra vittima senza fine. Cosi come le tante altre dopo di lei.
Marco.
Marianne.
Jean.
Tolomeo.
Hassan.
Farah.
Le appuntava tutte nelle sue preghiere, in quell’eterno riposo dove oramai erano costretti a passare l’eternità.
Aveva fatto lo stesso anche con il nome della piccola Jolyne.


«Chi l’avrebbe mai creduto che un altro Joestar potesse darmi la vita» sibilò con voce roca aggiustandosi il capello bianco sopra la fronte. Avrebbe voluto sghignazzare di felicità, chiudere gli occhi e sentire il sangue pulsare nelle vene forte e preciso. Avrebbe voluto urlare e capacitarsi, finalmente, di aver vinto, ma gli occhi spaventati di Enrico lo destarono dai pensieri.
Poi, si spostarono su quelli grandi e cangianti che miravano verso di sé.
«…papà?» chiese quasi con timore afferrando con la piccola mano paffuta lo stipite della porta. Jolyne guardava i due uomini riconoscendo solo in uno la figura paterna. Restò per alcuni secondi in silenzio indietreggiando di qualche passo.
«Ho finito il disegno, vuoi vederlo?»
Sghignazza.
Hai vinto, finalmente.
Sghignazza.

«Avremo tutto il tempo del mondo, adesso.»








ANGOLO CHIACCHIERE:
Heylà! Finalmente siamo di ritorno dopo una lunga, lunghiiiiiiiissima assenza.
Devo dire che il caldo, il lavoro e l'incredibile amore sbocciato per Attack of Titan e Full Metal Alchemist, mi hanno letteralmente risucchiato non lasciando spazio a tutto questo. Ma no, con Jojo non si scherza. Affatto!
Perdonate il capitolo: avrei voluto spiattellare molte cose, farle capire e mettere in chiaro punti che per tutti i capitoli sono rimasti scoperti ( tipo perché Dio è tornato? Come ha fatto? Che fine hanno fatto Jotaro e Josuke?)... ma il mistero mi piace tanto. Mi piace se il lettore riesce a farsi un' idea propria su determinati meccanismi. Quindi si, alcune cose ho voluto ometterle ( per chi avesse dei """""buchi di trama""""", sono sempre disponibile)
Vi ringrazio, come sempre, di essere ancora qui a leggere.
Ci vediamo - il prima possibile - 
Un abbraccio virtuale

P.s: L'ultima battaglia tra Dio e Jotaro nella città de Il Cairo avviene in pieno inverno ( in un lasso di tempo che dovrebbe essere tra febbraio ed aprile - se non erro -). Per motivazioni stilistiche ho voluto traslare il tutto in estate. La trama rimane invariata.

SpeedMary

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