Analisi e Psiche

di Obiter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** VI ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***



Capitolo 1
*** I ***


Il professor Wright è un uomo di scarsa cultura, poco brillante, noioso e ripetitivo. È titolare del corso di matematica e dal banco terza fila io posso capire che:

  1. Ha bevuto in fretta un caffè decaffeinato e si è macchiato il colletto. 
  2. Sta cercando in ogni modo di smettere di fumare. 
  3. È ingrassato perché sta cercando di smettere di fumare. E questo spiegherebbe perché ha ingurgitato il caffè al punto da versarselo addosso: scommetto che era senza zucchero. 
  4. Stamattina si è svegliato in ritardo, non si è rasato e ha incollato frettolosamente l’asta destra dei suoi occhiali da vista con il nastro adesivo. L’astinenza dal fumo lo rende insonne, per questo si è svegliato in ritardo e per questo ha preso un caffè decaffeinato. Rimbambito, ha fatto cadere gli occhiali da vista e li ha pestati con i suoi stessi piedi.

 

Fine, questa è stata la mattinata del Professor Wright. 

La mia mattinata, invece, è stata scandita da una scoperta interessantissima. Oggi, esattamente alle quattro e venticinque del mattino, ho trovato un modo per rallentare il processo di decomposizione di un batrace utilizzando un conservante alimentare solubile e pressoché invisibile nel sangue. Può sembrare una scoperta inutile, ma potrebbe non esserlo se usata per motivazioni quali ritardare la fase dell’algor mortis in un cadavere, per esempio. Questo potrebbe ben ingannare i calcoli per misurare l’intervallo post mortem, con la conseguenza le indagini verrebbero magistralmente sviate, Scotland Yard brancolerebbe nella nebbia, se la prenderebbe coi medici legali, i medici legali se la prenderebbero con Scotland Yard e il furbo criminale la farebbe franca. 

Ma fortunatamente per tutti io non sono quel criminale. In effetti sto iniziando a nutrire una certa insofferenza nei confronti il genere umano, ma ho comunque deciso di non schierarmi dalla parte del male. E poi suppongo che alla mia età sia abbastanza normale “odiare” la gente.

È un’età veramente sgraziata la mia. Non so quale sia la cosa peggiore, se vivere ancora con i genitori o essere costretto a trascorrere buona parte della giornata dentro una stanza da pochi metri quadrati in mezzo a gente immatura, maleodorante e sessualmente irrequieta.

Fatto sta che ora sono qui, è la sesta ora del mercoledì e io sono in procinto di impazzire per noia. Dovrei imparare a dormire con gli occhi aperti come fanno le balene, la mia vita sarebbe sicuramente più semplice e interessante.

Ma dato che dormire sul banco è fuori discussione, ho deciso di impiegare in modo più proficuo queste ore di tedio e torpore intellettuale: scrivo le mie "memorie".

Non un diario segreti, non ho segreti… Ecco, forse ne ho uno.

Mi chiamo Sherlock, ho diciassette anni, vado a scuola, ho una media alta ma sette in condotta, nascondo un segreto inconfessabile e nel tempo libero suono il violino.

In una presentazione come questa, ciò che desta subito la curiosità dell’uomo medio è, sarei pronto a scommetterci, il segreto inconfessabile. Chiunque si focalizzerebbe su questo dettaglio al punto da tralasciare o addirittura dimenticare tutto il resto. Qui sta la mia diversità: io mi concentrerei subito sul sette in condotta, non me ne importerebbe assolutamente niente del segreto inconfessabile. E dopotutto che segreto inconfessabile potrebbe mai avere un adolescente di diciassette anni, a parte che è innamorato di Tizia, che fa sesso con Caio, che al venerdì marina la scuola, che è fan delle Spice Girls e così via? Le cose rilevanti (uso di droghe, prostituzione, furti e altri reati) sarebbero già insite e facilmente deducibili dal sette in condotta. E poi il fatto stesso di ammettere un segreto significa rivelarlo, o comunque chiedere agli altri di farlo.

Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che io sto lavorando su me stesso per prepararmi a un’arte che in futuro vorrei trasformare in un lavoro vero e proprio. Ho iniziato a studiare e a pensare come se fossi incaricato di risolvere tutti i piccoli, insulsi misteri da cui sono circondato:

Perché Sarah Sawyer stamattina è entrata in classe con gli occhi lucidi? Come mai Bill Murray sente male quando volta il collo a sinistra? Chi è la nuova tresca della Professoressa Wilson?

Ecco, io posso rispondere a tutti questi quesiti senza nemmeno interpellare gli interessati: osservo, traggo le informazioni e deduco una risposta. Per farlo mi soffermo sullo  studio della causa, sul momento genetico del fatto, non sulle conseguenze. Le conseguenze vengono logicamente dopo, ma le persone tendono comunque a fermarsi sugli eventi, sull’hic et nunc, sulla prognosi e non sulla diagnosi.

Mi piacerebbe moltissimo dedicarmi all’arte della diagnosi, ma non la diagnosi medica. Non voglio passare tutta la mia vita a tracciare sempre gli stessi tre o quattro percorsi con un bisturi. No, io parlo della diagnosi criminale, che è molto più variopinta, imprevedibile ed elettrizzante di qualsiasi altra.

I detective sono dei diagnosti, se ci si pensa bene. L’arte dell’investigazione non è altro che trarre da dei fatti noti un fatto ignoto, ma senza presumere. 

A tal fine sto anche privilegiando lo studio di certe materie e sto dedicando buona parte del mio tempo libero ad aumentare le conoscenze che ritengo utili. Ad esempio, i veleni e le tossine rappresentano un po' l’ABC del mio lavoro, devo conoscerli come se fossero delle filastrocche. E sono davvero un’infinità, vegetali, animali, chimici, organici, inorganici, alimentari, allucinogeni… Ognuno dei quali ha diverse conseguenze a seconda delle dose di somministrazione, il che crea una combinazione di variabili che è semplicemente incalcolabile. 

Direttamente connessa ai veleni e alle tossine c’è colei che per me è la regina delle discipline scientifiche, ovvero la chimica.

La chimica è alla base della scienza e costituisce un elemento imprescindibile per qualunque tipo di diagnosi. Dà la concreta possibilità di risalire a un fatto ignoto attraverso lo studio di uno noto, è essa stessa azione e reazione, ed è forse la disciplina più contigua al ragionamento deduttivo che io conosca. Nessun detective, nemmeno il più deficiente, può esimersi da un approfondito e accanito studio della chimica. E per questo ho dieci in chimica, ma ho dieci anche in letteratura inglese e in filosofia, ma solo perché assorbo passivamente tutto quello che i professori dicono in classe e lo riporto pedissequamente sulla carta. In realtà non apro un libro. Purtroppo, lo spazio nel mio cervello ha dei limiti: devo necessariamente fare una cernita dei dati, eliminare il superfluo e conservare il necessario. La cultura umanistica eleva lo spirito, ma non rientra tra le competenze necessarie allo svolgimento del mio lavoro.

Discutere se “l’idea” sia trascendente o immanente alla logica, per quanto possa essere allettante, non mi è di alcun aiuto pratico. Così come non mi è d’aiuto sapere l’anno in cui è stato pubblicato l’House of Fame di Chaucer (intorno al 1378, se non erro) o tutto il Macbeth a memoria.

Per molti versi posso sembrare un opportunista: imparo ciò di cui ho bisogno per uno scopo e una situazione ben precisi, ma questa mia dedizione non disinteressata allo studio incontra un limite in certe materie, che studio per pura passione personale.

La musica, prima fra tutte, è forse la forma d’arte che preferisco. Per me è come una cara amica, anzi di più, una compagna di vita che mi consola, mi calma e che tocca le più profonde corde del mio cuore. Suono il pianoforte e due anni fa ho iniziato a suonare - beh, suonare è una parola grossa- il violino. Complicatissimo il violino, non a caso lo amo ancora di più del pianoforte. È adatto a me, oserei dire che mi assomigli.

Le arti marziali anche mi piacciono molto. I discorsi astrusi di alcuni filosofi greci mi piacciono molto. Talete diceva che il mondo deriva dall’acqua e che dopo la morte tutti noi torniamo a essere acqua. In realtà non aveva mica tutti i torti. Certo, anche il più ignorante semi-analfabeta di questa scuola sa che la decomposizione umana culmina nello sbriciolamento progressivo delle ossa, ma quelle briciole, quel pulviscolo, in un modo o nell’altro faranno ritorno nell’acqua e si discioglieranno in essa, per cui…

A tale proposito, ho la media del dieci anche in biologia, ma la professoressa deputata a tale insegnamento mi detesta, perché fin troppo spesso dimostro di avere conoscenze ben più approfondite e precise delle sue. L’anatomia mi affascina, ed è un’altra disciplina di notevole importanza per l’arte della investigazione. Non fondamentale come la chimica, ma almeno un’infarinatura sugli elementi della fisiologia e dell’anatomia patologica è necessario averla, ma giusto per avere contezza di ciò che è accaduto alla vittima, almeno a grandi linee. Poi sarebbe opportuno avere degli amici che lavorino in ospedale e in obitorio, ma l’aspetto sociale non è mai stato il mio forte.

Ho dieci anche in storia e dopotutto la storia è magistra vitae, come diceva il noto oratore romano. I precedenti analoghi sono la pietra d’angolo dell’investigazione. Un omicidio perpetrato nel 1768, ad esempio, potrebbe verificarsi in modo pressoché identico duecento anni dopo. Il modus operandi del reo, il movente e perfino l’arma del delitto potrebbero avere fondamentali similitudini. 

E dopotutto l’ordinamento stesso dell’Inghilterra è giuridicamente fondato sulle similitudini, sui precedenti analoghi. Vige infatti il cosiddetto regime di Common Law: i nostri giudici non sentenziano in modo isolato, ma devono conformarsi a quanto è già stato stabilito in precedenza da altri giudici. Il presupposto è naturalmente che vi sia una perfetta corrispondenza tra i casi, presupposto che, a ben vedere, è lo stesso che vige a monte per le indagini investigative. 

Tutto torna, no?

No, in realtà no.

La giustizia non funziona, è una mezza farsa. Lasciando da parte le lungaggini processuali, se si pensa al numero imbarazzante e smisurato di delinquenti che la fa franca ogni santo giorno, verrebbe da mandare al diavolo tutto, compresi i detective, soprattutto i detective.

Ma il fatto è che io non ho scelto questo mestiere perché sono animato da alti ideali o perché voglio diventare un paladino della giustizia. 

Io voglio fare il detective perché mi diverto, molto banalmente. Per me investigare è come andare sulle giostre. Quindi posso dire fin d’ora che non renderò il mondo un posto migliore, che non verranno innalzati busti in mio onore da nessuna parte e che non diventerò il capo investigatore dell’Interpol, di Buckingham Palace o della Casa Bianca. Non mi interessano i soldi o il prestigio, voglio solo coltivare una passione che mi tenga riparato dalla solitudine, dalla noia, dalla depressione e in generale dal mal di vivere.

E in effetti non mi ritengo una persona molto felice, attualmente. 

Sono fisicamente in salute e a scuola vado bene, ma a parte queste due cose non c’è molto altro di positivo nella mia vita. E il fatto di avere dieci in alcune materie non è nemmeno fonte di chissà quale soddisfazione. Non sono un vanaglorioso, i professori potrebbero anche darmi una sufficienza stiracchiata che non me ne importerebbe assolutamente niente. A differenza di molti, non ho bisogno delle loro valutazioni come conferma delle mie conoscenze, so di averle, punto. Come so di avere la sindrome di Asperger e una vita sociale totalmente e inesorabilmente assente. E qui ci addentriamo in un capitolo molto triste della mia vita.

A volte mi sento solo, molto solo. Mi piacerebbe avere degli amici, o anche solo uno, un amico al singolare, ma non è possibile e la colpa è solo mia. Sono del tutto privo di competenze sociali e non ci so per niente fare con le persone. Mi sento molto inadeguato, inopportuno e a tratti perfino indisponente e questo contribuisce a rendermi ancor più introverso e taciturno. Solo tenendo la bocca chiusa ho la certezza matematica di non sbagliare e di non rendermi ridicolo/patetico/offensivo. Per cui parlo poco ma penso, elaboro informazioni costantemente. E infatti ho imparato a colmare le lacune di una mancata compagnia con altri stratagemmi, concentrandomi bene sul mondo che mi circonda. Sono come un pirata solitario che viaggia controcorrente in una nave senza ciurma ma piena zeppa di libri, tesori, manufatti e perché no, cianfrusaglie. Navigo a vista e sono sempre alla ricerca di nuove avventure, ma nei porti in cui attracco non ci sono belle donne ad aspettarmi, bensì omicidi, reati e casi irrisolti.

Ho fatto quindi della solitudine un baluardo, ma ciò non toglie che io la soffra. Mi piacerebbe avere degli amici, ma non è possibile. Chi vorrebbe passare del tempo con me, lo strambo della scuola? O il “nut-job”, come ama definirmi Sebastian?

Realizzare ciò mi fa venire il cuore pesante, ma il fatto è che temo che lui abbia ragione. Se la gente si sente a disagio con me, un motivo ci deve essere. Non rivolgo la parola quasi a nessuno e probabilmente ho sempre la stessa espressione, ma sfido chiunque a stare cinque ore seduto in una sedia a guardare le crepe nel muro in uno stato di totale e corroborante noia.

Noia, o perchè non ho interesse per la materia — cosa mi importa di quanti anelli ha un pianeta disabitato come Saturno, se sono un terreste? — o perché ciò che viene spiegato è già stato fatto prima alle medie e poi alle elementari. Il sistema scolastico non è altro che una volgarissima ripetizione e non è nemmeno vero che al liceo le materie sono più approfondite, la rivoluzione francese l’ho studiata molto più approfonditamente a tredici anni piuttosto che l’anno scorso, a sedici.

Fatto sta che ora sono all’ultimo anno e di sentire ripetere le stesse identiche cose non ne posso più, sono saturo. Vorrei ricevere una botta in testa pur di alleviare questa sensazione di paralisi mentale, frustrazione e completo inappagamento. 

Sarò schietto adesso: molti vanno in bagno a toccarsi quando si sentono così, io non lo faccio. Non l’ho mai fatto in vita mia, ci ho pensato ma non mi viene, non credo faccia per me. Il sesso in generale non credo faccia per me. Forse sono asessuale, e dico forse perché in realtà non lo so, non ho mai davvero indagato. Ma se anche non lo fossi, non cambierebbe nulla. È più probabile che Mycroft commetta un sacrilegio e si dimentichi di prendere il tè delle cinque, piuttosto che io mi avvicini di mia sponte a una ragazza. Ma non perché sono timido o brutto, semplicemente non voglio avere ragazze nella mia vita. Sono io che non voglio loro, non loro che non vogliono me. 

Anzi, se mi mettessi di buona lena qualche ragazza da rimorchiare potrei anche trovarla. Una si chiama Molly Hooper, ha un anno in meno di me e ha l’imperdonabile colpa di essere una ragazza focalizzata più nello studio che nell’aspetto fisico, e i risultati alla fine si vedono. Molly non è alla moda e non è bella da mozzare il fiato, ma in compenso ha vinto le olimpiadi studentesche di scienze (olimpiadi a cui io non ho volutamente partecipato per non finire nella testata di qualche stupido giornalino) ed è circondata da simpatiche persone con magliette di Star Wars, Star Trek e Starbucks. 

Ecco, costei mi saluta e ogni tanto attacca bottone, ma dubito fortemente che ci sia altro oltre a questa impacciata cortesia. Per dirla in modo più schietto, non credo che Molly farebbe sesso con me, se potesse, e francamente la cosa è reciproca. Molly non è brutta e non è nemmeno ottusa, ma non mi piace. Non voglio vederla nuda, dico davvero.

Se dovessi proprio scegliere una ragazza da vedere nuda (se fossi proprio minacciato con una pistola alla tempia), probabilmente scadrei nel banale perché sceglierei una cheerleader. Loro sono favolose, ma dietro a questa loro femminea armonia di forme e colori temo ci sia un dilagante vuoto, il vuoto di chi antepone l’apparire all’essere. Ma non posso esserne sicuro, sarei un giudice pressapochista e pieno di stereotipi se giudicassi una ragazza dal suo aspetto. Tuttavia, dopo cinque anni passati a osservarle, non mi sento imprudente nel definirle quanto meno superficiali. E spietate. 

La meno superficiale di tutte è per avventura anche la più spietata, ma è quella che io sceglierei a occhi chiusi. Il suo nome è Irene Adler e per me lei è La Ragazza. 

Lei è la classica studentessa popolare e alla moda, amata da tutti e perfettamente in linea con i canoni estetici del nostro tempo, ma non fatevi ingannare dalle apparenze. Adler in realtà nasconde una mente pericolosamente arguta e imprevedibile, nonché una voce soave, da soprano. Potrei dire che mi piace, ma sarebbe un patetico cliché. E infatti l’unica cosa che ci unisce è un’insana e indefessa competizione… E un paio di trascorsi imbarazzanti, di cui magari un giorno parlerò (caso mai troverò il coraggio).

In ogni caso la evito come la morte e cerco di non rivolgerle la parola. Lei infatti è una di quelle persone con cui faccio fatica a interagire. Credo che la mia sia una forma di mutismo selettivo o qualcosa del genere. Quando ero piccolo era un disastro, adesso sto sempre più imparando a controllare questo disturbo e bene o male rivolgo la parola a tutti.

Ma meno le parlo e la vedo, meglio sto. 

Stessa cosa vale per Sebastian Moran, Mike Stamford, Bill Murray e Sally Donovan.

Parlerò di costoro e delle loro molestie emotive più avanti. Dico solo che svolgono un ruolo preponderante nel farmi sentire un fallito, una nullità. Sono davvero bravi nel farlo, è forse l’unico talento che hanno. Io ovviamente non mostro quanto mi facciano soffrire, anche perché il fatto di avere la nomea del pezzo di ghiaccio mi aiuta, è un alibi, una copertura. Nascondo le mie fragilità dietro l’armatura del mio sguardo e del mio mutismo, sembro indifferente e inscalfibile come una pietra, ma non lo sono. Perdiana se non lo sono, sono fragile esattamente come tutti gli altri, con l’unica differenza che sono un bravo attore.

L’ultima persona di cui vi voglio parlare è un ragazzo, mio coetaneo. Risponde al nome di Lestrade e la cosa più importante che ci lega è, strano a dirsi, suo padre. Questi lavora per Scotland Yard e spesso comunica con me attraverso il figlio. Ovviamente non sa della mia esistenza, Lestrade Senior è convinto che i miei contributi alle indagini siano farina del sacco di Greg, quando invece quest’ultimo non è altro che un mio portavoce. Ma la cosa è perfetta, Lestrade Junior presto verrà assunto a Scotland Yard e di conseguenza verrò assunto anche io tramite lui. 

Tra tutte le persone che ho elencato Lestrade è forse il più importante. Mi ha fornito il nome utente e la password per accedere alla pagina personale di suo padre, nella quale sono contenuti tutti i dati, i verbali dei CTU e in generale tutti i dettagli dei casi a cui suo padre è deputato. Questo è stato forse il regalo più gradito che io abbia mai ricevuto in vita mia. Certo, Greg si sente in colpa come se andassimo a seppellire una prostituta nel deserto, ma io gli ripeto che lo facciamo per una buona causa: ci rendiamo utili alla giustizia (e alla mia guerra contro la noia).

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore

Ciao, spero che questo capitolo introduttivo vi sia piaciuto.

Presto arriveranno anche i dialoghi, non sarà solo un monologo interiore di Sherlock, e insieme ai dialoghi arriveranno anche altri personaggi conosciuti…

A presto,

Obiter

 

 

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Capitolo 2
*** II ***


Lunedì 14 ottobre sono accaduti due fatti degni di nota.

Punto primo: è arrivato un nuovo studente. Si chiama John Watson, ha la mia età ed è uno sportivo biondino e belloccio che in breve tempo è diventato la nuova celebrità della London High. Ovviamente ha già fatto amicizia con gli altri giocatori di football e a pranzo si è seduto vicino a Kate, la migliore amica di Irene Adler.

È il classico tipo di tendenza che piace un po' a tutti. Non mi stupisce che abbia già trovato degli amici, ma è comunque deprimente constatare come lui in un giorno si sia fatto più amici di me in dieci anni. Ma tant’è.

Punto secondo: il padre di Lestrade ha un nuovo caso. Una povera donna è stata trovata senza vita sulle rive del Tamigi e nessuno ha la benché minima idea di cosa le sia accaduto. Dopo la scuola mi recherò personalmente presso il luogo del ritrovamento del corpo e cercherò di mettere un po' di luce in questo pantano. Se sono in vena, provo anche a intrufolarmi nell’obitorio. La sola idea mi elettrizza, non vedo l’ora.

Nel frattempo però mi aspettano le solite cinque ore interminabili di prigionia, di cui due con il compito in classe di letteratura inglese. Ma è un bene: le verifiche mi aiutano a combattere la noia. Due ore a rispondere a delle domande passano in fretta, due ore a contare i pietrini nel pavimento sembrano eterne. 

Sino a qui, questo giorno poteva sembrare un esordio della settimana più che soddisfacente, ma non lo è stato. Durante l’ora di pranzo il mio commensale abituale, colui con cui pasteggio ormai da cinque anni, mi ha informato che la nostra spacciatrice di fiducia è stata arrestata proprio ieri notte dalle forze dell’ordine.

Mi sono sentito male. Questa è una tragedia. Non sono dipendente da sostanze stupefacenti e infatti non vado in crisi d’astinenza se resto un paio di giorni pulito, tuttavia sapere di non poter più contare sulla droga e sul suo potere anestetizzante mi riempie di angoscia. A questo punto so già cosa penserà la gente: “oh no! Ecco qui l’ennesimo caso di adolescente cocainomane che ha sete di attenzione e vuole fare il trasgressivo, l’anticonformista”.

Niente di più sbagliato.

Io non uso la cocaina per “sballarmi”, anzi l’esatto contrario: la uso per sedarmi, per fare tacere i pensieri e non sentirmi più soffocare dall’apatia e dal nulla cosmico che mi circonda e perciò assumerla mi aiuta proprio a tirare avanti, a sopravvivere. E quella stupida donna si è fatta arrestare malgrado tutti i consigli che io le avevo dato e che, evidentemente, non ha seguito. Ma dopotutto dare dei consigli a certi soggetti è solo uno spreco di voce.

Adesso dovrò cercarmi un pusher nuovo, il che è molto pericoloso, perché quello non è un mondo in cui ci si può affacciare con serenità. Puoi ritrovarti con un coltello ficcato nello stomaco in meno di dieci secondi.

Il ragazzo con cui condivido questa nociva abitudine, comunque, mi ha detto che potrebbe avere un’altra soffiata. Dopotutto è stato proprio lui a presentarmi quella prostituta spacciatrice, ormai un anno fa. 

Costui, tanto per la cronaca, risponde al nome di James Moriarty ed è la persona più sinistra e più simile a me che io conosca. Abbiamo molte cose in comune: anche lui si annoia moltissimo e anche lui possiede un QI di gran lunga superiore alla media, ma a differenza mia, questo lo porta a odiare la gente e lo farà diventare presto un criminale, uno di quelli psicopatici. Gliel’ho detto, lui mi ha risposto che aveva già un coltello pronto nei pantaloni. Gli ho detto che l’avevo notato, lui mi ha risposto che in verità era solo felice di vedermi.

Ah-ha. Fortunatamente in quel momento è suonata la campanella e ho potuto dileguarmi. Questo per dire che in effetti non è molto centrato… Ha delle stereotipie e delle abitudini che assumono una sfumatura inquietante nella sua persona, losca. Ad esempio, a pranzo beve sempre e solo una lattina di Coca Cola Zero, nient’altro. In quattro anni di mensa giuro che l’ho mai visto mangiare qualcosa. Gli ho chiesto il motivo di questo suo sciopero della fame, e la risposta è stata nauseabonda: “Chi ti dice che non è carne umana, quella?” e ha indicato le mie polpette al sugo.

Beh, da quel giorno non ho più preso la carne. Non penso ovviamente che la scaloppina o la paillard celino una fosca natura criminale (sarebbe troppo interessante), ma quando le vedo non posso fare a meno di pensarci, forse perché in effetti non sono del tutto centrato nemmeno io. Il famigerato confine sottile tra genialità e pazzia…

Questo per dire che io e Jim potremmo anche diventare amici, ma la sociopatia che condividiamo, i coloriti problemi psicologici che abbiamo e il nostro QI ci rendono sostanzialmente incompatibili. Siamo come un cieco e un sordo. “C’era una volta al pub uno schizo e un aspi” sembra più l’inizio di una barzelletta che la realtà. Però le nostre conversazioni delle tre del mattino mentre aspettavamo di nascosto Caramel (la spacciatrice) me le ricorderò per tutta la vita. Sono tra le più interessanti che ho avuto. Parliamo sempre e solo di cold case, di omicidi, di assassini, di morti inspiegabili e in generale di casi investigativi irrisolti. Lui ha una cultura sterminata, conosce tutto e io adoro confrontarmi con lui perché la pensiamo sempre allo stesso modo. Senza saperlo, abbiamo risolto in modo identico molti omicidi rimasti insoluti e concordiamo sempre sull’identità degli assassini. Questo mi rende felice perché va a caldeggiare ulteriormente le mie tesi, ma mi inquieta perché mi fa capire quanto Jim sia pericolosamente in gamba.

Ciò non toglie che avrei bisogno di una persona un po' più… Ordinaria, al mio fianco. Suona malissimo detta così perché sembra che io mi consideri “straordinario”, e forse lo sono, ma non in senso positivo. La diversità, così come l’unicità, non sono sempre positive. Anzi, arrivo a dire che è molto più frequente essere diversi perché si è sotto la media piuttosto che sopra.

 

 

***

 

 

Terminate le cinque ore di tortura cerebrale, il mio progetto di andare nelle rive del Tamigi è completamente andato in fumo a causa di un improvviso acquazzone. La pioggia elimina ogni prova, ogni traccia, ogni orma. Il tempo, sia atmosferico che non, è il peggior nemico dei detective, quanti criminali sono rimasti a piede libero per colpa sua…

Sono quindi tornato a casa con l’umore sotto i tacchi e nel farlo sono passato di fronte al campo da football. C’erano i giocatori che correvano, tra cui quello nuovo, John Watson, già perfettamente integrato nel gruppo, e le cheerleader che ballavano tra di loro sulle note di una canzone latino americana. Ma credo che lo facessero per gioco, si stavano solo divertendo. Notai Adler in mezzo a loro, che fu letteralmente afferrata e scaraventata per aria da un tizio biondo e muscoloso.

Mi voltai e me ne andai.

Quella sera sniffai una partita intera di cocaina e dormii fino al mattino, profondamente e senza sogni. Ovviamente il risveglio fu disastroso: mal di testa lancinante, leggera nausea e sensazione di intorpidimento generale, come se stessi covando l’influenza. Purtroppo il post dose mi fa questi effetti, ma sono sceso comunque per la colazione e ho preteso di stare bene, sono un bravo attore. Mia madre era già attaccata ai fornelli perché stasera abbiamo degli ospiti a cena, e visto che lei è una persona ansiosa per natura, non è tranquilla se non inizia a cucinare già dalle prime luci dell’alba.

Mio fratello Mycroft invece stava già litigando con mio padre, i due hanno un pessimo rapporto. Io cercavo di estraniarmi mentre volavano gli insulti, ascoltavo mia madre che parlava: “Ecco, non mettere mai il sale nelle verdure mentre si cuociono, altrimenti esce l’acqua”.

Certo, è un processo chimico. Le ho spiegato come il sale favorisca la rottura delle pareti cellulari delle cellule vegetali, sarei anche sceso nel dettaglio ma lei poi mi ha interrotto ricordandomi che erano solo le sei del mattino e ha aggiunto un “Da bravo, Sherly” come se avessi ancora due anni. 

A quel punto ho taciuto, mentre Mycroft dava dell’idiota senza speranza al nostro genitore.

Sto bene a casa mia? No.

Voglio andare a vivere da solo quanto prima. È uno dei motivi principali per cui mi iscriverò al college, anche se nel mio caso non sarà altro che un prolungamento del tedio scolastico. Non ho bisogno del “pezzo di carta” per diventare un detective, tanto meno di uno che mi insegni i segreti del mestiere.

Comunque mi sono lavato, vestito, pettinato, ho perso ogni speranza e sono uscito.

Ho preso la metropolitana ma sono sceso a tre fermate prima per fare una passeggiata, anche se fuori, come di consueto nella mia amata città, piovigginava. Ho alzato solo il bavero del cappotto, visto che non avevo l’ombrello e tanto meno il cappuccio. 

Che cosa dozzinale il cappuccio. 

Nel dirigermi verso l’istituto, però, ho fatto un incontro a dir poco inaspettato: ho scorto il ragazzo nuovo di nome John Watson che faceva jogging insieme a Mike Stamford. Malgrado ci fossero cinque gradi e questa gelida pioggerella invasiva, John stava indossando solo un paio pantaloncini corti e una maglietta a maniche lunghe, Mike invece aveva il K-way. Mi sono passati di fianco, dall’altro lato della carreggiata, e non mi hanno nemmeno salutato. Mike non mi ha salutato, John Watson era girato e non mi ha visto, ma non mi avrebbe salutato in ogni caso, visto che non ci siamo mai parlati e molto probabilmente non ci parleremo mai…

 

Niente di più sbagliato.

 

Tre mattine dopo si è ripresentata esattamente la stessa identica scena. Io sono sceso a tre fermate prima, fuori piovigginava, il cielo era brumoso, e all’incirca nello stesso incrocio sono comparsi John Watson e Mike Stamford, solo che John questa volta era voltato verso di me.

“Ciao!” ha esclamato non appena mi ha visto. Credo di avere sgranato gli occhi. Per poco non mi sono voltato, ma vivaddio non l’ho fatto. 

“Buongiorno” gli ho risposto invece, teso e rigido come mio solito.

Mike Stamford a quel punto si è trovato costretto a dirmi un “ehi” tra i denti, ma in fondo chi se ne frega di Mike Stamford.

Con mia grande gioia ho aggiunto subito John Watson nella lista delle persone che mi salutano, in quel momento figuravano: Lestrade, Molly e ogni tanto Jim. Adler l’avevo depennata d’ufficio. E poi c’erano anche i docenti, ma loro sono obbligati a salutare i discenti, non contano.

Sono giunto nel tetro istituto con uno spirito rinnovato, più allegro. Adler e le sue amiche mi sono passate di fianco e hanno ridacchiato, ma io le ho ignorate. 

Dopo di che mi ha raggiunto Lestrade, aveva un nuovo taglio di capelli, di quelli rasati ai lati che vanno di moda adesso tra i calciatori. 

“Psst, Sherlock” mi ha chiamato, guardandosi intorno “Ho novità”

Lestrade si comporta come se fossimo in un film di spionaggio. Non so se lo faceva perché si divertiva o perchè temeva davvero di essere scoperto, in ogni caso era inopportuno.

“Cosa c’è?” gli ho chiesto a voce rigorosamente alta.

“Ti ricordi quella cosa su quella persona ritrovata in quel luogo?”

Sssht! Cavolo! Parla piano!”

“Non c’è bisogno di parlare in codice, siamo a scuola, Greg, non al Cremlino”

Lui alzò gli occhi al cielo e mi si avvicinò comunque quatto quatto. 

“Papà è un po’ bloccato con le indagini…”

“Ma non mi dire” mi sfuggì del sarcasmo, non potei farne a meno. Gavin non ci fece troppo caso, ormai era abituato ai miei commenti al vetriolo.

“No!” lo interruppi, non volevo nemmeno sentire quella dannata parola.

“Si è suicidata”

Ecco. Lo sapevo. Che fastidio, che fastidio! Quando non sanno cosa dire, pensano al suicidio, è esasperante, irritante come poche cose al mondo. E dopotutto come posso io formulare delle antitesi se non ho mai visto il corpo, il luogo del delitto e il luogo del ritrovamento? Non si può lavorare così.

“Hanno almeno individuato il ponte? Sai, ce n’è più di uno sul Tamigi” gli ho chiesto brusco, mi ero inacidito.

“Non ci ho guardato”

“Guardaci”

“Okay” mi ha risposto “C’è Anderson, devo andare. A dopo, Sherlock”

“Ciao, George”

“Greg!”

Gli ho rivolto un mezzo sorriso. 

Terminata la breve e nefasta conversazione con Lestrade, ne è iniziata una con Molly. Ora, io non ho niente contro Molly. Non la trovo antipatica, né fastidiosa né altro, ma la sua ostinata gentilezza nei miei confronti è equivoca. L’ho chiesto anche a Lestrade: “Cosa vuole Molly da me?” e lui mi ha illuminato con un “Non lo so, amico”. 

Avrei davvero bisogno di un altro “amico” a cui chiedere consiglio. E soprattutto di un modo per disilludere Molly senza farla soffrire. Non era per lei, era per me. Non voglio ragazze, ragazzi, partner, amanti o altro. Non li voglio, fine.

“Ciao, Sherlock!”

“Molly” la salutai sfrecciando via, ma lei non demorse e mi corse dietro. 

“Come va? Tutto bene?” mi rincorse giuliva, con tre grossi libri tra le braccia. Dieci secondi e quello di chimica inorganica le sarebbe scivolato per terra.

“Non male, grazie” le ho risposto con una frase fatta “Tu?”.

“Anche io tutto bene. Ti volevo chiedere una cosa, se hai tempo un attimo. Ecco, che ne pensi degli scacchi? Ti piacciono?”

Questa è la classica domanda da formulare a uno come me. Secondo me, lei pensava che io avessi la camera piena di cubi di Rubik, scacchiere e magari anche un poster con la faccia di Stephen Hawking appeso vicino a un telescopio di Amazon puntato fuori dalla finestra.

“Dipende. Perché?” le risposi comunque, piegandomi a raccoglierle il libro che le era giustappunto caduto per terra.

“Grazie” arrossì “Ecco, Io e Tom vogliamo aprire un club degli scacchi. Ti andrebbe di partecipare?”

Povera Molly. Era talmente convinta che la mia risposta sarebbe stata affermativa che quasi mi dispiacque declinare l’offerta.

“Dubito di riuscire a gestire un’altra attività extra scolastica, mi dispiace” le ho risposto onestamente “Ma grazie comunque per l’offerta”

“Oh” sussurrò, visibilmente delusa “Certo, capisco”

“Già…” mi sentivo un po’ in colpa.

“Posso chiederti quali corsi frequenti?”

La domanda era scomoda, sembrava un goffo tentativo di rintracciarmi. “Corsi privati” le ho risposto quindi “A casa”.

Molly annuì vigorosamente. “Ah, okay. Perfetto” mi ha sorriso di nuovo, ma la delusione che traspariva dal suo sguardo era evidente.

“Dovresti chiedere a Tom di uscire, sai?” le ho consigliato per distrarla.

“Cosa?”

“È innamorato di te, dovresti dargli una chance” insistetti. Non era propriamente vero, ma lo sarebbe stato presto. Lei però non ne sembrava affatto convinta.

“Fidati” continuai io “Si vede lontano un miglio” 

“Ma Tom è gay” mi ha sorpreso con una smorfia confusa.

Io sentii la mia fronte aggrottarsi, questo non me lo aspettavo. “No, non è gay”

“Ma lui mi ha detto di sì”

“Ti ha detto una bugia” precisai con convinzione, so riconoscere un omosessuale quando lo vedo “Non è affatto gay”.

Molly continuava a guardarmi con un’aria interrogativa, come sempre toccava a me sbrogliare le matasse.

“Ti sei mai spogliata di fronte a lui o qualcosa del genere?” le domandai allora io, i suoi occhi nocciola si fecero più grandi.

“Sì” mi rispose, inorridita “L’ho fatto entrare nel camerino di un negozio, ma perché sapevo che era gay, quindi... Non c'era niente di male”

Io scossi lentamente la testa e la consapevolezza parve investirla, così come il rossore. 

“Non è gay?”

“No” le confermai nuovamente io. 

Molly si voltò con uno scatto così veloce che feci appena in tempo ad appoggiarle il manuale sopra gli altri.

“Vado ad ammazzarlo!”

“Buon omicidio” la salutai, lei si era già precipitata via. Presto si metteranno insieme. Ma cosa non fanno i miei coetanei per vedere un reggiseno? 

E a proposito di reggiseni, dopo che Molly si fu allontanata, mi passarono di fianco Irene Adler, Astrid Mikkelsen e Kate Steele, tutte tre in minigonna. Sorridevano e chiacchieravano fra loro, poi sono sparite tutte insieme nel bagno delle donne. Dicono che le ragazze vadano sempre in bagno insieme, ma nessuno sa bene il perché, lo fanno e basta. Sono squisitamente incomprensibili. Mi piacerebbe andare nel bagno con loro e vedere cosa fanno, ma solo per amor di conoscenza. Secondo me si tengono la borsa a vicenda (perché poi devono sempre spostarsi con delle borse/valigie ricolme di roba, non è dato saperlo), oppure (esagero) si sorreggono per non doversi sedere sulla tazza, che giustamente fa schifo. Non mi vengono in mente altri motivi. 

In ogni caso è meglio non pensarci, perché i miei ormoni sono sempre dietro l’angolo, pronti a mordermi come dei piraña impazziti. Già ieri mattina mi sono svegliato con un missile Sputnik tra le gambe, gradirei non ripetere l’esperienza in pubblico.

A volte ho degli istinti da uomo di Neanderthal che fanno concorrenza a Sebastian, lui poi ha anche la clava, anche se la spaccia per mazza da baseball.

 







 

 

Note dell'autore
Grazie per le visite! Auspico siano state letture e non solo “aperture”. Non credo che riuscirò ad aggiornare così velocemente anche per i prossimi capitoli, ma ci proverò, tutto ciò è molto divertente. Il cognome di Kate me lo sono inventato, come mi sono inventato il personaggio di Astrid Mikkelsen e altre comparse che probabilmente troverete.  
A presto, Obi.

 

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Capitolo 3
*** III ***


E anche stamattina ci siamo svegliati in campeggio. 

E dire che quando assumo la cocaina non mi succede, uno degli effetti collaterali è proprio l’impotenza… E ne ho assunta ieri, molta. Ieri sera ero così fatto che mi sono guardato un intero documentario sul Sole, sulla sonda Parker e sull’evento di Carrington, ossia la più grande tempesta solare mai registrata nella storia, le cui esplosioni magnetiche ebbero come principale conseguenza quella di arrestare l’allora elementare tecnologia terrestre del 1859. Il telegrafo smise di funzionare, le macchine più sofisticate si bloccarono e gli aghi delle bussole presero a roteare come delle girandole impazzite.

Dicono che un cataclisma del genere potrebbe ripresentarsi in qualsiasi momento, anche adesso, ai giorni nostri. In tal caso la rete internet, i computer, i radar, i sistemi di localizzazione telematica e in generale tutto il nostro macrosistema tecnologico verrebbe annientato nel giro di poche ore, ivi compresi i macchinari degli ospedali, i sistemi di allarme, i verbali delle prove irripetibili e in generale tutti gli archivi informatizzati di Scotland Yard. Probabilmente si aprirebbero anche le porte delle carceri, magari anche i manicomi criminali, e tutto per una altrimenti innocua tempesta solare avvenuta a 8,33 minuti-luce di distanza.

Ecco perché io uso la testa e non il computer. Se mai dovesse verificarsi un evento di Carrington, io sarei uno dei pochi che non se ne accorgerebbe nemmeno. Continuerei a lavorare come se niente fosse con il mio cervello, la mia lente, il mio naso e tutta la mia strumentazione. 

Sono arrivato a questa conclusione stamattina durante la prima colazione, mentre mia madre blaterava qualcosa a proposito delle differenze tra i mei capelli e quelli di Mycroft. Certamente mi sbarazzerò di tutte queste informazioni, intasano il mio cervello inutilmente. Forse tengo l’evento di Carrington, non si sa mai. Spinto da un insano desiderio di sfida e competizione, ho chiesto a Mycroft se sapeva cosa fosse, ma ahimè lo sapeva e mi ha onestamente asfaltato.

Mia madre nel frattempo continuava a parlare dei nostri capelli. A suo dire i miei capelli sono più belli, ma quelli di Mycroft sono “più biondi”.

“Sì, finché dureranno, sono più biondi” ho detto io, la calvizie incipiente di Mycroft era una delle poche certezze che avevo nella vita.

“Sherlock Holmes!” ha minacciato mia madre.

“Oh, no. Lascia che si senta migliore in qualcosa, ne hanno tanto bisogno a quell’età”

Mycroft ha ventiquattro anni, è stempiato come se ne avesse cinquantasette, ha sempre fame, è sempre a dieta, ed è forse la persona più cinica e disillusa dell’universo. E la più pigra. Ma quando parla, ahimè ha quasi sempre ragione. 

Ha studiato economia rigorosamente a Cambridge, si è laureato qualche mese fa con ottimi voti e ora è qui a casa, in attesa di trovare un lavoro che “faccia al caso suo”. Se devo dire la mia, non credo che esista un lavoro che possa fare al caso di Mycroft. Mio fratello infatti non è un tipo ambizioso, ma è snob e pieno di pretese. Per intenderci, la sua idea di ufficio è Buckingham Palace e la sua idea di lavoro è sorseggiare una tazza di tè con una certa famiglia Windosr. E questa sua altezzosa spocchia può aprire due opposti scenari: o lo farà arrivare molto in alto, ma tanto in alto, o lo lascerà completamente a piedi e sulle mie spalle. Nel frattempo comunque si compiace nel farmi sentire indietro e non al passo coi tempi.

“Sto frequentando una ragazza” ha poi detto con la sua tazza di tè in mano “Si chiama Charlotte. Presto ve la presenterò”

Balle. 

“Oh, Mycroft, che bella notizia!” squittì mia madre “È carina?”

“Ovviamente” le rispose con un sorriso tirato. Io abbassai subito lo sguardo e mi alzai prontamente da tavola, ma fu inutile.

“E tu, Sherly?”

Per l’appunto, del tutto inutile. Alzai solo le spalle, non sapevo cosa dire.

Mia madre mi stropicciò i capelli e disse qualcosa a proposito del fatto che sono “così bello” e che avrò sicuramente la fila di ragazze fuori dalla porta.

Me ne sono andato in fretta, avrò mangiato si è no mezzo biscotto ma volevo andarmene.

“Buona lezione, Sherlock” mi ha salutato Mycroft.

Io e lui non abbiamo un brutto rapporto in realtà, l’unico problema è che la maggior parte dei miei traumi infantili è ricondotta a lui e alla sua ostinazione nel definirmi stupido, quando invece ero semplicemente piccolo.  

Avevo tre anni quando lui ne aveva dieci, e avevo dieci anni quando lui ne aveva diciassette. Il gap anagrafico è sempre stato piuttosto significativo e credo che solo verso i trent’anni riusciremo veramente ad avere un rapporto alla pari.

Comunque ho afferrato una mela, mi sono messo il cappotto, la sciarpa e sono uscito.

Ahimè, oggi è venerdì e al venerdì 1) John Watson e Mike Stamford non vanno a correre, per cui niente “ciao” da parte del mio gradito conoscente John Watson. 2) c’è uno dei momenti peggiori della settimana: l’ora doppia di ginnastica.

Odio l’ora doppia di ginnastica, ma non perché io detesti lo sport o il movimento, tutt’altro. Sono a tutti gli effetti un topo da biblioteca, ma non ne possiedo l’aspetto iconografico: non porto gli occhiali, non ho una camicia a quadri con le bretelle, non ho la gobba e non anelo disperatamente di avere un rapporto sessuale con una ragazza. Solo solo io, nel mio pregevole e difettoso anticonformismo.

Fisicamente sono ben messo, non sono “così bello” come dice mia madre ma non sono nemmeno un bruttacchione. Direi un sette, forse un sette e mezzo. E gradisco il movimento, so nuotare, so ovviamente andare in bicicletta (Mycroft non è capace) e sono anche coordinato, MA odio l’ora di ginnastica. La odio.

E questo mio conclamato odio non è da imputare all’attività fisica in sé e per sé, quanto al fatto che è l’unico corso obbligatorio che ho in comune con tutti i miei coetanei: da Sebastian Moran a Sally Donovan, da Bill Murray a, ahimè, Irene Adler. Sudo freddo ogni volta che l’istruttore ci divide un maschio e una femmina per gli esercizi, giuro.

E poi mi devo anche sorbire i discorsi che fanno i miei coetanei nello spogliatoio dei maschi, che oltre a essere degeneri, mi fanno sentire ancora più alieno del normale.

Parlano di sesso, continuamente, volgarmente, e quando non parlano di sesso, parlano di videogiochi, e quando non parlano di videogiochi, parlano di calcio.

Per me questi non sono argomenti di conversazione. Non dico che dobbiamo metterci a disquisire delle politiche estere di Carlo V o della tragica incoronazione dello Zar Nicola II, chiedo solo un minimo sindacale di originalità, non i massimi sistemi. Ma evidentemente pretendo troppo e perciò preferisco chiudermi in me stesso e pensare ai fatti miei.

L’abominevole ora di ginnastica si sarebbe tenuta nel pomeriggio, per cui mi attendeva un’intera mattina all’insegna del malumore e dell’insofferenza. Sono giusto stato interrogato in letteratura inglese insieme a Sebastian, entrambi non avevamo aperto un libro ma io ho fatto una figura brillante, lui invece ha fatto scena muta. Inutile dire che ho provato un piacere belluino, ma che si è subito ridimensionato nella certezza che lui si sarebbe vendicato e che proprio oggi c’era l’ora di ginnastica. Quale scenario migliore per una “Sebastiana vendetta”?

Dopo ciò c’è stata la pausa pranzo. 

Mi sedetti a tavola con Moriarty e mangiai velocemente. Con la coda dell’occhio ho visto sopraggiungere Adler, affiancata come sempre da Godfrey Norton e da un altro paio di cicisbei, tra cui… Lestrade. Le stava reggendo la borsa, non ci potei credere. Urgeva assolutamente una mia controffensiva immediata. Dovevo proteggere George e salvarlo dal canto malefico di quella sirena.

Ma proprio mentre pensavo ciò, Jim diede un pugno sul tavolo. Come sempre aveva la fidata lattina di coca cola zero con la cannuccia.

“Ho caso che sicuramente non conosci” mi ha sfidato, io mi sono acceso subito di entusiasmo. Questa è musica per le mie orecchie.

“Sentiamo subito” gli ho risposto, sfrontato e sicuro di me.

“Francia, 1684” iniziò Moriarty, io misi in moto il cervello “Il cadavere brutalizzato di una bambina italiana di nome Fiabetta è stato rinvenuto dentro il ripostiglio di una chiesa francese in circostanze inspiegabili. Come ci è finito lì e chi è stato?”

Rimasi stupito, Jim aveva appena citato un macabro cold case italiano che mi aveva particolarmente stupito per la sua stupidità. A suo tempo fece molto scalpore e fu un vero rompicapo per i detective, e dopotutto nel diciassettesimo secolo emigrare dall’Italia alla Francia in poco tempo non era scontato come lo è oggi.

La bambina stessa venne accusata di stregoneria e il caso fu archiviato per ordine della chiesa. Nel verbale si citarono le “forze occulte del demonio” come causa della morte… In realtà era tutto molto più umano e molto più terrestre di quanto si potesse immaginare. 

“Banale rapimento” dissi a Jim “La bambina è stata rapita da una nave mercantile che ha fatto tappa in Francia ma lei, malgrado fosse stata violentata chissà quante volte, è riuscita a scappare e si è gettata in mare. Dopodiché si è intrufolata in una chiesa di provincia pensando probabilmente di essere al sicuro. Il prete ha sentito dei rumori loschi, ha visto un’ombra anomala proiettata sul muro dalla luce morente delle candele, delle impronte bagnate di acqua e sangue, una vocetta straniera, si è spaventato, ha pensato a chissà quale entità soprannaturale e l’ha uccisa. Per finire, in un raptus di incoscienza l’ha chiusa dentro a uno sgabuzzino e la perpetua l’ha trovata il giorno dopo”

E detto questo, mi sono messo in bocca due patate. Jim annuì, era soprappensiero.        

“E poi c’è quell’altra bambina canadese che venne trovata sempre in un ripostiglio di una chiesa ma duecento anni dopo, dentro una valigia”.

Capii subito a quale caso si riferiva, era un precedente analogo malgrado fosse accaduto in un altro continente e a distanza di ben duecentocinquant’anni. Questo fa capire come la criminalità alla fine segua un percorso circolare, non ci sono molti pochi picchi di originalità nella storia. 

“È stato il fratello maggiore” gli risposi io con uno sbadiglio “Ha inscenato il rapimento e l’ha intossicata con del cobalto”.

Moriarty fece una risata, la gente intorno a noi si voltò ma non fece una piega.

“Sì!” esclamò, con un sorriso entusiasta “Sì!” mi puntò l’indice, ma grazie al cielo si risedette “E non l’ha stuprata, ha solo vilipendiato il cadavere”

Io annuii, teso “E ha rubato la valigia dalla casa del maggiordomo”

“Col quale andava a letto” mi anticipò lui.

“Precisamente” terminai io, quella povera creatura deve averli beccati. Jim mi fece un sorriso da psicopatico e mi indicò con un dito.

“Io e te dobbiamo entrare in società”

“Non credo sia il caso” mi alzai subito in piedi “Devo andare a lezione adesso. Buona giornata, Jim”

“Arrivederci, mi amor” fece l’atto di brindare con la lattina nella mia direzione.

È completamente, completamente suonato.

Pericolosamente suonato, ma io non resisto. È l’unico con cui posso parlare di queste cose, non riesco proprio a trattenermi. Starei giorni a parlare di queste cose, sono il mio pane quotidiano, il sale della mia vita. 

E mi piacciono a tal punto che mi diedero la forza di recarmi in palestra con più energia e positività. Jim non seguiva il corso, si era procurato un certificato medico — ovviamente falsificato — che lo dichiarava inidoneo all’attività fisica per questo e per l’altro motivo. Ho pensato tante volte di fare la stessa cosa, ma evidentemente il mio candore fanciullesco me lo impedisce. Un conto è falsificare la firma di mio padre (cosa che Mycroft fa da quando ho sei anni), un altro è quella di un medico.

 

E così, mentre quel branco di babbuini berciava sulle tette di una certa Julia e sull’ultimo goal di Lionel Messi, io mi sono cambiato in fretta, di fianco a un certo Calvin Price, un ragazzo sovrappeso che è spesso vittima di bullismo. Il fatto che si metta di fianco a me è lusinghiero, vuol dire che si fida, e dopotutto io non ho mai infierito sulla sua patologia e me ne guardo bene dal farlo. Mi dispiace solo per lui. Proprio mentre ero intento a sollevarmi i pantaloni, una voce nuova ma al contempo conosciuta mi sorprende alle spalle.

“Scusatemi, avete per caso un elastico per capelli?”

Ho riconosciuto immediatamente quella voce, anche se non è certo famigliare e non l’ho certo sentita spesso. Ma sono quelle voci che aleggiano nella mente perché si spera sempre di sentirle, magari per puro caso come in quel momento.

“Un elastico per capelli?” ho ripetuto, voltandomi verso John Watson. Lui mi ha sorriso.

“Non è per me, naturalmente”

“Sì, la precisazione non era affatto necessaria” ho detto con la rapidità di un bottone che esplode dall’asola. Mi sono sentito arrossire “Comunque no, io non ce l’ho”

“Nemmeno io” ha aggiunto Calvin Price.

“Va bene. Grazie comunque” ci ha salutato John Watson e se ne è andato.

“Ciao” l’ho salutato, a disagio. Avevo la netta sensazione di essere stato sgarbato e mi sentivo male al solo pensiero. Non volevo essere sgarbato con John Watson, lui era una persona così a modo.

 

 

In palestra John non sembrava risentito con me.

Aveva l’aria serena e io capii immediatamente che aveva cercato un elastico per Kate, con la quale si era messo a chiacchierare. Beh, stava tentando di chiacchierare. Era una scena esilarante, John stava facendo del suo meglio per non guardarle il prosperoso davanzale ma i suoi occhi non collaboravano ed erano come calamitati verso il basso. Vederlo mi faceva ridere e per un attimo mi dimenticai che ero appena sbarcato in quel luogo pieno di insidie e di nemici. 

“Ehi, Sherlock!” esclamò una voce beffarda e crudele alle mie spalle “Chi mi sono trombato ieri?”

Ed ecco a voi Sebastian. Il sorriso mi morì subito nelle labbra, feci finta di non sentirlo e cercai di allontanarmi, ma fu invano.

“Ehi, ti ho fatto una domanda, nut-job!” ha insistito, afferrandomi forte un braccio. Vidi John voltarsi verso di noi “Chi mi sono fatto ieri? E Bill? Chi si è scopato, Bill?”

“Dai Seb, secondo me non sa nemmeno cosa vuol dire scopare” questo era Murray. Molti risero, io diedi un forte strattone e mi liberai dalla sua presa, mi trasformai in una statua di ghiaccio. 

Fortunatamente arrivò l’adulto della situazione e loro furono costretti a smetterla, ma avvertivo ancora le loro risatine alle spalle. Erano come pugnali.

Ecco perché odiavo l’ora di ginnastica. Mi tiravano anche contro la palla, fu terribile, la mia maschera di cera si stava per sgretolare e Adler mi aveva fissato tutto il tempo, in attesa che ciò succedesse. Anche lei è crudele, ero circondato da persone crudeli, lo pensavo spessissimo.

Sebastian per la cronaca è un ragazzo popolare e aitante, che gioca nella squadra di football della scuola. Ha il quoziente intellettivo di una banana e ragiona con le mutande, ma proprio per questo è considerato da tutti un modello da imitare, la più alta forma di realizzazione personale a cui un adolescente può aspirare. Ovviamente mi odia. Ama prendersela con me perché non dimostro alcun tipo di ammirazione verso i suoi soldi, le sue avventure sessuali e i suoi successi sportivi, e devo ammettere che inizio ad accusare questo suo accanimento nei miei confronti. Non nego di avere versato delle lacrime a causa sua e dei suoi amici. Il loro bullismo purtroppo è puramente psicologico, e dico purtroppo perché se mi prendessero a cazzotti saprei bene come difendermi, visto che proprio l’anno scorso sono diventato cintura nera di judo, ma invece no. Loro mi attaccano solo verbalmente e nei punti in cui sono più fragile e indifeso. Sono meschini, crudeli, poco meno che degli scarafaggi.

E la cosa più assurda è che riescono a farmi pesare il fatto di non essere come loro. Io li considero deprecabili, li disprezzo dal profondo del mio cuore, eppure ci sono dei momenti in cui vorrei avere la loro benedizione ed essere considerato uno di loro. Vorrei uscire alla sera e ubriacarmi in quei locali di musiche e luci psichedeliche, vorrei fornicare in giro come un coniglio, vorrei prendere due nel test a crocette perché mi sono “sballato” la sera prima, vorrei fare parte della squadra di football ed essere fidanzato con una bellissima cheerleader. 

Il fatto che io arrivi a desiderare queste cose insulse significa che la loro opera di sabotaggio nei miei confronti sta funzionando. Sto iniziando a detestarmi, a deprimermi per come sono e per come ragiono. È difficile avere una propria sana autostima se la gente fa di tutto per ricordarti che sei uno “strambo”, “un finocchio” (non che questo sia un insulto, malgrado l’evidente tono dispregiativo) e uno “sfigato”. È molto difficile, ma non è impossibile. Io so di valere, so di avere delle qualità che gli altri non hanno, sarei ipocrita se mentissi. Possiedo un QI molto più alto della media, e non lo dico per vantarmi, è semplicemente un dato oggettivo. Capisco le cose molto in fretta, so come sfruttare bene i cinque sensi e uso il cervello in una misura molto vicina al 100%. Questo mi consente di notare e ricordare dei dettagli anche dopo un lunghissimo intervallo di tempo, perché sono in grado di immagazzinarli in una memoria perfettamente organizzata. Immaginate di entrare dentro l’archivio di un enorme edificio: troverete i dati disposti in ordine alfabetico, in ordine cronologico e, se il repertorio è particolarmente scrupoloso, anche in ordine di argomento. Ecco, io quando penso faccio proprio questo: entro letteralmente nella mia memoria, cerco tra i faldoni dei miei ricordi e trovo l’informazione di cui necessito, che posso aver immagazzinato anche anni e anni prima. Amo chiamare questa mia struttura cerebrale il mio “Mind Palace”, perché ci entro e cerco le informazioni proprio come se fossi in un luogo vero e proprio.

Non è una cosa da tutti, ma non per questo io mi reputo migliore degli altri o faccio pesare le mie capacità a chi non le ha. Sebastian e i suoi amici invece fanno proprio questo. Mi fanno pesare di non essere come loro, e ogni tanto riescono a convincermi che quello difettoso sia io, quando invece non è così.

Nessuno di noi è difettoso, abbiamo tutti dei talenti, occorre solo capire quali sono e imparare a sfruttarli al meglio. Io ho questo, e sarà meglio che inizi ad apprezzarlo pienamente.

 

Quello stesso giorno rimasi nel laboratorio di chimica fino a tardi e uscii alle diciannove solo perché avevo fame, se no sarei rimasto fino alla chiusura. Attraversai il cortiletto rinsecchito che portava al cancello, immerso completamente nei miei calcoli, fino a che non intravidi in lontananza una figura compatta che correva verso di me. Aguzzai la vista e lo riconobbi, avrei riconosciuto quei grossi polpacci biondi tra mille.

“Ehi, ciao! Aspetta un attimo!”

Obbedii subito. John Watson aveva il fiatone ed era tutto sudato e in divisa sportiva. Proveniva direttamente dal campo di gioco. Io aggrottai le sopracciglia e mi allarmai istintivamente, non capivo cosa volesse e non ero abituato a essere trattato con rispetto e cortesia da quelli come lui (rectius: da quelli come Sebastian, e John non era certo uno di quelli).

“Senti ti volevo dire che mi dispiace molto per prima in palestra” mi lasciò stupefatto “Avrei voluto dire qualcosa a Moran, ma è successo tutto molto in fretta e poi è arrivato il professore e insomma, alla fine ho proprio perso l’occasione. Ma volevo che lo sapessi, ecco. Io mi dissocio da queste cose”

Il mio stomaco fece una capriola, non ero abituato a questo genere di persone e di discorsi.

“Grazie” dissi solo, non sapevo cosa dire.

“Ti danno fastidio spesso?”

“Sì” gli ho risposto sinceramente “Ma grazie per avermelo detto”

“Ci mancherebbe. Odio i soprusi per principio”

“Si vede. Esercito o Marina?” gli ho chiesto io per cambiare discorso.

John Watson mi ha guardato perplesso “Scusami?”

“Dove ti vuoi arruolare?” gli ho chiarito subito “Nell’Esercito o nella Marina?” 

“Come fai a sapere che voglio arruolarmi?” mi ha chiesto esterrefatto.

“Si vede lontano un miglio” gli ho risposto io “E comunque ti consiglio la Marina, si lavora meno e si guadagna di più”

E poi nel mio immaginario lui era un elegante Commodoro. Uno di quelli retti, coraggiosi e impavidi, che combattono strenuamente contro i pirati. 

“In realtà soffro il mal di mare”.

Dannazione!

“Quindi pensavo l’Esercito….”

Io annuii “L’Esercito britannico è uno dei migliori d’Europa” dissi per compiacerlo, in realtà non era vero, la Francia ci precedeva. Noi andavamo alla grande sul mare.

“Infatti” mi sorrise “Ora devo tornare in campo, ci vediamo domani”

“A domani” l’ho salutato e sono tornato a casa col sorriso. 






Note dell'autore
Intanto grazie per le recensioni e per le visite, mi hanno fatto molto piacere!
Vi anticipo per correttezza che se siete interessati solo a scene d'amore o di sesso tra John e Sherlock, allora è meglio che vi fermiate qui. Il loro rapporto avrà molta importanza ed evolverà, non vi dico come però...

Il fatto che Sebastian Moran e altri siano dei bulli è ovviamente di mia invenzione (anche se in effetti Sebastian in un episodio dimostra una ostilità sospetta verso Sherlock…).
Spero che la storia vi sia piaciuta, a presto,
Obi

 

 

 

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Capitolo 4
*** IV ***


Ieri notte avevo appuntamento con Jim, stesso posto stessa ora.

L’amica di Caramel, un’altra prostituta transessuale, era in possesso delle ultime riserve di quest’ultima e ha comunicato a Moriarty che aveva fretta di sbarazzarsene perché gli sbirri le erano alle calcagna ed era pertanto disposta a vendercele allo stesso prezzo. Questa è stata una buona notizia, significava che ero ancora coperto per un altro mesetto, dopo di che dovrò seriamente iniziare a cercarmi un altro pusher…

Ma un problema alla volta.

Alle tre e trenta del mattino ero già dentro casa, col bottino bianco e due simpatiche siringhe piene nella tasca interna del Belstaff. La tipa ci ha regalato anche dell’oppio condensato, immagino che fosse scaduto o qualcosa del genere. Dato che non voglio morire non lo assumerò, voglio piuttosto provare a sintetizzare il laudano, un narcotico che si ottiene appunto con la macerazione dell’oppio in una soluzione idroalcolica (vino, banalmente). Ci sarà da divertirsi. 

Dopo sono andato a letto ma malgrado la stanchezza generale non riuscivo a prendere sonno. Avevo incamerato gelo e adrenalina, e poi la mia mente non era affatto stanca, tutt’altro. Galoppava imbizzarrita sotto le mie palpebre chiuse. Pensavo al laudano, a quando era stato scoperto e alle sue possibili trasformazioni. Mi provocava insofferenza e frustrazione essere costretto ad aspettare per sintetizzarlo, volevo farlo subito, seduta stante, solo che erano quasi le quattro di mattina e la sveglia sarebbe suonata alle sei.

Mi ero coricato perché avevo bisogno di dormire, dovevo dormire, dormire era la cosa giusta da fare in quel momento. Ho resistito circa otto minuiti. Furono otto minuti di lotta estenuante contro me stesso, ma come diceva uno spiritoso irlandese: "il modo migliore per resistere alle tentazioni, è cedere". E perciò mi sono alzato con un balzo di soddisfazione e ho cominciato a smanettare con le mie provette. Fanculo il sonno, fanculo tutto.

Alle cinque e quarantasei avevo finito. Sono tornato a letto, la sveglia è suonata alle sei. Ho fatto finta di sbadigliare e stiracchiarmi (faccio lo scemo solo quando sono da solo) e sono sceso, fresco come una rosa di maggio.

Mycroft era già in piedi davanti al pc. Da qualche giorno ha deciso che vuole diventare un azionista, vuole provare a investire dei soldi in azioni, obbligazioni, ETF e quant’altro. Personalmente, non credo esista qualcosa di più soporifero e palloso. Contento lui, vedremo se in futuro diventerà ricco oppure no.

Ho mangiato, mi sono reso presentabile e sono uscito.

Oggi la giornata si prospettava piatta e tranquilla, nelle prime due ore avevo filosofia, poi informatica e poi qualcos’altro che non avevo voglia di visualizzare.

Appena sono entrato nel tetro edificio, Molly mi ha sventolato la mano, si era messa un ombretto viola che faceva a pugni col suo incarnato. L’ho salutata di rimando con un po' di esitazione…

Poi è arrivato Moriarty, che mi ha anticipato che dopo a pranzo mi presenterà la soluzione per i nostri approvvigionamenti futuri.

Ero troppo spento e impigrito per rifletterci sopra o preoccuparmi, gli ho semplicemente fatto un cenno di assenso. Cosa mai poteva andare storto? Avevo subito pensato a un’altra prostituta, o magari al famoso amico del cugino della fidanzata del vicino di casa che spaccia nel tempo libero…

Non potevo immaginare, nemmeno vagamente sospettare, che la soluzione sarebbe stata Irene Adler.

Ora.
Tralasciando lo stupore genuino che provai nel sapere che anche lei si drogava, se l’avessi saputo non mi sarei nemmeno presentato. Mi sembra di avere già detto che non voglio avere niente a che fare con lei. E quando dico niente, intendo niente: non voglio vederla, non voglio parlarle, non voglio incontrarla e non vorrei nemmeno conoscerla. È una persona torbida, astuta e doppiogiochista, che cela la sua mediocrità morale dietro il suo aspetto esteriore. Aspetto esteriore che è oggettivamente gradevole. No, gradevole è un ridicolo eufemismo, diciamo pure che è bellissima e che sa perfettamente come mettersi in risalto. Non la vedi certo in giro con l’ombretto viola e il maglione con la giraffa che si mette Molly… Però, a parte questo e a parte una sorprendente intelligenza, lei è orribile. Davvero orribile, orripilante, un mostro proprio, e io non voglio avere niente a che fare con lei.

Chiamasi tattica di auto convinzione. Dicono che al cuor non si comanda, beh, non se ti chiami Sherlock Holmes. 

Sono irremovibile sul punto. Ho deciso che lei e le sue malie non mi fanno alcun effetto e così è. Perché basta un attimo per farsi stregare, noi uomini siamo dei recettori talmente banali da sfiorare il ridicolo, ma l’importante è rendersene conto. Per poter superare i propri limiti è necessario conoscerli e io conosco molto bene i miei.

Quindi.

C’è questa sirena bellissima, talmente bella che fa sospirare anche le pietre, ma portatrice di un animo crudele, machiavellico e derisorio, bramoso di incantare le sue vittime per poterle trascinare sott’acqua e annegare senza pietà. Basta solo guardarla nel viso per vedere il veleno fuoriuscire dai suoi grandi occhi celesti. Come difendersi allora di fronte a un mostro marino così pericoloso? La risposta è elementare: bisogna disarmarlo. E per disarmarlo occorre ignorarlo, dimostrarsi impassibili e gelidi di fronte al suo canto. E infatti anche lei adesso ha iniziato a ignorarmi con sottile e garbato disprezzo. E quando non lo fa, il suo sguardo è inclemente e penetrante. Sento spesso la lama dei suoi occhi sdegnati pungermi le spalle, è offesa perché non le dedico nemmeno uno sguardo, nemmeno un saluto.

Ma non ha in odio solo me, credo che detesti tutti gli uomini in generale, anzi ne sono oltremodo convinto. Sorride solo alle donne e questa sua misandria è forse l’unica cosa di lei che sono riuscito a dedurre. Ma non mi sento di condannarla per questo, se ci odia avrà le sue ragioni. Chissà quante molestie di strada, catcalling o complimenti non richiesti è costretta a subire ogni santo giorno. Hanno perfino fischiato a me una volta, non oso immaginare a lei.

Solo che i miei coetanei non si rendono conto del suo plateale disgusto e si lasciano imbrogliare come degli imbecilli. Non capiscono che lei li usa e li schernisce nell’arco della stessa mattinata.

Personalmente sto ben attento a tenere le distanze e a non rivolgerle la parola. Ho già fatto due pessime figure con lei in passato, non mi sembra il caso di aggiungerne una terza.

Ripensarci mi fa venire voglia di abbandonare l’isola. Mi ha traumatizzato, ha offeso la mia intelligenza.

Per farla breve e per non scadere nel melodramma, è riuscita a battermi in una partita a scacchi.

Sì, mi ha stracciato. Io l’avevo stupidamente sottovalutata e lei mi ha quasi fatto scacco matto al re con la sua regina in meno dieci minuti. Ha attuato una complicata difesa siciliana per poi chiudermi in una trappola priva di vie d’uscita, io non ho potuto fare altro che ritirarmi per evitare una bruciante disfatta.

Fu in quel momento che realizzai che lei in realtà era un genio e che io non potevo fare altro che stimarla, ed è esattamente quello che faccio e che cerco di non fare con tutto me stesso. E non è vero che non la guardo, mi compiaccio della sua bellezza, dei suoi profumi e della sua grazia di nascosto, da lontano. Sono come un pirata che ammira la bella sirena col cannocchiale, ma che grida improperi e carica i cannoni non appena se la ritrova davanti.

Ecco, la mia situazione è pateticamente questa.

Il secondo episodio è perfino peggio del primo, certamente più imbarazzante. Non ho alcuna intenzione di ricordarlo. Anzi, sto lavorando sodo per dimenticarlo e sto cercando di contrastare quella minuscola parte di me che lo vuole conservare e non collabora. Una parte davvero infinitesimale, che rappresenta la sfera emotiva, illogica e irrazionale del mio sé pensante. Essa esiste, è schiacciata sotto diversi quintali di calcoli, di nozioni e di principi, ma c’è, permane pur senza possedere alcun margine di manovra. Non le permetto di prendere il controllo o di influenzarmi, quello mai. L’ho perfettamente imbrigliata, decido io cosa, quando e a chi pensare. A volte è difficile perché certi pensieri sono sempre in agguato col coltello tra i denti, ma io sto diventando sempre più bravo nel schermarli e nel bandirli. Arriverò al punto in cui mi sarò completamente dimenticato sia di Adler che di Sebastian, sarà come se non fossero mai nati, li avrò del tutto rimossi. Chissà quante altre persone ho già rimosso che non ricordo.

Certamente, finché sono qui e li ho di fronte quasi tutti i giorni, non mi resta che convivere con le loro ombre e fare di tutto per evitarle, e questo mio carattere scostante mi è d’aiuto.

Mi rallegra il fatto di essere tra i pochi a non sbavare ai suoi pedi, e mi rallegra anche vedere come non lo stia facendo nemmeno John Watson. Lui sembra molto più interessato alla sua amica Kate, ma ho come l’impressione che prima o poi passerà anche da Adler. Deve essere un donnaiolo incallito, uno di quelli che hanno quel modo di fare simpatico che piace tanto alle ragazze. Il mio perfetto contrario, tanto per riassumere

Ma prima dell’ora con John, c’è stata la pausa pranzo con Jim, che si è dimostrata quanto meno…

Insolita.

Come ogni pomeriggio mi sono diretto in mensa, il menù quel giorno prevedeva un secondo a scelta tra paillard ai ferri, pollo arrosto, patate al forno o fagiolini lessati. Poi c’erano i primi dal consueto aspetto viscido. 

Riempii quindi il mio vassoio (riso in bianco e patate) e mi appropinquai in quello che ormai era diventato un tavolo riservato per due persone, ovvero me e Jim.

Ma nel suddetto tavolo quel giorno c’era un intruso, una losca figura con i capelli piastrati e le gambe accavallate come quelle Sharon Stone in Basic Instinct.

Sgranai gli occhi e rimasi un attimo impalato in piedi a contemplare l’insolita situazione.

Irene Adler era seduta nel mio posto di fronte a Moriarty, e stava conversando con lui come se niente fosse. 

Mi guardai intorno, non capivo cosa stesse succedendo. Lei non si era mai seduta con noi, nessuno si era mai seduto con noi. E certamente loro due non si stavano frequentando e non erano amici. Mi sedetti comunque con loro, quello dopotutto era il mio tavolo da più di due anni, era una questione di principio. E poi non volevo che Adler pensasse di avere suscitato chissà quali timori in me. Mi sedetti rigidamente e i due si interruppero. Jim mi sorrise, Adler raddrizzò subito le spalle e mi puntò gli occhi addosso. Io iniziai a mangiare come se niente fosse. Se nel piatto ci fossero stati dei ciottoli o degli scarafaggi, li avrei mangiati comunque. 

“Sicuro che possiamo fidarci di lui?” esclamò Adler a Jim. Io mi voltai appena verso di lei, il suo profumo mi violentò il naso.

“Affiderei a Sherlock la tua stessa vita” le ha risposto Moriarty, insensato come solo lui sa essere. 

“Che cosa sta succedendo?” gli chiesi allora io, ma ovviamente non fu lui a rispondermi.

“A quanto pare abbiamo più cose comune di quello che sembra, Sherlock”.

Tono equivoco, sibillino. L’ho guardata male, sarebbe stato troppo immaturo e codardo da parte mia ignorarla, e poi mi sono di nuovo rivolto verso Jim.

“Perché lei è qui?” insistetti verso di lui.

“Perché non lo chiedi direttamente a me?” continuò lei, mi stava fissando “Puoi anche parlarmi, sai. Ti assicuro che non mordo, non la maggior parte delle volte, almeno”.

“Io sì, invece. Chiedilo a Mycroft” le ho risposto a tono, senza motivo.  Lei mi ha accennato un sorriso e mi ha rubato una patata dal piatto.

“Anche io mordo” ha aggiunto Moriarty "A pagamento però”

Bene, mi ero seduto da due minuti e la situazione stava già degenerando. 

“Perché lei è qui?” ho quindi chiesto a quel pazzo da manicomio.

“Ma perché non lo chiedi a me? Cos’è, timidezza?” ha insistito Adler, beffarda “Sei tanto timido, vero? Ma che tenera questa cosa”

Credo di essere arrossito. La odio. Ecco perché la odio. “Non è timidezza, semplicemente non voglio parlare con te” le ho scandito duro come il ghiaccio. Se mi incartavo era la volta buona che andavo a casa a bere del veleno. 

“Perché non vuoi parlare con me?”

“Ma basta!” intervenne Moriarty e io per un istante (un instante) provai della riconoscenza nei suoi confronti “Rassegnati, Irene, tanto non te lo dà! Sherlock non lo dà a nessuno, basta!”.

Io sgranai gli occhi, se possibile il mio già esasperato disagio crebbe ancora di più, sfiorò l’iperuranio platonico. Ovviamente il trauma non mi diede la forza di rispondere, ma Adler come al solito non si scompose di una virgola.

“Ma quanto sei deficiente” gli disse invece con nonchalance e la sua voce morire.

“Posso dartelo io se vuoi”

“Bene” dissi, il classico “bene” di nervoso congedo che si dice quando si vuole chiudere un discorso “Vi saluto. Mi è passato l’appetito”. 

Feci per alzarmi, avevo resistito anche troppo. Ma Jim mi afferrò per un braccio e mi rimise a sedere, dimostrando una forza inquietante che non credevo possedesse.

“Dai sexy, si scherza, non fare il noioso” mi ordinò, irrequieto.

“Diglielo e basta, è chiaro che vuole andarsene” lo incalzò Adler e io la guardai, duramente.

“Dirmi cosa?” le chiesi, rivolgendole la parola forse per la prima volta nella mia vita. Anche lei ne parve stupita “Dirti che da oggi mi aggrego anche io alle vostre passeggiate serali”

Sgranai gli occhi.

La droga. Fulminai subito Moriarty con lo sguardo, il mio cuore perse un battito. Adler sapeva, eravamo fottuti.

“Avevamo concordato di non parlarne con nessuno!” gli sibilai tra i denti.

Jim ridacchiò, Adler appoggiò una mano sulla mia.

“Non ti agitare, Aspi. Puoi fidarti di me”

Allontanai subito la mano e la guardai stupito e offeso e imbarazzato. Ma forse dalla mia espressione non era emerso niente di tutto ciò. Mi rivolsi nuovamente a Jim.

“Risolvi subito questo problema” sentenziai, gelido.

“Pronto?” mi incalzò Adler “Hai sentito cosa ho detto?”

…Ma tanto già sapevo che avrei dovuto risolverlo da solo. Sono sempre io che risolvo i problemi. Guardai Moriarty, che stava masticando la cannuccia della Coca Cola Zero come un ruminante. Mi sorrise con la cannuccia verde tra i denti e aprì le braccia come un prete.

“Mi ringrazierai, Sherly” mi predisse “Questa birichina conosce un sacco di gente. Le sue riserve sono migliori delle nostre”

La domanda in quel momento mi sorse spontanea: come ho potuto non accorgermi che anche lei fa uso di droghe? Pensai subito alle anfetamine, o comunque a qualcosa di analogo per dimagrire, ammazzarsi di sport e svegliarsi all’alba. In ogni caso qualcosa per assecondare la sua straripante vanità.

“E perché lei è qui se ha già i suoi fornitori?” domandai rigorosamente a Moriarty.

Perché” mi rispose Adler, sentivo il suo sguardo irritato che mi pungeva come uno spillo “Ho avuto un diverbio con uno di loro e non posso più andarci personalmente”

Di nuovo, sentii le mie sopracciglia contrarsi. Come fa a essere ancora viva dopo “un diverbio” con degli spacciatori?

“Quindi lei ci dà i nomi e noi in cambio le facciamo da corrieri?” conclusi sempre rivolto a Jim, incredulo.

“Te l’avevo detto che era intelligente” confermò indirettamente lui, rivolgendosi ad Adler. Io ero semplicemente scioccato.

“Con tutto il rispetto, è una totale follia” esclamai a bassa voce “Una condotta del genere configura un reato, razza di imbecilli patentati che non siete altro”

E per l’appunto non sarebbe più mero consumo di sostanze stupefacenti (che non è perseguibile penalmente), ma detenzione ai fini di spaccio. La norma recita all’incirca così: “Chiunque… cede, distribuisce, procura, invia, passa, spedisce o consegna ad altri per qualunque scopo… sostanze stupefacenti o psicotrope, è punito con la reclusione da sei a vent’anni e con la multa da 26.000 a 260.000 £”. E francamente rischiare sei anni di galera per le pillole dimagranti di Adler anche no, grazie.

“E chi se ne frega se configura un reato” mi rispose Moriarty con una faccia di bronzo impressionante “Ti pare che potrebbero beccarci? Loro, quel branco di idioti, che beccano noi due? Dai, Sherlock, non farmi ridere”

Sì, era improbabile. Anche Arsenio Lupin in confronto a me e Moriarty farebbe la figura del fesso, ma non era quello il punto. Il punto era che commettevamo un reato, ovvero una condotta antigiuridica penalmente sanzionata dalle forze dello stato e solo per questo dovevamo esimerci dal commetterla. Stop.

“E comunque io sarei dietro l’angolo ad aspettarvi” aggiunse Adler, rivolta verso di me “Per voi si tratterebbe solo di attraversare la strada”

“È un reato” ripetei io, glaciale.

“Sherlock, illuminami. Esiste forse qualcosa di divertente in questo mondo che non configura un reato?” mi domandò Moriarty, il suo sguardo era fisso “Dimmi, ora e in sincerità, qualcosa di non noioso che non sia un reato. Avanti”.

Io rimasi stupito da quella domanda. C’erano tantissime cose divertenti e non illegali da fare, investigare ad esempio (in effetti io in quel momento lo stavo facendo illegalmente, quindi non era un esempio calzante). La musica, la meravigliosa musica (possibilmente non con un violino alle tre del mattino, altrimenti i vicini chiamano i vigili…).

“Il tè” dissi, contento della mia trovata. Il tè era legale e inoffensivo. Certo, se uno lo compra al mercato nero da dei venditori abusivi che lo hanno rubato a loro volta, si potrebbe rischiare perfino una condanna per ricettazione, o per incauto acquisto, se l’avvocato è bravo. Ma a parte questo…

“Il sesso” rilanciò Adler, riportandomi violentemente sulla Terra.

“Eh, ma solo da etero e da sposati però” puntualizzò Moriarty “Altrimenti chi la sente santa romana chiesa?”

“Non sarebbe comunque un reato” dissi io rivolto verso di lui, come sempre questi argomenti erano scomodi “Il sesso fuori dal matrimonio è talvolta considerato un peccato veniale, e come tale può essere perdonato se si dimostra la costanza di almeno uno dei tre… Dei tre requisiti” mi interruppi imbarazzato, mi stavano fissando.

“Quindi tutto confermato?” mi domandò Jim “Ci vediamo stasera?”

“Per me va bene” continuò Adler.

“Per me invece no” ho detto con tono che non ammetteva repliche, scattando in piedi “È fuori discussione”.

“Ma perché?” ha esclamato lei, alzandosi come me “Si può sapere qual è il tuo problema?”

E allora l’ho aggredita verbalmente e le ho spiegato il mio problema, citando testualmente anche l’articolo della legge. E poi sono stato tagliente. Ho anche aggiunto che: “Se mai dovessi finire in galera, non sarà certo per fare un favore a un’arpia che ha finito le sue pasticche dimagranti, se permetti”.

E detto questo me ne sono andato con le spalle dritte e non le ho dato il tempo di rispondermi. Ho sentito solo un fischio ironico di Moriarty alle mie spalle.

 

Dopo trenta minuti comunque iniziava il corso avanzato di scienze. Io entrai ma Adler non si presentò in entrambe le ore.

Non ho potuto fare a meno di pensare che si fosse offesa per quello che le avevo detto, ma ragionandoci meglio mi parve un’assurdità. Lei era perfettamente conscia della sua esimia bellezza e io come al solito mi stavo dando troppa importanza. Se pensava di potermi trattare da cavalier servente si sbagliava di grosso. E se si era offesa, era peggio per lei.

L’assenza di Adler fu comunque squisitamente sopperita da John Watson, proprio come avevo previsto. Quanto adoro essere infallibile.

Costui si presentò in aula giusto tre minuti prima dell’inizio della lezione, e ha trascorso questi tre minuti a chiacchierare e a flirtare con una certa Janine in seconda fila. Ma che scopone, non ha requie. Non so perché ma la cosa mi fece sorridere. 

Subito dopo però realizzai con entusiasmo che doveva obbligatoriamente sedersi accanto a me, visto che il posto alla mia sinistra era come sempre l’unico libero in tutta l’aula. E infatti lui guardò subito verso la mia postazione e mi si avvicinò. Povero John Watson, invece di finire vicino a una bella ragazza gli ero toccato io… Mi dispiacque per lui, ma tolsi comunque lo zaino dalla sedia, lui mi sorrise.

“Grazie” mi ha accennato affabilmente e poi si è seduto con la grazia di un Golden Retriever, facendo grattare la sedia sul pavimento “Comunque non so se ci siamo mai davvero presentati. Io sono John, piacere”

Sapevo perfettamente che si chiamava John. Hamish invece era il suo secondo nome, sua sorella si chiamava Harriet.

“Sherlock, molto lieto” gli ho risposto da persona normale, stringendogli la mano.

Gli ho fatto i raggi nel momento stesso in cui si è voltato. Ha un aspetto molto sobrio, con un fisico asciutto e gli addominali scolpiti per le ragazze, ma non è un vanitoso, tutt’altro. Alla mattina si veste con gli occhi ancora impastati dal sonno (si è messo il calzino sinistro al contrario) e tiene i capelli molto corti per non doverli pettinare. Anche i vestiti che indossa sono comodi, sobri. Deve essere un dormiglione, uno di quelli che se non suona la sveglia va di lungo fino a mezzogiorno, ma ha l’aria affidabile, puntuale. Non è un virtuoso (non canta, non suona, non balla e non disegna) e non è nemmeno uno da videogiochi o da giochi di ruolo. Si colloca incredibilmente nel giusto mezzo di ogni cosa. Lo vedo bene sia in biblioteca a studiare che in osteria a ubriacarsi.

“Allora che si dice? Come è il corso? La prof?”

Voleva fare conversazione, dopotutto lui era una persona normale. Dovevo dargli una risposta generica, una frase fatta, qualcosa che non lo facesse scappare via a gambe levate.

“Non male” ho risposto in modo molto generico. Non potevo certo dirgli che la professoressa Wilson era un’ignorantona digiuna da qualsiasi argomento che non fossero quelle tre o quattro nozioni che conosce a memoria e che ripete ormai da trent’anni a dei ragazzini semi analfabeti che piuttosto che ascoltarla si mettono le dita nel naso, giocano ad Angry Birds e scrivono cavolate nel diario. E non potevo nemmeno dirgli che non può essere licenziata dato che va a letto con il preside, per cui potrebbe pure insegnarci a disegnare una o con un bicchiere che avrebbe comunque una cattedra alla London High e verrebbe comunque pagata da noi patetici contribuenti, perché è così che va la società. 

John Watson mi ha guardato con gli occhi ben aperti, sembrava impressionato. E in quel momento io mi resi conto con angoscia che avevo detto tutto ad alta voce. Stavo per scusarmi ma lui mi ha preceduto con un sorriso.

“Wow” ha sogghignato “Okay. Sei stato molto esauriente, devo dire”.

“Sì, troppo forse” gli ho risposto imbarazzato.

“No, è stato fantastico” mi ha replicato tranquillamente “Mi piacciono le persone schiette, che dicono le cose come stanno. Lo apprezzo”.

Io l’ho guardato stupito, non me l’aspettavo. Inutile dire che io apprezzo le persone che apprezzano le persone schiette. Mi ha detto che aveva un professore molto simile a questa nella sua vecchia scuola, io gli ho chiesto se il professore fosse di filosofia e lui mi ha risposto di sì.

“Come fai a saperlo?”

“Ho tirato a indovinare” ho mentito, non tiro mai a indovinare. Dopo è entrata la prof e con lei anche gli altri studenti ritardatari, tra cui Moriarty. Appena mi ha visto seduto con John, si è bloccato e lo ha guardato come se volesse ucciderlo. Quest’ultimo comunque era troppo impegnato a fissare l’orologio per accorgersi delle ire di un potenziale serial killer psicopatico.

“Oggi non ne ho voglia. Non ho dormito niente ieri” ha sussurrato, altra cosa che avevamo in comune, solo che io ero andato a comprare della droga, lui si era portato a letto qualcuno “Speriamo passi in fretta”

“L’ora è iniziata da trenta secondi” gli ho fatto notare, ma questo lo ha fatto sorridere.

“Appunto. Ti va una partita ad Angry Birds?”

Ammetto che mi ha strappato un sorriso. 

Non abbiamo giocato ad Angry Birds perché io non sempre mi portavo a scuola il cellulare (e in ogni caso non avevo proprio scaricato la App) però abbiamo parlato un po’ ed è stato interessante. John mi ha chiesto se avessi intenzione di studiare medicina all’università, probabilmente perché impressionato dalle mie conoscenze sulle malattie infettive, e io gli ho risposto di no. Lui invece ha continuato dicendo che gli sarebbe piaciuto, ma che era spaventato dalla ingente mole di studio richiesta. Io gli ho consigliato di provarci comunque, perché ha tutta l’aria di essere una persona seria e perseverante. Lui mi ha sorriso e ringraziato, ma credo proprio che abbia l'esercito per la testa.

Durante la seconda ora è rimasto sbalordito dalle mie conoscenze sulla chimica, mia materia preferita, al che gli ho risposto che forse sarà la disciplina che approfondirò all’università.

“Vuoi fare il ricercatore?” mi ha domandato a bassa voce. 

“No, non sono un teorico. Voglio avere delle conoscenze utili da usare in altri campi”

“Tipo quali?” ha insistito, curioso. Mi ha sempre dato un po' di imbarazzo parlare del mio amore per le indagini investigative, perché può essere facilmente frainteso per il gusto dell’orrido o della cronaca nera, ma non è stato questo il caso. John Watson ha sbarrato gli occhi e mi ha ascoltato per tutta l’ora, dimostrando un interesse talmente genuino e lusinghiero che mi ha scaldato il cuore.

Gli ho spiegato l’utilità basilare della chimica rispetto alla conduzione delle indagini, il parallelismo tra il funzionamento stesso della chimica e il ragionamento analitico deduttivo, e sembrava talmente interessato che la professoressa a fine ora mi ha chiamato alla cattedra. Temevo mi volesse rimproverare per non avere prestato attenzione alla sua lezione, ma invece mi ha solo chiesto di cosa avessimo parlato di così interessante da distogliermi dalla materia. Gli ho risposto con qualche reticenza (nessun “adulto” deve sapere del mio amore per l’investigazione), e lei mi ha lasciato andare.

John Watson mi stava simpatico e non avevo pensato ad Adler nemmeno per un secondo.

 


 

 

 

 

 

Note dell'autore

Povera Irene…
Grazie come sempre per le recensioni e le letture! Chiedo scusa se rispondo un po' tardi.
Una cosa che non ho precisato è che qui siamo all'inizio dell'anno (ho scritto nel cap. II "aprile", ma è stato un mio svarione. Suppongo perché siamo in aprile...) e poi il tutto è ambientato più o meno ai giorni nostri, o a quelli di Sherlock BBC, comunque periodo in cui c'era già una avanzata tecnologia.
A presto,
Obi.

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Capitolo 5
*** VI ***


 

Dopo l’incidente di Stamford ho riflettuto a lungo sul da farsi.

Mi sentivo molto minacciato e il timore mi aveva offuscato la lucidità, ma ora è passato qualche giorno, io ho ragionato sull’accaduto e ho deciso che la strategia migliore per fermarlo era bandire ogni reazione. L’ignorare strategico, tanto in auge con i bambini, funziona anche con le menti deviate.

Dunque ho dissimulato e finto che nulla fosse successo. Ho mantenuto intatta la routine, ho continuato a vederlo in mensa, a parlargli e a rispondergli al telefono, fargli capire sottilmente che il gioco non mi aveva divertito e che non aveva sortito alcun effetto, né in me, né in John. 

L’ho spiegato anche a quest’ultimo durante l’ora di filosofia, ora che io dedico ad altre più concrete attività.

“Le menti schizofreniche hanno bisogno delle ripetizioni e delle stereotipie, le menti criminali invece bramano il controllo, l’egemonia sulle persone, sul fato e perfino su loro stessi. Basta anche la sola illusione per accontentarle. E la schizofrenia criminale mette insieme i due fattori. Quanti assassini ci sono stati nella storia che hanno agito seguendo un preciso e scrupoloso rituale?”

“Tantissimi” mi ha risposto subito lui.

“Precisamente. Io gli ho dato la ripetizione ma gli ho sottratto il controllo. Così facendo è come se lo avessi invitato a cambiare strategia, perché colpendo te non ha apparentemente ottenuto nulla. Capisci? È un discorso contorto, che ben si associa menti astruse e per l’appunto contorte come la sua”.

“No, non è contorto. Ha senso” mi ha risposto “Quindi cosa facciamo?”

“Niente, John. Restiamo in vigile attesa”

Gli scocciava non fare niente, glielo leggevo in faccia. È un energico, un uomo d’azione.

“Come sta Mike?” gli ho domandato, ero sinceramente dispiaciuto.

“È ancora in coma…” mi ha risposto a mezza voce, si era incupito.

“Mi dispiace” 

“Non è colpa tua”.

L’ho guardato gravemente e non ho aggiunto altro. Mi sentivo in colpa, anche se dal punto di vista eziologico-causale non ne avevo motivo. Ma più riflettevo su questi fatti e più mi rendevo conto di quanto Moriarty fosse pericoloso. Rivivevo certi attimi, mi tornavano in mente ricordi sbiaditi di sguardi, frasi o dialoghi che ora mi parevano segnali incontrovertibili della sua deviazione criminale. Ho sempre saputo dentro di me che sarebbe diventato una persona socialmente pericolosa, ma una parte del mio inconscio minimizzava l’idea e la relegava ai margini. Eppure, ora lo vedevo distintamente per quello che era. Ero come un miope a cui avevano messo gli occhiali e mi rimproveravo di non essermi premunito prima.

“Quindi non facciamo niente neanche con la tua amica?”

Si riferiva a Molly. Lo avevo messo al corrente anche di questo, ovvero che nel mirino di Jim c’erano le ragazze. Ammesso e non concesso che fosse vero e che non l’avesse detto solo per depistare le mie attenzioni.

“No” gli ho quindi risposto.

“Mi esaspera non fare niente”

“Lo capisco. Ma più passano giorni e più mi convinco che Molly non sarà il suo bersaglio, anche se rappresenta l’unica amica donna che ho” gli ho spiegato allora, meritava delle spiegazioni “Colpire Molly sarebbe una mossa troppo banale per i suoi standard, troppo scontata, Jim dopotutto agisce nella speranza di sorprendermi e mettermi in difficoltà”.

“Ok. Quindi chi potrebbe essere questo benedetto bersaglio?” mi ha domandato, irritato.

“Ahimè non riesco a immaginarlo” ho ammesso “Oltre a Molly non ci sono altre donne nella mia vita, ad eccezione di mia madre, che sa comunque badare a se stessa”

“Sicuro?”

“Oh sì. Sembra tanto svampita, ma in realtà è una docente di matematica all’università di Oxford e ha il porto d’armi”

Lui sorrise per lo stupore “Tua madre ha il porto d’armi?”

Io annuii, divertito “Tiene un fucile a doppia canna in garage e una Makarov nel cassetto del comodino. Di questi tempi avere il porto d’armi è quasi più importante che avere la patente, caro John. Soprattutto se vuoi fare un lavoro come il mio”.

“Non c’è una cosa di te che non mi sorprenda, Sherlock. Lasciamelo dire”

Ho trattenuto a stento un sorriso, mi sentivo lusingato anche se forse non era sua intenzione farmi un complimento.

“Beh, il lavoro dei detective richiede calma e sangue freddo, ma soprattutto un certo fegato” mi ero acceso, come sempre quando parlo di questo lavoro “Si viene a conoscenza della brutalità umana e la si tocca con mano, la si studia e la si guarda dritto negli occhi. Siamo come dei criminologi, con la piccola differenza che noi non ci fermiamo alla teoria, ma ci infossiamo proprio nella tana del mostro e guardiamo il brutale assassino dritto in faccia e poi gli puntiamo anche contro il dito. Non credo che possa esistere un lavoro più pericoloso di questo. Rischiare di morire sbudellati e farsi dei terribili, sanguinari nemici è all’ordine del giorno”.

“È una figata”

“Lo è!” ho trattenuto un gridolino.

“Peccato che tu non abbia sorella” ha aggiunto scherzosamente. Io abbassai lo sguardo e mi sentii strano. C’era qualcosa di strano in quell’affermazione, che stonava. Anzi più di qualcosa, diverse cose. Tacemmo per qualche minuto. In quella breve pausa cercai di mettere ordine ai miei pensieri e di capire che cosa volesse comunicarmi il mio inconscio. Inspirai dal naso ma sentii il vago profumo balsamico del dopobarba di John. Lo guardai nel suo bel viso dorato dal sole, lui ricambiò il mio sguardo.

“Io nel dubbio lo prenderei a pugni. Così, tanto per dargli un assaggino” esclamò lui, spezzando il silenzio. Era pieno di coraggio e di vigore, lo immaginavo fin troppo bene nel campo di battaglia a correre tra le mine vaganti e gli spari dei nemici.

“No, lascia stare. È armato fino ai denti”

“E allora mi armo anche io!”

“Si fidi di me, Watson” cambiai tono, non poteva nemmeno immaginare che risorse poteva avere Moriarty “Se glielo impedisco, è solo per il suo bene”

“Siamo passati al lei?”

“Se è utile a convincerti...

Lui mi accennò un sorriso e prese a scarabocchiare delle spirali sul libro. Aveva disegnato gli occhiali da sole su una foto di Francis Bacon. Tenerlo lontano dalla mischia equivale a tenere un eroe lontano dalla gloria, ci vuole una bella tempra convincente.

“Sicuro di non avere una cotta per lui?” mi sussurrò appena. Queste domande mi fanno sussultare, ma come gli viene in mente?

“Certo che sono sicuro!”

Lui alzò appena le mani in segno di resa. Mi scocciava che pensasse questo, anche se, ragionandoci meglio, questa domanda poteva sembrare vicaria di un’altra più intima e scomoda.

“Perché me lo chiedi?” gli domandai gentilmente, senza accusarlo “Ti sembro forse gay?”

“No” mi rispose di scatto “Cioè, in realtà non lo so, non sono a bravo a riconoscerli, a meno che non si atteggino in modo proprio evidente”

“Io li riconosco anche se fanno di tutto per nasconderlo” gli rivelai senza modestia alcuna.

“Davvero?” mi domandò, il suo tono sembrava preoccupato.

“Oh sì”

“Che mi dici di Bill, allora?”

Il sorriso mi morì sulle labbra, perché voleva saperlo? Provai un forte senso di oppressione e irrequietezza dentro di me. Gelosia, in altri termini.

 “Bill Murray? Perché?” gli chiesi col mio occhio scrutatore, lui arrossì leggermente.

“È che l’altro giorno, in spogliatoio...” esitò, il mio bassoventre si accese come il candelotto di una dinamite. 

“Cosa è accaduto?” lo incalzai, agitato “Avete avuto un incontro ravvicinato?”

John arrossì ancora di più “Ma no!” mi smentì subito “Io non sono gay, è che lui a un certo punto aveva...” si indicò i pantaloni.

“Ah” 

“Capito?”

“Perbacco se ho capito” esclamai, necessitavo di un bicchiere d’acqua. 

“Io ho ovviamente fatto finta di nulla” ha continuato John “Però, insomma, se sei nello spogliatoio dei maschi e ti capita una cosa del genere mentre si sveste il tuo amico, che poi sarei io... Beh, io un paio di domande me le farei”

Anche un ventaglio mi avrebbe fatto comodo in quel momento.

“Io comunque voglio solo aiutarlo” si sentì in dovere di aggiungere “Se gli piacciono i ragazzi è giusto che lo accetti e che faccia coming out”

“Concordo pienamente” gli risposi in modo poco incisivo, ma ero in una condizione di forte tensione fisica e mentale. Immaginavo John che si spogliava e provai un inaspettato senso di vicinanza e comprensione per il povero Murray. Tuttavia...

“Non credo che Bill sia gay” gli risposi, mi feci coraggio “Magari aveva voglia di farlo e vedere delle persone nude ha semplicemente scatenato la sua fantasia”

“Sì, capisco cosa intendi” ha concordato con me “Anche io delle volte mi scoperei pure il frigorifero” mi ha strappato un sorriso “Però quando sono in mezzo agli altri mi do una regolata, santiddio”

“Ma lui si è accorto che tu lo avevi visto?”

“Non credo, mi sono voltato subito di schiena” mi ha risposto “Ma senza piegarmi, eh”

Giuro che mi ha fatto ridere e arrossire al tempo stesso, ho dovuto coprirmi gli occhi con una mano e scacciare le immagini oscene che la mia mente mi imponeva con un realismo degno di un dipinto fiammingo. Stavo per fare la stessa fine di Murray. 

Mi alzai dalla sedia, volevo solo andare alle macchinette a prendere qualcosa da bere, niente di che, ma in quello stesso istante si alzò anche Irene Adler e perciò io ripiombai di scatto al mio posto. Mi mancava solo lei in quel momento, solo lei. La osservai mentre usciva dall’aula con un piede davanti all’altro, senza nemmeno guardare in faccia il professore (lei non deve chiedere mai). Si era infilata il cellulare sotto la maglietta, probabilmente stava andando a fare una telefonata al suo amante sposato e ultra quarantenne... Maledetto lui, chiunque fosse. Baciarla era un conto, ma andarci a letto doveva essere qualcosa di inimmaginabile, che andava al di là di ogni possibile grazia terrena. Se non fosse chiaro, in quel momento versavo in una situazione drammatica. Mi sentivo infuocato, preda di questa età disgraziata e degli insaziabili appetiti di gioventù.

“È uno schianto” mi ha detto John, a quanto pare aveva seguito il mio sguardo “Ma io preferisco Claudia Schiffer” 

Capii immediatamente che si stava riferendo ad Astrid Mikkelsen, una delle amiche di Irene Adler.

“Ma perché sono nato brutto e basso...” 

“Non sei brutto” l’ho contraddetto subito, non era affatto brutto. Effettivamente era basso, ma nessuno è perfetto.

“Per quelle come lei, sì, lo sono” replicò, rassegnato “Dovresti provarci tu, Sherlock. Tu sei un figo”

Ammetto che mi è sfuggito un sorrisetto colpevole e inopportuno. “Ma no…” ho negato per pudore.

“Sì, che lo sei, accidenti a te. Sei alto, hai gli occhi azzurri, ti vesti” ha continuato John con convinzione “Se fossi in te, mi sarei passato tutte le cheerleader e non so francamente cosa stai aspettando” 

“Non l’ho mai fatto in vita mia” gli ho confessato a bruciapelo. Era la prima volta che ne parlavo con qualcuno, ma lui mi ispirava fiducia. Non è una persona che giudica o che sparla dietro. E infatti John sembrava semplicemente sorpreso. O mi considerava proprio un super figo, oppure si stava domandando come potessi essere sopravvissuto. E in effetti per uno che ha perso la verginità a quattordici anni (per non dire dodici) doveva essere inconcepibile.

“Beh, è un buon motivo per cominciare, allora” mi ha risposto tranquillamente “Ma ti prego punta su Claudia Schiffer, così poi me lo racconti e mi sento meno disperato”

Era esilarante, gli piaceva tanto Astrid Mikkelsen, una svedese bionda che superava il metro e ottanta d’altezza. In effetti costei era bellissima, ma non aveva la grazia o la voce soave di qualcun altro…

“Sicuro che questo non ti renderebbe ancora più disperato?”

Lui mi sorrise “Forse hai ragione. Sai che sei forte? Dovremmo parlare più spesso”.

Il cuore iniziò a battermi in modo sconsiderato.

“Sì, sono oltre modo d’accordo” gli ho risposto subito.

“Non so se sei uno che ama lo sport, ma ci provo” continuò John, io trattenni bene l’emozione “Ti va di fare jogging con me qualche mattina? Se so che c’è qualcuno che mi aspetta, sono più spronato ad andare”

“Ma certo” gli ho risposto subito, come se fosse ovvio. Beh, per me era ovvio, l’avrei accompagnato anche a fare pilates. John sgranò gli occhi, sembrava stupito della mia risposta affermativa. “Davvero?”

“Certo. Sembri sorpreso”

“Non credevo fosse così facile” bisbigliò “L’avevo già chiesto in giro e Bill mi aveva dato del pazzo”

Murray, ancora. Una vocina antipatica nella mia testa sottolineò subito che John l’aveva chiesto prima a lui che a me, ma non volevo farmi abbattere, era già un miracolo il solo fatto che mi avesse interpellato. Mi aveva preso in considerazione, per lui ero una persona a cui si poteva chiedere di uscire.

“E in realtà lo capisco” continuò “Ci vuole un bel coraggio per alzarsi prima la mattina”

“Quando si è in buona compagnia anche le notti insonni diventano piacevoli” gli ho risposo ingenuamente. 

Lui ha sogghignato “Su questo ci puoi giurare! Te lo metto per iscritto!”

Rimasi un attimo confuso da questa sua breve euforia, ma poi realizzai con un certo imbarazzo che avevo fatto una battuta equivoca senza rendermene conto. 

“Come va con Kate a tal proposito?” cercai di sviare.

“Non male, dai. Siamo all’inizio. Tu invece? Ti frequenti con qualcuno?”

Con te sarebbe stata la risposta più appropriata, ma per ovvi motivi mi astenni dal dirla.

“No” e vista la situazione, era più che mai un bene.

“Sai che c’è una tipa che mi ha chiesto di te?” ha continuato John e la cosa non mi sorprese più tanto.

“Davvero?” gli chiesi, più per gentilezza che per reale curiosità.

“Sì, è mora e molto bella”

Mora e molto bella? Mi ricordava qualcuno… Ma proprio in quel momento il professore ci riprese. In effetti avevamo chiacchierato ininterrottamente tutto il tempo, ma dopotutto cosa mai potevano fare un aspirante medico e un aspirante detective durante l’ora di filosofia? Abbiamo quindi taciuto e iniziato a giocare a tris, ma alla settima partita John si è rifiutato di continuare perché vincevo sempre e solo io.

“Mora e molto bella, dicevi?” gli ho chiesto con nonchalance, dopo che l’acque si furono calmate. Lui mi ha rivolto un sorriso di complicità e ha annuito.

“Ha anche due belle tette”

Non era Adler, ora ne avevo la piena conferma.

“Si chiama Janine, non so se la conosci”

Ho annuito subito “Certo che la conosco. È indiscutibilmente mora e molto bella”

“Indiscutibilmente. Provaci con lei, secondo me ci sta” ha continuato “Mi ha chiesto: ma tu sei un amico di Sherlock?” ha fatto una voce in falsetto che mi ha fatto sorridere.

“Ci penso. Grazie” gli ho risposto per cortesia. Ovviamente ci avevo già pensato e la mia risposta era no, un no secco.
Adler intanto era rientrata, la guardai mentre si sedeva sotto lo sguardo incalzante e curioso delle sue amiche. Doveva aver fatto una telefonata particolarmente importante, magari lo aveva lasciato. 
Si inclinò verso Astrid e notai un piccolo livido che le sbucava da sotto la maglietta, troppo scollata per nasconderlo. Ogni tanto aveva degli strani lividi, in posizioni altrettanto strane. Ma non se li procurava da sola, aveva troppa grazia per sbattere ovunque come noi comuni mortali.

Lo sguardo mi cadde furtivamente sul suo viso delicato, ma tempo tre secondi e lei mi intercettò, i suoi occhi azzurri mi punsero come due spilli. Io mi voltai di scatto verso il mio amico. 

La sua presenza era rassicurante, aveva dei lineamenti molto regolari e i capelli biondi come il grano, peccato che li tenesse così corti. Sentendosi osservato, anche lui ha alzato lo sguardo verso di me, ma io gli ho sorriso, mi è venuto spontaneo e naturale.

Anche lui mi ha sorriso, ma insieme al sorriso ha aggrottato le sopracciglia. “Tutto bene?” mi ha chiesto, sembrava  confuso.

No.

“Certo. Benissimo”.

No, non andava tutto bene.


***

 

Pensavo a John sempre più spesso. 

La mia tesi che lui si collocasse nel giusto mezzo di ogni cosa era verissima. Non aveva particolari talenti e probabilmente non distingueva una croma da una semicroma, ma possedeva (possiede) una pazienza e una resilienza che sono a dir poco formidabili. Se esistono le persone lunatiche ed eccentriche, John ne rappresenta il perfetto contrario. Tuttavia ho scoperto cose del suo passato che potrebbero tranquillamente confutare questa mia tesi. Ho scoperto che prima di venire qui frequentava una sorta di collegio militare, dal quale è stato espulso perché beccato a fare a botte con un compagno. Questo non mi ha eccessivamente sorpreso, John Watson sembra tanto calmo e paziente ma in realtà non lo è. È una testa calda assetata di adrenalina, pericolo e perchè no, trasgressione. Ma trasgressione legale, ha un forte senso dell’etica e della civiltà, non è il tipo che va a imbrattare i muri con una bomboletta spray o che si masturba in pubblico, tanto per dire un eccesso. È estremamente interessante e più complicato di quello che sembra, dato che non lascia trasparire nulla. Se sta male, non lo dice. Se è contrariato, non lo dice. Se è stanco, non lo dice. Potrebbe finire sotto un tir ed essere tradito dalla ragazza nello stesso giorno che nessuno lo noterebbe. Questo per dire che John non manda vibrazioni negative, le trattiene tutte a costo di scoppiare. È ermetico come una cassaforte, ma è talmente lineare che si capisce subito quando c’è qualcosa che non va. 

E poi non giudica, non parla alle spalle, non invidia, non è competitivo, non è arrogante, non è indisponente, non è una persona superficiale e non è attaccato al denaro. Gli piace molto il sesso, anche se non ne parla spesso… Perlomeno non con me. È capitato giusto in quell’ora di filosofia di cui sopra e io mi sono sentito strano.

Le persone non si rendono bene conto che la libido è un’emozione estremamente contagiosa, soprattutto se sei un maschio con gli ormoni in subbuglio. Se hai di fianco una persona che ha il fuoco nelle mutande, stai certo che ti ritrovi con lo stesso fuoco in meno di cinque secondi. A me è successo così.

Ora, se volessi indagare meglio sulla natura di queste mie tensioni improvvise, credo che giungerei a una semplice ed elementare conclusione: il mio corpo ha una gran voglia di fare sesso. Che io lo voglia o no, è così. È come se avessi una Ferrari chiusa nei pantaloni, sono pieno di benzina fino all’orlo. Questa tensione fisica ha delle notevoli ripercussioni anche nelle mie facoltà intellettuali. Mina la mia concentrazione, mi rammollisce il cervello e, in estrema sintesi, mi provoca dei fastidiosi malfunzionamenti. L’unico modo per sbarazzarmene è alleviarla, e per alleviarla devo avere degli orgasmi. Nessun problema, me ne sono procurato uno senza nemmeno toccarmi. Credevo ingenuamente che il mio languore sarebbe migliorato e invece no. Aver smussato le spine del desiderio non ha risolto niente, anzi, arrivo a dire che le ha fatte ricrescere più pungenti di prima. È come finire intrappolati in una sabbia mobile, se ti dimeni nella passione, sprofondi ancor più giù. Bisogna solo stare fermi e aspettare (sperare) che il terreno prima o poi si secchi. E soprattutto non bisogna perdersi in fantasie troppo ardite, perché la mente umana ha un modo tutto suo per processare le idee e tende a giocare brutti scherzi in fatto di stimoli. Se io sognassi la mano di John, allora finirei inevitabilmente per collegarlo a quella forte emozione sensoriale e non mi sembra proprio il caso. 

Non mi sembrava il caso ma naturalmente l’ho fatto, mi è venuto quasi naturale pensare a lui. Questo mi rende omosessuale? Mi rende innamorato di lui? Non è un quesito elementare. Avrei bisogno di confrontarmi con qualcuno e potrei farlo anche con John, mentendo, ma anche la mia infinita faccia tosta conosce dei limiti.

Ecco, questo è il principale problema nell’essere asociali e sociopatici, ci ritroviamo da soli anche quando abbiamo bisogno d’aiuto.

Alla fine mi sono rivolto, pur ricalcitrante, all’unica persona possibile, l’unica che mi rimaneva.

Mycroft fa sesso, ma per lui è più una seccatura che altro. Lui è pigro e farlo implica del movimento, del sudore e della condivisione, tre cose che mio fratello odia profondamente. Però lo fa, a differenza mia… E poi mi guarda e capisce perfettamente cosa mi passa per la testa, ci è sempre riuscito e tuttora ci riesce. Le sue capacità deduttive sono più raffinate delle mie, tanto che spesso non devo nemmeno disturbarmi a chiedere: lui mi precede.

“Devi trovarti una ragazza” mi ha consigliato mentre eravamo impigriti di fronte alla tv. Era mercoledì, la sera in cui i nostri due vecchi andavano al corso di ballo e, vivaddio, ci lasciavano soli. Ciò significava fumare come se non ci fosse un domani, mangiare cose sul divano e guardare film di dubbio gusto nella tv del salotto. Ma nessuno di noi due li guardava sul serio, erano solo un sottofondo.

“Sta zitto”

“Non essere allarmato dal sesso”

“Non sono allarmato!” ho replicato con fervore, avevo ben due sigarette in bocca.

“Anche il re dei cretini è capace di farlo” ha continuato lui come se non avessi detto niente “Non sei così stupido, Sherlock”

Io ho alzato gli occhi al cielo. Ma visto che eravamo in argomento, ne ho approfittato per fargli la domanda.

“Come hai fatto a capire di essere eterosessuale?” 

Mycroft mi ha lanciato un breve sguardo e poi è tornato a guardare la tv.

“Non l’ho capito, l’ho deciso” mi ha risposto tranquillamente “Detesto allo stesso modo sia gli uomini che le donne, per cui…”

Mi ha fatto sorridere, io ero sociopatico, ma Mycroft era proprio un eremita. “So già che me ne pentirò, ma perché me lo chiedi?”

“Ho immaginato un mio amico mentre mi masturbava” gli ho rivelato senza tanti preamboli. Ci voleva ben altro per scandalizzarlo e infatti lui non si è scomposto minimamente. Ha solo espirato una bella boccata di fumo.

“Perché, non usa più tra amici?” mi ha domandato facendo spallucce. Io, scioccato dallo stupore, ho raddrizzato la schiena, ma Mycroft si è subito smentito con un sorrisetto beffardo.

“Ma fottiti” ho replicato nel momento in cui ho capito che mi stava prendendo in giro.

“Oh, Sherlock, sei ancora così ingenuo. Sai cosa fanno due uomini quando vanno a letto insieme?”

“Certo che lo so!” gli ho risposto irritato, come se la sola domanda mi avesse offeso. Ovvio che lo sapevo, anche se non lo praticavo, conoscevo il sesso e tutti i suoi feticismi come le mie tasche. Sapevo perfettamente  cosa facevano due uomini, due donne, tre uomini, tre donne e così via. 

“Bene. Inizia ad avere dei dubbi quando sognerai qualcosa di un pochino più intrusivo che un paio di carezze, d’accordo?”

L’ho guardato male, anche se forse aveva ragione. Come sempre aveva ragione.

“Perché non ho immaginato una ragazza?”

“Perché non ne hai il coraggio, probabilmente. O forse perché sei davvero gay, se non lo sai tu…”

E dopo quel breve intermezzo io ho taciuto e così anche lui. Abbiamo guardato quel film truculento pieno di sangue, sesso e sgozzamenti fino al rientro dei nostri imbarazzanti genitori. Io mi sono subito defilato in camera mia, Mycroft pure.

Sotto le coperte e nel buio della mia camera ho provato a immaginare Molly in chiave erotica, ma mi ha dato la metà delle sensazioni che mi ha elargito la mano di John. Ci sarebbe un’altra ragazza su cui avrei potuto edificare un’intensa fantasia, ma non ho voluto farlo. Anche perché sapevo già che con lei avrebbe funzionato.

Forse non sono gay, forse lo sono… Non mi è mai importato saperlo, ma ora che ho un amico credo sia opportuno per me fare chiarezza. Non tanto per lui, perché John non è gay. A lui piacciono indiscutibilmente le ragazze, in particolare quelle molto alte e molto formose. Se fossi nato donna, sarei stata sicuramente alta, forse come lui o addirittura di più. Mi immaginai donna, ma mi immaginai brutta, ossuta e senza seno, ma vidi comunque John sorridermi e avvicinarsi, allungare una mano verso il mio viso…

Ho provato dei brividi di varia natura.

 

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Capitolo 6
*** V ***


Faccio una premessa: la mia vita ha subito un brusco scossone, un cambiamento radicale in circa tre giorni.

Sono accaduti due fatti, un fatto degno di nota e uno che ho deciso di ignorare completamente. 

Il fatto degno di nota riguarda John Watson, quello che ho deciso di ignorare riguarda Adler. Ma procediamo con ordine.

Per passarmi il tempo, stamattina ho fatto finta di essere un assassino. Ho immaginato di uccidere in ventisei modi diversi i miei compagni di classe, inventandomi una serie di ostacoli da raggirare per complicare ulteriormente le cose. Ovviamente dovevo passare inosservato agli occhi di un investigatore mio nemico, che nella mia testa aveva l’aspetto di Mycroft.

È stato divertente, ho fatto anche uno schema con le morti e gli ostacoli.

Peccato solo che in dieci minuti avevo già finito tutto. 

È davvero esasperante stare qui. Mi annoio in maniera indescrivibile, ho già guardato e analizzato tutto ciò che un occhio umano poteva vedere, persone incluse. Resto fermo e fisso lo sguardo sul muro. Ascolto, inspiro col naso e mi concentro. Sento gli sbuffi, i sospiri, le penne che rigano sulla carta, lo sfogliare delle pagine, il tasto di blocco di un cellulare, persone che rovistano, che si muovono, che bisbigliano, punte dei piedi che sbattono sul pavimento, ossa che scricchiolano, tic nervosi, il fruscio di capelli lunghi, il tintinnare delle monetine, di nuovo un cellulare, un temperamatite elettrico e tutto questo a ripetizione, uguale, in posti diversi, in modo diverso, ma alla fine sempre uguale, piatto, non cambia niente. A rotazione, i rumori sono questi per ore e ore tutti i giorni. E poi i profumi… Bhe, profumi, che parola grossa. Diciamo pure gli odori.

Bisogna avere un certo fegato per ispirare dal naso e sentire quali odori ci sono in una stanza piena di adolescenti. Si passa dai fetori micidiali a certi profumini da quattro soldi che si mettono le ragazze. Ecco uno dei motivi per cui cerco sempre di stare in banco da solo o al limite vicino a una ragazza: i maschi adolescenti hanno un rapporto molto controverso con il sapone. Non tutti, eh, io modestamente sono un cesto di rose in confronto a loro, e neanche Mycroft ha mai fatto odore di topo morto in età puberale. Lestrade va a giorni, John… La prima volta che l’ho visto da vicino, era appena tornato dal campo e non era nemmeno in condizioni pietose, la seconda volta aveva un odore di bagnoschiuma al finto pino che non era affatto male. Promette bene, devo dire che promette molto bene in questo senso. Ma le donne hanno una marcia in più. 

Vaniglia, zucchero a velo, fragola, il tanto amato Chloè, l’inflazionato Nr. 5 della ragazza ricca e il sofisticato profumo all’assenzio che ha sempre Adler. Mi piacerebbe entrare nello spogliatoio delle donne solo per mettere alla prova il mio olfatto e carpire tutti i profumi.

Detto, fatto: mi sono mentalmente catapultato di fronte alla porta del loro spogliatoio. L’ho aperta, ma come ho visualizzato le cheerleader nude e sorridenti, l’ho subito richiusa.

Okay, no. Pessima idea.

Ho cercato di concentrarmi su qualcos'altro che non fossero delle donne nude o dei film porno (gli unici film che posso vedere anche due volte senza mai annoiarmi…), ma il panorama era desolante.

Soggetto nr. 1 aveva le cuffiette nelle orecchie, e a giudicare dalla sua espressione bovina stava ascoltando della musica trash anni ottanta. Soggetto nr. 2 (diamogli un nome, lui è Lestrade) stava copiando come di consueto il tema di scienze che c’era per oggi e che nemmeno io avevo fatto (ops). Soggetto nr. 3. stava scrivendo al cellulare. Soggetto nr. 4 stava ripassando per l’ora successiva, inutilmente perché tanto non sarebbe stato lui il prescelto. Secondo un calcolo di probabilità che io stesso ho stilato durante l’ora di filosofia, sarebbero stati interrogati i soggetti nr. 6 e nr. 7, e così è stato. Anche il soggetto nr. 8 stava messaggiando a qualcuno sotto il banco e… Quel qualcuno ero io.

 

Cazzo guardi?” è stato il tenore del messaggio.

 

Ho alzato gli occhi verso di lui e Moriarty mi ha fatto l’occhiolino. Si è alzato in piedi e mi ha fatto segno di uscire e seguirlo. Non è il massimo quando due studenti escono dall’aula contemporaneamente, ma quando i due studenti in questione siamo io e Jim, i professori tendono a fare finta di niente.

Mi ha solo detto di avere in serbo una sorpresa per me, una “roba che mi piacerà da morire”. Ho pensato subito alla droga, a qualche nuova pastiglia particolare che avevano messo in circolazione. Ero stupidamente tranquillo.

Ebbene, il giorno dopo è successa una disgrazia. Mike Stamford ha fatto un terribile incidente mentre era in macchina con John. Ha inspiegabilmente perso il controllo del mezzo ed è andato a sbattere contro la macchina che procedeva nel lato opposto. Ora si trova in ospedale in prognosi riservata, con una commozione cerebrale e una gamba fratturata. John invece è rimasto miracolosamente illeso, giusto qualche graffio e un polso slogato. Sciocchezze rispetto a quello che sarebbe potuto accadergli. La macchina incidentata per la cronaca non era di Mike ma era di John, o meglio, di sua sorella Harriet. Al volante tuttavia c'era Mike.

L’incidente è successo esattamente un’ora dopo che io e lui c’eravamo scambiati i numeri di cellulare. Io gli do il mio cellulare e John rischia la vita, che curiosa coincidenza. E se fosse stato il fato a mettere fuori gioco Stamford per far scendere in campo me come nuovo migliore amico? 

Sì, lo so, è terribile da parte mia speculare sulle disgrazie altrui, ma Stamford non è mica morto e io non sto mica speculando. È poi non è colpa mia se lui ha preso la patente l’altro ieri e non sa ancora guidare una macchina con una frizione diversa. Io per inciso non ho la patente, ma so guidare da quando ho undici anni. La prima volta che misi in moto un’auto fu per accompagnare mio zio Larry in ospedale durante un veglione di capodanno, eravamo in montagna, di notte, Mycorft era dietro che vomitava e mia madre da casa aveva chiamato la polizia perché non ci trovava più. Fu una serata movimentata.

Personalmente, non ho mai creduto nelle coincidenze e non credo nemmeno nella predestinazione, ma credo nella scienza e un evento non è mai frutto del caso. C’è sempre una spiegazione a tutto, se uno muore per un colpo d’arma da fuoco significa che qualcuno gli ha sparato, la spiegazione sta nel dito che preme il grilletto. Se un guidatore perde il controllo dell’auto, o è colpa dell’auto (mancanza di manutenzione, obsolescenza, difetti di produzione e così via) o è colpa sua, perché ha agito con imprudenza, negligenza o imperizia. O infine è colpa di un terzo che ha manomesso gli ingranaggi dell’automobile, nella speranza di uccidere il conducente o il passeggero, se presente.

Ma non poteva essere quello il caso, chi mai avrebbe voluto uccidere John? Giusto? Beh, nel momento stesso in cui mi sono posto questa domanda, ho avuto un’intuizione, un flash cerebrale. Un viso beffardo è comparso nel mio campo visivo in modo nitido, chiarissimo.

È stato in quel momento che mi è sovvenuto questo ragionevole dubbio, mentre guardavo un talk-show con Mycroft e nostro padre. È così facile dare a Mike del principiante, chiunque incolperebbe lui e la sua inesperienza al volante. Il tipico agente di Scotland Yard lo farebbe. Nessuno si prenderebbe nemmeno la briga di approfondire o azzardare un’altra tesi, anche perché non esiste un caso. Non c’è un morto, nessuno ha denunciato, non è stata aperta un’inchiesta, si tratta semplicemente di un neopatentato che è andato a sbattere contro un’altra macchina.

Inutile dire che mi si stava montando nel petto un violento entusiasmo. C’era qualcosa che non mi quadrava. Ragioniamo. La strada, l’ho vista di fronte ai miei occhi, era come se fossi io al volante. La strada era completamente rettilinea, illuminata, c’era ancora il sole. L’asfalto era asciutto, Mike era sobrio, pieno di adrenalina sportiva in circolo. L’auto di John era una berlina di nove anni, vetusta ma non in modo eccessivo. Oltre all’errore umano, ciò che può portare una macchina a sbandare è il caso fortuito, come un malore improvviso del conducente, un animale che sfreccia improvvisamente nella carreggiata, un’unica e impercettibile scossa di terremoto, un corpo estraneo che cade dal cielo. Mentre pensavo, osservavo e sbandavo anche io, replicavo il testacoda per come lo potevo immaginare. Che Stamford avesse avuto un attacco di cuore? Un ictus? Che avesse visto qualcosa che lo ha distratto? Magari spaventato?

“Sherlock, mi puoi passare il telecomando per favore?” riconobbi la voce di mio padre per miracolo. Glielo passai senza nemmeno sbattere le palpebre.

Dovevo parlare con John. Mentre elaboravo questo pensiero sono scattato in piedi. Il mio corpo mi ha preceduto.

“Posso prendere la macchina?” ho domandato frettolosamente.

“Perché?” hanno risposto Mycroft e mio padre in coro. Avevo fretta, non avevo tempo per queste sciocchezze. “Posso dirvelo domani mattina?”

“Sherlock!” protestò mio padre. “Dove diavolo devi andare a quest’ora?” domandò invece Mycroft, ma senza alzarsi in piedi, troppa fatica. E dopotutto era seduto nella poltrona con la copertina sulle gambe e un pacco di biscotti Enerzona, nemmeno un terremoto avrebbe potuto schiodarlo da lì.

“Da Lestrade… Uh, Jerry, un mio amico” ho inventato mentre mi mettevo il cappotto sopra la vestaglia “Dobbiamo fare una… Ricerca insieme” 

“Immagino volessi dire Greg. E poi tu non fai le ricerche con gli altri, figuriamoci” ha puntualizzato Mycroft, pedante come al solito “Dove devi andare veramente?”

“Ve lo dico domani” ho tagliato corto.

“Non hai la patente, ragazzo!” mi ha esasperato mio padre, ma dov’è il laudano non scaduto quando serve? “Metti subito giù quelle chiavi!”

“Devo forse ricordarti chi ha accompagnato zio Larry in ospedale mentre tu eri ubriaco?!” l’ho zittito senza mezzi termini.

“Oh cielo, questa storia dello zio Larry ce la rinfaccerà per tutta la vita” si è lamentato invece Mycroft, a buon diritto. 

“Mike, accompagnalo”

“NO!” abbiamo gridato io e Mycroft in coro, io ho continuato: “Ho il cellulare, non farò tardi, non lo dico alla mamma, e sì, sto andando da una ragazza, quindi ti prego papà, resta lì. Ci vediamo dopo”

“Se lui va da una ragazza, io sono la regina d’Inghilterra”

“Perché, non lo sei?” ho replicato a Mycroft sull’uscio della porta, lui ha avuto la decenza di non controbattere, ha solo alzato una spalla in modo vagamente affermativo.

E detto questo mi sono arrotolato la sciarpa sul collo e sono uscito nel gelo invernale con le chiavi in mano. Ero felice come un bambino, avevo un caso-non-caso tutto mio e non avevo nemmeno Scotland Yard tra i piedi a inquinarmi le prove. Fantastico, stavo volando. Chiamai immediatamente John Watson, era sera inoltrata e lui aveva appena avuto un incidente mortale, magari era ancora in ospedale e certo non avrebbe voluto parlare con me, un tizio che ha conosciuto l’altro giorno e che lo chiamava solo per rompergli i…

“Pronto?”

“Ciao, John. Sono Sherlock” mi sono ripresentato “Holmes. Quello logorroico del corso avanzato di scienze”

“Sì, certo, Sherlock. Avevo salvato il tuo numero”.

Giusto, la gente “salva” i numeri. Io non lo faccio mai perché tanto me li ricordo tutti (più o meno). “Come stai? Ho saputo dell’incidente e volevo sincerarmi che tu stessi bene” ho improvvisato un po' di convenevoli mentre mettevo in moto la macchina. 

“Che gentile, ti ringrazio. Io in realtà sto benissimo, per fortuna non mi sono fatto niente, mi sono giusto slogato un polso, ma il medico che mi ha visitato, ha detto che più che una slogatura, si tratta di…”

“Meno male” ho tagliato corto brutalmente, ma tanto sapevo già che stava bene “Sei ancora in ospedale?”

“Sì, per sicurezza vogliono tenermi una notte, ma domani mattina mi dimettono senz’altro”.

“Fantastico. Sto venendo a prenderti” l’ho informato su due piedi. Lui ha esitato. “In che senso stai venendo a prendermi?”

“John” ho sterzato, avevo il cellulare tra la spalla e l’orecchio “Quello che sto per dirti sarà un po' difficile da accettare, ma tu devi essere forte e ascoltarmi fino in fondo, d’accordo?”

“Che cosa è successo?” mi ha incalzato subito, mi stava davvero prendendo sul serio. Questo era emozionante, gli ho risposto con la stessa moneta “Reputo probabile, altamente probabile, che quel tragico incidente in realtà non sia stato un tragico incidente, ma opera di qualcuno con evidenti intenzioni criminali” l’ho informato, serio “Ma non farti prendere dal panico, forse so già chi è stato. Ci sono solo un paio di punti che devo chiarire e se tu ci fossi, velocizzerei di gran lunga l’analisi”.

“Aspetta” mi ha fermato John “Stai dicendo che qualcuno ha sabotato la macchina di mia sorella per uccidere me e Mike?”

“Uccidere è una parola grossa, però… All’incirca, sì” ho ristretto gli occhi “Ma ti prego di non allarmarti. Ho tutto sotto controllo”

“Okay” si è limitato a dirmi, con un tono incredibilmente fermo e controllato. Tutto qui? “Okay”? Ero sinceramente perplesso, qualcun altro al suo posto avrebbe gridato o dato di matto. O mi avrebbe sbattuto giù il telefono.

“Okay” ho ripetuto anche io “Riesci a uscire di nascosto e a farti trovare nel parcheggio dell’ospedale? Sarò lì tra poco”

“Va bene” ha detto con rigore prussiano, sorprendendomi per la seconda volta.

“Magari procurati anche un coltello o un altro oggetto contundente” ho aggiunto, l'ho messo alla prova.

“Certo, sì”

Bene, in quel momento ho sentito di adorarlo.

“John?”

“Sì?”

“Stavo scherzando, non ci servirà un coltello” mi veniva da ridere.

“Ah…”

“A dopo” e ho riattaccato. Ho premuto forte sull’acceleratore, dopo circa dieci minuti sono giunto a destinazione e ho trovato John ad aspettarmi con un piumino più grande di lui che lo faceva sembrare l’omino Michelin, quello delle gomme. Notare che aveva appena avuto un grave incidente in macchina con un ragazzino e ora stava salendo di nuovo in macchina, di notte, ma con un altro ragazzino. Avverto un po' di sete di pericolo…

Comunque gli ho spiegato cosa stava succedendo, mentre il profumo del suo bagnoschiuma da uomo inondava l'abitacolo. Ho parlato a raffica, lui annuiva vigorosamente. Era d’accordo con me. Accettava l’idea che qualcuno avesse architettato il suo incidente con una tranquillità disarmante. L’avevo vista solo in me stesso finora. E ha confermato tutto quello che sospettavo: non c’era stato nessun animale, nessun corpo estraneo e Mike era rimasto lucido fino all’ultimo secondo. Mi ha anche detto che, prima dello schianto, l’ha visto muovere distintamente il volante a destra e a sinistra, ma senza alcuna risposta da parte delle ruote. Ruote e volante avevano smesso di comunicare all’improvviso, senza un apparente motivo. 

Ergo, qualcuno aveva sabotato l’auto di Harry e io sapevo già chi era stato. Bhe, diciamo che ne ero certo al 99,9%.

Siamo arrivati nel luogo dell’incidente, era tutto buio perché ormai erano le 23, ma John sapeva orientarsi. E poi c’erano le transenne e le strisce nere e gialle dei vigili che non lasciavano adito a dubbi.

Ho parcheggiato sul ciglio della strada e siamo usciti a perlustrare. E la cosa buffa era che eravamo entrambi in pigiama, io avevo perfino le pantofole. John mi ha guardato mentre mi chinavo sull’asfalto con la torcia del cellulare e ripercorrevo il percorso delle frenate. Avevo letteralmente il naso per terra e il culo per aria. Non dovevo essere un bello spettacolo, per quanto il mio didietro ben fatto contribuisse certamente alla buona resa della mia immagine. 

Ma sono stato a quattro zampe sulla strada per dieci minuti, non di più. Avrei dovuto visionare anche la macchina, anche se -lo ammetto- non me ne intendo molto di motori, conosco giusto le informazioni di base, ovvero niente.

In seguito ho riportato John in ospedale, abbiamo ovviamente continuato a parlare sopra le note di “Crazy in Love” di Beyoncé (mio padre e la sua autoradio). Lui era stupefatto del mio operato e ha borbottato un “Fantastico” che per poco non mi ha fatto sbandare e uscire di strada a mia volta. Io e il mio stupido orgoglio! Se fossi nato pavone, mi sarebbero comparse altre due code in quel momento. I toni però si sono incupiti quando gli ho rivelato il nome del mio primo sospettato, John ovviamente è rimasto sbalordito.

“Quel tizio un po' così che ha sempre la gomma da masticare in bocca?”

Un po' così, mi piace questo suo garbo diplomatico. Comunque ho annuito.

“Ma perché ha manomesso la mia auto? Non ci siamo mai parlati, cosa gli ho fatto di male?”

Quella era una bella domanda. I moventi che portano la gente a delinquere tecnicamente esulano dal mio lavoro, io devo solo trovare l’assassino, il resto non mi compete. Dico tecnicamente perché, di solito, comprendere il movente risulta un passaggio necessario se non addirittura indispensabile ai fini della risoluzione del caso e questo era uno di quelli.

“Ti sei seduto vicino a me durante il corso avanzato di scienze"gli ho quindi detto "Lui non ha gradito”.

John ha sbarrato gli occhi “Vorresti dire che ha quasi ucciso Mike e me perché mi sono seduto in banco con te?”

“Probabile” gli ho risposto, ho ovviamente omesso la questione della sorpresa “O meglio, diciamo che quello è stato un pretesto”

“Io domani lo ammazzo” ha sentenziato John, era nero.

“No, lascia fare a me”

“No, io domani lo ammazzo”

“John Hamish Watson” l’ho intimidito, quando lo fa mia madre con i miei tre nomi di solito funziona “Lascia fare a me. Tu non conosci Moriarty, io sì. Fidati, peggioreresti solo le cose”.

Lui continuava a scuotere la testa, aveva la mano sana chiuso a pugno, sbatteva leggermente il piede sinistro e aveva la bocca a lama di coltello. Era furioso. “È il tuo fidanzato? È per questo che non vuoi che lo uccida?”

Ho sgranato gli occhi, quella domanda mi aveva colto di sorpresa. “Scusami?”

“Quel pazzo scatenato si è ingelosito perché mi sono seduto vicino a te, vero?” ha intuito John, lasciandomi sbalordito “Ha pensato che ci volessi provare o qualcosa del genere?”

Sinceramente? Mi ha stupito. Avevo pensato subito a Jim, naturalmente, ma non  avevo preso in considerazione il movente passionale. Anche perché Moriarty non è gay, vivaddio. Però adesso avevo la pulce nell’orecchio.

“No, non… Hai frainteso” farfugliai, mi sentivo confuso e imbarazzato “Perché, hai forse avuto intenzioni equivoche quando ti sei seduto vicino a me?”

“No!” ha risposto subito John, ha sgranato gli occhi anche lui “Nient’affatto, io non sono gay. Non che ci sia qualcosa di male nell’esserlo, ma io non sono gay, davvero, non sono gay”.

L’aveva ripetuto un po' troppe volte e un po' troppo velocemente per i miei gusti, ma volevo credergli.

“Può darsi, sì” 

“Può darsi cosa?”

“Tutto quello che hai detto. Comunque, io sono fidanzato con il mio lavoro e se anche tecnicamente il mio lavoro è Moriarty, mi rifiuto di fare questo accostamento”.

“Quindi non state insieme?”

“No, nel modo più assoluto”

“E allora perché lui ha cercato uccidermi?”

“Perché i cambiamenti lo irritano” gli ho risposto subito, purtroppo eravamo arrivati “È una personalità amorale ossessivo-compulsiva con una forte propensione criminale, e ogni tanto soffre anche di gravi deliri d’onnipotenza. Ma a parte questo è un bravo ragazzo”

“Oh sì, immagino” ha annuito John, sarcastico “Che facciamo, allora? Chiamiamo la polizia?”

“No. Non abbiamo le prove, non ci crederebbe nessuno e poi Jim è un ottimo attore” gli ho detto, serio “Lascia fare a me, ci parlerò io. Se può consolarti, il fatto che tu sia ancora vivo è un ottimo segno. Se davvero voleva ucciderti, lo avrebbe già fatto. E non ti colpirà di nuovo, sarebbe troppo noioso per lui farlo una seconda volta”

“Sul serio?”

“Sì” non ero un criminale, ma stavo imparando a pensare come loro. E poi conoscevo James, John poteva considerarsi al sicuro.

“Cavoli, sei davvero un fenomeno in queste cose” mi ha lusingato, forse sono arrossito “Hai capito tutto questo così, dal nulla?”

“È ciò che faccio di solito” ho minimizzato.

“Wow, complimenti. Sei un genio”

Ero in apnea, non credevo di essere così pateticamente sensibile ai complimenti. Forse perché non ne ho mai ricevuti in vita mia. “Grazie” ho solo risposto, ma non in falsetto.

“Grazie a te per tutto ciò che hai fatto, dopotutto non erano affari tuoi”

La battuta mi ha fatto sorridere “Tutti gli omicidi e i tentati omicidi sono affari miei”

Lui mi ha sorriso, era davvero meravigliato. Si è voltato verso lo sportello, ma ha esitato prima di aprirlo. Voleva chiedermi qualcos’altro, glielo leggevo nella postura. E infatti si è girato di scatto verso di m e mi ha guardato negli occhi.

“Mai fai spesso queste cose di andare nei luoghi dei delitti?”

“Spessissimo” gli ho risposto, compiaciuto “Sarà il mio futuro lavoro”

“Ma che figata” ha esclamato sinceramente. Le mie labbra ebbero uno spasmo, forse avevo un’espressione molto simile a un sorriso in quel momento.

“Ho anche rincorso un assassino una volta” ho aggiunto, non sono riuscito a trattenermi “Mi ha quasi sparato”

“Giura!” ha sgranato gli occhi, il suo stupore era genuino, non stava fingendo. 

“Giuro!” ho giurato il falso.

“Ma i tuoi?”

“Non sanno niente. Mi credono in biblioteca” a quel punto probabilmente stavo sorridendo come un idiota. Gli ho detto anche di Lestrade, ho spiattellato tutto.

“Ma che figata pazzesca” ha ripetuto.

“Vuoi per caso accompagnarmi una volta?” le parole mi uscirono dalla bocca senza che riuscii a controllarle. John mi guardò negli occhi, per una frazione di istante temetti di avere detto una sciocchezza, ma poi lo vidi sorridere.

“Perché, potrei?”

“Ma certo che potresti, non devo chiedere il permesso a nessuno”

“Beh, allora, se non ti dispiace…”

“No, non mi dispiace” e dopo ciò ci siamo salutati. Lui è sgattaiolato dentro l’ospedale (la sua sete di adrenalina sfiorava il patologico) e io sono tornato a casa in stato confusionale. Ero felice come mai mi era capitato in quasi diciotto anni di vita. Certo, non lo avrei mai coinvolto in faccende troppo pericolose. E ammettiamolo, non era vero che mi avevano quasi sparato, volevo solo fare colpo. Però ho inseguito sul serio un assassino… Di canarini. Un bambino rom. Ma pur sempre un assassino, no? 

Ero comunque felicissimo. Ma come sono rientrato in casa, ho trovato mia madre sul pianerottolo con entrambe le mani sui fianchi.

“William Sherlock Scott Holmes!” ha minacciato furiosa non appena mi ha visto varcare la soglia. Mio padre e Mycroft erano in salotto ridotti al silenzio, io ho subito messo le chiavi dell'auto dietro la schiena.

Ahia. Uomo in mare…

 

 

 

***

 

 

 

La mattina dopo sono andato da Jim. Volevo fare il diplomatico e parlare con lui da persona civile, ma appena l’ho visto, ho perso le staffe. L’ho preso per il giubbotto e l’ho sbattuto contro gli armadietti davanti a tutti. Nessuno può torcere un capello a John Watson, adesso, nessuno. Solo io.

“Sei stato tu!” gli ho ringhiato contro, lui ha riso. Io l’ho sbattuto più forte.

“Non davanti ai bambini, amore!”

“So che sei stato tu a manomettere l’auto di John Watson”

Lui ha spalancato la bocca, le sue labbra avevano assunto una perfetta e beffarda forma rotonda. “Ma chi sei?” mi ha preso in giro “L’ispettore Poirot?”

Questa sua pazzia/genialità era pericolosissima, non riuscivo più a capire quale fosse il limite che demarcava lo scherzo di cattivo gusto dalla reale pericolosità sociale. Sicuramente, dopo ciò che aveva fatto due giorni fa, era chiaro che non scherzava.

“L’ho fatto per te, Sherlock. Ti è piaciuto il mio regalo? Ti sei divertito?”

“Avresti potuto ucciderli”

“Nah” ha minimizzato con un’espressione annoiata “Dai, Sherly, non deludermi. Sapevo che non avrebbe guidato lui, o forse ieri sera non ti ha detto che si era infortunato sul campo?”

No, John aveva omesso di dirmelo. Ecco perché aveva fatto guidare Mike. Un momento.

“Ieri sera?” ho ripetuto allarmato, lui mi ha sorriso.

“Al limite sarebbe morto solo Mike Stamford, ma in fondo chi se ne frega di Mike Stamford, dico bene?” mi guardò dritto negli occhi e io sentii del gelo scorrermi nella schiena. Era esattamente la stessa frase che avevo pensato anche io qualche giorno fa. 

“Nel prossimo gioco ci sarà una fanciulla, che ne dici?" mi ha provocato "La scelgo io, sarà una sorpresa”

Ho imprecato mentalmente. Dovevo correre subito ai ripari.  “Stai lontano da Adler” gli ho detto tra i denti, sperando di sortire l’effetto desiderato. 

“E che cazzo te ne frega di Adler?” mi ha subito risposto Oh, certo. Mi stai dicendo il nome di una di cui non te ne frega un cazzo a posta, vero? Birichino...”

Io lo guardai negli occhi, infuriato, ma dentro di me stavo semplicemente ridendo come un matto.

Ci era cascato. Uno a zero per Sherlock. 

E comunque lui aveva ragione: mi ero divertito ieri sera. Solo che ora mi sarebbe toccato tallonare Molly H24… Non gli avrei mai permesso di farle del male. Anche lei era sotto la mia protezione. 

Ma chissà, forse avevo un nuovo aiutante a cui chiederlo. 










 


Note dell'autore
Scusate se ho tardato ad aggiornare, ho avuto una serie di impegni. Spero che l'attesa sia stata in qualche modo ripagata! E ormai la storia sta prendendo forma...
Ditemi pure se avete qualche osservazione o critica da fare.
A presto,
Obi

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Capitolo 7
*** VII ***


Londra, correva l’anno 1750, quando un professore di chiara fama e dotato di una intelligenza straordinaria iniziò a impiegare le proprie conoscenze e le proprie abilità intellettuali nel peggior modo possibile, aiutando i delinquenti a farla franca nelle loro abominevoli cause. Malfattori, ladri e assassini si recavano da lui a chiedergli consiglio sulla pianificazione e la consumazione del crimine e in cambio lo pagavano profumatamente con somme di denaro o con una percentuale sui proventi del delitto. Si può dire che Wild esercitava un’attività speculare e contraria alla mia, e fu solo per merito di un reo confesso (la cui fine fu tragica) che venne scoperto e arrestato dalle forze di polizia.

La stampa lo definì brillantemente come “consulente criminale”, cioè come una figura nuova, una sorta di maestro fuorilegge da cui si recavano i dilettanti, dietro ovviamente la corresponsione di un’ingente somma di denaro. I professori all’epoca infatti non erano ricchi, guadagnavano sì e no settecento sterline l’anno (indicativamente, sulle mille sterline al mese ai giorni d’oggi), tuttavia Wild si dimostrò ricchissimo, con una galleria d’arte firmata dai più noti e artisti dell’epoca.

Perché sto dicendo questo?

Intanto perché sono le tre del mattino e non riesco a dormire, e poi perché mentre leggevo le note biografiche di questo intrigante soggetto ho avuto come un’illuminazione.

Sto riflettendo molto su quanto è accaduto, senza sosta. Sembra che le cose mi scivolino addosso ma non è così, ho ben in mente che Mike è bloccato in un letto di ospedale, ci penso dalle sei alle otto volte al giorno.

E più riflettevo, più mi rendevo conto quanto James Moriarty fosse stato estremamente cristallino e sincero con me. Mi ha rivelato tutto, usando un linguaggio tutto suo, ma lo ha fatto. Dalle domande che mi poneva, da certe allusioni, da ricordi sbiaditi di sguardi, frasi o dialoghi ora ho perfettamente compreso cosa ha in mente di fare e che tipo di uomo vuole diventare. Me lo ha detto, se non a chiare lettere, quasi. 

Jim ha sempre avuto un talento nel riesumare i casi più raccapriccianti e abominevoli della storia e io ho sempre avuto la vaga, strisciante sensazione che lui cercasse di prendere lezioni da me per diventare un delinquente formidabile. Quando ci soffermavano sull’esame dei cold case, io ero sempre quello che parlava senza sosta sugli errori dei criminali e sui minimi ma fatali dettagli che li avevano traditi, lui invece era quello che poneva i quesiti e che complicava lo scenario. Credevo lo facesse per il gusto di mettermi in difficoltà, invece ciò che lo spingeva ad agire così era mero interesse personale, opportunismo. Potrei sbagliarmi, ma credo che stia cerando di imparare dagli errori dei delinquenti suoi predecessori per non commetterli a sua volta, e sappiamo bene che la criminalità è un fenomeno ciclico e che i crimini si ripetono nel tempo con caratteristiche a volte sorprendentemente identiche.

Per dirla in parole povere, Jim secondo me aspira a fare lo stesso lavoro di Jonathan Wild. Un lavoro brillante di pianificazione, strategia e genialità, un lavoro in cui non ti sporchi le mani e prendi solo la parte migliore e più entusiasmante dell’operazione delittuosa. 

Sono sicuro di questo al 98%.

Se così non fosse, perché dimostrarsi tanto interessato allo studio dei cold case, altrimenti? Perché vuole diventare un detective come il sottoscritto? Perché aspira a diventare delinquere formidabile? No, non esattamente. Non gli interessa rapinare una banca o diventare l’ennesimo, banale serial killer che l’ha fatta franca e che nessuno conosce. Capirai quanti ce ne sono stati nella storia, sarebbe come una goccia in un lago. No, lui vuole qualcosa di più raffinato e sensazionale, qualcosa che lo esalti e che non lo annoi nel giro di venti minuti. Lui ambisce allo stesso lavoro che vorrei io, con la non piccola differenza che è schierato nell’esercito contrapposto.

Ho realizzato pienamente tutto questo soltanto adesso, prima l’avevo solo intuito, ma ciò non significa che io abbia mai ignorato o sottovalutato questa mia intuizione. Non bisogna mai farlo. Non confondiamo le intuizioni con le presunzioni, con l’intuizione sfioriamo la verità, la vediamo balenare di fronte ai nostri occhi come la freccia scagliata da un arco, con la presunzione invece la costruiamo e la forziamo a nostro uso e consumo. Sono due concetti ben diversi. Visto che avevo già intuito cos’era Jim, ogni volta che lui mi poneva domande che reputavo scomode, gli davo una risposta appositamente sbagliata. Ma il bello è che probabilmente lui deve averlo capito, per cui ragiona per esclusione a partire dalla mia risposta errata, indi per cui io un paio di volte gli ho dato la risposta giusta, tanto per confonderlo ulteriormente.

Stando così le cose, cosa dovrei fare, quindi? Che tipo di approccio devo avere con lui? Ammesso e non concesso che io abbia ragione (e ce l’ho, che mi colpisse un fulmine se non è vero), come incastrarlo? Come impedirgli di diventare ciò che temo?

Non è semplice, è come se qualcuno si chiedesse come dissuadere me dal diventare un detective: è semplicemente impossibile riuscirci. Sono nato per questo, ho solo questo, e se non l’avessi la mia vita non sarebbe nemmeno degna di essere vissuta, sarei solo un inutile spreco di spazio e di ossigeno. 

Non credo che Moriarty pensi la stessa cosa di se stesso, ma certo non può essere ugualmente dissuaso. O gli propongo qualcosa più interessante e meno pericolosa per il genere umano, oppure mi mobilito per coglierlo in flagrante di reato, il che è quasi impossibile… Quasi, sì. In realtà un modo sleale e poco ortodosso ci sarebbe. Potrei proporgli di commettere un crimine epico e memorabile e poi tradirlo nel cuore dell’operazione. Collaborare sottobanco con George e fare il doppio gioco. Potrei farlo, anche se non è nel mio stile. Oppure ancora, potrei chiedere a qualcuno di spiarlo e di fornirmi le informazioni utili di cui necessito, ma a chi? Lui non dà molta confidenza alla gente. La dà alle prostitute, ma non credo sia il caso.

Mi sono addormentato con questa pulce nell’orecchio.

 

 

 

 

Sono sceso in salotto per la prima colazione e come sempre mi sono trovato di fronte il solito desolante panorama della mattina.

Mia madre stava guardando delle stregonerie matematiche sul tablet con gli occhiali da vista calati nel naso, mio padre fingeva di ascoltare l’andamento della Borsa sul telegiornale e Mycroft era intento a sfogliare l’ennesimo depliant di Cambridge. Vuole prendere una terza laurea (la seconda è in lingue slave, l’ha conseguita mentre studiava economia e ora parla russo come un cosacco) ed è orientato sulla facoltà di legge. 
A me 
 l’idea stessa di frequentare l'università non mi piace. Altri tre o cinque anni bloccato in un’aula ad ascoltare un vecchio presuntuoso che si mette in cattedra e pretende di darmi lezioni di vita, no, non credo che potrei sopportarlo. Sarà già tanto se prenderò il diploma. Anche se ho una media altissima, cosa me ne importa del titolo? Cambierebbe qualcosa se non mi diplomassi? Ma certo che no. Anzi, ho sempre avuto la mezza idea di mollare tutto e non presentarmi agli esami di fine anno, ma la mia coscienza mi suggerisce di non precludermi la possibilità di accedere all’università, non si sa mai cosa può riservarmi il futuro. Meglio tenersi le porte aperte piuttosto che chiuse… E poi voglio uscire da questa casa. Potrei andare a dormire sotto un ponte dentro una scatola, ma ho particolarmente a cuore la mia igiene personale e questa è forse l’unica cosa che mi tiene lontano dalla strada. L’unica.

Ho preso una banana e l’ho sbucciata senza dire una parola. Speravo di starmene zitto e quieto nel mio malumore mattutino, ma le mie speranze sono state vane. Mia madre mi ha presto raggiunto col tablet in mano e un’espressione minacciosamente confusa e smarrita. Ho chiuso gli occhi per un istante, odio quando succede.

“Sherly, si è bloccato il video” ha interloquito per l’appunto, mettendomi l’apparecchio sotto il naso “Me lo fai ripartire?”

“Non si è bloccato” le ho risposto, sfinito "Hai cliccato il tasto stop”.

“Il tasto stop?” ripetè stupita, e poi la persone si sorprendono se sono insofferente “Ma non l’ho cliccato”

“Evidentemente lo hai fatto” le ho risposto gentilmente, anche se la mia pazienza ormai stava cominciando ad esaurirsi.

“No, che non l’ho fatto!” obbiettò lei, testarda “Questi affari non si possono neanche prendere in mano che si impallano subito!”

“Se tu clicchi il tasto stop si fermano, se non lo clicchi, non si fermano” mi sono spazientito, come sempre quando rimarco l’ovvio “Questo è un elementare nesso di causalità che perfino un docente di matematica sarebbe in grado di comprendere”

William!

“Non mi chiamo William” ho replicato prontamente “William è un nome da damerino idiota. E tu hai cliccato il tasto stop”

“Ti dico di no!”

“Io se fossi in te ci costruirei sopra un caso, Sherlock” si è intromesso Mycroft “L’incredibile caso del tasto stop che si cliccava da solo”

Ho rivolto a Mycroft uno sguardo fulminante.

“Parlando di cose non mi abbassano il quoziente intellettivo al solo sentirle, io e Charlotte ci siamo lasciati” ha continuato lui, io ho alzato gli occhi al cielo “Ahimè, era francese, pensava di tenermelo nascosto. Ma ora sto frequentando un’altra ragazza, molto meno volgare, si chiama Elizabeth. Già il nome promette bene”.

Devo assolutamente andare a vivere da solo.

“Mike, presenta qualche ragazza anche a William

“Chi è William?” ho domandato io a mio fratello, piccato “Tu lo conosci? Io no”

“Sarà un amico di Mike, suppongo” rispose Mycroft, per una volta era dalla mia parte.

“Siete insopportabili” decretò colei che ci aveva partorito “Tutti e due. Povere donne quelle che vi staranno di fianco”

“Se avrò una donna, sarà tutto tranne che povera” interloquì Mycroft.

“Io ho il teschio di una donna” risposi candidamente “Va bene lo stesso?”

Ma proprio in quel momento il cellulare che avevo lasciato imprudentemente sul tavolo vibrò rumorosamente. Lo afferrai con uno scatto fulmineo, ma ciò non fu sufficiente per distogliere la loro attenzione.

“Ma chi ti scrive così presto?” 

“John Watson” mentii subito io, le mie guance si colorarono di un tenue rossore “Un mio amico”.

Sentivo il penetrante nonché aguzzo sguardo di Mycroft sulle mie spalle.

“E cosa vuole a quest’ora?” domandò mia madre, stupita.

“Niente. Correre” dissi velocemente “Ci vediamo dopo”.

“Sherlock! Aspetta! Prendi almeno un paio di biscotti!” gridò mia madre, ma non avevo voglia di trattenermi oltre “Non magia niente! Non mangia mai niente! Cosa devo fare con lui!

Mi chiusi la porta di casa alle spalle, ci mancava solo che loro sapessero di… Di.

Dato che erano appena le sette e dieci minuti, decisi di recarmi verso il cupo istituto a piedi. Presi delle scorciatoie, conoscevo le vie di Londra e i suoi barboni meglio di casa mia. Loro hanno mille occhi e sono una fonte inesauribile di informazioni, vuoi perché nessuno li nota, vuoi perché si conoscono tra loro, sta di fatto che in cambio di un paio di scarpe possono dirti perfino con chi va a letto il primo ministro. Io ovviamente li conosco tutti, li chiamo per nome e loro mi salutano sempre quando mi vedono.

“Ciao, Ronnie” ho rivolto il saluto militare a un ex soldato vietnamita caduto in disgrazia. Il poveretto ha perso la ragione durante le offensive statunitensi del 1965, solo lui sa a quali violenze ha assistito.

Mentre camminavo a passo svelto, mi arrivò un altro messaggino nel cellulare, ma questa volta il mittente era Moriarty.

Il testo del messaggio: “Questo ti ammazza pure la sorella”, era accompagnato da uno spot pubblicitario del “filantropo” che c’è sempre in televisione, un essere umano a dire poco spregevole e raccapricciante, che in quello spezzone pubblicizzava una nota marca di cereali, scherzando sui suoi ben celati e al tempo stesso evidenti impulsi omicidi.

Sono un killer cereale”scrisse poi Moriarty “Che stronzata esilarante”.

“Raccapricciante. SH” gli risposi, secco. 

“Ne ha ammazzati più lui di Hilter” ha aggiunto Moriarty con un iperbole. Certo la lista degli omicidi di Culverton Smith doveva essere lunga, anche Mycroft era d’accordo. “Dovrebbero mandarlo a SHERRINFORD…”

Lessi quello strano nome e rimasi molto perplesso, non avevo idea di cosa fosse.

“Sarebbe? SH”

“Non lo sai?! Ma come…”

Guardai nel browser cosa fosse questo “Sherrinford" ma non trovai nulla, assolutamente nulla. Camminai istintivamente più veloce e bloccai la tastiera del cellulare. Avevo già sentito questo nome, per la verità. E il fatto che mi fosse famigliare mi fece supporre che non si trattava di un luogo di sua invenzione ma di un posto reale, se non letterario o cinematografico. Ma in queste ultime due ipotesi sarebbero dovuti comparire subito l’opera o il film da cui era tratto, cosa che invece non era accaduta.

Il mio telefono squillò ancora:

“Ragiona, idiota. Quel cannibale che hanno arrestato a Ottawa nel 1988, sei anni fa si è mangiato anche il compagno di cella. Dopo dove lo hanno segregato secondo te? Cazzo, uno che si mangia pure le guardie dove lo metti?”

Rimasi inorridito, ma dopotutto anche questo è il mio lavoro. Cannibali, borsaioli, mafiosi, malfattori, spacciatori, “fantasmi", pedofili, indemoniati… Costoro sono il nucleo del mio lavoro, se non ci fossero, sarei disoccupato (e lo sarebbe anche Moriarty). Comunque la sua domanda era in realtà una risposta.

“A Sherrinford?” ho azzardato, omettendo le mie iniziali perché ormai erano diventate superflue.

“Una stellina d’oro per te”

“È un istituto di massima sicurezza sconosciuto al mondo?”

“Sono colpito, Sherlock. Davvero colpito”.

Anche io ero davvero colpito. Era a dir poco assurdo che non lo conoscessi.

“Come lo conosci?”

“Se n’è occupato un giornalista durante un infanticidio particolarmente aberrante...”

A quel punto gli telefonai, odiavo digitare i messaggini e attendere le risposte degli altri. Era uno spreco di tempo.

“Buongiorno, sexy”

“Quale infanticidio?” gli ho domandato rapidamente, li conoscevo se non tutti, quasi. Ovviamente quelli criptici e meritevoli di attenzione.

“Uno famoso” mi ha detto Moriarty con la bocca piena “Un infanticidio perpetrato, stai a sentire, da un altro bambino”

Aggrottai subito le sopracciglia. Non ero impressionato, casi del genere sono stati frequenti nella storia della criminalità, per quanto possano sembrare abnormi.

“Anzi, da una bambina” si corresse lui “Una bambina che ha gettato un coetaneo dentro un pozzo e lo ha lasciato morire di stenti lì dentro. Ha impressionato perfino me! Nah, scherzo. Ti dice qualcosa?”.

Ci pensai, ma film dell’orrore a parte, non mi sovvenne nulla, niente di niente. O Jim se l’era completamente inventato o c’era qualcos’altro sotto. Era impossibile che non mi ricordassi un caso del genere, anche solo per il forte impatto emotivo che suscitava. Questi sono i classici casi che fanno scalpore e che perfino la gente comune tende a ricordare.

“No, non mi dice niente”

Lui sogghignò “Ma come? Questo è interessante…”

Il suo tono beffardo mi infastidì moltissimo. Ero già irritato dal fatto che non lo ricordassi, figuriamoci se ci si metteva anche lui.

“Ti faccio una domanda io, adesso” esclamai polemico, mentre mi inoltravo in un vicoletto lurido “Conosci la figura di Jonathan Wild?”

Lui esitò prima di rispondere, il suo seppur breve silenzio fu per me come una rivincita. Non se lo aspettava.

“Wow” esclamò come un bambino “Caspita, Sherlock. Stavo per farti la stessa proposta”

“Proposta?” domandai, cercando di mantenere il discorso su un piano lineare “La mia era una domanda, non una proposta”

“Alle mie orecchie è suonata come una proposta. Parlarne al telefono però non mi sembra il massimo” continuò lui “Insomma, è pur sempre il nostro futuro”

Era talmente illogico che facevo fatica a seguirlo. Odiavo quando succedeva.

“Il futuro è un concetto sopravvalutato, James” gli risposi a tono “Potrebbe durare novant’anni come dieci minuti, meglio impiegarlo in qualcosa di più costruttivo come chiarirsi piuttosto che rimandare e temporeggiare inutilmente”

“Hai ragione” esclamò, il suo tono aveva assunto una sfumatura più seriosa “Hai ragione. Allora devi sapere questo: il tuo amico John ha un debole per le ragazze trans. Me l’ha detto Sally, lei lo conosce”

Ho aggrottato le sopracciglia e ho attraversato la strada senza nemmeno guardare “Se anche fosse, sarebbero comunque affari suoi”

“Io ci penserei, se fossi in te, Sherly…”

“Piantala” gli ho intimato tra i denti.

Lui sogghignò “Magari è la tua vera natura”

“Magari è la tua” gli ho risposto a tono.

“Non devi trattenerla, è sbagliato. Se vuoi metterti la minigonna, fallo! Fallo e ti prometto che ti porto a cena fuori”

Ho interrotto la chiamata. Era evidente che non sarei giunto da nessuna parte. Parlare con lui è difficile, la sua mente va molto veloce, non più veloce della mia, ma segue un percorso tortuoso completamente (appositamente) privo di logica, che mi confonde e che faccio fatica a seguire. Ecco, forse la mia forza è anche un mio limite, perché questo mio modo di ragionare così rigidamente logico assomiglia a quello di una macchina calcolatrice, che appena esce dalle strette maglie degli algoritmi e dei calcoli inizia a rallentare fino a incepparsi completamente.

Sono arrivato in cortile in anticipo, forse per la prima volta in vita mia. Oggi era un’inconsueta giornata soleggiata e c’era un tempore primaverile che invogliava la gente a restare all’aria aperta. Molte ragazze erano sedute col viso rivolto al sole, cosa piuttosto inutile visto lo strato di cerone con cui lo avevano ricoperto, i maschi invece erano assorbiti dal pallone. Io comunque non persi tempo e mi fiondai in biblioteca.

L’essere umano di nome Janine mi salutò. Le ho risposto “buona giornata” e ho tirato dritto. Queste belle signorine devono capire una buona volta che io non sono interessato. Come Mycroft ha deciso di essere etero, io ho deciso di essere asessuale, qualunque cosa ciò significhi. Non sono gay, non sono etero, non sono niente. Basta, il discorso dell’altra volta si era ufficialmente chiuso qui. Avevo ben altro a cui pensare.

Ciò detto, sono arrivato nella sfornitissima biblioteca della scuola, ho virato a sinistra e sono entrato nell’aula dei computer. Mi sono posizionato nella postazione più distante e ho avviato il computer per accedere alle banche dati di Scotland Yard con le credenziali dell’ispettore Lestrade, gentilmente fornitemi da George. Non potevo aspettare stasera, non potevo proprio aspettare un secondo di più. Poco importava se era un rischio. Il fatto che io non conoscessi l’esistenza di un istituto penitenziario top secret era inaccettabile, ma ancora più grave era il non conoscere un infanticidio come quello che mi era stato descritto in narrativa da Jim. Sono quindi entrato nella pagina personale dell’ispettore e prima di tutto ho dato un’occhiata ai casi in sospeso di cui mi stavo occupando in quel momento. Controllo almeno una volta al giorno, ormai la pagina dell’ispettore era diventato il mio domicilio professionale. Ho anche aperto le mail appena arrivate dal Dipartimento di Medicina Legale (non potevo resistere), ma alcune avevano la conferma di lettura e… Che dire, ops. In ogni caso era più importante che le leggessi io piuttosto che lui, con tutto il rispetto. E poi loro avrebbero dato la colpa al computer, come sempre.

Sono quindi entrato nelle scarne ma utili banche dati di Scotland Yard ma le mie frettolose ricerche sono risultate vane, in sette minuti intensi non ho trovato niente, nemmeno una banale citazione che fosse in qualche modo correlata a questo fantomatico Sherrinford. Tale istituto non era noto nemmeno a Scotland Yard e ciò non poteva fare altro che incrementare il mio già vivido interesse. E ribadisco che il suo nome mi era inspiegabilmente famigliare, era come un ricordo recondito nel mio inconscio, un’antica memoria che mi confermava e rassicurava circa la sua effettiva esistenza. Non mi restava altro da fare che consultare le mie banche dati personali, quelle che sono ben organizzate all’interno del mio encefalo.

Mi sono isolato e ho iniziato a sforzarmi intensamente per riesumare il ricordo, mi rimanevano pochi minuti. Doveva essere un ricordo della prima infanzia, qualcosa di molto importante che la mia giovanissima età a suo tempo mi impedì di comprendere appieno. Vidi tante immagini, tanti suoni, tante parole, cose pressoché inutili. La memoria dei bambini è molto telegrafica, si ricordano scene brevissime, istanti, immagini.

Ero talmente concentrato in me stesso che quasi non ho sentito la campanella suonare, talmente tanto assorto che non ho sentito un paio di tacchi da sei centimetri pichiettare sul pavimento proprio dietro le mie spalle, seguiti da una intensa nuvola di profumo…

Adler mi ha toccato improvvisamente una spalla e mi ha strappato via dal mio palazzo mentale con una violenza inaudita. Ho sussultato e mi sono voltato di scatto, irritato e infastidito, ma quando l’ho vista, sono sbiancato. A parte che era uno schianto, ma cosa ci faceva lei qui. Perché proprio lei era qui. E perché aveva riattivato il mio computer. La mia testa lo realizzò in ritardo: aveva riattivato il mio computer. Stava leggendo lo schermo.

“Scotland Yard?” ha letto con aria interessata “Che sito è questo?”

Ho imprecato mentalmente e ho chiuso di scatto le finestre del browser che avevo lasciato imprudentemente aperte.

“Il sito della polizia” le ho risposto, meno si nega l’evidenza e meglio è “Niente di che”

Lei mi ha sorriso “Cosa stavi facendo nel sito della polizia?”

“Non sono affari tuoi. Ad ogni modo sono stato derubato” mi sono inventato di sana pianta, il mio tono ero aspro come un limone “Volevo solo sapere se c’erano novità sul mio conto”

“E quindi sei entrato direttamente nella pagina riservata dell’ispettore Joseph Alexander Lestrade?” ha replicato lei, appoggiandosi con l’anca sul tavolo “Ma davvero credi che io sia stupida?”

La mia maschera di ghiaccio si incrinò. No che non lo credevo, ahimè avevo imparato a mie spese che quella donna era un’aquila di nome e di fatto. Mi sono sentito nella merda, per dirlo in francese. Ho sempre saputo che prima o poi sarei finito in prigione, ma non credevo così presto. Ma possibile che tra tutti i potenziali deficienti, debosciati e idioti che c’erano qui, dovevo imbattermi proprio in lei? Non sapevo cosa inventarmi, un improvviso grigiore aveva annebbiato il mio cervello. Stavo avendo un malfunzionamento.

“Sai che è un reato?” soggiunse poi, fissandomi senza pietà “Dopo la scenata che mi hai fatto per le mie pillole dimagranti, come le hai definite tu, mi aspettavo che tu fossi un cittadino modello, un uomo integerrimo” sarcasmo a iosa “Non uno che va ad hackerare i sistemi informatici di Scotland Yard. È piuttosto incoerente da parte tua, non trovi?”

Il fatto che pensasse che lo avessi hackerato era una buona cosa, Greg almeno era al sicuro. Comunque, mentre lei parlava, avevo digitato un SOS a John con il cellulare che tenevo nascosto in tasca:

PERICOLO. AULA COMPUTER. VIENI SUBITO. SH

VITA O MORTE. SH

CORRI. SH

Ho inoltrato gli stessi messaggi anche a Lestrade, per sicurezza.

“Cosa stavi facendo in realtà?” continuò lei.

Non le ho risposto, non volevo parlarle.

“Sherlock?”

Mutismo selettivo. Avevo le labbra incollate. Non avrei più parlato fino a domani.       

“Sai che so essere molto persuasiva?” mi ha domandato con aria insinuante. Io mi sono allarmato, potevo solo immaginare che genere di abilità suasorie avesse nel suo arsenale. Costei mi fece un sorriso che dire incantevole era un eufemismo. Lei stessa era incantevole. Una bellezza del genere scatenerebbe l’ira di Afrodite e farebbe scoppiare una guerra. Elena di Troia non doveva essere troppo diversa da Adler. La bellezza estetica è causa anche di numerosi bias cognitivi, come quello di giudicare a prima vista intelligente e moralmente retta una persona dal suo bell’aspetto. Alla bellezza si è sempre associato un’idea di onorevolezza e bontà complessiva fin dall’alba dei tempi, basti pensare che gli eroi greci erano tutti bellissimi, gli angeli sono iconograficamente bellissimi, perfino certe figure sacre del culto religioso sono rappresentate esteticamente belle. L’uomo è sempre stato ossessionato dalla bellezza fisica. È un’ossessione ancestrale, immotivata, che porta l’uomo a fare cose stupide come innamorarsi della sua peggiore nemica, ad esempio.

“Se me lo dici, ti rivelo un segreto anche io” mi ha proposto su due piedi, io l’ho guardata di scatto “Fammi una domanda e io ti rispondo sinceramente”

Ammetto che mi infiammai di entusiasmo, la mia lingua si rianimò subito. Questa era forse la proposta più allettante che avessi mai ricevuto, non che ne avessi ricevute tante, in ogni caso non potevo perdere un’occasione del genere. 

“Va bene” le ho risposto “Però inizio io”

Lei si è messa a braccia conserte e mi ha guardato in tacita attesa. Santo cielo, mi sentivo come Aladino di fronte alla lampada magica, solo che invece di tre desideri ne avevo uno, dovevo sceglierlo per bene. Avevamo tanti conti in sospeso io e lei. C’erano tantissime cose che nascondeva e che volevo sapere, era forse la persona più torbida e misteriosa che conoscessi. Comunque avevo già scelto la domanda, ricevuta quella risposta molte cose si sarebbero chiarite da sole.

“Vedo spesso che hai dei lividi. Che origine hanno? Chi te li procura?” le ho chiesto rapidamente, e ho visto una luce di stupore balenare nei suoi occhi celesti. 

“Di quali lividi stai parlando?”

“Questi” le ho afferrato un fianco e le ho strappato una infastidita ma rivelatrice smorfia di dolore. Lei mi ha allontanato la mano, sembrava arrabbiata.

“Oh, cielo. Non era meglio chiedermi con chi vorrei andare a letto come farebbe chiunque altro?”

“Non sono certo affari miei” le ho risposto, secco.

“Magari lo sono” ha insinuato col suo modo civettuolo, ma io ero ben focalizzato su quello che le avevo chiesto. Stava temporeggiando nella speranza di distrarmi e farmi cambiare idea, ma io non sono un idiota, non del tutto, almeno. Se non voleva dirmelo, allora avevo fatto centro. 

“Puoi rispondermi?” 

Lei alzò gli occhi al cielo e sorrise “Nessuno mi picchia, se è questo che temi”

L’avevo temuto in effetti. Seguirla una sera e appostarmi sotto casa sua era già nella mia agenda, dopotutto anche questo è il mio lavoro. L’ho guardata senza dire niente.

“È tutto consenziente” aggiunse lei.

Come disse la parola “consenziente”, compresi. Compresi e le mie guance si tinsero di un tenue rossore. Sadomaso, BSDM e tutte quelle pratiche sessuali spinte di cui avevo una conoscenza indistinta e superficiale. Mi sono sentito un ingenuo, come ho fatto a non averci pensato prima?

“Ah” sillabai, imbarazzato “Okay. Ho capito”

“Non pensare a cose troppo strane” mi intimò subito lei.

“No, no” esclamai, ci mancherebbe “Mi dispiace. Non volevo errare in campi così personali della tua vita”

Lei sospirò e mi guardò intensamente “Ormai lo hai fatto” mi disse, ma il suo tono era morbido e gentile “Ora però tocca a te”

Ho sospirato appena, rispetto al segreto che mi aveva rivelato lei, il mio sembrava quasi di poco conto. Anche perché non le avrei certo rivelato tutto.

“Sto solo cercando di non annoiarmi. Nient’altro” la informai rapidamente, contro voglia. Lei continuò a fissarmi.

“Questa sarebbe una risposta?” mi domandò con un sorriso sghembo “E cosa c’entra Scotland Yard con la tua noia?” Mi ha subito chiesto, si era avvicinata. “Non vedo il nesso”

Le mie labbra mi tradirono, ebbero lo spasmo di un sorriso.

“È talmente ovvio, Adler, come puoi non vederlo?”

Ma proprio in quel momento lo scalpiccio di passi pesantissimi e affannati giunse presto alle nostre orecchie.  

Lei si voltò verso la porta “Cosa succede?”

Sembrava che ci fosse una mandria di bufali che stesse correndo su per le scale. Pochi istanti dopo, John spalancò la porta e si gettò dentro l’aula armato di mazza da baseball da una parte e coltellino svizzero dall’altra, Lestrade invece era al telefono con la polizia. E dopotutto quando non sapeva cosa fare, Lestrade chiamava la polizia.

“SHERLOCK! Oddio Sherlock, stai bene?” strillò John affannato, la corsa lo aveva privato completamente del fiato.

“È vivo!” aggiunse Lestrade al telefono, ansimante “È vivo! No, nessun ferito!”

 

***

 

 

Bene. Quello che è successo dopo è stato piuttosto imbarazzante e preferirei ometterlo. Mi domando poi perché tutte le figure più imbarazzanti e incresciose della mia vita si devono svolgere in presenza di Irene Adler. Questo fato burlone che si diverte a mie spese dovrebbe concentrare le sue attenzioni in qualcosa di più proficuo dello sbeffeggiarmi di fronte a una ragazza. LA ragazza, per giunta.

Ciò detto, è arrivato presto mezzogiorno. Ho fatto una corsa in mensa per parlare finalmente a quattrocchi con il mio avversario, ma lui non c’era, il mio tavolo era vuoto. Amara e inaspettata delusione. Ho quindi saltato il pranzo perchè mi ero comprato ben tre affari spugnosi e pieni di saccarosio dalle macchinette e ho ottenuto il perdono sia di John che di Lestrade. Anche se mi sono beccato della Drama Queen e non capisco certo il perché. Io Drama Queen? Ma che assurdità.

Durante la prima ora del pomeriggio ho preso il mio ennesimo dieci nella verifica di biologia e ho scritto a Lestrade di raggiungermi in cortile per i nostri aggiornamenti "top secret" (ho aggiunto appositamente top secret per invogliarlo a venire. Era ancora un po' arrabbiato). John invece doveva fare gli allenamenti e perciò non è venuto. Ci sono rimasto male? La risposta è affermativa. Lui è gentile e simpatico con me esattamente come lo è con tutti, e questo un po' mi amareggia perché vorrei essere tenuto più in considerazione ed essere trattato meglio rispetto agli altri, ma dopotutto non posso nemmeno pretenderlo, visto che ci conosciamo da poco…

In ogni caso, lui è diventato ufficialmente il mio migliore amico, anche se non lo sa.

Ho esultato internamente quando si è seduto vicino a me, durante l’ora di storia. Ho davvero gioito, anche perché c’era un altro posto libero vicino a Bill Murray ma lui ha scelto me, me.

Se sapesse quanto mi rende felice, probabilmente si spaventerebbe. Ma è la prima volta in vita mia che conosco una persona genuina che non mi disturba e da cui non mi sento giudicato. Anzi, in realtà mi sento giudicato, ma in modo eccessivamente positivo, mi fa arrossire. Lui crede davvero che io sia un genio e me lo dice onestamente, senza che ci sia una benché minima sfumatura di invidia a incupirgli la voce. Di solito, quando l’uomo percepisce il talento e la bravura altrui, si amareggia e diventa perfido, scatta la competizione, l’odio, il rancore e appunto l’invida. Beh, non è il caso di John. Lui è modesto e tende a banalizzare le sue qualità, ma malgrado questo è molto sicuro di se stesso. L’arroganza dopotutto è sintomo di insicurezza, e “chi compra le macchine grosse, compensa qualcosa di piccolo”, come dice sempre mio padre (che pure ha una macchina grossa). Per cui John non ha problemi a rapportarsi con qualcuno che considera tanto migliore di lui, cosa che per me invece lo sarebbe. Io se incontrassi qualcuno migliore di me, magari un detective più brillante e intelligente, proverei una tale bile e un tale livore che probabilmente ingaggerei Moriarty solo per farlo fuori. 

Avrei voluto essere come John, sicuro di me stesso e basta, a prescindere da come sono gli altri. Gli serbavo molta, molta stima, anche se lui non lo sapeva.

Ed ero geloso quando lo vedevo ridere e scherzare con i suoi compagni di squadra. Lui era pieno di amici, ne aveva un’infinità. Piaceva, era popolare, usciva con Kate e già si raccontava in giro di come avessero fatto sesso nella macchina del padre di lei alle due del mattino… Insomma, era già diventato “uno forte” e non era relegato ai margini come il sottoscritto.

Quanta amarezza mi veniva. Mi sentivo inadatto alla vita sociale ai limiti dell’insopportabile. L’unica cosa che mi restava da fare era imparare, conoscere. Riuscivo a riempirmi il cervello di calcoli e nozioni molto complicati e questo mi aiutava a sgombrare la testa dai pensieri negativi. Era una triste strategia di controllo, e quando non funzionava, veniva in mio soccorso la cocaina. Mettevo i demoni dell’infelicità nella stiva della mia nave e li coprivo con un telone invece di buttarli in mare.

Avrei dovuto scrivere a John e fargli una sorta di corte, magari con il solito “Come va?”, ma mi sentivo banale. In certe cose ero proprio timido da fare schifo, in altre invece ero spudorato.

Sono complicato

Prima che se ne andasse a giocare, gli ho ricordato sottilmente che essere amico mio e al contempo amico di Sebastian era impossibile… Ma il timore di perderlo ha soffocato ogni mio intento risolutivo e mi ha spinto ad aggiungere che comunque, per adesso, la cosa sembrava funzionare. 

“Ma non parlano mai di te” mi ha rassicurato John “Davvero, Sebastian nemmeno ti nomina. Ma se lo facesse in modo offensivo, non gliela farei passare liscia”

“Certo” ho solo detto, poi me ne sono andato.

Mentre scendevo le scale, il mio cellulare ha squillato di nuovo. Ho visto il numero del mittente e l’ho subito associato al suo proprietario, era lo stesso che mi ha dato il buongiorno stamattina… Ma non è tempo di parlare di queste sciocchezze. 

Mi sono quindi trovato con George. Era appollaiato come un ladro (o come un goffo James Bond) dietro il Suv del professor Stapleton e mi stava facendo dei gesti incomprensibili con le mani.

“Sì, ti ho visto!” gli ho gridato a voce alta, lui mi fece il segno di star zitto. Quanto mi diverte tutto ciò. Solo in quel momento mi accorsi che alle sue spalle c’era anche Molly Hooper con un taccuino in mano.

“Ciao, Molly” la salutai tranquillamente.

“Ehi, Sherlock” arrossì lei “Tutto bene?”

“Sopravvivo” ho replicato brevemente “Molly sa?” ho quindi chiesto a Lestrade. Non che per me fosse un problema, Molly era pericolosa come un pesciolino dentro una boccia d’acqua.

“Sì, lei è con me, possiamo fidarci” mi rassicurò Lestrade con fare austero da agente segreto “Le ho detto tutto. John non c’è?”

Ho scosso cupamente la testa “Ha gli allenamenti” ho tagliato corto, non mi andava di parlarne.

“Con quello stronzo di Sebastian!?” ha insistito lui, voleva infilare a tutti i costi il dito nella piaga. 

“Allora, Molly” guardai subito la mia amica, volevo cambiare discorso “Come mai sei qui?”

…Il perché era talmente ovvio che potrei anche tralasciarlo.

“Ho deciso che voglio diventare un medico legale, come te!” mi ha risposto lei, per l’appunto “Quindi anche io partecipo a questi tirocini segreti col padre di Greg”.

Tra quel come te e quei tirocini segreti mi sfuggì proprio una smorfia di disappunto. 

“In che senso come me?” le ho chiesto, perplesso “Io non voglio fare medicina legale. Ma perché tutti qui credono che io voglia fare il medico? Ho la faccia da medico?”

“Un po’ sì” mi ha confermato subito Lestrade.

“Non vuoi fare medicina legale?” mi domandò invece Molly, delusa “Che facoltà vuoi fare?”

Io la guardai sospettosamente. Avevo la sensazione che se glielo avessi detto, me la sarei ritrovata in ateneo appiccicata al fianco come un francobollo. E da compagna di università a compagna incinta e vestita da sposa il passo è breve. Eh no! Sono Sherlock Holmes, non mi faccio fregare così.

“Non lo so ancora” le ho risposto quindi, avevo assottigliato lo sguardo.

“Comunque, c’è stato un colpo di scena sul caso della donna ritrovata nel fiume, Sherlock” mi informò Lestrade, io spostai lo sguardo su di lui. 

“Fammi indovinare” lo interruppi, deve ancora nascere la persona che può stupirmi con un colpo di scena “È comparso un testimone che dice di averla vista quella stessa notte in compagnia di un soggetto non identificato?”

Lestrade dischiuse le labbra, la sua sorpresa era lusinghiera. “Come fai a saperlo?” domandò, musica per le mie orecchie.

“È il mio lavoro, George” minimizzai, doveva pur iniziare ad abituarsi. E comunque avevo visto la mail proprio stamattina.

Greg” mi corresse.

“Greg, pardon”

“E tecnicamente non è il tuo lavoro”

“Lo sarà presto”

“Criminologia e Scienze investigative!” saltò su Molly “Ecco che facoltà vuoi fare!”

Io sgranai gli occhi “Dammi tregua, Molly”

“In ogni caso hanno accantonato la teoria del suicidio” continuò Lestrade “E ora sono alla ricerca di questa seconda persona, che è diventata il primo sospettato”.

“Questa persona è un uomo o una donna?” domandai io.

“Una donna” mi rispose Lestrade.

“Giovane o vecchia?”

“Giovane”

“Allora non è stata lei” conclusi e mi voltai, stavo ancora pensando.

“Cosa?” Lestrade si alzò in piedi e uscì allo scoperto “Perché?”

“Perché era una prostituta”

Lestrade sgranò gli occhi, Molly aprì la bocca “La vittima si prostituiva secondo te?”

“Ma no” risposi io, scocciato “L’altra era una prostituta. La vittima la pagava”

“Ma la vittima era una donna!” replicò lui, incredulo.

“E quindi?”

Lestrade sbatté le palpebre “Beh, insomma… Era pure sposata con un uomo!”

“E quindi?” ripetei io con la stessa espressione pacifica. Lestrade pareva impressionato, Molly invece annuiva a vuoto.

“Ma perché deve essere proprio una prostituta la tipa che era con lei?”

“Pensaci, Greg” lo esortai io “Come può un senzatetto qualunque ricordarsi dopo due settimane di aver visto in piena notte due passanti che attraversavano il ponte, se non fossero state due giovani donne impegnate in atteggiamenti intimi di cui una probabilmente vestita con abiti succinti? Deve averle osservate con molta attenzione per ricordarsi il viso della nostra vittima”

“Come fai a sapere che è un senzatetto il testimone?!” replicò Lestrade rosso in viso, io alzai gli occhi al cielo.

“Chi dorme sotto un ponte di notte, secondo te? Il primo ministro?”

Lestrade annuì, aveva una sottile linea dura tra le sopracciglia “Quindi la donna è stata uccisa dalla prostituta?”

“Ne dubito” dissi io “Dì a tuo padre di perlustrare meglio la battigia del fiume. Probabilmente troverà un altro cadavere”.

Oh…”

“Un’altra cosa” lo fermai “Chiedigli se ha mai sentito parlare di un istituto penitenziario di nome Sherrinford”

“Sherrinford?” Ripetè lui, stupito “Mai sentito. D’accordo"

“Mandami un messaggio se ti dimentichi il nome” gli ho suggerito mentre me ne andavo. Lo avrebbe dimenticato tra dieci minuti. Sarebbe diventato un mix tra il mio nome e una nota marca di automobili.

“Io me lo sono segnato!” aggiunse Molly, sollevando il quaderno. Le ho accennato un sorriso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore

Ce l’ho fatta finalmente. Vi è piaciuto il capitolo?  (Sulla faccia da medico: ogni riferimento a Dottor Strange è puramente casuale).

Grazie anche a tutti quelli che seguono questa storia!

A presto!

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Capitolo 8
*** VIII ***


 

In questo sconclusionato, illeggibile e disorganico zibaldone di pensieri c’è una cosa che non ho detto, una cosa che avevo deliberatamente deciso di ignorare.

Lasciate che vi rinfreschi la memoria. Il giorno seguente all’incidente di Mike Stamford ho esordito dicendo che erano accaduti due fatti, uno degno di nota e un altro poco importante che avevo deciso di ignorare. Quest’ultimo fatto l’ho ignorato nella convinzione che fosse una questione di poco conto, qualcosa di talmente frivolo che non meritava nemmeno un accenno qui o un solo istante della mia attenzione. 

Sto parlando del compleanno di un certo Henry Baskerville, un baronetto sfaccendato che ha letteralmente più soldi in banca che capelli in testa. Costui, per celebrare la tanto osannata maggiore età, ha deciso di organizzare una festa in piscina nella sua tenuta fuori città, nel Devonshire, alla quale io naturalmente non sono stato invitato. E fin qui è tutto nella norma. Da un lato mi sono anche sentito sollevato, dato che provo una sincera repulsione per le feste di questo tipo, dall’altro però ho provato la famigliare sensazione di amarezza ed emarginazione sociale alla quale ancora non mi ero rassegnato. Sia chiaro, non ci sarei andato in ogni caso, ma avrei comunque preferito declinare gentilmente l’offerta piuttosto che venire escluso a prescindere. 

Ebbene, circa una settimana prima di tale chiacchierato evento, sono andato a correre con John e lui, con pacifica tranquillità, mi ha chiesto se ci sarei andato.

“Non ho l’invito” gli ho risposto pertanto, come se ciò  fosse ovvio. Anzi, ero stupito che non l'avesse immaginato da solo.

“Ti invito io, allora. Tanto Henry ha detto che, se vogliamo, possiamo portare degli amici, per cui…” e insinuato ciò, John mi ha fatto l’occhiolino. Lo stesso occhiolino da playboy che ha rivolto anche a Sarah Sawer e a Mary Morstan. “Dai, Sherlock" insistito, vedendo la mia faccia "Chissà quanta gente ci sarà! Non se ne accorgerà nemmeno”

Dopo ha corso più veloce, o forse ero io che mi ero fermato all’improvviso. Sta di fatto che il giorno della festa è alle porte e John è convinto che io verrò.

Non ci andrò, naturalmente. Non posso immaginare scenario più degradante e disagevole di una festa in piscina. Non immaginatevi una festa in costume da bagno, comunque, grazie al cielo siamo a Londra, non a Beverly Hills. La piscina è semplicemente un arredo scenografico e se non vado errato insieme a questa ci dovrebbe essere anche una veranda con un ampio pergolato impreziosito da un glicine, dove il signorino Baskerville suppongo avrà inserito dei climatizzatori per il riscaldamento, un piano bar e delle costossisime casse per la musica da discoteca. 

Puro sperperio di denaro.

Sicuramente, qualche simpaticone nel corso della festa finirà dentro la piscina illuminata, Sebastian primo fra tutti, seguito a ruota da Godrfrey Norton e da un paio di Cheerleader.

A questo punto, credo sia abbastanza chiaro che io non avevo alcuna intenzione di andarci. Del tipo che nemmeno su ordine del medico ci avrei messo piede. Avevo già pianificato come si sarebbe svolta la mia serata: me ne sarei stato in camera a leggere con la sigaretta in bocca, deluso e disincantato dalla vita come una prostituta in pensione.

Dovevo solo trovare l’occasione di dirlo a John.

Non che la mia assenza lo avrebbe sfiorato minimamente. Lui ha già una ragazza e spesso esce con i suoi compagni di squadra, figuriamoci cosa gli poteva importare di Sherlock lo strambo. Però me lo aveva chiesto ed era convinto che io venissi, mi sembrava corretto informarlo di questa mia decisione.

E poi continuva a sedersi di fianco a me. Questo era strano, era come se aspettassi il momento in cui avrebbe aperto gli occhi sul mio conto e se ne sarebbe andato. Nel frattempo comunque mi godevo la sua compagnia.

“Ehi, Sherlock” mi ha salutato tranquillamente, col suo viso fine, da biondo “Come andiamo?”

“Non male. Tu?” gli ho risposto con una frase fatta.

“Bene, dai. Spero che oggi non mi interroghi perché non ho fatto niente ieri, ma proprio niente” ha interloquito tra una sorsata d’acqua e l’altra “Non so se hai presente Kate, la ragazza con cui mi vedo”.

Perdiana, se l’ho presente. L'ho vista l’altro giorno mentre se lo sbaciucchiava senza alcun pudore nei corridoi.

“So chi è” gli ho risposto, cupo. Non mi stava simpatica.

“Ecco, lei ieri mi ha telefonato, infuriata nera, perchè mi sono dimenticato di fare gli auguri a quella sua amica, quella strafica…”

“Irene Adler?” chiesi subito io, stupefatto. Non era il compleanno di Adler, tanto meno il suo onomastico.

“No, l’altra. Quella che assomiglia a Claudia Schiffer”

“Astrid?”

“Sì, esatto” concordò lui “Volevano farle una catena di auguri per messaggio, solo che la catena ha avuto un buco perché io mi sono dimenticato”.

Non so perché ma ho trovato l’episodio esilarante. Ho dovuto trattenere un sorriso.

“E Kate si è infuriata” ho tratto le mie ovvie conclusioni.

“Esatto”

“Capisco…”

“Quindi chimica non l’ho aperta, come puoi immaginare” ha continuato il mio amico “Ho avuto altri problemi”

“Certo” annuii. Questi erano i momenti in cui mi rallegravo di non avere una vita sociale. “Non ti preoccupare. Se ti chiama, posso suggerirti io. Ho una certa dimestichezza in queste materie”

“Grazie, ma non importa. Se mi chiama, gli dico che non so niente e buon anno”.

Comportamento retto, onesto, leale. Militaresco, di quei soldati umili ma coraggiosi che conservano uno spiccato codice d’onore.

“Ti fa onore, John”

Lui come sempre ha sminuito con un’alzata di spalle. “Te invece come va? Passata una serata tranquilla?”

Avrei voluto potergli dire che anche io avevo litigato con una ragazza, ma invece lo ricambiai con la sua stessa moneta: sincerità. 

“Ho letto un interessantissimo articolo sulla dissezione della vespa mandarinia” gli ho risposto come se niente fosse. Il suo sguardo si fece subito confuso.

“La cosa, scusa?”

“La vespa mandarinia” ripetei io, un po' a disagio “Un grosso calabrone di origini asiatiche che possiede un veleno molto pericoloso, talvolta anche letale per l’uomo”.

“Ah” sillabò John, sembrava a corto di risposte “Caspita”

“Già”.

Lui abbassò lo sguardo in modo pensoso e io mi chiusi in un silenzio imbarazzato. Mi sembrava di essere riuscito ad ammutolire perfino John Watson, la persona più disinvolta e amichevole dell’universo. Stavo per cambiare argomento e virare verso la questione Baskerville, ma lui si voltò di nuovo verso di me con un interrogativo dipinto negli occhi.

“Ma punge come le vespe normali?” mi domandò, del tutto a sorpresa. 

“Oh, sì” gli ho risposto io, dopo un istante di ritardo “La sua puntura è dolorosissima, un noto entomologo ha paragonato il suo pungiglione a un grosso chiodo arroventato”

“Sul serio?” mi domandò interessato.

“C’è stato un killer che ha ucciso ben quattro persone utilizzando queste vespe” mi sono caricato di entusiasmo “Le sguinzagliava nelle abitazioni delle vittime e poi si defilava, senza lasciare traccia. È stato un caso notissimo nella Cina del 1838”.

“Non ci credo!” mi rispose John, sembrava onestamente colpito.

Credo di avergli sorriso.

“L’hanno beccato?”

“Dopo circa un secolo e mezzo” gli ho risposto io.

“È fantastico che tu sappia tutte queste cose, Sherlock” mi ha lusingato “Dovresti scrivere un libro, o un blog”

Stavo per rispondergli ma purtroppo il suono metallico della campanella ci interruppe.

Lo ammetto, stavo iniziando ad adorarlo seriamente. 

Dirgli che non sarei venuto a quella festa non mi risultò facile come credevo. Ho temporeggiato fino all’ultimo, sapere che lo avrei deluso mi impediva di parlare.

E infatti alla fine è stato lui a tirare fuori l’argomento, con nonchalance. Mi ha informato che lui e Bill avrebbero fatto una macchina unica, con quest’ultimo al volante, John nel posto del passeggero, un tizio e la fidanzata di questo tizio, con la conseguenza che c’era un quinto posto in più anche per me vicino ai due tizi. La mia sociopatia ha avuto una crisi di panico al solo sentirlo dire. A quel punto ho dovuto necessariamente sbottonarmi. Gli ho detto tra i denti che non sarei venuto, senza guardarlo, ma lui si è infiammato.

“Che cosa!? Come non vieni?”

Ho scosso la testa. “Ho avuto un contrattempo, mi dispiace” ho tagliato corto “E poi queste cose non fanno proprio per me, sarei avulso dal contesto”

“Ma sì che fanno per te” ha insistito lui e così dicendo mi ha toccato il braccio. I miei occhi guizzarono sulla sua mano calda “Andiamo lì, ci beviamo qualcosa, c’è la musica, ci sono le ragazze… Sarà divertente”

Feci un silenzioso respiro col naso, dovevo riordinare le idee.

“John” dissi, serio “Tu non mi conosci bene, io ho una concezione del divertimento completamente diversa dalla vostra. Per me una festa del genere non è qualcosa di divertente, e più un incubo… No, non ridere! Parlo sul serio!” gli ho intimato, ma lui per l’ennesima volta mi ha sorpreso in modo positivo.

“Ascolta, nemmeno io sono uno da feste in piscina o da discoteche, ma proprio per niente” mi ha detto con tono amichevole, io l’ho guardato subito “Capirai, a me di notte piace dormire, o al limite…”

Si interruppe, ma voleva dire scopare. Gliel’ho letto in faccia.

“… Però, anche le feste più mondane diventano una bella occasione quando si è in buona compagnia” mi ha guardato e mi ha rivolto un sorriso caloroso “E tu sei una buona compagnia, Sherlock. Per questo vorrei che venissi”

Una buona compagnia? Le sue parole mi commossero, l’impeto di abbracciarlo e sbaciucchiarlo fu violentissimo. Non ero abituato a sentirmi dire gentilezze del genere, non sono proprio abituato a riceverne. Ho taciuto e mi ero incatenato mentalmente per non saltargli addosso. Le mie catene mentali posso garantire che sono più salde dell’acciaio inossidabile. Mi sentivo come Redbeard quando si tratteneva dal leccarci tutta la faccia, soffriva, il suo affetto era talmente sconfinato che aveva bisogno di sfogarlo. Io mi sentivo circa così, in quel momento. Una bella pomiciata affettuosa non gliel’avrebbe tolta nessuno.

“E poi c’è un’altra cosa, Sherlock…”

Io l'ho guardato spiazzato, cos’altro poteva dire per convincermi? Che c’era omicidio rimasto irrisolto?

“Pare che ci sia una sorta di maledizione che permea quella villa” ha aggiunto, lasciandomi sbalordito “Praticamente, si narra che ci sia un cane mostruoso che vuole uccidere tutti gli eredi maschi dei Baskerville. È certamente una cavolata, me l’ha raccontata Henry, però il fatto strano è che in passato alcuni suoi antenati sono morti sul serio”

“Sbranati da un cane?” ho domandato al volo.

“Sì”

Trovai subito la questione estremamente interessante, la mia mente era saltata di palo in frasca dal sentimento al ragionamento in meno di un istante. 

“Evidentemente, l’assassino ha sguinzagliato un cagnaccio rabbioso e ha fatto leva sulle credenze popolari per evitarsi la galera, e a quanto pare c’è riuscito” ho ragionato a voce alta “Se non erro, c’è stato un caso simile anche in Sud Africa con un leone fantasma”

“Sì, sicuramente hai ragione”

“Ma sai qual è il fatto interessante, John?”

“Quale?” mi ha domandato con un sorriso.

“Se qualcuno oggi volesse uccidere un Baskerville, magari per motivi successori vista l’ingente quantità di denaro di cui dispongono, potrebbe tuttora approfittarsi di questa leggenda per farla franca. Ha letteralmente la strada spianata”

“Ma no, dai” mi ha smentito John “Chi crederebbe mai a una storia del genere adesso, nel ventunesimo secolo?”

Io ho scosso la testa bonariamente “Sei molto ragionevole, ma sottovaluti troppo la debolezza umana. I tempi passano, ma le scaramanzie e i timori ancestrali restano. Siamo tecnologicamente più evoluti, ma siamo creduloni e suggestionabili proprio come lo eravamo nell’età della pietra. Se Henry Baskerville vedesse in piena notte un grosso cane, magari un dolcissimo Terranova con un paio di corna finte tra le orecchie, stai certo che gli verrebbe un colpo esattamente come è venuto al suo trisavolo nel 1700”

E su questo ci avrei scommesso il mio cervello. John sogghignò e annuì.

“Sì, forse hai ragione” mi disse con tono amichevole “Quindi? Ti ho convinto a venire?”

Ora sarebbe bello potervi dire che gli ho risposto di sì.

Per quanto la mia sociopatia non fosse uno scoglio insormontabile, restava comunque il fatto che io non ero il benvenuto tra quelle persone. Henry non mi aveva invitato e questa omissione non era imputabile al fatto che lui ce l’avesse con me, quanto al fatto che le persone come me, semplicemente, non si invitano. È buona norma ghettizzarci ed escluderci da ogni evento, festa o ricorrenza sociale. Poi c’erano Sebastian e i suoi amici, amici di amici di Sebastian, le loro rispettive ragazze e tutte le Cheerleader della scuola… Insomma, avevo letteralmente un esercito di nemici armato fino ai denti, pronto a colpirmi senza alcun limite di tempo o di spazio ad arginare la loro cattiveria. Non ci sarebbero stati i professori a fermarli, non ci sarebbero state le campanelle a interromperli o qualsiasi altro tipo di deterrenza. Avevano la strada spianata.

Non ho paura di loro, sia chiaro. So che hanno dei grossi limiti e probabilmente tutti i loro cervelli messi insieme non fanno il mio, e non lo dico per incensarmi. Tuttavia, non voglio passare una serata da incubo tra derisioni e prese in giro. Preferisco restarmene a casa e credo sia lecito. Con un po' di imbarazzo e dispiacere ho cercato di spiegarglielo. John sapeva di cosa stessi parlando, ha visto più di una volta la cattiveria di Sebastian in azione, e la sua spiccata intelligenza empatica lo ha portato subito ad annuire e a concordare con me.

“Capisco” mi ha detto infatti “Mi dispiace molto. Non ha senso, perché ce l’hanno con te?”

Ho forzato un sorriso “Perché sono diverso. La diversità impaurisce gli ignoranti, John, li fa sentire minacciati. E poi io li vedo per quello che sono: degli idioti senza speranza. Muscolosi, bellocci e pieni di ragazze, ma pur sempre degli idioti senza speranza. E non faccio niente per nasconderlo”.

John mi ha guardato e non ha aggiunto altro, la sua espressione era grave. 

“Se vuoi, non vado neanche io” mi propose “Possiamo uscire da qualche parte e andare a bere qualcosa”

John ha un encomiabile spirito di sacrificio, mette gli altri davanti a se stesso, è proprio ciò che rende un uomo un bravo medico e un perfetto soldato.

“No, vacci” l’ho esortato gentilmente, anche se ovviamente avrei preferito il contrario “Ho bisogno che tu ci vada. Metti che tra gli invitati compaia all’improvviso un lupo mannaro, dopo chi mi fa il resoconto di come sono andate le cose?”

Lui mi ha sorriso “Sicuro?”

“Sicuro oltre ogni ragionevole dubbio” gli ho risposto come un avvocato.

Lui ha annuito e poi non ne abbiamo più parlato, la questione era risolta.

Finite le ore di lezione, ho fatto una passeggiata per il centro storico e poi, quando ero certo che i miei fossero usciti, sono tornato a casa e mi sono dedicato al violino. 

Non sono molto bravo, devo essere sincero. Ho capito come funziona lo strumento e sono entrato nella sua complessa e delicatissima logica, ma sono ancora acerbo. Ho appreso i passaggi di posizione (dalla prima alla quarta e viceversa) e le tecniche più elementari, ma stono ogni volta che la partitura si fa più complessa. Basta davvero mezzo millimetro per stonare, ma forse è il mio udito particolarmente sensibile a rendermi palese ogni minima sbavatura. Il mio maestro di pianoforte a tal proposito mi ha sempre consigliato di fare i test per verificare se avessi l’orecchio assoluto, ossia quella innata capacità di comprendere la composizione della musica senza l’utilizzo di riferimenti come spartiti, accordi o annotazioni. Non ho mai fatto accertamenti sul punto, mi basta sapere che ho un udito discreto e una naturale predisposizione per la musica. Probabilmente, se non se non aspirassi a diventare un detective, le mie ambizioni sarebbero rivolte verso la prestigiosa Orchestra Filarmonica di Vienna, o al limite verso l’apicoltura. Preziosissime le api, la gente non comprende fino in fondo il loro incommensurabile valore. Se nella Terra c’è vita, è anche merito loro e non certo nostro. Noi esseri umani in confronto alle api siamo solo dei nocivi ed egoisti parassiti. Se ci estinguessimo la Terra rifiorirebbe, sarebbe un germoglio e un profumo continuo.

Bene, dopo questa stoccata contro il genere umano, ho riposto il violino nella sua custodia e mi sono seduto sul letto. Non ero in vena di suonare, il mio malumore gravava sulle mie spalle come una coltre tenebrosa e stranamente questa volta non ha contribuito a rinvigorire la mia vena artistica, come invece è sempre accaduto in passato.

Ho guardato l’orario: erano le ore ventuno e quattro minuti. John, Bill e i due estranei erano partiti più di un’ora fa e a quel punto dovevano ormai essere in dirittura d’arrivo.

I miei per fortuna erano fuori a cena e Mycroft invece era uscito con la sua nuova ragazza.

Come avevo pronosticato, mi ritrovai solo e mi accesi una sigaretta. La cocaina era a portata di mano, ma mi ordinai rigidamente di ignorarla. 

Non potevo assumerla, mi ero già fatto una dose due giorni fa e perciò avevo già raggiunto il limite settimanale che mi ero autoimposto. Mi guardavo bene dal diventare un tossico e mi imponevo di mantenere sotto l’egida del mio autocontrollo questa pericolosa abitudine. Iniziai a studiare lineamenti macroeconomia da uno dei manuali universitari di Mycroft. Era noioso come la morte, ma almeno erano tematiche che non conoscevo. In realtà avrei avuto anche una noiosissima ricerca di scienze da fare, ma non mi andava. Avrei scritto le solite due scemenze domani mattina.

Arrivai a pagina quarantotto, ero talmente annoiato che mi era venuta la nausea. 

Chiusi il libro. Le sigarette andate in fumo erano diventate magicamente sei, non chiedetemi come, mi sembrava di averne fumate sì e no due. Guardai l’ora, erano le 22:03, avrei detto le tre del mattino. A quest’ora John e gli altri dovevano essere sicuramente arrivati, magari si erano procurati il primo drink della serata ed erano andati a salutare il festeggiato. Mi figurai facilmente John, sorridente e ben vestito, mentre si ricongiungeva con Kate e faceva un cenno a Sebastian e agli altri. Tra quaranta minuti avrebbero acceso la musica a tutto volume e tra un’ora sarebbe arrivata anche Irene Adler, vestita come un'attrice e in compagnia di un ricco studente universitario con la BMW. E dopo ciò quell’esibizionista di Sebastian sarebbe finito in piscina e magari nel corso della nottata anche John sarebbe caduto in acqua, quelli forti finiscono sempre in acqua.

Stavo malissimo, non sapevo cosa fare, cosa guardare o cosa pensare, mi venne perfino mal di testa. La sensazione era quella di correre in tondo sempre più velocemente e in un cerchio sempre più ristretto. Ecco quello che provo quando sono annoiato, la sensazione è circa questa, asfissiante, frustrante, da gridare e mettersi a piangere. 

I miei occhi disperati schizzarono nel comodino dove avevo riposto la cocaina, in un doppio fondo segreto del cassetto che io stesso avevo costruito di nascosto.

C’era anche un cellulare lì dentro, non mio. Uno smartphone senza sim ma con la batteria funzionante, che ancora rispondeva alle ricariche a cui sporadicamente lo sottoponevo. È una storia lunga anche questa, che si ricollega a Irene Adler e a quell’altro trascorso imbarazzante che mi sono rifiutato di raccontare.

Ero sul punto di bucarmi l’avambraccio, stavo cedendo e avevo iniziato a produrre giustificazioni, su giustificazioni, su giustificazioni a sostegno di questo pernicioso strappo alla regola. La situazione dopotutto era anomala e poi mi sarei iniettato una dose leggera, una soluzione al 4%, giusto per quietarmi e mettermi a letto. La polvere libera dopotutto era finita...

Alla fine la mia opera di auto convinzione ebbe la meglio: ho aperto il cassetto segreto e ho estratto tutto l’occorrente. Ormai avevo imparato a fare le iniezioni meglio di un infermiere. 

Stavo per procedere quand’ecco che il campanello di casa suonò, come un film. Rimasi spiazzato e pensai subito a Mycroft che aveva dimenticato o perso le chiavi di casa. Però mi parve impossibile, Mycroft non dimentica nemmeno l’ombrello e poi avrebbe suonato almeno quattro volte in più. 

Il campanello suonò di nuovo, una seconda volta.

E se fosse...? No, mi imposi di non illudermi.

Nascosi accuratamente la droga e mi precipitai giù per le scale. I miei non erano, dalla finestra non intravidi la Volvo di mio padre parcheggiata nel vialetto. Mio fratello non poteva essere per i motivi sopra indicati, e allora chi c'era alla porta, perciò?

Aprii subito la porta e quando vidi chi c’era nella soglia, provai una stranissima sensazione, non di delusione ma neanche di gioia. C’era Jim e al suo fianco c'era una ragazza dall’aria alienata con una parrucca rossa in testa, che mi puntò subito gli occhi azzurri addosso. Rimasi senza fiato, so riconoscere un pazzo quando lo vedo. Questa era scappata da un manicomio, si vedeva lontano un miglio anche solo dallo sguardo fisso e vispo con cui mi trapassava. Non sbatteva nemmeno le palpebre. E conoscendo Jim, non doveva trattarsi di una pazza “qualunque”, ma di una pazza assassina, una di quelle psicopatiche che hanno ucciso in modo barbaro e indescrivibile. Ecco spiegato il motivo dell’elicottero militare che avevo visto attraversare il cielo solo poche ore prima. Ho impiegato tre secondi per elaborare questi pensieri, a scriverlo ci metto molto di più.

“È qui la festa?” mi domandò Moriarty e in quello stesso momento la pazza dai capelli palesemente finti fece un passo verso di me e mi mise le mani addosso, nel senso proprio che mi abbracciò. Io rimasi rigido con le braccia abbandonate lungo i fianchi, sentii distintamente le sue costole che cozzavano contro le mie, il suo odore mi parve famigliare. Fulminai quel delinquente del mio amico con lo sguardo.

“Ma che quadretto commovente” soggiunse lui, indossava gli occhiali da sole anche se era scesa la notte “Non te lo scopare però, Euri! Mi raccomando!”

Io me la allontanai subito di dosso, lei scattò a parlare.

“Il mio elastico per capelli?” mi domandò con voce squillante e decisa “Ti ricordi? Prima di andarmene ti avevo chiesto di passarmi un elastico per capelli”

Le mie sopracciglia si arcuarono. 

“Oh, Sherlock andiamo! Hai fatto il bravo bambino mentre ero via?” mi domandò, guardandomi come se volesse penetrarmi l’anima “Possibile che nessuno ti abbia detto che la droga fa male? Ti mangia i neuroni, idiota. Già non ne hai tanti, ti sembra il caso di consumarli così, come se niente fosse? Sono le uniche cellule del nostro corpo che non si riproducono”

Io sbattei le palpebre, ero onestamente sconvolto. 

“Ah, vedo che hai suonato” mi toccò le dita “Come stai andando? Il tuo vibrato era così scarso”

“Chi sei tu?” le domandai, pieno di inquietudine. Mi sentivo some un Baskerville di fronte al mastino.

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore

Ed eccoci qui!

La storia sta prendendo forma. Volevo fare un simpatico cliffhanger e interrompere il capitolo nel momento in cui Sherlock apriva la porta, ma ho temuto che vi sareste illusi (illuse?) pensando a John e a una successiva scena con lui... In effetti ci stava.

Sulla questione dei Baskerville, mi sono basato sull’opera originale, anche se l’adattamento di Sherlock BBC con la nebbia intrisa di droga mi è piaciuto molto. È un po’ quello che sto cercando di fare, un mix tra la serie e l’opera originale, anche se la serie ha comunque una netta preponderanza.

Ultima cosa: le vostre recensioni mi fanno sempre piacere, grazie! 

 

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Capitolo 9
*** IX ***


In questo capitolo assistiamo a un brusco cambio di prospettiva: la voce narrante non è più quella di Sherlock, bensì quella di... Irene Adler. La conosceremo più da vicino e sarà lei a raccontarci in modo indiretto cosa è successo.

 

 

 

È l’alba e io sono stesa sul letto, in attesa che la sveglia suoni.

Sto cercando di pensare a qualcosa di bello, qualcosa che non siano le ketamine o mio padre. Non mi vengono in mente molte cose, ma mi sforzo. Ogni mattina cerco di pensare a tre cose belle che mi aspettano durante il giorno, me lo ha consigliato il mio analista.

La prima è che oggi saltiamo l’ultima ora. La seconda è che ho iniziato un bel libro, e la terza… La terza è un volto niveo e appuntito. Ma non sono molto brava a immaginare, mi considero una donna più da fatti che da parole, e infatti mi alzo dal letto.

Farà un certo effetto sentirlo dire, ma io ogni mattina mi alzo intorno cinque, quando la città è ancora buia e illuminata dai lampioni. Precedo il Sole ma qualche volta precedo anche la sveglia, resto stesa sul letto a guardare il soffitto, cercando per l’appunto di non perdermi nei soliti pensieri negativi.

Fortunatamente, ieri Eloise mi ha sfinito, sento ancora lo strascico di quella intensa seduta sul mio corpo. Mi ha legato per i polsi, costringendomi  a stare a testa in giù in una posizione esplicita. All’inizio è stato umiliante, ma poi la trasgressione mi ha fatto sentirei così libera che mi sembrava di avere le ali ai piedi. In quei momenti, sento che niente può spaventarmi, è davvero appagante. E sto imparando, dice che sono la sua migliore apprendista e che farò della strada. Questo mi riempie di orgoglio, vorrei passare tutte le giornate insieme a lei.

Però… Però sessualmente è un disastro. I dominatori non soddisfano, non è il loro compito. Solo che questo alla lunga diventa penoso da sopportare, soprattutto quando vai a casa e non hai nessuno con cui sfogare tutta la passione che hai in corpo. In realtà avrei dei volontari, mi basterebbe alzare la cornetta per trovarmi uno stuolo di giovanotti prestanti e smaniosi, ma non è ciò che voglio io. O meglio, chi voglio io.

Fortunatamente, ho sempre tante cose da fare e pochissimo tempo per farle, sono sempre di corsa. Noi donne siamo sempre di corsa, perfino all’alba.

Quasi tutte le mattine corro una trentina di minuti sul tapis roulant di casa a velocità moderata, altrimenti pratico lo yoga o a altri meno sofisticati esercizi di stretching. Sono costretta ad allenarmi di mattina presto perché non ho altri momenti liberi durante il giorno e devo farlo, assolutamente. Non sono alta e slanciata come Astrid, devo stare attenta se non voglio assumere una forma rotonda, soprattutto da quando ho abbandonato la danza classica. 

Dopo ciò vado a fare la doccia e a giornate alterne mi lavo anche i capelli, non li metto in piega come vorrei perché il tempo è tiranno, ma mi occorre comunque un’ora buona, perché li passo con cura sotto la piastra. I miei capelli naturali sono ingestibili, ricci, crespi, mi fanno sembrare una pecora e io non li posso vedere. E così siamo già arrivati alle sette e trenta.

Il momento in cui mi devo vestire è il più rapido, dato che scelgo cosa indossare la sera prima e mi preparo l’outfit fuori dalla cabina armadio, sopra la poltroncina. Poi, una volta vestita alla velocità della luce, passo al make up, non faccio un’opera di restauro per rendermi irriconoscibile, ma mi occorrono comunque dieci minuti abbondanti… Beh, facciamo quindici. La bellezza dopotutto è dedizione, è un’arte che va coltivata e approfondita, esattamente come lo studio. Nel frattempo il mio cellulare si sveglia, inizia a squillare fastidiosamente. Mi arrivano i buongiorno di parecchi ragazzi, mi arrivano delle faccine sorridenti, delle richieste d’amicizia e in generale molte notifiche, tutta gente che ha dei doppi fini. Rispondo (non certo a tutti) con una mano mentre faccio colazione con l’imbuto e poi esco finalmente di casa, i miei genitori hanno divorziato e non ci sono quasi mai, perciò esco chiudendo la porta a chiave, come se vivessi da sola.

Di solito c’è sempre qualcuno che mi viene a prendere, raramente prendo io la macchina. Questa volta c’era Kate, le ho dato un bacio sulle labbra e poi mi sono seduta nei posti dietro. Davanti c’era quel tipo biondo e anonimo con cui stava uscendo. Non ho idea che cosa ci trovi in lui, è così ordinario da rasentare la mediocrità. Tuttavia, questo John Watson pare avere conquistato il cuore anche dell’uomo meno mediocre e più selettivo che io abbia mai conosciuto. Se piace a lui, allora non deve essere così ordinario come sembra. Certo, da come si veste non sembra certo promettente. T-shirt, jeans larghi e consunti, colori che fanno a cazzotti, non mi pronuncio sulle scarpe. Ma perché i ragazzi non si guardano allo specchio prima di uscire?

“Ciao, John” lo salutai gentilmente, forse era la prima volta che gli rivolgevo la parola “Come va?”

Vidi gli occhi di Kate fissarmi stupefatti dallo specchietto retrovisore, le ho fatto l’occhiolino. Watson invece si voltò verso di me con aria perplessa, aveva una tazza di cappuccino in una mano e il cellulare nell’altra.

“Ehi” sillabò, stupito “Tutto bene, tu?”

“Non male” ammetto di averlo abbagliato con un bel sorriso civettuolo “Oggi che corsi frequenti?”

L’ho lasciato parlare, ma solo per ascoltare ciò che mi interessava davvero. Potrei sbagliarmi, ma Sherlock ha modificato la sua tabella oraria per essere sempre in corso con lui. Non si spiegherebbe perché abbia iniziato a frequentare francese, altrimenti.

A un certo punto il cellulare di Watson si illuminò e nello schermo comparve la notifica di un messaggio. Sembro pazza, lo so, ma appena lessi che era un messaggio di Sherlock, un brivido di entusiasmo mi corse sulla schiena. Mi sono infilata con disinvoltura nello spazio tra i due sedili anteriori e ho letto avidamente quello che aveva scritto:

“TROVATO”.

Trovato? Cosa poteva aver trovato? O cosa poteva aver perduto… Sento la curiosità bruciarmi in tutto il corpo ancora adesso. Watson si limitò a rispondergli un “Fantastico!” e poi la loro breve corrispondenza telefonica terminò lì. Presi quindi un’altra strada.

“Ti sei fatto molti amici, ho visto” iniziai il discorso, largheggiando per non destare sospetti “Ti trovi bene qui?”

“Ma sì, dai, non posso lamentarmi” mi rispose laconico, è un tipo di poche parole e, chissà perché, ma io non gli sto molto simpatica.

“Perfino Sherlock Holmes sembra esserti amico, sembrate quasi una coppietta” andai dritto al sodo. Kate alzò palesemente gli occhi al cielo, l’ho intravista sempre dallo specchietto retrovisore. Lei sa, è l’unica che sa.

John si irrigidì e abbassò un attimo lo sguardo, il suo viso si era visibilmente indurito.

“Quindi?” mi domandò a muso duro.

“No, nulla. È così difficile avvicinarsi a lui che mi sorprendo” gli risposi innocentemente “A stento mi rivolge la parola”

“Beh, forse c’è un motivo se non ti rivolge la parola” replicò lui, secco “Vi comportate tutti da stronzi con lui, sfido chiunque a volere mantenere le distanze”

Il sorriso mi morì letteralmente sulle labbra. Kate si schiarì la voce in quel silenzio denso di imbarazzo e di offese non dette, e cambiò prontamente discorso…

Arrivammo presto a scuola, uscii dall'auto prima di loro e mi avviai velocemente verso l’ingresso. Mi sentivo ferita. Molti mi salutarono e quel bellimbusto di Godfrey Norton mi corse incontro. Che rottura, non lo sopporto. Ha l’aspetto di un tennista abbronzato e si sente un fenomeno, ma se gli chiedessi chi ha vinto la guerra di secessione sono certa che non saprebbe rispondermi. Come mi raggiunse, intavolò subito il discorso più in voga del momento, ovvero la festa di Henry Baskerville. Era da un mese che non si parlava d’altro e pensare che, se fosse stato per me, non ci sarei nemmeno andata.

“... Pensavamo di restare lì a dormire e di tornare con calma il giorno dopo, tanto Henry ha detto che per i suoi migliori amici lo fa volentieri”

E da quando io ero una migliore amica di quel tizio?

“Magari ci fermiamo anche per il pranzo” ha terminato Norton e io ho avuto la spiacevole idea di guardarlo e forzare un sorriso. Non avrei dovuto, l’ho acceso di entusiasmo.

“Senti, Irene, tu… Con chi vai in macchina, poi?”

E infatti. Il prossimo che me lo avesse chiesto si sarebbe beccato un pugno in faccia. E dopotutto con chi va in macchina Irene Adler è una questione molto importante, evidentemente.

“Non lo so, ancora” gli ho risposto gentilmente, ma ho chiuso forte l’armadietto. Se fosse stato un buon osservatore, avrebbe capito che ero irritata.

“Io ho un posto libero” mi propose con slancio, tirandosi il ciuffo biondo “Col Mercedes di mio padre stiamo larghi e ci mettiamo la metà del tempo, c’è anche Seb e la sua ragazza”

Ci sono anche Seb e la sua ragazza, ho pensato tra me e me, ma ho fatto a meno di correggerlo. Gli ho accennato un sorriso e ho alzato una spalla.

“Grazie, ti faccio sapere” gli ho detto in modo affettato “Ora scusami ma devo scappare”

In realtà non dovevo scappare proprio da nessuna parte, naturalmente. Volevo solo togliermelo di torno, lui e quello stupido pallone che aveva certamente nascosto dentro lo zaino.

Sfilai per i corridoi con le spalle dritte e la testa alta, e come al solito sentii gli sguardi di tutti addosso. Tutti vedono solo ciò che voglio far apparire e mi hanno stereotipato, dato un ruolo: io sono la cheerleader. Sono bella e popolare, ma allo stesso tempo sono considerata vuota, frivola, stupida e, diciamolo pure, sgualdrina. Sono circondata da odio, invidia e rancore ma rido e sorrido in un trionfo di ipocrisia. Non mi importa niente di quello che pensano, per quanto sia emotivamente stancante essere circondata da falsi amici. Ma dopotutto sono persone che, con un po' di fortuna, non vedrò più per il resto della mia vita.

Andai in bagno a darmi un’ultima sistemata allo specchio. Mi ricambiò il riflesso di una ragazza dall’aspetto vezzoso e sofisticato, curato in ogni minimo dettaglio. Mi ero anche cosparsa di profumo. Tutto era in regola, ma io, come molte ragazze della mia età, mi soffermavo solo sui difetti e li enfatizzavo come se fossero sotto i riflettori. Mi vedevo le labbra troppo sottili, il seno troppo piatto, i capelli troppo ricci, i fianchi troppo larghi e tante altre sciocchezze che, con il senno di poi, ho capito non esistevano. Ero ben conscia di piacere e di essere reputata bella, ma una parte di me ne era infastidita. Per quanto assurdo potesse sembrare, ero maggiormente aperta alle critiche piuttosto che ai compimenti.

Mi sono domata con le dita un ricciolo ribelle e sono uscita dal bagno immersa nei miei pensieri, ed è stato proprio in quel momento che, finalmente, l’ho visto arrivare. Un sorriso spontaneo germogliò sulle mie labbra.

Sherlock camminava a passo molto svelto, con il naso sepolto in un libro e il cappotto che gli cadeva alle spalle come un mantello di altri tempi. Mi superò senza nemmeno degnarmi di uno sguardo, le sue ampie falcate avevano un che di austero ed evitavano ogni ostacolo con una grazia rara in un uomo, come se avesse delle antenne in mezzo a quei morbidi riccioli. Pareva totalmente immerso nella lettura, ma io tanto sapevo che mi aveva visto, lui mi vede sempre.

Decisi di andare a salutarlo, anche per vedere cosa stava leggendo quel giorno. Una volta l’ho sorpreso con un libro sulla coltivazione della cannabis, un’altra con un manuale di farmacologia e un’altra ancora con un saggio sui sottomarini della seconda guerra mondiale. Mi fa sorridere, sembra davvero pieno di interessi e curiosità, ma nessuno dei suoi passatempi pare contemplare un’attività che si possa fare in due, non so se mi spiego.

Appena lo salutai con la mia migliore voce flautata, la sua schiena si aprì e si raddrizzò come una vela. Si voltò verso di me e mi puntò i suoi occhi diffidenti e scrutatori addosso.

“Adler” mi disse solo, senza l’ombra di un sorriso. Poi prese subito un’altra strada, tanto per farmi intendere che l’avevo disturbato e che non voleva avermi tra i piedi.

Quanto mi fa sospirare…
 

Devo ammetterlo, mi fa soffrire questo suo ostinato gelo, ma col tempo ho capito che è solo un meccanismo di difesa, un baluardo dietro cui si nasconde, non una forma di ostilità o disprezzo nei miei confronti. Lui è speciale, è forse la persona più spontanea e genuina che io abbia mai conosciuto. Il suo sguardo è diretto e schietto come una doccia fredda, ma è del tutto privo di cattiveria o invidia. Non parla per ferire, parla per dire la verità, che a volte è dura, ma è pur sempre la verità, bisogna saperla accettare e io l’accetto.

Accetto di essermi perdutamente innamorata di lui, così tanto da starci male, da soffrire e gioire allo stesso tempo. E accetto il fatto che lui sembra non ricambiare il mio sentimento, e dico sembra, perché in realtà non so bene che cosa gli passi per la testa. Noto i suoi sguardi fulminei e trattenuti, vedo come si irrigidisce in mia presenza e la fatica che fa a parlarmi, non sono cieca. Ho cercato di avvicinarmi e incoraggiarlo, ma è stato inutile, forse controproducente. L’ho solo reso più allarmato e sospettoso. Crede che io sia sempre animata da intenzioni crudeli e che mi avvicini a lui solo per fargli del male. Non si concede nemmeno il beneficio del dubbio e sarebbe interessante capire perché. O percepisce me irraggiungibile o percepisce se stesso irraggiungibile. Propendo per la seconda, si sente una fortezza inespugnabile e si comporta come tale. E io non so mai se è meglio ignorarlo o essere spudorata. Ammetto che mi comporto in modo contraddittorio, un giorno sono ispirata dall’idea di ignorarlo e un altro da quella di provarci. Forse lo confondo… ma non è facile nemmeno per me!

E dire che credevo di essere omosessuale. Non ho mai avuto un fidanzato, non sul serio. L’ultima volta che sono stata con un uomo (“uomo”, che parola grossa) fu proprio la mia prima volta. Fu un’esperienza traumatica, orribile, ero troppo piccola e non ero pronta per farlo, non volevo farlo, ma chi era con me se ne infischiò. Lo considero uno stupro e da allora non ho più visto un uomo nudo in vita mia, il solo pensiero mi ripugnava. Ho cominciato a frequentare le ragazze e mi sono resa conto di quanto siano migliori sotto ogni punto di vista. Lo penso orgogliosamente tuttora, anche se, piano, piano, man mano che osservavo Sherlock e le sue complesse nonché stravaganti letture, la curiosità di conoscerlo aumentava, così come aumentava la consapevolezza di quanto fosse meravigliosamente intelligente e lontano, assorto in un potente flusso di pensieri. Capii subito che era diverso, che non era semplice, lineare e banale come tutti gli altri. I videogiochi, il pallone e temo anche il sesso per lui non esistevano, era in un altro mondo che solo pochi privilegiati avevano la possibilità di conoscere.

Ho iniziato a immaginarmi insieme a lui, a sognare mentre mi spiegava le brillanti teorie di qualche scienziato o mi dimostrava questo e quell’altro assioma. E poi ho iniziato a vederlo con altri occhi, a sognarlo in altri modi, a sospirare… Oggi vorrei vedere la sua espressione perennemente concentrata sciogliersi e sentire le sue spalle rilassarsi tra le mie braccia, ne sento quasi il bisogno io per lui.

Entro la fine dell’anno gli parlerò in modo esplicito, anche se l’idea di un no da parte sua mi annichilisce. E un no sembra così plausibile! Preferirei restare nella dolce ma inconcludente illusione di piacergli, piuttosto che rischiare di sbattere la testa contro il muro della realtà, però… Però, quante cose mi perderei, se non ci provassi? Quanti baci, quanta gioia, quanto sesso?

Non sono una di quelle signorine perbene che aspetta il principe azzurro, anche se, a dirla tutta, credo di averlo trovato.
 

***

La festa di Henry Baskerville è stata come l’avevo immaginata: un’esibizione senza fine di soldi, un ammasso indistinto di gente, di alcol, di musica martellante e di luride mani che mi hanno palpato il sedere mentre ballavo. Col passare delle ore, il party è degenerato ulteriormente. Sebastian ha sboccato dentro la piscina, Godfrey Norton ha perso i pantaloni ed è rimasto in mutande, una preziosa statua d’ottone a forma di mastino è stata ammaccata e Kate e John Watson finalmente si sono mollati. E tre deficienti ci hanno provato insistentemente con me, ma io non c’ero per nessuno. Ho ballato tutto il tempo, incurante degli sguardi famelici di chi cercava di approcciarmi. Mi sono sballata, ma in realtà dentro di me ero mortalmente triste, quella era solo una facciata.

Sherlock non c’era.

L’ho immaginato a casa da solo e ho provato un fortissimo disagio. Avrei voluto essere con lui, tra le sue braccia, ascoltare la sua voce e non quella cacofonia di urla e schiamazzi.

Ho provato a chiedere a Watson di lui con nonchalance, ma lui mi ha liquidato dicendo che alla fine non era venuto perchè aveva avuto i suoi buoni motivi.

Mi sono odiata. Sarebbe stata l’occasione perfetta, avrei potuto presentarmi da lui e dirgli la verità.

Fu uno dei miei più grandi rimpianti.

Il giorno dopo era domenica e quando siamo tornati tutti a casa, io non potevo nemmeno immaginare quello che era successo. Lo seppi solo due giorni dopo, quando arrivai a scuola e vidi diverse auto della polizia parcheggiate nel cortiletto. In quel momento pensai a un semplice caso di spaccio di droga, qualcuno che era stato beccato con le mani nella marmellata. Certo non Sherlock, pensai tranquillamente tra me, lui non è il tipo che si fa beccare. E infatti la polizia non era lì per un caso di spaccio, ma per un altro motivo, che diede inizio alla settimana peggiore di tutta la mia vita.

Come entrai, sentii dentro di me ciò che era accaduto prima ancora che me lo dicessero, come se avessi percepito nell’aria la portata drammatica e angosciante di quella disgrazia. L’ingresso era pieno di poliziotti e io vidi con la coda dell’occhio Molly Hooper che piangeva a dirotto.

Sherlock era sparito, non c’era traccia di lui da ormai tre giorni. Era stato visto l’ultima volta dai vicini di casa, che l’avevano sentito suonare il violino nel tardo pomeriggio, e poi basta, si erano perse le tracce.

I tre giorni divennero quattro, cinque, le lezioni furono sospese e alla polizia si aggiunsero degli altri agenti speciali. Molti studenti vennero sottoposti a interrogatorio, non io.

L’ottavo giorno io avevo esaurito le lacrime, il mio corpo non ce la faceva più. Decisi di muovermi.

Uscii e lo andai a cercare, non sapevo dove, non sapevo come, ma ero certa che se fossi uscita e mi fossi immischiata in qualcosa di pericoloso, lui sarebbe comparso a salvarmi. Temeva che qualcuno mi picchiasse, aveva confuso le sedute con la mia dominatrice con qualcosa di violento e  crudele e quanto lo posso amare, per questo? Quanta dolcezza cela dietro quell’armatura?

Se era morto, sarei morta anche io, di crepacuore come un cigno.

Mi inoltrai per strada, nel centro di Londra. Ero molto debole e debilitata, non avevo mangiato o dormito granché in quei giorni, mi veniva solo da piangere e da vomitare. E poi pioveva e faceva freddo, non c’era molta gente in giro.

Tremavo sotto il cappotto, i miei capelli non erano mai stati così ricci e scompigliati da quando ho memoria. Ho camminato senza meta per quasi otto chilometri, ho fatto venire le dieci di sera, nella speranza che lui comparisse da un momento all’altro e mi dicesse “Adler”, come è solito chiamarmi. Non ho mai avuto il piacere di sentirgli dire il mio nome, di vederlo sorridere verso di me, di sentirlo godere dentro di me. Non potevo rassegnarmi.

Ho attraversato un ponte, sono passata di fronte a un pub aperto dall’aspetto lurido e poco accogliente, continuando a far scattare lo sguardo ovunque. Muovermi, avere l’idea di fare qualcosa per cercarlo - anche stupido, come camminare a zonzo per le vie di Londra - mi faceva sentire più tranquilla, mi infondeva un senso di pace generale che dopo quei giorni d’agonia mi sembrava come una manna dal cielo.

Arrivarono le undici e trenta, io ero esausta, ma non avevo intenzione di tornare a casa, non sapevo nemmeno dove fosse casa mia a dire il vero, mi ero probabilmente persa. La disperazione di non vederlo da nessuna parte iniziava a farsi sentire, ma mi ripetevo che Londra era grande e che mi mancava almeno un altro intero giorno di cammino, per non dire due. Se Sherlock mi avesse visto da sola, di notte, in queste condizioni, mi sarebbe venuto incontro, di questo ne ero certa. Lui è tanto protettivo. E quante volte gli dirò che lo amo, quando lo vedrò. Glielo dirò cento volte, duemila volte, non mi staccherò mai più da lui, e poi lo bacerò, ci farò l’amore fino a farmi venire i crampi. Questo pensiero mi rifuse di dolcezza, fu come benzina per i miei piedi doloranti.

Camminai più velocemente e mi inoltrai in una via un po' più animata. Le finestre erano tutte sbarrate, le tapparelle abbassate, ma c’era gente in giro… Beh, gentaglia. Brutta gente, tossici e senzatetto dall’aspetto minaccioso. Indietreggiai inquieta, forse era meglio cambiare percorso. Ma ecco che all’improvviso una mano grande e calda si poggiò sulla mia spalla, mi voltai subito di scatto, travolta da un’improvvisa gioia immensa, ma di fronte a me c’era un uomo orribile e unticcio, che mi sorrideva con una bocca gialla e sdentata.

“Cosa ci fa un bel fiore come te tutto solo a quest’ora?”

Oh, me lo aspettavo. Sarebbe dovuto succedere, dopotutto. Una diciottenne sola e carina di notte che genere di gente può incontrare? Ma non fu quel tizio il motivo che mi portò alle lacrime. Ebbi come un crollo nervoso per la delusione, perché la gioia istantanea ma tanto impetuosa di prima venne oscurata immediatamente da quella losca figura.

Guardai dietro di lui, guardai a destra e a sinistra con rapidità, nel buio scorsi altre figure che si avvicinavano. Iniziai ad avere paura, ma era una paura rassegnata, di chi era pronto al male. Non ero armata, avevo solo la mia forza che era tutt’altro che straordinaria. Le mie gambe e i miei piedi erano stremati, avrei potuto correre ma non avrei resistito a lungo. Sperai solo che mi picchiassero e derubassero e basta, anche se avevo i miei seri dubbi.

A un certo punto una mano fredda mi afferrò forte il braccio, in modo brusco. Mi voltai spaventata e poi trasecolai.

“Cosa ci fai qui? Sei impazzita o cosa?” mi rimproverò Sherlock, conciato in modo irriconoscibile “Hai bisogno di un TSO, Adler. Parlo sul serio”

 

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Capitolo 10
*** X ***


È curioso come la nostra mente, di fronte alle sorprese spiacevoli, tenda a reagire secondo uno schema costante: prima si nega la realtà, poi si cerca il colpevole e infine ci si lascia sopraffare dai sentimenti.

È esattamente così che ho reagito quando ho capito di avere una sorella. C'è stato il momento di diniego, seguito da una rabbia rancorosa verso la mia famiglia e poi la realizzazione, l'incredulità, l'angosica e la paura. Tutto è iniziato con noi tre: Jim, la ragazza con la parrucca e io. Siamo usciti e ci siamo fermati in un chiosco, fuori piovevano gocce finissime e pungenti, ma per fortuna i tavolini erano coperti da un gazebo di plastica giallo, molto spartano. Jim si mangiò un panino e quella fu la prima volta che l’ho visto mangiare qualcosa di solido, la ragazza con la parrucca invece si prese un frappé e per tutto il tempo parlò di me come se io non fossi presente. Sentenziava come un giudice implacabile e ogni sua parola sembrava la portata non scritta della verità. Non ho mai ascoltato una persona così rapida di intelletto come lei. Una rapidità davvero impressionante, che la portava perfino a precedere i miei dubbi, deduceva dalla mia espressione le mie domande e rispondeva senza nemmeno darmi il tempo di formularle. Anche Moriarty taceva e restava incantato ad ascoltarla, come se fosse stregato da lei e dal suo flusso continuo ma logico di parole. A un certo punto noi tacevamo e lei parlava, solo lei parlava, in modo fluido e ipnotico. Non sbatteva mai le palpebre e aveva sempre un sorrisetto appena accennato sulle labbra che era… inquietante.

“Cos’è quell’espressione?” mi ha domandato di punto in bianco “Sherlock, cosa ti avevo detto sull’avere paura? Sul mostrare le sofferenze? Mostrare le sofferenze espone solo alla derisione!”

E poi…

“La pubertà ti ha reso più brutto. Eri così carino da piccolo, sembravi una bambola di porcellana, adesso sei lungo e secco come una cavalletta, ma almeno hai ancora il brillio dell’intelligenza negli occhi”.

“Come mai sei ancora vergine? Leggo tanta confusione nel tuo sguardo, mi ricordi tanto un’infermiera del mio reparto, anche lei era molto confusa, ma il mio violino le ha fatto aprire gli occhi. Aveva perso tutte le corde e mi era rimasto solo il sol, proprio come successe all’illustrissimo maestro” si stava riferendo a una delle tante leggende che circondano la figura del celeberrimo Paganini, il più grande violinista dell’ottocento “Hai mai provato a suonare il violino con solo la corda del sol, Sherlock? Sai che tutti lo chiamano Sherlock per merito mio?” si rivolse improvvisamente a Jim “Prima tutti lo chiamavano William, ma io mi sono rifiutata di chiamarlo così fin da quando ho iniziato a parlare, perché il suo nome era Sherlock, io sono stata la prima a capirlo. Ti ho sempre voluto bene anche se non volevi giocare con me” mi ha puntato gli occhi addosso “Ti ho dato un bacio, te lo ricordi? Ma la mamma mi ha sgridato subito, gli adulti si imbarazzano quando i bambini fanno queste cose”

Più lei parlava, più io ricordavo. Erano come frammenti paragonabili a scene tagliate della mia infanzia, attimi colorati in cui il Mare del Nord e lo scosciare delle onde facevano da sfondo in quello che era un ricordo brumoso e sbiadito.

Ho ricordato lei e il suo nome, all’improvviso, ma la cosa più inspiegabile era che una parte di me lo aveva sempre saputo. Quando l’ho vista di fronte alla mia porta e ho sentito la sua voce, ho sussultato. Ho capito subito chi fosse, anche se il mio inconscio traumatizzato non mi ha permesso di realizzarlo pienamente, forse per un meccanismo di auto difesa e di preservazione che il cervello instaura per proteggersi dallo shock? Non saprei, non sono così ferrato in psichiatria per potermi dare delle risposte.

Ma di una cosa ero certo: intorno alla figura di Eurus si delineavano i traumi più grandi della mia vita. Ciò che sto per dire è molto penoso per me e richiede un grande sforzo, e non solo mnemonico.

Eurus aveva un rapporto piuttosto morboso con me, un attaccamento equivoco. Mi ricordo che una notte è salita nel mio letto e ha iniziato a contarmi le costole, ho bene in mente le sue manine fredde sotto il pigiama e la sua voce contro l’orecchio. Eravamo bambini ma io, in tutto il mio candore e la mia ingenuità, avevo avuto la percezione che c’era qualcosa che strideva, che non andava. Ho iniziato a scacciarla e a rifiutarmi di passare del tempo con lei, la escludevo deliberatamente e intanto giocavo con il mio cane, il quale è poi scomparso in circostanze tuttora misteriose che ricordo appena. Ricordo solo il grande dolore che provai, la sensazione di smarrimento e incredulità che può provare un bambino la prima volta che entra in contatto con la morte.

Ebbene, la sparizione di Redbeard coincide con quella di Eurus. I miei ricordi si fermano lì, i due eventi sono in un certo qual modo collegati e non posso fare a meno di pensare che sia stata lei ad aver ucciso il mio cane, più di dieci anni fa. Ne sarebbe stata capace, fin da quando era piccolissima ha dimostrato di avere un intelletto degno di un adulto e una curiosità macabra e peccaminosa, che poco si addice all’ingenuità tipica dei bambini. Eurus non è mai stata pura o ingenua, non sul serio.

Quel rinvangare nel passato fu molto angosciante, tanto che non sono tornato a casa per tutta la notte. Mi sono addormentato accanto a lei in una panchina, intontito dalla sua voce intonata e dal fortissimo senso di angoscia provato in quelle ore. Sono proprio crollato, collassato. Le sue braccia mi hanno cinto da dietro come tentacoli ma il fatto di averlo già vissuto da bambino mi rassicurava.

La mattina dopo l’ho vista sotto una luce nuova, prima di tutto era senza parrucca. Ha dei capelli neri e riccioluti come i miei ed è bianca e delicata come un chicco di riso. È davvero molto bella, simile a me, ma in bello. Vista la somiglianza fisica e visti i pochi mesi che separano le nostre nascite potremo essere tranquillamente scambiati per gemelli. Non mi stupirei se lo fossimo sul serio, dopotutto i miei ricordi non sono certo affidabili.

In ogni caso, quella mattina l’ho vista con occhi completamente diversi. La luce del sole l’ha resa meno spettrale e senza quella parrucca aveva un’aria molto più giovane e molto più innocente. Non era più un incubo recondito del mio inconscio, era solo mia sorella.

Non sono tornato a casa neanche quel giorno, sono stato nascosto con lei e ho ascoltato il suo racconto. Eurus è giunta qui grazie anche a Jim. Non ho capito come sia riuscito a scoprirla e se ha minacciato o levato dai guai un pezzo grosso che era a guardia della struttura carceraria, fatto sta che lei in tre minuti è riuscita a scappare e a spacciarsi per infermiere, usando dei baffi finti che si era confezionata da sola con i suoi stessi capelli. E poi si è nascosta dentro la stiva di una nave mercantile che dall’isola della prigione (sita nel Mare del Nord, da quanto ho potuto appurare dalle sue minuziose descrizioni) l’ha portata in un estuario del Tamigi.  Da lì, arrivare nel cuore capitale è stata un gioco da ragazzi.

Ovviamente, non voleva tornare in quel manicomio dimenticato da Dio per nessun motivo al mondo e non avrei saputo dire se la sua paura fosse genuina o solo il provento delle sue formidabili doti d’attrice, ma sta di fatto che non sono riuscito ad abbandonarla. Era mia sorella, malgrado tutto le volevo bene. Ed era ricercata, aveva un’enorme taglia sopra alla testa e chi meglio di me e di Jim Moriarty poteva aiutarla a nascondersi e a depistare ogni traccia? Con tutto il rispetto, ma l’incompetenza di Scotland Yard rappresenta forse l’unica certezza che ho nella vita, ciò su cui avrei sempre fatto affidamento. Gli agenti inglesi non avevano fatto alcun progresso nelle ricerche mie e di Eurus, brancolavano nella nebbia come di consueto e sembravano più confusi del solito, dato che avevano legato la mia sparizione al mancato invito alla festa di Baskerville (che movente indecoroso da affibbiarmi, dico io!). Li immaginai nel Devonshire a cercarmi in mezzo ai boschi, con i pastori tedeschi al guinzaglio e una torcia tra le mani, quando io in realtà ero semplicemente in città a un tiro di schioppo dal commissariato... E qui inizia forse la parte più divertente dell’avventura.

C’eravamo rintanati dentro un appartamento sfitto in Baker Street, una viuzza con poche pretese, pochi locali e poca movida. E questo perché la proprietaria del palazzo era anche la moglie del nuovo spacciatore di Jim, ovvero il capo di un cartello colombiano il cui cognome era noto nel mercato degli stupefacenti. Ebbene, questa arzilla nonché loquace signora ci ha offerto la disponibilità mensile dell’appartamento in cambio di una promessa da parte mia, ossia che avrei fatto tutto il possibile per spedire il suo dispotico marito in galera e buttare via la chiave. Per farlo, mi sono spacciato per un investigatore privato di ventisei anni e il caso ha voluto che avessi anche il berretto giusto e una lente d’ingrandimento che mi sbucava dal taschino, ma posso dire con sincerità che avrei fatto tutto il possibile per onorare la parola data e mettere quel tizio dove si meritava.

Ciò detto, Eurus è tuttora nascosta dentro quell’appartamento, Moriarty a un certo punto è scomparso mentre io, invece, sono rimasto a vagabondare come un randagio per le vie di Londra. Ho già accennato del mio buon rapporto con i senzatetto e derelitti della città, quindi mi sono rivolto a costoro e sono stato accolto con un calore umano inaspettato e commovente. I dormitori dove si recano per me sono off-limits, essendo io ricercato da Scotland Yard, perciò ho ripiegato per dormire all’aperto, in aeroporto, dentro una macchina e così via. Avrei potuto dormire con Eurus in quell’appartamento malandato, ma non mi sembrava il caso, e poi entrare nella rete dei senzatetto era più conveniente per procacciarmi del cibo e per avere notizie dal “mondo”.

Tutti erano sulle mie tracce ed ero finito perfino nel telegiornale: Ragazzo di diciotto anni scomparso da sabato pomeriggio. L’appello disperato della famiglia e degli amici: “Torna a casa, Sherlock, ti vogliamo bene”.

Mi auguro che la mia famiglia avesse fatto due più due, non potevano non collegare la mia sparizione all’evasione di mia sorella rediviva, di cui erano stati certamente informati. Mi sembrava davvero un collegamento a prova di idiota. Tuttavia, quando ho visto quel servizio su di me nel telegiornale mi sono sentito severamente a disagio. Ho immaginato mia madre moribonda per la preoccupazione, Mycroft inappetente per la preoccupazione, e perciò ho deciso di fare qualcosa. Ho mandato loro un biglietto, infilandolo nella buchetta delle lettere, anche se ero arrabbiato nero e ho sentito seriamente di odiarli per questa loro fitta rete di menzogne e reticenze. Ho scritto loro semplicemente che stavamo bene e che eravamo vivi, usando appositamente il plurale.

E poi… Poi il quarto giorno ho camminato per la città, intabarrato e coperto dalla testa ai piedi con degli abiti sdruciti e di terza mano,  e sono passato di fronte al tetro istituto. Ho notato come prima cosa che era chiusa e come seconda cosa che c’erano dei mazzi di fiori (ipocriti) e delle candeline votive (inutili) di fronte all’ingresso. E di nuovo mi sono sentito egoista e a disagio, ma dopotutto non avevo altra scelta. Non credo che capiti a tutti di ritrovarsi nella propria vita una sorella così, d’emblée. Una sorella che è rimasta chiusa dentro un manicomio criminale fin da quando era piccola, una sorella che la mia famiglia mi aveva tenuto deliberatamente e imperdonabilmente nascosto, una sorella che era venuta da me a chiedermi aiuto e che era in combutta con la persona più controversa che io avessi mai conosciuto, ossia il mio caro “amico” James.

Ma tra i miei pensieri, oltre alla mia famiglia, c’era anche un altro amico. Un amico nuovo, sincero, con cui avevo appena legato e che già era entrato nel mio cuore. Sono stato ogni sera di fronte alla finestra di John Watson, indeciso sul da farsi. Malgrado fosse giunta la notte, nella sua camera c’erano sempre le luci accese e non potevo fare a meno di pensare che fosse in pena per me.

Dopotutto, supposi che anche per i miei coetanei questa mia sparizione fosse correlata al mancato invito da parte di Henry Baskerville alla sua stupida festa di compleanno e temetti che John si sentisse in colpa. Sarebbe stato illogico da parte sua, lui era stato l’unico ad essersi offerto di restare a casa ed ero stato io a dirgli di andarci, che colpa poteva mai avere lui!? Ma la mente umana non è logica, non come la mia. Ero stato sul punto di tirargli un sassolino contro il vetro della finestra, ma poi ho visto le luci spegnersi. Così ho gettato a terra la pietra e con essa tutti i buoni propositi che avevo di parlargli.

…La verità?

La verità era che mi sentivo turbato, e non solo per Eurus. Mia sorella certamente aveva dato la stoccata finale a quelle corde tese che erano i miei nervi, ma era stata anche uno stimolo e un’occasione per affrontare me stesso e i miei burrascosi sentimenti.

Il fatto è che non ho mai dedicato particolare attenzione alla mia sessualità, l’ho sempre percepito come un argomento ostico e distante, molto lontano da me e dal mio essere. Ma non perché io sia del tutto privo di appetito sessuale, quanto perché non ci ho mai speso del tempo, non sul serio. In teoria ho sempre dato per scontato di essere eterosessuale, ma è stata una scelta pigra, quella di un disinteressato che non prende posizione e lascia che sia la società a decidere per lui. Nella pratica, non riesco davvero a immaginarmi in un contesto sessuale, fuori controllo e con le mutande calate di fronte a una donna. Di fronte a un uomo mi sembra tutto più facile e se questo uomo è John, allora la cosa può considerarsi già fatta, non esiste proprio il problema. Lui è diverso, tutto con lui è diverso e questi giorni di solitudine e riflessione me lo hanno fatto capire. Io mi sento in pace quando parlo con lui, sereno. È talmente calmo, lineare e logico che per le mie sinapsi impazzite è come un impacco caldo di camomilla, un massaggio rilassante sui nervi scoperti. Non mi è mai capitato di sentirmi rilassato con qualcuno senza al contempo provare noia, è incredibile, miracoloso, ma con John Watson è proprio questo che accade. Pensandoci, la sua semplicità trasuda sicurezza, non banalità. È la semplicità di un ragazzo sicuro di sé, che non ha bisogno di maschere o sotterfugi per piacere o relazionarsi con gli altri. Ed è la semplicità di chi segue una linea dritta, a testa alta. La strada è prevedibile ma percorrerla non è così facile, è molto più facile sbandare e deragliare nella complessità come faccio sovente io, piuttosto che seguire un percorso sintetico e rettilineo. La cosa poi divertente era che, secondo John, ero io quello che seguiva una linea retta ed era lui invece ad andare a zigzag, tanto per dire quanto i cervelli umani possano elaborare diversamente la realtà esterna.

Ma c’è moltissima logica nella semplicità di John, e dopotutto che cos’è la logica se non semplicità, sensatezza e comprensione? Lui era molto, molto sensato, forse un po' superficiale, ma ermetico, chiuso come una cassaforte a doppia mandata. Aveva un suo mistero ed esercitava un grande fascino ai miei occhi.

E dopotutto dicono che quando trovi la persona giusta, non esiste l’imbarazzo iniziale, tutto è naturale e spontaneo e tu ti senti subito a tuo agio, sereno, proprio come è capitato a me la prima volta che ci siamo parlati.

Forse lui è la persona giusta, qualunque cosa ciò comporti. Questo fa di me un omosessuale? Non saprei, perché comunque le ragazze… Sono le ragazze, non mi sono mai state indifferenti. E ne ho conosciuta una in questi otto giorni di libertà. Una ragazza di origini africane, con la pelle brunita e un fisico asciutto e atletico, che conosceva Mbalie. Questa ragazza faceva la meretrice e si chiamava Sonja, proprio come la protagonista femminile di Delitto e Castigo. Ebbene, dopo aver lavorato si fermava a chiacchierare con noi, forse per lasciarsi alle spalle quei momenti spiacevoli e ringalluzzirsi un po’ e io, ogni volta che la vedevo, sentivo l’aria farsi elettrica, il mio battito cardiaco aumentare. Lei veniva tutte le sere e abbiamo parlato, con la disinvoltura di due persone che non si conoscono. È stato illuminante parlare con lei. Quando le ho detto di essere single e di non avere intenzione di legarmi sentimentalmente ad alcuno, lei mi ha dato una risposta che mi ha fatto riflettere. Mi ha chiesto che cosa avessi fatto di male per meritare una cosa del genere e mi ha detto che era molto “egoista” da parte mia, perché questo mio rifiuto non avrebbe fatto soffrire solo me, ma anche qualcun altro.

Mentre pensavo pigramente a queste cose (e a Sonja), in Baker Street con una tazza di tè del supermercato tra le mani, vidi letteralmente un piede penzolare di fronte alla finestra. Piede che riconobbi come appartenente al mio amico Raoul, un giovanotto equilibrista che aveva fatto del furto la sua professione. Si era aggrappato sulla grondaia di casa come un gatto e faceva dei segni concitati nella mia direzione. Fuori piovigginava ed era scesa la notte, se era venuto fin qui doveva essere una faccenda seria. Temetti subito che la polizia avesse individuato la nostra posizione e che dovevamo fuggire di corsa, ma non mi sembrava possibile, come potevamo averci scovato dopo tutte le precauzioni che avevo preso?

In punta di piedi ho superato Eurus, che stava giocando a scacchi con se stessa ed era finita per la terza volta in una posizione morta, e poi ho aperto la finestra. Ebbene, non era la polizia il problema ma, se possibile, qualcosa di peggio. Raoul mi informò che certi suoi conoscenti avevano visto in Fleet Street una ragazza angosciata che chiedeva di me…

“Una ragazza?” esclamai subito, sentendo lo sguardo pregnante di Eurus sulle spalle.

“Sì, una ragazza brunetta e magrolina. Hanno detto che aveva un’aria molto spaventata e che era tutta sola”

Molly. Ho chiuso istintivamente le palpebre, questa non ci voleva.

“E chiamava il mio nome?” ripetei, animato dalla speranza di aver capito male.

“Sì”.

“Dove si è diretta?” domandai atterrito, anche se era una domanda stupida.

“L’ultima volta che l’hanno vista stava svoltando per Farringdon Road…”

Ho imprecato mentalmente perché Molly non abitava da quelle parti. Era ben lontana ed era molto tardi, la immaginai da sola, indifesa come un pesciolino rosso in una vasca di squali.

“Posso prendere la bicicletta?” ho domandato al ladro, certo che era venuto fin qui con una bicicletta rubata di fresco.

“Stasera sono venuto in moto…” replicò malandrino, facendo stranamente ridere Eurus “Va bene lo stesso?”

Non avevo mai guidato una moto vera, solo un ciclomotore a pedali, ma c’è una prima volta per tutto, no? Sono quindi salito in groppa al veicolo, ho messo il casco (unto e sfondato, il proprietario doveva essere pelato, di mezza età e avere un fegato grosso quanto un bambino) e sono partito un po' insicuro e traballante. Era una Yamaha di grossa cilindrata, equilibrata e dotata di un’ottima padronanza del terreno. Sentivo il motore vibrare forte sotto il mio corpo e in poco tempo presi confidenza col mezzo.

Sono arrivato a Fleet Street che ero diventato un motociclista provetto e ho cominciato a chiedere informazioni agli occhi e alle orecchie della città, ossia ai barboni, agli accattoni, ai lavavetri e perfino alle prostitute. Mi hanno mandato a Cannon Street, poi da lì mi hanno detto di voltare a sinistra, e poi a destra, tutti mi rispondevano di avere appena visto una ragazza come da mia descrizione muoversi a passo svelto e svoltare, girare. Stavo praticamente ripercorrendo gli stessi passi confusi e senza logica di Molly, le stavo correndo dietro con la stessa foga con cui lei aveva attraversato la città…

E poi, finalmente, arrivai a destinazione. Ho inchiodato di fronte a un pub-osteria mal frequentato, perché un gruppetto di circa tre persone aveva circondato una figura femminile. Mi tolsi subito il casco, mi abbassai sulla fronte il ridicolo cappellino da cacciatore e appoggiai la moto contro un palo della luce, l’avevo trovata ma… Rimasi sbalordito e mi bloccai per un istante in mezzo alla strada come uno stoccafisso.

Non era Molly quella ragazza.

Riconobbi all’istante chi era, anche se quella voluminosa chioma crespa non mi era certo famigliare. Nemmeno quell’aderente tuta grigia mi era famigliare, non sul suo corpo vestito sempre alla moda.

Ma che cosa ci faceva lei qui. Perché lei era qui. Mi sono avvicinato a passo di marcia, ero armato ed è bastato mostrare il calcio della pistola (giocattolo, me l’aveva prestata Raoul) per far allontanare quei tre grossi ubriaconi.

E poi le ho afferrato forte un braccio e lei si voltata di scatto. Aveva un aspetto orribile, non ho mai visto Irene Adler così malmessa in vita mia. Era sbattuta, struccata, con gli occhi gonfi e rossi e un’espressione smarrita, come quella di una bambina che si era persa in un grande magazzino.

“Cosa ci fai qui? Sei impazzita o cosa?” l’ho aggredita arrabbiato e la sua faccia sbiancò “Hai bisogno di un TSO, Adler. Parlo sul serio”

Ero stato ruvido, ma santo cielo cosa non aveva rischiato a venire qui! Anche io rischio grosso a girovagare di notte per queste strade, figuriamoci una ragazza carina come lei. Dopo, ciò che è successo mi è tuttora difficile da credere, figuriamoci da raccontare.

Lei mi mise le braccia al collo e mi abbracciò, scoppiò a piangere fragorosamente, così disperatamente da spiazzarmi. Osservai il tizio che l’aveva fermata e cercai di dare un senso alla situazione. Mi sentivo frastornato, prima di tutto perché mi aspettavo Molly. Ero certo che ci sarebbe stata lei, lo davo per scontato, e il fatto di essermi sbagliato in modo così clamoroso mi fece sentire allibito. E poi perché la sua reazione era veramente esagerata, singhiozzava parole in modo incomprensibile e mi stringeva forte, non avevo mai abbracciato nessuno così a lungo in tutta la mia vita. Nemmeno mia madre, i miei non sono mai stati prodigi di gesti affettuosi.

Le ho accarezzato lievemente i capelli e mi sono sentito il consolatore più impacciato della storia, le sue parole dolci e piene di amore mi confusero totalmente. Mi disse “ti amo” e me lo ripetè tante, tante volte. Le sue lacrime mi bagnarono il collo e le sue labbra me lo baciarono. L’empatia non rientra tra le mie principali qualità, ma realizzai con un certo sgomento quanto costei avesse sofferto per me. Rimasi stupefatto da quei “ti amo”.

Avrei voluto chiederle in che senso, ma il bacio in bocca che mi diede mi tolse ogni dubbio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autore

Avrete notato che ho un’idea piuttosto audace sul rapporto tra Sherlock ed Eurus. Avete presente il film Crimson Peek? Ecco, quello ma in via unilaterale, solo da parte di Eurus. Ho avvertito parecchie vibrazioni in tal senso e potrei portarvi molti esempi per avvalorare la mia tesi, dal fatto che lei abbia ucciso Redbeard/Viktor essenzialmente per gelosia, a quella nottata pseudo romantica che ha trascorso con Sherlock sotto mentite spoglie…

Ad ogni modo, io spero che il capitolo vi sia piaciuto e ho una cosa da aggiungere: siete liberi di odiare Irene Adler quanto volete, ma non potete pretendere che il vostro discutibile pensiero sia universalmente condiviso, perché non è così. Basta non leggere!

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