Postierle

di Genziana_91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** All'ombra delle tapparelle ***
Capitolo 2: *** San Damiano ***
Capitolo 3: *** Un fiorino! ***
Capitolo 4: *** Villa Eleni ***
Capitolo 5: *** Chi si fa i fatti suoi... ***



Capitolo 1
*** All'ombra delle tapparelle ***


1. All'ombra delle tapparelle
 
Era una notte buia e tempestosa… è così che cominciano certe storie, no? E invece no, non era né notte, né tanto meno buio o tempestoso. Anzi, era un caldo e assolato pomeriggio di fine Agosto, di quelli che ti fanno sudare ogni singola goccia d’acqua corporea. Io, fiero guerriero nell’eterna lotta tra l’uomo e il caldo, sedevo immobile nella traiettoria del ventilatore. Qualsiasi sforzo che non fosse strettamente necessario avrebbe potuto costarmi la vita e io mi attenevo alla regola aurea che ogni romano impara fin dalla più tenera infanzia: ad Agosto non si esce di casa. Dunque ero lì, sulla soglia della disidratazione, quando all’improvviso lo spernacchiare del cellulare mi disse che mi era arrivato un messaggio. Era Chiara, la mia ragazza, lapidaria:  Dobbiamo parlare.

Di solito, questa frase è in grado di scatenare il tumulto dell’ansia e del più elementare spirito di sopravvivenza dell’uomo moderno, generando un’iniezione di adrenalina capace di svegliare l’ultimo e il più pigro dei neuroni. E invece i miei rimasero lì, apatici, con il ronzio del ventilatore a fare da colonna sonora. Solo ad un secondo messaggio presi in considerazione l’idea di prenderla sul serio. Diceva che sarebbe passata di lì a un’ora.  Ad onor del vero, motivo della mia insofferenza non erano solo il caldo e il fatto che fosse Agosto e io stessi a Roma, intrappolato in un monolocale sulla Prenestina, invece che in qualche esotica località a vivere avventure fantastiche. No, era che con Chiara le cose avevano preso una piega che con il senno di poi definirei patetica. Una storia che si reggeva con lo sputo. Ci eravamo conosciuti in piazzetta a San Lorenzo in un calda serata di Giugno, di quelle belle, però, quelle in cui le note di una pizzica ti riconciliano con il mondo. Era stato cinque anni prima ed entrambi portavamo colorati abiti fricchettoni. Cinque anni dopo Chiara indossava solo vestiti equo-solidale e io esprimevo il massimo della mia trasgressività mettendo i calzini spaiati quando la lavatrice ne faceva sparire i rispettivi compagni.

Scusate se è poco.

Le belle illusioni di cambiare il mondo attraverso la gioia di vivere e rincorrere i propri sogni fino all’ultimo, avevano ceduto il posto ad un razionale spirito di sopravvivenza, ormai consapevole più che mai che la vita vera è fatta di calzini desaparecidos e di scadenze che ti vengono incontro come un frecciarossa lanciato sulla Milano-Bologna. Ero nostalgico, più che delle pizziche e delle bevute con gli amici, del candido ottimismo e dell’illusione che le cose sarebbero sempre rimaste belle com’erano. E invece no. Le cose non ne avevano colpa, loro erano fluite come fanno sempre e pian piano avevano assunto un andamento regolare, fatto di sveglie alle otto, di giornate di lavoro più o meno intenso, di frigoriferi semivuoti e di birre calde. Non è colpa di nessuno, succede perché è naturale che avvenga. Chiara faceva parte di questo lento processo almeno quanto il resto, solo che non se n’era accorta e continuava ad essere quella di cinque anni prima.

Neanche ricordo le parole con cui mi lasciò.

Quell’asfissiante ora di fine Agosto era passata come se non fosse mai esistita e le successive mi lasciarono niente più che la netta sensazione che dovessi in qualche modo sentirmi frastornato, scosso, lacerato dalla forza dei sentimenti. In verità, non provavo nulla di tutto ciò. Chiara mi aveva lasciato in tronco, con poche spiegazioni sul suo bisogno di vivere e fare nuove esperienze, e io mi sentivo come quando si arriva alla fine di un libro bello ma troppo lungo. Mi dispiaceva, certo, ma il dispiacere per quell’amore finito era stato spalmato nei mesi precedenti in cui, un po’ alla volta, si era fatta largo la consapevolezza che le cose erano ormai al punto di non ritorno. Il dolore era stato consumato da un pezzo, restava solo da prenderne atto.
 
La mattina dopo, all’alba mi svegliai di soprassalto. Le prime luci del mattino tingevano di sfumature pastello le pareti sciatte del mio monolocale e io realizzai, in un momento di lucida consapevolezza, che era il momento di rimettere in ordine le carte nel mio cervello.

Era il momento perfetto per un viaggio.

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Capitolo 2
*** San Damiano ***


2. San Damiano
Arrivai a San Damiano che non doveva esser più tardi delle cinque del lunedì dopo il fatidico messaggio, riempiendomi i polmoni di aria vera. Avevo viaggiato dalla stazione più vicina su un autobus che aveva visto epoche migliori per una strada tutta curve e tornanti, con il rischio costante di rivedere il tramezzino prosciutto e maionese di qualche ora prima. Mettere i piedi sul suolo fermo mi fece sentire una persona nuova, ma soprattutto con tutti i pezzi al posto giusto. Era nuvoloso e una leggera pioggerellina aleggiava, indecisa se concedersi il lusso di gocce vere e proprie o se limitarsi ad una pacata nebbia. Doveva andare avanti così da un po’ perché le grondaie degli edifici in pietra del villaggio gocciolavano. Arrancai dunque con il mio zaino per la salita di acciottolato che portava all’antico borgo di San Damiano, piccolo e arroccato tra possenti mura medievali in cima ad un colle, circondato da boschi, rocce ed occasionali capre. Il paese sembrava deserto, se non per qualche sbuffo di fumo da un paio di comignoli. Percorsi gli ultimi metri a passo svelto, rincuorato all’idea di una coperta calda e una bella tisana prima di iniziare la mia personalissima avventura.

Un campanellino alla porta annunciò il mio arrivo nell’ostello e dopo pochi istanti si affacciò una signora sulla quarantina, infagottata in un pile rosso passato di moda dall’ultima glaciazione e con l’espressione di chi era molto preso a non fare nulla. Le diedi il mio nome, lei lo cancellò da un’agenda di tre anni fa e poi si mise a frugare in un mobiletto alla ricerca della chiave. Guardai l’orologio in stile “cucina di campagna anni ‘90” e mi resi conto che erano già le sette e un quarto.
“Mi scusi, quell’orologio segna l’ora giusta?” chiesi timidamente e un po’ allarmato.
Lei interruppe un momento la sua laboriosa ricerca, guardò me, guardò l’orologio e scrollò le spalle con aria sorpresa e perplessa: “E’ importante?”.

Mi resi conto che no, non lo era. Per niente.

Guadagnate le chiavi mi gettai senza ritegno tra le calde braccia del letto e spensi la luce, lasciandomi cullare per qualche istante dai rumori del luogo, dal sottile e impercettibile gocciolare della pioggia e dai lontani richiami del bosco, là fuori da qualche parte. Mi sentivo sollevato, come se mi avessero tolto un grosso peso da dosso, ma al  contempo spaesato dall’improvviso cambio di prospettiva. Mi accorsi che non riuscivo a sentire da nessuna parte il ticchettio di un orologio e che la luce che filtrava dalla mia finestra era il pallido riflesso della nebbia.

A San Damiano la modernità aveva fallito nell’imporre la sua tirannia.

Decisi di prolungare il mio soggiorno all’ostello per altri tre giorni, in cui mi proponevo di esplorare i dintorni e riprendere l’allenamento (e il fiato!) che evidentemente avevo perso in quegli anni dietro una scrivania. La salita di San Damiano aveva stroncato il mio orgoglio, ma mi aveva ricordato un’importante lezione di viaggio: la preparazione è tutto. Così mi misi sul primo sentiero che trovai e mi lasciai guidare tra le valli e le rocce di quel luogo un po’ fuori dal tempo. Non incontrai tracce umane in nessuno dei miei giri, se non un tipo sulla cinquantina e in maniche di camicia che saliva su per i tornanti diretto chi sa dove con un pick-up di un colore indefinito tra il kaki e il topo tiberino. Non sono sicuro che quel colore avesse un nome. Comunque, il tizio non mi degnò di uno sguardo e io continuai a girovagare. In una delle mie peregrinazioni mi ritrovai a vagare tra gli alti rami di rosa canina che aveva da poco messo i frutti. Una nuvola di bacche rosse mi accolse e rimasi incantato a guardarle per un tempo indefinito ma decisamente lungo. Quel frutto così autunnale, in piena estate mi stupì e per un po’ mi disorientò. Il tempo stesso in quei giorni prese una piega strana e irreale: il mio cervello non riusciva a calcolarlo correttamente e le ore passavano velocissime mentre i minuti sembravano non finire mai. Il mio frenetico orologio biologico da uomo di città era impazzito del tutto.

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Capitolo 3
*** Un fiorino! ***


3. Un Fiorino!

 
Anche quella mattina il sentiero si perdeva a circa una decina di metri dai miei piedi, divorato da quella nebbia opprimente che non si diradava neppure a mezzogiorno. Ero partito da San Damiano da due giorni e già mi sembrava una vita. Le ore trascorrevano infinite, il senso del tempo distorto da minuti sempre uguali a sé stessi, da una luce opaca e spenta, che mai cambiava, se non a sera quando diventava pallida e quasi solida. L’umidità era la fedele compagna della nebbia. Era ovunque: nei calzettoni, sullo schienale dello zaino, sotto i quattro strati di pile che indossavo, dentro le mie ossa. Il secondo giorno di cammino provai ad accendere un fuoco, con quel che ricordavo dei miei anni da girovago, ma non ci fu niente da fare: il legno era fradicio, la terra non ne parliamo. Persino le pietre con cui provai ad isolare il mio piccolo focolare erano umide e scivolose.
 
Niente in quel viaggio si stava svolgendo secondo le aspettative. Non sapevo neppure se stessi seguendo il sentiero giusto e tale pensiero generava in me un’inquietudine profonda e strisciante. Il panico era alle porte della mente e solo la razionalità e una buona dose di incoscienza lo tenevano fuori. Sapevo che non sarebbe durata a lungo. Alla fine cedetti e un pomeriggio crollai. Mi tolsi lo zaino, lo scaraventai lontano e gridai con tutto il fiato che avevo in corpo tutta la mia rabbia e frustrazione. Quel viaggio era stato un fallimento. Non mi aveva portato né serenità, né introspezione, né positività e meno che mai chiarezza di vedute. Odiavo tutto, odiavo tutti, me stesso sopra ogni cosa, per la mia idea folle di partire, per la mia incapacità di prendere in mano la mia vita e gestirla.
Non so quanto tempo stetti lì, imprecando e prendendo a calci l’erba. Sarebbero potuti essere minuti come ore. Alla fine, fui interrotto nei miei sterili cinque minuti (si fa per dire) di isterismo dal rombare di un’ auto in lontananza.
Mai il rumore di un motore mi aveva procurato tanta gioia. Se avesse suonato il clacson mi sarei potuto mettere a piangere dalla felicità. Dopo pochi istanti due fari fenderono la nebbia e ne uscì un furgoncino bianco di quelli a nove posti, con le gomme un po’ sgonfie e il parafango coperto di una solida crosta di terra e fango. Il veicolo si fermò a qualche metro da me, emanando un piacevole calore e un rassicurante aroma di monossido di carbonio. Già vedevo nella mia testa uscirne una specie di rude boscaiolo in maniche di camicia a quadri e pantaloni da militare, perché no, magari anche con un cappello da montanaro.

Il destino, però, volle stupirmi.

Dallo sportello uscì un tizio sulla sessantina, con il viso curiosamente squadrato e pacato e una camicia in diretta dagli anni Settanta. Si sistemò gli occhiali con un dito di polvere sulle lenti e mi squadrò.
Rimasi imbambolato come un cretino, preso alla sprovvista. L’uomo aspettò sereno per qualche momento una risposta, poi incalzò:
“Ho capito, sali, ti do uno strappo.”
Borbottai ringraziando. La mia faccia era così disperata? Mi arrampicai al posto del passeggero e il tonfo della portiera venne attutito dalla nebbia opprimente e il furgoncino si mise in moto borbottando.
Troppo tardi, mi assalì il panico puro di essere finito nelle mani di uno psicopatico. Magari era un serial killer. Nessuno avrebbe sentito la mia mancanza, nessuno mi avrebbe cercato. Sarei finito in fondo ad un fosso, cadavere insepolto in tutta quella maledetta nebbia! Misi una mano sulla maniglia della portiera, valutando i rischi del lanciarmi in corsa fuori dal mezzo. Nel migliore dei casi mi sarei rotto la metà delle ossa. Lo esclusi. Cominciai a guardarmi attorno studiando l’ambiente alla ricerca di un’arma impropria. Il furgoncino era sporco e pieno di terra, i pozzetti erano pieni di impronte fangose di scarponi. Dovevano essere in molti, forse erano una banda. Avevo caldo e sudavo. Oltre alla terra e al fango, intravedevo sul fondo alcuni secchi, delle cassette da frutta giallo pallido, una cazzuola che ad ogni sobbalzo sbatteva sul secchio, rimbombando. Qualche oggetto di plastica basculava rumorosamente dietro all’ultimo sedile. Niente che potesse essermi utile, ero una vittima inerte.
Ma cosa mi era saltato in mente a salire nel furgone di uno sconosciuto?!
“Ehi, stai bene?”
L’uomo mi studiò un momento, le mani salde al volante, mentre saltellavamo sballottati dalle buche del sentiero. Alla fine, ridacchiò:
“Siamo archeologi, non satanisti.”

I satanisti! Ecco, a quello non avevo pensato. Mi venne da ridere. O da piangere. Forse entrambi.

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Capitolo 4
*** Villa Eleni ***


4. Villa Eleni
 
Dopo un tempo che a me sembrò interminabile, il furgoncino rallentò e smise di sobbalzare e si inerpicò per un vialetto pavimentato e in salita. Il mio innominato autista parcheggiò poco dopo, in un piazzale che lì per lì mi parve nel cuore del niente circondato da fitta vegetazione. Cominciai a sudare, pensando che non esistesse luogo migliore per un omicidio. Mi sbagliavo, perché un posto più adatto esisteva e si nascondeva dietro la cortina di verde e nebbia. Villa Eleni, come la chiamò lui, era acquattata tra alberi secolari e quello che restava di un incolto giardino mediterraneo, un’istantanea di un tempo che lì, chi sa dove tra le basse montagne di San Damiano, non era mai passato. Da dove mi trovavo se ne intravedevano i tetti spioventi e le terrazze, stralci di scale e tettoie divorate dal verde imperante, lastre di marmo rese lucide dall’umidità e scurite dall’incuria. Quella era la base operativa della missione, o per lo meno così mi disse il mio anonimo e provvidenziale salvatore. Il suo nome, lo ammetto, non lo ricordo. Me lo disse, ne sono certo, ma nella mia memoria egli è e sempre sarà il Professore.

Appena il motore del nostro indistruttibile mezzo si spense, un ragazzo si precipitò fuori da una porta seminascosta e dalla vernice verde ormai in parte scrostata per aiutare il Professore con le buste della spesa. Era un tipo riccioluto e disinvolto, infagottato in una felpa di un gruppo metal che, ne sono certo, ad ascoltarlo mi avrebbe traforato timpano e cervello in pochi istanti. Per lo meno, così lasciava immaginare la stampa scolorita con mostri, scheletri, fulmini di colori improbabili e chitarre elettriche il cui collegamento mi era oscuro. Con insospettabile forza, il nuovo arrivato si caricò le sei buste della spesa e sparì nel buio della porta. Mi sentii in imbarazzo, con il mio zainetto da dieci chili e la mia faccia esausta. Il Professore mi invitò ad entrare ed io mi appropinquai timidamente, appesantito dal fango che nel frattempo aveva fatto blocco compatto attorno ai miei scarponi. Mi vennero in mente quei mafiosi che cementano i piedi delle vittime e poi li buttano in mare. Mi consolava il fatto che in zona non sembravano esserci pozzanghere abbastanza profonde. 

All’interno scesi un paio di gradini prima di ritrovarmi in una cucina avvolta in una smorta semioscurità, arredata da un lungo tavolo, tarlato e circondato da diverse sedie spaiate. Sul fondo, in un ambiente a parte, appoggiato alla parete si intravedeva un fornello a gas e accanto un mobiletto a sportelli ricoperto da stoviglie messe ad asciugare. Poco più in là c’era una via di mezzo tra un lavandino e un lavatoio, mezzo nascosto da una teoria di pantaloni, felpe e calzini appesi ad asciugare. In bocca al lupo con questa umidità. Il tipo in felpa nera appoggiò pesantemente le buste sul tavolo, poi accese una luce il cui paralume doveva aver visto almeno la Grande Guerra e a pieni polmoni gridò:
“OH! QUALCUNO MI VIENE A DARE UNA MANO?!”.
Non ne sono sicuro, ma credo che quella che seguì fosse un insulto a qualche divinità.  Cercai di avvicinarmi per aiutare, ma lui mi fulminò con uno sguardo assassino:
“Stai buono lì che con quelle scarpe sporchi tutto. Ho appena pulito.”
Il tono era tale che non me la sentii di disobbedire, perciò mi misi in un angolino a cercare di slacciare gli scarponi incrostati. Nel frattempo, da una porta alla mia sinistra fece capolino un altro ragazzo, più alto e dinoccolato del primo, biondo e pallido come uno svedese. Portava una maglia a righe a maniche corte, del tipo che si compra ai grandi magazzini insieme ad una valanga di t-shirt sformate a poco prezzo, ed aveva il collo avvolto in una kefiah bianca e nera. Non sembrava troppo felice di vivere. Mi vide e mi salutò con un cenno della mano, poi con efficienza e rassegnazione cominciò a smistare la spesa. Per quando avevo finito di togliermi le scarpe, la spesa era stata messa in ordine e i due si erano dileguati, ignorando l’uno la presenza dell’altro, così come la mia. Rimasi in calzini vicino alla porta. Dovevo apparire un vero cretino, non ho dubbi, perché di lì a poco il Professore rientrò, mi squadrò per un istante, poi ridacchiò:
“Hai conosciuto Tommaso? Sì, direi di sì dalla faccia. Bene, vediamo di trovarti un posto letto per stasera…”
Imbarazzato borbottai un assenso.

Il Professore mi guidò nella prima delle tre stanze che si aprivano su quella principale: era spaziosa, ma affollata di brandine, zaini, biancheria buttata in giro, sacchi a pelo ammucchiati. Era la stanza degli uomini, senza dubbio. Fece un po’ di spazio nel caos e ne ricavò uno spazietto libero, nel quale avrei potuto stendere il mio sacco a pelo, per passare la notte.
Lo ringraziai e mi stesi, nella penombra della sera che ormai era alle porte. Che ore erano? Scivolai lentamente verso l’incoscienza, lottando contro la pesantezza delle palpebre e la promessa di un sonno lungo e senza sogni. Nella semi-veglia sentii, o credetti di sentire, le urla femminili, gemiti o grida non saprei dire. Nella mia mente divennero presto i versi disumani di un mostro alato deciso a fare banchetto del mio corpo intrappolato nel sacco a pelo. Poi, scivolai nell’incoscienza.
 

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Capitolo 5
*** Chi si fa i fatti suoi... ***


5. Chi si fa i fatti suoi...

Rimasi immobile e ad occhi chiusi nel mio sacco a pelo, tendendo l’orecchio. Cinguettii di uccellini, uno sciacquone da qualche parte, tintinnii di piatti e posate. Attraverso le palpebre chiuse, intravedevo della luce filtrare dalle tapparelle. Cauto, aprii gli occhi. Ero solo, nessuna traccia di erinni o bestie pronte a divorarmi. La stanza era come me la ricordavo: un cimitero di vestiti buttati, letti disfatti e deodoranti abbandonati. Mi alzai e mi vestii, poi mi avventurai in corridoio. L’odore di pane tostato e caffè riempiva l’androne deserto e semibuio. Mi guidò attraverso il dedalo di corridoi e verso un chiacchiericcio sempre più distinto.

La saletta con cucina era affollatissima. Cinque o sei persone si aggiravano urlando, spostavano piatti e bicchieri, muovevano sedie. Come comparvi sulla porta, un uomo sulla cinquantina si fermò a guardarmi, poi mi sorrise:
“Ah! Il nostro ospite! Vieni, prima che questi si finiscano tutto il caffè!” Mi fece gesto di sedermi al tavolo.
“No, ma io non…”
“Albè non assaltare questo poveraccio!” Tommaso, il tipo che mi aveva accolto la sera prima, indossava la stessa felpa tremenda con scheletri e chitarre elettriche e si agitava per la stanza cercando qualcosa.
“No grazie, ma sto bene…”
“Dai che siamo in ritardo” Il cinquantenne mi forzò sulla prima sedia libera.
In fondo al tavolo, una ragazza con il caschetto biondo e la felpa color senape alzò lo sguardo da alcuni fogli che stava leggendo, mi ignorò e si rivolse a Tommaso: “Se cerchi la tua bandana, sta in bagno.”
Tommaso si fermò un momento, mi mise una mano sulla spalla, poi:
“Giro rapido: il tipo che ti sta versando il caffè è Alberto, lei è Letizia” la ragazza fece un cenno rapido con la mano senza smetter di leggere “e quelli di là sono Elisa e Gerardo” da qualche parte in cucina rispose una voce maschile.
Poi Tommaso si rivolse agli altri:
“Bene, salutate tutti il nostro nuovo amico Stefano, poi muovete il culo che siamo in ritardo e se oggi non troviamo come minimo un altro guerriero armato, vi costringo ad un re-watch di tutto il Signore degli Anelli, extended version. Vedete che dovete fare.”
“Ciao.” Agitai la mano imbarazzato “Grazie, no ma io adesso tolgo il disturbo…”
“Macchè togli il disturbo, il Professore ha detto che sei dei nostri.” Alberto, intanto, mi aveva versato il caffè e mi aveva riempito il piatto di pane e marmellata, “Mangia che poi sennò alle undici ci arrivi sui gomiti.”
“No ma veramente io vorrei solo tornare a San Damiano…”
Il ragazzetto biondo della sera prima, Gerardo, mi passò rapido accanto con una borraccia in mano e la stessa gioia di vivere della sera prima “Lascia stare, quando Alberto si accolla, non te lo togli più…”
Alberto sorrise soddisfatto. Letizia dall’altro lato della stanza lanciò un’occhiata all’orologio da polso, mise da parte i fogli e tirò giù l’ultimo goccio di caffè: “Ottimo, muoviamoci. Tommaso presta delle scarpe da cantiere a Stefano, Alberto vai a chiamare il Professore, Gerardo vedi se Elisa oggi viene con noi e poi fuori tutti che è tardi.” Si alzò e sparì oltre la porta d’ingresso.
Gerardo tornò nel cucinotto, Alberto mi diede una pacca sul braccio e strizzandomi l’occhio “Mangia”, poi sparì anche lui da qualche parte verso le camere. Il silenzio calò di nuovo sul minuscolo salotto. Feci come mi era stato detto e mangiai, più per inerzia che altro.

Dopo poco, sentii dei passi dietro di me, mi voltai e mi trovai davanti il Professore. L’uomo si sedette accanto a me, lanciando occhiate all’ingresso.
“Professore, credo che ci sia un malinteso, io non…”
“Ho bisogno di te ragazzo.”
“Sì, grazie… No, davvero…”
“Due notti fa, è sparito un reperto…”
“Sì, ma io non posso restare…”
“…un reperto molto prezioso. Ora, vedi, i ragazzi sono molto bravi e preparati, ma possono diventare delle vipere per certe cose. Io ho solo una certezza: che tu non puoi essere stato…” Mi guadò negli occhi e mi mise una mano sul braccio.
“Io…no ma non posso aiutarla, che vuole che faccia? Io con queste cose non so’ bono…”
“Facciamo così, tu mi aiuti a ritrovare questa spada, e io ti riporto a San Damiano…eh?”
Mi morsi il labbro che sapeva ancora di caffè e mi accorsi per la prima volta che il Professore aveva dei chiarissimi occhi azzurri. Volevo rifiutare, era la cosa più sensata da fare. Già quel viaggio era stata una follia, non avevo bisogno di un’altra avventura fallimentare. Recuperare un reperto, poi? Che ne sapevo io di reperti? Magari era solo finito dietro la dispensa. Pensai al mio monolocale e al caldo romano. Da fuori mi arrivava il chiacchiericcio confuso del resto dell’equipe, Letizia e Tommaso stavano discutendo di qualche dettaglio tecnico che non capivo. La luce inondava ogni angolo del piccolo salotto, filtrata dalla vegetazione rigogliosa del giardino mediterraneo che avevo visto di sfuggita la sera precedente. Non so come potessi aver pensato che quel luogo fosse inquietante.

“Va bene.”
Me ne sarei pentito e lo seppi nell’istante in cui lo dissi.

Il Professore sorrise, poi disse qualcosa rivolto agli altri e sparì anche lui oltre la porta, facendomi l’occhiolino. Rimasi a fissare il fondo della mia tazzina, poi un colpo di clacson mi riscosse. Stavano aspettando solo me. Uscii, il furgoncino ora era strapieno di gente, strumentazione, zaini. Alberto mi fece posto sul sedile dietro, sorrideva e continuava a ripetere: “Vedrai che figata…”. Il mezzo partì e discese il vialetto pavimentato, per poi avventurarsi su una strada tutta buche e dossi. A ogni sobbalzo, rischiavo di rivedere tutta la colazione.

Ma perché non mi ero fatto gli affari miei?

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