Testa tra le nuvole

di Annabeth16
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Inizio ***
Capitolo 3: *** Esperimento ***
Capitolo 4: *** Riflessioni ***
Capitolo 5: *** Cena ***
Capitolo 6: *** Malattia ***
Capitolo 7: *** Compleanno ***
Capitolo 8: *** Storie ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


NOTA AUTRICE: Ciao ragazzi! Spero che la storia vi piaccia! Per favore lasciate una recensione solo per dire la vostra prima impressione, per me è molto importante. PLS! Grazie
Prefazione
 
 
 
 
 
Ho provato ad affogare i miei dolori
Ma hanno imparato a nuotare – Frida Kahlo
 
Correvo imperterrita sotto la neve che proprio in quel momento aveva deciso di cominciare a cadere. Indossavo solo una semplice maglietta a maniche lunghe. Dannazione al tempo quando cambia improvvisamente. I miei occhi erano rossi, gonfi e pieni di lacrime. Tutto ciò per cui ancora la mia vita aveva senso, tutto ciò per cui continuavo a sognare, era scomparso. In un secondo la mia vita era sprofondata in un oblio, in un oblio dal quale difficilmente avrei potuto riemergere. Cominciavo a sentire freddo, tanto freddo e lentamente la mia mente perse lucidità, la mia vista si appannò e caddi a terra. Sbattei le palpebre nell’ultimo disperato tentativo di aggrapparmi alla realtà. Non funzionò e i miei occhi si chiusero e la mia mente lasciò la realtà. Persi i sensi.

 

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Capitolo 2
*** Inizio ***


Capitolo 1
INIZIO
 
 
 
 
 
 
La mente non è un vaso da riempire,
ma un fuoco da accendere - Plutarco
 
 
La sveglia trillò svegliandomi dal mio torpore leggero. Saltai sul letto con il cuore che batteva all’impazzata. Presi due bei respiri profondi per calmarmi. Okay, calma, è solo un maledetto primo giorno di scuola, niente di più. Oh, cavolo, adesso ero ancor più agitata di prima.
D’accordo, stiamo calmi. Ho tutto il tempo che mi serve per prepararmi, niente mi coglierà di sorpresa.
Ma è il primo giorno del terzo anno di liceo!
Spensi la vocina dell’ansia nella mia testa e lasciai spazio solo a quella della calma.
Se riusciva a parlare. Spegnila.
Mi alzai di scatto. Scesi con un balzo dal letto e mi fiondai in bagno. Mi sciacquai il viso: non avevo bisogno di una doccia, l’avevo fatta ieri sera prima di dormire.
Sbattei le palpebre un po’ di volte per verificare che i miei occhi non fossero ancora impiastricciati. Quello per me era un anno molto importante. Il sedici ottobre avrei finalmente compiuto diciotto anni. Questo significava che non avrei più dovuto farmi accompagnare tutte le mattine a scuola da mio papà. Sarei andata a vivere da sola nella città dove c’era il mio liceo e finalmente sarei andata a vivere da sola. Mi sarebbero mancati certo, i miei genitori e tutta la mia famiglia, ma adesso potevo respirare aria di libertà, di indipendenza. Perciò quello era il mio giorno speciale. E non vedevo l’ora di affrontarlo. Però avevo anche molta ansia.
Cercai di ravvivare un po’ i miei capelli, ma senza successo. Mi dovevo rassegnare: i miei capelli sarebbero sempre stati dei brutti, inutili spaghetti lisci come l’olio.
Fui indecisa se mettermi un po’ di profumo, ma alla fine optai per il no.
Mi spostai in camera per decidere cosa indossare. Cercai a fondo nell’armadio, fino a trovare una camicetta bordeaux a cui abbinai i miei jeans preferiti. Mi guardai allo specchio e alla fine decisi che poteva andare.
Il mio stomaco brontolò e così scesi in cucina a fare colazione con la mia famiglia.
“Ecco la nostra bimba grande!”, mi accolse la mamma abbracciandomi. Odiavo che mi chiamassero bimba.
Io sorrisi ricambiando l’abbraccio.
Mi sedetti al bianco tavolo tondo della cucina. Mia madre mi mise davanti un Estathè al limone e un pancake con sciroppo d’acero e lamponi. Io la guardai stupita. Lei sorrise.
“Abbiamo pensato che per un giorno così speciale gradissi una colazione speciale”, mi disse, orgogliosa di sé.
“Grazie mille! Come cominciare al meglio la giornata!”, ringraziai, addentando un pezzo di pancake.
Lo assaporai dimenticandomi per un attimo tutta la mia ansia da primo giorno di scuola. Sorseggiai lentamente il mio tè freddo al limone e finii il pancake. Ringraziai nuovamente e corsi in camera per recuperare lo zaino. Lo trovai per terra accanto alla porta. Quanto adoravo il mio zaino verde! Me lo misi in spalla e tornai di sotto quasi volando.
“Sono pronta!”, annunciai.
I miei erano già lì che mi aspettavano sulla porta di casa.
“Sei bellissima”, mi informò papà.
“Mi sa che mi toccherà venire con il lanciafiamme”, aggiunse ridendo.
Io lo fulminai con lo sguardo: “Papà!”
Salutai il mio fratellino coccolandolo un po’ tra le mie braccia. Lui mi abbracciò e mi diede un bacino sulla guancia.
Rivolsi un “Ciao!” a mia sorella e fui pronta per la scuola.
La vocina dell’ansia tornò a farsi sentire.
E se tutto andasse male? Se facessi delle gran figure di…
Zitta! Ti ordino di tacere!
Stai tranquilla, andrà tutto bene, in fondo ci sei già stata in questo liceo, hai due migliori amiche fantastiche, non c’è niente che possa andare storto!
La voce della calma e della positività sorse in me e riuscì nel suo intento. O quasi.
Mi diedi una pacca sulla fronte. Avevo dimenticato la valigia!
Te l’avevo detto che sarebbe andato tutto male!
Una cosa sola non è tutto male! Tranquilla tesoro!
Le mie due voci interiori continuavano a litigare silenziosamente tra loro e io avrei tanto desiderato poter spegnere il cervello anche solo per pochi minuti.
“Aspettate! Ho dimenticato la valigia!”
“Sbrigati! Altrimenti arriveremo in ritardo!”, mi disse mia mamma.
“Faccio in un minuto!”, promisi, e intanto ero già a metà scala.
Aprii nuovamente la porta di camera mia e guardai le mie cose con aria triste. Quella era l’ultima volta che le vedevo, l’ultima volta che sarei stata lì.
Scacciai la tristezza e mi chinai per recuperare la valigia da sotto il letto. Era azzurra stavolta, perché non l’avevo trovata verde. Afferrai quella e il beauty case che issai nell’apposito spazio sopra alla valigia. Uscii con malinconia dalla mia stanza e provai a scendere le scale. Già dal primo passo capii che non ce l’avrei fatta. Chiamai mio papà.
“Papi! Mi vieni ad aiutare?”, urlai dall’alto delle scale.
Mio papà accorse e mi prese la valigia trasportandola al piano di sotto. Io lo seguii saltando gli scalini a due a due. Mi infilai nella vettura che mi aspettava fuori mentre mio papà caricava la valigia nel bagagliaio e si sedeva al posto di guida. Inspirai profondamente. Papà mise in moto l’auto e lasciò il parcheggio. Era fatta. Ora niente mi avrebbe riportata indietro. Avevo un unico, piccolo ma importantissimo legame con la mia città: le mie migliori amiche, Irene e Letizia. Era l’unica cosa che mi portavo dalla mia città a quella nuova e sconosciuta del liceo. Ero molto felice all’idea di averle con me. Ci avevo messo molto a trovarle, ma alla fine avevano gratificato anni di esclusione.
Ora erano la cosa più preziosa che avevo.
Dentro di me avevo la coscienza di sapere che da quell’anno tutto sarebbe stato nelle mie mani. Ogni singola, minuscola scelta sarebbe toccata a me. E solo ora cominciavo a sentirne il peso che gravava sulle mie spalle.
Tuttavia mi ero ripromessa di vivere al meglio la mia vita, soprattutto in quegli anni, e seguendo l’istinto.
I miei avevano acconsentito a farmi andare a vivere da sola soltanto dopo un lungo mese passato a pesare sulla bilancia i pro e i contro. Alla fine gli avevo convinti: sapevo cucinare benissimo, perciò non avrei avuto bisogno di mangiare sempre fuori, e in più così risparmiavano benzina e tempo, senza contare l’orario improponibile a cui ci dovevamo svegliare per essere pronti tutti. Così ora eccomi qui, sull’auto che mi porterà ad un destino che non potevo ancora prevedere, che mi avrebbe reso il cuore pieno di gioia e che sicuramente avrebbe cancellato ogni dubbio dalla mia mente. Ma per adesso ero ancora sull’auto grigia di mio papà.
Per tutto il viaggio guardai fuori dal finestrino osservando i paesaggi dell’autostrada cambiare continuamente forma e colore. Si susseguivano velocemente e sparivano dietro all’auto in pochi secondi. Scorrevano instancabili, quasi invisibili ai miei occhi, che però erano abbastanza vispi da cogliere qualche immagine sfocata o almeno i soggetti principali come ad esempio gli alberi.
Guardavo sempre il finestrino, mi aiutava a pensare, e i miei pensieri prendevano vie inaspettate ma piacevoli. Stavolta però, c’era una ragione particolare per cui fissavo a momenti alterni il finestrino e il vetro anteriore davanti a me. La città in cui si trovava il mio liceo era a pochi chilometri di distanza – ovvio - ci voleva circa mezz’ora, quaranta minuti per arrivarci, ma ciò che divideva le due città erano le montagne. E questo faceva sì che non sapevi mai quale clima ci fosse dall’altra parte, avevi solo la certezza che fosse più freddo. Io spesso mi arrabbiavo con quelle montagne perché bloccavano la neve e infatti da noi non nevicava mai. Ma sapevo che le mie lamentele non sarebbero servite contro la forza incontrastabile della natura.
Il clima dalla nostra parte delle montagne era soleggiato, nonostante l’orario mattutino. A dir la verità stava ancora sorgendo, era quasi spuntato del tutto. Ma già illuminava gran parte del panorama facendo risplendere i colori e le minuscole goccioline di brina sulla poca erba che cresceva ai lati dell’autostrada e su quella che stava fuori, nel bosco quasi selvaggio, rendendola simile a tanti cristalli luccicanti. Finalmente il sole sbucò da dietro le montagne imponenti e cominciò ufficialmente la sua ascesa verso il mezzogiorno.
Spostai lo sguardo sul vetro anteriore e mi accorsi che tra non più di cinquanta metri avrei incontrato le famose montagne. Perciò mi concentrai per non perdermi l’attimo. Memorizzai l’ambiente freddo ma al contempo caldo al di qua delle alture facendo una specie di fotografia mentale. Entrammo nella galleria buia. I miei occhi ebbero un sussulto per l’improvvisa cecità. Sbattei le palpebre per abituare lo sguardo al nero della galleria. Sapevo che sarebbe durata un po’. Guardai i segnalini in vernice catarifrangente ai lati della galleria. Pensai che non facessero molta luce in realtà. Cercai di guardare il soffitto del traforo. Era strano pensare che sopra di me c’era una montagna. Stavamo attraversando un monte. Stavamo passando in mezzo alla terra che un tempo occupava il centro della vetta, che conteneva animaletti non del tutto carini – ad esempio i vermi -, magari deviando in vista di una sorgente sotterranea. Eravamo nel cuore del monte. Assolutamente fantastico. Certo, tutta quella bellezza era sfigurata da quel buio intenso e triste. I monti erano stati il primo ostacolo da affrontare alla costruzione dell’autostrada, perciò i trafori erano stati una grande invenzione, un grande passo avanti. Guardai le pareti grigie e tristi del tunnel e pensai che avrebbero potuto illuminare meglio e darci un po’ di colore per richiamare la bellezza di ciò che stava sotto e sopra di noi. Ma tanto non lo avrebbero mai fatto: era tutta una questione di soldi, solo ed esclusivamente soldi. Come al solito.
A me non importavano tanto. Dai dieci anni in su avevo le paghette – anzi, ce l’ho ancora adesso, ma solo da parte dei nonni – e le usavo per comprarmi le merende al bar quando uscivo con le amiche, per comprare i regali di Natale ai miei parenti e per comprarmi qualche cosina da poco che i miei non mi avrebbero mai acquistato.
Colsi un bagliore di luce in fondo, in mezzo al buio della galleria. I miei occhi si fecero più vispi e attenti, pronti a cogliere l’immagine che mi si sarebbe presentata.
Rievocai nella mente la foto che avevo “scattato” poco fa.
Ero sempre più vicina a quel punto di luce che si allargava a poco a poco.
Tre, due, uno…
Attraversammo sfrecciando la porta della galleria, e la luce, più forte rispetto a quella del traforo, mi inondò gli occhi, costringendo le mie pupille a restringersi improvvisamente e rapidamente.
Feci spaziare il mio sguardo intorno per osservare e godere del panorama circostante.
Un sottile strato di ghiaccio ricopriva ogni cosa, e sembravano proprio i resti della neve che si era ghiacciata durante la notte. Infatti mio padre rallentò e affinò lo sguardo e procedette con cautela sulla strada ghiacciata. Anche le altre auto che ci passavano accanto fecero lo stesso, per non fare un incidente. Ma lo spettacolo non era terminato.
Il sole brillava già più alto nel cielo, risplendendo di luce propria in mezzo al cielo ormai diventato azzurro-grigio con qualche nuvola sparsa qua e là. Il nevischio turbinava dell’aria creando qualche difficoltà alla vista per i guidatori ma anche per i passeggeri che, come me, cercavano di godersi il panorama.
“Menomale che siamo partiti in anticipo”, mormorò mio papà aguzzando la vista.
Mia madre annuì dal sedile anteriore.
“Ci vorrà tanto?”, chiesi, preoccupata di arrivare in ritardo proprio il primo giorno di scuola.
“Circa dieci minuti in più”, m’informò mio padre.
Io mi tranquillizzai: come al solito mio papà era stato previdente. Tornai a rivolgere il mio sguardo verso il finestrino.
Gli alberi erano stati dipinti di bianco dal soffice pennello dell’inverno con la tinta più candida di tutte: la neve.
“Hai freddo?”, mi chiese mio papà.
In effetti non avevo previsto questo cambiamento di clima.
“Un pochino”, risposi.
Prese la sua giacca che aveva appoggiato sulle ginocchia e me la porse. Io gli sorrisi.
“Grazie papi”
“Hai il naso rosso”, m’informò ridendo.
“Non ti ammalare per favore, cerca di non prenderti il raffreddore, almeno quest’anno”, m’implorò mia madre, con un tono serio ma un’espressione divertita.
“Non so se ce la farò, i miei anticorpi lasciano passare di propria volontà i batteri del raffreddore ed io non posso farci niente”, risposi.
Mia madre alzò gli occhi al cielo. Mi misi la giacca sulle spalle e ci entrai dentro. Nonostante il clima era calda. Il mio corpo navigava all’interno dell’enorme giacca, mi faceva un po’ da vestito. Se non altro sarei stata più al caldo.
“Quanto manca?”, chiesi, curiosa.
“Circa dieci minuti, Emy”, mi disse mio papà.
Io mi raggomitolai dentro alla giacca e mi sdraiai sui tre sedili posteriori che quella volta erano tutti per me.
Mia mamma mi accarezzò la schiena. Sospirò.
“La mia bimba…”, disse.
Non importava che avessi ormai diciott’anni, che fossi maggiorenne, che stessi andando a vivere da sola, così come non importava qualsiasi altra misura umana, per lei sarei rimasta per sempre la sua bambina. Ma credi fosse così per ogni mamma del mondo.
“Prometti che chiamerai ogni giorno?”, mi chiese.
“Mammaaaa…”, la rimproverai.
“Prometti”, ribatté risoluta.
“Una volta ogni due giorni?”, proposi.
“No”
“E dai…”
“E va bene, però chiama
“Te lo prometto”
Lei parve soddisfatta e io potei finalmente chiudere gli occhi e rilassarmi un po’. Venni cullata dal suono della strada che correva via sotto alle ruote e dal dolce turbinare del nevischio intorno a noi.
Ma quella pace semicosciente non durò a lungo.
“Mancano due minuti Emy”, annunciò mio padre.
Saltai su come una molla. Sbirciai la mia immagine dallo specchietto sul parasole di mia mamma. Cercai di sistemarmi i capelli con le mani e raggiunsi un risultato decente. Sistemai il maglione dentro ai pantaloni e mi sfilai – a malincuore – l’enorme giacca di mio padre.
“Tieni”, gliela porsi.
“Sei perfetta”, mi disse.
Arrossi.
“Grazie papi”
“Pronta per il tuo primo giorno di scuola da maggiorenne?”
“Quasi pronta”
“Pronta?”, ripeté mio padre. Io sospirai.
“Pronta”
La macchina si fermò nel parcheggio della scuola.
Presi un profondo respiro. Aprii la portiera della macchina trascinandomi dietro lo zaino. Me lo caricai in spalla guardandomi intorno. Era sempre il mio vecchio liceo, lo stesso di sempre. L’edificio antico in muratura con le varie aule all’interno. Offriva un’ampia gamma di materie e il primo step del primo giorno di scuola era passare dalla segreteria per selezionare le materie che si era intenzionati a seguire quell’anno. Mio padre e mia madre scesero dall’auto. Mia madre mi abbracciò forte e sentii le sue lacrime bagnarmi i capelli.
“Mamma, ehi! Non piangere, ti ho promesso che ti chiamerò!”
Lei si asciugò le lacrime con i polpastrelli e mi disse:
“Ti voglio bene”
“Anch’io”, risposi, sincera.
Poi fu il turno di mio padre. Mi strinse forte a sé sollevandomi. Ricambiai l’abbraccio stringendolo con tutta la forza che avevo in me.
“Comportati bene”
“Certo”
Sciolse l’abbraccio.
“Ti voglio bene, te ne ho sempre voluto”
“Lo so, anch’io”, risposi.
Mi riavvolse in un abbraccio.
“Chiamami se qualcuno ti tratta male, vengo con il lanciafiamme”
Scoppiai in una risata.
“Sei sempre il solito”
“Ci deve pur essere qualcuno che fa ridere in una famiglia”, disse.
Ma io sapevo che nelle sue parole precedenti c’era la verità.
“Vi voglio tanto bene”, dissi, prossima alle lacrime.
Mi abbracciarono tutte e due con tutta la forza che avevano in corpo.
Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano. Gli salutai con la mano.
“Ciao”
“Ciao”, mi risposero in coro.
“Passo a portarti la valigia a casa, d’accordo?”
Annuii.
Restai in piedi a osservarli prendere un taxi, per poi tornare a casa in treno. Eravamo venuti qui con la mia Panda rossa perché ovviamente mi lì mi sarebbe servita una macchina. Mi dispiaceva, perché in questo modo gli avevo costretti a tornare in treno, a farsela più lunga.
Presi un gran respiro. Ormai le volte che avevo fatto questo gesto erano innumerevoli.
Per la prima volta da quando eravamo arrivati mi voltai osservando il cortile della scuola pieno di ragazzi.
Molti stavano ancora salutando i genitori come avevo fatto io fino a poco fa.
Altri invece erano radunati in piccoli capannelli a parlare fitto fitto. Qualcuno si stava già avviando verso la porta della scuola per non dover aspettare troppo nella fila della segreteria. Fui tentata da quell’opzione – non avevo voglia di aspettare millenni in fila – ma poi prevalse la voglia di aspettare Irene e Letizia.
Così puntai lo sguardo sull’entrata del parcheggio, aspettando le mie amiche.
Pochi minuti dopo nel parcheggio entrò una Ford bianca che riconobbi subito: era l’auto della mamma di Irene.
Mossi la mano in aria, cercando di attirare l’attenzione di sua mamma. Mi vide, e venne a parcheggiare nello stesso posto in cui avevano parcheggiato i mie.
“Ciao Emily”, mi salutò scendendo dalla macchina.
“Ciao Kristen”, ricambiai il suo saluto allegramente.
Dalla portiera opposta uscì Irene.
“Ciao Ire!”
“Ciao Emily!”
Ci abbracciammo.
Mi feci un po’ in disparte per concedere loro un po’ di privacy. Il loro saluto fu più breve del mio, perché lei non sarebbe andata ad abitare da sola. E nemmeno Letizia.
Kristen lasciò il parcheggio con la sua auto.
“Allora come va?”, mi chiese.
“Tutto bene”, risposi.
“Sei eccitata?”
“Molto più di quanto si dovrebbe essere”
“Lo so! Anch’io!”
Aspettammo Letizia, e quando arrivò, dopo i saluti ci avviammo verso l’entrata della scuola.
Varcai la soglia con un brivido. Ero tornata qui. Ero già indissolubilmente legata a quel posto, alla scuola e alla città, ma ancora non sapevo cosa mi ci avrebbe tenuto stretta per l’eternità.
L’anno scolastico stava per ricominciare. Ed ero eccitata, perché sapevo che ogni anno era una storia tutta da vivere ma soprattutto da scrivere. E sapevo anche che l’autrice ero io, ma non avevo mai preso veramente in mano la mia vita. Varcare quella soglia per me era come – in un certo senso – aprire un libro dalle pagine bianche, pronte per essere riempite. Ecco, credo che il libro sia la metafora migliore per descrivere la vita. E la mia storia iniziava con quel passo. Sentivo che avevo già scritto le prime righe già quando mi ero svegliata sta mattina.
Oltrepassammo la porta – i miei pensieri non erano durati più di qualche secondo – e avevo già riacquistato quella mia solita spensieratezza.
Ci accorgemmo con piacere che la fila davanti alla segreteria stava lentamente scemando. Ci mettemmo in coda.
“Quante materie seguite quest’anno?”, chiesi, curiosa come al solito.
“Penso sia obbligatorio seguirne sette”, m’informò Irene.
“Davvero?”
“Sì, ma non sono poi tante rispetto agli anni scorsi”, obiettò Letizia. In effetti non aveva poi tutti i torti dato che i primi due anni ne dovevamo seguire dieci più un corso pomeridiano di un’ora alla settimana.
Discorremmo tranquillamente dell’orario scolastico fino a che, dopo pochi minuti, non fu il nostro turno.
Entrai in segreteria.
“Buongiorno cara, nome?”, mi disse la segretaria Courcy. Era una signora sui sessant’anni che sapeva a memoria i nomi e i cognomi di tutti gli studenti ma che si ostinava a seguire rigidamente il protocollo. Io sospirai sonoramente.
“Emily Glanville”, dissi, rispondendo alla sua domanda.
Lei annotò il mio nome sopra al foglio di carta che avrei dovuto compilare. Mi avvicinai al bancone di marmo e la signora Courcy mi porse la penna.
“Prego cara”
Compilai i soliti campi che richiedevano città di provenienza, numeri di telefono, eccetera. Provai uno strano moto di compiacimento nello scrivere finalmente diciotto sopra ai puntini che occupavano lo spazio direttamente dopo la scritta età. Dopodiché passai in rassegna tutto l’elenco delle materie alla mia sinistra. Sul foglio c’era scritto di scegliere almeno sei materie più educazione fisica. Quindi, in totale, sette materie da seguire. Notai che dal terzo anno – ovvero il mio – potevo decidere di frequentare un corso più specifico di scienze, a scelta tra biologia, chimica e fisica. Ero contenta dell’opzione e mi affrettai a scrivere dietro al numero uno la parola biologia. Mi piaceva tantissimo biologia e non mi sarei fatta scappare quell’opzione.
Compilai gli altri campi con materie d’obbligo, come matematica, inglese, storia, italiano, ginnastica. Mancava ancora una materia. C’era football, baseball, storia dell’arte e matematica avanzata. Scelsi storia dell’arte perché sapevo che il professor Brooker amava molto parlare della storia dei grandi classici letterari e in più faceva vedere molti film. Ridiedi una scorsa al mio elenco e lo consegnai alla segretaria Courcy. Lei timbrò nell’apposito spazio. Era il primo della lunga lista. Tutti gli insegnanti dei corsi che seguivo dovevano timbrare il foglio compresa la segretaria, dato che era lei a gestire gli orari. Ovviamente era una cosa profondamente inutile ma, come ho già detto, la signora Courcy ci teneva a rispettare il protocollo che, a dirla tutta, per la metà apparteneva al secolo scorso. Aspettai che finisse di compilare il mio orario. Rassegnata, infilai il modulo e l’orario nello zaino e uscii. Salutai le mie amiche, tanto sapevo che Irene avrebbe scelto tutte materie linguistiche e che Letizia tutte scientifiche. L’unica ora a cui ci saremmo incontrate sarebbe stata storia, dato che ginnastica veniva svolta a gruppetti e, ovviamente noi non eravamo insieme. La cosa mi dispiaceva molto ma non potevo farci niente. O meglio, qualcosa potevo farci, ma non volevo turbare la tranquilla e ossequente segretaria Courcy. Perciò mi sarei dovuta accontentare. Anche perché di fronte a me avevo tutto l’anno. Infatti i loro genitori di restare a dormire da me qualche volta. Ed io ne ero molo felice, anzi grata direi, perché avevo molta paura di sentirmi sola.
Mi accorsi di stare camminando a vuoto perciò mi fermai. Tirai fuori dalla tasca esterna dello zaino il mio orario e lo guardai. Alla prima ora avevo matematica.
Mi avviai verso l’aula facendo dietro front dopo essermi accorta di aver camminato per tutto il tempo in direzione opposta.
La mattinata trascorse piuttosto tranquilla e i professori non ci caricarono troppo per via del fatto che era il primo giorno di scuola. Gliene fui molto grata.
Mancavano soltanto l’ora di biologia e quella di ginnastica. Perciò uscii dall’aula di inglese e me ne andai a biologia. L’aula era già mezza piena e tutti si erano già accaparrati i posti migliori. Scorsi un posto in terza fila e corsi a sedermi. Terza fila non era poi così male, sempre meglio di quelli che si beccavano la prima.
Guardai l’orologio. Erano le undici. La lezione stava per iniziare, anzi sarebbe iniziata esattamente tra…
“Buongiorno ragazzi! Benvenuti alla vostra primissima lezione di biologia. Io sono il professor Roger Russel, con me faremo molti esperimenti pratici perché per me biologia è esperimenti. Questa mattina cominceremo con lo studio delle cellule e del DNA”, annunciò il professore.
Verso le undici e cinque dalla porta entrarono tre ragazzi. Uno era alto, snello e dai capelli e occhi scuri, un altro era piuttosto basso, i capelli biondi e gli occhi azzurri, mentre il terzo era più o meno alto quanto il primo, robusto e aveva i capelli rossicci e riccioluti.
Conoscevo di vista quei tre: quello basso si chiamava Gabriel e quello dai capelli rossi Diego. Era molto simpatico, era quello che dava spirito alle lezioni.
Il primo, quello dagli occhi scuri, non lo conoscevo bene, ma non appena entrò in classe, il mio cuore accelerò notevolmente i battiti. Rimasi a fissarlo come incantata, per poi distogliere frettolosamente gli occhi quando anche lui posò i suoi di me.
Venne a sedersi accanto a me, ma non spiccò parola. Mi chiesi il perché, dato che c’erano altri tre banchi vuoti.
Il professor Russel intanto aveva cominciato a spiegare la natura del DNA e il lavoro instancabile e onorevole delle nostre cellule, ma io non gli prestavo attenzione. Dopotutto queste cose già le sapevo a memoria. Ma il vero motivo della mia distrazione era quel ragazzo che prima di allora non avevo mai notato, forse perché non eravamo mai stati in classe insieme.
Lui e gli altri due ragazzi entrati in ritardo sembravano un trio di vecchi amici, ed erano tutti piuttosto belli se li si guardava con imparzialità. Pensai che il mio cuore avesse agito come d’impulso alla loro entrata, perché altrimenti non c’era proprio altra spiegazione. Ovviamente, per me il più bello di tutti e tre era lui. Anche se non riuscivo proprio a capire perché si fosse seduto proprio vicino a me. Voglio dire, ero una sconosciuta, e per di più neanche tanto carina.
Forse aveva solo scelto a caso, il primo banco che aveva visto. Sì, pensai che fosse così. Sentivo verso di lui un’attrazione strana, che non riuscivo a spiegarmi. Forse era il suo effetto? Non avrei saputo dirlo.
Per tutta la lezione non disse niente, e nemmeno io. Non parlai non perché non ne avessi voglia, ma solo perché non volevo forzarlo se non voleva. Dimenticai in fretta l’accelerazione improvvisa del mio cuore e mi persi nella lezione.
Dopo ginnastica mi sciacquai il viso con l’acqua gelata anche se avrei voluto farmi una bella doccia fresca. Ma potevamo farci la doccia solo il mercoledì, che era anche il giorno più faticoso.
Quel giorno non avevamo nessuna ora libera perciò mi diressi in mensa con poca fame. All’ingresso incontrai Irene e Letizia che mi stavano aspettando.
“Ho una fame…”, annunciò Letizia. “Credo che prenderò un po’ di pasta al pomodoro”
“Io credo che prenderò il brodo”, disse Irene.
“Io non ho molta fame, penderò solo la mia solita ciotola di lamponi”, dissi.
“Sei sicura che non contengano droga quei lamponi?”, mi chiese Letizia scherzando.
Io alzai gli occhi al cielo scuotendo la testa.
Beh, in effetti non aveva tutti i torti. I lamponi erano il mio frutto preferito e anche se mi creavano un po’ di prurito io continuavo a mangiarne a fiotti.
Entrammo finalmente in mensa e, per la seconda volta nella giornata, ci mettemmo in fila. Quando fu il nostro turno caricammo sul vassoio le nostre pietanze o, nel mio caso, i lamponi. Ci sedemmo ad un tavolo vuoto. Io misi in bocca il primo lampone.
“Com’è andato il primo giorno?”, esordì Irene.
“Mmmm… direi bene, dato che i prof non ci hanno dato compiti”, dissi.
“A me da schifo”, rispose Letizia accalorata. “Quella di francese ha voluto sapere tutti i verbi e per casa ci ha dato una relazione da scrivere sul film che abbiamo visto durante l’estate. Per non parlare poi di quella di tedesco…”
“Sfortunata”, dissi.
“Eh già”, sospirò.
“Stasera volete fermarvi da me?”, chiesi. Avevo voglia di stare con loro il primo giorno. Ingurgitai altri due lamponi.
“Volentieri”, rispose Irene con un sorriso stampato in faccia.
“Ehm… io a dir la verità penso di no. Ho molti compiti da fare, come vi ho detto, e poi mia madre voleva avermi a casa almeno il primo giorno”, rispose Letizia, sinceramente dispiaciuta.
“Oh, non ti preoccupare”, la rassicurai io.
Soprappensiero mangiai velocemente tutti i lamponi che restavano nella ciotola.
Guardai l’orologio e mi accorsi che era già passato molto tempo.
“è molto tardi”, annunciai. “Penso che andrò in classe, quella di italiano di solito arriva presto”
Loro annuirono e si affrettarono a terminare i loro piatti.
Io raccolsi il mio zaino da terra e uscii a passo lento e cadenzato dalla mensa.
 
Parcheggiai la macchina nel parcheggio di fronte a casa mia. Ovviamente ero già stata in quella casa quando l’avevo scelta e poi comprata. Però era stata comunque un’emozione forte entrare in quella casa e parcheggiare nel posteggio di fronte. Tirai fuori dalla tasca posteriore dei jeans le chiavi. Le guardai quasi con rispetto. Le impugnai e mi avviai verso la porta. Inserii le chiavi nella serratura e le girai facendola scattare.
Aprii la porta spalancandola.
Entrai a passo titubante e malgrado per me non fosse una cosa nuova sotto al sole, il mio cuore accelerò i battiti e per un attimo smisi di pensare.
Tutto questo era mio. Non riuscivo ancora a crederci. Mi sembrava così strano…
Trovai la valigia davanti al divano, al centro del salotto. Prima di venire qui mi ero ripromessa di mantenere la casa pulita e in ordine, e di cominciare a organizzare i miei risparmi. Ma prima era necessario sistemare la casa in stile Emily, riempirla con le mie cose.
Perciò andai in camera mia tirandomi dietro la valigia azzurra. La appoggiai sul letto e la aprii.
In poco tempo sistemai tutte le mie cose. Mi venne in mente che dovevo pensare anche a cucinare, perciò prima di cominciare i compiti mi diressi in cucina.
Aprii il frigorifero, praticamente certa di trovarlo vuoto. Invece fui sorpresa di vedere al suo interno tantissimi cibi di tutti i tipi. Riconobbi in tutto quello lo zampino di mio padre. Alzai gli occhi al cielo anche se lui non mi poteva vedere. Almeno mi avrebbe risparmiato la fatica di andare a fare la spesa. Scorsi un pezzo di carta in fondo al frigorifero e, mentre lo stavo per gettare nel cestino, mi accorsi che era scritto con la grafia ordinata ed elegante di mia madre.
 
Ciao Emily,
so che tu sai cucinare molto bene,
ma ti ho voluto dare lo stesso il mi ricettario.
P.S.: in forno c’è il tuo dolce preferito.
Ti voglio bene,
                                Mamma
 
 Dato che Irene sarebbe venuta a cena decisi di preparare una bella focaccia prosciutto e mozzarella, la sua preferita. Perciò presi farina, acqua e sale e impastai. Ero di nuovo soprappensiero. Riflettevo più che altro su quello che era accaduto a lezione. Credo che fossi stata attratta soprattutto dalla sua bellezza, però avevo notato che le altre avevano notato soprattutto Gabriel e Diego. Dopo qualche minuto di riflessione decisi di lasciar perdere. Finito di impastare, sciacquai le mani sotto al lavandino e coprii l’impasto con la pellicola. Mi diressi in salotto per accendere il fuoco. Mi accorsi con stupore che era già acceso. Non l’avevo notato quando ero entrata in casa. Anche qui, riconobbi la firma di mio papà. Non era proprio in grado di lasciarmi a me stessa. Tuttavia, apprezzai quel gesto. Trovai un biglietto sul davanzale del caminetto scritto con la sua scrittura quasi illeggibile. Cos’è, avevano giocato a fare gli agenti segreti? Sospirai e cominciai a leggere.
 
Spero tu abbia apprezzato questo mio regalo.
Spero tu sappia accendere un fuoco, in ogni caso basta
Uno squillo. Ti ho creato uno spazio accanto al camino
Per la legna, così non devi fare troppa fatica per portarla
Su. Chiama presto,
                                        Papà
 
 
Alzai gli occhi al cielo e sospirai. Come al solito si preoccupava sempre troppo. Anzi, si preoccupavano sempre troppo.
Presi la ciotola che avevo coperto con la pellicola e la misi accanto al fuoco per facilitare la lievitazione.
Dopodiché me ne andai in camera trascinando i piedi, a fare i compiti.
Aprii il pc che mi ero fatta regalare solo l’anno scorso e lo collegai in fretta alla rete. Aprii una pagina di word e cominciai a scrivere la relazione sul film in francese.
 
 
Ebbi bisogno di qualche aiutino da parte di Wikipedia per terminare la relazione ma, quando ebbi finito, notai con piacere che mancava ancora un’oretta all’arrivo di Irene. Mi aveva detto che sarebbe tornata per le sette perché doveva andare a fare alcune compere in città.
Perciò afferrai l’MP3 e le cuffie dal cassetto della scrivania e le indossai. Caricai la mia playlist numero dieci: Relax. Avevo suddiviso tutti i miei brani preferiti in undici playlist diverse per ogni occasione ed emozioni.
In quel momento avevo solo voglia di un po’ di relax per distrarmi da tutto il resto. Perciò la playlist numero dieci mi sembrava quella più adatta. Lentamente chiusi gli occhi e mi lasciai andare ad un sonno ristoratore.
Quando mi risvegliai non sentivo più la musica nelle orecchie, quindi significava che la playlist doveva essere finita. Saltai su e la prima cosa che notai fu che il sole era sparito dietro l’orizzonte e un buio cupo s’insinuava in ciò che restava del giorno.
Controllai l’orologio: erano le sei e cinquantacinque.
Fui grata al mio liquido cefalorachidiano e ai miei neurotrasmettitori per avermi svegliata. Corsi in salotto e cominciai ad apparecchiare la tavola di legno. Pochi minuti dopo suonò il campanello. Andai ad aprire la porta.
“Ciao Ire”, la salutai.
“Ciao Emy”, ricambiò.
Entrò e appese la giacca all’attaccapanni all’ingresso.
“Grazie per avermi invitato a cena”
“Era il minimo che potessi fare”, risposi. Ed era la verità, anche se c’era di base un cinque per cento di egoismo, dato che non volevo rimanere da sola.
“Ti ho preparato la focaccia prosciutto cotto e mozzarella”, le dissi.
Lei sorrise.
“Grazie mille”
“A dir la verità dovrai aspettare ancora qualche minuto perché mi sono addormentata perciò devo ancora infornare”, ammisi.
“Non ti preoccupare, tanto è ancora presto”, mi disse. Era sempre così gentile…
“Intanto se vuoi siediti pure, ho già apparecchiato”
“Ma no, ti aiuto a finire la focaccia”, mi disse.
Avrei voluto rifiutare la sua offerta, ma sapevo che sarebbe stato completamente inutile.
Andammo al bancone della cucina dove avevo già steso l’impasto.
“Cosa posso fare?”, mi chiese, ansiosa di rendersi utile.
“Potresti prepararmi la mozzarella?”
“Certo, è in frigo giusto?”
“Sì”
Io misi in forno la focaccia e preparai il prosciutto cotto.
Sospirai.
“Tu non avevi compiti?”, chiesi.
“A dir la verità ho matematica, ma pensavo di farla stasera con te, dato che non ci capisco niente”, disse e arrossì.
“Perfetto, cos’è?”, domandai.
“Problemi di geometria”
Erano la parte che mi riusciva più facile di tutta la matematica, perciò non sarebbe stato un grande sforzo.
Risi.
“Sono a tua disposizione”
“Grazie”
Intanto la focaccia cuoceva e la tirai fuori dal forno. La tirai fuori e con estrema delicatezza la tagliai a metà. Irene mise la mozzarella ed io il prosciutto. La richiusi e la rimisi in forno.
Ci sedemmo a tavola. Mi versai un bicchiere d’acqua e lo portai alla bocca.
“Hai notato oggi quei tre?”, mi chiese, come se facesse fatica a parlare. Trangugiò rumorosamente la saliva.
“Chi?”, domandai, ma sapevo esattamente di chi parlava.
“Oh, andiamo, quello biondo, il rosso e quello scuro”, mi disse, come se anche lei non si capacitasse del fatto che io non gli avessi notati.
“Ah sì, quelli”, dissi con noncuranza. Cercavo di non mostrare particolare attenzione nei loro confronti per non tradire il mio interesse d’attrazione profonda.
“Beh…”, cominciò, ed era evidente che era molto imbarazzata. Da un lato volevo aiutarla, ma dall’altra desideravo che fosse in grado di esprimere i suoi sentimenti.
“Ecco… io credo… credo di essermi innamorata di quello biondo”, riuscì a dire infine.
Cercai di prenderla alla leggera.
“Chi? Gabriel?”, dissi ridendo.
“Gabriel…. Suona bene”, disse trasognata.
Io risi e lei si distolse dai suoi pensieri frettolosamente.
“Ehm, e tu hai notato qualcuno?”, disse. Non mi aspettavo quella domanda.
“No, non credo”, risposi. Sì, ho notato qualcuno verso cui provo un’attrazione che non ho mai provato prima.
Questa sarebbe stata la risposta giusta, ma non sapevo come spiegarla, perciò mentii. Tuttavia mi fece piacere sapere che anche a qualcun altro era capitato quello che oserei definire un colpo di fulmine.
Il timer del forno squillò ed io mi alzai dal tavolo per tirare fuori la focaccia dal forno. Mi misi il guanto da cucina e la estrassi. Scossi le braccia per creare un po’ di aria fresca in modo da farla raffreddare. La tagliai a metà col coltello e ne diedi metà a Irene e metà me la misi sul mio piatto.
Tagliai un pezzetto e lo misi in bocca masticando piano. Gli argomenti di cui parlare erano finiti, perciò presi tempo. La cena proseguì con discorsi innocenti sparsi qua e là e non accennammo più all’argomento ragazzi.
Dopocena sparecchiai e lavai i piatti con l’aiuto di Irene che non si volle risparmiare. La aiutai a fare i compiti di matematica e poi guardammo un film. Mi addormentai istantaneamente.

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Capitolo 3
*** Esperimento ***


Capitolo 2
Esperimento
 
 
 
 
 
 
Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza.
I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici – Khalil Gibran
 
Stranamente ero in ritardo e mi affannai a mettermi le scarpe alla velocità della luce.
Infilai il giubbotto e poi lo zaino. Per poco non caddi all’indietro per il peso improvviso dello zaino sulle spalle. Un giorno mi sarebbe tanto piaciuto pesare il mio zaino. In ogni caso non avrei potuto farlo adesso. Mi affrettai ad uscire di casa. Il vento gelido mi sferzò il viso prepotente. Attraversai velocemente il piazzale davanti a casa mia e raggiunsi la casa di Irene. Irene è la mia migliore amica. Mi raggiunse e insieme ci avviammo verso la scuola.
“Ciao” dissi.
“Ciao”
“Che orario hai oggi?” posi la domanda con cui iniziavamo sempre i nostri discorsi mattutini.
“Due ore di inglese, una di francese, una di spagnolo, due di tedesco e una di storia, tu?”
“Io una di matematica, una di biologia, due di inglese, una di ginnastica, una di italiano e una di storia”, risposi.
“Hai chiesto ai tuoi di Halloween?” mi chiese.
“Sì e hanno detto che posso venire”
“Evviva!”
“Comunque è un peccato che ieri sera Leti non si sia potuta fermare”
“Già”
“Beata lei che sta viaggiando in una comoda e calda macchina”, disse Irene scherzando.
In effetti c’era abbastanza freddo qui fuori, e minacciava di nevicare.
“Comunque dobbiamo decidere che film guardare ad Halloween” ricordai. Per Halloween avevamo deciso di incontrarci a casa della Leti (se le sue sorelle risultano negative al tampone) e mangiare una pizza insieme davanti a un film. Solo che dovevamo ancora decidere quale guardare.
“Boh, io proporrei Pirati dei Caraibi?”
“Mmm non male. Comunque ho una serie di film scaricati da Altadefinizione e messi su chiavetta. Se vuoi la posso portare”
“Okay perfetto!”
Proseguimmo per un po’ in silenzio. Ero abituata al silenzio. Non che esso mi facesse piacere ma mi rincuorava sapere che era una cosa comune della psicologia umana. Ogni volta che qualcuno stava in silenzio mi sentivo a disagio, come se dovessi per forza tirar fuori qualcosa da dire. Ma con lei sapevo sempre cosa fare, se era un silenzio imbarazzato oppure un semplice silenzio dove tutte e due pensavamo ai fatti nostri. Insomma non si può invadere gli altri né imporgli i nostri discorsi. Di solito con le altre persone non ero così attenta ai particolari ma con lei è tutto più facile. Questo perché negli ultimi anni la mia paura più grande è diventata l’abbandono. L’abbandono è una parola che ti fa venir l’amaro in bocca. È quando una persona ti volta le spalle e ti lascia a te stesso. È quando rimani solo a crogiolarti su cosa potresti aver sbagliato. È la causa della tristezza. È l’origine della depressione, è la perdita dell’autostima. È cattiveria, ma l’unica cosa buona è che ti fa capire quanto tieni a una persona. Tanto o zero. Ti mostra la verità. E non sempre la verità è quella che vorresti sentire. L’altro motivo è perché lei è talmente vera. Non nasconde mai niente e sulla sua faccia si leggono tutti i suoi pensieri, le sue emozioni, quello che prova e che pensa davvero. Ed è stato sorprendente vedere come la nostra amicizia era fluida. Gli ostacoli che si creavano nella mia mente cadevano all’istante al confronto.
Non c’era difficoltà, c’era sempre una possibilità di rimediare agli errori fatti, sempre una mente aperta e un cuore pronto ad accoglierti. Non so cosa farei senza di lei. Senza la mia migliore amica. Senza le mie migliori amiche. Le mie uniche vere amiche.
Eravamo ormai giunte di fronte all’edicola. Poco più di cento metri ed eravamo a scuola.
“Ci sei oggi ad atletica?” ruppe il silenzio.
Già, da quest’anno facevamo atletica insieme. Fino all’anno scorso non ne volevo nemmeno sapere. Ma poi anche a ginnastica a scuola ho cominciato ad allenarmi sul serio e a migliorare. Ho capito che ce la potevo fare. E in effetti adesso faccio molta meno fatica prima a fare i cinque giri di riscaldamento. E sono migliorata anche di velocità.
“Certo” risposi.
Sorrise e io ricambiai. Lei ovviamente era molto più brava di me ma tutte le volte che glielo facevo notare sosteneva insistentemente di non essere poi un granché. Invece io sapevo benissimo che non era così. Con un po’ di allenamento sarebbe arrivata a dei livelli alti. Una cosa che non ho mai capito è perché la gente si vergogni ad ammettere che è brava a fare qualcosa. Tutti sappiamo fare qualcosa meglio di altri. È normale. E come diceva una famosa frase, tutti almeno una volta nella vita dovrebbero ricevere una standing ovation. Comunque ormai eravamo arrivate davanti al forno.
“Io vado a prendere la merenda, vuoi qualcosa?”
Tanto ero sicura che mia avrebbe detto di no come tutte le mattine. Mica mi disturbava comprargli un pezzo di focaccia.
“No no tranquilla”
Tac. Lo sapevo.
“Sicura?”
“Si sì”
“Come vuoi tu. Ci vediamo dopo, ciao!”
“Ciao!” mi disse di rimando.
Ecco una cosa snervante era quella. Non eravamo in classe insieme. Lei faceva le trenta ore, io le trentasei. Da un lato avrei voluto cambiar classe, dall’altro mi andava bene la mia. In fondo la sua classe non era tanto unita, c’erano molti gruppetti. E poi non è che ero amica con tanta gente di quella classe, solo la Leti e Matilde, una nostra amica. E poi adesso stavo giusto cominciando ad integrarmi ancor di più con la mia classe, quindi. Entrai dentro alla piccola stanza e presi un pezzo di pizza da cinquanta centesimi.
Uscii e controllai l’orologio. Dovete sapere che entriamo alle otto meno dieci. Ed erano esattamente le sette e quarantacinque. L’unico problemino era quella mattina avevo matematica. E la prof. Guastalli voleva che noi entrassimo prima. Mi misi a correre a perdifiato per la strada. Lo zaino ballonzolava su e giù, a destra e sinistra e ciò rallentava la mia corsa. A dir la verità mi sentivo anche un po’ stupida. Pazienza. Nella vita, o meglio nella mia vita le figure di m erano all’ordine del giorno. Arrivai all’enorme cancello ansimando e probabilmente anche rossa come un peperone. Merda! Cercai di ridarmi un minimo di decenza ma non potei verificare. Comunque come al solito mi perdo sempre nei miei pensieri e finisco col dimenticarmi della realtà che è intorno a me. Mi succede spesso anche con i libri. Ma come si fa a rinunciare all’enorme fascino dei libri? Decisamente non si può. Anche se questa mia passione non viene compresa da molti per me è vitale, una questione di vita o di morte. I libri sanno esattamente come tirarmi su di morale e come farmi dimenticare il resto del mondo. In particolare Twilight e Harry Potter. Entrai dentro all’edificio e mi feci tutte le scale di corsa.
“Buongiorno prof.”
“Si sieda signorina”
Mi sedetti senza dire una parola. Posai lo zaino a terra e cominciai a tirare fuori i libri e i quaderni. Disposi tutto ordinatamente sul banco e attaccai zaino e giacca alla sedia. “Oggi cominceremo le espressioni letterarie” cominciò la prof., e si alzò dalla sedia per raggiungere la lavagna. Scrisse: I monomi sono dei numeri con attaccate dietro delle lettere.
Una cosa che mi piaceva di lei è che aveva un modo tutto suo di spiegare la matematica. Lo faceva in modo molto semplice e tutti capivano. Diceva sempre: “Una volta o l’altra mi arresteranno per come spiego”. Inoltre tutte le volte che spiegava qualcosa lei scherzava. Infilava battute ovunque. Una volta ci ha persino fatto scrivere: Perché dobbiamo fare così? Perché ve l’ha detto la vostra vecchia e grassa professoressa” Già. Aveva l’abitudine di auto prendersi in giro. Comunque ricopiai diligentemente il testo. Non appena ebbe finito la spiegazione staccai il cervello e mi dedicai ai miei pensieri.
La campanella suonò e io mi alzai per lasciare l’aula. Mi diressi a biologia.  Adoravo biologia, per questo avevo scelto di frequentare il corso per tutto l’anno. La definivo una materia… affascinante. Era interessante scoprire quelli che venivano definiti fenomeni della vita. Era una di quelle materie che non mi riusciva difficile studiare.
Mi sedetti come al solito vicino a James. Avevo subito notato la sua bellezza il primo giorno e il mio cuore aveva accelerato i battiti. Ma lui non aveva dato segni di vita.
Aveva tanti capelli scuri scompigliati e le sopracciglia un po’ folte. Ma forse è solo l’effetto che fa il nero. I suoi occhi erano anch’essi scuri ma profondi, le labbra piuttosto piene e rosee.  Aveva un fisico molto snello ed era più alto di me di qualche centimetro. Avrei voluto continuare ad osservarlo ma il professor Russel cominciò a parlare.
“Buongiorno ragazzi! Sgomberate i banchi per favore. Oggi faremo un esperimento a coppie. Andranno bene quelle dei banchi.”
Evviva un esperimento! Il professor Russel preferiva fare pratica nella sua materia piuttosto che teoria. Sosteneva che in questo modo le cose le avremmo capite meglio. E in effetti non aveva tutti i torti.
“Dunque” proseguì “adesso girerò tra i vostri banchi e vi consegnerò tre fragole per coppia, gli altri ingredienti e un foglietto con indicato sopra il procedimento. La coppia che porterà a termine in modo corretto l’esperimento vincerà due giorni al campus dei biologi. La data è prevista per venerdì e sabato prossimo. Una sola parola: impegnatevi”
Notai alcune smorfie scontente probabilmente a causa del loro compagno. Sentii Elizabeth dire che lei non ci sarebbe mai andata a quello stupido campus. A me invece importava molto andarci. Inoltre si trattava della mia materia preferita e non mi sarei perdonata un fallimento simile. Il professor Russel ci consegnò due vasetti, un sacchetto del congelatore, una pipetta, sapone, acqua, tre fragole, dell’alcol etilico e il foglio col procedimento. Mi sporsi per afferrare il foglio. Lessi attentamente ma non impiegai più di un minuto.
“Ora possiamo cominciare” annunciai.
James mi guardò con l’aria di chi ha appena visto un’assurdità. Oh, no! Cosa avevo fatto di male? Tentai di avvicinare il mio naso alle ascelle ma nessun odore sgradevole mi raggiunse. Mi passai una mano tra i capelli per sistemarli.
“Hai già finito di leggere?” mi domandò sorpreso accennando un sorriso. Che sollievo! Allora il problema non ero propriamente io.
“Sì perché?” risposi dopo una pausa troppo lunga.
“Niente. Cominciamo?” cambiò rapidamente discorso.
“Senti io non so niente di biologia, seguo questo corso solo perché secondo mia madre è importante, perciò guida tu l’esperimento”
“D’accordo”
Ero confusa ma acconsentii. Mi sentivo triste perché lavorare in coppia è bello. Almeno per me.
“Cosa dobbiamo fare?” chiese.
“Non avevi detto che dovevo farlo da sola l’esperimento?”
Senza volerlo il mio tono risultò acido.
“Non ho mai detto questo. Intendevo che mi serviva qualcuno che mi aiutasse a fare l’esperimento”
Di colpo avvampai e le mie guance probabilmente si tinsero di un rosso fuoco.
“Beh, in questo caso eccomi qui!”
“Signorina Glanville, signor Griffen, posso portarvi un tè o lavorate?”
La voce brusca del professor Russel mi fece distogliere lo sguardo da James.
“Lavoriamo” risposi automaticamente.
Il professor Russel annuì e se andò.
“Il primo passaggio è quello di mettere le fragole dentro al sacchetto e di ridurle in poltiglia” dissi, e mentre parlavo afferrai i due oggetti. Misi dentro le fragole e chiusi bene. Cominciai a schiacciare con i polpastrelli. Sinceramente me le sarei mangiate volentieri quelle fragole. Peccato.
“Non lo stai facendo bene”
Mi voltai e vidi James che mi guardava divertito. Si sporse verso di me e mi mostrò come schiacciare bene le fragole.
“Guarda che andava benissimo così!” esclamai.
“Mmm… secondo me era troppo grumosa… deve essere più poltiglia, non so se mi spiego”
“No non ti spieghi e comunque i grumi non centrano”
Rise ma mi allungò il sacchetto.
“Intanto che io finisco, ti andrebbe di mescolare acqua e detergente dentro a un vasetto?”
Calcai bene sulla parola io.
“Certo capo”
Non resistetti e mi unii alla sua risata. Era facile ma al contempo complicato discorrere con lui. E sentivo quel sentimento che avevo provato il primo giorno di scuola tornare lentamente a galla. Supposi che fosse perché lui stava mostrando la parte interna di sé stesso. Tuttavia, non ero ancora sicurissima del mio sentimento. Finii velocemente di schiacciare le fragole e mi rivolsi a lui.
“Finito. Tu?”
“Di solito per mescolare acqua e sapone ci vogliono due ore”
Sorrise sarcastico.
“Ah-ah-ah. Aggiungici il liquido, quello trasparente… quello che puzza”, ordinai.
Quando James ebbe finito dissi:
“A te l’onore di versare la poltiglia di fragole all’interno del vasetto!”. James ubbidì all’istante.
“Devo ammettere che questa cosa fa un po’ schifo” disse, sul volto una smorfia di disgusto. E in effetti non aveva tutti i torti. La poltiglia unita ad acqua, sapone e quel liquido emanava un odore sgradevole, di… chimico. Per non parlare poi del colore. Era diventato più scuro, simile al sangue. Era rivoltante. Fortuna che, in tema di sangue, ho lo stomaco duro. Mi tappai il naso e, con la classica voce buffa dissi:
“Hai ragione. E pensare che in origine quelle erano delle ottime fragole”
Mi tolsi la mano dal naso e presi una consistente boccata d’aria. L’odore chimico m’impregnò le narici dandomi una leggera nausea. Sbattei le palpebre qualche volta in più e ritornai lucida.
“Adesso mescola, altrimenti l’alcol non farà effetto e bye bye DNA”
“Puoi farlo tu? Io questa puzza proprio non la sopporto”
Acconsentii e afferrai il vasetto. Di solito i nasi comuni si adattavano all’odore presente in una stanza dopo pochi minuti, ma per i nasi affinati come i miei ci voleva un po’ di più. Cercavo di non pensare al puzzo, ma spesso proprio gli odori mi facevano contorcere lo stomaco. Un rigurgito mi salì in bocca e io lo ricacciai giù con una smorfia di disgusto.
“Tutto ok?” mi chiese James.
“Sì, si certo”
Non volevo che sapesse che stavo per vomitare. Non è propriamente una cosa carina, anzi è imbarazzante.
La cosa più sbagliata da fare quando non si sopporta un odore è tapparsi il naso. Questo perché non dai tempo al tuo naso di stabilizzarsi, di non far più caso al puzzo. Lo avevo ben presente quando – non chiedetemi perché – lo feci. Aspettai fino a diventare paonazza. Quando tornai finalmente a respirare, l’odore di chimico mi travolse e il mio stomaco ebbe un sussulto. Alzai di scatto la mano. Dovevo andarmene immediatamente dall’aula, altrimenti… beh, avrei fatto una cosiddetta figura di merda.
“Si, signorina Glanville?”
Il professor Russel alzò lo sguardo su di me.
“Posso andare in bagno?”
Le parole mi uscirono in un soffio per paura di vomitare sul banco.
“Vada” acconsentì.
Mi fiondai fuori dalla porta mentre sentivo in lontananza la voce del professore che mi urlava di non correre nei corridoi.
Dato che non sono una persona fortunata, e dato che in quel momento pensavo solo ad arrivare in tempo al bagno, non notai il cartello con la scritta: “ATTENZIONE! Corridoio scivoloso!” Feci a malapena in tempo a scorgere la bidella che finiva di lavare il pavimento che caddi rovinosamente a terra. Quell’urto improvviso sbloccò la mia resistenza e vomitai tutto sul pavimento appena pulito. L’odore di candeggina che proveniva da esso non mi aiutava e la testa cominciò a girami come in preda di un tornado. Sentivo un dolore acuto all’anca. Avrei voluto svenire ma non era da me e infatti restai quasi perfettamente lucida. Sentii i passi della bidella e del professor Russel che venivano agitati verso di me. Sperai che nessun’altro uscisse dalle classi e mi vedesse in quelle condizioni. Sarei stata oggetto di prese in giro e comunque non mi piaceva sentirmi dire poverina.
La mia preghiera sembrò essere ascoltata perché nessuna delle quattro porte chiuse si aprì.
“Signorina Glanville, sta bene? Gliel’avevo detto che non si corre nei corridoi.”
“Non si preoccupi, sto bene” Il che era quasi vero.
 Avevo vomitato e ora stavo meglio. C’era solo quel piccolo dolore all’anca, che infin dei conti non faceva poi così male.
“Io devo tornare in classe ma le mando subito un alunno che la accompagni in infermeria.
“Ma non serve, davvero sto bene!”
Ma lui non ne volle sapere niente e se ne tornò in classe. Fantastico! Adesso tutta la classe avrebbe saputo che ero scivolata perché correvo in un corridoio con la scritta ATTENZIONE e, ciliegina sulla torta, avevo pure vomitato. Tenni gli occhi fissi sulla porta della mia classe per vedere chi ne sarebbe uscito. D’improvviso la porta si aprì e James uscì con un sorriso a trentadue denti.
Oh no!
“Allora, abbiamo dimenticato come si legge?”
Avvampai istantaneamente. Probabilmente dovevo somigliare molto a un peperone rosso.
“Senti non serve che mi porti in infermeria, sto bene. Solo aiutami ad alzarmi altrimenti rischio di vomitare di nuovo con questo odore di candeggina”
“D’accordo, ma gli ordini sono ordini”
“E l’esperimento?” domandai ansiosa.
“Il professor Russel ha fermato la lezione”
Oh no! Aveva raccontato qualcosa dell’accaduto? Di colpo vidi i miei peggiori incubi avverarsi come per magia.
“Ha detto qualcosa riguardo a me?”
“Neanche una parola” disse, ma il suo sorriso beffardo mi fece capire che non era affatto così.
“No!”
“Tranquilla, non è entrato troppo nei particolari”
Avrei voluto ribattere ma un altro conato di vomito sopraggiunse a causa della candeggina.
“No, hai ragione, l’infermeria non serve assolutamente” disse sarcastico mentre mi porgeva la mano per aiutarmi ad alzarmi.
“Ti prego!”
“No no signorina”
“Crudele”
Mi rassegnai e mi feci accompagnare in infermeria. L’infermiera Smith ci aprì la porta con un sorriso compassionevole.
“Che è successo piccina?”
L’infermiera Smith era una signora di appena una sessantina d’anni con un forte istinto materno. Aveva i capelli grigi raccolti in una crocchia ordinata e indossava un pesante maglione verde coperto dal lungo camice da dottoressa.
“Ha vomitato un po’ ed è scivolata sul corridoio e credo abbia battuto l’anca”
James rispose per me.
“Ma non è niente, sto bene!” mi affrettai a ribattere.
Nonostante io cercassi di far capire ad entrambi che stavo più che bene, l’infermiera Smith mi fece sedere sul lettino della piccola infermeria.
“Come mai hai vomitato? Mal di pancia?”
“No, è stato a causa dell’odore che avevano le fragole mischiate al detergente e alla candeggina”
“Beh, in questo caso ti basterà mangiare questo cioccolatino e bere un po’ di acqua con il limone e ti rimetterai in sesto”
Detto questo mi porse un vassoio. Presi il bicchiere e sorseggiai la limonata fresca.
“Buona”
La nausea scomparve a poco a poco e una nuova energia mi percorse. Mangiai di gusto anche il cioccolatino e il mio stomaco mi ringraziò. Ora andava molto meglio. L’infermiera Smith sapeva esattamente come curare le persone, e lo faceva con semplicità, senza farti sentire in imbarazzo. Beh, quasi.
“Posso andare adesso?”
Ero ansiosa di tornare a biologia per terminare l’esperimento. Adesso mi sentivo pronta.
“No cara, prima ti esamino velocemente l’anca”
Provai a ribattere ma non ci fu verso di convincerla neanche con le suppliche.
Tastò la mia pelle con mani esperte e mi colse impreparata.
“Ahi!”
“Vedi che qualcosa c’era? È soltanto un livido. Adesso ti metto un po’ di crema. James caro, aspetta fuori”
James ubbidì e l’infermiera mi spalmò la crema massaggiando. Ora andava molto meglio.
“Come ti senti cara?”
“Meglio, signora Smith, grazie”
“Grazie a te piccina, ora puoi andare”
Mi rivolse un sorriso allegro e soddisfatto e mi salutò con la mano. Ricambiai il saluto e lasciai l’infermeria.
James mi stava aspettando fuori dalla porta.
“Come stai?”
“Se te lo risento dire ancora una volta ti ammazzo”
Sorrise di fronte alla mia minaccia. Ma cosa aveva quel ragazzo oggi? Di solito non si comportava così.
“Torniamo in classe” dissi, in tono perentorio.
Camminammo in silenzio fino all’aula.
“Bentornati signorini. Come sta signorina Glanville?” domandò il professor Russel.
Sentii James trattenere un risolino di fronte alla mia espressione contrariata.
“Molto bene grazie”
“Allora riprendiamo la lezione. Tre… Due… Uno…Via!”
Io e James ci sedemmo ai nostri banchi con una velocità assurda.
“Dove eravamo rimasti?”
“Ehm…” ci riflettei un attimo “Dovevamo aggiungere l’alcol”
“Giusto, ma meglio se lo faccio io, per evitare ulteriori svenimenti”
Rise sotto i baffi, sul volto l’espressione di chi sa di avere fatto qualcosa che non doveva e ne andava fiero.
“Ti avevo detto…” cominciai.
“…di non dirlo più, lo so, lo so, ma è troppo divertente vedere la tua faccia”
Per la terza volta avvampai, e per la prima non replicai.
“Vogliamo proseguire?” mi esortò lui.
“Certo”
Cominciò a versare l’alcol all’interno del famigerato liquido ma lo fermai subito con un urlo.
“FERMATI!”
La sua mano si arrestò di colpo, come paralizzata.
“Che ho fatto stavolta?” chiese con gli occhi sgranati per la paura.
“Non devi aggiungerlo così in fretta, altrimenti non estrarremo nessun DNA!”
Le parole mi uscirono con voce stridula.
“Bastava dirlo prima, mi hai quasi ucciso dallo spavento”
“Scusa”
Le mie guance si tinsero di un potente rosso fuoco. Primo perché ero consapevole di aver urlato, secondo perché tutti si erano voltati a guardarmi. Abbassai il tono di voce fino a renderlo quasi un sussurro.
“Possiamo continuare. Mi raccomando piano
“Agli ordini capo”
“Smettila”
“Agli ordini capo”
Scossi la testa mentre un sorriso mi si dipingeva sulle labbra.
“Fatto!” dichiarò dopo un minuto circa.
“Adesso non ci resta che aspettare cinque minuti perché il DNA venga a galla”
Feci spaziare il mio sguardo su tutti gli altri banchi e notai che non tutti erano stati veloci come noi. Eravamo i più avanti. Ero felice perché ci tenevo al campus. Comunicai la mia gioia a James, mi sembrava giusto.
“Siamo i più avanti”
“Ho notato, il campus sarà nostro”
“Sei contento di questo?”
“Direi di sì”
Si era fatto improvvisamente taciturno ed era chiaro che non volesse proseguire il discorso. Lo assecondai e lasciai perdere. Osservai il vasetto con il nostro esperimento e vidi che piano piano delle bollicine gialle cominciarono ad affiorare in superficie. Era un fenomeno estasiante. Ed era strano pensare che quella cosa era anche dentro di noi. Che, dal punto di vista biologico era la nostra essenza. La cosa che ci contraddistingueva, che ci rendeva diversi ma che allo stesso tempo ci legava indissolubilmente ai nostri genitori. Ero affascinata, i miei occhi erano incatenati a quel fenomeno.
Quando anche l’ultima “bollicina” fu emersa, con una pipetta prelevai attentamente il prezioso DNA. Lo misi il più delicatamente possibile nella provetta per non danneggiarlo.
Io e James alzammo la mano contemporaneamente.
“Ebbene signori e signore, abbiamo un vincitore, o meglio, due vincitori! Il signor Griffet e la signorina Glanville!”
Ci alzammo in piedi piuttosto imbarazzati. O meglio, io lo ero. Il professor Russel prese la provetta ed esaminò il DNA.
“Sì, l’esperimento è corretto, complimenti! Un applauso ai vincitori!”
L’intera classe esplose in fragoroso applauso. E per quanto fossi contenta di quel risultato avrei voluto sotterrarmi per la vergogna. Sapevo dentro di me che era immotivata, dato che mi stavano applaudendo, non tirando dei pomodori in faccia.
“Alla fine delle lezioni dovrete andare in segreteria. Lì vi diranno tutte le informazioni sul campus dei biologi e potrete rivolgere qualsiasi domanda. Ancora congratulazioni! Però vi dò un compito: alla fine del campus dovrete riportare tutto quello che avete fatto. Immagino che la classe sarà curiosa! E portate anche qualche foto, mi raccomando!”
Oh no! Di male in peggio. Si stava meglio quando si stava peggio. Quale proverbio usare per esprimere questa situazione? Forse nessuno dei due era adatto. Insomma, già l’imbarazzo regnava su di me, poi dovevamo pure portare delle foto e raccontare le nostre esperienze. Era il genere di cose che odiavo. Uno può avere la sua privacy? La cosa che al massimo potevo permettere era un: Vi siete divertiti? o un: Com’è andata? ma niente di più. In ogni caso avrei parlato solo degli esperimenti e nulla di più. Tanto mica c’erano le telecamere. O almeno credo.
Ci salvò lo squillo fastidioso ma salvifico della campanella. Raccolsi in fretta le mie cose e mi diressi verso la mia prossima lezione. Avevo ginnastica. L’unica persona in comune con biologia era Elizabeth. In realtà non vedevo l’ora che arrivasse l’ora di storia. È una materia che odio ma la cosa bella è che Irene e Letizia condividevano il corso con me. Prima di entrare in palestra riposi velocemente i libri nello zaino ed entrai nello spogliatoio. Indossai la tuta e mi raccolsi i capelli in una coda. Ero stupita: quel giorno ne avevo passate più che in tutti gli anni di liceo. Beh, ero dell’idea che nella vita c’è sempre una prima volta. Aspettai che Elizabeth finisse di cambiarsi e insieme cominciammo a fare i faticosissimi cinque giri di campo. Erano in totale due chilometri. Cercavo sempre di mantenere un ritmo costante, e a dir la verità il problema non era esattamente nelle mie gambe. Intendo dire che per i miei muscoli non era un poi così grande problema. Quello che davvero faticava era il mio respiro. Ogni volta che correvo, il mio cuore e i miei polmoni venivano messi a dura prova. E la sensazione era bruttissima. Sentivo costantemente la sensazione di dover lottare per respirare. I polmoni bruciavano e il cuore dava segni di voler esplodere. Infatti tutte le volte finivo con l’arrivare in fondo respirando forsennatamente con la bocca e le lacrime agli occhi per lo sforzo. Vi è mai capitato di vederci appannato quando correte? Beh, a me sì. Comunque dopo un po’ di pratica ero migliorata anche sotto quell’aspetto.
Dopo svariati esercizi, la lezione terminò. Il mercoledì avevamo un’ora buca dopo ginnastica per poter fare la doccia negli spogliatoi. Quel giorno ne avevo proprio voglia. Prenotai la doccia numero quattro con un gettone blu. Tirai fuori dallo zaino il mio shampoo agli agrumi. Adoravo gli shampoo alla frutta. Avevo anche il docciaschiuma ai frutti di bosco. Un profumo irresistibile. Presi il mio accappatoio e la spazzola. Entrata in doccia accesi subito l’acqua. La misi tiepida, molto piacevole. Sciacquai con cura i capelli e li massaggiai con lo shampoo antiforfora. Un aroma delicato ma al contempo deciso si spanse per tutta la doccia mischiandosi al vapore prodotto dall’acqua. Risciacquai per rimuovere le tracce di shampoo. Lo adoravo perché lavava bene ma il profumo rimaneva sui capelli ancora per qualche giorno. Mi dedicai alla cura del corpo e aumentai un po’ i gradi dell’acqua facendola diventare un po’ più calda. Quando ebbi finito nell’aria c’era una fragranza dolce, armoniosa, particolare e unica. Mi asciugai in fretta i capelli e mi rivestii. Prima di uscire riposi l’accappatoio in un sacchetto per fare in modo che non bagnasse i libri. Pettinai la mia scura chioma ribelle e uscii. La prima cosa che feci fu controllare l’orologio. Mancavano venti minuti alla pausa pranzo.
Perfetto. Mi sarei recata in biblioteca.
La biblioteca della scuola non era il classico ambiente polveroso e pieno di volumi inutili.
Anzi, era tutto il contrario.
 La biblioteca era composta da due stanze comunicanti. La prima, quella principale, è quella adibita allo studio, ma in realtà si poteva usare per tutto. È illuminata da luci bianche ed era piena di colori. L’enorme tappeto rosso faceva da base per tutti i tavolini tondi con tutte le loro rispettive sedie girevoli. Non esisteva un solo studente che non avesse mai percorso l’intera biblioteca a bordo di una poltrona con le ruote. Questo perché l’aula è interamente a disposizione degli alunni, quindi è assolutamente vietata ai professori. Era il nostro piccolo paradiso privato all’interno della scuola. Anche se non tutti la sfruttavano. Comunque, nell’angolo, c’erano anche due macchinette, una per il cibo e un’altra per il caffè e l’acqua.
L’altra sala, quella comunicante, è un ambiente più caldo, con un allegro fuoco scoppiettante nel camino. L’illuminazione non era al neon, ma di un colore simile al crema. Le poltroncine erano più spaziose e più comode, i tavolini più piccoli. Una grande libreria in mogano era la cosa che colpiva di più per la sua maestosità. Ricca di volumi di ogni genere era il mio mobile preferito. Si passava dai libri antichi a quelli più recenti, dalla Austen alla Rowling, dalle sorelle Brontë a Stephenie Meyer.
L’idea era quella di ricreare un ambiente che ricordasse casa, e che invogliasse alla lettura.
Quella era, delle due, la mia stanza preferita. Uno dei motivi è che, a Natale, mettono l’albero di Natale che, come ogni anno, viene decorato dagli studenti della scuola.
Mi ero diretta lì perché avevo voglia di proseguire la lettura di Midnight Sun di Stephenie Meyer. È un libro estremamente coinvolgente e appassionante.
Ero arrivata al punto in cui Edward spiegava a Bella quanto l’amava. Sentii una strana sensazione allo stomaco. Subito la mia mente tornò all’esperimento fatto in classe oggi. Scacciai quel pensiero e chiusi di scatto il libro. Non ero mai stata veramente innamorata. Ma perché stavo pensando a queste cose?
Mi alzai dalla poltroncina e, per l’ennesima volta, controllai l’orologio. Era quasi un tic. Mi dava noia non averlo al polso, mi dava uno strano senso di calma avere sotto controllo il tempo, mi faceva sentire più sicura.
Ora della pausa pranzo.
Quasi come se il mio stomaco fosse in grado di leggere l’orologio, sentii un brontolio provenire proprio da lui. Infilai il libro nello zaino e mi diressi a grandi passi verso la mensa.
Le mie gambe rischiarono di cedere di fronte all’immensa coda che si era formata.
Beh, mi sa che il mio stomaco avrebbe dovuto aspettare ancora un po’ prima di mangiare.
I miei occhi cercarono involontariamente James. Lasciai spaziare il mio sguardo per tutta la mensa ma non trovai traccia di lui.
Pazienza.
Sarebbe stato meglio se io mi fossi messa in fila. È quello che feci di lì a qualche istante.
Mentre ero in fila ascoltavo distrattamente il chiacchiericcio intorno. Sembrava che tutti stessero parlando di biologia. Un paio di volti curiosi si girarono a guardarmi. Mi tinsi di rosso per l’imbarazzo. Fortuna che dopo una decina di minuti – che mi parvero anni – la scolaresca mise di parlare del mio incidente e si dedicò ad altri discorsi sicuramente più piacevoli.
Dopo circa un quarto d’ora arrivò il mio turno. Presi dell’insalata e una limonata.
Non avevo molta fame.
Mi sedetti in un tavolo libero. Finii in fretta di mangiare e mi avviai alla penultima lezione della giornata. Avevo inglese con la professoressa Llyod. La materia di per sé non era brutta, ma era resa tale dalle pessime spiegazioni della professoressa. Per fortuna all’inizio dell’anno ero riuscita ad accaparrarmi un posto in ultima fila, più precisamente all’angolo. Entrai in classe e mi accomodai al mio banco. Tirai fuori il quaderno degli appunti e una matita – non che avessi intenzione di usarli – in modo che tutta la mia scenografia fosse perfetta. Prima che la lezione iniziasse, tirai fuori dalla tasca dei miei jeans scuri l’IPod e mi infilai le cuffiette.
Okay, lo so che non si fa, ma in quel momento proprio non c’ero con la testa quindi che senso aveva ascoltare la lezione? Nessuno.
Mi affidai al caso e scelsi la voce Riproduzione Casuale.
Neanche a farlo apposta mi uscì Bella’s Lullaby. Mi riportò con la mente fino a poco fa, nella biblioteca. Di nuovo, quella strana sensazione mi aggredì e cambiai subito canzone, decisa che il caso aveva già fatto abbastanza.
Ascoltai Crazy degli Aerosmith ma a metà cambiai perché mi sembrava troppo allegra e spensierata. Misi Faded di Alan Walker. Questa sì che andava bene. Un po’ triste lo so, ma la mia mente si sintonizzò velocemente sullo stesso canale e spensi il cervello. La mia mano afferrò la matita e presi a scarabocchiare a caso tutti gli impulsi che arrivavano al mio cervello. Era una delle cose che facevo più spesso quando non sapevo cosa fare. Era liberatorio.
Quando suonò la campanella mi accorsi di avere gli occhi un po’ lucidi.
Perché volevo essere triste? Perché avevo messo quella canzone? Cosa mi era successo nella biblioteca? Perché avvertivo quella strana sensazione allo stomaco?
Decisi di non pensarci, non volevo avere problemi per il momento.
Se non altro, avrei avuto qualcosa da fare a casa.
In silenzio, camminai fino all’aula di storia, dove avrei incontrato Irene e Letizia.
Di una cosa ero certa: non gli avrei parlato di quello che mi era successo.
Mi sedetti al solito banco, tra Irene e Letizia.
“Ciao, com’è andata la giornata?” mi chiesero in coro.
“Bene” risposi, ma nemmeno a me risultò convincente.
Dai loro volti capii che non le avevo ingannate ma non dissero nulla.
“Abbiamo sentito della tua… ehm, caduta” aggiunse Letizia in tono incerto.
Grandioso! La notizia era arrivata fino alle loro orecchie.
“Anche voi? Comunque è tutto a posto grazie”. Non volevo essere scortese con loro.
“D’accordo”
E lì finì la questione. Avevano capito che non mi andava di parlarne.
“Stasera venite da me?”.
Cercai di riprendere in mano la situazione. Esitavano, ma sapevo che era solo per non essere scortesi.
“Eh dai ragazze! Siete le benvenute!”
“In questo caso…” cominciò Irene.
“… veniamo di certo!” terminò la frase Letizia.
A loro due piaceva un sacco venire a casa mia perché potevamo fare tutto quello che ci andava senza limiti. Cioè, senza distruggere la casa.
E io le capivo, neanch’io amavo stare con i miei per troppo tempo.
In realtà fino a due anni fa facevo avanti e indietro tra casa mia e il liceo (che si trova in un’altra città).
Ero felice perché in questo modo mi sarei divertita un po’ e mi sarei dimenticata quella strana storia di oggi.
“Venite per le sei, d’accordo? Prima vado a trovare mio fratello che non lo vedo da un po’” dissi.
“Va bene” concordarono loro.
“Cosa facciamo stasera?” domandò Irene.
“Ordiniamo una pizza?” proposi.
“Una pizza ci sta sempre!”
Mentre aspettavo la fine della noiosissima lezione di storia, mi stavo preparando mentalmente un planner del pomeriggio. Certamente sarei dovuta prima passare dal negozio di giocattoli per comprare una macchinina a mio fratello. Sarebbe stato moto felice, e mi sarei fatta perdonare il fatto di non essere andata a trovarlo la settimana scorsa. Finalmente la campanella suonò.
“Ci vediamo dopo” le salutai.
“A dopo”. Mi salutarono di rimando.
Raccolsi in fretta le mie cose e lasciai il cortile della scuola.
 
 
Di nuovo sulla pista. Respiravo l’aria pura della sera, più precisamente delle cinque e mezza. Guardavo le mie scarpe da ginnastica verde acqua che toccavano leggermente la pista mentre essa correva via sotto di loro. Correvo. Correvo veloce per distrarmi da tutto quello che era avvenuto oggi. Correvo perché mi dava una sensazione di libertà, di soddisfazione e di appagamento. Irene era qualche metro avanti a me e faceva riscaldamento. Quel giorno era giornata libera perciò l’avrei dedicata tutta alla corsa. Una bella sfida ci sarebbe stata bene.
Accelerai la mia corsa e le mie gambe si mossero freneticamente e la pista scorreva via ancor più veloce. Raggiunsi Irene e la guardai sorridendo. Lei ricambiò e capì all’istante. La vidi accelerare mentre la superavo, ma sapevo che per me non ci sarebbero state speranze. La sentii sempre più vicina. Ingranai la marcia e riuscii a recuperare un po’ di vantaggio. Mi sfrecciò accanto.
“Un giro da adesso”, mi disse in un respiro affannoso.
Mi superò, ma restava sempre a qualche metro di distanza. Regolai la mia corsa per mantenere un ritmo costante e veloce. Sfrecciavamo nel buio della pista fiocamente illuminato dai lampioni tutt’intorno. Correndo la mia mente si stava liberando da tutti i pensieri tristi del giorno.
Cento metri.
Era arrivato il momento.
Accelerai facendomi quasi scoppiare i polmoni, ma ormai avevo allenato abbastanza il respiro per resistere a quella corsa. Il mio cuore batté all’impazzata. Ero a un centimetro da lei.
Tagliammo il traguardo praticamente insieme ma, a voler essere precisi, un millesimo di secondo prima lei. Ci buttammo a terra stremate. Non so neanche perché mi era venuta in mente quella gara, dopo sette giri di riscaldamento. Ci scambiammo un sorriso mentre respiravamo affannosamente per riprendere fiato. Cercai di rendere il mio respiro più controllato, ma i miei muscoli e il mio cervello richiamavano ancora la loro parte di ossigeno per riposarsi.
“Grande”, mi disse non appena fu in grado di parlare.
“Sei arrivata un nanosecondo prima di me”, precisai.
“Precisina”, mi rimbeccò.
Sorrisi.
Era bello correre insieme a lei.
Mi alzai barcollando fino a raggiungere il mio zainetto. Ne trassi fuori la bottiglietta dell’acqua ghiacciata. In realtà non l’avevo messa in frigo, ma il freddo – che io non sentivo più a causa della corsa – l’aveva raffreddata. Indossai la felpa e lanciai quella di Irene a lei. Presi un gran sorso. Ogni singola cellula del mio corpo esultò.
Tornammo a casa in macchina e dopo averla accompagnata mi diressi verso la mia.
 
 
Quella notte fu la prima volta in cui sognai James Griffen. Sognai dell’esperimento di oggi e sognai fantasticando nel sonno del campus.
La mattina mi svegliai con un sorriso stampato in faccia pronta ad iniziare la giornata, ma soprattutto, a rivedere James.

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Capitolo 4
*** Riflessioni ***


Capitolo 3
Riflessioni
 
 
 
 
 
 
La vita è questa:
niente è facile e nulla è impossibile – Giuseppe Donadei
 
 
 
Il giorno seguente la scuola proseguì normalmente, e non rividi James perché il professor Russel era malato e l’ora di biologia era diventata ora libera.
Il pomeriggio andai a trovare i miei fratelli e la mia famiglia.
 
 
Parcheggiai la mia Panda rossa davanti a casa mia intorno alle cinque e mezzo. Avevo ancora mezz’ora prima che Irene e Letizia arrivassero.
A casa avevo trovato un’atmosfera tranquilla. Il mio fratellino dormiva placidamente sul divano con in mano una macchinina rossa, mia mamma cucinava, mio papà guardava la partita in tv e mia sorella faceva i compiti sulla scrivania.
Erano stati tutti contenti del mio arrivo. Mi beccai un bel po’ di coccole e baci da parte di mamma e qualche abbraccio da parte di papà. Svegliai delicatamente mio fratello, destandolo dal suo sonno tranquillo.
“Emiiiii!”. Era stato quello il suo saluto festante.
I suoi occhi si riempirono di gioia e trepidazione quando vide che nascondevo qualcosa dietro alla schiena.
“Regalo?” mi chiese.
Io gli sorrisi e glielo porsi. Lo scartò in un batter d’occhio e, in un primo momento non disse nulla: stava studiando il suo nuovo gioco.
Poco dopo se ne uscì con un: “Wow! Come funziona?”
Io gli spiegai che era una macchinina che cambiava colore con l’acqua e con il calore. Con l’acqua da rossa diventava verde, mentre col calore diventava gialla.
Lui era estasiato e mi chiese di provarla insieme. Acconsentii e la provammo. La apprezzò tantissimo e ne fu molto contento.
Entrai in casa ancora avvolta in questi pensieri tranquilli. Posai la borsa all’ingresso e appesi il mio cappotto all’appendiabiti. Tolsi gli stivaletti e mi diressi in camera mia. Senza neanche pensarci indossai il mio morbido e caldo pigiama. Non appena lo feci, entrai in modalità casa. Per me la modalità casa, è quando mi rilasso completamente.
Sciolsi i capelli dalla coda e li pettinai accuratamente. Misi anche il burro cacao perché le mie labbra erano decisamente rovinate dal vento e dal freddo. Lo mettevo solo in casa perché era bianco e sembravo un fantasma.
Mi diressi in cucina per bere un bicchiere del mio succo preferito: l’ACE. Aprii il frigorifero e mi versai un bicchiere generoso. Stavo per portarlo alla bocca quando il campanello squillò. Guardai l’orologio: erano le sei meno dieci. Pensai che Irene e Letizia fossero arrivate in anticipo. Quindi non mi preoccupai e andai ad aprire la porta.
Ma, non appena lo feci, rimasi impietrita. Era James!
Merda! Non dovevo avere per niente un bell’aspetto.
“Che ci fai qui?” chiesi subito.
“Ehm, volevo parlarti del campus” rispose tranquillamente.
“Ah, beh entra pure allora” dissi.
Lui entrò e restò in piedi, come a disagio.
“Ti va un bicchiere di ACE?” chiesi.
Lui mi guardò in un modo tra il divertito e il finto disgustato.
“Se proprio non hai altro…”
“Un po’ di succo di frutta non ti va bene?”
“Di solito sono abituato a cose un po’ più forti…”
Cose più forti? Cosa intendeva? Se si voleva ubriacare che andasse con i suoi amichetti al bar.
“Non ci provare!”
“A fare cosa?” disse in tono innocente.
“A ubriacarti o a farmi ubriacare”
“Non erano queste le mie intenzioni, signorina”.
Lo disse in tono scherzoso, ma dai suoi occhi capii che c’era dell’altro. Sofferenza? Non l’avrei saputo dire con certezza. Comunque la rabbia mi passò istantaneamente quando vidi il suo viso.
“Allora, che mi volevi dire?”
Ci pensò su per qualche secondo, come se cercasse di ricordare qualcosa che aveva dimenticato.
“Non so se potrò venire al campus”
Di nuovo, quella strana sensazione di vuoto e tristezza mi assalì. Non mi ero accorta che era sparita. Doveva essere qualcosa che andava e veniva, proprio come un mal di pancia.
“Cos…? Perché?” chiesi, incapace di trovare la domanda giusta.
“Beh, potrei avere una partita e poi non so se mia mamma acconsentirebbe”
Ero incredula.
Però non capivo il perché del mio interessamento. Così decisi di lasciar perder anche se il mio istinto mi suggerì di controbattere per farlo venire con me.
“Mi dispiace”
“Non è ancora detto che io non venga”
Di colpo mi accorsi di aver fatto la melodrammatica.
“Hai ragione. Comunque mi sa che devi andartene: serata tra ragazze”
“Capisco”. Rise, ma c’era qualcosa di malinconico in quella risata.
Lo accompagnai alla porta.
Con mio grande disappunto in quel momento arrivarono Irene e Letizia.
Scesero dalla macchina e per un attimo restarono interdette. Si ripresero cercando di trattenere un sorriso.
Misero su una maschera di noncuranza ma sapevo che non era così.
James sembrava a disagio, proprio come lo ero io.
“Ciao” dissi.
“A domani” specificò. Non saprei dire perché, ma quella specificazione mi piacque molto più del lecito.
“A domani” ripetei come per ribadire il concetto.
Lui entrò dentro alla sua Alfa Romeo Giulietta blu sfavillante. Lasciò il parcheggio sgommando. Sospirai e mi preparai ad accogliere i commenti – che sicuramente avrebbero fatto – le mie migliori amiche.
Irene cominciò con calma per non essere invadente. Letizia invece era eccitata e dai suoi occhi capii che mi stava per bombardare di domande.
Ma in fondo non c’era niente, giusto? Tutto portava nella direzione opposta ma non c’era niente di fondato. O almeno credevo.
“Allora?” mi chiesero in coro.
“Allora niente”
“Ma come??”. Letizia mi guardò come se la mia risposta non l’avesse soddisfatta.
“Leti davvero non c’è niente”
“Io non ti credo ma se vuoi continua pure a mentire a te stessa”
Quelle parole risuonarono nella mia testa come un tormentone dell’estate. E se avesse ragione? Adesso non era il momento di pensarci.
“Abbiamo saputo di biologia, complimenti”.
Irene riportò la conservazione su qualcosa di soft, che mi mise a mio agio. Anche se sapevo che i due argomenti erano comunque collegati. E presto sarebbe ritornato a galla.
“Già”. Non riuscii a esprimere tutta la mia felicità a causa della notizia sconvolgente che James mi aveva dato poco fa.
“E non sei felice? Insomma, il campus dei biologi. È una conquista, ti è sempre piaciuto andarci, no?” obiettò.
“Sì… è che…”. Non riuscivo a confessare ciò che provavo.
“Che?” mi esortò Letizia.
Io restai in silenzio per un lungo istante.
“Che James mi ha detto che non verrà al campus” confessai.
Sul volto di Letizia si dipinse un sorriso. Aveva avuto ragione. Ancora. Sul volto di Irene si dipinse una smorfia comprensiva e di indignazione. Fu la prima a parlare.
“Ma come? Non è giusto!” disse.
“Lo so, ma non ha detto proprio così. Ha detto che non sa se verrà”
“Lo sapevo di avere ragione” esultò Letizia.
“In verità non so nemmeno io perché mi stia intestardendo con lui”
Letizia non rispose, ma un altro, più ampio sorriso si dipinse sul suo volto.
“Entriamo o vogliamo restare qui a gelare?” disse Irene per toglierci da quella situazione.
Solo in quel momento mi resi conto che avevo freddo. Indossavo solo il mio pigiama e fuori minacciava di nevicare. Starnutii.
“Sì certo, scusate”
Le feci entrare e si accomodarono posando tutte le loro cose sul pavimento accanto al divano.
“Ordiniamo?” propose Letizia. “Comincio ad avere fame”
Io e Irene ridemmo.
“Che c’è?” chiese Letizia.
“Strano che hai fame”
“AHAHA! Davvero divertente”
“Non prendertela tanto anch’io ho una certa fame”
“Siete sempre le solite” ci rimproverò scherzosamente Irene.
Presi il telefono e digitai il numero della pizzeria.
“Offro io, e non provate a dirmi di no” Provarono lo stesso a ribattere ma non permisi loro di pagare.
“Pronto? Sì salve, vorrei una margherita, un’Italia, una wurstel e patatine e una porzione di patatine fritte. … Per le otto, sì grazie… A domicilio, sì. Arrivederci e grazie”
“Fatto!” annunciai.
Non avevo bisogno di chiedere quali pizze volessero, lo sapevo a memoria.
“Bene, che facciamo?” domandò Letizia.
“Taboo?” proposi. Era il nostro gioco preferito. Loro acconsentirono e la serata proseguì in tranquillità senza che l’argomento James tornasse fuori. E io ne fui lieta. Ci addormentammo sul divano, l’una sull’altra con cento coperte addosso e i cartoni della pizza pieni di croste ancora per terra.
*****
Sistemai la mia bici nell’apposito spazio e la legai con il legaccio. Mi infilai la chiave nella tasca dei jeans.
Alzai lo sguardo.
Sussultai.
Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata per lo spavento.
James si era praticamente materializzato davanti a me.
“Ciao” esordì.
“C-ciao” riuscii a dire.
“Ti ho spaventata?” chiese, dopo essersi accorto che ansimavo.
“Un… pochino”
Passò qualche secondo prima che mi riprendessi del tutto.
“Scusa”
Scusa? Non l’avevo mai sentito chiedere scusa a nessuno prima di allora. Non che gli avessi mai prestato tutta questa attenzione.
“Niente, tranquillo”
“Buone notizie” annunciò mentre un sorriso gli prese forma sulle labbra.
“Quali?” domandai curiosa.
“Posso venire al campus!”
Il mio cuore riprese a battere forsennatamente e in modo irregolare, stavolta non per lo spavento.
“Davvero?” esclamai.
Il mio animo si risollevò.
“Si” disse incerto mentre il suo sorriso si attenuava.
Si aspettava una reazione migliore, forse?
“Sono contentissima, davvero. Come hai fatto con la partita?”
“Ho chiamato il coach e gli ho detto che avevo un impegno scolastico”
Non era da lui. Il basket per lui è importantissimo. Lo sapevano anche i muri ormai.
“L’hai fatto per” me? Avrei voluto chiedere, ma riuscii a fermarmi in tempo.
“…la scuola? Non ci credo” scherzai.
Lui si morse il labbro inferiore come se volesse dirmi una cosa che però non aveva il coraggio di dirmi.
“Che c’è?” chiesi, cercando di essere premurosa.
“Niente”. Cercava di nascondere le sue emozioni, ma con me non sarebbe durato tanto quell’atteggiamento.
Comunque per il momento non dissi nulla.
“Andiamo in classe?”
“Certo” acconsentii.
Per tutta l’ora di biologia non parlammo. L’unica cosa che mi disse fu che ci saremmo rivisti a pranzo. Un’altra promessa. Un’altra promessa che ci saremmo rivisti. Allora teneva a me? Difficile dirlo, soprattutto quando il soggetto era uno come lui.
Aveva vinto il premio Nobel per il ragazzo che era uscito con più ragazze al mondo oserei dire. Peccato che dopo qualche mese le aveva lasciate tutte. Forse era per questo che non l’avevo ami degnato di tanta attenzione prima di adesso.
Già, prima di adesso.
Eppure, sentivo che gli dovevo dare un’altra possibilità perché in qualche modo sentivo che con me era diverso. Lo so che si dice che il lupo perde il pelo ma non il vizio, ma si dice anche che ognuno merita una seconda occasione. E io sono più per la seconda. Semplicemente perché vorrei che anche gli altri mi trattassero allo stesso modo.
Attesi trepidante l’ora di pranzo, ma quando arrivò mi sentii impreparata. Cercai di aiutarmi convincendomi che non era mica un appuntamento, ma niente servì contro la mia ansia.
E in effetti non era un appuntamento, ma più cercavo di convincermene più continuavo a credere il contrario.
Sciocca, continuavo a ripetermi.
Entrai in mensa e lo trovai lì, seduto ad un tavolo da solo ad aspettarmi. Lo raggiunsi in fretta.
“Ci mettiamo in fila?” domandai.
“Non serve” mi rispose indicandomi i due vassoi pieni di cibo posati sul tavolo.
“Ah, beh grazie”
Sentivo molti sguardi su di noi ma non ci badai.
“Allora?”
“Niente” Rimasi molto delusa. Ma d’altronde cosa mi aspettavo? I miei soliti film….
“Direi che siamo amici adesso, no?” disse ad un tratto.
All’improvviso amici mi parve una brutta parola. Il suo largo sorriso un po’ malinconico mi fece capire che dopotutto era un primo passo e che comunque significava qualcosa. Mi aprii in un ampio sorriso e il sole mi inondò la faccia.
In quel momento lo apprezzai molto.
Il fascio di luce si ampliò fino ad illuminare anche il suo viso. I suoi occhi scuri e profondi riflessero la luce del sole e brillarono di luce propria. Quelle due gemme preziose si fissarono sui miei occhi. Restammo a fissarci per un minuto che mi parve un’eternità. Nessuno dei due aveva il coraggio di distogliere lo sguardo.
In quel momento mi parve come se qualcuno mi avesse dato la chiave per la stanza segreta del mio cuore, quella dove si nascondevano i miei sentimenti più profondi. Credo che fu proprio in quel momento che mi innamorai inconsciamente di lui per la prima volta.  In quell’istante il mio cuore cominciò a battere ad un ritmo irregolare e non capii più niente. Avrei tanto voluto che quel momento durasse per sempre. E avrei maledetto per sempre la persona che lo avrebbe interrotto.
“Ehm… la mensa sta chiudendo, dovete tornare a lezione”.
La cuoca della mensa era davanti a noi, sul suo volto un’espressione dispiaciuta. Forse anche lei aveva capito che quello era un momento speciale. Un momento speciale che lei aveva interrotto. Già.
A fatica distolsi lo sguardo per fissarlo sulla cuoca. La guardai con l’espressione più cattiva che riuscii a fare. Subito dopo mi pentii. In fondo lei aveva fatto solo il suo lavoro. Però avrebbe potuto lasciarci stare…
Mi accorsi che aspettava che noi ce ne andassimo.
“Ehm sì ci scusi” dissi frettolosamente.
Lui si alzò lentamente sempre guardandomi. Avvampai ma non di vergogna, credo più per gioia.
Mi prese la mano e una scossa elettrica mi pervase. Quel semplice tocco, quel semplice gesto mi piacque molto più del lecito.
Anche sul suo volto tornò il sorriso. Il silenzio tra noi non era un problema in quel momento, eravamo tutti persi nella potenza del nostro sguardo.
Non appena mi lasciò la mano per dirigersi nella sua classe mille domande e cento dubbi mi assalirono. E se lui non avesse sentito quello che avevo provato io? Ma sì, altrimenti non mi avrebbe guardato in quel modo… E se il gesto della mano non significasse nulla? Forse sono solo io che l’ho preso come un gesto d’affetto ma in realtà non era niente… E se mi stesse prendendo in giro? Il mio istinto mi diceva che non era così ma… Perché era venuto a casa mia ieri? Per vedermi, volevo credere che fosse così…
“Com’è andata a mensa? Vi ho visti!” esordì Letizia.
Non mi ero accorta di essere arrivata in classe.
“Cosa?... Ne possiamo parlare dopo?” chiesi quasi implorante.
“A casa tua?”
“Sì”
“Ok”
Per il momento ero riuscita a scamparla, ma presto tardi avrei dovuto affrontare la raffica di domande che ieri non era riuscita a farmi. Inoltre adesso aveva raccolto altre prove.
Le domande e i dubbi continuavano ad assillarmi e probabilmente non avrei avuto pace fino a che non l’avrei rivisto. Dovevo rassegnarmi.
Mentre la mia mente vorticava tra questi pensieri la campanella squillò. Per la prima volta nella mia volta non ne fui contenta. Adesso mi spettava la parte più difficile.
Raccolsi le mie cose con lentezza, per ritardare ancor di più il momento x.
“Sbrigati!”. Impaziente come al solito.
Uscimmo insieme dall’aula e poi dalla scuola.
Respirai a fondo una boccata d’aria fresca e autunnale. Inspirai e espirai un paio di volte poi il mio respiro tornò sotto il controllo della parte incosciente di me.
Una foglia gialla aranciata si posò sui miei capelli. Adoravo l’autunno.
“Ciao”. Mi voltai di scatto. James era davanti a me. Quel ragazzo appariva sempre all’improvviso. Ma come faceva?
“Ciao”
“Sei troppo facile da prendere di sorpresa” rise.
Di nuovo mi fissò e io trattenni il respiro mentre allungava la mano per togliermi la foglia dai capelli. Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata.                                     “Tieni”. Anziché buttare via la foglia me la porse, come fosse un ricordo di quel giorno. Forse anche lui aveva sentito qualcosa a mensa? Chi poteva dirlo?
Afferrai delicatamente la foglia. In effetti, ora che la osservavo meglio, mi sembrava anche lei… speciale. Il suo colore era unico. Sicuramente l’avrei conservata anche se può sembrare stupido.
Mi prese entrambe le mani e mi disse con un tono di voce che mi mandò in iperventilazione: “A domani”.
Tutti dicevano che la nuova voce di James era brutta ma per me era la più melodiosa e la più bella, quella che avrei riconosciuto tra mille.
Non riuscii a replicare che se andò. Rimasi pietrificata nella posizione in cui mi aveva lasciato. Solo quando mi voltai mi accorsi che Irene e Letizia avevano assistito a tutta la scena. Però, per la prima volta, non me ne preoccupai. Ero ancora con la testa a pochi secondi fa, a quel tocco, alla sua voce…
“Emily?”. La voce di Irene mi riportò alla realtà.
“Sì, ci sono!” mi affrettai a dire.
“Andiamo al parco? Mi devi ancora mooolte risposte” dichiarò Letizia.
“D’accordo” sospirai.
 
 
 
*****
 
Ci sedemmo sulla panchina di legno del parco. Gli alberi erano tutti rossi e gialli e le loro foglie avevano creato un tappeto scricchiolante sotto i nostri piedi. Ricordai di quando da piccola andavo lì con il nonno – da quanto tempo che non lo vedevo – e mi divertivo a correre per tutto il parco ascoltando il rumore delle foglie che scricchiolavano sotto i miei stivaletti rosa. Fin da bambina adoravo l’autunno, per i suoi colori, per la sua atmosfera, per il suo clima, per tutto. Le mie stagioni preferite, a differenza di molte persone, sono l’autunno e l’inverno.
“Allora, cos’è successo oggi a mensa?” esordì Letizia.
“Niente di importante davvero”
“Non me la racconti giusta”
“Sono seria”
“Allora perché James è venuto a salutarti finita la scuola?”
“Non lo so nemmeno io”
“Eh dai, allora come lo spieghi che ieri sera è venuto a casa tua? E non mi dire che era per la cosa del campus perché non ci credo. Se era così poteva anche chiamarti o mandarti un messaggio. Andiamo, è ovvio che muore dalla voglia di vederti”
È ovvio che muore dalla voglia di vederti. Quella frase abbatté tutto il muro che mi ero creato per dirmi che lui non mi amava e che io non lo amavo. Distrusse tutto fino all’ultimo mattone e si fece strada nel mio cuore.
È ovvio che muore dalla voglia di vederti. Penetrò con violenza dentro di me, costringendomi a prenderla in considerazione.
“Ma se vuoi continua pure a mentire a te stessa” aggiunse Irene. Era la prima volta che s’intrometteva nella questione James. Eppure sentivo che aveva ragione, che avevano ragione. Era inutile fingere. Tuttavia non potevo ancora rendermene conto perché non lo avevo davanti.
“Comunque adesso noi dobbiamo andare” m’informò Letizia facendo un cenno a Irene.
“Già, dobbiamo assolutamente andare a comprare quelle calze prima che finiscano”
Calze? Da quando in qua s’interessavano così tanto alle calze? Boh, sarà un paio proprio bello.
“D’accordo, tanto io devo andare a casa”
“A domani allora”
“Ciao”
“Ciao”
Le guardai lasciare il parco con un sorriso complice sul viso.
Io restai seduta sulla panchina ancora per qualche minuto. Il vento si alzò e raccolse le foglie da terra facendole volteggiare in una danza che si svolgeva nell’aria. Chiusi gli occhi. Nella mente emerse un ricordo alquanto strano. Vidi me alle elementari. Ero in classe ed ero con il maestro che odiavo più di tutti. Il maestro Simone ci stava facendo ascoltare la solita canzone dell’autunno da bambini di due anni. Io ero molto annoiata ed ero impegnata a registrare le parole per poi poterci fare il verso quando io e i miei compagni avremmo scherzato su questa canzone.
 
Il vento tutto spoglia
E stacca ogni foglia
S’intrufola pian piano
Frusciando tra ogni ramo
Tra ogni ramo…
E le foglie rosse unite in un concerto
Seppure il tempo è incerto
Cantano così
Trallalà, trallalà è l’autunno questo qua
Con la pioggia arriverà
Trallalà, Trallalà….
 
Ricordavo ancora perfettamente le parole della canzone: guai a chi dice che non ho memoria!
Una foglia batté delicatamente sul mio naso facendomi riaprire gli occhi di scatto.
Era ora di tornare a casa.
Mi alzai dalla panchina e infilai le cuffie mentre le note di Wind of Change entravano nelle mie orecchie. Passeggiai a passo lento per le strade restando però indifferente a quello che accadeva intorno.
 
 
*****
Arrivai a casa dopo mezz’ora di camminata. Avevo le gambe distrutte. Ma mi aspettava ancora il supermercato. Così entrai in casa e posai lo zaino per terra come al solito. Mi diressi stancamente in cucina. Mi alzai sulla punta dei piedi per prendere il barattolo con la scritta Per la spesa. Avevo deciso di fare così prendendo ispirazione da molti film, e poi pensavo che aiutasse a far funzionare la mia autogestione. Presi quindici euro sperando che mi sarebbero bastati. Afferrai le chiavi del garage e scesi. Aprii la porta ma non appena lo feci una folata di vento gelido e pungente soffiò sul mio viso. Rabbrividii e la voglia di uscire andò a posarsi istantaneamente sotto lo zero.
In realtà di solito fare la spesa mi piaceva, soprattutto mi piaceva l’idea di uscire col freddo per poi poter tornare a casa e coccolarmi con una cioccolata calda davanti al camino.
Con quel pensiero in testa la mia voglia di uscire si risollevò un pochino e uscii affrontando il vento crudele.
Avevo in mente di andare in bici come avevo sempre fatto ma le mie gambe e il mio sistema respiratorio me lo impedirono.
Presi la macchina e accesi il riscaldamento. L’abitacolo cominciò a riscaldarsi con molta lentezza.
Andai in retromarcia per uscire dal parcheggio e mi infilai in strada sgommando appena sotto al limite di velocità.
Mi sentivo un po’ sola.
A dire il vero quella sensazione non era nuova da quando ero andata ad abitare da sola, ma praticamente tutte le sere invitavo Irene e Letizia.
Mi venne in mente di chiamarle, anche se le avevo lasciate solo meno di un’ora fa.
Infilai gli auricolari e le chiamai sul gruppo che avevamo in comune.
“Ciao, che c’è?”, la voce di Letizia mi rispose all’altro capo del telefono.
“Stasera vi va di venire a casa mia?”, proposi.
“Ehm… io… non posso… cena di famiglia”
Cena di famiglia? Seria?
“Ah, d’accordo. Ciao”
“Ciao”. Chiuse la comunicazione.
Avevo fatto finta di bermi la sua bugia. Beh, poteva anche essere la verità….
Arrivai davanti al supermercato. Parcheggiai di fronte ringraziando che ci fosse un posto così comodo e che non avrei dovuto girare come una trottola in cerca di un posto libero. Scesi controllando nella tasca dei jeans che ci fossero ancora i soldi.
Entrai al Sigma e lasciai che l’atmosfera tiepida scaldasse il mio povero naso rosso.
Andai dritta al reparto frutta per acquistare le mele Granny Smith, ossia le mele verdi, le mie preferite.
Oltrepassai di corsa la zona frigo e raggiunsi la salumeria. I miei occhi si sbarrarono e rimpiansi di non essermi pettinata prima di uscire. Dopo essere stata al parco avevo i capelli molto simili a una balla di fieno.
Davanti a me c’era James che stava ordinando del salame. Mi feci avanti.
Lui si voltò e mi vide. Un’ espressione mista di sorpresa e gioia si colorò sul suo viso, seguita subito dopo da un improvviso arrossamento delle guance. Credo che anche sul mio ci fosse la stessa identica espressione.
“Ciao”, mi salutò.
“Ciao”, ricambiai il suo saluto.
“Anche tu qui?”. Era chiaro che non sapeva cosa dire. Decisi di agevolarlo.
“A quanto pare… Sai per caso dov’è l’insalata?”, domandai. Usai questo escamotage per toglierci dalla portata d’udito della commessa.
“Ehm… sì certo vieni”, mi disse, capendo al volo il mio gioco.
Non appena ci fummo allontanati dalla povera commessa io gli posi una domanda.
“Perché sei arrossito?”, le parole mi uscirono di bocca prima che le potessi fermare.
Lui sembrò un po’ sorpreso dalla domanda.
“Beh… ecco, credevo che nessun altro mio coetaneo venisse a fare la spesa”
Che preoccupazione assurda. Dopotutto a me piaceva fare la spesa.
“Non sei mica obbligato a dirlo ai quattro venti, e poi a me piace fare la spesa, perciò non ti preoccupare”
Sembrò che le mie parole avessero sortito il loro effetto perché si tranquillizzò e ritornò lo stesso di sempre.
“Allora una cosa in comune l’abbiamo”, lo disse scherzando ma dietro quella frase c’era uno strano sollievo.
Anche a me fece piacere quella cosa. Di nuovo, molto più del lecito.
Il silenzio calò tra noi.
Entrambi volevamo conoscerci, ma nessuno osava fare il primo passo.
Ci avviammo insieme alla cassa.
Pagai e uscii in trepidante attesa di ciò che sarebbe venuto dopo.
In quel momento capii che, seppur sempre ironico, scherzoso e sicuro di sé, James non avrebbe mai avuto il coraggio di dirmi niente.
L’aria frizzante della sera mi sferzava il viso: ero sicura di essere rossissima, soprattutto sul naso.
Feci per avviarmi alla mia macchina, quando una mano mi afferrò per la giacca.
«Aspetta!», disse James, quasi urlando. Io mi girai sorpresa.
«Non ti va di venire a cena?», chiese in un sussurro.

 

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Capitolo 5
*** Cena ***


Capitolo 4
Cena
 
 
 
 
 
 
 
Ti amo non per chi sei,
ma per chi sono io quando sono
con te – Gabriel Garcia Marquez
 
 
Sorrisi incredula.
Un largo sorriso di soddisfazione si dipinse sul volto di James.
“Ma certo signorina” confermò compiaciuto.
Il mio cuore accelerò notevolmente i battiti e un fuoco di pura gioia esplose dentro di me.
Mi aprì la portiera del passeggero e mi fece entrare. Che soddisfazione essere finalmente dentro alla sua Alfa Romeo Giulietta. Adoro le macchine. Mi sarebbe tanto piaciuto avere una bella BMW. Purtroppo quelle macchine partono dai cinquantamila euro.
James entrò dalla porta del guidatore col sorriso ancora stampato in faccia.
“Bella. La macchina intendo” dissi.
“Ti piace?”
“Molto”, annuii.
“Di solito le ragazze non fanno molto caso alle macchine”
“Beh, a me piacciono eccome”
Il suo sorriso divenne ancor più compiaciuto.
“Sento che potremmo andare d’accordo”
Il mio respiro si fece di colpo irregolare e la mia mano cercò quasi involontariamente la sua.
Quando finalmente le nostre mani s’incontrarono sentii una scarica di adrenalina mista a piacere che mi pervase tutto il corpo. Ci guardammo negli occhi, di nuovo senza parlare. Poi accese il motore e il momento svanì come comandato da una bacchetta magica.
“Qual è la tua preferita?”
Io ero un po’ confusa dalla domanda, ma poi realizzai che stava riprendendo l’argomento di poco fa.
“BMW”, risposi senza alcuna esitazione.
Lui scoppiò in una risata fragorosa.
“Puntiamo proprio in basso, eh?”, mi prese in giro.
“Non ho detto che io me la possa permettere, ho detto solo che è la mia preferita” specificai.
“Hai ragione”
“E tu quale preferisci?”, domandai.
“Audi”, anche lui rispose senza ombra di incertezza.
“Mhmm… non male, però preferisco lo stile della BMW”
“Difendi la tua macchina come se fossi un avvocato”, di nuovo mi prese in giro.
“Beh, dico solo che è la più veloce”.
Stavolta l’avevo fregato io.
Capì e rise.
Parcheggiò ed io mi resi conto di non sapere dove mi avesse portata.
“Dove siamo?”, domandai curiosa.
“Sorpresa”, annunciò tutto fiero.
Si fece più serio e con lentezza avvicinò le sue mani al mio collo. Mi sfilò lo scialle rosso facendo scorrere i polpastrelli sulla cavità della mia clavicola destra.
Un brivido mi percorse e potei sentire e vedere che anche per lui era lo stesso. Chiusi gli occhi per metterlo a suo agio e per assaporare meglio quel momento per me molto speciale. D’altronde tutti i momenti che passavo con lui erano speciali.
Si staccò un attimo da me per avvolgermi gli occhi con lo scialle e quand’ebbe finito mi diede un buffetto affettuoso sui capelli.
“Possiamo andare. Aspetta che ti vengo a prendere”
Di solito essere cieca mi dava molto fastidio perché non potevo vedere niente e quindi non potevo regolare i miei movimenti.
Però, in quel momento, non mi preoccupai di nulla, anzi, desideravo che quel momento si prolungasse il più possibile. Desideravo affidarmi completamente a lui perché mi fidavo ciecamente.
Aprii la mia portiera e mi trasse fuori dalla macchina con dolcezza afferrandomi le mani.
Mi ritrovai in piedi di fronte a lui.
Quel momento di complicità segreta fece volare il mio entusiasmo alle stelle.
Mi guidò avanti, ma naturalmente non vidi lo scalino e inciampai.
Chiusi gli occhi preparandomi all’impatto col suolo che però non avvenne.
James mi aveva afferrato al volo un attimo prima che toccassi terra. Si avvicinò al mio orecchio e mi sussurrò:
“Attenta”.
Me lo disse con una voce talmente seducente che non trovai la forza di ribattere, nella mia mente c’era solo spazio per l’entusiasmo, l’eccitazione e il piacere di quel momento.
Mi riportò in piedi ma questa volta potei sentire il suo corpo contro il mio.
“Sei bellissima”, mi disse con voce suadente.
Anche se dubitavo di quelle parole mi fece molto piacere sentirle dire.
Non mi sarei mai aspettata niente di tutto questo da lui. In effetti niente di tutto quello che aveva fatto fino a quel momento con me non me lo sarei aspettata.
Posò le labbra sulla mia guancia e si soffermò più del dovuto.
La cosa non mi fece dispiacere per niente.
Fu in quel preciso momento, nella più completa cecità, che seppi dare un nome ai miei sentimenti: amore.
Fu in quel preciso istante che capii di essermi innamorata di lui.
Cercai di ricambiare il bacio ma essendo cieca sbagliai il punto e lo baciai all’angolo della bocca anziché sulla guancia. Quell’errore mi elettrizzò e i nostri corpi vibrarono assieme.
Mi girò e continuammo il nostro viaggio.
Dopo un minuto circa riportò le mani sul mio collo facendole scorrere delicatamente per tutto il suo perimetro. Indugiò un’altra volta sulle clavicole e arrivò a toccare le labbra prima di raggiungere il mio naso. Lì però si bloccò di scatto non appena ne toccò la punta.
“Hai freddo?”
In quel momento potevo avere tutto tranne che freddo. Immaginai si riferisse al mio naso perennemente gelato.
“No, non farci caso”
Non mi ascoltò e mi mise sulle spalle la sua giacca di pelle. Il suo profumo fresco, dolce ma con un controbilancio di mare, mi fece impazzire.
“Improvvisamente ho deciso che ho freddo” dissi sorridendo.
Rise e proseguì con le mani. S’intrufolò sotto la benda accarezzandomi le palpebre. Un’altra scarica di eccitazione mi pervase.
Sciolse la benda, ma prima di lasciarla si portò davanti a me.
Potei ammirare il suo viso per la prima volta da quando mi ero effettivamente innamorata di lui. Mi accorsi che era di una bellezza per me sconvolgente. Non l’avevo mai notato prima. Fissò i miei occhi marroni con intensità per poi dirmi:
“Benvenuta”.
Si spostò per lasciarmi vedere il ristorante.
Ci trovavamo in un’enorme piazza. Non c’era nessuno. Non ero mai stata qui.
Tutto era fatto di pietra piuttosto antica e l’atmosfera insieme mi tolse completamente il fiato.
Dall’altra parte della piazza c’erano cinque tavolini di legno apparecchiati graziosamente. Mi condusse a quello più esterno, in modo che potessi ammirare l’ambiente circostante.
Mi sedetti affascinata.
“Ti piace?” mi chiese incerto. Di certo doveva essere stata una scelta difficile la scelta.
Mi affrettai a rassicurarlo.
“Se mi piace? È… perfetto”
Non trovavo parole per descrivere bene quel posto. La piazza, la pietra, i tavolini di legno…
Questi ultimi erano apparecchiati in modo eccezionale e si adattavano perfettamente all’atmosfera.
La tovaglia bianca con dei decori in pizzo copriva il tavolo lasciando però vedere alcuni sprazzi di legno. Molto bello. I bicchieri erano di vetro colorato e, neanche a farlo apposta, io lo avevo verde, il mio colore preferito.
Il tovagliolo era rosso e come centro tavola c’era una base di legno con adagiato sopra dell’agrifoglio con le bacche rosse.
Molto molto bello. Era bellissimo.
“Lo pensi davvero?”
“Pensi che sia capace di mentirti?”, dissi ostentando una voce indignata.
Sorrise.
“Certo che no”
“Scusami un attimo” aggiunse alzandosi.
Fu di ritorno pochi secondi dopo insieme ad un cameriere.
Si risedette di fronte a me.
Il cameriere posò sul tavolo due menù.
Feci per afferrarne uno quando lui mi bloccò la mano.
“Questo non serve grazie”, disse porgendolo al cameriere.
“Ordino io”, aggiunse poi, rivolgendosi a me.
“Cos’è? Una specie di sfida?”, domandai prendendolo in giro.
“Una sfida personale”, confermò con un sorriso stampato in faccia.
“Vedremo cosa mi ordinerai, sono proprio curiosa”, scherzai.
Osservò il menù per qualche minuto durante i quali io lo osservai attentamente.
Poi prese la matita che stava al centro del tavolo e sottolineò qualcosa sul menù.
Porse quest’ultimo al cameriere che se andò sorridendo.
“Incrociamo le dita”, mi disse mimando il gesto con la mano.
“Sono sicura che hai scelto bene”
“Cosa vorresti diventare da grande?”, mi chiese cambiando discorso.
Avvampai. Lui lo notò e fece una smorfia di disappunto.
Non volevo dirglielo perché temevo mi prendesse in giro un’altra volta.
“Sai che con me non ti devi vergognare”
Oh sì che mi vergogno, eccome.
Alla fine sospirai e decisi di dirgli la verità perché lo amavo troppo per nascondergli le cose. La domanda che mi ponevo è: lui mi ama come io amo lui?
Decisi che ci andava vicino ma che il mio amore per lui era ineguagliabile.
“L’attrice”, dissi abbassando gli occhi.
Lui si sporse versò di me. Con la mano mi risollevò il viso e mi disse:
“Non voglio che tra di noi ci vergogniamo. Di nulla.”
Annuii con un cenno del capo.
“L’attrice… mhmm… mi piace. Sono una vita che nella vita punta in alto perciò non ci vedo nulla di male”
Fui rasserenata dal suo giudizio e rilassai tutte le mie membra.
“Tu invece?” chiesi con pura curiosità.
Chiunque mi conosceva abbastanza bene sapeva che ero probabilmente la persona più curiosa al mondo.
“Non sono proprio sicuro ma credo l’impiegato nelle banche”
Spalancai gli occhi per l’incredulità e assunsi una smorfia di disgusto.
“Dici…. sul serio?” riuscii a dire.
Non ci trovavo niente di male ma… Insomma come si faceva a sognare un lavoro simile?
Sembrava che si stesse trattenendo dal fare qualcosa.
La mia ipotesi fu confermata quando scoppiò in una risata fragorosa.
“è così facile prenderti in giro! Ma ti pare? Ti ho appena detto che sono uno che nella vita punta in alto!”
Misi su il broncio.
“Guarda che scherzo…”
Non riuscii ad essere arrabbiata con lui per un secondo di più.
Sciolsi le braccia e sporgendomi involontariamente verso di lui chiesi:
“Allora cosa vorresti diventare?”
“Un’infermiere”
“Wow! Voglio dire bisogna studiare tanto ma… aiutare le persone è una cosa che ho sempre desiderato fare e tu hai il coraggio di fare quella scelta. Quel che voglio dire è che ti ammiro.”
Le parole mi uscirono come un fiume in piena e stentavo a credere che lui avesse capito tutto quello che avevo detto.
Per la prima volta da quando ci eravamo conosciuti lui arrossì.
“Beh, fino ad adesso lo studio è stato il mio principale ostacolo” ammise.
“No, non ti far bloccare dalla fatica di studiare, io… io ti darò una mano non appena me la chiederai”.
“Faresti questo per me?”, chiese incredulo.
“Sì certo”, dissi con naturalezza.
La sua espressione si fece ancora più incredula.
Arrivò il cameriere con i nostri piatti.
Li posò al centro della tavola e ci augurò una buona cena.
James si fece teso in volto.
“Tortelli di burrata e basilico” annunciò attendendo trepidante il mio giudizio.
Mi venne l’acquolina in bocca. Io adoravo i tortelli.
“Non so come tu abbia fatto ma hai fatto centro. Io adoro i tortelli” dissi con tono soddisfatto.
La ruga che si era formata sulla sua fronte si appianò e lui si rilassò. A dir la verità sembrava non credere che avesse azzeccato.
“Davvero ho indovinato?”, disse, dando voce alla mia ipotesi.
“Sì, davvero non potevi scegliere nulla che fosse meglio di così”
Dalla sua reazione capii di essere stata convincente. Misi in bocca il primo tortello e il gusto dolce della burrata mi invase. Assaporai il gusto dei tortelli lentamente. 
Una vampata del profumo di James proveniente dalla sua giacca che avevo ancora addosso mi fece improvvisamente cambiare idea.
Nulla valevano i tortelli contro quel profumo.
Alzai gli occhi e mi accorsi che James non aveva ancora addentato nessun tortello.
Era intento a guardarmi.
“Sono combattuto: non so se farti rimettere lo scialle – ti dona troppo – o tenermelo per avere un ricordo di questa incredibile serata”
Avvampai istantaneamente.
“Puoi tenerlo” dissi.
“Già, credo proprio che lo terrò”, disse affondando il viso nello scialle inspirando sonoramente.
“Il tuo profumo è buonissimo”, mi disse, di nuovo con quel tono di voce talmente seducente da farmi dimenticare tutto.
“Il tuo mi fa impazzire” ammisi.
Volevo rendere quel momento il più sincero e puro possibile.
Sorrise compiaciuto osservando che io indossavo ancora la sua giacca.
“Così ognuno si porterà a casa un ricordo dell’altro. Mi pare giusto”
“Anche a me”, dissi, stringendo forte a me la sua giacca di pelle.
Tornò il cameriere portandoci da bere e scusandosi per non essere arrivato prima ma non voleva disturbare la nostra conversazione.
Bene, anche lui si era accorto di come stavamo – per usare una parola esistente – flirtando.
Ma io non lo definirei un flirt, la chiamerei più una conoscenza.
Io lo amavo già ma non potevo essere sicura di quello che provava lui.
Il cameriere posò sul tavolo una coca e una limonata.
Ero sorpresa che non avesse preso del vino. Non era da lui, ne ero sicura.
Aveva fatto un sacrificio per me. Ci teneva a farmi una buona impressione. A me.
Ero quasi commossa da quel semplice gesto. Sapevo quasi per certo che quando usciva con gli amici non si comportava così.
“Grazie”, dissi, mostrandogli che avevo notato il suo gesto gentile.
Afferrai la soda ma non riuscii ad aprirla.
“Faccio io”, disse ridendo.
“Ehi!”, esclamai, mettendo di nuovo su il finto broncio.
“Non è colpa mia se non hai forza, è un dato di fatto”
Non sciolsi il broncio.
“Dai…”, mi sussurrò sporgendosi per darmi un bacio sulla fronte.
Dimenticai tutto il mio fastidio e il suo viso campeggiò nella mia mente. Solo e soltanto quello.
Intanto avevamo finito i tortelli.
“Hai ancora fame?”, mi chiese gentilmente.
Scossi la testa, ansiosa di scoprire cosa sarebbe venuto dopo.
Cominciò a cadere una pioggerellina fastidiosa che mi bagnò i capelli riempiendoli di piccole gocce di cristallo e rendendoli ancora più elettrici del solito.
Il cameriere tornò per portarci il conto. Misi mano alla tasca dei jeans per mettere la mia parte di soldi ma lui mi bloccò la mano.
“Pago io”, disse in tono perentorio che non ammetteva repliche.
Riportai la mano sul tavolo in segno di sconfitta.
Mentre tirava fuori i soldi si accorse della pioggia e un lampo guizzò nei suoi occhi.
Cosa gli era saltato in mente?
Chi poteva dirlo?
Le sue idee erano talmente strane e disparate che erano impossibili da indovinare.
Mi fece l’occhiolino mentre posava i soldi sul tavolo.
Si alzò in piedi.
Quello che accadde dopo fu talmente fulmineo che elaborai ogni cosa solo dopo qualche secondo.
James rubò il cappello da pittore nero del cameriere, girò intorno al tavolo e ridendo come un matto me lo mise in testa incitandomi ad alzarmi e scappare con lui.
Lo feci e mano nella mano corremmo via.
“Aspettami!”, gridai.
Ero già rimasta indietro, lui era troppo veloce per me.
Tornò indietro e mi prese per mano tirandomi dietro a lui.
Il cameriere si lanciò alla rincorsa e ci venne dietro urlando:
“Ehi! Ragazzini! Tornate qui!”
James mi esortò a correre più che potevo.
“Andiamo al parco dai” mi disse.
Era chiaramente eccitato dalla situazione e presto lo fui anch’io.
Ridemmo come matti senza mai fermarci.
“Corri, corri!” mi incitava lui.
Quella notte corsi come non avevo mai fatto in vita mia.
Il cameriere ci stava dietro gridandoci di fermarci ma noi non gli prestavamo ascolto.
Ogni suo grido rendeva più eccitante la cosa.
Ci aveva quasi raggiunto.
Ci buttammo letteralmente in mezzo alla strada facendoci quasi investire da un’auto.
“Ci sei?” mi chiese lui col fiato corto.
“Si si andiamo”
“Ragazzini!”.
Il cameriere continuava a rincorrerci.
“Ti stai bagnando?”, mi chiese James.
“Non molto”, risposi.
“Perfetto”, disse compiaciuto.
In quel momento però la pioggia si trasformò in una tempesta furiosa.
Presto ci ritrovammo fradici e zuppi dalla testa ai piedi.
Giunti in prossimità del parco James mi levò il cappello gettandolo a terra dietro di noi.
Mi tirò per l’ultimo tratto mentre il cameriere raccoglieva il cappello da terra e ci urlava:
“Vi siete divertiti? Bene!”.
Dal suo tono di voce s’intuiva che in fondo si era divertito anche lui e non era arrabbiato con noi.
Il mio fiato chiedeva pietà e il mio corpo chiedeva ardentemente di respirare: per fare l’ultimo tratto avevo smesso di farlo.
Mi mancò l’ossigeno per un secondo di troppo e il mio cervello andò in tilt.
“Jam…aiut…”, riuscii a dire in un’ultima emissione di fiato.
Lui si girò all’istante ma stavolta non fece in tempo a prendermi.
Caddi rovinosamente al suolo, sulle foglie secche del parco.
 
 
Rinvenni pochi minuti dopo, sdraiata sulla panchina con la testa posata sulle gambe di James.
La sua espressione era ansiosa.
“Ti senti bene?”, chiese preoccupato.
“Credo di s… etciù!”, uno starnuto mi scappò dalla bocca.
Solo in quel momento mi accorsi che ero completamente bagnata e che stava continuando a piovere.
Gli alberi del parco ci fornivano un po’ di riparo, ma la pioggia continuava a passare per la gran parte.
“Avrei dovuto immaginarlo, non stai bene”, mi disse con aria sconsolata.
“Vieni, ti porto a casa”, aggiunse come se pronunciare quelle parole per lui fosse una gran fatica.
Io non volevo andarmene, volevo passare tutto il tempo possibile insieme a lui.
Perciò presi il controllo del mio respiro e riabilitai velocemente il mio cervello e il mio cuore.
“No, voglio restare con te”, dichiarai determinata.
Lui sorrise contento della mia risposta.
“Anch’io vorrei restare ma non posso permetterti di stare in queste condizioni: ti devi mettere qualcosa di caldo e asciutto e ti devi riposare un po’”.
“Non sono affatto d’accordo”, dissentii.
Lui ci pensò su un momento, combattuto tra portarmi a casa e restare qui insieme.
D’improvviso il suo volto s’illuminò.
“Penso di aver trovato una soluzione”
“Spara dai”, lo esortai.
“Non so… ho pensato che potresti venire a casa mia…” disse.
Mi sembrò un’idea meravigliosa. Assolutamente meravigliosa. E perfetta.
“Mi sembra un’idea ragionevole”, dissi, aprendomi in un largo sorriso.
Tirò un sospiro di sollievo.
“Beh, allora andiamo principessa”, disse prendendomi in giro.
Mi alzai in piedi ma non appena lo feci sentii un dolore acuto al fianco destro.
“Ahi!”, esclamai, non riuscendo a reprimere del tutto il dolore.
“Tutto bene?”, mi chiese premuroso.
“Si, devo aver sbattuto il fianco quando sono caduta, ma tutto ok”, lo rassicurai.
“Non mi convinci. Stai lì, vado a prendere la macchina e arrivo”
“Davvero non serve!”, provai a ribattere ma lui si era già incamminato.
Mi risedetti sulla panchina aspettandolo.
Quante emozioni forti avevo provato quella sera! E finalmente avevo capito di amare James.
Sicuramente quella serata sarebbe entrata per sempre nei miei ricordi, come una scritta col pennarello indelebile.
Finalmente la sensazione di vuoto era scomparsa e credo che mi avesse lasciato per sempre. Quando stavo insieme a lui era tutto perfetto.
Il rumore di una macchina mi distolse dai miei pensieri. Fui felice di constatare che era proprio James.
Cercai di raggiungerlo con la velocità massima consentita dal mio corpo.
Entrai in macchina e notai con piacere che aveva già acceso il riscaldamento.
Mi lasciai andare sul sedile appoggiando la testa sulla spalla di James. Chiusi gli occhi.
Lui accese la musica ad un volume da sottofondo delicato.
Macchina e musica erano il mio concentrato soporifero per eccellenza dopo la lezione grammatica.
Mi addormentai, ma era più un dormiveglia.
Sentii vagamente la macchina che parcheggiava ma non ero intenzionata ad aprire gli occhi.
James spostò la mia testa sullo schienale con delicatezza e velocemente mi venne ad aprire.
Mi sollevò e mi prese in braccio.
“Hai fatto una bella dormita principessa”, mi sussurrò nell’orecchio.
Io risposi con un miagolio.
Sorrise e mi portò dentro casa.
Il suo salotto era grande e spazioso con un enorme divano al centro della stanza.
La televisione era un maxischermo e torreggiava sull’intera sala. L’ambiente era molto caldo e mi fece sentire subito a mio agio.
Il camino c’era però al suo interno c’erano i resti delle braci che un tempo erano accese.
Mi adagiò sul divano e andò a prendere due plaid con cui mi coprì. I miei brividi cessarono e il mio naso prese a scaldarsi velocemente.
Si sedette sullo sgabello accanto al camino e con gesti veloci ma esperti accese un bellissimo fuoco allegro e scoppiettante.
“Stai meglio principessa?”, mi chiese ridendo ma con una nota di apprensione.
“Molto, ma manca qualcosa…”, dissi, sperando che intuisse cosa mancasse.
Fortunatamente capì.
Si sedette vicino a me e si avvolse anche lui nelle coperte. Mi strinse a lui con delicatezza. Di nuovo, appoggiai la testa sulla sua spalla e chiusi gli occhi.
Per la seconda volta nella serata mi fece un complimento:
“Sei bellissima principessa”.
Me lo sussurrò a metà tra i capelli e il mio orecchio. Posò le labbra sul mio collo e fui invasa da una scossa elettrica di puro piacere. Sorrisi e mi abbandonai ad un placido sonno.

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Capitolo 6
*** Malattia ***


Capitolo 5
Malattia
 
 
 
 
 
 
 
Nella vita non esiste una rosa sfiorita e triste
avrà comunque tanto fascino - Alfa
 
Il giorno dopo mi svegliai in un letto dalle coperte verdi. Mi rigirai ancora un po’ attorcigliandomi nelle lenzuola. Mi accorsi che esse avevano addosso il profumo di James.
Qualcuno bussò alla porta. Mi spaventai ma poi ricordai che mi ero addormentata a casa di James.
Mi aprii in un sorriso da orecchio a orecchio.
“Avanti”
“La principessa si è svegliata”, mi disse, anche lui sorridente.
Teneva in mano un vassoio con due croissant al cioccolato e due tè freddi.
Si sedette accanto a me e io mi sollevai dai cuscini.
Riflettei che era già un po’ di volte che mi chiamava principessa e alla fine decisi che mi piaceva quel soprannome. Se ero la sua principessa non mi avrebbe mai lasciato, no?
Beh, in realtà non stavamo ancora insieme, ma un passo alla volta.
“Ieri sera ti sei addormenta e ho pensato che saresti stata più comoda in un letto anziché sul divano”, mi disse, come a mo’ di scusa.
“Non hai tutti i torti”, risposi.
“Sto imparando a conoscerti”, mi disse espandendo ancor di più il suo sorriso.
“La strada è ancora lunga caro”, lo avvertii.
“Sono disposto a percorrerla”.
Mi assaporai il significato di quelle parole. Significavano che voleva stare con me? Lo speravo.
“Ti va di fare colazione?”, propose.
“Eccome”
Mi porse il cornetto e lo divorai con gusto.
“Tè alla pesca?”, mi chiese porgendomi la tazza.
Io scoppiai in una risata.
“Te l’avevo detto che la strada è ancora lunga”
“Ti piace il tè al limone? Vuoi scherzare?”, mi disse incredulo.
“Io adoro il limone per la cronaca”, dissi scherzando.
“Ah, mi sa che avevi ragione a proposito della strada”
“Io ho sempre ragione”
“Mi ci dovrò abituare”
Finimmo di fare colazione e poi mi lasciò da sola per sistemarmi e andare in bagno.
Feci il più in fretta possibile. Non appena mi alzai ebbi un leggero capogiro ma non ci diedi troppo peso. Corsi in bagno per pettinarmi e sciacquarmi il viso. Notai di avere gli occhi e il naso arrossato. Mi ero ammalata? Probabile data la mia delicatezza di bronchi.
Arrivò anche la conferma: tossii.
Mi faceva male la testa e la pancia. E fuori diluviava ancora.
Raggiunsi James in salotto.
“Ti devo dare una buona notizia”, mi annunciò tutto contento.
“Io una brutta credo”.
Lui si rabbuiò.
“Beh, comincia tu allora”, disse tristemente.
“Credo di essermi…etciù! Raffreddata”, conclusi.
Lui si fece ancora più triste.
“Lo sapevo che avrei dovuto curarti meglio ieri”
Oh no! SI stava prendendo la responsabilità. Ma non era affatto colpa sua. E non doveva neanche pensarlo. Mai.
“Non è mica colpa tua se sono estremamente delicata da questo punto di vista”, lo rassicurai.
“Non ti credo”, bofonchiò.
“Non te ne sei mai accorto? Che per tutto l’anno scolastico ho sempre avuto il raffreddore? Non sei un osservatore molto attento”, sottolineai.
“Non è solo quello” mi disse.
“è che avevo desiderato di passare il week-end insieme a te ma mi rendo conto che per colpa mia non posso”
Non la doveva pensare così.
“Non dobbiamo per forza uscire, né mi devi portare a casa. Voglio dire, se per te non è un problema restare chiuso in casa con me”
Fece una smorfia di disappunto.
“Credi che io mi annoi stare con te?”, pronunciò la parola annoi con estremo disgusto.
“Non sono poi così interessante”, dissi.
“Vuoi scherzare?”, mi disse.
“Sei… bellissima, coinvolgente, sincera, indulgente, solare… Potrei inventare altri mille aggettivi per descriverti, sei la cosa più bella che mi sia mai capitata. E non mi importa se sei delicata e particolare. Vorrei farti capire quanto sei importante per me”
Quelle parole mi fecero avvampare. Nessuno mi aveva mai rivolto simili complimenti.
“G-grazie”, dissi.
“Non ringraziarmi, è ciò che penso veramente”.
Mi fissò con tutta l’intensità del suo sguardo. Posò le labbra sulla mia fronte.
Le spostò sul mio collo fino a posarle sulla cavità della mia clavicola e su quella appena sotto al mio collo. Di nuovo, una strana elettricità divampò tra noi.
Desiderai baciarlo, toccarlo…
Ma resistetti.
D’improvviso mi sollevò e mi prese in braccio.
Io risi.
“Mettimi giù!”
“Shhh principessa”, mi disse.
Mi trasportò per tutta la casa e poi tornò in salotto e mi lanciò letteralmente sul divano.
“Tu sei pazzo”, dissi tra le risate.
“Sto provando a farti ridere un po’”
“Non fai tanta fatica”
“Lo so”
“Sbruffone”
“Allora, qual è la buona notizia che mi volevi dare?”, domandai di punto in bianco.
Il suo sorriso si fece ancor più pronunciato e un lampo di malizia li attraversò gli occhi esattamente come era successo al ristorante.
“Posso venire al campus”
Il mio cuore impazzì di gioia. Sembrava non essere abbastanza grande per contenerla tutta.
“Dici sul serio?”
“Non ti mentirei mai”
“Sono troppo contenta”
“Lo sono anch’io”
Un bip elettronico segnalò l’arrivo di un messaggio accompagnato da un mio colpo di tosse.
Si ricordò del mio raffreddore e mi avvolse nei plaid della sera precedente.
Prese il cellulare e lesse il messaggio.
“Chi è?” chiesi, per curiosità non per gelosia.
“Sorpresa”
“In che senso sorpresa?” domandai confusa.
“Sto andando a farti una sorpresa”
“Davvero?”
“Proprio così”, affermò.
“Ho chiamato Letizia, verrà a farti compagnia”
Io ero sempre più confusa. Non riuscivo a capire come avesse fatto ad avere il suo numero. Non gliel’avevo dato io, questo è certo.
“Perché?”
“Perché devo uscire”
“Ah”, lo dissi con un tono triste.
Lui lo colse e mi si vece più vicino. Io mi accoccolai sul suo petto.
“Tornerò presto”, mi disse, sussurrando direttamente al mio orecchio.
“è tanto urgente?”
Lui rise di soddisfazione.
“Credo proprio di sì”
In quel momento starnutii contemporaneamente allo squillo del campanello.
James mi spostò con la testa sullo schienale del divano. Si alzò e andò ad aprire.
Sulla soglia di casa comparve Letizia, tutta imbacuccata nella sua giacca a vento e avvolta nella sciarpa di lana che le avevamo regalato.
“Ciao! Come stai Emy?”, mi chiese dopo aver salutato.
“Non molto bene come puoi vedere”, risposi con un fil di voce.
“D’accordo, ci penso io”, affermò convinta.
“James tu puoi…”, cominciò a dire, ma non fece in tempo a finire la frase perché un conato di vomito sopraggiunse improvvisamente.
Mi tappai la bocca e mi alzai di scatto per cercare di raggiungere il bagno il più in fretta possibile.
James mi guardò allarmato e mi seguì di corsa aprendomi la tazza del water.
Rigurgitai tutta la mia colazione nel WC. Temevo di soffocare ma era impossibile fermare il conato. Ripresi velocemente fiato mentre dell’altro vomito sopraggiungeva. James non perse la calma e mi aiutò tenendomi dietro i capelli. Letizia filò dritta in cucina a prendere degli Scottex per pulirmi.
Aspettai un po’ per essere sicura di non doverci tornare tra due secondi. Quando me ne fui accertata tirai lo sciacquone e guardai tristemente la mia buonissima colazione che se ne andava via ridotta ad una poltiglia schifosa.
Letizia tornò in bagno mentre James mi aiutava a rialzarmi. Mi accompagnò al lavandino per sciacquarmi. Letizia mi porse gli Scottex – era meglio che non usassi lo stesso asciugamano di James per essere sicuri di non trasmettergli niente – e mi pulii.
James mi prese in braccio e per una volta non mi lamentai dato che le mie forze stavano per venire meno.
Chiusi gli occhi. Ingurgitai saliva e saggiai la sua temperatura. Di solito se la sentivo particolarmente calda voleva dire che avevo lo streptococco.
In effetti la sentivo calda e quando la ingurgitavo sentivo dolore a causa delle tonsille gonfie.
Restava da fare un ultimo accertamento: dovevo controllare se la mia lingua era piena di puntini rossi.
Beh, in realtà non serviva, era praticamente certo che avevo lo streptococco.
Accidenti! Non ci voleva proprio!
Quando ero più piccola lo prendevo almeno una volta all’anno e sapevo per esperienza che sarei stata malissimo e le forze sarebbero scivolate via da me in un istante.
Quindi mi abbandonai tra le braccia di James godendo di quell’ultimo abbraccio prima che se ne andasse – per poco tempo, è vero, ma per me era comunque tantissimo.
Mi adagiò sul divano e mi fece sdraiare.
“Ti porto i cuscini e le coperte del letto, starai più al caldo”
Se ne andò in camera per disfare il letto.
Letizia mi guardò con aria triste.
“Beh, credo che non sarà poi così semplice curarti e tenerti compagnia”, sospirò infelicemente.
“Non sei obbligata a stare qui davvero, ce la posso fare anche da sola”, dissi.
Non volevo che si sentisse obbligata, ormai ero abbastanza grande per gestirmi da sola.
“Ma che dici? Io voglio stare qui con te, dopotutto sono la tua migliore amica”, mi disse accalorata.
Le sorrisi debolmente.
James era di ritorno con i cuscini e le coperte più pesanti.
Mi coprì e mi sistemò i cuscini dietro la testa.
“Stai bene così, principessa?”, mi disse, tentando di sollevarmi l’umore.
Io annuii piano.
“Forse è meglio se non esco… Non voglio lasciarti da sola neanche per un istante”, disse apprensivo.
“No no! Se è urgente vai, non ci pensare neanche! Non voglio che resti qui soltanto per me!”, mi affrettai a contraddirlo.
“E credi che tu sia poco importante?”, mi rimproverò con lo sguardo.
“Davvero vai, non voglio essere un peso”
Lui scosse la testa.
“Tu non sei mai un peso per me, ficcatelo in testa, d’accordo?”
Annuii nuovamente.
“Ho capito però puoi andare, ci sarò Letizia con me”
Ci pensò su e poi guardò Letizia, come in cerca di una conferma.
Lei annuì e lui parve rincuorato.
“Beh, se la mettete così vado, però torno per pranzo, aspettatemi”, si raccomandò.
“Certo”, acconsentii subito.
Lui si chinò su di me e, dopo un attimo di incertezza mi baciò nella cavità della clavicola e poi in fronte.
“Stammi bene principessa”
Io sorrisi, cercando di fare il più bel sorriso che mi fosse consentito.
James lasciò la casa chiudendosi la porta alle spalle.
“Allora?”, mi chiese Letizia piuttosto eccitata.
Non volevo rovinarle il morale perciò cercai di essere il più sincera ed entusiasta possibile.
In verità non mi riusciva poi così difficile dopo che avevo riconosciuto e accettato i miei sentimenti.
E in più mi distraeva dalla sensazione di asfissia, di stanchezza e di debolezza causata dallo streptococco.
“Credo di amare James”, confessai.
Le si illuminarono gli occhi.
“L’avevo detto io!”
“In effetti l’ho capito anche grazie a te e Irene”
“Ringraziaci!”, disse in tono ironico.
In realtà io sentivo di doverle ringraziare seriamente.
“Grazie”
“Raccontami cosa è successo ieri sera”, mi disse.
“Beh, in realtà non c’è molto da dire… Sono andata a fare la spesa, e lì ho incontrato James, siamo usciti e io gli ho chiesto se aveva intenzione di portarmi a cena…”
“Aspetta, tu gli hai chiesto di portarti a cena?”, mi interruppe stupita.
“No, non è andata esattamente così, solo, avevo voglia di restare con lui così io…”
“Voglio le parole precise”, mi ordinò.
“D’accordo, gli ho detto: Allora, non mi porti a cena?”
“Tu sei completamente pazza”, mi disse ridendo.
“Beh, a quanto pare ha funzionato però”, sottolineai.
“Ti ha baciata?”, mi chiese elettrizzata.
“Non proprio…”
“In che senso non proprio?
“Nel senso che mi ha baciato il collo, la guancia e la fronte ma non la bocca, ecco”
“Ah, però è stato bello?”
“Altroché, credo di essere impazzita”
Lei rise.
“Allora vedrai quando ti bacerà sulle labbra!”
A essere sinceri non vedevo l’ora.
“Già”, risposi.
“Manca ancora un’ultima domanda”, esordì.
Io alzai gli occhi al cielo.
“Quale? Spara”
“Cos’avete fatto ieri?”
“Mi ha portata a cena con gli occhi bendati ed è stato molto romantico, poi lui ha rubato il cappello al cameriere e siamo corsi via sotto la pioggia, io non riuscivo a stargli dietro – mi mancava il respiro – e così gli sono praticamente svenuta tra le braccia”
“Sul serio? E il cappello?”
“Il cappello lo abbiamo lasciato per terra e il cameriere che ci seguiva l’ha ripreso ridendo”
“Ridendo?”
“Già, credo che si sia divertito anche lui in fondo”
“Comunque ora capisco perché ti sei ammalata, non avrai di nuovo lo streptococco?”
“Credo proprio di sì”
Lei fece una smorfia di disappunto.
“Oh beh, allora ci vorranno molte più cure del previsto: devo assolutamente andare a comprare l’antibiotico”
“Ma non serve!”, protestai.
Lei roteò gli occhi.
“Oh certo, stai per morire dalla stanchezza, vomiti tutto quello che mangi, hai lo streptococco – malattia potenzialmente mortale – e una medicina non serve assolutamente, hai ragione”
“Ah-ah-ah. E comunque è mortale solo quando non si cura per troppo tempo”
“Appunto”
Sospirai e mi arresi.
“Ma prima di tutto hai bisogno di un bel bagno caldo, così starai un po’ meglio: quindi, ti porto a casa. Ce la fai ad alzarti?”
“Certo che sì, grazie”
Mi alzai con molta fatica per poi ricadere rovinosamente al suolo.
Lei mi scimmiottò: “Certo che sì grazie!”
Mi aiutò a rialzarmi e mi accompagnò fino alla portiera dell’auto.
Sfrecciò nelle strade fino a raggiungere casa mia.
Io tossi rumorosamente.
“Dici che posso lasciarti da sola cinque minuti?”, lo disse scherzando, ma io credevo che in fondo se lo stesse chiedendo davvero.
“Certo, e poi mi lasci solo perché devi andare a prendermi l’antibiotico”
Sospirò.
“Hai ragione”
Sorrisi.
“Lo so”
Scesi dalla macchina con molta cautela e Letizia corse ad aiutarmi. Chiuse la macchina con un click del telecomando e mi trascinò in casa.
Mi fece sdraiare sul divano.
“Mi raccomando, non alzarti da lì, capito? Prometti”
Sospirai.
“Prometto”
Le venne un’idea. Sfrecciò in cucina e mi prese una ciotola che mise sopra al tavolino che stava accanto al divano.
Io la guardai confusa.
Lei mi spiegò:
“Se devi vomitare, non sporchi la casa, che poi mi tocca pulire”, disse ridendo.
“Dai scherzo, comunque vomita lì dentro ma cerca di non farlo!”
“Ci proverò”
Uscì di casa frettolosamente.
In effetti avevo proprio bisogno di un antibiotico, ma speravo che si fosse ricordata anche di prendere un fermento lattico.
Il mio stomaco brontolava, ma non potevo farci niente, perché sapevo che se avessi soddisfatto la mia fame, presto avrei rigurgitato tutto e tanti saluti.
Ecco una delle cose che odiavo dello streptococco. Ma tanto sapevo che presto la fame sarebbe passata, lasciando spazio ad un’agonia.
Presto sarei stata in balia di un’agonia fatta di mal di pancia acuto, di nausea, di vomito e di debolezza.
E sentivo di avere già fatto molti passi verso quella direzione.
Forse la sto facendo un po’ tragica, però si prova davvero questi dolori, e chi ha preso questa malattia lo sa bene.
Un conato di vomito mi sorprese e interruppe il corso dei miei pensieri melodrammatici.
Fui grata a Letizia per aver messo la ciotola. Volevo pulirmi la bocca, ma non c’era niente con cui potessi farlo.
Poi mi venne in mente che di solito seppellivo i pacchetti di fazzoletti nel divano e così mi misi alla ricerca.
Non ci misi molto a trovarne uno, e mi presi in giro da sola per la mia sbadataggine.
Dopo che mi ebbi riappoggiato la testa sul bracciolo del divano, i miei pensieri affluirono in un fiume più ampio, di nome James.
Pensai a lui, ragionando su come il nostro amore fosse sbocciato in fretta.
Mi domandai se anche lui mi ricambiava, ma seppur una traccia debole del dubbio ancora era in me, io credevo di sì.
Mi chiesi come la nostra relazione si evolverà e decisi di concentrarmi sul presente, lasciando al futuro ciò che verrà.
Proprio in quel momento sentii le chiavi girare nella serratura che emise uno scatto e si aprì.
Letizia comparve sulla soglia.
“Che velocità”, le dissi.
“Ho fatto più veloce che potevo, non mi fidavo”
“In effetti ho vomitato”, confessai.
“Lo sapevo che non mi dovevo fidare! Stai bene?”
“Non proprio, ho lo stomaco in subbuglio”
“L’hai ammesso finalmente!”
Le sorrisi debolmente.
“Aspetta che ti porto le pastiglie e una limonata”
“Ti sei ricordata il fermento lattico?”
Lei mi guardò in maniera eloquente.
“Certo, non sono mica un’infermiera da quattro soldi!”
Ampliai il mio sorriso.
Lei si diresse in cucina per ritornare poco dopo con tutte le medicine.
“Perché una limonata?”, chiesi.
“Acqua e limone, aiuta lo stomaco”
“Ah, grazie. Dovresti fare davvero l’infermiera”
Lei mi sorrise.
“Ci sto pensando, ma prima devo conquistare Orlando Bloom”, mi disse in tono ironico.
“Sei proprio fissata”, le risposi.
“Ognuno ha le sue fisse. E non dimenticare che prima di James eri fissata con Robert Pattinson”, mi ricordò.
“Beh, devi ammettere che non è niente male”
“L’uomo che è stato eletto il più bello del mondo, niente male?”, mi disse.
“Appunto”
Scosse la testa con il sorriso sulle labbra.
“Dai, bevi ‘sta limonata”, disse, porgendomi il bicchiere.
Presi un piccolo sorso controllando lo stato del mio stomaco.
Dopo di che la ingoiai tutta in due sorsi.
“Non riesco a capire come faccia a piacerti il limone”, mi disse con un’espressione di finto disgusto.
“A me piace. A proposito, ce n’è uno in cucina?”
D’improvviso mi era venuta voglia di limone.
“Mi pare di sì”
“Allora me lo porti tagliato a metà?”, chiesi.
“Certo”
Intanto mi infilai in bocca la pastiglia d’antibiotico e la mandai giù con un sorso d’acqua.
Feci lo stesso con il fermento lattico.
Letizia mi porse la metà di limone. Io la presi e cominciai a morderla spremendola per fare uscire il succo.
“Hai avvisato James che siamo qui?”
“Certo”
“A proposito, da quando James ha il tuo numero?”, chiesi, incuriosita.
Lei arrossì violentemente.
“Ehm… io… beh, sapevo che…”, cominciò.
“D’accordo, ho capito”, la tranquillizzai.
Dovevo aspettarmelo, lei sapeva sempre tutto prima degli altri. Aveva capito prima che tra di noi c’era qualcosa e si era messa in confidenza con James per tenerlo d’occhio.
“Non sei… arrabbiata?”, mi chiese titubante.
“Certo che no! Perché dovrei esserlo? Ormai mi conosci abbastanza bene, no?”, le risposi accalorata.
“Davvero?”
“Certo! Abbracciami”
Lei si sporse verso di me e mi strinse.
“Sei la mia migliore amica”, le ricordai.
“Lo so”
Restammo così per ancora qualche secondo poi lei sciolse l’abbraccio dicendo:
“Allora hai ammesso che c’è qualcosa tra voi due!”, mi prese in giro.
“L’avevo già fatto”, sottolineai.
“Sì, si d’accordo”
Il campanello squillò.
“è arrivato!”, annunciò.
“Chi?”. Lo potevo immaginare ma ne volevo essere sicura.
“James, ovvio. Ti ha portato qualcosa da mangiare”
“Gentile”
“Già, si sta prendendo cura di te in modo eccellente”
Aveva ragione.
Nessuno a parte mio papà e le mie amiche si era mai preso cura di me in questo modo.
Mi faceva piacere che lo facesse.
James varcò la soglia di casa mia ed entrò.
Si avvicinò e si sedette sul tappeto accanto a me. Mi prese la mano e mi accarezzò.
“Come stai?”
“Così così”, risposi.
“Mi dispiace Emily”, mi disse.
Quella era la prima volta che pronunciava il mio nome. Sentirlo sulle sue labbra mi piacque tantissimo. Desideravo che lo ripetesse ancora per ascoltarlo ma probabilmente non lo avrebbe fatto.
Decisi di fare la prova del nove: pronunciare anch’io il suo nome.
“Non ti devi scusare James”, dissi.
Lui sorrise ed io ricambiai.
Ero pienamente soddisfatta. Ora potevo anche stare male, tanto nessun dolore sarebbe mai stato abbastanza grande per superare la gioia di quel momento.
Si alzò per baciarmi la fronte.
Il mio cuore accelerò i battiti.
“Te la senti di mangiare qualcosa?”, mi chiese dolcemente.
“Mhmm… cosa c’è?”, domandai.
“Ti ho preso la pizza, la focaccia e un po’ di pasta”
Quando pronunciò i nomi focaccia e pasta il mio stomaco fece un triplo salto mortale facendomi capire che avrebbe vomitato questi due alimenti.
Con la pizza mi disse che un pezzo poteva digerirlo.
“Un pezzo di pizza. Uno solo”, risposi.
“Sicura?”
“Si”
Me lo portò su un piatto e me lo porse. Mi aiutò ad alzarmi e io mi sedetti.
Addentai piano piano il pezzo di pizza saggiando il mio equilibrio stomacale.
Non aveva lo stesso sapore gustoso di sempre, ma non faceva nemmeno schifo.
Lo finii lentamente e per tutto il tempo James mi guardò apprensivamente.
“Va meglio?”, mi chiese.
“Un pochino”
“Ti va se guardiamo un film?”, propose, sedendosi accanto a me sul divano.
Io tirai su le coperte fin sopra le spalle e mi raggomitolai sul suo petto.
“Possiamo provarci”, acconsentii.
“Cosa guardiamo?”, chiese, mentre mi cingeva con un braccio stringendomi a sé.
“Quello che vuoi te, basta che non sia roba violenta”
“Tranquilla”
Verso metà film mi addormentai letteralmente su di lui m non per la noia – il film era anche interessante – ma per la stanchezza.
Quando mi risvegliai alla sera, verso le sette, mi ritrovai nella stessa identica posizione. James era ancora lì.
“Sei stato qui… tutto il tempo?”, domandai tra uno sbadiglio e l’altro.
“Non mi sono mai allontanato da te”
“Serio?”
“Sì”
“Ma come hai fatto?”
“Perché ti voglio bene principessa”, mi disse semplicemente.
 
*****
 
Qualche giorno dopo ero guarita e fui contenta di poter riprendere la mia vita abituale. I miei avevano chiamato e si erano subito preoccupati, ma io gli avevo rassicurati dicendogli che stavo già meglio e che comunque qui con me c’erano Irene e Letizia. E anche qualcun altro. Ma questo non gliel’avevo detto, ovvio.
James era sempre stato con me, talvolta sostituito da Irene e Letizia. Apprezzavo come si fossero presi cura di me, e questo mi fece capire di aver scelto le persone giuste.
Anche se ne avevo già avuto conferma parecchie volte. Avevo sempre saputo che loro erano amiche vere.
Mi misi in spalla lo zaino e uscii di casa. Mi diressi verso la mia macchina che aprii premendo il tasto del telecomando.
Avevamo deciso che per almeno una settimana sarei dovuta rimanere a casa per evitare di prendere freddo. Io avevo, dicendo che non era un problema, ma erano stai irremovibili.
Così adesso mi ritrovavo all’interno della mia Panda, ad accendere il riscaldamento.
Guidai fino al cancello e parcheggiai nel parcheggio della scuola.
Scesi trascinandomi dietro lo zaino.
Cercai con gli occhi Irene, Letizia e James e fui sorpresa di trovarli insieme sotto al castagno che non produceva più da anni.
Mi avvicinai a grandi passi.
“Ciao”, esclamai.
Loro si voltarono sorpresi e smisero di parlare. Fu solo un secondo, poi si ricomposero e mi salutarono allegramente.
“Ehi, oggi a biologia ci daranno delle notizie sul campus, non vedo l’ora di sentirle”
“Anch’io”, risposi.
La nostra conversazione non poté continuare perché Gabriel e Diego – i migliori amici di James – si avvicinarono. Vidi Irene irrigidirsi e sistemarsi i capelli. Ero esattamente uguale a lei quando stavo con James. Mi venne voglia di ridere ma
“Ehi bro, stasera vieni a farti una birra?”, chiese Diego.
“No grazie, stasera ho un altro impegno, e poi non ho intenzione di ubriacarmi mai più”, disse stringendomi la mano.
O mamma mia! Stavo per svenire dalla gioia!
Strinsi forte la sua mano e gli sorrisi. Loro lo fissarono allibiti. Poi mi videro e un sorrisetto gli si formò sulle labbra.
“Ahh… è per lei?”, indovinò Gabriel.
James gli sorrise e rispose:
“Sì”
I due amici si diedero di gomito e cominciarono a sghignazzare.
“Fai sul serio?”, chiesero.
“Sì, mai stato più serio di così”, rispose sicuro di sé.
Diego mi porse la mano.
“Piacere di conoscerti Emily, ti posso chiamare Emy?”, mi chiese, prendendo subito confidenza.
“Sì certo”, dissi ricambiando la stretta di mano.
“Mmmm...”, rifletté
“Direi che mi piace”, continuò.
“Diverremmo ottimi amici, bada a non farla soffrire James, perché altrimenti te la vedrai con me. È una così brava e bella ragazza…”
Era la seconda volta che qualcuno ordinava a James di non farmi soffrire e lo minacciava.
Da un lato mi faceva piacere perché significava che loro mi prendevano a cuore, ma dall’altro mi faceva soffrire perché non avevano fiducia in James.
Io arrossii.
“Beh, grazie”, dissi.
Diego e Gabriel se ne andarono trascinando via James, ordinandogli di passare un po’ più tempo con loro.
“Sei già sotto la custodia di uno dei migliori amici di James!”, mi prese in giro Letizia.
“Sei molto fortunata”, aggiunse Irene.
“Lo so”, sospirai.
“Oggi pomeriggio vi va di andare a fare un giro? Ho pensato che potremmo andare a fare un po’ di shopping invernale a…”, proposi, ma non ebbi tempo di finire la frase.
“Ehm… vorremmo tanto, ma abbiamo un impegno importante”, mi informarono.
Il mio umore rasentò lo zero.
“Che tipo di impegno?”, domandai, cercando di nascondere la tristezza.
“Oggi è i compleanno del padre di Irene e volevamo organizzargli una festa”
“Ah, fantastico, vi serve una mano?”
Loro si guardarono allarmate.
“Ehm… veramente prima James ci ha detto che questo pomeriggio ti avrebbe invitata ad uscire”
“Davvero?”
“Sì”
“Ok, perfetto”
Il mio umore risalì piano piano, colmo della gioia di stare da sola con James.
Il suono acuto della campanella si fece sentire fin nel cortile e così entrammo tutti.
James mi raggiunse e mi prese per mano.
“Scusami, i miei amici sono un po’ invadenti”
“No ti preoccupare, mi piacciono”, lo rassicurai.
Mi sorrise.
“Andiamo in classe?”
Annuii.
In classe il professor Russel ci attendeva.
“Ed eccoli qua, i nostri due vincitori!”, ci salutò.
“Sedetevi pure, oggi vi darò qualche informazione in più sul campus!”
Noi ci sedemmo ai nostri banchi e restammo concentrati desiderosi di ascoltare, per una volta curiosi.
“Allora, come già sapete il campus partirà il mercoledì della prossima settimana. Sarà sulle colline del Trentino e il materiale professionale vi sarà consegnato là, perciò dovrete portare solo gli indumenti e gli oggetti indispensabili. Avrete delle tende, per l’alloggio durante il giorno, mentre dormirete in un rifugio di montagna, qualche chilometro più a nord del campo. Per chi si distinguerà tra gli aspiranti biologi presenti, ci sarà un ulteriore premio, che non vi dirò perché non voglio rovinarvi la sorpresa. L’orario della partenza è previsto per le sette e mezza di mattina, e l’orario di arrivo per le undici e mezza della sera. Bene, questo è tutto!”, concluse il professor Russel.
Io mi ero segnata tutto sul mio diario, utilizzando tutti gli oggetti che avevo dentro al mio fornitissimo astuccio: post-it, evidenziatori, pennarelli, penne glitter e adesivi. Amo la cartoleria. Finita la lezione, io e James lasciammo l’aula mano nella mano.

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Capitolo 7
*** Compleanno ***


Capitolo 6
Compleanno
 
 
 
 
 
 
 
 
Oggi è nata una stella
che illuminerà per sempre la mia vita
 
 
Era un pomeriggio intenso da ‘Gifts – For every occasion’. Mi ero trovata quel lavoro all’inizio dell’anno, e l’unica cosa che potevo dire al riguardo è che lo adoro. È un lavoro particolare però esiste davvero. Voglio dire, certo non lo puoi trovare in tutti i negozi, però in quelli più rinomati – ma in questo caso ci doveva essere per forza dato che è un negozio per regali – lo puoi trovare.
Facevo una specie di consigliatrice, ascoltavo i clienti e, se ne avevano bisogno gli davo consigli su cosa acquistare e al miglior prezzo. Dopodiché, - e qui arriva la mia parte preferita – impacchettavo ciò che avevano scelto. Avevo a disposizione un reparto, piccolino certo, ma fornito di carta di tutti i tipi e colori, di nastri, fiocchi, etichette, adesivi e tante decorazioni per pacchetti.
Era un lavoro che mi piaceva un sacco, perché fin da piccola adoravo fare i pacchetti regalo e li facevo anche bene. Il negozio mi aveva dato una carta con cui potevo acquistare tutto il materiale di cui avevo bisogno. Perciò, in un certo senso, era compreso anche lo shopping!
La proprietaria del negozio aveva avuto questa idea quando aveva visto che molta gente non sapeva dove cercare ciò che voleva all’interno di quell’enorme negozio. Inoltre molte persone chiedevano dei pacchetti e loro non facevano altro che mettere i regali dentro a dei sacchetti colorati. Vedeva la faccia della gente delusa dalla semplicità dell’involucro.
Quando avevo visto l’annuncio, sia online che sui manifesti appesi in giro per la città, mi ero subito presentata. Mi avevano fatto provare qualche pacchetto, con oggetti dalla forma più disparata, e io avevo superato la prova brillantemente. Mi avevano subito preso.
Ero molto contenta perché sono dell’idea che se sotto l’albero vedi un pacchetto bellissimo ti viene voglia di aprirlo, mentre se ne trovi uno un po’ trasandato e sempliciotto la voglia un po’ ti passa. E poi secondo me una bella presentazione rende ancor più meraviglioso il regalo vero e proprio.
Adesso era il periodo più intenso dell’anno da Gifts, un po’ come la bassa e l’alta stagione in una località turistica.
Sapevo che sarei stata impegnata un po’ di più, però sarebbe salito anche lo stipendio. Ovviamente dovevo guadagnare, però a me piaceva farlo, perciò mi ritenevo assai fortunata. Comunque il mio era una specie di lavoro da liceale. Ed era temporaneo, finché stavo qui.
Guardai l’orologio, erano le sei e venticinque. Per oggi il mio turno finiva qui.
Mi tolsi la spilletta con scritto il mio nome e la posai sul banco del mio reparto.
“Te ne vai?”, mi chiese Gabrielle, la mia compagna di lavoro. Faceva la cassiera, anche se poi amava girare tra i clienti, anche perché ce ne erano tanti. Eravamo colleghe, ma anche amiche ormai.
“Sì Gaëlle”, dissi ridendo. Qui in negozio gli avevamo dato questo soprannome, dato dall’unione della parte iniziale e finale del suo nome. La parte divertente però, è che il risultato era come la marca famosa di vestiti, Gaëlle. A lei piaceva abbastanza questo soprannome, anche perché era appassionata di moda.
“Devo studiare”, aggiunsi.
“Capisco, credo che mi toccherà stare qui fino a stasera”, disse, ma si vedeva che non era del tutto triste.
“Tanto adesso dovrebbe arrivare Elizabeth, giusto?”, chiesi. Se ve lo state chiedendo, Elizabeth è proprio la mia compagna di classe.
“Si sì”
Andai in camerino per cambiarmi e indossare di nuovo i miei vestiti. Quando fui in jeans e maglione e giacca pesantissima, tornai da Gabrielle.
“Allora vado”, dissi.
“Ciao BMW”, mi salutò. Ecco, quello era il mio soprannome scherzoso. Elizabeth invece era semplicemente la nostra Beth, la nostra cara dolce Beth.
“Ciao Gaëlle”, ricambiai.
Uscii dal negozio e mi diressi verso casa. Rabbrividii. Freddino. Alzai il bavero della giacca e indossai il cappello. Rimpiansi di non essere venuta con la macchina.
 
Arrivai a casa piuttosto infreddolita. Entrai subito dentro al pigiama e mi accoccolai sul divano sotto alle coperte. Ma adesso mi toccava ancora studiare. Presi il libro di storia e quello di biologia e cominciai a leggere.
Finii per le otto e poi mi preparai un piatto con prosciutto, insalata e mozzarella. Tirai fuori dal frigo una limonata. Apparecchiai la tavola e mi sedetti a mangiare lentamente, boccone per boccone. Finito di mangiare, sparecchiai buttando tutto nel lavandino. Lavai il piatto, il bicchiere e le posate e le rimisi a posto.
Mi sentivo piuttosto stanca quella sera, perciò me ne andai a letto presto. Filai in bagno e spazzolai con cura i denti. Pettinai i capelli e mi sciacquai il viso perché ero accaldata. Mi diedi un po’ di crema idratante perché avevo una pelle straordinariamente secca.
Prima di dormire recuperai il plaid dal cassetto del comodino. Mi raggomitolai sul letto avvolgendomi completamente nelle coperte. Non ci misi molto ad addormentarmi.
 
 
Io e James eravamo seduti sulla panchina del parco mano nella mano. Parlavamo tranquillamente e dai suoi occhi traspariva un vivo interesse. Ero felicissima di stare insieme a lui e sentivo di non desiderare altro in quell’istante. Dal nulla, improvvisamente, apparve una modella dal lungo vestito. Non sapevo da dove fosse spuntata, era come se provenisse direttamente dall’oblio dei miei incubi. James volse lo sguardo e corse da lei abbracciandola. D’un tratto scomparvero insieme così com’era venuta lei. Poi vidi James ricomparire, gettando per terra una bottiglia di birra, rompendola. Mi corse incontro e mi abbracciò sollevandomi.
“Ti amo”, mi disse.
Io stranamente gli credevo, mi fidavo di lui. Sapevo che mi amava e non avevo dubbi. Mi abbandonai tra le sue braccia.
 
Mi svegliai di soprassalto.
Socchiusi lentamente gli occhi, mentre la luce inondava la stanza. Scacciai il lenzuolo bianco e gettai la faccia nel cuscino fresco. Allungai le gambe per stirarle e mi rigirai mormorando che non volevo alzarmi. Avevo ancora impresso nella mente il mio sogno. Era un sogno parecchio strano. Riflettei un po’. Pensai che fosse la rappresentazione estrema e molto fantasiosa dei miei sentimenti. Da una parte, la paura di perdere James, perché sapevo di non essere granché attraente, dall’altro la più completa fiducia in lui. Scossi la testa. Non c’era ancora nulla di certo, e tutto si sarebbe aggiustato vivendo i giorni che sarebbero seguiti. Ignorai il sogno e decisi di alzarmi.
Inarcai la schiena per sciogliere i muscoli e, dopo aver aperto lentamente gli occhi, mi sentii pronta per alzarmi.
Mi misi seduta, con la faccia rivolta verso la luce, come un girasole. Spalancai la finestra e lasciai che l’aria fresca e pura del mattino rimpiazzasse quella pesante e satura di anidride carbonica della notte. Inspirai a fondo, e l’ossigeno puro circolò rapidamente nelle arterie. Con un’espirazione espulsi l’anidride carbonica accumulata nelle vene e d’un tratto mi sentii improvvisamente energica. Il mio stomaco brontolò, segnalandomi che era ora di fare colazione.
Ero improvvisamente eccitata all’idea di andare a scuola, e questo non è affatto una buona cosa.
Ma, la verità è che – inutile raccontarsi storie – io volevo vedere James.
Andai in cucina, lasciando la mia camera luminosa. Scendendo, trovai fastidioso il fatto che ci fosse buio, così scostai le tende e spalancai le finestre. Aprii la porta del frigo e presi del succo di frutta. Me ne versai un bicchiere generoso che appoggiai sul tavolo. Aprii l’anta dell’armadietto e ne trassi fuori le fette biscottate e la marmellata di frutti di bosco. Mi sedetti al tavolo di legno estraendo la sedia – l’avevo scelto di legno perché mi ricordava tantissimo quelli dei film americani dove fanno colazione con i pancake – e sorseggiai il succo, godendomi la mattinata di sole. Spalmai la marmellata sulle fette e le mangiai con gusto. Riposi tutto frettolosamente – mi ero già concessa troppo tempo – e corsi in bagno.
Quella mattina decisi di dare un po’ di tempo in più al bagno. Ero preoccupata di non essere abbastanza carina, di non essere attraente. Quel giorno più degli altri.
Pettinai con cura i capelli e decisi che quella mattina avevo decisamente bisogno di una doccia. Perciò gettai la spazzola per terra e mi rassegnai. Mi fiondai sotto la doccia accendendo l’acqua ad una temperatura tiepida. Mi lavai alla bell’e meglio, usando però il mio shampoo preferito.
Uscii di corsa e mi asciugai rapidamente il corpo. Indossai biancheria pulita e proprio in quel momento mi resi conto di non sapere minimamente cosa indossare. Corsi in camera e rovesciai l’intero armadio per trovare qualcosa di decente da mettermi. Alla fine optai per una maglietta verde con scollo a barchetta e dei jeans chiari. Mi resi conto di non essermi ancora asciugata i capelli perciò tornai sfrecciando in bagno. Fortunatamente erano già praticamente asciutti e, quando i miei capelli si asciugavano all’aria, si arricciavano leggermente. Ero contenta, dato che mi lamentavo sempre dei miei capelli lisci come spaghetti. Mi guardai un attimo allo specchio. Dopo un lungo momento decisi che ero soddisfatta di quel look. Corsi in salotto per recuperare lo zaino. Il mio cellulare vibrò, segno che mi era arrivata una notifica. Misi in spalla lo zaino e afferrai il telefono. La notifica proveniva dal sito della scuola. Curiosa, aprii l’avviso e cominciai a leggere.
 
A causa dei seggi elettorali avvenuti nella nostra scuola il giorno scorso, si comunica con gran dispiacere che le lezioni previste per oggi non potranno avere luogo.
                                              La segretaria Pearl Courcy
 
Non potevo credere ai miei occhi. Dopo tutto il tempo che avevo passato a prepararmi, la scuola non c’è. Fantastico. Dopo tutta la fatica che avevo fatto, tutto annullato. Che tempismo. Direi perfetto. Controllai tutta la bacheca del sito della scuola almeno quattro volte, per verificare che non ci fosse stato un qualche avviso precedente, ma niente, tutto completamente vuoto. Lasciai cadere lo zaino sul pavimento e mi buttai a peso morto sul divano. Ricontrollai accuratamente in ogni possibile angolo del mio cellulare, su WhatsApp, nel caso la segretaria non avesse scritto qualcosa sul gruppo della scuola. Tuttavia non trovai niente.
E fu proprio in quel momento che lo notai. Controllai l’ora sullo smartphone e mi cascò l’occhio anche sulla data. Era il sedici ottobre.
Oh-mio-Dio! Oggi è il mio compleanno! Ed io me ne ero completamente scordata! Ma come avevo fatto? Me lo chiesi, anche se in realtà sapevo già la risposta. E la risposta era un nome: James. Sospirai. E pazienza. Tanto non era la morte di nessuno. E poi, se non festeggiare il mio compleanno significava stare più tempo con James, allora andava più che bene. Ero disposta a fare questo “sacrificio”.
Mi stesi sul divano allungando le gambe senza preoccuparmi del fatto che indossavo le scarpe. Mi chiesi cosa avrei fatto. Avrei dovuto aspettare che James si facesse vivo? Oppure avrei dovuto chiamarlo io? Cosa gli avrei detto? Cosa ci saremmo detti? Cosa avremmo fatto? Ma soprattutto, lui teneva a me? Chiusi gli occhi.
Quelle domande tormentavano la mia mente fino a che il mio telefono vibrò. Aprii di scatto gli occhi e la mia mano si spostò fino a rendere visibile lo schermo del telefono. Era una notifica di WhatsApp. La aprii titubante. Era un messaggio da parte di James. Il mio cuore raddoppiò i battiti. Cosa ci sarebbe scritto? Un semplice tanti auguri? Ma come faceva a sapere del mio compleanno? Non ne avevo la più pallida idea, anche perché non mi sembrava di avergliene parlato.
Premetti il dito sopra all’icona dei messaggi e lessi il messaggio con il cuore in gola.
 
Buongiorno Principessa! Come va?
Ci vediamo tra mezz’ora davanti a casa tua
d’accordo? Non fare domande, a dopo!
P.S: metti qualcosa di comodo!
 
Rimasi un po’ perplessa di fronte a quel messaggio. Insomma, non era un messaggio d’auguri, era un messaggio… misterioso?
La mia immaginazione vola troppo, lo so. In compenso però impostai il timer per essere sicura di uscire puntuale. Tornai immediatamente in bagno per assicurarmi di essere ancora a posto. Pettinai i capelli una seconda volta, facendo attenzione a non rovinare i riccioli delicati che mi si erano formati. Non riuscii a sistemarli granché: alla fine dell’operazione avevo i capelli più simili alla criniera di un leone. Pensai che fosse colpa della spazzola, ma i miei capelli erano già elettrici di loro, poi la spazzola incrementava ancor di più questa loro caratteristica. Controllai il timer: mancava ancora un quarto d’ora all’ora x.
Guardandomi allo specchio fui assalita dal dubbio di essere troppo leggera. Spalancai la finestra per saggiare il clima. L’aria era frizzante ma non troppo pungente e non sentivo freddo. Presi un bel respiro. Non c’era niente di cui preoccuparsi. O almeno credevo.
Mi ricordai improvvisamente che nel messaggio James aveva detto di vestirsi comodi. Perciò tanti saluti al look che avevo programmato. Il sole fuori bruciava perciò indossai degli shorts e una maglietta a maniche corte e mi legai una felpa in vita. Cambiai le scarpe e indossai quelle da ginnastica.
Sentii il timer squillare e mi affrettai a spegnerlo. Aprii la porta con fare molto incerto. Fuori non c’era nessuno.
Il mio cuore rallentò i battiti. Il mio sorriso si tramutò in una smorfia di tristezza. Questo è tutto quello che fece il mio inconscio. La mia ragione dapprima si intristì, poi realizzò che un ritardo può capitare a tutti. Uscii e mi voltai per chiudere a chiave la porta. Infilai la chiave nella tasca posteriore dei jeans e mi appoggiai al vecchio albero del mio giardino. Non dovetti aspettare molto.
Le mie orecchie captarono il suono del motore di un’auto molto famigliare. Mi scostai dall’albero e mi avviai verso il vialetto con un sorriso stampato in faccia.
Mi misi in disparte per lasciar passare l’auto. Un’Alfa Romeo blu luccicante spuntò dall’inizio del vialetto. James abbassò il finestrino e mi sembrò il classico ragazzo dei film western.
“Buongiorno principessa!”, mi salutò allegramente.
“Ciao James”, ricambiai.
Scese dall’auto e mi venne incontro. Mi strinse tra le sue braccia ed io mi accoccolai sul suo petto. Mi baciò sui capelli riempiendoli d’aria. Tutto il tempo passato a pettinarli….
Il suo profumo di pulito e di bosco pervase ogni singola cellula del mio corpo. Di colpo, non desiderai altro che rimanere in quell’attimo per sempre, ma sapevo che sarebbe stato impossibile.
“Dove mi porti?”, chiesi.
“Sorpresa!”, disse sciogliendo l’abbraccio.
“Un’altra?!”, esclamai mentre lui mi trascinava verso l’auto.
“Già”, mi disse, sfoderando un enorme sorriso malizioso.
Mi aprì la portiera ed io mi accomodai sul sedile del passeggero.
“Me la lascerai mai guidare?”, chiesi, in tono rassegnato.
“Mmmm…”, fece finta di pensarci un po’ su. “Che ne dici di guidarla adesso, ti va?”, disse infine.
Io strabuzzai gli occhi. Diceva sul serio? Mi avrebbe lasciato guidare quella macchina? Come un sogno – uno dei miei cento miliardi – che si avvera.
“Dici davvero?”, chiesi ancora non del tutto cosciente della situazione.
Lui annuì.
“Ma certo principessa, ogni suo desiderio è un ordine”, disse, ma non riuscì a trattenere una risata.
Scese di nuovo dall’auto e mi venne ad aprire la portiera che aveva chiuso solo pochi secondi prima. Mi prese in braccio e mi fece accomodare sul sedile del guidatore.
“Grazie”, dissi, con gli occhi che luccicavano e che si guardavano intorno per ammirare il volante, il cambio, il cruscotto e tutto il resto. James tornò dalla parte opposta dell’auto e si sedette. Nella sua espressione si leggeva che nella sua auto stare seduto lì era un peso, però gli faceva un bell’effetto vedermi seduta al volante.
“Sarò capace di guidarla?”, domandai a voce incerta.
Scoppiò in una risata per prendermi in giro.
“Preziosa lo è senza dubbio, ma per guidarla non ci vuole un genio. E poi sono sicuro che per una appassionata di motori come te non sarà un problema, giusto?”
“Giusto”, ripetei. Il mio tono era ancora incerto.
Improvvisamente un’altra perplessità si fece largo nella mia mente. Io non sapevo dove stavamo andando. Avrei guidato a caso come una pazza? Non mi sembrava propriamente il caso.
“Ehm… Non so dove devo andare”, dissi, rendendomi conto solo in quel momento che forse era meglio che me ne restavo sul sedile del passeggero.
Lui sembrò riflettere. Evidentemente era una cosa a cui neanche lui aveva pensato.
“Guiderai lo stesso se ti dico io dove andare?”, mi chiese dopo un attimo di riflessione.
“Certo”, esclamai, fin troppo in fretta.
“D’accordo, allora metti in moto”
Non me lo feci ripetere due volte.  Avviai il motore e uscii sgommando dal parcheggio.
“Però… Che guida!”, mi disse ridendo.
“Che ti aspettavi?”, domandai mentre uscivo dal vialetto.
“Pensavo ci andassi più piano”
“Non capita tutti i giorni di guidare un’Alfa Romeo Giulietta!”, risposi.
Mi dava una strana eccitazione essere alla guida di quella macchina, tanto più perché era la sua.
Lui scosse la testa ridendo. Era evidente che anche a lui aveva dato la stessa sensazione quando l’aveva guidata per la prima volta.
“Non è come una BMW però”, rispose provocandomi.
“Assolutamente no, non ci si avvicina neanche per sogno”, risposi stando al gioco.
Mi accorsi che, presa dall’euforia, stavo andando a ruota libera senza sapere dove andare. Avevo già dimenticato la storia del compleanno. Niente poteva essere paragonato alla gioia di stare con James.
Misi il motore in folle, di colpo.
James rise. Si era accorto che stavo vagando senza meta.
“Te ne eri accorto”, dissi, ma non era una domanda, era un’affermazione.
“Non volevo rovinarti il divertimento”, rispose tra una risata e l’altra.
“Dove devo andare?”, dissi, cercando di mantenere un tono serio. Ma era impossibile resistere alla sua risata, con quel suono così armonico…
“Ehm, ehm”, si schiarì la voce. “Ti ricordo signorina che bisogna rispettare i limiti di velocità!”
“Non ci sarà bisogno di ritirarmi la patente”, annunciai.
“Lo spero. Prosegui per Elton Road e poi svolta in Wood Road”, mi indicò la strada in tono chiaro ma dolce.
Eseguii facendo retromarcia e infilandomi in Elton Road.
“Wood Road? Andremo nel… bosco?”, chiesi un po’ perplessa da quelle indicazioni.
“Ti fidi di me?”, mi chiese, con voce dolce e appassionata, ma al contempo insicura. Mi affrettai a rispondere:
“Certo!”, risposi, senza ombra di dubbio.
Lui parve rasserenato dalla mia risposta e sul suo viso comparve di nuovo il suo sorriso malizioso. 
Eravamo arrivati alla fine di Elton Road. Percorsi la rotonda e svoltai in Wood Road. Wood Road era una stradina – a dir la verità era più un sentiero che si inerpicava sopra alla montagna - poco frequentata che porta al boschetto e alle radure di montagna. La gente di qui ci andava ben poco ma era molto apprezzata dai turisti. Io stesso c’ero andata una volta sola da piccola, quando io e mio padre eravamo andati a pesca. Non ci ero più tornata. Mi riusciva difficile immaginare perché James mi stesse portando lì. Tuttavia non feci domande, perché sapevo che non avrebbero avuto risposta.
La strada si stava trasformando pian piano in uno spiazzo di ghiaia. In lontananza si potevano vedere i vari sentieri tracciati nel tempo per i turisti. Da qui era impossibile procedere in macchina. Accostai e spensi il motore.
“Adesso?”, chiesi, ancora più perplessa.
Lui scese dalla vettura, si infilò in spalla uno zaino e mi aprì la portiera.
“Vedrai”, mi disse, mentre il suo sorriso si allargava ancor di più.
“Non me la racconti giusta, tu”, dissi scendendo dall’auto.
Lui rise e buttò la testa all’indietro. Mi prese per mano e mi guidò verso uno dei sentieri che s’inerpicavano nel bosco.
“Quanti chilometri sono?”, domandai incerta se continuare quel percorso.
Lui scoppiò in una fragorosa risata.
“Non eri sportiva?”, mi chiese divertito.
“Sto rivalutando l’idea”, risposi.
“Non ti preoccupare, sono poco più di due chilometri. Ci vorrà circa mezz’ora”
Rilassai le spalle. Ce la potevo anche fare.
“D’accordo, andiamo”, dissi, e mi avvicinai a lui mettendo il primo piede sul sentiero.
Percorremmo non più di una decina di metri che un grosso tronco sovrastato da una fronda spinosa ci sbarrava la strada.
“Dev’essere da molto tempo che qualcuno non viene qui”, commentai.
“Già”, convenne lui ridendo.
“Sai una cosa? Non riesco ancora a capire perché tu mi stia portando qui”, esclamai spazientita.
Lui mi prese le braccia e mi fece voltare verso di lui. S’era fatto serio.
“Ehi, ti fidi di me?”, mi chiese per la seconda volta.
La potenza del suo sguardo era disarmante. Dimenticai tutto e il mio unico desiderio era di prolungare il tempo a nostra disposizione.
“Certo, te l’ho già detto”, risposi senza esitazione. Lui mi strinse a sé in un abbraccio ed io ricambiai stringendolo a me con quanta forza avevo in corpo.
“Mi… stai… stritolando!”, disse in tono ironico. Io mi spaventai ugualmente e lo lasciai andare di scatto. Lui rise della mia apprensione.
Io misi il broncio e lui rise riabbracciandomi.
“Proseguiamo principessa?”, mi disse.
“Senz’altro”
Tagliò la fronda con un coltellino svizzero e mi sollevò prendendomi delicatamente per i fianchi, portandomi dall’altro lato del tronco. Lui invece saltò sopra al tronco e scivolò giù come se fosse Tarzan. Quando toccò il suolo dalla mia parte sul suo volto comparve un sorriso malizioso.
“Ti è piaciuto il mio numero?”
“Esibizionista”, bofonchiai.
“Però un po’ ti è piaciuto vero?”, insistette.
“Guarda che ce la facevo anche da sola!”, precisai, anche se mia aveva fatto piacere quel contatto tra noi.
Lui rise e mi prese per mano, proseguendo sul sentiero. All’improvviso il sentiero si tramutò in qualcosa di più selvaggio, pieno di sassi grezzi e appuntiti. James era più veloce e spedito di me, quasi come se avesse già percorso quella strada più volte. Io invece arrancavo diversi metri dietro a lui. E poi accadde.
Non vidi un sasso appuntito ed inciampai, cascando rovinosamente sui sassi. Cacciai un urlo che probabilmente si sarebbe sentito fino alla città vicina. Ma non m’importava. Il dolore annebbiava tutti i sensi. Sul braccio avevo un lungo taglio, non tanto profondo, ma perdeva molto sangue. Avevo più o meno la stessa cosa sulla gamba destra. La caviglia doleva a causa dell’inciampo e non ero sicura di riuscire ancora a camminare. Ma il punto più doloroso era il petto. Avevo sbattuto in modo talmente violento da mancarmi il respiro. Restai senza fiato per poco meno di un minuto e l’annebbiamento si fece via via sempre più insopportabile e intenso. James si voltò istantaneamente quando sentì il mio urlo agghiacciante.
“Emily!”, urlò. Sentirlo pronunciare il mio nome con quel tono preoccupato mi fece piacere. Se non altro stava venendo ad aiutarmi. Improvvisamente al suono della sua voce tutto il mio dolore svanì come per magia.
“Sono… qui”, mormorai, constatando che facevo fatica a parlare dopo la botta. Il volto di James era una maschera di terrore. Evidentemente non ero un bello spettacolo.
“Non sei… costretto…”. Avrei voluto aggiungere ‘a guardarmi’, ma le forze non me lo permisero.
“Dai Emily, non fare la sciocca”, mi disse, ma si vedeva che era visibilmente preoccupato.
“è tutto… a pos..”, provai a dire, ma era una bugia molto scarsa.
“Stai sanguinando, e tanto”
“Passerà”
Spazientito mi tirò su di peso. Le sue braccia erano calde, e lui sembrava ignorare il sangue che ricopriva le sue mani e che stava sporcando la sua maglietta. Mi abbandonai a lui a peso morto, perciò dovette fare ancora più sforzo. Ma non potevo farci niente. Purtroppo. Camminammo per qualche metro, e io mi concessi il lusso di chiudere gli occhi. Ora non sentivo più nemmeno il dolore, tanto forte era il piacere di essere tra le sue braccia. Mi accoccolai sul suo petto, ma potevo sentire i suoi muscoli tendersi per la tensione che provava. Era seriamente preoccupato per me. Ci fermammo improvvisamente, e lui mia adagiò su un enorme sasso bianco e piatto. Era gelato, ma non mi importava in quel momento. Mi sdraiai. James mi guardò negli occhi.
“Come hai fatto?”, mi chiese in tono dolce.
“Credo di essere inciampata”, risposi, in tono soffocato.
“Bel taglio per essere inciampata”, commentò sarcasticamente. Sorrisi.
“Senti tanto dolore?”, mi chiese tornato serio, sul volto di nuovo una maschera d’ansia e terrore. Optai per la verità, ma forse era il mio cervello annebbiato che mi stava facendo dire ad alta voce simili cose.
“Con te accanto no”, ed era la verità. La pura verità.
Lui sorrise e la sua ansia si attenuò visibilmente. Tornò a fissarmi negli occhi. Cercava di leggere nei miei occhi ciò che veramente provavo. Mi guardò sorpreso del fatto di non trovare niente che potesse esprimere dolore. Solo felicità per essere lì con lui. Il suo sguardo si posò sulle ferite e l’ansia tornò a divorarlo.
“Cerca di concentrarti, quanto dolore senti?”
Fu difficile per me focalizzarmi sul dolore fisico, ma mi sembrava che grazie al freddo del sasso andasse un po’ meglio.
“Credo… meglio”, risposi.
Meglio”, mi scimmiottò. “Fortuna che sono stato previdente”, aggiunse poi, facendo correre lo sguardo al suo zaino. Tirai un sospiro di sollievo. Ma non tanto perché sentissi dolore, ma perché ero triste di aver rovinato la giornata che James mi aveva preparato. Anche se buona parte era di egoismo: volevo troppo rimanere con lui.
Perciò ero felice di avere quella possibilità.
James si sfilò dalle spalle lo zaino e ci frugò dentro per un po’.
“Non credevo di essere così previdente”, sottolineai.
Lui scosse la testa: “Non è colpa tua”
Dal suo tono fece capire di non voler sentire ulteriori domande. Estrasse dallo zaino del disinfettante, un pacchetto di fazzoletti e una scatola di garze.
Il sangue adesso fuoriusciva più lentamente e il dolore – per quanto lo potessi sentire – si attenuò.
Bagnò un fazzoletto con abbondante dose di disinfettante e mi pulì le ferite. Bruciava leggermente ma non ci diedi troppo peso. Avvolse i due tagli con la garza e la fermò con dello scotch apposta. Per tutta la durata dell’operazione lanciò numerose occhiate ansiose all’orologio. Doveva andare da qualche parte? Mi rattristai. Significava che non avremmo avuto tutta la giornata per noi.
“Va meglio?”, chiese incerto.
“Molto, grazie mille”, risposi grata. Senza di lui non so come avrei fatto.
“Te la senti di proseguire, o ti riporto a casa?”, domandò, con aria triste.
“Proseguo”, dissi con decisione. Non avrei sprecato nessun secondo a nostra disposizione.
Mi aiutò a smontare dal masso a cui mi aveva appoggiata e s’incamminò tenendomi per mano. Ero sicura che d’ora in avanti mi avrebbe aspettata sempre.
“Hai preso una botta forte?”, mi domandò. E capii che la sua preoccupazione non era del tutto svanita.
“No, è stato perlopiù all’inizio, ma adesso non mi fa più male”
“Sicura?”
“Sì”, risposi, e non stavo mentendo.
La caviglia reggeva piuttosto bene, anche se nei primi passi sentivo un po’ di dolore. A mano a mano che proseguivo il dolore si attenuava sempre di più fino a scomparire. In lontananza si poteva vedere una vegetazione più controllata e meno selvaggia di quella che ci aveva aggredito nel bosco.
“Siamo quasi arrivati”, annunciò infatti.
Sorrisi, e anche il suo viso tornò a risplendere di gioia pura. Anche lui era contento di essere qui con me. Pro­seguimmo per qualche metro fino a che non incontra­mmo qualcosa di meraviglioso. Un arco, formato da una fronda verde e decorato con mille fiori colorati: azzurri, rosa, gialli, rossi e viola.
Era un tripudio di colori la cui bellezza era inspiegabile a parole. Notai che quell’arco faceva da ingresso a quello spiazzo d’era che avevo visto in lontananza poco fa. Trattenni il respiro. Era quella la sorpresa di James?
Mentre ero persa nella contemplazione della bellezza dell’arco fiorito, mi cascò l’occhio su qualcosa che non avevo notato prima. Nel punto più alto dell’arco, si potevano distinguere alcune lettere di cartone dai colori sgargianti. Lessi la scritta.
 
BUON COMPLEANNO EMILY!
 
Le mie gambe stavano per cedere. Dai miei occhi colavano giù lente lacrime di gioia e sorpresa.
Per tutto il tempo James era rimasto a guardarmi ed ora era leggermente in ansia perché stavo piangendo. Mi buttai tra le sue braccia e lo abbracciai fortissimo.
“James… è… bellissimo! Ma… insomma tu… come facevi a saperlo?”
Lui sorrise con quel suo modo malizioso che mi fece dimenticare tutto in un attimo. Mi sollevò facendomi fare una giravolta fra le sue braccia, e volteggiammo a lungo nell’aria e sentivo la brezza mattutina scompigliarmi i capelli. Il mio cuore batteva di gioia pura.
“Buon compleanno principessa!”, mi sussurrò James all’orecchio dopo che mi ebbe riposata a terra. Io non potevo ancora credere a ciò che avevo davanti ai miei occhi, sapevo solo di trovarmi in uno stato di pura beatitudine e felicità, di provare emozioni talmente forti che mai in vita mia le avevo mai provate.
James mi prese per mano ed insieme varcammo la soglia di quel bellissimo arco fiorito. Al di là dell’arco vi era uno spiazzo verde, con tutta l’erba tagliata. Ai lati tantissimi alberi di frutta ai quali erano appesi palloncini e striscioni con scritto Buon Compleanno Emily.
“Tu hai… fatto questo per… me?”, domandai incredula.
“Non proprio…”, rispose, lasciando la frase in sospeso.
All’improvviso da dietro gli alberi si sentì gridare ‘Tanti Auguri!’. Sbucarono fuori Irene, Letizia, Diego e Gabriel. Non ci potevo credere. Non era… reale. Tutto questo… per me? Cosa avevo fatto di così straordinario da meritarmi tutto questo?
Poi, di colpo, mi venne in mente tutti gli atteggiamenti strani che avevano avuto James, Irene e Letizia negli ultimi giorni, e tutto mi fu più chiaro. Ora capivo. Mi aprii in un sorriso a trentadue denti. Ero… felicissima. Non potevo descrivere ciò che provavo, sarebbe stato tutto troppo limitato.
Di nuovo, mi sgorgarono lacrime di pura gioia dagli occhi. Mi portai le mani alla bocca. Ormai erano tutti intorno a me.
“Voi… siete fantastici!”, esclamai.
“Su, su non ci ringraziare, sei speciale per noi!”, mi dissero, quasi in coro.
Sei speciale per noi. Wow. Era la prima volta che mi guadagnavo l’affetto di persone a quel modo.
“Ti piace?!”, mi chiesero Irene e Letizia esitanti. Dovevo immaginare che c’erano loro due dietro a tutto questo.
“Se mi piace? È assolutamente fantastico anzi, meraviglioso!”, dissi convinta, e non stavo mentendo. Non c’era spazio nel mio cuore per qualcosa che non fossero gioia e felicità pura.
«Beh, non potevamo mica lasciarti trascorrere un compleanno come gli altri… Sei MAGGIORENNE! Ti rendi conto? Potrai fare un sacco di cose! Sarà fantastico!», disse Letizia, entusiasta.
«E così anche l’ultima della combriccola si è unita al club dei diciottenni!», mi prese in giro Diego, e io lo guardai imbronciata.
Si strinsero tutti intorno a me abbracciandomi. Che bell’abbraccio di gruppo. Non potevo essere più felice di così. Poi, mi si accese una lampadina nel cervello.
“Tu… ecco perché avevi il kit, qualcuno si era già fatto male risalendo la montagna!”, indovinai.
James alzò le mani in segno di rassegnazione.
“Per la precisione è caduto Diego”, specificò. “E ti posso assicurare che la prima volta che siamo venuti quassù ci abbiamo messo due ore a salire: non hai idea di cosa c’era sul cammino”
Il mio pensiero corse subito a Diego.
“Ti sei fatto male?”, domandai ansiosa.
Diego scoppiò in una fragorosa risata.
“Emily, mi sono fatto male una settimana fa…”
“Oh”, fu tutto quello che dissi.
Letizia mi stava squadrando.
“Ti sei fatta male?”, disse guardando con un’occhiata truce la mia garza sul braccio e sulla gamba.
“Ehm… niente di che, tranquilla”
Niente di che??”, esclamò Irene quando mi vide anche lei.
“Dopo ci racconterai tutto”, dissero, in tono perentorio.
Non avevo idea di quale fosse il dopo, ma in quel momento non m’importava granché.
“E adesso, che ne dici di aprire i regali?”, disse Gabriel. Io ero stupita. Regali? Se non mi aspettavo la festa, figuriamoci i regali!
“Regali? Davvero?”, chiesi confusa.
“Credevi che ci saremmo dimenticati il tuo compleanno? Neanche per sogno!”, mi disse Letizia.
Mi trascinarono fino al centro dello spiazzo. Ci sedemmo per terra, in cerchio. Io avevo James da un lato e Diego dall’altro. Irene e Letizia erano davanti a me. Gabriel e Irene erano vicini e si tenevano per mano. Ormai il sole aveva quasi raggiunto il punto più alto. Controllai velocemente l’orologio. Erano le undici e dieci.
Vedevo intorno a me i loro volti eccitati. Io ero un po’ in imbarazzo all’idea di ricevere tutti quei doni, magari anche costosi. Sperai che non lo fossero.
I primi che mi allungarono il pacchetto furono Gabriel e Diego. Io ero stupita.
“Anche voi? Non dovevate!”, esclamai, e lo pensavo davvero. Loro sorrisero.
“Non potevamo non farti un regalo!”, rispose Diego raggiante. Come resistere al suo entusiasmo contagioso? Gli lanciai un’occhiataccia scherzosa e afferrai il pacchetto.
Prima di aprirlo lo osservai. Era impacchettato con una carta rossa e chiuso con un nastro dorato. Sul davanti c’era scritto il mio nome in lettering.
Lo tastai con le mani per indovinarne il contenuto. Era un pacco soffice, perciò dovevano essere dei vestiti. Lo aprii curiosa. Rimasi piacevolmente sorpresa.
Mi avevano regalato dei jeans di un colore particolare, né chiaro né scuro. Li sollevai per guardarli meglio, poi mi accorsi che sotto c’era qualcos’altro. Un maglioncino rosso-bordeaux con scollo a V. Era aderente.
“Il colore l’ha scelto James, è il suo preferito, dice che ti dona in un modo che gli dà alla testa”, disse Diego ridacchiando. James lo fulminò con lo sguardo. Io gli accarezzai la mano e si tranquillizzò, anche se non era veramente arrabbiato. Anzi, potevo vedere sul suo viso che in realtà era felice che qualcuno me l’avesse detto al posto suo. Ma provava anche vergogna per non essermelo riuscito a dire.
“è vero, sei ancora più bella del solito quando indossi quel colore, risalta la forma e i colori del tuo viso”, disse, e io arrossii violentemente.
“Su, su, non è questo il momento per le smancerie, adesso si apre i regali”, ci interruppe Gabriel. Io mi ripresi. Di nuovo, i complimenti e la forza del suo sguardo mi avevano fatto dimenticare il resto.
“Oh, scusa. Sono bellissimi entrambi, davvero. Non so come ringraziarvi”
“Non devi farlo, infatti”, mi rimproverarono loro. Adoravo quei regali, se non altro avrei avuto un capo d’abbigliamento sicuro che potevo indossare tutte le volte che stavo con James.
“Adesso tocca a noi!”, dissero Irene e Letizia.
Stringevano tra le mani un pacchetto verde brillante – esattamente il mio colore preferito – con un bel fiocco rosa. Era bellissimo. Riconobbi lo zampino di Letizia. Anche lei era brava ad impacchettare. Tastai anche quel regalo.
Rimasi senza fiato. Era un album per scrapbooking! Mi rigirai la scatola fra le mani. Stando a quello che c’era scritto sopra, conteneva dieci penne colorate metallizzate, cinque fogli di stickers, due stencils, tre scotch colorati per decorare e un libretto contenente carta per fare da sfondo alle foto che ci avrei messo.
“Dato che ami tenere le foto come ricordi, abbiamo pensato che così potrai anche decorarle e tenerle tutte insieme!”, mi spiegò Irene. Non trovavo parole per descrivere quel bellissimo regalo.
James tirò fuori dal suo zaino – che dopo il kit medico di prima chiamerò zaino di Mary Poppins – una macchina fotografica. Sorrise.
“Le foto le faremo con questa”, mi disse, indicando la fotocamera.
“Io… è perfetto. Come regalo”, riuscii a dire, ma non erano parole del tutto coerenti.
Immaginavo già cosa metterci: le foto che ritraevano i momenti passati con James. Avrei reso quello scrapbook un album di ricordi della nostra storia. Perché sembrava proprio che ne stessimo iniziando una.
Vidi tutti i volti dei miei amici sorridermi. Pensai che l’espressione dei miei occhi fosse eloquente e senza bisogno di traduzione.
“Ma adesso… si mangia!”, annunciò Letizia sorridendo.
Mangiare? Cosa?
Controllai l’orologio. Erano
Letizia mi indicò un tavolino ai margini dello spiazzo. Non sapevo come avevo fatto a non notarlo prima, era il punto più decorato di tutta la radura. Ci alzammo tutti per poi risederci sulle sedie del tavolo.
“Oggi menù speciale per la nostra festeggiata!”, dichiarò Irene.
Lei e Letizia si addentrarono nel bosco per poi uscire con due teglie di carta stagnola.
“Chi ve le ha date? Tarzan?”, dissi, prendendole in giro per il fatto che le avessero prese dalla foresta.
“Non dire sciocchezze, le abbiamo messe su un altro tavolo in modo che tu non le potessi vedere”, mi rispose Letizia ridendo.
“Come siete organizzate”, commentai.
“Cos’è?”, aggiunsi poi, curiosa.
“Tagliatelle al ragù!”, annunciò Irene orgogliosa.
Mi venne l’acquolina in bocca solo a sentire il nome! Oserei dire che quelle erano il mio piatto preferito, ma non volevo arrischiarmi a cacciare in seconda e terza posizione la pizza e i tortelli.
Me ne servirono un generoso piatto, e fecero altrettanto con tutti gli altri.
Poi James tornò dalla foresta con una bottiglia di champagne tra le mani.
“Champagne? Per me?”, domandai, strabuzzando gli occhi.
“Una persona speciale, un vino speciale”, rispose lui, tranquillo.
Quelle parole fecero raddoppiare i miei battiti cardiaci e mi resero il respiro affannoso. Come se ciò non bastasse, diventai tutta rossa.
“Oh, qui la signorina è arrossita!”, disse Diego, ridacchiando sotto i baffi. Io – se possibile – arrossi ancor di più e gli lanciai un’occhiataccia.
James fece il giro del tavolo e riempì i bicchieri con una dose moderata. Poi levò in alto il suo bicchiere e disse:
“Un brindisi alla stella che ha illuminato e che illuminerà per sempre la mia vita!”, esclamò, e le sue parole erano più sincere di qualsiasi altre.
Per sempre. Wow. Mi soffermai soprattutto su quella parola. Aveva un significato che andava oltre i limiti della comprensione umana.
Diventai ancor più rossa, e il mio desiderio impetuoso di stare con lui si trasformò in un fuoco ardente. Volevo baciarlo, volevo toccarlo adesso. Ma non potevo farlo. E tutto questo andava a fuoco. Sentivo ogni singola cellula del mio corpo bruciare di desiderio, crogiolarsi in ciò che sapeva non avrebbe potuto fare. Almeno non in quel momento. Ma in quella giornata speciale, ce ne sarebbe stato uno solo per noi due? Ne dubitavo. Ma lo speravo fortemente. E non perchè non desiderassi la compagnia degli altri, anzi. Ma perché in quel momento lui era tutto ciò che vedevo, e malgrado ogni singola parola che ci eravamo detti fosse stata chiara ed esplicativa, ancora nessun ti amo era uscito dalle nostre bocche. Ed io volevo aspettare di avere la certezza di poter stare insieme, che quel sentimento di fuoco che provavo per lui fosse reciproco. Lui fissò su di me i suoi occhi scuri e profondi, ma io non ricambiai per paura di cedere ai miei desideri che stavano ardendo in modo doloroso, più dei tagli che recavo sul braccio e sulla gamba.
«E anche alla nostra nuova maggiorenne!», aggiunse Irene levando il calice. Noi la imitammo e brindammo… beh, io brindai a me stessa.
Il pranzo proseguì con molto gusto e allegria. Diego non la smetteva di fare battute, anche su me e James. Ma la cosa più interessante fu senz’altro uno strano annuncio.
“Ehm… scusatemi se interrompo il pranzo in tuo onore, Emily”, esordì Gabriel “Ma la cosa che devo dire, la voglio dire davanti a tutti, in modo che sia chiara. Sappiate che in questo momento faccio molta fatica, ma spero che possa aiutarvi a comprendere la purezza e l’intensità di ciò che provo”, fece una pausa.
Irene pendeva dalle sue labbra. Vidi che stava sudando per l’agitazione. Letizia le teneva la mano. Feci lo stesso.
“Beh, quello che voglio dire è che… Ti amo Irene, più di ogni altra cosa, e spero tu ricambi”, disse e diventò tutto rosso. Era passato dall’essere evasivo a mirare dritto al bersaglio. Irene lo imitò arrossendo. Si alzò in piedi anche lei.
“Gabriel…”, cominciò, e lui trattenne il fiato. Ma io sapevo già quale sarebbe stata la sua risposta.
“…ti amo anch’io”, concluse e sul volto di Gabriel si dipinse una smorfia di puro stupore.
Quasi come una calamita e il ferro, si avvicinarono l’una all’altra senza rendersene conto e si baciarono. Quando si staccarono – era stato un bacio breve ma intenso – loro stessi non riuscivano a credere a ciò che era successo. Ora stavano insieme. Quel bacio per me fu come l’ossigeno per il mio fuoco che ardeva. Le fiamme si agitarono ancor di più, rendendo sempre più difficile il controllo su di esse.
Finito di mangiare ballammo sotto le note di musiche provenienti dal lettore cd di Diego. Passando da Fly The Intouchables di Ludovico Einaudi a Cin Cin di Alfa, ci liberammo da tutto, sciogliendoci in un ballo liberatorio. Ballavamo per lo più a coppie: io e James, Irene e Gabriel e Diego e Letizia, che non erano una coppia, ma che erano amici stretti.
Beh, a dir la verità neanche noi lo eravamo. Quel particolare mi rattristò, e cercai di scacciarlo dalla mente.
La musica si fermò improvvisamente e ci fermammo istantaneamente anche noi.
“Mi dispiace signori, ma adesso è giunto il momento della seconda sorpresa!”

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Capitolo 8
*** Storie ***


Capitolo 7
Storie
 
 
 
 
 
 
Se parlo di te m’aumenta il battito,
avrei dovuto godermi ogni attimo – Alfa
 
 
Io rimasi di stucco. Un’altra? Cavolo, si erano proprio organizzati.
“Ce n’è un’altra???”, chiesi, ancora incredula.
James mi rivolse un sorriso malizioso e Irene e Letizia sprizzavano gioia da tutti i pori. L’idea per quella giornata doveva essere stata quasi tutta farina del loro sacco.
“Adesso,” annunciò Letizia “… ci divideremo. James, Diego e Gabriel resteranno qui a riordinare tutto e porteranno giù tutta la roba mentre noi invece, andremo direttamente alla macchina perché ci dobbiamo preparare”, concluse tutta soddisfatta.
“Cosa? No io voglio aiutarli, insomma, avete organizzato tutto per me, mi sembra giusto che…”, provai a dire ma Irene m’interruppe.
“Niente storie! Tu vieni con noi”, come se fosse un ordine. E in realtà lo era.
Mi rassegnai con un lungo sospiro.
“D’accordo”, dissi.
“Allora andiamo! Tranquilla, ci metteremo solo un quarto d’ora, a tornare indietro è più facile”, mi esortò Irene.
“Beh, allora ciao”, dissi, facendo un cenno con la mano a James, Gabriel e Diego.
A dopo”, precisò James.
Il mio cuore raddoppiò silenziosamente i battiti. A dopo. Significava che ci saremmo rivisti, che avremmo passato altro tempo insieme. Con quella certezza nel cuore, ero pronta a fare qualsiasi altra cosa.
Io e le mie amiche ci avviamo verso il limitare della foresta e ci addentrammo nella selva.
“Siete sicure di sapere dove andare?”, domandai dopo qualche metro. Loro risero.
“Em, abbiamo percorso questa strada circa una centinaia di volte, e non dimenticare che abbiamo un senso dell’orientamento migliore del tuo!”, mi ricordò Letizia.
Proseguimmo per circa sette minuti senza parlare, tutte concentrate sui nostri piedi per non inciampare.
“Questa parte è quella più difficile di tutto il percorso”, ci informò Irene. “Tra poco dovremmo incontrare il sentiero tracciato, e lì sarà più facile proseguire”
Mentre ero in bilico su un sasso nero per non cadere nella pozza di fango, notai qualche metro più in là un varco tra le felci alte del bosco. Doveva essere quello il sentiero. Ma quando riportai gli occhi sui miei piedi, persi l’equilibrio. Fortuna che lì davanti a me c’erano Irene e Letizia che mi stavano aspettando. Mi afferrarono per le mani e mi tirarono al di là della pozza. Per un soffio. Mi sporcai solamente il retro dei pantaloni con una macchia di fango. Beh, in confronto al mio destino precedente – quello di cadere completamente nel fango con tutti i vestiti – mi andava anche bene.
Loro mi guardarono sconsolate.
“Menomale che abbiamo portato il cambio”, dissero sospirando.
“Cambio? Quale cambio?”, chiesi confusa.
“No, no, lo scoprirai alla macchina!”
Tutto questo mistero mi stava dando sui nervi. Non voglio dire che le sorprese che mi avevano riservato fossero brutte, anzi. Solo che mi dava un po’ fastidio essere sempre all’oscuro di tutto. Ma sapevo che era un fastidio facilmente superabile, neanche da tenere in considerazione.
Eravamo giunte al termine del sentiero. Si vedeva la luce che sbucava dallo spiazzo di ghiaia su cui avevamo parcheggiato la macchina.
Sentii i sassolini scricchiolare sotto alle nostre scarpe.
“Adesso potete spiegarmi cosa facciamo qui?”, chiesi esasperata.
“Certo che no! O almeno, solo una parte”, mi disse Irene.
Respirai a fondo. D’accordo, stai calma. Tra poco scoprirai tutto.
Mi avvicinai alla macchina.
“Entra dai!”, mi incitò Letizia.
Ci infilammo tutte tre in macchina, loro due davanti ed io dietro. Mi allungarono un sacchetto chiuso con un fiocco rosso. Non potevo credere ai miei occhi.
“Voi… siete pazze! Un altro regalo?”, esclamai stupita.
“Oh no, non vederla come un regalo, vedila come un aiuto da amiche per il primo appuntamento”, mi risposero con tranquillità.
Primo appuntamento?!?!?”. La voce mi uscì stridula.
Loro mi sorrisero maliziose.
“Già, James ha organizzato una gita per te”, mi disse Irene.
Stavo per svenire. Cominciai a sudare freddo. Era quello che avevo sempre desiderato certo, però adesso ero molto in ansia.
“Oddio, come faccio?”, chiesi agitata.
Lanciai un’occhiata in tralice ai miei vestiti. Erano macchiati di sangue e fango. E poi non erano affatto l’ideale per un’appuntamento. 
Letizia mi guardò e rise.
“Non ti preoccupare, siamo scese prima proprio per questo”, disse indicando i miei abiti ormai sporchi.
Improvvisamente mi ricordai del regalo che tenevo tra le mani.
“Su, aprilo!”, mi esortò Irene.
Sciolsi il fiocco rosso e aprii il sacchetto. All’interno c’erano diversi abiti. Il primo erano degli shorts. Quando li vidi lanciai un’occhiata fuori. Il sole era alto nel cielo e bruciava intenso nonostante fosse ottobre. Mi accorsi che stavo sudando con quei vestiti. Avevo molto caldo. Come al solito, d’altronde.  Beh, erano azzeccati per quella giornata. Erano shorts color jeans a vita alta. Non erano male.
Sotto ai pantaloni c’era una maglietta bordeaux aderente con le bretelle. Solo a vedere quel completo sentii meno caldo.
“Grazie… è tutto bellissimo! Senza di voi non so come avrei fatto!”, le ringraziai, sinceramente entusiasta. Ora ero pronta ad uscire per l’appuntamento ed ero super… eccitata all’idea! Non vedevo l’ora. Altro tempo con James, praticamente un sogno! E poi da soli! Noi due!
Sentii Irene e Letizia sospirare.
“C’è anche qualcos’altro dentro”, dissero.
“Ancora? Siete proprio pazze”, dissi rimproverandole.
Loro mi guardarono alzando gli occhi al cielo.
Sbirciai in fondo al pacchetto e in effetti c’era ancora qualcosa. Lo tirai fuori. Era un costume. Ma stavolta era azzurro. Lo guardai confusa. C’era un caldo da scoppiare ma me lo avevano regalato solo per un giorno? Era pur sempre autunno. Ogni secondo che passava ci capivo sempre meno. Espressi i miei dubbi ad alta voce.
“Ma…”, cominciai perplessa.
“Niente ma! Ricordi? Niente domande! Indossa tutto quello che ti abbiamo regalato alla svelta! James, Diego e Gabriel potrebbero arrivare da un momento all’altro!”, mi incitò Irene.
“Veloce!”, le fece eco Letizia.
Io mi liberai dei miei vecchi vestiti ormai sporchi e indossai prima il costume e poi gli shorts jeans e la maglietta. Il caldo scivolò via pian piano grazie a quei vestiti, nonostante l’aria fosse ancora piuttosto afosa.
Proprio mentre stavo riponendo tutto quello che indossavo prima nel sacchetto, nello spiazzo di ghiaia echeggiarono le risate di James, Gabriel e Diego.
Mi affrettai e uscii dalla macchina. Respirai a fondo. Ero più eccitata di quanto immaginassi. Ma anche più in ansia. James mi raggiunse sorridendo malizioso e mi strinse la mano.
“Hai capito qualcosa principessa?”, mi chiese.
Io lo guardai con un’espressione del tipo: ‘Mi stai prendendo in giro?’, ma lui si limitò ad allargare il suo sorriso.
“No, non ci ho ancora capito niente!”, sbottai.
Lui mi strinse tra le braccia.
“Lo capirai presto, ti basti sapere che staremo insieme per tutto il giorno, e per tutto il tempo che vorrai”, mi sussurrò all’orecchio.
Quella frase fu come acqua per il mio fuoco d’ansia. Tutta l’agitazione scivolò via lentamente lasciando spazio all’enorme desiderio di stare con lui per sempre, tutto il tempo che potevo. Il desiderio di toccarlo, di baciarlo…
Ma non volevo essere io a fare la prima mossa. E non dimentichiamoci che sarebbe stato il mio primo vero bacio.
A questo punto sembrerò sciocca, ma non ho trovato mai qualcuno con cui mi trovassi così in sintonia come con James. Perciò lo strinsi ancora di più, ansiosa di scoprire cosa aveva in mente per me.
“Allora vi lasciamo piccioncini!”, ci urlò Diego dalla macchina di Gabriel su cui erano saliti tutti quanti.
E partirono in retromarcia per lasciare il parcheggio. Io mi scostai da James e lo guardai come per dire: ‘E adesso? Che si fa?’
Lui, che non aveva perso il sorriso, mi scoccò uno sguardo malizioso. Esplosi. Temetti di non farcela. Perciò immobilizzai tutti i muscoli in una posa rigida. Ero completamente congelata, ma il freddo non sarebbe mai riuscito a spegnere l’enorme fuoco – o meglio, l’enorme incendio – che era scoppiato dentro di me. Lui si era frettolosamente allontanato di qualche passo da me, guardandomi con un’espressione spaventata sul viso. L’avevo spaventato con la mia reazione. Fantastico. Non lo guardai più. Non mi arrischiai a farlo. Dovevo aspettare che, - molto lentamente – si spegnesse l’incendio.
Quel sorriso… aveva fatto scattare dentro di me qualcosa di assolutamente inaspettato. Qualcosa di simile alla voglia di baciarlo, ma di gran lunga molto più forte e intensa. Non avevo mai provato una cosa simile. E ne fui completamente e letteralmente travolta. Respirai l’aria fresca che mi riportò un po’ di lucidità. Ora vedevo la questione anche dal punto di vista della ragione. Ero stata una sciocca, anche se ero stata sul punto di catapultarmi tra le sue braccia, di baciarlo, di toccarlo… L’amore intensissimo che provavo per lui mi aveva fatta quasi impazzire. Mi ripetei di avere pazienza. Però tutto questo, - e anche le cose che erano avvenute prima – testimoniava il fatto che ci appartenevamo, l’uno all’altra. Senza ombra di dubbio.
Sciolsi i muscoli e la mia posa tornò quella di sempre. Alzai lentamente il viso, e tornai a fissarlo negli occhi. Lui era ancora preoccupato. Ora dovevo rimediare a quello che avevo combinato.
Aprì la bocca due volte, poi la richiuse. Era evidente che voleva dire qualcosa per confortarmi, per capire, ma non voleva commettere un errore colossale disturbarmi. Il suo silenzio mi aveva fatto bene, in effetti.
Mi avvicinai, eliminando nuovamente la distanza tra noi. Lui mi prese le mani esitanti.
“Va tutto bene, è solo che…”, cominciai, senza però riuscire a continuare.
“È colpa mia?”, domandò titubante.
Il mio cuore sprofondò. La mia mancanza di autocontrollo fisico aveva portato a questo, a far spaventare James. Se solo pensavo a che sorriso mi aveva rivolto pochi secondi fa… Dovevo assolutamente rimediare. Assolutamente.
“No James, no! Non pensarlo neanche per un secondo! È che tengo a te molto più del lecito”, confessai.
La sua maschera d’ansia e preoccupazione cascò in un attimo di fronte alle mie parole. Mi strinse a sé fortissimo, cosa che mi fece capire che era lo stesso per lui. Quando sciolse l’abbraccio, era tornato il suo sorriso conquistatore. Io ricambiai, stavolta godendomi appieno il suo viso senza immobilizzarmi in una posa di ghiaccio.
Mi accorsi di quanto quel viso fosse bello, di una bellezza mozzafiato… Era a quel viso che tenevo, era di quel viso, di quella persona che mi ero innamorata.
Strinsi forte la sua mano. In quel momento sarei potuta andare dovunque insieme a lui, e mi fidavo ciecamente.
“Andiamo principessa?”, mi chiese dolcemente.
“Ma certo”, risposi.
Mi aprì la portiera e salii – ormai avevo perso il conto delle volte che ci ero salita – sulla sua Alfa Romeo Giulietta.
Mi sedetti sul sedile e appoggiai schiena e testa allo schienale.
Lui salì dall’altro lato dell’auto e lasciò lo spiazzo rimettendosi sulla strada.
«Sarà un viaggio un po’ lungo», annunciò.
Il mio stomaco fece una piccola giravolta. Fin da piccola avevo sempre sofferto di mal di macchina, e le volte che avevo vomitato erano innumerevoli. Tuttavia in quel momento, con James, avvertivo una strana sensazione di piena e beata tranquillità.
«Quanto di preciso?», chiesi, ma solo per curiosità.
«Un’oretta penso. È un problema?», chiese poi, preoccupato.
«Certo che no», risposi, ed era la verità.
Sospirai.
«Adesso posso sapere dove mi stai portando?», domandai, in un ultimo, disperato tentativo.
Lui mi rispose ridacchiando sotto i baffi.
«Cosa ti sfugge della parola sorpresa?»
«Niente, penso», risposi.
«Ah, ecco. Sai che non sembra?»
Molto stranamente non mi arrabbiai anzi, mi unii alla sua risata.
«Vorrei sapere di più su di te», cominciò lui. «Insomma…»
Restò in silenzio. Avevo capito perfettamente quello che intendeva dire, anche senza le parole. D’altro canto desideravo anch’io conoscerlo di più. Perciò portai avanti io il discorso.
«Ho sempre pensato che le domande siano sgradevoli e fuorvianti», cominciai, e James mi guardò un po’ confuso. «quindi credo sia meglio che ognuno di noi faccia un’intera e completa presentazione di sé stesso. Le domande le lasciamo per dopo», conclusi.
James mi guardò soddisfatto.
«Un monologo?», mi chiese.
«Non userei la parola monologo, mi sa troppo di cosa noiosa, capisci? Invece quello che vogliamo fare sarà molto interessante… Almeno per me», mi affrettai ad aggiungere, arrossendo fino alla punta dei capelli.
James sorrise.
«Lo sarà anche per me, fidati», disse, guardandomi con interesse vivo, sincero e profondo. «Perciò ti propongo di iniziare tu», concluse con semplicità.
«I-io??», domandai piuttosto incerta.
Lui annuì.
Io presi un bel respiro, rievocando nella mente tutti gli episodi più importanti della mia vita fino a quel momento. Elaborai una mappa nella mia mente e cominciai.
«Mi chiamo Emily Glanville. Sono nata il sedici ottobre del duemiladue. Ho un fratello e una sorella più piccoli», cominciai, e fino a qui era stato tutto molto incerto e confuso. Ma adesso iniziava la parte senza dubbio più difficile. Mi fermai, incapace di continuare.
James mi guardò con aria incoraggiante. Mi sorrise, e in quel momento le parole cominciarono a uscire a fiotti, come acqua quando si abbatte una diga.
«Ho avuto un’infanzia senza dubbio bellissima e ricordo che quando mia sorella entrò nella nostra famiglia ne fui entusiasta. Però, quando mia mamma l’allattava, ero gelosa, e quindi buttavo per terra tutto quello che stava alla mia portata». Feci una pausa per smaltire l’imbarazzo. Guardai James, ma sulla sua faccia c’era ancora quell’espressione interessata che ti esortava a proseguire. Così feci.
«Com’è logico che sia, non ricordo molto della mia infanzia, ma fin da piccola ho sempre avuto un’eccezionale memoria fotografica, e nella mia mente conservo ancora diverse ‘foto’ della mia vecchia casa. I miei ricordi però, partono perlopiù da quando ci siamo trasferiti nella casa in cui i miei genitori abitano ancora oggi»
«Ero una bambina piuttosto eccentrica e fantasiosa, ma da piccola il mio carattere era completamente a piede libero. Tuttavia ero molto amata dalla mia famiglia, e lo sono ancora adesso». Di nuovo, mi fermai. Eravamo già arrivati alla parte della storia che mi causava più dolore di tutte. Volsi il mio sguardo a James, che nuovamente mi convinse ad andare avanti.
«Ero molto abile a fare un po’ tutte le cose e avevo un cervello multitasking e che riusciva ad apprendere le cose velocemente»
«D’altro canto però, avevo anche un carattere difficile, potrei dire orgoglioso, e questo ha fatto si che feci molta difficoltà a trovarmi delle amicizie. Con questo non voglio dire che è stata tutta colpa mia. Il mio carattere non aiutava, ma io mi sforzavo e ottenevo anche dei risultati»
Alzai lo sguardo sugli occhi di James. Ormai erano diventati la mia fonte di forza per proseguire. Lui mi fece cenno con la testa per farmi capire che aveva inteso quello che avevo detto.
«Tuttavia nella mia classe delle elementari noi femmine eravamo divise in due gruppi. Io, Anne e Sabrina e Iris, Luna, Allie e Lizzie. E qui apro una parentesi per dire che in prima elementare io e Lizzie eravamo migliori amiche, inseparabili. Poi in seconda lei passava sempre più tempo con Allie, e presto cambiò migliore amica. Per me fu un duro colpo. A riemergere mi aiutarono Sabrina e Anne, e diventammo molto amiche. Allie e Lizzie diventarono amiche con Iris e Luna, e divennero un quartetto. Grazie soprattutto a Iris, le liti tra i nostri due gruppi erano sempre presenti. Da un giorno all’altro mi dicevano: ‘ Non siamo più tue amiche’. E allora le vedevi parlarsi nell’orecchio su di me, mi davano fastidio. Nel senso che per loro quella frase non significava quello che significava per tutti gli altri. Significava darmi fastidio, farmi i dispetti, capisci? Così i primi tre anni di elementari furono un incubo per me, dovevo stare attenta a tutto. Una volta, mentre ero in bagno, nascosero un loro braccialetto nel mio zaino, e quando tornai mi accusarono di averglielo rubato. Così frugarono nel mio zaino ma, logicamente lo trovarono dopo neanche mezzo secondo e nessuno credette loro. Poi, quando la maestra mi chiedeva di prestargli il quaderno per copiare una cosa di cui erano rimaste indietro, loro me la scarabocchiavano, in pulmino mi tiravano la coda dai sedili posteriori, Non mi lasciavano in pace un attimo, tornavo a casa piangendo quasi ogni sera»
Mi stoppai perché piccoli diamanti liquidi colavano dai miei occhi. Nessuno sapeva la mia storia, a parte Irene e Letizia, ed era la prima volta che la raccontavo a qualcuno. Mi morsi il labbro inferiore. James non parlò, segno che capiva quello che provavo. Non passò molto tempo prima che le mie lacrime solitarie si trasformassero in un vero e proprio e pianto sconsolato.
Sentii James fermarsi in una piazzola di sosta. Spense il motore e mi prese tra le braccia. Io affondai la faccia sul suo petto e restai lì, a piangere sulla sua spalla. Per la prima volta, avevo una spalla su cui piangere che non fosse quella dei miei genitori.
Lui mi strinse a sé, coccolandomi tra le sue braccia, sussurrandomi che andava tutto bene, che adesso ero con lui e che capiva perfettamente tutto quello che avevo raccontato fino a quel momento. Non so quanto restammo così, ma credo per circa un quarto d’ora.
Mi asciugai gli occhi e riemersi.
«Tutto a posto principessa?», mi chiese dolcemente.
«C-credo di s-sì», dissi, ancora scossa dai singhiozzi. Lui posò le labbra sulla mia fronte e mi tranquillizzai.
«Vuoi proseguire o comincio io?», chiese, molto gentilmente.
Ero risoluta a continuare. Mi ero ripromessa di vivere questa relazione, questa storia, in modo sincero e volevo raccontargli il resto, anche perché adesso arrivava la parte più bella di tutta la storia.
James rimise in modo e si immise nell’autostrada.
Guardai il cruscotto. Andavamo ai centoventi chilometri orari. Dieci in meno rispetto al limite di velocità.
Era chiaro che voleva prendere tempo per poter ascoltare tutto il continuo della storia. Spostai lo sguardo sul mio orologio. Erano passati circa venti minuti, ma erano solo le quattordici e venti. Presi un bel respiro e proseguii.
«Dunque, dopo questo periodo da incubo, la mia storia prosegue andando sempre meglio», esordii.
«Intorno alla quarta elementare le cose si aggiustarono e l’amicizia tra i nostri due gruppi migliorò. Non eravamo amiche del cuore, ovvio, ma in compenso non facevamo più quelle liti sciocche. Passai il resto delle elementari in modo piuttosto tranquillo. Ma poi, un altro duro colpo mi abbatté»
«Alle medie Anne non venne nella nostra stessa classe, e io mi ritrovai con Sabrina e altre due ragazze, con cui srinsi amicizia: Sara e Giselle. Tutto sembrava procedere per il verso giusto ma poi Sabrina e Giselle cominciarono ad andare a pallavolo insieme, e si vedevano tre ore prima per fare i compiti e per giocare assieme. Inoltre la mamma di Giselle, è arbitro di pallavolo, perciò era spesso fuori casa. Durante quel tempo, Giselle andava a casa di Sabrina, ed io ero sempre esclusa. Dagli stati di WhatsApp scoprii che si vedevano spesso loro due, ma qualche volta anche con Sara. Insomma, all’appello mancavo sempre io. Di nuovo, cominciai a sprofondare in un oblio di tristezza. Avevo provato a dirglielo, ma il loro comportamento era rimasto sempre uguale. E poi pensa, dopo tutta l’estate di stati con Giselle – a me non aveva invitato neanche una sola volta ad uscire insieme a lei- verso settembre mi chiese se potevamo vederci per fare i compiti. I compiti, pensa! Era chiaro che mi voleva vedere solo perchè desiderava che io l’aiutassi a fare i compiti. Ovviamente risposi che in quel periodo ero molto impegnata e non potevo. Lei non si fece più sentire. Io la esclusi con dolore dalla mia vita. Continuammo a stare in classe insieme, però non ci legava più niente come prima. Forse questa è stata la cosa più dolorosa, perché credevo fosse un’amica. Invece ne aveva tante altre con cui usciva a gruppi, a volte sparlando di me. La cosa peggiore però, credo sia stata il suo comportamento. In classe o quando stava con me, faceva l’indifferente. Poi lei e Giselle erano sempre vicine di banco – non si sa come facevano a rimanere intatte quando i professori spostavano di posto – e organizzavano sempre cose nuove, e quasi mai ascoltavano le lezioni. È una di quelle cose che mi stupivano di più. Era evidente che facevano dell’altro. Ma rimanevano sempre appiccicate. Logicamente questo non ha aiutato affatto». Mi interruppi. Stavo per ricominciare a piangere, ma riuscii a fermarmi dato che era una cosa che – anche se ci avevo messo tanto – avevo superato del tutto. James mi guardava intenerito, indignato e perennemente interessato.
«Beh, dopo questo periodo andò tutto a gonfie vele. Nell’estate della seconda media instaurai un profondo rapporto d’amicizia con Irene e Letizia. Avevano sempre abitato nel mio quartiere ma non le avevo mai notate più d tanto, forse proprio perché ero troppo concentrata sui miei problemi di classe»
«Comunque, anche grazie ad un corso estivo, diventammo ottime amiche. Io scoppiavo di felicità perché per la prima volta avevo incontrato amiche sincere e scoprii che anche un’amicizia a tre può funzionare. Da quell’estate la mia vita proseguì pressoché bene. Ma poi la ciliegina di felicità è arrivata proprio quando sei entrato nella mia vita», confessai infine.
Lui mi guardò sorpreso. Mi sorrise.
«Una vita facile», commentò sarcastico.
«In realtà da qualche anno a questa parte direi di sì. Mi sono circondata di ottime persone», specificai.
«Comunque mi hai raccontato la tua vita in modo grossolano o, per meglio dire solo da un aspetto», constatò.
«Quale manca?», chiesi.
«L’aspetto più importante», disse.
«E sarebbe?»
«Quello del tuo carattere, delle cose che ti interessa, di ciò che sei brava a fare…»
Presi a tormentarmi il labbro inferiore cercando di trovare una soluzione.
«Suppongo che se c’è un viaggio di andata, c’è ne anche uno di ritorno, giusto?», chiesi.
James mi guardò confuso.
«Sì perché?»
«Beh, stavo pensando che forse potremmo dedicare il viaggio d’andata alle nostre storie, mentre quello di ritorno ai nostri caratteri», proposi.
Lui sorrise soddisfatto.
«Ci sto», disse, e ricambiai il suo sorriso.
«Tocca a te adesso, però», gli ricordai.
Lui sospirò e iniziò il suo racconto.
«Mi chiamo James Griffen e sono nato il diciassette dicembre del duemiladue. Ho una sorella più piccola e si chiama Krystal», esordì esattamente come avevo fatto io. Si fermò anche lui, forse cercando di organizzare le idee. Aspettai in silenzio, piena di viva e sincera curiosità.
«La mia infanzia non è stata facile come la tua, ma in compenso la preadolescenza mi è senza dubbio andata meglio della tua», continuò, facendomi un quadro della situazione. Io annuì piano, incitandolo a proseguire il racconto. Guardai di nuovo il cruscotto. Aveva rallentato: stava andando ai cento chilometri all’ora.
L’orologio segnava le quattordici e trentacinque.
«Beh, suppongo che ora devo raccontare la mia infanzia…», disse sospirando. «…Allora, sono nato in questa città, ed ero il bambino più felice del mondo. La mia famiglia era perfetta, sembrava che non ci potesse essere niente che potesse andare storto. Eppure, fu proprio così». Si fermò nuovamente e capii che si stava preparando al peggio. Anch’io cercai di prepararmi, ma la mia sensibilità era troppo elevata per rimanere forte di fronte a quello che sarebbe venuto dopo. Con molta fatica, James riprese il discorso.
«Eravamo benestanti, e mio padre faceva il poliziotto. Un poliziotto comune, non gli interessava arrivare chissà dove, metteva la famiglia sopra ogni altra cosa. La sera tornava a casa più presto che poteva e giocava con me tutto il tempo che desideravo. Ma poi accadde. Per tanto tempo mi sono chiesto perché in un attimo tutta la sfortuna del mondo si fosse rovesciata su di noi.», si fermò un’altra volta. Era chiaro che anche lui faceva fatica. Molta fatica. Il mio cuore cominciò a perdere qualche battito.
«Il ventisei marzo del duemila undici nacque Krystal. Tutti noi eravamo felicissimi. Era da anni che desideravo una sorellina. Krystal era la cosa più bella che mi fosse mai capitata.»
«Beh, un giorno mio padre rimase in ufficio fino a tarda notte, ed ebbe un infarto al cuore»
Dopo il suo lungo racconto mi erano di nuovo spuntate le lacrime. Lui si voltò verso di me.
«Mio padre mi manca ancora, ma con te dimentico tutto, con te provo una gioia che non ho mai provato», mi disse, e cominciai a sgorgare lacrime di gioia. Troppe emozioni l’una assieme all’altra.
«Continuo il racconto, adesso arriva la parte più divertente»
Io annui, la fiamma della curiosità di nuovo accesa nei miei occhi.
«Nell’estate tra la quinta elementare e la prima media incontrai Diego e Gabriel, due amici fantastici. Passavamo tantissimo tempo insieme, trascurando anche lo studio», e qui fece una pausa per ridacchiare al pensiero di quell’amicizia spensierata.
«I nostri genitori ci misero in punizione: non potevamo più uscire insieme fino a quando non avessimo preso dei bei voti a scuola», di nuovo, si fermo per ridere.
«Così ci inventammo un piano. La nostra scuola era sempre aperta al pomeriggio, mettendo la biblioteca a disposizione degli studenti. Quasi tutti i pomeriggi chiedevamo di andare in biblioteca più o meno allo stesso orario, e così ci vedevamo lì. Facevamo mezz’ora di studio e compiti e il resto del tempo lo passavamo bighellonando in giro»
Lo guardai con un sorriso sulle labbra. Questa storia era divertente. Anche io, Irene e Letizia qualche volta avevamo semi mentito per incontrarci. Risi al ricordo.
Il volto di James era allargato in una smorfia divertita, si vedeva che era completamente perso nei ricordi.
«Quando andammo in terza media, assaggiammo la birra per la prima volta. Non proprio la prima ma comunque bevemmo la nostra prima bottiglia. Ci divertivamo, e di certo non ci ubriacavamo come facevano certuni. Ci prendevamo le nostre bottiglie e andavamo al parco, a ridere e scherzare. Ci divertivamo, sai? Portavamo con noi anche dell’acqua, e non vomitavamo mai. Lo reggiamo bene l’alcol, noi. In ogni caso tornavamo a casa completamente sani e lucidi». Fece una pausa per valutare la mia reazione.
Gli lanciai un’occhiata in tralice, ma non ero veramente arrabbiata.
«Anno dopo anno, la nostra amicizia si è rafforzata, e migliorammo anche nello studio. Decidemmo di andare nello stesso liceo, qui. I primi due anni passarono in un soffio, e scoprimmo di essere molto guardati dalle ragazze, e ci montammo la testa». Scosse la testa ridendo.
«Quanto eravamo arroganti e presuntuosi! In ogni caso non ce n’era una che ci interessava veramente. Nel secondo anno ho cominciato ad occhieggiarti, ma solo quando ti ho veramente conosciuta, ho scoperto veramente cos’è l’amore. Per me sei… tutto. Ma è una definizione alquanto limitata», concluse.
Io arrossii fino alla punta dei capelli e il mio cuore impazzì di gioia. Lui si voltò e mi sorrise. La fiamma del desiderio si riaccese in me, ma stavolta, con lui accanto a me, senza nessun segreto, fu più facile ignorarla.
Guardai la strada, e mi accorsi con sorpresa che stavamo imboccando l’uscita. Presto avrei scoperto la seconda sorpresa. Ero più eccitata che mai. James mi guardò sorridendo.
«Curiosa?», chiese.
«Molto», ammisi.
Lui scosse la testa ridendo.
«Ho proprio sbagliato soprannome: ti dovevo chiamare curiosona!», esclamò ridacchiando.
Io misi su il broncio e lui mi accarezzò la guancia. Inclinai la testa a favore della sua mano e dimenticai ogni cosa. Stavo così bene insieme a lui…
Volsi lo sguardo al finestrino. Riuscii a capire che eravamo finalmente usciti dall’autostrada ed eravamo entrati in una città di cui non conoscevo il nome. Il display accanto al cruscotto segnava le quindici meno cinque. Avevo come la sensazione che il mio vero compleanno iniziasse con la sorpresa di James. Ero contenta e non vedevo l’ora di scoprire di cosa si trattava.
«Ci siamo quasi», disse James, quasi leggendomi nel pensiero.
Finalmente imboccammo una strada secondaria, circondata da felci, ortiche e fiori spinosi. Era tutta curve ed era impossibile vederne la fine. Inoltre, se volevi andare lì, dovevi per forza conoscere bene il posto, dato che non era indicato da nessun cartello.
Mi domandai come facesse James a conoscere quel luogo che distava dalla nostra città un’ora di autostrada.
Scrollai le spalle. La mi curiosità era giunta ormai alle stelle. Perciò mi diedi da fare a catturare ogni più piccolo dettaglio che potesse essermi utile per capire la nostra meta. La vegetazione non mi fece dedurre niente di particolare. L’unica cosa che notai era una leggera sabbiolina che ricopriva ogni cosa. Osservai il cielo: il sole era alto e splendeva ricoprendo di calore e di luce tutto ciò che stava sotto di lui. Avevo voglia di aria fresca, e approfittai del fatto che fossimo usciti dall’autostrada per abbassare il finestrino. La prima cosa che mi colpì quando inspirai per la prima volta fu il caldo palpabile nell’aria. Poi mi giunse al naso un aroma, uno dei miei preferiti, inconfondibile. Un leggero sentore di salmastro, un profumo leggero ma buonissimo che segnalava la vicinanza al mare.
Non mi starà mica portando al…
Trasecolai.
In effetti, a pensarci bene, avevo proprio voglia di una passeggiata sul lungomare, di inzuppare i piedi nell’acqua salmastra, di fare un bel bagno nell’acqua fresca, di ammirare la spuma delle onde che si infrangevano sulla spiaggia…
Ovviamente la bellezza di tutto ciò era triplicata dal fatto che James fosse con me. Sorrisi, pregustandomi tutto quello che sarebbe accaduto dopo.
Ma io non avevo la più pallida idea della bellezza, della gioia, della felicità, dell’eccitazione che avrei provato dopo.
La stradina si stava lentamente trasformando in un vialetto e stavo per posare lo sguardo sul vetro anteriore per dare un’occhiata al paesaggio quando James fermò la macchina bruscamente. Ebbi un sussulto.
«Scusami», disse mentre scendeva dall’auto e veniva verso di me. Lo imitai.
Non appena uscii il caldo afoso impregnò le mie narici insieme all’aria salmastra. James mi prese per mano sorridendo.
«Benvenuta al mare principessa», mi sussurrò, mentre ci incamminammo sull’acciottolato. Lasciai spaziare il mio sguardo tutt’attorno. Era una piccola spiaggetta molto pulita, con il mare spumoso che schizzava piccole gocce ricche di sale tutt’attorno. Non c’era anima viva.
Sorrisi di gioia pura.
«É… bellissimo», riuscii a dire, ma le parole non bastano per descrivere quel posto e quel momento.
«Ti piace sul serio?», chiese ancora sorridente.
«Come potrebbe essere il contrario?», esclamai. «Nessuno mia aveva mai portato al mare per il mio compleanno, essendo ad ottobre. Però mi è sempre piaciuto io mare, molto», dissi.
Diedi una piccola scossa alle nostre mani incrociate, per invitare James a proseguire.
I ciottoli scricchiolavano piacevolmente sotto i nostri piedi. Giungemmo in fretta alla fine del vialetto. Oltre quello c’era una distesa di sabbia.
Mi tolsi le scarpe da ginnastica e anche le calze, rimanendo a piedi nudi. James fece altrettanto.
Arretrai di qualche passo, presi la rincorsa e spiccai un salto atterrando col sedere sulla sabbia. Ne presi una manciata e la lanciai – quella che non mi era scivolata via dalle fessure delle dita – in direzione di James.
Notai che la sabbia era di un colore molto simile al bianco panna, ed era fine come non ne avevo mai vista prima.
James mi guardò ridendo e poi mi imitò. Atterrò ad un centimetro da me. Per un attimo ci guardammo fisso negli occhi. Di nuovo, la potenza di quello sguardo mi travolse, e l’amore per lui mi sopraffece.
Riunì la sua mano alla mia e ci alzammo insieme, diretti verso la riva.
Mi accomodai sulla spiaggia in modo che i miei piedi fossero raggiunti dall’acqua. James si sedette accanto a me.
«Perché mi hai portato qui?», chiesi curiosa, mentre un’onda bagnava il mio piede destro.
Lui sorrise, segno che si aspettava quella domanda.
«Ci sono diverse risposte a questa domanda»
«Allora dimmele tutte, sono qui apposta per ascoltarti», risposi allegramente.
Lui scoppiò a ridere, gettando la zazzera di capelli scuri all’indietro. Si alzò un leggero vento che porto le goccioline del mare sui nostri visi. Mi scompigliava i capelli, facendoli ondulare nella brezza salmastra. James li restò a guardare per un po’ prima di rispondermi.
«D’accordo. La prima ragione è che bramavo del tempo da solo con te», ammise, arrossendo leggermente.
Io diventai di un rosso fuoco, mentre un sorriso di soddisfazione mi si dipingeva sul volto. Era la stessa cosa per me, e fui lieta che anche lui provasse la stessa cosa.
«Il secondo motivo è che volevo portarti in un posto speciale, insolito per il tuo compleanno», continuò.
Io risi e i miei capelli sfiorarono il viso di James. Lui li trattenne con la mano, premendoseli sulla guancia e sulla bocca. Poi li liberò e quelli tonarono a librarsi nel vento.
«Beh, su questo punto ci sei riuscito eccome», ammisi felice.
Lui sorrise compiaciuto.
«Ne sono molto felice»
«Ci sono altri motivi?», chiesi, sospettando già la risposta.
«Sì. Il terzo è che volevo dimostrarti quando ci tengo a te. Il quarto è, beh non potevo mica lasciare che tu vivessi una giornata normale il giorno del tuo diciottesimo compleanno! E il sesto…», disse, lasciando la frase in sospeso. Sul suo volto comparve un sorriso malizioso. Ero confusa, ma attesi che finisse da solo la frase. Non ce ne fu bisogno.
Scattò in piedi, e con gesto fulmineo mi sollevò prendendomi per la vita. Lo fece con naturalezza, come se il mio peso equivalesse a quello di una piuma.
Mi ritrovai con la faccia sulla sua schiena e le gambe che si dimenavano nell’aria per cercare di ritornare appoggiate alla terra ferma. Lui rideva, era evidente che si stava divertendo. Io un po’ meno.
«Ma che fai? Rimettimi giù!», urlai, ma un moto di risate sopraggiunse e sopraffece le mie urla. Era impossibile resistere all’allegria di James.
«Neanche per sogno principessa!», disse lui compiaciuto.
Vidi che si avvicinava paurosamente alle onde spumose. Un istante dopo realizzai di avere ancora i vestiti addosso. Un altro istante dopo sentii arrivarmi il sangue al cervello. In tutto questo, però, avevo solo una frase stampata in fronte: PERICOLO MARE!
«NON OSARE FARLO!», urlai, tra il divertito e il preoccupato.
Ormai aveva i piedi sommersi dall’acqua. Sul volto comparve un immenso sorriso misto di compiacimento, desiderio, e felicità pura. Come la mia in questo momento. A dir la verità in questo momento non mi importava più dei vestiti o di chissà cos’altro: ero con James, mi stavo divertendo, eravamo uniti, e questo mi bastava.
Fece ancora qualche passo verso il mare poi disse:
«Oh sì invece!». E detto questo mi sollevò e mi lanciò in aria verso la distesa d’acqua. Gli schizzi delle onde mi bagnarono il viso e l’aria mi passò attraverso i capelli, accarezzandomi tutto il corpo. Mi accompagnò per tutto il mio volo fino a che non avvertii sotto di me l’acqua. Chiusi gli occhi e con una mano mi tappai il naso. Mi immersi nell’acqua salata con un sonoro splash e probabilmente anche sollevando un bel numero di schizzi. Constatai che la temperatura era gradevole, né calda né fredda, il giusto. Quel che ci voleva per rinfrescarsi senza congelarsi.
Sentii il respiro scivolarmi dai polmoni e riemersi in superficie. Non feci in tempo a far sbucare la testa dall’acqua, che un’onda bianca mi travolse. Rimasi lì impalata a farmi scaricare acqua e sabbia sulla faccia e sui capelli.
Sentii James ridacchiare alle mie spalle.
«Non sapevo avessi voglia di farti un tuffo, principessa!», esclamò.
Io mi immersi per ripulire il viso dalla sabbia per poi riemergere guardando torva James.
Lui, continuando a ridere, si sfilò la maglietta, rimanendo a petto nudo. Non aveva tanti muscoli, ma possedeva una forza naturale che non aveva bisogno della tartaruga, come aveva dimostrato poco fa.
Tuttavia, lo guardai con uno sguardo quasi intellegibile, ma speravo che lui capisse che era pieno di ammirazione, amore e felicità.
Mi sorrise, evidentemente divertito dalla situazione.
«Com’è l’acqua?», chiese, ancora sghignazzando.
Io in tutta risposta, mi voltai dall’altro lato con le braccia conserte. Ovviamente stavo solo recitando. Come potevo essere arrabbiata con lui? Non era una cosa matematicamente possibile.
Pochi secondi dopo, mi travolse un’altra onda. Realizzai soltanto dopo che non poteva essere un’onda, dato che veniva da dietro. Mi voltai e James riemerse dall’acqua davanti a me.
«Hai visto il mio tuffo?», chiese.
«No», risposi, ostentando ancora un tono offeso.
«Te lo rifaccio?», chiese, conoscendo già la risposta.
«Esibizionista», bofonchiai.
Lui mi tirò fuori dall’acqua e dal mio corpo scesero tante gocce d’acqua che si riversarono sul suo petto.
«Secondo me per scioglierti ti ci vuole un bis», esclamò contento.
«Cosa…? NOOOO!», urlai, ma era troppo tardi.
Con un tonfo, tagliai la superficie dell’acqua che tornò a richiudersi sopra di me. Riemersi in fretta, con la sgradevole sensazione dell’acqua su per il naso.
Tuttavia, quando tornai a respirare e vidi il suo volto sorridente, dimenticai l’ostentato tono offeso e tutto il resto, e ricambiai con un sorriso a trentadue denti. Lui mi si avvicinò.
«Te l’avevo detto che ti ce ne voleva un altro per scioglierti», disse, e scoppiò in una risata. Mi unii a lui, e mentre ridevo mi si accese una lampadina nel cervello. Di colpo, mi buttai di peso sopra di lui per buttarlo sott’acqua, ma non ci fu niente da fare. Lui mi afferrò poco prima che toccassi il suo corpo – avrei voluto farlo- e mi rigettò lontano schizzandomi.
Per vendicarmi sollevai con le mani un’onda artificiale e la scagliai contro James. Dal suo volto scomparve il sorriso malizioso e una smorfia di finto terrore lo sostituì.
Quando si riprese disse, con tono di sfida:
«L’hai voluta tu la guerra!», e mi schizzò a più non posso, spingendomi verso il mare.
Passai all’attacco e usai la mossa che usavo quando da piccola attaccavo papà. Appoggiai le mani sulla superficie dell’acqua e comincia a girare, sollevando consistenti masse d’acqua contro James. Lui arretrò portandosi le mani davanti al viso per proteggerlo dagli schizzi. Avanzai per sommergerlo e lui alzò le mani in segno di arresa. Smisi di girare riprendendo fiato. Ma nel frattempo lui aveva abbassato le mani e le aveva messe in moto sollevando onde d’acqua che mi sommersero. Non osai girarmi. Mi immersi nuotando fino a che il fiato me lo permise. Quando riemersi toccavo il fondo, ma ancora per poco. Mi voltai, ma James non si fermò, continuando ad attaccarmi e sospingendomi sempre più verso il mare. Ora, lui era più alto di me di diversi centimetri, dieci o forse quindici centimetri, perciò toccava ancora senza difficoltà. Ma ormai io mi reggevo sulle punte degli alluci. Ancora un metro e non ci avrei toccato più. Compii quel metro e cominciai a dimenare le gambe e le braccia per mantenermi a galla. James se ne accorse e mi venne incontro afferrandomi per la vita e mi strinse a sé, premendo il mio corpo contro il suo.
I nostri occhi si incontrarono e i suoi mi incatenarono a lui. Adesso avevo la mente sgombra da qualsiasi altro pensiero che non fosse lui. La sua espressione si fece incerta ma al contempo decisa. Scostò una mano dal mio fianco e la posò sul mio viso.
Poi prese ad azzerare la distanza tra i nostri due volti, ed io mi lasciai condurre. Si fermò quando era ormai a due millimetri dal mio viso. Sentivo il suo respiro sul collo. Il mio cuore quintuplicò i battiti e il respiro si fece affannoso. Sbattei le palpebre assennatamente. Improvvisamente dovevo ricordarmi di praticare le funzioni vitale. La fiamma si riaccese in me. Finalmente era lì, ormai a mezzo centimetro da me. Era quello che desideravo. Lui azzerò la distanza tra noi due ed io chiusi gli occhi. Rimase lì incerto per un istante, prima di posare con decisione le sue labbra sulle mie. Esplosi di gioia. Nell’attimo in cui le nostre labbra si toccarono, mi sembrò come se il mio cuore si fosse arrestato, come se il respiro si fosse fermato. Come se la mia vita dipendesse totalmente e incondizionatamente da lui. Dischiusi le labbra e lì, incerti nell’attesa. Nessuno di noi si azzardava a mettere distanza fra nostri due volti. Posai di nuovo le mie labbra sulle sue. Mi pareva di aver capito che lui desiderasse che quello fosse un bacio leggero e delicato. Mi strinse a sé ancor più forte tenendomi a galla nell’acqua ormai troppo alta per me. Cinsi i suoi fianchi con le gambe e lui mi afferrò sostenendomi. Lo abbracciai, godendo della sensazione del suo corpo stretto al mio. La mia maglietta era ormai pesante a causa dell’acqua, e lasciava scoperte le clavicole. Mi baciò nell’incavo delle clavicole. Un’onda ci travolse dandoci una spinta verso la riva.
Ci staccammo piano, incerti. Ora arrivava il momento più difficile, quello post-bacio.
«Wow!», esclamai. Era tutto fantastico. Era stato un bacio fenomenale, dovevo ammettere che era proprio bravo.
«Sei… bellissima», disse. «Ma è troppo poco»
Arrossii, e sperai che lui non se ne fosse accorto, cosa assai improbabile dato che eravamo ancora a mezzo centimetro di distanza.
«Com’è stato?», chiesi, piuttosto incerta.
Lui mi sorrise.
«Fantastico. È stata la cosa più bella che ho fatto in diciott’anni di vita», disse. «Era il tuo primo bacio?», chiese poi curioso.
Io annuii. Avrei voluto aggiungere che era stato… non saprei descrivere… stupendo, avrei voluto restare così per sempre.
Appoggiai la testa sulla sua spalla, lasciandomi cullare da lui e dal leggero e piacevole movimento dell’acqua.
Restammo così abbracciati per tanto tempo – non avrei saputo dire quanto – e mi sentivo in paradiso.
Chiusi gli occhi. Nelle orecchie avevo il suono delle onde che s’infrangevano, i piccoli Ti amo e la ninna nanna sussurrata da James e il suono dei gabbiani che sorvolavano pigramente il mare. Cascai in uno stato di leggero torpore, se fossi restata così ancora per poco, mi sarei addormentata.
Riaprii gli occhi lentamente, e fui sorpresa di trovare il sole già a metà strada verso l’occidente. Il cielo era di una sfumatura perfetta, rosso rubino con una leggera tonalità di rosa e arancione caldo. Le montagne si stagliavano all’orizzonte, facendo da sfondo a quella composizione perfetta. Qualche nuvoletta simile a zucchero filato girovaga per il cielo, ma il sole riluceva ancora creando una scia luminosa sull’acqua.
Alzai la testa e James mi baciò con un bacio leggero, dolce e armonioso.
«Ben svegliata, principessa», mi sussurrò piano.
Io mi accoccolai di nuovo su di lui e lentamente s’incamminò verso la riva. Giunti sulla sabbia feci per scendere ma lui non me lo permise. Mi baciò la fronte e poi mi mise delicatamente giù.
«Aspettami qui, torno subito», mi disse, e si allontanò velocemente.
Per la prima volta da quando mi aveva buttata in mare, avevo tempo di riflettere. Ci eravamo baciati. Wow! Significava che adesso stavamo insieme? Pensavo proprio di sì. Erro estasiata, e il giorno non era ancora finito. Mi resi conto di quanto l’amassi, di quanto tenessi a lui. Ero pronta a dare tutto pur di stare con lui.
James fu di ritorno poco dopo con un sorriso stampato in faccia. Era carico di roba. Ma dove l’aveva trovata? Non potevo credere che fosse stata tutta nel piccolo bagagliaio della sua Alfa Romeo Giulietta.
Stese per terra un grande asciugamano e mentre lui allestiva tutto, io mi tolsi la maglietta e gli shorts, mettendoli su un ramo di un albero. Sperai che si asciugassero in fretta, altrimenti avrei avuto freddo. Rimasi in costume, anch’esso fradicio.
Mi voltai per tornare verso James e fui sorpresa di vedere cosa aveva messo su.
Mi venne incontro circondandomi con un asciugamano e mi sentii subito più caldo. Mi riprese in braccio anche contro le mie proteste.       Mi posò delicatamente sul telo che aveva steso. Notai che lì vicino c’erano anche un cuscino e un plaid. Si vede che per la sera avevano previsto freddo.
Spezzò due rami da un albero ormai avvizzito e gli dispose in modo favorevole ad accendere un fuoco. Infatti tirò fuori dalla tasca un accendino e diede fuoco alla legna secca. Poi prese la coperta e si sedette accanto a me, circondandoci con il plaid.
«Posso chiederti una cosa?», chiese, mentre il fuoco crepitava allegro sulla sabbia.
«Certo», risposi senza esitazione.
«Sembrerà sciocco ma… Perché ti piace così tanto il mare?», domandò un po’ incerto.
In effetti era una domanda un po’ strana, ma non ci vedevo nulla di male, perciò risposi. Mi passai la lingua sulle labbra e fissai lo sguardo sulle onde spumose.
«Beh…», cominciai incerta. Lui teneva lo sguardo fermo su di me, esortando a continuare.
«… sembrerà sciocco ma… è il posto ho la maggioranza di ricordi felici con la mia famiglia. E non solo». Feci una pausa, mordendomi il labbro.
«Che intendi dire?», chiese lui, senza riuscire a trattenere la propria curiosità. Io deglutii rumorosamente e prosegui.
«Vedi, fin dalla prima volta in cui ci sono venuta mi sono sentita legata al mare. Era come se fosse libero, selvaggio, ma al contempo legato a me. Sentivo di piacergli in qualche modo. Lo so che sembra un film della Disney», aggiunsi in fretta, evitando il suo sguardo.
Lui mi accarezzò la guancia.
«Non sembra affatto sciocco, se è questo che ti interessa», mi disse piano. Io sorrisi: mi capiva sempre.
«Immaginavo sempre di trovarmi in uno strano stato di… come definirlo… avevo la sensazione di trovarmi perennemente nei meandri della mia fantasia. Mi aiutava, sai. E poi avevo… ho questo dono di saper perfettamente creare nella mia testa una precisa situazione che vorrei si verificasse. Insomma, riesco quasi a vedere cose che non ci sono. Credo sia anche per questo che mi è sempre piaciuto fare l’attrice. Mi sentivo particolarmente portata», dissi ridendo di me stessa.
James invece sembrava assorto nel tentativo di comprendere bene il significato di quelle parole e ragionamenti complessi.
«Che… che genere di cose reciti?», chiese, lo sguardo rapito. Oh, non mi aspettavo questa domanda. Arrossii fino alla punta dei capelli.
«Beh… mi piaceva recitare scene epiche, tipo io che correvo su per le scale fingendo un inseguimento e poi lottando con nemici immaginari, per poi accasciarmi sul letto fingendo di essere svenuta. Poi arrivava il famoso lui, a salvarmi», raccontai sorridendo. «Patetica, eh?», dissi.
«Nient’affatto», disse, e si vedeva che lo pensava davvero. «E poi?»
«Fingevo di correre disperata per arrivare in un punto (che variava a seconda della stanza in cui mi trovavo), e piangevo e urlavo sul presunto cadavere del mio inesistente fidanzato. Poi ovviamente scoprivo che lui in realtà era ancora vivo. E ancora fingevo di svenire dopo una lunga battaglia, per poi risvegliarmi sul mio letto credendo di essere all’ospedale con tutti i miei amici intorno. Solo che io non ricordo niente, hai presente quei risvegli epici da protagonista? Ecco quelli», dissi dopo che lui ebbe annuito sorridente.
«Quindi il tuo sogno è fare l’attrice?», mi chiese. Ero stupita di come avesse afferrato il nocciolo della questione.
«Beh sì, direi»
«Come ci siamo arrivati? A parlare di questo, intendo»
«Oh, credo parlando del perché mi piacesse il mare»
«Giusto». Lo disse in un tono che rendeva perfettamente chiaro il fatto che non se l’era scordato, aveva solo fatto finta.
«E beh, sognavo che avrei dato il mio primo bacio sulla spiaggia», conclusi assorta nei miei ricordi.
Lui sembrò ridestarsi, e mi si avvicinò.
«Sai, prima di adesso non ho mai incontrato ragazza più bella di te», cominciò. «Ma non è solo questo che mi attrae di te», precisò. «È perlopiù il tuo carattere, il tuo essere sempre e maledettamente solare, la tua bontà, la tua pazienza. Ma la cosa assurda è che non amo solo la parte migliore di te, amo anche la parte peggiore di te, anche i tuoi difetti più colossali, amo ogni singola parte di te. Quindi, credo che questi fattori possano permettermi di dirti che ti amo. Più di ogni altra cosa Emily. Più della mia stessa vita, TI AMO».
Io non ebbi il tempo di metabolizzare quelle parole perché lui azzerò la distanza fra i nostri corpi e mi baciò con trasporto e passione, lasciandomi di stucco. Non era un bacio come quello di prima, era qualcosa di più… di più potente e travolgente. Ricambiai il bacio, e potrei dire che quello fu il mio primo vero bacio. Il sole stava calando all’orizzonte, lanciando una luce rossastra su tutta la spiaggetta, mentre le onde s’infrangevano in un ritmo costante e armonioso. Le nostre labbra non si erano ancora staccate, eravamo uniti in quel bacio mozzafiato, proprio come l’avevo sempre desiderato.
 
 
James mi porse un cartone della pizza. Ne presi una fetta e la assaporai piano, assorta. Stavo ancora meditando sul bacio. Mi sembrava tutto ancora incredibilmente incredibile. James era lì accanto a me, perciò dovetti supporre che era tutto vero. Tutto. Un vero uragano di sentimenti si era impadronito di me, e a capeggiare la tempesta era senza dubbio l’amore. All’improvviso l’amore per James mi aveva travolto proprio come un’onda. Istintivamente volsi lo sguardo al mare, che aveva assistito alla scena come un muto spettatore di fondo. Ormai era incatenato dentro a quel ricordo, e quel posto sarebbe diventato speciale per la nostra storia, ne ero certa.
«Non ti sembra straordinario?», chiese. Io rimasi paralizzata per un istante, nel goffo tentativo di riportarmi alla realtà. Risposi senza ragionarci.
«Cosa?», risposi, spostando il mio sguardo su James.
«Tutto», rispose con semplicità. «O meglio, noi. È meno di un mese che ti conosco e già sono pazzo di te. Non mi era mai successo prima».
«Mi stai dicendo che abbiamo corso troppo?», chiesi preoccupata.
Lui posò delicatamente le sue labbra sulle mie e mi sorrise.
«Ti sto dicendo che rifarei tutto mille volte e che ti amo», specificò. Io lo abbracciai e lui mi accolse tra le sue braccia. Rimasi accoccolata sul suo petto per un bel po’.
 
Una goccia di pioggia mi bagnò il viso. La temperatura era scesa di almeno dieci gradi ma nonostante tutto desideravo ancora restare lì.
Una mano calda mi accarezzò la guancia.
«È ora di andare principessa», mi sussurrò James all’orecchio.
«Mmm…», mugugnai io.
Allungai una mano e avvicinai il suo viso al mio. Gli diedi un bacio intenso per convincerlo a restare ancora un po’.
«Così non vale! Giochi sporco!», mi accusò anche se non sembrava per niente dispiaciuto. Mi diede un altro bacio veloce ma io ricambiai e prolungai il bacio.
«Forse ho cambiato idea», disse ripensandoci.
E in quel momento pensai che se le fiamme che ardevano davanti a noi erano calde, io lo ero mooolto di più.

NOTA AUTRICE: Ciao! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Penso che prenderò l'abitudine a lasciare più spesso una nota autrice. Spero che questo capitolo sia di una lunghezza decente e vi invito come sempre a lasciare una recensione per farmi sapere la vostra opinione, pls!

 

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