Overlord

di Indaco_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Nuovi incarichi ***
Capitolo 3: *** Controlli ***
Capitolo 4: *** Una cattura sfrenata ***
Capitolo 5: *** Responsabilità p.1 ***
Capitolo 6: *** Responsabilità p.2 ***
Capitolo 7: *** Piccole interferenze ***
Capitolo 8: *** Sparizioni ***
Capitolo 9: *** Approfondimenti ***
Capitolo 10: *** Il topo perduto ***
Capitolo 11: *** News ***
Capitolo 12: *** L'impegno è tutto! ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Premessa:
Questa storia è in cantiere da ben due anni, è da tanto che volevo buttarla giù ma, per fortuna, ho aspettato pazientemente fino ad oggi. Sarà un racconto leggero e spero davvero di riuscire a raggiungere gli obiettivi che mi sono prefissata: pulizia, ordine, chiarezza, una buona trama, equilibrio e un buon stile di scrittura. Ho deciso che i capitoli saranno lunghi quanto meritano, non voglio più utilizzare le 3-4 pagine word come base, bensì se un certo capitolo meriterà 1  o 10 pagine saranno pubblicate nella loro pienezza. A scrivere queste cose mi vien un po’ da ridere, probabilmente anche voi penserete che mi prendo troppo sul serio ma voglio migliorare tanto e mi servono le vostre critiche per arginare e spianare i difetti. Vedremo cosa salterà fuori. Spero davvero di mantenere l’equilibrio nella trama e, ovviamente, spero che vi piacerà.
 A voi.
 

PROLOGO


Il paesaggio di fronte a lui era letteralmente una tovaglia verde chiaro: la campagna piatta era coperta di grano e orzo verdissimo, quasi giallo, fin troppo rigogliosi rispetto alla stagione. Disposti seguendo il profilo del terreno, i fossati sembravano luccicanti fili che cucivano terra nuda, frumento e prati  unendoli in un’unica, grande e variopinta scacchiera. I canali erano carichi d’acqua, grigia come il cielo che si doppiava in quegli specchi naturali.
La superficie increspata come alluminio trascinava con sé foglie, rametti e una lattina vuota mentre, controcorrente, pesciolini neri nuotavano a branchi tra le alghe grigie e morte.
Qualche rarissimo albero riposava sulle sponde di quei nastri argentati come vecchi pennelli spelacchiati infilati in un portapenne altrettanto vecchio. I rami, già carichi di gemme compatte, si preparavano ad una primavera che, con largo anticipo, si prestava a baciare prati e boschi ricoprendoli di fiori chiari. La campagna assomigliava ad un’isola verde, attorno alla città, sfruttata sino all’ultimo filo d’erba, all’ultimo granello di terra, all’ultima goccia d’acqua.
Quel paradiso, profumato di salsedine, circondava per centinaia e centinaia di chilometri la metà settentrionale di Mobius; il cuore di ferro e cemento pulsante di vita. La grande città posta sulla costa era circondata per l’altra metà dal mare: una mezza ruota blu che iniziava dalla spiaggia e finiva all’orizzonte. Mobius era una tavolozza di colori, specie, caratteri, culture, cibi e via dicendo. Pulsante di vita, la città datata secoli era un variegato multi gusto. La sua crescita economica e sociale era intessuta da persone particolari, da eventi dimenticati e poco conosciuti e da tanti, tanti soldi.
                                                                                                                                                                                                                   

Il suo stesso  respiro, veloce e ansimante, riempiva i padiglioni auricolari del topo color ocra che non riusciva a percepire nient’altro che il suo cuore pulsante e il suo fiato saltellargli fuori dal petto.
Quel paesaggio bucolico sfilava davanti ai suoi occhi come la più comune delle auto senza attirare un minimo della sua attenzione. Le gambe magre, infilate in costosi pantaloni di lana, lo sostenevano appena in quella corsa a perdifiato e la lunga coda ad anelli seguiva il corpo smilzo con una serpentina flessuosa. Le spighe appena abbozzate sbattevano contro le ginocchia del roditore rallentando il suo percorso e minando i suoi sforzi già compromessi dalla scia di fusti schiacciati dietro di lui.
Continuando a correre, voltò la testa dietro di sé per un breve attimo cercando, in mezzo a quel verde piattume, il suo inseguitore. Lungo gli argini sgombri solo alcuni iris avevano preso posto e dietro di lui la calma più assoluta regnava sovrana.
Nonostante quella apparente solitudine il roditore strinse i pugni e diede fondo alle energie cercando di raggiungere il prima possibile un posto sicuro. Non facile in mezzo a quella tavola priva di nascondigli naturali e a quella pista che si lasciava alle spalle ad ogni passo.
Confuso e spaventato dalla scena a cui aveva appena assistito, il suo cervello non connetteva più, intento a rivedere e rielaborare quello che i suoi occhi avevano, sfortunatamente, visto pochi minuti fa. Non riusciva a pensare in modo lucido ad un nascondiglio efficace: era troppo frastornato. Davanti alle iridi color crema, quello che era accaduto poco prima si svolgeva e si avvolgeva in un loop infinito.
I polmoni e la trachea erano aridi dalla sete e dall’affanno, tanto da non riuscire più a respirare e a perdere così tempo e ossigeno. Il suo corpo iniziava ad abbandonare progressivamente il ritmo di marcia, trovandosi poco dopo con le mani appoggiate alle ginocchia, a bocca aperta e ansante. Un soffio di vento feroce fece ondeggiare la coda nell’aria rubandogli il respiro e un po’ di calore dal corpo.
L’odore della terra smossa, umido e pastoso, gli arrivò alle narici. Pentendosi di essersi fermato con un inseguitore così allenato e, soprattutto, più giovane, nonostante il dolore alla milza e la mancanza di aria nel petto, si accinse ad andare avanti e a tornare a casa il prima possibile: doveva avvisare il signore di quello che aveva visto. 
Sollevando il busto per riprendere la sua fuga, non ebbe nemmeno il tempo di concludere un respiro profondo. Davanti a sé un sinistro e familiarissimo ticchettio, simile alla molla dei vecchi carillon, annunciò che il carrello della pistola semiautomatica era stato caricato e che lo sparo era in sospeso.
Le orecchie del topo si distesero e presero a vibrare nuovamente al ritmo accelerato del suo cuore.  Il panico si insinuò nella sua esile corporatura facendolo tremare come una foglia nel bel mezzo di una burrasca.
Deglutendo la saliva acida che gli si era accumulata in bocca, si sollevò prudentemente di pochi centimetri, abbastanza però per trovarsi puntato la canna dell’arma impugnata dal suo instancabile inseguitore. Fresco come una rosa, l’individuo di fronte a lui sorrideva soavemente come se, al posto dell’arma da fuoco, avesse tra le mani una piuma di struzzo con cui stuzzicare la sua preda.
Piegando la testa appena, socchiuse le palpebre con evidente soddisfazione: i fatti suoi erano nuovamente al sicuro ora che quello spione era tra le sue mani.  Il topo si rizzò in piedi barcollante di paura.
Sempre più pallido non aveva mai nemmeno pensato che quel giorno sarebbe potuto morire. Anche perché, tra tutte le morti, non aveva mai nemmeno lontanamente pensato di morire braccato come un coniglio e infangato di terra e chissà cos’altro. Ed ora si trovava in aperta campagna con unica compagnia il pazzo armato.
Gli occhi color crema si tinsero della paura più profonda nell’ammirare con terrore quel tubo lucido, di fronte a lui, che minacciava di sputare morte da lì a poco. I sensi del roditore si affinarono nella speranza di salvarsi, l’odore metallico della pistola si depositò persino nella lingua congelata. La bocca, carica di parole ma asciutta come sabbia nel deserto, si aprì e si richiuse in silenzio, sillabando una poca interpretabile “pietà”.
Il tremore gli scuoteva le labbra come foglie facendogli sbattere persino i denti e la schiena, piegata in quella posizione innaturale, iniziava a farsi sentire pienamente minando la sua resistenza.
Come se non bastasse, il vento rapì le ultime parole del topo trascinandole e spargendole per tutta la campagna mentre un mulinello di sabbia sbatté debolmente sui vestiti di entrambi imbiancandoli di polvere. Le labbra già tirate dell’aguzzino si stirarono come due elastici facendo scorgere la dentatura troppo piccola e minuta per quella bocca.
< Uff, pa-te-ti-co > rispose a quella supplica con una ruotata d’occhi teatrale. La sua voce era acuta e precisa, ogni lettera era scandita con perfetta dizione. Tipico di chi era abituato da una vita a parlare con decine e decine di persone ogni giorno.
Indeciso se tirare o meno, utilizzò qualche attimo per ideare una soluzione che non comprendesse l’omicidio.
Poteva portarlo con sé ma poi? Dove avrebbe potuto metterlo? E soprattutto per quanto tempo? Avrebbe dovuto trovare un telepatico, cosa assai difficile vista la difficoltà nel trovarli, e ordinargli di cancellare quel ricordo. Ma l’impresa sarebbe stata lunga e, soprattutto, danarosa.
Lanciando un’occhiata veloce al costoso orologio agganciato al polso notò che era in ritardo con la sua tabella di marcia di ben quattordici minuti.
Un sospiro e la scelta ricadde sull’alternativa più semplice e sbrigativa.
Con evidente soddisfazione e sollievo, schiudendo la mano un paio di volte a mo’ di saluto, premette il grilletto prima che il morto, tra le lacrime e la disperazione, potesse anche solo mormorare un’altra parola.  

Spazio autrice:
Buonasera a tutti! Volevo pubblicare questo capitolo il primo di settembre ma so già che non avrò tempo quel giorno.
Spero di avervi incuriosito con questo piccolo capitolo iniziale.
A presto.
Baci.
Indaco


 

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Capitolo 2
*** Nuovi incarichi ***


La piccola pallina di vetro colorato rotolò sul piano della scrivania acquistando man mano sempre più velocità, andando a creare, in una superficie grande quanto un’unghia, un caleidoscopio bianco, verde e oro. Il salto nel vuoto e l'atterraggio sul pavimento venne fermato dalla mano che l’aveva lanciata che, con destrezza e abitudinalità, bloccò la biglia e la riportò al punto di partenza, abbandonandola, per la decima volta, al suo destino: una lunga corsa, la brusca raccolta e viceversa.
Ma l’undicesimo tiro di quel rito quotidiano, diventato un vero e proprio vizio, venne improvvisamente arrestato dalle mani del proprietario di quella pallina. O meglio, dalla proprietariA, la quale portò quel pezzo di vetro levigato sotto il suo sguardo annoiato, studiando con cura i dettagli di quel vecchissimo portafortuna. Un sorriso scialbo le si affacciò sul volto lasciando indovinare che quella biglia, ammaccata e ormai  ruvida, fosse un oggetto molto caro a lei.
Distolse lo sguardo solamente quando il suo cellulare trillò piano e lo schermo nero venne occupato dal messaggio della sua migliore amica che le chiedeva di uscire la sera stessa. Stava quasi per rispondere in modo affermativo quando, ad un tratto, dietro alla porta dell’ufficio una serie di risate appartenenti a tre diverse persone sfociarono di colpo facendo sobbalzare la ragazza, la quale si premurò di far sparire la biglia all’interno della tasca del giubotto.
Di seguito, specchiandosi nello schermo del computer, si sistemò il cravattino blu e lisciò il colletto della camicia azzurra infilata all’interno dei pantaloni blu, in attesa che i suoi colleghi uscissero dalla tana del loro capo.
La riccia rosa sospirò, aspettando, con la stessa ansia che precede un appuntamento dal dentista, gli ordini del suo superiore.

La ragazza era un’agente di polizia e lavorava nella piccola stazione periferica di Mobius. Operava in centrale da due anni grazie ad un concorso inaspettato, organizzato con l’intento di reclutare personale che svolgesse gli incarichi più ordinari.
L’entusiasmo per la favolosa opportunità che le era stata concessa scemò nel giro di due settimane e l’ambito sogno di combattere il male e fare giustizia fu totalmente ridimensionato nel giro di un mese.
Il suo ruolo consisteva principalmente nel raccogliere le denunce di smarrimento dei documenti personali, fare qualche multa alle auto parcheggiate in divieto di sosta (e già questo accadeva sporadicamente) e compilare i fascicoli di orgogliosi teppistelli minorenni beccati con qualche scarsa foglia d’erba nello zaino (in quei casi pregava che i genitori tirassero loro qualche salutare sberla per rieducarli).
Ma nonostante non facesse quello che desiderasse, quel posto rappresentava un guadagno sicuro e non poteva assolutamente farne a meno. Il salario non era altissimo, ma era pur sempre qualcosa - e tra affitto e bollette le serviva ogni singolo centesimo guadagnato.
La cosa che più la confortava e le dava speranza era il fatto che, come agente, avesse l’opportunità di conoscere a fondo tutti i casi e gli avvenimenti che interessavano la sua città e le città accanto. Per questo si impegnava molto nel suo lavoro: sperava di ricevere qualche promozione per poter spostarsi in città più movimentate e abbandonare quella caserma noiosa per dedicarsi alla sua aspirazione. Peccato che questo non accadesse mai.
 
La stanza in cui si trovava era una delle tante del piano terra di un vecchio condominio dismesso. Lo stanzone rettangolare presentava altre due mini sgabuzzini, uno di essi era stato adibito ad ufficio del capo, mentre, il più piccolo, era stato trasformato in un bagno minuscolo. Le pareti intonacate, in un tempo indefinito, di bianco con il passare degli anni si era tramutato in un grigio opaco e infiniti strisci, pedate e quant’altro erano diventate parte integrante dello sfondo giornaliero.
Da un angolo della stanza era stata ricavata una mini cella chiusa, per due lati, dalle caratteristiche sbarre di ferro. Praticamente inutilizzata da quando era nata, all'interno di essa c’era una sedia fatiscente su cui era stata appoggiata la stampante dell’ufficio, ancor più fatiscente, e le risme di carta.
L’ufficio principale, invece, conteneva due scrivanie, tre computer, due sedie plasticate che costituivano la sala d’aspetto, due classici armadietti in ferro, la macchinetta del caffè e un piccolo mini bar a forma di ananas costantemente vuoto.
Poco accogliente e gran poco caloroso, il freddo veniva combattuto con due stufette elettriche, ora spente, poste in due diversi angoli della stanza. Un vecchio calendario appeso in bella vista nella parete centrale, fermo a settembre di numerosi anni fa, immortalava una giovane tigre poco vestita dall’aria seducente. Immagine che faceva impallidire molti che entravano per la prima volta in quell’edificio e che imbambolava i di più.                                                                                              

La porta dell’ufficio si aprì con un fastidioso cigolio stridulo e dallo spiraglio, sempre più largo, ne uscirono tre individui, per pura casualità, in ordine di altezza. Il primo ed il secondo erano due colleghi della ragazza: Steve  e Jack, rispettivamente un orso grigio e un toro pompato d’una tonnellata con due lunghe e ritorte corna.
Se il bovino era muscoloso, l’orso era nettamente il contrario e la stessa cosa valeva per l’intelligenza: l’acutezza del grigio era sormontata dalla semplicità del toro.
Entrambi più vecchi di lei di qualche anno, lavoravano lì da tempo indefinito ed erano strettamente legati: quello che faceva l’altro veniva replicato dal compagno e viceversa, riuscendo così a coprirsi le spalle a vicenda in qualsiasi contesto.
Lecchini il giusto per essere i favoriti del capo, non erano riusciti a far strada nelle loro carriere lavorative sia per un fattore di pigrizia sia per la mancanza di occasioni reali, perciò erano attentissimi a rimanere in buoni rapporti con il boss per vivere di lavoretti e di rendita.
Dietro di loro, il terzo ed ultimo, altro non era che il loro capo ed il più basso dell’ufficio: Pierre, un furetto dalla pelle color bronzo, sottile, infimo e pungente come pochi. Stronzissimo, esigente, calcolatore, acuto e sbruffone come pochi, a capo di quella piccolissima caserma, Pierre esercitava con elasticità disarmante il suo ruolo: traballando continuamente tra il baratro dell’inflessibilità a quello dell’indulgenza impartiva pene e grazie in base al suo umore giornaliero.
Molti sotto al suo comando avevano richiesto spostamenti immediati e molti altri si erano licenziati in tronco non appena scoperto il caratteraccio del superiore. Ma Amy non apparteneva né al primo gruppo né al secondo: il suo sogno era troppo vicino a lei per non riuscire a vederlo, già si immaginava nella capitale a scovare criminali e ad essere di vero aiuto per risolvere i casi più importanti. Aiuto che non aveva ricevuto quando era toccato a lei. Perciò inghiottiva rabbia e si sforzava di andare d’accordo con tutti e tre, anche se a volte era molto, molto più impegnativo del previsto.

I tre, ancora ridacchiando, uscirono in fila come allegre formichine, probabilmente divertiti da qualche battuta di Pierre o, più probabilmente, dalle malelingue che in quella stanza sfociavano in continuazione.
Amy abbassò gli occhi e si concentrò sulla mail che da diversi minuti aveva preso forma nello schermo del pc, sforzandosi di trovare un giusto finale da scrivere per poterla finalmente spedire. Rileggendola per la terza volta in cerca di ispirazione, corresse qualche errore di battitura e poi guardò distrattamente la finestra immaginando un qualche finale adatto. La giornata era tiepida, velature sgualcite coprivano a tratti il sole luminoso portando bruschi cali di luce in tutta la stanza. Un’ombra improvvisa oscurò lo stanzone facendo brillare con maggior intensità tutti i vecchi schermi dei computer. La rosa ridusse a due fessure gli occhi verdissimi per focalizzare meglio l'ambiente che la finestra le consentiva di vedere. Il riquadro della casella elettronica splendeva fastidiosa facendo lampeggiare la retta nera sull’ultima parola scritta.
< Hai inviato la mail che ti ho ordinato? > domandò di colpo Pierre creando una bolla di silenzio attorno a lui. Con le braccia incrociate e lo sguardo fisso su di lei, il furetto si voltò verso la sua direzione, aspettando una rapida risposta da parte della diretta interessata. I suoi due colleghi, che fino ad un minuto prima le avevano dato le spalle, ruotarono il busto per catturare la reazione di quella domanda.
Amy sobbalzò, colta alla sprovvista, ritornò a guardare per un momento la mail incompleta ed arrossì dall’imbarazzo. Tre paia d’occhi la fissavano, Pierre, accigliato, sbatté le palpebre con lentezza facendole capire che aveva perso numerosi punti con quel ritardo di tre minuti. Gli altri due, i quali non erano neppure a conoscenza dell’incarico della collega, schierati ovviamente dalla parte vincente, la squadravano sprizzando una specie di disgusto e procurandole una dolorosa sensazione di inferiorità. La rosa sperò che la terra si aprisse sotto di lei inghiottendola per decine e decine di metri sottoterra.
Le sue labbra si mossero per lei:
< l-la sto inviando giusto ora! Volevo s-solo concluderla al meglio! D’altronde è molto lungo il riepilogo degli accaduti mensile quindi … > tentò di spiegare la ragazza tamburellando nervosamente i polpastrelli sulla tastiera.
Guardando il soffitto con espressione esasperata, il furetto chiuse definitivamente il discorso lì come era iniziato riprendendo la chiacchierata interrotta con i sottoposti.
La riccia, umiliata da quell’atteggiamento, arrossì ancor di più, quindi, con il cuore che batteva, le gote infiammate e un gran senso di nausea, riprese la mail abbandonata con la voglia di nascondersi sotto la scrivania.
Gli aculei, legati in una rigida e compostissima coda e utilizzati come valvola di sfogo, vennero brutalmente arrotolati più e più volte attorno all’indice. Si sentiva davvero un’idiota quando Pierre la riprendeva in quel modo di fronte a tutti e, nonostante cercasse di fare sempre del suo meglio, le sue bacchettate scendevano come pioggia quasi ogni giorno, sempre più dolorose e frequenti.
Si stava giusto chiedendo come poter rimediare quando, improvvisamente, il telefono del boss squillò dal suo personale ufficio. Collegato direttamente alla centrale della capitale, il telefono impolverato posto nell’ufficio del comandante veniva usato si e no due volte all’anno: entrambe per girare le lamentele e le segnalazioni dei cittadini legate a questioni ambientali.
Dapprima come un eco lontano, la suoneria rara si diffuse come fumo per tutto l’ufficio. Tutti e quattro sollevarono lo sguardo dalle loro incombenze e si guardarono negli occhi confusi ed increduli: la chiamata legata alle segnalazioni pubbliche era stata fatta poco tempo prima, possibile che stavolta, per la prima volta nella carriera della ragazza, ci fosse un incarico serio?
Pierre abbandonò i colleghi di corsa e, sbattendo su una pila di pratiche da riordinare che caddero rovinosamente al suolo come un mazzo di carte, entrò tutto trafelato nella sua stanza chiudendosi all’interno con un giro di chiave e allargandosi la piccola cravatta blu che era solito indossare.
La suoneria si spense esattamente in quell’attimo indicando che la chiamata era stata accolta.
I tre individui, imbambolati dall’altro lato della stanza, impiegarono qualche secondo per realizzare la cosa. Nessuno mosse un muscolo e nessuno scostò gli occhi speranzosi dalla maniglia d’ottone della stanza in cui Pierre si era eclissato, desiderando con tutto loro stessi che il furetto uscisse con dei nuovi incarichi, possibilmente più interessanti dell’andare a raccogliere cartacce nel prato.
Steve scrocchiò le nocche della mano producendo un rumore simile allo spezzarsi di rami secchi, Amy sapeva che quel gesto significava che anche lui sperava di fare qualcosa di serio. Jack sospirò profondamente e per tagliare il tempo estrasse il cellulare dalla tasca e iniziò a giocherellarci. La ragazza si mosse, cliccando i tasti con rapidità, concluse la mail e la spedì qualche attimo dopo averla letta per la seconda volta.                                                                                                              
Poco dopo, la porta dell’ufficio venne spalancata di colpo e Pierre ne uscì trafelato con la giacca in mano e uno strano ma vivissimo luccichio negli occhi.
< Preparatevi! Vestitevi! Muovetevi! Ho l’occasione del secolo! > esclamò afferrando le chiavi della vecchia macchina e facendole tintinnare di fronte a loro.
I suoi sottoposti ad udire quelle parole sgranarono gli occhi ed esplosero come dinamite. Correndo come forsennati, afferrarono le loro giacche e i distintivi e, senza neppure indossarli, uscirono tutti assieme il più velocemente possibile.

Spazio autrice: Salve a tutti! Perdonate il ritardo con cui aggiorno ma ho avuti grossi impegni nell'ultimo periodo. Spero che vi piaccia.
Segnalate qualsiasi errore o incomprensione trovato nel testo, grazie.
Baci.
Indaco

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Capitolo 3
*** Controlli ***


Salendo in macchina a spintoni, i passeggeri fecero ondeggiare il piccolo e antiquato veicolo. Pierre, al volante, uscì dal cortile cementato con una brusca manovra e si lanciò nella statale con l’entusiasmo di un bambino. Il suo viso era tanto radioso quanto determinato mentre seguiva il navigatore sul piccolo palmare.
Deciso a sfruttare l’occasione per portare un po’ di luce alla “sua” caserma e alla sua carriera, il furetto era davvero armato delle migliori intenzioni.
< Bene, lasciate che vi spieghi: quello con cui ho parlato al telefono prima altro non era che Barclay. Avete tutti presente chi è no? > esclamò con evidente soddisfazione mentre dallo specchietto retrovisore occhieggiava tutti i componenti della sua squadra. Gli occhi affamati di successo del furetto fecero salire la pelle d’oca alla riccia, la quale si ritrasse da quell’occhiata gelida grazie all’intervento fulmineo di Steve.
< Ti riferisci esattamente al cane? Il vice direttore della stazione centrale? > rispose stupefatto, voltandosi di proposito dal finestrino appannato.
Il furetto fece schioccare le dita, gongolante come poche altre volte. Pierre aveva lavorato come braccio destro di Barclay per svariati anni prima di essere spostato in quella caserma. Lo conosceva molto, molto bene tanto da potersi definire amico. Insomma, il furetto era legato al pezzo grosso e anche per questo i due sottoposti stravedevano per lui.
< Esattamente Steve, il dobermann o il segugio, a seconda di come tu lo voglia chiamare. Ma questo non ha importanza. In centrale è arrivata una telefonata anonima, non sono stati in grado di rintracciarla perché è stata fatta in una di quelle vecchissime cabine telefoniche. L’interlocutrice era una signora di una certa ad orecchio, la quale ha detto di aver visto avvenire scambi di … una strana farina > concluse con una risatina riportando alla lettera le parole del vice.
Jack scoppiò a ridere con ilarità superando di gran lunga la mesta risata del capo, il quale gli rivolse un’occhiata interrogativa:
< si può sapere che c’è? > domandò innervosito.
Il toro si asciugò le lacrime con il dorso della mano e respirò sfinito da quell’esplosione di allegria
< non vi pare ridicolo che un personaggio come lui possa davvero credere che sia farina? > esclamò trattenendo al massimo le nuove risate che gli stavano salendo dalla gola.
Steve sospirò, scosse la testa e ritornò a guardare fuori dal finestrino arrendendosi a quel collega troppo ingenuo. La rosa rollò gli occhi, preparandosi a sentire la sfuriata che a Pierre stava salendo a fior di labbra. Infatti, gli occhi fissi sul toro avrebbero potuto benissimo incendiare la carbonella per il barbecue.
< RAZZA DI IDIOTA! E’ DANNATAMENTE OVVIO CHE STAVA SCHERZANDO! > ringhiò il furetto pestando l’acceleratore.
Per tutto il breve percorso rimanente, tra edifici altissimi, magazzini e interminabili file di case, Pierre si accanì sul povero toro continuando a coprirlo di improperi. Smise solamente quando iniziò a vedere il luogo dove erano diretti: il mastodontico, interminabile porto di Mobius.
Nel tratto di costa non balneabile, lunga chilometri e chilometri, il porto era cresciuto in modo incontrollabile in pochi decenni. Inutile dire la ricchezza che quell’ammasso di cemento, ferro e acciaio rappresentasse per la cittadina: magazzini per lo stoccaggio, edifici dedicati alla lavorazione dei prodotti, vecchi hotel, case, pescherecci, laboratori, garage per barche e molto altro.
La costruzione selvaggia, non studiata ed eccessiva, aveva portato disordine e lavoro, rendendo alcuni quartieri laboriosi e movimentati, altri completamente deserti e abbandonati. Tra volute di fumo grigio e denso e rumori di macchinari, la zona industriale di Mobius, popolata da operai, magazzinieri e ben altro, lavorava giorno e notte nascondendosi alla vista del centro città. Al contrario, la desolazione si concentrava soprattutto nella zona dei magazzini di stoccaggio, ammassati l’uno accanto all’altro, e in quella degli antiquati quartieri residenziali ormai completamente disabitati.
Ed era proprio in uno di quei quartieri che i ragazzi si stavano dirigendo, per la precisione il più a ovest: una vecchissima località, prima di pescatori e poi di operai, confinante con l’aperta campagna.
Pierre osservava indagatore quell’ammasso labirintico di solide e piccole case che si scorgevano da lontano. A quella distanza non sembravano troppo alte e le condizioni in cui riversavano erano diverse l’una dall’altra: alcune erano fatiscenti, altre ancora necessitavano di piccole manutenzioni e in qualche caso erano addirittura crollate.
Amy, schiacciata tra Steve e Jack, riusciva a malapena ad intravedere gli edifici all’orizzonte. Ma non si dava troppa pena per quel dettaglio, troppo presa ad immaginare l’opportunità per una svolta decisiva alla sua carriera. Era la prima volta che partecipava ad un controllo di quella portata perciò, oltre ad essere elettrizzata, temeva di non sapere né come muoversi, né a cosa prestare attenzione. Ma era troppo gasata per mantenere il pensiero fisso su quei timori, non vedeva l’ora di agire: scovare criminali, acciuffarli, interrogarli. Togliere la libertà a simili personaggi significava raggiungere il suo obiettivo a piccoli passi.
Certo, non avrebbe mai fermato il giro malfamato arrestando uno dei tanti criminali che vagavano in giro per la città ma era già un buon inizio per la sua carriera no?

Pierre parcheggiò di fronte ad un condominio vuoto. Lo sguardo aggrottato del capo si posò sul labirinto di viuzze che si diramavano dietro all’edificio.
Nei sedili posteriori, i tre sottoposti non vedevano l’ora di smontare e di poter vedere dal vivo una delle zone più periferiche della cittadina.
Il porto era talmente grande che in pochi sapevano orientarsi al suo interno con disinvoltura e tantissime località erano completamente ignote alla maggioranza. 
Pierre osservò il condomio sollevando un sopracciglio a mo’ di sorpresa e con un sospiro prese parola.
< Vi avverto voi tre, il primo che non ubbidisce ai miei ordini viene automaticamente licenziato e se ne torna a casa a piedi, chiaro? > esclamò lanciando un’occhiataccia ciascuno dallo specchietto retrovisore. La rosa deglutì, in quel momento le sarebbe piaciuto restarsene seduta in quella scomodissima vettura per un’altra ora.
< Quali sono gli ordini? > balbettò con il cervello completamente in tilt all’udire quella minaccia tangibilissima.
Il furetto non le badò e scese dalla macchina con passo sicuro.
I tre non si fecero pregare e scesero anch’essi dall’auto guardandosi attorno con tanto d’occhi. Il vento dispettoso gonfiò le loro giacchette riempiendole di umidità: il mare era a tre passi da loro e la brezza trascinava goccioline lungo il suo percorso.
Il porto iniziava esattamente da lì: un rocambolesco ammasso di casette che pian piano si allargavano occupando sempre maggior spazio e volume.
L’acqua, separata dalla terraferma da un piccolo ed antico muricciolo, era coperta da un merletto di schiuma che aveva catturato tra le sue bolle rametti, foglie e pezzi di plastica varia. Le strida acute dei gabbiani provenivano da ogni direzione, un paio roteavano di fronte  a loro tuffandosi di getto sulla superficie spumosa.
Nonostante non ci fosse freddo, Amy rabbrividì e infilò le mani nelle tasche finendo di contemplare quel posto datato.
Pierre portò le mani sui fianchi e sorrise feroce
< bene, questo è l’obiettivo di oggi: nulla di particolare. Ci addentreremo ed osserveremo la situazione qui attorno. Se notate qualcosa di sospetto avvisatemi e aspettate ordini. Forza > esclamò addentrandosi  nella piccola viuzza che affiancava il condominio.
Steve si accodò immediatamente dopo il capo. Svettando per una buona spanna sopra al furetto, l’orso non era minimamente preoccupato da quel posto un po’ tenebroso e sporco, anzi, ne sembrava persino ammaliato. Jack seguì il compagno senza battere ciglio, voltando di tanto in tanto la testa per contemplare i vecchi edifici.
La ragazza, diversamente dagli altri, era un tantino nervosa ma si affrettò a seguirli senza perdere tempo. Nonostante non esistesse un vero e proprio obiettivo si sentiva davvero messa alla prova: era l’unica chance che le si poneva di fronte per migliorare la sua condizione lavorativa. Se avessero visto o udito qualcosa, Barclay avrebbe potuto aprire un’indagine e nuovi incarichi, nuovi colleghi e, soprattutto, un nuovo capo, si sarebbero sommati a quelli già presenti per dirigerne i movimenti. Per questo, con le orecchie tese al massimo e cercando di non farsi sfuggire nemmeno il più piccolo dei movimenti, procedeva cautamente pregando di trovare qualcosa.

Man mano che avanzavano le case infittivano diventando sempre più alte. Al piano terra, le numerose botteghe che diversi anni fa dovevano aver animato quel posto erano state abbandonate: su alcune vi erano ancora infissi i vecchi cartelloni con scritto “affittasi” o “vendesi”. Le vie strette erano tutte egualmente coperte da uno strato di sudiciume. Nelle zone più umide muschi ed erbacce erano cresciuti rasenti ai muri e i vicoli ciechi si erano trasformati in immondezzai da cui si levava un odore disgustoso che serpeggiava in quell’intricato dedalo.
Disegni e scritte fatte con bombolette spray deturpavano gli edifici vuoti e malandati: finestre rotte, porte mancanti, crepe sui muri, tetti sfaldati erano caratteristiche più che comuni. Ma la cosa che più colpì Amy fu la totale mancanza di vita di quel posto. Non che si aspettasse di vedere il centro della città in quel tugurio, ma era sempre stata fermamente convinta che, anche in quell’angolo di mondo, qualcuno ci abitasse. Invece le case erano vuote, disabitate e spente. L’unico rumore che si poteva udire era il brusio delle onde del mare e il vento intrappolato in quel labirinto che faceva rimbalzare il suono da una parete all’altra. Insomma un autentico quartiere fantasma popolato da famiglie di gabbiani, piccioni e topi.

La piccola comitiva, capeggiata da Pierre, dopo minuti a girare a vuoto, si fermò sui gradini di una casa ormai sfasciata. Tutti e quattro, chi più che meno, avevano setacciato palmo per palmo ogni vicolo percorso cercando qualsiasi indizio che potesse indirizzarli verso qualcosa. Purtroppo però non avevano trovato assolutamente nulla e l’iniziale entusiasmo iniziava a scemare.
Il furetto, con sguardo perplesso, si grattò mestamente il mento cercando di orientarsi e, soprattutto, di farsi venire una brillante idea. Non era affatto così che se l’era immaginata quella specie di missione. Nella sua testa tutto si era risolto in modo più semplice e non aveva certo creato un piano b.
< Che facciamo? Di questo passo porteremo a casa solamente le testimonianze dei ratti > esclamò Steve portando la mano sul fianco grassoccio. < Uhmmmm > Pierre si guardò attorno pensieroso iniziando, solo in quel momento, ad escogitare qualcosa. Di fronte a lui le piccole stradicciole portavano in qualsiasi direzione, quale doveva imboccare per assicurarsi di trovar qualcosa?
La ragazza accaldata si agitò: un’idea gli era balenata in testa ancora duecento metri fa. Indecisa se renderli partecipi o meno, arrotolò un aculeo sull'indice. La probabilità che il furetto scoppiasse e l’aggredisse di parole era tangibilissima ma era vero anche che quell’idea era affidabile e dava qualche speranza di trovare prove concrete. Con un profondo sospiro Amy avanzò e cercò di catturare lo sguardo del capo.
< Io avrei un’idea > tentennò ancora indecisa. Un piccolo barlume di curiosità fece voltare i visi verso la sua direzione mettendola ancor più in agitazione. Pierre sollevò un sopracciglio e rimase in silenzio dandole il tempo di continuare.
< I-io ho pensato, credo che …, insomma: sappiamo che la donna ha chiamato in anonimo e perciò, come hai detto tu prima, ha contattato la polizia tramite una cabina telefonica. E di certo non mi stupirei di trovarne una qui da qualche parte: tutto è stato abbandonato. Se noi trovassimo la cabina utilizzata forse potremmo anche trovare qualche indizio. Le cabine sono segnate nelle vecchie mappature, cercando su internet una vecchia piantina potremo … > esclamò cercando di interpretare lo sguardo del suo capo. Diversamente da quello che si aspettava, Pierre incrociò le braccia e parve accogliere quell’idea
< sì Amy ma il problema rimane: anche con una cartina non saprei orientarmi, non conosco queste zone. Rischiamo di perdere solamente tempo prezioso. Cercare una cabina qui è come cercare un ago in un pagliaio > rispose asciutto. La rosa aprì la bocca per ribattere ma fu prontamente interrotta da Jack che la coprì con la sua vociona.
< cosa facciamo allora? Non so voi ma io mi sono completamente perso. Non riuscirei a tornare alla macchina > sbuffò guardando la strada dietro di sé.
Pierre, già nervoso, strinse le mascelle e imprecò per la mal destrezza del suo sottoposto, chiedendosi come avesse superato l’esame di ammissione. Cercando di mantenere il tono di voce basso e calmo, si rivolse ai suoi tre
< andremo avanti finché non troveremo qualcosa. Ci siamo appena addentrati e perciò è normale che ci sia tutta questa calma. Forza, procediamo >.
I suoi sottoposti, come cagnolini con la coda tra le gambe, si accodarono immediatamente dietro di lui e lo seguirono lanciando occhiate stanche di qua e di là. Uguale fece la ragazza innervosita dal fatto che nessuno in quella comitiva le riservasse un minimo di fiducia.
Non era mai riuscita ad entrare in sintonia  con Pierre: i diversi modi di vedere le cose, i valori in cui credevano e per cui lavoravano, atteggiamenti e molto altro avevano sempre minato qualsiasi rapporto tra di loro. Non era mai nata un’amicizia ed il legame lavorativo, ormai, era così logoro che quelle mancanze di rispetto erano diventate sempre più frequenti e scontate, tanto che Amy riusciva a farsele scivolare addosso senza troppi problemi a volte. Man mano che avanzarono, quel quartiere innocuo divenne interminabile, intricato e cupo: siringhe usate e cucchiai tappezzavano i posti più nascosti, topi, ratti e occhi si muovevano attraverso le imposte chiuse. Amy rabbrividì alla vista dell’immondizia accantonata agli angoli delle strade e ancor di più trovando una pistola semidistrutta accanto alla porta di un’abitazione. Passo dopo passo, di una cosa si assicurò: quel quartiere non era disabitato come credeva. Sussurri, movimenti, fruscii e la perenne sensazione di essere osservata l’avevano resa ancor più attenta e nervosa. Con ogni senso in allerta, camminava cercando di non far rumore, girando la testa ogni due per tre per assicurarsi che nessuno li seguisse. Sensazione che amplificò passo dopo passo, fino a diventare insopportabile.
Pierre fermò la comitiva dopo una decina di minuti. Un sospiro di rabbia fece sussultare il corpo color bronzo del furetto che digrignò i denti nervoso. < Basta! > sbraitò raddrizzando le spalle e la schiena
< quel Barclay può andarsene in cu … >  
< ce ne torniamo in centrale capo? > chiese speranzoso il toro interrompendo il generoso invito.
< Sì! Non ho intenzione di sprecare un minuto di più in questa pattumiera! > ringhiò il boss facendo un veloce dietrofront. Amy impallidì a quella risposta e si slanciò abbandonando il buonsenso
< ma non abbiamo ancora trovato niente Pierre! Non possiamo andarcene! > esclamò incredula per quella scelta. Pierre le lanciò un’occhiata infuocata aggrottando le sopracciglia ridotte a due linee oblique
< zitta e muoviti! Abbiamo un mucchio di lavoro da svolgere e non abbiamo tempo per queste cacce al tesoro! Se vorranno verranno personalmente! >  gridò accartocciando le mani a pugno.
Amy, sbalordita da quel tono e da quelle parole, non riuscì a rispondere per qualche secondo. Non riusciva a credere che il furetto si lasciasse scappare una situazione così ghiotta per le loro carriere. Non si trattava solo del suo futuro, ma era un’occasione che avrebbe cambiato le cose a tutti e quattro e prima di gettare la spugna era decisa di dare e fare il più possibile.
Stava quasi per rispondere a quell’ordine completamente insensato quando un eco di una risata le arrivò alle orecchie chiaro e definito.

Le parole gli morirono in bocca e quell’attacco verbale scese subito in secondo piano. Girando la testa verso la direzione di quel suono, che le pareva straordinariamente vicino, perse completamente la voglia di rispondere a Pierre, concentrando l’udito al secondo vicolo che si diramava dalla stradina che stavano seguendo.

Spazio autrice:
Ciao a tutti! In questo capitolo mi sono concentrata molto sul rapporto tra Amy e colleghi per chiarire le varie relazioni che intercorrono tra loro, mi serviranno in futuro perciò voglio che la situazione generale sia chiara. Spero di esserci riuscita! Segnalate qualsiasi tipo di errore. Grazie.
Baci.
Indaco

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Capitolo 4
*** Una cattura sfrenata ***


< Amy? Ti stai rincitrullendo? Muoviti, torniamo, altrimenti non ho nessun problema a … >
< zitto. C’è qualcuno lì dietro Pierre > mormorò a bassa voce. Il furetto sobbalzò e sgranò gli occhi per quel “zitto”.
Amy, silenziosa come un gatto, si portò a raso muro e lo percorse stando ben attenta che il contatto tra il tessuto della camicia ed i mattoni sgretolati non facesse troppo rumore.
< HEY! TORNA SUBITO QUI! > ringhiò il furetto indicando il “qui” come alle punte delle sue scarpe. La riccia lo ignorò. Spostando di poco la testa, riuscì a lanciare lo sguardo dietro a quel nascondiglio trovando solo un’altra stradina desolata . Perplessa abbassò la guardia e iniziò a scrutare quel vicolo tanto uguale a tutti gli altri, cercando qualcosa che le suggerisse da dove fosse nata quel rumore. Era sicura di aver sentito, non erano stati i gabbiani.
Senza aspettare un secondo di più, la rosa si addentrò.
< AMY! > tuonò Pierre dietro di lei, le sopracciglia aggrottate dimostravano metà di quanto fosse arrabbiato. La rosa si voltò distratta ma la figura del furetto che sprizzava fulmini e saette la riportò velocemente alla realtà. Deglutendo con la netta sensazione di aver fatto un grosso errore iniziando a scovare la provenienza di quel vociare, cercò di far finta di niente e di rimanere indifferente.
< S-sì? > mormorò cauta con estrema gentilezza. Non smise un attimo però di  lanciare occhiate speranzose al vicoletto. Gesto che fece innervosire ancor di più il boss già scuro in volto.
< Giuro, GIURO che se fai un altro passo, rimarrai in centrale per i prossimi cent’anni! Ascolta il tuo superiore e torna indietro. SUBITO! > sbottò nervoso e facendo venire ben poca voglia alla ragazza di indietreggiare.  La rosa sospirò, quelle parole le risuonavano temibili: la minaccia del licenziamento oscillava sulla sua testa come una ghigliottina. La curiosità però non l’abbandonò, guardò nuovamente la parete slanciata in cerca di qualche passaggio.
< Sei impazzita? Andiamo, muoviti! Mi hai già fatto perdere tempo prezioso! Tu e le tue voci nella testa! Sei stata l’unica a sentire una risata fantasma > gridò il furetto riprendendo il controllo della situazione. La riccia sospirò nuovamente e, abbassando lo sguardo, fece un passo verso la sua direzione. Si era così illusa di trovare qualcuno lì dietro.
Comunque, si ripeté di malumore per rimanere calma, una risata non significava nulla: ridere non era illegale e seguirla non era una garanzia di successo. Anzi, rischiava davvero di diventare una semplice perdita di tempo. Il desiderio di trovare qualcosa, di riuscire a prendere quel treno che si chiamava “Barclay” l’aveva fatta uscire di senno.
< Scusami Pierre, è stato più forte di me, non mi sono resa conto di aver fatto … > ma altri mormorii portati dal vento arrivarono alle orecchie di entrambi stavolta, tagliando di netto il filo del discorso.
Gli occhi della rosa si sgranarono. Voltando la testa appena, aguzzò l’orecchio verso la direzione del vento capendo al volo in quale vicolo quella voce parlava liberamente.  Pierre aggrottò le sopracciglia e si mise a fissare lo stesso punto fissato dalla riccia: anche lui aveva sentito benissimo quel vociare, la possibilità che ci fosse qualcuno era reale. Amy si voltò nuovamente verso il furetto, la sua faccia chiedeva senza tanti giri di parole cosa stavano aspettando per scattare in azione.
Sapeva benissimo che poteva non essere quello che cercavano, ma non poteva restar ferma a far niente.
< Pierre! > bisbigliò con urgenza la riccia cercando di comprendere il viso serio e cupo del furetto. Il mobiano posò gli occhi sui suoi e la fissò torvo.
< Andiamo > e facendo due passi indietro si voltò per tornare dai suoi sottoposti.
< No! Pierre! Cosa stai facendo?! Non possiamo lasciar stare! > bisbigliò la ragazza afferrando il braccio del suo capo. Il furetto, scocciato, le staccò la mano con un gesto stizzito e assunse un’espressione nervosa
< smettila! Si fa come dico io! Io sono il capo! Torna dai tuoi colleghi Amy! > sbraitò indicandogli i due mobiani lontani da loro. Scoraggiata, la rosa chiuse gli occhi per un attimo. Quel bisbiglio indecifrabile, così vicino a lei! Che spreco!
Lanciò un’ultima occhiata al vicolo studiandolo brevemente, moriva dalla voglia di soddisfare la sua necessità. Era in gioco il suo futuro e, anche a costo di prendere un granchio, non intendeva lasciare una sola pista non battuta. D'altronde bastava una corsetta per toglierseli di torno: era ben allenata e di sicuro si sarebbe lasciata alle spalle i colleghi. Cosa aveva da perdere dopotutto?
< Mi dispiace, mi dispiace davvero ma non posso buttare un'occasione del genere. Voglio far carriera Pierre e tu lo sai meglio di chiunque altro. Non posso aspettare, voglio che accada qualcosa, che sia anche uno sbaglio ma voglio provare > esclamò sollevando la testa seria e determinata. Pierre, capendo le sue intenzioni, sgranò gli occhi come due portoni. Sbracciandosi verso di lei tentò di bloccarla ma fu troppo lento: la sua mano sfiorò appena una ciocca rosa mossa dalla corsa sfrenata. Amy guizzò via come un pesce: infilandosi nel vicolo appena scorto, con delle lunghe falcate, doppiò la distanza tra lei e Pierre, il quale chiamò i suoi colleghi con delle urla e prese a seguire la riccia con furore. Il vicoletto incriminato si avvicinò sempre più e ad Amy parve che quella striscia d’asfalto fosse più nera e buia delle altre. Cauta si fermò appena prima dello sbocco della stradina. Pregò di ricevere dal cielo un qualcosa che comportasse l’avanzata della sua carriera, le importava poco cosa di preciso, le sarebbe bastato un quantitativo di droga appena sufficiente per far aprire le indagini in quella zona.
E, ascoltata, i suoi pensieri furono distratti dalle voci limpide e chiarissime che strisciarono fuori dal tugurio. Il suo cuore perse un  battito. Controllando l’avanzata di Pierre e dei suoi colleghi, sintonizzò tutta la concentrazione sul dialogo in corso.
< … Sì è stata modificata > esclamò una voce profonda e spessa, < … e perfettamente confezionata >.
Amy impallidì sbigottita e per un attimo dovette appoggiarsi sul muretto per reggersi. Il discorso suonava strano, davvero era accaduto un miracolo? No, non poteva essere così fortunata, e poi “modificata e confezionata” a cosa era riferito e soprattutto chi stava parlando? Il cielo l’aveva miracolosamente ascoltata mandandogli ciò che faceva al caso suo?
Attribuì immediatamente quel tono ad un uomo, sui trent’anni circa. La riccia aguzzò l’orecchio premendosi ancor di più al muro. Doveva capire in fretta l’argomento trattato e, se fosse risultata interessante, cercare una soluzione per ottenere almeno una prova.
< Ottimo > esclamò di risposta un’altra voce, leggermente più alta e gioviale < per qualsiasi altro problema contattalo, eppure mi sembrava ben smezzata con ... > la voce si abbassò fino a tagliare la risposta.
Spalmata sul muro, cercando di capire il perché di quella brusca interruzione, Amy temette di essere stata scoperta. Ma prima ancora che potesse decidere cosa fare, un brusio sottilissimo si avvicinò sempre di più, ingigantendosi di decibel in decibel. La riccia si voltò di scatto, capendo benissimo a chi appartenessero quelle urla: In fondo alla via due grossi tizi e un piccolo furetto sgambettavano come pazzi con un’aria di risolutezza senza eguali.
< AMYYY ! GIURO CHE STAVOLTA TI LICENZIOOO! > gridò furioso Pierre agitando il pugno in aria. La rosa sgranò gli occhi temendo che quell’urlo avrebbe fatto scappare il suo dono celestiale e, questo, non poteva assolutamente accadere. Spronandosi a fare qualcosa di significativo ma non avendo ideato assolutamente niente per quel colpo di scena, chiuse gli occhi e si affidò completamente al suo istinto.
Con un balzo superò l’ostacolo di mattoni e assumendo uno sguardo feroce cercò di mostrarsi sicura di sé e, soprattutto, minacciosa. Davanti a lei, tre individui posizionati a triangolo in fondo a quel vicolo, impietriti, la guardavano con aria scettica. Amy non ebbe il tempo di chiedere o fare qualcosa, iI cappello calcato e ben lucidato sulla testa diede il segnale. Il più grosso dei tre fu il primo a darsela a gambe, lanciandosi a tutta birra lungo quel corridoio carico di pattume.
< E’ UNA SBIRRA! LEVIAMOCI! > esclamò imboccando una stradina seminascosta con la sicurezza di un cervo nel bosco.
< HEY! FERMATEVI! > gridò stupefatta. Senza perdere tempo si lanciò in una corsa a perdifiato per bloccare gli altri prima che imitassero il collega. Come sospettato, i due tizi rimasti non rimasero fermi ad aspettare che la riccia si avvicinasse sempre più a loro ma, scambiandosi un’occhiata significativa,  girarono la schiena e si prestarono a seminarla il più velocemente possibile.
Tutto d'un tratto, un’aurea di un azzurro intenso avvolse uno dei due facendolo levitare di una decina di metri da terra. Il plasma si allargò velocemente e con forza attorno a lui. Il potere psichico dimostrato fece rabbrividire la ragazza: una forza simile era davvero molto rara persino tra i mobiani e la leggerezza con cui si era sollevato dimostrava che il potere era perfettamente controllato e, perciò, pericoloso.
Per un attimo, quella capacità portentosa  la intimorì così tanto da rallentarla ma, non appena le voci e lo schiamazzare dei colleghi alle sue spalle si fecero più forti, concentrò tutta l’energia nella sua personale missione. Le sue gambe allungarono il passo riuscendo a distanziare ancor di più Pierre e la sua combriccola.
Amy riuscì quasi a scorgere distintamente l’ultimo individuo quando quest’ultimo, con la scioltezza di un ghepardo e la velocità di un Boeing X-43A, si slanciò a destra infiltrandosi sempre più nel reticolato della periferia.
Amy sbatté le palpebre sconvolta dagli eccezionali poteri dimostrati e, invogliata ancor di più a prenderli per soddisfazione personale, diede fondo a tutta la sua energia per poter stare al passo dei due tossici. Ma se il primo sfruttava appieno il suo potere sorvolando i tetti tutti differenti delle case, il secondo, a causa degli angoli e delle curve a gomito era quasi svantaggiato. I continui rallentamenti obbligati per non andare a schiantarsi lasciavano alla rosa il tempo per capire e seguire la strada percorsa dalla freccia blu. Lanciata alla massima velocità, Amy era sbigottita dal potere dimostrato:  non aveva mai, mai visto nulla di simile in tutta la sua vita.
Ma se i due sembravano contenere un’energia inesauribile, quella della riccia si stava progressivamente consumando: sentiva chiaramente che i suoi muscoli, nonostante fossero allenati dalla sua corsetta giornaliera, stavano per cedere.
Perdendo gradualmente terreno, la ragazza si preoccupò di trovare un’alternativa rapida e soprattutto efficace per catturare quella palla blu guizzante come un pesce. Come se non bastasse, la direzione di marcia cambiò all’improvviso: i due si stavano furbamente dirigendo verso l’aperta campagna. Lì nulla avrebbe potuto bloccarli: mancando gli ostacoli sarebbero scomparsi nel giro di dieci secondi utilizzando il loro potenziale.
Constatando che non esistevano molte possibilità di cattura, la ragazza si agitò vedendo i suoi sogni sfumare nell’aria. Tutto sarebbe stato vano e soprattutto, dopo lo sgarro fatto a Pierre, si sarebbe trovata anche senza lavoro. Doveva prenderlo, punto.
Stringendo i denti aumentò per l’ultima volta il passo e con un bel salto si issò al parapetto di una ringhiera appartenente ad una casa in rovina. Lavorando di braccia si portò sul tetto con non poca fatica: le tegole di terracotta, umide di salsedine, dal guano e dall’erosione del vento, creavano un fantastico piano scivoloso su cui la pendenza faceva da padrona. La riccia, senza fiato dalla scalata improvvisata, riprese in qualche modo il suo inseguimento lungo la periferia. Non si era sbagliata: da lì a poco la campagna verdissima e fresca prendeva il sopravvento e i due se la sarebbero squagliata.  Con il fiatone a mille e i polmoni brucianti, capì che le forze l’avrebbero abbandonata da lì a poco.
Dall’alto la sua visuale si semplificò vedendo in anteprima il percorso che i due avrebbero seguito. Il piano era di una semplicità imbarazzante: tagliare la strada al corridore e in quel frangente acciuffarlo. E se nella sua sua testa il piano le sembrava facilmente realizzabile, nella realtà mancavano meno di un centinaio di metri ai prati infiniti e lei continuava a scivolare su quelle tegole sudice.
Indecisa se tentare o meno l’impossibile, le bastò ricordare la minaccia di Pierre per infondersi altro coraggio e decidere di farlo.
Il “punto buono” le si parò di fronte dopo pochi secondi:  un vecchio negozio dal tetto scassato diventò un ottimo trampolino da lancio.
Raccogliendo le ultime forze, con un doloroso sprint, pareggiò la distanza tra lei ed il suo obiettivo grazie ad una curva a gomito.
Il tetto scelto era così disfatto che le fece perdere decimi di secondo: le tegole sbriciolate sotto ai suoi piedi la fecero scivolare come la biglia sulla scrivania.
La freccia blu la superò con la stessa facilità con cui una Ferrari supera una Smart.
Rimanendo in piedi per un soffio, come ultimo, disperato gesto, decise di mettere in atto il suo piano azzardato, tanto, ormai, non le rimaneva più nulla da perdere.
Calcolando ad occhio e croce la traiettoria del suo salto, al bordo della grondaia deformata e bucherellata mormorò una preghiera alla Dea bendata e, senza guardare sotto di sé, fletté appena le ginocchia infondendo quanta più energia possibile. Si staccò dal tetto con un grido misto di terrore ed eccitazione per quello che era riuscita a fare.
La gravità terrestre la richiamò a sé con invisibili tentacoli. Abbassando lo sguardo verso terra, vide con orrore che l’asfalto della strada era molto più lontano del previsto. Sgranando gli occhi verdissimi e terrorizzati, non riuscì a reprimere un altro grido di panico nel capire che da lì a poco si sarebbe spalmata a terra tra dolori atroci.
L’asfalto si avvicinò sempre di più mentre la ragazza tentava invano di aggrapparsi a qualcosa agitando le braccia attorno a lei.
Chiedendosi perché avesse creato un piano talmente idiota, non si accorse che sotto di lei, ad una velocità spaziale, passò in quel preciso momento il suo obiettivo che, ignaro di quell’attacco aereo, non prestò minimamente attenzione a cosa cadesse dal cielo.

Spazio autrice: Buona sera! Ecco un altro capitolo, spero che vi invogli a continuare la lettura. Segnalate errori di qualsiasi tipo. Grazie.
Baci.
Indaco

 

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Capitolo 5
*** Responsabilità p.1 ***


Amy, con gli occhi serrati e pronta ad accettare il suo destino, atterrò spiaccicandosi al suolo. Il suono sordo della sua testa che batté contro il terreno le riempì le orecchie seguito da un penoso fischio che la fece rabbrividire di dolore. Attorno a lei una nube di polvere ballava sulla brezza imbiancando tutto ciò che si trovava sotto al suo strato.  
L’intero fianco destro su cui era atterrata era spappolato al suolo e la fitta che la faceva rimanere stesa al suolo le insinuò il dubbio di essersi spezzata qualche osso. Sbattendo le palpebre per inumidire gli occhi, notò che, davanti a lei, una strana sagoma sbucava lentamente dalla nebbia polverosa.
Delineandosi sempre meglio, dei pantaloni grigi e una t-shirt, che doveva essere stata bianca, comparirono nella sua visuale.
Scettica, sollevò la testa e mise a fuoco la figura, di una qualche specie, stesa a terra ed immobile. Aggrottando le sopracciglia fissò stupita il mobiano disperatamente inseguito: l’aveva realmente centrato? Era davvero riuscita a bloccare quel missile?
L’immobilità assoluta confermò la sua domanda: non solo l’aveva fermato ma era riuscita persino a bloccarlo! Non le restava che ammanettarlo e portarlo a mo’ di trofeo in caserma. Pregustava già l’interrogatorio a cui Pierre l’avrebbe sottoposto, la sua confessione, la condanna, il suo meritato premio ... Il castello immaginario della riccia crebbe di piano in piano ma, dopo pochi secondi, quando si accorse che, diversamente da lei, il personaggio non accennava a muoversi, un brutto presentimento la fece atterrare nuovamente in quel vicoletto polveroso.
La terribile ipotesi di averlo ucciso l’assalì improvvisamente. Il corpo inerme era davvero bloccato in una posizione poco naturale e il petto non sembrava lavorare come avrebbe dovuto. Sempre più preoccupata sollevò il busto facendo schioccare una spalla. Una smorfia di dolore le arricciò le labbra ma una ben più dolorosa preoccupazione la spinse a muoversi: capire se fosse morto o meno.
La ragazza si avvicinò al bersaglio colpito in pieno: i lunghi aculei di un forte blu elettrico le indicarono che si trattava evidentemente di un riccio. Le palpebre mollemente chiuse non indicavano nulla sulla sua situazione attuale ed un velo di polvere lo copriva come un sudario bianco. Guardandolo si aveva l’impressione che dormisse tranquillamente ma poteva benissimo essere anche morto.
< O mioddio! Che cosa ho fatto! > balbettò portando le mani tra i capelli disperata. Convincendosi sempre più di aver compiuto un omicidio, Amy cercò di sentire il battito cardiaco tastandogli il polso ma le mani gli tremavano così tanto da non riuscire a percepire un bel niente. In preda ad una crisi di panico, si spostò e appoggiò l’orecchio sulla cassa toracica pregando di sentire un qualsiasi rumore. Il battito cardiaco del malcapitato, forte e regolarissimo nonostante la corsa a perdifiato, le riempì i timpani dandole la rassicurante conferma di quello che sperava: il ragazzo era vivo e lei non era un ‘assassina.
< Uff … grazie a Dio > mormorò portando la mano sul cuore che iniziava a regolarizzarsi.
Un rumore simile al fuoco crepitante la richiamò dietro di sé: la figura avvolta da plasma azzurro scese a terra con coordinazione e con una faccia da cui traspariva pura preoccupazione. Gli occhi coperti da una patina azzurra erano puntati sul ragazzo disteso a terra.
< L-l’hai ammazzato!? > esclamò con disperazione portandosi le mani sul lungo ciuffo parato in fronte. Amy si stupì nel veder discendere, con una velocità e una precisione ammirevole, un secondo riccio.
Quest’ultimo, toccando l’asfalto, lasciò dissipare l’aurea azzurra attorno a sé rivelandosi nei suoi colori originali. La pelle d’un bianco cangiante risaltava ancor di più gli occhi dorati e un alto ciuffo, appena spettinato, si trovava a metà strada tra il rimanere ben ritto sulla fronte e la caduta libera sopra agli occhi.
< N-no! E’ ancora vivo! > rispose di rimando la ragazza, dimenticandosi per un attimo che quei due erano appena fuggiti di fronte ad un pubblico ufficiale. A confermare la sua ipotesi fu lo stesso riccio che giaceva a terra: un leggero mormorio unito ad un piccolo movimento della testa preannunciò il ritorno alla vita terrena del ragazzo blu.
Amy sospirò di gioia e, portando le mani ai fianchi come gesto liberatorio, ritornò a guardare il riccio steso. Il porcospino rotolò di schiena con un grosso sospiro, come se quel gesto così semplice gli fosse costato un’immensa fatica. La testa, voltata verso il cielo, rivelò nella zona attorno alla tempia una striscia sanguinolenta, punteggiata da sassolini, polvere scura e granelli.
Le palpebre tremolarono ed il blu  aprì gli occhi rivelando due iridi di un verde accecante. Le pupille ristrette erano fisse sul piccolo pezzo di cielo che i tetti ritagliavano sormontandosi gli uni con gli altri. Sbattendo di nuovo gli occhi, il ragazzo iniziò a muoversi accertandosi che tutto funzionasse regolarmente senza troppo dolore.
Amy non sapeva cosa dire e cosa fare: accanto, ma non troppo, al riccio bianco, si sentiva in colpa per la caduta disastrosa che aveva inflitto al disgraziato ma, dall’altra, ricordava anche del perché avesse agito in quel modo. Inoltre, il fatto di trovarsi tra due pericolosi malviventi, sola e soletta, non la faceva impazzire di gioia.
Toccandosi nervosamente i capelli cercò di capire come muoversi in una situazione del genere: se avesse avuto due paia di manette avrebbe potuto benissimo arrestare entrambi e perquisirli ma ne aveva un solo paio e perciò doveva scegliere. Blu o bianco?
I suoi pensieri vennero interrotti quando il riccio, sollevando il busto, la squadrò da cima a fondo con espressione sdegnata. I suoi occhi zigzagarono velocemente dal cappello alla targhetta appunta sul petto che indicavano chiaramente il suo ruolo nella società.
Con un’alzata di sopracciglio le lanciò un’occhiataccia. La ragazza rabbrividì mentre tentava di dimostrare sicurezza e spavalderia, almeno la metà di quella che il ragazzo le trasmetteva.
< Che vi danno da mangiare? Pane e pazzia? > l’aggredì nervoso scuotendosi la polvere dalla maglietta. Alzando la testa, guardò con attenzione il tetto da cui la riccia si era lanciata: l’edificio non era altissimo ma comunque, per fare una cosa del genere, si doveva essere abbastanza cretini.
A meno ché, la ragazza non possedesse qualche misterioso potere ma, vedendo il modo in cui era capitombolata, presuppose che fosse  solo cretina.
Amy sussultò nel riconoscere la voce: era stato proprio lui a rispondere a quel farabutto dileguatosi in meno di trenta secondi. A quella risposta acida, a quel tono sprezzante e alla conferma che, proprio lui, fosse un criminale, l’umore della rosa cambiò di male in peggio. Approfittando della situazione, afferrò l’anello agganciato al suo fianco e lo chiuse con un gesto secco al polso del riccio.
< Taci. Sei in arresto! Per spaccio e per tentata fuga di fronte a pubblico ufficiale! > ringhiò nervosa rimettendosi in piedi. Il riccio, ancora intontito dalla caduta, non riuscì a ritrarre il braccio in tempo per schivare il bracciale d’acciaio che si chiuse con un leggero “click”.
Sgranando gli occhi si guardò allibito il polso ammanettato e poi la cintura che la ragazza portava sui fianchi: non era armata, perciò, davvero pensava che bastasse quel cerchietto di metallo per fermare la sua fuga?  Il ragazzo soppresse le risa e con evidente ironia dondolò il fantomatico oggetto del potere.
< Notevole. Ora, se vuoi scusarmi, ho altro da fare. Andiamo > concluse lanciando un’occhiata significativa al ragazzo bianco. Il riccio al suo fianco sorrise e si ammantò nuovamente di plasma azzurro crepitante come fuoco.
Amy si agitò e tutta la soddisfazione svanì con un battito di palpebre.
< Dove credi di andare? Non hai capito? Sei in arresto! >. Replicò aumentando la presa all’altro anello.
Non poteva certo permettersi di lasciarsi scappare il frutto delle sue fatiche! Pensare di tornare a mani vuote dagli altri, i quali chissà dov’erano finiti, era qualcosa di così terribile che rabbrividì al solo pensiero.
Il tono di voce la tradì: una leggera sfumatura di incertezza si impregnò in quelle parole, dettaglio che il blu captò al volo e che utilizzò a suo vantaggio sorridendo maligno. Con un sospiro pesante iniziò a strattonare leggermente la catena, incitandola a mollare quel dannato cerchio metallico. Non voleva trascinarsela dietro nella sua corsa a perdifiato, si trattava sempre di una ragazza e se avesse lasciato la presa con le buone non gli sarebbe dispiaciuto.
< Ho capito benissimo “agente”, ma si dia il caso che impegni inderogabili non mi permettano di dedicarle più di questi dieci minuti, dunque, le consiglio caldamente di mollare la presa. Adesso. >
< Io le consiglio invece di non opporre ancor più resistenza e cedere. In centrale faremo due veloci chiacchiere > esclamò una terza voce dietro di loro.
Pierre, Steve e Jack, fradici di sudore e molto, molto arrabbiati per quella corsa obbligata, comparvero in fondo al vicolo.
La voce sicura e puntigliosa del furetto coprì quella del riccio imponendosi senza troppo sforzo. Il blu si irrigidì e studiò con estrema attenzione gli individui che si avvicinavano sempre più a loro. Probabilmente le potenzialità del toro e dell’orso consistevano nella resistenza e nella forza, non rappresentavano quindi un grosso problema per uno veloce quanto lui.
Il furetto smilzo e basso invece, a capo dei due forzuti, poteva possedere una qualche qualità particolarmente inadatta persino al corridore più veloce del mondo.
< Va’ > bisbiglio all’amico che, preventivamente, aveva avviluppato spire azzurre attorno a sé. Non aveva senso rischiare un doppio arresto, inoltre doveva contattare gli altri in qualche modo per spiegare la situazione in cui era incappato.
E tutto per quella poliziotta senza un briciolo di senno.
Il riccio bianco lo guardò con stupore.
< Ne sei sicuro? Cosa diranno ... > tentò inutilmente il telepatico.
< Muoviti! > lo spronò il compagno indicandogli la direzione di casa con un cenno della testa preoccupato.
A malincuore, il riccio si alzò da terra memorizzando la faccia dei quattro agenti e, dopo aver scambiato un ultimo sguardo all’amico, si pilotò a velocità spaziale nel cielo, sparendo senza lasciare traccia.
Amy non si era nemmeno accorta di quella fuga, preoccupatissima per tutt’altra possibile sparizione: il suo lavoro.
La faccia di Pierre grondava rabbia, le labbra tirate e gli occhi dardeggianti le fecero tremare le ginocchia.
L’ammanettato lo guardò con serietà cercando di capire a chi fosse indirizzata quella burrasca di parolacce che il furetto snocciolava come il ritornello di una canzone. E con sua gioia e sorpresa, notò che l’oggetto della sua sfuriata altro non era che la ragazza stessa, pallidissima.
< Razza di idiota che non sei altro! Come hai osato!? > iniziò gridando e avvicinandosi a grandi passi alla riccia.
La rosa sbarrò gli occhi e portò le mani davanti a sé per bloccare il furetto.
< E' stato più forte di me Pierre! Perdonami per non averti ascoltato! Hai ragione: avrei dovuto ubbidirti! > balbettò in preda al panico e all’imbarazzo. La sfuriata di dimensioni bibliche, per di più di fronte a tutti, non l’aveva considerata ovviamente.
< In compenso però l’ho preso! > esclamò entusiasta indicandolo con un sorriso tirato. Quelle parole girarono il coltello nella piaga, tanto che il boss, sempre più nero e fumante di rabbia, afferrò per il cravattino la riccia e la scosse come sorbetto semi-scongelato.
< IDIOTA DOPPIAA! Vedi di muovere il culo e di portare te e lui il prima possibile all’autooo! > gridò ancor più forte indicando con un gesto brusco la direzione corretta verso cui dirigersi.
Il toro e l’orso, neri di rabbia e sgocciolanti di sudore, sembravano appena usciti da una piscina olimpionica.  
Il blu, infastidito dal tono di voce del furetto, osservò l’intera scena con una smorfia stampata sul viso. Gli importava ben poco della strigliata in corso: la riccia aveva abbandonato il secondo anello delle manette, era praticamente libero, doveva solo trovare la via di fuga meno rischiosa.
Alla sua sinistra i due energumeni bloccavano completamente il percorso mentre, a destra, la riccia ed il furetto si scannavano con vivacità.
Scrutando con attenzione la zona retrostante dei due alla sua sinistra, notò che il vicoletto era piuttosto lungo e dritto, perfetto per prendere velocità e scomparire dal nulla.
Serviva solamente un piccolo salto per superare i due colleghi e poi avrebbe recuperato la libertà. Stava quasi per scattare quando qualcosa di umido gli bagnò il braccio distraendolo. Infastidito, fece per asciugarsi ma sulla pelle non c’era acqua.    
Grosse gocce rosse, mezze sbavate, punteggiavano il braccio di viola.
Il riccio rimase di stucco: non sentiva dolore in nessun luogo perciò non aveva la più pallida idea da dove provenisse quel sangue. Sentiva un certo pizzicore lungo la tempia ma non credeva che quello strano formicolio potesse esser associato a quel sangue.
< P-Pierre! Sta sanguinando! > balbettò Jack richiamando l’attenzione del furetto,  tutto preso a minacciare la ragazza di farle perdere il posto. Tutti e quattro i poliziotti si voltarono a guardare il ragazzo ammanettato: la ferita sul lato della testa aveva iniziato a ruscellare grosse lacrime.
Pierre impallidì mollando per un attimo la presa dalla cravatta della ragazza. Amy sbiancò completamente.
Nonostante la ferita fosse molto superficiale, come aveva constatato di persona, a vedersi sembrava qualcosa di molto grave e di questo Pierre non ne era a conoscenza.
Non riuscì nemmeno ad allontanarsi di qualche centimetro che Pierre, ritornato in sé e furioso come poche volte, l’agguantò nuovamente per la povera cravatta ormai lisa e l’alzò quasi senza sforzo da terra.
Amy, ormai priva di colore in volto, capì che la sua carriera fresca fresca sarebbe conclusa da lì a poco. 
< MUOVITI E VAI IN MACCHINA PRIMA CHE TI ABBANDONI QUI > le ringhiò in faccia spingendola verso la direzione dell’auto.
La riccia, atterrando malferma, annuì terrorizzata e afferrò l’anello delle manette esattamente come un guinzaglio.
Il ragazzo fu costretto a seguire la ragazza, la quale capeggiava i suoi colleghi verso la direzione data.
Aggrottando le sopracciglia, cercò attorno a sé qualche pretesto per liberarsi da quella cattura forzata. Non aveva la minima intenzione di andare in centrale.
I suoi occhi si adagiarono per un secondo sull’unica cosa che lo legava a quel trio più uno: il dannatissimo cerchio d’acciaio stretto attorno al suo polso. Sarebbe stato terribilmente semplice scappare dalle loro grinfie: uno strattone per staccare la catena dalle mani della ragazza e poi la fuga.
Ma più si avvicinavano alla fine di quel quartiere, più l’idea di liberarsi lo abbandonava. Riflettendo, se fosse scappato avrebbe richiamato l’attenzione di tutti e quattro mentre, in quel momento, riccia a parte, Pierre e compagni sembravano quasi offesi della sua cattura.
Tanto meglio. Inoltre non aveva niente da nascondere e la ragazza non aveva prove, in teoria, quindi non potevano accusarlo di nulla.

Raggiunsero l’auto in pochi minuti, per qualche strano motivo il percorso del ritorno sembrò molto più corto di quello dell’andata.
Il vecchio, minuscolo macinino blu, ammaccato in più di qualche punto, sotto al sole cocente era diventato un autentico forno. La ragazza, ancora scossa dalle parole ricevute dal capo, si fermò bloccando anche il suo trofeo.
Pierre, con le chiavi in mano e un’andatura da guerra, aprì la portiera e, dardeggiando fulmini a tutti, ordinò di entrare con tono autoritario.
L’aria bollente che uscì dall’abitacolo spaventò persino Steve, il quale utilizzò la giacchetta come cuscino per non scottarsi a contatto con i sedili.
Davanti al ragazzo riluttante, Amy aprì la portiera e indicò il sedile centrale con un gesto.  
< Accomodati > borbottò infastidita.
L’interessato sospirò innervosito e, respirando per l’ultima volta dell’aria fresca, si infilò nel piccolissimo abitacolo.
La macchina, zeppa come poche altre volte era stata, si piegò sotto il peso dei passeggeri cigolando sinistra. Con uno sforzo evidente si mise in moto saltellando e Pierre si avviò verso la centrale.
Il riccio, stretto come una sardina tra il toro lungo e largo e la riccia tesissima, stava lentamente friggendo di rabbia e caldo.
Si era cacciato in una situazione assurda, se solo iniziava a pensare a tutto il tempo che stava perdendo gli saliva la voglia di scappare da quel forno a ruote. E tutto per chi? Quella ragazzina in rosa che aveva voluto mostrare a se stessa di farcela.
Con un profondo sospiro cercò di portare  un po’ di calma dentro sé, iniziando a ripetersi che in centrale sarebbe rimasto giusto il tempo di firmare qualche carta o giù di lì: le solite, noiosissime cose che quei  posti richiedevano sempre.
Amy, per tutto il viaggio, pensò e ripensò alla punizione che Pierre le avrebbe inflitto. Sperava e pregava di non venir licenziata.
In quel caso avrebbe fatto meglio a preparare le valigie e a tornarsene da dov’era venuta.
Pierre parcheggiò l’auto davanti all’entrata alla meno peggio. Scendendo dal veicolo con uno sguardo di fuoco e le labbra serrate, aprì la porta della centrale con movimenti veloci e nervosi: chiaro segno che la pentola a pressione sarebbe esplosa da lì a minuti.
Scesero tutti e per il blu fu una vera e propria benedizione: l’immobilità a cui era stato costretto gli aveva  indolenzito spalle e gambe. Guardandosi attorno incuriosito, il riccio osservò con attenzione il luogo in cui si trovava.
Posto quasi al centro città, il casermone che si trovava davanti aveva ben poco di un commissariato. E se le scritte nei cartelli non lo avessero indicato non avrebbe mai, mai immaginato che lì dentro ci fossero poliziotti e company.
La manetta stretta al polso iniziò a premergli sulla pelle richiamandolo dall’assorta contemplazione: la riccia, al suo fianco, gli indicò l’entrata con un cenno della testa.
Pierre era già entrato e, furente, nel suo ufficio era impegnato a raccogliere fogli e moduli vari mentre Steve e Jack sistemavano le proprie giacchette in un silenzio perfetto.
Il riccio entrò dopo la ragazza con la concreta consapevolezza di trovarsi in una padella di braci.
Doveva stare molto, molto attento a cosa avrebbe risposto alle domande che, di sicuro, gli avrebbe posto il furetto.
Constatò inoltre che l’ufficio era davvero minuscolo: le scrivanie con i pc occupavano più dell’ottanta per cento dello spazio e la “sala d’attesa” altro non era che un angolo di due metri quadrati con due misere e tristi sedie spaiate. Lo sguardo sorvolò quel qualcosa a forma di ananas e le stufette incastrate tra una scrivania e l’altra,  gli cadde invece sul caloroso calendario appeso sulla parete.
Una smorfia per quel dettaglio tragi-comico gli incorniciò il viso, quell’immagine stonava tanto quanto un centrino in un bar di camionisti.
Credendo di potersi accomodare in una delle sedie, il riccio scelse quella che più gli sembrava comoda e vi sedette senza troppe cerimonie.


Spazio autrice: Buongiorno e buon nuovo anno a tutti! Spero davvero che quest'anno non sia disastroso come quello appena passato.
Spero anche che questo capitolo di passaggio vi possa piacere.
A presto. Un buon 2021 a  tutti.
Baci
Indaco

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Capitolo 6
*** Responsabilità p.2 ***


Amy non si preoccupava più del ragazzo catturato con tanta fatica: dall’alto Pierre stava preparando la burrasca personale da vomitargli in faccia e questo la terrorizzava tanto da dimenticarsi completamente del riccio e di lasciarlo libero di muoversi a suo piacimento.
Sedendosi alla sua postazione sentì il rumore delle carte e dei fogli venir smossi bruscamente: che il furetto fosse impegnato a cercare la sua lettera di licenziamento? Ad un tratto il rumore cartaceo si fermò ed una breve pausa anticipò i suoi timori.
< Amy, vieni > esclamò Pierre con tono scontento e affilato. La riccia si alzò in piedi pallida, osservata dai suoi colleghi che, con aria solenne e seria, la squadrarono altezzosi. Entrambi appoggiavano Pierre ancor prima di conoscere cosa intendesse dirgli.
La rosa entrò nello stanzino e chiuse la porta sperando che quell’accorgimento bastasse a rendere la conversazione privata: le quattro orecchie aldilà della stanza erano terribilmente brave a captare virgole, punti e dettagli di qualsiasi discorso.
 Gli occhi del furetto, piantati su una busta paga, si muovevano velocemente sul foglio, in cerca di una qualche cosa conosciuta solo a lui. Lo sguardo di pietra spaventò ancor di più la rosa la quale deglutì terrorizzata notando che, la busta paga oggetto di studio, era la sua.
< Pierre, mi dispiace davvero tanto … >
< zitta e siediti. Parlo io > il furetto ripiegò il documento e lo mise da parte mentre la rosa si sedette rigidissima.
< COSA DIAVOLO TI PASSA PER QUELLA TESTA? HAI IDEA IN CHE MACELLO CI HAI RIVERSATO?! > gridò furioso sbattendo un pugno sul tavolo. Il repentino cambio d’umore fece sobbalzare la riccia che abbassò lo sguardo al pavimento attendendo il continuo.
<  Non hai nessunissima prova di quello che tu hai sentito! E sai questo che significa? Che fintanto lui negherà di aver detto una cosa del genere la legge lo considererà innocente! E se volesse potrebbe persino farci causa per questo arresto! > concluse sbattendo il pugno assordate sulla scrivania.
Amy deglutì angosciata e strinse le dita attorno al sedile. Non aveva riflettuto su quell’ aspetto, al momento di catturarlo aveva agito puramente d’istinto accantonando ogni tipo di logica.
< I-io … mi dispiace davvero tanto Pierre, non volevo causare guai >
< e invece l’hai fatto! Non hai ubbidito agli ordini del tuo superiore, hai arrestato un tranquillo cittadino, l’hai ferito e per giunta mi hai fatto correre come un pazzo per mezzo quartiere! > elencò di getto contando sulle dita la lista sopracitata.
Gli occhi lividi di rabbia la incenerirono, tanto da far abbassare nuovamente lo sguardo alla ragazza più bianca che rosa ormai.
Dentro di sé stava infuriando un caos degno di nota: da una parte non si pentiva di quello che aveva fatto, era sicura di aver sentito qualcosa di compromettente.
Dall’altra si chiedeva come avesse potuto agire così stupidamente: la gravità di quel che aveva causato, ferire quel tossico e disubbidire al suo comandante, era davvero alta. Sapeva di aver violato regole di primaria importanza ma dal suo punto di vista considerava “tollerabile” la sua sguinzagliata: quelle parole erano state udite perfettamente anche Pierre.
Non si stupiva comunque che il suo lavoro fosse in bilico: il boss non perdonava sgarri al suo grado, inoltre, se si sommava l’antipatia reciproca, era già licenziata.
< Per cosa poi? Per il tuo orgoglio, per la tua … “carriera”. Chi credi di essere? Sherlock Holmes? Bhe, non lo sei > continuò imperterrito senza timore di ferire i suoi sentimenti.
Il furetto abbassò poi lo sguardo al foglio e, prendendo una matita, cancellò un dato riportato e sopra di esso scrisse l’esatta metà del valore segnato. Dopodiché le passò il foglio e si alzò in piedi stiracchiandosi.
< Visto che con le buone non l’hai capito mi costringi ad utilizzare le cattive: quello è il tuo stipendio di questo mese > la informo con tono staccato. La riccia sgranò gli occhi e si precipitò a prendere il foglio di carta.
Senza perdere tempo tuffò gli occhi sullo scarabocchio di grafite sperando che quel dannato stesse scherzando. Ma il furetto non lo stava facendo: la metà esatta del suo stipendio la fece rabbrividire.
< Tu non puoi farlo! > esclamò la rosa allontanando quella fotocopia da lei con un gesto nervoso della mano.
Immaginando di trovarsi momentaneamente senza soldi si sentì mancare il terreno sotto ai piedi. Ovviamente possedeva qualche risparmio ma quella riduzione senza un valido motivo la faceva innervosire. L’interlocutore voltò la testa e la fulminò con lo sguardo.
< Preferisci essere licenziata? Impiegherei ancor meno tempo sai? Ferire un cittadino è davvero grave > le rispose con serietà.
Pierre, colpito all’orgoglio con l’ammutinamento della sottoposta, voleva farle carico delle responsabilità che le sue azioni avevano prodotto. Sorvolava sul fatto che avesse ferito il ragazzo involontariamente, d’altronde aveva sentito benissimo il discorso criminoso ed era sicuro che il blu non fosse così innocente come si proclamava. Contemporaneamente, però, sapeva anche che in mancanza di prove tangibili Barclay non si sarebbe nemmeno scomodato a chiamare. Perciò preferiva archiviare momentaneamente il caso in attesa di tempi migliori che solo lui conosceva.
La riccia impallidì ancor di più alla minaccia, strinse i denti prima di sfogarsi e venir poi licenziata. Tutto sommato, anche se era una magra consolazione, metà stipendio era meglio di nulla. La ragazza non rispose, si alzò in piedi desiderando concludere quella conversazione in men che non si dica. Senza proseguire oltre con il discorso, si accinse ad uscire da quella micro camera che le toglieva il respiro.
Ma prima che potesse anche solo toccare la maniglia, Pierre continuò il monologo:
< ah, dimenticavo. Stanotte farai la guardia alla tua “preda”. Compila tutti i moduli necessari e domattina liberalo. In mancanza di prove ci è utile quanto un sasso > concluse affaccendandosi attorno ad una pila di fogli ammucchiati.
Amy sbarrò gli occhi e lo guardò stupefatta.
< C-che cosa? Ma il mio turno è stato la settimana scorsa! > protestò accalorata pensando alla lunga notte che l’attendeva.
< Non discutere Amy, te la sei cercata. E ora vai, è tutto > concluse davvero, degnandola appena di un’occhiata.
La rosa, ancor più stupefatta, aprì la porta ed uscì dalla stanza con l’umore a k.o.
I tre ragazzi fuori dalla porta sollevarono solo per un attimo gli occhi dalle loro occupazioni. L’intera discussione era filtrata dalla porta senza sbavi e tutti erano a conoscenza delle due punizioni affibbiatele. Sforzandosi di non mostrarsi infastidita, la ragazza uscì il più velocemente possibile dalla caserma per sfogare la sua rabbia.
Quando chiuse la porta dietro di sé, si lasciò scappare una lunga serie di imprecazioni rivolte al suo capo, ai suoi colleghi, al ragazzo che aveva catturato e a se stessa.
Con un sospiro sconsolato si sedette mollemente sulla panchina posta appena fuori dall’edificio. Appoggiandosi allo schienale abbandonò le braccia ai lati del corpo e iniziò a pensare con lucidità ai suoi problemi economici.
Vivendo sola, tra affitto, bollette e cibarie il suo stipendio scompariva senza lasciare particolari tracce. E quel mese pagato a metà non aiutava: la scorta da cui poter attingere era esigua, le sarebbe toccato chiedere un piccolo prestito al suo fidanzato. E l’idea era ancor più insopportabile della notte che aveva di fronte a sé. Orgogliosa com’era, anche chiedere un piccolo aiuto alla persona più intima era qualcosa di terribilmente umiliante per lei.
Nonostante Gage, così si chiamava il compagno della riccia, offrisse volentieri il suo aiuto in qualsiasi ambito, la riccia non riusciva a chiederglielo.
Come prima cosa non voleva pesare sulle spalle di nessuno e, secondariamente, voleva dimostrare a se stessa di essere autonoma ed autosufficiente, principio saldo ed inderogabile che si rifletteva in qualsiasi attività alla quale si dedicava.
Attorcigliando i capelli sulle dita rifletté per altri pochi attimi quando venne interrotta dalla sveglia del suo cellulare che l’avvertiva che mezzogiorno era suonato da un pezzo.
La porta d’entrata venne brutalmente spalancata accanto a lei e dall’edificio uscirono i due colleghi e Pierre stesso avvolti nelle loro giacchette e affamati. 
Amy si alzò solamente quando furono abbastanza lontani da non scorgerla e a passo strascicato ritornò all’interno della caserma. Con la testa così fitta di pensieri e preoccupazioni, non si accorse che il riccio blu era stato letteralmente incarcerato nella minuscola cella e che il povero malcapitato stava letteralmente ardendo di rabbia.
I due energumeni avevano spostato e sistemato al meglio quei pochi metri quadrati e l’avevano rinchiuso lì dentro: un angustissimo angolo, stretto e così piccolo che con quattro passi si poteva delimitare.
Oltre alla rabbia perciò si sommava anche quel limitato spazio, lui che, di limiti, aveva solamente il cielo.
La rosa si sedette sconsolata alla sua postazione, non vedeva l’ora che quella giornata orribile finisse al più presto. Cercando con lo sguardo la sua preda, si stupì nel vederlo nella cella svuotata, probabilmente era il primo ad inaugurare quella gabbia fatiscente. Seduto sulla sedia che poco prima era stata occupata dalla fedele stampante, il riccio tamburellava velocemente il piede e fissava una delle tante sbarre. La sguardo di fuoco avrebbe potuto far sciogliere il tubo di metallo e anche crepare le piastrelle del pavimento.
Con un sospiro rassegnato, la ragazza prese un foglio all’interno del cassetto della scrivania e con un leggero schiarimento di voce catturò l’attenzione del riccio.
< Ehm ehm. Io devo … farti delle domande. Non vorrei disturbarti ancora ma … >
< quando potrò uscire da questo tugurio? > le rispose tagliandole la frase di bocca.
I due occhi verdi, fin troppo seri, la fissarono con rimprovero per quello che gli stava capitando, facendola sentire in colpa per un millesimo di secondo. Scrollandosi, sospirò irritata da quel comportamento irrispettoso e, presa una penna, iniziò a giocherellare con il bottone a scatto.
Il ticchettio della penna infastidì ancor di più il riccio che avrebbe voluto solo rimanere  in pace per qualche minuto per poter riflettere.
< Domani mattina ritornerai libero, felice e potrai scorazzare dove ti pare e piace. Ma al momento dovrai rimanere qui e fare il bravo > rispose con pazienza impugnando la penna.
< nome? >.
Il ragazzo sollevò gli occhi dal pavimento e guardò la ragazza seduta alla scrivania pronta a segnare la risposta sul documento di fronte a lei.
L’indecisione, comparsa sul suo volto alla domanda dell’agente, scomparve con un battito di ciglia ed un tono fintamente gentile.
< Silas. Silas the Hedgehog > esclamò soddisfatto stiracchiandosi compiaciuto. La riccia scrisse il nominativo e senza porsi troppe domande completò il questionario del ragazzo, mirato a raccogliere i soliti dati personali.
Apprese da quelle domande che il riccio era poco più grande di lei e che la residenza era esattamente là, da qualche parte in quel quartiere disabitato. Troppo presa a riflettere sui dati ricevuti, non prestò attenzione a come il blu glieli comunicava: tentennando, correggendosi a più riprese e rispondendo con estrema vaghezza.
Il ragazzo, che aveva faticato non poco a trovare risposte valide e credibili, sospirò di sollievo quando la riccia archiviò il foglio all’interno di un faldone. Nonostante si sforzasse di mostrarsi calmissimo con un sorriso straffotente, piccole gocce di sudore gli incollarono gli aculei alla nuca. Rischiava grosso restando lì ma per cause di forza maggiore non poteva fare altrimenti. Sperava che, uscito da quel macello, la riccia e company non intendessero più andare  a zonzo in quel posto, dimenticandosi, giorno dopo giorno, della sua faccia e dell’accaduto.
La ragazza, con un sospiro esasperato, si sollevò in piedi e si sistemò la camicia azzurra.
< Bene Silas, io ora vado a pranzare, ti porterò qualcosa al mio ritorno, hai preferenze? > borbottò con gentilezza dosata.
< Credo … un chili dog e … succo d’arancia > balbettò sorpreso da quella gentilezza non di certo meritata.
La rosa annuì e raccolse la borsa abbandonata accanto alla sedia girevole.
< Bene, a più tardi >. Uscì e chiuse la porta a chiave, abbandonando uno stupefatto riccio all’interno della celletta.


Il sole era davvero caldo quel giorno tanto che la temperatura si aggirava sui diciotto gradi nonostante fosse solamente marzo. La rosa, di malumore, si incamminò lungo il marciapiede che costeggiava la caserma e si diresse in centro città a passo veloce.
Era davvero in ritardo al suo appuntamento e non sapeva come giustificarsi.
Il locale che lei e l’attuale fidanzato avevano scelto per incontrarsi era uno dei più appartati della città, posto in un angolino seminascosto. La ragazza impiegò poco tempo a raggiungere il luogo prefissato e ancor meno ad assumere uno sguardo dispiaciuto.
Il locale era uno dei tanti posti anonimi che si trovavano in giro: vetrine coperte dall’insegna troppo grande, cibi precotti, bevande comuni e arredamento troppo originale.
Tutto sommato però, i panini erano freschi e il caffè era davvero buono, motivo più che valido per frequentarlo.
Gage era seduto al loro solito posto, davanti a lui il loro pranzo ormai freddo e triste. Il ragazzo sollevò la testa ricciuta dallo schermo del tablet e, spazientito, le lanciò un’occhiata torva.
Il dingo color ambra aveva venticinque anni esatti. Laureato in tempi record, aveva trovato lavoro presso un grosso ufficio che si occupava di bioedilizia. Con impegno e dedizione, in poco tempo, era riuscito a ben inserirsi in quell’ufficio, tanto che i suoi progetti iniziavano a debuttare assieme a quelli dei suoi colleghi più anziani.
Insomma, soldi e carattere non mancavano e neppure la bellezza: gli occhi grigi, la matassa di corti ricci biondi ed il bel portamento lo rendevano davvero un divo.
< Alla buon’ora! Cos’è successo per questo ritardo spaventoso? > esclamò incrociando le braccia al petto con fare nervoso. Amy, visibilmente dispiaciuta, assunse l’espressione più mortificata del suo repertorio e si sedette al suo fianco.
< Lo so, lo so, mi dispiace così tanto! Perdonami, è successo un casino enorme al lavoro! > esclamò prima di scambiarsi un veloce bacio di saluto.
Il ragazzo sembrò calmarsi e con uno sbuffo si dedicò al panino ormai congelato.
< Solite rogne con Pierre? > domandò addentando il pranzo
< sì, più o meno, ma stavolta è stata peggio delle altre > rispose brevemente per non dover descrivere i particolari.
< Breve riassunto? > aggiunse lui.
Amy, fregata, accavallò le gambe ed immaginò in fretta un resoconto insapore che soddisfasse la sua curiosità. Non voleva assolutamente che sapesse del suo handicap finanziario e, soprattutto, non voleva rivelargli la sua disubbidienza.
< B-bhe, è successo che … ecco, abbiamo catturato un tizio oggi > iniziò timorosa scartando il pranzo.
Gage sollevò le sopracciglia ammirato
< wow! Bravi! Che ha fatto di male il disgraziato? > rispose entusiasta versandole da bere.
La rosa ringraziò con un cenno.
< Dialoghi incentrati su sostanze illegali >
< qualche prova? >
< no, nessuna, inoltre il ragazzo che era con lui se l’è data a gambe e non  siamo riusciti ad acciuffarlo > sentenziò brevemente sperando che quell’interrogatorio concludesse in fretta.
Il dingo annuì e le sorrise sornione, evidentemente aveva ancora qualche domanda da porgli
< e perché si è arrabbiato con te? > domandò con interesse cercando di capire il nesso.
La rosa tracannò un sorso della bibita.
< Ho avuto delle divergenze con lui > biascicò asciugandosi le labbra. Perché non mangiava il suo panino e non cambiava discorso?
Il dingo sorrise acuto e le scostò la ciocca dalla fronte con dolcezza
< poca voglia di parlare noto > replicò utilizzando un tono posato. Conosceva troppo bene la ragazza per venir fregato con quelle mezze risposte.
La rosa arrossì imbarazzata
< bhe, con lo stipendio dimezzato e una strigliata di dimensioni bibliche posso assicurarti che avresti poca voglia di parlare anche tu > rivelò evitando di guardarlo negli occhi. L'espressione corrucciata era un sinonimo della preoccupazione che aleggiava in lei.Gage sollevò le sopracciglia allibito: sapeva che Pierre era un tipo particolare ma per arrivare a quel punto doveva esserci stata una motivazione davvero valida.
< Che hai fatto di così terribile? > replicò mollando il panino e rivolgendogli la sua totale attenzione. La riccia si guardò le scarpe imbarazzata, era così difficile ammetterlo davanti a lui che viveva per il lavoro e che si auto poneva regole ferree pur di brillare. 
Con un sospiro pesante appoggiò il tappo della bottiglia al tavolo e cercò di raccogliere qualche altro secondo accomodandosi sulla sedia.
< Ho disubbidito agli ordini: ho catturato il tizio nonostante non volesse > rispose asciutta sentendosi le gote infiammare pian piano. Ammettere il suo errore non la faceva sentire affatto meglio, anzi, la parte peggiore iniziava esattamente ora.
< Che cosa!? > esclamò il dingo rischiando di far cadere la lattina che aveva in mano. Gli occhi grigi le si piantarono addosso con cipiglio severo
< Amy! Sei un’agente! Non puoi farlo nemmeno se ti è sembra insensato! > continuò rizzandosi ben a sedere e rincarando la dose. Il tono acceso fece voltare un’umana di mezza età intenta a spiluccare un sandwich, la quale gli rivolse un’occhiata di rimprovero.
Amy scosse la testa in totale disaccordo.
< Non l’ho catturato per niente! Stava parlando di droga! > si giustificò innervosendosi dal quel tono di voce.
L’ambrato sbatté le palpebre incredulo
< e cosa ti importa se Pierre, il tuo capo, ti ha fermamente proibito di acciuffarlo?! >. La riccia sgranò gli occhi e lo guardò allibita
< “cosa mi importa”? Stai scherzando spero! E’ il mio lavoro Gage! Cosa dovevo fare? Lasciarlo andare liberamente ad avvelenare la gente? > protestò lei alzando ancor di più la voce.
Il dingo chiuse gli occhi stancamente e scosse la testa irremovibile
< non vivere nelle utopie Amy! Non è un film! Sei pagata per fare ciò che ti ordinano. Punto. E se Pierre ti ha detto di lasciar stare allora devi fare come ti ha detto! E’ già tanto se non ti ha licenziato > concluse nervoso.
La riccia roteò gli occhi teatrale e si appoggiò al tavolino con il gomito
< col cavolo, ho semplicemente seguito le linee guida che la divisa mi impone. Non mi pento del mio ideale anche se ho perso metà stipendio >.
Possibile che non esistesse nient’altro oltre a ciò? Solo perché era pagata non significava che doveva buttarsi giù da una rupe se ordinato.
La gente riponeva fiducia in loro, erano loro a dover fermare almeno quei piccoli spacciatori di quartiere. Aveva scelto quel lavoro per dare una mano concreta alla società, non certo per rimanersene ferma di fronte ad un ovvio criminale.
< Avrà avuto il suo buon motivo. Non è il tuo superiore per niente Amy, di sicuro sa il fatto suo e tu dovresti rispettare le sue decisioni > esclamò Gage con tono grave. 
Zittendosi, Amy sbuffò e rimase in silenzio per qualche attimo: era inutile continuare a discutere, nulla sarebbe cambiato.
Il ragazzo la imitò e lanciò un’occhiata al telefono fingendosi impegnato.
La cocente ramanzina aveva leso l’orgoglio della ragazza, la quale cercava di trovare qualche affermazione che portasse il ragazzo dalla sua parte.
Ma, minuto dopo minuto, la sua testa si svuotava trovandosi, dopo poco, completamente senza parole e con un gran senso di colpa.  Visto che nessuno dei due non intendeva dare altre parole in merito all’argomento, il dingo prese le briglie della conversazione assumendo un tono di voce più rilassato.
< Tieniti libera giovedì > esclamò facendo trapelare un certo entusiasmo.
La rosa si voltò e aggrottò le sopracciglia
< per cosa? > domandò abbandonando il malumore creato poco prima.
Le labbra del ragazzo si stirarono in un sorriso.
< Giovedì saranno presentati i progetti. Ti ricordi quel grande hotel che stavamo progettando, fuori città? >, la riccia annuì continuando il suo pranzo
< certo che mi ricordo, mi hai sacrificato per un’intera settimana per quello stupido progetto > sentenziò con un sorrisino ironico.
Il dingo sorrise orgoglioso
< bhe, se tutto va come previsto, giovedì sera potrai vantarti di essere la fidanzata del progettista di quel fantastico posticino e tra un anno ti porterò nel centro benessere ogniqualvolta vorrai > concluse baciandole le guancie e ritrovando in un batter d’occhio l’entusiasmo.
Un sorriso spontaneo le incorniciò il volto e la rosa passò le dita sulla matassa degli adorati ricci dorati.
< Perché invece della sauna non mi porti a cena dai tuoi? Preferirei di gran lunga quello > lo stuzzicò lei agitando i capelli ben legati.
Il dingo avvampò e si staccò da lei punto sul vivo
< un passo per volta Amy. Lo farò, ma dammi un po’ di tempo prima >.
Non era una situazione facile, i genitori di Gage, avvocato e casalinga, erano estremamente determinati ed schietti, soprattutto su tutto quello che girava attorno ai loro figlioletti. Il dingo era stato più che lesto a lasciare il comodissimo nido famigliare, soprattutto con una madre severamente adorante ed un padre orgogliosamente testardo. Come ogni genitore che si rispetti, i suoi avevano le più rosee aspettative per lui: un lavoro ben retribuito, agi, onori e una fidanzata modello.
Modello che non rispecchiava esattamente l’attuale ragazza. Non che Amy non fosse abbastanza bella o intelligente, ma il fatto che fosse orfana gettava su di lei un’aura di insicurezza che i suoi genitori disapprovavano. Insomma, per farla breve, i futuri suoceri credevano che la riccia avesse alimentato qualche tipo di complesso o una di quelle patologie che sorgono in questi sfortunati casi, indebolendole e rovinandole irrimediabilmente il carattere.
Gage, come di routine, scansò quel problema e con un sorriso cercò di confortare la riccia lievemente innervosita:
< la mia pausa sta per scadere tesoro, è meglio che mi avvii, non voglio arrivare in ritardo. E non dovresti volerlo nemmeno tu > la pungolò lui alzandosi in piedi e raccogliendo il giubbotto. Amy replicò con un’occhiataccia
< evita certe battute, non sono affatto in vena. Inoltre ho un intero pomeriggio da passare con Pierre. Mi viene da vomitare a pensarci > sospirò lei alzandosi a sua volta.
< Su, su, forza. Poche ore e poi sarai libera di fare ciò che vuoi. A proposito, stasera pensavo di passare da te: domani vado al lavoro qualche ora più tardi e perciò mi sarebbe piaciuto fermarmi. E’ un problema? > domandò con un furbo sorriso sistemandosi i riccioli scompigliati dalla ragazza.
La riccia si morse la guancia e prese tempo fingendo di pensarci. Quella notte avrebbe dovuto controllare il suo trofeo-attira-sfighe e perciò era costretta a dire addio alla seratina romantica. Assumendo uno sguardo addolorato, raccolse la borsa da terra e sospirò dispiaciuta:
< mi dispiace tesoro, stasera sono di turno extra e perciò non sono a casa > fu costretta a dire osservando la sua espressione mutare.
Il dingo sospirò e guardò distrattamente fuori dalla vetrina per un paio di secondi. Non l’aveva bevuta quella piccola bugia, anzi, la non chiarezza lo innervosiva ancor di più.
< E’ la punizione per aver disubbidito no? Dovrai controllare il malcapitato presumo > svelò lui con sagacia.
La rosa cercò di atteggiarsi normalmente ma i suoi gesti, come legarsi con eccessivo zelo il foulard, lasciarono intendere al ragazzo il suo nervosismo. Il sospiro impaziente del dingo fece comprimere lo stomaco alla rosa,
< mi dispiace Gage, so come la pensi ma è davvero un’occasione! Se si aprisse qualche indagine Barclay in persona potrebbe farci visita e forse Pierre verrebbe sostituito! Potrei migliorare la mia posizione! > esclamò facendo fatica a contenere il tono di voce.
Gage si guardò attorno assicurandosi che nessuno guardasse dalla loro parte, la voce acuta della riccia attirava fin troppo l’attenzione.
< Perché invece non consideri l’idea di rinunciare? > esclamò nervoso e al limite della pazienza. Non capiva perché, dopo tentativi buttati al vento e insoddisfazioni che avrebbero logorato persino il più agguerrito dei manager, la ragazza continuasse ostinata ad inseguire quell’utopia da film.
Amy richiuse la bocca e rimase a guardarlo sbigottita ed incredula. Tutto, ma di certo non si aspettava quella frase dal fidanzato. Sapeva quanto ci tenesse a raggiungere il suo obiettivo e le sembrava irreale che lui, quel stacanovista, potesse suggerirle una simile assurdità.
Ma non stava scherzando, glielo leggeva in faccia e con altrettanta serietà stava aspettando una risposta. La riccia non si soffermò nemmeno a riflettere, amava il suo lavoro e puntava alto, era fuori questione abbandonarlo.
< Non se ne parla > replicò con altrettanta serietà e tono sofferente.
Gage la squadrò torvo, sapeva che non aveva nemmeno valutato l’idea e la cosa lo infastidiva, d’altronde gliel’aveva proposto anche per il suo bene. Il viso del ragazzo annuì ma gli occhi grigi si puntarono tra le piastrelle nocciola,
< perfetto. Non lamentarti mai più allora e impara a gestire il privato con il lavoro. A giovedì >.
Detto ciò le lanciò un’ultima occhiata e se ne andò senza tante cerimonie. Amy rimase paralizzata dal dispiacere e lo seguì con lo sguardo fin dove la vetrata glielo permise.
Mogia più di quando era entrata, si avvicinò alla cassa cercando di riprendere il controllo della situazione.
La cassa, che ospitava un’ordinata fila di alzatine ripiene di panini, era presidiata dallo strampalato proprietario, perso in chiacchiere con un cliente abitudinario. L’avanzare della riccia però, catturò la sua attenzione, soprattutto perché estrasse il portafoglio intendendo chiaramente di voler pagare.
Il sorriso dell’umano la riportò nel mondo, soprattutto quando si rivolse a lei con estrema gentilezza:
< ha già pagato il tuo compagno, puoi tranquillamente andare se non ti serve altro >. Amy sforzò un sorriso,
< oh meglio allora. Sono apposto così, grazie ugualmente > rispose aprendo lo zip della borsa per metterci il portafoglio
< sicura che non serve altro? Abbiamo hamburger, chili dog, toast … >
< Chili dog? > ripeté lei confusa.

Spazio autrice:
Buonasera, spero che questa storia vi stia prendendo almeno un po'! Spero anche i capitoli così lunghi non diano fastidio o annoino.
Segnalate quasiasi tipo di errore. Grazie.
A presto!
Baci.
Indaco

 

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Capitolo 7
*** Piccole interferenze ***


Il riccio blu, all’interno della micro stanzetta, aveva tentato inutilmente di mettersi comodo. La sedia traballante non gli forniva alcun riposo perciò si era appoggiato al muro portante in attesa del suo pranzo. Nel frattempo era riuscito a riflettere in modo lucido: tra meno di un giorno sarebbe uscito da quel pattume, nessuno sospettava seriamente di lui, riccia a parte, e, cosa più importante, tra non molto avrebbe avuto l’intero mondo da percorrere in lungo e in largo.
Da quel momento si ammonì di dover solamente prestare attenzione a non risultare interessante agli occhi polizieschi di Pierre: l’unica vera seccatura di quel luogo.
La porta si aprì ed entrò la ragazza-che-si-lancia-dai-tetti. L’antipatia che provava nei suoi confronti era lievemente diminuita, tanto da permettergli di studiarla per memorizzarne la figura. L’effetto della sonora strigliata che Pierre le aveva inflitto senza pietà era ben visibile: l’espressione amareggiata persisteva sul suo volto. E se da una parte appoggiava la ramanzina del suo capo, dall’altra, nel vederla così abbattuta, lo faceva sentire un pelino in colpa.
Scostando gli occhi dall’espressione cupa della ragazza, il riccio ritornò a guardarle la scrivania cercando il suo pranzo che, scommetteva, si trovava dentro al sacchetto di carta.
La lingua iniziò a navigare nella saliva al pensiero del suo ordine. Il suo stomaco parlò per lui: un imbarazzante brontolio richiamò la riccia che si girò stupita verso la sua direzione.
Il ragazzo sobbalzò di vergogna, l’ultima cosa che gli serviva era appunto fare una figuraccia. Rosso in viso, si irrigidì ancor di più quando la risata della riccia si diffuse tra quelle quattro mura.
L’adorato sacchetto, caldo e profumato, scivolò tra le sbarre facendogli dimenticare l’imbarazzante suono prodotto dal suo stomaco.
< Abbiamo fame eh? > lo pungolò la rosa con un sorriso divertito. Il ragazzo rispose con una smorfia allungando il braccio per raccogliere il pranzo. Non aveva la minima voglia di scherzare.
Le sue dita sfiorarono appena la carta: il panino venne bruscamente ritirato e la ragazza assunse un’espressione assolutamente determinata.
< Ammettilo, stavi parlando di sostanze illecite prima > esclamò serissima con una voglia sfrenata di farlo confessare. Il riccio non si aspettava che quella testona continuasse a tartassarlo. Quell’instancabile determinazione con cui si accaniva inutilmente lo fece sorridere, o meglio, ghignare.
< No, non stavamo parlando di nulla di illegale. Dovresti prestare più attenzione prima di accusare alla leggera. Mi sembra che il capo sia stato più che chiaro > rispose tagliente sperando di chiudere quel discorso fastidioso.
La riccia parò il colpo infastidita.
< Non mi faccio comprare con qualche goccia di sangue. Ho sentito benissimo a cosa ti riferivi e spero davvero che questo pomeriggio, perquisendoti, ti trovino addosso qualcosa > sibillò a denti stretti.
Il sacchetto ricomparve davanti ai suoi occhi dondolando e, stavolta, venne lasciato cadere.
< Contaci > rispose di rimando acchiapando il prezioso involucro.


Pierre rimescolò il caffè zuccherato con gli occhi fissi al portatovaglioli. Davanti a lui, Steve prendeva posto con la stessa aria pensierosa e Jack si guardava attorno annoiato.
Il via vai della gente e le moltitudini di facce che si seguivano una dietro l’altra rendevano l’ambiente leggermente asfissiante. I tavolini addossati l’uno all’altro non aiutavano, l’odore dei piatti degli altri arrivava al naso dei clienti e non si poteva certo dire che sorseggiare un caffè con il profumo del formaggio del tavolo di fronte fosse un’esperienza meravigliosa.
< Abbiamo avuto sfortuna questa mattina > iniziò il toro rompendo il ghiaccio al discorso. Pierre aggrottò le sopracciglia e svuotò la tazza in un sorso.
< Già. Il posto pullula di nefandezza, probabilmente non ci siamo nemmeno avvicinati al cuore del problema > mormorò a bassa voce.
Jack si sintonizzò sul discorso guardando prima l’uno e poi l’altro. Appoggiando i gomiti sul tavolino si palpò una delle corna lucidissime poste sulle tempie.
< E' davvero così esteso il porto? Ci siamo addentrati parecchio mi sembrava > si intromise stupefatto.
< Non è che la punta dell’iceberg, anzi, nemmeno quella. Non saprei quantificare per quanti chilometri si espande, nel centro di quell’inferno ci sono stato poche volte > sentenziò serio Pierre, uno dei pochi che poteva dire di aver visto qualcosa del porto.
I compagni aguzzarono le orecchie nella sua direzione.
< E cosa c’è in centro oltre a fabbriche e magazzini? > domandò con interesse Steve spostando lo sguardo.
Il furetto sorrise amaro e guardò nuovamente il portatovaglioli riportando alla mente dei vecchi ricordi
< tutto ciò che un essere umano, o un mobiano, desidera: compagnia, armi, qualche sorso di alchool, soldi, morte … dipende a cosa punti > concluse breve ripensando alla prima volta in cui era stato in quel labirinto.
Ricordava con amarezza come Barclay lo avesse guidato per interi chilometri. Probabilmente, se fosse rimasto solo, si sarebbe perso e sarebbe morto di sete dopo qualche giorno.
Tutte quelle case, quei bar, quella desolazione gli facevano salire la malinconia.
Sempre affollato, soprattutto in piena notte, quelle stradine erano frequentate da disperati, approfittatori e commercianti di qualsiasi cosa. L’umanità in quelle stradine si limitava alla posizione eretta dei bipedi.
< Sembra affascinante > ironizzò l’orso portandosi una mano sul mento e appoggiando ad esso l’enorme testa.
< Non lo è affatto. E’ il rifugio ideale per qualsiasi criminale > concluse sbrigativo cercando di distogliere i pensieri dal ricordo di quella gita detestabile.
Il discorso sembrò chiuso e Pierre chiese al cameriere di portare il conto.
Quel pomeriggio avrebbe perquisito e fatto qualche domanda al disgraziato, dopodiché se ne sarebbe tornato a casa, tanto la rosa avrebbe tenuto aperto l’ufficio. Le dita del toro iniziarono stranamente a tamburellare sul tavolo, gesto che indicava che il suo sottoposto era sotto stress.
Il furetto tentò di ignorare il rumore prodotto ma Jack aprì la bocca prima che lui potesse concentrarsi
< saresti capace di fare una piantina della parte che abbiamo visitato oggi? > domandò tentennando e appianando le dita sul tavolo.
Il rumore dell’ansiosa deglutizione da parte del toro imbarazzò l’inpiegabile furetto, già sorpreso da quella richiesta ridicola.
< Posso provarci. Ma a che ti serve? > domandò serio non capendone l’utilità.
Il toro guardò con ansia l’orso seduto di fronte a lui cercando una risposta nei suoi occhi. Pierre voltò lo sguardo alla sua destra e fissò il grigio aspettando spiegazioni.
Molto lentamente il toro prese parola sollevando gli occhi.
< Il gps non funzionava oggi all’interno di quel labirinto, se dovesse accadere di nuovo e ci dovessimo trovarci senza di te voglio sapere come proseguire > si giustificò rivolgendogli una pigra ed immobile occhiata. Il furetto lo fissò per qualche secondo pensando che non sarebbe più accaduta una gita fuori porto come quella di poche ore fa. Mai più.
Sbuffò ed annuì ugualmente passandosi i capelli con le dita.
< Va bene, non appena ho tempo vi preparerò qualcosa >. Richiuse subito la bocca quando il cameriere si avvicinò ad essi e concluse il discorso.

L'arrestato di fronte a lui aveva un non so che di familiare: aveva la parvenza di averlo già visto da qualche parte, qualche rivista forse. Sembrava il classico ragazzo normale-ma-non-troppo che alla maggior parte delle ragazze piace.
Dopo aver eseguito una velocissima perquisizione per accertarsi che non avesse nulla di sospetto con sé, Pierre l’aveva richiesto nel suo ufficio per concludere le sue personali indagini. Lanciandogli un’altra occhiata da sopra lo schermo, si chiese se quella ferita alla tempia bruciasse ancora o meno.
Gli occhi verdi del tizio lo sgamarono immediatamente durante quello spionaggio e un sorriso straffottente gli apparve sulle labbra, che fosse gay?
Pierre si schiarì la voce e riordinò le carte sulla scrivania.
< Dunque, dunque, che ci facevi lì, in quel postaccio … Silas? > domandò con straordinaria calma il furetto.
Il riccio blu si premurò di far scomparire il ghigno dal volto, l’interrogatorio non era ancora iniziato e si sentiva già stanco.
< Assolutamente niente > rispose cercando di apparire il più serio possibile. Il poliziotto rifletté nuovamente con tutta calma, d’altronde dalla perquisizione non avevano trovato nulla di sospetto, di cosa accusarlo se quelle parole non erano state nemmeno registrate?
< Ne sei sicuro? > mormorò provocatorio abbassando le palpebre fino quasi a chiuderle. Il blu annuì senza indugi sopprimendo tutta la voglia di rispondere ironicamente a quel bizzarro personaggio.
< Sì lo sono anche io! Perciò domattina verrai rilasciato. Devo tenerti qui per alcuni dettagli burocratici ma non ci saranno ripercussioni. Mi dispiace per la ferita che ti ha inferto la mia sottoposta, ho già preso provvedimenti a riguardo perciò cose del genere non capiteranno più > annunciò alzandosi dalla sedia con gaiezza e ritrovata giovialità.
Il giovane, ancor più sorpreso dalle sue parole, lo imitò sollevato nel poter muovere almeno qualche passo.
< Oh non si preoccupi troppo, sto davvero benissimo! Fortunatamente è stato tempestivo nel prenderli: non è piacevole vivere una simile esperienza per un errore. Ho perso un sacco di tempo ed è stato davvero umiliante > esagerò librandosi nella sicura conferma che il boss non sospettasse nulla.
Pierre lo guardò glaciale accompagnandolo alla porta. La differenza di altezza tra loro era davvero marcata tanto che il furetto al suo fianco poteva quasi sembrare il suo fratello minore. Ma non si sentiva affatto a disagio per quel dislivello, anzi, era quasi convinto che quei centimetri in più fossero stati tolti al cervello.
< Non tirare troppo la corda Silas, altrimenti la prossima volta mi porterò un registratore e non ti salverai così facilmente > mormorò a bassa voce con tono severo.
Un brivido freddo scivolò lungo la schiena del riccio irrigidendolo.
Dunque il boss era consapevole che qualcosa puzzava ma, volontariamente, non aveva svolto maggiori indagini.
Non riuscì a trattenersi dal voltarsi e dall’osservarlo con ancor più attenzione cercando di riconoscere in lui qualche volto o qualcuno di cui aveva sentito parlare. Gli occhi del furetto ressero lo sguardo privi di timore, anzi, quasi scocciati.
< Non so di cosa parli > rispose il riccio restituendogli la stessa serietà. Non riusciva a trovare un nome a quel viso pulito.
Il furetto roteò gli occhi annoiato e fece un cenno con la testa indicandogli la cella.
Senza esitare e mostrando una calma apparente, il blu si trascinò a malincuore all’interno della gabbia, domandandosi perché mai Pierre non avesse approfondito le indagini e soprattutto perché gli avesse mentito chiaramente pochi istanti prima.
Che fosse una delle mele marce? Non sarebbe stato né il primo né l’ultimo, inoltre, rivestendo un alto grado, avrebbe di sicuro guadagnato un mucchio di soldi e forse gli sarebbe tornato utile.
Con un’immaginaria scrollata di spalle, lasciò cadere le supposizioni concentrandosi sui suoi personali affari. Non vedeva l’ora di uscire da lì.



Silver rischiò di sfracellarsi al suolo dopo pochi chilometri: il potere psichico, se ben controllato, donava il potere del volo “leggero”. Non poteva certo decollare a mo’ di boing 767 e nemmeno raggiungere l’altezza delle nuvole, tuttavia era ottimo per dare un’occhiata dall’alto e per scappare in quelle occasioni. Che sperava fosse la prima e l’ultima.
Dopo lo sprint iniziale, costata un occhio della testa in fatica, pochi chilometri dopo si era trovato a dover misurarsi con la sconcentrazione  dovuta all’arresto del suo migliore amico.
Era davvero sotto shock per quello che era successo, soprattutto perché per la prima volta non poteva davvero aiutarlo in quella delicatissima questione. Preso tantissimo dalle domande “quando, come, cosa fare” non si era accorto di essersi abbassato moltissimo, tanto che qualche metro dopo inciampò su un’antenna e iniziare a rotolare in aria come i suoi pensieri.
L’aurea azzurra si dissolse assieme alla sua concentrazione e cadde a peso morto sul tetto della casa.
Scivolando su un fianco, annaspò attorno a sé cercando un qualsiasi appiglio per poter fermare la caduta disastrosa.
Ma il tetto inclinato lo liquidò con facilità e le tegole friabili respinsero le sue mani ad ogni tentativo di fermarsi sgretolandosi ogni volta che riusciva ad appigliarsi a qualcosa.
In preda alla confusione di quell’assurdo e doloroso rotolio, Silver non riuscì a concentrarsi abbastanza da riprendere quota.
La velocità aumentò e il tetto finì nemmeno un metro dopo: il riccio venne sbalzato giù senza interruzioni ma le mani graffiate e rigide dalla paura riuscirono ad afferrare il bordo della grondaia per un solo attimo prima che queste, a causa del peso gravoso, si staccassero dai loro supporti come una lunga striscia di nastro adesivo.
Silver, attaccato alla grondaia come ad una liana, volò nel vuoto.
Le pupille nerissime si restrinsero nel veder cadere assieme a lui una coda di ferro, soprattutto quando vide la terra lontana parecchi metri. Doveva concentrarsi! Doveva salvarsi!  Agitando le mani come un ossesso strinse le palpebre per non vedere il vuoto sotto di sè. Concentrarsi era straordinariamente difficile persino con gli occhi chiusi: l’aria che lo sferzava e la forza di gravità che pareva volesse inghiottirlo lo mandarono in tilt.
Ma la paura del dolore fu più forte del raziocino, a pochi metri dal suolo tese le mani verso il suolo e concentrò tutta la sua energia sui palmi delle mani. Il suo potere scaturì come uno scudo azzurro che esplose a raggiera quando andò a contatto con l’asfalto.
Le case tremarono e qualcuno urlò spaventato dal loro interno. L’onda d’urto dell’esplosione fu abbastanza potente da rallentare la sua caduta e fargli guadagnare preziosi secondi che impiegò per avvolgersi di azzurro e sollevarsi leggiadro come una farfalla prima dello schianto.
Le grondaie si sfracellarono al suolo creando ancor più fracasso del boato di poco prima. Sembrò che interi set di batterie di pentole cadessero al suolo da dieci metri di altezza.
Altre grida e altri movimenti seguirono i primi quando un piccolo gruppo di umani uscirono dall’edificio assistendo inermi allo sfacelo più completo: l’asfalto polverizzato aveva messo in luce tubi di elettricità e le grondaie ammaccate, totalmente inutilizzabili, intralciavano la strada.
Silver si schermò gli occhi con una mano e guardò con orrore gli ingenti danni che aveva creato.
Gli umani erano quattro e tutti e quattro, con gli occhi sgranati, guardavano senza parlare lo squarcio nel manto nero e la serpentina ammaccata.
Silver si portò le mani nei capelli con disperazione, si sentiva davvero, davvero in colpa e per un momento valutò di riportare almeno la grondaia all’altezza originale. Scartò l’idea quando gli umani, cercando di capire cosa fosse successo, alzarono la testa e, vedendolo per la prima volta, lo fissarono stupiti.
Immobilizzato dall’imbarazzo, il riccio arrossì e valutò se scendere o meno per scusarmi dell’incidente ma, le facce sotto di lui, si contorsero in rughe di rabbia così aggressive che non ci pensò due volte prima di sparire dalla loro vista.
Attraversò il quartiere infondendo più energia possibile pur di allontanarsi da quei tizi, fortunatamente gli umani non possedevano poteri individuali perciò dileguarsi fu semplicissimo per l’argentato.
Si posò realmente a terra solamente quando arrivò alla fine del centro abitato. L’inizio della campagna e la fine della periferia era delineato da un marciapiede sgretolato dal sole e dal vento. Appoggiando i piedi a terra l’argentato si premurò di estrarre il cellulare ammaccato e di comporre il numero.
L’intervallo tra i “tuu tuu” non gli erano mai sembrati così lunghi come in quel momento. Il vento fece ondeggiare il lungo ciuffo ormai caduto davanti agli occhi e il riccio si voltò credendo di sentire gli umani rincorrerlo.
< Silver? Che succede? > replicò una voce femminile con un forte accento orientale. Il tono delicato e determinato lo confortarono sentendosi praticamente al sicuro.
< E’ accaduto davvero un macello Blaze! Un totale disastro! > Anticipò rianimando l’intera preoccupazione per il compagno blu. Una veloce sequenza di passi veloci fecero da sfondo a quella conversazione riempiendo il vuoto lasciato dalla ragazza. Il rumore delle porte che si aprivano e si chiudevano e quello dei passi sempre più veloci indicarono al riccio che la gatta probabilmente si spostava per rimanere sola e mantenere privata la loro conversazione.
< Santo Cielo Silver! Che è successo? Sonic si è fatto male? > domandò con ansia crescente chiedendosi perché mai chiamasse l’argentato.
< Peggio molto peggio! L’hanno preso Blaze! > esclamò in disperazione rivivendo tutta la scena. Non aveva potuto nemmeno assicurarsi lo stato di salute del ragazzo pensandoci ma era qualcosa di secondario, Sonic stava bene e qualche graffio non era nemmeno considerato da lui. Il problema maggiore erano le conseguenze che sarebbero state adottate da quel giorno. Sarebbe stato arrestato? Schedato? Controllato a vista?
< Chi è riuscito a prenderlo?! > Esclamò sconvolta l’altra voce al telefono, incredula che quel ragazzo potesse venire acciuffato.
< La polizia! Siamo stati inseguiti per mezzo quartiere! Ora l’hanno portato in centrale Blaze! Che facciamo?! > domandò con tono sempre più preoccupato.
La voce femminile sospirò condividendo la preoccupazione del riccio,quello era davvero un grosso, grosso problema.
< Nulla! Peggioreremo solo le cose se ci immischiamo. Torna a casa al momento. E non farne parola con nessuno. Soprattutto non con lei. Stavolta si è davvero messo nei guai > sentenziò cercando di non far trapelare le sue vere e paurose sensazioni.

Spazio autrice:
Scusate il ritardo ma sono stata molto impegnata.
Spero che questo capitolo la storia possa iniziare ad avere più senso e possa suscitare curiosità. Ringrazio chi sta seguendo la storia di capitolo in capitolo!
Baci.
Indaco

 

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Capitolo 8
*** Sparizioni ***


Amy capì alle ore ventitre che non sarebbe arrivata all’alba del giorno seguente: il pomeriggio pieno e la mattinata intensa avevano logorato la sua pazienza e la sua forza. Le palpebre pesanti e l’emicrania la persuadevano a sedersi e a rilassarsi: trappole mortali per chi doveva restare ben vigile per quella lunga notte.
In piedi, davanti alla finestra, osservava priva di interesse le luci dei negozi sforzandosi di trovare qualcosa che potesse distrarla dalla sua stanchezza. Tra le mani il terzo caffè della serata si stava ormai raffreddando.
Si stava maledicendo per aver catturato l’idiota blu e dover così sottoporsi a quella tortura. Perché mai non aveva ascoltato gli ordini come tutte le persone normali di quella terra? Rimpiangeva di aver fatto di testa sua, la litigata con Gage era stata causata dal suo comportamento infantile dopotutto.
Guardando il pavimento non riuscì a non sospirare e a pensare, ancora una volta, alle parole e allo sguardo che Gage le aveva lanciato prima di uscire da quel locale. Quegli occhi offesi e delusi l’avevano pizzicata nel fondo del suo animo tanto che nella sua testa continuava a vederli a ripetizione.
Non trovava pace nel sapere che il suo adorato era arrabbiato con lei: aveva provato a mandargli dei messaggi ma, oltre ad averli volutamente ignorati, probabilmente era andato a dormire senza rispondergli. Eh sì, era davvero furioso stavolta.
Con un sospiro stanco si trascinò nuovamente sulla sedia della scrivania e ricontrollò la casella di posta elettronica sperando anche di ricevere un volantino da sfogliare di qualche supermercato. Come se non bastasse l’occhio della telecamera affissa al muro era puntato su di lei registrando ogni secondo di quella nottata infinita: se si fosse addormentata avrebbe peggiorato ancor di più la situazione. Con un sospiro spostò delle vecchie mail nel cestino virtuale.
E se avesse dato retta a lui? Se avesse cambiato lavoro? Non era la prima volta che i suoi turni lavorativi venivano stravolti in quel modo.
Fino ad allora aveva sempre pazientato e, soprattutto, sopportato. Un po’ per i soldi ed un po’ perché  il lavoro le piaceva aveva continuato per la sua strada imperterrita cercando di risolvere quelle situazioni da panico. E Gage aveva sempre chiuso un occhio per gli appuntamenti saltati all’ultimo o per i weekend sprecati, “il lavoro è lavoro  dopotutto” ripeteva dopo ogni straordinario.
Ma stavolta era diverso: la ragazza aveva davvero l’impressione che qualcosa di più grande si fosse strappato e non aveva intenzione di lasciar scucito qualcosa di così prezioso come il rapporto tra di loro.
La biglia ritornò tra le sue mani senza quasi accorgersene, il colore prezioso all’interno della biglia luccicò con la luce del monitor catturandole gli occhi. Ripensandoci, forse, la litigata non era stata del tutto inutile: di sicuro si trattava di un buon metodo per rubarle il sonno. Il sorriso disperato le incorniciò le labbra facendola sembrare più una smorfia sadica che un vero sorriso, tanto da essere notata da qualcuno all’angolo della stanza.
< Sono solo le undici e mezza e già hai comportamenti da malata mentale. Sarà una luuunga notte > borbottò il riccio con la voglia di sgranchirsi la voce. La frase gli era scappata di bocca dopo aver passato l’intero pomeriggio in silenzio ad osservare il comportamento dei poliziotti.
La rosa fece rotolare la biglia nuovamente all’interno della tasca per poi massaggiarsi le palpebre pesanti come macigni. Tutto sommato la preda non aveva disturbato troppo fino a quel momento, era ovvio che prima o poi avrebbe dovuto mostrare il suo reale lato caratteriale.
< Non puoi dormire tu che puoi? > mugolò alzandosi in piedi e dirigendosi verso la finestra. Il riflesso sul vetro le permise di controllarlo senza dover girarsi e soprattutto senza farsi notare. Il ragazzo seduto sulla sedia aveva appoggiato la testa al muretto portando la sedia in equilibrio su due gambe e dondolandosi pigramente. Amy rabbrividì al pensare che prima dell’alba il ragazzo si sarebbe smaltato al suolo. Non l’avvertì comunque, non le sarebbe dispiaciuto che quel roditore blu si schiantasse a terra pagando un briciolo di quello che avrebbe meritato.
< E’ difficile dormire con qualcuno che continua ad alzarsi, sedersi e bere caffè da quell’assordante macchinetta. E poi con tutta questa luce non riuscirei nemmeno a mettermi comodo > esagerò con l’intento di infastidire la sua carceriera.
Dopotutto il graffio alla tempia l’aveva causato solamente lei, per non parlare di tutto il tempo che gli stava facendo perdere.
La povera ragazza sospirò, percepiva a pelle l’antipatia reciproca ma non se ne preoccupava così tanto: poche ore e si sarebbe liberata del fardello che con tanta fatica aveva catturato. Inoltre, seppur fastidioso, la parlantina del ragazzo l’aiutava a rimanere vigile, perciò perché non sfruttarla?
< Caffè? > offrì lei ormai stanca del tono strafottente del ragazzo, non aveva voglia di litigare, era davvero provata.
< Sì > le rispose lui senza tentennamenti. La rosa si rigirò e si diresse verso la macchinetta, non riuscì a trattenere un profondo sbadiglio che si premurò di coprire con la mano.
Il riccio, colpito da quella gentilezza inaspettata, si sentì un po’ in rimorso per averla aggredita in quel modo qualche minuto prima: l’ultima cosa che si aspettava infatti era quella tazzina di caffè. Sentendosi in dovere di mostrare un minimo di gentilezza cercò di smorzare un po’ il tono.
Cosa c’era di meglio di quattro chiacchiere leggere per impegnare la mente e allontanare la stanchezza? Schiarendosi la voce prese parola cercando di apparire più informale possibile e avviare così una qualsiasi conversazione che durasse almeno dieci minuti.
< Mi spiace dirlo ma non credo arriverai a domani mattina > esclamò con tono serio aggrappandosi alle sbarre che lo confinavano in quel rettangolo. Gli occhi verdi della ragazza si aggrottarono e con un riflesso spontaneo si stropicciò un occhio velocemente: era bastato un semplice caffè per fargli passare l’arrabbiatura come un bambino con una caramella.
< E invece no > rispose a tono bloccando sul nascere un nuovo sbadiglio: non poteva abbandonarsi al sonno.
Il ghigno di poco prima ricomparve sulla faccia del ragazzo, sorrisetto idiota di chi la sapeva lunga.
< Te lo auguro. E’ pronto il mio caffè, grazie > esclamò invitandola chiaramente a toglierlo dalla macchinetta strimpellante e a portarglielo. La riccia, roteando teatralmente gli occhi, ubbidì con svogliatezza e, con tutta l’attenzione che poté applicare, portò il bicchiere pieno al compagno di stanza notturno.
Il riccio di fronte a quel gesto, tutto sommato gentile, si sentì davvero un maleducato.
Prima il pranzo, la caramella, poi la cena, poi il caffè … erano stupidaggini dettate soprattutto da motivi lavorativi,  lo sapeva benissimo, ma se non fosse stato per lei nessuno degli altri si sarebbe degnato di portargli qualcosa. Forse Pierre ma non ne era tanto sicuro. E quel caffè scadente era la goccia che fece traboccare il vaso denominato “sensi di colpa”.
Aveva avuto le sue buone motivazioni ovvio, ma in quell’istante rifletté sul fatto che durante quella giornata avrebbe potuto utilizzare almeno un tono più cordiale invece di lanciarle occhiate di fuoco, frecciate e rispondergli a monosillabi. Un comportamento davvero immaturo e, cosa peggiore, non si era nemmeno reso conto di esercitarlo.
< Grazie > mormorò imbarazzato prendendo il caffè bollente attraverso le sbarre. Troppo orgoglioso per chiederle scusa, si parava dietro alla giustificazione che sarebbe stato inutile riappacificare visto che mancavano poche ore prima del suo rilascio. Ma non avrebbe esitato a ricambiare i favori. Mescolando il caffè con devozione si preparò ad affrontare una lunga notte, dopotutto, in mancanza di un letto non avrebbe potuto fare altrimenti.
< Dimmi un po’… Amy > iniziò titubante attirando l’attenzione della ragazza. Si sentì meglio quando la riccia si voltò nella sua direzione: il nome era giusto.
< Pierre è sempre così stronzo? > le domandò non potendo far a meno di sorridere. La riccia sbatté le palpebre, contro ogni previsione il ragazzo si era completamente riappacificato ed ora la lingua lunga aveva ripristinato la sua funzione principale.
< Tu cosa ne pensi? > rigettò lei passandogli la responsabilità della risposta. Il riccio blu, prima di rispondergli, lanciò un’occhiata alla telecamera voltata verso la loro direzione.
Amy scosse la testa leggermente e con un sorriso soddisfatto sulle labbra si accomodò meglio sulla sedia
< è priva di microfoni se stai cercando quello > esclamò dimostrando una certa scaltrezza.


Il signor Borel era seduto a capotavola, alla sua destra il suo secondo collaboratore stava armeggiando con un paio di cellulari mentre, alla sua sinistra, la cameriera gli versava l’ennesimo bicchiere di gin con mani tremanti. Sul tavolo aveva posizionato l’orologio da polso dorato mentre si rigirava il grande tablet utilizzato per cercare qualche misterioso segnale che evidentemente non riusciva a captare.
La grande sala da pranzo era illuminata solamente dalla luce dei monitor. La televisione gigantesca, puntata sui telegiornali locali, schiariva la maggior parte dello spazio e i visi intrisi di preoccupazione. La coccinella, dopo avergli versato l’alcool , si piazzò di fronte al televisore e, con una mano sul petto, pregò di non sentire tragiche notizie.
Il montone, troppo scosso per prendersela con quello stupido computer senza tastiera,  si tolse gli occhiali da vista e portò l’asticella alle labbra mordendo con gli incisivi le preziose stanghette in tartaruga.
Non prestava la minima attenzione per il tg, d'altronde riportavano avvenimenti vecchi di una giornata o, alla peggio, di due. Che gli serviva ascoltare brevi, vecchi riassunti di quello che accadeva nella sua città?  Preoccupato ed eroso dall’impazienza alzò nuovamente gli occhi sul quadrante dorato: le lancette segnavano le nove e trentasei.
Julius non era tornato a casa quella sera e l’intera casa sembrava un formicaio disturbato.
I figli e la moglie erano stati avvisati di rimanere al sicuro in casa ma questi non aiutavano di certo: Ruta, con la scusa di mettere a dormire i piccoli, non smetteva di passeggiare al piano superiore e i figlioletti, intuendo qualcosa, non riuscivano ad addormentarsi.
L’ amico e fidato consigliere mancava dalle quattro di quel pomeriggio. Il telefono risultava irraggiungibile e di lui si era perso ogni minimo contatto.
Il topo non era un novellino e tanto meno un traditore, non poteva esser sparito senza lasciare una minima traccia.
Cosa gli era successo e dove era finito? Con un sospiro impercettibile, alzò il bicchiere e lo svuotò in un sorso per non perdere troppo tempo. La paura non gli permetteva di pensare lucidamente. Ogni azione intrapresa dopo pochi secondi gli sembrava superflua ed inutile, iniziava perciò a dare ordini contrari e totalmente diversi causando più danni che risolverne. Inoltre, il non poter partecipare attivamente alla ricerca lo rendeva isterico. Doveva restare calmo e lucido. E doveva pensare. Solo così avrebbe potuto aiutare concretamente Julius, sperando ovviamente che per lui ci fosse ancora speranza.
Serrò la mascella e si alzò in piedi di scatto imponendosi una certa autorità. Sotto il tavolo le gambe gli tremavano.
< Novità Niro? > domandò imperioso per nascondere il tremolio della voce. Dalle quattro di quel pomeriggio le sue cinque fidate guardie stavano cercando in lungo e largo il loro collega ma fino ad allora nessuno aveva trovato nemmeno un capello del topo. Peggio ancora, nessuno sembrava averlo visto quel giorno, sembrava svanito nel nulla come vapore. Un brutto segno, terribile per chi aveva già vissuto qualche esperienza del genere.
Per quanto silenzioso ed invisibile fosse era davvero impossibile che nessuno lo avesse notato, soprattutto visto che era conosciuto da tutti da quelle parti e che salutava educatamente qualsiasi persona incontrasse.
Il pangolino arancio scosse la testa abbattuto
< mi spiace signore, nessuno sembra averlo visto oggi. Non è mai stato nemmeno a casa sua > rispose preoccupato componendo un altro numero sulla tastiera.
Il montone sbiancò ancor di più e si lasciò cadere sulla stessa sedia fissando le nervature del tavolo. E ora cosa avrebbe detto alla compagna, alla sorella e a tutti i parenti di Julius?  Come poter dirgli che a causa sua poteva essere morto? E in quel caso cosa era accaduto di così grave da toglierli la vita? Un incidente? Un litigio? Qualcun altro che mirava a lui e alla sua famiglia?
Questioni di vitale importanza erano sparse nel tavolo come un mazzo di carte e lui non sapeva quale scegliere. I tizi inviati a cercarlo sembravano dispersi anch’essi: più il pangolino li contattava più sembravano irraggiungibili. E questo peggiorava la situazione, ancor di più di quel che già era.
Se non fosse stato certo che quello che stava vivendo era completamente reale avrebbe potuto benissimo scambiarlo per un orribile sogno. E il tempo stringeva sempre più come una cintura: ogni minuto era un buco in meno sulla fibbia. Non poteva perderne altro, doveva capire cosa era successo per prendere provvedimenti e l’unico modo era trovarlo. E in fretta.
< Niro > tuonò secco portandosi le mani alla fronte dopo una tormentata riflessione. Il pangolino abbassò il cellulare e rimase in attesa di ordini.
La luce blu del monitor si rifletteva sulle lenti degli occhiali nascondendogli occhi e parte delle sopracciglia facendolo così sembrare inespressivo. Pensò per qualche attimo prima di parlare, ma per ovvi motivi di tempo ne impiegò poco per decidere definitamente.
< Chiama The Hedgehog > sillabò a denti stretti ingoiando l’orgoglio. Niro trasalì e sgranò gli occhi
< c-cosa Signore? > domandò stupito abbandonando la formale rigidezza richiesta dal suo ruolo. Con le poche opzioni disponibili quella non l’aveva nemmeno presa in considerazione.
< Sì, hai capito benissimo. Ho fretta e se qualcuno può aiutarmi è lui. Sono stanco di aspettare quei cinque. Chiamalo. Adesso. E digli che voglio parlare immediatamente con lui. A quattr’occhi > ordinò con schiettezza quasi a voler giustificare la sua decisione.
Niro rimase in silenzio per qualche secondo nel cercare il numero del riccio. Trovava che la decisione del montone fosse stata molto precipitosa, andare a disturbare il can che dorme non era esattamente la cosa migliore da farsi.
< Signore, si ricorda bene la situazione che intercorre tra lei e lui, non è vero? > domandò riluttante a chiamare.
Borel The Mutton lanciò una mezza occhiata al suo sottoposto, nel suo volto l’impazienza era visibilissima
< muoviti Niro! Non ho tempo da perdere! Me ne occuperò in un secondo momento di quello! L’obiettivo principale ora è solo e solamente Julius! > esclamò lasciandosi scappare un pugno sulla tavola in modo rabbioso.
Avrebbe chiesto aiuto persino al diavolo pur di trovarlo, soprattutto se avesse potuto trovarlo vivo. Il pangolino non esitò un secondo di più e, allontanandosi dalla stanza a causa del volume troppo alto della televisione, fece partire la chiamata.
I passi frettolosi di Niro si dispersero nel corridoio e la stanza venne invasa dal brusio del televisore. Il montone sospirò pesantemente e scolò senza rendersene conto il bicchiere di fianco a sé.
La coccinella, ancora piazzata di fronte al grande schermo, abbassò tristemente lo sguardo al pavimento: persino a lei sembrava impossibile che il topo fosse scomparso così dal nulla. Dopo qualche anno di servizio assieme ormai lo conosceva bene e sapeva con certezza che Julius non sarebbe mai scomparso per così tanto tempo senza un motivo valido e men che meno senza avvisare. Non riusciva perciò a non pensare a terribili scenari.
La sorte di Julius non ruotava solamente su di lui ma influenzava tutta la loro famiglia “acquisita”. Se qualcuno avesse voluto vendicarsi, Julius, per quanto difficile, sarebbe stato un ottimo bersaglio.
Era necessario, anzi, essenziale capire dove fosse e cosa gli era capitato per prendere i giusti provvedimenti e far sì che la cosa non si ripetesse.
Sperava di sentire squillare il telefono e di venir avvisata del suo ritrovamento ma aveva ben poca fiducia in questa possibilità. Il montone era così agitato e spaventato che dubitava potesse essere incappato in un semplice incidente. Portandosi il pollice alla bocca iniziò a rosicchiare un’unghia voltandosi verso il suo titolare con sguardo carico d’ansia.
< Cosa doveva fare oggi? > domandò con un filo di voce cercando di indagare con discrezione.
Si accorse subito che qualcosa non andava, il signore si allargò il collo della camicia con due dita e sbattè le palpebre per prender tempo, disturbato da quella domanda. Borel deglutì innervosito: era una precisazione fattibilissima da parte dei suoi dipendenti e amici, insomma, era uscito per eseguire un suo ordine non certo di testa sua. E in quella delicata situazione era più che normale che una domanda del genere fosse fatta e, ovviamente, era più che obbligato a rispondere a ciò.
< Lui … l’ho inviato al molo per … un’ispezione > rispose con tono strascicato per indurla a cambiare domanda. La coccinella ne captò il desiderio e, voltandosi, sospirò stringendo tra le mani il bordo della divisa che portava. A volte, il desiderio di pochi rovinava intere famiglie e portava dolore ai più.

Spazio autrice:
Buonasera! Scusate il colossale ritardo ma purtroppo non ho avuto molto tempo ultimamente.
Segnalate qualsiasi errore troviate.
Grazie e a presto!
Baci.
Indaco

 

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Capitolo 9
*** Approfondimenti ***


Il disco arancione, velato da una serie di nuvole gonfie e spumose, oltrepassò l’orizzonte a passo di lumaca. I caldi raggi dorati iniziarono a far capolino poco dopo, portando con sé un gradevole e lentissimo tepore. Il colore del cielo era mutato: il nero aveva lasciato spazio al rosso, all’arancione e al rosa. Acquerelli fantasiosi dai toni pastello prendevano forma in quella tiepida mattina creando uno sfondo da desktop. Il meraviglioso spettacolo non venne contemplato da Amy, la quale faticava ancora a credere di vedere la luce dietro agli alti edifici.
Con gli occhi crepati da vene rosse, occhiaie e pieghe ovunque sui capi, la rosa ammirò le lancette dell’orologio finalmente atterrate sulle ore sette e quarantacinque. Non aveva idea di come fosse riuscita a raggiungere quell’orario. Il cervello le stava per scoppiare in pezzi, gli occhi le si sarebbero incollati a breve e le ginocchia non si sarebbero più raddrizzate di quel passo.
Ma la notte non era stata difficoltosa solo per lei: il riccio blu all’interno della mini tana sbadigliava ogni due per tre. Con la testa appoggiata alle sbarre non ne poteva davvero più: si sentiva le gambe intorpidite e la mente annebbiata come se non riuscisse a ricordare quello che era accaduto il giorno prima. Inoltre il desiderio di tornarsene a casa era così forte che, se solo avesse avuto la voglia, avrebbe abbattuto quella stupida porta di ferro.
Era stata una notte molto, molto lunga e davvero insolita, per non dire strana. Nessuno dei due aveva la minima idea di quanto caffè fosse stato bevuto ma a vedere il numero dei bicchierini sparsi per terra, erano davvero troppi. Tanti quanti i discorsi inutili e le frecciate che si erano lanciati per l’intera notte con il solo scopo di rimanere svegli e vigili.
Avevano parlato per ore di sciocchezze: prima Pierre, poi i colleghi, poi il calendario, poi il mini bar a forma di ananas, poi della corsa sfrenata compiuta quella mattina, poi il chili dog servito per cena e molto altro. Niente di importante, nulla di personale e tante sciocchezze dettate più dalla stanchezza che dalla curiosità: un mix che aveva permesso alla rosa di rimanere sveglia e di vincere quella specie di prova.
Tutto sommato doveva ringraziare il ragazzo: il merito della sua vittoria era stato in parte favorito dalla sua parlantina.                                                                                                  
 L’orologio appeso alla parete poco dopo scoccò le otto in punto.
< E’ ora > bisbigliò la riccia barcollando in piedi per un attimo. La scena non si svolse esattamente come se l’erano immaginata: rallentati dalla stanchezza i due impiegarono un sacco di tempo a cercare i documenti compilati la sera precedente e a firmarli, soprattutto quando la penna decise di non collaborare. All’aperto le cose migliorarono un poco, l’aria fresca e frizzante rinvigorì gli animi e qualche secondo dopo i due si trovarono a dover, finalmente, accomiatarsi.
Nonostante Amy si sentisse alleggerita, sia dalla responsabilità di dover badare al riccio sia dal rimorso di aver disubbidito al suo capo, era ugualmente amareggiata: quell’occasione era andata sprecata. Il riccio interessante, catturato con tanta fatica, era stato archiviato assieme ai suoi segreti.
Il suo lancio professionale non era nemmeno iniziato nonostante la buona volontà: il trampolino si era spezzato ancor prima di saltare.
< Sei libero di andare Silas > borbottò con scarso entusiasmo la rosa pensando alla promozione che si sarebbe conquistata se solo fosse stata in un’altra centrale. Con un gesto della mano la riccia indicò la strada di fronte a sé, completamente deserta, invitandolo ad andarsene.
Il riccio abbozzò un ghigno soddisfatto nonostante la stanchezza. Era davvero euforico di poter andarsene da quel buco, le gambe lo stavano tormentando da ore, se fosse rimasto un solo minuto in più sarebbe diventato pazzo. Il blu scrutò attentamente il  marciapiede davanti a sé, fortunatamente era ancora vuoto a parte qualche vecchietta insonne e qualche lavoratore. Per non perdere altro tempo si incamminò in fretta voltandosi appena per rispondere alla carceriera mezza morta dietro di lui.
< Certo, certo, non ti preoccupare! Me ne vado subito, finalmente. Salutami tanto Pierre e a mai più arrivederci! > replicò con ritrovata ironia agitando una mano a mo’ di saluto.
La ragazza assunse uno sguardo apatico meravigliandosi di quella ritrovata energia.
< Idiota > esclamò tra sé e sé scuotendo lievemente la testa.
Sparì dalla sua vista mezzo secondo dopo togliendole il fiato e stupendola, ancora una volta, con il suo incredibile potere: in tutta la sua vita non aveva mai visto una capacità del genere.
Persino tra i mobiani, abituati a caratteristiche del tutto particolari, una simile forza era particolarmente eclatante. E pochi di questi riuscivano ad utilizzare e a controllare bene come lui questo potere. Ne seguì ammirata la scia blu, per quel poco che poté, prima di vederla sfumare dietro ad una casa molto lontana da lei.

Nella testa del riccio due spie lampeggianti davano la precedenza a tutto: tornare a casa il prima possibile e dormire almeno qualche ora per recuperare la lucidità mentale. Nonostante l’avesse percorsa meno di dodici ore prima, la strada verso casa gli era mancata terribilmente, tanto da farlo rallentare un po’ per godersela meglio.
Uscire dalla città affollata e dirigersi verso l’aperta campagna per lui non aveva prezzo. A naso, già dopo pochi chilometri, sentiva l’aria più fresca, profumata di salsedine e priva di smog. Costeggiato a destra e a sinistra da prati di grano verdissimi il blu sentì il cuore saltellargli dalla felicità.
Il sole emerso in tutta la sua interezza spennellava luce e chiaro ovunque andando a definire colori, forme e dimensioni.  I lunghi aculei, appiattiti dal vento, erano di un blu così intenso da poterlo benissimo scambiare per un’onda di mare scappata dalla spiaggia.
Persino la sua ombra faticava a stargli dietro: frastagliata e indefinita appariva e scompariva a seconda della velocità mantenuta.
Non si lasciò distrarre troppo in fretta dal paesaggio bucolico: quando i prati lasciarono presto il posto ad una brughiera bassa, arbustiva ed ingestibile, il ragazzo aumentò l’andatura scivolando sull’asfalto con incredibile precisione. Impiegò qualche altro minuto per portarsi fuori dall’ambiente urbano e perse altro tempo su una stretta strada dimenticata e mal asfaltata che si abbarbicava sul fianco di una collinetta.
Forse perché così vicino a casa, un po’ per la lessatura dovuta alla notte in bianco, rallentò nuovamente fino a fermarsi di fronte ad una stradina ghiaiosa.
Le scarpe scricchiolarono a contatto con la ghiaia spessa. Alberi altissimi costeggiavano la stradina, i rami ammantati di gemme verdi preannunciavano la calda stagione ondeggiando nella brezza.
Guardandosi attorno e accertandosi che fosse solo e soletto il riccio avanzò sicuro lungo la strada. Duecento metri dopo il paesaggio cambiò radicalmente.
La stradina di semplici sassolini concludeva con un cancello enorme di ferro battuto che andava ad imperniarsi su una murata altissima, antica ma solida. Un lunghissimo muro, di cui il riccio conosceva approssimativamente la fine, separava il boschetto da tutto il resto.
Attraverso i complicati intrecci di ferro non si vedeva altro che alberi, cespugli ed erba tagliata all’inglese. Ed ovviamente la strada maestra, larga il triplo, lastricata con vecchi mattoncini di ardesia, lucidi e brillanti grazie ai miliardi di passi che li avevan pian piano lisciati. Nonostante il campanello di ottone brillante, ricco di bassorilievi a tema vegetale, il blu sorrise e con un salto si catapultò dall’altra parte con agilità sorprendente.
Quasi tutti gli alberi erano mastodontici, i tronchi deformati dal tempo e dagli anni emanavano un certo fascino e stupore, come vecchie sentinelle avvertivano quanto fosse datato quel posto.
La strada avanzava dritta per un certo tratto poi incurvava prima a sinistra e poi a destra invitando lo spettatore a seguirla per conoscere la fine di quel prezioso tunnel verde: un autentico tuffo al cuore.
Il blu sorrise orgoglioso: casa sua si trovava esattamente lì.
Villa Sole era di una bellezza stupefacente per tutti i fortunati che avevano potuto vederla. Posta subito in bella vista, dopo il parco ben curato, era un’opera d’arte incastonata praticamente nel nulla.
Isolata per chilometri da qualsiasi lato  era ben nascosta da una cortina di altissimi alberi secolari. Nascondiglio che veniva protetto e mantenuto con la massima cura visto il valore incalcolabile della dimora. Persino la grande fontana in pietra nella corte era una briciola di fronte a quell’opera edilizia squisita.
Più piccola di un palazzo ma più grande di qualsiasi casa che un comune umano-mobiano potesse immaginare (e avere) era maestosa come poche altre della sua specie. Suddivisa in due piani e a pianta quadrata era mostruosamente alta e riccamente decorata. L’ingresso era raggiungibile tramite una rampa di scale a mezzo cerchio. Lateralmente, i poggiamano erano stati intagliati  nel marmo a formare un’artistica pianta di edera aggrovigliata e adagiata su colonnine rotonde. Otto finestre per ogni facciata, quattro per piano. La punta di una torretta slanciata e massiccia capitolava da dietro la costruzione lasciando intendere che le sorprese non erano finite di fronte a quella spettacolare visione. Pinnacoli e ghirigori ornavano l’intera struttura alleggerendone la figura massiccia.
Ogni finestra era incastonata in una cornice di pietra levigata a linee curve. Enormi cespugli di rose erano stati fatti arrampicare lungo i muri regalandogli un’aurea romantica e fresca.
Ma la facciata, per quanto bella fosse, non era che la base: il fiore all’occhiello era la cupola di vetro posta al centro del tetto, perfetta per portare luce all’interno.
Il carapace di vetro, liscio e scintillante, sotto la luce del mattino assomigliava ad un enorme diamante.
Il blu soffermò lo sguardo per qualche secondo sui dettagli che più adorava della sua dimora: i doccioni delle grondaie a forma di draghi e piccoli mostriciattoli, la punta della torretta che ospitava una campana di ghisa, la porta d’entrata serrata e decora… no, l’ingresso non era chiuso.
Una figura piccina, proporzionandola all’ingresso di casa, stava in piedi dritta come un fuso e, a braccia conserte, guardava dalla sua parte.
Il riccio individuò e capì al volo di chi si trattava. Sospirò mollemente preparandosi ad entrare con un sorriso che risultava piuttosto stanco.
Percorse gli ultimi metri che lo separavano dall’entrata con la testa ben dritta e senza un minimo di esitazione. Fermandosi all’inizio dei gradoni bianchi con un’espressione che doveva rappresentare ironia, raddrizzò la schiena sperando di apparire meglio agli occhi della donna di fronte a lui.
Piazzata all’entrata, una riccia di un blu slavato lo fissava con cipiglio severo. Non troppo alta ma con un portamento da regina, sembrava dipinta appositamente per quella sfarzosissima villa. Sulla sessantina, portava i capelli acconciati in un basso e severo chignon. Gli occhi azzurri come due laghetti alpini erano altrettanto severi e attenti puntati sul giovane riccio di fronte a lei.
Il perfetto tailleur giacca e gonna, azzurro anch’esso, era privo di qualsiasi grinza. Tre giri di perle le ornavano il collo e sul lato sinistro della giacca una spilla dorata faceva bella mostra di sé sbrilluccicando sotto il sole. Le labbra tirate in una specie di smorfia anticiparono i timori del ragazzo il quale non stava pensando ad altro che a riposarsi.
< SONIC THE HEDGEHOG > esclamò squillante aggrottando un po’ le sopracciglia per aumentare la minacciosità.
< Ottantasette generazioni per incanalare una velocità fuori dalla comprensione, anni di studi e sacrifici per renderti la vita facile! Un patrimonio da capogiro, aiuti e consigli a non finire e tu cosa fai … ? > domandò retorica fingendo una calma apparente e modulando un tono di voce  più pacato.
Sonic si astenne bene dall’esprimersi, le sopracciglia erano ancora aggrottate nonostante il sorriso falsissimo sulle labbra.
< Zitto, finisco io. Tu ti fai arrestare! Hai voglia di far saltare tutto in aria? Dopo tutto quello che è stato fatto per te hai rischiato di far perdere tutto a tutti! >
< Buongiorno anche a te, nonna >  esclamò il blu interrompendo di getto il discorso pesante.
Interrotta sul più bello, la riccia dapprima lo fulminò con un’occhiata gelida, poi, calmatasi, rilassò l’espressione e il corpo andando a congiungere le mani all’altezza dello stomaco con un sospiro mal celato.
Si impose di tacere tutte le lamentele che avrebbe voluto dirgli: Sonic non era irresponsabile e sapeva cavarsela, se si trovava lì sano e salvo andava tutto bene.
Gli occhi color ghiaccio carichi di tenera preoccupazione ispezionò il nipote cercando di non darlo a vedere. Le sembrava di non averlo visto da giorni nonostante sapesse benissimo che non erano passate nemmeno ventiquattro ore.
Notò subito, senza tante ricerche, la pelle rovinata sulla tempia e lo sguardo affaticato. Non aveva riposato quindi.
Il suo cervello formulò senza molti preamboli i motivi per i segni che indicavano cattiva salute. Non le riuscì difficile immaginarsi il suo amatissimo erede torturato e interrogato per l’intera notte. Con un sospiro rassegnato serrò la mascella per non tartassarlo di domande anche se il “come stai” stava praticamente sbrodolando fuori dalle sue labbra.
Il riccio sorrise, riusciva ad intuire cosa le passasse per la testa ed apprezzava i suoi vani tentativi di non mostrarsi preoccupata. Le era mancata terribilmente in quelle ore e ricongiungersi a lei era stato il primo desiderio appena uscito dalla centrale.
 Scrollandosi gli aculei con una mano tentando di guadagnare un po’ di “salute apparente” cercò di mostrarsi in ottima forma per allontanare ogni preoccupazione da lei.
< Come facevi a sapere che stavo tornando? > replicò con curiosità il blu cercando di spostare la conversazione ad un argomento più semplice. Sonic salì le scale e la raggiunse all’ultimo gradino: la superava tranquillamente in altezza di una mezza spanna.
La signora alzò la testa per poterlo guardare ben negli occhi.
< Non te ne sei accorto? Hai rotto la barriera > le rispose con un’alzata di sopracciglia riferendosi alla famosa barriera del suono.
< Na, non me n’ero accorto, a dirti la verità ero concentrato su altro >.
< Bhe non ha importanza oramai. Dio, guarda come sei conciato! Muoviti! Entra prima che qualcuno possa vederti! Cosa penserà la gente se ti vedesse in questo stato? > esclamò subito dopo rivolgendo la domanda più a se stessa che al ragazzo.
Ubbidiente, il blu oltrepassò l’ingresso prima che venisse sprangato dall’adorata nonna, pronta a salvare da immaginari sguardi indiscreti l’immagine del nipotino.
Sonic si rilassò davvero quando l’odore dei fiori freschi lo raggiunse come un dardo. Il salone quadrato era davvero enorme, illuminatissimo grazie alla cupola accennata poco fa. Era così ampio da poter tranquillamente ospitare duecento persone e più.
I pavimenti di marmo, fittamente decorati a motivi geometrici delicati ed eleganti, splendevano. Tutto il salone era abbellito in pieno stile rococò: motivi floreali intricati si stagliavano sullo sfondo bianco panna, arrampicandosi fino al soffitto altissimo.
Le finestre alte e slanciate conferivano all’ambiente una leggerezza eterea. In fondo alla stanza vi era una rampa di scale che si divideva in due per raggiungere i piani superiori. Anch’esse di marmo erano coperte da uno stretto tappeto blu scuro che partiva dal primo piano per concludersi al primo scalino.
Il riccio era perfettamente a conoscenza della fortuna letterale che possedeva: era incalcolabile il valore della dimora. Il valore affettivo, già di per sé altissimo, era moltiplicato per quello commerciale. Se per tanti ospiti quella casa indescrivibile sembrava un castello Disney, per lui, nato e cresciuto tra quelle mura, era normalissimo vivere immerso tra il moderno ed il passato. Nel corso del tempo Villa Sole era stata riportata allo splendore di un tempo unendo la comodità ed i comfort moderni dove possibile.
Ovviamente l’ascensore era stato uno di quelle cose a cui avevano dovuto rinunciare, ma poco importava, le scale erano davvero un piccolo prezzo per poter usufruire di quella meraviglia.
< Sei tornato! Non avevamo dubbi a dir la verità! Il boato poteva essere solo e soltanto tuo! > esclamò dall’alto una voce squillante. Sonic alzò la testa per vedere appena in tempo Silver saltare dal piano successivo e atterrare con eleganza grazie alla telecinesi. Lanciandosi praticamente al suolo, il riccio argentato non riuscì a reprimere la felicità nel vedere l’amico sano e salvo.
< Cosa è accaduto quando me ne sono andato? > domandò ancor prima che il blu potesse salutarlo a sua volta. La signora blu posò gli occhi sul nipote attendendo con curiosità che rispondesse alla domanda che si era fatta persino lei. 
< La noia mortale più o meno > replicò con tono affaticato il diretto interessato.
< Sono rimasto buono-buono su una sedia tutto il giorno e tutta la notte. Questa mattina non mi sentivo quasi più le gambe > si lamentò coprendo uno sbadiglio con la mano.
< Bentornato Sonic > cinguettò allegramente un’altra voce dietro di lui. Il blu si girò di soprassalto non avendo sentito nemmeno un fruscio che potesse annunciare la sua presenza.
La gatta lilla, dagli enormi occhi dorati, gli sorrise andandogli incontro.
< Ti ringrazio Blaze, sono molto contento di essere tornato! Voi tutto bene qui? > interrogò il ragazzo rivolgendosi a tutti e tre i coinquilini. Annuirono tutti tranquillamente, dopotutto le cose non potevano stravolgersi in meno di un giorno.
< A gonfie vele, tranne per il fatto che il giardiniere ieri ha deciso di non tosare il prato! Non ho idea di cosa aspetti: di questo passo trasformeremo il parco in un rifugio per serpenti e ratti! > esclamò con tono preoccupato la signora lanciando un’occhiata dalla finestra. I tre ragazzi scrutarono a loro volta dai vetri ma, oltre a non vedere la necessità di un taglio drastico, non gliene importava così tanto come alla riccia.
Con una scrollata di spalle Sonic raggiunse le scale che conducevano al primo piano.
< Abbi un po’ di pazienza nonna! L’ha già fatto la settimana scorsa!  Altrimenti ci ritroveremo a camminare sulla terra nuda! > tentò di ammansirla il blu stropicciandosi un occhio con il dorso della mano.
La nonna paterna era e sarebbe sempre stata così: un’inguaribile, esageratissima perfezionista. Osservazioni di questa tipologia erano frequenti tanto da non destare preoccupazioni. La sopracitata scosse la testa innervosita e si accinse ad allontanarsi con fare impegnato.
Ma prima di andarsene si bloccò di colpo e si voltò nuovamente verso il nipote, ormai in cima alle scale.
< Ah, Sonic, ha chiamato Borel prima chiedendomi urgentemente di te. Gli ho risposto che l’avresti richiamato tu non appena ti fossi liberato > esordì nuovamente aggrottando le sopracciglia in modo severo. Silver si voltò anch’esso verso l’amico: la cattiva aria che intercorreva tra loro era ben risaputa, per questo, il motivo della chiamata, doveva essere davvero importante per costringere il montone a buttar giù l’orgoglio e ad alzare la cornetta per primo.
Un breve silenzio intercorse per qualche attimo.  
< E’ successo qualcosa? > domandò interessato l’argentato rivolgendosi al migliore amico. Sonic si voltò appena, lo sguardo stanco si sommò a quello infastidito. Gli occhi lampeggiarono di verde, erano mesi che i due non si sentivano: qualcosa bolliva in pentola e la pentola, in quel caso, era una delle peggiori.
Scosse la testa con lentezza sforzandosi di apparire calmo e rilassato
 < che io sappia no, forse si è deciso di pagare i debiti > rispose con tono secco tradendo i suoi tentativi. I coetanei sul fondo delle scale modularono una breve risata a cui il blu rispose con un sorriso affaticato.
< Vabbé, due ore e poi lo chiamo. A più tardi >.

Spazio autrice:
Buonasera! Scusatemi l'enorme ritardo ma il tempo libero si riduce sempre più in questo periodo.
Che ne pensate? Segnalate errori e sviste grazie!

Indaco

 

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Capitolo 10
*** Il topo perduto ***


La biblioteca straripante di libri e di preziosi oggetti d’antiquariato era davvero curiosa. Come ogni stanza dell’immensa villa, lo studio era stato interamente dipinto e decorato. Il blu notte che copriva tutte le pareti ed il soffitto era stato utilizzato come sfondo per un’accuratissima rappresentazione stellare.
Sonic aveva imparato così le costellazioni: da piccolo, comparare soffitti e pareti con il cielo reale, era uno dei suoi passatempi preferiti assieme alla mamma. Individuata la cintura, 0rione, accompagnato dai suoi due cani e dalla voce vellutata della madre, diventava l’eroe che, di stella in stella, l’accompagnava in un sonno profondo.
Sbattendo le palpebre, ancora intontito dal sonno che avrebbe dovuto essere ristoratore, il riccio blu lanciò un’occhiata all’orologio e sbadigliò sonoramente.
Borel doveva arrivare a minuti e lui era già profondamente annoiato, soprattutto nel constatare che la giornata limpidissima sarebbe stata ottima per una corsetta. Ma ovviamente le priorità non potevano essere i suoi passatempi.
Assorto nei suoi pensieri “corsistici”, riportò la concentrazione solamente quando sentì dei passi veloci e strascicati avvicinarsi, indubbiamente si trattava di The Mutton. “Finalmente” pensò tra sé e sé sapendo che la macchina era parcheggiata da interi minuti nel vialetto. Probabilmente l’ospite, tra entrata e scale titaniche, doveva aver perso parecchio tempo.
Il montone era risultato piuttosto strano al telefono: non aveva accennato ad una virgola del perché volesse vederlo.
Semplicemente, gli aveva domandato se era libero in quel momento. Aveva risposto in modo affermativo immediatamente ed ora il tizio si dirigeva verso di lui per chissà quale strano motivo. Dubitava comunque che fosse una semplice visita di cortesia dato il rapporto incrinato tra di loro.
Sfruttando la sua incredibile velocità si appollaiò sulla comoda sedia imbottita e, lisciandosi i fitti aculei con una mano, si preparò all’imminente incontro con il montone. La porta della stanza si aprì decisa e dal corridoio, come previsto, emerse Borel con sguardo fiero e preoccupato. Nonostante il colore latteo della pelle fosse più che naturale per lui, in quel momento il pallore tendeva al grigio più che al rosato. Le occhiaie scure sotto gli occhi e una ruga d’apprensione sulla fronte, che era stata sempre ben spiana, davano un aspetto malaticcio al montone regalandogli anni in più. 
Sconvolto da quel veloce degrado, Sonic, che si era promesso di non cedere e di mostrarsi freddo, non riuscì a contenere un’occhiata allibita e preoccupata. L’invitato non perse tempo in convenevoli, avvicinandosi alla scrivania in cui il blu si era relegato, spostò la sedia e vi sedette senza nemmeno curarsi di togliersi il leggero impermeabile.
Il riccio lo osservò fare tutto questo con un’alzata di sopracciglia che indicava chiaramente il fastidio. Il silenzio dell’ospite, oltre ad essere maleducato, era anche un forte segnale: doveva davvero navigare in brutte acque per non biascicare nemmeno un “ buongiorno”.  Accomodato l’ovino, i due si fissarono per qualche secondo sostenendo l’un l’altro uno sguardo ostile in attesa che qualcuno rompesse il silenzio.
< Mi devi aiutare > esclamò il bianco aprendo il discorso.
Il riccio si protese in avanti  e appoggiò i gomiti sul tavolo.
< Buongiorno Borel, qual buon vento ti porta qui? > esclamò con tono fintamente cordiale. Il timbro affettato stridette contro il tono sbrigativo del montone, il quale emise un sospiro paziente deglutendo altro orgoglio. Quella mezza frase aveva avuto l’obiettivo di svilire il suo comportamento e di sottolineare il fatto che i convenevoli, seppur in guerra, erano d’obbligo per loro.
Anche se, l’ovino era certissimo che il blu non si sarebbe comportato in quel modo se ci fosse stato qualcun altro al suo posto e nella sua situazione.
Zittendosi per ritrovare la calma persa e non lasciarsi andare alle parole, andò dritto al sodo per recuperare minuti.
 < Julius è scomparso > esclamò intrecciando le dita e portandosele alla fronte.
Il silenzio calò e Sonic sbarrò gli occhi abbandonando l’atteggiamento strafottente. Le iridi verdissime e si velarono di una crescente agitazione. Il suo pensiero volò, prima ancora che al topo, a Silver, tranquillizzandosi quando ricordò che doveva trovarsi ai piani superiori.
< Che cosa? > rispose allibito riportando alla memoria gli occhi giallo limone del soggetto in questione. Il riccio conosceva Julius da una vita ed in quella strana famiglia era uno dei pochi che stimava. Astuto ma di buon cuore gli aveva elargito consigli a non finire fin da ragazzino. Profondamente legato alla famiglia del montone rappresentava quasi un fratello per l’ovino, comprese il perché di tutta quella fretta e preoccupazione.
< Hai capito bene. Julius manca da ieri pomeriggio. E’ scomparso dal nulla. Il telefono è irraggiungibile e i miei uomini si danno da fare da ieri senza riposo. Non è uscito un capello. E come se non bastasse nessuno lo ha visto > mormorò coinciso coprendosi gli occhi che minacciavano di divenir lucidi.
Sonic aggrottò le sopracciglia.
< Dove è andato? Doveva fare qualcosa in particolare? > lo interrogò con puntigliosità il blu per crearsi una panoramica completa. Borel esitò un attimo valutando le parole e lasciando scorrere lo sguardo sulle pareti stellate.
< Era al porto, nel lato più orientale, doveva solamente consegnare delle stecche di sigarette. Una questione di un’ora al massimo >. Sonic sollevò nuovamente le sopracciglia: possibile che un lavoretto così semplice potesse creare problemi a qualcuno?  In pieno giorno oltretutto?
< E le hanno ricevute? >
< sì, il problema è sorto dopo: non è mai tornato a casa. Deve essere accaduto qualcosa di grave in quel frangente ed io ho intenzione di scoprirlo >
Il montone sbatté un pugno sul tavolo massiccio facendo sobbalzare il ragazzo di fronte a lui immerso nelle più lucide riflessioni.
< Ma non sono qui per metterti solamente al corrente. Tu mi aiuterai Sonic the Hedgehog. Voglio che tu perlustra palmo per palmo il porto, ogni fenditura, ogni curva e ogni sotterraneo. Solo così sarò sicuro che Julius non si trovi lì >
Il riccio sbarrò nuovamente gli occhi allibito da quell’ordine. Era la prima volta che qualcuno si rivolgeva in quel modo così autoritario.
< E chi ti dice che io sia disposto a darti una mano? Per fare una cosa del genere mi servirebbero come minimo due giorni solamente per i primi settanta chilometri! > sbottò alzandosi in piedi nervoso vedendo che il montone non ragionava. Una richiesta così impegnativa e dispendiosa era davvero un problema persino per sé.
< Tu mi aiuterai perché è il tuo compito! Hai un potere enorme e … >
< solo perché nel passato avevamo un particolare status di “protettori” non significa che oggi io debba fare la stessa cosa con voi! Inoltre la mia velocità non mi aiuterà poi così tanto vista la mole di chilometri quadrati! > rispose secco innervosendosi ancor di più.
Sentendo il bisogno di allontanarsi dal montone, gli bastò qualche passo per ritrovare miracolosamente la calma.
Tra dire e il fare c’era di mezzo il mare, i monti, lo spazio e molto altro. Ordinargli di setacciare il porto era come ordinargli di cercare un ago nel pagliaio. Con un grosso sospiro abbassò il tono di voce, per rispetto della perdita, e cercò di liberarsi il prima possibile di quell’individuo.
Capiva lo stato d’animo freddo e preoccupato e da un lato glielo perdonava, ma il tono aggressivo e quel suo volere tutto e subito lo facevano innervosire.
< Al massimo posso controllare nel circondario campagnolo. Ma non farò di più > continuò imperterrito pensando ad un’alternativa che potesse accontentare entrambi. Borel socchiuse gli occhi infastidito. Odiava dover dipendere da un ragazzino borioso che si comportava da prima donna. Come non sopportava il fatto che, persino in un momento di emergenza come quello, non si desse volontariamente da fare. Voleva smuoverlo, convincerlo, obbligarlo in qualche modo a fare quel controllo decisivo. Doveva, stando attento a non rivoltarselo contro ancor di più.
< E’ davvero impossibile ragionare con te. Anche se potessi salvarlo preferisci astenerti. Il tuo tempo è così prezioso da lasciar scorrere un innocente? >
< smettila di fare la vittima e sii realista. Due giorni sono troppi per concentrarsi sul dettaglio. Potrebbe esser caduto in un fosso ed essere la da qualche parte con una gamba rotta. Hai valutato questa ipotesi? > replicò infastidito chiudendo le palpebre pensoso.
Anche esercitando tutta la sua forza di volontà non riusciva ad ignorare Julius: per quanto Borel fosse fastidioso, il topo non centrava assolutamente nulla in quella faccenda non poteva perciò restare a guardare. Infatti non vedeva l’ora che se ne andasse per poter cercare il disperso.
< No, è troppo poco. Devi controllare ovunque. I miei uomini hanno già scandagliato la campagna > rispose sfregando le lenti degli occhiali con una piccola pezza di microfibra. Sonic ruotò gli occhi al cielo rimpiangendo la cella del giorno prima.
< Io non credo siano stati accurati. E’ davvero immensa persino per me. E’ impossibile, per loro, controllare a fondo in una giornata > esclamò rigido cercando di farlo ragionare. Non ebbe l’effetto sperato: il montone appoggiò la schiena allo schienale e guardò il ragazzo con aria di rimprovero. Gli occhi sembrarono infossarsi ancor di più nel grigiore, le sopracciglia si aggrottarono e una smorfia gli modificò i tratti del viso rendendolo più severo.
< Tuo padre non avrebbe detto “no” > esclamò di punta sperando di girare ben bene il coltello nella piaga.
La stanza rimase immersa in un silenzio grave per qualche attimo. Ma se Borel avesse avuto buon orecchio avrebbe senz’altro sentito il sangue pulsare al giovane.
Sonic incassò il colpo trovandosi senza parole per ribattere: difficile mandarlo a cagare senza provocare un’incresciosa rottura. Cosa che in realtà desiderava con tutto se stesso ma che avrebbe mandato fuori dai gangheri  la nonna, quindi era meglio evitare nonostante Borel avesse schiacciato il tasto dolente.
Stringendo i denti, dentro di sé si smorzò completamente la volontà di collaborare senza bisticci. Era tempo che l’idiota bianco si levasse di torno.
< Controllerò la campagna. Se troverò qualcosa ti farò chiamare > replicò asciutto. Il montone strinse il pugno tanto da farsi male: il puntaspilli blu, rivolto verso la parete, l’ignorava. Inutile insistere, purtroppo in quella famiglia la testa dura era intessuta nel dna. Doveva per forza accontentarsi di un aiuto a metà.
Alzandosi in piedi con rabbia rischiò di far cadere la sedia dietro di sé.
< Se Julius dovesse morire per colpa tua, ti giuro che … ! > 
< è passato quasi un giorno Borel. Credi davvero che sia ancora vivo? >
Sonic si voltò lentamente e lo fissò con la fronte aggrottata e le palpebre socchiuse rilanciandogli in diversa forma la stoccata di poco prima. Gli angoli della bocca del montone si stirarono in un ghigno e le sopracciglia presero una piega severa. Senza pronunciare una singola parola, l’ospite indesiderato, con un rapido dietrofront, si dileguò fuori dalla porta a lunghe falcate.
Il blu tese l’orecchio per ascoltarne i passi che rimbombarono dapprima nel corridoio, poi nelle scale, nel salone ed infine sentì la porta aprirsi e richiudersi con il consueto cigolio.
Un sospiro fuoriuscì dalle labbra del giovane. Erano passati appena quindici minuti dall’entrata del montone ma a lui sembrava che fossero trascorse ore intere.
La stanza, ridiventata silenziosa, era ben illuminata grazie alle enormi finestre da cui si poteva scorgere la berlina nera uscire con premura dalla superba entrata.
Accertato che Borel se ne fosse andato, Sonic si catapultò al pian terreno con l’umore sotto ai piedi a causa della visita malgradita. Il compito che doveva svolgere era davvero logorante e soprattutto minuzioso. Da solo avrebbe impiegato una giornata abbondante e il tempo era davvero scarso. Ricordò, per farsi coraggio, il viso di Julius, i suoi modi di fare veloci e frettolosi ed i suoi molteplici buoni consigli che regalava senza tenerne conto. Non poteva di certo starsene fermo di fronte ad un’emergenza del genere.

Ai lati dell’immenso salone vi erano due aperture le quali portavano l’una alla sala da pranzo mentre l’altra dirigeva in un’altra stanza utilizzata come sala bar. Fu nella prima che il riccio si diresse, cercando con gli occhi Silver che non doveva esser lontano secondo i suoi calcoli.
La sala da pranzo era gigantesca come tutte le altre stanze. Nel bel mezzo era stata collocata una tavola di legno massiccio lunghissima, decorata finemente lungo le gambe e su tutto il bordo. Il disegno floreale era stato riportato anche sulle sedie imbottite dall’alto schienale. Grandi finestre illuminavano naturalmente l’ambiente filtrate da tende di leggerissimo pizzo bianco. Sopra di esse, ad incorniciare quel prezioso tessuto, tendaggi alla mantovana, di velluto bordeaux, erano state ben aperte per consentire a quanta più luce possibile di entrare. Anche qui mazzi di fiori freschi e pregiati pezzi di arredamento davano bella mostra di se andando ad arricchire ancor di più la sontuosissima sala.
Al suo arrivo Blaze era appollaiata su una delle sedie intenta a scrivere una lettera. A sentire il rumore inconfondibile del blu in movimento, si drizzò incuriosita in cerca di novità.  
< Oh eccoti arrivato! Allora che voleva? > esclamò con impazienza posando la penna. Notando l’espressione accigliata del ragazzo, la viola aggrottò le sopracciglia.  Sonic sospirò.
< Julius è scomparso >.
La gatta rimase allibita e lo guardò serissima, le iridi dorate acquistarono una sfumatura dolente. Meglio di qualsiasi altro capiva la gravità di quella sparizione.
< E’ sparito già da ieri. Mi ha chiesto di poter controllare nei campi e nelle vicinanze ed io ho accettato. Anzi, voglio partire subito. Dove sono gli altri? > domandò guardandosi nervosamente attorno. Il pensiero che qualcuno della sua famiglia potesse sparire da un momento all’altro lo rendeva inquieto. Pur di proteggerli era pronto a stiparli in casa, tutti quanti. < Silver è al piano di sopra mentre Viola … a dir la verità non ho capito bene dove sia andata >.

Viola the Hedgehog, all’alba dei suoi sessantaquattro anni, era il ritratto di molte cose. La riccia dimostrava almeno dieci anni in meno, infatti, di un blu slavato e di altezza media, era in perfetta forma per i suoi anni. Il viso ancora grazioso splendeva di luce grazie a due iridi color ghiaccio. A regalarle un’aria un po’ demodé ma estremamente elegante erano un costante e severo chignon, la sacrosanta collana di perle, un paio di occhiali dorati e l’inseparabile spilla appunta al petto.
Nonna paterna e unica parente dell’adorato nipote  era una mobiana generosa, acculturata, gentile e permalosa. Mamma chioccia verso il nipote, che già da un po’ di anni gli era scappato dalle mani, era inflessibile, intelligente e severa al punto giusto: una diplomatica perfetta e un aiuto indispensabile negli strani affari di famiglia.
Con mille pensieri nella testa, la riccia non si accorse nemmeno quando il taxi si fermò alla meta da lei richiesta. Si stupì per un attimo quando il conducente, un airone dall’aria tranquilla, si voltò verso di lei e le chiese la tariffa di punto in bianco. Pagò la corsa lasciando il resto al tassista, il quale strabuzzò gli occhi nel vedere venti ring come mancia.
Scesa dalla macchina si guardò ben attorno con discrezione e, vedendo che nessuno la seguiva, si avviò per la sua strada a passo sicuro.

A fine città, nella zona più occidentale, a cavallo di una piccola riserva e la periferia, era stato costruito, e restaurato almeno tre volte, uno strano e vecchio orfanotrofio. La struttura enorme era stata ben utilizzata nel passato ma col passare degli anni, per fortuna, si era progressivamente svuotato lasciando il posto ad un piccolo convento di suore e ad un ufficio dei servizi sociali. Ormai in disuso, il grande edificio presentava ancora una scintilla di vita al suo interno: sedici bambini, di diversa età, vi alloggiavano accuditi da sette monache che si facevano in cinque per tirare avanti la baracca.
Le donazioni scarse e le spese sempre più gravose erano davvero problemi grossi nel convento. Viola lo sapeva benissimo, per questo, almeno due volte all’anno, vi si dirigeva personalmente in veste di generosa benefattrice.
Si sentiva sempre bene dopo aver sganciato considerevoli somme, d’altronde le sue tasche glielo permettevano e per lei era un elisir di lunga vita.
Il marciapiede percorso, in breve tempo, si trasformò in uno stretto viottolo che portava dritto dritto all’entrata. Un piccolo cortile delimitato da alte cancellate faceva da giardino all’edificio. Vecchi roseti e aiuole poco curate ingentilivano l’ambiente austero e severo.
Avvolta nel suo tailleur azzurro, la riccia, voltandosi,  si assicurò che non ci fosse assolutamente nessuno che potesse vederla. L’ultima cosa che voleva era appunto che qualcuno la riconoscesse o che si fosse ricordato di lei.
Attraversando il cortile, stando ben attenta a non farsi scorgere dalle finestre, raggiunse il lato dell’edificio dedicato all’allevamento dei pargoli. Per maggior sicurezza aggirò l’edificio per poter usufruire dell’entrata laterale. L’elegante figura che tentava di camminare il più velocemente possibile rasente i muri avrebbe fatto sorridere i sedici bambini che di visite non erano mai sazi. Un po’ per le scarpe ed un po’ per la fretta ondeggiava tra ghiaia e lastricato con la delicatezza di un pellicano.
Fermandosi solamente per sistemarsi la mise già perfetta, si guardò nuovamente attorno con la destrezza di un falco: nessuno la scorgeva , la via era libera. Il retro non era tanto diverso dalla facciata: un prato verde e qualche albero delimitavano il campo da gioco. Un orto già coltivato a piselli confinava con l’area degli scivoli scrostati dal tempo della vernice colorata. Viola bussò alla porta sistemandosi la lunga collana di perle. Era da un po’ che non faceva visita ai piccoli abitanti e alle loro tutrici, si sentiva per questo leggermente in colpa.

Uno scalpiccio leggero anticipò l’arrivo di una topolina che doveva avere più o meno la sua età. La pelle candida e gli occhi sereni arrossirono di gioia quando riconobbero nell’ospite una generosa amicizia.
< Oh Signora Viola! Che bella sorpresa! > esclamò rivolgendole una calorosa stretta di mano. La riccia si lasciò scuotere il braccio nascondendo la sorpresa sotto un sorriso tirato.
< Buongiorno a lei sorella. Sono passata appena ho potuto > cercò di abbreviare lei per liberarsi della topina in tempi brevi. Le mani candide della roditore strinsero quelle della riccia per altri due buoi minuti.
< Lei non ha idea di quali aiuti ci fornisce. I nostri grazie e le nostre preghiere sono sempre troppo poche in confronto alla sua generosità! >. Viola arrossì imbarazzata sforzando le labbra in una specie di sorriso: non era andata lì per farsi complimentare.
< Non è nulla di importante davvero. Vorrei parlare con la madre superiora se possibile >. Tagliò netto con tono pacato, non vedeva l’ora di trovarsi a tu per tu con lei. Almeno non si sarebbe consumata in elogi esagerati.
La topina annuì comprensiva e le indicò il corridoio. Accennando un ringraziamento con la testa la riccia scivolò all’interno dell’edificio, che conosceva a memoria, e si diresse al piano superiore.
Da una stanza al pian terreno la voce di una maestra risuonava cristallina di tabelline e numeri. Addolcita al ricordo del suo nipotino in tenerissima età, raggiunse la stanza prefissata dopo qualche attimo. Lisciandosi la piega della giacca, la riccia bussò con energia alla porta d’entrata. Si accorse solo in quell’istante dell’odore dolciastro dell’incenso che fuoriusciva dalla camera.
< Avanti >.

Spazio autrice:
Scusate il colossale ritardo ma il tempo è sempre poco ultimamente. Spero che questo capitolo sia di vostro piacimento comunque. 
Baci.
Indaco

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Capitolo 11
*** News ***


La voce della superiora si alzò senza sforzo dalla porta ben chiusa.
< Avanti > esclamò come se non aspettasse altro.
Viola abbassò la maniglia ed entrò nella stanza. Le pareti rettangolari ospitavano una quantità smisurata di immagini sacre e religiose, foto ed altri oggetti riconducibili alla ferrea fede delle monache. Per Viola la stanza sembrava adatta più ad un film horror che ad una camera in cui vivere. Le mensole cariche di libri e statuette erano arricchite anche di candele che emanavano un odore dolciastro molto simile all’incenso.
La porta appena aperta lasciò uscire delle striature di fumo profumato che andarono a disperdersi lungo il corridoio. All’interno della stanza, una grande scrivania di legno chiaro ospitava la signora vestita di nero e bianco. La superiora altro non era che una libellula. Il viso magro e i capelli azzurri ben fasciati sotto il velo la rendevano davvero inquietante.
Viola da tempo non notava più lo stridente accostamento tra la magrezza eccessiva e quei capelli ed entrando nella saletta scostò gli occhi indifferenti dal viso della suora.
< Buona sera Badessa > esclamò salutandola con un cenno elegante della testa. L’espressione solenne della libellula mutò in stupore
< buona sera a lei signora Viola, non mi aspettavo la sua visita a dir la verità. Ma sono contenta di vederla, ho pensato a lei recentemente. Qual buon vento la porta qui? >
< liquidità per voi. So bene che avete un sacco di ospiti e so anche quanti soldi siano necessari al loro quotidiano > rispose con semplicità passandole una piccola trousse di pelle nera. La libellula sentì la pelle d’oca salirgli dal braccio.
Erano tanti, tantissimi soldi (o almeno per lei) e sapendo che non venivano da fonti, per così dire, “cristalline” li sentiva quasi impuri. Di certo però non sarebbe stata così stupida da rifiutarli: sporchi o puliti che fossero erano quelli che facevano girare la baracca e il loro potere d’acquisto era pari a qualsiasi altro ring.
< Non so davvero come ringraziarla, tra pasti, scuola,vestiario e le giuste piccole gitarelle i nostri miseri stipendi, se così possiamo chiamarli, vengono completamente dilapidati. I suoi generosi aiuti sosteranno i nostri piccoli per molti mesi. Non so davvero come ringraziarla per tutto ciò. > esclamò con tono serio facendo sparire l’oggetto all’interno di un cassetto.
Viola fece un piccolo sorriso e poi ritornò seria rilassando i tratti del volto.
< Ho capito bene o prima mi aveva accennato al fatto che aveva pensato a me in questi giorni? > esclamò
sedendosi rigida sulla sedia imbottita. La libellula sollevò di poco le sopracciglia e sorrise leggermente tirata.
< Sì, anche se non credo di portarle qualche novità, inoltre non è nulla di importante >.
Viola si spostò sulla sedia e si avvicinò di più alla scrivania. L’espressione della direttrice diceva chiaramente il contrario, inoltre, il fatto che spingeva a far morire il discorso era tutt’altro che un buon, piccolo, segnale.
Il compenso di tutta quella generosità erano semplici e svariati favori: informazioni riguardo i suoi colleghi, qualche stanza dove riporre merce quando serviva e aiuto in caso di necessità. Viola non era l’unica che faceva regali (anche se i suoi, ne era sicura, superavano di gran lunga gli altri) e ad ogni visita la maggior parte dei solerti benefattori svuotava la sacca di monete e segretucci.
< Insisto, a volte dei piccoli segnali preannunciano una crisi apocalittica > esagerò la riccia con tono fintamente preoccupato ed una risatina divertita. La libellula aggrottò le sopracciglia e un piccolo movimento degli occhi fece trapelare un po’ di ansia.
< Va bene. Cercherò di essere breve. Tutto è nato perché, qualche mese fa, ci è stata fatta una grossa offerta riguardo alla struttura. Questi … signori, che non specifico per privacy, volevano comprare l’intero edificio per farne una specie di hotel lussuoso con piscina e tutte quelle modernaggini. Immaginatevi che colpo è stato per me. La cifra avrebbe permesso di acquistare una struttura più modesta, di garantire il futuro a tutti i nostri ospiti e di aiutare ancor di più! Ma poi si è presentato un grosso problema >. Viola, sgranando gli occhi per quella novità, cercò di non mostrare troppo stupore.
< Che cosa? > approfondì la riccia chiedendosi cosa centrasse lei in tutto questo. Gli occhi enormi dell’insetto si posarono su quelli azzurri della riccia mantenendo il discorso in sospeso per qualche attimo.
< Il proprietario dell’edificio non sono io e non lo è nemmeno la nostra comunità. Pertanto non posso vendere qualcosa che non è possiedo >. Viola tacque mentre un pensiero lontanissimo iniziava  a maturare in lei facendole aggrottare le sopracciglia. No, si stava sicuramente sbagliando.
< Non si logori la testa Viola, le farò chiarezza io: questo edificio appartiene agli eredi del signor Alvy the Hedgehog, il nome le risulta familiare? >. La riccia si irrigidì sulla sedia tanto da non toccarne lo schienale. Le dita iniziarono a rigirarsi le perle della lunga collana per togliersi di dosso quella sensazione di panico. Il cuore iniziò a battere più forte sotto le costole.
< Certo, il nome del mio trisavolo è più che familiare per me, ovviamente. Chi è venuto al corrente della cosa? > replicò con tono traballante tra il deciso ed il preoccupato.
< Al momento questa notizia la sappiamo solo io e lei. A quei ragazzi è bastata la promessa di una ricerca accurata per risalire al proprietario, ma dubito che queste indicazioni, come dire, compaiano qui. Il suo segreto è al sicuro. > Viola portò una mano al petto e un profondo sospiro le riportò una parvenza di pace.
Alzandosi in piedi riuscì quasi a gustarsi il fatto che un edificio del genere fosse suo ma era presto per cantar vittoria: non voleva crogiolarsi mentre si trovava così vicino ad una catastrofe.
< Non so davvero come ringraziarla, non ha idea di quanto queste cose mi preoccupino. Nel corso del tempo ci siamo eclissati da tutto ma il passato è ancora troppo vicino per sentirci sicuri. Ci sono davvero troppe persone che potrebbero minacciare la nostra tranquillità. > A sua volta la badessa si sollevò senza fatica dalla sedia ed annuì comprensiva.
< Conosco bene la vostra famiglia e so quanto questo possa rappresentare un problema ma non temere, sono stati tutti liquidati >. Viola accennò un sorriso e strinse la borsa tra le mani cercando qualche frase per chiudere quella velocissima visita. Le due signore si avvicinarono alla porta riflettendo ciascuna su cose diverse.
< Oh bhe, la nostra amicizia è lunga da secoli, se penso da quanti anni ci conosciamo impallidisco > cinguettò con finta spensieratezza la riccia cobalto. Dentro di sé iniziava ad agitarsi un tumultuoso temporale, quella notizia era davvero terribile. Doveva avvisare il prima possibile suo nipote e gli altri.
< Hai ragione Viola, ci conosciamo davvero da molto tempo. Quindi, perdonami la franchezza, ma devo assolutamente chiederti cos’hai intenzione di fare ora che questo palazzo è praticamente tuo. >.
Si girò sbigottita per l’assurda domanda.
< Assolutamente niente Matilda. L’associazione vive qui da secoli e continuerà per la durata della stessa. Non penserai davvero che  possa buttarvi fuori? > replicò incredula. La libellula si affrettò a scuotere la testa coperta dal velo nero.
< Era solo per essere sicuri. Non volevo assolutamente offenderti, anzi, mi scuso se le mie parole ti hanno offesa > concluse sorridendo per la prima volta da quando la riccia era entrata. La blu si calmò e sorrise a sua volta.
< Non preoccuparti, nessuna offesa. Dovevi dirmi solo questo quando hai detto di avermi pensato, non è vero? > le domandò assicurandosi che le brutte notizie fossero finite per almeno quel giorno.
La libellula dai capelli turchini si strinse le mani e sorrise più forzata di prima.
< Sì. Solo questo >.
< Ottimo. La ringrazio ancora per il tempo che mi ha dedicato e mi scuso davvero per il ritardo di questo regalo. Auguro a lei e ai suoi piccoli una buona continuazione. Buona giornata > concluse definitivamente salutando con un cenno della testa. La libellula l’imitò piegando il mento e sorridendo forzata.


Sonic e Silver rincasarono solo quando il buio più totale prese il posto della luce. Ad aprire loro le porte fu Blaze che, a vedere le facce da funerale, sospirò dispiaciuta.
< Nulla eh? >
< Nulla. Un deserto è meno tetro > replicò Silver sollevando gli occhi al soffitto. Sonic non replicò ulteriormente: la giornata era stata terribile e per i giorni seguenti non  vedeva schiarite. Una porta ai piani superiori cigolò e la voce di Viola ad un tratto riempì corridoi e salone
< Sonic! Silver! Finalmente! Allora? L’avete trovato? > cinguettò scendendo le scale il più velocemente possibile. Messa al corrente dalla gatta lilla era rimasta completamente basita. Le sparizioni di quel genere erano davvero poco frequenti e il fatto che fosse accaduta nella loro ristretta cerchia era un campanello d’allarme. Inutile dire che non si era data pace per i suoi ragazzi là fuori, dimenticando quasi tutto il resto.
< No, domani mattina proverò a dare un’occhiata nella zona del boschetto, anche se non credo che a quest’ora Julius possa essere ancora … cosciente > esclamò il blu portando le mani tra gli aculei e agitandoli un poco. Era davvero stanco, il poco sonno e la preoccupazione l’avevano logorato ed ora si sentiva uno straccio. Cercando di nasconderlo però, trattenne uno sbadiglio a stento e raddrizzò le spalle.
< Mio Dio! Cosa mai avrà fatto per sparire in questo modo? > replicò angosciata la riccia azzurra portando una mano alla collana. Blaze incrociò le braccia al petto
< Borel potrebbe non aver detto la verità. Forse non faceva una “consegna”, forse era stato inviato a controllare qualche cosa. Non mi stupirebbe d’altronde: non è la prima volta che cerca di farsi gli affari degli altri > replicò schietta portando la mano sul fianco.
< A che pro mentirmi se vuole trovare Julius? Sarebbe controproducente.  Si è persino degnato di venir qui > rispose il ragazzo blu cercando di pensare lucidamente al discorso che era intercorso tra di loro. La gatta si strinse nella felpa.
< Non lo so, ma non lo escludo visto che, appunto, è venuto qui avanzando richieste ridicole >. Silver si riavviò il ciuffo spettinato.
< Non credi di essere un pochino eccessiva Blaze? Erano … sono come fratelli quei due > intervenne incredulo.
< Su, su, ora basta tarmarvi. E’ da questo pomeriggio che mancate e sarete affamati. Ella vi sta preparando la cena. Ne parleremo domani con calma > concluse Viola riferendosi ad entrambi i ragazzi. 
< A proposito, dove sei stata oggi? > domandò con un’occhiataccia il blu. Per buona parte del pomeriggio era rimasto sulle spine non sapendo dove la nonna si fosse cacciata. Proprio dopo l’imminente sparizione di Julius doveva sparire dal nulla anche lei?
< Oh sì! Che sbadata! Mi sono dimenticata di avvisarvi! > esclamò in modo tragico battendosi la mano sulla fronte. Sonic sospirò sciogliendo l’occhiata malevole: se fosse accaduto il contrario non sarebbe rimasta così calma.
< Siete tornati finalmente! >
Dall’entrata della cucina apparve l’unica umana ospitata in quell’angolo di paradiso: la cuoca Ella. L’umana di mezza età, un po’ grassottella e con una ricciuta chioma viveva lì da una vita. Una cuoca eccellente ed uno spirito buono faceva di lei una delle persone più care nella cerchia del riccio. In servizio da quando Sonic non aveva più di quattro anni, la donna si era dimostrata affidabile, seria e bravissima.
I suoi manicaretti siglavano accordi e contratti nelle più svariate occasioni, le sue cioccolate scaldavano le mani e i cuori nelle giornate invernali e in quelle più tristi. Non esisteva torta, timballo, pasticcio, pralina, arrosto, stufato o qualsiasi altra ricetta che non conoscesse. Uno scrigno di sapere culinario ed una gentilezza fuori dal comune.
< Ella! > esclamarono in coro i due ragazzi vedendola avanzare con un piatto coperto da un coperchio argentato. Con sé portò anche uno squisito profumo di torta che si diffuse attorno a lei come una nuvola.
< I miei cari ragazzi! Venite a mangiare poveri! Allora avete trovato qualcosa? > esclamò speranzosa guardando prima l’uno poi l’altro. Il sospiro di uno e la testa scossa dell’altro risposero negativamente alla domanda.
 Il viso della cuoca diventò pallido e dispose i piatti sulla superficie piana del mobile. Gli occhi scuri dell’umana cercarono quelli di Viola in cerca di pareri.
< Non sarà davvero morto? > mormorò a fil di voce. La riccia interrogata si guardò le scarpe e intrecciò le braccia al petto. L’espressione si indurì decidendo cosa rispondere a quella domanda.
< Mi auguro di no ma è inutile illudersi. Non sto dicendo che sia morto ma non sarebbe il primo a sparire dal nulla. Inoltre sono passati due giorni, se fosse ferito e disperso sarebbe già in gravi condizioni a quest’ora. >  Ella sospirò ancor più preoccupata e guardò i ragazzi di fronte sé. Al posto di Julius poteva esserci uno di quei tre e la cosa le risultava insopportabile solamente a pensarci.
Sonic trattenne uno sbadiglio a stento.
< Domani mattina concluderò la zona più periferica, dove nasce il fiume principale. Nel caso non trovi nulla entrerò al porto e proverò a tastare il terreno. >
< Verrò anch’io stavolta > esclamò Blaze con fare autoritario. Ritta in piedi accanto alla blu, lanciò un’occhiata al padrone di casa in cerca di conferma.
< Perfetto, così in tre controlleremo meglio > decretò il riccio costringendosi a sorridere fiducioso. Peccato che la speranza si stava man mano spegnendo nel suo cuore.


Amy si pulì le scarpe sul tappeto sottile e bussò alla porta color burro. Specchiandosi sulla piccola decorazione in vetro riuscì a sistemarsi appena i capelli. La porta si aprì con uno schiocco secco.
< Entra pure > mormorò la voce che sembrava venire dalla cucina. La riccia non se lo fece ripetere due volte ed una volta dentro richiuse la porta alle sue spalle. La casa di Gage era super sofisticata, l’ammobilio moderno e minimal racchiudevano fantastici elettrodomestici. Nel salotto rettangolare un grande divano bianco capeggiava la stanza mentre la tv gigantesca copriva un bel pezzo di parete. Qualche quadro e i colori chiari dell’ambiente regalavano pace agli occhi in ogni stanza.
Togliendosi il foulard che le legava il collo salutò allegramente il compagno cercandolo con lo sguardo. Il litigio del giorno precedente era decaduto, o almeno così sembrava alla riccia. Dopo una giornata di messaggi con frasi strascicate e mozziconi di parole, il ragazzo l’aveva invitata a casa sua per quella sera.
Amy aveva immediatamente confermato e, dopo il turno pomeridiano, si era fiondata a casa sua con le birre e una mezza torta confezionata. Conosceva il ragazzo e sapeva che il riavvicinamento sarebbe stato più veloce con quegli omaggi. E poi era sempre una buona idea portare qualcosa all’ospite di casa.
< Buonasera tesoro. Sono arrivata il prima possibile! > cinguettò cristallina avanzando in sala. La torta  a destra  e le birre alla sinistra mandavano in crisi il suo equilibrio e per un attimo temette di spalmare il tutto sul pavimento.
< Vieni pure, sto preparando la cena > esclamò asciutto con tono impercettibilmente stanco.  La riccia trovò il dingo in cucina con la tavola apparecchiata e un buon profumino che alleggiava nell’aria. Tutto fantastico se non fosse che Amy si stupì nel vederlo ancora in abiti da ufficio, non era da lui restarsene in casa infilato in qualcosa di poco comodo.  Di schiena, intento a spadellare qualcosa, si voltò nella sua direzione per guardarla e salutarla adeguatamente.
Gli occhi grigi le si posarono insistentemente addosso, in particolar modo sull’orlo del vestito che aveva indossato. Anche quello valeva come riappacificante.
< Ciao Amy, quanto sei bella > esclamò lui non riuscendo a trattenere un sorriso e lo sguardo da lei. La riccia, contenta di aver fatto centro, arrossì leggermente ed andò a sbirciare il contenuto delle stoviglie per abbandonare il rossore.
< Idiota. Che cucini di buono? > domandò lei approfittando della domanda per avvicinarsi e avvolgergli la vita con un braccio. Il dingo gli strappò un bacio e poi giocherellò con i lunghi capelli intrecciandoli tra le dita.
< Hamburger. Come è andata oggi? >
< Tutto bene a parte la noia, i tre si sono rinchiusi nel loro ufficio e non mi hanno calcolata. Ma era prevedibile. Tu invece? Come mai sei ancora vestito così? > domandò la ragazza guardandolo da cima a fondo. La camicia azzurra presentava solo qualche pieghetta e la stessa sorte aveva toccato anche i pantaloni.
L’espressione del dingo si indurì e persino la postura divenne più rigida, tanto che la rosa staccò il braccio per prestare tutta l’attenzione possibile al fidanzato. La gaiezza con cui l’aveva salutata si dissolse come la nebbia al sole.
< Sono appena rientrato a dir la verità. Abbiamo avuto un confronto in ufficio. >  Amy rimase in silenzio per intimarlo a parlare.
< Ti ricordi il progetto dell’hotel di giovedì no? Bhè oggi abbiamo posticipato la data > esclamò ruotando gli hamburger nella padella con rabbia. Notando il gesto stizzito, con dolcezza la rosa si impadronì della cucina.
< E tutto perché i due cretini che non collaborano mai, stavolta hanno ideato davvero un piano … lasciamo perdere > continuò stancamente passandosi una mano sui bei riccioli biondi. Amy, incuriosita dalla faccenda, non si accontentò.
< Che idea? Meglio della tua? > lo stuzzicò lei con un sorriso che puntava a punzecchiarlo per vederlo sorridere. Il dingo, stando al gioco iniziò a cambiarsi andando a prendere di qua e di là una vecchia maglia e una vecchia tuta.
< Ovvio che no! L’idea è a dir poco imbarazzante per quel che mi riguarda. E aspetta di sentirla. Vogliono comprare il tuo vecchio orfanotrofio >. Amy immobilizzò la mano a mezz’aria assieme al cucchiaio per un attimo. La sua testa fu invasa da un singolo pensiero: la sua casa rischiava di diventare una piscina termale. Spense il fuoco e liberò le mani al volo.
< Cosa? >
< Hai capito alla perfezione tesoro. Il fascino dell’antichità, quella stella di pietra a far da benvenuto, cantine enormi e stanze a non finire, pace e tranquillità della campagna. Cosa si vuole di più? > decantò con irritazione cercando di controllare il tono di voce.
< È… è fattibile? Possono farlo? > domandò la rosa incrociando le braccia al petto e sperando in un no. Gage sospirò piano anche se quello che sentiva erano un mucchio di parolacce verso gli idioti.
< A livello strutturale sì, anzi, la cosa peggiore è che si risparmierebbe un sacco di soldi per la costruzione. A livello burocratico invece è davvero una sciocchezza. Come si può pensare di allontanare suore e orfani? È il solo luogo che può ospitare tutti loro! Sarebbe davvero egoistico! >.
La riccia sentì salire i brividi freddi lungo la schiena. La sua famiglia, le mura che sentiva come proprie, tutti gli altri bambini che ospitava e che avrebbe ospitato, quel dispensario di pace e amore si sarebbe trasformato in un altro lussuosissimo hotel. Ai residenti non restava altro che sloggiare se l’idea fosse stata accettata.
Rabbrividì una seconda volta sentendosi  completamente inutile. Neppure nelle vesti di poliziotta poteva combattere questa ingiustizia.
< Quando verrà presa la decisione ora? > continuò con uno spiacevole peso sul petto. Gage si appoggiò al tavolo e sovra pensiero si ripassò nuovamente le dita tra i grappoli di ricci.  
< Sabato. Spero solo che  ragionino sulle conseguenze >. La riccia emise un sospiro così pesante che il dingo si preoccupò.
Poteva solo immaginare che stress doveva provocarle la notizia. D’altronde la riccia era ovviamente affezionatissima alla sua casa, alle sue salvatrici e al luogo in cui era cresciuta fino alla maggiore età. Strappargli, per scopi commerciali, il porto sicuro non doveva essere affatto piacevole.
Il ragazzo l’attirò a sè cercando di sdrammatizzare. < Su su, farò qualsiasi cosa per mettergli il bastone tra le ruote. Non preoccuparti tesoro > esclamò portando le mani sui fianchi della ragazza. La promessa del fidanzato la rincuorò riuscendo a distrarsi dal pensiero oppressivo.
Di certo il suo prestigiosissimo ufficio non poteva permettersi una figuraccia di questa portata, avrebbero perso molti punti a favore e con le recensioni a cinque stelle non era il caso di fare sciocchezze. Strinse le palpebre e allontanò il pensiero a fatica, chissà se la madre superiora era già a conoscenza di quella notizia.
 A distrarla davvero dopo pochi secondi fu la mano del ragazzo che iniziò a scivolare verso il sedere con nonchalance invidiabile. La riccia non riuscì  a trattenere la risata onesta che le scivolò fuori di bocca.
Baciò il sorriso del compagno il quale strinse la presa prima di spingerla in direzione del divano.
 
Spazio autrice: Buongiorno a tutti, scusate l'assenza infinita. Spero comunque che il capitolo vi possa piacere.
Segnalate cortesemente qualsiasi errore, grazie!
Baci.
Indaco

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Capitolo 12
*** L'impegno è tutto! ***


Pierre ultimò gli ultimi dettagli della mappa con una penna a china.  I fantastici voti  in disegno tecnico non erano mai stati regalati nella sua classe. D’altronde le precise ed ordinatissime tavole che si trovava davanti agli occhi erano davvero superbe per uno che non prendeva in mano stecche e righelli  da una vita. Sul foglio di carta era stato disegnato un labirinto. Quadrati e rettangoli minuscoli, incollati uno all’altro , andavano forma a tantissime stradicciole collegate tra loro.
I poligoni rappresentavano le case e tutti gli altri edifici ed erano così tanti e così mal costruite che più di una volta aveva dovuto sbarrare delle “x” dove le case pericolanti, crollando, avrebbero bloccato le strade. I suoi ricordi sicuri e puliti avevano cacciato fuori una cartina altrettanto bella. Non copriva nemmeno un quarto della grandezza del porto ma, per i suoi sottoposti, era più che sufficiente: non gli avrebbe mai spediti nel cuore di quella bruttura.
Ammirando il lavoro ben svolto arrotolò la cartina con cura e, entrando nella saletta, la depose nelle mani dello sbigottito Steve che non ricordava ormai più della richiesta avanzata il giorno precedente.
< Sei stato davvero veloce! Grazie! > esclamò seriamente colpito l’orso grigio.  Gli occhi dei tre subordinati si levarono all’unisono e andarono a posarsi sul pezzo di carta. Amy in particolar modo non sapendo cosa fosse. Quando Steve l’aprì per ammirarne il contenuto la riccia rimase davvero stupita.
La cartina era davvero ben fatta, tanto da riconoscere fin da subito il contenuto. Non capiva, semmai, a cosa potesse servire visto che non sarebbe più emersa per almeno un altro anno. Con l’avventura al porto il suo capo, a quello che aveva dimostrato, non era per nulla interessato alle indagini, per questo non riusciva a capacitarsi della creazione di quella dannata cartina. A che scopo se poi Pierre non aveva intenzione di spedirli la e, soprattutto, non aveva intenzione di approfondire il problema? Evitò di pensare a tutto quello che stava tralasciando: in una giornata era riuscita a beccare un pesciolino, figuriamoci impiegando tempo, aiuti e, soprattutto, voglia.
Portando quasi per sbaglio gli occhi al quadrante dell’orologio, si accorse di aver regalato dieci minuti di tempo al suo titolare. Rollando gli occhi al cielo, chiuse i documenti aperti sul pc e si preparò ad uscire: la sua migliore amica l’aspettava per un caffè e lei rischiava davvero di far tardi. Dopo aver piegato con cura la sua divisa ed essersi vestita, raccolse in fretta e furia i suoi oggetti.
< Buona serata a tutti, ci vediamo domani > esclamò frettolosa camminando a passo spedito verso l’uscita. I tre ancora presenti nella stanza la salutarono a loro volta. La rosa uscì defilata dalla stanza. L’aria fresca e pulita, la luce brillante e le vie trafficate azzerarono fin da subito il suo malumore che in quei giorni era davvero al massimo. Senza pensarci troppo si avviò in centro città per trovarsi con Honey The Cat: una tipetta piuttosto esuberante e gentile. Conosciuta per caso a causa dello sfortunato scippo della borsetta della gatta, tra le due era nata una forte amicizia fin da subito.
Diversamente dalla normalità Honey era in ritardo ed Amy si trovò a sedersi per prima nel tavolino del loro bar preferito: una piccola pasticceria artigianale degna di nota per le sue straordinarie creazioni. Non ebbe il tempo di rifarsi gli occhi con le paste al cioccolato perché dall’entrata, con un grintoso vestito nero e rosso, entrò la migliore amica con ampi occhiali da sole agli occhi. Amy s’illuminò di un sorriso e la salutò con un cenno. La ragazza sorrise a sua volta e le si affiancò togliendosi gli occhiali scuri.
< Buongiorno Amy, come stai? >.
< Honey! Il tuo vestito è meraviglioso! Un nuovo pezzo della tua collezione? > domandò ammirata la riccia ignorando la domanda di proposito. La gatta gialla non riuscì a trattenere un altro sorriso.
< Sì. Ti piace?! Il corso sta dando i suoi frutti! Finalmente il mio sogno sta prendendo forma! >
< di sicuro la tua ascesa avverrà più velocemente di quel che desideri! > replicò con entusiasmo la rosa sistemandogli una leggera grinza sulla spalla.
< Se così sarà dovrò solamente ringraziare te. Il mio curriculum ha preso forma dal tuo pc e novità delle novità … sabato ho un colloquio con la “Boutique di Perla”! > esclamò teatrale portando le braccia verso l’alto. Amy sgranò gli occhi: per un’aspirante stilista era praticamente un palco la costosissima e raffinatissima Boutique. Insomma era un evento davvero importante che avrebbe potuto stravolgere la sua carriera. I bravissimi sarti all’interno dell’emporio le avrebbero insegnato e soprattutto l’avrebbero aiutata ad impratichirsi.
La riccia pensò che non le restava altro che fare la cavia: non le sarebbe dispiaciuto indossare i modelli dell’amica.
< Davvero? Ma dobbiamo festeggiare allora! Prendiamo subito due bicchieri di … >
< No, no, no Amy! Non voglio illudermi. Festeggeremo non appena avrò almeno  l’opportunità di fare almeno una settimana di prova > le rispose asciutta sistemandosi il cerchietto di pizzo irremovibile. Amy addolcì il sorriso, sapeva con certezza matematica che la boutique l’avrebbe di sicuro accettata: necessitava di mani giovani all’interno e di voglia di fare.
< Va bene. Ma sabato sera sarò occupata probabilmente > le rispose mettendo ben in chiaro che quel week end non ci sarebbero state festine.
< Uuuh, cenetta romantica tu e Gage? > replicò con un occhiolino malizioso la gatta gialla che conosceva tutto dell’amica. La rosa trattenne un sorriso a stento.
< Solo se le cose andranno al loro posto > e con quella prefazione la riccia vuotò il sacco sugli ultimi avvenimenti. 


Blaze, Sonic e Silver contemplavano smorzi le onde del mare infrangersi sul molo. Dalla cima di un vecchio peschereccio, ben abbordato al molo, i tre ragazzi osservavano il mare calmo e placido. Il sole iniziava la sua lenta discesa e attorno a loro l’acqua mutava colore di minuto in minuto. Il senso di sconfitta che albergava negli animi dei tre era persino palpabile. Come ultimo step avevano controllato il porto, più specificatamente quello che restava da controllare visto che le ricerche erano state portate ben avanti dai sottoposti di Borel. Era stato completamente inutile comunque, come sospettato, non era saltato fuori nemmeno un indizio. Avevano davvero controllato ovunque e a nessuno dei tre veniva alla memoria qualcosa che potesse suggerire una pista.
Julius si era volatilizzato ed il maggiore del trio non riusciva a togliersi dalla testa il fatto che il topo si fosse volatilizzato al creatore. Sebbene nelle loro giovani vite le sparizioni erano avvenimenti rari ma comunque presenti, fino ad allora, gli spariti erano sempre state persone fuori dalle loro cerchie di amicizie. Era perciò la prima volta che qualcuno di vicino a loro veniva a mancare e il dispiacere era davvero molto.
Il riccio maggiore si grattò la tempia e alcuni aculei gli si intrecciarono abilmente tra le dita. Il sospiro profondo di Silver deviò la sua attenzione dall’orizzonte al compagno accanto a lui. < L’abbiamo perso per sempre vero? > domandò l’argentato sollevando una bottiglia di plastica dalle onde con la telecinesi. Nel vedere la testa del blu abbassarsi, la gatta prese la parola cercando di tenere alto lo spirito.
< Bhe, forse … non è ancora detta l’ultima parola > pronunciò poco convinta utilizzando ugualmente parole di speranza. Avrebbe voluto iniettarla direttamente al riccio se fosse stato possibile. Sonic sorrise amaro.
 < Spero davvero che si avveri quanto hai detto Blaze, sarebbe il primo a fare ritorno da queste improvvise sparizioni in quel caso >.
Silver, visibilmente nervoso, si passò dietro alle spalle gli aculei argentati e non muovendo nemmeno un muscolo buttò il rifiuto nel cestino. Quanto avrebbe voluto trovare almeno un piccolo indizio!
< Forza, torniamo a casa, altrimenti Viola si preoccuperà davvero >. Detto ciò Blaze si stiracchiò le gambe e rigirandosi prese la strada del ritorno. Con un salto scese dal peschereccio e, accigliandosi per i ricci ritardatari, attese pazientemente.
Sonic attese esattamente quel momento per avvicinarsi a Silver furtivamente. La gatta dalla sua posizione non poteva né vederli né udirli.
< Silv, tieni d’occhio Blaze e non lasciarla uscire da sola da oggi. E la stessa cosa vale per te: sii prudente > bisbigliò sottovoce il maggiore assumendo più i tratti di mamma chioccia che da amico.
Silver sbatté le palpebre sperando che l’amico di vecchia data scherzasse ma lo sguardo serio e gli occhi agitati negavano quelle speranze.
< Mi chiedi l’impossibile So’! Blaze non si lascerà mai accompagnare come una bambina! > rispose di impeto spiando se la gatta stesse sentendo o meno.
< Certo che no, lo so benissimo. Ma non credo che per te sia un problema no? > esclamò chiudendo il discorso in fretta prima che la gatta si insospettisse. Silver non rispose.
Il blu percepiva perfettamente i sentimenti che agitavano il cuore del migliore amico: il terrore di infastidirla e la voglia di starle accanto erano due parti di lui che combattevano incessantemente. E per quanto capisse la difficoltà sapeva con altrettanta chiarezza che quel semplice ordine l’avrebbe aiutato.
 I tre ragazzi, controllando ancora una volta i luoghi già setacciati, entrarono in città quasi non accorgendosene. I tre camminarono a passo svelto verso il centro città, tappa obbligata per tornarsene a casa, e meno gente li avrebbe visti meglio era. Oltretutto la luce iniziava a scarseggiare sempre più e, assieme a lei, il calore legato ad essa. Dettagli che i tre non notarono, troppo impegnati a pensare a qualche luogo inesplorato o qualche fatto che poteva aver toccato la famiglia di Borel. E a peggiorare la faccenda era il fatto che, come simbolo di cortesia e di vicinanza, al blu toccava pure chiamare The Mutton e avvisarlo della ricerca inutile. Avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di aver un piccolo indizio da comunicargli.
A sbalordirlo e a lasciarlo così perplesso infatti era la totale mancanza di testimoni e di indizi.
< E se fosse bloccato in carcere? > esclamò la viola bloccandosi in mezzo del marciapiede. Un soffio di vento fece svolazzare le falde del cappotto lilla della ragazza. I due compagni si fermarono di fronte a lei e si guardarono stupiti.
< Blaze, hai ragione cavolo! Non ci avevo nemmeno pensato! > esclamò il blu portandosi le mani alla fronte.
< Bhe, se tu non l’hai visto Sonic, di sicuro non si trova in quella centrale. Mobius ne ha almeno una ventina tra piccoli uffici e stazioni più serie. Forse, se è stato beccato a fare qualcosa … > - iniziò Silver grattandosi la guancia - < … potrebbero averlo portato in qualche ufficio più grosso. Dobbiamo indagare! > concluse il blu battendo il pugno sul palmo della mano.
Era estremamente fattibile quello che la gatta aveva ipotizzato e il riccio si sentì immediatamente carico di speranza e di buone aspettative.
< Blaze sei una fottuta genia, se dovesse essere come hai detto aprirò in tuo onore una bottiglia di champagne a tua scelta > promise il maggiore componendo un numero sulla tastiera del telefono. Lusingata, la gatta rifiutò graziosamente l’offerta con un gesto della mano, l’unica cosa che le importava davvero era di trovare Julius vivo. Quella sarebbe stata la sua ricompensa.
Il riccio scosse le spalle al suo diniego e appoggiò il telefono all’orecchio. Sollevando appena la testa si accorse solo in quel frangente che il buio iniziava ad avvolgerli e un soffio freddo gli congelò il naso.                                                                                 

In un ufficio di piccole dimensioni, incassato tra una pasticceria e un negozio di occhiali, un enorme coccodrillo, seduto mollemente sulla sua poltrona, compilava la terza riga di un intricato sudoku mentre il telefono dell'ufficio trillava allegramente. La catena dorata al collo e le cuffie perennemente agganciate lo facevano sembrare ad un dj, ma il rettile si occupava di tutt’altro settore. Da anni infatti si spacciava in modo eccellente come investigatore privato andando in soccorso di mariti traditi, fidanzate gelose e piccoli casi di spionaggio. L’unica pecca di quel lavoro era che il basso numero di clienti che entravano nell’agenzia lasciavano un bel po’ di tempo libero al proprietario, il quale doveva trovare un modo per ammazzare il tempo.
< Hai intenzione di rispondere alla chiamata o la lascerai cadere? > domandò severo un camaleonte rosa appollaiato dietro alla sua scrivania. Gli occhi gialli del ragazzo lo fissarono con disappunto e incredulità. Vector girò pagina cercando un altro sudoku,
< e' sempre bene far aspettare un po’ i clienti Espio. Altrimenti penseranno che siamo senza lavoro > rimbeccò il verde sollevando la penna a mo’ di maestro d’orchestra. Il camaleonte sollevò gli occhi al cielo, era davvero quello il problema?
< Bhe, questo è meglio che non lo fai aspettare un granché. È The Hedgehog. >. Il coccodrillo quasi rovesciò la sedia e la scrivania per poter afferrare il prima possibile la cornetta. Il cognome del riccio spandeva denaro al solo nominarlo, oltre ad una gran dose di problemi, ma confrontando la cifra dell’affitto a quella pagata dal ragazzo conveniva indiscutibilmente avere il blu nella lista dei clienti.  
< Agenzia investigativa Chaotix, come possiamo aiutarla? > recitò in tre secondi cercando di trattenersi dall’eccessiva cortesia.

< Buonasera Vector! > salutò allegramente il riccio blu dall’altro capo del telefono. Trovare al primo colpo il detective era difficoltoso persino per lui.
< Buonasera anche a te Sonic! Qual buon vento ti porta a chiamare? > rispose caloroso il rettile comportandosi come se il famoso riccio fosse davanti a se. Espio con un sospiro iniziò a raccogliere le settimane enigmistiche cadute dal tavolo. Era ben contento che il riccio avesse chiamato, l’agenzia navigava in acque poco danarose e qualche cliente in più non avrebbe disturbato nessuno. Il blu si schiarì la voce:
< ho un lavoretto molto delicato per te. Puoi venire al solito posto il prima possibile per favore? > domandò serissimo il riccio con gentilezza.  Vector balzò sull’attenti con tanto di saluto militare.
< Certo, al tuo servizio! > tuonò allegramente.
< Lo spero, mi toglieresti un grosso problema. A tra poco allora > concluse Sonic chiudendo la chiamata. Il rettile abbassò la cornetta con un sospiro soddisfatto. I grossi problemi portavano grossi introiti.
< Uhmm, chissà cosa vorrà, “grosso problema” eh? Sono davvero curioso. Spero solo che sia qualcosa di semplice > proseguì parlando più a se stesso che all’amico che stirava le copertine delle riviste in perfetto silenzio. Espio non era il tipo che amava oziare, anzi, non sopportava stare con le mani in mano. Per questo non vedeva l’ora che il boss fosse già di ritorno, necessitava di un obiettivo da raggiungere.
< Non dovresti preoccuparti ma affrettarti Vector, impiegherai mezz’ora per arrivare al porto. Tra dieci minuti inizieranno i turni serali nelle fabbriche e sarà un inferno laggiù. Rimarrai bloccato nel traffico. Potrai dire addio a Sonic e compenso allora, che, ti ricordo, risulta sempre molto sostanzioso > esclamò lanciando un’occhiata all’orologio appeso alla parete. Il coccodrillo si tolse le cuffie.
< Certo, certo, quanta ansia Espio! Adesso vado. Andrai tu a prendere Charmy allora? > domandò infilando un impermeabile giallo.
< Come sempre Vector >
< bene! Allora io vado! A più tardi! > e con un cenno della mano uscì dall’ufficio spensierato.

Vector si guardò attorno furtivamente e, accertato che nessuno lo stava seguendo o guardando, premette il piccolo campanello. L’appartamento utilizzato per quelle visite era davvero modesto e vuoto. Si trovava in periferia, in mezzo al via vai di macchine e lavoratori che si dirigevano nelle tante fabbriche costruite in quelle zone.
A prima vista si sarebbe scambiato per un qualsiasi appartamento disabitato, uno dei tantissimi inseriti in quella zona. Le finestre sempre sbarrate e le porte ben chiuse non davano la parvenza di essere abitato. Sapeva con assoluta certezza che quelle quattro mura erano soltanto una copertura, ma a lui poco importava cosa volevano nascondere in realtà. Sonic pagava bene, era onestissimo e le sue richieste erano davvero poche. E tutto sommato non aveva mai chiesto imprese strane o illogiche. Solamente l’assoluto silenzio e il far finta di non conoscerlo. E andava benissimo così.  
La porta si aprì con un leggero cigolio ed il ragazzo blu apparve nelle tenebre come un fantasma con il solito sorriso sulle labbra. La casa era totalmente buia e priva di luce ma le pupille verdissime scintillarono sotto la luce del lampione. Un brivido gelato percorse la schiena del coccodrillo spaventato dalla mancanza di una luce all’interno della dimora: per un attimo credeva di aver visto anche qualcos’altro steso a terra. Il sorriso del riccio si allargò ancora mostrando gli incisivi e regalandogli un aspetto rassicurante.
< Buona sera Vector, sono appena arrivato e non ho avuto il tempo di accendere le luci, scusami. Su entra, comincia a fare freddino qui fuori! > iniziò con allegria il riccio facendo un passo indietro ed indicando il salotto immerso nell’oscurità. Dalla finestra della cucina entrava una debolissima luce che si sarebbe estinta nel giro di poco.
< Buonasera a te Sonic > borbottò leggermente teso l’alligatore. Il blu accese le luci e fece strada in cucina seguito dall’ospite.
< Ti ringrazio per essere venuto qui il prima possibile, spero di non averti spaventato > continuò con tono dispiaciuto capendo al volo il problema.
< Assolutamente, per un po’ di buio! > Si affrettò a spiegare seguendo il blu nella stanza. Entrando all’interno dell’edificio capì che quello che aveva visto a terra in realtà erano solamente scatoloni. Di qualsiasi misura, occupavano due terzi del salotto. Con sguardo sbalordito passò tra torri di carta che si alzavano da entrambi i fianchi arrivando in cucina.
< Ti stai trasferendo? > domandò incuriosito l’alligatore sedendosi al suo solito posto sulla piccola tavola. I mille scatoloni erano ben chiusi e la casa disabitata ed impolverata sembrava iniziata ad un nuovo trasferimento.
< Oh no, diciamo che sono cose degli altri. A breve spariranno. Caffè giusto? >
< Grazie. Allora, che incarico è stavolta? > si interessò lanciando un’occhiata curiosa in giro. Non riusciva ad aspettare un altro minuto di più, la curiosità lo mangiucchiava. Quelle di Sonic non erano mai richieste semplici o banali e, doveva ammetterlo, in fondo si divertiva anche ad avere mansioni così particolari. Non che fosse tutto rose e fiori, ricordava benissimo la notte che aveva dovuto pedinare un signore sotto la pioggia gelata e ricordava ancor meglio quando aveva indagato sull’impronta di uno strano pneumatico lasciato sul terreno molle. Non si sarebbe mai scordato di come si era sentito quando aveva scoperto che l’impronta speciale apparteneva ad un modello storico e raro di una certa automobile. Era stato favoloso. Ritornò al presente quando si accorse che il riccio indugiava a rispondere. Gli aculei blu lunghi sino alla schiena ondeggiarono.
< Bhe … è davvero semplice stavolta > esclamò portando le tazze di caffè in tavola.
< Diciamo che … devi solo fare un controllo > iniziò selezionando le parole adeguatamente. Voleva limitare al massimo le informazioni in uscita: Borel non avrebbe mai accettato l’aiuto di qualcuno esterno ai loro affari.
< Va bene, sentiamo > replicò il coccodrillo appoggiando i gomiti sulla tavola.
< Mi serve sapere chi sta venendo o è stato trattenuto nelle caserme locali. Esclusa questa residenziale che … è stata già controllata > esclamò trattenendo un respiro. Nemmeno per il riccio le cose erano così facili, la sottile linea che separava la legalità e l’illegalità era così soggettiva da dover tastare bene il terreno prima di lasciarsi scappare qualche frase di troppo.  E Vector, per quanto si fidasse di lui, era comunque onesto e un bravo cittadino. Il coccodrillo aggrottò le sopracciglia confuso.
< Mhhh, i risultati saranno molto scarsi se devo essere sincero. Per sapere questo tipo di cose è necessario fare alcune richieste e servono valide motivazioni. Rimarranno comunque documenti. Diverso se tu cercassi una persona in particolare > ragionò a voce alta il detective sprofondando le iridi dentro alla tazzina.
< Se trovassi l’agente giusto e con una buona scusa qualcosina si può fare senza dare troppe informazioni >. Il riccio si lasciò scappare un sospiro e iniziò a tamburellare le dita sul tavolo. Vector lo lasciò riflettere in pace fingendo di sorseggiare il caffè con lentezza. Spillargli risposte era impossibile quindi non gli rimaneva che accontentarsi di quello che avrebbe detto. Anche se, a vederlo con lo sguardo fisso al pavimento e una smorfia, non credeva potesse dire altro.
< Il problema è che potrei darti un nome ma … sicuramente non potresti trovarlo. Non so se mi spiego. Inoltre non sono autorizzato a dare nomi e cognomi > esclamò con un sospiro mesto sollevando la testa. Vector portò le braccia sul tavolo.
< Capisco benissimo Sonic. Nomi falsi eh? > si lasciò scappare con una risatina nervosa. Il blu ribatté semplicemente con un sorriso nervoso annotandosi mentalmente che quel coccodrillo era davvero perspicace.
< Non hai doti da hacker vero? > ironizzò il blu riportando il discorso al tema centrale.
< Un mio collega sì. Ma non è così bravo. L’unica soluzione è andare di fortuna > . Sonic sollevò un sopracciglio non capendo il ragionamento del detective.
< Descrivimelo. Entrerò nelle caserme e controllerò se c’è. Ovvio, potrò fornirti solo informazioni riguardo al presente. Se fosse stato arrestato e rilasciato non potrei saperlo >. Il riccio si alzò e iniziò a camminare in circolo per sgranchirsi le gambe.
< Non è quello che vorrei ma potrebbe essere una mezza idea. E la scusa per dare una sbirciatina a quelle mezze carceri? >
.< bhe, racconterò che mi hanno rubato il portafoglio e che ricordo perfettamente il ladro > . Sonic sorrise dopo un’attenta valutazione.
< Il “ladro” è un topo giallo scuro, ha gli occhi color crema ed è più basso di me. Ha … credo … sui quarant’anni. Ma sarà stasera che ti darò il via se partire o meno. Devo consultarmi prima. Ma ti ringrazio anticipatamente per l’aiuto > Vector capì che la riunione era finita e si alzò in piedi facendo strisciare la sedia.
< Mi spiace di non aver nessun aggancio alle caserme. Sarebbe molto più semplice farsi dire chi è stato catturato o meno > esclamò assumendo uno sguardo pensieroso. Il dito artigliato andò a lisciare una squama sul collo dove la collana appoggiava tutto il suo peso.
< Grazie a Dio nemmeno io, nonostante gli innumerevoli vantaggi. Anche se sarebbe molto più facile in questa situazione > rispose il blu depositando sul tavolo una certa somma di denaro uscito magicamente dalle sue tasche. Il coccodrillo ipotizzò la somma dalla dimensione dei ring e rabbrividì. I ring più piccoli e con il valore più alto erano una decina e brillavano freddi sotto la luce bianca del lampadario. L’affitto per quel mese era pagato e anche una parte di bollette. Quasi si vergognava di accettare tutti quei soldi solamente per quella specie di visita.
< Su, su, prendili! Almeno il tempo che mi hai dedicato > esclamò il riccio leggendo lo sguardo dubbioso del detective. Le iridi color caramello zigzagarono dal riccio alle monete valutando come comportarsi. Le mani del rettile indugiarono un attimo ma poi raccolsero i piccoli anelli facendoli tornare in una nuova tasca.
< Sono io a ringraziarti per la generosità.  Se c’è qualcosa che posso fare non esitare a chiedermi >
< va bene. Stasera ti farò sapere se attivarti o meno >. Il coccodrillo annuì ed uscì all’aperto stringendosi l’impermeabile. L’aria umida non era molto piacevole. 
< Grazie e buona serata >
< altrettanto Vector > replicò il riccio uscendo a sua volta e richiudendo a chiave l’immobile.

Dirigendosi verso due diverse mete, il ragazzo rimase solo in mezzo ad un largo vicolo. Fortunatamente l’ora di punta era tranquillamente passata quindi le strade erano deserte e silenziose.  Perfette per pensare con tranquillità. L’unica amicizia che poteva vantare, che apparteneva più a Viola che alla sua cerchia, era la badessa dell’ordine che si occupava dell’orfanotrofio. Poi il nulla cosmico. Non aveva mai necessitato di agganci nella sua fresca carriera e non voleva nemmeno averne bisogno ora, soprattutto visto che aveva un’unica domanda a cui trovar risposta. Un semplice sì e no che avrebbe eliminato un’altra carta delle possibilità dal mazzo.
Ma per quanto ragionasse, la soluzione di Vector sembrava la meno rischiosa anche se portava ben poche informazioni. Stava per sospirare pesantemente quando il cervello lavorò al suo posto ispirandogli un piano chiaro e pulito. Sonic si fermò in mezzo alla strada fissando il nulla per concentrarsi a ultimare i dettagli di quell’ispirazione artistica. Come un pittore folgorato da un bozzetto geniale, il riccio sorrise facendo un rapidissimo dietro front. Il coccodrillo non poteva essersi allontanato di molto, erano passati solamente pochi minuti. Doveva immediatamente metterlo al corrente. Aveva trovato la soluzione dei problemi. Forse.
 
 

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