La maschera e la fiamma

di Julie Sarret de Angrogne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sui tetti ***
Capitolo 2: *** Intervista col fantasma ***
Capitolo 3: *** Al Lapin Agile ***
Capitolo 4: *** Cronache in nero ***
Capitolo 5: *** Se i sogni son desideri ***
Capitolo 6: *** Uno scialle di merletto ***
Capitolo 7: *** Il mio nome non è Nadir! ***
Capitolo 8: *** Vecchie fiamme ***
Capitolo 9: *** Visioni spettrali ***
Capitolo 10: *** Per sale deserte ***
Capitolo 11: *** Una giornata particolare ***
Capitolo 12: *** Quella vecchia storia ***
Capitolo 13: *** In viaggio ***
Capitolo 14: *** Dentro la fiamma ***
Capitolo 15: *** Storia di due Christine ***



Capitolo 1
*** Sui tetti ***


1

SUI TETTI

(Dove cercando un assassino si trova un Fantasma)

 

Sapeva quanto l’ispettore Michaud la odiasse; dal più profondo delle viscere, con tutta la sua anima e le sue forze. Lei aveva riso di gusto quando il suo informatore le aveva rivelato la tremenda scenata avvenuta negli uffici della polizia, dopo la soluzione del caso della “Bambina dal vestito verde”.

- Quella suffragetta mancata! Quella specie di George Sand! Quella novella Nathalie Lemel!|Non perde occasione per ridicolizzarmi!

Il vecchio bacchettone non aveva ancora capito che alla fine della sua epoca mancava davvero poco; anzi, con la punta delle scarpe stavano già nel ventesimo secolo. E come ogni maschio non riusciva a capacitarsi del fatto che il futuro appartenesse alle donne, almeno in buona parte.

Ovviamente, una delle cose che gli davano particolarmente fastidio era che lei indossasse tanto spesso i pantaloni. In quel caso, la rimirava con assoluto e palese disgusto. Sotto le sopracciglia aggrottate, a lei sembrava di vedere sfilare, scritti a caratteri di fuoco, gli anatemi della saggezza popolare: "La donna onesta ha le ginocchia sporche”; “Una donna che porta i pantaloni si porta male”.

Comunque i pantaloni erano comodi in occasioni come questa, che la vedeva arrampicarsi per i tetti dell’Opéra di Parigi.

Uscire su quei tetti inondati di sole, dopo la semioscurità delle scale, era stato come entrare in una fucina. Dovunque lampeggiavano riflessi abbaglianti e roventi: dai camminamenti tappezzati piombo agli spioventi laminati di zinco e le cupole di rame ossidato, al biancore e le dorature delle statue. Quella era un’altra città sospesa, meandrica quanto il sottotetto e i sotterranei. E non meno pericolosa, considerata la preda della caccia.

Al buon Michaud sarebbe venuto un infarto se avesse soltanto sospettato che lei si trovava lassù mentre lui e i suoi uomini si perdevano dabbasso, tra i marmi e le dorature del teatro, nelle consuete procedure di investigazione. Domande inquisitive, risposte perlopiù inconsistenti, sguardi sbigottiti, ricerche inconcludenti, verbali… Insomma, una perdita di tempo.

La pistola puntata, la donna si mosse su quel terreno sconosciuto. Scivolare era un attimo, magari pur senza volare di sotto ma rischiava di farsi abbastanza male. Cercò di ricordare i particolari della mappa del tetto, ma ogni elemento, così ingrandito e abbagliante, era pressoché irriconoscibile.

Le statue sogghignavano al suo smarrimento dall’alto della loro fulgida intoccabilità.

Passando accanto a un lucernario colse la propria immagine. Se non fosse stato per i capelli castani annodati dietro la nuca in una lunga treccia, quello avrebbe potuto essere il riflesso di un giovanotto alla moda, in calzoni color crema e giacca turchina. Forse però si sarebbe dovuta mettere un cappello. Il sole estivo picchiava sui rivestimenti di metallo come un martello su un’incudine.

Si muoveva cercando di fare il minimo rumore possibile per non spaventare i piccioni che nidificavano ovunque, e da subito aveva escluso dall’attenzione i suoni che salivano dalla piazza e dai viali attorno al teatro, riducendoli a un’eco di risacca in sottofondo. Tutti i suoi sensi erano concentrati in quello spazio incastonato tra cielo e terra.

L’aria era percorsa da un tremolio scintillante che distorceva i contorni delle cose. A margine del suo campo visivo, la città si protendeva all’orizzonte come uno sconfinato miraggio.

Silenzio. Luce. Silenzio...

Uno sciabordio come di acqua smossa. La donna si fermò, cercandone la fonte con lo sguardo. Sapeva dalla mappa che non lontano da lì si trovavano le cisterne nelle quali le piccole ballerine a volte sguazzavano e imparavano a nuotare, ma non si sentiva il vociare che quella attività avrebbe inevitabilmente prodotto.

Strisciò cautamente lungo il fianco della cupola.

C’era qualcuno, a non troppi metri di distanza da lei, ma l’intensità della luce riflessa non lasciava distinguere altro che una sagoma nera e sottile, come pennellata sullo scenario abbagliante dei tetti. Quella sagoma si stava avvolgendo pigramente in un ampio pezzo di stoffa simile a un mantello.

La donna prese un profondo respiro; quindi, in tono fermo e chiaro intimò:

- Polizia, fermo...

Nemmeno il tempo di completare la pur breve consueta battuta. Un guizzo, un turbinio del mantello che sembrò accendere i riflessi delle dorature in un fuoco d’artificio abbagliante. Lei batté le palpebre, accecata per un attimo. La forma scura era scomparsa, come se avesse spiccato il volo aldilà della cupola.

Ma lei non si lasciava spiazzare facilmente. Superato quell’attimo di disorientamento, riprese ad avanzare con cautela. Sapeva che la struttura del tetto, fra statue, spioventi, lucernari e camminamenti posti a diversi livelli si prestava a creare anfratti e nascondigli di ogni genere.

Piano piano, due passi alla volta, guardandosi attorno…

Inutile.

Non udì alcun suono, prima di sentirsi afferrare alle spalle. Un braccio sotto al mento le immobilizzò la testa, un altro le cinse la vita.

- Non muoverti o ti spezzo il collo.

- Oh merde!

Una voce maschile calma, profonda, priva di emozioni.

- Una gentile signora che dice parolacce.

"Spiritoso!"

- Questa è meglio che la tenga io, per ora.

Un tocco gentile sulla mano liberò la pistola dalla sua stretta.

L’uomo le respirava tranquillamente nell’orecchio. Sentiva il calore della sua pelle, l’aroma del sudore ingentilito da una qualche fragranza esotica ma leggera, rose primaverili e limoni. Il braccio che la stringeva al collo era fermo, ma non brutale.

- E adesso dimmi chi sei e cosa fai qui.

- L’ho detto. Sono della polizia. Agente Rasselie Reymondet. Ormai non hai scampo, Jack.

- Jack? Credo che tu mi confonda con qualcun altro, bella signora.

La stretta attorno al suo collo si allentò, anche se il braccio continuava a tenerla ferma.

Sentì all’altezza delle reni, attraverso la stoffa della giacca, premere la canna della pistola. La sua pistola.

- Non ho niente contro di te, a parte che detesto che mi si disturbi mentre prendo il sole. continuò la voce con quel tono distaccato e cortese. - Ti farò uscire da qui, ma devi giurarmi di tacere sul nostro incontro.

Il braccio scivolò attraverso il suo petto, la mano le afferrò una spalla, spingendola leggermente.

- Quella porta laggiù.

Era una delle tante porte che davano sul tetto. Rasselie si incamminò, con l’uomo che la guidava davanti a sé e teneva la pistola contro la sua schiena. Avrebbe dovuto reagire immediatamente all’aggressione, ma il suo corpo non era riuscito a obbedire con prontezza alla mente, come soggiogato dal braccio che la stringeva alla gola. Eppure sapeva come liberarsene, i gesti sarebbero dovuti venire automatici, poche mosse basilari e adesso l’uomo sarebbe disteso ai suoi piedi, stordito e dolorante nelle sue parti più vitali. E invece lo aveva alle spalle, con quella mano che la sollecitava a camminare in fretta ma senza alcuna brutalità. Muovendo lo sguardo, vedeva le dita abbronzate contro il bianco della sua camicetta. Al mignolo luccicava un anello ornato di una gemma scura.

La luce la stordiva e quando attraversavano qualche ombra era come attraversare le tenebre. Il panorama attorno a lei sembrava sfarfallare come le immagini del cinematografo. Mentre oltrepassava la porticina mosse lievemente la testa, in parte per allontanare una ciocca di capelli che le era ricaduta sul viso, in parte attratta dal luccichio dell’anello.

La voce, per la prima volta, suonò secca e sibilante al suo orecchio.

- No, non osare voltarti. Comincia scendere le scale e ricordati che sono dietro di te. E ho la tua pistola.

Come dimenticarsene, con quella canna prepotentemente piantata nelle costole.

Piccole, buie e strette, così erano quelle scale, pressoché uguali a tutte le altre che portavano sui tetti. Rasselie cominciò a scendere cautamente. Gli scalini di legno scricchiolavano a ogni passo.

- Se non sei la persona che stiamo cercando, tutta questa scena è superflua. Non ci interessano gli stravaganti che prendono il sole sui tetti.

- E chi state cercando?

- Lo Squartatore di Londra, quello che è riuscito a fare fessa Scotland Yard. Quando i delitti cessarono di colpo, lo diedero per morto. Invece ha ricominciato a colpire qui a Parigi.

La mano che in parte la spingeva e in parte la guidava, aumentò la stretta sulla sua spalla.

- Zitta, zitta! Taci per un attimo. Non capisco di cosa parli.

- Leggi i giornali? Quella poveretta ammazzata in rue Monjol, ti dice nulla?

- Quasi ogni notte qualcuno finisce ammazzato da quelle parti.

- E ieri sera c'è stata un'altra vittima in rue Bréda.

- La polizia sospetta che questi delitti siano opera dello squartatore di Londra?

- Le modalità sono le stesse.

Rasselie ebbe l’impressione che l’uomo alle sue spalle avesse cominciato a tremare. Il passo sulle scale aveva esitato, il respiro si era fatto più leggero e veloce.

- Dunque pensate che dopo tutti questi anni...

- Se non è lui, si tratta di un emulatore. Comunque sia, deve essere fermato.

La scala sbucò su un angusto corridoio illuminato dai raggi di sole che piovendo da un lucernario si facevano strada a fatica fra travature, cavi, enormi verricelli, ingranaggi e marchingegni dall’aspetto minaccioso. Un incrocio tra il cuore di un orologio e il ventre della balena.

- Se io fossi chi tu credi, a quest’ora i tuoi organi interni decorerebbero già la mensola del mio caminetto. L’uomo alle sue spalle sembrava aver ritrovato la compostezza. La voce era calma, il passo di nuovo sicuro; e la mano, ferma, continuava a guidarla. Un’altra scala, un altro corridoio. Rasselie non aveva ormai idea di dove si trovassero. La mappa mentale mandata a memoria era ormai a brandelli.

Non sapeva in quali mani fosse capitata; ma era piuttosto difficile che fossero quelle spietate dello Squartatore londinese, pensò con sollievo. La voce che le parlava all’orecchio lo faceva in un francese perfetto, privo di particolari inflessioni. Forse solo l’ombra di un accento del Sud. Incuriosita, accennò di nuovo a voltarsi.

- Non farlo, se vuoi uscire da qui.

In effetti non avrebbe saputo cavarsela da sola, lì nel ventre della balena meccanica.

- Dove andiamo?

- Ci siamo quasi. Oltre quella tenda.

Si ritrovarono in uno dei tanti ambienti del sottotetto, una stanzetta ingombra di materiale di scena assortito e difficilmente identificabile, accatastato senza apparente ordine logico e evidentemente di nessun valore o utilità, dal momento che non si meritava la dignità di una vera porta a propria difesa, soltanto una vecchia tenda di broccato stinto, evidente scarto di sartoria, appesantita da anni di polvere. Lì la luce era davvero fioca e proveniva soltanto dal corridoio. Per questo nelle pareti erano infissi diversi portacandele schermati soltanto da lastre di vetro incrostate di nerofumo.

La mano dell’uomo si allungò sopra la sua spalla a indicare uno di essi, a lato di uno scaffale.

- Togli la candela.

Rasselie obbedì. Senza troppi cigolii, una sezione verticale alta ma piuttosto stretta dello scaffale ruotò su se stessa rivelando un’apertura ancora più stretta.

- Per tua fortuna sei magra. Altrimenti avrei dovuto strizzartici dentro a forza.

Un altro breve passaggio buio; poi, dopo un gomito del corridoio, una visione inaspettata.

Una grande stanza inondata dalla luce del sole che filtrava attraverso tende di merletto e giocava in ombre e scintillii sulla superficie laccata, il metallo e le corde di un gran numero di strumenti musicali sistemati senza apparente ordine logico: un pianoforte a coda; un’arpa; un violino posato su una panchetta tappezzata di velluto; un flauto lucente come uno stiletto, abbandonato su una pila disordinata di spartiti sopra quella che sembrava la custodia di un contrabbasso. E dappertutto, sul pavimento e diversi scaffali, decine e decine di libri.

Di fronte a loro un’altra porta, più ampia e decorata da fregi dorati.

- Entra.

La nuova stanza era ampia quanto la precedente ma illuminata in modo più discreto in quanto pesanti tende di velluto rosso scuro erano parzialmente chiuse su quelle di pizzo sottostanti.

L’uomo le alitò sul collo uno di quei sospiri che abitualmente ci strappa la visione delle mura domestiche.

- Se permetti… disse poi - vorrei rendermi presentabile. Il mio abbigliamento non è adatto a un rendez-vous con una signora.

Il mantello nero la sfiorò passandole accanto, scomparve dietro un alto paravento dipinto in stile orientale. Di nuovo il movimento era stato così rapido e repentino che lei non era riuscita a vedere null’altro che quel mantello: velluto nero e ricami di giaietto.

- Continua a raccontare. Perché la polizia dovrebbe cercare lo Squartatore qui a teatro?.

- Perché potrebbe averlo eletto a suo nascondiglio. Prima che venisse scoperto il cadavere in rue Bréda, un vetturino ha visto un uomo correre ed entrare attraverso il cancello che dà su rue Scribe.

- Impossibile, quel cancello è chiuso da anni. E poi come si possono mettere in relazione i due fatti? La gente corre per i più svariati motivi. E rue Bréda non è così vicina.

- Diciamo che la polizia sta valutando ogni possibile indizio.

- E cercano sui tetti un sospetto che dovrebbe trovarsi nei sotterranei?

- Una perquisizione deve pur cominciare da qualche parte.

- Mandando una donna in cerca di un assassino di donne?

- In realtà... Rasselie cercò freneticamente una scusa abbastanza plausibile - È un'idea che mi è venuta mentre perquisivamo i camerini. Voglio dire... salire sui tetti.

Un suono da dietro il paravento, simile a una risatina di scherno.

- Il povero ispettore Michaud non sa più come mantenere la disciplina.

La voce dell’uomo misterioso suonava divertita. Intanto Rasselie si guardava attorno. La porta che aveva appena oltrepassato, all’interno era ricoperta di cuoio rossobruno decorato di borchie. Tutto intorno c’erano poltrone, sedie e un lungo divano, tappezzati di velluto damascato scarlatto abbastanza scolorito e consumato, tavolini e scaffali, e dietro il paravento si intravedeva una sorta di guardaroba. C’erano tappeti sul pavimento e arazzi e quadri alle pareti. Ma l’elemento più imponente dell’arredamento era un ampio letto di mogano dalla testiera intagliata e ornata di un medaglione in ceramica, sormontato da un baldacchino dai tendaggi di broccato rosso. Sembrava che chi dormiva in quel letto si fosse alzato da poco dopo una notte abbastanza agitata. Le lenzuola e un cuscino erano finiti sul pavimento.

“O qui manca una cameriera.”

- Cos’è questo posto?

- Il mio appartamento.

La figura che uscì da dietro il paravento la stupì. L’uomo era molto alto e sottile, ma non dava un’impressione di magrezza; anzi, dal portamento appariva solido e forte. Ma ciò che più colpiva era il suo abbigliamento.

Indossava una specie di veste in stile orientale, che sembrava rubata al guardaroba di un mandarino o forse più semplicemente al reparto costumi del teatro, un tripudio di seta scarlatta, nappine e ricami dorati ornati di lustrini di ogni forma, dimensione e colore, che ricadeva in pieghe morbide sulle babbucce di velluto altrettanto ricamate e decorate. Rasselie avrebbe potuto pensare di non aver mai visto nulla di più sgargiante e di cattivo gusto se la sua attenzione non fosse stata attratta da un particolare ben più sconcertante. Una maschera di velluto nero che gli copriva la fronte e tutta la parte superiore del volto scendendo sulle guance fino al mento, e lasciava scoperte solo parte di questo e le labbra; sottili ma ben disegnate e in quel momento atteggiate a un sorriso divertito che scopriva appena i denti. I capelli gli sfioravano le spalle e erano di un innaturale colore argenteo dai riflessi azzurrini.

L'uomo mosse la mano destra in un gesto fluido ed elegante, a indicare tutto e nulla nella stanza.

- Accomodati, considerati mia ospite. E per dimostrarti che non ho cattive intenzioni... Le porse la pistola, chiaramente divertito dalla sua espressione confusa.

Rasselie la prese e la ripose nella borsetta che teneva a tracolla. Era una sua creazione, fatta con un ritaglio di robusta stoffa da tappezziere a fiori rosa e arancio su un fondo verde pallido, un vero insulto alla moda del momento che imponeva gentili sacchetti in pizzo.

In quel momento la porta borchiata dietro di lei si spalancò di colpo, e una voce concitata di donna disse: - Nell’ufficio di Rémy ci sono i poliziotti!

Rasselie si voltò. La nuova arrivata era piccola di statura, con i capelli bruni raccolti in una crocchia, e indossava un fine abito bianco che rivelava una figura sottile, quasi spigolosa; le clavicole erano pronunciate e fragili, il collo un po' troppo lungo; e gli occhi scuri lampeggiavano in una espressione bellicosa.

- Lo so, Meg. Madame, questa è la signorina Giry, direttrice del corpo di ballo e mia… tuttofare. Meg, questa è Madame Reymondet, lavora per Michaud.

Gli occhi della donna si arrotondarono in una espressione di sgomento. - Come è arrivata quassù? E senza soluzione di continuità: - Dobbiamo liberarcene.

- Non essere frettolosa. Intanto… Perquisiscila. Ma non badare alla pistola.

Rasselie desiderò scappare via, ma ovviamente non poteva farlo. L’altra non dovette frugare troppo a lungo. Trovò subito quello che cercava in una tasca interna della borsetta. Aprì la piccola busta di pelle azzurra, diede un’occhiata al contenuto, e poi lo porse all’uomo con una risatella beffarda.

- Guarda qui. Sei sempre il solito ingenuo, Erik. Questa è peggio di qualunque poliziotto.

L’uomo considerò pensosamente i documenti e i biglietti da visita, rigirandoli fra le lunghe dita abbronzate. Tra le parentesi di velluto della maschera, un sorriso triste e amaro.

- Ogni tanto qualche giornalista in cerca di storie eccentriche si sveglia e cerca di resuscitarmi.

- E va bene, non sono della polizia. Ma anch'io do la caccia allo Squartatore.

La donna bruna scrutava di nuovo i documenti tra le mani dell’uomo mascherato.

- Rasselie Reymondet Joly. Che nome assurdo

- Piantala, Meg disse lui e le passò la busta con i documenti. - Ridaglieli.

Nell’obbedire a quell’ordine, la donna bruna gettò a Rasselie un’occhiata di puro odio, mentre l’uomo con la maschera continuava: - Immagino che non sia stato l’ispettore Michaud a mandarti quassù.

- Se sapesse che sono qui gli scoppierebbe il fegato.

Quella conversazione aveva qualcosa di irreale, per non parlare della stanza che la circondava e del personaggio che le stava davanti. Rasselie aveva l’impressione di trovarsi davanti ai pezzi scombinati di un puzzle.

- Davvero cerchi lo Squartatore? Non hai paura? chiese Meg in tono sarcastico.

- So difendermi. Me l’ha insegnato mio marito. Era un poliziotto.

- Comunque… riprese l’uomo con la maschera - perché cercare quell’assassino proprio sui tetti, se l’hanno visto entrare dalla parte dei sotterranei?

- Perché lui ama i tetti. È il solo modo nel quale può scomparire senza lasciare traccia.

- Perspicace. E la polizia che ne pensa?

- Loro lo cercheranno nei sotterranei.>

- Non possiamo permettere che vadano in giro a loro piacimento intervenne la donna bruna. Poi, con un’espressione stizzita, andò a raccogliere le coperte cadute sul pavimento. - Hai di nuovo sognato Christine?

- La tua impertinenza a volte è davvero sgradevole, Meg ribatté l’uomo mascherato in tono tagliente.

- Be’, comunque cosa dobbiamo farne di questa impicciona? continuò lei, buttando con malgarbo le lenzuola sul letto. - Non mi dirai che merita un trattamento migliore degli altri solo perché è una donna.

- Qualcuno potrebbe sapere che è venuta qui, e di conseguenza cercarla. Non diamo a Parigi un motivo per tornare a parlare del Fantasma dell’Opera.

Nella mente di Rasselie, i pezzi scombinati del puzzle cominciarono a vorticare cercando il proprio giusto collocamento, per quanto il disegno che andava componendosi fosse improbabile e grottesco.

- Il Fantasma… No, non dirmi che saresti… Anche non si trattasse di una leggenda, a quest’ora dovresti essere morto. O perlomeno vetusto.

- Invece sono vivo. E non troppo vecchio dopotutto. E aprì leggermente le braccia come a dire “Eccomi qui” rivelando in tutto il loro sgargiante cattivo gusto i sontuosi ricami delle ampie maniche.

Rasselie si lasciò sfuggire una risatina incredula e un po’ nervosa.

- È così difficile credermi? Solo perché vivo quassù, vicino al cielo, e non in un sotterraneo? Il sedicente Fantasma mosse qualche passo verso di lei.- Andiamo, chi sarebbe così stupido da vivere sulle rive di un malsano lago sotterraneo, fra i topi e la muffa, perennemente a lume di candela, e dormire in una bara come un vampiro?

- Così si racconta.

- L’umidità è nociva per gli strumenti musicali. E le storie che hanno inventato su di me sono una gran montagna di buffonate. È vero, devo nascondermi agli sguardi del mondo e il mio viso non è certamente quello che vorresti vedere al tuo fianco sul cuscino quando ti svegli la mattina. Ma guarda le mie mani.

Le aveva stese davanti a sé, allungando appena le braccia, così che le ampie maniche ricamate scoprivano anche i polsi: ossatura sottile, pelle abbronzata, dita affusolate e forti. - Non sono quelle di uno scheletro. E i miei occhi non sono fanali gialli che brillano nel buio. Certo, ho sviluppato qualche capacità, come quella di vedere abbastanza bene laddove per gli altri esseri umani è oscurità profonda, ma tutto qui.

Adesso era a pochi passi da lei, in tutta la sua altezza che era davvero notevole, e chinò leggermente la testa. Tra le fessure della maschera, gli occhi erano di un colore insolito, un verde così chiaro da apparire dorato, ma decisamente non si trattava di fanali gialli.

- D'accordo, signor Fantasma...

- Puoi chiamarmi Erik.

- Be’, intanto che decidi cosa fare della signora giornalista continuò Meg raccogliendo le lenzuola dal letto - io vado a fare il bucato.

Mentre apriva la porta, si udì un miagolio e il muso color crema di un gatto siamese si affacciò nella stanza.

- Vieni, piccola disse l’uomo. - Non avere paura.

Il gatto si stirò, avanzò con lentezza ed eleganza, si strusciò contro il divano, quindi al bordo della tunica dell’uomo, il quale si chinò a farle una carezza.

- Lei è Ayesha. Come se giudicasse necessaria quella presentazione.

La gatta indugiò un attimo davanti a quella sconosciuta, scrutandola con profondi occhi azzurri. Poi si allontanò, indifferente e regale, oscillando la coda.

- Lo so che la mia stanza non è quello che ti aspetteresti continuò Erik avvicinandosi a un tavolino sul quale si trovava un vassoio d’argento con una teiera e una tazza. - Niente bara, niente paramenti funebri o arazzi con le note del Dies Irae… Gradisci una tazza di tè? Immagino che il sapore ti sembrerà insolito, è fatto con le foglie di cannabis. Un’abitudine che ho preso in Persia.

Rasselie scosse la testa.

- Per me puoi essere fuggito dalla Salpêtrière o soltanto dal coro di “Un ballo in maschera”. Ma se pretendi che ti creda… Allora mostrami il tuo orribile volto.

Il becco della teiera tintinnò leggermente contro il bordo della tazza, come se la mano che stava versando il liquido avesse tremato leggermente.

- Questo, mi spiace, va oltre ogni concessione che sono disposto a fare.

- Davvero mi faresti fuori per evitare che si sappia che vivi appollaiato quassù?

- No. In passato è stato necessario, qualche volta. Diciamo che da parecchio tempo ho stipulato un accordo di pace con il resto del mondo. E con me stesso. Ma dimmi qualcosa di più dello Squartatore. Cosa sai?

- Solo che nelle notti parigine circola qualcuno che ha già ucciso un paio di donne con le stesse modalità di quel Jack a Londra, tanti anni fa. Sgozzamento, squartamento...

Lui annuì lentamente, con fare pensoso.

- E non hai paura a dargli la caccia? Potresti essere tu la prossima a finire in prima pagina.

- Se volevo un lavoro tranquillo avrei fatto la maestrina in campagna.

Erik scosse la testa, bevve un sorso di tè e poi disse in un tono che a Rasselie suonò come di sfida: - E va bene. Sei venuta qui in cerca di una storia? Te la darò. Domani sera, a mezzanotte, se lo vuoi sarai mia ospite a cena nel Salone della Luna. Mettiti qualcosa di più elegante, se ce l’hai. E adesso vattene. Meg ti mostrerà la strada, così non rischi di perderti. Altrimenti potrebbero ritrovarti fra cent’anni mummificata in qualche sottopalco.

 

 

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Capitolo 2
*** Intervista col fantasma ***


INTERVISTA COL FANTASMA



(Dove si parla di Legione Straniera e antiche leggende e



una piacevole cena viene interrotta da un ospite sgradito)



 



L’uomo che aprì la porta reggeva un candeliere ed era vestito come un valletto del settecento: marsina, pantaloni al ginocchio, calze bianche, scarpe con la fibbia dorata, parrucca incipriata… E portava una maschera: bianca anch’essa e ancor più impenetrabile di quella di Erik, poiché aveva soltanto le fessure per gli occhi, che alla luce delle candele apparivano come due macchie nere. Con un gesto della destra impeccabilmente inguantata di bianco, le fece segno di seguirla.



Era un vero e proprio invito, quello che le era stato recapitato a mano quella mattina da un fattorino. Un biglietto in fine carta bianca che recava un orario e l’indicazione di una certa porta di servizio nel palazzo dell’Opéra. Era scritto con inchiostro rosso e una calligrafia elaborata e precisa, e firmato semplicemente “Erik”. Almeno aveva avuto la decenza di non esibire il suo preteso titolo di “Fantasma”.



Se fosse stata una donna appena prudente e soltanto cautamente curiosa, avrebbe evitato un appuntamento notturno con uno sconosciuto. Dopotutto, quello poteva davvero essere lo Squartatore. Il fatto che avesse una convivente non significava nulla. Ma lei aveva imparato da tempo a tenere a bada i saggi suggerimenti della prudenza e si abbandonava con passione al vizio della curiosità. Certo non era incosciente. Tutte le sue borsette, anche le più eleganti, non erano mai così piccole da non poter contenere una pistola.



Seguì il valletto muto, compiacendosi del fruscio del suo abito da sera nella vastità silenziosa di sale e corridoi. Erano anni che non aveva occasione di vestirsi in modo così elegante. Respinse in fondo alla mente i ricordi dolorosi che cercavano di riaffiorare come sempre al calare della notte. Forse, si disse, accettare lo stravagante invito del sedicente Fantasma era l’ennesimo tentativo di tenerli a bada.



Senza la silenziosa guida in marsina si sarebbe certamente persa. Non era mai stata all'Opéra, e anche se ci fosse stata non avrebbe mai saputo come orientarsi nella semioscurità, men che meno passando da un ingresso secondario.



La fiamma delle candele strappava infiniti luccichii dagli alti specchi, le dorature, i cristalli dei lampadari, i marmi lucidi di colonne, camini, pavimenti... Il Grand Foyer era un immenso caleidoscopio, ma nel buio quasi completo non si riusciva a vedere molto. A sinistra di quello che doveva essere, secondo Rasselie, l'ingresso principale del teatro, si apriva il piccolo spazio circolare chiamato Salone della Luna.



Al suo centro, sotto le decorazioni argentee del soffitto e il lampadario di cristallo, adesso spento, era apparecchiata una tavola rotonda ricoperta da una tovaglia ricamata sulla quale stavano stoviglie di porcellana e un candeliere a tre bracci. Altri candelieri su alti steli erano disposti lungo il perimetro, sotto gli specchi. Erik la aspettava, in piedi accanto a una delle due sedie dall’alto schienale disposte dall’uno e l’altro lato della tavola. Vestiva come un perfetto gentiluomo, con un completo da sera nero dai risvolti profilati di raso, panciotto, camicia candida e cravatta di seta sulla quale brillava una spilla. La maschera era d’argento. Per intonarsi alla sala, immaginò Rasselie, anche se i disegni della volta si perdevano nell’oscurità dalla quale le fiamme delle candele rubavano appena qualche scintillio.



- Prego, sii la mia gradita ospite.



Scostò lui stesso la sedia e la fece accomodare, poi andò a sedersi all’altro capo della tavola. I suoi gesti erano cortesi e misurati al punto da sembrare affettati, e Rasselie ebbe l’impressione che il sedicente “Fantasma” si stesse prendendo gioco di lei. Cosa che stuzzicava ulteriormente la sua curiosità. La tavola era apparecchiata perfettamente, con quei piatti di finissima porcellana bordata in oro zecchino, posate d’argento e bicchieri di cristallo.



- È davvero un peccato che questo teatro non abbia un ristorante disse Erik in tono leggero e discorsivo. - Credo fosse nel progetto originale di Monsieur Garnier ma le finanze finirono prima che potesse essere completato. Sai che Garnier è morto meno di un anno fa?



Intanto, un altro paio di personaggi anch’essi vestiti come valletti settecenteschi e mascherati, erano arrivati spingendo dei carrelli.



- Spero che il menu sia di tuo gradimento. Proviene dalle cucine di quel nuovo hotel, il Ritz. Garantito dal grande Escoffier. Io mi accontento dell’arte culinaria di Meg, ma non posso certo imporla ai miei ospiti.



- Ne hai spesso, di ospiti?



- Non così spesso come una volta, per mia fortuna. E loro.



Meglio non indagare su quel commento. Ma le fiamme delle candele disegnavano scintilli beffardi negli occhi d’ambra e rivelavano un sorriso sulle labbra sottili.



- Cominceremo con ostriche e salmone in salsa di cetrioli. E poi avremo riso alla creola, trote in courte bouillon, salsicce di leprotto ai tartufi, insalata Francillion, crema di asparagi... E per dessert pesche Melba, sorbetto di limone e di fiori di cannella. Si voltò verso uno dei valletti.- Vini?



Senza proferire parola, il valletto gli mostrò un paio di bottiglie.



- Ah, perfetto. Bordeux, annata ottima... Hai mai assaggiato lo Chateu-d'Yquem?



- Scherzi? È fuori dalla mia portata.



- Allora stasera avrai questo piacere, grazie a Erik.



Silenziosi come ombre, i valletti cominciarono a servire in tavola. I loro gesti erano misurati e precisi, sembrava quasi che eseguissero un rituale.



- Chi sono queste persone? Sembrano… sì, sembrano quasi automi.



- O forse sono fantasmi. In un certo senso… C’è chi li chiama “I cacciatori di correnti d’aria”, i chiudiporte, vecchi attrezzisti che nessuno ha avuto il coraggio di licenziare, sarte e ciabattini troppo anziani per lavorare, gli ammazzatopi e gli addetti alle fucine per il riscaldamento e all’impianto fognario. Hanno trascorso qui tutta la loro vita, non conoscono più altro mondo che questo. Vivono nei sottoscala del teatro, o nelle soffitte come me. Non hanno altro posto dove andare. Le passate amministrazioni se li sono dimenticati, le rivoluzioni di palazzo li hanno ignorati; all’esterno, la Storia è trascorsa senza che se ne siano accorti, e nessuno si ricorda più della loro esistenza.*



Rasselie rise. Cominciava a divertirsi. - Sei un vero maestro nel raccontare frottole.



- Consideralo uno dei miei molti talenti. E parte del mio fascino.



Rasselie assaggiò il salmone. Era davvero ottimo.



- Perché hai voluto che venissi qui? chiese poi. - E come potevi essere sicuro che sarei venuta?



- Sei a caccia di storie, no? E io posso dartene da riempire volumi.



- Storie vere?



- Forse. Capisci, Rasselie... Era la prima volta che pronunciava il suo nome, e lo fece allungando le esse in una specie di sibilo. - Posso raccontarti qualsiasi cosa. Qualsiasi. È un mio privilegio. E tu non avresti modo di capire se sia più vera delle storie che altri hanno inventato su di me.



La sfidava. Era un gioco. Forse pericoloso.



- Ma prima, bella signora, devi pagare pegno. Raccontami qualcosa di te.



Lei scosse la testa. - Non credo che ne valga la pena.



- Questo sta a me deciderlo, non credi? Allora… Cominciamo dal tuo nome. Non l’avevo mai sentito.



- È il nome di una pianta. Ed era anche il nome della fattoria dove lavorava mio padre prima di sposarsi. Reymondet è il mio cognome da ragazza. Joly è… era quello di mio marito. Sono vedova. Da quasi cinque anni. Mio marito era un poliziotto. Una sera… eravamo sposati da poco più di due anni… è uscito per andare al lavoro e non è più tornato. Ucciso da un ladro in fuga. L’aveva detto tutto di un fiato, così la voce le si spezzò sull’ultima frase.



- Lo hanno arrestato?



- No. E io non ho smesso di cercarlo.



- E se lo trovassi? Lo uccideresti?



- Forse…



Lui notò la sospensione dopo quella parola, il respiro trattenuto. Si appoggiò allo schienale della sedia, come se attendesse da lei un’altra precisa parola. E davanti al suo silenzio, dopo qualche momento pronunciò: - … Ma?...



- A volte penso che la sua morte non mi arrecherebbe nessun conforto. Preferirei saperlo in catene, al bagno penale, per mille anni, a scontare ogni giorno, ogni minuto, il dolore che mi ha inferto.



- Hai capito che la peggiore condanna è la vita.



Un attimo di silenzio. Rasselie abbassò lo sguardo sul piatto.



- Immagino che tu non abbia figli. Inquisitivo, ma la sua voce era gentile.



- No. Ma probabilmente è meglio così. Un figlio senza padre...



- Spesso i figli senza padre sanno cavarsela molto bene. Figli di puttana, zingarelli, marmousets, “gesù bambini” dei bordelli... Non immagini quali strategie di sopravvivenza sappiano elaborare. Su quelle ultime parole il tono di voce si era fatto più cupo, e a Rasselie sembrò di udirvi una nota di amarezza.



- Adesso basta. Mi hai invitata per raccontarmi le tue storie, no?



- E su quale giornale avrò il piacere di leggerle?



- Non lo so. Io non sono alle dipendenze di nessuno. Scrivo storie, e loro me le comprano. Non sempre, ma abbastanza spesso. Non importa che siano credibili o meno, basta che siano sensazionali. E questa lo è: una cena e un’intervista con il famigerato Fantasma dell'Opera. Rasselie si guardò attorno, divertita e ammirata. - Non te la passi davvero male. Valletti imparruccati, posate d’argento, cucina del Ritz ...



- Vuoi sapere come posso permettermi tutto questo? In un certo senso siamo colleghi. E concorrenti. A bassa voce, ma in tono sicuro e morbido, canticchiò: - ”Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo”. E, vedendo lo sguardo completamente sbigottito di Rasselie, aggiunse: - È un’opera, “La Bohème” di Puccini. Racconta di studenti squattrinati, aspiranti poeti e… donne perdute. Comunque è così che io mi guadagno da vivere: raccontando storie, come te. Ne ho raccolte abbastanza in giro per il mondo, e tante ne ho vissute, che non mi basterà il resto della vita per metterle tutte sulla carta, perciò ho deciso di regalartene qualcuna. E no, non ti dirò con quale pseudonimo mi firmo. Spesso scrivo per altri rispettabilissimi autori in crisi di idee. Non sono l’unico. Ci chiamano “scrittori fantasma”. Più che appropriato, nel mio caso. E poi, ovviamente, compongo musica. Non opere immortali, qualcosa di più consono ai gusti del volgo. Il genere di cose che puoi sentire nei bistrot o da un organetto per la strada.



- Mi prendi in giro.



- Davvero non penserai che il buon direttore Rémy mi paghi ventimila franchi al mese per evitare che io gli distrugga il teatro. Non è nel mio stile appiccare il fuoco alle quinte o far precipitare lampadari in platea. E poi, non è mai caduto nessun lampadario. A staccarsi è stato un contrappeso che pesava meno di cinque chili, ma ha ammazzato una povera donna alla sua prima serata all’opera. Quando si dice il destino. I giornali però, quei giornali a cui vendi le tue storie, hanno detto che a cadere giù come una pera troppo matura era stato l’intero lampadario, una pera di bronzo e cristallo da mezza tonnellata. E di chi era la colpa? Del Fantasma dell'Opera, ovviamente. Come la morte di quell’attrezzista, Joseph Bouquet. Era pieno di debiti, per questo si è impiccato. Anche se farlo la sera di una prima è stato davvero un gesto di cattivo gusto.



Rasselie ricordava l’episodio, definito un delitto dai giornali dell’epoca e attribuito allo spettrale abitatore dei sotterranei del teatro.



- Dunque tu saresti soltanto un tranquillo gentiluomo che preferisce risiedere nei sottotetti di un teatro invece che in un comodo palazzo di città; stravaganza perfettamente comprensibile, le soffitte hanno un loro indiscutibile fascino.



- So accontentarmi di poco. C'è stato anche un periodo, nella mia vita, in cui ho vissuto nel lusso. In Persia. Ma il prezzo da pagare, alla fine, si è rivelato troppo alto.



Difficile immaginare quali sentimenti passassero dietro la maschera che rifletteva la fiamma delle candele. A volte, quando guardava direttamente verso di lei, sembrava che il viso fosse inondato di luce; poi, a un minimo movimento del capo, un incresparsi veloce di ombre cancellava e riscriveva i lineamenti.



- Vediamo… Comincerò con il soddisfare alcune delle curiosità che so essere comuni a chi indaga sul mio passato. Se ho ucciso delle persone? Sì. Con il lasso del Punjab? Anche. È una tecnica rapida, silenziosa e pulita. L’ho appresa nella setta degli Assassini. Ah, sorridi. Già non mi credi. Non importa. Immagino però che il più grande interrogativo sia: questa maschera nasconde davvero un orrore indicibile, come raccontano in molti? Sì. Il particolare su cui si sbagliano è che… non sono sempre stato così. Non sono nato mostro, non sono stato onta e orrore di nessuna madre. A dire il vero, non sono troppo sicuro della sua identità. Ti risparmio le lacrimevoli vicende della mia infanzia. Sono nato in un bordello, ho vissuto con gli zingari, girato per le fiere… Ma non nel ruolo di fenomeno da baraccone, questo è certo. Ero saltimbanco, illusionista, imbonitore e… borseggiatore. Mentre il pubblico assisteva alle esibizioni dei miei colleghi circensi, io alleggerivo le tasche dei signori. Vestito con proprietà ed eleganza, mi mescolavo a loro e li derubavo. Non avrebbero mai sospettato di un giovane a modo, e non potevano riconoscere in me il saltimbanco che avevano visto esibirsi poco prima. Come ti ho detto, allora avevo un aspetto normale. Persino bello. Anzi, probabilmente molto bello, visto che ho spesso dovuto difendere la mia virtù. Anche nella Legione Straniera. Lo diresti mai? Ma è lì che ho conosciuto l’uomo che adesso si fa chiamare Jack.



Rivelazione così inaspettata che Rasselie si immobilizzò con la forchetta a mezz’aria e la bocca semiaperta.



- Non conosco il suo vero nome continuò lui, imperturbabile. - Nessuno te lo chiede, nella Legione. Lui si faceva chiamare Pierre Morhange, anche se era palesemente britannico; io divenni Benoît de Saint-Avit.



Rasselie posò la forchetta sul piatto. In un gesto istintivo, le dita della mano sinistra sfiorarono il manico del coltello. Gesti che non sembrarono aver attratto l’attenzione di Erik i cui occhi dorati guardavano oltre di lei, inseguendo i ricordi. Anche lui aveva smesso di mangiare.



- Eravamo molto simili: due giovani mascalzoni sfrontati, audaci, in cerca di avventura; e di denaro, ovviamente. Facemmo amicizia. Ma la disciplina della Legione Straniera non faceva per noi. Alla fine disertammo insieme. Ci trovavamo in Africa, una terra che abbonda di leggende su città perdute, regni sconosciuti e tesori favolosi. Andammo vicini a lasciarci la pelle, inseguendo questi sogni, e più di una volta ci salvammo la vita a vicenda.



Si interruppe per bere un sorso di vino.



- Ottimo commentò a mezza voce, poi riprese: - Venne il momento in cui uno di quei nostri folli sogni sembrò avverarsi. Avevamo ascoltato molte leggende nei villaggi e lungo le carovaniere, ma una di essa sembrava ritornare più insistente delle altre, con particolari che differivano di poco da una versione all’altra. Pierre… Jack, aveva una capacità da enigmista per collegare i vari indizi. Così ci ritrovammo impegnati in una vera e propria caccia al tesoro. Il fiume aldilà delle sabbie del deserto, le cascate, il volto di donna scolpito nella roccia, il passaggio tra le montagne innevate, e infine… la Città!



Erik fece un gesto con la mano che reggeva il bicchiere: scintillii di granato sul cristallo, scintillii di stella dalla gemma dell'anello.



- Le mura erano di pietra azzurra e avevano porte di bronzo decorate con disegni intricati, forse lettere in una lingua misteriosa. Mentre ci avvicinavamo le vedemmo spalancarci per accoglierci.



"Senza neppure dover dire 'apriti Sesamo' " pensò Rasselie.



- Quella città sembrava essere abitata esclusivamente da donne: dalle bambine alle vecchie, passando per le giovani. E queste erano perlopiù di grande bellezza. Avevano quasi tutte un fisico come fino ad allora avevo visto soltanto nelle contorsioniste del circo e nelle danzatrici, snello e e flessibile. La loro pelle bruna riluceva di unguenti profumati, e i capelli, neri e folti, ricadevano in treccioline sottili ornate di nastri colorati e fiori. Indossavano abiti di stoffe così sottili che sembravano un vezzo per rendere più attraenti i corpi che lasciavano intravedere con generosità. E che corpi!



Lo disse con una nota di golosità non diversa da quella con cui gustava il cibo. Per essere un fantasma, aveva un ottimo appetito.



- La lingua che quelle donne parlavano tra di loro non somigliava a nessun idioma che avessi mai udito, ma alcune conoscevano anche l’arabo e, sorprendentemente, diverse lingue europee, abbastanza per farsi comprendere. Sebbene nel loro isolamento non ricevessero spesso visite di viaggiatori stranieri, ci dissero, questi erano sempre i benvenuti; l’ospitalità presso di loro era sacra. Ci mostrarono la città, che era un unico grande giardino nel quale le abitazioni, piccole e basse, di quella stessa pietra celeste e leggera che formava le mura, quasi scomparivano sotto piante rampicanti cariche di fiori, come fossero cresciute dal suolo stesso insieme a esse. Potevamo trattenerci presso di loro a nostro piacimento per rifocillarci e riprenderci dalle fatiche del viaggio. Ed erano davvero ospitali; molto ospitali, come ci fu chiaro fin dalla prima sera che trascorremmo nella città, quando due bellezze vestite soltanto di gioielli entrarono nell’alloggio che ci era stato assegnato.



Rasselie centellinava il vino ascoltando affascinata. Quell'uomo era uno straordinario affabulatore e la sua voce calda, perfettamente chiara anche quando si abbassava a un bisbiglio, ricordava quella di un ipnotizzatore.



- Così cominciò il nostro soggiorno in quel paradiso terrestre, anche se Pierre ogni tanto vedeva serpenti. I serpenti del sospetto. “Hai mai sentito parlare delle Amazzoni, Benoît ?” mi diceva. “Queste si faranno scopare da noi finché non le mettiamo incinte e infine… zac! Ci taglieranno la testa. O ci sacrificheranno a qualche divinità. Che poi, per noi, il risultato non cambia”. I suoi timori erano anche i miei, ma la vita che conducevamo nella città era troppo piacevole, davvero simile alla vita nell’Eden. Se anche eravamo destinati a finire scannati, non esisteva modo migliore di trascorrere i nostri ultimi giorni in un mondo che non ci aveva dato molto. Inoltre, c’era un piccolo problema. Non tanto piccolo, in verità.



Una pausa a effetto. Poi: - “E come facciamo a uscire dalle mura?" gli dissi. "Le hai viste, le sentinelle. E una volta là fuori ci aspetta soltanto un viaggio a ritroso verso il deserto. Comunque, non voglio neppure andarmene a mani vuote. Un paio degli ornamenti che ciascuna di loro indossa come fossero collane o bracciali di nocciole potrebbe sistemarci per un bel po’ di anni”.



Un sorriso fugace tra gli scintilli della maschera; il sorriso di un ragazzino che medita una monelleria.



- Su quello ci trovavamo entrambi d'accordo. Cominciammo a studiare un piano che, in quell’ozio torpido, non progrediva gran che; anzi, sembrava cercare ogni giorno nuove secche e nuovi pantani in cui arenarsi. Poi arrivò un momento i cui le nostre ospiti ci dissero che eravamo pronti per incontrare Lei, la loro regina, e ci scortarono nel cuore del suo palazzo, scavato nella viva roccia della montagna. E solo quando ci trovammo alla sua presenza, per la prima volta nella mia vita compresi a quali vette di bellezza può giungere una creatura umana. A differenza delle donne d’Africa, aveva la pelle chiara, e i suoi capelli erano davvero, come dicono i romanzieri, oro filato. Non ho mai più rivisto capelli simili fino a quando... Un'esitazione, la voce di Erik si incrinò, ma l'incertezza durò un attimo brevissimo. - Si chiamava Ayesha, ma per la sua gente era "Colei a cui si deve obbedienza". La dicevano immortale, eternamente giovane, e sostenevano che questo potere le venisse da una Fiamma inestinguibile custodita in una caverna, al fondo del palazzo, nelle profondità della montagna. Naturalmente non potevamo prendere sul serio quella storia. Che nei dintorni esistessero miniere d’oro e gemme di ogni tipo, a quello credevamo, sì. Ogni donna della città si portava addosso una fortuna. Ma la curiosità che era stata instillata in noi cresceva giorno per giorno, alimentata dall’inattività alla quale eravamo costretti. L'unico sforzo fisico che ci veniva richiesto era soddisfare le brame carnali di quella popolazione di donne. Pierre… O Jack, chiamiamolo così per comodità, decise di scoprire se la Fiamma esistesse davvero. Se il suo potere era così grande, impadronircene ci avrebbe resi ricchissimi. Chi non vorrebbe essere giovane per sempre, vivere per sempre? Ovviamente avremmo venduto quel segreto soltanto alle persone più ricche del pianeta, immortalità e giovinezza eterna non sono per i miserabili.



Di nuovo un sorriso malizioso.



- Riuscimmo a scoprire che la misteriosa Fiamma era custodita da un gruppo particolare di “vestali”. Erano le sole a girare abbastanza vestite e prive di ornamenti. Ragazze giovanissime e graziose. Il loro incarico, come venimmo a sapere, richiedeva purezza e castità. Insomma, le poverine erano le uniche, in quella città, che non potessero godere dei piaceri della carne. Perciò mi fu facile sedurre una di loro. Probabilmente non aspettava altro, a giudicare da come si diede a me con fiducia. Non ricordo il suo nome e neppure il suo viso. La convinsi a condurci fino alla grotta della Fiamma, e spiammo Ayesha mentre compiva il suo rituale. La guardammo spogliarsi degli abiti… che corpo stupendo!… e immergersi nella Fiamma.



Erik fece una pausa e bevve un altro sorso di vino. Rasselie notò un lieve tremito nella mano che reggeva il bicchiere. Emozione o un principio di ubriachezza?



- La Fiamma era diversa da qualunque altra avessimo mai visto prima. Si innalzava dal pavimento di pietra come una colonna di luce bianca, non ondeggiava, non si torceva come fanno le fiamme, e non spargeva luce attorno a sé. Stava lì, abbagliante e pressoché immobile, sembrava una cascata che scorresse lentamente verso l’alto, appena animata da striature azzurre e violette. Non crepitava, non ruggiva. Il suono che produceva era… sembrava che cantasse. Una melodia sublime e terribile, così terribile da consumare chiunque osasse ascoltarla, pensai. Come quella fiamma avrebbe dovuto consumare il corpo di Ayesha. Ma lei stava in quel fuoco, in piedi, immobile, a braccia spalancate, e il corpo perfetto e i lunghi capelli risplendevano, ma senza ardere.



La voce si Erik si era affievolita su quelle ultime parole che si smorzarono in un profondo sospiro. Altro sorso di vino, prima di riprendere: - Quando uscì dalla Fiamma appariva più bella e radiosa che mai. La sua pelle risplendeva di una luce d'alabastro, satinata e soffusa. E quella visione bastò a farci capire che quanto ci avevano raccontato, se pure incredibile, era vero. Adesso dovevamo soltanto trovare il modo per impadronirci di una scintilla di quel potere... Abbagliati, storditi, stavamo per ritirarci nell’oscurità; ma in un attimo ci trovammo circondati dalle guerriere della regina, armate dei loro archi, le frecce incoccate e puntate su di noi. Lei diede un ordine in una lingua sconosciuta, sonora e melodiosa come la voce della Fiamma, e alcune delle guerriere, lasciati i loro archi, si precipitarono su di noi e ci spinsero a terra, immobilizzandoci. Quelle maledette donne, quanto cedevoli e compiacenti apparivano nell’amore, tanto forti e determinate erano nella lotta... Hai assaggiato la trota?



Rasselie fece un piccolo segno d'assenso.



- "Poveri miseri piccoli uomini!" Ayesha ci sovrastava, vestita solo dei suoi lunghi capelli, e la sua voce grondava disprezzo. "Siete venuti per rubare il segreto della Fiamma? Ebbene, io ve ne farò dono". La vidi andare in un angolo buio della caverna, dal quale ritornò poco dopo portando tra le mani qualcosa che assomigliava a una grande coppa scavata in un blocco di ametista. Si avvicinò alla Fiamma, e una scintilla azzurra zampillò come acqua nella gemma cava. "Voi siete cristiani e immagino abbiate ricevuto il battesimo della vostra religione" continuò. "Un rito che non lascia segno se non nell’anima. Ma io vi darò un battesimo che lascia il suo segno anche nella carne, così che dovunque andrete, tutti riconosceranno su di voi il marchio della Fiamma". Le guerriere ci tenevano immobili sul pavimento di pietra l’uno accanto all’altro, così che ad Ayesha bastò un gesto soltanto, una lieve rotazione del polso candido e sottile… E la Fiamma fu su di noi. La caverna riecheggiò il nostro duplice urlo di agonia.



Rasselie aveva smesso di mangiare per osservarlo mentre parlava: così tranquillo, così apparentemente sincero. Lui colse il suo sguardo, interruppe il racconto e disse: - Spero di non averti rovinato l’appetito.



- Niente affatto. E poi?



- Poi... Di nuovo la sua voce: “Perché pensate che Dio proibì ad Adamo ed Eva di mangiare il frutto della conoscenza? Esistono forze e poteri che non sono fatti per gli uomini comuni. Solo gli iniziati, puri nell'anima e nel corpo, possono dominarli e piegarli al loro volere. Tutti gli altri sono destinati a esserne sopraffatti, usati come schiavi e infine distrutti. La vostra avidità vi ha condannati a vagare in un mondo di oscurità e sofferenza, fino a quando la Fiamma si compiaccia di liberarvi e abbandonarvi all'inferno al quale appartenete". Quindi, rivolta alle sue donne, continuò: "Portateli nel deserto. Li aspetta un destino peggiore di qualunque morte”.



Rasselie era consapevole di avere in faccia l'espressione un po' ebete di una bambina che assiste alle proiezioni particolarmente fantasiose di una lanterna magica, ma il sedicente Fantasma possedeva davvero abilità da incantatore.



- Per settimane vagammo nel deserto aspettando la fine, ma non venne. Di giorno, il raggi del sole scavavano nelle nostre piaghe; il gelo notturno era lame arroventate. Come avesse potuto, quel fuoco infernale, risparmiarci la vista non sapevo. Forse soltanto perché potessimo vedere l’uno nell’altro la devastazione dei nostri lineamenti. Alla fine, fu una banda di predoni a salvarci. Pensarono di poter ricavare ancora qualcosa dalla nostre carcasse malandate e ci vendettero come schiavi. Ma avemmo la fortuna, se così si può dire, di essere acquistati dal Vecchio della Montagna. È così che nella Setta degli Assassini chiamano il loro capo. I disperati come noi, che più nulla avevano da perdere, rappresentavano un ottimo acquisto. Saremmo stati disposti a tutto, pur di sopravvivere. E così fu. Ci insegnarono come uccidere in modo rapido e silenzioso chiunque ci venisse ordinato di eliminare, senza chiedere mai perché. Un tempo eravamo stati soltanto avidi e scellerati; adesso diventammo spietati e infami. Il Vecchio ci noleggiava, per così dire, quando qualche potente desiderava liberarsi di un nemico o di un cortigiano scomodo. Fu così che finimmo alla corte dello scià di Persia. Lui era… affascinato, dal nostro talento.



Un miagolio gentile e musicale. Inalberando la coda come un vessillo, postura fiera e andatura vellutata, la gatta siamese era entrata nella sala e cominciò a strusciarsi alle gambe di Erik. Lui la prese il braccio e le servì un boccone dal suo piatto.



- Bellissima, la mia principessa...



- Il suo nome... osservò Raselie - È lo stesso di quella donna che ti ha ridotto... be', come sei. Perché l'hai chiamata così?



- Diciamo che è una sorta di... memento.



Accarezzò il pelo serico e la gatta cominciò a fare le fusa, premendo la testolina contro il palmo della mano. Poi, con una di quelle improvvise e rapide decisioni che i gatti sanno prendere a volte, saltò sulla tavola, l'attraversò e andò a strofinarsi contro la spalla di Rasselie.



- Le piaci osservò Erik.



Lei l'accarezzò, e la bestiola sembrò accettare il suo tocco senza alcuna diffidenza. Rasselie notò il sontuoso collarino che indossava, simile a un braccialetto di brillanti.



- Ma come sei elegante, una vera reginetta.



Erik sfoggiò di nuovo il suo sorriso malizioso. - Sono diamanti veri.



- Scherzi?



- Apparteneva alla gatta favorita dello scià.



Rasselie rise. - Certo che in quanto a fantasia... S'interruppe di colpo ritraendo la mano, perché la gatta aveva all'improvviso rizzato il pelo ed emesso una sorta di ringhio minaccioso. Ma non era con lei che ce l'aveva. Fissava il buio aldilà delle sue spalle.



Rasselie fece per voltarsi ma Erik alzò una mano in un gesto imperioso. - Non muoverti. Si guardò rapidamente attorno e chiese in un sussurro: - Hai sentito?



- No, cosa...



- Lui è qui.



Si alzò e l’afferrò per un polso. La stretta era decisa e quasi dolorosa.



- Vieni con me, devi nasconderti.



La trascinò nella galleria accanto, che era completamente al buio.



- Rimani qui. E zitta.



Un passo leggero echeggiava da qualche parte nella vastità marmorea del teatro, non si capiva da quale parte provenisse ma si stava avvicinando; e dopo poco Rasselie udì una voce risuonare chiara e beffarda.



- Felice serata, my friend.



Anche senza quel "my friend" Rasselie aveva già riconosciuto l'accento inglese con il quale era stato pronunciato il saluto.



- Non posso dire altrettanto ribatté Erik. - Perché sei qui?



- Nostalgia. Una risposta che sottintendeva un'alzata di spalle, così immaginò Rasselie. - E curiosità. Quando ho cominciato a udire queste storie, queste ciance su un fantasma che si nascondeva nei sotterranei dell’Opéra di Parigi, mi sono ricordato di quando favoleggiavi sulla tua futura ricchezza: "Un giorno avrò un palco tutto per me all'Opéra!". Hai realizzato il tuo sogno, Benoît .



- Il mio nome è Erik.



- Come ti pare. Cos’è in fondo un nome? No, non mi metterò a citare Shakespeare, stai tranquillo. Immagino che di drammi, anche se in musica, tu possa godere ampiamente in questo teatro. Un attimo di pausa; poi, in tono fintamente sorpreso e beffardo: - Ho interrotto una cenetta intima, o tutto questo è per me? Mi stavi aspettando?



- Cosa vuoi da me?



- Sto cominciando a soffrire un po’ di solitudine, sai. Era bello quando lavoravamo in coppia.



Rasselie riusciva a vedere del nuovo arrivato poco più della sagoma di spalle. Indossava mantello e cappello a cilindro di colore scuro, probabilmente nero, e del viso si distingueva solo qualcosa di pallido quando l’uomo girava leggermente la testa nella sua direzione. Insomma, Squartatore o chi altri, era solo un’ombra.



- Non ti basta quello che hai combinato a Londra, e Dio solo sa dove nel resto del mondo? Non puoi continuare a uccidere in questo modo.



- Oh, da che pulpito! Il costruttore di trappole e raffinati strumenti di tortura, il sicario dello scià, il progettista delle "Ore rosa di Mazenderan"!



- Questo appartiene al passato.



- No, Benoît . L’illuminazione a gas sta cedendo il posto a quella elettrica, la gente comunica a distanza, la fotografia prende vita nel cinema, raggi invisibili ci consentono di spiare all’interno del corpo umano, presto viaggeremo nel sottosuolo di questa città e voleremo al di sopra di essa, forse l’uomo metterà piede persino sulla Luna, come Astolfo, o Cyrano… Ma noi resteremo gli stessi. Per omnia secula seculorum. Legati per sempre l'uno all'altro. La veggente di Samarcanda ci ha mentito per un pugno d’oro, e io ne sono la prova.



- E allora perché continui a uccidere?



- Perché mi piace, mi dà sollievo. E non è meglio questo? Il potere che abbiamo, Benoît: il potere di vita e di morte sull’umanità!



La tentazione di uscire dal nascondiglio, perlomeno sporgersi un pochino di più per vedere e sentire meglio, era forte; e probabilmente avrebbe ceduto se non si fosse sentita tirare leggermente per una manica.



La voce di Meg al suo orecchio, appena più forte di un respiro, ma piena di terrore: - Vieni con me.



- Ma Erik...



- Lui non corre nessun pericolo… spero.



Con il suo passo leggero di danzatrice, Meg la guidò con sicurezza per le sale semibuie, fuori dal teatro, in un cortile a malapena illuminato.



- Là! esclamò indicando una massa informe in un angolo. - Aiutami a togliere il telo.



Le due donne tolsero il pesante telo di incerata che ricopriva l'oggetto, rivelando un veicolo assai simile a un basso calesse, tranne per il fatto che era privo di stanghe.



- Dove attacchiamo i cavalli? chiese Rasselie.



Meg sogghignò.



- Questo arnese ne ha otto in pancia. È un modello derivato dalla Ideal che Erik ha fatto costruire su richiesta con alcune modifiche. Può arrivare a cinquanta chilometri all'ora. Sia lodato Herr Benz!



 



* cit. "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux


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Capitolo 3
*** Al Lapin Agile ***


3

AL LAPIN AGILE

(Dove si va per locali malfamati e cimiteri)

 

L’avventore medio del Lapin Agile avrebbe meritato un ampio capitolo in qualcuna delle opere di Cesare Lombroso. Figura rattrappita in un costante atteggiamento di difesa, abiti e cappelli informi, sguardi sbiechi e biechi da occhi iniettati di sangue per l’abuso di assenzio, labbra pendule o per abitudine contratte in sogghigni minacciosi, dita inquiete attorno ai bicchieri o sul dorso delle carte da gioco, un’aura di untume e di segreti sordidi tutto attorno alla persona. E le donne che circolavano tra i tavoli con atteggiamento da regina, si appoggiavano pesantemente alle spalle dei loro uomini, o sedevano scomposte su qualsiasi grembo maschile volesse accoglierle, costituivano uno spettacolo ancor più pietoso. Troppa carne scoperta, troppo trucco che il calore rapprendeva in chiazze, voci troppo alte, troppa allegria disperata.

Non così Thimothina. Da lei emanava ancora una debole luce di innocenza, lieve come un soffio di cipria ma genuina. Perciò l’avevano soprannominata “La binette”, la faccetta. Non si atteggiava a finta ingenua. Sotto il belletto che le sporcava le guance, nelle occhiaie di bistro, tra i riccioli aridi tinti di rosso, sopravviveva ancora una pallida fiammella che poteva essere speranza o illusione. Si copriva le spalle nude e il petto con un leggero scialle color pesca dalle frange lucenti, in uno spontaneo atteggiamento di pudicizia.

- Abbiamo tutte una paura folle, ma dobbiamo pur lavorare. Cerchiamo di girare almeno in tre o quattro, così da poter vedere con chi vanno le altre, e se un cliente non ci convince cerchiamo di allontanarlo, ma questa è la parte più difficile. Troppi uomini diventano cattivi se si vedono rifiutare da una di noi.

- Sicuramente non è un cliente abituale. Ed è elegante. Appare come un gentiluomo.

- E come lo sai?

“Già, come lo so?”. Non poteva dirle che lo aveva visto.

- In occasione dei delitti di Londra parlarono di un uomo con mantello e cilindro.

Gli occhi di Thimothina si dilatarono; sembravano due pallidi smeraldi incastonati nell’argento annerito. - Ma è davvero lui, lo Squartatore?

- O qualcuno che lo imita. Altrettanto pericoloso.

Rasselie tolse dalla borsetta una banconota e la passò alla ragazza da sotto il tavolo.

- Tenete gli occhi aperti, tutte quante. E fate come vi ho detto. Se vedete qualcosa o qualcuno che non vi convince, usate i fischietti. Non garantisco che possa esserci qualche agente nelle vicinanze, ma soltanto il suono del fischietto potrebbe spiazzare quell’uomo.

Thimothina fece un breve cenno di assenso con la testa, nascose la banconota nella scollatura, si alzò e se ne andò alla deriva tra il fumo e il chiasso della locanda. Sembrava proprio una fragile barchetta smarrita in un oceano troppo insidioso, con la sua gonna bianca gonfia come una vela e l’esile scialle sulle spalle gracili.

Rasselie decise di fermarsi ancora qualche minuto, nonostante l’ora ormai abbastanza tarda. Casomai qualcun altro dei suoi informatori si facesse vivo. Non erano tipi dai quali si potesse pretendere la puntualità; né riguardo all’ora, né men che meno al giorno.

Il mento appoggiato su una mano inguantata di pizzo, con un’espressione da tempo collaudata di noncuranza e noia, lasciò che il suo sguardo vagasse per il locale, dai gruppetti chiassosi assiepati attorno ai tavoli dove si giocava d’azzardo, alle forme grondanti assenzio e solitudine stravaccate sulle panche in fondo alla sala, dalle lampade incrostate di moscerini morti alla porta spalancata sulla notte. Così notò la figura che avanzava dalla strada. Molto alta e snella, in cilindro e redingote grigio chiara.

Non poteva crederci. Lo vide entrare, sostare brevemente sulla soglia guardandosi attorno. I loro sguardi si incrociarono. Appena la riconobbe, Erik andò dritto verso di lei.

Sopra il bavero alzato della redingote che sfiorava le guance, Rasselie vide un volto mortalmente pallido e immoto.

- Lo sapevo che ti avrei trovata qui disse Erik in un sussurro insolitamente soffocato, e si accomodò sulla sedia occupata fino a poco prima da "La binette", stirando le lunghe gambe sotto il tavolo.

- Mi stai seguendo!- proruppe Rasselie.

- E tu insegui la morte.

- Non essere melodrammatico. Adesso sono qui, in mezzo a… amici. Loro mi conoscono, è qui che incontro alcuni dei miei informatori. Si fidano di me, e non c’è voluto poco prima che fosse così. E adesso tu arrivi a scombinare tutto! O sei forse un habitué del posto?

- Lo ero. E non sono certo il primo damerino che mette piede qui dentro in cerca di gallinelle ruspanti.

- Adesso le “gallinelle” hanno paura di quelli come te. E tu non hai proprio un aspetto rassicurante, combinato così. Cosa ti sei messo in faccia? Sembri un fant… un cadavere.

- Ho fatto del mio meglio. Non ho i mezzi e l’abilità di Madame Tussaud.

- Posso toccarla?

E siccome lui non disse di no, Rasselie allungò il braccio attraverso alla tavola e con la punta delle dita sfiorò una guancia della maschera di cera che, a differenza delle solite, gli copriva tutto il viso, nascondendo anche la bocca e il mento. Non ne trasse una sensazione piacevole. Era fredda, innaturalmente liscia e leggermente umida, come la pelle di un moribondo.

- Somiglia alla faccia che avevi prima?

- Non molto. Si strinse nelle spalle, poi chiese: - Come ti salta in mente di frequentare posti simili?

- Te l’ho detto, è qui che incontro i miei informatori.

- E speri che prima o poi qualcuno ti venda il nome dell’uomo che ha ucciso tuo marito.

- Non è per questo…

- Ma anche, non è vero? Non c’era nessuna simpatia nella voce soffocata dalla maschera; anzi, forse perfino una sfumatura di sarcasmo. - Michaud e i suoi hanno smesso da un pezzo di indagare, ammesso che lo abbiano mai fatto. Un poliziotto in più o in meno, cosa cambia? La carriera si fa con i grandi delitti. E Parigi ne ha sempre avuto la sua buona parte. Ogni ispettore, quando si insedia, comincia a sperare che Satana sguinzagli in città uno dei suoi emissari, qualche assassino capace di crimini efferati e bizzarri. Un arcicriminale come Gilles De Rais, emulo di Erode. O come il Profumiere, più di un secolo fa. Ne hai sentito parlare? Uccideva fanciulle bellissime nell’illusione di poter trarre dal loro corpo il più sublime dei profumi. E il Vampiro di Montparnasse? Lui non si abbassava a uccidere, disseppelliva i cadaveri e li faceva a pezzi, dopo essersi accoppiato con loro. E che dire di Eusebius Pieydagnelle o Joseph Vacher? Tutti hanno ucciso, mutilato, divorato donne e bambini. E questo solo pochi anni fa. Sai perché questo posto è conosciuto anche come “Il Cabaret degli assassini”? Si alzò, e per un attimo Rasselie si sentì sovrastata e quasi sopraffatta da quella figura imponente. Poi lui allungò una mano, quella mano così abbronzata in contrasto con la maschera terrea, e l’afferrò per il polso. - Vieni, ti faccio vedere una cosa.

La trascinò, quasi, verso il fondo del locale e le indicò un quadro appeso al muro.

- L’hai mai guardato bene? Sai cosa rappresenta?

- Ma certo: i delitti di Pantin.

Il dipinto raffigurava una lugubre scena notturna sotto un cielo nuvoloso: in primo piano il cadavere di una donna, corpi straziati attorno, un uomo in piedi nell’atto di accoltellarne un altro. In alto, in uno strappo tra le nuvole, la luna sembrava la pupilla in un occhio sbarrato dal terrore.

- Otto persone massacrate, una intera famiglia. La signora Hortense era anche incinta, ma questo non fermò la mano dell’assassino. Jean- Baptiste Troppmann iniziò la sua carriera di omicida a vent’anni e la concluse a ventuno sotto la lama della ghigliottina. La sua esecuzione attirò una folla come non se ne vedevano dai tempi del Terrore.

Un piccolo brivido scivolò lunga la schiena di Rasselie. La voce di Erik sembrava così… compiaciuta.

- E perché tutto questo? continuò lui. - Denaro, ovviamente. Sempre e solo denaro. E la speranza di una vita agiata.

Prendendola per un gomito, la sospinse verso l’uscita.

- Ma quello che forse non sai, è che Troppmann fu a lungo sospettato di avere avuto dei complici. Come lui stesso a un certo punto rivelò, ma senza farne i nomi.

- Cosa intendi dire? Stai cercando di mettermi paura?

L’aria della notte si era fatta umida e, dopo il calore della locanda, sembrava quasi gelata. Rasselie strinse le braccia attorno al corpo, cercando un’illusione di calore.

- Non vorrai farmi credere che in questa storia c’è la mano dello Squartatore. È accaduto decenni fa.

- Parigi è una città pericolosa.

- Lo sono tutte le città.

- Vai a casa. A quest’ora dovresti essere a letto con uno scialle sulle spalle, una tisana di menta sul comodino e sulle ginocchia uno di quei romanzi che tanto piacciono alle signore. In fondo alla strada c’è una carrozza che ti aspetta. Io… Ho voglia di fare quattro passi.

*

Un mazzo di margherite gialle. Era il fiore che lui amava di più. Lo scricchiolio della ghiaia sotto le scarpe. Le ombre lunghe dei cipressi.

Ogni volta, tra quei viali, era una via crucis senza tappe: la necessità e il dovere di compierla fino in fondo, il desiderio egoistico di scappare, annegarsi nella folla della città, fingere che nulla fosse mai accaduto, passeggiare indolentemente guardando le vetrine, e aspettare, prima di rientrare, fino a che la luce sbocciasse sui lampioni… Ma, inevitabilmente, l’aspettava una casa vuota.

Quel mattino qualcuno l’aveva preceduta e stava ritto accanto alla tomba. Lo riconobbe immediatamente dalla corporatura robusta e un po’ tozza, e i capelli rossi che sfioravano il colletto della divisa da poliziotto.

- Buongiorno, Gabriel.

Lui si voltò, trasalendo leggermente. Rasselie notò subito che gli occhi grigi, otto le folte sopracciglia aggrottate, erano bordati di rossore. Dopo tanti anni non era ancora riuscito a superare la morte del suo collega.

- Buongiorno Madame Reymondet.

Gabriel Bergerac aveva quel tipo di viso che, pur con il trascorrere degli anni, non perde mai del tutto l’espressione da ragazzo. Forse per via delle efelidi che lo punteggiavano dalla fronte al collo e fino alle orecchie, forse per qualche cicatrice dell’acne ancora visibile, forse per la sfumatura rosata della pelle. Un contadino strappato a forza dal suo campo e arruolato per sbaglio nella polizia, questo sembrava quel giovanottone dall’aspetto solido e un po’ goffo.

Rasselie posò il mazzo di fiori sulla tomba e si chinò a togliere quelli secchi dal vaso di bronzo, cercando di non guardare la fotografia del marito. Ma si sentiva seguita in ogni gesto da quello sguardo congelato nel tempo, sguardo nero e intenso e allegro, che avrebbe continuato a sorridere per sempre, come la bella bocca carnosa nel giorno delle loro nozze. Sotto il nome inciso nel marmo, Étienne Reymondet, due date racchiudevano uno spazio di vita crudelmente breve.

Alle sue spalle, sentì Gabriel tirare su col naso.

- Ancora non mi capacito… se quella notte...

Rasselie alzò una mano per intimargli il silenzio. Non era necessario che Gabriel le ricordasse quanto si sentiva colpevole. Ma che colpe poteva darsi, di quanto accaduto cinque anni prima? Anche lui non ne era uscito indenne. Se mai se ne fosse dimenticata, le sarebbe bastato guardarlo mentre andava verso la fontana a prendere dell’acqua per i fiori.

Zoppicava in modo abbastanza accentuato. Il primo proiettile sparato dal ladro quella notte di cinque anni prima gli aveva spezzato la tibia. Perciò da allora lo avevano relegato in un ufficio, a occuparsi di scartoffie. Forse per lui era meglio così. Non sembrava tipo da sopravvivere a lungo dando la caccia ai malviventi più pericolosi. Era troppo tranquillo, troppo buono. Come Étienne.

Le qualità migliori di suo marito, quelle che l'avevano fatta innamorare di lui, dolcezza e profondo rispetto per gli altri erano state probabilmente la causa dell'attimo di esitazione che gli era costato la vita. Non aveva sparato per primo.

- Penso spesso che Étienne è stato fortunato a incontrarla - osservò il giovane poliziotto quando fu di nuovo accanto alla tomba. - Non sono molte le ragazze che accettano di sposare un poliziotto, proprio per la vita che fanno, i pericoli che corrono...

- L’amore se è davvero tale non si perde in certi ragionamenti. Ci sono prostitute devote ai loro sfruttatori, e altre donne che amano ogni sorta di criminali. E i romanzieri dicono che l’amore cambia il cuore degli uomini. - Avvertì l’amarezza del sorriso sulle proprie labbra. - Di tutte le stupidaggini che scrivono, questa è davvero la più grossa.

Come ormai abitudine, Rasselie compì il proprio rituale di vedova: si accoccolò accanto alla lapide, sistemò le margherite nel vaso, accarezzò la foto del marito. Ma da tempo non riusciva più a versare una lacrima, e questo la metteva a disagio. Il dolore si era incallito dentro di lei; sempre presente ma come incapsulato in un bozzolo di insensibilità.

- A volte, alcune delle cose che mi mancano maggiormente sono le più stupide. Come quando mi diceva: “Sélie jolie tu est toute ma vie”.

Annuendo gravemente, Gabriel le porse la mano per aiutarla ad alzarsi.

Anche all’ombra dei cipressi e delle grandi tombe cominciava a fare caldo. Se non avesse avuto il suo lavoro, quella sarebbe stata un’altra estenuante domenica alla quale sopravvivere con un distacco da sonnambula. Fortunatamente, Fantasma e Squartatore le stavano fornendo parecchie distrazioni.

Camminarono fianco a fianco, dirigendosi verso l'uscita; e dopo un breve silenzio Rasselie domandò: - Gabriel, cosa ne pensa dei delitti avvenuti di recente? Due in pochi giorni...

- Penso che non siano un caso, anche se al commissariato i pareri sono discordanti. Ho l'impressione che se si trattasse davvero dello Squartatore... be', è brutto da dire ma... insomma, credo proprio che Michaud ne sarebbe felice.

- È un sollievo sapere che qualcuno condivide la mia sensazione. A volte temo che il disprezzo che provo per quell'uomo appanni il mio giudizio.

- Se il suo talento investigativo fosse pari alla sua ambizione, lo Squartatore avrebbe le ore contate.

Trasalirono entrambi quando all’improvviso un piccolo stormo di passeri, che evidentemente becchettavano tra le tombe, si alzò in un rapido volo disordinato, come se qualcosa li avesse spaventati.

Rasselie guardò nella direzione dalla quale gli uccelli erano fuggiti e scorse una figura curva, infagottata una specie di informe grembiule grigio, intenta a spazzare le foglie dalla grande lastra di una tomba monumentale. Un becchino. Un vecchio, si capiva dai capelli bianchi e la postura.

- Questo sì che è un lavoro ingrato! sospirò Gabriel, con uno sguardo di comprensione per il vecchio.

- I suoi vantaggi li ha - commentò Rasselie con amaro sarcasmo. - I clienti non si lamentano mai.

 

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Capitolo 4
*** Cronache in nero ***


4

CRONACHE IN NERO

(Dove si incontrano poliziotti, giornalisti, cadaveri, assassini,

e poi si va spasso nelle fogne come Jean Valjan)

 

Quel mattino gli strilloni percorrevano i marciapiedi come invasati, sgolandosi in una gara per gridare più forte la notizia.

- Un’altra vittima dello Squartatore!

- Donna uccisa in…

Rasselie fermò il primo monello che le passava accanto e acquistò un quotidiano a caso. La notizia era su tutte le prime pagine.

“Una giovane donna dall’apparente età di circa venticinque anni, corporatura esile, alta circa un metro e sessanta, capelli rossi. Probabilmente una prostituta, che però non risulta schedata...”

Una fotografia mostrava un lenzuolo insanguinato sotto il quale si intuiva un corpo. Tutto intorno il selciato appariva coperto di chiazze scure. “Quanta cioccolata”, avrebbe commentato in gergo qualcuno degli avventori del Lapin Agile.

Un metro e sessanta, capelli rossi. Quante prostitute di Parigi avevano in comune quelle caratteristiche fisiche?

*

Michaud sembrava una volpe assediata da una muta di cani. In effetti, tutta la stampa parigina aveva sguinzagliato in propri segugi negli uffici della polizia, con l’ordine di riportare almeno un brandello della preda. Un brandello di notizie. E non avrebbero mollato l’osso.

Il completo grigio di Michaud cominciava a mostrare tracce di incontrollata traspirazione, e la sua voce si alzava in toni striduli per prevaricare sul vocìo che rimbombava negli uffici e in tutto il corridoio, fin sulla strada.

- È vero che lo Squartatore agisce con l’aiuto di un complice?

- Come fa ad allontanarsi senza essere notato da nessuno?

- Segue qualche procedimento preciso nell’asportare gli organi?

- Potrebbe trattarsi di un sifilitico che si accanisce contro le prostitute per vendetta?

Rasselie spintonava per farsi largo tra gli uomini vocianti. Lei era l’unica donna. Non che giornali e riviste disdegnassero, almeno ufficialmente, la collaborazione delle penne femminili, ma i direttori rimanevano restii a inviarle sul campo.

Baffuti, barbuti, scapigliati, accaldati, giovani e meno giovani, c’erano proprio tutti quanti. Dall’inviato de “Le Figaro” a quello dell’ “Echo de Paris”, passando per i cronisti de “La Presse”, “Le Matin”, “Le Petit Journal”, “le Siècle”, all’inviato del cattolicissimo “La Croix”, sembrava non mancasse proprio nessuno.

- Avete ricevuto lettere simili a quelle che a suo tempo inviò alla polizia inglese?

- State indagando su qualche sospetto?

- Il particolare che le sue lettere portassero l’intestazione “From Hell” significa forse che questo individuo appartiene a una setta satanica?

- Potrebbe trattarsi di un massone?

- Si dice che la morte dell’ispettore Abberleine di Scotland Yard non sia stata accidentale ma provocata da un suicidio per la fallita cattura dello Squartatore, cosa si sa al proposito?

Il povero ispettore aveva alzato le mani come volersi proteggere dalla grandine di domande.

- È vero che si tratta di un ebreo? - Dal tipo di domanda Rasselie identificò immediatamente l’inviato de “La Libre Parole”, quell’infame fogliaccio che tanto aveva fatto e ancora stava facendo per fomentare l’antisemitismo dei francesi nell’affare Dreyfus, particolarmente in quei giorni alla vigilia della revisione del processo.

Nel passargli accanto gli piantò deliberatamente un gomito nelle costole, e fu faccia a faccia con Michaud. Il colorito dell’uomo, che era già decisamente acceso, si infiammò di una tonalità violacea.

- Ispettore, non pensa che sarebbe l’ora di organizzare un vero e proprio piano di cattura?

- È arrivata la nostra Vidocq in gonnella. Sì, perché almeno oggi vedo che si è vestita con proprietà.

- Abbiamo un macellaio a piede libero e lei bada alle mie gonne?

I giornalisti attorno a loro si erano zittiti, presagendo un battibecco che poteva rivelarsi gustoso.

- E vediamo, Madame… Lei cosa proporrebbe?

- Finché non gli tenderete una vera e propria trappola non otterrete nulla.

- Trappola?

- Gettategli un’esca. Più di una. Le prostitute sarebbero pronte a collaborare se si sapessero adeguatamente protette e potessero trarre qualche beneficio dalla loro disponibilità.

- Lei le conosce bene, vero? E comunque cosa dovrei fare, attaccare un agente alle gonne di ogni battona di Parigi? Non basterebbe un esercito.

- L’esercito, giusto - disse una voce alle spalle di Rasselie. - Non pensa che sarebbe opportuno chiedere l’aiuto dell’esercito per pattugliare le strade?

Fu sufficiente quella domanda a scatenare la ripresa del vocio.

- Temete che possa tornare a colpire altre donne?

- Cosa ci può dire della prostituta uccisa la notte scorsa?

Già, pensò Rasselie, cosa poteva dire Michaud?

*

La cattedrale di Notre-Dame incombeva con le sue ombre sulla piazza e le strade intorno.

Rasselie non alzò gli occhi a sfidare le smorfie irridenti dei gargoyle. Con lo sguardo fisso davanti a sé, si diresse verso l’edificio che sorgeva isolato sulla riva della Senna. Nel pomeriggio senza vento, la bandiera francese pendeva floscia lungo l’asta. La folla all’ingresso era quella che sempre si accalcava in occasione di omicidi o tragedie rilevanti. Chi usciva, si fermava a commentare e dare informazioni a chi ancora aspettava. Per entrare ci voleva pazienza. O sgomitare, come fece Rasselie, raccogliendo insulti e altrettanti spintoni.

All’interno, una luce impietosamente vivida che pioveva dalle lampade elettriche installate un decennio prima, e un tanfo di macelleria che l’odore di disinfettanti e conservanti rendeva ancora più disgustoso. Intere famiglie con bambini, operai con la pagnotta sottobraccio, torme di ragazzini eccitati, si sporgevano dalla balaustra di legno che separava i visitatori dalle grandi vetrine di cristallo dove i cadaveri giacevano, come merce in esposizione, sui tavoli di marmo nero. Solo pochi lembi di cuoio difendevano il pudore delle parti più intime.

Lì, anche chi non poteva permettersi un biglietto a teatro, aveva diritto a un posto in prima fila per il più macabro degli spettacoli che nessun commediografo sarebbe mai riuscito a portare in scena con la finzione.

Nata per concedere ai morti sconosciuti la visita pietosa di qualcuno che potesse riconoscerli e dare loro un nome, la Morgue si era trasformata in attrazione di massa. Era la fiera della putrefazione, un carnevale grandguignolesco, con quei corpi esibiti in una macabra parata. Quasi tutti mostravano i segni di una morte violenta, o in ogni caso miserabile. Ferite, lividure, edemi, stravolti nei diversi stadi della putrefazione, tanto che riusciva difficile capire se certe lesioni fossero causa della morte o una conseguenza.

Rasselie aveva sempre ritenuto che il nome dato a quel luogo non poteva essere più appropriato, in quanto derivava dall’aggettivo con il quale venivano definiti i galeotti morti di stenti e torture nelle prigioni del Grand Chatelet: morgué, umiliati.

Non era alla sua prima visita. Il mestiere che esercitava imponeva a volte quel compito sgradevole, ma ora si sentiva il cuore in gola e le gambe molli.

Facile capire dove giacesse la vittima dello Squartatore. Oltre la vetrina davanti alla quale persone di ogni età e ceto sociale si spintonavano e vociavano. Un branco di iene sbavanti attorno a una carogna.

Attese il proprio turno lottando contro l'istinto di fuggire, non guardare, non sapere. Le ginocchia le tremavano, il cuore le sfarfallava nello stomaco. Si avvicinò alla balaustra a occhi bassi, e prima di guardare trasse un lungo respiro.

I capelli rossi erano un cespuglio bruciato dall’inverno attorno al pallido volto sfregiato. Il naso era sparito, inghiottito in un buco rossastro. Dalla parte destra sembrava come se qualcuno avesse calpestato della neve trasformandola in fanghiglia. Ma non era fango, era sangue. Forse anche i lineamenti di Erik erano così, sotto la maschera?

Qualcuno aveva ricucito alla bell'e meglio lo squarcio che sulla gola andava quasi da un orecchio all’altro, così come quello che attraversava il corpo in verticale dallo sterno all’inguine. Squarci che in capo a qualche giorno sarebbero stati riaperti sul tavolo anatomico, alla presenza di un drappello di studenti in medicina. Quello era il destino comune a tutti i morti sconosciuti che nessuno reclamava. Finire dissezionati a beneficio della scienza.

Non lo avrebbe permesso. Quella ragazza un nome ce l’aveva. Thimothina. E anche un cognome… sì, ne avevano parlato, un giorno. Com’era? Assomigliava a un nome maschile. Bertrand… Bernard… Doveva ricordarselo!

Aveva un nome. Un cognome. E un soprannome. Povera faccetta devastata!

La sensazione di un’ala di mosca che le sfiorasse una guancia. Rasselie alzò una mano e sentì sotto le dita il calore di una lacrima.

Alzò lo sguardo.

Su un muro alle spalle dei cadaveri, appesi a una rastrelliera, c’erano i vestiti che indossavano al momento del ritrovamento, e gli altri miseri effetti personali.

Giacche, scarpe, cinture… Dietro a Thimothina, un fermaglio per capelli con piume e lustrini, una collana di perle false, guanti di pizzo e lo scialle. Soprattutto lo scialle, quell’esile simbolo di pudore che portava sempre sulle spalle candide. Doveva averlo perso prima che lo scempio avesse inizio, presumibilmente a qualche metro di distanza, perché a differenza dell’abito non recava strappi o macchie di sangue.

Ma fra tutti gli oggetti, il più patetico di tutti era il piccolo fischietto di metallo che pendeva da un nastrino rosa. Non aveva avuto tempo di portarselo alle labbra e fischiare. O forse l’aveva fatto, ma nessuno aveva sentito.

*

Giocare d’azzardo. Aspettando che il proprio numero fortunato esca alla roulette. O ti tocchi la mano vincente alle carte. E ogni volta alzare la posta, ogni volta spingersi un po’ più oltre.

Il gioco era rischioso, non lo ignorava, per quanto fosse armata e pronta a tutto. Se Michaud si fosse degnato di ascoltarla…

Due settimane di tregua, due settimane nella quali lo Squartatore sembrava essere ritornato nell’inferno dal quale era scaturito. Non abbastanza affinché le prostitute ricominciassero a sentirsi al sicuro, del resto una prostituta non lo è mai; ma più che a sufficienza per riportare la Parigi benestante e sans-souci nei consueti luoghi di aggregazione. Bistrot e café chantant all’aperto avevano ritrovato tutta la loro abituale clientela gaudente e spensierata, champagne e risate scorrevano nella notte calda, bicchieri e gioielli tintinnavano, ventagli e piume smuovevano l’aria, bisbigli tentatori e malizioso fruscio di gonne accompagnavano le passeggiate lungo i viali. La città smemorata e bramosa di piaceri aveva già dimenticato la morte delle cittadine più reiette. Così, almeno, era l’impressione che si aveva nei luoghi più frequentati e illuminati, dove gli abiti da sera sembravano divisa abituale e le carrozze private andavano al passo per permettere agli occupanti di vedere e essere visti.

Non così nelle vie laterali e meno illuminate, anche se a pochi passi dalla scena mondana. Simili pozzi di oscurità si aprivano un po’ ovunque, anche se chi passeggiava lungo i marciapiedi illuminati vi passava accanto senza accorgersene. Immemori, sfioravano il buio e tutti i suoi segreti.

Invece, quel buio e quei segreti Rasselie li cercava consapevolmente.

Non sottovalutava il pericolo ma contava sul fatto che qualsiasi criminale, anche il più incallito e spietato, avrebbe avuto un attimo di esitazione trovandosi di fronte a una donna che si difendeva con armi inconsuete per il suo sesso; che invece di gridare e graffiare, si esibiva in mosse di lotta libera e sapeva sparare. Era proprio su quell’istante di incertezza che lei contava, sempre che le toccasse di dover passare all’azione.

Dava la caccia al classico ago nel pagliaio. Non ignorava che la sua attesa si sarebbe potuta protrarre sterilmente all’infinito; che il suo era un tentativo disperato e perciò stupido; che in quel momento Jack poteva trovarsi a chilometri di distanza, come soltanto a pochi metri, a consumare i suoi delitti. Ma non riusciva a starsene senza fare nulla, indignata dall’inerzia della polizia e ferita dalla morte di Thimothina. Certo, poliziotti in giro ce n’erano, in divisa o travestiti da comuni cittadini, e i secondi riusciva a individuarli facilmente dal loro modo di camminare e guardarsi attorno. Se ci riusciva lei, ci sarebbe riuscito anche lo Squartatore.

Ma nella trappola tesa da una donna poteva cadere. Una donna che fosse preparata a incontralo.

Allo stesso modo, cinque anni addietro, per mesi era andata in cerca dell’assassino di suo marito, aggrappandosi ai minimi indizi, alle “soffiate” che riusciva a carpire dagli abitanti del sottobosco parigino. Addormentarsi nella casa dove Étienne era ormai un fantasma che non le appariva, per quanto lo invocasse e lo pregasse, le era comunque impossibile. Così, notte dopo notte, aveva depauperato la sua disperazione in una caccia infruttuosa. Ma rientrando all’alba, quando crollava esausta sul divano del salotto, sapeva di poter contare su qualche ora di oblio e sollievo. La luce del giorno teneva a bada ombre e ricordi, la confortava.

Alla fine, la spossatezza aveva vinto, inchiodandola febbricitante a letto, quel letto così grande e vuoto, per più di una settimana; piangendo fino a sentirsi il petto e la testa in fiamme, invocando il nome di Étienne come se fosse la sola parola che ancora conosceva.

Ma, passata la tempesta, si era ritrovata con la mente lucida e il cuore indurito da una determinazione inflessibile.

Avrebbe continuato a cercare l’assassino di suo marito. Per tutta la vita. Ma con metodo, con fermezza, e per questo aveva imparato a sparare e perfezionato le tecniche di difesa personale che in parte le erano state già insegnate da Étienne. Faceva regolarmente esercizio e sapeva di potere, se necessario, battersi contro un uomo; o perlomeno correre più velocemente di lui.

Pensava all’individuo che aveva interrotto la sua cena con Erik. Era davvero lo Squartatore? Quei due si conoscevano, come dall’incredibile racconto del sedicente Fantasma, o si era trattato solo di una commedia inscenata per prendersi gioco di lei? Tutta l’assurda storia della regina immortale, della Fiamma, la Legione Straniera, la Setta degli Assassini… C’era materiale per diversi romanzi d’appendice. E se invece in quella montagna di favole si fossero nascoste anche delle verità? Erik, il cortese, beffardo sconosciuto in maschera: chi era davvero? Conosceva davvero l’identità dello Squartatore… magari gli dava asilo nei sotterranei dell’Opéra… era suo complice?

A rimuginare su quell’enigma c’era da guadagnarci soltanto un gran mal di testa, anche per chi come lei non soffrisse abitualmente di emicrania.

L’acciottolato cominciava a mostrarsi lucido alla luce dei fanali. L’umidità sembrava scorrere dal cielo buio e velato lungo le pareti degli edifici che definivano il vicolo. Diede una rapida occhiata al suo orologio. Ancora una decina di minuti, poi avrebbe ricominciato la ronda secondo l’itinerario studiato per quella sera. Metodo e fermezza.

Un rumore di passi, leggeri e veloci ma senza fretta, come se chi camminava avesse una meta ma nessuna ansia di arrivare. Il passo di chi sa di avere tempo ma non intende sprecarlo.

Una figura apparve in fondo al vicolo, nera contro la luce più intensa che proveniva dalla via principale, i contorni sfumati in un alone di lievissima foschia.

Il passo cessò di colpo, come se la presenza di una donna nella piena luce del lampione avesse sorpreso il viandante.

Rasselie impose al proprio corpo di mantenere una postura languida e rilassata.

Quell’uomo… perché certamente si trattava di un uomo, si capiva dall’ampiezza delle spalle e dall’altezza… indossava qualcosa di morbido e fluttuante. Poteva essere un mantello? E il cappello… basso, tesa ampia… Di Jack non si raccontava che portasse il cilindro? Anni addietro… anni addietro… Come l'uomo che aveva interrotto la sua cena con Erik. Ma si può sempre cambiare guardaroba, nevvero? E la borsa? Dicevano che avesse una borsa simile a quella di un medico. Certo, per contenere gli strumenti con i quali straziava i corpi delle vittime. L’uomo teneva le braccia distese lungo i fianchi, così sembrava. Rasselie non riusciva a scorgere nessuna borsa.

Quante probabilità c’erano davvero di incontrare lo Squartatore in una città come Parigi? Ma lei aveva visto le mappe di Londra, identificato il sito di ogni delitto. E c’era uno schema. C’era! Forse grossolano, perché non sempre lo Squartatore era riuscito a portare a termine i suoi delitti dove si era prefissato, aveva dovuto attrarre le sue vittime in un luogo più sicuro, una volta almeno era stato interrotto prima di poter dare inizio alla sua opera di macelleria…

L’ombra aveva ripreso a camminare, si avvicinava. Incedere maestoso, nonostante la leggerezza del passo che smuoveva il mantello attorno alla figura in un ritmo piano e uguale. Un’onda nera che avanza verso la riva con una lentezza irreale.

"Guardagli le mani… le mani… vedi luccicare qualcosa?"

Guanti bianchi da passeggio.

Probabilmente, soltanto l’ennesimo aspirante cliente da deludere; con le buone o con le cattive.

Adesso era a poco più di un metro. Tra l’ombra della tesa del cappello e una larga sciarpa di seta chiara che accarezzava la linea delle mascelle, il viso era pressoché indistinguibile; pallido, immoto. Familiare in modo curioso, perché del tutto anonimo.

Il bagliore di uno sguardo, forse un sorriso. L’uomo accennò un inchino. Nella sua mano destra era comparsa, come per un gioco di prestigio, una rosa bianca. Non una parola, solo quel gesto. I petali della rosa risplendevano alla luce del lampione, come cosparsi da lustrini di rugiada. Un istante di immobilità. Poi l’uomo portò la rosa alle labbra, come se volesse deporre un bacio sui petali madidi.

Ma quel gesto aveva attivato un campanello d’allarme nel profondo della mente di Rasselie. Istintivamente si spostò un passo di lato, proprio mentre l’uomo soffiava sulla rosa. Un pulviscolo scintillante si sparse nell’aria.

Sorpreso da quel movimento inaspettato l’uomo emise un suono che era insieme ringhio e sibilo, e allungò le mani per afferrarla, ma Rasselie aveva già fatto qualche passo indietro e con un solo movimento si era strappata di dosso la gonna appena imbastita su un fianco. Sotto indossava i pantaloni e un paio di stivaletti con la punta in metallo. Un attimo dopo aveva già estratto la pistola dalla tasca della giacca e la puntava contro l'uomo. Ma adesso toccò a lei essere colta di sorpresa.

Lui fece un balzo, un movimento rapido e felino, e le piombò addosso con tutto il suo peso scaraventandola a terra. L'urto contro il selciato fu così violento che la lasciò stordita per qualche secondo, e la pistola le sfuggì di mano.

L'uomo si rialzò rapidamente da terra e la immobilizzò mettendole un piede sul petto. Inutilmente lei cercò di afferrarlo per la gamba, spostarlo... Mosse che conosceva bene, ma fu come tentare di smuovere una statua che le si fosse rovesciata addosso cadendo da un piedistallo. Si sentì mancare il respiro. A capo chino, lui la guardava; uno sguardo di fiamma azzurra che era l'unica cosa viva in un viso spettrale e inespressivo, una maschera di cera simile a quella di Erik. Il movimento con il quale alzò il braccio le sembrò lentissimo. Qualcosa luccicava nella mano alla luce del lampione, ma già quel luccichio andava frantumandosi in una cascata di minuscole stelline.

Stava soffocando, e forse era meglio così. Meglio che la lama la penetrasse quando già era incosciente.

Un sibilo lungo e sottile tagliò l'aria, seguito da uno schiocco e un tintinnio di acciaio sul selciato. La tremenda pressione sul petto di Rasselie scomparve, e il suo sguardo tornò limpido abbastanza per vedere che l'aggressore era caduto in ginocchio; mugolava di dolore cercando freneticamente di liberarsi dal laccio di seta rossa che gli imprigionava il polso destro.

Tossendo Rasselie si rimise in piedi più in fretta che poteva e assestò un calcio sotto il mento dell'uomo in ginocchio. Nonostante la guaina di metallo che proteggeva la punta dello stivale, le sembrò di aver colpito un muro. Lui grugnì e oscillò ma non cadde all'indietro.

In quel momento Rasselie ebbe la consapevolezza di un'altra presenza accanto a lei, un'ombra agile e velocissima che si avventò sull'uomo in ginocchio e in una sola mossa sciolse il laccio dal polso.

Un urlo rabbioso. - Tu!

Prima ancora di capire cosa stava accadendo, Rasselie si sentì afferrare per la vita, sollevare e caricare sulle spalle di qualcuno.

- Stupida incosciente!

Riconobbe subito la voce di chi la stava portando via di peso per il vicolo.

- Erik! Cosa ci fai qui? - In mezzo secondo, era già passata dallo stupore all'indignazione. - Mettimi giù! Non sono un sacco di patate, so camminare da sola!

- Pazza! Sei completamente pazza!

- Sei tu il pazzo! Potevamo fermare quell’assassino, assicurarlo alla giustizia!

Una risata, rotta nell’affanno della corsa ma non per questo meno beffarda.

- Non sai con chi hai a che fare!

- Un macellaio di donne che per colpa tua è ancora libero!

- E non si lascerà catturare come un qualunque macellaio di Les Halles!

- La mia pistola!

- L'ho presa io.

- La mia gonna!

- Spiacente, dovrai comprarne una nuova.

Cogliendola di sorpresa, Erik si fermò di colpo e la scaricò a terra. Esattamente come un sacco di patate. Rasselie lanciò un piccolo grido, riuscendo a mantenersi in piedi a fatica.

- Adesso dammi una mano - intimò lui, chinandosi su una grata che interrompeva il selciato a pochi passi dal muro di un palazzo. - E sbrigati! - aggiunse gettando un’occhiata verso il fondo della strada.

- Cosa vorresti fare?

- Scendere.

- Lì dentro?

Dall’oscurità al disotto della grata proveniva un odore tutt’altro che gradevole.

- Andiamo! - la incalzò Erik. - Le fogne non sono più quelle dell’epoca de “I Miserabili”.

Non fu facile sollevare la grata, ma evidentemente Erik sapeva come fare. Rasselie si sentì investire in viso dall'alito umido e freddo che spirava dalle viscere della città.

- Spero che tu conosca la strada.

- Non potresti perderti nemmeno se volessi. Ci sono targhe con i nomi delle vie e le piazze sotto le quali passano le condotte.

Erik saltò di sotto con leggerezza, come se quell'esercizio fosse per lui un'abitudine, poi l'aiutò a scendere e risistemò la grata al suo posto.

- Pensi che ci seguirà? - chiese Rasselie guardandosi attorno nella fioca luce che arrivava dall'alto. Pochi passi più in là era buio totale.

- Spero di no.

Risposta tutt'altro che confortante.

Erik le mise in mano un oggetto. Al tatto, lei sentì che si trattava di una specie di corto tubo di cartone.

- Cos’è?

- Una torcia. Stai attenta a non bagnarla. Mi chiedo quando cominceranno a farle in metallo. Se senti un rumore nell’acqua, tira quel piccolo anello in ottone e punta il fascio di luce in direzione del rumore. Ma solo in quel caso. Questo aggeggio ha poca autonomia.>>

- Ci sono molti topi?

- Alligatori. Non hai idea quanta gente colleziona animali esotici, e poi quando crescono troppo e diventano ingovernabili, se ne libera nelle fogne.

La prese per la mano e cominciò a camminare nell'oscurità.

- Bada a non finire in acqua.

Consiglio superfluo. Il tanfo era notevole.

- Non vedo niente. Tu come fai...

Erik si voltò brevemente verso di lei. I suoi occhi color miele brillavano nel buio.

- Ti ho detto di aver sviluppato qualche capacità un po' inusuale. Comunque, fra qualche minuto comincerai a distinguere qualcosa anche tu. I tuoi occhi devono soltanto abituarsi.

Per il momento, però, Rasselie riusciva soltanto a percepire la viscosità del suolo su cui stava camminando, e un suono di acqua stillante dalla volta della galleria. Ogni tanto, con suo disgusto, una goccia le cadeva in testa o sulle spalle, fredda e pesante.

- Che cosa vuole quell'assassino da te?

- Che lo accompagni nelle sue... gite notturne. Aveva già cercato di raggiungermi qualche sera fa, credeva davvero che abitassi nei sotterranei. Quando si è reso conto che non c'era nessuno, ha dovuto rinunciare. Non sarebbe comunque mai riuscito a salire di sopra, si sarebbe perso nei sottopalchi.

- Non posso credere che siate amici.

Erik ridacchiò. Certamente aveva percepito il disgusto esplicito in quella parola.

- Non hai creduto a una sola virgola del mio racconto, vero? E allora perché, secondo te, ce ne andremmo in giro nascosti dietro una maschera?

- Magari perché le vostre facce sono troppo note alla giustizia? O magari perché, che ne so, vi hanno tatuato in fronte il marchio di Caino, o il numero che avevate al bagno penale!

Erik si fermò. Lei sentì le sue mani sulle braccia, in una stretta ferma e decisa.

- Rasselie, devi fidarti di me. Quell’uomo non può essere ammanettato e rinchiuso in prigione come un criminale qualunque.

- Sì, adesso dimmi che per fermarlo dobbiamo sparargli con pallottole d’argento e quando sarà morto piantargli un paletto di frassino nel cuore.

- Magari servisse! La Fiamma non ci ha lasciato il suo segno soltanto nella carne, ci ha… Un giorno forse ti parlerò di queste cose, quando sarò sicuro di potermi fidare di te.>>

- Fidarti tu di me? Questa è bella.

- Sì, perché dovrai giurarmi di non farne parola con nessuno.

- Già cambiato idea sul regalarmi le tue storie?

 

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Capitolo 5
*** Se i sogni son desideri ***


5

SE I SOGNI SON DESIDERI

(Dove si fanno sogni proibiti, mamma Valerius racconta dell'Angelo della Musica, poi si parla di mappe e romanzi gotici)

 

Sapeva che era buio, eppure il sogno aveva colori vividi: la seta e i ricami della vestaglia di Erik, l’oro della maschera. La pietra scura dell’anello aveva un cuore di stella che palpitava mentre le dita di Erik scorrevano sui tasti del pianoforte. Suoni delicati e struggenti, come pianto sconsolato o la pioggia autunnale sulle foglie morenti. Una voce cantava: bassa e dolcissima, quasi un sussurro, una sequenza di toni lievi come raggi di luna, appena percettibili ma squisiti, suoni che tendevano a espandersi lentamente, in maniera quasi inavvertibile, a prendere forma e corpo, sangue e fuoco, d’una qualità ineffabile, piena, appassionata seppure avvolti, per così dire, in una tenue cappa vellutata. Il motivo cresceva sempre più forte, più caldo e veemente, finché eruppe da quello strano velario, emergendo radioso per frangersi nelle luminose sfaccettature di un gorgheggìo magnifico, interminabile, superbo, esultante.*

Poi il viso di Erik si chinava su di lei, gli occhi erano oro appena più chiaro nello splendore della maschera di brillante raso ramato, le labbra sorridevano; poi cercavano le sue. Morbide, esperte.

"Che stai cercando di fare?"

"Svegliarti."

"Chi ti dice che io stia dormendo?"

"I tuoi occhi, il tuo modo di camminare. Stai dormendo da troppo tempo. Da quando tuo marito è sceso nella tomba."

Se non si fosse trattato di un sogno, si sarebbe vergognata; di certo avrebbe opposto resistenza, avrebbe lottato per sfuggire alla prepotenza di quelle labbra e quelle mani che giocavano fra i suoi capelli, scorrevano sulle spalle e la gola, leggere. Ma il suo corpo era un’entità ormai disconnessa dalla ragione, uno strumento docile tra le mani di un suonatore esperto.

Tutto intorno, l’aria era densa di un profumo di fiori: gelsomini e ninfee, forse, che a ogni respiro sembrava dilagarle nel sangue, salire alla testa come il più subdolo dei vini.

La voce di Erik al suo orecchio, adesso, era un melodico bisbiglio senza parole. La maschera di velluto, a ogni bacio, le sfiorava la pelle in un tocco leggero. La accarezzò seguendone i contorni, la linea delle sopracciglia e degli zigomi. Sotto le sue dita sembrava farsi carne; cedevole, calda.

"Lasciami vedere la tua faccia, non avrò paura."

"No, potresti impazzire."

"Non è vero."

"Se pensi di provare a togliermi la maschera… dovrò legarti al letto." Si faceva scivolare tra le dita un lungo nastro di seta rossa. Poteva anche strangolarla, lei non aveva scampo. "Ma non voglio. Voglio che mi tocchi. Accarezzami..."

“Muovi su di me le tue dita come sui tasti di un pianoforte, come sulle corde di un violino, respira nella mia bocca e trai da me suoni più dolci di quelli di qualunque flauto; sì, sii il mio flauto magico! Farò di te la regina della notte, ti farò cantare le tue note più limpide, innalzerò la tua voce al di sopra del pentagramma delle stelle, ti guiderò su questa scala d’argento fin oltre la luna, fino al settimo cielo! Piccola arpa, la seta delle tue corde, della tua pelle, freme alle mie carezze, la musica zampilla come da una fontana, diventa cascata… Lascia che scorra dentro di te, ti trascini via e ti travolga. Insieme a me, insieme a me! Oh, Christine!"

*

Si svegliò con il sole che le batteva in faccia. Tutto intorno a lei, nell’aria luminosa, aleggiava ancora quel profumo di fiori che impregnava anche il cuscino su cui poggiava la testa, candido e con un bordo di merletto. Due occhi di zaffiro la guardavano. Gli occhi di Ayesha.

Rasselie sussultò e si alzò a sedere nel letto. Sotto alla tela fine del lenzuolo, sentiva di essere nuda.

Ayesha non si scompose al suo movimento brusco e tornò a posare il muso sulle zampette.

“Cosa ci faccio nel letto di Erik?”

I ricordi della notte precedente avevano tutti i connotati frammentari e fumosi dei sogni.

Erik che la trascinava nelle budella di Parigi, le volte buie e stillanti liquami, l’acqua torbida, la laguna immobile, vitrea, sulla quale un bagliore livido disegnava le sbarre nere di un grande cancello…

"È da qui che è lui è entrato?"

"Non succederà più, ho provveduto a rinforzare i chiavistelli."

I loro bisbigli destavano a tratti echi inquietanti, simili alla risposta di piccoli passi affrettati.

"Topi?"

A ogni passo immaginare di averli tra i piedi, sentirli cominciare ad arrampicarsi; viscidi e irti di unghie e denti acuminati.

"Non preoccuparti. Rispettali e loro rispetteranno te."

"Speriamo che siano dello stesso avviso."

L'acqua scura che tutto a un tratto cominciava a ribollire...

"L’alligatore!"

No, quello no. Ma per un attimo ci aveva creduto, quando un potente gorgoglio era risuonato nelle gallerie, increspando la corrente del fiume sotterraneo... E qualcosa di viscido e molle sotto la suola degli stivali aveva tradito i suoi passi, facendola scivolare in acqua.

"Maledizione, ti avevo detto di stare attenta a non bagnare la torcia!"

Quell'acqua! Il ricordo dell'odore pestilenziale le diede la nausea, ma fortunatamente fu subito fugato dal profumo che impregnava le lenzuola. Gelsomini e ninfee...

E poi era stato davvero come uscire a “riveder le stelle”, anche se si trattava soltanto delle piccole luci di servizio nei sottopalchi e nei corridoi deserti dell’Opéra. Attraverso una nuova giungla di cavi, argani, contrappesi, travature, ingranaggi, con la sensazione già provata nei sottotetti, paura di smarrirsi nelle viscere di un immenso orologio, finire stritolata, divorata... Ma la mano di Erik era ferma e sicura, la guidava in quell'intricata foresta meccanica senza esitazioni, su per scale interminabili fino al suo rifugio.

"Non potrà mai raggiungerci quassù, stai tranquilla."

Per quanto bizzarro, l'appartamento del Fantasma le era sembrato adesso confortevole e sicuro. La stanza da bagno con la vasca in rame, l’acqua così piacevolmente calda, flaconi di vetro pieni di oli profumati ed essenze… Gelsomini e ninfee... e...

No, impossibile. Anche se quella era la parte più vivida del sogno.

Sentiva la testa vuota e leggera come dopo un'ubriacatura.

Il gusto caldo e confortante di una bevanda alcolica... Lo sentiva ancora sulla lingua. E poi miele, sciroppo di violette...

"Dovresti essere uno scheletro vivente... la morte che cammina... Orribile, ripugnante, putrido... come fanno le tue labbra ad avere un sapore così buono?"!

"È un elisir d'amore persiano."

Rasselie nascose il viso tra le mani. Un dialogo tanto surreale non poteva essersi svolto davvero!

Il rumore, seppur leggero, della porta che veniva aperta la fece trasalire.

- Buongiorno. Dormito bene?

Erik entrò. Era vestito di tutto punto con un completo estivo di tela color crema, maschera abbinata, e reggeva un vassoio; argento e ceramica, e una teiera fumante.

- Immagino che avrai fame.

- Erik! Cosa… cosa è successo?

- Non dirmi che hai già dimenticato la nostra gita attraverso le fogne.

- No. Ma… cosa è successo dopo? Perché sono nel tuo letto?

- Eri bagnata fradicia, tremavi come una foglia. E io pure. Ci siamo fatti un bagno caldo.

- Ci?

- Prima tu e poi io, ovviamente. Quando sono tornato qui ti ho trovata addormentata nella poltrona, avvolta nell’asciugamano come una mummia. Ti eri bevuta un bicchiere di cognac. No, due. Forse tre. Quando ti ho messa a letto non te ne sei nemmeno accorta.>>

- Perché sono… nuda?

- L’asciugamano era umido, non potevo lasciartelo addosso. Giuro che mentre te lo toglievo ho cercato di guardare il minimo indispensabile.

- E tu dove… dove… hai passato la notte?

- Sul divano. Scomodo ma non è certo il peggiore dei posti in cui ho dormito nella mia vita.

Rasselie si lasciò ricadere sui cuscini con un sospiro di sollievo e un silenzioso rimprovero alla sua troppo fervida fantasia.

Erik posò il vassoio sul tavolino accanto al letto.

- Temo che i tuoi abiti siano ancora bagnati, e per giunta ridotti in uno stato pietoso. Ma lì… - Indicò una poltrona - C’è qualcosa che penso possa andarti bene. Magari un po’ fuorimoda… La biancheria… Be’, non ho potuto trovare di meglio. Ehm… non avevi il corsetto?

- Lo odio, è uno strumento di tortura. Verrà un giorno in cui le donne bruceranno i busti in piazza. Non sono indumenti ideali quando devi correre o tirare di savate.

Erik sogghignò. - Occupazioni prettamente femminili. Be', io adesso devo uscire, ho degli affari da sbrigare in città.

Detto con la naturalezza di un marito che saluta la moglie prima di andare al lavoro.

Erik in città, in pieno giorno? Non era possibile che riuscisse a passare inosservato, nemmeno con la maschera di cera che a malapena simulava le fattezze di un essere umano.

Rasselie restò per un buon minuto a fissare il pannello della porta che Erik aveva richiuso dietro di sé. Si accorse che stava cercando di contare le borchie di cui era decorato. Un espediente per non pensare. O forse concentrarsi meglio.

Poi decise che era meglio dedicarsi alla colazione. Il tè era fragrante e i pasticcini prelibati. Si chiese se anche quelli provenissero dalle cucine del Ritz.

Dalle brume del sonno cominciavano a emergere particolari indubbiamente reali. Trovò subito la porticina che dava sulla stanza da bagno, dietro una tenda di velluto dorato. La vasca di rame con gli eleganti piedini d’ottone, i rubinetti lucenti, la mensola di marmo con le boccette di oli e profumi…

Come li aveva definiti Erik? “Le ammalianti essenze di Mazenderan”… Doveva essersene portato dietro botti intere, quando aveva lasciato la Persia. Fanfarone. Certamente quei graziosi flaconi colorati provenivano tutti dalla bottega di qualche profumiere parigino. Un bravo profumiere, senza dubbio.

Si godette l'acqua calda fino a quando non si rese conto che stava di nuovo per scivolare nel sonno. Allora uscì a malincuore dalla vasca, si asciugò, si cosparse la pelle di olio fragrante: rosa, gelsomini, limone...

Gli abiti erano davvero un po’ fuori moda. Forse venivano dal guardaroba del teatro. Di certo non appartenevano a Meg, che era troppo piccolina e gracile. Una camicetta bianca con il colletto di pizzo, una lunga gonna di mussola grigia. E specialmente la biancheria era proprio di un’altra epoca. Ma era immacolata e profumava di lavanda.

Si vestì indolentemente. L’inconsueta “gita” della notte precedente le aveva lasciato nelle membra una spossatezza curiosamente piacevole, come dopo un ballo estivo sotto la luna, tra champagne e risate. Gli occhi scuri di Étienne, pieni di devozione, la loro prima sera insieme… Cercò di scacciare quel ricordo doloroso, mentre si pettinava davanti allo specchio della toeletta sistemata dietro il paravento.

"I tuoi capelli hanno il colore e la lucentezza delle castagne", così le diceva sempre suo marito.

Mentre li raccoglieva nella consueta treccia, lo sguardo le cadde sull'armadio dalle ante intagliate, proprio dirimpetto al tavolo da toeletta. Attraente come uno scrigno del tesoro. Probabilmente era chiuso a chiave. E se anche no… Davvero indiscreto curiosare. Ma curiosità e indiscrezione facevano parte del suo lavoro. E certamente Erik non l’avrebbe lasciata sola se nella stanza ci fosse stato qualche segreto da proteggere. Una considerazione che bastò a giustificare l’abbandono di ogni cautela e discrezione.

Le ante si lasciarono spalancare docilmente senza cigolii, rivelando un contenuto in parte banale e deludente: le sgargianti vestaglie, completi più o meno eleganti, il frac dal bavero luccicante, candide camicie perfettamente stirate… opera di Meg? E poi c’era il ripiano con le maschere: in seta, pelle, velluto, cera… Queste ultime davvero inquietanti, con le loro immote fattezze umane. Sembravano maschere funerarie, ma persino le statue e i medaglioni delle tombe nei cimiteri apparivano più espressive.

L'interno di entrambe le ante aveva uno specchio, e uno di quegli specchi, proprio in quel momento, stava inquadrando l'angolo della stanza dove si trovava il letto. Dalla parte della pediera, dove le frange del copriletto sfioravano il pavimento, qualcosa spuntava da sotto la struttura di mogano. Qualcosa di rosso e sottile.

Si voltò, si avvicinò al letto. Rosso e sottile... Il lasso del Punjab con il quale Erik aveva fermato la mano omicida dello Squartatore?

Si accoccolò per vedere meglio. Sembrava più largo e spesso del micidiale lasso di seta rossa. Lo prese per l’estremità che spuntava e lo tirò piano verso di lei. Un lungo nastro.

"Se pensi di provare a togliermi la maschera… dovrò legarti al letto."

Fu come se il treno dei fratelli Lumière fosse schizzato fuori dallo schermo cinematografico e l’avesse colpita in pieno. Una sbuffante locomotiva di consapevolezza e vagoni carichi di ricordi. E che ricordi! Cadde seduta sul pavimento, ma il calore che le bruciava le guance fu ben peggio di quell’impatto.

- Erik! Mascalzone, bugiardo, stu... - L’insulto morì su quella prima sillaba. No, non poteva davvero definirlo “stupratore”. “Stupida!”, concluse tra sé. Non sapeva se dovesse vergognarsi per come era stata presa in giro o per ciò che era successo quella notte.

“O mio Dio! Ho davvero fatto… tutte quelle cose?”

Il modo in cui si era avvinghiata al corpo di Erik, i loro bisbigli frenetici e roventi che si perdevano nei baci...

"Se in teatro c'è qualcuno, stanotte, si convincerà della presenza del Fantasma."

Mugolii, gridolini, sospiri tremuli, ansiti...

“È così tanto tempo...”

“Non dirlo a me...”

Una tempesta di baci dai capelli fino alla punta dei piedi e ritorno.

"Gusta il tuo sapore nella mia bocca..."

Le sembrava che la sua testa veleggiasse come un pallone aerostatico in mezzo a una bufera di vento.

“Étienne, perdonami!”

Di certo la società non condannava una vedova che volesse rifarsi una vita, nessuno le avrebbe rimproverato un nuovo matrimonio, un nuovo amore… Ma quello che c’era stato tra lei e Erik non poteva proprio essere definito “amore”. Era stato un… un…

“Accoppiamento…? Copula…?”

Eppure il senso di colpa e la vergogna non riuscivano a cancellare la piacevole sensazione che la pervadeva fin dal risveglio, anche se davvero non sapeva come avrebbe potuto ancora guardarlo in faccia… nella maschera… negli occhi.

Doveva andarsene prima che lui tornasse.

Andarsene, e non approfittare dell’occasione per dare un’occhiata al “covo” del Fantasma dell'Opera? Quella stanza esercitava su di lei un fascino magnetico e dopotutto l’armadio le aveva già rivelato i suoi piuttosto banali segreti. Per non parlare del corpo di Erik. La sola cosa di lui che restava misteriosa, era la sua faccia.

E quell'uomo, quell'impostore, chiunque fosse, era giovane. I muscoli forti sotto la carne compatta, la pelle liscia...

Aprì i cassetti dei tavolini, della toeletta… Null’altro che consueti oggetti quotidiani. Nessun laccio da strangolatore, nessun pugnale dalla punta intrisa di veleno.

Le mani dalle lunghe dita, imperiose sui suoi fianchi. Si era chinata su di lui per scrutare nell'oro di quello sguardo...

I quadri alle pareti erano anonimi, gli arazzi anche.

"Puoi condurre il gioco, sarò il tuo schiavo..."

Si rese conto di stare cercando un ritratto di Christine.

“Christine!”.

Un altro ricordo della notte appena trascorsa le si affacciò nitido alla mente, e le infiammò il viso. Se Erik fosse stato in quel momento lì davanti a lei, gli avrebbe strappato la maschera per il gusto di potergli piantare le unghie nella carne.

Carne calda, palpitante, contro la sua...

Passò nella stanza da musica. Dappertutto c’erano spartiti e libri: sul pianoforte, gli sgabelli, sul ripiano di uno scrittoio, in una gran confusione. Riconobbe titoli di arie famose del melodramma e anche motivetti popolari. Forse Erik non le aveva mentito; davvero si guadagnava da vivere scrivendo musica dozzinale. Tra i volumi sembravano esserci trattati scientifici, romanzi, raccolte di poesie... “Una stagione all’inferno”… “Il pellegrinaggio del giovane Aroldo”… Libretti d’opera fra i quali scorse il “Faust” di Gounod, il “Don Giovanni” di Mozart, “La traviata” di Giuseppe Verdi… Probabilmente tutte le stagioni dell’Opéra dalla sua inaugurazione.

"Ti farò cantare le tue note più limpide, innalzerò la tua voce al di sopra del pentagramma delle stelle.."

Vagabondò nella stanza, cercando di guardare tutto senza toccare nulla, perché i cumuli di carta e i libri sembravano in equilibrio davvero precario. Ma quando un paio fogli sullo scrittoio attrassero la sua attenzione, non poté frenare la curiosità. Una lettera.

La carta era fine, ricoperta da una calligrafia fortemente inclinata a destra, fatta di lettere acute e nette, con spazi ordinati tra le parole e le righe. Lo scrivente sembrava essere un individuo determinato e meticoloso. I fogli contenevano anche diversi disegni di oggetti sconosciuti con, a fianco, la spiegazione del loro funzionamento o impiego. Ma sebbene ogni frase fosse scritta in un francese impeccabile, il senso le sfuggiva del tutto. Definizioni come: trasformatore risonante autorigenerativo, telegeodinamica, onde stazionarie terrestri, sembravano appartenere a un idioma sconosciuto.

“Il nostro pianeta si comporta come un conduttore ed è attraversato da correnti elettriche”… Altre frasi erano assai più comprensibili, anche se poco rassicuranti; “L’uomo potrebbe portare in collisione i pianeti, potrebbe creare i soli e le stelle, calore e luce, potrebbe originare la vita in tutte le sue forme infinite”… “Quando nacqui, in una notte squassata da una immane tempesta di fulmini, una veggente predisse a mia madre che io avrei portato la distruzione nel mondo; ma lei rispose che ero nato invece per portare la Luce!”. Scienziato con aspirazioni da Dio. Avrebbe fatto la gioia di Mary Shelley. La lettera si concludeva tuttavia in modo banale: “Domani parto per Colorado Springs, ma continui pure a indirizzare le sue lettere al Gurlach Hotel”.

Rasselie cercò di decifrare la firma. Nikolas… no, Nikola… Test… Tesla?

Il Fantasma dell'Opera riceveva lettere. E per di più a contenuto scientifico. Cercò la busta che aveva contenuto quei fogli, la trovò sotto altra carta da corrispondenza, probabilmente quella che Erik usava per le sue risposte.

La busta portava un indirizzo e un nome: Professor Adrian Valerius, rue Notre-Dames-des-Victories 15.

*

Le aprì la porta una cameriera di mezza età, piccola e tonda, con un candido grembiule e la cuffia inamidata.

- Buongiorno, sto cercando il professor Valerius.

Occhi di un grigio acquoso la guardarono da sotto in su con blando stupore.

- Mi dispiace, ma il professor Valerius è morto da parecchi anni.

- Mi scusi, non immaginavo... - A disagio, Rasselie si voltò per andarsene, ma un’altra voce femminile, sottile e chiara, risuonò dall’interno della casa.

- Aspetti, non se ne vada. Forse io posso esserle d’aiuto.

Nella luce morbida del corridoio stava una donna: anziana, piccolina ma eretta nella figura, con i capelli candidi raccolti sulla nuca in una crocchia perfettamente composta. Indossava un abito di taffetà nero e sulle spalle portava un fichu di pizzo bianco trattenuto sul petto da una spilla d’argento a forma di ventaglio.

- Céleste - disse all’indirizzo della cameriera, - fai accomodare la signora in salotto.

Rasselie entrò, guardandosi attorno nel modo più discreto possibile, mentre seguiva la cameriera.

Profumo di lavanda e cera per mobili, la penombra creata da tende di pizzo, un lontano cinguettio di uccellini, ninnoli di ceramica e vetro, tappezzerie dai colori neutri: la serenità borghese di un arredamento sorpassato ma solido e ben tenuto.

Il salotto di casa Valerius rispecchiava la sua proprietaria, era lindo ed estremamente dignitoso.

- Lei è un’amica di Christine? O dell’Angelo?

- L’Angelo… >> Il sangue le salì al viso in una vampa torrida. - Oh sì, sì, in un certo senso. Sono un’amica di Erik. Mi spiace disturbarla, signora Valerius...

- Mi chiami pure mamma. Tutti mi conoscono come mamma Valerius. Anche Christine mi ha sempre chiamata così.

- Lei la conosce bene?

- Certamente. Mio marito e il padre di Christine si conobbero quando lei era soltanto una bambina, e già orfana della sua povera madre. L’ho cresciuta come fosse mia figlia. - E notando che lo sguardo di Rasselie era stato attratto dai due ritratti in cornici gemelle appesi a lato del camino, continuò indicandoli: - Quello è mio marito - … Bruno, baffuto, severo, pensoso… - E quest’altro è Gustaf Daaé.

Folta barba bionda da re vikingo e violino tra le mani dalle lunghe dita pallide, l’espressione serena e gentile. Un gran bell’uomo, indubbiamente. Non si meravigliava che della figlia si decantasse la bellezza, oltre alla voce.

- Posso offrirle qualcosa? - Mamma Valerius impersonificava la gentilezza come solo le persone anziane riescono a fare. Soave, serena.

- No, grazie. Sicuramente si chiederà il motivo della mia visita... - Rasselie si voltò. Cominciava a sentirsi in imbarazzo, rendendosi conto di non avere una scusa plausibile da offrire. - Mi perdoni, non mi sono neppure presentata. Mi chiamo...

La donna alzò una mano come a intimarle il silenzio, ma sempre senza perdere la sua tranquillità serafica. - Come ha fatto a rintracciarmi? - chiese.

Non vedeva motivo di mentirle; e non avrebbe nemmeno saputo cosa dire in alternativa alla verità.

- Ho letto un indirizzo su una busta a… casa di Erik.

- Ah sì, è qui che l’Angelo si fa indirizzare le lettere. Meg viene a ritirarle più o meno una volta ogni quindici giorni.

Mamma Valerius prese un corposo fascio di lettere dalla mensola del camino.

- Gli scrivono davvero da tutto il mondo, ma soprattutto dall’America. Ah, questa è arrivata proprio stamattina. È di un giovane illusionista di nome… ah, ecco: Harry Houdini. Si fa chiamare così ma il suo vero nome è Erik. Buffa coincidenza, nevvero? L’Angelo gli sta insegnando qualcuno dei suoi trucchi, immagino.

Rise dolcemente. I denti erano candidi e la pelle fresca, nonostante l’evidente età avanzata.

Rasselie non riuscì a trattenere una domanda.

- Signora… Mamma Valerius, posso chiederle quanti anni ha?

- I prossimi saranno novantasei.>>

- Se li porta magnificamente.

- Oh sì, godo di ottima salute, più di tanti giovani. Ma non è sempre stato così. Anni fa, a un certo punto, mi ero ammalata seriamente, davvero seriamente. Fu quando Christine cominciava a riscuotere il suo grande successo all’Opéra. Povera ragazza, ci teneva davvero a me, veniva a trovarmi ogni volta che poteva, spesso di sera quando non doveva cantare. Aveva verso di me tutte le tenerezze possibili, era come una figlia. Già la sua sola presenza bastava a farmi stare meglio. Però ad un certo punto, dopo settimane di malattia, le mie condizioni si aggravarono. Sentivo di essere in punto di morte. E una sera lei venne da me insieme all’Angelo della Musica. Lui aveva portato con sé il suo violino. Christine sedette al mio capezzale, mentre Erik, in piedi in fondo al letto, cominciò a suonare per me. Lui suonava, e Christine cantava. Non avevo mai sentito una musica tanto dolce; e Christine, ne ero sicura, non aveva mai cantato con tanta passione. Già mi sembrava di stare in paradiso. Mi addormentai ascoltando quella musica celestiale. Al mattino, quando mi svegliai, l’Angelo se ne era andato ma Christine vegliava ancora accanto a me. Io mi sentivo serena e leggera, l’effetto del suo canto e della melodia del violino agivano ancora in me. Se fossi morta quella notte, avrei avuto la più dolce delle dipartite. Ma non ero morta. E nei giorni seguenti cominciai a sentirmi sempre meglio, fino a che potei di nuovo alzarmi dal letto e tornare alle mie consuete attività con un vigore e una gioia che non provavo da tanti anni. Non sono più stata malata, da allora.

- La loro musica l'ha guarita?

- Cara ragazza, lei non crede nel potere della musica?

*

Quando lasciò l'appartamentino di mamma Valerius, Rasselie era del tutto frastornata. L'amabile vecchiarella era riuscita a confonderle ancora di più le idee.

Pensando che rivolgendole delle domande precise l'avrebbe insospettita, aveva deciso di lasciarla parlare liberamente. E così, per quasi un'ora, l'anziana donna aveva cinguettato sull'infanzia di Christine, divagando dall'azzurro degli occhi della bimba a quello dei cieli di Svezia, dalle ricerche di suo marito sulle tradizioni norrene all'abilità di violinista di papà Daaé, dalle vacanze estive in Bretagna al primo incontro della piccola Christine con il visconte di Chagny, al tempo anch'egli soltanto un ragazzino.

E persino quando era arrivata a raccontare dell'Angelo della Musica e le sue lezioni segrete alla dotata ma insicura giovane soprano, il tono della voce non era cambiato, come se anche quella parte della storia rientrasse nell'assoluta normalità.

"Come avrei voluto essere con loro la notte in cui l'Angelo suonò sulla tomba di papà Daaé! Sono sicura che lui lo udì dal Paradiso. 'La resurrezione di Lazzaro' era il brano che eseguiva sempre quando ricordava la sua povera moglie..."

Vaneggiamenti di una persona anziana. Chi mai suonerebbe il violino in un cimitero, di notte?

E poi l'opera che l'Angelo stava scrivendo per Christine, qualcosa su Don Giovanni redento dall'amore, davanti al quale le porte del Paradiso si spalancavano e gli angeli si inchinavano. Come si sarebbe intitolata? Ah sì, "Don Giovanni trionfante". Peccato che non l'avesse mai terminata...

Rasselie camminava talmente concentrata da non si accorgersi che una carrozza le si era affiancata, finché il veicolo non si fermò a lato del marciapiede e una voce dall'interno disse: - Sali.

Lei chinò la testa, consapevole dell'improvviso senso di calore che le aveva inondato il viso dal collo alla fronte, e affrettò il passo.

- Vado a piedi. Ho voglia di fare una passeggiata.

- Sali - ripeté la voce di Erik. Lo sportello della carrozza si aprì. - Sta cominciando a fare buio.

Probabilmente non era il caso di discutere. Rasselie afferrò la mano che lui le porgeva... la mano dalle lunghe dita sensibili di violinista... e salì nella carrozza.

Sedette, evitando il più possibile di guardare l'uomo comodamente sistemato sul sedile dirimpetto. Ma Erik indossava di nuovo l'impenetrabile maschera di cera e soltanto lo scintillo degli occhi poteva tradire i suoi pensieri.

Lei era consapevole del fatto che il risentimento che provava nei confronti del sedicente Fantasma derivava in gran parte dal senso di vergogna per il proprio comportamento, ma ammetterlo era difficile. Si era abbandonata a lui come una stupida sartina inesperta... Una sartina ubriaca, per di più.

- Stai mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti quanti. - La voce di Erik suonò tagliente, appena soffocata dalla maschera.

- Tutti quanti chi?

- Mamma Valerius, Meg, Christine...

A sentir nominare Christine, le guance di Rasselie erano tornate a farsi roventi. Girò la faccia perché lui non notasse il suo rossore.

- Come hai fatto a sapere che ero qui?

Dalla maschera di cera trapelò un sospiro di noia e insofferenza.

- Non che ne fossi sicurissimo, ma… La lettera sulla scrivania. La busta era voltata con la parte dell’indirizzo verso l'alto. Ho immaginato che non avresti resistito alla tentazione di venire a curiosare.

- Ieri sera hai mandato a monte il mio piano.

- Ammetterai che non era un piano molto intelligente.

- Sembra che tu sappia sempre dove mi trovo. Mi segui? Lo hai fatto anche ieri sera?>

- Seguivo lui. Certo non avevo messo in conto di doverti salvare la pelle.

- Cosa vuoi dire, che se si fosse trattato di un'altra non saresti intervenuto? Avresti lasciato che l'ammazzasse? E se lo seguivi significa che sai dove si nasconde! Perché non lo dici alla polizia? Sei suo complice? O hai paura per te stesso?

- Vuoi stare zitta? Sei peggio di Meg. Odio le donne che parlano a raffica. E sembri dispiaciuta che ti abbia salvata. Se avessi lasciato che ti sbudellasse ci saremmo persi la parte migliore della serata.

- Osservazione da vero gentiluomo - commentò lei, sarcastica.

- Non ho mai detto di essere un gentiluomo. Sono un assassino. Un sicario. Un torturatore. Un ladro. Un giocatore d’azzardo. Un avventuriero. Un ricattatore. Almeno, lo sono stato per lunghi periodi della mia vita. Ah, dimenticavo: puttaniere. C'è stato un tempo in cui l'Annuario Reirum dei bordelli era il mio Baedeker.

- Mi hai fatta ubriacare...

- A quello hai pensato da sola.

- E ti sei approfittato di me!

- Era tanto tempo che non tenevo tra le braccia una creatura così morbida… e arrendevole.

Rasselie strinse le labbra con forza, e tornò a voltare il viso in fiamme verso il finestrino della carrozza. Anche così, poteva sentire un sorriso nella voce di Erik.

- Non è stato bello? Non è stato… dolce? Ti senti in colpa per aver tradito la memoria del tuo defunto marito? Lascialo riposare in pace, non tormentare il suo soggiorno nell’aldilà con le tue lacrime e i tuoi rimpianti. E non tormentare te stessa. Tu sei viva. E anch’io. Voglio sentirmi vivo. È stato così brutto, per te, tornare a sentirti viva per una volta?

- Mi hai chiamata Christine.

- Ti chiedo scusa.

- Potrò anche anche sembrare una povera vedova in cerca di consolazione, ma non intendo diventare il rimpiazzo di nessuno.

- D’accordo, Sélie, capisco…

- Come mi hai chiamata? - L’ira le chiuse la gola in un nodo di pianto, sentì il sangue defluirle dal viso con tanta improvvisa violenza da darle le vertigini e gli occhi le si riempirono di lacrime pungenti. - Eri tu quel giorno al cimitero! Allora è vero, mi stai seguendo! Farabutto, bastardo, vigliacco…

Una risatella soffocata. Era davvero troppo. Rasselie si sporse dal sedile e tese una mano per colpire l’impassibile viso di cera, forse strapparlo via dalle vere sembianze dell’uomo. Ma lui fu lesto ad afferrare quella mano e la strinse nella sua, con tanta forza e violenza che Rasselie non riuscì a trattenere un grido di dolore.

- Non provarci mai più o ti spezzo le dita. Una per una.

- Lasciami! Non toccarmi, non voglio più aver niente a che fare con te!

Si sporse dal finestrino per gridare al cocchiere di fermarsi, ma Erik la ritrasse dentro la carrozza e senza davvero troppo garbo la bloccò contro lo schienale del sedile.

- Sciocca! Dove vorresti andartene, a piedi e tutta sola? A fare di nuovo da esca?

Rasselie si dibatté scalciando e colpendolo con i pugni, lui cercò di afferrarle le braccia per arginare la sua furia, e in quella confusa lotta caddero l’una addosso all’altro sul fondo della carrozza tra i due sedili.

- Non ho bisogno di un angelo custode, men che meno di un angelo custode mascherato!

- Adesso smettila.

Le lunghe dita di Erik l’afferrarono per i capelli, portarono il suo capo su di lui, viso a viso. Per un eccitante attimo in bilico tra sgomento e delizia Rasselie pensò che sarebbe successo di nuovo, lì, sul pavimento di una carrozza che li sballottava per le vie di Parigi. Ma poi percepì contro una guancia la fredda consistenza della maschera di cera e provò un brivido di repulsione. Lo respinse con forza e si arrampicò sul sedile; con i capelli sciolti, gli abiti in disordine, e l’improvvisa sensazione di essere sporca, come e forse più di quando erano usciti dalle fogne.

- Non ci riprovare - sibilò.

Erik si rimise comodamente a sedere e disse in tono tranquillo: - D’accordo. Dai il tuo indirizzo al vetturino.

*

La redazione di "Le Matin" era un posto nel quale si trovava a suo agio, nessuno obiettava alla sua presenza e lei sapeva di poter approfittare degli archivi del giornale e della scrivania di qualcuno. L'inevitabile rumore di discorsi e andirivieni forniva un sottofondo che la distraeva da ricordi indesiderabili pur consentendole di concentrarsi su ciò che riteneva importante.

Ma quel pomeriggio era difficile impedire alla mente di divagare. Si sentiva come un bambino che non riesce a dimenticare il sapore dei dolci mangiati a Natale; il pensiero ritornava sempre lì, con golosità colpevole, a quell'abbuffata di sensazioni calde, soffici, estenuanti. Accoccolata tra le braccia di Erik come una gatta sazia di panna, avvolta nel calore umido dei loro corpi uniti, e sembrava non esserci più confine tra la pelle dell'uno e dell'altra, nell'alchimia dei loro odori e umori distillati per sempre in un aroma nuovo, la cui formula era un segreto condiviso da loro due soltanto.

La persistenza e l'insistenza del ricordo la facevano sentire più colpevole che la realtà di quanto accaduto. D'accordo, era successo. Uno sbaglio, una follia, un attimo di debolezza. Poteva perdonarsi e assolversi. Ma non c'era assoluzione per la compiacenza con la quale la mente tornava a quei momenti.

La punta della matita copiativa stridette sul foglio e si spezzò.

"Merde!". E altre poco signorili imprecazioni.

Ovviamente, non c'era un temperamatite a portata di mano.

Rasselie scrutinò con lo sguardo le scrivanie vicine, cercando di individuare l'indispensabile aggeggio fra mucchi di carte e altri oggetti di cancelleria; e in quel momento vide entrare il giovanotto che si occupava della cronaca giudiziaria e lo chiamò.

- Gaston! La polizia ha lasciato trapelare qualcosa di nuovo?

Il nuovo arrivato le fece un cenno di saluto e si avvicinò a passo svelto. Sui trent'anni, un fisico robusto minacciato dalla pinguedine, barba a punta e occhi vivaci dietro gli occhiali dalla montatura dorata.

- Brancolano nel buio. Vogliono interpellare Bond e Bell, per capire almeno se si tratta dello stesso individuo o di qualcuno che lo sta imitando.

- Io credo sia lo stesso.

- Dopo undici anni? Nel frattempo dove sarebbe stato, cosa avrebbe fatto per... ingannare il tempo?

- Magari potrebbe essersi spostato in altri paesi, lontano dall'Europa...

Gaston si era appoggiato a un angolo della scrivania e la guardava con interesse, a braccia conserte.

- Ne sembri convinta.

E non poteva certo dirgli perché.

- Non si uccide in modo tanto infame per poi sparire nel nulla, come se si fosse trattato di una vacanza nel crimine. E forse i delitti che ha commesso a Londra non sono stati i primi. Aspetta, devo farti vedere una cosa.

Frugò nella capace borsa e ne trasse due mappe che dispiegò sulla scrivania. Su una comparivano diverse crocette rosse.

- Guarda, queste sono le zone di Londra dove ha colpito. E qui a Parigi... Rue Monjol, Bréda, Fromentin...

Gaston si tiracchiava pensosamente la barba.

- Pensi che segua uno schema?

- A Londra nello stesso periodo ci sono stati altri delitti. Dieci, o forse più. Ora, se li prendessimo in considerazione a partire dal primo...

- Scotland Yard ha escluso che fossero opera dello Squartatore.

- E se invece lo fossero? Se seguisse una specie di disegno?

- Perché dovrebbe?

- Potrebbe essere un messaggio... per qualcuno. Lo so che sembra stravagante, come ipotesi, ma se quell'imbecille di Michaud accettasse di ricevermi...

Gaston rise a bassa voce. - Devi ammettere di non essere stata troppo gentile con lui dopo il fatto della "Bambina dal vestito verde".

Rasselie sbuffò. - Be', bisognava essere proprio ciechi o stupidi per non rendersi conto che il vestito della bambina era fatto con lo stesso velluto delle tende appese nel salotto del bordello.

- Credi che un poliziotto badi a queste sottigliezze?

- Se ci avesse badato, avrebbe potuto arrestare quel porco che abusava di lei prima che facesse perdere le sue tracce. Così invece la maîtresse ha tenuto la bocca chiusa per mesi.

- Si sentiva sicura. Dopotutto, una bambina sordomuta che non sa scrivere, come avrebbe potuto raccontare da dove veniva e cosa le era accaduto? Il fatto che l'avessero trovata a vagare per strada non lontano da quel bordello non significava nulla. Non sono riusciti a farsi spiegare né a capire come fosse potuta fuggire.

- Una volta qualcuno mi ha detto che i bambini cresciuti in certe situazioni sviluppano una grande capacità di sopravvivenza.

La voce le tremò, e questo non sfuggì a Gaston.

- Stai bene?

- Certo. Sono in perfetta salute.

Glielo aveva confermato il suo medico, il giorno prima. Naturalmente non aveva avuto il coraggio di raccontargli la verità e aveva inventato vaghi disturbi. Il brav'uomo, conoscendola bene, sarebbe rimasto sconvolto se si fosse sentito dire schiettamente: "Sono stata a letto con uno sconosciuto, per giunta mascherato, e non vorrei che mi avesse lasciato qualche ricordino".

In compenso era stato il medico a sorprendere lei quando, poco prima che uscisse, le aveva detto in tono confidenziale e paterno.

"Spero voglia perdonarmi se mi prendo tanta confidenza con lei ma... be', dopotutto ci conosciamo da un bel po' di anni... certo non farei questo discorso a una vedova cinquantenne, ma lei è ancora giovane, dovrebbe rifarsi una vita, avere dei figli...

Sul momento, lei non aveva afferrato il senso dell'osservazione del medico. O forse si era istintivamente rifiutata di capire.

"Questo concetto antiquato che una donna è tale solo se fa figli..."

"Può anche non averne, se proprio non li desidera; però..."

Non era possibile che il medico intendesse... Disperatamente, aveva cercato di buttarla sullo scherzo: "Cos'è, una proposta di matrimonio?"

"Andiamo, lo sa che sono felicemente sposato e in procinto di diventare nonno. Lei però, mia cara, sta buttando gli anni più belli. E non posso credere che manchi di corteggiatori."

"Il lavoro... Sì, il mio lavoro... Mi tiene molto occupata...Perciò io..." Cincischiò la risposta così come la fibbia della borsa; con il risultato che la prima si arenò in un goffo balbettio, e la seconda si aprì rivelando il calcio della pistola.

Il medico finse di non vedere, e la congedò con un sorriso.

"Abbia cura di sé, Rasselie."

Adesso che ci ripensava, in quel sorriso bonario non c'era anche un'ombra di compassione? No, era ingiusto. Comprensione, forse. Magari, se gli avesse raccontato la verità, lui avrebbe approvato!

- Accidenti, qui dentro si soffoca! - esclamò facendosi aria con una delle mappe.

- Non è che ti stai facendo coinvolgere un po' troppo in questa storia? Dopotutto spetta alla polizia catturare lo Squartatore.

- È che... conoscevo una delle donne uccise. Ma hai ragione, le indagini spettano alla polizia. Noi possiamo soltanto raccontare alla gente ciò che accade. Sai, sono cresciuta in un villaggio di campagna e lì la gente spettegolava sul piazzale della chiesa alla domenica mattina. Le solite piccole malignità di paese sui peccati veniali della gente comune, che però a comari e zitelle sembravano in grado di poter attrarre l'ira divina su tutti quanti noi. Sodoma e Gomorra. Da bambina cercavo di cogliere il senso di quei pettegolezzi che sembravano implicare tutta la malvagità del mondo e davvero credevo che prima o poi dal cielo sarebbe caduta una pioggia di fuoco a incenerirci. Quando sono venuta a Parigi mi sono resa conto di quanto fossero ingenue tutte quelle storie di corna, amori clandestini, furtarelli... E Parigi non è ancora stata ridotta in cenere.

- Filosofa - scherzò Gaston. Poi, indicando il quaderno aperto chiese: - Posso?

- Ah, sì, certo. Sono i miei appunti sul caso, non il mio diario, non ci troverai inconfessabili segreti intimi.

La battuta le si disfece sulla lingua che si meritò un morso in disapprovazione. Non era un argomento su cui potesse scherzare, quello dei suoi segreti intimi.

Per un po', mentre sfogliava le pagine, Gaston restò pressoché in silenzio, emettendo soltanto mugolii di assenso o dubbio. Poi, di colpo, alzando la voce, chiese: - E questi appunti cosa riguardano? Fantasma dell'Opéra, Fiamma, Strangolatori, Persia...

Rasselie gli strappò il quaderno di mano. - Niente... Niente.

- Quella vecchia storia del Fantasma...Stai raccogliendo appunti per un romanzo?

- No. Io no. Forse. - Balbettava e, di nuovo, la voce tremava. Temette che l'espressione del suo viso potesse completare quanto suggerito dagli appunti. - Non so scrivere romanzi. Sei tu il romanziere. Hai già pubblicato un paio di cose, giusto?

- Senza riscontri degni di nota. Ma riguardo al Fantasma... A quanto ricordo, l'accaduto fece un certo scalpore, una ventina d'anni fa o poco meno. Circolavano parecchi aneddoti gustosi su uomini strangolati, cantanti rapite, mostri... Ci sarebbe davvero materiale per un romanzo gotico. Chissà, magari lo scriverò, prima o poi.

- Chissà... mormorò Rasselie gustando un sarcasmo del quale solo lei era a conoscenza: - Potrebbe rivelarsi un successo.

 

 

* "La voce malefica”, Vernon Lee

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Capitolo 6
*** Uno scialle di merletto ***


6

UNO SCIALLE DI MERLETTO

(Dove Rasselie parla con papà e poi conosce Jean-Claude)

 

Niente avrebbe mai potuto trattenerla dal fare visita ai genitori almeno una volta al mese, nel villaggio dove avevano abitato per la maggior parte della loro vita.

Le piaceva portar loro dei piccoli regali che sapeva li avrebbero resi felici: uno speciale tabacco da pipa per il padre, per sua madre certe matassine di finissimo filato da ricamo che si potevano trovare solo in città, dolcetti di qualche famosa pasticceria parigina. Come sempre, sua madre l'avrebbe premiata cucinandole tutti i suoi piatti preferiti, muovendosi su e giù per la cucina, dalla credenza ai fornelli, come uno spiritello indaffarato. Rasselie ricordava di averla sempre vista così, in costante movimento, lesta e concentrata, i capelli raccolti in una cuffia e il grembiule immacolato nonostante le lunghe ore passate a sfaccendare. Per quel suo atteggiamento in paese l'avevano soprannominata "l'abeille"; ma Rasselie sapeva che quella piccola ape poteva, all'occorrenza, trasformarsi in calabrone.

Non che l'avesse mai vista veramente arrabbiata con qualcuno di casa, men che meno con il marito, quell'uomo solido, roseo e bonario per il quale Rasselie continuava a nutrire la stessa venerazione che aveva da bambina, quando lo considerava l'uomo più importante e potente del mondo. Dopo il matrimonio aveva dato l'addio al lavoro nei campi e in società con un cugino aveva avviato un piccolo emporio nel paese accanto. Del contadino gli erano rimaste le mani robuste e la tendenza a scrutare il cielo per indovinare il clima a venire.

E così come leggeva il cielo sapeva leggere gli occhi degli altri. Anche quella sera mentre, seduti sotto il portico di casa, Rasselie fingeva di contemplare il paesaggio immerso nella quiete del crepuscolo e lasciava vagare la mente in più frenetici scenari. Non si era resa conto di aver lasciato cadere il silenzio tra loro due, dopo qualche risposta distratta ai tentativi di conversazione di suo padre, e neppure si accorgeva che ogni sua fuggevole espressione veniva analizzata e soppesata dagli occhi indagatori di lui.

Finché una frase pronunciata a bassa voce, con il tono di chi teme di spaventare un bambino addormentato, si intromise con garbo nel silenzio: - Ti vedo distratta pouponne. Qualcosa ti preoccupa?

Rasselie si voltò verso il padre, tentando un sorriso rassicurante. - No, niente di particolare.

- È per quei delitti che ci sono stati in città?

- Tutte le città sono pericolose, e certi ambienti più di altri.

- E anche tu li frequenti.

- Ma soltanto per le mie indagini giornalistiche Non sono certo così pazza da andarmene a spasso di notte al forte di Monjol.

- Davvero? Come se non ti conoscessi. Hai preso tutto dalla tua nonna buonanima, che Dio l'abbia in gloria; ci fu un periodo nel quale potevi trovarla più spesso sulle barricate che in cucina.

- Comunque tu e mamma non dovete preoccuparvi per me. Quello che sta succedendo... Sai che la stampa tende sempre a esagerare.

Lui annuì, ma era evidente che lo faceva soltanto per compiacerla. Le due rughe orizzontali e parallele sull'ampia fronte sembravano essersi fatte più profonde.

- Non hai mai considerato la possibilità di ritornare qui e condurre una vita tranquilla? Non credo che tu rimanga a Parigi attratta dalle occasioni mondane che offre.

- Il mio lavoro è lì.

- Io vorrei soltanto vederti serena, e possibilmente felice.

- Ma lo sono. Nei limiti della mia situazione lo sono.

Fece per alzarsi, subito trattenuta dalla grande, calda mano dell'uomo.

- Non scappare via.

- Non sto scappando. - Ma un sorriso forzato la tradiva. - Solo che... mamma può avere bisogno di aiuto in cucina.

- Sarebbe la prima volta in più di trent'anni di matrimonio. Ma nell'eventualità credo che potrebbe comunque aspettare ancora qualche minuto.

Rasselie si rimise seduta. Il bisogno di confidarsi, e il non poterlo fare, minacciava di trasformarsi in lacrime. Ma una figlia non può raccontare particolari della propria vita intima al padre. Forse avrebbe dovuto parlare con sua madre... sempre così affaccendata, sbrigativa... Oppure confessarsi con il parroco del villaggio. No, mai. Era lui che le aveva impartito la prima comunione, la conosceva troppo bene; la penombra del confessionale non le avrebbe garantito l'anonimità e si sarebbe vergognata troppo. Con qualche sconosciuto sacerdote parigino, magari. Perché non lo aveva ancora fatto? Inutile. La sua coscienza non si sarebbe sgravata neppure con centinaia di paternoster e altrettante avemarie.

- Papà... credi che si possa essere infedele a qualcuno pur amandolo?

- Vuoi sapere se ho mai tradito tua madre?

Senza neppure doverlo guardare, dal tono della voce Rasselie seppe che l'uomo aveva alzato le sopracciglia in quell'espressione di meraviglia fintamente indignata che la faceva sempre sorridere quando era bambina.

- Be', tentazioni ne ho avute, occasioni un po' meno, Ma se tu tieni davvero a una persona capisci che non ne vale la pena. Anche se lei, o lui, non verrà mai a sapere nulla resterà tra di voi come un'ombra. Almeno così la penso io, ma il pensiero non deve essere comune considerata la frequenza degli adulteri. Forse però chi li commette non ama davvero la persona che gli vive accanto. Ma stai per caso scrivendo un'inchiesta sull'adulterio in Francia?

- No, è soltanto che... Un discorso che mi è capitato di fare con un'amica. Lei crede che se tu ami ancora una persona... anche se questa non è più con te... non potresti mai tradirla. Non dovresti.

- Cosa stai cercando di dirmi? Che hai un corteggiatore?

- No, no. Nessun corteggiatore. Non riesco a immaginare di poter amare qualcuno come ho amato... come amo Étienne.

- Capisco. Ma ogni amore è diverso, sai. Tua madre non è stata la prima o la sola ragazza sulla quale ho messo gli occhi quando ero giovanotto; e nemmeno la più bella, a essere onesto. Ma è quella che alla fine mi ha conquistato, anche se all'inizio non voleva saperne di me. Quando tentai i primi approcci... Allora, durante le sere di primavera, tutti i giovani in cerca di una fidanzata facevano il giro delle fattorie vicine, per guardare le ragazze radunate sull'aia a filare, o nella stalla se ancora faceva freddo. Tua madre era una delle tante. Ci provavamo con tutte; ma lei fu l'unica che quando azzardai una battuta un po' audace, invece di arrossire e sorridere pudicamente, impugnò il fuso come fosse una spada e disse:"Se non ti togli dai piedi ti faccio diventare guercio". Fu quello a convincermi che era la donna giusta per me.

Il compiacimento nella voce del padre strappò a Rasselie una breve risata. Immaginava la ragazza minuta armata di fuso, con gli occhi fiammeggianti di sfida. Una volta, ancora bambina, aveva visto sua madre tener testa a un carrettiere ubriaco che le aveva infangato il vestito della domenica; e l'uomo, grande e grosso, rosso in volto e aggressivo, impallidire e farsi piccolo, ammansito dalla fierezza della donnina che gli arrivava appena alla spalla ma in quel momento gli torreggiava sopra come una specie di angelo vendicatore.

- E poi?

- Poi... Io ero già cotto, e continuai a ronzarle attorno, anche se all'inizio finsi con me stesso che si trattasse soltanto di un puntiglio, del non voler ammettere che una ragazza, neppure la più carina fra tante, potesse rifiutare il mio corteggiamento. Volevo pensare che la sua fosse soltanto una strategia per rendersi interessante. Ma non lo era. Quando provai a sondare il terreno tramite una sua cugina sposata, la risposta fu del tenore:"Piuttosto morta che con quello sbruffone".

- E allora come la conquistasti?

- Con la pazienza. E facendole capire che la spavalderia era il mio scudo contro la timidezza.

- Tu timido? Non ci crederò mai.

- Anche io ho avuto vent'anni. Sai perché ti abbiamo dato il nome che porti?

- Una volta mamma mi disse che si chiamava così la fattoria dove lavoravi, perché c'era lì una grande pianta...

- Ed è stato sotto quella cascata di fiori rossi che le ho dato il primo bacio. Poi le dissi qualcosa del genere: "Mia cara Suzette, adesso sei compromessa per sempre, quindi tanto vale che ci sposiamo".

Suo padre riusciva sempre a farla sorridere; anche quando, come adesso, non ne avrebbe avuto intenzione.

- Tu e mamma siete stati fortunati. L'uomo della mia vita era Étienne e mi è stato portato via da un criminale che è ancora a piede libero.

- È per questo che continui a vivere a Parigi? Perché speri che il destino te lo faccia incontrare, un giorno o l'altro? Perché non provi ad andare avanti? Non ti dico certo di dimenticare, questo è impossibile. Ma andare avanti. Vivere.

Non era possibile mentire o nascondersi a quello sguardo che le scrutava l'anima come scrutava il cielo e leggeva tutte le tempeste, tutte le nebbie e la pioggia di lacrime che lei aveva sempre respinto quando si trovava insieme ai suoi genitori.

- Sai, papà... Un'altra... persona mi ha detto più o meno la stessa cosa, non tanto tempo fa.

- Una persona saggia.

Certamente quell'aggettivo era il meno adatto a definire Erik, e il pensiero le strappò un sorriso sarcastico.

La brezza serale si era alzata e portava con sé l'odore familiare e confortante dei campi: terra bagnata, fieno, fiori e acqua corrente. Rasselie si sistemò meglio lo scialle sulle spalle. Era un delicato merletto color avorio che sua madre aveva lavorato con pazienza durante i primi anni di matrimonio. E lei, la figlia avventurosa e anticonformista, si ritrovava adesso a invidiarle quell'esistenza scontata e forse monotona, ma ricca di tante piccole cose da creare e assaporare, condividere con l'uomo che le viveva a fianco. Non ricordava grandi manifestazioni di affetto tra i suoi genitori, ma fin da piccola poteva percepire il loro appagamento nel camminare tranquillamente a braccetto la domenica mattina, diretti in chiesa, lui con il vestito delle nozze e lei con quello scialle appena finito, indossato sull'abito di frusciante taffetà color malva; o la serenità dei loro discorsi pacati nelle sere d'inverno davanti al fuoco.

Era quella la felicità? Nei due anni di matrimonio con Étienne simili momenti erano stati rari a causa dei loro impegni di lavoro: lui preso a inseguire malfattori, lei a inseguire storie. Uno dei primi aveva ucciso Étienne, una delle seconde avrebbe forse ucciso lei: magari proprio quella che stava vivendo adesso.

"Siamo stati due sciocchi."

Come tutti i giovani avevano pensato di avere davanti a sé l'eternità. Tanti piccoli momenti preziosi rimandati a un domani che non era mai arrivato.

- Non mi ero mai innamorata, prima. - Lo sussurrò a sé stessa, ma abbastanza forte perché suo padre sentisse.

- Questo lo so bene. Anzi, io credevo che non sarebbe mai successo. Quando le altre andavano a ballare, tu te ne rimanevi in giardino o nella tua stanza a leggere. E io ero orgoglioso della mia pouponne così intelligente e assennata... Forse avrei dovuto spingerti a vivere di più come le altre ragazze della tua età.

- Non dirlo neppure per scherzo.

Avere un padre che in mancanza del primogenito maschio aveva da subito riversato sulla figlia tutte le attenzioni e le aspettative della sua ambizione, aveva fatto di lei una donna indipendente e istruita, capace di provvedere e badare a sé stessa. E con il passare degli anni, e il mancato arrivo di nuova prole, Rasselie aveva cominciato a sentirsi investita di una responsabilità che la rendeva orgogliosa e forse anche la insuperbiva un po'. I suoi punti di riferimento, le sue eroine, erano tanto Ipazia d'Alessandria quanto Giovanna d'Arco, Ildegarda di Bingen come Mary Wollstonecraft, Florence Nightingale ed Élisabeth Vigée Le Brun... Qualsiasi donna, insomma, che avesse portato al mondo idee nuove o avesse eccelso in professioni ritenute appannaggio del genere maschile. E lei desiderava entrare a far parte di quello che le appariva come un club esclusivo, voleva lasciare il proprio segno nella società, voleva fare qualcosa di grande... Stava ancora decidendo cosa, quando aveva incontrato Étienne.

- Ricordo come ti stupisti quando ti dissi che mi sposavo.

- Be', non era esattamente per farti trovare marito che avevo acconsentito a lasciarti andare a Parigi.

Ma era successo. Inaspettatamente. E non si sposava, come tante, per la necessità di avere qualcuno che provvedesse a lei, che la facesse sentire al sicuro, che desse un senso alla sua femminilità attraverso la nascita di qualche figlio. Niente di tutto ciò. Lei si era sposata per amore.

Fra lei e il giovane poliziotto c'erano differenze che si armonizzavano in un equilibrio perfetto. Lei, più istruita e idealista, guidava il ragazzo semplice e concreto alla scoperta dei piaceri dell'arte e della letteratura; lui le insegnava le astuzie della sopravvivenza cittadina, come difendersi dal male rozzo e istintivo della parte più miserabile della società. Quel male che lo aveva ucciso.

C'erano volte in cui, come adesso, la tentazione di seguire il consiglio di suo padre si faceva allettante. Ritornare a vivere in un mondo che ancora si muoveva al ritmo delle stagioni, dove la notte era animata dai suoni e le luci della natura, dove abbandonarsi al senso di sicurezza non sembrava un'imprudenza.

Provare ancora il caldo conforto di quando, bambina, si rifugiava nelle braccia di suo padre, per quanto ingannevole potesse essere quella sensazione ora che conosceva la crudeltà della vita. Invece si era rifugiata tra le braccia di Erik. Erano veri ricordi, o soltanto fantasie, le emozioni che tornavano a emergere a tratti, anche in momenti poco appropriati?

Percezione di totale e incondizionata fiducia, mentre giaceva con tutto il suo corpo a contatto con quello di Erik, le membra intrecciate e la certezza di poter restare così per sempre, fusi l'uno nell'altra... Solo con Étienne, solo con l'uomo che amava era possibile... Questo aveva sempre creduto. E invece era successo con uno sconosciuto che si nascondeva dietro una maschera ed era per propria ammissione un delinquente della peggior specie. Della stessa razza alla quale apparteneva il ladro che aveva sparato ad Étienne.

Non sarebbe mai stata in grado di assolversi da quel peccato.

- David! - Un richiamo gentile ma fermo dall'interno della casa. - Mi serve della legna!

L'uomo rise. - Devo correre, la piccola marescialla chiama. - Si alzò e esclamò in tono divertito: - Agli ordini!

E Rasselie si scoprì di nuovo a invidiare sua madre.

*

Si era accorta della presenza dell'uomo non appena svoltato l'angolo, poche decine di metri più avanti. Nonostante i lampioni del viale non fossero ancora stati accesi, e gli alberi incombessero con ombre violette sul marciapiede, quella figura sarebbe saltata agli occhi di chiunque per come si comportava. Sembrava un poliziotto o un soldato di ronda, solo che non indossava alcuna divisa e il suo passo era tutt'altro che marziale. Si sarebbe potuto pensare che passeggiasse, non fosse stato che continuava a fare su e giù lungo pochi metri di strada. Il passo era lento e pesante, la figura massiccia e un po' curva. Dall'abbigliamento sembrava quasi un vetturino. Una lunga giacca, un cappello tondo... Ogni tanto, nel suo lento andirivieni, rallentava, si fermava, guardava verso la casa, allungava il collo come cercasse di scorgere qualcosa attraverso le tende.

Rasselie gettò uno sguardo attorno. Parecchie finestre delle case vicine erano illuminate. Alla peggio, poteva sempre gridare.

Certamente quell'uomo non poteva essere Jack, l'andatura e l'altezza non corrispondevano. Anche se ricordava come Erik l'avesse ingannata al cimitero. E quei due conoscevano probabilmente gli stessi trucchi. Qualcuno mandato da uno di loro...

Considerò brevemente il contenuto della borsa della spesa. Poteva arrivargli alle spalle e colpirlo con la bottiglia del latte. Uno spreco.

Lasciò la borsa in un cespuglio e si nascose dietro l'angolo, aspettando che l'uomo tornasse a fare dietro front e si trovasse in posizione sfavorevole.

Sorprenderlo silenziosamente e atterrarlo fu cosa di pochi secondi. Lui certamente non se l'aspettava e finì immediatamente disteso sul marciapiede con un grido soffocato. Rasselie si trattenne appena a tempo, prima di assestargli un calcio, quando si rese conto che l'uomo che aveva buttato a terra era piuttosto attempato, con folti baffoni grigi che in quel momento tremavano per la paura in un balbettio confuso.

- No, no… Per carità, non mi faccia del male...

- Chi è lei? Cosa fa davanti a casa mia?

L'uomo si agitò cercando di mettersi in piedi.

- Mi chiamo Jean-Claude, sono uno dei portinai dell’Opéra.

Solo a sentir nominare quel teatro, Rasselie avvertì una stretta allo stomaco. Tese una mano all'uomo e lo aiutò ad alzarsi.

- Chi la manda?

Aveva paura di sentire la risposta.

- Nessuno. Ma io... dovevo vederla… parlarle... - farfugliò lui spazzolandosi goffamente gli abiti con le mani.

Lei si chinò a raccogliere il cappello. Lo aveva calpestato ed era proprio malridotto. - Mi dispiace - disse porgendoglielo, poi chiese: - Come faceva a sapere dove abito?

- L’ho sentita mentre parlava con Erik quella sera a cena. Ero uno dei valletti.

Quel nome. Altra stretta allo stomaco.

- Valletti muti ma dall'udito buono.

- Mi perdoni, era impossibile non ascoltare. Ho sentito il suo nome, e così mi è bastato chiamare alcuni giornali della città per avere il suo indirizzo. Venga con me, la prego. Sta succedendo qualcosa di brutto, molto brutto.

L'uomo esitò. Sembrava che faticasse a trovare le parole.

- Allora? - lo incalzò Rasselie. - Se questa è una trovata del nostro caro Fantasma...

- No, no! Lui non sa nemmeno che io sono qui. Ma... sta terribilmente male, forse non passerà la notte!

- Che sciocchezza... - Ma questa volta la stretta allo stomaco era stata così violenta da darle la nausea. - Come fa a esserne sicuro?

- Perché oggi, dopo tanto tempo, è ricomparso quell’uomo, il Persiano. Lo sa l'intera Parigi che quello porta jella, in teatro tutti toccano ferro quando lo vedono. E la signorina Meg gli è andata incontro piangendo. L’ho sentita dire che Erik sta morendo.

- Sono sicura che esagera - osservò Rasselie nel tono più fermo che riuscì a simulare. Ma si sentiva le ginocchia molli. - Ma cosa c'entro io in... in qualunque cosa stia succedendo a Erik?

- La prego... - Il vecchio le aveva afferrato una mano e la stringeva tra le sue. - Io conosco Erik da una vita e ho capito che tiene a lei. Era tanto che non lo sentivo cantare, e invece quella mattina... e poi ho visto uscire lei!

"Magnifico. Ormai la storia è di pubblico dominio."

- La prego, venga con me!

Una trappola dello Squartatore? Perché no? Ma come faceva Jack a sapere cosa era successo tra lei e Erik? Sapeva tutto, vedeva tutto, sembrava essere ovunque anche lui... Pierre e Benoît, due avventurieri accomunati da un destino di delitti e miserie, battezzati insieme da una fiamma misteriosa, legati l'uno all'altro per sempre...

Ma Jean-Claude era così accorato, supplichevole, con gli occhi lucidi sotto le palpebre cascanti...

- D'accordo, vengo. Ma in una carrozza da sola.

 

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Capitolo 7
*** Il mio nome non è Nadir! ***


7

IL MIO NOME NON È NADIR!

(Dove il Persiano cita Shakespeare e racconta cosa accadde alla corte dello scià)

 

Quando Rasselie irruppe nell’appartamento di Erik, Meg e il Persiano erano nella stanza della musica. Dovevano aver sentito il rumore dello scaffale che girava sui perni, o forse soltanto i suoi passi. Probabilmente li aveva interrotti mentre stavano conversando. Occhi neri cerchiati di rosso e occhi verdi da felino la guardarono con stupore.

Meg aveva la faccia devastata dal pianto; il Persiano sfoggiava un’espressione grave da necroforo accentuata dal raso viola della palandrana di foggia orientale che indossava, tanto da far temere a Rasselie di essere arrivata a tempo per una veglia funebre.

- Che cosa succede?

Prima che uno dei due potesse risponderle, da dietro la porta della camera di Erik giunse una specie di lungo gemito, soffocato ma straziante.

Rasselie corse verso la porta, Meg fu pronta a inseguirla e afferrarla per un braccio. - No, non puoi entrare!

Lei si liberò della stretta senza gentilezza. - Lasciami, chi sei per darmi degli ordini? - e spalancò la porta prima che il Persiano potesse provare a sua volta a trattenerla.

Certamente Erik aveva udito la sua voce perché, entrando, Rasselie scorse un braccio abbronzato uscire da il mucchio di coperte sotto il quale si riconosceva appena una forma umana, e tirare le lenzuola sopra la testa.

L’aria della stanza era greve di sudore e sofferenza, ma c’era un odore particolare che la colpì immediatamente. Curioso, simile a quello che si avverte durante un temporale, quando i fulmini lacerano il cielo con violenza.

Sedette sul bordo del letto. Da sotto il lenzuolo che copriva il capo di Erik, sfuggivano ciocche di quegli incredibili capelli grigio azzurri, intrise di sudore. Rasselie non poté trattenersi dall’accarezzarle.

- Erik… Che ti succede?

- Lasciami stare. Non puoi… - Un lamento. Rasselie ebbe l’impressione che lui si stesse mordendo le labbra.

- Hai bisogno di un medico.

- No! - Un braccio uscì di nuovo da sotto le lenzuola, la mano la cercò a tentoni. Rasselie prese quella mano fra le sue. Era bagnata e gelida.

- Erik, come posso aiutarti?

- Non dovevi venire qui, non c’è niente che tu possa fare... - Il corpo sotto alle lenzuola si agitò, sembrò raggomitolarsi su se stesso in uno spasimo. - Quello che mi consola… è che lui in questo momento sta peggio di me.

Una mano ferma si posò sulla sua spalla.

- Lo lasci in pace, Madame. Non può fare nulla per lui.

Rasselie guardò il Persiano da sotto in su. L’uomo, alto e snello, appariva in età avanzata; il suo volto aveva l’aspetto e il colore di un guscio di noce e barba e capelli erano quasi completamente bianchi. Tuttavia anch’egli conservava nella figura quel portamento eretto di quieto vigore che Rasselie aveva riscontrato in mamma Valerius. Non riuscì a opporglisi quando lui le mise un braccio attorno alle spalle e con fermezza la guidò fuori dalla stanza.

- Volete spiegarmi cosa accade? - chiese mentre il Persiano richiudeva la porta dietro di loro.

- Gli succede tutti gli anni, in questi precisi giorni - rispose Meg. - Gli è sempre successo, ma non l’ho mai visto soffrire tanto. Mia madre mi raccontava che una volta gli bastava suonare il suo violino per stare meglio, ma da parecchio non è più così.

- Accade perché l’Altro è più vicino - disse il Persiano in tono grave.

- Intende dire… Jack? - chiese Rasselie.

- Il Signore delle Lame. Alla corte dello Scià di Persia era conosciuto con questo nome, perché già allora amava usare i coltelli.

Meg si lasciò andare, sfinita, sullo sgabello accanto al pianoforte, soffocando un singhiozzo in un fazzolettino di pizzo ormai zuppo di lacrime.

- Questo non spiega cosa gli sta succedendo adesso - continuò Rasselie, impaziente, guardando verso la porta della stanza di Erik attraverso la quale non proveniva più nessun suono.

- È l’anniversario del battesimo della Fiamma - spiegò il Persiano in tono grave. - Lui e l’Altro ritornano a provare lo stesso dolore che provarono allora.

- Cosa?>>

Aveva considerato quel racconto come una mirabolante fanfaronata da Barone di Munchausen, e adesso quell’uomo imperturbabile dalla faccia di noce rinsecchita e gli occhi di gatto le diceva che si trattava di una storia vera.

- Non può esistere un fuoco simile, va contro le leggi della natura...

O forse era di questo che Erik discuteva per via epistolare con Nikola Tesla?

- Perché adesso il suono del violino non gli è più di alcun sollievo? - chiese Meg torcendo il fazzolettino tra le mani. - Perché soffre in questo modo?

Il Persiano scosse la testa. - Quello che so è che voi non potete essergli di nessun aiuto, e certamente Erik detesta farsi vedere in questo stato. Perciò, signore, vi pregherei di lasciarci soli.

Meg si soffiò il naso, annuì, e si alzò.

- Va bene. Grazie, Nadir.

L’uomo levò brevemente lo sguardo verso il soffitto, come se invocasse pazienza da qualche divinità.

- In tanti anni ancora non hai imparato il mio nome. Mi chiamo Naser, non Nadir. Bah, non importa. Sbagliano quasi tutti. - E accorgendosi che Rasselie esitava, le impose in tono deciso: - Faccia come le dico, vada in salotto con Meg.

- Salotto?

Meg aprì la tenda che Rasselie aveva pensato nascondesse una finestra, rivelando una porta a vetri a due battenti. Adilà di essa, un altro piccolo ambiente illuminato da due lampade a petrolio sistemate su un cassettone, un tavolo, qualche sedia, un divano e un paio di poltrone... Un ambiente decorosamente borghese.

- Siediti. - Il tono di Meg non era quello di una cortese padrona di casa, e Rasselie non se ne stupiva. - Vuoi un caffè?

- Ma sì, intanto non riuscirò comunque a dormire, stanotte.

Meg passò in un altro locale adiacente. La cucina, senza dubbio. E solo adesso, dopo aver preso posto su una sedia accanto al piccolo tavolo, Rasselie riuscì a piegare il proprio orgoglio a delle scuse che sapeva dovute.

- Mi dispiace per quello che ti ho detto.

Dalla cucina giunse un suono soffocato e incomprensibile. Forse un assenso, forse un insulto.

Dopodiché non ci furono altri discorsi fra loro, fino a quando Meg ritornò con un vassoio che posò sul tavolo, prevenendo ogni tentativo di ringraziamento con poche secche parole.

- Sei innamorata di lui.

Non era una domanda.

- No! Io… Noi… - Rasselie si sentiva la bocca arida. Il ricordo della loro notte insieme riusciva sempre a farla sentire inerme e colpevole, e di conseguenza velenosamente arrabbiata. - Lui si è offerto di raccontarmi delle storie e io, stupida, ho accettato. È il mio mestiere ascoltare le storie degli altri. Non immaginavo… Insomma, mi sembrate una banda di pazzi! O forse siete soltanto dei figuranti di questo teatro, dei guitti che per passatempo hanno deciso di prendersi gioco di me.

Lo sguardo negli occhi di Meg era di totale riprovazione. Rasselie si sentiva inspiegabilmente dominata da quella gracile ballerina come si sentiva dominata da Erik che era più alto di lei di una ventina di centimetri. Forse perché adesso Meg stava in piedi e lei, seduta, era costretta a guardarla da sotto in su. Capitolò.

- E va bene, visto che ormai pure quel Jean-Paul... no, Jean-Claude... come diamine si chiama... già che ci siamo potrebbero pure scriverlo sui manifesti e affiggerli in tutta Parigi. - Balbettava come una ragazzina. - Meg, cerca di capire, non è necessario che due persone siano proprio innamorate per... Santo cielo, siamo tutti adulti, e io non intendo senz'altro prendere il tuo posto nel letto di Erik, è stata solo una sciocchezza, non so nemmeno...

Di colpo la faccia di Meg sembrò raggrinzirsi, le labbra tremarono e gli occhi già gonfi si riempirono nuovamente di lacrime.

- Non gli importa nulla di me! Io gli sono utile. Pulisco il suo appartamento, mi prendo cura dei suoi abiti, cucino per lui, gli porto qualunque cosa desideri: libri, i dischi per il fonografo, carta da musica... Ma lui mi guarda appena. - Era caduta a sedere sull'altra sedia vicina al tavolo. Le lacrime le scorrevano lungo il viso piovevano a formare macchie più scure sulla camicetta celeste. - A volte, dopo che l’ho pregato a lungo, mi permette di dividere il suo letto, ma non accade nulla. Il patto è che non devo provare a toccarlo. Lui si mette semplicemente a leggere, finché io non mi addormento.

Doloroso, l’amore non corrisposto.

- Lo sai come mi chiamavano le altre ragazze del corpo di ballo? “Prugnasecca”! E anche adesso le mie allieve… a volte le sento bisbigliare e ridacchiare. Se ne approfittano perché io non so impormi come faceva mia madre, lei sì che sapeva come mettere in riga anche le più indisciplinate...

- Prima che tu diventassi… tuttofare di Erik, era tua madre a occuparsi di lui?

- Lei, sì. E anche il Persiano. Quando mia madre è morta, è stato grazie a Erik che ho potuto prendere il suo posto come insegnante di danza.

“O così vuole farti credere.”

Cercando di cambiare argomento chiese: - Ma il suo viso è davvero tanto malconcio?

- E chi lo sa.

- Non mi dire che non ha mai permesso nemmeno a te di vederlo in faccia.

- Ma è così. Forse teme di spaventarmi.

- E tu...

- No, no! Non ho mai provato a togliergli la maschera. So che mi ucciderebbe. Io non sono Christine. Non sono... - Repentinamente, Meg abbassò la testa, nascose il volto tra le mani e scoppiò in singhiozzi ancora più disperati.

"Io non sono Christine". Ovviamente la povera "prugnasecca" non poteva immaginare quanto quella frase potesse ferire anche la sua presunta rivale. Per superare il disagio, Rasselie assunse un tono sprezzante.

- Be’, comunque Erik non mi sembra troppo sano di mente. Nessuno di voi lo sembra. E Monsieur Remy? È lui che dirige la baracca, come fa a non sapere che nei sottotetti del teatro abita uno svitato in maschera che va e viene a suo piacimento e allestisce cene nei saloni? Chi sono tutte queste persone che stanno al suo gioco?

Gli occhi neri cerchiati di rosso la fissarono con ostilità.

- Amici! Noi siamo suoi amici!

- Non ne dubito, considerando come assecondate le sue follie.

Per un attimo le sembrò proprio che Meg stesse per erompere in qualche insulto, ma la fiamma d'ira si estinse subito.

- Insomma, non pensate che potrebbe essere pericoloso? Questo gioco, ed Erik stesso. Immagino che ti abbia raccontato il suo passato, e se è vero almeno in parte...

- Cosa vuoi che mi importi? Io lo amo!

C'era così tanta disperata fierezza in quell'affermazione che Rasselie non se la sentì di opporre altri dubbi e obiezioni. Sorseggiò il caffè, che si era ormai raffreddato, in silenzio.

E quel silenzio divenne via via sempre più pesante da farle pensare che se avesse potuto concretizzarsi avrebbe sfondato il pavimento precipitando entrambe fino alle oscure catacombe dei famosi sotterranei. Perciò fu contenta quando il Persiano le raggiunse nel salotto e, allo sguardo di entrambe, rispose: - Si è addormentato.

Meg emise un sospiro di sollievo, e il Persiano continuò: - Non dovrebbe svegliarsi prima di domattina, comunque io tornerò qui verso le sei.

- E se...

- Nel caso, dagli un po' di laudano. Ma poco. Ti ho lasciato un appunto sul tavolino da notte. Ma sono quasi sicuro che passerà una notte tranquilla. - Gli occhi verdi dardeggiarono uno sguardo imperioso verso Rasselie. - Lei... venga con me.

*

Una volta saliti in una delle tante carrozze pubbliche parcheggiate nel piazzale dell'Opéra, il Persiano trasse una piccola pipa di ceramica turchina da una tasca interna della palandrana ricamata, e cominciò a caricarla con cura; gesti che avevano i ritmi lenti e calcolati di un rituale, nei quali Rasselie sospettò uno stratagemma per innervosirla. Perciò decise di attaccare per prima.

- Se vuole che io creda a quella folle storia della Fiamma dovrebbe cercare di fornirmi una spiegazione convincente.

Il Persiano la guardò da sopra il fornello della pipa dal quale cominciava a innalzarsi un fumo chiaro e profumato. - Dal punto scientifico? - chiese. - Dunque non ha insegnato nulla, a voi Occidentali, il vostro grande drammaturgo. "Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante possa sognarne la tua filosofia".

Sentir citare Shakespeare da un Persiano, in una carrozza che correva nella notte, non era cosa alla quale Rasselie fosse solita.

- La Fiamma è l'essenza del pianeta, e la voce con cui parla ai mortali è musica - cominciò l'uomo in tono lento e paziente, come cercasse di spiegare un concetto pur semplice a un bambino. - Finché ci saranno donne come Ayesha capaci di ascoltarla e controllarla, eviteremo la catastrofe finale. Ma la razza umana sta diventando troppo avida e invadente, è un predatore scellerato. Cosa accadrebbe se un giorno la Fiamma decidesse di rivoltarsi contro il genere umano? Già adesso, sporadicamente, accade; è sempre accaduto. Eruzioni di vulcani, terremoti...

- Ne parla come se fosse una creatura vivente.

- Ma lo è! Antiche leggende raccontano che ci fu un tempo in cui gli uomini sapevano vivere in armonia con la Fiamma, e tutto il mondo era in pace, non esistevano né morte né dolore.

- Mi sta parlando del Paradiso Terrestre? Comunque, che c'entrano le fiamme? Io ho sempre pensato che stessero soltanto nell'Inferno.

- Ci sono fiamme e fiamme. Dopotutto, senza la luce, ignoreremmo l'esistenza dell'oscurità.

Rasselie si passò le mani sul viso, si strofinò gli occhi premendo con forza i polpastrelli delle dita sulle palpebre, si massaggiò le tempie. Un'emicrania era imminente.

- Comunque, se le interessa sapere come conobbi Erik... Avvenne in Persia, alla corte dello Scià. Lui era arrivato da poco, insieme al suo compagno di scelleratezze; ma presto divenne allievo di Farzan, il miglior architetto di tutta la Persia che, essendo ormai parecchio avanti con gli anni, da tempo cercava qualcuno in grado di portare a compimento i suoi progetti. Non so come la sua scelta cadde su Erik, e come seppe far emergere il talento che evidentemente dormiva in lui. Era un uomo davvero eccezionale, Farzan, capace di immaginare un edificio fin nei minimi particolari prima ancora di tracciare una sola riga sulla carta. E quando cominciava a disegnare era come ritraesse qualcosa di già esistente e reale che aveva davanti agli occhi. Allo stesso modo, sapeva riportare all'antico splendore le costruzioni ormai in rovina del passato; anzi, sembrava prendesse un gusto particolare nel restaurarle. Forse, fece lo stesso con l'anima di Erik.

L'emicrania era scoppiata. Rasselie chiuse gli occhi e appoggiò la testa contro il sedile di cuoio.

- Non che Erik non si servisse delle sue abilità di sicario per continuare a ferire e uccidere - continuò il Persiano - poiché obbediva agli ordini della Sultana, la giovane madre dello Scià, il cui corpo e l’anima si corrompevano giorno dopo giorno nella noia e nell’oppio. Per lei costruì una terribile camera dei supplizi, progettò nuovi strumenti di tortura, creò labirinti di specchi nei quali i nemici e i condannati a morte venivano rinchiusi a morire di fame e sete, costantemente ingannati dall’illusione di una via di fuga creata ad arte e subito richiusa non appena vi si avvicinavano, storditi dai miraggi… E la cosa più atroce era che, mentre chi stava dentro al labirinto non vedeva negli specchi altro che la propria disperazione riflessa all’infinito, chi si trovava all’esterno poteva seguire ogni istante dell’agonia di quei disgraziati, ridere dei loro vani sforzi, udirne le suppliche e i vaneggiamenti.

Anche a occhi chiusi Rasselie poteva vedere davanti a sé quel viso scuro dallo sguardo felinamente indagatore, e si sentiva scrutata, soppesata, studiata. Si chiese se pure lui fosse al corrente di quanto era successo tra lei e Erik, e come la giudicasse. Una sciocca, proprio una sciocca, capace di ubriacarsi e abbandonarsi con leggerezza tra le braccia di uno sconosciuto che era, per propria ammissione, un criminale.

- Per quanto ne so - continuò il Persiano, palesemente ignaro di ciò che passava nella testa della compagna di viaggio - Erik e l’Altro avevano sempre agito insieme, gemelli resi inseparabili dalle scelleratezze compiute e dalla devastazione dei loro volti; ma la loro alleanza, il loro sodalizio… non oso chiamare amicizia il legame di infamie e delitti che li univa… cominciò a incrinarsi, sfilacciarsi come una corda usurata. Mentre il Signore delle Lame rimaneva un distruttore, Erik stava diventando un creatore, capace di afferrare il segreti di qualunque arte e perfezionarli, quasi che gli insegnamenti di Farzan avessero dischiuso uno scrigno rimasto sigillato troppo a lungo. Forse imparò a manipolare il potere della Fiamma, a servirsene per il bene.

Nonostante il caffè offertole da Meg, Rasselie cominciava a sentirsi assonnata. La voce del Persiano, pacata e profonda, con il suo gradevole accento esotico, aveva un potere calmante. Anche l'emicrania sembrava arrendersi a quel potere.

- Non saprei dire se a un certo punto l’Altro fosse divenuto geloso dei favori di cui Erik godeva a corte. Certamente si era stancato del suo ruolo di sicario e scalpitava per andarsene, ma non voleva certo farlo a mani vuote. Aveva messo gli occhi sul tesoro dello Scià e sognava di impadronirsi del Darya-ye Noor, l’Oceano di Luce. È una gemma pari per purezza al Koh-i Noor che adesso splende sulla corona britannica, e come esso proviene dalle miniere del Golconda.

- Sicari... diamanti... - mormorò Rasselie nella sua sonnolenza. - Oh, è un bel romanzo di avventure. Capisco come Erik possa guadagnarsi la vita scrivendo.

Il Persiano non sembrò udire quel commento. Il suo racconto continuò a fluire nel medesimo tono pacato.

- Sono certo che l'Altro gli chiese aiuto per portare a compimento il suo piano, non sono altrettanto certo che lo ottenne. Riuscì comunque ad andarsene con le tasche non del tutto vuote, ma tutt’altro che ricco come aveva sperato. Non poté mettere le mani sull’Oceano di Luce, era troppo ben nascosto in uno scrigno murato in una parete. Comunque Erik fu ritenuto suo complice, si credette che avesse rivelato il percorso di alcuni passaggi segreti che lui stesso aveva progettato e portavano alla stanza del tesoro, e fu quindi imprigionato e torturato. Sperimentò nella propria carne molti degli strumenti di tortura che aveva inventato. Ma se anche sapeva qualcosa, non parlò. Non cercò di salvarsi la vita. Così fu decisa la sua esecuzione. Il compito di impartire quell’ordine spettava a me, in quanto daroga di Mazenderan.

- Daroga? - biascicò Rasselie.

- Più o meno significa capo della polizia.

La precisazione strappò Rasselie alla sonnolenza.

- Lei è un poliziotto?

- Lo ero. Mi sono giocato la carriera per Erik. Decidere la sua condanna a morte mi ripugnava. Certo ero a conoscenza dei delitti di cui si era macchiato, conoscevo bene la spietata indifferenza con cui uccideva e torturava, la perfidia con la quale mostrava il suo volto devastato ai condannati a morte, per accrescere il loro terrore. Eppure, con mio infinito sgomento mi rendevo conto di provare per lui una sorta di... ammirazione. Così, venendo meno ai miei doveri di lealtà verso il trono del pavone, lo risparmiai. Lo aiutai a fuggire.>> Una risata morbida e indulgente attraverso il fumo della pipa. - Non potevo immaginare che uccidere Erik sarebbe stato comunque difficile. Molto difficile. Quasi impossibile.

Adesso del tutto sveglia e lucida, Rasselie si sporse leggermente verso il Persiano, cercando di guardarlo bene in faccia. Sapeva di non possedere uno sguardo capace di intimorire il prossimo, ma volle provarci ugualmente.

- Se adesso vuole farmi credere che Erik è immortale o qualcosa del genere, fermo la carrozza e vado a piedi. Non intendo seguirla fino al manicomio.

- Non sto dicendo esattamente questo, ma... Le sembrerebbe meno credibile di tutte le leggende create attorno al Fantasma dell'Opera? - Un lieve sorriso amaro curvava le labbra sotto i folti baffi bianchi. - L’Angelo della Musica, il geniale compositore, il diabolico maestro dall’aspetto di scheletro che rapisce ingenue cantanti per rinchiuderle nei sotterranei... - Scosse la testa, sconsolatamente. - Allah perdoni le sciocche fantasie di quegli scellerati. Perché io, davvero, non ne sono capace.

Fantasie, le chiamava. E allo stesso tempo gliene serviva di più inverosimili e mirabolanti.

- Alla corte dello Scià Erik imparò a suonare diversi strumenti - riprese il Persiano - … quasi tutti quelli che tiene nella stanza della musica… e presto scoprì che il suono del violino lo aiutava a lenire il dolore. Diceva che la voce di questo strumento gli ricordava il canto della Fiamma e, in maniera inesplicabile, alleviava la sua sofferenza.

La melodia sublime e terribile, così terribile da consumare chiunque osasse ascoltarla...

- Adesso però le cose sono cambiate. Perché?

L'uomo ebbe una lunga esitazione. Aspirò una lunga boccata di fumo, la esalò in un lento sospiro, e poi disse: - Sono successe alcune cose... ma non è mio diritto raccontarle. Potrà farlo solo Erik, se vorrà.

E poi fu silenzio, sottolineato dal rumore della carrozza e le voci che giungevano dalla strada. Con grande sollievo di Rasselie, non durò a lungo.

- Ecco, io sono arrivato - disse il Persiano quando la vettura si fermò accanto al marciapiede. - E come vede, non siamo davanti a un manicomio.

In effetti di trattava soltanto di un palazzo dall'aspetto abbastanza anonimo. Rasselie, che non aveva prestato molta attenzione alla strada, giudicò che dovessero trovarsi dalle parti delle Tuileries.

Il Persiano scese e disse al vetturino: - Accompagna la signora dove desidera.

- Aspetti! - esclamò lei, prima che la carrozza potesse rimettersi in moto. Si chinò verso il Persiano e disse: - Non prenda il mio comportamento come una scortesia, ma...Vorrei solo che capisse quanto è difficile per me crederle.

Lui annuì. - Certo capisco. Buona serata, Madame.

- Buona serata, Na... uhm... Naser?>>

Lo vide sorridere per la prima volta.

- Lode ad Allah! Non speravo più di sentir pronunciare il mio nome correttamente in questo Paese.

 

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Capitolo 8
*** Vecchie fiamme ***


8

VECCHIE FIAMME

(Dove Monsieur Rémy fa da cicerone ed Erik deve rinunciare al Chateau Lafite)

 

Non era stato difficile ottenere un appuntamento con Monsieur Remy. Passare dal ruolo di segretario del signor Richard a quello di direttore dell’Opéra non aveva cambiato il suo carattere affabile e indubbiamente paziente. Poco più che quarantenne, capelli chiari accuratamente pettinati, baffetti sottili, distinto. Lo sguardo e il sorriso erano miti, quasi timidi.

Naturalmente aveva dovuto mentirgli sul vero motivo della sua visita; e, quando glielo rivelò, ottenne in risposta un’espressione candidamente sbigottita.

- Mi creda, di questa faccenda ne so quanto lei.

- Lei lavorava alle dipendenze di uno dei precedenti direttori, quando accaddero tutti quegli strani incidenti.

- Che furono chiariti dalla successiva inchiesta giudiziaria. Le sarebbe bastato consultare i giornali dell’epoca. L’annegamento del conte di Chagny nel lago sotterraneo fu archiviata come un incidente. Per qualche motivo si era convinto che il fratello minore avesse rapito la signorina Daaé e si fosse nascosto con lei nei sotterranei del teatro. Capisce, il conte Philippe era assolutamente contrario alla relazione del fratello con una cantante dalle origini oscure, per quanto brava e acclamata. O meglio... - Strizzatina d’occhio - Una lieson è sempre tollerabile, ma il giovane visconte parlava di matrimonio...

- E che accadde, poi, ai due innamorati?

- Be’, Raoul ereditò il titolo e poté impalmare la sua bella amica. La cerimonia avvenne con poca pompa, a quanto ne so, e con ancor minore pubblicità, proprio a causa del lutto che aveva colpito la famiglia. Peccato che la Daaé, dopo il matrimonio, abbia completamente abbandonato il mondo del bel canto. Con quella voce, e la passione che sapeva esprimere sulla scena, e non ultimo il suo aspetto… Ha rinunciato a una luminosissima carriera. Eh, cosa non si fa per amore!

- Era… bella come si dice?

- Lei non ha mai visto un suo ritratto?

Rasselie scosse la testa.

- Venga con me. - Remy si alzò e la guidò fuori dal suo ufficio.

- Ci fu anche l’episodio che coinvolse quella famosa cantante - riprese Rasselie mentre lo seguiva lungo corridoi e sale echeggianti. - La Carlotta, così la chiamava il pubblico, mi pare.

- Madame Giudicelli, sì.

- Che durante una prima cominciò a gracidare come una rana.

- Certo, me ne ricordo bene! Ma non fu certo per l’intervento di un fantasma. Via! La poveretta era molto orgogliosa e caparbia e quella sera si ostinò a voler cantare nonostante soffrisse per una brutta laringite. Nei giorni precedenti aveva assunto un medicamento che sembrava aver risolto la situazione; ma ahimè, quella sera la voce la lasciò proprio nel bel mezzo di un'aria del "Faust". Un incidente davvero increscioso, e uno smacco terribile per la sfortunata Carlotta. Ma si trattò di un avvenimento del tutto privo di cause… diciamo, soprannaturali. Ah, eccoci arrivati. Questa è, per così dire, la nostra piccola galleria dei ritratti. È qui che conserviamo le immagini dei più talentuosi artisti del bel canto.

Ovviamente, la definizione “piccola” era proporzionata alle dimensioni del resto del teatro. Entrando, Rasselie ebbe l’impressione di essere assalita da una folla composita di guerrieri in armatura, re, sacerdotesse e dame d’altri tempi, che la fissavano dalle cornici dorate.

Conosceva alcuni di quei personaggi e i loro interpreti. Sulla parete di fondo, tronfio ed eretto per tutta la sua statura, che si intuiva comunque tutt’altro che notevole, stretto, nel vero senso della parola, nell’armatura di Annibale, stava il famoso tenore Ubaldo Piangi; e accanto al suo ritratto c’era quello della Carlotta, ovviamente. Volto mediterraneo dai fieri occhi bruni, bocca scarlatta, un tripudio di boccoli a cornice del pingue volto incipriato dall’espressione compiaciuta, il seno eburneo e possente sottolineato dai pizzi candidi dell’abito di scena della "Traviata".

Ma la maggior parte di quei e quelle cantanti erano sempre state voci disincarnate, per Rasselie; o, viceversa, facce senza voce sulle pagine dei giornali. Non aveva mai messo piede in un teatro d’opera, e se sulla cornice di ogni quadro, in basso, non vi fosse stata una targhetta d’ottone con il nome, l’indicazione del ruolo e il titolo dell’opera, avrebbe potuto davvero credere di trovarsi di fronte a grandi personaggi del passato ritratti in tutta la loro pompa. Maniche di seta e velluto, cascate di pizzi, spade, interminabili catene d’oro e di perle... Il basso Prosper Dérivis abbigliato come il Ferrando del “Trovatore”, Carolus Fonta nei panni di Faust, Caroline Carvalho nella "Lucia di Lammermoor"...

- Ecco, questa è Christine Daaé.

Un ritratto pieno di luci delicate, in un pulviscolo dorato.

Dunque era quella la donna il cui nome Erik invocava al culmine dell’estasi. Donna… Una bambina, uno scricciolo virgineo dal piumaggio di seta azzurra. Perché sebbene ovviamente non fosse fatto di piume, l’abito richiamava alla mente la livrea di un superbo uccello esotico, e appariva lieve ed etereo quanto i veli dipinti dal Caravaggio sui suoi angeli androgini. Troppo sontuoso su quella piccola bimba smarrita, come inutilmente sfarzosa appariva l’acconciatura che costringeva i lunghi capelli biondi sotto un diadema di stelle. La Regina della Notte. La principessina, piuttosto. La sguardo dei grandi occhi azzurri sembrava perdersi oltre la cornice, in una qualche promessa di felicità futura. Era irritante, quell’espressione di ingenua fiducia. E l’innegabile squisitezza della figura non era guastata dal minimo accenno di civetteria. Christine Daaé si offriva agli sguardi assolutamente inconsapevole della propria bellezza. Anche il ventaglio che teneva tra le candide manine dalle unghie di madreperla era soltanto un ventaglio, e non uno strumento di seduzione.

Di colpo Rasselie si sentì pesante, sciatta e vecchia, e provò una profonda compassione per la povera Meg, al cui confronto sapeva di poter apparire graziosa. Meg era come il brutto anatroccolo che mai, però, si sarebbe trasformato in cigno. Perché il cigno stava lì su quella tela, inarrivabile nella propria quieta bellezza.

- Ma… - Remy la prese gentilmente per in gomito, guidandola verso un altro ritratto. - Guardi questo. È una cosa davvero curiosa, non le pare?

Un’altra giovane donna favorita da Madre Natura: boccoli biondi, viso angelico, figuretta di ninfa in un abito rosa pallido, di una tonalità appena più profonda dell’incarnato, la cui gonna si allargava in una corolla di pizzi attorno alla vita sottile…

- Si direbbero quasi sorelle, vero? Pure lei si chiama Christine... anzi, per l'esattezza sarebbe Christina, è svedese; ma be', qui tutti la chiamavano alla francese... Come la Daaé è stata una magnifica Margherita nel "Faust". Anche lei ha sposato un conte. In seconde nozze. Prima ci fu un banchiere, mi pare.

- E anche lei ha avuto come insegnante di canto un fantasma?

Remy ridacchiò sottovoce.

- Per quanto si sa... potrebbe anche essere. Doveva cantare all'inaugurazione di questo teatro, ma per qualche ragione rinunciò all'ultimo momento.

- Vuole dire che non ha mai cantato qui?

- No, solo nella vecchia sede, prima che andasse distrutta nell'incendio del 1871.

Rasselie indugiò a interrogare con lo sguardo il ritratto dell'altra Christine. Poteva avere una parte nella leggenda del Fantasma dell'Opera?

- Monsieur Rémy, mi perdoni l'insistenza ma... non ha ancora risposto alla mia domanda.

- Riguardo al Fantasma? Gentile signora, le ho già detto…

- Andiamo, non mi vorrà far credere che non sa di avere un inquilino. Ne sono al corrente i portinai, le guardarobiere, gli addetti alle caldaie...

Remy si strinse leggermente nelle spalle e allargò le braccia, come a volersi scusare.

- Io ricopro un ruolo ufficiale. Il mio compito è assicurarmi che tutto in questo teatro funzioni al meglio. Ed è così; da parecchi anni, ormai. - Risatella forzata. - Quindi cosa vuole che mi importi di ospitare un fantasma, fintanto che non se ne va in giro a disturbare le rappresentazioni trascinando le catene.

- Sa bene che questo fantasma non trascina catene.

- Sono altre le mie preoccupazioni, al momento, con quell’assassino a spasso per la città. Se non sarà arrestato prima dell’inizio della nuova stagione… Non è tanto per il pubblico che mi preoccupo, i nobili e i benestanti che vengono all’opera sulle loro carrozze private non si faranno turbare. Io penso alle donne che lavorano alle dipendenze del teatro, le sarte, le maschere, le coriste, le ballerine… sono quelle che vanno via più tardi. E non tutte hanno un uomo che possa accompagnarle o venirle a prendere. Rischiamo dimissioni in massa. La paura di finire ammazzate è senz’altro più forte della paura di restare senza lavoro.

Cosa avrebbe pensato al solo sospetto che il Fantasma e Jack si conoscevano? Che in passato erano stati amici e addirittura complici in svariati crimini? Non poteva certo metterlo a parte di un segreto del genere. E sentì il dovere di rassicurarlo.

- Riguardo allo Squartatore, posso garantirle che tutta la stampa sta collaborando con la polizia nel tentativo di catturarlo, o almeno identificarlo.

“E forse io sarei riuscita a fermarlo se...”

*

Quel pomeriggio, gli strilloni si spolmonavano di nuovo in mezzo alla strada. Rasselie comprò un quotidiano e si diresse verso l'Opéra con la determinazione di un ussaro alla carica. Jean-Claude era nel gabbiotto della portineria, e prima che potesse sollevare qualche obiezione lei sbatté il giornale contro il vetro, la prima pagina in bella vista, e ordinò: - Portami su!

Il dedalo di scale che portava all'appartamento di Erik non le aveva ancora rivelato tutti i suoi trabocchetti per potervisi avventurare con sicurezza. Davvero, come le aveva detto il "Fantasma" al loro primo incontro, rischiava di perdersi ed essere ritrovata solo grazie ai miasmi della putrefazione nell'angolo più negletto di un sottopalco.

Nella stanza della musica non c'era nessuno. Rasselie andò a bussare alla porta di Erik.

- Lascialo in pace. - La voce di Meg dal salotto.

- Lasciarlo in pace? - Rasselie entrò e buttò il giornale sul tavolo.

Meg gli diede un'occhiata poco meno che distratta, continuando il lavoro di cucito in cui era impegnata.

Rasselie si mise davanti a lei, a braccia conserte.

- Non dirmi che quella è una camicia di Erik.

- E a te che importa?

- Perché non si fa cucire i bottoni da qualcun altro?

Meg sbuffò rumorosamente e scosse la testa, a significare compatimento per la sua ostinazione a non capire; quindi si chiuse in un fiero silenzio e continuò il suo lavoro con ostentata concentrazione.

Era quel tipo di donna che aveva resa comoda la vita all'uomo per millenni, pensò Rasselie con compatimento misto a sdegno. Colpa di tutte le Meg del mondo se i progressi nell'emancipazione femminile procedevano così a rilento. Ma ovviamente qualunque discorso, qualunque tentativo di persuasione andava sprecato con tali donne che sembravano perfettamente appagate nel loro ruolo di umili serve del maschio. Anche quando questo dimostrava di non amarle affatto. Anzi, in quel caso anche di più.

Meg Giry sarebbe potuta diventare la prima ballerina dell'Opéra, una étoile di fama mondiale. Invece si accontentava di insegnare alle altre e guidarle verso il successo che lei avrebbe guadagnato se si fosse impegnata senza distrazioni nella sua passione per la danza.

Un rumore dalla stanza della musica, e un attimo dopo Erik apparve sulla porta del salotto. La vestaglia scarlatta che indossava faceva apparire ancora più pallida la piccola porzione di viso sotto la maschera. Le labbra avevano una lieve sfumatura bluastra.

- Come stai? - chiese Meg.

Lui entrò con passo non troppo fermo e si lasciò cadere in una delle poltroncine, portando una mano alla fronte. - Quello scriteriato di Naser... Mi ha imbottito di morfina.

- Preferisci soffrire? - ritorse Meg.

- Non che cambi molto, quella roba mi fa venire la nausea. Vomiterò per tre giorni. E proprio adesso che dalle cantine del Ritz è arrivato quel delizioso Chateau Lafite...

Sembrava non aver rilevato la presenza di Rasselie. Lei raccolse il giornale dal tavolo e lo dispiegò davanti ai suoi occhi.

- Hai detto che stava peggio di te. Io direi proprio il contrario.

Vide le palpebre sollevarsi a fatica tra i fori della maschera. Nonostante l'aspetto da sonnambulo, Erik aveva di nuovo attorno a sé quel fresco profumo di rose e limoni, e i capelli color argento erano ancora bagnati dopo il recente lavaggio, pettinati all'indietro con cura.

- Mi consideri responsabile del suo comportamento? - Il tono di voce era blandamente interrogativo.

Lei gli gettò il giornale in grembo. Il titolo in larghe lettere nere sembrava un urlo. "Lo Squartatore colpisce ancora!".

Erik si limitò ad abbassare lo sguardo. Non sembrava troppo interessato all'articolo. :- Meg - disse - vai a cambiare il letto, le lenzuola sono fradice.

- Non muoverti - le intimò Rasselie.

Meg, che già stava dirigendosi verso la porta, si fermò di colpo e la fissò, stupefatta. Erik aveva alzato la testa, e i suoi occhi mostravano altrettanta sorpresa.

- Non è la tua serva - continuò Rasselie. - E se anche lo fosse, dovresti almeno chiederle "per favore".

Entrambi pietrificati dalle sue parole come dallo sguardo di Medusa. Erik mosse una mano in un esausto gesto di impazienza.

- Non me la sento di discutere istanze femministe nelle mie attuali condizioni, Sélie.

- Non...

- Va bene, va bene. Dimmi come vuoi essere chiamata.

- Come ti pare, ma non in quel modo.

Erik annuì come se la testa gli pesasse il doppio del normale. Approfittando del loro scambio di opinioni, Meg aveva già lasciato il salotto.

- È pazza di te e tu ne approfitti per umiliarla.

- Credi lo faccia per divertimento? Io vorrei soltanto che si stancasse e si togliesse dai piedi. La sua devozione mi snerva. Si comporta come un cane bastonato che continua a ritornare dal padrone crudele in cerca di una carezza che non avrà mai. Si merita tutt'altra vita. Gliel'ho detto e ho cercato di farglielo capire in ogni...

S'interruppe pronunciando qualcosa che sembrava una bestemmia e si alzò precipitosamente, urtando Rasselie mentre le passava accanto, diretto in cucina, dove si piegò sul lavandino.

- Maledetto bastardo persiano... ansimò, stroncato da violenti conati di vomito. - Se fosse per lui sarei già diventato un drogato.

Richiuse dietro di sé la porta della cucina, sbattendola con forza. Rasselie sentì il rumore di acqua che scorreva e capì che lui si era tolto la maschera per rinfrescarsi il viso. Soffocò una ondata di curiosità che, se assecondata, il quel momento avrebbe distrutto qualsiasi possibile intesa tra di loro.

- Non puoi continuare a stare zitto. Non capisci che questo fa di te il suo complice? Devi raccontare alla polizia tutto quello che sai. Ne va della vita di tante altre poverette. Hai detto di averlo seguito, hai scoperto dove abita?

Ancora una serie di rumori soffocati, poi la porta della cucina venne aperta ed Erik passò nel salotto, dopo aver esitato un attimo appoggiato allo stipite.

- Non sono molti i posti a Parigi nei quali un uomo mascherato può affittare una stanza senza sentirsi fare domande.

- E allora informa la polizia! Cosa aspetti?

Era inaccettabile che continuasse ad anteporre la propria sicurezza, e la propria leggenda, alla vita di tante donne innocenti.

- Se hai un po' di coscienza...

- Tu cosa credi? - Lui era tornato a sedersi nella poltrona, le lunghe gambe distese davanti a sé e un sorriso sarcastico sulle labbra pallide. - Se avessi prestato attenzione a quanto ti ho detto durante la nostra cenetta, avresti capito con chi hai a che fare. A Erik è sempre importato soltanto di Erik.

- Grazie per avermelo ricordato. - Rasselie si mosse per andarsene; ma lui, sporgendosi dalla poltrona, la afferrò per un braccio mentre gli passava accanto. Una stretta ferrea e per nulla gentile.

- Aspetta. Non sto dicendo che non potrei trovare il modo di indirizzare quel cretino di Michaud sulla pista giusta. Ma essendo appunto, come ho detto, un cretino, è probabile che si comporti come un cane da tartufi cieco e privo di olfatto, incapace di accorgersi del boccone che ha sotto il naso.

- Vale la pena provare, pur di fermare quell'assassino. Non posso credere che, dopo tutto quello che ha fatto, tu esiti ancora in nome dell'amicizia che c'è stata fra voi. Amicizia... o che altro?

Erik ridacchiò stancamente. - Non essere ridicola. Non siamo stati amanti.

Rasselie scrollò le spalle. - Va bene, dopotutto la cosa riguarda voi due. Ma qualsiasi cosa vi leghi non può essere più importante della vita di tutte quelle povere donne... E delle eventuali future vittime.

Lui si passò le mani fra i capelli, scompigliandoli; un gesto che lo fece sembrare giovane e impacciato.

- Devi credermi quando ti dico che non so cosa fare. Non posso ucciderlo, non posso fermarlo. Posso soltanto sperare di riuscire a ostacolarlo. Ma nessuna prigione riuscirebbe a trattenerlo a lungo.

Un sospiro di esasperazione sfuggì dalle labbra di Rasselie. - Ne parli come se non fosse un uomo come gli altri.

- Infatti non lo è.

L'ostinazione di Erik, come del Persiano, su quell'argomento era granitica. E irritante.

- E va bene, continua pure a propinarmi le tue storielle sovrannaturali mentre quello squilibrato massacra qualche altra mezza dozzina di donne - concluse Rasselie con manifesto disprezzo avviandosi verso la porta.

- Cosa devo fare affinché tu mi creda?

Lei lo guardò dalla posizione di dominio che il trovarsi in piedi le garantiva.

- Devi soltanto smetterla di raccontarmi fanfaronate.

- E va bene... - Erik si alzò con evidente sforzo, si voltò e lasciò scivolare la vestaglia dalle spalle, scoprendo la schiena fino ai fianchi. - Guarda.

Rasselie si portò una mano alla bocca, soffocando un gemito.

La schiena di Erik somigliava a un campo sul quale l'aratro fosse passato a lungo ma in modo disordinato, anche se il colore non era quello della terra appena dissodata ma un rosso violaceo che in alcuni punti, dove la pelle appariva raggrinzita, sfumava in una tonalità livida. La schiena di un uomo che avesse conosciuto ripetutamente la frusta non si sarebbe mostrata in condizioni peggiori.

- Non è possibile...

Il ricordo della loro notte insieme era fatto, più che di immagini, di sensazioni percepite attraverso la pelle, la punta delle dita, e le sue mani rammentavano la compattezza della carne sotto le carezze.

- Io non avevo idea... Credevo che la Fiamma ti avesse soltanto... sfigurato.

- Quello è il suo marchio indelebile. Ma è una bastarda. Ogni anno, nel periodo del "battesimo", torna a farsi sentire in qualche parte del corpo. Immagino che a suo modo si diverta. - Un accenno di risata. - La schiena non è il posto peggiore dove possa colpire. Comunque... puoi immaginarti come sta la mia faccia in questo momento.

Rasselie trattenne l'impulso di alzare una mano a sfiorare quella devastazione.

- Fa... male?

- Adesso non molto. Fra qualche giorno non si vedrà più nulla. - Erik tornò ad avvolgersi nella vestaglia e si girò verso di lei. - Sei impallidita - osservò accennando un sorriso di scherno. - Forse adesso sarai disposta a dare credito ai miei racconti.

- Io non... non... - balbettò Rasselie, e sentì che la voce si incrinava. - Non immaginavo...

Il sorriso svanì dalle labbra di Erik. Per quello che la maschera poteva lasciar trapelare, l'espressione era mutata da sarcasmo in mortificazione.

- Mi dispiace, non avrei mai dovuto coinvolgerti in questa faccenda.

Inaspettatamente l'abbracciò, attirandola contro di sé. Rasselie si sentì avviluppare dalle larghe maniche della vestaglia, avvertì contro una guancia il rilievo dei complicati ricami, il pizzicore dei lustrini. Per un attimo desiderò affondare in quel mare di seta, ma la razionalità fece il suo dovere e la costrinse a sciogliersi dall'abbraccio, allontanare Erik da lei appoggiandogli le mani sul petto; con gentilezza ma anche con composta decisione, come si conviene a una signora.

- Devo andare. Ti lascio a riflettere su... qualsiasi cosa tu intenda fare con Jack.

Lui annuì con un mugolio distratto. Sembrava preoccupato da qualcos'altro.

- Riguardo a quello che ti ho detto quando sono venuto a prenderti da mamma Valerius... Mi dispiace di averti offesa.

Anche Rasselie sapeva di dover dire qualcosa al proposito e lo disse fingendosi inconsapevole del calore che le inondava il viso.

- No, no. Anche io mi sono comportata ingiustamente. Ero davvero furiosa ma ce l'avevo con me stessa, in realtà, perché... be', non volevo che pensassi che sono il tipo che va a letto con il primo uomo che incontra, e per giunta mascherato.

Erik emise una leggera risata sottovoce, priva di ironia e velata di stanchezza.

- Non molto lusinghiero nei miei confronti, ma ti capisco. Tuo marito era stato l'unico, fino a quella sera?

- Sì. E non sai quanto l'ho amato, quanto lo amerò sempre. Perciò non mi capacito...

- Puoi non crederci, ma nemmeno io vado a letto con chiunque. Non più, almeno. Credo che quanto è successo tra noi sia soltanto colpa di tutto il movimento di quella sera. Mi ha un po'... scaldato il sangue. Così quando ti ho vista nel mio letto, così fragile e inerme, e deliziosamente ubriaca... Tremavi ancora per il freddo e allora ti ho abbracciata.

- Certo, eri animato dalle più lodevoli e innocenti intenzioni. - E subito Rasselie si pentì del sarcasmo esplicito in quella frase.

- Quello che abbiamo fatto non è un insulto al tuo defunto marito, non intacca i tuoi sentimenti o il rispetto che gli porti. Sai, per quanto possa sembrarti improbabile, anch'io ho amato. Tanto tempo fa. È stato un sogno. E quando mi sono svegliato, ho scoperto di avere esaurito in un colpo solo tutta la mia capacità di sognare. Però insieme a te mi sono sentito di nuovo vivo, cosa che non mi capitava da parecchio.

- Be', forse se tu concedessi un'occasione a quella povera Meg...

- Finirei per rovinarle del tutto l'esistenza.

- Credo che tu l'abbia già fatto.

 

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Capitolo 9
*** Visioni spettrali ***


9

VISIONI SPETTRALI

(Dove si gustano sorbetti al frangipane,

Rasselie passa da un incubo all'altro ed Erik racconta la sua infanzia)

 

- Quell'uomo è un idiota totale!

L'esclamazione fu abbastanza forte da zittire il gruppetto di persone sedute al tavolo vicino. Sentendosi scrutare con riprovazione, Rasselie abbassò lo sguardo e sussurrò a Gabriel al di sopra delle coppe di sorbetto al frangipane: - Se Michaud rivela questa storia alla stampa, Jack non se ne resterà di certo nel suo nascondiglio ad aspettarlo. Cosa crede, che non legga i giornali? Io scommetto invece che conserva tutti gli articoli che parlano delle sue imprese, in un bell'album con la copertina rosso sangue!

- I giornalisti sono golosi di queste storie, se non lo sa lei... Perciò Michaud ha deciso di dar loro il contentino passando alla stampa le lettere anonime che stiamo ricevendo.

- Ma questa... questa cosa potrebbe essere vera!

- Quale cosa?

- Quella scritta nell'ultima lettera arrivata!

- L'ipotesi che lo Squartatore possa avere affittato il luogo in cui vive da un affittacamere cieco?

- Perché no? Da qualche parte deve pur nascondersi, e una persona che fosse cieca... Insomma, rientrerà coperto di sangue, giusto? Potrebbero restarne tracce nell'appartamento, o semplice stanza che sia. Non penso proprio che abiti in albergo e mandi gli abiti in lavanderia.

- In effetti...

- Com'era firmata quella lettera?

- Be', era una lettera anonima.

- Che ne so... "un amico", magari. O con un nome di fantasia. Dopotutto anche il nome Jack viene da una lettera che fu spedita alla polizia inglese. Jack non sarà certo il suo nome. Potrebbe chiamarsi... Antoine, Jean... Pierre, magari.

- Ma non è inglese?

- Dicevo così per dire. Comunque... perché Michaud non cerca questo affittacamere cieco? Non ce ne saranno a centinaia in tutta Parigi.

- Considera quelle lettere soltanto scherzi di mitomani.

- Quell'imbecille, lo prenderei volentieri a calci nel... - Rasselie s'interruppe e si guardò colpevolmente attorno. Il dehor del piccolo Café era affollato dall'abituale clientela del pomeriggio: decorose coppie di mezza età e famigliole con bambini, in cerca di refrigerio dalla calura estiva. Le poltroncine di vimini scricchiolavano sotto matronali deretani, i ventagli palpitavano agitati da polsi inquieti, fazzoletti immacolati detergevano il sudore da fronti severe e l' "acqua ghiacciata" finiva di sciogliersi nelle coppe.

Gabriel tossicchiò. - Senta, mi fa piacere aiutarla, ma sto rischiando parecchio. Se si venisse a sapere che il suo informatore dentro alla polizia sono io...

Rasselie allungò il braccio attraverso il tavolo e gli strinse la mano in un gesto di conforto e rassicurazione.

- Mi creda, non smetterò mai di esserle grata per tutto quello che ha fatto per me in questi anni, riferendomi ogni minimo indizio che potesse portarmi all'assassino di Étienne. Ma adesso ci troviamo di fronte a un individuo ben peggiore, che fa a pezzi le donne per il proprio macabro divertimento, e deve essere fermato. Se l'intera popolazione di Parigi... o almeno una buona parte di essa collaborasse, sono sicura che si arriverebbe a catturarlo prima che colpisca ancora.

- Il modo in cui uccide e scompare nel nulla... Fa quasi da pensare che si tratti di un essere sovrannaturale, che si aggira per le strade come un fantasma.

Rasselie non riuscì a trattenere un'esclamazione: - Oh mio Dio! Non mi dica che qualcuno pensa che possa trattarsi del Fantasma dell'Opera!

- Il Fantasma dell'Opera? - Gabriel rise. - Come le viene un'idea simile? Ma a proposito di Opéra, volevo parlarle di una cosa. Essendo una donna può capire meglio e darmi un consiglio. E lasciamo perdere per un momento queste orrende storie di assassini!

- Di che si tratta?

- La figlia di mia sorella, una bambina di sei anni. Si sa come sono le bambine a quell'età, ma lei è da quando aveva quattro anni che dà il tormento ai genitori. Vorrebbe diventare una ballerina. Mia sorella le ha spiegato che non è facile essere accettate come allieve, però lei non demorde. Insomma, non è soltanto un capriccio.

Rasselie si mise in bocca un cucchiaino di sorbetto, gustandone la fresca dolcezza sulla lingua. Poi azzardò: - Forse posso... Conosco una persona che potrebbe mettere una buona parola con l'insegnante di danza.

*

L'ultimo sguardo prima di addormentarsi era sempre stato per Étienne. Quando lui era ancora in vita, Rasselie era solita chiudere gli occhi sull'immagine del suo profilo rilassato nel sonno. Il suo respiro profondo e tranquillo la faceva sentire protetta. Dopo, nel letto ormai troppo grande e freddo, attraverso il velo delle lacrime fissava la fotografia sul comodino, lottando contro il peso delle palpebre gonfie, riluttante a lasciar scivolare nel buio il volto che le sorrideva dalla cornice d'argento, quasi che l'oblio del sonno fosse una colpa, un abbandonarlo ancora alla morte.

Da un po' di tempo, però, il rituale aveva cominciato a prendere una inaspettata deriva.

Rasselie giaceva a letto, cercando di animare le labbra di Étienne. congelate in quel sorriso fisso, risvegliare lo scintillio degli occhi scuri ricordando il modo in cui batteva le ciglia guardandola, la maniera di ammiccare, le rughe parallele che gli segnavano la fronte quando era preoccupato... ma piano piano, inavvertitamente, il pensiero cominciava a vagare, anche se la meta ultima era sempre la stessa: la sua notte con Erik.

Al momento delle nozze, lei ed Étienne erano giovani ed entrambi abbastanza inesperti. L'istruzione amorosa di una ragazza perbene doveva limitarsi ai baci e qualche carezza furtiva; quella di un ragazzo perbene poteva essere di qualche grado appena superiore. E loro due non facevano eccezione. Avevano costruito insieme la loro intimità giorno per giorno, con infinita tenerezza e qualche goffaggine che era sempre motivo di risatine imbarazzate.

Ma Erik l'aveva travolta e sottomessa con un'assoluta ed esperta impudicizia, perquisendo il suo corpo con le dita e le labbra, risvegliando ogni centimetro di pelle a una smania fremente che l'aveva costretta a rispondere a quelle sollecitazioni e ricambiarle con una assenza di pudore che, ripensandoci a mentre fredda, la riempiva di sbigottimento e vergogna.

La mente cercava di sfuggire al ricordo, il corpo lo cercava; nei sogni o ogni qual volta le sue stesse mani erano costrette a sfiorarlo mentre si vestiva o nelle abluzioni quotidiane.

Fantasma, impostore, chiunque fosse... aveva perversamente contaminato la sua dolente castità vedovile.

Il suo medico non aveva torto. Doveva trovarsi un marito. Un brav'uomo saggio e ragionevolmente passionale, con il quale godere delle gioie della carne senza esserne travolta.

Quell'assillo le toglieva il sonno, spingendola a passeggiare su e giù nella casa vuota e silenziosa, al buio, cercando disperatamente di conciliare il buon senso con la sensualità che Erik aveva risvegliato in lei.

Non le piaceva ricorrere al laudano per trovare un po' di riposo, così si ritrovava a sperimentare i miscugli di erbe più improbabili e amari. Quelle tisane perfide, in fondo, erano una punizione che infliggeva ai propri sensi eccitati. Qualcuna, a volte, funzionava davvero. E il sonno allora arrivava, miracolosamente pesante.

*

Sapeva che si trattava di un quadro; o piuttosto di una incisione, data l'assenza di colori. Vista in un libro, forse, ma quanto tempo addietro? La scena raffigurava una stanza da letto piena di oggetti accennati in una luce incerta che poteva essere quella dell'alba. Su un tavolo si notavano un libro, uno specchio, e una fiala di vetro. Sullo sfondo, da una tenda che appariva quasi nera, sporgeva il muso di un cavallo spettrale, con gli occhi resi opalescenti dalla cecità, vacui e inespressivi come biglie di quarzo. In primo piano, riverso su un letto in una posa di innaturale e scomposto abbandono, giaceva il corpo di una giovane donna: il volto pallido, la testa e le braccia che pendevano oltre la sponda, inerti. Era morta o soltanto addormentata? In contrasto con i toni bruni e cupi della scena, da tutta la sua figura, dalla camicia da notte candida alla carne, si diffondeva una luce ultraterrena. Ma ciò che più attirava lo sguardo e lo incatenava all'immagine, nonostante la repulsione che ispirava, era la creatura accovacciata tra il ventre e il petto della dormiente: un piccolo mostro deforme e peloso, dalle orecchie appuntite e il muso schiacciato, ingobbito in una posizione raccolta che poteva preludere a un balzo improvviso verso l'osservatore. Perché era verso l'osservatore che la creatura guardava, con maligna pensosità, quasi stesse studiandolo, dimentico del bel corpo inanimato che sembrava aver eletto a sua tana.

Affascinata dall'orrore, Rasselie contemplava la visione dall'esterno, eppure allo stesso tempo ne faceva parte. Era lei la donna riversa sul letto. Avvertiva il peso opprimente della creatura sul suo petto, il contatto umido e caldo della carne villosa, l'odore di terra bagnata e gravida di cose morte. Ogni respiro le costava una fatica dolorosa, come quando si era ritrovata a schiacciata sul lastricato del vicolo, sotto il peso di Jack, e la morte incombeva su di lei, affilata e scintillante. Ma non c'erano scintillii, adesso, ad animare il buio che le si chiudeva piano piano attorno. Il cuore rallentava i battiti, compresso sotto quel peso che non poteva contrastare.

Doveva reagire. Sapeva di poter sconfiggere la creatura, se soltanto fosse riuscita a muoversi. Sentiva il proprio corpo che cercava di sollevarsi, quasi poteva vedere le braccia tendersi, respingere la mostruosa creatura; più e più volte ripeteva lo sforzo disperato, e sempre veniva ricacciata indietro e imprigionata contro il materasso da una forza sovrumana.

"Erik... Erik... Aiutami!"

Una voce sussurrava al suo orecchio, ma non era quella di Erik; e le parole vibravano in una cadenza che le era straniera, eppure riusciva a comprenderle. Avvolgenti, sensuali e insidiose.

"Questa notte l'ho attratta nel mio letto... le mie mani calde e rapaci l'hanno stretta... il suo corpo al mio corpo, e la sua anima alla mia insieme ho fuso, rovesciando in lei la mia forza, lo spirito e il respiro..."

L'alito della creatura le lambiva il viso con un afrore di tomba appena scoperchiata, dita viscide si insinuavano tra i suoi capelli e strisciavano come vermi sotto la stoffa leggera della camicia da notte. Tutto il suo corpo fremeva per la repulsione, ma lei non poteva muoversi, paralizzata dall'orrore. Forse la morte era così? Una paralisi nella quale la mente restava vigile, consapevole della lenta decomposizione della carne? Se era così, cosa provavano tutti quei poveri corpi esposti nella Morgue, offerti alla lascivia di sguardi morbosi che li derubavano di ogni dignità? Sui loro letti di marmo ascoltavano i suoni prodotti dalla putrefazione, avvertivano la carne che si gonfiava e cadeva a brandelli dalle ossa? La morte era un lungo stupro che avrebbe avuto fine soltanto quando lo scheletro fosse rimasto nudo... O nemmeno allora? E Thimothina, fragile e troppo giovane per morire... Cosa aveva provato quando la lama era penetrata a fondo nel suo ventre e le viscere le erano state strappate via...

"Non ho saputo difenderti..."

L'unico atto di pietà possibile era stato ricordare il suo nome, identificarla, risparmiare a quel povero corpo martoriato la curiosità dei visitatori della Morgue, consegnarlo al pudore di una bara.

*

Rabbrividiva. Ciocche di capelli intrise di sudore le si appiccicavano alle guance e al collo. La camicia da notte, bagnata e pesante, aderiva al suo corpo come una placenta; e l'aria umida che entrava dalla finestra spalancata, insieme alla luce dell'alba, accresceva il disagio portando con sé un odore denso e disgustoso, come a volte le era capitato di avvertire passando davanti a un mattatoio.

Doveva alzarsi e chiudere la finestra... Adesso almeno riusciva a muoversi, anche se ancora sentiva il corpo pesante e intorpidito. Alzò le braccia con uno sforzo che le strappò un piccolo lamento. Anche la voce le sembrava ancora imprigionata in gola insieme al respiro. Si passò le mani sul viso. Il sudore che la ricopriva era così denso e appiccicoso...

Nella luce acquosa che precede il sorgere del sole, la stanza non aveva colore, come l'incisione del sogno; soltanto chiarori tremuli e ombre brune.

Rasselie si guardò le mani. Le dita e il palmo erano striati di nero. Il tempo sembrò annullarsi mentre fissava quelle striature scure, per un istante soltanto o un'eternità. Quanto impiegò la consapevolezza prima di cominciare a urlare dentro di lei, implorandola di scuotersi, alzarsi da quel letto... Un letto di morte. "Sono morta e so di esserlo!"

Mentre con cautela si metteva a sedere, il peso che le gravava sul petto scivolò giù lungo il suo corpo, sulle lenzuola: un ammasso nero e viscido che si srotolava come un gigantesco lombrico. Altre cose lucide e scure giacevano sul cuscino vicino all'impronta della sua testa, e tutto attorno si allargavano quelle macchie color... color cioccolato.

E in quell'osceno colore, sulla parete di fronte al letto spiccava una scritta: "Welcome to my Hell".

*

- Abbiamo la proprietaria delle frattaglie! - Annunciò trionfalmente il poliziotto entrando nella stanza d'albergo.

Michaud si voltò verso di lui e con un gesto brusco gli ordinò di abbassare la voce. I due uomini andarono a confabulare un po' più in là; ma Rasselie, raggomitolata in una poltrona, riuscì a raccogliere qualche brandello di frase.

- ... stessa procedura... gola squarciata da un orecchio all'altro... le viscere e gli altri organi... esattamente quelli che mancano dal cadavere...

Michaud ascoltava annuendo. Poi, congedato l'agente, tornò verso di lei.

- Come si sente? È in grado di rispondere a qualche domanda?

Era la prima volta che la voce dell'ispettore, nel rivolgersi a lei, non esprimeva disprezzo o sufficienza.

- Certo, sto bene.

C'era voluto un lunghissimo bagno caldo e qualcosa che il medico l'aveva obbligata a bere, ma perlomeno il tremito l'aveva lasciata, anche si sentiva sfinita e a tratti la nausea minacciava ancora di sopraffarla. Non riusciva a smettere di toccarsi i capelli umidi. Forse avrebbe dovuto tagliarli... L'acqua e il sapone avevano lavato via anche l'ultima particella di sangue che li imbrattava, di questo era sicura, ma il ricordo persisteva. Le sembrava di poter sentire ancora l'odore...

- Ha sempre il sonno così profondo?

- No, niente affatto. Anche se ha tagliato il vetro della finestra per raggiungere la maniglia, il rumore doveva svegliarmi.

- Ha mangiato bevuto qualcosa di diverso dal solito, magari non a casa sua? Qualcosa che avesse un sapore strano.

- Nessuno mi ha drogata, ne sono sicura. Ho mangiato solo un po' di frutta e bevuto una tisana.

- Tisana?

- Sì. Ma se avesse trovato il modo di introdursi in casa mia per aggiungere qualche droga alle mie erbe, senza che me ne accorgessi, non avrebbe avuto bisogno di tagliare il vetro per entrare dopo.

Ricordò la polvere adamantina che Jack aveva provato a soffiarle in faccia la notte del loro incontro nel vicolo. Ci era riuscito stavolta, attraverso il foro praticato nel vetro? Come? Il letto non era vicino alla finestra.

- Che cosa ha fatto per meritarsi queste... attenzioni particolari da parte dello Squartatore?

Finalmente era ritornato un po' del familiare disprezzo. Era più rassicurante della vaga pietà di prima.

- Io... non ne ho idea.

Non si aspettava che Michaud le credesse ma non poteva ovviamente raccontargli la verità: "Gli ho teso una trappola in un vicolo e me la sono vista brutta ma sono stata salvata dal Fantasma dell'Opera che mi ha portata a spasso per le fogne, poi abbiamo concluso la serata a letto insieme". A dir poco, l'ispettore si sarebbe sentito preso in giro.

- Lascerò un uomo di guardia davanti alla porta, ma lei non deve uscire dalla stanza o affacciarsi alla finestra.

- Poteva uccidermi la notte scorsa. Non vedo perché dovrebbe cambiare idea.

- Ne è così sicura? - L'espressione di Michaud oscillava tra sdegnosa compassione e un muto "Te la sei cercata". - Una messinscena così macabra e accurata. Non mi vorrà far credere che si è trattato del ghiribizzo di un momento. Sventra una donna, preleva gli organi interni e li porta con sé per la città fino a quando, passando davanti alla finestra di una casa uguale a tante altre, decide di decorare con il suo bottino il letto di una donna qualunque?

Lei cercò di immaginare Jack che ne andava a passo tranquillo per il quartiere, portando in una borsa o forse in un sacco impermeabile gli organi interni della donna appena ammazzata, e una bottiglia con il suo sangue...

- Per quanto a lungo dovrò restare chiusa qua dentro? E la mia famiglia? I miei genitori vivono in campagna ma sono abituati a ricevere una mia visita almeno una volta al mese. E se qualcosa dovesse trapelare attraverso i giornali, anche solo il nome della zona... Lei non dirà nulla alla stampa, vero?

- Se questa faccenda non la riguardasse personalmente sarebbe ben felice di poterla divulgare fino al più piccolo dettaglio.

- Si sbaglia, io non sono quel tipo di giornalista. Ma la strada in cui vivo rischia di essere invasa dai peggiori mastini della stampa, e sono sicura che qualcuno riuscirà a far parlare qualche vicino di casa.

Non che ci fosse molto da raccontare. I poliziotti l'avevano portata fuori di casa avvolta da capo a piedi in una coperta e imbarcata in tutta fretta su una carrozza che era partita immediatamente; ma il gran dispiegamento di forze dell'ordine testimoniava della gravità dell'accaduto.

- Nel villaggio dove vivono i miei non c'è neppure un posto telefonico pubblico... Perché diavolo un arnese così utile come il telefono non è già nelle case di tutti?

- Chissà, magari in futuro potremo parlarci da un continente all'altro. O magari fra la Terra e la Luna, ammesso che arriviamo mai lassù! Nel frattempo, ai suoi genitori può sempre inviare un telegramma o una lettera.

Riusciva anche a fare lo spiritoso.

- E nel frattempo cosa dovrei fare? Restare chiusa qui fino a quando lei non decide che posso uscire?

- Esattamente.

*

Le ore si trascinavano con lentezza innaturale, tanto che più di una volta si era sentita spinta a controllare il funzionamento del suo orologio. Che, ovviamente, non aveva alcun problema.

Aveva fatto inviare un telegramma ai genitori e scritto loro una lettera che li avrebbe raggiunti qualche giorno dopo, dicendo loro di non preoccuparsi, qualunque cosa avessero udito circa i delitti avvenuti a Parigi. Lei era in perfetta salute, li rassicurava, ma proprio a causa di quello che stava accadendo era molto occupata sul lavoro e non avrebbe potuto raggiungerli per qualche settimana. Una volta consegnata la lettera al fattorino dell'albergo, si chiese se le sue parole non avrebbero ottenuto l'effetto opposto; renderli inquieti invece di rassicurarli.

Non aveva nemmeno nulla di interessante da leggere. Quello sciocco del poliziotto di guardia le aveva procurato soltanto qualche insulsa rivista. E a lei non interessava minimamente sapere che tipo di cappellini sarebbe andato di moda l'inverno seguente.

Spiluccò svogliatamente le pietanze che un cameriere le aveva portato nella stanza. Niente a che vedere con i cibi raffinati gustati nel Salone della Luna. Dopotutto, quell'albergo non era il Ritz. E chissà quanto a lungo avrebbe dovuto restare segregata come un ostaggio.

Cercava di riandare con freddezza agli accadimenti del mattino, quando il primo raggio di sole, insinuandosi fra le tende, aveva dipinto la stanza di scarlatto.

E come, un attimo dopo, lei si era scaraventata giù dal letto, brancolando e inciampando aveva raggiunto l'angolo più lontano, rifugiandovisi con le spalle al muro, quasi cercando di sprofondare tra l'intonaco e i mattoni, boccheggiante per la nausea che le impediva di gridare, ma incapace di distogliere lo sguardo dalla scena di macelleria dipinta sulle coperte. Con la parte più razionale del suo cervello si era trovata a invidiare le donne dei romanzi di appendice capaci di svenire alla minima emozione. Le fortunate almeno potevano conoscere il sollievo di un temporaneo oblio, esentate dall'agire. Un lusso che non le era concesso.

Alla fine, scossa da un tremito che le permetteva appena di reggersi in piedi, si era mossa strisciando lungo il muro, un centimetro alla volta, fino al cassettone dove era posata la sua borsa. A tentoni, come quelle di un cieco, le sue dita avevano riconosciuto il calcio del revolver, e questo le aveva dato un senso di immotivato sollievo... almeno non era stato rubato... Ma le mani le tremavano così tanto che non riuscivano ad afferrare gli altri oggetti contenuti nella borsa, quasi neppure a identificarli... Lo specchietto... l'agenda... un fazzolettino... In qualche modo, dopo diversi vani tentativi, era riuscita a impadronirsi del fischietto, estrarlo dalla borsa, raggiungere la finestra... Affacciandosi, pensava con disperazione che i suoi polmoni esausti non avrebbero mai trovato la forza per emettere fiato a sufficienza e strappare il minimo suono dal fischietto. Ma appena il primo debole e incerto trillo si era levato nell'aria, un'ira selvaggia e un incontenibile desiderio di vendetta avevano spezzato l'incantesimo dell'orrore permettendole di cominciare a fischiare, fischiare, e sapeva di poter allertare qualsiasi poliziotto di ronda nei dintorni, e più lontano in ogni angolo di Parigi, chiamare tutta la Sureté al completo...

Non ricordava chi per primo l'avesse trovata, gelata e tremante, rannicchiata sotto la finestra.

E adesso le seccava enormemente che Michaud pensasse di avere un vantaggio su di lei; la giornalista sicura di sé fino all'arroganza, ridotta infine come una qualunque povera e fragile donnetta terrorizzata, da tenere segregata, ridotta all'impotenza con la scusa di salvarle la vita. Che rabbia!

Alla fine si risolse a scrivere un biglietto indirizzato a un certo portiere di un certo edificio, e lo nascose sotto il tovagliolo insieme a una banconota. Nella speranza che chi lo trovava non si limitasse a intascare i soldi.

*

C'era qualcuno accanto a lei. Lo percepì nel dormiveglia. Una presenza seduta sulla sponda del letto, ma non si trattava del maligno incubo della notte precedente... Una mano si posò delicatamente sulla sua bocca. Un bisbiglio caldo sul suo orecchio. Un profumo di rose e limoni.

- Non avere paura, sono io.

Rasselie spalancò gli occhi.

- Erik? Erik... Erik!

Fu come se tutti gli avvenimenti accumulatisi nelle ultime ventiquattro ore le franassero addosso; o, meglio, fu come il crollo di una diga, un erompere improvviso e incontrollabile di emozioni. Abbracciò Erik e scoppiò in singhiozzi. Lui non disse nulla, si limitò a tenerla stretta con gentilezza. Tenerezza, forse. E per qualche meraviglioso minuto Rasselie si sentì completamente protetta, al sicuro.

La parte razionale della sua mente non impiegò molto a riprendere il controllo. Si sciolse dall'abbraccio con un senso di vergogna.

- Scusa - mormorò. - Di solito non sono tipo da queste scene.

- Va tutto bene. Scommetto che non lo avevi ancora fatto. Ma piangere è un gran sollievo.

Lei annuì passandosi le mani sul viso.

- Ho inzuppato la tua giacca. - Soltanto allora si accorse delle decorazioni dorate e dei bottoni. - Ma come diamine sei vestito?

- In questo momento c'è un fattorino dell'albergo che sta disperatamente cercando la sua divisa. Altrimenti come pensavi che potessi arrivare fin quassù? Ho già abbastanza da fare a nascondere la mia faccia mascherata.

- E il poliziotto in corridoio?

- Gli ho cantato la ninnananna. Ma adesso sbrigati, vestiti e andiamo via da qui.

Lei scosse la testa.

- Non ti ho fatto avere quel biglietto perché venissi a portarmi via, volevo solo informarti dell'accaduto prima che comincino a parlarne i giornali. Non mi fido di Michaud. E se sparisco adesso...

- Sarai comunque più al sicuro da me.

- Dimentichi che lui ti ha già fatto visita due volte?

- Ammesso che riesca a localizzare il mio appartamento, non riuscirebbe mai a entrare. Il meccanismo di apertura può essere bloccato dall'interno.

- Immagino che sarebbe capace di incendiare il teatro pur di stanarti.

- Probabile. Ma intanto alzati e vestiti. In fretta.

*

Si sentiva ancora così esausta che le ginocchia le si piegavano ed Erik fu costretto a portarla in braccio per le ultime rampe di scale. Quando la rimise a terra nella soffitta, ansimava leggermente.

- Cerca di non ingrassare di un etto altrimenti la prossima volta potrei non farcela.

- Non ci sarà una prossima volta. Quel maledetto medico mi ha dato della roba per farmi dormire.

- Penso piuttosto che siano i postumi della droga che ti ha fatto respirare Pierre. Ricordi la sua polverina magica? Deve avertene data una bella dose. Prima l'avrà soffiata con una specie di cerbottana attraverso il foro nel vetro, e poi ti ha propinato il resto, in modo di avere tutto il tempo di allestire la sua messinscena grandguignolesca.

Le mani di Rasselie salirono immediatamente a toccare i capelli.

- Devo fare un bagno. Subito.

- Accomodati.

Ma non c'era modo di lavare via il ricordo. L'odore terribile del sangue sembrava ancora impregnare il suo corpo, come fosse penetrato in lei attraverso ogni poro; ma la cosa peggiore era soprattutto la sensazione sui suoi capelli: toccandoli li sentiva sudici, non importava quanto li lavasse, sotto le sue dita erano sempre incrostati di sangue, appiccicosi...

Uscì dalla vasca, si avvolse in un asciugamano e andò allo specchio della toeletta nella stanza vicina, decisa a mettere fine a quel tormento. Erik, che era in piedi davanti alla finestra, sentendola uscire così di fretta si voltò. Si era sbarazzato della divisa da fattorino e si era infilato in una delle sue orribili vestaglie.

- Cosa vuoi fare? - chiese in tono leggermente preoccupato, vedendola prendere un paio di forbici.

- I miei capelli.. non riesco a farli tornare puliti!

- Sono soltanto aridi, li hai lavati troppo. Aspetta.

Andò a prendere una delle tante boccette allineate sulla mensola di marmo, la stappò e si versò qualcosa nel palmo delle mani.

- Siediti e mettiti tranquilla. Le donne dell'harem usano quest'olio per le loro chiome che arrivano fino ai piedi.

Lei obbedì e sedette, troppo stanca per replicare, e chiuse gli occhi quando Erik immerse le mani nei suoi capelli. Le lunghe dita cominciarono a massaggiarle il cuoio capelluto, scivolando tra ogni ciocca di capelli come tra le corde di un'arpa.

- Vedrai, i tuoi capelli torneranno come prima. Anzi, saranno ancora più belli.

Ascoltare la sua voce a occhi chiusi era abbandonarsi volontariamente alla malìa di un ipnotizzatore; ma lei si sentiva così assonnata...

- Ecco...

La sensazione di una spazzola fra i capelli in lunghi movimenti morbidi... Da quanto tempo nessuno la pettinava? Da quando era bambina, probabilmente. Non ricordava che Étienne lo avesse mai fatto.

Il pensiero di suo marito la strappò bruscamente alla fascinazione del tocco di Erik. Quell'uomo era pericoloso, davvero pericoloso!

- Grazie, posso fare da sola.

- Come vuoi.

In effetti i suoi capelli erano ritornati lisci e soffici, e meravigliosamente profumati.

- Che si fa con il letto? - chiese tentando un tono spavaldo. - Ce lo giochiamo ai dadi o alla paglia più corta?

- È tutto tuo. Io me ne starò buono buono sul divano del salotto. Ho davvero bisogno di dormire qualche ora. Domattina... anzi, questa mattina, devo alzarmi presto.

- Affari in città?

- Forse.

Rasselie scosse la testa. Si sentiva presa costantemente in giro. Si infilò sotto le lenzuola e si liberò dell'asciugamano umido. Era la seconda volta che dormiva nuda in quel letto.

Erik sorrise. Nella luce di un lume a petrolio, i suoi occhi avevano riflessi ramati. Con suo grande dispetto lei sentì che le lacrime ritornavano a solleticarle gli occhi. Cercò inutilmente di trattenerle. Un battito di ciglia e le sentì colare, calde, lungo le tempie.

- Tranquilla... tranquilla... - Erik sedette sul letto accanto a lei; poi, dopo un attimo di esitazione, allungò una mano e le asciugò una lacrima. Quelle dita leggere...

Lei gli afferrò la mano. - Vuoi... rimanere qui fino a che non mi addormento?

"La prima volta eri ubriaca" la sgridò la sua mente razionale, "adesso sei drogata."

- Vuoi che ti canti una ninnananna? - scherzò lui.

"Non sta scherzando. Ricorda cosa è successo quella notte: lui cantava!"

- Non è necessario. Raccontami qualcosa. Dopotutto Jack ha interrotto la nostra cena ma anche il tuo racconto.

- Cosa vuoi sapere?

- Dimmi di quando... sì, quando eri bambino. Dove sei nato, cresciuto...

- Vuoi capire se è stata un'infanzia infelice e piena di abusi a trasformarmi nel mascalzone amorale che sono adesso? Dovrei inventarmi delle storie. In realtà, la mia infanzia è stata abbastanza serena. Sono cresciuto in un bordello.

- Scherzi.>>

- Perché? - Erik si sistemò con la schiena appoggiata alla testiera e le lunghe gambe comodamente distese sul copriletto. - Non era affatto un brutto posto. Certo, non era uno dei sontuosi templi del sesso che ci sono qui nei dintorni, ma non era un luogo squallido. Era un rispettabile e confortevole postribolo di provincia, un ambiente pulito e familiare. In effetti quasi tutti i clienti erano frequentatori abituali che provenivano dai paesi vicini. Immagino che fra loro ci fosse anche mio padre.

- E tua madre?

- Non sono sicuro di sapere esattamente chi fosse. - Non c'era traccia di canzonatura nella voce di Erik. Suonava assolutamente sincera e serena. - Tutte le ragazze erano molto gentili con me, e quasi a tutte piaceva sentirsi chiamare "mammina"; così immagino di essere cresciuto con le idee un po' confuse. Comunque, quando fui un po' più grandicello decisero che dovevo imparare a leggere e scrivere, e non soltanto ad aiutare una signora a infilarsi le calze. Così mi mandarono in una specie di collegio, in mezzo ai preti. Lì sì che dovetti darmi parecchio da fare per preservare la mia virtù! Per fortuna, presto scoprii un posto dove dormire più sicuro del mio letto; in soffitta. I sacchi di patate erano anche più comodi del mio materasso. Certo, quando si accorgevano che mancavo, cominciavano a cercarmi dappertutto, ma allora io mi nascondevo sui tetti, e alla fine si stancavano. Non mi presero mai.

Rasselie si ritrovò a ridere sottovoce. - Ecco come è nata la tua passione per le soffitte.

- Immagino sia così, sì. E per il resto non è che il collegio fosse poi orrendo, il cibo era passabile, non faceva troppo freddo e io imparai presto come evitare le bacchettate degli insegnanti. Bastava adottare un atteggiamento umile... e vincere la tentazione di strangolarli. E questo mi ha insegnato a mentire e dissimulare in modo credibile. In quanto al raccontare storie... l'ho imparato con la confessione domenicale, un momento davvero creativo e divertente.

- È la prima volta che sento definire "divertente" un sacramento.

- Be', uno dei confessori era particolarmente curioso riguardo le nostre... attività notturne, e ce ne chiedeva un resoconto dettagliato. Voleva conoscere anche i nostri sogni perché, sosteneva, era attraverso di essi che il demonio ci tentava. Così noi ragazzi ci mettevamo d'accordo per raccontargli le storie più incredibili. Se tutti, la stessa notte, avevamo fatto lo stesso sogno lascivo, significava che c'era proprio lo zampino del diavolo. Dopotutto non potevamo raccontare verità del genere: "Stanotte padre Martin ha cercato di infilarsi nel letto di Gustave ed è per questo che adesso va in giro con un occhio nero". Certo, sapevamo che padre Martin avrebbe trovato il modo di vendicarsi, ma era comunque una bella soddisfazione essere riusciti a ricambiare in minima parte il male che lui faceva a noi.

- Ti picchiava spesso?

Anche a occhi chiusi, Rasselie percepì che lui si era stretto nelle spalle. Sembrava che raccontasse di cose accadute a qualcun altro, che non riguardavano minimamente il suo corpo o il suo spirito. E probabilmente era così. Fantasie.

- Avevo la pelle dura. Solo i più deboli e paurosi finivano per cedere, condannandosi a diventare vittime di ogni sopruso. Mi domando quanti di loro se la siano cavata, una volta usciti da lì.

- Non potevate fare nulla?

- Tipo scrivere al vescovo? - Erik rise, senza tradire in quella risata alcun risentimento. Il tono di voce restava tranquillo, quasi indifferente. - Andiamo! Ci sono più vizi nascosti sotto quelle auguste tonache che nelle mutande di qualsiasi dongiovanni impenitente.

- Immagino che nessuno di voi fosse esattamente un angioletto.

- Direi piuttosto il contrario, anche se alcuni dei tiri che giocavamo ai preti erano piuttosto ingenui e innocui. Siccome ci facevano lavorare nel giardino e nell'orto, a volte ci divertivamo a catturare rospi e lombrichi in giardino e li mettevamo nei letti. Padre Martin era anche abbastanza superstizioso, per essere un prete cattolico. Credeva nei fantasmi, così ogni tanto ne facevamo "apparire" qualcuno.

- Ma non mi dire... - Rasselie si sentiva assonnata e quelle chiacchiere la rasserenavano. Verità o invenzioni che fossero, la voce di Erik riusciva a trasformarle in favola.

- I nostri fantasmi erano abbastanza grossolani e improvvisati: stracci appesi fuori dalla finestra, rumori nei corridoi e bisbigli attraverso la porta, sagome proiettate attraverso una specie di lanterna magica che ci eravamo costruiti... Ma un giorno riuscimmo a costruire un vero fantasma, proprio terrificante.

- Come?

- Uno di noi, scavando nel giardino aveva trovato lo scheletro di un cane. Così mi venne un'idea. Misi una candela accesa dentro al teschio e li sistemai in cima a un bastone, drappeggiandogli un lenzuolo intorno. Una cosa proprio innocente, ma nel buio abbastanza inquietante. E aspettai che padre Martin salisse le scale per andare a dormire. Immagino che quella sera avesse alzato un po' il gomito, come gli accadeva spesso. Le scorte di vino per la messa si esaurivano sempre in fretta.

- E lui...

- Be', quando gli andai incontro recitando il Pater Noster al rovescio dovette prendermi proprio per un demonio o un'anima dannata. Fece un balzo e poi cominciò a indietreggiare facendosi il segno della croce e recitando esorcismi.

Una pausa. Erik aveva un vero talento per raccontare storie.

- E poi?

- Il divertimento durò poco, purtroppo. Io continuavo ad avanzare, e lui a indietreggiare... finché non mise un piede in fallo alla sommità della scala e rotolò giù, rompendosi l'osso del collo.

Rasselie sussultò e spalancò gli occhi, di nuovo lucida.

- È morto?

- Stecchito. Senza avere neppure il tempo di pentirsi dei suoi peccati. - Erik accennò di nuovo una risata sottovoce, ma questa volta a Rasselie sembrò di cogliere in essa una sfumatura di maligna soddisfazione.

- Non dirmi che hai avuto una parte attiva in quella caduta.

- Si è trattato di giustizia divina. Magari aiutata da una spintarella. Ma leggera leggera, con la punta di un dito.

Rasselie sospirò pesantemente. - Ecco, sei riuscito a togliermi il sonno.

- Perché? - Erik sciolse la mano dalla sua, e solo ora Rasselie si accorse di averla tenuta stretta per tutto quel tempo. - Dovrebbe consolarti il pensiero che laddove Dio tarda ad arrivare, ci pensa Erik.

Si chinò su di lei e le posò un lieve bacio sulla fronte. - Dormi bene. Un angelo veglia su di te, anche se ha le ali di pipistrello. Ma non è il caso di essere schizzinosi, non ti sembra?

 

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Capitolo 10
*** Per sale deserte ***


10

PER SALE DESERTE

(Dove si litiga per una gonna e si fa pace con un vestito,

poi si brinda nel palco n° 5 e si fa visita ad Apollo)

 

- Tu sei la quintessenza della scelleratezza! Un sublimato di irrazionalità! Sei... sei... Sembrava che Erik non riuscisse a trovare un paragone abbastanza ridondante per definirla. - Ti porto qui per tenerti al sicuro e tu invece te ne vai in giro a fare spese!

Nella sua ira era abbastanza inquietante. Gli occhi che scintillavano nelle fessure della maschera sembravano quasi neri e le labbra tremavano distorte in una smorfia che poteva essere odio. Per la prima volta Rasselie sentiva di trovarsi di fronte al terrificante Fantasma dell'Opera.

- Mi servivano alcune cose.

- Incosciente! Bastava che chiedessi a Meg...

- Non ti sembra che Meg abbia già abbastanza da fare?

- A Jean-Claude, allora! Ma cosa ti passa per la testa...

Rasselie si chiarì la voce. - Non si trattava del tipo di commissione che può essere sbrigata da un uomo. E se intendi tenermi qui ancora per una settimana... Be', era una commissione che dovevo assolutamente fare.

- Assolutamente?

- Santo cielo, Erik! Per essere cresciuto in un bordello e vantare un catalogo di conquiste più lungo di quello di Don Giovanni sei spaventosamente ignorante!

L'ira di Erik svanì di colpo. Dietro la maschera, di sicuro, si nascondeva un'espressione mortificata. Rasselie ebbe quasi l'impressione di scorgere un filo di rossore là dove il velluto nero lasciava scoperta una sottilissima striscia di epidermide alla base dei capelli.

- Oh... scusami. È che non ho mai davvero vissuto con una donna e tendo a dimenticarmi di come... siete fatte.

In un altro momento avrebbe potuto ridere del suo imbarazzo.

- Ma c'era anche un altro motivo. - Sapeva che l'avrebbe fatto di nuovo infuriare, ma non poteva tacergli quel particolare. - Dovevo capire come ha fatto Jack a trovarmi, ed è bastata una visita a una certa sartoria per confermare i miei sospetti. Nella gonna che ho perso nel vicolo c'era un'etichetta, è risalito a me da quella.

Il racconto fattole dalla proprietaria dell'atelier non lasciava dubbi. Un uomo dall'aspetto un po' strano, ma signorile e gentilissimo, si era presentato verso sera con un lembo di stoffa nelle mani inguantate e aveva raccontato la storia di un incidente provocato dal suo cane durante una passeggiata al Bois. L'animale, un cucciolo giocherellone, si era attaccato alle gonne di una signora, lacerandone l'orlo. Lei non l'aveva presa male, era stata più che comprensiva, alla fine aveva riso dell'accaduto e non voleva considerare l'idea di un risarcimento, quella era comunque una gonna della stagione passata... Ma lui si sentiva mortificato. Così, sperando di non apparire indiscreto, aveva deciso di far dono alla signora di una nuova gonna. Per caso, loro ricordavano per chi avevano confezionato il capo di abbigliamento in questione? Se un regalo simile da parte di uno sconosciuto era inappropriato, poteva conoscere il suo indirizzo per farle recapitare almeno un mazzo di fiori e un messaggio di scuse? Nella concitazione del momento, lui le aveva dato il suo biglietto da visita ma lei non aveva fatto altrettanto.

Lo sconosciuto, con la sua gentilezza pressante, era risultato così persuasivo che la proprietaria aveva aperto il suo registro, sfogliato i cataloghi alla ricerca del campione di stoffa uguale a quello che le era stato mostrato, trovato nome e indirizzo...

- E adesso che lo sai, vuoi dirmi cosa cambia? Se lui continua a sorvegliarti, prossimamente saranno le tue viscere a venire recuperate da qualche parte! - Erik si lasciò cadere in una poltrona emettendo un rumoroso sospiro di esasperazione. - Cosa dovrei farne di te? Non è mia abitudine picchiare le donne, ma tu meriteresti davvero una sonora sculacciata! Ah, no. Potrebbe anche piacerti. Maledetto il giorno che mi sei capitata tra piedi.

- Ascolta, apprezzo che tu mi voglia proteggere, ma io ho un lavoro, a "Le Matin"sono abituati a vedermi almeno una volta alla settimana e non voglio che possano avere dei sospetti. Anche se Michaud ha promesso di non dire nulla, qualcosa rischia di trapelare... soprattutto dopo che me la sono filata a quel modo, quell'uomo starà diventando pazzo; e non voglio ritrovarmi a essere oggetto di curiosità o, peggio, di compassione. Posso sempre trovare un posto abbastanza sicuro dove abitare.

- Abbastanza sicuro?

- Non credo che tu voglia continuare a dormire sul divano. E se non te ne ricordi, la prossima settimana iniziano le prove per la nuova stagione. Di sotto ci sarà pieno di gente quasi a ogni ora, non potrei certo andare e venire come se niente fosse, neppure con la complicità di tutti i tuoi amici. A meno che non indossi anch'io una maschera e un mantello nero...

- Ah ah. - Ovviamente, tutt'altro che una risata.

- Una cosa che non capisco è... come diamine fate, tu e Jack, ad andarvene in giro con quelle maschere di cera e avvicinare le persone senza che loro si accorgano di nulla. Quella ragazza dell'atelier di moda ha parlato soltanto di "un tipo strano".

- Sappiamo come convincere la gente a vedere solo quello che vogliamo.

- La ipnotizzate?

- Non è necessario. Comunque, se trovi sconveniente continuare ad abitare qui nei miei quartieri, chiederò Meg di trovarti una stanza tutta per te nei dormitori delle ballerine. E non preoccuparti che qualcuno ti possa vedere mentre entri o esci. C'è più traffico in questo teatro che sugli Champslysées.

*

Non si aspettava certo che lui sarebbe venuto a bussare alla sua porta quella sera stessa, dopo la sfuriata di poche ore prima. Ma invece accadde, e quando Rasselie aprì la porta se lo trovò davanti impeccabilmente vestito da sera, con tanto di mantello foderato di seta e guanti bianchi. Anche la maschera era bianca. E sul braccio sinistro portava una vaporosa massa di stoffa blu che le porse sorridendo.

- Questo è per te. Mettilo.

L'abito le si dispiegò tra le mani come la corolla di un fiore esotico, o le ali di una immensa farfalla: lucentezza serica, scintillii di appena percettibili ricami di argento e lustrini, una sensazione di freschezza e leggerezza che lo faceva sembrare quasi impalpabile.

- Cosa hai in mente?

- Farti visitare il mio regno. Ma non puoi certo andare in giro per il tempio della musica vestita come una popolana all'Esposizione Universale.

Non era certo un complimento al suo modo di vestire abituale, ma venendo da Erik non poteva stupirla o offenderla, anche se la tentazione di sbattergli la porta in faccia la stuzzicò per un attimo. Ma sapeva che se voleva ottenere da lui più informazioni riguardo il suo rapporto con Jack, o Pierre, o comunque si chiamasse, doveva assecondare i suoi capricci.

Così andò dietro al paravento, si liberò in fretta dei suoi abiti da "popolana all'Esposizione Universale" e indossò l'abito blu. Una cascata di seta fresca e soffice. Una carezza sensuale.

- Magnifica - mormorò Erik quando lei uscì da dietro il paravento. Gli occhi d'ambra avevano riflessi liquidi nella luce della lampada.

Rasselie decise di fingere con sé stessa che un simile sguardo non fosse almeno leggermente allarmante. Cercò di sorridere nel modo più naturale possibile.

- Questo blu mi fa tanto Madame Bovary...

- Stai benissimo. Purtroppo non ho trovato un paio di scarpette di cristallo. Dovrai accontentarti di queste.

Erano di pelle argentata, con un basso tacco a rocchetto e un cinturino fermato da una fibbia scintillante di piccole pietre azzurre; e calzavano perfettamente.

- Aspetta, manca ancora qualcosa. Voltati.

Come lo sfiorare di una piuma, un tocco leggero sul collo; ancora seta, stavolta quella dei guanti di Erik; poi la sensazione di qualcosa che scivolava sulla gola e sul petto con la fredda gentilezza di una spruzzata di nevischio. Rasselie si guardò nello specchio e per un istante, che più tardi avrebbe ricordato con disagio, si perse nella propria immagine. La tonalità scura e lucente della stoffa metteva in risalto il candore della pelle ... ma quando mai la sua pelle era apparsa così chiara e levigata? ... e le gemme di un collier di foggia vagamente egizia risplendevano di un blu intenso, incastonate in un metallo bianco e lucente simile al platino... anche se ovviamente non poteva trattarsi di platino.

Chissà da quale scaffale degli oggetti di scena proveniva. Anche se... Non aveva sentito dire, una volta, che lì in teatro c'erano delle cassette di sicurezza nelle quali le signore del bel mondo conservavano i gioielli con i quali si adornavano per assistere alle rappresentazioni?

Non riuscì a porre la domanda che avrebbe potuto chiarire quel dubbio. Non disse niente neppure quando Erik cominciò a toglierle le forcine dai capelli e glieli sciolse sulle spalle in una cascata soffice e pesante.

- Ecco. Adesso possiamo andare.

Leggeri e pressoché silenziosi, proprio come due fantasmi. La nuova illuminazione elettrica poteva far risplendere l'intero teatro come un gigantesco diamante, ma adesso le luci erano poche e basse e Rasselie aveva l'impressione di camminare all'interno di uno scrigno la cui fodera di velluto azzurro smorzava lo scintillio dei gioielli. Eppure quello scintillio, per quanto discreto, scaturiva da ogni ombra, ogni superficie, riflesso all'infinito sulla levigatezza dei marmi e negli specchi che alteravano la prospettiva. Il Grand Foyer si stendeva come un viale di colonne ornate che la penombra mutava in possenti tronchi d'albero, tra i quali gli specchi e le finestre creavano l'illusione di un cielo intravisto a tratti; e, sui soffitti alti e ricoperti di stucchi, affreschi e mosaici si incurvavano in volte frondose tra le quali danzavano creature mitologiche, s'accendevano d'oro sulle centinaia di fregi, cornici e rilievi che li decoravano.

Dall'ombra emergevano enormi camini ed enormi vasi, enormi orologi ed enormi lampadari; vaste aperture si affacciavano su vasti spazi. Non era un posto a misura d'uomo, pensò Rasselie che cominciava a sentirsi sopraffatta. Una sensazione simile non era stata forse descritta da Stendhal nei suoi diari? Il potere travolgente e schiacciante della creazione artistica spinta al suo limite, quando troppi particolari si accavallano e finiscono per fondersi in una nebbia compatta e abbagliante.

Senza la sua guida, ne era sicura, si sarebbe persa. Il giorno in cui si era spinta fino al tetto seguendo la mappa che si era impressa nella memoria, non aveva avuto l'opportunità né la voglia di osservare ciò che la circondava. Le importava soltanto provare la sua teoria, scoprire se Jack si nascondesse lassù, tra il rame ossidato delle cupole, le lastre di zinco arroventate dal sole e lo splendore delle monumentali figure dorate. Cercava Jack... E aveva trovato Erik.

La mano che adesso stringeva la sua, e la guidava, attraverso la seta del guanto era calda e ferma.

- Ti ricordi di questo posto?

Il piccolo Salone della Luna. Adesso poteva intravederne il soffitto luccicante d'argento.

- Ascolta - aggiunse Erik.

Una musica bassa ma limpida aveva cominciato a diffondersi intorno a loro, quasi filtrasse attraverso le pareti. Erik accennò un elegante inchino.

- Madame, mi concede questo ballo?

Era un valzer lento e avvolgente.

- Non sono una grande ballerina.

Lui le cinse la vita con un braccio.

- Abbandonati alla musica e lasciati guidare da Erik.

Scivolando sul pavimento lucido, piroettando tra gli specchi che replicavano all'infinito l'immagine di loro due abbracciati, Rasselie cercava di mantenere viva una fiammella di diffidenza in un angolo della mente... un retropalco, avrebbe potuto definirlo, dal quale osservare con distacco quello spettacolo di seduzione. Erik era indubbiamente un abile regista, ma lei ormai conosceva la commedia. Sarebbe restata padrona del proprio personaggio, non si sarebbe lasciata muovere come un burattino.

Intanto, però, seguiva i passi di Erik. Dopo il ritmo ternario del ballo, di nuovo quello binario della passeggiata tra l'inebriante opulenza dei saloni deserti.

Lungo le pareti, sotto pannelli e arazzi, statue e busti di divinità, compositori, cantanti, osservavano l'incedere di quella coppia elegante con sguardi che si potevano immaginare attenti, curiosi, benevoli, oppure infastiditi e ostili per quell'intrusione non prevista. Nella sua grotta di stucco e marmo, alla base del Grand Escalier, la Pizia con la chioma di bronzo scarmigliata tendeva una mano, forse per respingere una visione sgradita, forse per afferrarla; difficile, nella penombra, comprendere se la sua espressione fosse di bramosia o rifiuto: creatura enigmatica, esattamente come Erik. Un principe nel proprio palazzo non si sarebbe mosso con altrettanta disinvoltura.

I candelabri retti da statue, alla base dello scalone, erano spenti; ma la cascata di candidi gradini si disegnava netta pur nella luce scarsa, e Rasselie si lasciò guidare con fiducia, assaporò sotto il palmo e le dita della mano la freschezza levigata del corrimano di ottone e onice, s'affacciò dalle balaustrate a contemplare i disegni floreali e labirintici dei pavimenti, testimonianza dell'abilità e la pazienza di tanti sconosciuti artigiani.

Commedia con la sua arpa, e Tragedia armata di spada, sorvegliavano l'ingresso all'anfiteatro.

- Per di qua - sussurrò Erik.

Un corridoio curvo, porte di mogano nella bianca parete ad arco; busti di marmo su alti piedistalli, fiancheggiavano gli ingressi ai palchi. Erik si fermò davanti a una delle porte che recava in alto il numero cinque inciso su una placca d'ottone, e l'aprì con una leggera spinta; poi indietreggiò lasciando il passo a Rasselie.

- Prego.

Lei entrò e si trovò circondata da raso e velluto, al di sopra della vasta sala a ferro di cavallo.

- Accomodati - disse Erik indicandole una delle poltrone. - Immagino che tu non ti sia mai seduta in un palco come questo.

Se proprio avesse voluto essere sincera, le sarebbe toccato confessare che non si era mai seduta in un nessun posto di quel teatro, ma era inutile fargli sapere che la sua esperienza si limitava a ben più modeste sale in piccole città; così invece osservò: - Non riesco davvero a credere che tu te ne stia qui a guardare tranquillamente l'opera... E nessuno si accorge mai di te, tra quanti stanno sulla scena o in platea e negli altri palchi?

In piedi dietro di lei, con le mani posate sulle schienale della poltrona, Erik si chinò leggermente per sussurrare: - Gli artisti devono restare concentrati su quello che stanno facendo, e il pubblico è interessato a osservare loro. E perché dovrebbero guardare in questa direzione?

- Forse soltanto per vedere se il Fantasma dell'Opera è al suo posto. Non hai mai paura che qualcuno venga a controllare?

- Chi ci ha provato se ne è pentito.

Rasselie non osò chiedere con quali mezzi si fosse sbarazzato dei curiosi. Cominciava a provare un leggero ma tuttavia inquietante senso di disagio, tra il rosseggiare dei velluti che la semioscurità tramutava in una tonalità simile a quella del sangue secco. Non sapeva mai come si sarebbe sentita, da un minuto all'altro, in compagnia di Erik. Tuttavia la curiosità continuava a pungolarla.

- È da qui che hai visto per la prima volta quella cantante... - azzardò a chiedere.

La risposta fu secca e decisa: - No. - Poi, dopo una breve pausa, in tono leggero: - Ti ho detto che non devi prestare fede alle leggende che si raccontano su di me.

Rasselie alzò lo sguardo. Il lampadario pendeva dal soffitto affrescato come un enorme grappolo di bronzo e cristallo, con le sue oltre trecento lampadine.

La risata di Erik le accarezzò la nuca. - Sì, sarebbe stato divertente farlo davvero. Ma adesso...

Si avvicinò a un piccolo tavolino rotondo che Rasselie, entrando nel palco, non aveva notato. Su una tovaglia di velluto rosso stava un secchiello d'argento per il ghiaccio, dal quale sporgeva invitante il collo di una bottiglia; e accanto a esso due bicchieri e un vassoio di pasticcini.

- Il famoso Chateau-d'Yquem che non abbiamo potuto gustare alla fine della nostra cena così malamente interrotta. E una selezione dei migliori dolcetti della Pâtisserie Stohrer.

Con abilità da viveur stappò lo champagne e lo versò nei calici.

- A cosa vuoi brindare? - chiese porgendone uno a Rasselie.

- Alla cattura dello Squartatore.

Erik fece una smorfia. - Niente di più piacevole?

- Per me lo sarebbe.

- Esula dalle regole brindare a qualcosa non ancora accaduto. Quindi io...

- No, non dirlo.

- Come preferisci.

Il cristallo tintinnava come può soltanto il più puro Boemia, e il vino scorreva freddo e dolce sulla lingua, stuzzicando le mucose con le sue bollicine.

- Sai che questo sapore sublime è merito di una muffa che si forma sui chicchi d'uva?

Vero o falso che fosse, quello era davvero il vino più buono che avesse mai gustato.

- Mangia qualche pasticcino, altrimenti ti girerà la testa. Ecco, assaggia questo. - Le porse un piccolo cestino di pastafrolla pieno di crema. - Vaniglia caramellata - spiegò. - Si chiamano "pozzi d'amore". Puoi immaginare perché.

Dolcezza che si scioglieva in bocca. Maledetto Fantasma! Rasselie stentava a credere che un uomo dal passato torbido come quello descritto nei suoi racconti fosse capace di architettare strategie di seduzione tanto raffinate.

Lo guardò sedersi nella poltrona accanto e allungare le gambe, posando i piedi sulla balaustra foderata di velluto. E, come se avesse avvertito il suo sguardo di disapprovazione, Erik disse con arrogante compiacimento: - È il mio palco. E di conseguenza ci faccio quello che voglio. Che è ben più innocente di quanto fanno altri. Non immagini cosa succede in questi palchi, particolarmente al venerdì sera.

- Perché di venerdì? - chiese Rasselie a bocca piena.

- È la serata nella quale i gentiluomini portano all'opera le amanti. Devo dire che spesso, quando quello che si svolge sulla scena è proprio noioso, il mio binocolo da teatro mi fornisce diversi spettacoli alternativi e particolarmente gustosi.

- Mi stai dicendo che li spii?

- Non dovrei? In fondo, mi forniscono una specie di assicurazione. Se mai dovessi trovarmi a corto di denaro, una letterina a uno di quei distinti signori mi garantirebbe diversi mesi di tranquillità finanziaria.

- Quello che non puoi ottenere con le buone maniere te lo prendi con le cattive, vero?

- Se non ho scelta... - Con un sospiro di soddisfazione si accomodò ancora meglio tra i velluti della poltrona. - Una volta, in Persia, lo scià volle farmi un regalo particolare, e mi mandò una ragazza dell'harem. Giovanissima e ovviamente... intatta. La poverina era terrorizzata. Non per l'imminente perdita della verginità, un destino che le sarebbe comunque toccato di lì a breve con lo scià stesso, ma da me. E non per la mia maschera o quello che si nascondeva dietro. Ma per la mia fama. Chissà cosa si raccontavano quelle ragazze su di me; leggende analoghe a quelle delle ballerine sul Fantasma dell'Opera. E lei era convinta che perdere la verginità con me potesse farla impazzire, o il mio seme incenerirla, o chissà che. Come se io fossi una specie di divinità alla quale veniva sacrificata. Il mio letto come un altare. Avrebbe potuto essere divertente, non fosse stato per il particolare che il suo rifiuto significava morte certa. Ma lei preferiva finire tra le mani del boia invece che tra le mie. Perché con me, la sua anima si sarebbe perduta. Niente paradiso di Allah, per lei, anche se fosse sopravvissuta all'amplesso con questo essere demoniaco. Non è ridicolo?

Un'altra delle sue favole? Certamente era difficile non soccombere a quel fascino da cantastorie; e ancor di più lo era riuscire a distinguere tra verità e fantasia.

Di solito per Rasselie era abbastanza semplice capire quando il suo interlocutore raccontava frottole o esagerava la realtà. I segni rivelatori potevano essere molti e andavano dal tono di voce alla postura del corpo, dagli sguardi a, ovviamente, l'espressione del viso. Indubbiamente la maschera dava a Erik un bel vantaggio, anche se era possibile che il volto che nascondeva fosse devastato al punto da risultare altrettanto inespressivo. Ma la voce... La voce, così musicale e sognante, appannava le emozioni nella propria bellezza.

- Cercai di spiegare alla piccola schiava che le sue paure erano immotivate e assurde, che sarebbe vissuta, l'avrei ricoperta d'oro e Allah l'avrebbe perdonata... Niente da fare. A quel punto, potevo rimandarla nell'harem. E consegnarla al boia. Nonostante in quel ruolo mi ci fossi ritrovato spesso, la faccenda mi ripugnava. La sultana era capace di obbligarmi a giustiziare la ragazza alla presenza sua e dello scià, magari nel suo giardino di rose.

- Ma non potevi soltanto... fingere?

- Certo, potevo tenerla con me per tutta la notte e mandarla via al mattino fingendo di essermela spassata con lei. Ma sapevo che lo scià l'avrebbe fatta esaminare attentamente. Così... fui costretto a prenderla contro la sua volontà. Non mi era mai successo prima, posso giurartelo. Le donne che ho frequentato in tutta la mia vita potevano essere comprate in un modo o nell'altro. Qualche volta, con insincere promesse d'amore, più spesso con il denaro. Stavolta invece... Fu una bella lotta, la piccina si difendeva come una tigre, e a essere onesto devo dire che questo non mi dispiaceva. Era un'esperienza del tutto nuova.

Rasselie sentì un brivido leggero accarezzarle le spalle. Forse uno spiffero dalla porta socchiusa... Le pietre della collana erano fredde sul petto. Possibile che nel pronunciare quelle parole il flusso musicale della voce di Erik fosse stato contaminato da una stonatura di compiacimento?

- Ma poi, lottando, lei mi strappò la maschera. E da quel momento divenne una specie di bambola di pezza tra le mie braccia. Il terrore e il disgusto l'avevano paralizzata, annientata. Poteva soltanto tremare, e i suoi occhi sembravano diventati di vetro. A quel punto non fu nemmeno tanto facile portare a termine quello che avevo iniziato. E quando la lasciai andare, lei strisciò via dalla stanza come un animale ferito. Quella notte non riuscii a dormire. Continuavo a ripetermi che le avevo salvato la vita, sì, ma distrutto l'anima. Però mi illudevo che con il tempo, vivendo, avrebbe capito di non essere stata sacrificata a una specie di dèmone, e si sarebbe convinta di poter contare sull'indulgenza di Allah. Peccato che lei non volle concedersi il tempo per capire.

- Cosa vuoi dirmi? Non che...

- Sì. Si uccise. E io ebbi l'ennesima prova che qualunque cosa facessi, qualunque decisione prendessi, non poteva portare a nulla di buono, mai.

Sembrava che il ricordo non lo toccasse. Nella voce, nessuna inflessione che tradisse colpa o rimorso.

- Spero che tu mi stia prendendo in giro. Sei un gran raccontaballe, un venditore di storie.

- In fondo, se ci pensi bene, anche quando una donna decide di darsi per la prima volta all'uomo che ama... è pur sempre una sorta di sacrificio. Come salire volontariamente sulla croce.

- Non essere blasfemo - lo rimproverò Rasselie addentando un altro pasticcino.

"Santo cielo, quanti ne ho mangiati?"

- Però è così - concluse Erik. - Un sacrificio di sangue. Che può avere un immenso potere di... redenzione. - Un suono simile a uno sbadiglio soffocato; poi, in tono sbrigativo: - Ma fa troppo caldo in mezzo a tutto questo velluto. Vieni, andiamo di sopra.

Di nuovo in quel bizzarro paesaggio di metallo ossidato, spioventi, scalette, cupole, statue, in un saliscendi a tratti vertiginoso, a tratti semplice come una passeggiata sui prati.

- Immagino che tu non abbia mai visto Parigi dall'alto a quest'ora. Certamente non dal tetto di questo edificio.

Il cielo era ancora invaso dal chiarore intenso del tramonto ma in basso, tra le ombre azzurre delle strade, andavano pian piano accendendosi le luci della città.

- Non è un po' come guardare il firmamento? Fra una mezz'ora ti sembrerà che non ci sia quasi più differenza tra il sotto e il sopra. Così in alto come in basso. Così in cielo come in terra. Non c'è molta differenza tra alchimia e religione. Entrambe parlano della trasformazione di sostanze: la prima, del piombo in oro; la seconda, di pane e vino in carne e sangue.

Di nuovo andava emergendo quella parte di lui che la sconcertava. I medici lo avrebbero ritenuto affetto da "demenza precoce" o qualche altra complessa alterazione della mente. Adesso si era avvicinato pericolosamente al parapetto. Rasselie si trattenne a stento da dirgli di fare attenzione. Dopotutto, Erik sembrava conoscere quel tetto come altri conoscono il proprio appartamento.

- Vediamo un po'... - lo sentì dire. E in un attimo aveva tra le mani le due mappe che lei teneva abitualmente in borsa, quella di Londra e quella di Parigi.

- Ma come... Quando me le hai rubate?

- Potevo chiedertele in prestito ma così è stato più divertente. Tu tieni questa, intanto.

Le diede la mappa di Parigi e dispiegò quella di Londra davanti a sé. In pochi secondi, Rasselie lo vide estraniarsi e precipitare in una sorta di rapimento sonnambolico. Fissava la mappa come se fosse il centro dell'universo. Poi, senza dire una parola, aprì semplicemente le mani e la lasciò cadere; e, sempre con quell'atteggiamento estraniato, si avviò a lunghi passi verso la struttura del timpano. Rasselie lo seguì e lo vide salire la scala che portava in cima, alla statua di Apollo; lì si fermò un istante, il tempo di slacciare il mantello che gli si afflosciò ai piedi come un'ombra nera; dopodiché, con sgomento di Rasselie, cominciò ad arrampicarsi sull'alto basamento di marmo. Dove potesse trovare appigli nella struttura era difficile capire, ma saliva con la sveltezza e la disinvoltura di un geco, finché non fu sulle spalle di Apollo. Rasselie si portò una mano alla bocca, soffocando l'istinto di richiamarlo, gridare un avvertimento.

Meglio non distrarlo. Proprio come si fosse trattato di un sonnambulo.

Reggendosi alla lira dorata del dio con la mano destra, Erik alzò il braccio sinistro e cominciò a tracciare dei lenti segni nell'aria, quasi dirigesse un'orchestra invisibile e inudibile attraverso passaggi di suoni prolungati e sospesi, leggendo lo spartito luminoso della città che si stendeva verso l'orizzonte. Ogni lampione, ogni sfolgorio fugace dai fanali di una carrozza di passaggio, ogni lanterna di caffè all'aperto, ogni ammiccamento luminoso tra le cime degli alberi, era una nota: rotonda e ampia come una semibreve, guizzante come una croma, limpida come una minima... e c'erano anche semicrome e biscrome, certamente: il pallido lampo di un cerino acceso in un vicolo buio, un riflesso su un vetro spalancato. Le dita di Erik sembravano in grado di leggerle tutte e suonarle su una tastiera immaginaria fatta di nuvole e brezza.

Rasselie tratteneva il respiro, rapita in quel cerimoniale da ipnotizzatore. Le sembrava di poter quasi udire quella musica. Poi Erik fece ancora qualcosa che la terrorizzò. Lentamente lasciò andare la presa attorno alle corde dorate della lira e alzò anche il braccio destro: e restò così, immobile a braccia spalancate, come crocefisso contro il cielo che cominciava a imbrunire.

Colta dalle vertigini per un istante, lei fece un passò indietro e calpestò lo strascico dell'abito; barcollò, e sorpresa e paura di cadere le strapparono un grido soffocato.

Solo allora Erik sembrò ricordarsi di lei; con un movimento calmo ed elegante si voltò e la guardò dall'alto delle spalle di Apollo. I suoi occhi sembravano schegge d'ambra, inspiegabilmente gelidi malgrado quel colore. - Sta tracciando la strada per ritornare da Ayesha - disse con voce calma.

- Cosa?

Erik tornò ad aggrapparsi alla statua e le tese una mano in un gesto di invito.

- Sali.

Lei scosse la testa.

- Non è difficile, basta soltanto sapere dove mettere i piedi. Coraggio, è come scalare una montagna.

- Non ho mai scalato montagne, sono una donna di pianura. E inoltre non sono vestita in modo adatto.

- Tirati su l'orlo della gonna, fermalo alla vita in qualche modo.

Scese verso di lei, agilmente come era salito, e la prese per mano.

- Non avere paura. Metti il piede lì... aggrappati con la mano a quell'angolo...

Non ci si arrampica su una statua alta più di sette metri, a oltre cinquanta dal suolo, la rimproverava la parte razionale del suo cervello, e per di più in compagnia del famigerato Fantasma dell'Opera. Ma la mano che la guidava era ferma e sicura, le indicazioni precise. L'Angelo della Musica si era trasformato in sherpa.

Infine fu accanto a lui e poté cercare un appiglio tra le figure di bronzo. Un braccio di Erik le cingeva la vita.

- Visto? Non è stato difficile.

C'era un tono di leggera canzonatura in quelle parole, ed era curiosamente confortante. Un ricordo lontano le tornò alla mente; lei arrampicata in compagnia di un cugino su un albero di albicocche, e ai piedi del tronco il nonno che imprecava e minacciava punizioni.

Ma adesso, sotto di loro, avevano qualcuno di ben più pericoloso di un nonno infuriato.

- Cosa hai detto prima... Che lui sta tracciando la strada per tornare da Ayesha?

- Sì. Ha cominciato a uccidere in Inghilterra, da dove partì anni fa. E adesso è venuto qui perché prima di unirsi alla Legione Straniera ha vissuto per qualche tempo a Parigi. La sua prossima tappa sarà in Africa. Sta disegnando il cammino che facemmo per arrivare da Lei. Ogni delitto è una tappa. E quando sarà arrivato, le chiederà conto del perché tutto il sangue versato non sia ancora riuscito a liberarlo dalla maledizione della Fiamma.

- Ma se questa donna è così potente Jack non potrà nulla contro di lei.

- È per questo che ha bisogno del mio aiuto.

- Comunque adesso tu sai dove colpirà in futuro.

- Con buona approssimazione.

- Dobbiamo informarne la polizia!

Un sospiro che tradiva insofferenza. - Non hanno creduto alle altre lettere. Non si sono minimamente presi la briga di controllare se ci sia in città un affittacamere cieco. Ma hanno dato la notizia in pasto alla stampa.

- Non possiamo permettere che colpisca ancora. E tu non puoi continuare a vivere quassù, nella tua torre d'avorio, come una specie di personaggio byroniano!

La risata che proruppe dalla gola di Erik sembrò risuonare contro la curva di rame della cupola sottostante con un timbro metallico e spietato che lasciò Rasselie raggelata e silenziosa.

- Il mondo dovrebbe ringraziare per tutte le creature di buona volontà come te. - Il tono era beffardo. - Peccato che le vostre iniziative, per quanto lodevoli, si risolvano spesso in disastri. - Un sospiro di rassegnazione. - Va bene. Segnerò sulla mappa tutti luoghi dove potrebbe colpire e la farò avere a Michaud.

- Ma affinché si convinca sarà necessario almeno un altro delitto...

- No. Se il nostro caro ispettore sarà di nuovo così stupido da sbandierare la notizia attraverso la stampa, lui si sentirà disorientato, dovrà rivedere i suoi piani e riusciremo almeno a rallentare il ritmo degli omicidi.

- Allora potremmo...

- Potremmo? - ripeté Erik in tono indignato. - Voglio sperare che dopo le esperienze che hai avuto tu lasci quest'incombenza alla polizia. Dopotutto, a rischio è soltanto la mia torre d'avorio. Sai che significato ha il simbolo della Torre nei Tarocchi?

- Non dirmi che sei anche un cartomante.

- Caduta. Rovina. Perdita di fiducia, sicurezza, amore. Distruzione di un'amicizia.

- Sono soltanto sciocchezze.

- Ma se la torre appare rovesciata... Allora significa perseveranza nell'errore e incapacità di operare un mutamento. Credo dipenda solo da me come guardarla.

- Ma...

- Taci. Pensa a gustare questo momento, piuttosto. Non ti ricapiterà tanto presto.

Era vero. Difficile che in futuro potesse ancora godere della vista della città da quella prospettiva. Mentre la notte scendeva, era come se tutto il chiarore del giorno fosse piano piano scivolato lungo la curva del cielo, gocciolando sui tetti e fra le strade, fino a ricomporsi in un mosaico di luci.

- Chiudi gli occhi.

- Perché?

- Chiudili. Ti fidi di me?

- Neanche un po' - ammise Rasselie.

Erik sembrò accettare la sua schiettezza con indifferenza e ripeté: - Chiudi gli occhi, piega la testa all'indietro, appoggiala alla mia spalla.

Strano gioco. Ma tutto, in quella serata, era comunque fuori dall'ordinario; e la voce di Erik aveva di nuovo assunto una intonazione suadente. Rasselie sentiva il suo braccio che la stringeva forte alla vita.

- Stacca le mani. Spalanca le braccia come ho fatto io prima.

- Cosa?

- Lascia la presa. Non avere nessun timore.

Era un'idea folle, contro ogni prudenza e buonsenso; eppure Rasselie sentì che le sue mani obbedivano a quegli ordini appena sussurrati al suo orecchio in un respiro caldo e abbandonavano l'appiglio, le braccia lentamente si alzavano, spalancate come ali.

- Adesso apri gli occhi.

Stava volando incontro alle profondità della volta celeste. Nemmeno da bambina, nei campi, il cielo le era mai apparso così concavo e vasto. Le stelle, pur immobili, sembravano pioverle addosso come minutissimi frammenti di uno specchio andato in pezzi all'inizio della creazione del cosmo, e tutto intorno non c'era più nient'altro che infinito ed eternità nei quali lasciarsi andare, cadere e affondare, o galleggiare e nuotare... non aveva importanza. Lei era parte di quello spazio come una goccia d'acqua nell'oceano. La vertigine la faceva sentire leggera, le sembrava che mente e corpo potessero espandersi fino a raggiungere ogni più lontano punto di luce, ogni angolo di insondabile oscurità, fondersi in essi e comprenderli in sé.

- Adesso... guarda giù.

Il cielo sceso in terra. Il rovesciamento di prospettiva fu così repentino che per qualche attimo i suoi occhi non furono in grado di mettere a fuoco i particolari e tutto lo scenario non fu che un mare di luce, le antiche costellazioni fuse in quelle nuove fatte di lampioni e finestre illuminate, e la via lattea si riversò nel lungo viale che portava al teatro, dilagò nella piazza sottostante, lungo i tetti e la curva della cupola, fino ai piedi di Apollo.

- È bellissimo...

E ingannevole, lo sapeva. Tutte quelle luci sembravano raccontare soltanto di intimità domestica, o divertimento nei locali all'aperto, nei viali e nei parchi dove ogni ombra era sempre tenuta a bada da una piccola lanterna o un lumicino colorato.

Ma le macchie di oscurità, sempre più fitte mentre lo sguardo progrediva verso l'orizzonte, non nascondevano altre luci invisibili soltanto per la distanza, come accadeva in cielo.

Là sotto, il buio era inesorabile e pericoloso.

- In fondo, per Dio deve essere così - sussurrò Erik, come se le avesse letto nel pensiero. - Ha creato il pianeta e adesso si limita a osservarlo dall'alto, così tutto gli sembra bello, pulito e tranquillo; e può illudersi di avere fatto il suo capolavoro.

- Questa è la seconda bestemmia della serata.

- Soltanto. Sì, ammetto di non essere in uno dei momenti di maggiore ispirazione. Peccato, perché la blasfemia è uno dei molti talenti di cui sono dotato.

In qualche modo riusciva sempre a farla sorridere. - Scendiamo, prima che ci colpisca un fulmine - gli disse.

Lui non rispose. La guardava senza battere le palpebre e sembrava che la luce proveniente dalla città sotto di loro cercasse di concentrarsi tutta nei suoi occhi... o forse erano soltanto i riflessi sulla lira dorata di Apollo... e adesso si era alzata una brezza leggerissima che gli smuoveva i capelli attorno al viso... morbide onde di seta argentea dai riflessi azzurrini contro il nero lucente dei risvolti della giacca...

- Come fai... - bisbigliò Rasselie con una voce che sapeva essere la propria ma risuonava tanto distante e rapita da sembrarle estranea, - ... come fai ad avere i capelli di questo colore?

- Uso il turchino delle lavandaie. - Ed era il tono con cui qualcun altro avrebbe detto "ti amo". - Non hai visto quel contenitore di alabastro nero nel bagno?

- No.

E di nuovo silenzio. Sotto un cielo che esibiva tutte le sue stelle e sopra una città che esibiva tutte le sue luminarie. Pericoloso.

Per fortuna, ci pensò Erik a spezzare l'incanto.

- Possiamo restare fino all'alba, se vuoi. È così romantico, quassù... - Ma nella frase era possibile leggere di nuovo un sottofondo di ironia. - Non pensi che dovremmo darci un bacio?

Le mani di Rasselie cercarono in fretta un appiglio nella statua. Bronzeo e solido Apollo, grazie per la tua concretezza!

- No. E credo che d'ora in avanti dovremmo evitare di vederci, a meno che non abbiamo da dirci qualcosa riguardo a Jack.

- Solo incontri di lavoro, dunque?

- Chiamiamoli così.

- Peccato. Anche stanotte sarò costretto a navigare da solo.

- Cosa?

- Non credi che fare l'amore sia come salpare per un viaggio su mari tempestosi, cavalcando onde sempre più alte... Ed è davvero noioso reggere il timone da soli.

- Non dire oscenità.

- Non sono oscenità, è l'energia della vita. Altrimenti il mondo si sarebbe fermato da un pezzo. Perciò non comportarti da vecchia zitella come Meg. Lei, se potesse, censurerebbe i miei sogni.

Cominciarono a scendere dal gruppo scultoreo di Apollo, e Rasselie si accorse che non era affatto facile con quel vestito addosso. Non lo dicono anche gli alpinisti che la discesa è sempre più difficile della scalata? Ad un certo punto sentì qualcosa scivolarle lungo il collo e il petto e cadere nel buio con un tintinnio.

- Accidenti, la collana.

Una volta scesi dal piedistallo la cercarono lì intorno, ma nella semioscurità era difficile distinguere qualcosa. Era probabile che fosse rotolata lungo uno degli spioventi.

- "Cercar che giova? Al buio non si trova" - canticchiò Erik a mezza voce. - Darò un'occhiata domattina. Alla peggio... Chi vuoi che incolpino del furto se non il Fantasma dell'Opera?

Istintivamente Rasselie si portò una mano alla gola.

- Non dirmi che era vera!

- Certo. Ma non preoccuparti. Se non riuscirò a recuperarla, la proprietaria si troverà nella cassetta di sicurezza una risarcimento appropriato. Anche se potrebbe ugualmente guadagnarsi un'altra collana con il suo mestiere di cortigiana, come ha fatto fino a oggi.

Poi Erik raccolse il mantello e lo drappeggiò sulle spalle di Rasselie.

- La serata si sta facendo umida. Andiamo. E non dimenticare le tue mappe.

 

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Capitolo 11
*** Una giornata particolare ***


11

UNA GIORNATA PARTICOLARE

(Dove l'ispettore Michaud rischia un colpo apoplettico, Erik si ubriaca come uno scaricatore di porto marsigliese e Rasselie fa un brutto incontro al parco)

 

Se alla redazione de "Le Matin" l'avevano guardata come una rediviva, lasciando intendere che la notizia della sua sparizione e di ciò che l'aveva preceduta era in qualche modo arrivata alle orecchie di qualcuno, nulla poté eguagliare l'accoglienza che ricevette nell'ufficio di Michaud.

Appena la vide entrare, l'ispettore balzò su dalla sua poltrona come se qualcuno gli avesse affondato uno spillone da cappello nelle terga, e proruppe in un putiferio verbale.

- Si rende conto di cosa mi ha fatto passare? Credevo che l'avremmo ritrovata da qualche parte con le viscere attorno al collo. Come le è venuto in mente di andarsene dall'albergo senza avvertire? Come ha fatto? Chi l'ha aiutata? Chi... chi...

L'invettiva si incagliò in un balbettio nel quale le parole si strozzavano nell'ansimare di una collera incontrollabile. Il colorito di Michaud andava dal pallore dell'indignazione al rosso scuro di un furore a rischio colpo apoplettico, passando attraverso svariate sfumature che di volta in volta Rasselie poteva identificare come sbigottimento, fiducia oltraggiata, orgoglio martoriato, fino ad arrivare al semplice odio nudo e crudo.

- Dovrei arrestarla, sbatterla in cella e buttare via la chiave!

- Pensa che in galera sarei più al sicuro di dove sto adesso?

- E dove sta! In un castello inaccessibile in cima a un Puy? In una cella del manicomio? Una delle torri campanarie di Notre Dame? Quasimodo le fa da guardia del corpo?

"Più o meno". Ma senza una spiegazione esaustiva, Michaud si sarebbe sentito preso in giro più di quanto già non si sentisse. E Rasselie non era sicura che anche la verità non sarebbe suonata come una beffa.

- Mi creda, non intendevo mancarle di rispetto andandomene via così. Ma non posso vivere per chissà quanto tempo sotto protezione. Se quell'assassino avesse voluto sbudellarmi, niente poteva impedirglielo. Evidentemente ha soltanto voluto... ehm... - Come dire abbastanza senza finire a rivelare troppo? - ... dare un avvertimento alla stampa.

- E come avrebbe trovato il suo indirizzo? Come ha fatto a penetrare in casa sua?

In piedi, piegato in avanti con il palmo delle mani puntato sul piano della scrivania, Michaud la sovrastava come un gargoyle.

- Come fa a scomparire nel nulla dopo ogni delitto? - Ribattere a una domanda con un'altra è sempre un'utile strategia diversiva. - Come fa a girare per le strade inosservato? Dovrebbe essere coperto di sangue. Come fa a rientrare a... ovunque abiti? Non ci sono vicini che possano vederlo? Un padrone di casa? Un affittacamere? Forse le persone con cui ha a che fare sono... ehm... cieche?

L'aveva buttata là con il tono più casuale possibile; ma, ugualmente, una nuvoletta di sospetto rabbuiò ulteriormente lo sguardo di Michaud.

- Ancora la storia dell'affittacamere cieco.

- Una ipotesi come tante; alla quale lei non ha dato credito, dal momento che ha subito passato la notizia alla stampa.

- Cosa dovrei fare, secondo lei? Mi state addosso come una muta di cani da caccia, e quando non avete niente di nuovo da raccontare lo inventate di sana pianta.

Su quel punto non si poteva dargli torto. I quotidiani stavano trasformandosi rapidamente in tabelloni da cantastorie e i giornalisti prendevano il posto dei vegliardi o degli sciamani che raccontavano leggende attorno ai fuochi dei villaggi.

- Lo sa quante lettere mi arrivano ogni giorno da persone che sospettano il vicino di casa, o il macellaio del quartiere, o il medico, o parlano di vampiri e lupi mannari? Michaud si lasciò cadere della poltrona dando una manata su una cartella rigonfia di documenti. - E adesso... questa!

Estrasse una grossa busta dalla cartella. Rasselie sapeva di cosa si trattava.

- Vuole la notizia in esclusiva? Sono ben felice di dargliela, purché non mi capiti più tra i piedi!

*

Stava salendo per la scala che portava all'appartamento di Erik, con il fascio di quotidiani sottobraccio, quando udì un rumore precipitoso di passi e di lì a poco incrociò una Meg Giry furiosa e scarmigliata: riccioli neri sfuggivano di qua e di là come fulmini corvini dalla crocchia da danzatrice.

- Cosa succede?

- È ubriaco come uno scaricatore di porto marsigliese e non sono neppure le nove del mattino!

Erik ubriaco? Ecco un aspetto sotto il quale non lo aveva ancora visto

Lo trovò seduto al tavolino del salotto; vestito di una delle sue consuete vestaglie orientali, leggermente chino in avanti, con i gomiti piantati sulla superficie del mobile e il mento poggiato sulle dita intrecciate, fissava intensamente qualcosa. Ayesha, imperturbabile, dormiva sul divanetto.

Avvicinandosi, Rasselie notò per prima cosa la bottiglia di assenzio, il cucchiaino forato e tutti gli altri arnesi per preparare la bevanda, e quindi i Tarocchi disposti sul tavolo.

- Stai... cominciò, e fu subito interrotta da un dito accusatore puntato contro di lei come la canna di una pistola.

- La predica me l'ha già fatta Meg. E per tua informazione... non è mia abitudine cominciare a bere al mattino. Ho cominciato questa notte.

La voce era impastata e gli occhi attraverso le fessure della maschera apparivano arrossati. I capelli, di solito pettinati con cura, ricadevano in disordine sui risvolti ricamati della vestaglia.

Rasselie posò i giornali sulla credenza, dove Meg aveva lasciato il vassoio della colazione.

- Non ho mai visto uno scaricatore di porto marsigliese ubriaco...

- Eh?

-... Ma tu sei davvero sbronzo in modo indecente. Faresti meglio ad andare a letto.

Con un improvviso gesto di stizza Erik mosse un braccio e spazzò via i Tarocchi dalla superficie del tavolo, insieme a bottiglia, bicchiere e tutto il resto.

- Perché? - esclamò.

- Perché cosa?

- Mi fugge, non capisco...

Affondò il viso tra le mani e Rasselie per un attimo pensò che, nel suo stordimento, si sarebbe tolto la maschera. Ma non fu così; per quanto fosse ubriaco, non lo era al punto di dimenticare ogni prudenza, o pudore, o qualsiasi altro sentimento che gli impedisse di mostrarsi a viso nudo.

- Non vuoi bere un po' di tè? Ti aiuterebbe a diluire tutto l'alcol che hai nel sangue.

- Sono lucidissimo. Tu non hai mai visto Erik ubriaco sul serio.

Lei pensò che ribattere sarebbe stato fiato sprecato. Si chinò per raccogliere gli oggetti che erano finiti sul pavimento. Fortunatamente la bottiglia era quasi vuota altrimenti quel veleno verde avrebbe rovinato il magnifico tappeto che stava sotto al tavolino.

- Non so come tu possa credere in queste cose - disse cominciando a raccogliere le carte.

- Ci sono mezzi dati agli umani per connettersi... con un'altra dimensione.

- L'assenzio rientra fra questi mezzi?

- Anche. Aiuta a distaccarsi dalla realtà.

- Su questo non ho dubbi. Tutte le sere il Lapin Agile è pieno di veggenti che profetizzano il futuro distesi sotto i tavoli.

- Non prenderti gioco del... Fantasma dell'Opera. Potrebbe finire male. - Detto senza nessuna intonazione di minaccia, solo stanco sarcasmo.

Rasselie posò sul tavolo il mazzo di carte alla bellemeglio ricomposto, poi recuperò anche la bottiglia e gli altri oggetti e li sistemò sulla credenza. Ayesha aveva aperto un occhio e la guardava con annoiata sufficienza.

- Ragazzina pelosa... le sussurrò chinandosi ad accarezzarla - il tuo padrone è proprio cotto.

La gatta approvò con un suono trillante che stava tra il miagolio e le fusa.

- Ehi voi due femmine là dietro, vi sento! - disse Erik a voce alta. - Cosa tramate alle mie spalle?

Rasselie non poté soffocare una risatina. Era sempre difficile capire quando Erik diceva sul serio o si prendeva gioco di lei.

- Coraggio, vieni. Non ho mai messo a letto un ubriaco ma c'è una prima volta per ogni cosa.

- Giusto. Non avevi mai neppure fatto l'amore con un fantasma. Comunque non ho bisogno di andare a letto. Non ho sonno. Mi riposerò qui per un attimo...

Incrociò le braccia sul tavolo e appoggiò la testa su quel cuscino improvvisato. Tre secondi dopo già russava. Rasselie prese il fascio di giornali e lo mise accanto a lui.

- Per quando ti sveglierai...

Stava lasciando il salotto quando si accorse che Ayesha era saltata giù dal divano e con una zampina stava cercando di togliere qualcosa che sembrava impigliato tra il bordo di frange e il pavimento. Niente di strano, i gatti giocano così. Ma d'istinto si ritrovò a chinarsi per recuperare l'oggetto. La zampetta della gatta la sfiorò per trattenerla, ma senza sfoderare le unghie. Rasselie si ritrovò tra le mani una carta dei Tarocchi. La Torre.

*

Era una di quelle giornate cominciate in modo insolito e destinate a proseguire secondo un proprio imperscrutabile disegno. Perché la persona che Rasselie incontrò un quarto d'ora più tardi all'ingresso del teatro era una di quelle che men che meno si sarebbe aspettata di veder varcare la soglia del tempio della lirica; e con un'aria felice e baldanzosa sul viso lentigginoso. Quel mattino, Gabriel Bergerac sembrava davvero soltanto un ragazzo, e la bambina che teneva per mano avrebbe potuto essere una sorellina minore, per i boccoli rossi sotto il cappellino di paglia e la faccina rotonda e sorridente.

- Eglantine - disse il giovane poliziotto dopo un allegro "buongiorno", - saluta la signora come si deve.

La bimba si esibì in un inchino aggraziato, tra uno svolazzare di pizzi e fiocchi.

- Mia sorella ha troppo da fare con il piccolino, così ha chiesto a me di accompagnarla.

E finalmente Rasselie ricordò. - La scuola di danza. - Si sentì colpevole. Aveva promesso di parlare con Meg e se ne era completamente dimenticata.

- Abbiamo un appuntamento con Mademoiselle Giry alle nove e mezzo continuò Gabriel con orgoglio. - Quando le ho parlato l'altro giorno mi è sembrata così ben disposta, è tanto gentile...

Gentile Meg? La stizza in persona. Ma forse quel lato del suo carattere era riservato in esclusiva a Erik. E come darle torto?

Cercò qualcosa da dire e se la cavò con una banalità. - Bene, sono proprio contenta.

- La mia piccolina diventerà una grande danzatrice, vero? - Gabriel sembrava così felice da dare l'impressione di poter fare tutto il Grand Escalier di corsa, nonostante la sua gamba malandata.

- Andiamo, zio! - Naturale che la bimba fosse impaziente, a un passo dal sogno più grande della sua ancora acerba esistenza.

- Aspettate... - Rasselie sapeva di non poter buttare l'occasione per ottenere qualche informazione, e giocò d'astuzia rivolgendosi alla bambina invece che allo zio. - Lo sai che anche io ho il nome di un fiore? Mi chiamo Rasselie.

La piccola annuì, ma niente poteva sminuire la sua impazienza. Gentilmente, ma con decisione, tirava lo zio per mano. - Facciamo tardi!

- Ehm... Gabriel, cosa dice la polizia? Sa, a proposito di quelle mappe...

Gli occhi grigi si mossero a indicare la bambina.

- Oh sì, capisco - aggiunse Rasselie in fretta, abbassando la voce. - Ma pensano... insomma... credono che le abbia mandate lui...

- Per quale motivo dovrebbe rivelare i propri piani?

- Allora, se non lui, qualcuno che è al corrente...

- Bah, la città è piena di pazzi.

- Eh già...

Il discorso stava scadendo nella più impacciata banalità, e la bambina continuava a tirare lo zio per la mano.

- Be', allora... buona fortuna con Mademoiselle Giry.

*

La giornata era davvero calda, e Rasselie non aveva alcuna voglia di ritornare nei sottotetti dell'Opéra. Quasi per istinto si ritrovò a percorrere il Boulevard Haussmann, oltre i nuovi e modernissimi grandi magazzini Lafayette. Aveva l'impressione di navigare come una barchetta senza remi né timone, in balìa del vento dei pensieri che gonfiavano la vela della sua mente. Il largo viale era un fiume maestoso sul quale scivolava, inconsapevole dei lussuosi e pretenziosi edifici che ne costituivano le rive. Il progetto di ricostruzione attuato dal barone Haussmann aveva sventrato la Parigi medievale, radendo al suolo antiche casupole, vicoletti e stradine, insieme alle loro ombre e le storie che vi si erano svolte, disegnando al suo posto una città "sanificata, abbellita, ingrandita", come dallo slogan coniato al tempo in una trinità di aggettivi intesa forse a replicare quella di sostantivi, ben più significanti, di epoca rivoluzionaria. Certo, nei grandi spazi aperti si poteva respirare un grande senso di libertà, ma dove trovassero posto i principi di uguaglianza e fraternità nei nuovi quartieri accessibili solo ai ricchi... Rasselie si rese conto di dove i piedi la stavano portando quando scorse la cupola della chiesa di Saint-Augustin. Allora deviò verso destra per il Boulevard Malesherbes. In fondo, dopo un'altra piccola deviazione, avrebbe trovato la quiete frondosa di Parc Monceau nella quale tante volte aveva passeggiato al fianco di Étienne.. Prati curati, viali i cui nomi ricordavano i più celebri pittori del passato, edifici e strutture la cui architettura imitava quella di altre epoche, acqua sussurrante, suoni di una natura addomesticata eppure ancora confortante. Nessuno tra coloro che si godevano la serenità di quel luogo ricordava che all'epoca della Comune era stato teatro di feroci esecuzioni. L'erba novella dei prati si era abbeverata di sangue ed era ricresciuta più rigogliosa. Gli alberi centenari accarezzavano i vivi di oggi con la stessa ombra con la quale avevano accarezzato i morti di ieri. E anche i ricordi dei suoi giorni insieme a Étienne. Il parco, con la sua bellezza voluta e calcolata, addolciva il dolore in malinconia. Non colpiva i sensi con la violenza della natura incontrollata, lasciata ai capricci di roveti nascosti sotto una massa di fiori, insidie di radici striscianti capaci di spezzare le caviglie, sguardi attenti di animali selvatici... Quello era un posto disegnato per la serenità.

Rasselie trovò una panchina vuota in un angolo abbastanza appartato e prese un libro dalla capace borsa - non andava mai in giro senza qualcosa da leggere - e si immerse nelle atmosfere inquietanti de "L'albergo rosso" di Honoré de Balzac. Appropriato a quello che stava avvenendo in quel momento a Parigi.

Lei era il tipo di lettrice capace di estraniarsi dal mondo fin dalla prima pagina; non la disturbava il vociare dei bambini, i richiami di mamme e balie, il rumore delle ruote delle carrozze. E ancor più difficilmente restava consapevole di ciò che accadeva ai margini del suo campo visivo. Così quando un'ombra, più densa di quelle delle foglie, strisciò lungo la pagina che stava leggendo, non la percepì neppure. Ma poi quella voce, insidiosamente cortese...

- Madame... permette?

Non ebbe bisogno di alzare lo sguardo dal libro. Aveva riconosciuto la voce dall'accento. Un gelo paralizzante la invase mentre l'uomo sedeva alla sua sinistra e le prendeva la mano.

- La ritengo abbastanza intelligente da non mettersi a gridare o cercare di fuggire.

Lei riuscì a vincere la paralisi quel tanto che bastava a voltare leggermente la testa e spiarlo di sottecchi. Una sciarpa bianca gli nascondeva parzialmente il viso, annodata con noncuranza attorno al collo, ma ciò che emergeva dall'onda di seta era quasi altrettanto pallido e immoto.

Malgrado la paura, non riuscì a impedirsi di commentare: - Attento che con questo caldo la sua faccia di cera non cominci a squagliarsi.

Lui rise. Dopotutto, non una risata particolarmente crudele o minacciosa.

- Mi piaci, hai coraggio. Posso trattarti confidenzialmente, vero Rasselie? In fondo sono rimasto un bel po' a guardarti dormire prima di... adornarti. E non ti dirò cos'altro ho fatto... o avrei potuto fare con te. Ma ormai siamo amici... intimi. Così... puoi chiamarmi Jack.

Lei assentì con un leggero movimento della testa. Lui prese il libro, lesse il titolo.

- Oh, guarda guarda! Ti diletti a leggere di assassini! Chissà perché non sono sorpreso.>> Richiuse il piccolo volume e glielo posò sulle ginocchia con un gesto lieve. - Non ti dispiace se facciamo due chiacchiere, vero?

- A dire la verità non vedevo l'ora.

Sapeva di doverlo trattare con la stessa fermezza e arroganza, anche se dentro di lei, nel petto e nello stomaco, sfarfallavano terrore e ripulsa, e le membra le tremavano nello sforzo di combattere l'ancestrale istinto di fuga.

Lui fece una risatina leggera e garbata, sistemandosi comodo sulla panchina, le mani sul pomo del bastone da passeggio. Rasselie cercò di capire cosa rappresentasse la figura argentata che intravedeva tra le dita dell'uomo, ma non ci riuscì, anche se somigliava vagamente... Un teschio, possibile?

Doveva tenere a freno la fantasia. Si prese tempo per studiare l'uomo seduto accanto a lei. Completo grigio chiaro, panciotto di raso bianco, cappello dello stesso colore, scarpe lucidissime. Un impeccabile gentiluomo. Attese che fosse lui a parlare per primo. Non voleva dargli il vantaggio di mostrarsi impaziente. Infine, la domanda arrivò: - Che cosa sei tu per Benoît ?

- Erik. Il suo nome è Erik.

- Come vuoi. Cosa rappresenti per lui?

- Niente.

- Non mi sembra la definizione adatta, dal momento che ti ha preso sotto la sua ala protettiva.>> Jack si chinò leggermente verso di lei. Il profumo della sua colonia, per quanto gradevole, le diede un senso di nausea. Lui continuò in un sussurro che sottintendeva complicità: - Scommetto che eri tu l'ospite con cui stava cenando la sera in cui sono andato a trovarlo. Mi dispiace di aver interrotto il vostro convegno... intimo. Oh, che bel colore ti è comparso sulle guance! E certamente non è belletto. Non mi dire che il mio amico Benoît ... pardon, Erik... ha colpito ancora, nonostante lo sfacelo che si nasconde dietro la sua maschera.

Rasselie posò le mani sul libro, intrecciando forte le dita. Non doveva lasciar trasparire alcun tremito. Testa alta, immobile. Niente domande. Doveva lasciarlo parlare.

- E dire che è tutta colpa sua, quello che sta accadendo. Per molti versi è sempre stato un sempliciotto. Crede a tutte queste sciocchezze sui veggenti e sulla cartomanzia... Comunque, quando si è disperati ci si attacca a tutto, non è vero? Religione, magia... Così mi convinse a seguirlo nella tenda di quella strega, a Samarcanda. Quando lei vide il nostro oro immagino che sarebbe stata disposta a profetizzarci la conquista del mondo intero, se quello fosse stato nei nostri desideri. Ma noi volevamo soltanto sapere se fosse possibile liberarci dalla maledizione della Fiamma. E la megera, ovviamente, rispose di sì. Bastava soltanto compiere un sacrificio di sangue. Fu abbastanza criptica, al proposito; parlava il linguaggio bizzarro degli zingari che Erik comprendeva meglio di me. Ma la sostanza del discorso era chiara. E io non avevo pregiudizi a eseguire il compito richiesto. Avrei strangolato un neonato con il suo cordone ombelicale se questo fosse servito a ridarmi la mia faccia e liberarmi dai tormenti della Fiamma. Ma il mio caro amico... oh, lui ha sempre sdegnato gli spargimenti di sangue. Ama le morti pulite, come quelle che dà il laccio del Punjab. Ogni volta che gli è toccato usare il coltello lo ha sempre fatto con riluttanza. E infine, tutti quegli onori che riceveva alla corte dello scià... Gli diedero alla testa. Cominciò a sognare una vita normale. Mio Dio, cosa mai poteva significare quella parola nella nostre condizioni? Costretti ogni anno a rivivere l'agonia della Fiamma, con il volto ridotto a una piaga priva di sembianze umane... Immagino che Erik non si sia mai mostrato a te senza maschera.

Le mise una mano sotto il mento e la costrinse a voltare il viso verso di lui.

- Lo sai che né lui né io abbiamo più qualcosa di minimamente simile a un naso? Solo un buco nero, come quello di un teschio. E sulla fronte, qui... - Sfiorò con la punta di un dito la parte superiore della maschera di cera, appena sotto la tesa del cappello. - Qui si possono vedere le ossa.

Si era avvicinato così tanto che Rasselie poteva sentire il suo alito sulle labbra. Le sembrò che odorasse di sangue. Se si fosse accostato di un altro millimetro soltanto, non sarebbe più riuscita a dominare l'istinto di fuga.

Ma, per fortuna, Jack si tirò indietro e tornò ad appoggiarsi comodamente contro la spalliera della panchina, e continuò: - Dopo le rivelazioni della veggente, lui esitava. Così toccò a me tentare, e scoprire che la vecchia strega ci aveva ovviamente raccontato una frottola crudele. Ma fu proprio allora, in quella mia "prima volta" con una donna, che scoprii quanto fosse... interessante. Sai, voi donne nascondete la vostra parte migliore all'interno del corpo. I vostri segreti, i vostri misteri. Gli uomini non posseggono questo fascino. Guardi un uomo nudo e hai già capito come funziona. Nulla di arcano; tutto è concentrato lì, in poca roba penzolante, capace di animarsi solo per qualche attimo. Ma le donne... Non sapete quanto sia terribile per gli uomini non poter neppure immaginare cosa avviene qui dentro... -Tese il braccio e le posò la mano sul ventre. - Quel rituale che si ripete ogni mese... E poi, quando ospitate in voi la vita, e la sentite crescere giorno per giorno... Se volete, potete anche interromperla. Assoluta potestà di vita o di morte su una creatura inerme. E se noi uomini non possiamo esser parte dei vostri segreti... concedeteci almeno di spiarli, investigarli.

Pietrificata dal disgusto, lei non osava neppure toccare quella mano che le accarezzava il grembo per allontanarla da sé, pur sentendosi, a ogni carezza, sempre più sudicia e oltraggiata.

Attorno a lei, i colori e le voci del parco erano diventati un turbine indistinto in una foschia lucente.

- Sai cosa potrebbe pensare chi ci osservasse in questo momento? Che tu sei la mia dolce mogliettina e mi hai appena comunicato che avremo un erede. Il frutto del nostro amore... qui, sotto questa bella stoffa morbida... Immagino che la tua pelle lo sia anche di più.

- Porco bastardo schifoso.

- Non diresti così se io avessi ancora la mia bella faccia.

- La tua anima resterebbe comunque orrenda.

Lui rise sommessamente. Un suono vibrante di compiacimento e minaccia.

- Quando tornai a Londra, e cominciai a indagare sul serio i sacri misteri femminili, mi resi conto di stare inconsapevolmente seguendo una specie di... tracciato. Una forza superiore alla mia volontà cosciente... la Forza della Fiamma... mi attirava in luoghi precisi, mi diceva dove e chi colpire. Sì, era così. Mi stava chiamando. Voleva che tornassi da lei, e da Ayesha. Dopo la prima serie di... delitti... li chiamate così, voi persone senza fantasia... mi convinsi che ai miei ragionamenti mancasse un pezzo importante. Così iniziai a cercare informazioni, studiare. Mi sono avventurato in quello che era sempre stato il territorio di Erik. Lui mi parlava spesso di queste cose: esoterismo, magia... E alla fine ho capito che non aveva senso continuare il mio esperimento da solo. Avevo bisogno del mio compagno. La mia parte mancante. La Fiamma ci ha legati indissolubilmente. Ma che ne fosse stato di Benoît , il mio amico, il mio compagno di avventure e sventure, il mio... fratello di sangue... Non immagini quanto a lungo l'ho cercato. Avevo davvero finito per credere che fosse morto, condannato dalle azioni stolte che avevo commesso in Persia... Un pensiero terribile che non mi dava pace. Il tormento è durato anni, fino a che non ho sentito parlare del Fantasma dell'Opera. Potevo sbagliarmi, naturalmente. Ma quel particolare della maschera...

- E se non fosse stato lui?

- Me la sarei comunque spassata alla grande. Ma è lui. Il mio migliore amico. Così credevo. Invece mi ha tradito. Giuda.

- Come puoi pensare che tornare da Ayesha lasciandoti dietro una scia di sangue possa servire a sconfiggere la sua maledizione? Pensi di minacciarla, spaventarla con la tua fama di squartatore?

- Davvero non capisci. Ogni volta che apro da cima a fondo una di voi signore, come foste gallinelle da farcire, ed estraggo le vostre viscere, il cuore, l'utero, e li metto a corona dei vostri faccini pallidi... che espressione stupita assumete a volte mentre state morendo!... cresce in me la capacità di manipolare il potere della Fiamma. Non sono più il suo schiavo, il suo trastullo! Sono io che la domino, ormai!

Le stringeva di nuovo la mano. Stretta ferrea e imperiosa.

- Scommetto che invece il nostro comune amico continua a esserne vittima, a soffrire nella sua carne i capricci della Fiamma. Non ha mai compreso l'opportunità che ci era stata data. Ayesha intendeva punirci e invece... ci ha premiati. Nemmeno lei è mai stata consapevole del segreto di cui è guardiana. Sta a noi, a noi soltanto, imparare a usare la forza della Fiamma, piegarla, addomesticarla, renderla nostra schiava. La Fiamma è eternamente affamata, e dobbiamo soltanto insegnarle a mangiare dalla nostra mano. Il sangue è il suo alimento. Benoît ha sempre sostenuto che la Fiamma canta, che il solo modo di comunicare con lei, di ammansirla è attraverso la musica. Idiota. La Fiamma non canta. Grida soltanto. E sai cosa grida? "Ho fame! Ho fame!"

Rasselie si portò una mano alla bocca. Era lei a sentirsi in procinto di urlare, adesso, per zittire l'orrore di quella voce che sussurrava al suo orecchio con compiacimento lascivo. Le lacrime le salirono in gola, soffocandola. Gli occhi le si appannarono.

- Oh, povera piccina, non piangere! - Una mano, una di quelle diaboliche mani che avevano sparso tanto sangue, le sfiorò una guancia. - Non devi aver paura. Certo, potrei ucciderti, sarebbe divertente; ma per dare un senso alla tua morte, per far sì che risulti di una qualche utilità, dovrei trascinarti in un posto preciso della città... non posso deviare dal mio cammino, capisci; non posso alterare lo schema. Nemmeno adesso che l'avete reso pubblico. Immagino comunque che tu non saresti disposta a seguirmi docilmente.

Con suo dispetto, Rasselie sentiva le lacrime scorrerle sul viso, e si odiava per quella manifestazione di rabbia impotente.

- Dopotutto non ce l'ho con te - continuò Jack in tono noncurante. - Sei soltanto un'impicciona, una povera scioccherella golosa che voleva rubare un po' di marmellata e si è ritrovata ad aprire il vaso di Pandora. Non ti odierei neppure se pensassi che ti sei servita delle tue grazie per convincere il mio migliore amico a tradirmi. Infatti sono stupito... e profondamente addolorato dal fatto che sia arrivato a tanto. Non soltanto si è rifiutato di unirsi a me, ma non ha nemmeno ascoltato il mio progetto... E adesso mi mette i bastoni tra le ruote, mi rende davvero difficile procedere con il mio piano. Cosa dovrei fargli, dimmi?

- Lascialo in pace. Lui vuole soltanto... - Le labbra di Rasselie tremarono, impedendole di proseguire.

- Oh no, Giuda merita la sua giusta fine. Chissà, forse potrò convincerlo a impiccarsi con il laccio del Punjab. - Quanto a te... So che hai dei genitori. E, da brava figlia, non vorresti mai che possa accadere loro qualcosa di brutto.

Si chinò di nuovo verso di lei e le lambì una guancia con la punta della lingua.

- Le tue lacrime sono saporite come il sangue.

 

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Capitolo 12
*** Quella vecchia storia ***


12

QUELLA VECCHIA STORIA

(Dove si va in palestra e poi a casa dei conti di Chagny)

 

 

- Ehi! - Crépin schivò per un pelo il calcio diretto alla mandibola e fece un salto indietro. - Ricordati che questo è solo un allenamento, non un combattimento.

- Scusami. - Rasselie lasciò ricadere la braccia lungo i fianchi. I guantoni le sembravano di colpo pesantissimi. - Ho avuto una giornata un po'... impegnativa.

Un sorriso con diversi vuoti si allargò nella faccia adusta dell'uomo, dove anche la sfumatura nero carbone della barba in ricrescita faceva immaginare una prolungata esposizione alla fiamma. Poteva essere la faccia di un pompiere, di un minatore, di un piromane... Ma era soltanto quella di un allenatore di savate.

- Un corteggiatore ti ha fatta arrabbiare?

Crépin le lanciò un asciugamano che lei prese al volo.

- Non esattamente un corteggiatore - rispose lei affondando il viso nella spugna ruvida. - Ma sì, sono molto arrabbiata. Furiosa.

Si strofinò le guance, la fronte e il collo con vigore. Non era il sudore che voleva cancellare, ma ancora il ricordo di quel contatto ripugnante. Chissà cosa potevano aver pensato coloro che l'avevano vista lavarsi ripetutamente il viso a una fontanella del parco.

- Questo è il posto giusto per sfogarsi - affermò Crépin buttandosi un asciugamano sulle spalle robuste - ma devi sempre ricordarti che il tuo allenatore non è il tuo nemico.

- Lo so.

Rasselie si chinò per passare tra le corde del quadrato e andò verso il fondo della palestra, dove si trovava un discreto assortimento di ingombranti macchinari. Ormai non era difficile vedere donne, perfettamente abbigliate, alle prese con quegli aggeggi che promettevano di migliorare la postura e snellire varie parti del corpo; ma certamente nessuna di loro avrebbe scelto di lottare con un uomo, e "mezza nuda", santo cielo! Gli ampi pantaloni lasciavano scoperte le gambe dal ginocchio alla caviglia, cosa davvero indecorosa nonostante le calze, e le braccia erano nude, esattamente come quelle di Crépin... anche se non altrettanto pelose e tatuate.

- Con quello che sta succedendo adesso... bisognerebbe che tutte le ragazze potessero venire qui per imparare a difendersi.

- Quali ragazze?

- Be'... quelle ragazze.

- Vuoi dire le battone?

- Non chiamarle così. Non possiamo sapere cosa le abbia portate sulla strada. Ciascuna di loro ha qualche brutta storia alle spalle. Se io non avessi avuto una famiglia che mi ha dato appoggio quando Étienne è morto, e una cultura che mi ha permesso di trovare un lavoro che mi rende indipendente... Be', anch'io adesso potrei trovarmi a passeggiare in un viale.

- Tu? Non credo proprio.

- Quello che crediamo o non crediamo ha poca importanza. Quello che importa sono le cose che non possiamo impedire che ci accadano. Basta un passo falso...

E lei cominciava a sospettare di averne commessi una certa quantità, negli ultimi tempi. Ma almeno non quella sera. La palestra era l'opzione più sensata alla quale potesse pensare dopo l'incontro con Jack. La ragionevolezza aveva sconfitto l'impulso di correre fino alla soffitta di Erik, nella speranza che avesse ancora una bottiglia di assenzio da parte, ubriacarsi, raccontargli tutto, piangere tra le sue braccia, e poi... Quel "poi" era proprio fuori discussione.

E allora, pugni al posto di baci, calci in luogo di carezze, finte, schivate e attacchi in luogo di incondizionato abbandono. Perlomeno era riuscita a stancarsi. Ma la rabbia non se n'era andata.

- Quelle poverette... - Rasselie si guardò attorno - ... non possono permettersi tutto questo. Non hanno i soldi, ma se... Se potessimo farle venire qui, insegnar loro a difendersi...

- Cosa penserebbero i frequentatori abituali? Che voglio trasformare la palestra in un bordello?

- Andiamo Crépin, non essere meschino. Troveremmo il modo di farle venire qui quando non c'è nessun altro, come faccio io.

- E cosa penseresti di fare, affiggere manifesti per Parigi invitando le "signorine" in palestra a prendere lezioni di savate?

- Conosco persone al Lapin Agile. Potrei far circolare la voce.

- Sei proprio matta. Se non hanno soldi...

- Non preoccuparti. Se non vuoi fare beneficenza, forse so chi potrebbe pagare.

*

- Ho capito bene? - Qualunque cosa ci fosse dietro la maschera, in quel momento doveva essere il ritratto dello sconcerto. - Dovrei finanziare un corso di... come l'hai chiamata? Difesa personale? Per prostitute?

- Be', per ora è soltanto un progetto. Nemmeno, è l'idea di un progetto, non so in quante vorrebbero o potrebbero aderire. Però, con lui là fuori sarebbe più che mai necessario. Quelle donne sono esposte a ogni sorta di pericoli, ogni notte rischiano la vita. Ci sono uomini che non vogliono pagare e le prendono con la forza. Sai che la legge non considera stupro la violenza su una prostituta? E molti papponi sono delle gran carogne.

- Non vedo come la cosa possa riguardarti.

- Non vedi? - esclamò Rasselie spalancando le braccia. - Guardami, sono una donna, esattamente come loro e quelle che ti hanno cresciuto.

Erik scosse la testa, ma non si poteva dire se il suo fosse un gesto di scherno o scoraggiamento. Rasselie lo aveva trovato di nuovo seduto al tavolo davanti ai Tarocchi sparsi sul ripiano lucido; ma, per fortuna, questa volta non c'erano in giro bottiglie di assenzio. Lei non avrebbe avuto la pazienza di spiegarsi con un ubriaco. Nel salotto però regnava un disordine non indifferente: libri e abiti buttati sul divano, un vassoio con avanzi di cibo sulla credenza... In un angolo, Ayesha mangiucchiava qualcosa che era caduta sul pavimento.

- Non dirmi che ogni volta che devi prendere una decisione interroghi le carte.

Lui le fece cenno di avvicinarsi. Rasselie aveva notato spesso come il suo modo di muovere le mani assumesse a volte una lentezza calcolata, una ipnotizzante eleganza, forse retaggio del suo passato con saltimbanchi e prestigiatori.

- Non vorresti conoscere il tuo futuro?

- Ti ho già detto che non credo a queste cose. E specie adesso non mi sembra il caso di perdere tempo con i giochetti di carte.

Erik assentì gravemente, ma probabilmente l'intento era canzonatorio.

- La voce della saggezza, sempre. Se non sapessi come puoi diventare a letto, ti crederei una zitella incallita.

Questa volta lei percepì, con orgoglio, di non essere arrossita.

- Ti sarei grata se non mi ricordassi il mio... errore.

- Hai ragione. Abbiamo cose più importanti a cui pensare. Come studiare le possibili reazioni del nostro amico squartatore.

Rasselie sedette sul divanetto scostando la pila di abiti. Così non doveva guardare Erik dritto in faccia... nella maschera... e poteva nascondere più facilmente le proprie emozioni. Non gli aveva raccontato nulla del suo incontro con Jack per evitare un'altra sfuriata. Anche se quello che era accaduto al parco non dipendeva dal suo comportamento, Erik avrebbe sicuramente trovato il modo di farla sentire colpevole. O, peggio ancora, si sarebbe allarmato. Nella sua volontà di difenderla si poteva scorgere un tentativo di doverosa cavalleria che contrastava con l'insofferenza dimostrata verso di lei fin dal loro primo incontro. Sembrava che fosse costantemente indeciso tra l'abbracciarla o il prenderla a schiaffi.

- Cosa credi che farà?

- Di certo non rinuncerà al suo piano, ma dovrà modificarlo. Sta a noi capire come. E dal momento che si sentirà tradito... - Erik scosse la testa e si passò una mano tra i capelli in un gesto di sconforto. - Non ho idea di come potrebbe reagire, non è più il Pierre che conobbi nella legione straniera; quello mi avrebbe sfidato apertamente.

- Ma forse... - farfugliò Rasselie cercando inutilmente di assumere un tono convincente, - potrebbe pensare che il lavoro sulle mappe sia opera di qualcun altro, che qualche investigatore stia cercando di buttargli un'esca, che sia tutta una montatura di qualche giornalista che tirando a indovinare...

Erik si voltò verso di lei con uno scatto repentino. - Lo credi così stupido?

Lei scosse la testa. Aveva ben visto che non lo era, nell'ombra del parco improvvisamente diventata gelida.

- Se dopo quanto gli ho detto quella sera poteva ancora illudersi di farmi cambiare idea, adesso sa da che parte ho deciso di stare. Ho passato il punto di non ritorno. Siamo nemici, ormai. Tra noi può esserci soltanto guerra. E odio. Un odio talmente vasto che tu non puoi neppure immaginare. - La voce di Erik, pur nel tono misurato, vibrava di ira repressa. - Quello che la Fiamma ha fatto di noi, come ci ha manipolati, sfruttati, distorti, va aldilà della comprensione dei comuni mortali. Ma anche tu, nel tuo piccolo, hai saputo manipolarmi; con le tue inconsapevoli ma letali arti di donnina bene intenzionata e generosa: mi hai costretto a ricordarmi che anch'io faccio parte della razza umana, esattamente come quelle povere battone sbudellate nei vicoli, e quello che succede là fuori riguarda me come il resto della società.

Rasselie mosse le mani come cercando di plasmare una risposta per la quale non trovava parole, ma alla fine dovette rinunciare e si alzò.

- Aspetta - disse Erik guardandosi attorno. - Sai dov'è Meg? Qui dentro è un letamaio.

- Meg è al lavoro. Il suo vero lavoro. Sono iniziate le lezioni con le più piccole.

- Già, dimenticavo. E come ha giustificato la tua presenza qui?

- Ha raccontato che sono una parente in difficoltà. Mi ha anche trovato una parvenza di lavoro nel reparto costumi. A quanto pare, anche quella specie di matrona che lo dirige...

- Madame Giraud?

- ... fa parte della tua schiera di devoti servitori, è così?

Lui non rispose. Fissava i Tarocchi sul tavolo. Rasselie si diresse alla porta, ma prima di uscire sostò quanto bastava per dire: - È vero, questo posto è proprio un deplorevole letamaio. Be', per una volta tanto, invece di giocare con le carte, usa le tue magiche mani di fantasma per fare un po' di ordine.

*

Aveva porto il proprio biglietto da visita al valletto con mano leggermente tremante. Il viaggio era stato lungo, e per tutto il tempo aveva avuto tempo di rimuginare su quanto poteva accadere. Essere ricevuta non era davvero l'opzione più probabile. Ma un tentativo le sembrava doveroso.

Minuti di snervante attesa in un'anticamera sobriamente elegante: boiserie di legno bruno, scintillii d'argento, dipinti antichi, tende di velluto, passatoia rosso scuro... Da qualche parte, all'interno della casa, risuonavano le note smorzate di un pianoforte.

Il valletto doveva indossare scarpe con la suola di feltro, perché non lo sentì tornare; e la sua voce, pur bassa e cortese, la fece trasalire mentre contemplava un quadro nel tentativo di non pensare all'attesa.

- Prego. Il signor conte la riceverà nel suo studio.

Seguendo il valletto, Rasselie si ritrovò a camminare cautamente per far sì che i tacchi degli stivaletti non producessero rumore, quasi si trovasse in chiesa. In effetti, era arrivata fin lì con l'atteggiamento di chi si reca a chiedere una grazia, e adesso stentava a credere di averla ottenuta.

Il conte di Chagny era un bell'uomo dai lineamenti fini e un po' anonimi, con i capelli chiari che cominciavano a ingrigire sulle tempie. Non c'era da meravigliarsi che Christine lo avesse sposato: più che benestante, elegante, di belle maniere... doveva essere un marito piacevolmente accomodante e confortevolmente noioso. Di certo non avrebbe mai riservato alla mogliettina sorprese più sconvolgenti di qualche discreta e fuggevole scappatella, come in uso nell'alta società.

E in quanto alla signora contessa...

- Mi dispiace, mia moglie non si trova in casa al momento, si è recata in visita a un'amica malata. Altrimenti sarebbe stata contenta di parlare con lei.

E con un elegante gesto della mano le fece segno di accomodarsi nella poltrona aldilà della scrivania dietro la quale lui era seduto. L'arredamento richiamava quello dell'anticamera: raffinato e inappuntabile, immacolato e caldo nella luce del pomeriggio inoltrato.

Rasselie si schiarì la voce.

- Immagina il motivo della mia visita, vero?

- Direi di sì, dal momento che sul suo biglietto si qualifica come giornalista. Non credo sia interessata ai nostri progetti mondani. - Tanta prontezza d'intuito era una fortuna che le risparmiava un bel po' di manovre diplomatiche. Ma anche la prova che Raoul de Chagny non si era mai liberato dei fantasmi del passato. Di uno in particolare, perlomeno. E sembrava ansioso di farlo. - Ma prima... Posso offrirle qualcosa? Un tè, magari?

Rasselie scosse la testa. - La ringrazio, sto bene così. Ma è sicuro che non la infastidisca raccontarmi di quello che accadde a lei e sua moglie diciotto anni fa?

- Perbacco, dopo tutto questo tempo... E a dire il vero, all'epoca, nessuno si è mai preoccupato di ascoltare la nostra versione dell'accaduto, come se tutti potessero saperne più di noi che ne eravamo stati i protagonisti. Certamente non ci fecero piacere tutte i pettegolezzi e le fantasie che si scatenarono attorno alla morte del mio povero fratello.

- Ah sì, la faccenda... - Difficile terminare la frase in modo fermo e noncurante! - ... del Fantasma dell'Opera.

Il conte rise brevemente. Non una risata sarcastica; ma onestamente, benché educatamente, divertita.

- Le ragazze del balletto avevano questa fissazione. Si facevano scherzi fra di loro, le più audaci prendevano di mira anche cantanti e orchestrali, persino i direttori... E poi davano la colpa al Fantasma. La più scatenata di tutte era quella... Meg, credo si chiamasse.

- Meg Giry.

- Giusto. E la signorina Daaé stava prendendo lezioni di canto da quel suo stravagante maestro che voleva mantenere l'anonimato e perciò nascondeva il viso dietro a una maschera. Immagino si trattasse di qualche orchestrale impegnato in un corteggiamento un po' insolito. Lei lo chiamava l'Angelo della Musica, le ragazze dicevano che fosse il Fantasma. La cosa mi indisponeva un po'. Non che fossi esattamente geloso, ma avevamo già abbastanza problemi dovuti al fatto che mio fratello non approvava la nostra relazione. Philippe era adorabile, più grande di me di quasi vent'anni e non posso dimenticare come si prese cura di me quando nostra madre morì; ma per molti versi era un tipo all'antica e sognava per me un matrimonio con qualche nobildonna. Una cantante dai modesti natali non era certo la miglior candidata al titolo di contessa. La considerava un'arrivista, una arrampicatrice sociale. Io sapevo che non era così.

Il conte rigirava tra le dita una stilografica ultimo modello placcata d'oro, ma nel gesto non c'era alcuna traccia di nervosismo, era un semplice giocherellare distratto. Lo sguardo degli occhi chiari restava sereno.

- Poi ci fu quel ridicolo incidente al cimitero di Perros-Guirec. Christine e il suo "Angelo" si erano messi d'accordo per commemorare l'anniversario della morte del vecchio Daaé proprio sulla sua tomba. Christine voleva che lui suonasse sul violino "La resurrezione di Lazzaro", che era uno di pezzi preferiti da suo padre, e questo doveva avvenire nel cimitero, a mezzanotte in punto. Una stravaganza che io non approvavo. Lasciare che si incontrasse con un uomo, di notte, in un luogo deserto... Mi sembrava una cosa poco decorosa, e forse anche pericolosa. Ma lei rifiutò di farsi accompagnare, e così io la seguii di nascosto.

Rasselie si accorse di trattenere il respiro. Il conte di Chagny non possedeva le doti affabulatorie di Erik, ma ugualmente non se la cavava male come narratore.

- Aveva nevicato e la luce della luna, riflessa dalla coltre bianca, mi sembrava abbagliante. Non mi sorprese trovare il portone del cimitero aperto. Seguii Christine tra le tombe cercando di non farmi scorgere. Lei era così assorta da non notare neppure lo scricchiolio della neve sotto ai miei passi, che in tutto quel silenzio si sentiva distintamente. La piccola chiesa era tutta illuminata e non mi sembrava di avere mai visto un chiarore simile, forse perché la notte era limpidissima e gelida. Sembrava che il cielo stesse calando lentamente su di noi, avvolgendoci in un manto di stelle. Suonava la mezzanotte quando Christine si inginocchiò nella neve davanti alla tomba del padre e si raccolse in preghiera. Ma era appena scoccato il dodicesimo rintocco che la vidi alzare la testa e tendere e braccia verso il cielo. Mi sembrò che stesse fissando la luna, e ricordo che pensai a Norma. "Casta Diva" è una delle poche arie operistiche che io abbia mai imparato. E in quel momento cominciò la musica. Parecchie volte avevo udito papà Daaé eseguire quel brano, ma mai così bene, con tanta scioltezza e intensità. Probabilmente, le mie percezioni erano esaltate anche dalla suggestione dell'ora e del luogo, ma dovetti ammettere che quell'Angelo della musica conosceva il suo mestiere. E Christine era incantata, rapita, come mesmerizzata da quei suoni, e solo adesso mi rendevo pienamente conto di quale potere avesse quell'uomo sulla fantasia della mia ingenua fidanzata. Oltre a lei, però, non riuscivo a vedere nessuno. In quel cimitero non ci sono tombe monumentali, e pochi alberi e cespugli... Immaginai che il misterioso violinista si nascondesse da qualche parte dietro la chiesetta, dove c'era l'ossario, e in un impeto di gelosia poco sensato decisi di sorprenderlo, vedere che aspetto avesse, capire chi fosse. Camminai cautamente in quella direzione. Certo che trovarsi di fronte a un muro di teschi sogghignanti... non sono superstizioso o facilmente impressionabile, ma confesso che provai un brivido che non era dovuto al gelo. Intanto, la musica era cessata. E subito dopo, un teschio rotolò ai miei piedi, seguito immediatamente da un altro, e poi un un altro... Immaginai che un movimento falso avesse distrutto l'equilibrio della catasta di teschi dietro la quale, ormai ne ero sicuro, si nascondeva quel misterioso individuo. E ne ebbi la conferma vedendo un'ombra scivolare lungo il muro della sacrestia e penetrare dentro la chiesa. Senza sapere bene cosa facessi, mi gettai al suo inseguimento. Volevo scoprire chi diamine fosse quel personaggio misterioso che aveva scelto un modo tanto bizzarro, e a mio avviso poco onesto, per corteggiare la mia fidanzata. Lui indossava un mantello e io cercai di afferrarne un lembo per trattenerlo. Nel mio slancio, non avevo badato al lucore sul pavimento di marmo, che segnalava la presenza di una sottilissima coltre di ghiaccio. Così scivolai e sbattei la testa da qualche parte, probabilmente uno scalino dell'altare. E non ricordo più nulla fino a quando non mi risvegliai nella stanza della locanda nella quale avevo preso alloggio quel pomeriggio. Christine era accanto a me, e con lei c'era un medico. Lo aveva chiamato temendo per la mia vita, ma avevo soltanto un bel bernoccolo sulla fronte. - Rise dolcemente, scuotendo la testa, in un gesto di indulgenza per sé stesso. - Avevo fatto proprio la figura dell'idiota e Christine era arrabbiata con me perché l'avevo seguita nonostante la sua proibizione, e poi perché aveva davvero temuto per la mia vita.

- E riuscì da sola a riportarla alla locanda?

- Con l'aiuto del suo Angelo.

- Lui non aveva paura di essere visto?

- Perché mai? Christine poteva spiegare che lui non c'entrava nulla con quanto mi era accaduto.

- No, io volevo dire... un uomo mascherato...

- Ah, capisco. Be', immagino si fosse tolto la maschera.

- Come... mi scusi, ma... Sua moglie lo vide in faccia?

- Certo, quella sera stessa.

- E cosa disse ... del suo aspetto?

- Che era bellissimo. Ma non avevo motivo di essere geloso.

- Bellissimo? Ma io credevo che...

- Oh, capisco. Quella storia del Fantasma sfigurato. Risale agli ultimi giorni della Comune, quando il vecchio Théâtre Lyrique fu incendiato e diverse persone perirono. Fra loro anche la prima ballerina dell'epoca. Del pianista, suo fidanzato, non venne mai recuperato il corpo; e così si disse che, orrendamente sfigurato, viveva nascosto nei sotterranei del nuovo palazzo dell'Opéra. Una leggenda, ovviamente.

Raoul si alzò, fece qualche passo nella stanza. Persino l'andatura rivelava sicurezza e serenità, anche se in quel momento era scesa un'ombra di tristezza sul suo volto.

- Dovevamo ancora risolvere la questione con mio fratello. Philippe proprio non ne voleva sapere di acconsentire alle nostre nozze; così decidemmo di scappare insieme, sposarci in qualche chiesetta di campagna. Una volta messo di fronte al fatto compiuto, si sarebbe dovuto rassegnare. Delle chiacchiere e dell'eventuale ostracismo della società non mi importava affatto. All'epoca entrambe le mie sorelle maggiori erano ancora in vita, ed ero sicuro che una o l'altra avrebbero dato asilo a me e alla mia fidanzata. La nostra fuga doveva avere luogo la sera stessa dell'ultima rappresentazione del "Faust", nel quale Christine interpretava Margherita. Una carrozza carica dei nostri bagagli ci aspettava alla Rotonde. Come sempre, Christine cantò divinamente anche se, a dire il vero, il pubblico sembrava piuttosto distratto. Parecchie signore, ma anche signori, guardavano incuriositi verso il palco degli Chagny, sorpresi dal fatto di non vedermi seduto accanto a mio fratello. Purtroppo i pettegolezzi sui nostri pessimi rapporti, e sulla loro causa, circolavano da un po'. Ma bastava che girassero lo sguardo verso le ultime file della platea per vedermi, anche se cercavo di mantenermi nell'ombra. Aspettavo soltanto che il sipario si chiudesse per raggiungere Christine tra le quinte e portarla via con me. Purtroppo tutti sanno cosa accadde quella sera e la grande agitazione che ne seguì. Christine stava terminando l'aria finale, quella che fa "Angeli puri! Angeli radiosi!"... - Cantò quel passaggio stonando spietatamente. Se Erik fosse stato presente non gliel'avrebbe perdonata. - E tutto a un tratto, senza alcun preavviso, quel maledetto contrappeso del lampadario si staccò e cadde giù come una palla di cannone, colpendo in pieno una donna seduta in platea. Quando si dice l'ironia della sorte... Quella poveretta era alla sua prima sera all'opera, nella sua vita non aveva mai potuto permetterselo, sebbene fosse uno dei suoi più grandi desideri... e quello era un regalo di compleanno delle persone per le quali lavorava. Nella confusione che seguì balzai sulla scena, afferrai Christine che era rimasta pietrificata a fissare il lampadario che oscillava sulle nostre teste, e la portai via con me. Volevo uscire al più presto possibile, temevo una tragedia. All'epoca quasi tutte le luci e gli effetti di scena erano a gas, ci voleva nulla a far scoppiare un incendio. Ma la gente si affollava in massa alle uscite e giù per il grande scalone, in una calca terribile. Le donne urlavano e svenivano, gli uomini sgomitavano senza troppa cortesia, chi cadeva veniva calpestato...Non sapevo come fare a raggiungere la carrozza. A un certo punto mi trovai accanto un individuo che conoscevo di vista, un personaggio stravagante conosciuto come il Persiano. Lui ci disse di seguirlo. Conosceva delle uscite secondarie che ci permisero di raggiungere la Rotonde. Fuggimmo via nella notte. Solo al pomeriggio del giorno seguente seppi cosa era accaduto a Philippe.

Raoul si era fermato accanto alla finestra e guardava fuori distrattamente. Con i lineamenti fini e l'espressione pensosa, osservò Rasselie, sembrava un poeta romantico d'altri tempi.

- Perché fosse sceso a cercarci nei sotterranei non l'ho mai capito. Forse fu quella Meg a spingerlo laggiù, affinché non ci seguisse. Forse aveva ricevuto istruzioni da Christine. Non me la sono mai sentita di discutere questo particolare con mia moglie. Sono certo che comunque lei non intendesse arrecare nessun danno a Philippe, solo prendere tempo. Comunque là sotto, nel buio, mio fratello scivolò e cadde nel lago. Non sarebbe mai annegato, sapeva nuotare, ma il medico stabilì che nella caduta si era rotto l'osso del collo... Povero Philippe! La sua morte però, insieme alla caduta del contrappeso, scatenò la fantasia dei giornalisti. Scrissero di tutto, incolpando dell'accaduto il Fantasma. Secondo alcuni testimoni, il Fantasma era stato addirittura visto salire sul palco e rapire Christine; anche se ovviamente si trattava di me, ma quella sera indossavo un mantello e nel trambusto nessuno mi riconobbe. Dall'altra parte, quelli che non credevano al Fantasma provarono addirittura ad accusare me della morte di mio fratello. Me, che in quel momento ero già miglia lontano insieme a Christine. Per fortuna il Persiano venne in nostro aiuto, testimoniando di averci personalmente visti andare via in carrozza.

Seguì un momento di silenzio quasi solenne che lasciò a Rasselie il tempo di riflettere sulle parole e l'atteggiamento del conte e concludere che quell'uomo era assolutamente onesto e sincero. Ogni sua parola era un distillato di verità, concreto e semplice.

Rasselie sentì che era suo dovere ringraziarlo. E scusarsi. Ma aveva appena cominciato a balbettare un discorsetto impacciato che il conte sorrise e fece un gesto elegantemente noncurante con la bella mano, tornando verso la scrivania.

- Non si preoccupi. Dovrei essere io a ringraziare lei per la sua disponibilità ad ascoltarmi. In tanti anni nessuno lo aveva mai fatto. Hanno preferito costruire montagne di fantasie piuttosto che chiedere a noi come fossero andate veramente le cose. E sono sicuro che mia moglie non le rifiuterà un appuntamento, quando sarà di ritorno dalla visita alla sua amica.

In quel momento si udì un educato bussare alla porta, seguito da una voce fresca e timida.

- Papà, ti disturbo?

- Niente affatto, tesoro. Io e la signora abbiamo terminato la nostra conversazione.

Rasselie si voltò. Sulla soglia stava una ragazza che non poteva avere più di sedici o diciotto anni. Snella, riccioli biondi, vestita di un abito chiaro a fiori... Sembrava uscita da un quadro del Botticelli.

- Io devo andare, ho quell'appuntamento con la sarta.

- Ma certo. Ho avvisato André già stamattina di tenersi pronto per quest'ora.

La ragazza sorrise, accennò un breve inchino e uscì richiudendo la porta. L'orgoglio illuminava il volto del conte di Chagny.

- Mia figlia Marguerite. Il suo debutto in società si avvicina.

Rasselie annuì, non sapendo che altro fare. Cominciava a sentirsi a disagio in quell'ambiente che non era assolutamente il suo.

- Io... - farfugliò alzandosi - adesso devo andare.

- Alloggia qui in paese o deve tornare subito a Parigi?

- Ho un treno fra... - Rasselie gettò un'occhiata all'orologio. - Una mezz'ora.

- Ma è venuta fino a qui dalla stazione a piedi? È un bel pezzo di strada. Adesso le toccherà correre per prendere quel treno.

Rasselie esibì un sorriso imbarazzato. - Posso farcela, non si preoccupi.

Con un'andatura elegante, disinvolto e perfettamente a suo agio nella sua lussuosa casa ... e perché avrebbe dovuto essere altrimenti?... Il conte di Chagny si avvicinò alla finestra aperta che dava sul giardino e chiamò a voce alta, ma senza gridare, senza scomporsi, insomma in modo totalmente signorile: - Marguerite, aspetta.

E Rasselie immaginò la ragazza che si fermava in mezzo ai fiori e si voltava con un movimento leggiadro, l'abito leggero che le ondeggiava attorno come smosso dalla brezza, un'aureola di sole attorno al capo da cherubino.

- La signora deve andare alla stazione. Hai il tempo per una piccola deviazione di percorso?

Rasselie non udì la risposta, ma fu indubitabilmente affermativa.

- Perfetto - disse ancora il conte; poi, voltandosi verso di lei con un sorriso radioso: - Vada con mia figlia, le farà soltanto allungare un po' la strada.

Sul vialetto era già pronto un calessino a due ruote attaccato a un cavallo bianco, e Marguerite già vi stava salendo, aggraziata ed elegante. Si voltò e sorrise timidamente quando Rasselie la raggiunse e sedette accanto a lei ringraziandola.

- Ma si figuri, la sarta non dovrà aspettare, c'è tutto il tempo. - E rivolta al cocchiere: - Vai pure, André.

Come già Rasselie aveva avuto modo di udire, la voce di Marguerite era cristallina e melodiosa. Chissà se assomigliava a quella di sua madre.

In cerca di una somiglianza anche fisica Rasselie si ritrovò a scrutare a bella creatura seduta al suo fianco. Indubbiamente ricordava parecchio la Christine Daaé del ritratto nella galleria dell'Opéra; ne condivideva l'aura di dolcezza, la delicatezza delle membra, la vita sottile che la gonna dell'abito, aperta a corolla intorno a lei, sottolineava. Ma i lineamenti, seppure delicati, erano più marcati e precisi; le mani, fasciate da finissimi guanti di pizzo candido, erano lunghe, con dita sottili. E gli occhi, sotto l'arco dorato delle sopracciglia... di che colore erano gli occhi? Rasselie non riusciva a confessare a sé stessa il motivo di quella particolare curiosità. La luce del tramonto e le ombre degli alberi sotto i quali il calesse transitava creavano nelle iridi sfumature mutevoli.

"Smetti di fissarla così" si rimproverò. "Penserà che sei una zoticona".

Per fortuna la ragazza non sembrava accorgersene, concentrata nei suoi pensieri. Qualche cruccio le disegnava due linee appena percettibili tra le sopracciglia. Rasselie decise che, anche a costo di fare la figura della maleducata, doveva farla parlare; dal momento che lo stesso conte di Chagny le aveva servito quell'occasione su un piatto d'argento, non approfittarne sarebbe stato uno spreco vergognoso.

- Preoccupata per il debutto in società?

Lei mugolò un assenso distratto. Le labbra rosee e delicate mostravano una leggera tensione.

- Sarà una bella serata, vedrai. E in men che non si dica ti troverai circondata da corteggiatori. Immagino che tu sappia ballare molto bene.

- Oh, quello non mi dà alcun pensiero. - Marguerite accennò un sorriso. - Mamma dice che sono molto... musicale. Per fortuna ho preso da lei. Papà è un po' orso, quando balla.

- Eri tu che suonavi il pianoforte quando sono arrivata?

- Sì, mi piace molto.

La luce del tramonto laminava d'oro il paesaggio intorno. E, ovviamente, anche gli occhi di Marguerite.

- È molto che prendi lezioni?

- Sì, da quando ero bambina. Però mamma sostiene che sapessi suonare anche da piccolissima, d'istinto. Non c'è niente di eccezionale, è tutta questione di orecchio. - Sembrava che il suo talento la annoiasse. Si strinse nelle spalle; poi si voltò verso Rasselie e la fissò con uno sguardo intenso e, sembrava, severo. Gli occhi, in quel momento, avevano il colore delle foglie d'autunno. - Lei è venuta a parlare con papà della "vecchia storia", vero?

- Vecchia storia?

- I miei genitori si riferiscono così alla morte di zio Philippe. Non che ne parlino spesso fra di loro, ma mi è capitato di sentire voci, soprattutto anni fa. La gente è cattiva e ti parla alle spalle, senza immaginare che i bambini possono ascoltare.

- No, no. Si tratta di tutt'altra cosa. Ecco... Io sto scrivendo un libro sui cantanti che si sono esibiti all'Opéra e... sono semplicemente in cerca di aneddoti mondani. Tutto qui!

Il faccino della ragazza si coprì di un lieve rossore, mentre un sorriso saliva dalle labbra agli occhi che si erano spalancati. Verdi? Blu? - L'Angelo della Musica! - Sembrava stupita e felice. - Si riferisce a questo?

- Be', io ho sentito accennare a questo Angelo, ma ovviamente...

- Quando ero piccola e la mamma veniva a darmi il bacio della buonanotte, spesso mi raccontava dell'Angelo. Il nonno aveva sempre fatto lo stesso con lei.

- È una bella favola, immagino - azzardò Rasselie.

- Ma non è una favola. Per mamma, l'Angelo è arrivato davvero. Cantava con lei. E una volta...

I dentini candidi mordicchiavano il labbro inferiore. Una manifestazione di imbarazzo commovente, in quella ragazza così graziosa. E probabilmente, pensò Rasselie con una sorta di malevolenza della quale non sapeva spiegarsi l'origine, ingenua fino all'idiozia, esattamente come sua madre alla stessa età.

- Mamma mi ha sempre detto di non parlare di questa cosa con papà, perché sa che gli dà fastidio ma una volta l'Angelo... la baciò. Successe quando lui suonò sulla tomba del nonno. E... insomma, io ho promesso di non dire nulla, ma non mi piace mentire. Anche se tacere le cose non è esattamente come mentire, vero?

- Dopotutto è una cosa di tanti anni fa...

I riccioli biondi ondeggiarono vaporosi in un energico gesto di diniego.

- No, non si tratta di quello. Quando stavo per bussare alla porta, prima, ho sentito la frase di papà. Riguardo al fatto che mamma è da un'amica. - Un raggio di sole la colpì in viso, tramutando i suoi occhi in gocce d'oro. - Ma non è così. Gli ha mentito.

 

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Capitolo 13
*** In viaggio ***


13

IN VIAGGIO

(Dove Rasselie disturba la serata del Persiano, poi tutti partono per Perros-Guirec e infine si viene a conoscenza di un caso di abigeato)

 

Non era un'ora decente per bussare alla porta di una persona che appena conosceva. E non gliene importava un bel nulla.

Quando la porta si aprì sulla faccia bruna del Persiano e sulla sua veste da camera verde, Rasselie prevenne convenevoli e domande esalando tutto d'un fiato: - Sta succedendo qualcosa!

L'altro aveva istintivamente fatto un passo indietro, come a mettersi sulla difensiva. - Cosa vuol dire? E come ha fatto a trovarmi? - chiese.

- Oh, andiamo! - esclamò lei, impaziente. - Quella sera che abbiamo condiviso la carrozza ho notato dove si era fermata, e non c'è voluto davvero molto per scoprire dove abita. Il quartiere non è certo affollato di Persiani. E io devo assolutamente parlarle. Temo che Erik...

Si interruppe perché un'ombra alta e sottile era apparsa in fondo al corridoio, disegnata contro la luce che proveniva da una stanza sul fondo. Inconfondibile.

- Erik? Io pensavo che tu fossi a Perros-Guirec!

- E perché mai? - chiese lui avanzando nel corridoio. In contrasto con l'abbigliamento disinvolto del Persiano era vestito di tutto punto, con un elegante completo da sera e un mantello sulle spalle. La maschera era di velluto nero.

- Perché... - Rasselie si sentiva stordita. - La figlia di Christine mi ha detto...

Non riuscì ad andare oltre. Erik l'afferrò per le braccia e lei sentì le dita attraverso la stoffa della giacca in una stretta ferrea.

- Cosa?! - L'esclamazione fu un pot-pourri di sbigottimento, incredulità e indignazione. - Non dirmi che hai parlato con i de Chagny! Non posso crederci! Sei una pazza, un pericolo ambulante! - Aveva cominciato a scuoterla con tanta violenza che lei temette per la propria incolumità. - Dovevo scaraventarti giù dai tetti dell'Opéra quel maledetto giorno che mi sei capitata tra i piedi!

- Erik... - Naser gli aveva messo una mano su una spalla e la sua stretta appariva altrettanto vigorosa. - Lascia che si spieghi. - E rivolgendosi a Rasselie: - Perché ha parlato di Perros-Guirec?

- Perché la contessa... Christine, ha ricevuto un biglietto che la invitava ad andare laggiù, sulla tomba del padre. Ed era firmato: "L'Angelo della Musica".

Erik inspirò violentemente con una sorta di gemito strozzato Poi per un attimo sembrò che avesse smesso di respirare. La stretta sulle braccia di Rasselie si allentò di colpo e lui fece due passi indietro, appoggiandosi al muro. Uno sguardo passò tra lui e il Persiano; e se il velluto nero della maschera nascondeva la sua espressione, era ben chiara quella sul volto di Naser. L'angoscia aveva mutato il colorito del suo viso da bruno a giallastro.

- Il Signore delle Lame!"

Erik si portò le mani alla testa in un gesto di disperazione. Le lunghe dita artigliarono i capelli.

- No, no! Come può sapere?

Rasselie avvertì un brivido paralizzante saettarle dalla nuca ai talloni.

- La notte in cui è stato a casa mia... Deve aver frugato tra la mia roba, ha trovato il quaderno degli appunti. Avevo registrato anche le cose che mi ha detto mamma Valerius, della notte in cui hai suonato sulla tomba del padre di Christine.

Un lampo omicida negli occhi d'ambra. Erik si mosse minacciosamente verso di lei, i pugni stretti. Per fortuna il Persiano, che si era riavuto dallo sbigottimento, si mise tra loro due e lo afferrò per le spalle.

- Lasciala stare - disse con voce incredibilmente calma. - Devi correre subito a Perros.

Erik si morse le labbra. Il suo sguardo era oro incandescente rovesciato da un crogiolo d'ira.

- Avrei dovuto lasciarti in quel vicolo con lui. - Puntò l'indice verso Rasselie. - Prega che non accada nulla a quella donna... O che io non torni indietro. Perché in quel caso non ti lascerò nemmeno il tempo di pentirti, prima di strangolarti.

In un turbinio di seta nera fu fuori, lasciando dietro di sé, nella scala echeggiante, un'ultima frase: - E non provate a seguirmi!

Ovviamente fu quello che fecero quasi subito; il tempo necessario a Naser per liberarsi della veste da camera e indossare una giacca sulla camicia e i calzoni che fortunatamente portava sotto. Ma quando furono in strada non c'era già più traccia di Erik. Doveva aver preso al volo la prima carrozza che passava da quelle parti.

Rasselie si sentì mancare le forze e sedette su un basso muretto che delimitava un giardino, affondando il viso tra le mani in un gesto di disperazione.

- Mio Dio, non è possibile che tutto quello che faccio si risolva in un disastro!

- Tutt'altro. Se oggi non fosse andata dai de Chagny sarebbe anche peggio, non saremmo mai venuti a sapere che la contessa aveva ricevuto quel biglietto. Ma come diamine ha fatto a scoprire anche dove abitano loro?

- Ci vuole davvero poco a scoprire dove abitano i ricchi, ho solo dovuto guardare nell'archivio mondano di "Le Matin".. Ma adesso cosa possiamo fare?

- Niente. E nemmeno Erik credo possa fare gran che. Per arrivare a Perros dovrà prendere prima un treno per Lannion, è un viaggio piuttosto lungo.

- Forse lo troveremo all'Opéra...

Ma quando, dopo aver perso tempo a cercare una carrozza, e litigare con il vetturino che aveva fatto il furbo prendendo la strada più lunga, arrivarono finalmente a teatro trovarono una Meg isterica: - Erik ha preso l'automobile!

... e uno Jean-Claude con i baffi tremanti: - Ha con sé due pistole!

... e entrambi: - Cosa succede?

Naser e Rasselie avevano purtroppo tutta la notte davanti a loro per spiegarlo agli altri due, perché il treno della sera per Lannion aveva da un pezzo lasciato la stazione di Montparnasse e il successivo sarebbe partito soltanto il mattino seguente.

Una notte intera a tormentarsi, fare ipotesi e piani. Nessuno dormì. Quindi i due viaggiatori che salirono sul convoglio per Lannion, alle prime luci dell'alba, formavano davvero una coppia spettrale: pallidi, i lineamenti tirati, le occhiaie livide.

Per fortuna trovarono uno scompartimento vuoto dove rintanarsi e continuare a parlare; perché ovviamente, nonostante la stanchezza, la tensione li teneva svegli, anche se intontiti e confusi. Ogni frase che si scambiavano sottintendeva le stesse terribili domande: "Arriveremo in tempo?", "Qual è il piano di Jack?", "Cosa intende fare Erik per contrastarlo?"; e soprattutto: "E se fosse già accaduto?". Cosa, non riuscivano a immaginare di preciso, ma sicuramente nulla di buono.

La contessa di Chagny e probabilmente anche Jack avevano almeno un intero giorno di vantaggio su di loro; Erik una notte. Anche per lui poteva essere tardi. Ma tardi per cosa?

- Non capisco come il "Signore delle Lame" sia riuscito ad attirare quella donna laggiù. Non è l'anniversario della morte del padre. Quello cade in inverno, me lo ricordo bene.

- Sì, anche il conte mi ha parlato di una notte di neve. - Rasselie appoggiò la fronte contro il vetro del finestrino. Era piacevolmente fresco, un sollievo per il suo mal di testa. - Se soltanto avessi immaginato che lui aveva guardato i miei appunti...

- E adesso lui si sente tradito.

- È la stessa cosa che mi ha detto Erik, ma dovrebbero perlomeno considerarsi alla pari, dopo quello che accadde in Persia.

- Questione di punti di vista. In Persia, lui contava sull'aiuto di Erik per impadronirsi dell'"Oceano di luce", pensava che glielo dovesse.

- Perché?

- Lealtà verso chi gli aveva salvato la vita.

- Non ce lo vedo davvero, Jack, a salvare la vita di qualcuno.

- Lei dimentica che furono grandi amici.

- Forse perché mi ripugna ricordarlo. Erik sarà davvero il mascalzone che dice di essere, avrà ucciso delle persone, ma certo non farebbe mai... No, non cose tanto orribili.

Il Persiano estrasse la pipa da una tasca interna della giacca e cominciò a caricarla, segno che si preparava a un lungo discorso.

- Lei è ancora giovane, ma sicuramente avrà già avuto il modo di notare come il tempo e gli accadimenti possono influire sulle persone, a volte cambiandole totalmente. E che lei lo creda o no, un tempo quei due erano molto simili. Progettarono insieme il loro viaggio, insieme disegnarono la mappa che li avrebbe portati alla città della quale avevano sentito raccontare. Una volta Erik me ne parlò. Seguendo le indicazioni ricevute dalla gente del posto, lui e... quello che allora si chiamava Pierre Morhange, tracciarono una specie di "mappa del tesoro", con un percorso preciso sul quale segnarono le varie tappe, villaggi e oasi dove avrebbero potuto rifocillarsi e dormire. Fu durante una di queste tappe che il futuro "Signore delle Lame" salvò la vita a Erik.

- Cosa successe?

- Un banale animaletto velenoso, uno di quelli la cui letalità è inversamente proporzionale alle dimensioni. Si era infilato in uno stivale di Erik e lui non se ne accorse a tempo. Pierre intervenne prontamente, incise il morso e fece uscire gran parte del veleno; tuttavia il piede di Erik si era talmente gonfiato che la pelle si spaccò. Non poteva camminare e gli venne la febbre, così alta che delirava. Erano accampati in mezzo al nulla, dovevano raggiungere la tappa successiva per potersi rifornire di acqua e cibo. Rimanere lì per qualche giorno significava la morte per entrambi. A quel punto, Pierre non aveva molta scelta: abbandonare il suo compagno di avventure o fare quello che fece. Se lo caricò sulle spalle e lo portò in salvo attraverso una pietraia sulla quale il sole batteva come un martello su una incudine.

Davvero un uomo capace di salvare la vita a un amico poteva trasformarsi in un mostro assetato di sangue che dilaniava le donne come un animale da preda? Tanto grande era il potere della misteriosa Fiamma di Ayesha? Già era difficile credere a quel racconto.

- Naser... Lei ha visto la faccia di Erik, vero?

- Molte volte.

- E... com'è?

Il Persiano esalò una lunga boccata di fumo. - Quanto è importante per lei un volto? Immagini di essere cieca.

- I ciechi spesso toccano le persone per farsi un'idea dl loro aspetto.

- Ma immagini di essere al primo incontro, certamente non oserebbe chiedere di toccarlo, sarebbe un gesto troppo confidenziale. Come potrebbe farsi un'idea di lui?

- Dal tono di voce, certamente. E dalle sue maniere.

- Bene. E che idea si è fatta?

- Un'idea? Magari fosse una sola, ma sono decine e tutte contrastanti.

- Lo ha mai sentito cantare?

- Sì. Cioè no. - Quella notte! Come poteva parlarne a Naser? - Non ne sono sicura.

Le folte sopracciglia grigie si inarcarono in una espressione interrogativa, ma fortunatamente l'uomo rinunciò a indagare.

Il treno viaggiava veloce attraverso il paesaggio perlopiù pianeggiante, i villaggi si succedevano ai borghi più grandi, qualche città, campi... Gli alberi sembravano andare in girotondo attorno al convoglio. Era così che Rasselie li vedeva da bambina; non come una sfilata di verde aldilà dei finestrini, ma un vortice che avvolgeva il vagone su cui si trovava e lo spingeva innanzi in quel movimento, come le rapide di un fiume, e possedeva la stessa proprietà ipnotizzante della corrente di un corso d'acqua, sempre uguale a se stessa nella pur continua mutevolezza. Non una sola piccola increspatura era simile a un'altra, eppure tutto si fondeva nello stesso moto uguale e ininterrotto.

Di certo si addormentò; perché quando tornò consapevole della presenza del Persiano, la pipa era spenta da un pezzo e il fumo aveva già lasciato lo scompartimento. E anche Naser sembrava sonnecchiare, con la testa china e la barba che sfiorava il petto.

Quasi tutto il viaggio trascorse così, tra discorsi stanchi e parentesi di sonno troppo brevi e leggere per risultare riposanti.

- Maledetto il momento che mi è venuta l'idea di cercare Jack sui tetti. Ma non potevo certo immaginare che ci avrei trovato il Fantasma dell'Opera che prendeva il sole.

- Gli ho sempre detto di stare attento...

- Il mio contatto nella polizia mi aveva avvertita della perquisizione, sapeva che io stavo dietro alla storia dello Squartatore. Così sono arrivata appena dopo, giusto per non farmi notare, e sono salita su.

- Io ci ho messo un bel po' per imparare a non perdermi là dentro.

- Avevo potuto vedere una pianta. Sapevo che la polizia avrebbe cominciato cercando nei sotterranei, dal momento che un tipo sospetto era stato visto entrare dal cancello di Rue Scribe. E allora...

- Ma non aveva paura?

- Ho sempre una pistola in borsa. Non credo che Jack sappia anche lanciarli, i suoi coltelli.

- Non so se sia coraggiosa o soltanto incosciente.

- Sono una giornalista. Più interessanti sono le storie che racconto, più me le pagano. E per trovare storie interessanti bisogna correre qualche rischio.

- Qualche.

- A volte.

Sbadigli, occhi lacrimosi, membra intorpidite. Il viaggio era davvero lungo. Mangiarono qualcosa controvoglia, consapevoli della necessità di rifocillarsi ma senza il minimo appetito. L'aria che entrava dai finestrini era soffocante e odorava di ferro rovente e pietra calcinata.

- Da Parigi a Lannion ci sono più di cinquecento chilometri... - Che a Rasselie cominciavano a sembrare cinquemila. - Erik è partito con quel trabiccolo, come può farcela?

- Mi sono abituato a vederlo compiere le imprese più bizzarre; ma sì, questa mi sembra un po' troppo anche per lui. Non tutte le strade sono nelle migliori condizioni, anzi.

- E allora resteremmo solo noi...

Ma per fare cosa, se non avevano la minima idea dei progetti di Jack? Uccidere Christine? Rapirla soltanto per poi ricattare Erik? E questa era l'ipotesi migliore.

- Quella donna... - Nella voce stanca di Naser c'erano scoraggiamento e un'ombra di compassione. - Come può aver creduto che Erik volesse rivederla dopo tanti anni? Ma già, è sempre stata le regina delle ingenue. Anche se vivesse fino a ottant'anni resterà sempre una ragazzina pronta a credere in elfi, fantasmi e angeli. Colpa del suo povero padre che le ha riempito la testa di favole e poi l'ha lasciata orfana quando era ancora bambina.

- Non mi sembra una giustificazione valida.

- Erik era solito dire che in lei c'è una specie di sottilissima falla, come in un prezioso manufatto di porcellana antica, e che il minimo urto con la realtà potrebbe mandarla in pezzi. Il suo conte, così materialista e disincantato, riusciva almeno a tenerla con i piedi per terra.

- Insomma...- concluse Rasselie che non nascondeva a sé stessa di provare per la ex soprano una profonda antipatia - ... è una sciocca.

Il treno raggiunse Lannion solo nel tardo pomeriggio, e subito dovettero affrettarsi alla diligenza per Perros-Guirec, l'unico mezzo con il quale potevano percorrere quell'ultima quindicina di chilometri che li separavano dalla loro meta.

Il cielo si era incupito e faceva ancora più caldo. Quell'ultimo tratto del viaggio sarebbe stato il più duro.

Non avevano più voglia di parlare; e presto, nonostante la scomodità dei sedili, complice il fatto che erano i soli passeggeri, scivolarono entrambi nel torpore.

Stavano sonnecchiando quando furono riscossi dal brusco richiamo del vetturino ai cavalli, e la carrozza si fermò bruscamente. Dai nitriti, si poté capire che almeno uno dei cavalli si era impennato.

Il persiano emise una esclamazione che, a giudicare dal tono, doveva essere una colorita imprecazione nella sua lingua, quindi si affacciò al finestrino.

- Cosa succede?

- Signore... - La voce del cocchiere suonò allarmata e sbigottita. - C'è una... cosa in mezzo alla strada.

Rasselie, che per non finire a terra si era aggrappata alla maniglia dello sportello, lo spalancò e guardò fuori davanti a sé.

La "cosa", rovesciata su un lato con due ruote in aria, occupava metà della carreggiata.

- Merde! L'auto di Erik! - esclamò Rasselie saltando giù dalla carrozza.

La vettura non sembrava seriamente danneggiata ma stava lì, ingombrante e immota, come la carcassa di un bufalo su una pista nella savana.

- Ma lui dov'è?

Anche il Persiano era sceso, ed entrambi si guardarono attorno senza scorgere altro che campi, prati, e qualche raro albero; e una fattoria.

- Chiediamo a loro - disse Naser. - Avranno sentito o visto qualcosa...

La reazione del fattore alle loro domande fu un fuoco pirotecnico di irosa disperazione.

- Quel figlio di puttana mascherato! Quel ladro! Mi ha fottuto il cavallo! Il mio César! Come faccio a lavorare i campi? Bastardo! Pezzo di merda! Ah, avessi avuto a portata di mano il mio schioppo!

- A quest'ora sarà già arrivato a Perros-Guirec - osservò il Persiano.

- Con un cavallo da aratro? - chiese Rasselie.

- Signori - intervenne il vetturino - se non togliamo quell'affare dalla strada non possiamo comunque proseguire.

L'operazione fu lunga e abbastanza laboriosa. Ora che la sfuriata del fattore li aveva rassicurati sullo stato di salute di Erik, si sorprendevano di come avesse potuto arrivare fin lì con la "cosa". Forse, come diceva Meg, Herr Benz era davvero un dono di Dio all'Umanità. E dopo che l'auto, a spinte e imprecazioni, fu doverosamente parcheggiata in un fosso, poterono riprendere il viaggio.

*

Anche se lungo la costa avevano cominciato a sorgere ville lussuose, Perros-Guirec restava sempre un borgo di pescatori, con un'unica locanda, la stessa da decenni: la locanda del Soleil Couchant. A quell'ora della sera erano presenti diversi avventori, e non furono poche le teste che si voltarono all'ingresso di quella bizzarra coppia accaldata, impolverata, sudaticcia ed esausta. Il vetturino che li aveva seguiti fu accolto dal largo sorriso di una donna che si affaccendava tra i tavoli e lo apostrofò un po' meravigliata: - René, come mai in ritardo anche stasera?

L'uomo si tolse pastrano e cilindro con evidente sollievo e si lasciò cadere su una panca davanti a un tavolo libero in un angolo della sala.

- Non dirmi niente, i korrigan devono aver lanciato una maledizione su quella strada, non passa giorno che non succeda qualcosa.

- I korrigan non lanciano maledizioni. Ti hanno rubato la scarsella?

- Poi ti racconto.

- Ti porto subito da bere.

La locandiera era giovane, bionda e scattante. Il Persiano le si avvicinò e l'apostrofò con espressione dubbiosa e delusa.

- Ehm... lei non è mamma Tricard, vero?

La giovane donna lo guardò inarcando le sopracciglia ma senza perdere il sorriso. - Sono la nipote, Anne Boularde. Mia zia si è ritirata anni fa, adesso sono io a mandare avanti questo posto.

- Quindi non conosce...

Rasselie si fece avanti e lo interruppe, impaziente: - Stiamo cercando la contessa di Chagny. Dovrebbe essere alloggiata qua. Dobbiamo parlarle, si tratta di una cosa della massima urgenza.

L'occhiata che la locandiera le gettò rese Rasselie dolorosamente consapevole del proprio aspetto dopo quel lungo viaggio.

- Una donna bionda - spiegò, a disagio, cercando di risistemarsi il capellino come meglio poteva, tanto per darsi un contegno. - Dovrebbe essere arrivata ieri, o prima, non so esattamente.

- Ah sì, Madame la contessa. È arrivata qui ieri sera piuttosto tardi, la diligenza aveva avuto dei problemi. - Alzò la voce per farsi sentire dall'uomo seduto all'altro capo della stanza. - Vero René? Anche ieri ci sono stati problemi sulla strada da Lannion.

L'uomo bofonchiò qualcosa riguardo bandelloni e cignoni che Rasselie non capì bene, e di cui del resto non le importava nulla.

- Possiamo parlarle? È davvero importante.

- Adesso non è nella sua stanza. Però potreste...

In quell'istante la porta della locanda si spalancò come per una violenta raffica di vento, lasciando entrare un nuovo avventore. Nuovo e inaspettato ma non sconosciuto, sì che fu accolto dalle esclamazioni quasi contemporanee di: la locandiera: - Ah, eccolo qui!

Rasselie: - Conte?

Naser: - È proprio lui!>>

Al che Raoul de Chagny, gli abiti stazzonati e le onde dei capelli in tempesta, proruppe: - Non riesco a trovarla! - Poi, riconoscendo Rasselie: - Lei qui? - e immediatamente dopo il Persiano: - Ma io la conosco!

E la locandiera, in risposta alla prima esclamazione del conte: - Non so che dirle, non è ancora tornata.

- Non è possibile! - Il conte sembrava aver perso tutta la compostezza gentilizia che poco più di ventiquattro ore prima aveva sfoggiato nella sua lussuosa dimora davanti a Rasselie. - Ma le ha fatto capire dove andava, a che ora doveva tornare...

Anne Boularde aprì le braccia in un gesto di rassegnata impotenza. - Ieri sera, quando è arrivata, era un po' seccata per il ritardo ma tranquilla. È salita nella sua camera e non l'ho più vista fino a verso mezzanotte, quando ha sceso le scale tutta agitata ed è uscita.

- E quando è tornata? Come stava?

- Bene, direi. Ma... ecco, mi è sembrata triste, e anche preoccupata. Mi ha detto che se qualcuno l'avesse cercata dovevo chiamarla, non importava l'ora. Però non l'ha cercata nessuno, fino a stamattina. Ehi Eli, tu hai visto il tizio che ha portato quella lettera per Madame la contessa.

Un ragazzo sui vent'anni, impegnato a pulire i tavoli, si voltò. Cicatrici di acne giovanile tra una rada barba biondiccia, frangia paglierina, espressione non troppo sveglia.

- Certo, l'ha data a me.

- E chi era? - Intervenne il Persiano.

Il ragazzo si strinse nelle spalle. - Mai visto.

- Ma che tipo era? - insisté Rasselie.

- Boh... strano.

- Strano come? - chiese Raoul.

- Non saprei dire. - Eli sporse il labbro inferiore in un'espressione tra dubbio e mortificazione. - Non l'ho visto bene.

E la locandiera: - Ma se ci hai parlato.

- Sì... ecco... Il fatto è che non riesco a ricordarlo tanto... Che cosa curiosa, vero? Mi sembrava un morto nella bara. Voglio dire... pallido pallido, tutto vestito per bene... Ah, portava una sciarpa bianca.

Rasselie si sentì mancare il respiro, ma gliene restò abbastanza per esclamare: - Mio Dio, è lui!.

Subito seguita dal Persiano: - Il Signore delle Lame!

A quel punto, il conte di Chagny era già diventato il ritratto della confusione.

- Ma di che parlate? Christine è qui per incontrare il suo Angelo della Musica. - Quindi, rivolgendosi a Rasselie: - Marguerite, di ritorno dalla sarta, mi ha confessato tutto; ha detto che ne aveva parlato con lei e la sua espressione l'aveva allarmata. Così... Insomma, quell'uomo torna a farsi vivo dopo tanti anni... Cosa vuole da mia moglie? Allora ho preso la migliore delle mie carrozze e sono arrivato in tempo per il treno della sera; poi a Lannion non ho aspettato la diligenza, ho noleggiato un cavallo alla stazione di posta... Ma voi che ci fate qui?

- È un po' difficile da spiegare - disse Rasselie. - E non credo che abbiamo molto tempo.

E il vetturino, dal suo posto nell'angolo: - Anne, ti sei scordata di portarmi da bere! Spicciati, muoio di sete!

- Ma non preoccupatevi - disse la locandiera con aria allegra, prima di allontanarsi per soddisfare la richiesta dell'uomo. - Dopo aver ricevuto quella lettera sembrava felicissima, davvero, di ottimo umore. Ha fatto colazione con appetito, poi è uscita, credo sia andata a far spese perché è tornata con diversi pacchetti... E poi è uscita di nuovo, tutta elegante e sorridente.

I sottili baffi di Raul erano lievemente imbrillantati di sudore.

- Ma cosa vuole da lei quell'uomo?

Rasselie e Naser si scambiarono, in uno sguardo, tutta la riluttanza di dover mettere il conte a parte dei loro terribili sospetti che erano a un attimo dal diventare certezze. Eppure, andava fatto.

- Conte... - esordì Rasselie in un sussurro ansimante. - Dobbiamo parlarle.

E lo fecero, in una stanza libera della locanda, cercando di essere il più concisi possibile ed evitare i particolari che sarebbero potuti apparire troppo fantasiosi. Nonostante ciò, a ogni parola, potevano vedere l'incredulità crescere come una marea negli occhi dello sbigottito Raoul. Quando ebbero finito, la bella faccia del conte sembrava una spiaggia dilavata dalla luce lunare. Per un po' lo videro restare seduto immobile, muovendo le labbra in silenzio, come cercasse disperatamente di dare voce a un qualche discorso.

Infine, come spinto da una molla, balzò in piedi e proruppe in una esclamazione accorata: - Ucciderò quel mostro!

Nel bagaglio essenziale che aveva portato con sé non si era dimenticato di includere una pistola. Che, con quelle che erano in possesso di Erik e l'altra nella borsa di Rasselie, facevano quattro. Sempre che Erik fosse arrivato a Perros.

Un uomo con la faccia nascosta dietro una maschera, vestito in abito da sera, in groppa a un cavallo da tiro privo di sella, difficilmente poteva passare inosservato. Ma bastò fare qualche domanda in giro per scoprire che nessuno lo aveva visto.

Dominati da una sensazione di disastro incombente, se non già avvenuto, alla fine si risolsero a tornare alla locanda per rinfrescarsi e rifocillarsi, sebbene piuttosto che sedersi a una tavola apparecchiata avrebbero preferito distendersi su un letto; anche scomodo, senza coperte, senza materasso; un pagliericcio, il tavolaccio di una prigione... ma dormire, finalmente! E invece quello era un lusso che non potevano assolutamente permettersi.

- Se lei non fosse venuta da me non avremmo mai scoperto nulla dell'orribile piano di quell'uomo...

Il modo in cui Raoul la guardava faceva sentire Rasselie colpevole, in quanto lei era ben consapevole di aver gettato il sassolino capace di avviare la valanga, anche se non lo aveva fatto intenzionalmente. Se non avesse annotato nella sua agenda le parole di mamma Valerius; se non avesse provocato Jack cercando di tendergli una trappola; se lui non avesse scoperto dove abitava grazie alla gonna lasciata nel vicolo; se non si fosse introdotto in casa sua; se non avesse letto l'agenda... Tutti quei condizionali erano del genere in grado di far crollare gli imperi. E adesso potevano decidere della vita di Christine Daaé.

- Non riesco a immaginare come l'abbia convinta a venire qui. - Naser sembrava escludere che l'Angelo della Musica potesse avere ancora tanta influenza sulla ex soprano.

- Non so, non ho trovato il biglietto di cui mi ha parlato Marguerite, evidentemente lo aveva distrutto. - Raoul socchiuse gli occhi e corrugò la fronte cercando di ricordare. - Vediamo: mia figlia ha detto che più o meno c'era scritto che l'aspettava alla tomba del padre "come l'altra volta", e che aveva "quella cosa per lei".

- Quale cosa? - chiese Rasselie.

- Vorrei saperlo. Ah, Marguerite ha visto come una firma...>>

- Erik?>> Ancora Rasselie.

- No, una... una sigla: D.G.T. E una parola: "Finito!"

- Che significa? - Sempre Rasselie.

- Allah! Ci sono! - L'esclamazione di Naser sembrava intendere una specie di illuminazione dall'alto. - "Don Giovanni trionfante", l'opera di Erik!

- Quell'opera, certo! - Anche la faccia del conte di Chagny si era illuminata alla rivelazione. - Christine me ne parlò, disse che lui la stava scrivendo.

- Sì, ma non... in realtà... - Il colorito di Naser aveva assunto una sfumatura ramata. L'imperturbabile Persiano era a disagio? Rasselie ebbe l'impressione che si fosse morso la lingua.

Raoul invece sembrava aver ritrovato vigore e speranza. - Se l'intenzione di quell'assassino era attirarla nel cimitero con la scusa di consegnarle lo spartito, è evidente che ieri lei ha mancato all'appuntamento.

Il che spiegava il fatto che fosse uscita precipitosamente per ritornare delusa e si fosse rasserenata solo dopo aver ricevuto la lettera quel mattino.

- Sicuramente ci riproverà stasera. Dobbiamo precederli al cimitero!

 

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Capitolo 14
*** Dentro la fiamma ***


14

DENTRO LA FIAMMA

(Dove nel cimitero si lotta contro le zanzare e non soltanto, Erik e Jack si tolgono la maschera e scoppia una tempesta)

 

Un cimitero non è mai il luogo ideale dove disporsi a una lunga attesa notturna; e d'estate men che meno. Le zanzare, capaci di proliferare in ogni minima goccia d'acqua, avevano fatto tesoro dei vasi per i fiori e di qualunque concavità o anfratto potesse contenere il prezioso liquido; e all'arrivo dei tre visitatori inaspettati si scatenarono.

Attendere acquattati tra lapidi e cespugli richiese loro una certa forza d'animo. Ben presto si ritrovarono a grattarsi poco signorilmente, per quanto furtivamente, tutte le parti lasciate scoperte dagli abiti; e non soltanto, perché i voraci insetti erano capaci di penetrare le stoffe meno pesanti con i loro stiletti.

La notte era cupa e assolutamente buia se non per i lampi che illuminavano a tratti il cielo. Sembrava trattarsi di uno di quei tipici temporali estivi che non si schiodano dalla linea dell'orizzonte, e l'aria restava calda. Gli occhi riuscivano a distinguere appena il biancheggiare dei marmi più recenti contro la massa scura della chiesa che incombeva sul piccolo cimitero.

Dedicato a San Giacomo come buon auspicio per i pellegrini che attraversavano la Bretagna diretti a Compostela, l'edificio contava quasi otto secoli di vita e i restauri più recenti non ne avevano mutato la forma che perdurava indecisa tra gotico e romanico come al suo nascere. Una specie di balaustra circondava il tamburo spigoloso che terminava in un pinnacolo sul quale la croce sembrava capitata per caso, e il tetto al di sopra dell'ingresso spioveva minacciosamente ripido. Di giorno, i blocchi di granito locale con cui era costruita assumevano tenere sfumature gialle e rosate; ma nella notte senza luna la chiesa era una presenza fredda e nera.

Rasselie si domandava come poteva essersi sentito Raoul quella notte di tanti anni prima, quando aveva seguito Christine all'appuntamento con il suo Angelo. Sicuramente meglio di adesso. Allora non era in gioco la vita di nessuno, e c'era la luna, così le aveva raccontato, con la neve che ne amplificava il chiarore. Adesso invece il buio era denso. E pieno di zanzare che con il loro insistente ronzio e i morsi spietati disturbavano la concentrazione.

Poteva quel rumore senza tregua nascondere passi furtivi? Un respiro? E l'oscurità avrebbe lasciato scorgere a tempo un movimento pericoloso, una figura che si aggirava tra le tombe?

Ma infine, pochi minuti prima della mezzanotte, il copione di anni addietro si ripeté. Una figuretta avvolta in un ampio mantello chiaro, che dalla corporatura poteva essere soltanto Christine, attraversò il cancello a passo tranquillo. I biondi capelli sparsi sulle spalle e lungo la schiena, rilucenti contro la stoffa opaca del mantello, si diresse là dove era la modesta tomba del vecchio Daaé. E quando la ebbe raggiunta, un'impeccabile regia diede inizio alla musica.

Il suono di un violino, limpido anche se lievemente metallico, sembrò scaturire da un punto imprecisato nell'oscurità e Christine lo accolse senza sorpresa, restando accanto alla tomba e voltando solo leggermente la testa da una parte e dall'altra, come se cercasse di scorgere qualcuno, distinguere un'ombra nell'ombra.

- È vestita come allora - sussurrò Raoul.

Poi udirono la sua voce, dolcissima e sognante: - Mio Angelo, dove sei?

E già il conte si era alzato e stava per correre verso di lei, la pistola in pugno, quando un'altra voce si fece udire, maschile e imperiosa: - No, Christine, non ascoltare! Non sono io!

Una sagoma nera, simile a un grande pipistrello, era scaturita dall'oscurità e in un attimo si precipitò incontro alla donna, trattenendola proprio mentre cominciava a incamminarsi verso la chiesa. Raoul puntò la pistola.

- No! - Rasselie gli afferrò il braccio. - Quello è Erik!

Le due figure accanto alla tomba si immobilizzarono per un attimo, poi Erik si staccò da Christine e corse verso la chiesa, in un turbinio di raso nero, mentre Christine mosse qualche passo per seguirlo, poi ci ripensò, si fermò, andò verso Raoul, si fermò di nuovo... La sua confusione era palese.

Rasselie e il Persiano, invece, seguirono Erik; e mentre gli correvano dietro lo sentivano imprecare.

I loro occhi, durante la lunga attesa, si erano un poco abituati all'oscurità, così poterono vederlo scomparire dalla parte della sacrestia, dove i teschi dell'ossario sogghignavano incistati nei muri.

Dopo un attimo udirono un rumore secco, e il suono del violino si interruppe bruscamente su uno straziante stridio; quindi, dopo un attimo, un oggetto rotolò sul prato ed Erik uscì da dietro la sacrestia per assestargli un altro calcio. Nello scintillio metallico del diffusore a tromba, Rasselie riconobbe un grammofono.

Poi Erik alzò gli occhi su di loro.

- Vi avevo ordinato di non seguirmi! - E di nuovo corse via.

Nel frattempo, il temporale che prima sembrava inchiodato sull'orizzonte si era lentamente avvicinato strisciando lungo la curva del cielo, fino a portarsi sul cimitero, e i tuoni brontolavano cupamente tra le nuvole.

Rasselie e il Persiano si erano di nuovo lanciati all'inseguimento di Erik, quando si udì un'esplosione, uno schiocco assordante; e per un attimo tutto il cimitero sbiancò in una luce abbagliante. La croce in cima al pinnacolo ardeva di un fuoco biancoazzurro che si riversava il rivoli guizzanti sui fianchi della cupola. E in quella deflagrazione luminosa, una figura nera si staccò dalla balaustra che circondava il tamburo e si avventò verso il suolo come un uccello predatore. Nel buio totale che seguì immediatamente dopo si udì un grido di donna; ed era la voce di Christine.

Quando Rasselie ritrovò la vista fu come se un sipario di velluto nero si aprisse lentamente su una danza di lucciole azzurre che ronzavano come pochi minuti prima avevano fatto le zanzare, ma in tono assai più alto e vibrante.

E in mezzo a quella tempesta di scintille stava Jack, ritto e immobile, con un braccio stretto attorno al collo di Christine che non osava il minimo movimento. Un lama rilucente le sfiorava una guancia pallida; più pallida ancora della maschera di cera che copriva il volto dell'uomo.

- Non muovetevi, my friends, o la sgozzo.

La voce era affilata come le sue lame. Solo l'odio, un odio puro e senza debolezze umane poteva renderla così. Raoul ed Erik lo tenevano sotto il tiro delle loro pistole, ma ovviamente non si sarebbero azzardati a usarle. Rasselie si rammentò della propria, ancora nella borsa. Un peso inutile. Sapeva che non sarebbe mai stata capace di sparare a qualcuno.

- Lasciala andare. - Anche nella voce di Erik era palese l'odio; ma di un altro tipo, vibrante e appassionato, in contrasto con i gesti che restavano calmi e controllati. - Questa è una faccenda che possiamo risolvere soltanto tra noi due.

- Spetta a me decidere come. Come puoi ben vedere, sono io che ho il coltello dalla parte del manico. Perciò abbassate le pistole e lasciateci andare via tranquillamente. La signora contessa e io dobbiamo fare un lungo discorso.

- Infame, lascia stare mia moglie! - esclamò Raoul con cavalleresca fierezza.

La maschera di cera si voltò leggermente verso di lui. Incredibile e terrificante, sembrava sorridere. Gli occhi erano malevola oscurità.

- Dille addio finché puoi, de Chagny.

La pioggia di scintille si era estinta, ma il cimitero continuava a restare avvolto in un chiarore che, pensò Rasselie, poteva con ogni ragione essere definito "spettrale". O forse dipendeva soltanto dai lampi che si susseguivano nel cielo sopra di loro senza quasi soluzione di continuità.

- Va bene. - Erik tese un braccio verso Jack, la mano aperta, e abbassò lentamente quella che teneva la pistola, invitando con uno sguardo Raoul a fare altrettanto. - Intanto immagino che le pallottole ti farebbero soltanto il solletico. So di non poter invocare la nostra trascorsa amicizia, Pierre; abbiamo commesso troppe... chiamiamole mancanze, l'uno nei confronti dell'altro. Ma proprio per questo dovremmo cercare di sistemare le cose tra noi, senza coinvolgere altri.

Rasselie avvertì una goccia calda caderle su una mano e questo la strappò dall'incantamento di cui era stata ostaggio fino ad allora, così si accorse che il Persiano non era più al suo fianco. In qualche modo, prima dell'esplosione luminosa, o poco dopo, era riuscito ad allontanarsi. Lo cercò con lo sguardo, non osando muovere la testa di un millimetro; e infine notò l'ombra che strisciava lungo il muro della chiesa alle spalle di Jack. Certamente anche i due uomini che lo fronteggiavano se ne erano accorti, perché continuarono a restare immobili.

- Cosa vuoi, Pierre? Che venga con te da Ayesha? E va bene, lo farò.

- Un po' tardi per cambiare idea, non ti pare? Pierre Morhange non esiste più, e se devo essere onesto non ho pianto la sua scomparsa. E di te che mi dici? Cos'è diventato Benoît de Saint-Avit? Il Signore delle Botole, l'Angelo della Morte, si è trasformato in un fantasma che si nasconde in un teatro dell'opera, l'Angelo della Musica che irretisce giovani e ingenue soprano.

- Sbagli... Jack, o comunque tu voglia essere chiamato adesso. Christine Daaé non ha nulla a che vedere con ciò che sono diventato.

- Davvero? E allora perché non ti togli la maschera qui, davanti a tutti. Andiamo, Fantasma dell'Opera, mostraci la tua vera faccia!

La voce di Jack grondava scherno. Erik restò immobile.

- Ho impiegato parecchio... anni per capire, my dear Phantom, ma alla fine ho avuto un'illuminazione. Ora so cosa voleva dirci la veggente di Samarcanda. Solo che è tutt'altro che semplice, oh davvero, non lo è per niente. Molto, molto più difficile che sgozzare una donna e strapparle le viscere! Impossibile, per due come noi. Eppure... giurerei che tu ci sei riuscito, vero? Grazie a questa volonterosa signora! - Jack strinse ancora più forte il braccio attorno al collo di Christine che emise un gemito soffocato. Poi, con un sogghigno intuibile attraverso la maschera di cera, disse rivolto a Raoul: - E tu, povero il mio conte, quanto mi fai pena! Non ti sei mai accorto di aver comprato merce di seconda mano?

Erik scosse lentamente la testa; un gesto stanco e sfiduciato. - Come posso farti capire che ti sbagli?

- Togliti la maschera.

In quel momento Naser, che aveva continuato ad avvicinarsi silenziosamente alle sue spalle, lo raggiunse e lo colpì alla testa con qualcosa, forse un sasso... Rasselie non avrebbe saputo dirlo con certezza... ma ciò che seguì fu una conflagrazione di urla rabbiose e corpi in lotta. Anche Erik si era subito gettato su Jack, cercando di strappargli il coltello, mentre Christine si divincolava e fuggiva a rifugiarsi tra le braccia del marito. La lama scintillò come un piccolo fulmine; Naser gridò, fece qualche passo indietro, inciampò e cadde su un tumulo; il mantello di Erik vorticò nell'aria, ricadde sulla testa di Jack ma fu subito spazzato via da un movimento brusco del braccio...

Lo schiocco di un fulmine... Le mani di Erik artigliarono la maschera di Jack... Il cielo spalancò le sue cateratte. Christine gridò. Rasselie pure.

Erik aveva fatto un salto indietro, la maschera di cera stretta in una mano... e il manico del coltello che gli spuntava da un fianco.

In seguito, Rasselie non sarebbe riuscita a ricordare cosa, sul momento, l'avesse terrorizzata di più: se quel coltello che sporgeva dal corpo di Erik o la faccia di Jack che la luce dei lampi rivelava impietosamente. Perché era davvero come l'aveva descritta: un ammasso di carne piagata e annerita, quasi del tutto priva di sembianze umane, con un buco nero al posto del naso.

Jack emise una specie di ringhio e si raggomitolò su se stesso, come una fiera che si prepara al balzo; ma invece si voltò e fuggì di corsa lungo il viale, verso l'uscita del cimitero. Erik si lanciò all'inseguimento e Raoul stava per fare altrettanto quando la voce sofferente del Persiano lo trattenne: - No! Porti in salvo sua moglie!

Con la faccia contorta dal dolore se ne stava seduto tra il fango del tumulo, stringendosi un braccio.

Perlomeno era vivo; e la sua esclamazione riscosse Rasselie che si affrettò dietro i due uomini, maledicendo la gonna che andava rapidamente inzuppandosi e le rendeva difficile correre.

"Merde, perché non mi sono portata un paio di pantaloni!". Un giorno tutte le donne li avrebbero indossati per comodità, ne era sicura; ma adesso lei era lì che inciampava nei propri piedi cercando di tener dietro a due uomini che correvano ben più veloci di lei, anche se uno di loro aveva... quanti... quanti centimetri erano?... di acciaio piantati in un fianco. Ma non si fermò a valutare la lunghezza della lama quando vide il coltello a terra, poco fuori dal cimitero. Erik se lo era strappato via come fosse stato una spina. Poteva morire dissanguato.

- Stanno andando verso la scogliera! - gridò Raoul, che evidentemente non aveva raccolto l'invito del Persiano, quando la sorpassò di corsa.

Per lui quella zona non aveva segreti, avendo trascorso lì tante estati da bambino, ma per Rasselie era complicato evitare di smarrirsi tra le rocce granitiche che il vento aveva modellato nelle forme più bizzarre. Il lampi strappavano dall'oscurità titaniche sagome di animali, figure antropomorfe contorte in atteggiamenti minacciosi, torri, miniature di palazzi fatati...

Vicinissimo, il mare ruggiva come solitamente fa quando è in tempesta, i tuoni rotolavano tra le nuvole con fragore di valanga, i fulmini schioccavano come fruste di fuoco biancoazzurro, e la pioggia martellava la terra, mista a grandine, lapidava gli esseri umani sui quali si rovesciava.

Se quello fosse stato un romanzo gotico, pensò Rasselie, non sarebbe mancato proprio nulla. Tranne che a quel punto, mentre stava affrontando una salita, lei scivolasse e finisse lunga distesa nel fango; come in effetti accadde.

Quando riuscì a rialzarsi e giunse in cima alla salita, si fermò senza fiato. Le sembrava che la pioggia le entrasse nei polmoni a ogni respiro faticoso che riusciva a trarre, e sarebbe annegata. I capelli si erano sciolti e le si appiccicavano al viso e al collo in lunghe ciocche.

Raoul, arrivato poco prima di lei, era immobile sotto il diluvio e fissava la scena che si svolgeva parecchi metri innanzi, proprio al limite della scogliera.

I due uomini, fermi a pochi passi l'uno dall'altro, stagliati contro il cielo in fiamme: due figure così simili, quasi gemelle. Era un duello, ma non c'erano armi all'infuori dei loro corpi e delle loro volontà. E mentre li guardava, Rasselie comprese che ciò che avevano vissuto insieme e li legava, li escludeva anche dal resto dell'umanità. Quello era un duello e riguardava loro due soltanto. Anche Raoul lo aveva capito e attendeva senza muoversi, la pistola inutile nella mano.

Uno dei due avrebbe vinto. O si sarebbero annientati a vicenda.

Poi Rasselie divenne consapevole del suono che andava crescendo attorno a lei, e dapprima aveva scambiato per l'urlio del vento in lotta con la scogliera e le onde, ma quel suono non proveniva dal mare; sembrava salire dalle rocce bagnate, filtrando attraverso di esse dalla profondità delle terra, trovando la propria strada nelle invisibili vene del granito, distendendosi nell'aria con una limpidezza che la furia della tempesta non poteva intaccare.

E il chiarore che circondava i due uomini non era più soltanto quello dei lampi; prendeva forma intorno a loro come se una forza invisibile respingesse le tenebre dalle loro figure immobili, si allargava nello spazio che li divideva, assumeva corpo e forma.

Erik alzò un braccio in un movimento lento e determinato, e si tolse la maschera.

Rasselie inspirò bruscamente e con tanta violenza che la pioggia che le ruscellava lungo il viso le entrò davvero in bocca e in gola, facendola tossire.

Impossibile. Ma il volto di Erik non recava alcuna traccia delle devastazioni che avevano divorato le sembianze di Jack e, secondo i suoi racconti, condividevano. Il naso era al suo posto dove solitamente stanno i nasi, in armonia con gli altri lineamenti, a disegnare una fisionomia giovanile e piuttosto piacente nonostante l'odio che esprimeva.

Jack sghignazzò, e quel suono così sgangherato e folle sembrò per un attimo sovrastare la vibrazione che saliva dalla terra. Ma non la fermò.

Era musica pura, ed era canto, da strumenti e voci aliene; e cresceva, si arrampicava verso il cielo lungo il velario di pioggia, facendo risuonare ogni goccia, ogni chicco di grandine in un'armonia perfetta e così complessa che mai strumento o voce umana avrebbe potuto riprodurre. Era "una melodia sublime e terribile, così terribile da consumare chiunque osasse ascoltare", che replicava sé stessa in un canone eternamente ascendente, senza concedere tregua, all'infinito.

Rasselie la riconobbe, l'aveva già udita: quella notte che aveva trascorso tra le braccia di Erik. Ma adesso risuonava infinitamente più intensa, penetrava non soltanto i timpani ma ogni millimetro di pelle, filtrava attraverso i pori, metteva in risonanza ogni molecola del corpo, accordava il cuore su frequenze nuove, spingeva il sangue nelle vene a un ritmo forsennato, lo incendiava dalle arterie al più sottile dei capillari. Quella musica la possedeva come un demone, le violentava l'anima.

Raoul era caduto in ginocchio tappandosi disperatamente le orecchie.

Ma lei no; lei desiderava ascoltare, anche se ogni nota la trafiggeva come un uncino di diamante e le strappava via qualcosa di sé.

E la musica cominciò a prendere forma tra i due uomini immobili. La musica era luce, e zampillava dalla roccia. Una colonna di luce che non ondeggiava e non si torceva come fanno le fiamme, ma sembrava una cascata che scorresse lentamente verso l'alto, animata da striature azzurre e violette. Densa come latte, ma cristallina, lasciava intravedere in trasparenza le stelle. Stelle, in quella notte affollata di nuvole compatte? Eppure, ciò che Rasselie scorgeva nel cuore della fiamma era un intero firmamento, e pensò che entrare nella luce avrebbe significato oltrepassare la realtà di questo mondo per ritrovarsi all'altro capo dell'universo.

Soffocò un grido quando vide Erik e Jack avventarsi l'uno contro l'altro, tuffarsi nella fiamma e avvinghiarsi in una lotta a mani nude.

Sarebbe potuta sembrare una danza al rallentatore, ma era una lotta mortale, irreale perché avveniva in una dimensione nella quale non contavano la forza fisica, la rapidità e l'astuzia nell'assestare o schivare colpi. Era il combattimento tra due volontà, due menti affratellate nello stesso incantesimo, due schiavi della stessa terribile padrona. A lei spettava decidere chi meglio aveva saputo servirla e proclamarlo suo campione; o, insoddisfatta, annientare entrambi. Tutto il suo essere di fuoco liquido pulsava adesso al ritmo della musica, si torceva, si espandeva e tornava a restringersi attorno alle forme dei duellanti, come se la loro intrusione avesse risvegliato un'energia dormiente, scatenandola in tutta la sua potenza.

Raoul era raggomitolato nel fango, il viso contro le ginocchia, le braccia alzate a proteggersi la testa, sopraffatto dalla luce e dalla musica.

Ma Rasselie non riusciva a staccare lo sguardo dalla Fiamma nella quale i due corpi ormai indistinguibili continuavano a lottare... danzare... distorti nella sempre più frenetica pulsazione luminosa. E la musica continuava ad arrampicarsi su se stessa, inseguendo un culmine che sembrava incapace di raggiungere, aldilà del cuore dell'universo, dove nulla poteva esistere e tutto si annientava.

Poi, all'improvviso, il silenzio esplose. La fiamma si estinse. Un grande coperchio nero era calato dal cielo a soffocare in un istante suono e luce.

Ma non era davvero silenzio, non era davvero buio. Si poteva di nuovo percepire il rumore del mare, e i lampi illuminavano il paesaggio.

In quel chiarore, il bordo della scogliera appariva immobile e vuoto.

Rasselie mosse qualche passo incerto, poi si mise a correre. Solo la gonna inzuppata d'acqua frenò il suo slancio quel tanto che bastava per impedirle di precipitare di sotto.

Aggrappandosi a una roccia a forma di pinnacolo guardò in basso. Le onde esplodevano contro gli scogli in fontane di spuma, si inarcavano come cercassero di arrampicarsi lungo la parete di granito, ricadevano nella loro liquida furia, si ritraevano per sferrare un nuovo attacco.

Infine, tra un lampo e l'altro, riuscì a scorgere una forma scura che si arrampicava come un granchio lungo gli scogli e poté riconoscere lo scintillio argenteo dei capelli. Il sollievo fu tanto che le impedì persino di gridare e il nome le uscì fuori come un gemito: - Erik...>>

Avrebbe voluto aiutarlo ma non sapeva come. Poté soltanto seguirlo con lo sguardo nella sua faticosa risalita, tendere una mano e aspettare che lui fosse abbastanza vicino da poterla afferrare.

- Sei vivo!

Poi restò in ginocchio accanto a lui che giaceva a faccia in giù, esausto, tremando irrefrenabilmente, con gli abiti... il suo elegante completo da serata all'opera!... ridotti a brandelli.

Scalpiccio di passi nel fango. Rasselie alzò la testa. Raoul era accanto a lei e si guardava attorno con l'espressione di un sonnambulo appena risvegliato.

- Cosa è successo?

Erik rialzò lentamente la testa. - Solo un po'... di movimento - commentò sarcastico.

Rasselie tese una mano. Voleva toccarlo, ma non ci riuscì. Chi era quello sconosciuto? La pioggia scorreva su un viso che le era estraneo, assurdamente giovane per l'età che il presunto Fantasma dell'Opera avrebbe dovuto avere. Persino gli occhi non sembravano più gli stessi; alla luce dei lampi erano argento reso opaco dallo sfinimento.

Anche la voce sembrava diversa quando chiese a Raoul: - Come sta Naser?

- È con mia moglie. Non credo sia grave.

Erik annuì stancamente, mettendosi a sedere.

- E tu... - chiese Rasselie, ansiosamente - stai bene?

Il sorriso di scherno che ebbe in risposta, almeno quello, le era abbastanza familiare.

- Non dormo e non mangio da due giorni, sono stato accoltellato, sono precipitato in mezzo agli scogli, ho ammazzato quello che un tempo era il mio migliore amico e non ultimo ho evocato la Fiamma. A parte questo, sono in ottima forma. -Tornò ad alzare lo sguardo su Raoul. - Signor conte... noblesse oblige. Credo che sarai costretto a ricambiare il favore che ti feci anni fa e aiutarmi a raggiungere la locanda.

*

Anne Boularde era indubbiamente una donna pratica e imperturbabile, nonostante la giovane età. Non diede mostra di eccessiva meraviglia, preoccupazione o sconcerto, vedendo arrivare alla locanda quel quintetto sbrindellato, fradicio, infangato, stravolto, del quale due membri soffrivano palesemente per una ferita di arma da taglio. Si limitò a inarcare le sopracciglia, poi buttò giù dal letto il giovane e intontito Eli, e provvide a fornire vino caldo e laudano, acqua per le vasche da bagno, fuoco nei camini e cibo. E dopo un cortese: - Se vi serve altro non avete che da chiamare - si congedò lasciandoli a sbrigarsela da soli.

La ferita di Erik era certamente più seria di quella subita da Naser, la lama era penetrata profondamente e poteva aver lesionato qualche organo interno. Rasselie era del parere di mandare a cercare un medico, ma lui la rassicurò.

- Non preoccuparti, Sélie. Fra qualche giorno non si vedrà neppure il segno. La Fiamma ha fatto il suo dovere.

E lei non ebbe la forza di contestargli neppure di averla chiamata "Sélie".

 

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Capitolo 15
*** Storia di due Christine ***


15

STORIA DI DUE CHRISTINE

(Dove Rasselie fa un altro sogno, poi dice addio a Erik e accetta un invito a cena ma ha bisogno di un abito nuovo)

 

Che si trattasse soltanto di un sogno lo sapeva con la certezza che soltanto nei sogni si prova: riconosceva tutte le incongruenze che ne definivano l'irrealtà. Il cimitero era quello di Perros, con la sua chiesetta e le sue semplici lapidi, ma la tomba davanti alla quale stava era quella di Étienne. E lei scrutava nell'oscurità della fossa vuota. La lapide sembrava essere stata rimossa con ogni cautela e gentilmente posata al suolo, come il coperchio di una scatola di marmo, ed era intatta: il nome, le due date che racchiudevano una vita troppo breve, il sorriso incorniciato nell'argento. Il vuoto oscuro in cui guardava non le provocava neppure angoscia, perché lo sapeva impossibile. Étienne. era lontano cinquecento chilometri da quel modesto cimitero di villaggio, era al sicuro. Niente di quanto era accaduto, o poteva accadere in quel luogo, lo avrebbe mai toccato. Era notte? Certo, ma tutto attorno c'era luce; il chiarore della luna riflesso dalla neve. Si sorprese a tendere l'orecchio per cogliere un lontano suono di violino. Ma tutto era silenzio. Nemmeno il canto di un uccello notturno.

Sentiva tra le dita gli steli dei fiori, freschi e carnosi. Le corolle gialle riposavano contro il suo petto, vivide come piccoli soli. Il loro profumo era stranamente intenso, diverso, non il profumo di semplici margherite gialle. Intenso e dolce: rose e ninfee. Penetrava in lei come uno sciroppo caldo, diventava sapore sulla sua lingua. I petali palpitavano sulle sue labbra con la sofficità umida di un bacio.

Un'ombra le accarezzò i capelli e le spalle. "Guardami", le disse.

Rasselie si voltò. Étienne era a pochi passi da lei, bellissimo nell'abito delle nozze. I suoi occhi splendevano come diamanti scuri alla luce della luna.

"Sei ritornato."

"Sono sempre stato qui."

La prese per mano. Una stretta calda e sicura.

"Vieni."

"Dove andiamo?"

Étienne indicò la vuota oscurità della fossa. Rasselie sentì lo smarrimento palpitarle nella gola.

"Ma io sono viva."

"Ne sei sicura?"

Il sorriso di Étienne divenne più ampio, le labbra assunsero una piega crudele. Ogni luce aveva abbandonato lo sguardo. La mano che stringeva quella di Rasselie si era fatta all'improvviso fredda, le dita gelide e dure... ossute.

Un alito freddo saliva dalla fossa, insieme all'odore pesante della terra umida e di fiori in decomposizione. Quei fiori che prima risplendevano come piccoli soli si disfacevano contro il suo petto, intridevano la stoffa dell'abito di linfa morta e putredine. Ogni corolla era uno specchio annerito che mostrava il volto appena abbozzato di un bambino mai nato.

E anche il volto di Étienne andava mutando, i lineamenti si deformavano, le palpebre e gli angoli degli occhi si piegavano all'ingiù, le labbra divenivano sottili e la bocca sembrava farsi più grande, il naso si appiattiva, le guance divenivano scavate... come se la forza di gravità trascinasse le sue sembianze verso terra. Il suo volto si fondeva come cera, svelando il biancheggiare delle ossa e le vuote cavità del teschio. L'abito elegante pendeva dallo scheletro tramutato in grottesco spaventapasseri.

Rasselie aprì la bocca per gridare ma la sua voce era flebile e lontana, soffocata dentro di lei. Nessuno poteva udirla mentre lo scheletro che era stato Étienne la attirava verso la fossa.

"Lasciala, lei non ti appartiene."

Era la voce di Erik. Rasselie si voltò, un movimento tanto faticoso da strapparle un lamento. Ma di nuovo vide Étienne, negli abiti del giorno del matrimonio, e il bel viso aveva un'espressione determinata.

"Vieni da me, Sélie." Mosse una mano in un gesto di invito; e anche il modo di gestire ricordava quello di Erik, imperioso e languido insieme: un gesto da ipnotizzatore. Ma quello era Étienne, al di fuori di ogni dubbio. Rasselie lo avvertiva in sé, sotto la pelle e nell'anima, come fossero fusi in un abbraccio. Sicuro di sé, sfidava l'altro sé stesso fatto di morte.

"Tu non sei me. Sei soltanto ciò che resta delle mie sembianze umane."

E la Morte allentava la sua stretta gelida, le dita scheletriche lasciavano la mano di Rasselie.

Nel piccolo cimitero, la luce andava facendosi più chiara, ma non era un annuncio del mattino. Vivido chiarore si spandeva tutt'attorno, e in esso vibrava la musica. La voce della Fiamma.

"Anche i morti debbono morire. Se non esiste un aldilà, se la morte è semplicemente sonno infinito senza sogni, nulla di ciò che accade nel mondo dei viventi può ferirli. Ma se essi ci osservano, come possono trarre pace dal nostro tormento? Libero dalle fragilità della vita, il loro amore per noi si è fatto totale e puro. Ormai estraneo a egoismi e gelosie, desidera soltanto la nostra felicità. Perché solo attraverso chi vive, il defunto può ancora sentirsi vivo. Vivere ed essere felici è l'omaggio che dobbiamo a tutti coloro che hanno percorso insieme a noi il cammino della vita, a lungo o per breve tempo. Gioiamo di ciò che ci hanno dato, ringraziamoli per i loro doni; perché nulla potrà sottrarci quello che abbiamo avuto e gustato insieme a loro. È un tesoro che nemmeno la Morte può rubarci."

Così cantava la voce della Fiamma, senza pronunciare una sola parola. Ma ogni accordo era un discorso limpido e preciso che non lasciava al dubbio lo spazio della più piccola pausa.

Ormai tutto, intorno e dentro di lei, era musica e luce. Davvero non c'era bisogno di attraversare deserti e foreste fino al cuore del mondo per trovarle. Erano ovunque, erano l'anima della Terra.

"Dormi e dimentica il dolore. Il dolore non esiste, se tu non lo corteggi. E ricorda: ogni cosa inizia e finisce a tempo e luogo".*

*

Quando si svegliò pensò che fosse ancora notte, finché i lontani rintocchi di un campanile le rivelarono che era di nuovo notte.

La socievole locandiera le spiegò con un sorriso come i suoi compagni fossero partiti quel mattino: i conti di Chagny con una carrozza noleggiata apposta, l' "orientale" e "quel bel giovane signore" con la diligenza per Lannion, raccomandandole di "lasciar riposare la signora" fino a quando avesse voluto. Eh sì, i due stavano entrambi piuttosto bene e l'avevano pagata generosamente.

Se ci fossero state spiegazioni tra Erik e i conti di Chagny Rasselie non lo seppe e non osò chiederlo.

Il viaggio di ritorno verso Parigi le sembrò ancora più lungo. Tre giorni prima erano paura e incertezza dilatare il tempo; adesso era un profondo scoraggiamento. Se ne erano andati a coppie: Raoul e Christine, legittimi sposi; Erik e Naser, amici e complici; abbandonando lei da sola nella locanda, come un terzo incomodo. Come avrebbe detto in gergo uno degli avventori del Lapin Agile, l'avevano "scaricata": come zavorra.

Poteva capire perché. Lei non faceva parte delle loro storie; ci si era trovata in mezzo quasi per caso e poi aveva insistito per restarci, compiendo tutta una serie di mosse sconsiderate che avevano messo a repentaglio la vita di tutti. Questa consapevolezza, però, non la faceva sentire meglio.

Quando i suoi piedi toccarono di nuovo il marciapiede della stazione di Montparnasse, la decisione era presa. Ora che non correva più pericoli poteva lasciare il suo rifugio all'Opéra; avrebbe abitato per un po' in albergo e intanto si sarebbe cercata un appartamento da qualche parte: piccolino, luminoso e privo di ricordi, dove vivere e lavorare serenamente. Stava anche considerando l'idea di cercare un posto fisso presso qualche giornale o periodico, per il quale curare una banale rubrica mondana, e smettere di andare a caccia di storie bizzarre. Non ne era tanto sicura, però... E magari avrebbe preso un cucciolo, un cagnolino o un gattino...

Ma aveva bisogno dei suoi effetti personali. Non se la sentiva davvero di ritornare nella vecchia casa, rivedere la stanza e il letto che Jack aveva profanato con la sua macabra messa in scena. Perciò era costretta a ritornare all'Opéra e riprendere quelle poche cose che aveva portato con sé. Soprattutto la fotografia di Étienne.

E quando fu lì, nella piccola stanza che Meg le aveva messo a disposizione nel dormitorio delle ballerine, ebbe la consapevolezza che, se non avesse trovato il coraggio per un vero addio, non sarebbe mai riuscita a recidere il legame con quel posto. E con Erik. Doveva vederlo per l'ultima volta.

*

Lo trovò sdraiato sul letto, con la schiena appoggiata ai cuscini e un libro sulle ginocchia. Con una mano accarezzava distrattamente Ayesha che faceva le fusa distesa al suo fianco. La seta scarlatta della vestaglia lo faceva apparire pallido; probabilmente lo era davvero.

Alzò lo sguardo dalle pagine, sentendola entrare. Gli occhi, adesso, erano di un verde chiaro e quieto.

- Te ne vai - disse notando la borsa.

- Sì, ma non mi sembrava educato farlo senza salutarti...

- ... anche se è esattamente quello che abbiamo fatto noi. - Era davvero sorprendente il modo in cui a volte sembrava leggerle nel pensiero. - Ci avrai giudicati imperdonabilmente scortesi; ma avevi bisogno davvero di dormire a lungo, dopo quello che a cui hai assistito.

- E il conte di Chagny?

- Lui è una persona senza fantasia, un individuo terra-terra, materialista... per sua fortuna. Non ha compreso quello che stava accadendo, va troppo aldilà della sua immaginazione. Così, la sua piccola mente lo ha cancellato.

- La musica, la Fiamma... ha dimenticato tutto?

- Tutto quanto. E io ho provveduto a fornirgli una realtà alternativa. Se l'è bevuta fino in fondo, come una bottiglia di Chateau-d'Yquem.

"Una realtà alternativa"; sì, sarebbe stato magnifico potersene inventare una e crederci fino in fondo. Invece la sua realtà stava lì, inesorabile, incarnata in quel giovane sconosciuto... più giovane di lei!... dai capelli grigioazzurri, il viso affilato e gli occhi di un verde quieto privo di scintilli dorati.

"Chi sei?". E invece gli chiese soltanto: - Come stai?

Lui si toccò il fianco, come a controllare se dolesse ancora. - Sono semplicemente stanco. Di una umana e non spiacevole stanchezza, ora che la Fiamma mi ha abbandonato definitivamente.

- Quanti anni avevi quando...

- Ventiquattro, se non ricordo male. E allora il tempo è sembrato fermarsi, fuori e dentro di me.

- Adesso... cosa succederà?

- Immagino che recupererò gli anni persi. Non spaventarti, non penso che comincerò a invecchiare qui davanti ai tuoi occhi fino a ridurmi come un vecchio decrepito.

- E Meg come l'ha presa?

- Puoi immaginarlo. L'ho ingannata per più di vent'anni... Mi ha tirato addosso tutto il suo vocabolario di insulti e non pensavo fosse così nutrito. Prevedo che non mi parlerà per parecchio tempo. Non che la cosa mi dispiaccia. Ultimamente ha trovato altri interessi. Sta sviluppando una curiosa simpatia per il padre... ah no, mi pare sia uno zio... di una delle sue allieve. La cosa buffa è che fa il poliziotto, e lei ha sempre odiato i poliziotti.

- Gabriel?!?

- Sì, forse. Sì, mi pare che si chiami così.

Meg Giry e Gabriel Bergerac. Quella sì che era una sorpresa.

Erik chiuse il libro e lo posò sul copriletto. Distrattamente, Rasselie notò che si trattava di una raccolta di poesie di William Blake.

- Andiamo Sélie, non restare lì in piedi con quella borsa in mano. Posala e siediti qui vicino a me. - E vedendola esitare chiese: - Ti faccio paura? Adesso?

"È che non so chi tu sia." Ma obbedì e sedette accanto a lui. Ayesha si stirò e si fece cortesemente un po' più in là, come per lasciarle spazio. Davvero insolito per un gatto.

- Quello che ha detto... lui... - Non osava chiamarlo per nome, Jack o Pierre che fosse, ma una curiosità che rasentava la gelosia la mordeva dentro.- ... di te e Christine...

Erik rise piano, ma in un tono sincero e sereno. - Christine Daaé e io? Buon Dio, no! L'unico contatto fisico fra me e quella donna è stato un bacio, tanti anni fa, quando suonai per lei in quel cimitero. Lui ha semplicemente sbagliato Christine. E anche tu, direi.

All'improvviso Rasselie ricordò.

- L'altra. La tua Christine è l'altra.

Erik annuì, un'ombra di tristezza nello sguardo.

- Christina, per l'esattezza è questo il suo nome di battesimo, ma quasi tutti l'hanno sempre chiamata alla francese. E cosa è mai una vocale?

Chiuse gli occhi, a cercare contro le palpebre chiuse i contorni dei ricordi, di un viso.

- Quando venne a studiare a Parigi, aveva appena diciassette anni. Io non mi trovavo qui da molto. Naser mi aveva aiutato a scappare dalla Persia, ero un uomo ricco, ma non sapevo cosa fare della mia vita. Fu soltanto per caso... un caso maledetto e benedetto... se la udii cantare. Non a teatro, ma in un bistrot. Era lì che cantanti e altri artisti si riunivano una volta alla settimana per fare festa. Anche io ci andavo spesso a ubriacarmi di assenzio. In quell'ambiente nessuno sembrava interessato alla mia maschera. Era una vera gabbia di matti. E quella sera, qualcuno era riuscito a trascinare anche lei nella gabbia di matti, e la convinse a cantare. La sua voce! Anche se non particolarmente potente, aveva un timbro puro e brillante, era come... la luce della Fiamma. Mordeva la carne e l'anima. E lei mentre se ne stava su piccolo palchetto del locale, tra il fumo e gli apprezzamenti degli ubriachi, appariva del tutto inconsapevole del proprio potere. Quella voce flessibile come una lama di d'argento mi scavava nelle viscere mentre l'ascoltavo arrampicarsi senza sforzo lungo le scale da un'ottava all'altra. Forse ero soltanto in preda alle allucinazioni dell'assenzio, ma ad un certo punto ebbi l'impressione di non essere più lì in quel locale... mi trovavo al centro della Fiamma, nudo e trionfante come Ayesha, e la Fiamma cantava per me, soltanto per me!

Un sospiro. Uno scintillio tra le palpebre socchiuse: forse un battito di ciglia, forse una lacrima.

- Quattro anni dopo, era già la stella più brillante del Théâtre Lyrique. No, non grazie a me. Io non avrei potuto insegnarle molto. Mi limitavo a essere uno dei suoi ammiratori. Uno dei tanti. Per ovvie ragioni, il più discreto di tutti. I migliori partiti di Parigi erano ai suoi piedi, in attesa di un suo "sì". Tutte le sere il suo camerino traboccava di fiori e regali preziosi. Io non volevo comprare la sua attenzione con fiori e gioielli. Le mandavo libri di poesie e usavo come segnalibro una piuma nera, per indicare la pagina che portava dei versi particolarmente significativi. Ah no, tranquillizzati! Nessun povero volatile ha mai dovuto sacrificare il suo piumaggio per i miei messaggi amorosi. Piume come quelle ne trovavo ovunque, nei parchi o allo zoo. A lungo cercai di rimanere nascosto, non riuscivo a immaginare come avrebbe reagito davanti a un un corteggiatore che nascondeva la faccia dietro una maschera.

Una lieve risata velata di scherno. Ma era lui stesso il destinatario dello scherno.

- Immagini quale occasione scelsi per avvicinarla? Un ballo mascherato. Indossavo un domino scarlatto e lei era vestita come la Regina della Notte. Fu facile conquistarla. Probabilmente era incuriosita. E fui sincero con lei, da subito le dissi perché dovevo indossare una maschera. Non sembrava che le importasse. Forse da principio non mi credette neppure. Ma cominciammo a vederci sempre più spesso. L'aspettavo quando usciva dal teatro di sera e andavamo a passeggiare sui Lungosenna, al Bois, quando ormai in giro non c'era quasi più nessuno. Parlavamo: di musica, di poesia, di pittura, di tutte le belle creazioni dell'uomo. Sapevo di giocare un gioco pericoloso, ma ero inebriato. Arrivai al punto di rischiare e farla venire da me. Allora avevo trovato una sistemazione abbastanza comoda. Non lussuosa, ma mi bastava. E presentava diversi vantaggi: era fuori città, cosa che mi permetteva di fare passeggiate al riparo di sguardi indiscreti; e il padrone di casa... era cieco. Nessuna domanda, nessun bisogno di inventare scuse.

- Ti sei ricordato di questo quando hai pensato che Jack...

- Già.

- Comunque... La farsa non poteva continuare a lungo. Lei era curiosa, e io furiosamente innamorato. Perciò volevo essere accettato per me stesso, per come ero. Così, una sera le mostrai il mio volto. La prese abbastanza bene. La vidi impallidire, certo, ma riuscì a contenere la paura. Il disgusto, immagino. Non fuggì via. Si mise solo a piangere, silenziosamente. Quando se ne andò, ero certo che non l'avrei più rivista. Invece, qualche sera dopo, ritornò. Come se non fosse accaduto nulla. Riprendemmo le nostre attività. Leggevamo, facevamo musica... Certo, resistere alla tentazione di prenderla tra le braccia era una tortura. Mi aveva detto che potevo evitare di portare la maschera in sua presenza, e così feci. Era un bene, perché questo mi aiutava a erigere una barriera tra lei e me. Se per caso, in un momento di debolezza, avessi cercato di avvicinarmi troppo, il suo sguardo mi avrebbe riportato alla realtà. Non era uno sguardo di orrore, tutt'altro. Era pietà. Un sentimento che nessun innamorato può tollerare dalla persona amata. Ma arrivò il momento in cui quello stato di cose divenne insopportabile. Avevo creduto di potermi appagare della sua semplice presenza, la vista della sua bellezza, la sua voce. Ma lei era così seducente, in un modo del tutto inconsapevole che mi torturava peggio di qualunque civetteria. Decisi che dovevo porre fine a quel martirio che mi ero autoinflitto e una sera la cacciai via brutalmente, dicendole di non tornare mai più.

Come sempre, il tono di voce restava imperturbato, sereno. Quando Erik raccontava di sé era come narrasse una leggenda del passato.

- Non la vidi per mesi. Circolavano voci, in città. Non c'era ancora nessun annuncio ufficiale, ma a quanto si diceva aveva accettato la proposta di matrimonio di un banchiere. Meglio per lei. E per me. E poi... Successe tutto in una notte. Una tetra notte di novembre. Infuriava un temporale terribile e la pioggia percuoteva con violenza i vetri delle finestre, fredda e dura come grandine. Oh... Lo so che questo suona molto "Frankenstein" ma... Fu allora che Christina ritornò a bussare alla mia porta. Doveva avere percorso parecchia strada a piedi, perché il mantello e gli abiti erano completamente zuppi di pioggia. E con i capelli bagnati, così pallida nel chiarore pressoché ininterrotto dei lampi, sembrava un'annegata appena tratta dalle acque. Ma era viva, terribilmente, pericolosamente viva, e si aggrappò a me come un naufrago a un relitto. Mi implorava. Mi voleva. E io non ebbi la forza di respingerla. Ne avevo avute di donne nella mia vita. I misteri dell'alcova non erano più tali per me da lungo tempo. Nonostante questo, capii subito che con lei sarebbe stato diverso, spaventosamente diverso. L'amavo, già solo questo sarebbe stato sufficiente. Ma in me ruggiva la Fiamma. Quando la strinsi, e lei si abbandonò al mio abbraccio, pensai che saremmo bruciati insieme. Di fuori, il temporale aveva raddoppiato la sua violenza, era proprio sopra di noi. Non c'era attesa tra il fulmine e il tuono, e la stanza era piena di luce e fragore. Il corpo di Christina così bianco e perfetto, in quella luce, e i capelli biondi come un velo d'oro sulle sue spalle, fino ai fianchi. Mi ricordava Ayesha. Mi persi nei suoi baci, nella sua carne, fino a quando sentii la Fiamma rovesciarsi fuori dal mio corpo, dentro di lei, come attratta da una forza irresistibile. Fu quasi come se lei la stesse strappando via da me. Gridai, di dolore e di piacere insieme, e il rombo del tuono inghiottì il mio grido.

Solo in quel momento, e per un istante, la voce di Erik si incrinò. Ma subito dopo recuperò il suo tono da abile narratore. Eppure la sua non era indifferenza, Rasselie lo avvertiva. Ma cosa? Pace, forse?

- Quando mi svegliai, cominciava a fare giorno. La stanza era ancora priva di colore, un quadro in bianco e nero. Christina dormiva serena come un bambino e io mi sentivo prosciugato. Sapevo cos'era successo ancor prima di guardarmi allo specchio. Per quanto possa sembrare assurdo, non fui felice di aver ritrovato il mio volto. Era quello di un estraneo. Del me stesso di prima serbavo il ricordo, più che di tratti precisi, di un'espressione spavalda e insolente, un sorriso beffardo di costante sfida alla vita. Le piaghe che sfiguravano i miei lineamenti avevano nascosto le mutazioni operate in me dall'esistenza scellerata condotta in Persia. Quello nello specchio era una sorta di ritratto di Dorian Gray restaurato nelle sue fattezze primitive, umane e persino attraenti, dalle quali trapelava però una devastazione ben più sconvolgente di quella operata dalla Fiamma. Attraverso la pelle di nuovo intatta, ciò che vedevo era la mia anima. E quella non era cambiata. Nessuna maschera poteva celare quella realtà. E Christina? Per accettare una storia tanto folle, avrebbe dovuto accettare anche il mio terribile passato. Oppure poteva pensare che fosse tutto un inganno, lo scherzo crudele di un folle che si era voluto divertire con lei in modo abietto, manipolando i suoi sentimenti. Suscitare pietà e costringerla a trasformarsi in amore. Non sapevo cosa fare. Così, in un atto di vigliaccheria, me ne andai. La lasciai senza svegliarla, senza dirle addio, in punta di piedi come un ladro.

Così, pensò Rasselie, anche Erik aveva guardato a sé stesso come a un estraneo. Saperlo alleviava il senso di disagio che le provocava il suo nuovo aspetto. Ma la tentazione di mettere una maschera su quel viso era davvero forte, e la faceva sentire colpevole.

- E poi? - chiese.

- Poi... Per un po' vissi allo sbando. Non che mancassi di mezzi per vivere bene, e adesso che non dovevo più nascondermi dietro una maschera potevo andare dovunque, mescolarmi agli altri, senza suscitare curiosità e domande. Potevo passare inosservato. Ma avevo perso ogni interesse nella vita. Così cercai la morte, e con mio orrore mi vidi rifiutare da lei. Bevvi del veleno, e riuscii soltanto a sentirmi male per un paio di giorni. Mi tagliai le vene dei polsi, svenni, e quando mi risvegliai le ferite si stavano richiudendo. Mi mancò il coraggio di provare a farmi saltare le cervella. In fondo a me qualcosa della Fiamma era rimasto, come carboni ardenti sotto la cenere, e questo mi impediva di morire. Capii che avrei potuto riattizzare il fuoco, quando avessi voluto, e piegarlo al mio volere. Scoprii in seguito che questo mi veniva facile attraverso la musica, suonare uno strumento mi aiutava a risvegliare in me il potere della Fiamma. Ho cercato di usare i resti di quel potere per fare del bene, quando se ne presentava l'occasione. Era il minimo, una sorta di risarcimento per le cose terribili che avevo commesso insieme a Pierre.

- È così che hai guarito mamma Valerius?

- Sì, e le ho regalato qualche anno in più. A lei e anche a Naser, quando lo incontrai di nuovo qui a Parigi. E ad Ayesha, ovviamente. Alcuni gatti vivono molto a lungo, ma lei dovrebbe avere...una trentina d'anni, più o meno. La trovai per strada al tempo dell'assedio di Parigi. Erano tempi duri: gli spari, la violenza, gli incendi, la fame... Immagino di averle risparmiato una triste fine sullo spiedo. Ma fu proprio in quel periodo che avvenne qualcosa che mi convinse della necessità di tornare a nascondere la mia faccia. Mi ero unito ai Comunardi; per nessuna ragione politica, solo curiosità... La mia avventura con loro, comunque, non durò a lungo. Una sera, un tale che non mi sembrava di aver mai visto, dopo avermi squadrato per un po' disse: "Io ti conosco. Sei Saint-Avit. Benoît de Saint-Avit, è così che ti chiami, vero? Eravamo insieme nella Legione Straniera, anni fa. Sei davvero cambiato poco." Era vero. Mi ero accorto con sollievo di avere ripreso a invecchiare, come ogni essere umano, ma avevo notato anche che questo avveniva molto più lentamente del normale, di sicuro a causa di quel residuo della Fiamma che agiva ancora in me e mi impediva di darmi la morte. Che immenso potere avevo avuto tra le mani, senza rendermene conto. Ma non volevo correre il rischio di essere di nuovo riconosciuto, così mi piegai alla necessità di tornare a indossare una maschera. Poi, di lì a poco, così com'era cominciato, il sogno della Comune ebbe fine. In un bagno di sangue. Il Théâtre Lyrique che aveva visto i trionfi di Christina era bruciato fino alle fondamenta, e lei era già lontana e viveva una nuova vita.

- È per lei che hai scritto quell'opera, vero?

- Non l'ho mai finita. Ma un giorno Christine Daaé vide lo spartito e pensò che stessi scrivendola per lei. Glielo lasciai credere. Sembrava così felice di recitare la parte della mia musa ispiratrice... Perché deluderla?

Se Rasselie teneva gli occhi chiusi, e si limitava ad ascoltare, la realtà si ricomponeva in uno schema familiare. Era come starsene ancora seduta a quella tavola imbandita nel Salone della Luna, con un uomo dalla maschera d'argento che le raccontava avventure impossibili con la fantasia del più abile dei narratori; e lei stava al gioco, divertita.

- A quel punto, mentre la vita a Parigi ritornava pian piano alla normalità, mi trovai a decidere dove andare e cosa fare di me. Ma non ero più solo. Avevo con me questa piccola creatura... Credo che essermi assunto il compito di badare a lei fu la mia salvezza. E siccome non mi andava di tornare a vivere a contatto con i miei simili... Pensai che questo edificio, così vasto e labirintico, potesse diventare la mia tana.

- Ma perché? Potevi andare ovunque, dove nessuno avrebbe riconosciuto Benoît de Saint-Avit. Ed era abbastanza difficile che ti capitasse di incontrare di nuovo qualcuno che aveva conosciuto l'Erik di un tempo.

- Tanto difficile che un giorno mi sono imbattuto in Naser proprio qui a Parigi. E anche se fossi andato in capo al mondo... Avrei dovuto comunque cambiare molto spesso la mia residenza. La gente è curiosa, e prima o poi qualcuno si sarebbe domandato come mai non invecchiavo come gli altri. Alla fine fu proprio questo a fregare Dorian Gray. No, meglio restare quassù, al sicuro. La costruzione del teatro era quasi terminata e io ero riuscito a comprare la collaborazione di qualcuno dei muratori: in parte con il denaro e in parte con la paura, e così feci costruire questo piccolo alloggio segreto. Molto meglio che vivere in uno squallido e umido sotterraneo, non ti pare?

Incontestabile.

- E poi la leggenda del Fantasma dell'Opera si diffuse in fretta. Anche per colpa mia, lo confesso. Avevo rubacchiato qualcosa: strumenti e spartiti agli orchestrali, mobili, il pranzo di qualche attrezzista. Possedevo ancora gran parte del piccolo tesoro in gioielli che avevo portato con me dalla Persia, ma non potevo certo ordinare mobilio e altri oggetti e dare come indirizzo di consegna l'Opéra. In quanto ai generi alimentari... si è mai visto un gentiluomo che fa la spesa da sé nei negozi? I più semplici problemi di sopravvivenza erano delle gran seccature. Finché non mi imbattei in quella strana donna, Antoinette Giry. Era la direttrice del corpo di ballo, vedova da poco e con quattro figlie da crescere, delle quali Meg era allora la più piccola. Riuscii facilmente a comprare la sua complicità con la promessa di provvedere alla dote per le sue figlie. Credo che sotto l'apparenza severa e controllata nascondesse una vena di follia e la voglia di esprimerla attraverso quello che per lei era un gioco eccitante, oltre che molto vantaggioso. Divenne il mio contatto con il mondo esterno. E via via, col passare del tempo, mi procurai altri alleati; gente semplice che mi vedeva come un diversivo alla noia quotidiana e alla quale il denaro che elargivo tornava utile per arrotondare degli spesso miseri stipendi. Intanto la leggenda del Fantasma si arricchiva di sempre nuovi particolari. A volte, di notte, capitava che qualcuno che si era attardato nell'edificio mi sentisse suonare e cantare. Oppure durante le passeggiate sui tetti o nei saloni che credevo ormai deserti, mi succedeva di disturbare qualche coppia clandestina. Ma molte delle cose che mi venivano attribuite, apparizioni, manifestazioni sovrannaturali, incidenti più o meno gravi... erano frutto del caso o della fantasia troppo sbrigliata di qualcuno.

- Immagino che tu lo trovassi divertente, vero?

- Lo era. I direttori dell'epoca, Debienne e Poligny, erano abbastanza superstiziosi e comunque disposti a non immischiarsi nei miei affari. Poligny era il più idiota dei due, e aveva un bel po' di scheletri nell'armadio, così per un certo periodo mi divertii anche a ricattarlo. Non avevo bisogno di denaro e lo distribuii a tutti i membri del personale le cui paghe erano vergognosamente basse. Ebbi qualche difficoltà soltanto con i due direttori seguenti, Richard e Moncharmin. I due, a ragione, non credevano nell'esistenza di un fantasma ed erano decisi a stanarmi. Fu più o meno in quel periodo che Christine Daaé arrivò a teatro.

Erik parlava a occhi chiusi, la testa appoggiata sui cuscini; e la voce, adesso, aveva un tono trasognato e lontano, ma non perdeva la sua capacità di affascinare.

- Mi incuriosii sentendola cantare. La sua voce mi ricordava molto quella di Christina. E le somigliava anche nell'aspetto. Bionda, angelicata, dal passo leggero e i grandi occhi blu. Persino le loro storie presentavano dei punti in comune: la nazionalità, un'infanzia infelice... Già allora Raoul che Chagny la corteggiava. Disgustosamente bello, geloso e stupido, un damerino gonfio di vanità. Non capiva niente di musica, veniva a teatro soltanto per corteggiare le ballerine. Povero Raoul, forse non dovrei essere troppo severo con lui, in fondo era poco più di un ragazzino, apprendista viveur per desiderio di suo fratello Philippe. Fosse stato un semplice borghese avrebbe compiuto il suo tirocinio amoroso in qualche lussuoso bordello dalle parti del Palais Royal. Essendo un nobile, doveva ricevere il battesimo della lussuria tra le braccia di qualche sacerdotessa dell'amore di grado più elevato. E chi meglio di una primadonna dell'Opéra? Non era previsto, ovviamente, che si innamorasse di una piccola cantante, ex amichetta d'infanzia.

I due bambini che il caso aveva fatto incontrare a Perros-Guirec, su una spiaggia bianca inondata di sole. Rasselie rammentava il racconto di mamma Valerius. A volte il destino è davvero bizzarro.

- Ti ho detto che mi colpì perché mi ricordava l'altra. Ma non fu solo questo a spingermi verso di lei. Forse cominciavo ad annoiarmi, forse per un attimo mi abbandonai all'illusione di poter rivivere la mia storia con Christina. Volevo amare la piccola Daaé, tornare a provare tutte quelle emozioni che andavano ben oltre la lussuria. Per appagare questa, potevo sempre sgattaiolare fuori dal teatro a notte, e infilarmi in uno dei tanti bordelli che ci sono a pochi passi da qui. Ma quello era un atto privo di passione che mi lasciava soltanto un senso di tristezza e sempre più spesso di disgusto. Mentre io sognavo di ritrovare le sensazioni di dieci anni prima. Così le dissi che ero un musicista e volevo darle un aiuto con le sue lezioni di canto. Non ne avevo mai date a nessuno, ovviamente, ma gli anni trascorsi a teatro mi avevano insegnato qualcosa sulla materia. Inventai la scusa che volevo restare anonimo, per giustificare la maschera. Perché la maschera, quando avrei potuto presentarmi a lei con il mio volto di nuovo integro? Perché non volevo potesse descrivermi agli altri. A volte, quando rientravo dai miei vagabondaggi notturni, mi capitava di incontrare per strada qualcuno che lavorava nel teatro. E una volta incrociai Richard mentre usciva dal bordello Chabanais. Quel posto aveva delle fantastiche stanze a tema. La mia preferita era quella giapponese... Ma scusami, sto divagando. In fondo, indossare una maschera era diventata un'abitudine. Mi faceva sentire al sicuro. Anche se feci giurare a Christine di mantenere il segreto sui nostri incontri, sapevo bene quanto le ragazzine amino spettegolare. E cominciarono a farlo, eccome, quando si accorsero dei suoi progressi nel canto. Le altre cantanti, e le ballerine, divennero tremendamente curiose. Lei, siccome non avevo voluto rivelarle il mio nome, mi chiamava Angelo della Musica. Credo si riferisse a qualche storia che le raccontava suo padre quando era bambina. E fu così che cominciò a parlare di me alle amiche, quando non le fu più possibile combattere la loro curiosità. L'Angelo della Musica: era un gioco. Le davo lezioni al mattino presto, nel suo camerino, quando c'era poca gente in giro. E presto fu in grado di fare il suo debutto. Un trionfo. Parigi era ai suoi piedi. Chi si prosternava più di tutti, ovviamente, era Raoul de Chagny. Credo che lei avrebbe potuto camminargli addosso, farne il suo scendiletto, se solo le fosse importato. Ma la sciocchina stava sviluppando una pericolosa infatuazione per me. Il gioco si fece rischioso. Capii che la stavo prendendo in giro. Non la amavo, non riuscivo ad amarla, anche se lo volevo disperatamente. Certo, era graziosa. Provavo per lei una grande tenerezza e non dico che ascoltarla cantare non accendesse i miei sensi. Ma non possiamo scegliere chi amare e quando. E se mi fossi approfittato di lei... Mi sarebbe sembrato di tradire la memoria di Christina, deprezzare il suo inestimabile dono d'amore.

"Allora puoi capire come mi sono sentita dopo quella notte, brutto bastardo" pensò Rasselie, ma trovò il coraggio di tacere.

- Intanto però la faccenda andava degenerando. Meg aveva cominciato a instillare in Christine sospetti sulla vera identità del suo "angelo", così io decisi per un addio in grande stile, e approfittai dell'anniversario della morte di suo padre. Ovviamente, sai come finì la faccenda per colpa di quel pasticcione di Raoul.

- Già, me l'ha raccontato.

- E poi tutto quanto precipitò in fretta. Ci furono quegli incidenti attribuiti al Fantasma dell'Opera, il teatro fu invaso da poliziotti, giornalisti, assicuratori e curiosi vari. Così mi rintanai quassù e me ne stetti tranquillo ad aspettare che il clamore si calmasse. Ogni tanto qualcuno, giornalisti e scrittori, arrivava a fare domande, ma in genere se ne andava con il taccuino degli appunti ancora in bianco. E aggiungeva le sue fantasie alla mia leggenda. Ho vissuto anni in perfetta e piacevole tranquillità... fino al tuo arrivo.

- Vuoi farmi sentire colpevole?

Erik non rispose. Per tutto il tempo, mentre parlava, aveva continuato a giocherellare con l'anello che portava al mignolo, rigirandolo meccanicamente attorno al dito. Quel gioiello con la sua strana pietra nera... Rasselie ne era sempre stata incuriosita; e ora, anche per cambiare discorso, allungò la mano per toccarlo.

- Non dirmi che anche questo viene da una cassetta di sicurezza del teatro.

- No. Faceva parte del tesoro dello scià. La pietra è un diamante nero, soltanto la scheggia di uno molto più grande chiamato "L'occhio di Brahama", perché fu rubato dalla fronte di una statua di quel dio. Dicono porti sfortuna. Forse è vero. Per questo rinunciai a regalarlo a Christina, anche se per un attimo considerai davvero questa possibilità.

- Se davvero portasse sfortuna... lui avrebbe vinto.

- Non ne sono sicuro. A proposito...

Erik prese un mazzo di carte dal tavolino da notte, e sorrise notando l'espressione di insofferenza di Rasselie.

- Non voglio predirti il futuro, intanto non mi crederesti. Ma concedimi almeno di fare un gioco. - Le porse il mazzo. - Coraggio, mescola e taglia. Per tre volte, poi ridammelo.

Perché non assecondare quella bizzarria? Dopotutto stavano dicendosi addio, e ogni addio merita qualche indulgenza. Quindi, docilmente, fece ciò che lui le chiedeva.

Erik riprese il mazzo e lo allargò a ventaglio, con il dorso delle carte rivolto verso l'alto.

- Adesso scegline una, ma non guardarla. Potrai farlo solo quando sarai fuori da qui.

- Perché?

- Perché così vuole il Fantasma dell'Opera.

- Sai che non tornerò a restituirtela. Il tuo mazzo resterà incompleto.

- Non importa. Non ho più bisogno di sapere cosa mi aspetta.

- Adesso cosa intendi fare, continuare a vivere nascosto quassù, giocando al Fantasma dell'Opera fino alla fine dei tuoi giorni?

- Perché no? Del mondo che c'è la fuori ho visto abbastanza.

- Ne hai visto la parte peggiore.

- E tu, Sélie? Quel mondo ti ha ucciso l'uomo che amavi, e tu continuerai a cercare il suo assassino finché avrai respiro.

- No. - Il ricordo del sogno era chiaro in lei. Una scena vista attraverso una sfera di cristallo colma dell'acqua più limpida, che delineava i contorni delle cose e dei volti, risuonava del canto della Fiamma: una voce adamantina, forse crudele nella sua chiarezza, ma che parlava di realtà e verità. "Ogni cosa inizia e finisce a tempo e luogo". - Voglio provare a vivere. Vivere davvero.

- Sono contento per te. Spero che tu riesca a trovare un uomo che sappia renderti serena, se non felice, e ti garantisca una vita tranquilla e sicura. Un tipo solido, onesto, fedele... Insomma, un decoroso borghese. Be', magari non eccessivamente decoroso. Deve saper baciare con la giusta devozione quel grazioso piccolo neo che hai sulle labbra.

- Io non ho nessun... Erik! - (punti esclamativi ad libitum).

Lui sogghignò con compiacimento e le fece l'occhiolino. Poi: - In quanto a me - aggiunse - alla fine forse deciderò davvero di vivere fuori da qui il tempo che mi resta, anche so non so quanto sarà. Potrei farmi crescere una folta barba da intellettuale e riprendere a girare il mondo. Potrei procurarmi dei documenti falsi, assumere a tutti gli effetti l'identità del professor Valerius e andarmene in America, magari. Ho delle conoscenze laggiù: Tesla, ad esempio, o quell'Houdini. Potrei continuare a scrivere. Il mercato americano sembra promettente.

- Davvero non sai quanto tempo... - Solo adesso Rasselie si rendeva pienamente conto che quell'uomo disteso tra i cuscini, nonostante il viso giovanile, doveva avere almeno il doppio dei suoi anni.

Erik rise sottovoce. - Spero di non morire tanto presto. Ho ancora parecchie storie da raccontare. Ma non è detto che fra qualche anno non ti capiti di incrociare per strada un vecchietto curvo e decrepito che ti sorriderà... e avrà i miei occhi.

Rasselie alzò entrambe le mani, poggiò i palmi contro le guance di Erik, sfiorò con la punta delle dita un po' tremanti quel giovane viso sconosciuto, seguì la linea della sopracciglia, degli zigomi, delle mascelle e di quel naso che non avrebbe dovuto esserci e invece c'era, fine e leggermente aquilino, indugiò sulle labbra... E all'improvviso la consapevolezza fu un'onda calda che scorreva attraverso le sue dita dalla carne di quel viso, prendeva forma nel ricordo. Le sue mani sapevano.

- Quella notte... a un certo punto ti sei tolto la maschera.

Le aveva permesso il contatto più intimo, il gesto più proibito.

- Ho fatto del mio meglio affinché tu dimenticassi. Ma la tua mente è un avversario di tutto rispetto. Mi dispiace soltanto che tu fossi ubriaca. O forse no, a pensarci bene. Se non lo fossi stata, magari non sarebbe andata così.

- Sei sicuro?

Al diavolo il buonsenso, la razionalità e ogni altra borghese pastoia. Rasselie si chinò su di lui e lo baciò. Il contatto delle sue labbra, il suo respiro, il suo sapore. Un altro ricordo preciso, che non mentiva.

- Adesso sono sobria - gli sussurrò.

*

Non avrebbe mai più avuto occasione di percorrere il grande scalone, ne era certa. E anche adesso non faceva per lei salirlo in abito da sera diretta a un palco. La notte in cui lo aveva fatto, vestita come la Regina della Notte, guidata dalla mano di Erik, era un ricordo di cui fare tesoro. Ma almeno poteva godere, per un'ultima volta, del fruscio lieve della gonna sugli scalini di marmo mentre scendeva immaginando un minimo di regalità nei propri passi.

- Mademoiselle! Madame... aspetti!

Una voce un po' affannata alle sue spalle distrusse quella illusione di regalità e la costrinse a fermarsi e voltarsi. Rémy stava scendendo in fretta dietro di lei.

- Mi scusi, ma non abbiamo più avuto occasione di parlare...

- Non si preoccupi, sono sicura che la prossima stagione sarà un grande successo.>>

- Veramente... Io volevo sapere... Come va?

All'apparenza, la domanda riguardava lei; ma lo sguardo del direttore, in un battito di ciglia, aveva vagato verso il soffitto.

- Oh... direi bene.

Un'espressione di palese sollievo si diffuse sul volto dell'uomo.

- Confido che continui così. Perché, vede, io non resterò qui ancora per molto. Ho passato troppi anni alla guida di questo carrozzone che, per quanto magnifico sia, sta diventando davvero pesante da condurre. Troppi particolari a cui pensare, troppi conti da far quadrare... Così ho deciso di accettare l'offerta di un mio vecchio amico; dirigere il teatro di Nantes. Certamente non è un incarico di grande prestigio, qualcuno lo vedrebbe come una retrocessione... Ma non si preoccupi, ho provveduto personalmente a scegliere il mio successore e l'ho istruito a dovere. Monsieur Gerard Carrière è un uomo intelligente, sa che non deve disturbare le... creature che nidificano nel sottotetto. Ma di queste cose e... di altre, vorrei avere il piacere di discutere con lei in modo più approfondito... Se lei volesse... insomma... se non fosse contraria... Mi farebbe felice se accettasse un invito a cena, una di queste sere.

Un invito a cena. L'ultima volta che aveva accettato, era stato l'inizio di una lunga serie di guai. Ma sapeva che con Rémy sarebbe stato diverso. Il mite, borghese, probabilmente noioso Rémy.

- Certamente.

E lui le fece il baciamano.

Uscendo dal teatro, la posizione e la lunghezza delle ombre le rivelò che era mattino inoltrato. Spazio davvero singolare, il letto di Erik; un piccolo universo dove esplodevano stelle, nascevano galassie e le regole del tempo si annullavano.

Intendeva allontanarsi senza guardare indietro. Quell'addio si era protratto troppo a lungo. Ma mentre attraversava la piazza, il suo passo esitò. Un'ultima immagine, soltanto un'ultima immagine era quello di cui aveva bisogno. Si fermò. Si voltò.

La lira di Apollo scintillava nel sole.

Inutilmente cercò con lo sguardo le finestre che davano sull'alloggio segreto di Erik. Non era mai riuscita a individuarle dal di fuori. L'opulenza della facciata, così sovraccarica di decorazioni, era una sorta di spessa epidermide che nascondeva il labirintico sistema venoso dell'edificio, fatto di scale, corridoi, passaggi segreti.

Lasciò scivolare lo sguardo sui particolari di statue e fregi, sapendo che era impossibile catturarli e trattenerli in un unico quadro; e presto, nei ricordi, sarebbe sopravvissuta soltanto una pallida forma monumentale trapunta di ombre e filo d'oro. Anche in quel momento, mentre la osservava, la vedeva sfocare in una luce abbagliante che le faceva lacrimare gli occhi.

"Oh merde..."

Mise la mano in tasca a cercare un fazzoletto, e le sue dita incontrarono un oggetto rigido e piatto che lì per lì non riconobbe. Poi ricordò. La carta dei Tarocchi.

Adesso era libera di guardala.

La scena rappresentata nel piccolo rettangolo di cartone, abbastanza logorato dall'uso, mostrava un cielo turchino pieno di stelle; di cui una, raggiante come un sole, rispendeva al di sopra della figura di una giovane donna nuda, dai lunghi capelli biondi, inginocchiata presso uno stagno. In ciascuna delle mani reggeva un'anfora dalla quale versava acqua; con la destra nello stesso specchio d'acqua accanto al quale stava in ginocchio, con la sinistra abbeverava il terreno. Tutto attorno, un paesaggio di montagne verdeggianti; e su un albero, uno strano uccello dalle piume fiammeggianti. Una fenice sorgente dal suo rogo, forse.**

Nel sottile spazio bianco che incorniciava l'immagine, in una grafia spigolosa e minuta ma molto chiara, era scritto qualcosa che non faceva parte della stampa, ma era stato aggiunto in un secondo tempo. "Ogni cosa inizia e finisce a tempo e luogo".

Naturalmente lo sapeva. Ne era certa fin da quando si era svegliata il mattino precedente, ma aveva tenuto rinchiusa la consapevolezza in un piccolo ripostiglio della mente. Ancora una volta, Erik aveva cantato per lei con la voce della Fiamma, riducendo in cenere anni di dolore, rimpianti e paura di vivere. A lei spettava soffiare su quella cenere e disperderla nel vento.

Portò la carta alle labbra, la baciò, poi la ripose nella tasca. L'avrebbe affidata alla corrente della Senna.

E mentre si incamminava per l'ampio viale pensò che aveva bisogno di un abito nuovo, all'ultima moda. Non poteva certo andare a cena con Rémy combinata come una popolana all'Esposizione Universale.

 

 

 

*Picnic a Hanging Rock, Joan Lindsay.

* * I significati delle singole carte dei Tarocchi possono variare leggermente a seconda dei metodi di divinazione usati. In ogni caso La Stella, diciassettesimo degli Arcani Maggiori, è simbolo di speranza, fede, ottimismo e prospettive per il futuro. La sua luce guida e illumina la via. La sua influenza è benefica e ispirante, induce alla riflessione e all'espressione del sé attraverso il bilanciamento tra desiderio e operosità, speranza e sforzo, esperienze del passato e realizzazioni future. L'acqua presente nella figura suggerisce l'idea della purificazione e del rinnovamento.

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