In Tenebris Lux

di Ellenw
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1- L ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2- L ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3- Light ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4- Light ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5- L ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6- Light ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7- L ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8- Light ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1- L ***


La prima sensazione che percepisco è il freddo. Ma non il tipico freddo invernale cui sono ormai abituato: un freddo che viene direttamente dalla parte più interna della mia anima, inizia dal centro del corpo e si irradia fino alla punta delle dita.
Poi, subito dopo il freddo, lo sento, arriva il dolore. E quello lo conosco bene, perché in questo momento mi sembra di non aver provato altro per tutta la vita. Mi concentro un attimo, per capire esattamente da dove origina il dolore, e quasi subito mi rendo conto che proviene dal cuore. Sento uno strano peso in mezzo al petto, come se ci fosse un macigno, fermo e pesante, che schiaccia tutto il resto, e non mi fa respirare.
Fermo.
Ora ricordo, e la consapevolezza mi colpisce con la forza di una coltellata.
Sono morto.
O meglio, sono stato ucciso. Da Light. Da Kira.
In un attimo mi tornano in mente tutti i ricordi, e una parte di me quasi se ne rattrista, perché mi rendo conto di quanto sarebbe stato più facile, e più piacevole, non sapere, restare nell’oblio della non-conoscenza. Torno a quel momento, alla mia fine, e cerco di rievocarlo nella mia mente. Non devo pensarci molto in realtà, perché lo ricordo molto chiaramente, come se fosse successo un attimo fa. Anzi, probabilmente dev’essere successo proprio qualche minuto fa, nonostante a me sembra sia passata un’eternità.
Ricordo che ero seduto sulla mia sedia, di fronte al computer, nella sala d’indagine del quartier generale. Stavo discutendo con gli altri membri della squadra: sapevo che l’unico modo per arrivare alla soluzione del caso era testare il Death Note e provare così la falsità della regola dei 13 giorni, l’unica cosa che ancora ostacolasse le mie accuse, e i sospetti, nei confronti dei due Kira. Ma gli ex-poliziotti, prevedibilmente, non erano d’accordo.
Tuttavia è successo qualcosa, in quel momento, che ha mandato tutto in fumo.
All’improvviso tutti gli schermi dei computer sono diventati bianchi, e un allarme mi segnalava che tutti i dati raccolti erano stati cancellati. E c’era solo una chiara, terribile, unica spiegazione per questo fatto: Watari era morto. Al solo pensiero di questa verità mi invade un moto di rabbia, odio, tristezza e senso di colpa, e basterebbe veramente solo una di queste emozioni per farmi perdere definitivamente il senno. L’onda di repulsione tuttavia scema quasi subito, quando mi rendo conto che non c’è nulla che io possa fare per impedire ciò che è già accaduto, e al suo posto resta solo un profondo senso di impotenza.
Decido di ritornare mentalmente a quello che è successo. Ricordo la sensazione di angoscia, di paura, che mi ha assalito subito dopo essermi reso conto della morte di Watari, perché dentro di me sapevo esattamente quello che stava per succedere.
Anzi, l’avevo sempre saputo. Immagino che esista in tutti gli esseri viventi una specie di istinto primordiale, quasi animale, che a un certo punto della vita ti suggerisce che quello è il tuo ultimo giorno. O forse era solo il mio intuito da miglior detective del mondo, o forse ancora era la mia follia in quel momento fatidico in cui ho sentito le campane.
E ho capito che per me era la fine, semplicemente. Ho dovuto accettarlo.
La conferma definitiva l’ho avuta quando, dall’altra stanza, ho sentito scrivere Rem, lo Shinigami. E in un solo istante nella mia mente tutti i pezzi del puzzle sono andati al loro posto, e l’intrigato piano di Light mi è stato chiaro in tutta la sua, devo ammetterlo, genialità.
Elementare: poiché non aveva modo di scoprire il mio vero nome, a quanto pare nemmeno da Misa, deve aver manipolato lo Shinigami per fare il lavoro al posto suo. Come sia riuscito a farlo e cosa abbia ottenuto in cambio non potrò mai saperlo.
Ma tutto questo l’ho elaborato nel giro di un paio di secondi, e in realtà non ho avuto nemmeno il tempo di terminare la frase, perché in seguito tutto quello che sono riuscito a percepire è stato il forte sussulto del mio cuore nel petto, che scoppiava come una bomba nel suo ultimo battito.
E Il dolore. Dio, il dolore.
E’ stato tanto forte da farmi perdere l’equilibrio, da farmi dimenticare tutto il resto, da lasciarmi cadere nel vuoto. Lo ricordo chiaramente, perché anche allora mi sembrava di stare osservando tutta la scena dall’esterno, come se fossi solo un lontano spettatore della mia morte. Ero terrorizzato all’idea della fine, e in quel momento era così tremendamente vicina, reale. Ricordo di essermi reso conto che sarei caduto, e per un attimo mi sono chiesto come sarebbe stato quando al martellante dolore nel mio petto si sarebbe aggiunto anche quello dell’impatto sul pavimento.
Ma quel dolore non arrivò. Perché qualcuno mi aveva afferrato appena in tempo, prima che il mio corpo ormai finito si schiantasse al suolo.
Non ho avuto bisogno di voltarmi per sapere che era lui.
Col senno di poi mi chiedo perché abbia compiuto quel gesto, visto che ormai i giochi erano terminati, chiaramente in suo favore. Forse ha pensato che fosse più sicuro mantenere la sua maschera fino alla fine: il bravo ragazzo sconvolto dall’imminente morte dell’amico, a cui non permette di morire da nessuna parte se non tra le sue braccia.
E quanto sei bravo a recitare, Kira, quanto ti sei impegnato per umiliarmi fino alla fine.
Quasi rido dell’ironia quando mi rendo conto che l’ultima cosa che ricordo è l’ambra di quegli occhi inchiodati ai miei, impenetrabili e allo stesso tempo così trasparenti, più profondi di un abisso. Come il sorriso diabolico che hai mostrato solo a me, e che mi ha confermato ciò che sapevo già da tempo.
Sento montare un impeto di odio al pensiero di quel volto, ed è una sensazione particolarmente sconosciuta per me, visto che non credo di aver mai odiato nessuno in vita mia. Non che non ne avessi il motivo, semplicemente non ho mai trovato alcun interesse a sprecare tutta questa energia mentale per indirizzare un tipo di emozione così poco controllabile verso qualcuno. Ma ora che sono morto, bè, non ho poi molto da perdere.
E all’improvviso la catena di pensieri si arresta. Sono morto?
Alla luce dei fatti, c’è il 99% di probabilità che in questo momento io sia morto. Ma se fossi morto, in teoria, non potrei pensare. Né percepire o muovere il mio corpo.
Sussulto, perché solo ora mi rendo conto che posso muovermi: cosa che fino a questo momento non avevo assolutamente realizzato, da quanto sono stato occupato a divagare nei miei pensieri.
Apro gli occhi, e quasi non credo a quello che vedo.
Perché, illuminata dai raggi del sole, intorno a me c’è una radura.
Alzo lo sguardo per capire dove mi trovo, anche se dubito di riuscire a trovare nell’immediato una risposta razionale per tutto questo.
Sono seduto al centro di un prato dall’area circolare, e la prima cosa che mi verrebbe in mente per descrivere l’ambiente che mi circonda è la parola “verde”. Appoggio la mano sul terreno e la faccio scivolare attraverso i cortissimi e sottili fili d’erba, che mi si incastrano tra le dita. Al contatto con la pelle l’erba è fresca di rugiada, fa quasi il solletico dal tanto che è raffinata, e mi rendo conto che questa è la prima bella sensazione da quando mi sono risvegliato.
La radura non è per niente vasta, anzi, posso dire con certezza che il suo diametro non supera i dieci metri di larghezza. A circondare lo spiazzo erboso in cui mi trovo ci sono delle siepi, che fanno da circonferenza tutt’intorno al prato, quasi racchiudendolo in un abbraccio murario. Le siepi sono le più belle che io abbia mai visto: superano la mia altezza di qualche metro, quindi devo alzare lo sguardo verso l’alto per guardarle nel complesso. Ad adornarle ci sono migliaia di tipologie diverse di fiori, tra cui riconosco gigli, camelie, rose, orchidee e tante altre. Noto che ci sono anche dei frutti, principalmente fragole e albicocche, anche se in numero nettamente inferiore rispetto alla componente floreale. In ogni caso l’effetto d’insieme è meraviglioso, perché la siepe si presenta come una parete in cui paiono raccolti tutti i colori attualmente conosciuti al mondo: è un vero e proprio arcobaleno di fiori, e probabilmente mi ci vorrebbero anni per dare un nome ad ogni sfumatura di giallo, rosa, azzurro che si trova in questo giardino. Mi alzo in piedi spinto dalla curiosità, e mi sembra quasi di stare immaginando tutto. Il mio sguardo si perde in ogni dettaglio di questo piccolo paradiso.
Possibile che sia davvero il Paradiso?
Personalmente, non ho mai creduto nell’esistenza del Paradiso o dell’Inferno, né tantomeno in Dio. Tuttavia, prova nel fatto che ricordo chiaramente di essere morto, e che in qualche modo adesso sono ancora vivente, questo dev’essere per forza una sorta di aldilà.
Il mio sguardo ruota di novanta gradi, e mi accorgo che in realtà le siepi non racchiudono completamente la radura, ma lasciano in fondo ad essa una piccolo varco, al di là del quale posso vedere solo altre siepi fiorite. Decido di attraversare l’apertura nella siepe per uscire dalla radura, e quando vedo cosa si trova oltre questa rimango del tutto spiazzato.
Perché di fronte a me si presentano tre strade pavimentate d’erba verdissima, ognuna delle quali è delimitata ai lati da siepi del tutto identiche a quelle della radura. Ma quello che più mi lascia perplesso è il fatto che alla fine di questi viali alti e stretti ci sono altre strade uguali ad essi che si dividono in una decina di altre ramificazioni, alle quali seguono altre strade, alle quali ancora ne seguono altre, in quello che pare un incrocio infinito di percorsi tutti uguali. In ogni direzione in cui guardo riesco solo vedere strade erbose limitate da siepi fiorite che portano in una babele di incroci, curve e direzioni.
E’ un labirinto.
E nel momento stesso in cui me ne rendo conto, mi accorgo anche di un’altra cosa che fino ad ora mi era completamente sfuggita: ossia che questo posto è tremendamente irreale. Infatti, nonostante la prima sensazione di vitalità trasmessa dalla natura, attorno a me regnano un silenzio e un’immobilità inquietanti, tombali. La luce del sole è intensa, troppo intensa, e raggiunge ogni angolo del labirinto, ma i raggi che colpiscono la pelle non scaldano, cosa che invece dovrebbe accadere se si trattasse del mondo reale. Noto anche che la parte del mio corpo che si trova in controluce non produce alcuna ombra sul prato alle mie spalle. Insomma, in qualsiasi luogo mi trovi, si tratta di un artificio.
Dopo circa un’ora che sono accovacciato a terra, con la schiena appoggiata alla siepe e le ginocchia raccolte al petto, a valutare i pro e i contro della situazione, decido di provare a prendere una delle strade, e fare perlomeno una mappatura mentale del labirinto.
Non so esattamente quale sia lo scopo del mio essere qui, o cosa dovrei aspettarmi che accada, a questo punto. Ma l’attesa è semplicemente snervante, e un modo sensato di agire potrebbe essere quello di trovare una via d’uscita da questo posto.
Osservando le varie vie capisco di non avere attualmente idea di come uscire dal labirinto, pertanto la cosa migliore da fare è mantenere la radura, che appare come l’unico spiazzo circolare e che suppongo essere il centro del labirinto, come punto di riferimento, e intraprendere una delle strade per capire se tra loro si ricongiungono a un certo punto o se invece portano a dei vicoli ciechi. Il criterio di scelta della strada da prendere dovrà essere pertanto casuale, visto che ai miei occhi sono tutte uguali.
Decido di puntare prima alla strada alla mia sinistra, e cercare di andare sempre dritto, ossia verso sinistra, in ogni strada che incontrerò dopo di questa: nel cammino conterò i passi fino all’ultima parete del labirinto, che corrisponderà al lato sinistro del perimetro totale, e potrò così conoscere la distanza tra la radura, dove mi trovo ora e presumibilmente il centro dell’intrigo, e l’ultima parete alla mia sinistra, oltre la quale non ci sono più strade. Dopodiché tornerò alla radura e farò lo stesso lavoro, ma questa volta andrò verso nord, e conterò i passi che separano la radura dal lato ultimo a nord. Se le due distanze saranno uguali, saprò che il labirinto è quadrato, o pentagonale, o di ogni figura geometrica in cui i lati sono tutti egualmente distanti dal centro: il che costituirebbe una circostanza a mio favore, poiché sarebbe più facile trovare l’uscita. Se invece le distanze saranno diverse significa che il labirinto ha forma rettangolare, e a quel punto cercherò di trovare il lato più vicino alla radura e camminare a ridosso di esso finché non incontrerò l’uscita.
Inoltre, se il labirinto avesse quattro lati, come presumo, c’è il 25% di probabilità che una di queste due direzioni corrisponda effettivamente al lato in cui si trova l’uscita, e a quel punto sarà gioco facile. Almeno, penso, vale la pena tentare.
Mi incammino lungo la strada alla mia sinistra e proseguo senza indugio fino al primo bivio, che svolta verso la mia destra: imbocco dopo questa la prima deviazione, per puro caso corrispondente alla traiettoria che intendo seguire per raggiungere il lato estremo a sinistra. Utilizzo questa strategia per un numero di strade che mi sembra infinito, ma sono certo di spostarmi, seppur lentamente, verso ovest.
Lancio un’occhiata al cielo e i miei sospetti vengono confermati: sono in questo posto da ore, se non giorni, e il sole non è si è mai spostato. Non è mai tramontato, né di conseguenza è mai sorto: è sempre rimasto nello stesso punto, al centro esatto del cielo, e il solo fatto di guardare direttamente l’intensa fonte di luce mi annebbia la vista.
Una bella delusione, comunque, dato che il suo spostarsi mi sarebbe stato molto utile per discernere i punti cardinali o anche solo per cronometrare lo scorrere del tempo.
Dopo quelle che mi sembrano ore di cammino ed esattamente 91887 passi, mi fermo, esausto: della fine del labirinto non c’è traccia, anzi, a questo punto mi chiedo se esista davvero una fine a questo luogo. Forse il fatto è proprio questo: non c’è modo di uscirne. Forse l’aldilà è semplicemente un labirinto interminabile in cui l’anima resta intrappolata dopo la morte, e in tal caso non ci sarebbe possibilità per una mente umana di riuscire a superare qualcosa di così trascendente, neanche se questa mente umana fosse i tre migliori detective del mondo e avesse un quoziente intellettivo di 202.
D’improvviso sento le gambe cedermi, più per un senso di frustrazione che per l’effettiva stanchezza, e indietreggio fino ad appoggiare la schiena contro la siepe più vicina, per poi lasciarmi scivolare in terra. Raccolgo le ginocchia al petto e le cingo con le braccia, osservando la strada in cui mi sono fermato.
Se non fossi sicuro dei novantamila passi che ho fatto per arrivare fino a qui, giurerei di non essermi mai spostato dalla strada davanti alla radura: perché ogni via è del tutto identica alle altre, con le stesse siepi, gli stessi fiori, la stessa immobilità. Questo, sommato al fatto che qui non esiste una misura del tempo e che non c’è traccia di una possibile via d’uscita, metterebbe a dura prova la volontà di chiunque.
Ma non la mia.
Devo assolutamente capire cosa sta succedendo, se c’è un senso a questo posto e chi o cosa ci sia dietro. Forse non sono nemmeno morto, e questa è soltanto una prigione con una scenografia più elaborata. Forse qualcuno (Kira) ha inscenato apposta la mia morte per potermi rinchiudere qui e farmi perdere il tempo e la ragione nel tentativo di uscirne. Ma scarto subito questo pensiero, perché mi rendo conto che se fossi vivo sarei messo decisamente male. Infatti, a occhio e croce, sono quasi una decina di giorni che non mangio e non dormo, e nonostante questo non sento né fame né sonno, ad eccezione di un leggero fastidio alla pancia dovuto probabilmente all’abitudine di non aver mai tenuto a lungo vuoto lo stomaco.
Decido di concedermi un attimo di riflessione, quindi appoggio la testa contro la siepe dietro di me e avvicino il pollice alle labbra, un’involontaria abitudine che metto in atto quando sono sovrappensiero. Attualmente mi trovo nel bel mezzo di un incrocio, ossia di fronte a due diramazioni della strada da cui sono arrivato: una delle due procede diritta davanti a me, fino a dividersi in tre una quindicina di metri dopo, mentre l’altra procede alla mia destra e termina con una svolta ad angolo retto al di là della quale non riesco a vederne il percorso. Mi sembra chiaro che, poiché fino ad ora ho marciato in direzione sinistra, ossia verso l’ipotetico ovest, e poiché poco fa sono certo di essere arrivato da sud, la prossima strada da prendere dovrebbe essere quella di fronte a me.
Tuttavia non sono mai stato abituato a muovermi a lungo, e anche se sembro immune a sensazioni come la fame o il sonno, mi accorgo di sentire un certo fastidio alle gambe dopo così tanto tempo passato a camminare; senza contare il fatto che sono leggermente a corto di fiato e sento la testa pesante come un macigno. Decido di riposarmi almeno un po’, e socchiudo gli occhi per pensare a quello che sarebbe giusto fare a questo punto.
Mi accorgo di essermi addormentato solo quando mi sveglio, probabilmente un’ora dopo, in preda ad una sensazione di ansia che pare totalmente infondata, ma che trova fondamento qualche istante dopo, quando mi rendo conto di non trovarmi nello stesso punto in cui mi sono addormentato.
Scatto in piedi.
Apparentemente il luogo sembra lo stesso, ma al posto dell’incrocio in cui mi sono fermato poco fa, di fronte a me c’è una linea di siepi fiorite che costeggia in parallelo la strada in cui mi trovo. Lascio scorrere lo sguardo e noto che le siepi procedono lungo la strada, la quale a destra termina in un vicolo cieco, mentre dalla parte opposta si suddivide in tre vie che a loro volta si diramano in altre direzioni. Che diavolo sta succedendo?
Sono certo di non essermi mosso da qui almeno nelle ultime due ore, quindi le alternative sono due: o sono stato spostato di proposito da qualcuno, oppure è il labirinto stesso ad essersi in qualche modo spostato. E poiché oltre a me in questo luogo non sembra esserci nessun’altro, dev’essere stato il labirinto a cambiare forma.
Un labirinto mutante.
Nel momento stesso in cui lo realizzo mi sento mancare l’aria nei polmoni, e un senso di rabbia e frustrazione mi monta nel petto. Perché se così fosse, tutta la strada che ho percorso fino ad ora con l’intento di andare verso sinistra sarebbe stata solo una perdita di tempo e di fatica, dato che il labirinto può cambiare aspetto ad ogni momento.  
In preda allo sconforto tiro un calcio alla siepe più vicina, e una dozzina di petali colorati e fragoline di bosco cadono sul prato, di fronte ai miei piedi. Resto a fissare il tutto per qualche minuto, il pollice appoggiato alle labbra e l’altra mano lungo il fianco, finché non mi viene un’idea. Mi chino leggermente e con il pollice e l’indice afferro l’estremità della foglia di una delle fragole, raccogliendola e avvicinandola al mio viso per osservarla più da vicino. Sembra a tutti gli effetti un frutto reale, molto simile a quelle che usavo raccogliere in Inghilterra, quando ero bambino.
D’improvviso mi viene voglia di assaggiarla: sembra passato un secolo dall’ultima volta che ho mangiato qualcosa. Mi rendo conto che questa fame, in queste circostanze, è del tutto insensata e irrazionale. Ma si sa, le vecchie abitudini sono dure a morire.
Inoltre, ora come ora, non vedo come questo possa cambiare la situazione. Avvicino la fragola alle mie labbra e schiudo la bocca, lasciando uscire la lingua a toccare quel frutto gustoso di cui ho quasi dimenticato il sapore, ma prima che i miei denti possano afferrarla completamente mi blocco.
E se fosse avvelenata?
Abbasso lo sguardo sulla fragola, ponderando questa possibilità: in effetti, dato che ogni cosa in questo labirinto pare essere un inganno architettato in modo surreale, se non una vera e propria trappola, è possibile che questo frutto dall’aspetto così vividamente rosso e succoso sia avvelenato, o comunque rappresenti una qualche sorta di pericolo. Ma anche se così fosse, mi ritrovo a pensare, il fatto che io sia già morto rappresenta una buona motivazione a correre il rischio.
Senza pensarci ulteriormente, addento la fragola, e il dolce sapore zuccherino mi invade la bocca inebriandomi­. Socchiudo gli occhi e mi sento già meglio. D’altronde il cibo mi ha sempre fatto questo effetto, mi ha sempre dato quell’energia mentale di cui avevo bisogno perché il mio cervello funzionasse al meglio. Quando mangio, da sempre e soprattutto i dolci, non posso fare a meno di apprezzare totalmente la sensazione di appagamento e sollievo che ne deriva: e il solo fatto di riuscire ad apprezzare qualcosa mi fa sentire vivo.
Aspetto una decina di minuti per accertarmi che la fragola non fosse avvelenata, ma non succede nulla, così decido di mangiarne ancora qualcuna per recuperare le energie spese durante la camminata di oggi. Prima ancora di rendermene conto ho ingurgitato una dozzina di fragole, in preda alla frustrazione per il fatto di essermi completamente sbagliato e di non sapere assolutamente cosa fare.
“L Lawliet”
Mi volto di scatto nel sentire pronunciare il mio nome da una voce molto, molto familiare. E per poco non prendo un secondo infarto quando nel voltarmi, vedo nientemeno che una versione opalescente di me stesso, in piedi, di fronte a me. Tra le tante domande che mi affollano la mente, una emerge sulle altre.
“Che diamine sta succendendo?”
La figura accenna un sorriso, ma invece di tranquillizzarmi questo mette a dura prova la mia angoscia.
“Come già avrai capito, sei morto, L. Questo luogo trascende ogni spazio e ogni tempo, ma ogni essere umano, terminata la propria vita finisce in un luogo che riflette la sua anima. Questo labirinto infinito e bellissimo è semplicemente la parte più profonda del tuo essere”
Sono interdetto nel sentire le parole pronunciate da questa versione trasparente di me stesso.
“Quindi, se ho capito bene, io sono condannato a rimanere in questo giardino per l’eternità?”
“No, questo è solo un luogo di passaggio in cui ogni anima, dopo la morte, si risveglia, e deve compiere il Rito di Espiazione per accedere al Mu, il nulla eterno”
Il Rito di Espiazione? Possibile che sia tutto vero e non stia sognando?
L’altro me stesso sembra intuire i miei dubbi e precede le mie domande.
“Il Mu è un aldilà in cui vivono in serenità le anime che superano il Rito di espiazione e, purificate dai loro peccati, esistono sospesi nel tempo e nella pace. Le anime che non superano il Rito restano in un luogo come questo che riflette la loro natura, soli in eterno. Prima che tu me lo chieda, io sono l’essenza che sorveglia il Mu, assumo le sembianze della persona stessa con cui mi ritrovo a parlare perché il mio aspetto non è visibile in nessun modo. Alcuni mi chiamano Dio, altri un portavoce, ma in realtà sono solo un custode. Non ho il compito di giudicare né condannare, bensì di guidare ogni anima verso il Mu”
Ormai non riesco più a celare la mia curiosità e le mie domande, gli ingranaggi nel mio cervello tentano di elaborare più informazioni possibili.
“Che cos’è il Rito di Espiazione, e soprattutto, come si supera?”
“Il rito delle anime consiste in tre prove e castighi per le tue colpe che devi superare. Se non superi la prova ricominci dall’inizio, come in un gioco a livelli.”
Tutto questo mi sembra totalmente assurdo, eppure, non vedo come potrei rifiutarmi, visto che la prospettiva di rimanere in questo labirinto fiorito in eterno non mi aggrada per niente. D’altronde, ogni cosa che ho visto e fatto finora, va oltre ogni umana immaginazione.
“E dimmi, questo ha a che fare con il modo in cui sono stato ucciso? O la procedura è la stessa per ogni essere umano che lascia la propria vita?”
“La procedura è la stessa in quanto nessun essere umano è senza peccato, e tutti meritano la redenzione, anche se in teoria non per tutti è così facile superare il Rito di espiazione, ma non posso dirti altro. Sono un essere onnisciente e so che in questo momento hai molta rabbia e rancore dentro al tuo cuore, le tre prove ti aiuteranno a liberartene. Durante la prima prova ti ritroverai in un universo in cui tu non sei mai esistito, dovrai fornire almeno ad una persona la prova della tua esistenza e far sì che questa ti creda.”
Nel momento stesso in cui termina la frase, il mio sosia scompare, e al suo posto mi ritrovo con molte più domande di quelle a cui posso rispondere, ma al posto della sensazione di disorientamento mi ritrovo con una volontà e una curiosità riguardo a queste fatidiche tre prove. Vivo o morto, L non si tira indietro di fronte ad una sfida.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2- L ***


Ho capito ormai che il tempo, in questa dimensione, scorre in maniera totalmente diversa dal mondo reale. Da un lato, il mio corpo, o quello che resta di esso, sembra non aver mutato in nulla il suo aspetto, ossia l’aspetto che avevo nel momento in cui sono morto, dall’altro, la mia mente sembra invecchiata di cent’anni.
Terminato il mio discorso con quella sorta di cerbero che assume le sembianze di chiunque poiché non ha un aspetto vero e proprio, mi sono ritrovato da un momento all’altro in un luogo che mai avrei potuto dimenticare: la Wammy’s House, l’orfanotrofio in cui ho passato gli anni più belli della mia infanzia. Avevo capito subito che si trattasse della prima prova del rito di espiazione: ovviamente era chiaro a quel punto, che nulla fosse lontanamente reale. Prova di questa teoria è il fatto che, nonostante i bambini e il personale della Wammy’s House sembrassero assolutamente reali, nessuno sapeva chi fossi, esattamente come aveva detto il custode.
Durante la mia vita, anche dopo aver iniziato la carriera di detective, ho fatto spesso visita a quel luogo a cui ero molto legato, e tutti lì mi riconoscevano come L, pur non sapendo il mio vero nome. Dunque, per superare la prova dovevo convincere una persona qualunque della mia esistenza, anche se il significato di quella prova mi sfuggiva.
Alla fine riuscii a farmi venire in mente un’idea: mi recai nella stanza dove studiavano e risolvevano casi le due persone che avevo previsto diventassero i miei successori, prima ancora di iniziare le indagini sul caso Kira. Near e Mello erano lì, e appena entrai il primo accennò appena uno sguardo su di me, il secondo mi squadrò dalla testa ai piedi in modo sfacciato. Mi chiesero chi fossi, e io risposi che ero L, il detective più abile al mondo, e che loro mi avrebbero succeduto nel mio incarico. Ovviamente nessuno di loro mi credette all’inizio, in quanto in quell’universo facente parte del Rito di Espiazione, L non era mai esistito.
Dopo una lunga conversazione in cui illustrai i casi di omicidi seriali più complessi che mi fosse mai capitato di risolvere e li misi alla prova loro stessi, le loro certezze sulla mia inesistenza vacillarono. Nessuno di loro riuscì a risolvere inizialmente i casi proposti, ma con i miei suggerimenti arrivammo alla soluzione. Inoltre, come prova inconfutabile della mia esistenza, dissi loro fatti che solo L poteva conoscere: alcuni riguardavano le caratteristiche del carattere di entrambi, molto diversi fra loro ma egualmente al di sopra della media, altri riguardanti la Wammy’s House, tra cui la vera identità di Watari, il fondatore dell’orfanotrofio, che solo chi fosse cresciuto lì poteva conoscere.
Vidi sui loro volti prima la sorpresa, poi lo stupore, e infine l’ammirazione. Nel momento stesso in cui mi resi conto di esser riuscito nella mia impresa, un sorriso di nostalgia comparse sul mio viso, lo scenario davanti a me svanì all’improvviso e mi ritrovai nuovamente nel labirinto mutante.
Ed eccomi qui, nello stesso viale fiorito, con le stesse alte pareti e tante stradine collaterali intorno a me, esattamente come all’inizio. L’unica cosa diversa dall’inizio è che, anziché essere circondato da fragoline di bosco, ora di fronte a me vi era un arbusto di mirtilli grandi e color viola intenso, che stuzzicarono subito la mia acquolina in bocca. Dopotutto, dopo tanto sforzo mentale mi servivano zuccheri. Con un gesto lento afferro un mirtillo tra i due polpastrelli e me lo porto alla bocca, il suo sapore dolce e succoso mi esplode in bocca. Se solo avessi avuto anche un po’ di gelato...
“Vedo che hai superato la prima prova, Lawliet”
La voce è la mia voce, ma so benissimo che in realtà a parlare è di nuovo il custode, infatti, nel voltarmi, lo vedo. Ha sempre il mio aspetto, solo leggermente trasparente, come se fosse un fantasma. Ovviamente sa il mio nome perché ha detto di essere onnisciente, come una specie di divinità.
“Conosci ogni cosa di me?”
“Si, posso vedere la vita di ogni anima semplicemente guardandola. Ma ora è meglio che riservi la tua concentrazione e i tuoi dubbi per superare la seconda prova; in questo caso dovrai scegliere di ottenere il perdono di una persona la cui vita è stata rovinata a causa tua.”
Non faccio a tempo a ribattere che improvvisamente mi ritrovo in quella che sembra una stanza d’albergo, una delle tante in cui ho soggiornato durante i miei viaggi per risolvere casi in giro per il mondo. Non ho mai prestato molta attenzione ai dettagli architettonici e all’arredamento, infatti non saprei dire quando e in che circostanza mi sono trovato qui, anche se il luogo mi sembra familiare. La stanza è molto piccola, circa una ventina di metri quadrati, con al centro un letto e sulle pareti laterali un armadio e una scrivania, più un televisore appeso al muro. Di fronte a me una portafinestra dà su un piccolo terrazzo, al di fuori si vedono dei grattaceli, sembrerebbe lo skyline di Los Angeles, ma non ho il tempo di accertarmene perché mi accorgo che sul tavolo di fronte a me ci sono delle fotografie.
Mi avvicino e con stupore mi accorgo che si tratta di cinque fotografie ritraenti delle persone: probabilmente sono le persone la cui vita è stata rovinata a causa mia, come diceva prima il custode. Le foto in questione ritraggono tre indiziati per omicidio che io stesso avevo smascherato e fatto arrestare, uno dei quali è stato condannato a morte, mentre le altre due fotografie ritraggono Watari e, con mio grande stupore, Misa Amane, la teen idol accusata di essere il secondo Kira. La vista di quella foto mi provoca un senso di rabbia e di frustrazione. E così, secondo questa logica, la vita di Misa Amane sarebbe stata rovinata da me, eppure io sarei sicuro di affermare il contrario.
Afferro tra le mani la foto di Watari e sento una stretta al cuore: se non fosse stato al mio fianco durante il caso Kira, sarebbe ancora in vita. Ma quell’uomo scelse di seguirmi in lungo e in largo per non lasciarmi alla mia solitudine e per molti anni è stato la mia ancora di salvezza. Anche se dentro mi sento spezzato, sono sicuro che, come sempre, nulla trapela dal mio viso.
Ad un certo punto sento aprirsi la porta della stanza, mi volto di scatto e di fronte a me trovo Quillish Wammy, o Watari, con la sua aria tranquilla, i baffi bianchi, gli occhiali e il suo vecchio cappello nero. Mi sorride, ed è la prima volta che un’illusione di questo aldilà mi sembra tanto reale.
“Ryuzaki, non pensavo di trovarti qui”
“Ciao, Watari”
Lo osservo, ha in mano una ventiquattrore nera dove solitamente portava con se i documenti più importanti, indossa un cappotto lungo e dei pantaloni marroni. È esattamente come lo ricordo la sera prima della mia morte, quando gli bastò guardarmi per leggere nel mio sguardo la rassegnazione di stare per morire. Non so esattamente come fare per superare questa prova. Forse, devo solo dirgli che mi dispiace, in fondo niente di tutto questo è reale.
“Watari, devo chiederti scusa”
Inclina la testa da un lato e mi osserva curioso. “E perché mai?”
Mi schiarisco la voce e abbasso lo sguardo, non sono mai stato bravo, anzi non ho mai nemmeno provato, ad esprimere i miei sentimenti per qualcuno ad alta voce. In realtà, potrei contare sulle dita di una mano le persone per cui ho veramente provato qualcosa nella mia vita, l’empatia non è mai stata il mio forte. Ho sempre utilizzato il cervello per calcoli e strategie, i rapporti interpersonali non hanno mai avuto particolare rilevanza per me.
“Sono sempre stato egoista, mi seguivi ovunque ed io davo la tua presenza per scontata, mai ho espresso la mia gratitudine per avermi salvato da una triste infanzia da orfanello e avermi reso il detective migliore al mondo. Se non fosse stato per te, non sarei quello che sono, o meglio, quello che ero.”
“Ryuzaki, sai che per me è come se tu fossi mio figlio, starti accanto è una mia scelta e un piacere per me, ma non capisco perché parli al passato”
Ignoro la sua frase e proseguo il discorso che si forma nella mia testa.
“Inoltre, sin dall’inizio del caso Kira hai scelto di rischiare la tua vita e di perseguire il mio ideale di giustizia anche se non te ne ho mai attribuito il merito. Sei una persona di buon cuore, generosa e hai un animo nobile, Watari. Ti chiedo scusa, non avrei mai voluto che tu morissi a causa mia”
“Non ti ho mai sentito parlare tanto, e poi, non sono ancora morto” sorride “ma, penso che ogni padre morirebbe per il proprio figlio, non credi anche tu?”
Non accenno a rispondergli perché lentamente i suoi piedi iniziano a svanire e pian piano il corpo di Watari diventa un turbinio di piume che volano oltre la tenda della finestra, uscendo dalla stanza e spargendosi nel cielo arancione della città. Fino all’ultimo istante lui mi osserva come ha sempre fatto, con l’amore negli occhi di chi è fiero di te fino alla fine.
Chiudo gli occhi e faccio un respiro profondo. È incredibile quanto sia effimera la vita umana: anche se mi fa uno strano effetto pensarlo, ora che sono morto nulla sembra avere più importanza. Tutti i criminali, Kira, il Death Note, gli Shinigami, la polizia, il quartier generale, tutto sembra molto lontano ed irreale. Come se tutto quello che ho fatto nella mia breve vita fosse insignificante. In effetti sembra molto più reale questo aldilà senza tempo che non gli ultimi 26 anni di vita.
Apro gli occhi e, come immaginavo, mi ritrovo nel labirinto fiorito e infinito che ormai è diventato come una seconda casa: ho tentato cosi cocciutamente di venire a capo di questo labirinto che quasi mi viene da ridere. E poi, chi l’avrebbe mai detto che la mia anima potesse avere questo aspetto. Tutti questi fiori e frutti e questo verde che contrasta con l’azzurro del cielo riflettono probabilmente un’armonia che nemmeno io sapevo di possedere, sicuramente dall’esterno appaio come una figura goffa e strana, e questo aspetto ha sempre allontanato le persone comuni, che ricordo mi osservavano come fossi uno scherzo della natura. Le uniche persone con cui ho mai avuto affinità sono state Watari e Light, anche se su due piani completamente diversi.
Light. Kira. Per una frazione di secondo penso a quale aspetto avrà il luogo che riflette la sua anima, anche se forse passeranno anni prima che lui morirà, avendo sconfitto me, il principale ostacolo al suo progetto di giustizia malata.
Mi guardo intorno, questa volta sono di nuovo in un vicolo cieco e di fronte a me un vialetto termina contro una parete piena di margherite gialle e nere, rose e piccoli frutti neri che sembrano more. Solo ora ci penso, il custode è comparso la prima volta solo dopo che ho assaggiato le fragole, e la seconda volta quando ho assaggiato i mirtilli. Probabilmente la chiave per far sì che appaia quella sorta di guardiano è proprio nei frutti che io ho assaggiato, come in una specie di giardino dell’Eden.
Senza pensarci troppo avanzo di qualche passo, prendo una manciata di more e me le metto in bocca, questa volta il sapore ha un retrogusto amaro, che mi lascia una sensazione poco gradevole sul palato. Come avevo previsto, il custode mi appare davanti come se fosse un fantasma.
“Vedo che hai capito come farmi apparire, bene. Hai superato le prime due prove con facilità, ma ti avverto che l’ultima prova solitamente è la più difficile da affrontare”
“Farò quello che devo fare, di che si tratta?”
“L’ultima prova varia da persona a persona, ma in genere mette alla prove le paure, o le porte aperte con il passato dell’individuo che la affronta. Se supererai la prova, non tornerai più in questo luogo ma ti sveglierai nel Mu.”
“E il Mu, cos’è?”
“IL Mu è una dimensione in cui vanno tutte le anime che hanno superato il Rito di Espiazione, ossia le tre prove, come stai facendo tu. È un luogo senza tempo, uno specchio della Terra, del mondo reale, in cui però ogni anima può vedere solamente le persone che hanno fatto parte della tua vita passata. Riuscirai a vederle ma avranno l’aspetto che avevano al momento della loro morte, esattamente come te.”
Interessante, chi l’avrebbe mai detto che l’aldilà potesse essere tanto complicato.
“Quindi potrò anche interagire con loro?”
“Si, se riesci a vedere loro e loro vedono te potrete anche parlarvi. Ma attenzione, alcune anime, definite Inetti, vengono evitate ed esulate dalle anime dei Redenti, ossia quelli che hanno purificato completamente la loro anima, in quanto esse sono portatrici di peccato. Le anime Inette erano persone che, nonostante abbiano superato il Rito di Espiazione, devono completare il processo di purificazione nel Mu.”
Anticipò la mia seconda domanda semplicemente osservandomi.
“No, non è il tuo caso, Lawliet. Tra le anime Inette vi sono assassini, o stupratori, o persone che si sono macchiate in vita di peccati molto gravi. Se passerai l’ultima prova potrai accedere al Mu come anima Redenta, e allora avrai raggiunto la pace”
Restai un attimo in silenzio ad analizzare tutte le sue parole, per essere sicuro di aver compreso ogni cosa, ma avevo ancora un dubbio da chiarire.
“Ho un’ultima domanda: come saprò distinguere le anime Inette dalle altre?”
“Oh, vedrai, te ne accorgerai se ti capiterà la sfortuna di avvicinarti a una di loro. In ogni caso, la maggior parte delle anime Inette, con qualche eccezione, trova il modo per purificarsi nel Mu e di redimersi. Chi non ci riesce, finirà nel mondo degli Shinigami, ma non ti serve sapere questo.”
Shinigami? Ora è tutto chiaro, ecco da dove provengono quelle creature.
Non faccio a tempo a dire altro che, come l’ultima volta, il custode scompare. Al suo posto lo scenario cambia repentinamente e all’improvviso mi ritrovo in un posto totalmente diverso, ma che conosco molto bene.
Mi guardo intorno, e mi accorgo di trovarmi su un grattacelo, in una delle terrazze ai piani alti, di fronte a me un’enorme antenna parabolica, e oltre la ringhiera che recinta la terrazza vedo la Tokyo grigia che vidi l’ultimo giorno della mia esistenza sulla Terra. Sono al quartier generale. C’è sempre il temporale che imperversa fortissimo sopra la mia testa, sento la pioggia che cade ma non sento né il freddo né il bagnato sulla mia pelle, a prova che tutto questo è solo una mia immaginazione. Che tutto questo, forse, sta avvenendo dentro la mia testa.
Ma se questa è l’ultima prova, allora a rigor di logica dovrebbe coincidere in qualche modo con quello che è avvenuto quel giorno. E appena raggiungo questa conclusione mi volto di scatto, e so già quello che vedrò prima ancora di voltarmi.
Davanti a me sorride beffardo, Kira.
È a pochi metri da me, e so perfettamente che quello che sta accadendo è solo una prova, un’illusione, ma non riesco ad evitare che un brivido di gelo mi percorra la spina dorsale.
È immobile, indossa la stessa camicia bianca che indossava quel giorno e i pantaloni di un marrone chiaro, i capelli castani gli ricadono sul viso e sulle spalle e gocciolano a terra. Nei suoi occhi, esattamente come quel giorno, vedo solo vuoto. Cosa dovrei fare per superare questa prova? Il guardiano non ha minimamente accennato in quello che consiste.
“Ciao, Kira” sussurro.
“Ciao, L” un mezzo sorriso compare sulle sue labbra.
Quando mi sono rivolto a lui come Kira, non ha negato come avrebbe sicuramente fatto nella realtà ma anzi, mi ha sorriso come se fosse fiero si essere chiamato così da me. E va bene, starò al gioco e forse terminata questa prova potrò accedere alla pace eterna o al Mu, o come diavolo si chiami.
“Vedi L, tu sei l’unico vero ostacolo alla mia ascesa come giustiziere del mondo, per questo ora ti ucciderò”
È alquanto strano trovarmi qui e dover rispondere a questo Kira fasullo, ma devo capire come fare per superare la prova.
“E come intendi farlo, Light?”
“Pensavo che fosse ovvio, non ti tratterò diversamente dagli altri, anche se tu senz’altro meriteresti una morte meno banale, L Lawliet”
Ho un sussulto: conosce il mio vero nome, ma non importa come lo sappia, questa è solo una prova. È tutto nella mia mente.
Nel dire queste parole con il braccio sinistro solleva un lembo della camicia, e da un lato dei pantaloni estrae il quaderno nero che conosco tanto bene.
Il Death Note. Forse è questo lo scopo della prova, devo impedirgli di scrivere il mio nome sul Death Note. Anzi, è quasi sicuramente questo il modo per superare il Rito di espiazione, il custode ha parlato di rancore e di porte aperte con il passato, e chi se non Kira può suscitare tanto odio in me?.
Ma soprattutto, come lo fermo?
Non smette di osservarmi un secondo mentre estrae dalla tasca una stilografica nera, apre il quaderno ed inizia a scrivere.
L..
“Fermo!” urlo. Si arresta e mi osserva soddisfatto.
“Non vorrai metterti in ginocchio e supplicarmi, vero? Ti sarà rimasto un briciolo di orgoglio anche nella morte” mi schernisce beffardo.
Non so cosa rispondere né cosa fare, la sua voce mi irrita esageratamente.
Lui abbassa lo sguardo soddisfatto della mia reazione e riprende a muovere la penna con le lunghe dita affusolate
L..a..w..
Potrei dirgli che rinuncio a dargli la caccia, che collaborerò con lui o che mi arrendo, ma qualcosa mi dice che il significato di questa prova è un altro, che non sia questo lo scopo del Rito. Osservo il ventenne di fronte a me intento a scrivere il mio nome come quello di tanti altri su un banale quaderno. È un assassino, eppure..
l..i..e..
Lo scorrere lento della penna sulla carta mi richiama alla realtà, mi separa solo una lettera al fallimento della prova. Kira è un assassino, è sempre stato cosciente di quello che faceva, nonostante lui stesso una volta provò a convincermi del contrario. Giustiziare i criminali ripulendo il mondo dalla violenza è il suo fine ultimo.
Un ragazzo con una tale aspirazione e volontà deve per forza essere infantile e con complessi di megalomania, ma, chi lo sa, forse anche io stesso, se avessi trovato quel quaderno, sarei potuto arrivare ad uccidere.
Serro le labbra, no, questo non è possibile.
Ci deve essere un modo per liberarsi da questa prova, che non poteva essere articolata in modo migliore per farmi affrontare tutto l’odio, la rabbia e la frustrazione che ho dentro.
Ma certo, l’odio è la chiave! Forse ho capito.
“Non farlo!” urlo, e lui si arresta con la penna sospesa a mezz’aria.
“Perché non dovrei farlo?” dice guardandomi con aria di sfida.
“Perché io..”
Chiudo gli occhi, e capisco di essere quasi riuscito a terminare la prova, devo solo credere veramente a quello che sto per dire, e liberare il passato che mi tormenta ancora. Al centro del mio cuore inizia a formarsi un calore nuovo che piano piano si irradia al resto del corpo, una sensazione piacevole che non conosco ma a cui vorrei solo abbandonarmi.
“Io..io ti perdono, Light” sussurro.
Apro gli occhi piano piano, e sento che il mio corpo, o quello che dovrebbe esserlo, diventa via via più leggero, trascinandomi verso l’alto.
Di fronte a me, il quaderno della morte prende fuoco all’istante e Kira con esso. Lo guardo bruciare sotto la pioggia in pochi secondi e lui non stacca mai il suo sguardo dai miei occhi. Alla fine, quando di lui resta solo il volto, ho l’impressione che mi sorrida, libero e sincero.
Poi, di colpo, tutto diventa di un bianco accecante.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3- Light ***


Quando riapro gli occhi, mi sembra di trovarmi all’interno di un sogno. O di un incubo.
Il dolore che sento proviene da diversi punti sparsi all’interno del mio corpo, dal torace alle braccia, mi pare di sentire perfino il freddo piombo dei proiettili ancora incastrati nelle mie viscere. E ricordo come se fosse successo pochi secondi fa l’ultimo sussulto del mio cuore, avvenuto esattamente quaranta secondi dopo che Ryuk ha scritto il mio nome sul suo quaderno, rispettando la promessa fattami al nostro primo incontro.
Sento una lacrima solitaria che scende lungo la mia guancia. Forse il sentimento che provo ora è solo malinconia, e nostalgia di una vita che non ho mai vissuto.
Se quel giorno di sette anni fa avessi semplicemente guardato un punto qualsiasi, anziché quella finestra, forse le cose sarebbero andate diversamente. Forse avrei vissuto una vita estremamente noiosa, da civile qualunque, odiando il mondo in cui mi trovavo ma fingendo come tutti gli altri che mi andasse bene così. Una vita fatta di ipocrisia.
Ma no, è andata meglio così. Light Yagami ha cambiato il mondo, anche se solo per poco.
E poi raggiungo l’amara conclusione che, chiaramente, sono morto.
Morto, sconfitto, ucciso, abbattuto definitivamente.
Kira è stato soppresso.
Eliminato, come direbbe Mikami.
Fine del gioco.
Anche se in realtà, non è mai stato un gioco.
Evidentemente non sono stato abbastanza acuto da prevedere che l’SPK aveva tenuto sott’occhio Mikami al punto da intuire la mia intenzione di sostituire il quaderno vero con uno falso, e a loro volta hanno sostituito il quaderno falso con uno vero senza che né io né Teru Mikami ce ne accorgessimo. Che idiota sono stato a fidarmi di lui fino al punto di fregarci entrambi.
Ma oramai non ha più importanza, tutto quello che ho fatto, tutto quello che ho sacrificato e che ho guadagnato solamente per portare la giustizia nel mondo è andato in fumo quel giorno allo Yellow Box. E ora il mondo tornerà ad essere lo schifo di sempre.
Spero che tu sia contento, Near.
Mi alzo in piedi e finalmente do un’occhiata al luogo che mi circonda, e per mezzo secondo resto senza fiato, anche se ormai non respiro più.
Mi trovo in una sala grande, ottocentesca, ma completamente vuota se non per il pavimento, il soffitto e le pareti totalmente trasparenti, fatte di un vetro talmente lucido che sembra inesistente. Grazie a queste pareti di vetro trasparente posso vedere le altre stanze oltre la mia, collegate da piano a piano con scalinate di vetro, e alzando lentamente la testa vedo che al di là del soffitto si intravede un ultimo piano, oltre al quale cinque torri anch’esse trasparenti partono dalla base della struttura e si stagliano maestose verso una galassia buia ma piena di stelle lontane.
Un castello di vetro.
Anzi, un castello di vetro sospeso nel vuoto, noto guardando in basso, e vedendo che al di sotto del pavimento trasparente su cui poggio i piedi non vi è nulla se non quello che sembra l’universo astronomico così come lo conosciamo, con i suoi tipici colori e sfumature: viola, nero, blu, rosa, rosso e bianco.
Non so molto di astronomia, ma più giro la testa più oltre queste pareti di vetro mi pare di intravedere galassie e costellazioni più o meno conosciute, e, in lontananza, sopra di me giurerei di vedere la Via Lattea.
Sono in una fortezza di cristallo sospesa al centro dell’universo, tanto assurdo che mi pare un’illusione.
Non pensavo che l’inferno potesse essere tanto spettacolare.
Perché sono all’inferno, giusto? Dove potrebbe andare dopo la morte, uno come me?
Anche se, a parer mio, tutto quello che ho fatto è stato liberare il mondo dalla malvagità e dalla violenza del crimine umano. Non sono uno stupido, so bene che uccidere è un reato, anche se a morire sono dei criminali e degli assassini, ma non era forse l’unico modo per rendere il mondo un posto migliore? Qualcuno doveva pur farlo, anche a costo di sacrificare la propria vita, o di perdere la sanità mentale.
Meriterei un posto in Paradiso solo per questo. Anzi, forse è per questo che mi trovo in questo castello bellissimo, perché in fondo quello che ho fatto è stato al fine di uno scopo ultimo e massimo, ha liberato i deboli e gli innocenti dalla paura del male.
E forse lo stesso Dio è d’accordo con me, chi lo sa.
Tuttavia, ricordo chiaramente che Ryuk, lo Shinigami che mi ha seguito come un’ombra da quando ho raccolto il quaderno fino alla fine dei miei giorni, un giorno mi disse che per gli umani che hanno utilizzato il Death Note non esiste né il Paradiso né l’inferno, ma solamente il nulla.
Quindi, deduco che questo posto sia il Mu, il nulla. E cosa dovrei farci qui in eterno?
Faccio qualche passo verso una delle vetrate che danno sull’esterno, ossia sulla galassia che mi circonda, per ammirare il panorama assolutamente unico. Appoggio una mano sul freddo cristallo di cui sembra fatto questo castello, quasi per avere una prova tangibile e concreta che questo non è tutto un sogno.
In quell’istante il panorama esterno svanisce di colpo e i vetri trasparenti di prima si trasformano tutti in tanti specchi. Ogni singola parete ora riflette la mia immagine.
Mi vedo ovunque volga la testa: sul soffitto, sul pavimento, in tutte e quattro le pareti.
Vedo che indosso lo stesso completo marrone scuro del mio ultimo giorno di vita, la camicia bianca e la cravatta rossa, ma quello che più attira la mia attenzione è il sangue: gran parte del mio torace è ricoperta di sangue, dato sicuramente dai colpi di pistola che mi hanno ferito. Anche i miei capelli sembrano di un rosso macchiato di sangue.
Ma che significa? È inquietante persino per me.
In mezzo a tutti questi specchi intravedo una porta in fondo alla sala in cui mi trovo e mi dirigo a passo spedito verso di essa, aprendola e notando con sconforto che anche oltre a quella porta i vetri che vi erano prima sono diventati specchi.
Ogni cosa, i soffitti, i corridoi e persino ogni gradino delle scale ora riflette la mia immagine. Decido di salire le scale e venire a capo di questa assurdità.
In cima alla scalinata trovo un’altra porta, la apro senza troppa convinzione e noto che oltre di essa si staglia davanti a me una sala più piccola di quella in cui mi trovavo prima, ma esattamente identica. Stesse pareti alte, stesso soffitto e pavimento, tutto trasformatosi in specchio.
La cosa ancora più angosciante è che ci metto mezzo secondo per capire che la figura che vedo al centro della sala non è uno dei miei riflessi ma un vero e proprio sosia di me stesso che mi osserva.
Caccio un urlo e arretro di qualche passo in preda alla paura più totale.
“Light Yagami, è incredibile quanto sia interessante la tua anima”
Al sentire quelle parole ritrovo il respiro che avevo trattenuto.
“Chi diavolo sei tu?! Se devi punirmi fallo e basta!” esclamo.
“Punirti? Assolutamente no, non è come pensi. Questo è solamente un luogo di passaggio che riflette la tua anima, Light. Ogni persona dopo la morte si risveglia in un luogo unico e particolare, che non trova reale esistenza se non al centro della tua essenza. Io sono un custode, una guida, che aiuta ogni essere umano a superare il Rito di Espiazione e ad accedere al Mu.”
La mia anima? Quindi questo castello è..
Il guardiano sembra in grado di leggermi nel pensiero e completa la mia domanda.
“..il luogo che riflette la tua anima, si. Uno dei più particolari che abbia mai visto, in realtà.”
Ignoro il suo commento. “Hai parlato di un Rito e del Mu, giusto? Che significa?”
“Vedi, poiché in vita ti sei macchiato di uno dei peccati più condannabili, superando il Rito di Espiazione la tua anima non verrà purificata completamente, ma, una volta nel Mu, avrai l’occasione per redimerti completamente, anche se non sarà facile.”
Mi lascia qualche secondo per afferrare il significato delle sue parole, poi, probabilmente vedendomi perplesso, continua.
“Il Rito di Espiazione consiste in tre prove, superate queste non tornerai più in questo luogo ma andrai nel Mu come anima Inetta, impura. Le poche anime che incontrerai, ossia le anime degli esseri umani che hanno fatto parte della tua vita, tenderanno ad evitarti e ad allontanarti per evitare di venire macchiate dal tuo peccato. È questa l’unica punizione che avrai, Light.”
Dovrò restare solo nel Mu fino a quando non troverò il modo di redimermi?
Non sarà facile, ma chissenefrega, meglio dei gironi danteschi o roba simile.
“In cosa consisterebbe la prima prova?” chiedo finalmente.
“Nella prima prova ti ritroverai in un mondo nel quale tu non sei mai esistito, e dovrai convincere una persona della tua esistenza”
Possibile che sia tutto vero? Che cosa dovrei dimostrare con questa prova?
In un mondo in cui Light Yagami non è mai esistito tante, tantissime cose sarebbero diverse: nessuno farebbe giustizia, gli assassini e i criminali uccisi da Kira sarebbero in libertà, e persone innocenti morirebbero. Mio padre, forse, sarebbe ancora in vita, fiero del suo lavoro di sovrintendente e della sua unica figlia, Sayu. Misa Amane sarebbe una modella e un’attrice felice, una ragazza normale, e forse potrebbe invecchiare con accanto a sè qualcuno che la ami davvero. Il detective migliore del mondo, L, sarebbe ancora in vita, e la sua idea di giustizia sarebbe l’unica che conta.
L.
Chissà, forse..
Ma non faccio a tempo a terminare il flusso dei pensieri che di colpo mi ritrovo catapultato in uno scenario completamente diverso senza nemmeno capire come sia potuto succedere. Dopotutto, forse, tutto questo sta succedendo in una dimensione a cui nessuna risposta razionale potrebbe dare spiegazione, o ancora, forse è tutto nella mia testa.
Se fosse una sorta di allucinazione, però, devo ammettere che è fatta in modo molto realistico.
Osservo la casa che mi ritrovo davanti e sento come una stretta al cuore: di fronte a me il cancello d’ingresso, il breve vialetto con un pratino verde sul lato, e a pochi metri in linea d’aria la porta principale. Al secondo piano riconosco la terrazza della mia vecchia camera da letto, da cui ricordo che osservavo le persone passare nei pomeriggi vuoti dopo la scuola.
Questa è casa mia, perché mi trovo qui?
Dato che si tratta di una prova del Rito, immagino che per saperlo non ho altra scelta se non entrare.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4- Light ***


Un’onda di nostalgia mi assale nel trovarmi in un luogo che mai avrei pensato di rivedere nella mia vita, o morte: la casa dei miei genitori, dove sono nato e cresciuto e dove ho passato gran parte della mia adolescenza, circondato da persone che mi amavano.
Non che ci sia molto di cui avere nostalgia, se si tralasciano i ricordi di un’infanzia serena. Ho sempre cercato di comportarmi come le persone si aspettavano che mi comportassi, come mio padre avrebbe voluto che mi comportassi: non sono mai stato ignavo, ho sempre dato il massimo sia a scuola che nelle attività extrascolastiche. Non ho mai fumato, mai mi sono ubriacato, non ho mai fatto tutte quelle azioni trasgressive che compiono i giovani per attirare l’attenzione su di sé o per esprimere disappunto.
Ogni giorno della mia vita mi alzavo dal letto, mettevo in pratica quelle azioni routinarie che ci si aspettava da me senza mai scompormi o commentare quanto in realtà fosse frustrante per me non provare assolutamente nessun interesse per quello che mi circondava.
Ovviamente, per evitare di sembrare depresso o asociale, ho dovuto costruire un’immagine che coincidesse con quella di un comune giovane adulto: mi sono circondato di amici e compagni di cui non mi importava nulla, sono uscito con loro e ho intrapreso relazioni con ragazze di cui stento a ricordare il nome solo per mantenere intatta la mia apparenza.
Tutte bugie.
Avevi ragione, L, non credo di aver detto mai la verità in vita mia.
Ma tu eri come me, anche la tua era solo una maschera.
E ora che mi trovo qui non sono tanto sicuro di riuscire a superare questo Rito di Espiazione. Se sarà difficile anche solo la metà di quanto è stata difficile la mia vita, allora sono spacciato.
Di fronte a me si trova il portone d’ingresso in mogano, la mia mano immobile sul pomello della porta da troppi minuti. Alla fine giro la maniglia e la porta si apre.
Dentro è tutto esattamente al suo posto: il corridoio d’ingresso con il pavimento in legno, pochi metri più avanti un mobiletto con specchio, sulla mia sinistra l’arcata d’ingresso in salotto. La attraverso e mi ritrovo con la mente all’ultima volta che sono stato qui, pochi giorni prima della mia morte.
Mia madre mi aveva preparato una cena semplice, a base di tè e spaghetti di soia, e mia sorella era rientrata dall’università per il weekend: anche se il clima era familiare, da quando era morto papà in alcuni momenti la malinconia era tangibile, e mamma non sorrideva più, nemmeno a me.
Chissà quando verrai a sapere della mia morte, madre. E Sayu.
Quante lacrime verserete per me, che vi ho procurato solo sofferenza.
Lacrime sprecate.
Anche se l’SPK e la polizia giapponese dovessero dire loro la verità su di me so che, nonostante tutto, la loro afflizione sarebbe la stessa.
L’amore incondizionato è cosi, anche se io non credo di averlo mai provato.
Con lo sguardo osservo il salotto, il divano beige, il mobile in mogano con le stoviglie in porcellana, la televisione spenta e la luce che filtra dalla finestra, oltre le tende bianche, che illumina il tutto. Al muro vedo una dozzina di fotografie: Sayu da piccola, in costume sulla spiaggia di Jodogahama, un giovane Soichiro Yagami in bianco e nero, in divisa da poliziotto il suo primo giorno di lavoro, i miei genitori nel 1985, il giorno del loro matrimonio, mia madre incinta al parco, con un libro in mano.
I miei genitori hanno sempre amato conservare quei ricordi e appenderli al muro, per poterli ricordare ogni giorno, negli anni a venire. La cosa assurda è che in nessuna di queste foto compare Light Yagami, e questa è la prima differenza tra questa realtà costruita e il mondo reale.
Ricordo bene infatti che la mia ultima foto è stata scattata il giorno in cui sono entrato nella polizia giapponese, e mia madre l’aveva appesa vicino alla finestra.
Mentre mi guardo intorno all’improvviso sento aprirsi la porta d’ingresso, e mi immobilizzo nel panico più totale. Sento la persona al di là del muro togliersi le scarpe e indossare le ciabatte, e dopo qualche minuto Soichiro Yagami si affaccia all’ingresso del salotto e nel vedermi si arresta di colpo, spaventato.
“E tu chi saresti? Un amico di Sayu?” mi chiede con sospetto. “Chi ti ha fatto entrare?”
Ma certo, quel guardiano mi aveva avvisato che per passare la prima prova avrei dovuto convincere qualcuno della mia esistenza in un mondo in cui non sono mai esistito.
Che assurdità pensare che quel qualcuno sia proprio mio padre.
Eppure tutto torna, in un mondo dove io non sono mai esistito i miei genitori hanno solo una figlia: Sayu.
Cerco di capire come fare per passare la prova e ad un certo punto mi viene un’idea.
Decido di arrivare subito al punto.
 “Veramente no, Soichiro. Sono tuo figlio, anche se tu non lo ricordi”
Lui mi guarda come se fossi impazzito, ma non gli lascio il tempo di rispondermi ed inizio subito a spiegargli. Conosco bene mio padre, e so che è un bravo ascoltatore, anche se quello che gli sto dicendo inizialmente a lui sembra totalmente assurdo.
Inizio dal principio: dai nomi di lui e di sua moglie, dalla sua idea pura e intransigente della giustizia e da come abbia dedicato tutta la sua vita al lavoro, perché, come diceva sempre, “io lavoro per rendere il mondo un posto più sicuro per voi”. Poi gli parlo di me, della mia vocazione che era come la sua, e di come, come lui, sarei disposto a morire e a sacrificare ogni cosa per la giustizia.
Che, ironicamente, è proprio quello che ho fatto.
“Senti, non so come ti chiami ragazzo, e non so come fai a sapere tutto questo sulla mia famiglia, ma credo che dovresti andare ora” mi dice interrompendomi.
“Mi chiamo Light, si scrive Tsuki e si legge Light”
A quell’annuncio la sua espressione cambia repentinamente, e mi fissa sconvolto.
“Come lo sai?” mi chiede un sussurro.
“Che cosa?”
“Quando scoprimmo di aspettare un figlio, io e mia moglie Sachiko, non sapendo ancora il sesso del bambino, pensammo a due nomi, uno femminile e uno maschile. E se fosse stato un maschio si sarebbe chiamato esattamente come dici di chiamarti tu. È un nome particolare, non comune in Giappone. E non ne parlammo con nessun’altro, solo io e lei lo sappiamo”
Poi, finalmente, mi osserva più attentamente e vedo instaurarsi il dubbio sul suo volto.
Ci sono quasi.
“Sei diventato sovrintendente da una decina d’anni e da quando è successo per motivi professionali non parli più di lavoro con la tua famiglia. Conosco molti dei tuoi collaboratori” e gli dissi i nomi di tutti quelli che ricordavo.
Mio padre mi guarda allibito a qualche metro da me, ma io non mi interrompo. Gli parlo dei due casi che molti anni prima, su sua commissione, avevo risolto proprio io mentre ero ancora studente. Gli spiegai la dinamica di quegli omicidi e di come ero arrivato al colpevole.
Lui mi guarda attonito. “Questi particolari sugli omicidi sono noti solo a me e alla mia squadra, è impossibile e incredibile che tu sappia tutti questi dettagli. Tuttavia, per risolvere quei crimini ci siamo rivolti a L, non riuscendo ad arrivare alla soluzione. Anche due settimane fa il suo aiuto è stato fondamentale, se non risolutivo, per il caso a cui lavoravamo”
A quel nome ho un lieve sussulto.
Ma certo, in questo mondo Kira non è mai nato, ma L sì.
E ovviamente, non esistendo io, lui è ancora vivo.
Un amaro sorriso mi attraversa il volto.
E in quel momento vedo mio padre che mi osserva con uno sguardo diverso rispetto a prima, questa volta fiero e commosso, e che lentamente inizia a dissolversi in piccolissime luci che si disperdono nella stanza.
E poi, di colpo, mi ritrovo catapultato di nuovo nel castello di vetro.
Nulla è cambiato, ad eccezione degli specchi. Ora oltre le vetrate si vede di nuovo la galassia che avevo visto all’inizio, sotto i miei piedi c’è il pavimento trasparente oltre il quale vedo il piano di sotto dove mi sono risvegliato. Tuttavia, tutte le stanze sono vuote.
Decido di proseguire e di provare a salire su una delle torri, così salgo le scale per dirigermi al terzo ed ultimo piano, da cui presumo poi si salga alle torri. Forse lì troverò il guardiano per capire come fare per affrontare le altre due prove.
In cima alle scale si trova un’arcata con una porta di vetro, e, oltrepassata quella, mi ritrovo in una grande sala identica alle altre due, vuota e completamente circondata da vetrate. Se non sapessi di essere al terzo piano potrei giurare di essere rimasto al primo, dato che ogni piano è identico all’altro. L’unica differenza è che qui, ai quattro angoli della stanza, si trovano quattro porte che sono certo conducano alle torri.
Sento un fruscio alle mie spalle e mi volto, vedendo il guardiano.
Come la prima volta, ha il mio stesso aspetto, anche se più sbiadito.
“Eccomi di nuovo, Light. Sei pronto per affrontare la seconda prova?”
“In cosa consiste?” chiedo, più annoiato che curioso.
L’unica consolazione è che alla fine di queste prove sarò libero, anche se impuro, e potrò aggirarmi nel Mu finalmente in pace.
“Dovrai ottenere il perdono di una persona la cui vita è stata rovinata a causa tua. Normalmente, ogni anima può scegliere la persona con cui vuole scusarsi, ma nel tuo caso, in cui le persone a cui hai rovinato la vita sono migliaia, non potrai scegliere. Anche se la prova del rito generalmente mira a farti affrontare i tuoi rimpianti, e il tuo odio.”
Non faccio a tempo a chiedere spiegazioni che di nuovo mi ritrovo catapultato in un altro scenario. Inizia ad irritarmi il fatto di non avere il minimo controllo di quello che sta succedendo, ma immagino faccia parte della mia punizione.
Mi sento perso, e non sapere cosa mi aspetta ogni volta è molto frustrante.
Non credo di avere molti rimpianti, anche se forse il mio inconscio la pensa diversamente.
Mi guardo intorno e riconosco immediatamente anche questo luogo, con la stessa velocità con cui ho riconosciuto casa mia nella prova precedente.
È l’appartamento mio e di Misa, dove ho vissuto gli ultimi cinque anni della mia vita dopo aver lasciato la casa dai miei. Mi ero trasferito qui principalmente per due motivi: il primo era operare indisturbato e nascosto come Kira, con Misa come secondo Kira, senza che nessuno potesse interferire mentre scrivevamo sui nostri Death Note. Il secondo motivo, in qualità di secondo L, era quello di trovare un quartiere generale per la squadra e proseguire con le indagini per risolvere il caso Kira.
Mi trovo di fronte all’entrata dell’appartamento, e decido di entrare senza pensarci troppo.
Se la persona a cui ho rovinato la vita e di cui devo ottenere il perdono si trova dentro questo appartamento, si tratta molto probabilmente di Misa Amane.
Effettivamente, per amore verso di me, Misa ha decisamente rovinato la sua vita, dimezzandola per ben due volte facendo lo scambio degli occhi prima con Rem e poi con Ryuk, anche se nessuna di quelle due volte fui io a chiederle di farlo. Tuttavia, starmi accanto l’ha condannata a passare molto tempo in solitudine, soprattutto nell’ultimo periodo in cui mi sono visto costretto a farle perdere la proprietà del Death Note e lei era quindi ignara di quello che stava succedendo tra me e l’SPK.
Senza contare del fatto che, appena saprà della mia morte ne resterà tanto sconvolta che probabilmente deciderà di togliersi la vita. O forse è già successo. È impossibile capire con quale velocità scorre il tempo in questa dimensione e da quanto tempo mi trovo qui.
Forse settimane, o mesi. O addirittura anni, chi lo sa.
Proverò a chiederlo al guardiano appena mi capiterà di rivederlo.
Appena entro, l’appartamento è silenzioso, tutto è in ordine esattamente come l’avevo lasciato l’ultimo giorno in cui sono uscito da questa porta, e dal pulpito della mia autostima, mai avrei immaginato che non sarei più tornato.
Il salotto è illuminato da una luce tenue di una lampada a muro, il divano al centro della sala e i cuscini sopra di esso sono ordinati agli angoli. La televisione è accesa su un noto telegiornale giapponese, ma il volume è praticamente a zero.
Faccio qualche passo verso il centro della stanza e dalla mia angolazione vedo che la cucina è in ordine ma la tavola è apparecchiata come se qualcuno stesse preparando la cena fino a qualche minuto prima.
Dalle grandi finestre che danno sul soggiorno vedo il panorama scuro di Tokyo e riconosco il quartiere di Okinawa in lontananza.
Tutto è come lo ricordo, ora devo solo aspettare che Misa compaia qui da un’altra stanza o che entri dalla porta d’ingresso, in caso fosse uscita per qualche commissione dell’ultimo minuto.
Come se qualcuno avesse udito i miei pensieri, avverto dei passi nel corridoio che si avvicinano.
Ma a comparire nel salotto non è affatto Misa Amane.
È un Light Yagami dallo sguardo di ghiaccio, i capelli che gli ricadono sulla fronte e gli nascondo parte degli occhi castani. È il Light di qualche mese fa, distrutto mentalmente e fisicamente dal continuo lottare in un senso e nell’altro per raggiungere il suo obiettivo ultimo, un mondo giusto.
Riprendo a respirare non essendomi nemmeno accorto di aver trattenuto il fiato fino ad ora.
È questa la prova, e il significato è più che lampante.
È questa la persona a cui, più di tutti, ho rovinato la vita.
Me stesso.
Essere Kira mi ha condannato ad un destino di morte e di sofferenza, proprio come mi aveva anticipato Ryuk quando ho raccolto il quaderno. La vita che avrei potuto avere, la persona che avrei potuto essere, un’intera esistenza svanita in quel momento, in nome di un fine ultimo e divino a cui non ho potuto rinunciare, e a cui ho sacrificato tutto.
Il Light che mi osserva non sembra minimamente sorpreso di vedermi, come se mi aspettasse. Mi osserva in attesa di sentire quello che ho da dirgli.
Morirai.
Questa è l’unica cosa che vorrei dirgli.
Fuggi.
Ma ormai è troppo tardi per lui, per me. Il destino era già segnato nel momento in cui ho scritto il primo nome.
Non sono mai stato una persona particolarmente emotiva, ma ora, guardando un me stesso palesemente infelice e pieno di odio, di risentimento e di disgrazia, sento come una voragine aprirsi nel mio petto.
Tutto questo, è stato inutile?
Ma anche se lo fosse stato, non è questo a farmi vacillare.
Guardando quel venticinquenne totalmente solo e incompreso, a farmi vacillare è la consapevolezza di averlo ucciso senza pietà. Di aver sacrificato la cosa più importante che avesse, il tempo.
Il guardiano mi disse che per superare la prova avrei dovuto affrontare il mio odio e i miei rimpianti.
E ora comprendo il pieno significato delle sue parole.
La persona che più odio al mondo è quella che sto guardando.
La consapevolezza di questo pensiero mi colpisce e mi trapassa con la stessa intensità dei proiettili che mi hanno ucciso.
“Perdonami” sussurro.
Light Yagami mi osserva, nel suo sguardo vedo solo vuoto.
“Non potrò mai perdonarti” sibila con un sorriso beffardo.
Chiudo gli occhi e tento di cacciare indietro quelle che sono sicuro siano lacrime amare. E poi capisco: lui ed io siamo la stessa persona. Quindi, dipende solo da me stesso perdonare quello che ho fatto. Devo liberare il peso che mi opprime da quando sono entrato in questa stanza. Se veramente riuscirò a perdonarmi, il me stesso del passato dovrà accettarlo. E mentre capisco ciò mi accorgo che la stanza inizia lentamente a girare intorno a noi.
I suoi occhi sono fissi nei miei. Ma questa volta, non vedo odio, solo commiserazione.
“Invece si, lo farai” dico.
La stanza inizia a girare molto più velocemente, ma sento che sto diventando più leggero e che sto scomparendo piano piano. Il ragazzo dagli occhi ramati mi guarda ancora, questa volta il suo sorriso è vero e sincero.
È la prima volta, forse, che lo vedo sereno.
E poi tutto svanisce e in un lampo mi ritrovo di nuovo seduto sul pavimento al centro della sala di vetro, nel castello volante. Mi alzo di scatto e mi dirigo deciso ad una delle porte agli angoli della sala, sicuro di voler andare fino in fondo.
Al di là della porta c’è una scala a chiocciola strettissima e ripida, che gira su se stessa all’interno della torre e che sale verso l’alto. Ovviamente, anche le pareti della torre e questa scala sono di vetro e quindi totalmente trasparenti. A pochi centimetri da me, mentre salgo scalino per scalino, posso vedere il panorama oltre le pareti, e la bellezza della galassia oltre il vetro mi lascia nuovamente senza fiato.
Dopo diversi minuti e almeno un migliaio di scalini, ho il fiato corto, ma finalmente sono arrivato in cima. La scala a chiocciola termina molti metri più in alto, di fronte ad una porta anch’essa in vetro, oltre la quale si trova una terrazza circolare che circonda la parte più alta della torre. Qui fuori la vista è semplicemente spettacolare.
Da così in alto posso vedere tutto il castello, anche se ci sono due torri che superano il altezza quella in cui mi trovo. Il castello visto dall’alto sembra ancora più grande, oltre il tetto in vetro riesco a vedere i due piani con le grandi sale da cui sono arrivato, e, ai lati del castello quattro altissime torri, in una delle quali mi trovo io. Un’altra torre, la quinta, si dirama a partire da una delle altre torri laterali al castello, come un ramo che si separa dal tronco principale. Alzando lo sguardo verso l’alto, osservo lo spazio e le costellazioni dal punto più alto che ho potuto raggiungere.
Ma una voce mi richiama al presente.
“Light, il tuo tempo in questo luogo è quasi terminato. Appena supererai la terza prova, potrai accedere al Mu”
Il guardiano è di fronte a me, sulla terrazza della torre.
“Cosa farò nel Mu?” chiedo.
“Dovrai cercare di redimerti, ma non ci saranno prove da affrontare. Avrai solo, molto, molto tempo per pensare.”
“E se non riuscissi a redimermi?” all’improvviso questo dubbio mi passa per la testa.
“In quel caso, finirai nel mondo degli Shinigami, dove le anime impure continuano ad uccidere esseri umani per prolungare la loro esistenza. Anche se, come dicesti tu stesso a Ryuk tanto tempo fa, nemmeno la loro esistenza è senza significato”
Resto a fissarlo sconcertato. Quindi, se non riuscissi a purificare completamente la mia anima nel Mu, diventerò uno Shinigami?
Ma se così fosse, significa che tutti gli Shinigami che ho incontrato nella mia vita, un tempo erano umani. Umani che non hanno espiato le loro colpe.
Il custode annuisce, rispondendo al mio pensiero. Avevo dimenticato che sembra sapere tutto di me, persino quello che mi passa per la testa. Dev’essere stancante conoscere e guidare così tante anime verso il Mu ogni giorno.
“In cosa consiste la terza prova?” chiedo.
“Dovrai assumerti la responsabilità delle tue azioni e affrontare il rimorso, tuttavia questa volta il perdono non c’entra nulla. Se la supererai, allora accederai al Mu. Spero tanto che ti salverai, Light. Nonostante nel vedere la tua anima percepisco tutte le morti che hai causato, questo luogo così particolare mi dà l’impressione che ci sia ancora qualcosa di puro e insondato dentro di te”
Sorrido amaramente. “Lo spero tanto” dico.
Chiudo gli occhi e dico mentalmente addio a questo luogo che a quanto pare riflette nient’altro che me stesso. Non penso che ritornerò mai più qui.
Quando li riapro, mi trovo in un luogo totalmente diverso. E appena vedo quello che ho davanti, resto senza fiato. Perché mi trovo in una stanza a me sconosciuta, anche se forse mi è capitato di vedere una cosa simile in qualche film di guerra.
La stanza che mi circonda è piccola, circa venti metri quadrati, senza nessuna finestra. Io mi trovo al lato sud, di fronte a me si trova un piccolo tavolo, al di sopra del quale si trova una pistola beretta 92-FS. La riconosco immediatamente perché anche io, in quanto poliziotto, ne avevo una identica in dotazione. Ovviamente, non mi è mai capitato di usarla contro una persona. Mi vengono i brividi al pensiero di come dovrò usarla per superare la prova.
In linea d’aria a circa sette metri dal tavolo vi è una semplice sedia in legno abbastanza datata, e appena alzo lo sguardo mi si accappona la pelle, perché il muro retrostante la sedia è pieno di schizzi di sangue, come ad indicare che le persone sedute su quella sedia venivano giustiziate proprio in questa stanza.
Appena capisco di trovarmi in una camera di esecuzione retrocedo di un passo, ritrovandomi sulle spalle al muro. Che diavolo significa tutto ciò?
Io non ho mai ucciso nessuno. Almeno non così.
Mentre sto cercando di capire come superare questa prova assurda, e soprattutto se riuscirò a superarla, una porta in fondo alla stanza, sul lato alla mia destra, si apre. Non avevo notato prima la porta semplicemente perché è completamente mimetizzata con le pareti, che sono sicuro siano insonorizzate.
E per poco non cado per terra quando mi accorgo chi entra da quella porta.
Non mi guarda di striscio, anzi sembra che non si sia nemmeno accorto di me, ma io non potrei mai, per nessun motivo, dimenticarmi di lui. È esattamente come lo ricordo l’ultima volta che l’ho visto: le mani in tasca, i jeans blu scuro larghi una taglia in più del necessario, ai piedi le scarpe da ginnastica slacciate e consumate, la maglia bianca che gli ricade sui fianchi.
L si accomoda sulla sedia macchiata del sangue, nella sua solita posizione con le gambe raccolte al torace e i piedi sulla sedia, un pollice tra le labbra, e finalmente mi guarda.
Il suoi occhi grandi sono neri e indecifrabili come la notte. I suoi capelli neri e lucidi come il petrolio gli ricadono sulla fronte e coprono gran parte del suo viso.
“Light-kun” sussurra in saluto e mi sorride.
E finalmente capisco quello che devo fare. Il guardiano mi ha detto che questa prova mi avrebbe portato ad assumermi la mia responsabilità e ad affrontare i miei rimorsi.
E chi se non L poteva incarnare tutto ciò.
Respiro a pieni polmoni e afferro la pistola tra le mani. Anche se è stato Rem a scrivere il suo nome sul Death Note, sono stato io ad averlo incastrato e aver spinto Rem ad ucciderlo. E ora devo ucciderlo di nuovo, per rivivere il mio più grande rimorso in eterno.
Eppure mentre afferro la pistola mi tremano le mani, la vista è offuscata.
L è seduto immobile di fronte a me, dietro di lui al muro pieno di scie di sangue presto si aggiungerà il suo. Mi guarda con uno sguardo di sfida, un accenno di sorriso sul suo pallido viso.
Punto la pistola verso il suo volto, ma le lacrime che mi riempiono gli occhi non mi permettono di metterlo completamente a fuoco. Tuttavia, la distanza tra noi è talmente ridotta che anche un cieco centrerebbe l’obiettivo.
L’ultima immagine che vedo sono i suoi occhi neri, e oltre ad essi vedo l’unica persona al mondo con cui abbia mai avuto sintonia.
Sento le lacrime bagnarmi le guance e incessanti scendere lungo il mio collo.
Perdonami, amico mio.
E poi premo il grilletto, e sento il rumore dello sparo e del getto di sangue che segue riecheggiare dentro di me.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5- L ***


Sento il marmo freddo del pavimento sotto di me, e da sdraiato mi metto lentamente seduto e mi guardo intorno. Alla mia sinistra vedo il tavolo con sopra di esso quattro computer, spenti e silenziosi, di fronte a me a pochi centimetri c’è una sedia da scrivania con le ruote, nell’angolo in fondo a sinistra scorgo le scale che portano al piano di sopra, mentre alla mia destra vedo la grande sala del quartier generale.
Mi sollevo lentamente in piedi, incerto. Se quello che ha detto il guardiano è esatto, ora mi trovo nel Mu, che ha lo stesso aspetto del mondo reale, tranne per il fatto che è completamente deserto. Ad eccezione forse delle anime che una persona ha conosciuto quando era ancora in vita, e che quindi qui possono riconoscerla.
Se mi trovo qui è perché ogni anima si risveglia nel luogo dove è morta, ma ciò non significa che non mi possa spostare a mio piacimento.
Decido di fare un giro di perlustrazione, e mi avvio verso l’appartamento al piano di sopra, dove nel modo reale si trovava la suite di Misa Amane, il secondo Kira, libera di vivere la sua vita privata e di lavorare ma allo stesso tempo controllata notte e giorno da videocamere ed infrarossi di sorveglianza.
L’appartamento è identico a come lo ricordo, i mobili in legno e i colori pastello dei due divani, la cucina intatta e di fronte a me vedo il corridoio per accedere alle camere. Proseguo al piano di sopra, dove alloggiavamo io e Watari, e, mentre era ammanettato a me, anche Light. Anche qui sembra tutto perfettamente integro e immutato, come se fosse rimasto disabitato per anni.
Dopo essere salito sul tetto dell’edificio mi ritrovo sul terrazzo più alto, al trentatreesimo piano, dove si trova ancora l’antenna parabolica e il magazzino all’interno del quale si trova l’elicottero. Intorno a me Tokyo è immobile e silenziosa, totalmente irreale, illuminata da un tenue sole oltre le nubi. La sensazione che provo è quella di essere l’ultima persona rimasta sulla faccia della Terra, dopo una rapida estinzione di massa.
Mi trovo al bordo della ringhiera del terrazzo, e sporgendomi verso l’esterno vedo il quartier generale in tutta la sua altezza. Senza pensare troppo a quello che sto facendo decido di scavalcare il parapetto, e, sorpreso di non aver perso la mia agilità, mi ritrovo oltre la recinzione, i miei piedi a pochi centimetri dallo strapiombo.
Anche se dovessi cadere, o buttarmi di sotto, non morirei. Forse in questo nulla eterno non esiste nemmeno la gravità. Ma decido che non è il momento adatto per fare esperimenti, e, con un salto, ritorno al sicuro al di là della ringhiera.
Dopo essere tornato al piano di sotto, nella sala computer dove mi sono risvegliato, ho un sussulto nel sentire dei rumori provenire dal corridoio.
Rimango immobile per qualche secondo, ma la sensazione che ci sia qualcun altro oltre a me trova nuovo fondamento nel fatto che i rumori non cessano, anzi si amplificano. Quello che sembrava lo spostamento di oggetti ora appare come il suono di passi che si avvicinano nella mia direzione.
Mentre sto decidendo se nascondermi oppure attendere qui impalato, una figura compare nel mio campo visivo, e il mio cuore sobbalza.
“Watari?”
“Lawliet!”
Ci guardiamo per quelli che paiono minuti, e nessuno dei due sembra avere nulla da dire. Watari ha lo stesso aspetto dell’ultima volta che l’ho visto, anche se sembra passata un’eternità. Indossa lo stesso completo scuro del suo ultimo giorno, i baffi bianchi e la sua espressione commossa non sono alterati.
“Non avrei mai pensato di rivederti, figlio mio, ma se esiste un Dio in tutto questo, allora con questo regalo mi ha reso felice”
Mi sorride, come se non fosse successo nulla, come se fossimo ancora vivi e mi rivedesse dopo uno dei miei lunghi viaggi in giro per il mondo, a risolvere casi insolvibili per il resto del pianeta.
“Anche io sono felice di vederti, Watari” sussurro.
Anche se preferirei non essere qui.
Probabilmente, essendo deceduto nella stanza accanto alla mia, e pochi minuti di tempo prima di me, anche lui si è risvegliato qui, e non da molto direi.
“Non sai quanto mi dispiace, Lawliet. Avrei tanto voluto un destino diverso per te”
Non sono abituato ad essere chiamato con il mio vero nome, e anche se ora non ho più motivo di nascondere alcuna informazione personale, mi fa comunque uno strano effetto sentirlo pronunciare, come se avessi convissuto con due diverse identità fino ad ora.
In un certo senso, è così. Ma ora non ha più importanza.
Niente ha più importanza.
Dovrei essere qui per trovare la pace, per lasciarmi alle spalle la mia vita e il mio passato, per trascorrere l’eternità nel riposo e nell’armonia. Eppure, nonostante abbia superato il Rito di Espiazione e la mia anima abbia ottenuto la cosiddetta redenzione eterna, ho la sensazione che la pace di cui parlava il guardiano sia ancora molto lontana.
Mi sento perso, vuoto.
Ad essere sincero, non credo che la mia esistenza qui abbia alcun significato.
“Anche io l’avrei sperato, Watari”.
“Ma perché lo ha fatto? Perché lo Shinigami avrebbe dovuto ucciderci? Pensavo fosse neutrale” mi chiede afflitto.
“Evidentemente non lo era, ma è inutile arrovellarsi il cervello ora.”
Nel dire questo, mi volto e lentamente mi incammino fuori dalla sala in cui ci troviamo, imbocco la porta d’uscita nella scala antiincendio interna ed inizio a scendere le scale.
“Dove stai andando?” sento la voce perplessa di Watari pochi metri dietro di me.
“Fuori” dico.
E sento i suoi passi che, dopo alcuni secondi di titubanza, iniziano a seguirmi.
Dopo essere usciti alla luce del sole, noto che la strada annessa al vecchio quartier generale è completamente deserta, nonostante nel mondo reale si trovasse oltre la svolta della via principale di uno quartieri più popolati e centrali di Tokyo.
Non incontriamo anima viva oltre a noi, e dopo quelle che paiono ore di cammino, decidiamo di retrocedere e di ritornare al quartier generale.
Tutto in città è immobile ed intatto: i manifesti pubblicitari, i grandi schermi appesi come quadri alle facciate dei grattacieli, i negozi illuminati ma completamente deserti, i semafori e le automobili parcheggiate ad ogni angolo. Ma le strade, le vie pedonali e gli appartamenti paiono abbandonati.
E poi un’intuizione mi attraversa il cervello: forse questo posto non è affatto deserto come sembra, anzi, visto l’ultimo censimento della popolazione, le persone decedute in questa città saranno probabilmente milioni. Il fatto che io non le veda non significa affatto che non ci siano. Infatti, dato che in teoria nel Mu posso vedere solo le anime che ho conosciuto durante la mia esistenza da umano, e viceversa loro possono vedere me, sono quasi certo del fatto che in questo momento la città mi pare deserta semplicemente perché nessuna di quelle anime si trova qui.
Se la mia supposizione è esatta, allora vicino a me, in ogni strada e casa che mi circonda, ci sarebbero milioni, forse miliardi, di anime che vagano sole o in compagnia dei loro cari, in una landa che sembra desolata ad ognuna di loro, ma che in realtà è una babele caotica.
La mia ipotesi trova fondamento qualche tempo dopo, quando durante una delle nostre passeggiate, Watari si arresta di colpo, e con il dito mi indica un punto lontano, di fronte a noi.
“Lo vedi anche tu, Lawliet?” mi chiede con una voce quasi stridula.
Io seguo la direzione da lui indicata e mi focalizzo su quel punto. Ci troviamo nel parco pubblico di Ueno, in vicinanza del famoso Zoo, lungo uno dei tipici viali alberati che lo caratterizzano. A circa un chilometro da noi, in linea d’aria si trova il famoso santuario Toshogu. E di fronte ad esso è appena visibile ad occhio nudo una figura in movimento, sicuramente un uomo o una donna, che pare dirigersi lentamente verso di noi.
Mi fermo di colpo. Sgrano gli occhi e mi porto d’abitudine un dito alle labbra.
Se entrambi vediamo quella persona, significa che entrambi l’abbiamo conosciuta durante la nostra vita passata, e soprattutto significa che quasi sicuramente, tra pochi minuti anche quell’anima si accorgerà di noi.
“Che facciamo?” mi chiede Watari preoccupato. “Chi può essere?”
Non ho la risposta alla seconda domanda, ma per averla, la risposta alla prima domanda è scontata: dobbiamo continuare a camminare come se niente fosse finché non riusciremo a dare un nome e un volto alla figura in lontananza.
“Andiamo avanti, Watari. Dopotutto, abbiamo conosciuto molte persone nella nostra vita e la probabilità che qualcuna di loro sia morta non è poi così remota.”
La mia voce calma lo tranquillizza, e riprendiamo a camminare. Anche se nulla trapela dal mio comportamento o dalla mia voce, percepisco un’inquietudine crescente mentre mi avvicino alla figura misteriosa.
Egli, o ella, non sembra essersi accorta di noi: si dirige verso di noi, ma sembra guardarsi intorno, il suo sguardo pare voltarsi in ogni direzione, come se stesse cercando qualcosa, o qualcuno, o semplicemente non sapesse dove andare.
Tuttavia, man mano ci avviciniamo alla figura ho la sensazione di commettere un errore, e percepisco il forte impulso di allontanarmi.
Ho sempre avuto un istinto formidabile, che, più di qualsiasi prova scientifica, tangibile o dimostrabile, mi ha sempre condotto alla giusta soluzione. È grazie al mio istinto se ho risolto la maggior parte dei casi giudiziari che mi venivano commissionati, ed in questo momento il mio istinto sta cercando di dirmi che dovremmo allontanarci anziché avvicinarci a quell’anima solitaria.
Osservo Watari con la coda dell’occhio e noto che anche lui ha rallentato il passo, come se stesse avvertendo la mia stessa sensazione di timore.
Ma non faccio a tempo ad esprimere i miei dubbi a Watari perché nel momento stesso in cui sto per aprire bocca noto che la misteriosa figura ora ci sta guardando e, dopo un attimo di sbigottimento, si dirige a grandi passi verso di noi. Quando è a ormai poco più di un centinaio di metri da noi, non ci sono più dubbi sulla sua identità.
Io e Watari lo riconosciamo nello stesso instante, ma è lui a pronunciare il suo nome con un urlo. Io apro la bocca, ma all’improvviso ho perso la voce.
“Mello!”
Mello sposta il suo sguardo torvo da Watari a me. “Watari, L.”
Poi sorride, sprezzante. “Ci si rivede” esclama, sarcastico.
Lo osservo attentamente: è vestito completamente di nero, indossa una giacca di pelle attillata decorata sulle spalle con piume nere, i pantaloni attillati lucidi anch’essi neri, una cintura con un simbolo religioso e gli stivali di pelle dello stesso colore di tutto il resto degli abiti. Inoltre, noto che una brutta cicatrice gli divide il volto quasi a metà, all’altezza dell’occhio sinistro: osservandola sembra a tutti gli effetti un esito cicatriziale di una brutta ustione, in cui la pelle in fase di guarigione resta di una tonalità più scura e rosata rispetto alla carnagione naturale del resto del volto.
È più o meno come lo ricordo durante una delle ultime visite alla Wammy’s House, porta lo stesso taglio di capelli, un caschetto biondo, ad eccezione dei lineamenti del volto che paiono più marcati e adulti rispetto all’ultima volta che lo vidi.
Questo mi fa supporre che sia passato qualche anno dalla mia morte, se ora lui è qui.
Lui mi osserva ma dai suoi occhi celesti non trapela nessuna emozione.
È Watari il primo di noi tre a ritrovare la voce.
“Ragazzo mio, anche tu! Ma che ti è successo?” esclama avvilito.
Mello fa spallucce, apparentemente disinteressato.
“Kira, più o meno” dice guardando un punto sul terreno.
A quel nome ho un sussulto e ritrovo immediatamente la voce.
“Mello, devo chiedertelo. In che anno sei morto?” chiedo guardandolo dritto negli occhi.
Lui non distoglie lo sguardo stavolta. “Sono morto il 26 Gennaio 2013”
Trattengo il fiato a quelle parole. Io sono morto nel 2007, di conseguenza nel mondo reale sono passati sei anni. È davvero assurdo come scorre il tempo nel Mu, ero quasi convinto di aver superato il Rito di Espiazione poche settimane fa.
“Ma allora.. quel ragazzo.. è ancora vivo” Watari commenta in un sussurro, tanto che pare stia parlando tra sé e sé.
Sta parlando di Light, senza dubbio.
Mello sposta il suo sguardo su di lui, un barlume di interesse negli occhi.
“Se ti riferisci a Light Yagami, Kira, il secondo L, si, lo è. Ma se Near riuscirà a trarre dalla mia morte almeno un indizio, o una sua mossa errata, allora forse riuscirà finalmente a sconfiggerlo e ad arrestarlo.”
“Near..” Watari a quel nome solleva lo sguardo verso Mello. “E se..morirà anche lui? È sempre stato più ingenuo di voi due, meno impulsivo, io… ho paura che non ce la farà”
Nel pronunciare quelle parole, credo sia sul punto delle lacrime. Watari amava noi ragazzi della Wammy’s House più della sua stessa vita, e in generale ogni allievo o ospite dei suoi orfanotrofi in giro per il mondo. Sapere che prima io e ora Mello non siamo più in vita, e che forse a Near toccherà la stessa sorte lo sta distruggendo.
“Io credo che ce la farà, Watari.” Sussurra poi Mello, con una voce malinconica ma sincera.
Lo guardo incuriosito, con un dito poggiato alle labbra. Questa conversazione è la prima cosa per cui provo vero interesse da quando mi sono risvegliato nel Mu.
“Come fai a dirlo?” chiede Watari preoccupato.
Mello fa spallucce “Kira è fin troppo sicuro di sé e del suo piano infallibile per ucciderci tutti, ha sempre sottovalutato Near e non si aspetta che lui possa sconfiggerlo. In effetti, Near da solo non sarebbe mai riuscito a farcela, e a mio parere non è all’altezza di Light. Ma con il mio aiuto proverà la sua colpevolezza di fronte alla sua stessa squadra. L, tu hai sempre saputo che io e Near saremmo stati alla tua altezza solo unendo le forze. E, anche se così non è stato, alla fine il merito della vittoria sarà di entrambi”
Ascolto il suo discorso senza nemmeno accorgermi di star trattenendo il fiato. Tutto quello che ha detto Mello è vero: non avevo potuto scegliere chi di loro due potesse succedermi come L perché nessuno dei due, e allo stesso tempo entrambi, avevano le caratteristiche giuste per prendere il mio posto. Infatti, l’uno di loro compensava i difetti dell’altro, e insieme avrebbero eguagliato il mio livello.
“Mello, ma se dici che Near ha preso il posto di L, perché hai parlato anche di Light come secondo L?” chiede Watari incuriosito.
Anche se dentro di me conosco già la risposta, lascio che sia Mello a parlare.
Mello sospira “Vedi Watari, dopo che sia tu che L siete deceduti, Light, che lavorava nella vostra stessa squadra e di cui nessuno a parte voi sospettava nulla, ha preso il posto di L senza che nessuno alla Wammy’s House e nel mondo in generale sospettasse nulla. Solo il messaggio autocontrollato e programmato da un tuo computer personale ci ha informato della morte di entrambi. Noi soli sapevamo la verità del falso L. La cosa che mi lascia più perplesso è che in questi sei anni Light Yagami è riuscito ad impersonare L, Coin e Deneuve risolvendo i casi che la polizia di tutto il mondo, ignara, gli commissionava, continuando ad essere in realtà Kira e dando la caccia a sé stesso insieme alla sua squadra. Una persona comune non avrebbe mai potuto fare tutto ciò, e questo mi fa pensare che lui, più di me e Near, fosse pari a te, L, anche se di certo non ne era degno”
Oh, lui è sicuramente pari a me.
Era uno dei motivi per cui lo odiavo.
Era all’altezza di L senza la mia stranezza, senza il bisogno di mangiare dolci ad ogni ora, senza aver bisogno di sedersi in posizioni assurde, senza le mie occhiaie o la mia trascuratezza. Se la genialità da me ha dovuto esigere un prezzo, a lui è stata donata gratuitamente, senza alterarne la perfezione.
Era tanto simile a me in molti aspetti, tanto opposto in altri, forse in senso migliore.
Era uno dei motivi per cui lo amavo, anche.
Ad un certo punto, Mello rompe il silenzio che si è creato.
“Devo andare” sussurra. “Devo cercare Matt”
A quelle parole Watari si porta una mano al petto, seguito da un’esclamazione di sbigottimento. “Anche Matt! Non è possibile!”
Mello annuisce, guardandosi la punta delle scarpe.
Ed è in quel momento che mi accorgo di un dettaglio che prima mi era sfuggito: dietro la figura di Mello, all’altezza delle spalle, c’è un’ombra nera opalescente, che sembra muoversi ad ogni suo movimento. Come se sulla sua schiena ci fosse uno dei buchi neri che si studiano in astronomia. Porta questa ombra simil circolare senza una forma o un confine preciso dietro di sé, come uno zaino, e mi domando cosa sia, dato che né io né Watari abbiamo una caratteristica simile, nel Mu.
E mentre osservo quell’ombra l’istinto di allontanarmi da lui diventa ancora più intenso.
E poi ricordo di colpo le parole del guardiano, prima del Rito di Espiazione.
“Alcune anime, definite Inetti, vengono evitate ed isolate dalle anime dei Redenti, ossia quelli che hanno purificato completamente la loro anima, in quanto esse sono portatrici di peccato. Le anime Inette erano persone che, nonostante abbiano superato il Rito di Espiazione, devono completare il processo di purificazione nel Mu.”
Ricordo anche che mi disse che avrei riconosciuto quelle anime in mezzo alle anime purificate, e di colpo capisco cosa significhi quell’ombra.
Probabilmente Mello in vita sua ha compiuto delle azioni non proprio oneste e legittime, ed ora ha un’eternità a disposizione per redimersi completamente. Chissà se quell’ombra è visibile anche a lui oppure solamente a noi. Forse per raggiungere il suo scopo ha dovuto ricorrere a mezzi estremi. Ricordo il suo lato trasgressivo e ribelle sin dall’adolescenza, in effetti, mi stupirebbe se fosse diversamente.
Credo che Watari sia giunto più o meno alla mia stessa conclusione perché con la coda dell’occhio vedo che fissa il punto alle spalle di Mello in cui si trova l’ombra nera, e pare irrigidirsi lentamente.
Mello fa spallucce, come se sapesse quello che entrambi stiamo pensando.
“Troverò la retta via” sussurra. E poi, come se si ricordasse di colpo di qualcosa che ha dimenticato, sussulta. “Ma prima devo trovare Matt”
Detto questo, si volta ed riprende a camminare nella direzione opposta alla nostra. Dopo qualche metro si volta verso di noi e ci guarda con un mezzo sorriso, questa volta sincero.
“Se non ci rivedremo più, addio.”
Io e Watari sorridiamo in risposta, nessuno dei due prova a fermarlo, coscienti del fatto che non ha bisogno di noi per trovare la pace. Forse Matt lo aiuterà, o forse si aiuteranno a vicenda.
Lentamente, ognuno assorto nei nostri pensieri, ci dirigiamo di ritorno al quartier generale, ormai diventato una sorta di casa e di ancora di salvezza in questo nulla.
 
Impossibile dire quante settimane, mesi, o anni siano passati da quando io e Watari ci siamo ritrovati qui, dato che non esiste un alternarsi di giorno e notte, ma solo uno scorrere lento delle nuvole nel cielo.
A volte il sole è coperto, a volte splende solitario, ma non vi è nessun indice dello scorrere del tempo: non c’è alba né tramonto, questo sole irreale non si sposta mai, non scalda, non crea nessuna ombra dietro ai palazzi o alle persone.
Una cosa è certa, se non avessi incontrato Watari, probabilmente sarei impazzito nel restare in questo ambiente immobile e mutacico in totale solitudine.
Quando mi trovo da solo infatti, mi capita di avvertire una sensazione di angoscia e di vuoto, come se dentro di me ci fosse la convinzione di non riuscire a risanare completamente le mie cicatrici.
Come se sapessi già che non troverò una cura, senza nemmeno conoscere la malattia.
Come se mi mancasse qualcosa.
Anche se Watari non ha mai sollevato l’argomento, so che ha capito che qualcosa non va. Non che ci sia mai stato qualcosa di giusto o di normale in me.
A volte, quando sono assorto nei miei pensieri o quando all’improvviso mi allontano senza accennarne il motivo, percepisco il suo sguardo su di me. E quando mi volto verso di lui, lui volge la vista altrove e finge indifferenza.
Mi conosce molto bene e ha sempre avuto la capacità di carpire le mie emozioni, che a stento trapelavano dalla mia espressione.
Un giorno, in uno dei miei tanti momenti di mutismo, mentre sono mentalmente perso nei miei grattacapi, la sua voce rompe il silenzio che pareva tangibile.
“Lo stai aspettando, non è vero?”
Fingere di non capire o cambiare argomento questa volta non funzionerà, e non credo che abbia nemmeno senso. Quando gli rispondo, dopo qualche secondo di troppo, continuo a fissare la finestra di fronte a me.
“Si”

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Capitolo 6
*** Capitolo 6- Light ***


Sento un dolore pungente alle scapole, come se qualcosa mi urtasse la schiena, e mi sollevo leggermente sui gomiti mettendomi seduto. In effetti sono semisdraiato sui gradini di una vecchia scala in cemento ricoperta di polvere, in un magazzino in rovina a cui manca una parte del tetto. Alla mia destra si trova una finestra, ma i vetri sono sporchi a tal punto da non riuscire a vederci attraverso, e da cui a malapena passa la luce.
È il luogo in cui sono morto, anche se in quel momento non avevo prestato granché attenzione all’arredamento.
Mi sollevo in piedi afferrando con la mano sinistra la vecchia ringhiera in ferro a lato della scala e nel farlo mi rendo conto che non solo gran parte della mano, ma anche l’avambraccio è quasi totalmente sporco di sangue. Il mio orologio è ancora al polso, anche se decisamente malridotto: il vetro del quadrante è rotto, le lancette sono ferme alle 14:50, e la parte sottostante in cui nascondevo un foglietto di pochi centimetri strappato dal Death Note è ovviamente mancante. Quando ho provato a scrivere il nome di Near, Nate River, Matsuda o qualcun altro dei poliziotti mi ha sparato proprio all’altezza del polso sinistro, e ora in quel punto si trova un foro di proiettile di qualche millimetro.
E chissà, forse incastrato nel mio osso, o nel muscolo, c’è ancora il proiettile, ma sono troppo nauseato per indagare oltre.
Osservando la mia figura mi rendo conto che, nonostante sia quasi totalmente ricoperto di sangue dal petto alle ginocchia, non sento assolutamente nessun dolore né sensazioni fisiche di alcun tipo.
Mi dirigo lentamente verso l’uscita del magazzino, passando tra tubi in ferro arrugginiti e cisterne di benzina abbandonate, e finalmente mi ritrovo all’aria aperta.
Ogni cosa è identica al mondo reale: la strada in cui mi trovo, i depositi, le fabbriche e i container tipici del porto industriale di Tokyo, la rete in ferro alla mia destra, alta qualche metro, che separa il percorso asfaltato dalla baia.
Il tutto illuminato da un sole quasi accecante.
Per un attimo resto immobile e sconcertato ad osservare quello che mi circonda, poi ricordo a me stesso che probabilmente, dopo aver vissuto quasi metà della mia vita posseduto da uno Shinigami, non dovrebbe sorprendermi il fatto che esista un aldilà e che io ci sia dentro in questo momento.
La strada su cui mi dirigo, se davvero ogni cosa qui combacia con il mondo reale, dovrebbe portarmi verso il centro della città.
E percorrendola mi rendo conto che l’unica vera differenza tra questo ambiente surreale e la Tokyo in cui sono cresciuto è la desolazione: non vedo anima viva, e sorrido al sottile gioco di parole che ha scelto la mia mente.
È come mi trovassi in uno scenario post-apocalittico, e io fossi l’ultimo essere umano rimasto sul pianeta. Ma so che non è così.
Dopo parecchio tempo passato a camminare, a guardarmi intorno, a ficcanasare all’interno di locali e negozi in cerca di un segno di vita, mi ritrovo nel bel mezzo del più grande incrocio pedonale di Tokyo, a Shibuya.
Normalmente sarebbe impossibile vedere questo luogo deserto, nemmeno durante le ore notturne. In ogni momento della giornata, le luci dei display luminosi e dei teleschermi illuminavano il quartiere, i taxi erano sempre lì, ad accompagnare a casa ragazzi ubriachi o turisti che si erano persi, o a scortare i lavoratori più mattinieri negli uffici, e i passanti camminavano avanti senza guardarsi l’un l’altro, e senza andare in realtà da nessuna parte.
Ora è tutto immobile, spento, muto, e deserto.
Ricordo che il guardiano, durante il Rito di Espiazione, mi disse che avrei potuto vedere solo le anime che avevo conosciuto durante la mia vita, e che loro avrebbero potuto vedermi, ma che, a causa dell’impurità della mia anima, mi avrebbero evitato, per non rischiare di essere contaminati dal mio peccato a loro volta.
È quindi chiaro che non vedo nessuno poiché, in questo momento, nessuna di quelle anime si trova qui. E, se anche dovessi incontrarne qualcuna, probabilmente nel vedermi scapperebbe a gambe levate come se fossi un appestato.
Che totale assurdità.
Tuttavia, non vedo come chiunque potrebbe carpire la natura della mia anima semplicemente guardandomi.
Ma ho la risposta a questa domanda non appena, dopo qualche chilometro, noto per sbaglio il mio riflesso passando davanti alla vetrina di un negozio.
Mi arresto all’istante. E mi accorgo di aver cacciato un urlo.
Nello specchio che mi offre la vetrina vedo un me stesso identico all’originale, intrappolato nell’aspetto che avevo al momento della mia morte. Ma, dietro di me, si staglia un’enorme nuvola nera di diversi metri che si muove lentamente come se stesse bruciando.
Mi volto di scatto, ma non vedo assolutamente nulla. Dietro di me solo gli hotel e i grattacieli che mi circondano.
Torno a guardare il mio riflesso. L’ombra nera è ancora lì, dietro di me.
E capisco che, anche se io non mi accorgo di essa e non posso vederla alle mie spalle, quella specie di ammasso di nubi nere dietro di me c’è, e probabilmente ogni altra anima in questo aldilà è in grado di vederla.
Inizio a correre di scatto, nell’inutile speranza che distanziando l’ombra, essa non mi seguirà.
Corro a perdifiato nel bel mezzo della città per non so quanti chilometri, fino a quando non sento bruciare l’aria nei polmoni, con le gambe che sembrano pesantissime e la testa sempre più leggera. Mi fermo e guardandomi intorno, cerco uno specchio o una possibile fonte di riflesso.
Dall’altro lato della strada, alla mia destra, noto un edificio imponente, interamente ricoperto di vetro scuro, e mi dirigo verso di esso.
Constato dopo qualche secondo che le mie vane speranze non sono state ripagate: l’ombra gigante è ancora lì, alle mie spalle, che ondeggia in tutte le direzioni come a deridermi. E mi pare di sentirne il peso sulle spalle, come se mi schiacciasse.
Non ha una forma particolare, è alta circa tre metri e mezzo e larga altrettanti, se non di più, e si muove in modo illogico e casuale, come una fiamma nera che brucia ma non si spegne mai.
Questa è l’eredità di Kira.
So che questa nebulosa nera è il pegno che porterò in eterno per le morti che ho causato, e per il peso di tutte le anime immonde degli assassini che ho eliminato semplicemente con una penna e un quaderno.
Tuttavia, non è abbastanza per farmi provare il minimo rimorso riguardo a quello che ho fatto. Quelle persone erano malvagie, e io ho liberato il mondo dalle loro azioni: chissà, forse, tirando le somme, ho salvato più vite di quante non ne abbia soppresse.
Se l’ombra è il prezzo pagare, non posso che accettarlo.
Ritorno sui miei passi, cercando di notare alle mie spalle un segno o un movimento qualsiasi dell’ombra, ma niente mi farebbe pensare che sia lì se non lo sapessi con certezza.
Procedo immerso nei miei pensieri di qualche passo e poi, colto da una sensazione di panico improvviso, mi volto. E il dubbio che mi aveva attraversato la mente diventa in un attimo certezza.
Non mi capacito del fatto di non essermene accorto prima, ma riconosco immediatamente l’edificio a cui mi sono avvicinato diversi minuti fa, e da cui mi stavo allontanando senza rendermene conto.
Il vecchio quartier generale è a pochi metri da me, e alzando lo sguardo riconosco l’architettura dell’edificio e di tutti i suoi piani, interamente rivestiti in vetro antiproiettile (ne sono sicuro), che L aveva fatto costruire appositamente per indagare sul caso Kira con la sua squadra.
A pochi metri da me riconosco il sottopassaggio che porta al parcheggio interrato.
Sento una stretta al cuore.
Dopo la morte di L e di Watari, nessuno della task force giapponese se la sentiva di continuare ad utilizzare questo quartier generale, dato che apparteneva ad L; per questo abbiamo deciso di continuare le indagini altrove, sommato al fatto che entrambi erano morti in questo luogo, e che a quel punto aveva più l’atmosfera di una tomba piuttosto che di un centro di polizia.
Sono morti qui.
All’improvviso questo pensiero mi colpisce come un fulmine.
E se ogni anima si risveglia nel luogo in cui è morta, allora..
Scatto verso le porte d’ingresso e inizio a correre su per le scale saltando tre gradini alla volta, senza permettermi minimamente di pensare al motivo per cui lo sto facendo.
Non mi rendo conto di star trattenendo il fiato fino a quando non mi ritrovo di fronte alla porta scorrevole circolare della sala computer.
Una voce nella mia testa mi suggerisce che sono ancora a tempo per tornare indietro e scappare il più lontano possibile, ma dentro di me so che non posso, e non voglio, per niente al mondo, rinunciare a questo momento.
Percepisco come un filo invisibile, un magnete, che mi attira oltre questa porta.
E l’attrazione si fa più forte man mano che mi avvicino.
La porta si apre, e dopo quasi cinque anni rivedo questa stanza. Il pavimento in linoleum grigio, i computer allineati sulla scrivania, il grande schermo sopra di essi che mi osserva, nero e muto: è come una fotografia, tutto è identico all’ultima volta che sono stato qui.
Quasi non mi accorgo dell’ombra che sbuca dal corridoio a sinistra dei computer.
Il suo sguardo si ferma su di me per una decina di secondi, per poi sollevarsi sopra la mia testa e alle mie spalle, inchiodato e spaventato dalla nube nera che segue ogni mio spostamento.
“Dio mio..” sussurra Watari con una voce strozzata.
Ha gli occhi sgranati e gli tremano evidentemente le mani, tra cui regge un libro che lascia cadere a terra.
È chiaramente terrorizzato.
Terrorizzato da me.
Come se da morti potrebbe succederci ancora qualcosa. Bè, non si sa mai.
È esattamente come lo ricordo, con i baffi bianchi, gli occhiali, e il suo classico completo nero, che lo fa sembrare un maggiordomo, sminuendo quello che so essere un inventore, nonché un uomo dalla profonda umanità e generosità.
Anche lui, come mio padre, è morto invano.
Dopo quelli che sembrano minuti di paralisi e terrore, finalmente l’uomo sembra ritrovare la parola.
“Non dovresti essere qui”
Probabilmente mi odia, anche se un’anima pura non dovrebbe essere in grado di odiare, dopo avere ottenuto la redenzione.
Immagino però che trattandosi di me possa fare un’eccezione. E lo capisco, davvero.
Gli ho portato via l’unica persona al mondo che amava come un figlio.
Serro le labbra e cerco di non dargli a vedere quanto in realtà sia scosso da questo incontro. Ma ormai sono qui, e decido di andare dritto al punto.
Lui dov’è?” chiedo.
“Non credo che dopo tutto quello che hai fatto tu abbia il diritto di avanzare pretese, Light.”
“Voglio vederlo. Devo vederlo.” Le mie parole diventano quasi un sussurro mentre cerco di mantenere il controllo della mia voce, che nonostante questo ha un suono tremante. “Almeno una volta”
Vedo Watari che stringe i pugni lungo i fianchi, la sua espressione è dura.
“Siamo morti a causa tua. Lui è morto a causa tua. Non ti basta questo? Non ti basta aver rovinato le nostre vite, vuoi tormentarci anche nella morte?!”
Il suo sguardo è accusatorio, la sua voce di un’ottava più alta del normale.
Distolgo lo sguardo e lo inchiodo al pavimento, incapace di guardarlo negli occhi.
“Non nego quello che ho fatto e, anche se non mi crederai, mi dispiace immensamente.” Alzo lo sguardo di nuovo verso di lui e nei suoi occhi vedo solo delusione, ed è come una lama che mi trafigge. “Ti do la mia parola: se L mi dirà di andarmene, non mi vedrete mai più. Ma non me ne vado senza prima vederlo”
“Non permetterò che ci trascini nel peccato, meritiamo la pace e tu non la distruggerai una seconda volta”
Lo osservo, e percepisco il dolore che traspare dal suo sguardo, più che dalle sue parole.
“Watari, con chi stai parl-”
Al suono di quella voce ho un sussulto e mi volto di scatto.
E lui è lì, a pochi metri da me, che mi fissa attonito come un gufo.
All’improvviso mi viene da ridere e da piangere nello stesso momento, ma non riesco a parlare, a respirare, a muovermi. Non riesco a staccare i miei occhi dai suoi.
Quante volte ho sognato questo momento? Forse migliaia. Non passava notte in cui questo volto non popolasse i miei sogni, e i miei incubi.
Ma mai, mai, avrei immaginato di rivederlo.
Mai avrei immaginato che Dio, se esiste, potesse fare un regalo tanto grande a uno come me.
E invece eccolo qui, di fronte a me, più o meno reale.
Distolgo per un attimo lo sguardo da quegli occhi neri e magnetici e lo osservo: ha quella posa inclinata in avanti che lo contraddistingue, i piedi nudi, le magre braccia lasciate cadere lungo i fianchi, i jeans scoloriti e i capelli neri come il petrolio, spettinati e che sembrano andare in ogni direzione. La sua carnagione è persino più pallida di come la ricordavo, e noto che non ha perso le profonde occhiaie che circondano quei due profondi buchi neri che sono i suoi occhi.
Noto che i suoi occhi si staccano dal mio volto osservando il mio petto e il suo sguardo ha come un guizzo alla vista delle macchie di sangue che coprono gran parte della mia figura. Solo in un secondo momento sembra notare l’ombra dietro di me, ma, a differenza di Watari, non sembra esserne stupito o spaventato.
E poi di nuovo i suoi occhi incrociano i miei.
Ed è come se qualcosa in me tornasse al suo posto, come se tutto quello che abbiamo passato potesse venire cancellato in un solo istante.
Riesco a capire quello che sta provando anche se dalla sua immagine non trapela alcuna emozione. Stupore, gioia, dolore, rimorso, incertezza, odio, amore.
Sono sempre riuscito a leggergli dentro con estrema facilità, là dove gli altri non vedevano nulla, io vedevo tutto. E vedevo quello che loro non vedevano semplicemente perché era come se, in lui, vedessi me stesso. Era come se, per la prima volta in vita mia, avessi trovato una persona che parlasse la mia stessa lingua. Poi, ho ucciso quella stessa persona per paura che potesse uccidere me.
Non mi rendo conto che sto piangendo finché non sento la scia delle lacrime scorrere lungo le guance. E quasi mi metto a ridere. Devo essere pazzo.
Dio, valeva la pena morire solo per questo momento.
E, alla fine, sono le mie parole a rompere il silenzio.
“Ciao”

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Capitolo 7
*** Capitolo 7- L ***


Birmingham, 9 Febbraio 1983
La neve da qualche giorno non lascia tregua alla città.
Un edificio antico in stile vittoriano.
Un appartamento abbandonato, fatiscente e ammuffito di circa sessanta metri quadrati.
Un uomo e una ragazza si affrettano a preparare una vecchia valigia, mettendo all’interno i loro pochi averi e un migliaio di sterline. La paura in ogni loro movimento.
“Dannazione Veronika, dovevamo andarcene tempo fa, quando te lo dissi la prima volta”
Lei, Veronika Lebedev (Вероника Лебедев), poco più che ventenne, alta e magrissima, i capelli lunghi e neri come il petrolio, gli occhi grigio chiaro che hanno visto troppa sofferenza nonostante la tenera età.
I lineamenti tipici della Russia orientale, nella sua mente sono ancora vividi i ricordi di un’infanzia in una fattoria nella fredda campagna fuori Irkutsk.
Figlia di contadini e cresciuta in povertà, all’età di diciassette anni ha deciso di abbandonare quella vita miserabile e di fuggire in Europa con una vicina di casa, con in tasca i pochi risparmi dei genitori, nella speranza di un futuro promettente.
Arrivata in Inghilterra tuttavia, limite la barriera linguistica e la mancanza di una formazione scolastica, aggiunta all’ingenuità di non aver mai vissuto in una metropoli, scopre che il futuro è molto diverso da come lo immaginava.
Ben presto si trova intrappolata in una realtà in cui la droga e la prostituzione sono l’unico modo per poter sopravvivere in una società che ti ignora e ti calpesta. E dopo anni di soprusi e violenza, riesce a fuggire da quel palazzo malfamato e dall’uomo che ricatta e abusa decine di ragazze oltre a lei. Con un’astuzia e un’intelligenza che non credeva di possedere, riesce a rubare parte del profitto del suo protettore e a fuggire.
“Dobbiamo andarcene subito, ormai saranno quasi qui!”
Lui, Leonard Alexander Lawliet, sulla trentina, capelli castani e grandi occhi neri, primogenito di una ricca famiglia appartenente alla borghesia londinese, allontanatosi da casa per trasgredire ad un futuro e ad una carriera prestabiliti, nonché al bigottismo e all’arroganza altolocata, per poter decidere liberamente della propria vita.
Dopo questa scelta di apparente disonore e dopo aver espresso la volontà di sposare una prostituta, tuttavia, finisce rinnegato e disconosciuto dalla sua stessa famiglia.
Innamoratosi di lei sin dal primo istante, però, è sicuro della sua scelta.
Se riuscirà ad aiutarla e a fuggire, per loro ci sarà, forse, un lieto fine.
Ma il destino è fin troppo crudele.
Tre uomini armati di pistola sfondano il portone in legno dell’edificio, e corrono velocemente su per i vecchi scalini in marmo. Arrivano in pochi minuti all’undicesimo piano, decisi a portare a termine l’operazione e ad incassare la paga loro promessa.
I due ragazzi escono a perdifiato nell’antro illuminato del corridoio e si dirigono verso l’uscita di emergenza.
Veronika piange, consapevole dei suoi ultimi minuti di vita, e stringe a sé il bagaglio più prezioso.
Un bambino di pochi mesi, dai cappelli corvini.
Leonard la segue di corsa giù per la scala antincendio, voltandosi e vedendo gli uomini a una dozzina di metri da loro.
Due spari echeggiano nella notte.
Leonard si accascia a terra, facendo cadere la valigia e sparpagliando un gran numero di banconote e due passaporti falsi sulla neve ghiacciata. Giace inerme, vivo ancora per pochi istanti, sotto di lui il rosso del sangue abbraccia il bianco della neve.
Veronika sa che la fine è vicina. Sa che hanno sparato all’uomo che ama ma non si ferma, continua a correre e le lacrime le offuscano la vista.
Non si volta, perché voltarsi e vederlo un’ultima volta la distruggerebbe.
Attraversa la strada e vede degli scatoloni abbandonati dietro ad un muretto, di fronte ad una delle tipiche case a schiera di quella zona. Allunga un braccio e preme il bottone per citofonare, sperando che qualcuno esca presto.
Con delicatezza pone il bambino dentro uno degli scatoloni.
Lui la guarda sereno, ignaro del fatto che non vedrà mai più quel volto.
Lei lo bacia sulla fronte, bagnandolo con le sue lacrime.  
E poi si allontana nella direzione opposta, attirando dietro di sé i due uomini che ormai l’hanno quasi raggiunta.
Corre a perdifiato.
Due spari.
Veronika incespica ma non cade, continua a correre nonostante l’emorragia che le dilaga nell’addome. Deve mettere la maggior distanza possibile tra i sicari e il suo bambino.
Altri tre spari.
La ragazza si accascia a terra, finita. La sua pelle è perlacea come la neve.
I due uomini si avvicinano per constatarne la morte, il terzo li raggiunge poco dopo, con in mano la valigia riempita di nuovo del denaro. Salgono su una vecchia BMW e si allontanano.
In quel momento, la porta di una villa a schiera si apre.
Il campanello e il rumore di una sparatoria hanno svegliato l’anziana signora che si affaccia allo stipite.
Non vedendo nulla di strano, sta per rientrare in casa.
Ma il pianto a squarciagola di un bambino rompe il silenzio del quartiere.
La signora segue quel suono, e si dirige verso lo scatolone ai piedi del muretto.
La neve ha quasi totalmente ricoperto il bambino, ma è il contrasto dei capelli color petrolio con la neve ad attirare l’attenzione della donna.
Scioccata da quello che ha appena scoperto, lo solleva delicatamente e se lo porta al petto, tentando di consolare i suoi gemiti.
Qualcosa cade a terra ai piedi della donna, probabilmente uscito da sotto la coperta con cui era avvolto il bambino.
Nel raccoglierlo si rende conto che è una busta, all’interno del quale vi è un foglio.
Il foglio riporta un nome e una data di nascita.
L Lawliet, 31/10/1982
 
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“Ciao, Light-kun”
Le mie parole sono quasi un sussurro, ma nell’udire la mia voce Light trasalisce leggermente.
Osservandolo attentamente mi rendo conto che è cambiato dall’ultima volta che lo vidi, ormai più di sei anni fa. I lineamenti del suo viso sono più marcati, lo sguardo più freddo, la carnagione leggermente olivastra, e ha guadagnato qualche centimetro in più in altezza. Un raggio di sole che entra dalla finestra gli illumina i capelli color rame, di una tonalità più chiara rispetto all’iride. Da quello che so e da quello che vedo non dovrebbe avere più di ventisei anni.
Un sorriso accennato e malinconico gli compare sulle labbra.
Anche così, impolverato e sporco di sangue, sembra uno degli angeli più belli dipinti da Michelangelo nella cappella Sistina.
Lucifero, probabilmente, e il parallelismo è fin troppo appropriato.
Ovviamente ho notato che i suoi vestiti, soprattutto a livello della spalla, del braccio sinistro e del torace, sono macchiati di sangue rosso intenso. Non ci vuole il miglior detective del mondo per capire che si tratta di ferite di arma da fuoco, probabilmente una beretta, ma dovrei vedere le ferite per esserne sicuro.
La mia mente scarta velocemente l’alternativa della fucilazione come pena di morte: se fosse stato questo il caso, il condannato non sarebbe certo vestito con giacca e cravatta, ma indosserebbe una divisa carceraria. Certo, potrebbe anche essere che nel caso di Kira abbiamo fatto un’eccezione, tuttavia anche la posizione delle ferite mi fa pensare all’erroneità di questa ipotesi: so per certo, dopo averne viste centinaia, che durante la fucilazione si mira alla testa, e di solito basta uno sparo per dichiarare la morte del condannato.
Quindi resta l’alternativa che in qualche modo il giorno della sua morte lui non si aspettasse affatto di morire, e che la sparatoria sia avvenuta ad un certo punto per un episodio o comportamento che lo ha smascherato, o per evitargli un tentativo di fuga.
Non credevo che questo momento sarebbe arrivato tanto presto, dopo quello che mi aveva raccontato Mello al parco qualche tempo fa. Tuttavia, se Kira in questo momento si trova di fronte a me nel mondo dei morti, significa che Near, con l’aiuto ultimo di Mello, è riuscito a sconfiggerlo. Una parte di me gioisce a questo pensiero, l’altra, del tutto ignara della razionalità e della logica, e con mia totale sorpresa, è addolorata e pietosa al pensiero della morte di Light.
Che cosa ti hanno fatto, my darling?
Lui sta osservando la direzione che ha preso il mio sguardo e, nonostante il tempo e la morte, è sempre in grado di intuire i miei pensieri, come se me li leggesse in volto, e risponde alla mia domanda inespressa.
“La mia Waterloo. Anziché esiliarmi su un’isola deserta, però, hanno preferito risolvere il problema in modo più rapido”
Rifletto il suo sorriso. “Che peccato” rispondo, palesemente sarcastico.
Ride, amaro. “Non c’è colpo che non renda, giusto?”
“Esattamente”
Mi osserva ancora per qualche istante, poi fa una cosa del tutto inaspettata.
Solleva lentamente una mano e la porta fino a toccare la parte alta del mio braccio, vicino alla spalla, quasi con timore che io possa impedirglielo, o che possa svanire da un momento all’altro. Come per avere una prova tangibile che io non sia un’allucinazione.
Ma il mio corpo è incapace di muovere un muscolo in questo momento, quindi resto immobile.
Tuttavia, nel momento in cui le sue dita toccano il mio braccio succede qualcosa di molto, molto strano.
Molla la presa di colpo, con un urlo, e si allontana di un passo, piegandosi su se stesso con un gemito e tenendosi stretto il polso del braccio con cui mi ha toccato.
Resto sconcertato come lui e totalmente incuriosito. Ha provato una sorta di dolore solo nello sfiorarmi: ha reagito di scatto come se si fosse scottato oppure come se avesse preso una brutta scossa di corrente elettrica.
Light sembra riprendere la sua solita postura controllata. Si osserva la mano, ma non c’è nessun segno che possa giustificare quel dolore. Prova ad aprire e chiudere la mano, riuscendoci senza problemi.
Si volta di nuovo verso di me. Ha le labbra serrate e un’espressione di irritazione dipinta in volto.
Questa volta è più deciso, ma leggo una sorta di timore nel suo sguardo.
Testardo, allunga entrambe le mani e le lascia sospese ad un centimetro dalle mie spalle, poi i suoi occhi leggermente dilatati incontrano i miei, e le sue mani afferrano le mie spalle in una presa molto più salda rispetto alla prima volta.
Succede in un attimo.
Come pochi minuti fa, molla la presa in mezzo secondo e questa volta il suo grido è ancora più forte, perché al dolore si aggiunge la rabbia.
Si porta entrambe le mani al petto, arretrando. La testa è china e non mi permette di vedere il suo sguardo.
Ma quando solleva il volto verso l’alto, tenendosi ancora le mani strette al petto, i suoi occhi sono rossi come il sangue e la sua espressione è indecifrabile, fredda e diabolica.
Frustrazione, odio, ira, tutto si mescola.
Eccoti, Kira.
Alza lo sguardo al soffitto, allarga le braccia e scoppia in una risata amara e agghiacciante.
“È questa la mia punizione? Non sai fare di meglio?” urla al cielo verso una divinità che forse nemmeno esiste.
Solo in questo momento decido di osservare l’ombra dietro di lui.
È enorme, quella che ho visto alle spalle di Mello non è niente al confronto. Occupa quasi tutta la stanza in cui ci troviamo e aleggia come una nube alle spalle di Light: è di un color nero intenso e, mentre poco fa restava semplicemente sospesa nell’aria muovendosi lentamente, ora vortica al di sopra di noi come un temporale.
Dev’essere alta almeno quattro metri dato che pare arrivare oltre il soffitto, e si distribuisce in larghezza in una superficie altrettanto grande se non di più.
Adesso la parte dell’ombra che si trova vicino a Light inizia a vorticare ancora più velocemente e di colpo si sparge scoppiando in tutte le direzioni come una nube radioattiva, rompendo tutti i vetri della sala computer.
Se non fossi totalmente affascinato, avrei quasi paura.
Solo ora mi ricordo che Watari è ancora in questa stanza, a pochi metri da me.
Mi volto verso di lui e vedo che osserva la nube con gli occhi sbarrati, terrorizzato.
Poi il suo sguardo si posa su di me, e leggo la paura più profonda nella sua espressione; non solo, i suoi occhi cercano di dirmi di andarcene il più lontano possibile da questo luogo e soprattutto dalla persona al centro della stanza.
È ancora qui solo per me, glielo leggo in faccia.
È la stessa sensazione che abbiamo provato nel vedere Mello: tutto ci suggeriva di allontanarci da quell’ombra oscura, dal male e dal peccato. Che fosse un istinto primordiale di sopravvivenza nell’aldilà o una lucidità razionale mantenuta anche dopo la morte non lo saprei dire. Come i poli opposti di una calamita, la presenza di Mello e di quella nube di modeste dimensioni faceva in modo che lo volessimo respingere il più lontano possibile da noi.
Immagino quindi la sensazione di terrore che Watari provi in questo momento, di fronte all’abominio di tutte le morti causate da Kira. Secondo le regole del Mu spiegatemi dal guardiano durante il Rito di Espiazione, ogni anima purificata respinge in ogni modo possibile il male e le anime accompagnate dal peccato. Watari in questo momento è innatamente attratto lontano da qui, lontano dall’anima inetta di Light e da quella nube di maledizione.
Sa che anche la pace eterna può essere minata e corrotta dal male.
La cosa che mi lascia del tutto sconcertato è accorgermi che io non provo la repulsione che dovrei provare in quanto anima che ha raggiunto la redenzione.
Quando ho incontrato Mello, prima ancora di notare l’ombra che lo marchiava come anima impura, ho provato la forte sensazione di allontanarmi, come una chiamata in senso opposto, un sesto senso che mi diceva che per preservare me stesso non avrei dovuto stargli vicino. Anzi, ho provato quella sensazione anche a distanza, prima ancora di capire che si trattasse di Mello.
In questo momento, tuttavia, non provo nulla del genere.
Ripercorrendo gli ultimi avvenimenti mi rendo conto anche di un altro fatto molto insolito.
Prima che arrivasse Light al quartier generale mi trovavo all’ultimo piano, a meditare dentro l’elicottero senza una ragione precisa; ad un certo punto, inspiegabilmente e senza che ricordi il motivo, ho deciso di scendere a cercare Watari. Solo in un secondo momento ho sentito la voce di Watari che parlava con qualcuno.
Ripensandoci, è come se il mio subconscio mi avesse spinto verso il piano di sotto per permettermi di incontrare Light.
È successo esattamente l’opposto di quello che avrebbe dovuto succedere: anziché provare l’istinto di allontanarmi, è come se il mio istinto mi avesse spinto verso di lui.
Ma perché?
Mi volto a guardarlo e noto che Light sta osservando le schegge e i pezzi di vetro ai suoi piedi, sconcertato.
“Sono..sono stato io?” chiede più a se stesso che a noi.
Sto cercando di capire come possa non essersi accorto dell’enorme nube tumultuosa sopra di lui quando Watari si avvicina a me visibilmente preoccupato e mi poggia una mano sulla spalla.
“L, devi dirgli di andarsene” mi sussurra all’orecchio “per sempre” aggiunge.
No.
Una parte inconscia di me si oppone fermamente e drasticamente alle parole di Watari. Ma la mia parte più razionale, più fredda e distaccata, sa che dirgli addio è la cosa giusta da fare. Light Yagami ha messo la parola ‘fine’ alla mia vita, non solo, a tutto quello che L rappresentava: l’irraggiungibile detective di fama mondiale, una lettera gotica a sfondo bianco, uno strambo e solitario venticinquenne dalle pose assurde.
Ma Light ha fatto molto di più: ha preso in mano la mia corazza, le mie certezze, la mia perenne teca di vetro e le ha ridotte in frantumi. Dieci anni di investigazioni, di casi, di omicidi inspiegabili risolti in poche settimane da una camera di albergo, i criminali che finivano dietro le sbarre rendendosi conto che ad incastrarli non erano state altro che una voce modificata e una lettera su uno schermo di computer. Ho viaggiato in ogni angolo del pianeta restandomene chiuso in un numero infinito di camere d’albergo, guardando fotografie di massacri dal mio PC e arrivando alla soluzione di ogni caso quando la mia mente aveva già iniziato ad annoiarsi.
Mi sentivo solo. Era una strana sensazione perché ero sempre stato solo, tuttavia l’esilio che mi ero autoimposto non mi permetteva di ignorare la vastità del vuoto che mi circondava. A volte mi capitava di pensare alla mia morte, non riguardo alle circostanze o alla modalità, ma all’innegabile verità che sarei morto in modo anonimo, sconosciuto, impassibile e dimenticato in un istante. Certo, qualcuno dei miei successori avrebbe ereditato il nome di L, la lettera, ma L Lawliet sarebbe rimasto un fantasma, uno sconosciuto.
A volte questo pensiero mi rattristava, e in un certo senso faceva male. Chi si sarebbe ricordato di me? Chi avrebbe pianto o gioito della mia morte? A chi importerà?
E poi è arrivato lui.
Un file, una segnalazione via e-mail di centinaia di morti di criminali avvenute in una decina di giorni. E in quel momento, nell’ennesima stanza d’hotel, ho capito che quel caso sarebbe stato diverso da tutti gli altri.
Il caso Kira ha portato l’inaspettato: un adolescente dai colori ramati, un’idea di giustizia tanto simile quanto lontana dalla mia, un potere sovrannaturale.
E quando l’ho visto per la prima volta, all’università di Tokyo, una parte di me era già consapevole che lui fosse Kira, doveva esserlo, e quasi piangevo di gioia nello scoprire che Light Yagami era la prova vivente che in fondo non ero solo. Per la prima volta nella mia vita avevo trovato qualcuno che fosse proprio come me: qualcuno che capisse quello che intendevo prima ancora che lo spiegassi, qualcuno che fosse in grado di seguire i miei pensieri e anche di sorpassarli, qualcuno che fosse veramente al mio livello.
Qualcuno che potesse essere il mio migliore amico e il mio perfetto nemico.
Se non l’avessi mai incontrato, penso, sarei morto nell’ombra e nella demoralizzazione, con la certezza di essere solo al mondo.
Mi ha ucciso e contemporaneamente mi ha salvato la vita.
In questo momento lo guardo e capisco che probabilmente la sua anima sarà condannata senza possibilità di redenzione, e so che non posso permettergli di condannare anche la mia, anche se poco mi importa. Sono sempre stato egoista e ho sempre puntato ad ottenere quello che volevo, a volte calpestando i miei stessi principi. La vera motivazione della mia decisione sta nel fatto che, anche nella morte, l’orgoglio non mi ha abbandonato: come potrei accettare il fatto di aver bisogno di lui per avere la pace? Di uno psicopatico pluriomicida con un complesso narcisistico di personalità? Dopo tutto quello che ha fatto?
È semplicemente assurdo ed impossibile che ci sia una qualche forza interna o esterna che mi voglia spingere verso di lui. Non ho dimenticato chi sono io, e soprattutto chi è lui, e questa dev’essere per forza una sorta di test, una prova per dimostrare a me stesso che quello che è successo prima della mia morte non ha alcuna importanza.
Devo dimostrare a me stesso e a qualsiasi entità vi sia in questo luogo che L Lawliet e Light Yagami non hanno più nulla da dirsi, nonostante tutto quello che abbiano passato quando ancora erano in vita. Mi rendo conto che aggrapparsi all’orgoglio in questo momento è insensato, ma una parte di me non l’ha perdonato per quello che ha fatto e vuole fargliela pagare. Sono ancora infantile dopotutto, e detesto ancora perdere.
Watari stringe la mia spalla con le dita, la sua mano ancora appoggiata a me.
Kira mi guarda, impassibile, aspettando che sia io a parlare.
Percepisco l’istinto di non lasciarlo andare ancora più forte dentro di me, e devo ricorrere ad una buona forza di volontà per pronunciare le parole che sto dicendo.
“Light-kun, credo che dovresti andare ora” poi aggiungo, per dare un tono più imperativo alla mia frase. “Voglio che tu te ne vada”
Lui mi guarda per un momento che sembra infinito, i suoi occhi di miele sono chiarissimi.
Infine sulle sue labbra compare un breve sorriso.
Sa che sto mentendo, ma, con mia grande sorpresa, decide di non contestare le mie parole.
Riesco ad intravedere un barlume di tristezza sul suo viso, ma sparisce quasi subito e la fredda maschera viene riposizionata in tempo record.  
“Se è quello che vuoi, allora va bene” risponde “forse ci rivedremo”
Detto questo si volta e a passo lento esce dalla porta che si chiude rumorosamente dietro di lui. L’ombra lo segue e dopo qualche secondo anche la parte finale della nube sparisce oltre il muro.
All’improvviso mi rendo conto che da quando ho pronunciato quelle parole, anzi, da quando Light si è allontanato, il punto dove le sue mani mi hanno toccato, su entrambe le braccia, è diventato più caldo, quasi bollente, e questo attira la mia attenzione.
È come se quei due punti fossero l’unica parte ancora vivente e pulsante del mio corpo.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8- Light ***


Ho ucciso un uomo per salvarne centomila
Così disse Charlotte Corday al suo processo per giustificare l’atroce omicidio compiuto da lei stessa al rivoluzionario francese Jean-Paul Marat, da cui deriva peraltro il famoso dipinto di Jacques-Louis David che ritrae Marat morto nella vasca da bagno. Nonostante le sue nobili intenzioni, Charlotte Corday venne condannata a morte, ghigliottinata qualche giorno dopo il processo.
Nella concezione occidentale e moderna di giustizia, tuttavia, lo Stato, che agisce razionalmente, non si pone sullo stesso piano di chi si macchia del più orribile dei crimini: l'omicidio. Così facendo si fornirebbe a tutti un esempio di atrocità compiuto dalla legge stessa, mentre essa è stata creata proprio per la tutela dei diritti umani e quindi per quello della vita.
Le leggi, infatti, moderatrici della condotta degli uomini e espressioni della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commetterebbero uno esse medesime.
Questa è una tesi veramente flebile: non varrebbe neppure la pena perdere tempo a confutarlo, ma è piacevole accanirsi un po’ su un obiettivo così indifeso. È semplicemente un argomento che prova troppo. Lo Stato pretende di avere il monopolio della forza. Infliggere pene spetta allo Stato, e solo allo Stato. Questo vale per la reclusione in carcere come per la morte. Se lo Stato non avesse il diritto morale di sopprimere gli assassini, non avrebbe nemmeno quello di incarcerare i sequestratori di persona.
Sono meno di un centinaio gli Stati al mondo che praticano ancora la pena di morte: il Giappone è uno di questi. Ho sempre creduto che fosse questo il giusto modo di agire nel confronti del male: eradicarlo, cancellarlo.
Gli uomini incaricano lo Stato di promulgare leggi che tutelino i cittadini; nel caso in cui un individuo le trasgredisca al massimo grado, ovvero compiendo un omicidio efferato, questi automaticamente priva se stesso di qualsiasi forma di altrui rispetto e dello stesso diritto di vita, vita intesa come partecipazione attiva alla società umana. È del tutto utopistico pensare di poter rieducare un assassino e reinserirlo innocuo e trasformato nella società, esponendo la società stessa alla possibilità di un comportamento recidivo di quest’ultimo alla minima instabilità.
A causa di questo assurdo moralismo, migliaia di malfattori sfuggono alla giustizia ogni giorno.
Io ho fatto meglio di Charlotte Corday, meglio di qualsiasi Stato, meglio anche della giustizia divina.
Ho ucciso un milione di assassini per salvare l’umanità intera.
Nessuno avrebbe dedicato e sacrificato la propria vita in nome di un obiettivo tanto grande, nessuno avrebbe potuto fare quello che ho fatto io, ne sono certo, e farlo tanto accuratamente. Sono la persona più fottutamente intelligente del pianeta. Cioè, lo ero.
Le persone percepiscono il male che le circonda e lo ignorano volutamente, sperando dentro di loro di non averci mai nulla a che fare. Convincendosi che non ci sia nulla da fare, che il mondo è fatto così. Pochi hanno provato a cambiare veramente il mondo, a renderlo un posto migliore in cui vivere per i buoni e i giusti. Nella maggior parte dei casi, si sono scontrati con le stesse leggi imposte dallo stato, o con l’etica e la morale comune, e alla fine si sono arresi.
Ma quando un potere soprannaturale, il potere di un Dio della Morte, cade nelle mani giuste si può arrivare dove nessuno è riuscito ad arrivare.
Sono questi i pensieri che popolano la mia mente mentre sto girovagando all’interno della biblioteca della mia vecchia scuola superiore. Diploma a pieni voti, poi la To-Oh University, facoltà di legge, laurea con lode. A volte penso a che tipo di vita avrei fatto se non avessi raccolto quel quaderno.
Afferro dagli scaffali “Il Capitale” di Karl Marx, e lo sfoglio distrattamente. Qualcuno ha sottolineato quelle che dovrebbero essere le parole chiave e le parti più importanti. Personalmente, non ho mai avuto bisogno di ricorrere ad un metodo di studio; con un minimo sforzo, la mia memoria immagazzinava ogni frase.
“Perché ti hanno sparato?”
Avevo dimenticato che mi sta seguendo da un tempo indefinito, forse qualche giorno, in silenzio e osservando ogni mio gesto. Ho pensato che fosse meglio ignorarlo e forse ad un certo punto avrebbe smesso di starmi alle costole. Sono felice che non l’abbia fatto, però.
Sospiro e rimetto apposto il volume sullo scaffale. Mi volto verso di lui, che è rimasto sul vano della porta, con un dito posato sulle labbra.
“Ho cercato di scrivere il nome di Near, Nate River, sul pezzetto di Death Note che portavo nascosto nell’orologio”, sollevo il polso sinistro per mostragli quello che rimane del mio orologio e il polso insanguinato. “Quando la penna è caduta a terra ho continuato a scrivere con il mio sangue, Matsuda non l’ha presa bene e mi ha scaricato addosso quattro proiettili. Per poco non mi ha trapassato il cranio.”
Lui sgrana gli occhi, sorpreso. “È stato Matsuda?!”
Evidentemente nemmeno lui si aspettava che Matsuda avesse abbastanza neuroni da permettere la coordinazione occhio-mano necessaria per sparare a qualcuno.
“Si. Avrei dovuto licenziarlo anni fa quando ci ha provato con mia sorella. Però faceva un buon caffè” sorrido.
L ride ed è un suono talmente singolare e melodioso che resto per un attimo ammaliato.
Poi sembra ricordarsi che mi odia e la sua espressione torna quella di sempre.
“E..Near?” chiede timoroso della risposta.
Solo sentir pronunciare quel nome mi fa irrigidire dalla rabbia. “Stai tranquillo, l’albino è ancora vivo” sbuffo.
All’udire quella risposta, le sue spalle tese si rilassano leggermente. Mi avvio verso l’uscita passandogli a fianco e lui mi segue lungo il corridoio e fuori dall’edificio. Lo osservo con la coda degli occhi, ha lo sguardo diretto in basso e sembra pensieroso.
Con sorpresa mi accorgo di ritrovarmi nel giardino interno all’edificio, sulla quale si affacciano gran parte delle aule. Riconosco subito questo posto anche se sembra appartenere ai ricordi di qualcun altro, non ai miei. Dopo qualche passo arrivo al centro del prato e mi fermo, consapevole della presenza di L dietro di me.
Indico un punto preciso nel prato “In questo punto ho trovato il Death Note”
Mi volto verso di lui che sembra incuriosito da questa rivelazione. Indico una finestra, la quattordicesima da sinistra, terzo piano. “Stavo facendo una lezione di letteratura inglese e l’ho visto cadere dal cielo dalla finestra”
Non si volta a guardare il punto che sto indicando ma mi osserva con uno sguardo indecifrabile. Non so perché gli sto raccontando tutto questo, forse ho solo bisogno di qualcuno con cui parlare. Non ha più importanza ormai, ma lo conosco e so che brama la verità più di ogni altra cosa, quindi continuo a parlare.
“Mi aveva incuriosito e durante la pausa sono venuto qui e l’ho raccolto. Ho letto le prime regole e pensavo che fosse uno scherzo più elaborato del solito. L’ho riappoggiato a terra e me ne sono andato. Poi però sono tornato indietro e l’ho messo nello zaino, forse ho avuto una sorta di sesto senso.” Sollevo lo sguardo e noto che è ancora lì, immobile che mi fissa. Sa che non sto mentendo, crede ad ogni cosa che dico.
“Sono arrivato a casa e ho letto ogni singola regola, era talmente assurdo che non poteva essere che uno scherzo. Poi però ho visto il sequestro di Shinjuku al notiziario, e ho scritto il nome del sequestratore. Avevi ragione, come sempre, è stato lui la mia prima vittima. Quando gli ostaggi sono usciti dopo quaranta secondi pensavo che fosse una coincidenza, non poteva certo essere morto perché avevo scritto il suo nome su un quaderno, no?” accenno un sorriso amaro “Ma nei giorni successivi ho avuto la prova che il Death Note era reale ed autentico. Soprattutto ne ho avuto la prova quando uno Shinigami di quasi tre metri è apparso in camera mia e ha iniziato a parlarmi come se niente fosse. Ryuk. Era molto diverso da Rem, lo Shinigami che hai visto tu. Mi disse che aveva fatto cadere il quaderno nel mondo degli umani perché si annoiava, mi disse che aveva scritto le regole in inglese perché era la lingua più conosciuta. Mi disse anche che nessuno aveva mai scritto così tanti nomi in pochi giorni. Gli dissi che anche io mi annoiavo. Pensavo che volesse prendersi la mia anima e lui ha riso di me, dicendomi che il quaderno era mio e lui avrebbe dovuto stare al mio fianco fino alla mia morte o alla fine del quaderno. E così è stato.”
L sembra stupito dal mio racconto e inclina la testa di lato. “Era lì quando sei morto?”
Annuisco. “È stato lui ad uccidermi, ha scritto il mio nome sul suo quaderno. È questo il patto tra il primo umano che raccoglie il quaderno e lo Shinigami a cui appartiene. Ho sempre saputo che quando sarebbe stato il momento mi avrebbe ucciso, ma non mi importava. Mi disse che se mi avessero messo in prigione avrebbe dovuto aspettare anni per farlo e si sarebbe annoiato. Si annoiava abbastanza facilmente, sai.” Sorrido.
Mi incammino verso l’uscita, oltre il piccolo parco, e mi siedo su una panchina in legno accanto ad un ciliegio in fiore. Il sole illumina ma non scalda. Ogni cosa è immobile come se ci trovassimo dentro ad un dipinto. L si siede accanto a me sulla panchina.
“Rem ha detto che un umano può scambiare metà della vita che gli rimane con la possibilità di conoscere il nome e la durata vitale delle persone semplicemente guardandole in volto. Ottenendo gli occhi del Dio della Morte. Tu non hai fatto lo scambio, perché? Sarebbe stato molto più facile” mi chiede guardando di fronte a sé.
“Volevo avere una lunga vita, possibilmente. Col senno di poi, se avessi fatto lo scambio sarei morto tempo fa. Ryuk mi propose lo scambio, una volta. Gli dissi che avrei potuto prendere in considerazione la proposta solo se, anziché gli occhi, mi avesse dato le ali. Mi sarebbe piaciuto volare. Ovviamente mi disse che era impossibile”
L non riesce a trattenere un sorriso. Vorrei sapere cosa sta pensando.
Restiamo in silenzio, ognuno assorto nei suoi pensieri. Chiudo gli occhi, ed oltre il buio delle palpebre chiuse riesco a percepire la luce del sole sul viso. È incredibile quanto sia sensibile al mondo esterno il cervello umano.
“Tuo padre deve essersi suicidato dopo aver scoperto quello che hai fatto, Kira”
Ignoro l’appellativo. “Mio padre è morto l’anno scorso, in una sparatoria, durante una missione”
Apro gli occhi per vedere la sua espressione e vedo che mi sta guardando con gli occhi leggermente sgranati. “Oh” sussurra “Mi dispiace”.
Torno a rivolgere il viso verso il cielo, gli occhi chiusi per non essere accecato dal sole.
“Perché mi hai seguito?” gli chiedo infine.
Mi sembra che passi un’eternità prima che mi risponda, e ho quasi paura di aprire gli occhi, voltarmi e scoprire che non è mai stato lì, che è stata semplicemente un’allucinazione. È capitato così tante volte dopo la sua morte che credevo di esserne ormai abituato. E poi mi risponde.
Sospira. “Non lo so, è come se non l’avessi nemmeno deciso io. Sentivo come una forza che mi spingeva a seguirti, e non potevo ignorarla. Non capisco, dovrebbe essere l’opposto, dovrei voler starti il più lontano possibile” ammette frustrato.
Allora apro gli occhi e mi volto verso di lui e lo fulmino con lo sguardo, non posso ammettere che le sue parole mi hanno ferito. Anche se ha ragione, ovviamente.
“Non disturbarti a nascondere la repulsione che provi, non è abbastanza palese” sputo sarcastico. “Puoi anche andartene se vuoi, non sarò certo io ad impedirtelo” aggiungo poi.
“È proprio tipico da parte tua e del tuo narcisismo pensare di non poter essere disprezzato nonostante quello che hai fatto” sussurra freddamente.
“Al contrario, hai tutto il diritto di odiarmi. Penso solo che l’odio non cambierà quello che è successo, e che ho pagato e sto ancora pagando per quello che ho fatto”
“No, non hai pagato affatto. Questa condanna in eterno è niente rispetto a quello che meriteresti. Non hai sofferto abbastanza” dice a denti stretti.
Stringo i pugni tanto che le unghie mi graffiano la pelle.
“Tu non sai niente. Niente” sussurro. No, non lo immagina neanche quanto ho sofferto.
“Quello che so è abbastanza. La giustizia divina che tanto ostentavi su di te non viene applicata. Sei qui come lo sono io e tutti gli altri”
Mi alzo in piedi di scatto. Mi dà l’impressione di avere ragione, se lo guardo dall’alto in basso. Ma i due buchi neri che ha al posto degli occhi mi fanno sentire comunque indifeso e colpevole.
“Dannazione, L! Pensi che sia stato facile vederti morire tra le mie braccia?! Ho avuto incubi per anni! Sei solo un’ipocrita. Avresti fatto lo stesso, lo stesso. Non sei diverso da me. Mi avresti guardato morire sulla sedia elettrica senza battere ciglio”
Restiamo a lungo immobili a fissarci come due lupi che stanno per sbranarsi a vicenda per sopravvivere.
“L’unica differenza è che tu te lo saresti meritato, io no.”
La verità fa male, soprattutto quando esce dalla sua bocca: è come una lama sottile che ti trafigge e te ne accorgi troppo tardi. Vuole ferirmi. Vuole una vendetta giusta ed adeguata ma sa che non l’avrà mai. Perché siamo morti entrambi e nessuno può farci più niente.
“Se uccidi un criminale che uccide i criminali, sei un criminale pure tu.”
“Ha! No, Light. Tu avresti avuto diritto ad un processo, un avvocato e la possibilità di difenderti, e sarebbe stata una giuria a decidere la tua pena, non un pazzo con un quaderno della morte!” urla. Le sue iridi, se possibile, sono ancora più grandi del solito.
“L’esito sarebbe stato lo stesso, e lo sai benissimo. E grazie per avermi ricordato che uccidere è sbagliato, non ci avevo pensato. Non capisci che dovevo farlo? Qualcuno doveva assumersi la responsabilità di provare a cambiare il mondo, anche se in modo immorale e condannabile. Grazie a me le guerre si sono fermate e il tasso di criminalità è sceso ai minimi storici. Ho reso il mondo un posto migliore, forse ho salvato più vite di quelle che ho abbattuto. Conoscevo ogni conseguenza di quello che stavo per fare, ed ero disposto ad accettarle” La mia voce si incrina all’ultima frase.
“Il giudizio di vita o di morte non spettava a te. Non sei Dio”
“Dio non esiste”
Mi guarda e la rabbia nei suoi occhi svanisce, lasciando il posto ad una velata tristezza.
Non riesco a reggere quello sguardo, quindi mi risiedo sulla panchina. Resterò qui a fissare il vuoto finché non diventerò parte del paesaggio, e le future anime di passaggio vedranno cosa succede a chi si è comportato male.
Dopo un tempo indefinitamente lungo, la sua voce rompe il silenzio, e il tono è talmente basso che mi sorprendo di riuscire a sentirlo.
“Non è vero che non avrei battuto ciglio, vedendoti morire”
Mi giro verso di lui. È seduto in quella solita posizione assurda con le mani sulle ginocchia e parla guardandosi le mani.
Sospiro e torno a guardare il vuoto. “Lo so”
“Perché hai sentito dolore quando hai provato a toccarmi, al quartier generale?”
“Non ne ho idea” mento “ho sentito come una scossa elettrica che bruciava”
So benissimo perché non mi è permesso toccarlo. Ci ho pensato parecchio e sono giunto all’unica conclusione possibile. È come la legge del contrappasso nell’inferno dantesco, è talmente scontato che mi sono sorpreso di non esserci arrivato prima: non posso toccarlo perché voglio farlo.
Le persone in generale mi hanno sempre infastidito, le trovavo noiose e non ho mai incontrato nessuno che suscitasse in me l’interesse di scoprire cosa risiedeva sotto la superficie. Nessuno a parte la persona che siede accanto a me in questo momento. E sono pronto a scommettere che la sua anima sia l’unica, in questo luogo, che non riesco nemmeno a sfiorare senza provare un dolore lancinante. Qualcuno potrebbe dire che è una giusta punizione, ma personalmente ritengo che sia la punizione peggiore che potesse capitarmi in sorta.
Una volta ho pensato a cosa sarebbe successo se avessi ucciso l’intera popolazione del pianeta, tranne lui. Saremmo rimasti gli unici al mondo e a me sarebbe bastato così.
Prima che possa impedirglielo, mi afferra per il polsino della camicia e ruota il mio braccio verso l’alto rivolgendo il palmo della mia mano aperta verso di lui. 
Mi osserva chiedendomi implicitamente il permesso di fare qualsiasi cosa abbia in mente, e io annuisco impercettibilmente. Ha il diritto di farmi quello che vuole.
A questo punto avvicina la sua mano aperta alla mia e la appoggia completamente su di essa. Mi preparo psicologicamente alla fitta di dolore che sta per seguire, ma non succede assolutamente nulla.
Sgrano gli occhi osservando le due mani unite, una pallida come un foglio bianco, l’altra di un colore dorato e leggermente olivastro.
Vedendo che non ho nessun tipo di reazione improvvisa, prende la mia mano e se la porta al viso appoggiandola alla guancia, non staccando gli occhi dai miei. Io osservo la scena totalmente in trance, con gli occhi sgranati, incapace di muovermi o parlare.
Com’è possibile?
Sono sconcertato per due motivi principali: il primo è dato dal fatto che riesco a toccarlo senza subire una fulminazione istantanea, il secondo è legato alla sensazione di calore vitale che emana la sua pelle, trasmettendolo e irradiandolo in tutto il mio corpo. Come se avessi ancora nel mio petto un cuore pulsante. I capelli sul retro della mia nuca si rizzano e un brivido mi corre lungo tutta la schiena.
In balia di questa sensazione e senza ragionarci troppo rimuovo la mano dalla sua presa e gli scosto una ciocca di capelli dall’occhio.
In meno di un secondo la sensazione di calore svanisce e al suo posto una scarica di dolore intensa mi attraversa da capo a piedi. Allontano la mano da lui e mi lascio ricadere contro lo schienale della panchina, esasperato.
Chiudo gli occhi tentando di controllare la rabbia.
“Ha funzionato solo finché ero io a muovere la tua mano” dice pensieroso.
Sbuffo. “È insensato”
Ha le sopracciglia corrucciate e nel punto in cui si uniscono gli compare una piccola ruga.
“Niente è insensato qui, forse è una specie di punizione per te”
Non so dire fino a che punto abbia capito il motivo dietro a questa punizione, ma se anche lo capisse non c’è niente che possa cambiare le cose.
“Lascia perdere” dico alzandomi in piedi e iniziando a camminare.
“Dove stai andando?” chiede mentre mi segue.
Non so dove sto andando. In questo maledetto posto non c’è assolutamente niente da fare, se la pace eterna è così allora è di una noia mortale. Forse non riuscirò a purificare la mia anima e diventerò uno Shinigami, anche se da quello che ha detto Ryuk nemmeno nel mondo degli Shinigami ci si diverte particolarmente. Al solo pensiero mi viene quasi da ridere.
Se rivedo Ryuk lo prendo a calci.
Mi ritrovo a fermarmi di fronte alla vetrina di una caffetteria, a guardare il mio riflesso nello specchio. L’ombra maligna è ancora lì e aleggia alle mie spalle nella sua grandezza esagerata. So che è onnipresente ma ogni volta che la vedo in qualche riflesso mi dà una sensazione che descriverei come un misto di nausea ed emicrania.
L è accanto a me che osserva la mia reazione incuriosito. Osservo il suo riflesso nella vetrina.
Indico l’ombra puntando il dito. “Tu la vedi sempre, vero? Anche quando non mi trovo davanti ad uno specchio”
Aspetta un secondo di troppo per rispondere e arriva da solo alla conclusione. “Tu no”
“No, me ne sono accorto una volta per puro caso” sospiro.
“Tempo fa io e Watari abbiamo incontrato Mello in un parco, e anche lui era seguito da questa specie di aura nera. Sia io che Watari abbiamo sentito il forte impulso di allontanarcene, come se fosse qualcosa di maligno che potesse farci del male. Era una sensazione inconscia e imperativa, era strano il fatto che non potevamo ignorarla in alcun modo”
La mia mente lavora veloce. Mello è morto pochi mesi prima di me, quindi non dev’essere passato molto tempo. Ricordo chiaramente il suo nome, Mihael Keehl: sono stato io stesso ad ordinare a Takada di ucciderlo.
Quindi le anime pure sono inconsapevolmente indotte ad evitare le anime inette per non essere contagiate dal loro peccato. Ma poco fa ha detto di aver provato l’impulso opposto, quello di seguirmi. Interessante.
O sta cercando di andare contro la sua stessa natura, oppure..
“Ma non provi la stessa sensazione ora”
“Non direi”
Sorrido. Forse qualche stella è dalla mia parte.

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