Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Sono certo che sarebbe stato difficile notarla se non fosse stato per il rosso sgargiante del suo zaino. D'altronde, era l'unica cosa che dal finestrino dell'autobus riuscii a scorgere tra le fronde degli alberi tra cui si nascondeva. Era seduta sull’orlo del marciapiede, con il corpo piegato su sé stesso, come fosse un foglio accartocciato; colsi il suo sguardo concentrato sulle pagine fitte di un libro di cui non riuscii a leggere il titolo. Il viso, seppur coperto in parte da una folta chioma castana fatta di boccoli, era impegnato a lottare fra le emozioni nate dal coinvolgimento della lettura, svelando prima un tiepido sorriso e poco dopo muta tristezza. Non era un giorno come gli altri: era il primo di tanti giorni di scuola del mio ultimo anno da liceale.
Scesi rapidamente dall'autobus, due brevi scalini mi avrebbero presto separato dall’aria pesante dell’abitacolo. Lontano dall'affollato ingresso, decisi di fumare una sigaretta prima di affacciarmi alle porte dell’inferno. Gli schiamazzi di chi non si vedeva da tutta l'estate, le urla e le risate suscitate da chissà quale racconto estivo lasciavano sulla mia pelle un pesante strato di noia. La mia non era invidia, dopotutto ero io quello che non aveva amici e la cui socialità rasentava il suolo, era terrore nella sua forma più pura. Sentivo in gola la paura che hanno i bambini il loro primissimo giorno di scuola, quello in cui lasciare la mano del proprio genitore richiedeva non solo uno sforzo grandissimo, ma un vero e proprio atto di coraggio. Non ero pronto a questo inizio, a questo nuovo inizio. Era l'inizio della fine: per la prima volta iniziavo solo.
Ho frequentato quattro anni di liceo al fianco di mio padre, non solo un uomo di lettere, ma addirittura professore della materia stessa all’interno della mia scuola. Quel giorno invece un vuoto stanziava col suo gravoso peso dentro il mio petto, lasciandomi fra le mani vuote l’amara nostalgia di non averlo accanto a me. Non avevo più alcun caposaldo su cui contare in questa selva. Non v’era più nulla a cui potessi realmente aggrapparmi: la mano di mio padre non aveva più le dita intrecciate alle mie e il sordo timore di non farcela rimbombava nelle mie orecchie già stanche.
Esalando l'ultima boccata di fumo dalla mia sigaretta, voltai lo sguardo e fu lì che ebbi dinnanzi agli occhi l’immagine sublime che non mi abbandonò più.
L’ampio viale alberato che precedeva l'ingresso dell’istituto era pervaso dalla rassicurante ombra donata dal fogliame verde. Le chiome degli alberi, cullate dalla brezza di settembre, si lasciavano andare a dolci fruscii; le loro folte criniere permettevano raramente a qualche raggio di sole di infiltrarsi fra di esse. Percorsi con gli occhi la striscia sottile del marciapiede al margine della strada e vi notai un unico raggio di sole: illuminava lei.
***
«Cari ragazzi, bentornati dalle vacanze estive. Come ben sapete, questo è il vostro ultimo anno, quello in cui si spera che tutti voi vi diplomiate», la voce della professoressa di matematica divenne presto qualcosa di lontano e soffuso. Quella volta non era il mio deficit dell'attenzione a distrarmi, era tedio, svogliatezza, la mancata forza di volontà per intraprendere i soliti discorsi ipocriti da primo giorno. Dentro me qualcosa mi riportava in continuazione a quel che avevo visto, lasciandomi nelle mani un tremore di cui non seppi liberarmi per tutta la giornata. Alzai la mano: «Posso andare in bagno?»
«Noto con dispiacere che durante l'estate la sua incontinenza non si è attenuata, signorino Fontana.»
Non risposi e, fra le risate dei compagni, semplicemente uscii dalla classe. Erano passati solo quaranta minuti dall’inizio della giornata scolastica e io sarei corso via a gambe levate. Appena fuori dall’aula frugai nelle tasche dei miei bermuda sbiaditi alla ricerca di moneta per la macchinetta delle merendine.
Tre monete fecero capolino sul palmo della mia mano e vista la cifra fui abbastanza soddisfatto: sia la quantità di denaro che la somma del loro valore erano multipli di tre, il che voleva dire che sarebbe stata una giornata pressoché serena per le mie manie. Avevo intenzione di acquistare qualcosa da bere per deglutire le parole che avrei voluto dire a quella vecchia megera ma che, fortunatamente per la mia condotta, trattenni. Essere uscito in tal modo dalla classe non fu comunque una nota di merito, anzi. Mentre sceglievo la mia bibita l’occhio cadde sull’orario: mancavano due ore e quarantasei minuti alla fine di questa debilitante giornata. Centosessantasei minuti della mia vita sprecati. Sorrisi al tempo che avrei consapevolmente perso.
Tastai ancora l’interno delle mie tasche, trovando il mio unico nettare divino, l’idromele dei mortali: la nicotina. Voltai la testa prima a destra e poi a sinistra, intenzionato a dirigermi alle scale antincendio accanto a me; visto il divieto di fumo e le costose sanzioni, quando vidi il corridoio vuoto sgattaiolai fuori dalla porta finestra lasciandola socchiusa, approfittando di quel momento di libertà. Due carpe diem in una giornata sola erano decisamente un gran record.
L’aria fresca di settembre scompigliava i miei capelli a spazzola castani e giocava a ricoprire la pelle scoperta del mio corpo con un sottile strato di brividi. Fu sufficiente sedermi su uno degli scalini metallici per lasciar vagare libero il mio sguardo; al di là della ringhiera della scala, oltrepassando poi il cancello d’entrata, vi era ancora un nugolo di studenti.
Ero ben conscio del perché i miei occhi andassero in cerca di quel luogo preciso, era impossibile per la mia mente ostinata non cercarla e non pormi domande su di Lei. Può sembrare ridicolo, al limite della pazzia, ma nella mia vita fatta di numeri, di calcoli assidui e di controllo maniacale, una visione del genere lasciava il suo segno. Era la prima volta che mi lasciavo cogliere dalla casualità, dalla fortuita coincidenza della vita che mi aveva fatto capitare nel posto giusto al momento giusto. Ero folle, folle di insicurezza e mi aggrappai a quel flebile carpe diem per sopravvivere senza lasciarmi sprofondare. Era una situazione buffa, soprattutto se vissuta nei panni di un ossessivo compulsivo.
Scrutavo incessantemente l’anfratto d’asfalto su cui la ragazza sedeva circa un’ora prima, ma più provavo a carpire informazioni da quel piccolo pezzo di cemento, meno risposte ottenevo. Cercai la sua ombra, chiesi alle fronde un indizio, ed è vano specificare che non ottenni risposta. Tutto ciò che sapevo era che non mi ero mai accorto di Lei. L’avevo forse vista da qualche parte? Incrociata per caso? Ma dopotutto, come avrei potuto notare chi non vuol farsi vedere? Come avrei fatto a trovarla?
Un flebile rumore mi scosse dai miei pensieri, un sommesso colpo di tosse mi aveva crudelmente ricondotto alla realtà. Mi riscossi velocemente, nascondendo con un gesto impulsivo la sigaretta, temendo di essere stato scoperto dal personale ATA o da qualche professore. Volsi il mio sguardo verso la direzione da cui era provenuto il colpo di tosse: qualcuno sedeva in fondo alle scale, a pochi gradini di distanza da me.
Come avevo potuto essere così cieco da non vederla?
Scorsi un’esalata di fumo e una sigaretta mentolata tra le sue dita. I folti boccoli castani erano una cornice perfetta alla copertina del libro che copriva il suo volto a me ancora sconosciuto. Sorrisi, leggendone il titolo. Che tu sia per me il coltello, David Grossman.
La presi per una sfida.
Cara estranea,
sono dell’idea che tutto abbia un inizio ed una fine. Non credo a tutto
ciò che è longevo quanto l'infinito vista la sua labilità e la sua ipocrisia.
Come potrei credere a qualcosa che non avrei l’occasione di godermi a pieno,
data la fragilità della mia vita da misero essere umano? Tutto si protrae da un
polo all'altro, come il mondo. Siamo tutti fatti, finiti e definiti. L’intera esistenza
non è altro che un lungo viaggio passato ad aspettare e temere la fine. Abbiamo un inizio il giorno in cui
nasciamo e al tempo stesso abbiamo una fine che, per quanto essa non ci sia
nota nel tempo, arriverà e ci sovrasterà con l'imponenza dei suoi artigli.
Crudele, non trovi? Con molta probabilità ho scelto le
parole sbagliate se vogliamo considerare questa lettera come un mio approccio
al tuo mondo. Non nascondo il tremore nelle mie mani a ogni parola scritta.
Qualcosa in questo atto di magica pazzia mi incupisce, ma quando ti ho vista
qualcosa mi ha acceso una luce nel petto che credevo morta da tempo. Sarà forse
paura, questa? O forse è timore di sproloquiare?
La mia vera paura è quella di averti spaventata. Prometto solennemente che
oltre a non abbaiare, non mordo nemmeno: sono in realtà un tuo coetaneo che è
soltanto troppo timido per rivolgerti la parola e che, quando ha visto il libro
che stai leggendo, non ha saputo resistere. Ti lascio fra le mani i miei
timori, le mie parole scritte con lo stomaco; da folle pazzo invece, lascio
questo pezzo di carta a te probabilmente inutile tra le pagine del tuo libro.
Ti va di essere il mio inizio?
Contemplo ora la classe silenziosa, i cui
banchi diversi fra loro sono una massa eterogenea fastidiosa alla vista. Il
cielo ancora soleggiato di settembre illumina l’aula con un dolce velo dorato.
Ho passato un’intera nottata a pensare a cosa scriverle, arrovellandomi tra
parole, significati, simboli e rimorsi. Forse duecentosettantanove
parole non sono un’ottima presentazione; nel corso della mia notte piena di
stelle passata in bianco ho sfinito i miei pensieri, scrivendo un’accozzaglia
di frasi prive di senso. Più fortunato di Ungaretti, anche senza corpi di
soldati, ho comunque scritto lettere piene d’amore durante la mia veglia. Non
nascondo che tutto ciò mi appare come qualcosa di decisamente azzardato, ma
giocare col fuoco è uno dei miei passatempi preferiti, soprattutto quando
rischio di diventare cenere. Non ho grandi aspettative a riguardo, anche se la
speranza di una sua risposta mi agita di quella trepidazione che mi fa quasi
passare l'appetito. Scegliere il posto in cui lasciarle
quella misera busta sgualcita dall’ansia non è stato facile: era necessario
trovarla, scoprire il suo nome, la sua classe e l’orario scolastico della
giornata. La fortuna è stata gentile, questa volta.
Proprio oggi mi sono dovuto rivolgere alla
professoressa Moriggi, referente per i progetti di
sostegno didattico; le ho dovuto spiegare l’acre situazione in cui mi trovo e
chiederle di poter aderire a un progetto BES (Bisogno Educativo Specifico).
Accogliendo la mia proposta, ha tirato fuori da un plico di documenti un elenco
manoscritto e, mentre contemplavo il corridoio gremirsi di gente durante il
cambio d’ora, semplicemente la ragazza che cercavo è entrata nella classe di
fronte alla mia. Sbigottito, non sentii le diverse richieste della
professoressa che dovette ripetermele nuovamente. L’operazione “troviamo quel raggio di sole” si è
quindi rivelata ancora più semplice, questa mattina: passando di fronte alla
sua classe l’ho vista seduta ad uno dei primi banchi. É stato quindi
sufficiente dare un’occhiata all’orario provvisorio delle classi per capire
quando agire. Non ho mai apprezzato tanto le ore di scienze motorie come questa
mattina.
Alice è il suo nome e suona così dolce
pronunciato dalla mia mente; scorre limpido fra i miei pensieri e si impiglia
nel ricordo dei suoi morbidi ricci castagna. L’ho scoperto leggendo
l’intestazione dei pochi quaderni che aveva nella cartella, ma ora devo uscire
furtivo dalla classe se non voglio essere scoperto. Le mani tremano al ritmo
del cuore che ancora palpita incredulo. I corridoi sono vuoti, eccezion fatta
per qualche bidella impegnata nell'arte del pettegolezzo. Tiro un sospiro di
sollievo e raggiungo il bagno dove, una volta entrato, lavo il viso con
dell'acqua fredda per ghiacciare un po' della tensione che mi riscalda i nervi.
Tra le palpebre è rimasta impressa l’immagine delle mie mani che cercano nel
suo zaino rosso il libro che mi fungerà da postino. Sospiro, lasciandomi andare
al proseguimento di questa giornata estenuante.
Sono le tredici quando l'ultima campanella
suona ed io mi scopro con lo sguardo perso tra la folla studentesca che ingorga
le uscite da questo inferno. Tra venti minuti passerà l'autobus che mi
riaccompagnerà tra le braccia di casa. Braccia che da qualche tempo fatico a
considerare accoglienti. Appena varco il cancello dell'uscita principale
estraggo il pacchetto di Marlboro Light morbide dalla tasca dei miei bermuda e
ne accendo una, finalmente respirando dopo cinque ore di torture. La mia
dipendenza dal tabacco è assai forte, ma ciò non mi turba fino a che essa placa
il tormento con cui convivo. Alle volte la convivenza più dura è proprio quella
con me stesso. Di me si può dire solo quel che è scontato, una triste e scarna
presentazione: il mio nome è Marco Fontana, diciottenne incastrato fra incubi e
deliri che frequenta l’ultimo anno di liceo artistico e abita in un paese
sperduto del Nord Italia. Il mio dossier però rivela cose che vorrei nessuno
sapesse e, forse, per questo la presentazione appena fatta non solo è scarna,
ma è anche una bugia.
Sono Marco Fontana, diciottenne incastrato fra gli incubi e i deliri causati da
uno spiacevole disturbo ossessivo-compulsivo che mi assedia giorno e notte.
All’arrivo dell’autobus infilo gli auricolari
nelle orecchie, acquietando la mia ansia con della sana musica. Mentre le note
dei Mercanti di Liquore si insinuano nelle mie orecchie appoggio la fronte
contro il finestrino, guardando le strade scorrere veloci oltre il vetro sporco
che filtra il mondo come un paio di occhiali polarizzati. Che diamine ho fatto? Che avevo in mente
quando l’ho vista? Quando ho tracciato a spigoli quelle parole? Nonostante
l’impulsività rientri nella cura contro la parte di me più ostica al semplice
atto di vivere, non riesco a non avere ripensamenti. Avrei dovuto controllare
meglio la situazione, conferire poco potere alle emozioni che mi hanno
trascinato stamane in quell’aula. Sospiro silenzioso, maledicendomi per
quell’avventatezza che vorrei invece premiare.
***
Sono centocinquantasei passi dalla fermata dell’autobus a casa
mia; dal cancello del condominio sono ventisette passi al portoncino della
scala B; sono trentanove scalini per raggiungere il mio piano, il terzo. Sono
tutti multipli di tre. Cosa potrei desiderare di più? Respiro profondamente, poi mi accosto
alla porta: provo ad auscultarla, a sentire quante volte è stata aperta e
chiusa questa mattina. Ho dimenticato le chiavi e suono il campanello,
aspettando una risposta che non giunge. Poso una mano sulla maniglia della
porta e scopro che è aperta. Entro piano, in punta di piedi, con il timore di
interrompere bruscamente il regno che il silenzio ha creato in questa casa. Mio padre non c’è. Richiudo la porta alle mie spalle e mi lascio scivolare verso terra, dove con uno sguardo più
attento scorgo un’ombra. «Bentornato, Marco», alzo lentamente la
testa, non riconoscendo la voce che con pazienza si rivolge a me. «Chi
è lei?» chiedo tenendo a freno la balbuzie che si impossessa della mia lingua
ogni qualvolta sono immerso nell’ansia. Lo sconosciuto mi sorride, il suo volto
si illumina; ha negli occhi un luccichio giovane, ma le rughe e la barba
incolta tradiscono questa apparenza. Ha lo stesso naso adunco di papà. «Dammi pure del tu», l’uomo si
inginocchia di fronte alla mia figura seduta sul pavimento freddo del
corridoio, «è un piacere incontrarti dopo anni, anche se in una circostanza
così spiacevole».
Sgrano gli occhi: «Qual è questa circostanza?» il cuore mi scalpita in petto e
sento le tempie pulsare. «Tuo padre non è qui.» Il mio respiro si ferma, il vuoto mi
colma. «Vuol dire che è finita?» i miei occhi
bruciano, i suoi mandano lampi di sconforto e dispiacere. «No, non ancora. Sta lottando. Tuo padre
è un uomo forte, ma è costretto al ricovero» sospira mestamente, «sei affidato
a me». Compio uno scatto degno di un felino e
in breve tempo mi ritrovo in piedi, con la rabbia che sgorga verso quest’uomo:
«Affidato a chi? Ad un estraneo che da un giorno all’altro trovo in casa mia?» I suoi occhi lanciano aghi che puntellano
le mie iridi verdi: «Christian Fontana, tuo zio», mi tende una mano, «ma a
quanto vedo il piacere è solo mio. Il pranzo è in tavola. Spero che il rientro
a scuola sia andato bene». Non smetto di guardarlo, fino a che non
infila una mano nella tasca dei suoi jeans logori, estraendone un mazzo di
chiavi. «Ho delle commissioni da sbrigare. Torno
dopo cena. Passa un buon pomeriggio», mi scosta di poco ed esce silenziosamente
dalla porta, lasciandomi in questa realtà che non riconosco più. Il mio petto
si alza, si abbassa, si alza e si abbassa feroce, di un respiro sempre più
greve. Urlo con una voce irriconoscibile.
Non ho pranzato, le patate e le carote si
toccavano e quando l’ho notato lo stimolo della fame era ormai passato da un
pezzo. Non sono riuscito a calmarmi, ho cercato un pretesto per stare meglio,
ma ho ceduto. Ancora. Mi sono seduto al centro della mia
stanza alla ricerca di qualcosa da ordinare e, non trovando nulla di utile,
sono sceso in cantina. Ho frugato a lungo, trovando il necessario, ma non
scovando l’ordine delle cose. L’ordine mentale di cui ho bisogno. Qual è
l’ordine del mondo in questo circolo di anime perse nelle tenebre? Secchi di vernice rossa inondano tutto
quello che si trova in camera mia e sono io a lanciarli. Sono le mie mani a
sporcare, a tingere di rosso tutto quel che è all’interno di questa stanza. Una
stanza in cui il dolore aleggia graziosamente e senza scrupoli.
Il dolore. Il rosso. Il sangue. Lo stesso dolore che aveva nel sangue
mia madre prima di morire. Lo stesso dolore che ora si prende anche
il sangue di mio padre.
Voglio cancellare, cancellare, cancellare.
Non lascio un solo spazio bianco.
Questo è il giorno in cui il dolore mi battezza.
Caro estraneo, sono lieta, stupita e spaventata da ciò
che ho trovato scorrendo le pagine del libro che sto leggendo. Non ti porrò
domande scontate a cui non risponderesti. È, sotto molti aspetti, inquietante
sapere che tu conosci me ed io non te. Potresti essere solo un brutto scherzo
inflittomi da qualcuno che ha voglia di divertirsi a mio discapito.
Infatti, questa potrebbe essere non solo la prima, ma anche l'ultima volta che
ti rispondo. Ad ogni modo, a dispetto della tua idea, ho un’opinione
completamente opposta alla tua riguardo al tempo: è quando smettiamo di
sentirlo scorrere che diventa infinito. Non è necessaria la morte per
l’eternità; basterebbe cogliere l’attimo giusto. D’altronde, finché la matematica
non sarà in grado di quantificare la durata di un attimo, mi godrò l’istante di
sorpresa che mi hai donato. Hai imposto dei binari che ora accetto di
percorrere. Detto ciò, diamo il via alle danze.
Che tu sia per me la fine.
P.S.: mi farebbe piacere se mi
indicassi un luogo in cui trovare la tua risposta.
Lo stupore suscitato da
quel foglio ritrovato nella mia lettura corrente è stato ampio. Perché sono
stata scelta come vittima di questo mistero? A cosa devo quest’onore o gravosa
sfortuna? Ho trovato la breve lettera una volta giunta a casa, quando ho spento
l'apparecchio acustico. Ho letto quelle parole ad alta voce, ma senza sentirle;
così le ho sfiorate piano con le dita, sentendo i solchi lasciati dalla penna
sulla carta sottile. Echi
d’inchiostro che solleticano i polpastrelli. Al mio fianco sento la presenza di mio
padre, che dolcemente mi accarezza la testa. Guarda il foglio spiegazzato posto
sulle mie ginocchia scoperte, io rimetto l'apparecchio acustico per poterlo
sentire senza dover comunicare con il linguaggio dei segni. «Scusa se l'ho tolto. Ho un gran mal di
testa», chiudo gli occhi e mi massaggio le tempie doloranti. L’emicrania
ostacola i miei pensieri e, al momento, non posso che considerarla una fortuna. «Il viaggio nel Paese delle Meraviglie è
stato faticoso oggi?» sorrido, quell'uomo sa
sempre come far increspare le mie labbra in un sorriso leggero. «Più che Alice mi sento Giulietta», gli
occhi di papà guizzano incuriositi da me alle lettera, dalla lettera a me. «Posso avere l'onore di leggere le
parole del tuo Romeo?» arrossisco,
vergognandomi della carta leggera rovinata dal tremore delle mie mani.
Annuisco a mio padre, che in un paio di minuti divora il contenuto della
lettera. «Abbiamo un poeta, cara. Non è un Romeo
come tutti gli altri!» papà sorride e si alza
per andare a servire il pranzo in tavola.
Finisco rapidamente di
mangiare e mentre salgo le scale diretta alla camera, mi sorge un dubbio. «Papà, non lo dirai alla mamma, vero?» «Beh, forse...» accenna dalla cucina, la
voce accompagnata dal sottofondo dell'acqua del lavandino e del rumore delle
stoviglie. «Papà!» grido per farmi sentire. Si affaccia alla porta con un
asciugamano umido fra le mani. Alza quest'ultime in segno di resa: «D'accordo,
d'accordo... Prometti però di farmi sapere se ti importuna». «Promesso.» Voglio bene in egual modo ad entrambi i
miei genitori, ma con mia madre le questioni sentimentali sono sempre tasti
dolenti. Tuttavia, non posso fargliene una colpa:
la mia vita sociale, soprattutto se collegata all’ambito scolastico, non è stata
una bella esperienza. Apprezzo, nonostante tutto, la sua preoccupazione. Siamo una famiglia molto unita, e lo
siamo in tutto: nella gioia e nel dolore.
***
La giornata è scivolata via come sabbia fra le
dita. Ho avuto tempo a sufficienza per soddisfare la mia fame di cultura, di
perdermi fra le lettere di Che tu sia per
me il coltello, di David Grossman. Questo libro
fa da monito anche per la situazione in cui attualmente mi trovo: non voglio
presumere che il mittente della lettera che ho ricevuto abbia letto questo
libro, ma se lo avesse fatto non sarebbe più una coincidenza. Sarebbe un vero e
proprio attimo colto.
Per scacciare via i pensieri, decido di godermi
il momento migliore di tutta la giornata: la doccia.
Non sento lo scrosciare dell'acqua, ma è sufficiente sentirla sulle
membra stanche per rilassarmi. Il vapore mi fa
pensare che non ci sia altro posto al mondo in cui vorrei essere. Le parole di
quel misterioso mittente mi restano però attaccate alla pelle, e non c'è
detergente che riesca a farle sparire.
E ora? Come farò a rispondere alla sua lettera?
Non posso far altro che prepararmi a una notte piena di quesiti e scarna di
risposte.
***
Fuori piove e il cielo ristagna di malinconia.
Penso alle lacrime di pioggia che versano le nuvole e mi chiedo perché anche
loro piangano, se i tuoni che tengono sveglia me le notti tempestose spaventino
anche loro. Chissà. Alla fine, grazie al consiglio che
spesso porta la notte, l’altro giorno ho deciso
di lasciare la mia risposta tra le incustodite pagine di Che tu sia per me il coltello. La lettera è sparita, ma non saprei
ben dire in che momento preciso: onestamente, in questi giorni ho lasciato il mio
zaino spesso solo a sé stesso, abbandonato contro la mia sedia. Chiunque sia il
mio Romeo, non ho intenzione di scoprirlo o, almeno, non agli albori di questa
corrispondenza che ogni tanto mi fa tremare i pensieri. Il fine settimana ci ha comunque separati;
nonostante il sabato scolastico e la mia nuova lettura, non ho trovato alcuna
risposta da parte dell’enigmatico ragazzo. Magari non gradisce il mio nuovo
libro della Mazzantini? Eppure Zorro è meraviglia pura. Soprattutto, chissà se legge, Romeo.
«Alice, torna dal Paese delle Meraviglie!» la
professoressa Moriggi mi riprende ed io penso solo
che con un nome come il mio, potrebbero trovare almeno cose più fantasiose da
dire. Quella Alice non è mica l’unica in tutto il panorama letterario! «Sì, Sara, scusami, stavo pensando.» «Me ne sono accorta! Ti stavo
dicendo...», ascolto le sue raccomandazioni sull'imminente esame di Stato, ma
ascoltare non è forse il verbo corretto. Sto sentendo, ma senza sentire nulla.
Breve storia della mia vita. Nel frattempo la professoressa di sostegno continua
a verbalizzare oralmente i suoi monologhi, ma la mia mente è già altrove.
Penso alla prima volta che ho conosciuto
persone nuove; alla prima volta che ho faticato a captare le loro parole; al
primo "ma sei sorda?!"
ricevuto, come di scherno, come se l'udito fosse prerogativa di tutti; penso a
tutte le volte in cui ho sentito l'apparecchio acustico sin dentro il mio
cervello. Le persone sono curiose e spesso
finiscono per esserlo in modo eccessivo. Quando posso, evito sempre argomenti
che riguardano la mia sordità, soprattutto con persone su cui so di non poter
contare. Mi domando se lo sappia, Romeo, che alla sua Giulietta è stato
mutilato l’udito. Non ho molti amici, o meglio, non
all'interno dell'istituto. Agli occhi degli altri appaio come una disabile,
come se oltre all'udito avessi disabilità cognitive, ma per loro sfortuna
quelle ancora mi mancano sulla lista. Come biasimarli, però? Al liceo, luogo
meglio noto come Inferno, chi si prenderebbe il peso di avere un'amica per cui
essere derisi? Quando Sara ha finito il suo flusso di
coscienza torno in classe, scusandomi con la professoressa di italiano per il
ritardo. Siedo al mio posto in prima fila sotto gli sguardi di tutti e apro il
tomo che ci aspetta quest'anno. Oggi l'insegnante introdurrà Leopardi e la mia
attenzione è solo per lei.
Quasi.
Spostando uno dei quaderni riposti sul mio banco, fa capolino una scritta sul
legno chiaro. Troverai
la risposta proprio qui sotto.
La mia mano scorre lenta sul legno liscio, la trepidazione mi fa tremare le
dita. Il mio sguardo si sposta ansioso da quella scritta alla professoressa. E
se fosse solo una presa in giro? Sospiro, magari è solo uno scherzo dei miei
compagni che a breve si sbellicheranno dalle risate prendendosi gioco di me. I
miei polpastrelli sfiorano della carta ruvida e qualcosa mi esplode nel petto,
forse rabbia, forse gratitudine, forse paura. Sono certa di sentirmi, anche
solo per pochi secondi, la ragazza più fortunata del mondo.
Sabato, 19 settembre 2015 Per Alice da Marco
Sono
dunque sorpreso di aver ottenuto risposta, lo ammetto. Non solo
sorpreso, ma dolcemente meravigliato. Sono rimasto un quarto d'ora buono a
gioire delle curve morbide della tua calligrafia, della filosofia delle tue parole.
Avrei
tante domande da porti e che risparmierò per il futuro: prima vorrei che tu sapessi
come ti ho conosciuta ed il motivo per cui ho scelto di scriverti in questo
modo anonimo e anacronistico. Non voglio in alcun
modo che tu sia spinta dai dubbi a credere che questo sia un gioco di cattivo
gusto o uno scherzo fatto a tua perdita da terzi. Posso
dire di te che il tuo pensiero mi attanaglia la mente dal primo giorno di
scuola. Sono un ragazzo comune, difficilmente mi avrai
notato e mi noterai, non solo perché passo facilmente inosservato: ho visto il tuo sguardo bramare la bellezza del mondo,
delle arti, ma non quella umana. Ti spaventano le persone? Scusa.
Avevo detto niente domande.
Posso dire che quel giorno leggevi seduta sul marciapiede
e l'unico raggio di sole in tutto il viale, illuminava te. Era anch'essa una
coincidenza? Può darsi, ma ho deciso di abbandonare per un po' il “panta rei” eraclitiano per
accogliere – forse un po' meno saggiamente– il “carpe diem”. Così
ho vagato per la scuola (sì, ora almeno sai che frequento lo stesso istituto) e,
per la prima volta nella mia vita, non ho avuto bisogno di contare le
piastrelle che calpestavo. Ti ho cercata tanto fino a che, passando di fronte a
una classe con la porta aperta, ho scorto la tua chioma inconfondibile. Ho
dovuto cogliere l'occasione, ormai si era palesata più volte di fronte ai miei
occhi e come rifiutarsi di fronte ad un mistero simile?
Attualmente, per me sei questo. Un mistero. E, per ora, anche il più curioso e
bello che io conosca.
P.S. Temo che qualcuno possa trovare il
nascondiglio sotto il tuo banco. Vorrei evitare spiacevoli inconvenienti,
quindi se ancora ti andrà di rispondere, puoi lasciarmi le tue parole candide
in un antro dietro la macchinetta al terzo piano, quella utile a disintegrare
bicchierini di plastica. Almeno dietro quelle, sono sicuro che nessuno andrà a
guardare.
Colgo l’occasione, con questa lettera, per farti
notare che oggi è il primo giorno d'autunno e ciò mi rende contenta. Ogni volta
che arriva questo periodo mi sento in dovere di leggere qualche poesia di
Ungaretti. Anche se, a dirla tutta, leggere Ungaretti dovrebbe essere un dovere
e basta. Rettifico: dovrebbe esserlo nutrirsi di poesia. Bando alle ciance!
La tua
reazione alla mia risposta mi ha lasciata dubbiosa: come fai a scongiurare uno
scherzo ma al contempo farlo sembrare così reale? Perdonami se nelle mie parole
trovi una ragazza rude, ma d’altronde anche io necessito di salvaguardarmi. Questa
tua anonimia ti protegge, ma il tuo scudo non è sufficiente per coprire entrambi;
in tutta onestà, non è il momento adatto per essere vulnerabile agli occhi di
un estraneo.
Eppure sono curiosa, tremendamente curiosa: cosa sai di me? Quanto mi conosci? Sei
sicuro di non aver sbagliato persona?
Nonostante
tutto, non ho intenzione di negarlo. L’idea di dar vita a una corrispondenza –
seppur anonima – è qualcosa che, con i suoi pregi e i suoi difetti, mi alletta.
Più rileggo le tue parole, più perdo la testa. Sembri, in tutto e per tutto,
uscito da uno dei miei romanzi preferiti. La tua personalità mi attrae, come se
tu fossi miele ambrato che cola, ma da un alveare colmo di api. A quanto
ammonta, oggi, il rischio di essere punta? Qual è la trappola in cui vuoi che
resti invischiata senza via di fuga?
Come ho
già ribadito, non sono certa che continuerò a risponderti qualora mi sentissi
in particolare disagio o pericolo. Nel frattempo, però, concedimi di
approfittare ancora un po’ delle tue lettere. Vorrei porti una quantità di
domande incommensurabile, una quantità che sta tra lo zero e l’infinito.
Sappilo: sarò spietata, ma non banale. Rispondi a più quesiti possibili, te ne
prego.
Le tue
risposte, attualmente, sono l’unica cosa che potrebbero salvare questa corrispondenza
e protrarla nel tempo. Sono certa che ai tuoi occhi sia già risaltata una
contraddizione: scrivo righe di rigide premesse e poi ho questa istintiva
fiducia nei tuoi confronti. Carpe diem, giusto? Tieniti pronto, perché ora
iniziano le domande, sperando non siano poi troppo scomode.
Perché scegliere una coincidenza – come quella
del raggio di sole – per scegliere l'ultima fra le ultime? Cosa sai di me, di
me come persona? Perché hai scelto di essere un intreccio di segreti? Qual è il
tuo punto debole, la timidezza o la popolarità? Cosa ti impedisce di
avvicinarti e parlarmi?
Infine, avrei tanto voluto chiederti il tuo
nome, ma vista l'idea sciocca, ho deciso di sceglierlo io per te: Caronte. Ti
ci vedrei bene, anche se non come un vigoroso e anziano traghettatore; non
scorgo in te l’impeto con cui lui stesso impreca contro le anime condannate
all’erranza. Sento del fuoco, però, nei tuoi occhi. Vicina è anche la
disperazione che trapela dalle tue parole. Sento il tuo dolore.
Anche se con molto rammarico, devo comunicarti che al momento non ho oboli da
offrirti.
Se me lo
concedi, però, vorrei poterti guardare da lontano, anche se preda delle acque
dell’Acheronte. Lasciami naufragare almeno un po' in questo tuo terrificante
fiume fatto di urla.
P.S. Sappi che mentre ti scrivo, sono seduta
proprio dove mi hai vista per la prima volta.
«Ciao Marco, vieni pure», sorride la mia
psicologa, «oggi ci aspetta un bel po’ di lavoro.»
Non riesco ad emettere
alcun suono. Trascino il mio corpo dentro il suo studio, sedendomi sulla sedia
da ufficio di stoffa ruvida imbottita. Questo primo incontro dopo la pausa
estiva rischia più di infrangermi che di ricongiungere i frammenti sparsi di
me. Aspetto che Francesca si accomodi dall’altra parte della scrivania prima di
sospirare pesantemente.
«Non credo ci sia più molto da fare, ormai»,
mormoro sottovoce temendo le mie stesse parole, «mi sento di non valerne più la
pena.» «Quanto tempo gli hanno dato i medici?» «Non l’ho voluto sapere. E, in tutta
onestà, preferisco non saperlo.» «Parlami del rientro a scuola. Come ti
sei sentito?» chiede, gentile come non lo è nessuno con me. Mi spiego meglio:
la gentilezza di Francesca non è falsa cortesia; è curiosità sincera espressa
con un tatto da maestri. «Solo, esattamente come mi aspettavo.
Una solitudine più feroce di quel che avevo programmato. Eppure, qualcosa di
buono ne è saltato fuori», ammetto arrossendo pensando alle lettere di Alice, «qualcosa
che nemmeno io avrei immaginato». Francesca mi guarda, in attesa, e con
sempre più timidezza proseguo: «Ho scritto a una ragazza». «Durante le vacanze estive? Vi siete
scambiati i numeri?» «No», affermo svelto, «quando dico che
le ho scritto, intendo dire che le ho scritto.» Lo sguardo di Francesca
è confuso, si sposta i corti ricci biondi dalla fronte e ci pensa qualche
secondo. «Evidentemente sono dura di
comprendonio. Continuo a non capire cosa intendi.» Ho estrema fiducia nei confronti di
questa donna, ed è per questo che prendo il plico di lettere dallo zaino e lo
poso sul legno scuro della scrivania che ci separa. Ho tenuto anche le brutte
copie delle mie lettere, perché non voglio dimenticare una sola parola di
questa corrispondenza. I suoi occhi ora sono sorpresi come lo sarebbero quelli
di un bambino, così non mi faccio scrupoli: inizio a raccontarle di come io abbia
colto un attimo inaspettato e di come Alice, dopotutto, abbia deciso di rispondere
a un folle come me.
La mia psicologa non si perde a indorare la
pillola, anzi, fa osservazioni di una certa rilevanza: «Il fatto che tu ti sia
messo in gioco, Marco, è senza ombra di dubbio un buon segno. Soprattutto se
prendiamo in considerazione il rifiuto che hai per i farmaci in questo ultimo
periodo.» «Ma?» chiedo, perché le sue parole hanno
il gusto di qualcosa lasciato a metà. «Goditi il momento, è giusto che tu lo
faccia. Se tutto filasse liscio, sarebbe la tua prima esperienza in campo
sentimentale e questo comporterebbe molte cose che ancora ti causano grandi
sofferenze», Francesca mi guarda negli occhi con tutta la sua genuinità, «vorrebbe
dire aprirsi, Marco, confidarsi. Condividere gioie e soprattutto dolori. Sei
sicuro di esserne pronto?» «E se invece non andasse a buon fine?» domando,
rigirando il coltello nella piaga delle mie emozioni troppo vivide. «Il dolore è un pezzo che già conosci,
non credi? Sarebbe un dolore diverso dal solito, ma pur sempre dolore. Sei
sicuro di volerti mettere in gioco proprio ora che sei più fragile?» «Sono nato pronto.»
Giovedì 24 settembre 2015
Per Alice da Marco
Spero che le urla del mio corso di anime non
ti siano di troppo disturbo. Posso offrirti qualcosa? Magari un mucchio di
parole inutili? Qualche fugace risposta alle tue impetuose domande? Iniziamo
con ordine.
Fortunatamente, mi trovi concorde su due cose:
Ungaretti e la poesia. I lettori, se già tuttora possono considerarsi quasi
figure mitologiche, sono ancora più rari quando sono voraci di poesia. In un
certo qual modo, sono ancora più contento di averti scoperta.
Prima di tutto, vorrei contestare la
vulnerabilità di cui pensi di essere in balìa: ne abbiamo la medesima quantità.
So che può risultare paradossale, ma quel che so di te – oltre al tuo aspetto,
la tua classe e quel che mi hai scritto – è anch’esso misero.
Anche, e soprattutto per questo vorrei proseguire la nostra corrispondenza:
benché non lo faccia trapelare, nel petto ho la stessa bramosia di saperti che
hai tu. Tu che sei sfuggevole, tu che eludi le mie domande e ti prendi con
forza la facoltà di porne a tua volta. Lo trovo adorabile.
Dunque, come puoi continuare a credere che mi
stia prendendo gioco di te? Non ne avrei motivo: io sono fortunato, perché di
te, che tu scelga o meno di dar lunga vita a tutto questo, preserverò per
sempre la tua autenticità. Quest’ultima, se mi è concesso dirlo, dubito sia
privilegio di tutti.
Ah, e per quanto riguarda il punto debole,
direi che non è né timidezza né questione di popolarità. È che ora preferisco
averti così, senza obblighi o doveri, senza che tu ti senta costretta a
lasciarmi entrare a gamba tesa nella tua vita. Lo spazio che se mai mi
spetterà, preferisco prendermelo parola dopo parola, lettera dopo lettera. In
fondo, sento di dovermi guadagnare la tua attenzione e, perché no, un piccolo
spazio dentro di te.
I tuoi dubbi mi lasciano comunque un po’
perplesso: siamo nel 2015 e la tecnologia ha la meglio sulla carta e sul
cervello degli uomini. A quale scopo farti uno scherzo di cattivo gusto quando,
tutto sommato, sarebbe sufficiente postare una foto ridicola di te online? Siamo
anacronistici e io ne sono entusiasta.
Entrambi non facciamo altro che divagare. Stimoli positivamente la mia rara
parlantina. Posso chiamarla “parlantina” anche se sto scrivendo? Insomma, mi
sono perso di nuovo dentro i miei soli pensieri.
Ho bisogno della tua compagnia per far sì che i
miei spettri non fuggano da me, per tenere incollato quel poco che ho di buono:
ti va di essere la mia Wendy armata di ago? Saresti
disposta ad acciuffare la mia ombra per poi cucirmela sulla pelle?
Voglio sentire la libertà delle tue parole
imprimersi sulla carta, le tue emozioni vibrare sul foglio. Riesco a percepire
la tua dolce tenacia, la tua diffidenza, la tua curiosità. Almeno quest’ultima
spero di poterla soddisfare, prima o poi.
Sei stata il mio raggio di sole quella mattina
e a ogni tua parola, che sia estate o autunno, penso solo:
“Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.”
(Giuseppe Ungaretti, Veglia)
P.S. In quel vestito
color rosso tramonto-che-spero-non-tramonti-mai, non trovarti meravigliosa è
stata cosa ardua.
Alice
I miei occhi continuano a scorrere sulla lettera
che ho tra le dita. La brezza autunnale mi coglie di sorpresa, facendomi
rabbrividire: è ormai passata un’ora da quando mi sono seduta qui. Sono in
stazione, su una banchina, a lasciarmi cullare dal vociare dei passeggeri che
vanno e vengono. Solitamente resto qui, con l’apparecchio acustico spento,
perché quando sono sommersa dal silenzio e guardo gli abbracci di chi
finalmente si incontra, mi sembrano tutti più carichi d’amore. Sono momenti
magici, per me, anche se non ne sono la diretta protagonista. Mi piace stare
sullo sfondo, forse perché adoro il mondo o forse perché ne ho una gigantesca
paura. Non mi è ancora ben chiaro.
Quando vedo la mia amica in lontananza, torno a sentire il rumore del mondo e
ho quasi un capogiro.
«Stai nuovamente facendo la carta da parati?»
la voce di Bea mi giunge forte e chiara. «Così sembra», mormoro alzandomi, «mi
sei mancata!»
Ci scambiamo un abbraccio nostalgico e, per un
attimo, vorrei che la Alice-carta-da-parati ci vedesse. Sono anni che io e
Beatrice adoriamo definirci carta da parati o tappezzeria, insomma, dipende. Lei
ha un’innata abilità nel passare inosservata, nonostante il suo aspetto sia
talvolta stravagante. A detta sua, non ci mette molto impegno, ma io credo che
invece si sia abituata al silenzio per anni. E, ancor più che il silenzio, sono
convinta che il dono dell’invisibilità le sia costato parecchio in alcune
situazioni. Raramente ho visto Bea abbattersi, ma
questo non la rende invincibile: ai miei occhi le sue debolezze appaiono
comunque come punti di forza. Sono passati quattro anni da quando ci siamo
conosciute e, inevitabilmente, legate. I suoi capelli tinti di rosa fluorescente
e la sua abilità da tappezzeria sono l’ossimoro più bello che conosca.
Quando penso a quest’ultima frase, riecheggia
dentro me la lettera che ancora tengo in mano. L’occhio da aquila di Beatrice
non se l’è certo lasciata sfuggire. «E quella?», chiede mentre sulle sue
labbra si disegna un sorriso furbo.
Arrossisco istantaneamente: «Beh, questa… sì, ecco, questa…», balbetto. «È quello che credo?» Annuisco, sempre più rossa in viso. Bea
sorride largamente e vedere i suoi occhi così curiosi e sereni mi fa sentire
meglio: «Allora direi che è meglio sbrigarsi, L’angolo del goloso non
resta aperto in eterno per noi!»
***
«Ora che ho la pancia piena mi sento dieci
volte meglio», afferma Bea tastandosi il ventre, come se la focaccia avesse
preso forma nel suo grembo, «hai una vaga idea di chi potrebbe essere il tuo
Romeo?» «Tu e mio padre siete in combutta, per
caso?» chiedo, mentre Bea mi guarda perplessa. «In che senso?» chiede con cipiglio, i
suoi occhi quasi verdi rilucono il sole autunnale. «Lo chiamate Romeo così spesso che ormai
quando ci penso lo vedo in calzamaglia sotto al mio balcone», rispondo ironica,
suscitando una grassa risata sulle labbra della mia amica, «comunque, no. Non
ho idea di chi possa essere. Da quando sono diventata così non ho più rivolto la parola a nessuno lì dentro». «Può anche darsi che tu non abbia
stretto amicizie, Ali, ma non sei davvero
invisibile», mormora trangugiando quel che è rimasto della merenda, «almeno,
non con quel cespuglio di ricci in testa». Le
nostre risate si fanno compagnia, ma dentro me sento solo una gran confusione. La
mia amica coglie al volo ogni mio stato d’animo, il suo sguardo resta fermo sul
mio viso, e con un breve cenno del capo, mi sprona a dirle quello che penso. «Ecco, Bea…» mormoro. «Perché proprio
me? Credi che sia a conoscenza di questo?» le chiedo, esponendo apertamente il
mio apparecchio acustico retroauricolare. Beatrice
raccoglie le briciole della focaccia rimaste sul tavolo, il movimento delle sue
mani piccole e curate quasi mi ipnotizza mentre getta le malcapitate su un
piattino. «A questo non so e non posso
risponderti, ma ti ha già scelta», la mia amica sospira, poi incornicia la sua
bocca con un sorriso, «magari sa a cosa sta andando incontro». «Come fai ad esserne così sicura? Io, a
tratti, ancora temo che sia uno scherzo o un viscido uomo di mezza età!» Bea è esausta di cibo e inizia a
sistemare le sue cose nella borsa argentata: «Non è impossibile ma resta molto improbabile.
Né un viscido né un simpaticone si impegnerebbero a scriverti delle lettere.
Che scherzo sarebbe, poi, se uno dovesse impegnarsi pure così tanto per farlo?» Annuisco piano, riflettendoci sopra.
Beatrice non ha torto, eppure il mio cuore è ancora un po’ spaventato. Infilo
una sigaretta tra le mie labbra, ho decisamente bisogno di una boccata di
nicotina. Porgo i soldi della merenda alla mia amica, che con zelo si reca alla
cassa e paga mentre io esalo la mia prima boccata di fumo.
Dopo pochi attimi mi raggiunge e, seppur tristemente, arriva il momento di
congedarsi. Stringo forte tra le mie braccia il corpo di questa ragazza
stravagante e adorabile, con i suoi pantaloni etnici a zampa di elefante e i
capelli rosa. «Ti fidi di me, Ali?» «Ciecamente.»