Boku ga anata no mae ni di arashinosora5927 (/viewuser.php?uid=821446)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Unico al mondo ***
Capitolo 2: *** Un mondo per lui ***
Capitolo 3: *** Un mondo attorno a lui ***
Capitolo 4: *** Lo stesso mondo ***
Capitolo 5: *** Tutto un altro mondo ***
Capitolo 6: *** Quale mondo? ***
Capitolo 7: *** Non quel mondo ***
Capitolo 8: *** Un mondo senza lui ***
Capitolo 9: *** Un nuovo mondo ***
Capitolo 10: *** Un posto nel mondo? ***
Capitolo 1 *** Unico al mondo ***
Molteplici studi affermano che i bambini tendono a dimenticare i
ricordi dei loro primi anni di vita anche se conservano le percezioni,
Hayato rappresentava un'eccezione, come sempre del resto.
Fin dal primo istante in cui aveva aperto gli occhi si era comportato
diversamente, come se volesse opporsi alle convenzioni senza ancora
avere consapevolezza di cosa fossero. Non aveva pianto, ma aveva mosso
rapidamente gli occhietti grigi come se volesse ispezionare l'ambiente.
Già respirava, sembrava sapere esattamente come fare e
quando finalmente pianse al terzo schiaffo sembrò averlo
fatto per condiscendenza.
L'ostetrica che lo prese tra le mani constatò immediatamente
delle anomalie ulteriori, dalla pelle così bianca da
ricordare il colorito di un cadavere alla facilità con cui
riusciva a sollevarlo. Poteva essere un figlio della luna, il che era
veramente una condanna: il pensiero che una donna che non disponeva di
sufficiente denaro per coprire le spese della propria malattia dovesse
anche badare a un neonato affetto da xeroderma pigmentosus le
stracciava il cuore. Inoltre Hayato arrivava a fatica ai due chili, nonostante non fosse nato prematuro, segno che la donna avesse
scoperto tardi la propria gravidanza e non si nutrisse correttamente e
in quantità sufficiente.
LavinIa era ancora stordita dall'anestesia, che aveva subito
perché nelle sue condizioni il parto naturale era stato
scartato a prescindere, quando le adagiarono tra le braccia un
fagottino avvolto in un panno di lino verde che teneva gli occhi chiusi
e i pugni stretti come se sentisse il bisogno di difendersi.
Il ginecologo che aveva seguito il suo caso a dir poco anomalo la
affiancò con uno sguardo gentile. Mai nella sua carriera
avrebbe pensato di assistere a un simile miracolo: una gravidanza
portata a termine sotto chemioterapici.
"È un maschio, come sa è già
incredibile che sia nato quindi non le nascondo che le sue condizioni
di salute ci preoccupano. Dobbiamo approfondire facendo ulteriori
analisi che richiedono costi onerosi."
Lavinia si limitò a sorridere accarezzando delicatamente il
capo del bambino intravedendo qualche ciuffetto argenteo che
timidamente era spuntato, riconoscendo il suo marchiò di
fabbrica. Le sue dita affusolate da pianista erano state distrutte
dall'azione degli farmaci che le venivano iniettati in endovena. Il
piccolo aprì gli occhi destato dalla voce accogliente del
medico e li puntò in quelli della mamma. Dovette
riconoscersi perché sorrise invogliando la giovane a fare lo
stesso. La gioia che le esplose nel petto non era descrivibile, Lavinia
percepiva quell'amore in ogni atomo del suo corpo. Sangue del suo
sangue, giurò a se stessa di proteggere in eterno quel
sorriso.
"Fate tutto il necessario, io non sono che il corpo che lo ha portato
alla vita, non potrò vederlo crescere. Si
occuperà di lui suo padre, Don Alfonso Bianchi."
Lavinia sorrise amaramente davanti all'espressione turbata del
primario, era bastato un cognome a farlo tremare e l'atteggiamento
gentile ora si era tramutato in rispetto solenne scaturito dalla paura.
"Qualunque cosa desideriate, signora Gokudera."
Lavinia era stata dimessa dalla clinica appena tre giorni dopo, un
fascicolo che non finiva più in cui le veniva spiegata per
filo e per segno la particolare condizione di suo figlio.
"Albinismo incompleto, una forma rara" le aveva detto il tecnico di
genetica molecolare.
"In poche parole suo figlio si è rifiutato di rientrare in
qualsiasi anomalia genetica classificata e riconosciuta e ne ha creata
una tutta sua" aveva scherzato l'assistente prossima a ereditare
l'intero laboratorio e il lavoro di suo padre.
"La buona notizia è che abbiamo scongiurato l'opzione dello
xeroderma pigmentosus, quindi suo figlio può essere esposto
al sole senza che ciò gli causi danni cerebrali, ma essendo
comunque un albino anche se solo in parte la sua pelle rischia di
andare incontro a vere e proprie ustioni se prima non viene applicato
uno strato protettivo. Inoltre i suoi occhi sono molto sensibili per
questo motivo bisogna limitare il contatto con luce naturale, il suo
sistema immunitario già precario per i trattamenti patiti
è ulteriormente indebolito da questa condizione
perché la mancanza di pigmenti che schermino le radiazioni
UV sulla cute favorisce modifiche al DNA" una spiegazione veramente
dettagliata da cui Lavinia aveva appreso concretamente solo il fatto
che doveva evitare che il sole baciasse il suo bambino.
"Inoltre potrebbe avere gli occhi rossi, come i vampiri"
cercò di sdrammatizzare l'assistente, si vide dare una
gomitata da un collega.
"Voglio dire per il momento sono grigi però la mancanza di
melanina è tale che potrebbe perdere qualsiasi colore e
mostrare solo vene e arterie, per questo l'iride diverrebbe di colore
rosso."
Quelle parole riecheggiarono nella testa di Lavinia, parole che le
causarono un tale senso di colpa, perché solo lei era
responsabile di tutte le difficoltà che quel neonato
già doveva affrontare, che si odiò per non essere
stata un po' più forte da farsi prescrivere una pillola o
ricordarsi di usare il preservativo nonostante la foga del momento.
"Rimane solo la questione del nome" le aveva fatto notare il ginecologo
che l'aveva assistita tanto premurosamente.
A quell'ora Lavinia credeva che il padre del bambino si sarebbe
già presentato per riconoscerlo e scegliere quel dettaglio
così significativo insieme, ma non era che una speranza
illusoria a cui si era aggrappata con tutte le sue forze.
Stanca di attendere qualcuno che non sarebbe mai arrivato
perlustrò la propria mente alla ricerca di una parola che
nella sua lingua natale, il giapponese, potesse avere un significato
adatto alla situazione. Scelse "maschio", la prima parola che aveva
captato quando il ginecologo le aveva parlato dopo l'anestesia.
Metafora della forza, della sicurezza, così come
rappresentato nella sua cultura, unendo i sinogrammi "隼" e "人"
rispettivamente "falcone" e "persona" perché potesse volare
sempre più in alto delle sue difficoltà, ma non
dimenticasse mai la sua natura umana.
Era sollevata che le fosse nato un maschio perché nella
mafia le donne non avevano vita facile, invece il suo bambino avrebbe
ricevuto le migliori cure al mondo e un giorno sarebbe stato un grande
boss amato e rispettato da tutti e con un cuore enorme. Aveva un futuro
radioso davanti a sé.
"Hayato" mormorò Lavinia lasciando andare una lacrima
conscia del fatto che non ne avrebbe fatto parte.
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Capitolo 2 *** Un mondo per lui ***
Lavinia non aveva latte, la sua malattia non aveva permesso che si
sviluppasse e così Hayato le era stato tolto prima ancora
che potesse svezzarlo.
Era la legge della mafia, lo sapeva fin troppo bene, ciò
nonostante nelle promesse di Alfonso ci aveva creduto e sperato
finché questi non si era rivelato nella sua debolezza.
"Mi dispiace, ho sbagliato tante cose con te" erano state le parole che
le aveva detto per telefono dopo che un gruppo di uomini vestiti in
giacca e cravatta avevano fatto irruzione nel suo modesto appartamento
e le avevano letteralmente strappato il bambino dalle mani.
Lavinia non aveva neanche provato a riprenderselo, aveva solo insistito
affinché potessero avere tutto ciò che serviva
per prendersi cura di Hayato correttamente.
Il piccolo aveva percepito il pericolo imminente ancora prima che la
calma apparente venisse turbata. Lavinia stava passeggiando avanti e
indietro sul balcone del salotto accennando appena una melodia dolce,
ma Hayato all'improvviso aveva iniziato a strillare come se lo stessero
torturando. Lavinia si era spaventata e si era domandata cosa non
andasse, ma la risposta era esattamente alla sua porta d'ingresso.
Tra gli uomini riconobbe uno dei guardiani di quello che tecnicamente
era il suo grande amore, era stato testimone del loro primo incontro e
del loro primo bacio, aveva persino suonato il violino per loro una
sera che Alfonso l'aveva portata fuori a cena.
"Ciccio..." lo aveva chiamato la donna, con le lacrime agli occhi
l'aveva supplicato di dargli ancora un attimo, solo un istante in
più per salutare per sempre suo figlio.
"Ti chiedo scusa, Lavinia. Io eseguo solo gli ordini e la nostra
Madonna Clara ha detto chiaramente che avevamo tre minuti precisi per
recuperare il bambino o sarebbe venuta a ucciderlo con le sue stesse
mani."
Lavinia tremò, molto più intensamente di quanto
aveva fatto il giorno in cui l'oncologo le aveva detto che le restavano
al massimo sei mesi di vita.
"Non gli farà del male, vero?" chiese disperata.
Francesco le rivolse uno sguardo che per quanto apparentemente freddo
rivelava profonda premura.
"Questo bambino diventerà il decimo boss della famiglia
Bianchi, la signora ha solo bisogno di togliersi il dente e accettare
quello che è successo. Obbedendo ai suoi ordini non hai
niente di cui preoccuparti."
Lavinia si era a lungo preparata per quel momento, ma niente e nessuno
le avrebbe potuto mai dire quanto avrebbe fatto male. Sentì
come se le avessero strappato il cuore dal petto, lo avessero gettato a
terra e calpestato riducendolo a brandelli finché non ne era
rimasto solo sangue.
Dopo aver pianto per ore interminabili, appoggiata con la schiena alla
porta, il viso tra le mani e le ginocchia al petto, si era sentita
semplicemente un guscio vuoto.
Non aveva più lacrime da versare e dell'immenso dolore non
rimaneva che una cupa anestesia. Sarebbe morta ancora prima del
previsto, morta di crepacuore.
Nelle sue orecchie rieccheggiavano le urla di suo figlio che forse
aveva o forse no consapevolezza che gli avevano spezzato qualunque
legame con la persona che lo aveva messo al mondo. Erano
così forti e acute che persino gli uomini del suo amante
avevano esitato, chi tappandosi le orecchie, chi storcendo il naso.
Lavinia aveva accompagnato l'uscita dalla sua vita con una dolce
melodia utilizzando le corde vocali finte perché Hayato si
calmasse e potesse sentirsi al sicuro.
Solo quando si erano allontanati e non sentiva più le urla
strazianti di suo figlio si era permessa di crollare.
"Madonna Clara, abbiamo il bambino" annunciò Daniele, lo
espose alla donna come se fosse un trofeo.
"Toglilo di mezzo, non lo voglio neanche vedere" ribatté
Clara guardandolo come se fosse la cosa più disgustosa al
mondo.
"Subito, signora" ribatté Daniele scattando sull'attenti,
cercò di capire come tenere il bimbo in braccio senza
farselo scivolare e raggiunse l'ufficio del suo boss.
"Eminenza" disse bussando alla porta.
Alfonso riconobbe la voce e lo invitò a entrare impaziente,
febbricitante di guardare in faccia il suo erede.
Daniele si fece avanti e gli si avvicinò cercando di gestire
quella che era una specie di bestia impazzita che si dimenava e urlava
come se volesse farsi a pezzi.
"È irrequieto" commentò Alfonso, il cuore gli si
strinse vedendo che con le piccole unghie ancora in via di formazione
era ugualmente riuscito a graffiarsi le braccine.
"Ordina alle sarte di fare dei guanti, episodi del genere non devono
mai più succedere" ordinò.
Daniele si dileguò con un inchino percependo il messaggio
subito dopo avergli consegnato il bambino come se fosse un pacco.
Alfonso lo accolse tra le sue braccia, gli rivolse un sorriso dolce.
"È tutto finito, figlio mio, sei a casa tua"
mormorò dondolandolo nel vano tentativo di calmarlo.
Dovette scuoterlo eccessivamente perché Hayato gli
rigurgitò in faccia, cosa che Alfonso interpretò
come una punizione del karma oltre che un segno inequivocabile di non
piacere al bambino.
Lavinia non aveva latte, ma Diana sì, infatti dopo qualche
giorno di miscele artificiali in clinica e a casa della sua mamma
Hayato fu allattato al seno e allora si scoprirono ancora
più cose circa le sue condizioni fisiche.
Tanto per iniziare sembrava odiare il contatto non la pelle, guardava
sempre con circospezione la balia a cui era stato affidato quando
questa si alzava la maglietta e abbassava la coppa del reggiseno per
dargli da mangiare. Ciò che era ancora più strano
era il modo in cui non succhiava, rimaneva lì fermo come se
non sapesse esattamente cosa fare e come farlo. Inoltre non chiedeva
mai di mangiare, Diana era stata istruita a nutrirlo ogni quattro ore,
ma era un'impresa. Cosa ancora più inusuale Hayato si
addormentava come se il latte fungesse da sonnifero il che impediva la
sua corretta alimentazione.
Diana non era l'unica a occuparsi di Hayato, assieme a lei c'era un
intero stuolo di servitrici. Due o più balie per ogni
occasione e una serie di esperti di questo e quello da tutto il mondo
perché Hayato ricevesse tutto ciò di cui aveva
bisogno e anche di più.
Elisa e Lorena erano le addette al bagnetto e a rivestirlo, Teresa si
occupava di leggergli le storie prima di andare a dormire
sennò Hayato avrebbe tenuta sveglia l'intera villa
sgolandosi per tutta la notte. Per coinciliare il sonno di un neonato
ingestibile Alfonso aveva reclutato chiunque potesse dargli una
risposta anzi una soluzione al problema, aveva chiamato chiunque
persino un qualificato insegnanti di musica che stava portando avanti
una ricerca sulle frequenze ottimali per la composizione di ninnananne,
ma alla fine la carta vincente si era rivelata un oggetto comunissimo,
il phon. Il suo calore doveva farlo sentire al sicuro, così
come il rumore, gli bastava udirlo per crollare addormentato.
Nonostante la grande quantità di persone che si prodigava
per il futuro boss dei Bianchi, Diana era l'unica che sentiva di essere
sua madre e trattava Hayato proprio come Andrea, il proprio figlio.
Andrea era il sopravvissuto di un parto gemellare per questa ragione
Diana aveva così tanto latte. La porzione di Luca era
spettata ad Hayato e forse proprio per questo Diana percepiva una
profonda connessione col piccolo.
Mettendoli a paragone aveva notato le differenza tra i due bambini,
nell'atteggiamento, nelle dimensioni. Erano come il sole e la luna in
tutto e per tutto.
Hayato era arrivato da scarsa una settimana, ma nel bene e nel male a
villa Bianchi non si parlava di altro.
Diana in cuor suo celava la speranza che crescendo insieme il suo
Andrea e il suo Hayato sarebbero divenuti amici, ma questo andava
contro le regole della famiglia fortemente classista e il piccolo
Bianchi sembrava avere altri programmi visto il suo atteggiamento.
Hayato era un bambino veramente impegnativo che sembrava non voler fare
assolutamente niente di ciò che gli veniva chiesto come se
volesse opporsi per il semplice fatto che fosse una richiesta.
"È un leader nato" aveva commentato Alfonso fieramente, ma
Diana aveva i suoi dubbi, gli sembrava che il piccolo avesse subito
traumi veramente pesanti e difficilmente si sarebbe ripreso.
Tra le difficoltà implicate nel prendersi cura di Hayato
Bianchi Diana riscontrò l'applicazione della crema
rigorosamente tre volte al giorno e su tutta la superficie corporea.
C'era poi una lozione che doveva mettergli negli occhi e ogni volta era
una tragedia, se ne andava almeno mezz'ora per riuscirci,
fortunatamente era solo una volta al giorno.
Nonostante la fatica e la stanchezza del caso Diana amava Hayato e
avrebbe dato la sua vita per lui come per Andrea.
Dopo la prima settimana era finalmente riuscita ad allattarlo a dovere
e in breve tempo finalmente il peso era aumentato significativamente.
Accolse quell'evento come una grande conquista e lo
festeggiò, ebbe però la consapevolezza assoluta
di aver scalfito il muro che il piccolo senza sapere aveva
già saputo erigere quando Hayato le strinse un dito nel
proprio pugnetto mentre si addormentava, le manine tenute al caldo da
guantini azzurri con un merletto bianco candido in pizzo a disegni
floreali.
Diana non faceva altro che obbedire agli ordini, questo aveva fatto
tutta la sua vita e questo avrebbe continuato a fare, ma prendersi cura
di Hayato era stato di gran lunga la cosa migliore che fosse mai stata
obbligata a fare.
Le settimane passavano e il suo piccolo cresceva, giorno dopo giorno
iniziava a riempire la propria pelle così che non si
intravedessero più le ossa. Restava minuto, mingherlino, ma
non dava più l'impressione di essere stato una vittima della
fame nel mondo.
"Sai che quando la signora finalmente accetterà di
prendersene cura dovrai separartene, vero?" le aveva fatto notare la
sua collega Teresa.
Diana ne era pienamente consapevole e per quanto egoistico potesse
risuonare sperava davvero che quel giorno non sarebbe mai giunto e di
poter divenire educatrice a pieno titolo del futuro decimo boss dei
Bianchi.
I suoi sogni irrealizzabili furono concretizzati qualche mese dopo
quando Clara chiese esplicitamente che le venisse presentato quello che
avrebbe dovuto ufficialmente spacciare per suo figlio. Lo
esaminò da capo a piedi in presenza di Diana e Alfonso che
la supervisionarono per intervenire qualora si facesse prevaricare dai
suoi istinti omicidi.
"Assomiglia in tutto e per tutto a quella sgualdrina"
commentò senza rivolgere lo sguardo a suo marito.
Hayato che fino a quell'istante aveva scalciato era scoppiato a
piangere come se avesse compreso perfettamente ciò che la
giovane donna aveva detto.
"È ancora piccolo, sono sicuro che crescendo
mostrerà tratti più simili ai miei" l'aveva
rassicurata Alfonso.
"Molto bene, accetto di fingere di avere avuto una gravidanza
inaspettata che abbiamo tenuto segreta, ma non voglio crescerlo, non
è mio figlio e non mi comporterò come se ti
avessi perdonato per avermi tradita solo perché ora hai il
maschio che tanto desideravi, Alfonso."
Clara si alzò dalla poltrona elegante su cui si era
accomodata e consegnò nuovamente Hayato tra le mani di
Diana, come se non vedesse l'ora di liberarsene.
"Diana, mi dispiace investirti di questo ingrato compito, sei stata
semplicemente sublime per Bianca, dovrai fare lo stesso anche per
questo bastardo" disse.
Diana strinse forte le unghie in un palmo per evitare di reagire con la
violenza, si morse la lingua e accennò un sorriso.
"Sono al vostro servizio, signora" disse.
Alfonso sospirò, accarezzò il viso del suo
bambino mentre la balia tentava di calmarlo. Quando la moglie fu
sufficientemente lontana si permise tenerezza.
"Puoi insegnarmi a cullarlo? Quando lo prendo in braccio io
generalmente sta male..."
Diana gli mostrò la posizione ottimale per tenerlo in
equilibrio e dargli sicurezza, lasciò che Alfonso ci
provasse da solo dopo essersi sincerata che avesse capito.
"Non è così difficile" commentò
Alfonso, una luce sconosciuta negli occhi lo rese raggiante, poi Hayato
sorrise e suo padre percepì il calore dell'amore.
"Bianca" l'aveva chiamata un giorno Alfonso avvicinandosi alla sua
stanza mentre la piccola era intenta a scarabocchiare su dei fogli.
"Sì, padre?" come le avevano insegnato si era alzata dalla
scrivania, era uscita nel corridoio e aveva fatto un elegante inchino
tenendo ambo i lembi del vestitino lilla.
"Ti informo ufficialmente che la nostra famiglia si è
ingrandita."
Bianca annuì con un sorriso beffardo.
"Avete reclutato nuovi alleati?" chiese.
Alfonso trattenne a stento una risata riconoscendo la provocazione,
doveva ammettere che per avere quattro anni Bianca aveva
un'intelligenza emotiva spiccata.
"No, non sei più la più piccola qui dentro, ora
hai un fratello minore e mi aspetto che ti comporti in maniera
esemplare."
Bianca sorrise dolcemente, i suoi occhi brillarono, entusiasmata
portò le mani sul petto e sentì il cuore
leggermente accelerato per l'emozione. Era pienamente consapevole che
al palazzo era arrivano un bambino che sarebbe stato l'erede della
famiglia e aspettava impaziente il giorno in cui lo avrebbe conosciuto
e finalmente quel giorno era giunto.
"Qual gaudio, posso vederlo?" domandò.
Diana uscì da un angolo tenendolo tra le braccia, si era
addormentato pacificamente, ma aveva già superato le dodici
ore di sonno e si pensava fosse il caso di destarlo.
"Signorina, le presento il suo fratellino" disse Diana, così
come le era capitato con la maggior parte dei membri della famiglia
insegnò anche a Bianca come tenere quell'esserino ancora
così piccolo.
Bianca sentì qualcosa di sconosciuto una connessione immensa
che la legava a quel fagottino. Lo strinse appena stando ben attenta
alla pressione applicata e si commosse.
"Padre è bellissimo, prometto che me ne prenderò
cura e lo proteggerò per sempre" disse posandogli un bacio
sulla tempia.
Quel contatto impercettibile portò Hayato ad aprire gli
occhi rivelando delle gemme di giada in cui Bianchi rivide se stessa.
"Ha i vostri occhi" disse rivolgendosi ad Alfonso.
Diana accorse perché l'ultima volta che aveva guardato il
bambino c'era solo del grigio misto a rosso e azzurro, come se fosse
vetro.
"Che miracolo!" esclamò vedendo finalmente del colore, il
colore che era emerso dopo mesi ad applicare una crema apposita.
"Ora sicuramente ci può vedere" disse.
Anche Alfonso si affrettò a verificare, prese Hayato tra le
mani e lo sollevò esponendolo alla luce artificiale di una
lampada. Riconobbe la forma di Lavinia e una sfumatura più
tenue del colore dei propri occhi.
"Allora sei davvero mio figlio" disse con un tono tenero mentre
continuava a scrutarlo, gli sovvenne improvvisamente l'affermazione di
Diana che aveva lasciato scivolare.
"Perché hai sottolineato che solo adesso può
vedere?" chiese riconoscendo dove era caduto l'accento.
La balia si strinse nelle spalle e spiegò, era stata l'unica
che si era preoccupata di leggere l'intera cartella clinica.
"Perché la sua condizione non gli permetteva di mettere a
fuoco, boss. È tutto scritto nel fascicolo allegato al
certificato di nascita" rispose.
Alfonso annuì, abbracciò il piccolo come se fosse
la sua stessa vita e lo baciò sulla testa.
"Voglio che mi venga fornita una copia del documento. Voglio sapere
tutto della mia prole" disse.
Diana procedette immediatamente a obbedire dileguandosi con un inchino.
"Ci credo che eri spaventato" mormorò Alfonso guardando
dritto negli occhi il suo bambino.
"È spaventoso non poter vedere in un mondo buio."
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Capitolo 3 *** Un mondo attorno a lui ***
I suoi ricordi erano tutti nitidissimi come se fossero eventi accaduti
il giorno prima, andando a ritroso si era reso conto di poter
richiamare lucidamente alla mente anche il momento in cui aveva
camminato sui piedini per la prima volta.
Era successo una mattina di dicembre in prossimità del
periodo natalizio. Hayato era seduto nel grande salone, aveva una zona
a lui completamente dedicata creata da un puzzle in gomma che gli
impedisse di farsi male qualora fosse caduto. Era rimasto da solo per
un motivo non meglio identificato del fatto che le sue numerose balie
erano impegnate e stava giocando con un orsacchiotto di peluche,
fingeva che fosse suo amico e avesse un'anima a cui parlare.
Improvvisamente il cielo si oscurò, divenne così
cupo che Hayato sentì il bisogno di accendere la luce per
dare nuovamente luminosità alla stanza e vederci qualcosa.
Memore della planimetria della stanza cominciò a gattonare
spedito verso l'interruttore. Raggiunto il muro dove questo si trovava
si rese conto che proprio non era alla sua portata. Allora decise,
spinto dal bisogno di placare quel senso di inquietudine che lo
accompagnava nel buio, di estendersi perché era l'unico modo
in cui potesse cliccare il tasto. Si sollevò a fatica sulle
sue gambe, spingendo con le piante dei piedi contro il tappeto, le mani
al muro usate per tenersi in equilibrio. Scoprì che era
molto più facile del previsto, ma anche all'impiedi non era
comunque abbastanza alto per raggiungere l'interruttore.
Amareggiato si allontanò senza rendersi conto che non si era
rimesso a gattonare, ma che stava bensì camminando e senza
grosse difficoltà.
Solo quando venne Diana, che in brodo di giuggiole si
congratulò, si rese conto che ciò che aveva fatto
era speciale, non comune tanto per cambiare. Aveva meno di sei mesi.
Doveva ammetterlo, persino la sua memoria, che sembrava avere un
archivio per ogni argomento, presentava dei buchi di trama nella sua
vita. Non ricordava il giorno della sua nascita e salvo alcuni
avvenimenti molto impressi ricordava il suo primo e il suo secondo anno
di vita a malapena.
Il periodo che andava invece da metà del suo secondo anno di
vita fino a che non aveva compiuto tre anni invece lo ricordava davvero
perfettamente, avrebbe potuto scrivere un libro in materia forse
perché in qualche modo era stato il momento più
bello.
Ricordava con chiarezza ampie sale eleganti, uno stuolo di persone
giunte solo per lui, per conoscerlo, il tappeto rosso che aveva
percorso prima di arrivare a sedersi su quello che era un enorme trono.
La corona in testa gli fu apposta da suo padre e i presenti esultarono,
uno a uno si alzarono e gli resero omaggio. Era il suo secondo
compleanno e ricevette così tanti giochi da non sapere dove
metterli.
Il punto non erano i giochi, lo sfarzo, la fama, ma era il modo in cui
quegli uomini e quelle donne lo guardavano, con rispetto, con quello
che Hayato aveva scambiato per affetto, con dolcezza. Pensare di essere
amato da così tante persone che giuravano di dare la vita
pur di proteggerlo lo faceva sentire davvero bene e fortunato.
A quell'età aveva già imparato a leggere, lo
aveva fatto con i libri per bambini che gli leggeva Teresa e presto
aveva deciso di inventare le sue storie. In quegli anni ricordava che i
ruoli si erano invertiti, le sue balie ascoltavano quelle storie fino
ad addormentarsi e Hayato rimaneva sveglio a guardare le stelle dalla
piccola finestra sul soffitto della sua camera.
Questo non era niente perché anche se era molto piccolo era
già stato autorizzato a uscire e continuamente si faceva
accompagnare dagli uomini di suo padre nei negozi di giocattoli. Non
faceva in tempo a dire di volere una cosa che immediatamente tutti si
mettevano al suo servizio e gliene portavano almeno dieci tipologie
differenti.
"Va bene così, signorino Hayato?"
"Preferite diversamente?"
"Potrete mai perdonarmi per il mio errore?"
Tra le mura di villa Bianchi Hayato si sentiva davvero il re del mondo.
I suoi giochi preferiti erano quelli che gli permettevano di viaggiare
con la fantasia, le macchinine, i dinosauri, ma soprattutto le bambole
di Bianca.
Le aveva scoperte un giorno sgattaiolando fuori dalla sua stanza per
raggiungere quella della sorella, l'aveva trovata impegnata in
un'importante conversazione tra se stessa mentre tra le mani aveva una
Barbie e un Ken i quali si giuravano amore eterno.
"Posso giocare con te?" ricordava di aver domandato.
Gli occhi di Bianca si erano illuminati e la bimba aveva sorriso
intensamente.
"Hayato!" aveva detto con entusiasmo coinvolgendolo in un abbraccio
spaccaossa.
"Certo che puoi giocare con me. Chi vuoi essere?" aveva domandato
prendendo una ventina di bambole da un baule dopo aver sciolto
l'abbraccio.
Hayato si era un po' sistemato la spalla sinistra che quasi non sentiva
più e dopo aver realizzato che era ancora tutto intero
rispose.
"Che differenza c'è?" disse.
Bianca sorrise, prese l'unica Barbie con i capelli castani e gliela
diede.
"Ognuno ha una personalità diversa, lei è Tamara,
è innamorata del principe che però ha una
relazione con Sara, il mio personaggio. Dobbiamo vestirle per il ballo
così Tamara avrà una possibilità di
fare colpo sul principe Alfonso se sarà abbastanza bella."
Hayato ascoltò attentamente quella spiegazione poi si mise
seduto accanto alla sorella e iniziò a frugare tra i mille
vestiti che erano sparsi un po' ovunque. Erano abiti di sartoria in
formato mignon, completi di ogni singolo dettaglio, scelse dopo una
lunga riflessione un tessuto rosso sovrastato da una parte argento
velata e brillantinata, la gonna ampia e le maniche a sbuffo.
"Sara ha le ore contate, il principe è mio!" disse entrando
nel personaggio.
Ricordava spesso di lui e sua sorella maggiore nella camera di Bianca a
inventare storie che ben presto avevano preso tutte la stessa trama.
Amore, tradimenti, lotte all'ultimo sangue per aggiudicarsi un uomo, si
era un po' stancato di tutto questo.
"Ma davvero a te piacerebbe fare questo? Farti bella solo nella
speranza che un uomo ricco ti sposi?" chiese.
Bianca abbracciò il vestito che teneva tra le mani sognante
e annuì.
"È questo il mio destino e lui sarà bellissimo e
mi amerà, non ci sarà donna che potrà
portarmelo via, nessuna potrà competere con me oppure lo
ucciderò."
Hayato ricordava di avere riso davanti a quelle parole, ma al contempo
sentiva un crescente senso di disagio. Era davvero questa l'aspirazione
di sua sorella?
"E io dovrei fare lo stesso?" chiese.
"Ma no, sciocchino. Tu sei maschio e erediterai la famiglia. Sei tu il
principe in questa storia. Sposerai la tua bella principessa e avrai
tanti bei bambini con lei e questi bambini poi erediteranno a loro
volta la famiglia."
Hayato guardò verso il basso e poi attorno a sé
confuso.
"Ma è obbligatorio?" chiese spaventato.
"Non lo so, penso di sì" rispose Bianca.
"E se invece facessi qualcosa di diverso? Non so tipo viaggiare per il
mondo e leggere tanti libri, scoprire se esistono davvero i mostri e
documentarli?"
Bianca rise, gli accarezzò delicatamente il viso.
"Hai così tanta fantasia, Hayato."
Da quella conversazione le loro storie si erano ampliate, Sara non era
più solo una principessa, ma era anche un'assassina e suo
malgrado aveva ucciso Tamara avvelenandola accidentalmente. Hayato
aveva vaga coscienza del fatto che la sua famiglia fosse esperta in
veleni, ma non la trovava una cosa strana. C'erano esperti di tutto al
mondo, no?
Un'altra cosa che ricordava nitidamente era il modo in cui suo padre
gli si rivolgeva, sempre carico di affetto, sempre come se stesse
guardando la cosa più importante al mondo.
Lo elogiava continuamente, lo abbracciava e gli chiedeva di passare del
tempo insieme, raramente, ma quei momenti erano i preferiti di Hayato.
Sulla piccola poltrona nel suo studio giocava con dei pupazzetti a
forma di dinosauro e li faceva combattere tra loro facendo tutti i
suoni per rendere la scena più realistica e sentirsici
catapultato.
Dalla piccola radio sulla scrivania proveniva una melodia, poche note,
ma ben posizionate.
"Padre, che strumento è?" domandò Hayato
abbandonando completamente il suo gioco come se fosse stato rapito da
quei suoni.
Alfonso si avvicinò a suo figlio si sedette sul pavimento
perché fossero alla stessa altezza.
"Questo è un pianoforte, Hayato. Ti piace?" chiese.
Hayato annuì emettendo un verso convinto, poi
iniziò a riprodurre la melodia emulando gli stessi suoni.
Aveva una voce angelica, così delicata e soave.
"Hayato, ti piacerebbe imparare a suonare?" domandò Alfonso.
Hayato rispose di sì istintivamente, ciò che ne
seguì fu l'ingresso di un grande pianoforte a coda di colore
nero il quale fu consegnato qualche giorno dopo e Hayato
accompagnò il tragitto dall'ingresso principale fino a una
sala dedicata.
Si sentiva così piccolo davanti a quell'imponente oggetto,
ciò nonostante appena prese posto sullo sgabello quel senso
di impotenza si annullò.
Non gli era mai sembrato di essere più in alto, le gambine
dondolavano nel vuoto. Le braccia erano talmente corte che le manine a
stento toccavano i tasti, la schiena ricurva per poterli almeno
raggiungere.
Il piccolo suono che lo strumento fece al contatto gli fece battere il
cuore, sentì una potenza immensa che lo pervadeva.
"Ecco cosa voglio fare, voglio suonare, non sposarmi e avere dei figli"
sussurrò a se stesso, attorno a lui c'erano molte persone,
ma gli sembrava che esistessero solo lui e il suo strumento.
Si perse completamente in uno spazio dove c'era posto solo per la sua
creatività e per quel rapporto così speciale, lo
fece al punto tale che quando riaprì gli occhi non c'era
più nessuno vicino a lui. Non era una solitudine sofferta
era pace interiore.
Saltò giù dallo sgabello con il sorriso sulle
labbra e fiero andò a comunicare la decisione che aveva
preso a suo padre.
"Ti servirà qualcuno che te lo insegni allora" disse Alfonso
accogliendo la notizia.
Uno dei ricordi più vividi però erano gli occhi
chiari di una signora, dolci come quelli di Diana, ma più
accoglienti degli stessi.
Quelli erano sempre presenti, a ogni età, ne aveva memoria
costante come se quella signora fosse sempre stata un membro integrante
nella sua vita.
Non era una serva, doveva essere un'amica di famiglia o qualcosa del
genere. Suo padre la vedeva raramente, ma quando la invitava nel suo
ufficio si abbracciavano e non solo. Hayato li ricordava ridere,
scherzare, farsi coccole tenere.
Era stata solo questo fino a quel momento, una persona gentile che di
tanto in tanto veniva a fare visita, invece un giorno divenne la sua
insegnante di piano.
Lo prese alla sprovvista mentre stava provando un pezzo, aveva trovato
dei vecchi spartiti nella sala della musica.
"Questo è un fa diesis" disse facendolo sussultare, prese la
sua manina nella propria e la posizionò sul terzo tasto nero.
Hayato sussultò, nessuno era autorizzato a entrare quando
stava provando nella sala della musica a porte chiuse.
"Mh?" domandò, si voltò verso la voce gentile che
gli aveva parlato e riconobbe l'amica di famiglia, le rivolse uno
sguardo interrogativo.
"Ti piace il piano?" gli domandò questa.
"Lo amo!" ribatté Hayato senza nemmeno fermarsi a pensare.
La donna mise la sua manina tra le sue belle mani curate e
accarezzò il dorso.
"Capisco. Hai delle mani delicate. Queste sono mani meravigliose per
suonare il piano."
Hayato ancora teneva le dita dell'altra mano sui tasti quando si
ritrovò ad annuire, i suoi occhi rilucerono.
L'affetto, la tenerezza che esprimevano gli occhi della donna non
l'aveva mai riscontrata in nessuno, nessuno gli aveva mai saputo
trasmettere amore così bene.
"Continua a suonare il piano, continua a esercitarti..."
mormorò la giovane.
Sorrise e Hayato si specchiò nel suo volto rispondendo allo
stesso modo. Il calore che si propagava da quel contatto lo stava
facendo sentire più al sicuro di quanto non avesse fatto una
squadra per la sua protezione.
Ci fu una pausa di silenzio, Hayato non smise di sorridere spensierato
e pieno di quel sentimento nuovo e tanto prezioso, poi la giovane
parlò nuovamente.
"Non dimenticare mai quanto sia buono il tuo cuore" disse
enigmaticamente.
Hayato giurò di non farlo e la giovane prese posto al suo
fianco sullo sgabello. Guidò le sue dita sui tasti,
lasciò che le proprie mani danzassero, in breve tempo prese
vita una sinfonia di suoni creati da un unico strumento che
però dava l'impressione di ascoltare un'orchestra.
"Pazzesco, sorellona!" esclamò Hayato quando questa
sfiorò l'ultima nota, batté le mani emozionato,
il battito cardiaco era leggermente accelerato.
"Insegnami, voglio diventare anche io bravo quanto te" disse con
entusiasmo propositivo.
"Chiedi al tuo papà se per lui va bene e diventerai molto
più bravo di me, Hayato."
Come un qualunque bambino viziato e capriccioso che si rispetti Hayato
iniziò a ripetere continuamente a suo padre di autorizzare
quella donna a divenire ufficialmente la sua insegnante di piano. Non
ci furono santi, neanche supplicandolo in ginocchio riuscì a
smuoverlo.
"Possiamo permetterci musicisti acclamati" aveva detto più
volte suo padre.
"Ma io voglio lei, voglio solo lei. Non me ne frega un cazzo nemmeno di
Mozart in persona. Voglio che la tua amica sia la mia insegnante."
Il cinque che gli si stampò in faccia non lo poteva
dimenticare, si massaggiò una guancia lasciando andare
qualche lacrima silenziosa.
"Hayato, linguaggio. Chi te le insegna queste parole, eh? È
forse così che ti parla Diana? Ricordati mocciosetto, che
finché sei sotto questo tetto comando io e la mia risposta
è no, Lavinia non può essere la tua insegnante e
ti pregherei di non parlarne a nessuno. Discussione chiusa."
Hayato era scosso, ma trovò ugualmente il modo di ribattere.
"L'unico a essere volgare qui in mezzo siete proprio voi, padre" disse
girando i tacchi prima di correre nella propria stanza a piangere
premendo il viso contro il cuscino perché stava
singhiozzando davvero tanto e non voleva che lo sentissero.
Lavinia, sì, aveva un nome quella donna, ma gli era stato
proibito di usarlo, lei stessa non aveva mai chiesto di essere chiamata
diversamente dal modo in cui Hayato l'aveva affettuosamente
soprannominata.
Dopo quel momento ci furono più e più volte
durante le quali Hayato suonò in compagnia di Lavinia,
qualche volta si univa anche suo padre ed era così tenero da
ricordare a stento la figura autoritaria con cui si interfacciava di
solito.
Nonostante il grande Ennio Morricone in persona fosse venuto alla sua
villa per insegnargli a suonare Hayato vedeva solo Lavinia come sua
insegnante e solo in sua presenza dava il meglio di sé.
"Non puoi venire più spesso? A breve sarà il mio
compleanno e sì, ci sono tutti i membri della famiglia che
mi festeggiano, ma senza te non sarebbe lo stesso" disse vedendo la
giovane allontanarsi dopo aver passato l'intera giornata insieme.
"Purtroppo non posso, Hayato non mi è permesso" rispose
Lavinia.
"Perché no? È il volere di mio padre? Non
è un bravo amico, gli amici non proibiscono di partecipare
al compleanno dei figli...credo..." disse consapevole del fatto che per
affermare quanto aveva detto si stava rifacendo a delle fiabe lette su
libricini illustrati con personaggi dalle fattezze animali umanizzati.
"È complicato, piccolo, ma ti prometto che finché
avrò vita verrò a trovarti ogni qualvolta mi
sarà possibile."
Hayato sorrise si avvicinò alla donna, la quale si
chinò per guardarlo negli occhi e stare alla stessa altezza.
"Lo prometti?" mormorò.
Lavinia prese il mignolino di Hayato, lo strinse con il proprio.
"Giuro che se menti ti farò ingoiare mille aghi e ti
spezzerò il dito" disse in una lingua dai suoni sconosciuti
al piccolo Hayato.
"Eeeh?!" infatti chiese questo confuso.
"Lo giuro solennemente, è questo che ho detto"
spiegò Lavinia.
Hayato la accompagnò alla porta e sorrise profondamente.
Non sapeva bene cosa fosse un amico, ma credeva che fosse qualcosa di
molto simile a ciò che sentiva per Lavinia.
Contro ogni pronostico il 9 settembre del 1996 dopo una festa
incredibile in cui Hayato aveva solo finto di essere felice suo padre
lo aveva richiamato nella stanza della musica e accovacciandosi davanti
a lui gli aveva preso entrambe le manine.
"Ho una sorpresa per te, ometto" gli aveva detto.
"Tra cinque giorni Lavinia verrà a farti visita. Potrete
stare insieme tutto il giorno. Ora me lo fai un sorriso?"
Raramente era successo così raramente da poter contare sulle
dita di una sola mano, ma in quel momento Hayato aveva abbracciato
forte suo padre urlando "sei il migliore!".
In quel momento realizzò davvero che le cose materiali
potevano letteralmente essere eclissate dal potere dei sentimenti. La
macchinina figa, tutti gli audiolibri del mondo, ogni singolo
giocattolo ricevuto non valeva un solo sorriso di Lavinia.
Nacque in Hayato la convinzione che Lavinia sarebbe venuta a trovarlo
più spesso e gli avrebbe sorriso ancora se si fosse dedicato
anima e corpo al pianoforte. Credeva che suo padre non gli permettesse
di vederla più spesso perché Hayato poteva
sentirsi in difficoltà davanti al suo talento e pensava che
raggiungendo un livello simile suo padre le avrebbe consentito di
rimanere magari anche a cena o perché no anche a dormire.
"Che stai facendo?"
Era il tanto atteso 14 settembre del '96 quando Bianca entrò
nella sala della musica, la porta era rimasta aperta e la musica si
sentiva anche nel corridoio.
"Sto suonando, voglio farlo per lei. Oggi mi viene a trovare!" rispose
Hayato.
"Mentre l'aspetti posso rimanere qui ad ascoltarti?" domandò
Bianca.
"No, sorella. È una melodia che ho composto per lei e voglio
sia la prima ad ascoltarla. Magari in serata giochiamo insieme con le
bambole, che ne pensi? Tanto Lavinia non resta mai la sera."
Bianca annuì, uscì dalla stanza dopo essersi
scusata con un inchino. Hayato la rincorse, il suo viso allegro si era
trasformato in puro terrore dopo aver realizzato che aveva pronunciato
quel nome innominabile.
"Bianca! Lavinia è solo un'amica di papà
però io non posso chiamarla per nome, papà mi
ammazza se lo scopre. Puoi fare finta che non ti abbia detto niente?"
Bianca sorrise, assunse un'espressione furba e lo infastidì
con premendo ripetutamente su un braccino col proprio indice.
"Va bene, ma stasera sarà Sara a sposare Alfonso."
Hayato congiunse le mani, tirò un sospiro di sollievo.
"Grazie" esalò riprendendo a respirare normalmente.
Tornato nella sala della musica riprese a praticare e attese con ansia
l'arrivo di Lavinia.
La sala divenne rossa all'improvviso, il sole tramontando era filtrato
con la sua luce attraverso le ampie finestre e aveva tinto le mura.
"È in ritardo" disse Hayato tra sé e
sé, le dita gli facevano male per quanto aveva suonato.
Un brivido inteso lo attraversò da parte a parte quando gli
sembrò che il cielo fosse fatto di sangue.
"Ormai è sera, non verrà più..."
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Capitolo 4 *** Lo stesso mondo ***
Resistere fino a dopo cena era stata una vera impresa, mangiare in
silenzio il piatti stellati preparati dal loro chef personale, piatti
che dovevano portare conforto e invece non facevano che contribuire
alla consapevolezza che il lusso davanti ai sentimenti perdeva ogni
significato, sembrava impossibile. Rimanere fermo a tavola mentre
Bianca divorava la sua forchettata di pasta, Alfonso beveva del vino e
Clara come suo solito sembrava di pessimo umore.
Quando prese l'ultima cucchiaiata del dolce finalmente sentì
di poter respirare di nuovo. L'elaborato parfait ai frutti di bosco era
il suo dessert preferito eppure quella sera a tratti gli dava la nausea.
Si alzò da tavola dopo essersi pulito la bocca con un
tovagliolo in lino ricamato con disegni floreali e procedette a salire
le rampe di scale che lo dividevano dalla sua stanza. Aprì
la porta solo per rimanere fermo con la maniglia in mano e sospirare.
Bianca lo raggiunse poco dopo, interruppe la sua contemplazione del
vuoto.
"Che ti prende? Sei stato con lei fino a ora, dovresti essere felice"
disse.
"Lei non è venuta..." mormorò Hayato amaramente
in risposta.
Bianca tacque, si coprì la bocca istintivamente con una mano
per nascondere il sussulto.
"E perché non lo hai detto? Hai fatto finta di niente con
papà e mamma."
Hayato annuì, rilassò le spalle e si
voltò verso la sorella.
"Non volevo che fosse vero, quando le cose le dici a voce alta...
sembrano più reali..." disse.
Bianca lo abbracciò, riconobbe l'incrinatura della voce che
andava verso il pianto e prima di saperlo se lo ritrovò a
singhiozzare contro il petto.
"Lo so, lo so che ci tenevi tanto" mormorò Bianca
accarezzandogli i capelli.
"Sono sicura che abbia avuto un contrattempo, anche lei ci teneva
tanto."
Hayato annuì, tirò su col naso, l'assenza non era
resa migliore dalla consapevolezza che Lavinia volesse partecipare a
quel momento speciale.
"So io cosa ti ci vuole" disse Bianca decisa, lo prese per le spalle e
lo guardò negli occhi.
"Ci facciamo belle, ti trucco e ti acconcio i capelli. Niente
è più efficace per una delusione."
Hayato ridacchiò istintivamente, si lasciò
prendere per mano e portare in camera della sorella.
Bianca gli asciugò le lacrime dopo aver chiuso la porta alle
spalle, prese una trousse di trucchi finti che però
coloravano ugualmente e posizionò Hayato davanti alla
toeletta.
"Sei sicura che è una buona idea?" chiese quest'ultimo.
Più volte Diana suo malgrado aveva premuto sul fatto che la
pelle di Hayato era delicata e non poteva metterci su la prima cosa che
capitava.
"Certo. Hayato è triste, ma tu non sei Hayato, tu sei la mia
sorellina felice. Scegli un nome, come ti chiami?" rispose Bianca.
Hayato ci pensò per qualche istante poi disse senza
ripensamenti "Lavinia!"
Bianca sospirò.
"Dai così non collabori."
Hayato negò con un cenno della testa.
"Così la sento più vicina anche se non
è qui adesso."
Bianca approvò, iniziò a pettinargli i capelli.
"Sono lunghetti" disse.
"Forse dovremmo accorciarli."
Hayato si oppose prontamente.
"Mi piacciono così, anzi li voglio ancora più
lunghi, tipo i tuoi!" esclamò.
Bianca annuì, passò la spazzola separando le
ciocche, constatò quanto sottili fossero quelle fibre
argentate.
"Così sembrerai una femmina" disse.
"Sembrerò Lavinia in miniatura" ribatté
prontamente Hayato infastidito dal modo in cui Bianca aveva pronunciato
l'ultima parola, con disprezzo.
"Abbiamo lo stesso colore di capelli e anche i suoi occhi, sono simili
ai miei."
Bianca fermò i capelli in codini alti con due elastici rosa
confetto, si specchiò al suo fianco.
"I tuoi occhi sono come i miei e quelli di papà" gli fece
notare.
Hayato accennò un sorriso.
"Anche Lavinia ha gli occhi simili" insistette.
"Però lei non indossa i fermagli e i suoi capelli presentano
dei piccoli boccoli alla fine."
Bianca ascoltò tutto il discorso poi lo fece voltare verso
di lei.
"Pensi che a Lavinia piaccia l'azzurro?" domandò.
Hayato annuì istintivamente.
"Le piacciono tutti i colori e il vestito che aveva l'altro giorno era
proprio del colore del cielo."
"Vada per l'azzurro allora" disse Bianca, prese un pennellino e lo
intinse nell'ombretto, lo spalmò sulle palpebre di Hayato
che tremarono a contatto.
Prese poi un rossetto rosso acceso e gli colorò le labbra,
un po' di blush rosa shocking per completare il look.
"Che te ne pare?" chiese lasciando che il fratellino si voltasse per
guardarsi nello specchio.
Hayato sobbalzò si spaventò della sua immagine e
poi scoppiò a ridere.
"Sembro una battona" disse.
Bianca rise a sua volta, ma lo avrebbe più che altro
paragonato ad Harley Quinn.
"Hayato, chi ti insegna queste parole?!"
Hayato scosse la testa e alzò le spalle.
"Vincenzo, non fa che parlare di quanto sia figa quella puttana sua o
quell'altra e poi l'altro giorno una vecchia signora si è
avvicinata a noi e quando se ne è andata lui l'ha chiamata
così. Aveva la faccia così, piena di trucco"
spiegò.
Bianca sobbalzò, gli coprì la bocca come se
potesse cancellare quelle parole.
"Perché? È una cosa brutta?" domandò
Hayato facendo fatica a parlare con le mani di Bianca sulle labbra tipo
nastro adesivo.
"La mamma dice che non possiamo usare queste parole. Ricordi il ceffone
che ti ha dato nostro padre per una parolaccia? Devi stare attento,
Hayato" lo redarguì la sorella.
"Io non sono Hayato, io sono Lavinia e Lavinia non deve ascoltare
nessuno di loro. Lavinia è libera e suona il piano
benissimo."
Bianca sospirò, forse aveva fatto un errore.
Nonostante non gli piacesse Hayato si tenne il trucco ed entrambi
finirono per addormentarsi abbracciati sul letto di Bianca.
Appena un'ora più tardi Diana venne a cercarlo e lo
trovò a dormire, gli sembrò una scena molto
tenera finché non notò con orrore il respiro
pesante del piccolo e le macchie sul corpo.
Lo svegliò terrorizzata, ma cercò ugualmente di
mantenere la calma.
"Che c'è?" chiese Hayato sentendo il cuore esplodergli in
petto dopo essersi svegliato di soprassalto.
"Signorino, vieni con me" disse Diana cercando di usare un tono
tranquillo e rassicurante.
Prese Hayato in braccio e lo portò di tutta fretta in bagno,
lo adagiò nella vasca.
"Mi sono già lavato prima di cena" protestò
Hayato.
"Sì sì, signorino, lo so" convenne Diana.
Non passò molto prima che Hayato divenisse cosciente di
quanto gli prudesse ogni parte del corpo dalla testa ai piedi.
Iniziò a grattarsi solo per vedere la balia bloccargli
entrambe le mani mentre.
"È questo il problema. Quante volte ti ho detto di non
metterti cose in faccia o sul corpo senza chiedermi se puoi? Non lo
faccio per darti fastidio, ma per tutelarti."
Hayato rimase in silenzio, adesso aveva davvero paura, il respiro era
corto, la pelle arrossata in ogni dove, lasciò andare le
lacrime senza fiatare come se fosse paralizzato.
Diana usò del sapone delicato e strofinò per
rimuovere il trucco, l'intero corpo era in condizioni penose, lo poteva
capire da quelle specie di pustole sulle gambe, ma la faccia era quella
messa peggio.
Dopo aver riflettuto a lungo decise che spogliarlo fosse la cosa
migliore. Gli puntò contro un getto d'acqua gelata sotto il
quale Hayato rabbrividì.
Voleva chiedere spiegazioni, ma non riusciva a parlare e in fondo non
voleva neanche sapere. Diana dal canto suo sapeva che ogni istante era
prezioso.
Dopo averlo praticamente marinato lo tamponò con un
asciugamano di spugna e applicò una crema a base di
cortisone su tutto il suo corpo specialmente in faccia. Le bolle rosse
cominciarono a sbiadire, ma il segno rimase.
"Sei allergico al Kathon CG, per la miseria!" finalmente disse Diana
spiegandogli cosa fosse successo.
"Non avrei mai pensato di trovarti a giocare con i trucchi della
signorina Bianca."
Hayato sbuffò, resistette all'impulso di trattare una
guancia incremata.
"Se qualcuno qui mi avesse dato spiegazioni al posto di comandi che mi
sembravano senza senso non sarebbe successo" sbraitò
liberando la tensione.
"Ora è tutto sotto controllo" disse Diana cercando di
rassicurarsi a propria volta.
"Hai ragione" disse poi ammettendo amaramente.
"Ho sempre pensato fossi troppo piccolo per sapere, ma meriti di
conoscere come stanno le cose."
Hayato annuì, la guardò teneramente negli occhi.
"Lo sai che ho tre anni solo su carta, dentro mi sento più
grande, preferisco sapere cosa ho... lo so che ho qualcosa... ti sei
sempre comportata come se fossi malato..." disse.
Diana lo rivestì mettendogli il pigiama costatando che la
crema fosse stata assorbita dalla pelle, gli asciugò i
capelli rimasti intrappolati nel processo e sciolse i codini.
"Non sei malato, Hayato. Sei solo delicato" spiegò.
"Devi fare più attenzione rispetto a molte persone
però ci sono anche persone che hanno bisogno di fare ancora
più attenzione."
Bianca era rimasta sconvolta, li aveva seguiti, ma si era messa solo a
origliare. Con i lacrimoni agli occhi si era fatta avanti nel bagno e
aveva affianco Diana.
"È tutta colpa mia" piagnucolò.
Diana le fece una carezza sul viso.
"No, signorina Bianca, lei non poteva sapere. Non faccia più
giocare il signorino Hayato con i suoi trucchi, d'accordo? Sono cose
per signorinelle come lei."
Bianca annuì si strinse nelle spalle e guardò il
fratellino colpevole.
Hayato le tese una mano, accennò un sorriso.
"Sarò comunque la tua sorellina quando vuoi" disse con un
sussurro.
Diana storse il naso prese entrambi per mano e li condusse fuori dal
bagno.
"Non una parola ai vostri genitori, ci siamo intesi? Questa cosa non
è mai successa."
I bambini annuirono e raggiunsero le rispettive camere, Hayato non si
era mai sentito più solo.
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Capitolo 5 *** Tutto un altro mondo ***
La solitudine divenne la sua compagna di giochi all'indomani di quel
giorno.
Non fu improvviso, ma neanche esattamente graduale, da un giorno
all'altro Hayato realizzò di essersi chiuso in se stesso.
Il mattino seguente la sua vita cambiò, vennero inserite
tutta una serie di cose inaspettate. Hayato iniziò a
studiare, aveva un insegnante per ogni materia, insegnanti privati e
molto esigenti, i migliori nel loro campo probabilmente. Otto lingue:
italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, russo, cinese e
giapponese. Materie scientifiche e umanistiche. In men che non si dica
le sue giornate furono occupate da ore interminabili di studio.
Non gli dispiacevano, anzi saziavano la sua sete di conoscenza, ma
aveva sempre meno tempo per dedicarsi al piano e ne sentiva la mancanza.
Alfonso non pervenuto, non aveva nessuno a cui fare storie per chiedere
un cambio degli orari.
Bianca iniziò a lamentare la sua assenza a chiedergli di
giocare insieme più spesso, ma tra tutti i compiti che gli
venivano dati Hayato non riusciva a ricavare del tempo materiale per
farlo.
Quando qualche mese dopo suo padre fece rientro alla villa Hayato
voleva raccontargli come si trovasse con le lezioni, quanto gli
piacessero, ma anche quanto si sentiva stanco e stressato. Fu invece
liquidato da un cenno rapido della mano e poi Diana lo venne a
recuperare mentre sbatteva i piedi sul pavimento richiedendo attenzione.
Lavinia non tornò più e Hayato si
domandò che cosa fosse successo. Forse era colpa sua?
Nessuno gli dava spiegazioni, suo padre aveva chiuso qualunque forma di
dialogo.
Gli era stato insegnato a scrivere così Hayato
iniziò a raccontare tutto ciò che gli stava
succedendo in questi lunghi messaggi indirizzati a Lavinia. Aveva
chiesto l'indirizzo per spedirli e Daniele un giorno gli aveva detto
"gliele consegno io". Non c'era mai stata risposta.
Un giorno che aveva finito di studiare prima andò nella
stanza di Bianca, si misero a giocare subito ai travestimenti, gli
mancava davvero tanto sentirsi Lavinia. Bianca era entusiasta, gli fece
i codini alti e gli fece indossare un suo vecchio vestitino estivo
verde. Insieme andarono in giardino e fecero una coroncina di fiori.
Tra quelle risate e quella spensieratezza Hayato dimenticò
quel vuoto che gli aveva spillato il cuore dal 14 di settembre del 1996
e quando Bianca lo chiamò "Lavinia" si sentì di
nuovo vivo.
Più tardi tornarono in camera, fecero un puzzle e poi
giocarono con le bambole. Divenne un'abitudine, un appuntamento fisso,
poi uscì da quella stanza e così un giorno Hayato
si presentò nei panni di Lavinia a uno dei gran balli che
villa Bianchi era solita ospitare.
Alfonso non fece gli onori di casa e Bianca disse a chiunque
incontrasse che Hayato era in realtà una femmina ed era la
sua sorellina. Uno scherzo innocente, entrambi si stavano divertendo
molto.
Quel momento idilliaco fu turbato dall'irrompere prepotentemente di
Alfonso in quello spazio sicuro che avevano creato all'indomani del
gran ballo.
"Bianca, ma ti è dato di volta il cervello?"
urlò, strattonò la bambina per un braccio e la
costrinse a inginocchiarsi.
"E Hayato, tu che cazzo di problemi hai?" inveì contro suo
figlio.
"Sei un maschio, Hayato. I maschi non indossano vestiti da principessa
e non giocano con le bambole" sottolineò.
"Ma padre, ad Hayato piace tanto giocare con me, non facciamo nulla di
male" provò a dire Bianca.
"Zitta tu" tuonò Alfonso.
"Che me lo farai diventare frocio!"
Hayato rimase in silenzio, non sapeva quale fosse il problema, ma
sentiva di aver fatto qualcosa di molto sbagliato.
"Padre, io sto solo recitando. Io e Bianca abbiamo inventato questo
gioco dove io sono la sua sorellina e il mio nome è
Lavinia..."
Hayato si ammutolì perché gli occhi di Alfonso
divennero rossi e lui poté vedere un'aura spaventosa attorno
a lui.
Gli arrivò uno schiaffo, così forte che fece un
incontro diretto col pavimento, Bianca urlò spaventata.
"Lavinia è morta, Hayato! È morta, cazzo! Vedi di
fartene una ragione e non fare la femminuccia. Sii uomo!"
Hayato sentì un fischio assordante nelle sue orecchie, il
cuore si strinse così tanto da farlo soffocare, le lacrime
negli occhi di Alfonso le vide solo Bianca.
Ci furono delle urla strazianti, così forti da fare tremare
le pareti, Hayato non sapeva di chi fosse quella voce, non sapeva fosse
la sua, lui non sentiva niente, era morto in un istante.
Bianca osservò suo padre crollare in ginocchio, cercare
disperatamente di accarezzare Hayato che continuava a sgolarsi senza
sosta, che aveva iniziato a tremare come una foglia. Ci vollero un
medico e un sedativo, quella fu la prima volta che Trident Shamal si
occupò di un maschio.
All'alba dei quattro anni Hayato Bianchi aveva accumulato
più sofferenza di quanto il suo piccolo corpo potesse
contenere.
La sua unica amica era morta e lui aveva trovato conforto solo nei
libri, non quelli di studio, ma quelli che raccontavano di mondi
bellissimi pieni di avventure e affetto.
Sognava di viverne di simili, ma aveva la sensazione che il suo libro
non fosse uno di quelli in cui alla fine c'è scritto "e
vissero per sempre felici e contenti."
Lui e Bianca furono separati, routine completamente incompatibili per
evitare che incidenti simili si ripetessero.
Gli mancava essere Lavinia, ma ancora di più gli mancava
giocare con Bianca e gli mancava ricevere attenzioni.
Andrea, il figlio di Diana, si era preso una brutta influenza
quell'estate e con questo erano ufficialmente azzerate le persone che
di solito si dedicavano a lui.
Gli uomini di suo padre erano tutti impegnati, le balie oltre che
lavarlo, vestirlo, dargli da mangiare non facevano. Hayato voleva
conversare, voleva le coccole, un contatto fisico che gli desse
sicurezza, ma non c'era niente di tutto questo.
Qualcosa stava cambiando, anche quel compleanno ne era testimonianza.
Non aveva ricevuto così tanti regali come al solito,
l'atmosfera non era stata così allegra. Le persone non lo
rispettavano più? Non lo amavano più?
Non sapeva dirlo, la solitudine crebbe in lui ogni giorno di
più andando ad anestetizzare il cuore. Soffiò
cinque candeline che era diventato cinico e acido e non aveva
più rispetto per nessuno.
Senza sapere né quando né come Hayato
iniziò ad arrampicarsi sugli alberi, a parlare con gli
scoiattoli e gli uccellini. Sembravano molto più capaci di
tenere una conversazione soddisfacente delle persone che lo
circondavano.
Passava intere giornate sugli alberi nel frutteto restostante la villa
e a nulla valevano le preghiere di Diana perché scendesse.
I gatti randagi che di tanto in tanto venivano a fare visita nel suo
giardino si rivelarono amici ancora più interessante, Hayato
amava osservarli, studiarne il comportamento e imitarli.
Non gli importava più, Alfonso lo picchiava continuamente
sperando che cambiasse atteggiamento che la smettesse di essere
così impertinente, ma per Hayato poteva anche ammazzarlo,
non aveva più senso vivere senza Lavinia.
Fare saltare i nervi a tutti era il suo passatempo preferito, era
così carico di rabbia che il pensiero di mettere ogni
persona nella sua stessa situazione mentale gli sapeva di giustizia, di
vendetta.
Scoprì presto a furia di scappare dalle eventuali mazzate
che gli spettavano di sapersi arrampicare non solo sugli alberi, ma
anche sulle grate e sui tetti dei palazzi, la sua villa compresa.
A un certo punto Alfonso convenne che era il caso di lasciare che si
sfogasse col pianoforte che aveva sempre tanto amato. Prese questa
decisione troppo tardi, Hayato aveva già tentato il suicidio.
Alfonso lo raccolse dal pavimento contro il quale si era schiantato,
aveva fatto un volo di tre metri ciò nonostante non gli era
andata bene ed era ancora vivo.
"Scusami piccolo mio, perdonami" pianse Alfonso stringendolo appena tra
le braccia, le sue ferite erano gravi, la peggiore era il trauma
cranico. Non poteva occuparsene un medico qualsiasi. Quella fu la
seconda volta che Shamal trattò un maschio.
Le cose avevano ripreso una buona direzione, Hayato era tornato a
studiare, a ricevere attenzioni, a suonare il pianoforte e le sue
ferite erano quasi del tutto guarite almeno quelle fisiche.
Sua madre, Clara, era una specie di entità mistica che non
vedeva mai e quelle rare volte che vedeva si pentiva di averlo fatto.
La donna non aveva mai una buona parola per lui mentre Bianca riceveva
complimenti anche per quanto fosse brava a respirare.
Era da un po' che si domandava se fosse normale avere un rapporto
simile e inesistente con la propria madre.
"Prendi esempio da tua sorella" era la frase preferita di Clara.
Hayato non sapeva davvero in che modo visto che l'ultima volta che
aveva preso esempio da Bianca l'aveva pagata cara e amara.
Clara neanche si faceva chiamare "mamma", non da lui. Nacque presto in
Hayato la convinzione che Clara lo odiasse e ne ebbe conferma quando un
giorno dopo aver rovesciato una tazza di tè sul tappeto
persiano in salotto Clara gli disse senza mezzi termini "vorrei che non
esistessi".
Hayato passava le notti a piangere, sentendosi solo e abbandonato anche
tra le braccia di Diana che canticchiava ninnananne cercando di farlo
addormentare senza successo.
Presto si convinse di dover eccellere in tutto così Clara lo
avrebbe amato, ma tutti i suoi tentativi avevano come unico risultato
un glaciale "Bianca lo sa fare meglio".
Senza rendersene conto iniziò a odiare sua sorella, odiarne
la presenza, la voce, tutto. Si chiedeva perché Bianca
sì e lui invece che era figlio a propria volta di Clara no.
Pro e contro di essere maschio? A un certo punto si diede questa
spiegazione, ma presto finì per domandarsi quali fossero i
pro tanto decantati.
Un giorno avvenne una cosa inusuale a villa Bianchi, suo padre lo
convocò nel suo ufficio e gli presentò una
bambina, aveva dei lunghi riccioli d'oro e gli occhi blu, indossava un
vestitino rosa a balze e sembrava uscita da uno di quei libri di fiabe
che aveva letto.
Hayato si intimidì, ebbe la tentazione di nascondersi dietro
una gamba del padre, ma non lo fece rimase invece in silenzio a fissare
la bambina dando di tanto in tanto uno sguardo all'uomo alto che la
affiancava.
"Permettimi di presentarti Beatrice Rossi, figlia di Vittorio Rossi,
nostro stimatissimo alleato" disse Alfonso.
La bambina fece un elegante inchino al quale Hayato rispose con un
leggero cenno della testa.
"Avete la stessa età" spiegò Alfonso cercando di
mettere suo figlio a proprio agio.
Hayato annuì, tese una mano e si presentò a
propria volta.
"Ha-Hayato Bianchi" disse timidamente.
L'uomo alto accanto alla bambina sorrise ampiamente.
"Devo ammetterlo Alfonso, sono proprio una bella coppia" disse.
Alfonso sorrise fieramente a propria volta, Hayato sentì
esplodergli il cervello.
"Coppia?" domandò confuso.
"Sì, io sono tua moglie" disse Beatrice con entusiasmo.
"Un giorno ci sposeremo e avremo trenta bambini."
Hayato rabbrividì, pensava fosse uno strano scherzo di
cattivo gusto e impulsivamente si mise a ridere.
"Ah no... dice sul serio?" chiese supplicando con lo sguardo suo padre
di smentire la cosa.
Beatrice si lanciò letteralmente su Hayato gettandogli le
braccia al collo.
"Perché non dai un bacino alla tua mogliettina?" disse.
Hayato cercò immediatamente di liberarsi da quella presa e
iniziò a correre immediatamente, Beatrice lo
inseguì.
"Si comportano già come se fossero sposati"
commentò Vittorio.
Per fortuna Beatrice era rallentata dall'ingombrante gonna, ma Hayato
andò a sbattere contro Diana, la corsa si arrestò
e si trovò di nuovo Beatrice addosso.
"Che sta succedendo qui?" chiese Diana guardando le lacrime sul viso di
Hayato, era terrorizzato.
"Perché stai piangendo?" chiese.
Hayato tirò su col naso, si dimenò cercando di
scollarsi la bambina di dosso.
"Perché ha detto che ci sposeremo" piangnucolò.
"Stai piangendo perché non vuoi sposarla?"
domandò Diana con un tono dolce.
"Esatto" rispose Hayato asciugandosi una lacrima.
"Perché no?" proseguì Diana.
In quel momento Beatrice urlò "io ti sposerò, che
ti piaccia o meno" e Hayato urlò a propria volta un "no" che
veniva dal più profondo della sua anima.
Diana sospirò, divise i due bambini e sorrise a Beatrice.
"È presto per sposarvi, perché non andate a
giocare per il momento?" disse.
Non ci volle molto per convincere la figlia dei Rossi e Hayato
tirò un sospiro di sollievo. L'idea del matrimonio gli
metteva i brividi sempre glieli aveva messi e sempre glieli avrebbe
messi.
"Non voglio sposarti" aveva detto Hayato poi di punto in bianco mentre
giocavano con le costruzioni.
"Metti che mi stai simpatica poi ci sposiamo e finiamo come i miei
genitori che neanche si guardano più in faccia."
Beatrice ascoltò attentamente, una lacrima fugace
solcò il suo viso.
"Neanche i miei non si parlano e papà non fa che dirmi che
vuole diventi la Madonna dei Bianchi, però io voglio
qualcuno che poi mi fa le coccole e non mi fa sentire da sola."
"Anche io..." mormorò Hayato.
Per quanto potesse sembrarlo il matrimonio combinato tra Hayato e
Beatrice non era una scusa per avere un campanello Bianchi-Rossi che
facesse patriottismo e fosse al contempo motivo di scherno, ma una
mossa strategica per consolidare il legame tra le famiglie.
Così come i Bianchi erano esperti di veleni, i Rossi erano
esportatori di armi. Con questa unione il prestigio delle famiglie
sarebbe aumentato al punto tale da rappresentare un pericolo per le
famiglie in assoluto più potenti esterne all'alleanza.
Ben presto però Hayato e Beatrice si resero conto di non
sopportarsi, Beatrice lo reputava noioso e Hayato superficiale. Non
c'erano punti di contatto tra loro se non la sofferenza che dava una
famiglia in cui c'era un clima teso animato da urla e indifferenza.
Non si sviluppò mai neanche un'amicizia tra loro anzi,
Hayato le insegnò come importunare la servitù
costruendo dei piccoli petardi e Vittorio ritirò l'accordo
dicendo che l'erede dei Bianchi aveva una pessima influenza su sua
figlia. L'alleanza saltò e Hayato non rivide mai
più Beatrice. Fu sollevato al pensiero di non doversi
sposare, rimpianse quasi di averlo pensato quando suo padre decise che
stavolta andava punito a frustrate sulle mani. Non poté
suonare il piano per un mese intero.
Doveva ammetterlo, Beatrice gli mancava ed era stanco di sentirsi solo
e sfruttato da suo padre che lo trattava da schifo quasi tutti i giorni
eccezione fatta per quando doveva esibirsi nelle serate sfarzose che
ancora venivano organizzate e allora magicamente diventava il suo
prezioso Hayato.
Le cose cambiarono radicalmente quando a palazzo venne assunto un uomo
come dottore ufficiale. Un tipo interessante dal fascino misterioso e
un po' oscuro. Hayato si ritrovò a spiarlo e un giorno si
mise persino a curiosare tra le sue cose.
"Ma tu guarda se un mocioso come te deve ficcare il naso nelle cose dei
grandi" disse il medico, si sistemò il camice e gli
strappò dalle mani la rivista pornografica.
"Come osi parlarmi in questo modo?" domandò Hayato
indignato. Escludendo suo padre e sua madre tutti gli si rivolgevano
con grande rispetto, come se fosse un onore anche solo poter ricevere
la sua attenzione.
"Tu non sai chi sono io. Io sono Hayato Bianchi, figlio di Alfonso
Bianchi, futuro Decimo boss dei Bianchi" disse fieramente.
"E io sono quello che ti ha salvato il culo più di una
volta, vostra altezza" disse il medico con un tono impertinente e
ironico.
Hayato sorrise istintivamente, era sorpreso di aver trovato qualcuno
che gli tenesse testa.
"Che intendi?" chiese.
"Voglio dire che sua grazia è stato curato da me medesimo
sia quando ha avuto una crisi isterica che quando si è
lanciato dal tetto credendo non so forse di poter volare per poi
scoprire che la gravità è valida persino per lui."
Hayato avrebbe dovuto sentirsi offeso, invece si sentiva molto
emozionato e propenso a proseguire.
"Oltre a essere uno stronzo hai anche un nome?" chiese.
"Trident Shamal, al vostro servizio, canaglia" rispose il medico
abbozzando un sorriso.
"Sei al mio servizio?" chiese Hayato curioso.
"Ti piacerebbe" ribatté prontamente Shamal.
"Non sono proprio al servizio di nessuno. Curo le donne bellissime e
solo con te ho fatto eccezione..."
Hayato annuì, gli sorrise nuovamente e si
allontanò.
"Aspettati di ritrovarmi attorno, dottore stronzo" disse.
"Non pensare che diventerò il tuo babysitter, Hayato, figlio
di nessuno e boss proprio di nulla allo stato attuale"
ribatté Shamal salutandolo con la mano.
Esattamente come aveva detto Hayato aveva fatto e in breve tempo si era
messo a seguire Shamal in ogni dove. Dopo aver recitato per un po' la
parte di quello infastidito Shamal aveva ceduto e lo aveva accolto
sotto la sua ala. Passavano molto tempo insieme durante il quale Shamal
gli raccontava della sua incredibile vita. Non passò molto
prima che la copertura da medico saltasse e Shamal rivelasse di essere
un assassino professionista di prima categoria.
Hayato rimase stregato da quella confessione e volle saperne sempre di
più perché Shamal era semplicemente "un figo."
Gli piaceva così tanto che voleva assomigliare a lui,
così tanto che voleva stare sempre con lui così
tanto che la prima volta che lo vide baciarsi con Elisa, una delle sue
balie pianse lacrime amare e si ritrovò a cancellare con la
punta delle chiavi quel "Hayato e Shamal" che aveva inciso sul muro
proprio accanto al suo letto.
Che schifo l'amore, era solo un nome diverso da dare alla sofferenza.
Gli ci volle un po' di tempo per riprendersi, ma quando lo fece e
accettò di non essere ricambiato decise di trasformarsi in
Shamal, visto che era l'unico modo in cui potesse averlo.
Iniziò col taglio di capelli, proseguì con la
camminata, l'abbigliamento.
Al suo sesto compleanno chiese di poter passare una giornata da solo
con quel dottore al posto di quelle fottute feste inutili. Era nato in
lui il desiderio di opporsi a quelli che erano i programmi del padre.
Altro che un patetico boss che stava tutto il giorno in un ufficio del
cazzo a firmare scartoffie, lui voleva essere un cazzutissimo assassino
indipendente, temuto da tutti. Era l'unico modo per fare il cazzo che
ti pare nel mondo della mafia.
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Capitolo 6 *** Quale mondo? ***
Il compleanno trascorso con Shamal sembrò uno dei
più fighi del secolo dall'instante in cui lo venne a
prendere con una Cadillac rossa del '70 fino a quando non rientrarono
al castello verso le undici di sera.
Shamal aveva deciso di andare in spiaggia perché quel giorno
si teneva un concorso molto simile a "miss maglietta bagnata" e non
voleva perderselo.
La spiaggia di Mondello già normalmente piena non era mai
stata così gremita di gente. Shamal prenotò un
ombrellone in prima fila con relativi lettini per godersi lo
spettacolo. Si premurò che Hayato rimanesse all'ombra per
tutta la durata dello show invitandolo continuamente a spostare il
lettino seguendo la direzione del sole.
Giovani ventenni si alternarono mostrando i loro fisici abbronzati e
formosi, nudi se non per i due pezzi di stoffa che costituivano i
bikini.
Shamal aveva l'acquolina in bocca, ma non era l'unico, uomini di tutte
le età non facevano che urlare e fischiare, facendo
apprezzamenti volgari.
Hayato non era sicuro di essere interessato alla sfilata,
più che altro lo affascinava il modo in cui le ragazze
riuscivano a camminare sulla sabbia senza perdere il portamento.
Inoltre l'aria era così tersa e il castello talmente lontano
che si sentiva leggero.
Shamal iniziò a urlare il nome di una brunetta con un
davanzale da paura quando il presentatore annunciò che era
giunto il momento di votare, Hayato ricercò tra le
concorrenti se ce ne fosse qualcuna che assomigliasse anche solo
vagamente a Lavinia, ma la sua amica era unica al mondo e lui lo sapeva.
Quel giorno scoprì che le donne hanno un debole per i padri
single, cosa che Shamal assolutamente non era, ma che Hayato era stato
più che felice di far passare per tale. Per un attimo si era
domandato se non avesse accettato di passare la giornata con lui solo
con quel secondo fine, ma si era dovuto ricredere quando Shamal gli
aveva sorriso e senza il suo solito atteggiamento spavaldo aveva detto
"ti voglio bene, sai?" per poi scompigliare i suoi capelli con una mano.
Forse era stato questo il momento più elevato della
giornata, più ancora di quando al ristorante avevano
condiviso un piatto di pasta e vongole, più ancora di tutte
le scuse che aveva avuto per reclamare contatto fisico, più
delle storie assurde che avevano entrambi inventato circa la morte
prematura della mamma di Hayato.
Per un attimo si fermò a pensare che era proprio
così che aveva sempre desiderato che fosse il suo rapporto
con Alfonso, risate, affetto, ma soprattutto complicità e
dialogo.
Shamal gli aveva raccontato tutto circa le sue tecniche, specialmente
la trident mosquito, Hayato non le aveva mai viste in azione, ma era
sicuro che fosse uno spettacolo.
Non si badò a spese quel giorno: non avendogli fatto un
regalo Shamal comprò qualsiasi cosa Hayato manifestasse il
desiderio di avere, da un tranquillissimo gelato alla vaniglia fino a
una riproduzione fedele del sistema solare in miniatura.
Al fianco di Shamal sentiva davvero di essere qualcuno, qualcuno che
persone pagherebbero per essere, una specie di celebrità,
qualcosa che lo faceva finalmente sentire come se in fondo un valore ce
lo avesse.
Shamal lo lasciò davanti alla sua stanza nel castello e non
attese che entrasse prima di andarsene. Hayato realizzò che
il sogno era finito e che l'indomani si sarebbe risvegliato tra quelle
fredde mura e sarebbe anche stato costretto a suonare per un altro di
quei maledettissimi gran balli.
Quel piano che gli aveva sempre dato conforto stava iniziando a odiarlo
costretto a esibirsi per non si capiva bene quale altra ragione se non
gonfiare l'ego di suo padre che reclamava i meriti del suo talento.
Lo guardò, nero lucido, più grande di come lo
ricordava e al contempo più piccolo. Nessuno lo stava
guardando, né Alfonso, né Clara, né
qualunque altro adulto presente. La maggior parte degli invitati erano
seduti a tavola e stavano consumando la cena, altri erano in piedi a
sorseggiare dai calici del buon vino.
Come al solito lui e Bianca erano gli unici bambini in tutta la sala.
Lo sguardo si spense, una tristezza vuota si impadronì di
lui: che cosa lo fermava dall'andarsene da quella stanza e raggiungere
Shamal nella sua?
"Il mio prezioso Hayato", ecco cosa lo fermava. Quell'adulazione, tutti
i complimenti che riceveva dopo ogni esibizione da parte di suo padre,
l'affetto che era finalmente riuscito a comprare e di cui suo malgrado
non poteva fare a meno.
Avrebbe voluto un amore costante e non che dovesse guadagnarsi con la
sua condotta, tuttavia consapevole o meno che fosse, Alfonso aveva
trovato il modo di manipolarlo e Hayato non riusciva a prendere delle
forbici per tagliare i fili attaccati al suo cuore che vedeva tanto
lucidamente.
Fu in quel momento che Bianca gli venne vicino, teneva tra le mani una
teglia di biscotti che cercava di mantenere a distanza dal vestitino
nero che ricordava quello di Mercoledì Addams.
"Ho fatto questi per te, mangiali" disse con un sorriso gentile.
Il loro rapporto aveva subito molte botte ciò nonostante
entrambi erano pienamente intenzionati a recuperare superando i propri
limiti, quel gesto di Bianca ne fu la conferma.
"Grazie" disse Hayato con entusiasmo, immediatamente gli
tornò il sorriso.
"Li ho fatti con ingredienti sicuri, ho chiesto a Diana prima di
mettermi a cucinare. Spero ti piacciano" spiegò Bianca,
Hayato si soffermò per un istante a constatare quanto fosse
cresciuta, cominciava a somigliare a tutte quelle donne che aveva visto
in spiaggia il giorno prima a causa di quel leggero accenno di seno.
Assaggiò incuriosito e masticò piano, l'aspetto
non era dei migliori, ma nella sua vita aveva conosciuto un tipo di
biscotti chiamati "brutti, ma buoni" che erano a dir poco deliziosi e
non era solito giudicare un libro dalla copertina.
La sua espressione distesa, passò per un frangente di
secondo nella perplessità e poi si tramutò in
disgusto. Era uno di quei casi in cui è esattamente come
sembra.
I biscotti erano viola, sembravano avere degli strani vermicelli di
gelatina sopra ed emanavano un fumo nero.
Gli occhi di Bianca brillarono, era talmente fiera della sua opera che
Hayato non se la sentì di sputare e suo malgrado
mandò giù il boccone.
La sua performance stava per iniziare, ma Hayato sentiva un crescente
senso di nausea e si domandava cosa sarebbe successo se avesse vomitato
davanti a tutti in modo così plateale. Percepiva come se gli
avessero dato un pugno nello stomaco, lo avessero aperto a
metà e vi avessero poi fatto un nodo attorcigliandolo su se
stesso.
Le vertigini accompagnavano il tutto. Forse si sbagliava, forse non era
vero che un biscotto dal brutto sapore non aveva mai ucciso nessuno.
La sua vista si stava annebbiando, il respiro accorciando. Si
ritrovò ad aprire la bocca sentendo la saliva condensarsi e
poi scivolare verso un lato.
Suo padre dovette pensare che stesse inscenando qualcosa dal momento
che lo presentò e lo costrinse anche a suonare.
Più che accarezzarli ad Hayato sembrò di aver
picchiato i tasti, premendoli a casaccio visto che non riusciva a
vederli, né a dosare la forza impressa nelle dita. Voleva
solo che finisse alla svelta così da poter andare da Shamal
e farsi curare, se non altro aveva una buona scusa per vederlo.
Decise lui quando smettere di suonare e si domandò quanto
sarebbe rimasto deluso suo padre, quanti insulti si sarebbe beccato,
quante risatine odiose e quanto avrebbe bucato il suo ego mostrandolo
nella sua fragilità.
Affatto, un applauso si levò e alcuni critici venuti per
l'occasione definirono Hayato un genio, un visionario e gli offrirono
di incidere un disco con quella sua composizione.
Alfonso estasiato chiese pubblicamente quale fosse il segreto per una
simile esibizione e Bianca dichiarò prendendo il microfono
che era merito dei suoi biscotti, fatti con tanto amore per il suo
fratellino.
Hayato diede una testata contro il pianoforte quando sentì
suo padre dire "Benissimo Bianca, voglio che glieli prepari sempre,
prima di ogni esibizione."
Fu ignorato nella confusione generale e lo fu anche quando barcollando
si avvicinò a suo padre per chiedergli di fargli tutto ma
non questo.
"Oh Hayato, sei un lenzuolo, ti mando da Shamal" disse Alfonso come se
la cosa non fosse assolutamente di sua competenza, lo scortò
personalmente.
Hayato attese che suo padre se ne andasse per parlare con Shamal e
dirgli cosa fosse successo. Il medico iniziò immediatamente
a esaminarlo e quando decretò la diagnosi
rabbrividì, i suoi occhi fieri lo tradirono e Hayato vi
lesse paura.
"È cianuro..." mormorò Shamal, prese un
macchinario, da Hayato non meglio identificato, di fretta e furia.
Fece distendere Hayato sul lettino posizionandolo sul decubito laterale
sinistro, si avvalse della sonda oro-gastrica piccolissima per
effettuare il processo.
Disse a Hayato di aprire la bocca conscio che ogni secondo di ritardo
potesse essere fatale e senza dare spiegazione alcuna iniziò
a utilizzare quello strano macchinario che diede al piccolo un senso di
rigetto.
Osservò tremante l'acqua che veniva iniettata in quel tubo
piccolo che doveva essere arrivato in profondità dentro di
lui, sentiva il cuore battere così forte ed era sicuro di
stare per perdere coscienza.
Shamal gli diede uno schiaffo in faccia, Hayato ci vide meglio
improvvisamente.
"Tu non muori, hai capito?!" urlò Shamal,
continuò a effettuare la lavanda gastrica finché
non riuscì a ripulire tutto l'apparato gastro-intestinale.
Quando lo liberò da quello strano apparecchio Shamal gli
porse una bustina e gli disse "mangia!".
Era carbone vegetale attivo, una sostanza assorbente che lo avrebbe
protetto da eventuali residui di veleno.
Quando il pericolo poté dirsi scampato Shamal
tirò un sospiro di sollievo e si permise di abbracciare il
piccolo.
"Non posso credere che abbiano provato ad avvelenarti"
mormorò.
Hayato tremando ricambiò l'abbraccio, non aveva nemmeno la
forza di piangere. Cercò di convincersi che non fossero
stati i biscotti di sua sorella, che ci fosse stato altro, ma la
conferma divenne evidente quando Shamal parlò nuovamente.
"Eppure è strano sai? Col cianuro si muore immediatamente,
invece dalle analisi che ho fatto è risultato che
è passata più di un'ora da quando lo hai
ingerito."
Hayato non disse niente.
"Voglio controllare una cosa" sottolineò Shamal, gli tolse
la giacca e sbottonò la camicia scoprendo tutta la zona
addominale. Prese poi del liquido non meglio identificato e un altro
apparecchio assolutamente sconosciuto ad Hayato.
"È proprio come pensavo... allora è vero..."
mormorò Shamal.
"Lo vuoi dire anche a me, che dici?" incalzò Hayato con un
tono talmente avvelenato che rispecchiava la situazione.
Shamal guardò il monitor con sommo sgomento.
"Il tuo stomaco è intatto, non presenza neanche la minima
lesione" spiegò.
"La mia voglia di vomitare non è d'accordo"
ribatté Hayato.
Shamal sorrise appena, gli fece una carezza sul viso.
"La tua famiglia, la tua famiglia è conosciuta per avere una
straordinaria resistenza ai veleni. Per questa ragione è
così temuta in tutto il mondo della mafia. Si dice che il
tuo trisavolo mangiasse I biscotti inzuppati nell'acqua tofana per
colazione."
Hayato ascoltò attentamente la spiegazione, messa in questi
termini aveva senso e non poteva neanche davvero dispiacersi per
ciò che Bianca aveva fatto. Non era un tentato omicidio, ma
solo una prova, una specie di battesimo probabilmente che bisognava
ricevere al sesto anno. Per questo Alfonso non era spaventato.
"Allora non mi odiano..." mormorò Hayato tirando un sospiro
di sollievo.
"Però io sono stato di merda... e se non lo avessi
ereditato? O se lo avessi ereditato solo in parte?" tremò.
"Sta tranquillo, forse ci sarà bisogno di allenamento, ma
nelle tue vene scorre il sangue di Alfonso Bianchi quindi anche la sua
resistenza al veleno."
Hayato si convinse, ma questo non rese meno dolorose tutte le altre
performance anticipate da una scorpacciata di biscotti avvelenati.
Bianca non gli dava tregua e Hayato finì per odiarla davvero
al punto tale che solo guardarla in faccia gli faceva venire i conati
vomito, al punto tale che qualche volta svenne solo per averla
incontrata in corridoio.
Bianca dal canto suo stava diventando una signorina e aveva letto da
qualche parte che gli odori della pubertà di una femmina
avevano uno strano effetto sui maschi più piccoli o della
sua età e attribuiva a questo le bizzarre reazioni di Hayato
dalle quali si sentiva paradossalmente lusingata.
Il mondo della ricerca del partito perfetto assieme alla sua crescente
consapevolezza in fatto di veleni la spinse improvvisamente a togliersi
i panni della futura mogliettina perfetta.
"Padre, io voglio essere un'assassina, voglio sposare l'assassino
professionista migliore al mondo ed essere conosciuta in tutto il mondo
come la temibile Alessandra" dichiarò a tavola una sera di
punto in bianco.
Hayato sgranò gli occhi, ma non osò alzarli dal
piatto per paura di vomitarci il contenuto appena ingerito dentro una
volta incrociato lo sguardo della sorella.
"Perché Alessandra?" domandò Alfonso.
"È tutto quello che hai da dire?" urlò Clara.
"Tua figlia, la tua unica bambina, ti dice che vuole diventare
un'assassina e tu le chiedi perché ha scelto quel nome. Roba
da non crederci."
Clara si pulì la bocca con un tovagliolo e sorrise come
Bianca non le aveva mai visto fare prima.
"Così si fa, figlia mia, hai reso la tua mamma orgogliosa.
È ora che gliela facciamo vedere a questi uomini chi siamo.
Finora siamo rimaste in panchina, ma adesso cambierà tutto.
Mia figlia Alessandra sarà la migliore assassina in
circolazione e nessuno oserà mai più guardarla
solo come una casalinga."
Alfonso non riuscì a opporsi, non ci riusciva mai quando si
trattava di Clara e del suo volere. Complice la diagnosi di
schizofrenia, era semplicemente impossibile per lui contraddire la
moglie.
Bianca sorrise a propria volta, non ebbe cuore di dire a sua madre che
aveva scelto quel nome proprio per il significato opposto. Aveva capito
che gli uomini della sua famiglia erano molto più deboli di
lei e voleva proteggerli.
"Da domani ti farò allenare dai più rinomati al
mondo. Chiamerò la famiglia Vongola e chiederò i
tutor professionisti migliori che hanno da offrire" disse Alfonso in un
certo qual modo fiero della forza d'animo della sua bambina.
"P-Padre..." tentennò Hayato.
"Vo-Vorrei diventare un assassino anche io" disse.
Clara sbatté ambo le mani sul tavolo facendo tremare i
bicchieri.
"Smettila di imitare Bianca, cazzo!" urlò.
Alfonso sospirò, cercò di placare la furia di
Clara con della parole gentili.
"È ancora piccolo, è normale che voglia imitare i
grandi."
Hayato sbottò.
"Mamma, ma ti vuoi decidere? Bianca lo fa meglio e devo prendere
esempio da lei, ma quando ci provo mi scusi di imitarla. Che cazzo vuoi
da me?!" urlò a propria volta.
Clara tremò, divenne un cencio.
"Porta quell'essere lontano da me" strillò indicando Hayato
come se fosse un topo.
"Fallo sparire" rincarò la dose.
Hayato scoppiò in lacrime, si allontanò con passo
spedito.
"Tolgo il disturbo" disse.
Alfonso lo rincorse, lo fermò fuori dal corridoio, si
abbassò e gli accarezzò le spalle.
"Tua madre non dice sul serio..." disse.
"Come no..." ribatté Hayato asciugandosi le lacrime con i
pugni.
"Per me va bene che tu voglia essere un assassino, un bravo boss deve
sapere anche quando è il caso di uccidere" spiegò
Alfonso benevolo.
"Io non voglio essere il boss di questa famiglia, padre. Voglio
diventare un assassino indipendente, voglio essere come Shamal."
Alfonso fu sicuro che le sue mani prudessero e sentì il
bisogno di grattarsi nervosamente in viso.
"Zitto Hayato, tu sarai il Decimo Boss di questa famiglia, che ti
piaccia o meno. Shamal è un perdente, un pervertito che va
dietro alle gonne e l'unica ragione reale per cui ho accettato che
venisse qui è perché Lavinia avrebbe voluto
così..." Hayato lo interruppe.
"Che c'entra Lavinia con Shamal?" domandò confuso.
Alfonso sospirò, si massaggiò le tempie.
"Anche Shamal le voleva bene, erano amici. Sono cresciuti
insieme...sì, bravo adesso va pure da Shamal a farti
raccontare di Lavinia..." sbraitò Alfonso.
"Almeno lui mi risponde, almeno lui si comporta come se fosse realmente
mio padre a differenza tua, Alfonso."
Hayato si allontanò, il boss della famiglia Bianchi non ebbe
cuore di fermarlo, non riuscì neanche a proferire parola.
"Scelgo io che cosa voglio essere. Trovati un altro erede."
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Capitolo 7 *** Non quel mondo ***
Hayato era abituato a stare attorno a Shamal, ciò nonostante
quella sera quando bussò alla porta della sua stanza, che
era di fatto un piccolo appartamento con tanto di spazio per tutto
l'occorrente per svolgere la sua professione, si sentì in
difficoltà.
Una parte di lui voleva sapere di più su Lavinia, un'altra
aveva paura di chiedere.
Shamal aprì la porta, lo invitò a entrare, fece
finta di non vedere gli occhi lucidi solo per non metterlo a disagio.
"Ci spariamo un film?" chiese cercando di alleggerire l'atmosfera.
"No, voglio che mi insegni a sparare, alle persone" rispose Hayato cupo.
Shamal diventò di ghiaccio guardò il bambino come
se fosse impazzito e poi lo prese per le spalle.
"Da dove esce questa richiesta?" disse indispettito senza perdere
all'apparenza il suo atteggiamento spavaldo perché Hayato
sapeva come giocare con i punti deboli suo malgrado.
"Voglio diventare un assassino, uno di quelli indipendenti, proprio
come te. Alfonso vuole che io prenda in mano la famiglia alla sua
morte. Mai desiderato così tanto che qualcuno fosse
immortale..." spiegò Hayato.
Shamal sospirò, si massaggiò la testa,
rilassò le spalle.
"Va bene, posso insegnarti a sparare. Le pistole sono superate, ma non
esiste assassino degno del titolo che non abbia una buona mira."
Hayato sorrise, pensava che da quella risposta sarebbe derivata una
gioia immensa quindi non si spiegava davvero perché
continuasse a sentirsi come se lo avessero svuotato e lui non fosse che
un guscio. Poi si rese conto che stava ritardando un momento
inevitabile in cui avrebbe chiesto ciò che voleva sapere
nonostante temesse di scoppiare in lacrime solo per aver domandato.
"Alfonso ha detto che tu... che insomma... che tu... tu... conoscevi...
La-Lavinia..." disse, come previsto il suo tono si incrinò
fino a spezzarsi. Hayato strizzò gli occhi, strinse i pugni
e lasciò andare le lacrime.
"Ah sì, certo. Eravamo vicini di casa quando avevo
più o meno la tua età" rispose Shamal senza
mostrare la minima emozione.
"Voglio... voglio che mi dici tutto ciò che sai su di lei.
Lei... lei è... lei era... la mia amica...non le ho potuto
dire addio e mi manca moltissimo..."
Shamal accennò un sorriso amaro lasciò che Hayato
si sfogasse facendogli nascondere il viso contro il suo petto.
"Ti racconterò tutto ciò che vorrai sapere su
Lavinia" disse.
Così attraverso le parole di Shamal Hayato la vide
rinascere. Non riuscì a reperire molte informazioni
sensibili se non alcune appena accennate come il fatto che fosse di
origini giapponesi. Per il resto si parlò del suo colore
preferito, il bianco, del cibo che amava di più al mondo, le
trofie al pesto, di quando aveva iniziato a studiare pianoforte, tre
anni, del fatto che era gravemente malata dall'età di
quindici e il cielo le aveva già concesso più
vita di quanta non promettesse di portarle via.
Dopo quella sera Hayato percepì una nuova connessione con
Lavinia, una molto più forte che andava ben oltre l'affetto
e l'intesa musicale.
"Se ne è andata senza soffrire almeno?" fu la sua ultima
domanda, convenne con se stesso che onde evitare di mettere sale sulla
ferita non avrebbe mai più parlato di Lavinia
finché i punti di sutura non si fossero riassorbiti
rimettendo insieme i pezzi del suo cuore.
"Non lo so, Hayato" mormorò Shamal.
"Non ho capito la dinamica dell'incidente, ma una cosa posso
garantirtela: pochi giorni prima del tuo terzo compleanno ci siamo
visti e lei mi ha detto che non è mai stata così
felice in tutta la sua vita come lo era al tuo fianco."
Hayato sentì le lacrime graffiargli il viso, il cuore
pesante improvvisamente si era rimesso insieme, sorrise senza opporre
resistenza all'emozione.
"Si sentiva come me..." sussurrò a se stesso come se stesse
confidando un segreto.
Hayato era arrivato per miracolo a compiere sette anni senza mai aver
davvero assistito a una sparatoria, mai a un combattimento. Ne aveva
solo sentito parlare, le aveva viste nei film e sapeva che succedevano
molto vicino a lui, ma non vi aveva mai assistito.
Durante una di quelle maledettissime serate vide per la prima volta
qualcuno sparare e poi divenne un insieme confuso di proiettili che
rimbalzavano a destra e a manca.
Alfonso gli si parò davanti lo nascose dietro il suo
mantello e con un sorriso, in totale contraddizione col fatto che non
si rivolgevano la parola da due settimane, gli sussurrò cosa
fare per portarsi in salvo.
In quel momento assistette a qualcosa di inimmaginabile: Bianca,
vestita con una canotta aderente verde militare e dei jeans a vita
bassa che lasciavano intravedere l'ombelico, si lanciò
all'attacco dei uomini che avevano impugnato pistole e mitragliatrici.
Alfonso urlò e cercò di fermarla, non
riuscì a muoversi preso completamente alla sprovvista.
Bianca aveva da poco iniziato il suo allenamento con un famoso nome nel
mondo della mafia, un nome che Hayato non si era premurato di
appuntarsi e che di certo non si sarebbe ricordato in un momento simile.
Osservò sua sorella far roteare per aria della pasta per
pizza dal colore violaceo, lo vide diventare talmente sottile da essere
più affilata di un bisturi. Respinse il conato di vomito che
era nato a quella vista e osservò il movimento rotatorio
squarciare uno dei preziosi quadri appesi al muro.
"Poison cooking" urlò Bianca e lanciò quella
pasta per pizza contro un gruppo di uomini che in un attimo cessarono
di parlare. Preparò immediatamente un'altra porzione e
stavolta la utilizzò come se fosse una smerigliatrice. Di
quei mafiosi rimanevano solo pezzi di carne staccati tra loro con
abbondante sangue che cercava di ricollegarli.
Bianca non aveva fatto tutto da sola, gli uomini più fidati
di Alfonso si erano subito messi all'opera, ma tutti concordavano
nell'affermare che Bianca aveva fatto la differenza.
Alfonso si congratulò, cerco di evitare di guardare troppo
la carneficina che c'era stata. Hayato si era istintivamente rifuggiato
sotto il pianoforte credendo che lo avrebbe protetto, il mantello di
Alfonso aveva coperto in parte la sua visuale fino a quel momento.
Hayato dovette mettersi una mano sulla bocca per non vomitare
all'istante davanti a quell'atroce spettacolo e si domandò
perché sua sorella a soli dieci anni invece sfilasse tra i
pezzi di carne con un portamento regale, imperturbabile.
"Padre, avete visto?! Li ho uccisi tutti, li ho uccisi subito!"
esultò Bianca come se stesse parlando di aver comprato la
bambola più bella nel negozio.
"Sei tagliata per questo mondo, Alessandra" convenne Alfonso
stringendole la mano.
Hayato guardò la scena inorridito, i membri della sua
famiglia avevano qualche rotella mancante, non c'era altra spiegazione.
"Padre, ho scoperto che ho il potere di avvelenare qualsiasi cosa io
cucini. Non è grandioso?" proseguì Bianca
confermando ciò che Hayato aveva iniziato a pensare da un
po'.
"Grandioso, tesoro. Sei l'orgoglio della famiglia."
Bianca spiegò poi che lei poteva mangiare ciò che
cucinava e che lo trovava delizioso, inoltre raccontò di
essere convinta che quando cucinava con amore il veleno non aveva
effetto e il cibo era del tutto normale.
"Con un potere simile il mondo intero tremerà solo a sentire
il mio nome" disse Bianca fieramente.
Nessuno osò opporsi e tutti i presenti si inginocchiarono
riconoscendo la superiorità della bambina.
Hayato era confuso, rientrando nella sua stanza si domandava se non si
fosse perso qualche particolare per strada tipo che essere un assassino
significava veramente uccidere le persone.
Non gli piaceva l'idea, almeno non così. Era vero che Bianca
li aveva protetti da una minaccia, ma che bisogno c'era di sbudellarli?
Hayato dovette di nuovo coprire la bocca per scacciare il senso di
rigetto al solo pensiero.
Qualche mese più tardi Hayato spense nuovamente le candeline
e gli parve di non essere mai stato più stanco. Era tutto
confuso attorno a lui e anche dentro.
Bianca diventava più pericolosa ogni giorno che passava
mentre Hayato si interrogava su come diventare un assassino senza
uccidere le persone. Non aveva senso, ma gli sembrava sbagliato.
Divenne chiaro che in quel mondo era solo una gara a chi uccide prima
l'altro quando venne a sapere che alcuni uomini di suo padre erano
stati messi fuori combattimento da una famiglia nemica di cui
ovviamente non gli era dato sapere il nome perché come al
solito non gli dicevano mai un cazzo.
Una nota positiva però c'era: Shamal aveva iniziato ad
allenarlo offrendosi come suo mentore. Nel giro di un anno gli aveva
insegnato a sparare, a picchiare, a riconoscere tutti i veleni
conosciuti alla sola presenza nell'aria e a piegare la carta per fare
degli aereoplanini. Su quest'ultimo punto Hayato doveva ammettere di
sentirsi confuso, ma, un po' come aveva visto in Karate Kid, sperava in
un risvolto emozionante.
Hayato era affacciato all'ampio balcone della sua stanza, teneva tra le
mani tre origamk di un aeroplano, Shamal al suo fianco aveva lo sguardo
perso verso l'orizzonte.
"Hey, Dottor Shamal" mugolò.
"Questi giochetti per bambini sono noiosi" sbuffò,
appoggiò ambo le braccia sul davanzale in marmo e si
inserì il mento nascondendo così la bocca alla
visuale.
Ci aveva pensato a lungo e alla fine era giunto alla conclusione che
l'unico modo per uccidere le persone senza provare sensi di colpa era
proprio quello di Shamal.
"Insegnami la tecnica del Trident Mosquito" insistette.
Shamal sospirò, si appoggiò a propria volta con
la schiena al parapetto.
"Santo cielo, che ragazzino problematico. Prima copi il mio taglio di
capelli e adesso mi vuoi fregare anche la tecnica per uccidere" disse.
Hayato annuì senza vergogna e stava per ribattere quando
vide Shamal estrarre da chissà dove tre candelotti di
dinamite.
"Sarebbe meglio se usassi queste" disse fieramente.
Hayato sobbalzò, studiò per un istante gli
oggetti tra le mani di Shamal.
"Bombe?" domandò perplesso, saltò seduto sul
bordo del parapetto e fece dondolare le gambe dal lato del pavimento.
"Il nemico scapperà prima ancora che io possa accenderle.
Sono troppo lente!" protestò.
Shamal scosse la testa, guardò verso il cielo come se stesse
ricercando qualcosa.
"Cristo, i bambini proprio non capiscono quanto virile possa essere un
attacco di supporto a medio raggio. Ora ti faccio vedere quanto sono
lente..." disse sottolineando in maniera ironica l'ultima parola.
Hayato lo guardò incuriosito, ma anche spaesato. Cosa poteva
esserci di tanto figo in un'arma simile?
"Lancia quegli aeroplanini, dai a ognuno una direzione diversa. Li
colpirò tutti insieme prima che tu possa vederli prendere la
traiettoria data" disse Shamal, il suo tono era carico di convinzione.
Tra le varie materie che aveva studiato Hayato c'era anche la fisica e
questo lo portò a tramutare l'espressione spaesata in una
scettica e carica di fastidio.
"È impossibile" stabilì.
Shamal si voltò verso il davanzale, osservò per
un istante la campagna dei Bianchi che si estendeva per troppi ettari e
poi rivolse lo sguardo ad Hayato.
"Guardami" disse prima di fare un occhiolino.
Hayato la prese come una sfida, mise un piede sul parapetto per darsi
più slancio e fece del suo meglio perché fossero
tutti lontani e in posizioni diametralmente opposte.
Shamal sorrise, mosse una mano davanti alla propria faccia e in un
attimo Hayato sentì tre esplosioni alternate da frazioni di
secondo di silenzio.
Guardò verso il basso e vide che gli aeroplani erano stati
carbonizzati, i suoi occhi brillarono intensamente e la speranza
risvegliò il suo cuore riempiendolo nuovamente.
"P-Pazzesco..." mormorò cercando di mantenersi la mandibola.
"Non sottovalutare le armi che permettono attacchi a distanza, Hayato.
Sono perfette quando non vuoi sporcarti le mani. Puoi programmarle come
trappole e andartene prima di poter sentire le urla del tuo nemico.
Moriranno senza sapere che cosa li ha colpiti."
Hayato sorrise come non aveva mai fatto prima, il suo cuore batteva
così forte, ma non per sofferenza, non per paura, per
quell'entusiasmo che era morto tempo addietro.
"Come hai fatto? Insegnami!" disse Hayato saltellandogli intorno, per
un attimo sentì davvero di essere solo un bambino di sette
anni.
"Non posso insegnartelo, in questo mondo sopravvive solo chi trova da
sé le risposte, ma per il momento posso spiegarti come
funzionano gli attacchi a distanza" disse Shamal con un sorriso fiero.
Nonostante Hayato avesse manifestato altre intenzioni Alfonso
insistette perché iniziasse la sua formazione da boss quindi
gli vennero date nozioni giuridiche e approfondimenti circa il codice
della mafia.
Ogni informazione reperita la usò a suo vantaggio per
diventare più simile a quell'assassino che vedeva nei propri
sogni e le sera nelle costellazioni, guardando il cielo stellato,
così luminoso a differenza della sua vita.
Un giorno decise di sperimentare lanciando la dinamite contro i figli
delle balie che giocavano in giardino. Sentì l'esplosione e
si fece una grossa risata finché alle sue orecchie non
arrivarono dei lamenti disperati.
Con orrore vide Andrea a terra e andò immediatamente a
soccorrerlo. Quello fu il momento in cui si rese conto davvero che la
dinamite non era come quei piccoli petardi che aveva imparato a
costruire e che poteva fare veramente male.
"Perdonami, perdonami. Era uno scherzo, volevo solo giocare"
mormorò con le lacrime agli occhi, aiutò Andrea
ad alzarsi mentre le mani gli tremavano.
Pensare che aveva scelto dei candelotti piccolissimi, proprio per
evitare che succedessero cose come quelle eppure Andrea, il figlio di
Diana aveva perso due dita alla mano destra.
Hayato strappò un pezzo della sua camicia e lo
usò come fascia per fermare l'emorragia e chiamò
disperatamente aiuto mentre gli altri bambini assistevano inorriditi.
Diana si precipitò lì dove aveva sentito le voci
dei suoi due bambini e quasi perse i sensi davanti a quella scena.
Andrea era talmente sotto shock da non riuscire a dire una sola parola.
L'ambulanza arrivò solo mezz'ora dopo.
I bambini parlarono forte e chiaro, dicendogli le peggiori cattiverie
lo accusarono di aver provato a uccidere Andrea.
Diana dovette chiederlo a sera tardi quando rientrò
dall'ospedale con la consapevolezza che suo figlio non avrebbe mai
più potuto scrivere normalmente con quella mano.
"Hayato, sei davvero stato tu?"
E Hayato dovette ammetterlo e rompere con l'unica persona che per lui
c'era sempre stata.
"È stato un incidente, volevo solo giocare" cercò
di spiegare disperatamente, ma Diana era ormai irraggiungibile.
Hayato cadde sulle ginocchia e la guardò mentre usciva per
sempre dalla sua vita, strinse la testa tra le mani e si
odiò per essere stato così stupido.
Gli fu affidata una nuova balia, Elisa, una delle più
giovani al castello ed ex di Shamal, non che contasse qualcosa visto
che il dottore cambiava fidanzata come cambiava le mutande. Hayato
aveva scoperto di essere stato preso per il culo alla grande solo
quando facendo due calcoli era arrivato alla conclusione che Shamal non
potesse avere più di 62 sorelle.
Elisa era molto dolce, forse anche troppo, eccessivamente fisica per un
bambino abituato alla negazione affettiva.
Gli ci volle quasi un anno intero per abituarsi a quella nuova dinamica
nella sua vita anche perché Elisa a differenza di Diana gli
dava sempre ragione, cosa che onestamente Hayato non sopportava.
Si odiava, era furioso e questo lo spinse a chiedere a Daniele di
accompagnarlo in città a comprare dei giocattoli nuovi.
Approfittando dell'istante in cui Daniele si era distratto per parlare
con la cassiera del negozio Hayato uscì e si perse per i
vicoli. Era alla ricerca di qualche stronzo da fare saltare in aria,
qualcuno con cui vendicare ciò che aveva fatto ad Andrea.
Trovò pane per i suoi denti davanti a una baby-gang radunata
sotto un porticato. I ragazzini poco più grandi di lui lo
attaccarono immediatamente solo per averlo visto nel loro territorio.
Uno di loro gli sputò in faccia chiamandolo "damerino" cosa
che fece scattare Hayato.
Ovviamente aveva portato la dinamite con sé e non perse un
solo istante a lanciarla. La sua mira faceva ancora pena per questo
colpì solo uno del gruppo, gli altri gli diedero addosso e
non lo conciarono per le feste solo perché Shamal gli aveva
insegnato a difendersi e dare dei ganci ben assestati.
Uscì dolorante e pieno di lividi ripercorrendo la strada
all'indietro, Daniele pregò tutti i santi conosciuti quando
lo vide tornare affinché Alfonso non lo decapitasse.
Hayato fu portato in ospedale, clinica privata ovviamente. La prognosi:
un braccio rotto che sarebbe guarito grazie a un mese di assoluto
riposo.
Un'infermiera molto gentile gli mise il gesso e una fasciatura morbida
che girava dietro le spalle per mantenere il braccio in posizione.
Hayato rientrò alla villa trionfale e fieramente si
presentò da Shamal il quale stava seduto su uno dei
divanetti rossi del salottino secondario a leggere il giornale.
"Dottor Shamal!" disse spavaldo.
"Guarda come mi sono ridotto? Figo, vero?"
Shamal storse il naso, abbassò il giornale stava per
parlare, ma venne interrotto.
"Sono corso verso di loro con le bombe e se la sono fatta addosso."
Shamal sgranò gli occhi, non voleva credere alle sue
orecchie.
"E quella roba?" domandò mostrandosi impassibile rivolgendo
lo sguardo al gesso.
"Ah questa? È una valorosa ferita di guerra."
Shamal si alzò con un gesto secco, mosse una mano come se
volesse scacciare una mosca fastidiosa e si allontanò senza
nemmeno rivolgergli uno sguardo.
"Mi dimetto dalla posizione di tuo mentore. Non posso insegnare niente
a uno che ragiona in questo modo" disse.
"Shamal?" domandò Hayato confuso, poi urlò il suo
nome, poi lo sussurrò soltanto come se fosse una preghiera.
Guardò Shamal finché non divenne un puntino
indistinguibile esattamente come neanche un mese prima aveva fatto con
Diana.
Non aveva neanche più la forza di piangere, i suoi occhi
ritraevano solo lo stupore e la delusione.
Doveva abituarsi perché era solo al mondo e non ci sarebbe
mai stato nessuno per lui. Forse era nato sotto la stella sbagliata o
forse semplicemente apparteneva a un altro pianeta per questo nessuno
sembrava mai capirlo pienamente.
Le persone non duravano molto nella sua vita, così era stato
con Lavinia, poi con Bianca, con Diana e infine anche Shamal lo
abbandonava, perché Hayato ne era sicuro non sarebbe mai
più tornato
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Capitolo 8 *** Un mondo senza lui ***
L'abbandono di Shamal lo aveva segnato profondamente, così
tanto da convincerlo che in realtà tutti lo odiassero.
Alfonso aveva smesso anche solo di cercare di parlargli, Clara lo
ignorava come al solito, Bianca - o forse avrebbe dovuto chiamarla
"Alessandra"?- era quella che lo preoccupava di più.
Da mesi ormai non era la stessa di un tempo e sembrava solo
intenzionata a perfezionare le sue tecniche da assassina, lavorando a
tempo pieno su quella che aveva chiamato "poison cooking", ricercando
gli ingredienti più velenosi in giro per il mondo facendosi
autorizzare a viaggiare.
Personaggi bizzarri di ogni tipo si alternarono quell'anno a Villa
Bianchi, tra questi Hayato rimase decisamente colpito da un povero
martire, un certo Romeo Bovino dai riccioli corvini e gli occhi
smeraldo. Questo ragazzetto aveva trovato il coraggio di intraprendere
una relazione con sua sorella, quando era evidente che questa lo
sfruttasse solo come cavia.
Meglio lui che me aveva pensato Hayato, aveva perso il conto delle
giornate passate a vomitare perché Bianca si ostinava a
testare su di lui le nuove creazioni.
D'estate Romeo era rimasto come ospite per quasi un mese durante il
quale Hayato aveva avuto la possibilità di conoscerlo un po'
meglio. Non aveva reperito molti elementi, ma di una cosa era certo
Romeo voleva toglierselo dalle scatole per questo Hayato non faceva in
tempo ad avvicinarsi che si trovava qualche lira in mano accompagnata
dalla frase "vai a comprarti un gelato." Poco male, soldi gratis e
cibo, ma al contempo era l'ennesima persona che sembrava non sapere che
farsene della sua presenza.
Solo Elisa era ancora gentile con lui, affettuosa, ma lo faceva solo
perché era il suo lavoro, Hayato aveva la sensazione che se
non fosse stata pagata per questo non lo sarebbe mai stata.
Forse non meritava amore e non meritava dolcezza. Se era
così che stavano le cose, non ne avrebbe neanche dispensati.
Giunse il momento in cui il suo cuore si incupì e Hayato
iniziò ad alimentarsi a odio. Cominciò a odiarli
tutti, i suoi genitori, sua sorella, Elisa stessa, chiunque fosse
più grande di lui era un nemico.
Gli adulti erano solo un cumulo di menzogne e promesse infrante,
egoismo e cattiveria. Hayato li avrebbe ripagati con la stessa moneta.
Divenne insopportabile, una piccola peste ingestibile alla quale presto
si arresero anche gli insegnanti più severi. Le botte che
riceveva non facevano che accrescere il suo odio per
l'umanità intera.
In questo periodo iniziò a pensare seriamente che forse era
finito sul pianeta sbagliato, i suoi veri genitori dovevano essere dei
fantastici alieni che ancora cercavano il bambino che era precipitato
giù dalla navicella spaziale durante il tragitto per tornare
a casa.
Sapeva che era solo una bella storia, ma guardando il cielo stellato si
sentiva più vicino a quegli esseri diversi da quelli sul
pianeta in cui era nato e trovava conforto.
Quell'estate Romeo morì, avvelenato da Bianca dopo che
Hayato l'aveva sorpresa a parlare di quanto lo amava davanti allo
specchio. Anche lei forse era rimasta avvelenata, bruciata dall'acido
che si respirava tra le mura della loro villa. Se ne rendeva conto, era
troppo intelligente per fare finta di niente.
Avrebbe voluto parlarle, fermarla, ma ogni volta che incrociava il suo
sguardo il suo stomaco andava in pezzi costringendolo a piegarsi a
metà e questa era la versione migliore della conseguenza.
C'erano stati episodi in cui era svenuto sul colpo, a volte sbattendo
la testa, altre volte solo accasciandosi a terra lentamente dandosi la
possibilità di sistemarsi.
Bianca non si era più avvicinata a lui dopo che lo avevano
dovuto ricoverare. Non le era ancora chiara la dinamica, ma si convinse
di essere un pericolo per il fratellino. Smise di preparargli ogni
sorta di cibo per alleviare la sua sofferenza e si concentrò
solo sulle sue cavie, Hayato non era mai stato in questa lista.
La vita lo aveva provato, non sapeva più come contenere il
suo odio, la paura, la rabbia e in fondo credeva che fosse finita, che
ci fosse un limite a quanto il mondo intero potesse prendersela con un
bambino di sette anni.
Dovette ricredersi due volte nello stesso mese: la prima gli
spezzò il respiro, la seconda il cuore.
Clara aprì la porta di quella stanza, quella stanza dove non
entrava mai perché anche solo entrarci sarebbe significato
qualcosa, Hayato ne vide solo l'ombra. Si trovò sollevato da
terra, i piedi potevano solo sognare di sfiorare il pavimento, stretto
dal colletto della camicia dal quale Clara lo stava tenendo, negli
occhi della donna ribolliva odio puro.
"È colpa tua sai" disse con un tono tanto calmo da risultare
inquietante, completamente in contrasto con l'espressione contrita sul
suo viso.
"Se tu non ci fossi mai stato lui sarebbe ancora mio..."
proseguì.
Hayato tossiva, si dimenava nel disperato tentativo di liberarsi, di
non soffocare, ma invano.
Clara lo portò fuori, nel corridoio, lo lasciò
cadere come se fosse un oggetto e Hayato si accasciò a terra
cercando di riprendere fiato.
"Lui sarebbe ancora mio" ripeté Clara mettendosi le mani tra
i capelli.
"Lui sarebbe ancora mio" urlò stringendosi appena in
sé stessa.
"Ma sai, non finisce qui. Tu hai tolto l'amore a me e io l'ho tolto a
te, tesoruccio della mamma. Ti ucciderei, ma preferisco che tu muoia
lentamente, giorno dopo giorno in questa solitudine che ti stai
costruendo così bene e che ti sta corrodendo, bravo bambino"
mormorò con lo stesso tono in cui aveva parlato quando era
entrata nella stanza interrompendo la sua contemplazione del cielo
stellato.
Hayato a stento riusciva a credere alle sue orecchie, per tutta la vita
aveva pensato che non fosse normale il modo in cui sua madre gli si
rivolgeva, ma adesso ne aveva la conferma, lo odiava per davvero.
"Diventerai come me" disse Clara passando le sue unghie rosse sotto al
piccolo mento di Hayato, aveva una manicure perfetta e con le dita
simulava dei piccoli coltelli.
"Già inizi ad assomigliarmi così tanto" disse
mettendosi le mani sul viso mostrando un entusiasmo malato.
"Dovrei essere già soddisfatta e invece... invece non mi
basta" disse mentre il suo tono cresceva nel volume.
"Ti odio" cominciò a ripetere a raffica e quanto
più lo diceva tanto più urlava.
Hayato si era rannicchiato contro il muro, tremava incapace di parlare
e anche incapace di smettere di guardare. Nel suo inconscio voleva
registrare tutto, dire a se stesso come stavano le cose così
da non poter mai più avere dubbi in materia.
I corridoi di Villa Bianchi erano decorati con numerose statue e vasi
dall'aspetto non solo costoso, ma anche fragile e pesante. Clara
sollevò quello a sé più vicino, lo
tenne tra le braccia per un istante come se fosse un bambino poi lo
scagliò contro Hayato.
"Basta, mamma!" fece in tempo a sentire, si preparò
all'impatto stringendosi in se stesso, ma niente di tutto questo
avvenne.
La figura di Bianca lo aveva protetto, un lato della sua fronte
sanguinava mentre cocci di ceramica erano sparpagliati sul pavimento.
"Bianca..." urlò Clara.
"Bianca, no... oh cielo la mia bambina" proseguì con lo
stesso tono.
Numerosi servitori accorsero destati da tutto quel trambusto, persino
alcuni membri della famiglia si riversarono nel corridoio come un fiume
in piena, testimoni di ciò che era successo.
Daniele immobilizzò le mani di Clara dietro la schiena,
alcune cameriere cercarono invano di dire "si calmi, signora."
"Hai visto che cosa hai fatto?!" strillò Clara cercando di
dimenarsi.
"Sei la rovina di questa famiglia, ci hai distrutti uno ad uno."
Bianca si tenne la testa, con la punta del mignolo sfiorò
una delle manine congelate di Hayato come se volesse rassicurarlo.
"Basta, mamma. Io non voglio odiarlo, tu non devi odiarlo. Lui non ha
nessuna colpa, è solo un bambino" disse cercando di tenere
un tono stabile.
A Daniele si aggiunsero gli altri uomini che pian piano iniziarono a
trascinarla via.
Hayato riuscì a registrare qualcosa circa un reparto
psichiatrico e l'avvertire il boss, ma l'unica cosa che riusciva a
vedere era il sangue che dalla fronte di Bianca si abbatteva sul
pavimento.
Forse c'era qualcuno che lo amava veramente, ma non voleva continuasse
a ferirsi a causa sua.
"La mamma è malata" disse Bianca con sicurezza.
"Per questo ti odia, se non fosse malata saprebbe amarti, Hayato. Ti
prego non credere a una sola parola che ti ha detto, qui nessuno ti
odia, piccolo."
Un gruppetto di uomini subordinati primari di loro padre si
avvicinò li aiutò ad alzarsi. Bianca fu portata
di corsa in ospedale mentre Hayato venne lasciato alle cure di Elisa,
con l'ordine specifico di non lasciarlo mai più da solo
neanche per un istante.
Quella non chiuse occhio nemmeno per un istante, le parole e le
immagini rieccheggiarobo nella sua mente e a nulla valsero le
rassicurazioni. Era tutto sbagliato, forse lui sbagliato lo era davvero.
Non valeva niente, di questo si convinse giorni dopo giorno, ma
ciò nonostante voleva comunque imparare a fare qualcosa,
così da poter proteggere Bianca anche senza guardarla in
faccia.
Shamal era un bugiardo, uno stronzo, un coglione, un donnaiolo
pervertito e alcolizzato, ma una cosa buona gliela aveva lasciata,
quella tecnica con la dinamite per autodifesa o perché no
anche attacco.
Avrebbe affinato la sua mira perché non ci fossero mai
più Andrea coinvolti, avrebbe continuato ad allenarsi.
Non voleva più essere Shamal, voleva essere solo Hayato
Bianchi, assassino professionista indipendente.
Più il tempo passava più il risultato concreto
era avere sprecato una foresta intera in aeroplanini di carta, senza
riuscire a prenderne neanche uno.
Era frustrato, ormai aveva otto anni eppure non era ancora riuscito a
imparare quella dannata tecnica.
Aveva persino trascorso tutto il giorno del suo compleanno ad
allenarsi, ma con scarsi risultati.
Tuttavia era anche un bambino che nonostante tutto ciò che
aveva subito riusciva ancora a trovare la gioia in piccolissime cose
della vita. Per esempio una merenda golosa, di quelle preparate dalle
numerose cuoche della Villa.
Dopotutto doveva avere qualche vantaggio essere così ricchi?
Per questo stava correndo verso la cucina principale, un aeroplano di
carta ancora stretto tra le mani. Al pensiero di assaporare quel
parfait alle fragole con la panna era persino riuscito a sorridere
spensieratamente.
"Sono già passati cinque anni da allora" udì
chiaramente la voce di una delle cameriere.
"Da quando?" domandò un'altra accanto a lei, stava
allestendo un cabaret di dolci che faceva venire l'acquolina in bocca.
Hayato si sporse appena, la sua prima intenzione non era quella di
origliare, ma di entrare senza che le giovani donne sì
prendessero un colpo vedendolo apparire all'improvviso.
"Da quando è morta la madre del signorino Hayato" furono
quelle parole che lo bloccarono con il corpo mezzo dentro e mezzo fuori
la stanza.
Una giovane dai capelli castani si girò di scatto, teneva
una scopa in una mano mentre con l'altra si era coperta la bocca.
"Il signorino Hayato non è figlio della nostra Madonna?"
domandò.
Hayato fece giusto in tempo a schiacciarsi con la schiena contro il
muro per non essere visto. I suoi occhi si sgranarono, un barlume di
speranza li colse.
"No, Cettina, tu sei nuova qui quindi forse non te lo hanno ancora
detto. Il signorino Hayato è il figlio che il boss ha avuto
da una giovane pianista. Misteriosamente scomparsa cinque giorni dopo
il terzo compleanno del signorino."
"Misteriosamente un corno. Il padrone l'ha uccisa, l'incidente stradale
è stata solo una simulazione. La macchina è
precipitata in un punto in cui era impossibile uscire fuori strada e
sul sedile accanto al suo hanno trovato un pacchettino. Era un regalo
per il signorino."
"Silenzio, Marisa! Il padrone ti farebbe giustiziare se ti sentisse."
"Dico solo le cose come stanno."
"Comunque qui lo sanno tutti, tranne il signorino, ovviamente.
È una vecchia storia e la Signora ha fatto una confusione
pazzesca per mettere a tacere le voci che la facevano passare per la
cornuta della situazione."
"Oh cielo..."
Le voci delle servitrici che continuavano a spettegolare gli arrivavano
sempre più soffuse e confuse.
Mia madre era una giovane pianista? era tutto ciò a cui
riusciva a pensare.
Gli occhi sgranati e lucidi si annebbiarono quando di colpo venne
travolto da una marea di ricordi che aveva provato disperatamente ad
archiviare. Già erano amari, ma adesso ancora di
più, avevano il sapore della menzogna perché
nessuno era esente da colpa e un gusto talmente acre da dargli il volta
stomaco.
Lui era figlio di una giovane pianista, era il figlio di Lavinia.
La bocca rimase aperta solo per permettergli di respirare mentre un
urlo disumano si levava da quella gola. Il momento di realizzazione
aveva lasciato il posto alla disperazione, lasciando fluire le lacrime
che avevano preso il controllo.
Corse a perdifiato sbattendo contro una delle servitrici che stava
portando una pila di piatti in cucina, riprese a correre ignorando i
richiami della stessa e delle colleghe che si erano appena affacciate.
Lasciò cadere ogni "signorino Hayato" nell'oblìo
e continuò a muovere le gambe il più velocemente
possibile senza una meta precisa.
Raggiunse l'entrata principale spalancando le porte a calci e pugni,
continuando a sgolarsi mentre sempre più persone lo
rincorrevano e cercavano di fermarlo.
Iniziò a lanciare loro dinamite, non gli importava. Potevano
crepare tutti, dal primo all'ultimo e suo padre era in cima alla lista.
Scavalcò il cancello e si riposò solo per un
istante, poi riprese a correre.
Finì la voce macinando chilometri e chilometri
finché non si rese conto di essersi perso. Aveva
così tante lacrime addosso e un viso in deturpato dalle
stesse, pensava di averle finite, ma continuavano a uscire.
Si fermò in una piazza, tossì, sentì
il petto contrarsi come se volesse spezzarsi a metà, poi
improvvisamente riuscì a rilasciarlo.
Ogni pezzo del puzzle aveva trovato il suo posto e come aveva sempre
pensato lui non c'entrava niente con quel disegno.
Avevano raggiunto la città, il centro di Palermo, ma non
aveva intenzione di rispondere alle persone che preoccupate avevano
iniziato a chiedergli dove fossero i genitori.
Riprese a correre e raggiunse un vicolo isolato, uno di quelli simili a
dove si radunavano i teppisti.
Si sedette sul marciapiede respirò profondamente.
Osservò il cielo tingersi di nero e la luna sorgere.
Chiuse gli occhi appoggiando la testa sull'asfalto e lasciò
andare l'ultima lacrima di quel giorno.
"Non ci tornerò mai più, mamma, te lo prometto"
mormorò a nessuno e si addormentò sfinito con la
consapevolezza che almeno non era in un posto in cui avrebbero finto di
amarlo.
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Capitolo 9 *** Un nuovo mondo ***
L'alba era passata da un pezzo quando i raggi del sole illuminarono via
Cervello destando Hayato da quello che era un sonno senza infamia e
senza lode. In realtà più che la luce a
svegliarlo fu il rumore assordante di un trapano e la voce scura di
uomo che in dialetto ordinava ai suoi sottoposti di darsi una mossa.
Hayato sollevò piano la testa dal marciapiede, ne aveva
stampata la forma sulla guancia che vi aveva appoggiato. Si
stiracchiò percependo tutto il freddo che era penetrato
nelle sue ossa nella notte e si ricordò un cancello
arrugginito.
Guardò i bei vestiti di sartoria che ancora indossava, erano
tutti impolverati. Passò le mani sulle gambe nude,
lì dove i pantaloncini troppo corti non potevano proteggerlo
e le trovò sporche anche esse.
Volse lo sguardo attorno e riconobbe quello che la sera prima aveva
individuato come un portico, lo vide ergersi sopra delle scale che non
ricordava di aver sceso e si rese conto che in realtà si era
intrufolato in un cantiere.
"Chi fai ddrocu nicu?" gli domandò un operaio, stava
trasportando delle travi di legno che sembravano piuttosto pesanti, ma
senza difficoltà.
Hayato alzò un sopracciglio, gli ci volle un istante per
rendersi conto che ce l'aveva con lui, ma non sapeva assolutamente cosa
quell'uomo avesse detto.
Era multilingue, ma il dialetto Palermitano mancava alla lista e
neanche impegnandosi con tutte le sue forze avrebbe saputo venirne a
capo con la traduzione.
Supponendo che gli stesse dicendo di togliersi dalle palle Hayato
fuggì rapidamente lontano da quel sito di costruzione e
vagò per una strada malmessa dove si ergevano molteplici
edifici sventrati.
Un brontolìo nello stomaco gli ricordò che non
aveva fatto merenda né cenato e stando alla posizione del
sole nel cielo aveva anche saltato la colazione.
Si voltò verso destra, così come soleva fare.
"Elisa..." disse fermandosi all'inizio della frase.
Non c'era nessuna Elisa che gli avrebbe portato i cornetti del suo chef
personale ripieni di marmellata di aramarene. Non c'era nessuno chef
personale in effetti, perché non c'era più nessun
castello.
Si sarebbe dovuto sentire smarrito invece percepì un grande
senso di libertà respirandolo a pieni polmoni.
Si disse che avrebbe raggiunto il centro e una volta su via Settimo
avrebbe indossato la migliore espressione angelica di cui era capace
per impietosire qualche donna dall'aria gentile.
Hayato non sapeva quanto fosse lontano dalla via dello shopping, ma la
faccia di cazzo per chiedere ai passanti informazioni non gli mancava,
sperava solo che non gli rispondessero in dialetto.
Così seguendo le direttive raggiunse la sua meta in meno di
mezz'ora e puntata la preda si avvicinò sorridendo, tenendo
le braccia lunghe e le mani intrecciate dietro la schiena come se fosse
un bimbetto qualunque, spensierato e giocoso.
"Mi perdoni, bella signora, non è che per caso avrebbe
qualche lira da prestarmi? Oggi è il mio compleanno e ho
visto un bel gioco in vetrina, me ne mancano poche per
raggiungere la cifra desiderata. Mi rincresce disturbarla, ma mio padre
sta lavorando duramente per permettermi di indossare questi abiti e non
voglio debba preoccuparsi anche dei miei capricci."
Esattamente come previsto la povera vittima si intenerì e
rimase stregata dalla proprietà di linguaggio di Hayato.
"Ma certo, piccolo. Quanto ti serve? Dillo alla zia Claudia, ti aiuto
io."
La donna prese la borsa, aprì un portafoglio dall'aspetto
costoso e tirò fuori una banconota con una grafica che
Hayato non aveva mai visto.
"Lo so, amore, ma non ti preoccupare. Queste sono Euro, diventeranno
presto la nostra valuta. Sono valide eh e ci compri molte
più cose. Ti lascio una venti, fatti un bel regalo" disse,
si allontanò lasciando Hayato attonito con una strada
banconota blu tra le mani.
Hayato entrò nel primo bar che trovò sulla strada
e chiese un croissant ripieno di marmellata di amarene. Il barista rise
e chiamò il collega perché ridesse anche lui.
"Gigi, questo bambino crede di essere in Francia" scherzò.
"Non ce li abbiamo, vostra grazia" disse con lo stesso tono di scherno.
Hayato rimase profondamente sconvolto.
"Li avete finiti?" domandò fiducioso.
"No" ribatté immediatamente il collega.
"Non li facciamo. Ti sfido a trovare qualcuno in tutta la Sicilia."
Hayato mantenne un silenzio confuso, dietro di lui c'erano altre
persone che spingevano per riuscire a vedere cosa era esposto nella
vetrinetta.
"E poi l'orario della colazione è finito da un pezzo"
sentì commentare una voce femminile alle sue spalle.
Hayato sentì addosso un senso di smarrimento, era cresciuto
nella convinzione che nella sua patria quello fosse un piatto
più che reperibile, addirittura diffuso, invece
apparentemente era una cosa solo sua, anzi del suo chef personale
perché a Palermo al massimo un croissant con le amarene lo
poteva trovare assieme alla crema pasticcera, ma erano amarene candite
e di scarsa qualità.
"Devi darti una mossa, però" lo richiamò il
barista.
"Che cosa è rimasto?" domandò Hayato confuso.
"Come croissant"- disse il barista imitando l'accento francese di
Hayato - "ci è rimasto solo questo ripieno di miele e noci."
Hayato ricordò le parole di Diana, lui era allergico a
qualcosa, qualcosa che non sapeva come si chiamasse né dove
fosse. Avrebbe voluto tanto essersi portato la cartella clinica...
almeno quella.
"Va bene" disse impulsivamente, pagò con la banconota sotto
i piccoli sussulti di stupore dei baristi, si fece dare il resto che
badò bene a dove intascare e si mise seduto a un tavolino
all'interno del bar.
Studiò attentamente il cornetto, la pasta il ripieno. Si
rese conto che questa era la prima volta che mangiava qualcosa che non
fosse stata attentamente supervisionata da un adulto in grado di
stabile se fosse o meno sicura per il suo organismo.
Dopo qualche istante si convinse a dare il primo morso e sentendo il
sapore quasi insignificante gli venne da sputare. Accolto il cibo a
malapena masticato nel tovagliolo con poca assorbenza decise di fare un
secondo tentativo e questa volta mandò giù il
boccone.
Non era il massimo, ma a quanto pareva era questa la tendenza per le
persone, questa la qualità a cui i più potevano
avere accesso.
Non aveva mai capito i suoi privilegi, quelli che non mancava giorno
suo padre gli rinfacciasse.
Sentì il naso pizzicare e scacciò le lacrime, non
ne avrebbe versata neanche più una per quel maledetto
traditore.
Finì la pasta ripiena e bevve un po' d'acqua che gli venne
portata assieme a qualche biscottino, offerto da una coppia al tavolo
di fronte al suo. Si rese conto che gli conveniva abituarsi a quei
nuovi sapori, per nulla all'altezza del suo palato sopraffino, ma forse
proprio per questo più speciali.
Uscì dal bar ringraziando più volte i baristi e
la coppia e si diede nuovamente uno sguardo intorno.
Era l'inizio di un nuovo capitolo della sua vita, uno bellissimo, ne
era sicuro. Senza suo padre addosso, senza Clara o Bianca sarebbe
potuto divenire facilmente un assassino professionista, il futuro dei
Bianchi non pesava più sulle sue spalle.
Si sentì leggero, vide spuntare le proprie ali, spezzarsi le
catene e sentì di potersi librare in volo, come quegli
aeroplanini di carta che non era riuscito a colpire. Non ci sarebbe
stata nessuna dinamite che lo avrebbe fatto cadere al suolo.
Iniziò a riflettere, a stomaco pieno era più
facile. Aveva bisogno di un mentore, qualcuno che gli mostrasse la via.
Passò in rassegna tutti i nomi più importanti
delle famiglie alleate o che ricordava tali e si disse che aveva solo
l'imbarazzo della scelta.
Un po' in soggezione iniziò a chiedere indicazioni per la
villa dei Cimmino, loro sicuramente avrebbero compreso il suo
potenziale, il boss si sperticava sempre in calorosi complimenti dopo
ogni sua esibizione.
Comprese che la gente aveva paura di quel cognome quando solo a
nominarlo le persone urlavano e scappavano. Si chiedeva sinceramente
cosa sarebbe successo utilizzando il suo di cognome.
Alla quarta persona che strillò solo alla menzione Hayato
assunse un atteggiamento spavaldo e dispotico.
"Sono un Bianchi" - disse - "portami da loro e non ti
succederà niente di male."
Tremò solo a sentirsi parlare, era spaventoso. Suo padre lo
aveva visto esprimersi e disgraziatamente doveva aver introiettato non
solo la modalità, ma anche l'aura.
Comunque grazie al terrore impresso negli occhi di quel malcapitato
passante riuscì a raggiungere la residenza dei Cimmino.
Ad aprirgli la porta c'erano tre uomini, uno di questi aveva una benda
sull'occhio sinistro, simbolo di un'antica ferita d'onore, un altro
aveva un taglio che andava dal mento all'area sotto all'occhio
sinistro, stavano uno di fronte all'altro sullo stipite della porta, il
terzo aveva gli occhiali da sole e una pistola ben piazzata pronta a
sparargli contro in qualsiasi momento.
"Che vuoi?" domandò quello con la benda sull'occhio.
Hayato intravide dietro gli uomini seduto su una poltrona uno dei
più fidati sottoposti del boss.
"Pasquale!" chiamò certo che l'uomo lo avrebbe riconosciuto.
"È roba tua?" domandò quello col taglio sulla
guancia girandosi verso l'uomo.
Pasquale si alzò in piedi mantenendo la sua grossa pancia e
si trascinò all'entrata.
"Non l'ho mai visto" disse dopo aver scrutato attentamente Hayato.
Il bambino stava per ribattere, ma fu fermato dall'uomo con la pistola
che gliela puntò alla fronte.
"Identificati" disse.
"Perdonate" mormorò Hayato facendo un gesto con le mani che
sapeva significare rispetto per la famiglia.
L'uomo abbassò subito la pistola.
"Sono Hayato Bianchi, chiedo umilmente di unirmi alla vostra famiglia.
Voglio essere un sicario" disse il piccolo.
L'uomo che rispondeva al nome di Pasquale assunse un'aria pensosa, gli
uomini accanto a lui gli rivolsero uno sguardo.
"Alfonso è così disperato che ci manda l'erede?"
commentò quello con la benda sull'occhio ridendo
sguaiatamente.
"Ma tu sai chi è? Mi ricordo la femmina, tiene pure un
maschio?" domandò quello con la pistola in mano.
Pasquale sembrò colto da un'illuminazione.
"Ho capito, quello che suona sei tu" disse.
Gli occhi di Hayato brillarono, il piccolo accennò un
inchino.
"Signor Pasquale, perdonate la mia insolenza se vi chiamo per nome, voi
apprezzate tanto le mie composizioni, ho pensato che possiate
comprendere il mio potenziale."
L'uomo con il taglio sotto la guancia iniziò a ridere.
"Certo, come no... il potenziale tiene lui."
Pasquale annuì.
"Molto potenziale tieni, come pianista però. Continua a
studiare che poi ti vengo a vedere a teatro, va bene?" disse, senza
permettere ad Hayato di ribattere rientrò nell'abitazione.
"Ma signor Pasquale.." cercò di insistere Hayato.
L'uomo con la pistola gli si avvicinò, la ripose nel fodero
e lo guardò dritto negli occhi.
"Non hai sentito? Qui non ci servono femminucce che sanno solo suonare
il piano, torna da paparino."
Hayato si vide chiudere la porta in faccia, letteralmente oltre che
metaforicamente, cercò di dire che aveva delle tecniche
efficaci e innovative, ma nessuno lo ascoltò.
Sospirò, i Cimmino erano solo i primi di una lunga lista di
famiglie a cui avrebbe fatto domanda.
Senza indugiare ricercò i Mineo, Lorenzo, il boss era un
amico fidato di suo padre il che faceva di lui un potenziale stronzo,
ma anche un potenziale mentore.
Con la stessa strategia riuscì a trovare la residenza e ne
uscì solo con un gentilissimo.
"Torna a casa, ragazzino. Tuo padre sarà in pensiero."
Hayato si risparmiò di rispondere "col cazzo!", consapevole
che suo padre era talmente in pensiero che nessuno era ancora venuto a
cercarlo.
Tra un rifiuto e l'altro desiderò che suo padre gli avesse
insegnato di più come essere un mafioso piuttosto che come
farsi proteggere e servire da questi. Non voleva essere un boss e
inoltre era fermamente convinto che il boss dovesse essere il
più forte ed esposto, non quello che sguazzava nel lusso e
nel piacere mentre i suoi uomini sguazzavano nel sangue.
Aveva finito la lista e il panino con prosciutto e mozzarella che stava
mangiando seduto sul marciapiede era amaro quanto la consapevolezza di
aver fatto male i calcoli.
Non ricordava più nomi, ma gli sovvenne un cognome che forse
poteva andare.
"De Nittis."
Gli parve una piccola stella luminosa che improvvisamente sembra
prendere tutto lo spazio nel cielo.
Non ricordava chi fossero né in che rapporti fossero con la
sua famiglia, ma a questo punto non aveva più importanza.
Non era un Bianchi, non sentiva di esserlo, non ci si era mai sentito e
non lo sarebbe mai più stato. Sarebbe diventato tutto,
qualsiasi cosa volessero, l'importante era perseguire il suo obiettivo,
fare esperienza oltre che farsi un nome.
"Il figlio della sventola."
"Ah, la bottana?"
"Quello bastardo, il mezzo sangue."
"Metà bottana e metà stronzo."
Queste furono le parole con cui la sua richiesta fu accolta da quegli
uomini che sebbene indossavano gli stessi vestiti che aveva visto per
tutta la vita sembravano così diversi dagli uomini che
conosceva e molto più cattivi.
Uno di loro si avvicinò con un sorriso inquietante, aveva
dei denti d'oro incastonati nella bocca. Prese Hayato per il colletto
della giacca e lo sollevò come se fosse un oggetto.
"Stronzetto, ascoltami bene, non sai fare assolutamente un cazzo e
quelle manine che ti ritrovi non vanno bene neanche per farci le seghe.
Secondo te potremmo mai affidare la vita del nostro boss a uno come te?
Non esiste una sola famiglia in tutta l'Italia che ti
prenderà mai e questo è perché ci
servono uomini veri, non froci abituati pure a dare comandi. Gira a
largo o ti faccio sparare, non me ne fotte un cazzo di chi è
tuo padre."
Con queste parole l'uomo lo scagliò letteralmente fuori
dalla porta, facendolo atterrare sul terreno umidiccio.
Hayato si guardò, percepì il tremore ancora in
circolo e la paura che aveva solo vagamente cercato di trattenere.
Lasciò andare una lacrima, ne lasciò andare due,
si chiese come avrebbe fatto a pulirsi ora che non aveva neanche la
possibilità di reperire un asciugamano.
Quell'uomo gli aveva detto molte cose davvero offensive, forse tra le
più offensive che gli avessero mai detto. In una sola
giornata aveva collezionato talmente tanti insulti da fare overdose e
la sua autostima già inesistente era a pezzi.
Si alzò trascinandosi fuori dal fango, ripensò ai
Rossi, che aveva scartato a prescindere memore di quanto si fosse
arrabbiato il boss per l'influenza a suo parere negativa che Hayato
aveva avuto sulla figlia, si convinse che era meglio non tentare
ulteriormente la fortuna visto che come al solito non era dalla sua
parte.
Niente era andato secondo i piani e ora che la sera iniziava a calare
Hayato si trovava in compagnia della solitudine, ma senza un piatto
caldo rigenerante.
Frugò in una tasca, aveva ancora circa quindici euro, poteva
tranquillamente farci una cena, un altro pasto dal sapore
insignificante e triste.
Sporco di fango nessuno volle farlo sedere così dovette
accontentarsi dell'asporto. Si mise su un marciapiede e pianse in
silenzio assaporando ogni boccone.
Si domandò dove avrebbe dormito ora che nessun letto caldo
era stato sistemato per lui, comprese che il materasso per quella notte
sarebbe stato proprio lo stesso marciapiede e si addormentò
cullato solo dai suoi singhiozzi.
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Capitolo 10 *** Un posto nel mondo? ***
Bianchi Hayato, età 8, si rese presto conto che la sua
realtà stava per cambiare drasticamente. C'erano una serie
di problemi di carattere pratico che doveva preoccuparsi di risolvere.
Innanzitutto non poteva continuare a dormire su un marciapiede, si
sarebbe ammalato prima o poi tra il freddo e lo sporco. In secondo
luogo le monete che tintinnavano in tasca non sarebbero durate per
sempre. Presto avrebbe iniziato a soffrire la fame, per non parlare
della sete. Si era potuto permettere una bottiglietta d'acqua, ma aveva
di fatto bevuto pochissimo in quella giornata. E aveva bisogno di nuovi
vestiti, anche quello era importante. Sospirò, si
appoggiò al muro dietro le sue spalle sentendosi perso.
Avrebbe dovuto mendicare, chiedere la carità?
Quasi quasi ci sperava che stessero per venirlo a prendere, che
vedessero quel gesto come un capriccio. Gli serviva una casa o meglio
un riparo, un posto dove stare che non lo esponesse in maniera
eccessiva ai pericoli, al rischio di un rapimento o peggio.
"E tu? Che fai qui?"
Chissà perché erano sempre più le
femmine ad avere piu cuore per la sua situazione.
Hayato era esausto, spaventato e voleva solo sentirsi protetto, anche
per un istante, sentire che qualcuno potesse accoglierlo, che esistesse
un mondo anche per lui, per questo con freddezza rispose "Sono scappato
di casa, i miei genitori mi maltrattavano e non sapevo a chi
rivolgermi. Non voglio tornare lì..."
Ebbe a malapena il tempo di finire la frase che sentì
chiaramente una voce maschile che chiamava "Caterina! Caterina, non
avvicinarti! Potrebbe attaccarti qualcosa addosso." La ragazzina fu poi
presa da quello che doveva essere il padre o il tutore, per un braccio
e trascinata via in tutta fretta. Nei suoi occhi Hayato lesse tristezza
e gli parve quasi di sentire delle scuse per averlo illuso.
Quella sensazione di abbandono lo spense. Era così che
stavano le cose? Si stava lentamente trasformando nel ritratto della
peste? Come lo vedevano? Come una blatta?
Rimase seduto contro il muro, catatonico, apatico, neanche
più la forza di arrabbiarsi. In un angolo della sua mente la
vaga consapevolezza che se nessuno lo aveva ancora aggredito era stata
per pura fortuna.
Se solo fossero stati puliti avrebbe potuto vendere i suoi vestiti, era
certo che gli avrebbero permesso di fare qualcosa di simile a una vita
agiata, ma non aveva voglia di cercare delle lavanderie solo per
scoprire che tanto per cambiare non c'era posto per uno come lui.
Il silenzio fu spezzato dalle ruote di una macchina che percorrevano la
strada in prossimità di dove si trovava lui. Gli sovvennero
ricordi del suo sesto compleanno e li scacciò, non era
proprio il momento di diventare melanconici.
Si era trovato un vicoletto, piccolo, apparentemente riparato dal sole
e silenzioso, impossibile entrarci con la macchina o col motorino tanto
che era stretto e lì sarebbe rimasto da solo a pensare che
nonostante tutto ora voleva sopravvivere, fosse anche solo per
vendicarsi di suo padre.
Con i raggi cocenti del sole di mezzogiorno vennero anche molte
consapevolezze che era difficile guardare in faccia, seppur necessario.
Innanzitutto aveva bisogno di spostarsi all'ombra, sotto un portico, un
ponte, anche il tetto di una casa, qualunque cosa che lo potesse
riparare. Hayato si trascinò a fatica in un nuovo vicolo
stretto e ombroso, rintronato dal sole. A questo punto la sua pelle
era, non esattamente al sicuro, ma di certo in una condizione migliore
della precedente. Era ancora molto sensibile anche se non
più come un tempo e l'esposizione prolungata già
mostrava i segni di scottature.
La seconda consapevolezza che Hayato dovette prendere era che forse
aveva rischiato un'insolazione, la sua testa andava a fuoco e
probabilmente era il caso di rinfrescarsi. Per sua fortuna Palermo era
gremita di fontanelle a ogni angolo della strada e trovarne una fu
particolarmente facile. Dopo i primi tentativi con le mani a coppa,
Hayato si arrese mettendo direttamente la testa sotto il getto
parsimonioso della fontanella. L'acqua era sufficientemente fredda da
dargli il sollievo di cui era alla ricerca. Quando gli
sembrò di essere un po' più lucido e sveglio si
passò quella stessa acqua anche sulle braccia e sulle gambe
nei punti in cui la pelle si era maggiormente arrossata.
Sospirò poi perché si era bagnato tutto il
completo, ma faceva talmente caldo che pensò non fosse un
problema, di lì a breve si sarebbe asciugato.
Ebbe a malapena il tempo di registrare il sollievo che
iniziò a provare un nuovo fastidio, stavolta comunicato come
protesta da parte del suo stomaco. Come biasimarlo? Visto quanto il
sole picchiava doveva essere ormai la mezza, questo significava che
aveva saltato la colazione, la merenda ed era prossimo a saltare il
pranzo. Mentre era impegnato a rifletterci lo colpì la terza
consapevolezza della giornata: non ci sarebbero stati più
pasti completi per un po' e gli conveniva farci l'abitudine.
Per quanto avesse ancora l'aspetto di un signorino rispettabile, stando
al riflesso nella pozzanghera, Hayato era perfettamente consapevole che
tempo pochi giorni e quei vestiti con cui era scappato avrebbero
iniziato a puzzare troppo e sarebbero divenuti lerci e allora non
sarebbe sembrato più accattivante e sempre più
difficilmente gli sarebbe stata fatta la carità. E quella fu
forse la più dura verità da accettare: sarebbe
divenuto un mendicante.
No, si corresse Hayato, non era affatto questa la cosa peggiore,
mendicare era solo una conseguenza, conseguenza del fatto che non
sapeva fare niente, che volente o nolente tra gioie e tantissimi dolori
aveva vissuto per otto anni nella bambagia, con servitori pronti a
prostrarsi alle sue richieste e soddisfare ogni suo capriccio e questo
significava che da solo a stento sapeva allacciarsi le scarpe.
Se l'era cavata bene, si disse, del resto aveva spillato una banconota
a una signora, aveva provveduto a mangiare e bere abbastanza per
sopravvivere e si era trovato un posto dove addormentarsi, ma quello
che aveva fatto era in virtù del piano iniziale, a quest'ora
pensava già di essere stato accolto in un'altra casa, di
stare seduto a tavola a degustare un cabaret di pasticcini, a dare
nuovi ordini ai suoi nuovi servitori, invece poteva contare solo su se
stesso e su qualcuno se avesse avuto pietà di lui.
Mise una mano in tasca per controllare quanto gli rimanesse e si rese
conto che quei soldi non sarebbero durati per sempre, né si
sarebbero moltiplicati. Doveva iniziare a centellinare, a mettere da
parte la sua indole viziata e risparmiare anche il pezzo più
piccolo per tirare avanti.
Così fece, si avvicinò a un bar e prese la cosa
che costava di meno, ma che gli permettesse comunque di nutrirsi.
Nel pomeriggio vagò come l'anima in pena, che effettivamente
era, alla ricerca di non sapeva neanche dire lui cosa, forse una
famiglia.
Si sedette sulla scalinata di una chiesa tenendosi a distanza
dall'ingresso e concluse che suo padre non sarebbe tornato a
riprenderlo. Questo fu forse ciò che lo sorprese
maggiormente perché Hayato non aveva idea che riponesse
ancora speranze in suo padre, che il suo cuore si fosse attaccato
all'idea di qualcuno che tornava a prenderlo, lo riportava a casa e lo
supplicava in ginocchio persino di essere perdonato.
Erano solo fantasie, fantasie che non avevano alcun riscontro con la
realtà. Hayato si mise a piangere senza neanche rendersene
conto, nascondendo il viso tra le mani, conscio che non aveva visto
neanche l'ombra degli uomini di suo padre e pensare che non si era
neanche allontanato chissà quanto, era rimasto in
prossimità del centro di Palermo, era tornato in tutti i
luoghi che conosceva, quasi stesse urlando di essere recuperato e
ricondotto a casa, ma evidentemente suo padre non si era sprecato
neanche a ordinare che lo ritrovassero, quindi di certo non sarebbe
venuto a cercarlo. Se gli fosse importato lo avrebbe già
fatto.
Quindi dopotutto era vero che nessuno lo voleva, che sarebbe stato
meglio per conto proprio, dove nessuno lo avrebbe amato, ma almeno
nessuno che si presuppone dovesse amarlo, lo avrebbe odiato.
Mentre singhiozzava qualcuno si avvicinò e gli
lasciò poche lire, aveva ricevuto la carità senza
nemmeno iniziare a chiederla. Rabbrividì: la sua vita
dipendeva dalla compassione altrui.
Quando il sole iniziò a tramontare alcune giovani coppie
sembrarono interessarsi a lui. Una donna gli chiese "che fai qui tutto
solo?", quello che evidentemente doveva essere il marito della donna
domandò invece "dove sono i tuoi genitori?"
Hayato li guardò a malapena, i loro volti divennero sfocati
nella sua testa, sovrapponendosi a quelli di altre persone che gli
avevano fatto la stessa domanda senza poi però offrire una
soluzione concreta.
"Sono orfano" la risposta venne spontaneamente perché
Lavinia era effettivamente morta e per quanto lo riguardava suo padre
poteva anche crepare.
La donna della giovane coppia si mise le mani sulla bocca e
sospirò profondamente. "Oh cielo, povero caro" disse.
Un'altra donna poco distante gli chiese se ci fosse una struttura che
lo ospitasse e solo in quel momento Hayato si rese conto che avrebbe
potuto effettivamente farsi accogliere in orfanotrofio e sperare che
qualcuno lo adottasse.
Nonostante fosse tanto piccolo aveva sentito parlare dei servizi
sociali e si era fatto l'idea che fossero delle persone orribili che
fingendo di salvare in realtà portavano il malcapitato dalla
padella alla brace. Il punto sostanziale è che lo
prelevavano dal suo ambiente, come un fiore strappato da un prato, lo
stelo spezzato perché avesse i minuti contati. Senza saperlo
nella sua testa le due immagini si erano sempre sovrapposte, ma
l'orfanotrofio era lì, a Palermo, la sua città e
da quello che gli stava dicendo la donna era un bel posto, accogliente,
sicuro. Hayato se ne convinse e si lasciò portare, era la
cosa giusta da fare.
La direttrice dell'orfanotrofio sembrava gentile, una persona
affidabile insomma, a pelle. Hayato fu introdotto nella struttura e
presentato agli altri bambini e uno dei più grandi lo prese
immediatamente sotto la sua ala.
Gli vennero dati dei vestiti puliti appartenuti a chissà
chi, vestiti di scarsa qualità -Hayato lo poteva percepire-
e un pasto caldo, un letto in cui dormire e la possibilità
di fare una doccia, il tutto gratuitamente.
Dopotutto forse scappare era stata la scelta giusta e sempre dopotutto
forse quel posto sarebbe divenuto la sua casa. Non c'era bisogno di
diventare un assassino, di farsi un nome nel mondo della mafia. Poteva
vivere così, felice con qualche libro, la compagnia di
quelli che erano stati forse più sfortunati di lui e un po'
di amore gratuito e disinteressato.
Gli sembrava un buon piano, più o meno. Forse un giorno
avrebbe varcato quella porta per l'ultima volta solo per raggiungere la
sua nuova casa in compagnia dei suoi nuovi genitori.
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