Boku ga anata no mae ni

di arashinosora5927
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Unico al mondo ***
Capitolo 2: *** Un mondo per lui ***
Capitolo 3: *** Un mondo attorno a lui ***
Capitolo 4: *** Lo stesso mondo ***
Capitolo 5: *** Tutto un altro mondo ***
Capitolo 6: *** Quale mondo? ***
Capitolo 7: *** Non quel mondo ***
Capitolo 8: *** Un mondo senza lui ***
Capitolo 9: *** Un nuovo mondo ***
Capitolo 10: *** Un posto nel mondo? ***



Capitolo 1
*** Unico al mondo ***


Molteplici studi affermano che i bambini tendono a dimenticare i ricordi dei loro primi anni di vita anche se conservano le percezioni, Hayato rappresentava un'eccezione, come sempre del resto.

Fin dal primo istante in cui aveva aperto gli occhi si era comportato diversamente, come se volesse opporsi alle convenzioni senza ancora avere consapevolezza di cosa fossero. Non aveva pianto, ma aveva mosso rapidamente gli occhietti grigi come se volesse ispezionare l'ambiente. Già respirava, sembrava sapere esattamente come fare e quando finalmente pianse al terzo schiaffo sembrò averlo fatto per condiscendenza.

L'ostetrica che lo prese tra le mani constatò immediatamente delle anomalie ulteriori, dalla pelle così bianca da ricordare il colorito di un cadavere alla facilità con cui riusciva a sollevarlo. Poteva essere un figlio della luna, il che era veramente una condanna: il pensiero che una donna che non disponeva di sufficiente denaro per coprire le spese della propria malattia dovesse anche badare a un neonato affetto da xeroderma pigmentosus le stracciava il cuore. Inoltre Hayato arrivava a fatica ai due chili, nonostante non fosse nato prematuro, segno che la donna avesse scoperto tardi la propria gravidanza e non si nutrisse correttamente e in quantità sufficiente.

LavinIa era ancora stordita dall'anestesia, che aveva subito perché nelle sue condizioni il parto naturale era stato scartato a prescindere, quando le adagiarono tra le braccia un fagottino avvolto in un panno di lino verde che teneva gli occhi chiusi e i pugni stretti come se sentisse il bisogno di difendersi.

Il ginecologo che aveva seguito il suo caso a dir poco anomalo la affiancò con uno sguardo gentile. Mai nella sua carriera avrebbe pensato di assistere a un simile miracolo: una gravidanza portata a termine sotto chemioterapici.

"È un maschio, come sa è già incredibile che sia nato quindi non le nascondo che le sue condizioni di salute ci preoccupano. Dobbiamo approfondire facendo ulteriori analisi che richiedono costi onerosi."

Lavinia si limitò a sorridere accarezzando delicatamente il capo del bambino intravedendo qualche ciuffetto argenteo che timidamente era spuntato, riconoscendo il suo marchiò di fabbrica. Le sue dita affusolate da pianista erano state distrutte dall'azione degli farmaci che le venivano iniettati in endovena. Il piccolo aprì gli occhi destato dalla voce accogliente del medico e li puntò in quelli della mamma. Dovette riconoscersi perché sorrise invogliando la giovane a fare lo stesso. La gioia che le esplose nel petto non era descrivibile, Lavinia percepiva quell'amore in ogni atomo del suo corpo. Sangue del suo sangue, giurò a se stessa di proteggere in eterno quel sorriso.

"Fate tutto il necessario, io non sono che il corpo che lo ha portato alla vita, non potrò vederlo crescere. Si occuperà di lui suo padre, Don Alfonso Bianchi."

Lavinia sorrise amaramente davanti all'espressione turbata del primario, era bastato un cognome a farlo tremare e l'atteggiamento gentile ora si era tramutato in rispetto solenne scaturito dalla paura.

"Qualunque cosa desideriate, signora Gokudera."

Lavinia era stata dimessa dalla clinica appena tre giorni dopo, un fascicolo che non finiva più in cui le veniva spiegata per filo e per segno la particolare condizione di suo figlio.

"Albinismo incompleto, una forma rara" le aveva detto il tecnico di genetica molecolare.

"In poche parole suo figlio si è rifiutato di rientrare in qualsiasi anomalia genetica classificata e riconosciuta e ne ha creata una tutta sua" aveva scherzato l'assistente prossima a ereditare l'intero laboratorio e il lavoro di suo padre.

"La buona notizia è che abbiamo scongiurato l'opzione dello xeroderma pigmentosus, quindi suo figlio può essere esposto al sole senza che ciò gli causi danni cerebrali, ma essendo comunque un albino anche se solo in parte la sua pelle rischia di andare incontro a vere e proprie ustioni se prima non viene applicato uno strato protettivo. Inoltre i suoi occhi sono molto sensibili per questo motivo bisogna limitare il contatto con luce naturale, il suo sistema immunitario già precario per i trattamenti patiti è ulteriormente indebolito da questa condizione perché la mancanza di pigmenti che schermino le radiazioni UV sulla cute favorisce modifiche al DNA" una spiegazione veramente dettagliata da cui Lavinia aveva appreso concretamente solo il fatto che doveva evitare che il sole baciasse il suo bambino.

"Inoltre potrebbe avere gli occhi rossi, come i vampiri" cercò di sdrammatizzare l'assistente, si vide dare una gomitata da un collega.

"Voglio dire per il momento sono grigi però la mancanza di melanina è tale che potrebbe perdere qualsiasi colore e mostrare solo vene e arterie, per questo l'iride diverrebbe di colore rosso."

Quelle parole riecheggiarono nella testa di Lavinia, parole che le causarono un tale senso di colpa, perché solo lei era responsabile di tutte le difficoltà che quel neonato già doveva affrontare, che si odiò per non essere stata un po' più forte da farsi prescrivere una pillola o ricordarsi di usare il preservativo nonostante la foga del momento.

"Rimane solo la questione del nome" le aveva fatto notare il ginecologo che l'aveva assistita tanto premurosamente.

A quell'ora Lavinia credeva che il padre del bambino si sarebbe già presentato per riconoscerlo e scegliere quel dettaglio così significativo insieme, ma non era che una speranza illusoria a cui si era aggrappata con tutte le sue forze.

Stanca di attendere qualcuno che non sarebbe mai arrivato perlustrò la propria mente alla ricerca di una parola che nella sua lingua natale, il giapponese, potesse avere un significato adatto alla situazione. Scelse "maschio", la prima parola che aveva captato quando il ginecologo le aveva parlato dopo l'anestesia. Metafora della forza, della sicurezza, così come rappresentato nella sua cultura, unendo i sinogrammi "隼" e "人" rispettivamente "falcone" e "persona" perché potesse volare sempre più in alto delle sue difficoltà, ma non dimenticasse mai la sua natura umana.

Era sollevata che le fosse nato un maschio perché nella mafia le donne non avevano vita facile, invece il suo bambino avrebbe ricevuto le migliori cure al mondo e un giorno sarebbe stato un grande boss amato e rispettato da tutti e con un cuore enorme. Aveva un futuro radioso davanti a sé.

"Hayato" mormorò Lavinia lasciando andare una lacrima conscia del fatto che non ne avrebbe fatto parte.

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Capitolo 2
*** Un mondo per lui ***


Lavinia non aveva latte, la sua malattia non aveva permesso che si sviluppasse e così Hayato le era stato tolto prima ancora che potesse svezzarlo.

Era la legge della mafia, lo sapeva fin troppo bene, ciò nonostante nelle promesse di Alfonso ci aveva creduto e sperato finché questi non si era rivelato nella sua debolezza.

"Mi dispiace, ho sbagliato tante cose con te" erano state le parole che le aveva detto per telefono dopo che un gruppo di uomini vestiti in giacca e cravatta avevano fatto irruzione nel suo modesto appartamento e le avevano letteralmente strappato il bambino dalle mani.

Lavinia non aveva neanche provato a riprenderselo, aveva solo insistito affinché potessero avere tutto ciò che serviva per prendersi cura di Hayato correttamente.

Il piccolo aveva percepito il pericolo imminente ancora prima che la calma apparente venisse turbata. Lavinia stava passeggiando avanti e indietro sul balcone del salotto accennando appena una melodia dolce, ma Hayato all'improvviso aveva iniziato a strillare come se lo stessero torturando. Lavinia si era spaventata e si era domandata cosa non andasse, ma la risposta era esattamente alla sua porta d'ingresso.

Tra gli uomini riconobbe uno dei guardiani di quello che tecnicamente era il suo grande amore, era stato testimone del loro primo incontro e del loro primo bacio, aveva persino suonato il violino per loro una sera che Alfonso l'aveva portata fuori a cena.

"Ciccio..." lo aveva chiamato la donna, con le lacrime agli occhi l'aveva supplicato di dargli ancora un attimo, solo un istante in più per salutare per sempre suo figlio.

"Ti chiedo scusa, Lavinia. Io eseguo solo gli ordini e la nostra Madonna Clara ha detto chiaramente che avevamo tre minuti precisi per recuperare il bambino o sarebbe venuta a ucciderlo con le sue stesse mani."

Lavinia tremò, molto più intensamente di quanto aveva fatto il giorno in cui l'oncologo le aveva detto che le restavano al massimo sei mesi di vita.

"Non gli farà del male, vero?" chiese disperata.

Francesco le rivolse uno sguardo che per quanto apparentemente freddo rivelava profonda premura.

"Questo bambino diventerà il decimo boss della famiglia Bianchi, la signora ha solo bisogno di togliersi il dente e accettare quello che è successo. Obbedendo ai suoi ordini non hai niente di cui preoccuparti."

Lavinia si era a lungo preparata per quel momento, ma niente e nessuno le avrebbe potuto mai dire quanto avrebbe fatto male. Sentì come se le avessero strappato il cuore dal petto, lo avessero gettato a terra e calpestato riducendolo a brandelli finché non ne era rimasto solo sangue.

Dopo aver pianto per ore interminabili, appoggiata con la schiena alla porta, il viso tra le mani e le ginocchia al petto, si era sentita semplicemente un guscio vuoto.

Non aveva più lacrime da versare e dell'immenso dolore non rimaneva che una cupa anestesia. Sarebbe morta ancora prima del previsto, morta di crepacuore.

Nelle sue orecchie rieccheggiavano le urla di suo figlio che forse aveva o forse no consapevolezza che gli avevano spezzato qualunque legame con la persona che lo aveva messo al mondo. Erano così forti e acute che persino gli uomini del suo amante avevano esitato, chi tappandosi le orecchie, chi storcendo il naso.

Lavinia aveva accompagnato l'uscita dalla sua vita con una dolce melodia utilizzando le corde vocali finte perché Hayato si calmasse e potesse sentirsi al sicuro.

Solo quando si erano allontanati e non sentiva più le urla strazianti di suo figlio si era permessa di crollare.


"Madonna Clara, abbiamo il bambino" annunciò Daniele, lo espose alla donna come se fosse un trofeo.

"Toglilo di mezzo, non lo voglio neanche vedere" ribatté Clara guardandolo come se fosse la cosa più disgustosa al mondo.

"Subito, signora" ribatté Daniele scattando sull'attenti, cercò di capire come tenere il bimbo in braccio senza farselo scivolare e raggiunse l'ufficio del suo boss.

"Eminenza" disse bussando alla porta.

Alfonso riconobbe la voce e lo invitò a entrare impaziente, febbricitante di guardare in faccia il suo erede.

Daniele si fece avanti e gli si avvicinò cercando di gestire quella che era una specie di bestia impazzita che si dimenava e urlava come se volesse farsi a pezzi.

"È irrequieto" commentò Alfonso, il cuore gli si strinse vedendo che con le piccole unghie ancora in via di formazione era ugualmente riuscito a graffiarsi le braccine.

"Ordina alle sarte di fare dei guanti, episodi del genere non devono mai più succedere" ordinò.

Daniele si dileguò con un inchino percependo il messaggio subito dopo avergli consegnato il bambino come se fosse un pacco.

Alfonso lo accolse tra le sue braccia, gli rivolse un sorriso dolce.

"È tutto finito, figlio mio, sei a casa tua" mormorò dondolandolo nel vano tentativo di calmarlo.

Dovette scuoterlo eccessivamente perché Hayato gli rigurgitò in faccia, cosa che Alfonso interpretò come una punizione del karma oltre che un segno inequivocabile di non piacere al bambino.

Lavinia non aveva latte, ma Diana sì, infatti dopo qualche giorno di miscele artificiali in clinica e a casa della sua mamma Hayato fu allattato al seno e allora si scoprirono ancora più cose circa le sue condizioni fisiche.

Tanto per iniziare sembrava odiare il contatto non la pelle, guardava sempre con circospezione la balia a cui era stato affidato quando questa si alzava la maglietta e abbassava la coppa del reggiseno per dargli da mangiare. Ciò che era ancora più strano era il modo in cui non succhiava, rimaneva lì fermo come se non sapesse esattamente cosa fare e come farlo. Inoltre non chiedeva mai di mangiare, Diana era stata istruita a nutrirlo ogni quattro ore, ma era un'impresa. Cosa ancora più inusuale Hayato si addormentava come se il latte fungesse da sonnifero il che impediva la sua corretta alimentazione.

Diana non era l'unica a occuparsi di Hayato, assieme a lei c'era un intero stuolo di servitrici. Due o più balie per ogni occasione e una serie di esperti di questo e quello da tutto il mondo perché Hayato ricevesse tutto ciò di cui aveva bisogno e anche di più.

Elisa e Lorena erano le addette al bagnetto e a rivestirlo, Teresa si occupava di leggergli le storie prima di andare a dormire sennò Hayato avrebbe tenuta sveglia l'intera villa sgolandosi per tutta la notte. Per coinciliare il sonno di un neonato ingestibile Alfonso aveva reclutato chiunque potesse dargli una risposta anzi una soluzione al problema, aveva chiamato chiunque persino un qualificato insegnanti di musica che stava portando avanti una ricerca sulle frequenze ottimali per la composizione di ninnananne, ma alla fine la carta vincente si era rivelata un oggetto comunissimo, il phon. Il suo calore doveva farlo sentire al sicuro, così come il rumore, gli bastava udirlo per crollare addormentato.

Nonostante la grande quantità di persone che si prodigava per il futuro boss dei Bianchi, Diana era l'unica che sentiva di essere sua madre e trattava Hayato proprio come Andrea, il proprio figlio.

Andrea era il sopravvissuto di un parto gemellare per questa ragione Diana aveva così tanto latte. La porzione di Luca era spettata ad Hayato e forse proprio per questo Diana percepiva una profonda connessione col piccolo.

Mettendoli a paragone aveva notato le differenza tra i due bambini, nell'atteggiamento, nelle dimensioni. Erano come il sole e la luna in tutto e per tutto.

Hayato era arrivato da scarsa una settimana, ma nel bene e nel male a villa Bianchi non si parlava di altro.

Diana in cuor suo celava la speranza che crescendo insieme il suo Andrea e il suo Hayato sarebbero divenuti amici, ma questo andava contro le regole della famiglia fortemente classista e il piccolo Bianchi sembrava avere altri programmi visto il suo atteggiamento.

Hayato era un bambino veramente impegnativo che sembrava non voler fare assolutamente niente di ciò che gli veniva chiesto come se volesse opporsi per il semplice fatto che fosse una richiesta.

"È un leader nato" aveva commentato Alfonso fieramente, ma Diana aveva i suoi dubbi, gli sembrava che il piccolo avesse subito traumi veramente pesanti e difficilmente si sarebbe ripreso.

Tra le difficoltà implicate nel prendersi cura di Hayato Bianchi Diana riscontrò l'applicazione della crema rigorosamente tre volte al giorno e su tutta la superficie corporea. C'era poi una lozione che doveva mettergli negli occhi e ogni volta era una tragedia, se ne andava almeno mezz'ora per riuscirci, fortunatamente era solo una volta al giorno.

Nonostante la fatica e la stanchezza del caso Diana amava Hayato e avrebbe dato la sua vita per lui come per Andrea.

Dopo la prima settimana era finalmente riuscita ad allattarlo a dovere e in breve tempo finalmente il peso era aumentato significativamente. Accolse quell'evento come una grande conquista e lo festeggiò, ebbe però la consapevolezza assoluta di aver scalfito il muro che il piccolo senza sapere aveva già saputo erigere quando Hayato le strinse un dito nel proprio pugnetto mentre si addormentava, le manine tenute al caldo da guantini azzurri con un merletto bianco candido in pizzo a disegni floreali.

Diana non faceva altro che obbedire agli ordini, questo aveva fatto tutta la sua vita e questo avrebbe continuato a fare, ma prendersi cura di Hayato era stato di gran lunga la cosa migliore che fosse mai stata obbligata a fare.

Le settimane passavano e il suo piccolo cresceva, giorno dopo giorno iniziava a riempire la propria pelle così che non si intravedessero più le ossa. Restava minuto, mingherlino, ma non dava più l'impressione di essere stato una vittima della fame nel mondo.

"Sai che quando la signora finalmente accetterà di prendersene cura dovrai separartene, vero?" le aveva fatto notare la sua collega Teresa.

Diana ne era pienamente consapevole e per quanto egoistico potesse risuonare sperava davvero che quel giorno non sarebbe mai giunto e di poter divenire educatrice a pieno titolo del futuro decimo boss dei Bianchi.

I suoi sogni irrealizzabili furono concretizzati qualche mese dopo quando Clara chiese esplicitamente che le venisse presentato quello che avrebbe dovuto ufficialmente spacciare per suo figlio. Lo esaminò da capo a piedi in presenza di Diana e Alfonso che la supervisionarono per intervenire qualora si facesse prevaricare dai suoi istinti omicidi.

"Assomiglia in tutto e per tutto a quella sgualdrina" commentò senza rivolgere lo sguardo a suo marito.

Hayato che fino a quell'istante aveva scalciato era scoppiato a piangere come se avesse compreso perfettamente ciò che la giovane donna aveva detto.

"È ancora piccolo, sono sicuro che crescendo mostrerà tratti più simili ai miei" l'aveva rassicurata Alfonso.

"Molto bene, accetto di fingere di avere avuto una gravidanza inaspettata che abbiamo tenuto segreta, ma non voglio crescerlo, non è mio figlio e non mi comporterò come se ti avessi perdonato per avermi tradita solo perché ora hai il maschio che tanto desideravi, Alfonso."

Clara si alzò dalla poltrona elegante su cui si era accomodata e consegnò nuovamente Hayato tra le mani di Diana, come se non vedesse l'ora di liberarsene.

"Diana, mi dispiace investirti di questo ingrato compito, sei stata semplicemente sublime per Bianca, dovrai fare lo stesso anche per questo bastardo" disse.

Diana strinse forte le unghie in un palmo per evitare di reagire con la violenza, si morse la lingua e accennò un sorriso.

"Sono al vostro servizio, signora" disse.

Alfonso sospirò, accarezzò il viso del suo bambino mentre la balia tentava di calmarlo. Quando la moglie fu sufficientemente lontana si permise tenerezza.

"Puoi insegnarmi a cullarlo? Quando lo prendo in braccio io generalmente sta male..."

Diana gli mostrò la posizione ottimale per tenerlo in equilibrio e dargli sicurezza, lasciò che Alfonso ci provasse da solo dopo essersi sincerata che avesse capito.

"Non è così difficile" commentò Alfonso, una luce sconosciuta negli occhi lo rese raggiante, poi Hayato sorrise e suo padre percepì il calore dell'amore.


"Bianca" l'aveva chiamata un giorno Alfonso avvicinandosi alla sua stanza mentre la piccola era intenta a scarabocchiare su dei fogli.

"Sì, padre?" come le avevano insegnato si era alzata dalla scrivania, era uscita nel corridoio e aveva fatto un elegante inchino tenendo ambo i lembi del vestitino lilla.

"Ti informo ufficialmente che la nostra famiglia si è ingrandita."

Bianca annuì con un sorriso beffardo.

"Avete reclutato nuovi alleati?" chiese.

Alfonso trattenne a stento una risata riconoscendo la provocazione, doveva ammettere che per avere quattro anni Bianca aveva un'intelligenza emotiva spiccata.

"No, non sei più la più piccola qui dentro, ora hai un fratello minore e mi aspetto che ti comporti in maniera esemplare."

Bianca sorrise dolcemente, i suoi occhi brillarono, entusiasmata portò le mani sul petto e sentì il cuore leggermente accelerato per l'emozione. Era pienamente consapevole che al palazzo era arrivano un bambino che sarebbe stato l'erede della famiglia e aspettava impaziente il giorno in cui lo avrebbe conosciuto e finalmente quel giorno era giunto.

"Qual gaudio, posso vederlo?" domandò.

Diana uscì da un angolo tenendolo tra le braccia, si era addormentato pacificamente, ma aveva già superato le dodici ore di sonno e si pensava fosse il caso di destarlo.

"Signorina, le presento il suo fratellino" disse Diana, così come le era capitato con la maggior parte dei membri della famiglia insegnò anche a Bianca come tenere quell'esserino ancora così piccolo.

Bianca sentì qualcosa di sconosciuto una connessione immensa che la legava a quel fagottino. Lo strinse appena stando ben attenta alla pressione applicata e si commosse.

"Padre è bellissimo, prometto che me ne prenderò cura e lo proteggerò per sempre" disse posandogli un bacio sulla tempia.
Quel contatto impercettibile portò Hayato ad aprire gli occhi rivelando delle gemme di giada in cui Bianchi rivide se stessa.

"Ha i vostri occhi" disse rivolgendosi ad Alfonso.

Diana accorse perché l'ultima volta che aveva guardato il bambino c'era solo del grigio misto a rosso e azzurro, come se fosse vetro.

"Che miracolo!" esclamò vedendo finalmente del colore, il colore che era emerso dopo mesi ad applicare una crema apposita.

"Ora sicuramente ci può vedere" disse.

Anche Alfonso si affrettò a verificare, prese Hayato tra le mani e lo sollevò esponendolo alla luce artificiale di una lampada. Riconobbe la forma di Lavinia e una sfumatura più tenue del colore dei propri occhi.

"Allora sei davvero mio figlio" disse con un tono tenero mentre continuava a scrutarlo, gli sovvenne improvvisamente l'affermazione di Diana che aveva lasciato scivolare.

"Perché hai sottolineato che solo adesso può vedere?" chiese riconoscendo dove era caduto l'accento.

La balia si strinse nelle spalle e spiegò, era stata l'unica che si era preoccupata di leggere l'intera cartella clinica.

"Perché la sua condizione non gli permetteva di mettere a fuoco, boss. È tutto scritto nel fascicolo allegato al certificato di nascita" rispose.

Alfonso annuì, abbracciò il piccolo come se fosse la sua stessa vita e lo baciò sulla testa.

"Voglio che mi venga fornita una copia del documento. Voglio sapere tutto della mia prole" disse.

Diana procedette immediatamente a obbedire dileguandosi con un inchino.

"Ci credo che eri spaventato" mormorò Alfonso guardando dritto negli occhi il suo bambino.

"È spaventoso non poter vedere in un mondo buio."

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Capitolo 3
*** Un mondo attorno a lui ***


I suoi ricordi erano tutti nitidissimi come se fossero eventi accaduti il giorno prima, andando a ritroso si era reso conto di poter richiamare lucidamente alla mente anche il momento in cui aveva camminato sui piedini per la prima volta.

Era successo una mattina di dicembre in prossimità del periodo natalizio. Hayato era seduto nel grande salone, aveva una zona a lui completamente dedicata creata da un puzzle in gomma che gli impedisse di farsi male qualora fosse caduto. Era rimasto da solo per un motivo non meglio identificato del fatto che le sue numerose balie erano impegnate e stava giocando con un orsacchiotto di peluche, fingeva che fosse suo amico e avesse un'anima a cui parlare.

Improvvisamente il cielo si oscurò, divenne così cupo che Hayato sentì il bisogno di accendere la luce per dare nuovamente luminosità alla stanza e vederci qualcosa. Memore della planimetria della stanza cominciò a gattonare spedito verso l'interruttore. Raggiunto il muro dove questo si trovava si rese conto che proprio non era alla sua portata. Allora decise, spinto dal bisogno di placare quel senso di inquietudine che lo accompagnava nel buio, di estendersi perché era l'unico modo in cui potesse cliccare il tasto. Si sollevò a fatica sulle sue gambe, spingendo con le piante dei piedi contro il tappeto, le mani al muro usate per tenersi in equilibrio. Scoprì che era molto più facile del previsto, ma anche all'impiedi non era comunque abbastanza alto per raggiungere l'interruttore.

Amareggiato si allontanò senza rendersi conto che non si era rimesso a gattonare, ma che stava bensì camminando e senza grosse difficoltà.

Solo quando venne Diana, che in brodo di giuggiole si congratulò, si rese conto che ciò che aveva fatto era speciale, non comune tanto per cambiare. Aveva meno di sei mesi.

Doveva ammetterlo, persino la sua memoria, che sembrava avere un archivio per ogni argomento, presentava dei buchi di trama nella sua vita. Non ricordava il giorno della sua nascita e salvo alcuni avvenimenti molto impressi ricordava il suo primo e il suo secondo anno di vita a malapena.

Il periodo che andava invece da metà del suo secondo anno di vita fino a che non aveva compiuto tre anni invece lo ricordava davvero perfettamente, avrebbe potuto scrivere un libro in materia forse perché in qualche modo era stato il momento più bello.

Ricordava con chiarezza ampie sale eleganti, uno stuolo di persone giunte solo per lui, per conoscerlo, il tappeto rosso che aveva percorso prima di arrivare a sedersi su quello che era un enorme trono. La corona in testa gli fu apposta da suo padre e i presenti esultarono, uno a uno si alzarono e gli resero omaggio. Era il suo secondo compleanno e ricevette così tanti giochi da non sapere dove metterli.

Il punto non erano i giochi, lo sfarzo, la fama, ma era il modo in cui quegli uomini e quelle donne lo guardavano, con rispetto, con quello che Hayato aveva scambiato per affetto, con dolcezza. Pensare di essere amato da così tante persone che giuravano di dare la vita pur di proteggerlo lo faceva sentire davvero bene e fortunato.

A quell'età aveva già imparato a leggere, lo aveva fatto con i libri per bambini che gli leggeva Teresa e presto aveva deciso di inventare le sue storie. In quegli anni ricordava che i ruoli si erano invertiti, le sue balie ascoltavano quelle storie fino ad addormentarsi e Hayato rimaneva sveglio a guardare le stelle dalla piccola finestra sul soffitto della sua camera.

Questo non era niente perché anche se era molto piccolo era già stato autorizzato a uscire e continuamente si faceva accompagnare dagli uomini di suo padre nei negozi di giocattoli. Non faceva in tempo a dire di volere una cosa che immediatamente tutti si mettevano al suo servizio e gliene portavano almeno dieci tipologie differenti.

"Va bene così, signorino Hayato?"

"Preferite diversamente?"

"Potrete mai perdonarmi per il mio errore?"

Tra le mura di villa Bianchi Hayato si sentiva davvero il re del mondo.

I suoi giochi preferiti erano quelli che gli permettevano di viaggiare con la fantasia, le macchinine, i dinosauri, ma soprattutto le bambole di Bianca.

Le aveva scoperte un giorno sgattaiolando fuori dalla sua stanza per raggiungere quella della sorella, l'aveva trovata impegnata in un'importante conversazione tra se stessa mentre tra le mani aveva una Barbie e un Ken i quali si giuravano amore eterno.

"Posso giocare con te?" ricordava di aver domandato.

Gli occhi di Bianca si erano illuminati e la bimba aveva sorriso intensamente.

"Hayato!" aveva detto con entusiasmo coinvolgendolo in un abbraccio spaccaossa.

"Certo che puoi giocare con me. Chi vuoi essere?" aveva domandato prendendo una ventina di bambole da un baule dopo aver sciolto l'abbraccio.

Hayato si era un po' sistemato la spalla sinistra che quasi non sentiva più e dopo aver realizzato che era ancora tutto intero rispose.

"Che differenza c'è?" disse.

Bianca sorrise, prese l'unica Barbie con i capelli castani e gliela diede.

"Ognuno ha una personalità diversa, lei è Tamara, è innamorata del principe che però ha una relazione con Sara, il mio personaggio. Dobbiamo vestirle per il ballo così Tamara avrà una possibilità di fare colpo sul principe Alfonso se sarà abbastanza bella."

Hayato ascoltò attentamente quella spiegazione poi si mise seduto accanto alla sorella e iniziò a frugare tra i mille vestiti che erano sparsi un po' ovunque. Erano abiti di sartoria in formato mignon, completi di ogni singolo dettaglio, scelse dopo una lunga riflessione un tessuto rosso sovrastato da una parte argento velata e brillantinata, la gonna ampia e le maniche a sbuffo.

"Sara ha le ore contate, il principe è mio!" disse entrando nel personaggio.

Ricordava spesso di lui e sua sorella maggiore nella camera di Bianca a inventare storie che ben presto avevano preso tutte la stessa trama. Amore, tradimenti, lotte all'ultimo sangue per aggiudicarsi un uomo, si era un po' stancato di tutto questo.

"Ma davvero a te piacerebbe fare questo? Farti bella solo nella speranza che un uomo ricco ti sposi?" chiese.

Bianca abbracciò il vestito che teneva tra le mani sognante e annuì.

"È questo il mio destino e lui sarà bellissimo e mi amerà, non ci sarà donna che potrà portarmelo via, nessuna potrà competere con me oppure lo ucciderò."

Hayato ricordava di avere riso davanti a quelle parole, ma al contempo sentiva un crescente senso di disagio. Era davvero questa l'aspirazione di sua sorella?

"E io dovrei fare lo stesso?" chiese.

"Ma no, sciocchino. Tu sei maschio e erediterai la famiglia. Sei tu il principe in questa storia. Sposerai la tua bella principessa e avrai tanti bei bambini con lei e questi bambini poi erediteranno a loro volta la famiglia."

Hayato guardò verso il basso e poi attorno a sé confuso.

"Ma è obbligatorio?" chiese spaventato.

"Non lo so, penso di sì" rispose Bianca.

"E se invece facessi qualcosa di diverso? Non so tipo viaggiare per il mondo e leggere tanti libri, scoprire se esistono davvero i mostri e documentarli?"

Bianca rise, gli accarezzò delicatamente il viso.

"Hai così tanta fantasia, Hayato."

Da quella conversazione le loro storie si erano ampliate, Sara non era più solo una principessa, ma era anche un'assassina e suo malgrado aveva ucciso Tamara avvelenandola accidentalmente. Hayato aveva vaga coscienza del fatto che la sua famiglia fosse esperta in veleni, ma non la trovava una cosa strana. C'erano esperti di tutto al mondo, no?

Un'altra cosa che ricordava nitidamente era il modo in cui suo padre gli si rivolgeva, sempre carico di affetto, sempre come se stesse guardando la cosa più importante al mondo.
Lo elogiava continuamente, lo abbracciava e gli chiedeva di passare del tempo insieme, raramente, ma quei momenti erano i preferiti di Hayato.

Sulla piccola poltrona nel suo studio giocava con dei pupazzetti a forma di dinosauro e li faceva combattere tra loro facendo tutti i suoni per rendere la scena più realistica e sentirsici catapultato.

Dalla piccola radio sulla scrivania proveniva una melodia, poche note, ma ben posizionate.

"Padre, che strumento è?" domandò Hayato abbandonando completamente il suo gioco come se fosse stato rapito da quei suoni.

Alfonso si avvicinò a suo figlio si sedette sul pavimento perché fossero alla stessa altezza.

"Questo è un pianoforte, Hayato. Ti piace?" chiese.

Hayato annuì emettendo un verso convinto, poi iniziò a riprodurre la melodia emulando gli stessi suoni. Aveva una voce angelica, così delicata e soave.

"Hayato, ti piacerebbe imparare a suonare?" domandò Alfonso.

Hayato rispose di sì istintivamente, ciò che ne seguì fu l'ingresso di un grande pianoforte a coda di colore nero il quale fu consegnato qualche giorno dopo e Hayato accompagnò il tragitto dall'ingresso principale fino a una sala dedicata.

Si sentiva così piccolo davanti a quell'imponente oggetto, ciò nonostante appena prese posto sullo sgabello quel senso di impotenza si annullò.

Non gli era mai sembrato di essere più in alto, le gambine dondolavano nel vuoto. Le braccia erano talmente corte che le manine a stento toccavano i tasti, la schiena ricurva per poterli almeno raggiungere.

Il piccolo suono che lo strumento fece al contatto gli fece battere il cuore, sentì una potenza immensa che lo pervadeva.

"Ecco cosa voglio fare, voglio suonare, non sposarmi e avere dei figli" sussurrò a se stesso, attorno a lui c'erano molte persone, ma gli sembrava che esistessero solo lui e il suo strumento.

Si perse completamente in uno spazio dove c'era posto solo per la sua creatività e per quel rapporto così speciale, lo fece al punto tale che quando riaprì gli occhi non c'era più nessuno vicino a lui. Non era una solitudine sofferta era pace interiore.

Saltò giù dallo sgabello con il sorriso sulle labbra e fiero andò a comunicare la decisione che aveva preso a suo padre.

"Ti servirà qualcuno che te lo insegni allora" disse Alfonso accogliendo la notizia.

Uno dei ricordi più vividi però erano gli occhi chiari di una signora, dolci come quelli di Diana, ma più accoglienti degli stessi.

Quelli erano sempre presenti, a ogni età, ne aveva memoria costante come se quella signora fosse sempre stata un membro integrante nella sua vita.

Non era una serva, doveva essere un'amica di famiglia o qualcosa del genere. Suo padre la vedeva raramente, ma quando la invitava nel suo ufficio si abbracciavano e non solo. Hayato li ricordava ridere, scherzare, farsi coccole tenere.

Era stata solo questo fino a quel momento, una persona gentile che di tanto in tanto veniva a fare visita, invece un giorno divenne la sua insegnante di piano.

Lo prese alla sprovvista mentre stava provando un pezzo, aveva trovato dei vecchi spartiti nella sala della musica.

"Questo è un fa diesis" disse facendolo sussultare, prese la sua manina nella propria e la posizionò sul terzo tasto nero.

Hayato sussultò, nessuno era autorizzato a entrare quando stava provando nella sala della musica a porte chiuse.

"Mh?" domandò, si voltò verso la voce gentile che gli aveva parlato e riconobbe l'amica di famiglia, le rivolse uno sguardo interrogativo.

"Ti piace il piano?" gli domandò questa.

"Lo amo!" ribatté Hayato senza nemmeno fermarsi a pensare.

La donna mise la sua manina tra le sue belle mani curate e accarezzò il dorso.

"Capisco. Hai delle mani delicate. Queste sono mani meravigliose per suonare il piano."

Hayato ancora teneva le dita dell'altra mano sui tasti quando si ritrovò ad annuire, i suoi occhi rilucerono.

L'affetto, la tenerezza che esprimevano gli occhi della donna non l'aveva mai riscontrata in nessuno, nessuno gli aveva mai saputo trasmettere amore così bene.

"Continua a suonare il piano, continua a esercitarti..." mormorò la giovane.

Sorrise e Hayato si specchiò nel suo volto rispondendo allo stesso modo. Il calore che si propagava da quel contatto lo stava facendo sentire più al sicuro di quanto non avesse fatto una squadra per la sua protezione.

Ci fu una pausa di silenzio, Hayato non smise di sorridere spensierato e pieno di quel sentimento nuovo e tanto prezioso, poi la giovane parlò nuovamente.

"Non dimenticare mai quanto sia buono il tuo cuore" disse enigmaticamente.

Hayato giurò di non farlo e la giovane prese posto al suo fianco sullo sgabello. Guidò le sue dita sui tasti, lasciò che le proprie mani danzassero, in breve tempo prese vita una sinfonia di suoni creati da un unico strumento che però dava l'impressione di ascoltare un'orchestra.

"Pazzesco, sorellona!" esclamò Hayato quando questa sfiorò l'ultima nota, batté le mani emozionato, il battito cardiaco era leggermente accelerato.

"Insegnami, voglio diventare anche io bravo quanto te" disse con entusiasmo propositivo.

"Chiedi al tuo papà se per lui va bene e diventerai molto più bravo di me, Hayato."

Come un qualunque bambino viziato e capriccioso che si rispetti Hayato iniziò a ripetere continuamente a suo padre di autorizzare quella donna a divenire ufficialmente la sua insegnante di piano. Non ci furono santi, neanche supplicandolo in ginocchio riuscì a smuoverlo.

"Possiamo permetterci musicisti acclamati" aveva detto più volte suo padre.

"Ma io voglio lei, voglio solo lei. Non me ne frega un cazzo nemmeno di Mozart in persona. Voglio che la tua amica sia la mia insegnante."

Il cinque che gli si stampò in faccia non lo poteva dimenticare, si massaggiò una guancia lasciando andare qualche lacrima silenziosa.

"Hayato, linguaggio. Chi te le insegna queste parole, eh? È forse così che ti parla Diana? Ricordati mocciosetto, che finché sei sotto questo tetto comando io e la mia risposta è no, Lavinia non può essere la tua insegnante e ti pregherei di non parlarne a nessuno. Discussione chiusa."

Hayato era scosso, ma trovò ugualmente il modo di ribattere.

"L'unico a essere volgare qui in mezzo siete proprio voi, padre" disse girando i tacchi prima di correre nella propria stanza a piangere premendo il viso contro il cuscino perché stava singhiozzando davvero tanto e non voleva che lo sentissero.

Lavinia, sì, aveva un nome quella donna, ma gli era stato proibito di usarlo, lei stessa non aveva mai chiesto di essere chiamata diversamente dal modo in cui Hayato l'aveva affettuosamente soprannominata.

Dopo quel momento ci furono più e più volte durante le quali Hayato suonò in compagnia di Lavinia, qualche volta si univa anche suo padre ed era così tenero da ricordare a stento la figura autoritaria con cui si interfacciava di solito.

Nonostante il grande Ennio Morricone in persona fosse venuto alla sua villa per insegnargli a suonare Hayato vedeva solo Lavinia come sua insegnante e solo in sua presenza dava il meglio di sé.

"Non puoi venire più spesso? A breve sarà il mio compleanno e sì, ci sono tutti i membri della famiglia che mi festeggiano, ma senza te non sarebbe lo stesso" disse vedendo la giovane allontanarsi dopo aver passato l'intera giornata insieme.

"Purtroppo non posso, Hayato non mi è permesso" rispose Lavinia.

"Perché no? È il volere di mio padre? Non è un bravo amico, gli amici non proibiscono di partecipare al compleanno dei figli...credo..." disse consapevole del fatto che per affermare quanto aveva detto si stava rifacendo a delle fiabe lette su libricini illustrati con personaggi dalle fattezze animali umanizzati.

"È complicato, piccolo, ma ti prometto che finché avrò vita verrò a trovarti ogni qualvolta mi sarà possibile."

Hayato sorrise si avvicinò alla donna, la quale si chinò per guardarlo negli occhi e stare alla stessa altezza.

"Lo prometti?" mormorò.

Lavinia prese il mignolino di Hayato, lo strinse con il proprio.

"Giuro che se menti ti farò ingoiare mille aghi e ti spezzerò il dito" disse in una lingua dai suoni sconosciuti al piccolo Hayato.

"Eeeh?!" infatti chiese questo confuso.

"Lo giuro solennemente, è questo che ho detto" spiegò Lavinia.

Hayato la accompagnò alla porta e sorrise profondamente.
Non sapeva bene cosa fosse un amico, ma credeva che fosse qualcosa di molto simile a ciò che sentiva per Lavinia.

Contro ogni pronostico il 9 settembre del 1996 dopo una festa incredibile in cui Hayato aveva solo finto di essere felice suo padre lo aveva richiamato nella stanza della musica e accovacciandosi davanti a lui gli aveva preso entrambe le manine.

"Ho una sorpresa per te, ometto" gli aveva detto.

"Tra cinque giorni Lavinia verrà a farti visita. Potrete stare insieme tutto il giorno. Ora me lo fai un sorriso?"

Raramente era successo così raramente da poter contare sulle dita di una sola mano, ma in quel momento Hayato aveva abbracciato forte suo padre urlando "sei il migliore!".

In quel momento realizzò davvero che le cose materiali potevano letteralmente essere eclissate dal potere dei sentimenti. La macchinina figa, tutti gli audiolibri del mondo, ogni singolo giocattolo ricevuto non valeva un solo sorriso di Lavinia.

Nacque in Hayato la convinzione che Lavinia sarebbe venuta a trovarlo più spesso e gli avrebbe sorriso ancora se si fosse dedicato anima e corpo al pianoforte. Credeva che suo padre non gli permettesse di vederla più spesso perché Hayato poteva sentirsi in difficoltà davanti al suo talento e pensava che raggiungendo un livello simile suo padre le avrebbe consentito di rimanere magari anche a cena o perché no anche a dormire.

"Che stai facendo?"

Era il tanto atteso 14 settembre del '96 quando Bianca entrò nella sala della musica, la porta era rimasta aperta e la musica si sentiva anche nel corridoio.

"Sto suonando, voglio farlo per lei. Oggi mi viene a trovare!" rispose Hayato.

"Mentre l'aspetti posso rimanere qui ad ascoltarti?" domandò Bianca.

"No, sorella. È una melodia che ho composto per lei e voglio sia la prima ad ascoltarla. Magari in serata giochiamo insieme con le bambole, che ne pensi? Tanto Lavinia non resta mai la sera."

Bianca annuì, uscì dalla stanza dopo essersi scusata con un inchino. Hayato la rincorse, il suo viso allegro si era trasformato in puro terrore dopo aver realizzato che aveva pronunciato quel nome innominabile.

"Bianca! Lavinia è solo un'amica di papà però io non posso chiamarla per nome, papà mi ammazza se lo scopre. Puoi fare finta che non ti abbia detto niente?"

Bianca sorrise, assunse un'espressione furba e lo infastidì con premendo ripetutamente su un braccino col proprio indice.

"Va bene, ma stasera sarà Sara a sposare Alfonso."

Hayato congiunse le mani, tirò un sospiro di sollievo.

"Grazie" esalò riprendendo a respirare normalmente.

Tornato nella sala della musica riprese a praticare e attese con ansia l'arrivo di Lavinia.
La sala divenne rossa all'improvviso, il sole tramontando era filtrato con la sua luce attraverso le ampie finestre e aveva tinto le mura.

"È in ritardo" disse Hayato tra sé e sé, le dita gli facevano male per quanto aveva suonato.

Un brivido inteso lo attraversò da parte a parte quando gli sembrò che il cielo fosse fatto di sangue.

"Ormai è sera, non verrà più..."

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Capitolo 4
*** Lo stesso mondo ***


Resistere fino a dopo cena era stata una vera impresa, mangiare in silenzio il piatti stellati preparati dal loro chef personale, piatti che dovevano portare conforto e invece non facevano che contribuire alla consapevolezza che il lusso davanti ai sentimenti perdeva ogni significato, sembrava impossibile. Rimanere fermo a tavola mentre Bianca divorava la sua forchettata di pasta, Alfonso beveva del vino e Clara come suo solito sembrava di pessimo umore.

Quando prese l'ultima cucchiaiata del dolce finalmente sentì di poter respirare di nuovo. L'elaborato parfait ai frutti di bosco era il suo dessert preferito eppure quella sera a tratti gli dava la nausea.

Si alzò da tavola dopo essersi pulito la bocca con un tovagliolo in lino ricamato con disegni floreali e procedette a salire le rampe di scale che lo dividevano dalla sua stanza. Aprì la porta solo per rimanere fermo con la maniglia in mano e sospirare.

Bianca lo raggiunse poco dopo, interruppe la sua contemplazione del vuoto.

"Che ti prende? Sei stato con lei fino a ora, dovresti essere felice" disse.

"Lei non è venuta..." mormorò Hayato amaramente in risposta.

Bianca tacque, si coprì la bocca istintivamente con una mano per nascondere il sussulto.

"E perché non lo hai detto? Hai fatto finta di niente con papà e mamma."

Hayato annuì, rilassò le spalle e si voltò verso la sorella.

"Non volevo che fosse vero, quando le cose le dici a voce alta... sembrano più reali..." disse.

Bianca lo abbracciò, riconobbe l'incrinatura della voce che andava verso il pianto e prima di saperlo se lo ritrovò a singhiozzare contro il petto.

"Lo so, lo so che ci tenevi tanto" mormorò Bianca accarezzandogli i capelli.

"Sono sicura che abbia avuto un contrattempo, anche lei ci teneva tanto."

Hayato annuì, tirò su col naso, l'assenza non era resa migliore dalla consapevolezza che Lavinia volesse partecipare a quel momento speciale.

"So io cosa ti ci vuole" disse Bianca decisa, lo prese per le spalle e lo guardò negli occhi.

"Ci facciamo belle, ti trucco e ti acconcio i capelli. Niente è più efficace per una delusione."

Hayato ridacchiò istintivamente, si lasciò prendere per mano e portare in camera della sorella.

Bianca gli asciugò le lacrime dopo aver chiuso la porta alle spalle, prese una trousse di trucchi finti che però coloravano ugualmente e posizionò Hayato davanti alla toeletta.

"Sei sicura che è una buona idea?" chiese quest'ultimo.

Più volte Diana suo malgrado aveva premuto sul fatto che la pelle di Hayato era delicata e non poteva metterci su la prima cosa che capitava.

"Certo. Hayato è triste, ma tu non sei Hayato, tu sei la mia sorellina felice. Scegli un nome, come ti chiami?" rispose Bianca.

Hayato ci pensò per qualche istante poi disse senza ripensamenti "Lavinia!"

Bianca sospirò.

"Dai così non collabori."

Hayato negò con un cenno della testa.

"Così la sento più vicina anche se non è qui adesso."

Bianca approvò, iniziò a pettinargli i capelli.

"Sono lunghetti" disse.

"Forse dovremmo accorciarli."

Hayato si oppose prontamente.

"Mi piacciono così, anzi li voglio ancora più lunghi, tipo i tuoi!" esclamò.

Bianca annuì, passò la spazzola separando le ciocche, constatò quanto sottili fossero quelle fibre argentate.

"Così sembrerai una femmina" disse.

"Sembrerò Lavinia in miniatura" ribatté prontamente Hayato infastidito dal modo in cui Bianca aveva pronunciato l'ultima parola, con disprezzo.

"Abbiamo lo stesso colore di capelli e anche i suoi occhi, sono simili ai miei."

Bianca fermò i capelli in codini alti con due elastici rosa confetto, si specchiò al suo fianco.

"I tuoi occhi sono come i miei e quelli di papà" gli fece notare.

Hayato accennò un sorriso.

"Anche Lavinia ha gli occhi simili" insistette.

"Però lei non indossa i fermagli e i suoi capelli presentano dei piccoli boccoli alla fine."

Bianca ascoltò tutto il discorso poi lo fece voltare verso di lei.

"Pensi che a Lavinia piaccia l'azzurro?" domandò.

Hayato annuì istintivamente.

"Le piacciono tutti i colori e il vestito che aveva l'altro giorno era proprio del colore del cielo."

"Vada per l'azzurro allora" disse Bianca, prese un pennellino e lo intinse nell'ombretto, lo spalmò sulle palpebre di Hayato che tremarono a contatto.

Prese poi un rossetto rosso acceso e gli colorò le labbra, un po' di blush rosa shocking per completare il look.

"Che te ne pare?" chiese lasciando che il fratellino si voltasse per guardarsi nello specchio.

Hayato sobbalzò si spaventò della sua immagine e poi scoppiò a ridere.

"Sembro una battona" disse.

Bianca rise a sua volta, ma lo avrebbe più che altro paragonato ad Harley Quinn.

"Hayato, chi ti insegna queste parole?!"

Hayato scosse la testa e alzò le spalle.

"Vincenzo, non fa che parlare di quanto sia figa quella puttana sua o quell'altra e poi l'altro giorno una vecchia signora si è avvicinata a noi e quando se ne è andata lui l'ha chiamata così. Aveva la faccia così, piena di trucco" spiegò.

Bianca sobbalzò, gli coprì la bocca come se potesse cancellare quelle parole.

"Perché? È una cosa brutta?" domandò Hayato facendo fatica a parlare con le mani di Bianca sulle labbra tipo nastro adesivo.

"La mamma dice che non possiamo usare queste parole. Ricordi il ceffone che ti ha dato nostro padre per una parolaccia? Devi stare attento, Hayato" lo redarguì la sorella.

"Io non sono Hayato, io sono Lavinia e Lavinia non deve ascoltare nessuno di loro. Lavinia è libera e suona il piano benissimo."

Bianca sospirò, forse aveva fatto un errore.

Nonostante non gli piacesse Hayato si tenne il trucco ed entrambi finirono per addormentarsi abbracciati sul letto di Bianca.

Appena un'ora più tardi Diana venne a cercarlo e lo trovò a dormire, gli sembrò una scena molto tenera finché non notò con orrore il respiro pesante del piccolo e le macchie sul corpo.

Lo svegliò terrorizzata, ma cercò ugualmente di mantenere la calma.

"Che c'è?" chiese Hayato sentendo il cuore esplodergli in petto dopo essersi svegliato di soprassalto.

"Signorino, vieni con me" disse Diana cercando di usare un tono tranquillo e rassicurante.

Prese Hayato in braccio e lo portò di tutta fretta in bagno, lo adagiò nella vasca.

"Mi sono già lavato prima di cena" protestò Hayato.

"Sì sì, signorino, lo so" convenne Diana.

Non passò molto prima che Hayato divenisse cosciente di quanto gli prudesse ogni parte del corpo dalla testa ai piedi. Iniziò a grattarsi solo per vedere la balia bloccargli entrambe le mani mentre.

"È questo il problema. Quante volte ti ho detto di non metterti cose in faccia o sul corpo senza chiedermi se puoi? Non lo faccio per darti fastidio, ma per tutelarti."

Hayato rimase in silenzio, adesso aveva davvero paura, il respiro era corto, la pelle arrossata in ogni dove, lasciò andare le lacrime senza fiatare come se fosse paralizzato.

Diana usò del sapone delicato e strofinò per rimuovere il trucco, l'intero corpo era in condizioni penose, lo poteva capire da quelle specie di pustole sulle gambe, ma la faccia era quella messa peggio.

Dopo aver riflettuto a lungo decise che spogliarlo fosse la cosa migliore. Gli puntò contro un getto d'acqua gelata sotto il quale Hayato rabbrividì.

Voleva chiedere spiegazioni, ma non riusciva a parlare e in fondo non voleva neanche sapere. Diana dal canto suo sapeva che ogni istante era prezioso.

Dopo averlo praticamente marinato lo tamponò con un asciugamano di spugna e applicò una crema a base di cortisone su tutto il suo corpo specialmente in faccia. Le bolle rosse cominciarono a sbiadire, ma il segno rimase.

"Sei allergico al Kathon CG, per la miseria!" finalmente disse Diana spiegandogli cosa fosse successo.

"Non avrei mai pensato di trovarti a giocare con i trucchi della signorina Bianca."

Hayato sbuffò, resistette all'impulso di trattare una guancia incremata.

"Se qualcuno qui mi avesse dato spiegazioni al posto di comandi che mi sembravano senza senso non sarebbe successo" sbraitò liberando la tensione.

"Ora è tutto sotto controllo" disse Diana cercando di rassicurarsi a propria volta.

"Hai ragione" disse poi ammettendo amaramente.

"Ho sempre pensato fossi troppo piccolo per sapere, ma meriti di conoscere come stanno le cose."

Hayato annuì, la guardò teneramente negli occhi.

"Lo sai che ho tre anni solo su carta, dentro mi sento più grande, preferisco sapere cosa ho... lo so che ho qualcosa... ti sei sempre comportata come se fossi malato..." disse.

Diana lo rivestì mettendogli il pigiama costatando che la crema fosse stata assorbita dalla pelle, gli asciugò i capelli rimasti intrappolati nel processo e sciolse i codini.

"Non sei malato, Hayato. Sei solo delicato" spiegò.

"Devi fare più attenzione rispetto a molte persone però ci sono anche persone che hanno bisogno di fare ancora più attenzione."

Bianca era rimasta sconvolta, li aveva seguiti, ma si era messa solo a origliare. Con i lacrimoni agli occhi si era fatta avanti nel bagno e aveva affianco Diana.

"È tutta colpa mia" piagnucolò.

Diana le fece una carezza sul viso.

"No, signorina Bianca, lei non poteva sapere. Non faccia più giocare il signorino Hayato con i suoi trucchi, d'accordo? Sono cose per signorinelle come lei."

Bianca annuì si strinse nelle spalle e guardò il fratellino colpevole.

Hayato le tese una mano, accennò un sorriso.

"Sarò comunque la tua sorellina quando vuoi" disse con un sussurro.

Diana storse il naso prese entrambi per mano e li condusse fuori dal bagno.

"Non una parola ai vostri genitori, ci siamo intesi? Questa cosa non è mai successa."

I bambini annuirono e raggiunsero le rispettive camere, Hayato non si era mai sentito più solo.

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Capitolo 5
*** Tutto un altro mondo ***


La solitudine divenne la sua compagna di giochi all'indomani di quel giorno.

Non fu improvviso, ma neanche esattamente graduale, da un giorno all'altro Hayato realizzò di essersi chiuso in se stesso.

Il mattino seguente la sua vita cambiò, vennero inserite tutta una serie di cose inaspettate. Hayato iniziò a studiare, aveva un insegnante per ogni materia, insegnanti privati e molto esigenti, i migliori nel loro campo probabilmente. Otto lingue: italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, russo, cinese e giapponese. Materie scientifiche e umanistiche. In men che non si dica le sue giornate furono occupate da ore interminabili di studio.

Non gli dispiacevano, anzi saziavano la sua sete di conoscenza, ma aveva sempre meno tempo per dedicarsi al piano e ne sentiva la mancanza.

Alfonso non pervenuto, non aveva nessuno a cui fare storie per chiedere un cambio degli orari.

Bianca iniziò a lamentare la sua assenza a chiedergli di giocare insieme più spesso, ma tra tutti i compiti che gli venivano dati Hayato non riusciva a ricavare del tempo materiale per farlo.

Quando qualche mese dopo suo padre fece rientro alla villa Hayato voleva raccontargli come si trovasse con le lezioni, quanto gli piacessero, ma anche quanto si sentiva stanco e stressato. Fu invece liquidato da un cenno rapido della mano e poi Diana lo venne a recuperare mentre sbatteva i piedi sul pavimento richiedendo attenzione.

Lavinia non tornò più e Hayato si domandò che cosa fosse successo. Forse era colpa sua? Nessuno gli dava spiegazioni, suo padre aveva chiuso qualunque forma di dialogo.
Gli era stato insegnato a scrivere così Hayato iniziò a raccontare tutto ciò che gli stava succedendo in questi lunghi messaggi indirizzati a Lavinia. Aveva chiesto l'indirizzo per spedirli e Daniele un giorno gli aveva detto "gliele consegno io". Non c'era mai stata risposta.

Un giorno che aveva finito di studiare prima andò nella stanza di Bianca, si misero a giocare subito ai travestimenti, gli mancava davvero tanto sentirsi Lavinia. Bianca era entusiasta, gli fece i codini alti e gli fece indossare un suo vecchio vestitino estivo verde. Insieme andarono in giardino e fecero una coroncina di fiori. Tra quelle risate e quella spensieratezza Hayato dimenticò quel vuoto che gli aveva spillato il cuore dal 14 di settembre del 1996 e quando Bianca lo chiamò "Lavinia" si sentì di nuovo vivo.

Più tardi tornarono in camera, fecero un puzzle e poi giocarono con le bambole. Divenne un'abitudine, un appuntamento fisso, poi uscì da quella stanza e così un giorno Hayato si presentò nei panni di Lavinia a uno dei gran balli che villa Bianchi era solita ospitare.

Alfonso non fece gli onori di casa e Bianca disse a chiunque incontrasse che Hayato era in realtà una femmina ed era la sua sorellina. Uno scherzo innocente, entrambi si stavano divertendo molto.

Quel momento idilliaco fu turbato dall'irrompere prepotentemente di Alfonso in quello spazio sicuro che avevano creato all'indomani del gran ballo.

"Bianca, ma ti è dato di volta il cervello?" urlò, strattonò la bambina per un braccio e la costrinse a inginocchiarsi.

"E Hayato, tu che cazzo di problemi hai?" inveì contro suo figlio.

"Sei un maschio, Hayato. I maschi non indossano vestiti da principessa e non giocano con le bambole" sottolineò.

"Ma padre, ad Hayato piace tanto giocare con me, non facciamo nulla di male" provò a dire Bianca.

"Zitta tu" tuonò Alfonso.

"Che me lo farai diventare frocio!"

Hayato rimase in silenzio, non sapeva quale fosse il problema, ma sentiva di aver fatto qualcosa di molto sbagliato.

"Padre, io sto solo recitando. Io e Bianca abbiamo inventato questo gioco dove io sono la sua sorellina e il mio nome è Lavinia..."

Hayato si ammutolì perché gli occhi di Alfonso divennero rossi e lui poté vedere un'aura spaventosa attorno a lui.

Gli arrivò uno schiaffo, così forte che fece un incontro diretto col pavimento, Bianca urlò spaventata.

"Lavinia è morta, Hayato! È morta, cazzo! Vedi di fartene una ragione e non fare la femminuccia. Sii uomo!"

Hayato sentì un fischio assordante nelle sue orecchie, il cuore si strinse così tanto da farlo soffocare, le lacrime negli occhi di Alfonso le vide solo Bianca.

Ci furono delle urla strazianti, così forti da fare tremare le pareti, Hayato non sapeva di chi fosse quella voce, non sapeva fosse la sua, lui non sentiva niente, era morto in un istante.

Bianca osservò suo padre crollare in ginocchio, cercare disperatamente di accarezzare Hayato che continuava a sgolarsi senza sosta, che aveva iniziato a tremare come una foglia. Ci vollero un medico e un sedativo, quella fu la prima volta che Trident Shamal si occupò di un maschio.

All'alba dei quattro anni Hayato Bianchi aveva accumulato più sofferenza di quanto il suo piccolo corpo potesse contenere.

La sua unica amica era morta e lui aveva trovato conforto solo nei libri, non quelli di studio, ma quelli che raccontavano di mondi bellissimi pieni di avventure e affetto.

Sognava di viverne di simili, ma aveva la sensazione che il suo libro non fosse uno di quelli in cui alla fine c'è scritto "e vissero per sempre felici e contenti."

Lui e Bianca furono separati, routine completamente incompatibili per evitare che incidenti simili si ripetessero.

Gli mancava essere Lavinia, ma ancora di più gli mancava giocare con Bianca e gli mancava ricevere attenzioni.

Andrea, il figlio di Diana, si era preso una brutta influenza quell'estate e con questo erano ufficialmente azzerate le persone che di solito si dedicavano a lui.

Gli uomini di suo padre erano tutti impegnati, le balie oltre che lavarlo, vestirlo, dargli da mangiare non facevano. Hayato voleva conversare, voleva le coccole, un contatto fisico che gli desse sicurezza, ma non c'era niente di tutto questo.

Qualcosa stava cambiando, anche quel compleanno ne era testimonianza. Non aveva ricevuto così tanti regali come al solito, l'atmosfera non era stata così allegra. Le persone non lo rispettavano più? Non lo amavano più?

Non sapeva dirlo, la solitudine crebbe in lui ogni giorno di più andando ad anestetizzare il cuore. Soffiò cinque candeline che era diventato cinico e acido e non aveva più rispetto per nessuno.

Senza sapere né quando né come Hayato iniziò ad arrampicarsi sugli alberi, a parlare con gli scoiattoli e gli uccellini. Sembravano molto più capaci di tenere una conversazione soddisfacente delle persone che lo circondavano.

Passava intere giornate sugli alberi nel frutteto restostante la villa e a nulla valevano le preghiere di Diana perché scendesse.
I gatti randagi che di tanto in tanto venivano a fare visita nel suo giardino si rivelarono amici ancora più interessante, Hayato amava osservarli, studiarne il comportamento e imitarli.

Non gli importava più, Alfonso lo picchiava continuamente sperando che cambiasse atteggiamento che la smettesse di essere così impertinente, ma per Hayato poteva anche ammazzarlo, non aveva più senso vivere senza Lavinia.

Fare saltare i nervi a tutti era il suo passatempo preferito, era così carico di rabbia che il pensiero di mettere ogni persona nella sua stessa situazione mentale gli sapeva di giustizia, di vendetta.

Scoprì presto a furia di scappare dalle eventuali mazzate che gli spettavano di sapersi arrampicare non solo sugli alberi, ma anche sulle grate e sui tetti dei palazzi, la sua villa compresa.

A un certo punto Alfonso convenne che era il caso di lasciare che si sfogasse col pianoforte che aveva sempre tanto amato. Prese questa decisione troppo tardi, Hayato aveva già tentato il suicidio.

Alfonso lo raccolse dal pavimento contro il quale si era schiantato, aveva fatto un volo di tre metri ciò nonostante non gli era andata bene ed era ancora vivo.

"Scusami piccolo mio, perdonami" pianse Alfonso stringendolo appena tra le braccia, le sue ferite erano gravi, la peggiore era il trauma cranico. Non poteva occuparsene un medico qualsiasi. Quella fu la seconda volta che Shamal trattò un maschio.


Le cose avevano ripreso una buona direzione, Hayato era tornato a studiare, a ricevere attenzioni, a suonare il pianoforte e le sue ferite erano quasi del tutto guarite almeno quelle fisiche.

Sua madre, Clara, era una specie di entità mistica che non vedeva mai e quelle rare volte che vedeva si pentiva di averlo fatto. La donna non aveva mai una buona parola per lui mentre Bianca riceveva complimenti anche per quanto fosse brava a respirare.

Era da un po' che si domandava se fosse normale avere un rapporto simile e inesistente con la propria madre.

"Prendi esempio da tua sorella" era la frase preferita di Clara.

Hayato non sapeva davvero in che modo visto che l'ultima volta che aveva preso esempio da Bianca l'aveva pagata cara e amara.

Clara neanche si faceva chiamare "mamma", non da lui. Nacque presto in Hayato la convinzione che Clara lo odiasse e ne ebbe conferma quando un giorno dopo aver rovesciato una tazza di tè sul tappeto persiano in salotto Clara gli disse senza mezzi termini "vorrei che non esistessi".

Hayato passava le notti a piangere, sentendosi solo e abbandonato anche tra le braccia di Diana che canticchiava ninnananne cercando di farlo addormentare senza successo.

Presto si convinse di dover eccellere in tutto così Clara lo avrebbe amato, ma tutti i suoi tentativi avevano come unico risultato un glaciale "Bianca lo sa fare meglio".

Senza rendersene conto iniziò a odiare sua sorella, odiarne la presenza, la voce, tutto. Si chiedeva perché Bianca sì e lui invece che era figlio a propria volta di Clara no.

Pro e contro di essere maschio? A un certo punto si diede questa spiegazione, ma presto finì per domandarsi quali fossero i pro tanto decantati.


Un giorno avvenne una cosa inusuale a villa Bianchi, suo padre lo convocò nel suo ufficio e gli presentò una bambina, aveva dei lunghi riccioli d'oro e gli occhi blu, indossava un vestitino rosa a balze e sembrava uscita da uno di quei libri di fiabe che aveva letto.

Hayato si intimidì, ebbe la tentazione di nascondersi dietro una gamba del padre, ma non lo fece rimase invece in silenzio a fissare la bambina dando di tanto in tanto uno sguardo all'uomo alto che la affiancava.

"Permettimi di presentarti Beatrice Rossi, figlia di Vittorio Rossi, nostro stimatissimo alleato" disse Alfonso.

La bambina fece un elegante inchino al quale Hayato rispose con un leggero cenno della testa.

"Avete la stessa età" spiegò Alfonso cercando di mettere suo figlio a proprio agio.

Hayato annuì, tese una mano e si presentò a propria volta.

"Ha-Hayato Bianchi" disse timidamente.

L'uomo alto accanto alla bambina sorrise ampiamente.

"Devo ammetterlo Alfonso, sono proprio una bella coppia" disse.

Alfonso sorrise fieramente a propria volta, Hayato sentì esplodergli il cervello.

"Coppia?" domandò confuso.

"Sì, io sono tua moglie" disse Beatrice con entusiasmo.

"Un giorno ci sposeremo e avremo trenta bambini."

Hayato rabbrividì, pensava fosse uno strano scherzo di cattivo gusto e impulsivamente si mise a ridere.

"Ah no... dice sul serio?" chiese supplicando con lo sguardo suo padre di smentire la cosa.

Beatrice si lanciò letteralmente su Hayato gettandogli le braccia al collo.

"Perché non dai un bacino alla tua mogliettina?" disse.

Hayato cercò immediatamente di liberarsi da quella presa e iniziò a correre immediatamente, Beatrice lo inseguì.

"Si comportano già come se fossero sposati" commentò Vittorio.

Per fortuna Beatrice era rallentata dall'ingombrante gonna, ma Hayato andò a sbattere contro Diana, la corsa si arrestò e si trovò di nuovo Beatrice addosso.

"Che sta succedendo qui?" chiese Diana guardando le lacrime sul viso di Hayato, era terrorizzato.

"Perché stai piangendo?" chiese.

Hayato tirò su col naso, si dimenò cercando di scollarsi la bambina di dosso.

"Perché ha detto che ci sposeremo" piangnucolò.

"Stai piangendo perché non vuoi sposarla?" domandò Diana con un tono dolce.

"Esatto" rispose Hayato asciugandosi una lacrima.

"Perché no?" proseguì Diana.

In quel momento Beatrice urlò "io ti sposerò, che ti piaccia o meno" e Hayato urlò a propria volta un "no" che veniva dal più profondo della sua anima.

Diana sospirò, divise i due bambini e sorrise a Beatrice.

"È presto per sposarvi, perché non andate a giocare per il momento?" disse.

Non ci volle molto per convincere la figlia dei Rossi e Hayato tirò un sospiro di sollievo. L'idea del matrimonio gli metteva i brividi sempre glieli aveva messi e sempre glieli avrebbe messi.

"Non voglio sposarti" aveva detto Hayato poi di punto in bianco mentre giocavano con le costruzioni.

"Metti che mi stai simpatica poi ci sposiamo e finiamo come i miei genitori che neanche si guardano più in faccia."

Beatrice ascoltò attentamente, una lacrima fugace solcò il suo viso.

"Neanche i miei non si parlano e papà non fa che dirmi che vuole diventi la Madonna dei Bianchi, però io voglio qualcuno che poi mi fa le coccole e non mi fa sentire da sola."

"Anche io..." mormorò Hayato.

Per quanto potesse sembrarlo il matrimonio combinato tra Hayato e Beatrice non era una scusa per avere un campanello Bianchi-Rossi che facesse patriottismo e fosse al contempo motivo di scherno, ma una mossa strategica per consolidare il legame tra le famiglie.

Così come i Bianchi erano esperti di veleni, i Rossi erano esportatori di armi. Con questa unione il prestigio delle famiglie sarebbe aumentato al punto tale da rappresentare un pericolo per le famiglie in assoluto più potenti esterne all'alleanza.

Ben presto però Hayato e Beatrice si resero conto di non sopportarsi, Beatrice lo reputava noioso e Hayato superficiale. Non c'erano punti di contatto tra loro se non la sofferenza che dava una famiglia in cui c'era un clima teso animato da urla e indifferenza.

Non si sviluppò mai neanche un'amicizia tra loro anzi, Hayato le insegnò come importunare la servitù costruendo dei piccoli petardi e Vittorio ritirò l'accordo dicendo che l'erede dei Bianchi aveva una pessima influenza su sua figlia. L'alleanza saltò e Hayato non rivide mai più Beatrice. Fu sollevato al pensiero di non doversi sposare, rimpianse quasi di averlo pensato quando suo padre decise che stavolta andava punito a frustrate sulle mani. Non poté suonare il piano per un mese intero.


Doveva ammetterlo, Beatrice gli mancava ed era stanco di sentirsi solo e sfruttato da suo padre che lo trattava da schifo quasi tutti i giorni eccezione fatta per quando doveva esibirsi nelle serate sfarzose che ancora venivano organizzate e allora magicamente diventava il suo prezioso Hayato.

Le cose cambiarono radicalmente quando a palazzo venne assunto un uomo come dottore ufficiale. Un tipo interessante dal fascino misterioso e un po' oscuro. Hayato si ritrovò a spiarlo e un giorno si mise persino a curiosare tra le sue cose.

"Ma tu guarda se un mocioso come te deve ficcare il naso nelle cose dei grandi" disse il medico, si sistemò il camice e gli strappò dalle mani la rivista pornografica.

"Come osi parlarmi in questo modo?" domandò Hayato indignato. Escludendo suo padre e sua madre tutti gli si rivolgevano con grande rispetto, come se fosse un onore anche solo poter ricevere la sua attenzione.

"Tu non sai chi sono io. Io sono Hayato Bianchi, figlio di Alfonso Bianchi, futuro Decimo boss dei Bianchi" disse fieramente.

"E io sono quello che ti ha salvato il culo più di una volta, vostra altezza" disse il medico con un tono impertinente e ironico.

Hayato sorrise istintivamente, era sorpreso di aver trovato qualcuno che gli tenesse testa.

"Che intendi?" chiese.

"Voglio dire che sua grazia è stato curato da me medesimo sia quando ha avuto una crisi isterica che quando si è lanciato dal tetto credendo non so forse di poter volare per poi scoprire che la gravità è valida persino per lui."

Hayato avrebbe dovuto sentirsi offeso, invece si sentiva molto emozionato e propenso a proseguire.

"Oltre a essere uno stronzo hai anche un nome?" chiese.

"Trident Shamal, al vostro servizio, canaglia" rispose il medico abbozzando un sorriso.

"Sei al mio servizio?" chiese Hayato curioso.

"Ti piacerebbe" ribatté prontamente Shamal.

"Non sono proprio al servizio di nessuno. Curo le donne bellissime e solo con te ho fatto eccezione..."

Hayato annuì, gli sorrise nuovamente e si allontanò.

"Aspettati di ritrovarmi attorno, dottore stronzo" disse.

"Non pensare che diventerò il tuo babysitter, Hayato, figlio di nessuno e boss proprio di nulla allo stato attuale" ribatté Shamal salutandolo con la mano.

Esattamente come aveva detto Hayato aveva fatto e in breve tempo si era messo a seguire Shamal in ogni dove. Dopo aver recitato per un po' la parte di quello infastidito Shamal aveva ceduto e lo aveva accolto sotto la sua ala. Passavano molto tempo insieme durante il quale Shamal gli raccontava della sua incredibile vita. Non passò molto prima che la copertura da medico saltasse e Shamal rivelasse di essere un assassino professionista di prima categoria.

Hayato rimase stregato da quella confessione e volle saperne sempre di più perché Shamal era semplicemente "un figo."
Gli piaceva così tanto che voleva assomigliare a lui, così tanto che voleva stare sempre con lui così tanto che la prima volta che lo vide baciarsi con Elisa, una delle sue balie pianse lacrime amare e si ritrovò a cancellare con la punta delle chiavi quel "Hayato e Shamal" che aveva inciso sul muro proprio accanto al suo letto.

Che schifo l'amore, era solo un nome diverso da dare alla sofferenza.

Gli ci volle un po' di tempo per riprendersi, ma quando lo fece e accettò di non essere ricambiato decise di trasformarsi in Shamal, visto che era l'unico modo in cui potesse averlo.

Iniziò col taglio di capelli, proseguì con la camminata, l'abbigliamento.

Al suo sesto compleanno chiese di poter passare una giornata da solo con quel dottore al posto di quelle fottute feste inutili. Era nato in lui il desiderio di opporsi a quelli che erano i programmi del padre. Altro che un patetico boss che stava tutto il giorno in un ufficio del cazzo a firmare scartoffie, lui voleva essere un cazzutissimo assassino indipendente, temuto da tutti. Era l'unico modo per fare il cazzo che ti pare nel mondo della mafia.

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Capitolo 6
*** Quale mondo? ***


Il compleanno trascorso con Shamal sembrò uno dei più fighi del secolo dall'instante in cui lo venne a prendere con una Cadillac rossa del '70 fino a quando non rientrarono al castello verso le undici di sera.

Shamal aveva deciso di andare in spiaggia perché quel giorno si teneva un concorso molto simile a "miss maglietta bagnata" e non voleva perderselo.

La spiaggia di Mondello già normalmente piena non era mai stata così gremita di gente. Shamal prenotò un ombrellone in prima fila con relativi lettini per godersi lo spettacolo. Si premurò che Hayato rimanesse all'ombra per tutta la durata dello show invitandolo continuamente a spostare il lettino seguendo la direzione del sole.

Giovani ventenni si alternarono mostrando i loro fisici abbronzati e formosi, nudi se non per i due pezzi di stoffa che costituivano i bikini.

Shamal aveva l'acquolina in bocca, ma non era l'unico, uomini di tutte le età non facevano che urlare e fischiare, facendo apprezzamenti volgari.

Hayato non era sicuro di essere interessato alla sfilata, più che altro lo affascinava il modo in cui le ragazze riuscivano a camminare sulla sabbia senza perdere il portamento. Inoltre l'aria era così tersa e il castello talmente lontano che si sentiva leggero.

Shamal iniziò a urlare il nome di una brunetta con un davanzale da paura quando il presentatore annunciò che era giunto il momento di votare, Hayato ricercò tra le concorrenti se ce ne fosse qualcuna che assomigliasse anche solo vagamente a Lavinia, ma la sua amica era unica al mondo e lui lo sapeva.

Quel giorno scoprì che le donne hanno un debole per i padri single, cosa che Shamal assolutamente non era, ma che Hayato era stato più che felice di far passare per tale. Per un attimo si era domandato se non avesse accettato di passare la giornata con lui solo con quel secondo fine, ma si era dovuto ricredere quando Shamal gli aveva sorriso e senza il suo solito atteggiamento spavaldo aveva detto "ti voglio bene, sai?" per poi scompigliare i suoi capelli con una mano.

Forse era stato questo il momento più elevato della giornata, più ancora di quando al ristorante avevano condiviso un piatto di pasta e vongole, più ancora di tutte le scuse che aveva avuto per reclamare contatto fisico, più delle storie assurde che avevano entrambi inventato circa la morte prematura della mamma di Hayato.

Per un attimo si fermò a pensare che era proprio così che aveva sempre desiderato che fosse il suo rapporto con Alfonso, risate, affetto, ma soprattutto complicità e dialogo.

Shamal gli aveva raccontato tutto circa le sue tecniche, specialmente la trident mosquito, Hayato non le aveva mai viste in azione, ma era sicuro che fosse uno spettacolo.

Non si badò a spese quel giorno: non avendogli fatto un regalo Shamal comprò qualsiasi cosa Hayato manifestasse il desiderio di avere, da un tranquillissimo gelato alla vaniglia fino a una riproduzione fedele del sistema solare in miniatura.

Al fianco di Shamal sentiva davvero di essere qualcuno, qualcuno che persone pagherebbero per essere, una specie di celebrità, qualcosa che lo faceva finalmente sentire come se in fondo un valore ce lo avesse.

Shamal lo lasciò davanti alla sua stanza nel castello e non attese che entrasse prima di andarsene. Hayato realizzò che il sogno era finito e che l'indomani si sarebbe risvegliato tra quelle fredde mura e sarebbe anche stato costretto a suonare per un altro di quei maledettissimi gran balli.


Quel piano che gli aveva sempre dato conforto stava iniziando a odiarlo costretto a esibirsi per non si capiva bene quale altra ragione se non gonfiare l'ego di suo padre che reclamava i meriti del suo talento.

Lo guardò, nero lucido, più grande di come lo ricordava e al contempo più piccolo. Nessuno lo stava guardando, né Alfonso, né Clara, né qualunque altro adulto presente. La maggior parte degli invitati erano seduti a tavola e stavano consumando la cena, altri erano in piedi a sorseggiare dai calici del buon vino.
Come al solito lui e Bianca erano gli unici bambini in tutta la sala.

Lo sguardo si spense, una tristezza vuota si impadronì di lui: che cosa lo fermava dall'andarsene da quella stanza e raggiungere Shamal nella sua?

"Il mio prezioso Hayato", ecco cosa lo fermava. Quell'adulazione, tutti i complimenti che riceveva dopo ogni esibizione da parte di suo padre, l'affetto che era finalmente riuscito a comprare e di cui suo malgrado non poteva fare a meno.

Avrebbe voluto un amore costante e non che dovesse guadagnarsi con la sua condotta, tuttavia consapevole o meno che fosse, Alfonso aveva trovato il modo di manipolarlo e Hayato non riusciva a prendere delle forbici per tagliare i fili attaccati al suo cuore che vedeva tanto lucidamente.

Fu in quel momento che Bianca gli venne vicino, teneva tra le mani una teglia di biscotti che cercava di mantenere a distanza dal vestitino nero che ricordava quello di Mercoledì Addams.

"Ho fatto questi per te, mangiali" disse con un sorriso gentile.

Il loro rapporto aveva subito molte botte ciò nonostante entrambi erano pienamente intenzionati a recuperare superando i propri limiti, quel gesto di Bianca ne fu la conferma.

"Grazie" disse Hayato con entusiasmo, immediatamente gli tornò il sorriso.

"Li ho fatti con ingredienti sicuri, ho chiesto a Diana prima di mettermi a cucinare. Spero ti piacciano" spiegò Bianca, Hayato si soffermò per un istante a constatare quanto fosse cresciuta, cominciava a somigliare a tutte quelle donne che aveva visto in spiaggia il giorno prima a causa di quel leggero accenno di seno.

Assaggiò incuriosito e masticò piano, l'aspetto non era dei migliori, ma nella sua vita aveva conosciuto un tipo di biscotti chiamati "brutti, ma buoni" che erano a dir poco deliziosi e non era solito giudicare un libro dalla copertina.

La sua espressione distesa, passò per un frangente di secondo nella perplessità e poi si tramutò in disgusto. Era uno di quei casi in cui è esattamente come sembra.

I biscotti erano viola, sembravano avere degli strani vermicelli di gelatina sopra ed emanavano un fumo nero.

Gli occhi di Bianca brillarono, era talmente fiera della sua opera che Hayato non se la sentì di sputare e suo malgrado mandò giù il boccone.

La sua performance stava per iniziare, ma Hayato sentiva un crescente senso di nausea e si domandava cosa sarebbe successo se avesse vomitato davanti a tutti in modo così plateale. Percepiva come se gli avessero dato un pugno nello stomaco, lo avessero aperto a metà e vi avessero poi fatto un nodo attorcigliandolo su se stesso.

Le vertigini accompagnavano il tutto. Forse si sbagliava, forse non era vero che un biscotto dal brutto sapore non aveva mai ucciso nessuno.

La sua vista si stava annebbiando, il respiro accorciando. Si ritrovò ad aprire la bocca sentendo la saliva condensarsi e poi scivolare verso un lato.

Suo padre dovette pensare che stesse inscenando qualcosa dal momento che lo presentò e lo costrinse anche a suonare.

Più che accarezzarli ad Hayato sembrò di aver picchiato i tasti, premendoli a casaccio visto che non riusciva a vederli, né a dosare la forza impressa nelle dita. Voleva solo che finisse alla svelta così da poter andare da Shamal e farsi curare, se non altro aveva una buona scusa per vederlo.

Decise lui quando smettere di suonare e si domandò quanto sarebbe rimasto deluso suo padre, quanti insulti si sarebbe beccato, quante risatine odiose e quanto avrebbe bucato il suo ego mostrandolo nella sua fragilità.

Affatto, un applauso si levò e alcuni critici venuti per l'occasione definirono Hayato un genio, un visionario e gli offrirono di incidere un disco con quella sua composizione.

Alfonso estasiato chiese pubblicamente quale fosse il segreto per una simile esibizione e Bianca dichiarò prendendo il microfono che era merito dei suoi biscotti, fatti con tanto amore per il suo fratellino.

Hayato diede una testata contro il pianoforte quando sentì suo padre dire "Benissimo Bianca, voglio che glieli prepari sempre, prima di ogni esibizione."

Fu ignorato nella confusione generale e lo fu anche quando barcollando si avvicinò a suo padre per chiedergli di fargli tutto ma non questo.

"Oh Hayato, sei un lenzuolo, ti mando da Shamal" disse Alfonso come se la cosa non fosse assolutamente di sua competenza, lo scortò personalmente.

Hayato attese che suo padre se ne andasse per parlare con Shamal e dirgli cosa fosse successo. Il medico iniziò immediatamente a esaminarlo e quando decretò la diagnosi rabbrividì, i suoi occhi fieri lo tradirono e Hayato vi lesse paura.

"È cianuro..." mormorò Shamal, prese un macchinario, da Hayato non meglio identificato, di fretta e furia.

Fece distendere Hayato sul lettino posizionandolo sul decubito laterale sinistro, si avvalse della sonda oro-gastrica piccolissima per effettuare il processo.

Disse a Hayato di aprire la bocca conscio che ogni secondo di ritardo potesse essere fatale e senza dare spiegazione alcuna iniziò a utilizzare quello strano macchinario che diede al piccolo un senso di rigetto.

Osservò tremante l'acqua che veniva iniettata in quel tubo piccolo che doveva essere arrivato in profondità dentro di lui, sentiva il cuore battere così forte ed era sicuro di stare per perdere coscienza.

Shamal gli diede uno schiaffo in faccia, Hayato ci vide meglio improvvisamente.

"Tu non muori, hai capito?!" urlò Shamal, continuò a effettuare la lavanda gastrica finché non riuscì a ripulire tutto l'apparato gastro-intestinale.

Quando lo liberò da quello strano apparecchio Shamal gli porse una bustina e gli disse "mangia!".

Era carbone vegetale attivo, una sostanza assorbente che lo avrebbe protetto da eventuali residui di veleno.

Quando il pericolo poté dirsi scampato Shamal tirò un sospiro di sollievo e si permise di abbracciare il piccolo.

"Non posso credere che abbiano provato ad avvelenarti" mormorò.

Hayato tremando ricambiò l'abbraccio, non aveva nemmeno la forza di piangere. Cercò di convincersi che non fossero stati i biscotti di sua sorella, che ci fosse stato altro, ma la conferma divenne evidente quando Shamal parlò nuovamente.

"Eppure è strano sai? Col cianuro si muore immediatamente, invece dalle analisi che ho fatto è risultato che è passata più di un'ora da quando lo hai ingerito."

Hayato non disse niente.

"Voglio controllare una cosa" sottolineò Shamal, gli tolse la giacca e sbottonò la camicia scoprendo tutta la zona addominale. Prese poi del liquido non meglio identificato e un altro apparecchio assolutamente sconosciuto ad Hayato.

"È proprio come pensavo... allora è vero..." mormorò Shamal.

"Lo vuoi dire anche a me, che dici?" incalzò Hayato con un tono talmente avvelenato che rispecchiava la situazione.

Shamal guardò il monitor con sommo sgomento.

"Il tuo stomaco è intatto, non presenza neanche la minima lesione" spiegò.

"La mia voglia di vomitare non è d'accordo" ribatté Hayato.

Shamal sorrise appena, gli fece una carezza sul viso.

"La tua famiglia, la tua famiglia è conosciuta per avere una straordinaria resistenza ai veleni. Per questa ragione è così temuta in tutto il mondo della mafia. Si dice che il tuo trisavolo mangiasse I biscotti inzuppati nell'acqua tofana per colazione."

Hayato ascoltò attentamente la spiegazione, messa in questi termini aveva senso e non poteva neanche davvero dispiacersi per ciò che Bianca aveva fatto. Non era un tentato omicidio, ma solo una prova, una specie di battesimo probabilmente che bisognava ricevere al sesto anno. Per questo Alfonso non era spaventato.

"Allora non mi odiano..." mormorò Hayato tirando un sospiro di sollievo.

"Però io sono stato di merda... e se non lo avessi ereditato? O se lo avessi ereditato solo in parte?" tremò.

"Sta tranquillo, forse ci sarà bisogno di allenamento, ma nelle tue vene scorre il sangue di Alfonso Bianchi quindi anche la sua resistenza al veleno."

Hayato si convinse, ma questo non rese meno dolorose tutte le altre performance anticipate da una scorpacciata di biscotti avvelenati.

Bianca non gli dava tregua e Hayato finì per odiarla davvero al punto tale che solo guardarla in faccia gli faceva venire i conati vomito, al punto tale che qualche volta svenne solo per averla incontrata in corridoio.

Bianca dal canto suo stava diventando una signorina e aveva letto da qualche parte che gli odori della pubertà di una femmina avevano uno strano effetto sui maschi più piccoli o della sua età e attribuiva a questo le bizzarre reazioni di Hayato dalle quali si sentiva paradossalmente lusingata.

Il mondo della ricerca del partito perfetto assieme alla sua crescente consapevolezza in fatto di veleni la spinse improvvisamente a togliersi i panni della futura mogliettina perfetta.

"Padre, io voglio essere un'assassina, voglio sposare l'assassino professionista migliore al mondo ed essere conosciuta in tutto il mondo come la temibile Alessandra" dichiarò a tavola una sera di punto in bianco.

Hayato sgranò gli occhi, ma non osò alzarli dal piatto per paura di vomitarci il contenuto appena ingerito dentro una volta incrociato lo sguardo della sorella.

"Perché Alessandra?" domandò Alfonso.

"È tutto quello che hai da dire?" urlò Clara.

"Tua figlia, la tua unica bambina, ti dice che vuole diventare un'assassina e tu le chiedi perché ha scelto quel nome. Roba da non crederci."

Clara si pulì la bocca con un tovagliolo e sorrise come Bianca non le aveva mai visto fare prima.

"Così si fa, figlia mia, hai reso la tua mamma orgogliosa. È ora che gliela facciamo vedere a questi uomini chi siamo. Finora siamo rimaste in panchina, ma adesso cambierà tutto. Mia figlia Alessandra sarà la migliore assassina in circolazione e nessuno oserà mai più guardarla solo come una casalinga."

Alfonso non riuscì a opporsi, non ci riusciva mai quando si trattava di Clara e del suo volere. Complice la diagnosi di schizofrenia, era semplicemente impossibile per lui contraddire la moglie.

Bianca sorrise a propria volta, non ebbe cuore di dire a sua madre che aveva scelto quel nome proprio per il significato opposto. Aveva capito che gli uomini della sua famiglia erano molto più deboli di lei e voleva proteggerli.

"Da domani ti farò allenare dai più rinomati al mondo. Chiamerò la famiglia Vongola e chiederò i tutor professionisti migliori che hanno da offrire" disse Alfonso in un certo qual modo fiero della forza d'animo della sua bambina.

"P-Padre..." tentennò Hayato.

"Vo-Vorrei diventare un assassino anche io" disse.

Clara sbatté ambo le mani sul tavolo facendo tremare i bicchieri.

"Smettila di imitare Bianca, cazzo!" urlò.

Alfonso sospirò, cercò di placare la furia di Clara con della parole gentili.

"È ancora piccolo, è normale che voglia imitare i grandi."

Hayato sbottò.

"Mamma, ma ti vuoi decidere? Bianca lo fa meglio e devo prendere esempio da lei, ma quando ci provo mi scusi di imitarla. Che cazzo vuoi da me?!" urlò a propria volta.

Clara tremò, divenne un cencio.

"Porta quell'essere lontano da me" strillò indicando Hayato come se fosse un topo.

"Fallo sparire" rincarò la dose.

Hayato scoppiò in lacrime, si allontanò con passo spedito.

"Tolgo il disturbo" disse.

Alfonso lo rincorse, lo fermò fuori dal corridoio, si abbassò e gli accarezzò le spalle.

"Tua madre non dice sul serio..." disse.

"Come no..." ribatté Hayato asciugandosi le lacrime con i pugni.

"Per me va bene che tu voglia essere un assassino, un bravo boss deve sapere anche quando è il caso di uccidere" spiegò Alfonso benevolo.

"Io non voglio essere il boss di questa famiglia, padre. Voglio diventare un assassino indipendente, voglio essere come Shamal."

Alfonso fu sicuro che le sue mani prudessero e sentì il bisogno di grattarsi nervosamente in viso.

"Zitto Hayato, tu sarai il Decimo Boss di questa famiglia, che ti piaccia o meno. Shamal è un perdente, un pervertito che va dietro alle gonne e l'unica ragione reale per cui ho accettato che venisse qui è perché Lavinia avrebbe voluto così..." Hayato lo interruppe.

"Che c'entra Lavinia con Shamal?" domandò confuso.

Alfonso sospirò, si massaggiò le tempie.

"Anche Shamal le voleva bene, erano amici. Sono cresciuti insieme...sì, bravo adesso va pure da Shamal a farti raccontare di Lavinia..." sbraitò Alfonso.

"Almeno lui mi risponde, almeno lui si comporta come se fosse realmente mio padre a differenza tua, Alfonso."

Hayato si allontanò, il boss della famiglia Bianchi non ebbe cuore di fermarlo, non riuscì neanche a proferire parola.

"Scelgo io che cosa voglio essere. Trovati un altro erede."

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Capitolo 7
*** Non quel mondo ***


Hayato era abituato a stare attorno a Shamal, ciò nonostante quella sera quando bussò alla porta della sua stanza, che era di fatto un piccolo appartamento con tanto di spazio per tutto l'occorrente per svolgere la sua professione, si sentì in difficoltà.

Una parte di lui voleva sapere di più su Lavinia, un'altra aveva paura di chiedere.

Shamal aprì la porta, lo invitò a entrare, fece finta di non vedere gli occhi lucidi solo per non metterlo a disagio.

"Ci spariamo un film?" chiese cercando di alleggerire l'atmosfera.

"No, voglio che mi insegni a sparare, alle persone" rispose Hayato cupo.

Shamal diventò di ghiaccio guardò il bambino come se fosse impazzito e poi lo prese per le spalle.

"Da dove esce questa richiesta?" disse indispettito senza perdere all'apparenza il suo atteggiamento spavaldo perché Hayato sapeva come giocare con i punti deboli suo malgrado.

"Voglio diventare un assassino, uno di quelli indipendenti, proprio come te. Alfonso vuole che io prenda in mano la famiglia alla sua morte. Mai desiderato così tanto che qualcuno fosse immortale..." spiegò Hayato.

Shamal sospirò, si massaggiò la testa, rilassò le spalle.

"Va bene, posso insegnarti a sparare. Le pistole sono superate, ma non esiste assassino degno del titolo che non abbia una buona mira."

Hayato sorrise, pensava che da quella risposta sarebbe derivata una gioia immensa quindi non si spiegava davvero perché continuasse a sentirsi come se lo avessero svuotato e lui non fosse che un guscio. Poi si rese conto che stava ritardando un momento inevitabile in cui avrebbe chiesto ciò che voleva sapere nonostante temesse di scoppiare in lacrime solo per aver domandato.

"Alfonso ha detto che tu... che insomma... che tu... tu... conoscevi... La-Lavinia..." disse, come previsto il suo tono si incrinò fino a spezzarsi. Hayato strizzò gli occhi, strinse i pugni e lasciò andare le lacrime.

"Ah sì, certo. Eravamo vicini di casa quando avevo più o meno la tua età" rispose Shamal senza mostrare la minima emozione.

"Voglio... voglio che mi dici tutto ciò che sai su di lei. Lei... lei è... lei era... la mia amica...non le ho potuto dire addio e mi manca moltissimo..."

Shamal accennò un sorriso amaro lasciò che Hayato si sfogasse facendogli nascondere il viso contro il suo petto.

"Ti racconterò tutto ciò che vorrai sapere su Lavinia" disse.

Così attraverso le parole di Shamal Hayato la vide rinascere. Non riuscì a reperire molte informazioni sensibili se non alcune appena accennate come il fatto che fosse di origini giapponesi. Per il resto si parlò del suo colore preferito, il bianco, del cibo che amava di più al mondo, le trofie al pesto, di quando aveva iniziato a studiare pianoforte, tre anni, del fatto che era gravemente malata dall'età di quindici e il cielo le aveva già concesso più vita di quanta non promettesse di portarle via.

Dopo quella sera Hayato percepì una nuova connessione con Lavinia, una molto più forte che andava ben oltre l'affetto e l'intesa musicale.

"Se ne è andata senza soffrire almeno?" fu la sua ultima domanda, convenne con se stesso che onde evitare di mettere sale sulla ferita non avrebbe mai più parlato di Lavinia finché i punti di sutura non si fossero riassorbiti rimettendo insieme i pezzi del suo cuore.

"Non lo so, Hayato" mormorò Shamal.

"Non ho capito la dinamica dell'incidente, ma una cosa posso garantirtela: pochi giorni prima del tuo terzo compleanno ci siamo visti e lei mi ha detto che non è mai stata così felice in tutta la sua vita come lo era al tuo fianco."

Hayato sentì le lacrime graffiargli il viso, il cuore pesante improvvisamente si era rimesso insieme, sorrise senza opporre resistenza all'emozione.

"Si sentiva come me..." sussurrò a se stesso come se stesse confidando un segreto.


Hayato era arrivato per miracolo a compiere sette anni senza mai aver davvero assistito a una sparatoria, mai a un combattimento. Ne aveva solo sentito parlare, le aveva viste nei film e sapeva che succedevano molto vicino a lui, ma non vi aveva mai assistito.

Durante una di quelle maledettissime serate vide per la prima volta qualcuno sparare e poi divenne un insieme confuso di proiettili che rimbalzavano a destra e a manca.

Alfonso gli si parò davanti lo nascose dietro il suo mantello e con un sorriso, in totale contraddizione col fatto che non si rivolgevano la parola da due settimane, gli sussurrò cosa fare per portarsi in salvo.

In quel momento assistette a qualcosa di inimmaginabile: Bianca, vestita con una canotta aderente verde militare e dei jeans a vita bassa che lasciavano intravedere l'ombelico, si lanciò all'attacco dei uomini che avevano impugnato pistole e mitragliatrici.

Alfonso urlò e cercò di fermarla, non riuscì a muoversi preso completamente alla sprovvista.

Bianca aveva da poco iniziato il suo allenamento con un famoso nome nel mondo della mafia, un nome che Hayato non si era premurato di appuntarsi e che di certo non si sarebbe ricordato in un momento simile.

Osservò sua sorella far roteare per aria della pasta per pizza dal colore violaceo, lo vide diventare talmente sottile da essere più affilata di un bisturi. Respinse il conato di vomito che era nato a quella vista e osservò il movimento rotatorio squarciare uno dei preziosi quadri appesi al muro.

"Poison cooking" urlò Bianca e lanciò quella pasta per pizza contro un gruppo di uomini che in un attimo cessarono di parlare. Preparò immediatamente un'altra porzione e stavolta la utilizzò come se fosse una smerigliatrice. Di quei mafiosi rimanevano solo pezzi di carne staccati tra loro con abbondante sangue che cercava di ricollegarli.

Bianca non aveva fatto tutto da sola, gli uomini più fidati di Alfonso si erano subito messi all'opera, ma tutti concordavano nell'affermare che Bianca aveva fatto la differenza.

Alfonso si congratulò, cerco di evitare di guardare troppo la carneficina che c'era stata. Hayato si era istintivamente rifuggiato sotto il pianoforte credendo che lo avrebbe protetto, il mantello di Alfonso aveva coperto in parte la sua visuale fino a quel momento.

Hayato dovette mettersi una mano sulla bocca per non vomitare all'istante davanti a quell'atroce spettacolo e si domandò perché sua sorella a soli dieci anni invece sfilasse tra i pezzi di carne con un portamento regale, imperturbabile.

"Padre, avete visto?! Li ho uccisi tutti, li ho uccisi subito!" esultò Bianca come se stesse parlando di aver comprato la bambola più bella nel negozio.

"Sei tagliata per questo mondo, Alessandra" convenne Alfonso stringendole la mano.

Hayato guardò la scena inorridito, i membri della sua famiglia avevano qualche rotella mancante, non c'era altra spiegazione.

"Padre, ho scoperto che ho il potere di avvelenare qualsiasi cosa io cucini. Non è grandioso?" proseguì Bianca confermando ciò che Hayato aveva iniziato a pensare da un po'.

"Grandioso, tesoro. Sei l'orgoglio della famiglia."

Bianca spiegò poi che lei poteva mangiare ciò che cucinava e che lo trovava delizioso, inoltre raccontò di essere convinta che quando cucinava con amore il veleno non aveva effetto e il cibo era del tutto normale.

"Con un potere simile il mondo intero tremerà solo a sentire il mio nome" disse Bianca fieramente.

Nessuno osò opporsi e tutti i presenti si inginocchiarono riconoscendo la superiorità della bambina.

Hayato era confuso, rientrando nella sua stanza si domandava se non si fosse perso qualche particolare per strada tipo che essere un assassino significava veramente uccidere le persone.

Non gli piaceva l'idea, almeno non così. Era vero che Bianca li aveva protetti da una minaccia, ma che bisogno c'era di sbudellarli? Hayato dovette di nuovo coprire la bocca per scacciare il senso di rigetto al solo pensiero.


Qualche mese più tardi Hayato spense nuovamente le candeline e gli parve di non essere mai stato più stanco. Era tutto confuso attorno a lui e anche dentro.

Bianca diventava più pericolosa ogni giorno che passava mentre Hayato si interrogava su come diventare un assassino senza uccidere le persone. Non aveva senso, ma gli sembrava sbagliato.

Divenne chiaro che in quel mondo era solo una gara a chi uccide prima l'altro quando venne a sapere che alcuni uomini di suo padre erano stati messi fuori combattimento da una famiglia nemica di cui ovviamente non gli era dato sapere il nome perché come al solito non gli dicevano mai un cazzo.

Una nota positiva però c'era: Shamal aveva iniziato ad allenarlo offrendosi come suo mentore. Nel giro di un anno gli aveva insegnato a sparare, a picchiare, a riconoscere tutti i veleni conosciuti alla sola presenza nell'aria e a piegare la carta per fare degli aereoplanini. Su quest'ultimo punto Hayato doveva ammettere di sentirsi confuso, ma, un po' come aveva visto in Karate Kid, sperava in un risvolto emozionante.

Hayato era affacciato all'ampio balcone della sua stanza, teneva tra le mani tre origamk di un aeroplano, Shamal al suo fianco aveva lo sguardo perso verso l'orizzonte.

"Hey, Dottor Shamal" mugolò.

"Questi giochetti per bambini sono noiosi" sbuffò, appoggiò ambo le braccia sul davanzale in marmo e si inserì il mento nascondendo così la bocca alla visuale.

Ci aveva pensato a lungo e alla fine era giunto alla conclusione che l'unico modo per uccidere le persone senza provare sensi di colpa era proprio quello di Shamal.

"Insegnami la tecnica del Trident Mosquito" insistette.

Shamal sospirò, si appoggiò a propria volta con la schiena al parapetto.

"Santo cielo, che ragazzino problematico. Prima copi il mio taglio di capelli e adesso mi vuoi fregare anche la tecnica per uccidere" disse.

Hayato annuì senza vergogna e stava per ribattere quando vide Shamal estrarre da chissà dove tre candelotti di dinamite.

"Sarebbe meglio se usassi queste" disse fieramente.

Hayato sobbalzò, studiò per un istante gli oggetti tra le mani di Shamal.

"Bombe?" domandò perplesso, saltò seduto sul bordo del parapetto e fece dondolare le gambe dal lato del pavimento.

"Il nemico scapperà prima ancora che io possa accenderle. Sono troppo lente!" protestò.

Shamal scosse la testa, guardò verso il cielo come se stesse ricercando qualcosa.

"Cristo, i bambini proprio non capiscono quanto virile possa essere un attacco di supporto a medio raggio. Ora ti faccio vedere quanto sono lente..." disse sottolineando in maniera ironica l'ultima parola.

Hayato lo guardò incuriosito, ma anche spaesato. Cosa poteva esserci di tanto figo in un'arma simile?

"Lancia quegli aeroplanini, dai a ognuno una direzione diversa. Li colpirò tutti insieme prima che tu possa vederli prendere la traiettoria data" disse Shamal, il suo tono era carico di convinzione.

Tra le varie materie che aveva studiato Hayato c'era anche la fisica e questo lo portò a tramutare l'espressione spaesata in una scettica e carica di fastidio.

"È impossibile" stabilì.

Shamal si voltò verso il davanzale, osservò per un istante la campagna dei Bianchi che si estendeva per troppi ettari e poi rivolse lo sguardo ad Hayato.

"Guardami" disse prima di fare un occhiolino.

Hayato la prese come una sfida, mise un piede sul parapetto per darsi più slancio e fece del suo meglio perché fossero tutti lontani e in posizioni diametralmente opposte.

Shamal sorrise, mosse una mano davanti alla propria faccia e in un attimo Hayato sentì tre esplosioni alternate da frazioni di secondo di silenzio.

Guardò verso il basso e vide che gli aeroplani erano stati carbonizzati, i suoi occhi brillarono intensamente e la speranza risvegliò il suo cuore riempiendolo nuovamente.

"P-Pazzesco..." mormorò cercando di mantenersi la mandibola.

"Non sottovalutare le armi che permettono attacchi a distanza, Hayato. Sono perfette quando non vuoi sporcarti le mani. Puoi programmarle come trappole e andartene prima di poter sentire le urla del tuo nemico. Moriranno senza sapere che cosa li ha colpiti."

Hayato sorrise come non aveva mai fatto prima, il suo cuore batteva così forte, ma non per sofferenza, non per paura, per quell'entusiasmo che era morto tempo addietro.

"Come hai fatto? Insegnami!" disse Hayato saltellandogli intorno, per un attimo sentì davvero di essere solo un bambino di sette anni.

"Non posso insegnartelo, in questo mondo sopravvive solo chi trova da sé le risposte, ma per il momento posso spiegarti come funzionano gli attacchi a distanza" disse Shamal con un sorriso fiero.


Nonostante Hayato avesse manifestato altre intenzioni Alfonso insistette perché iniziasse la sua formazione da boss quindi gli vennero date nozioni giuridiche e approfondimenti circa il codice della mafia.

Ogni informazione reperita la usò a suo vantaggio per diventare più simile a quell'assassino che vedeva nei propri sogni e le sera nelle costellazioni, guardando il cielo stellato, così luminoso a differenza della sua vita.

Un giorno decise di sperimentare lanciando la dinamite contro i figli delle balie che giocavano in giardino. Sentì l'esplosione e si fece una grossa risata finché alle sue orecchie non arrivarono dei lamenti disperati.

Con orrore vide Andrea a terra e andò immediatamente a soccorrerlo. Quello fu il momento in cui si rese conto davvero che la dinamite non era come quei piccoli petardi che aveva imparato a costruire e che poteva fare veramente male.

"Perdonami, perdonami. Era uno scherzo, volevo solo giocare" mormorò con le lacrime agli occhi, aiutò Andrea ad alzarsi mentre le mani gli tremavano.

Pensare che aveva scelto dei candelotti piccolissimi, proprio per evitare che succedessero cose come quelle eppure Andrea, il figlio di Diana aveva perso due dita alla mano destra.

Hayato strappò un pezzo della sua camicia e lo usò come fascia per fermare l'emorragia e chiamò disperatamente aiuto mentre gli altri bambini assistevano inorriditi.

Diana si precipitò lì dove aveva sentito le voci dei suoi due bambini e quasi perse i sensi davanti a quella scena. Andrea era talmente sotto shock da non riuscire a dire una sola parola.

L'ambulanza arrivò solo mezz'ora dopo.

I bambini parlarono forte e chiaro, dicendogli le peggiori cattiverie lo accusarono di aver provato a uccidere Andrea.

Diana dovette chiederlo a sera tardi quando rientrò dall'ospedale con la consapevolezza che suo figlio non avrebbe mai più potuto scrivere normalmente con quella mano.

"Hayato, sei davvero stato tu?"

E Hayato dovette ammetterlo e rompere con l'unica persona che per lui c'era sempre stata.

"È stato un incidente, volevo solo giocare" cercò di spiegare disperatamente, ma Diana era ormai irraggiungibile.

Hayato cadde sulle ginocchia e la guardò mentre usciva per sempre dalla sua vita, strinse la testa tra le mani e si odiò per essere stato così stupido.


Gli fu affidata una nuova balia, Elisa, una delle più giovani al castello ed ex di Shamal, non che contasse qualcosa visto che il dottore cambiava fidanzata come cambiava le mutande. Hayato aveva scoperto di essere stato preso per il culo alla grande solo quando facendo due calcoli era arrivato alla conclusione che Shamal non potesse avere più di 62 sorelle.

Elisa era molto dolce, forse anche troppo, eccessivamente fisica per un bambino abituato alla negazione affettiva.

Gli ci volle quasi un anno intero per abituarsi a quella nuova dinamica nella sua vita anche perché Elisa a differenza di Diana gli dava sempre ragione, cosa che onestamente Hayato non sopportava.

Si odiava, era furioso e questo lo spinse a chiedere a Daniele di accompagnarlo in città a comprare dei giocattoli nuovi.

Approfittando dell'istante in cui Daniele si era distratto per parlare con la cassiera del negozio Hayato uscì e si perse per i vicoli. Era alla ricerca di qualche stronzo da fare saltare in aria, qualcuno con cui vendicare ciò che aveva fatto ad Andrea.

Trovò pane per i suoi denti davanti a una baby-gang radunata sotto un porticato. I ragazzini poco più grandi di lui lo attaccarono immediatamente solo per averlo visto nel loro territorio. Uno di loro gli sputò in faccia chiamandolo "damerino" cosa che fece scattare Hayato.

Ovviamente aveva portato la dinamite con sé e non perse un solo istante a lanciarla. La sua mira faceva ancora pena per questo colpì solo uno del gruppo, gli altri gli diedero addosso e non lo conciarono per le feste solo perché Shamal gli aveva insegnato a difendersi e dare dei ganci ben assestati.

Uscì dolorante e pieno di lividi ripercorrendo la strada all'indietro, Daniele pregò tutti i santi conosciuti quando lo vide tornare affinché Alfonso non lo decapitasse.

Hayato fu portato in ospedale, clinica privata ovviamente. La prognosi: un braccio rotto che sarebbe guarito grazie a un mese di assoluto riposo.

Un'infermiera molto gentile gli mise il gesso e una fasciatura morbida che girava dietro le spalle per mantenere il braccio in posizione.

Hayato rientrò alla villa trionfale e fieramente si presentò da Shamal il quale stava seduto su uno dei divanetti rossi del salottino secondario a leggere il giornale.

"Dottor Shamal!" disse spavaldo.

"Guarda come mi sono ridotto? Figo, vero?"

Shamal storse il naso, abbassò il giornale stava per parlare, ma venne interrotto.

"Sono corso verso di loro con le bombe e se la sono fatta addosso."

Shamal sgranò gli occhi, non voleva credere alle sue orecchie.

"E quella roba?" domandò mostrandosi impassibile rivolgendo lo sguardo al gesso.

"Ah questa? È una valorosa ferita di guerra."

Shamal si alzò con un gesto secco, mosse una mano come se volesse scacciare una mosca fastidiosa e si allontanò senza nemmeno rivolgergli uno sguardo.

"Mi dimetto dalla posizione di tuo mentore. Non posso insegnare niente a uno che ragiona in questo modo" disse.

"Shamal?" domandò Hayato confuso, poi urlò il suo nome, poi lo sussurrò soltanto come se fosse una preghiera.

Guardò Shamal finché non divenne un puntino indistinguibile esattamente come neanche un mese prima aveva fatto con Diana.

Non aveva neanche più la forza di piangere, i suoi occhi ritraevano solo lo stupore e la delusione.

Doveva abituarsi perché era solo al mondo e non ci sarebbe mai stato nessuno per lui. Forse era nato sotto la stella sbagliata o forse semplicemente apparteneva a un altro pianeta per questo nessuno sembrava mai capirlo pienamente.

Le persone non duravano molto nella sua vita, così era stato con Lavinia, poi con Bianca, con Diana e infine anche Shamal lo abbandonava, perché Hayato ne era sicuro non sarebbe mai più tornato

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Capitolo 8
*** Un mondo senza lui ***


L'abbandono di Shamal lo aveva segnato profondamente, così tanto da convincerlo che in realtà tutti lo odiassero. Alfonso aveva smesso anche solo di cercare di parlargli, Clara lo ignorava come al solito, Bianca - o forse avrebbe dovuto chiamarla "Alessandra"?- era quella che lo preoccupava di più.

Da mesi ormai non era la stessa di un tempo e sembrava solo intenzionata a perfezionare le sue tecniche da assassina, lavorando a tempo pieno su quella che aveva chiamato "poison cooking", ricercando gli ingredienti più velenosi in giro per il mondo facendosi autorizzare a viaggiare.

Personaggi bizzarri di ogni tipo si alternarono quell'anno a Villa Bianchi, tra questi Hayato rimase decisamente colpito da un povero martire, un certo Romeo Bovino dai riccioli corvini e gli occhi smeraldo. Questo ragazzetto aveva trovato il coraggio di intraprendere una relazione con sua sorella, quando era evidente che questa lo sfruttasse solo come cavia.

Meglio lui che me aveva pensato Hayato, aveva perso il conto delle giornate passate a vomitare perché Bianca si ostinava a testare su di lui le nuove creazioni.

D'estate Romeo era rimasto come ospite per quasi un mese durante il quale Hayato aveva avuto la possibilità di conoscerlo un po' meglio. Non aveva reperito molti elementi, ma di una cosa era certo Romeo voleva toglierselo dalle scatole per questo Hayato non faceva in tempo ad avvicinarsi che si trovava qualche lira in mano accompagnata dalla frase "vai a comprarti un gelato." Poco male, soldi gratis e cibo, ma al contempo era l'ennesima persona che sembrava non sapere che farsene della sua presenza.

Solo Elisa era ancora gentile con lui, affettuosa, ma lo faceva solo perché era il suo lavoro, Hayato aveva la sensazione che se non fosse stata pagata per questo non lo sarebbe mai stata.

Forse non meritava amore e non meritava dolcezza. Se era così che stavano le cose, non ne avrebbe neanche dispensati.

Giunse il momento in cui il suo cuore si incupì e Hayato iniziò ad alimentarsi a odio. Cominciò a odiarli tutti, i suoi genitori, sua sorella, Elisa stessa, chiunque fosse più grande di lui era un nemico.

Gli adulti erano solo un cumulo di menzogne e promesse infrante, egoismo e cattiveria. Hayato li avrebbe ripagati con la stessa moneta.

Divenne insopportabile, una piccola peste ingestibile alla quale presto si arresero anche gli insegnanti più severi. Le botte che riceveva non facevano che accrescere il suo odio per l'umanità intera.

In questo periodo iniziò a pensare seriamente che forse era finito sul pianeta sbagliato, i suoi veri genitori dovevano essere dei fantastici alieni che ancora cercavano il bambino che era precipitato giù dalla navicella spaziale durante il tragitto per tornare a casa.

Sapeva che era solo una bella storia, ma guardando il cielo stellato si sentiva più vicino a quegli esseri diversi da quelli sul pianeta in cui era nato e trovava conforto.

Quell'estate Romeo morì, avvelenato da Bianca dopo che Hayato l'aveva sorpresa a parlare di quanto lo amava davanti allo specchio. Anche lei forse era rimasta avvelenata, bruciata dall'acido che si respirava tra le mura della loro villa. Se ne rendeva conto, era troppo intelligente per fare finta di niente.

Avrebbe voluto parlarle, fermarla, ma ogni volta che incrociava il suo sguardo il suo stomaco andava in pezzi costringendolo a piegarsi a metà e questa era la versione migliore della conseguenza. C'erano stati episodi in cui era svenuto sul colpo, a volte sbattendo la testa, altre volte solo accasciandosi a terra lentamente dandosi la possibilità di sistemarsi.

Bianca non si era più avvicinata a lui dopo che lo avevano dovuto ricoverare. Non le era ancora chiara la dinamica, ma si convinse di essere un pericolo per il fratellino. Smise di preparargli ogni sorta di cibo per alleviare la sua sofferenza e si concentrò solo sulle sue cavie, Hayato non era mai stato in questa lista.

La vita lo aveva provato, non sapeva più come contenere il suo odio, la paura, la rabbia e in fondo credeva che fosse finita, che ci fosse un limite a quanto il mondo intero potesse prendersela con un bambino di sette anni.

Dovette ricredersi due volte nello stesso mese: la prima gli spezzò il respiro, la seconda il cuore.

Clara aprì la porta di quella stanza, quella stanza dove non entrava mai perché anche solo entrarci sarebbe significato qualcosa, Hayato ne vide solo l'ombra. Si trovò sollevato da terra, i piedi potevano solo sognare di sfiorare il pavimento, stretto dal colletto della camicia dal quale Clara lo stava tenendo, negli occhi della donna ribolliva odio puro.

"È colpa tua sai" disse con un tono tanto calmo da risultare inquietante, completamente in contrasto con l'espressione contrita sul suo viso.

"Se tu non ci fossi mai stato lui sarebbe ancora mio..." proseguì.

Hayato tossiva, si dimenava nel disperato tentativo di liberarsi, di non soffocare, ma invano.

Clara lo portò fuori, nel corridoio, lo lasciò cadere come se fosse un oggetto e Hayato si accasciò a terra cercando di riprendere fiato.

"Lui sarebbe ancora mio" ripeté Clara mettendosi le mani tra i capelli.

"Lui sarebbe ancora mio" urlò stringendosi appena in sé stessa.

"Ma sai, non finisce qui. Tu hai tolto l'amore a me e io l'ho tolto a te, tesoruccio della mamma. Ti ucciderei, ma preferisco che tu muoia lentamente, giorno dopo giorno in questa solitudine che ti stai costruendo così bene e che ti sta corrodendo, bravo bambino" mormorò con lo stesso tono in cui aveva parlato quando era entrata nella stanza interrompendo la sua contemplazione del cielo stellato.

Hayato a stento riusciva a credere alle sue orecchie, per tutta la vita aveva pensato che non fosse normale il modo in cui sua madre gli si rivolgeva, ma adesso ne aveva la conferma, lo odiava per davvero.

"Diventerai come me" disse Clara passando le sue unghie rosse sotto al piccolo mento di Hayato, aveva una manicure perfetta e con le dita simulava dei piccoli coltelli.

"Già inizi ad assomigliarmi così tanto" disse mettendosi le mani sul viso mostrando un entusiasmo malato.

"Dovrei essere già soddisfatta e invece... invece non mi basta" disse mentre il suo tono cresceva nel volume.

"Ti odio" cominciò a ripetere a raffica e quanto più lo diceva tanto più urlava.

Hayato si era rannicchiato contro il muro, tremava incapace di parlare e anche incapace di smettere di guardare. Nel suo inconscio voleva registrare tutto, dire a se stesso come stavano le cose così da non poter mai più avere dubbi in materia.

I corridoi di Villa Bianchi erano decorati con numerose statue e vasi dall'aspetto non solo costoso, ma anche fragile e pesante. Clara sollevò quello a sé più vicino, lo tenne tra le braccia per un istante come se fosse un bambino poi lo scagliò contro Hayato.

"Basta, mamma!" fece in tempo a sentire, si preparò all'impatto stringendosi in se stesso, ma niente di tutto questo avvenne.

La figura di Bianca lo aveva protetto, un lato della sua fronte sanguinava mentre cocci di ceramica erano sparpagliati sul pavimento.

"Bianca..." urlò Clara.

"Bianca, no... oh cielo la mia bambina" proseguì con lo stesso tono.

Numerosi servitori accorsero destati da tutto quel trambusto, persino alcuni membri della famiglia si riversarono nel corridoio come un fiume in piena, testimoni di ciò che era successo.

Daniele immobilizzò le mani di Clara dietro la schiena, alcune cameriere cercarono invano di dire "si calmi, signora."

"Hai visto che cosa hai fatto?!" strillò Clara cercando di dimenarsi.

"Sei la rovina di questa famiglia, ci hai distrutti uno ad uno."

Bianca si tenne la testa, con la punta del mignolo sfiorò una delle manine congelate di Hayato come se volesse rassicurarlo.

"Basta, mamma. Io non voglio odiarlo, tu non devi odiarlo. Lui non ha nessuna colpa, è solo un bambino" disse cercando di tenere un tono stabile.

A Daniele si aggiunsero gli altri uomini che pian piano iniziarono a trascinarla via.

Hayato riuscì a registrare qualcosa circa un reparto psichiatrico e l'avvertire il boss, ma l'unica cosa che riusciva a vedere era il sangue che dalla fronte di Bianca si abbatteva sul pavimento.

Forse c'era qualcuno che lo amava veramente, ma non voleva continuasse a ferirsi a causa sua.

"La mamma è malata" disse Bianca con sicurezza.

"Per questo ti odia, se non fosse malata saprebbe amarti, Hayato. Ti prego non credere a una sola parola che ti ha detto, qui nessuno ti odia, piccolo."

Un gruppetto di uomini subordinati primari di loro padre si avvicinò li aiutò ad alzarsi. Bianca fu portata di corsa in ospedale mentre Hayato venne lasciato alle cure di Elisa, con l'ordine specifico di non lasciarlo mai più da solo neanche per un istante.

Quella non chiuse occhio nemmeno per un istante, le parole e le immagini rieccheggiarobo nella sua mente e a nulla valsero le rassicurazioni. Era tutto sbagliato, forse lui sbagliato lo era davvero.

Non valeva niente, di questo si convinse giorni dopo giorno, ma ciò nonostante voleva comunque imparare a fare qualcosa, così da poter proteggere Bianca anche senza guardarla in faccia.

Shamal era un bugiardo, uno stronzo, un coglione, un donnaiolo pervertito e alcolizzato, ma una cosa buona gliela aveva lasciata, quella tecnica con la dinamite per autodifesa o perché no anche attacco.

Avrebbe affinato la sua mira perché non ci fossero mai più Andrea coinvolti, avrebbe continuato ad allenarsi.

Non voleva più essere Shamal, voleva essere solo Hayato Bianchi, assassino professionista indipendente.

Più il tempo passava più il risultato concreto era avere sprecato una foresta intera in aeroplanini di carta, senza riuscire a prenderne neanche uno.

Era frustrato, ormai aveva otto anni eppure non era ancora riuscito a imparare quella dannata tecnica.

Aveva persino trascorso tutto il giorno del suo compleanno ad allenarsi, ma con scarsi risultati.

Tuttavia era anche un bambino che nonostante tutto ciò che aveva subito riusciva ancora a trovare la gioia in piccolissime cose della vita. Per esempio una merenda golosa, di quelle preparate dalle numerose cuoche della Villa.

Dopotutto doveva avere qualche vantaggio essere così ricchi?

Per questo stava correndo verso la cucina principale, un aeroplano di carta ancora stretto tra le mani. Al pensiero di assaporare quel parfait alle fragole con la panna era persino riuscito a sorridere spensieratamente.

"Sono già passati cinque anni da allora" udì chiaramente la voce di una delle cameriere.

"Da quando?" domandò un'altra accanto a lei, stava allestendo un cabaret di dolci che faceva venire l'acquolina in bocca.

Hayato si sporse appena, la sua prima intenzione non era quella di origliare, ma di entrare senza che le giovani donne sì prendessero un colpo vedendolo apparire all'improvviso.

"Da quando è morta la madre del signorino Hayato" furono quelle parole che lo bloccarono con il corpo mezzo dentro e mezzo fuori la stanza.

Una giovane dai capelli castani si girò di scatto, teneva una scopa in una mano mentre con l'altra si era coperta la bocca.

"Il signorino Hayato non è figlio della nostra Madonna?" domandò.

Hayato fece giusto in tempo a schiacciarsi con la schiena contro il muro per non essere visto. I suoi occhi si sgranarono, un barlume di speranza li colse.

"No, Cettina, tu sei nuova qui quindi forse non te lo hanno ancora detto. Il signorino Hayato è il figlio che il boss ha avuto da una giovane pianista. Misteriosamente scomparsa cinque giorni dopo il terzo compleanno del signorino."

"Misteriosamente un corno. Il padrone l'ha uccisa, l'incidente stradale è stata solo una simulazione. La macchina è precipitata in un punto in cui era impossibile uscire fuori strada e sul sedile accanto al suo hanno trovato un pacchettino. Era un regalo per il signorino."

"Silenzio, Marisa! Il padrone ti farebbe giustiziare se ti sentisse."

"Dico solo le cose come stanno."

"Comunque qui lo sanno tutti, tranne il signorino, ovviamente. È una vecchia storia e la Signora ha fatto una confusione pazzesca per mettere a tacere le voci che la facevano passare per la cornuta della situazione."

"Oh cielo..."

Le voci delle servitrici che continuavano a spettegolare gli arrivavano sempre più soffuse e confuse.

Mia madre era una giovane pianista? era tutto ciò a cui riusciva a pensare.

Gli occhi sgranati e lucidi si annebbiarono quando di colpo venne travolto da una marea di ricordi che aveva provato disperatamente ad archiviare. Già erano amari, ma adesso ancora di più, avevano il sapore della menzogna perché nessuno era esente da colpa e un gusto talmente acre da dargli il volta stomaco.

Lui era figlio di una giovane pianista, era il figlio di Lavinia.

La bocca rimase aperta solo per permettergli di respirare mentre un urlo disumano si levava da quella gola. Il momento di realizzazione aveva lasciato il posto alla disperazione, lasciando fluire le lacrime che avevano preso il controllo.

Corse a perdifiato sbattendo contro una delle servitrici che stava portando una pila di piatti in cucina, riprese a correre ignorando i richiami della stessa e delle colleghe che si erano appena affacciate. Lasciò cadere ogni "signorino Hayato" nell'oblìo e continuò a muovere le gambe il più velocemente possibile senza una meta precisa.

Raggiunse l'entrata principale spalancando le porte a calci e pugni, continuando a sgolarsi mentre sempre più persone lo rincorrevano e cercavano di fermarlo.

Iniziò a lanciare loro dinamite, non gli importava. Potevano crepare tutti, dal primo all'ultimo e suo padre era in cima alla lista.

Scavalcò il cancello e si riposò solo per un istante, poi riprese a correre.

Finì la voce macinando chilometri e chilometri finché non si rese conto di essersi perso. Aveva così tante lacrime addosso e un viso in deturpato dalle stesse, pensava di averle finite, ma continuavano a uscire.

Si fermò in una piazza, tossì, sentì il petto contrarsi come se volesse spezzarsi a metà, poi improvvisamente riuscì a rilasciarlo.

Ogni pezzo del puzzle aveva trovato il suo posto e come aveva sempre pensato lui non c'entrava niente con quel disegno.

Avevano raggiunto la città, il centro di Palermo, ma non aveva intenzione di rispondere alle persone che preoccupate avevano iniziato a chiedergli dove fossero i genitori.

Riprese a correre e raggiunse un vicolo isolato, uno di quelli simili a dove si radunavano i teppisti.

Si sedette sul marciapiede respirò profondamente. Osservò il cielo tingersi di nero e la luna sorgere.

Chiuse gli occhi appoggiando la testa sull'asfalto e lasciò andare l'ultima lacrima di quel giorno.

"Non ci tornerò mai più, mamma, te lo prometto" mormorò a nessuno e si addormentò sfinito con la consapevolezza che almeno non era in un posto in cui avrebbero finto di amarlo.

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Capitolo 9
*** Un nuovo mondo ***


L'alba era passata da un pezzo quando i raggi del sole illuminarono via Cervello destando Hayato da quello che era un sonno senza infamia e senza lode. In realtà più che la luce a svegliarlo fu il rumore assordante di un trapano e la voce scura di uomo che in dialetto ordinava ai suoi sottoposti di darsi una mossa.

Hayato sollevò piano la testa dal marciapiede, ne aveva stampata la forma sulla guancia che vi aveva appoggiato. Si stiracchiò percependo tutto il freddo che era penetrato nelle sue ossa nella notte e si ricordò un cancello arrugginito.

Guardò i bei vestiti di sartoria che ancora indossava, erano tutti impolverati. Passò le mani sulle gambe nude, lì dove i pantaloncini troppo corti non potevano proteggerlo e le trovò sporche anche esse.

Volse lo sguardo attorno e riconobbe quello che la sera prima aveva individuato come un portico, lo vide ergersi sopra delle scale che non ricordava di aver sceso e si rese conto che in realtà si era intrufolato in un cantiere.

"Chi fai ddrocu nicu?" gli domandò un operaio, stava trasportando delle travi di legno che sembravano piuttosto pesanti, ma senza difficoltà.

Hayato alzò un sopracciglio, gli ci volle un istante per rendersi conto che ce l'aveva con lui, ma non sapeva assolutamente cosa quell'uomo avesse detto.

Era multilingue, ma il dialetto Palermitano mancava alla lista e neanche impegnandosi con tutte le sue forze avrebbe saputo venirne a capo con la traduzione.

Supponendo che gli stesse dicendo di togliersi dalle palle Hayato fuggì rapidamente lontano da quel sito di costruzione e vagò per una strada malmessa dove si ergevano molteplici edifici sventrati.

Un brontolìo nello stomaco gli ricordò che non aveva fatto merenda né cenato e stando alla posizione del sole nel cielo aveva anche saltato la colazione.

Si voltò verso destra, così come soleva fare.

"Elisa..." disse fermandosi all'inizio della frase.

Non c'era nessuna Elisa che gli avrebbe portato i cornetti del suo chef personale ripieni di marmellata di aramarene. Non c'era nessuno chef personale in effetti, perché non c'era più nessun castello.

Si sarebbe dovuto sentire smarrito invece percepì un grande senso di libertà respirandolo a pieni polmoni.

Si disse che avrebbe raggiunto il centro e una volta su via Settimo avrebbe indossato la migliore espressione angelica di cui era capace per impietosire qualche donna dall'aria gentile.

Hayato non sapeva quanto fosse lontano dalla via dello shopping, ma la faccia di cazzo per chiedere ai passanti informazioni non gli mancava, sperava solo che non gli rispondessero in dialetto.

Così seguendo le direttive raggiunse la sua meta in meno di mezz'ora e puntata la preda si avvicinò sorridendo, tenendo le braccia lunghe e le mani intrecciate dietro la schiena come se fosse un bimbetto qualunque, spensierato e giocoso.

"Mi perdoni, bella signora, non è che per caso avrebbe qualche lira da prestarmi? Oggi è il mio compleanno e ho visto un bel gioco in vetrina,  me ne mancano poche per raggiungere la cifra desiderata. Mi rincresce disturbarla, ma mio padre sta lavorando duramente per permettermi di indossare questi abiti e non voglio debba preoccuparsi anche dei miei capricci."

Esattamente come previsto la povera vittima si intenerì e rimase stregata dalla proprietà di linguaggio di Hayato.

"Ma certo, piccolo. Quanto ti serve? Dillo alla zia Claudia, ti aiuto io."

La donna prese la borsa, aprì un portafoglio dall'aspetto costoso e tirò fuori una banconota con una grafica che Hayato non aveva mai visto.

"Lo so, amore, ma non ti preoccupare. Queste sono Euro, diventeranno presto la nostra valuta. Sono valide eh e ci compri molte più cose. Ti lascio una venti, fatti un bel regalo" disse, si allontanò lasciando Hayato attonito con una strada banconota blu tra le mani.

Hayato entrò nel primo bar che trovò sulla strada e chiese un croissant ripieno di marmellata di amarene. Il barista rise e chiamò il collega perché ridesse anche lui.

"Gigi, questo bambino crede di essere in Francia" scherzò.

"Non ce li abbiamo, vostra grazia" disse con lo stesso tono di scherno.

Hayato rimase profondamente sconvolto.

"Li avete finiti?" domandò fiducioso.

"No" ribatté immediatamente il collega.

"Non li facciamo. Ti sfido a trovare qualcuno in tutta la Sicilia."

Hayato mantenne un silenzio confuso, dietro di lui c'erano altre persone che spingevano per riuscire a vedere cosa era esposto nella vetrinetta.

"E poi l'orario della colazione è finito da un pezzo" sentì commentare una voce femminile alle sue spalle.

Hayato sentì addosso un senso di smarrimento, era cresciuto nella convinzione che nella sua patria quello fosse un piatto più che reperibile, addirittura diffuso, invece apparentemente era una cosa solo sua, anzi del suo chef personale perché a Palermo al massimo un croissant con le amarene lo poteva trovare assieme alla crema pasticcera, ma erano amarene candite e di scarsa qualità.

"Devi darti una mossa, però" lo richiamò il barista.

"Che cosa è rimasto?" domandò Hayato confuso.

"Come croissant"- disse il barista imitando l'accento francese di Hayato - "ci è rimasto solo questo ripieno di miele e noci."

Hayato ricordò le parole di Diana, lui era allergico a qualcosa, qualcosa che non sapeva come si chiamasse né dove fosse. Avrebbe voluto tanto essersi portato la cartella clinica... almeno quella.

"Va bene" disse impulsivamente, pagò con la banconota sotto i piccoli sussulti di stupore dei baristi, si fece dare il resto che badò bene a dove intascare e si mise seduto a un tavolino all'interno del bar.

Studiò attentamente il cornetto, la pasta il ripieno. Si rese conto che questa era la prima volta che mangiava qualcosa che non fosse stata attentamente supervisionata da un adulto in grado di stabile se fosse o meno sicura per il suo organismo.

Dopo qualche istante si convinse a dare il primo morso e sentendo il sapore quasi insignificante gli venne da sputare. Accolto il cibo a malapena masticato nel tovagliolo con poca assorbenza decise di fare un secondo tentativo e questa volta mandò giù il boccone.

Non era il massimo, ma a quanto pareva era questa la tendenza per le persone, questa la qualità a cui i più potevano avere accesso.

Non aveva mai capito i suoi privilegi, quelli che non mancava giorno suo padre gli rinfacciasse.

Sentì il naso pizzicare e scacciò le lacrime, non ne avrebbe versata neanche più una per quel maledetto traditore.

Finì la pasta ripiena e bevve un po' d'acqua che gli venne portata assieme a qualche biscottino, offerto da una coppia al tavolo di fronte al suo. Si rese conto che gli conveniva abituarsi a quei nuovi sapori, per nulla all'altezza del suo palato sopraffino, ma forse proprio per questo più speciali.

Uscì dal bar ringraziando più volte i baristi e la coppia e si diede nuovamente uno sguardo intorno.

Era l'inizio di un nuovo capitolo della sua vita, uno bellissimo, ne era sicuro. Senza suo padre addosso, senza Clara o Bianca sarebbe potuto divenire facilmente un assassino professionista, il futuro dei Bianchi non pesava più sulle sue spalle.

Si sentì leggero, vide spuntare le proprie ali, spezzarsi le catene e sentì di potersi librare in volo, come quegli aeroplanini di carta che non era riuscito a colpire. Non ci sarebbe stata nessuna dinamite che lo avrebbe fatto cadere al suolo.

Iniziò a riflettere, a stomaco pieno era più facile. Aveva bisogno di un mentore, qualcuno che gli mostrasse la via. Passò in rassegna tutti i nomi più importanti delle famiglie alleate o che ricordava tali e si disse che aveva solo l'imbarazzo della scelta.

Un po' in soggezione iniziò a chiedere indicazioni per la villa dei Cimmino, loro sicuramente avrebbero compreso il suo potenziale, il boss si sperticava sempre in calorosi complimenti dopo ogni sua esibizione.

Comprese che la gente aveva paura di quel cognome quando solo a nominarlo le persone urlavano e scappavano. Si chiedeva sinceramente cosa sarebbe successo utilizzando il suo di cognome.

Alla quarta persona che strillò solo alla menzione Hayato assunse un atteggiamento spavaldo e dispotico.

"Sono un Bianchi" - disse - "portami da loro e non ti succederà niente di male."

Tremò solo a sentirsi parlare, era spaventoso. Suo padre lo aveva visto esprimersi e disgraziatamente doveva aver introiettato non solo la modalità, ma anche l'aura.

Comunque grazie al terrore impresso negli occhi di quel malcapitato passante riuscì a raggiungere la residenza dei Cimmino.

Ad aprirgli la porta c'erano tre uomini, uno di questi aveva una benda sull'occhio sinistro, simbolo di un'antica ferita d'onore, un altro aveva un taglio che andava dal mento all'area sotto all'occhio sinistro, stavano uno di fronte all'altro sullo stipite della porta, il terzo aveva gli occhiali da sole e una pistola ben piazzata pronta a sparargli contro in qualsiasi momento.

"Che vuoi?" domandò quello con la benda sull'occhio.

Hayato intravide dietro gli uomini seduto su una poltrona uno dei più fidati sottoposti del boss.

"Pasquale!" chiamò certo che l'uomo lo avrebbe riconosciuto.

"È roba tua?" domandò quello col taglio sulla guancia girandosi verso l'uomo.

Pasquale si alzò in piedi mantenendo la sua grossa pancia e si trascinò all'entrata.

"Non l'ho mai visto" disse dopo aver scrutato attentamente Hayato.

Il bambino stava per ribattere, ma fu fermato dall'uomo con la pistola che gliela puntò alla fronte.

"Identificati" disse.

"Perdonate" mormorò Hayato facendo un gesto con le mani che sapeva significare rispetto per la famiglia.

L'uomo abbassò subito la pistola.

"Sono Hayato Bianchi, chiedo umilmente di unirmi alla vostra famiglia. Voglio essere un sicario" disse il piccolo.

L'uomo che rispondeva al nome di Pasquale assunse un'aria pensosa, gli uomini accanto a lui gli rivolsero uno sguardo.

"Alfonso è così disperato che ci manda l'erede?" commentò quello con la benda sull'occhio ridendo sguaiatamente.

"Ma tu sai chi è? Mi ricordo la femmina, tiene pure un maschio?" domandò quello con la pistola in mano.

Pasquale sembrò colto da un'illuminazione.

"Ho capito, quello che suona sei tu" disse.

Gli occhi di Hayato brillarono, il piccolo accennò un inchino.

"Signor Pasquale, perdonate la mia insolenza se vi chiamo per nome, voi apprezzate tanto le mie composizioni, ho pensato che possiate comprendere il mio potenziale."

L'uomo con il taglio sotto la guancia iniziò a ridere.

"Certo, come no... il potenziale tiene lui."

Pasquale annuì.

"Molto potenziale tieni, come pianista però. Continua a studiare che poi ti vengo a vedere a teatro, va bene?" disse, senza permettere ad Hayato di ribattere rientrò nell'abitazione.

"Ma signor Pasquale.." cercò di insistere Hayato.

L'uomo con la pistola gli si avvicinò, la ripose nel fodero e lo guardò dritto negli occhi.

"Non hai sentito? Qui non ci servono femminucce che sanno solo suonare il piano, torna da paparino."

Hayato si vide chiudere la porta in faccia, letteralmente oltre che metaforicamente, cercò di dire che aveva delle tecniche efficaci e innovative, ma nessuno lo ascoltò.

Sospirò, i Cimmino erano solo i primi di una lunga lista di famiglie a cui avrebbe fatto domanda.

Senza indugiare ricercò i Mineo, Lorenzo, il boss era un amico fidato di suo padre il che faceva di lui un potenziale stronzo, ma anche un potenziale mentore.

Con la stessa strategia riuscì a trovare la residenza e ne uscì solo con un gentilissimo.

"Torna a casa, ragazzino. Tuo padre sarà in pensiero."

Hayato si risparmiò di rispondere "col cazzo!", consapevole che suo padre era talmente in pensiero che nessuno era ancora venuto a cercarlo.

Tra un rifiuto e l'altro desiderò che suo padre gli avesse insegnato di più come essere un mafioso piuttosto che come farsi proteggere e servire da questi. Non voleva essere un boss e inoltre era fermamente convinto che il boss dovesse essere il più forte ed esposto, non quello che sguazzava nel lusso e nel piacere mentre i suoi uomini sguazzavano nel sangue.

Aveva finito la lista e il panino con prosciutto e mozzarella che stava mangiando seduto sul marciapiede era amaro quanto la consapevolezza di aver fatto male i calcoli.

Non ricordava più nomi, ma gli sovvenne un cognome che forse poteva andare.

"De Nittis."

Gli parve una piccola stella luminosa che improvvisamente sembra prendere tutto lo spazio nel cielo.

Non ricordava chi fossero né in che rapporti fossero con la sua famiglia, ma a questo punto non aveva più importanza. Non era un Bianchi, non sentiva di esserlo, non ci si era mai sentito e non lo sarebbe mai più stato. Sarebbe diventato tutto, qualsiasi cosa volessero, l'importante era perseguire il suo obiettivo, fare esperienza oltre che farsi un nome.

"Il figlio della sventola."

"Ah, la bottana?"

"Quello bastardo, il mezzo sangue."

"Metà bottana e metà stronzo."

Queste furono le parole con cui la sua richiesta fu accolta da quegli uomini che sebbene indossavano gli stessi vestiti che aveva visto per tutta la vita sembravano così diversi dagli uomini che conosceva e molto più cattivi.

Uno di loro si avvicinò con un sorriso inquietante, aveva dei denti d'oro incastonati nella bocca. Prese Hayato per il colletto della giacca e lo sollevò come se fosse un oggetto.

"Stronzetto, ascoltami bene, non sai fare assolutamente un cazzo e quelle manine che ti ritrovi non vanno bene neanche per farci le seghe. Secondo te potremmo mai affidare la vita del nostro boss a uno come te? Non esiste una sola famiglia in tutta l'Italia che ti prenderà mai e questo è perché ci servono uomini veri, non froci abituati pure a dare comandi. Gira a largo o ti faccio sparare, non me ne fotte un cazzo di chi è tuo padre."

Con queste parole l'uomo lo scagliò letteralmente fuori dalla porta, facendolo atterrare sul terreno umidiccio.

Hayato si guardò, percepì il tremore ancora in circolo e la paura che aveva solo vagamente cercato di trattenere. Lasciò andare una lacrima, ne lasciò andare due, si chiese come avrebbe fatto a pulirsi ora che non aveva neanche la possibilità di reperire un asciugamano.

Quell'uomo gli aveva detto molte cose davvero offensive, forse tra le più offensive che gli avessero mai detto. In una sola giornata aveva collezionato talmente tanti insulti da fare overdose e la sua autostima già inesistente era a pezzi.

Si alzò trascinandosi fuori dal fango, ripensò ai Rossi, che aveva scartato a prescindere memore di quanto si fosse arrabbiato il boss per l'influenza a suo parere negativa che Hayato aveva avuto sulla figlia, si convinse che era meglio non tentare ulteriormente la fortuna visto che come al solito non era dalla sua parte.

Niente era andato secondo i piani e ora che la sera iniziava a calare Hayato si trovava in compagnia della solitudine, ma senza un piatto caldo rigenerante.

Frugò in una tasca, aveva ancora circa quindici euro, poteva tranquillamente farci una cena, un altro pasto dal sapore insignificante e triste.

Sporco di fango nessuno volle farlo sedere così dovette accontentarsi dell'asporto. Si mise su un marciapiede e pianse in silenzio assaporando ogni boccone.

Si domandò dove avrebbe dormito ora che nessun letto caldo era stato sistemato per lui, comprese che il materasso per quella notte sarebbe stato proprio lo stesso marciapiede e si addormentò cullato solo dai suoi singhiozzi.

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Capitolo 10
*** Un posto nel mondo? ***


Bianchi Hayato, età 8, si rese presto conto che la sua realtà stava per cambiare drasticamente. C'erano una serie di problemi di carattere pratico che doveva preoccuparsi di risolvere. Innanzitutto non poteva continuare a dormire su un marciapiede, si sarebbe ammalato prima o poi tra il freddo e lo sporco. In secondo luogo le monete che tintinnavano in tasca non sarebbero durate per sempre. Presto avrebbe iniziato a soffrire la fame, per non parlare della sete. Si era potuto permettere una bottiglietta d'acqua, ma aveva di fatto bevuto pochissimo in quella giornata. E aveva bisogno di nuovi vestiti, anche quello era importante. Sospirò, si appoggiò al muro dietro le sue spalle sentendosi perso. Avrebbe dovuto mendicare, chiedere la carità?

Quasi quasi ci sperava che stessero per venirlo a prendere, che vedessero quel gesto come un capriccio. Gli serviva una casa o meglio un riparo, un posto dove stare che non lo esponesse in maniera eccessiva ai pericoli, al rischio di un rapimento o peggio.

"E tu? Che fai qui?"

Chissà perché erano sempre più le femmine ad avere piu cuore per la sua situazione.

Hayato era esausto, spaventato e voleva solo sentirsi protetto, anche per un istante, sentire che qualcuno potesse accoglierlo, che esistesse un mondo anche per lui, per questo con freddezza rispose "Sono scappato di casa, i miei genitori mi maltrattavano e non sapevo a chi rivolgermi. Non voglio tornare lì..."

Ebbe a malapena il tempo di finire la frase che sentì chiaramente una voce maschile che chiamava "Caterina! Caterina, non avvicinarti! Potrebbe attaccarti qualcosa addosso." La ragazzina fu poi presa da quello che doveva essere il padre o il tutore, per un braccio e trascinata via in tutta fretta. Nei suoi occhi Hayato lesse tristezza e gli parve quasi di sentire delle scuse per averlo illuso.

Quella sensazione di abbandono lo spense. Era così che stavano le cose? Si stava lentamente trasformando nel ritratto della peste? Come lo vedevano? Come una blatta?

Rimase seduto contro il muro, catatonico, apatico, neanche più la forza di arrabbiarsi. In un angolo della sua mente la vaga consapevolezza che se nessuno lo aveva ancora aggredito era stata per pura fortuna.

Se solo fossero stati puliti avrebbe potuto vendere i suoi vestiti, era certo che gli avrebbero permesso di fare qualcosa di simile a una vita agiata, ma non aveva voglia di cercare delle lavanderie solo per scoprire che tanto per cambiare non c'era posto per uno come lui.

Il silenzio fu spezzato dalle ruote di una macchina che percorrevano la strada in prossimità di dove si trovava lui. Gli sovvennero ricordi del suo sesto compleanno e li scacciò, non era proprio il momento di diventare melanconici.

Si era trovato un vicoletto, piccolo, apparentemente riparato dal sole e silenzioso, impossibile entrarci con la macchina o col motorino tanto che era stretto e lì sarebbe rimasto da solo a pensare che nonostante tutto ora voleva sopravvivere, fosse anche solo per vendicarsi di suo padre.


Con i raggi cocenti del sole di mezzogiorno vennero anche molte consapevolezze che era difficile guardare in faccia, seppur necessario.
Innanzitutto aveva bisogno di spostarsi all'ombra, sotto un portico, un ponte, anche il tetto di una casa, qualunque cosa che lo potesse riparare. Hayato si trascinò a fatica in un nuovo vicolo stretto e ombroso, rintronato dal sole. A questo punto la sua pelle era, non esattamente al sicuro, ma di certo in una condizione migliore della precedente. Era ancora molto sensibile anche se non più come un tempo e l'esposizione prolungata già mostrava i segni di scottature.

La seconda consapevolezza che Hayato dovette prendere era che forse aveva rischiato un'insolazione, la sua testa andava a fuoco e probabilmente era il caso di rinfrescarsi. Per sua fortuna Palermo era gremita di fontanelle a ogni angolo della strada e trovarne una fu particolarmente facile. Dopo i primi tentativi con le mani a coppa, Hayato si arrese mettendo direttamente la testa sotto il getto parsimonioso della fontanella. L'acqua era sufficientemente fredda da dargli il sollievo di cui era alla ricerca. Quando gli sembrò di essere un po' più lucido e sveglio si passò quella stessa acqua anche sulle braccia e sulle gambe nei punti in cui la pelle si era maggiormente arrossata. Sospirò poi perché si era bagnato tutto il completo, ma faceva talmente caldo che pensò non fosse un problema, di lì a breve si sarebbe asciugato.

Ebbe a malapena il tempo di registrare il sollievo che iniziò a provare un nuovo fastidio, stavolta comunicato come protesta da parte del suo stomaco. Come biasimarlo? Visto quanto il sole picchiava doveva essere ormai la mezza, questo significava che aveva saltato la colazione, la merenda ed era prossimo a saltare il pranzo. Mentre era impegnato a rifletterci lo colpì la terza consapevolezza della giornata: non ci sarebbero stati più pasti completi per un po' e gli conveniva farci l'abitudine.

Per quanto avesse ancora l'aspetto di un signorino rispettabile, stando al riflesso nella pozzanghera, Hayato era perfettamente consapevole che tempo pochi giorni e quei vestiti con cui era scappato avrebbero iniziato a puzzare troppo e sarebbero divenuti lerci e allora non sarebbe sembrato più accattivante e sempre più difficilmente gli sarebbe stata fatta la carità. E quella fu forse la più dura verità da accettare: sarebbe divenuto un mendicante.

No, si corresse Hayato, non era affatto questa la cosa peggiore, mendicare era solo una conseguenza, conseguenza del fatto che non sapeva fare niente, che volente o nolente tra gioie e tantissimi dolori aveva vissuto per otto anni nella bambagia, con servitori pronti a prostrarsi alle sue richieste e soddisfare ogni suo capriccio e questo significava che da solo a stento sapeva allacciarsi le scarpe.

Se l'era cavata bene, si disse, del resto aveva spillato una banconota a una signora, aveva provveduto a mangiare e bere abbastanza per sopravvivere e si era trovato un posto dove addormentarsi, ma quello che aveva fatto era in virtù del piano iniziale, a quest'ora pensava già di essere stato accolto in un'altra casa, di stare seduto a tavola a degustare un cabaret di pasticcini, a dare nuovi ordini ai suoi nuovi servitori, invece poteva contare solo su se stesso e su qualcuno se avesse avuto pietà di lui.

Mise una mano in tasca per controllare quanto gli rimanesse e si rese conto che quei soldi non sarebbero durati per sempre, né si sarebbero moltiplicati. Doveva iniziare a centellinare, a mettere da parte la sua indole viziata e risparmiare anche il pezzo più piccolo per tirare avanti.

Così fece, si avvicinò a un bar e prese la cosa che costava di meno, ma che gli permettesse comunque di nutrirsi.

Nel pomeriggio vagò come l'anima in pena, che effettivamente era, alla ricerca di non sapeva neanche dire lui cosa, forse una famiglia.

Si sedette sulla scalinata di una chiesa tenendosi a distanza dall'ingresso e concluse che suo padre non sarebbe tornato a riprenderlo. Questo fu forse ciò che lo sorprese  maggiormente perché Hayato non aveva idea che riponesse ancora speranze in suo padre, che il suo cuore si fosse attaccato all'idea di qualcuno che tornava a prenderlo, lo riportava a casa e lo supplicava in ginocchio persino di essere perdonato.

Erano solo fantasie, fantasie che non avevano alcun riscontro con la realtà. Hayato si mise a piangere senza neanche rendersene conto, nascondendo il viso tra le mani, conscio che non aveva visto neanche l'ombra degli uomini di suo padre e pensare che non si era neanche allontanato chissà quanto, era rimasto in prossimità del centro di Palermo, era tornato in tutti i luoghi che conosceva, quasi stesse urlando di essere recuperato e ricondotto a casa, ma evidentemente suo padre non si era sprecato neanche a ordinare che lo ritrovassero, quindi di certo non sarebbe venuto a cercarlo. Se gli fosse importato lo avrebbe già fatto.

Quindi dopotutto era vero che nessuno lo voleva, che sarebbe stato meglio per conto proprio, dove nessuno lo avrebbe amato, ma almeno nessuno che si presuppone dovesse amarlo, lo avrebbe odiato.

Mentre singhiozzava qualcuno si avvicinò e gli lasciò poche lire, aveva ricevuto la carità senza nemmeno iniziare a chiederla. Rabbrividì: la sua vita dipendeva dalla compassione altrui.

Quando il sole iniziò a tramontare alcune giovani coppie sembrarono interessarsi a lui. Una donna gli chiese "che fai qui tutto solo?", quello che evidentemente doveva essere il marito della donna domandò invece "dove sono i tuoi genitori?"

Hayato li guardò a malapena, i loro volti divennero sfocati nella sua testa, sovrapponendosi a quelli di altre persone che gli avevano fatto la stessa domanda senza poi però offrire una soluzione concreta.

"Sono orfano" la risposta venne spontaneamente perché Lavinia era effettivamente morta e per quanto lo riguardava suo padre poteva anche crepare.

La donna della giovane coppia si mise le mani sulla bocca e sospirò profondamente. "Oh cielo, povero caro" disse. Un'altra donna poco distante gli chiese se ci fosse una struttura che lo ospitasse e solo in quel momento Hayato si rese conto che avrebbe potuto effettivamente farsi accogliere in orfanotrofio e sperare che qualcuno lo adottasse.

Nonostante fosse tanto piccolo aveva sentito parlare dei servizi sociali e si era fatto l'idea che fossero delle persone orribili che fingendo di salvare in realtà portavano il malcapitato dalla padella alla brace. Il punto sostanziale è che lo prelevavano dal suo ambiente, come un fiore strappato da un prato, lo stelo spezzato perché avesse i minuti contati. Senza saperlo nella sua testa le due immagini si erano sempre sovrapposte, ma l'orfanotrofio era lì, a Palermo, la sua città e da quello che gli stava dicendo la donna era un bel posto, accogliente, sicuro. Hayato se ne convinse e si lasciò portare, era la cosa giusta da fare.


La direttrice dell'orfanotrofio sembrava gentile, una persona affidabile insomma, a pelle. Hayato fu introdotto nella struttura e presentato agli altri bambini e uno dei più grandi lo prese immediatamente sotto la sua ala.

Gli vennero dati dei vestiti puliti appartenuti a chissà chi, vestiti di scarsa qualità -Hayato lo poteva percepire- e un pasto caldo, un letto in cui dormire e la possibilità di fare una doccia, il tutto gratuitamente.

Dopotutto forse scappare era stata la scelta giusta e sempre dopotutto forse quel posto sarebbe divenuto la sua casa. Non c'era bisogno di diventare un assassino, di farsi un nome nel mondo della mafia. Poteva vivere così, felice con qualche libro, la compagnia di quelli che erano stati forse più sfortunati di lui e un po' di amore gratuito e disinteressato.

Gli sembrava un buon piano, più o meno. Forse un giorno avrebbe varcato quella porta per l'ultima volta solo per raggiungere la sua nuova casa in compagnia dei suoi nuovi genitori.

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