Tessa non aveva paura del buio

di E_AsiuL
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1 ***


A/N: Buonasera! Vi lascio il primo capitolo di quello che progetto come un racconto non troppo lungo. Spero possa in qualche modo interessarvi. Ogni opinione è ben accetta e gradita. E sì, ho visto troppi episodi di CSI, o forse non abbastanza ;)

1

 
La stanza era buia e puzzava. Chiuso. Sudore. Vomito. Carne putrefatta o in via di disfacimento. Sangue. Molto sangue. Davanti a lei, qualcuno fece scattare un interruttore. Il vecchio scantinato venne illuminato dalla luce bianca e cruda di una serie di lampadine appese al soffitto.

La situazione era peggio di quello che si era aspettata. E Tessa tendeva sempre ad ipotizzare gli scenari più neri possibili. Soprattutto quando, a chiamare il suo ufficio, era quel cazzone del detective Giuliani.

«Allora, dottoressa, scende o resta qui sulle scale?» le chiese il detective, alle sue spalle.

Mordendosi la lingua, e trattenendo l’impulso di gettarci lui per le scale, Tessa raddrizzò le spalle e, stirando le labbra in un sorriso di circostanza che non avrebbe ingannato nessuno, rispose: «Dopo di lei, detective. Prima gli anziani», aggiunse.

Giuliani, per conto suo, si trattenne dallo sbuffare. La differenza d’età fra loro non era così alta – e lui era quello con alcune primavere in più, ma non troppe – e non accolse la provocazione. Tessa inarcò un sopracciglio, quando lui le passò avanti, precedendola nello scantinato, senza commenti. Rinsaldando la presa sulla valigetta, lo seguì di sotto. Evidentemente, al coglione era bastato farle trovare le luci spente – e quei poveri cristi della scientifica al buio in quello schifo – per essere soddisfatto.

Arrivata in fondo alle scale, si prese un attimo per guardarsi intorno. Pareti viscide, che trasudavano umidità. Una finestrella sudicia, in alto, che aveva tutta l’aria di essere stata sigillata per evitare intrusioni da parte di insetti – male, però, vista la quantità di mosche che ronzava allegramente in giro. Pavimento rivestito di piastrelle – perché? – con, al centro, uno scarico. In un angolo, un ammasso di stracci vecchi, fonte del festino delle mosche. In fondo, addossato alla parete, un tavolo dal piano d’acciaio.

E, sul tavolo, la sua prossima paziente.

Attenta a dove metteva i piedi, Tessa raggiunse il tavolo, già circondato dai tecnici. E da Giuliani. Il detective la guardò mentre, con le mani infilate nei guanti, sfiorava il cadavere. Sentiva il peso di quegli strani occhi verdi che la studiavano e seguivano, mentre indicava al fotografo gli scatti che le servivano, e il suo assistente prendeva appunti e infilava le mani martoriate della vittima in dei sacchetti.

«Le ha strappato le unghie», commentò, cupo, Giuliani.

Tessa alzò appena gli occhi verso di lui, tornando subito a dare attenzione alla donna sul tavolo.

«Forse non gli piaceva la manicure», continuò il detective. Tessa non lo degnò nemmeno di una risposta.

Era bella, la sua paziente. O, almeno, doveva esserlo stata. Capelli biondi da principessa delle fiabe (impiastricciati di sangue e aggrovigliati), labbra piene (spaccate e coperte di vomito), la pelle senza imperfezioni (coperta di tagli).

«Com’è morta?» riprese il detective, tamburellando l’indice contro il gomito, le braccia conserte.

Tessa sospirò. «Arresto cardiaco, Giuliani. È sempre arresto cardiaco», rispose, esaminando l’addome della vittima. «Quando sarà sul mio tavolo e avrò visto se la signorina è bella anche dentro, potrò essere più precisa».

Il detective sbuffò. Ci aveva provato. Ogni volta, lei gli rispondeva allo stesso modo. Eppure, gli avevano detto che fosse brava, al punto da arrivare alla causa del decesso quasi senza aver bisogno di fare esami.

«Almeno mi può dire quando è morta?» sbottò, impaziente. Con tutto l’impegno, non riusciva a farsela stare simpatica. Forse, sarà stato perché era certo di starle sulle palle, e allora non riusciva a sopportarla di rimando. Col suo predecessore, il dottor Thomson, era stata tutta un’altra cosa. Ma Thomson era andato in pensione tre anni prima, e ora gli toccava quella frantumapalle di Tessa Beale. Preparata, certo. Competente, altroché. Ma gelida come un ghiacciolo, col calore umano di un frigorifero e simpatica come un gatto attaccato ai coglioni.

«Non meno di dieci, non più di ventiquattro ore fa», rispose Tessa, lapidaria. «Di nuovo, ne saprò di più dopo averla aperta. Anche se, pare, non sarò la prima a farlo…» con il mignolo guantato, indicò l’incisione ricucita – ancora arrossata e gonfia – al bassoventre, stranamente molle. Giuliani si avvicinò.

«Sembra quasi…» cominciò, ingoiando rumorosamente, mentre una strana sfumatura verde gli si diffondeva sul viso.

«Sembra quasi l’incisione di un taglio cesareo, sì» confermò Tessa. Giuliani la guardò, sbiancando.

«Che merda fa una cosa del genere?»

«Questo deve scoprirlo lei, detective», ribatté Tessa.

«Se le ha fatto questo», proseguì il detective, indicando l’addome della donna. «Doveva essere incinta. Il bambino dov’è?»

Tessa aprì la bocca per rispondere, quando, dall’angolo della stanza, uno dei tecnici si fece sfuggire una colorita imprecazione. Lei e Giuliani si voltarono in quella direzione.

«Che succede?» chiese il detective, avvicinandosi. «Porca troia!» esclamò, quando il tecnico spostò di nuovo gli stracci. Sopra il ronzio delle mosche disturbate, Giuliani disse: «Ehi, doc, mi sa che abbiamo trovato il bambino».
 

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Capitolo 2
*** 2 ***


A/N: Rieccoci. Grazie a chi ha letto il primo capitolo e a Old Fashioned e bullseye1 (mi scuso in anticipo per le parolacce a questo giro) per essersi presi un po' di tempo per lasciarmi la loro opinione.
Buona lettura!


2
 
«Quindi, com’è morta?»

«Detective, spero sappia leggere», sbuffò Tessa, indicando il rapporto che aveva appena consegnato a Giuliani e che, ora, era fra le mani del detective.

«Mi faccia un riassunto», ribatté lui, sfogliando col pollice gli angoli del voluminoso rapporto d’autopsia.

«Ammazzata», fu la laconica risposta del medico legale. «Ma, a quello, credo ci fosse arrivato da solo», disse, togliendo polvere immaginaria dalla scrivania. «D’altronde, è un detective, no?»

Giuliani si morse la lingua per non darle una rispostaccia. «Un indizio?»

«È tutto scritto lì», ribatté Tessa, con un cenno. «È stata torturata. Le hanno strappato le unghie con delle pinze. L’hanno usata come posacenere. Come affilacoltelli. Ho perso il conto delle fratture. Delle sostanze che le hanno iniettato e fatto ingerire. L’hanno aperta come una noce di cocco e hanno fatto più danni delle fattucchiere del villaggio coi ferri da calza», si accalorò. «Cazzo, se avessero usato un ferro da calza arrugginito sarebbe stato meglio!», alzò la voce, battendo un pugno sulla scrivania. «E poi, visto che, tanto, era tutta spazzatura, hanno buttato tutto in un angolo a marcire», continuò, incurante dell’espressione esterrefatta di Giuliani. «Quel fagotto era lì da qualche giorno, a giudicare dagli insetti. E lei era viva, nel frattempo». Tessa inspirò lentamente, trattenne il fiato, poi espirò, riguadagnando contegno.

«Che pezzo di merda…», borbottò il detective. Quella doveva essere solo una parte, e nemmeno la peggiore, se la Beale si scongelava in quel modo.

«Per una volta, sono d’accordo», annuì lei. «Il resto, è nel rapporto». Tessa allontanò la sedia dalla scrivania.

Giuliani si alzò, il rapporto stretto in mano, trattenendosi dal commentare che avrebbe aspettato il film tratto da quel romanzo. Con il medico legale con le balle girate in quel modo, meglio non rischiare.

«Qualche altro spoiler?», chiese, invece.

Tessa scosse la testa. «Lo stronzo sembra essere ambidestro. Non c’è una fibra, un pelo, un capello, un’impronta, una goccia di sudore… niente. Pulito, sterile, disinfettato. Houdini».

Giuliani si passò una mano fra i capelli. I tecnici avevano detto la stessa cosa della scena. Le utenze della casa risultavano intestate alla vittima, che di certo non si era fatta tutto quello da sola. In tutto il resto della casa, niente di estraneo.

«Lo stesso vale per lo scantinato e la casa. Pare che il bastardo vivesse nel cellophane, o roba del genere», commentò, sulla porta. «Ma lo troveremo», aggiunse, quasi volesse rassicurare Tessa.

Lei annuì, in piedi davanti alla scrivania. «Arrivederci», disse, di nuovo fredda. Giuliani si voltò, ricambiando il saluto con un cenno della mano.

Non ci avrebbe giurato, ma, dopo un paio di passi, gli sembrò di sentire la Beale dire “Trova lo stronzo, Gabriel”.

 
Arrivato nel parcheggio dell’istituto di medicina legale, il detective trovò il suo collega appoggiato allo sportello chiuso dell’auto, armato di un sacchetto del bar e di un bicchiere d’asporto di caffè.

«Ciambella ripiena. Caffè iperzuccherato. Diabete in arrivo per il detective Gabriel Giuliani», gli disse, allungandogli la colazione.

«Hai preso lezioni di simpatia dalla Beale, Alex?» rispose Gabriel, infilandosi il rapporto sotto l’ascella e attaccando il caffè.

Alex lo guardò, sollevando un sopracciglio, gli occhi castani che lanciavano stilettate. «Tessa è una persona molto cortese e simpatica», ribatté. «Almeno, lo è con me», aggiunse.

«Attento, Hasler. Da come la difendi, sembra quasi che ci sia qualcosa sotto», lo punzecchiò, facendo il giro dell’auto per andare a sedersi dal lato passeggero.

Alex avvampò. «Non c’è niente sotto. Io e Tessa siamo amici», borbottò, sedendosi al posto di guida.

«E tu stai arrossendo come una scolaretta. Hai una cotta per la Beale?» rimarcò Giuliani, iniziando a sfogliare il rapporto. «Merda, non è un rapporto, questo. È più grosso di un’enciclopedia!»

Alex abbozzò uno sguardo alle dimensioni del plico. «Ci sarà stato parecchio da segnalare», commentò, immettendosi nel traffico. Dopo un paio di minuti di silenzio, riprese. «E comunque, continuo a non capire perché lei ti stia tanto sulle balle».

Mettendo il segno con l’indice fra le pagine, Gabriel guardò oltre il parabrezza. Perché la Beale gli stava sul cazzo? Era una questione di stereotipi? L’idea che una donna passasse il tempo fra i cadaveri? No, non era quello. Cercò di pensare ad un episodio in particolare, ma non gli veniva in mente nulla. Probabilmente, gli era stata antipatica da quando l’aveva vista la prima volta. Gli era risultata antipatica a pelle, proprio.

«Non lo so», rispose, con un’alzata di spalle. «A istinto. Mi è stata antipatica subito, e non ha mai fatto niente per farmi cambiare idea».

«Mh», fu l’unica risposta che ebbe da Alex.

«Tutto qui?»

«C’hai mai parlato, almeno? Fuori dal lavoro, intendo».

Gabriel ci pensò. «No. Mai vista fuori da un camice. Mai sentita parlare d’altro se non di morti», abbassò di nuovo gli occhi sul rapporto. Era una lettura orrendamente macabra.

«Appunto. Ci lavori da tre anni e nemmeno la conosci», commentò Alex, svoltando nella rampa che immetteva nei loro garage.

«Su di lei posso dirti che, sicuramente, se scopasse di più, sarebbe meno acida. Anzi, non di più, se scopasse e basta», sbuffò.

A quell’uscita, Alex strinse il volante con forza. «Questa è una battuta sessista e orrenda», girò la chiave e spense l’auto. «E poi, chi ti dice che non lo faccia?»

«Dai, andiamo! Ma ce la vedi? Scommetto che è pure una mezza sega, o frigida», uscì dall’auto, sbattendo la portiera.

«Fa bene a darti del coglione, allora», sbottò Hasler, uscendo dall’auto a sua volta. «Solo perché non la dà a te, non significa che sia frigida. Hai considerato l’ipotesi che, forse, non sei il dono di Dio alle donne?»

«Ehi, amico, non ti scaldare. La Beale mi sta sulle balle. Io sto sulle balle a lei. Sarà sempre così. Più che altro, non capisco come facciate ad andare d’accordo, e perché la difendi sempre», disse, infierendo sul pulsante di chiamata dell’ascensore.

«Tessa ed io siamo amici. E sai perché? Perché io ci parlo, con le persone. Non le suddivido in “scopabili” e “non”, come te», sospirò Alex. «E, per la cronaca, i tuoi commenti maschilisti mi fanno schifo, amico. E sono immeritati», lo guardò torvo, entrando in ascensore.

Durante tutto il tragitto in ascensore – trenta secondi buoni – Gabriel studiò il suo partner, riflettendo su quel commento. L’espressione seria e vagamente infastidita, Alex si grattava la nuca, come se ponderasse di rasarsi di nuovo i capelli castani.

«Che c’è, m’è spuntato un terzo occhio?» gli chiese Alex, quando l’ascensore arrivò al piano. Gabriel scosse la testa, uscendo e dirigendosi alle loro scrivanie.

«Pensavo a quello che hai detto».

Alex sollevò un sopracciglio. «Ti penti di essere stato stronzo?»

Gabriel sbuffò, sedendosi e sbattendo il rapporto sulla scrivania. «È stata un’uscita infelice», disse, alzando le mani. «E irrispettosa».

Alex annuì. «Ecco».

«Ma tu… che ne sai?» disse, guardandolo fisso. «Che sono immeritati?»

Alex gli sfilò il rapporto dalla scrivania e iniziò a leggere. Sapeva che, quando ci si metteva, Gabriel era peggio di bambino. E lui aveva parlato troppo, facendosi sfuggire qualcosa, nell’ansia di proteggere un’amica.

«Non mi dire che… tu e la Beale…», bisbigliò Giuliani.

«No comment», ribatté Alex, concentrato sul rapporto.

«Ci sei andato a letto? Quando? Come? Perché?»

«No. Comment».

 
A/N2: voi che dite, Gabriel ci ha visto giusto sul suo partner e la Beale? 
Alla prossima!

 
 

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Capitolo 3
*** 3 ***


A/N: Buonasera! Con questo capitolo, apriamo una piccola parentesi e andiamo a scavare un po' su Tessa. E non sarà una cosa allegra, vi voglio avvisare (e nemmeno l'unico capitolo del genere, ahimè). Se volete abbandonarmi, sentitevi più che liberi di farlo ;)


3


Alex schiacciò il pulsante del campanello col gomito, le mani impegnate una dai cartoni di pizza, l’altra da un sacchetto del supermercato.

Tessa gli aprì, sorpresa di trovarselo fuori casa, armato di pizza e provviste.  O meglio, sorpresa di trovarsi chiunque fuori casa.

«Mi fai entrare?» le chiese, inclinando la testa di lato e sfoderando il suo miglior sorriso da bravo ragazzo.

Tessa si fece da parte, facendogli cenno di entrare. «Conosci la strada», rispose, in tono piatto, senza la minima inflessione nella voce. Quando lui fu entrato ed ebbe svoltato l’angolo che dall’ingresso portava al cucinino – letteralmente due passi – chiuse la porta, rimettendo il chiavistello, e lo raggiunse, le mani affondate nel tascone della felpa.

Come se fosse a casa sua, Alex aveva gettato il giaccone su una sedia, poggiato le pizze sul piano e stava apparecchiando la tavola.

«Hai cambiato posto ai bicchieri?» le chiese, voltandosi verso di lei, appoggiata al frigo. Tessa annuì, indicandogli il pensile giusto.

«Che hai da bere in frigo?» le chiese, avvicinandolesi.

«Acqua. Forse una birra», rispose lei, facendogli spazio. Sollevò un braccio per ravviarsi dietro l’orecchio una ciocca di capelli. Erano talmente rossi che, spesso, le chiedevano che tintura usasse. Ma, invece, erano tutti suoi.

Quel gesto innocente fece tintinnare un campanello d’allarme nella mente di Alex. Guardò meglio Tessa: scalza, pantaloni della tuta, capelli legati alla bell’e meglio. E fin qui, niente di preoccupante: era a casa sua, poteva conciarsi come le pareva. La nota stonata erano le maniche della felpa: la destra era tirata su fino al gomito, la sinistra abbassata fino al polso. Alex sospirò: l’aveva fatto di nuovo.

«Fammi vedere il braccio, Tess», ordinò, tendendo la mano.

Istintivamente, Tessa arretrò, stringendosi il braccio sinistro al petto, scuotendo la testa.

«Tess…» cercò di convincerla, guardandola negli occhi. Erano talmente chiari che, a seconda della luce, potevano sembrare o azzurri o grigi. «Theresa», disse, afferrandole il polso e costringendola a stendere il braccio. Tirò su la manica e, come pensava, trovò la benda sull’avanbraccio. Sospirò, lasciandola andare di scatto.

Tessa ritirò il braccio, coprendolo di nuovo. Voltò la testa di lato, ansiosa di evitare il suo sguardo.

«Perché?» le chiese, guardandola severo. «Da cosa stai scappando, stavolta?» cercò di non suonare esasperato, ma temeva di fallire. Era, più che altro, preoccupato: e se, un giorno, ci fosse andata più pesante? Se, prima o poi, non sarebbe stata solo un’altra cicatrice da aggiungere al ricamo che si stava facendo sul braccio? Se, ad un certo punto, non avesse più tagliato in orizzontale, ma fosse andata dal polso al gomito?

Tessa sbuffò, tormentandosi la frangetta, senza rispondere. Quando faceva così, lo odiava. Che diritto aveva, Alex, di impicciarsi dei fatti suoi? Perché non la lasciava in pace? Perché continuava a cercare di salvarla da se stessa?

Armeggiando con piatti e posate, parlando più alle pizze e a se stesso che a lei, Alex riprese. «È perché è passato un mese da quello scantinato e noi siamo ancora fermi, mentre tu ne hai un’altra, conciata uguale, sul tavolo? È perché quel pezzo di merda ne ha uccisa un’altra?» sbraitò, alzando lo sguardo su di lei. Tessa era ancora poggiata al frigorifero, le braccia strette al corpo, il capo chino. Con un sospiro, Alex tornò da lei. Lentamente, dandole il tempo di opporsi, la trasse a sé. Quando vide che lei non sembrava scappare, la strinse.

«Non è colpa tua, Tess…» le sussurrò fra i capelli, accarezzandole la schiena. «Non. È. Colpa. Tua», scandì.

Tessa ingoiò rumorosamente. «E allora perché mi sento così male?», bisbigliò, le labbra che sfioravano il tessuto della camicia del detective.

«Perché sei umana», le rispose, scostandola appena da sé per poterla guardare. Le sollevò il mento con un dito, sorridendole con dolcezza. «E non sei il ghiacciolo che Gabriel sostiene tu sia» la prese in giro, facendole l’occhiolino, sperando di farla sorridere. Funzionò a metà: ottenne una smorfia.

«Quel coglione…» borbottò Tessa, tirando su col naso.

«Amen, sorella». Le poggiò le mani sulle spalle, tornando serio. «Davvero, Tess. Tu stai facendo il tuo lavoro con tutto l’impegno del mondo. Stai rivoltando ogni millimetro delle vittime, il laboratorio sta facendo gli straordinari per analizzare l’analizzabile. Non hai trascurato dettagli. Non è colpa tua se non riusciamo a trovarlo», disse, gli occhi nei suoi. «Dovrà tradirsi, prima o poi», continuò.

«Spero prima della terza…»

«Ovviamente» annuì. Tessa sospirò, Alex le prese di nuovo il polso. «E basta con ‘ste cose, chiaro?»

Tessa voltò di nuovo la testa, senza rispondere.

«Ho detto, basta con ‘ste cose, Tessa. Chiaro?», la strattonò.

Tessa annuì, poco convinta. Alex sospirò.

«Me lo farò bastare. Vieni a mangiare», la prese per mano.

«Non ho fame», scosse la testa.

«Devi mangiare».

«Ho detto che non ho fame», ribatté lei.

«Devi mangiare, Tess. Solo un pezzo. Uno, e non ti rompo più le scatole, stasera», la tirò verso il tavolo. «È la tua preferita», la tentò. Tessa sospirò, lo stomaco che brontolava la tradì. Si sedette, arrossendo.

«Il tuo stomaco è d’accordo con me», gongolò Alex.

«Se mangio una fetta, poi te ne vai al diavolo?» gli chiese, guardandolo in tralice.

«Se mangi una fetta, vado dove vuoi».

 
Finì che Tessa mangiò tutta la sua pizza. E che lei ed Alex si spartirono anche la ciambella al cioccolato del supermercato.

«Questo perché non avevi fame», la prese in giro, mentre lei si leccava via le briciole da un polpastrello. Per tutta risposta, Tessa gli mostrò il medio.

«Come ti senti?» le chiese, sfiorandole la frangetta. «Va meglio?»

Tessa iniziò a rosicchiarsi un’unghia. Andava meglio? Forse. Annuì, senza parlare. Andava meglio. E non era normale che Alex la facesse sentire ancora così. Come se non avesse un solo difetto, come se tutti i suoi pezzi incasinati fossero miracolosamente in ordine, come se fosse la persona migliore del mondo.

Come se non avesse bisogno di farsi del male per sapere di essere ancora viva.

Rannicchiata sul divano accanto a lui, la pancia piena, Tessa si sentiva quasi bene. Quel senso di vuoto e male che le avevano stritolato lo stomaco appena tornata a casa, facendole girare la testa, vomitare l’anima e cercare qualcosa di affilato, sembravano essersene tornati nel loro angolino buio. Sospirò, poggiando la testa sulla spalla del detective. Lui, di contro, le circondò le spalle con un braccio, stringendola a sé.

«Come facevi a sapere che stavo male?» gli chiese, dopo qualche minuto.

Alex alzò le spalle. «Istinto, forse», scherzò, iniziando a disegnarle cerchi col pollice su una spalla. Tesa gli diede un pugno fiacco su una gamba.

«Stronzate», borbottò. Lui rise.

«Ti conosco, Tess. So che questa storia ti ha presa parecchio. So che effetto ti fa. E che Gabriel non aiuta».

«Giuliani è un coglione», sbottò lei. «L’altra volta mi ha fatto trovare le luci spente», si raddrizzò. Alex le baciò la tempia.

«Ha scoperto che hai paura del buio», commentò.

«Non ho paura del buio», sbuffò Tessa «Mi dà fastidio non vedere», protestò, suonando come una bambina. Alex si morse il labbro per non ridere.

«Certo», la blandì.

«Sono altre le cose di cui ho paura…» ammise, in un sussurro. Ingoiò rumorosamente, tornando a tormentarsi l’unghia.

«Tipo?» le chiese Alex, immaginando la risposta. In quel momento, la cosa di cui Tessa aveva più paura era se stessa, e il mostro che la divorava da dentro, portandola a farsi del male. Aveva paura di stare ancora così, e di restare sola. Contemporaneamente, aveva paura di aver bisogno di qualcuno. Avevano litigato fin troppe volte, nel corso della loro relazione, per questo. Forse, era stato proprio quello il motivo per cui, alla fine, avevano scelto di fare un passo indietro e darci un taglio. Erano rimasti in ottimi rapporti, forse persino migliori, ma sembrava che, in un modo o nell’altro, continuassero ad essere sempre sulla stessa frequenza, pronti a cogliere qualsiasi segnale che l’uno avesse bisogno dell’altro. Per quanto Tessa si trincerasse nella sua piccola roccaforte e cercasse il più possibile di tenere Alex fuori, lui avvertiva sempre quando stava crollando. Come quella sera. Stava tornando a casa, ma poi aveva deciso per una deviazione nella corsia dei dolci confezionati al supermercato, un’altra in pizzeria e poi da lei. E ci aveva visto giusto.

«Tipo… me» rispose lei, alzando solo per un attimo gli occhi su di lui, voltando rapidamente la testa nella direzione opposta.

Fu come se gli avessero tirato una cannonata in pieno petto. L’aveva vista stare male. L’aveva vista farsi del male. L’aveva vista piangere. Cazzo, l’aveva fatta piangere. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, per toglierle quell’ombra dagli occhi. Fece l’unica cosa che, generalmente, si era dimostrata utile. La strinse a sé, talmente forte da farle male – e sapeva che era così. Poteva sentire le spalle di Tessa alzarsi e abbassarsi rapidamente. Quando iniziò a singhiozzare, la cullò, accarezzandole i capelli. Dirle che sarebbe andato tutto bene era inutile, non gli avrebbe creduto. Anzi, gli avrebbe urlato contro che no, non va mai bene, non mai a finire bene. Avrebbero alzato la voce, e litigato. E non era di quello, che Tessa aveva bisogno.

Dopo qualche minuto, sembrò essersi calmata. Si scostò da lui, tirando su col naso e asciugandoselo con la manica.

«Scusa. Non so che mi è preso…», borbottò, portandosi i capelli dietro le orecchie con entrambe le mani.

«Non c’è niente di cui ti debba scusare», le sorrise, scuotendo la testa, accarezzandole le braccia. Piccola, arruffata, il naso arrossato, le guance chiazzate e con ancora qualche lacrima che vi tremava sopra, gli faceva una tenerezza infinita. Qualcosa gli si annodò in gola, mentre la guardava. Quando si erano avvicinati così, i loro visi? E perché quella lacrima sulla guancia lo attirava così tanto? Spostò rapidamente lo sguardo dalla guancia agli occhi di Tessa e viceversa. Poi, senza pensarci, si sporse verso di lei, poggiandole le labbra sulla guancia, più delicato di una farfalla su un fiore.

Sgranò gli occhi, sorpreso, quando lei spostò appena la testa, cercando le sue labbra. Non se lo aspettava, ma di certo non si sarebbe fatto sfuggire l’occasione: se lei voleva baciarlo, gliel’avrebbe lasciato fare, e più che volentieri.

Non c’era urgenza. Non c’era fame, come era capitato molte volte durante – e diverse dopo – la loro relazione. Solo una enorme, sconfinata dolcezza. Conforto, quello di sapere che l’altro era lì, e niente e nessuno l’avrebbe mai portato via.

Quando si separarono, avevano entrambi il cuore in gola e il fiato corto. Abbassarono lo sguardo, imbarazzati. Tessa si morse il labbro inferiore, risucchiandolo in bocca. Alex provò una tremenda fitta di nostalgia a quel gesto: lo faceva sempre, quando si baciavano, e, quando una volta lui le chiese perché, lei gli rispose che era per sentire ancora il sapore delle sue labbra. Doveva essersi lasciato sfuggire qualche suono, perché lei alzò lo sguardo su di lui, avvampando.

«Tess…» cominciò, sollevando una mano per sfiorarle la guancia.

«So quello che stai per dire», lo interruppe lei, raddrizzando le spalle. «Adesso mi dirai che è meglio se te ne vai, prima di fare qualcosa di cui ci pentiremo, di nuovo. Che abbiamo deciso che tra di noi non funzionava. E che dobbiamo smetterla» disse, la voce meno ferma di quanto volesse. Si erano lasciati di comune accordo, avevano pensato entrambi fosse meglio così. Eppure si giravano ancora intorno. Eppure nessuno dei due aveva trovato qualcun altro. Eppure, occasionalmente, finivano ancora a letto insieme. Si erano detti che era meglio così. Ma non lo era, non per lei. Forse, nemmeno per lui. «Giusto?» concluse.

Alex la guardò, senza rispondere. Si erano baciati. Non era la prima volta, da quando si erano lasciati. Non gli era dispiaciuto. Dannazione, non gli dispiaceva mai! E nemmeno andare oltre. La loro relazione era ufficialmente finita, ufficialmente erano solo buoni amici. Ufficiosamente, finivano con lo scaldarsi ancora ogni tanto, senza impegno, ovviamente.

«Il fatto è che non voglio che te ne vai, Alex. Non stasera» ammise Tessa, tormentando i polsini logori della felpa. «Per favore, non te ne andare…» quasi implorò, a bassa voce.

Di nuovo, Alex la guardò. Quanto le era costata, quella richiesta? Quanto le era costato, guardarlo? Quanto le era costato buttar giù le sue difese e ammettere che, sì, aveva bisogno di lui?

«Oh, Tess…» sospirò, prima di prenderle il viso fra le mani e baciarla di nuovo.

 

Alla prossima (se non mi abbandonate)! Come sempre, ogni opinione è ben accetta e gradita

 

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Capitolo 4
*** 4 ***


A/N: ehilà! Siccome sono molto felice di aver finito di scrivere il capitolo 6, a voi oggi tocca il 4! Buona lettura.


4

Rigirandosi fra le lenzuola, Alex trovò l’altra metà del letto vuota. Tiepida, ma vuota. Tessa non doveva essere sgusciata via da molto. Si tirò su a sedere, stropicciandosi gli occhi. Al chiarore tenue della lucina notturna, individuò i pantaloni e andò a recuperarli. Della camicia, nemmeno l’ombra. Scosse la testa: probabilmente, gliel’aveva fregata Tessa. Con uno sbadiglio, uscì dalla stanza.

Trovò Tessa affacciata alla finestra del salotto, i capelli rossi sciolti sulla schiena spiccavano in netto contrasto con la camicia blu. La sua camicia blu. Il buio, oltre la finestra aperta, era spezzato dai lampioni. Sul davanzale, un pacchetto stropicciato di sigarette, un accendino e un posacenere sbeccato a forma di barchetta.

«Credevo avessi smesso», disse, raggiungendola. Le passò un braccio intorno alla vita, stringendola a sé. Tessa voltò la testa verso di lui, la sigaretta accesa tra le dita.

«Se ti dà fastidio, la spengo» disse, allungando la mano verso il posacenere. Per tutta risposta, Alex le sfilò la sigaretta dalle dita e se la portò alle labbra. Gliela restituì, facendo uscire il fumo dal naso.

«È così che stanno le cose, detective?» lo prese in giro, facendo un tiro. «Ora ti metti a rubare fumo a fanciulle indifese?» ghignò, facendogli l’occhiolino. Alex sorrise, riprendendo la sigaretta che lei gli stava passando.

«Solo a quelle che mi rubano la camicia», ribatté.

Tessa alzò le spalle. «Era la prima cosa che ho trovato», rispose, con aria innocente. Alex rise.

«Credo che la tua felpa fosse più vicina. E anche i pantaloni», sottolineò, sbirciandole le gambe nude. Di nuovo, Tessa alzò le spalle.

«E va bene», sbuffò, spegnendo la sigaretta nel posacenere e voltando il corpo completamente verso di lui. «La tua camicia mi piaceva di più» disse, facendogli una linguaccia.

«Ah sì? E perché?» le chiese, accarezzandole i fianchi. Constatò che la camicia era stato l’unico indumento che avesse raccolto.

«Perché è così cliché che, dopo il sesso, lei giri con indosso soltanto la camicia di lui», lo prese in giro, spostandosi i capelli su una spalla e sollevando un sopracciglio.
Alex strinse le labbra per non riderle in faccia. «E poi, perché è tua», aggiunse, a bassa voce. Di nuovo, aveva fatto dopo cena, prese a rosicchiare un’unghia.

L’espressione di Alex si addolcì ancora di più. Le sfiorò le guance con i pollici, per poi baciarle la punta del naso.

Tessa chiuse gli occhi. Perché, perché, perché, era sempre e solo Alex che la faceva sentire così? Come se valesse la pena. Come se fosse perfetta. Perché doveva essere Alex, che meritava il mondo, a farla stare bene? Lei, che era riuscita solo a fargli male?

Tessa se le ricordava, le litigate furibonde. Se le ricordava, le urla, le porte sbattute, le lacrime.

I tagli. Quei cazzo di tagli, alla base di tutto.

Perché sembrava che lei avesse lo stupido bisogno di farsi male, di vedere il proprio sangue, per ricordarsi di essere ancora viva. E Alex aveva sempre cercato di salvarla da se stessa, e non c’era mai riuscito. Si erano urlati di tutto, si erano fatti del male, ed erano sempre corsi – di nuovo, come dei pazzi – l’uno dall’altra. Finché non era sembrato che il male che si facevano fosse superiore al bene che riuscivano a darsi. Ma era rimasto il sesso, come quella notte.

Ma era stato solo quello?

Strappandosi un pezzo di unghia, Tessa ci rifletté. No, on era stato solo quello. Azzardò un’occhiata ad Alex, che la guardava perplesso, la testa piegata di lato, la fronte solcata sa una ruga verticale tra le sopracciglia.

«A cosa pensi, pulcina?» le chiese, e immediatamente si morse la lingua. L’ultima volta che l’aveva chiamata così, stavano ancora insieme. Era stato prima della litigata colossale, prima che lei gli urlasse di andarsene, che non aveva bisogno di essere salvata. E lui l’aveva assecondata, perché era stanco. L’amava, le aveva urlato, ma era stanco. Stanco di essere sempre spaventato. Stanco di non essere abbastanza. Non si erano parlati per mesi, al di fuori del lavoro, finché non erano riusciti a trovare una specie di equilibrio. Si erano detti che una relazione non poteva funzionare. Come amici, forse. Ma nulla di più. Occasionalmente, era rimasto il sesso. E ogni volta si dicevano basta, questa è l’ultima volta. E non lo era mai. E faceva male, quando ognuno tornava a casa sua, faceva male la mattina dopo, fingere che non fosse successo. Faceva male la notte dopo, quando il letto era vuoto.

Faceva male perché lui, di amarla, per quanto ci avesse provato, non aveva mai smesso. Ma lei?

Tessa ingoiò rumorosamente, quando Alex si lasciò sfuggire quel nomignolo. Nemmeno sotto tortura – forse – avrebbe ammesso che le era mancato. Sentì il cuore iniziare a galoppare, al pensiero di tutte le volte che l’aveva chiamata così. La chiamava “pulcina” e poi la sgridava. La baciava. La stringeva. Lo diceva sottovoce in camera da letto. Stava zitto e si faceva lasciare. L’ultima volta che l’aveva detto, stavano ancora insieme. Poi, mai più. Sempre “Tessa”, al massimo “Tess”. Se si arrabbiava, “Theresa”. Se era furioso, “dottoressa Beale”, come Giuliani. “Pulcina” era stato sepolto sotto i cocci di quell’amore su cui lei aveva sputato e che aveva preso in giro, non riuscendo a lasciarlo andare.

Gli aveva urlato di non aver bisogno di lui, di essere salvata. Eppure… eppure, lui sembrava essere sempre tutto ciò di cui avesse bisogno.

Tessa sospirò. «Non possiamo andare avanti così, Alex», disse, senza guardarlo.

Alex batté le palpebre, confuso. «Cioè?»

«Cioè… cioè dobbiamo smetterla», insisté. Alex non rispose. Tessa saltò sul davanzale, sedendosi sul marmo, e si accese un’altra sigaretta. Questa volta, la finì da sola. Dopo aver spento il mozzicone, rimase in silenzio qualche attimo.

«Perché è finita, tra di noi?» gli chiese.

«Perché tu mi hai cacciato», rispose lui, secco. «Dicesti di non aver bisogno di me», aggiunse.

«Perché mi hai dato retta?» chiese, sottovoce. Alex si ammorbidì.

«Perché sembrava essere quello di cui avevi bisogno», le rispose, sfiorandole i capelli. Lei scosse la testa.

«Ti sbagliavi», mormorò, poggiandogli le mani sulle spalle. «Mi sbagliavo, Alex», continuò. «Ho bisogno di te», ammise.

Lui le sorrise, accarezzandole le braccia. Rimase in silenzio: la conosceva abbastanza da sapere che era meglio non interromperla, quando decideva di aprirsi.

«Ho bisogno di te, ma sono la persona sbagliata, per te», riprese Tessa, tirando su col naso. «Sono riuscita solo a farti male. Tu mi amavi e io…» s’interruppe, cercando le parole. «…io non ero capace di restituirti nemmeno la metà. E ti ho cacciato, perché così era più facile. Ti volevo lontano, così non potevo avvelenarti, ma dovevi essere sempre a portata di mano…» di nuovo, tirò su col naso. «Il fatto è… è che, ogni volta, volevo essere egoista e chiederti di riprovarci, ma poi… poi mi chiedevo perché avresti dovuto volerci riprovare… e… e mi dicevo che era meglio così, che funzionavamo meglio così…»

«Tess…» la interruppe Alex. «Non sei la persona sbagliata», la rassicurò.

«Sì, invece!» sbottò lei. «Ero la persona sbagliata, e lo sono ancora, Alex! Ti ho usato, e usato, e usato ancora! E non ho nessun diritto di…» le sfuggì un singhiozzo. «…non ho il diritto di chiederti di riprovarci», concluse, sottovoce.

Alex la guardò, esterrefatto. Non era da lei, esternare così tanto. E poi… davvero voleva riprovarci?

«Pulcina…» sussurrò lui, senza sapere cosa dire.

«Me la dai, un’altra possibilità?» gli chiese.

Alex fece un passo indietro. Tessa chinò la testa, stringendo le dita sul bordo del davanzale. Comprensibile. Si morse un labbro. Alex fece un altro passo indietro. Tessa saltò giù dal davanzale, senza rialzare la testa. Le mani ai bottoni della camicia, superò Alex, diretta fuori dalla stanza.

«E ora dove cazzo vai?», sbottò lui, allungando un braccio verso di lei e afferrandola per il gomito.

«A mettere qualcos’altro, così ti riprendi al tua cazzo di camicia e te ne vai», rispose, la voce che tremava.

«Cazzo stai dicendo, Beale?» la strattonò. «Due secondi prima mi chiedi di tornare insieme e due secondi dopo prendi e parti?» la costrinse a voltarsi. Restavano chiusi solo gli ultimi bottoni della camicia, aperta dal collo fin quasi all’ombelico. «Il tempo di pensare posso averlo, o è un lusso che non posso concedermi?», continuò, tirandola a sé.

«Tanto stai per mandarmi al diavolo», rispose Tessa. L’aveva chiamata Beale. L’aveva fatto incazzare. Lo sentì sospirare.

«No che non ti mando al diavolo», disse, abbracciandola. Tessa chiuse gli occhi, il cuore in gola. «Come faccio a mandarti al diavolo, quando anche io volevo chiederti di riprovarci?»

Tessa alzò la testa di scatto, gli occhi sgranati. Le sorrise.

«Davvero?» gli chiese. Lui annuì.

«Davvero». Non le diede il tempo di aggiungere altro, preferendo baciarla ancora.

Quando si separarono, Tessa sogghignava.

«Ho una domanda, detective», disse.

«Spara», le rispose, divertito.

«Hai la pistola in tasca, o sei molto felice di essere qui?», lo prese in giro.

«Be’, dottoressa… perché non andiamo a scoprirlo?»
 

Fun fact: quando andavo all'università, ero spesso a casa di un mio compagno di corso che aveva un posacenere di ceramica a forma di barchetta, bianco e giallo, un po' sbeccato. Un giorno, cercando un posacenere, chiesi ad una delle mie coinquiline che fine avesse fatto quello a forma di barchetta. Abbiamo passato una mezz'ora a battibeccare perché io ricordavo di averlo usato, e lei non lo aveva mai visto. Al mio "Ma come, l'ho sempre usato insieme a [compagnodicorso]! Lo lasciavamo sulla finestra, non te lo ricordi?" è intervenuta l'altra coinquilina, che era stata qualche volta con me nell'appartamento di questo ragazzo, ricordandomi che quella barchetta non è mai stata nostra e avevo confuso i posacenere (il nostro era tondo, rosa e con i fiorellini). Giusto per farvi ridere un po', senza impegno.
Alla prossima!



 

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Capitolo 5
*** 5 ***


Ehilà! Oggi si fa un piccolo passo avanti nella ricerca dell'assassino. Buona lettura!


5

«Da quando porti il rossetto?» lo prese in giro Gabriel.

Alex lo guardò perplesso. «Rossetto?» gli chiese, battendo più volte le palpebre. Il collega si limitò a sghignazzare. Alex prese il cellulare e aprì la fotocamera frontale: Gabriel aveva ragione, aveva le labbra macchiate di rossetto. Se le strofinò per pulirle, facendo del proprio meglio per non avvampare.

«Avanti, sputa il rospo: chi è?» lo pungolò Gabriel, alzando e abbassando le sopracciglia.

«Chi?» rimase vago Alex, fingendo di concentrarsi sui documenti che aveva sulla scrivania. In realtà, pensava al bacio fuori casa di Tessa, quello incriminato. Davvero aveva fatto tutto il tragitto in auto senza notare il rossetto?

«Quella con cui hai passato la notte» sbuffò esasperato Gabriel. «Hai la stessa camicia di ieri, quindi non sei tornato a casa…»

«Potrei anche non aver fatto il bucato» ribatté. Gabriel alzò un sopracciglio.

«Hai la stessa camicia di ieri, su cui vedo da qui alcuni capelli lunghi. Avevi il segno del rossetto. E non sei per niente concentrato», enumerò. «Chi è?»

«Tua sorella» rispose Alex, piccato. Quando faceva così, Gabriel era insopportabile. «Invece di pensare alla mia vita privata, perché non lavori?» lo redarguì.

«Sto aspettando che la tua cara amica Tessa ci faccia avere dei risultati di non so più che analisi. A proposito… lei lo sa? Che hai una ragazza?» rispose,
punzecchiandolo.

Alex colse l’occasione per depistarlo. «Certo. Ne è molto felice».

«Ah sì? Credevo potesse essere gelosa…» insisté Gabriel.

«E perché? Siamo amici», rispose Alex, alzando le spalle.

Gabriel stava per ribattere, quando squillò il telefono.

«Giuliani».

«Beale. Ho trovato qualcosa che potrebbe essere utile».

A quell’uscita, Gabriel premette il pulsante per il vivavoce.

«È in vivavoce, dottoressa Beale», serio.

«Lo stronzo ha lasciato una traccia», disse Tessa. «Non ci crederete mai…»

«Che cosa, Tess?» s’inserì Alex. Né lui né Gabriel osavano quasi respirare.

«Segni di denti. E saliva», rispose lei, cercando di restare calma. Se i campioni fossero risultati analizzabili, e il bastardo fosse stato nel sistema…

«Se abbiamo il suo DNA nel sistema, siamo a cavallo», disse Gabriel.

«Quello è l’unico problema», rispose Tessa, cercando di non suonare disfattista.

«Dov’erano i segni dei denti?» di nuovo, si inserì Alex.

«Su un seno. Non li ho notati subito, ma solo esaminando i tessuti…»

«Niente tecnichese, doc», la interruppe Gabriel. «Si possono o no usare per un confronto?»

«Ci stiamo lavorando, detective», rispose lei, secca.

«Appena ci sono novità…» mediò Alex.

«Sarete i primi a saperlo». Tessa mise giù senza salutare.

«Gli stiamo addosso», disse Gabriel, guardando Alex.

«Finalmente», rispose il collega, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia. Chiuse gli occhi, con un sospiro. Potevano farcela. Potevano trovarlo.

 
Tessa aveva ricontrollato più e più volte le misurazioni. La prima volta, si era convinta di aver sbagliato. Arrivata alla decima, non era più così sicura che ci fossero errori.

A lasciare quei segni erano state mascelle femminili.

Lo stronzo era una stronza. Tempo di avvisare i detective.

«Hasler».

«Beale».

«Tessa. Dammi un attimo, ti metto in vivavoce», dopo alcuni fruscii, Alex riprese. «Ecco».

«Lo stronzo è una stronza», disse Tessa, senza giri di parole.

«Eh?», risposero in coro i due detective.

Tessa sospirò. «Quei segni di denti dell’altro giorno. Sono femminili. E no, Giuliani, la vittima non si è morsa una tetta», lo prevenne.

«Non ho detto niente», bofonchiò il detective.

«Sono arcate femminili. Ho controllato tutti i manuali. Ho richiesto l’ausilio di un esperto, ma ho la certezza al 99% che siano femminili. Appena ho il DNA della saliva, avremo la conferma».

«Quanto ci vorrà?» chiese Gabriel, secco.

Tessa sospirò, massaggiandosi una tempia, la cornetta del telefono stretta con talmente tanta forza da far sbiancare le nocche. Non rispose.

«Tess? Quanto pensi che ci metterà il laboratorio?» riprovò Alex, più gentile.

«Non lo so», mormorò lei. «È ovviamente in cima alla lista, ma…» Tessa sospirò di nuovo. «Qualche giorno», disse.

«Non si può sollecitare?» borbottò Gabriel. Tessa digrignò i denti.

«Non abbiamo una bacchetta magica, detective!» sbottò.

«Tessa, aspettiamo notizie», s’inserì Alex, prima di riagganciare. Tessa già lo vedeva, pronto a strangolare il collega.

Non poteva dare torto a Giuliani. Era passato più di un mese dal primo cadavere, e non sapevano praticamente nulla. Solo che avevano a che fare con una persona sadica, che amava torturare le sue vittime. Ma in maniera intelligente: massimizzare il danno, tenendo la vittima in vita il più a lungo possibile. C’era un certo metodo, nella sua follia.

Tessa si lasciò andare sullo schienale della sedia. Chiuse gli occhi, premendo le dita contro le palpebre. Il braccio le aveva iniziato a prudere sotto la benda. Si passò le mani fra i capelli, tirandoseli. Strinse i denti per non urlare.

Il senso di colpa le strisciava lungo la schiena, freddo. Respirò profondamente, una, due, tre volte. Non era colpa sua, si disse. Lei stava facendo tutto quello che poteva. Si morse il labbro, affondando le unghie nei palmi fino a farsi male.

«Se fa male, sono sveglia» mormorò. Si passò la lingua sul labbro, sentendo il sapore del sangue dove si era morsa. «Se sanguino, sono ancora viva», continuò.

Tirò su la manica, stringendo il pugno. La benda era al suo posto, pulita. Oltre quella, poteva vedere le cicatrici più vecchie. Ne fiorò la superficie irregolare. Poi, prese una penna.
 

Ve l'aspettavate, che fosse un'assassina? Alla prossima!

 

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Capitolo 6
*** 6 ***


Ehilà! Torniamo su Tessa e Alex. Ho solo un altro capitolo di "scorta", spero di finirne presto qualcun altro. Se tutto va secondo i piani, dovrete sopportare solo un altro paio/massimo tre capitoli vagamente smielati, prima di tornare a concentrarci sull'assassina. 
Buona lettura!



6

«Spiegamelo ancora», le chiese Alex, esaminandole il braccio. Sopra le vecchie cicatrici – un intrico di linee di lunghezza e spessore differente – erano disegnate delle farfalle.

Tessa ritrasse il braccio. «La mia terapista mi ha consigliato di disegnare una farfalla ogni volta che voglio tagliarmi, e di non lavarla via. Ogni farfalla deve avere il nome di una persona importante per me. Lo scopo è fare qualcosa di creativo invece che distruttivo», spiegò.

Alex le studiò il viso. Era più pallida, le lentiggini sul naso ancora più visibili, cerchi scuri intorno agli occhi grigi. Ne stava facendo una malattia. Prima trovavano quella stronza, meglio sarebbe stato per tutti.

«Ne hai almeno una decina…» commentò, sfiorandole i disegni stilizzati sulla pelle. «Sono tutte di… oggi?»

«Mh-mh», annuì lei. Alex sospirò.

«È per questo che sei venuta da me?» continuò il detective. Tessa annuì, chinando la testa, in imbarazzo.

«Ho bisogno di te», ammise. «Salvami», aggiunse, a voce talmente bassa che Alex pensò di non aver capito. La guardò ad occhi sgranati, sorpreso. Theresa Eleanor Beale, medico legale, non chiedeva mai aiuto a nessuno, nemmeno sotto tortura. Quanto doveva stare male, per ammetterlo così?

Alex le sfiorò di nuovo le farfalle stilizzate che si era disegnata sul braccio. «Come si chiamano?»

Tessa batté le palpebre, aggrottando le sopracciglia.

«Hai detto che ogni farfalla deve avere il nome di una persona importante. Come si chiamano?» spiegò.

Tessa abbassò lo sguardo. I nomi che aveva dato alle sue farfalle potevano essere più dolorosi dei tagli che avevano evitato. Ingoiò rumorosamente e poi sospirò.
«Giselle. Gregory», disse, indicando le prime due. I genitori morti quando era bambina. «Helena. Thomas. Roxane». I genitori e la sorella adottivi.

Alex conosceva bene quei nomi. Aprì la bocca per fermarla, notando gli occhi che le diventavano lucidi.

«O.», proseguì Tessa, la voce che le si spezzava su quella singola lettera. Di scatto, Alex la strinse a sé, con forza. Gli si strinse la gola, su quella lettera. “O” per Oliver oppure Olivia. Non avevano fatto in tempo a scoprirlo. Non avevano voluto saperlo, poi. Era capitato, successo all’improvviso. E altrettanto all’improvviso era sparito. E, da quel momento, Tessa era peggiorata, iniziando a farsi del male con più frequenza, fino a cacciare Alex.

«Alex», sussurrò, il viso contro il suo collo.

«Sono qui, pulcina», le rispose, accarezzandole la schiena.

«Le altre… le altre farfalle… si chiamano tutte Alex».

Alex ingoiò rumorosamente, gli occhi che gli bruciavano.

La strinse più forte, quasi come se volesse farla entrare dentro di sé, avvolgerla completamente e tenerla al sicuro, proteggerla dal mondo e da se stessa. Tessa non protestò.

Rimasero così, in silenzio, per qualche minuto, finché Tessa non si divincolò dall’abbraccio, allontanandosi e tirando su col naso, asciugandosi le guance umide col dorso della mano. Alex la guardò, mordendosi l’interno del labbro.

Il “ding” del microonde ruppe il silenzio, facendo sobbalzare Tessa, colta alla sprovvista, e ridacchiare Alex.

«La cena è pronta», disse il detective, alzandosi dal divano e avviandosi in cucina. Sulla porta, si voltò verso di lei. «Porto qui o mangiamo di là?»

Tessa si stropicciò di nuovo la faccia. «No, vengo in cucina», rispose, seguendolo.

Alex tirò fuori le lasagne surgelate dal microonde, lasciandosi sfuggire un’imprecazione piuttosto colorita quando si scottò con la teglia, per poi praticamente sbatterla sul bancone per esaminarsi la mano. Tessa fu immediatamente al suo fianco, le dita leggere sulla pelle arrossata.

«Acqua fredda», gli ordinò, tirandolo verso il lavandino. Alex obbedì. «E dentifricio», aggiunse.

Alex alzò un sopracciglio. «Questo è il tuo consiglio medico?», la prese in giro, la mano sotto il getto freddo.

Tessa scrollò le spalle. «Non mi intendo di vivi», ribatté, un accenno di sorriso le fece sollevare l’angolo delle labbra.

Alex scosse la testa, divertito, ma seguì il suo consiglio, andando in bagno e recuperando il dentifricio.

«Ma porca…» si lasciò sfuggire. Ovviamente, era alla menta. E, ancora più ovviamente, extra forte. «Il dentifricio è proprio necessario, Tess?» chiese, sperando di scamparsela. Sapeva che avrebbe bruciato come l’inferno.

Tessa si rigirò il tubetto fra le mani, per poi riesaminare le falangi arrossate di Alex. «Vuoi rischiare una vescica e farti prendere in giro dal Coglione Supremo?»

Con un sospiro, Alex si mise il dentifricio sulle dita. Tessa rise.

 
«Lungi da me lamentarmi, ma com’è possibile che con te è sempre o pizza o surgelati?» chiese Tessa, allontanando il piatto vuoto.

«Sono un uomo impegnato, non ho tempo per mettermi ai fornelli», ribatté Alex, trattenendo un sorriso. Gli sembrava che, per fortuna, l’umore di Tessa fosse decisamente migliorato. Rifletté che – modestamente – fosse stato merito suo. Se solo cenare insieme, a casa sua, l’aveva fatta stare meglio, diamine, se il solo passare del tempo insieme la faceva stare meglio, avrebbe anche potuto… no. O forse sì? Iniziò a fare a strisce il tovagliolo. Tessa aveva ammesso di aver bisogno di lui. E lui ne aveva di lei. Gli passò un attimo per la mente l’idea di passare ogni sera così. Allo stesso tavolo. Nella stessa casa. Non era la prima volta che ci pensava. Sì, ma quello era stato prima. Prima di O. Prima che Tessa lo cacciasse, senza mai riuscire a mandarlo via. Senza che lui riuscisse ad andarsene via. Ed erano tornati insieme da così poco…

«Alex? Mi ascolti?» Tessa schioccò le dita, riportandolo al presente.

Alex batté le palpebre un paio di volte. «Sposami», gli uscì di bocca, prima di riuscire a collegare il cervello.

Tessa lo guardò a bocca aperta. «Che hai detto?»

«Sposami», ripeté lui, con più convinzione. Ormai la frittata era fatta, tanto valeva andare a fondo.

Tessa rimase in silenzio, trovando improvvisamente interessanti gli avanzi di sugo nel piatto. Non sapeva cosa – e se – rispondere. Sentì il panico stringerle la gola.

«Non… non devi rispondere adesso», le venne incontro lui.

Tessa si rilassò. Aveva tempo per rifletterci, quindi. Chiuse gli occhi, invidiando tutte quelle colleghe che le avevano raccontato di come avessero accettato immediatamente e senza remore le proposte di matrimonio dei loro compagni.

Perché lei doveva rendere sempre tutto più difficile?

Sentì la mano di Alex sulla propria, calda, confortante.

«Respira, Tess. Pensaci. Tutto il tempo che ti serve», la rassicurò. «Anche un mese, o un anno» aggiunse, chiudendo le dita intorno alle sue.

«È… è stata un’idea improvvisa, o…» si schiarì la gola. «…o ci pensavi da un po’?»

Alex sospirò, grattandosi il naso. «Ci pensavo da un po’». Raddrizzò le spalle. «La sera che mi dicesti di…» si interruppe, ingoiando rumorosamente. «…di essere incinta, avevo l’anello in tasca. Non te l’ho più chiesto perché avevo paura potessi pensare fosse solo per il bambino. E poi…» lasciò la frase in sospeso.
Tessa sgranò gli occhi, senza parlare. E poi lo aveva lasciato.

«Ce l’ho ancora. Non in tasca. Di là. In camera», riprese. Poi si alzò di scatto, un’idea un po’ balzana che gli formava nella testa. «Anzi, te lo prendo. Aspetta qui».

Ovviamente, Tessa non aspettò, preferendo seguirlo in camera da letto. Quando la vide ferma nel vano della porta, Alex sorrise.

«Tienilo tu» le disse, porgendole la scatola.

Tessa esitò, prima di prenderla, senza aprirla.

«Facciamo così. Non solleverò più l’argomento», disse Alex, alzando le mani. «Sai che ti amo, e non da ieri. Sai che voglio stare con te. Sai che voglio vederti felice, cazzo, Tess, voglio farti felice. E che voglio sposarti. Passare ogni notte con i tuoi capelli che mi finiscono in bocca e la lucina accesa. Litigare per l’ultimo biscotto e poi puntualmente cedertelo», a quegli esempi, Tessa accennò un sorriso. «Disegnare farfalle» aggiunse, serio. «Ma ti conosco, e tu hai bisogno di tempo e spazio anche solo per scegliere i cereali, figurarsi per questo. Tieni l’anello. Pensa, rifletti. Se accetti, lo metti, senza bisogno di parole. Ci stai?»

Tessa ci rifletté, rigirandosi la scatola fra le mani. «E se la risposta fosse no?»

Alex ingoiò rumorosamente. «In quel caso, ritornerà nel cassetto, senza rancore», disse, dando una pacca al comodino. «E anche se fosse un no, io non me ne vado, Tess» aggiunse, rassicurandola.

Tessa fece un respiro profondo, stringendo la scatola. Si sentiva scombussolata, e sì, aveva bisogno di riflettere. Annuì, accettando le condizioni di Alex. Lo vide rilassarsi.

«Devo… devo andare», balbettò, facendo un passo indietro.

«Non c’è bisogno…»

Tessa alzò una mano per zittirlo. «Ho quell’udienza, domani mattina», gli ricordò. «Non voglio fare tardi per andare a casa a cambiarmi…»

Ad Alex sembrava una scusa. Non volendo insistere e preferendo lasciarle il suo spazio, annuì.

«Ci vediamo domani, però» aggiunse lei, smorzando il tono distaccato di poco prima.

«Sì, quell’appuntamento col Capo…» ricordò lui, mentre la accompagnava alla porta.

Quando fu all’uscio, Tessa si voltò verso di lui.

«Alex?»

«Mh?»

«Ti amo. Lo sai, vero?» gli chiese, titubante. Alex le sorrise.

«Sì, lo so».

 
Quando, il pomeriggio seguente, Alex vide Tessa bussare alla porta dell’ufficio del Capitano Green, aveva l’anello al dito.

 

A/N: scappa, Alex! (cit.) XD
 

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Capitolo 7
*** 7 ***


Ehilà! Oggi una cosa breve e che, forse, si poteva anche evitare. Ma non ho saputo resistere alla tentazione di divertirmi un po' alle spalle del povero Gabriel. Buona lettura e a presto!
 

7

Gabriel aveva sentito l’urgenza di prendersi una sottospecie di caffè alla macchinetta in sala relax. Quando era tornato alla scrivania, di fronte al suo pedante collega che non aveva mai nemmeno alzato gli occhi dai fascicoli che stava esaminando, non era riuscito a vedere in faccia la rossa che stava marciando spedita verso la porta della Green. Di lei, aveva solo sentito il ticchettare deciso dei tacchi assassini. Si mise comodo, e la studiò da sopra il bordo del bicchiere di plastica.

Tacchi che potevano essere usati come arma impropria. Calze nere, di quelle con la riga dietro, su gambe non proprio lunghissime, ma più che interessanti. Una gonna nera talmente stretta che sembrava dipinta e che incorniciava un culo da applausi. Se solo fosse riuscito a vedere anche il lato A…

«Ehi, Alex», cercò di attirare l’attenzione del suo partner.

«Mh?» Alex alzò appena gli occhi. Aveva altro per la testa, questo era evidente persino per Gabriel.

«L’hai vista la rossa che è andata dal Capo?» gli chiese, quando l’oggetto della sua attenzione era sparito dietro la porta della Green.

Alex aggrottò la fronte. La rossa? Certo che aveva visto Tessa. E che le aveva fatto la radiografia, come ogni volta. E il cuore gli si era stabilmente trasferito in gola, quando le aveva visto l’anello al dito. Il suo anello. Battendo le palpebre, si rese conto che Gabriel non l’aveva riconosciuta, di spalle. Sollevò un sopracciglio, chiedendosi se valesse la pena fare il finto tonto.

Gabriel sbuffò. «Non mi dire che non l’hai notata, perché non ci credo».

Alex inspirò lentamente. «Sto lavorando, io» ritorse, aspettando di vedere dove volesse andare a parare l’altro.

«Togliti un attimo quel ghiacciolo della Beale dalla testa, amico!» lo redarguì il collega. «Gesù, arriva un bel bocconcino qui dentro e tu non ti distrai?»

Alex scosse la testa. No, Gabriel non aveva riconosciuto Tessa. Se solo avesse saputo che stava sbavando per lei…

«Non l’ho studiata a fondo quanto te, Gabriel, no» concesse, mettendo giù i fascicoli.

«Aveva delle gambe…» Gabriel lasciò la frase in sospeso.

Alex si appoggiò allo schienale della sedia, incrociando le braccia. «Pensavo fosse arrivata volando», lo prese in giro.

Gabriel gli scoccò un’occhiataccia. «Chissà se quelle calze con la riga erano collant o autoreggenti?» s’interrogò.

Alex fece del suo meglio per non ridere. Sapeva benissimo che erano autoreggenti. Tessa, una o due volte, le aveva usate per legarlo. Ma questo era un dettaglio che era meglio non rivelare.

«Comunque, credo che quelle gambe starebbero da Dio avvinghiate ai miei fianchi. Tu che dici?» continuò.

«Dico che non hai nessuna possibilità che questa tua fantasia si avveri» lo freddò, senza perdere il sorriso. In nessun universo possibile Tessa sarebbe andata a letto con Gabriel. Meglio tacere, per ora, su quante volte le gambe che il detective aveva appena ammirato si erano strette intorno ai suoi di fianchi. O le aveva avute sulle spalle.

Giuliani si accigliò. «Ah sì? E perché?»

Le labbra di Alex si incurvarono in un sorrisetto beffardo. «È altamente improbabile che ceda alle tue avances, tutto qua», rispose, scrollando le spalle.

«Oh, andiamo!» sbottò l’altro, tirandogli la pallina antistress che teneva sulla scrivania. Alex l’afferrò al volo. «Ha i capelli rossi», aggiunse.

«Me ne sono accorto» ridacchiò Alex. Li conosceva molto bene, quei capelli rossi. Li aveva toccati, tirati, li aveva avuti sul cuscino, se li era ritrovati in faccia… qualche volta in bocca nel sonno.

«Sai che si dice delle rosse…» ammiccò Gabriel. «Esclusa la Beale. Lei è l’eccezione che conferma la regola» sbuffò.

Alex non resisté: scoppiò a ridere.

«Che ti ridi?» sbottò l’altro.

«Hai notato i capelli rossi» sottolineò. Gabriel annuì. «Non ti sono sembrati, che so… familiari

Gabriel batté le palpebre, confuso.

«Pensaci, Gabriel. Hai mai visto quella particolare sfumatura di rosso?» lo stuzzicò.

Gabriel aprì la bocca per ribattere, poi sbiancò.

«Come puoi aspettarti che una che non troppo tempo fa hai etichettato come frigida, ceda al tuo fascino, detective? Se teniamo conto che non fai niente per esserle simpatico, è un miracolo se non ti ha ancora chiuso in una delle celle frigorifere, da vivo» lo prese in giro.

Gabriel era esterrefatto. Aveva fantasticato di portarsi a letto la Beale. Theresa Ghiacciolo-Su-Per-Il-Culo Beale. Un bel culo, però.

«Cristo santo…» mormorò. «Mi prendi in giro?»

Alex scosse la testa. «No. Era Tessa».

Merda. Quindi… era quello, che la Beale nascondeva sotto quelle informi tute da scena del crimine e quei camici blu da obitorio? Gabriel ingoiò rumorosamente, mentre Alex continuava a ridere.

«Gesù…» ripeté sottovoce.

Alex stava per chiedergli se avesse bisogno di chiamare un medico, quando la voce del Capitano Green lo interruppe.

«Hasler, porta quel tuo culo rinsecchito nel mio ufficio. Adesso».
 

Che vorrà mai il Capo da Alex? (E comunque, povero Gabriel...)
Alla prossima!

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Capitolo 8
*** 8 ***


Ehilà! Quello di oggi è un po' più lungo. E quasi altrettanto inutile *immaginate l'emoji con la mano sul mento, quella che riflette, per intenderci*
Ogni opinione è sempre gradita e ben accetta! (Lo so che ci siete, lo vedo il numeretto eh!)

 


8
Il Capitano Roxane Green credeva di averle viste e sentite tutte. Ma quella le mancava.

«Ripetimelo un’altra volta, che le prime dieci credo di non aver capito» disse, guardando la Beale, seduta sulla sedia davanti alla scrivania con l’aria della scolaretta nell’ufficio della preside. Roxane strinse le labbra per non ridere della sua espressione imbarazzata e sollevò un sopracciglio, gli occhi blu che brillavano.

Tessa sospirò. «Roxy…» cominciò, esasperata. Quante volte avrebbe dovuto ripetere a sua sorella che aveva intenzione di accettare l’avventata proposta di matrimonio di Alex? Aveva sulle spalle una notte semi-insonne proprio per quello – era rimasta in piedi fino a tardi a stilare una lista di pro e contro e poi a riflettere e rimuginare – seguita da una mattina in tribunale. E ora, dopo aver espletato le formalità relative al caso – non che Roxy non fosse già aggiornata su ogni dettaglio, ma c’era un protocollo che sarebbe stato meglio rispettare – sua sorella la torchiava.

«Tessie…» la incalzò il Capitano, battendo un’unghia sulle copie dei rapporti che le aveva consegnato Tessa. «Andiamo con ordine. Siete ufficialmente tornati insieme da… tre settimane, giusto?» le chiese. Tessa annuì. «E ieri sera, di punto in bianco, ti ha chiesto di sposarlo?» Tessa annuì, senza guardarla. Roxane sospirò, con un sorriso. «Dimmi che hai urlato di gioia e gli sei saltata al collo, ti prego».

Tessa guardò sua sorella, allibita. Roxane si morse il labbro per non ridere.

«No. Non gli ho risposto. Mi ha dato l’anello e mi ha detto che potevo pensarci e di metterlo se decidevo di sì» raccontò.

Roxane sollevò entrambe le sopracciglia. Non aveva mai voluto darlo a vedere ma, quando Tessa aveva iniziato ad uscire con Alex, non ne era stata felice. Si trovava in una posizione un po’ scomoda, il detective era un suo sottoposto e Tessa sua sorella, anche se nessuno ne era ufficialmente al corrente. Avevano preferito non rendere pubblica la parentela per evitare che qualcuno potesse sostenere che Tessa fosse stata assegnata alla squadra per qualche favoritismo e non per meriti. Era stato lo stesso dottor Thomson a caldeggiare la sua nomina, proponendola come sua sostituta e sottolineandone l’attenzione e la bravura. Il fatto che Tessa e Alex avessero poi deciso di mantenere molto privata la loro relazione aveva sorpreso Roxane, soprattutto quando il detective aveva dato quasi le sue stesse motivazioni. Roxane aveva, allora, solo mantenuto le preoccupazioni da sorella maggiore.

Tessa aveva sempre avuto difficoltà relazionali – pochissimi amici, ancor meno relazioni – e il Capitano temeva che nemmeno Alex avrebbe resistito a lungo, davanti ai complessi di Tessa. Suo malgrado, aveva dovuto riconoscere che, al contrario, Alex era stato capace di fare quello che anni di terapia non avevano portato. Peccato che…

Tessa aveva la tendenza a sabotarsi. Appena le cose iniziavano ad andare bene, doveva trovare il modo di distruggerle, perché, a suo dire, non meritava niente di bello e non valeva la pena di sprecare affetto su di lei. Alex aveva fatto tutto il possibile e anche di più per convincerla del contrario, finché Tessa non aveva deciso di non essere degna di tutto quell’amore. L’aver perso il bambino era stata la ciliegina sulla torta di merda. Quando Tessa aveva cacciato Alex, lui si era arreso e l’aveva lasciata fare. Poi, era andato da Roxane, le aveva spiegato cos’era successo, e le aveva detto che avrebbe lasciato a Tessa tutto lo spazio che voleva, ma non se ne sarebbe mai andato. Roxy gli aveva ricordato che era un uomo e non uno zerbino e di darsi una mossa, che il mondo era pieno di donne. E Alex le aveva detto che l’unica che riusciva a vedere era Tessa. E lo aveva fatto fino a prima di quella dannata serial killer.

E ora, Roxane Green aveva capito perché il suo detective non le aveva più parlato di Tessa.

Perché, evidentemente, Tessa era tornata da lui.

Se ne sarebbe dovuta accorgere, davvero. Aveva solo notato che Tessa le era sembrata meno tesa, le aveva visto meno bende.

«E quindi, hai deciso di sì» constatò Roxane, indicando l’anello con un cenno. Tessa annuì, avvampando. Roxane si alzò. «Dobbiamo festeggiare, allora». Andò alla porta, affacciandosi fuori. «Hasler, porta quel tuo culo rinsecchito nel mio ufficio. Adesso».

Roxane finse di non vedere Giuliani ridacchiare o Alex farsi il segno della croce prima di raggiungere il suo ufficio. Chiuse la porta alle spalle del detective.

«Capitano… dottoressa Beale» salutò Alex, cercando di non farsi notare mentre praticamente faceva la radiografia a Tessa. No, non poteva stupirsi se persino Gabriel, che quasi nemmeno la considerava un essere umano, aveva preso a fantasticare su di lei.

Roxane sbuffò. «Togliti quell’aria da bravo ragazzo dalla faccia, Alex» lo apostrofò il capitano, il sorriso con cui aveva accompagnato quelle parole le disegnò un ventaglio di rughe intorno agli occhi. «Quando so benissimo a cosa stai pensando» continuò.

Alex guardò il capitano, battendo le palpebre, confuso. Tessa iniziò a sghignazzare.

«Alex, Roxy sa tutto» spiegò Tessa, quando si calmò. Alex deglutì rumorosamente. Roxane era sempre stata molto protettiva, nei confronti di Tessa, dal non voler rivelare di esserne la sorella adottiva fino al minacciare Alex di spedirlo a dirigere il traffico se anche solo si azzardava a ferirla. Alex azzardò uno sguardo al capitano, che se la rideva.

«Lo so, che le hai chiesto di sposarti. E che lei pensa di accettare. Se non l’avesse già deciso lei, la costringerei io», disse Roxane. Alex era sempre più stupito.

«Roxy… ora basta, o gli verrà un colpo» la redarguì Tessa.

«Un colpo mi era già venuto quando sei uscita dall’ascensore vestita così…» ammise Alex. «Hai smosso persino Gabriel, Tess. Gabriel…»

Tessa sollevò un sopracciglio, aspettando che Alex elaborasse.

«Non farmi ripetere quello che ha detto…» borbottò il detective, guardandola storto.

Tessa ridacchiò. «Geloso?» lo prese in giro. Alex non le rispose.

Roxane li guardò, scuotendo la testa. «Lasciamo perdere gli apprezzamenti del tuo collega, Alex, e ricordiamoci le regole» cominciò.

«In privato, Roxy. Davanti agli altri, Capitano. Non sono ancora così rincoglionito» sbottò lui. Roxane si trattenne dal rispondere.

«Chiama Giuliani. Così facciamo il punto di quello che abbiamo e ci liberiamo di mia sorella e delle sue grazie tentatrici» disse, invece, facendo l’occhiolino alla Beale.

 
Quando Gabriel entrò nell’ufficio della Green, aveva l’aria del condannato a morte. Era più che sicuro che Alex avesse spifferato al Capitano – e alla Beale – i suoi inconsci apprezzamenti alla mercanzia del medico legale. Si chiuse la porta alle spalle, aspettandosi una reprimenda.

«A che punto siamo?» chiese secca la Green, senza altri commenti. Gabriel batté le palpebre, confuso.

«Il laboratorio ha comunicato i risultati del campione di saliva rinvenuto sul seno di Beatrice Johnson…» la Beale prese la parola, riferendosi ai campioni relativi al morso trovato sul seno della seconda vittima. «Purtroppo, sono risultati impossibili da analizzare perché degradati da agenti chimici» sospirò Tessa, massaggiandosi una tempia. Dietro di lei, Alex si irrigidì.

«Merda» commentò sottovoce Gabriel. «Non si possono salvare in nessun modo?»

Tessa spostò su di lui gli occhi grigi, pronta a fulminarlo.

«Quale parte di “degradati” le devo spiegare, detective?»

 «Ci hanno messo meno del previsto, non possono riprovare?» insisté Gabriel. Non era possibile che il laboratorio, per soddisfare le loro pressioni, avesse sbagliato?

Tessa aprì la bocca per ribattere, ma Roxane la fermò.

«Riguardo l’impronta di denti, invece?» s’inserì.

«Stiamo incrociando le dita che esista una corrispondenza con qualche radiografia odontoiatrica, ma è come cercare un ago in un pagliaio. Per quel che riguarda il profilo psicologico, il dottor Rowe sta rivedendo le sue valutazioni, alla luce della scoperta del sesso dell’assassino» spiegò Alex, riferendosi allo psicologo criminale che collaborava con il distretto.

«Stiamo inoltre controllando le denunce di scomparsa di potenziali vittime che rientrano nel profilo, anche se con solo due vittime è difficile restringere il campo dei tratti comuni», aggiunse Gabriel. «Non che speri ci siano altri cadaveri», si giustificò, alzando le mani.

Roxane sospirò, passandosi le mani fra i capelli biondi. «Ovviamente, data la posizione isolata dei luoghi dei ritrovamenti, non abbiamo testimoni. Case e utenze risultano intestate alle vittime, ma non corrispondono ai loro indirizzi…»

«La nostra ipotesi è che l’assassina si impadronisca dell’identità della vittima, si procuri un luogo sicuro in cui portarla e poi…» Gabriel lasciò la frase in sospeso.

«E poi la sequestra, la tortura, e uccide lei e suo figlio» concluse per lui Tessa, passandosi inconsciamente una mano sul ventre. A Roxane non sfuggì il gesto. Sapeva quanto quel caso si stesse dimostrando difficile per sua sorella, proprio per quell’aspetto. Non erano le torture, le ferite o le eventuali mutilazioni. Erano quei piccoli corpi buttai in un angolo come immondizia.

«In conclusione, siamo al punto di partenza» riassunse Roxane.

I due detective dovettero annuire, sconfitti. Quasi due mesi, e non avevano fatto neanche un passo avanti. Quell’unica, mezza prova non era utilizzabile. E la stampa avrebbe voluto presto la loro testa.

Roxane guardò l’orologio. «Prendetevi il resto della giornata. Ora come ora, abbiamo bisogno tutti di staccare la spina. Domani mattina, a mente fresca, ci metteremo a scavare da capo nella vita delle vittime. Troveremo qualcosa, con un po’ di fortuna prima della terza».

Roxane sperò non fossero le ultime parole famose.
 

Dite che il Capitano se l'è tirata e spunterà presto la terza?
A giovedì!

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Capitolo 9
*** 9 ***


Ehilà! Tutto bene? Eccoci al capitolo 9 e... niente, vi lascio leggere in pace. Note in fondo.
 

9

Gabriel aveva passato l’ultima mezz’ora a far roteare il tappo della bottiglia sul tavolo. Lo bloccava, mettendoci la mano sopra, e poi ricominciava a farlo girare, fissandolo senza realmente vederlo.

Si era rifiutato di rispondere al telefono, lasciando il compito alla segreteria di registrare il messaggio di chiunque avesse deciso di rompergli i coglioni a casa, per una volta che aveva la serata libera. Seduto al tavolo della cucina, la bottiglia di birra riesumata nei meandri del frigo appena aperta e non ancora alle labbra, dopo il bip aveva sentito quella voce… e si era immobilizzato.

«Sarah…» aveva sussurrato, poggiando la bottiglia sul tavolo, il tappo di metallo stretto talmente forte nel palmo da farsi male.

La sua ex moglie, che si faceva sentire poco e solo per lamentarsi, lo chiamava per dargli due notizie orribili: la prima, aveva intenzione di sposare quel bellimbusto con cui lo aveva riempito di corna quando erano ancora sposati, per cui, per cortesia, Gabriel, vieni a prenderti le cose che hai dimenticato in garage o le brucio? La seconda, forse pure peggiore, era che Bill, il loro cane – in realtà, il cane di Gabriel – era scappato in strada ed era stato messo sotto da un’auto. Il veterinario aveva deciso che era meglio sopprimerlo, tanto, ormai, aveva una certa età, non sarebbe comunque vissuto ancora a lungo, e perché rendere i suoi ultimi anni un’agonia, Gabriel? È stato meglio così, Gabriel, no? E vieni a prenderti ‘sta roba in garage, mi serve lo spazio.

Dopo il click che segnalava la fine del messaggio, Gabriel aveva cominciato a giocare col tappo.

Aveva conosciuto Sarah per caso ad una festa. Lei se ne stava in disparte, un po’ annoiata. Lui le si era avvicinato, si era presentato, avevano chiacchierato… e finito la serata sul sedile posteriore della sua auto. Avevano fatto tutto in fretta, come quella sera. Erano andati presto a vivere insieme – lei aveva sfarfallato le ciglia e lui, povero scemo innamorato perso, aveva detto di sì. Altrettanto presto, si erano sposati.

Per qualche anno dopo il matrimonio, Gabriel aveva creduto di essere l’uomo più fortunato del mondo: era sposato con una donna bellissima che lo riempiva di attenzioni, aveva una bella casa, un cane… sembrava una vita uscita da un film: lui al lavoro in polizia, lei a casa a spolverare. Gabriel aveva ventilato l’ipotesi figli, lei aveva accettato. Avevano provato per un paio d’anni, ma niente. Gabriel era persino andato a fare tutti i test del caso, ma niente, non era lui il problema.

Il problema era che la sua amata e adorata moglie non aveva mai smesso di prendere la pillola. Ma questo lui non lo sapeva.

Come, poi, aveva scoperto di non sapere molte cose. Una su tutte, che Sarah non ricambiava per niente l’amore di Gabriel, anzi. Probabilmente, suo marito era l’uomo che detestava di più al mondo.

Le fette di prosciutto dagli occhi il detective Giuliani, che sul lavoro, aveva un certo fiuto, ma, a quanto pareva, lo perdeva quando si trattava della moglie, se le era tolte nel modo più classico: l’aveva beccata con l’amante.

Era rientrato sorprendentemente prima e sperava di riuscire a sorprendere Sarah, portandola a cena e facendosi perdonare per le lunghe assenze. Peccato che, facendo per entrare in garage, l’avesse trovato occupato da un’auto che non conosceva. Il suo lato ingenuo aveva voluto sperare che Sarah avesse un’amica a cena, per avere compagnia… ma qualcosa, nel suo cervello, aveva fatto scattare un campanello. Entrando in casa senza fare rumore, aveva trovato Sarah in salotto, in compagnia, certo, ma di un bellimbusto con l’aria da idiota che se ne stava allungato sul suo divano, le braghe calate, e sua moglie in ginocchio davanti a lui. Gabriel ebbe un attimo per pensare che, quando era lui a chiedere la stessa cosa a Sarah, lei lo guardava schifata e, se accettava, era piuttosto riluttante.

Gabriel sospirò, fermando di nuovo il tappo sul tavolo. Allungò una mano verso la bottiglia, portandosela alle labbra e allontanandola subito.

«Piscio di vecchia…» sbottò, facendo una smorfia alla birra che, ormai, era a temperatura ambiente.

Scosse la testa, stringendosi la radice del naso tra pollice e indice. Possibile che, dopo anni, gli facesse ancora così male? Possibile che ancora non riuscisse a levarsela dalla testa? Eppure, era stato lui a fare le valigie, sbattere la porta e andarsene. Avrebbe potuto prendere e sbatterla fuori, invece di lasciarle la casa. Ma, d’altronde, in quella casa non sarebbe riuscito a restarci. Soprattutto non sarebbe riuscito nemmeno più a dormire nel suo letto, col dubbio che sua moglie c’avesse potuto portare l’amante.

Si passò di nuovo le mani sul viso, dandosi dell’imbecille. Ormai era andata. E col cazzo che si sarebbe lasciato incastrare così da un’altra. Col cazzo che…

Il suo cellulare cominciò a squillare con la suoneria che aveva associato al numero della centrale. Si riscosse dalle sue riflessioni e rispose.

Quando riattaccò, pensò che sarebbe stato meglio se avesse ignorato la telefonata.

 
Alex si asciugò le mani con uno strofinaccio. Tessa si era seduta sul tavolo, e faceva dondolare le gambe, aspettando che il detective finisse di sistemare piatti e pentole. Il cellulare di Alex, accanto a lei sul tavolo, prese a squillare. Tessa lo prese, sbuffando quando vide il nome sul display.

«È Giuliani», lo avvisò, allungandogli il telefono che ancora squillava.

Alex aggrottò le sopracciglia, perplesso. Era difficile che il suo partner gli telefonasse, preferendo veloci messaggi.

«Gabriel? C’è qualche problema?» rispose al telefono, allarmato.

«Direi di sì. Abbiamo la terza vittima».

 

A quanto pare, lo scorso capitolo il Capitano se l'era tirata e c'è scappata la terza. Piccola nota: la scena tra Alex e Tessa, in realtà, avrebbe dovuto essere nel capitolo successivo, che avrebbe dovuto essere tutto su di loro e concludersi con la telefonata. Poi ho pensato di avervi annoiati abbastanza con 'sti due e che, magari, si potevano accelerare un po' i tempi, o no? 
Il prossimo capitolo è in fase di scrittura. Spero di riuscire a concluderlo presto e darvelo in pasto lunedì.
Alla prossima!


 

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Capitolo 10
*** 10 ***


Ehilà! Pronti per la scena del terzo omicidio? Piccola nota di avviso: c'è qualche dettaglio sul cadavere, se siete sensibili leggete solo i dialoghi.
Buona lettura!

 

10

Gabriel aveva avvisato Alex del ritrovamento della terza vittima e gli aveva comunicato l’indirizzo. Non si era stupito quando il suo collega si era offerto di avvisare la Beale al suo posto. Onestamente, Gabriel dubitava persino che Alex avesse dovuto sprecare una telefonata per farlo.

La conferma l’aveva avuta quando il suo partner e il medico legale erano arrivati sulla scena. Non con una sola auto, per carità, troppo ovvio. E nemmeno nello stesso momento. Si erano persino dati la pena di arrivare con qualche minuto di distanza. Peccato per un piccolo dettaglio: rispetto all’indirizzo in cui era stato ritrovato il cadavere, loro due abitavano in direzioni opposte. Non quadravano nemmeno le tempistiche. Se fossero partiti ognuno da casa propria, Alex sarebbe dovuto arrivare almeno un quarto d’ora dopo la Beale. E invece era arrivato cinque minuti prima di lei, dalla direzione dell’appartamento del medico legale. Ma chi volevano prendere in giro?

«Devo ammettere, dottoressa, che preferivo la versione di oggi pomeriggio», commentò Gabriel, mentre Tessa infilava le soprascarpe monouso sulle scarpe da ginnastica e chiudeva la lampo della tuta.

«Non ne dubito, detective», ribatté Tessa, infilandosi i guanti. «Mi fa strada?»

Gabriel la precedette in casa, e poi verso lo scantinato, Alex che chiudeva la fila.

«Non per impicciarmi, ma a cosa era dovuto?» chiese il detective, senza voltarsi.

«Ha presente il giudice Mason?» rispose Tessa, senza scomporsi. Quando vide Gabriel annuire, proseguì. «Diciamo che mi serviva a convincerlo di avere argomenti piuttosto validi».

Arrivato in fondo alle scale, Gabriel si voltò verso di lei, sollevando le sopracciglia. Il ghiacciolo aveva un lato furbo, allora. Prima che potesse commentare, la Beale lo superò, diretta verso la sua paziente.

Dopo essersi assicurata con i tecnici di poter toccare il corpo, Tessa rivolse la sua attenzione alla vittima. O quello che ne restava.

Il processo di decomposizione non era ancora arrivato alle fasi evidenti esteriormente, anche se alcuni gas avevano cominciato a liberarsi. Gli sfinteri avevano ceduto, lasciando che le viscere della vittima si svuotassero in tutta la loro gloria. Giaceva supina, le braccia lungo i fianchi e le gambe appena divaricate. La pelle del viso, del torace e del ventre aveva assunto una tonalità bianco-giallastra, e Tessa non ebbe bisogno di sollevare il cadavere per constatare, al contrario, che la schiena e le natiche erano invece rossastre. Era in quella posizione da un bel po’. Tentò di piegarle un gomito, incontrando resistenza. Passò al ginocchio, con lo stesso risultato.

«Credo sia tardi per la fisioterapia» commentò Giuliani. Tessa si limitò a scoccargli un’occhiataccia, senza rispondere. Se avesse aperto bocca, avrebbe vomitato.

Si concentrò sulla sua routine: ipostasi, presente e apparentemente fissa; rigidità, idem. Il che le faceva stimare che la signorina avesse salutato questo mondo almeno una decina di ore prima. Si abbassò per raccogliere la sonda dalla borsa e se ne pentì. La bile che aveva disperatamente cercato di ricacciare in gola minacciò prepotentemente di disobbedirle. In modo molto poco professionale, scappò di corsa al piano di sopra e poi all’esterno.

 
Nemmeno i pivelli reagivano così, davanti al loro primo cadavere. Cazzo, lei non aveva mai reagito così, davanti ad un cadavere. Cosa diamine le era preso? Tessa scosse la testa, respirando lentamente, l’acido che le bruciava la gola, storcendo il naso all’odore acre del proprio vomito, fortunatamente fuori dei confini della scena.

Raggiunse la propria auto e aprì la portiera, mettendosi a cercare fazzolettini e la bottiglia d’acqua che teneva in borsa per ogni evenienza. Sarebbe stata la ciliegina sulla torta, vomitare davanti a Giuliani. Non avrebbe mai smesso di prenderla in giro, come per la paura del buio.

Si sciacquò la bocca e prese delle soprascarpe nuove. Fortuna che ne portava sempre più di un paio. Facendosi il segno della croce, rientrò in casa e tornò nello scantinato. Senza un fiato, riprese da dove si era interrotta, controllando la temperatura della vittima e annotandola.

«Quel termometro deve essere scomodo» Alex ruppe il silenzio.

«Per me se la gioca con quello rettale» commentò Gabriel.

Tessa li ignorò, richiamando l’attenzione di un tecnico perché le fotografasse alcuni dettagli.

«Allora? Che ne pensa?» incalzò Gabriel. «O crede che dovrà svuotarsi di nuovo lo stomaco?»

Ecco, appunto.

Alex aprì la bocca per zittire il collega, ma Tessa lo fulminò con lo sguardo.

«Non è colpa mia se lei usa una colonia scadente, detective. Ha un odore nauseante» ribatté Tessa. «Penso che anche la nostra nuova amica abbia fatto una morte infame» indicò il corpo con un gesto della mano.

Gabriel sospirò. «Mi dica qualcosa che non so».

«Ha smesso di respirare almeno una decina di ore fa. Ha subito, tra le altre cose, una mastectomia totale» sottolineò Tessa, indicando i crateri vuoti dove, in origine, si trovavano i seni. «E un tentativo di correzione della deviazione del setto nasale» aggiunse, indicando la deformità del naso, probabilmente dovuta a percosse.

Gabriel e Alex seguirono con lo sguardo i danni indicati da Tessa.

«Di questi, invece, cosa pensi?» chiese Alex, indicando una serie di incisioni suturate sul cadavere.

Cercando di non far caso all’odore – da quando era così forte? Cristo santo! – Tessa si avvicinò di più. Strinse gli occhi, valutando le suture. «A prima vista, sembrano fatti da qualcuno a cui non importi di lasciare una cicatrice. Sono storti, disomogenei… nessuna cura» storse il naso. Persino lei faceva un lavoro migliore, e di certo non doveva preoccuparsi delle cicatrici. Ne seguì il percorso: lo stomaco, il fianco, le cosce. Sfiorò il ventre, sentendolo sodo, non vuoto e flaccido come negli altri casi. Alzò gli occhi verso i detective.

«Se era incinta, non ha rimosso il feto» disse.

«Forse non lo era?» tentò Alex.

«O era già morto e non gliene fregava un cazzo, perché non poteva ucciderlo» commentò Gabriel.

Tessa sentì un brivido correrle lungo la schiena, gli occhi di Alex fissi nei suoi.

«In ogni caso, lo scantinato e la casa sono stati controllati. Se c’era e l’ha tirato fuori da…» Alex si schiarì la gola, «…be’, non è qui. E neanche i seni».

Gabriel scosse la testa. «Li avrà mangiati…»

«…con un piatto di fave e un buon Chianti» Tessa finì per lui, inconsciamente.

Gabriel sgranò gli occhi: Ghiacciolo Beale gli finiva la battuta? Ci mancava solo che il cadavere si alzasse e ballasse e poi le avrebbe viste tutte.

Furono salvati d’impaccio dal personale dell’obitorio. Quando la vittima fu chiusa nel suo sacco e caricata in barella, Tessa sembrò sentirsi meglio. Si avviò alle scale, con l’intenzione di seguire il furgone e assicurarsi che la sua paziente fosse trattata con cura una volta arrivata a destinazione.

«Quando la aprirà?» le chiese diretto Giuliani.

«Non prima di domani mattina, detective. Facciamola risposare in pace almeno dodici ore. Magari qualcuna in più. Vuole assistere? I secchi li ho, nel caso» lo prese in giro.

«Non sono io che ho difficoltà a tenere a bada lo stomaco, dottoressa» ritorse il detective.

«Gliel’ho detto, detective. È la sua colonia» sbuffò lei, dandosela a gambe.

Era sicura di averlo sentito ridere.

 

A Giuliani non sfugge niente e Alex utile come il due di coppe quando la briscola è a denari xD (o una forchetta per il brodo, se non sapete giocare a briscola)
Spero di potervi dare il prossimo capitolo giovedì e, nelle intenzioni, sarà un po' più grafico di questo. Se un giorno qualcuno dovesse controllarmi la cronologia, voi testimoniate in mio favore, vero?

 

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Capitolo 11
*** 11 ***


Ehilà! Scusate, mi ci è voluto un po'. Per farmi perdonare, è un po' più lungo degli altri.
Attenzione: c'è una leggera descrizione dell'autopsia (come diceva uno che conoscevo e che poi ho "trasformato" nel buon vecchio Gabriel, "Se Lu non ci mette qualcosa di macabro non è lei!"), giusto per avvisarvi. Come per il precedente, se pensate di impressionarvi, leggete solo i dialoghi. 

 
 
11
Era molto divertente, vedere Giuliani a disagio. Lo stesso cadavere che, un paio di giorni prima, sulla scena, gli era stato indifferente, ora, sul tavolo d’acciaio della sala autopsie, sembrava creargli qualche problema.

Greta, l’assistente preferita di Tessa – seria, svelta, attenta – le avvicinò l’ecografo.

«Perché l’ecografia, quando tanto dovrà aprirla comunque? Non conviene tagliare e vedere direttamente?» commentò Giuliani, mentre Tessa e Greta preparavano la vittima ad un’ecografia pelvica.

«L’ha visto, quello che le è stato fatto, detective?» ribatté Tessa, piccata, senza neanche guardarlo. «Dovrò aprirla, è vero. Se lo riterrò necessario dovrò anche scucirle la faccia e scoperchiarle il cranio. Mi dica perché dovrei anche farle un’incisione che potrebbe essere inutile, tenendo conto delle violenze che ha subito e quello che dovrò farle comunque».

Gabriel la guardò, serio, le braccia incrociate. «È morta, dottoressa. Non gliene frega più niente».

Tessa compresse le labbra in una linea sottile. «Frega a me, detective».

«È un pezzo di carne, ormai» sostenne Giuliani.

«E io sono un medico, non un macellaio» ritorse Tessa, in mano la sonda.

Gabriel stava per aprire di nuovo bocca, ma Alex gli strinse la spalla, invitandolo al silenzio. sbuffando, il detective assecondò il collega.

Sullo schermo dell’ecografo, intanto, iniziavano a comparire fumose immagini grigie. Tessa imprecò sottovoce. Accanto a Gabriel, Alex si irrigidì.

«Dottoressa, è quello che penso?» chiese Greta, indicando lo schermo. Tessa annuì.

«Credo proprio di sì, Greta» sussurrò Tessa. Con il cursore, selezionò e ingrandì una porzione dell’immagine. «Circa tre centimetri e mezzo di lunghezza…»

«Tra le undici e le dodici settimane…» commentò Alex, cupo.

Gabriel, confuso, guardò dall’uno all’altra. «Era incinta, allora?» chiese, per conferma.

«Sì, detective» gli rispose Greta.

«Allora dovrà procedere per forza, dottoressa» insisté.

«No». Tessa si voltò verso di lui, un’espressione dura in viso.

«Come ha detto? Non ho sentito bene» gli occhi verdi di Gabriel lanciavano strali. Fece un passo verso il tavolo, allontanando la mano di Alex che cercava di trattenerlo.

«Ho detto di no, detective. Non ritengo necessario procedere con la rimozione del feto».

«Vuole intralciare le indagini, dottoressa Beale?» ritorse Giuliani, ad un passo dal tavolo d’acciaio.

«È una procedura che non ritengo abbia rilevanza» insisté. «Mi porti un ordine firmato dal Capitano Green, se proprio ci tiene».

«Lei mi è sempre stata sul cazzo, dottoressa, lo sa?»

Tessa sorrise, senza che raggiungesse gli occhi. «Perché io possa starle sul cazzo, detective, dovrebbe prima averne uno».

Gabriel sgranò gli occhi, serrando le mascelle. «Per sua informazione, le mie misure sono più che adeguate» sibilò.

«Le ricordo che sotto i cinque centimetri è un clitoride, detective. E ora porti il culo fuori dalla mia sala autopsie, prima che quel vermetto glielo taglio e glielo do da mangiare».

«Ooh questa è la volta che la faccio mandare a casa a fare la calza, dottoressa…»

«Le ho detto di uscire, detective. Quale parte di ‘fuori dalla mia sala autopsie’ non le è chiara?» questa volta, Tessa alzò la voce. Accanto a lei, Greta guardava Alex, implorandolo con gli occhi di intervenire.

Con un respiro profondo, Alex fece un passo avanti. «Fa’ come dice, Gabriel. Per favore».

Giuliani si voltò verso di lui, per nulla stupito dal fatto che la difendesse. «Ovviamente, tu stai dalla sua parte, venduto…»

«Non sto dalla sua parte. Ci serve l’autopsia. Se non ti levi dalle palle, lei non procede. Perdiamo tempo. E non ne abbiamo» ragionò. «Esci. Chiama il Capo e vedi se è assolutamente necessario esaminare il feto. Nel frattempo, qui la situazione si sarà sbloccata…»

«Bah!» sbottò Gabriel, allontanando il collega. «Spero pe te che a letto che sia decente, amico» gli bisbigliò, prima di girare i tacchi e uscire.

Quando la porta si fu chiusa alle spalle del detective e i suoi passi divennero lontani in corridoio, Tessa si appoggiò al tavolo, a testa china, e sospirò.

«Greta, per cortesia, metti via l’ecografo mentre io preparo qui» disse, ignorando completamente l’accaduto ripulendo il cadavere dal gel usato per l’ecografia.

«Prendo il registratore?» Greta decise di adottare la stessa strategia e avvicinò il carrello preparato in precedenza con il necessario.

«Sì, grazie» rispose Tessa, poi si voltò verso Alex. «Hai intenzione di assistere? Perché nel caso ti conviene mettere qualche protezione» disse, seria.

«Non mi basta stare indietro?» tentò. Tessa non gli rispose, concentrandosi sull’infilare dei guanti puliti. Accanto a lei, Greta indicò al detective dove recuperare le protezioni necessarie, dal camice alla visiera.

Tessa accese il registratore, iniziando con data e ora, dichiarando le proprie generalità, quelle di Greta e Alex.

«La vittima è Catherine Eloise Fields, 23 anni» continuò, aggiungendo poi altezza e peso. «Dalle radiografie, risultano fratture al radio sinistro, quarta e quinta costola sternale destra, vertebre da T4 a T8, femore destro, perone sinistro. Si suppone compatibili con una caduta, probabilmente è stata spinta giù per una lunga serie di gradini. Si tratta di una speculazione, in quanto non è stata riscontrata la presenza di emorragie interne attraverso esami diagnostici. Si rimanda al rilievo interno per conferma». Tessa mise in pausa la registrazione, prendendo fiato. «Si rilevano ematomi in corrispondenza delle fratture. Dall’aspetto di questi e delle ossa, i traumi possono essere datati da un minimo di una settimana fino a un massimo di venti giorni prima del decesso».

«Gesù Cristo…» mormorò Alex. Era stata in mano a quella pazza per forse persino venti giorni? L’aveva presa appena loro avevano trovato la seconda, più o meno. Il che significava, forse, che ne aveva già trovata un’altra.

Intanto, Tessa e Greta proseguivano. «Si segnala la presenza di incisioni suturate all’altezza del diaframma, sui fianchi, interno coscia. Misura variabile dai tre ai cinque centimetri». Tessa mise di nuovo in pausa la registrazione, facendo cenno a Greta di divaricare – per quanto possibile – le gambe della vittima.

«Così va bene?» le chiese l’assistente. Tessa annuì.

«Lacerazioni su grandi e piccole labbra. Escissione del clitoride» Tessa staccò di nuovo la registrazione, deglutendo rumorosamente. Greta richiuse le gambe della vittima, senza fare un fiato ma visibilmente pallida. Alex, dall’altro lato del tavolo, stava assumendo una sfumatura verdastra.

«Se ti serve un secchio, è vicino alla porta» commentò Tessa, guardandolo con la coda dell’occhio. Alex scosse la testa.

«Come si può…» commentò.

Tessa si strinse nelle spalle. «A quanto pare, si può» commentò, riprendendo l’elenco dei traumi esterni. «Entrambe le mammelle sono state rimosse, dall’aspetto di suppone con una lama liscia, compatibile con un coltello da macellaio» disse, passando le dita guantate sui punti in cui erano stati i seni della vittima. «Lama decisamente affilata, un solo colpo, netto. Frattura al naso» raggiunse la testa della vittima, scostandole i capelli dalla tempia. «Cosa abbiamo qui… foro d’entrata, all’altezza dell’osso temporale destro, verso il parietale». Tessa staccò di nuovo il registratore. Greta, senza bisogno che lei la chiamasse, la raggiunse, muovendo la testa della vittima sulle articolazioni ancora rigide del collo. Insieme, tastarono fra i capelli, esaminando lo scalpo.

«Nessun foro d’uscita» concluse Greta.

«Foro d’uscita assente. Probabile che il proiettile sia ancora alloggiato nel cervello. Anche se non è stato rivelato dalla radiografia» commentò Tessa, perplessa, interrompendo di nuovo la registrazione.

«Perché sto pensando ad un proiettile di ghiaccio?» commentò Alex.

Tessa si strinse di nuovo nelle spalle. «Perché escludendo tutte le ipotesi plausibili resta solo quella. Escludo un malfunzionamento dei macchinari o uno scambio di lastre».

«Dobbiamo aprirle il cranio, dottoressa?» chiese Greta. Tessa annuì. Alex divenne sempre più verde.

Come un meccanismo ben oliato, Tessa e Greta procedettero senza bisogno di indicazioni. Greta sollevò la testa della vittima, mentre Tessa cominciava ad inciderne la carne dietro la nuca. Sapendo cosa aspettarsi, Alex preferì distogliere lo sguardo. Poteva sentire il suono umido e appiccicoso della carne che veniva lentamente e accuratamente separata dall’osso e preferì continuare a non guardare mentre Tessa e Greta letteralmente staccavano la faccia alla vittima.

«Direi che possiamo fermarci qui» disse Tessa.

Alex arrischiò uno sguardo e si voltò di nuovo verso la parete prima che la sua mente potesse effettivamente registrare che quella cosa, poco tempo prima, era stata umana. Sentì il ronzio della sega che girava a vuoto e poi lo scricchiolio delle ossa che cedevano. Ignorò quello che Tessa diceva al registratore e finse di non sentire il suono simile a una ventosa che si staccava mentre il medico legale e la sua assistente sollevavano la calotta cranica.

«Cosa abbiamo qui…» mormorò Tessa, rigirandosi la calotta cranica fra le mani. Alex si voltò verso il tavolo, gli occhi socchiusi. La vide seguire con il mignolo il profilo di qualcosa sull’osso.

«Sembra una vecchia incisione… chirurgia cerebrale?» tentò Greta.

«Alex, hai per caso avuto accesso alla sua storia clinica?» Tessa si voltò verso di lui, ancora con la calotta in mano, come la metà grottesca di un uovo di cioccolato. Alex ricacciò in gola la bile.

«Non ancora» gracchiò. «Che… che intervento pensi possa aver subito?»

Tessa storse il naso, poggiando la calotta sul tavolo e sfiorando la fessura tra i due emisferi cerebrali. «Sto pensando ad una callosotomia, ma mi sembra assurdo. Non ne fanno più da anni…»

«Callo…che?» le chiese il detective, perplesso.

«Sezionamento del corpo calloso» rispose Tessa. Quando Alex continuò a guardarla perplesso, aggiunse «Il cervello viene diviso a metà e i due emisferi non comunicano più. Si è usata per un periodo nei casi peggiori di epilessia…»

«Fingerò di aver capito tutto» Alex alzò una mano per fermarla, sapendo che, altrimenti, sarebbe scesa in dettagli fin troppo tecnici. «Ti farebbe comodo sapere se si è sottoposta ad un intervento al cervello, in soldoni».

«Eh. Anche se faccio prima ad estrarre e aprire, ormai, e vedere da me. Tanto comunque devo farlo per quel foro d’entrata…»

«Lungi da me fermarti…» borbottò il detective. Gli parse di vedere Greta trattenere un sorriso. Si voltò di nuovo a fissare un punto imprecisato della parete mentre con altri rumori viscidi il medico legale estraeva il cervello della vittima.

Tessa stava esaminando la porzione di lobo temporale e parietale su cui si trovava il foro d’entrata, opportunamente sezionato – aveva già confermato che la vittima aveva subito una callosotomia – quando la porta della sala autopsia si aprì, attraversata da un soddisfatto, e rapidamente schifato, Gabriel Giuliani. Tessa alzò appena gli occhi, aggrottando le sopracciglia.

«Mi pareva di averle detto di andarsene, detective» sibilò, per poi registrare le proprie conclusioni. «Data la natura della cavità provocata dall’oggetto conficcato nel cranio della vittima, si rettifica la causa. Trattasi di trauma penetrativo causato da un oggetto appuntito, compatibile con punteruoli, cavatappi, punte di trapano, persino cacciaviti». Con cura, reinserì il cervello nella scatola cranica.

«Mi aveva anche detto di procurarmi un ordine del Capitano per la rimozione e l’analisi del feto, dottoressa» rispose il detective, sbattendole in faccia un foglio con la firma e il timbro del Capitano Green. Tessa strinse gli occhi e dilatò le narici, ma non fiatò. Giuliani non poté trattenere un sorrisetto compiaciuto. Tessa tornò al suo lavoro, facendo cenno a Greta di rimettere a posto la faccia della vittima. Ancora in silenzio, suturarono lo scalpo.

«Se ha intenzione di assistere, i camici sa dove sono» bofonchiò Tessa, spostandosi verso il tronco della vittima. Respirò lentamente, grata del fatto che l’odore fosse meno intenso che sulla scena – merito del fatto che il cadavere fosse stato lavato e refrigerato, per non parlare dell’impianto di areazione che aiutava e non poco – e contò fino a dieci. Anche se, forse, sarebbe stato meglio diecimila. Non poteva permettersi di fantasticare di avere Giuliani sdraiato sul tavolo, no. Anche perché, il giorno in cui lei avrebbe del tutto perso le staffe e fatto fuori il detective, sarebbe sembrato un incidente.

Alex sembrò indovinare il corso dei suoi pensieri e le scoccò un’occhiataccia, sollevando un sopracciglio. Tessa si morse il labbro e calò il bisturi, iniziando ad incidere poco sotto le clavicole della vittima e lungo lo sterno, disegnando una Y. Come avevano fatto per il cranio, lentamente lei e Greta procedettero ad incidere fino a staccare la carne dall’osso, mettendo in luce la cassa toracica. Mentalmente, Tessa dovette riconoscere che sì, il suo lavoro aveva un po’ i tratti di quello del macellaio. Confermò al registrare le fratture alle costole e prese a tranciare quelle integre.

«Aveva detto di non essere un macellaio, dottoressa» la prese in giro Gabriel.

Tessa lo ignorò, ma Greta batté una mano sul tavolo.

«Ci lascia lavorare, detective, o passerà il tempo a fare il cretino?» sbottò, prima di riportare l’attenzione sul suo compito. Gabriel sbuffò, incrociò le braccia e rimase in silenzio. Ma chi si credeva di essere, quella ragazzina? Aveva sicuramente passato troppo tempo con la Beale e assimilato il suo caratteraccio.

A differenza di Alex, concentrato su un punto imprecisato della parete, Gabriel non si perse un attimo dell’esame della cavità toracica della vittima. Seguì con lo sguardo mentre Tessa e Greta estraevano, pesavano ed esaminavano organi. Non commentò quando Greta, i guanti resi viscidi dal sangue, rischiò di farsi cadere di mano il contenitore con il contenuto dello stomaco – probabilmente solo succhi gastrici.

«Stando allo stato dei polmoni, era una fumatrice o passava del tempo con qualcuno che fumava» commentò Greta.

«Controlla le mani e i denti» suggerì Tessa distrattamente, facendo delle annotazioni riguardo il cuore al registratore.

«Niente di indicativo. Ma potrebbe sbiancarsi i denti e usare qualcosa di abrasivo sulle dita per le macchie».

«Mh… guarda qui» Tessa indicò una lacerazione nel ventricolo destro. Greta si avvicinò.

«Dice che l’hanno pugnalata?» chiese l’assistente.

«Dimmelo tu» Tessa le passò l’organo. Greta sgranò gli occhi, studiandolo, rigirandoselo fra le mani.

«Lacerazione all’altezza del ventricolo destro. La lama usata ha sezionato la valvola tricuspide, si vede senza bisogno di aprirlo» Greta alzò gli occhi su Tessa. «Abbiamo trovato la causa della morte?»

«Qualcosa mi dice di sì, Greta. Mi sa proprio di sì».

Dopo aver registrato le loro conclusioni sotto gli occhi vigili di Giuliani e l’orecchio attento di Alex, Tessa e Greta ricomposero la cavità toracica della vittima, richiudendola.

«Non è finita qui, dottoressa» commentò Gabriel, ricordando a Tessa l’ordine di esaminare il feto.

«Lo so. Mi concede almeno di ricomporre questa poveretta, o davvero devo trattarla come un pezzo di carne appena frollata?» ritorse il medico legale. La mano stretta intorno al bisturi tremava e Gabriel se ne accorse. Il detective si prese un attimo per guardare davvero quella rompicoglioni della Beale. Non sembrava avere una bella cera, gli pareva quasi malata. Immaginò che, per una donna, trovarsi davanti quella categoria di vittime – donne giovani e incinte – fosse tutt’altro che piacevole e che, prima o poi, persino una come lei avrebbe dovuto cedere alla pressione. E tenuto conto che si era pure sentita male sulla scena, il che per lei era una novità… stava sicuramente male.

Alex avrebbe preferito continuare a non guardare. Avrebbe preferito non vedere la mano di Tessa tremare, mentre avvicinava il bisturi alla zona pelvica. Avrebbe preferito non vederla chiudere gli occhi, serrando le palpebre con forza, prima di riaprirli, la mano di nuovo ferma, e incidere.

«Non posso…» mormorò Tessa, alzando di scatto la mano, portandosi l’altro polso – il sinistro – alle labbra. Fece un passo indietro, allontanandosi dal tavolo. «Greta, per cortesia, finisci tu. Io…» inspirò, cercando di calmarsi. «Io devo andare» borbottò, strappandosi di dosso i guanti e il camice, scappando dalla sala autopsie.

 
Non era la prima volta che si trovavano in quella posizione. Non era la prima volta che la trovava con qualcosa di affilato in mano, pronta a tagliare o con già un segno nuovo sul braccio.

«Theresa». Alex si chiuse alle spalle la porta del bagno. L’aveva inseguita, lasciando Gabriel in sala autopsie con Greta.

«Vattene, Alex. Lasciami in pace». Non si voltò nemmeno a guardarlo, restando con gli occhi bassi sul lavandino, il braccio sinistro poggiato sul bordo, la pelle arrossata. Aveva sfregato con forza, cancellando le farfalle che aveva disegnato. Le cicatrici più vecchie facevano bella mostra di loro stesse insieme ad un taglio nuovo.

«Quando la smetterai?» sbottò Alex, seguendo con gli occhi il percorso del sangue che le scorreva lungo il braccio e gocciolava nel lavandino. Profondo abbastanza da lasciare il segno, non abbastanza da essere realmente pericoloso. Tessa strinse i pugni, il destro che tremava intorno al bisturi.

«Quando la smetterai?» reiterò Alex, senza avvicinarsi. «Quando crescerai, Theresa?» In altri momenti, aveva cercato di ragionare con lei. Altre volte aveva cercato di consolarla. Poi, ad un certo punto, si era stancato.

«Non puoi capire…» sussurrò lei. «Non hai idea di che vuol dire…»

«E allora spiegamelo, dannazione!» esplose. «Spiegami perché sei scappata, spiegami perché hai sentito l’irrefrenabile bisogno di tagliarti ancora!»

«Non volevo vedere! Non potevo vedere!» Tessa chinò la testa, stringendo gli occhi, come se, chiudendoli, le immagini che le vorticavano nella mente sarebbero scomparse, invece di farsi sempre più nitide.

Alex combatté contro l’istinto di andare da lei e stringerla, come ogni volta che la vedeva piangere. Si costrinse a restare immobile, mentre lei tirava su col naso, sciacquandosi il braccio. Il detective restava sempre stupito dalla fredda razionalità che sembrava subentrare dopo quegli attacchi. Ripuliva, medicava, come se non fosse il suo braccio, come se non fosse stata lei a ferirsi.

«Che cosa non potevi vedere?» insisté, freddo. Sapeva benissimo di cosa stava parlando Tessa. Non era stupido, il collegamento lo aveva fatto anche lui.

«Tu non c’eri, Alex. Non hai idea…» Tessa scosse la testa. «Tu non lo hai visto…» ingoiò rumorosamente. «Non hai idea di com’è stato, di quanto faccia male… e l’idea di… di vederne un altro, uguale…»

«Non ha fatto male solo a te» rispose, in tono cupo. «O. era anche mio, se non te lo ricordi. Non lo hai perso solo tu» attaccò. «E smettila di usarlo come scusa per tutto, cazzo!»

«Non lo sto usando come scusa!» si voltò verso di lui, gli occhi grigi che lampeggiavano.

«Invece sì, Theresa!» Alex la raggiunse, prendendole il braccio. «Una vittima è casualmente alla stessa settimana, ti viene chiesto di esaminare anche il feto, e tu subito vai a tagliarti perché buhu, povera me, mi ricorda quando l’ho perso io!» Alex fece un passo indietro, gli occhi castani che la guardavano duri. «Se non riesci a fare nemmeno il tuo lavoro, forse è il caso che te ne trovi un altro. O, se tagliarti ti piace così tanto, la prossima volta fallo per bene. Dal polso al gomito, dottoressa Beale».

«A-Alex…»

«Se tagliarti è l’unica cosa a cui riesci a pensare, l’unica soluzione che riesci a trovare, fallo una volta per tutte. Ammazzati» disse, prendendo l’anello che Tessa aveva lasciato sul lavandino.

Prima che lei potesse rispondere, uscì dal bagno sbattendo la porta.
 

Note:
Non interessa a nessuno, lo so, ma la cosa dei "sotto i cinque centimetri è un clitoride" la dissi io all'individuo di cui sopra. Credo che per almeno dieci minuti abbia usato ogni variazione sul tema di "sta stronza". Ovviamente, si scherzava.
Credo che l'escissione del clitoride si spieghi da sola, ma nel caso... è la sua rimozione, generalmente accompagnata dalla sutura della vulva (vengono lasciate "aperture" solo a livello dell'uretra e per il sangue mestruale). Lo so, fa schifo, orrore e ribrezzo. Il termine tecnico è infibulazione. Vi sembrerà barbarico, ma è ancora praticata. In Nigeria è diventata illegale nel 2015. In Sudan solo l'anno scorso. 
La callosotomia viene - o veniva, non ho fonti certe che sia stata totalmente abbandonata - usata nel caso di seria epilessia farmacoresistente. Come grosso "contro" ha il fatto che i due emisferi non comunicano più tra loro (vengono letteralmente separati, i pazienti sottoposti a callosotomia vengono definiti "split-brain"), letteralmente la destra non sa cosa fa la sinistra, con effetti non esattamente piacevoli: ad esempio, se viene mostrato loro un oggetto nella parte sinistra del campo visivo, non riusciranno a dirne il nome (la parte sinistra è processata nell'emisfero destro, mentre i centri di controllo del linguaggio sono nel sinistro), si può avere confusione e problemi di memoria, giusto per accennarne qualcuno. Ma ehi, le crisi diventano meno frequenti e gravi (dato che i due emisferi non comunicano, le scariche elettriche di una crisi generata in un emisfero, resteranno confinate in quell'emisfero).
Non sono sicura - diciamo che assolutamente non lo so - se questa è la procedura corretta in un'autopsia. D'altronde, di mestiere faccio altro, non il medico legale.
Alex... non so. Stronzo? Stanco? Bipolare? Tutte e tre?
Alla prossima, spero presto e... ci siamo quasi. 


 

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Capitolo 12
*** 12 ***


Ma buonasera! Ci sono ancora, giuro. È che faccio un lavoro bellissimo ma che mi brucia i neuroni e ho delle scadenze che mi portano a stare tipo 23 ore al giorno al computer, un occhio allo schermo e uno che va al quaderno su cui sto scrivendo questa storia. E tra un po' dovrebbero (il condizionale è d'obbligo) cominciare i corsi per l'abilitazione all'insegnamento (mi ci vedete a insegnare l'italiano come lingua straniera?) e che ve lo dico a fa'... Ma vi giuro che alla fine ci arriviamo. Più lentamente di quanto preventivato, ma ci arriviamo. Voi non abbandonatemi, però eh. E fatevi vivi! Lo so che ci siete u.u
 

12
Quando Alex uscì dall’istituto di medicina legale, Gabriel lo stava già aspettando accanto all’auto. Giuliani aprì la bocca per commentare sul tempo impiegato, ma l’espressione del suo partner – cupa, tempestosa – gli fece cambiare idea. Alex gli lanciò le chiavi e girò intorno all’auto senza dire una parola.

«Ok, guido io» bofonchiò Gabriel, sedendosi al posto di guida, mentre l’altro entrava dal lato passeggero, sbattendo la portiera con più forza del necessario. Non disse nulla nemmeno mentre Gabriel metteva in moto e usciva dal parcheggio. Rovistò nella tasca del giubbotto, tirandone fuori sigarette e accendino. Abbassò il finestrino e ne accese una.

Gabriel lo guardò con la coda dell’occhio. «Sul serio? Nell’auto di servizio, Alex?»

«Chiudi il becco, Gabriel».

«Ah, ma allora parli ancora!» lo prese in giro.

«Fanculo» sbottò Alex, senza guardarlo.

«Che hai, ti girano?»

«Colpa tua» ritorse il partner. Gabriel frenò di colpo per non tamponare l’auto davanti a loro.

«Mia? Cazzo ho fatto?» sbottò, ad occhi sgranati.

«Era strettamente necessaria l’analisi del feto?» gli chiese Alex, a denti stretti.

«Tsk. Ovvio che c’entra la Beale. Che c’è, ha piagnucolato che sono brutto e cattivo?» Gabriel scosse la testa. Quella lagna della Beale gli avvelenava i rapporti col partner giusto per rovinargli ancora di più la giornata. «Almeno ti ha detto quando sarà pronto il rapporto?»

Alex scosse la testa. «Te lo vai a ritirare da solo» sbuffò. «Non chiedermi di accompagnarti dalla Beale a prenderlo» aggiunse. A quell’uscita, Gabriel fischiò.

«La Beale? Cos’è successo a Tessa-puccipu? Ora prendi le distanze?» lo stuzzicò. Prima o poi, avrebbe cantato.

«Quante volte vuoi essere mandato a fanculo, Gabriel?» fu l’unica risposta di Alex.

Giuliani spense l’auto, arrivato ormai ai loro garage. Tirò il freno a mano e bloccò le portiere.

«Tu di qui non esci senza darmi una spiegazione accettabile, Hasler. E non prendermi per il culo. Che è successo tra te e la Beale, oggi?» fissò il partner, gli occhi verdi che sembravano scavargli nel cervello. Alex sospirò, buttando il mozzicone dal finestrino.


«Quando Thomson è andato in pensione ed è stato sostituito dalla Beale, abbiamo iniziato ad uscire insieme».

«Spero con la Beale. Thomson non mi sembra il tuo tipo» scherzò Gabriel. Alzò le mani in segno di resa quando Alex lo fulminò con lo sguardo.

«Per un po’ siamo andati a letto insieme» inutile dirgli che l’amava. Inutile dirgli che aveva pensato di sposarla. «Ad un certo punto, è rimasta incinta» s’interruppe.

Gabriel lo guardò, perplesso. Stava davvero dicendo che tra loro era stato solo sesso? Credeva fosse così scemo? Poi rifletté sull’ultima parte. «La Beale non ha figli». Se ne sarebbe accorto persino lui. Che ne era stato, di quel bambino?

«Lo ha perso a undici settimane».

Gabriel imprecò. Tutti i pezzi del puzzle si incastrarono. Il fatto che Alex avesse detto con precisione a che settimana era la vittima. Il rifiuto del medico legale e la sua fuga. La faccia di Alex.

«Mi dispiace, amico» disse. Ed era vero. Alex sospirò.

«Poco dopo, abbiamo rotto. Abbiamo mantenuto rapporti civili, fino ad oggi» concluse.

Gabriel rifletté, studiando le crepe sullo sterzo. «Tu quella pazza la ami» affermò. Alex non rispose. «Sotto c'è dell’altro che non mi dici, lo so. Fingerò di farmelo bastare. E andrò a prendermi da solo quel cazzo di rapporto da seimila pagine, quando la tua ex finirà di stilarlo» sbottò, sbloccando le portiere. Alex uscì dall’auto senza fiatare.

«Stasera, comunque, tu esci. Non posso permetterti di restare a casa a deprimerti» riprese Gabriel, arrivati all’ascensore. Alex sospirò, pronto a protestare.

«Non ammetto un no come risposta. Andiamo a bere qualcosa. Magari ti sbronzi» insisté.

Entrando in ascensore, Alex abbozzò un sorriso poco convinto, stringendo la mano sull’anello che aveva in tasca.

 
Maledizione. Non avrebbe dovuto accettare di uscire con Gabriel, la sera prima. Avrebbe dovuto mandarlo al diavolo e chiudersi in casa, almeno quella volta. Era una settimana di fila che lo portava in giro per locali ed era una settimana di fila che Giuliani prendeva servizio fresco come una rosa – come cazzo faceva? – e lui sembrava uscito da un film sugli zombi di serie B. O anche Z.

Alex si scolò quel che restava del pessimo caffè, accartocciò il bicchiere di plastica, prima di gettarlo nel cestino, mancandolo. Con una smorfia, si chinò a raccoglierlo e lo buttò.

«Nottataccia, detective?» lo apostrofò Sally, distribuendo la posta.

«Non hai idea, Sally…» bofonchiò Alex, prendendo la busta che gli porgeva. «Non c’è il mittente» aggrottò le sopracciglia, rigirandosela fra le mani.

«Credi che dovremmo preoccuparci?» Gabriel gliela sfilò di mano, mettendola in controluce. Una busta da lettera ordinaria, dentro sembrava esserci solo un biglietto. L’indirizzo del destinatario era scritto a penna in uno stampatello generico e senza nessuna indicazione.

«Ne dubito» Alex si riprese la busta. La falda non era nemmeno incollata, ma solo infilata all’interno. La aprì, prendendo il biglietto – un foglietto strappato da un taccuino a quadretti – e lo fissò. C’era solo un numero: 2400. Scritto con una precisione che aveva visto solo in due persone: la sua insegnante di matematica delle superiori e… Tessa. E dubitava seriamente che la professoressa Taylor potesse mandargli messaggi criptici.

«Duemilaquattrocento?» gli chiese Gabriel, perplesso. «Cos’è, il conto del bar?»

Alex scosse la testa, mettendosi il biglietto in tasca. «Non ne ho la più pallida idea…»
 

Ho tentennato per un po', perché non sapevo se continuare o fermare qui il capitolo. Poi ho deciso che andava bene anche così.
La cosa diventa preoccupante, mi sto affezionando a Gabriel. E finalmente sto poveraccio ha la conferma dei suo sospetti. 
Giuro che ve lo dico, più in là, che cos'è quel 2400. Ma se avete delle teorie, sono ben accette. Ovviamente, non confermo né smentisco XD
Alla prossima.

 

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Capitolo 13
*** 13 ***


Ehilà! Sono ancora viva, tranquilli. Incasinata, ma viva. Scusate l'assenza. Per farmi perdonare, il capitolo è di una certa lunghezza (4 pagine e mezzo, secondo Word e la formattazione che sto usando). 
Ci siamo quasi, non so darvi ancora delle tempistiche, ma presto dovrebbe venir fuori il killer... e la sua prossima vittima. (Zan zan zan!)

 

13

«Allora, questi aggiornamenti?» il Capitano Green, nominalmente, lo stava chiedendo a entrambi i detective. Ufficiosamente, Alex faceva parte dell’arredamento.

Appoggiato alla parete nell’ufficio del Capitano, guardò il collega rispondere senza scomporsi.

«Abbiamo deciso di cercare ancora ogni possibile punto in comune tra le tre vittime. Scuole frequentate, lavoro, palestra, hobby, supermercato…» enumerò Gabriel.

«E…?» incalzò il Capitano.

«Ed è risultato che venivano seguite tutte e tre dallo stesso ginecologo. Il dottor…» Giuliani sfogliò gli appunti.

«Mark Finley» supplì Alex, atono. Gli occhi del Capitano andarono momentaneamente verso di lui, per poi tornare su Gabriel.

«Appunto» confermò. «Ci abbiamo parlato» riprese Gabriel. «Escludiamo possa avere niente a che fare con gli omicidi».

Roxane guardò il detective. «Perché è un uomo e noi, apparentemente, cerchiamo una donna? Sai benissimo che non possiamo escludere nulla. Il rapporto del dottor Rowe esprime espressioni contrastanti. Lui dubita che sia una donna o, se lo è, deve avere grossi problemi ad accettare il proprio corpo e il proprio genere, tenuto conto anche delle mutilazioni dell’ultima vittima…»

Gabriel scosse la testa. «No, Capo. Lo escludiamo perché sembrava non avere quasi nemmeno la forza fisica per una visita completa. Ha una certa età e sarebbe meglio andasse in pensione, secondo me» commentò.

Roxane strinse le labbra. «Qual è allora la tua conclusione?»

Gabriel guardò Alex. Quando erano andati da Finley, era stato lui a proporre di controllare tutto il resto del personale della clinica, ma avevano bisogno della benedizione del Capo per farlo.

Alex sospirò. «Non è lui. Forse qualcuno che lavora con lui. E un’altra cosa. Finley ci ha detto che nessuna delle vittime aveva intenzione di tenere il bambino. La prima, era alla ventiseiesima settimana quando è morta, e voleva darlo in adozione. Le altre due volevano abortire» spiegò.

«Ce l’ha con le donne, incinte, che non hanno intenzione di fare le madri» riassunse il Capitano.

«Esatto» concordò Gabriel. «E sceglie le sue vittime fra le pazienti di Finley. Gli abbiamo chiesto privatamente di aggiornarci, nel caso si trovasse con qualche altra interruzione volontaria, magari riusciamo ad arrivare prima noi».

Il Capitano sollevò un sopracciglio. «Hai intenzione di piantonare ogni donna incinta nello studio di Finley e nel consultorio con cui collabora?» gli chiese, scettica.

Alex si staccò dalla parete. «Se necessario, Capitano, sì» disse, a denti stretti. Roxy lo guardò, studiandolo.

«Anche se non vogliono, detective?» ribatté Roxy, gli occhi blu che lo trapassavano.

«Se ne faranno una ragione. Credo che l’alternativa sia peggio, no?» ritorse lui.

Roxy intrecciò le mani sulla scrivania. «Immagina che la paziente di Finley non voglia avere a che fare con la sua scorta. Non voglia vederli. Nemmeno sentirli nominare. Che faresti, la costringeresti?» gli chiese, dura.

Alex inspirò rumorosamente dal naso, dilatando le narici. Quando aveva saputo cosa era successo dopo l’autopsia, Roxy gli aveva fatto una lavato di capo con i controcazzi, sibilando come una biscia per non farsi sentire da nessuno fuori dall’ufficio. E un’altra quando aveva cominciato a presentarsi al lavoro – grazie a Gabriel – con i postumi peggiori del secolo.

E ora se ne usciva così.

«C’è qualcosa che dovrei sapere, Capitano?» chiese, a denti stretti.

Roxy sorrise sarcastica. «Se non lo sai già, di certo non sarò io a dirtelo».

Gabriel spostò lo sguardo dall’uno all’altra, perplesso. «Volete che vi lasci soli?»

«No!» ribatté Roxy, mentre, contemporaneamente, Alex rispondeva «Sì!»

Gabriel sospirò, massaggiandosi la radice del naso.

Furono interrotti da qualcuno che bussava alla porta dell’ufficio del Capitano Green. Senza un fiato, Roxy andò ad aprire la porta, trovandosi davanti un uomo con in mano una cartellina.

«Il Capitano Green, suppongo» disse l’uomo, tendendole la mano. «John Evans. Ci siamo sentiti al telefono…» spiegò.

Roxy sollevò le sopracciglia. «Certo, venga dottor Evans» rispose, stringendogli la mano e poi facendogli spazio per entrare in ufficio. «I detective Giuliani e Hasler, titolari del caso», li indicò.

Gabriel e Alex si guardarono perplessi. E quello chi era?

«Piacere». Poi si rivolse di nuovo a Roxy. «Come le ho detto al telefono, le ho portato il rapporto dell’autopsia…»

«Di solito andiamo noi a prenderlo dalla dottoressa Beale» si inserì Gabriel.

Evans spostò su di lui gli occhi castani. «La dottoressa Beale ha chiesto di essere sollevata dal caso e l’ha passato a me» spiegò. Sorrise all’espressione scioccata dei detective. «Niente di cui preoccuparsi, ho tutti gli appunti della mia collega, sarà come se avessi sempre lavorato al caso».

Alex sgranò gli occhi: Tessa aveva abbandonato il caso? Si voltò verso il partner, che sul viso aveva la sua stessa espressione stupita e perplessa.

«Come mai la dottoressa Beale ha scelto di mollare?» chiese Gabriel, guardando Alex con la coda dell’occhio.

Evans sollevò un sopracciglio. «Non sono cose che mi riguardano. Probabilmente la collega era troppo… sensibile, vista la natura delle vittime… Senza offesa, Capitano» raddrizzò il tiro, dato che Roxy lo fulminava con lo sguardo.

Gabriel aggrottò la fronte, incrociando le braccia sul petto. Se la Beale gli era sempre stata sulle scatole, Evans quasi gliela faceva risultare simpatica, al confronto. Per lo meno, nonostante tutti i suoi difetti, lei non si sarebbe mai sognata di insinuare qualcosa su un collega.

«A quanto ricordo, la dottoressa Beale ha lavorato a casi peggiori senza battere ciglio» la difese, suo malgrado. Un conto era essere lui a parlar male della Beale, un conto era che a farlo fosse quel bellimbusto dall’aria spocchiosa.

Alex batté le palpebre, stupito. Mai avrebbe immaginato che Gabriel difendesse Tessa. «La dottoressa Beale è parte della nostra squadra, dottor Evans. Siamo abituati ai suoi metodi sulla scena e al suo modo di condurre un’autopsia…»

«Mi sta dando dell’incompetente, detective?» sbottò il medico legale, piccato.

«Lungi da me farlo, dottore. Solo ricordarle che è… complicato, trovarsi con un nuovo elemento in squadra all’improvviso».

Evans storse il naso, raddrizzando le pagine del rapporto. «Se vogliamo procedere…»

«Eravamo presenti all’autopsia, dottore» ritorse Gabriel, secco. «Sappiamo cosa le è stato fatto e che il bambino è morto contestualmente alla madre, che comunque voleva liberarsene».

Evans sbuffò. Gabriel pensò che al medico desse fastidio che qualcuno gli rubasse la scena, non permettendogli di fare a modo proprio. Sul serio, quel tipo di faceva sorprendentemente rimpiangere la Beale. Quasi.

«Ecco, questa è un’abitudine che trovo riprovevole» commentò Evans. «Permettere a estranei di accedere alle sale autopsie…»

«Di cosa voleva parlare, dottore?» intervenne Roxy, prima che la situazione degenerasse ancora di più.

Evans riportò l’attenzione sul Capitano. «Il mio scopo, Capitano Green, era soprattutto presentarmi e informare lei e i suoi detective di questo… cambio di programma, mettiamola così. E consegnarle il rapporto, che spero leggerà» concluse, quasi sbattendoglielo sulla scrivania.

Roxy lo sfogliò appena, intenzionata soprattutto a scoprire di chi fosse la firma in calce. Quando si fu, discretamente, appurata che fosse di Tessa (perché no, lei di quel tipo non si fidava) riportò gli occhi sul medico legale.

«C’è qualcosa che dovrei sapere subito?» gli chiese.

Evans sollevò un sopracciglio. «La vittima è stata picchiata, buttata giù dalle scale, brutalmente mutilata e pugnalata al cranio e al cuore. Questi ultimi due traumi sono le più probabili cause di morte».

«La dottoressa Beale ha indicato come causa la pugnalata al cuore» si intromise Alex, guadagnandosi uno sguardo truce da Evans.

«La mia collega non è in errore» concesse questi. «L’esame tossicologico non ha rivelato la presenza di droghe o sedativi nel sangue».

«Abbiamo per le mani una persona sadica, perché dovrebbe sprecarsi a sedare le sue vittime? Vuole che soffrano» ragionò Roxy.

«Come al solito, nessuna traccia utile né sulla scena né sulla vittima» commentò Gabriel.

«Esatto, detective. Sembra quasi un lavoro fatto dall’interno» insinuò Evans.

«Vuol dire che, secondo lei, il colpevole è un addetto ai lavori? Pensa faccia parte della scientifica o sia un poliziotto?» chiese Roxy, sorpresa.

Evans stirò le labbra in un sorriso sardonico. «O un medico legale» suggerì.

«Si spieghi meglio, dottore» Roxy strinse gli occhi. Dove voleva andare a parare, Evans, adesso?

Con un sorrisetto, Evans sospirò teatralmente. «Ci sono alcuni colleghi un po’… disturbati, se mi si concede il termine» disse, guadagnandosi un’occhiataccia dai presenti. Quando nessuno lo interruppe, proseguì. «Credo che sappiamo tutti del periodo trascorso in clinica dalla vostra adorata dottoressa, in gioventù…»

«Quelle sono informazioni riservate!» sbottò Roxy, alzandosi in piedi e battendo con forza le mani sulla scrivania. L’adolescenza di Tessa era stata piuttosto… turbolenta, per usare un eufemismo e, ad un certo punto, i genitori di Roxy avevano dovuto farla ricoverare. Era stato orribile e doloroso, ma Tessa sembrava esserne uscita in modo abbastanza stabile, gli episodi di autolesionismo calati grazie alla terapia e… Roxy spostò per un attimo lo sguardo su Alex. Lo vide rigido, i pugni stretti con tanta forza che le braccia gli tremavano.

«Cosa vuole insinuare?» sibilò Alex, a denti stretti. Gabriel guardò prima il Capitano, poi il collega, pronto a intervenire.

Evans alzò le spalle. «Non mi stupirebbe che una persona con evidenti disturbi e in possesso delle giuste conoscenze in materia, possa diventare un’assassina…»

Ci volle solo un secondo. Evans non fece nemmeno in tempo a finire la frase, che si ritrovò sollevato di peso e sbattuto con forza contro il muro, la faccia di Alex a pochi centimetri dalla propria.

«Non. Ti. Azzardare. A. Parlare. Così. Di. Tessa» ringhiò Alex, strattonando il medico legale.

«Hasler!» lo richiamò Roxy, mentre, intanto, Gabriel lo prendeva per le spalle.

«Mi lasci, detective!» sbraitò Evans, cercando di divincolarsi.

«Alex!» lo chiamò Gabriel, strattonandolo. «Lascia perdere questo idiota. Gli brucia perché la Beale è meglio di lui e fa il gradasso perché lei si è ritirata» cercò di convincerlo. «Vuoi farti sospendere per ‘sto cretino?» gli sibilò all’orecchio. Alex sbuffò, ma fece un passo indietro, lasciando andare il medico legale.

Roxy sospirò. «Credo sia tutto, dottor Evans. Se dovessi avere bisogno di chiarimenti, le telefono» lo congedò.

Evans guardò da lei ad Alex, che aveva ancora l’aria di quello pronto ad attaccare, trattenuto per un braccio da Gabriel.

«Il suo detective…»

«Il mio detective è affar mio, dottore. Arrivederci» lo liquidò Roxy, lapidaria.

Evans si raddrizzò la giacca e se la diede a gambe.

 

Sparate ipotesi: perché Tessa ha lasciato il caso? Che voleva dire Roxy, quando ha detto ad Alex "se non lo sai già, non sarò io a dirtelo"? Ma soprattutto: siete d'accordo con Gabriel nello schifare Evans?
Alla prossima! (Spero presto. Abbiate fede!)

 

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Capitolo 14
*** 14 ***


Ehilà! Scusate la lunghissima assenza, ma tra la mia pessima organizzazione della giornata, il fare due lavori diversi che si mangiano un bel po' di tempo e il non riuscire a scrivere... vabeh, ci siamo capiti. Intanto, ho stilato una specie di scaletta che dovrebbe aiutarmi a finire questa storia e prevedo in totale una ventina di capitoli (quindi, ci siamo quasi). Spero di potervi dare il prossimo relativamente presto.
 

14

Da dietro la scrivania, Roxy guardava Alex come se fosse stata pronta a strangolarlo. Dal canto suo, il detective non sembrava per nulla pentito del suo scatto verso il medico legale. Certo, nemmeno Roxy era stata l’immagine della pacatezza, ma almeno non gli aveva messo le mani addosso.

«Sto aspettando una spiegazione al tuo comportamento, Hasler», lo richiamò il Capitano.

Alex sbuffò, passandosi una mano fra i capelli. «Ti aspettavi che restasse a guardare mentre insinuava che Tessa…»

«So benissimo che mia sorella non è un’assassina, Alex!» sbottò Roxy, ignorando gli occhi sgranati di Gabriel. Si trattenne dal sospirare, sapendo già che Giuliani avrebbe preteso una spiegazione, e non avrebbe avuto tutti i torti.

«Che vuoi che faccia, che mandi un mazzo di fiori a quell’idiota?» ritorse Alex.

Roxy si massaggiò le tempie. Certe volte le sembrava di fare da balia a dei bambini. Si sedette di nuovo, battendo l’indice sulla scrivania. «Distintivo e arma di ordinanza. Considerati sospeso. Fino a nuovo ordine

Alex strinse i denti, ma non fiatò. Si staccò il distintivo dalla cintura e lo sbatté sulla scrivania. «L’arma è nel cassetto della mia scrivania».

Roxy lo guardò, le labbra compresse in una linea sottile. «Ora levati dalle palle», gli sibilò. Rigido, Alex uscì dall’ufficio, sbattendo la porta.

Gabriel non si mosse per seguire il collega. Roxy lo guardò, aspettando che aprisse bocca. Quando non successe, fu lei a parlare per prima. «Che c’è?»

«Credo che ci sia qualcosa che deve spiegare, Capo», disse, a braccia conserte e guardandola negli occhi. Roxy sospirò, chiudendo gli occhi e massaggiandosi la radice del naso.

«I miei genitori hanno adottato Tessa quando io avevo 16 anni e lei 6. Veniva da una situazione non facile: i genitori erano morti in un incidente d’auto e lei era stata affidata a dei parenti che poco ci mancava che la torturassero…»

Giuliani si lasciò andare a un’imprecazione che, normalmente, non gli sarebbe sfuggita davanti al suo capo. «Che le facevano?» chiese, a occhi sgranati. Stava cominciando a sentirsi in colpa per la Beale. Quasi.

Roxy deglutì rumorosamente. «La chiudevano in un ripostiglio buio ogni volta che piangeva. E, tenuto conto che era molto piccola quando i suoi sono morti, Tess piangeva spesso. Se faceva i capricci, se non obbediva o semplicemente si comportava da bambina piccola, non le davano da mangiare e la chiudevano nello sgabuzzino. Qualsiasi cosa andasse storto in casa era automaticamente colpa sua». Roxy sospirò, stanca. Solo ripensarci le stringeva la gola. Non avrebbe mai immaginato che avrebbe finito col raccontare tutto a Gabriel. «Non sappiamo se l’abbiano mai…» non riuscì a finire la frase. Era chiaro.

Gabriel si passò le mani sul viso. «Era una bambina, Capo. Che si aspettavano da lei?» sbottò.

Roxy scosse la testa. «I miei hanno faticato parecchio, ma sono riusciti a farle passare la paura degli adulti. Dio, aveva paura anche a chiedere un bicchiere d’acqua. Ci sono voluti anni, terapia… e un ricovero in una struttura per vedere dei miglioramenti. E continuiamo a camminare sulle uova intorno a lei, in certi momenti. Hasler sembrava farle bene, finché…»

«…finché non è rimasta incinta ed è finita com’è finita», concluse per lei Gabriel. Roxy lo guardò stupita. «Quando hanno litigato dopo l’autopsia, Alex ha accennato qualcosa» spiegò.

«Esatto. Di recente le aveva chiesto di sposarlo. Lo sapevi?»

Gabriel fischiò. No, questo non lo sapeva. Aveva ragione, allora: Alex l’amava, al punto di volersela sposare. Era matto da legare. «No, non è sceso così nel dettaglio».

«Queste sono tutte informazioni confidenziali, detective», sottolineò Roxy.

Gabriel la guardò, serio. Le sembrava il tipo che spifferava in giro? «Capitano, non c’è bisogno di dirlo».

Roxy lo studiò. Sapeva che parlare era stato un azzardo. Sperò davvero che il suo detective non facesse correre la lingua. La parola sbagliata, detta davanti alla persona sbagliata…

«Perché la Beale ha lasciato il caso, Capitano?» le chiese Gabriel, distogliendola dai suoi pensieri. «Sul serio».

Roxy scosse la testa. «Non sapevo nemmeno che lo avesse fatto, in realtà. Non la sento da qualche giorno e rifiuta ogni invito a cena». Inutile scendere in altri dettagli. Se Alex non sapeva, non era corretto vuotare il sacco con Gabriel. Erano cose fra Tessa e quello che, a quanto pareva, era di nuovo il suo ex.

«Dobbiamo preoccuparci?» chiese Gabriel, sollevando un sopracciglio. Non era cieco, aveva solo sempre finto di non vedere il modo in cui la Beale si copriva sempre un braccio.

Roxy tamburellò con un’unghia sulla scrivania e si morse il labbro. «Sinceramente non lo so», sospirò. «Ogni tanto Tess sparisce, ma di solito a Emmie risponde», confidò, riferendosi alla propria figlia, Emmeline. «Adesso…»

«Adesso non risponde nemmeno a Emmeline?» incalzò Gabriel. Roxy sospirò.

«Non so se andare a controllare o meno. Da un lato, vorrei lasciarla per conto suo, dato che un paio di cose da digerire. Dall’altro…»

«Dall’altro vorrebbe mandare le forze speciali a sfondarle la porta».

Roxy abbozzò un sorriso. «Già. La soluzione è la via di mezzo: tartassarla di messaggi finché non risponde».

 
Alex si passò un mano sul viso, tamburellando le dita dell’altra sul piano del tavolo della cucina. Era da disperati telefonare sei volte di fila? Probabilmente sì. Il fatto era che gli sembrava assurdo. Non era da Tessa mollare un caso, non in quel modo, dal giorno alla notte, senza avvisare la Green. Non rispondergli al telefono e dirottare tutte le chiamate alla segreteria telefonica, invece, era assolutamente nella norma. Non era la prima volta e non sarebbe probabilmente stata neanche l’ultima. Sospirò di nuovo e prese il telefono.

«…lasciate un messaggio e vi richiamerò il prima possibile, grazie». Alex riagganciò senza nemmeno lasciare un messaggio. A che sarebbe servito? Non aveva richiamato dopo il messaggio che le aveva lasciato due giorni prima, né quello del giorno prima. E perché avrebbe dovuto? Le aveva detto di ammazzarsi, diamine, che si aspettava? Che corresse da lui a braccia aperte? No, certo che no.

E allora perché aveva un brutto presentimento?
 

Secondo voi, cos'è che Roxy sa e Alex (e di conseguenza Gabriel) no? E Alex c'ha visto giusto o Tessa lo sta semplicemente ignorando?
Alla prossima!

 

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Capitolo 15
*** 15 ***


A/N: ogni tanto ritorno. Giuro che alla fine ci arriviamo!

15

Gabriel guardava la scrivania vuota del suo partner. Alex era stato sospeso una settimana prima e la Green non sembrava volerlo richiamare. Le indagini stagnavano, non sembravano trovare una pista, un’indicazione… niente. Avevano fatto diversi buchi nell’acqua anche relativamente ai modi in cui l’assassino si procurava le case in cui sequestrava e uccideva le sue vittime, dato che sembrava fare tutto online e il reparto informatico non riusciva a trovare una dannata traccia di quella bestia. Il detective si lasciò andare contro lo schienale della sedia, sospirando. Quasi due mesi e mezzo e tre vittime certe più tardi e non avevano in mano praticamente nulla.
E poi c’era Evans. Un medico legale che non accettava l’idea di fare indagini extra e sembrava avere fin troppa urgenza di riconsegnare le salme alle famiglie.
Nemmeno Finley, il ginecologo della moglie di Matusalemme, sembrava essere di grande aiuto. Non gli risultava nessuna paziente che avesse saltato controlli o che stesse pensando di interrompere la gravidanza.
Gabriel stava valutando l’ipotesi di distruggersi l’apparato digerente con quella brodaglia dal vago aroma di caffè che usciva dal distributore quando arrivò Greta. L’assistente della Beale – che ora si trovava a lavorare con Evans – non sembrava avere una bella cera: aveva ciocche di capelli che le aleggiavano intorno al viso come tentacoli di un polpo impazzito e le finivano sugli occhi sgranati. Si tormentava un labbro con i denti e si guardava intorno come un coniglio in autostrada. Quando vide Gabriel, andò dritta da lui.
«Detective!» lo chiamò quando lo raggiunse. «Ho bisogno di aiuto».
«E chi non ne ha…» mormorò sottovoce Gabriel. Si passò una mano sul viso. «Cos’è successo?»
Greta cercò di dare una forma ai tentacoli che le si agitavano intorno al viso. «Si tratta della dottoressa Beale…» cominciò. Gabriel si trattenne dal bestemmiare. Ovviamente c’entrava la Beale. Greta guardò la scrivania vuota di Alex. «Il detective Hasler non c’è?» chiese.
Gabriel scosse la testa. «Purtroppo no. Che problemi ci sono con la Beale, adesso?» quasi sospirò. La giornata era cominciata male e stava andando pure peggio.
«Non si presenta da due giorni. Non è rientrata dal periodo di malattia e non risponde al telefono. L’auto è nel nostro garage, ma…» spiegò.
Gabriel sollevò un sopracciglio: la Beale si era messa in malattia e, fin qui, tutto ok, era suo diritto. Doveva rientrare da due giorni, l’auto era nel garage dell’istituto di medicina legale, ma lei non era al lavoro… e nessuno se ne era accorto? Fantastico… Gabriel si massaggiò le tempie. «Andiamo dal Capo, prima che mi lasci sfuggire qualcosa che mia madre mi ha insegnato a non dire in presenza di fanciulle…»
 
«Fammi capire. La macchina della dottoressa Beale è nel parcheggio dell’istituto di medicina legale da più di una settimana e nessuno se ne è accorto?» sbottò Roxy, reiterando il punto per la terza volta. Le prime due non si era trattenuta dall’esprimersi con molta poca signorilità. Greta si limitò ad annuire. «Come avete pensato fosse andata a casa, volando?» chiese, sarcastica.
Greta guardò il pavimento. «Personalmente, credevo fosse andata via con il detective Hasler. Non sarebbe stata la prima volta che passava a prenderla e lasciava l’auto da noi» ammise. «Ci siamo preoccupati quando abbiamo provato a contattarla e non abbiamo avuto risposta. Il dottor Evans ha minimizzato dicendo che probabilmente ancora non se la sentiva e qualche altro commento dei suoi sul fatto che una donna fragile non dovrebbe fare questo mestiere» sbuffò. «Ma io non sono convinta, Capitano. Ho paura» deglutì rumorosamente.
Roxy si massaggiò le tempie. Aveva paura anche lei. Il silenzio di sua sorella era stato fin troppo strano. Anche se Tessa l’aveva mandata al diavolo le aveva chiesto di non rompere e si sarebbe fatta viva lei. Roxy si era trattenuta dall’andare a casa sua e probabilmente aveva sbagliato.
Roxy inspirò, massaggiandosi la radice del naso tra pollice e indice, gli occhi chiusi.
«Capo, che facciamo?» le chiese Gabriel, mentre Greta si tormentava di nuovo il labbro con i denti. Il detective guardò di sottecchi l’assistente del medico legale ed ebbe di nuovo davanti agli occhi l’immagine del coniglio in autostrada, magari davanti a un tir.
Roxy riaprì gli occhi e guardò il detective. «Chiama Hasler. E poi andiamo a sfondare la porta», borbottò. «E Greta, io e te dobbiamo fare quattro chiacchiere sulla solerzia con cui stai denunciando la scomparsa del tuo capo…»
 
E io come glielo dico che la sua ex è scomparsa?, pensò Gabriel, mentre ascoltava il telefono squillare a vuoto. Alex sembrava non essere intenzionato a rispondere.
«Eddai, coglione…» mugnugnò.
«È sempre un piacere, Gabriel» gli rispose Alex, mentre Giuliani era sul punto di riagganciare.
«Alza quel culo patetico dal divano, vestiti e vieni qui», gli ingiunse Gabriel, senza perdersi in convenevoli. Il tempo era poco e lui aveva cominciato ad avere qualche sospetto non molto piacevole sulle sorti della Beale.
Dall’altro capo, Alex sospirò. «Ti ricordo che la Green mi ha sospeso», ribatté.
«E adesso ti rivuole qui», Gabriel fece una pausa. «La Beale è scomparsa».
«Sto arrivando».
 
«…e Greta, qui, si è degnata di venirci a comunicare che la dottoressa Beale è irreperibile da un paio di giorni» spiegò il Capitano Green, una volta che Alex fu arrivato. Roxy, però, sfogava la propria frustrazione su Greta: era stata lei la prima a non insistere, quando Tessa si era resa irreperibile.
«Il fatto che la dottoressa non sia raggiungibile e non abbia comunicato il prolungamento dell’assenza ha qualche rilevanza?» chiese Alex, cercando di trattenersi dall’alzarsi, mettersi in macchina e andare a sfondare la porta di Tessa.
Roxy fissò la scrivania. A quel punto, era inutile continuare a tacere. Inspirò a fondo. «Ce l’ha, detective», rispose fra i denti. Si trattenne dall’aggiungere che ne aveva anche troppa. «La dottoressa Beale era seguita dalla clinica del dottor Finley, mi stupisce che non abbiate trovato il suo nome nell’elenco dei pazienti», spiegò.
Gabriel e Alex si guardarono: l’avevano visto, il nome, certo. Ma Gabriel non aveva nulla da sospettare e tantomeno lo aveva Alex. Tessa gliel’avrebbe detto, se avesse sospettato di essere incinta, giusto?
«Si è sentita male sulla scena, le dava fastidio l’odore», commentò Gabriel, ricordando l’ultima vittima esaminata dalla Beale e di come il medico legale fosse corsa a vomitare.
«Non è incinta. Me l’avrebbe detto», affermò Alex, scuotendo la testa. Anche solo per torturarmi… aggiunse fra sé.
«Sicuro che te l’avrebbe detto?» gli chiese il collega. «Avevate rotto, di nuovo», puntualizzò.
«Sì…» cominciò Alex, pronto a negare l’evidenza. «2400…» gli tornò in mente all’improvviso. Il biglietto, la busta senza mittente, la grafia netta e precisa. E quella volta che Tessa gli aveva spiegato come interpretare quello stesso, identico numero nei risultati delle analisi.
Gabriel sollevò un sopracciglio. «Ti ho già chiesto se era il conto del bar e hai detto di no».
Alex scosse la testa. «No. Cazzo, Tess è incinta». Fece due rapidi calcoli. «Di almeno…»
«…intorno alle sei settimane», confermò Roxy. «E non voleva tenerlo».

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Capitolo 16
*** 16 ***


16

Era buio. E lei odiava il buio. Non che fosse sicura che, intorno a lei, fosse davvero buio, in realtà. Aveva una benda intorno alla testa, talmente spessa che, anche se avesse avuto un faro puntato in faccia, per lei sarebbe stata la mezzanotte più nera possibile. Faceva freddo, ma era probabile che era fosse perché era senza vestiti, sdraiata di schiena su una superficie liscia.
Ora so come si sentono i miei cadaveri, pensò. Però loro non sono legati al tavolo.
Le faceva male lo stomaco, ma quello era il problema minore, dovuto solo alla fame. Non ricordava nemmeno più quando le era stato dato qualcosa da mangiare, men che meno da bere. Sapeva solo che, per il momento, era sola. L’unico suono che riusciva a sentire era quello del proprio respiro, troppo agitato e superficiale.
Se continui così, non risolvi niente. Respira lentamente. Respira normalmente. L’ossigeno ti serve. L’ossigeno è tuo amico, si ripeté.
Il problema era che respirare era difficile, figurarsi fare qualche respiro profondo, che le sarebbe anche servito a calmare il cuore impazzito che le batteva contro le costole.
Le costole. Deglutì rumorosamente. L’aveva buttata giù dalle scale, prima di rinchiuderla in quello scantinato. Arrivata a terra, le aveva assestato qualche calcio. Il crack lo aveva sentito, almeno una gliel’aveva rotta, di costola. Poi le aveva calato con forza un piede sulla mano, e di crack Tessa ne aveva sentito qualcun altro. Se fosse uscita di lì, le sarebbe servita un bel po’ di fisioterapia, per poter riprendere a usarla.
Poi, l’aveva spogliata. Tessa aveva stretto i denti, bendata fin dall’inizio, mentre meticolosamente e lentamente veniva lasciata in mutande e poi legata polsi e caviglie sul tavolo.
Di tanto in tanto, le veniva portato qualcosa da mangiare o da bere, probabilmente il minimo che bastava per non farla morire, perché altrimenti che sfizio c’era?
Tessa deglutì di nuovo e fece il respiro più profondo che le riusciva, cercando di fare l’inventario delle proprie condizioni: una mano rotta e, probabilmente, almeno una costola nello stesso stato; un taglio profondo e suturato all’altezza della clavicola; altri meno profondi all’interno coscia; diverse bruciature di sigaretta su braccia e seno. Questa volta, aveva deciso di andarci piano. Ancora non le aveva toccato la faccia, né strappato le unghie. Ancora non era rimasta completamente nuda. Ancora non le aveva messo un solo dito sul ventre.
Che intenzioni aveva, con lei?
Si stava divertendo di più a torturarla con le parole, più che nel fisico. Le aveva chiesto più di una volta se si aspettava che i suoi amici poliziotti sarebbero venuti a cercarla, sempre se si fossero accorti della sua scomparsa. Importava qualcosa a qualcuno, se Tessa spariva? Probabilmente no. Forse, avevano pensato che fosse andata a buttarsi in un fosso, visto che aveva tanta voglia di farsi del male da sola, no? A chi sarebbe importato se la piccola, patetica Theresa Beale spariva?
No. No. A Roxy importava. A Emmie.
Ad Alex.
L’avrebbero cercata. L’avrebbero trovata. Sì, e per fare cosa? Alex le aveva chiaramente detto che poteva ammazzarsi. Quanto più che lei aveva deciso di non tenere il bambino, quindi lui non avrebbe avuto motivo di restare con lei. Di tornare con lei.
Provò a scuotere la testa, ma le faceva male tutto.
E poi, i passi sulle scale.

A/N: rieccomi! Scusate, ci ho messo un po', ma nel frattempo l'ho anche finita, quindi a breve vi do in pasto anche il resto. Se c'è ancora qualcuno, battete un colpo e fatemi sapere che ne pensate (anche solo per mandarmi al diavolo)

 

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Capitolo 17
*** 17 ***


Rieccoci! Abbiamo quasi finito, giuro! Aspetto sempre che mi diate un'opinione. Alla prossima!



17
Il primo passo che avevano fatto, era stato cercare eventuali tracce di Tessa. Questa volta, sapevano chi era la vittima. E sapevano all’incirca quando era sparita e da dove.
Ovviamente, le telecamere del parcheggio dell’Istituto di Medicina Legale erano state un buco nell’acqua. Ovviamente, cercare di geolocalizzare il cellulare era stato inutile.
Sapevano come si muoveva: rapiva la vittima, trovava un posto vuoto e lo prendeva a nome di lei. Quanto mai ci sarebbe potuto volere a trovare una proprietà recentemente presa in affitto a nome della Beale?
Tre giorni. Ci avevano messo tre stramaledettissimi giorni.
Tre giorni in cui Gabriel aveva dovuto ricordare al suo partner – non ancora ufficialmente tornato in servizio, dettagli – che il caffè del distributore e un pacchetto di patatine stantie non erano considerabili un pasto e che no, nemmeno fumare due pacchetti al giorno poteva essere considerabile salutare.
Ci era voluto un pugno dritto alla mascella e il Capo che gli urlava contro per rimettere Alex in riga. E adesso era seduto dietro alla sua scrivania a far andare nervosamente su e giù la gamba, mentre praticamente mezza squadra si organizzava.
Erano state individuate tre proprietà diverse recentemente prese in affitto a nome della Beale. A quanto pareva, questa volta non si era badato a spese. In ogni caso, le transazioni erano state gestite da qualcun altro.
«Dobbiamo essere più che sicuri di quale sia la località giusta. Dobbiamo avere la certezza matematica di finire nel posto giusto, al momento giusto» stava dicendo Roxy, che studiava la mappa su cui avevano segnato le posizioni.
«Sperando che, nel frattempo, non la ammazzi», borbottò Alex, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del Capitano. In quei tre giorni, se ne erano dette di tutti i colori, arrivando persino ad accusarsi a vicenda – se Alex non l’avesse lasciata, Tessa non avrebbe pensato di abortire; se Roxy avesse insistito avrebbe scoperto prima che Tessa era scomparsa – con scambi tanto accesi che tutta la squadra conosceva ogni minimo dettaglio delle loro relazioni.
«Ci serve un posto isolato» si intromise Gabriel, per evitare che tra i due si scatenasse un’altra lite. Quella sì che avrebbe fatto perdere tempo. E non ne avevano. La Beale era nelle mani di quel pazzo già da quasi due settimane, dato che probabilmente era stata rapita all’uscita dall’istituto, la sera dell’ultimo giorno di lavoro prima della settimana di permesso. Tenuto conto che sembrava che il loro assassino scaricasse una vittima ogni tre-quattro settimane, il tempo era un lusso che non avevano.
«Isolate. Senza vicini», rifletté Roxy.
«Deve anche essere una qualche specie di villetta, con una cantina o un seminterrato», si inserì Jones. «Non le ha sempre lasciate in cantina?» chiese per conferma. Gabriel, accanto a lui, annuì.
«Allora, Capo, possiamo escludere quella sulla Wilford», affermò Jones, controllando i dati. «È un appartamento all’ultimo piano di un palazzo. A quanto risulta, l’edificio è completamente abitato. Qualcuno avrebbe dovuto sentire la dottoressa urlare» aggiunse, senza bisogno di sottolineare perché Tessa avrebbe dovuto farlo.
Roxy annuì, segnando con una X il punto in cui si trovava l’appartamento.
«Ce ne restano due», commentò il Capitano, continuando a guardare la mappa.
«Formiamo due squadre e ci dividiamo?» suggerì Gabriel, senza nemmeno guardare Alex, già pronto a scattare. Roxy scosse la testa.
«No», disse, alzando una mano prima ancora che uno tra i due detective potesse protestare. «Voglio arrivargli addosso con tutte le forze e preparati». Non c’era bisogno che aggiungesse “al peggio”. Roxy era perfettamente consapevole del fatto che ogni secondo fosse più che prezioso e che, probabilmente, Gabriel aveva più che ragione: fare irruzione in entrambi i posti (meglio ancora in tutti e tre) avrebbe garantito di trovare sicuramente Tessa, ma avere due squadre diverse significava la metà degli uomini, come aveva detto lei, oltre al fatto che lo stronzo avrebbe potuto avere dei complici a sorvegliare le altre proprietà e avvisarlo. E questo non sarebbe stato un bene per Tessa: o avrebbe deciso di divertirsi ancora di più con lei per fare in modo che la trovassero viva ma nelle peggiori condizioni possibili o, vedendosi accerchiato, avrebbe potuto decidere che il gioco non valeva la candela e ucciderla.
Alex studiava la mappa, dove erano stati cerchiati i luoghi in cui si trovavano le tre proprietà che avevano individuato. Le due che erano rimaste erano troppo lontane l’una dall’altra per permettere a una squadra di raggiungere l’altra in caso di successo o insuccesso e, probabilmente, visto come sembrava ragionare lo stronzo, era stata una scelta non casuale. C’era qualcosa sulla mappa, però, che lo attivava particolarmente e lo faceva propendere più per una delle due rimaste. Si accorse di essersi avvicinato solo quando puntò il dito al centro del cerchio disegnato da Roxy e si accorse di non dover allungare il braccio.
«L’ha portata qui», affermò, sicuro.
«E questo lo sai perché…?» gli chiese Gabriel.
«Guarda l’indirizzo. Ti ricorda niente?» A lui si era accesa la lampadina, era sicuro che sarebbe stato lo stesso per Gabriel.
«L’omicidio di Susan Creston» si illuminò Roxy, mentre Gabriel imprecava per non averlo notato: il primo caso in cui avevano lavorato con Tessa quando Thomson era andato in pensione. Negli ultimi tre anni, quella casa era stata messa in vendita e in affitto almeno dieci volte e tutto il dipartimento lo sapeva.
«Se l’ha fatto di proposito e non è un caso, lo stronzo è un insider. Merda» Roxy batté il pugno contro la scrivania. Chi gliel’aveva fatta sotto al naso? Chi?
«Capo, andiamo?» la incalzò Gabriel.
«Andiamo».
 
Avevano raggiunto l’ex villetta di Susan Creston con tutta la rapidità possibile, lasciando le auto a un paio di incroci di distanza. La casa era in fondo a una strada senza uscita, circondata da villette in tutto e per tutto identiche, ma in quel preciso istante sfitte o in vendita. Il posto perfetto.
«Dobbiamo aspettare» Roxy cercava di rabbonire Alex, già pronto a sfondare la porta e fare irruzione. In realtà, Roxy non voleva nemmeno portarselo dietro, ma lui aveva sollevato un gran bel punto: se lei, che era la sorella, andava, lui non poteva restare indietro.
«E cosa, le paste? Tessa è lì e Dio solo sa che cosa le sta facendo…»
«Lo so!» sbottò il Capitano, gli occhi che mostravano un po’ troppo bianco. «Ma non possiamo entrare alla cieca e rischiare…»
«Se entriamo adesso e ti metti a fare l’eroe, rischi di farla ammazzare» sintetizzò Gabriel.
«Capitano», dagli auricolari arrivò la voce di Matthews, della squadra di ricognizione.
«Parla, Matthews», gli rispose Roxy.
«Ho i cecchini in posizione. Piano terra e piani superiori sembrano vuoti, ma ho due tracce termiche in quella che sembra la cantina».
«Sembra o è, Matthews?» gli chiese Roxy, spazientita. Dagli auricolari, sentì Matthews sospirare.
«Molto probabilmente dovrebbe esserlo, solo che sembra essere più grande di quanto dichiarato al catasto».
«Potrebbe aver sconfinato in quelle dei vicini?» ipotizzò Gabriel.
«Affermativo, Detective. Queste case sono fatte con lo stampino e un po’ di cartapesta. Gli sarà bastato buttare giù due muri. Non ci sono altre tracce termiche, ma non abbiamo visuale e non sappiamo se è armato».
Roxy chiuse gli occhi e inspirò a fondo. «Interveniamo».

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Capitolo 18
*** 18 ***


18
Gabriel conosceva la planimetria di quella casa. Era già stata la scena di un omicidio, in cui, davanti al cadavere, lui si era lasciato sfuggire una battuta ed era stato fulminato dai gelidi occhi grigi di Theresa Beale. E, adesso, tre anni dopo, Gabriel Giuliani si trovava di nuovo in quella casa e la vittima era proprio la Beale. Sperava solo di non trovarla con il cranio sfondato come la Creston.
Cercando di non fare il minimo rumore, Gabriel e gli altri percorsero la cucina verso la porta della cantina. La aprirono con cautela e, con altrettanta attenzione e circospezione, iniziarono a scendere i primi gradini.
Gabriel guidava il gruppo e, quando lentamente girò l’angolo verso il muro abbattuto, ringraziò mentalmente qualsiasi divinità fosse intervenuta ad aiutarlo a convincere Alex a restare indietro. Nascosti dietro il muro, la squadra studiava la situazione. L’odore del disinfettante non riusciva a coprire quello del vomito e del sangue e Gabriel sentiva lo stomaco in fiamme all’idea di quello che poteva essere successo. O che stava ancora succedendo.
«Oh, andiamo, non mi concedi nemmeno un urlo, dottoressa?»
A quella voce, Gabriel si immobilizzò.
«Questo vuol dire che devo insistere…» e il rumore di un colpo, troppo forte per essere solo uno schiaffo. Era stato uno scrocchio, quello? Un osso che si spezzava? E potevano sentirlo da lì?
L’unica risposta, dei singhiozzi strozzati. Gabriel non si era nemmeno reso conto di aver trattenuto il fiato finché non aveva espirato. Si affacciò lentamente dal muro, sperando di avere fortuna e di essere alle spalle dello stronzo. Sì!
«Evans! Getta quel martello!» Giuliani uscì da dietro il muro con la pistola spianata e puntata verso il medico legale. Alle sue spalle, il resto della squadra bloccava quella che sembrava essere l’unica uscita.
Lentamente e con una risata che nulla aveva di buono, Evans lasciò cadere il martello, mancando di poco il ginocchio di Tessa, stesa sul tavolo davanti a lui. Gabriel non rischiò di guardarla, scegliendo invece di restare concentrato sul suo obiettivo. Non se lo sarebbe mai perdonato se, per via di una breve distrazione, Evans fosse scappato. Mai e poi mai si sarebbe aspettato che quello stronzo potesse arrivare a tanto. Non gli era stato simpatico, gli aveva dato i brividi fin dal loro primo incontro, ma mai avrebbe potuto sospettato tanto.
«Hai visto? Sono venuti i tuoi amici a salvarti. Dovevo mettere le mani sulla loro cagna perché si decidessero a muoversi». Evans si voltò verso Tessa, allungando una mano verso di lei.
«Non toccarla», scandì Gabriel, il dito che quasi gli tremava sul grilletto dal desiderio di sparare e fanculo i protocolli e la possibilità di arrestare l’assassino; fanculo l’interrogatorio. Fanculo tutto. Quello si meritava solo una pallottola in mezzo agli occhi.
«Altrimenti, detective? Mi spari?» lo prese in giro Evans, facendo un passo verso il tavolo d’acciaio. «Non mi è sembrato di vedere il tuo collega, però. Che c’è, la sua dottoressa non valeva la pena di venirmi a stanare?» continuò, abbassando la mano sulla caviglia di Tessa e stringendo. Dal canto suo, Tessa non emise un fiato. Da quella distanza, Gabriel non sapeva nemmeno se fosse cosciente o svenuta.
Giuliani fece un passo avanti, facendo cenno alla squadra di restare in posizione. Non gli era sfuggito il tavolino ben attrezzato accanto a Evans. E nemmeno la pistola alla cintura. Loro avevano l’attrezzatura, i giubbotti, ma Tessa no. Chi poteva dire se il medico legale non avrebbe sparato alla collega prigioniera?
«Il gatto ti ha mangiato la lingua, detective?» continuò Evans.
«Se hai tutta questa voglia di parlare, perché non mi dici perché l’hai fatto?» ribatté Gabriel, indicando la Beale con un cenno della testa. «Perché lei? Perché tutte le altre?»
«Oh, ma è semplice. Non sono degne di vivere. L’unica cosa che una donna dovrebbe fare è essere madre. Queste cagne prima aprono le gambe e poi vogliono liberarsi dei frutti dei loro peccati. Meritano di morire».
«Se uccidi loro, uccidi i loro bambini» ribatté Gabriel, trovando il difetto nella logica.
«Indegni figli del peccato».
«Allontanati da lei e fatti mettere le manette, Evans», gli intimò Gabriel, stanco di quel siparietto. Prima si liberavano di lui, prima potevano occuparsi di Tessa.
Quando prese la pistola dalla cintura, Evans scoppiò a ridere.
 
Quando sentì lo sparo dall’auricolare, Alex fece l’unica cosa che poteva fare: si liberò di chi lo tratteneva e corse in casa. Come Gabriel, conosceva la planimetria e non ci mise molto ad arrivare in cantina. Non si aspettava quello che vide: Gabriel e il resto della squadra immobili al centro dello spazio, Tessa legata su un tavolo d’acciaio e John Evans a terra, un foro di proiettile su una tempia e ancora la pistola in mano.
Quando Alex fece per avvicinarsi a Tessa, Gabriel lo fermò con un cenno della mano. Era meglio che non la vedesse così. Ferita. Coperta di lividi. Ossa rotte. Gabriel non fiatò: se Alex aveva sentito lo sparo, non doveva essergli sfuggito nemmeno il resto della conversazione.
«Dobbiamo portarla fuori» cercò di intervenire Alex, quando Gabriel non diede cenno di lasciarlo avvicinare.
«Non possiamo muoverla, Alex» fu l’unica risposta del detective. Alex impallidì. Gabriel sollevò l’angolo delle labbra. «È viva, ma conciata male. Aspettiamo l’ambulanza. Se la spostiamo noi, rischiamo di fare più danni».
Solo in quel momento Alex si rese conto che Tessa teneva Gabriel per un polso, come se fosse l’unica cosa sicura rimasta a cui aggrapparsi. Sentì solo una punta di… rabbia? Gelosia? Gli sembrò di poter vedere solo quella mano pallida, le unghie spezzate, stretta intorno al polso del suo collega. Si accorse dell’arrivo del personale medico solo quando lo spinsero via per farsi strada. Li guardò valutare le condizioni di Tessa, occuparsi delle cure più urgenti e poi caricarla con cautela in barella e portarla via. Solo allora si concesse di guardare Evans a terra, il cranio sfondato dal colpo con cui aveva deciso di uccidersi, l’ultimo smacco nei loro confronti.
«Alex, andiamo» la voce di Roxy lo riportò alla realtà. «Qui ci pensano loro. Tu vieni in ospedale con me». Quando lui la guardò perplesso, Roxy gli sorrise. «È un ordine, Hasler».
 
A/N: Ve l'aspettavate? Comunque, abbiamo quasi finito: solo un altro capitolo e poi l'epilogo. Commenti e opinioni sono sempre ben accetti!

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Capitolo 19
*** 19 ***


19
Un’altra settimana.
Alex era praticamente tutti i giorni in ospedale e Tessa, quando era sveglia, si rifiutava di vederlo. O, almeno, così gli diceva Emmeline, la figlia del Capitano, guardandolo col disgusto riservato solo a uno scarafaggio schiacciato sotto le scarpe nuove.
«Dimmi che non sono morta e questa non è la mia camera ardente…» sussurrò Tessa, un occhio aperto e l’altro chiuso, notando l’ennesimo mazzo di fiori comparso nella stanza.
«Sei viva e ancora in ospedale», la prese in giro Emmeline, seduta accanto al letto. «E lui è sempre fuori. Quasi quasi mi fa pena» aggiunse con una smorfia.
A quell’uscita, Gabriel, in piedi accanto alla finestra, trattenne una risata. «Come va oggi, doc?»
«Invece di un carrarmato, oggi ho la sensazione che mi sia passato un paio di trattori addosso», rispose Tessa. «Lo prendo come un miglioramento». Non era stato facile. Una costola rotta e una incrinata, alcune ossa della mano e del polso rotte (la martellata), diversi tagli e si era giocata la milza.
Nonostante tutto, però, avrebbe potuto andarle peggio.
«Ottimo. Ti porto buone notizie: abbiamo preso la sua complice. Era la segretaria della clinica», riprese Gabriel. Tessa sgranò gli occhi. «A quanto pare, Grace Pierson faceva parte dello stesso gruppo di esaltati di Evans. Lei gli forniva i dati e lui organizzava il piano, poi lei si prestava a spacciarsi per le vittime. Con la lista che le stiamo preparando, butteranno la chiave».
Tessa chiuse gli occhi e sospirò. Ottimo. Gabriel dovette interpretare quel sospiro in modo diverso.
«Ci abbiamo messo troppo. E non abbiamo controllato come dovevamo…»
Tessa lo fermò scuotendo la testa. «Non potevi saperlo, Gabriel». Nell’ultima settimana, avevamo abolito le formalità. Succedeva, quando il detective che sembravi non sopportare ti trovava praticamente nuda con più lividi che pelle sana. «Non è colpa tua».
«Nemmeno di Alex», il detective colse l’occasione. Dall’altro lato del letto, Emmeline sbuffò.
«Emmie…» la redarguì Tessa. Ma d’altronde quella ragazza aveva le sue opinioni ed era una leale sostenitrice della zia.
Gabriel si spostò vicino al letto. «Dagli una possibilità, Tessa. Lui mi pare te ne abbia data più di una». Quando Emmeline aprì di nuovo la bocca per protestare, ben consapevole di cosa era successo tra sua zia e Alex, Gabriel la fermò con un’occhiataccia.
Tessa chiuse gli occhi e annuì. Gabriel cercò di trattenere il sorrisetto di trionfo. Non era ancora detta l’ultima.
Emmeline guardava Tessa con le labbra compresse in una linea sottile, poi sbuffò. «Ho bisogno di un caffè, vero», dichiarò, avviandosi alla porta. «Detective, mi accompagna? Per la salute fisica del suo collega, è meglio se me ne vado».
«Per fortuna, siamo già in un ospedale» ridacchiò Gabriel, prima di fare l’occhiolino a Tessa e scortare Emmeline fuori dalla stanza, lasciando la porta aperta per Alex.
 
Era la prima volta che riusciva a entrare. Emmeline, di solito, si prendeva i fiori e lo sbatteva fuori con un gelido “non vuole vederti”. Comprensibile. In fondo, era lì per colpa sua. Se lui non le avesse detto di ammazzarsi, lei probabilmente non avrebbe deciso di liberarsi del bambino e non sarebbe finita in mano a Evans. E, di conseguenza, in quel letto, ricucita, fasciata, steccata, con una mano praticamente rimontata che nemmeno un puzzle.
E tutto solo perché lui non ce l’aveva fatta un’altra volta. Con che diritto andava a strisciare da lei, adesso? A prometterle di nuovo la luna, per poi scappare? Seduto accanto al letto Alex aspettava che Tessa si voltasse verso di lui.
«Emmie ha detto che eri sempre qui. Perché?» chiese, continuando a guardare la finestra. «Perché sei venuto, perché continui a venire e riempirmi di fiori?»
Alex deglutì rumorosamente. Che doveva risponderle? Scelse la verità. «Perché è solo colpa mia», disse sottovoce. Tessa si voltò verso di lui, le sopracciglia aggrottate.
«Come può essere colpa tua una mia decisione? Potevo andare da un altro medico. Potevo anche non decidere di…» rispose, cogliendo il filo dei pensieri di Alex.
«Vuoi ancora farlo?» la interruppe lui. Tessa iniziò a masticarsi un labbro: dopo tutto quello che era successo, sembrava che l’unico a non aver riportato danni fosse il piccolo ospite del suo utero. Testardo come il padre…
«Vuoi che lo faccia? O vuoi fermarmi?» ribatté lei.
Alex si passò le mani sul viso. Qualsiasi risposta sarebbe stata sbagliata, a prescindere: se le diceva che voleva che lo facesse, era uno stronzo perché così si liberava del problema; se diceva che voleva fermarla, era uno stronzo perché non doveva permettersi di immischiarsi. A conti fatti, era uno stronzo e basta.
«È il tuo corpo, Tess. Decidi. Tu. In ogni caso, io non ti fermo. Qualsiasi sia la tua scelta, io non mi opporrò. E non me ne andrò», rispose. Tessa lo aveva ascoltato senza un fiato o un commento. «Me ne sono andato una volta di troppo e non ho intenzione di rifare lo stesso errore».

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Capitolo 20
*** Epilogo ***


EPILOGO
«Hai ragione, questa festa sta durando un po’ troppo», commentò Gabriel. «Io proporrei di squagliarcela, ci stai?»
Ana lo guardò perplessa, ma non lo degnò di una risposta. D’altronde, non lo faceva mai. Parlare con lei da un lato era fantastico, perché lo ascoltava sempre rapita, dall’altro era un po’ noioso, visto che era praticamente un monologo.
«Anastasia, tu sì che sai come ascoltarmi» la prese in giro, ricevendo in cambio un’altra occhiata confusa.
«Gabriel, che dici, mi ridai mia figlia?» tanto concentrato, Gabriel non si era reso conto che Alex lo aveva raggiunto e aveva teso le mani per riprendersi la bambina.
«Scordatelo. Ana preferisce lo zio Gabriel, vero?» ribatté lui, facendo il solletico ad Ana, che gorgogliò dandogli una sonora manata sul naso. «E poi, scusa, tu non stavi ballando con tua moglie, poco fa?» continuò, accennando con la testa a Tessa, seduta a un paio di tavoli di distanza. Alex avvampò.
«Alla sposa fanno male i piedi e ha richiesto che recuperassi Anastasia dalle grinfie dell’orribile zio Gabriel» lo prese in giro.
«E dire che per lei ho messo anche la cravatta» sospirò Gabriel, cedendo la bambina al padre e accompagnandolo al tavolo. «Ehi, doc. Ma quindi adesso firmerai i tuoi rapporti enciclopedici col cognome di questo idiota?» la prese in giro indicando Alex.
Tessa lo guardò divertita. «Firmerò i rapporti enciclopedici che tu leggerai attentamente sempre con il mio cognome, grazie», ribatté, riprendendosi la bambina dalle braccia di Alex e facendo attenzione a come usava la mano. Aveva ripreso funzionalità, ma in alcuni momenti continuava a darle problemi. Per fortuna, non era quella con cui operava.
Il trillo dei loro cellulari e di quello di Roxy, che si godeva il teatrino, li riportò a una realtà un po’ meno piacevole: Alex e Gabriel avevano associato quella particolare suoneria alla centrale. Quegli squilli in contemporanea significavano una sola cosa.
Roxy sospirò. «Ragazzi, abbiamo un cadavere».
 
Fine

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