SteAm

di Emeerery
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio, Segnali di fumo ***
Capitolo 2: *** Castle, l'eroe inespugnabile ***
Capitolo 3: *** Intermezzo - Tirocinio ***
Capitolo 4: *** Di inviti a cena e porte (quasi) sprangate ***
Capitolo 5: *** Quattro chiacchiere a braccetto ***
Capitolo 6: *** Intermezzo - Apprendistato ***
Capitolo 7: *** Le qualità di una spalla ***
Capitolo 8: *** Le doglianze di una degente, Epilogo, Postfazione ***



Capitolo 1
*** Preludio, Segnali di fumo ***


L’uomo osservò la scena dall’alto del palazzo.
 Il criminale si era imbattuto in un’eroina di pattuglia dopo aver provocato l’incendio. Non aveva causato troppi danni, ma l’intervenuta sembrava ben decisa ad arrestarlo. Purtroppo per lei, pareva anche incompatibile col nemico. Decise di concederle qualche minuto.
 Era giovane, poco oltre la ventina. Il costume da eroe era sicuramente scenografico, anche se dubitava fosse effettivamente utile. Sei foglie fuori misura le scendevano dalle spalle in due gruppi, tre sopra e tre sotto. Quelle inferiori erano fermate in vita da una cintura marrone, così come marroni erano i pezzi di armatura che riusciva ad intravedere. Dietro di lei, appesa alla cinta, c’era una sacca gonfia, verde, a forma di semicerchio. Uno scudo partiva da entrambe le braccia a difenderla dal quirk avversario (delle fiamme di discreta potenza). I capelli, castani e molto lunghi, erano intrecciati con delle liane, che si congiungevano sul viso a crearle una maschera. No, le uniche cose utili erano le protezioni personali che in quel momento non poteva sfruttare.
 Quando ebbe stabilito che la ragazza ci avrebbe ricavato solo delle bruciature (al meglio), decise di aiutarla. Badando di non attirare l’attenzione dei contendenti, si calò silenziosamente alle spalle della sua preda.
***
 
 Se avesse dovuto stilare una lista dei peggiori criminali affrontati nel corso della sua carriera, Clorofilìa[1] avrebbe scelto quello ad occhi chiusi. Diamine, anche la volta che aveva retto l’edificio pericolante sembrava una piccolezza al confronto! Le unicità di fuoco non le erano congeniali, tendevano a consumarle in fretta zuccheri e liquidi per compensare le perdite subite dai suoi rami. Ma quirk del genere combinati ad attacchi a distanza (rivelando una padronanza del proprio potere non indifferente), non li aveva ancora mai gestiti. Nonostante fosse a più di tre metri dal suo avversario, il suo controllo sul muro di fuoco non ne risentiva minimamente. Lei, invece, che preferiva il combattimento corpo a corpo, non riusciva a trovare un varco per avvicinarsi e le sue fronde andavano seccandosi e sviluppando piccoli principi d’incendio da estinguere in fretta. Non di rado aveva concluso lotte senza neanche toccare direttamente lo sfidante, ma con quelle fiamme in libertà era impossibile lanciargli contro i tralci d’arresto, sarebbero stati ridotti in cenere prima ancora di impensierirlo. Ed anche a voler essere fortunati, raggiungerlo in qualche modo e catturarlo, lui non ci avrebbe messo molto per mandare in cenere tutte le sue armi.
 Riconsiderò rapidamente le alternative: non aveva intenzione di scappare, il suo avversario aveva già provocato dei danni e la ragazza aveva la netta impressione che la lista si sarebbe allungata se non l’avesse prontamente fermato; scartò l’idea di attirarlo in una strada più trafficata, dove avrebbe magari trovato un eroe che potesse darle una mano, ma il delinquente avrebbe potuto trattenere qualche ostaggio; chiamare polizia o agenzie poteva essere un piano degno di considerazione, se il suo cellulare non fosse morto al primo tentativo, surriscaldato appena tirato fuori dalla cintura; infine impalarsi lì, resistere e sperare nel meglio. La zona era disabitata, una parte del quartiere in via di riqualificazione da almeno vent’anni, a quel che sembrava. Edifici pericolanti e strade dissestate rivelavano il reale interesse dell’amministrazione comunale per il rilancio del rione. Il massimo del crimine era l’abusivismo, su cui le agenzie chiudevano generalmente un occhio. Situazione spinosa.
 Stava considerando per la terza o quarta volta se non fosse il caso di provare con i segnali di fumo, sperando di attirare l’attenzione di qualche incauto passante, quando le fiamme si ritirarono d’improvviso. Titubante, temendo una trappola, riorganizzò lo scudo per dare un’occhiata al criminale attraverso i rami. Lo vide a terra, apparentemente svenuto, mentre un uomo massiccio lo sovrastava da dietro. Poco convinta, riassorbì comunque i tralci, lentamente, per recuperare almeno in parte energie ed acqua.
 Il nuovo intervenuto era alto, spalle larghe, braccia e gambe incredibilmente muscolose. Indossava una maschera di metallo dalla forma bizzarra, tondeggiante in cima ed appuntita sul davanti che richiamava immediatamente gli spallacci e le protezioni di gomiti e ginocchia. Dal collo in giù era rivestito di una calzamaglia nera estremamente aderente. Il suo intero corpo era attraversato da tubi grigi che seguivano l’andamento degli arti incontrandosi al centro del torace, dove degli oggetti circolari luccicavano debolmente nella scarsa luce del vicolo. Completavano quell’improbabile visione vambraci[2], schinieri[3] e cintura dello stesso colore dei tubi, chiusa da una grossa fibbia rettangolare dorata.  
 “Grazie, l’atmosfera era un po’ troppo calda per i miei gusti,” cercò di scherzarci sopra Cloro, mentre richiamava alla mente tutti gli eroi con cui era venuta in contatto. Le sembrava di non conoscerlo, il che era strano considerando che il quartiere non era particolarmente grande e le pareva di essere in rapporti con tutte le agenzie operanti in zona. L’altro chinò appena la testa in risposta.
 “Se ha un cellulare potrebbe chiamare la polizia, signore? Il mio non funzionerà mai più, temo” chiese ossequiosa.  
 “Steam” ribatté l’uomo.
 La ragazza strabuzzò gli occhi.
 “Come scusi?” domandò.
 “Mi chiamo Steam, non ‘signore’, e non porto il telefono al lavoro, rischia di distrarmi,” replicò lui. La sua voce era alterata artificialmente da un filtro, o forse solamente dal casco che indossava, Cloro non poteva esserne certa.
 Comunque la sua risposta fugava ogni dubbio possibile. Non conosceva un eroe con quel nome, e nessuno dei suoi colleghi usciva di ronda senza un apparecchio di recapito, fosse anche un cercapersone. Neanche il capo faceva eccezione.
 “Come se la cava con le fiamme? La stazione di polizia più vicina si trova a mezz’ora a piedi da qui, se si sveglia nel tragitto dovremmo…” non completò la frase, non sapendo bene come continuare. L’altro iniziò a scuotere piano la testa.
 “Abbastanza bene da aspettarti mentre cerchi una pattuglia. Non sono sicuro di poter camminare così a lungo e tu non mi sembri in grado di rimetterlo a dormire, senza offesa.”
 Clorofilìa ci rifletté sopra. Non avrebbe potuto trasportarlo lei, non in quelle condizioni. Non aveva la forza di caricarseli entrambi per tutta quella strada, ma lasciarlo da solo a gestire un criminale le pareva una soluzione un po’ estrema. Certo era che dava l’impressione di riuscire a reggere tranquillamente gli attacchi fisici. Sperò in cuor suo che avesse una pari resistenza al fuoco.
 
 Venti minuti dopo, quando si affacciò nuovamente nel vicolo con al seguito gli agenti, la ragazza ebbe un principio di mancamento. Non riusciva a vedere né il criminale né tantomeno l’eroe. Per un momento temette che il primo si fosse ripreso e avesse fatto la festa al secondo. Poi si rese conto che il delinquente era stato spostato contro un muro e abbandonato riverso. Dell’altro uomo non c’era traccia.
 “Non avevi detto di averlo affidato ad un eroe?” le chiese un poliziotto.
 “Sì, mi aveva assicurato di potersene occupare da solo” rispose lei, incerta. Non riusciva a spiegarsi il motivo di quella sparizione. Non c’erano segni di lotta, anche l’incendio che aveva dato origine al suo intervento si era spento da solo, non ne rimaneva che cenere e fumo. Si strinse nelle spalle.
 “Va bene,” le disse l’agente, conciliante “l’importante è aver catturato questo tipo. Ma ci toccherà contattare il tuo collega e riprenderlo per aver abbandonato il criminale, a quanto pare. Come ha detto di chiamarsi?”
 Dopo di che Clorofilìa si disinteresso totalmente alla faccenda.
 

[1]  Parola composta, derivante dal termine ‘clorofilla’ unita alla desinenza greca ‘filìa’ (amore, simpatia, affinità).
[2]  Nelle armature a piastre, elemento posto a protezione degli avambracci.
[3]  Nelle armature a piastre, elemento posto a protezione degli stinchi.

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Capitolo 2
*** Castle, l'eroe inespugnabile ***


 Come ogni aspetto dell’attività eroica di Cloro, la ronda notturna presentava pregi e difetti. Fra i pro rientrava sicuramente il ridotto numero di spettatori (e potenziali vittime) degli incidenti che si trovava a gestire, ma di contro l’assenza di luce solare riduceva drasticamente la sua autonomia, costringendola ad affiancarsi ad un eroe. Fino a quando il capo era stato in agenzia, ritagliava due o tre pattuglie a settimana da fare insieme, dopo il tramonto. Non che la ragazza fosse del tutto incapace di agire, semplicemente si rendevano conto entrambi che era preferibile avesse qualcuno con lei per aiutarla in caso di svenimento da ipoglicemia. L’accordo era stato tacitamente stilato e siglato, ed erano andati avanti con questa pratica per tutti gli anni della loro collaborazione. Poi il principale se n’era andato e lei aveva dovuto fare i conti con l’immenso dubbio delle notti. Continuarle o meno? Se da un lato sarebbe stato logico limitarsi ad uscire di giorno (quando era sicuramente più efficiente), dall’altro le pattuglie notturne erano quelle più ricche di interventi e richieste di soccorso, quindi più necessarie alla comunità (e remunerative per l’agenzia).
 All’inizio aveva provato ad uscire da sola, ma i risultati erano stati peggio che umilianti. Diverse volte si era trovata costretta a contattare comunque un’agenzia perché le inviassero un eroe in loco, troppo stremata per battagliare contro un nemico per più di dieci minuti. Altre erano stati i passanti stessi a chiamare le forze dell’ordine quando, rientrata l’emergenza, aveva perso i sensi.
 Così da diverso tempo aveva preso l’abitudine di organizzare le ronde notturne riferendosi agli incarichi dei colleghi. Ogni settimana si metteva d’accordo con gli eroi, scegliendo in base a giorni, zone di pattuglia e stato d’animo. L’ultima discriminante l’aveva introdotta quando, poco tempo dopo aver preso quella combattuta risoluzione, aveva incautamente accettato di affiancare Castle. Il suo spirito demoralizzato, già provato dalla situazione, si era trovato del tutto impreparato all’assalto dell’esuberante energia dell’eroe che, allegramente ignaro, l’aveva strapazzata più di un villain. Da quel momento si era ripromessa di evitare assolutamente quei colleghi eccessivamente vivaci e vitali, salvo riuscire a reperire una più che dignitosa dose di caffè forte.
 Quella notte in particolare aveva deciso di prepararsi tre caffettiere, stiparle in un thermos e sperare per il meglio. Era di pattuglia proprio con Castle, partiva armata ad ogni evenienza. Il turno le era capitato fra capo e collo quando Range[1], suo amico d’infanzia, le aveva dato buca all’ultimo. Avrebbe potuto rimanere a casa e ridurre l’orario, per una settimana non sarebbe successo niente, ma aveva voluto comunque controllare il prospetto con i turni degli altri eroi, compilato pazientemente di mese in mese. Castle era di ronda in una zona relativamente tranquilla, con ville di proprietà ed in affitto di un certo livello, al massimo c’era da aspettarsi un’effrazione (cosa per cui, a meno di abuso di quirk, non erano nemmeno tenuti ad intervenire). In fondo era da molto che non uscivano di pattuglia insieme e ultimamente l’umore della ragazza era in costante ascesa. Forse avrebbe potuto reggerlo.
 “Sono rimasto mezz’ora fermo, con la signora che sbraitava e mi colpiva con la borsa per averla fatta cadere. Gli operai non si fidavano a tirarla via, era indemoniata!” E giù a sbellicarsi entrambi.
 L’uomo le stava raccontando di un salvataggio effettuato giusto un mese prima, una vecchietta che per poco non era rimasta schiacciata da un’impalcatura pericolante. Ne parlava lieto, giulivo, come si narrerebbe di un buffo incidente sul lavoro, quando sporchi la cravatta di salsa e devi cercare in ogni modo di nascondere la macchia. Cloro annuiva e concordava, si mostrava scettica e stupita, rimproverava e rideva.
 “Gli agenti sono arrivati appena in tempo, altrimenti l’avrei spedita di nuovo a gambe all’aria.”
 “Bravo, così proteggiamo i nostri civili” riuscì a ribattere Cloro, fra una risata e l’altra.
 “Certo, bisogna proteggerli dagli eccessi! Magari la pressione…”
  Lasciò la frase in sospeso. Da oltre il recinto in muratura che si trovavano a costeggiare proveniva inequivocabile il baccano di una zuffa. Bestemmie ed insulti volavano accompagnati dal rumore d’impatto tipico di un pugno che incontra ad alta velocità uno zigomo. Altra imprecazione.
 In quel momento rasentavano uno dei muri laterali e, dal frastuono, supposero che la baruffa si stesse svolgendo nel cortile anteriore. Proseguirono a passo svelto sulla loro strada, senza bisogno di coordinarsi. Se si trattava di lavoro si capivano immediatamente, uno sguardo bastava a stabilire la tattica.
 Svoltarono l’angolo. Il cancello era chiuso e solido, un’impenetrabile parete di legno dei più resistenti, Cloro se ne intendeva. Non stettero a cincischiarsi con piccolezze legali come la violazione di domicilio, i rumori di battaglia giungevano sempre più caotici. Castle le fece da gradino, la ragazza si issò su di lui fino ad aggrapparsi al bordo dei pannelli e dare una sbirciata dall’altro lato.
 Il giardino era illuminato a giorno da faretti sapientemente distribuiti che non lasciavano spazio ad ombre, stagliando netti i confini di alberi, cespugli e persone. Al centro del cortile, tre figure si fronteggiavano, frenetici nello scambio di colpi. Due di loro (un uomo con potenziamento fisico ed una telepata) facevano muro contro il terzo, un pugile mascherato, massiccio e molto veloce. Nessuno di loro si risparmiava sull’uso di unicità e Cloro considerò distrattamente che quello aveva tutta l’aria di essere un immenso abuso di quirk da entrambe le parti, ma lo sguardo le si fissò sul contendente solitario. Steam.
 Rimase interdetta a considerare le implicazioni di quel che stava osservando: un eroe era in lotta con quelli che avevano tutta l’aria di essere cittadini comuni, in una zona in cui, per quel che le risultava, non vivevano eroi. Possibile…?
 Clorofilìa si calò silenziosamente dalla postazione, riflettendo frenetica: Steam l’aveva salvata da un cattivo (o almeno le aveva risparmiato delle fastidiosissime scottature), ma stava lottando in una villa contro quelli che presumibilmente dovevano essere i padroni di casa. Che avrebbero dovuto fare? Dargli manforte o bloccarlo e pretendere delle spiegazioni?
 Non impiegò che pochi secondi per prendere una decisione, mettere Castle al corrente della situazione e creargli un rampicante perché potesse inerpicarsi sul muro. I cittadini andavano protetti. E se Steam invece avesse avuto delle buone motivazioni… erano sempre tre eroi, se la sarebbero cavata.
 Cloro penetrò nel giardino mentre il collega si aggiungeva al mucchio, sbraitando i suoi incitamenti alla lotta e spaventando i civili che avrebbe dovuto rassicurare. Steam, invece, non mostrò turbamento, si strofinò rapidamente le braccia dalle spalle ai polsi, poi colpì.
 Dato l’effetto, fino a quel momento aveva dovuto trattenersi. Con i suoi abbondanti due metri per oltre cento chili di muscoli e baldanza, Castle non era il tipo da farsi abbattere dal primo pugno piazzato allo sterno, ed infatti resistette. Così come al secondo, al terzo e al quarto. La sorpresa aveva bloccato gli altri due sul posto, tanto che ancora non riuscivano ad attaccare l’avversario distratto, ormai al sesto colpo. Ci fu un attimo di pausa mentre Steam riprendeva a passarsi le mani sulle braccia, ma Castle non riuscì ad approfittarne. Provò a reagire, ma l’impeto del suo sfidante lo portò inesorabilmente in difesa, a cercare di parare attacchi troppo rapidi per essere evitati. Venne giù al nono, mentre Cloro posava i piedi per terra. L’eroe che l’aveva preceduta di pochi secondi era stato abbattuto, i due guardiani improvvisati erano ancora ipnotizzati e lei si trovava a fronteggiare da sola l’avversario. Che riprese col suo eccentrico cerimoniale.
 L’eroina non perse tempo ad architettare complicate strategie d’attacco. Come vide le mani dell’altro poggiarsi la prima volta sulle spalle rilasciò i suoi tralci d’arresto. Li avvolse stretti intorno al torace dell’uomo, bloccandogli le braccia a metà del movimento. Immobilizzato, l’altro provò ad opporre resistenza, divincolandosi e cercando in ogni modo di strappare i rami da quella scomoda locazione, ma Cloro si limitò a stringere ulteriormente la presa.
 Da quel momento, a descrivere gli eventi successivi, Clorofilìa si sarebbe trovata in imbarazzo. I civili finalmente si stavano riprendendo, scuotevano la testa e si avvicinavano sospettosi all’aggressore. Castle, ancora stordito dall’attacco, si tirò a sedere e fissò inebetito il contendente, cercando di capire come quel mingherlino (in realtà parecchio grosso anche lui) era riuscito ad atterrarlo. Il centro convergente dell’attenzione generale, il sedicente eroe Steam, si era nel frattempo calmato, rendendosi conto di non potersi liberare. Fino a quel punto Cloro avrebbe giurato che andasse tutto bene, anche se un insolito tremore le giungeva dai tralci.
 “Spiegati” gli ingiunse.
 Si era allenata costantemente nel corso degli anni per affinare le sue capacità percettive. Il debole senso tattile delle foglie e le vibrazioni dei rami le fornivano ormai ogni informazione dell’universo cieco con cui venivano in contatto. I movimenti oscillatorii che le arrivavano alle braccia (radice delle sue armi) le comunicavano ‘spostamenti’ muscolari, non semplici spasmi o contrazioni. Come se i muscoli del suo prigioniero stessero scivolando via dalla loro sede abituale.
 “Stai fermo e spiegati” ripeté, infondendo nella voce un tono autoritario riservato solitamente ai peggiori criminali. Ma a quel punto le cose si fecero complicate.
 Steam scivolò verso il basso, sfuggendo alla sua cattura come una saponetta umida. I rami si strinsero in aria mentre il delinquente (come ormai doveva considerarlo) sgattaiolava rasoterra nella sua direzione. Castle imprecò sonoramente quando lo vide rialzarsi e Cloro lo osservò interdetta avanzare nella sua direzione a gran velocità.
 Via via che si avvicinava la ragazza poté riconoscere nella porzione frontale dell’elmo (così come in tutte le protezioni delle giunture maggiori) la riproduzione della sezione anteriore di un treno a vapore, quella griglia fatta per resistere agli incauti animali che attraversavano le rotaie al passaggio del mezzo. Sparata verso di lei.
 D’istinto divaricò le gambe, si radicò al terreno e richiamò i tralci, preparandosi all’assalto. Ma all’intruso evidentemente occorreva solo una rincorsa. Mentre lei, con l’uomo ormai a pochi passi, tentava nuovamente la cattura, lui si accovacciò e spiccò un balzo, sorvolando le mura che circondavano la villa. Andato.
 Impiegarono qualche secondo per riprendersi dalla sorpresa. Cloro, con i tralci ormai inutili poggiati al suolo, poté sentirlo atterrare dall’altra parte del recinto e fuggire via, i passi che si affievolivano in una direzione imprecisata. L’aveva seguito con lo sguardo fino all’ultimo, al momento in cui era sparito dall’altro lato del muro.
 “Merda!”
 Si girò di scatto, in direzione di Castle. L’impropero riassumeva per sommi capi il giudizio che anche l’eroina dava a tutta la faccenda. Aveva in mente un altro paio di epiteti poco lusinghieri per l’estemporaneo incontro, ma decise di tenerli per sé. Il capo non aveva mai dato direttive particolari sull’argomento, ma lei riteneva fosse più urbano non fare uso di un linguaggio eccessivamente colorito, quindi si limitò a ripetere l’imprecazione del collega.
 “Merda, già. Come stai?”
 Scoprì che Castle stava abbastanza bene, grazie, anche se si massaggiava vistosamente lo sterno. I civili, una volta rassicurati sull’occupazione lavorativa dei nuovi venuti, spiegarono che il criminale si era introdotto nel giardino poco prima, mentre loro rientravano, e aveva iniziato ad attaccarli appena resosi conto di essere stato colto in fallo. Supponevano fosse semplicemente un ladro molto determinato.
 Clorofilìa li squadrò. Erano una coppia sulla quarantina. L’uomo, quello con l’unicità di potenziamento, era quello messo peggio, con varie ecchimosi che andavano affiorando nei tratti di pelle scoperti. La compagna sembrava solamente stanca, avendo lottato prettamente dalla distanza (aveva cercato di affrontare l’intruso scagliandogli addosso gli ornamenti del giardino, limitandosi ad oggetti leggeri).
 Non che la loro teoria non la convincesse, era solo che… non la convinceva. Non aveva alcun senso che un comune ladro avesse insistito così tanto nei suoi propositi nonostante l’arrivo dei proprietari. Considerando poi che quel malvivente due settimane prima l’aveva aiutata nella cattura di un criminale…
 Sospirò, incapace di trovarci una logica. Si accertò comunque che loro fossero effettivamente i legittimi occupanti dell’abitazione (un rapido controllo di chiavi e documenti le tolse ogni dubbio). Valutarono insieme se chiamare la polizia, ma le vittime innocenti di quell’efferato crimine ritennero di non voler essere ulteriormente disturbate. Niente danno, niente denuncia. E accompagnarono gli eroi al cancello.
 Fuori dalla proprietà Clorofilìa si affrettò a comunicare a Castle le modalità del precedente incontro con Steam.
 “Questo è strano”, convenne l’eroe. “Forse dovremmo veramente chiamare la polizia e chiedere loro di verificare.”
 “Mmh” espresse concisamente la ragazza. Chiamare le autorità era sempre una buona idea, a suo modesto parere, ma non le veniva in mente nessuno da contattare (tanto meno a quell’ora) per mettere in moto l’arcano meccanismo denominato ‘indagini’.
 “Tranquilla”, le disse il compagno, interpretando il mugugno, “ci penso io in giornata, ho qualche aggancio in centrale.”
 “Sì, beh, dovrei averli anch’io…” replicò incerta Cloro.
 “… ma lui non te ne ha lasciato nessuno” completò per lei l’eroe. “Dovresti veramente cercare di superare questa cosa, sai? Avresti bisogno di iniziare a comportarti come un’eroina indipendente, senza sentirti assillata dal suo retaggio” concluse con fare paternalistico, mentre allungava una mano a darle buffetti sulla testa.
 Clorofilìa decise di non raccogliere la provocazione. Quello era un argomento particolarmente delicato da trattare, soprattutto in presenza di Castle (la storia dell’elefante e della cristalleria probabilmente l’avevano inventata per lui e i suoi interventi a gamba tesa in questioni più complesse dell’arresto di un criminale). Certo che avrebbe avuto bisogno di un agente fidato, e in effetti un numero lo aveva, anche se il poliziotto a cui corrispondeva non aveva giurisdizione nel suo distretto, ma il punto era che lo aveva ereditato dal capo. Come la maggior parte degli aspetti eroici della sua vita.
 Sospirò prima di cambiare argomento.
 “Range mi ha detto di averti visto litigare con una manichetta dei vigili del fuoco, l’altro giorno.”
 Risero per il resto della ronda.
 
[1]  L’escursione fra due valori distinti, un minimo ed un massimo.

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Capitolo 3
*** Intermezzo - Tirocinio ***


 Iris aveva inanellato una sfiga dietro l’altra già dal primo mattino. Il caffè lento, estremamente lento (il capo aveva apprezzato), la doccia gelata (doveva ricordarsi di far controllare la caldaia), la stringa che l’aveva abbandonata al primo nodo, pendendo sfrontata dalle sue dita contratte (per colpa della doccia), come se la sfidasse a trovare da ridire. Sospirando, la ragazza cercò nei cassetti dell’ingresso un paio di lacci nuovi, appuntando quell’ultima incombenza alla sua lista mentale di doveri servitoriali da eseguire al termine della ronda (spesa colazione/spesa merceria/pagamento bollette/caldaista/invio moduli interventi eroici/preparazione cena/richiesta aumento/minaccia termine tirocinio/capitolazione preventiva).
 Avevano lasciato l’ufficio insieme, in silenzio come da rituale, dirigendosi verso l’ascensore. Il foglietto con su scritto ‘Fuori servizio’, che campeggiava ormai da un mese sulle porte sbarrate, diede ad entrambi l’impressione di volerli sbeffeggiare, nella nebbia mattutina che ingolfava i loro cervelli prima che la caffeina si decidesse a dar segni di vita (chiamare amministratore condominio, di nuovo). Scesero per le scale cercando di far meno rumore possibile, ad accompagnarli l’alba afosa di un indolente sabato di metà luglio.
 Si salutarono sul portone, le prime parole pronunciate dalla sera precedente. Non ci provavano neanche più a far conversazione appena svegli. I pochi neuroni già attivi a quell’ora erano troppo impegnati a coordinare i loro movimenti, evitando bruciature e contusioni, per interessarsi a mettere insieme più di due sillabe alla volta. Non riuscivano nemmeno a deviarli dalla strada verso l’ascensore, nonostante fosse guasto da quasi un mese intero (cinque sabati, quattro domeniche, quattro lunedì).
 Voltandosi le spalle, si incamminarono verso i percorsi concordati la sera, prima di andare a dormire, quando ancora riuscivano a considerarsi a vicenda esseri umani senzienti. Iris si era ritagliata una zona tranquilla del quartiere, sperando di limitare le proprie azioni a semplice servizio socialmente utile, come aiutare le scolaresche ad attraversare la strada o indicare ai passanti la via corretta per raggiungere la stazione. Dopo una settimana infuocata per la preparazione agli esami di fine trimestre, non aveva proprio voglia di compiere imprese più o meno eroiche. Anche i gattini avrebbero fatto meglio a non arrampicarsi sugli alberi, se ancora non avevano imparato a calarsene in autonomia.
 La malasorte sembrò dimenticarla per le successive tre ore. I gatti erano spariti (grazie), le scolaresche ordinate e tranquille (continuavano a sventolarle le manine da lontano, che teneri) e gli sperduti turisti erano tutti forniti di cartina, attrezzati come per una passeggiata nel labirinto della Regina di Cuori (le persone previdenti esistevano ancora, quindi). La ronda ormai era quasi una passeggiata, con la gente che la salutava calorosamente, rassicurata dalla sua presenza e dal sorriso smagliante che si era allenata ad indossare da quando aveva visto per la prima volta la faccia del suo attuale datore di lavoro.
 Di certo non aveva un’espressione che metteva a proprio agio, lui, ma come eroe era più che valevole. L’aveva opzionata al festival sportivo, scrivendole dove e come avesse sbagliato durante l’evento e la cosa, più che infastidirla, l’aveva interessata. In mezzo alle altre richieste, accompagnate da lodi sperticate sulle sue attuali capacità e sulle previsioni che il suo potenziale ancora inesplorato faceva presagire, quel messaggio duro e concreto l’aveva convinta che un eroe altrettanto duro e concreto potesse essere l’alternativa migliore per crescere e migliorarsi. In più, aveva già conosciuto il suddetto eroe anni prima, quando l’aveva tirata fuori da un pasticcio con un paio di bulletti più grandi, e sperava che la sua richiesta fosse fondata anche sul ricordo di quell’incidente. Certo, l’impressione quella volta era stata che non potesse sopportarla, se lo rammentava bene. Il volto incupito, gli occhi sfuggenti, quasi non l’aveva guardata in faccia, tanto che si era convinta che lui fosse solo l’ennesimo nazionalista infastidito dalla straniera invadente. Il suo compagno di ronda era stato molto più piacevole.
 Persa nelle sue elucubrazioni poco coerenti (altro caffè appena possibile), quasi non sentì lo scoppio e le grida che l’accompagnavano. La stradina in cui si trovava era poco frequentata ma sfociava su di una via principale più trafficata, da cui stavano giungendo i rumori allarmanti che l’avevano risvegliata.
 Affrettò il passo, le foglie che componevano il costume si allargavano dietro e intorno a lei. Sudava ma non se ne diede pensiero, limitandosi ad infittire l’intrico di radici sotto le protezioni in legno per catturare più umidità possibile. Quando ebbe svoltato l’angolo, provò a dare coerenza a quello che i suoi sensi le inviavano. Fumo, tanto, e polveri vaganti nell’aria, folla in fuga, urla a profusione. L’epicentro della confusione sembrava essere un edificio a qualche decina di metri sulla destra, sinistramente crepato in più punti. Si precipitò in quella direzione, cercando di capire cosa fosse successo, e per una volta la fortuna fu dalla sua (più o meno). Al suo fianco apparve Castle, l’eroe inespugnabile (ma non dalle donne), che con i suoi due metri e passa per oltre cento chili di muscoli assomigliava più ad una torre d’assedio che all’immagine di fortezza inattaccabile a cui si era ispirato. Le strinse il braccio in una morsa mentre si chinava pericolosamente vicino per sbraitarle in un orecchio, l’alito che sapeva di cipolla e gli occhi fuori dalle orbite già rossi per il fumo.
 “Sembra una fuga di gas.”
 Iris diede una nuova occhiata all’edificio. Sembrava un complesso di uffici ed appartamenti, tre piani, media grandezza. Stimò ad occhio trenta locali per livello, un centinaio di persone coinvolte (data l’ora le abitazioni sarebbero state semivuote, ma gli uffici gremiti all’inverosimile), escludendo i passanti. La nube nera si levava da una finestra del secondo piano. La struttura, non recentissima, recava segni di usura accanto a più recenti tracce dell’esplosione. Non avrebbe retto a lungo e loro non avevano il tempo materiale per evacuare i civili.
 Tossicchiò leggermente, i polmoni infastiditi dalla polvere, il naso irritato dalla puzza del gas (finalmente lo sentiva anche lei).
 “Cloro, reggi il palazzo mentre coordino lo sgombero.”
 Era il ‘prima le signore’, giusto? Iris sbuffò mentre armeggiava con i sacchetti appesi alla cintura, agguantando una manciata di quelle che sperava fossero le sue pasticche alla menta extraforte e non semi vari ed eventuali (riordinare cintura).
 “Va bene, ma sbrigati, non me lo posso incollare per sempre!” gridò in risposta, per poi infilarsi sotto la lingua la prima di una lunga teoria di caramelle. Si avvicinò in fretta al muro più vicino, la schiena curva e gli occhi socchiusi per cercare di contrastare il fumo che l’aggrediva. Arrivata al punto prescelto, allargò le braccia, i pugni stretti a proteggere la propria fonte di energia per la mezz’ora successiva. Immediatamente, dagli arti le spuntarono rami e fronde che si allungarono ad avvolgersi intorno al cemento, sfruttando ogni pertugio incontrato per penetrare e rinsaldare la struttura. Le terminazioni nervose le rimandavano le informazioni di cui necessitava per assicurarsi di dare priorità alle zone più deteriorate. Entro breve, si ritrovò a sostenere il palazzo quasi da sola, tre piani installati su rami di ciliegio e noce (ricontrollare ordine guaiaco ed ebano).
 Dava le spalle alla strada, quindi non poteva vedere quanto effettivamente i rinforzi sarebbero stati celeri, ma la consolavano le grida acute di Castle, impegnato a tenere alla larga i curiosi mentre contattava le altre agenzie, i mezzi di soccorso e la sventola di turno (“Giuro, viene giù tutto quanto! Dovresti vedere che casino stiamo cercando di gestire!” No, quest’ultima cosa non era affatto d’aiuto).
 Passati quelli che oggettivamente sarebbero stati cinque minuti, in un mondo normale in cui ci si limita a fare del semplice servizio socialmente utile (anche i gattini sarebbero andati bene, ormai), ma che in quella specifica situazione sembravano altrettante ore, Iris aveva sulle spalle, metaforicamente parlando, l’intera struttura. Si era impegnata a lungo nel corso degli ultimi anni, in particolare da quando aveva conseguito la licenza provvisoria e si era ritrovata a fare i conti con interventi sempre più frequenti in un quartiere che, per numero di abitanti, avrebbe dovuto essere pacifico come la Svizzera moderna e invece sembrava più guerrafondaio della Francia napoleonica. Le rapine si sprecavano, le aggressioni erano all’ordine del giorno. I commerci illegali erano tenuti sott’occhio dalle forze di polizia, ma spuntavano sempre nuovi piazzisti con cui confrontarsi, e anche gli eroi avevano i propri limiti. In aggiunta, incidenti e disastri naturali (o fughe di gas estemporanee) non mancavano di ricordare loro che non c’era solo ‘l’uomo cattivo’ a creare situazioni spiacevoli. Da quando aveva cominciato il tirocinio si era ritrovata a gestire due scontri automobilistici, un albero caduto su di una villa e tre nubifragi, l’ultimo dei quali le aveva regalato un raffreddore, tormento di un mese condito dall’odiosa mascherina e dalle occhiate di riprovazione del capo ogni volta che starnutiva.
 Ma tutto questo non l’aveva preparata alla pressione assurda di reggere un intero edificio, decine di civili terrorizzati e le forze speciali finalmente giunte a risolvere il problema. Le spalle le tremavano mentre lentamente, senza perdere la concentrazione sul compito assegnatole, si portava il pugno alla bocca e sistemava l’ennesima pasticca sotto la lingua. La riserva di zuccheri di cui il fegato era ben provvisto evaporava più in fretta dell’alcool, a costruire cellula su cellula quello che ormai era l’unico motivo per cui il palazzo non stesse ancora collassando.
 Un calcinaccio (dimensioni e peso di un libro, uno a caso, tipo ‘Guerra e pace’) sfuggì alla sua presa e si andò a schiantare contro un ramo di ciliegio, da qualche parte al secondo piano. In quella zona doveva fare i conti anche col principio d’incendio che stava devastando uno degli appartamenti, quello da cui era partito tutto. Lì i suoi tralci erano più verdi e fronzuti, per resistere al calore ed alle fiamme, ma anche più duttili, più sensibili al peso delle macerie che via via si sgretolavano e gravavano sulle sue propaggini. Fortunatamente il fuoco era ancora molto contenuto, si poteva sperare che sarebbe giunto un eroe a domarlo prima che andasse ad oltrepassare i confini del locale.
 La folla alle sue spalle strepitava incomprensibile, le parole coperte dal battito insistente che le martellava i timpani. Iris poteva avvertire i movimenti all’interno del palazzo tramite le vibrazioni che le trasmettevano i rami. Ancora così tante vite da salvare, ancora così tanto lavoro da fare. Inspirò profondamente il fumo che ingombrava l’aria, rilasciandolo a singhiozzi. I polmoni non ne risentivano, gli organi interni erano modificati e resistevano egregiamente all’inquinamento, ma la polvere le dava parecchio fastidio.
 I soccorsi si affaccendavano dietro di lei, diretti da qualcuno più competente di Castle (piano terra, zona interna, almeno le aveva risparmiato il carico aggiuntivo). Sentiva le sirene delle ambulanze, vicine ma ovattate. Un’altra caramella, mentre il pavimento del terzo piano, giusto sopra l’incendio, veniva sgomberato. Il secondo piano era quasi libero, ma le fiamme non le davano tregua.
 Dieci minuti più tardi, a soli cinque dal termine della sua autonomia, le comunicarono la fine dell’operazione. Si accertò che veramente non fosse rimasto nessuno poi, intimando alla folla di tenersi a distanza, incominciò l’opera di crollo controllato. Ritirava con estrema cautela i rami, evitando bruschi cedimenti, mentre ordinava agli eroi con controllo dell’acqua (sempre benedetti!) di continuare ad innaffiare la struttura. L’accumulo di zuccheri nel sangue le causò un tremito in tutto il corpo, propagato alle fronde, ma lei mantenne la presa il più saldamente possibile, lasciando andare i calcinacci solo quando era assolutamente certa di non provocare cascate ingestibili.
 Impiegò altri venti minuti, ma ne valse assolutamente la pena. Lì dove si ergeva un edificio pericolante, prossimo a riversarsi sulla strada causando danni incalcolabili, c’era una montagna di detriti che non avevano intaccato nemmeno i palazzi contigui. La testa le girava paurosamente, l’iperglicemia la faceva sentire leggera ed inconsistente, ma si riafferrò prima di cadere, piantando per terra solide radici, mentre dalla cintura strattonava la borraccia col caffè. Quello, almeno, era forte e già a contatto con la lingua le diede la sferzata di consapevolezza che le occorreva per girarsi, fronteggiare la fiumana di gente materializzatasi per ammirare gli eroi al lavoro, e sorridere. Gli spettatori si ersero in acclamazioni e festeggiamenti (filtrati dalle orecchie ancora fuori uso).
 Castle la raggiunse, euforico, pavoneggiandosi nella ritrovata popolarità di aver condotto le prime fasi del salvataggio, orchestrando sapientemente le forze a sua disposizione. O almeno era quello che Iris immaginava stesse dicendo. Di fatto le diede appena il tempo di riassorbire le radici prima di caricarsela in spalla e portarla in trionfo verso il mare di fan.
 In meno di un’ora erano riusciti a risolvere un’emergenza di tutto rispetto, affidando il resto alle forze ordinarie di soccorso. Iris avrebbe voluto fermarsi a riposare da qualche parte, per riprendere fiato e dare tempo al suo fegato di re-immagazzinare gli zuccheri, ma tutte quelle persone pretendevano attenzioni che lei non era disposta a concedere così, esibendo come scusa la ronda, si defilò il più velocemente che le fu possibile senza rischiare di offendere nessuno.
 Il resto del tempo trascorse più pacificamente, dovette effettuare solo un arresto per uso improprio di quirk, ma la cosa era talmente ridicola (il tipo in questione era di fretta e aveva cercato di fare prima rendendo il marciapiede scivoloso col suo potere saponificante, provocando una serie di cadute di innocenti pedoni) che Iris quasi non ebbe il cuore di affidarlo alla polizia. Quasi.
 Rientrando, ripassò nuovamente la lista di cose da fare, cercando di non saltarne nessuna. Comprare la colazione (il caffè, era quasi finito il caffè!), passare dalla merceria (stringhe verdi, per carità), chiamare l’amministratore (“In settimana passa il tecnico”, come per le altre tre chiamate in altrettante settimane), controllare l’acquisto online (i semi di guaiaco sarebbero arrivati nel giro di tre giorni, l’ebano invece stava avendo problemi alla dogana). Per la cena, stanca com’era, avrebbe evitato di cucinare. Se per una volta avessero ordinato a domicilio l’agenzia non ne avrebbe sofferto. La cintura sembrava ok, i sacchetti di semi e caramelle ben distinti. Si concesse anche una sosta in una caffetteria dove sapeva che non le avrebbero rifilato una schifezza allungata e fredda.
 Mentre, tremante, risaliva le scale per raggiungere l’ufficio, un glorioso tramonto a chiudere una giornata cominciata sotto i peggiori auspici ma conclusa in trionfo, pensava che in fondo non era una vita malvagia quella che stava conducendo. Un po’ confusionaria, sì, forse frenetica a tratti, triste e cupa la mattina senza nessuno a porgerti una tazza di caffè fumante, decisamente sfibrante durante il periodo degli esami, ma in fondo era bella anche così. Stimolante. Piena di momenti ricchi di significato e degni di essere ricordati, come un bagno di folla al termine di un salvataggio. Col capo che l’aspettava seduto in ufficio, il pc acceso, e le ricordava che avrebbe potuto evitare tutto quello spargimento di detriti per strada se avesse esercitato un maggior controllo sui calcinacci in caduta libera, fresco e riposato come se non si fosse neanche mosso da lì. Non gli permise di scoraggiarla, un sorriso istupidito ad aleggiare ribelle sulle labbra al ricordo delle acclamazioni della mattina.
 Si appropriò del computer, verificò al cellulare gli appunti dei propri interventi mentre l’altro le inviava i suoi. Bella mattinata, tre arresti ed un salvataggio (vecchia in tombino dimenticato aperto, chiamata ambulanza e recuperata l’anziana, apparentemente solo una gamba rotta, chiuso tombino). Compilò i moduli relativi alle diverse attività e li inviò al sistema di controllo degli interventi. Fine, nient’altro da dichiarare.
 Si stiracchiò pigramente, mentre già pregustava il post cena, quel soddisfacente torpore da sazietà che, unito alla stanchezza accumulata, l’avrebbe cullata serenamente verso una notte di meritato riposo. Affidò al capo l’incombenza di ordinare per la cena e si diresse con calma in bagno, raccattando per strada l’occorrente per una doccia degna di essere chiamata tale, bollente al punto da ustionarla e scioglierle i muscoli. Spazzolò i capelli per eliminare nodi e sporcizia, entrò nella cabina e girò del tutto la manopola dell’acqua calda.
 Giusto in tempo per ricordare di non aver chiamato il caldaista.

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Capitolo 4
*** Di inviti a cena e porte (quasi) sprangate ***


 Jūryō[1] si era fatto perdonare il bidone invitandola a cena, una settimana dopo. Non che ci fosse niente per cui chiedere ammenda, ma l’amico sembrava così evidentemente dispiaciuto di averla abbandonata nel momento del bisogno (con Castle, per giunta), che Iris non si sarebbe potuta rifiutare neanche se avesse voluto. Passare la serata con lui poi era un piacere che non si concedeva spesso, quindi accettare era stato automatico quasi quanto preparare la caffettiera al mattino dopo una buona dormita. Gestualità intrinseche nel suo animo, talmente tanto radicate da risultare perfette anche se eseguite ad occhi chiusi (o con i rami, mentre dava le spalle alla cucina e cercava di riordinare la piccola apocalisse del futon).
 Di tutti gli ex compagni del corso eroi, Range era quello con cui aveva più contatti, dato che bazzicavano lo stesso distretto. Il ragazzo si era trasferito subito dopo il diploma, quando il Turbo Hero[2] l’aveva confermato come sidekick. Gaggiolo[3] ne era stata sinceramente contenta, dato che anche ai tempi della scuola risultavano la coppia più affiatata. Riprendere le vecchie abitudini anche durante i giri di ronda era stato un po’ come tornare ad indossare la tuta per gli allenamenti (cosa che ogni tanto faceva ancora, quando il servizio lavanderia del negozio sotto casa risultava particolarmente lento, almeno tre volte al mese).
 Era passato a prenderla e l’aveva riaccompagnata a fine serata, e nel mezzo avevano parlato perlopiù di lavoro e tempi andati. Nessuno dei due aveva molte notizie degli altri (tranne di Kamiji[4], difficile ignorare le sue), ma sproloquiare del periodo scolastico, di tutte le bestialità fatte patire ai professori e delle aspirazioni di quegli anni era rilassante, in qualche modo. Si potevano quasi ritenere soddisfatti di quanto avevano combinato fino a quel momento, considerando che erano partiti inciampando nei propri piedi (almeno Ennosuke lo aveva fatto, durante l’esame d’ingresso alla U. A.).
 Iris gli aveva raccontato anche di Steam, di entrambi gli incontri e delle notizie ricevute da Castle. L’eroe l’aveva richiamata il giorno dopo la ronda per dirle che alla centrale risultavano sporadici avvistamenti in zona di un tipo corrispondente alla descrizione, nell’ultimo periodo. Il ‘non-eroe’ (la ragazza non se la sentiva proprio di chiamarlo criminale) aveva iniziato a farsi notare quando, qualche giorno prima di fare la conoscenza con l’eroina, aveva prevenuto uno scippo e bloccato il malvivente fino all’arrivo degli agenti, salvo poi svanire il più in fretta possibile.
 “Sembra di nuovo quella faccenda dei vigilanti, ricordi[5]?” le chiese Jūryō, prima di infilarsi in bocca l’ennesimo maki , accompagnato entro breve da un abbondante sorso di sakè.
 “Ci stavo pensando anch’io” concordò Gaggiolo, pescando un nigiri dal piatto. Avevano scelto di incontrarsi in un piccolo ristorantino sconosciuto ai più, così da avere un po’ di privacy. La bassa musica di sottofondo non disturbava la conversazione, gli avventori si potevano contare sulle dita di una mano (anche facendo rientrare loro due nel calcolo) e la cucina era soddisfacente e piacevolmente economica.
 “Non vorrei trovarmi di nuovo con quella gente. Cioè, saranno pure animati da uno ‘spirito volto al bene’” il ragazzo sottolineò il concetto inarcando le sopracciglia “ma non si può certo dire che fossero il massimo come organizzazione al soccorso. Non so perché i pro li abbiano sopportati tanto” e rimarcò il concetto con un’alzata di spalle, ad intendere che, fosse stato per lui, li avrebbe arrestati alla prima apparizione.
 “A me è sembrato fossero anche più preparati di certi eroi che circolano” disse la ragazza, ripensando ad un paio di disavventure occorsegli con colleghi tendenti alla distrazione. “Quello Steam mi è stato molto utile, la prima volta. Non fosse che l’abbiamo beccato nella villa…” si interruppe e scrollò il capo, più interessata al contenuto del piatto che a quello della testa del giustiziere.
 
 Naturalmente avevano fatto tardi, perché si ritrovavano sempre a far tardi nel rivangare ricordi insabbiati in qualche casella della loro memoria (azione necessaria soprattutto riguardo certi comportamenti non esattamente leciti, eroici o anche solo dignitosi). Combinare una serata insieme era difficile soprattutto per quello, dovevano trovare il buco giusto nel programma settimanale che comprendesse una ronda diurna seguita da un riposo, per entrambi. Generalmente ci riuscivano ogni due mesi, più o meno, e nel frattempo concordavano le notturne e si tenevano aggiornati.
 Quindi era con spirito vagamente contrito (oltre che con un principio di sbadiglio, a cui ne sarebbero seguiti molti altri nel breve futuro) che Iris aprì il portone dopo aver salutato l’amico. Per uscire con Ennosuke aveva modificato il piano per il giorno dopo, concedendosi una giornata libera che non sentiva di meritare appieno. Unito al ricordo della cocente umiliazione impartitale dal mancato arresto, sentiva la voce del capo lamentarsi per l’inadempimento dei propri doveri. Cercò di scacciare il pensiero. Aveva subito uno smacco, non aveva fermato Steam, doveva farsene una ragione. Punto. Fine della discussione. Meglio non rivangare ulteriormente. Ma fu solo davanti la porta di casa che poté dimenticare tutte le sue tribolazioni interne.
 
 Il palazzo era una costruzione relativamente recente, ultimato appena dieci anni prima. Alto tre piani, era occupato esclusivamente da uffici pubblici e dalla sua agenzia eroica, quindi era deserto per più di dieci ore al giorno. Lei era l’unica a frequentarlo dopo il tramonto e ci si era trasferita proprio per quello, quando il capo se n’era andato. Non doveva più preoccuparsi di vicini ipersensibili infastiditi dal rumore del phon in piena notte, né che qualche bambino scalmanato si mettesse a ballare una danza tribale mentre lei cercava di recuperare il sonno, fra un turno di ronda e quella che si ostinava a chiamare vita sociale. Pensava di aver partorito l’idea del secolo quando aveva trasportato i pochi scatoloni che costituivano il suo bagaglio irrinunciabile. L’ufficio era grande, scarsamente arredato e già provvisto di cucina minimalista (piano cottura, frigorifero, poche scansie, un tavolo e quattro sedie), armadio a muro, scarpiera e cassettiera. Non aveva bisogno che di una libreria per personalizzarlo, e quella era già in suo possesso. Ma l’apparente genialità della sua logica dovette fare i conti con l’evidenza dei fatti.  
 Era riemersa dall’ascensore sfregandosi gli occhi, considerando stancamente se poteva permettersi il lusso di una doccia dopo una serata del genere, i sensi di colpa a battagliare per riottenere la sua totale attenzione. Dubitava di meritarsi anche solo di dormire nel futon, quella notte. Attraversò il pianerottolo buio (era uno degli inconvenienti di essere l’unica fruitrice dello stabile dopo le sei di sera. L’amministratore continuava a ripetere che avrebbe fatto sostituire la lampadina fulminata, ma lei cominciava a ritenere che se ne sarebbe ricordato solo quando la cosa avrebbe riguardato anche gli altri condomini, di lì a due mesi). Arrivata davanti alla porta estrasse le chiavi e cercò di riconoscere quella giusta al tatto, anche se le aveva dipinte per distinguerle proprio perché sembravano tutte uguali. Sbuffò e ne infilò una a caso nella toppa, senza ottenere risultato. La quarta finalmente girò, ma terminò la corsa prima di aver sbloccato le mandate, mentre l’uscio si apriva di uno spiraglio. Rimase interdetta a fissare la serratura. Tendenzialmente era una ragazza meticolosa, sprangava l’ufficio anche per scendere a fare una spesa rapida, come se conservasse il tesoro di un drago e non una collezione di libri sulla botanica e plastici ultimati.
 Considerò brevemente se fosse il caso di chiamare la polizia, ma doveva essere un pensiero sorto dai recessi più sonnacchiosi della sua mente esausta. Era un’eroina, non si sarebbe lasciata prendere dal panico per dei ladri d’appartamento (o ufficio, per quel che le importava). Non potendo più contare sull’effetto sorpresa (solo un sordo non avrebbe sentito il concerto di imprecazioni che si era tenuto in accompagnamento al rituale della chiave), decise di agire energicamente. Rivestì il pugno sinistro, appoggiò la mano destra alla porta e la spinse con tutte le forze, badando a che sbattesse contro il muro. La stanza si rivelò in tutto il suo nudo disordine, esattamente come l’aveva lasciata.  
 Stava quasi per credere di averla sbadatamente dimenticata aperta lei, quando lanciò un’occhiata al bagno. Niente di più semplice che un eventuale intruso vi si fosse rifugiato, sentendo rumori nel pianerottolo, e aspettasse al buio per coglierla in fallo alla prima occasione utile. Rivestì anche il pugno destro e si fece avanti.
 L’aggressore non era in bagno. Quando sentì la porta d’ingresso chiudersi con fracasso alle sue spalle non aveva fatto ancora tre passi. Si diede della stupida. Doveva essersi acquattato proprio sul pianerottolo, attendendo che lei si cacciasse spontaneamente nella trappola. Il capo l’avrebbe licenziata, se l’avesse saputo.
 Tutte quelle considerazioni non le impedirono comunque di reagire. Senza nemmeno voltarsi sferrò un attacco alla cieca con i rami. Sentì alcune suppellettili rovinare a terra, ma non se ne curò. Si gettò in avanti mentre i tralci spazzavano l’ingresso alla ricerca del nemico, senza però incontrarlo.
 Digrignando i denti Cloro si girò. Ancora non vedeva nessuno. E la porta era chiusa. E il monolocale non offriva nascondigli. Il respiro le si mozzò in gola. Che diamine stava accadendo?!
 

[1]  Peso, secondo google traduttore. Non che mi fidi particolarmente. Il nome completo è Jūryō Ennosuke, alias Range. Ho cercato di mantenere l’impostazione originale dell’opera, quindi i personaggi di mia creazione contengono all’interno del proprio nome un indizio sul loro quirk o sul ruolo che giocano nella storia.
[2]  Ingenium.
[3]  Gaggiolo Iris è il vero nome di Clorofilìa. In realtà a ben vedere è una ripetizione (dato che entrambi i termini indicano la stessa pianta), ma adoro gli iris, quindi sono pronta a difendere la mia scelta a bulbo tratto (oh, una battuta sulle piante).
[4]  Kamiji Moe, alias Burnin, una certa sidekick molto entusiasta di un certo eroe molto focoso.
[5]  My hero academia vigilantes. Per chi non l’avesse letto, lo consiglio caldamente.

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Capitolo 5
*** Quattro chiacchiere a braccetto ***


 La mano le afferrò il gomito sinistro. Avvantaggiati sul nemico, le ripeteva sempre il capo, se è veloce, non permettergli di correre.
 Istintivamente ordinò al legno di inglobarla. Si voltò di scatto, mentre un’imprecazione soffocata arrivava alle sue orecchie, il pugno destro all’altezza del viso. Impattò duro contro il vambrace metallico di Steam e le dita le inviarono le proprie rimostranze. Ignorò anche quelle.
 Sentiva la mano dell’altro stringere sempre di più il gomito, cercando di farle mollare la presa. Gli ridusse lo spazio di manovra e gli ricoprì il braccio. Non sarebbe scappato facilmente.
 Stava caricando un secondo pugno, cercando un’apertura in cui piazzarlo, quando il suo avversario si lasciò sfuggire una risata di gola. Sempre contraffatta, ma Iris poteva quasi giurare fosse divertita più che sarcastica o nervosa.
 “Queste ‘manette’ sembrano più resistenti di quelle regolamentari” le disse, continuando a sghignazzare.
 Abbassarono contemporaneamente il braccio libero e si squadrarono per un lungo momento. Almeno, la ragazza prese a fissarlo, stupefatta, prima di rendersi conto che il suo volto doveva mostrare un’eccessiva sorpresa. Ricompose lo sguardo in un atteggiamento di calma fierezza, per niente aiutata dalla voce del principale che continuava a gridarle di non concedere vantaggi agli avversari.
 L’uomo d’altro canto aveva il volto coperto dal suo strano elmo, una piastra scura ne celava gli occhi, ma dovette rimanere soddisfatto dall’esame perché allentò la stretta sul gomito.
 “Ah, forse non ci crederai” riprese, “ma sono qui per fare una chiacchierata e vedere se è possibile collaborare.”
 Aprì la mano sinistra (quella libera da impedimenti legnosi) in un gesto che voleva essere pacifico, una proposta di tregua. La destra era ancora a contatto con la pelle, per la morsa del legno più che per reale volontà. Iris riassorbì la protezione della mano destra, come ad accettare la sospensione delle ostilità, ma non lo lasciò andare.
 “Non mi piacciono gli intrusi, è per questo che chiudo a doppia mandata” buttò lì, non sapendo bene come replicare. A scuola non le avevano mai insegnato a ragionare con i delinquenti, solamente a neutralizzarli in attesa della polizia.
 “Mi dispiace, ma avevo il sospetto che non mi avresti fatto entrare se te lo avessi chiesto gentilmente.”
 Chissà perché? si chiese l’eroina, guardandolo storto.
 “Piuttosto,” disse, recuperando il tono di voce più professionale su cui poteva fare affidamento a quell’ora, “puoi spiegarmi perché non dovrei chiamare la polizia all’istante?”
 “Ti è morto il cellulare, l’hai detto tu” constatò l’uomo.
 “Una vita fa, ne ho comprato un altro.”
 “Perché non vorresti essere costretta a procurartene un terzo in così poco tempo?” suggerì lui.  Portò la mano sotto al mento e ricominciò a parlare:
 “Così dovrebbe andare meglio” la voce non era più alterata, anche se comunque le giungeva filtrata dalla maschera. Poté riconoscere un timbro profondo, caldo. Mai sentito prima.
 “Prendiamo per buona l’obiezione” riprese la ragazza, “posso sempre trascinarti fino alla stazione più vicina. Ce n’è una a pochi isolati da qui.”
 “Mmh” l’altro sembrò considerare seriamente le sue parole. “Non mi farei portare via facilmente. Secondo me sarebbe più pratico se ti raccontassi perché ti sto importunando.”
 “Immagino che tu non voglia un autografo” borbottò la ragazza. Stabilì con sé stessa di provare l’approccio urbano senza però staccargli gli occhi di dosso, ma del legno poteva farne anche a meno (la posizione in cui li aveva bloccati non era l’ideale per mantenere a lungo una conversazione), quindi lo riassorbì. Steam dovette prenderla come una parziale resa perché alzò entrambe le mani, i palmi rivolti a lei, a confermare le proprie intenzioni.
 “Accomodati” lo schernì Iris, facendogli strada nel locale. Era una stanza piuttosto grande e manifestamente disadorna. La maggior parte dell’arredamento (cucina, tavolo, sedie, armadio e libreria) si trovava alla loro destra. Accanto al frigorifero si apriva la porta del bagno. Il lato sinistro (quasi metà dell’appartamento) era spoglio, e lei lo utilizzava per allenarsi e dormire. Accanto all’ingresso, di fronte a lei, scarpiera e cassettiera. Per terra, risultato della sua reazione al rumore, un marasma di penne, matite, fogli sfusi ed altro materiale non meglio identificabile.
 Accese la luce e sistemò due sedie una di fronte all’altra. Si accomodò dando le spalle al tavolo, ingombro per metà di un diorama[1]. Senza quasi accorgersene, iniziò a lavorare al progetto con i rami.
 “Allora, sentiamo” esordì, “per cosa necessiti la mia collaborazione?”
 “Non mi chiedi che ci facevo in quella villa?”
 Iris atteggiò il viso in una smorfia infastidita.
 “Me lo dirai quando vorrai, che te lo domandi o meno” constatò pianamente. L’uomo parve apprezzare la risposta, si sistemò più comodamente sulla sedia e mosse la testa, come per esaminare l’ambiente. Poi riportò l’attenzione sull’eroina.
 “Sai chi è Shissō[2] Hisa?” le chiese.
 Sul momento il nome non le ricordò niente di specifico, anche se aveva la sensazione di doverlo conoscere. Sapeva di averlo archiviato da qualche parte, ma nell’elenco di colleghi o compagni di studi non risultava.
 Steam non perse tempo ad attendere una risposta. Rovistò un momento nella cintura, che in teoria non avrebbe potuto contenere niente ma da cui tirò fuori una fototessera, e gliela porse. “Adesso?”
 Iris prese in mano il quadratino di carta e lo studiò. Era una foto da annuario scolastico di una ragazzina delle medie, forse quattordicenne. Magra, graziosa, capelli neri corti, occhi vivaci, zigomi pronunciati. Restituì la foto scuotendo la testa.
“È stata rapita quasi un mese fa, abitava in questo quartiere.”
 “Oh, sì, adesso che mi ci fai pensare… Ma la polizia non aveva stabilito se ne fosse andata volontariamente?” gli fece notare Iris. L’uomo alzò le spalle in un gesto noncurante.
 “Vero, non per niente ho impiegato così tanto a trovarla” puntualizzò. “Quello che ti chiedo e di aiutarmi a riportarla dai suoi genitori.”
 L’eroina tornò a muovere il capo. “Forse dovresti darmi qualche antefatto. E in effetti sarebbe utile anche spiegarmi la faccenda della villa” si arrese. “Ti va un caffè? Ho il sospetto che sarà una lunga esposizione” aggiunse, lasciando perdere il plastico e dandosi da fare per approntare la moka col solo ausilio dei rami. Se ce la poteva fare la mattina appena sveglia, nulla le impediva di provarci anche in quello stato.
 “Volentieri” le rispose Steam, “ma in verità le spiegazioni sono piuttosto scarne. Senza scendere nei particolari, ho scoperto che la ragazza è stata rapita per sfruttare il suo quirk, un’unicità di mutazione a livello molecolare” espose, come se quello fosse il suo principale campo d’interesse. Il che poteva anche essere, per quel che ne sapeva l’eroina.
 “Ok, questo è il prequel. Immagino che tu fossi alla villa perché è lì che si trova Hisa, giusto?” chiese Gaggiolo dopo un attimo di riflessione.
 Steam annuì lentamente.
 “Esatto. I suoi sequestratori, l’uomo e la donna dell’altra sera, sono dei piccoli delinquenti, dediti principalmente a truffe e raggiri. Col rapimento della ragazza contano di fare il salto di qualità” tacque un attimo. “Portare agli agenti le mie informazioni non servirebbe a niente, non posso provarle, quindi ho cercato di agire per conto mio” sventolò pigramente una mano in aria. “Hai visto come è andata a finire” Tornò a poggiarsi allo schienale, come se potesse vantarne diritto di proprietà.
 “Già, ti abbiamo costretto a ritirarti” affermò Iris, con un moto di orgoglio malcelato.
 “All’incirca” le concesse Steam, sporgendosi nuovamente verso di lei. “Ammetto che avrei avuto dei problemi ad affrontarvi tutti insieme, ma converrai che sono riuscito a sfuggirvi da sotto il naso… e i rami” soggiunse indicando le appendici della ragazza che, dopo aver provveduto alla caffettiera, avevano ripreso il lavoro sul diorama. Ad Iris sembrò di dover ingoiare un limone intero, buccia esclusa.
 “Ma come…?” riuscì a pronunciare a stento, prima di venire interrotta dall’altro.
 “Non è importante, quello che conta adesso è salvare la ragazza” tagliò corto l’uomo. Il suo atteggiamento rivelava intemperanza, non più la rilassata mollezza della sua breve spiegazione. Non era intenzionato a scendere in particolari, Iris lo percepiva chiaramente. Si sarebbe chiuso a riccio ogni qualvolta avesse provato ad affrontare l’argomento.
 In quel momento suonarono al citofono, causandole un principio d’infarto. Se l’altro ne era sorpreso non lo diede a vedere, per conto suo la ragazza non aveva idea di chi potesse desiderare disturbare un’eroina ad un orario così improbabile. Rispose, aspettandosi il silenzio all’altro capo, sicuramente lo scherzo di qualche ubriaco di passaggio, ma la voce che la interrogò le comunicò di appartenere ad un poliziotto, che erano stati segnalati rumori sospetti provenire dal palazzo e che, con il collega, volevano sapere se potevano essere d’aiuto. Riuscì a convincerli di aver rovesciato la libreria solo dopo molta insistenza, quando ormai il caffè era pronto. Lo servì in fretta (molto zuccherato per lei, amaro per il suo inatteso ospite) e, con la tazzina in mano rimase in piedi, a rielaborare le sparute informazioni che l’altro le aveva fornito.
 L’uomo non sembrava nutrire animosità nei suoi confronti, almeno per il momento, e l’istinto le diceva che se avesse voluto intortarla l’avrebbe subissata di dettagli sulle indagini svolte. Quella sua reticenza per lei significava solo una cosa: Steam capiva che non avrebbe approvato il modo in cui era venuto a conoscenza di certi elementi, probabilmente perché li aveva estorti con la violenza. Rabbrividì impercettibilmente. L’aveva visto in azione, ‘violento’ era un termine anche troppo pacato per descriverlo. Ma anche ‘sincero’ poteva adattarsi all’immagine che si stava formando del vigilante.
 Nel frattempo l’altro si era tolto il casco, rivelando però un’ulteriore maschera in stoffa che lasciava scoperti solo occhi e bocca. I primi erano grandi, scuri, dalla forma insolita per un orientale. Le labbra erano larghe e piene, ma pallide. Alzò la tazzina ed assaggiò il caffè, storcendo il volto di riflesso mentre il liquido incontrava la lingua. Ops, si disse Iris, mentre anche lei portava la tazza alla bocca. Ma dovette dargli credito di stoicismo quando lo vide ingollare il resto della bevanda in un sorso. Indossò nuovamente quel suo strano copricapo.
 “Quello che ti propongo” le disse d’un tratto, “è prenderti il merito per il ritrovamento della ragazza mentre, ahimè, ti lasci sfuggire un pericolosissimo ladro d’appartamento.”
 “Credi davvero che accetterei una proposta simile dal primo che irrompe nel mio ufficio?” gli chiese Iris sarcastica.
 Steam si strinse nelle spalle.
 “Non mi dirai che il loro atteggiamento ti ha convinto?” argomentò infine.
 La ragazza distolse lo sguardo dal suo interlocutore mentre rifletteva. In effetti il comportamento di quelle persone non le aveva lasciato una buona impressione: la sicurezza con cui avevano concluso che l’aggressore fosse un delinquente comune, il reciso rifiuto di contattare la polizia per sporgere denuncia e la fretta di allontanare gli eroi. Ci aveva ripensato spesso in quei giorni e non ne trovava spiegazione. E all’improvviso arrivava il suddetto delinquente a mostrargli una delle possibili soluzioni al rebus, di certo quella che calzava meglio. In più doveva anche considerare l’istinto.
 Se c’era una cosa che il capo apprezzava in lei era proprio la sensibilità estrema che le permetteva di cogliere al volo segnali ed indizi di una situazione. Sfumature, accenti, gradazioni, tutte le variazioni emotive venivano filtrate ed esaminate. Il principale, in questo, si affidava totalmente a lei.
 L’istinto in quel momento le diceva che Steam era sincero, genuinamente preoccupato per la quattordicenne, intenzionato a salvarla, convinto della colpevolezza della coppia. Non era solo l’intonazione della voce, ma anche il suo atteggiamento fisico, il modo in cui incrociava le braccia, stringeva le mani intorno ai gomiti, manteneva le spalle tese. Pronto all’azione, l’apparente rilassatezza era un modo per cercare di mascherare l’ansia, e l’ansia era tutta per la ragazza rapita.
 Quando si rese conto che l’obiezione principale al tutto era la rapidità con cui l’uomo era sfuggito alla cattura, capì di averne fatto una questione personale. L’orgoglio pretendeva ascolto ma la ragione sedò la contesa interna.
 “Esattamente, come pensavi di agire?”
 
 
 

[1]  Plastico, rappresentazione in scala di un paesaggio o simili.
[2]  ‘Scomparsa’, sempre secondo google translate. Continuo a non fidarmi, ma…

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Capitolo 6
*** Intermezzo - Apprendistato ***


 Quando sentì la stoffa avvolgerla fu quasi tentata di chiedere al capo cosa stesse architettando, esattamente. Ricacciò in gola la domanda, gliel’avrebbe spiegato quando avesse voluto lui, non prima, anche se fosse stata insistente allo sfinimento. Le aveva legato le mani dietro la schiena, e in quel momento le stava assicurando i polsi. Non certo la situazione migliore in cui un’apprendista conterebbe di trovarsi.
 “Siediti”. Il tono era neutro, come se le stesse ordinando di allenarsi ancora un po’ (basta allenamenti, le ronde erano un supplizio più che sufficiente).
 Obbediente, Iris si calò con circospezione, aiutata dall’uomo. La posizione era scomoda, a gambe incrociate sul pavimento, lontana da qualsiasi punto d’appoggio. Era al centro della stanza e si guardava intorno cauta e preoccupata. Non era la prima volta che il capo le dava disposizioni senza spiegarle alcunché, era appena il secondo giorno e ci stava già facendo l’abitudine, aveva quasi imparato a stare zitta ed aspettare i suoi tempi. Ma, con un broncio malcelato, pensò che stesse comunque esagerando.
 Lo sentì allontanarsi, trafficare vicino all’ingresso e ritornare verso di lei, per riapparire nel suo campo visivo. Aveva fra le mani la scatola di plastica con cui era rientrato in ufficio. Era grande, rettangolare e di un bel giallo limone che Iris trovò particolarmente fuori luogo in quella situazione, un contenitore di giocattoli per bambini senza alcun logo o scritta visibile che il capo maneggiava con apatica indifferenza. L’interno non si vedeva, ma dal rumore che faceva probabilmente era piena di piccoli oggetti di plastica. La posò per terra, davanti a lei, poi si decise a guardarla.
 “Ci sono due buchi ai lati. Infilaci i rami e dimmi che c’è dentro”
 Iris si morse la lingua ingoiando la rispostaccia che stava per scapparle e fece come le aveva ordinato. Le foglie tastarono degli oggetti piccoli, rettangolari, molto leggeri. Chiuse gli occhi per concentrarsi. Gli oggetti non erano pieni, erano aperti in cima e cavi, e alla base presentavano dei piedini disposti con regolarità su tutta la superficie e… fori?
 Ridendo, rigirò l’oggetto fra le foglie per rimetterlo dritto, con le sporgenze in cima e la base cava.
 “Mattoncini per costruzioni, di quelli in plastica per bambini, che si incastrano. Ci giocavo quando ero piccola”, sentenziò con voce squillante. La scatola era molto capiente, piena solo per metà e le lasciava parecchio spazio di manovra, quindi si mise a scavare in quel mucchio di giocattoli. Il rumore parve dare non poco fastidio al suo datore di lavoro, ma la ragazza se ne disinteressò allegramente.
 “Bene, sì, hai ragione. Adesso passiamo all’allenamento”. Palesemente stava cercando di richiamare la sua attenzione per farle smettere quel suo importuno passatempo, quindi Iris decise di dargli tregua. Smise di trafficare ed aspettò le direttive successive. Aveva detto ‘allenamento’, ma non riusciva proprio a capire a cosa mirasse realmente. Aveva riconosciuto le forme abbastanza in fretta, e se anche le avesse chiesto di tirarle fuori un mattone piuttosto che un altro non avrebbe avuto grosse difficoltà (a meno che la discriminante non fosse per colore, ma quello era impossibile).
 “Costruiscimi un cubo cavo”
 “Che?!”
 Lo sguardo era ancora impassibile, ma miracolosamente l’uomo decise di renderla partecipe delle sue elucubrazioni:
 “Hai detto che il senso del tatto delle tue foglie non è molto sviluppato e ho notato che il controllo spaziale dei tuoi rami è approssimativo, a dir poco. Costruendo alla cieca potrai allenare sia la sensibilità, riconoscendo i dettagli al tocco, che l’accuratezza, dovendoti impegnare a realizzare forme precise. Inizia da un cubo cavo. Sei facce con un vuoto al centro”
 Iris considerò brevemente se mettersi a ridere per la situazione assurda (si poteva chiamarlo davvero allenamento?) o protestare per la posizione scomoda (ancora non capiva perché doveva restarsene seduta per terra con le mani bloccate). Sospirando, scelse la terza opzione, quella che aveva capito fosse l’unica che l’uomo si sarebbe aspettato da lei: mantenne il becco chiuso e si dedicò al compito assegnatole.
 Non vide il capo chinare la testa soddisfatto, ma lo sentì allontanarsi di nuovo, in direzione del bagno. Lei aveva già richiuso gli occhi, concentrata nel lavoro di cernita. Aveva un’idea di quali e quanti pezzi le occorressero (sei mattoni da tre e quattro da due), ma riconoscerli non era semplice. Doveva afferrarne uno, passare una foglia sulle sporgenze per contarle, delicata ma non troppo altrimenti non sarebbe riuscita a capirci niente. Quando trovava quel che le occorreva se lo teneva stretto e passava al successivo. Solo per quell’operazione impiegò dieci minuti, il tempo di una doccia del principale. Comporli fu un altro problema.
 Riusciva a mantenere i mattoni abbastanza stabili fra i rami di modo da poterli montare, ma le capitava diverse volte di sentire che qualche chiodo fosse rimasto da fuori, quindi doveva staccare il pezzo incriminato e riprovarci. Il più delle volte si ritrovava l’intera struttura smontata, i mattoncini che sfuggivano alla sua presa ed un’imprecazione a stento trattenuta a fil di labbra.
 Ragionando, arrivò anche al motivo per cui l’uomo le aveva legato le mani: non voleva distrarla con altri stimoli tattili, sicuramente più forti di quelli inviati dalle foglie. E l’aveva fatta sedere per terra per sadismo, su questo non aveva dubbi! Le gambe le dolevano, le ginocchia imploravano il time out e anche il sedere iniziava ad inviarle comunicazioni allarmanti. Lei non cedette. Con pazienza, continuò ad eseguire quel bizzarro allenamento.
 Quando controllò per l’ultima volta che quello fosse un cubo e non uno sgorbio, era passata un’ora e mezza dall’inizio dell’esercizio. Aveva fame, crampi assurdi alle gambe ed un odio viscerale per tutti i giochi d’infanzia, ma si sentiva anche abbastanza soddisfatta del suo operato. Il compito era più difficile del previsto, ma l’aveva comunque portato a termine. Alzò uno sguardo di trionfo sul capo, che la stava studiando (da quanto?) seduto su una sedia (traditore!) e compose un sorriso d’orgoglio.
 “Fatto!” dichiarò fiera. L’uomo si limitò ad alzarsi, avvicinarsi alla scatola e sollevare il coperchio, per poi toglierle dai rami l’opera conclusa. A quel che poteva vedere da quell’angolazione storta era veramente un cubo, tre piani, il primo e l’ultimo composti di pezzi da tre, quello centrale con pezzi da due. Ecco, forse più che un cubo sembrava un parallelepipedo, ma la forma perfetta non sarebbe mai riuscita con quei mattoncini.
 Il principale dovette pensarla allo stesso modo perché non la rimproverò. Si limitò a smontare la struttura per verificare che ci fosse il (benedetto) vuoto all’interno, poi lasciò cadere i pezzi nella scatola e richiuse il coperchio.
 “Ci hai messo troppo tempo. Ti allenerai tutte le sere, al rientro dalla ronda. Finito l’apprendistato, mi aspetto che continui ad esercitarti anche a casa.”
 Non si era aspettata veramente un complimento, quindi non rimase troppo delusa dal discorso. Si limitò a riassorbire i rami e scrollare le spalle mentre l’altro le slegava i polsi e l’aiutava a rimettersi in piedi. Solo a quel punto aprì bocca:
 “Ok, ma la prossima volta voglio una sedia.”

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Capitolo 7
*** Le qualità di una spalla ***


 Cloro dovette ammettere che il piano era andato male per causa sua, in definitiva.
 A sua discolpa c’era da considerare che la notturna con Range era già programmata prima di parlare con Steam, per di più nella zona di loro interesse, ad appena tre giorni dal loro colloquio. Sembrava il preludio perfetto per un’azione combinata dall’esito scontato. Ma evidentemente la sua dose di fortuna doveva essersi esaurita da qualche parte, probabilmente con Castle.
 Quando, nel mezzo della notte, a poche decine di metri dalla villa incriminata, avevano sentito i suoni distinti di una colluttazione, l’eroina aveva avvertito un fremito scuoterla internamente. Da quel momento non si sarebbe potuta più tirare indietro. Aveva esortato il compagno a seguirla, esponendogli i suoi falsi dubbi con una credibilità da fare invidia al miglior attore (con magno plauso del capo), cercando contemporaneamente di non affrettarsi troppo, per dare il tempo a Steam di fare quel che doveva.
 Giunti all’abitazione avevano udito infine il suono di vetri infranti, il segnale che la ragazza aspettava per decidersi a penetrare nel giardino.  Davanti ai loro occhi la scena era simile a quella già vista da Cloro e Castle appena dieci giorni prima, senonché i due civili erano in quel momento riversi al suolo e dell’aggressore non c’era più traccia. Pregando interiormente che il vigilante non avesse ecceduto nella fretta dettata dal loro piano, l’eroina si avvicinò cautamente alle figure a terra, seguita a ruota dall’amico.
 Si accertarono che respirassero ancora, ma parevano così malmessi da non potersi svegliare per parecchio tempo. Clorofilìa, ormai certa del buon esito dell’operazione, si levò risoluta in piedi.
 “Pensa a questi due e chiama i soccorsi, io vado a fermarlo”
 Range si alzò a sua volta, l’espressione del viso a rivelare i moti dell’animo.
 “Hai detto di non esserci riuscita l’altra volta, come pensi di farcela adesso?” le chiese.
 La ragazza, impaziente di mettersi all’opera e di por fine a quella farsa, rigettò le sue preoccupazioni con un gesto della mano, raccomandandogli ancora una volta di occuparsi dei civili.
 Entrata in casa (dalla stessa finestra rotta da Steam) si ritrovò nella cucina. Ogni sportello era stato aperto, anche alcuni in cui sicuramente non ci sarebbe stato spazio per una persona, ma l’altro le aveva già spiegato a suo tempo che non avrebbe escluso alcuna possibilità, nemmeno quella di un mobile modificato ad arte. Per il resto era tutto in ordine, tranne che per gli avanzi della cena, abbandonati nel lavandino.
 Lo sentì muoversi da qualche parte verso destra, quindi si diresse nella sua direzione. Attraversò una porta che la condusse in un corridoio buio e spoglio, per poi proseguire ed imboccare un’altra soglia, una delle camere.
 Lo trovò in ginocchio, per terra, vicino ad un buco nel pavimento chiuso da una botola. Studiando l’arredamento presente, Cloro vide un tappeto ed il letto evidentemente allontanati dalle loro posizioni consuete. Di sicuro aiutavano a mascherare quella che probabilmente era stata una cantina, nel disegno originario della casa. Steam stava cercando di forzare un catenaccio che gli impediva di spalancare l’apertura, ma senza la strumentazione adatta rischiava di impiegarci troppo tempo, quindi l’eroina accorse in suo aiuto, sostituendo le mani del vigilante con i suoi tralci, inserendo le foglie nella serratura e facendola scattare. Il lucchetto si aprì facilmente, doveva essere stato usato centinaia di volte negli ultimi tempi, oliato a dovere e tenuto in perfetto stato.
 Aprirono insieme il pesante sportello. Dall’apertura scendeva una scaletta a pioli che conduceva in un ambiente misero, scarsamente illuminato. L’aria era viziata, un misto di umidità, sudore e (Oh mio Dio! pensò Cloro) rifiuti organici di non precisata provenienza. Alla luce della torcia di Steam videro che l’arredamento era costituito solamente da un giaciglio lurido e basso, in uno spazio appena sufficiente per consentire ad un uomo adulto di stendersi, ma non di stare dritto in piedi. Valutando ad occhio, Clorofilìa lo stimò di due metri di lato, poco più di un metro e mezzo d’altezza.
 Sul letto improvvisato dormiva Hisa. Aveva un aspetto smunto, malsano. Raggomitolata, tremava nel sonno nonostante la notte fosse insopportabilmente afosa, ma l’aria della cantina, umida e fredda, doveva averla ghiacciata fin nelle ossa. Le occhiaie erano profonde e scure, e i vestiti, una t-shirt ed un pantaloncino, sembravano totalmente logori. Il cuore di Cloro si strinse a quella vista.
 Steam lasciò cadere la torcia mentre l’eroina calava i suoi rampicanti e li avvolgeva delicatamente intorno al corpo martoriato della ragazza. La sollevò piano, attenta a non svegliarla, monitorando costantemente il respiro e il battito. Pareva estremamente indebolita, ma la sua costituzione l’aveva indubbiamente aiutata a resistere alla deprivazione impostale dai suoi aguzzini. Farla passare dalla stretta apertura non fu affatto difficile, non quanto resistere all’istinto di abbracciarla per riscaldarla e consolarla nel sonno.
 Quando il vigilante si fu assicurato della riuscita di quel salvataggio, ruppe l’unica finestra della stanza, che per somma fortuna dava sul cortile posteriore e, senza averle rivolto ancora la parola, si dileguò nella notte, rapido e silenzioso. Cloro stringeva fra i rami la migliore prova della sua buona fede.
 Mentre tentava ancora di calmare la rabbia montante scatenata dallo scempio di quella povera creatura, udì nuovamente dei rumori dall’esterno. Non vi fece caso, credendo fossero i mezzi di emergenza finalmente accorsi, fin quando non sentì dei passi precipitarsi in direzione della camera. Appartenevano ad una persona sola, il che era strano per la polizia o il personale sanitario, che in casi del genere preferiva agire sempre in coppia.
 Si voltò in direzione della porta giusto in tempo per vedere un soprammobile volare dritto contro la sua faccia. Riuscì a schivarlo abbassandosi, badando a che Hisa rimanesse protetta dai tralci, e scrutò nel buio, per distinguere l’aggressore. Era la donna, la telecineta, scarmigliata e ringhiante, concentrata al massimo per sferrare l’attacco successivo. Fu a quel punto che Cloro si ricredette sulla riuscita del piano e la fortuna accumulata. I due dovevano essersi svegliati, aver capito cosa stava succedendo e aver deciso che la soluzione migliore sarebbe stata requisire nuovamente la ragazzina e darsi alla fuga. L’uomo doveva essere rimasto a combattere contro Range, mentre la compagna aveva stabilito di fronteggiarla e farla desistere dai suoi intenti eroici.
 Il proiettile successivo era un libro di almeno trecento pagine che si sollevò da uno dei comodini addossati alla parete, alla sua sinistra. Cloro usò uno dei rami per intercettarlo e farlo cadere al suolo, ma si distrasse tanto da permettere ad una boccetta di profumo di frangersi contro il suo braccio destro, rendendo immediatamente l’aria soffocante.
 Schivò un posacenere in cristallo diretto nuovamente contro la sua testa, afferrò al volo un piccolo vaso che volava basso verso le sue gambe e rispedì al mittente uno svuota-tasche in stoffa. Avrebbe voluto catturare quella strega e stringerla fino a farla svenire, ma l’attacco era così serrato che aveva appena il tempo di contenere i danni. Avrebbe potuto chiamare aiuto, sicuramente Steam l’avrebbe sentita tramite la cimice che le aveva dato da indossare sotto al costume, ma la possibilità rischiava di sfociare nella scoperta definitiva della loro collaborazione. Non poteva permetterselo.
 Quando la criminale passò ad oggetti piccoli e densi (monete, bottoni, chiavi…) Cloro ingabbiò al meglio Shissō per evitarle danni collaterali, e si fece scudo con la corteccia. La pioggia di proiettili era copiosa e costante, cercava di infiltrarsi negli spiragli incautamente lasciati aperti. Fra i rintocchi contro il legno, l’eroina poteva sentire il suono della lotta fra il suo collega e l’altro uomo. Udì la voce distorta di Steam uscire dall’auricolare che completava l’equipaggiamento di quella missione in coppia.
 “Va tutto bene?” le chiese, agitato “Cos’è tutto questo rumore?”
 “Non ti preoccupare” borbottò, sperando di riuscire a farsi sentire in mezzo a quell’apocalisse volante “Adesso sistemo questa stronza!”
 Ma la suddetta non era probabilmente dello stesso parere. Clorofilìa si era circondata totalmente di rami e corteccia per prevenire gli assalti a 360°, ma ben presto si rese conto di dover obbligatoriamente cedere in qualche punto per avere uno spiraglio d’attacco. Uno dei proiettili la raggiunse alle spalle, squarciandole la sacca e mettendo fine alle sue elucubrazioni. Senza la sua terra (che aveva sentito precipitare di colpo al pavimento, alleggerendola sensibilmente ma mettendo a nudo radici che non avrebbero mai dovuto vedere la luce) le sue riserve calavano drasticamente, così come il tempo a sua disposizione.
 “Pezzo di… La sacca!” guaì di riflesso, cercando di non soccombere ad un rinnovato assalto.
 “Hai detto ‘sacca’?!” domandò la voce nel suo orecchio, più confusa ed inquieta che mai.
 “La mia sacca di terra. Quella maledetta…!” riprese a borbottare Cloro. “C’è un’eroina che sta per ricevere un richiamo per eccesso di violenza, vedi di andartene” gli ingiunse alla fine, prima di attaccare.
 Spalancò i rami che le fungevano da protezione, proiettando in giro per la stanza tutti gli oggetti che la circondavano. Prima che la sua avversaria potesse riprendersi da quel cambiamento improvviso di prospettiva, Clorofilìa riassorbì in parte le sue difese, per poi lanciare i suoi tralci d’arresto. La cattura non era difficoltosa, in fondo la donna aveva una forza fisica sicuramente inferiore a quella dell’eroina, ma non impediva l’uso del quirk alla criminale. La pioggia di oggetti riprese in fretta, e ormai Cloro poteva contare solamente sulla sua armatura. Stava rapidamente cercando un’alternativa alla violenza diretta o al soffocamento per far cedere l’avversaria, quando fu quest’ultima a fornirle una via d’uscita.
 Un proiettile (qualcosa di piccolo, forse una biglia) incontrò uno dei pochi punti scoperti delle sue difese. Tutte le sue articolazioni erano prive di protezioni, per garantirle la massima mobilità. Anche il basso ventre era scoperto per un motivo analogo. E fu lì che l’oggetto penetrò nella sua carne.
 L’eroina soffocò un lamento ma non cedette. Rovistò alla cieca nelle sacche della cintura ed estrasse un seme che andò a piantare nella ferita, facendolo germogliare ed arrestando la perdita di sangue. Non aveva tempo per certe scempiaggini.
 Il profumo di lavanda le giunse improvviso alle narici, a coprire in parte il nauseabondo odore chimico della boccetta. Lavanda. Cloro conosceva le principali proprietà dei semi che si portava dietro, e di quella pianta si magnificava in ogni volume il potere distensivo sui nervi, la capacità di rilassamento ed induzione al sonno. Forse le era rimasta un po’ di fortuna da sfruttare, dopo tutto.
 Alla fine la soluzione fu una via di mezzo fra la violenza vera e propria, un tentativo di soffocamento ed un’azione più ‘etica’ ma non meglio specificata.
 Le avvolse la testa in un cespuglio di lavanda, accertandosi di renderla più odorosa possibile. Strinse i rami, impedendole di liberarsi e per buona misura le infilò nelle narici un paio di foglie, in modo da massimizzare l’effetto stordente. Strinse i denti e rimase concentrata a monitorare le pulsazioni di entrambe le donne (la preda e la predatrice) finché l’attacco aereo scemò del tutto. Era svenuta.
 “Sei ancora viva?” la interrogò Steam, apprensivo.
 “Sto bene” sbuffò di rimando Cloro. Liberò leggermente il capo della criminale (abbastanza da permetterle di respirare regolarmente, ma garantendole comunque un alone di lavanda per tenerla assopita), poi, lentamente e trascinandosi i suoi trofei, si diresse alla porta d’ingresso.
 I rumori di lotta erano cessati in un momento imprecisato, e quando si affacciò in giardino, timorosa di vedere uno scenario peggiore di quello appena scampato, capì il perché. Range, probabilmente non nella sua forma più pesante (l’avrebbe ridotto ad una foglia altrimenti), sedeva accovacciato sulla schiena del malvivente, svenuto come la compagna.
 “Scusa, il marito era parecchio antipatico da gestire, c’è voluto tempo per renderlo più docile.”
 Clorofilìa abbozzò un sorriso tirato. Se l’erano cavata, in qualche modo, anche se aveva temuto per un momento di dover correre in soccorso dell’amico. Invece erano vivi ed integri entrambi (se si escludeva un forellino farcito di vegetazione a cui non avrebbe fatto male le attenzioni di un chirurgo).
 Range le sorrise in rimando, girando la testa per contemplare il premio che l’amica aveva riportato dalla propria battaglia. Quando incontrò con lo sguardo il bozzolo di foglie e rampicanti dove invece era semivisibile Hisa, assunse un’espressione perplessa.
 “Se ti dicessi dove l’ho trovata vomiteresti” lo informò la collega, prima di esporgli la versione concordata con Steam. L’aveva raggiunto in camera mentre riemergeva dalla botola con in braccio la ragazza, allora aveva provato a catturarlo ma lui aveva posato il carico per terra e se l’era filata. Essendoci un civile bisognoso di cure, la priorità dell’eroina era stata di verificare il suo stato. Probabilmente il criminale era ormai troppo lontano per essere rintracciato nuovamente.
 “Esatto” si fece sentire il diretto interessato, prima di chiudere definitivamente la linea. Cloro tirò un sospiro di sollievo. Quella parte era conclusa.

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Capitolo 8
*** Le doglianze di una degente, Epilogo, Postfazione ***


 Le operazioni di soccorso furono celeri ed ordinate. All’arrivo della polizia furono consegnati due malviventi accuratamente impacchettati con l’accusa di sequestro di persona, abuso di quirk ed aggressione ai danni di eroi con licenza. Shissō Hisa, che nel frattempo aveva ripreso conoscenza, fu trasportata in ambulanza all’ospedale più vicino. Cloro la seguì nell’automezzo successivo, lasciando quindi Range a sbrigarsela con le formalità. Non aveva considerato di lasciarlo solo, ma la permanenza del corpo estraneo fra i muscoli iniziava a darle seriamente fastidio, andava eliminato quanto prima.
 Il capo continuava a sbraitarle che le sue difese erano state eccessivamente carenti, che era una fortuna il proiettile avesse evitato zone molto più delicate (come le articolazioni) e che così non sarebbe arrivata da nessuna parte, ma per una volta decise di ignorarlo. La ragazza era salva, al sicuro, presto sarebbe tornata dalla sua famiglia. E stranamente la voce nella sua testa non aveva rimostranze da farle sulla collaborazione con un (tecnicamente) criminale. Lo considerò come un punto a favore della strategia adottata e prese a seguire le indicazioni dei paramedici, che le consigliavano come sedersi e muovere il busto per evitare di far penetrare ancora più a fondo il proiettile.
 La degenza in ospedale fu breve ma dolorosa. La tennero in osservazione per tre giorni, mentre sulle reti nazionali riportavano il magistrale salvataggio della quattordicenne scomparsa, abbondando in particolari che Iris non ricordava di aver notato nel corso dell’impresa. Quando sentì un cronista magnificare la prodezza della giovane eroina emergente Clorofilìa nello schivare pietre ornamentali ed animali di passaggio, si disse che anche a lei sarebbe piaciuto poterlo fare. E tutto considerato, i giornalisti si stavano anche trattenendo.
 Ma la parte peggiore furono le telefonate. La sua famiglia, tempestivamente avvisata (non sapeva nemmeno da chi) del suo ricovero in ospedale, aveva cercato di precipitarsi in Giappone col primo aereo disponibile. La ragazza era riuscita a dissuaderli, minacciando il fratello di terribili quanto oscure ritorsioni se avesse visto anche solo di sfuggita “quel brutto muso che ti ritrovi”, ottenendo infine il risultato sperato. Avevano desistito a poco a poco, strappandole però la promessa di un ritorno a casa appena possibile. Bofonchiando qualcosa circa le responsabilità di gestire un’agenzia da sola, Iris aveva accettato l’accomodamento.
 Era stato poi un carosello di chiamate di amici e conoscenti, che volevano informarsi sul reale stato di salute della ragazza (a quel che pareva, un telegiornale aveva fatto credere che l’uso di entrambe le braccia e del piede sinistro fossero irrimediabilmente compromessi). In realtà, tutto si era risolto con un’anestesia locale, una veloce espulsione del seme, un’ancor più rapida operazione per la rimozione del proiettile (una biglia, in effetti), quattro punti e tante pacche sulle spalle, oltre all’imperativo assoluto di dormire prona.
 Ebbe solo due visite, il secondo giorno.
 La prima si presentò in ospedale poco prima dell’ora di pranzo. Iris stava considerando tristemente il suo destino farcito di sbobbe d’ospedale da consumarsi “preferibilmente non appoggiata allo schienale della sedia, mia cara” (con tutte le imprecazioni che in quel momento riusciva ad elaborare, maneggiando per spostarsi su quelle sedute scomode che solo i nosocomi potevano ritenere accettabili). Sentì bussare alla porta mentre cautamente si appoggiava al ripiano del tavolo (“con delicatezza, per carità, si ricordi i punti!”), quindi fu naturale per lei invitare la persona all’altro lato della porta ad entrare, salvo avesse la decenza di andare a quel paese. Si mangiò la lingua appena lo vide.
 “Tsukauchi!” esalò, quando la lingua smise di lamentarsi per il maltrattamento.
 “Gaggiolo” rispose allegro il detective, sorridente come suo solito.
 La ragazza non si era aspettata una sua visita (in realtà si era aspettata solo quella di Range ed eventualmente Castle, ma entrambi erano troppo impegnati per raggiungerla), quindi trovarselo davanti l’aveva completamente spiazzata. Lui d’altro canto non sembrò prendersela a male per l’accoglienza un po’ aggressiva, ma si limitò ad accostarsi al tavolo e a sedersi di fronte a lei. Era rilassato, sereno, premuroso come sempre, ma anche velatamente preoccupato, con una fievole luce di allarme nel fondo degli occhi scuri.
 “Mia cara, ho saputo quel che è successo nella villa. Sei stata eccezionale” esordì, guardandola come se credesse realmente a quel che andava dicendo. Iris, invece di esserne rincuorata, si chiuse istintivamente a riccio.
 “Non proprio,” rispose “ho fatto semplicemente il mio dovere, niente di più.”
 “Oh, non ti sminuire. Mi hanno raccontato in che stato era la stanza. Hai salvato quella ragazza e il merito è tutto tuo.”
 Caffè, si ritrovò a pensare Iris, in questo ospedale fa schifo. Se avessi potuto berne di qualità decente forse adesso capirei cosa non mi piace della sua espressione. Non poteva però farci niente, quindi optò per continuare cautamente la conversazione e vedere dove sarebbe andata a parare.
 Il detective nel frattempo aveva continuato nella sua esposizione.
 “Certo, il vigilante è scappato, ma immagino che il suo scopo fosse quello di salvare la ragazzina, quindi non è un gran danno la sua fuga” proseguì con noncuranza, come fosse da tutti gli eroi farsi fregare così da un criminale.
 “Ho pensato che fosse meglio non lasciare sola la piccola, sembrava bisognosa di cure.”
 “Naturalmente. Lo scopo di un eroe è salvare vite, non arrestare i malviventi” convenne l’altro.
 Era un atteggiamento un po’ troppo accondiscendente. Tsukauchi era conosciuto principalmente per la sua schiettezza, non amava i giri di parole, le discussioni inutili o gli incensamenti immotivati. Se aveva qualcosa da dire la diceva, altrimenti stava zitto. Quella conversazione era invece così lontana dai suoi standard che all’eroina pareva irreale.
 “Devi sentirti comunque amareggiata per com’è andata, hai durato fatica per catturare quella donna, lei è riuscita persino a ferirti abbastanza gravemente da costringerti ad un riposo forzato. Se non fossi riuscita a fermarla…”
 Troppe parole per dirle che era stata approssimativa.
 “Sì, ehm, di notte ho qualche problema a dare il meglio di me.”
 “Vero, il tuo socio me lo raccontava spesso.”
 Quel riferimento al capo le fece drizzare ulteriormente le antenne. Dove diamine voleva arrivare?
 “Non è il massimo per un’eroina impiegare così tanto tempo per un salvataggio, lui aveva fatto quasi un culto della rapidità di risoluzione dei problemi.”
 Iris si grattò un sopracciglio, a disagio. Sapeva di non poter essere paragonata al capo, ma quello le pareva eccessivo. Le parole che il poliziotto le stava rivolgendo erano dure, sotto un sottile strato di miele per addolcire il boccone. Era un’eroina solo sulla licenza, la realtà era ben altro.
 “Tsukauchi, non so veramente…”
 “Ho saputo che qualche giorno fa una pattuglia si è presentata al tuo ufficio, giusto?”
 Iris cadde letteralmente dal pero. Aveva del tutto dimenticato la citofonata dei poliziotti, e il fatto che il detective fosse riuscito a scoprirla la diceva lunga sulle sue possibilità d’indagine. Cercò di raffazzonare l’espressione più innocente e confusa su cui potesse mettere le unghie.
 “Vero, ma non era niente” mentì, autocongratulandosi per il notevole controllo dell’intonazione. Niente di esagerato, solo pia sorpresa.
 “E so che eri già intervenuta in quella villa, una settimana prima, più o meno per lo stesso motivo. Quella notte ti accompagnavi a Castle.”
 “Esatto, ma…”
 “E l’altra sera ti trovavi casualmente in zona, pronta a renderti utile in una situazione improbabile” proseguì imperterrito il poliziotto “finendo in ospedale come un eroe di mia conoscenza che si fidava troppo di vigilanti con poca esperienza pratica.”
 “Tsukauchi…”
 “Quello che voglio dire” la interruppe nuovamente l’uomo, addolcendo d’improvviso il tono “è che tu hai talento, una capacità straordinaria nel svolgere questo lavoro, ma ti lasci frenare dalle considerazioni che ti ha lasciato il tuo socio, senza veramente agire guidata dal tuo buon senso. Dovresti seriamente pensare a quello che è meglio per te, ad esempio prendere una spalla per supportarti nei momenti opportuni” concluse, regalandole nuovamente un sorriso personale.
 Iris aveva finito per sentirsi sinceramente contrita per tutta quella storia. Tsukauchi voleva farle capire che atteggiarsi a quel modo, cercare di agire in maniera così contraria alla sua propria natura, poteva essere deleterio per lei e devastante per le persone che le volevano bene. In un modo un po’ contorto, per farle capire appieno dove stesse sbagliando, era arrivato a farsi comprendere. Lo ringraziò dal profondo del cuore, anche se contemporaneamente l’avrebbe preso a testate per averla fatta sentire così a disagio.
 Nel pomeriggio stava ancora considerando cosa fare con l’agenzia (e per quanti giorni fermarsi dai suoi, doveva infilare anche quell’incombenza irrinunciabile), quando sentì bussare nuovamente alla porta. Più tranquilla (e già abbondantemente mortificata) si limitò ad uno stringato “Avanti” mentre riprendeva possesso della sua diabolica sedia.
 L’uomo che aprì la porta ed attraversò la stanza, valigetta in pugno e passo deciso, non l’aveva mai visto. Lo studiò mentre, rivolgendole il più largo sorriso che le avessero mai sottoposto, cercava nelle tasche del completo dal taglio costoso (e certamente su misura) che sfoggiava con tanta disinvoltura. Ne estrasse un biglietto da visita che le porse immediatamente.
 “Amegafuru Steve?” compitò lentamente Iris, facendo attenzione a non confondere gli ideogrammi.
 “Esatto, signora, della Sup. He. Inc., l’azienda produttrice dei suoi strumenti di supporto” le rispose lui, allegro, come se fare il piazzista per un’azienda di quel genere fosse la sua massima aspirazione da bambino.
 La ragazza posò con attenzione il cartoncino sul tavolo, poi tornò ad osservarlo. Aveva una decina d’anni più di lei, sicuramente magro, ma si intuiva la muscolatura allenata dal modo in cui il vestito si tendeva in alcuni punti. I capelli erano corti e neri, diligentemente pettinati e divisi da una riga laterale. Gli occhi erano grandi, celesti, straordinariamente magnetici e le labbra, piene e rosse, davano l’impressione di non conoscere altra piega che con gli angoli all’insù. Veniva naturale ricambiare un sorriso così profondo.
 “Non voglio disturbarla, signora, ma l’azienda mi ha inviato a sottoporle un nuovo prodotto che secondo noi potrebbe esserle utile. In realtà è una miglioria al suo costume di base” riprese, armeggiando con i ganci della valigetta. La voce, in effetti, le ricordava qualcosa, ma non riusciva a visualizzarla.
 “Ecco!” esclamò l’uomo, quando ebbe estratto quello che aveva tutta l’aria di essere un fazzoletto di cotone. Ma al tatto si rivelò estremamente diverso, più spugnoso, morbido e spesso.  
 “Vede, questo nuovo materiale dev’essere stato studiato appositamente per lei. È un ricavato vegetale di ultima generazione, capace di trattenere un numero considerevole di sostanze nutritive. Abbiamo realizzato questo prototipo un po’ di fretta” confessò, una luce maliziosa nelle iridi chiare “ma sono certo che sarà soddisfatta appieno del risultato, una volta che l’avrà provato” e prese ad elencarle le innumerevoli qualità di quella stoffa straordinaria, la vestibilità, la resistenza alla trazione, al taglio, la semplicità di lavaggio e via discorrendo. Le assicurò che il tessuto avrebbe trattenuto anche un numero maggiore di sostanze nutritive rispetto alla sacca di terra che usava portarsi dietro (“Come l’avete saputo?!” “Oh, il giornale del quinto canale, signora, erano estremamente esaustivi nelle spiegazioni dell’utilizzo”).
 Alla fine, confusa com’era dalle chiacchiere di quel simpatico venditore, l’avrebbe provato anche a gravità zero se lui l’avesse accennato, ma Amegafuru si limitò a lasciarle il campione ed augurarle una pronta guarigione, prima di infilare nuovamente la porta.
 Iris rimase interdetta per qualche minuto, dopo che il suo irresistibile visitatore l’aveva abbandonata. Quella voce l’aveva già sentita, ma non riusciva a fissare il momento. Recuperò dal tavolo il suo biglietto da visita, cercando di richiamare alla memoria tutti i dipendenti dell’azienda con cui si era ritrovata in contatto. Non proprio quella voce, non così diretta. Studiò nuovamente il rettangolo di carta, sperando in un’illuminazione. Sotto gli ideogrammi del nome, poté scorgere un particolare che le era sfuggito ad una prima occhiata: il nome era riportato anche in alfabeto latino.
 “Amegafuru Steve” compitò nuovamente, scavando ancora nella memoria. Ma solo il vuoto le giunse in risposta.
 Si decise ad abbandonare la ricerca quando il cellulare riprese a squillare.
“COSA PENSAVI DI FARE, GAGGIOLO?!”
 La voce all’altro capo della linea (di svariati decibel troppo alta per essere stata prodotta da una gola umana) la investì in pieno, riducendo la sua autostima alle dimensioni di un nocciolo di ciliegia. La filippica continuò sullo stesso tono per diversi minuti, ma Iris preferì allontanare il telefono dall’orecchio per preservare il suo padiglione auricolare. Quando ebbe l’impressione che l’altro non avesse più intenzione di battere ogni record raggiunto da essere vivente in materia di acuti, lo riavvicinò cautamente. Il lavoro di piazzista non le era mai parso così allettante.
 Sospirò.
 “Ehi, capo. Forse conviene che tu ti sieda…” e si apprestò ad elaborare la sua personale versione di vendita acrobatica.
 
***
 
Steam si richiuse la porta alle spalle, attento a non farla sbattere. Aveva corso un rischio non indifferente presentandosi senza travestimento, ma l’eroina meritava un trattamento adeguato al coraggio e alla perseveranza dimostrati. Il nuovo materiale gli era costato parecchie ore di lavoro, ma ne era soddisfatto. Clorofilìa non avrebbe più dovuto portarsi appresso quella sacca ingombrante, sarebbe stata un piccolo premio per il lavoro svolto. Attraversò l’ospedale in fretta, pensieroso. L’azienda non aveva ancora approvato la stoffa, ma sapeva che era solo questione di tempo.
 Il pomeriggio era assolato, caldo ma secco, un piacevole cambiamento rispetto all’afa degli ultimi giorni. Steam si allentò la cravatta e liberò il primo bottone della camicia.  Il taxi era in attesa davanti all’ingresso, pronto a riportarlo a casa. Avrebbe riposato qualche ora prima della ronda successiva. Avrebbe pianificato la nuova linea d’azione per l’ennesima indagine. Ma per il momento poteva godersi la sua ricompensa. Shissō Hisa era tornata a casa. 
 
 ***
 
 Postfazione:
 Innanzitutto, devo chiedere scusa a chi, leggendo il primo capitolo, pensava di trovarsi di fronte ad una interessante storia di indagini, o anche solamente ad un breve racconto d’azione. Come si può intuire, non era nelle intenzioni iniziali.
 Il vero motivo per cui è nato questo racconto era per fissare una presentazione accettabile dei due personaggi principali, Clorofilìa e Steam, analizzarne i poteri e cercare di renderli funzionali. Era, in definitiva, una scheda tecnica romanzata.
 Sono particolarmente legata ad Iris ed alla sua unicità. Ho sempre immaginato un potere del genere come il migliore con cui si potesse entrare in contatto, e l’ambientazione creata da KH era perfetta per dar luce a quella che era una mia personale fantasia, esplorarne le potenzialità ed i limiti. Forse non la migliore storia scritta sull’argomento, ma di certo ha soddisfatto pienamente le mie aspettative.
 Steam, invece, è stato creato da un’idea del mio compagno, e per parecchio tempo non ho saputo nemmeno io in che cosa consistesse il suo quirk, ma quando me l’ha spiegato ho compreso che non poteva fare altro che il vigilante. Non può avere un impiego diretto nel lavoro di eroe, ma con un po’ di fantasia (ed un attento esame degli strumenti di supporto utilizzabili), l’ha reso una valida spina nel fianco per i criminali di basso e medio livello.
 Questa, quindi, doveva essere una sorta di preludio alla grande e rocambolesca collaborazione di Clorofilìa e Steam, non doveva vivere di luce propria ma costituire un preambolo al racconto che già avevo in mente e cercavo di comporre. Poi, subentrati nuovi e più ampi progetti, ho dovuto accantonare la scrittura di quella storia.
 Purtroppo non è fra le mie priorità, al momento, completare il lavoro, anche se vorrei veramente riuscirci. Per questo sono stata particolarmente oscura sull’unicità di Steam, perché era già preventivato che nella storia successiva lo presentassi come si deve. Fra le mie più grandi speranze è proprio di riuscire a portarlo alla luce, e dare il giusto spazio a questi personaggi.
 Nulla più da aggiungere, se non che ringrazio sentitamente chi ha avuto il coraggio e la costanza di arrivare fino in fondo e leggere anche queste sconclusionate parole. Con la speranza che il racconto sia comunque risultato di vostro gradimento, spero di riaffacciarmi presto sul forum.
Emeerery

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