Pride

di HypnosBT
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Contrattempo ***
Capitolo 2: *** L'esordio I ***
Capitolo 3: *** L'esordio II ***



Capitolo 1
*** Contrattempo ***


         

 

 

 

         Ho sempre saputo dei poteri della luna.

       Forse, come dicono gli elfi, la luna stessa è una dea. Ma come può una dea guardare impassibile la sua civiltà crollare, tradita dagli dei e dagli uomini. A dispetto delle mie orecchie a punta  preferisco  di gran lunga le credenze popolari dell’enclave o della gente di Denerim. Che la luna controlla l’oceano e le sue onde, della gente le unghie e i capelli. Se fossi un mago di certo proverei a carpirne i segreti, a soggiogare il suo potere. E invece non sono che una spettatrice in questo mondo stano, fatto di poteri fuori portata.

       Questi erano i miei pensieri mentre osservavo il cielo dall’aspra carrozza. La luna quel giorno non c’era. Luna nuova la chiamavano; il primo giorno in cui si ricostruiva quando anche l’ultima luce era spenta per poi sorgere di nuovo, un po’ alla volta. Forse da quel giorno in poi l’avrebbero sempre pensata come luna che scompare e basta, lasciando sole le onde, le unghie e i capelli. Divinità che scappa, potere ancestrale fallito, come una dea che vede Arlathan bruciare con il suo popolo. Senza provare emozioni. Guardando da lontano o non guardando affatto. Non so quanti come me abbiano pensato alla luna quella notte. Probabilmente si trattava solo dell’ultimo cattivo auspicio: il giorno a seguire si sarebbe rivelato oscuro per tutti.

        Durante il tragitto avevamo incontrato non pochi problemi, tra i quali un branco di lupi incattiviti dal freddo e una ruota spezzata. Ci capitò anche uno strano incontro con un conte d’Orlais e la sua stravagante carrozza a quattro piani. La guardammo oscillare ai bordi dell’infinito con un misto di terrore e fascino, quasi invidiosi. Tutti tranne Arle Daven che, emozionato, ci guidava attraverso una terra impervia felice di prendere parte ad un’avventura a prescidere dai mezzi. Stanco di banchettare e ciarlare solo di politica, l’Arle sarebbe stato felice di sfuggire alla corte anche per un bel più modesto paesaggio, ma l’idea di avere anche un nobile scopo lo aveva reso talmente baldanzoso da portare con sé la figlia maggiore, Margaret, affinché godesse delle ultime libertà prima di andare in sposa.

      Io e Margaret eravamo cresciute praticamente insieme. All’inizio non era stato per nulla facile: la mia volontà era difficile da reprimere. Con il tempo però le cose si erano aggiustate. Poche persone avrebbero avuto la stessa pazienza, specialmente parlando della nobiltà di Denerim. Margaret mi aveva sempre trattato come un’amica.

      «Passami il portagioie», disse. Mi tuffai in direzione della pila di vestiti e cianfrusaglie che si era venuta a creare durante il viaggio.

      «Non quello verde, quello blu».

    «Per fortuna vostro padre ha deciso di godere dell’aria aperta altrimenti sarebbe già stato fagocitato da tutta questa seta», scherzai io, vedendo il nervosismo di Maggie crescere ad ogni sobbalzo.

      «Lapislazzuli o perle?», chiese senza curarsi del mio commento.

      «Lapislazzuli».

      «Però le perle si abbinano perfettamente con le scarpe…».

      «Vorrei rammentarvi che sarà una festa di suore e predicatori là dentro, comprendo il vostro desiderio ma non penso sia saggio esagerare».

      «Hai ragione… Metterò le perle». Trattenni un sospiro. «Sai Ella, pensavo che sarebbe stato diverso. Avrei potuto andare in sposa a un conte della Distesa Meridionale, grassoccio e ben più giovane di me. O a un vecchiaccio spocchioso. Non sarebbe la prima volta. E invece il destino mette sul mio cammino un Principe. Bello, biondo e da quel che ho sentito anche coraggioso», disse lei con occhi sognanti.

      «Vi ho detto che la figlia dell’Arlessa…».

    «Di Amaranthine l’ha visto battersi al torneo, sì, almeno sette volte. Questa esclusa», la fermai subito.

   «Ella, sul serio», disse lei, «chi può vincere uno scontro del genere? Dev’essere davvero un feroce combattente», riprese Maggie, sognante.

    Era oltremodo preoccupata. Un principe di chissà quale terra lontana aveva chiesto la sua mano. Arle Daven aveva accettato ovviamente, tuttavia i giovani non si erano mai visti. Fino ad allora.

     «…e sono così fortunata! Spero di incrociarlo questa notte, mi aggirerò per i corridoi fino all’alba pur di vederlo. Se dovessi incrociare il suo sguardo domani mattina, con la folla che ci separa, come farò a sapere se gli piaccio? Se saremo vicini saprò riconoscere la scintilla nel suo sguardo, magari potremmo addirittura ridere di qualche sciocchezza. La paura svanirà…».

     «E con essa il romanticismo», dissi io.  «Mia signora, il vostro entusiasmo è contagioso ma vi prego, non lasciatevi trasportare da quella che può rivelarsi un’illusione».

      «Figurati, come potrebbe? Sarò una principessa. Nulla potrebbe essere più perfetto. Dormiamo ora, mancano poche ore all’arrivo».

       Era bello vederla così felice. Tuttavia la mia mente viaggiava su frequenze diverse in quanto probabilmente dopo il matrimonio non l’avrei più vista. Principessa di un paese lontano, sposa di un giovane che era già leggenda sebbene la giovane età. Io sarei rimasta con l’Arle e le sue figlie minori a Denerim. Mi sarei continuata a svegliare all’alba per percorrere la strada che dall’enclave porta alla piazza, avrei visto il mercato il mercoledì mattina, saturo dell’odore di pesce, e avrei odorato il tanfo delle strade urbane tutti gli altri giorni. Sarei arrivata alla magione solo per ricominciare d’accapo con i miei doveri, sorridendo al pensiero di cosa mi aspettava per pranzo. Cinghiale e lamponi, faraone ricoperte di miele, torte al limone per dessert. Burro e acciughe, merluzzo fresco, vassoi di polpa di granchio…

     Pensando al cibo mi addormentai, dimentica per un momento della luna nera.

 

 

       Arrivammo all’alba. Scendemmo dalla carrozza troppo intontite per meravigliarci della cattedrale. Il freddo pungente e le poche ore di sonno rendevano tutto poco tollerabile. Desideravo ardentemente un letto vero, scaldarmi con le fiamme di un camino, pane, burro e zucchero per colazione. Ci dissero che eravamo in ritardo rispetto agli altri invitati e che il Conclave sarebbe iniziato di lì a poche ore, quindi per lo meno il letto doveva attendere. Venimmo smistati nelle nostre stanze, l’Arle con il cocchiere e io con Margaret. Quest’ultima, assonnata, aveva evidentemente rinunciato all’idea di cercare il suo principe. Venimmo accompagnate da un giovane elfo bruno con cui quasi non parlammo, anche se avrei voluto; era così strano vedere la mia gente al di fuori dell’enclave. I corridoi della cattedrale erano immensi, più grandi di qualunque palazzo in cui fossi mai stata, e così era la stanza. Spaziosa, calda, e vi era pure un vassoio con degli infusi alle erbe e biscotti alle mandorle ad attenderci davanti alla stufa. Maggie si riaddormentò subito, ordinandomi di svegliarla un’ora dopo. Riordinai i vestiti e spesi quell’ora a sgranocchiare biscotti mentre mi scaldavo beata davanti al fuoco.

 

 

       Qualcuno stava bussando. Con forza. Mi svegliai di soprassalto realizzando con orrore di essermi appisolata. Aprii la porta, svegliando anche Margaret. Un altro elfo, particolarmente bello, mi disse che il Conclave stava per cominciare e avremmo fatto meglio a prepararci. Lo ringraziai.

Margaret era furiosa, non avrebbe avuto il tempo di prepararsi a dovere. Feci il possibile. Volarono sciami di seta e pellicce, i lapislazzuli vennero preferiti alle perle senza un fiato. Margaret era pronta, io assolutamente no.

      «Vado», mi disse. «Ti aspetterò sulla soglia, se non sarà troppo tardi. Sbrigati o non ti faranno entrare».

  Era bellissima. Imbronciata, nervosa, un po’ pallida e indiscutibilmente innamorata. Se ne andò, convinta di rivedermi di lì a poco.

 

    Indossai la veste di corsa, spruzzandola d’acqua mentre mi lavavo il viso. Scarpe, scialle, non potevo pensare a null’altro. Dovevo farmi perdonare, raggiungere Margaret in tempo era come minimo un buon inizio. Uscii dalla stanza e cominciai a vagare per la chiesa. Nemmeno la servitù era presente. Tutti erano in attesa della Divina, radunati all’ombra delle navate. Svoltai a sinistra, e poi a destra, e a destra ancora. Persi il senso dell’orientamento e cominciai a farmi prendere dal panico. Forse era di nuovo a sinistra? L’Arle non avrebbe gradito assolutamente, mi aveva portato fin qui e alla prima occasione di vita al di fuori delle abitudini quotidiane mettevo tutto a rischio. Mi bloccai di scatto. Un rumore, qualcuno era vicino. Avrei potuto chiedere finalmente la direzione giusta! Mi voltai, attenta a trovarne la fonte. Un grido di donna. L’ansia si trasformò in ghiaccio puro nelle mie vene.

       «Qualcuno… Qualcuno mi aiuti!»

 

 

 Creature mostruose mi inseguivano attraverso un reame dimenticato. Il fetore di zolfo era ovunque. Correvano e correvo anch’io, le vesti strappate dai piccoli orrori che cercavano di fagocitarmi. Infinite zampe tentavano di lambirmi, la paura era ovunque, dentro e fuori di me. Incespicavo senza una direzione, sempre più in alto. Scavalcavo le pietre acuminate puntando alla cima della montagna. Scivolavo su quella stessa pietra umida, continuando a ferirmi nel tentativo di avere salva la pelle. Ancora un passo, ancora un passo… continuavo a ripetere con le ginocchia sanguinanti. Le creature si muovevano agili, sempre ad un passo da me. L’aria pesante non mi permetteva di respirare, le vene pulsavano e il cuore quasi mi usciva dal petto. Orrore, disperazione, forse ero qui, precipitata tra i significati, persa nell’essenza stessa del terrore.

   Una luce sopra di me. Parole, non riesco a ricordare… Tutto esplode di luce. Gli orrori vanno in frantumi e così la terra stessa. Precipitavo nella luce. Il tanfo scomparso, l’umidità… Cadevo ma come soffice piuma. Fuori dal tempo e dallo spazio, immersa nel bianco, non mi curavo della fine.

 

 

     Un fruscio d’ali. Aprii gli occhi e mi ritrovai di nuovo nell’oscurità. Dovetti strizzare gli occhi per realizzare che i tenui bagliori erano torce mosse dal fuoco. Le ombre innanzi a me tremolavano concitate, andando su e giù per la stanza. Non una stanza normale, no, la cella di una prigione. Percepii allora il ferro che mi teneva stretti i polsi. Ero in ginocchio, faceva freddo. Era la vita, quella vera. L’ombra si fermò.

      «Dimmi perché non dovremmo ucciderti subito», disse. Era una donna, alta, capelli scuri, sconvolta dalla rabbia. Avanzava verso di me, lentamente, cercando tutti i buoni motivi possibili per evitare di porre fina alla mia vita. Qualcosa mi diceva che erano davvero pochi. «Il Conclave è stato spazzato via. Tutti i partecipanti sono morti. Tranne te».

     Non poteva essere. In che modo sarebbe potuto essere? Tutti morti… Metà mondo si era riversato a Heaven per le trattative. Uomini e donne di chiesa, nobili, servi, guardie… Margaret, l’Arle… No, no, no…

      «Spiegami questo». Agguantò con forza la mia mano sinistra. Per un attimo respirai zolfo. Brillava. La mia mano emanava luce verde. Fuoco ed acqua insieme, le due forze sembravano fuse, prigioniere tra le mie dita.

       «Non posso», dissi allora, rispondendo finalmente al carceriere.

       «Che significa non posso?»

       «Non so cosa sia, né come sia finito sulla mia mano».

     «Stai mentendo!», gridò infuriata. Fece per gettarsi su di me. Chiusi gli occhi. Il colpo non arrivò. Quando li riaprii una terza figura le teneva il braccio dicendo:

       «Lei ci serve, Cassandra».

      Cercai di convincermi che non stava succedendo sul serio. La luce verde, le due donne, a chi sarebbe mai potuta interessare una serva, un’abitante dell’enclave? Forse qualche nobile mi aveva incastrata per scampare a delle malefatte. Non sarebbe stata la prima volta. Sì, avrebbe avuto tutto molto più senso.

     «Che cosa succederà adesso?», domandai. Avevo paura per la prima volta. Mi avrebbero uccisa, torturata magari. Oppure sarei solo rimasta in quella prigione per tutta la vita. Iniziai a tremare.

     L’altra donna vide il mio sgomento e provò un approccio diverso.

   «Ricordi cosa è accaduto? Come tutto ha avuto inizio?», mi chiese. Provai a riflettere. Zolfo, zolfo e… una luce, forse? Sì, ecco cos’era successo.

     «Stavo scappando. Delle ombre mi inseguivano. Ricordo le rocce che mi squarciano la pelle e poi… una donna?», mi doleva la testa.

      «Una donna?», domandò stupita.

      «Si è protesa verso di me, ma poi…». Cassandra mi interruppe.

    «Vai all’accampamento, Leliana. Io la condurrò allo squarcio», disse.

     «Cos’è accaduto?», chiesi allora, finalmente conscia della gravità della situazione. Non era la fastidiosa burla di qualche nobile, no. Qualcosa di terribile era accaduto, ora lo sapevo con certezza.

     «Lo vedrai con i tuoi occhi», disse lei. Mi mise in piedi con facilità e mi accompagnò alla porta. L’aprì e uscimmo dalla prigione. La luce mi squarciò di nuovo gli occhi e capii: il cielo era stato perforato. Una voragine stava inghiottendo le nuvole e brillava come la mia mano. Era una visione insostenibile.

      «Lo chiamiamo “il Varco”. Un’imponente squarcio nel mondo dei demoni che cresce con il passare delle ore», disse Cassandra. «Non è l’unico squarcio, ma solo il più grande. Tutti causati dell’esplosione al Conclave».

       «E un’esplosione può causare questo squarcio?»

    «Questa sì. Se non interveniamo, il Varco crescerà fino a divorare il mondo».

   Lo squarcio si mosse. Fulmini verdi precorsero il cielo in uno scatto d’ira. Osservai sconvolta quel paesaggio oscuro fino a che non sentii un fulmine colpirmi, viaggiare attraverso il braccio fino alla mia mano. I muscoli si contrassero all’unisono e il dolore che ne seguì mi fece cadere a terra. Urlai come non avevo mai fatto prima in vita.

   «Ogni volta che il varco si allarga il tuo marchio diventa più grande e ti sta uccidendo», disse. Non bastava che un’esplosione avesse polverizzato tutti, che il mondo stesse per essere divorato o distrutto dai demoni, no: anche io stavo morendo. Guardai Cassandra negli occhi.

   «Potrebbe essere la chiave di tutto, ma non ci resta molto tempo», continuò lei, mostrando una sorta di empatia.

      «Non voglio morire», dissi. Non riuscivo a pensare a nient’altro.

      «Quindi…?», chiese lei. Sospirai profondamente.

      «Farò il possibile. Tutto il necessario».

      Cassandra mi alzò nuovamente da terra. Le manette pesavano e il contatto con il ferrò mi gelava la pelle. Attraversammo quello che sembrava un piccolo accampamento; i rifugiati mi guardavano con ansia. Mi disse che tutti mi ritenevano colpevole. La Divina era morta, i concordati saltati. Sarei stata processata, se le cose fossero andate bene. In caso contrario sarei morta. Il pensiero continuava a darmi i brividi o, forse, era il vento invernale che lambiva ogni parte di me. Dinanzi alle nuove informazioni mi sentivo viva come non lo ero mai stata. Chissà se ero in grado di fare realmente qualcosa. La mia esperienza di vita fino ad allora sarebbe stata probabilmente inutile. A che serve saper ricamare quando il cielo si sta mangiando il mondo? Di sicuro non sarei stata io a rammendarlo. Sapevo che Margaret voleva fare il bagno dopo cena per rilassarsi, che alle gemelle piacevano le fragole. Ne avevo comprate così tante per loro che alle volte facevo fatica a ritornare alla magione, carica come un mulo. Non erano certo queste le cose che avrebbero salvato il mondo. L’unica utilità del mio addestramento stava nel tempismo: sapevo esattamente quando parlare e quando tacere. E in quel momento era bene ascoltare attentamente. Capivo la metà di ciò che Cassandra mi diceva mentre attraversavamo una serie di ponti in pietra presidiati dai soldati. Mi aveva tolto le manette e ora senza il peso del metallo riuscivo a concentrarmi meglio.

    «Dobbiamo testare il marchio su qualcosa di più piccolo del Varco», stava dicendo. Quasi mi scappò una risatina isterica. “Bene”, fu l’unica cosa che riuscii a pensare. Il confronto con la realtà dei fatti stava arrivando anche prima del previsto. Le probabilità di successo non erano certo a mio favore, tuttavia non mi sarei arresa. Non volevo rimpianti o paure con me sulla strada verso la fine. 

Tutto giaceva nelle parole di Cassandra. Da lei dipendevano la mia vita e la mia morte, non avevo altri dati su cui lavorare. Decisi che avrei agito come avevo sempre fatto: seguendo gli ordini.

 

 

    Eravamo sole sul sentiero. L’inverno si era fatto strada tutto intorno a noi. Cassandra era guardinga. Procedevamo spedite e silenziose verso la mia prima prova. Più che spaventata ora ero eccitata. Tutto ciò che poteva andare storto stava andando storto, che altro poteva accadere? Neanche il tempo di pensarlo e il piccolo ponte di pietra che stavamo attraversando esplose e crollò sotto di noi. Caddi sulla superfice fredda di una pozza d’acqua giacchiata. Un lampo verde brillò a pochi metri da noi, ferendomi gli occhi. Il barlume sembrò rompere la terra e, dalle sue viscere, germogliò un essere disgustoso, marcio. Puzzava di zolfo e carne bruciata, numerose putride ferite gli squarciavano il petto. Ringraziai gli dei: almeno il suo volto era nascosto da un cappuccio. Come avrei potuto altrimenti affrontare una atrocità del genere, fronteggiare l’oblio nei suoi occhi?

      Sentii Cassandra urlare: «Resta dietro di me!». Partì alla carica, lasciandomi sola con il demone. L’adrenalina che era rimasta latente fino a quel momento detonò in me. Mi guardai attorno e riconobbi con sorpresa, accanto alla ruota distrutta di un carro, un pugnale. Con uno slancio fulmineo lo afferrai, conscia dei movimenti del demone alle mie spalle. Il bastardo era veloce. Lo fronteggiai, senza un briciolo di paura, come se maneggiassi pugnali dalle quattro alle sette, ogni venerdì. Cercò di afferrarmi ma fui più rapida: con un guizzo la lama raggiunse il suo arto proteso, squarciando in profondità la carne morta. Con un grido la creatura cercò di ferirmi nuovamente. Continuai ad attaccare imperterrita, mirando al petto o al volto. Non capii bene come ma infine la creatura capitolò, scivolando di nuovo nel terreno, scomparendo in un vortice di bile. Ansimando continuai a fissare il punto in cui era sparito per essere sicura che non ritornasse. Un urlo mi riportò alla realtà:

    «Abbassa l’arma, subito!». Era Cassandra. Mi stava puntando addosso la spada sguainata. Sconvolta, lasciai il pugnale immediatamente. Cadde tintinnando sul ghiaccio. Cassandra a quel punto sembrava smarrita. Ovviamente si aspettava della resistenza. Sospirò, riponendo la spada.

      «Raccoglilo», disse rassegnata. «Io non posso proteggerti e non posso pretendere che tu resti alla mercé di chi ci attacca». Fece qualche passo e si voltò nuovamente verso di me. Sorrise. «Dovrei tenere conto che mi hai ascoltata senza opporre resistenza». Forse Cassandra in un’altra occasione non sarebbe stata una cattiva persona. Forse, pensai, in un’altra vita saremmo potute essere amiche. Riprendemmo il sentiero.

 

 

     «Siamo vicine», disse, «sento il clamore della battaglia».

   Salimmo una stretta scalinata di pietra e i demoni erano lì ad aspettarci. Per fortuna questa volta non eravamo sole. I soldati combattevano le ombre senza tregua e Cassandra, invece di combattere insieme a loro, sfruttò il diversivo per trascinarmi verso una piccola esplosione di luce verde. I demoni stavano scomparendo, ricacciati negli abissi e mentre Cassandra mi faceva da scudo contro ogni minaccia sentii una mano diversa agguantarmi. Era un elfo. «Presto», disse, «Prima che ne arrivino altri!». Il suo sguardo passò dalla mia mano allo squarcio. Mi strattonò inaspettatamente facendomi protendere verso la luce, il braccio sollevato verso di essa.

  Sentii un intenso calore scuotermi le viscere. Una forza incontenibile si stava facendo spazio dentro di me, come un’onda che dal centro del mio cuore travolgeva tutto il resto. L’energia divampò e la mia mano sinistra cominciò a brillare di magia. Cominciai ad assorbire il portale verde sopra di noi. Sembrava che tutto il mio corpo desiderasse quell’energia, la bramasse come uno stomaco a digiuno. Mi riempii di quella energia quasi con gioia.

    Il portale implose, smettendo semplicemente di esistere. Il boato che si generò mi riportò alla realtà. Controllai la mano: non vi erano segni visibili. Era tutto passato. Stavo ancora bene. Ce l’avevo fatta. Ma com’era possibile? Beh… forse non lo era. Guardai alla mia sinistra. L’elfo era molto alto. Impugnava un bastone da mago.

   «Che cosa avete fatto?», domandai scettica, pensando che il merito non fosse in alcun modo mio.

     «Io non ho fatto niente. Il merito è solamente tuo», disse lui. Mi lasciò a bocca aperta. Mi aveva letto il pensiero o era una bizzarra coincidenza?

      «Sono stata io…», pensai a voce alta, «Cioè… il marchio, è stato il marchio».

     «La magia che ha aperto il Varco nel cielo è la stessa che ha marchiato la tua mano. Ho ipotizzato che il marchio potesse chiudere gli squarci creati dal Varco… E la mia ipotesi si è rivelata corretta» disse l’elfo. Un po’ presuntuoso da parte sua, tuttavia ero troppo felice per guardare ai dettagli. Marchio o no c’era una piccola, forse remota possibilità di aggiustare le cose e avere salva la vita. Mi girai verso Cassandra.

      «Possiamo farcela!», dissi emozionata. Non riuscii a decifrare la sua espressione. Dopo un certo numero di calcoli si rivolse all’elfo, ignorandomi platealmente.

     «Allora potrebbe anche chiudere il Varco», disse, dando voce alle mie speranze.

     «Probabile», rispose lui. Puntò nuovamente i suoi occhi su di me. «Sembri possedere la chiave della nostra salvezza». L’aveva detto in tono leggero ma i suoi occhi erano dannatamente seri. Mi stava studiando. Annaspai nel tentativo di dire qualcosa di intelligente. Fortunatamente qualcun altro intervenne prime di me.

    «Buono a sapersi!», disse quest’ultimo, un nano, mentre si avvicinava a noi. «Temevo che non ci saremmo più liberati di quei demoni. Varric Tethras. Spirito libero, cantastorie e all’occasione compagno d’avventura poco gradito», fece un occhiolino a Cassandra che rispose con una smorfia e un verso. Sorrisi, nessuno poteva ritenersi meno gradito di me fino a un momento prima. 

   «Felice di conoscerti, Varric», dissi. Non ebbi il tempo di presentarmi che l’elfo commentò: «In caso, avrai tutto il tempo di ricrederti». Non mi aveva ancora staccato gli occhi di dosso.

   «Oh. So già che diventeremo grandi amici qui nella valle, spiritosone», rispose il nano.

     «Non se ne parla», disse Cassandra, «Grazie per la disponibilità Varric, ma…».

      «Sapete com’è ridotta la valle, Cercatrice? I vostri soldati non la controllano più. Avete bisogno di me», ribatté Varric, un sogghigno in volto.

      Cassandra borbottò disgustata.

     «Il mio nome è Solas, comunque», disse l’elfo, continuando ad ignorare tutti tranne me. «Sono lieto di vederti ancora in vita», sorrise. Lo era davvero.

   «Tradotto», disse Varric, «“Ho impedito a quel marchio di ucciderti mentre dormivi”». Realizzai quanto la mia vita fosse stata in pericolo.

     «Sembri saperla lunga sul marchio», dissi infine, senza troppi giri.

   «Solas è un eretico specializzato in questo campo», disse Cassandra. Strano, pensai, che un funzionario del Conclave avesse resistito così a lungo prima di dare dell’eretico a qualcuno. 

    «Per la precisione Cassandra, ora tutti i maghi sono eretici», disse allora Solas, come se avesse spiato di nuovo nella mia testa. Tornò a concentrarsi su di me. «Nei miei viaggi ho avuto modo di approfondire la conoscenza dell’Oblio, come nessun altro mago del circolo potrebbe mai fare. Sono venuto per fornire tutto l’aiuto di cui sono capace. Qualunque sia l’origine del Varco, se non lo chiudiamo sarà tutto perduto».

    Per quanto tempo ero stata incosciente? Da dove era spuntato tutto a un tratto un elfo eretico appassionato di spiriti?

     «Se posso chiudere il Varco, lo farò», dissi, oltremodo stupita dalla mia stessa determinazione. Mi guardò intensamente. Dovette ritenersi soddisfatto, in quanto spostò finalmente la sua attenzione dai miei occhi a quelli della Cercatrice.

      «Cassandra», disse, «devi sapere che la magia all’opera qui è di un tipo a me sconosciuto. Il tuo prigioniero non è un mago e dubito che un qualsiasi mago possa sprigionare un simile potere». Mi stava scagionando. Quell’elfo provava a salvarmi la vita due volte.

  «Capito», replicò Cassandra. «Dobbiamo recarci subito all’accampamento».

      «Bianca non sta più nella pelle!», esclamò Varric. Chi diavolo era Bianca?

 

 

       Ricominciammo a camminare verso l’accampamento.

    «Spero che Leliana ce l’abbia fatta», disse a un certo punto Cassandra.

      «È una donna piena di risorse, Cercatrice», rispose Varric. Solas camminava accanto a me, pronto a proteggermi, mentre gli altri erano disposti rispettivamente avanti e dietro di me. «Ora sai i nostri nomi», disse lui, «ma noi non sappiamo ancora il tuo».

      «Ella», dissi semplicemente.

      Solas mi guardò curioso: «È un nome inaspettato per un elfa».

   «Sì», sorrisi, «Immagino lo sia. La verità è che nessuno mi chiama più Hellathen da molto tempo ormai. Ella è più facile per tutti».

Non replicò, era tornato ad esaminarmi. Rimasi in silenzio a chiedermi che intenzioni avesse.

     «Atri demoni sul passaggio!», tuonò Cassandra.

Mi preparai ad attaccare. Solas nel frattempo faceva lo stesso, agitando il bastone davanti a sé. Varric mi affiancò disinvolto. Era sereno, sembrava quasi che avesse affrontato dei demoni prima e sapesse esattamente cosa fare.

    «Tranquilla fiorellino, da qui in poi ci pensiamo noi», mi disse allegramente. Il suo atteggiamento era davvero sconcertante. E forse era proprio questo il motivo che mi spingeva ad avere fiducia.

 

    Raggiungemmo dopo poco un portone di legno. I soldati lo aprirono rivelando l’accampamento. I recenti scontri mi avevano sorpreso: I miei compagni erano combattenti fenomenali. Non avevo dovuto alzare un dito, da ogni parte esplodevano frecce o incantesimi distruggendo il nemico sul nascere. Cassandra era incredibile; spargeva fendenti letali con grazia, come se le leggi della natura non la riguardassero affatto. Riflettevo su queste cose quando mi ritrovai davanti un tavolo di legno, attorno al quale infuriava una discussione.

    «Noi serviamo la Santissima come ben sapete, Cancelliere», stava dicendo Leliana.

      «Justinia è morta!» ribatté l’uomo. La divisa rossa e bianca era il manifesto del suo amore per il Creatore. «Dobbiamo eleggere una sostituta e obbedire ai suoiordini!». Era visibilmente alterato.

       «Mi pare di capire che nessuno sia al comando», sussurrai.

       «Perché voi avete uccisotutti coloro che lo erano!» gridò lui.

      Questo era ciò che la Chiesa pensava di me. Potevo illudermi di essere un’eroina quanto volevo, o che un mago eretico gli avrebbe fatto cambiare idea, in ogni caso l’avrebbero avuta vinta.

   «Ordinate la ritirata, Cercatrice. Qui non abbiamo alcuna speranza», disse il Cancelliere.

     «Possiamo risolvere tutto prima che sia troppo tardi», intervenne Cassandra.

       «Come? Non sopravvivrete abbastanza a lungo da raggiungere il tempio, neppure con tutti i vostri soldati».

     Cassandra insistette proprio per sfruttare i soldati come diversivo per farci strada attraverso il tempio. Secondo lei era la via più rapida. Leliana suggeriva invece di prendere la via delle montagne, disse che sebbene fosse più pericolosa avremmo risparmiato delle vite. Mi guardai intorno: Solas stava armeggiando con uno scatolone di pozioni mentre Varric lo intratteneva con chissà quale conversazione. I soldati erano ricoperti di fango e ghiaccio, chi non era di guardia si scaldava attorno a un falò improvvisato. Troppe emozioni si contendevano il mio animo. Iniziavo ad essere stanca. Dovevo agire, non potevo stare ferma, altrimenti la stanchezza mi avrebbe consumato. Sapevo ora che le ombre erano vulnerabili ai colpi dei miei compagni e in battaglia non ero granché utile. Figuriamoci in una discussione tra alte sfere. Cominciai a sognare ad occhi aperti, come spesso accadeva nei momenti morti del mio servizio presso l’Arle.

       Cassandra mi sottrasse improvvisamente a quel mondo. Chiese il mio parere sulla questione, ne fui incredibilmente stupita. Mai prima d’ora qualcuno aveva chiesto a me, una serva, un consiglio che non riguardasse pettini, vestiti o biancheria. Provai a riflettere malgrado la stanchezza.

     «Io caricherei con i soldati», dissi. Mi avrebbe assicurato più tempo per prepararmi a ciò che stava per succedere, che fosse stato chiudere un grande squarcio demoniaco nel cielo o perire nel tentativo.

      «È deciso», disse Cassandra. Richiamò gli altri e senza ulteriore indugio partimmo di nuovo alla volta della cattedrale.

 

      Il vento freddo si era fatto più intenso. Incespicavo sulla nuda roccia nel tentativo di valicare il passo che ci separava dalla meta. Ad ogni passo ricordavo più chiaramente l’incubo di zolfo e mostri, la sensazione delle mie ginocchia graffiate dalle pietre umide. Varric mi domandò se stavo bene. Era bello che qualcuno si preoccupasse per me. Tutti i miei amici all’enclave erano ultimamente troppo presi dai loro pensieri per prestare attenzione ai miei. Avevo dovuto attendere un’apocalisse perché qualcuno (uno sconosciuto), si preoccupasse per me. Probabilmente ad uno sguardo esterno risultavo molto più gracile e meno risoluta di quanto sembrasse. Lo rassicurai. Ero la mia e la loro via per la salvezza, non avevo il tempo di piangermi addosso. Passò del tempo, ma infine ci trovammo davanti un tratto pianeggiante. Al centro della strada vi era un altro squarcio, tutto intorno altri soldati che avevano quasi sconfitto gli invasori. Con le ultime energie rimaste corsi verso di esso; i miei compagni mi proteggevano, fermando qualunque attacco fosse indirizzato a me. Alzai la mano sinistra al cielo e provai di nuovo quella stupenda sensazione di unità. Assorbii lo squarcio quasi con sollievo, cibandomi di nuovo di quell’energia verde. Lo chiusi con un boato: avevo capito come fare. Sapevo ora che gli squarci si opponevano a me eppure la sete del mio corpo era più forte di tutto. Una volta divorata la loro energia erano liberi di implodere, scomparendo, ritornando probabilmente a esistere in un’altra dimensione. Non lo avrei mai saputo spiegare ad alta voce. Avevo capito che quel potere non mi era nemico: voleva solo tornare alla sua forma originale. Ci stavamo aiutando a vicenda. Ero in controllo.

      Solas si avvicinò a me.

     «Ne hai chiuso un altro. Stai diventando piuttosto abile», disse. Decisi di non rivelare le nuove scoperte, non mi pareva una buona idea urlare ai quattro venti la natura di quell’energia quando vi erano persone pronte a linciarmi su due piedi per molto meno.

   «Speriamo funzioni anche per quello grosso», disse Varric, guardando l’orizzonte luminescente.

   «Dama Cassandra», s’inserì un'altra voce, «siete riuscita a chiudere lo squarcio? Ben fatto». Era un soldato biondo, alto, probabilmente un pezzo grosso vista la pelliccia di leone nero che portava sulle spalle.

     «Non ringraziate me, Comandante. È merito della prigioniera», rispose lei.

     Mi guardarono entrambi. Cercai di assumere una posizione un po’ più nobile. Non riuscii a convincerlo.

     «Sul serio? Spero abbiano ragione sul tuo conto. Abbiamo subito gravi perdite per farti arrivare fin qui», disse.

     Mi consolai pensando che ne avrebbero subite molte di più se non fosse che una magia oscura aveva deciso diventare un tutt’uno con la mia mano. Cose che capitano.

   «Non vi prometto niente», replicai, «Ma darò il massimo». Fremevo dalla voglia di testare il mio marchio su qualcosa di più grande. L’energia mi avrebbe aiutato, avrei saputo cosa fare.

      «Non possiamo chiedere altro», disse lui, scettico. «La via per il tempio dovrebbe essere libera. Leliana proverà a raggiungerci laggiù».

    «Allora è meglio muoversi. Contiamo su di voi Comandante», disse Cassandra.

      «Il Creatore vegli su di voi… Per il bene di tutti». Sospirai.

 

    Procedemmo fino ad incontrare un dislivello. Saltai giù e mi ritrovai ai margini di un piazzale pavimentato. Le rovine della chiesa riposavano un po’ più in là, attorno a me solo cenere e cadaveri ustionati rimasti nella posa dell’esplosione. Qualcuno gridava, in ginocchio, le mani rivolte al cielo. La maggior parte dei corpi stava ancora bruciando. Il tanfo era rivoltante, stavamo respirando quelle stesse persone, muovendo le loro ceneri con i nostri passi. Mi venne la nausea. Cercai con lo sguardo i miei compagni e mi accorsi che stavano tutti guardando il cielo: il varco era sopra di noi, spaventosamente vicino.

      «Il varco è ancora molto in alto», commentò Varric, dando voce al pensiero di tutti.

Lentamente ci facemmo strada attraverso i resti del Conclave. Raggiungemmo il matroneo; era sprofondato al pian terreno. Le navate si erano inabissate in una voragine gigantesca, al centro della quale vi era uno squarcio sproporzionato rispetto a quelli già visti.

Leliana era arrivata. Cassandra le ordinò di disporre i soldati attorno al varco. Poi si rivolse a me:

      «Hai l’opportunità di sistemare le cose. Sei pronta?», chiese. Annuii.

     «Presumo abbiate un piano per farmi arrivare lassù», dissi, indicando il cielo.

       «No», rispose Solas, «Questo squarcio è stato il primo ed è la chiave di tutto. Sigilliamolo e forse sigilleremo anche il Varco».

      «Allora cerchiamo di scendere. E facciamo attenzione», disse Cassandra.

        Questa volta aprivo la fila. Ero terrorizzata, eccitata, curiosa. E stanca, molto, molto stanca. Sembrava proprio il momento fosse arrivato. Era stata una strana giornata. Mi sentivo più viva che mai. La testa mi si stava annebbiando, pensavo solo al dovere da compiere e a dove mettere i piedi per arrivare al centro della voragine. Faceva ancora così freddo… Avrei voluto tornare indietro nel tempo. Godere di più degli inverni passati. Trovare più gioia davanti a un camino, provare finalmente il distillato di cui Erinel andava tanto fiero, baciare qualcuno che non fosse Osvald Bracciorotto… C’erano tante cose che avrei dovuto fare e non solo d’inverno. Chissà cosa ne sarebbe stato della mia casa. Tutti i ricordi della mia Mamae, la mia vita era lì dentro.

      No, mi dissi. La mia vita era là fuori. Mi concentrai di nuovo sulla missione appena in tempo; una voce senza corpo aveva cominciato a parlare.

       «È l’ora della nostra vittoria», diceva, «Portate il sacrificio». Che cosa?

         «Che cosa stiamo sentendo?», chiese Cassandra preoccupata.

       «Credo sia la persona che ha creato il varco», rispose Solas. Demoni, voci, tutto questo doveva finire.

     Il tempo sembrava distorto mentre avanzavamo lungo la discesa. L’odore persistente di zolfo non mi lasciava tregua.

          «Tenete fermo il sacrificio», la voce echeggiò come un tuono.

        «Qualcuno mi aiuti!», una voce femminile, il “sacrificio”. Che diavolo era?

          «È la voce della Divina!», sussultò Cassandra.

          «Qualcuno mi aiuti!»

         Avevamo raggiunto lo squarcio. Non avevo mai visto niente di simile. Pulsava e la materia verde si dimenava per ritornare nella sua dimensione. Un’altra voce parlò:

       «Che sta succedendo?». Ero io. In un’altra vita di cui ricordavo solo frammenti. Rimpianti. Amore.

     Guardai Cassandra mentre sentivo la mia mano brillare di nuovo.

      «Era la tua voce», disse lei, «La Santissima ti ha chiamato. Ma…».

        La scena si materializzò davanti ai nostri occhi. La Divina era prigioniera di un mostro informe, sospesa a mezz’aria, due catene di fuoco le stringevano i polsi.

        «Che sta succedendo?» Ripetei nella visione, presumibilmente entrando nella stanza.

         «Fuggite finché potete!», urlò la Divina, «Avvertite tutti!».

         «C’è un intruso», disse il mostro. «Uccidete l’elfa».

       Crepitando la visione si dissolse. Non potevo credere ai miei occhi. Quindi mi ero persa e poi… avevo davvero assistito all’omicidio della Divina? Quel mostro voleva uccidere anche me e non ci era riuscito. Da dove veniva allora l’esplosione? Perché il marchio era cresciuto in me?

        «Tu c’eri!», partì all’attacco Cassandra. «Chi ha attaccato? E la Divina…? Quella visione era autentica? Che sta succedendo?»

     Mi voltai di scatto. «Non lo so!», sbottai. Non era mia intenzione farlo. Ero così stupita della mia stessa reazione che per un attimo persi il filo. Troppe domande, interrogativi a cui stavo cercando io stessa una risposta. Nulla sembrava avere senso. Cercai di calmarmi. «Non ricordo», dissi in tono più conciliante.

     «Echi di eventi passati», intervenne Solas, «L’Oblio sconfina in questo luogo. Questo squarcio non è sigillato, ma almeno è chiuso. Temporaneamente. Credo che il marchio possa aprire lo squarcio al fine di sigillarlo adeguatamente».

   «Tuttavia», continuò, «Aprire lo squarcio significa attirare l’attenzione di chi si trova dall’altra parte».

    «Questo significa demoni», disse Cassandra rivolgendosi ai soldati attorno a noi, «State pronti!».

    Avevo finalmente capito come chiudere gli squarci ma… Riaprirlo? Sperai che la magia mi guidasse. Ci posizionammo. Cassandra sguainò la spada, Solas roteò il bastone. I soldati erano pronti ad attaccare, gli arcieri incoccarono le frecce. Mancavo solo io. Pregai gli dei di poter vivere un altro giorno.

         Alzai la mano sinistra verso il cielo.

 

 

      Una bestia alta almeno quindici piedi si materializzò nell’aria con un boato. Cadde con un tonfo sul pavimento di ciò che una volta era la Cattedrale. La fissai con orrore. Due corna gigantesche spuntavano dal suo cranio, la bocca ferale era una prigione di denti e saliva. Ruggì e partì alla carica, falciando con gli immensi artigli tutto ciò che le si presentava dinnanzi. Due soldati vennero sbalzati via, vidi le budella uscire dal loro corpo poco prima che si schiantassero sulle pietre aguzze. Volevo correre, correre fortissimo, il più lontano possibile. Le mie gambe erano paralizzate. Arricciai il braccio e portai il pugnale davanti al petto, dimentica di tutto. La bestia mi aveva visto. Si girò verso di me e riprese a correre, guardandomi negli occhi. Non c’era niente che potessi fare. Divaricai i piedi, piegai le ginocchia, assunsi quella che mi sembrava poter essere una posizione pericolosa. Il demone urlò di rabbia e io cominciai a gridare minacciosa di rimando. Gridai e gridai con tutto il fiato che avevo in corpo. La bestia stava per colpirmi; qualcosa la trattenne. Rivoli di ghiaccio si inerpicavano su di lei, avvolgendola. In pochi secondi la immerse completamente, trasformandola in una statua. Fu solo per un’istante. La bestia si liberò dalla presa facendo esplodere la gelida gabbia in piccoli pezzi affilati. Cassandra si gettò su di me e cademmo poco più in là, dietro a una roccia.

    «Sei impazzita?», urlo, completamente fuori di sé. «Nasconditi!», mi ordinò, ritornando alla battaglia. Per quel che riguardava la mia sanità mentale non avrei messo la mano sul fuoco, ecco, però mi sembrava un buon consiglio. Presi a nascondermi di roccia in roccia sfuggendo allo sguardo del demone. Fortunatamente sembrava non percepire l’energia del marchio, forse ero salva. Gli altri lo avrebbero ucciso, l’avrebbero fatto sprofondare negli abissi da cui proveniva. Dovevo solo aspettare la fine della battaglia. “Solo”. Il piano sembrava funzionare egregiamente quando dallo squarcio fuoriuscirono diversi raggi di luce verde. Dalle proiezioni della luce sul terreno spuntarono delle ombre minori, uguali al demone che avevo sconfitto la prima volta. Stavolta però era diverso. Ero spaventata, sfinita, completamente indifesa. Stavo cercando di lottare per la mia vita, certo, ma ero anche circondata dai corpi di gente morta nel tentativo di buttare giù la bestia. L’orrore mi aveva quasi sopraffatto. Un’ombra si accorse di me e cominciò a strisciare con chissà quali gambe verso di me. Portai di nuovo il pugnale in posizione.

   Ansimavo. L’ombra mi attaccò e la respinsi, stava mirando al cuore. Cercò di agguantarmi una seconda volta e, non so come, la respinsi di nuovo. Il mondo mi sembrava più lento del solito, forse la paura aveva reso i miei riflessi più veloci. L’ombra attaccò ancora e mi lacerò la pelle. Portai la mano sinistra, brillante di luce verde, sotto il seno. Forse, pensai, ero solo una sciocca. Le costole erano esposte all’aria aperta. Grondavo di sangue. Guardai l’ombra attaccare ancora: un micidiale quadrello si conficcò nella testa del demone, facendolo sprofondare nell’oblio. Mi voltai e vidi che Varric, dopo avermi salvata, stava già combattendo contro un altro nemico. Mi riparai dietro ciò che prima dell’esplosione doveva essere stata una colonna. Infagottai un po’ la blusa gelida che mi copriva il busto e la premetti contro la ferita, sperando aiutasse. “Cara Andraste”, pensai, “Carino da parte tua lasciarci tutti qui a morire”.

   Fino a quel momento ero stata la persona più fortunata e al contempo sfortunata della storia. In più o meno tre ore avevo rischiato di essere arrostita in un’esplosione, linciata dalla folla, incornata da un demone e uccisa da un altro. Eppure ero ancora lì. Non stavamo morendo tutti, no. Qualcuno doveva sopravvivere per fermare quel casino. Altrimenti non avrebbe avuto senso. Nulla avrebbe avuto senso. Andraste non poteva davvero abbandonare la sua gente così, nella suacasa. Gli antichi Dei degli elfi magari mi avrebbero protetto, chissà. Di sicuro mi piaceva pensarlo. In ogni caso, se non una divinità, sapevo che il destino mi voleva esattamente dov’ero. Sanguinante, esausta e molto, molto confusa. Ma ci sono leggi del mondo, per coloro che le sanno intuire, che sono impossibili da ignorare.

 

 

       «Adesso!», gridò Cassandra, «Chiudilo adesso!».

      Sbirciai dal mio nascondiglio: la bestia era a terra, mortalmente ferita. Il terreno sotto ai suoi piedi si era fatto verde. Stava per essere fagocitata dall’Oblio.

   Iniziai a camminare lentamente verso lo squarcio, esanime. Sentivo di aver bisogno di quell’energia. Finalmente potevo banchettare, anche se sapevo che non avrebbe per nulla aiutato il mio corpo. Si accorsero di me quando ero già sotto allo squarcio. Solas spostò lo sguardo angosciato dalla ferita ai miei occhi. Cercai di sorridere. Dovevano tutti calmarsi un po’. Avevano fatto troppo baccano. Questa gente non sapeva fare altro che picchiarsi. Mentre io… Io ero tranquilla. Volevo solo un po’ di energia. Sollevai la mano al cielo. Buona questa roba verde. Una limonata dopo aver raccolto i lamponi sotto il sole. Il profumo delle lenzuola appena cambiate. Le forme ridicole dei biscotti fatti in casa.

 

 

     Sentii tutte le forze venire meno. Gli occhi rotearono all’indietro. «Abbiamo vinto?», chiesi, ma nessuno rispose. Il buio era già lì; mi cullò, regalandomi finalmente sogni dolcissimi.

 

 

 

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Capitolo 2
*** L'esordio I ***


 

 

 

 

     Mi risvegliai sussultando. Non riconobbi la stanza. Il mobilio era simile a quello della cattedrale ma più umile. Ero vestita. Non con gli stracci luridi che avevo indossato nella mia parentesi da prigioniera; ero fasciata in un completo di cuoio marrone foderato di pelliccia di fennec nei punti più sensibili al freddo. Strattonai le cinghie che tenevano unito il corpetto, anch’esso di cuoio marrone ma grezzo. Sbottonai i ganci d’argento che chiudevano la giacca e mi controllai il ventre.  Garze bianche avvolgevano la ferita. Le srotolai in fretta, impigliandomi continuamente nella foga. Dalla garza caddero una serie di erbe medicinali che dovevano costituire un impiastro curativo. La pelle candida era solcata da tre piccoli tagli quasi rimarginati sotto al seno. Era incredibile. Ricordavo il dolore e il sangue ma della ferita rimaneva poco o niente. Una piccola elfa emerse dall’angolo della stanza. Ci guardammo sgomente. Mi coprii di scatto con le bende che avevo appena sparpagliato sul letto e lei fece cadere una scatola che dal tonfo sembrò vuota.

            «Non sapevo che fosse sveglia! Giuro!», esclamò concitata.

    «Perché hai paura?», domandai, probabilmente più spaventata di lei. Forse mi attendeva il processo, perché ero così agghindata? «Cos’è successo?», chiesi ancora.

     «Ho sbagliato, vero? Ho detto la cosa sbagliata», disse lei tremante. Volevo tranquillizzarla, non aveva fatto nulla di male. Ci misi un po’ ad elaborare. Era una serva, proprio come me.

    «Calmati», dissi, «Va tutto bene».

    Per tutta risposta l’elfa si gettò a terra. Pensai che si fosse sentita male. Balzai giù dal letto per aiutarla e mi accorsi che no, non si era sentita male. Si stava inchinando. Davanti a me. «Chiedo il vostro perdono e la vostra benedizione», disse. «Sono solo un’umile serva». Oh, per gli dei.

     «Siete tornata a Heaven, mia signora», continuò, «Dicono che ci avete salvati. Il varco non cresce più e neppure il marchio sulla vostra mano. Negli ultimi tre giorni non si è parlato d’altro». Tre giorni? Ero rimasta incosciente così a lungo?

     «Quindi… adesso mi aspetta un processo, suppongo?», domandai guardinga.

     «Non so nulla a riguardo», disse lei. «Dama Cassandra vorrà sapere che vi siete svegliata. Ha chiesto di essere informata immediatamente».

     «E dov’è ora?», chiesi.

     «Nella chiesa con il Gran Cancelliere. “Immediatamente!”, ha detto». L’elfa scappò via facendo sbattere la porta alle sue spalle. Avrei voluto chiederle aiuto con le garze; mi rifasciai grossolanamente e chiusi il corpetto. Cercai delle scarpe. Un paio di alti stivali di pelle marrone erano stati preparati accanto a uno specchio da toeletta. Li infilai. Non avevo mai neppure sognato un paio di stivali del genere. Arrivavano sopra al ginocchio ed erano la cosa più confortevole che avessi mai indossato. Le stringe erano le stesse del corpetto e finivano con due ganci d’argento che mi cingevano la coscia. Mi specchiai. Le occhiaie che solitamente mi appesantivano erano quasi sparite. I benefici del dormire per tre giorni, scherzai tra me e me. Non avevo tempo per acconciarmi i capelli. Li raggruppai alla bell’e meglio in una coda alta fermandoli con l’elastico rosso che era sopra alla credenza. C’era un mantello color borgogna appeso sull’attaccapanni. Probabilmente anche quello era per me. Lo indossai, godendo della sensazione della pelliccia al suo interno. 

    Ero pronta. Non aveva senso fasciarsi la testa prima del previsto, non dopo tutto quello che era successo. Dovevo parlare con Cassandra.

    Uscii da quella che si rivelò essere una casetta di pietra e ciò che vidi mi turbò non poco. Dozzine di persone si erano accalcate davanti alla porta per vedere me. I soldati mi salutarono come se fossi parte dei loro ranghi, tutto attorno la folla bisbigliava e mi guardava con le mani giunte in preghiera. Qualcuno piangeva silenziosamente al mio cospetto, altri si inchinarono come aveva appena fatto la piccola elfa. Iniziai a camminare, tesa come una come una corda di liuto. La folla si apriva al mio passaggio. Era la manifestazione della tipica idea andrastiana: adorare ma non toccare. Cercai di ignorarli tutti. Con la stessa espressività di una statua in processione mi feci strada attraverso il paese.

     «L’Araldo», disse qualcuno, «L’Araldo di Andraste!». Ero in imbarazzo. Accelerai il passo sperando che quella messa in scena finisse il prima possibile. Ero una serva e un’elfa. Ed ero sempre stata discriminata per entrambe le cose. Tre giorni prima tutte quelle personcine a modo che ora mi veneravano avrebbero voluto linciarmi a prescindere da tutto. Innocente o colpevole. Ora piangevano ai lati delle strade guardandomi passare. Tutta la faccenda cominciava a innervosirmi. Volevo solo sapere cosa pensava la Chiesa di me e del fatto che i fedeli mi chiamassero “Araldo di Andraste”. Il tutto probabilmente li aveva fatti infuriare.

      Arrivai alla chiesa. Un branco di sorelle aspettava di benedirmi fuori dal portale.

      «Che il Creatore vegli su di te», disse una di loro mentre cercavo di rimpicciolirmi per attraversarle senza inconvenienti.

      «Ehm… Certo», risposi io, «Sto cercando Dama Cassandra». Ella non rispose, così felice che le avessi rivolto la parola che delle lacrime avevano iniziato a rigarle il volto. La guardai con malcelato disgusto. Aprii la porticina intagliata nel portale e la chiusi dietro di me. Controllai che non vi fosse nessuno e mi appoggiai su di essa tirando un respiro di sollievo. Ero confusa ma, come come stava accadendo spesso ultimamente, non avevo tempo per riflettere più di tanto. E infatti sentii una discussione imperversare nella canonica.

      «Avete perso il senno? Dev’essere portata a Val Royeaux immediatamente per essere giudicata da colei che diverrà la nuova Divina!»

      «Non credo che sia colpevole», rispose Cassandra.

      «L’elfa ha fallito, Cercatrice. Il Varco è ancora aperto. Per quel che ne sapete potrebbe aver fallito di proposito».

      «Non credo proprio», ribadì Cassandra.

      «Non spetta a voi decidere. Il vostro dovere è servire la Chiesa»

       «Il mio dovere…». Entrai nella stanza.

       «Incatenatela», disse il Cancelliere, «La voglio pronta per il viaggio verso la capitale, dove verrà processata». Mi voltai verso le guardie.

       «Ignorate l’ordine», ribatté Cassandra, «E lasciateci soli». Le guardie omaggiarono la Cercatrice portando il pugno destro al cuore e se ne andarono. Nascosi un ghigno.

       «State tirando troppo la corda, Cercatrice», disse il Cancelliere.

       «Il Varco è stabile, ma continua ad essere una minaccia. Non posso ignorarlo», rispose lei.

       «Quindi sono ancora un sospettato?», chiesi a Cassandra. La situazione non mi era chiara, dovevo capire cosa aspettarmi.

       «Assolutamente sì» «No». Il Cancelliere e Cassandra avevano parlato all’unisono. Si guardarono in cagnesco per qualche istante.

       «Qualcuno ha architettato l’esplosione. Qualcuno di cui la Santissima non sospettava», intervenne Leliana. «Forse è morto insieme agli altri o ha degli alleati ancora in vita».

       «Io sono un sospettato?», chiese esterrefatto il Cancelliere. Dovevo ammettere che quello era inaspettato anche per me.

       «Voi e molti altri», rispose Leliana. Quella donna sapeva essere terrificante ma la apprezzavo. Dopotutto era dalla mia parte. Forse.

       «Ma non la prigioniera», ribattè il Cancelliere mentre mi guardava con disprezzo.

       «Ho sentito le voci al tempio», disse Cassandra. «La divina implorava il suoaiuto».

       «Dunque il fatto che sia sopravvissuta e quella cosa che ha sulla mano… Pure coincidenze?»

       «Divina provvidenza», rispose Cassandra, «L’ha mandata il creatore per aiutarci nella nostra ora più cupa». Ecco da dove veniva la storia dell’Araldo. In qualche modo lo credevo anche io, l’avevo sentitopoco prima di chiudere lo squarcio. Sapevo di essere uno strumento nelle mani del mondo, avevo la possibilità di bilanciare le cose e correggere quella situazione. Perché proprio io, beh, non ne avevo idea. Probabilmente sarebbe potuto toccare a chiunque altro. Si trattava comunque di un fardello non indifferente e, a differenza di Cassandra, non pensavo avesse minimamente a che fare con la religione. Anzi.

       «Non credo mi mandi il Creatore. Non credo sceglierebbe qualcuno come me», dissi con un velo di sarcasmo.

       «Il Creatore può tutto. Non spetta a me giudicare», replicò Cassandra. Sì, l’avevo già sentito da qualche parte. Com’era? Ah sì, onnipotente, onnisciente e onnivoro.

       «Il Varco è ancora lì e il tuo marchio è la nostra unica speranza di chiuderlo», intervenne Leliana.

       «Non spetta a voi deciderlo», disse ancora il Cancelliere, ormai furente.

       Cassandra prese un enorme libro dal cassetto e lo sbattè sul tavolo.

       «Sapete cos’è questo, Cancelliere? Un’ordinanza della Divina che ci autorizza a intervenire. Qui e ora proclamo la rinascita dell’Inquisizione». Detto questo il Cancelliere avrebbe fatto bene a correre.

       «Chiuderemo il Varco», continuò Cassandra avanzando verso di lui minacciosamente, «Troveremo i responsabili e ristabiliremo l’ordine. Con o senza il vostro consenso». Il Cancelliere finalmente se ne andò, oltraggiato.

       «Era una direttiva della Divina: rifondare l’antica Inquisizione», disse Leliana, «Trovare coloro che vogliono combattere il caos», fece una pausa.

       «Non siamo pronti. Non abbiamo un capo, né seguaci, né alcun sostegno da parte della Chiesa».

       «Ma non abbiamo altra scelta», intervenne Cassandra. «Dobbiamo agire. Con te al nostro fianco». Mi stavano davvero considerando come loro pari. Per la prima volta degli uomini non mi chiedevano di lavorare per loro, non mi ordinavano di fare qualcosa. L’Inquisizione chiedevail mio aiuto.

Qual era l’alternativa? Ritornare all’enclave e continuare la mia vita di stenti? No grazie. Mi si stava presentando davanti l’occasione della vita. Sarebbe stato difficile, sicuramente. Per la prima volta sapevo di potercela fare. Il destino mi aveva scelta, rivoluzionando tutta la mia vita. Chissà, forse il marchio si sarebbe rivelato una maledizione, magari la chiesa ci avrebbe annientati; tuttavia vedevo in quel barlume verde la possibilità di riscatto che avevo sempre sognato. Per me e per la mia gente. Non gli elfi: i dimenticati.

     «Se volete davvero provare a ristabilire l’ordine…», mormorai, ancora immersa nei miei pensieri.

     «Questo è il piano», mi interruppe Leliana. I suoi occhi brillavano.

     «Aiutaci», aggiunse Cassandra, «Prima che sia troppo tardi». Mi porse la mano. La strinsi e qualcosa dentro di me si sciolse. Avevo passato la vita a lottare per la sopravvivenza in un mondo ostile. Ora avrei lottato per qualcosa si più grande e, soprattutto, non sarei stata sola.

 

 

     Cassandra mi aveva congedato. La mattina seguente mi avrebbe fatto conoscere l’ultimo membro dell’entourage.

     Cominciai a vagare per la cittadina senza avere idea di cosa fare, forse per la prima volta in vita. Non ero sicura di come gestire la mia libertà in quel posto così distante da casa. In ogni caso, dopo tre giorni di coma apparente ero affamata. Cassandra mi aveva suggerito di provare alla locanda, dove solitamente veniva preparato e distribuito il cibo per i profughi. Mi feci strada tra gli sguardi ancora attoniti della gente di Heaven fortunatamente senza alcun pianto. Mentre cercavo di orientarmi una voce mi chiamò.

     «Ehi fiorellino!», esclamò Varric, «Allora come andiamo?», chiese.

     Rimasi quasi a bocca aperta. Il sollievo nel sentire che qualcuno mi trattava normalmente era enorme. Mi avvicinai a lui, accampato vicino a un piccolo fuoco. Dovevo sembrare parecchio a disagio in quanto egli cambiò subito tono, abbandonando il fare radioso per un tono più complice.

     «Adesso che Cassandra non è più nei paraggi», disse, «Mi dici come stai? Sei passata ad essere il nemico numero uno del Thedas ad esserne la scintillante eroina in armatura… Beh… Marrone!», ridacchiò. «So che non dovrebbe avere importanza e, non fraintendermi, stai bene, però per l’Araldo di Andraste mi sarei aspettato come minimo una spolverata all’argenteria». Era riuscito a rallegrarmi all’istante.

     «Ho dato ordine di colare un’armatura nuova con tutto il ferrovecchio rimasto, contando che lavoreranno notte e giorno mi aspetto di averla entro domani», dissi. Non era da me parlare in modo così disinvolto, tuttavia far parte di qualcosa di così grande tutti insieme mi aveva dato uno slancio di fiducia in me stessa e gli altri.

     «Un’ottima idea per tenerli occupati, ben fatto», rispose lui.

     «Varric, onestamente, sono impazzita o sono tutti gli altri ad essere matti? So che avere una strana magia verde che mi fuoriesce dalle mani può sembrare un’aggravante ma giuro che mi sento in forma». Varric rise.

     «Fossi in te non mi farei troppe domande. Se togli un po’ di fede e sporcizia puoi intravedere che sono persone anche loro. Magari c’è di meglio ma questo è ciò che il mondo offre oggi, prendere o lasciare».

     «Tutta questa esperienza finora mi ha di sicuro insegnato a pensare di meno e prendere di più», dissi.

     «Può succedere di avere epifanie del genere in punto di morte». Scoppiai a ridere.

     «A proposito», dissi tornando seria, «Ti ringrazio, se non ti fossi accorto di quel demone non so cosa sarebbe successo. E dopo essere sopravvissuta a un’esplosione che ha squarciato il cielo a metà sarebbe stato davvero un modo ridicolo di tirare le cuoia».

     «Fossi in te aspetterei a dirlo. Ho visto uomini schiattare in modi molto più stupidi, ti sei difesa bene. A quanto pare siamo insieme in questa avventura. Sappi però che se dipendesse da me ti direi di scappare con le gambe levate. Ho visto troppi eroi finire male e nessuno di loro aveva a che fare con qualcosa di simile». Lanciò un’occhiata pensierosa al cielo. Lasciai cadere il discorso. Mai avevo pensato a me stessa come a un’eroina e non volevo farlo adesso. Il solo pensiero mi faceva tremare le gambe.

     «Quindi resterai?», chiesi, «Ho notato che tra te e Cassandra non corre buon sangue».

     «Penso che sia necessario. Ho combattuto molte cose nella mia vita ma questo… Va al di là di ogni comprensione. La Cercatrice è troppo testarda ma ha bisogno di aiuto, tutti ne abbiamo bisogno in questo momento», rispose. Il mio stomaco sussultò emettendo un rumore orrendo. Non ebbi il tempo di vergognarmi che Varric rise. «Facciamo un salto alla locanda, sono certo che l’oste non vede l’ora di sfamare il magnifico Araldo». Annuii, grata di avere dell’ottima compagnia.

 

 

     Ne uscii al tramonto. Grazie agli dei Varric mi aveva aiutato a schivare i ringraziamenti della gente. Mi aveva anche raccontato aneddoti straordinari su Hawke, suo più grande amico nonché Campione di Kirkwall. Ero esaltata all’idea di avere al mio fianco persone così fuori dal comune. Era stata una giornata intensa e l’oste aveva continuato a riempirmi il boccale di birra; per quanto fosse leggera ora la mia mente vagava a destra e manca. Fu un sollievo ritrovare il mio letto, per quanto non lo sentissi tale. Mi sentivo ancora l’usurpatrice di una vita straordinaria che non sarebbe dovuta essere mia. Magia o no sentivo di dover ancora provare il mio valore e dimostrare che ero utile a prescindere da ciò che il fato mi aveva concesso. 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** L'esordio II ***


 

 

 

 

     La mattina seguente mi recai in quella che veniva chiamata sala da guerra. Mi accolse una Cassandra visibilmente agitata. «Dunque», cominciò, «Josie sarà qui a momenti. Nel frattempo, hai già incontrato il Comandante Cullen, leader delle forze dell’Inquisizione», disse.

     «È stato un incontro fugace in battaglia», rispose lui, «Mi fa piacere vederti ancora in vita».

     «Altrettanto», risposi pungente. Il sole era appena sorto e io ne avevo già abbastanza di queste frasi di circostanza.

     «E ovviamente», continuò Cassandra alzando la voce, «conoscete già Sorella Leliana».

     «Il mio ruolo qui impone un certo livello di…».

     «È il nostro Capospia».

     «Sì. Impareggiabile tatto», replicò Leliana. A quel punto nella stanza entrò una donna giovane, molto affascinante, rivestita di drappidorati che ben sposavano la sua carnagione scura. «Scusate il ritardo, ho avuto delle… Discrepanze con il Marchese», disse.

     «Lei è Dama Josephine Montilyet», annunciò Cassandra, «Nostra ambasciatrice e primo diplomatico».

     «Siete molto più giovane di quel che pensassi», disse lei con un sorriso incoraggiante. «Non che sia importante, certo, qualche voce sparsa qua e là e avremo il controllo di ciò che il popolo sa di voi o su ciò che crede di sapere». Mi fece l’occhiolino. Cullen comandava l’esercito, Leliana le spie, com’era possibile che Josephine sembrasse già la persona più influente e e affascinante nella stanza?

     «Lieta di conoscervi», risposi con un sorriso.

     «Ti ho già accennato che secondo Solas al tuo marchio serve più potere per poter sigillare il Varco», continuò Cassandra.

     Solas. Il giorno prima l’avevo cercato con lo sguardo senza successo. Volevo saperne di più su di lui. Nessuno mi aveva guardato così prima di allora, con una tale intensità, come se stesse veramente provando a leggermi dentro. Aveva attivato qualcosa in me. Non avevo idea di cosa, tuttavia sapere che era ancora con noi mi era di conforto. L’avrei cercato dopo la riunione se non avessi ricevuto altri incarichi. Avrei dovuto anche pensare a qualcosa da dire. In ogni caso sembrava felice di parlare di sé o delle proprie conoscenze, c’erano mille domande che avrei voluto fare… Oppure avrei potuto usare semplicemente la scusa del marchio e cavarmela senza preoccuparmi troppo. Mentre riflettevo sul da farsi mi resi conto che le informazioni riguardanti il marchio mi erano realmente necessarie, usarle come scusa per fare conversazione suonava ridicolo. Quanto potevo essere sciocca a volte.

     «Ella?»

     «Sì?», risposi cadendo da chissà quali nuvole.

     «Cosa ne pensi?», chiese Cassandra.

     «… Riguardo?»

     «Ugh».

     «Sfortunatamente», intervenne Josephine, «Nessuno ci darà retta per ora. Maghi o Templari che siano non abbiamo abbastanza influenza per avanzare richieste. La Chiesa ha denunciato l’Inquisizione. Voi, in particolare», disse indicandomi.

     «Beh, questa si che è una notizia», replicai ironicamente.

     «In ogni caso questo ci mette in una posizione di svantaggio, avvicinare una delle fazioni in questo momento è fuori discussione», concluse Josephine.

     Si misero tutti a cercare un modo per gestire gli attacchi mediatici della Chiesa. Io assistevo in silenzio, cercando di non lasciarmi trasportare troppo da altri pensieri (di nuovo). Conoscevo così poco del mondo che avere un’opinione riguardo temi così scottanti era veramente lontano da me. In ogni caso dovevo fare uno sforzo: se volevo diventare l’eroina delle mie fantasie avrei fatto bene a imparare in fretta e non solo a combattere.

 

 

     La riunione era finita. L’entourage aveva deciso: in pochi giorni sarei partita alla volta di Redcliffe. Nonostante sapessi della guerriglia che stava devastando le Terre Centrali ero emozionata all’idea di viaggiare. 

     Prima però avevo delle cose da fare: farmi visitare dal medico di Heaven e imparare a difendermi.

     Mi recai dunque dal primo, il cui studio era situato a pochi passi dalla locanda. Mentre salivo le scale in direzione delle tre casette semi diroccate assistetti a una scena particolare: un uomo con la barba scura stava urlando a Solas di non impicciarsi.

     «Non mi interessa se siete un mago, un genio o un prestigiatore. Giuro sul Creatore che la prossima volta che interferirete con il mio lavoro vedrò di farvi cacciare da questo posto dimenticato da Dio!», sbottò irato. Detto questo rientrò nell’alloggio sbattendo la porta alle sue spalle. Solas nel frattempo tentava di nascondere un ghigno diabolico. Si accorse di me.

     «E dire che fino ad ora Heaven mi sembrava il posto perfetto per una vacanza», dissi. Era la mia occasione.

     «Non per il più grande pozionista mai esistito a quanto pare. Temo si senta un po’ sprecato ora che le sue mansioni si sono ristrette a unguenti per i reumatismi e impiastri curativi», replicò sorridendo.

     «Oh quindi mantenere in vita l’Araldo di Andraste non è stato abbastanza emozionante per lui?», chiesi.

     «Non lo sapremo mai. Sembra infatti che un aitante elfo eretico si sia presentato alla sua porta per rubargli il lavoro e la paziente».

     «Con successo, spero».

     «Certamente», disse con aria sorniona. «Deduco che il titolo sia diventato ufficiale».

     «Mi auguro ancora di no», risposi. Scoppiò a ridere vedendo il mio cruccio. «Spero solo mi diano un cavallo bianco in dotazione».

     «Avrei voluto suggerito un grifone», replicò, «Se non fossero estinti». Fece qualche passo in direzione del Varco.

     «Nell’Oblio ho esplorato antiche rovine e calcato campi di battaglia per scrutare i sogni di civiltà perdute. Ho visto torme di spiriti scontrarsi in sanguinose rievocazioni di guerre leggendarie o a lungo dimenticate. Ogni guerra ha i suoi eroi. Mi chiedo che tipo di eroe sarai tu».

     Ancora questo discorso degli eroi. Mi sentivo schiacciata dal peso di un’idea simile; già essere l’Araldo di qualcuno era un grande responsabilità, figuriamoci diventare di punto in bianco un’eroina acclamata da tutti.

     «E se non volessi essere l’eroe? Se mi svegliassi domani e scoprissi di aver sbagliato tutto, di essere diventata il cattivo?» replicai spazientita.

     «Ne sarei deliziato», sorrise Solas. Mi sprofondò il cuore nel petto. Sembrava una presa in giro bella e buona. Bastava guardarmi per intuire quanto fossi mediocre. Potevo impegnarmi, imparare, essere coraggiosa. Ma da qui a soddisfare delle aspettative simili… Ero improvvisamente triste. Forse veramentequeste persone credevano in me. Varric aveva visto nascere un eroe, un Campione. Solas si basava invece su dei sogni di gloria. Fu questo a ferirmi di più. Nessuno aveva la benché minima idea di chi fossi, di cosa avessi vissuto. Sembravano dare per scontato che in due giorni sarei stata pronta a salvare il mondo solo perché possedevo il marchio, nulla più. Questo era il mio potere. E per quanto volessi dimostrare a loro e a me stessa di cosa fossi capace la fiducia non veniva riposta in me ma solo ed esclusivamente sulla situazione. Che scelte potevo realmente intraprendere? A parte quella di tornare all’enclave per essere una serva o restare dove una vita avrei potuto quasi averla? Ripensai all’incontro con i membri dell’Inquisizione. Cassandra aveva provato a coinvolgermi e ne ero felice, tuttavia la mia conoscenza del mondo al di fuori dell’enclave era scarsa, addirittura nulla rispetto a questi uomini e donne. Come avrebbero potuto le mie decisioni cambiare il mondo?

     Solas interruppe le mie malinconiche riflessioni.

     «Hellathen», disse, «Perdonami. Non volevo renderti triste. Ricorda che con un solo gesto hai salvato centinaia di vite e qui, tra le fila dell’Inquisizione, ci sono persone disposte a tutto per aiutarti. Non sei sola in questo». Era bello sentirselo dire. Era bello che fosse Solas a dirlo.

     «Resterò», aggiunse, «Almeno fino a che il Varco non sarà chiuso». Mi prese in contropiede.

     «Pensavo fosse già stabilito», dissi io.

     «Sono un pericoloso eretico agli occhi della Chiesa. Gli abitanti di Heaven tollerano a malapena la mia presenza. È imprudente per me restare. Cassandra ha fatto da garante e mi ha permesso di rimanere qui per stabilizzare il marchio ma la situazione potrebbe degenerare in ogni momento», replicò.

      «Non puoi andartene. Nessuno ha idea di cosa mi stia succedendo, della natura di… questo», dissi guardando la mano sinistra, «Sono l’Araldo di Andraste e non permetterò che ti facciano del male».

Mi guardò compiaciuto. Troppe cose stavano succedendo, quasi non mi riconoscevo. Forse Solas aveva ragione: stavo già usando il mio potere per cambiare le cose. Stavo diventando l’Araldo e, seppure la scelta in quel caso fosse stata troppo facile e al limite dell’egoismo, mi apprestavo a prendere decisioni che avrebbero indiscutibilmente cambiato il corso degli eventi.

     «Devo andare ora, Cassandra vuole che mi faccia visitare».    

     «Posso dare uno sguardo io, se permetti». Tentennai.

     «Cassandra ha detto di passare da Adan, non so se… ».

     «E tu fai sempre tutto quello che ti dicono, non è così?», disse lui. Sembrava divertito, lo aveva detto quasi con tenerezza. Io, d’altro canto, ero estremamente offesa. Non perché avesse detto qualcosa di sbagliato, ma perché aveva ragione. Per diventare una vera eroina avrei dovuto cambiare la forma dei miei pensieri. Per il momento però avevo eletto Cassandra come mia guida e se mi avesse anche detto di *staccare tutti gli aghi di un pino con i denti per nessuna ragione*, Solas poteva scommetterci che l’avrei fatto. Gli diedi le spalle, scegliendo per la vigliacca mossa della non risposta. Mi incamminai verso l’ambulatorio di Adan, sentendo ancora gli occhi di Solas addosso. Bussai e sentii l’alchimista urlare: «E adesso che volete?».

 

 

     Entrai timidamente, pronta ad accusare io stessa un po’ della sua furia.

     «Sono Ella», dissi quasi sottovoce, ancora dubbiosa del fatto che l’uomo potesse ricordarsi di me.

     «Ah, l’Araldo! Sedetevi e spogliatevi. Sarei passato io stesso a visitarvi se non dovessi ricucire un’intera guarnigione, come se fossi un banale medico da campo, tsè!», borbottò. «Essere così vicini ad un’importante rivelazione per poi venir scambiati per un dottore qualunque». Scuoteva la testa mentre mi sfilava il bendaggio, troppo distratto dai suoi problemi per rimproverarmi per le condizioni dello stesso.

     «Dovrei applicare un nuovo impiastro, anche se la ferita non sembra essersi infettata è necessario accelerare la guarigione. Lo farei, se solo avessi altre erbe officinali a disposizione», continuò. Sembrava che ogni piccola cosa stesse portando alla totale distruzione dei suoi poveri nervi.

     «Potrei andare a raccoglierle io se mi indicate il luogo». Sembrò illuminarsi per un secondo.

     «Allora siete veramente la prescelta! Eccovi qui, pronta a salvare la giornata a noi poveri mortali. Sì, perché no, può funzionare». Procedette a rifasciarmi e mi indicò a grandi linee la direzione da intraprendere.

     «Se vi serve qualcos’altro…», aggiunsi titubante.

     «Sì, sì, ci sarebbe una cosa»

 

 

     Uscii dall’ambulatorio e vidi che Solas era ancora esattamente dove l’avevo lasciato.

     «Ero preoccupato per la tua incolumità», disse, «Temevo che Adan avrebbe trascinato anche te nella sua spirale di ingiustificato rancore».

     «Non che non ci abbia provato», risposi.

     «La ferita?».

     «Necessita di un ulteriore impiastro, sembrerebbe. Devo andare a raccogliere della radice elfica, sperando di trovarla in mezzo a tutta questa neve».

     «Penso che Cassandra si offenderebbe se non ti accompagnassi. Dopotutto, visti i recenti avvenimenti, nessuno è al sicuro. Anche se forse un mago eretico a fare da guardaspalle è un’altra cosa che Heaven non è abituata a vedere».

      «Ho la sensazione che non sarò l’Araldo ancora per molto, tanto vale esercitare il mio divin potere», sorrisi. «Andiamo a dare scandalo».

 

     Mi scortò silenziosamente in giro per la cittadina, osservando senza dare nell’occhio ogni mia reazione. Incontrammo fedelissimi in ogni angolo, impegnati a comporre silenziosi omaggi, ma anche persone più amichevoli che desideravano solo scambiare qualche parola con me. Threnn venne a spiegarmi il funzionamento degli approvvigionamenti, Seggrit il mercante mi diede l’arco migliore che aveva, in funzione della mia prima lezione di difesa personale. Ci inoltrammo poi al di fuori delle mura, dove ebbi il piacere di conoscere Harrit il fabbro che, scambiandomi (non a caso) per una serva mi chiese di andargli a prendere dei materiali. Non mi stupii più di tanto, eppure Solas sembrava essersi irrigidito.

     Tutto attorno a noi vi erano soldati intenti a esercitarsi nelle armi; vedendone così tanti combattere tra di loro, anche se per finta, percepii per la prima volta l’estensione dell’emergenza tutto attorno a noi.

     Il punto indicato da Adan era poco più lontano. Ci inerpicammo verso il limitare del bosco, sospinti dall’aria fredda. I miei stivali nuovi bucavano facilmente la neve, procedevamo spediti tra gli alberi in cerca di piccole foglie superstiti.

     A Denerim non avevo mai visto niente di simile; il manto bianco che copriva tutto, il rumore dei nostri passi, la brillantezza dei piccoli granelli di ghiaccio che volteggiavano giù dai pini. Tutto mi sembrava magico.

     «Non mi sembravi stupita prima per come Harrit si è rivolto a te», disse Solas, interrompendo il filo dei miei pensieri.

     «Avrei dovuto?», chiesi. «Sono un’elfa, sono cresciuta in un enclave, questo è il trattamento a cui sono abituata. È semplicemente così che gira il mondo».

     «E non ti distuba?». Mi presi un momento per riflettere.

     «Mia madre era una Dalish. Si innamorò di un altro elfo, il servo di un lord che era di stanza vicino al loro accampamento. Ebbe la grande idea di giacere con lui. Il risultato puoi vederlo con i tuoi occhi», gli lanciai un’occhiata. «Il punto è che quell’elfo, quando mia madre gli riferì la notizia, non volle prendersi le sue responsabilità e le spezzò il cuore, eppure questo non fu il problema maggiore. Penso sappia anche tu come funzionano i Dalish: appena il capo clan venne a conoscenza della cosa diseredò mia madre, dandole appena il tempo di partorirmi in sicurezza. Finì a crescermi nell’enclave di Denerim, tra fame e abusi. Eppure, in mezzo a tutto quel disastro, riuscì a trovare una comunità che era disposta ad aiutarci. Si fecero in quattro per trovarle un lavoro e crescermi, era come se non avessimo mai abbandonato gli aravel. Ho conosciuto l’amore nell’enclave, il valore dell’aiutarsi, sono stata cresciuta da molte famiglie con dolcezza infinita. Sono finita poi a lavorare per una famiglia rispettosa, conosco persone a cui è andata mille volta peggio. Per rispondere alla tua domanda: sì, mi disturba, ma fino a pochi giorni fa non avrei potuto fare nulla per cambiare la situazione. Mi è stato insegnato a vedere il buono nelle situazioni, altrimenti sarebbe incredibilmente facile perdere il contatto».

     Vidi Solas piegarsi e scavare per raccogliere la prima radice elfica della giornata.

     «Tu piuttosto, come sei finito qui?», gli chiesi. Accennò un sorriso sghembo mentre toglieva la neve rimasta impigliata tra le foglie.

     «Il Conclave sarebbe dovuto essere un evento significativo per tutti. In qualche modo perverso lo è stato. Ero curioso».

     «Tutto qui? Mi sembra un po’ azzardato».

     «Forse. Tra una folla simile contavo di passare inosservato, e così è stato».

     «Fino a quando non hai deciso di salvarmi la vita, esponendoti al pericolo».

     «Dovere», rispose lui, sorridendo più apertamente. Avrei voluto insistere, chiedere di più. Gli avevo raccontato in breve tutta la mia vita e lui invece sembrava restio a condividere la sua.

     «Non ti giudico, sai? Prometto che non spiffererò nulla alle alte sfere dell’inquisizione», dissi, sperando di incoraggiarlo. Seguì un momento di silenzio. Ritornò serio e, mentre continuavamo a passeggiare nella landa di neve e giacchio, iniziò il racconto.

     «Sono cresciuto in un paesino a nord. C’era veramente poco da fare, specialmente… specialmente per qualcuno dotato come me della magia. Ma mentre dormivo, gli spiriti dell’oblio mi hanno mostrato scorci di meraviglie che non avrei mai potuto immaginare. Ho fatto tesoro dei miei sogni. Stare sveglio, vivere al di fuori dei sogni, divenne… complesso»

     «E gli spiriti non ti hanno mai tentato?», mi morsi la lingua. Non avrei dovuto interromperlo, avevo paura che non avrebbe ripreso a parlare liberamente.

     «Non più di quanto un frutto fresco e colorato ti inviti ad assaggiarlo», rispose. «Ho imparato a difendermi dagli spiriti più aggressivi e a interagire in maniera sicura con tutti gli altri. Ho imparato a controllare i miei sogni restando pienamente cosciente. C’erano così tante cose che volevo esplorare… Finché non fui più in grado di trovare nuove aree dell’oblio. L’oblio riflette il mondo che esiste in quel determinato spazio, se non avessi cominciato a viaggiare non avrei potuto trovare niente di nuovo».

     Continuammo a camminare. Guardavo per terra, incredula. Non mi ero mai interrogata su cosa significasse veramente la magia, su cosa fosse l’oblio, sul potere degli spiriti. La mia conoscenza dei fenomeni che vanno a comporre il mondo era limitatissima, eppure Solas me ne parlava come se fosse la cosa più normale del mondo, più reale dei miei guanti, zuppi di neve nel tentativo di estrarre un'altra radice.

     «Questo mondo, o la sua memoria, si riflette nell’oblio. Se provi a sognare sull’orlo di una città in rovina potresti vederla in tutto il suo antico splendore. I luoghi migliori sono i campi di battaglia, il Velo lì è così sottile che si può oltrepassare anche solo con il pensiero», continuò.

     «Per esempio?»

     «Ho sognato ad Ostagar. Assistere alla brutalità della prole oscura, vedere i custodi grigi venir travolti… Ho visto Re Alistair e l’Eroina del Ferelden accendere il fuoco di segnalazione, l’infausto tradimento dell’armata di Cailan».

     «Ma è incredibile!», esclamai, «Allora hai visto cos’è successo veramente».

     «Non proprio. Nell’oblio vedo spiriti che hanno reagito alle emozioni dei soldati. Un momento prima vedo degli eroi accendere il fuoco mentre Loghain tradisce il suo amato re, il momento dopo vedo un esercito sopraffatto e un veterano che decide di salvare i pochi soldati rimasti rifiutando di combattere».

     «E non riesci a determinare cosa sia reale?»

     «È l’oblio», rispose con un sorriso, «Tutto è reale».

 

 

     Trovammo le radici elfiche mancanti e ci imbattemmo nella casa di Taigen, il maestro di Adan, sventuratamente perito nel Conclave. Completai la missione segreta assegnatami dall’alchimista ritrovando i suoi appunti misteriosi, relativi a un intruglio ancora più misterioso.

     «Solas», dissi allora, «Tutto quello che mi hai detto è incredibile». Mi guardò nello stesso modo di sempre, radiografando ogni dettaglio visibile e invisibile. Tra vento e neve i suoi occhi erano braci in pieno inverno. Si convinse della mia sincerità.

     «Non ti spaventa?», chiese.

     «Dovrebbe?», risposi io. Sorrise.

     «No».

     «Vuoi sapere cosa mi spaventa davvero?»

     «Cosa?»

     «La faccia del Comandante Cullen quando scoprirà che non ho nessuna speranza nel tiro con l’arco».  

 

 

 

 

 

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