Nightmare Island

di Marco1989
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Salve a tutti. In questi giorni ho ritrovato in una scatola il "romanzo", come lo definivo con un certo orgoglio al tempo, che scrissi quando frequentavo le medie, e che era ispirato (o per meglio dire, in molti punti scopiazzato) da Jurassic Park, abbondantemente il mio film preferito sia allora che adesso. Non conoscevo neanche il concetto di fanfiction a quell'età, quindi lo considerai semplicemente poco più di un esercizio e lo lasciai in un cassetto, sia figuratamente che fisicamente.

Ora, quasi vent'anni dopo, quando sono sul punto di pubblicare il mio secondo romanzo, ho ritrovato la mia prima "fatica", ed ho deciso di pubblicarlo in questo settore, anche se come vedrete il legame con Jurassic Park è un po' particolare. Ho deciso anche di modificarlo il meno possibile, in modo che mantenga le caratteristiche e le emozioni di un tredicenne che sognava i dinosauri.

Un'ultima cosa: sempre per evitare di fare troppe modifiche, ho deciso di non aggiornarlo alle tecnologie di oggi, quindi fate finta di leggere questa fiction all'inizio degli anni 2000.

Detto questo, buona lettura!

 

PROLOGO

 

Nonostante fosse pieno giorno, la giungla era praticamente avvolta dall'oscurità: gli alberi grandi ed intricati facevano passare a stento un filo di luce.

A prima vista sembrava simile ad una qualsiasi foresta tropicale dell'America centrale o meridionale, on il suo clima caldo e umido e le piante gigantesche circondate da liane enormi. Ad un osservatore più attento, però, non sarebbero sfuggiti dei particolari che la rendevano insolita: oltre a gigantesche felci alte come piccoli alberi, il sottobosco era ricco di una vegetazione molto insolita. Si andava da arbusti simili ad asparagi alti quanto e più di un uomo e, in alcuni casi, anche cinque o sei metri, a insolite palme dall'aspetto tozzo, fino, sorprendentemente, a grandi conifere lontanamente simili a pini. Un esperto botanico avrebbe riconosciuto equiseti, cicadacee ed araucarie, alcune tra le piante più antiche esistenti al mondo, risalenti addirittura all'era mesozoica.

Pochissimi sembravano essere i rumori di origine animale, se si escludevano cinguettii e pigolii di uccelli, provenienti sia dalle cime degli alberi che dai cespugli. In sostanza, non si muoveva una foglia.

Una mano rugosa e abbronzata spostò un cespuglio di felci, ed un uomo lo attraversò, inoltrandosi ulteriormente nella giungla. Alle sue spalle ne comparvero altri due.

Il primo era il classico tipo dell'avventuriero: barba pressoché incolta, braccia muscolose, vestiti di colore mimetico piuttosto stinti ed una pesante carabina da caccia grossa stretta in mano. Gli altri due, vestiti con camicie azzurre e con in testa dei berretti da operai, imbracciavano dei semiautomatici americani M1 Garand ed apparivano assai meno robusti di quello che sembrava il loro capo.

Il primo uomo che era uscito dai cespugli aveva uno sguardo duro e attento, e guardava nervosamente in tutte le direzioni, come se si aspettasse di essere assalito da un momento all'altro: aveva già il dito sul grilletto, e sembrava pronto a sparare al primo segno di pericolo.

Dopo una cinquantina di passi, una volta che l'uomo con l'aria da duro ebbe scostato un groviglio di equiseti, i tre si trovarono di fronte una recinzione d'acciaio alta quasi dodici metri, che somigliava a quelle impiegate negli zoo per i grandi animali. La rete era sfondata: i cavi d'acciaio parevano tranciati, troncati di netto, quasi fossero stati spezzati a morsi.

Il capo del gruppetto si chinò per attraversare lo squarcio, entrò nel recinto e si inginocchiò per controllare il terreno, che era costellato da impronte fresche a tre dita, molto simili a quelle di un enorme uccello. L'uomo si rialzò, si dette un'occhiata intorno cercando di avvertire qualsiasi rumore, poi infilò una mano in tasca, estrasse una ricetrasmittente portatile, l'accese e la portò all'orecchio: «Centro di Controllo, rispondete. Qui è Chester. Passo» disse.

«Qui Centro di Controllo. Ti sentiamo forte e chiaro, passo».

«Anche il recinto Dieci è sfondato, e gli animali sembrano essere tutti usciti. Passo».

«Lo sappiamo. Abbiamo riattivato la centrale elettrica, quindi radar e computer funzionano di nuovo, e possiamo monitorare l'intera rete. Praticamente tutti i recinti risultano sfondati in più punti, e non riusciamo ad elettrificare i tratti ancora integri; devono essere stati tranciati i collegamenti. Passo».

«Il recinto Tredici è ancora intero? Passo» chiese con una punta di preoccupazione-

«Anche il Tredici è danneggiato. Passo».

L'uomo imprecò a bassa voce: «Dannazione! Che faccio a questo punto?».

«Torna indietro e riporta i tuoi al Centro di Controllo, ce ne andiamo. Se non ci siete entro mezz'ora, vi lasciamo qui. Passo».

«Ricevuto. Chiudo» e spense la radio. Si avvicinò ai compagni e sussurrò, attento a non fare rumore: «Dobbiamo rientrare immediatamente. La situazione è fuori controllo: il recinto Tredici è sfondato, così come molti altri - cercò di ignorare il terrore dei due - Dobbiamo sbrigarci prima che si accorgano della nostra presenza: è attiguo al Dieci, non devono essere molto lontani».

Il gruppetto si mise in marcia nella direzione opposta con ancora maggiore cautela. Chester era teso come una corda di violino: gli pareva di sentire le foglie frusciare continuamente intorno a loro, e malediceva il momento in cui aveva accettato quel lavoro.

"Dovrà fare semplicemente il guardiano di uno zoo" gli avevano detto, senza però specificare di che tipo di zoo si sarebbe trattato; quando lo scoprì, desiderò di averlo chiesto prima.

All'improvviso gli si drizzarono le orecchie: stavolta era sicuro che qualcosa si fosse mosso a brevissima distanza da loro. Stava per dire agli altri di affrettare il passo, quando udì una specie di sordo e cupo brontolio levarsi dalle felci a meno di un metro dalla sua gamba destra. In un istante comprese: «Correte!» urlò.

I tre uomini scattarono senza voltarsi indietro, ma avevano fatto solo pochi metri quando Chester udì un grido disperato. Si voltò e vide il compagno in coda al gruppetto venire trascinato in mezzo alle felci da qualcosa che si manteneva nascosto in un cespuglio: le grida si trasformarono presto in un rantolo strozzato.

«Muoviti!» urlò all'altro, riprendendo subito la fuga.

Il suo compagno riprese a correre, ma dopo pochi metri sentì dei passi pesanti alle sue spalle, seguiti da uno stridio da uccello rapace: si fermò, si voltò di scatto e, gettato un grido disperato, si tolse il fucile dalla spalla ed iniziò a sparare.

Chester sentì per tre volte lo schiocco secco del Garand, ma non si fermò a controllare: continuò la fuga, sperando che almeno il sacrificio degli altri due potesse salvare la sua vita. Credeva ormai di essere riuscito a seminare i suoi inseguitori quando, scostata una grossa felce, si trovò di fronte, ad una trentina di metri di distanza, uno degli abitanti del recinto Tredici, che lo guardava con occhi crudeli e iniettati di sangue. Chester, deciso a vendere cara la pelle, portò il calcio del fucile alla spalla e inquadrò la testa del suo avversario nel mirino ad infrarossi montato sulla canna dell'arma. Stava per premere il grilletto quando udì un ringhio rabbioso provenire dalla sua sinistra. Voltò la testa di scatto, e si trovò di fronte un muso allungato pieno di denti aguzzi, e due occhi da rettile che lanciavano lampi.

«Bastardi!» urlò con tutta la rabbia che aveva in corpo, girando il fucile e premendo il grilletto senza neanche prendere la mira.

Risuonò uno sparo. Fu l'ultimo gesto della sua vita: l'animale balzò in avanti, lo gettò a terra e gli sfondò lo stomaco con un colpo d una delle zampe posteriore. Un attimo dopo fu raggiunto dall'altro, ed entrambi iniziarono a mangiare.

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno ***


CAPITOLO UNO

 

L'oceano Atlantico muggiva con potenza devastante: onde alte fino a dieci metri si abbattevano con la forza di un terremoto sulle coste orientali dell'America Centrale e sulle isole del Mar dei Caraibi. La notte era nera come l'inchiostro, ed il cielo era talmente coperto da nubi color del ferro da impedire completamente la vista delle stelle. I mostruosi cavalloni erano sormontati da una cresta di spuma bianca, la sola nota di colore nell'oscurità. La pioggia era talmente fitta da creare una sorta di muro d'acqua, al punto che era difficile comprendere dove terminava il mare. L'aria era attraversata da un vento fortissimo. L'uragano Forza 4 si era scatenato con grande velocità, ed i marosi aggredivano le scogliere del Belize, del Guatemala e dell'Honduras con tale violenza da sembrare decise a raggiungere l'altro oceano.

Nel mezzo dello scenario apocalittico, che mostrava la Natura nel pieno della sua violenza, si poteva a stento distinguere un piccolo oggetto verde, che sembrava apparire e scomparire in mezzo alle onde: sballottata da tutte le parti, impossibilitata a mantenere una rotta, una minuscola nave lottava contro gli elementi infuriati. Era un piccolo cabinato da diporto dall'aspetto un po' antiquato, lungo undici metri e largo quattro, con il ponte e le sovrastrutture in legno e lo scafo in legno ricoperto da uno strato di vetroresina. Entrambi erano dipinti con una vernice verde brillante: più chiare le sovrastrutture, tendente al color smeraldo lo scafo ed il ponte. Il motore, normalmente in grado di raggiungere i quattordici nodi, in quel momento stava compiendo degli sforzi supremi per contrastare la furia del mare. Sulla fiancata di destra, in lettere nere, era possibile leggere il nome "Green Star".

Lo yacht procedeva lentamente, ostacolato dalle ondate che spesso lo coprivano quasi del tutto. Tentava, chiaramente, di raggiungere la costa più vicina, quella del Belize, per cercare una rada dove ripararsi dalla tempesta. La "Green Star" sembrava un semplice guscio di noce in mezzo all'uragano, e sarebbe probabilmente già stata rovesciata da tempo se al timone non ci fosse stato un uomo che di tempeste ne aveva viste tante: lo dicevano chiaramente il volto rugoso e bruciato dal sole, i capelli sale-e-pepe, gli occhi decisi. Avrebbe potuto avere quarant'ani come cinquanta. Vestito con una camicia azzurra e un paio di calzoni neri, il tutto sovrastato da un impermeabile in tela cerata, l'uomo aveva i muscoli tesi come cavi d'acciaio, e si stava spezzando le braccia nel tentativo di mantenere dritta la barra. Era però consapevole di non poter continuare a lungo: aveva lottato contro numerosi fortunali, e sapeva che si trattava soltanto di tempo. Le onde avrebbero rovesciato la barca ben prima che potesse raggiungere la costa.

La porta della timoneria si aprì, permettendo ad uno scroscio d'acqua di rovesciarsi al suo interno, ed entrarono due persone inzuppate: una era alta, più vicina ai cinquanta che ai quaranta, con la barba marroncina tagliata corta ed i capelli castani che, in precedenza, dovevano essere stati ben pettinati, ma che ormai erano talmente inzuppati d'acqua da somigliare al dorso di un porcospino. L'altro era un ragazzo sui quattordici anni, alto e magro come un chiodo, con i capelli biondi appiccicati alla testa e l'aria spaventata.

L'uomo, che indossava una tenuta da marinaio totalmente bagnata, si rivolse al timoniere: «Che ne pensi, John? Possiamo riuscire ad arrivare interi ad un porto qualunque?».

L'uomo chiamato John scosse la testa: «Non credo proprio, signor Roberts. Non riuscirò a tenere a galla la barca per molto con un mare come questo».

«Devi riuscirci, maledizione! Oltre alle nostre vite c'è in gioco anche quella di mio figlio» urlò Roberts, stringendo a se il ragazzo.

«Morte e dannazione! Io le avevo detto che il cielo prometteva male, e che secondo me sarebbe scoppiato un uragano, ma lei mi ha ascoltato? Come ha detto? "La barca è mia e decido io cosa fare, ed oggi ho deciso di fare una partita di pesca in alto mare con il mio ragazzo!". Non dia la colpa a me, quindi!».

La sfuriata del marinaio ebbe l'effetto di calmare Roberts: «Credi che ci sia qualche speranza di salvare la barca a questo punto?».

John scosse la testa: «Siamo troppo lontani dalla costa, e raggiungerla è un'impresa impossibile. Non sono neanche del tutto sicuro di dove siamo, visto che dieci ore di tempesta ci hanno sballottato in tutte le direzioni: davanti a noi dovrebbe esserci il Belize, quindi i porti più vicini dovrebbero essere Belize City e Dangriga, ma sono comunque a più di cinquanta miglia, oltretutto al di là di una barriera corallina. Non riusciremo mai ad arrivarci in queste condizioni: ammesso di non rovesciarci, ci spezzeremmo in due sui coralli».

«Non ci sono porti più vicini?».

«Solo delle isolette, ma non saprei neanche come trovarle in questo caos. Maledizione!Non so veramente come uscire da questo disastro! Ho superato molte tempeste negli anni, ma ero sempre al timone di navi più grosse. Questo guscio di noce è un bel battello da diporto, ma con un mare simile non c'è molto da fare».

«Trova una soluzione, accidenti! - tornò ad urlare Roberts, cercando di sovrastare il boato dell'uragano - Sei o no il migliore comandante di yacht di Biloxi? Ti ho assunto con uno stipendio astronomico, e ora è il momento di guadagnartelo: trova il modo di sarlarci la pelle!».

John non rispose: era troppo impegnato a fissare il mare in tempesta al di là della prua della barca, distinguendolo a mala pena a causa degli scrosci di pioggia: poteva essere solo una nuvola bassa, non era facile distinguere qualcosa nel caos, ma…

«Sembra che la soluzione abbia trovato noi - disse alla fine - Isola dritta di prora!».

Mister Roberts ed il figlio si precipitarono a fianco del capitano e guardarono verso l'orizzonte nero pece: qualcosa di confuso sembrava, effettivamente, sorgere dal mare a non più di tre miglia dalla barca.

«Sei sicuro che sia un'isola? A me non sembra…» chiese il ragazzo.

«A me si» fu il solo commento di John.

Roberts estrasse da un gavone una cartina plastificata e la controllò, poi disse: «Se davvero siamo a più di cinquanta miglia dalla costa, qui non ci sono isole. Deve essere una nuvola».

«Improbabile, a meno che sulle nubi cresca la foresta pluviale».

Il signor Roberts afferrò un binocolo e guardò meglio: effettivamente, con quella forma a tronco di cono, con una collina più bassa accanto al rilievo principale e con quelle scogliere di lava nera che piombavano quasi in verticale verso l'oceano, sembrava uno dei vulcani spenti che emergono dalle acque del Golfo del Messico. I fianchi dell'isola erano coperti da una folta vegetazione.

«Hai ragione, è un'isola» disse Roberts, passando gli occhi sulla mappa in cerca di un puntino rivelatore; infine trovò qualcosa: «Eccola qui: Isla de Rocas Negras, la più esterna e lontana dalla costa del Belize. Deve certamente essere disabitata. Come facciamo ad attraccare?».

«Attraccare mi sembra impossibile, ma forse possiamo trovare una spiaggia dove far arenare la nave. Meglio questo che affondare in alto mare!».

John non attese neanche la replica di Roberts: stringendo rabbiosamente il timone, puntò verso l'isola. Bastarono pochi minuti per capire che, a quella velocità, non sarebbe mai riuscito ad arrivarci, quindi spinse fino in fondo la leva che regolava i giri del motore. La barca iniziò a vibrare con estrema violenza, sottoposta ad uno sforzo terribile, ma in qualche modo la prua riuscì a fendere le ondate.

I marosi si infrangevano contro le nere scogliere dell'isola mentre il "Green Star" procedeva lentamente, sballottato da tutte le parti. Ci volle quasi mezzora, ma alla fine John riuscì a portare il battello sotto la parete di roccia, cercando di ignorare la sempre più insistente vibrazione che si trasmetteva dal motore sotto sforzo fino alla timoneria. In quel punto, però, lo sbarco era impossibile: le scogliere erano alte quasi trenta metri e a picco sul mare. Il capitano decise di costeggiare l'isola, anche se questo voleva dire offrire il fianco alle onde, finché non avesse trovato un tratto di spiaggia bassa dove far arenare la "Green Star".

Intanto, però, la sua mente era rivolta all'isola: non l'aveva mai vista, era appena un segno sulla carta, ma sembrava un luogo selvaggio. Era impossibile sapere cosa avrebbero potuto trovare.

«Ci sono armi a bordo?» chiese a Roberts.

«No, non credo - rispose l'uomo - Credo che ciò che su questa nave somiglia di più ad un'arma è un fucile ad arpioni per la pesca subacquea… anzi, no: c'è la mia Smith & Wesson calibro 38. L'avevo portata a bordo con tutta la scatola per pulirla e ho dimenticato di lasciarla a terra. perché questa domanda?

Per tutta risposta John chiese: «Dov'è?».

«Ma a cosa le serve?».

«Senta, su molte di queste isole ci sono belve feroci. Isla de Rocas Negras è piuttosto lontana dalla costa, quindi è possibile che i grossi animali non ci siano arrivati, ma ora che poss riuscire a sfuggire a questa tempesta non intendo rischiare di terminare la mia carriera tra i succhi gastrici di un giaguaro o di un puma. Dove si trova la pistola?».

Mister Roberts deglutì, lanciò un'occhiata allo spaventatissimo figlio, poi disse: «Non sarebbe meglio evitare lo sbarco?».

«Il motore è al limite. Se non facciamo arenare la barca qui andremo presto a fondo. Non c'è tempo per discutere: dove si trova quella maledetta pistola?».

Roberts rimase silenzioso per qualche istante, poi disse: «Nel cassetto di sinistra dello scrittoio, nella mia cabina, dentro ad una scatola di legno. Ci sono anche le cartucce».

«Bene - ribatté John, e si fece da parte per lasciare il posto a Roberts - Mi ha detto di saper tenere il timone, quindi mi ascolti bene: guidi questo catorcio intorno all'isola, mantenendosi a distanza dalla costa per evitare gli scogli, e mandi il ragazzo a chiamarmi se individua un tratto dove sia possibile arenarsi senza spaccare la chiglia in due» ed uscì dalla timoneria.

Fuori lo spettacolo era incredibile: il ponte era invaso dall'acqua, e numerose tavole dei parapetti si erano già spezzate. Lo scafo e la carena scricchiolavano in maniera preoccupante, ed il rumore del motore si era trasformato in un ululato.

"E' solo questione di tempo - pensò John - poi il Green Star si spezzerà in due".

Il capitano scese sottocoperta ed entrò nella cabina del signor Roberts, una stanza relativamente piccola che conteneva un letto singolo, un piccolo armadio di metallo, uno scrittoio ed una sedia, il tutto solidamente imbullonato al pavimento. John, cercando di mantenere l'equilibrio sul pavimento inclinato, aprì il cassetto sinistro dello scrittoio ed estrasse una scatola rettangolare di legno. La aprì, trovando un corto revolver con il calcio in legno; inseriti i appositi spazi ricavati nella gommapiuma, c'erano quindici proiettili. Il capitano infilò l'arma nella cintura, si svuotò i proiettili in una tasca dell'impermeabile che poi chiuse con la cerniera, infine gettò via la scatola ed uscì.

Prima di tornare in coperta si precipitò nella propria cabina, che era più piccola di quella di Roberts, e strappò via il materasso dalla cuccetta. Sotto c'era un fagotto avvolto in un panno bianco, dal quale estrasse un cinturone nero munito di fondina ed una piccola scatola di cartone. Mentre risaliva la scala si allacciò alla vita il cinturone ed infilò la scatola nella stessa tasca dove aveva rovesciato i proiettili, poi uscì sul ponte. La tempesta, se possibile, era aumentata ulteriormente di intensità, e la nave continuava a scricchiolare in modo sempre più terrificante. John aveva la sensazione che il ponte fosse crepato, ma non poteva controllare a causa dei torrenti d'acqua che lo attraversavano. Non aveva il tempo di accertarsene e, per giunta, non voleva saperlo.

Prima di tornare da Roberts il capitano barcollò fino ad una delle pareti della timoneria, imbullonato alla quale c'era una rastrelliera d'acciaio contenente quattro fucili per la pesca subacquea ed una sorta di faretra con diversi arpioni, che per fortuna non erano ancora andati dispersi. Le armi erano bloccate con un lucchetto, ma non c'era tempo di cercare la chiave: John lo fece saltare con un calcio, poi afferrò un fucile e tre arpioni.

Aveva già la mano sulla maniglia della porta quando si avvertì un urto terribile: mentre il rumore di legno scheggiato riempiva l'aria, la barca ondeggiò paurosamente, poi rimase immobile, scossa soltanto dalle onde.

Dall'interno della timoneria sentì Roberts urlare al figlio: «Va a chiamare John, presto!».

«Sono già qui - disse il capitano piombando dentro - Che diavolo è successo?».

«Siamo finiti su uno scoglio! Non riesco più a muovere la barca!».

«Lasci fare a me!» gridò John, mettendosi al timone e portando la leva che regolava i giri dell'elica su "INDIETRO MEZZA". Tra il rumoreggiare delle onde si udì lo sforzo disperato del motore, che non si rivelò però sufficiente per smuovere la "Green Star" dalla trappola dove era finita. Il capitano, pur sapendo che il propulsore era con ogni probabilità già al limite, portò la leva ancora su "INDIETRO TUTTA". Con ogni probabilità, ne era consapevole, l'urto aveva sfondato lo scafo, ma sperava di poter portare la barca ad arenarsi prima che affondasse: tra gli scrosci di pioggia si intravedeva, a neanche mezzo miglio, una striscia bianca che poteva essere soltanto una costa sabbiosa.

Per un istante la barca indietreggiò, quasi riuscendo a disincagliarsi, poi si udì uno scoppio sottocoperta, ed il motore si ammutolì.

Roberts ed il capitano si guardarono in faccia, ed ognuno lesse il terrore negli occhi dell'altro: non era necessario parlare per capire che il motore aveva esalato l'ultimo respiro.

Passarono pochi secondi, poi si udì un urto violento sul fianco destro, seguito a stretto giro da uno ancora più terribile su quello sinistro, che sfasciò parzialmente la parete della timoneria: un'onda più potente delle altre aveva strappato la barca dallo scoglio, mandandolo a sbattere contro la rupe.

Il rumore di legno spezzato invase l'aria, facendo gelare il sangue a John: affacciandosi ad un oblò mentre tutto vorticava intorno a loro, vide l'intero quarto di poppa del "Green Star", troncata di netto, sbriciolarsi contro la pietra. Il legname e la vetroresina avevano ceduto, condannando i tre occupanti della barca ad una morte pressoché certa.

La prua del battello venne ripetutamente scagliata contro la scogliera, completamente in baia delle onde, rischiava di sbriciolarsi da un momento all'altro, e loro non potevano fare assolutamente nulla.

All'improvviso si sentirono sollevare: Roberts ed il ragazzo caddero a terra, ma John riuscì a tenersi in piedi reggendosi al timone. Guardò fuori dal vetro scheggiato: la prua della "Green Star" era in equilibrio su un'onda mostruosa, e stava per essere sbattuta sulla costa.

«Reggetevi! - urlò John agli altri due - Sarà uno scontro durissimo!» e si gettò a terra, cercando di aggrapparsi alla base del timone come meglio poteva.

L'onda, alta più di dieci metri, sbatté la prua del battello sulla battigia della spiaggia sabbiosa. L'urto fu terribile: lo scafo si sbriciolò, ed i tre uomini furono sbalzati fuori. John fece un volo di cinque metri e, una volta caduto sulla sabbia, rotolò per altri tre, per poi sbattere la testa contro quello che sembrava un albero. Per un istante rimase cosciente, poi perse i sensi.

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Capitolo 3
*** Capitolo Due ***


CAPITOLO DUE

 

«John! John, svegliati!».

Il capitano aprì faticosamente gli occhi, la testa che gli pulsava dolorosamente, e si trovò di fronte i suoi due compagni di sventura, un po' malandati, ma vivi.

«Come ti senti?» gli chiese Roberts, chino su di lui. John notò che la sua costosa tenuta da marinaio era strappata e strazzonata, e che perdeva sangue da un taglio sulla fronte e da una sgraffiatura al gomito sinistro. Il ragazzo sembrava spaventato e zuppo, ma per il resto appariva incolume. Sullo sfondo, appena oltre la linea della costa dove le onde continuavano ad infrangersi con violenza, vide i resti della timoneria e parte dello scafo della barca schiantati sulla sabbia.

«Come se mi avessero colpito sul cranio con una mazza» rispose John mentre cercava cautamente di alzarsi: la testa gli faceva un male terribile, ma fortunatamente non sembrava avere nulla di rotto. Ebbe solo una leggera vertigine, ma riuscì a tenersi in piedi.

«Che cosa facciamo ora? - chiese Roberts, una punta di panico nella voce - La "Green Star" è a pezzi, e il gommone di salvataggio è sparito in mare! Non abbiamo modo di lasciare l'isola!».

«La ricetrasmittente?» chiese il capitano a voce alta, cercando di sovrastare il rumore delle onde e dei tuoni.

«Ridotta in briciole».

John soffocò un'imprecazione, poi guardò il suo orologio, che fortunatamente ancora funzionava: le due meno un quarto. Non avrebbe fatto giorno ancora per diverse ore. Avrebbe evitato volentieri di inoltrarsi nella giungla al buio, ma non potevano restare sulla spiaggia per tutta la notte: non sapeva se la tempesta avesse raggiunto il suo massimo, ma se così non fosse stato, un'onda più grossa delle altre avrebbe potuto trascinarli in mare.: «Dobbiamo cercare di inoltrarci nella foresta. Credo che l'isola sia disabitata, ma potrei sbagliarmi, magari c'è un villaggio».

«Non possiamo attendere l'alba?» mormorò Roberts osservando gli alberi fitti con sguardo spaventato.

«Se arriva un'onda più alta, finiremo per essere travolti e per annegare prima ancora di rendercene conto» rispose perentorio John mentre si avvicinava ai resti della barca. L'urto aveva strappato la rastrelliera e trascinato in mare tutto il contenuto, ma all'interno di ciò che restava della cabina il capitano trovò il fucile che aveva preso in precedenza, insieme a due degli arpioni. Li raccolse e, tornato dagli altri, li consegnò al ragazzo: «Usalo per difenderti se serve» gli disse, e gli piazzò il tutto in mano. Fatto ciò, ricordandosi della pistola di Roberts, portò la mano alla cintura: miracolosamente, l'arma era ancora lì, ma quando infilò una mano nella tasca di ciò che rimaneva della cerata si rese conto che c'era uno strappo. I proiettili erano scomparsi. Il capitano non provò neanche a trovarli: al buio e su una spiaggia, sotto la pioggia che cadeva a cascata, sarebbe stato impossibile. Si limitò a consegnare la Smith & Wesson al proprietario della barca.

«Un fucile ad arpioni ed una pistola con appena cinque colpi - sbuffò Roberts - Dobbiamo solo sperare di non aver bisogno di difenderci».

«Due pistole» disse John mentre si raddrizzava il cinturone, poi estrasse dalla fondina un vecchio revolver Ruger calibro 44.

«Non mi avevi detto di avere una pistola» sottolineò Roberts con una punta di rimprovero.

«Lei non me lo ha chiesto» fu la secca replica del capitano mentre riponeva l'arma, per poi avviarsi verso gli alberi, seguito, dopo una breve esitazione, dagli altri due.

La marcia nella foresta proseguì faticosamente per oltre un'ora, sotto i grandi tronchi e attraverso un fitto sottobosco di felci. La pioggia arrivava attutita sotto le fronde, ma l'umidità gocciolava copiosamente dall'alto, impedendo ai tre uomini zuppi anche soltanto di provare ad asciugarsi. Non sapevano dove stavano andando: John sperava soltanto di starsi effettivamente dirigendo verso il vulcano. In realtà non credeva minimamente che l'isola potesse essere abitata, ma non appena avesse smesso di piovere dall'alto avrebbero potuto fare segnali a navi o aerei. Roberts era un pezzo grosso, appena il tempo lo avesse consentito sarebbe stata fatta partire un'operazione su vasta scala per trovarlo.

Nonostante la situazione poco rosea, John non poteva fare a meno di guardarsi intorno durante la salita, è ciò che vide suscitò la sua curiosità. Aveva visto diverse giungle in vita sua, ma nessuna che somigliasse a quella. La vegetazione, oltre alle classiche piante tropicali, comprendeva un sorprendente numero di quelle che sembravano grosse conifere, benché appartenessero a specie che non aveva mai visto neanche sul continente, le quali apparivano totalmente fuori posto su un'isola dei Caraibi. La seconda cosa che lo colpiva era l'assenza di animali: se all'inizio aveva temuto di finire nella trappola di un giaguaro, aveva poi dovuto arrendersi all'evidenza che sull'isola non sembrava esserci alcun tipo di mammifero, neanche un topo. Aveva sentito soltanto le grida di un grosso numero di uccelli, molti dei quali gli erano completamente sconosciuti. Continuava a lanciare occhiate ai suoi compagni, temendo che non ce la facessero a tenere il passo. Roberts, in effetti, sembrava sul punto di cedere: era il più vecchio, in fondo, ed era un industriale, decisamente più abituato a stare alla scrivania che a muoversi per i boschi. Anche il ragazzo sembrava essere decisamente stanco: in qualche punto il terreno era troppo scosceso per le sue gambe non abbastanza allenate, al punto che doveva aiutarsi con le mani per continuare a salire.

Si era fermato per riprendere fiato, quando vide qualcosa che attrasse la sua attenzione: una specie di grossa lucertola verde sbucò da un cespuglio di felci e, correndo sulle zampe di dietro, tornò ad infilarsi nel sottobosco on la velocità di un missile.

Il ragazzo impiegò qualche secondo per rendersi conto di quello che aveva visto: quando mai si era sentito di una lucertola capace di correre sulle zampe posteriori? Da quanto si ricordava di avere imparato a scuola, non ne erano capaci, di certo non ad una simile velocità.

Un attimo dopo udì una sorta di pigolio, simile a quello di un uccellino da nido, ed il lucertolone saltò su un tronco vicino al viso del ragazzo ed iniziò ad osservarlo, la testa inclinata di lato: più che spaventato, sembrava sinceramente incuriosito.

«Papà! John! Veite qui!».

I due accorsero subito: prima John, che era più agile, poi Roberts, che aveva afferrato la pistola. Capirono però subito che non c'era alcun pericolo imminente: l'animale sembrava essere troppo piccolo per rappresentare una minaccia. I due adulti si abbassarono per osservarlo: era alto una trentina di centimetri, ed il suo corpo, coperto di scaglie, era verde, venato da strisce brune lungo il dorso. Le zampe anteriori terminavano in tre lunghe dita artigliate, così come quelle posteriori, che erano lunghe ed estremamente simili a quelle di un uccello corridore. La testolina, munita di due occhi neri e penetranti, non era però certamente quella di un uccello: le sue fauci erano infatti armate di piccoli denti, all'apparenza molto aguzzi. L'animale non era più grande di un pollo, e pigolava eccitato: sembrava estremamente interessato  agli strani esseri che lo circondavano, che sembrava non aver mai visto prima. All'improvviso parve irrigidirsi: sollevò la testa, girandola da una parte all'altra, infine, dopo aver emesso un ultimo pigolio, apparentemente molto simile ad un grido di terrore, il lucertolone scappò via, sparendo nella vegetazione.

Prima ancora che i tre potessero chiedersi che cosa avesse spaventato la creatura, udirono alle proprie spalle un rumore di rami spezzati e foglie calpestate, poi un basso e sordo ringhio che fece gelare loro il sangue nelle vene. Per un attimo l'immagine di un giaguaro attraversò la mente di John, ma comprese quasi subito che non poteva trattarsi del verso di un felino.

Accadde tutto in un lampo: Roberts proruppe in un urlo che nulla aveva di umano, al quale seguì il tonfo ovattato della pistola dell'uomo che cadeva sul suolo coperto da vegetazione marcescente, infine il rumore di un corpo trascinato di forza.

John e il ragazzo si voltarono appena in tempo per vedere i piedi dell'uomo scomparire in un cespuglio, mentre un'ombra scura, alta poco meno di due metri, lo sovrastava. John ebbe modo di vedere l'essere saltare sullo stomaco di Roberts mentre lui si dimenava disperatamente. Il proprietario della barca lanciò un altro urlo. L'animale sollevò una delle zampe posteriori. Nonostante il buio, John ed il ragazzo videro chiaramente che il piede della creatura, oltre a due dita artigliate, ne presentava un terzo dalle proporzioni mostruose: era dotato di un artiglio a forma di falcetto ricurvo lungo almeno dieci centimetri. Con uno scatto improvviso, l'animale lo piantò nel ventre di Roberts e lo sbudellò come un pesce. Le viscere dell'uomo fuoriuscirono dalla terribile ferita e si sparsero al suolo insieme ad un'ondata di sangue scuro.

«Nooooo!» urlò il ragazzo sfilandosi il fucile ad arpioni dalla spalla, e fece per precipitarsi verso l'animale, che aveva già iniziato a divorare il corpo ancora scosso da rantoli del padre. Gli occhi di Roberts, ormai ciechi, fissavano il vuoto.

John lo afferrò per un braccio, trattenendolo a forza: «E' troppo tardi! - urlò - Via, presto! Corri, ragazzo! Corri!!!».

Il giovane esitò per un istante, poi prese a correre, gli occhi oscurati dalle lacrime e senza una meta precisa. John raccolse da terra la pistola caduta a Roberts, poi lo seguì più velocemente possibile.

Il ringhio riprese, minaccioso quanto prima. John non lo vide, ma una seconda creatura era uscita dalle felci, si era fermata un secondo di fronte al corpo dilaniato di Roberts, poi, vedendo altre due possibili prede in fuga, si era gettata all'inseguimento.

John, nonostante la stanchezza, correva con tutta la forza che gli restava nelle gambe, risalendo la montagna alla massima velocità possibile. Aveva perso di vista il ragazzo, ma era il minore dei suoi problemi: sapeva benissimo di essere inseguito, anche se non sapeva da che cosa. Sentiva la belva calpestare pesantemente le foglie, avvertiva il suo respiro e, ogni tanto, il ringhio rabbioso di chi vede fuggire la preda che credeva di catturare più facilmente.

Aveva già percorso quasi settecento metri quando il verso si trasformò in un vero e proprio ruggito, che in apparenza proveniva da appena dietro di lui, poi un corpo pesante gli piombò sulla schiena, scaraventandolo a terra di faccia con estrema violenza. John tentò di rimettersi in piedi, ma il peso della bestia, che si era piazzata sopra di lui, lo schiacciò al suolo. Ne avvertiva la grande forza, nonostante le dimensioni relativamente ridotte, e credeva di sentire il battito del suo cuore, ma forse era solo il brontolio dello stomaco di un essere affamato.

Lo avvertì spostare una zampa, poi sentì un ringhio più forte degli altri, seguito da un lancinante dolore alla schiena e da un inquietante rumore di ossa spezzate. Nonostante fosse in preda ad una sofferenza quasi inimmaginabile, John comprese che doveva avergli piantato l'artiglio a falce nella schiena, sfondando una delle scapole come se fosse stata di carta anziché di solido osso. John sentì di stare perdendo i sensi, ed arrivò a pensare che sarebbe stata una fortuna: aveva la testa voltata di lato, e nonostante il suo sguardo si stesse rapidamente velando, vide il terreno coprirsi di rosso. Comprese che era il suo sangue.

Prima di svenire sentì il sibilo dell'animale che si preparava ad iniziare il suo pasto, poi qualcosa di simile ad un fischio, infine il suo mondo diventò buio.

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Capitolo 4
*** Capitolo Tre ***


CAPITOLO TRE

 

La savana della Tanzania sembrava estendersi ininterrottamente fino all'orizzonte: una immensa distesa d'erba punteggiata qua e là da qualche pozza d'acqua e da alcuni stagni poco profondi che lentamente si asciugavano nella calura estiva e da qualche grossa roccia circondata da bassi cespugli. In alcune aree la prateria cedeva il posto a boschetti di acacie spinose, con qualche gigantesco baobab a rompere la monotonia.

Se la vita vegetale appariva abbastanza rinsecchita, quella animale era lussureggiante: vicino ad una delle polle più grosse c'era un grande branco di gazzelle, i mantelli chiari sul dorso, scuri sui fianchi e bianchi sul ventre che si confondevano nelle ondate di calore. Alcune erano chine sull'acqua fangosa per bere, altre brucavano l'erba giallastra. Poco lontano, un gruppo di grossi elefanti color marrone rossiccio sembrava muoversi quasi senza una meta, con l'indolenza di chi sa di non avere nulla da temere. Di fronte ad una delle macchie d'alberi, due giraffe dal mantello maculato, che andava a formare un disegno regolare e quasi ipnotico mangiavano tranquillamente le foglie delle acacie, incuranti delle spine aguzze.

Verso l'orizzonte si intravedeva una mandria di grossi animali cornuti, probabilmente gnu, che trottavano in una nube di polvere.

Tutti gli animali sembravano tranquilli: l'intero scenario, in effetti, trasmetteva una grande sensazione di calma, ed era simile alle fotografie che ritraggono gli scenari idilliaci del continente africano.

Le antilopi furono le prime ad avvertire la presenza di qualcosa di pericoloso, ma non ebbero il tempo di reagire: sul gruppo piombò di colpo un grosso leone maschio, lungo più di due metri e alto oltre la metà al garrese. Sia il mantello giallastro che la criniera erano sporche di polvere e strinate di sangue. Doveva essersi avvicinato di soppiatto, arrivando a brevissima distanza dalle prede prima che queste lo sentissero. Le antilopi tentarono una fuga disperata, ma il felino aveva già afferrato una femmina, e, una volta rovesciatala a terra, le spezzò l'osso del collo con un solo morso. La povera bestia morì all'istante. Il leone, lanciato un ruggito di sfida al cielo, iniziò a mangiare.

«Sua maestà ha fame. Strano, visto che solo tre giorni fa ha spolpato due indigeni fino alle ossa».

Le parole erano state pronunciate all'interno di un boschetto: nascosti dietro dei bassi cespugli, due uomini armati osservavano la scena di caccia con i binocoli. Il primo appariva completamente fuori posto: tarchiato, pallido, apparentemente spaventato, si asciugava continuamente il sudore. Portava un paio di antiquati occhiali rotondi, e sembrava dimostrare almeno quarant'anni, anche se con ogni probabilità ne aveva una decina di meno. Nonostante stringesse in mano una nuovissima carabina a ripetizione, somigliava più ad un ragioniere che ad un cacciatore. L'altro, quello che aveva parlato, doveva essere più vecchio, vicino almeno alla cinquantina, e sembrava il perfetto esempio del duro e dell'avventuriero: capelli castani corti completamente nascosti da un  cappello a tesa larga, camicia blu scura segnata, come anche il suo viso, da un lungo periodo passato all'aria aperta, così come il gilet marroncino che portava sopra di essa. In mano teneva una doppietta Holland & Holland di grosso calibro e dalla canna lunga, una splendida arma da caccia grossa.

Dietro i due uomini, appena visibile attraverso le frasche, si intravedeva una grossa jeep verde, il mezzo migliore per spostarsi attraverso i vari ambienti della savana.

«E' lui, mister Masterson?» chiese.

«Si, ne sono sicuro, mister Buckley» rispose l'uomo chiamato Masterson.

«Mi chiami Harry - disse il più anziano, calcandosi bene il cappello sulla testa - Ne è sicuro?».

«Si. Quella cicatrice che ha sulla schiena… gliel'ho fatta io con una fucilata quando ha attaccato il cantiere della ferrovia. Purtroppo non ho mirato abbastanza bene, o non saremmo qui».

In effetti dal dorso del leone sembrava mancare un pezzo di carne, apparentemente strappato da un proiettile di striscio, ma la ferita era già quasi cicatrizzata. Henry continuò ad osservare l'animale che mangiava per qualche secondo, poi tolse la sicura al fucile ed afferrò un sasso.

«Cosa sta facendo?» chiese Masterson, stupito dal gesto. In quel momento ricordò di non conoscere affatto il cacciatore che aveva assoldato, il quale era in effetti un ranger, guardacaccia nella parco nazionale di Serengeti. Quando era andato a denunciare alle forze dell'ordine due aggressioni successive a distanza di pochi giorni al cantiere ferroviario che gestiva da parte di un grosso leone, che gli erano costati cinque uomini e l'interruzione dei lavori alla strada ferrata che avrebbe dovuto migliorare il collegamento con il Kenya, gli era stato detto che, quando si trattava di mangiatori di uomini, l'unica soluzione era abbatterli, ed avevano affidato il caso al loro migliore ranger, l'inglese figlio di una famiglia di coloni Harry Buckley, ex cacciatore di professione e tiratore eccezionale, anche se dal carattere un po' insolito. Masterson non lo sapeva, ma stava per assistere ad una delle particolarità del suo metodo di caccia.

«Io concedo sempre una possibilità alla mia preda, signor Masterson» rispose, e prima che il direttore del cantiere potesse comprendere ciò che stava per accadere, scagliò il sasso con violenza e colpì il leone al fianco sinistro. L'animale, colto di sorpresa, si voltò, e subito vide i due uomini. Il suo muso coperto dal sangue della gazzella si deformò in una maschera di furore, e ruggì con rabbia. Harry aveva già alzato il fucile, e seguiva nel mirino i movimenti della testa dell'animale. Masterson, invece, tremava come una foglia, e non riusciva neppure a tirare indietro la leva per inserire un proiettile nell'otturatore.

Il leone ruggì di nuovo, e si lanciò al galoppo verso i due, le zanne scoperte in un ringhio silenzioso.

Masterson cacciò un urlo, lasciò cadere il fucile e si gettò a terra, le mani sopra la testa. Sentì un ruggito distante non meno di due metri, poi un singolo sparo, un tonfo, poi più nulla. L'uomo rimase sdraiato ancora per qualche secondo, poi alzò gli occhi, trovandosi di fronte il muso del leone.

Terrorizzato, balzò indietro cercando di raccogliere il fucile, per notare subito dopo che la testa della belva era spappolata da una scarica di pallettoni. Alzando lo sguardo, vide il ranger con il fucile fumante ancora sotto braccio che sorrideva.

«Un solo colpo? Wow!» esclamò il direttore, già dimentico della pessima figura che aveva fatto, e balzò in piedi esultante.

«Mi aiuti a caricarlo sulla jeep, voglio tornare alla centrale prima di notte».

 

La jeep entrò nella città di Seronera, ai confini del parco di Serengeti. Harry la diresse verso il comando dei Rangers, con il corpo del leone abbattuto nel retro. Aveva già lasciato Masterson al suo cantiere.

L'auto attraversò un cancello arrugginito e si fermò di fronte ad un'ampia costruzione ad un solo piano costruita in pietra e legno. Vicino c'era un ampio capannone di lamiera che veniva utilizzata come deposito per gli automezzi.

Dalla struttura, che era la sede dei Rangers che avevano il compito di sorvegliare il parco di Serengeti, uscirono due uomini, entrambi con in testa un cappello verde a tesa larga, e si diressero verso la jeep.

«Complimenti, Harry! - disse uno dei due, un ragazzone sui ventisei o ventisette anni, con i capelli quasi biondi e gli occhi color ghiaccio, vestito con la divisa regolare dei Rangers, alla vista del leone - Un animale gigantesco! E' una delle tue prede migliori».

«Grazie mille, Jim. Non ne avevo mai visto uno tanto grande. E' stato un peccato doverlo abbattere, ma si era abituato troppo al sapore della carne umana per rimanere in vita. Ci pensi tu a bruciare il corpo?».

«Si, certo - rispose il ragazzo - Harry, c'è un uomo dentro che vuole parlare con te. E' venuto fin qui apposta».

«Chi è?».

«Non ha detto il suo nome, ma sembra un uomo d'affari o qualcosa di simile da come è vestito».

«Odio gli uomini d'affari, ma dubito di poterlo evitare. Dov'è?».

«Credo sia in sala mensa - disse Jim con voce ironica - Buona fortuna!».

Harry entrò nella centrale ridacchiando e si diresse verso la mensa. L'ampia stanza era in quel momento vuota, ad eccezione di un uomo tarchiato sulla quarantina, vestito con giacca bianca e pantaloni dello stesso colore, che mangiava tranquillamente una bistecca offertagli dai Rangers.

«Buon appetito» disse Harry con artificiosa gentilezza.

L'uomo alzò gli occhi, lo squadrò da capo a piedi, poi chiese: «Harry Buckley, suppongo».

«In persona. Lei chi è?».

«Mi chiamo George Mc Manaman. Piacere» disse, alzandosi dal tavolo e stringendo la mano ad Harry.

«Mi hanno detto che lei voleva parlarmi. E' vero?».

«Si, ma si tratta di una faccenda molto importante, e preferirei parlarne in privato».

Dopo aver gettato un'occhiata dubbiosa alla sala vuota, Harry si costrinse a dire: «Venga nella mia stanza, allora» e si diresse verso l'uscita. Mc Manaman raccolse da terra una valigetta nera e lo seguì, lasciando metà della bistecca nel piatto.

Attraversarono un corridoio, poi entrarono in una stanza relativamente piccola, arredata, almeno parzialmente, in stile tropicale: un'amaca di rete al posto del letto, un armadietto d'acciaio, una scrivania, un attaccapanni appeso al muro e una sedia di vimini. Harry Buckley era un tipo decisamente spartano, nonostante quella stanza fosse il luogo dove passava la maggior parte del suo tempo. Aveva una casa a Seronera, ma vi passava al massimo un giorno ogni venti.

Harry appese cappello e fucile all'attaccapanni, poi si sedette sull'amaca: «Avanti, parli. Qui non può sentirci nessuno».

Mc Manaman si sedere sulla sedia, poi estrasse semplicemente una fotografia e la porse ad Harry: «Mi dica se riconosce l'animale che è raffigurato qui sopra».

Harry la guardò: ritraeva un grande lucertolone, color verde sporco sul dorso e color polvere sul ventre, con un collo lunghissimo terminante in una testa minuscola, un corpo massiccio, quattro zampe da elefante e una possente coda poco più corta del collo. Era sulla riva di un fiume, in mezzo ad una distesa di erba verdissima, con un bosco di alberi sullo sfondo.

Resistendo alla tentazione di sospirare, chiedendosi se il suo interlocutore lo stesse prendendo in giro, Harry disse: «E' un dinosauro, un sauropode direi, almeno a quanto ne so. Un modello fatto molto bene, tra parentesi: non ne avevo mai visti di così realistici, neanche in televisione. Tecnologia digitale?».

«No, signor Buckley. E' fatto così bene perché non è finto».

«Come, scusi?».

«Quello che ha davanti non è né un modello riprodotto né una ricostruzione al computer: quella foto l'ho scattata io all'animale vivente».

Harry lo fissò con aria perplessa, sempre più convinto che l'uomo fosse un buffone o un folle: «Mi sta prendendo in giro, vero?».

Mc Manaman tirò fuori una seconda fotografia: «Le sembra un modello o una ricostruzione al computer questa?».

Stavolta l'immagine mostrava lo stesso animale mentre brucava tranquillamente le fronde di una pianta simile ad una conifera, ma non era solo: dietro di lui c'era un intero branco di creature lontanamente simili a rinoceronti, ma dotati di un collare osseo intorno alla testa, due corna supplementari sopra gli occhi e una lunga coda da rettile. Non aveva modo di stabilirne precisamente le dimensioni, ma confrontandoli con gli alberi sembravano più grandi di un elefante. Harry da ragazzo si era molto interessato ai dinosauri, e riconobbe negli animali dei triceratopi, o comunque una specie dello stesso genere. Con un brivido, dovette ammettere che non sembravano veramente modellini e riproduzioni. Se da una parte sembravano a dir poco perfetti, dall'altra sui corpi si vedevano le piccole imperfezioni, le ferite, le rughe tipiche di animali reali. Sembravano… vivi.

«Com'è possibile? - chiese Harry, che quasi balbettava, non volendo ammettere quella che era l'impensabile verità - Non possono… non è possibile che… sta dicendo che sono veri?».

Mc Manaman lo fissò negli occhi, leggendo incredulità, ma anche la gioia di un bambino che spera di veder realizzato un sogno impossibile. Annuì con la testa.

Harry rischiò seriamente un infarto: era bianco come uno straccio, e sudava copiosamente. La sorpresa era stata totale. Tutto ciò che riuscì a dire fu: «Com'è possibile».

«Lei per caso ha letto il libro "Jurassic Park"?».

Harry scosse la testa: «No, ho visto solo il film. Cosa c'entra?».

«Io sono il direttore di un'industria di ingegneria genetica - rispose Mc Manaman - La G.G.E., che sta per Global Genetic Engeneering. Ci occupiamo di tutto, dagli interventi per rendere più produttivi i vegetali per la produzione alimentari a rendere resistenti alle malattie gli animali da allevamento, ma abbiamo sempre avuto piani molto più ampi. Se libro e film di "Jurassic Park" sono piaciuti al mondo intero, per noi sono stati una fonte di ispirazione. Non avevamo mai neanche pensato alla possibilità di ricreare i dinosauri, ma dopo due anni di studi approfonditi abbiamo concluso che esistesse veramente la tecnologia necessaria per provare a creare dei cloni di animali preistorici. Sono serviti altri tre anni di lavoro, ma alla fine, impiegando delle tecniche in parte simili a quelle che aveva immaginato Crichton, ci siamo riusciti: combinando il DNA recuperato da zanzare conservate, per l'appunto, nell'ambra, e completandolo con quello di uccelli moderni, i parenti più prossimi dei dinosauri, abbiamo ricostruito diverse creature risalenti al Mesozoico, sia vegetariane che carnivore, inclusi alcuni animali giganti, come ha visto dalla foto. Abbiamo ripreso dal libro anche l'idea dell'isola: abbiamo preso in gestione dal Belize un remoto lembo di terra nel Golfo del Messico, l'abbiamo modificata con piante ed alberi antichi perché ricordasse il più possibile il mondo di 65 milioni di anni fa, vi abbiamo trasferito animali ed attrezzature e per due anni abbiamo continuato il lavoro, ricreando quasi una ventina di specie di dinosauro provenienti da ogni parte del mondo, che siamo riusciti ad attribuire a specie ritrovate nel corso degli ultimi due secoli. Abbiamo costruito un centro per i visitatori, un laboratorio per gli scienziati ed i paleontologi che avessero voluto studiare i nostri fossili viventi, delle recinzioni elettrificate per separare i territori delle diverse specie, visto che non avevamo intenzione di scatenare una indiscriminata lotta per la sopravvivenza, un piccolo eliporto per facilitare l'accesso di turisti e materiali, visto che non siamo riusciti a trovare un punto adatto per un porto stabile, ed una modernissima centrale elettrica, funzionante in parte grazie al movimento delle onde ed in parte ad energia solare».

Harry era letteralmente stupefatto: ciò che stava sentendo sembrava la trama di un film di fantascienza, eppure sentiva che, per quanto assurdo, poteva essere reale.

«Credevamo che fosse tutto perfetto - continuò Mc Manaman - ed eravamo pronti per rivelare la nostra scoperta al mondo intero, quando si verificò un problema imprevedibile: la centrale elettrica subì un gravissimo guasto, e noi impiegammo oltre ventiquattro ore per farla ripartire, abbastanza da esaurire i generatori che avevamo predisposto. Nelle quasi sei ore di assenza totale di corrente gli animali sfondarono le recinzioni, uccisero diversi operai e guardiani ed arrivarono ad assalire il centro di controllo. Capimmo di non avere alcuna possibilità di riprendere il controllo, perciò decidemmo di evacuare l'isola. La G.G.E. rischiò la bancarotta. Molti, nel consiglio direttivo della società, proposero di sterminare gli animali e cancellare ogni traccia di quello che avevamo fatto, ma riuscii ad oppormi: feci notare che, se la situazione sull'isola si fosse stabilizzata, avremmo avuto la possibilità di presentare ugualmente la nostra scoperta. Un Mondo Perduto, per quanto artificiale, dove i dinosauri avevano ricostruito l'ambiente naturale di un'epoca scomparsa. Ci avrebbe reso comunque degli eroi. Le azioni della compagnia sarebbero salite alle stelle. Abbiamo quindi deciso di lasciare le cose come stanno per almeno un decennio, aspettando di vedere come si sarebbero evolute le cose».

Harry era completamente stupefatto, e faticava addirittura a parlare: «E' incredibile - riuscì a dire - Su un'isola dei Caraibi esistono dei dinosauri vivi e veri. E'… fantastico! Da quanti anni vivono liberi lì?».

«Quasi due» rispose semplicemente Mc Manaman.

«Ok, sto cercando di accettare questa cosa - borbottò Harry - Non è facile, credo lo possa capire. C'è una cosa, però, che non capisco: tutto questo com'è legato a me? Perché, su un intero pianeta, ha deciso di rivelare questa bomba proprio a me?».

«Perché di recente è sorto un problema di natura assolutamente inaspettata. L'isola che abbiamo preso in gestione, Isla de Rocas Negras, è disabitata, e con qualche mazzetta abbiamo convinto il Belize a dichiararla zona militare vietata. Quindi, da quando abbiamo evacuato, non c'è più stato alcun essere umano. Due settimane fa, però, una delle poche telecamere di controllo ancora attive sull'isola ha individuato quelli che noi abbiamo identificato come i resti di un battello da diporto schiantati su una delle spiagge. Su di essi era ancora leggibile il nome "Green Star". Abbiamo fatto qualche ricerca, ed abbiamo trovato una segnalazione di scomparsa fatta alle capitanerie di porto di tutti gli Stati Uniti e di Kingston: una barca con quel nome è scomparsa durante una tempesta nel Golfo del Messico. A bordo c'erano un grosso industriale di Biloxi, Lawrence Roberts, suo figlio Alexander ed un capitano di mare, che era il timoniere del battello, John Garrett. La ex moglie di Roberts aveva denunciato la sua scomparsa dieci giorni prima. Abbiamo individuato delle tracce semi-cancellate che dimostravano che i tre uomini, sopravvissuti al naufragio, si erano inoltrati nella giungla».

Harry fece due veloci conti mentali: «E' passato quasi un mese da quando sono finiti sull'isola, mi sembra impossibile che tre esseri umani possano essere sopravvissuti tanto a lungo in mezzo ai dinosauri».

«Sembrava assurdo anche a noi, a dire la verità, ma ci sono dei fatti nuovi: non più di dieci giorni fa una seconda telecamera, in un'area diversa dell'isola, ha registrato una sagoma di sembianze umane che attraversava rapidamente i cespugli, e non più di una settimana fa il solo microfono ancora attivo sull'isola ha registrato quello che è stato identificato come uno sparo. Questo ci ha convinto che, appena sette giorni fa, ci fosse ancora qualcuno vivo sull'isola, e potrebbe esserlo ancora».

«Non lo avrei mai detto: crederei a stento se mi raccontassero che un uomo è sopravvissuto un mese da solo qui nella savana, figuriamoci in quello che sembra il luogo più pericoloso del mondo. In ogni caso, per quanto abbia suscitato la mia curiosità, non ho ancora capito il mio ruolo in questa storia».

«Credevo che ormai fosse chiaro - rispose Mc Manaman - Abbiamo deciso che sarebbe disumano lasciare degli uomini a morire lì, ma anche ammesso che le autorità credessero alla nostra storia, impiegherebbero tanto di quel tempo a muoversi che, una volta che fossero pronti a salvarli, le ossa dei naufraghi sarebbero già divenute dei fossili. Visto che in un certo senso è colpa nostra se attualmente sono in pericolo, abbiamo stabilito che è responsabilità della G.G.E. salvarli, quindi stiamo organizzando una piccola spedizione che si recherà sull'isola. Abbiamo già assoldato un paleontologo, un esperto in macchinari, un meccanico di prima scelta, un pilota e diversi esperti in sicurezza. Abbiamo acquistato armi ed attrezzature all'avanguardia, ma ci manca qualcuno in grado di guidare l'operazione sul campo: gli uomini che ho reclutato sono esperti, ma sono sostanzialmente dei mercenari, mi serve qualcuno che sappia come sopravvivere in natura, che sappia confrontarsi con il lato selvaggio del mondo. Qualcuno come lei. Che cosa ne pensa?».

Harry lo fissò come un savio può guardare un pazzo: «E' sicuro di sentirsi bene?».

Mc Manaman sembrò adombrarsi: «Senta, ci stiamo organizzando affinché questa missione sia curata nei minimi dettagli: stiamo lavorando alla sicurezza e prevedendo anche gli imprevisti, in modo che nessuno si faccia male».

«Come avete fatto quando avete preparato l'isola per ospitare i dinosauri? - chiese con sarcasmo il ranger - Sembra che non abbiate capito un accidente dai vostri sbagli! Quanto a me, vedermela con i leoni ed i coccodrilli è una cosa, li conosco da una vita e sono capace di prevedere le loro mosse, in un certo senso. I dinosauri, dai quali nessun essere vivente può sapere cosa aspettarsi, sono una faccenda completamente diversa».

«So bene che ci sono centinaia di cose che possono andare storte - insistette l'uomo d'affari - Con animali simili non si può essere realmente sicuri di niente, ma non possiamo neanche lasciare degli esseri umani a morire lì senza tentare nulla per salvarli! Stiamo lavorando affinché l'intera operazione non duri più di due giorni, il tempo necessario per trovare i naufraghi e portarli via. Cercheremo, nel frattempo, di tenerci lontani dai territori dei carnivori. Comunque, non abbiamo discusso della cosa più importante per lei».

«Cioè?».

«Il suo compenso: le offro quarantamila dollari».

Harry sbuffò. Erano tanti soldi, ma non abbastanza per rischiare la vita fino a quel punto: «Neanche per il doppio ci verrei».

«Allora le offro il quadruplo - ribatté Mc Manaman deciso - Centosessantamila dollari per al massimo cinque giorni di lavoro. Anzi, no: sono disposto ad arrivare a duecentomila».

Ad Harry iniziarono a fischiare le orecchie: non aveva mai visto una simile quantità di denaro nella sua vita, e perfino i quarantamila iniziali sarebbero stati oltre due anni di stipendio come ranger.

«Ha detto due giorni sull'isola?» chiese con tono vago.

«Esatto, non di più».

«E che cercheremo di tenerci quanto più lontano possibile dai carnivori?» proseguì.

«Si, ma non posso credere che un uomo con la sua fama abbia paura di queste creature».

«Chiunque con un po' di cervello ne avrebbe, ma per duecentomila dollari sono pronto a scendere all'inferno a tirare la coda al Diavolo. Accetto, mister Mc Manaman».

L'uomo sorrise: «Perfetto! Inizierò subito a programmare il suo trasferimento per via aerea a…».

«Un attimo solo».

L'uomo d'affari rimase bloccato a metà del discorso.

«Lei è stato piuttosto vago su ciò che avete creato - lo incalzò Harry - Voglio sapere quali animali ci troveremo di fronte. Quali sono le specie che avete creato?».

Mc Manaman impiegò qualche secondo per rispondere: «Beh, la risposta non sarà esattamente precisa: alcune delle nostre specie non corrispondono esattamente ai ritrovamenti fossili. Le abbiamo attribuite per comodità a specie descritte, ma probabilmente si tratta di animali appartenenti alla stessa famiglia, benché distinti. Servirebbe uno studio prolungato da parte di un team di biologi e paleontologi per capirlo con esattezza - tirò fuori dalla valigetta un documento dall'aria ufficiale - In ogni caso, questa è la lista completa delle creature attualmente presenti sull'isola. Non abbiamo però un'idea precisa del numero dei soggetti, dall'ultimo conteggio ci sono stati quasi due anni di predazione e riproduzione incontrollate».

Harry afferrò il foglio ed iniziò a scorrerlo:

G.G.E

Lista creature ricreate

- Corythosaurus

- Parasaurolophus

- Kritosaurus

- Tenontosaurus

- Hypsilophodon (?)

- Gastonia (?)

- Pinacosaurus

- Prenocephale (?)

- Psittacosaurus

- Bagaceratops

- Triceratops

- Styracosaurus

- Stegosaurus (?)

- Brachiosaurus (?)

- Camarasaurus

- Saltasaurus

- Pteranodon

- Pterodactylus (?)

- Peteinosaurus

- Coelophysis (?)

- Cryolophosaurus (?)

- Noasaurus (?)

- Rugops (?)

- Tyrannosaurus Rex

- Velociraptor (?)

Harry sobbalzò diverse volte leggendo i nomi dei carnivori, e rischiò un mancamento quando I suoi occhi si posarono sul T-Rex, ma fu l'ultima riga a colpirlo particolarmente: dovette leggere tre volte prima di convincersi che c'era veramente scritto "Velociraptor".

Alzò lo sguardo dal foglio: «Qualcosa capisco di dinosauri: per "Velociraptor" intendete…».

Mc Manaman sembrò arrossire: «Beh, il nome in realtà non è esatto. Abbiamo ritrovato l'ambra in Nord America, quindi non è sicuramente la specie asiatica. Per di più è decisamente più grande, anche dei fossili di Deinonychus. Potrebbe trattarsi di una specie imparentata con l'Utahraptor, ma considerando che il nome con i quali li conosce la maggior parte della gente è quello…».

«E voi siete stati tanto folli da ricreare una macchina di morte come un Raptor gigante? - incalzò Harry - Un branco di leoni è nulla in confronto ad una muta di esseri come quelli».

Sul volto dell'uomo d'affari si dipinse uno sguardo indignato: «Senta, quando ci è capitata l'occasione e sono nati i primi esemplari non abbiamo potuto non approfittarne! Si tratta di una delle specie più famose al mondo, addirittura più del tirannosauro. Inoltre, quei duecentomila dollari dovrà pure guadagnarseli! - poi tornò a sorridere con cordialità: «Se faremo le cose nel modo giusto, comunque, non li vedrete neanche. Sarà una semplice passeggiata nella foresta».

Harry rimase pensieroso per qualche secondo, poi disse: «Verrò, ma non da solo. Le credo sulla parola riguardo alla bravura dei mercenari che ha reclutato, ma io voglio qualcuno di cui potermi fidare ad occhi chiusi. Se non mi consente di reclutare un secondo ranger di questo parco, può anche rinunciare alla mia presenza».

Mc Manaman dovette riflettere per poco: «Va bene, può arruolare un altro uomo, purché lo faccia in fretta».

Harry non dovette chiedersi per più di qualche secondo chi chiamare, e ancora meno tempo occorse a convincere Jim: non appena ebbe chiara la situazione, risultò subito chiaro che il ragazzo sarebbe andato anche gratuitamente, pur di vedere i dinosauri. Alla fine, però, firmò ugualmente un contratto da centomila dollari.

Occorsero solo poche ore ai due ranger per prendersi un paio di settimane di congedo: già prima di sera, sistemate le pratiche burocratiche ed impacchettate armi e bagagli, salirono su un piccolo aereo che li condusse all'aeroporto internazionale di Nairobi, dove li attendeva un jet che li avrebbe condotti in Belize, a supervisionare gli ultimi preparativi per la spedizione.

Harry non lesse mai il retro del foglio che gli era stato fornito da Mc Manaman: lasciò la Tanzania convinto che la cosa peggiore che si sarebbe trovato ad affrontare sarebbero stati i presunti Velociraptor. Non poteva sapere della presenza di altri due tipi di dinosauri. Il primo genere, i Compsognathus, non lo avrebbe certamente preoccupato: si trattava di un minuscolo carnivoro, poco più grande di un pollo.

Diversa era la situazione per il secondo tipo:

- Giganotosaurus

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Capitolo 5
*** Capitolo Quattro ***


CAPITOLO QUATTRO

 

«Questo bestione deve essere corazzato in maniera intelligente! Non possiamo appesantirlo troppo, altrimenti non si muoverebbe neanche! Ve lo ripeto: mettete tutto quel metallo sul rivestimento e rimarremo bloccati nella prima pozzanghera!».

Erano due giorni che Harry strepitava come un disperato con il gruppo di meccanici installati in un capannone della G.G.E. a Belize City, nel tentativo di sistemare i giganteschi problemi di organizzazione che Mc Manaman aveva limitato come "semplici dettagli".

La prima, fondamentale problematica riguardava i veicoli: la G.G.E. aveva realizzato diverse strade e sentieri che si intersecavano nella parte pianeggiante dell'isola, quindi avrebbero potuto utilizzare dei mezzi a motore per spostarsi nelle diverse aree di ricerca. Era stato deciso di portare una grossa jeep e una sorta di camper doppio, ma da subito era risultata evidente la necessità di corazzare i due mezzi: si trattava di attrezzatura civile, per quanto di prima qualità, non militare, ed un grosso dinosauro avrebbe potuto ridurre il camper ad una fisarmonica con facilità.

Installare una corazzatura supplementare si era però rivelato estremamente complicato. per il camper, inizialmente, era stato deciso di utilizzare un rivestimento di acciaio spesso dieci millimetri, ma perfino Harry, che sapeva poco di meccanica e niente del tutto di fisica, aveva compreso che con un simile peso il grande mezzo non avrebbe mai potuto spostarsi agevolmente su un terreno scosceso. Il rivestimento di alluminio proposto da Jim, d'altro canto, non sarebbe stato sufficientemente robusto. La jeep aveva problemi addirittura peggiori, considerata la minore potenza del motore, obbligando alla fine il team a rinunciare ad installare una blindatura supplementare. Rendere il camper un possibile rifugio in caso di attacco era però ritenuto fondamentale, ed Harry era stato costretto ad insistere parecchio

Alla fine fu il capo meccanico Eric Gardner a trovare una soluzione. Gardner, un uomo sulla quarantina alto e robusto, con una folta barba nera, era facilmente riconoscibile grazie al berretto verde e ai grandi occhiali da sole, due cose che non toglieva mai, neanche all'interno dell'officina.

L'idea era semplice quanto geniale: una lastra di titanio resistentissima, spessa però soltanto cinque millimetri. Con un peso pari ad appena un terzo del rivestimento d'acciaio, doveva teoricamente essere in grado di resistere a pressioni molto elevate, ma non c'era tempo di fare dei veri test.

Nei giorni precedenti non erano mancate preoccupazioni neppure per le attrezzature radio satellitari. Quelle dei mezzi erano abbastanza funzionali, ma i piccoli apparecchi portatili si erano rivelati estremamente deludenti: bastava una copertura di fogliame tropicale per bloccare il segnale del satellite. Nick Denver, un magro e nervoso trentaduenne esperto in macchinari legati alle telecomunicazioni, fece del suo meglio, riuscendo a procurarsi una partita di nuove radio che riteneva migliore ed organizzandosi in modo da far rimbalzare il segnale da un satellite differente, ma, ancora una volta, era stato impossibile provare l'attrezzatura.

Anche le armi erano state oggetto di discussione: la G.G.E. non voleva uccidere i dinosauri, non se poteva evitarlo, perciò, almeno all'inizio, era stato deciso che solo i cacciatori e gli addetti alla sicurezza avrebbero portato delle armi personali, e che per il resto sarebbero stati impiegati soltanto dei fucili a dardi tranquillanti. La decisione si era però scontrata con le proteste degli uomini, Harry incluso: in caso di necessità, volevano poter disporre di una potenza di fuoco maggiore.

Alla fine, era stata presa una decisione di compromesso: sul camper erano stati caricati tre fucili a dardi Dan-Inject modello  JMSP, in grado di sparare a circa sessanta metri delle siringhe da tre millilitri caricabili con differenti composti. Sul camper ne vennero caricate due cassette: una piena di siringhe riempite con acetorfina e carfentanil, due dei più potenti sedativi per uso veterinario, mentre quelle contenute nella seconda erano piene di un particolare veleno, la cubotossina prodotta dalla Chironex fleckeri, più nota come medusa scatola o vespa di mare. Si trattava di una delle più micidiali neurotossine del mondo: una semplice puntura era spesso in grado di indurre spasmi muscolari, paralisi respiratoria ed arresto cardiaco in un uomo entro un paio di minuti. La dose contenuta nelle siringhe era duecento volte più elevata e concentrata di quella iniettata da una qualsiasi medusa, ed avrebbe avuto un effetto quasi immediato, aveva detto il chimico che aveva preparato la mistura, perfino su animali pesanti diverse tonnellate. Anche in questo caso, si trattava di una teoria: era impossibile sapere se una siringa avrebbe abbattuto un tirannosauro in caso di bisogno.

Anche per questo tutti avevano preferito poter contare su armi più pesanti: nella rastrelliera installata sul camper avevano trovato posto quattro M16, i fucili d'assalto impiegati dall'esercito statunitense, con installati sotto le canne i lanciagranate M203, e altrettante pistole mitragliatrici Heckler & Koch MP5. A queste si aggiungevano le armi personali dei cacciatori e degli addetti alla sicurezza, alcune pistole di vario genere e , su suggerimento di Harry, qualcosa di più pesante: un lanciarazzi M72 LAW, delle granate abbaglianti ed una dozzina di granate a frammentazione.

Un ulteriore inconveniente fu il paleontologo, che si rivelò essere, in realtà, una paleontologa: la dottoressa Kelly Gray aveva un curriculum universitario invidiabile, ma il suo fisico sottile venne giudicato poco adatto ai pericoli che avrebbero trovato sull'isola. La dottoressa, una giovane donna di appena ventisette anni, dai lunghi capelli ricci, reagì definendosi in grado di sopportare qualsiasi fatica e ogni problema che si fossero trovati ad affrontare. Nonostante la sua giovane età, in effetti, Kelly Gray era una vera esperta di lavoro sul campo: era stata in mezzo mondo, e si era specializzata nella ricerca sul comportamento. Nonostante le riserve, tutti si convinsero, alla fine, che fosse insostituibile, e smisero di contestare.

Il camper, per lo meno, era un vero gioiello, ed Harry lo comprese non appena lo vide: lungo poco meno di venti metri, con uno snodo in gomma a metà della lunghezza, dotato di otto ruote motrici e dodici complessive, dipinto in verde mimetico, era un vero e proprio centro di comando mobile, oltre ad un dormitorio: nella parte anteriore, oltre alla cucina, erano posizionate la dispensa, con provviste per diversi giorni, un tavolo, quattro brande attaccate alle pareti ed un piccolo divano. Nella parte posteriore, che era interamente a rimorchio ed era saldamente connessa a quella anteriore da uno snodo metallico e da una passerella, c'erano un piccolo laboratorio di ricerca, una infermeria, la centrale radio, la rastrelliera delle armi e, nella parte posteriore, sotto un'ampia vetrata, un secondo divano trasformabile in un letto doppio. C'era poi la possibilità, una volta fermi, di posizionare altri tre letti provvisori. I fucili erano disposti in tre punti differenti, tutti facilmente raggiungibili in caso di necessità. Tutti i mobili erano fermamente saldati al pavimento. Il potente motore, nonostante il peso supplementare della corazzatura, poteva spingere il mezzo a quasi settanta chilometri orari, anche troppi su un'isola piccola come Rocas Negras.

Risolti anche gli ultimi problemi, tutte le attrezzature ed i mezzi vennero trasportati all'eliporto, dove furono caricati o appesi sotto la fusoliera di tre grossi elicotteri a doppia elica. Alle dieci del mattino la piccola squadriglia prese il volo con gli otto componenti della squadra di soccorso, dirigendosi verso il mare.

Mc Manaman rimase sulla posta, osservando gli elicotteri allontanarsi, e se ne andò solo quando scomparvero all'orizzonte. Quando arrivò al parcheggio trovò, accanto alla sua Ford nera, una Toyota grigia, appoggiato alla quale lo attendeva un uomo orientale, dall'età indefinibile, vestito con un costoso completo bianco.

«Tutto bene, mister Mc Manaman?» chiese.

«Tutto secondo i piani, mister Ayate. Non si preoccupi».

«Lo spero per lei. Dopo il fallimento del progetto dell'isola il suo posto è a grave rischio».

«Ho già preso accordi precisi con i tre mercenari che ho assoldato: lasceranno che siano Harry Buckley e gli altri uomini che ho assoldato per salvare le apparenze a condurre le ricerche dei dispersi, mentre loro si dedicheranno alla cattura di tutti gli animali sui quali riusciranno a mettere le mani. Animali giovani, facili da trasportare. Prima che arrivi il momento di ripartire arriverà un quarto elicottero, che al ritorno porterà via le gabbie. La struttura per accoglierle è già pronta?».

«Quasi, ma occorreranno solo pochi giorni per le rifiniture, e già ora è sufficientemente avanti con la costruzione per accoglierli senza rischi. Non ho capito perché ha chiamato quei due cacciatori bianchi dalla Tanzania: sembrano tipi in grado di creare problemi, soprattutto quello più vecchio».

«Mi occorreva gente esperta. Stanno andando in uno dei posti più pericolosi del mondo».

«Perché non gli ha spiegato il vero motivo dell'operazione, allora?» chiese Ayate.

«Non ne ho visto la necessità - concluse Mc Manaman - In ogni caso, lo capiranno molto presto».

 

Il viaggio fu breve, ed Harry, che si era vestito con un paio di pantaloni color sabbia, una camicia azzurra, un gilet dalle grandi tasche ed il suo vecchio cappello da cow-boy, dormì per praticamente tutto il tempo, mentre la maggior parte degli altri appariva troppo nervosa per imitarlo. Jim passò tutto il tempo nella cabina di pilotaggio a parlare con il pilota. Sam Thorton, un americano di colore della Carolina del Sud, che il cacciatore trovò particolarmente simpatico a prima vista.

«Tu resterai ad aspettarci sull'isola o tornerai a prenderci?» gli chiese.

«Io vi scaricherò lì e me la filerò più in fretta possibile! Tornerò a prendervi quando mi chiamerete, ma non resterei qui per nulla al mondo! La G.G.E. non mi ha spiegato esattamente cosa c'è su quell'isola, ma ho capito perfettamente che si tratta di qualcosa di molto pericoloso» poi, osservando l'orizzonte, aggiunse: «Vai ad avvertire la gente dietro: l'isola è in vista».

Davanti all'elicottero, ancora confusa per la distanza, era comparsa un'isola a forma di tronco di cono, circondata da un alone di nuvole. Il grande mezzo non impiegò molto tempo prima di raggiungere la terraferma, e Sam iniziò ad abbassarsi, nel tentativo di individuare il vecchio centro di controllo, dove era stata realizzata una pista d'atterraggio.

All'improvviso, mentre stavano sorvolando una zona pianeggiante ed erbosa in mezzo alla giungla, il pilota lanciò un urlo: «Santo cielo! Affacciatevi ai finestrini, presto!».

Tutti andarono a guardare, e ciò che videro mozzò loro il fiato: era una scena appartenente ad un altro mondo, lontano milioni di anni.

La piccola valle era attraversata da un fiume. Sulle sue sponde, molti animali brucavano le piante acquatiche e le felci, e tutti appartenevano ad un unico genere: a sud, si vedevano chiaramente dei dinosauri di medie dimensioni, color verde scuro, con teste sormontate da creste rossastre a cupola che ogni tanto alzavano per strappare qualche fronda dagli alberi. più a nord c'era un gruppo di animali dalla corporatura molto simile, solo dotati di ceste allungate, di forma tubolare e di colore bluastro, intenti ad abbeverarsi. Isolato dagli altri, un grosso stegosauro, con il dorso ricurvo e munito di placche mangiava placidamente l'erba. Dal limitare della giungla, appena sopra le cime dei primi alberi, si vedevano spuntare dei lunghissimi colli. Sulla riva opposta, un gruppo di triceratopi era intento a nutrirsi, le grandi teste munite di corna abbassate al livello del suolo.

«Fantastico!» esclamò la dottoressa in piena estasi: aveva studiato per anni gli scheletri degli stessi animali che adesso vedeva vivi e liberi davanti ai suoi occhi, e l'esperienza era a dir poco esaltante. Tutti gli altri, dal canto loro, sembravano troppo stupefatti per riuscire a parlare: erano stati avvisati, era vero, ma vedere dal vivo un simile spettacolo era completamente diverso.

Sam oltrepassò la vallata, seguito dagli altri due mezzi, ed alla fine vide, di fronte a se, un grosso edificio bianco a forma di cupola: era il laboratorio di genetica. Intorno alla costruzione principale si vedevano numerosi altri edifici, che insieme andavano a costituire il centro visitatori vero e proprio. Harry controllò la mappa che gli era stata fornita da Mc Manaman: le due strutture quadrangolari a due piani a fianco del laboratorio erano indicate come alloggi per il personale e gli scienziati, mentre quella più grande, a forma di trapezio, realizzata vicino all'eliporto, era l'incompleto albergo che avrebbe dovuto accogliere i visitatori. C'erano poi una costruzione piccola e bassa utilizzata come deposito per le attrezzature, uno spaccio, il centro di controllo sormontato da una grande antenna radio, all'interno del quale erano posizionati i computer che, a suo tempo, controllavano tutte le attività dell'isola, e diverse altre costruzioni delle quali non era stata indicata la funzione. Intorno al complesso si intravedevano i resti delle recinzioni, ormai quasi interamente abbattuti. Non si vedevano tralicci in grado di portare la corrente dalla centrale elettrica, che a quanto Harry aveva capito doveva trovarsi sulla riva del mare, ma il cacciatore immaginò che potessero essere sotterranei. Molti edifici, inoltre, avevano sul tetto dei pannelli solari. Si vedeva bene, invece, una rete di condotti di forma tubolare che andava a connettere i diversi edifici, un'idea realizzata per le fin troppo frequenti giornate di forte pioggia.

I due elicotteri con appesi i mezzi a ruote li posarono delicatamente a fianco dell'eliporto, staccarono i collegamenti e ripartirono senza neppure atterrare. Sa fece scendere il suo sulla pista di cemento armato, aiutò rapidamente gli uomini della squadra a scaricare i materiali, poi, dopo un frettoloso saluto, tornò a decollare verso il Costa Rica.

Mentre la maggior parte del gruppo lavorava per costruire il campo base, Harry, Jim e la dottoressa Kelly andarono a controllare la situazione degli edifici: la paleontologa aveva qualche speranza di riuscire a rimettere in funzione i computer, mentre Jim aveva espresso la speranza di poter dormire all'interno dell'albergo anziché nel camper.

La porta d'ingresso era a vetri, ma le vetrate erano ridotte in pezzi, Questo non avrebbe significato più di tanto, ma il caos nella hall convinse tutti che difficilmente avrebbero ricavato qualcosa dalla loro visita: i danni fatti dagli animali e dal maltempo erano stati notevoli, ma le scale, i cumuli di materiale, gli attrezzi, facevano capire che l'hotel non era mai stato completato. A Jim bastò infilare la testa in una delle stanze per vedere che i mobili non erano mai stati messi in posizione.

«Forse è meglio dormire nel camper» borbottò il giovane.

«Andiamo avanti - fu la replica di Harry, mentre si aggiustava il fucile sulla spalla - Voglio vedere in che condizioni è la sala di controllo» e si diresse verso una porta grigia sulla quale era stato scritto "COLLEGAMENTO RAPIDO: SALA CONTROLLO-SPACCIO".

Nonostante i pochi anni di abbandono, il clima umido aveva già fatto arrugginire i cardini, ma la porta non era chiusa a chiave, e bastò una spinta decisa per farla aprire.

Il trio attraversò il corridoio bianco, che sembrava realizzato in un materiale simile alla vetroresina, abbastanza traslucido da lasciar passare parte della luce solare. Nonostante gli anni di abbandono, sembrava ancora solido. Dopo circa venti metri trovarono una biforcazione: una freccia nera rivolta verso destra conteneva la scritta bianca "SALA CONTROLLO - VIETATO L'ACCESSO AI NON AUTORIZZATI", mentre una seconda, rivolta a sinistra, indicava: "SPACCIO - APERTURA H 24". I tre si diressero verso destra.

Ancora una trentina di metri, poi trovarono una porta scorrevole, accanto alla quale era posizionato un tastierino numerico. Jim provò a spingere, ma era bloccata. Sopra l'architrave capeggiava per la seconda volta la scritta "VIETATO L'INGRESSO AI NON AUTORIZZATI".

«Ci deve essere un codice» disse il giovane, e provò a digitare alcuni numeri a caso. Non accadde nulla.

«Non ci deve essere corrente - borbottò - Come facciamo ad aprirla?».

«Proviamo con le buone maniere» disse Harry, prendendo alcuni passi di rincorsa. Jim comprese e lo imitò.

I due uomini piombarono sulla porta come arieti. Per loro fortuna, non si trattava di un ingresso di sicurezza: la lastra si incurvò verso l'interno, poi cedette di colpo, crollando al suolo.

«Rozzo, ma efficace» ridacchiò Kelly, seguendo i due uomini nella stanza.

Era una grande sala rettangolare dipinta di bianco: sui due lati maggiori erano posizionati una dozzina di computer con le corrispondenti sedie, mentre al centro era situato un grande plastico dell'isola, comprendente tutte le strutture e corredato da led colorati. C'erano diverse porte secondarie.

«Cerchiamo un modo per riattivare la corrente - disse Harry accendendo una torcia - Potendo, vorrei evitare di raggiungere la centrale elettrica, deve essere distante quasi un chilometro. Deve esserci una centralina per far funzionare i pannelli solari, sembrano ancora in condizioni discrete, e a noi basteranno».

Trovare le apparecchiature richiese un quarto d'ora, e farle ripartire altrettanto: nessuno di loro era esperto nel campo, in fondo, ma alla fine Jim trovò la giusta leva: si udì un forte ronzio mentre la struttura tornava alla vita, e dopo pochi minuti le luci si accesero, sia pure debolmente.

«Bravo, Jim!» esclamò Harry, dandogli una pacca sulle spalle.

I tre tornarono nella sala di controllo, e Kelly iniziò a provare alcuni dei computer. Al quarto tentativo ne trovò uno ancora funzionante e si sedette. Iniziò a muovere il mouse, saltellando da un'icona all'altra sul desktop, cliccando alla fine su "CONTROLLO FUNZIONI PARCO". Subito le apparve una sorta di griglia, che mostrava i vari sistemi, al momento tutti disattivati.

Kelly fu brevemente tentata da "RECINZIONI ELETTRIFICATE", ma finì per lasciar perdere: aveva visto dall'elicottero in quali condizioni versavano, non sarebbero state molto utili. Attivò invece "TELECAMERE DI SORVEGLIANZA".

«Buona idea - approvò Harry - Con un po' di fortuna, potremmo riuscire ad individuare i naufraghi senza muoverci da qui».

Il computer fu occupato a caricare per qualche istante, poi presentò una mappa completa dell'isola, su cui si trovavano dei simboli a forma di occhio. Erano una ventina, ma solo tre erano di colore verde.

«Dannazione - sbuffò Jim - Sono quasi tutte danneggiate!».

Kelly cliccò sulla prima: lo schermo si trasformò in un'immagine reale, rappresentante una scogliera bordata di giungla, sulla quale si distinguevano alcuni nidi occupati da pterosauri. Per quanto interessata al comportamento degli animali, Kelly passò alla seconda, che mostrava la pianura che avevano già sorvolato. Senza grandi speranze di individuare qualcosa, cliccò sulla terza, che sembrava trovarsi in piena giungla.

L'urlo della paleontologa si levò nella sala controllo, mentre l'occhio elettronico inquadrava uno scheletro umano scaraventato scompostamente di fronte ad un tronco. Sulle ossa spolpate e spezzate erano rimasti solo pochi brani di carne putrefatta.

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