Nightmare Island di Marco1989 (/viewuser.php?uid=18039)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Salve a tutti. In questi giorni ho
ritrovato in una scatola
il "romanzo", come lo definivo con un certo orgoglio al tempo, che
scrissi quando frequentavo le medie, e che era ispirato (o per meglio
dire, in
molti punti scopiazzato) da Jurassic Park, abbondantemente il mio film
preferito sia allora che adesso. Non conoscevo neanche il concetto di
fanfiction a quell'età, quindi lo considerai semplicemente
poco più di un
esercizio e lo lasciai in un cassetto, sia figuratamente che
fisicamente.
Ora, quasi vent'anni dopo, quando
sono sul punto di
pubblicare il mio secondo romanzo, ho ritrovato la mia prima
"fatica", ed ho deciso di pubblicarlo in questo settore, anche se
come vedrete il legame con Jurassic Park è un po'
particolare. Ho deciso anche
di modificarlo il meno possibile, in modo che mantenga le
caratteristiche e le
emozioni di un tredicenne che sognava i dinosauri.
Un'ultima cosa: sempre per evitare di
fare troppe modifiche,
ho deciso di non aggiornarlo alle tecnologie di oggi, quindi fate finta
di
leggere questa fiction all'inizio degli anni 2000.
Detto questo, buona lettura!
PROLOGO
Nonostante fosse pieno giorno, la
giungla era praticamente
avvolta dall'oscurità: gli alberi grandi ed intricati
facevano passare a stento
un filo di luce.
A prima vista sembrava simile ad una
qualsiasi foresta
tropicale dell'America centrale o meridionale, on il suo clima caldo e
umido e
le piante gigantesche circondate da liane enormi. Ad un osservatore
più
attento, però, non sarebbero sfuggiti dei particolari che la
rendevano
insolita: oltre a gigantesche felci alte come piccoli alberi, il
sottobosco era
ricco di una vegetazione molto insolita. Si andava da arbusti simili ad
asparagi alti quanto e più di un uomo e, in alcuni casi,
anche cinque o sei
metri, a insolite palme dall'aspetto tozzo, fino, sorprendentemente, a
grandi
conifere lontanamente simili a pini. Un esperto botanico avrebbe
riconosciuto
equiseti, cicadacee ed araucarie, alcune tra le piante più
antiche esistenti al
mondo, risalenti addirittura all'era mesozoica.
Pochissimi sembravano essere i rumori
di origine animale, se
si escludevano cinguettii e pigolii di uccelli, provenienti sia dalle
cime
degli alberi che dai cespugli. In sostanza, non si muoveva una foglia.
Una mano rugosa e abbronzata
spostò un cespuglio di felci,
ed un uomo lo attraversò, inoltrandosi ulteriormente nella
giungla. Alle sue
spalle ne comparvero altri due.
Il primo era il classico tipo
dell'avventuriero: barba
pressoché incolta, braccia muscolose, vestiti di colore
mimetico piuttosto
stinti ed una pesante carabina da caccia grossa stretta in mano. Gli
altri due,
vestiti con camicie azzurre e con in testa dei berretti da operai,
imbracciavano dei semiautomatici americani M1 Garand ed apparivano
assai meno
robusti di quello che sembrava il loro capo.
Il primo uomo che era uscito dai
cespugli aveva uno sguardo
duro e attento, e guardava nervosamente in tutte le direzioni, come se
si
aspettasse di essere assalito da un momento all'altro: aveva
già il dito sul
grilletto, e sembrava pronto a sparare al primo segno di pericolo.
Dopo una cinquantina di passi, una
volta che l'uomo con
l'aria da duro ebbe scostato un groviglio di equiseti, i tre si
trovarono di
fronte una recinzione d'acciaio alta quasi dodici metri, che somigliava
a
quelle impiegate negli zoo per i grandi animali. La rete era sfondata:
i cavi
d'acciaio parevano tranciati, troncati di netto, quasi fossero stati
spezzati a
morsi.
Il capo del gruppetto si
chinò per attraversare lo squarcio,
entrò nel recinto e si inginocchiò per
controllare il terreno, che era
costellato da impronte fresche a tre dita, molto simili a quelle di un
enorme
uccello. L'uomo si rialzò, si dette un'occhiata intorno
cercando di avvertire
qualsiasi rumore, poi infilò una mano in tasca, estrasse una
ricetrasmittente
portatile, l'accese e la portò all'orecchio:
«Centro di Controllo, rispondete.
Qui è Chester. Passo» disse.
«Qui
Centro di
Controllo. Ti sentiamo forte e chiaro, passo».
«Anche il recinto Dieci
è sfondato, e gli animali sembrano
essere tutti usciti. Passo».
«Lo
sappiamo. Abbiamo
riattivato la centrale elettrica, quindi radar e computer funzionano di
nuovo,
e possiamo monitorare l'intera rete. Praticamente tutti i recinti
risultano
sfondati in più punti, e non riusciamo ad elettrificare i
tratti ancora
integri; devono essere stati tranciati i collegamenti. Passo».
«Il recinto Tredici
è ancora intero? Passo» chiese con una
punta di preoccupazione-
«Anche
il Tredici è
danneggiato. Passo».
L'uomo imprecò a bassa
voce: «Dannazione! Che faccio a
questo punto?».
«Torna
indietro e
riporta i tuoi al Centro di Controllo, ce ne andiamo. Se non ci siete
entro
mezz'ora, vi lasciamo qui. Passo».
«Ricevuto.
Chiudo» e spense la radio. Si avvicinò ai
compagni e sussurrò, attento a non fare rumore:
«Dobbiamo rientrare
immediatamente. La situazione è fuori controllo: il recinto
Tredici è sfondato,
così come molti altri - cercò di ignorare il
terrore dei due - Dobbiamo
sbrigarci prima che si accorgano della nostra presenza: è
attiguo al Dieci, non
devono essere molto lontani».
Il gruppetto si mise in marcia nella
direzione opposta con
ancora maggiore cautela. Chester era teso come una corda di violino:
gli pareva
di sentire le foglie frusciare continuamente intorno a loro, e
malediceva il
momento in cui aveva accettato quel lavoro.
"Dovrà fare semplicemente
il guardiano di uno zoo"
gli avevano detto, senza però specificare di che tipo di zoo
si sarebbe
trattato; quando lo scoprì, desiderò di averlo
chiesto prima.
All'improvviso gli si drizzarono le
orecchie: stavolta era
sicuro che qualcosa si fosse mosso a brevissima distanza da loro. Stava
per
dire agli altri di affrettare il passo, quando udì una
specie di sordo e cupo
brontolio levarsi dalle felci a meno di un metro dalla sua gamba
destra. In un
istante comprese: «Correte!» urlò.
I tre uomini scattarono senza
voltarsi indietro, ma avevano
fatto solo pochi metri quando Chester udì un grido
disperato. Si voltò e vide il
compagno in coda al gruppetto venire trascinato in mezzo alle felci da
qualcosa
che si manteneva nascosto in un cespuglio: le grida si trasformarono
presto in un
rantolo strozzato.
«Muoviti!»
urlò all'altro, riprendendo subito la fuga.
Il suo compagno riprese a correre, ma
dopo pochi metri sentì
dei passi pesanti alle sue spalle, seguiti da uno stridio da uccello
rapace: si
fermò, si voltò di scatto e, gettato un grido
disperato, si tolse il fucile
dalla spalla ed iniziò a sparare.
Chester sentì per tre
volte lo schiocco secco del Garand, ma
non si fermò a controllare: continuò la fuga,
sperando che almeno il sacrificio
degli altri due potesse salvare la sua vita. Credeva ormai di essere
riuscito a
seminare i suoi inseguitori quando, scostata una grossa felce, si
trovò di
fronte, ad una trentina di metri di distanza, uno degli abitanti del
recinto
Tredici, che lo guardava con occhi crudeli e iniettati di sangue.
Chester,
deciso a vendere cara la pelle, portò il calcio del fucile
alla spalla e
inquadrò la testa del suo avversario nel mirino ad
infrarossi montato sulla
canna dell'arma. Stava per premere il grilletto quando udì
un ringhio rabbioso
provenire dalla sua sinistra. Voltò la testa di scatto, e si
trovò di fronte un
muso allungato pieno di denti aguzzi, e due occhi da rettile che
lanciavano
lampi.
«Bastardi!»
urlò con tutta la rabbia che aveva in corpo, girando
il fucile e premendo il grilletto senza neanche prendere la mira.
Risuonò uno sparo. Fu
l'ultimo gesto della sua vita:
l'animale balzò in avanti, lo gettò a terra e gli
sfondò lo stomaco con un
colpo d una delle zampe posteriore. Un attimo dopo fu raggiunto
dall'altro, ed
entrambi iniziarono a mangiare.
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Capitolo 2 *** Capitolo Uno ***
CAPITOLO UNO
L'oceano Atlantico muggiva con
potenza devastante: onde alte
fino a dieci metri si abbattevano con la forza di un terremoto sulle
coste
orientali dell'America Centrale e sulle isole del Mar dei Caraibi. La
notte era
nera come l'inchiostro, ed il cielo era talmente coperto da nubi color
del
ferro da impedire completamente la vista delle stelle. I mostruosi
cavalloni
erano sormontati da una cresta di spuma bianca, la sola nota di colore
nell'oscurità. La pioggia era talmente fitta da creare una
sorta di muro
d'acqua, al punto che era difficile comprendere dove terminava il mare.
L'aria
era attraversata da un vento fortissimo. L'uragano Forza 4 si era
scatenato con
grande velocità, ed i marosi aggredivano le scogliere del
Belize, del Guatemala
e dell'Honduras con tale violenza da sembrare decise a raggiungere
l'altro
oceano.
Nel mezzo dello scenario
apocalittico, che mostrava la
Natura nel pieno della sua violenza, si poteva a stento distinguere un
piccolo
oggetto verde, che sembrava apparire e scomparire in mezzo alle onde:
sballottata da tutte le parti, impossibilitata a mantenere una rotta,
una
minuscola nave lottava contro gli elementi infuriati. Era un piccolo
cabinato
da diporto dall'aspetto un po' antiquato, lungo undici metri e largo
quattro,
con il ponte e le sovrastrutture in legno e lo scafo in legno ricoperto
da uno
strato di vetroresina. Entrambi erano dipinti con una vernice verde
brillante:
più chiare le sovrastrutture, tendente al color smeraldo lo
scafo ed il ponte.
Il motore, normalmente in grado di raggiungere i quattordici nodi, in
quel
momento stava compiendo degli sforzi supremi per contrastare la furia
del mare.
Sulla fiancata di destra, in lettere nere, era possibile leggere il
nome
"Green Star".
Lo yacht procedeva lentamente,
ostacolato dalle ondate che
spesso lo coprivano quasi del tutto. Tentava, chiaramente, di
raggiungere la
costa più vicina, quella del Belize, per cercare una rada
dove ripararsi dalla
tempesta. La "Green Star" sembrava un semplice guscio di noce in
mezzo all'uragano, e sarebbe probabilmente già stata
rovesciata da tempo se al
timone non ci fosse stato un uomo che di tempeste ne aveva viste tante:
lo
dicevano chiaramente il volto rugoso e bruciato dal sole, i capelli
sale-e-pepe, gli occhi decisi. Avrebbe potuto avere quarant'ani come
cinquanta.
Vestito con una camicia azzurra e un paio di calzoni neri, il tutto
sovrastato
da un impermeabile in tela cerata, l'uomo aveva i muscoli tesi come
cavi d'acciaio,
e si stava spezzando le braccia nel tentativo di mantenere dritta la
barra. Era
però consapevole di non poter continuare a lungo: aveva
lottato contro numerosi
fortunali, e sapeva che si trattava soltanto di tempo. Le onde
avrebbero
rovesciato la barca ben prima che potesse raggiungere la costa.
La porta della timoneria si
aprì, permettendo ad uno
scroscio d'acqua di rovesciarsi al suo interno, ed entrarono due
persone
inzuppate: una era alta, più vicina ai cinquanta che ai
quaranta, con la barba
marroncina tagliata corta ed i capelli castani che, in precedenza,
dovevano
essere stati ben pettinati, ma che ormai erano talmente inzuppati
d'acqua da
somigliare al dorso di un porcospino. L'altro era un ragazzo sui
quattordici
anni, alto e magro come un chiodo, con i capelli biondi appiccicati
alla testa
e l'aria spaventata.
L'uomo, che indossava una tenuta da
marinaio totalmente
bagnata, si rivolse al timoniere: «Che ne pensi, John?
Possiamo riuscire ad
arrivare interi ad un porto qualunque?».
L'uomo chiamato John scosse la testa:
«Non credo proprio,
signor Roberts. Non riuscirò a tenere a galla la barca per
molto con un mare
come questo».
«Devi riuscirci,
maledizione! Oltre alle nostre vite c'è in
gioco anche quella di mio figlio» urlò Roberts,
stringendo a se il ragazzo.
«Morte e dannazione! Io le
avevo detto che il cielo
prometteva male, e che secondo me sarebbe scoppiato un uragano, ma lei
mi ha
ascoltato? Come ha detto? "La barca è mia e decido io cosa
fare, ed oggi
ho deciso di fare una partita di pesca in alto mare con il mio
ragazzo!".
Non dia la colpa a me, quindi!».
La sfuriata del marinaio ebbe
l'effetto di calmare Roberts:
«Credi che ci sia qualche speranza di salvare la barca a
questo punto?».
John scosse la testa:
«Siamo troppo lontani dalla costa, e
raggiungerla è un'impresa impossibile. Non sono neanche del
tutto sicuro di
dove siamo, visto che dieci ore di tempesta ci hanno sballottato in
tutte le
direzioni: davanti a noi dovrebbe esserci il Belize, quindi i porti
più vicini
dovrebbero essere Belize City e Dangriga, ma sono comunque a
più di cinquanta
miglia, oltretutto al di là di una barriera corallina. Non
riusciremo mai ad
arrivarci in queste condizioni: ammesso di non rovesciarci, ci
spezzeremmo in
due sui coralli».
«Non ci sono porti
più vicini?».
«Solo delle isolette, ma
non saprei neanche come trovarle in
questo caos. Maledizione!Non so veramente come uscire da questo
disastro! Ho
superato molte tempeste negli anni, ma ero sempre al timone di navi
più grosse.
Questo guscio di noce è un bel battello da diporto, ma con
un mare simile non
c'è molto da fare».
«Trova una soluzione,
accidenti! - tornò ad urlare Roberts,
cercando di sovrastare il boato dell'uragano - Sei o no il migliore
comandante
di yacht di Biloxi? Ti ho assunto con uno stipendio astronomico, e ora
è il
momento di guadagnartelo: trova il modo di sarlarci la
pelle!».
John non rispose: era troppo
impegnato a fissare il mare in
tempesta al di là della prua della barca, distinguendolo a
mala pena a causa
degli scrosci di pioggia: poteva essere solo una nuvola bassa, non era
facile
distinguere qualcosa nel caos, ma…
«Sembra che la soluzione
abbia trovato noi - disse alla fine
- Isola dritta di prora!».
Mister Roberts ed il figlio si
precipitarono a fianco del
capitano e guardarono verso l'orizzonte nero pece: qualcosa di confuso
sembrava, effettivamente, sorgere dal mare a non più di tre
miglia dalla barca.
«Sei sicuro che sia
un'isola? A me non sembra…» chiese il
ragazzo.
«A me si» fu il
solo commento di John.
Roberts estrasse da un gavone una
cartina plastificata e la
controllò, poi disse: «Se davvero siamo a
più di cinquanta miglia dalla costa,
qui non ci sono isole. Deve essere una nuvola».
«Improbabile, a meno che
sulle nubi cresca la foresta
pluviale».
Il signor Roberts afferrò
un binocolo e guardò meglio:
effettivamente, con quella forma a tronco di cono, con una collina
più bassa
accanto al rilievo principale e con quelle scogliere di lava nera che
piombavano quasi in verticale verso l'oceano, sembrava uno dei vulcani
spenti
che emergono dalle acque del Golfo del Messico. I fianchi dell'isola
erano
coperti da una folta vegetazione.
«Hai ragione, è
un'isola» disse Roberts, passando gli occhi
sulla mappa in cerca di un puntino rivelatore; infine trovò
qualcosa: «Eccola
qui: Isla de Rocas Negras, la più esterna e lontana dalla
costa del Belize. Deve
certamente essere disabitata. Come facciamo ad attraccare?».
«Attraccare mi sembra
impossibile, ma forse possiamo trovare
una spiaggia dove far arenare la nave. Meglio questo che affondare in
alto
mare!».
John non attese neanche la replica di
Roberts: stringendo
rabbiosamente il timone, puntò verso l'isola. Bastarono
pochi minuti per capire
che, a quella velocità, non sarebbe mai riuscito ad
arrivarci, quindi spinse
fino in fondo la leva che regolava i giri del motore. La barca
iniziò a vibrare
con estrema violenza, sottoposta ad uno sforzo terribile, ma in qualche
modo la
prua riuscì a fendere le ondate.
I marosi si infrangevano contro le
nere scogliere dell'isola
mentre il "Green Star" procedeva lentamente, sballottato da tutte le
parti. Ci volle quasi mezzora, ma alla fine John riuscì a
portare il battello
sotto la parete di roccia, cercando di ignorare la sempre
più insistente
vibrazione che si trasmetteva dal motore sotto sforzo fino alla
timoneria. In
quel punto, però, lo sbarco era impossibile: le scogliere
erano alte quasi
trenta metri e a picco sul mare. Il capitano decise di costeggiare
l'isola,
anche se questo voleva dire offrire il fianco alle onde,
finché non avesse trovato
un tratto di spiaggia bassa dove far arenare la "Green Star".
Intanto, però, la sua
mente era rivolta all'isola: non
l'aveva mai vista, era appena un segno sulla carta, ma sembrava un
luogo
selvaggio. Era impossibile sapere cosa avrebbero potuto trovare.
«Ci sono armi a
bordo?» chiese a Roberts.
«No, non credo - rispose
l'uomo - Credo che ciò che su
questa nave somiglia di più ad un'arma è un
fucile ad arpioni per la pesca
subacquea… anzi, no: c'è la mia Smith &
Wesson calibro 38. L'avevo portata
a bordo con tutta la scatola per pulirla e ho dimenticato di lasciarla
a terra.
perché questa domanda?
Per tutta risposta John chiese:
«Dov'è?».
«Ma a cosa le
serve?».
«Senta, su molte di queste
isole ci sono belve feroci. Isla
de Rocas Negras è piuttosto lontana dalla costa, quindi
è possibile che i
grossi animali non ci siano arrivati, ma ora che poss riuscire a
sfuggire a
questa tempesta non intendo rischiare di terminare la mia carriera tra
i succhi
gastrici di un giaguaro o di un puma. Dove si trova la
pistola?».
Mister Roberts deglutì,
lanciò un'occhiata allo
spaventatissimo figlio, poi disse: «Non sarebbe meglio
evitare lo sbarco?».
«Il motore è al
limite. Se non facciamo arenare la barca qui
andremo presto a fondo. Non c'è tempo per discutere: dove si
trova quella
maledetta pistola?».
Roberts rimase silenzioso per qualche
istante, poi disse:
«Nel cassetto di sinistra dello scrittoio, nella mia cabina,
dentro ad una
scatola di legno. Ci sono anche le cartucce».
«Bene - ribatté
John, e si fece da parte per lasciare il
posto a Roberts - Mi ha detto di saper tenere il timone, quindi mi
ascolti
bene: guidi questo catorcio intorno all'isola, mantenendosi a distanza
dalla
costa per evitare gli scogli, e mandi il ragazzo a chiamarmi se
individua un
tratto dove sia possibile arenarsi senza spaccare la chiglia in
due» ed uscì
dalla timoneria.
Fuori lo spettacolo era incredibile:
il ponte era invaso
dall'acqua, e numerose tavole dei parapetti si erano già
spezzate. Lo scafo e
la carena scricchiolavano in maniera preoccupante, ed il rumore del
motore si
era trasformato in un ululato.
"E' solo questione di tempo -
pensò John - poi il Green
Star si spezzerà in due".
Il capitano scese sottocoperta ed
entrò nella cabina del
signor Roberts, una stanza relativamente piccola che conteneva un letto
singolo, un piccolo armadio di metallo, uno scrittoio ed una sedia, il
tutto
solidamente imbullonato al pavimento. John, cercando di mantenere
l'equilibrio
sul pavimento inclinato, aprì il cassetto sinistro dello
scrittoio ed estrasse
una scatola rettangolare di legno. La aprì, trovando un
corto revolver con il
calcio in legno; inseriti i appositi spazi ricavati nella gommapiuma,
c'erano
quindici proiettili. Il capitano infilò l'arma nella
cintura, si svuotò i
proiettili in una tasca dell'impermeabile che poi chiuse con la
cerniera,
infine gettò via la scatola ed uscì.
Prima di tornare in coperta si
precipitò nella propria
cabina, che era più piccola di quella di Roberts, e
strappò via il materasso
dalla cuccetta. Sotto c'era un fagotto avvolto in un panno bianco, dal
quale
estrasse un cinturone nero munito di fondina ed una piccola scatola di
cartone.
Mentre risaliva la scala si allacciò alla vita il cinturone
ed infilò la
scatola nella stessa tasca dove aveva rovesciato i proiettili, poi
uscì sul
ponte. La tempesta, se possibile, era aumentata ulteriormente di
intensità, e
la nave continuava a scricchiolare in modo sempre più
terrificante. John aveva
la sensazione che il ponte fosse crepato, ma non poteva controllare a
causa dei
torrenti d'acqua che lo attraversavano. Non aveva il tempo di
accertarsene e,
per giunta, non voleva saperlo.
Prima di tornare da Roberts il
capitano barcollò fino ad una
delle pareti della timoneria, imbullonato alla quale c'era una
rastrelliera
d'acciaio contenente quattro fucili per la pesca subacquea ed una sorta
di faretra
con diversi arpioni, che per fortuna non erano ancora andati dispersi.
Le armi
erano bloccate con un lucchetto, ma non c'era tempo di cercare la
chiave: John
lo fece saltare con un calcio, poi afferrò un fucile e tre
arpioni.
Aveva già la mano sulla
maniglia della porta quando si
avvertì un urto terribile: mentre il rumore di legno
scheggiato riempiva
l'aria, la barca ondeggiò paurosamente, poi rimase immobile,
scossa soltanto
dalle onde.
Dall'interno della timoneria
sentì Roberts urlare al figlio:
«Va a chiamare John, presto!».
«Sono già qui -
disse il capitano piombando dentro - Che
diavolo è successo?».
«Siamo finiti su uno
scoglio! Non riesco più a muovere la
barca!».
«Lasci fare a
me!» gridò John, mettendosi al timone e portando
la leva che regolava i giri dell'elica su "INDIETRO MEZZA". Tra il
rumoreggiare delle onde si udì lo sforzo disperato del
motore, che non si
rivelò però sufficiente per smuovere la "Green
Star" dalla trappola
dove era finita. Il capitano, pur sapendo che il propulsore era con
ogni
probabilità già al limite, portò la
leva ancora su "INDIETRO TUTTA".
Con ogni probabilità, ne era consapevole, l'urto aveva
sfondato lo scafo, ma
sperava di poter portare la barca ad arenarsi prima che affondasse: tra
gli
scrosci di pioggia si intravedeva, a neanche mezzo miglio, una striscia
bianca
che poteva essere soltanto una costa sabbiosa.
Per un istante la barca
indietreggiò, quasi riuscendo a disincagliarsi,
poi si udì uno scoppio sottocoperta, ed il motore si
ammutolì.
Roberts ed il capitano si guardarono
in faccia, ed ognuno
lesse il terrore negli occhi dell'altro: non era necessario parlare per
capire
che il motore aveva esalato l'ultimo respiro.
Passarono pochi secondi, poi si
udì un urto violento sul
fianco destro, seguito a stretto giro da uno ancora più
terribile su quello
sinistro, che sfasciò parzialmente la parete della
timoneria: un'onda più
potente delle altre aveva strappato la barca dallo scoglio, mandandolo
a
sbattere contro la rupe.
Il rumore di legno spezzato invase
l'aria, facendo gelare il
sangue a John: affacciandosi ad un oblò mentre tutto
vorticava intorno a loro,
vide l'intero quarto di poppa del "Green Star", troncata di netto,
sbriciolarsi contro la pietra. Il legname e la vetroresina avevano
ceduto,
condannando i tre occupanti della barca ad una morte
pressoché certa.
La prua del battello venne
ripetutamente scagliata contro la
scogliera, completamente in baia delle onde, rischiava di sbriciolarsi
da un
momento all'altro, e loro non potevano fare assolutamente nulla.
All'improvviso si sentirono
sollevare: Roberts ed il ragazzo
caddero a terra, ma John riuscì a tenersi in piedi
reggendosi al timone. Guardò
fuori dal vetro scheggiato: la prua della "Green Star" era in
equilibrio su un'onda mostruosa, e stava per essere sbattuta sulla
costa.
«Reggetevi! -
urlò John agli altri due - Sarà uno scontro
durissimo!» e si gettò a terra, cercando di
aggrapparsi alla base del timone
come meglio poteva.
L'onda, alta più di dieci
metri, sbatté la prua del battello
sulla battigia della spiaggia sabbiosa. L'urto fu terribile: lo scafo
si
sbriciolò, ed i tre uomini furono sbalzati fuori. John fece
un volo di cinque
metri e, una volta caduto sulla sabbia, rotolò per altri
tre, per poi sbattere
la testa contro quello che sembrava un albero. Per un istante rimase
cosciente,
poi perse i sensi.
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Capitolo 3 *** Capitolo Due ***
CAPITOLO DUE
«John! John,
svegliati!».
Il capitano aprì
faticosamente gli occhi, la testa che gli
pulsava dolorosamente, e si trovò di fronte i suoi due
compagni di sventura, un
po' malandati, ma vivi.
«Come ti senti?»
gli chiese Roberts, chino su di lui. John
notò che la sua costosa tenuta da marinaio era strappata e
strazzonata, e che
perdeva sangue da un taglio sulla fronte e da una sgraffiatura al
gomito
sinistro. Il ragazzo sembrava spaventato e zuppo, ma per il resto
appariva
incolume. Sullo sfondo, appena oltre la linea della costa dove le onde
continuavano ad infrangersi con violenza, vide i resti della timoneria
e parte
dello scafo della barca schiantati sulla sabbia.
«Come se mi avessero
colpito sul cranio con una mazza»
rispose John mentre cercava cautamente di alzarsi: la testa gli faceva
un male
terribile, ma fortunatamente non sembrava avere nulla di rotto. Ebbe
solo una
leggera vertigine, ma riuscì a tenersi in piedi.
«Che cosa facciamo ora? -
chiese Roberts, una punta di
panico nella voce - La "Green Star" è a pezzi, e il gommone
di
salvataggio è sparito in mare! Non abbiamo modo di lasciare
l'isola!».
«La
ricetrasmittente?» chiese il capitano a voce alta,
cercando di sovrastare il rumore delle onde e dei tuoni.
«Ridotta in
briciole».
John soffocò
un'imprecazione, poi guardò il suo orologio,
che fortunatamente ancora funzionava: le due meno un quarto. Non
avrebbe fatto
giorno ancora per diverse ore. Avrebbe evitato volentieri di inoltrarsi
nella
giungla al buio, ma non potevano restare sulla spiaggia per tutta la
notte: non
sapeva se la tempesta avesse raggiunto il suo massimo, ma se
così non fosse
stato, un'onda più grossa delle altre avrebbe potuto
trascinarli in mare.:
«Dobbiamo cercare di inoltrarci nella foresta. Credo che
l'isola sia
disabitata, ma potrei sbagliarmi, magari c'è un
villaggio».
«Non possiamo attendere
l'alba?» mormorò Roberts osservando
gli alberi fitti con sguardo spaventato.
«Se arriva un'onda
più alta, finiremo per essere travolti e
per annegare prima ancora di rendercene conto» rispose
perentorio John mentre
si avvicinava ai resti della barca. L'urto aveva strappato la
rastrelliera e
trascinato in mare tutto il contenuto, ma all'interno di ciò
che restava della
cabina il capitano trovò il fucile che aveva preso in
precedenza, insieme a due
degli arpioni. Li raccolse e, tornato dagli altri, li
consegnò al ragazzo:
«Usalo per difenderti se serve» gli disse, e gli
piazzò il tutto in mano. Fatto
ciò, ricordandosi della pistola di Roberts, portò
la mano alla cintura:
miracolosamente, l'arma era ancora lì, ma quando
infilò una mano nella tasca di
ciò che rimaneva della cerata si rese conto che c'era uno
strappo. I proiettili
erano scomparsi. Il capitano non provò neanche a trovarli:
al buio e su una
spiaggia, sotto la pioggia che cadeva a cascata, sarebbe stato
impossibile. Si
limitò a consegnare la Smith & Wesson al
proprietario della barca.
«Un fucile ad arpioni ed
una pistola con appena cinque colpi
- sbuffò Roberts - Dobbiamo solo sperare di non aver bisogno
di difenderci».
«Due pistole»
disse John mentre si raddrizzava il cinturone,
poi estrasse dalla fondina un vecchio revolver Ruger calibro 44.
«Non mi avevi detto di
avere una pistola» sottolineò Roberts
con una punta di rimprovero.
«Lei non me lo ha
chiesto» fu la secca replica del capitano
mentre riponeva l'arma, per poi avviarsi verso gli alberi, seguito,
dopo una
breve esitazione, dagli altri due.
La marcia nella foresta
proseguì faticosamente per oltre
un'ora, sotto i grandi tronchi e attraverso un fitto sottobosco di
felci. La
pioggia arrivava attutita sotto le fronde, ma l'umidità
gocciolava copiosamente
dall'alto, impedendo ai tre uomini zuppi anche soltanto di provare ad
asciugarsi. Non sapevano dove stavano andando: John sperava soltanto di
starsi
effettivamente dirigendo verso il vulcano. In realtà non
credeva minimamente
che l'isola potesse essere abitata, ma non appena avesse smesso di
piovere
dall'alto avrebbero potuto fare segnali a navi o aerei. Roberts era un
pezzo
grosso, appena il tempo lo avesse consentito sarebbe stata fatta
partire
un'operazione su vasta scala per trovarlo.
Nonostante la situazione poco rosea,
John non poteva fare a
meno di guardarsi intorno durante la salita, è
ciò che vide suscitò la sua
curiosità. Aveva visto diverse giungle in vita sua, ma
nessuna che somigliasse
a quella. La vegetazione, oltre alle classiche piante tropicali,
comprendeva un
sorprendente numero di quelle che sembravano grosse conifere,
benché
appartenessero a specie che non aveva mai visto neanche sul continente,
le
quali apparivano totalmente fuori posto su un'isola dei Caraibi. La
seconda
cosa che lo colpiva era l'assenza di animali: se all'inizio aveva
temuto di
finire nella trappola di un giaguaro, aveva poi dovuto arrendersi
all'evidenza
che sull'isola non sembrava esserci alcun tipo di mammifero, neanche un
topo.
Aveva sentito soltanto le grida di un grosso numero di uccelli, molti
dei quali
gli erano completamente sconosciuti. Continuava a lanciare occhiate ai
suoi
compagni, temendo che non ce la facessero a tenere il passo. Roberts,
in
effetti, sembrava sul punto di cedere: era il più vecchio,
in fondo, ed era un
industriale, decisamente più abituato a stare alla scrivania
che a muoversi per
i boschi. Anche il ragazzo sembrava essere decisamente stanco: in
qualche punto
il terreno era troppo scosceso per le sue gambe non abbastanza
allenate, al
punto che doveva aiutarsi con le mani per continuare a salire.
Si era fermato per riprendere fiato,
quando vide qualcosa
che attrasse la sua attenzione: una specie di grossa lucertola verde
sbucò da
un cespuglio di felci e, correndo sulle zampe di dietro,
tornò ad infilarsi nel
sottobosco on la velocità di un missile.
Il ragazzo impiegò qualche
secondo per rendersi conto di
quello che aveva visto: quando mai si era sentito di una lucertola
capace di
correre sulle zampe posteriori? Da quanto si ricordava di avere
imparato a
scuola, non ne erano capaci, di certo non ad una simile
velocità.
Un attimo dopo udì una
sorta di pigolio, simile a quello di
un uccellino da nido, ed il lucertolone saltò su un tronco
vicino al viso del
ragazzo ed iniziò ad osservarlo, la testa inclinata di lato:
più che spaventato,
sembrava sinceramente incuriosito.
«Papà! John!
Veite qui!».
I due accorsero subito: prima John,
che era più agile, poi
Roberts, che aveva afferrato la pistola. Capirono però
subito che non c'era
alcun pericolo imminente: l'animale sembrava essere troppo piccolo per
rappresentare una minaccia. I due adulti si abbassarono per osservarlo:
era
alto una trentina di centimetri, ed il suo corpo, coperto di scaglie,
era
verde, venato da strisce brune lungo il dorso. Le zampe anteriori
terminavano
in tre lunghe dita artigliate, così come quelle posteriori,
che erano lunghe ed
estremamente simili a quelle di un uccello corridore. La testolina,
munita di
due occhi neri e penetranti, non era però certamente quella
di un uccello: le
sue fauci erano infatti armate di piccoli denti, all'apparenza molto
aguzzi.
L'animale non era più grande di un pollo, e pigolava
eccitato: sembrava
estremamente interessato agli
strani
esseri che lo circondavano, che sembrava non aver mai visto prima.
All'improvviso parve irrigidirsi: sollevò la testa,
girandola da una parte
all'altra, infine, dopo aver emesso un ultimo pigolio, apparentemente
molto
simile ad un grido di terrore, il lucertolone scappò via,
sparendo nella
vegetazione.
Prima ancora che i tre potessero
chiedersi che cosa avesse
spaventato la creatura, udirono alle proprie spalle un rumore di rami
spezzati
e foglie calpestate, poi un basso e sordo ringhio che fece gelare loro
il
sangue nelle vene. Per un attimo l'immagine di un giaguaro
attraversò la mente
di John, ma comprese quasi subito che non poteva trattarsi del verso di
un
felino.
Accadde tutto in un lampo: Roberts
proruppe in un urlo che
nulla aveva di umano, al quale seguì il tonfo ovattato della
pistola dell'uomo
che cadeva sul suolo coperto da vegetazione marcescente, infine il
rumore di un
corpo trascinato di forza.
John e il ragazzo si voltarono appena
in tempo per vedere i
piedi dell'uomo scomparire in un cespuglio, mentre un'ombra scura, alta
poco
meno di due metri, lo sovrastava. John ebbe modo di vedere l'essere
saltare
sullo stomaco di Roberts mentre lui si dimenava disperatamente. Il
proprietario
della barca lanciò un altro urlo. L'animale
sollevò una delle zampe posteriori.
Nonostante il buio, John ed il ragazzo videro chiaramente che il piede
della
creatura, oltre a due dita artigliate, ne presentava un terzo dalle
proporzioni
mostruose: era dotato di un artiglio a forma di falcetto ricurvo lungo
almeno
dieci centimetri. Con uno scatto improvviso, l'animale lo
piantò nel ventre di
Roberts e lo sbudellò come un pesce. Le viscere dell'uomo
fuoriuscirono dalla
terribile ferita e si sparsero al suolo insieme ad un'ondata di sangue
scuro.
«Nooooo!»
urlò il ragazzo sfilandosi il fucile ad arpioni
dalla spalla, e fece per precipitarsi verso l'animale, che aveva
già iniziato a
divorare il corpo ancora scosso da rantoli del padre. Gli occhi di
Roberts,
ormai ciechi, fissavano il vuoto.
John lo afferrò per un
braccio, trattenendolo a forza: «E'
troppo tardi! - urlò - Via, presto! Corri, ragazzo!
Corri!!!».
Il giovane esitò per un
istante, poi prese a correre, gli
occhi oscurati dalle lacrime e senza una meta precisa. John raccolse da
terra
la pistola caduta a Roberts, poi lo seguì più
velocemente possibile.
Il ringhio riprese, minaccioso quanto
prima. John non lo
vide, ma una seconda creatura era uscita dalle felci, si era fermata un
secondo
di fronte al corpo dilaniato di Roberts, poi, vedendo altre due
possibili prede
in fuga, si era gettata all'inseguimento.
John, nonostante la stanchezza,
correva con tutta la forza
che gli restava nelle gambe, risalendo la montagna alla massima
velocità
possibile. Aveva perso di vista il ragazzo, ma era il minore dei suoi
problemi:
sapeva benissimo di essere inseguito, anche se non sapeva da che cosa.
Sentiva
la belva calpestare pesantemente le foglie, avvertiva il suo respiro e,
ogni
tanto, il ringhio rabbioso di chi vede fuggire la preda che credeva di
catturare più facilmente.
Aveva già percorso quasi
settecento metri quando il verso si
trasformò in un vero e proprio ruggito, che in apparenza
proveniva da appena
dietro di lui, poi un corpo pesante gli piombò sulla
schiena, scaraventandolo a
terra di faccia con estrema violenza. John tentò di
rimettersi in piedi, ma il
peso della bestia, che si era piazzata sopra di lui, lo
schiacciò al suolo. Ne
avvertiva la grande forza, nonostante le dimensioni relativamente
ridotte, e
credeva di sentire il battito del suo cuore, ma forse era solo il
brontolio
dello stomaco di un essere affamato.
Lo avvertì spostare una
zampa, poi sentì un ringhio più
forte degli altri, seguito da un lancinante dolore alla schiena e da un
inquietante rumore di ossa spezzate. Nonostante fosse in preda ad una
sofferenza quasi inimmaginabile, John comprese che doveva avergli
piantato
l'artiglio a falce nella schiena, sfondando una delle scapole come se
fosse
stata di carta anziché di solido osso. John sentì
di stare perdendo i sensi, ed
arrivò a pensare che sarebbe stata una fortuna: aveva la
testa voltata di lato,
e nonostante il suo sguardo si stesse rapidamente velando, vide il
terreno
coprirsi di rosso. Comprese che era il suo sangue.
Prima di svenire sentì il
sibilo dell'animale che si
preparava ad iniziare il suo pasto, poi qualcosa di simile ad un
fischio,
infine il suo mondo diventò buio.
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Capitolo 4 *** Capitolo Tre ***
CAPITOLO TRE
La savana della Tanzania sembrava
estendersi
ininterrottamente fino all'orizzonte: una immensa distesa d'erba
punteggiata
qua e là da qualche pozza d'acqua e da alcuni stagni poco
profondi che
lentamente si asciugavano nella calura estiva e da qualche grossa
roccia
circondata da bassi cespugli. In alcune aree la prateria cedeva il
posto a
boschetti di acacie spinose, con qualche gigantesco baobab a rompere la
monotonia.
Se la vita vegetale appariva
abbastanza rinsecchita, quella
animale era lussureggiante: vicino ad una delle polle più
grosse c'era un
grande branco di gazzelle, i mantelli chiari sul dorso, scuri sui
fianchi e
bianchi sul ventre che si confondevano nelle ondate di calore. Alcune
erano
chine sull'acqua fangosa per bere, altre brucavano l'erba giallastra.
Poco
lontano, un gruppo di grossi elefanti color marrone rossiccio sembrava
muoversi
quasi senza una meta, con l'indolenza di chi sa di non avere nulla da
temere.
Di fronte ad una delle macchie d'alberi, due giraffe dal mantello
maculato, che
andava a formare un disegno regolare e quasi ipnotico mangiavano
tranquillamente le foglie delle acacie, incuranti delle spine aguzze.
Verso l'orizzonte si intravedeva una
mandria di grossi
animali cornuti, probabilmente gnu, che trottavano in una nube di
polvere.
Tutti gli animali sembravano
tranquilli: l'intero scenario,
in effetti, trasmetteva una grande sensazione di calma, ed era simile
alle
fotografie che ritraggono gli scenari idilliaci del continente africano.
Le antilopi furono le prime ad
avvertire la presenza di
qualcosa di pericoloso, ma non ebbero il tempo di reagire: sul gruppo
piombò di
colpo un grosso leone maschio, lungo più di due metri e alto
oltre la metà al
garrese. Sia il mantello giallastro che la criniera erano sporche di
polvere e
strinate di sangue. Doveva essersi avvicinato di soppiatto, arrivando a
brevissima distanza dalle prede prima che queste lo sentissero. Le
antilopi
tentarono una fuga disperata, ma il felino aveva già
afferrato una femmina, e,
una volta rovesciatala a terra, le spezzò l'osso del collo
con un solo morso.
La povera bestia morì all'istante. Il leone, lanciato un
ruggito di sfida al
cielo, iniziò a mangiare.
«Sua maestà ha
fame. Strano, visto che solo tre giorni fa ha
spolpato due indigeni fino alle ossa».
Le parole erano state pronunciate
all'interno di un
boschetto: nascosti dietro dei bassi cespugli, due uomini armati
osservavano la
scena di caccia con i binocoli. Il primo appariva completamente fuori
posto:
tarchiato, pallido, apparentemente spaventato, si asciugava
continuamente il
sudore. Portava un paio di antiquati occhiali rotondi, e sembrava
dimostrare
almeno quarant'anni, anche se con ogni probabilità ne aveva
una decina di meno.
Nonostante stringesse in mano una nuovissima carabina a ripetizione,
somigliava
più ad un ragioniere che ad un cacciatore. L'altro, quello
che aveva parlato,
doveva essere più vecchio, vicino almeno alla cinquantina, e
sembrava il
perfetto esempio del duro e dell'avventuriero: capelli castani corti
completamente nascosti da un cappello
a
tesa larga, camicia blu scura segnata, come anche il suo viso, da un
lungo
periodo passato all'aria aperta, così come il gilet
marroncino che portava
sopra di essa. In mano teneva una doppietta Holland & Holland
di grosso
calibro e dalla canna lunga, una splendida arma da caccia grossa.
Dietro i due uomini, appena visibile
attraverso le frasche,
si intravedeva una grossa jeep verde, il mezzo migliore per spostarsi
attraverso i vari ambienti della savana.
«E' lui, mister
Masterson?» chiese.
«Si, ne sono sicuro, mister
Buckley» rispose l'uomo chiamato
Masterson.
«Mi chiami Harry - disse il
più anziano, calcandosi bene il
cappello sulla testa - Ne è sicuro?».
«Si. Quella cicatrice che
ha sulla schiena… gliel'ho fatta
io con una fucilata quando ha attaccato il cantiere della ferrovia.
Purtroppo
non ho mirato abbastanza bene, o non saremmo qui».
In effetti dal dorso del leone
sembrava mancare un pezzo di
carne, apparentemente strappato da un proiettile di striscio, ma la
ferita era
già quasi cicatrizzata. Henry continuò ad
osservare l'animale che mangiava per
qualche secondo, poi tolse la sicura al fucile ed afferrò un
sasso.
«Cosa sta
facendo?» chiese Masterson, stupito dal gesto. In
quel momento ricordò di non conoscere affatto il cacciatore
che aveva
assoldato, il quale era in effetti un ranger, guardacaccia nella parco
nazionale di Serengeti. Quando era andato a denunciare alle forze
dell'ordine
due aggressioni successive a distanza di pochi giorni al cantiere
ferroviario
che gestiva da parte di un grosso leone, che gli erano costati cinque
uomini e
l'interruzione dei lavori alla strada ferrata che avrebbe dovuto
migliorare il
collegamento con il Kenya, gli era stato detto che, quando si trattava
di mangiatori
di uomini, l'unica soluzione era abbatterli, ed avevano affidato il
caso al
loro migliore ranger, l'inglese figlio di una famiglia di coloni Harry
Buckley,
ex cacciatore di professione e tiratore eccezionale, anche se dal
carattere un
po' insolito. Masterson non lo sapeva, ma stava per assistere ad una
delle
particolarità del suo metodo di caccia.
«Io concedo sempre una
possibilità alla mia preda, signor
Masterson» rispose, e prima che il direttore del cantiere
potesse comprendere
ciò che stava per accadere, scagliò il sasso con
violenza e colpì il leone al
fianco sinistro. L'animale, colto di sorpresa, si voltò, e
subito vide i due
uomini. Il suo muso coperto dal sangue della gazzella si
deformò in una
maschera di furore, e ruggì con rabbia. Harry aveva
già alzato il fucile, e
seguiva nel mirino i movimenti della testa dell'animale. Masterson,
invece,
tremava come una foglia, e non riusciva neppure a tirare indietro la
leva per
inserire un proiettile nell'otturatore.
Il leone ruggì di nuovo, e
si lanciò al galoppo verso i due,
le zanne scoperte in un ringhio silenzioso.
Masterson cacciò un urlo,
lasciò cadere il fucile e si gettò
a terra, le mani sopra la testa. Sentì un ruggito distante
non meno di due
metri, poi un singolo sparo, un tonfo, poi più nulla. L'uomo
rimase sdraiato
ancora per qualche secondo, poi alzò gli occhi, trovandosi
di fronte il muso
del leone.
Terrorizzato, balzò
indietro cercando di raccogliere il
fucile, per notare subito dopo che la testa della belva era spappolata
da una
scarica di pallettoni. Alzando lo sguardo, vide il ranger con il fucile
fumante
ancora sotto braccio che sorrideva.
«Un solo colpo?
Wow!» esclamò il direttore, già
dimentico
della pessima figura che aveva fatto, e balzò in piedi
esultante.
«Mi aiuti a caricarlo sulla
jeep, voglio tornare alla
centrale prima di notte».
La jeep entrò nella
città di Seronera, ai confini del parco
di Serengeti. Harry la diresse verso il comando dei Rangers, con il
corpo del
leone abbattuto nel retro. Aveva già lasciato Masterson al
suo cantiere.
L'auto attraversò un
cancello arrugginito e si fermò di
fronte ad un'ampia costruzione ad un solo piano costruita in pietra e
legno.
Vicino c'era un ampio capannone di lamiera che veniva utilizzata come
deposito
per gli automezzi.
Dalla struttura, che era la sede dei
Rangers che avevano il
compito di sorvegliare il parco di Serengeti, uscirono due uomini,
entrambi con
in testa un cappello verde a tesa larga, e si diressero verso la jeep.
«Complimenti, Harry! -
disse uno dei due, un ragazzone sui
ventisei o ventisette anni, con i capelli quasi biondi e gli occhi
color
ghiaccio, vestito con la divisa regolare dei Rangers, alla vista del
leone - Un
animale gigantesco! E' una delle tue prede migliori».
«Grazie mille, Jim. Non ne
avevo mai visto uno tanto grande.
E' stato un peccato doverlo abbattere, ma si era abituato troppo al
sapore
della carne umana per rimanere in vita. Ci pensi tu a bruciare il
corpo?».
«Si, certo - rispose il
ragazzo - Harry, c'è un uomo dentro
che vuole parlare con te. E' venuto fin qui apposta».
«Chi
è?».
«Non ha detto il suo nome,
ma sembra un uomo d'affari o
qualcosa di simile da come è vestito».
«Odio gli uomini d'affari,
ma dubito di poterlo evitare.
Dov'è?».
«Credo sia in sala mensa -
disse Jim con voce ironica -
Buona fortuna!».
Harry entrò nella centrale
ridacchiando e si diresse verso
la mensa. L'ampia stanza era in quel momento vuota, ad eccezione di un
uomo
tarchiato sulla quarantina, vestito con giacca bianca e pantaloni dello
stesso
colore, che mangiava tranquillamente una bistecca offertagli dai
Rangers.
«Buon appetito»
disse Harry con artificiosa gentilezza.
L'uomo alzò gli occhi, lo
squadrò da capo a piedi, poi
chiese: «Harry Buckley, suppongo».
«In persona. Lei chi
è?».
«Mi chiamo George Mc
Manaman. Piacere» disse, alzandosi dal
tavolo e stringendo la mano ad Harry.
«Mi hanno detto che lei
voleva parlarmi. E' vero?».
«Si, ma si tratta di una
faccenda molto importante, e
preferirei parlarne in privato».
Dopo aver gettato un'occhiata
dubbiosa alla sala vuota,
Harry si costrinse a dire: «Venga nella mia stanza,
allora» e si diresse verso
l'uscita. Mc Manaman raccolse da terra una valigetta nera e lo
seguì, lasciando
metà della bistecca nel piatto.
Attraversarono un corridoio, poi
entrarono in una stanza
relativamente piccola, arredata, almeno parzialmente, in stile
tropicale:
un'amaca di rete al posto del letto, un armadietto d'acciaio, una
scrivania, un
attaccapanni appeso al muro e una sedia di vimini. Harry Buckley era un
tipo
decisamente spartano, nonostante quella stanza fosse il luogo dove
passava la
maggior parte del suo tempo. Aveva una casa a Seronera, ma vi passava
al
massimo un giorno ogni venti.
Harry appese cappello e fucile
all'attaccapanni, poi si
sedette sull'amaca: «Avanti, parli. Qui non può
sentirci nessuno».
Mc Manaman si sedere sulla sedia, poi
estrasse semplicemente
una fotografia e la porse ad Harry: «Mi dica se riconosce
l'animale che è
raffigurato qui sopra».
Harry la guardò: ritraeva
un grande lucertolone, color verde
sporco sul dorso e color polvere sul ventre, con un collo lunghissimo
terminante in una testa minuscola, un corpo massiccio, quattro zampe da
elefante e una possente coda poco più corta del collo. Era
sulla riva di un
fiume, in mezzo ad una distesa di erba verdissima, con un bosco di
alberi sullo
sfondo.
Resistendo alla tentazione di
sospirare, chiedendosi se il
suo interlocutore lo stesse prendendo in giro, Harry disse:
«E' un dinosauro,
un sauropode direi, almeno a quanto ne so. Un modello fatto molto bene,
tra
parentesi: non ne avevo mai visti di così realistici,
neanche in televisione.
Tecnologia digitale?».
«No, signor Buckley. E'
fatto così bene perché non è
finto».
«Come, scusi?».
«Quello che ha davanti non
è né un modello riprodotto né una
ricostruzione al computer: quella foto l'ho scattata io all'animale
vivente».
Harry lo fissò con aria
perplessa, sempre più convinto che
l'uomo fosse un buffone o un folle: «Mi sta prendendo in
giro, vero?».
Mc Manaman tirò fuori una
seconda fotografia: «Le sembra un
modello o una ricostruzione al computer questa?».
Stavolta l'immagine mostrava lo
stesso animale mentre
brucava tranquillamente le fronde di una pianta simile ad una conifera,
ma non
era solo: dietro di lui c'era un intero branco di creature lontanamente
simili
a rinoceronti, ma dotati di un collare osseo intorno alla testa, due
corna
supplementari sopra gli occhi e una lunga coda da rettile. Non aveva
modo di
stabilirne precisamente le dimensioni, ma confrontandoli con gli alberi
sembravano più grandi di un elefante. Harry da ragazzo si
era molto interessato
ai dinosauri, e riconobbe negli animali dei triceratopi, o comunque una
specie
dello stesso genere. Con un brivido, dovette ammettere che non
sembravano
veramente modellini e riproduzioni. Se da una parte sembravano a dir
poco
perfetti, dall'altra sui corpi si vedevano le piccole imperfezioni, le
ferite,
le rughe tipiche di animali reali. Sembravano… vivi.
«Com'è
possibile? - chiese Harry, che quasi balbettava, non
volendo ammettere quella che era l'impensabile verità - Non
possono… non è
possibile che… sta dicendo che sono veri?».
Mc Manaman lo fissò negli
occhi, leggendo incredulità, ma
anche la gioia di un bambino che spera di veder realizzato un sogno
impossibile.
Annuì con la testa.
Harry rischiò seriamente
un infarto: era bianco come uno
straccio, e sudava copiosamente. La sorpresa era stata totale. Tutto
ciò che
riuscì a dire fu: «Com'è
possibile».
«Lei per caso ha letto il
libro "Jurassic Park"?».
Harry scosse la testa: «No,
ho visto solo il film. Cosa
c'entra?».
«Io sono il direttore di
un'industria di ingegneria genetica
- rispose Mc Manaman - La G.G.E., che sta per Global Genetic
Engeneering. Ci
occupiamo di tutto, dagli interventi per rendere più
produttivi i vegetali per
la produzione alimentari a rendere resistenti alle malattie gli animali
da
allevamento, ma abbiamo sempre avuto piani molto più ampi.
Se libro e film di
"Jurassic Park" sono piaciuti al mondo intero, per noi sono stati una
fonte di ispirazione. Non avevamo mai neanche pensato alla
possibilità di
ricreare i dinosauri, ma dopo due anni di studi approfonditi abbiamo
concluso
che esistesse veramente la tecnologia necessaria per provare a creare
dei cloni
di animali preistorici. Sono serviti altri tre anni di lavoro, ma alla
fine,
impiegando delle tecniche in parte simili a quelle che aveva immaginato
Crichton, ci siamo riusciti: combinando il DNA recuperato da zanzare
conservate, per l'appunto, nell'ambra, e completandolo con quello di
uccelli
moderni, i parenti più prossimi dei dinosauri, abbiamo
ricostruito diverse
creature risalenti al Mesozoico, sia vegetariane che carnivore, inclusi
alcuni
animali giganti, come ha visto dalla foto. Abbiamo ripreso dal libro
anche
l'idea dell'isola: abbiamo preso in gestione dal Belize un remoto lembo
di
terra nel Golfo del Messico, l'abbiamo modificata con piante ed alberi
antichi
perché ricordasse il più possibile il mondo di 65
milioni di anni fa, vi
abbiamo trasferito animali ed attrezzature e per due anni abbiamo
continuato il
lavoro, ricreando quasi una ventina di specie di dinosauro provenienti
da ogni
parte del mondo, che siamo riusciti ad attribuire a specie ritrovate
nel corso
degli ultimi due secoli. Abbiamo costruito un centro per i visitatori,
un
laboratorio per gli scienziati ed i paleontologi che avessero voluto
studiare i
nostri fossili viventi, delle recinzioni elettrificate per separare i
territori
delle diverse specie, visto che non avevamo intenzione di scatenare una
indiscriminata lotta per la sopravvivenza, un piccolo eliporto per
facilitare
l'accesso di turisti e materiali, visto che non siamo riusciti a
trovare un
punto adatto per un porto stabile, ed una modernissima centrale
elettrica,
funzionante in parte grazie al movimento delle onde ed in parte ad
energia
solare».
Harry era letteralmente stupefatto:
ciò che stava sentendo
sembrava la trama di un film di fantascienza, eppure sentiva che, per
quanto
assurdo, poteva essere reale.
«Credevamo che fosse tutto
perfetto - continuò Mc Manaman -
ed eravamo pronti per rivelare la nostra scoperta al mondo intero,
quando si
verificò un problema imprevedibile: la centrale elettrica
subì un gravissimo
guasto, e noi impiegammo oltre ventiquattro ore per farla ripartire,
abbastanza
da esaurire i generatori che avevamo predisposto. Nelle quasi sei ore
di
assenza totale di corrente gli animali sfondarono le recinzioni,
uccisero
diversi operai e guardiani ed arrivarono ad assalire il centro di
controllo.
Capimmo di non avere alcuna possibilità di riprendere il
controllo, perciò
decidemmo di evacuare l'isola. La G.G.E. rischiò la
bancarotta. Molti, nel
consiglio direttivo della società, proposero di sterminare
gli animali e
cancellare ogni traccia di quello che avevamo fatto, ma riuscii ad
oppormi:
feci notare che, se la situazione sull'isola si fosse stabilizzata,
avremmo
avuto la possibilità di presentare ugualmente la nostra
scoperta. Un Mondo
Perduto, per quanto artificiale, dove i dinosauri avevano ricostruito
l'ambiente naturale di un'epoca scomparsa. Ci avrebbe reso comunque
degli eroi.
Le azioni della compagnia sarebbero salite alle stelle. Abbiamo quindi
deciso
di lasciare le cose come stanno per almeno un decennio, aspettando di
vedere
come si sarebbero evolute le cose».
Harry era completamente stupefatto, e
faticava addirittura a
parlare: «E' incredibile - riuscì a dire - Su
un'isola dei Caraibi esistono dei
dinosauri vivi e veri. E'… fantastico! Da quanti anni vivono
liberi lì?».
«Quasi due»
rispose semplicemente Mc Manaman.
«Ok, sto cercando di
accettare questa cosa - borbottò Harry
- Non è facile, credo lo possa capire. C'è una
cosa, però, che non capisco:
tutto questo com'è legato a me? Perché, su un
intero pianeta, ha deciso di
rivelare questa bomba proprio a me?».
«Perché di
recente è sorto un problema di natura
assolutamente inaspettata. L'isola che abbiamo preso in gestione, Isla
de Rocas
Negras, è disabitata, e con qualche mazzetta abbiamo
convinto il Belize a
dichiararla zona militare vietata. Quindi, da quando abbiamo evacuato,
non c'è
più stato alcun essere umano. Due settimane fa,
però, una delle poche
telecamere di controllo ancora attive sull'isola ha individuato quelli
che noi
abbiamo identificato come i resti di un battello da diporto schiantati
su una
delle spiagge. Su di essi era ancora leggibile il nome "Green Star".
Abbiamo fatto qualche ricerca, ed abbiamo trovato una segnalazione di
scomparsa
fatta alle capitanerie di porto di tutti gli Stati Uniti e di Kingston:
una
barca con quel nome è scomparsa durante una tempesta nel
Golfo del Messico. A
bordo c'erano un grosso industriale di Biloxi, Lawrence Roberts, suo
figlio
Alexander ed un capitano di mare, che era il timoniere del battello,
John
Garrett. La ex moglie di Roberts aveva denunciato la sua scomparsa
dieci giorni
prima. Abbiamo individuato delle tracce semi-cancellate che
dimostravano che i
tre uomini, sopravvissuti al naufragio, si erano inoltrati nella
giungla».
Harry fece due veloci conti mentali:
«E' passato quasi un
mese da quando sono finiti sull'isola, mi sembra impossibile che tre
esseri
umani possano essere sopravvissuti tanto a lungo in mezzo ai
dinosauri».
«Sembrava assurdo anche a
noi, a dire la verità, ma ci sono
dei fatti nuovi: non più di dieci giorni fa una seconda
telecamera, in un'area
diversa dell'isola, ha registrato una sagoma di sembianze umane che
attraversava rapidamente i cespugli, e non più di una
settimana fa il solo microfono
ancora attivo sull'isola ha registrato quello che è stato
identificato come uno
sparo. Questo ci ha convinto che, appena sette giorni fa, ci fosse
ancora
qualcuno vivo sull'isola, e potrebbe esserlo ancora».
«Non lo avrei mai detto:
crederei a stento se mi
raccontassero che un uomo è sopravvissuto un mese da solo
qui nella savana,
figuriamoci in quello che sembra il luogo più pericoloso del
mondo. In ogni
caso, per quanto abbia suscitato la mia curiosità, non ho
ancora capito il mio
ruolo in questa storia».
«Credevo che ormai fosse
chiaro - rispose Mc Manaman - Abbiamo
deciso che sarebbe disumano lasciare degli uomini a morire
lì, ma anche ammesso
che le autorità credessero alla nostra storia,
impiegherebbero tanto di quel
tempo a muoversi che, una volta che fossero pronti a salvarli, le ossa
dei naufraghi
sarebbero già divenute dei fossili. Visto che in un certo
senso è colpa nostra
se attualmente sono in pericolo, abbiamo stabilito che è
responsabilità della
G.G.E. salvarli, quindi stiamo organizzando una piccola spedizione che
si recherà
sull'isola. Abbiamo già assoldato un paleontologo, un
esperto in macchinari, un
meccanico di prima scelta, un pilota e diversi esperti in sicurezza.
Abbiamo
acquistato armi ed attrezzature all'avanguardia, ma ci manca qualcuno
in grado
di guidare l'operazione sul campo: gli uomini che ho reclutato sono
esperti, ma
sono sostanzialmente dei mercenari, mi serve qualcuno che sappia come
sopravvivere in natura, che sappia confrontarsi con il lato selvaggio
del
mondo. Qualcuno come lei. Che cosa ne pensa?».
Harry lo fissò come un
savio può guardare un pazzo: «E' sicuro
di sentirsi bene?».
Mc Manaman sembrò
adombrarsi: «Senta, ci stiamo organizzando
affinché questa missione sia curata nei minimi dettagli:
stiamo lavorando alla
sicurezza e prevedendo anche gli imprevisti, in modo che nessuno si
faccia
male».
«Come avete fatto quando
avete preparato l'isola per
ospitare i dinosauri? - chiese con sarcasmo il ranger - Sembra che non
abbiate
capito un accidente dai vostri sbagli! Quanto a me, vedermela con i
leoni ed i
coccodrilli è una cosa, li conosco da una vita e sono capace
di prevedere le
loro mosse, in un certo senso. I dinosauri, dai quali nessun essere
vivente può
sapere cosa aspettarsi, sono una faccenda completamente
diversa».
«So bene che ci sono
centinaia di cose che possono andare
storte - insistette l'uomo d'affari - Con animali simili non si
può essere
realmente sicuri di niente, ma non possiamo neanche lasciare degli
esseri umani
a morire lì senza tentare nulla per salvarli! Stiamo
lavorando affinché
l'intera operazione non duri più di due giorni, il tempo
necessario per trovare
i naufraghi e portarli via. Cercheremo, nel frattempo, di tenerci
lontani dai
territori dei carnivori. Comunque, non abbiamo discusso della cosa
più
importante per lei».
«Cioè?».
«Il suo compenso: le offro
quarantamila dollari».
Harry sbuffò. Erano tanti
soldi, ma non abbastanza per
rischiare la vita fino a quel punto: «Neanche per il doppio
ci verrei».
«Allora le offro il
quadruplo - ribatté Mc Manaman deciso -
Centosessantamila dollari per al massimo cinque giorni di lavoro. Anzi,
no:
sono disposto ad arrivare a duecentomila».
Ad Harry iniziarono a fischiare le
orecchie: non aveva mai
visto una simile quantità di denaro nella sua vita, e
perfino i quarantamila
iniziali sarebbero stati oltre due anni di stipendio come ranger.
«Ha detto due giorni
sull'isola?» chiese con tono vago.
«Esatto, non di
più».
«E che cercheremo di
tenerci quanto più lontano possibile
dai carnivori?» proseguì.
«Si, ma non posso credere
che un uomo con la sua fama abbia
paura di queste creature».
«Chiunque con un po' di
cervello ne avrebbe, ma per
duecentomila dollari sono pronto a scendere all'inferno a tirare la
coda al
Diavolo. Accetto, mister Mc Manaman».
L'uomo sorrise: «Perfetto!
Inizierò subito a programmare il
suo trasferimento per via aerea a…».
«Un attimo solo».
L'uomo d'affari rimase bloccato a
metà del discorso.
«Lei è stato
piuttosto vago su ciò che avete creato - lo
incalzò Harry - Voglio sapere quali animali ci troveremo di
fronte. Quali sono
le specie che avete creato?».
Mc Manaman impiegò qualche
secondo per rispondere: «Beh, la
risposta non sarà esattamente precisa: alcune delle nostre
specie non
corrispondono esattamente ai ritrovamenti fossili. Le abbiamo
attribuite per
comodità a specie descritte, ma probabilmente si tratta di
animali appartenenti
alla stessa famiglia, benché distinti. Servirebbe uno studio
prolungato da
parte di un team di biologi e paleontologi per capirlo con esattezza -
tirò fuori
dalla valigetta un documento dall'aria ufficiale - In ogni caso, questa
è la
lista completa delle creature attualmente presenti sull'isola. Non
abbiamo però
un'idea precisa del numero dei soggetti, dall'ultimo conteggio ci sono
stati
quasi due anni di predazione e riproduzione incontrollate».
Harry afferrò il foglio ed
iniziò a scorrerlo:
G.G.E
Lista creature ricreate
- Corythosaurus
- Parasaurolophus
- Kritosaurus
- Tenontosaurus
- Hypsilophodon (?)
- Gastonia (?)
- Pinacosaurus
- Prenocephale (?)
- Psittacosaurus
- Bagaceratops
- Triceratops
- Styracosaurus
- Stegosaurus (?)
- Brachiosaurus (?)
- Camarasaurus
- Saltasaurus
- Pteranodon
- Pterodactylus (?)
- Peteinosaurus
- Coelophysis (?)
-
Cryolophosaurus (?)
-
Noasaurus (?)
-
Rugops (?)
-
Tyrannosaurus Rex
-
Velociraptor (?)
Harry sobbalzò diverse
volte leggendo i nomi dei carnivori,
e rischiò un mancamento quando I suoi occhi si posarono sul
T-Rex, ma fu
l'ultima riga a colpirlo particolarmente: dovette leggere tre volte
prima di
convincersi che c'era veramente scritto "Velociraptor".
Alzò lo sguardo dal
foglio: «Qualcosa capisco di dinosauri:
per "Velociraptor" intendete…».
Mc Manaman sembrò
arrossire: «Beh, il nome in realtà non
è
esatto. Abbiamo ritrovato l'ambra in Nord America, quindi non
è sicuramente la
specie asiatica. Per di più è decisamente
più grande, anche dei fossili di Deinonychus.
Potrebbe trattarsi di una specie imparentata con l'Utahraptor, ma
considerando
che il nome con i quali li conosce la maggior parte della gente
è quello…».
«E voi siete stati tanto
folli da ricreare una macchina di
morte come un Raptor gigante? - incalzò Harry - Un branco di
leoni è nulla in
confronto ad una muta di esseri come quelli».
Sul volto dell'uomo d'affari si
dipinse uno sguardo
indignato: «Senta, quando ci è capitata
l'occasione e sono nati i primi
esemplari non abbiamo potuto non approfittarne! Si tratta di una delle
specie
più famose al mondo, addirittura più del
tirannosauro. Inoltre, quei
duecentomila dollari dovrà pure guadagnarseli! - poi
tornò a sorridere con
cordialità: «Se faremo le cose nel modo giusto,
comunque, non li vedrete
neanche. Sarà una semplice passeggiata nella
foresta».
Harry rimase pensieroso per qualche
secondo, poi disse:
«Verrò, ma non da solo. Le credo sulla parola
riguardo alla bravura dei
mercenari che ha reclutato, ma io voglio qualcuno di cui potermi fidare
ad
occhi chiusi. Se non mi consente di reclutare un secondo ranger di
questo
parco, può anche rinunciare alla mia presenza».
Mc Manaman dovette riflettere per
poco: «Va bene, può
arruolare un altro uomo, purché lo faccia in
fretta».
Harry non dovette chiedersi per
più di qualche secondo chi
chiamare, e ancora meno tempo occorse a convincere Jim: non appena ebbe
chiara
la situazione, risultò subito chiaro che il ragazzo sarebbe
andato anche
gratuitamente, pur di vedere i dinosauri. Alla fine, però,
firmò ugualmente un
contratto da centomila dollari.
Occorsero solo poche ore ai due
ranger per prendersi un paio
di settimane di congedo: già prima di sera, sistemate le
pratiche burocratiche
ed impacchettate armi e bagagli, salirono su un piccolo aereo che li
condusse
all'aeroporto internazionale di Nairobi, dove li attendeva un jet che
li
avrebbe condotti in Belize, a supervisionare gli ultimi preparativi per
la
spedizione.
Harry non lesse mai il retro del
foglio che gli era stato
fornito da Mc Manaman: lasciò la Tanzania convinto che la
cosa peggiore che si
sarebbe trovato ad affrontare sarebbero stati i presunti Velociraptor.
Non
poteva sapere della presenza di altri due tipi di dinosauri. Il primo
genere, i
Compsognathus, non lo avrebbe certamente preoccupato: si trattava di un
minuscolo carnivoro, poco più grande di un pollo.
Diversa era la situazione per il
secondo tipo:
- Giganotosaurus
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Capitolo 5 *** Capitolo Quattro ***
CAPITOLO QUATTRO
«Questo bestione deve
essere corazzato in maniera
intelligente! Non possiamo appesantirlo troppo, altrimenti non si
muoverebbe
neanche! Ve lo ripeto: mettete tutto quel metallo sul rivestimento e
rimarremo
bloccati nella prima pozzanghera!».
Erano due giorni che Harry strepitava
come un disperato con
il gruppo di meccanici installati in un capannone della G.G.E. a Belize
City,
nel tentativo di sistemare i giganteschi problemi di organizzazione che
Mc
Manaman aveva limitato come "semplici dettagli".
La prima, fondamentale problematica
riguardava i veicoli: la
G.G.E. aveva realizzato diverse strade e sentieri che si intersecavano
nella
parte pianeggiante dell'isola, quindi avrebbero potuto utilizzare dei
mezzi a
motore per spostarsi nelle diverse aree di ricerca. Era stato deciso di
portare
una grossa jeep e una sorta di camper doppio, ma da subito era
risultata
evidente la necessità di corazzare i due mezzi: si trattava
di attrezzatura
civile, per quanto di prima qualità, non militare, ed un
grosso dinosauro
avrebbe potuto ridurre il camper ad una fisarmonica con
facilità.
Installare una corazzatura
supplementare si era però
rivelato estremamente complicato. per il camper, inizialmente, era
stato deciso
di utilizzare un rivestimento di acciaio spesso dieci millimetri, ma
perfino
Harry, che sapeva poco di meccanica e niente del tutto di fisica, aveva
compreso che con un simile peso il grande mezzo non avrebbe mai potuto
spostarsi agevolmente su un terreno scosceso. Il rivestimento di
alluminio
proposto da Jim, d'altro canto, non sarebbe stato sufficientemente
robusto. La
jeep aveva problemi addirittura peggiori, considerata la minore potenza
del
motore, obbligando alla fine il team a rinunciare ad installare una
blindatura
supplementare. Rendere il camper un possibile rifugio in caso di
attacco era
però ritenuto fondamentale, ed Harry era stato costretto ad
insistere parecchio
Alla fine fu il capo meccanico Eric
Gardner a trovare una
soluzione. Gardner, un uomo sulla quarantina alto e robusto, con una
folta
barba nera, era facilmente riconoscibile grazie al berretto verde e ai
grandi
occhiali da sole, due cose che non toglieva mai, neanche all'interno
dell'officina.
L'idea era semplice quanto geniale:
una lastra di titanio
resistentissima, spessa però soltanto cinque millimetri. Con
un peso pari ad
appena un terzo del rivestimento d'acciaio, doveva teoricamente essere
in grado
di resistere a pressioni molto elevate, ma non c'era tempo di fare dei
veri
test.
Nei giorni precedenti non erano
mancate preoccupazioni
neppure per le attrezzature radio satellitari. Quelle dei mezzi erano
abbastanza funzionali, ma i piccoli apparecchi portatili si erano
rivelati
estremamente deludenti: bastava una copertura di fogliame tropicale per
bloccare il segnale del satellite. Nick Denver, un magro e nervoso
trentaduenne
esperto in macchinari legati alle telecomunicazioni, fece del suo
meglio,
riuscendo a procurarsi una partita di nuove radio che riteneva migliore
ed
organizzandosi in modo da far rimbalzare il segnale da un satellite
differente,
ma, ancora una volta, era stato impossibile provare l'attrezzatura.
Anche le armi erano state oggetto di
discussione: la G.G.E.
non voleva uccidere i dinosauri, non se poteva evitarlo,
perciò, almeno
all'inizio, era stato deciso che solo i cacciatori e gli addetti alla
sicurezza
avrebbero portato delle armi personali, e che per il resto sarebbero
stati
impiegati soltanto dei fucili a dardi tranquillanti. La decisione si
era però
scontrata con le proteste degli uomini, Harry incluso: in caso di
necessità,
volevano poter disporre di una potenza di fuoco maggiore.
Alla fine, era stata presa una
decisione di compromesso: sul
camper erano stati caricati tre fucili a dardi Dan-Inject modello JMSP, in grado di sparare a
circa sessanta
metri delle siringhe da tre millilitri caricabili con differenti
composti. Sul
camper ne vennero caricate due cassette: una piena di siringhe riempite
con
acetorfina e carfentanil, due dei più potenti sedativi per
uso veterinario,
mentre quelle contenute nella seconda erano piene di un particolare
veleno, la
cubotossina prodotta dalla Chironex fleckeri, più nota come
medusa scatola o
vespa di mare. Si trattava di una delle più micidiali
neurotossine del mondo:
una semplice puntura era spesso in grado di indurre spasmi muscolari,
paralisi
respiratoria ed arresto cardiaco in un uomo entro un paio di minuti. La
dose
contenuta nelle siringhe era duecento volte più elevata e
concentrata di quella
iniettata da una qualsiasi medusa, ed avrebbe avuto un effetto quasi
immediato,
aveva detto il chimico che aveva preparato la mistura, perfino su
animali
pesanti diverse tonnellate. Anche in questo caso, si trattava di una
teoria:
era impossibile sapere se una siringa avrebbe abbattuto un tirannosauro
in caso
di bisogno.
Anche per questo tutti avevano
preferito poter contare su
armi più pesanti: nella rastrelliera installata sul camper
avevano trovato
posto quattro M16, i fucili d'assalto impiegati dall'esercito
statunitense, con
installati sotto le canne i lanciagranate M203, e altrettante pistole
mitragliatrici Heckler & Koch MP5. A queste si aggiungevano le
armi
personali dei cacciatori e degli addetti alla sicurezza, alcune pistole
di
vario genere e , su suggerimento di Harry, qualcosa di più
pesante: un
lanciarazzi M72 LAW, delle granate abbaglianti ed una dozzina di
granate a
frammentazione.
Un ulteriore inconveniente fu il
paleontologo, che si rivelò
essere, in realtà, una paleontologa: la dottoressa Kelly
Gray aveva un
curriculum universitario invidiabile, ma il suo fisico sottile venne
giudicato
poco adatto ai pericoli che avrebbero trovato sull'isola. La
dottoressa, una
giovane donna di appena ventisette anni, dai lunghi capelli ricci,
reagì
definendosi in grado di sopportare qualsiasi fatica e ogni problema che
si
fossero trovati ad affrontare. Nonostante la sua giovane
età, in effetti, Kelly
Gray era una vera esperta di lavoro sul campo: era stata in mezzo
mondo, e si
era specializzata nella ricerca sul comportamento. Nonostante le
riserve, tutti
si convinsero, alla fine, che fosse insostituibile, e smisero di
contestare.
Il camper, per lo meno, era un vero
gioiello, ed Harry lo
comprese non appena lo vide: lungo poco meno di venti metri, con uno
snodo in
gomma a metà della lunghezza, dotato di otto ruote motrici e
dodici
complessive, dipinto in verde mimetico, era un vero e proprio centro di
comando
mobile, oltre ad un dormitorio: nella parte anteriore, oltre alla
cucina, erano
posizionate la dispensa, con provviste per diversi giorni, un tavolo,
quattro
brande attaccate alle pareti ed un piccolo divano. Nella parte
posteriore, che
era interamente a rimorchio ed era saldamente connessa a quella
anteriore da
uno snodo metallico e da una passerella, c'erano un piccolo laboratorio
di
ricerca, una infermeria, la centrale radio, la rastrelliera delle armi
e, nella
parte posteriore, sotto un'ampia vetrata, un secondo divano
trasformabile in un
letto doppio. C'era poi la possibilità, una volta fermi, di
posizionare altri
tre letti provvisori. I fucili erano disposti in tre punti differenti,
tutti
facilmente raggiungibili in caso di necessità. Tutti i
mobili erano fermamente
saldati al pavimento. Il potente motore, nonostante il peso
supplementare della
corazzatura, poteva spingere il mezzo a quasi settanta chilometri
orari, anche
troppi su un'isola piccola come Rocas Negras.
Risolti anche gli ultimi problemi,
tutte le attrezzature ed
i mezzi vennero trasportati all'eliporto, dove furono caricati o appesi
sotto
la fusoliera di tre grossi elicotteri a doppia elica. Alle dieci del
mattino la
piccola squadriglia prese il volo con gli otto componenti della squadra
di
soccorso, dirigendosi verso il mare.
Mc Manaman rimase sulla posta,
osservando gli elicotteri
allontanarsi, e se ne andò solo quando scomparvero
all'orizzonte. Quando arrivò
al parcheggio trovò, accanto alla sua Ford nera, una Toyota
grigia, appoggiato
alla quale lo attendeva un uomo orientale, dall'età
indefinibile, vestito con
un costoso completo bianco.
«Tutto bene, mister Mc
Manaman?» chiese.
«Tutto secondo i piani,
mister Ayate. Non si preoccupi».
«Lo spero per lei. Dopo il
fallimento del progetto
dell'isola il suo posto è a grave rischio».
«Ho già preso
accordi precisi con i tre mercenari che ho
assoldato: lasceranno che siano Harry Buckley e gli altri uomini che ho
assoldato per salvare le apparenze a condurre le ricerche dei dispersi,
mentre
loro si dedicheranno alla cattura di tutti gli animali sui quali
riusciranno a
mettere le mani. Animali giovani, facili da trasportare. Prima che
arrivi il
momento di ripartire arriverà un quarto elicottero, che al
ritorno porterà via
le gabbie. La struttura per accoglierle è già
pronta?».
«Quasi, ma occorreranno
solo pochi giorni per le rifiniture,
e già ora è sufficientemente avanti con la
costruzione per accoglierli senza
rischi. Non ho capito perché ha chiamato quei due cacciatori
bianchi dalla
Tanzania: sembrano tipi in grado di creare problemi, soprattutto quello
più
vecchio».
«Mi occorreva gente
esperta. Stanno andando in uno dei posti
più pericolosi del mondo».
«Perché non gli
ha spiegato il vero motivo dell'operazione,
allora?» chiese Ayate.
«Non ne ho visto la
necessità - concluse Mc Manaman - In
ogni caso, lo capiranno molto presto».
Il viaggio fu breve, ed Harry, che si
era vestito con un
paio di pantaloni color sabbia, una camicia azzurra, un gilet dalle
grandi
tasche ed il suo vecchio cappello da cow-boy, dormì per
praticamente tutto il
tempo, mentre la maggior parte degli altri appariva troppo nervosa per
imitarlo. Jim passò tutto il tempo nella cabina di
pilotaggio a parlare con il
pilota. Sam Thorton, un americano di colore della Carolina del Sud, che
il
cacciatore trovò particolarmente simpatico a prima vista.
«Tu resterai ad aspettarci
sull'isola o tornerai a
prenderci?» gli chiese.
«Io vi
scaricherò lì e me la filerò
più in fretta possibile!
Tornerò a prendervi quando mi chiamerete, ma non resterei
qui per nulla al
mondo! La G.G.E. non mi ha spiegato esattamente cosa c'è su
quell'isola, ma ho
capito perfettamente che si tratta di qualcosa di molto
pericoloso» poi,
osservando l'orizzonte, aggiunse: «Vai ad avvertire la gente
dietro: l'isola è
in vista».
Davanti all'elicottero, ancora
confusa per la distanza, era
comparsa un'isola a forma di tronco di cono, circondata da un alone di
nuvole.
Il grande mezzo non impiegò molto tempo prima di raggiungere
la terraferma, e
Sam iniziò ad abbassarsi, nel tentativo di individuare il
vecchio centro di
controllo, dove era stata realizzata una pista d'atterraggio.
All'improvviso, mentre stavano
sorvolando una zona
pianeggiante ed erbosa in mezzo alla giungla, il pilota
lanciò un urlo: «Santo
cielo! Affacciatevi ai finestrini, presto!».
Tutti andarono a guardare, e
ciò che videro mozzò loro il fiato:
era una scena appartenente ad un altro mondo, lontano milioni di anni.
La piccola valle era attraversata da
un fiume. Sulle sue
sponde, molti animali brucavano le piante acquatiche e le felci, e
tutti
appartenevano ad un unico genere: a sud, si vedevano chiaramente dei
dinosauri
di medie dimensioni, color verde scuro, con teste sormontate da creste
rossastre a cupola che ogni tanto alzavano per strappare qualche fronda
dagli
alberi. più a nord c'era un gruppo di animali dalla
corporatura molto simile, solo
dotati di ceste allungate, di forma tubolare e di colore bluastro,
intenti ad
abbeverarsi. Isolato dagli altri, un grosso stegosauro, con il dorso
ricurvo e
munito di placche mangiava placidamente l'erba. Dal limitare della
giungla,
appena sopra le cime dei primi alberi, si vedevano spuntare dei
lunghissimi
colli. Sulla riva opposta, un gruppo di triceratopi era intento a
nutrirsi, le
grandi teste munite di corna abbassate al livello del suolo.
«Fantastico!»
esclamò la dottoressa in piena estasi: aveva
studiato per anni gli scheletri degli stessi animali che adesso vedeva
vivi e
liberi davanti ai suoi occhi, e l'esperienza era a dir poco esaltante.
Tutti
gli altri, dal canto loro, sembravano troppo stupefatti per riuscire a
parlare:
erano stati avvisati, era vero, ma vedere dal vivo un simile spettacolo
era
completamente diverso.
Sam oltrepassò la vallata,
seguito dagli altri due mezzi, ed
alla fine vide, di fronte a se, un grosso edificio bianco a forma di
cupola:
era il laboratorio di genetica. Intorno alla costruzione principale si
vedevano
numerosi altri edifici, che insieme andavano a costituire il centro
visitatori
vero e proprio. Harry controllò la mappa che gli era stata
fornita da Mc
Manaman: le due strutture quadrangolari a due piani a fianco del
laboratorio
erano indicate come alloggi per il personale e gli scienziati, mentre
quella
più grande, a forma di trapezio, realizzata vicino
all'eliporto, era
l'incompleto albergo che avrebbe dovuto accogliere i visitatori.
C'erano poi
una costruzione piccola e bassa utilizzata come deposito per le
attrezzature,
uno spaccio, il centro di controllo sormontato da una grande antenna
radio,
all'interno del quale erano posizionati i computer che, a suo tempo,
controllavano tutte le attività dell'isola, e diverse altre
costruzioni delle
quali non era stata indicata la funzione. Intorno al complesso si
intravedevano
i resti delle recinzioni, ormai quasi interamente abbattuti. Non si
vedevano
tralicci in grado di portare la corrente dalla centrale elettrica, che
a quanto
Harry aveva capito doveva trovarsi sulla riva del mare, ma il
cacciatore
immaginò che potessero essere sotterranei. Molti edifici,
inoltre, avevano sul
tetto dei pannelli solari. Si vedeva bene, invece, una rete di condotti
di
forma tubolare che andava a connettere i diversi edifici, un'idea
realizzata
per le fin troppo frequenti giornate di forte pioggia.
I due elicotteri con appesi i mezzi a
ruote li posarono
delicatamente a fianco dell'eliporto, staccarono i collegamenti e
ripartirono
senza neppure atterrare. Sa fece scendere il suo sulla pista di cemento
armato,
aiutò rapidamente gli uomini della squadra a scaricare i
materiali, poi, dopo
un frettoloso saluto, tornò a decollare verso il Costa Rica.
Mentre la maggior parte del gruppo
lavorava per costruire il
campo base, Harry, Jim e la dottoressa Kelly andarono a controllare la
situazione degli edifici: la paleontologa aveva qualche speranza di
riuscire a
rimettere in funzione i computer, mentre Jim aveva espresso la speranza
di
poter dormire all'interno dell'albergo anziché nel camper.
La porta d'ingresso era a vetri, ma
le vetrate erano ridotte
in pezzi, Questo non avrebbe significato più di tanto, ma il
caos nella hall
convinse tutti che difficilmente avrebbero ricavato qualcosa dalla loro
visita:
i danni fatti dagli animali e dal maltempo erano stati notevoli, ma le
scale, i
cumuli di materiale, gli attrezzi, facevano capire che l'hotel non era
mai
stato completato. A Jim bastò infilare la testa in una delle
stanze per vedere
che i mobili non erano mai stati messi in posizione.
«Forse è meglio
dormire nel camper» borbottò il giovane.
«Andiamo avanti - fu la
replica di Harry, mentre si
aggiustava il fucile sulla spalla - Voglio vedere in che condizioni
è la sala
di controllo» e si diresse verso una porta grigia sulla quale
era stato scritto
"COLLEGAMENTO RAPIDO: SALA CONTROLLO-SPACCIO".
Nonostante i pochi anni di abbandono,
il clima umido aveva
già fatto arrugginire i cardini, ma la porta non era chiusa
a chiave, e bastò
una spinta decisa per farla aprire.
Il trio attraversò il
corridoio bianco, che sembrava
realizzato in un materiale simile alla vetroresina, abbastanza
traslucido da
lasciar passare parte della luce solare. Nonostante gli anni di
abbandono,
sembrava ancora solido. Dopo circa venti metri trovarono una
biforcazione: una
freccia nera rivolta verso destra conteneva la scritta bianca "SALA
CONTROLLO - VIETATO L'ACCESSO AI NON AUTORIZZATI", mentre una seconda,
rivolta a sinistra, indicava: "SPACCIO - APERTURA H 24". I tre si
diressero verso destra.
Ancora una trentina di metri, poi
trovarono una porta
scorrevole, accanto alla quale era posizionato un tastierino numerico.
Jim
provò a spingere, ma era bloccata. Sopra l'architrave
capeggiava per la seconda
volta la scritta "VIETATO L'INGRESSO AI NON AUTORIZZATI".
«Ci deve essere un
codice» disse il giovane, e provò a
digitare alcuni numeri a caso. Non accadde nulla.
«Non ci deve essere
corrente - borbottò - Come facciamo ad
aprirla?».
«Proviamo con le buone
maniere» disse Harry, prendendo
alcuni passi di rincorsa. Jim comprese e lo imitò.
I due uomini piombarono sulla porta
come arieti. Per loro
fortuna, non si trattava di un ingresso di sicurezza: la lastra si
incurvò
verso l'interno, poi cedette di colpo, crollando al suolo.
«Rozzo, ma
efficace» ridacchiò Kelly, seguendo i due uomini
nella stanza.
Era una grande sala rettangolare
dipinta di bianco: sui due
lati maggiori erano posizionati una dozzina di computer con le
corrispondenti
sedie, mentre al centro era situato un grande plastico dell'isola,
comprendente
tutte le strutture e corredato da led colorati. C'erano diverse porte
secondarie.
«Cerchiamo un modo per
riattivare la corrente - disse Harry
accendendo una torcia - Potendo, vorrei evitare di raggiungere la
centrale
elettrica, deve essere distante quasi un chilometro. Deve esserci una
centralina per far funzionare i pannelli solari, sembrano ancora in
condizioni
discrete, e a noi basteranno».
Trovare le apparecchiature richiese
un quarto d'ora, e farle
ripartire altrettanto: nessuno di loro era esperto nel campo, in fondo,
ma alla
fine Jim trovò la giusta leva: si udì un forte
ronzio mentre la struttura
tornava alla vita, e dopo pochi minuti le luci si accesero, sia pure
debolmente.
«Bravo, Jim!»
esclamò Harry, dandogli una pacca sulle
spalle.
I tre tornarono nella sala di
controllo, e Kelly iniziò a
provare alcuni dei computer. Al quarto tentativo ne trovò
uno ancora
funzionante e si sedette. Iniziò a muovere il mouse,
saltellando da un'icona
all'altra sul desktop, cliccando alla fine su "CONTROLLO FUNZIONI
PARCO". Subito le apparve una sorta di griglia, che mostrava i vari
sistemi, al momento tutti disattivati.
Kelly fu brevemente tentata da
"RECINZIONI
ELETTRIFICATE", ma finì per lasciar perdere: aveva visto
dall'elicottero
in quali condizioni versavano, non sarebbero state molto utili.
Attivò invece
"TELECAMERE DI SORVEGLIANZA".
«Buona idea -
approvò Harry - Con un po' di fortuna,
potremmo riuscire ad individuare i naufraghi senza muoverci da
qui».
Il computer fu occupato a caricare
per qualche istante, poi
presentò una mappa completa dell'isola, su cui si trovavano
dei simboli a forma
di occhio. Erano una ventina, ma solo tre erano di colore verde.
«Dannazione -
sbuffò Jim - Sono quasi tutte danneggiate!».
Kelly cliccò sulla prima:
lo schermo si trasformò in
un'immagine reale, rappresentante una scogliera bordata di giungla,
sulla quale
si distinguevano alcuni nidi occupati da pterosauri. Per quanto
interessata al
comportamento degli animali, Kelly passò alla seconda, che
mostrava la pianura
che avevano già sorvolato. Senza grandi speranze di
individuare qualcosa,
cliccò sulla terza, che sembrava trovarsi in piena giungla.
L'urlo della paleontologa si
levò nella sala controllo,
mentre l'occhio elettronico inquadrava uno scheletro umano scaraventato
scompostamente di fronte ad un tronco. Sulle ossa spolpate e spezzate
erano
rimasti solo pochi brani di carne putrefatta.
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