Nome in codice: Hati

di Old Fashioned
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Prima parte ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Seconda parte ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Prima parte ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5 - Seconda parte ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6 - Prima parte ***
Capitolo 9: *** Capitolo 6 - Seconda parte ***
Capitolo 10: *** Capitolo 7 - Prima parte ***
Capitolo 11: *** Capitolo 7 - Seconda parte ***
Capitolo 12: *** Capitolo 8 - Prima parte ***
Capitolo 13: *** Capitolo 8 - Seconda parte ***
Capitolo 14: *** Capitolo 9 - Prima parte ***
Capitolo 15: *** Capitolo 9 - Seconda parte ***
Capitolo 16: *** Capitolo 10 - Prima parte ***
Capitolo 17: *** Capitolo 10 - Seconda parte ***
Capitolo 18: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 12 - Prima parte ***
Capitolo 20: *** Capitolo 12 - Seconda parte ***
Capitolo 21: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


NOME IN CODICE: HATI



Capitolo 1

La mattina era serena e senza vento, l'ideale per volare. L’aria conservava il freddo della notte, ma portava già con sé un lieve profumo di fieno tagliato e fiori selvatici. Ancora basso sull’orizzonte, il sole disegnava ombre lunghe sui campi.
C’era un gran silenzio, rotto solo da un cinguettare lontano di uccelli e da un tuonare cupo, vago, che rimbombava all’orizzonte come una minaccia di temporale. In quella direzione una caligine sinistra sporcava il cielo terso.
Passò lento uno stormo di oche grigie, disposte a punta di freccia.
Il tenente von Knobelsdorff strinse appena gli occhi nella luce intensa dei primi raggi, si chiuse intorno al collo il pesante cappotto di pelliccia, poi si girò verso gli aerei della Jasta[1], otto Albatros D-III già allineati e pronti per la prima missione della giornata. Tutt'intorno ai velivoli, i meccanici erano impegnati negli ultimi controlli.
Spostò lo sguardo verso la foschia che appesantiva l’orizzonte e un lieve sorriso gli stirò le labbra.
Una voce alle sue spalle lo distrasse: “Che ne dici, Max?”
Egli si girò: stava sopraggiungendo un suo parigrado della fanteria, a sua volta vestito di un pesante pastrano. “Oggi si farà buona caccia,” si limitò a rispondergli. Tornò a fissare l’orizzonte.
L’altro gli si affiancò, emise un sospiro e disse: “Ci dev’essere un attacco in corso.”
Già.”
Pensa, essere in trincea adesso...”
Von Knobelsdorff rivolse al collega uno sguardo critico. Dopo un po’ disse: “A meno di non fare gli scritturali in qualche caserma delle retrovie, cosa che francamente troverei piuttosto umiliante, in guerra non ci sono posti sicuri.”
Parli così perché non hai mai preso parte a un assalto alla baionetta.”
L’altro alzò le spalle. “Gli ulani non se la passano poi tanto meglio dei fanti: durante una carica sei esposto al piombo nemico e se cadi finisci dilaniato dagli zoccoli dei cavalli. Nemmeno come aviatori siamo al sicuro: quando siamo colpiti, bruciamo vivi o ci schiantiamo al suolo.” Fece una pausa, poi in tono pacato soggiunse: “Un soldato non deve preoccuparsi della morte, perché essa lo accompagna costantemente. L’unica cosa cui deve pensare è servire la Patria.”
A quel punto li raggiunsero altri ufficiali, di armi e gradi diversi, tutti accomunati dall'abbigliamento pesante. Uno di essi, imbacuccato in un'enorme pelliccia fulva, indossava già la cuffia da pilota, con gli occhialoni rialzati sulla fronte.
Sarà pieno di inglesi,” considerò il nuovo arrivato, scrutando pensoso il cielo.
Faremo buona caccia,” ripeté von Knobelsdorff. Detto questo raggiunse la linea degli aerei. Si fermò accanto a un velivolo la cui fiancata era ornata dall'immagine di un'aquila che calava sulla preda con gli artigli protesi.
Fissò l'Albatros quasi con affetto, quindi si guardò intorno scrutando le varie figure in grigioverde che vi si affaccendavano intorno. A un certo punto chiamò: “Kramer!”
Un sottufficiale si mise sull'attenti. “Signore?”
Kramer, ha niente da dirmi?”
Nossignore, i ragazzi hanno revisionato il motore stanotte, le armi le ho pulite io personalmente.”
Von Knobelsdorff annuì. “Molto bene. Lo sa che mi fido solo di lei.”
Grazie, signore.”
Si prepari per la messa in moto.”
Sissignore.”
Il tenente salì sulla semiala inferiore e da lì scivolò nel cockpit. Pose i piedi sulla pedaliera, impugnò la cloche e azionò i contatti elettrici, quindi si sporse da una parte e gridò: “Contatto!”
Il sottufficiale, che si era portato davanti al muso del velivolo, diede un colpo all'elica e si fece indietro. Il motore tossì due o tre volte, quindi prese a girare regolarmente, mentre il suo rumore si faceva man mano più pieno e corposo.
Von Knobelsdorff eseguì i controlli dei comandi, quindi alzò il pollice per segnalare ai meccanici di togliere i tacchi alle ruote. Con un sussulto lieve, l'aereo cominciò a rullare sull'erba, prendendo man mano velocità.
Il tenente scambiò un cenno del capo con gli altri piloti, quindi si portò verso la pista e si fermò in posizione di decollo. Aumentò i giri del motore, fece gli ultimi controlli. La barra vibrava fra le sue dita, segno che l’involucro di legno e tela in cui sedeva stava per trasformarsi in una meravigliosa macchina volante.
Diede tutto motore, l’aereo si lanciò in avanti. Le lancette degli strumenti presero vita, la cloche cominciò a opporre resistenza alla mano. L’Albatros sobbalzò su una cunetta, rullò ancora per qualche metro, poi s’involò. Di colpo ogni vibrazione venne meno, mentre la terra si allontanava sempre più velocemente.
Von Knobelsdorff emise un sospiro di puro piacere. Piegò appena la testa all’indietro, lasciò che il vento lo investisse in pieno, infuriandogli sul volto, minacciando di strappargli dal collo la sciarpa di seta.
Ridusse i giri, livellò la quota. Si guardò intorno e localizzò immediatamente gli Albatros della Jasta. Sorrise fra sé e sé al pensiero di quanto all'inizio gli riuscisse difficile individuare altri aerei in volo. La prima volta aveva dovuto scandagliare il cielo per lunghi minuti e alla fine, con fatica, aveva scorto una specie di puntino nero che appariva e scompariva su uno sfondo di foresta.
Sapeva di colleghi piloti che non avevano imparato con altrettanta prontezza a riconoscere gli aerei in volo e non avevano fatto ritorno dalla loro prima missione di combattimento.
Si ripromise di mantenere sempre desta l'attenzione: erano necessari otto abbattimenti confermati per ottenere il Pour le Mérite[2] e non aveva nessuna intenzione di farsi ammazzare prima.

Man mano che la linea del fronte si avvicinava, la quiete del mattino primaverile lasciava il posto a un'atmosfera cupa, sinistra, greve di un'oscura minaccia. Quella che da lungi sembrava solo una vaga caligine prendeva la forma di lente colonne di fumo, che si levavano da profondi crateri. I campi e le macchie di alberi lasciarono il posto a distese brulle, cosparse di tronchi divelti.
Rami scheletriti si tendevano verso il cielo come artigli. Correvano sul terreno, seguendone le ondulazioni, lunghi sbarramenti di filo spinato, anneriti da fuoco e intemperie.
Von Knobelsdorff inclinò appena il velivolo, insinuando lo sguardo nel percorso di una trincea. Delle formiche in grigioverde si agitarono al suo passaggio, qualcuno lo salutò con ampi gesti delle braccia. Comparve addirittura una bandiera.
Egli fece oscillare le ali in risposta, e quasi gli parve che dal basso provenisse una veemente acclamazione.
Sorrise fra sé e sé, poi fece girare lo sguardo su tutta la volta celeste. I fanti delle trincee sapevano sempre esattamente dove si trovava il nemico, ma un aviatore poteva vederselo piombare addosso da ogni lato: da sopra, da sotto, dai fianchi, da dietro...
Salì appena di quota e si voltò verso il sole, sollevando una mano per schermarsi gli occhi dai raggi.
Colse immediatamente un movimento nel cielo terso.
D'istinto fece segno ai suoi, quindi cabrò e diede motore. Tolse la sicura alle mitragliatrici.
All'orizzonte, quelli che sembravano puntini scuri si animarono a loro volta e si dispersero in una formazione allargata. Anch'essi salirono di quota.
Inglesi,” disse von Knobelsdorff fra sé e sé.
Gli aerei si avvicinarono, rivelandosi due Sopwith Pup e un Triplano. Il tedesco salì ancora di quota, subito imitato da uno dei due Pup. Virò per mantenere il contatto visivo, l'altro virò a sua volta. Von Knobelsdorff strinse ancora la virata, costringendo l'Albatros a mettersi quasi a coltello, poi si raddrizzò e guizzò via con un mezzo looping. Nella parabola discendente della figura fece partire la prima raffica, che strappò pezzi di tela dalla semiala dell'inglese.
Questi scartò bruscamente da una parte, poi cabrò per tentare di sottrarsi ai proiettili, ma ormai von Knobelsdorff gli era stabilmente in coda. Sparò altre due brevi raffiche e l'inglese cominciò a lasciarsi dietro una scia di fumo nero, ma in quel momento qualcosa gli colpì una semiala, creando uno strappo nella tela che la ricopriva.
D'istinto il tedesco derapò e poi virò, solo per rendersi conto che aveva in coda il Sopwith Triplano. Ringhiò un'imprecazione mentre una nuova raffica gli faceva saltare un tirante. Si girò, aveva l'inglese ancora in coda, capì che stava per sparare di nuovo.
Tirò la barra tutta indietro, l'Albatros cabrò bruscamente, andò in stallo e prese a precipitare come un sasso, cosa che gli permise di sottrarsi alla raffica letale.
A quel punto, von Knobelsdorff spinse la barra tutta in avanti, lavorando con la pedaliera per evitare che l'aereo entrasse in vite rovescia. Nonostante il ruggito del motore, sentiva le strutture dell'Albatros vibrare e scricchiolare. Il tirante reciso sbatacchiava qua e là come un serpente decapitato.
In alto, sempre più lontano, l'inglese stava probabilmente cercando di capire se stesse precipitando oppure se la sua fosse solo una manovra evasiva.
Il tedesco rinsaldò la presa sui comandi, arrestò la caduta, di nuovo diede motore e guizzò verso l'alto, sparando dal basso contro l'avversario.
Questi incassò la prima raffica, sottrasse bersaglio, picchiò per prendere velocità, ma a quel punto von Knobelsdorff riuscì a fare un mezzo looping, poi si raddrizzò con un mezzo tonneau e si trovò esattamente di fronte all'aereo nemico. Sul muso del Sopwith scintillavano i lampi arancioni degli spari.
Il tedesco strinse i denti e si mantenne caparbiamente sulla traiettoria. Azionò a sua volta le mitragliatrici e vide brandelli di rivestimento saltare dalle ali dell'avversario.
Poi il Sopwith si inclinò da una parte, scivolò d'ala e semplicemente puntò verso il basso. Von Knobelsdorff, che rimase a seguirlo con lo sguardo fino a che non lo vide schiantarsi al suolo, e a quel punto poté fare solo supposizioni: forse aveva colpito il pilota, forse aveva danneggiato qualche comando e l'aereo non rispondeva più. Come diceva un certo von Richthofen, un altro che come lui aveva abbandonato il cavallo per l'aeroplano, compiere voli di guerra non era esattamente un'assicurazione sulla vita.
Distolse lo sguardo dalla carcassa distrutta, virò e raggiunse i suoi.
Notò subito che mancavano due Albatros all'appello, quello del collega di fanteria con cui aveva parlato prima del decollo, di un verde quasi nero con due fasce bianche sulla fusoliera, e quello del capitano von Wassenberg, l'unico della Jasta senza alcuna personalizzazione. Valutò fra sé e sé che anche quella era una personalizzazione, in fin dei conti.
Gli dispiacque per i camerati. In particolare per il secondo, al quale mancava un solo aereo per diventare Asso e ricevere il Pour le Mérite.
Fece ad ogni buon conto un largo giro scrutando il terreno, qualche volta capitava che un pilota riuscisse a compiere un atterraggio di fortuna e ad abbandonare il velivolo distrutto, ma scorse solo colonne di fumo. Uno spezzone d'ala con quel che rimaneva di una croce nera parve salutarlo mestamente.
Gli rivolse in risposta un saluto militare, quindi virò e si unì agli altri.

Raggiunsero nuovamente le trincee tedesche. Come poco prima, i soldati rivolsero loro un veemente saluto, agitando braccia e bandiere.
Von Knobelsdorff fece oscillare le ali in risposta, ma a quel punto percepì nei comandi una vibrazione, come quella che una porta sbattuta con violenza comunica al pavimento.
Fece girare lo sguardo tutt'intorno alla ricerca della causa e quando vide di cosa si trattava sentì un brivido percorrergli la schiena: dalla parte del tirante reciso, uno dei montanti era fessurato per tutta la sua lunghezza. Sarebbe bastata una manovra un po' più brusca del normale e avrebbe ceduto completamente.
L'ufficiale si chiese cosa sarebbe successo. Niente di buono, probabilmente. Sarebbero saltati altri tiranti, la semiala inferiore e quella superiore avrebbero cominciato a separarsi e tutto si sarebbe concluso con un ignominioso atterraggio fuori campo. Sempre che fosse riuscito ad atterrare indenne, ovviamente.
Si guardò intorno, calcolò quanto mancava al campo. Provò ad accennare una lieve virata e nella fessura del montante comparvero schegge di luce. Riportò l'Albatros in assetto.
Diede motore, ma l'aereo cominciò a vibrare in un modo che lo convinse senz'altro a spostare nuovamente indietro la manetta del gas.
A quel punto, von Knobelsdorff si chiese cosa sarebbe stato meglio fare. Posto che in aria non è mai rimasto nessuno, ragionò fra sé e sé, la cosa più importante era ritornare a terra in un modo che possibilmente non fosse troppo traumatico, né per lui, né per il suo Albatros D-III.
Ce la faremo,” assicurò all'aereo.
Si sporse dalla carlinga, cercò di indovinare se si fosse alzato il vento, e nel caso in che direzione spirasse.
Successivamente scrutò i dintorni, calcolando che doveva essere a circa un chilometro dalla pista di atterraggio.
Portò il motore al minimo e, mantenendo l'aereo in assetto, prese a scendere dolcemente di quota. Ogni tanto correggeva appena la direzione con la pedaliera, ma per il resto lasciava essenzialmente che l'Albatros facesse come voleva, secondo l'adagio per cui un aereo volerebbe benissimo da solo, se non ci fosse il pilota a disturbarlo continuamente.
Una seconda vibrazione lo mise in allerta. Si girò verso il montante: sembrava che qualcuno l'avesse strizzato torcendolo come uno strofinaccio. La fessura si era allargata e aveva un andamento spiraleggiante lungo il legno. Vide qualche scheggia volare via.
Merda, pensò.
Un altro tirante saltò come la corda di un violino.
Il campo era ormai a meno di settecento metri. Vedeva già il casale che si trovava a lato della pista, il familiare filare di alberi che delimitava un recinto per il bestiame, il brillio dello stagno dove si andava a pescare o a nuotare dopo l'ultima missione della giornata.
Tolse tutto il motore, si arrischiò a dare una tacca di flap. In un silenzio surreale, rotto solo dal sibilo del vento, l'aereo parve per un attimo galleggiare a mezz'aria come se fosse senza peso, poi ricominciò a scendere lentamente. Von Knobelsdorff si sporse di lato per individuare il segnale che indicava la testata pista. Si augurò di non aver sbagliato i propri calcoli, perché non ci sarebbe stato un secondo tentativo.
Ormai mancavano trecento metri, era così basso che quasi distingueva le foglie sulla cima degli alberi. Il suo strano avvicinamento aveva ovviamente destato la preoccupazione del personale di terra, e il campo era animato da un insolito fermento.
Vide passare, trainata da un paio di cavalli, la cisterna d'acqua dell'antincendio.
Alla faccia della fiducia,” ringhiò tra i denti.
A quel punto, la struttura dell'ala si aprì come una scarpa vecchia. Il montante danneggiato cedette definitivamente, i tiranti saltarono l'uno dopo l'altro e la semiala inferiore si torse come se una mano enorme la stesse tirando verso il basso. Non più coperto dal motore, lo schianto del legno che si spaccava risuonò sinistro.
L'aereo si inclinò bruscamente, perse ancora quota, tanto che von Knobelsdorff riuscì a distinguere chiaramente i fiori sullo scialle di una contadina che al suo passaggio corse al riparo.
L'ufficiale afferrò i comandi, tentò di riportare l'Albatros in assetto, ma già la pista si avvicinava con vertiginosa velocità.
Vide una torma di meccanici e soldati correre nella sua direzione. Trainata al galoppo, la cisterna arrancava beccheggiando.
Toccò terra una prima volta, capitombolò lasciandosi dietro pezzi di centine e brandelli di rivestimento alare, rimbalzò e ricadde, poi procedette strisciando su quel che restava della semiala danneggiata e su una ruota del carrello.
Esaurì la sua inerzia alcune decine di metri dopo. Ci fu un secondo di immobilità sospesa, poi il tenente si riscosse e subito andò alla ricerca del coltello che teneva infilato nello stivale. Armeggiò con quello sulle cinture di sicurezza, mentre la benzina sgocciolava sul motore rovente liberando vapori sempre più intensi.
Raddoppiò gli sforzi. Portava con sé un pugnale proprio perché se l'aereo avesse preso fuoco si sarebbe buttato per non bruciare vivo e non aveva la minima intenzione di morire in quel modo a terra, sulla pista della sua base.
Le cinture cedettero, sul motore cominciarono a danzare le prime lingue di fuoco, visibili solo come un lieve tremolio dell'aria.
Von Knobelsdorff si arrampicò fuori dal cockpit, vide delle uniformi avvicinarsi, si sentì afferrare per le braccia.
Le fiamme divennero più vivide, presero colore. Si udirono il crepitio del legno secco che cominciava ad ardere e lo sfrigolio della vernice.
Sto bene,” mormorò frastornato il tenente, faticando per alzarsi in piedi. “Sto bene.” Qualcuno lo trascinava.
Accorse Kramer, che si fece passare il suo braccio intorno alle spalle e lo sollevò quasi di peso. “Sto bene,” gli ripeté l'ufficiale.
Sissignore,” si limitò a rispondere il meccanico. “Ora però ce ne andiamo di qui, signore.”
Il tenente cercò di voltarsi indietro. “L'aereo...”
Venga, signore.”
Von Knobelsdorff si lasciò condurre via.

Si ritrovò seduto al tavolo della mensa, qualcuno gli mise un bicchiere in mano. Da fuori giungeva il rombo degli altri aerei della Jasta che atterravano uno dopo l'altro.
Egli si sfilò la cuffia e la posò da una parte, poi portò meccanicamente il bicchiere alle labbra, bevve un sorso e tossì. “Che cos'è?” chiese.
Entrò nel suo campo visivo il capitano medico. “Strana domanda da parte sua, tenente. Non riconosce lo Schnaps?”
Pensavo fosse una medicina.”
Infatti. Non esiste medicina migliore dello Schnaps, in certi casi,” replicò il dottore, quindi si chinò su di lui e soggiunse: “Mi faccia dare un'occhiata a quel taglio.”
Eh? Che taglio?”
Von Knobelsdorff sollevò una mano, poi si rese conto che indossava ancora il guanto da volo. Se lo sfilò tenendolo fermo tra le ginocchia, poi si passò cauto le dita sul volto. Le ritrasse sporche di sangue.
Alzò lo sguardo sull'ufficiale medico, che per tutta risposta ripeté: “Diamo un'occhiata, d'accordo?”
Va bene,” assentì il tenente.
In quel momento arrivarono a precipizio due colleghi piloti. “Dov'è von Knobelsdorff?” chiese uno di essi concitato.
Il giovane alzò una mano. “Qui.”
Behringer e Hoffmeyer si spostarono di fronte a lui. “Stai bene?” gli chiese il primo, fissandolo come se stesse vedendo un fantasma.
Von Kobelsdorff alzò le spalle. “Benissimo.”
Ma stai sanguinando.”
Un taglietto. Posso volare.”
A quel punto intervenne Hoffmeyer: “E con cosa vuoi volare? Il tuo aereo ormai è cenere.”
Von Knobelsdorff fece una breve risata e rispose: “Allora vorrà dire che prenderò il tuo, Herbert, così almeno quelle mitragliatrici abbatteranno finalmente qualcosa.”
L'altro si finse offeso. “Ma senti questo,” protestò mettendosi i pugni sui fianchi, “non è nemmeno capace di portare a terra come si deve il suo aereo e vuole quello degli altri.” Scosse la testa. “Non se ne parla, Max. Poi me lo rovini.”
Almeno proverebbe l'ebbrezza del combattimento.”
A quel punto intervenne il capitano medico, che per tutta la conversazione aveva continuato a esaminare il volto del giovane ufficiale. “Venga in infermeria,” gli disse, “sarà necessario applicare qualche punto di sutura. Se la sente di camminare da solo?”
Anche sulle mani, se vuole.”
Mi basta che riesca a stare sulle sue gambe senza svenire. Non sarebbe il primo che fa lo spavaldo finché ha il deretano su una sedia e poi crolla come un abete tagliato appena si alza in piedi.”
Suvvia, signor capitano medico, non è che un piccolo taglio.” Von Knobelsdorff si guardò intorno alla ricerca del collega che proveniva dalla fanteria, ricordandosi solo all'ultimo momento che l'aveva visto cadere poco prima. Di nuovo alzò le spalle e soggiunse: “Se il povero Scheidel fosse ancora fra noi, le potrebbe confermare che si tratta di ben poca cosa, rispetto a quello che potrebbe accadere in trincea.” Fece una breve pausa, quindi rivolto ai colleghi chiese: “Vogliamo ricordare lui e von Wassenberg come si conviene, questa sera? Ho ancora qualche bottiglia di vino del Reno.”
Gli altri assentirono.

Una volta che il tenente si fu allontanato in compagnia del capitano medico, Hoffmeyer disse: “Da non crederci.”
L'altro scosse la testa. “Atterrato mentre l'aereo gli si stava sfasciando sotto.”
Per me non si è neanche reso conto del rischio che ha corso.”
Behringer si voltò nella direzione in cui il giovane collega era scomparso e disse: “Io invece credo che l'abbia capito benissimo. Hai visto come faceva il galletto?”
Fa sempre così.”
L'altro scosse la testa. “Sai quanto sono euforici gli uomini, in trincea, quando finisce l'assalto e realizzano di essere ancora vivi? Tra un po' gli passa e si sentirà più esausto che se avesse fatto dieci giorni consecutivi di esercitazioni sul campo.”
No, scommetto che appena il medico lo molla andrà a rompere le scatole al Vecchio per farsi assegnare un altro aereo.”
Così parlando, i due si spostarono all'esterno. Le fiamme ormai erano state estinte e dalla carcassa annerita dell'Albatros si levava solo uno stentato filo di fumo. Essi fissarono pensosi il relitto. “Oggi qua, domani chissà...” recitò Behringer.
Parli dell'aereo?”
Parlo di noi. Von Wassenberg stava per diventare un Asso, e guarda che fine ha fatto.”
È brutto quando ti capita a sette abbattimenti. Quando ne hai uno o due magari te ne fai anche una ragione, ma così, a sette? Scommetto che se lo sentiva già al collo, il Pour le Mérite.”
Non si può mai essere sicuri di niente.”
Stasera berremo alla salute sua e di Scheidel, che possano trovare la via del Walhalla e da lassù assistere alle nostre vittorie.”
L’altro stava per rispondere quando individuò alcune persone che passeggiavano lente ai margini del campo, accompagnate dal comandante della base in persona. “Che ci fa il Vecchio con dei civili?” chiese.
Hoffmeyer osservò a sua volta il gruppetto, quindi ipotizzò: “Saranno i soliti mangiarane frignoni che vengono a protestare perché il rumore degli aerei spaventa il bestiame.” Fece una pausa, quindi soggiunse: “Dovrebbero sentire un po’ di cannoni sparare, vedrai come comincerebbero ad apprezzare un innocente Mercedes D IIIa.”
Behringer aggrottò le sopracciglia, quindi rispose: “Per me non sono francesi, e non sono nemmeno contadini o fattori.”
I nuovi arrivati, fra cui c’era anche una donna all’apparenza giovane, vestivano dignitosi abiti da città di colore scuro, decisamente inusuali in quella zona di campagna.
Uno di essi stava parlando con il maggiore von Stade. L’ufficiale, le mani allacciate dietro la schiena, annuiva di tanto in tanto sobriamente.
A un certo punto volse lo sguardo verso il campo e parve alla ricerca di qualcosa. Subito dopo tornò a dedicare la sua attenzione all’uomo in stiffelius che gli camminava accanto. Annuì altre due o tre volte, cosa che suscitò nell’altro un analogo movimento, poi tutto il gruppo scomparve dietro la baracca delle segnalazioni.
I due piloti si scambiarono uno sguardo, poi Behringer chiese: “Come ti è sembrata la ragazza?”
Ragazza?” chiese Hoffmeyer.
Quella con la sottana lunga era una ragazza,” rispose ironico il collega. “Sei stato così tanto lontano dai civili che non riconosci più le ragazze?”
L’altro rimase in silenzio per un po’, mentre il suo sguardo correva alla baracca dietro cui il gruppetto era scomparso. “Sai che non ci ho fatto caso?” ammise alla fine. “Se dovessi descriverla, o se dovessi descrivere uno qualsiasi di quei tizi, non ne sarei in grado.”
Behringer guardò a sua volta in quella direzione, poi concluse: “Nemmeno io.” Infine, dopo una pausa: “È strano, di solito sono molto fisionomista.”

§

Seduto alla scrivania della stanza che gli fungeva da ufficio, il maggiore von Stade scorse per l'ennesima volta il foglio che il misterioso gruppetto gli aveva lasciato. Si trattava di una carta sottilissima, quasi impalpabile, coperta di una grafia così minuta che per leggerla ci voleva la lente di ingrandimento.
Aggrottò le sopracciglia cercando nonostante tutto di distinguere qualche parola, quindi si voltò verso il camino. Era lì dentro che il foglio sarebbe dovuto andare a finire, una volta letto e imparato a memoria. I signori erano stati molto chiari in proposito.
Di nuovo guardò il leggerissimo messaggio. Era più lieve di un velo, eppure robusto. Uno di quegli uomini lo aveva estratto arrotolato da un cilindro di metallo che non era più grande di un ditale, e poi l'aveva dispiegato sul sottomano della scrivania, coprendolo quasi completamente.
Vi erano rappresentati una mappa muta, dati e disposizioni.
Sovrapposta a una normale mappa militare, la misteriosa cartina si era rivelata quella di una zona parecchi chilometri dietro le linee francesi. Con un tenue tratto rosso vi era segnata quella che avrebbe potuto fungere da pista d'atterraggio per un aereo, su un pascolo ai margini di una foresta.
Era stata la giovane donna, secondo quanto gli avevano riferito, a identificare quel posto. Si era travestita da infermiera francese, aveva trovato un impiego presso un ospedale da campo e vi era rimasta per settimane, raccogliendo ogni genere di informazioni sulla zona.
Con un sospiro, von Stade rivolse lo sguardo alla finestra. Sullo spiazzo davanti agli hangar i meccanici si stavano occupando degli aerei. Ne vide uno – dalla testa color stoppa doveva trattarsi di Piefke – arrampicato su un'ala, che rammendava con impegno. Altri stavano estraendo un motore, forse per revisionarlo. Ne individuò anche un paio si erano rintanati in un angolino nascosto a fumare.
E poi vide von Knobelsdorff – inconfondibile anche lui – che parlava con un sottufficiale. Poteva scommettere che il giovanotto stesse chiedendo al capo-meccanico di trovargli un nuovo aereo. L'uomo scuoteva la testa e allargava le braccia in un gesto di sconsolato diniego.
Il maggiore sorrise fra sé e sé. Tipico di von Knobelsdorff andare dritto all'obiettivo ignorando qualsiasi altra cosa: voleva un nuovo aereo e dove andava a cercarlo? Nell’hangar. Fogli d’ordini, disposizioni e catena degli approvvigionamenti non erano questioni che suscitassero il suo interesse: lui voleva volare, possibilmente abbattendo nemici, e basta.
Scosse la testa con una sorta di paterna indulgenza. Poteva giurare che il capitano medico gli avesse ordinato di stare tranquillo almeno fino al giorno successivo, ma riuscire a tenere tranquillo l’ardimentoso giovanotto era un’impresa a dir poco impossibile.
Abbassò lo sguardo sull’impalpabile documento che gli era stato consegnato, quindi lo volse nuovamente verso la finestra. Infine chiamò: “Baumann!”
Si aprì la porta e la testa di uno scritturale fece capolino. “Signor maggiore?”
Baumann, mi mandi a chiamare il tenente von Knobelsdorff.”
Sissignore.”

Il giovanotto comparve poco dopo. Si mise sull’attenti e salutò battendo i tacchi, poi rimase a fissarlo con aspettativa.
Come sta, tenente?” gli chiese il maggiore, occhieggiando il bendaggio che gli copriva la fronte.
Benissimo, signore.”
Non sente dolore?” s’informò von Stade dubbioso.
Per nulla, signore. Sarei pronto a decollare anche adesso, se solo ci fosse un aereo a disposizione.”
Il maggiore annuì, quindi gli disse: “Decollerà quanto prima, tenente, ma non per combattere contro i nemici della Germania.” Fece una pausa, quindi chiarì: “Non direttamente, almeno.”
Von Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia. “Che significa?” non poté fare a meno di chiedere. “Vuole mettermi a fare i voli di collegamento? O magari a buttare le bombe sulle trincee?”
Tenente…” tentò di interloquire von Stade, ma subito l’altro riprese: “È per l’aereo che ho distrutto? Ma non si poteva salvare, sono già stato fortunato a portarlo a terra in quel modo.”
Tenente…”
Non è per stare dietro una scrivania che ho fatto richiesta di passare agli aeroplani. Siamo in guerra, quindi voglio combattere.”
Il maggiore si ripromise di mettersi in contatto con il precedente comandante di von Knobelsdorff, giusto per chiedergli se ci fosse qualche segreto per tenere a bada il focoso ufficiale. In tono severo disse: “Per prima cosa, tenente, stia zitto. Non mi pare di averle dato il permesso di parlare.”
Il giovanotto gli rivolse uno sguardo torvo. “Mi scusi, signore,” brontolò.
La seconda cosa che le voglio ricordare è il suo principale dovere di soldato, cioè eseguire gli ordini, a prescindere dal fatto che i suddetti le risultino graditi.”
Ci fu qualche secondo di risentito silenzio, infine von Knobelsdorff rispose: “Sissignore.”
Il maggiore annuì, quindi proseguì: “Ora che ci siamo capiti, tenente, si avvicini e mi dica cosa pensa di questa mappa.” Gli mostrò il foglio che i misteriosi visitatori gli avevano lasciato.
Il giovanotto osservò attento, quindi sollevò su di lui uno sguardo brillante di aspettativa e gli chiese: “Spionaggio, signore?”
Von Stade annuì. “Precisamente.”
Von Knobelsdorff aggrottò appena le sopracciglia, quindi domandò: “Perché lo fa vedere a me, signore?” L’espressione era quella del cane che aspetta l’ordine di lanciarsi dietro la selvaggina.
Penso che in realtà l’abbia già capito,” rispose il maggiore. “Mi è stato richiesto un pilota abile e coraggioso, per compiere una missione dietro le linee. Ho pensato a lei.”
Grazie, signore!”
Sarà una missione molto pericolosa, tenente.”
Per tutta risposta, il tenente chiese: “Quando potrò partire, signore?”








[1] Sta per Jagdstaffel. Era il nome delle prime unità di velivoli da caccia tedesche.
[2] Anche detto “Blauer Max”. Si tratta di una decorazione creata da Federico il Grande. Fino alla fine della prima guerra mondiale è stata la massima onorificenza al valore.


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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Bella gente,
mi fa un gran piacere che qualcuno sia passato da queste parti a dare un’occhiatina^^
Ringrazio moltissimo tutti quelli che mi hanno messo in qualche lista, e ovviamente ringrazio ancor di più chi è stato così gentile da lasciarmi un commento.






Capitolo 2

Il tenente von Knobelsdorff passò in rassegna per l’ennesima volta l’arredamento della stanza in cui si trovava: una scrivania, un orologio a pendolo, un quadro, uno schedario, un paio di sedie.
Sul piano della scrivania c’erano dei fogli dattiloscritti, un portapenne, una scatola di legno e un posacenere.
Sollevò lo sguardo sull’orologio, constatando che era già passato un quarto d’ora da quando lo avevano fatto accomodare in quello strano ufficio. Tese l’orecchio: l’unico suono che si sentiva era il lieve ticchettare della pendola e forse una vaga eco di voci lontane.
Si girò verso la porta da cui era entrato, quasi aspettandosi di vedere finalmente la maniglia abbassarsi, ma essa rimase immobile.
Emise uno sbuffo infastidito. Non che avesse mai avuto modo di farsi un’idea precisa sullo spionaggio, ma di sicuro non se l’era immaginato così. Quello che vedeva gli ricordava piuttosto un lavoro da contabile, o qualcosa del genere. Uffici, carte. Niente che avesse a che fare con l’azione o il rischio. Per quale motivo si erano accertati che sapesse pilotare perfettamente un aeroplano, allora?
Aggrottò le sopracciglia, sollevò una mano a sfiorare la medicazione che ancora gli attraversava la fronte, poi si guardò intorno di nuovo. Tutto era così immobile da far pensare a un edificio abbandonato. Si chiese dove fosse la gente di cui gli pareva di sentire la voce ed ebbe la tentazione di far sentire la propria, di voce, ben alta, in modo da convincere chi di dovere a mostrarsi.
Passò altro tempo.
Von Knobelsdorff ripercorse la stanza con lo sguardo, schedario, orologio, quadro, scrivania. Orologio, scrivania, quadro, schedario. La porta era sempre chiusa, il silenzio sempre perfetto, a parte la misteriosa impressione di un brusio lontano.
Si sporse verso la scrivania, cercò di leggere i fogli che si trovavano sul sottomano. Gli parve di distinguere il suo nome.
Di nuovo aggrottò le sopracciglia. Allungò una mano per prenderli, ma all’ultimo interruppe il gesto. Si alzò, aggirò la scrivania e si piegò sul dattiloscritto: si parlava effettivamente di lui, si prendeva in considerazione la possibilità di sacrificarlo assieme all’aereo, se fosse stato necessario per la riuscita della missione.
A quel punto afferrò le carte, le scorse febbrilmente, poi di nuovo si guardò intorno.

Una giovane donna seduta a un tavolo ingombro di documenti chiese: “Cosa sta facendo?”
Un uomo alto e smilzo, dai radi capelli biondicci, vestito di scuro, raggiunse la parete, si sollevò sulle punte dei piedi per guardare attraverso uno spioncino e disse: “Si è alzato.”
“Alla buon’ora. Sta toccando qualcosa?”
“Per ora solo le carte.”
“Uhm. È difficile rilevare le impronte digitali dalle carte. Le foto gliele hai fatte?”
L’uomo annuì. “Certo, come al solito. Di fronte e profilo.”
La giovane donna si alzò e lo raggiunse. “Fammi vedere,” gli disse. L’altro le cedette il posto e spinse verso di lei un basso sgabello. Ella vi salì sopra con agilità, quindi scrutò a lungo attraverso lo spioncino. Infine abbandonò l’osservazione, tornò al tavolo e nella congerie di fogli che lo ricopriva individuò un fascicolo. Lo estrasse e cominciò a sfogliarlo. “Sta ancora leggendo?” chiese poi, senza sollevare gli occhi dalle carte.
L’uomo tornò allo spioncino, scrutò e rispose: “Sta girando su e giù come una specie di leone in gabbia. Che cosa gli hai scritto su quei fogli?”
“Il solito.”
“Per me se ne va.”
“In base a quello che c’è nel suo dossier, direi proprio che non lo farà. Ci sfiderà, piuttosto, vorrà dimostrarci che se la missione riuscirà, sarà solo grazie a lui.” La donna fece una pausa, poi soggiunse: “Di sicuro prenderà a male parole la prima persona che entrerà nella stanza.”
“Vado io?” propose allora l’uomo. “Oppure posso mandare Andreas, se vuoi.”
L'altra fece una risatina e rispose: “Dimentichi che ho affrontato uomini decisi a uccidermi, armi alla mano.”
“Vero anche questo,” considerò l'altro.
“Cosa vuoi che mi faccia quel bel galletto?” Senza alzarsi dal tavolo, la donna volse lo sguardo in direzione dello spioncino e disse: “Bello è bello, in effetti. Quasi troppo.”
“Si fa notare,” ammise l'uomo.
“Appunto, e nella nostra professione non farsi notare è fondamentale.”
“Però anche il Werwolf è così.”
La donna annuì, poi disse: “Ma il Werwolf è uno vecchio del mestiere. Sa come scomparire in mezzo a una folla, sa come rendersi perfettamente anonimo, anche se...” Si interruppe e alzò gli occhi al cielo con un sospiro.
A quel punto, nonostante l'insonorizzazione, al di là della parete esplosero dei clamori. “C'è nessuno?” stava dicendo iroso il giovanotto, “Si può avere udienza, in questa specie di ospedale abbandonato, o mi sono sorbito il viaggio dalla Piccardia fino a Berna solo per fare anticamera come un valletto?”
I due si scambiarono un'occhiata.
“Io sono un pilota!” si fece udire nuovamente la voce di von Knobelsdorff, “Devo combattere contro gli aviatori nemici. Ma come posso farlo, se mi tenete lontano dal fronte ad aspettare chissà che cosa?”
Si sentì il rumore della porta che si apriva.
“Quello se ne va,” constatò l'uomo preoccupato. Gettò uno sguardo alla donna, che invece appariva tranquillissima e anche vagamente divertita dallo sfogo del giovanotto.
Ella scosse la testa e rispose: “È solo offeso perché nessuno gli dà udienza.”
L'altro alzò le spalle. “Per me non è adatto.”
“Al contrario,” spiegò la donna, “ha il carattere perfetto per questa missione: uno troppo remissivo si farebbe ammazzare o prendere prigioniero.”
“Sicura?”
“Vado da lui. Vedrai come si ammansisce subito, quando gli racconto quello che dovrà fare.”

Affacciato sul corridoio, von Knobelsdorff si guardava intorno come un torello alla ricerca di qualcosa da incornare.
Mezz'ora ad aspettare, e quando finalmente si era deciso a dare un'occhiata alle carte sulla scrivania aveva scoperto cosa c'era in serbo per lui: lo consideravano una pedina sacrificabile, un marmittone di nessuna importanza, buono solo a pilotare un velivolo che avrebbe attirato il fuoco nemico mentre la vera operazione di spionaggio si svolgeva altrove. Uno zimbello, in pratica.
Non sarebbe diventato un Asso né avrebbe ricevuto il Pour le Mérite, perché per certe cose non c'erano né gloria né riconoscimenti.
Udì dei passi.
Si volse in quella direzione e vide che una giovane donna gli si stava avvicinando. Rimase perplesso: era certo che fino a un istante prima il lungo corridoio fosse completamente deserto.
“I miei rispetti, signorina,” la salutò comunque formale.
La donna lo raggiunse e a quel punto von Knobelsdorff si rese conto che era la stessa che aveva visto al campo di Douai. “Ci siamo già incontrati,” le disse.
“Ha buona memoria,” apprezzò lei.
Il giovanotto mantenne il silenzio.
Ella lo oltrepassò, raggiunse la porta dell'ufficio e propose: “Vogliamo entrare?”
“Per fare che cosa, signorina?” la rimbeccò lui senza muoversi, “Per farmi spiegare l'importantissima missione a cui dovrò prendere parte? Ho già visto di che si tratta, grazie.”
La donna sbatté gli occhi perplessa. “Lei non è un soldato?” s'informò.
“Certo che lo sono.”
“E dunque, non è suo dovere eseguire gli ordini?”
Von Knobelsdorff si irrigidì. In tono asciutto rispose: “Quelli dei miei superiori, certo. A lei, signorina, obbedisco solo in qualità di gentiluomo.”
“E allora, come gentiluomo, mi segua, prego.”
Andò alla scrivania, l'aggirò e vi si sedette. Prese i fogli che erano rimasti sparsi in giro, li riordinò con calma, quindi chiese: “Che gliene pare, tenente?”
Il giovane ufficiale rimase in silenzio. Osservava la donna: minuta, graziosa, di età indefinita ma giovane, forse addirittura molto giovane. Modi autorevoli, dietro l'apparenza fragile, gesti sicuri, nessuna esitazione nel parlare. “Qual è il suo nome?” le chiese.
Per tutta risposta, lei gli indicò la sedia che si trovava di fronte alla scrivania e disse: “Si accomodi, tenente.”
Il giovane aggrottò le sopracciglia. “Non mi accomodo proprio da nessuna parte, se non so con chi sto parlando.”
La donna annuì grave, quindi gli rispose: “Se non le dico nulla, tenente, è per la sicurezza della Patria che entrambi abbiamo giurato di servire. Qualora cadesse in mani nemiche, meno informazioni avrà e meno ne potrà rivelare.”
“Io non rivelerei mai nulla.”
“Ne è così sicuro?”
Di nuovo calò un silenzio greve, rotto solo dal ticchettare della pendola. Si udì un lieve fruscio quando la donna raccolse le carte che erano rimaste sul sottomano e le fece scivolare in un cassetto.
Infine, von Knobelsdorff chiese: “E lei è così sicura che io le obbedirò come una specie di scimmia ammaestrata, se non mi dà motivi per fidarmi di lei? Potrebbe essere chiunque, per quello che ne so, anche una spia nemica che mi sta ingannando per convincermi a lavorare per la sua nazione.”
“Si deve fidare,” fu la risposta.
Senza lasciarsi impressionare, l'ufficiale replicò: “Signorina, se il meccanico mi dice che ha riempito serbatoio del mio aereo, io vado comunque a controllare di persona, perché dalla presenza o meno della benzina dipende la mia vita. È chiaro il concetto?”
Ignorò il gesto della sua interlocutrice, che ancora una volta lo invitava a sedersi, arretrando addirittura di un passo.
“Tenente...”
Von Knobelsdorff scosse la testa. “È inutile, signorina. Per restare nella metafora di prima, o mi permette di controllare personalmente che il serbatoio sia pieno, o non decollo neppure.”
“Lei sta creando problemi.”
“Io faccio solo quello che ogni ufficiale che abbia un minimo di senso di responsabilità farebbe: chi è lei? Cosa vuole da me? A che titolo? Chi sono i suoi superiori? Che garanzie ho che lei stia servendo la stessa Patria che servo io?”
A quel punto, si aprì la porta alle spalle dell'ufficiale. Egli si girò di scatto e si trovò di fronte un uomo che poteva avere fra i trenta e i quaranta anni, anche se portati decisamente male. Era smilzo, non tanto alto, con le spalle curve e una giacca nera un po' lucida sui gomiti. Lo sguardo chiaro, apparentemente slavato e scialbo, lasciava trasparire a una seconda occhiata una durezza metallica.
“Che succede?” chiese in tono sommesso il nuovo arrivato, e von Knobelsdorff ebbe l'impulso di giustificarsi come avrebbe fatto con un istruttore dell'Accademia. Rimase in silenzio, arretrando come un cavallo riottoso. Lo fissò con diffidenza.
“Qualcosa non va?” volle sapere l'uomo. Lo sguardo assunse una nota di sollecitudine premurosa, a von Knobelsdorff ricordò un albergatore alle prese con un cliente insoddisfatto della stanza.
Fu la donna a rispondere. “Il tenente non si fida di noi, Matthesius.”
L'uomo annuì grave. “Già, certo,” disse poi, massaggiandosi il mento con una mano dalle dita lunghe e nervose, “l'avevo previsto.” Sollevò lo sguardo sul tenente, quindi soggiunse: “Per lei potremmo essere chiunque, non è vero? Anche agenti di potenze nemiche, magari.”
“È così,” rispose senza scomporsi il giovane ufficiale.
“L'avevo previsto,” ripeté Matthesius, come tra sé e sé. Poi, rivolto all'ufficiale: “Vuole seguirmi, tenente?”
Von Knobelsdorff arretrò di un altro passo, arrivando quasi con la schiena contro la parete. Sotto le sopracciglia aggrottate, i suoi occhi verdi assunsero una fosforescenza felina. “Per andare dove?” ringhiò.
L'altro si limitò a una risatina. “Venga, Maximilian,” lo invitò poi, “non avrà paura di un omino come me, spero.”
Il giovanotto avrebbe voluto rispondere che con una pistola in mano anche l'omino più insignificante del mondo avrebbe potuto diventare mortalmente pericoloso, ma sotto lo sguardo pacato e vagamente divertito del signor Matthesius, di colpo tutte quelle recriminazioni gli parvero fuori luogo come le bizze di un bambino. Si limitò ad abbandonare la parete in silenzio.

Uscirono in fila indiana. Per primo Matthesius, rapido e agile come un folletto, poi von Knobelsdorff. Da ultima veniva la giovane donna, con un passo così leggero che quasi non produceva alcun rumore sull'impiantito di assi di legno.
Il tenente si sorprese ad ascoltare il suono dei propri passi, marziale, appesantito dagli stivali, e a valutarlo di colpo come qualcosa di inopportuno, fuori luogo esattamente come poco prima lo erano state le sue proteste.
Giunsero a una stanza in cui si trovavano diversi apparecchi telefonici e un paio di telegrafi. Uomini in borghese, dall'aria di impiegati, erano affaccendati intorno agli strumenti. Von Knobelsdorff udì uno di essi condurre una conversazione telefonica in francese, annotando di tanto in tanto appunti su un foglio. Un altro parlava con disinvoltura in una lingua scandinava, compilando nel corso della conversazione una scheda.
Il ticchettio delle macchine da scrivere sembrava grandine contro i vetri.
La voce di Matthesius lo richiamò bruscamente alla realtà: “Venga avanti, prego.”
I tre entrarono nella stanza, un uomo si fece loro incontro. La giovane donna disse: “È per quella chiamata, Franz.”
“Certo,” rispose l'altro, quindi fece cenno di seguirlo.
Il frastornato ufficiale fu condotto attraverso un labirinto di scrivanie ingombre di carte e uomini che parlavano al telefono nelle più diverse lingue. Telegrafi e macchine da scrivere funzionavano a pieno ritmo, apparecchi squillavano un po' ovunque.
Alla fine il gruppetto raggiunse un angolo appartato, nel quale la confusione della stanza giungeva vagamente ovattata. Il signor Matthesius a quel punto indicò un apparecchio telefonico posto al centro di una scrivania. Come in risposta a quel gesto, esso cominciò a squillare. L'uomo si voltò verso von Knobelsdorff e gli disse: “Risponda, su.”
“Io?” chiese il giovane perplesso.
“È per lei.”
Il tenente sollevò la cornetta, se la portò all'orecchio. Si piegò verso il ricevitore e in tono esitante disse: “Pronto?”
Rispose la voce di von Stade: “Immaginavo che mi avrebbe chiamato.”
“Cosa?”
“Sì, mi permetta di dire che conosco i miei polli. I miei aquilotti, in questo caso. Immaginavo sarebbe stato diffidente di fronte alle proposte della signorina.”
Von Knobelsdorff fece guizzare lo sguardo dalla giovane donna all'uomo di nome Matthesius, e poi di nuovo verso la donna. “Signore, chi sono queste persone?” chiese.
Giunse lapidaria la risposta: “Meno cose sa, meno rischierà di rivelarne.”
Il giovane aggrottò le sopracciglia. “Io non rivelerei mai nulla. Morirei, piuttosto.”
“Noto che non è cambiato, tenente. Questo va molto bene, perché i signori hanno cercato in tutte le Jasta, compresa la 11[1], per trovare un carattere come il suo.”
Piccato, von Knobelsdorff chiese: “Perché, come sarebbe il mio carattere, signore?”
Il maggiore fece una breve risata, quindi rispose: “Faccia quello che le dicono i signori, tenente, sono persone della massima fiducia e hanno bisogno di un pilota abile e coraggioso per una missione importante.”
“Ma signore...”
“A presto, tenente.”
La comunicazione si interruppe.
Von Knobelsdorff abbassò adagio la cornetta, quindi fissò Matthesius e la donna come se li vedesse per la prima volta.
“È convinto adesso?” gli chiese la giovane signora.
L'ufficiale rimase in silenzio.

§

Il tenente von Knobelsdorff scostò appena una tendina e guardò fuori. La campagna francese si estendeva leggermente ondulata a perdita d'occhio. Qua e là, macchie di alberi spezzavano la monotonia del paesaggio.
La giovane donna, irriconoscibile in abiti da contadina, con i capelli di un colore diverso e le guance pitturate in modo da sembrare rubizze, seduta al tavolo della cucina stava decodificando un messaggio. Aveva accanto a sé una casseruola, in cui avrebbe infilato rapidamente ogni cosa se qualcuno fosse entrato all'improvviso.
“Una volta non riuscii a distruggere subito le mie note e fu un vero problema,” disse, senza alzare gli occhi dal lavoro. “Dovetti scappare a nuoto in un fiume, venni ripescata da una chiatta.”
Il tenente, che a sua volta vestiva modesti abiti borghesi, senza distogliere gli occhi disse: “Davvero?”
“Ero in macchina con un ufficiale belga quando d'un tratto mi sfuggì un foglio di appunti. Feci fermare la macchina, cercai di recuperarlo, ma lui fu più svelto di me. Fece finta di nulla, disse che il foglio gli era sfuggito, ma io capii che ne aveva visto il contenuto. Al primo villaggio fermò la vettura vicino a un gruppo di gendarmi, per consegnarmi a loro. Io approfittai del fatto che era sceso per parlare con il comandante della pattuglia, saltai al posto di guida e diedi gas. Purtroppo all'epoca non sapevo ancora condurre la macchina, per cui dopo poco mi schiantai contro un albero. Saltai giù, scappai in un bosco, raggiunsi un fiume. Mi tolsi i vestiti e me li legai sulla schiena, quindi mi buttai in acqua e cominciai a nuotare. Per fortuna venni ripescata da una chiatta olandese, che mi portò in salvo.”[2]
Von Knobelsdorff si voltò verso di lei. Non stentava a credere che il fatto fosse accaduto realmente. Erano bastati pochi giorni a contatto con lo spionaggio per cambiare completamente ogni sua idea in proposito. In primo luogo, aveva scoperto che le spie erano ovunque, chiunque poteva esserlo: un commerciante, un operaio, un sacerdote, donne, uomini, ragazzi. Aveva sentito dire che i russi adoperavano persino i cani, anche se non riusciva a figurarsi in che modo.
Secondariamente, aveva notato che erano proprio le persone più insignificanti quelle che spesso si rivelavano più pericolose. La giovane donna, che nelle sue vesti di contadina francese si faceva chiamare Marie, sembrava poco più di una ragazzina, eppure aveva affrontato in svariate occasioni i soldati nemici, uscendo sempre vincitrice dagli scontri.
Si chiese quante volte aveva avuto a che fare con spie, tedesche o straniere, senza saperlo. Chissà, forse anche l'ostessa del bistrot dove andavano ogni tanto alla fine della giornata di volo era una spia. Magari fingeva di non sapere il tedesco e poi invece ascoltava minuziosamente le conversazioni degli ufficiali e le riferiva ai suoi superiori.
Tornò a guardare fuori. La casa in cui l'avevano portato, ufficialmente dimora di una famiglia di contadini, era in realtà gestita dallo spionaggio tedesco. Tutti i suoi abitanti erano spie e si occupavano di raccogliere e smistare la maggior parte delle informazioni che venivano raccolte in Francia.
Il fienile non ospitava bestie, ma apparecchi di ogni genere. Più lontano era stato allestito quello che da fuori appariva come un capanno per accogliere la fienagione, mentre in realtà era un hangar nel quale si trovava l’aereo che avrebbe dovuto usare. Due uomini stavano allestendo la pista da cui sarebbe decollato.
“Quando partirò?” chiese, senza distogliere gli occhi dall'aia.
Alle sue spalle, la donna rispose: “Stiamo aspettando un comunicato.”
“Da chi?”
“Da lui.”
Von Knobelsodrff alzò gli occhi al cielo. “Quello che dovrò andare a recuperare?”
“Precisamente.”
Si girò a fissare la sua interlocutrice. “Ma lui me lo dirà, come si chiama?”
Lei alzò le spalle. “Ne dubito, è un agente troppo esperto.” Fece una breve pausa, che utilizzò per piegare accuratamente il foglio che aveva appena finito di compilare, quindi proseguì: “Del resto, vi vedrete al massimo per un'ora, poi lei tornerà alla sua unità e si comporterà come se tutto questo non fosse mai accaduto.”
Il tenente stava per replicare quando entrò nella cucina un uomo che trasportava due secchi pieni d'acqua.
Il nuovo arrivato posò i due recipienti da una parte, poi si voltò verso di lui e con la massima naturalezza disse: “È opportuno salvare le apparenze, non le pare?”
“Nel senso che dovete fingere di essere una famiglia di contadini francesi?”
“Precisamente. Se qualcuno stesse tenendo d'occhio questo posto, cosa vedrebbe? Monsieur Escargot che porta in casa l'acqua per cucinare la bouillabaisse.” Fece una risatina. “Venga,” disse poi, “andiamo a dare un’occhiata.”
“Dove?”
“Ma che domande: le presento il suo Bucefalo.”

Raggiunsero quello che a prima vista sembrava un capanno di assi. Nella costruzione, che in realtà era un allestimento provvisorio realizzato in stoffa dipinta, si trovava un aeroplano coperto da un telo.
Subito interessato, il tenente si avvicinò al velivolo. “Cos'è?” chiese.
Alle sue spalle, l'altro rispose: “Albatros C.III.”
Von Knobelsdorff lo percorse dapprima con lo sguardo, quindi chiese: “Si può togliere questo lenzuolo?” Senza attendere risposta ne afferrò un lembo e lo fece scivolare a terra. Comparve un biposto da osservazione di un uniforme color grigio chiaro, senza marche, emblemi o segni distintivi di alcun genere. Il tenente prese a girargli lentamente intorno. “Velocità massima?” chiese.
“140 chilometri orari.”
“Autonomia?”
“550 chilometri.”
“Che motore ha?”
“Mercedes-III, raffreddato a liquido.”
Il tenente continuava a girare intorno all'aereo. Toccò la fusoliera, vi fece scorrere sopra la mano come avrebbe fatto con la groppa di un cavallo. “Suppongo che un volo di prova sia fuori discussione?” s’informò poi.
“Impossibile, già è stato difficile farlo arrivare qui senza che nessuno se ne accorgesse.”
“Lo immaginavo,” replicò l'ufficiale con un’alzata di spalle, quindi montò sull'ala e si sporse all'interno della carlinga per vedere il quadro comandi. Si protese ad afferrare la barra e la spostò da una parte e dall'altra, poi gettò un'occhiata alla Spandau MG08 montata nell'abitacolo dell'osservatore e disse: “Le armi saranno cariche, spero.”
“Ovvio.”
“La persona che dovrò trasportare sa maneggiarle?”
Con una risatina, l’uomo rispose: “Meglio di quanto lei sappia maneggiare quella che le ha fornito madre natura, tenente.”

Una volta completata l’ispezione del velivolo, l’ufficiale tornò in casa e salì al piano superiore. Andò nella camera che gli era stata assegnata, dispiegò sul letto una carta della zona e vi sovrappose la sottilissima mappa che a suo tempo i signori dello spionaggio avevano consegnato al maggiore von Stade.
La studiò in silenzio per un po', quindi recuperò bussola, compasso e regolo e cominciò a tracciare la rotta per la navigazione.
A livello tecnico era tutto così semplice che persino un pilota con venti ore di volo avrebbe potuto portare a termine la missione con facilità.
Riguardò la mappa. Forse non proprio venti, dal momento che avrebbe dovuto atterrare su un campo sconosciuto e non preparato. Niente di preoccupante, comunque, se paragonato alla più innocua delle missioni di guerra.
Lavorò un po’ sulla navigazione – decisamente semplice, praticamente una linea retta – poi abbandonò sul letto gli strumenti e si alzò in piedi. Fece qualche passo nella stanza.
Nonostante tutto, c’era qualcosa che non gli quadrava. Erano proprio le cose più semplici, del resto, quelle che nascondevano i rischi maggiori.
Il primo elemento che lo lasciava perplesso, ad esempio, era proprio l'uso dell'aereo. La donna era stata più volte dietro le linee nemiche, eppure non aveva mai fatto ritorno a bordo di un apparecchio.
Addentrarsi per chilometri nella zona controllata dai francesi era ovviamente un rischio, così come lo era attraversare la linea del fronte. C'erano zone tranquille, chiaramente, anche zone così tranquille che quasi non sembrava esserci nemmeno la guerra, ma la guerra comunque c'era, e di certo era molto più difficile nascondere un aeroplano in volo che una persona a piedi. Di nuovo ripensò a quello che la giovane donna gli aveva raccontato: era fuggita in mille modi dal territorio nemico, una volta addirittura in treno come una viaggiatrice qualsiasi, e non era mai stata scoperta.
Perché quindi organizzare un volo? La risposta più logica era una: avevano bisogno di fare più in fretta possibile, e niente era veloce come un aeroplano.
Guardò verso la porta, e attraverso essa fissò le scale che conducevano al piano inferiore. Di certo non avrebbe avuto alcun senso scendere di nuovo in cucina e chiedere spiegazioni alla donna. Come a ogni sua domanda, la risposta sarebbe stata che meno sapeva, meno avrebbe eventualmente rivelato al nemico.
Ma se potevano evitare di dargli informazioni, di certo non gli potevano togliere la facoltà di ragionare. Perché era necessario fare in fretta? Perché sicuramente quel tizio aveva con sé qualcosa di molto importante, qualcosa che era opportuno far arrivare al quartier generale dello spionaggio tedesco il prima possibile, al fine di evitare che i nemici tentassero di riprenderselo indietro.
Come la Germania aveva agenti segreti, del resto, poteva immaginare che li avessero anche le altre nazioni, e se quell'individuo era giunto in possesso di qualcosa che aveva tutta quella rilevanza ai fini della condotta bellica, di certo spie abili quanto o forse più di lui erano sulle sue tracce.
Con uno sbuffo di impazienza abbandonò la navigazione e volse lo sguardo fuori dalla finestra. Il cielo era terso, le fronde immobili facevano capire che non c'era un filo di vento. Ripensò agli altri piloti della sua Jasta, si chiese cosa stessero facendo. Volavano, probabilmente, e ottenevano vittorie. Di certo anche Hoffmeyer ormai doveva aver acquisito i fatidici otto abbattimenti.
Volse nuovamente lo sguardo al cielo: una volta tornato alla sua unità, sarebbe stato l'unico senza alcuna decorazione al valore, se non quelle che si era guadagnato come ufficiale degli ulani. Si chiese se il servizio che stava per svolgere sarebbe stato premiato con qualche riconoscimento, ma era quasi certo che l'oscuro compito sarebbe stato premiato unicamente con l'oblio.
In ogni caso, concluse, non valeva la pena di stare a ragionarci troppo sopra. Le decorazioni se le sarebbe guadagnate una volta rimesse le mani sui comandi di un Albatros D-III, e i problemi della missione dietro le linee li avrebbe affrontati – e di certo risolti – qualora si fossero presentati. In fin dei conti si trattava solo di pilotare un aereo, atterrare, recuperare una persona e tornare indietro: l'aveva fatto decine di volte, l'avrebbe saputo fare praticamente a occhi chiusi.
E la gentile donzella dabbasso, che faceva tanto la misteriosa con le sue missioni dietro le linee, avrebbe presto imparato chi era Maximilian von Knobelsdorff.

§

La volta celeste era di un azzurro cupo, ancora punteggiato qua e là delle ultime stelle. Sulla linea dell'orizzonte, a est, il sorgere del sole si annunciava con un baluginare dorato.
Il tenente von Knobelsdorff si chiuse intorno al collo il pesante pastrano di pelliccia. Sotto l'ampio indumento non gli avevano permesso di indossare l'uniforme, ed egli, che da tempo non portava altri abiti che la sua divisa, si era risolto a mettere un completo come quelli che aveva nelle battute di caccia al cervo, di loden verde scuro con i bottoni di corno. Sorrise fra sé e sé: se qualcuno l'avesse abbattuto, cos'avrebbe potuto pensare? Che era così eccentrico da andare a caccia con l'aeroplano?
Si girò verso Levante e strinse appena gli occhi: il disco solare stava comparendo, le ombre lunghe dell'alba si disegnavano sui campi. Anche l'aereo, investito da quei primi raggi, da grigio che era diventava d'oro e ambra.
Con un gesto quasi automatico, il tenente gli fece scorrere una mano sulla fusoliera, quindi batté due colpetti affettuosi.
“Non è un cavallo,” si fece udire la voce della donna.
Il tenente alzò le spalle. “Abitudine.”
“È preoccupato?”
A quel punto, von Knobelsdorff si voltò a fissarla: la cosiddetta Marie portava uno scialle stretto fin sotto il mento. Era così minuta che gli arrivava a malapena alla spalla e le si sarebbero dati a esagerare vent'anni, forse anche meno. Come avrebbe potuto rispondere che era preoccupato, quando quella ragazza, così piccola e fragile, aveva compiuto innumerevoli missioni dietro le linee?
“Per nulla,” rispose disinvolto.
“Il segno di riconoscimento le è chiaro?”
“Tutto chiaro.”
“Ha con sé documenti o oggetti che possano identificarla come ufficiale tedesco?”
“No.”
“Ha controllato bene? A volte anche solo un biglietto del teatro o una fotografia sono sufficienti.”
Von Knobelsdorff emise un sospiro infastidito, quindi in tono tagliente replicò: “Signora, non sarò una spia, ma non sono nemmeno una testa di legno. Se lei mi dà istruzioni, io mi attengo a esse.”
La donna non disse nulla. Era evidente dal suo sguardo che avrebbe preferito controllare di persona ogni suo indumento, e non certo per motivi di interesse personale, tuttavia si limitò a uno scarno: “Spero per lei che sia vero.”
Gli girò le spalle e rientrò in casa.
Il tenente la seguì per un istante con lo sguardo, poi tornò a dedicare le sue attenzioni all'aereo: era una bella macchina, con l'aria di essere appena uscita dalla fabbrica. La vernice era ancora lucida in alcuni punti, la tela tesa alla perfezione. Con il muso proteso verso l'alto, sembrava letteralmente invocare aria e cielo. “Ci divertiremo,” gli assicurò il tenente. Spostò poi lo sguardo sugli uomini che se ne stavano occupando: gente che chiaramente sapeva dove mettere le mani. Si chiese se avessero prelevato anche loro da qualche Jasta o se si trattasse di gente che si occupava di aeroplani già prima della guerra.
Incrociò lo sguardo di uno di essi. “Un bell'apparecchio, non è vero?” gli disse, battendo di nuovo la mano sulla fusoliera dell'Albatros C-III.
L'uomo annuì. “Sissignore.”
Sotto lo sguardo attento del meccanico, il tenente salì sulla semiala, di nuovo si sporse sulla carlinga, poi scese e andò a controllare che il serbatoio fosse pieno di benzina. Infine disse: “Beh, penso che sia ora di partire. Stia pronto a dare il giro all'elica.”
“Sissignore.”
Von Knobelsdorff si calò nello stretto abitacolo, si sistemò la carta sulla coscia, fissandola in modo che il vento non la portasse via, quindi cominciò i controlli pre-volo.
Completata la procedura, diede il contatto e urlò: “Contatto!”
Il motore partì e andò a regime con un rombo cupo, che gli faceva vibrare la gabbia toracica. Alzò la mano e fece segno di togliere i tacchi da sotto le ruote. L'aereo cominciò a rullare lentamente.
Von Knobelsdorff socchiuse gli occhi e cercò di cogliere l'essenza della nuova macchina attraverso le vibrazioni che il movimento gli trasmetteva, esattamente come avrebbe fatto con un cavallo mai montato prima.
Diede un po' di motore. L'aereo aumentò la velocità di rullaggio, le vibrazioni si fecero più intense. Portò la manetta tutta in avanti, l'aereo cominciò a divorare il prato nella corsa di decollo, il tenente incollò gli occhi agli strumenti, che stavano prendendo vita insieme all'aereo. Alla velocità giusta tirò indietro la barra ed esso si staccò dolcemente da terra.
Il tenente gli lasciò prendere quota, intervenendo al minimo sui comandi. L'Albatros C-III saliva docile, senza scossoni, senza tentativi di ribellione. Pensò che se si fosse trattato di un cavallo sarebbe stato un bel castrone robusto, di quelli in sella ai quali si può affrontare un'intera giornata di caccia, forse lenti, ma più comodi di una poltrona.
Abbozzò una virata e l'aereo reagì come previsto, con un movimento calmo, sicuro, senza scosse.
A quel punto, von Knobelsdorff abbassò lo sguardo sulla cartina, poi inclinò l'aereo e si sporse di lato alla ricerca del primo dei punti di riferimento con cui aveva contrassegnato la navigazione.

A terra, la donna si pose la mano di taglio sulla fronte per schermare gli occhi dalla luce nitida dell'alba. Fissò l'aereo, che ormai era un puntino all'orizzonte, poi emise un sospiro e disse: “Speriamo.”
Al suo fianco, l'uomo che le faceva da aiutante chiese: “Non ti fidi?”
“È una testa calda, vorrà fare a modo suo.”
L'altro alzò le spalle. “Non credo che con il Werwolf potrà permettersi tante alzate di testa.”
“Sai com'è fatto il Werwolf,” fu la replica.
“Non penso che si lascerà distrarre,” disse l'uomo, rivolgendo uno sguardo distratto alla gente che si dava da fare per cancellare ogni segno del decollo, “anche per lui la missione viene prima di tutto.”









[1] La Jasta 11 era quella di von Richthofen
[2] Questa vicenda di Annemarie Lesser (celeberrima spia tedesca, nota come “Mademoiselle Docteur”) è storicamente documentata.



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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Gente mia, ecco l’aggiornamento della vicenda. Come sempre grazie a tutti coloro che sono passati da queste parti. Un ringraziamento particolare va ovviamente a chi mi ha anche lasciato il suo parere.







Capitolo 3

La linea del fronte si annunciò in lontananza come un ribollire di fumi scuri, punteggiato qua e là dai bagliori gialli delle esplosioni.
Von Knobelsdorff vi si avvicinò cauto, scrutando il cielo alla ricerca di aerei nemici, ma nessuno arrivò a sfidarlo. Guardò in basso e vide un frenetico formicolare di uomini fra le trincee.
Aggrottò perplesso le sopracciglia, chiedendosi se il potere del signor Matthesius arrivasse anche a ordinare un assalto di fanteria per distogliere l’attenzione del nemico dal suo aereo.
Come sempre, rinunciò ad addentrarsi in quei ragionamenti. Più aveva a che fare con lo spionaggio, del resto, più si rendeva conto che esso era come un’idra dalle innumerevoli teste, delle quali però la maggior parte erano perfettamente invisibili, oppure apparivano come tutt’altro.
Salì appena di quota, non rinunciando comunque a sondare i dintorni. Se le misteriose vie dello spionaggio gli erano perlopiù ignote, conosceva invece molto bene quelle dei piloti e sapeva che nessun aviatore degno di questo nome si sarebbe lasciato sfuggire la possibilità di una facile vittoria.
Perché in effetti il suo placido castrone sarebbe stato tutt’altro che un avversario impegnativo, ma avrebbe comunque rappresentato un abbattimento, e dopo un certo numero di abbattimenti si diventava Assi.
Aerei però non ce n’erano da nessuna parte, e di certo a terra avevano ben altre preoccupazioni che seguire il suo tranquillo volo.
Quando si lasciò alle spalle le trincee, lo invase una strana sensazione d’irrealtà. Era in territorio nemico, il quale non differiva in nulla rispetto a quello che aveva appena lasciato, se non per un piccolissimo particolare: se fosse atterrato lì e l’avessero scoperto, sarebbe stato preso prigioniero, processato come spia, forse addirittura ucciso.
Alzò le spalle con noncuranza, con ragionamenti del genere non sarebbe andato da nessuna parte. Aveva una missione da compiere, e se l’avesse svolta nel modo migliore – cosa che di certo non si presentava difficile – entro pochi giorni sarebbe tornato alla Jasta, a litigare con Behringer e Hoffmeyer su chi avesse più abbattimenti.
Pensò ai suoi camerati e una sferzata di nostalgia lo invase. Si chiese se fossero ancora vivi. Non era così scontato esserlo, in effetti, per dei piloti da caccia.
Meccanicamente fece scorrere lo sguardo sugli strumenti, regolò qualche parametro. Osservò la mappa, quindi si sporse appena per controllare che la navigazione stesse procedendo in modo corretto.
Vide solo campi, una lunga strada bianca, rare macchie d’alberi. Di quando in quando coglieva i tetti, rossi o color paglia, di qualche masseria. Si chiese se in giro ci fosse qualcuno in grado di accorgersi del suo aereo.
Virò appena seguendo le indicazioni della bussola, poi di nuovo guardò fuori. Individuò all’orizzonte, nitide contro il cielo chiaro del primo mattino, le sagome di tre mulini a vento dalle pale immobili.
Abbassò lo sguardo sulla cartina: teoricamente la sua navigazione avrebbe dovuto terminare davanti alle imponenti strutture. C'era un grande prato, in effetti, forse un pascolo, che sembrava creato apposta per far atterrare gli aeroplani.
Fece un giro tutt'intorno. Al suo passaggio, un paio di bovini si allontanarono indolenti, uno stormo di uccelli si alzò in volo. Un lontano luccichio d'acqua baluginò per un attimo tra le fronde.
Nessun segno di riconoscimento.
Il tenente fece un secondo giro, rievocò le istruzioni che la donna gli aveva fatto imparare a memoria: un fumogeno bianco alle sette precise.
Le sette erano passate e di fumogeni non v'era l'ombra.
Anche in quel caso, le istruzioni erano precise: la missione era da considerarsi come fallita. Avrebbe dovuto invertire la rotta e rientrare, senza la preziosa spia e senza le ben più preziose informazioni di cui essa era in possesso.
Sarebbe rimasto noto come colui che aveva fallito la missione. Un giovane pilota ardimentoso, pieno d'amore di Patria, ma fondamentalmente incapace.
Strinse le labbra e virò per compiere un terzo giro. Le mucche ormai dovevano essersi abituate al ronzio del suo apparecchio, perché nessuna di esse si spostò. Scese addirittura di quota, scrutando ansiosamente i dintorni alla ricerca di qualsiasi cosa si discostasse dall'ordinario.
Possibile che una spia così efficiente, un individuo che persino la donna qualificava come abilissimo e scaltro, mancasse l'appuntamento con quella che letteralmente rappresentava la salvezza sua e della Germania?
Poi colse ai margini di una macchia d'alberi un esile filo di fumo e il cuore gli balzò nel petto. Invertì la rotta, scese ancora di quota. Non era certo un fumogeno, più che altro sembrava un focherello di sterpi, ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato opportuno ignorarlo.
Alla peggio decollerò di nuovo,” disse a mezza voce, quindi ridusse motore e diede la prima tacca di flap.
L'aereo prese ad abbassarsi dolcemente. Von Knobelsdorff intanto si guardava intorno, alla ricerca di buche o altri ostacoli che potessero danneggiargli il carrello, ma il prato pareva un'unica, uniforme distesa di erba vellutata.
Diede un'altra tacca di flap, tolse ancora motore, portando i giri al minimo. Per qualche istante l'aereo parve letteralmente galleggiare a mezz'aria, poi un sobbalzo morbido fece capire all'ufficiale che aveva toccato terra. Frenò dolcemente fino ad arrestarsi, poi subito fece girare il velivolo su se stesso, per essere pronto a decollare in qualsiasi momento.
A quel punto si guardò intorno, ma anche il fumo che aveva visto dall'alto sembrava scomparso. Si slacciò le cinture di sicurezza, si sollevò a metà dal seggiolino, ma il nuovo punto d'osservazione non gli diede ulteriori elementi d'interesse.
Strinse le labbra contrariato. Che fare?
Poi una vibrazione improvvisa lo fece letteralmente sobbalzare. Si girò per scoprirne la provenienza e vide un uomo – un contadino, a giudicare dall’aspetto – che si stava infilando nell'abitacolo posteriore.
Chi è lei?” sbottò, alzando la voce per coprire il rumore del motore.
Andiamo,” disse l'altro per tutta risposta.
Von Knobelsdorff non si mosse. “Chi è lei?” ripeté perentorio, “Cosa fa sul mio aereo?”
Lo sconosciuto, che si stava già allacciando le cinture di sicurezza, abbandonò le cinghie con un sospiro e disse: “Si muova.”
Neanche per sogno, se non so chi è lei.”
Il nuovo arrivato alzò gli occhi al cielo. “Si muova, per favore.”
Von Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia e ringhiò: “Si qualifichi, prima. Lei potrebbe essere chiunque, per quanto mi riguarda.”
A quelle parole, l'uomo estrasse una pistola e gliela puntò contro. “Potrei ucciderla, se volessi,” disse lentamente, fissandolo con occhi che ardevano di un bagliore gelido da belva.
Von Knobelsdorff rimase immobile, rivolgendogli a sua volta uno sguardo feroce. “E poi chi lo fa volare, questo?” lo sfidò.
Lo sconosciuto si limitò ad alzare gli occhi al cielo. “Spionaggio, Matthesius. Le dicono qualcosa queste parole, o no?” Poi, senza attendere risposta, concluse: “E ora si sbrighi, mi stanno alle costole.”
Di chi sta parlando?”
Degli inglesi, ovviamente, stupido ragazzetto fastidioso.”
Von Knobelsdorff aprì la bocca per dire al misterioso individuo quel che pensava di lui, ma in quel momento apparvero nel cielo terso due sagome fin troppo familiari. Senza più prestare attenzione all’uomo, si sedette e si strinse al massimo le cinghie di sicurezza, poi diede tutto motore e l’Albatros cominciò la corsa di decollo.
Le sagome andavano ingrandendosi, e man mano le loro forme indistinte mutavano in quelle minacciose di un biplano e un triplano.
Merda, pensò von Knobelsdorff, calcolandone mentalmente la distanza. L’Albatros frattanto saliva, lento e regolare. Il suo movimento era vigoroso ma senza scatti, tranquillo. Ricordava la forza pacifica di un cavallo da tiro.
Il suo unico vantaggio era che aveva due mitragliatrici, una in caccia e una posteriore. Posto che il tizio sapesse usare quella posteriore, ovviamente.
Si girò rapido e lo vide pronto, già imbragato e con l’arma imbracciata. Lo sguardo acuto con cui scrutava il cielo era quello di un rapace in cerca di preda.
Non ebbe tempo di ragionare oltre sulla faccenda: già il biplano, un Sopwith Pup, si stava avvicinando per prenderlo di coda.
Von Knobelsdorff virò per mantenere il contatto visivo e intanto si chiese cosa fare: due contro uno, praticamente in decollo, ai comandi di un aereo che conosceva solo da un’ora scarsa. Fece partire la prima raffica, che costrinse il Pup a scartare bruscamente. Tolse i flap, poi cercò di guadagnare quota, ma subito il triplano si mosse per intercettarlo. Sentì l’Albatros vibrare, vide l’avversario schizzare via.
I due, però, erano tutt'altro che disposti a lasciarli andare.
Avrebbe voluto girarsi verso il suo misterioso passeggero, ma farlo avrebbe significato perdere il contatto visivo con gli avversari, e di conseguenza avrebbe significato permettere loro di metterglisi in coda.
Da come tenevano in mano i comandi non erano certo due sprovveduti, e il fatto che fossero comparsi letteralmente dal nulla per attaccare un aereo senza marche e senza distintivi faceva intuire che sapessero anche perfettamente chi c'era a bordo.
Cercò di salire ancora di quota. Il motore ormai fuori giri ululava, le pur robuste strutture portanti vibravano. Il Pup salì invece con la disinvoltura di un rondone, quindi con un mezzo tonneau si preparò a piombargli addosso dall'alto. Von Knobelsdorff picchiò prima che l'altro potesse mettere in atto la manovra, puntò in direzione del triplano, sparò un paio di raffiche. Di nuovo sentì la vibrazione della mitragliatrice posteriore, colse con la coda dell'occhio il biplano che si allontanava.
Il Pup guizzò subito dopo nell'aria, si preparò a un nuovo attacco. Il triplano azionò le mitragliatrici. Il tenente tentò una manovra evasiva, ma il placido ricognitore non era nemmeno lontanamente agile come il suo caccia. Strinse i denti, virò per fronteggiare il biplano, ma pur concentrato su di esso, vedeva il Sopwith Triplane avvicinarsi inesorabile. Sul muso del velivolo brillavano ritmici i lampi arancioni degli spari. Saltò un tirante di una semiala, pezzi del rivestimento volarono via come petali da un fiore ormai sfatto.
Il tenente diede di nuovo tutto motore, si tirò la barra alla pancia per far cabrare l'Albatros, impostò una virata e si trovò col fianco del triplano nel mirino. Piantò la mano sul comando della mitragliatrice, un'ala del Sopwith saltò, la fusoliera parve letteralmente disintegrarsi sotto la gragnuola di colpi. L'aereo puntò il muso verso il basso.
Von Knobelsdorff virò alla ricerca del biplano, ma in quel momento qualcosa colpì l'Alabatros come un colpo di maglio. L'elica si inchiodò, dal motore prese a uscire un fumo denso e nero.
Il tenente cercò di mantenere il velivolo in assetto. Al rombo del motore si era sostituita una cacofonia di fischi, sibili e scricchiolii, punteggiata di tanto in tanto dallo schiocco di strutture che saltavano, incapaci di tollerare lo sforzo della caduta.
Stiamo precipitando!” udì alle sue spalle.
Non rispose nemmeno. Il Pup stava seguendo la loro traiettoria, di tanto in tanto tra le folate scure lo vedeva guizzare.
Si guardò intorno alla ricerca di uno spazio che permettesse l'atterraggio, ma il fumo che ormai lo avvolgeva gli rendeva difficile analizzare il terreno.
Chiuse il serbatoio della benzina, agì sui flap per cercare di recuperare un assetto che permettesse di toccare terra in relativa sicurezza. Il suolo si avvicinava con spaventosa rapidità, si sentiva il Sopwith Pup ronzare intorno come una specie di insetto molesto.
Poi un ramo si agganciò al carrello, l'Albatros capitombolò in avanti, rimbalzò in un'esplosione di frasche, si avvitò su se stesso e con schianti e gemiti di legno spaccato piombò nella macchia.
La caduta fu parzialmente attutita dalla vegetazione, ma l'atterraggio fu comunque duro. Von Knobelsdorff sentì le cinghie di sicurezza mordergli le spalle. Batté la testa da qualche parte, curiosamente senza sentire alcun dolore. Dopo i frenetici cambi di prospettiva della caduta, trovare finalmente un orizzonte fermo gli diede qualcosa che somigliava a una vaga sensazione di sicurezza. “Bene,” mormorò.
Una mano sulla spalla lo fece sussultare. “È ferito?” chiese una voce.
Il tenente scrollò la testa, poi rispose: “Non lo so.”
Riesce a stare in piedi?” La voce aveva un tono di urgenza autoritaria che gli fece storcere il naso. “Non lo so,” ripeté.
Nel suo campo visivo comparve lo sconosciuto. “Beh, se ne accerti,” disse questi ruvido, “dobbiamo scappare.”
Come a sottolineare l'impellenza di quell'affermazione, si udì il rombo di un aereo a bassa quota. Una mitragliatrice crepitò e dall'alto piovvero fogliame e rami spezzati.
Von Knobelsdorff si sentì afferrare per una spalla e trascinare in avanti. Scese malamente dal relitto, incespicando sulle strutture semidistrutte dell'aereo. L'uomo lo sospinse di nuovo, con urgenza. “Si muova,” gli disse poi, “sta per fare un altro passaggio.”
Il tenente cominciò a correre. Il bosco era un susseguirsi di tronchi dritti e scuri, avvolti da quello che rimaneva di una lieve nebbia. Per terra vi erano felci e arbusti, qualche rovo che si avvinghiava ai vestiti. Pietre coperte di muschio gli rendevano i passi malfermi.

Corsero per un tempo che al tenente parve infinito. Il rombo dell'aereo era sparito, gli unici rumori che si udivano erano ormai il frusciare della vegetazione e il tonfare ritmico dei passi.
I pesanti indumenti di volo ancora addosso, il giovane ufficiale sentiva i rivoli di sudore scorrergli lungo la schiena.
Dove stiamo andando?” ansò.
Ho un nascondiglio.”
Von Knobelsdorff rinunciò a rispondere. Non era improbabile in effetti che li stessero cercando, o meglio che volessero recuperare a tutti i costi gli importanti segreti militari che la famigerata spia tedesca aveva trafugato. Se avevano scomodato addirittura due aerei per intercettarli, poteva immaginare che un tratto di bosco non avrebbe rappresentato una barriera in grado di tenerli lontani a lungo. Chiunque essi fossero, naturalmente.
Raggiunsero delle rovine, ormai così coperte d’edera e vitalba da risultare quasi invisibili. L’uomo rallentò, prese a girare intorno al rudere come alla ricerca di qualcosa. Infine disse: “Qui.” Scostò una tenda di rampicanti, rivelando quello che rimaneva di una porta.
Fece cenno al tenente di seguirlo, e quando furono entrambi all’interno, fece ricadere con attenzione l’edera che aveva smosso, riportandola alla posizione originaria.
Si incamminò poi attraverso un androne la cui volta era crollata. Qua e là spuntavano dal pavimento giovani tronchi, i rampicanti serpeggiavano ovunque. A ben guardare, nelle zone più nascoste si notava ancora qualche porzione ormai sbiadita di antiche pitture.
Che posto è questo?” chiese von Knobelsdorff, abbassando istintivamente la voce di fronte alla solennità misteriosa del luogo.
Ci fermeremo il minimo indispensabile,” disse l’altro per tutta risposta, dirigendosi con sicurezza a una scala che portava verso il basso, “dobbiamo riprendere fiato e fare il punto della situazione.”
Il tenente si irrigidì appena mentre l’antica diffidenza tornava a farsi sentire.
L’uomo sembrò accorgersene e in tono tagliente gli disse: “Siamo dietro le linee nemiche, ci stanno braccando, sono ragionevolmente certo che senza di lei mi muoverei con molta più disinvoltura. Se avessi voluto abbandonarla al suo destino l’avrei già fatto, non le pare?”
L’ufficiale emise un sospiro. “Immagino di sì.”
Ora sarebbe prigioniero,” rincarò l’altro. “La starebbero già interrogando, probabilmente.”
Von Knobelsdorff non replicò. Si sentiva gli abiti fradici e la gola secca, era certo di avere il viso in fiamme. Si limitò a indicare la scala e a chiedere: “Là sotto?”
C'è dell'acqua.”
Il tenente si girò a fissare lo sconosciuto negli occhi. “Lo sa cos'ho notato?” gli disse, “Che lei non risponde mai alle mie domande.”
Sono inutili,” fu l'asciutta replica.
L'altro assottigliò lo sguardo e ringhiò: “Cos'avrei chiesto di tanto inutile, si può sapere?”
Un po' tutto, finora. Mi sembra che lei non abbia ancora capito la gravità della nostra situazione.”
Cosa le fa credere che non l'abbia capita?”
L'uomo cominciò a scendere le scale. “Dovremo trovare un mezzo di trasporto,” disse, “raggiungere il paese, prendere il treno.”
L'ufficiale corrugò indispettito la fronte, poi disse: “L'ha fatto di nuovo.”
Cosa?”
Non ha risposto alla mia domanda.”
Perché sarebbe controproducente farlo, risponderle sarebbe solo un'inutile perdita di tempo. Inoltre, vale sempre la buona vecchia regola: meno cose sa e meglio è.”
A quel punto, con un paio di balzi agili il tenente sopravanzò il misterioso interlocutore, quindi si pose a barriera sui gradini. In tono tagliente disse: “Ma non sono nemmeno un cavallo, che lei può condurre dove vuole con redini e speroni. Sono un ufficiale tedesco, sono quello che ha rischiato la pelle combattendo contro due aerei inglesi per proteggerla...”
Non sarebbe successo, se lei non avesse cominciato con le sue stupide domande,” lo interruppe l'uomo.
Come se non aspettasse altro, rapido von Knobelsdorff replicò: “Non avrei dovuto chiederle nulla? E se lei fosse stato un agente nemico che si era sostituito all'agente tedesco? Io l'avrei portata tranquillamente oltre le linee senza nemmeno sapere cosa stavo facendo.”
Si fissarono per qualche secondo in silenzio. Sul gradino più basso, leggermente ansante per la rabbia, von Knobelsdorff doveva tenere la testa piegata all'indietro per mantenere il contatto visivo con l'altro, ma non distoglieva lo sguardo.

Il Werwolf fissò serio l'ardimentoso giovanotto: occhi fiammeggianti, capelli un po' scompigliati dalla corsa che gli ricadevano sulla fronte pallida, un rivolo di sangue ormai secco che gli scendeva lungo la guancia. Un'espressione dura, irosa, come di chi ha ricevuto un torto immeritato e ne chiede conto.
Normalmente i suoi collaboratori li voleva più docili. Li voleva efficienti, disciplinati e silenziosi come i camerieri dei ristoranti di lusso.
Non gli piacevano le teste calde che volevano mettere becco in ogni cosa.
A onor del vero, quello in effetti non se l'era scelto. Di sicuro l'avevano reclutato Matthesius e la Lesser. Serviva un pilota di aeroplani e i due, con lo spirito pratico che li accomunava, avevano probabilmente scelto il migliore che avevano trovato.
Peccato che attaccare a un calesse un giovane purosangue domato a metà garantisse tutt'altro che una serena passeggiata.
Lo oltrepassò con andatura misurata, finì di scendere le scale, poi di nuovo si girò a guardarlo. “Venga giù,” gli suggerì in tono più conciliante, “venga a bere un po' d'acqua.”
Ci fu qualche altro secondo di immobilità carica di tensione, poi il giovanotto emise un sospiro e rilassò la postura rigida delle spalle. Scese a sua volta gli ultimi gradini.
Il Werwolf gli tese una borraccia.
Egli la prese, la stappò e sollevò lo sguardo a fissarlo.
Non è avvelenata,” gli disse l'agente segreto. “Vuole che beva prima io, per dimostrarglielo?”
Non importa, tanto se fosse avvelenata avrebbe qualche antidoto in bocca.”
Il Werwolf sogghignò. “Molto acuto.”
Rimase a fissarlo mentre si dissetava. Fece scorrere lo sguardo sulla sua gola, che nella penombra del sotterraneo appariva bianca e liscia, e poi sul suo profilo regolare. “Si tolga quella roba,” gli disse.
Il giovanotto abbassò all'istante la borraccia. “Cosa?”
Quel soprabito pesante. Di questa stagione dà troppo nell'occhio.”
Mi serve per volare.”
Temo che non ce ne andremo volando,” gli rispose l'agente segreto. Guardò in alto, verso la scala che avevano appena percorso, e aggrottò le sopracciglia in ascolto. I suoni erano quelli neutri della natura, il cinguettare degli uccelli, lo stormire delle fronde. Forse il battere ritmico di un picchio in lontananza.
Si fece consegnare la borraccia, bevve a sua volta. Il fatto che non si sentissero rumori sospetti non era ovviamente una garanzia di non avere nessuno alle costole. Anzi, paradossalmente sarebbe stato meglio udire qualche maldestro tramestio, o magari un latrare di segugi. Nessun rumore invece significava una cosa sola: che chi lo stava inseguendo era così abile da non produrne.
Si voltò verso il giovanotto, che si stava facendo scivolare giù dalle spalle un cappotto foderato di pelliccia, e gli disse: “Togliamo quel sangue, così dà troppo nell'occhio.”
L'altro gli rivolse uno sguardo torvo. “Quale sangue?”
Il Werwolf trasse di tasca un fazzoletto bianco, vi fece cadere un po' d'acqua e si protese per ripulirlo, ma il giovanotto si fece indietro. “Faccio da solo,” ringhiò.
E come, se non riesce nemmeno a vedersi?” Senza dargli il tempo di replicare, l'agente segreto gli si avvicinò ulteriormente e gli passò la pezzuola umida sulla guancia. L'ufficiale fremette, ma rinunciò a indietreggiare.
Così, bravo,” apprezzò il Werwolf, continuando a ripulirlo. “Ha un piccolo taglio,” disse poi, a voce più bassa. “Le fa male?”
No.” Il giovane aggrottò le sopracciglia. “Ora basta, però.” Voltò la testa, allontanando il viso dal tocco umido del fazzoletto.
Non ho finito.”
Finisco io.”
Perché?”
Ora sono io che non rispondo alla sua domanda, va bene?”
Il Werwolf si limitò a porgergli il fazzoletto. “Si sbrighi,” gli disse soltanto, “qui siamo in pericolo.”

Von Knobelsdorff prese riluttante il piccolo pezzo di tessuto e se lo passò sul volto. Si era già trovato molte volte in pericolo, ma si era sempre trattato di minacce chiaramente identificabili, ben definite. Visibili, in una parola. Pallottole, aerei nemici, il rischio di finire disarcionato durante un assalto.
Tutte cose conosciute, che sapeva come gestire.
Gettò uno sguardo sul suo interlocutore: età indefinita ma giovane, una camicia sdrucita, con le maniche arrotolate fin sopra i gomiti, un fazzoletto al collo, le scarpe sporche di fango. Un cappello sformato, sotto il quale si intravedeva una corta capigliatura bionda. Incrociandolo per la strada, nessuno gli avrebbe rivolto una seconda occhiata.
A ben guardare, però, c'era qualcosa che strideva rispetto all'apparenza di semplice contadino.
Gli occhi chiari erano vividi, imperiosi. Inducevano l'eventuale interlocutore ad abbassare i propri. Si muoveva sicuro, con la grazia letale di un predatore, e di certo le sue mani erano abituate a stringere armi, più che attrezzi agricoli.
Chi è lei?” gli chiese d'impulso, poi alzò le spalle e soggiunse: “Tanto non me lo dirà, vero?”
Meno cose sa...” cominciò l'uomo. L'ufficiale lo interruppe: “Certo, certo. Meno cose so e meglio è, non è così?”
Io lo dico per il suo bene.”
E anche perché questo povero idiota non sarebbe mai in grado di custodire le informazioni nel modo corretto, vero?”
L'uomo scosse la testa innervosito, poi rispose: “Io non conosco la sua resistenza a metodi di persuasione energici, giovanotto. Non so se di fronte a ferri roventi, scosse elettriche o frustate con il filo spinato sarebbe in grado di raggiungere l'estasi del martirio o spiattellerebbe tutto frignando come un infante, per cui preferisco non rischiare.”
Von Knobelsdorff strinse i denti. “E lei sarebbe in grado di resistere?” lo provocò.
Io sì,” fu la secca risposta.
Perché, ha provato?”
L'uomo lo trafisse con uno sguardo gelido, poi tagliente replicò: “Proprio non ce la fa a non fare domande, vero?”
Von Knobelsdorff stava per ribattere quando l'altro lo fermò con un gesto e perentorio sibilò: “Andiamo.”
Convinto che sarebbero tornati da dove erano venuti, il giovane ufficiale si mosse verso le scale, ma l'altro si addentrò rapido nei meandri diroccati del sotterraneo, aggirando cumuli di pietre e detriti. Alla scarsa luce che penetrava dalle fenditure della volta, il tenente faceva del suo meglio per non farsi distanziare troppo. Si chiese se quel tizio sarebbe stato capace di lasciarlo indietro, magari per poter fuggire più in fretta.
Probabilmente sì, concluse. E forse, nemmeno lui al posto suo avrebbe rischiato di non consegnare in tempo importantissimi segreti militari per salvare la vita di un anonimo tenentino degli ulani.
Non poté indugiare oltre in quei ragionamenti, perché d'un tratto l'uomo lo spinse contro la parete e gli fece cenno di tacere. Indicò poi verso l'alto.
Von Knobelsdorff sollevò lo sguardo e si accorse che da una crepa del soffitto stava scendendo un'impalpabile pioggia di polvere d'intonaco.
Istintivamente si appiattì contro il muro. Aveva cacciato tante volte prima della guerra, aveva abbattuto cervi e caprioli nelle tenute della sua famiglia, per cui non faceva fatica a immedesimarsi in colui o coloro che stavano girando intorno alle rovine. Poteva quasi percepire l'attenzione spasmodica, l'ebbrezza. Quell'istinto sicuro che anche in assenza di ogni altro elemento coglieva la presenza della preda.
Si voltò verso l'uomo, che di nuovo gli fece cenno di tacere.
Dall'alto cadde altra polvere, a von Knobelsdorff parve addirittura di cogliere il movimento di un'ombra.
Percepì una pressione sul braccio. Si girò di scatto e l'uomo gli indicò l'imboccatura di un basso cunicolo.
Si infilarono nel condotto. La già scarsa luce venne meno dopo pochi metri, precipitando il percorso in un buio piceo. Von Knobelsdorff aveva l'impressione che la galleria piegasse lentamente verso il basso. Dapprima asciutto e polveroso, il fondo andava man mano facendosi più umido, tanto che a un certo punto il tenente ebbe la chiara percezione di affondare in una fanghiglia densa.
Allungò una mano a toccare la parete e la trovò umida e muscosa. L'aria fredda sapeva di limo.
Cercò di allungare il passo, per non farsi distanziare eccessivamente dall'uomo, ma incespicò e quasi cadde.
Stia attento,” sibilò l'altro, senza diminuire l'andatura.
Il tenente rinunciò a replicare.
Continuarono ad avanzare. Ormai per terra c'era l'acqua, se la sentiva penetrare nelle scarpe a ogni passo, ma allo stesso tempo sembrava che un vago chiarore si stesse sostituendo al buio assoluto della galleria.
Stia attento,” gli ripeté l'uomo a bassa voce, “potrebbe essere là fuori che ci aspetta.”
Di chi sta parlando?” gli chiese von Knobelsdorff, ma prevedibilmente non ricevette alcuna risposta.
Il chiarore nel frattempo stava aumentando, ormai si distinguevano vagamente le asperità delle pareti di pietre grezze. L'aria si era fatta meno umida, l'odore di limo era arricchito dai profumi resinosi di un bosco.
Il giovane tese l'orecchio e gli parve di cogliere un lieve scorrere d'acqua.

Con l'acqua ormai alle ginocchia, raggiunsero la fine della galleria. Dapprima l'uomo si immobilizzò e rimase per lunghi minuti in ascolto, poi, quando si persuase che a parte loro non c'era nessuno, riprese ad avanzare cauto. Si fecero strada piegati fra erbe palustri e rami di salice. Von Knobelsdorff si accorse che si trovavano nell'ansa di un fiume, apparentemente lontano da ogni centro abitato.
Tutto conferiva una sensazione di calma idillica, tanto che l'ufficiale stentava più che mai a convincersi che la loro situazione fosse pericolosa.
Fu l'uomo che a un certo punto ruvidamente disse: “Muoviamoci, the Bishop non ci metterà molto a capire da che parte siamo usciti.”
Il tenente si voltò a fissarlo. “Chi?”
Andiamo.”
L'altro alzò gli occhi al cielo esasperato. Avrebbe avuto mille domande da porre al misterioso agente, come conosceva quel tunnel, ad esempio, chi o cosa era the Bishop, perché lo riteneva così pericoloso, ma era certo che non avrebbe ricevuto risposta a nessuna di esse. Si rassegnò a seguirlo mentre attraversava la golena e poi si inerpicava sull'argine.
Arrivarono alla sommità della barriera. Appoggiato al tronco di un albero, l'uomo fece scorrere lo sguardo sulla pianura costellata di covoni.
Era ormai tarda mattinata e i contadini si preparavano a consumare il pasto. Attaccati a carri carichi di fieno, placidi cavalli da tiro tenevano la testa nascosta nel sacco della biada, agitando talvolta la coda per scacciare le mosche.
L'uomo si voltò verso l'ansa da cui erano arrivati, aggrottò le sopracciglia e disse: “Muoviamoci.”
Fece per incamminarsi, ma subito si arrestò. Fissandolo critico, disse a von Knobelsdorff: “Naturalmente non dobbiamo dare nell'occhio. Le è chiaro questo, no?”
Certo,” ringhiò l'ufficiale.
Pensa di esserne in grado?”
Se le dico di no cosa fa, mi lascia qui?”
Mi sembra ovvio.”

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Prima parte ***


Gente mia,
poiché ci sono alcuni capitoli di questa vicenda che sono lunghi come l’anno della fame, ve li mando in onda metà per volta, per non sfrangiarvi troppo le gonadi.
Come sempre un grande ringraziamento a chiunque passi da queste parti, dia un’occhiata o mi metta in qualche lista.
Baci e abbracci a chi mi ha anche lasciato un commento.^^




Capitolo 4 – Prima parte

Rannicchiato nell'erba alta accanto all'agente segreto, von Knobelsdorff lasciava vagare lo sguardo sulla campagna. Il sole era alto, il cielo era una tavola turchese. Ovunque regnava il silenzio estatico del mezzogiorno.
I contadini sedevano in gruppetti attorno a tovaglie stese a terra, le donne distribuivano il pasto traendo mestoli colmi da grossi tegami di coccio.
Una forma di pane passava di mano in mano e tutti ne tagliavano una fetta.
Fin da quella distanza si coglieva ogni tanto l'eco flebile di una frase o di una risata.
Il tenente realizzò di essere affamato. Di solito a quell'ora i voli di guerra erano finiti e i piloti della Jasta si fermavano per il pranzo. Nel pomeriggio capitava a volte qualche missione, ma perlopiù si ingannava il tempo fino a sera.
Ripensò a quando aveva mangiato l'ultima volta e si accorse che era dal giorno prima che non toccava cibo.
Come se gli avesse letto nel pensiero, l'uomo gli rivolse uno sguardo gelido e sibilò: “Stia concentrato.”
Il tenente stava per replicare quando vide l'altro irrigidirsi in ascolto. Tese a sua volta l'orecchio, si guardò intorno, ma nulla sembrava turbare la quiete.
Poi d'improvviso udì un paio di brevi sibili e a poca distanza dalla sua testa vi fu uno scomposto frullare di foglie. Prima che potesse rendersi conto di cosa stava succedendo, si sentì afferrare per un braccio e trascinare via.
Si ributtarono nella golena, entrarono in una macchia fitta, piena di acacie e rovi. Von Knobelsdorff si trovò a correre con le mani tese davanti a sé per proteggersi la testa dai rami spinosi, mentre lottava per non perdere il contatto visivo con l’uomo.
Raggiunsero la sponda. Il tenente si fermò sforzandosi di non ansimare e udì flebile alle loro spalle un lieve tramestio come di rami smossi.
L'altro si guardò rapidamente intorno e adocchiò un tronco caduto, coperto di rampicanti. “Mi aiuti,” ordinò asciutto, quindi estrasse dalla cintura un coltello e cominciò a tagliare la vegetazione che l'avviluppava.
Von knobelsdorff cercò di afferrare i rami che man mano che venivano recisi, ma le spine lo costrinsero ad arretrare. “Cosa vuole fare?” chiese.
Mi aiuti a buttarlo in acqua.”
Perché?”
Ci farà stare a galla.”
Il tenente fissò il fiume, all'apparenza placido, ma costellato qua e là di sinistri mulinelli, poi rivolse uno sguardo all'uomo. Fece per aprire bocca, ma l'altro lo fermò, si protese verso di lui e gli sussurrò all'orecchio: “Faccia quello che le dico, se vuole vivere.”
Il giovane si voltò verso la macchia che avevano appena attraversato: i rumori che gli pareva di aver percepito fino a poco prima erano scomparsi. Si chiese se quello fosse un bene o un male: chi li inseguiva aveva rinunciato oppure si era appostato da qualche parte pronto a sorprenderli?
La voce dell'uomo lo richiamò alla realtà: “Si muova.”
Spinsero il tronco in acqua, ma quando il tenente fece per immergersi a sua volta, l'altro lo trattenne per la collottola. Gli fece cenno di tacere, quindi gli indicò una macchia di arbusti particolarmente fitta.
L'ufficiale diede un ultimo sguardo al tronco che si allontanava lentamente, così coperto di rampicanti recisi da sembrare un viluppo di rovi alla deriva, poi rivolse uno sguardo interrogativo all'uomo.
Questi gli ripeté il gesto di tacere, scrutò di nuovo la boscaglia che avevano appena attraversato, quindi si infilò nella macchia con l'agilità di un felino e vi scomparve dentro nel giro di pochi secondi.
A von Knobelsdorff parve di aver capito quale fosse il piano dell’uomo: il loro inseguitore doveva crederli nascosti sotto il tronco, mentre loro sarebbero stati acquattati nei rovi.
Come le lepri, pensò con un sospiro, poi si rassegnò a strisciare sotto la massa vegetale.
Rasoterra l'aria manteneva l'umidità. Trattenuto dal fogliame, anche il calore ristagnava. Gli insetti zampettavano e frinivano ovunque.
L'uomo, rannicchiato al punto da risultare praticamente invisibile, pareva non risentire per nulla di quelle disagevoli condizioni. Il tenente notò che si manteneva teso, come pronto a balzare via da un momento all'altro. Gli occhi vigli guizzavano, sondando continuamente i dintorni.
Gli ricordò un animale selvatico. Uno di quelli pericolosi, ai quali è meglio non avvicinarsi troppo, nemmeno quando si ha un fucile.
Un lieve tramestio attirò la sua attenzione: qualcuno si stava avvicinando. Tese l'orecchio, cercando di capire se fossero i passi di una o più persone. D'istinto si voltò verso l'uomo, che si limitò a fargli cenno di tacere.
Il rumore frattanto si avvicinava. Era una persona sola, probabilmente molto cauta. Von Knobelsdorff immaginò che facesse un passo per volta, prendendosi prima del successivo tutto il tempo per sondare i dintorni. Strinse gli occhi cercando di scrutare oltre la cortina di rami intricati che li nascondeva, ma non riuscì a vedere nulla.
Un altro passo. Un chiurlo mandò un richiamo, quindi prese il volo con un frullo improvviso, facendolo sussultare.
L'istinto del cacciatore si fece nuovamente sentire ed egli ebbe la certezza che a pochi metri di distanza ci fosse qualcuno.
Si girò verso l'uomo e quasi sobbalzò quando vide che era scomparso. Si guardò spasmodicamente intorno e colse un guizzo della sua camicia chiara apparire e scomparire tra le foglie.
Si morse il labbro indeciso. Che fare? L'aveva lasciato solo? Se n'era andato? E come, se non aveva sentito il minimo rumore?
Si fece avanti cauto: se il tizio l'aveva lasciato solo, come minimo doveva farsi un'idea precisa della situazione, prima di stabilire in che modo procedere.
Presso la riva c'era un uomo. Era in borghese e aveva in mano una pistola, stava scrutando poco convinto le tracce che il tronco si era lasciato dietro quando l'avevano buttato in acqua.
A un tratto, con un fruscio di vegetali smossi un'ombra piombò addosso al nuovo arrivato. Ci fu una breve colluttazione, poi si udì un suono secco come di un ramo spezzato.
Delle due figure avvinghiate, una si afflosciò al suolo e vi rimase immobile.
Von Knobelsdorff stava per arretrare verso il folto della vegetazione quando realizzò che quello rimasto in piedi era il suo misterioso accompagnatore.
Strisciò fuori dal nascondiglio, lo raggiunse. “Mi aiuti a buttarlo in acqua,” disse l'altro.
È morto?” chiese il tenente. Per quanto gli fosse razionalmente chiaro che più o meno ogni volta che abbatteva un aereo uccideva qualcuno, non era abituato alla concretezza brutale di trovarsi un cadavere davanti agli occhi.
Mosse esitante un altro passo, quasi aspettandosi che quel corpo contorto potesse d'improvviso balzare su e avventarglisi contro. Gli gettò uno sguardo e vide che era un giovane uomo, forse un militare, a giudicare dal taglio di capelli. Aveva gli occhi spalancati e la testa in una posizione innaturale. La morte doveva essere sopravvenuta in un istante, perché il volto era rimasto pietrificato in un'espressione di doloroso stupore.
Si muova,” lo richiamò alla realtà l'uomo, “non siamo ancora in salvo.”
Von Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia. “Ma non ha appena abbattuto quello che ci inseguiva?”
L'altro scosse la testa come di fronte all'ennesima domanda di un bambino poco sveglio. “The Bishop non si sarebbe fatto sorprendere così facilmente, questo è solo uno dei suoi tirapiedi.”
Chi è the Bishop?”
Andiamo.”

Uscirono dalla golena molto dopo, arrampicandosi su un argine mezzo incolto, coperto di arbusti.
Von Knobelsdorff si terse il sudore dalla fronte e si slacciò qualche bottone della giacca. Era il primo pomeriggio, il cielo aveva assunto un colore azzurro pallido, quasi bianco. Dopo aver mangiato, i contadini dormivano all'ombra dei covoni. Gli unici rumori che si udivano erano il frinire di qualche insetto e il tintinnare dei finimenti, se un cavallo alzava la testa dal sacco della biada.
L'uomo, al suo fianco, fece scorrere lo sguardo attento sui campi, poi fece un sorrisetto e disse: “Mietitura.”
Il più giovane si girò a fissarlo. “Prego?”
Mietitura, di Bruegel il vecchio. Ce l'ha presente?”
Che c'entrano i quadri, adesso?”
L'uomo alzò le spalle, quindi fece scorrere lo sguardo sulla campagna. Dopo una lunga osservazione indicò un carro di fieno che si trovava un po' distante dagli altri. “Quello.”
Quello, cosa?”
Ci saliamo sopra. Cerchi di muoversi senza fare rumore, se ci riesce.”
L'ufficiale aggrottò le sopracciglia. “Certo che ci riesco,” ringhiò.
L'altro si limitò a un'alzata di spalle, poi coprirono rapidi la distanza che li separava dal veicolo. A qualche metro da esso, distesi in una macchia d'ombra, con la giacca appallottolata sotto la nuca e il cappello sul volto, tre contadini dormivano in attesa che la calura del primo pomeriggio si attenuasse.
Mentre avanzava facendo del suo meglio per non far frusciare le stoppie, von Knobelsdorff si trovò a deglutire preoccupato. Cosa sarebbe successo se, ad esempio, uno di quei contadini si fosse svegliato? Cercò di immaginare lo scenario: avrebbe gridato al ladro, avrebbe svegliato anche tutti gli altri?
Una mano sulla spalla lo fece quasi sussultare. In un sussurro, il suo accompagnatore gli disse: “Salga su e si nasconda.”
Lanciando di tanto in tanto sguardi preoccupati alle tre figure riverse, il tenente raggiunse il veicolo, vi si si inerpicò e con qualche fatica si infilò sotto il carico, buttandosi addosso manciate di fieno per occultarsi maggiormente.
In breve tempo, la faccenda cominciò a rivelarsi penosa: pur profumata e dall'aspetto soffice, la massa che gli pesava addosso stava diventando sempre più fastidiosa. Le pagliuzze si infilavano ovunque, prudevano e pungevano. Il caldo era soffocante, respirare era una pena.
Si chiese quanto sarebbe riuscito a resistere, nascosto lì sotto. Quanto sarebbe stato necessario resistere, più che altro. Minuti? Ore?
Si impose di vuotare la mente. Per quel che ne sapeva, uomini santi in India erano in grado con la stessa tecnica di sdraiarsi su un letto di chiodi senza ricavarne danni. Il fieno era certo meno pericoloso dei chiodi, quindi forse anche un neofita come lui avrebbe potuto padroneggiarlo.
I fili d'erba si ostinavano a infilarglisi nei posti più impensabili, un pizzicore che gli procedeva lungo il braccio faceva supporre che un insetto gli si fosse infilato in una manica.
Si agitò inquieto, cercando di trovare una posizione se non più comoda, almeno non così scomoda.
Stia fermo,” sibilò l'uomo al suo fianco.
Il tenente si voltò verso di lui: a differenza sua, l'agente segreto sembrava del tutto a proprio agio, o perlomeno non dava alcun segno di non esserlo. Giaceva a pancia in giù, con le braccia in avanti e il mento appoggiato alle mani sovrapposte, ed egli fugacemente pensò che gli ricordava certi grandi felini che aveva visto negli albi illustrati sulle colonie africane.
Fece del suo meglio per imitarlo, anche se sentiva il sudore ruscellargli lungo la schiena, punture ovunque e le membra sempre più indolenzite.
Per distrarsi, si diede a osservare quel poco che si vedeva attraverso i fili d’erba che lo nascondevano: vi erano un lontano scorcio dell’argine, una piccola striscia di cielo sopra di esso, la distesa giallastra del campo appena mietuto, un albero che per contrasto era così scuro da sembrare quasi nero.
A un tratto gli parve di scorgere un movimento tra gli arbusti che coprivano l’argine. Guardò con più attenzione ed ebbe la sensazione di scorgere per un istante una figura. Non sapendo in che altro modo attirare l'attenzione dell'agente segreto, spinse una mano a toccare le sue.
L’altro si girò di scatto verso di lui, con tale repentinità che egli istintivamente si fece indietro.Cosa c’è?” sussurrò.
Von Knobelsdorff scrutò di nuovo all'esterno, ma tutto appariva perfettamente immobile.
Si protese comunque verso il suo accompagnatore e gli sussurrò all'orecchio: “Ho visto qualcuno sull'argine.”
L'altro non parve sorpreso dalla notizia. “Stia fermo,” si limitò a dire, “finché siamo qui non può avvicinarsi.”
Ma...”
L'uomo gli fece cenno di tacere.
Il tenente rimase in silenzio. Guardò di nuovo, ma tutto era immobile. Come un quadro, gli venne da pensare. Come il quadro dei Mietitori.
Si voltò cauto verso l'agente segreto e vide che aveva estratto la pistola: teneva la mano sinistra sotto il mento come prima, ma la destra stringeva la Mauser Marine.
Rimase stupito: non si era nemmeno accorto che si fosse mosso.

Il Werwolf strinse gli occhi e fece scorrere lo sguardo sul poco che si vedeva della campagna. Probabile che the Bishop fosse già sulle loro tracce, ma anche se avesse capito dove si erano nascosti, nemmeno lui avrebbe potuto dare l'assalto a quel carro di fieno in mezzo a dieci contadini. Non certo perché i contadini rappresentassero per lui una sfida, ma perché una cosa del genere avrebbe suscitato clamore, e il clamore è nemico della segretezza.
Sorrise fra sé e sé pensando a quante cose procedessero nella più totale segretezza, all'insaputa di giovani ufficiali ardimentosi come quello che si stava portando dietro.
Ragazzotti entusiasti di quel tipo erano di solito convinti che le guerre si decidessero sul campo, il valore degli uni contro il valore degli altri. Già ponderare quantità e qualità degli armamenti a disposizione delle due parti rappresentava per loro un gretto esercizio di logica, buono solo a distogliere le menti dalla tensione verso l'ideale.
Lo sentì muoversi appena, come un bambino a messa, che vorrebbe tanto andare a giocare ma sa che gli è proibito.
Si ripeté per l'ennesima volta che non sarebbe stato possibile lasciarlo indietro: l'avrebbero catturato e ovviamente interrogato. Per quanto quell'ufficiale fosse senza dubbio coraggioso, fisicamente forte e di carattere deciso, non ci avrebbero messo molto, con i dovuti sistemi, a farlo capitolare.
Strinse per un istante le labbra, serrò gli occhi cercando di allontanare ricordi che nonostante tutto continuavano a fargli rizzare i capelli sulla nuca.
Si concentrò di nuovo sull'esterno. Il suo udito allenato riusciva a cogliere uno scambio a bassa voce, in francese. Discorsi di pasti serali, di animali da rigovernare. Niente che gli destasse allarme.
C'erano anche rumori, un tramestio di passi, il tinnire metallico degli attrezzi agricoli raccolti. Il fruscio di una falce che ricominciava a recidere steli.
Il Werwolf scrutò il cielo: il sole era ancora alto. I contadini avrebbero lavorato fino al tramonto e solo allora avrebbero fatto ritorno a casa. Il che non era un bene, naturalmente, perché nel frattempo the Bishop non se ne sarebbe certo stato con le mani in mano.
Ricapitolò tutti i contatti che aveva in quella zona. Si trattava di pesci piccoli, perlopiù, che fino a quel momento erano stati lasciati in pace – o forse solo discretamente controllati a distanza – dai servizi segreti nemici perché appunto troppo piccoli per giustificare un intervento, ma era pronto a scommettere che ora, nella necessità di recuperare lui e ciò che stava portando con sé, li avrebbero passati al setaccio uno a uno.
Non sarebbe stato quindi prudente approfittare della protezione che essi avrebbero potuto offrirgli.
Non potevano nemmeno rimanere alla macchia, barbe lunghe e abiti stazzonati avrebbero attirato eccessivamente l’attenzione, mentre la prima regola per portare a termine con successo le missioni era proprio quella di passare inosservati.
Gettò uno sguardo al giovanotto, sul cui volto lucido di sudore si era appiccicato qualche filo di fieno.
Sentendosi osservato, questi si girò a fissarlo e per un attimo si trovarono occhi negli occhi. Il Werwolf considerò che quelli del giovane ufficiale erano di un verde che ricordava il sole attraverso le foglie. Allungò la mano per togliergli una pagliuzza dalle labbra ed egli aggrottò la fonte, facendosi istintivamente indietro.
L'uomo sorrise e scosse appena la testa, poi tornò ad appoggiare il mento alla mano, disinteressandosi di lui.

§

Acquattato in una macchia, the Bishop rifletteva.

E così, questo sarebbe il più abile agente dell'Impero Tedesco?”
La frase ha un tono vagamente derisorio. L'uomo a cui fa riferimento è un giovanotto snello, di altezza media, che siede composto su una cassetta rovesciata in un angolo della cella, con le gambe unite e le mani poggiate sulle cosce.
Ha l'aria di un impiegatuccio, di quelli molto volonterosi ma non troppo svegli.
The Bishop si volta verso quello che ha parlato – un giovane agente che sta addestrando, ancora privo del nome in codice – e gli fa cenno di tacere. Scruta di nuovo il prigioniero, che però sembra non aver nemmeno udito la frase.
Prende il collega per la spalla, lo fa allontanare di qualche passo. Ancora non ha capito come abbiano fatto a prendere il Werwolf, fatto sta che ce l'hanno lì, dentro una cella, formalmente alla loro mercé.
Ma il Werwolf non è soprannominato Lupo Mannaro per niente, e averlo come prigioniero è forse più pericoloso che averlo come avversario.
Non ti avvicinare a lui,” raccomanda all'allievo.
Il più giovane si volta scettico verso la porta sbarrata. Al di là c'è quello che gli pare poco più di un ometto. Un contabile, un piccolo artigiano. Un biondino dall'aria slavata, con gli occhi costantemente rivolti verso il basso e le spalle curve di chi ha passato la vita su registri di partita doppia.
L'Impero Tedesco deve essere ridotto proprio male, pensa, se quella è la punta di diamante del loro spionaggio.

Il giovane agente è a terra morto, gli occhi sono spalancati in un'espressione di doloroso stupore. Il Werwolf è scomparso.
The Bishop non fa fatica a immaginare cosa sia successo.
Vede l'agente passare davanti alla porta della cella di massima sicurezza, fermarsi a scrutare attraverso lo spioncino. Di là è troppo buio per distinguere qualcosa.
Sa che stanno interrogando quella specie di contabile da giorni. Sa che stanno usando certi sistemi, anche se non sa esattamente quali, dato che lui non glieli ha mai voluti descrivere.
Sa anche che nonostante tutto il contabile non parla.
Si chiede quello che si è già chiesto tante volte, cioè se davvero portarlo lì non sia stato solo un clamoroso errore. Magari quello è realmente un impiegatuccio da quattro soldi, magari stanno seviziando la persona sbagliata.
Lo immagina guardare di nuovo dentro, cercare di distinguere qualcosa nel buio e poi riuscire finalmente a vederlo: una sagoma bianca sul pavimento, un corpo nudo che giace scomposto, verosimilmente nella posizione in cui le guardie l'hanno buttato dopo averlo riportato in cella.
Immagina che da lì a decidere di aprire la porta, impietosito dalle condizioni del prigioniero, il passo sia stato brevissimo.
Con un sospiro chiude gli occhi al giovane collega.

The Bishop fece scorrere lo sguardo sulla pianura. In altre occasioni, con altri avversari, forse avrebbe anche sportivamente accettato la sconfitta, ma con il Werwolf, a prescindere dalla necessità di recuperare le informazioni in suo possesso, aveva troppi conti in sospeso.
Il giovane agente in addestramento, ad esempio, ma anche quello che giaceva morto lungo la sponda del fiume. In ogni caso, l'elenco era lungo: il Werwolf non si lasciava mai dietro persone che potessero identificarlo.

Notte, tempesta. La pioggia scroscia sulle lastre metalliche del tetto in un rombo folle, che costringe a urlare per farsi capire.
Scambia uno sguardo con i due colleghi, che annuiscono consapevoli: sanno che lui arriverà. Un loro agente in Germania ha lavorato bene e la notizia è sicura.
Passa il tempo, la pioggia non accenna a diminuire, il vento ulula.
Ci sono i lupi,” dice uno dei colleghi. La frase quasi si perde nel frastuono.
Lui alza la testa: è comparso un rumore dissonante. Un raschiare lieve, a malapena percettibile nella furia scomposta degli elementi.
Abbandona il suo punto d'osservazione, divora i gradini che conducono al tetto, spalanca la porta che conduce all'esterno. Il Werwolf è là, acquattato sulla linea di colmo come uno spaventoso gargoyle. Appare e scompare alla luce livida dei lampi.
D'un tratto si volta verso di lui, lo fissa. Il suo sguardo pietrifica come quello di Medusa.
Egli tira fuori d'istinto la pistola, fa fuoco. Il lampo successivo illumina solo il tetto vuoto. Il Werwolf è caduto? È morto?
Corre giù, percepisce una corrente d'aria gelida. Nella stanza che fino a poco prima occupava c'è la finestra spalancata, uno dei suoi colleghi giace a terra esanime, l'altro sta agonizzando in un angolo col fianco squarciato.
Si guarda intorno, si sposta verso il centro del locale. Percepisce un'ombra ai margini del campo visivo, d'istinto si fa indietro ed evita di stretta misura una lama fulminea.
Si gira e si trova faccia a faccia con lui. Il volto è una pallida maschera impenetrabile, in cui brillano occhi color ghiaccio. La camicia bagnata gli aderisce al corpo, mettendo in risalto una muscolatura da predatore, guizzante e letale. Nella destra stringe un pugnale dalla lama sporca di sangue.
È la Morte, pensa, poi è di nuovo l'istinto a guidarlo ed egli afferra la pistola. Spara, la detonazione echeggia trafiggendogli i timpani, l'odore di cordite invade la stanza, ma di nuovo il Werwolf è scomparso.
Gli piomba addosso un istante dopo. Crollano a terra, la lama balugina, la pistola rimbalza via. Rotolano per qualche istante avvinghiati, poi lui riesce a spingerlo lontano da sé.
Balza in piedi, si gira, corre, l'acciaio gli morde la carne in una ferita leggera, che invece di rallentarlo gli conferisce l'energia dell'animale braccato.
Scende le scale a precipizio, chiama i colleghi superstiti, ordina di circondare l'edificio, il luogo si anima come un formicaio incautamente disturbato.

Nessuna traccia del Werwolf, ovviamente. L'avevano cercato ovunque, ma l'agente tedesco sembrava essere scomparso nel nulla.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Seconda parte ***


Incliti lettori,
ecco un altro pezzo del mappazzone. Ringrazio moltissimo il manipolo di valorosi (pochi, felici pochi, banda di fratelli) che sta seguendo la vicenda. Un ringraziamento speciale va ovviamente a tutti coloro che mi hanno lasciato anche un parere.





Capitolo 4 – Seconda parte

The Bishop si costrinse a tornare alla situazione contingente. Di nuovo scrutò attento la campagna, quindi trasse di tasca una mappa e la dispiegò per terra.
Per un po' la studiò assorto, valutando la distanza dei vari centri abitati dal punto in cui si trovava. Calcolò quanto ci avrebbe messo il Werwolf a raggiungere ognuno di essi, tenendo conto che non avrebbe faticato a trovare mezzi di trasporto, rubandoli o facendosi caricare da qualcuno. Da quello che diceva il suo dossier, l'agente tedesco parlava un francese perfetto, per gli sarebbe stato facile confondersi con la popolazione locale.
Nonostante questo, ragionò, il Werwolf aveva due problemi. Il primo era l'assoluta necessità di raggiungere le linee tedesche più rapidamente possibile. Il secondo era avere al seguito una persona senza alcun addestramento allo spionaggio. Si chiese perché il tedesco non avesse ancora eliminato il pilota dell'aeroplano. Lui stesso al suo posto l'avrebbe fatto: ubi maior, minor cessat. Stranamente, invece, quella macchina da guerra, quell'assassino senza scrupoli si stava trascinando dietro una specie di palla al piede, potenzialmente in grado di far fallire la sua missione.
Ponderò perplesso la cosa, chiedendosi se c'era qualcosa che non sapeva, qualche elemento che stava trascurando a proposito del misterioso pilota. Forse era a sua volta un agente? Se non lo era, per quale motivo il Werwolf lo teneva con sé?
Stabilì che con le ipotesi non sarebbe andato da nessuna parte: la priorità era recuperare il materiale rubato, tutto il resto era mera speculazione. Socchiuse gli occhi, cercando di immedesimarsi nella mentalità dell'avversario: dove sarebbe andato, cos'avrebbe fatto, se fosse stato lui? Sorrise fra sé e sé: ogni paesello di quella zona era in pratica un nido di spie, dell'una o dell'altra fazione. Sarebbe bastato attivare quelle al soldo dell'Inghilterra e in breve avrebbe scoperto dove si nascondeva il Werwolf.

§

Ha ancora della paglia tra i capelli,” disse l'agente segreto.
Mi stupirebbe il contrario,” brontolò von Knobelsdorff. Si passò comunque una mano fra le ciocche castane, allontanandone effettivamente alcuni fili giallastri. Subito dopo si sbottonò la giacca e se la sfilò con un sospiro di sollievo. “Non ne potevo più,” sospirò.
L'altro non rispose.
Il tenente si guardò intorno: erano su una strada bianca che nella luce del crepuscolo brillava come un lungo osso calcinato. Il carro da cui si erano lasciati cadere non era ormai altro che una vaga sagoma all'orizzonte, il suo rotolio e cigolio era un'eco lontana, a stento distinguibile tra gli innumerevoli rumori della sera di prima estate.
Un buffetto sulla spalla lo fece sussultare: si girò di scatto e si trovò di fronte l'uomo, che lo fissava con un'espressione vagamente divertita.
Aggrottò le sopracciglia e arretrando di un passo ringhiò: “Non l’ho sentita avvicinarsi.”
Per tutta risposta, l’altro disse: “Aveva un po’ di paglia nel colletto.”
Me la tolgo da solo.”
E come, se non sa di averla?”
Le battute sono fuori luogo.”
L’altro scosse la testa come di fronte a un bambino molto sciocco e molto testardo. “Non sono battute,” replicò. “Se vuole restare vivo, non deve attirare in alcun modo l’attenzione. Un giovanotto che se ne gira con un ridicolo costume da caccia, pieno di paglia come se avesse passato il pomeriggio ad amoreggiare con una contadinella nel fienile, viene notato da tutti. Cerchiamo di limitare i danni togliendo almeno la paglia.”
Von Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia. “Il mio abbigliamento non è ridicolo,” protestò.
L’altro emise un sospiro. “Di tutto ciò che le ho detto, è questa l’unica cosa che le è rimasta in mente?”
La deve smettere di trattarmi come un moccioso,” lo rimbeccò il tenente.
L’uomo non rispose. Trasse di tasca un fazzoletto di una stoffa leggera che sembrava seta, lo dispiegò e lo sollevò controluce. Pur nel debole chiarore del crepuscolo, von Knobelsdorff si accorse che sul tessuto vi era una mappa. Si avvicinò incuriosito e riconobbe ogni paese, ogni strada e quasi ogni casa. “È quella di von Stade,” disse.
L’altro si girò a fissarlo. “Prego?”
È la stessa che mi ha mostrato il mio comandante, la riconosco. La mappa che gli aveva lasciato la giovane donna che poi mi ha spiegato la missione. Solo che quella era su carta, non su stoffa.”
Come fa a ricordarsela?”
Von Knobelsdorff si strinse nelle spalle. “Sono un pilota, navigare fa parte delle mie competenze.” Indicò un punto della mappa e soggiunse: “Questo incrocio, ad esempio, con due strade, la ferrovia e il fiume, è inconfondibile, lo riconoscerei tra mille.”
L'uomo non rispose, ma il tenente ebbe l'impressione di averlo per la prima volta colpito. “Ora dove si va?” chiese.
Verso questo paese.” Indicò un punto sulla mappa di seta. “Passeremo attraverso i campi, non è prudente rimanere sulla strada.”
The Bishop, come lo chiama lei, ci sta cercando?”
Può scommetterci.”
Non lascerà perdere, vero?”
No.”
Il tenente rimase in silenzio per qualche secondo, si guardò intorno come se temesse di veder spuntare l'agente avversario dal fondo della strada, quindi chiese: “Abbiamo qualche speranza di sfuggirgli?”
Andiamo,” disse l'uomo per tutta risposta, quindi si incamminò risolutamente verso la macchia.

Raggiunsero il paese che ormai era buio. I lampioni erano spenti, il coprifuoco faceva trapelare dalle finestre oscurate solo esili lame di luce, che si riflettevano qua e là sul selciato. Nel silenzio denso si coglievano l'eco di qualche conversazione portata avanti sottovoce e un frinire lontano di insetti notturni.
Il Werwolf strinse gli occhi. Quell'apparente pace gli suscitava un'inquietudine che andava facendosi più intensa di momento in momento.

La galleria è ampia, oscura, ha un'alta volta a botte di cui si coglie a stento il profilo. L'aria è fredda e umida. Un tanfo venefico pervade ogni anfratto.
Tubi di varie dimensioni scorrono lungo il soffitto, infiltrazioni d'acqua gocciolano lungo le antiche pietre lasciandosi dietro rosse scie ferruginose.
I suoi passi rapidi e il suo respiro ormai ansante sono unici suoni che turbano la quiete secolare del luogo.
Si ferma, si costringe a calmarsi. Sta correndo troppo, fa troppo rumore e la ferita, malamente bendata, rischia di stillare una scia di gocce rutilanti che condurrebbero the Bishop esattamente sulle sue tracce.
Tende l'orecchio: nel silenzio ancestrale c'è un passo, o forse solo l'idea di esso. È lento e inesorabile, la sua cadenza è come un rintocco.
Anche senza l'ausilio della traccia di sangue, the Bishop sta arrivando.
Si passa la mano sulla fronte, la ritrae coperta di sudore gelido. La ferita pulsa, il sangue scorre caldo, quasi piacevole nel freddo mortifero del sotterraneo, intridendo pian piano la medicazione.
Ricaccia il desiderio di abbandonarsi, riprende la marcia. La luce minima che si permette – l'esile fascio di una torcia schermata – si perde nel buio infinito della galleria, trae vaghi baluginii come d'ossidiana dal canale silenzioso che ne occupa la parte centrale.
Per un attimo si chiede come sarebbe immergersi in quella torpida corrente, lasciarsi trasportare da essa fin nell'oblio.
Subito dopo si riscuote, stringe i denti. Allunga il passo per quanto la ferita glielo consente e con la mano libera si accerta che la pistola sia ancora al suo posto, infilata in cintura. Si volta indietro. Alle sue spalle c'è solo buio piceo, ma ha l'impressione che a un tratto sull'antica volta guizzi qualcosa come uno sprazzo di luce.
Torna a guardare avanti, dove la lama di luce della sua torcia fa brillare pietre antiche, lucide d'umidità, percorse da insetti diafani che fuggono al suo apparire.
Conosce la mappa di quel posto a memoria, sa che entro breve raggiungerà le scale che portano verso l'alto. Si chiede se riuscirà a issarvisi, o se la ferita glielo impedirà.
Un refolo d'aria gli passa sul volto umido, dal canale altrimenti silenzioso sale un lieve gorgoglio. Egli lo illumina con la torcia e l'impressione è che il livello dell'acqua si sia impercettibilmente alzato.
A quel punto ricompare la luce dietro di lui. Non è più l'idea vaga di un riflesso, ma un piccolo punto dorato, come una stella in un cielo nero.
L'acqua tracima, gli lambisce un piede. L'aria si muove con più vigore.
Fa girare la torcia dinnanzi a sé, individua il brillio metallico della scala a pioli poco più avanti. Allunga il passo, ma barcolla ed è costretto a cercare appoggio con la mano contro la parete fredda. Scrolla la testa, si sta impadronendo di lui la sensazione di sprofondare nell'ovatta.
Si gira e la luce alle sue spalle è un minaccioso occhio di demone, che lo scruta malevolo.
Si rimette in marcia, pregando che la debolezza non arrivi a sopraffarlo proprio in quegli ultimi metri. Afferra un piolo, pronto a issarsi verso la salvezza.
Dietro le sue spalle, l'occhio malevolo si trasforma in un fascio di luce che per un attimo gli fa sbattere gli occhi. La galleria gli appare in tutta la sua cupa vastità, ricordandogli la volta immensa di una cattedrale.
L'acqua ormai copre tutto il corridoio e ribolle portando con sé cartacce e rifiuti.
Echeggia un colpo di pistola, rimbombando come un tuono. Un proiettile si schiaccia sulla parete a un palmo dalla sua testa, facendo schizzare via schegge di pietra.
Si gira, spara a sua volta, la luce scompare e torna visibile subito dopo, segno che the Bishop ha cercato copertura da qualche parte ma poi ha ripreso ad avanzare.
Correnti d'aria frattanto si insinuano nelle antiche strutture sempre più rapide e violente, traendo sibili e ululati da ogni anfratto, come se migliaia di creature si stessero mandando richiami attraverso l'intrico di cunicoli.
Con fatica sale un altro gradino, deve rimettere via la pistola per muoversi più in fretta. Altri colpi fanno sibilare l'aria tutt’intorno.
Perde la presa, si ritrova in acqua fino alla cintura, ghermito come da un'immensa mano decisa a trascinarlo via.
Getta un fugace sguardo alle sue spalle, la luce è immobile. Investite da quel fascio giallastro, le onde paiono una torma di animali che avanza frenetica, apparendo e scomparendo nelle ombre dense.
Riguadagna la scala, sale un alto piolo, di nuovo l’acqua lo lambisce, ma ormai il tombino a a poca distanza dalla mano.
Si issa con un ultimo sforzo, rovescia da una parte il disco di ghisa, crolla ansante sul selciato umido di una via parigina.
Sotto, tutto ribolle e ulula, come se un mostro fosse rimasto intrappolato nella galleria e stesse mugghiando furente.
The Bishop non c’è, ma non si fa illusioni: tornerà.

Il passo cadenzato di una pattuglia che transitava poco lontano lo richiamò bruscamente alla realtà.
Dobbiamo toglierci dalla strada,” disse a bassa voce.
L'ufficiale non replicò. Il Werwolf si chiese se rimanesse in silenzio per uno dei suoi puntigli da adolescente o se fosse solo stanco. Doveva esserlo, in effetti: soldati del genere erano abituati ad azioni esplosive, in cui si dava tutto nel giro di pochi minuti, e poi ci si riposava, quasi dimenticandosi della guerra. Pur prontissimi a precipitare intrappolati in un aereo in fiamme, non sapevano nulla di saltare pasti, dormire se ve n'era la possibilità, sopportare freddo o dolore, scappare braccati giorno e notte.
Colse nell'oscurità la sagoma chiara di un'insegna. Dall'edificio sul quale era affissa filtravano qua e là sprazzi di luce, alcuni di un giallo pallido, altri rosati o addirittura rossi. Tese l'orecchio e gli parve di cogliere l'eco di risate e conversazioni.
Si avvicinò cauto. L'insegna recitava: Da Madame Salomé. Seguiva un tariffario: alla buona, doppietta, mezza ora, ora intera. Riduzioni ai militari.
Entriamo,” disse.
Prevedibilmente, l''ufficiale si impuntò. “Le pare il momento di andare in certi luoghi?” protestò indignato.
Dobbiamo toglierci dalla strada e questo è il posto ideale.”
Perché sarebbe il posto ideale?”
Il Werwolf gli circondò le spalle con un braccio e lo spinse dentro.

Prima di poter protestare, von Knobelsdorff si trovò in un corridoio semibuio, con una tappezzeria scura alle pareti e poche luci fioche sul soffitto. L'aria era piuttosto calda e sapeva di colonia da poco prezzo, con una vaga nota di varechina e acido fenico.
In fondo c'era una pesante tenda di velluto, oltre la quale si coglievano barbaglii di luce e un lieve parlottio.
Fece per sottrarsi alla presa che l'uomo gli manteneva sulla spalla, ma questi si limitò a sussurrare: “Stia attaccato a me.” Lo sospinse poi in avanti.
Sbucarono in quello che al tenente parve il salotto buono di una famiglia medio-borghese: tappezzeria alle pareti, una vetrina con dentro le ceramiche, un'angoliera con qualche libro, un lampadario di vetro opalino che diffondeva una luce giallo-rosata.
Lungo i lati della stanza, divani e poltrone ospitavano giovani donne variamente spogliate. A parte qualche uomo in borghese, i clienti erano tutti militari britannici in libera uscita, che comunque non dedicarono loro che qualche occhiata distratta.
A quella vista egli non poté fare a meno di irrigidirsi, e subito l'uomo rinsaldò la presa sulla sua spalla.
Si costrinse alla calma. Non hai l'uniforme, non sanno chi sei, si ripeté un paio di volte. Non hai nulla da temere.
Mentre stava indugiando in quei ragionamenti, una delle donne si alzò dal divano su cui era adagiata e li raggiunse. Pareva un po' più vecchia rispetto alle altre, portava i capelli castano-rossicci raccolti in uno chignon e aveva pendenti di granati alle orecchie. Indossava un abito da sera nero, decorato da pietre di giaietto. “Buona sera, signori,” li salutò, “sono madame Salomé. Cosa posso fare per voi?”
L'uomo salutò a sua volta, poi a bassa voce chiese: “È possibile avere una stanza?”
La tenutaria aggrottò interdetta le sopracciglia, quindi in tono sussiegoso gli disse: “Questo non è un albergo, signore.”
L'agente segreto annuì come chi si fosse aspettato esattamente quella risposta. Infilò la mano libera in tasca e ne trasse una banconota arrotolata. La porse con riservatezza alla donna, quindi chiarì: “Una camera discreta, per me e il mio amico.” Si piegò verso il tenente, che dovette farsi forza per non sussultare quando si sentì baciare sulla tempia. Un'altra banconota seguì la prima. “Una camera e poche domande, non so se mi spiego.”
Von Knobelsdorff cercò di mettere un po' di distanza tra sé e l'altro, ma questi, esternamente imperturbabile, strinse la presa talmente forte che al tenente parve di avere intorno alla spalla la morsa di un fabbro. Rimase immobile.
Madame Salomé srotolava intanto le banconote con fare professionale. Von Knobelsdorff diede un'occhiata: erano molti soldi. Probabilmente, la totalità degli avventori che si trovavano nel salotto le avrebbe lasciato a fine serata poco più della metà di quella cifra.
Intesi?” la richiamò alla realtà l'agente segreto.
Ma ecco... non sarebbe nello stile della casa...”
Una terza banconota si aggiunse alle prime due. “Non potrebbe fare un'eccezione?” le chiese l'uomo suadente. “Domani il mio amico tornerà al fronte, volevo offrirgli un vero letto.”
Sotto lo sguardo indagatore della donna, il tenente non riuscì a fare altro che abbassare lo sguardo. Si sentiva le guance in fiamme, gli pareva che tutti lo stessero fissando. Quel dannato individuo lo stava facendo passare per un invertito! Si morse il labbro impedendosi ogni reazione, anche quando l'uomo abbandonò la presa sulla sua spalla e gli scompigliò affettuosamente i capelli.
Mi capisce, madame?” lo sentì dire. Il tono era quello di chi cerca la comprensione di una persona più adulta e più esperta per un problema di cui non riesce a venire a capo. “È la nostra ultima notte insieme.”
Ma certo,” rispose la donna con un sospiro. Si rivolse poi al tenente: “E tu cosa dici, mon petit chou, sei contento di passare la notte col tuo amico? Fatti vedere.” Cercò senza successo di sollevargli il mento.
È molto timido,” intervenne l'uomo.
Oh, ma certo, capisco. Del resto, è così giovane, non è vero?”
Ha diciotto anni.”
Diciotto anni! E domani andrà al fronte!” Fece un nuovo, profondo sospiro. “Povero ragazzo.”
La camera, signora. E anche qualcosa da mangiare, se è possibile. Vede com'è pallido?”

§

Io non so come si sia permesso di fare una cosa del genere!” sibilò l'ufficiale. “Ora penseranno che siamo degli anormali.” Stava cercando di togliersi la camicia, ma le mani gli tremavano così tanto che non riusciva a slacciare i bottoni.
La aiuto?” gli propose il Werwolf serafico.
Stia lontano da me,” fu la tagliente risposta.
L'agente non replicò. Si mise nel piatto un altro po' dello stufato che madame Salomé gli aveva fatto generosamente recapitare, si versò un bicchiere di vino e riprese a mangiare. “Venga anche lei,” disse dopo un po'. “Non sappiamo quando avremo la possibilità di fare un altro pasto.”
Non ho fame.”
Non dica idiozie, è tutto il giorno che non tocchiamo cibo.”
Si dà il caso che il suo lauto pasto non mi interessi.”
Il Werwolf emise un sospiro infastidito, quindi posò la forchetta e sollevò lo sguardo a fissarlo in viso. “Si avvicini, prego,” gli disse.
Sto bene qui.”
La voce dell'agente segreto divenne un minaccioso ringhio: “Si avvicini, ho detto, altrimenti vengo io da lei, e le garantisco che non le piacerà.”
L'ufficiale tentennò qualche istante, forse chiedendosi se fosse il caso di rispondere per le rime, ma poi fece un paio di riluttanti passi nella sua direzione.
A quel punto, il Werwolf proseguì: “Ora mi ascolti bene, giovanotto, perché questa spiegazione la sentirà una volta sola. La mia priorità è portare a termine la missione che mi è stata affidata. Se per raggiungere l'obiettivo devo uccidere, rubare, farmi passare per un pederasta o qualsiasi altra cosa, io lo faccio, è chiaro? Perché la considerazione di una tenutaria francese e di quattro marmittoni mangia-roastbeef è niente, mentre servire la Patria è tutto.” Fece una pausa, poi in tono duro soggiunse: “Mi sono spiegato?”
Pur guatandolo con occhi di fuoco, il giovane ufficiale chinò il capo in un cenno affermativo.
Molto bene, allora la smetta di crearmi problemi, ne ho già abbastanza da risolvere. Venga al tavolo, si nutra adeguatamente e assuma un aspetto presentabile, poi valuteremo il da farsi.”
Il giovane prese posto sulla sedia come se si stesse accomodando sui carboni ardenti. Evitando con ostinazione di guardarlo in faccia, si servì un po' di boeuf bourguignon, poi chiese: “Come le è venuta in mente... quella cosa?”
Che cosa?”
Far finta che noi due...” Non riuscì nemmeno a terminare la frase, le guance gli si accesero di nuovo.
Impassibile, il Werwolf spiegò: “Certe donne sono molto sensibili ai drammi degli omosessuali di bell'aspetto, lo tenga a mente per il futuro.”
Io non sono omosessuale,” replicò rapido l'ufficiale.
L'uomo sorrise. “Ma è senz'altro di bell'aspetto.”
Il più giovane si tese come per balzare via dalla sedia. “Cosa?”
È di bell'aspetto. E la smetta di sussultare come l'eroina di un romanzo per fanciulle appena si toccano certi argomenti.”
L'ufficiale si limitò a fissarlo torvo, poi abbassò lo sguardo sul piatto e ve lo mantenne ostinatamente mentre mangiava.

Il Werwolf si alzò, si guardò intorno. La stanza, piccola, dall'arredamento modesto, non sembrava destinata all'uso dei clienti. Forse un tempo era servita per ospitare una cameriera, ma era chiaramente vuota da mesi: sui mobili c'era un leggero velo di polvere e l'aria sapeva di canfora, più che di lavanda.
In un angolo, seminascosto da un separé di stoffa, vi era un tavolino su cui si trovavano una bacinella e una brocca piena d'acqua. Accanto ai due recipienti vi erano due asciugamani dal bordo di macramè. L'agente segreto ne sollevò uno e l'osservò: tessuto fine, morbido. Tutt'altra cosa rispetto ai ruvidi teli di canapa che venivano forniti agli avventori del bordello per le necessarie abluzioni.
Lo posò. Alle sue spalle vi era un silenzio glaciale, rotto appena, di tanto in tanto, da qualche lieve acciottolio di stoviglie. “Tutto bene?” chiese, ma non ottenne risposta.
Immaginò che il rigido ufficialetto volesse sdegnosamente ignorarlo.
Ripensò a quello che gli aveva appena detto: se per raggiungere l'obiettivo devo uccidere, rubare, farmi passare per un pederasta o qualsiasi altra cosa, io lo faccio.
Una frase che decisamente strideva con la scelta di portarselo dietro.
Considerata l'importanza di quello che aveva con sé, avrebbe dovuto lasciare indietro un generale di corpo d'armata, se gli avesse impedito di muoversi con la necessaria velocità e segretezza, figurarsi quel tenentino, che a ogni richiesta che considerava troppo strana si impuntava come un cavallo ombroso.
Scosse la testa quasi con indulgenza: forse non era ancora così immune da certi sentimenti come credeva.
Si girò a guardare il giovanotto e vide che si era addormentato con la testa appoggiata sul braccio. Il piatto era ancora mezzo pieno, nella forchetta era infilzato un boccone di carne.
Sorrise fra sé e sé, poi prese la coperta e gliela stese sulle spalle.



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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Prima parte ***


Gente mia,
ecco un altro mezzo capitolo, col quale spero vi sollazzerete. Come sempre ringrazio la mia “Band of Brothers”, ovvero i pochi, felici pochi, che mi stanno seguendo.
Un ringraziamento particolare va, come sempre, a chi mi ha anche lasciato un parere.
Ma bando alle ciance: buona lettura!






Capitolo 5

Il Werwolf aprì gli occhi. Doveva essere notte fonda, il buio era impenetrabile.
Nell'aria c'era odore di legno vecchio, di polvere, della canfora che sicuramente Madame Salomé faceva mettere negli armadi, del borgogna che era rimasto nel bicchiere. C'era anche un sentore – ma più che altro una specie di calore, una vibrazione vitale – che proveniva dal suo accompagnatore.
Tese l'orecchio: il silenzio era denso, corposo. Era come se ovunque fosse stato steso uno strato di ovatta, che soffocava ogni suono. Il fruscio delle coperte sembrava il crepitare di legna secca, il verso di un uccello notturno echeggiò come il grido fatale di un'erinni.
Pur nell'oscurità picea strinse gli occhi, mentre una sorda sensazione di minaccia lo pervadeva.
Scivolò cauto giù dal letto, si avvicinò tentoni alla finestra e la aprì. Al fioco chiarore di un'esile falce di luna e poche stelle, colse un alternarsi di tetti variamente inclinati, di abbaini e grondaie.
Per un po' lo contemplò in silenzio, calcolando la difficoltà che avrebbe offerto a un neofita, poi si volse nuovamente verso la stanza. Quello che percepiva non era propriamente qualcosa che provenisse dai sensi. Era un'impressione, più che altro. Una generica sensazione di allarme.
Il silenzio non era quello di una tranquilla casa immersa nel sonno: somigliava piuttosto a quello di una foresta in cui si sta aggirando un predatore.
Possibile che the Bishop fosse già riuscito a trovarlo? Non era impossibile, in effetti. Non era escluso, del resto, che qualcuna delle ragazze del bordello fosse una spia inglese. La comparsa dei due sfortunati amanti, che aveva così intenerito la maîtresse, poteva invece aver insospettito gente più portata al pragmatismo.
In ogni caso, tutto, in quella calma gelida, gli urlava che era il momento di andarsene.
Studiò l'alternarsi di spioventi su cui la luce fioca della luna disegnava vaghe chiazze lattee. Si vide balzare sulle tegole, raggiungere l'altana di cui i pallidi raggi disegnavano il contorno e da quella scendere verso un secondo tetto, più largo e basso. Da lì avrebbe facilmente trovato una grondaia lungo la quale sarebbe sceso fino a terra.
Se si fosse lasciato alle spalle l'ufficiale – cosa per nulla difficile, dal momento che stava dormendo della grossa – the Bishop se lo sarebbe trovato davanti, servito per così dire su un piatto d'argento. L'avrebbe ignorato o avrebbe speso qualche minuto per capire cosa sapeva della missione?
Si voltò verso il punto dove si trovava il giovanotto e considerò fra sé e sé che in qualche minuto potevano succedere molte cose.
Tentennò. Forse the Bishop era troppo furbo per cadere in una trappola così banale.
Forse avrebbe ignorato il giovane – o magari l'avrebbe rapidamente abbattuto – e poi avrebbe proseguito l'inseguimento.
Raggiunse l'ufficiale, lo scosse delicatamente.
Egli mugolò qualcosa di indistinto e sulle prime fece per girarsi dall'altra parte.
Dobbiamo andare,” gli disse sottovoce.
Cosa?”
Dobbiamo andare via.”
Ma...”
In quel momento, un lieve scricchiolio ruppe il silenzio che gravava ovunque.
Si muova,” sibilò il Werwolf. Afferrò il giovane per le spalle e lo scosse di nuovo.
Finalmente l'altro si alzò. Ancora intontito dalla stanchezza, barcollò e rovesciò il bicchiere, che si ruppe toccando il tavolo.
Al suono del cristallo infranto, l'agente segreto dovette farsi forza per non sobbalzare. “Si muova!” ripeté con urgenza, poi lo sospinse verso la finestra.
Scavalcò il davanzale.
Al suo fianco, l'ufficiale sussurrò: “Che cosa sta facendo?”
Fuori!”
In quel momento la porta si schiuse con violenza e nel riquadro buio comparve una sagoma umana. Ci furono due brevi sibili in rapida successione e per un istante brillò nell'aria lo sbuffo bianco del cuscino che esplodeva in un nugolo di piume. L'odore della cordite saturò l'atmosfera.
Fuori!” ripeté il Werwolf.
Un terzo colpo fece schizzare schegge di legno dallo stipite della finestra.
I due rotolarono sullo spiovente, inseguiti da altri colpi. Una tegola andò in frantumi poco lontano.

L'umidità della notte aveva coperto il tetto di una patina scivolosa. Von Knobelsdorff fece qualche passo malfermo, perse l'equilibrio e cadde a faccia in giù. D'istinto allargò braccia e gambe per non mettersi a rotolare, ma l'inerzia lo spingeva comunque verso il basso, in quello che gli appariva come uno spaventoso abisso di tenebre.
Si contorse cercando di offrire la maggior superficie possibile alle tegole incrostate di muschio, contrasse le dita alla ricerca di un appiglio, ma il movimento non si arrestava.
Una mano lo afferrò per i vestiti, frenando la sua caduta. Alzò gli occhi e intravide il volto pallido dell'uomo. Colse, o forse immaginò e basta, un suo sguardo di riprovazione. “Grazie,” brontolò, ma l'altro stava già correndo verso la linea di colmo con l'agilità di un felino.
Egli si sollevò con cautela, spasmodicamente attento a non perdere di nuovo l'equilibrio, e si mosse per raggiungerlo. Udì un breve sibilo alle sue spalle, quasi ebbe l'impressione di percepire lo spostamento d'aria di una pallottola. Balzò in avanti con nuova energia, bilanciandosi con le braccia aperte come quando da piccolo andava a pattinare sul ghiaccio.
Scorse dinnanzi a sé l'uomo, più che altro come una sagoma appena delineata dalla luce lunare. “Aspetti!” boccheggiò. Di nuovo scivolò con un piede, si riprese all'ultimo, si chinò per appoggiare sul tetto anche le mani.
Alle sue spalle percepiva un tramestio leggero, segno che qualcuno altro si stava muovendo sulle tegole, però con molta più agilità di lui.
Di nuovo si sentì afferrare e sollevare quasi di peso. Barcollò, annaspò nel vuoto con le mani protese, chissà come riprese a correre, un piede di qua e uno di là dalla linea di colmo, poi d'un tratto superò una balaustra, si trovò su un pavimento, poi di nuovo su un tetto, meno inclinato del precedente.
Udì rumore di cristalli infranti, si accorse che l'uomo aveva rotto e aperto la finestra di un abbaino. Fece per entrarvi, ma l'altro lo fermò e gli indicò di proseguire in silenzio. Lo guidò verso lo spiovente che non riceveva la luce lunare.
A quel punto, von Knobelsdorff entrò nel buio pesto. Non vedeva la propria mano neppure se la teneva a un palmo dalla faccia, procedeva carponi guidato unicamente dai lievi suoni che l'uomo produceva avanzando.
A un tratto, quasi gli andò a sbattere contro.
L'agente segreto era fermo. Non appena si accorse di lui, con un sussurro appena percettibile gli disse: “Ora scendiamo.”
Il tenente si sentì gelare. “E come?”
Lungo la grondaia. Non ricominci a crearmi problemi con le sue domande inutili, o questa volta la lascio davvero al suo destino.”
Un istante dopo, l'uomo si stava già sporgendo dal bordo del tetto, praticamente senza fare alcun rumore.
Von Knobelsdorff deglutì. Gli occhi gli si erano un po' abituati al buio piceo nel quale era immerso e percepiva vagamente i contorni delle cose. Oltre l'ultima fila di tegole c'era un abisso che a occhio e croce – considerando le rampe di scale salite per raggiungere la camera – non doveva essere profondo meno di otto metri.
Mancare un appiglio significava sfracellarsi a terra, e passare nel migliore dei casi per un anonimo suicida. Niente Pour le Mérite e niente gloria.
Si adagiò sul ventre, sporse cauto le gambe nel vuoto, cercò coi piedi qualcosa che somigliasse al supporto di una grondaia.
Strisciò sempre più giù, obbligandosi a non pensare alla possibilità di un tubo mangiato dalla ruggine o di un intonaco mezzo marcio.
Toccò finalmente, molto più in dentro rispetto a quanto immaginasse, qualcosa che gli rimandò un suono cavo e metallico. Si lasciò scivolare un altro po', finì a penzolare nel vuoto mentre annaspava freneticamente per ritrovare il tubo che aveva colpito un attimo prima.
Infine raggiunse la più alta delle staffe, che data la situazione gli parve solida come la base di un monumento. Sospirò di sollievo, poi con circospezione tastò in giro alla ricerca di un appiglio per l'altro piede.
A questo punto, veniva la parte difficile, ovvero abbandonare la presa sul bordo del tetto per agguantare il tubo e tramite quello scendere pian piano fino a terra.
Si chiese dove fosse l'uomo, se avesse infine deciso di lasciarlo indietro. Tendendo l'orecchio non coglieva che pochi fruscii provenire dal basso, il che voleva dire che l'agente segreto era già lontanissimo.
Staccò con circospezione una mano e afferrò il tubo della grondaia, che dal bordo del tetto piegava verso l'interno per raggiungere il muro.
Pensò alle scimmie in Africa, rivide l'illustrazione di una bertuccia che penzolava da un tronco di palma obliquo e gli parve di essere esattamente nella stessa posizione, però senza l'agilità e la forza del primate.
Staccò la seconda mano. Trovandosi a sostenere tutto il suo peso, il tubo emise uno scricchiolio sinistro. Egli cercò di non pensarci. Non aveva molte alternative, del resto, poteva solo tentare di scendere, possibilmente senza sfracellarsi al suolo. Cominciò a procedere adagio verso il basso.
Cercò di fare il vuoto in mente, di concentrarsi solo sui movimenti necessari a scendere lungo la grondaia. Provò a guardare giù, ma gli parve che l'abisso di buio nel quale stava scendendo fosse un'enorme bocca spalancata, pronta a inghiottirlo. Serrò gli occhi per un istante mentre un brivido gli percorreva la spina dorsale. Nonostante il fermo proponimento di pensare solo alla discesa, gli si ripresentavano di continuo episodi della sua vita. Qual era il rischio maggiore che aveva mai corso? Si era trovato su un aereo in fiamme, oppure in sella a un cavallo imbizzarrito, fuori controllo, che correva con la schiuma alla bocca nella terra di nessuno. Era passato con noncuranza accanto a un obice che sporgeva da terra per metà, salvo poi essere investito un minuto dopo dall'onda d'urto della sua esplosione.
Scendere lungo una grondaia umida nel buio pesto era più o meno rischioso?
Rinunciò a darsi una risposta. Continuò a ripetere i movimenti della discesa in modo meccanico e possibilmente sempre uguale: staccare un piede, farlo strisciare lungo la grondaia verso li basso, allungare adagio le braccia per far scendere anche il corpo, trovare un sostegno col piede, staccare anche l'altro piede, portarlo all'altezza del primo...
Qualcosa gli si strinse intorno a una caviglia.
Egli sussultò, perse la presa rimanendo appeso solo per le braccia, si contorse nel vuoto alla ricerca di un nuovo appiglio mentre una sferzata di adrenalina gli troncava il respiro.
La pianti di agitarsi,” lo ammonì la voce asciutta dell'uomo, “dobbiamo trovare una chiesa.”
Ancora sotto l'effetto della sorpresa, von Knobelsdorff non poté altro che ansimare: “Cosa?”
Si muova,” fu la risposta dell'altro. “E stia zitto, possibilmente. Ci sono pattuglie ovunque.”
Il tenente abbandonò la presa sulla grondaia e prese contatto col selciato. Non fece in tempo a godersi la sensazione di sicurezza delle pietre solide sotto i piedi che già l'uomo l'aveva afferrato per un braccio e lo stava spingendo via dalla strada.
Si infilarono in un androne scomparendo nell'oscurità. Dal fondo della via cominciò a farsi udire il ritmo cadenzato di un reparto in marcia. Ci furono fugaci guizzi di luce.
I passi si avvicinarono, poi rallentarono. Comparvero altri rumori, come di qualcosa che battesse contro qualcos'altro traendone un suono cavo. Uno dei soldati disse qualcosa, un altro rispose.
Polizia militare,” sussurrò l'uomo.
Von Knobelsdorff si girò verso di lui, cercando di individuarlo nell'oscurità, ma percepì unicamente il vago calore che emanava la sua persona. Colse il sibilo lieve di una lama che veniva estratta dal fodero.
I colpi continuavano, era chiaro che qualcuno stava battendo col calcio del fucile contro imposte e porte.
Di nuovo qualcuno parlò, ma venne zittito bruscamente e l'operazione proseguì in un silenzio attento.
L'ufficiale si chiese cosa stesse succedendo e perché. Era chiaro che quegli uomini erano alla ricerca di qualcosa: mancati rientri al contrappello, violatori del coprifuoco, disertori... oppure loro due? Possibile che l'agente inglese che stava dando loro la caccia fosse già riuscito ad allertare una o più pattuglie di polizia militare?
Si appiattì più che poteva contro il muro. Avrebbe voluto chiedere all'uomo cosa fare, ma quello era chiaramente il momento di mantenere l'assoluto silenzio. I rumori si avvicinarono, l'agente segreto al suo fianco si tese come un felino.
La lama catturò un barbaglio di luce e per un istante il suo filo brillò gelido.
I rumori all'esterno frattanto sembravano essersi fermati. C'era scalpiccio di passi poco lontano, qualcuno tossì. Si udì l'ormai noto battere dei calci di fucile contro il legno.
L'agente segreto era come una freccia incoccata. Von Knobelsdorff capì che se qualcuno si fosse affacciato nell'androne, probabilmente non ne sarebbe uscito vivo.
E poi cosa sarebbe successo? Quanti soldati c’erano sulla strada? L'uomo li avrebbe abbattuti tutti? Avrebbe dovuto aiutarlo? In che modo? Aveva ancora la sua pistola, ma capiva che sparare un colpo in quel frangente avrebbe come minimo svegliato tutto il paese, con ovvie conseguenze.
La porta si schiuse. Il pennello di luce di una torcia si insinuò all'interno, dardeggiò qua e là.
Giunse da fuori una domanda in inglese. Chi era affacciato sull'androne rispose con un diniego. La figura sulla soglia tentennò, fece girare la lanterna schermata, poi fermò il debole fascio di luce contro la parete. Sopraggiunse un'altra figura.
Nel silenzio assoluto echeggiò un rumore decisamente corporale. Il nuovo arrivato ridacchiò, il primo replicò qualcosa che suonava come una protesta, ma vi si coglieva un'intonazione scherzosa.
La porta si richiuse.
I passi e i colpi sul legno si allontanarono.
Solo dopo qualche minuto von Knobelsdorff sentì l'uomo rilassarsi. Lo udì emettere il fiato come se fino a quel momento l'avesse trattenuto; la lama scomparve con lo stesso breve sibilo di quando era stata estratta.
Subito dopo il tenente sentì sul braccio l'ormai ben nota presa che questi usava per attirare la sua attenzione. Si chiese come avesse fatto a individuare con tanta precisione la posizione dell'arto nella completa oscurità.
Forse vedeva al buio come i gatti.
Andiamo,” sussurrò l'uomo con voce appena udibile.
Il tenente rinunciò a chiedere dove sarebbero andati. Perché tanto non avrebbe ricevuto risposta, perché bisognava stare in silenzio, ma anche perché cominciava a sentirsi esausto e lasciarsi condurre era un buon modo per risparmiare energia.
Sentì la presa sul braccio guidarlo e docilmente la seguì.
Uscirono. La strada era deserta, alla debole luce della luna si intravedevano appena i contorni degli edifici. Nell'aria vi era un silenzio denso, carico di oscura minaccia.
Von Knobelsdorff si guardò intorno, quasi aspettandosi di veder comparire da qualche parte l'agente che li stava inseguendo, ma tutto era immobile e gli unici suoni che si udivano erano quelli che loro stessi producevano.
Cauti come animali selvatici, si misero in marcia.

Il Werwolf individuò un campanile. Per quanto scavasse nella memoria, ripercorrendo la topografia della cittadina, non riusciva a ricordare a quale chiesa appartenesse. Poco male, l'importante era che ci fosse dentro quello che gli serviva.
Si appiattì in un lembo d'ombra, l'ufficiale lo imitò in silenzio. L'agente segreto si chiese se avesse rinunciato finalmente a discutere con lui per ogni singola cosa o se fosse solamente esausto.
Probabilmente si trattava della seconda opzione, ragionò, e poi distolse l'attenzione dal suo accompagnatore per rivolgerla all'edificio sacro.
Era poco più di una chiesetta, la struttura di base era quella solida di un edificio romanico, ma quel poco che si coglieva del suo aspetto lasciava indovinare successivi rimaneggiamenti barocchi. Suppose che di giorno sembrasse una specie di piccola bomboniera, rosa o color crema, con volute bianche come panna montata un po' ovunque.
Nella canonica, che emergeva dal buio come una solida sagoma nera, non si indovinava il minimo punto di luce.
Dato l'orario, il tranquillo parroco di provincia che la occupava doveva essere immerso nel sonno.
Attraversò la strada silenzioso, muovendosi di ombra in ombra. Raggiunse la chiesa, iniziò a percorrerne le pareti alla ricerca di una porta.
Un debole tramestio – tipico di chi sta cercando di muoversi senza rumore ma non è addestrato a farlo – gli fece capire che l'ufficiale l'aveva raggiunto. Si limitò ad afferrargli un braccio nel buio e a spingerlo contro il muro, dove le ombre erano più dense.
Ricominciò poi il suo lavoro di ispezione.
Alla fine trovò una porticina di legno alla base del campanile, nel punto in cui la canonica si collegava alla navata principale. Palpò la serratura, che gli parve una semplice piastra di ferro irruvidita dalle intemperie. La forma della toppa suggeriva una chiave a mappa singola, probabilmente di fattura antica.
Trasse di tasca grimaldello e tensori.

§

The Bishop soffocò un'imprecazione. Strinse gli occhi, cercando di penetrare l'oscurità densa del coprifuoco. Tese l'orecchio, ma tutto era immobile e silenzioso.
Quel dannato tedesco era riuscito a sfuggirgli di nuovo.
Ripensò a una massima di Epicuro che recitava: guardati dal desiderio, esso è la fonte di ogni dolore.
Gli parve che la frase si attagliasse particolarmente a quanto appena accaduto.
Per un attimo era stato a tanto così da lui. L'aveva intravisto sul tetto, mentre correva sulle tegole con l'agilità di un felino. Per un istante era anche riuscito a prenderlo di mira, ma l'istante dopo il Werwolf era già scomparso.
Era stata la brama di catturarlo che gli aveva tolto la lucidità. Quando aveva udito il rumore del vetro infranto, e successivamente trovato la finestra dell'abbaino rotta, aveva quasi sentito la stoffa della sua camicia sotto le dita, il guizzare dei suoi muscoli tra le mani serrate.
Aveva pregustato il suo respiro ansante, il suo divincolarsi rabbioso.
Era stato un grossolano errore, ovviamente. Il Werwolf gli aveva teso una trappola e lui c’era caduto come l’ultimo dei novellini: nessun agente segreto degno di questo nome avrebbe fatto tutto quel rumore rompendo un vetro, nessuno si sarebbe lasciato dietro tracce così evidenti.
Emise un sospiro. Ovunque fosse il Werwolf, ormai era fuori dalla sua portata. Era riuscito a sgusciare fra le maglie della rete che lui aveva pur rapidamente intessuto intorno all’edificio del bordello e ancora una volta aveva fatto perdere le proprie tracce.
Cercò di ragionare: cos’avrebbe fatto se fosse stato al posto suo? Di certo non si sarebbe arrischiato a trasmettere via radio i dati in suo possesso. Sicuramente il Werwolf aveva intuito – se non sapeva già per certo – che l’Inghilterra era in possesso dei codici radio segreti dell’Impero Tedesco fin da prima del conflitto.
Non li avrebbe nemmeno affidati ad altre persone: se lui era in grado di sfuggirgli, altri non avrebbero avuto quell’abilità.
Non li avrebbe infine nascosti per andarli a recuperare in un altro momento: era vitale che quelle informazioni raggiungessero prima possibile il quartier generale tedesco.
Quindi che cosa avrebbe fatto?
Senza dubbio avrebbe cercato di raggiungere più in fretta possibile colui o coloro cui avrebbe dovuto comunicare quei dati.
Ricordò i safari in Africa: per catturare un leopardo non era necessario addentrarsi nella savana, bastava appostarsi presso una pozza d'acqua. La bestia prima o poi sarebbe arrivata per bere, e a quel punto sarebbe stata con relativa facilità abbattuta.
Allo stesso modo, non aveva senso setacciare la cittadina alla ricerca del Werwolf: la cosa più razionale da fare era presidiare la stazione ferroviaria e le strade in uscita.
Che stesse nascosto lì dentro, se voleva. Poteva starci anche fino alla fine della guerra. Ma se avesse provato a uscire avrebbe trovato lui ad attenderlo, esattamente come il cacciatore presso la pozza d'acqua.
Raggiunse il più vicino dei posti di guardia inglesi. Al suo apparire, il comandante della sezione, un sergente, scattò sull'attenti e salutò, quindi a voce alta e chiara scandì: “Ancora nulla, signor colonnello!”
Abituato al silenzio della segretezza, the Bishop ebbe un fugace moto di fastidio a quella reboante ostentazione di vigore marziale, ma subito dopo recuperò una perfetta impassibilità. “Dica agli uomini di continuare a cercare,” ordinò conciso. Era ben consapevole che quella volonterosa soldataglia non avrebbe trovato assolutamente nulla, il Werwolf era troppo furbo per loro, ma era come scatenare i battitori nella foresta: non avrebbero certo catturato il leopardo, ma l'avrebbero comunque disturbato.


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Capitolo 7
*** Capitolo 5 - Seconda parte ***


Gente mia,
ecco la seconda parte del quinto capitolo, si spera per il vostro sollazzo.
Come sempre ringrazio molto tutti coloro che mi stanno seguendo, chi mi ha messo in qualche lista e soprattutto chi ha avuto la gentilezza di lasciarmi un parere sulla vicenda.
Enjoy (si spera)!





Uscì dal posto di guardia assorto in una sua metaforica partita a scacchi. Si era creato un certo fermento sulla strada, c’erano soldati che giravano su e giù e lanterne che spazzavano muri e selciato. Si udivano un vociare sommesso e lo scalpiccio metallico di scarponi dalle suole chiodate.
Qua e là le finestre dei palazzi erano socchiuse, colse addirittura la sagoma di una donna affacciata.
Fece scorrere lo sguardo fino alla sommità degli edifici, quasi sperando di cogliervi la presenza del suo avversario. Non lo vide, ma era certo che non fosse lontano.
Magari c’era proprio lui, dietro una di quelle finestre socchiuse, e lo stava tenendo d’occhio.

Tiene gli occhi fissi sulla stufa, che è poco più di una scatola oblunga di metallo in cui arde un fuoco di sterco essiccato. Non c'è legna, in alta quota, e bisogna riscaldare con quello che si trova.
La locanda è composta da una sola stanza, col soffitto basso e le pareti dipinte. Col passare degli anni – chissà quanti, poi – le pitture si sono annerite e solo qua e là si distingue ancora qualcosa: un loto dai mille petali una volta bianco e rosato, il sorriso remoto di una Tara, la mano artigliata di un demone.
Fuori infuria la tempesta. Il vento ulula nelle gole ghiacciate, spinge turbini di neve in ogni recesso. Le bandiere lung-ta schioccano così forte che si odono persino all'interno, nonostante il crepitare della fiamma e il brusio sommesso degli avventori.
Queste sono molte preghiere,” dice Tenzin, il più vecchio ed esperto dei suoi sherpa. Annuisce e sorride, i suoi occhi obliqui diventano fessure nel volto segnato dalle intemperie. “Forse anche le tue,” soggiunge poi. Annuisce con convinzione.
Egli annuisce a sua volta, chiedendosi se ci sia una divinità, da quelle parti, disposta a prendersi a cuore la sua situazione.
Lo sherpa toglie dalla stufa un vecchio bricco di latta ammaccato, versa una tazza di tè fumante, vi aggiunge un pezzo di burro giallo e una presa di un sale grosso e appiccicoso che trae da una scatoletta di corno, poi la spinge nella sua direzione. Egli l'accetta con un cenno del capo.
Stringe il recipiente fra le mani, lascia che per qualche secondo il vapore bollente gli scorra sul viso. Ormai il vago odore di rancido del burro di yak ha smesso di dargli fastidio. Ha imparato anzi ad apprezzare la bevanda corposa che ne risulta, il suo gusto deciso. La sua capacità di riscaldarlo dopo giornate intere trascorse nel gelo dell'Himalaya.
Si protende appena in avanti, cercando di scrutare attraverso una delle piccole finestre che danno luce all'ambiente.
Tenzin fa una risata roca. “Cerchi lui?”
Egli annuisce. Lo cerca da giorni, in effetti. Sa che sta arrivando, o forse è già arrivato, ma non sa quale passo sceglierà per andarsene.
Si fa udire la voce dello sherpa: “Oggi lui non viene qui.”
Questa è l'unica strada praticabile.”
L'altro scuote la testa. Riempie una tazza anche per sé, vi aggiunge burro e sale, l'annusa e aggiunge altro burro, poi dice: “Se cerchi yeh-teh devi pensare come lui, altrimenti non lo trovi.”
Yeh-teh, il mostro delle montagne. Sa che i tibetani credono ciecamente alla sua esistenza, sa che qualcuno giura di averlo anche visto. Si domanda se Tenzin sia uno di quelli.
Sud'ba è un uomo, non un mostro,” risponde, e nel pronunciare quel nome rievoca l'immagine di un ufficiale alto, di bell'aspetto, impeccabile nell'elegante uniforme dei cosacchi.
Lo sherpa tira fuori dalla sua bisaccia una tavoletta di legno quadrata su cui è tracciato un diagramma di linee che si intersecano perpendicolari e diagonali. “Bagh-Chal,” dice. Rovescia sul tavolo il sacchetto delle pedine, quattro tigri e venti capre. “Tu giochi?” chiede poi.
Egli annuisce, anche se in quel gioco apparentemente semplice non è ancora riuscito a vincere una partita. Le sue tigri finiscono sempre confinate in un angolo del tavoliere e le sue capre vengono falcidiate senza pietà.
Come se avesse espresso quel pensiero ad alta voce, Tenzin fa una risatina e dice: “Devi capire.”
Conosco le regole del gioco,” risponde vagamente piccato.
Lo sherpa scuote la testa. “No, capire questo.” Si punta un indice sulla fronte. “Capire cosa voglio fare.”
Non so leggere nella mente.”
Tenzin si stringe nelle spalle, gli occhi scompaiono di nuovo nel volto sorridente. “E allora tu sempre perdi,” è la serafica conclusione, dopodiché gli chiede: “Tigri o capre?”
Tigri.”
Tu vai a caccia. Ma tu sai cosa farà la tua preda? Dove scapperà?”
Le parole dello sherpa hanno il valore di una rivelazione, in effetti. Diventano la metafora di quella spedizione, che sembra sotto ogni aspetto destinata a fallire. “Sud’ba vuole arrivare a Lhasa,” dice, assorto nel pensiero che da giorni gli sta martellando in testa.
Lui va,” conferma l’altro, “ma non oggi.”
Passerà di qui, è l’unico sentiero praticabile.”
Tenzin scuote la testa. “Le tue tigri oggi non mangiano niente,” conclude deluso.
Egli non risponde. Fissa assorto il tavoliere, poi getta uno sguardo alle pedine d’ottone. Sud’ba non è certo una capra, che scappa belando sulle balze di roccia per sfuggire alla tigre, e non è nemmeno yeh-teh, che si nasconde sulle cime delle montagne e forse non esiste nemmeno.
È un aristocratico di antica famiglia, discendente da una stirpe di cavalieri che già nel medioevo erano mercenari liberi da ogni obbligo feudale. Un doppiogiochista scaltro, che in definitiva serve solo se stesso.
L’Impero Britannico lo cerca per alcuni documenti che avrebbe sottratto con l’intento di venderli al miglior offerente.
Si chiede se l’Impero Russo lo stia cercando per lo stesso motivo. Non sarebbe impossibile, in effetti.
Chi sarà il destinatario di quel materiale? Chi deve incontrate Sud’ba a Lhasa?
Rievoca la capitale tibetana, l’immenso Potala, il Jokhang dai tetti d’oro.
La voce di Tenzin lo richiama alla realtà:“Muovi le tigri.”
Egli tende meccanicamente la mano verso una delle sue pedine, mangia una capra, pensando distrattamente che gli sembra troppo facile trovare una capra proprio lì, come pronta per la sua tigre. Di nuovo guarda fuori. Stringe gli occhi, cercando di capire, attraverso quello che sembra un oblò da nave riciclato, se la tempesta stia calando di intensità.
Lo sherpa segue il suo sguardo, poi sorride e gli indica gli altri avventori della locanda, ovvero una carovana di mercanti. “Se loro stanno qui, è segno che non si può andare,” asserisce. “Loro vogliono andare presto a Lhasa, ma oggi neanche yeh-teh esce.” Fa una risatina, muove una capra. “Tua tigre non salta più,” dice poi.
Egli realizza che una delle sue quattro pedine è già bloccata e reprime un’imprecazione.
Tenzin ridacchia di nuovo.
Una raffica di vento particolarmente violenta fa salire dalla vallata un ululato lugubre, che davvero sembra il richiamo di una belva in cerca di preda. Egli si guarda intorno: l’oste sta parlando con qualcuno, il bricco dell’acqua sobbolle piano, facendo salire verso il soffitto dipinto una colonna di vapore diafano. Le capre stanno dilagando sul tavoliere del Bagh-Chal come formiche su un animale morto.
Devi pensare a cosa fai,” lo ammonisce lo sherpa. Muove un’altra delle sue pedine, poi solleva su di lui lo sguardo astuto.
Ci penso eccome,” è la risposta. E davvero sta pensando al suo avversario, e a quello che potrebbe fare. Sud’ba è un cosacco, è un uomo orgoglioso, forte e consapevole della propria forza. È coraggioso e scaltro. Sa che chiunque altro sarà rintanato da qualche parte ad aspettare la fine della tempesta, quindi dal suo punto di vista non vi è momento migliore per attraversare il passo e raggiungere la città.
La mia pelliccia,” ordina dopo quelle riflessioni.
Tenzin lo fissa stupito. “Tu vuoi uscire?”
Per tutta risposta, egli tira fuori una mappa della zona e la spiega sul tavolo. “Andrà verso Kampa,” dice con sicurezza. Indica il passo, che sulla cartina ingiallita dall’uso appare come una tenue linea tratteggiata fra due aree marrone scuro.
Kampa impossibile,” è la categorica risposta.”Troppa neve.”
Non per Sud’ba. Lui è uno che ci è nato, nella neve.”

Il vento ghiacciato morde, il furioso turbinare dei fiocchi candidi riduce la visibilità a pochi metri. Sebbene sia pieno giorno, la luce è quella di un crepuscolo spento.
Le creste aguzze del Kampa sono quasi sepolte dalla coltre di neve, ma si colgono ancora i vividi sprazzi di colore delle bandiere lung-ta che adornano il passo.
Egli volta la testa, per evitare che le raffiche gelide gli facciano lacrimare gli occhi e successivamente congelare le lacrime. Si accuccia alla base di uno sperone di roccia, si stringe nella pelliccia d’orso e lascia che la coltre bianca si depositi anche su di lui, nascondendolo alla vista.
Passa un tempo imprecisato, il vento ulula, la luce lentamente illividisce.
Una figura compare dall’avvallamento in cui si snoda il sentiero. Ha una pelliccia completamente bianca e procede rapida, muovendosi con agilità nonostante la neve fresca arrivi ben oltre le ginocchia. Non ha con sé né sherpa né altri accompagnatori.
Dà l’idea di un predatore scattante, una creatura che basta perfettamente a se stessa.
Egli inforca il binocolo. Per quanto infossato nell’ampio cappuccio di pelo, la figura ha un volto. Coglie labbra serrate, che ad ogni balzo fanno uscire un getto di vapore denso. Indovina una pelle arrossata dal freddo ma bianca. Dietro le spesse lenti scure che il misterioso individuo indossa, è pronto a giurarlo, ci devono essere occhi color acquamarina, dall’espressione beffarda.
Sud’ba,” mormora fra sé e sé.
Come se l’avesse sentito, il russo si ferma all’improvviso, si guarda intorno. È nel mezzo del canalone, circondato da un’uniforme coltre bianca, ma non accenna a volersi mettere al coperto.
Egli apre la sacca, ne trae adagio il fucile col mirino da tiratore scelto. È una buona arma, che l’ha servito tante volte. Non fallirà.
Appoggia adagio la canna su una roccia, spinge una pallottola nella camera di scoppio. Si sfila il guanto dentro per poter appoggiare l’indice sul grilletto.
Sud’ba guarda verso di lui. Possibile che si sia accorto della sua presenza? Si morde il labbro costringendosi all’immobilità, mantiene l’occhio fisso sul mirino.
Poi il russo riprende a camminare. In breve gli sta dando le spalle, ancora qualche passo e oltrepasserà la cresta di Kampa.
Una bandiera improvvisamente si stacca, strappata via dalla furia della tempesta, un lampo rosso passa sul canalone e scompare.
Echeggia la detonazione, secca nel lamento lugubre del vento.

Il terribile Sud’ba, il fosco avventuriero cosacco che per anni si era preso gioco dei servizi segreti di tutta Europa, era morto con una fucilata nella schiena, come un cinghiale durante una battuta di caccia.
Il fatto non l’aveva sconvolto più di tanto, obiettivamente. La prima cosa che aveva imparato intraprendendo l’attività di spia era che in certi ambiti non c’è spazio per sentimentalismi e ideali. Il fine giustifica i mezzi, tutto il resto sono solo pastoie che creano problemi ed espongono a rischi inutili.
Diversi colleghi erano morti per non aver imparato da subito quella fondamentale verità.
Ripensò fugacemente al giovanotto di cui aveva cominciato l’addestramento: ucciso da un attimo di sentimentalismo. Aveva visto il povero Werwolf rantolante sul pavimento – e non era escluso che quell’esibizione di sofferenza fosse per la maggior parte una messa in scena a beneficio dell’inesperto ufficiale – e si era fatto prendere dalla pietà.
L’aveva trovato con il collo rotto, probabilmente non si era nemmeno reso conto di crepare.

Guardò di nuovo in alto: le finestre si erano richiuse tutte. La gente aveva già visto il poco che c’era da vedere, nella strada era nuovamente calato il silenzio.
Tese l’orecchio, ma non si udiva alcun rumore, neanche una lontana eco di cadenza militare. Non c’era nemmeno quella sensazione di presenza, indefinibile a parole ma chiara a chiunque si fosse mai trovato in caccia, che la preda vicina era in grado di trasmettere.
Posto che il Werwolf fosse una preda, ovviamente.
In ogni caso, lì non c’era più.
Si incamminò adagio, badando a mantenersi rasente ai muri. Le tenebre non erano più quelle fitte della notte fonda, il contorno dei palazzi era una sagoma nera su uno sfondo appena più chiaro.
Di nuovo pensò al Werwolf, cercò di fare proprio il suo modo di pensare. Tornò col ricordo a certi sciamani che aveva incontrato nelle sue peregrinazioni per l’Asia minore: aveva assistito ai rituali di viaggio extracorporeo. Lui stesso, dopo ingestione di opportune sostanze, gettato nella trance di possessione dal battere ritmico dei tamburi, aveva corso brevemente nella steppa col proprio spirito guida.
Per un attimo si chiese se quegli sciamani avrebbero potuto aiutarlo a entrare nella mente del suo avversario, ma subito dopo, con un’alzata di spalle sprezzante, si disse che ragionamento e deduzione lo avrebbero aiutato molto di più, esattamente com’era accaduto in Tibet con Sud’ba.
Sono un agente segreto in territorio nemico, si disse, ho con me informazioni di vitale importanza. Devo rientrare dietro le mie linee più rapidamente possibile. Cosa farò?
In breve la risposta gli balenò in mente, chiara come il sole che di lì a poco sarebbe sorto.

§

Il tenente si voltò verso un alto letto dalla testata in ferro dipinto. Da esso penzolava una mano ossuta, rugosa, percorsa da vene azzurrine. “Era proprio necessario ucciderlo?” chiese.
L’agente segreto, impegnato a ispezionare il contenuto di un armadio, senza voltarsi rispose: “Non se n’è nemmeno accorto.”
“Bastava legarlo.”
L’uomo scosse la testa. “Col rischio che si mettesse a urlare? No, meglio essere sicuri.” Poi, dopo una pausa: “Lei è cattolico o protestante?”
Von Knobelsdorff lo fissò stupefatto. “Prego?”
L’altro si voltò verso di lui e lentamente scandì: “Voglio sapere se è cattolico o protestante.”
“Che c’entra?”
“Sa dire il rosario o no?”
Il giovane ufficiale aggrottò le sopracciglia. Si sporse a guardare il corpo abbandonato sul letto, poi replicò: “Qualche spiegazione in più non sarebbe fuori luogo.”
L’uomo annuì come per prendere atto della richiesta, ma non disse nulla. Si limitò a estrarre dall’armadio una veste talare e a misurarsela sul corpo. “Questa può andare,” concluse poi.
Von Knobelsdorff strinse le labbra contrariato, con la sensazione che quel modo di fare fosse una specie di prova di forza nei suoi confronti: lui faceva le domande, il tizio non rispondeva. A questo punto, lui aveva due scelte: seguirlo pedissequamente o impuntarsi ed esigere una risposta a tutti i costi.
Si chiese se sarebbe riuscito a prevalere su uno così, verbalmente o fisicamente, e si accorse di non esserne poi tanto sicuro. Di certo non avrebbe avuto il pelo sullo stomaco che il suo accompagnatore aveva più volte dimostrato di possedere.
Di nuovo fece girare lo sguardo sulla stanza, semplice al punto da apparire spoglia. Gli sembrava di essere imprigionato in una palude, perduto, senza la più pallida idea di dove si trovava e di come avrebbe fatto ad andarsene. In una circostanza del genere, poteva permettersi di dettare condizioni all’unica persona che essenzialmente lo stava tenendo lontano dalla prigionia e forse dal plotone d’esecuzione?
“Non so dire il rosario,” sospirò.
“Alla buon’ora,” rispose l’uomo, che nel frattempo aveva indossato la talare e stava finendo di abbottonarsela. “Il latino lo sa?”
“Certo.”
“Andiamo in sacrestia.”
“Cosa vuole fare?” chiese d’istinto von Knobelsdorff. Poi scosse la testa e soggiunse: “Tanto non mi risponderà, vero?”
L’altro si limitò a lanciargli una veste talare e a dire: “Tenga sotto pantaloni e camicia.”

“Non ha pensato che potrei contribuire maggiormente alla riuscita della missione, se sapessi cos’ha intenzione di fare?”
Il Werwolf alzò gli occhi al cielo. Era come provare a ballare il valzer con uno che non solo non aveva mai ballato in vita sua, ma non aveva mai nemmeno sentito un brano di musica.
Peccato che dalla riuscita di quella danza dipendesse la vita di entrambi.
Si voltò a guardare il giovane ufficiale, che con la talare addosso sembrava un pretino appena uscito dal seminario. “Primo, si parla in francese,” lo ammonì, “anche fra di noi.” Aprì un alto armadio di paramenti, ne trasse una semicotta e una stola viola, indossò entrambe. “Sa il francese, vero?”
“Certo,” giunse la piccata risposta.
“Lo parla bene?”
“Da quando avevo sei anni. Avevamo una istitutrice di Parigi.”
“Molto bene, speriamo che non si sia limitata a dare lezioni di lingua solo a cocchieri e valletti.” Senza dare al giovane il tempo di elaborare un’indignata replica, il Werwolf proseguì: “Usciremo vestiti da preti. Io sarò il parroco, lei il vicario. Come vede, ho i paramenti dell’estrema unzione, cosa che già dovrebbe instillare nella gente un sano rispetto, inoltre reciteremo il rosario e nessuno oserà interromperci, nemmeno gli inglesi, anche se non capiranno nemmeno cosa stiamo facendo.”
L’ufficiale abbassò gli occhi sul proprio abito, poi li alzò su di lui. Aveva l’espressione di chi si trova davanti una serie di pezzi meccanici sconosciuti e sa che la sua vita dipende da quanto rapidamente riuscirà ad assemblarli. “Le ho detto che non so recitare il rosario,” gli ricordò, con l’aria di star facendo una confessione oltremodo sconveniente.
“Dovrà solo leggere,” rispose il Werwolf indicandogli un breviario. In un tono che avrebbe voluto suonare rassicurante soggiunse: “Faremo qualche prova.”
“Ma...” L’ufficiale appariva sempre più preoccupato. “Ecco, poi dove andremo, così combinati?”
“Alla stazione.”
“Ma sarà piena di soldati inglesi!”
“Le viene in mente qualche altro modo per raggiungere le linee?”
L’altro si strinse nelle spalle. “Non lo so, nasconderci, muoverci di notte. Non farci vedere, insomma.”
Il Werwolf ghignò. “Conosce il detto, non è vero? Il modo migliore per nascondere qualcosa è lasciarlo in bella vista.”
“Penso che sia un detto stupido,” replicò l’ufficiale incrociando le braccia sul petto.
Di nuovo, la spia alzò gli occhi al cielo. Gettò uno sguardo alla finestra, dietro la quale si indovinava già il chiarore dell’alba. Se tendeva l’orecchio, si udivano i primi suoni della giornata che cominciava, il carretto sferragliante di un ortolano, lo sbattere di qualche imposta che veniva aperta per dar aria alle stanze.
Sentì anche il passo cadenzato di una pattuglia.
“Qui non stiamo giocando,” ringhiò senza nemmeno voltarsi. “Stiamo correndo un pericolo mortale, abbiamo alle calcagna il miglior agente segreto britannico e siamo in pieno territorio nemico, quindi lei ha due scelte: o fa esattamente quello che le dico, senza saltare su ogni due minuti con una delle sue domande insulse, oppure se ne va dove preferisce, e rientra dietro le linee tedesche con i metodi che le paiono più opportuni.”
A quelle parole, il giovanotto si mosse fino a trovarsi faccia a faccia con lui, strinse i pugni e furibondo esordì: “Senta un po’, signore...”
“No, senta lei,” lo interruppe bruscamente il Werwolf, “la mia pazienza finisce adesso. Le mie condizioni gliele ho dette, valuti lei cosa preferisce fare.”
Raggiunse la specchiera, raccolse dal piano di un mobile un collarino bianco e cominciò a sistemarselo sotto il colletto dell’abito talare con gesti nervosi. Non era escluso che l’indignato ufficialetto, orgoglioso e permaloso come una signorina di buona famiglia, se ne andasse per i fatti suoi, finendo ovviamente per farsi arrestare appena messo piede fuori dalla canonica, ma era arrivato il momento della verità: ormai non poteva più permettersi indugi, nemmeno per quel bel visetto. La Patria veniva prima.
“Si decida,” lo incalzò.

§

La stazione era un guazzabuglio di uniformi color khaki dell’esercito britannico, nel quale si coglieva qua e là il carta da zucchero di qualche divisa francese. Ogni tanto passavano dei civili, uomini perlopiù, ma anche donne, che invariabilmente, anche se attempate o con i figli per mano, suscitavano schiamazzi e apprezzamenti tra i soldati.
Appoggiato a una colonna, The Bishop osservava.
C’era un treno in partenza. Le caldaie stavano andando in pressione e da sotto la locomotiva uscivano sibilanti getti di vapore.
I soldati si accalcavano nelle carrozze, buttando gli zaini alla rinfusa, urlando e spingendosi. Qualcuno da qualche parte stava suonando un’armonica mentre un gruppetto di voci intonava ‘Pack up your troubles in your old kit bag’.
A un tratto udì qualcuno salmodiare: “Pater noster qui es in caleum. Santificetur nomen tuum. Adveniat regnum tuum. Fiat voluntas tuam, sicut in caelum et in terram.”
Una seconda voce, più sottile, che suonava vagamente emozionata, rispose: “Panem nostrum cotidianum da nobis hodie, et dimitte nobis debita nostra...”
Gli schiamazzi dei soldati calarono di tono. Qualcuno disse a qualcun altro: “E sta un po’ zitto, no?”
Seguì un biascicare di scuse.
“Che stanno facendo?” chiese poi una terza voce, attutita come durante una funzione.
La prima prese un tono di compiaciuta sicumera: “Dicono il rosario.”
“Il che?”
“Rosario. Sono cattolici.” Poi, dopo una pausa. “Quello è il latino.”
The Bishop si girò nella direzione da cui proveniva il conciliabolo e intravide due preti che si allontanavano, con le spalle un po’ curve e lo sguardo chino sul breviario.
Chi li incontrava si faceva il segno della croce, se francese, altrimenti si toglieva il berretto o mostrava comunque qualche segno di deferenza.
Egli tornò a fissare il treno che man mano andava riempiendosi di soldati. Qualcuno era evidentemente riuscito a conquistarsi una ragazza, durante il periodo trascorso nelle retrovie, e la stava salutando con gran profusione di lacrime e promesse.
Un altro sedeva su una panchina con un foglio sulle ginocchia, tentando di scrivere un’ultima lettera a casa.
Di nuovo echeggiarono le note dell’armonica, stravolta in un motivo triste.
L’agente segreto fece di nuovo girare lo sguardo tutt’intorno. Il treno stava partendo per il fronte, quindi era su quello che il dannato tedesco avrebbe cercato di salire. Si chiese se fosse ancora in compagnia dell’altro o se fosse da solo. Si chiese se avesse trovato il modo di indossare un’uniforme inglese per confondersi nella massa di soldati.
Intravide una pattuglia della polizia militare fermare una coppia di soldati e per un attimo si sentì invadere dall’eccitazione, ma subito dopo i due furono lasciati andare.
Il treno emise un lungo fischio, dal fumaiolo uscì una densa colonna grigiastra. Il cupo ribollire della caldaia si alzò di un’ottava.
Sulle banchine, i sergenti spingevano a bordo gli ultimi ritardatari. Colse con la coda dell’occhio qualcosa di nero in lontananza, si girò in quella direzione e vide mani volenterose protendersi per aiutare i due preti a salire in carrozza.
Le bielle si misero in movimento, le ruote stridettero sulle rotaie sollevando qua e là delle scintille, mentre il treno cominciava lentamente a muoversi.
The Bishop dardeggiò sguardi sulla folla in uniforme, senza riconoscere alcuna fisionomia nota. Le pattuglie della polizia militare, dal lui precedentemente allertate, continuavano a controllare i documenti dei soldati, ma nulla di irregolare sembrava attirare la loro attenzione.
Una cartaccia gli svolazzò tra i piedi.
A quel punto, dall’esterno della stazione provenne il grido di una voce femminile: “Hanno ucciso il parroco della chiesa di Saint Giles!”
La frase ebbe il potere di fargli accelerare i battiti. Fece qualche passo in quella direzione, adocchiò un capannello di donne. La voce aggiunse: “Dei ladri l’hanno strangolato nel sonno. In sacrestia hanno rovistato ovunque.”
Si girò verso il treno, che stava muovendosi sempre più veloce. Non era strano che due preti salissero su una tradotta militare?
Soffocò un’imprecazione e spiccò la corsa.


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Capitolo 8
*** Capitolo 6 - Prima parte ***


Cari lettori, care lettrici,
ecco un altro (mezzo) capitolo tutto per voi, spero che lo troverete interessante.
Come sempre grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo, che mi hanno messo in qualche lista o che sono stati così adorabili da lasciarmi un commento.
Spero di poter dire: enjoy^^





Capitolo 6

Carico di soldati all'inverosimile, il treno arrancava sbuffando come un vecchio ronzino. Von Knobelsdorff sedeva tra un finestrino opaco e un enorme caporale britannico che faceva del suo meglio per non pesargli troppo addosso, e aveva l’angosciante sensazione di essere un gatto in mezzo a una muta di cani. Per qualche motivo essi erano ignari della sua natura di felino, ma per quanto tempo lo sarebbero rimasti?
In realtà, era così esausto che anche la paura stava lasciando il posto a una specie di blanda rassegnazione. Sollevò una mano per spostarsi il rigido collarino bianco, forse la cosa peggiore di tutta quell'assurda mascherata, e così facendo incontrò lo sguardo acuto dell'agente segreto, che sedeva di fronte a lui con un breviario aperto fra le mani.
Qualcosa non va?” domandò questi in francese.
Il tenente scosse la testa e come da istruzioni rispose: “È tutto a posto, padre Jacques.”
L'altro annuì e tornò a leggere. A far finta di leggere, per la verità, perché quello sguardo apparentemente concentrato sulle Scritture stava invece sondando l'ambiente con scientifica precisione.
Il giovane si chiese come riuscisse a non mostrare alcun segno della stanchezza che obiettivamente doveva provare. Tentò di muovere le spalle e gli parve di avere al posto di muscoli e ossa un polveroso sacco di ghiaia. Aveva male alle mani, alle braccia, alla schiena, alla testa e in generale a tutto ciò che in un corpo umano può dolere. Si sarebbe addormentato lì dov'era, in braccio a quel caporale che senza fatica avrebbe potuto sollevarlo come un coniglio, ma per quanto prostrato, per quanto stremato, sapeva che non sarebbe riuscito a chiudere occhio.
Giunse le mani in grembo, poi di nuovo fissò l'agente segreto, incontrando il suo sguardo tagliente. Si chiese se oltre a vedere al buio come i gatti riuscisse anche a leggere il pensiero. Accennò a un lieve sorriso e l'altro in francese gli suggerì: “Dorma un po', padre François. Sarà un lungo viaggio.”
Il tenente non replicò, chiedendosi se la sua stanchezza fosse così evidente o se davvero quella specie di demonio fosse anche telepatico.
Lo fissò di nuovo, ma l'altro mantenne lo sguardo sulla pagina che stava fingendo di leggere.
Eppure era certo che se ne fosse accorto.
Forse non voleva far trapelare troppa familiarità fra loro, voleva dare l'impressione di qualcosa come colleghi di lavoro, in buoni rapporti ma fondamentalmente estranei l'uno all'altro.
Forse se si fosse concentrato su di lui avrebbe perso la panoramica sulla carrozza e sui soldati che l'affollavano.
Una bottiglia gli comparve davanti alla faccia con tale repentinità da provocargli un sussulto. In tono di rimprovero, qualcuno che si trovava al di fuori del suo campo visivo disse in inglese: “Ecco! L'hai fatto spaventare.” Poi, in un francese fortemente accentato. “Scusi, padre. Vuole?”
Il tenente fissò la bottiglia, priva di ogni etichetta e piena di un liquido trasparente, poi si girò verso la provenienza della voce e chiese: “Che cos'è?”
Roba tedesca,” fu la risposta.
Schnaps,” precisò l'enorme caporale al suo fianco.
Von Knobelsdorff si sentì attraversare da un brivido. Cosa significava quell'offerta? Era forse una trappola, per vedere se si sarebbe tradito? Rivolse di nuovo lo sguardo all'agente segreto, che però appariva totalmente immerso nella lettura.
Io... non bevo,” balbettò, passandosi un dito nervoso sotto la fascetta. Deglutì e ripeté: “Grazie, ma non bevo.”
La bottiglia si allontanò riluttante, per qualche secondo gli parve che il generale chiacchiericcio si fosse affievolito e tutti gli occhi fossero puntati su di lui.
Infine udì qualcuno che a bassa voce, di nuovo in inglese, diceva: “Cosa ti viene in mente? Non si offre da bere a un prete.”
Nonostante la reprimenda, lo Schnaps venne presentato anche all’agente segreto, che a differenza sua prese la bottiglia e ne bevve con disinvoltura un sorso. “Grazie,” disse poi, in un inglese al quale era riuscito a dare un pesante accento francese.
A quel punto uno dei soldati abbandonò lo zaino su cui stava seduto, li raggiunse facendosi largo tra i commilitoni e chiese: “Dove state andando, padre?”
Di nuovo von Knobelsdorff si irrigidì. Cos’era quella curiosità, tutt’a un tratto? Era qualcosa che aveva a che fare con l’offerta di acquavite tedesca? Avevano capito chi erano veramente e volevano spingerli a tradirsi in qualche modo?
Dardeggiò un’occhiata tesa al compagno, che però sembrava perfettamente tranquillo e a suo agio. Lo vide anzi tendere la mano verso la bottiglia e bere un’altra generosa sorsata. “Andiamo dove c'è molto bisogno della nostra opera,” rispose poi, assumendo un'espressione devota.
Sarebbe a dire?”
L'uomo emise un sospiro. “Al fronte, figliolo. Io e il mio vicario porteremo il conforto della parola di Dio nelle trincee.”
Ma siete francesi,” fu lo sconcertato commento. Poi chi aveva parlato protestò: “E smettila di darmi gomitate!”
Un altro soldato, evidentemente quello che aveva colpito il primo, si affrettò a specificare: “Non se la prenda padre. John voleva dire che è stupito perché voi siete francesi, mentre qui noialtri siamo tutti inglesi.”
L'agente segreto annuì grave, quindi rispose: “Capisco, figliolo. Dio provvederà.” Annuì di nuovo, con l'aria di chi è perfettamente certo che le cose si sistemeranno nel migliore dei modi.
I soldati si scambiarono sguardi perplessi, serpeggiò qualche bisbiglio, poi l'ultimo che aveva parlato chiese: “Ecco... in che senso, padre?”
Dio ci indicherà dove prestare la nostra opera. Non temiamo la sofferenza, perché essa avvicina al Signore.”
Immobile, i muscoli tesi come corde, von Knobelsdorff osservava l'agente segreto addentrarsi con disinvoltura in una palude sempre più infida. Quanto sarebbe riuscito a sostenere la parte? Quanto tempo sarebbe passato prima che i soldati cominciassero a sospettare qualcosa?
Non era credibile la faccenda dei preti che andavano in prima linea, anche un bambino se ne sarebbe accorto, ma l'uomo riusciva a spiegare quello che avrebbero fatto con tale pacatezza, con tale affettuosa sollecitudine che tutti, lo vedeva bene, ne erano soggiogati.
Il caporale gli porse nuovamente la bottiglia, egli bevve e gliela restituì con un sorriso.
Von Knobelsdorff deglutì a fatica e si sforzò di rimanere immobile, ma il cuore gli batteva talmente forte che sembrava volergli uscire dal petto. Aveva rischiato la vita innumerevoli volte, aveva schivato proiettili e sciabolate, aveva volato attraverso nubi temporalesche, aveva domato cavalli imbizzarriti. In quei frangenti, l'azione soppiantava il pensiero, affrancandolo da paura e preoccupazioni, facendolo sentire addirittura vivo, libero e forte.
Quell'immobilità invece lo stava facendo precipitare in un abisso di angoscia. Cercava di figurarsi cosa sarebbe accaduto e si accorgeva di non esserne in grado. Immaginava, più che altro, e ogni scenario che gli compariva davanti agli occhi era peggiore del precedente.
Percepì una goccia di sudore scendergli lentamente lungo la tempia, se la terse cercando di dare al gesto una connotazione casuale.
In tono di sollecitudine, qualcuno gli chiese: “Non sta bene, padre?”
Egli fece guizzare lo sguardo intorno a sé. Tentò di nuovo di deglutire, ma aveva la bocca talmente asciutta che la lingua gli si incollò al palato.
Agire. Doveva agire.
Si alzò in piedi tentennando, istintivamente i soldati che affollavano i sedili si fecero indietro per lasciargli spazio. “Devo uscire un momento,” si limitò ad annunciare, quindi prese a farsi strada verso il fondo della carrozza.
Si trovò ad arrancare in un mare di uniformi khaki. Colse su di sé sguardi stupiti, percepì qualche commento. Uno si fece il segno della croce.
Continuò ad avanzare, scavalcando zaini, facendo del suo meglio per muoversi con disinvoltura nonostante la sottana lunga fino ai piedi. La porta in fondo alla carrozza era stata aperta, forse per far entrare più aria, c'era qualche soldato che fumava appoggiato alla balaustra della piattaforma di salita.
Si tenne a una cappelliera per mantenere l'equilibrio durante uno scossone particolarmente violento, continuò caparbiamente ad avanzare. Non aveva un'idea precisa di cosa avrebbe fatto, per la verità. Prendere un po' d'aria, magari, farsi offrire una sigaretta, posto che un prete con la sigaretta non risultasse troppo strano.
In ogni caso gli era chiaro che non sarebbe riuscito a rimanere immobile un secondo di più.
Una mano sulla spalla lo fece sussultare, una ben nota voce gli chiese: “Non si sente bene, padre François?”
In quel momento, dietro di loro qualcuno gridò: “Fermateli!”

Egli si girò di scatto e nella distesa di uniformi colse la macchia scura di un uomo in abiti borghesi. Indovinò, piuttosto che vedere chiaramente, una capigliatura nera e un volto pallido. Colse il gelo di uno sguardo tagliente.
Poi la presa sulla sua spalla si fece ferrea ed egli si sentì spingere da parte. Udì una detonazione lontana, una cacofonia di grida e subito dopo due detonazioni vicinissime. Il frastuono lo stordì, nel fumo degli spari vide due corpi accasciarsi mentre l'uomo in borghese con un guizzo saltava al coperto.
Il nugolo di uniformi stava montando come una marea, pochi passi e l'uscita del vagone sarebbe stata sbarrata. L'agente segreto sparò altre due volte e altrettanti uomini crollarono.
Von Knobelsdorff fece per estrarre la pistola a sua volta, ma la tonaca lo impacciava troppo. Agguantò un fucile e prese a rotearlo come una clava. Percepì contro l'arma l'impatto di qualcosa di duro, poi udì un gemito soffocato. Non fece in tempo a vedere chi aveva colpito, perché l'agente segreto sparò altre due volte, poi catapultò se stesso e lui all'esterno, sulla piattaforma dove poco prima i soldati erano appoggiati a fumare.
Salti!” urlò.
Il tenente fissò sgomento il suolo, che la velocità del treno trasformava in un magma indistinto. “Cosa?”
Giù!”
Un attimo dopo, una poderosa spinta lo scaraventò nel vuoto. Egli annaspò sbracciando e atterrò malamente sui sassi aguzzi della massicciata, rotolò per un tempo che gli parve infinito, graffiandosi e ammaccandosi ovunque, infine si fermò nel folto di un cespuglio. Per qualche secondo rimase immobile, cercando di capire se era ancora tutto intero, poi si rialzò ansante su mani e ginocchia. Sbatté gli occhi, faticando per mettere a fuoco quello che lo circondava. Percepì un crepitio irregolare, al quale si sovrappose un lungo stridere metallico.
L'agente segreto comparve nel suo campo visivo come un'enorme ala di corvo. “Si muova!” ordinò asciutto, “il treno si sta fermando, tra un po' avremo alle calcagna mezzo battaglione.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Oltre a the Bishop, ovviamente.”
Chi?” mormorò il tenente, ancora frastornato dalla caduta.
Quello che ci ha sparato contro. E ora si muova, abbiamo già perso anche troppo tempo.”

I primi passi von Knobelsdorff li mosse come in trance, senza praticamente vedere nulla se non macchie di colore, il verde di un rado sottobosco, il giallo dei campi mietuti, l'azzurro pallido del cielo ormai pomeridiano. Tutto era come ovattato. L’unica cosa che percepiva con decisione era la presa solida dell’uomo sul suo braccio.
Alle loro spalle, quasi coperto dal tonfare rapido della loro corsa e dal frusciare delle pesanti tonache, il crepitio si era fatto più rado e si udiva qua e là l’eco fioca di ordini gridati.
Tutto gli sembrava una girandola, un vortice, dove le sensazioni si sovrapponevano le une alle altre. Gli pareva di essere a bordo di un aereo che precipitava in vite e al tempo stesso di essere su una barca preda di furenti marosi.
Si accorse che stavano entrando nella vegetazione, più che altro dal cambio della luce e dai rami incolti che lo sferzavano come fruste.
Scrollò la testa, la visione divenne più nitida ed egli riuscì a riconoscere un frutteto lasciato a se stesso e inselvatichito. Meli e peri, non potati da anni, si ergevano altissimi. Qualche rado frutto penzolava dai rami, masse di rampicanti davano l'assalto ai tronchi. Malfermo com’era, correre tra le erbe che arrivavano fino alla cintura, trattenuto a ogni passo da tenaci rovi, si rivelò ben presto impossibile. Nonostante l’uomo lo tirasse vigorosamente per il braccio, non riusciva a mantenere la sua andatura.
Dovettero rassegnarsi al passo.
L'agente segreto continuava a guardarsi alle spalle. “Stanno guadagnando terreno,” disse dopo un po'. Si fermò ai piedi di un pero alto quanto un giovane tiglio e prese a sbottonarsi l'abito talare. “Danno troppo nell'occhio,” spiegò asciutto, “intralciano.”
Appese la veste a un ramo, in modo che da lontano sembrasse uno di loro due in piedi.
Von Knobelsdorff tentò di imitarlo, ma si sentiva come ubriaco e i suoi gesti erano maldestri e imprecisi. L’uomo dovette intervenire per aiutarlo. “Si sente bene?” gli chiese, lasciando cadere la veste sull’erba.
Il tenente si accorse che lo stava fissando preoccupato. “Sì, bene,” rispose incerto.
Sicuro?”
Sì.”
Comunque muoviamoci,” disse poco convinto l’agente segreto, “se rimaniamo qui ci saranno addosso fra poco.”
Riprese a tirarselo dietro per un braccio.
Dal frutteto passarono a una vigna abbandonata, dove edera e vitalba avevano coperto a tal punto le poche viti rimaste che tra i filari si riusciva a passare solo in fila indiana.
Alle loro spalle echeggiarono alcune detonazioni.
Il tenente si girò di scatto, l'altro disse: “Hanno trovato le tonache.” Poi, dopo una pausa: “Fanno sul serio, come può notare.”
Nonostante l’ottundimento, l'ufficiale replicò: “Non ho mai pensato che scherzassero.”
Si muova.”
Proseguirono facendosi largo fra le liane che serpeggiavano ovunque.
Sbucarono in un'aia invasa dalle erbacce, al centro della quale sorgeva una casa diroccata. Il tetto, forse originariamente di paglia, era ormai scomparso e uno dei muri era crollato. Spezzoni di travi spuntavano dal rudere.
Altri spari echeggiarono nella vegetazione, molto più vicini. A poca distanza da loro, un proiettile sollevò da terra una manciata di foglie secche.
Von Knobelsdorff si passò una mano sulla fronte, ritirandola sporca di sangue. Forse si era ferito nel saltare giù dal treno. “Cosa facciamo?” ansò.
La presa sul suo braccio si fece più salda. “Intanto mettiamoci al coperto,” disse l'uomo.
Si spostarono all'interno della casa pericolante. Il pavimento del piano superiore aveva qua e là ceduto, e macchie di sole screziavano quel che rimaneva di antiche piastrelle decorate. Travi corrose e vecchie pietre costellavano le stanze.
Al loro ingresso, piovve dall'alto uno spolverio biancastro e i vecchi muri tremarono lasciando cadere frammenti d'intonaco.
Qui crolla tutto!” esclamò preoccupato il tenente, rinculando d'istinto verso il varco da cui erano entrati.
Si muova,” sibilò l'altro per tutta risposta. Lo spinse avanti, serpeggiando con destrezza nelle aree più integre.
Von Knobelsdorff lo vide guardare in alto come alla ricerca di qualcosa. “Cosa vuole fare?” gli chiese, insospettito dallo strano atteggiamento.
Stia zitto!”
Io non...” cominciò il giovane, ma altri spari all'esterno – molto più vicini dei precedenti – lo spinsero a tacere.
L'uomo nel frattempo aveva individuato un trave maestro caduto dal tetto, che attraverso un largo buco del soffitto arrivava fino al pavimento. Si fermò a osservare l’antico legno, fece qualche passo per cercare di vedere cosa c'era nella stanza di sopra, poi abbandonò la presa sul suo braccio e gli fece cenno di tacere.
Cominciò ad arrampicarsi, silenzioso e rapido come un gatto.
Quando ebbe raggiunto il piano superiore, dall'alto gli fece segno di raggiungerlo.
Von Knobelsdorff obbedì, ma forse la precaria struttura era già stata sollecitata eccessivamente: una larga porzione di soffitto rovinò a terra in una nube di polvere e il trave cadde, costringendolo a fare un salto indietro per non rimanere schiacciato.
All'esterno si udirono voci concitate e qualche sparo, seguiti da un frenetico tonfare di passi. Il tenente si guardò intorno alla ricerca di una via di fuga, ma già innumerevoli uniformi khaki stavano sciamando all'interno del rudere.
Prima ancora di poter pensare a come raggiungere l'agente segreto, si trovò un fucile puntato contro il petto. Non gli rimase che alzare le mani, mentre altri militari inglesi lo circondavano.

§

Immobile, von Knobelsdorff faceva scorrere lo sguardo dall’uno all’altro dei soldati che lo circondavano, cercando anche di farsi un’idea di cosa ci fosse al di là del cerchio di uomini armati.
Si chiese dove fosse l’agente segreto. Ovviamente sarebbe stato impensabile che cercasse di liberarlo in qualche modo: gli inglesi erano in troppi. E poi, realisticamente, avrebbe avuto senso farlo?
Più volte l’uomo aveva ripetuto che i dati in suo possesso erano di valore inestimabile ai fini della condotta bellica. La vita di un singolo combattente era forse più importante di informazioni che avrebbero potuto avvantaggiare l’intero fronte?
Ovviamente non lo era.
Fissò il soldato che si trovava proprio di fronte a lui. Un tizio di altezza media, con la faccia larga, il naso un po’ schiacciato e gli occhi castani. Dava l’idea di essere un buon diavolo, dopotutto.
Il suo Enfield era un po’ rovinato da una parte. Aveva una tasca sbottonata, dalla quale spuntava qualcosa di chiaro, forse una lettera frettolosamente messa via quando era arrivato l’ordine di smontare dal treno.
Si mosse appena e lo sguardo del soldato si fece ostile. L’Enfield fu imbracciato più strettamente, l’indice si appoggiò sul grilletto.
Von Knobelsdorff si immobilizzò di nuovo. Da dietro le sue spalle, una voce disse in inglese: “Portatelo fuori di qui.”
Fu afferrato per le braccia e, sempre sotto la minaccia delle armi, fu spinto all’esterno.
A quel punto, entrò nel suo campo visivo l’uomo in borghese che aveva intravisto sul treno. Questi lo squadrò in silenzio per qualche secondo, poi, in un tedesco perfetto, appena ammorbidito da un vago accento inglese, gli domandò: “Dov’è il Werwolf?”
Il tenente lo fissò, genuinamente stupefatto. “Chi?”
L’altro aggrottò le sopracciglia e gli rivolse uno sguardo tagliente. “Il Werwolf,” ripeté con minacciosa calma. “Mi dica dov’è andato.”
L’ufficiale strinse le labbra. Distolse lo sguardo, facendo ben attenzione a non rivolgerlo verso la casa. L’agente tedesco – ora aveva scoperto che il suo nome in codice era Lupo Mannaro – era riuscito a scappare, altrimenti quell’uomo non gli avrebbe chiesto di lui. “Non lo so,” rispose asciutto.
Il suo interlocutore sollevò un sopracciglio con aria di degnazione. “Non lo sa?” fece eco.
No.”
Mi perdona se dubito della sua affermazione, non è vero?”
Impegnato in una rapida analisi della situazione, il tenente non rispose. La faccenda era piuttosto chiara, per quanto certamente non semplice: l’agente tedesco era effettivamente riuscito a far perdere le proprie tracce. Come avesse fatto gli era del tutto ignoto, dal momento che l’ultima volta che l’aveva visto era al piano superiore di una casa pericolante e circondata da soldati inglesi, fatto sta che era sparito.
Sicuramente si stava già dirigendo verso le linee tedesche, per portare a destinazione le preziose informazioni in suo possesso. Suo dovere, a quel punto, era rallentare al massimo, o sviare, se possibile, l’inseguimento che senza dubbio gli inglesi avrebbero messo in atto.
Fissò l’uomo con aria di sfida e replicò: “Dubito ergo sum, diceva Sant’Agostino.”
L’altro non parve scomporsi troppo. Annuì un paio di volte, assumendo l’espressione di chi sta vedendo un adolescente fare qualcosa di molto avventato e molto stupido, quindi disse: “Ma bravo, abbiamo qui un dottore in teologia, che bella cosa. Spero che sappia anche pregare, giovanotto, perché ne avrà bisogno.” Poi a voce più alta, in inglese: “Riportatelo al treno.”


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Capitolo 9
*** Capitolo 6 - Seconda parte ***


Gente mia,
eccomi qui con un altro po’ di mappazzone, si spera sempre per il vostro sollazzo.
Come ogni volta ringrazio tutti coloro che sono passati per di qui e magari mi hanno letto o messo in qualche lista. Un ringraziamento speciale va ovviamente a chi è stato così gentile da lasciarmi un commento.
Ma bando alle ciance: vi lascio in compagnia del tenente von Knobelsdorff e dei suoi guai^^







Von Knobelsdorff tentò per l’ennesima volta di sciogliere le mani intorpidite, ma le corde che aveva intorno ai polsi sembravano stringersi di più a ogni movimento.
Era in una specie di cabina, legato a una sedia, davanti a una scrivania vuota. L’unico finestrino era così piccolo che a stento ci avrebbe potuto infilare la testa, ed era chiuso da due sbarre a croce.
Della robusta porta metallica aveva sentito scattare la serratura.
Per un po' il treno era rimasto fermo sui binari, probabilmente perché gli inglesi stavano ancora cercando il Werwolf, poi era ripartito.
Da un bel po' di tempo non udiva altro che il monotono sferragliare delle ruote.
Dovevano essere passate molte ore, perché la luce esterna ormai stava calando. La sete e la forzata immobilità lo tormentavano già da un po'.
Si voltò verso la porta, oltre la quale non si percepiva alcuna presenza, poi per l’ennesima volta esaminò il luogo in cui era rinchiuso, traendone conclusioni sconfortanti.
Si chiese cosa sarebbe successo. Quel tizio – forse era quello che l’agente tedesco chiamava the Bishop? – l’avrebbe probabilmente interrogato. Con che metodi? Dubitava che la faccenda si sarebbe risolta con una semplice chiacchierata.
Se il Werwolf non aveva avuto scrupoli nemmeno di fronte all’omicidio per portare a termine la missione, dubitava che l’inglese ne avrebbe avuti di più.
Pensò che probabilmente sarebbe morto, poi pensò al discorso che aveva fatto tempo addietro col suo collega, prima di decollare per un volo di guerra: Un soldato non deve preoccuparsi della morte, perché essa lo accompagna continuamente. L’unica cosa a cui deve pensare è servire la Patria.
Si disse che le belle frasi avevano un senso solo se poi si era pronti a fare in pratica ciò che si dichiarava a parole. Del resto, come pilota rischiava a ogni missione di bruciare vivo o di schiantarsi al suolo. Quanto peggio poteva essere la morte che lo attendeva?
Il rumore della serratura che scattava lo distolse bruscamente dalle sue angosciose meditazioni. La porta si aprì adagio e a passi misurati entrò nella stanza l’uomo in borghese, seguito da due graduati.
Andò alla scrivania, l’aggirò e vi si sedette, quindi posò le mani sul piano del mobile, una sull’altra, con studiata calma.
Sollevò a quel punto lo sguardo su di lui, osservandolo come un entomologo che si trova davanti un coleottero dai colori particolarmente strani.
Il tenente aggrottò le sopracciglia e ringhiò: “Nome, grado e numero di matricola, non le dirò altro.”
L’uomo fece una risatina. “Il suo nome e il suo grado non mi interessano minimamente,” rispose, “e del suo numero di matricola non saprei davvero che farmene.” Fece una breve pausa, che utilizzò per scuotere la testa come di fronte a un atteggiamento terribilmente stupido e fuori luogo, poi soggiunse: “Scoprirà presto, a sue spese temo, che io non sono la Croce Rossa.”
Il tenente rimase a fissarlo in silenzio.
L’altro modificò la posizione delle mani, passando sopra quella che era sotto e stendendo le braccia come per stirarsi, poi disse: “Mi sembra di notare che lei è come tutti i suoi connazionali: ottuso e rigido. Onde per cui, visto che in qualche modo dovrò pur attirare la sua attenzione quando le rivolgo le domande, penso che la chiamerò Fritz.” Fece una pausa, forse aspettandosi una reazione che però von Knobelsdorff si guardò bene dal mostrare, infine chiese: “Che ne dice, Fritz, le piace l’idea?”
Il giovane non rispose.
Chi tace acconsente,” concluse allora l’altro dopo un po’, “non è vero, piccolo Fritz?”
Mi chiami pure come vuole,” rispose a quel punto von Knobelsdorff, “anche Gretchen, se le fa piacere. Questo non mi convincerà certo a collaborare con lei.”
Accetto il suo suggerimento, Gretchen,” replicò ironico l’inglese, “trovo che il grazioso diminutivo le si addica. Le garantisco comunque che non sarà con i nomignoli che la convincerò a collaborare, per usare parole sue.”
So che cosa farà,” disse il tenente. Già immaginava un fosco repertorio di sevizie, che peraltro sarebbero state perfettamente inutili, dal momento che nemmeno le più atroci torture possono far confessare ciò che non si sa.
L'inglese fece una risatina e rispose: “Davvero lo sa? Ne dubito.” Si alzò in piedi, poi gli si avvicinò e prese a girargli lentamente intorno.
Il tenente si irrigidì. Ogni volta che l’uomo entrava nel suo campo visivo sembrava assorto nel decidere come avrebbe cominciato a interrogarlo, quindi ogni volta che gli passava alle spalle, egli si aspettava una percossa che però non arrivava mai.
Alla fine l'inglese gli si fermò dietro la schiena. “Vediamo se indovino,” disse. “Date le mani lisce, la proprietà di linguaggio e la conoscenza delle lingue straniere, lei è un ufficiale e un aristocratico. Fa senz’altro parte di un’arma nobile, quindi la cavalleria, ed è un giovanotto ardimentoso, che vuole dar prova del suo coraggio, motivo per cui è diventato aviatore. Sogna di guadagnarsi molte decorazioni, magari anche un bel Pour le Mérite. Quanti abbattimenti le mancano per diventare un Asso?”
Non sono affari suoi,” rispose il tenente.
L’altro emise un sospiro. “Non mi sta rendendo le cose molto facili, Gretchen.”
Non è mia intenzione farlo.”
La voce dell’uomo prese un tono di costernato stupore: “Perché?”
Perché sono un ufficiale tedesco, non collaboro con le spie nemiche.”
Oh, già. Ma certo.” L'inglese si spostò di fronte a lui. “In effetti, lei è uno degli ufficiali che non è sul nostro libro paga. Ma in fondo è un pesce piccolo, a cosa potrebbe servirci?” Scosse la testa. “Anche il suo amichetto, vede, non ha avuto esitazioni a lasciarla indietro, appena non ha avuto più bisogno di lei.”
Non è il mio amichetto,” ringhiò subito von Knobelsdorff.
Ah no, Gretchen? Eppure nell’ambiente è ben noto: il Werwolf se li sceglie sempre piacenti, i collaboratori.” Si strinse nelle spalle. “Chissà poi perché.”
Il tenente gli rivolse uno sguardo di sfida e replicò: “Lei crederebbe a quello che le dice un agente tedesco, signore?”
Si aspetta che risponda di no?”
Se rispondesse di sì farebbe la figura dello stupido.”
L'uomo fece una risatina. “E lei non è stupido, vero?”
Non più di un altro.”
A me pare che lo sia molto di più, invece. Si è fatto abbindolare da quell'avventuriero da strapazzo come una specie di sciacquetta di periferia, e perso com'è nella sua storia romantica non si è nemmeno accorto che il Werwolf l'ha usata e gettata via.”
Il tenente cercò di ergersi quanto più poteva per fronteggiarlo. L'avrebbe volentieri colpito con una testata, ma l'altro si manteneva a distanza di sicurezza. Si accontentò di dire: “Faccia pure lo spiritoso, lei, con le sue battute a doppio senso. Mentre perde tempo a punzecchiare me, il suo avversario sta scappando chissà dove. Chi è allora lo stupido fra noi?”
L'uomo fece un passo indietro e rimase a fissarlo come se lo stesse vedendo per la prima volta. Annuì grave, poi disse: “Credevo che avremmo potuto trovare un modo per andare d'accordo, ragazzo mio, ma lei decisamente mi vuole vedere al mio peggio. Chissà, forse le piacciono gli uomini forti e rudi, dico bene?”
Se così fosse, lei non sarebbe sicuramente di mio interesse.”
L'uomo sospirò come il genitore che dopo aver offerto al figlio degenere innumerevoli occasioni per emendarsi, lo vede persistere caparbiamente nel suo errore. Si sfilò dalla cintura un oggetto che sulle prime al tenente parve una cinghia nera, fatta di cuoio intrecciato. Nonostante si fosse ripromesso di rimanere impassibile di fronte a qualsiasi minaccia, non poté fare a meno di irrigidirsi.
Paura, Gretchen?” lo canzonò allora l'inglese.
No.”
Eppure dovrebbe. Sa che cos'è questa?”
No.”
L'uomo gli fece penzolare l'oggetto davanti agli occhi. Von Knobelsdorff si accorse che si trattava di una frusta flessibile, lunga quanto una normale cintura, grossa circa un dito, a sezione cilindrica. La punta sembrava rinforzata da qualcosa di pesante.
È una nagajka,” gli fece sapere l'inglese. “I cosacchi dicono che con tre colpi ben assestati di questa si può uccidere un uomo.” Fece una studiata pausa, quindi in tono quasi confidenziale, come a ricercare una collaborazione che lui chissà perché si ostinava a non voler concedere, soggiunse: “Io l'ho vista usare e le dirò: non stento a crederci.”
Cercando di mantenere un tono indifferente, von Knobelsdorff chiese: “Vuole uccidermi?”
Dopo. Per ora mi serve vivo.”
Non mi sembra un grande incentivo alla collaborazione.”
L'altro si piegò a fissarlo negli occhi. “Davvero? Si può morire molto in fretta o molto lentamente, Gretchen. Molto, molto lentamente.”
E secondo lei dovrei tradire la mia Patria per evitare qualche ora di sofferenza, sapendo che comunque morirò?”
L'inglese annuì. “Lo troverei assennato da parte sua.”
Beh, sa cosa le dico? Fanculo.”
L'altro arretrò con l'aria di aver appena ricevuto uno schiaffo. Posò lo scudiscio sul piano della scrivania, quindi rispose: “Vedo che non si smentisce: oltre a essere rigido e ottuso, è anche rozzo come tutti i suoi connazionali.” Si rivolse ai due uomini che erano entrati con lui, e che per tutto il tempo erano rimasti in piedi ai lati della porta, e in inglese disse: “Questo individuo è una pericolosa spia dell'Impero Tedesco. Voglio che lo leghiate per i polsi al gancio che c'è sul soffitto, ma state molto attenti: è pericoloso.”
Poi uscì.

I due si avvicinarono cauti. “Non fare scherzi,” lo ammonì uno di essi.
Si fermarono a qualche passo di distanza, si scambiarono un'occhiata, poi l'altro disse: “Questo qui è quello che è salito sul treno vestito da prete.”
Da prete?”
Lo sanno tutti. Jackson, della terza compagnia, ce l'aveva seduto proprio di fronte.”
E non si è accorto di niente?”
Ma figurati. Questo qui è una spia, potrebbe fregare chiunque.”
Von Knobelsdorff, immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, faceva del suo meglio per mantenere l'espressione neutra, sebbene la tentazione di cercare il famoso gancio sul soffitto fosse disperatamente forte. Ai margini del campo visivo aveva l'inquietante frusta cosacca, negligentemente abbandonata sul piano della scrivania.
Cercò di immaginare che effetto avrebbe fatto ricevere un colpo con quella. Sarebbe riuscito a resistere? Quanti ne avrebbe tollerati?
Sollevò lo sguardo sui due soldati, che immediatamente arretrarono come di fronte a un cobra che gonfia il collo.
Non fare scherzi,” ripeté uno di essi.
L'altro soldato uscì dalla stanza e vi rientrò subito dopo con in mano un pezzo di corda. “Fagli il cappio,” suggerì, porgendola al commilitone, “questo è il tipo che appena lo sleghi ti salta addosso e cerca di farti fuori.”
Di nuovo si scambiarono uno sguardo, poi fissarono lui. Von Knobelsdorff rimase impassibile.
Uno dei soldati gli si avvicinò, mantenendosi comunque a distanza di sicurezza. “Mi capisci?” chiese, scandendo adagio le parole.
Il tenente si limitò a fissarlo in silenzio.
L'inglese aspettò qualche secondo, poi proseguì: “Non fare il furbo. Se fai il furbo, noi ti facciamo male.”
Si spostò alle sue spalle, gli passò la corda intorno al collo e la tese quel tanto da fargliela sentire.
L'altro soldato cominciò ad armeggiare con i lacci che lo legavano alla sedia.
Il tenente fece un rapido ragionamento: gli inglesi erano due uomini robusti, ma avevano chiaramente paura di lui. Avrebbe potuto in qualche modo sorprenderli e tentare la fuga?
Rimase immobile, facendo del suo meglio per dare l'idea di essere esausto, o comunque non intenzionato alla ribellione.
Ora alzati,” disse uno dei due.
Von Knobelsdorff si decise in un attimo: tese i muscoli del collo per contrastare la stretta della corda, quindi cercò di scrollarsi di dosso l'uomo che lo stava trattenendo. La mossa fu così repentina che esso rovinò al suolo con un'imprecazione, ma istintivamente strinse la presa sulla corda, trascinandosi dietro anche lui.
Si trovarono avvinghiati sul pavimento. L'altro soldato si unì alla mischia, buttandoglisi addosso con tutto il suo peso.
La corda cominciò a tendersi.
L'ufficiale si divincolò per quanto poteva, irrigidì al massimo i muscoli del collo, ma presto si trovò con i polmoni in fiamme e un velo nero che gli oscurava la vista. Ogni tanto riusciva a liberarsi appena dalla stretta e ad inalare un'ansiosa boccata d'aria, ma subito dopo il laccio riprendeva a soffocarlo.
Portò d'istinto le mani al collo, ma il canapo gli aveva letteralmente scavato un solco sulla pelle delicata della gola e nel tentativo frenetico di afferrarlo riuscì solo a graffiarsi a sangue.
Ormai i rumori sembravano giungergli attraverso l'acqua, le voci concitate dei due uomini erano eco distorte e incomprensibili.
Si divincolò ancora con la forza della disperazione, si torse, di nuovo cercò di afferrare la corda, ma i suoi movimenti erano sempre più convulsi e imprecisi. Annaspò in cerca di aria e quasi si stupì quando udì il rantolo stentato che ormai gli usciva dalla gola.
Sentì una voce irosa, comprese che qualcuno stava imprecando. Una botta contro le costole gli fece capire che gli era arrivato un calcio, anche se curiosamente non sentiva alcun dolore.

Che figlio di puttana,” disse uno dei due soldati, ansando pesantemente. Si rialzò in piedi e diede uno sguardo sprezzante al prigioniero, che giaceva esanime sul pavimento. “Questo stronzo sembrava un moccioso, e invece...”
L'altro, la corda ancora in mano, rispose: “È un agente segreto. Fa finta di essere un moccioso, per fregarci, ma appena ti distrai salta su come un gatto.”
Figlio di puttana,” ripeté l'altro. “Eravamo anche stati gentili.” La voce aveva uno sdegnato tono di costernazione. “L'avevamo trattato correttamente. E lui, invece...”
Questi qua sono tutti bastardi, pugnalerebbero alle spalle la loro stessa madre, se fosse utile per la missione. Aiutami a legarlo, non vorrei che tornasse l'altro e ci trovasse ancora qui.”
Sì, meglio sbrigarsi.”

§

Quando riprese i sensi, von Knobelsdorff penzolava appeso per i polsi a un gancio del soffitto, ondeggiando appena a seconda dei movimenti del treno.
Cercò di guardarsi intorno, ma la testa piegata all'indietro limitava il suo campo visivo a una porzione di soffitto e al bordo superiore del finestrino.
Studiò il gancio a cui era sospeso, chiedendosi se sarebbe riuscito a sfilare da esso la corda che lo teneva sospeso.
Prima che potesse elaborare ulteriori piani, la porta alle sue spalle si aprì. Si fece udire la voce dell'agente inglese: “Mi dicono che non ha avuto un comportamento molto edificante.”
Il tenente udì i suoi passi misurati avvicinarsi. Nella posizione in cui si trovava non riusciva a vederlo, ma indovinava comunque la sua presenza dietro la schiena.
Non replicò.
L'uomo si spostò davanti a lui, raccolse la nagajka dalla scrivania e la fece sibilare in aria, poi prese a girargli lentamente intorno.
Von Knobesldorff poteva immaginare che lo stesse fissando, magari indeciso su dove assestargli il primo colpo. A parte camminare, però, l'uomo non faceva nulla.
Io ho avuto pazienza con lei,” disse l'inglese, sempre girandogli lentamente intorno, “non ho reagito alle sue puerili provocazioni, considerandole frutto dell'inesperienza e forse anche di qualità intellettive non proprio eccellenti, per usare un eufemismo.” Tacque, si fermò di nuovo alle sue spalle.
Von Knobelsdorff tese i muscoli aspettandosi la prima scudisciata, ma di nuovo non accadde nulla.
L'altro si limitò a emettere un sospiro e a dire: “Ora lei risponderà alle mie domande, per favore. Se lo farà spontaneamente, eviterò di usare metodi persuasivi.”
Il tenente cercò di voltarsi verso di lui, ma dovette rinunciare. “E se rifiutassi di parlare?” gli chiese.
Non glielo consiglio. Scoprirebbe che non tutti gli inglesi sono sportivi come si sente dire in giro.”
A quelle parole fecero seguito lunghi secondi di silenzio, rotti solo dal vago sferragliare delle ruote in movimento. Alla fine, il tenente disse: “Non mi importa se lei sarà sportivo o no, signore. Sono un ufficiale tedesco, e il mio dovere è servire la Patria. Non intendo rispondere a nessuna delle domande che mi porrà, quindi si regoli di conseguenza.”
Passò altro tempo. Tutto era silenzio, l'uomo sembrava dissolto nel nulla.
Poi arrivò il primo colpo.
Nonostante si fosse proposto di affrontare il supplizio con spartana nobiltà, von Knobelsdorff non riuscì a trattenere un gemito di dolore. La nagajika gli aveva assestato una violenta frustata e al tempo stesso una sassata, nel punto in cui la sua estremità appesantita dal piombo gli aveva colpito le costole. La correggia di cuoio si era lasciata dietro una striscia che sembrava percorsa da metallo incandescente.
Il secondo colpo fu più forte del primo, il terzo fu talmente brutale che gli mozzò il respiro e gli fece comparire farfalle luminose davanti agli occhi.
Mugolò stringendo le dita sulle corde mentre lottava per trattenere le lacrime: quel dolore lancinante travalicava ogni altro mai provato prima. Tutto quello che aveva mai subito nello sport, durante le esercitazioni o nei pochi casi in cui si era ferito in qualche modo, al confronto scompariva.
L’uomo continuò a colpirlo con la stessa violenza, ma alternando con diabolica astuzia percosse relativamente più lievi e percosse più forti, in maniera del tutto imprevedibile. Anche la cadenza delle sferzate era irregolare, il che non gli permetteva di tendere i muscoli al momento giusto per cercare di ammortizzare almeno in parte i colpi.
Cercò per quanto poteva di mostrarsi impassibile, ma la sofferenza era tale che gli impediva persino di pensare lucidamente. L’unica cosa che occupava con prepotenza la sua mente erano le atroci fitte che gli si irradiavano in tutto il corpo ogni volta che quell’orribile strumento lo colpiva.
Scivolò in uno stato di semincoscienza, mentre una pesante sensazione di torpore lo invadeva, rendendolo sempre meno in grado di percepire ciò che stava succedendo.

Si fece udire la voce ironica dell’uomo: “Non mi perderà mica i sensi, vero, Gretchen?” Poi, dopo una pausa, in tono canzonatorio: “Un ufficiale tedesco, che serve la Patria. Suvvia, si dia un contegno.”
Il tenente sbatté gli occhi, incapace di stabilire quanto tempo fosse passato e cosa fosse successo. Doveva essere svenuto, comunque.
I polsi ormai non li sentiva più. Appeso in quel modo, faceva sempre più fatica a respirare, perché i muscoli del torace erano stirati verso l'alto e non riuscivano a far espandere le costole. Gli tornò in mente che alla fine, a prescindere dai chiodi che tanto gli facevano impressione nei crocifissi, era in realtà il soffocamento la causa di morte per chi subiva quel supplizio.
Percepiva qualcosa scorrergli sulla schiena e si chiese se fosse sangue o sudore. Non avrebbe saputo dirlo con precisione, perché sentiva così tanto dolore ovunque che paradossalmente era come non sentirne affatto.
Si soffermò per qualche secondo a meditare su quella stranezza.
Sentì un paio di colpetti sulla guancia.
Gretchen?” lo richiamò alla realtà la voce ironica dell'inglese.
Non... mi chiamo Gretchen,” rispose von Knobelsdorff a fatica.
Ecco, bravo. Cominci a dirmi come si chiama, allora, ragazzo mio. Presentarsi è sempre il primo passo per avviare una proficua conversazione.”
Il tenente rimase in silenzio. Udì dopo un po' lo sfrigolare di un fiammifero, poi l'aria viziata della cabina fu ulteriormente appesantita dall'odore del tabacco.
L'uomo riprese a camminare lentamente. “Il suo nome,” ripeté dopo un po'. “Non è difficile. Scommetto che anche un mangiacrauti ottuso come lei sa rispondere a questa domanda.”
Fritz.”
Ci fu un lungo silenzio, poi l'uomo disse: “Lei non vuole collaborare.” La voce era più che delusa, suonava addirittura costernata.
Subito dopo, von Knobelsdorff percepì un bruciore lancinante all'addome. Sussultò e gemette mentre il dolore dell'ustione gli si irradiava nel corpo come un'onda tellurica.
Mi ha fatto sprecare il sigaro,” lo rampognò l'uomo.
Di nuovo si udì sfrigolare un fiammifero.
Il giovane strinse i denti obbligandosi a un'impassibilità che era sempre più difficile da mantenere. Cos'avrebbe fatto quel tizio? Gli avrebbe spento addosso un altro sigaro? Avrebbe recuperato quella diabolica frusta cosacca? Avrebbe fatto di peggio?
Il suo nome, prego.”
Fritz.”
Giovanotto, sto perdendo la pazienza.”
Fritz!”
Qualcos'altro lo colpì. Sembrava un oggetto duro, come un bastone. La violenza della percossa lo fece oscillare come un pesce appeso all'amo.
Fritz,” ripeté con un filo di voce.

Lo stufato ha il sapore delle buone vecchie cose di una volta. Potrebbe dire che è come quello della nonna, se sua nonna non fosse una rigida contessa prussiana che probabilmente non ha mai toccato una pentola in vita sua.
Sa di buono, comunque, è caldo e fragrante.
Anche il vino è buono. Alla luce fioca della candela prende un colore di rubino cupo, ha un profumo che evoca il sole e i meli in fiore.
Siede a un tavolino un po' traballante, accanto a una piccola finestra. Se guarda fuori, vede un susseguirsi di tetti dalle tegole rosse, sotto un cielo in cui i colori caldi del tramonto si stanno lentamente spegnendo.
Di fronte a lui siede l'agente segreto. La luce morente conferisce ai suoi occhi una profondità cupa. La vaga sfumatura azzurra che ogni tanto vi coglie è sparita e le iridi sono di un grigio metallico.
Abbandona il bicchiere, spinge la mano nella sua direzione, l'uomo la copre con la propria.
Egli avvampa, sente il cuore balzargli nel petto. In un angolo della sua mente c'è qualcosa a proposito di imbarazzo e vergogna, ma è come se si trattasse di vecchi oggetti polverosi, abbandonati in soffitta perché ormai inutili.
La realtà è che quel contatto gli piace, lo fa stare bene.
Ripensa alla donna dabbasso, a quello che l'agente le ha detto per convincerla a dar loro la camera, e di colpo non ricorda più perché quelle parole l'avessero tanto offeso.

§

The Bishop si sedette contrariato alla scrivania e rivolse uno sguardo sprezzante al giovanotto tedesco, che giaceva immobile sul pavimento al centro della piccola stanza.
Sulle prime, certo, aveva fatto il gradasso. Gli aveva dato le risposte taglienti da scolaretto impertinente, aveva stretto i denti e aveva cercato di mostrargli con il più grande impegno di che pasta fossero fatti gli ufficiali del Kaiser.
Bravino, nulla da dire. Per essere un principiante inesperto si era comportato fin troppo bene.
Poi a un certo punto doveva aver ceduto, ma quel dannato Werwolf era stato ancora una volta più astuto del previsto, e il giovanotto non sapeva assolutamente nulla.
Avrebbe potuto torturarlo per giorni, ma sapeva già che la risposta a ogni sua domanda sarebbe stata quella che da un certo punto in poi il tedesco gli aveva ripetuto fino allo sfinimento: non lo so.
Si chiese perché il Werwolf avesse speso parte delle sue preziose energie per trascinarsi dietro quell'inutile individuo.
Non era un agente segreto, non era un personaggio importante. Non era niente, in definitiva.
Si sporse di nuovo a osservarlo: eppure qualcosa doveva avere. Qualcosa che spingeva anche un diavolo come il Werwolf a rischiare la riuscita della missione più importante della sua carriera per non abbandonarlo.
Sorrise fra sé e sé. Non sapeva cosa fosse, anche se forse lo intuiva, ma di certo non avrebbe sprecato l'insperato vantaggio.




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Capitolo 10
*** Capitolo 7 - Prima parte ***


Cari lettori, care lettrici,
ecco un altro po’ di mappazzone, sempre con la speranza che ciò vi doni svago e sollazzo. Come sempre ringrazio la mia “Band of Brothers” di commentatori, ma anche tutti quelli che sono passat di qui, mi hanno letto o magari mi hanno collocato in qalche lista.
Grazie a tutti!






Capitolo 7

La luce che filtra fra i rami degli abeti è verde e fredda, una leggera nebbia la rende vagamente opaca. Sembra quella che si potrebbe vedere sul fondo di uno stagno.
Tutt’intorno c’è un silenzio solenne.
L’aria odora di conifere, di muschio e di limo. Oltre che di sangue, naturalmente.
Naturalmente.
Si sofferma a pensare all’avverbio scelto. È naturale, in effetti, che nella foresta il sangue scorra e nutra, nel ciclo infinito della vita.
Certo non pensava che sarebbe toccato a lui entrare in quel ciclo. Non così perlomeno, non in quelle circostanze.
Forse nessuno è mai veramente pronto a certe cose.
Non sa perché sia lì, cosa sia successo. Confusamente ricorda qualcosa a proposito di una caccia.
Si sente esausto, ha dolore ovunque. Prova a sollevarsi, ma le braccia non lo reggono.
La consapevolezza che morirà lì, che è necessario che ciò accada, si fa strada in lui come acqua che intride un terreno.
Il sangue dell’uno è il nutrimento dell’altro, si ripete, e così sarà all’infinito.
D’un tratto sente un lungo ululato lontano, dove i tronchi imponenti degli abeti creano una navata che si perde nella nebbia.
Non ha paura di quel suono sinistro. Sorride fra sé e sé, anzi, come se sentisse la voce di un vecchio amico.
L’ululato si ode di nuovo, più vicino, e quando termina sembra che il silenzio tutt’intorno si sia fatto più teso, come carico d’aspettativa.
Con un fruscio di felci si fa avanti un uomo.
Egli solleva lo sguardo nella sua direzione: è l’agente segreto, che lo raggiunge adagio e si ferma a un passo di distanza.
Sorride di nuovo, fa per tendere una mano verso di lui, ma è troppo debole. L’altro allora si china al suo fianco, gli porge un ramoscello di quercia.
Si fissano. Gli occhi dell’uomo sono chiarissimi e trasparenti, paiono d’argento. “Aspettami,” sussurra.

Von Knobelsdorff sbatté gli occhi. Nell’aria c’era odore di fumo stantio, di cuoio conciato e di sangue; quello su cui posava la guancia non era il morbido muschio di una foresta, ma un pavimento di metallo zigrinato.
Emise un sospiro: solo un sogno.
Cercò senza successo di deglutire. Si mosse appena e terribili fitte di dolore gli attraversarono il corpo come lame.
Si risolse a spostare in giro solo lo sguardo. La stanza era quella dove l’uomo l’aveva interrogato, pur nella penombra densa del tramonto si distinguevano bene la scrivania, la sedia cui l’avevano legato e il finestrino con le sbarre a croce. Poteva supporre che la porta fosse di nuovo chiusa a chiave.
C’era silenzio, le ruote non sferragliavano, la carrozza non vibrava. Solo di tanto in tanto proveniva da un punto che sembrava lontanissimo l’eco di qualche ordine gridato.
Ebbe l’impressione di essere solo al mondo, abbandonato in un treno fantasma, destinato a dissolversi lentamente nelle tenebre.
Mosse appena le dita, e già il semplice atto di piegare le falangi gli diede l’impressione che dalla mano alla spalla i suoi tendini si stessero strappando come vecchie corde sfilacciate.
Strinse i denti e si obbligò a perseverare.
L’uomo – il Werwolf, come l’aveva sentito chiamare – se n’era andato. Con giusta ragione, peraltro, dato il compito che aveva da portare a termine.
Non disapprovava la sua condotta, al posto suo avrebbe fatto esattamente la stessa cosa, ma allo stesso tempo non aveva la minima intenzione di rimanere lì ad attendere che l’inglese tornasse. Di sicuro quel tizio l’avrebbe interrogato di nuovo. Una volta appurato per la seconda volta che non aveva preziosi segreti da rivelare, cos’avrebbe fatto? L’avrebbe spedito insieme ai prigionieri di guerra, o avrebbe risolto il problema tirandogli una palla in testa e buttandolo in una fossa comune?
La seconda, probabilmente.
Mosse la mano con più decisione, strinse i denti alla fitta di dolore che gli attanagliò il braccio. Aprì di nuovo le dita, le chiuse ancora.
Si era arruolato per combattere, per difendere la Patria, per sfidare gli inglesi nel cielo. Doveva andarsene da lì.
Non sapeva cosa sarebbe riuscito a ottenere, se una fuga o solo una morte eroica, ma una cosa comunque gli era chiara: non si sarebbe lasciato abbattere come una bestia al macello.

Le nubi sono sontuose montagne di panna montata, così bianche che guardarle fa quasi male agli occhi.
La campagna francese sembra un tappeto color smeraldo costellato di giocattoli: casette, villaggi, animali qua e là, una ferrovia con un piccolo treno blu, così lucido che potrebbe essere appena uscito dalla fabbrica. Anche il suo pennacchio di fumo grigio è morbido e corposo come zucchero filato.
Avvista all’orizzonte un nugolo di puntini che appaiono e scompaiono fra le nubi. Si volta verso il caposquadriglia con l’intenzione di segnalarglieli, ma il suo superiore li ha già visti e dà il segnale di attacco.
Cabra per guadagnare quota, i puntini assumono le fattezze spigolose di biplani nemici. Le distanze si accorciano, cominciano a baluginare i lampi dei primi spari. Individua un avversario e manovra per metterglisi in coda.
Nota con la coda dell’occhio che il suo caposquadriglia sta invece planando verso il basso. Visto dalla sua posizione sembra irresoluto, confuso. Dà l’idea di essere un novellino ai suoi primi voli di guerra.
Che si senta male?, pensa. Possibile che sia già ferito?
Un inglese, attratto dalla ghiotta preda, gli si mette in scia. Spara un paio di raffiche, accorcia le distanze, spara di nuovo. Il tedesco sembra guardarsi intorno come se cercasse di individuare la provenienza degli spari.
Egli lo fissa perplesso, indeciso se sganciarsi dal suo combattimento per andare a dargli una mano, quand’ecco che il caposquadriglia spiazza l’avversario con un Immelmann, gli si mette in coda e con due raffiche lo manda in vite.
Fine del combattimento.

Von Knobelsdorff stirò le labbra in una parvenza di sorriso: ci era cascato persino lui, figurarsi un povero inglese che non aveva mai visto né conosciuto Heinrich von Stade.
Quella era la chiave, in effetti: occorreva spogliarsi di ogni orgoglio e fingere di essere incompetenti, spaventati e disorientati.
L’avversario allora abbassava la guardia, e quello era il momento giusto per colpirlo.
Non aveva la pretesa di colpire l’agente inglese, ovviamente, ma forse l’avrebbe spinto a sottovalutarlo, con tutte le conseguenze del caso.

§

Il sole era già sparito dietro l’orizzonte. In basso vi era ancora una striscia di azzurro cupo, venato di arancione laddove gli ultimi raggi tingevano le nubi, ma sulla volta celeste brillavano già le prime stelle.
Dal basso proveniva il chiacchiericcio di due soldati che parlavano delle rispettive fidanzate. Saliva anche un lieve odore di fumo, segno che mentre chiacchieravano si stavano anche godendo una sigaretta.
Più lontano si sentivano ordini gridati. Solo poco prima, approfittando dell'ultima luce, un biplano era rientrato al campo.
Il Werwolf si arrischiò ad alzare la testa e per prima cosa scrutò i dintorni cercando di identificare il luogo in cui era atterrato l'aereo.
Ci fu uno scoppio di risa: i due soldati evidentemente erano passati alle storielle da caserma.
Egli si sporse cauto a osservarli, cogliendo solo due vaghe sagome nella penombra. Sogghignò al brillio arancione delle sigarette accese.
Avrebbe potuto ucciderli da cento metri di distanza.
Tornò ad appiattirsi sul tetto del vagone. Non era stato difficile salirci: una volta liberatosi della tonaca, per quei bravi marmittoni era diventato praticamente invisibile. Gli era bastato trovare per terra un bastone, metterselo in spalla a imitazione del manico di una vanga e camminare come se niente fosse. Nessuno gli aveva rivolto una seconda occhiata, nemmeno quando si era avvicinato ai binari.
Forse avevano pensato che li volesse semplicemente attraversare, o che fosse incuriosito dalla tradotta ferma, fatto sta che era riuscito ad arrampicarsi sul treno senza che nessuno facesse caso a lui.
Poi aveva proseguito il viaggio non proprio in prima classe, ma di sicuro più comodamente dell'ufficiale.
Poteva immaginare che the Bishop l'avesse immediatamente interrogato, alla ricerca di informazioni sulla missione. Si chiese se fosse ancora vivo e a quel pensiero si sentì attraversare da una fitta di apprensione.
Subito dopo si costrinse a fare il vuoto in mente. Se voleva portare a termine la missione non poteva farsi prendere dai sentimenti, doveva considerare quel giovanotto semplicemente come una delle variabili in grado di influire sulla soluzione di un problema.
Si voltò di nuovo nella direzione in cui aveva visto atterrare l'aereo. Strinse gli occhi cercando di cogliere nel buio qualcosa che gli ricordasse un campo d'aviazione. Uno spiazzo erboso, luci di qualche genere, magari un edificio a più piani, possibilmente signorile: in generale, i piloti tendevano a trattarsi piuttosto bene in materia di alloggiamenti.

§

Von Knobelsdorff sentì il cuore balzargli nel petto: dei passi si stavano avvicinando. Rimase in ascolto con l'attenzione spasmodica del coniglio che percepisce l'arrivo del predatore, cercando di capire se quell'andatura misurata appartenesse effettivamente al suo aguzzino.
Si chiese se sarebbe riuscito a fingere in maniera credibile.
I passi si fermarono subito al di là della porta. Ci fu un breve scambio, del quale non riuscì ad afferrare il contenuto.
Successivamente la chiave girò nella serratura e la porta si aprì con un cigolio.
Il tenente percepì un refolo d'aria fresca, odore di lucido da scarpe e olio per armi. Si impose l'immobilità.
I passi si avvicinarono. Ci fu un istante di silenzio che al giovane parve lunghissimo, nel corso del quale ancora una volta si chiese spasmodicamente se quello in piedi a poca distanza, che verosimilmente lo stava fissando, fosse l'agente segreto inglese.
Infine la voce beffarda che ormai ben conosceva disse: “Ma guarda un po' questo valoroso ufficiale del Kaiser. Tante chiacchiere, tanta spavalderia e alla fine...”
Von Knobelsdorff non si mosse. Poteva immaginare che l'uomo lo stesse osservando attentamente, forse proprio alla ricerca di segni di simulazione.
La voce si fece udire di nuovo: “Mi sente, giovanotto?”
Il tenente rimase immobile. Qualcosa di duro, forse la punta di una scarpa, lo picchiettò sul fianco, come per saggiare la sua reattività.
Gretchen, questa prostrazione non fa che confermare l'idea che mi sono fatto di voi tedeschi: siete un popolo di fanfaroni inutili, buoni solo a strepitare in quella vostra orrenda lingua da barbari.”
Von Knobelsdorff tratteneva addirittura il respiro. L'uomo si era accorto che stava fingendo e lo provocava per spingerlo a tradirsi?
La punta della scarpa lo colpì con maggiore forza, strappandogli un breve gemito.
Oh, dunque la nostra Gretchen non è morta,” apprezzò l'inglese. “Per fortuna, stavo cominciando a preoccuparmi.” Ci fu un fruscio di vestiti, il tenente capì che l'altro si era chinato accanto a lui. Una luce, forse quella di una torcia, gli venne puntata in faccia. “Siamo davvero così malmessi, piccola Gretchen?”
Il tenente non mostrò alcuna reazione. Il cuore gli batteva talmente forte che a un certo punto ebbe l'assurda paura che l'altro riuscisse a sentirlo. Il tempo sembrava non passare mai, tutto si dilatava in lunghissimi secondi di angoscia.
Oscillava costantemente tra speranza e disperazione, dibattendosi tra il sollievo di aver ingannato il suo aguzzino e il terrore di non esserci riuscito. Ad ogni momento si aspettava un urlo, una botta che però non arrivava mai.
Qualcosa lo pungolò fra le costole ed egli dovette farsi forza per non sussultare. “No, Gretchen, non ci siamo,” disse alla fine l'inglese, in un teatrale tono di delusione.
Il tenente si sentì ghiacciare, ma l'altro si rialzò in piedi e proseguì: “Lei è solo un piccolo, miserabile straccio, inutile sotto ogni punto di vista. Vediamo se almeno servirà come esca.”
I passi si allontanarono, ma con orrore di von Knobelsdorff non uscirono dalla stanza. Si diressero invece verso la scrivania e l'aggirarono.
La sedia scricchiolò, poi ci fu il tonfo di un oggetto pesante, forse metallico, che veniva appoggiato sul sottomano.

Passò il tempo. Nella stanza c'era un silenzio denso e carico di minaccia. Dolorante, stremato, tormentato dalla sete, il tenente non osava nemmeno socchiudere gli occhi per controllare dove fosse l'inglese. Lo immaginava però seduto alla scrivania, con lo sguardo puntato su di lui.
L'ansia lo stava divorando, decine di domande gli si affastellavano in mente, e a nessuna di esse riusciva a dare una risposta: stava facendo la scelta giusta? Era meglio stare immobile e attendere gli eventi, o così facendo si stava giocando le uniche possibilità di fuga? Se fosse saltato su e avesse assalito l'uomo, posto che il suo corpo prostrato ne fosse in grado, sarebbe riuscito a sorprenderlo e a sopraffarlo?
Ma l'interrogativo più angosciante, quello che gli suscitava il maggiore tormento, riguardava l'agente tedesco. Davvero stava tornando a prenderlo? Le parole dell'inglese facevano supporre di sì.
Se da una parte la cosa in un certo senso lo confortava, dall'altra lo metteva in uno stato di ancora più tormentosa irresolutezza. Si era fatto una ragione di essere stato lasciato indietro. La cosa gli era parsa anche giusta, in fin dei conti, e si era organizzato per cavarsela da solo, ma se cercando di cavarsela da solo avesse perso l'occasione di essere aiutato dall'agente segreto? Se l'agente segreto, per aiutare lui, avesse messo a rischio la missione? Doveva intervenire? Agire? In che modo, poi?
Scelse di rimanere immobile. Sapeva ancora troppo poco di quello che lo circondava per improvvisare qualcosa.
La sedia scricchiolò appena, producendo un rumore che alle sue orecchie sovreccitate parve forte come una raffica di mitragliatrice. Ebbe addirittura l'impressione che quel suono gli facesse male. Da qualche ora tutto gli faceva male, in effetti, persino il mero atto di esistere. Non gli sarebbe parso strano se addirittura il cuore, pulsando, gli spedisse piccole stilettate nel torace.
Si chiese cosa sarebbe successo e per l'ennesima volta non fu in grado di darsi una risposta. Nonostante ogni suo proposito di rimanere vigile, scivolò senza nemmeno accorgersene in un sonno plumbeo e privo di sogni.

§

Il tenente spalancò gli occhi. Non sapeva quanto tempo fosse passato, o se l'uomo fosse ancora lì con lui, ma aveva la nettissima sensazione che stesse per succedere qualcosa.
C'era una calma strana. L'aria era immobile, non si udiva il minimo rumore. La stanza era pressoché buia: solo i raggi della luna, passando attraverso il finestrino, disegnavano sul pavimento una chiazza diafana.
Fece girare intorno lo sguardo e si accorse che l'inglese c'era ancora. Era una massa scura, incombente, talmente immobile che se non avesse saputo che si trattava di un uomo in carne e ossa l'avrebbe creduto una statua.
Anche lui era palesemente in attesa di qualcosa. Gli parve di notare che avesse un'arma in mano, più che altro per un barbaglio di acciaio che per un attimo baluginò in quella sagoma altrimenti nera.
Non ci voleva un genio per capirlo: era in agguato. Chi stesse aspettando era altrettanto chiaro.
Il tenente rimase immobile, ben attento a non dar segno di sé.
Passò altro tempo, il silenzio era sempre più profondo, la sensazione che stesse per accadere qualcosa era sempre più intensa, tanto che l'ufficiale doveva faticare per mantenere il respiro lento e costante di una persona addormentata.
A un certo punto dal tetto provenne un rumore. Un tramestio a stento percettibile, qualcosa come il muoversi cauto di un animale selvatico.
Poi silenzio.
Sogguardò l'inglese, che però manteneva un'immobilità assoluta.
La ghiaia della massicciata scricchiolò appena, un sassolino rotolò giù facendo due o tre rimbalzi, che in quella quiete tesa parvero altrettanti colpi di cannone.
Il cuore gli accelerò i battiti: qualcuno si stava muovendo all'esterno.
Di nuovo calò il silenzio. Il tenente rimase in ascolto, ma i rumori sembravano essere stati inghiottiti da una campana pneumatica. Ebbe l'impressione che persino il suo corpo avesse smesso di produrne e che il suo cuore pulsasse in un silenzio assoluto, fluttuando come una specie di medusa.
Ci fu un lievissimo raschiare di metallo.
Ancora una volta egli si irrigidì e volse lo sguardo alla porta con aspettativa, ma l'anta rimase immobile.
Passò altro tempo: secondi lunghissimi, che sembravano non voler finire mai. E poi un tonfo soffocato, come un pugno su un mucchio di coperte, e l'afflosciarsi morbido di qualcosa.
Un altro lungo silenzio, poi dalla serratura provenne uno scatto di metallo oliato.
I muscoli di von Knobelsdorff si tesero come corde.
L'anta si schiuse lentamente, creando sulla parete una debole lama di luce. Al di là vi era un uomo.
Un altro scatto metallico, questa volta proveniente dalla figura seduta alla scrivania, fu per il tenente come una scossa elettrica: con quanto fiato aveva in gola gridò: “È una trappola!”
Il silenzio teso sembrò andare in frantumi come una lastra di vetro. Una detonazione lacerò la quiete, il lampo dello sparo illuminò a giorno la stanza.
Pur dolorante, provato dalla lunga immobilità, von Knobelsdorff balzò in piedi e fece per uscire, ma una mano lo agguantò per il collo e lo tirò brutalmente all'indietro, scaraventandolo nuovamente a terra. L'agente inglese poi lo oltrepassò e si chiuse la porta alle spalle.
L'ufficiale si rialzò.
Da fuori proveniva il rumore di una colluttazione feroce. Un altro colpo di pistola lo fece sobbalzare, poi udì il rimbalzo metallico dell'arma che cadeva a terra. Il tramestio riprese, ci furono colpi, gemiti e ansiti rabbiosi.
Spalancò la porta e pur nella scarsa luce vide che l'agente inglese era avvinghiato con qualcuno. In un silenzio mortale, i due stavano lottando come furie.
Schizzi di sangue imbrattavano pareti e pavimento.
All'esterno si sentiva gridare, segno che gli spari avevano messo in allarme le sentinelle. Comparvero delle luci, che gettarono ombre sinistre all'interno del vagone.
Senza starci troppo a pensare, egli afferrò l'agente inglese per le spalle e cercò di strapparlo via, questi si rivoltò come un felino e gli sferrò un pugno che gli spedì un nugolo di farfalle luminose davanti agli occhi, poi tornò alla colluttazione. I clamori all'esterno andavano aumentando, già si sentiva gridare qualcosa a proposito di tedeschi in arrivo.
Egli scrollò la testa disorientato. Colse il baluginio di una lama, seguito da un gemito soffocato, poi carne che colpiva altra carne e lo schiocco di qualcosa di duro, forse un cranio, contro il pavimento.
Corrugò la fronte cercando di individuare uno spiraglio di intervento. Fuori formicolava ormai una moltitudine. “Non c'è più tempo!” si sorprese a dire.
Il tramestio cessò d'improvviso, egli percepì una stretta familiare sul braccio. “Andiamo,” disse una voce vagamente ansante ma ben nota.
Si sentì spingere lungo il corridoio. Andare, dove? Poteva immaginare che il campo fosse ormai in allarme, e che i soldati fossero ovunque. Come avrebbero fatto a sgusciare tra le maglie di una rete che pur non consapevole di loro, si andava comunque inesorabilmente chiudendo?
Non abbiamo molto tempo,” disse l'agente segreto.
Egli non replicò. Comparve una figura in uniforme davanti a loro, l'uomo abbandonò la presa sul suo braccio e scattò in avanti, si udì uno scricchiolio sinistro e il soldato si accasciò.
Lo scavalcarono, arrivarono all'esterno. Nei rari sprazzi di luce, von Knobelsdorff si accorse che la camicia dell'uomo era per metà rossa di sangue. Abbassò gli occhi e vide che dietro di lui c'era una scia di gocce rutilanti. “Lei è ferito!” esclamò.
Andiamo,” fu la risposta.
Il tenente aggrottò le sopracciglia e replicò: “Si sta lasciando dietro una traccia. Pensa che il suo nemico non ne approfitterà?”
L'altro si fermò a guardarlo e, come era successo tempo prima, l'ufficiale ebbe l'impressione di averlo in qualche modo colpito. In tono più conciliante, soggiunse: “Non sarebbe meglio fare una medicazione di fortuna?”
L'agente segreto scosse la testa. “Ci penseremo più avanti, ora dobbiamo andarcene di qui.”
Il giovane rinunciò a replicare.
Corsero via dal treno, verso le zone in cui le tenebre erano più fitte. Von Knobelsdorff individuò nel buio la sagoma di lunghi baraccamenti, separati fra loro da vialetti coperti di ghiaia bianca.
Qua e là vi erano finestre illuminate, dall'interno delle costruzioni provenivano voci.
Si muova,” lo incitò l'uomo.
Cominciò a farsi udire l'ululato basso di una sirena a manovella. Il suono era come un lungo lamento che man mano aumentava di tono, facendosi nel contempo più acuto.
A quel richiamo tutto il campo parve animarsi, la luce si accese ovunque, dalle baracche cominciarono a uscire di corsa soldati, perlopiù reclute, che frettolosamente indossavano gli ultimi pezzi dell'equipaggiamento e si guardavano intorno spaesati, cercando di capire per quale motivo stesse suonando l'allarme generale.
Qualche sottufficiale abbaiava ordini.


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Capitolo 11
*** Capitolo 7 - Seconda parte ***


Incliti lettori,
un po’ di mappazzone per non perdere l’abitudine. Come sempre ringrazio chi mi sta seguendo, con particolare trasporto emotivo nei confronti di chi mi lascia anche un commento.






Il rumore della sirena ebbe il potere di riscuotere definitivamente the Bishop dal torpore. L’uomo si sollevò sulle braccia, si guardò intorno e per prima cosa vide i corpi dei due piantoni, entrambi con il collo in una posizione innaturale. Ragionò fra sé e sé che se il dannato Werwolf non fosse stato suo nemico giurato, gli avrebbe senz’altro chiesto di insegnargli quel trucchetto.
In ogni caso, le sentinelle erano stecchite e i due tedeschi finiti chissà dove.
Ebbe un moto di stizza: persino quell’inutile ragazzetto petulante al momento giusto era riuscito a creargli un problema. Si rammaricò di non averlo ucciso quando aveva appurato che non aveva nessuna informazione utile da fornirgli.
Sono troppo buono,” sospirò a mezza voce.
Scavalcò il corpo di uno dei piantoni, rientrò nella stanzetta e andò alla ricerca della torcia. La accese e fece scorrere il pennello di luce nel corridoio: una fila di piccole macchie rosse si perdeva nell’oscurità, segno che la sua pallottola, dopotutto, qualcosa aveva colpito.
Egli la seguì cauto. In certi tratti le gocce erano più rade, segno che i due si erano mossi più velocemente, in altri ce n’erano di più. In un punto, di nuovo in corrispondenza di un corpo dal collo spezzato, il sangue aveva formato una piccola pozza.
Non aveva usato una pallottola d’argento, ma a quanto pareva il Lupo Mannaro ne aveva risentito ugualmente.
Di nuovo rivolse un pensiero infastidito all’ufficialetto: se non fosse saltato su con quel suo stupido strillo, probabilmente il Werwolf avrebbe smesso una volta per tutte di essere un problema per la Corona.
Fuori c’era parecchia agitazione, il che non era un bene, naturalmente. Nel buio e nella confusione, sarebbe stato più facile per i due tedeschi, anche feriti e malconci com’erano, far perdere le loro tracce.
Riprese a seguire la scia di goccioline rosse. Prevedibilmente, essa scorreva lungo gli edifici, nelle zone più in ombra. In alcuni punti diventava più consistente, in altri si assottigliava al punto che doveva frugare tutt’intorno con la torcia per ritrovarla.
Le gocce però erano fresche, ancora lucide come piccoli rubini, segno che il suo avversario non doveva essere poi così lontano.
Chissà, forse si stava indebolendo? Non riusciva più a muoversi con la consueta velocità? Immaginò il pilota, a sua volta stremato e dolorante, che si dava da fare per sostenerlo. Quanto sarebbero riusciti ad andare avanti, prima di crollare esausti?
Continuò a seguire le tracce, che piegavano dietro le baracche e si dirigevano verso il parcheggio degli automezzi.
Involontariamente accelerò il passo: il parcheggio degli automezzi poteva voler dire una sola cosa.
La traccia rossa infatti si interrompeva all’improvviso, proprio in corrispondenza di uno spazio vuoto fra due ambulanze.
The Bishop evitò di farsi prendere dalla rabbia. Allontanò la nebbia rossa che gli stava offuscando la vista, respirò a fondo un paio di volte e si obbligò a fare il vuoto in mente.
Che cosa voleva il Werwolf? Ovviamente tornare dietro le linee tedesche.
Avrebbe potuto farlo con un banale autocarro? No, impossibile. Sarebbe stato fermato e controllato dopo mezzo miglio al massimo.
C’era però un campo d’aviazione non lontano, e guarda caso il ragazzetto petulante era proprio un pilota.

§

Il Werwolf spense il motore e disse: “Qui può andare bene.” Si passò la mano sulla fronte e la ritrasse umida.
Anche se era buio percepiva su di sé lo sguardo dell'ufficiale. Si girò nella sua direzione: “Che c'è?”
Lei è ferito.” La voce aveva un tono di vago rimprovero.
Ne sono consapevole.”
Non vuole fare niente per medicarsi?”
Il Werwolf emise un sospiro. “Sì, ora sì. Dovremmo essere abbastanza sicuri.”
Il giovane non replicò e la spia mantenne a sua volta il silenzio. Non c'era niente di abbastanza sicuro, purtroppo, quando si aveva the Bishop alle calcagna.
La voce dell'ufficiale lo richiamò alla realtà: “Andiamo nel cassone. Se chiudiamo tutti i teli non si vedrà la luce.”
Che luce?”
Dovrò pur vedere qualcosa per medicarla, no?”
Il Werwolf non rispose. Si limitò ad aprire la portiera e a scendere a terra. L'aria era fresca e aveva un lieve odore di fiori selvatici e limo. Quel poco che ricordava del paesaggio, appena una breve panoramica nell'esiguo fascio di luce dei fari schermati, consisteva in una macchia di alberi, un torrente e poco altro. Perlomeno le piante avrebbero parzialmente nascosto l'ambulanza parcheggiata.
Aggirò il veicolo e aprì a tentoni il portello posteriore. L'ufficiale, che nel frattempo l'aveva raggiunto, brancolò con le mani nella voragine nera del cassone alla ricerca di una fonte di luce. “Ci sono dei tubi verticali,” constatò a bassa voce. “Come si fa a entrarci?”
Sono i sostegni delle barelle,” sussurrò il Werwolf. “Non ha mai visto l'interno di un'ambulanza?”
E lei ha mai visto un pilota d'aeroplano ferito?”
Che intende dire?”
O bruciamo vivi o ci schiantiamo al suolo. In ogni caso, di solito finiamo nelle fosse comuni, non nell'ospedale militare.”
L'agente segreto non replicò. Si trovava ormai nella fase in cui anche una risposta tagliente richiedeva più energie di quelle che poteva permettersi di spendere. La ferita gli pulsava spedendogli in tutto il corpo quella che sembrava un'infinita risacca di dolore, in cui ogni onda arrivava sulla coda della precedente e prima di esaurirsi veniva coperta dalla successiva.
Si inerpicò a fatica nel veicolo, individuò al tatto una barella e vi si lasciò cadere.

L'acqua che gorgoglia fra le pietre è rossa di sangue. Anche le sue mani sono piene di sangue, i suoi vestiti ne sono imbevuti.
Il suo compagno incespica per l'ennesima volta, fa per rialzarsi ma si accascia, mentre un filo rosso gli cola da un angolo della bocca, gocciolando denso sul muschio della sponda.
Egli lo tira per un braccio, cerca di farselo passare intorno alle spalle. “Alzati,” ansima, e la parola suona come una preghiera. “Alzati, dobbiamo andarcene.”
L'altro prova a sollevarsi, egli ha la straziante certezza che lo faccia solo per far piacere a lui.
Alzati,” ripete comunque.
Non giunge risposta.
Alzati, per favore!”
Il suo compagno tossisce, poi a fatica mormora: “Lasciami qui, la missione è più importante.” Infila una mano malferma in una tasca cucita all'interno della camicia, ne trae un piccolo contenitore argentato. Glielo preme sul palmo con le ultime forze. “Ora ce l'hai tu,” esala.
No! Per favore, lascia che ti aiuti, possiamo ancora far perdere le nostre tracce.”
Per tutta risposta, l'altro si adagia nel letto del torrente, con la schiena appoggiata a una pietra. Gli tende la mano aperta e lui, dopo un'esitazione, vi depone la Mauser.
Per favore,” tenta ancora una volta, senza riuscire a muovere un solo passo lontano da colui col quale per anni ha condiviso ben più di ogni missione.
Va', corri. Restituirò a the Bishop tutto il piombo che mi ha ficcato in corpo.”

Quando riaprì gli occhi, una debole luce rischiarava l'interno dell'ambulanza. L'ufficiale sedeva sulla barella di fronte alla sua, con una cassetta bianca aperta sulle ginocchia.
Quanto ho dormito?” gli chiese.
Il giovane sollevò lo sguardo a incontrare il suo. “Pochi minuti.” Senza aggiungere altro, trasse dal contenitore un paio di forbici e cominciò a tagliargli la camicia, lasciando man mano cadere i lembi di stoffa inzuppati di sangue.
Il Werwolf li fissava in silenzio e non poteva fare a meno di pensare che alla fine Reiner non era neppure riuscito a impugnare la pistola: aveva detto quella frase solo per spingerlo ad andarsene.
L'avevano ritrovato in seguito, riverso nel piccolo corso d'acqua. La Mauser era accanto a lui, nel caricatore non mancava un solo colpo.
Forse era morto appena lui gli aveva girato le spalle.
Si proibì di sguazzare oltre nella gora di dolore che l'episodio gli aveva scavato dentro: c'era una missione da portare a termine, il resto non contava.
Si rivolse all'ufficiale: “È molto grave?”
Beh...”
Risponda, per favore.”
L'altro alzò le spalle. “Di certo non ha un bell'aspetto. La pallottola le è entrata nel fianco e mi pare che sia ancora dentro. Non ha rigettato e non le esce sangue dalla bocca, da quel che so è buon segno, ma ha perso comunque molto sangue.”
Faccia una medicazione stretta, per il momento potrà bastare.”
L'ufficiale non replicò. Si limitò a estrarre dalla cassetta delle compresse di garza, vi versò sopra del disinfettante e gliele applicò sulla ferita.
Il Werwolf strinse i denti al contatto dalla sostanza sulla carne viva, ma per il resto rimase immobile. “Ora fermi la medicazione con una fasciatura e stringa bene,” gli raccomandò.
E se le faccio male?”
Vorrà dire che ha stretto a dovere.”
Rimase a osservarlo mentre estraeva dalla cassetta dei rotoli di bende e li allineava accanto a sé. Aveva un'espressione concentrata, addirittura severa, che per certi aspetti contrastava con i suoi lineamenti ancora fanciulleschi. Si tirò indietro i capelli scoprendo la fronte pallida e liscia.
Infine si raddrizzò e disse: “Sono pronto. Riesce a mettersi seduto?”
Il Werwolf guadagnò a fatica la posizione richiesta, l'altro cominciò coscienziosamente ad avvolgerlo con strisce di garza.
Stringa di più,” disse a un certo punto l'agente segreto.
Il giovane alzò gli occhi su di lui. “Ancora di più?”
Non voglio che si riapra la ferita.”
D’accordo.”
Il Werwolf si trovò a emettere un gemito soffocato mentre le bende letteralmente gli mozzavano il respiro. “Così va bene,” disse, notando l’espressione preoccupata dell’altro. “Ora vediamo lei.”
Il giovanotto parve stranito. “Io?”
Che cosa le ha fatto the Bishop?”
L’ufficiale si limitò a distogliere lo sguardo stringendo le labbra.
Ha usato la frusta cosacca, non è così?”
Sì.”
Mi faccia vedere.”
Con qualche difficoltà, l’altro si fece scivolare giù dalle spalle quel che restava della camicia e gli girò la schiena.
Il Werwolf sollevò le sopracciglia: la pelle era un intersecarsi di vibici appaiati a due a due, rossi, viola o addirittura sanguinanti. Rivoli scarlatti scomparivano oltre la cintura dei pantaloni.
Allora?” volle sapere l’ufficiale.
Credo che le rimarrà qualche cicatrice” rispose l’uomo. Gli sfiorò il dorso con la punta delle dita ed egli non poté fare a meno di sussultare.
Fa male?”
Sì.”
Cercherò di medicarla. Pensa di riuscire a pilotare un aereo in queste condizioni?”
Il giovane si voltò con una smorfia di dolore sul viso. “Certo.”
Allora partiamo appena ho finito.”
Alla frase seguì qualche secondo di silenzio, poi di nuovo il tenente si voltò a fissarlo e disse: “Ma è notte.”
E quindi?”
Non si può volare di notte. Non con un caccia, almeno.”
Il Werwolf annuì. “Sì, immagino che chiunque conosca questa regola, vero?”
Mi sembra ovvio.”
L'agente segreto annuì. “Perfetto, e allora la conosce anche the Bishop.”
Alla frase fece seguito un altro lungo silenzio. Infine l'ufficiale obiettò: “Non posso volare se non vedo gli strumenti. Come faccio ad esempio a capire quando raggiungo la velocità di decollo?”
Si affidi all'istinto. Non ce l'ha l'istinto per il volo, lei?”
L'altro cercò di incrociare le braccia sul petto, ma dovette interrompere il gesto con un grugnito di dolore. “L'istinto per il volo ce l'hanno gli uccelli,” replicò.
Se lo faccia venire anche lei, ragazzo mio, altrimenti la nostra fuga sarà brevissima.”

§

La fa facile, lei,” brontolò von Knobelsdorff.
Silenzio.”
Il tenente non replicò. Appiattito in un fosso, fissava davanti a sé con una strana sensazione di disagio.
Conosceva i campi d'aviazione. Ne amava l'ampiezza, il respiro. Trovava allegra la manica a vento bianca e rossa che sventolava in un angolo, gli piacevano le baracche dei segnalatori, era affascinato dagli hangar sempre pieni di meccanici indaffarati, che perlopiù imprecavano perché le cose non andavano mai come volevano che andassero.
Ma soprattutto amava gli aerei: quando vedeva allineati quei Pegaso magnifici, rombanti, con il muso orgogliosamente puntato verso l'azzurro, era preso da una tale emozione che il cuore gli balzava nel petto.
Sorrise fra sé e sé al pensiero del cielo infinito.
Volse nuovamente lo sguardo in avanti e il suo sorriso svanì. Quel campo vuoto, immenso, spettrale sotto i freddi raggi della luna, sembrava più un cimitero che un aeroporto.
C'era calma di vento, tutto era cristallizzato in un'immobilità irreale. Il verso di un uccello notturno risuonò lugubre in lontananza, poi si ristabilì il silenzio.
Si voltò verso l'agente segreto e colse la sua sagoma immobile, intenta. Ebbe l'impressione di un predatore in agguato.

Un fruscio sull'erba lo indusse ad appiattirsi. C'era una figura in lento avvicinamento. Il passo era tranquillo, non comunicava né tensione né allarme. Strinse gli occhi e si concentrò su di essa, riuscendo a distinguere dopo un po' la sagoma di un elmetto britannico e un moschetto portato a spallarm.
Il soldato si fermò. Era così vicino che se avesse allungato la mano avrebbe potuto toccarlo. Si frugò in tasca, ne trasse una sigaretta e se l'accese mascherando la fiammella nel cavo della mano.
Von Knobelsdorff si voltò di nuovo verso l'agente segreto ed ebbe la consapevolezza che la sentinella stava fumando per l'ultima volta.
Un istante dopo lo sentì scattare. La sigaretta rotolò sull'erba, ci fu un breve tramestio, uno scricchiolare di ossa infrante, poi il corpo esanime del soldato rotolò nel fosso.
Prenda la sua divisa,” ordinò l'uomo in un sibilo.
Il tenente allungò cauto una mano fino a che non sentì sotto le dita il panno ruvido dell'uniforme. Sotto la stoffa c'era anche quella che gli parve una gamba.
La voce dell'altro lo fece quasi sussultare: “Se va in rigor, si scorda di riuscire a levargli di dosso qualcosa.”
Von Knobelsdorff deglutì. Un conto erano i combattimenti in cielo, un conto era spogliare un cadavere ancora caldo e mettersi addosso i suoi vestiti.
Si sforzò di pensare alla Patria, al fatto che se fossero riusciti ad andarsene, presto avrebbe potuto tornare a volare. Magari sarebbe anche riuscito ad ottenere quell'ultima, agognata vittoria e avrebbe ricevuto il Pour le Mérite dalle mani di Sua Maestà in persona...
Si muova! Ha paura che la morda?”
A volte il suo cinismo è sconfortante.”
L'altro non replicò. Egli si voltò come per sollecitare una risposta e si accorse di essere rimasto solo.
Sentì un brivido ghiacciato percorrergli la schiena, non tanto per il poveretto accasciato nel fosso, quanto per il fatto che l'altro se n'era andato. Per quanto si ripetesse che l'agente segreto non avrebbe potuto scappare da nessuna parte – perlomeno con un aereo – senza di lui, il fatto che fosse sgusciato via nel più totale silenzio gli evocava una sorda angoscia.
Chi poteva dire cos'era in grado di inventarsi quel demonio, appropriatamente soprannominato Lupo Mannaro? Per quel che ne sapeva, poteva anche essersi messo d'accordo con il suo avversario, i doppiogiochisti non erano poi una specie così rara fra le spie. Oppure poteva aver deciso di proseguire da solo, lasciandolo indietro dopo aver stabilito che era solo un'inutile zavorra.
Continuò a spogliare il morto, ringraziando che il buio gli impedisse di vedere la sua faccia.

Era impegnato nel farsi passare la camicia sulle spalle doloranti quando la vista di un'altra sagoma in avvicinamento lo pietrificò.
Elmetto a padella, moschetto, passo tranquillo. Quello che si stagliava contro il debole chiarore lunare era un soldato inglese.
Di nuovo l'angoscia gli serrò il petto. Che fare? Appiattirsi nel fosso sperando che il soldato passasse oltre? Saltare su e cercare di abbatterlo? Fingere di essere un inglese? Con il suo accento tedesco non avrebbe ingannato nemmeno un sordo.
Ripensò a quello che l'aveva interrogato: se l'avessero preso, lo avrebbero sicuramente riportato da lui. Visto che non possedeva informazioni da dargli, cosa gli avrebbe fatto? Lo avrebbe considerato prigioniero di guerra o lo avrebbe fatto fucilare come spia?
Pur immerso in quelle ansiose considerazioni, notò che l'uomo era immobile più o meno dove si era fermato l'altro, e si stava guardando lentamente intorno. Si chiese se stesse cercando il commilitone.
Attese.
La camicia ancora a metà della schiena, osava a malapena respirare. Tante volte aveva sentito raccontare che la lepre, restando immobile, ingannava persino i segugi, che le passavano a un palmo di distanza e non si accorgevano della sua presenza. Si augurò che la stessa cosa fosse valida anche per gli umani.
L'uomo fece un passo avanti.
Egli si decise in un attimo. Saltò su ignorando il dolore e gli si lanciò contro, solo per trovarsi una frazione di secondo dopo col dorso a terra, una mano sulla gola e l'altra sulla bocca, a soffocare il lamento che il duro impatto con il suolo gli aveva suscitato.
Smetta di fare lo stupido,” lo redarguì l'agente segreto.
Mi sta facendo male,” protestò von Knobelsdorff, divincolandosi per liberarsi dalla stretta.
C'è chi gliene farà molto di più, se non riusciamo ad andarcene da qui.”

Camminando uno accanto all’altro con passo misurato, si avvicinarono all'hangar principale.
Von Knobelsdorff fissava di tanto in tanto di sottecchi la pista, o perlomeno il sipario di buio dietro cui immaginava si trovasse la pista. E se avesse sbagliato direzione? E se avesse sfasciato il carrello in una buca? Se avesse staccato troppo tardi e fosse finito sugli alberi?
Concluse che era inutile pensare a tutte quelle eventualità. Del resto, anche quando decollava per i normali voli di guerra, lo faceva con un larghissimo margine di rischio.
Stava forse a preoccuparsi, in quei frangenti, degli inglesi che avrebbero potuto sparargli, dei guasti meccanici o di altre faccende del genere?
Ovviamente no.
Dietro il portellone dell'hangar si indovinava una debole luce, segno che qualche meccanico stava già lavorando sui motori.
Quella constatazione, unita al vago odore di benzina che si cominciava a percepire e al battere familiare di un martello su qualcosa di metallico, ebbe il potere di dissolvere ogni sua inquietudine.
Lo pervase una freddezza pacata, atarassica, che quasi fece scomparire il dolore che fino a quel momento gli aveva spedito a ogni passo brividi ghiacciati in tutte le membra.
Fecero scorrere la porta quel tanto da infilarsi dentro.
Il martellare si interruppe. “Chiudi!” urlò qualcuno, poi il lavoro riprese.
Il tenente gettò un rapido sguardo intorno: dei Sopwith Pup, dei Bristol Scout e un ricognitore RE8. Indicò l’ultimo all’agente segreto e annuì un paio di volte.
L’altro annuì a sua volta, poi scivolò silenzioso verso il banco officina.
L’ufficiale non si mosse. Sapeva cosa sarebbe successo, ma uccidere i soldati nemici faceva parte della guerra e del resto c’era poca differenza tra il pilota che premeva il grilletto della mitragliatrice e l’armiere che gliela metteva in condizioni di sparare. Entrambi combattevano contro la Germania.
Udì un breve tramestio, un tintinnare metallico al suolo e il rumore di qualcosa di pesante che veniva trascinato. Dopo qualche secondo ricomparve l’agente segreto. “Fatto,” annunciò conciso.
Il tenente annuì. Si avvicinò all’aereo, ne percorse la struttura alla ricerca del tappo del serbatoio e quando lo ebbe trovato, lo svitò e vi guardò dentro. “Serve benzina,” disse poi. Si guardò intorno e individuò un barile di metallo montato su un supporto a ruote, già munito della pompa di estrazione. “Quello.”
Travasarono il carburante. L’agente segreto a quel punto occhieggiò le mitragliatrici e chiese: “Sono cariche quelle?”
No, vengono caricate poco prima della missione, per evitare inceppamenti.”
Meglio provvedere, allora.”
Il tenente individuò le casse di munizioni. Da una parte non avevano tempo, ma dall’altra in effetti non piaceva neanche a lui l’idea di essere in volo senza nemmeno una fionda per difendersi.
Caricarono tutte le armi, poi il tenente tolse i tacchi da sotto le ruote e andò a recuperare le cuffie e gli occhiali che i meccanici usavano per i voli di prova.
Quando tutto fu pronto, egli disse: “Ora mi stia bene a sentire: apriamo le porte dell’hangar senza far rumore, poi io salgo su. Quando le dico ‘contatto’, lei deve dare un colpo all’elica.” Si interruppe per mimare il gesto. “Ma sia svelto a tirare via le mani, se non vuole trovarsele amputate. Poi salga dietro e lasci fare a me.”
L’agente segreto annuì. “Va bene.”
Il colpo deve essere energico. Pensa di farcela con quella ferita al fianco?”
Sì.”
Sicuro? Se il motore si ingolfa rimaniamo bloccati qui come due idioti.”
L’uomo gli rivolse uno sguardo tagliente e gli chiese: “Vede alternative?”
Andiamo ad aprire l’hangar,” disse il tenente per tutta risposta.

Il portellone spalancato era come una voragine sul nulla. Dopo la pur debole luce dell’interno, si stentava a credere che al di là ci fosse altro che un infinito abisso di buio.
Von Knobelsdorff rivolse un ultimo sguardo all’agente segreto, si accertò che si fosse collocato nella posizione corretta davanti all’elica, quindi si arrampicò nell’abitacolo.
Contatto!” esclamò sporgendosi da una parte.
L’uomo afferrò una pala e la spinse verso il basso. L’elica diede due o tre giri, il motore tossì un paio di volte, poi si fermò.
Il tenente si obbligò a rimanere calmo. Forse non sa quanta forza ci vuole, si disse, forse è rimasto spiazzato.
Contatto!” ripeté.
L’elica diede un solo giro svogliato, poi si fermò. Cominciarono a levarsi vapori di benzina.
Merda, pensò von Knobelsdorff, riconoscendo i sintomi di un imminente ingolfamento. Si sporse di lato e disse: “Riproviamo, ci metta tutta la sua forza: contatto!”
In quel momento apparve nel vano della porta un uomo in borghese, dalla faccia pallida, con i capelli neri. Stringeva in mano una pistola.
Contatto!” ripeté ansiosamente l’ufficiale.
L’altro diede il terzo colpo all’elica. Il motore tossì un paio di volte ed emise un pennacchio di fumo biancastro. Per un attimo sembrò volersi fermare di nuovo, ma subito dopo cominciò a funzionare regolarmente.
Von Knobeldsorff aumentò i giri, si udì uno sparo e dall’aereo accanto all’RE8 schizzarono via schegge di legno. L’agente segreto aggirò di corsa la semiala, vi balzò sopra e si lasciò cadere nell’abitacolo dell’osservatore.
Il tenente diede tutta manetta, il rombo del motore si fece assordante e l’aereo si lanciò in avanti.


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Capitolo 12
*** Capitolo 8 - Prima parte ***


Gente mia,
nonostante la tecnologia abbia tentato a più riprese di rivoltarsi contro di me, ecco che vi posto il solito mappazzone settimanale.
Come sempre un immenso ringraziamento a chi mi sta seguendo.






Capitolo 8

L'inglese era proprio di fronte a loro. Bilanciato sui due piedi, profilato, impugnava la pistola con una mano e sembrava un duellante d'altri tempi.
Il tenente capì che stava sparando più che altro dai lampi gialli che baluginavano dalla canna, perché ogni altro suono era soverchiato dal rombo del motore a pieni giri.
Una scintilla sprizzò dalla culatta della Vickers, segno che un proiettile l'aveva colpita, poi l'inglese fu costretto a saltare indietro per evitare di essere travolto.
Von Knobelsdorff lo vide bilanciarsi nuovamente sulle gambe e mirare a lui, per un istante si trovarono anche occhi negli occhi.
Poi l'aereo passò oltre e il tenente si trovò a fronteggiare l'immensa distesa buia della pista.
Fece prendere velocità all'RE8. Chiuse gli occhi e lasciò che l'istinto per il volo prendesse il sopravvento.
Cercò di sentire quell'aereo come una parte del suo stesso corpo, lo visualizzò nella corsa di decollo, lasciando che il fremito dei comandi e l'impatto dell'aria contro il viso gli dicessero che era arrivato il momento di staccare.
L'aereo correva. Da quanto tempo? Non lo sapeva.
Inspirò, cercò di fare il vuoto in mente.
Non adesso...
L'aria era ormai uno schiaffo brutale, la barra nella sua mano era una cosa viva, pulsante.
Non adesso...
L'aereo fece un breve sobbalzo, riprese terra, si scosse come un puledro ansioso di galoppare.
Adesso!
Tirò indietro la barra, ogni scossa e ogni vibrazione cessarono: l'RE8 era passato da grave che striscia sul terreno a entità celeste senza peso.
Sospirò di sollievo, ma mantenne desta l'attenzione. Quanto saliva quel velivolo? Quando avrebbero guadagnato la quota di crociera? Era il caso di ridurre i giri o era meglio aspettare? Cercò di distinguere qualcosa nel cruscotto, ma anche quello era un abisso di buio, nel quale la debole luminescenza verde dei quadranti sembrava il barbaglio di pesci in acque profonde.
Si affidò nuovamente all'istinto. Guardò fuori, vide in lontananza dei bagliori rossi e aranciati. “Il fronte,” disse a voce alta, ricordandosi solo dopo che l'uomo alle sue spalle non poteva sentirlo.
Stabilì che la quota era sufficiente, livellò e ridusse i giri fino a che un suo orecchio interiore non si dichiarò soddisfatto.
A quel punto osservò di nuovo l'orizzonte. Il cielo era ancora nero, ma gli sembrava di cogliere da una parte qualcosa come un vago chiarore. Stabilì che quello era l'est.
In lontananza si vedeva un ribollire rossastro da fucina, nel quale talvolta esplodevano fontane di un bianco accecante, che lasciavano poi ricadere ad arco vividi zampilli.
Chiuse gli occhi e per un istante rivide quegli stessi disegni, violacei, dietro le palpebre.
Si guardò intorno come d'abitudine. Stava per girarsi verso l'agente segreto quando un'angosciante sensazione di allarme lo invase: odore di benzina.
Annusò di nuovo, pregando di essersi sbagliato, ma allo stesso tempo consapevole che nessun pilota avrebbe mai potuto sbagliarsi su una faccenda del genere. Il risultato infatti fu lo stesso: benzina.
Sicuramente uno dei proiettili dell'inglese aveva bucato un serbatoio.
Strinse le labbra. Non c'era molto da fare, obiettivamente, a parte continuare a volare sperando che l'aereo non prendesse fuoco e che il carburante rimasto fosse sufficiente a farli arrivare in territorio tedesco.
Riguardò il susseguirsi di fiamme e deflagrazioni che segnava la linea del fronte, diede motore e salì di quota: almeno avrebbe avuto più margine per un'eventuale planata.
Livellò quando i bagliori delle esplosioni erano ridotti a un vago luccichio come di sole sull'acqua, poi si chiese quanto carburante fosse rimasto. Gli indicatori non si vedevano e l'istinto del volo, così utile per staccare al momento giusto o compensare il vento al traverso, era purtroppo del tutto inutile per dirimere questioni tecniche come la quantità di benzina presente nei serbatoi.
Guardò di nuovo verso l'orizzonte, alla ricerca di un'agognata striscia di luce. Decollare al buio, dopotutto, non era impossibile. Tutt'altra cosa, ovviamente, sarebbe stata atterrare, verosimilmente su un campo non preparato – campo che prima avrebbe anche dovuto individuare – forse senza benzina e magari, per colmo di sfortuna, anche bersagliato dalla fucileria tedesca, perché nelle trincee l'avrebbero scambiato per un nemico.

L'odore di benzina andava e veniva. A tratti era più intenso, tanto da far temere un imminente incendio, a tratti invece quasi scompariva, soverchiato dal vento che invadeva l'abitacolo.
Probabilmente lo stillicidio non finiva direttamente sul motore, ma in ogni caso persisteva, e stava vuotando pian piano il serbatoio.
Von Knobelsdorff regolò per l'ennesima volta quel che poteva dei parametri del volo, poi fissò di nuovo l'orizzonte, dove stava svogliatamente accendendosi una luminescenza aranciata. Guardando con attenzione, si cominciava già a percepire qualche corrugamento viola o grigiastro nel nero prima uniforme del suolo.
Il motore tossì. Un sussulto quasi impercettibile, che però a lui parve forte come un colpo di cannone.
Si guardò ansiosamente intorno, calcolò quale fosse più o meno la distanza dal fronte e cominciò a impostare un’eventuale planata.
Il motore tossì di nuovo, l’aereo ebbe un sussulto.
Von Knobelsdorff percepì un tocco sulla spalla. Capì che l’agente segreto stava dicendo qualcosa, ma non riuscì ad afferrare cosa. Immaginò che stesse chiedendo se c’erano problemi.
La benzina!” urlò in risposta, con quanto fiato aveva in gola “Benzina! Poca benzina!”
Poi il motore emise un'altra serie di singhiozzi ed egli dovette abbandonare lo scambio per dedicarsi a questioni più urgenti.
L'uomo del resto non era l'ultimo degli stupidi, non ci avrebbe messo molto a capire qual era il problema.

All’orizzonte comparvero i primi raggi di luce. A terra non si vedeva ancora praticamente nulla, ma il colore del cielo stava passando dal nero al blu scuro. A una a una, le stelle scomparivano.
Il ribollire igneo del fronte, che col buio gli aveva ricordato i fiumi di lava incandescente di un vulcano, andava pian piano trasformandosi in dense nubi di fumo, sotto le quali covava un rosseggiare come di braci.
Le vivide fontane bianche, di una terribile bellezza nelle tenebre, stavano diventando sbiaditi archi giallastri.
Il motore calò di giri, tossì, si riprese sputacchiando. Egli tentò di inclinare l’aereo alla ricerca delle ultime gocce di benzina, ma dopo pochi secondi l’elica si fermò.
Merda!” imprecò fra i denti. Nel silenzio irreale che era calato, sembrò che lo stesse urlando. Diede un'altra occhiata alla linea del fronte, cercando di calcolarne la distanza. Non era una riga tracciata con la penna, ovviamente, ma un'estensione più o meno ampia di cosiddetta terra di nessuno, delimitata dalle trincee dei due schieramenti. La dimensione di quello spazio poteva fare la differenza.
Guardò di nuovo, ma non si arrischiò a perdere preziosi metri di quota per avere un punto di vista migliore. In ogni caso, ragionò, a parte sfruttare al massimo la planata c'era ben poco da fare.
Si concentrò sull'aereo. L'RE8 sembrava comportarsi abbastanza bene, era stabile e scendeva molto più adagio del suo Albatros, grazie alle ampie superfici alari. Per agire sui comandi bastava qualche tocco su barra e pedali.
L'agente segreto sedeva silenzioso alle sue spalle, senza disturbarlo con domande futili.
Tutto sembrava procedere, se non nel modo migliore, almeno in quello più accettabile. Egli si sentì pervadere, per la prima volta da quando era stato abbattuto con l'agente segreto a bordo due giorni prima, da un cauto ottimismo.

Poi la semiala destra esplose. Ci furono un lampo giallo e uno schianto, la struttura si disintegrò in un delirio di schegge di legno, brandelli di tela e cavi d'acciaio. L'aereo fuori controllo si rovesciò e cominciò a precipitare.
Von Knobelsdorff cercò per prima cosa di rimettere il velivolo in un assetto decente, cosa che gli riuscì solo dopo un tempo che gli parve interminabile. Quando l'RE8 interruppe la caduta, avevano perso decine di metri di quota e, seppur più lentamente, continuavano a perderne. Si trovavano ancora dietro le linee inglesi. Se avessero toccato terra lì, sarebbe stata la prigionia assicurata, sempre che non fossero stati fucilati sul posto come spie.
Un altro colpo gli passò così vicino che l'aereo vibrò. Evidentemente c'era un anonimo artigliere tedesco che aveva deciso di usare il ricognitore inglese per fare il tiro al bersaglio. In altre occasioni avrebbe sicuramente lodato la precisione e la perseveranza del militare, ma in quel frangente maledisse tanto zelo.
Ormai l'RE8 era così basso che sporgendosi di lato riusciva a distinguere i reticolati. Sotto l'aereo sfilavano le postazioni inglesi; dapprima i ridotti, i depositi, le cucine da campo e le salmerie, poi le trincee arretrate e infine la prima linea. Al suo passaggio, i soldati agitavano le braccia.
Notò che quell'avvicinamento a motori spenti stava mettendo tutti in allarme. Ovviamente gli inglesi vedevano un loro apparecchio in difficoltà e poteva scommettere che si sarebbero attivati per salvarlo. Probabilmente si erano fatti l'idea che lui fosse morto o ferito, e che per tale motivo, invece di atterrare al sicuro dietro le linee, stesse caparbiamente procedendo verso le trincee tedesche.
Rivolse un fugace pensiero all'agente segreto alle sue spalle, ebbe quasi l'idea di chiedergli cosa sarebbe stato meglio fare una volta a terra, ma subito dopo dovette concentrarsi sul volo, la cui difficoltà richiedeva tutta la sua attenzione.

Il terreno, un brullo susseguirsi di avvallamenti e crateri, si stava avvicinando con allarmante velocità.
Ancora una volta il tenente si sporse di lato per controllare la posizione del velivolo: si era lasciato alle spalle la prima linea inglese e riusciva già a vedere, forse a duecento metri di distanza, le trincee tedesche.
Sotto di lui scorrevano matasse di filo spinato e detriti. Il suolo ormai era a pochi metri, l'aereo arrancava sorto, costringendolo a continue manovre di correzione.
Infine toccò terra con la punta della semiala sana, rimbalzò, toccò di nuovo e si udì lo schianto del carrello che cedeva.
L'RE8 si accasciò su un lato e per un po' continuò a strisciare lasciandosi dietro pezzi della centinatura e del rivestimento alare. Infine si arrestò in un silenzio irreale.
Tutto bene?” chiese il tenente, ma non ricevette risposta.
Fece per girarsi verso l'agente segreto, ma una serie di clamori lo costrinsero a dedicare immediata attenzione a ciò che stava accadendo al di fuori.
Una pattuglia di inglesi si stava avvicinando, con l'ovvio intento di salvarli.
Si sentì gelare. Diede un'occhiata tutt'intorno, ma non c'era nulla che potesse fungere da nascondiglio. Le linee tedesche erano ancora lontane, o perlomeno erano più lontane della squadra in avvicinamento. “Abbiamo un problema,” disse, ma ancora una volta non ottenne risposta.
Ansiosamente si chiese dove fosse l'agente segreto: era morto durante l'atterraggio? La ferita si era riaperta? Lo immaginò esanime, fradicio del proprio sangue, penzolante dalle cinture di sicurezza.
Signore,” tentò, “signore, mi sente? Dobbiamo andarcene subito.” Si girò, ma l'abitacolo era vuoto.
Pensieri di ogni genere gli saettarono in mente. Era davvero morto? Caduto dall'aeroplano? Era scappato lasciando indietro lui, come esca per gli inglesi?
L'ultima ipotesi gli parve la più probabile. Certo, non aveva più bisogno di un pilota. Tanto valeva sacrificarlo per coprirsi la fuga.
Lo invase qualcosa di molto simile allo sdegno, soppiantato subito dopo dalla pressante necessità di trovare un modo per cavarsi comunque d'impaccio.
Sentì il tramestio dei passi in avvicinamento. In inglese qualcuno domandò: “Ehi, amico, tutto bene?”
Qualcun altro disse: “Per me è morto.”
La voce di prima insisté: “Ehi? Mi sente?”
Von Knobelsdorff non sapeva che fare. Non aveva armi, tanto per cominciare. Era nel bel mezzo di uno spazio aperto, dove qualcuno dotato di fucile avrebbe potuto fare su di lui un comodo tiro al coniglio. Era stremato, ferito, faticava a reggersi in piedi.
Tuttavia gli ripugnava l'idea di lasciarsi catturare come un animale preso al laccio. Scrutò ansiosamente nella cabina, alla ricerca di qualcosa che potesse fungere da arma. Osservò con nostalgia le due mitragliatrici Vickers ormai inutilizzabili.
Poi sentì qualcosa come un debole gemito fuori dall'aereo. “Ma che diavolo...?” sbottò qualcuno, poi la frase si interruppe.
Ci furono colpi soffocati, un rumore come di rami secchi che si spezzavano.
Calò il silenzio.
Il tenente si issò in piedi con fatica. Strizzò gli occhi per allontanare un capogiro e cercò di mettere a fuoco quello che lo circondava. I soldati inglesi erano a terra. Altri soldati si stavano avvicinando, ma erano vestiti in grigioverde.
Lungi dal sospirare di sollievo, alzò le mani quanto più poteva ed esclamò: “Non sparate, sono un ufficiale tedesco!”
I nuovi arrivati si arrestarono. Senza abbassare il moschetto, il più avanzato di essi, un caporale, chiese: “Prego?”
Immobile, von Knobelsdorff ripeté: “Sono un ufficiale tedesco.”
Ma certo, e io sono il Kaiser.” Il fucile non si spostò di un millimetro.
Mi chiamo Maximilian von Knobelsdorff, sono tenente del Terzo Ulani, attualmente in forza alla Jasta 6 con mansione di pilota.”
Il 98K continuava a puntarlo. “Come mai parla così bene tedesco?” chiese il graduato.
Perché sono tedesco, maledizione!”
Con quell'uniforme? A bordo di un ricognitore con le torte rosse e blu[1]?”
Mi faccia parlare con un ufficiale!”
Può giurarci che parlerà con un ufficiale,” replicò asciutto l'altro. Poi, rivolto ai suoi uomini: “Tirate giù quella spia inglese dall'aereo.”

Il tenente lasciò che i soldati lo sollevassero quasi di peso. Un po' perché non voleva innervosirli con mosse troppo brusche, ma un po' anche perché obiettivamente faceva sempre più fatica a reggersi in piedi.
Gli sembrava di essere costantemente sdraiato sulla tavola di chiodi di un fachiro, gli bastava fare un respiro un po' più profondo del normale per avere l'impressione che qualcuno gli stesse strappando brani di pelle dal dorso.
Un paio di volte gemette anche, al tocco rude dei soldati. Poi qualcuno avvisò: “Ehi, perde sangue. È ferito!”
Von Knobelsdorff avrebbe voluto replicare, ma le cose stavano cominciando a diventare sempre più confuse. L'ultimo pensiero coerente che riuscì a formulare fu che forse la felicità di trovarsi finalmente in mani tedesche lo stava inducendo all'abbandono, poi tutto si fece nero.

§

Quando il tenente riaprì gli occhi, la prima cosa che vide fu una parete formata da assi di legno grezze, dietro cui si indovinava la presenza di terra battuta. L’ambiente in cui si trovava era rischiarato da una fioca luce giallastra, come di una candela o una lampada a olio; nell’aria c’erano vari odori, tra cui medicinali, grasso per armi e panno militare.
Si accorse che si trovava su una branda, disteso su un fianco. Qualcuno gli aveva tolto la giubba e la camicia, ma a quanto pareva non aveva toccato le medicazioni di fortuna che gli aveva fatto l’agente segreto.
Si chiese dove fosse finito il suo misterioso compagno, e una strana fitta di nostalgia lo pungolò.
Cercò di sollevarsi su un gomito per guardarsi intorno, ma era troppo debole e dovette rinunciare. Al suo movimento, però, una figura gli si avvicinò. “Mi capisce?” chiese un capitano medico, entrando nel suo campo visivo.
Ovvio che la capisco,” ansò il giovane con voce roca, “sono tedesco.”
L’altro sollevò le sopracciglia. “È tedesco?” ripeté perplesso.
Tenente Maximilian von Knobelsdorff, Terzo Ulani, in forza alla Jasta 6 con mansioni di pilota da caccia.”
Il capitano lo fissò perplesso per qualche secondo, quindi chiese: “Come posso essere certo che lei non mi stia mentendo?”
Si metta in contatto con il maggiore Heinrich von Stade, comandante della Jasta 6. Gli dica di venire qui, sarà lui a confermarle la mia identità.”
L’altro sembrava comunque poco convinto da quelle referenze. Arretrò appena sullo sgabello, come per avere un diverso punto di vista su di lui, poi lo fissò pensoso, prendendosi il mento fra le dita. Infine chiese: “Se lei, come dice, è un pilota tedesco, come mai si trovava su un ricognitore inglese, con addosso un’uniforme inglese?”
Sono informazioni che non posso darle.”
Il capitano non replicò. Si alzò in piedi, aggirò la sua branda e tirò giù le coperte che gli avevano steso addosso. Per un po’ rimase a osservare in silenzio, toccando con delicatezza qua e là, poi disse: “Queste sono sevizie.” Non era una domanda, ma una pacata constatazione. “Ho visto cose simili nel Tanganica,” soggiunse poi.
A quel punto tacque, quasi aspettandosi che von Knobelsdorff gli fornisse qualche spiegazione, ma il tenente mantenne a sua volta il silenzio.
Non sapeva in effetti se gli fosse consentito parlare di certe cose o no, ma vista la maniacale attenzione che tutti gli appartenenti ai servizi segreti mettevano nel non far trapelare informazioni, ritenne opportuno non rivelare nulla.
Percepì che il capitano medico gli stava di nuovo toccando il dorso, una pressione un po’ più intensa in un punto lo fece gemere di dolore.
Le bende sono attaccate alle ferite,” lo sentì dire. “Non ha avuto molta cura della sua medicazione.”
Von Knobelsdorff evitò di spiegargli come aveva trascorso le ultime quarantotto ore.
Il capitano si alzò in piedi. Aggirò nuovamente la branda, si affacciò a una porta e chiamò: “Venga qui, Scharnowski.”
Si presentò un caporale della sanità, che si mise sull’attenti e scandì: “Agli ordini, signor capitano medico!”
Scharnowski, tolga questa medicazione.”
Il graduato raggiunse il superiore, rimase in silenzio per qualche secondo, evidentemente valutando la situazione, poi disse: “Ci vorrà della morfina, signor capitano medico.”
Gliela somministri. Dieci milligrammi endovena.”
Signorsì.”
Il tenente seguì con lo sguardo il caporale che preparava la siringa e la metteva in un'arcella assieme al laccio emostatico e a un batuffolo di ovatta.
Gli porse il braccio con sollievo, quasi felice alla prospettiva di qualche ora di sonno senza preoccupazioni.

I primi raggi del sole trasformano il prato in una scintillante distesa di cristallo. Proprio davanti ai suoi occhi, scorrono sugli steli gocce di rugiada che sembrano perle e diamanti. Egli allunga la mano, le sfiora con le dita. Una di esse gli rotola sulla pelle lasciandosi dietro una scia lucente.
Stringe appena gli occhi. Oltre quel tripudio di gemme trasparenti, il cielo è una cupola tersa. Nella calma di vento, i fumi scuri salgono lenti e dritti, ricordandogli tante colonne.
Gli tornano in mente i versi di una canzone: Aurora, aurora, illumina la mia giovane morte[2].
Ricorda un assalto. Il tuonare degli zoccoli, il vento sul viso, il tumulto del sangue. Il sole sulla punta della lancia.
La pianura è disseminata di crateri, poco lontano vi è l'affusto di un cannone. Passa lento un cavallo, la testa china a brucare, i raggi rosati che accendono d'oro e d'arancio il suo lucido manto corvino.
Rievoca altri versi della vecchia canzone: solo ieri alto in sella, oggi colpito al petto, domani nella fredda tomba.
Nella fredda tomba, si ripete, e tutto gli sembra, quel margine di foresta cosparso di gemme, tranne che un sepolcro. I germogli giovani delle querce crescono su rami antichi, le foglie dell'anno precedente muoiono e cadono, ma l'albero è sempre lì.
Forse è quello il senso della battaglia, pensa, il senso del sacrificio. Morire perché la Patria viva.
A passi lenti, emergendo man mano dalla foschia del primo mattino, si avvicina qualcuno. È un giovane uomo in uniforme di cui non riesce a distinguere i lineamenti, alto e snello. Lo raggiunge e si ferma a pochi passi di distanza.
Egli lo fissa, ma è come se avesse il sole dritto negli occhi: la luce intensa lo costringe a distogliere lo sguardo. “Chi è lei?” chiede comunque.
Il nuovo arrivato rimane a fissarlo muto per qualche secondo. “Reiner,” risponde infine.
Reiner,” fa eco lui, pensoso. Il nome gli dice qualcosa. “Reiner, chi?”
L'altro si china adagio e quando il suo volto diventa visibile, egli si accorge che è come guardarsi in un specchio. Ha i suoi stessi lineamenti.
Il nuovo arrivato sorride appena al suo stupore, poi gli sussurra: “Si muore per rinascere. Diglielo.”
Prima che lui possa replicare, Reiner si alza e prende ad allontanarsi lentamente. Raggiunge il morello, che ha smesso di brucare e lo sta fissando con aspettativa, gli monta in sella e trotta via, scomparendo nella foschia luminosa dell'alba.









[1] La “torta” è colloquialmente il distintivo di nazionalità rotondo (coccarda) che si trova su ali e fusoliera degli aerei di determinate nazioni (ad esempio Inghilterra, Francia e Italia).
[2] Reiters Morgenlied, canzone tradizionale della cavalleria tedesca.

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Capitolo 13
*** Capitolo 8 - Seconda parte ***


Carissimi lettori e lettrici,
ecco qui un altro po’ di mappazzone, spero che non vi sia ancora venuto a noia.
Come sempre vi ringrazio per il vostro costante sostegno e vi auguro buona lettura^^







Quando von Knobelsdorff riaprì gli occhi, seduto sullo sgabello c'era un ufficiale diverso dal capitano medico.
Era un tizio che poteva avere forse trent’anni, di corporatura poderosa, probabilmente altissimo. Rannicchiato sul piccolo sedile, dava l'idea di riempire completamente il ridotto con le sue enormi spalle.
Maggiore Klaus Wrede,” si presentò, tendendo una mano larga come una vanga da trincea.
Il giovane la intercettò con la propria, che vi scomparve dentro come quella di un bambino, e sua volta si presentò: “Tenente Maximilian von Knobelsdorff.”
Ha sete, tenente? Vuole bere un po’ d’acqua?”
Egli annuì. “Sì, per favore.” Con un riflesso involontario provò a deglutire, ma il movimento rimase a metà.
L’altro lo prese per le spalle e lo sollevò come avrebbe fatto con un gatto, aiutandolo a mettersi seduto. Gli porse a quel punto un bicchiere di latta e gli chiese: “Ce la fa da solo?”
Von Knobelsdorff, che malgrado ogni proposito di dignità e compostezza non aveva occhi che per l’agognato liquido, lo prese con due mani e se lo portò alle labbra.
Lo vuotò d’un fiato.
Ancora?” chiese Wrede.
Sì, grazie.”
Mentre si dissetava, von Knobelsdorff si accorse di avere due vistose medicazioni ai polsi. Portò una mano a toccarsi cautamente la schiena e percepì anche quella coperta di garza.
Il maggiore attirò la sua attenzione: “E così, lei è un ulano.”
Sissignore.”
E un pilota da caccia.”
Sissignore.”
L’altro si mosse sullo sgabello, che scricchiolò sotto il suo peso, poi disse: “Cavalleria. Anche a me sarebbe piaciuto, sa? E non parliamo degli aeroplani.”
Il tenente non replicò: forse quel gigantesco ufficiale sarebbe potuto entrare nella Garde du Corps, posto che avesse anche gli altri requisiti necessari per far parte di quell'unità d'élite, ma di certo non sarebbe mai riuscito a infilarsi in un Albatros. Non con la pretesa di uscire vincitore da un duello aereo, almeno.
Capisco,” si limitò a dire.
Altra acqua?” propose il maggiore.
No, grazie, signore.”
Rimasero a guardarsi in silenzio. Da fuori, attutito dalle spesse pareti di terra, proveniva un tuonare sordo. A un certo punto, una detonazione particolarmente forte fece oscillare la lampada che pendeva dal soffitto.
Wrede alzò appena lo sguardo e disse: “Picchiano forte, oggi.”
Il tenente lasciò passare qualche secondo, poi chiese: “Più forte del solito, signore?”
L’altro gli rivolse uno sguardo vagamente interrogativo, alzò le spalle e noncurante rispose: “No, non direi.” Poi, dopo una pausa: “Perché?”
Von Knobelsdorff rimase in silenzio. L’impressione naturalmente era che gli inglesi volessero recuperare lui e l’agente segreto, ma appunto era solo un’impressione.
Si chiese dove fosse l’agente segreto. Ormai si era abituato a vederlo spuntare quando meno se l’aspettava, in un certo qual modo ne sentiva la mancanza.
O forse qualcosa di più di una semplice mancanza.
La voce del maggiore Wrede lo distrasse dalle sue meditazioni: “Vuole raccontarmi cosa le è successo, tenente?”
Von Knobelsdorff scosse la testa. “Non posso.”
Lo sguardo dell’altro si indurì. “Temo di non capire. Lei sta parlando con un ufficiale del suo stesso esercito, se è vero che è tedesco.”
Sono più tedesco dei Sauerkraut, ma si tratta di informazioni che non sono autorizzato a rivelare.”
Wrede annuì lentamente, quindi replicò: “Questo atteggiamento non la mette in una posizione facile. Lo sa, vero?”
Ne sono consapevole.”
Tra i due calò il silenzio.
Infine, il maggiore si alzò. Tenendosi un po' curvo per non toccare il soffitto con la testa, gli disse: “Se umanamente sarei portato a concederle fiducia, tenente, dal punto di vista militare è mio dovere dubitare delle sue parole fino a che esse non mi verranno in qualche modo confermate.”
Von Knobelsdorff annuì. “Lo capisco. L'unica cosa che posso fare è suggerirle di interpellare il mio comandante, il maggiore von Stade della Jasta 6.”
Wrede gli rivolse un'occhiata indecifrabile, poi replicò: “Non lo sapeva, tenente? Il maggiore von Stade è caduto in combattimento due giorni fa.”

§

Il palazzo dei servizi segreti britannici a Parigi non era nulla di pomposo. Tutto il contrario, anzi: era il retro di un negozio di modista, in una strada della prima periferia.
Le lettere dell’insegna erano ormai sbiadite. Nella vetrina un po' polverosa c'era solo un tristo assortimento di cappellini e borsette fuori moda. La commessa – in realtà una delle loro agenti – era una megera dall’aria burbera, per evitare che a qualche ingenua cliente venisse comunque l'idea di entrare a curiosare.
The Bishop sostò qualche istante dall'altra parte della strada, dandosi l'aria di non essere minimamente interessato a quella mesta esposizione, poi attraversò con passo misurato, si guardò fugacemente intorno e si infilò rapido nel vicolo che si apriva accanto al negozietto.
Il selciato era sconnesso, al centro della carreggiata correva un rigagnolo d'acqua che scompariva in un tombino poco lontano. Dalle finestre pendevano festoni di panni stesi.
Da qualche parte, una voce femminile stava cantando Quand Madelon.[1]
The Bishop si fermò ad ascoltare assorto per qualche secondo, poi svoltò in un vicolo ancora più angusto. Raggiunse una porta dall'aria anonima, con la vernice un po' scrostata. Bussò un paio di volte.
Dall'altra parte, qualcuno chiese: “Chi è?”
Sono qui per la caldaia,” rispose.
Chi l'ha chiamata?”
La signorina del negozio. C'è stata una perdita.”
L'udito fine dell'agente colse il ben lubrificato scatto di vari chiavistelli.
Entrò in un androne in penombra, salutò chi gli aveva aperto la porta, poi a voce più alta disse: “Salve a tutti!”
Da alcune feritoie mascherate nel muro provennero varie risposte.
Sapeva che quelle aperture permettevano a osservatori e fotografi, ma soprattutto a tiratori scelti, di tenere d’occhio quello che succedeva nella stanza. Immaginò il Werwolf in quello stesso androne, esattamente nella posizione in cui si trovava lui in quel momento, e un sorrisetto gli stirò le labbra. “C’è il capo?” chiese.
È di là,” giunse la risposta, da una delle feritoie.
Da un’altra provenne: “Fatto buona caccia?”
The Bishop rispose con un'alzata di spalle, poi si diresse a un corridoio, lo imboccò e lo percorse fino a una porta chiusa. Vi si fermò di fronte.
Dall’altra parte provenne: “Avanti!”
Egli abbassò la maniglia, l’anta cedette senza rumore.
Al di là vi era un ufficio. Lungo una delle pareti correva una mensola su cui si trovavano apparecchi telegrafici e telefoni, su quella opposta c’erano schedari e armadi per documenti.
Al centro si trovava una scrivania dietro cui sedeva quello che a prima vista si sarebbe detto l’anonimo contabile di una piccola impresa: né magro né grasso, né vecchio né giovane, occhiali tondi cerchiati di metallo, incipiente calvizie, abiti modesti. Nessun segno particolare, nessuna caratteristica che attirasse una seconda occhiata.
Eppure the Bishop sapeva bene che quell'ometto dall'aria insignificante era maestro di almeno quattro arti marziali, era uno schermidore eccezionale e un tiratore altrettanto pericoloso.
Malcolm, ragazzo mio,” lo accolse questi. Gli indicò la sedia che si trovava davanti alla scrivania.
C'ero quasi,” sospirò l'agente segreto prendendo posto. Si passò una mano sulla fronte. Praticamente non dormiva da quando aveva cominciato la caccia al Lupo Mannaro. Una volta arrivato a Parigi era riuscito a malapena a farsi una doccia e a mangiare un boccone, poi era corso a far rapporto. Poteva scommettere che il suo capo, che in quel momento lo stava guardando come il Figliol Prodigo, non fosse per nulla soddisfatto di come erano andate le cose. “È scappato,” disse semplicemente, sperando che la scarna affermazione fosse sufficiente a esaurire l'argomento. “Se n'è andato con un aeroplano.”
L'altro rimase impassibile. Raddrizzò un foglio che si trovava sul piano della scrivania, allineò le penne accanto al calamaio e si assicurò che il suddetto fosse chiuso a dovere. “Capita,” disse poi in tono pacato.
Calò un silenzio rotto solo da un vago ticchettare di strumenti. In lontananza, fioco, suonava un telefono.
Alla fine, the Bishop replicò: “Ma non doveva capitare.”
L'uomo annuì. “Te ne do atto. Potrei risponderti che ad impossibilia nemo tenetur, ma sai anche tu che non funziona così.”
Pensa che mi trasferiranno?”
L'uomo alzò le spalle. “Forse. C'è bisogno di bravi agenti in Africa e in Asia.”
The Bishop non replicò. Avrebbe potuto raccontare tutto quello che era successo da quando gli avevano trasmesso la soffiata sulla presenza del Werwolf dietro le loro linee, ma ai piani alti contavano i risultati, non l'impegno.
Non che biasimasse quell'atteggiamento, in effetti. A differenza di quella che si svolgeva nelle trincee, che comunque qualche regola la conservava, quella tra agenti segreti era davvero una guerra senza quartiere e senza esclusione di colpi. Non c'era posto per volonterosi pasticcioni.

Il dossier scorre attraverso la scrivania fino a fermarsi davanti a lui. Egli solleva lo sguardo verso l'uomo che gliel'ha consegnato, ma incontra solo un volto impenetrabile. Apre il plico di documenti, la prima fotografia che trova lo costringe ad alzare di nuovo gli occhi sul suo interlocutore.
Questi gli restituisce uno sguardo impassibile.
È sicuro?” gli chiede allora.
L'hanno fotografato mentre passava informazioni a un agente tedesco.”
Nel dossier c'è anche quell'immagine.
Come può essere certo che gli stesse passando informazioni?”
La voce dell'uomo ha il tono dell'ovvietà: “Perché una cosa che sapeva solo lui, dopo poco la sapevano anche i tedeschi.”
Egli aggrotta le sopracciglia. “Si spieghi meglio.”
Un altro documento attraversa la scrivania per arrivare fino a lui. Egli lo legge con crescente disagio: una trappola in piena regola, un ghiotto boccone passato ai servizi segreti tedeschi per avere le prove del doppio gioco portato avanti dall'agente inglese.
Quelle prove devono essere costate almeno duecento morti, riflette fra sé e sé. Ma d'altra parte, il mestiere che si è scelto è così: a volte bisogna sacrificare duecento persone per farne sopravvivere duecentomila.
Un agente segreto che vuole definirsi veramente tale deve essere in grado di spogliarsi dei sentimentalismi che affliggono la gente comune.
Riguarda il dossier: la prima fotografia che ha attirato la sua attenzione è quella di un giovanotto dall'aria spavalda, atletico, con l'elegante uniforme della cavalleria. Quel giovanotto si chiama Richard ed è stato proprio lui a selezionarlo fra innumerevoli candidati.
Perché io?” chiede.
L'altro solleva le sopracciglia, quasi stupito dalla domanda. “Ma perché era sotto la sua responsabilità, mi pare ovvio.” Fa una pausa e soggiunge: “Naturalmente le sue azioni saranno tenute sotto controllo.”
Naturalmente,” fa eco lui. “Il fatto che io possa nutrire sentimenti di affezione nei confronti del soggetto è irrilevante per voi?”
Dovrebbe esserlo per lei,” è la risposta, proferita in tono di inflessibile durezza. “Perché se non lo è, colonnello Norwood, penso che lei sia più adatto al suo reparto di provenienza, che ai servizi segreti.”

Guarda e riguarda la fotografia: un giovanotto di bell'aspetto, con lo sguardo vivace e il sorriso sfrontato di un guascone.
Si chiede chi sia stato ad avvicinarlo, su cosa abbia fatto leva per convincerlo a tradire il suo Paese. Ripercorre la composizione della sua famiglia, che ha minuziosamente vagliato prima di accettarlo come allievo, la rete dei suoi affetti, amici, fidanzate... non c'è nulla su cui sia possibile esercitare pressioni.
Lusinghe, dunque, e non ricatti?
Che cosa gli avrà promesso, l'agente che l'ha contattato? Soldi? Potere? Che altro?
Decide di seguirlo. Il ragazzo è ancora per certi aspetti inesperto, e per quanto durante certi spostamenti si guardi alle spalle, essenzialmente non sa su cosa sia più opportuno fissare l'attenzione.
I primi pedinamenti sono infruttuosi, ma finalmente un giorno lo segue fino a un caffè elegante del centro. Si nasconde lì vicino. Il giovanotto entra, parla con il cameriere e poi si accomoda in una zona un po' appartata. Ordina qualcosa, e il vassoio che dopo poco gli viene deposto sul tavolino contiene un servizio per due persone.
Aspetta.
Anche Richard, là seduto, aspetta. Prende qualcosa da un piattino, lo mangia. Si muove sulla sedia con l'atteggiamento di un bambino impaziente.
Egli considera che sembra in preda a qualcosa di molto simile a una gioiosa aspettativa, ma al tempo stesso continua a guardarsi intorno a disagio, come consapevole di stare facendo qualcosa di sbagliato.
Aspetta ancora.
Infine vede un giovane uomo avvicinarsi al locale. È di altezza media, snello, vestito con sobria eleganza. Anche lui entra e parla con il cameriere, che subito lo conduce al tavolo di Richard.
Quando lo vede senza cappello, egli quasi trasale: è il Werwolf.
I due si scambiano uno sguardo che si presta a pochi equivoci. Il modo in cui le loro mani si sfiorano sul tavolino, poi, è ancora meno fraintendibile.
Rimane a guardarli: il Werwolf parla e Richard letteralmente si beve le sue parole, fissandolo affascinato.

Si chiede perché sia successo. Richard è omosessuale, o magari bisessuale? Sono stati insieme nelle più svariate occasioni, in intimità impensabili, a volte anche nudi. Perché non ha mai avuto il sentore di certe tendenze?
Forse il Werwolf non è un lupo mannaro, ragiona, ma un serpente, che ipnotizza le sue vittime. Fatto sta che lui e Richard sono nudi, distesi sul letto di una discreta pensioncina di campagna, impegnati in attività che lui ha persino ritegno di guardare.
Soppesa la pistola e pensa che sarà tutto molto semplice: un calcio alla porta e due colpi in testa a quel maledetto tedesco. Più altri due, per essere sicuro. Poi deciderà cosa fare di Richard, ma già sta pensando a destinazioni lontane o a discreti congedi anticipati.

Non era stato semplice per niente: al rumore della porta che si spalancava, il Werwolf si era rigirato con un colpo di reni scomparendo dietro il letto, e chi aveva intercettato le pallottole letali era stato il suo allievo.
Poi il tedesco si era dileguato e lui non aveva potuto fare altro che tenere fra le braccia il giovane, mentre agonizzava e infine spirava per le ferite che lui stesso gli aveva inferto.

Due settimane,” disse the Bishop.
L’uomo lo fissò perplesso. “Prego?”
Mi servono un paio di settimane per chiudere una questione, poi vado in Asia, in Africa o anche sulla Luna, se mi ci manda.”
L’altro scosse la testa e rispose: “Non è possibile, Malcolm: siamo in guerra. Le faccende personali non possono...”
No, niente Malcolm,” lo interruppe brusco l’agente segreto. “Io sono the Bishop, e sono il migliore agente segreto della Corona. Se mi lascia due settimane, le do la mia parola d’onore che tornerò puntualmente e poi mi metterò a sua completa disposizione. Se invece prova a fermarmi, io andrò lo stesso, ma lei dovrà trovarsi qualcun altro da spedire nelle colonie.”
Si fissarono in silenzio per un tempo che parve interminabile. Uno dei telefoni che si trovavano sulla mensola si mise a squillare, ma nessuno dei due si lasciò distrarre da quel suono improvviso.
Rimasero immobili, occhi negli occhi.
Infine lentamente, senza distogliere lo sguardo, l'uomo scandì: “Tu sei un agente segreto, Malcolm. Non mi importa se sei il migliore o il peggiore, hai comunque scelto di svolgere il tuo servizio come tale, il che significa che hai scelto di rinunciare a personalismi e paturnie sentimentali.” Fece una pausa, durante la quale la sua espressione altrimenti mite si trasformò in una lama d'acciaio, poi specificò: “Hai scelto, bada bene, non ti ha costretto nessuno. Ora però sei qui, e devi fare quello che ti viene ordinato. Non me ne faccio niente di primedonne che siccome si reputano migliori di altri pensano di poter fare ciò che vogliono. Obbedisci agli ordini o torna al tuo reparto, è tutto.”
The Bishop annuì secco. “Perfetto, ho capito,” rispose, e uscì dalla stanza.

§

Il tenente von Knobelsdorff sollevò lo sguardo verso la finestra, ampia ma attraversata da un solido reticolo di sbarre.
Il comportamento del maggiore Wrede era stato ineccepibile sotto ogni aspetto. Una volta appurato che non aveva intenzione di rivelare particolari della sua missione, l'erculeo ufficiale l'aveva fatto trasferire nelle retrovie, ovviamente agli arresti. Non gli aveva fatto mancare comunque cibo, acqua e scrupolose cure mediche. Anche se non l'aveva mandato a un ospedale da campo, un dottore andava a visitarlo ogni giorno, accompagnato da due infermieri, per controllare la guarigione delle sue ferite e rifare le medicazioni.
Si chiese cosa sarebbe successo. Una volta morto von Stade, nessuno avrebbe potuto confermare che il suo ruolo in quella strana missione era a favore della Germania.
I due agenti segreti che l'avevano istruito, la giovane donna e l'uomo allampanato, probabilmente non esistevano nemmeno, a livello formale. Poteva scommettere che nessun ufficiale superiore, lungo tutta la linea del fronte, sapesse di loro. Se anche li avesse menzionati, nel migliore dei casi non sarebbe stato creduto, oppure sarebbe stato considerato pazzo.
Man mano che passava il tempo, poi, anche le sue certezze si facevano sempre meno solide. Cos'avrebbe dovuto fare? Come sarebbe andata a finire?
Seduto sulla branda, puntò i gomiti sulle cosce e poggiò il viso tra le mani. Quando si piegava in avanti, come nel movimento che aveva appena compiuto, la schiena gli faceva male. Sentiva la pelle stirarsi e allora di solito si raddrizzava, temendo di far riaprire le ferite.
In quel frangente rimase immobile. Fissò gli occhi sul pavimento, composto da vecchie piastrelle di graniglia bigia, e rivolse il pensiero all'agente segreto.
Si chiese dove fosse, tanto per cominciare, se avesse portato a termine la sua missione. Se stesse bene, soprattutto, dal momento che quando era scomparso aveva ancora una pallottola nel fianco.
Ripensò al nome che l'uomo aveva pronunciato quando, stremato, si era abbandonato a pochi istanti di incoscienza: Reiner.
Si chiese chi fosse quel Reiner e rievocò qualcosa come uno strano dialogo, con qualcuno che aveva la sua stessa faccia. Una frase gli risuonò in mente: si muore per rinascere.
Un presagio?

Il rumore della serratura che scattava lo distolse dalle sue meditazioni.
La porta si aprì, due piantoni lo prelevarono e lo condussero lungo un corridoio, fino a una stanza ampia, illuminata da larghe finestre e quasi spoglia di mobili, a parte un tavolino e qualche sedia.
Lo lasciarono solo.
Egli fece qualche passo guardandosi intorno. L’avevano fatto uscire altre volte, ma non l’avevano mai portato in quel posto. Sui muri c'erano rari graffiti, per il resto erano immacolati, verdi fino a circa due metri d'altezza e poi bianchi. Il pavimento era della stessa graniglia bigia della cella. Il soffitto, altissimo, era a volta e dava l'idea di essere piuttosto antico.
Mentre camminava per l'enorme locale, i suoi passi echeggiavano come nella navata di una chiesa.
Si sedette al tavolino, appoggiò gli avambracci sul piano del mobile. Si guardò i polsi ancora fasciati, girò le mani con i palmi verso l'alto e strinse lentamente le dita, come per accertarsi che funzionassero ancora.
A quel punto, il rumore di una porta che si apriva spedì un riverbero di echi sul soffitto. Egli si girò in quella direzione e vide che stavano entrando due ufficiali e un uomo in borghese.
Gli ufficiali ormai li conosceva, erano un colonnello di fanteria e un maggiore degli ulani. Erano già venuti in precedenza a fargli domande sulla missione.
L’uomo in borghese invece non l’aveva mai visto.
Si alzò e si mise sull'attenti.
Comodo,” gli disse il colonnello. Lo raggiunse e propose: “Vogliamo sederci un momento?”
Sissignore.”
Il tenente prese posto.
Al lato opposto del tavolo si sistemarono gli altri tre.
Von Knobelsdorff fissò lo sguardo sul civile, che sedeva tra i due ufficiali, quindi proprio di fronte a lui: alto, legnoso, con una scriminatura centrale che sembrava un colpo d'accetta e la cicatrice della Mensur[2] sulla guancia. Portava il monocolo all'occhio destro. “Siamo qui per capire come aiutarla,” lo informò.
Allora mi faccia riprendere i voli di guerra, non chiedo altro.”
L'altro rimase impassibile. Annuì secco, quindi rispose: “Tornerà in servizio, eventualmente, quando avremo chiarito la sua posizione.”
Ho già detto tutto quello che so.”
A quelle parole fece seguito un lungo silenzio.
Infine l'uomo si tolse il monocolo, lo lucidò brevemente con un fazzoletto candido, se lo reinserì nell'orbita e disse: “Tenente, lei è arrivato di fronte alle nostre linee ai comandi di un aereo inglese, con addosso un'uniforme inglese. Racconta che stava compiendo una missione per conto dei nostri servizi segreti, ma non mi sa dire un nome o una circostanza per provare la veridicità delle sue affermazioni. Non mi sa spiegare di che genere di missione si trattasse, né sa darmi lumi sull'identità della persona che a suo dire la accompagnava. Persona di cui non è stata trovata traccia, le faccio notare.”
Il tenente annuì come per prendere atto di tutte quelle obiezioni, poi rispose: “Le ripeto, signore, che ho già riferito ogni informazione in mio possesso. Non mi è stato detto alcun nome, né dato alcun riferimento, per evitare che in caso di cattura li riferissi al nemico. Ho ricevuto l'ordine di atterrare dietro le linee in un dato punto e raccogliere una persona. Non so altro.”
E quello che è successo dopo?”
Qualcuno ci ha intercettati.”
Com'è possibile?” Il tono dava l'idea che l'uomo considerasse l'accaduto una sua precisa responsabilità.
Von Knobelsdorff si irrigidì. Fissò alternativamente i due ufficiali come aspettandosi un loro intervento, che però non giunse. Rivolse allora nuovamente lo sguardo al civile e rispose: “Posso solo formulare ipotesi, signore, e nella fattispecie ipotizzo che l'informazione sia in qualche modo trapelata.”
Alla frase fece seguito un altro lungo silenzio. L’uomo si lucidò nuovamente il monocolo, quindi lapidario proferì: “Lei non ci sta aiutando.”
Vorrei poterlo fare, signore, ma ho detto tutto quello che so.”
L’altro strinse l’occhio libero e le labbra, che divennero un taglio orizzontale nel viso granitico. Infine lentamente scandì: “Vorrei che le fosse chiaro, tenente, che se lei non ci aiuta, noi non possiamo aiutare lei. Mi spiego?”







[1] Canzone militare francese, più nota come La Madelon, molto popolare durante la Grande Guerra.
[2] Duello rituale tradizionale combattuto con sciabole affilate nelle Università dei paesi di lingua tedesca. Le cicatrici lasciate da questi combattimenti erano motivo d'orgoglio e al tempo stesso segno di istruzione universitaria.

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Capitolo 14
*** Capitolo 9 - Prima parte ***


Incliti lettori,
un altro po’ di mappazza per non perdere l’abitudine. Come sempre ringrazio tutti coloro che gentilmente passano da queste parti, anche solo per dare un’occhiatina.
Ringrazio sentitamente, anche un po’ commosso, chi addirittura mi lascia un commento. Molte grazie e, spero, buon divertimento con le disavventure del nostro pilota!^^






Capitolo 9

Il camion correva sobbalzando sulla pianura.
Von Knobelsdorff si guardò i polsi: le ferite ormai si erano rimarginate. Al loro posto erano rimaste sottili strisce rossastre, un po’ più lucide della cute circostante, come se il suo corpo avesse dovuto stiracchiare la pelle rimasta per coprire le piaghe che le corde gli avevano procurato. Il dottore aveva detto che anche quelle col tempo sarebbero scomparse.
In ogni caso, le mani si muovevano bene, era certo che entro breve sarebbe anche tornato in grado di suonare il pianoforte.
Non che gli interessasse particolarmente, suonare il pianoforte. L’aveva studiato da piccolo, ovviamente, e ogni tanto lo strimpellava ancora, con l’abitudine disinvolta delle cose che si sono imparate tanto tempo prima perché è normale impararle. Lo faceva più che altro in certe serate di baldoria con i camerati, quando a qualcuno veniva in mente di cantare.
In ogni caso preferiva la cloche alla tastiera, poco ma sicuro.
Si sistemò meglio sulla cassa di munizioni che aveva scelto come sedile. Dall’apertura posteriore del cassone rimase a guardare la strada bianca, che scorreva come una specie di nastro attraverso un paesaggio su cui la guerra aveva esatto un pesante tributo. Sui campi incolti si susseguivano i crateri lasciati dai proiettili d'artiglieria, le poche case che si vedevano erano in rovina o disabitate. Qua e là vi erano ancora tratti di filo spinato.
Quando era stato il momento di rientrare alla Jasta aveva trovato un passaggio su un camion di rifornimenti. L’autiere l’aveva invitato con deferenza a sedere in cabina, ma lui aveva rifiutato, preferendo accomodarsi dietro, in mezzo a munizioni e pezzi di ricambio.
Aveva bisogno di pensare in pace.
Ancora una volta era successo qualcosa che non riusciva a spiegarsi. Quando già si vedeva di fronte al plotone d’esecuzione, a fumare l’ultima sigaretta in attesa delle pallottole fatali, l’avevano liberato e rinviato alla sua unità d’appartenenza.
Cosa fosse accaduto, e perché, soprattutto, non gli era dato di saperlo. Aveva sempre fornito le stesse risposte alle domande dei vari interrogatori, anche perché obiettivamente non sarebbe stato in grado di fornirne altre. Fino a un certo punto non erano andate bene, poi a un tratto, non sapeva perché, la cosa era cambiata.
Niente più domande e ovviamente niente spiegazioni. Da domani riprenderà servizio, arrivederci e grazie.
Non riusciva a liberarsi della sensazione di essere un bambino che ha scoperto il trucco della lanterna magica: non c'erano figure fatate che si inseguivano sulle pareti di una stanza buia, c'erano semplicemente un proiettore con una lente, un fornellino a spirito che produceva luce e una serie di immagini stampate su vetro.
O, fuor di metafora, lo scontro uomo contro uomo – o esercito contro esercito, o aeroplano contro aeroplano – era solo l'epifenomeno di forze immani e perlopiù sconosciute, che muovevano i soldati come un burattinaio avrebbe fatto con le marionette.
Von Clausewitz, puro e semplice. E dire che l'aveva anche studiato in accademia. Il soldato esiste, si nutre e marcia unicamente per combattere al posto giusto nel momento giusto. O anche, cosa che si attagliava senza dubbio al modo di agire dell'agente segreto: la guerra è un atto di forza, e non c'è nessun limite all'uso di essa; l'una parte impone la propria legge all'altra.

L'autocarro sobbalzò, obbligandolo ad afferrare una centinatura per mantenersi in equilibrio. Ripensò alla disordinata fuga a bordo dell'ambulanza inglese e quasi si trovò ad attendere l'ormai familiare stretta sul braccio che l’uomo gli elargiva nei momenti di tensione.
Emise un sospiro.
Era sicuro che fosse stato lui a intervenire in suo favore, essenzialmente perché era l'unico che sapeva com'erano andate le cose. Come avrebbero potuto, infatti, la giovane donna o l’uomo che aveva incontrato a Berna, venire a conoscenza di quello che era successo? Ad altri ufficiali non aveva detto nulla, quindi anche se essi fossero stati a loro volta in contatto con i servizi segreti, non avrebbero potuto riferire alcunché della missione.
Era stato lui per forza.
Sulle prime gli era parso impossibile che un uomo così prosaico e freddo spendesse tempo ed energia per lui: lo strumento non più utile veniva abbandonato, senza rimpianti e senza sentimentalismi, questa era la filosofia che credeva di aver colto negli agenti segreti fino a quel momento incontrati.
Poi aveva capito che quell’uomo – il Werwolf – era tutt’altro che prosaico e freddo. Gliel’aveva dimostrato in tante occasioni, in realtà. L’aveva salvato quando avrebbe potuto lasciarlo indietro, si era preoccupato per lui, l’aveva difeso. Gli pareva che in alcune occasioni gli avesse addirittura dimostrato una tenerezza ruvida, che scaldava e rinfrancava come un sorso di vino forte.

Il paesaggio cominciò a diventargli familiare. Riconobbe una piccola macchia di alberi che la guerra aveva lasciato indenne e il laghetto dove alla fine delle giornate di volo andava a pescare o a nuotare con i camerati. Intravide in lontananza la sagoma chiara di una dimora patrizia abbandonata, danneggiata qua e là da colpi di obice, con gli stucchi ornamentali ormai anneriti e le finestre ridotte a buchi informi.
Ricordò che una volta si era addentrato in quel vecchio palazzo. Gli arredi erano stati perlopiù asportati, dalle pareti pendevano lunghi brandelli di tappezzeria. Nelle grandi stanze vuote i passi risuonavano come in un mausoleo.
Al centro di quello che doveva essere stato il salone delle feste, si era imbattuto in un pianoforte a coda. Non era stato toccato, forse perché tra tutti coloro che avevano depredato la villa, nessuno avrebbe saputo cosa farsene. Fatto sta che era là, proprio sotto una catena che una volta doveva aver sorretto un grande lampadario di cristallo.
Un po' di foglie secche, retaggio dell'autunno precedente, rotolavano frusciando sugli intarsi a palladiana, spinte da refoli di vento. Una tenda strappata ondeggiava lieve.
Affascinato da quell'insolita scenografia, si era avvicinato allo strumento. Era un gran coda da concerto, un Bösendorfer. Per quanto il pianoforte avesse sempre rappresentato per lui un fastidio che lo distoglieva dalle ben più gratificanti attività marziali, aveva provato una sensazione quasi di imbarazzo al pensiero di un oggetto di tale pregio lasciato ad ammuffire in quel modo.
Si era seduto sullo sgabello e aveva sollevato il coperchio della tastiera, mettendo a nudo il familiare alternarsi di avorio bianco e nero.
Ispirato dall'aura di lenta decadenza del luogo, aveva eseguito la sonata 'Quasi una fantasia'. Per la prima volta in vita sua, si era talmente concentrato sulla musica che solo alla fine del primo movimento si era reso conto che intorno a lui, a rispettosa distanza, si era radunato un cerchio di camerati della Jasta, soldati di fanteria e civili francesi che lo ascoltavano in un silenzio religioso.

Aprì e chiuse nuovamente le mani, strinse i pugni fin quasi a far scrocchiare le giunture. L'autocarro aveva imboccato la strada che conduceva dritto al campo, ormai erano arrivati. Sorrise fra sé e sé al pensiero di rivedere volti conosciuti e si guardò intorno alla ricerca dei suoi pochi effetti personali. Si augurò che le sue cose fossero ancora dove le aveva lasciate, nella camera al secondo piano della villa padronale che fungeva da alloggio per i piloti.
Nel posto dove l'avevano trattenuto – una via di mezzo tra una prigione e un ospedale – gli avevano dato un'uniforme tedesca senza gradi o mostrine, giusto per non lasciarlo con i panni inglesi addosso, ma aveva nostalgia della sua Ulanka[1].
Il camion rallentò fino a fermarsi. Da fuori provenne una voce che gli suscitò un empito di gioia: “È l'ora di arrivare? Sono tre giorni che aspetto i miei ricambi!”
Il tenente saltò giù dalla sponda del veicolo ed esclamò: “Kramer!”
Il robusto capo-meccanico strizzò gli occhi cercando di capire chi fosse.
Kramer, sono io!” ripeté von Knobelsdorff. “Non si ricorda più di me?”
Il sottufficiale si tolse il Krätzschen[2] e si grattò la testa perplesso, poi, quando il giovane ufficiale gli si fu avvicinato, perplesso disse: “Signor tenente?” Tacque per qualche secondo, squadrandolo da capo a piedi, poi contrito proseguì: “Scusi i miei occhi signore, da lontano ormai ci vedo male. Cosa ci fa vestito in quel modo, signore?”
È una storia un po' lunga,” rispose von Knobelsdorff, il cui entusiasmo cresceva di attimo in attimo. “È arrivato il nuovo aereo per me?” Sogguardò alle spalle del meccanico, cercando di scrutare l'interno dell'hangar.
L'altro si grattò di nuovo la testa. “Ecco...”
Il tenente lo fissò attento. “Sì?”
Il maggiore von Stade non è più con noi. Lo sa, questo, signore?”
Me l'hanno detto.”
Kramer lo fissò di nuovo. Era evidente dalla sua espressione che stava cercando di comporre i pezzi di un rompicapo piuttosto complicato.
Ho perso la mia uniforme,” gli venne in aiuto il tenente.
Oh, già. Certo,” assentì l'altro. “Comunque, l'abito non fa il monaco. Non è così che si dice, signore?”
Sì, direi di sì. Ma stavamo parlando degli aerei...” Di nuovo von Knobelsdorff allungò il collo per cogliere uno scorcio dell'hangar.
L'altro si strinse nelle spalle e per tutta risposta chiese: “Ora dovrà andare a parlare con il nuovo comandante, non è così?”
Certo, per l'assegnazione e tutto quanto.” Poi, dopo una pausa: “Perché?”
Beh...”
Il tenente aggrottò le sopracciglia, lo strano atteggiamento del capo-meccanico, così diverso dalla solita cordiale pacatezza, lo rendeva decisamente sospettoso. “Vado subito a parlare col Vecchio,” annunciò.
Fece per dirigersi verso l'edificio del comando, ma l'altro lo prevenne: “Aspetti, signore.”
Che c'è?”
Il signor capitano è in volo.”
Von Knobelsdorff lo fissò interdetto. Anche il maggiore von Stade volava, ovviamente, ma a quell'ora di solito era nel suo ufficio a sistemare la burocrazia.
Stava per aprire bocca quando qualcuno da lontano esclamò: “Max? Sei proprio tu, Max?”
Egli si girò in quella direzione mentre un sorriso gli si allargava sul volto: avrebbe riconosciuto quella voce fra mille. “Herbert!” esclamò.
Max!”
Il tenente Hoffmeyer lo raggiunse. Aveva un braccio al collo e una medicazione sulla fronte. “Maximilian!” ripeté. Si fermò di fronte a lui e gli appoggiò la mano sana sulla spalla. “Dov’eri finito?” gli chiese.
Uhm… niente di speciale,” rispose von Knobelsdorff. Si prese qualche secondo per elaborare una scusa credibile, quindi proseguì: “Facevo… ho fatto l’istruttore.”
L’altro lo fissò perplesso. “L’istruttore?” ripeté poco convinto.
Per la figlia di un generale che vuole diventare aviatrice. Ma non dirlo a nessuno, eh.”
Oh, ma certo.” Hoffmeyer alzò le sopracciglia con l’aria di chi ha capito tutto. “Le hai lasciato la tua uniforme per ricordo?”
Von Knobelsdorff avvampò. “Herbert!”
Sì sì, Herbert,” sghignazzò il collega. “Sai le risate che si farebbe Behringer, se fosse ancora con noi?”
Un’ombra passò sul viso dell’altro. “Non c’è più?”
Hoffmeyer alzò le spalle. “Caduto poco dopo von Stade.” Sospirò, poi soggiunse: “Un gran peccato, con le sue battute avrebbe reso più facile sopportare il nuovo comandante.”
Ogni Vecchio ha le sue manie.”
Dici così perché non hai ancora conosciuto il capitano Walther Kunz.”
Von Knobelsdorff non rispose. Bastava che quel Kunz lo facesse volare, poi poteva essere anche un ottentotto con l’anello al naso e non gliene sarebbe importato nulla. “Tu, piuttosto, che cos’hai fatto al braccio?” chiese al collega.
Hoffmeyer emise un teatrale sospiro. “Niente figlie di generali per me.”
Oh, insomma...”
Volevo dire: solo un colpo di striscio.”
E in fronte?”
L’atterraggio. Con il braccio fuori uso ho toccato storto, e il carrello...” Con la mano sana fece un segno di croce a mezz'aria, come a sancire l'ineluttabile fine dell'apparato.
I due si incamminarono verso gli alloggi. Von Knobelsdorff si guardava intorno: qualcosa di ineffabile gli stava comunicando una sgradevole sensazione di estraneità. A una prima occhiata era tutto a posto, gli hangar erano ordinati e puliti, l'erba della pista era rasata, gli avieri se ne andavano attorno indaffarati. La manica a vento ondeggiava lenta, di fronte alla baracca bianca e rossa i segnalatori prendevano il sole in attesa degli aerei in rientro dalla missione.
Però era come se ci fosse più silenzio, come se nell'aria aleggiasse una generica idea di cautela, di serietà grave.
O forse il cambiamento era suo. Non era obiettivamente la stessa persona, dopo tutto quello che era successo, e quasi si rammaricò di aver perso quella che d'acchito gli parve come una specie di spensieratezza, come un'innocenza che forse gli nascondeva certi aspetti delle cose, ma di sicuro gliele faceva vivere con più leggerezza.
Fino a poche settimane prima, volare era stato solo uno sport pericoloso ma appassionante. C'erano il suo aereo, un bravo meccanico che glielo sistemava e dei camerati con i quali festeggiare le vittorie, oppure onorare i caduti. Nient'altro gli interessava.
Ora, per quanto si sforzasse, non riusciva più a recuperare quella serenità noncurante. Anelava sempre al volo e al combattimento, ma la lanterna magica non era più magica, per così dire.
Mostrava immagini affascinanti, ma sottese da precise leggi fisiche.
La voce di Hoffmeyer lo richiamò alla realtà: “Max?”
Egli quasi trasalì. “Che c’è?”
Stavo dicendo che ormai dovrebbero rientrare.”
Chi è rimasto dei vecchi?” chiese von Knobelsdorff, e si rese conto che stava chiamando ‘vecchi’ gente che aveva visto per l’ultima volta poco più di venti giorni prima.
Il collega alzò le spalle. “Quasi tutti, in realtà. Marquardt, per esempio. Poi ci sono anche Eschmann e Keinhofer. Lohmann è in licenza.” Sollevò le sopracciglia con aria significativa.
Von Knobelsdorff si fece di colpo attento. “Otto vittorie?” chiese.
Otto vittorie,” confermò Hoffmeyer. “Il caro Bernd è diventato un asso.”
Spero che si ricorderà di portare qualcosa con cui brindare, quando si degnerà di ridiscendere fra noi mortali.”
Figurati se Lohmann si dimentica di portare da bere.”
Hoffmeyer stava per aggiungere altro quando nell'aria cominciò a farsi udire un lieve ma ben noto ronzio.
Entrambi si girarono verso la testata pista: all'orizzonte era comparso un nugolo di puntini scuri.
Stanno rientrando,” disse von Knobelsdorff.
L'altro scrutò per qualche secondo, poi rispose: “Già. Mi sembra che ci siano tutti.” Tacque per qualche secondo, senza distogliere lo sguardo dai puntini, che cominciavano a delinearsi come aeroplani. A un certo punto, come se d'improvviso di fosse ricordato di una cosa importantissima, disse: “E tu vatti a mettere un'uniforme decente. Non vorrai presentarti al comandante conciato così, spero.”

§

Gli aerei atterrarono uno dopo l'altro. Von Knobelsdorff, di nuovo con la sua divisa da tenente degli ulani, li osservava toccare terra e rullare sulla pista.
Riconobbe subito quello di Marquardt e quello di Keinhofer, inconfondibili per le vistose personalizzazioni. Gli parve di individuare anche quello di Eschmann, che su ogni aereo che gli veniva assegnato faceva scrivere le iniziali della fidanzata.
Poi ne vide uno che a malapena aveva i simboli di nazionalità e una mimetizzazione standard, ancora meno caratterizzato di quello che era appartenuto a von Wasserberg.
Aggrottò le sopracciglia perplesso. Dipingere scritte o immagini sugli aerei era un'abitudine consolidata. Un apparecchio così ostentatamente privo di personalizzazioni gli comunicava una sgradevole sensazione di estraneità e disagio.
L'aereo rullò fin davanti all'hangar, il motore si spense e l'elica si fermò.
Von Knobelsdorff mise le braccia dietro la schiena come faceva sempre quando contemplava qualcosa che per qualche aspetto sfuggiva alla sua comprensione.
Hoffmeyer, comparso al suo fianco, disse: “Quello è il capitano Kunz.”
Dall'aereo stava scendendo un uomo di altezza media. I pesanti indumenti in cui era infagottato non consentivano di distinguere altro della sua figura. Si tolse la cuffia da pilota rivelando una capigliatura castana.
Vado a presentarmi,” annunciò von Knobelsdorff, e senza aspettare la risposta del collega partì a grandi passi verso il nuovo arrivato.
Deciso a fare bella impressione, scattò sull'attenti di fronte all'uomo, eseguì un saluto da manuale e a voce alta e chiara scandì: “Tenente Maximilian von Knobelsdorff a rapporto, signore!”
L'altro rispose al saluto senza tradire alcuna emozione. Lo squadrò dal basso in alto e alla fine freddamente proferì: “Ho letto le sue note caratteristiche.”
Indeciso su cosa replicare, il tenente rimase in silenzio.
Mi segua,” ordinò allora l'altro. Prese a camminare a passo veloce verso l'edificio del comando. “So che era in missione riservata e non mi interessano i particolari,” diceva frattanto, “mi preme molto di più che lei recepisca il nuovo spirito di questa Jasta.”
Sarebbe a dire, signore?”
Senza voltarsi, l'altro spiegò: “Non mi interessano i galletti con le belle uniformi, non mi interessano le patacche blu da portare al collo. Qui si combatte.”
Il tenente abbassò gli occhi sui propri panni, stupito da quella che gli pareva una durezza del tutto immotivata. Alla fine rialzò lo sguardo e rispose: “Non ho mai pensato di fare voli da diporto, signore. Abbattere il nemico è ciò che mi prefiggo ogni volta che mi alzo da terra.”
Oh, li conosco, quelli come lei. Gente che a momenti fa montare un pallottoliere sull'aereo, per controllare costantemente quanto manca all'agognato Pour le Mérite.” Tacque per qualche secondo, poi sprezzante soggiunse: “Non vi interessa altro.”
Perplesso, von Knobelsdorff optò di nuovo per un cauto silenzio.
Nel frattempo avevano raggiunto la costruzione.
Mi segua,” ripeté Kunz. Si diresse verso l'ufficio che era aveva occupato anche von Stade. Il tenente notò che dalle pareti erano spariti tutti i quadri a parte il ritratto dell'Imperatore, ed era rimasta solo la sedia dietro la scrivania. Un eventuale interlocutore del capitano avrebbe dovuto stare in piedi.
Il comandante appese gli abiti di volo a un attaccapanni che si trovava in un angolo, rivelando un'uniforme della fanteria. Aveva un distintivo di ferita di prima classe, la croce di ferro di prima e seconda classe e il distintivo da assaltatore.
Andò a sedersi alla scrivania.
Von Knobelsdorff si mise di nuovo sull'attenti, mantenendo lo sguardo fisso verso un punto indefinito dietro le sue spalle.
Kunz disse: “Siamo in guerra, non a un torneo sportivo. Non mi interessano le classifiche dei cosiddetti assi, mi interessa che la mia Jasta infligga danni al nemico.”
Von Knobelsdorff, che superato il primo momento di stupore stava cominciando a indispettirsi, con voce tagliente replicò: “Ritengo che le due cose coincidano, signore: gli assi sono i piloti che hanno abbattuto più aerei nemici.”
Ma certo, e siccome conta il numero e non il tipo, i furbastri si vanno a cercare i postali, gli osservatori e tutti quelli che si possono abbattere con poco sforzo.”
Il tenente strinse le labbra, a quel punto assolutamente indignato. “Questo non è vero,” replicò poi tagliente. “A nessuno interessa una decorazione guadagnata abbattendo avversari di scarso valore.”
Kunz lo fissò serio, senza preoccuparsi di nascondere la sua disapprovazione. Infine disse: “La veda come vuole, tenente, basta che obbedisca ai miei ordini. Lei non è un cavaliere della tavola rotonda, ma un ufficiale impegnato nello sforzo bellico. Si regoli di conseguenza.”
Potrebbe essere più chiaro, signore?”
Non mi interessano gli abbattimenti confermati, mi interessa che il nemico finisca a terra e non si muova più. Se non ci sono testimoni fa lo stesso, si accontenterà dell'intima soddisfazione di aver reso un servizio alla Patria. E ora, si ritenga congedato.”

Von Knobelsdorff uscì dal colloquio piuttosto perplesso. Avrebbe voluto chiedere al Vecchio se era arrivato un nuovo aereo per lui e se poteva riprendere i voli di guerra, ma si era trovato in corridoio prima ancora di poter elaborare una sola delle domande che si era preparato.
Uscì dall'edificio del comando per dirigersi verso gli hangar. Quando fu all'esterno, Hoffmeyer lo raggiunse e gli chiese: “Ora che non ci sono orecchie indiscrete in giro, che ne pensi di Kunz?”
La replica gli uscì dal cuore: “È matto?”
L'altro alzò le spalle. “Pensa di essere l'unico che vola per abbattere gli inglesi.”
Perché noi invece cosa facciamo? Raccogliamo fiori di campo?”
Secondo lui ci interessa solo ottenere il Pour le Mérite.”
Come aveva già fatto notare al capitano, von Knobelsdorff disse: “Le due cose sono correlate. Il Pour le Mérite viene conferito all'abbattimento di otto aerei nemici.”
Hoffmeyer scosse la testa come di fronte all'ineluttabile, quindi rispose: “Bah, che vuoi farci. Certa gente dovrebbe restarsene in trincea.”
Non ha la nostra mentalità.”
No davvero.”
Proseguirono fianco a fianco. Von Knobelsdorff ripensò a una frase dell'agente segreto: La mia priorità è portare a termine la missione che mi è stata affidata. Se per raggiungere l'obiettivo devo uccidere, rubare, farmi passare per un pederasta o qualsiasi altra cosa, io lo faccio, è chiaro?
Considerò che probabilmente lui e Kunz si sarebbero trovati d'accordo su tante cose.
Si chiese dove fosse, e di nuovo involontariamente sogguardò i dintorni, come aspettandosi di vederlo spuntare da qualche parte.
Rievocò la sua stretta sul braccio, il suo modo secco, sbrigativo di intimargli il silenzio, e si trovò con stupore a sorridere fra sé e sé.
La voce di Hoffmeyer lo fece quasi sussultare: “Pensi alla tua bella aviatrice?”
Basta con quest'aviatrice!”
Avevi una faccia...”

§

Von Knobelsdorff riaprì gli occhi. Guardò fuori dalla finestra e si accorse che il cielo aveva già i colori del crepuscolo.
Si mise seduto. Gli era bastato stendersi sul suo letto – mi riposo giusto dieci minuti – per cadere in un sonno profondo. Non era nemmeno sceso per il pranzo e i colleghi, evidentemente, non avevano mandato l'ordinanza a chiamarlo. Forse avevano pensato che avesse più bisogno di dormire che di mangiare.
Si chiese come fossero i pasti, con quella specie di Cerbero a capotavola. Probabilmente qualcosa di simile a un refettorio di trappisti, silenzioso e cupo.
Facce chine sui piatti, qualche acciottolio di stoviglie. Il frusciare furtivo di un tovagliolo.
Si alzò, fece qualche passo nella stanza che gli era stata assegnata. La sua roba era ancora tutta lì, nessuno aveva toccato nulla. C'erano persino i suoi libri allineati su una piccola mensola.
Scese nella sala comune. Marquardt stava leggendo un giornale. Vicino alla finestra c'erano Eschmann e uno che non conosceva impegnati nella rievocazione di un combattimento aereo. Tenendo le dita unite e le mani estese a simulare gli aerei, il primo si sbracciava per mostrare all'altro i momenti salienti del duello.
Altri due stavano giocando a scacchi.
Di nuovo lo pervase una sensazione d'incertezza. Da una parte era tutto come prima, dall'altra non lo era più, e non capiva se la questione fosse legata all'impronta che il nuovo comandante aveva dato alla Jasta o a quella che l'agente segreto e la missione dietro le linee avevano dato a lui.
Forse le due cose, stabilì.
Andò al biliardo, prese una stecca dalla rastrelliera e fece qualche tiro svogliato. Per un po' seguì le biglie che rotolavano qua e là, poi la voce di Hoffmeyer attirò la sua attenzione: “Pensi a lei?”
Von Knobelsdorff sentì le guance andargli a fuoco. “Ti avevo chiesto di non parlarne,” sibilò.
Il collega alzò le spalle. “Nessuno ci sta ascoltando.”
Comunque evita l'argomento, per favore.”
Hoffmeyer assunse un'espressione innocente. “Perché?”
Non vorrei che gli altri sentissero.”
Perché?”
Herbert...”
L'altro emise un teatrale sospiro. “E va bene, quanto la fai lunga. Andiamo fuori a fare un giretto?”
Ma io...”
Dai, usciamo. Una boccata d’aria ti farà bene.”

La pista era sgombra, attraversata da lievi refoli di vento. Nel silenzio della sera, si udivano da lontano il cicaleccio dei meccanici e il battere ritmico di un martello. Echeggiò una risata, seguita da un paio di frasi dal tono allegro.
Qualcuno fischiettava da qualche parte, nel fondo dell’hangar.
I due camminarono per un po’ fianco a fianco, poi d’un tratto Hoffmeyer chiese: “Pensi a lei?”
Von Knobelsdorff quasi sobbalzò. “No davvero,” disse in tono tagliente.
Non ci sarebbe niente di male.”
Non sto pensando proprio a nessuno, va bene?”
L’altro non replicò. Dopo un po’ von Knobelsdorff, anche per stornare il discorso dalla cosiddetta ragazza, chiese: “Dici che il Vecchio domani mi farà volare?”
Mi stupirebbe il contrario,” rispose Hoffmeyer, poi, imitando il tono severo di Kunz, aggiunse: “Crede forse di essere qui per fare una vacanza, tenente? Crede che ci siano figlie di generali a cui insegnare i rudimenti del volo?”
Ti ho detto basta!” esplose von Knobelsdorff.
Il collega si fermò, costringendolo a imitarlo. A quel punto gli chiese: “Dì un po’, che ti prende?”
L’altro scosse la testa. “Scusami.”
Sei sicuro di stare bene?”
Sì, perché?”
Hoffmeyer alzò le spalle. “Non lo so, sei strano.”
Sono come al solito.”
Continuarono a camminare in silenzio. Nella luce che andava scemando, la baracca dei segnalatori era una sagoma scura, in cui si intravedevano come aloni indistinti gli scacchi bianchi e rossi. La brezza era caduta e la manica a vento pendeva immobile.
Da qualche parte, un usignolo cominciò a gorgheggiare.
A quel punto, Hoffmeyer chiese: “Lei com’è?”
Von Knobelsdorff alzò gli occhi al cielo, maledicendo il momento in cui si era inventato la figlia del generale che voleva diventare aviatrice. Emise un sospiro sconsolato e disse: “Se te la descrivo, poi tu la smetti di tirare fuori l’argomento?”
E va bene.”
D'accordo, prima iniziamo e prima finiamo. È un po’ più alta di me.”
Ah, però. È una vera valchiria, ecco perché vuole imparare a volare. Ed è formosa?”
Si prese qualche secondo prima di rispondere. “No, non direi proprio,” proferì alla fine.
È un uomo, per caso?”
Von Knobelsdorff scattò come se l’avesse punto una vespa. “No davvero! Come ti viene in mente una cosa del genere?”
Mah… è più alta di te, non è formosa...”
È bionda, va bene? Biondo dorato, come il grano. E gli occhi sono grigi, ma quando ride si accendono di sfumature azzurre.”
Oh… si accendono di sfumature azzurre?”
Certo, che c’è di strano?”
C’è che sei innamorato cotto della tua bella valchiria, amico mio!”






[1] La giubba dell'uniforme da ulano.
[2] Colloquialmente, berretto di truppa e sottufficiali.

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Capitolo 15
*** Capitolo 9 - Seconda parte ***


Gente mia,
ecco un altro po’ di mappazza, sperando che non siate ancora stanchi delle disavventure del nostro tenente.
Ringrazio molto tutti coloro che mi stanno seguendo, con particolare trasporto affettivo nei confronti di chi è così gentile da lasciarmi anche un commento.
Enjoy (si spera^^)





Sdraiato nel suo letto, le braccia dietro la nuca, von Knobelsdorff rifletteva sulle parole dell’amico. Cosa gliene importava, in fondo, se Herbert lo credeva invaghito di una inesistente valchiria-aviatrice?
In teoria, nulla.
Era un’ottima scusa, anzi, in grado di far passare ogni sua reticenza per delicatezza da gentiluomo.
Senz'altro l'agente segreto avrebbe saputo fare buon uso di una faccenda del genere.
Ripensò a quando, in paramenti sacerdotali, era riuscito a convincere una mezza compagnia di soldati inglesi che si trovava sul loro stesso treno per portare il conforto della fede ai combattenti delle trincee.
Oppure a quando, con la massima disinvoltura, si era fatto passare per un invertito che voleva trascorrere un'ultima notte con il suo amante.
A quel ricordo sentì qualcosa di strano pungolarlo. Gli tornò in mente il momento il cui l'uomo, per rendere la recita più credibile, l'aveva baciato sulla tempia.
Con suo stupore, la cosa non gli suscitò il disgusto che si sarebbe aspettato.
In un empito inconfessabile persino a se stesso, anzi, si trovò a chiedersi cosa sarebbe successo se in quel frangente avesse girato il viso, intercettando le sue labbra con le proprie.
L'enormità di quell'idea gli fece letteralmente balzare il cuore nel petto. Si rigirò sul materasso ed ebbe quasi la tentazione di tirarsi le coperte sulla testa, come faceva da piccolo quando era spaventato da qualcosa.
Herbert,” sussurrò.
Dal letto accanto al suo provenne un grugnito.
Herbert?”
Dormi.”
Imperterrito, von Knobelsdorff chiese: “Senti, ma è vero quello che dicevi oggi?”
L'altro sporse una mano dalle coperte e palpò il comodino alla ricerca della scatola di fiammiferi. Ne prese uno e con quello accese una candela infilata in una bottiglia vuota. Alla fine dell'operazione si voltò verso di lui e perplesso ripeté: “Quello che dicevo oggi?”
Che sono strano.”
Se ti comporti così, indubbiamente mi aiuti a convincermene.”
Von Knobelsdorff si limitò a emettere un sospiro.
Hoffmeyer scosse la testa e gli disse: “Maxmilian, senti, non ha nessun senso rimuginare su di lei nel cuore della notte. Domani dobbiamo andare in volo e non possiamo permetterci di essere stanchi.”
Egli non replicò. Avrebbe voluto rispondergli che non c'era nessuna 'lei', che erano altri i dubbi che lo tormentavano, ma all'ultimo preferì tacere. Emise un sospiro e disse: “Va bene, scusa se ti ho disturbato.”
Vedi di dormire, Max.”
Va bene.”
La candela si spense. Hoffmeyer si raggomitolò di nuovo sotto le coperte, avendo cura di girargli la schiena.
Von Knobelsdorff tornò a sdraiarsi con le braccia dietro la testa, ma il sonno non ne voleva sapere di arrivare. Al suo posto c'erano pensieri di ogni genere che, come sempre accade di notte, si sottraevano a ogni suo tentativo di controllo.
Riandò con la mente agli anni dell'accademia militare.

Gli Spartiati sono gli allievi migliori dell’accademia. I più bravi in ogni materia, i più dotati nelle discipline sportive. C'è chi dice che condividano con l'élite guerriera di cui hanno scelto il nome anche una particolarità che non si può menzionare, ma sono senz'altro malelingue, invidiose delle loro maggiori capacità.
Friedrich von Wangenheim è il migliore degli Spartiati. Nella lotta nessuno può tenergli testa, sa portare all'obbedienza anche il cavallo più riottoso. Con una spada in mano, sembra l’arcangelo Michele che combatte contro Satana.
Egli lo guarda mentre in sella a un vigoroso baio affronta una doppia gabbia che ha avuto ragione di ogni cavaliere prima di lui.
Von Wangenheim porta l'animale a raccogliere l'andatura, accumulando potenza in vista del salto. Il baio si raccoglie e vola sul primo verticale senza nemmeno sfiorarlo. “Voglio vederlo sull'oxer,” dice un allievo che come lui sta seguendo il percorso dello Spartiate.
La muscolatura del baio si tende, l'andatura si accorcia mantenendo però il vigore. L'animale supera anche quell'ostacolo con facilità.
Egli sposta lo sguardo dal potente animale al volto concentrato del cavaliere. Lo vede stringere le labbra e aggrottare appena la fronte in vista del terzo elemento della gabbia. Mani e busto cedono in avanti dando spazio al cavallo, che di nuovo sembra volare con facilità sull'ostacolo.
Vorrebbe entrare anche lui in quel gruppo esclusivo.
Veramente non sarebbe consentito ai ragazzi del suo anno, dovrebbe aspettare come minimo il successivo. Von Wangenheim però gli ha sempre dimostrato una considerazione particolare, che ad altri non riserva. Duella con lui, ad esempio, gli concede incontri di lotta. Una volta sono anche andati a nuotare insieme al fiume e poi si sono stesi nudi sulla rena ad asciugarsi, uno accanto all'altro.
È sicuro che accetterà di metterlo alla prova.
Glielo chiede mentre von Wangenheim, ancora una volta trionfatore, sta uscendo dal recinto con il cavallo alla mano.
Questi lo fissa serio, così a lungo che a un certo punto lui si convince che lo manderà via, ma alla fine semplicemente dice: “Domani sera, all'ala est.” E poi prosegue verso le scuderie.
Il cuore gli balza nel petto. “Ci sarò!” gli assicura con calore, e a quelle parole ha come l'impressione di suscitare anche nell'altro un calore particolare.

L'ala est è vuota, forse in attesa di lavori di ristrutturazione. È un susseguirsi di stanze immense, dai soffitti altissimi, nei quali si indovina il biancheggiare di stucchi ornamentali.
Dalle finestre entrano i raggi freddi e senza colori di un'enorme luna piena.
Egli scruta nel buio, oltre le chiazze di luce lattescente che si proiettano sul pavimento. Sarà lì von Wangenheim?
Sorride fra sé e sé. Sa che è li, sa che lo sta aspettando in qualche punto di quel labirinto silenzioso. Quasi percepisce una strana forma di inquietudine aleggiare nell'aria: sarà venuto? Avrà il coraggio di portare a termine la prova?
Sorride di nuovo, come per rassicurare un invisibile interlocutore, poi si addentra nel luogo oscuro, traendo cupi echi dai soffitti. Man mano che procede, sente che si sta lasciando alle spalle tanti elementi della quotidianità – la luce, il calore, la tranquilla consuetudine con i camerati – e sta raggiungendo una solitudine gelida, nella quale troverà se stesso o si perderà per sempre.
Tutto è immobile e come in attesa.
Egli procede, raggiunge una scala d'onore i cui gradini si perdono nel buio. Ai lati di essa, silenti guardiani, due Atlanti di marmo lo fissano.
Va oltre, sale, si addentra nelle tenebre e poi ne esce, giungendo a un salone nel quale di nuovo si riversa la luce argentea della luna.
Sotto uno strato di polvere si indovinano sul pavimento scacchi bianchi e neri. Le pareti sono ornate da stucchi d'ispirazione militare.
Al centro del salone vi è un tavolino. Si avvicina e vede che su di esso è posata una sciabola sguainata.
La lama brilla debolmente.
Si guarda intorno. Sente che von Wangenheim è vicino, molto vicino. Forse lo sta già tenendo d'occhio. Sta guardando cosa fa, se raccoglie l'arma, o se scappa spaventato da quella sinistra messa in scena.
Non ha attraversato quel misterioso regno dei morti per girarsi e fuggire: impugna la sciabola, procede.
Si lascia il salone alle spalle, si addentra in un corridoio oscuro.
Sbuca in un secondo salone, più grande del precedente. Più ampio, più solenne. Con echi più cupi.
Von Wangenheim è lì.
È in piedi davanti a una finestra, sembra assorto nella contemplazione della pianura notturna. Impugna una sciabola che tiene lungo la gamba, con la punta rivolta verso il basso. Egli si accorge dell'arma solo dal fremito di luce che per un istante ne percorre il filo.
Ti aspettavo,” dice lo Spartiate senza voltarsi.
Sono qui.”
A quel punto Friedrich von Wangenheim si gira lentamente. Il viso non tradisce alcuna emozione. Solleva la sciabola in un elegante saluto e si mette in guardia.
Egli capisce che quel solenne invito a battersi è un alto segno di considerazione. Non è l'assalto scolastico portato avanti in presenza degli istruttori, ma è un confronto onorevole, senza esclusione di colpi. Un confronto tra guerrieri.
Solleva a sua volta la lama nel saluto, accettando il duello con una strana sensazione di aspettativa.
E poi esplode la violenza dello scontro.
Il silenzio cristallizzato – un silenzio che sembra perdurare intatto da duecento anni – viene scacciato dal clangore delle lame e dagli ansiti dei contendenti.
I colpi sono portati a pieno, ogni assalto è esaltazione e bramosia.
Infine von Wangenheim lo costringe con le spalle al muro. Tira un fendente che sarebbe letale, ma lui riesce a pararlo bloccando la sua sciabola con la propria.
Non ha paura. Il sangue gli romba nelle orecchie, il petto si alza e si abbassa in respiri che sembrano letteralmente tracannare l'aria fredda. Si sente vivo come non mai.
Von Wangenheim gli si fa più vicino, si fissano ansanti al di sopra dell'incrocio micidiale delle lame. “Combatti bene,” mormora. Illuminati in pieno dal chiarore lunare, i suoi occhi sono abissi di fuoco gelido.
Non potevo offrirti di meno,” gli risponde.
Le lame tra loro due sono sempre immobili l'una contro l'altra, senza un fremito. Croce di acciaio disegnata dalla luce senza colore.
Continuano a fissarsi negli occhi. Poi le lame cadono a terra con un subitaneo clangore, rimangono immote sulle pietre nude del pavimento.
I corpi si avvincono come quelli di due lottatori, le bocche si uniscono bramose, avide. La vicinanza ideale, prima che fisica, li stordisce.

Quasi sussultò a quel ricordo. Istintivamente si fece indietro come se anche lì, nel buio della sua camera, von Wangenheim fosse accanto a lui, pronto a baciarlo come aveva fatto quella volta.
Il pensiero gli spedì lungo la schiena un colpevole brivido di eccitazione.
Emise un sospiro sconsolato. Si era sottratto, era stato vile. Aveva interrotto un bacio che era estasi e perdizione al tempo stesso, ed era tornato al rassicurante calore della quotidianità, chiedendosi se in realtà fosse quella la vera prova.
Non l'aveva più ripetuta, comunque, perché aveva capito in quel frangente che il passo sarebbe stato senza ritorno.
La voce di Hoffmeyer lo richiamò bruscamente alla realtà: “La pianti?”
Cosa?
Ti stai rivoltando come un bue sul girarrosto. Vatti a fare una passeggiata se non hai sonno, ma lascia dormire me.”

§

Von Knobelsdorff contò gli aerei che i meccanici stavano preparando e dedusse con soddisfazione che ce n'era uno anche per lui.
Nonostante tutto, l'ebbrezza della caccia nel cielo si stava impadronendo di lui come di consueto. I muscoli erano tesi, lo sguardo inesorabilmente calamitato dall'orizzonte, ove si addensava la caligine del fronte. Laggiù si combatteva, laggiù c'erano aerei nemici.
Nonostante il discorso che Kunz gli aveva rivolto, calcolò quanti abbattimenti gli mancavano all'agognata qualifica. Da una parte sorrise fra sé e sé all'esiguo numero, dall'altra si obbligò alla prudenza: era proprio quando si arrivava a sei o sette vittorie che l'entusiasmo soppiantava l’avvedutezza.
Il tenente considerò che morire in un frangente del genere sarebbe stato veramente triste.
Guardò i colleghi che stavano uscendo dagli alloggi. Alcuni avevano già gli abiti di volo addosso, altri erano inseguiti da attendenti con le braccia cariche di cappotti e pellicce. Il capitano Kunz camminava un po' discosto dagli altri, con addosso un pastrano che doveva essere quello che aveva portato anche in trincea.
Quando il comandante ebbe raggiunto il suo aereo, i piloti gli si riunirono intorno.
Von Knobelsdorff li imitò, prendendo posto nel semicerchio che si andava costituendo.
Kunz fissò ognuno di loro dritto negli occhi. Non si soffermò su nessuno in particolare, dedicando a tutti, con severa imparzialità, lo stesso sguardo duro e indagatore.
Infine disse: “Lor signori conoscono gli ordini: compito delle truppe aeree è impegnare in combattimento e neutralizzare il nemico. Non voglio sciocche gare tra piloti, voglio efficienza.”
Si diresse al suo aereo e prese posto nella carlinga. Un meccanico andò all'elica per la procedura di messa in moto.
Gli altri si diressero alla spicciolata verso i rispettivi Albatros.
Von Knobelsdorff individuò quello che gli era stato assegnato, per forza di cose neutro come quello del comandante, e vi montò sopra pensando a come avrebbe potuto personalizzarlo. Gli venne in mente un lupo ringhiante, con il pelo dritto sulla schiena.
La voce di Kramer lo richiamò alla realtà: “È pronto, signor tenente?”
Egli si riscosse. Compì i controlli pre-volo con la disinvoltura dell'abitudine, quindi azionò i circuiti elettrici ed esclamò: “Contatto!”
Dal basso provenne la risposta: “Contatto!” E poi la familiare vibrazione dell'elica che veniva azionata manualmente.
Sorrise fra sé e sé mentre il motore cominciava a girare, salutò come vecchie amiche le lancette degli strumenti che si animavano e raggiungevano, si sarebbe detto con trepidazione, il loro posto sui quadranti.
I meccanici tolsero i tacchi da sotto le ruote, l'aereo prese a rullare dolcemente sull'erba. Egli si guardò ai lati, controllando la posizione dei colleghi, e manovrando freni e manetta si diresse verso la testata pista per il decollo.
Per primo s'involò il comandante, poi Marquadrt, poi Hoffmeyer... sorrise di nuovo: era come una magnifica battuta di caccia fra amici, pericolosa ma esaltante. Raggiunse la posizione di decollo, fece gli ultimi controlli e poi diede tutta manetta. L'Albatros balzò in avanti, l'aria cominciò a frustargli il viso.
E poi ci fu il momento magico in cui l'aereo staccò le ruote da terra. In quell'istante, a von Knobelsdorff parve che una cappa di piombo gli cadesse dalle spalle, rendendolo libero, leggero e colmo di ardore.

La Jasta volava in formazione compatta. Il fronte ribolliva in lontananza, velando l'aria tersa di una caligine venefica.
Già si coglievano le vampate gialle delle esplosioni e gli archi bianchi che i proiettili incendiari si lasciavano dietro, quegli stessi archi che di notte aveva visto come fatati zampilli di luce.
Scrutò il cielo con aspettativa. Sapeva che gli inglesi c'erano, o se non c'erano sarebbero arrivati a breve.
Controllò ancora una volta gli strumenti, poi di nuovo sondò l'azzurro. In alto, dove il ribollire delle esplosioni non giungeva a offuscare il nitore del primo mattino.
Individuò qualcosa: punte di spillo che apparivano e scomparivano nell'aria tersa. Simultaneamente vide l'aero di Kunz guizzare verso l'alto alla ricerca di quota.
Tutta la Jasta si animò, gli Albatros schizzarono in ogni direzione. Von Knobelsdorff diede tutta manetta, continuando a tenere lo sguardo fisso sul nugolo di puntini, che stavano diventando rapidamente sempre più visibili.
Salì fino a che non cominciarono ad assumere le fattezze spigolose di biplani, poi livellò. Il più avanzato degli inglesi stava già sparando: vide Marquardt scivolare d'ala e buttarsi nella parabola ascendente di un looping.
Hoffmeyer si era già scelto un avversario e così anche Kunz. Lui si guardò intorno e captò ai margini del campo visivo il guizzo di un Sopwith Pup: l'inglese gli stava piombando addosso a tutta manetta, i lampi arancioni sul muso dell'aereo indicavano che gli stava già sparando.
Egli cabrò rapido, sottrasse bersaglio e con un mezzo looping gli si portò alle spalle. Sparò a sua volta una raffica, strappandogli brandelli di rivestimento alare.
L’inglese derapò per cercare di sganciarsi, ma von Knobelsdorff ormai gli era stabilmente in coda. Fece partire un altro paio di raffiche. Il Sopwith Pup sembrò immobilizzarsi nell'aria, poi puntò il muso verso il basso e cominciò a precipitare lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Cadde e rimase immobile. Tutti l’avevano visto, quindi, con buona pace di Kunz, l’abbattimento era confermato.
Numero sette!” gridò. Alzò il braccio in un gesto di vittoria, ma a quel punto una gragnola di colpi gli attraversò una semiala. Si girò di scatto e si trovò alle spalle un Sopwith Triplane. Immediatamente si attaccò alla cloche e fece una brusca virata. Riuscì a evitare la seconda raffica, ma il triplano gli rimase attaccato alla coda.
Diede manetta, salì bruscamente di quota, impostando subito dopo una virata a coltello. Brandelli di rivestimento alare schizzarono via lasciando in vista una centinatura.
Si girò di nuovo e gli parve quasi di cogliere l'espressione concentrata del pilota inglese.
Eseguì una virata talmente stretta che sentì le strutture dell'Albatros vibrare, salì ancora, cerò di rigirarsi per affrontare l'avversario, ma esso non perdeva la posizione, nonostante la minore manovrabilità del suo aereo.
Peraltro, essendo più veloce stava anche inesorabilmente accorciando le distanze.
Diede manetta, tirò la barra tutta indietro in un brusco looping, poi al culmine della parabola si rigirò con un mezzo tonneau. L'inglese parve rimanere disorientato per qualche secondo, ma subito dopo le sue pallottole ricominciarono a perseguitarlo.
Il tenente era costretto a fare una manovra dopo l'altra per cercare di sfuggire a quello che evidentemente doveva essere un asso. Ormai aveva il rivestimento di un'ala a brandelli e poteva immaginare che i piani di coda non fossero in condizioni migliori. Un tirante reciso sbatacchiava a ogni manovra.
Fece derapare bruscamente l'aereo, virò stretto, puntò il muso verso l'alto e poi di nuovo lo buttò in basso per arrivare a fronteggiare il triplano. Per un secondo riuscì a inquadrarlo nel collimatore e a sparagli una raffica, ma subito dopo l'inglese guizzò via.
Von Knobelsdorff, ormai sudato e ansante, si guardò disperatamente intorno, scrutando il cielo alla ricerca dell'avversario. Non sapeva da quanto stesse andando avanti il combattimento, ma ad ogni manovra era più stanco e si sentiva sempre più frastornato. Doveva sganciarsi in qualche modo, oppure entro breve avrebbe commesso l'errore fatale.
Altri proiettili gli bucarono l'ala. Si girò e il respiro gli si bloccò nel petto: l'inglese gli stava piombando addosso dall'alto, col sole alle spalle.
Un pensiero gli attraversò la mente come un lampo: è la fine.
Poi un'ombra passò rapida dietro il triplano. L'aereo inglese parve sussultare, poi si inclinò, buttò giù il muso ed entrò in vite.
Il tenente rimase a fissarlo attonito per qualche secondo. Si guardò intorno per capire chi fosse intervenuto in sua difesa e vide un aereo dalla mimetizzazione standard, con nient'altro che le coccarde di nazionalità.

§

Sull'attenti davanti alla scrivania di Kunz, l'espressione perfettamente neutra, von Knobelsdorff fissava un punto all'infinito dietro le spalle del comandante.
Questi lo squadrò severo per lunghi secondi. Infine, con voce tagliente gli chiese: “Dove pensava di essere, tenente, alle giostre? Magari seduto su un cavallino di legno?”
Nossignore.”
E allora come mai si sbracciava come uno stupido nel bel mezzo di un combattimento aereo?”
Von Knobelsdorff strinse le labbra. Lo sa benissimo, il perché, avrebbe voluto rispondergli, ma preferì rimanere in silenzio.
L'altro naturalmente non si accontentò. “Allora?” lo sollecitò.
Esultavo per aver conseguito la settima vittoria, signor capitano.”
Kunz sollevò le sopracciglia e si fece addirittura un po' indietro sulla sedia, come se la notizia l'avesse lasciato sconcertato. “Lei esultava per la vittoria conseguita?”
Sissignore.”
Il capitano annuì grave, quindi disse: “Allora lasci che le spieghi un paio di cose, tenente: in guerra non si esulta ma si compie il proprio dovere. Non ci sono vittorie da conseguire, dal momento che non siamo al tiro a segno di una festa di paese, ma obiettivi da raggiungere e nemici da neutralizzare.” Fece una pausa, poi decretò: “Fino a nuovo ordine, lei è adibito al servizio a terra.”
Cosa?” esclamò il tenente.
Senza alzare la voce, Kunz replicò: “Non le ho dato il permesso di parlare.”
Von Knobelsdorff ignorò la precisazione e ripeté: “Cosa? Mi lascia a terra?”
Impassibile, il capitano proferì: “In volo è un pericolo per sé e per gli altri.”
Lei non può lasciarmi a terra! Io sono un pilota, sono qui per volare!”
Lei è qui per eseguire gli ordini. Ora si calmi, altrimenti mi obbligherà a prendere ulteriori provvedimenti disciplinari nei suoi confronti.”
Signore...”
Si ritenga congedato, tenente.”

Von Knobelsdorff abbandonò la stanza furibondo. “Ecco cosa succede quando si ha a che fare con i borghesi,” ringhiò, a voce sufficientemente alta da farsi udire al di là della porta.
Era capitato che von Stade gli avesse salvato la vita, una volta, come del resto era capitato il contrario. Signorilmente, nessuno aveva mai fatto pesare la cosa: il salvato aveva offerto all'altro una bottiglia di buon vino del Reno e la questione si era chiusa con un brindisi.
Era partito con le migliori intenzioni, onestamente. Avrebbe voluto ringraziare il capitano Kunz e offrire anche a lui una bottiglia, ma evidentemente quel tanghero non aveva idea di come ci si dovesse comportare tra ufficiali.
Si chiese se avesse fatto l'accademia o se provenisse dai ranghi, poi stabilì che in fondo non gli interessava.
Si allontanò a grandi passi. Servizio a terra, ancora non riusciva a crederci.

§

Von Knobelsdorff calciò sconsolato un sassolino, spedendolo a rimbalzare poco lontano. Alzò gli occhi verso il cielo, poi li abbassò sulla pista ed emise un sospiro. Era una settimana che saliva sugli aerei solo per spostarli da un punto all'altro del campo d'aviazione, o per tirarli fuori dall'hangar al mattino.
Tese l'orecchio, ma nell'aria vi erano solo qualche cinguettio d'uccelli e il parlottare di due meccanici che stavano riparando un'ala danneggiata. Non si udiva ancora il familiare ronzio degli aerei in avvicinamento.
Si chiese se il Vecchio avesse intenzione di tenerlo a terra ancora a lungo. Rivolse uno sguardo velenoso all'edificio del comando e masticò un'imprecazione, poi si accorse che un piantone si stava dirigendo verso di lui.
Quando l'ebbe raggiunto, il soldato si mise sull'attenti e scandì: “Signor tenente, il Rittmeister[1] von Thurn und Taxis chiede di vederla!”
L'ufficiale rimase perplesso. Conosceva i principi von Thurn und Taxis, ma solo superficialmente, perché tra famiglie nobili più o meno ci si conosceva tutti. Non ne aveva mai incontrato uno di persona.
Dov'è questo Rittmeister?” chiese.
Nella sala grande, signor tenente.”
Von Knobelsdorff congedò il soldato e si diresse a grandi passi verso la palazzina degli alloggi, formulando nel frattempo le più varie ipotesi: chi poteva essere un capitano di cavalleria sconosciuto che chiedeva di lui? Era qualcosa che aveva a che fare con la guerra o con la nobiltà?
Entrò nella sala grande. C'era in effetti un ufficiale. Era di spalle rispetto a lui, aveva l'uniforme degli ussari. Era di altezza un po' superiore alla media, snello, con i capelli biondo grano.
Von Knobelsdorff si mise sull'attenti e in tono marziale si presentò.
L'altro si girò.
Oh! Ma...” balbettò il tenente, e poi non riuscì a dire altro.








[1] Capitano di cavalleria.





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Capitolo 16
*** Capitolo 10 - Prima parte ***


Mappazze aeronautiche, su Rieducational Channel!
E niente, vi posto il solito mezzo capitolo, sperando come sempre che non vi abbia ancora sfrangiato le gonadi.
Grazie a tutti quelli che mi stanno seguendo, enormi ringraziamenti a chi mi lascia un parere!
Buon divertimento (si spera)!




Capitolo 10

Sorpreso di vedermi?” chiese il Werwolf.
Von Knobelsdorff lo contemplò in silenzio: primo reggimento ussari della guardia, quelli che ai tempi di Blücher erano noti come gli 'Ussari della Morte'.
È veramente lei?” chiese diffidente.
Che intende dire?”
Se è veramente il principe von Thurn und Taxis o se questa è una delle sue infinite identità, come il prete diretto al fronte o il contadino francese.”
L'uomo sorrise lieve, come se si fosse aspettato proprio quell'obiezione. “Karl Ludwig Amadeus von Thurn und Taxis,” si presentò poi in tono formale, accompagnando il nome con un secco battere dei tacchi.
Maximilian von Knobelsdorff,” si presentò a sua volta il tenente, “ma penso che lo sappia già, non è così?”
Il Rittmeister annuì.
Come ha fatto a trovarmi?”
È stato facile.”
Von Knobelsdorff fece una breve risata. “Sempre questa sua mania di non rispondere alle domande, vero?”
E la sua mania di farne,” rispose l'ussaro sullo stesso tono. “Non è cambiato per nulla.”
Nemmeno lei.”
Il tenente scosse appena la testa, come di fronte a qualcosa di scarsamente comprensibile che però non manca di verificarsi, poi chiese: “E la sua ferita come va? Almeno questo me lo può dire?”
L'altro si avvicinò di qualche passo, giungendo a fermarsi proprio di fronte a lui, poi rispose: “Molto meglio, grazie.” Fece una pausa, poi in tono più morbido precisò: “Grazie a lei.”
Von Knobelsdorff non poté fare a meno di notare che nei suoi occhi erano ricomparse quelle sfumature azzurre che aveva descritto con tanto trasporto a Hoffmeyer. “Ho solo fatto quel che potevo,” rispose distogliendo lo sguardo.
La voce del Rittmeister lo richiamò alla realtà: “E le sue ferite come vanno?” Prima che lui potesse replicare, gli prese una mano e la tirò verso di sé come per far arretrare la manica. “I polsi sono guariti, mi sembra.”
Von Knobelsdorff si fece indietro come se fosse stato toccato da un ferro rovente, tanto che il brusco movimento fece traballare un tavolino che si trovava sulla sua traiettoria.
Von Thurn und Taxis sorrise, e l'azzurro divenne più intenso. “Attento,” gli raccomandò, protendendosi come per aiutarlo a ritrovare l'equilibrio.
Sto bene,” gli disse asciutto il tenente, in tono forse più duro di quanto si fosse riproposto. “Sto bene, è tutto in ordine.” Gli rivolse uno sguardo torvo e arretrò di un paio di passi. “Perché è tornato?” chiese poi.
Con la più grande tranquillità, il Rittmeister rispose: “In fondo sono un sentimentale: desideravo rivedere un vecchio amico.”
Il tenente aggrottò le sopracciglia. L'inquietudine che l'aveva assalito quando l'altro gli aveva preso il polso non voleva abbandonarlo. Si sentiva teso, come pronto a scattare. Era certo che i suoi battiti fossero più rapidi del normale. “Amico?” ripeté, come se la parola gli suonasse sconosciuta.
L'altro annuì calmo, poi gli chiese: “Lei come definirebbe un amico, ad esempio?”
Io...” Von Knobelsdorff tacque spiazzato. Per quanto faticasse a dare dell'amicizia una definizione esaustiva, gli era comunque chiaro che si trattava di un sentimento che aveva a che fare con fiducia, simpatia, affetto e reciproca scelta. Fissò lo sguardo sull'enigmatico personaggio, che anche dopo essersi presentato con nome, cognome e reparto di appartenenza manteneva un'impenetrabile aura di mistero, e rispose: “Un amico è una persona di cui ci si può fidare.”
E io non mi sono fidato di lei, quando ha pilotato l'aereo nel buio? Lei non si è fidato di me in tante occasioni?”
Non avevo scelta.”
L'ussaro scosse la testa. “Una scelta c'è sempre. Solo i deboli si raccontano di non averla.”
Di nuovo von Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia. In tono duro gli chiese: “Quindi io sarei un debole?”
No, è proprio per questo che la invito a non usare una scusa così patetica.”
Bah.” Il tenente fece un gesto come per scacciare un insetto. “In guerra si fanno spesso cose pericolose facendo affidamento sui commilitoni. Questo non implica che si sia amici, comunque.”
L'altro alzò le spalle e rispose: “D'accordo, vedo che non riesco a convincerla. Mi fa molto piacere comunque constatare che si è ristabilito così bene.”
È stato lei a intervenire?”
Von Thurn und Taxis sollevò le sopracciglia. “Prego?”
Stavano per fucilarmi come traditore, e ora sono qui. È lei che devo ringraziare, signor capitano?”
Temo di sì.” Il Werwolf gli rivolse quel suo sorriso freddo e vagamente sornione, che un po' lo faceva imbestialire, ma un po' forse lo affascinava anche, poi soggiunse: “Come intende pagare il suo debito?”
Il tenente aprì la bocca intenzionato a rispondere con qualche insolenza, ma in quel momento si fece udire una lieve vibrazione dei vetri. “Stanno tornando!” esclamò. Subito raggiunse la finestra e prese a scrutare ansiosamente il cielo.
Von Thurn und Taxis lo raggiunse. “I suoi colleghi?” domandò. Guardò a sua volta il cielo.
Il tenente annuì senza staccare gli occhi.
Come mai lei è a terra? Marca visita per caso?”
Già con lo sguardo torvo, von Knobelsdorff stava per girarsi con l'intento di rivolgergli una tagliente replica, ma in quel momento gli aerei spuntarono da dietro una nube e si misero in fila per cominciare le procedure di atterraggio.
Senza aggiungere altro, abbandonò la finestra e corse fuori.

Contò gli aerei e con soddisfazione appurò che erano tutti presenti. Gli Albatros erano ancora sagome nere in lontananza, ma già li scrutava con le mani dietro la schiena cercando di capire se ce ne fosse qualcuno danneggiato.
I meccanici uscirono dagli hangar e si fermarono a rispettosa distanza da lui, anch'essi intenti a fissare lo stormo in avvicinamento.
Sembrano tutti a posto,” constatò Kramer.
Un altro rise e ribatté: “Come fai a dirlo? A cinquanta metri non distingui un Albatros dal camion dei rifornimenti!”
Qualcuno ridacchiò.
Lungi dall'offendersi, col tono di chi la sa lunga, il capo meccanico rispose: “Non si sente nessun rumore strano.”
Si aggiustò sulla testa il vecchio Krätzschen unto d'olio motore.
Gli aerei frattanto stavano prendendo terra uno dopo l'altro, e già nel rullaggio venivano seguiti da gruppetti di meccanici pronti a rifornirli di benzina e munizioni.
Von Knobelsdorff vide poi un Albatros avvicinarsi in modo strano. Aggrottò le sopracciglia preoccupato, ma si accorse che quell'anormalità era intenzionale: il pilota stava scuotendo le ali.
Il tenente sorrise fra sé e sé: quello era un segno di trionfo.
L'aereo si avvicinò ancora ed egli identificò i colori di Hoffmeyer. Attese che il collega spegnesse il motore e gli corse incontro. “Allora?” volle sapere, prima ancora di essere faccia a faccia.
Il collega, con gli occhi accesi e l'espressione raggiante, rispose: “Un abbattimento!”
Ecco perché facevi tutto quel can-can in finale!”
Ballavo di gioia,” ammise l'altro stringendosi nelle spalle.
Attento, che se ti vede il Vecchio ti spedisce a riordinare la corrispondenza fino alla fine della guerra.”
Camminando fianco a fianco, i due si allontanarono dall'Albatros. Hoffmeyer si tolse la cuffia da pilota e si strofinò un fazzoletto sul volto annerito dagli scarichi del motore, poi disse: “Lo sai che cosa si dice del Vecchio?”
Che è un ottuso maniaco del regolamento?”
No, che con tutti gli abbattimenti che ha potrebbe ricevere tre Pour le Mérite, ma non gliene importa nulla.”
Impossibile,” sentenziò von Knobelsdorff.
Eppure a te ha salvato la vita, no?”
L'altro alzò le spalle. “È quello che avrebbe fatto chiunque per un camerata in difficoltà, persino io per lui. Kunz ragionerà anche come un burocrate, ma su certe cose è come noi.”
Volevo dire che è un ottimo pilota.”
Peccato che le sue scarse qualità umane rovinino tutto.”
I due fecero una risata e proseguirono verso l'edificio degli alloggi. Nell'aria aleggiava l'odore delle vivande che venivano allestite nella mensa per 'rifornire' i piloti mentre i meccanici rifornivano gli aerei e ricaricavano le armi.
Von Knobelsdorff lanciò uno sguardo di nostalgia ai velivoli e disse: “Raccontami un po' del tuo abbattimento.”
Un osso duro,” rispose Hoffmeyer. “Un Bristol Scout agile come un dannato furetto, mi ha fatto sudare sangue.”
Sono gli avversari che preferisco.”
Già, non c'è gusto a fare la caccia alle anatre.”
No davvero.”
Mentre procedevano, von Knobelsdorff pensava al principe von Thurn und Taxis. Si sentiva stranamente emozionato all'idea di presentarlo al collega. Cos'avrebbe detto? Ovviamente non poteva dire la verità, ma poteva sempre tirare in ballo qualcosa che avesse a che fare con le ascendenze aristocratiche che entrambi possedevano. Avrebbe potuto raccontare a Hoffmeyer che lui e il principe avevano un parente in comune, ad esempio.
Si stupì della disinvoltura con cui da qualche tempo inventava balle. Oppure, più che balle, versioni della realtà che rassicurassero l'interlocutore e lo rendessero felice di procedere su una falsa pista. Il suo collega, per esempio, era del tutto convinto che da qualche parte ci fosse una bella valchiria bionda che grazie a lui pilotava l'apparecchio.
La storia gli era talmente piaciuta – forse perché anche lui avrebbe desiderato vivere un'avventura del genere – che non aveva nemmeno sospettato che non fosse la verità.
Si chiese se classificare quella sua nuova competenza tra le abilità o i vizi. Scassinare una serratura, ad esempio, richiedeva perizia e precisione, ma si trattava di una cosa di cui andare fieri?
Attraverso le ampie finestre iniziò a scrutare all'interno, ma non vide da nessuna parte la snella figura di von Thurn und Taxis.

Il Werwolf era scomparso.
L'unica traccia che trovò di lui fu un portasigarette d'oro con monogramma, appoggiato negligentemente su una consolle.
Non pensò nemmeno per un attimo che l'avesse dimenticato. Lo intascò discretamente, sicuro che sarebbe arrivato il momento in cui l'elusivo agente segreto si sarebbe presentato per chiederlo indietro.
Si chiese se fosse una specie di messaggio che aveva voluto lasciargli. Qualcosa come una relazione esclusiva fra loro, che tagliava fuori chiunque altro.
La voce di Hoffmeyer lo distrasse: “Cosa cerchi?”
Egli sfilò rapido la mano dalla tasca. “Niente.” Lo raggiunse, con il peso dell'oggetto che gli batteva contro la coscia a ogni passo. “Niente, mi stavo solo annoiando. Trascorro le giornate a contare i pezzi di ricambio come una specie di intendente, non ne posso più.”
Eh, ti capisco.”
Io penso che il Vecchio ce l'abbia con me.”
Il Vecchio è imparziale, tratta male tutti.”
Si diressero alla mensa, dove ordinanze in guanti bianchi stavano servendo ai tavoli, e presero posto.
Hoffmeyer attese che gli venisse portato il caffè, ne sorbì un sorso e disse: “Ormai ti ho raggiunto, eh.”
Von Knobelsdorff annuì e rispose: “Se il Vecchio continua a tenermi a terra, anche la famosa aviatrice metterà insieme più vittorie di me.”
L'altro assunse l'espressione consapevole di chi ha capito tutto e gli chiese: “Pensi a lei?”
Penso di più al mio aereo,” rispose von Knobelsdorff. “Kramer mi ha detto che le ali sono così distrutte che non vale la pena di ripararle, devo aspettarne uno nuovo.”
Hoffmeyer fece una risatina. “Non so se otterrai il Pour le Mérite, ma secondo me tra un po' una decorazione te la faranno avere gli inglesi: hai fatto fuori più aerei tedeschi della maggior parte dei loro piloti!”
Spiritoso.”
Uno l'hai sfasciato in atterraggio prima di andare dalla tua bella...”
Non è la mia bella,” interloquì asciutto von Knobelsdorff.
L'altro non se ne diede per inteso. “Uno, dicevamo, prima della tua missione galante, chiamiamola così, e l'altro appena hai ripreso servizio. La Albatros Flugzeugwerke lavora solo per te, ormai.”
Non è la mia bella e non ho sfasciato proprio niente in atterraggio,” puntualizzò von Knobelsdorff. “L'aereo era già così danneggiato che sono stato fortunato a raggiungere il campo. Von Stade, che a differenza di certe altre persone era un signore, non mi disse niente, se ben ricordi.”
Sorbì un sorso del caffè che nel frattempo gli era stato portato. Gli altri si stavano già preparando a uscire di nuovo; se guardava fuori, vedeva gli Albatros già pronti e riforniti, con i meccanici in attesa di far partire i motori.
Si alzò e fece girare lo sguardo tutt'intorno: piloti che parlottavano fra loro, scambiandosi scherzi e battute, una generale aria di entusiasmo. Apparentemente immune a quel clima, Kunz sedeva un po' in disparte, approfittando della pausa per compilare un foglio d'ordini. In piedi al suo fianco, il furiere attendeva deferente.
Si ripromise di andare a parlargli alla fine della giornata di volo: per quanto lo riguardava, la faccenda di rimanere a terra come uno scritturale qualsiasi mentre i camerati volavano e ottenevano vittorie era già durata anche troppo.

§

Quando il pericolo incombe, gli uomini appartenenti alla stessa tribù o alla stessa famiglia tengono in minimo conto la vita dei propri simili; ma un gruppo che si è consolidato con l'amicizia radicata nell'amore non si scioglie mai ed è invincibile, perché gli amanti, per paura di apparire meschini agli occhi dei propri amati, e gli amati per lo stesso motivo, affronteranno volentieri il pericolo per soccorrersi a vicenda.

The Bishop sollevò la tazza e sorbì un lento sorso, quindi la posò nuovamente sul piattino, decorato con motivi floreali bianchi e blu. Riconobbe la porcellana di Meißen, peraltro piuttosto diffusa, lì in Germania.
Attraverso le vetrine del caffè lasciò vagare lo sguardo sulla piazza: c'erano dei bambini che si rincorrevano. Davano l'idea di essere due bande rivali, che si affrontavano in una sorta di battaglia fatta di schiamazzi e armi di legno.
A un certo punto, un ragazzetto dai capelli color stoppa cadde a terra. Un altro, che procedeva un po' più avanti, si fermò e lo raggiunse, poi lo prese per un braccio e lo fece alzare.
Scambiarono qualche breve frase come d'intesa, poi corsero via insieme, inseguiti dagli altri.
Bevve di nuovo, mantenendo lo sguardo sui due.

L'acqua gorgoglia fra le pietre, di nuovo limpida, ma ovunque essa non giunge a lambire, vi è sangue.
Il sangue intride il muschio, la sabbia della riva e i vestiti del morto. Immagina che una parte di esso stia inzuppando anche i panni del Werwolf, ma purtroppo non può accertarsene.
Il Werwolf non c'è più.
L'uomo che sta contemplando – una spia tedesca nota come Fenrir – l'ha evidentemente fatto scappare, consapevole di non essere in grado di seguirlo.
Non dev'essere stata una decisione facile. Tutto, in ciò che sta vedendo, parla di una risoluzione atroce ma necessaria, evidentemente da parte di entrambi.
Le tracce di sangue sulla camicia dell'uomo fanno capire che il suo compagno ha provato in ogni modo a farlo alzare. Sulle maniche ci sono impronte di dita febbrili, sul petto la stoffa è sgualcita, come se qualcuno l'avesse afferrata e tirata. Macchie rosse su una guancia fanno pensare a un'ultima carezza.
Il volto dell'uomo è girato nella direzione in cui verosimilmente il Werwolf si è allontanato. La sua espressione è di dolore, forse per le ferite, ma anche di serenità.
Probabilmente è spirato consapevole di aver ottenuto il suo scopo, ovvero proteggere la fuga del compagno.
Lo perquisisce sommariamente, ma non trova altro che una tasca vuota, cucita all'interno della camicia.
Avvicina il proprio viso a quello del morto, cerca di puntare gli occhi nella stessa direzione. Si sorprende a chiedersi cos'abbia provato, vedendo l'altro allontanarsi. Sollievo? Amarezza?
E il Werwolf, scappando tra gli arbusti della riva, consapevole di essersi lasciato dietro il compagno morente?
Si alza brusco. “Sto diventando sentimentale,” brontola a mezza voce. Si guarda intorno, come per controllare che nessuno di quelli che lo accompagnano abbia notato quell'attimo di debolezza. Fissa di nuovo il morto, questa volta dall'alto in basso, e dice: “Non farai più danni.”

Realizzò che la tazza era vuota. Alzò il braccio per chiamare la cameriera e si fece servire altro caffè.
Non era stato di parola: le due settimane che aveva chiesto al suo superiore erano passate, ma non aveva la minima intenzione di tornare indietro.
Non prima di aver neutralizzato il Werwolf, perlomeno.
Era assorto in quei pensieri quando nel caffè entrò una coppia di signore. Entrambe vestivano un severo abito scuro e portavano un cappellino privo di ogni ornamento. In mano avevano opuscoli di un'associazione religiosa.
Al loro ingresso un cameriere si avvicinò per intercettarle, ma uno sguardo della più alta delle due – una legnosa matrona dai capelli precocemente ingrigiti – lo convinse ad allontanarsi.
Da dietro la tazza, the Bishop le seguiva con lo sguardo. Ovunque esse posassero gli occhi, le conversazioni ammutolivano e gli avventori del caffè assumevano una generale aria di imbarazzo, come se fossero stati sorpresi a fare qualcosa di molto sconveniente. La signora più alta procedeva per prima, si fermava ai vari tavoli e presentava sé e la collega come Dame della Pentecoste. Dopo un breve scambio su questioni religiose, invariabilmente faceva cenno alla sua accompagnatrice, che lasciava all'interlocutore uno o più opuscoli edificanti.
Infine giunsero anche da lui. “Signore, lei frequenta regolarmente la sua chiesa?” lo apostrofò da lungi la legnosa dama.
The Bishop non batté ciglio. “Ma naturalmente, signora. Non mi sentirei a posto con me stesso, se non lo facessi.”
La donna lo scrutò poco convinta, quindi proseguì: “E posso chiedere perché non è al fronte, signore? Non menta, perché Dio la sta guardando.” Alzò brevemente gli occhi, e sembrò che stesse scambiando uno sguardo d'intesa col Padreterno.
The Bishop emise un sospiro sconsolato e rispose: “Lo vorrei tanto, signora, ma sono rimasto inabile in seguito alle ferite: ho una gamba di legno.”
Ah.” La donna si irrigidì come di fronte a una scusa palesemente mal congegnata. “Questo non le impedirà di servire Dio e la sua Patria, voglio sperare. Ci sono tanti compiti che si possono svolgere per la Germania, pur senza essere al fronte.”
L'uomo annuì con decisione. “Parole sante, signora.”
A quella risposta, la Dama della Pentecoste si rivolse alla collega e ordinò: “Felicitas, il saggio sul conforto che la Fede è in grado di offrire nella disgrazia e quello sulla parola di Dio come medicina.”
Due libelli rilegati in grigio topo furono posati sul marmo del tavolino. “Li ha scritti il nostro Reverendo,” lo informò la dama.
Grazie, signora,” disse con fare compunto the Bishop.
Li legga,” fu l'asciutta replica, “soprattutto quello sulla parola di Dio. Sono certa che lo troverà molto edificante.” Il tono faceva temere che nei giorni successivi la donna sarebbe tornata a interrogarlo.
L'agente segreto le guardò andare via. Scosse la testa, finì di sorseggiare il caffè, poi raccolse i due opuscoli e senza nemmeno aprirli se li infilò in tasca.

I bambini se n'erano andati, la piazza era quasi vuota. Le due Dame della Pentecoste erano scomparse. Alcune donne in tuta da lavoro passeggiavano parlando e ridendo, sul tram che sferragliava in lontananza s'intravedeva la figura di una conduttrice. La bigliettaia si sporgeva dalla porta della carrozza e stava facendo cenni a qualcuno.
Istintivamente the Bishop si girò alla ricerca del destinatario, o della destinataria, di quel saluto e vide un bimbetto con un sorriso sdentato, che si sbracciava allegro. Chissà, forse suo figlio? Magari il padre era al fronte?
Alzò le spalle e si infilò le mani in tasca. Ogni nazione in guerra aveva padri al fronte e madri che in Patria mandavano avanti la baracca.
Tirò fuori l'opuscolo sulla parola di Dio. Lo sfogliò distrattamente, facendo scorrere lo sguardo su frasi religiose di volta in volta ammonitrici, edificanti o semplicemente dolciastre.
Lo avvicinò al volto come per legger meglio, in realtà lo annusò: emanava un lieve sentore di sostanze chimiche.
Sorrise fra sé e sé, lo rimise in tasca e si incamminò.
Raggiunse una modesta pensione e vi entrò. L’uomo che sedeva alla reception abbassò cerimoniosamente il giornale che stava leggendo e gli chiese: “Ha trovato quello che cercava, signor ispettore?”
The Bishop scosse la testa. “Saranno necessarie altre ricerche.” fece una pausa, quindi abbassando la voce e protendendosi verso di lui soggiunse: “Le sarei grato, inoltre, se evitasse di usare il mio titolo professionale: sa, sono in incognito.”
L’altro quasi sobbalzò sulla sedia. “Mi scusi, signor...” cominciò d’istinto, poi si interruppe. “Mi scusi, signore,” si corresse.
L’inglese annuì. “Molto bene. La mia chiave, per favore?”
Subito!”
Grazie. Non voglio essere disturbato.”
Certamente, signor…” Di nuovo il concierge si interruppe all'ultimo. “Certamente, signore.”
The Bishop annuì di nuovo, rivolgendogli il sorriso di compatimento che avrebbe riservato a un bambino ritardato. Prese la chiave e si diresse su per le scale. Stupido imbecille leccaculo, pensava frattanto, basta presentarsi con una carica ufficiale e voialtri tedeschi subito scodinzolate come tanti cani.

Entrò nella sua stanza e chiuse la porta a chiave. Per una precauzione dettata dall'abitudine, più che altro, perché era certo che l'idiota dabbasso, ricevuto l'ordine di non far passare nessuno, si sarebbe posto a guardia della sua camera come Cerbero davanti alle porte dell'inferno.
Di nuovo sorrise fra sé e sé con sufficienza.
Dal contenitore dei suoi oggetti da toletta trasse una boccettina di vetro marrone scuro, poi andò allo scrittoio e vi si sedette. Prese a quel punto l'opuscolo che la Dama della Pentecoste gli aveva consegnato e cominciò ad annusare le pagine una per una. Si fermò a quella che emanava con maggiore intensità l'odore di sostanze chimiche.
Stappò la boccetta e arricciò il naso all'intenso sentore di ammoniaca che si sprigionò.
Espose il libretto ai suoi vapori e pian piano, sul margine bianco della pagina prescelta, comparve una scrittura fine, di un azzurro che andava man mano facendosi più intenso.
Il contenuto del rapporto gli confermò che fino a quel momento aveva perso tempo: del Werwolf si parlava solo marginalmente, ma si sapeva che era rientrato sano e salvo dall'ultima missione. Non si sapeva però se gliene fosse stata già assegnata un'altra. Ciò che appariva certo era che invece di rientrare in Germania, l'agente segreto si stava inspiegabilmente trattenendo in una data zona del fronte. Chi aveva raccolto le informazioni ipotizzava che in quel settore potesse esserci qualcosa di suo interesse personale, dal momento che nessun incarico ufficiale lo assegnava a esso.
The Bishop posò il libro e di nuovo sorrise fra sé e sé. Era sicuro che l'interesse personale del Werwolf fosse tutto incentrato su un certo giovanotto dagli occhi verdi.
Gli tornò in mente il leopardo: non aveva senso cercarlo nella boscaglia, sarebbe stato molto più semplice far la posta alla sorgente che la belva aveva scelto per dissetarsi.

Richiuse la boccetta, lesse ancora una volta le frasi vergate a mano, poi prese l'opuscolo e lo pose sugli alari del caminetto. Vi appiccò il fuoco e stette a controllare che bruciasse completamente, quindi raccolse con cura la cenere e andò a buttarla nella latrina.


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Capitolo 17
*** Capitolo 10 - Seconda parte ***


Sentimentalismo e romanticherie, su Rieducational Channel!
Un po’ di patimenti del nostro tenente, alle prese con il fosco principe von Thurn und Taxis. Mi perdonino gli amanti dell’azione, prometto che presto si riprenderanno i combattimenti.
Grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo!




Nella solitudine del suo alloggio, Maximilian von Knobelsdorff trasse di tasca per l'ennesima volta il portasigarette d'oro. Se lo rigirò fra le dita: leggero, appena satinato. Sul coperchio era inciso un monogramma in cui le lettere K, L, A e due T si intrecciavano in eleganti volute.
Premette un piccolo pulsante e l'oggetto si schiuse morbido.
Sorrise fra sé e sé. Per racimolare il coraggio di far scattare per la prima volta quel meccanismo ci aveva messo un po' di giorni. All'inizio aveva solo conservato il portasigarette con una sorta di reverente rispetto, celandolo allo sguardo di chiunque e quasi aspettandosi che il principe potesse da un momento all'altro presentarsi a controllarne l'integrità, come in certe favole, in cui abbandonare in modo apparentemente casuale un oggetto e stare a vedere cosa ne faceva una determinata persona era un modo per mettere alla prova la fedeltà della suddetta.
Poi aveva pensato che il Werwolf, più che la sua fedeltà o presunta tale, volesse mettere alla prova il suo spirito di iniziativa.
Nemmeno con quella consapevolezza aveva agito. Non subito, perlomeno.
Aveva speso qualche altro giorno a chiedersi perché l'agente segreto gli avesse lasciato quell'oggetto, cosa si proponesse di ottenere da lui.
Cos'avrebbe trovato al suo interno? Un po' si augurava e un po' temeva istruzioni per una successiva missione, e a volte si era anche figurato cos'avrebbe potuto rispondere a una richiesta del genere.
Il suo contenuto, quando finalmente si era deciso ad aprirlo, l'aveva al tempo stesso deluso e incuriosito.
Niente biglietti vergati in caratteri misteriosi, niente fazzoletti impalpabili con mappe di zone nemiche. Solo due sigarette.
Non sigarette qualunque, in ogni caso: due Sobranie, nere con il filtro dorato. Gli zar, per quanto ne sapeva, fumavano sigarette del genere.
Che cosa significava? Erano due, come loro due. Erano aristocratiche, come senza dubbio lo erano un principe e un barone. Erano nere, mentre ogni altra sigaretta era bianca. Questo voleva dire che loro erano diversi da tutti gli altri? Opposti, forse? A proprio agio nell'ombra, mentre chiunque altro aveva bisogno della luce?
O forse era semplicemente lui che faceva volare la fantasia, impossibilitato a volare materialmente.
Con un sospiro volse lo sguardo fuori dalla finestra: i camerati erano in missione, il silenzio che regnava ovunque faceva supporre che mancasse ancora parecchio al loro rientro.
Richiuse il portasigarette, se lo fece scivolare in tasca. Inutile negarlo, aveva anche preso in considerazione l'idea di chiedere il rinvio all'unità di appartenenza: meglio combattere come ulano che starsene a far nulla come aviatore.
Avrebbe voluto raccontare a quel Kunz di come, esausto e ferito, era decollato, nelle tenebre più complete e mentre gli sparavano contro, a bordo di un aereo nemico, e poi di come era atterrato, praticamente sano e salvo, pur senza motore e con un'ala quasi staccata, proprio davanti alle trincee tedesche.
Chissà se sarebbe stato capace di fare altrettanto, il capitano Walther Kunz?
Rinunciò a darsi una risposta. In fin dei conti non gli importava che il suo comandante sapesse compiere certe prodezze, bastava che si decidesse a farlo volare.

Abbandonò la stanza con l'intento di raggiungere la pista e lì attendere il ritorno dei camerati.
Quando scese nel salone, il cuore gli balzò nel petto: c'era il Werwolf.
Era in piedi davanti alla finestra e stava guardando fuori con aria assorta. Sembrava che in tutti quei giorni non si fosse mai mosso di lì.
Rittmeister,” fu tutto quello che riuscì a dire.
Il principe si voltò verso di lui e accennò un lieve sorriso.
Egli lo raggiunse, trasse di tasca il portasigarette d'oro. “È venuto per questo?” chiese porgendoglielo.
Von Thurn und Taxis scosse appena la testa. “Oh, no. Mi piacerebbe che lo tenesse lei, come piccolo ricordo dei nostri trascorsi.” Fece una pausa e soggiunse: “Non vorrei che si dimenticasse di me.”
Il tenente alzò gli occhi fino a fissarli nei suoi. Sentiva il fiato corto, aveva l'impressione di avere le guance in fiamme. Riunì le mani dietro la schiena per nasconderne il tremito. “Io... non penso che mi dimenticherò di...” Stava per dire di lei, ma si fermò in tempo. “Non penso che mi dimenticherò di quello che è successo,” corresse.
Avrebbe voluto correre da qualche parte, sciacquarsi la faccia con l'acqua fredda, respirare. Fare qualcosa, insomma, che gli restituisse una parvenza di compostezza.
Lo sguardo dell'altro però sembrava inchiodarlo sul posto.
Mi fa piacere,” disse il Rittmeiser, senza distogliere gli occhi dai suoi. “Se non ricordo male, in quell'astuccio devono essere rimaste due sigarette. Vogliamo fumarle insieme?”
Passarono forse dieci secondi, poi von Knobelsdorff sentì che il collo gli si piegava in un cenno di assenso.
Fu l'altro che lo condusse, con l'ormai familiare presa sul braccio, verso due poltrone poste intorno a un tavolino.
Prima di sedersi, il tenente non poté fare a meno di gettare uno sguardo tutt'intorno. Non c'era nessuno, nemmeno le ordinanze che servivano al circolo ufficiali, ma presto i camerati sarebbero stati di ritorno, per non parlare di quello che avrebbe potuto dire il capitano Kunz, sorprendendolo a fumare tranquillamente in compagnia di un estraneo.
Come se gli avesse letto nel pensiero, von Thurn und Taxis gli disse: “Il suo comandante sa che sono qui.”
Davvero? E cosa gli ha detto per convincerlo a farla rimanere?”
Serafico, il Werwolf rispose: “La verità.”
Per qualche strana ragione, a quella parola von Knobelsdorff sentì il cuore mancargli un battito. La verità, che normalmente veniva definita con epiteti che attenevano a nitore e purezza, nel suo caso andava a pescare nel torbido di sentimenti inconfessabili.
Continuavano a tornargli in mente episodi della loro fuga dietro le linee, ma sempre di più si mescolavano a immagini del suo duello nel buio, e di quello che era successo dopo.
La... verità?” ripeté.
Il Werwolf si limitò a rivolgergli un sorrisetto, quindi trasse di tasca un accendino da trincea, fece scattare la fiamma e glielo avvicinò.
Egli recuperò con gesti incerti il portasigarette, lo aprì e prese una delle due Sobranie, poi porse l'altra al suo interlocutore.
Questi se la infilò con disinvoltura fra le labbra e si protese per accenderla sulla fiamma. Von Knobelsdorff compì simultaneamente lo stesso movimento, così che si trovarono vicinissimi.
Il tenente si fece indietro.
Che c’è,” gli chiese ironico il Rittmeister, “ha paura di bruciarsi?”
L'altro lo fissò torvo, poi piccato brontolò: “Che sciocchezza, certo che no.”
Già, dimenticavo che lei rischia ogni giorno di precipitare in fiamme. Questa dovrebbe essere una bazzecola in confronto, o no?”
L’accendino era ancora immobile, così come il Werwolf. La fiamma palpitava lieve e si rifletteva negli occhi dell’agente segreto, accendendoli di riflessi d’acciaio e oro.
Di nuovo von Knobelsdorff provò l’impulso di correre via. Puntò la mano libera sul bracciolo della poltrona come per alzarsi, ma lo sguardo dell’altro, che non voleva abbandonarlo, lo avvinceva più di mille catene.
Egli deglutì. “La smetta,” mormorò.
Il Werwolf non si mosse. In tono morbido gli chiese: “La smetta, cosa? Che cosa sto facendo di così terribile, Maximilian?”
Senza rispondere, il tenente abbandonò la poltrona e raggiunse la finestra. Diede qualche tiro nervoso alla sigaretta, rivolgendo ostinatamente lo sguardo all'esterno. Alle sue spalle, il principe von Thurn und Taxis disse: “Lasci perdere le sue osservazioni, tanto partiremo prima che i suoi colleghi facciano ritorno.”
Von Knobelsdorff si girò a fissarlo. “Cosa?”
Man mano che quella strana conversazione proseguiva, aumentava nel tenente la sensazione di addentrarsi in una palude, oppure di essere una belva feroce circondata da reti e battitori. I battitori erano quelle strane frasi incalzanti: nessuna di esse era singolarmente pericolosa, ma tutte insieme gli stavano lentamente tagliando ogni via di fuga.
Prima di rispondere, il principe, che a differenza sua sedeva tranquillo in poltrona, diede un lungo tiro alla sigaretta, assaporò il tabacco pregiato socchiudendo appena gli occhi, quindi esalò lentamente il fumo. “Io e lei torneremo per un po' alle vecchie abitudini,” spiegò.
L'allusione ad abitudini passate suonò come l'ennesimo campanello d'allarme. Von Knobelsdorff lo fissò diffidente, arretrando addirittura di un passo, poi ringhiò: “Non capisco.”
Tranquillissimo, il Werwolf spiegò: “Lei è un ulano, io un ussaro. Questo non le suggerisce niente?”
Il tenente si irrigidì disorientato: cosa significavano quelle frasi? Erano da intendersi letteralmente o si trattava di allusioni ad altre cose? Quali cose, poi? “Mi suggerisce che entrambi proveniamo dalla cavalleria,” rispose asciutto, “ma non vedo a che scopo lei mi ricordi il mio corpo d'appartenenza.”
Vedrà.”

§

Davvero lei ha detto al capitano Kunz che avremmo fatto questo?” chiese von Knobelsdorff.
Erano saliti sul sedile posteriore di una vettura guidata da un autista in uniforme e dopo un tragitto di circa un'ora erano giunti a una scuderia. Appoggiati a uno steccato, stavano contemplando un galoppatoio così ampio che sembrava perdersi all'orizzonte.
Qui è acquartierato il mio reggimento,” disse il Werwolf.
Come sempre, non ha risposto alla mia domanda.”
E come sempre, lei ne fa troppe.”
Un po' piccato, il tenente ribatté: “Mi sembra strano che il capitano Kunz abbia acconsentito a... questo.”
Perché? Che cosa pensa che faremo?”
Von Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia e rispose: “Non è difficile immaginarlo: poco fa ha parlato dei nostri corpi di appartenenza, ha parlato di vecchie abitudini. Ora siamo qui. Ritengo che mi proporrà una cavalcata.”
Molto perspicace,” apprezzò l'altro.
E Kunz le ha permesso di prelevarmi dal contesto operativo per una cosa del genere?”
Il principe alzò le spalle. “Dipende sempre da come vengono poste le richieste.”
Sarebbe a dire?”
Dica un po', è spaventato? Ha paura che sia vero quello che dicono tutti?”
Perché, che cosa direbbero tutti?”
Che gli ussari cavalcano molto meglio degli ulani, ovviamente.”
Von Knobelsdorff incupì lo sguardo. “Non è vero!” sbottò, poi si rese conto di aver risposto d'istinto alla provocazione del suo interlocutore. “Questi confronti sono solo stupidaggini,” corresse, “diatribe che non hanno senso.”
Von Thurn und Taxis non rispose. Si staccò dalla staccionata e si diresse verso la scuderia. Strada facendo si voltò verso von Knobelsdorff, che camminava al suo fianco, e disse: “Le ho fatto sellare uno dei miei Trakehner[1], spero che lo troverà di sua soddisfazione.”
Non dubito che lo sarà,” rispose automaticamente von Knobelsdorff, addestrato da anni di conversazioni fra aristocratici. Frattanto continuava a chiedersi che senso avesse tutto quanto, perché il Werwolf l'avesse accompagnato lì – con che scusa, peraltro, visto il rigore di Kunz? – cosa si proponesse di fare. Era una nuova missione? Era il semplice svago di qualcuno che evidentemente poteva permetterselo?
Un alto nitrito lacerò l'aria.
A quel suono, il principe fece un lieve sorriso e disse: “Eccoli.”
Von Knobelsdorff fissò incuriosito lo sguardo verso la porta della scuderia. Da essa uscì dopo poco, trattenuto a stento da un mozzo di stalla, un morello vigoroso, lucido come uno specchio, che sembrava letteralmente danzare sul selciato in un trotto raccolto ma carico di energia.
Quello è Erlkönig,” lo informò von Thurn und Taxis.
Il tenente osservò il magnifico animale. “È uno stallone,” constatò.
L'altro assentì. “Non mi piacciono i cavalli troppo facili.”
È il suo cavallo?”
Può prenderlo lei, se vuole. Una volta messo alla mano, riserva parecchie soddisfazioni.”
Nel frattempo stava uscendo dalla scuderia un altro stallone. Il manto era di un sontuoso baio ciliegia, con riflessi di bronzo e oro. Anch'esso procedeva fiero e nevrile, scuotendo la criniera corvina e frustando l'aria con la coda.
Un'altra bella bestia,” non poté fare a meno di apprezzare il tenente.
Felix.”
Mi sembra più tranquillo.”
L'altro gli rivolse un sorrisetto. “Infatti avevo pensato di darlo a lei.”
Cosa?”
Beh, si sa... gli ulani...”
La smetta, lei è smargiasso come tutti gli ussari! Io prenderò il morello e le farò vedere come sa stare in sella un vero ulano.”
È una delle cose che mi piacciono di lei, Maximilian: non lascia mai cadere una provocazione.”

A von Knobelsdorff bastò sentire l'odore dei cavalli, percepire lo scricchiolio coriaceo dei finimenti, per dimenticare qualsiasi diatriba. Fece scorrere lo sguardo sul morello, letteralmente divorando con gli occhi la sua scultorea energia, e di colpo ogni preoccupazione e ogni dubbio svanirono come nebbia sotto i raggi del sole.
C'erano solo lui, un buon cavallo e spazi immensi in cui galoppare a briglia sciolta.
Lo prendo io,” ripeté, faticando a trattenere il sorriso di beatitudine che lottava per distendergli le labbra.
Si avvicinò risoluto, montò in sella. Lo stallone mise le orecchie indietro e sollevò gli anteriori in una mezza impennata, cosa che invece di impensierirlo non fece altro che instillargli un gioioso senso di aspettativa.
Prese le redini alla mano, si regolò le staffe con la disinvoltura fluida dell'abitudine, quindi si girò a fissare il principe, a sua volta già in sella, e gli chiese: “Andiamo?”
Questi sorrise, von Knobelsdorff lesse sul suo viso la stessa aspettativa, lo stesso anelito che anche lui stava provando. “Certo che andiamo,” rispose, quindi allentò appena la stretta sulle redini.
Il baio balzò in avanti, le froge dilatate, gli zoccoli che echeggiavano sul selciato. Raggiunse il recinto, si raccolse, lo superò d'un balzo mentre il suo cavaliere cedeva elegantemente in avanti.
Vada anche lei, signore,” gli consigliò a quel punto un sottufficiale, “altrimenti non lo riprende più.”
È da vedere!” esclamò von Knobelsdorff con entusiasmo. Spronò: il morello partì come una saetta e in breve il suo galoppo divenne così veloce da fargli lacrimare gli occhi.
Saltò d'istinto lo steccato, lasciando che fosse l'animale a chiedergli la ceduta, strinse le ginocchia e raddrizzò il busto nel momento in cui esso si ricevette, poi spronò di nuovo, lo sguardo fisso sul Werwolf che galoppava davanti a lui.

Il principe von Thurn und Taxis si guardava bene dal trattenere il proprio destriero, e l'animale, felice di essere a briglia sciolta, divorava lo spazio in poderose falcate.
Il paesaggio che gli scorreva ai lati era un'indistinta macchia verde, in cui ogni tanto spiccava il baluginio di uno specchio d'acqua o la nota di colore delle bandierine bianche e rosse che indicavano gli elementi del percorso di cross country.
Mise il cavallo in direzione di un ostacolo formato da un tronco seguito da un fosso pieno d’acqua. Si piegò appena sul collo dell'animale, lasciando che esso lo affrontasse come preferiva.
Superata la barriera, si girò sulla sella: von Knobelsdorff stava accorciando la distanza che lo separava da lui. Riusciva già a cogliere la sua espressione concentrata, decisa. Immaginò che fosse la stessa che aveva ai comandi del suo aereo, nel corso di un combattimento.
Strinse le dita sulle redini, raddrizzò appena il busto portando Felix a raccogliere il galoppo. Il tenente lo raggiunse, lo superò e proseguì verso una siepe. L'oltrepassò d'un balzo, quindi a sua volta si girò indietro a fissarlo.
Il Rittmeister non fece altro che allentare di nuovo le dita e il baio scattò in avanti, raggiungendo il morello. Von Knobelsdorff si girò a fissarlo, aggrottò le sopracciglia e spronò ancora.
Entrarono affiancati in un torrente sollevando spruzzi d'acqua, si inerpicarono sulla sponda, balzarono oltre, discesero in un avvallamento coperto d'erba alta, nel quale si inseguirono lasciandosi dietro scie argentee di steli piegati.
Alla fine raggiunsero il limitare di una macchia di querce e faggi. C'erano le rovine di un mulino poco lontano e l'acqua gorgogliava nell'antica gora.

Smontarono da cavallo, lasciarono gli animali liberi di abbeverarsi.
Von Thurn und Taxis si voltò verso von Knobelsdorff: il tenente aveva il volto acceso e le guance appena arrossate per effetto della lunga galoppata. Filtrati dalle foglie, i raggi del sole accendevano il verde dei suoi occhi di screziature d'oro e smeraldo. Ansava leggermente.
Venga con me,” gli suggerì.
L'altro s'irrigidì per un istante. “Dove?”
Il Rittmeister alzò gli occhi al cielo. Il tenente abbassò i propri.
Senza aggiungere altro, von Thurn und Taxis lo precedette vero le vestigia di una vecchia fontana. Da una canna di ferro scurita dagli anni, un getto cristallino si riversava scrosciando in una muscosa vasca di pietra. Come a voler dare l'esempio, l'ussaro si piegò a bere direttamente da esso, poi si raddrizzò e chiese: “Lei non ha sete?”
Von Knobelsdorff si avvicinò adagio.
L'acqua è freschissima,” lo incoraggiò l'altro.
Il tenente pose una mano sotto il getto, facendone scaturire una raggiera di gocce cristalline. Raccolse un po' d'acqua nel palmo e se la portò alla bocca.
Come si vede che non è un ussaro,” ghignò von Thurn und Taxis.
L'altro aggrottò le sopracciglia. “Cosa?”
È un delicatino. Non ha sete? Non sta morendo dalla voglia di ficcare sotto quell'acqua fresca anche la testa? Di farci il bagno, magari?”
Von Knobelsdorff avvampò. “No!”
Non è vero. Lei non ne ha il coraggio, ecco tutto.” Alzò le spalle, poi soggiunse: “Del resto, lei è un ulano. Cosa si può pretendere? Siamo noi i cacciatori, quelli abituati ad agire velocemente, magari dietro le linee nemiche. Ad approfittare di ciò che offre il territorio.”
Una volta, forse,” replicò von Knobelsdorff, “ai tempi di Blücher. Adesso siamo tutti uguali.”
Socialismo della cavalleria?”
Il tenente gli rivolse uno sguardo di fuoco. “Lei si diverte a prendermi in giro,” ringhiò torvo.
Sto solo scherzando,” replicò pacato il Rittmeister, “del resto non l'avrei invitata qui e non le avrei dato uno dei miei cavalli, se il mio intento fosse stato solo quello di prenderla in giro.” Arretrò di qualche passo, come per lasciargli un più agevole accesso alla fontana, poi concluse: “Ora beva quell'acqua fresca, scommetto che sta morendo di sete. E poi ci riposeremo un po' all'ombra, se proprio non le va di fare il bagno.”

Il tenente si sedette su una pietra e appoggiò la schiena al tronco di una quercia. Allungò le gambe davanti a sé e per un po' rimase in silenzio, ascoltando il gorgogliare lieve della fontana e i vaghi cinguettii della foresta.
Il sottopancia allentato, i due cavalli brucavano tranquilli, agitando di tanto in tanto la coda.
Uno scoiattolo balzò con un fruscio da un ramo all'altro.
Si stava avvicinando il mezzogiorno e l'aria era calda e immobile.
Von Knobelsdorff fissò il Werwolf, che sedeva in apparenza abbandonato, una delle sue sigarette nere tra le dita, il polso appoggiato al ginocchio piegato. Dopo un po' gli chiese: “Qual è dunque il suo intento?”
L'altro si girò a guardarlo: “Prego?”
Non vuole prendermi in giro, ha detto.”
Lo confermo.”
E quindi? Mi preleva dalla zona d'operazioni, ancora non ho capito con che scusa, mi porta qui a fare una passeggiata... perché?”
L'altro alzò le spalle. “Mi mancava.”
Il tenente si irrigidì. “Che significa?”
Io non le mancavo?”
Insomma, basta!” sbottò a quel punto il più giovane, balzando addirittura in piedi nell'impeto della protesta. “Basta, non la sopporto più! Può rispondere a una domanda, per una volta? Può dirmi quello che le chiedo senza prendersi gioco di me e senza farmi sentire un idiota?”
Tacque, ansante, con i pugni stretti per la rabbia.
A quella sfuriata seguì un lungo silenzio. Infine, il Werwolf gli chiese: “Che cosa vuole sapere?” Il tono era calmo e serio.
Von Knobelsdorff emise un lungo sospiro, come se avesse appena sostenuto uno sforzo immane, poi tornò alla sua pietra e vi si sedette nuovamente. Infine disse: “Glielo chiedo di nuovo: cosa ci faccio qui?”
Vorrei conoscerla meglio.”
Il tenente lo fissò stupito. “Perché?”
Prima di rispondere, il Werwolf diede un lungo tiro alla sigaretta, rimase per qualche secondo immobile con gli occhi socchiusi e la testa leggermente piegata all'indietro, poi esalò adagio il fumo. Le sue iridi presero una vaga tonalità azzurra. Infine disse: “Non lo so. Immagino sia perché tutti hanno delle debolezze.”
Sarebbe a dire?”
Lasci perdere. Mi dia il tempo di finire la sigaretta, poi faremo ritorno alla scuderia e la riaccompagnerò alla sua unità.”
La fase ebbe il potere di suscitare nel tenente una strana inquietudine. “E poi?”
E poi, niente.”
Von Knobelsdorff non replicò. Dopo alcuni istanti si alzò di nuovo, andò a bere un po' d'acqua, diede qualche pacca sul collo del baio, che pascolando si era avvicinato alla radura. Invece di scemare, l'inquietudine che l'aveva pervaso aumentava di attimo in attimo. Nonostante avesse ottenuto finalmente rispose esplicite, c'era ancora qualcosa che si ostinava a sfuggirgli, qualcosa che da una parte lo obbligava a tenersi sulla difensiva, ma dall'altra lo faceva sentire sul punto di perdere per sempre qualcosa di meraviglioso, che non avrebbe ritrovato mai più. “Possiamo rimanere un altro po',” disse infine. Sollevò la mano e staccò distrattamente un ramoscello di quercia, che poi si fece girare assorto fra le dita.
Gli tornò in mentre lo strano sogno di quando, stremato e sofferente dopo l'interrogatorio dell'agente inglese, era piombato nel sonno – se tale si poteva definire quel nefasto dormiveglia – sul pavimento del vagone.
Aveva sognato querce. Una foresta di abeti e querce, di cui ricordava il silenzio solenne, carico di reverenza, come in attesa di qualcosa.
Poi c’era stato l’ululato del lupo, ed era comparso il Werwolf.
Banale fenomeno onirico? Premonizione? Allucinazione? Non lo sapeva.
Si rigirò di nuovo fra le dita il rametto, che frusciò lieve.
Aveva sognato querce anche in un’altra occasione. Querce antiche, ma con foglie giovani. Morte e vita, l’una in funzione dell’altra, in un ciclo infinito.
E poi un nome.
Ho un’altra domanda,” disse, senza distogliere lo sguardo dalle foglie smeraldine.
La replica del Werwolf suonò pacata, quasi velata da una vaga nota di delusione, come se l’uomo avesse fatto gran conto su di lui, ma si fosse appena accorto che aveva completamente sbagliato la sua valutazione. “Sentiamo.”
Chi è Reiner?”
Alla domanda fece seguito un silenzio lapideo. Pareva che addirittura le foglie avessero smesso di stormire e gli uccelli di cantare. Solo l’acqua della fontana continuava a gorgogliare, ma con un suono metallico, freddo, che ricordava lo scuotere inane di una catena.
Gli occhi del Werwolf divennero due lame di ghiaccio. “Come sa di Reiner?” La voce sembrava il taglio di un rasoio.
Von Knobelsdorff deglutì. “Io… non ne so nulla, veramente. È il nome che lei ha pronunciato nell’ambulanza inglese, quando era incosciente.” Deglutì di nuovo sotto lo sguardo terribile del Werwolf e per un istante temette seriamente che l’uomo gli avrebbe fatto del male.
La voce dell’altro, gelida, rabbiosa, ma anche venata di una strana tristezza, lo fece quasi sussultare: “Perché vuole sapere di lui?”
Perché...” Sollevò lo sguardo sul suo interlocutore, lo riabbassò sulle proprie mani, che stavano tormentando nervosamente il rametto di quercia. “Perché io l’ho visto in sogno,” si decise a dire. “Mi si è avvicinato mentre giacevo al limitare di un campo di battaglia. Gli ho chiesto chi era, e lui mi ha risposto che si chiamava Reiner, e con la certezza dei sogni io sapevo che era quel Reiner, quello che lei aveva menzionato. Dapprima non lo vedevo in faccia, perché aveva la luce del sole dietro le spalle, poi si è chinato accanto a me e aveva i miei stessi lineamenti. Mi ha detto: si muore per rinascere, diglielo. E poi se n’è andato via in sella a un morello.”
Si muore per rinascere,” ripeté il Werwolf dopo un lungo silenzio, come parlando a se stesso. Allungò la mano a raccogliere un sassolino e lo lanciò nella vasca della fontana. Esso raggiunse fluttuando il fondo e si posò sul limo che vi era sedimentato, sollevandone tenui volute.
Nell’aria perdurava un silenzio teso, carico di aspettativa.
D’impulso, von Knobelsdorff gli si avvicinò. Per un po’ esitò imbarazzato, incerto su cosa dire, poi chiese: “È una persona… importante per lei?”
Sì, lo era.” Von Thurn und Taxis abbandonò l’improvvisato sedile su cui era adagiato e fece un passo come per allontanarsi. I suoi occhi erano acciaio, la sua espressione era una parete di pietra dietro cui ribolliva il magma.
Il tenente rimase a guardarlo immobile. “Lo... era?” chiese poi.
Non parliamone più, d’accordo?” ringhiò torvo il Werwolf .
Mi scusi.”
Non è colpa sua.”
Sì, invece. Sono stato poco sensibile nei suoi confronti.”
L’altro scosse appena la testa. “Non si smentisce proprio mai, vero?”
Che intende dire?”
Sempre l’ultima parola, non ce la fa a stare zitto e basta, nemmeno quando si accorge di star parlando a sproposito.”
Mi scusi,” ripeté von Knobelsdorff, “è che io...” Poi scosse la testa, si pose una mano sulla bocca come in un gesto di auto-censura e andò a sedersi su bordo della fontana, dando le spalle al principe.
Fissò lo sguardo su una foglia che galleggiava lungo il bordo del bacile. Sul fondo della vasca c'era la pietra che l'altro vi aveva gettato, immobile, destinata a coprirsi di muschio e a scomparire lentamente nel limo.

Passò un tempo imprecisato. L'acqua continuava a gorgogliare monotona. Soffiò un alito di vento lieve come un sospiro, che fece stormire le foglie e ne spedì un altro paio a galleggiare nel bacile.
Alle spalle di von Knobelsdorff si fece udire pacata, fredda la voce del principe: “Sa che cos'è il sodalizio virile?”
Il più giovane si girò a fissarlo. Pur fatto oggetto di una domanda diretta non ebbe il coraggio di aprire bocca e si limitò a scuotere la testa.
È difficile spiegarlo a chi non l'ha mai vissuto,” considerò allora l'altro.
Il tenente si limitò ad abbassare lo sguardo. Aveva l'impressione che l'uomo stesse cercando in lui qualcosa che con grande disappunto non riusciva a trovare da nessuna parte. Gli si avvicinò di un passo. Il Werwolf, che nel frattempo si era seduto, si alzò nuovamente in piedi.
Rimasero immobili a fissarsi per lunghi secondi. Infine, von Knobelsdorff mormorò: “Perché... non mi parla di Reiner?”
Per quale motivo dovrei farlo?”
Perché l'ho visto in sogno, ed ero io.”
Lasci certe stupidaggini a quel neurologo viennese che con le sue cosiddette interpretazioni dei sogni spilla soldi alle signore inquiete.”
Il tenente non si mosse e non replicò. “Nemmeno lei si smentisce mai,” mormorò infine.
L'altro lo fissò torvo. “Sarebbe a dire?”
Aggredisce senza motivo, tiene lontano le persone anche quando vorrebbero avvicinarsi.”
L'uomo non rispose. Dopo qualche secondo, von Knobelsdorff fece un altro passo avanti, cauto come se stesse procedendo lungo una trave sottile, sotto cui si spalancava un abisso.
La distanza fra loro divenne meno di un metro.
Che cos'è il sodalizio virile?” sussurrò. Gli balenarono in mente immagini della loro fuga, la presa sul braccio, ordini secchi che mascheravano sollecitudine. Una strana, indefinibile sensazione di calore che solo quel misterioso principe era in grado di suscitargli. “Che cos'è? Me lo spieghi.” Si avvicinò ancora. Sollevò gli occhi a incontrare i suoi e quasi si perse nel suo sguardo, in quel momento profondo e trasparente come non l'aveva mai visto.
D'impulso attraversò lo spazio che ancora li separava, gli cinse il torso con le braccia e posò le proprie labbra sulle sue.
Da lì in poi, le sue sensazioni divennero confuse, urgenti: il bacio si fece più profondo, sempre più profondo e intimo, al punto che gli parve di precipitare in quell'abisso buio che aveva così faticosamente attraversato, e al tempo stesso si sentì trasportare in alto, verso una luce così intensa che lo costringeva a stringere gli occhi. Sentiva il cuore pulsargli nelle tempie, un contraccolpo gli fece capire che l'altro l'aveva spinto con la schiena contro un albero.
Si fissarono per un istante e poi piombarono nuovamente l'uno addosso all'altro, ansanti, avidi, attraversati da una passione che di attimo in attimo pareva ruggire con più violenza.
Dietro le palpebre serrate del tenente baluginarono immagini di un salone buio, di due sciabole incrociate, le lame letali in bilico, pronte a uccidere.
Al ricordo del clangore che esse avevano prodotto cadendo a terra, non poté impedirsi di sussultare. Pur nella vertigine del momento, ebbe chiara l'immagine di una fiammella semi-soffocata, che improvvisamente riceveva ossigeno e si trasformava in una vampa che divorava ogni cosa.
Un pensiero lo attraversò come un lampo: quella vampa avrebbe distrutto tutto. L'avrebbe travolto, annichilito.
Si svincolò dall'abbraccio finché si sentiva in grado di farlo.
Mi scusi,” balbettò. Arretrò con passi incerti. “Mi scusi, la prego di perdonarmi, non so cosa mi sia preso.”
Il Werwolf si limitava a fissarlo in silenzio, immobile.
Egli si passò una mano tremante fra i capelli, poi ripeté : “Mi scusi, sono uno stupido... sono solo uno stupido.” Raggiunse il suo cavallo, gli sembrava di essere ubriaco, stordito. Si sentiva il cuore in gola come prima di un assalto. “Mi scusi,” disse per l'ennesima volta, poi montò in sella.
Sempre in silenzio, von Thurn und Taxis montò a sua volta.
Von Knobelsdorff evitò persino di guardarlo in faccia. Spronò e partì al galoppo.










[1] Razza di cavalli da guerra originaria della Prussia.


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Capitolo 18
*** Capitolo 11 ***


Cari lettori,
ecco la mappazza settimanale. Visto che è un capitolo breve, ve lo mando in onda tutto intero.
Come sempre molti ringraziamenti a chi mi sta seguendo, con particolare trasporto emotivo nei confronti di chi mi lascia anche dei commenti^^






Capitolo 11

La vettura era parcheggiata ai margini dello spiazzo che si trovava davanti alla scuderia. L’autista in uniforme, appoggiato a un parafango, fumava una sigaretta.
Qua e là si vedevano soldati impegnati in varie occupazioni. Seduto su una cassetta rovesciata, un sellaio stava riparando un finimento.
Von Knobelsdorff smontò da cavallo, subito un uomo si avvicinò e prese in consegna l’animale. Con la coda dell’occhio, l’ufficiale si accorse che anche von Thurn und Taxis aveva abbandonato la cavalcatura.
Seguì con lo sguardo i soldati che portavano via i due Trakehner: magnifiche bestie, sicuramente di gran pregio.
A quel punto, l’etichetta gli avrebbe imposto di lodare il cavallo che aveva montato, di ringraziare per la gita.
È opportuno che io rientri alla mia unità,” disse semplicemente.
L’altro si limitò ad annuire. Si diresse verso la macchina e subito l’autista spense la sigaretta e corse ad aprirgli con deferenza la portiera.
Il capitano prese posto sul sedile posteriore, poi si girò nella sua direzione, come invitandolo a salire a sua volta sul veicolo.
Von Knobelsdorff tentennò. Si era immaginato un viaggio di ritorno da solo, in una solitudine certo piena di pensieri, ma perlomeno libera da presenze angosciose.
Strinse le labbra, si impose l'impassibilità: aveva mantenuto la calma nel corso di combattimenti aerei dai quali sarebbe potuto uscire cadavere, non poteva permettersi di mostrare turbamento in un frangente così frivolo.
Raggiunse l'auto, l'aggirò e prese a sua volta posto sul sedile posteriore, con la sensazione di accomodarsi accanto a un obice inesploso. Si rivide ansante contro il tronco dell'albero, con lui contro di sé. Rievocò il suo sguardo acceso, ceruleo, carico di un anelito che per quei brevi istanti l'aveva reso così rovente che quasi si meravigliò di non portarne le ustioni.
Era stata la forza di quelle iridi adamantine a gettarlo nello scoramento, a fargli comprendere che avrebbe dovuto fuggire subito, o perdersi per sempre.
Ripensò ai combattimenti aerei, ed essi gli parvero prove di ben poco conto, rispetto a quella che gli era stata posta dinnanzi nella foresta.
Volse lo sguardo all'esterno e lo lasciò scorrere su postazioni, depositi, acquartieramenti e linee difensive. Tutto dava un'impressione di ordine, di pulizia. Di cose che erano dove dovevano essere, fatte secondo il regolamento, corrette.
Tutto il contrario di quello che c'era nei suoi pensieri.
La macchina sobbalzò su un'asperità del terreno e la sua spalla sfiorò quella del capitano. “Mi scusi,” disse in un soffio, senza guardarlo. Si spostò fino ad addossarsi alla portiera.
Il Werwolf non rispose. Sedeva impassibile, lo sguardo fisso in avanti. Teneva le mai posate sulle ginocchia e di tanto in tanto tamburellava nervoso con le dita.
Il silenzio era glaciale.

Von Knobelsdorff accolse con sollievo il profilarsi all'orizzonte della villa che fungeva da alloggio per i piloti.
Attese che l'auto la raggiungesse e dovette quasi farsi violenza per stare seduto fino a che l'autista non andò ad aprirgli la portiera. Sgusciò fuori rapido, come per evitare che una mano gli calasse sulla collottola e lo trascinasse indietro. Quando fu in piedi, si volse verso il capitano, che invece non si era mosso dal sedile. Si piegò appena, ma evitò di intercettare il suo sguardo. “Stia bene,” gli augurò asciutto, poi gli girò le spalle e si allontanò a passi svelti.
Scomparve all'interno dell'edificio e quando fu nel salone, con un paio di muri tra sé e la presenza del capitano von Thurn und Taxis, si lasciò cadere sul divano ed emise un sospiro che aveva al tempo stesso i toni del sollievo e del rimpianto.
Non c'era altro da fare,” si disse a mezza voce. Si guardò intorno ed ebbe la sensazione di essere stato via anni, secoli, intere epoche. Nulla gli pareva più come prima.
Valutò se fosse il caso di andare a fare rapporto al capitano Kunz. Per dirgli cosa, poi? Sono tornato? E quando mai aveva avvisato che si assentava?
Non aveva senso.
La voce di Hoffmeyer lo fece sobbalzare: “Ah, eccoti qui! Allora, cosa volevano da te quelli del tuo vecchio reggimento?” L'amico lo raggiunse, entrò nel suo campo visivo e in tono diffidente gli chiese: “Non è che siccome non vai d'accordo col Vecchio hai fatto richiesta di tornare a fare l'ulano, vero?”
Von Knobelsdorff scosse la testa.
E allora cosa volevano?” Poi, dopo una pausa: “Non c'entrerà mica la tua bella valchiria?”
D'istinto, ancora sotto l'effetto delle sue dolorose meditazioni, l'altro ringhiò: “E basta con questa valchiria, mi hai stufato!”
Hoffmeyer corrugò la fronte, colto alla sprovvista da quel cipiglio duro. “Beh... non ci sarebbe niente di male,” disse dopo un po'.
Senonché non c'è nessuna valchiria, va bene? Solo... un'irregolarità nei documenti, tutto qui.”
Che documenti?”
Von Knobelsdorff lo fissò torvo. “Ti cambia la vita saperlo?”
Hoffmeyer lo fissò come se lo vedesse per la prima volta, poi scosse la testa e rispose: “No di certo. Fatti sentire quando ti è passata, d'accordo?” abbandonò il salone.
L'altro rimase seduto e per un po' si limitò a contemplare in silenzio la porta da cui l'amico era uscito. E così, era quella la scusa che il Werwolf aveva usato: un passaggio al suo vecchio reggimento. Per quali motivi? Avrebbe potuto inventarsi quello che voleva, nessuno si sarebbe preso la briga di andare a controllare.
Di nuovo percepì la sensazione di estraneità che l'aveva pervaso al suo rientro dopo la missione: era parte di quel mondo e allo stesso tempo non ne era più parte.
Gli tornò in mente il paragone della lanterna magica: non c'erano più immagini fatate sul muro, ma lenti, vetri colorati e una fiamma alimentata a spirito.

§

Von Knobelsdorff stabilì che era un periodo sfortunato. Il Vecchio l'aveva riammesso alle missioni di volo, ma sembrava che qualcuno si mettesse in contatto con gli inglesi ogni volta che lui decollava, avvertendoli di tenersi alla larga.
Gli mancava un abbattimento per raggiungere la fatidica cifra che avrebbe fatto di lui un asso, ma non riusciva più ad ingaggiare un solo duello. Se c'erano gli inglesi, era lui che si trovava nella necessità di rientrare alla base senza benzina o con le armi scariche. Se invece il suo aereo era in perfetta efficienza, non c'era un solo nemico in tutta la volta celeste.
La voce di Kramer lo distrasse dalle sue meditazioni: “La mattina è serena, signor tenente.”
L'ufficiale si strinse nelle spalle. “Come nelle ultime due settimane,” brontolò.
Il suo aereo è pronto, signore. L'ho revisionato io personalmente.”
Von Knobelsdorff emise un sospiro e rispose: “Il Vecchio sarà contento: sarà almeno un mese che lo riporto alla base senza un graffio.”
Come diceva la mia povera nonna, che Dio l'abbia in gloria, le cose ottenute con troppa facilità non hanno valore, signor tenente.”
Il più giovane emise un sospiro e lanciò al cielo terso uno sguardo avvilito. “Sarà anche come dice lei,” brontolò poco convinto.
L'aereo è pronto,” gli ricordò il graduato.
Von Knobelsdorff salì a bordo e subito l'odore di olio motore, benzina e vernice dell'abitacolo ebbe il potere di ripulire la sua mente da ogni pensiero.
Rivolse nuovamente lo sguardo al cielo, a quel punto con lo sguardo del cacciatore che si appresta alla battuta, e con un gesto automatico controllò che le armi fossero cariche e ben oliate.
Contatto!” urlò, sporgendosi di lato dall'abitacolo.
Contatto!” rispose il meccanico, poi diede il colpo all'elica.
Il motore cominciò a girare, dapprima con qualche colpo di tosse, poi con un rombare sempre più regolare e profondo.
Un sussultò avvertì il tenente che gli avieri avevano tolto i tacchi da sotto le ruote. L'Albatros cominciò a rullare dolcemente, dapprima adagio poi sempre più veloce. Manovrando la pedaliera, von Knobelsdorff lo portò in linea di decollo. Sotto i suoi occhi si involò Kunz, ormai il suo aereo senza alcun contrassegno aveva quasi smesso di sembrargli strano. Dietro le spalle del comandante c'era Marquardt. Dietro di lui arrivavano gli altri, che si stavano preparando a prendere il volo.
Tutte le sue ruminazioni erano scomparse in favore di un'ebbrezza che andava facendosi più intensa di attimo in attimo.
Decollò poco dopo. Raggiunse gli aerei della Jasta già in volo e subito cominciò a sondare il cielo alla ricerca degli inglesi.
Giunsero in breve al terreno brullo delle linee avanzate, gli sbarramenti di filo spinato, le linee di sacchi di sabbia. Qua e là si levavano colonne di fumo, una caligine venefica incupiva l’aria sulla terra di nessuno.
Von Knobelsdorff guardò in alto, dove il cielo era limpido, schermandosi dai raggi del sole con la mano. Vide l'aereo di Kunz animarsi, poi scuotere le ali nel segnale di nemico in vista. Subito dopo, il comandante della Jasta diede tutto motore per guadagnare quota.
Tutti lo imitarono, il tenente cominciò a scrutare ansiosamente in giro alla ricerca degli inglesi.
Infine il suo occhio allenato li individuò, sotto forma di un nugolo di puntini che a loro volta tentavano di prendere quota più in fretta che potevano.
Li adocchiò cercando di distinguerli man mano che si avvicinavano: dei Sopwith Pup, dei Bristol F2, un Sopwith Triplane.
Qualcuno cominciava già a sparare le prime raffiche. Von Knobelsdorff cercò di guadagnare ancora un po’ di quota, poi si accorse che un F2 lo stava puntando. Continuò a salire mantenendo il contatto visivo, attento a non farsi prendere di coda, tolse appena motore, abbozzò una virata mentre l’altro a sua volta virava nelle prime mosse del duello aereo.
Il tenente sparò la prima raffica, facendo saltare brani di rivestimento dall’ala superiore dell’inglese, cercò poi di riguadagnare quota con un mezzo looping, ma già l’altro stava già virando per arrivargli sul fianco.
Von Knobelsdorff si raddrizzò con un mezzo tonneau, riprese il contatto visivo con l’altro, sparò di nuovo. Dal motore dell’inglese cominciò a uscire fumo nero, il tedesco sorrise fra sé e sé e prese a seguirlo nella sua lenta caduta, per avere l’abbattimento confermato. Gli stette dietro fino a quando l’F2 fu così basso che probabilmente dalle trincee potevano vedere in faccia il pilota. Si aspettava da un momento all’altro che atterrasse da qualche parte, invece d’un tratto il motore smise di emettere fumo, l’aereo si riprese quel tanto da riguadagnare un po’ di quota e gli sgusciò via da sotto il naso. Colto di sorpresa, von Knobelsdorff provò a inseguirlo, ma erano già sulle trincee inglesi, a quota bassissima, e dovette immediatamente ridare gas per evitare di essere abbattuto da terra. Riprese quota con un’ala sbrindellata dalla fucileria e si allontanò in tutta fretta.

Quando atterrò al campo era furente: non solo gli era sfuggito per un soffio l’aereo che l’avrebbe finalmente consacrato asso, ma aveva anche danneggiato il suo Albatros e c’era da scommettere che Kunz l’avrebbe messo a terra di nuovo, come l’istitutrice che punisce il bambino se giocando sporca l’immacolato completino alla marinaretta.
Come se fosse possibile giocare senza sporcarsi,” ringhiò, ricordando fin troppi episodi della sua infanzia.
Hoffmeyer, sopraggiunto al suo fianco, gli chiese: “Hai detto qualcosa?”
Von Knobelsdorff alzò le spalle. “Per me mi sbatte a terra di nuovo.”
L’altro si voltò verso l’Albatros del collega e non poté fare a meno di sollevare le sopracciglia. “Ah, però,” rispose.
Non ti ci mettere anche tu.”
Hoffmeyer spostò le mani dietro la schiena, poi disse: “Obiettivamente, non è che si possano fare missioni di guerra senza rovinare gli aerei, no?”
È quello che dico anch’io. Bisognerebbe spiegarlo al Vecchio, però.”
I due fecero qualche passo fianco a fianco, poi Hoffmeyer riprese: “E comunque, lo sai benissimo perché il Vecchio si è arrabbiato l’altra volta: per lui la faccenda delle medaglie è come il fumo negli occhi.”
Non è che i piloti con il Pour le Mérite combattano meno degli altri,” obiettò von Knobelsdorff.
Di più, se mai,” rincarò l’altro.
Bah, vaglielo a spiegare...”

Procedettero verso la sala mensa, si sedettero a un tavolino e subito un’ordinanza in giubba bianca portò loro caffè e biscotti.
Von Knobelsdorff si riempì la tazza, poi rimase per un po’ a fissare la superficie scura e appena increspata della bevanda. L’escursione con il principe von Thurn und Taxis risaliva a qualche settimana prima: da allora non era più riuscito a ottenere un abbattimento. Si chiese – come si era chiesto ossessivamente almeno altre mille volte – se si trattasse di un mero caso, o se quello sfortunato evento avesse avuto qualche effetto nefasto su di lui. Sulla sua aggressività in combattimento, tanto per cominciare: davvero non c’erano aerei nemici nella sua zona o era lui che in qualche modo inconsapevolmente li evitava? Forse voleva evitare gli scontri? Voleva punirsi per non essere riuscito a dominare se stesso in quella radura che ormai considerava maledetta?
Si voltò verso Hoffmeyer, che teneva la tazza in una mano e un biscotto nell’altra, e intanto si protendeva verso il tavolo a fianco per scambiare una battuta con Eschmann. Come ormai gli capitava sempre più spesso, invidiò la noncurante allegria dell’amico, che sembrava renderlo immune da quelle ruminazioni che a lui toglievano sonno e appetito.
Si chiese cos’avrebbe fatto Herbert al posto suo, nella radura.
La risposta era semplice: niente. Si sarebbe goduto la cavalcata, magari avrebbe fatto anche un bel sonnellino all’ombra e poi se ne sarebbe tornato tranquillamente alla Jasta.

§

Il pavimento del vagone, di metallo zigrinato, odora di olio come quello di certe officine. È ruvido contro la sua pelle delicata, ma freddo com'è riesce almeno a lenire un po' il bruciore delle ferite.
Egli vi si abbandona esausto. Ogni fibra del corpo gli pulsa di dolore, quando respira ha l'impressione che la pelle del dorso gli si laceri come carta di giornale fradicia. Le corde che gli immobilizzano le braccia sono come anelli di fuoco.
Non sa quanto tempo sia passato, ma gli pare un'angosciosa eternità.
Una porta si apre. Percepisce dei passi in avvicinamento e istintivamente si irrigidisce.
Qualcuno si china accanto a lui.
Egli sbatte gli occhi, cerca di mettere a fuoco quello che percepisce solo come un ovale chiaro nella penombra. Infine riconosce il volto pallido e i capelli neri dell'agente inglese. Cerca istintivamente di farsi indietro, ma il movimento gli strappa l'ennesimo gemito di dolore.
Beffardo, the Bishop gli dice: “Non ti agitare, Reiner. Non serve a nulla.”
Egli stringe i denti. “Non... sono Reiner...” riesce a balbettare dopo un po', con una voce roca che sembra il rantolo di un moribondo.
L'altro fa una risatina. “Ma certo che lo sei,” replica.
No.”
La voce dell'agente inglese prende un tono vagamente confidenziale: “Sai di esserlo.” The Bishop allunga una mano nella sua direzione, provocando un nuovo scomposto tentativo di arretramento. Fa una risatina a quella vista, poi soggiunge: “Pensa a quello che è successo nella radura. Avresti fatto quello che hai fatto, se non avessi saputo di esserlo?”
Egli rimane in silenzio.
Rispondi: l'avresti fatto?”
Subito dopo, con un gesto repentino the Bishop lo afferra per i capelli e gli piega la testa all'indietro. Egli emette un nuovo gemito di dolore, cerca di liberarsi, ma la presa dell'inglese è ferrea.
Questi si piega su di lui fino a che i volti non sono vicinissimi, poi lentamente dice: “Non rispondi, vero? Non rispondi perché sai che ho ragione. I fatti parlano per te: tu sei Reiner.”
Non è vero.”
L'altro fa una breve risata, poi insiste: “Dì un po', ti è piaciuto baciarlo, vero?”
Egli deglutisce. “No,” risponde dopo qualche secondo.
Non vali niente neppure come bugiardo, Reiner. Ti è piaciuto così tanto che sei dovuto scappare, altrimenti non saresti più riuscito a stargli lontano, non è così?”
No.”
Ma davvero? E allora come mai hai tagliato la corda in quel modo, di gran carriera, con la coda fra le gambe? Come mai non riesci a smettere di pensare a lui? Io lo so che pensi a lui.” The Bishop stringe la presa sui suoi capelli, si avvicina fino a sfiorargli le labbra con le proprie, poi sussurra: “Lui sa quali sono i tuoi sentimenti e tornerà.” Di colpo lo lascia andare, lui ricade pesantemente, la schiena gli rimanda una bruciante fitta di dolore.
Tornerà,” ripete l'inglese. “Tornerà, e troverà me ad attenderlo.”

No!” esclamò von Knobelsdorff svegliandosi di soprassalto.
Si guardò intorno ansante: buio, odore di legno vecchio e lavanda, finestra parzialmente oscurata dalle tende, oltre la quale si indovinava un fioco bagliore lunare.
Le coperte erano ridotte a un viluppo informe.
Poco distante, la voce di Hoffmeyer brontolò: “Se non la pianti, dico al Vecchio di mandarmi a dormire con i meccanici, sarà sempre meglio che avere di fianco te e i tuoi incubi.”
Scusa,” mormorò von Knobelsdorff, che si sentiva ancora nelle orecchie la voce beffarda dell'inglese.
Sognavi di precipitare?”
No, io... sì. Sì, sognavo di precipitare.”
No o sì?”
Non mi ricordo.”
Beh, a prescindere da quello che sognavi, vedi di dormire, va bene? Domattina dobbiamo andare in volo.”
Scusa.”
Non fa niente. Ora dormi, però.”

Von Knobelsdorff si riadagiò all'indietro con un sospiro e mise le braccia dietro la testa. Per un po' rimase semplicemente immobile con gli occhi aperti, sondando un buio che gli pareva popolato di ombre inquietanti.
La tenda semiaperta sembrava nascondere una persona, il tramestio lieve di qualcuno che passava per il corridoio gli fece irrigidire i muscoli come per fronteggiare un'intrusione.
Si girò cercando di fare meno rumore possibile, poi di nuovo rimase fermo, lo sguardo rivolto alla striscia di cielo che il tendaggio lasciava libera.
Si chiese se i sogni fossero banali fenomeni nervosi, scorie del cervello che venivano eliminate durante il riposo, oppure se si potesse riconoscere in essi qualcosa di premonitore o profetico.
Concluse che non sapeva quale delle due cose augurarsi.

§

L'alba sorprese von Knobelsdorff ancora con lo sguardo fisso sulla finestra.
La Jasta si stava svegliando, da fuori proveniva il parlottare dei meccanici che stavano portando gli aerei in linea di volo, in corridoio c'era il tramestio di chi andava e veniva dai bagni. Colse uno scambio di battute e una risata.
Se tendeva l'orecchio, riusciva anche a individuare l'acciottolio di pentole e stoviglie delle cucine.
Con un cigolio di molle, Hoffmeyer abbandonò il letto, poi si liberò della camicia da notte, rimanendo nudo come un verme. Rovesciò il contenuto della brocca nel catino e cominciò a lavarsi, soffiando e sbuffando per la temperatura dell'acqua. “Sveglia, pigrone!” esclamò poi, strofinandosi vigorosamente con un telo. “Ci sono degli inglesi che ci aspettano, là fuori. Non vorremo deluderli!”
Herbert...” protestò von Knobelsdorff, strofinandosi gli occhi. Si mise a sedere sul letto, si passò una mano fra i capelli scompigliati dal sonno.
Forza!” lo incalzò l'altro. “Non c'è niente di più bello che volare all'alba.”
Il primo non rispose. Aveva ancora davanti agli occhi il sorriso beffardo dell'agente inglese; le sue parole inquietanti continuavano a tormentarlo.
Si alzò adagio, mugolando imbronciato. “Sta un po' zitto,” protestò.
Hoffmeyer smise di asciugarsi. Per un po' rimase fermo a fissarlo col telo sulla spalla tipo statua classica, poi sentenziò: “Tu hai dei problemi. Io mi farei vedere dal capitano medico, se fossi in te.”
Von Knobelsdorff gli rivolse uno sguardo torvo. “Perché?”
Da quando sei sparito per la tua famosa missione non dormi più. Passi le notti a rotolarti come un pollo al girarrosto, e quel che è peggio, è che non fai dormire nemmeno i camerati.”
Ah, sono commosso da tanta preoccupazione.”
Hoffmeyer fece un gesto di diniego e disse: “Lo sai cosa intendo.”
Sto benissimo,” brontolò von Knobelsdorff.
Davvero? Dimmi quante ore hai dormito questa notte.”
L'altro emise un sospiro. “Poche,” ammise.
Non puoi andare in volo così.”
Sono perfettamente in grado di pilotare.”
E sei in grado di difenderti dagli inglesi?”
Von Knobelsdorff ripensò al suo sogno. “Non lo so,” mormorò.

§

Il tenente raggiunse il suo Albatros e fece i controlli di rito. Stava per montare a bordo quando un soldato lo raggiunse e si mise sull’attenti. Von Knobelsdorff lo fissò perplesso. Si guardò fugacemente intorno, ma tutto sembrava come al solito. I suoi colleghi stavano prendendo posto sugli aerei, o effettuando gli ultimi controlli a terra. C’era un’atmosfera di normalità, addirittura di tranquillità, nei limiti delle fasi che precedono i voli di guerra. “Che cosa c’è?” chiese al soldato.
Questi irrigidì se possibile maggiormente la posizione di attenti e a voce alta e chiara, come da regolamento, scandì: “Signor tenente, il signor capitano Kunz ordina di raggiungerlo nel suo ufficio!”
Von Knobelsdorff girò lo sguardo verso l’aereo del capitano e notò in effetti che l’ufficiale non c’era.
Aggrottò le sopracciglia: la faccenda non gli piaceva per nulla. Si chiese se il comandante della Jasta avesse strolgato qualche nuovo motivo per tenerlo a terra.
Si diresse verso la palazzina degli uffici e lì incontrò Kunz, che già in tenuta di volo stava procedendo verso l’esterno.
Si mise sull’attenti e salutò.
Riposo, tenente,” disse asciutto il capitano, senza quasi fermarsi. “Mi attenda qui. Al rientro dal volo devo parlarle.”
Cosa?” protestò il più giovane. “Dovrei stare qui? Ma il mio aereo è pronto in linea di volo!”
Kunz si fermò. Si voltò verso di lui e gli riservò uno sguardo gelido. “Lei mi attenderà qui,” si limitò a ripetergli, “le spiegherò tutto al mio ritorno. Se non dovessi rientrare dalla missione di volo, sarà il furiere Schlemmer a consegnarle i documenti.”
Cosa? Che documenti?”
Ma Kunz stava già procedendo lungo il corridoio e non lo sentì neppure. O, se lo sentì, ritenne di non fermarsi a rispondergli.
Von Knobelsdorff rimase fermo a guardarlo mentre si allontanava. Dalla finestra vedeva gli aerei pronti per la missione, quello di Marquardt stava già cominciando a rullare verso la testata pista. Strinse i pugni indispettito: cosa significava quella nuova proibizione di volare? Si chiese se il rigido ufficiale ce l’avesse con lui per qualche motivo. Perché era un aristocratico, magari, e come tanti Kunz era convinto che avesse ottenuto i gradi in virtù di quello e non perché li aveva meritati sul campo.
Soffocò un’imprecazione: l’aereo di Marquardt era già in volo, quello di Hoffmeyer stava prendendo velocità nella corsa di decollo.
E lui doveva starsene a guardarli dalla finestra di un ufficio.

Il comandante rientrò circa un’ora dopo. Von Knobelsdorff, che non appena aveva sentito il ronzio degli aerei in avvicinamento si era incollato alla finestra, lo vide atterrare, scendere rapido dal velivolo e dirigersi verso la fureria.
Si preparò a replicare a qualsiasi accusa Kunz fosse in procinto di rivolgergli.
Quando lo raggiunse, il capitano semplicemente disse: “Venga con me.” Lo precedette nel suo ufficio, si accomodò alla scrivania. Non essendoci altre sedie nella stanza, von Knobelsdorff rimase di fronte a lui sull’attenti.
Riposo,” disse Kunz. Tirò fuori da un cassetto una busta e la spinse verso di lui. “I documenti sono già firmati,” spiegò asciutto. “L’ottavo abbattimento è stato confermato, avrà la sua agognata decorazione.”
Von Knobelsdorff aprì bocca per replicare, ma non riuscì a emettere alcun suono. Sentì le guance andargli a fuoco e subito dopo fu certo di essere sbiancato. “Cosa…?” mormorò.
Il Pour le Mérite,” specificò Kunz.
Il tenente si obbligò alla calma. Per quanto l’idea di ricevere il prestigioso Blauer Max lo galvanizzasse, non avrebbe sopportato il conferimento di una decorazione che non meritava. “C’è un errore, signor capitano,” rispose faticosamente.
Nessun errore,” replicò l’altro impassibile.
Von Knobelsdorff strinse i denti e spiegò: “L’ultimo aereo che ho colpito non è caduto, signore. Si è ripreso a pochi metri da terra ed è volato via, non c’è stato nessun abbattimento.”
Questo lo so bene,” rispose Kunz, senza mutare minimamente l’espressione. “La conferma dell’abbattimento si riferisce a un altro contesto. È valida, quindi lei ha totalizzato otto vittorie.”



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Capitolo 19
*** Capitolo 12 - Prima parte ***


Salve carissimi,
ecco finalmente la mappazza settimanale. Vi mando di nuovo in onda un mezzo capitolo, perché dopo la felice parentesi del capitolo precedente siamo tornati ai soliti standard di lunghezza (ovvero: “messa cantata”).
Grazie a tutti coloro che mi seguono, un enorme grazie a chi mi sta lasciando anche qualche commento.





Capitolo 12

Diretta in Patria, la tradotta era perlopiù occupata da militari molto allegri. In fondo al vagone ad esempio si era raccolto un gruppetto di soldati: uno di essi aveva tirato fuori dallo zaino una concertina e tutti gli altri cantavano sulle note allegre dello strumento. Una bottiglia di Schnaps passava di mano in mano.
Un altro gruppetto, composto perlopiù di feriti in via di guarigione, sedeva da una parte. Gli uomini si stavano mostrando a vicenda fotografie di mogli e fidanzate. Qualcuno aveva anche immagini di bambini, con gli abitini alla marinara e i giocattoli sottobraccio.
Sedevano qua e là anche degli ufficiali, che nel contesto informale non disdegnavano sorsi di Schnaps quando passava la bottiglia, né rifiutavano di ammirare le fotografie che i soldati con fierezza esibivano.
Un giovane tenente aveva addirittura tirato fuori l'immagine di una ragazza, e la mostrava ai soldati. Qualcuno provò a dire sottovoce che il volto della fanciulla non gli era nuovo, ma fu prontamente zittito dagli altri.
In tutto ciò, il tenente von Knobelsdorff sedeva serio accanto a un finestrino e lasciava vagare lo sguardo sul paesaggio che scorreva all'esterno.
Aveva fantasticato tante volte sul Pour le Mérite. Aveva immaginato un viaggio di rientro trionfale, tra feste, risate, felicità e giusto orgoglio.
Aveva immaginato di brindare con i camerati, di accogliere i complimenti e le congratulazioni di ogni militare in cui si sarebbe imbattuto.
Dalla base se n'era andato più o meno come un ladro. Era montato sulla tradotta nello sconcerto dei colleghi, che perlopiù non avevano nemmeno capito perché partisse.
Quei pochi a cui nella fretta era riuscito a dire la verità, ovvero che si recava a Berlino per ricevere l'ambita decorazione dalle mani del Kaiser in persona, non avevano nemmeno fatto in tempo a fargli le felicitazioni, in pratica.
La faccenda non era legata solo all'avversione del suo comandante per la chincaglieria. Lui stesso aveva in realtà perlopiù taciuto la faccenda, evitando di farne menzione se non ai più intimi amici.
Non l'aveva detto nemmeno al suo colonnello di quando era negli ulani, che per tanti aspetti era stato per lui come un padre.
Si chiese perché.
Forse pensava di non meritarla.
O forse non era più lo stesso giovane ufficiale, ardimentoso e fiero, che era stato fino a poco tempo prima. Ardimentoso lo era ancora, certo. Anche fiero, ovviamente, ma forse in un modo diverso. In modo più schivo, sobrio, privo di ostentazione. Il Werwolf del resto sembrava un giovanotto snello, dalle mani delicate, eppure l’aveva visto con quelle stesse mani uccidere in un istante uomini ben più grossi di lui.
Come al solito, rievocò la sua stretta sul braccio: quel contatto rude, asciutto, che però non mancava mai di suscitargli una struggente sensazione di calore.
Era stato senz’altro lui a confermare l’abbattimento.
Tra le innumerevoli domande che aveva formulato, tutte senza risposta, c’era anche quella: perché lo aveva fatto? Non ne avrebbe avuto alcun motivo. Anzi, forse per avere l’abbattimento confermato aveva anche dovuto rivelare particolari segreti della missione.
Perché, quindi?
In quel momento, la comparsa di una bottiglia nel suo campo visivo lo fece quasi sussultare. “Un sorso, signor tenente?” gli chiese un artigliere alto forse un palmo più di lui, dall’espressione gioviale.
Mentre meccanicamente prendeva lo Schnaps, tornò con la mente all’episodio del treno inglese. Rivide la disinvoltura con cui il Werwolf aveva accettato la bottiglia e aveva bevuto, senza un fremito di imbarazzo o di timore.
Se avessero scoperto che era tedesco, l’avrebbero fucilato sul posto come spia.
Una voce lo riportò alla realtà: “Non vuole bere un sorso, signor tenente?”
Grazie.”
Von Knobelsdorff buttò giù qualcosa che gli parve una palla di fuoco. Gli sfuggì un colpo di tosse. L'artigliere sorrise e disse: “Forte, vero? Quando si è in trincea, non c'è niente di meglio per scaldare le budella.”
A quel punto si avvicinò un altro artigliere e disse: “Klaus, sei un cretino: non vedi che è un aviatore?” Poi, rivolto all'ufficiale: “Lo scusi, signore: non distinguerebbe nemmeno un marinaio da un fante.”
Non fa niente,” disse von Knobelsdorff, desideroso di tornare alle sue meditazioni. I soldati, però, continuavano ad assieparglisi intorno, incuriositi dalla sua uniforme elegante e dal distintivo di pilota. Si domandò se tra loro ci fossero anche quelli che ogni giorno l'avevano salutato con ampi gesti mentre passava alto sulle trincee.
Uno di essi gli chiese: “Ha abbattuto degli aeroplani nemici, signore?”
A quella domanda calò il silenzio, tutti lo fissavano con aspettativa. Gli offrirono di nuovo la bottiglia.
Egli bevve un altro sorso, rassegnandosi alla colata incandescente che gli fece bruciare la gola e lo stomaco, poi rispose: “Sì, qualcuno.”
E quanti, signore? Quanti?” chiese un fante che non poteva avere più di diciotto anni.
Non fare il maleducato, Franz!” lo rimbeccò un altro, ma la curiosità accendeva gli sguardi di tutti. Anche quelli che stavano cantando si interruppero e si avvicinarono. Le foto di mogli e fidanzate tornarono nelle tasche da cui erano uscite.
Von Knobelsdorff fece scorrere lo sguardo sull'improvvisata platea e si rese conto che rimanere concentrato nei propri pensieri sarebbe stato un atto di egoismo indegno di un ufficiale. “Sto rientrando in Germania per ricevere il Pour le Mérite,” disse.

§

Alla stazione del suo paese, schierata sulla banchina, c'era addirittura la banda musicale.
Il tenente scese dal treno sulle note dell'inno nazionale, salutato con ampi gesti e acclamazioni. Fu accolto dal borgomastro in persona mentre una folla festante veniva tenuta a distanza dai gendarmi. Le ragazze lanciavano fiori e baci, qualcuna addirittura fazzoletti con le cifre ricamate, la gente applaudiva. Chiunque avesse un'uniforme gli rivolgeva il saluto militare.
Von Knobelsdorff dovette faticare per non sfiorarsi con le dita l’azzurra decorazione, che ancora gli pendeva dal collo dandogli la sensazione di insolito monile. Alcuni alti ufficiali dello Stato Maggiore gli avevano assicurato che col tempo ci avrebbe fatto l’abitudine, ma la sua sensazione era che si impigliasse ovunque, e che i suoi spigoli lo pungessero a ogni movimento.
Peraltro, gli sembrava anche terribilmente vistosa. Pacchiana, addirittura.
Non si era ancora rassegnato al fatto che tutti lo guardassero, che i padri lo indicassero ai figli come un esempio, che i militari di ogni arma e grado lo salutassero.
Pian piano diventerà normale, si ripeté, ricordando le parole che un generale di corpo d’armata gli aveva rivolto appena uscito dalla sala delle udienze di Sua Maestà, quando spaesato si guardava intorno come un animale selvatico portato in gabbia nel bel mezzo di una festa.
Il borgomastro gli rivolse un discorso, il reverendo pronunciò una benedizione, per lui e per tutti gli eroici soldati tedeschi, o forse prima arrivò la benedizione del prete e poi il discorso del borgomastro, la sua destra veniva costantemente ghermita e stretta, perlopiù da sconosciuti, che accompagnavano il saluto con auguri e alate parole di vittoria...

A un certo punto si ritrovò di fronte Johann, lo chauffeur di famiglia, che si mise sull'attenti e disse: “Signor barone, bentornato.”
Alle spalle dell'uomo c'era una lucidissima vettura nera, sul cui sedile posteriore attendeva impettita la baronessa von Knobelsdorff.
Il tenente rispose al saluto dell'autista, quindi raggiunse la nobildonna e, rivolgendole un rigido inchino del busto, disse: “Buon giorno, maman.”
Ella fece col capo un sobrio cenno d'approvazione. Attese che Johann aprisse la portiera per il figlio, quindi gli chiese: “Hai fatto buon viaggio?”
Molto buono, grazie. Lei sta bene, maman?”
La donna assentì e lo invitò a prendere posto al suo fianco, quindi proseguì: “Sono molto felice di questa licenza, mio caro. Anche tuo padre dovrebbe rientrare per qualche giorno la settimana prossima. Sappi che è molto fiero di te.”
Il tenente non poté fare a meno di sorridere. “Ne sono felice.”
Gli hanno permesso di farmi una telefonata dal fronte. Ha detto che da te non si aspettava di meno, Maximilian.”
Il giovane si limitò ad annuire. Suo padre, il maggiore generale Ernst Wilhelm barone von Knobelsdorff, aveva già il Pour le Mérite, l'Ordine di Hohenzollern, la Croce di Ferro e varie altre medaglie. I fratelli di suo padre, lo zio Albrecht Konrad e lo zio Hans Ferdinand, avevano a loro volta importanti decorazioni.
I fratelli di maman non erano ovviamente da meno.
La donna ordinò allo chauffeur di partire, poi disse: “Ci sarà un ricevimento.”
Non è il caso,” si schermì il tenente.
Tuo padre ci tiene molto,” fu l'asciutta replica.
Il giovane non rispose. Dubitava che il ricevimento fosse un'esigenza del severo genitore, ben più avvezzo al rigore della caserma che alla mondanità dei salotti. Più probabilmente era la baronessa che desiderava sfoggiare in una festa l’ennesima decorazione conferita a un membro della famiglia. “Quando?” si limitò a chiedere.
Dipende da quando arriverà tuo padre.”
Il tenente non aggiunse altro. Si voltò verso il finestrino e lasciò vagare lo sguardo all’esterno. Riconobbe il campo dove andava a giocare quando era piccolo. Al limitare della foresta c’era ancora il vecchio tronco di quercia caduto che aveva tentato di saltare a cavallo, finendo malamente a terra assieme al destriero.
La pianura si perdeva in lontananza, punteggiata qua e là dai laghi cristallini in cui andava a nuotare.
A quei tempi, la sua più grande preoccupazione era trovare un modo di asciugarsi i capelli in fretta, in modo che i suoi non si accorgessero che aveva fatto il bagno con i ragazzi del villaggio.

La vettura procedeva lungo un viale fiancheggiato da querce. Presto avrebbe raggiunto la dimora di famiglia e si sarebbe fermata davanti all'ingresso principale. Il tenente immaginò che ci sarebbe stata tutta la servitù ad accogliere il signorino, schierata in due ali lungo la gradinata che conduceva al portone. Senza dubbio tutti si sarebbero inchinati al suo passaggio, le donne con una riverenza, gli uomini con un più sobrio piegarsi del busto.
Teoricamente, ormai avrebbe dovuto essere abituato a certe cose. Erano giorni che riceveva complimenti e ascoltava discorsi in suo onore. C'era stata persino la sua fotografia sul giornale, mentre stringeva la mano a Sua Maestà l'Imperatore.
In pratica, però, non era fatto per certe cose. Era pronto a combattere, a morire per la Patria se necessario, ma il disagio di tutte quelle attenzioni rimaneva invariato.

§

Sdraiato sul letto della sua camera, le braccia dietro la nuca, von Knobelsdorff fissava pensoso l’affresco del soffitto. L’aveva osservato tante volte, nel corso della sua breve vita. Da piccolo, non capiva nemmeno cosa significasse, guardava più che altro i colori. Da ragazzino gli piaceva, perché vedere quello significava essere in vacanza dall’Accademia.
Da adulto – se poteva definirsi tale – gli evocava sentimenti contrastanti.
Si trattava di una scena mitologica: Fetonte che precipita dal carro del Sole. Vi era un giovane uomo, con un semplice drappo rosso a coprire appena le pudenda, rappresentato mentre cadeva a testa in giù. Sopra di lui si trovava un carro tutto d’oro, intorno al quale scalpitavano quattro cavalli imbizzarriti.
Ancora più in alto, sullo sfondo di un cielo tormentato, si vedeva Zeus nell’atto di scagliare una folgore. Non aveva mai capito se Fetonte stesse cadendo perché colpito da quel fulmine oppure se Zeus l’avesse scagliato per fermare il cocchio impazzito, una volta che il semidio ne aveva perso il controllo.
Di volta in volta, nel corso degli anni, aveva fissato l’attenzione sui particolari di quell’affresco che lo attraevano maggiormente. Da bambino si era chiesto se davvero fosse possibile solcare il cielo a bordo di un carro dorato. Più grandicello aveva ragionato ossessivamente sul perché i quattro cavalli del cocchio non avessero tutti lo stesso mantello. Le pariglie di suo padre erano scelte anche in base a quel criterio, soprattutto quelle destinate a compiti di rappresentanza, quindi perché a una quadriga divina erano aggiogati un sauro, due grigi di tonalità diversa e un pezzato?
Da aviatore, aveva immaginato i nemici nei panni di Fetonte, solo che sopra di loro non c’era una quadriga senza controllo, ma un aereo inglese in fiamme e Zeus era un aereo tedesco che invece delle folgori scagliava piombo.

In quel frangente, invece, non riusciva a smettere di pensare che il Fetonte dell’affresco era castano come lui.
Si vergognò di quell’idea disfattista e meccanicamente portò una mano a sfiorare l’azzurra decorazione che ormai stabilmente gli pendeva dal collo.
Ripensò all’episodio della cavalcata e di nuovo fissò lo sguardo sul Fetonte che precipitava: come lui aveva osato, ed era caduto.
Era fuggito ignominiosamente.
Si chiese se avrebbe mai più rivisto l’agente segreto. Si augurava che fosse scomparso per sempre dalla sua vita, esattamente come anni prima era accaduto con Friedrich von Wangenheim: erano rimasti nella stessa accademia, certo, ma per una sorta di tacito accordo si erano praticamente ignorati fino a quando i rispettivi corsi di studi non erano terminati. Non sapeva neppure a che reparto fosse stato assegnato, o se fosse ancora vivo.
Chiuse gli occhi. Si augurava davvero di non rivedere più il principe von Thurn und Taxis?
Emise un sospiro e volse lo sguardo verso l’alta finestra, lasciandolo vagare sul cielo terso. Ai comandi di un aereo era tutto semplice. Si trattava di volare e combattere, vincere o morire. Non c’erano dubbi, non c’erano esitazioni. Soprattutto non c’erano pensieri angosciosi, perché chi non teneva la mente focalizzata sull’azione soccombeva.
Forse era per quello che gli piaceva volare.

§

Il Werwolf aprì una porta. Al di là vi era una stanza dalle pareti bianche, con una sola finestra chiusa da un’inferriata e una lampadina che pendeva dall’alto soffitto.
Al centro del locale vi era un tavolo, al quale sedeva una donna di mezz’età, con uno chignon venato di grigio da cui pendevano ciocche disordinate.
L’agente segreto avanzò con passo misurato, quindi si sedette di fronte a lei. “Come vanno le conversioni?” le chiese. “Ha distribuito molti opuscoli religiosi, ultimamente?”
La donna si limitò a stringere le labbra. Si raddrizzò nella persona come a mostrare indignazione. “Dovrebbe avere più rispetto,” sibilò breve.
L’altro fece un sorrisetto. “Come collega, intende?”
Non so di cosa stia parlando,” lo rimbeccò lei aspra, “ed esigo una spiegazione per tutto questo!”
Per cosa, esattamente?”
Per essere stata presa come una ladra e portata… non so nemmeno dove! Che cos’è questo posto? Io voglio rientrare a casa mia.”
Tutto a suo tempo,” concesse il Werwolf. “I suoi opuscoli religiosi potranno aspettare fino a che non mi avrà fornito le informazioni che voglio.”
La donna si irrigidì ulteriormente. “Non ho nessuna informazione per lei, egregio signore. Non so nemmeno di cosa stia parlando.” Cercò di sistemarsi qualche ciocca dietro le orecchie, quindi gli rivolse uno sguardo altero e carico di riprovazione.
Von Thurn und Taxis la fissò impassibile per alcuni secondi. Infine, con glaciale calma disse: “Signora, non mi piace perdermi in preamboli: so che lei è una spia degli inglesi.”
L’altra sobbalzò addirittura sulla sedia, e con veemenza protestò: “Cosa? Ma come le viene in mente un’assurdità simile? Proprio io, che distribuisco ogni giorno opuscoli patriottici!”
Un’ottima copertura,” concesse il Werwolf.
Le sue basse insinuazioni mi offendono!”
Meglio offesa che morta, non so se mi spiego.”
La donna lo fissò torva, egli le rimandò uno sguardo perfettamente neutro. Dopo alcuni secondi, in tono pacato le disse: “Abbiamo trovato il solfato di rame fra i suoi cosmetici.”
E cosa sarebbe, se è lecito?”
Il Werwolf si alzò in piedi e le sferrò un manrovescio che la scaraventò giù dalla sedia, successivamente aggirò il tavolo, l’afferrò per i baveri della blusa, la sollevò di peso e con voce minacciosamente bassa ringhiò: “Inchiostro simpatico. Una soluzione incolore, che diventa azzurra se esposta a vapori di ammoniaca.”
Curioso.”
Signora, le rammento che la mia pazienza non è infinita.”
La donna cercò di colpirlo in mezzo alle gambe con un calcio. Il Werwolf, che se l’aspettava, la sbilanciò all’indietro fino a sbatterla con le spalle contro il muro, quindi disse: “Non c’è bisogno di questi sistemi da suffragetta, mia cara. Tra spie esiste la perfetta parità dei sessi.” La sollevò di peso, quindi proseguì: “E ora, gentilmente...”
La donna scalciò, cercò di graffiarlo. Impossibilitata a fare altro, gli sputò addosso.
Il Werwolf strinse la presa. La prigioniera, ormai scarmigliata, con gli occhi fuori dalle orbite, gli afferrò i polsi. Di nuovo scalciò e si contorse, cercando di liberarsi.
Von Thurn und Taxis la buttò sul pavimento e le sferrò un paio di robusti calci nel costato, quindi la sollevò per i capelli. La donna tentò di nuovo di sputargli contro, poi ansimò: “Stupido bifolco, pezzo di...” L’invettiva fu troncata da un altro manrovescio.
A quel punto, il Werwolf chiese: “Dov’è the Bishop?”
Non so di cosa stia parlando.”
Volò un’altra potente sberla, la donna cominciò a perdere sangue dal naso. Con glaciale calma, von Thurn und Taxis ripeté la domanda.
L’altra lo fissò di sotto in su. Rigato di sangue, il volto pallido aveva un’espressione demoniaca. Lanciò un urlo selvaggio, poi balzò in avanti, cercando di afferrarlo alla gola.

Il Werwolf uscì dalla stanza sistemandosi l’impeccabile completo scuro. Al suo apparire, due piantoni scattarono sull’attenti.
Disponete tutto come al solito,” ordinò l’ufficiale. “L’altra ha parlato?” Indicò con un cenno della testa una porta di ferro chiusa.
Il signor capitano è ancora dentro, signore,” rispose uno dei soldati.
L’agente sorrise fra sé e sé. Il signor capitano era un suo collega dal poetico nome in codice di Morgenrot. Si avvicinò alla porta, guardò dentro dallo spioncino: neppure lui pareva considerare le donne il sesso debole.
Per quanto la cosiddetta dama della Pentecoste – in realtà un’alsaziana di nome Nathalie Meyer – avesse provato a insultarlo, a graffiarlo e a usare mosse di ju-jitzu, alla fine gli aveva rivelato esattamente quello che si aspettava, e cioè che the Bishop era da qualche parte in Germania. Dove, purtroppo, non era riuscito a saperlo, anche perché probabilmente non lo sapeva nemmeno la dama.
Abbandonò il sotterraneo, tornò al piano terra. Il posto aveva l’apparenza di un magazzino di granaglie, ma in realtà nei sacchi di iuta che entravano e uscivano c’erano dispacci, fotografie e mappe. Gli impiegati erano tutti agenti sotto copertura, uomini e donne. Le pareti erano munite ovunque di intercapedini in cui erano sistemate macchine fotografiche o alcove in grado di contenere osservatori; numerosi laboratori segreti permettevano di rilevare le impronte digitali di eventuali visitatori e di sviluppare le fotografie che si prendevano di ognuno di essi.
Si diresse verso il bagno, vi entrò e, attraverso una porta nascosta fra le piastrelle, passò in una stanza che sembrava il camerino di un teatro, con una toeletta per il trucco, un armadio e uno scaffale ingombro di travestimenti di scena.
Si sedette di fronte allo specchio, indossò con gesti resi rapidi dall’abitudine una parrucca grigia. Vi aggiunse un paio di baffetti, sempre grigi, quindi inforcò occhiali dalle lenti tonde, cerchiate di metallo.
Trasse dall’armadio una palandrana scura, un po’ lisa sui gomiti, con la quale nascose il suo completo di sartoria. Indossò un cappello sgualcito, raccolse una cartelletta per i documenti e se la strinse al petto, quindi fece ritorno alla stanza che fungeva da segreteria con un’andatura ingobbita, rigida, da impiegatuccio precocemente invecchiato, abituato a stare curvo sui registri di partita doppia.
Scambiò qualche parola con i colleghi, poi uscì con la cartelletta lisa sottobraccio, come se fosse stato mandato a fare una commissione.

§

Seduto alla scrivania di una stanza d’albergo, naturalmente sotto falso nome, il Werwolf sorrise fra sé e sé: dalla finestra dell’elegante hotel in cui aveva preso alloggio si intravedeva uno scorcio del suo palazzo. Era fuori questione, naturalmente, andarvi ad abitare, almeno fino a quando non fosse riuscito a scoprire dove si nascondeva the Bishop.
Si appoggiò all’indietro sullo schienale, ripercorse ancora una volta mentalmente tutte le informazioni in suo possesso: il suo avversario era in Germania. Gli agenti normalmente trascorrevano un periodo di riposo fra una missione e l’altra: il fatto che the Bishop fosse di nuovo in azione dopo la faccenda della Francia faceva supporre che non su trattasse di qualcosa che gli era stato ordinato dai suoi capi.
Stava lavorando per conto suo.
Sorrise fra sé e sé, immaginando l’inglese che interrogava ogni informatore, ogni lattaio, ogni portinaia comprata a suon di sterline per scovarlo.
The Bishop era furbo, naturalmente, sapeva a chi chiedere e come, ma non aveva a che fare con uno sprovveduto: avrebbe potuto aspettare mesi prima di scovare una traccia degna di questo nome.
Mesi che non aveva.
E quindi, come arrivare fino a lui?
Passò in rassegna tutti i colleghi che avrebbero potuto – volenti o nolenti – dire qualcosa a the Bishop. Non erano molti, obiettivamente, e nessuno di essi sarebbe stato in grado di fornire informazioni di una certa importanza.
Scosse la testa: ci doveva essere qualche elemento che non stava considerando, un agente come the Bishop non rimaneva a pascolare da qualche parte in attesa di un indizio, andava a colpo sicuro.

Si alzò, scese nella Hall. “Buon giorno, signor ingegnere,” lo salutò cerimoniosamente il portiere, accennando un inchino.
Il Werwolf rispose con un sobrio cenno del capo, quindi si diresse a un piccolo salotto composto da poltrone e divani disposti intorno a un tavolino coperto di giornali. Raccolse un quotidiano straniero di qualche giorno prima, lo sfogliò distrattamente: informazioni sull’andamento della guerra, cartine dell’Europa con disegni delle varie offensive portate avanti su questo o quel fronte. Immaginò il lavoro di intelligence che stava dietro a ognuna di esse, agenti che si erano scambiati informazioni, doppiogiochisti comprati, spie sotto copertura, furti di informazioni, codici decifrati.
Ogni combattimento nascondeva mesi di lavoro sotterraneo, svolto da gente di cui non si sarebbe mai saputo nemmeno il nome.
Adocchiò una signora che indossava uno spolverino chiaro e un ampio cappello trattenuto sotto la gola da una sciarpa di velo. La vide infilare un paio di guanti di camoscio e notò che sul marciapiede, appena fuori dalla porta, attendeva una vettura.
Si chiese se fosse lei a guidare l'auto, oppure se fosse solo una passeggera.
Prese posto su uno dei divani, raccolse un quotidiano a da dietro le pagine del giornale prese a seguire le evoluzioni della dama, chiedendosi se potesse trattarsi di un'agente straniera.
Non aveva l'accento di Berlino, parlava di monumenti da vistare. Era una copertura, oppure era lui che ormai vedeva spie dappertutto?
Riportò lo sguardo sulle pagine e a quel punto dovette faticare per non sussultare: c'era la fotografia di un ufficiale che stringeva la mano all'Imperatore dopo che questi l'aveva decorato con il Pour le Mérite.
Fu come se in un istante tutti i pezzi di un rompicapo andassero a posto: the Bishop non aveva alcun bisogno di trovare lui, gli bastava trovare Maximilian von Knobelsdorff.
Tutto terribilmente logico, terribilmente semplice: l'inglese era capace di catturare il tenente e rispedirglielo un pezzo per volta, stando attento a non mandargli nessuna parte vitale, fino a che non lo avesse convinto a consegnarsi.
Sarebbe stato in grado di sopportare una cosa del genere? Gli doleva ammetterlo, ma la risposta era no.
Si alzò così bruscamente che la signora si girò a fissarlo stupita. Lui distolse lo sguardo borbottando qualche scusa, quindi si diresse nuovamente in camera, dove riempì con gesti rapidi la valigia. Se la sua intuizione era giusta, aveva pochissimo tempo per intercettare il tenente, perché con ogni probabilità the Bishop era già sulle sue tracce.


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Capitolo 20
*** Capitolo 12 - Seconda parte ***


Momenti di tensione, su Rieducational Channel! Ecco che torna fuori il nostro amico britannico, per la gioia dei suoi fan.
Come sempre grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo e commentando.






Von Knobelsdorff guardò fuori dalla finestra: stava arrivando un'altra automobile. La vide procedere adagio sul viale ghiaiato, poi fermarsi davanti all'ingresso. Da essa scese uno chauffeur in uniforme, che aprì cerimoniosamente la portiera del sedile posteriore.
Ne uscirono divise e abiti lunghi da signora, con tanto di cappello.
Sbuffò infastidito: divise e abiti lunghi, cappelli per signora larghi come ruote di carro, pieni di velette, fiori finti e pernici impagliate. Non vedeva altro da giorni. Ogni tanto compariva qualche raro abito civile da uomo, perlopiù di membri anziani della famiglia.
Aveva sperato di trascorrere la licenza nella pace e nel riposo, ma vi era un'ininterrotta processione di parenti che volevano vederlo e complimentarsi con lui, amici di famiglia, funzionari e delegati di associazioni patriottiche.
Aveva già posato per decine di foto, aveva già sopportato gli sguardi forzatamente innocenti di innumerevoli signorine aristocratiche in cerca di marito, aveva signorilmente tollerato l'invadenza delle loro madri, che invece l'innocenza non si preoccupavano nemmeno di simularla.
Il fastidio che da qualche giorno lo assediava ebbe un parossismo. Senza starci troppo a pensare su, abbandonò il suo punto d'osservazione e si diresse alle scuderie.

Respirò sollevato quando l'edificio di mattoni rossi apparve dietro una barriera di querce. Rallentò e socchiuse gli occhi, lasciandosi accarezzare da refoli d'aria carichi di quello che nella sua mente era sempre stato l'odore della libertà.
Si appoggiò con la schiena al tronco di un albero, già pregustando la gioia di una lunga cavalcata in sella al suo cavallo preferito.
Si avvicinò di soppiatto, attento a non farsi vedere. Ormai era talmente infastidito da complimenti e felicitazioni che avrebbe rischiato di rispondere male anche agli incolpevoli garzoni di stalla. Molto meglio non dar segno di sé, sellare il suo bravo sauro e distendersi i nervi con una bella galoppata.
Entrò adagio. Nell’aria c’era silenzio, a parte i tonfi di qualche cavallo che si muoveva sulla lettiera. Dalla selleria proveniva lo sfregare rapido di qualcuno che ungeva dei finimenti.
Nonostante ogni suo buon proposito, sorrise fra sé e sé al pensiero di rivedere il decano degli artieri: un uomo piccolo, rugoso, precocemente ingobbito, che però gli aveva insegnato più cose sui cavalli di tutti gli istruttori di dressage e ostacoli con cui aveva mai avuto a che fare.
Con l’intento di fargli una sorpresa, cominciò a strisciare silenziosamente lungo la parete. Raggiunse la porta della selleria, azzardò una cauta occhiata all’interno e d’improvviso il cuore gli balzò nel petto.
Seduto su una cassa, una testiera sulle ginocchia, un barattolo di grasso a fianco, c’era un uomo dalle spalle larghe, sicuramente non vecchio, con i capelli neri e la pelle stranamente pallida. Lavorava con impegno sui finimenti, ma era evidente che si trattava di un’attività cui non era abituato.
Notò accanto a lui, sul bordo del tavolo, il levarsi di un esile filo di fumo. Riconobbe l’odore di tabacco forte che aveva già sentito all’interno del vagone in cui era stato rinchiuso e interrogato.
Arretrò. Rinculò passo passo, di colpo attento a non produrre alcun rumore, aspettandosi a ogni istante che una mano gli calasse sul collo e lo strattonasse indietro. Raggiunse l’entrata della scuderia con i muscoli tesi come corde, si dileguò rapido all’esterno, addentrandosi come un animale selvatico nel folto dei boschi che circondavano la tenuta.

Solo quando fu ad alcune centinaia di metri dall’edificio si concesse di fermarsi a riposare. Si lasciò cadere su una pietra, si passò una mano fra i capelli.
The Bishop.
Era lui. L’aveva visto solo di spalle, ma era certo di non sbagliarsi.
Si guardò intorno sentendosi un cervo che percepisce l’avvicinarsi dei cacciatori, consapevole che avrebbe dovuto fare qualcosa, ma troppo agitato per pensare lucidamente a cosa.

§

Di nuovo al magazzino delle granaglie, in abiti da semplice impiegato, von Thurn und Taxis entrò in uno degli uffici al piano terra e chiuse la porta alle proprie spalle. L’uomo che sedeva alla scrivania al suo ingresso sollevò appena lo sguardo. “Desidera?” chiese neutro.
Il Werwolf non si scompose. Anche se la persona che aveva di fronte era un suo collega e amico, in quel posto la regola era di trattarsi sempre come estranei. “Le bolle di carico per la spedizione in partenza,” rispose.
L’altro annuì. “Le ho già preparate.” Spinse verso di lui una cartellina bigia.
Il primo la raccolse, quindi senza aggiungere altro abbandonò la stanza, si trasferì al primo piano ed entrò in un ufficio nel quale si trovavano un tavolino, un telefono, una libreria vuota e uno specchio. Fece un cenno di saluto verso la lastra di vetro e si sedette al tavolino. Aprì la cartella.
All’interno vi era una seconda cartella, più piccola, con scritto sopra Maximilian von Knobelsdorff. Ne sfogliò il contenuto: fotografie, corso di studi, una copia del brevetto di ufficiale, parenti conosciuti, amici. Sollevò le sopracciglia nel leggere di un cadetto di nome Friedrich von Wangenheim, col quale il tenente sembrava avere avuto un’amicizia intensa che si era poi inspiegabilmente raffreddata.
Scorse i dati anagrafici, l’indirizzo della residenza di famiglia. Una grafia conosciuta aveva tracciato una sequenza di cifre sul margine di una pagina.
Tese una mano verso l’apparecchio telefonico e compose il numero. Attese la linea tamburellando sul piano del tavolo. Dall’altra parte, l’apparecchio cominciò a suonare.
Forza,” ringhiò il Werwolf dopo un po’.
Il palazzo era grande, magari non c’era nessuno vicino al telefono.
Forza,” ripeté. “Rispondi.”
Finalmente, dall’altra parte del filo una voce maschile annunciò: “Residenza von Knobelsdorff.”
Devo parlare immediatamente con Maximilian von Knobelsdorff,” disse asciutto l’agente segreto.
Dall’altra parte ci fu qualche secondo di silenzio. “Chi devo dire?” chiese infine la voce.
Principe Karl Ludwig Amadeus von Thurn und Taxis.”
Altro silenzio, infine l’uomo rispose: “Abbia la compiacenza di attendere, eccellenza.”
Il Werwolf percepì il rumore della cornetta che veniva posata su una superficie dura e poi dei passi che si allontanavano rapidamente.
Trascorsero lunghi secondi, l’agente segreto riprese a tamburellare sul tavolo. “Muoviti,” disse a mezza voce. “Muoviti, maledizione. Quanto accidenti potrà essere grande questa residenza?”
I passi del domestico che ritornava interruppero il picchiettare delle dita. “Il signor barone è uscito, eccellenza,” annunciò l’uomo.
Il Werwolf sentì i muscoli irrigidirsi. “Dov’è andato?”
Non lo ha lasciato detto, eccellenza.”
È questione della massima urgenza,” specificò tagliente il principe.
Mi dispiace, eccellenza, il signor barone non c'è.”
Von Thurn und Taxis chiuse pensoso la comunicazione. Maximilian era solito andarsene senza specificare dove? Impossibile saperlo, così come era impossibile essere certi che la sua scomparsa non avesse a che fare con the Bishop.
L'unica era verificarlo di persona. Si voltò verso lo specchio e disse: “Mi serve un mezzo veloce.”
Dall'altra parte del vetro provenne la domanda: “Per andare dove?”
Rollwitz.”
Quando?”
Adesso.”

§

Von Knobelsdorff girò lo sguardo in direzione della scuderia. Dal punto in cui si trovava non riusciva a vedere l'edificio, ma era come se ne percepisse l'immanenza sinistra.
The Bishop.
Si costrinse ad abbandonare ogni emotività, a fare il vuoto in mente. Cercò di ragionare con la testa dell'agente inglese.
Perché era arrivato lì a Rollwitz? Non certo per lui. Di sicuro intendeva usare lui per arrivare al Werwolf, ma come? Pensava forse che fosse in possesso di informazioni sull'agente tedesco? Che sapesse dove si nascondeva?
Oppure, più semplicemente, supponeva che il Werwolf avrebbe preso parte al ricevimento in preparazione?
Quale che fosse la risposta, il dato di fatto era uno solo: the Bishop era lì.
La cosa da una parte gli comunicava una tormentosa sensazione di angoscia, ma dall'altra lo poneva nella necessità di agire.

Sulla fusoliera dell'aereo inglese sono dipinte almeno otto croci nere. Forse sono anche di più, ma in volo, con l'occhio ancora poco allenato del novellino, lui conta solo quelle.
Deve essere un asso, si dice, un veterano.
Sta inseguendo il suo capopattuglia, il maggiore von Stade, e tutta la sua attenzione sembra essere assorbita da quella caccia. Vuole aggiungere un'altra croce nera, probabilmente, e l'aereo del maggiore, pieno di coccarde rosse e blu, sarebbe un magnifico trofeo.
Si chiede se sia vero quello che dicono i vecchi, ovvero che alla fine ottenere nuove vittorie diventa una specie di ossessione, che fa dimenticare prudenza e buon senso.
Ha sentito di piloti che si sono fatti abbattere per quel motivo.
Guarda di nuovo l'aereo inglese, caparbiamente incollato alla coda di von Stade, e si rende conto che l'unico che può fare qualcosa per il maggiore è lui, un tenentino appena arrivato dalla cavalleria, con un Albatros talmente nuovo che l'abitacolo puzza ancora di vernice.
Senza starci troppo a pensare dà gas: l'aereo si lancia in avanti, prende quota. Lo SPAD inglese sta volando a zig zag dietro l'Albatros di von Stade e non fa nemmeno caso a lui.
Due raffiche ed è finita: il caccia nemico scivola d'ala, butta il muso verso il basso ed entra in vite. Poco dopo si schianta sulla terra di nessuno e prende fuoco.
Rimane a fissarlo serio. Un po' si pente di averlo attaccato così, alle spalle, senza dar segno di sé, ma il rimorso dura poco: ha abbattuto un pericoloso avversario, ha salvato la vita al suo comandante. Le acrobazie sfrenate dei colleghi gli confermano meglio di ogni altra cosa che ha fatto quel che si doveva fare.

Un refolo di vento fece frusciare le foglie. Egli si tese, si guardò intorno. Doveva agire. Non avrebbe saputo come avvisare il Werwolf e non avrebbe avuto alcun senso avvisare altri. Cosa avrebbero potuto fare, ad esempio, i tranquilli gendarmi di Rollwitz, abituati a gestire ubriachi e ladri di polli, contro the Bishop?
L'unico che poteva fare qualcosa per eliminare la pericolosa spia era lui.
A quel pensiero ebbe un attimo di sgomento: aveva ucciso molti nemici in azioni di guerra, ma non si era mai trovato a pianificare lucidamente un omicidio.
Che fare?
Il problema non era a livello morale, ovviamente: l'inglese era una spia e il suo dovere era ucciderlo. Le sue preoccupazioni erano più che altro di ordine pratico: sarebbe riuscito a sorprenderlo? Sarebbe riuscito a fare ciò che si proponeva? E una volta portato a termine l'ingrato compito, come avrebbe evitato di passare per assassino ed essere perseguito come tale? Chi avrebbe confermato l'identità della spia straniera, se l'unico che lo conosceva, ovvero il Werwolf, era sparito chissà dove?
Si impose di non indugiare oltre in quelle considerazioni: era chiamato a rendere un servizio alla Patria, null'altro importava.

§

A cavallo di una potente motocicletta, un paio di occhiali da pilota a proteggergli gli occhi, di nuovo in uniforme, von Thurn und Taxis divorava la strada che portava a Rollwitz. Il rombo del veicolo, lanciato a tutta velocità, era talmente forte da coprire ogni altro suono; il paesaggio si era trasformato in un indistinto susseguirsi di macchie verdi e marroni, punteggiato qua e là del bianco d’una masseria, o del baluginare fugace di specchi d’acqua sotto il sole.
The Bishop era là.
Era chiaro come il sole che sarebbe andato là.
Si chiese come aveva potuto essere così stupido, come aveva potuto lasciar capire a un avversario come l’inglese che sulla faccia della terra esisteva una persona che gli interessava.
Aveva passato anni a costruirsi un usbergo che gli consentisse di scendere in battaglia, anni a tappare ogni falla, a togliere ogni appiglio.
Era diventato uno scafandro impenetrabile, che opponeva all’osservatore solo buio e silenzio.
E dopo tutto ciò, dopo essersi reso un micidiale strumento di morte, dopo aver rinunciato a qualsiasi altra cosa, si era lasciato prendere da quei sentimenti che credeva di aver eliminato, e invece aveva solo sopito.

Non voglio nessun altro.”
Lo dice pacato, con il tono delle decisioni su cui non si ritorna mai più.
Il suo collega interrompe il lento passeggiare, costringendolo a imitarlo. Si gira a fissarlo in viso. “Prego?” chiede infine.
Hai sentito.”
Morgenrot alza le spalle. “Si farà quel che dice Matthesius.”
Non io. Altrimenti si trova un altro agente.”
Tutti noi facciamo quel che dicono lui e la Lesser. Non vedo perché tu dovresti fare di testa tua.”
Stringe i denti. “Lavoro meglio da solo.”
Non mi risulta.”
Invece è così. Non posso preoccuparmi di un...” esita. Stava per dire ‘compagno’, ma si corregge: “Non posso preoccuparmi di un collega. Devo concentrarmi sulla missione, devo essere libero di muovermi in completa autonomia.”
Morgenrot riprende a camminare. Pone la braccia dietro la schiena, come un tranquillo signore di mezz’età che fa la sua passeggiata quotidiana. Egli lo segue per un po’ con lo sguardo: è tutto finto, naturalmente. Se volesse, il suo collega potrebbe fare una capriola da in piedi senza nemmeno darsi lo slancio. Sa che ha una lama nascosta nella manica ed è in grado di usarla con micidiale destrezza.
Non capisci, vero?” dice raggiungendolo.
Oh, no. Capisco benissimo, invece.”
Lavorare con qualcuno mi distrarrebbe,” ripete caparbio, come se volesse convincere anche se stesso. “Mi costringerebbe a preoccuparmi di un altro.”
E l’altro si preoccuperebbe di te. Quante volte è successo fra voi?”
Preferirei evitare l’argomento.”
Di nuovo Morgenrot alza le spalle con fare noncurante. “Puoi farlo, certo, ma ricordati sempre che certi argomenti non eviteranno te.”

Aveva ogni parola di quel breve scambio scolpita in mente.
Mai più nessuno, l’aveva giurato.
Eppure, certe cose di Maximilian gli facevano pensare, o forse sperare, che un giorno avrebbe potuto occupare un posto che forse era rimasto vuoto troppo a lungo.
In fondo, pensò con un sospiro, i lupi cacciano in branco, o a coppie.

Una figura comparve a un tratto nel mezzo della carreggiata: forse un animale selvatico, di cui colse soltanto una sagoma marrone e occhi gialli spalancati.
D’istinto sterzò bruscamente.
La moto sbandò, s’inclinò, uscì di strada e prese a sobbalzare sullo sterrato a folle velocità.
Il Werwolf lottò per mantenerne il controllo, evitò di stretta misura un albero, sbandò di nuovo e infine terminò la folle corsa a un passo da un torrente, con una sterzata che sollevò una nube di polvere.
Il motore tacque e per un po’ gli unici suoni che si udirono furono il gorgogliare dell’acqua e l’ansare concitato dell’uomo.
Infine il Werwolf si guardò indietro, constatando che l’animale era sparito. Gli fu grato: la sua comparsa aveva avuto il potere di strapparlo a un rimuginare inane, che lo portava a rannicchiarsi in se stesso invece di proiettarlo nell’azione.
Fece ripartire la motocicletta, la riportò sulla strada. Certo, the Bishop era là, si era preso il vantaggio di minacciare l’unica persona che era stata in grado di evocargli Reiner, ma non aveva a che fare con uno sprovveduto.
La resa dei conti si avvicinava.

§

The Bishop raccolse un secchio, lo riempì di biada e si avviò zoppicando lungo il corridoio centrale della scuderia.
Non era stato difficile ottenere il posto: gli era bastato sfruttare quello che a suo tempo aveva detto alla finta dama della Pentecoste, ovvero che a seguito di una ferita di guerra aveva una gamba di legno. La baronessa von Knobelsdorff, donna di forti sentimenti patriottici, non aveva esitato a dargli lavoro.
Dire balle a certa gente era come sparare sulla croce rossa.
Tutt’altra cosa sarebbe stata sorprendere il Werwolf. Una trappola per un leopardo era comunque preparata per catturare una belva, non un timido cerbiatto. Certo, la presenza del ragazzo lo rendeva meno letale, appannava in qualche modo la sua pericolosità, ma non lo rendeva innocuo.

Ha dislocato in giro parecchi soldati, ha spiegato loro che una pericolosa spia tedesca è nell’edificio. Si è premurato che tra essi non ci fossero novellini, ha preso solo gente esperta, che non si lascerà travolgere dall’emotività.
Nella luce che sta calando, fissa attento il villino padronale immerso nel verde. Sa che il Werwolf è lì dentro e sa che dovrà per forza uscire, a un certo punto.
Passa un tempo imprecisato, i soldati camminano su e giù in lenti giri di ronda. Il silenzio è talmente profondo che riesce a sentire persino il fruscio dei suoi stessi abiti quando si muove.
Poi d’un tratto c’è odore di fumo. Al primo piano una finestra si spalanca, tutti puntano i fucili in quella direzione, ma ne escono solo sinistre lingue di fuoco.
Un istante dopo, al lato opposto del villino succede la stessa cosa: una finestra si sfonda e ne esce una fiammata che fa accartocciare le foglie degli alberi vicini.
Ma che fa,” ringhia inquieto, “vuole bruciare vivo?” E mentre lo dice sa che non è così, sa che quello è un diversivo per qualcosa, anche se non riesce a capire cosa.
Le fiamme frattanto ruggiscono, ormai è il calore stesso che sfonda le finestre, colonne di fumo denso salgono verso il cielo.
Un graduato lo raggiunge, gli chiede istruzioni. È chiaro che si aspetta l’ordine di chiamare i pompieri.
Mantenete la posizione,” ordina conciso.
L’altro lo fissa attonito, deve faticare per non rispondere qualcosa. Lo capisce: non sa chi sia il Werwolf, pensa di avere a che fare con un normale agente segreto.
Un istante dopo, qualcuno urla.
Corre in quella direzione, solo per trovare un uomo a terra, che sussulta gorgogliando con la gola tagliata. Echeggiano a breve distanza colpi di fucile, si ode un urlo d’agonia.
Va a vedere: altri due soldati morti, intravede una sagoma riversa anche al limitare della macchia.
Si odono altri spari, quasi coperti dal rombo cupo delle fiamme. I soldati ormai tirano a casaccio, dovunque pensino di vedere un movimento. Tutt’intorno alla casa divorata dal fuoco crepita una disordinata fucileria.

Il mattino dopo, lo spettacolo è desolante: dell’edificio rimane solo un rudere annerito, da cui si levano lente colonne di fumo. Otto uomini sono morti.
Del Werwolf nessuna traccia.
Qualcuno dice che sia perito nel rogo, ma ovviamente non è così, lo testimonia la scia di cadaveri che si è lasciato dietro fuggendo.
Eppure aveva calcolato tutto, organizzato la cattura nei minimi particolari.
Non aveva pensato al fuoco. Chi sarebbe così pazzo da dar fuoco a una casa standoci dentro?
Il dannato tedesco, evidentemente.

Proseguì con il suo secchio, lo distribuì nelle mangiatoie secondo le quantità che gli erano state indicate. L’ultimo cavallo cui diede la biada era un sauro con le quattro balzane bianche, snello e vivace, che scartò e frustò l’aria con la coda quando lo vide arrivare.
Era il cavallo preferito del signorino, a quanto gli avevano detto, il che lo portava a tenerlo d’occhio con particolare attenzione.
Teneva d’occhio tutto, comunque. Origliava i discorsi degli altri garzoni di stalla e si intratteneva con certe servette del palazzo. Quando era sicuro che nessuno lo vedesse, abbandonava l’andatura claudicante e compiva giri d’esplorazione nella tenuta.
Catturare l’amichetto del Werwolf non sarebbe stato difficile. Più complesso sarebbe stato convincere il suo nemico a consegnarsi. Si chiese quanti pezzi del tenente sarebbero stati necessari.

§

Chiuso nella sua camera, Maximilian von Knobelsdorff estrasse la Mauser d’ordinanza dalla fondina e controllò che fosse carica.
Successivamente andò alla porta, la aprì cauto e si affacciò in corridoio: nessuno.
Nascose l’arma nella cintura, quindi uscì rapido, scese le scale e attraversò il salone. Anche lì, nessuno in vista.
Sgattaiolò fuori e s’inoltrò nel parco.
Al riparo delle piante ripensò per l’ennesima volta a come portare a termine il compito nel migliore dei modi. Si sentiva un cacciatore da solo, nel folto della foresta, in attesa di un cinghiale particolarmente grosso e feroce.
Avrebbe avuto il sangue freddo di mirare al punto più vulnerabile e lasciarlo avvicinare quel tanto che avrebbe reso il colpo letale?
Non aveva senso porsi quelle domande: era un ufficiale di un esercito in guerra, combattere con sangue freddo ed efficienza era semplicemente il suo dovere. Si era mai chiesto cose del genere prima di decollare per le missioni di combattimento?
Portò una mano dietro la schiena, a palpare la sagoma familiare della Mauser, e ne trasse una sensazione di sicurezza: the Bishop poteva essere un impareggiabile agente segreto, ma di certo nemmeno lui era invulnerabile.

Si spostò adagio, sempre mantenendosi al riparo della vegetazione. Quando raggiunse la scuderia, andò alla parte posteriore dell'edificio, dove normalmente si concentravano le attività dei garzoni di stalla. Si acquattò silenzioso.
Era ormai pomeriggio inoltrato e i cavalli che avevano trascorso la giornata nei pascoli venivano man mano riportati dentro. Entro breve avrebbero cominciato a distribuire il fieno nelle mangiatoie.
Si chiese se fosse il caso di aspettare il buio: l'oscurità avrebbe forse agito in suo favore nascondendolo, ma allo stesso tempo l'avrebbe intralciato, perché tutti gli addetti sarebbero stati all'interno dell'edificio e quindi trovare the Bishop da solo sarebbe stato molto più difficile.
Rimpianse che non ci fosse il Werwolf: lui avrebbe di certo saputo cosa fare. Avrebbe saputo quando attaccare e come, sfruttando al massimo tutti i vantaggi che la situazione offriva.
Senza staccare gli occhi dalla scuderia, emise un lungo sospiro. La competenza in determinate faccende non era l'unico motivo per cui il principe von Thurn und Taxis gli mancava. Rimpiangeva le sue frasi taglienti, la sua decisione. La sua stretta sul braccio.
A quel pensiero, involontariamente si toccò appena sotto la spalla, dove solitamente si chiudeva la mano del Werwolf.
Fugacemente si domandò dove fosse, cosa stesse facendo. Aveva già un'altra missione? Era da qualche parte dietro le linee, magari travestito da ufficiale inglese o francese?
Se fosse riuscito a uccidere the Bishop, forse gli avrebbe facilitato il lavoro. A quel pensiero sorrise fra sé e sé.
Un istante dopo tutti i suoi sensi si focalizzarono sulla porta della scuderia, dove era comparso l'uomo pallido dai capelli neri. Questi scambiò qualche parola con uno dei garzoni di stalla, poi raccolse da una staccionata una serie di coperte stese ad asciugare e si allontanò.
Il tenente aggrottò perplesso le sopracciglia: claudicava vistosamente, trascinandosi dietro una gamba irrigidita.
Eppure era lui. Anche se da lontano, ne aveva riconosciuto la forma del viso e la struttura fisica. Inoltre, quei capelli neri, associati a quello strano pallore, erano inconfondibili.
Lo osservò di nuovo: zoppicava come se avesse avuto una gamba di legno.
The Bishop era sano quando lui e il Werwolf erano decollati dall'aeroporto inglese. Possibile che nel frattempo gli fosse successo qualcosa alla gamba? E come avrebbe potuto continuare a svolgere l'attività di agente segreto, con una mutilazione così grave?
Rimase a guardare. La luce andava calando, le ombre si allungavano sui prati. Gli ultimi cavalli rientravano in scuderia.
Gli parve che fosse una specie di segnale, come un invito all'azione.
Avanzò cauto, attento a non farsi vedere. Si appiattì a ridosso del muro e subito dopo scivolò lesto all'interno.
Non c'era nessuno, gli unici rumori che si udivano erano quelli dei cavalli che si muovevano sulla lettiera o masticavano la biada. Per lunghi minuti, egli rimase immobile a guardarsi intorno, attento a ogni suono, a ogni segno di presenza umana.
Poi sentì avvicinarsi un passo claudicante.
Il cuore gli accelerò i battiti. Si addossò maggiormente alla parete per non farsi vedere.
Qualcuno chiese: “Sei sicuro di farcela, Anton?”
Una voce ben nota rispose: “Sì sì, ci penso io.”
Allora vado?”
Tranquillo, finisco io col fieno.”
Poi di nuovo silenzio, rotto solo dal rumore irregolare dei passi zoppi dell'agente inglese.
Von Knobelsdorff arrischiò un'occhiata: l'uomo procedeva adagio lungo il corridoio centrale. Spingeva una carriola da cui spuntava il manico di un forcone.
Sapeva dove stava andando: a lato della scuderia c'era il fienile. Il che era un gran bene, perché nell'edificio si sarebbero trovati solo loro due. Non doveva fare altro che lasciarlo entrare e poi raggiungerlo.

Attese col cuore in gola, il tempo sembrava non passare mai. I passi si affievolirono sempre di più e poi cessarono del tutto.
Quando fu certo che l'uomo fosse uscito dalla scuderia, abbandonò il suo nascondiglio e si diresse verso il fienile.
Si fermò a ridosso della porta: da dentro proveniva il frusciare regolare del foraggio smosso, segno che the Bishop stava riempiendo la carriola. Sarebbe stato di spalle rispetto a lui.
Estrasse la Mauser ed entrò rapido nell'edificio.
Annullò la distanza che lo separava dal deposito del fieno. D'un tratto era come se avesse urgenza di concludere la faccenda. Di farlo subito, prima di ripensarci.
L'uomo era di spalle, stava lavorando tranquillo. Sollevò la pistola, ma nel movimento urtò appena un falcetto appeso a un gancio. Lo strumento emise un debole tintinnio.
In un istante, the Bishop si girò, brandì il forcone e glielo scagliò contro.
Von Knobelsdroff venne trafitto a mezzo corpo. Arretrò con un gemito di dolore mentre la pistola gli sfuggiva di mano. Istintivamente afferrò il manico dell'attrezzo come per strapparselo via, ma i rebbi, affilati come lame, gli si erano conficcati profondamente nella carne.
L'inglese lo raggiunse e ghignò: “Ma chi si rivede: Gretchen.” Afferrò a sua volta il manico del forcone e spinse brutalmente in avanti, piantandolo ancora più a fondo.
Il tenente gemette di nuovo, sentì le ginocchia cedergli. Crollò a terra accanto al mucchio di fieno.
Sei stupido e impulsivo come ricordavo,” considerò sarcastico the Bishop.




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Capitolo 21
*** Capitolo 13 ***


Gente mia,
ecco qui il capitoletto settimanale. Succedono un po’ di cose, quindi spero che non vi annoierete. Grazie a tutti coloro che mi stanno seguendo; un ringraziamento particolarmente caloroso a tutti coloro che sono così gentili da lasciarmi un commento!






Capitolo 13

La quiete del parco di Rollwitz fu turbata dal rombo furioso di una motocicletta lanciata a tutta velocità.
Il bolide sfrecciò sul viale d'ingresso della villa e si fermò di fronte al portone facendo schizzare la ghiaia da sotto le ruote. Il motore tacque.
Il Werwolf balzò giù dal veicolo e mentre ancora si toglieva gli occhialoni da pilota salì la scalinata che conduceva all'ingresso.
Venne intercettato da un domestico, che con sussiego gli chiese: “Il signor capitano desidera?”
Pur vagamente ansante, l'altro recuperò la propria compostezza e rispose: “Devo vedere con urgenza il barone Maximilian von Knobelsdorff, è già tornato?”
Il maggiordomo sollevò le sopracciglia nel riconoscere la sua voce, quindi rispose: “Sono desolato, eccellenza, il signor barone non è ancora rientrato.”
Il Werwolf si sentì gelare. Pur avendo già ricevuto risposta al telefono, chiese: “Ha lasciato detto dove sarebbe andato?”
No, eccellenza.”
È cosa della massima importanza,” specificò di nuovo, nell'assurda speranza che Maximilian fosse a divertirsi con qualche servetta e avesse dato ordine di non rivelarlo a nessuno. “Il barone è in grave pericolo.”
Il domestico rimase interdetto. “Il signorino è in pericolo?” ripeté.
Gravissimo,” specificò il Werwolf, sperando che ciò convincesse l'uomo a sbottonarsi maggiormente.
L'altro però non si mosse.
Non le importa che il barone sia in gravissimo pericolo?” lo incalzò lui.
Certo che mi importa, eccellenza,” fu la risposta, proferita in tono vagamente piccato, “Ma deve credermi: il signorino non c'è e non ha lasciato detto quando sarebbe tornato.”
Sono passate ore dalla mia telefonata. Possibile che il barone non abbia ancora dato segno di sé? Possibile che nessuno si sia preoccupato?”
L'altro apparve confuso. “Mi dispiace, eccellenza.”
Il Werwolf strinse le labbra obbligandosi alla calma. Mi faccia parlare con la baronessa,” ordinò infine.
Il domestico si allontanò. Egli immaginò che sarebbe tornato e l'avrebbe scortato verso qualche salottino dell'ampia dimora, invece fu la baronessa in persona a raggiungerlo.

Edeltraud von Knobelsdorff era alta quanto lui, asciutta come un tronco d'abete, regale nel portamento. Egli riconobbe nel suo volto pallido alcuni tratti di Maximilian: il colore degli occhi, la piega delle labbra, lo sguardo attento e indagatore. Notò che aveva alla radice del naso la stessa ruga che compariva anche al figlio nei momenti di più intensa attenzione e preoccupazione.
Le si presentò secondo le regole dell'etichetta.
La baronessa lo osservò attenta, quindi senza preamboli disse: “Anselm mi ha riferito che a suo parere mio figlio sta correndo un grave pericolo. Vuole essere più chiaro, per favore?”
Il Werwolf assentì. “C'è un posto dove possiamo parlare, baronessa?”
La donna lo condusse a un piccolo salotto dalla severa mobilia in quercia, scura e lucida. Gli indicò una poltrona e prese posto in quella che si trovava di fronte. “La ascolto,” gli disse poi.
Von Thurn und Taxis le raccontò per sommi capi la missione dietro le linee.
La baronessa annuì grave, quindi chiese: “Per quale motivo la spia britannica di cui lei mi parla dovrebbe interessarsi a mio figlio? A quanto ho capito, è lei l'agente segreto. Lui ha solo pilotato l'aereo che avrebbe dovuto ricondurla dietro le nostre linee.”
La spia sa che non riuscirebbe mai a catturare me. Suo figlio è semplicemente un'esca per attirarmi in trappola.”
La baronessa lo fissò dritto negli occhi, quindi lentamente chiese: “Lei rischierebbe la vita per salvare Maximilian?”
Il Werwolf annuì.
Impassibile, la donna replicò: “Lei è un agente segreto. La vita di un anonimo tenente viene prima della sicurezza della Nazione?”
Agisco in questo modo proprio per non essere costretto a scegliere, baronessa.”

§

Von Knobelsdorff sbatté gli occhi cercando di mettere a fuoco the Bishop. Diede un colpo di tosse e una fitta lancinante lo costrinse a gemere. Sentì un rivolo di sangue colargli lungo il mento.
Non fare la commedia, Gretchen,” lo schernì l'agente segreto, “nessuno muore per una faccenda del genere, nemmeno uno stupido mangiacrauti come te.”
Il tenente non rispose. Le parole dell'inglese gli giungevano indistinte, come attraverso l'acqua. Portò una mano al manico del forcone, ma gli parve di toccare dell'ovatta.
Di nuovo gli giunse la voce beffarda di the Bishop: “Hai ragione, sarebbe piuttosto ingombrante portarsi dietro anche questo attrezzo.” Si avvicinò.
Egli cercò di farsi indietro, ma l'altro gli fu addosso in un attimo. Gli puntò un piede contro l'addome, estrasse il forcone come avrebbe sfilato una vanga piantata nel terreno, poi lo buttò con noncuranza da una parte.
Von Knobelsdorff non riuscì nemmeno a urlare. Anche solo respirare gli spediva brividi di dolore in tutto il corpo, si sentiva l'uniforme inzuppata di sangue. La debolezza si stava impadronendo di lui.
The Bishop si chinò fino a trovarsi col viso all'altezza del suo, quindi gli disse: “Ora ti porterò in un posticino sicuro, Gretchen. Ti terrò lì nascosto e farò sapere al tuo amichetto che sei da qualche parte ferito e stai soffrendo.” Tacque per qualche secondo, quindi soggiunse: “Perché tu stai soffrendo, non è vero? Di' un po', soffri di più per questi quattro buchetti in pancia o perché lui non è qui con te?”
Il tenente non rispose.
L'altro attese per qualche secondo, poi disse: “Il tuo silenzio mi spezza il cuore, Gretchen.” Scosse la testa ostentando delusione, si rialzò in piedi e proseguì: “Ma ora è meglio andare, altrimenti rovineremo la sorpresa che ho preparato.”
Von Knobelsdorff si sentiva sprofondare in un baratro buio. Di attimo in attimo diventava più debole. Il dolore si affievoliva, sostituito da una sempre più intensa sensazione di gelo.
Sto morendo, pensò.
Spostò appena la mano destra. Avrebbe voluto sollevarla per tergersi il sudore freddo che ormai gli imperlava il viso, ma le dita intercettarono un oggetto metallico.
The Bishop stava ancora parlando. Andare via, nascondiglio, Werwolf... Ormai non riusciva più a seguire le frasi per intero, coglieva solo qualche parola qua e là.
La mano strisciò adagio, palpò cieca, come una specie di animale terricolo alla ricerca di un rifugio. Riconobbe la zigrinatura del calcio della Mauser.
Stava morendo, ne era certo. Ormai sedeva in una pozza di sangue, tutto si stava facendo buio. The Bishop era una sagoma indistinta, nella quale coglieva solo l'ovale bianco del viso. Strinse i denti raccogliendo le ultime forze, impugnò la pistola e sparò.
Perse la cognizione delle cose.

§

L'eco della detonazione, sebbene appena percettibile, fece scattare in piedi il Werwolf.
La baronessa lo fissò tesa. “Che cosa c'è?” gli chiese. Puntò le mani sui braccioli della poltrona, come per scattare a sua volta.
Qualcuno ha sparato.”
Ne è certo?”
Sì.” Indicò la provenienza del rumore. “Cosa c'è da quella parte?”
Le scuderie.”
Vado a vedere,” rispose asciutto il Rittmeister. Trasse la pistola dalla fondina e fece per uscire. La donna lo fermò: “Vengo con lei.”
Con tutto il rispetto, baronessa, mi intralcerebbe e basta. Se lo sparo significa ciò che temo, avrò bisogno della massima libertà d'azione.”
Edeltraud von Knobelsdorff aggrottò le sopracciglia e in tono duro replicò: “È di mio figlio che stiamo parlando, principe.”
Ne sono consapevole. Se lei venisse con me, lo metterebbe maggiormente in pericolo. Stia qui, piuttosto, convochi lo chauffer, gli dica di tenersi pronto con l'automobile. Chiami i gendarmi. Queste sono tutte cose che mi aiuterebbero molto.”
Senza attendere risposta, uscì rapido dalla stanza e si portò all'esterno. Corse nella direzione da cui era giunto lo sparo e dopo poco vide profilarsi tra le querce un alto edificio di mattoni rossi. Qua e là c'erano garzoni di stalla che si guardavano intorno perplessi, evidentemente attratti dalla detonazione. “Via tutti!” urlò senza fermarsi. “Questa è un'operazione militare!”
Sperò che l'ingiunzione avrebbe perlomeno contenuto la curiosità della gente, concedendogli più tempo per neutralizzare the Bishop.
Entrò in scuderia, si guardò rapidamente intorno, ma tutto sembrava tranquillo. I cavalli masticavano la biada, nulla faceva pensare che da qualche parte stesse succedendo qualcosa fuori dall'ordinario.
Ispezionando rapido l'ambiente, si accorse che la porta sul retro era aperta. Vi si diresse, si affacciò con cautela, adocchiò nella luce violacea del crepuscolo un fienile. Anche la porta di quell'edificio era aperta, all'interno era accesa una lampada fioca.
L'arma stretta in pugno, lo raggiunse adagio.

Si fermò sulla soglia, tese immobile l'orecchio. Dapprima non sentì nulla, poi gli parve di cogliere un lieve tramestio. Infine una voce ben nota ringhiò: “Piccolo figlio di puttana.”
Non giunse risposta.
Avanzò adagio, mantenendosi al coperto dietro i cumuli di fieno. Cominciò a percepire l'odore ferroso del sangue.
Si impose di fare il vuoto in mente: c'era the Bishop, e c'era qualcuno chiaramente ferito o morto. A prescindere da quanto grave potesse essere quel connubio, non poteva permettersi di cedere all'emotività. Doveva essere freddo, anzi. Addirittura distaccato.
Come se avesse dovuto occuparsi di un perfetto estraneo, con tutto il tempo del mondo per farlo.
Fece un altro passo avanti, inspirò ed espirò silenziosamente.
Udì un nuovo tramestio, il raschiare di qualcosa di metallico sulla pietra. Quel suono ebbe il potere di portare al parossismo l'inquietudine che già gli attanagliava il petto. Si fece avanti risoluto e dovette farsi forza per non sussultare: la pistola ancora in pugno, von Knobelsdorff giaceva immobile in un lago di sangue. Di fronte a lui the Bishop, una spalla trapassata, fiotti vermigli che gli inzuppavano la camicia, reggeva con il braccio sano un forcone, pronto a conficcarlo nell'ormai inerme avversario.
Premette il grilletto, doppiò il colpo per sicurezza, l’agente inglese crollò a terra. Egli non se ne curò nemmeno, corse invece a inginocchiarsi accanto al tenente.
Maximilian,” lo chiamò. Andò alla ricerca della pulsazione della carotide, che colse dopo un po', debole e irregolare. Strinse le labbra. “Maximilian,” ripeté, ma il tenente non rispose. Gli sbottonò l'uniforme, mettendo a nudo le quattro ferite prodotte dai rebbi del forcone.
Si alzò rapido, trasse di tasca il coltello da cui non si separava mai, staccò dalla camicia dell'esanime avversario lunghe strisce, con cui improvvisò bendaggi.
Quando premette una compressa di stoffa sulla più profonda delle ferite, il giovane ufficiale emise un gemito.
Maximilian!” esclamò il Werwolf.
Il tenente socchiuse gli occhi e li volse verso di lui. Li strinse, evidentemente lottando per metterlo a fuoco, infine mormorò: “...Karl...”
Sono qui, Maximilian, non ti preoccupare.”
Sono... morto?”
No, hai la pelle dura. Ma ora non parlare e non muoverti, stai perdendo molto sangue.”
Continuò a tamponare come poteva le ferite. I rivoli rossi che nonostante i suoi sforzi continuavano a filtrargli fra le dita gli facevano capire che era in corso un'emorragia interna.
C'era bisogno di un dottore, di trasfusioni, probabilmente addirittura di una sala operatoria, ma dove trovare una sala operatoria e relativa équipe chirurgica nel bel mezzo della campagna brandeburghese? La risposta era semplice: in una caserma.
Valutò rapido il da farsi, quindi si chinò sul tenente e gli disse: “Ho bisogno di cercare aiuto. Non provare nemmeno ad alzarti mentre sono via, ti giuro che torno presto.”
Ormai pallido come un cencio, stremato, von Knobelsdorff si limitò ad annuire. Il Werwolf lo fissò critico, augurandosi che non tentasse nonostante tutto uno dei suoi colpi di testa, quindi si risolse ad alzarsi per andare in cerca di aiuto.
Subito fuori dal fienile s'imbatté in un paio di garzoni di stalla, che evidentemente stavano girando lì intorno incuriositi dagli spari. “Lei!” intimò brusco al più anziano dei due. “Vada immediatamente ad avvertire la baronessa: è necessario portare qui l'automobile.”
È successo qualcosa, signor capitano?”
Il barone Maximilian ha urgente bisogno di cure mediche. Ora si muova!”
L'uomo corse via.
Il Werwolf si rivolse all'altro: “Ci sono bende, qui?”
L'uomo esitò qualche istante, colto alla sprovvista dalla domanda inaspettata.
Delle bende!” ripeté asciutto l'agente segreto.
Sissignore. Abbiamo quelle che usiamo per i cavalli, signore.”
Basta che siano pulite.”
Nonostante la concitazione del momento, il tono della risposta suonò vagamente piccato: “Certo che lo sono, signore.”
Allora vada a prenderle immediatamente, e faccia approntare una barella.”
Detto questo, il Werwolf si disinteressò del garzone di stalla e tornò da Maximilian. Lo fissò critico: era sempre più pallido. Da sotto i bendaggi non usciva quasi più sangue, ma sicuramente i rebbi del forcone avevano lesionato qualche arteria, o magari squarciato organi come fegato o milza. Si augurò che, dato il tipo di ferite e lo strumento che le aveva inferte, non subentrasse una sepsi del peritoneo.
Sistemò le improvvisate fasciature e passò una mano sulla fronte sudata del giovane, che però rimase immobile. Andò di nuovo alla ricerca del polso carotideo ed ebbe l'impressione che fosse già più fioco, più debole. Girò lo sguardo verso la sagoma riversa dell'agente inglese: the Bishop era morto. Aveva passato anni a inseguirlo o a scappare da lui, anni a guardarsi alle spalle in ogni momento, a controllare ossessivamente ogni sua mossa, nella speranza di riuscire finalmente a ucciderlo. Aveva fantasticato tante volte sul momento fatidico. Aveva immaginato frasi a effetto, perlopiù su Reiner, perché certo, the Bishop era un agente nemico, ma la faccenda tra loro due era da tempo scivolata sul personale.
Si chiese se al posto suo the Bishop lo avrebbe abbattuto così, senza nemmeno dargli il tempo di girarsi a guardarlo.
Forse sì, non era uno cui piaceva perdersi in chiacchiere.
L'arrivo del garzone lo distrasse da ulteriori elucubrazioni. “Ecco qui, signore,” disse, deponendo al suo fianco un sacco pieno di rotoli bianchi. “Serve aiuto?”
Il Werwolf lo fissò critico, ma l'uomo specificò: “Ho combattuto nell'Africa del Sudest.”
In tal caso, mi aiuti a bendarlo meglio.”

Pochi minuti dopo, von Thurn und Taxis era sul sedile posteriore della vettura, lanciata a tutta velocità verso la caserma di Pasewalk, sede di un reggimento di fanteria.
Fra le braccia sorreggeva Maximilian.
Il tenente aveva la pesantezza inerte di una bambola di stracci, solo la sua testa si muoveva appena in risposta alle curve brusche della macchina.
Il Werwolf gli toccò per l'ennesima volta il collo e sospirò di sollievo quando i suoi polpastrelli percepirono una fievole pulsazione.
Rivide acqua rossa, che gorgogliava tra pietre coperte di muschio. Rivide una mano inerte da cui una Mauser era scivolata via.
Chiuse gli occhi e quella mano – la mano di Reiner – si trasformò in quella di Maximilian, che stringeva la stessa arma.
La prima abbandonata sui ciottoli del torrente, l'altra coperta di fili di fieno insanguinati.
Abbassò lo sguardo sul volto pallido del tenente. Non aveva mai pregato, non avrebbe nemmeno saputo come farlo, ma capiva perché in certe situazioni la gente rivolgesse suppliche a una non meglio identificata Trascendenza.
Quando gli strumenti terreni finivano, quando non rimaneva altro che assistere impotenti al compiersi dell'inevitabile, forse veniva naturale invocare gli idoli.

L'acqua ormai non è più rossa. Tutto il sangue, ovvero la vita, è fluito via e Reiner è un involucro vuoto. La midriasi post mortem è così imponente che l'azzurro delle sue iridi si è trasformato in sottili anelli chiari intorno a insondabili pozzi di oscurità.
Egli fissa quegli abissi, desideroso nonostante tutto di immergervisi, di perdersi in essi come ha fatto tante volte, ma non riesce a sopportarne l'immobilità terribile. Arretra angosciato, realizzando di colpo che tra lui e Reiner c'è ormai una barriera invalicabile.
Corre via. Per portare a termine la missione, ma anche per allontanarsi da quell'atroce consapevolezza.

La macchina rallentò.
Egli sollevò lo sguardo dal viso cereo di Maximilian e lo volse all'esterno: ormai era buio, ma nel chiarore freddo di luci a gas vide che una cancellata si stava aprendo lentamente. Colse un vociare confuso, ordini gridati, tramestio.
Dedusse che erano arrivati a Pasewalk.
Immaginò che la baronessa avesse avvertito il comandante della caserma: di sicuro lui e il barone von Knobelsdorff si conoscevano e probabilmente si frequentavano, inoltre Maximilian era un eroe di guerra decorato con il Pour le Mérite.
Proseguirono adagio, attraversando un piazzale rischiarato da lampioni posti lungo i quattro lati, e si fermarono di fronte a un edificio severo, ingentilito da sobri fregi neoclassici.
Sulla porta dell’edificio comparvero due camici bianchi.
Quelle figure alte e mute evocarono al Werwolf ‘L’isola dei morti’, di Böcklin. Si chinò sul tenente, che giaceva immobile fra le sue braccia, e gli sussurrò: “Siamo arrivati, Maximilian.”
Non ci fu risposta.
Maximilian?”
La portiera si aprì facendolo sobbalzare. Fuori c’erano due soldati con una barella e uno dei dottori, un capitano medico alto e magro dagli occhiali cerchiati d’oro.
Questi si chinò e osservò il tenente, quindi alzò gli occhi su di lui in una muta richiesta di spiegazioni.
Quattro ferite penetranti dell’addome,” rispose asciutto il Werwolf, “sospetto un’emorragia interna.”
L’altro annuì. Si protese a fissare con più attenzione Maximilian, gli tastò il polso e aggrottò la fronte.
Si raddrizzò e ordinò rapido ai due soldati di porlo sulla barella.

Von Thurn und Taxis si ritrovò da solo sul sedile posteriore della lussuosa vettura. Lo sportello si era richiuso, per cui aveva l’impressione di essere dentro una specie di bolla, dalla quale vedeva ciò che stava succedendo ma non poteva influire sugli eventi.
Fece scattare la maniglia, scese a sua volta e mosse qualche stanco passo, respirando adagio l’aria della sera. Si era fatto freddo, o forse era l'uniforme fradicia di sangue che gli dava quell’impressione.
Infilò la mano in tasca, ne trasse un portasigarette. Lo osservò per qualche secondo e la la mente saettò a una mattina di alcune settimane prima. A un salone deserto e a un giovane tenente che continuava a guardare fuori per vedere se la sua Jasta stava rientrando dalla missione di guerra.
Lo rimise via.
Si voltò verso la porta da cui erano passati con la barella. Si chiese cosa stesse succedendo in infermeria. Immaginò i due medici che scuotevano la testa e un soldato di sanità che copriva il viso di Maximilian con il lenzuolo.
Strinse i denti imponendosi di non cedere all’emotività. Non era con simili fantasie che avrebbe aiutato il ragazzo.
Si voltò di nuovo verso la porta: non poteva più aiutarlo in nessun modo, ormai. Le cose non dipendevano più da lui.

A un tratto, sentì una mano posarglisi sulla spalla. Distratto bruscamente da quei pensieri angosciosi, d'istinto fece un salto indietro e si mise in posizione di guardia.
Udì una breve risata, poi una voce bonaria chiese: “Sono tutti così nervosi, gli ussari?”
Il Werwolf rilassò i muscoli, emise il fiato che aveva trattenuto. Di fronte a lui c’era un colonnello di fanteria, verosimilmente il comandante della caserma.
Si mise sull’attenti e salutò.
L'altro rispose al saluto, quindi chiese: “È lei che l'ha portato qui?”
Sissignore. Rittmeister Karl Ludwig Amadeus von Thurn und Taxis.”
Il colonnello sollevò le sopracciglia. “Dei principi von Thurn und Taxis?”
Sissignore.”
Conosco Friedrich Wilhelm von Thurn und Taxis.”
È il fratello di mio padre, signore.”
Ha ancora quelle magnifiche tenute di caccia dalle parti di Blankensee?”
Sissignore.”
Ricordo che vi abbattei uno splendido esemplare di cervo maschio. Colonnello Konrad von Ziemssen, a proposito. Sono un buon amico del barone Ernst Wilhelm von Knobelsdorff. E della baronessa, ovviamente.”
All'udire quel cognome, il Werwolf non poté fare a meno di gettare di nuovo uno sguardo verso la porta. L'altro notò il gesto e disse: “Il piccolo Maximilian: sempre a cacciarsi in qualche guaio. Lo conosco da quando era un bimbetto alto così, sa?”
Il Rittmeister si limitò ad annuire.
È un suo camerata?” chiese allora von Ziemssen.
Il Werwolf strinse gli occhi. Un ussaro e un ulano erano camerati quanto un fante e un artigliere. Si sorprese a chiedersi se la domanda del colonnello avesse qualche significato recondito, ma l'altro continuava a fissarlo con l'aria più tranquilla del mondo. Concluse che tutta la faccenda l'aveva reso troppo nervoso. “Abbiamo combattuto insieme,” rispose laconico.
Ah, pilota gli apparecchi anche lei?”
Sissignore,” rispose il Werwolf, sperando che la curiosità salottiera dell'ufficiale non si spingesse fino a chiedergli particolari sulle tattiche di volo.
Von Ziemssen però non sembrava interessato a certe diavolerie moderne. Protese il braccio per toccargli di nuovo la spalla, ma all'ultimo, forse memore del suo scatto precedente, si interruppe. “Venga con me,” disse invece, “lei ha un gran bisogno di bere qualcosa di forte. Cos'è successo, a proposito?”

§

L'ufficio di von Ziemssen era esattamente come lui: mobili di quercia, quadri alle pareti, trofei di caccia, una vetrina con i fucili, un caminetto. Spento, data la stagione, ma con alari d'ottone lucidi come oro.
I due sedevano in una specie di salottino composto da due poltrone fra cui si trovava un basso tavolino rotondo.
Sulla superficie del mobile c'erano una bottiglia di Schnaps e due bicchieri.
Il colonnello raccolse la bottiglia e propose: “Un altro?”
Il Werwolf annuì. “Sì, grazie.” Spinse il bicchiere nella sua direzione.
Von Ziemssen mescé il liquore, poi disse: “Ora, capitano, sarei curioso di sapere cos'è successo.”
Von Thurn und Taxis annuì e sorbì un paio di sorsi. Abbassò gli occhi sulla propria uniforme, che il sangue ormai secco stava rendendo rigida come cartone. Infine dichiarò: “Il barone von Knobelsdorff ha subito un'aggressione.”
Il colonnello aggrottò le sopracciglia. “Un'aggressione? Come sarebbe a dire?”
Impassibile, il Werwolf spiegò: “Uno dei garzoni di stalla ha attaccato il tenente von Knobelsdorff con un forcone. Per fortuna io ero nelle vicinanze e sono intervenuto.”
L'ha attaccato? Com'è possibile?”
Suppongo che fosse uno squilibrato.”
Von Ziemssen raccolse la bottiglia e versò da bere anche per sé. Sorbì un generoso sorso di liquore, quindi brontolò: “Questi squilibrati sono davvero un problema. L'uomo è stato assicurato alla giustizia?”
L'ho ucciso.”
Il colonnello che stava per portare di nuovo il bicchiere alle labbra, rimase col gesto a metà. “L'ha ucciso?”
Il Werwolf annuì secco. “Non c'era altro da fare.”
All'apodittica affermazione seguì qualche secondo di silenzio. Infine von Ziemssen tossicchiò e disse: “Immagino abbia ragione. Del resto, questa tragica vicenda dimostra con chiarezza che certa gente è solo un peso per la società e dovrebbe perlomeno stare rinchiusa.”
Esattamente, signor colonnello.”

In quel momento si udì bussare alla porta.
Avanti!” ordinò von Ziemssen.
L'anta si aprì e sulla soglia comparve un'ordinanza, che si mise sull'attenti e disse: “Signor colonnello, il signor capitano medico Bergmann chiede di poter parlare con lei.”
L'ufficiale annuì, poi rispose: “Riferisca al capitano che andrò da lui appena possibile.”
Il soldato non si mosse. “Signore, il signor capitano medico ha detto che è molto importante,” specificò.
Il colonnello annuì di nuovo. Fissò il Werwolf, poi si alzò in piedi. “Voglia perdonarmi, Rittmeister,” borbottò evitando il suo sguardo.
Abbandonò la stanza.
Von Thurn und Taxis rimase immobile. Abbassò lo sguardo sul bicchierino di Schnaps pieno a metà. Lo beve d'un fiato, poi prese la bottiglia, versò altro liquore e inghiottì anche quello.
Le sue attività di spionaggio lo obbligavano a non ignorare nessuna eventualità, ad avere sempre un piano di riserva. Fino a quel momento si era proibito di elaborarne uno, ma a quel punto dovette porsi la fatidica domanda: cos'avrebbe fatto se il colonnello fosse rientrato e gli avesse detto che Maximilian era morto?
Niente di diverso da quello che aveva fatto fino a quel momento, probabilmente. Avrebbe recuperato la sua motocicletta, sarebbe tornato a Berlino e avrebbe aspettato la prossima missione.
Forse la faccenda di the Bishop avrebbe suscitato qualche clamore, ma certo non troppi: nei servizi segreti non si era abituati al chiasso. Probabilmente Matthesius gli avrebbe fatto una telefonata per complimentarsi, rigorosamente in codice, spacciandosi per suo zio, e la faccenda sarebbe finita lì.
Tese meccanicamente la mano verso la bottiglia, ma la ritirò prima di toccarla: non era certo stordendosi con l’alcol che avrebbe risolto la situazione.
Doveva essere lucido, anzi, altrimenti avrebbe potuto fare o dire qualcosa di troppo.
Si alzò, andò alla finestra. Il moschetto a spallarm, una sentinella stava attraversando lentamente il piazzale. La seguì con lo sguardo fino a che non venne inghiottita dalla zona d’ombra fra due lampioni, poi abbandonò il suo punto d’osservazione e fece qualche passo nella stanza. La stoffa irrigidita dal sangue gli grattava la pelle, avrebbe voluto togliersi quei panni dall’odore ferroso, buttarli via. Immaginò che la stanza ormai fosse impregnata di quel sinistro tanfo da campo di battaglia, come lo sarebbe stato lui stesso per chissà quanto tempo.
Per quello che gli restava da vivere, forse.

Udì dei passi avvicinarsi rapidi, istintivamente si irrigidì come per assorbire un colpo.
La porta si aprì, sulla soglia c’era il colonnello von Ziemssen. Aveva l’espressione contrariata. Il Werwolf si trovò a deglutire.
L’altro entrò risolutamente nella stanza e brontolò: “Una dannata complicazione.”
Von Thurn und Taxis considerò fra sé e sé che il dignitoso ufficiale non avrebbe mai definito la morte di Maximilian come dannata complicazione, quindi non era di quello che si stava parlando.
Lo fissò con aspettativa.

Von Ziemssen spiegò: “Serve una trasfusione, ma gli uomini sono quasi tutti fuori per la libera uscita, inoltre il dottor Bergmann mi ha detto che il sangue non è tutto uguale, bisogna fare delle prove per vedere se quello del donatore e quello del ricevente si possono mescolare. Ha parlato di… categorie?”
Gruppi sanguigni,” esalò il Werwolf. Maximilian non era morto, ma stava morendo, sarebbe morto se non avesse ricevuto del sangue. “Mi faccia parlare con il medico,” disse rapido.
Lei? Ritiene che il suo sangue sia compatibile con quello del tenente?”
Non lo so, ma so qual è il mio gruppo sanguigno. Se per caso è lo stesso, possiamo procedere subito, senza perdere tempo in prove.”

§

La prima cosa che il Werwolf pensò, vedendo Maximilian adagiato sul lettino operatorio, fu che non aveva senso fare una trasfusione a un morto. Da cereo che era, il volto del ragazzo si era fatto livido. Le labbra erano esangui, le orbite infossate. Immaginò che se l’avesse toccato, l’avrebbe trovato freddo come il marmo.
La voce del medico lo distrasse dalle sue meditazioni: “Il suo gruppo sanguigno, capitano.”
A[1],” rispose subito il Werwolf.
Iddio sia ringraziato,” fu la risposta. “Prego, si tolga la giubba e si stenda: non c’è tempo da perdere.”

Il sottile tubo che gli usciva dalla vena era di una gomma opaca, color arancione spento, per cui non ne vedeva il contenuto. Esso però sussultava come una specie di piccolo serpente ogni volta che il medico azionava lo stantuffo dell’apparecchio per la trasfusione. Il Werwolf pensò che dava l’impressione della vita, che da lui passava in Maximilian.
Si augurò solo che ci fosse ancora tempo per rianimarlo, che non fosse già troppo tardi.
Chiuse gli occhi. Tutto era silenzio, a parte il fruscio del camice di Bergmann e rari tintinnii di strumenti. Da qualche punto lontano proveniva anche un parlare fioco, di una voce che sembrava femminile. Suppose che la baronessa fosse giunta alla caserma e stesse domandando a von Ziemssen notizie del figlio.
Si chiese se il colonnello l’avrebbe portata in infermeria. Immaginò la severa dama che osservava le procedure della trasfusione più impassibile di qualsiasi ufficiale del fronte, magari con la ruga verticale fra le sopracciglia come unica testimonianza del tormento interiore.
A quel pensiero si voltò verso Maximilian, che giaceva al suo fianco. Seguì con lo sguardo il tubicino di gomma che gli portava il sangue, si fermò al bagliore metallico dell’ago che gli entrava nella vena.
Non aveva il coraggio di risalire oltre, lungo il braccio, fino al collo e poi al viso. Si concentrò su quella cannula d’acciaio, immaginando il rassicurante, salvifico torrente scarlatto che da esso entrava e si spandeva nei vasi.
Il dottor Bergmann gli si avvicinò, gli tastò il polso. Prese da un’arcella un batuffolo di ovatta e glielo premette sul punto in cui l’ago gli penetrava nella pelle.
Cosa fa?” chiese il Werwolf, squadrandolo diffidente.
Il capitano medico rispose: “Interrompo la trasfusione.”
Lui è già fuori pericolo?”
No, ma le ho già tolto molto sangue. Se ne prelevassi di più, sarebbe lei a rischiare.”
Il Werwolf gli fermò la mano prima che potesse sfilare l’ago. “Continui,” ordinò categorico.
Bergmann entrò nel suo campo visivo. “Cosa?”
Continui, ho detto. Vada avanti finché è necessario.”
Ma capitano...”
Vada avanti.”
L’altro rimase in silenzio per qualche secondo, il Werwolf immaginò che stesse riflettendo sulla faccenda. Si avvicinò poi al lettino su cui giaceva Maximilian, gli tastò il polso, gli misurò la pressione e corrugò la fronte. Infine disse: “E va bene, continuiamo. Ma mi fermerò se dovessi accorgermi che lei corre qualche pericolo.”
Ho corso pericoli ben peggiori, dottore.”
Bergmann, di nuovo chino su Maximilian, non rispose.
Von Thurn und Taxis emise un sospiro. Provò a sistemarsi meglio sul lettino, ma si sentiva così pesante che faticava a muoversi. Nonostante gli avessero steso addosso una coperta, cominciava anche ad avere freddo. La cosa non lo stupì: anche lui stava perdendo molto sangue.
Chiuse gli occhi. Forse avrebbe potuto dormire un po’, mentre finivano con la trasfusione.
Tutto si fece buio.








[1] All’epoca il fattore Rh non era ancora stato scoperto, per cui i gruppi sanguigni conosciuti erano solo quelli principali: A, B, AB e 0.



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Capitolo 22
*** Capitolo 14 ***


Gente mia,
ho finito di sfrangiarvi le gonadi con agenti segreti e aviatori. Questo è l’ultimo capitolo della lunga vicenda.
Ringrazio tantissimo ognuno di voi, affezionati lettori, adorati commentatori e passanti che magari hanno dato un’occhiata. Siete voi che fate vivere le storie, per cui grazie: senza il vostro prezioso sostegno, questa storia sarebbe rimasta nel buio di un cassetto.






Capitolo 14

Le querce nella nebbia sono come come fantasmi silenti. La bruma si torce adagio nell’aria ferma, scorre sul terreno in una lenta corrente che nasconde ogni cosa.
Ovunque regna una quiete ovattata.
Egli si guarda intorno. Percepisce, più che vederla, la mole immanente di un castello. Sa che più in basso scorre il fiume. Ne coglie ogni tanto il profilo sinuoso, quando le falde di vapore si diradano.
A un tratto comincia a udire un rumore in avvicinamento: è uno scalpiccio lento di zoccoli, accompagnato da un passo umano. Si percepisce di tanto in tanto un tinnire lieve di metallo.
Si volta in quella direzione con uno strano senso di aspettativa.
Dalla foschia emerge un cavaliere che tiene il destriero per le redini.
Cammina adagio verso di lui.
Quando l'ha raggiunto, egli si accorge che è Reiner. Anche se non l'ha mai visto, sa che è lui, in qualche modo ne è sicuro. Ha un volto pallido, nobile, pervaso di una strana calma remota. Gli occhi sono grigi e trasparenti. Porta una lucida cotta di maglia e ha lungo manto candido, con una croce nera sulla spalla. Lo stesso simbolo è anche sul petto.
Al fianco ha una spada.
Si ferma muto di fronte a lui. Il suo cavallo, un morello nero come il carbone, dilata le froge per fiutarlo, poi drizza le orecchie nella sua direzione e lo fissa con occhi di giaietto.
Egli allunga una mano per accarezzargli il muso, ma l'animale si sottrae al contatto.
Riporta il braccio lungo il fianco, e per qualche motivo sa che è giusto così. Che non è ancora giunto il momento di toccare quel cavallo.

A quel punto, il cavaliere abbandona le redini dell'animale e sfila la spada dal fodero. Gliela porge.
Egli la osserva: l'elsa è una testa d'aquila le cui piume pian piano si trasformano in foglie di quercia. La lama è lucido acciaio.
Ora è tua,” dice pacato il cavaliere.
Mia?” ripete lui stupito. Fissa la magnifica arma, poi solleva lo sguardo sugli occhi dell'altro, limpidi e freddi come i laghi in cui andava a bagnarsi da ragazzino.
Spetta a te,” è la pacata risposta. “Le foglie muoiono ogni anno, ma la quercia è sempre viva.”
Egli si trova a deglutire per dominare l'emozione, ma la spada è sempre immobile di fronte a lui e lo sguardo del cavaliere – di Reiner – non lo abbandona.
Tende la mano, la chiude titubante su quell'elsa scura, ed è come se una scossa di energia gli percorresse il braccio.
L'altro arretra di un passo. “Ora è tua,” ripete. Raccoglie le redini del cavallo, gliele passa sul collo e monta in sella. Gli rivolge un'ultima occhiata, poi si dirige lentamente verso il bosco di querce.
La spada stretta in pugno, egli per un po' lo segue con lo sguardo, poi esclama: “Aspetta!”
Il cavaliere si ferma, egli lo raggiunge. “Aspetta,” ripete a voce più bassa.
L'altro scuote la testa. “No, è giunto il mio tempo. Ora porterai tu questa spada, combatterai tu al suo fianco.”
Egli non replica, si limita a chinare il capo in segno di assenso, pronto a tener fede in ogni modo a quella che a tutti gli effetti è un'investitura. “Ti rivedrò?” gli chiede.
No.”
Il cavallo riprende a muoversi lentamente. Le querce, nere e immobili, velate dalla foschia, sono come una barriera invalicabile.
Il cavaliere le raggiunge, si gira a guardarlo un'ultima volta poi vi si addentra, confondendosi pian piano nella bruma che avvolge ogni cosa.
Il rumore degli zoccoli sparisce.

Maximilian von Knobelsdorff aprì gli occhi: non c’erano querce.
Vedeva un soffitto bianco, alto, da cui pendeva un lampadario rotondo di metallo smaltato, a sua volta bianco ma con un bordo blu scuro, che gli fece venire in mente le bacinelle del bucato.
Strinse gli occhi: non ricordava di aver mai visto un lampadario del genere. Non c'era in nessuna stanza della tenuta di Rollwitz e non c'era nemmeno nella villa che fungeva da alloggio per i piloti della Jasta.
L’aria odorava di disinfettante. C’era silenzio, a parte un lieve chiacchiericcio lontano che giungeva a sprazzi, come portato da onde marine.
Cercò di sollevare la testa, ma non appena tese i muscoli, una fitta all'addome lo costrinse a desistere.
Ripiombò all'indietro mentre il dolore gli si irradiava nel corpo come un sisma, raggiungeva un parossismo e poi man mano scemava, rimanendo sullo sfondo come una dolenzia sorda.
Per non ripetere l'esperienza, si accontentò di far girare lo sguardo: era in una camera dall'arredamento essenziale. Di fronte aveva un piccolo armadio, e al centro della parete una croce e il ritratto di Sua Maestà. Alla sua destra c'era una porta chiusa; a sinistra, sotto una finestra dalla quale si vedeva un cielo azzurro, c'era un mobiletto basso coperto da un telo bianco, sul quale erano allineati bendaggi, bacinelle, boccette di vetro scuro e qualche ferro chirurgico.
Un ospedale?
La cosa gli parve plausibile. Ricordava una lotta, delle ferite, degli spari, ma era tutto confuso. I volti si confondevano, le situazioni anche.
Aveva in mente l'immagine di the Bishop chino su di lui, che diceva qualcosa, ma allo stesso tempo aveva l'impressione di ricordare anche il Werwolf, che gli parlava in un tono urgente, preoccupato, ma al tempo stesso anche rassicurante.
Chiuse gli occhi. Non riusciva a ricordare cosa fosse successo dopo.

Ma chi si rivede: Gretchen.”
I rebbi del forcone penetrano più a fondo, gli mozzano il respiro, lo costringono a emettere un gemito soffocato. Sente il ferro strisciare contro le costole.
E il dolore, il dolore è come una bestia che lo ha azzannato a mezzo corpo e sta scrollando la testa per straziarlo maggiormente.

Era successo prima o dopo l'arrivo del Werwolf? Non riusciva a ricordare nemmeno questo.
Spostò adagio la mano fino a toccarsi l'addome, coperto da una spessa medicazione. Man mano che riprendeva i contatti con la realtà, anche i ricordi diventavano più nitidi. Rivide the Bishop con le mani strette sul manico del forcone, pronto a spingerlo più a fondo, risentì la forma zigrinata del calcio della Mauser contro il palmo della mano, la detonazione, il rinculo dell'arma.
Poi le immagini si fecero di nuovo confuse: qualche sprazzo di dolore, voci, la sensazione di sprofondare in un abisso buio.
Braccia che lo sostenevano, una voce rassicurante che gli parlava.

La porta si aprì, sulla soglia comparve un caporale della sanità anzianotto, corpulento, con un Krätzschen bisunto in testa.
L'uomo notò che si era svegliato. “Perbacco,” borbottò. Si tolse il berretto, se lo rigirò un paio di volte fra le mani, quindi lo indossò di nuovo. “'Giorno, signor tenente,” disse infine, portandosi due dita alla fronte in un informale saluto.
Prima che von Knobelsdorff potesse rispondere, il caporale era già uscito e stava dicendo: “Signor capitano medico! Signor capitano medico, faccio rispettosamente notare che il ferito della stanza sedici si è svegliato!”
All'esterno ci fu un rapido confabulare, poi entrò nella stanza un dottore. Anche lui aveva l'aria anzianotta, pacifica, da buon medico condotto di paese. Von Knobelsdorff immaginò che i medici più giovani fossero al fronte, dove era necessaria maggiore prestanza fisica, e quelli più vecchi si occupassero delle retrovie.
Si girò a guardarlo.
Il nostro giovanotto si è ripreso, dunque?” lo apostrofò il nuovo arrivato raggiungendo il letto. Gli prese il polso e per un po' rimase assorto a tastarlo, controllando di tanto in tanto un orologio che aveva estratto dalla tasca. “Molto bene,” approvò infine, deponendoglielo sulla coperta.
Von Knobelsdorff continuava a fissarlo in silenzio, tanto che l'altro dopo un po' gli chiese: “Mi capisce, giovanotto? Sente quello che dico?”
Il tenente accennò di sì con la testa. “Sissignore,” balbettò poi.
Molto bene,” ripeté il medico. “Sa, non è così raro che al risveglio da un lungo stato di incoscienza si abbiano episodi di confusione.”
Capisco.”
Io sono il capitano medico Albert Fischer, a proposito. Questo è l’ospedale militare di Treptow.”
Maximilian von Knobelsdorff.”
Ricorda quello che è successo, giovanotto?”
Il tenente rimase per un po' in silenzio, cercando di recuperare le immagini sfocate di poco prima, poi rispose: “Sì e no.”
Fischer lo fissò come se non si fosse aspettato altro. Annuì grave e infine gli rivelò: “È stato aggredito da un pazzo, giovanotto. Uno squilibrato, un uomo che una ferita di guerra aveva reso folle. Lei, essendo un eroe che ha ricevuto la più alta delle decorazioni al valore, è stato l'incolpevole catalizzatore del suo odio.”
Von Knobelsdorff non replicò. Senza dubbio la faccenda del pazzo era la scusa con cui il Werwolf aveva sistemato tutto quanto.
La voce del medico attirò nuovamente la sua attenzione: “Non ricorda?”
Il tenente scosse la testa. “Temo di no,” rispose, anche solo per sentirsi raccontare quello che l’agente segreto aveva inventato.
Fischer gli tirò giù le coperte, mise a nudo la medicazione. Mentre aiutato dal caporale svolgeva con perizia le bende, cominciò a raccontare: “Lo squilibrato, tale Anton Pohl, era riuscito a farsi assumere come mozzo di stalla. Pareva una persona normale, nessuno aveva mai avuto motivo di lamentarsi di lui, eppure nel suo intimo covava un risentimento senza pari. Odiava tutto ciò che aveva a che fare con i militari, capisce?”
Sissignore.”
Molto bene,” approvò il medico. Gli palpò delicatamente l'epigastrio. “Fa male qui?”
Von Knobelsdorff strinse i denti. “Un po',” rispose, irrigidendosi suo malgrado.
La mano si spostò verso il fegato. “E qui?”
Sissignore.”
Già, già.” Il medico si sistemò gli occhiali, quindi spiegò: “È chiaro che sente male. I medici di Pasewalk hanno dovuto operare d'urgenza, c'era un'importante emorragia interna.” Fece cenno al sottufficiale, che subito prese una delle boccette scure, pose un po' del suo contenuto su un batuffolo d'ovatta e iniziò con quello a ripulire la cicatrice operatoria.
Fischer frattanto continuava a visitarlo. “Tutto bene,” disse poi, “tutto nella norma. Lei è molto forte, giovanotto, si rimetterà presto.”
Grazie, signore,” disse von Knobelsdorff, irrigidendosi suo malgrado sotto il batuffolo imbevuto di tintura di iodio. “Signore....?” chiese poi esitante.
L'altro, che si stava lavando le mani in un catino, si voltò. “Sì, giovanotto?”
Ecco, signore... io credo di ricordare che ci fosse un ufficiale degli ussari con me. Un Rittmeister che...”
L'altro non lo lasciò nemmeno finire. “Ma certo,” rispose subito. “Un suo buon amico, direi, o forse il suo angelo custode, dato che le ha salvato la vita non una, ma due volte.”
Tra le sopracciglia aggrottate di von Knobelsdorff comparve una ruga verticale. “Che intende dire?”
Il Cielo ha voluto che fosse presente, quando lo squilibrato l'ha aggredita. È stato lui a neutralizzare quell'uomo e a prestarle le prime cure, ed è stato sempre lui a offrirsi per una trasfusione quando lei rischiava di morire dissanguato.”
A quella notizia il tenente sussultò e d'istinto cercò di sollevarsi a sedere, ma subito intervenne il sottufficiale, che lo afferrò per le spalle e gli impedì il movimento.
Mi lasci!” protestò von Knobelsdorff irritato. Imperturbabile, l'altro si limitò a rivolgere un'occhiata al medico.
Questi scosse la testa. “Non è bene che lei si alzi, giovanotto,” lo ammonì severo.
Il tenente rinunciò ai suoi propositi di ribellione. Si rilassò sotto la presa erculea del caporale, emise un sospiro e ripeté: “Una trasfusione?”
Molto consistente,” fu la risposta. “Quel bravo capitano le ha dato così tanto sangue che abbiamo dovuto tenere ricoverato anche lui per qualche giorno.”
A quelle parole, von Knobelsdorff sentì il cuore balzargli nel petto. “È ancora qui?” chiese. Fece saettare lo sguardo tutt'intorno, come aspettandosi di vederlo da qualche parte.
L'altro scosse la testa. “È rientrato in servizio: ordini superiori. Io ero contrario, naturalmente, il paziente aveva ancora bisogno di riposo, ma...” Si strinse nelle spalle, con l'aria di chi si piega all'ineluttabile.
Non c'è più?”
Di nuovo, Fischer scosse la testa.
Il tenente aggrottò le sopracciglia e chiese: “E io quando posso andarmene?” D'un tratto, gli sembrava importantissimo uscire, rientrare in servizio. Ma soprattutto andare a cercare Karl.
Ancora non aveva idea di come l'avrebbe trovato, ma doveva assolutamente cercarlo.
Il medico toccò di nuovo la ferita, facendolo irrigidire per il dolore, quindi rispose: “Ci vorrà ancora un po', giovanotto.”
Ma io sto già bene!” protestò von Knobelsdorff.
L'altro alzò teatralmente gli occhi al cielo. “Siete tutti uguali,” proferì infine, “nessuno che abbia pazienza, nessuno che dia il tempo alla Natura di fare il suo corso.”
Sto bene,” ripeté caparbio il tenente.
La voce di Fischer si fece dura: “Lei non sta affatto bene, e se avesse un minimo di buon senso se ne renderebbe conto da solo. Obbedisca agli ordini di chi ne sa più di lei e attenda di ristabilirsi come si deve.”
Sissignore,” sospirò von Knobelsdorff, mentre già vagliava mentalmente la lista dei superiori che avrebbe potuto interpellare per farsi richiamare in servizio.

§

Il maggiordomo si avvicinò al principe von Thurn und Taxis reggendo cerimoniosamente un vassoio su cui si trovava un telefono. Alle sue spalle, il filo dell'apparecchio serpeggiava sul pavimento di marmo e si perdeva nel buio di un corridoio. “Una chiamata per lei, eccellenza,” annunciò compassato. Posò il vassoio su un tavolino.
Il principe abbandonò il libro che stava leggendo, si alzò dalla chaise longue e raggiunse il domestico. “Chi è?” chiese, raccogliendo la cornetta.
Non l'ha detto, eccellenza. Ha detto che lei l'avrebbe riconosciuto subito.”
Il Werwolf annuì. “Zio Oswald?” chiese nel ricevitore.
Volevo congratularmi per il cinghiale che hai abbattuto, ragazzo mio,” provenne dall'altra parte del filo.
Non è il caso.”
Sciocchezze! Era un bel po' che quella bestiaccia ci dava filo da torcere. Quando passi da questo povero vecchio?”
Quando vuoi, zio.”
Beh, mettiti in viaggio, allora. Per dove sai tu. Quel cinghiale non era mica l'unica bestia che ci rovinava le colture, eh.”
Il Werwolf scosse la testa come se l'altro avesse potuto vederlo, poi rispose: “Ho bisogno di qualche altro giorno. Giusto un paio.”
La voce dell'interlocutore suonò costernata: “Diamine! E per fare cosa?”
Ecco... c'è un giovane segugio che mi ha aiutato nella caccia, zio. È rimasto ferito e voglio controllare che si ristabilisca nel modo giusto, prima di venire a trovarti.”
Lascia queste cose a chi se ne intende, ragazzo mio. A ognuno il suo mestiere, non è così che si dice?”
Sì, zio.”
E poi, non avevi deciso di lasciar perdere i segugi? Dopo ti affezioni e sai come va a finire. La caccia è un'attività pericolosa.”
Il Werwolf si limitò ad annuire.
Ragazzo?” chiese dopo un po' l'interlocutore.
Sono qui, zio.”
Dicevo: lo sai come va a finire.”
Sì, lo so.”
Chiuse la comunicazione mentre l'altro stava ancora parlando, quindi disse: “Non voglio essere disturbato.”
Il maggiordomo si inchinò. “Sì, eccellenza.”
Nemmeno se richiamasse questa persona.”
Certamente, eccellenza.”

Rimasto solo, il Werwolf gettò uno sguardo al libro abbandonato sulla chaise longue, ma rinunciò a riprendere la lettura.
Andò alla finestra, invece, e da lì rimase immobile a contemplare il cielo.
Si trovava in una situazione che non gli era capitata spesso nella vita: non sapeva cosa fare. Forse avrebbe dovuto dar retta a Matthesius, e dimenticare Maximilian. Seguirlo da lontano, magari, nell'ombra. Accontentarsi di proteggerlo senza dar segno di sé.
D'altra parte, aveva fantasticato su quel ragazzo. Lui, che da anni si allontanava dalla realtà contingente solo per prevedere, supporre e pianificare, si era trovato a immaginare se stesso e Maximilian, fianco a fianco, impegnati in qualche missione.
Quelle fantasie invariabilmente terminavano con l'immagine di Maximilian riverso in un torrente, esattamente come anni prima era successo a Reiner.
Per quel motivo aveva smosso ogni suo contatto e si era fatto dimettere il prima possibile dall'ospedale militare di Treptow, poi non ci era più tornato. Se ogni ospedale militare inglese o francese pullulava di spie tedesche, anche quel posto doveva essere pieno di spie nemiche. Non era bene che i servizi segreti inglesi, inferociti per la morte del loro migliore agente e desiderosi di fargliela pagare, sapessero cosa lo legava a quel ragazzo.
Si staccò dalla finestra, fece qualche passo nervoso nella stanza. Maximilian era un cavaliere dei cieli, un asso. Era orgoglioso, coraggioso, deciso, ma per nulla avvezzo allo spionaggio.
Certo, avrebbe potuto addestrarlo, ma cosa avrebbe ottenuto? Forse di snaturarlo e basta, di esporlo al rischio di una fine iniqua, senza gloria e senza dignità, senza nemmeno l'onore di indossare l'uniforme del Paese per cui stava dando la vita.
Tirò il cordone del campanello, il maggiordomo si presentò sulla porta e chiese: “Eccellenza?”
Il telefono,” ordinò il Werwolf.
Quel signore ha chiamato altre due volte, eccellenza,” lo informò il domestico.
Lo immaginavo. Porti qui il telefono e poi mi lasci solo.”
Come vuole, eccellenza.”
L'agente segreto aspettò che l'uomo se ne fosse andato, quindi compose un numero e attese tamburellando col piede per terra. Quando dall'altra parte ci fu la risposta, smise di tamburellare e disse: “Zio Oswald? Vengo alla tenuta, dammi solo il tempo di fare una cosa stasera.”

§

È notte, è sdraiato nel letto. A parte il riflesso delle luci del corridoio, che filtra dal vetro che c'è sopra la porta, la stanza è immersa nel buio. Nel silenzio che aleggia ovunque si ode solo il camminare lento del caporale infermiere Schulte, impegnato nel giro di ronda.
Si accorge che nella camera c'è una presenza. Non la vede e non la sente, ma è come se ne percepisse l'essenza vitale. È nell'angolo in cui l'oscurità è più densa, e lo sta guardando.
Non ha paura, però. Lo sguardo che percepisce su di sé è attento, indagatore, ma anche carico di una strana tenerezza, che scalda e rinfranca come vino forte.
Si puntella sul gomito per guardare meglio e dalle tenebre, appena delineata dal fioco chiarore che filtra dal corridoio, emerge la sagoma di un lupo.
Sei tu?” chiede sottovoce. Non sa bene a chi si stia rivolgendo, né perché in quei termini. Sa solo che quella misteriosa presenza gli comunica una sensazione di familiarità, di protezione.
Si solleva maggiormente. A quella vista, il lupo avanza appena, egli percepisce il lucore dei suoi occhi. Si ferma però prima di uscire dal buio.
Sei tu?” ripete. Prova ad alzarsi per raggiungerlo, ma le gambe non lo reggono e cade a terra.

Von Knobelsdorff si svegliò con un sussulto. Non era sul pavimento come aveva sognato, ma la sensazione della presenza rimaneva.
Si girò verso l'angolo buio e la sensazione divenne più forte che mai. “Sei tu?” sussurrò.
Non ci fu risposta.
Puntò il gomito sul materasso e stringendo i denti fece forza per sollevarsi. Gli parve di vedere una sagoma alta, che lo guatava silenziosa. “Karl,” disse, e non era una domanda.
La figura si staccò dalla parete, si spostò verso di lui come un misterioso lembo di oscurità. Si fermò muta a un metro dal letto.
Il tenente non poté fare a meno di sorridere. “Karl,” ripeté. Ricadde all'indietro spossato.

Il Werwolf rimase immobile. Dopo qualche secondo, il tenente girò il volto nella sua direzione e mormorò: “Karl, ti aspettavo.”
A quel punto, l’altro si avvicinò e tese adagio una mano a sfiorargli i capelli. “Sono venuto a salutarti,” gli disse poi.
Il più giovane si irrigidì. “A salutarmi?” ripeté. Lo squadrò diffidente e l’ormai famosa ruga verticale gli comparve tra le sopracciglia.
Devo andare.”
Maximilian tentò nuovamente di sollevarsi sul gomito, non vi riuscì e ricadde all’indietro con un gemito di disappunto. “Io vengo con te,” ansò poi.
Il Werwolf si limitò a scuotere la testa.
Certo che ci vengo,” insisté il tenente. “Appena sono guarito, è ovvio. Il che accadrà molto presto.”
L’altro si chinò fino a che non ebbe il volto a livello del suo, poi rispose: “Non sai quello che mi stai chiedendo.”
Lo so benissimo, invece. Voglio tornare in missione con te, voglio combattere al tuo fianco.”
Di nuovo il Werwolf gli accarezzò i capelli, poi disse: “È troppo pericoloso.”
Davvero? Lo sai perché i piloti vanno in volo portandosi dietro una pistola carica?”
No.”
Perché se va a fuoco l’aereo, si sparano per non bruciare vivi.”
L’altro rimase in silenzio. Dopo qualche secondo, il tenente insisté: “Secondo te, fare voli di guerra è più o meno pericoloso di quello che abbiamo fatto insieme dietro le linee?”
A quelle parole, il Werwolf si rialzò in piedi, allontanandosi addirittura di un passo. In tono duro, replicò: “Qui non si tratta di giocare a chi ha l’ultima parola in una disputa verbale, Maximilian. Seguirmi in missione significa abbandonare la tua vita precedente, gli affetti, le amicizie, il tuo ruolo nella Jasta, il tuo aereo. Diventeresti un anonimo impiegato senza gloria né decorazioni, che svolge lavori spesso sporchi e pericolosi, costretto a fare cose perlopiù contrarie all’onore di un ufficiale.”
A me non pare che tu sia senza onore,” lo interruppe il tenente.
Perché non mi conosci, oppure sei accecato da...” Non finì la frase. Gli girò bruscamente le spalle, valutando l’eventualità di andarsene in quel momento e far perdere per sempre le tracce di sé.
Da cosa?” lo incalzò Maximilian.
Senza voltarsi, il Rittmeister rispose: “Dai sentimenti.”
E tu no?”
Forse, ma non intendo per questo metterti in pericolo o spingerti a una vita che non ti darebbe alcuna soddisfazione e ti priverebbe di quello che sai fare meglio.”
Ovvero discutere con te? Non penso proprio che me ne priverei.”
Il Werwolf si girò con un sospiro. “Maximilian...”
Portami con te, Karl, oppure giuro che troverò il modo di seguirti ugualmente.” Detto questo, il tenente con risolutezza buttò da una parte le coperte e fece per scendere dal letto. Le gambe non lo ressero ed egli crollò in avanti con un gemito.
D’istinto il Rittmeister si lanciò in avanti e lo afferrò prima che toccasse il pavimento. Lo strinse a sé, poi lo adagiò nuovamente sul giaciglio. “Perché hai fatto una cosa del genere?” ringhiò. “Sei stupido e impulsivo.”
Fece per ritrarsi, ma il tenente gli circondò il collo con un braccio, impedendogli il movimento. Rimasero immobili a fissarsi per qualche istante, poi il più giovane rispose: “Sono le stesse cose che mi ha detto anche the Bishop...”
Perché è vero.”
...Prima che gli sparassi.”
Il Werwolf, che aveva passato notti insonni a struggersi sulla sorte del giovane ufficiale, reputò quella frase una tracotante provocazione. Aggrottò le sopracciglia e replicò: “Ma prima o dopo che ti infilasse un forcone nella pancia?”
Maximilian lo fissò serio. “Dopo, e questo dimostra quanto so resistere al dolore, dominare la paura e mantenere il sangue freddo.”
L’altro annuì. “Lo so.” Avvicinò il proprio viso al suo. Il più giovane per tutta risposta rinsaldò la presa sul suo collo, egli percepì contro il torace il battito accelerato del suo cuore. Lo rivide cereo, abbandonato in un lago di sangue, e poi lo rivide orgoglioso, fiero, che sfoggiava la decorazione appena conseguita con l’eleganza spavalda di una giovane aquila. “Se ti impedisco di venire con me, è perché il mio è un lavoro sporco. Non è un modo onorevole di combattere, non riceverai mai medaglie per quello che hai fatto, i nemici ti disprezzeranno, i tuoi colleghi ti considereranno un pantofolaio codardo che se ne sta rintanato nelle retrovie.”
Non m'importa, io voglio combattere al tuo fianco.”
Maximilian...”
I volti ormai si sfioravano. La presa del tenente non accennava a sciogliersi, ma anzi di attimo in attimo sembrava farsi più ferrea, come se il giovane avesse voluto fondere le loro due persone in un'entità sola.
Voglio combattere al tuo fianco,” ripeté, quindi risolutamente incollò le proprie labbra alle sue.

§§§

La veranda del Raffles Hotel di Singapore aveva un pavimento di marmo così lucido che ci si poteva specchiare. Qua e là vi erano dei tavolini di legno esotico, intorno ai quali si trovavano poltroncine di rattan intrecciato. Oltre gli archi candidi che delimitavano l'area, lussureggiava una vegetazione dai mille toni di verde, opulenta, carica di fiori dai profumi inebrianti. L'aria torrida, madida, risuonava del canto di innumerevoli uccelli.
Le palme ondeggiavano lente.
Sul prato passarono due ragazze flessuose, fasciate in sarong multicolori, ognuna con un cesto in equilibrio sulla testa. Un macaco saltò con uno strido da un ramo all'altro, balzò a terra, raccolse un frutto caduto e si dileguò nella vegetazione.
Maximilian von Knobelsdorff – nome in codice Hati – sorrise e disse: “Hai visto?”
Il Werwolf, seduto al suo fianco, chiese: “Che cosa?”
La scimmia.”
Non le avevi mai viste prima?”
Il più giovane scosse la testa. Si passò una mano sulla fronte, coperta da un velo di sudore: nonostante indossasse un fresco completo di lino chiaro, faticava ad abituarsi al caldo dei tropici. Volse lo sguardo verso il compagno, che invece sembrava indifferente alla temperatura: nei panni di un commerciante olandese di legname, il Werwolf sedeva tranquillo, lasciando vagare sul parco del Raffles lo sguardo di chi sta calcolando il costo di ogni tronco d'albero. “Hai fatto quella cosa?” domandò l'uomo.
Maximilian annuì. “È stato facile. Ora sulla lista dei passeggeri del Sentosa Queen figurano anche i fratelli van Rijthoven, uomini d'affari di Rotterdam.”
Ottimo lavoro.”
Mi hai insegnato tu a falsificare i registri.”
Sopraggiunse un cameriere che depose sul tavolino due bicchieri alti, colmi di una bevanda di un sontuoso rosso aranciato, guarniti con una fetta d'ananas e una ciliegia.
Il Werwolf ringraziò con un cenno del capo e stese la mano verso il suo.
Maximilian lo fissò diffidente, poi chiese: “Che cos'è?”
Singapore Sling.”
Cosa?”
Un'invenzione del capo barman dell'hotel. Provalo, è buono.”
Di cosa sa?”
Il Werwolf alzò gli occhi al cielo. “Ti ho detto che è buono. Perché devi sempre essere così diffidente?”
Perché nel nostro mestiere la diffidenza salva la vita.”
In quel momento sopraggiunse una coppia, lui con il completo di lino chiaro tipico degli europei ai tropici, lei con un vaporoso abito d'organza. Sedettero a un tavolino poco distante.
In olandese, il Werwolf disse: “Certo, evita che ti rifilino del legname tarlato.” Poi con il labiale articolò: “Eccoli.”
Maximilian gettò un fugace sguardo ai nuovi arrivati e colse la stessa occhiata in tralice da parte della giovane donna. Le sorrise come un giovanotto un po' vanesio che si scopre oggetto di attenzioni da parte del gentil sesso, l'altra si affrettò a distogliere il viso.
Il Werwolf sorrise a sua volta, poi sollevò il bicchiere verso di lui. “Brindiamo?” propose.
A cosa vuoi brindare?”
Ai lupi, che cacciano di nuovo insieme.”


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