Snowflake.

di Makieyo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione - Capitolo 0 ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Chi è Gojo Satoru ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - L'infinito. ***



Capitolo 1
*** Prefazione - Capitolo 0 ***


Il fiocco di neve bianco attecchì sul terreno coperto da erbacce umide e ormai biancastre. Gli alberi, ormai spogli, sbattevano con forza contro i vetri dell’aula, riuscendo a coprire la voce del sensei, un po’ rauca probabilmente per il freddo gelido che in quegli ultimi giorni era sceso a Kyoto.
Era solo uno dei tanti giorni di scuola, ma sentivo che qualcosa, anche se di impercettibile, era diverso. Un peso che premeva contro le mie spalle, che mi spingeva la testa verso il banco non mi aveva abbandonata da ormai ore. Con i gomiti poggiati al bianco pulito da poco, tenevo il mio viso pallido tra le mani fredde, con lo sguardo rivolto nella direzione del cortile.

Tutto uguale a sempre. Guardavo ogni piccolo fiocco cadere sul terreno, imbiancando ciò che rimaneva dell’esterno dell’istituto. Solo in lontananza sentivo il continuo parlare del professore che, nonostante si fosse accorto che nessuno stesse più seguendo la sua lezione, continuava imperterrito nel suo discorso.
Ecco un altro fiocco di neve. Freddo, gelido, come quelle giornate. Lento si avvicinava all’erba ormai estenuata e coperta. Odiavo l’inverno. Odiavo il freddo, la neve che bagna ogni cosa, il vento che ti ghiaccia i pensieri. Odiavo il tragitto di 10 minuti che divideva il mio appartamento dalla scuola. Odiavo la divisa invernale scolastica che, essendo una ragazza, nonostante il freddo si limitava ad essere una semplice minigonna blu, una leggera camicetta bianca e un maglioncino grigio.

La campanella distolse i miei pensieri, con un gesto meccanico infilai i tre quaderni che occupavano il bianco nella borsa blu estraendone invece il mio bento, preparato la sera prima con poca cura. I capelli neri e lisci mi ricadevano sulla spalle, superandole, e per non sporcarli, con un colpo di mano, li lasciai cadere sulla schiena.
Non era il mio primo pranzo in solitudine e non sarebbe stato l’ultimo. Intorno a me c’erano fiumi di persone che erano così brave a saper instaurare rapporti e conversazioni, ma poco importava. L’unica cosa che realmente volevo era far sparire il peso che mi comprimeva il respiro. Quel peso che da tanto era diventato un abitudine, una cosa quotidiana. Quel peso che mi lasciava capire che non ero fatta per queste persone, per questo mondo. Quel peso che mi ha spinta giù da un balcone del quarto piano di un edificio. Stupido peso che però non si era reso conto delle piante che circondavano il palazzo.

-Che strano- Alzai di sbotto i miei occhi neri come la pece che si intersecarono in due occhi azzurri come il cielo d’agosto –Siamo a Marzo ma la neve continua a cadere- Era possibile vedere l’infinito in due semplici occhi?
Spostai di fretta lo sguardo verso l’esterno e un leggero colpo di vento mi smosse i capelli. Fu un attimo, ma sentii cadere quel peso che mi attanagliava da mesi. Spalancai i miei occhi, riposandoli sul viso di quel ragazzo dai capelli bianchi come la neve.
-Ecco fatto.- Sussurrò con voce piena di soddisfazione. Ritirò la mano che, non so quando e ne come, era arrivata sulla mia spalla e intrecciò le sue braccia sul mio banco, così da avvicinare il viso ancora più al mio –Piacere, sono Satoru Gojo-
Fu così che scoprii la vera forma di un fiocco di neve da vicino e per la prima volta l’inverno mi parve molto piacevole.
Gojo Satoru era il mio fiocco di neve.

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Capitolo 2
*** Capitolo I - Chi è Gojo Satoru ***


Il rumore delle punte delle penne che premevano sui fogli era l’unico rumore udibile in tutta l’aula. Era l’ultima ora, verifica a sorpresa; un tema sulla situazione politica mondiale al giorno d’oggi. Fortunatamente da dire e da scrivere c’era molto e nessuno penso abbia lasciato il foglio in bianco. Ciononostante i miei occhi non riuscivano a rimanere fermi sul foglio e su ciò che stavo scrivendo, ma danzavano dal tema alle spalle della persona che avevo davanti più e più volte.
Larghe spalle ma mingherline della persona asciutta di fronte a me attiravano continuamente la mia attenzione. Erano passati ormai tre giorni dal momento in cui il peso dalle mie spalle era svanito. Avevo ripreso a studiare regolarmente, a dormire senza incubi e soprattutto a svolgere attività fisica che avevo abbandonato da mesi ormai. Tutto grazie a Gojo Satoru.
Da quel giorno non c’eravamo più rivolti parola se non qualche buongiorno di convenienza. Ero stata io a porre quel muro? O forse aveva capito anche lui di dover prendere le dovute distanze da me? Eppure da quel giorno non mi sentivo più tanto diversa da tutti gli altri.
L’ultima campanella della giornata suonò, con un cenno di mano il professore si lasciò ai nostri comodi e io, con fare veloce, iniziai a rifilare tutte le mie cose nella borsa blu. Ma il mio sguardo continuava ad osservare quelle spalle lontane un banco da me.
Prendi coraggio, Misaki, non aver paura. Continuava a dirmi la mia testa. E se fino a tre giorni fa c’era qualcosa che mi spingeva contro il banco, da quel momento l’unica spinta che sentivo era verso Gojo.  Eppure non sapevo come gestire la cosa. Niente di chissà cosa, dovevo solo instaurare una conversazione come qualsiasi essere umano riesce a fare ma non era tanto semplice per me che non ne avevo mai avuta l’opportunità.
Balzai in piedi, sentivo le guance arrossate per l’ansia e l’agitazione che correvano in ogni vena del mio corpo e mi parai di fronte al suo banco, mentre ancora rimetteva a posto i suoi quaderni.
-Satoru…- Sussurrai, con metà del mio viso nascosto dalla grande sciarpa bianca che avevo indossato pochi attimi prima. Sussurrai in un modo forse talmente basso che mi chiedo come abbia fatto ad alzare i suoi occhi verso di me.
Un grosso sorriso si stampò sul suo volto, senza alcun motivo, pensai. –Misaki!-
Tunf. Mi Sa Ki. Il mio nome. Per la prima volta tra le labbra di qualcuno che non sia la mia famiglia.
Sentii il viso colorarsi ancora di più di un rosso acceso come i papaveri d’estate. Abbassai ancora di più il viso nella sciarpa, lasciando uscire solo un po’ dei miei occhi neri –Io… Non so come tu ci sia riuscito, ma volevo ringraziarti…- Lasciai cadere le parole nel vuoto, mentre Gojo si alzò in piedi e mi sovrastò col suo metro e novanta. Se prima avevo la possibilità di tenere lo sguardo basso, ora per potergli guardare il viso, alzai la testa quasi del tutto.
-Ringraziarmi per cosa?- Con già la borsa in spalla, prese la sua sciarpa azzurra e se la mise al meglio intorno al collo per poi accennarmi di avvicinarci all’uscita.
Senza obiettare, iniziai a seguirlo cercando di tenere il passo delle sue lunghe gambe –Non so come tu abbia fatto, ma io… Mi sento molto meglio dal nostro primo incontro- Dovetti alzare di un po’ la voce per fargli sentire ciò che stavo dicendo dal momento in cui molti altri studenti riempivano il corridoio con il loro vociferare.
-Misa-chan non credo di aver fatto altro che presentarmi- Si voltò dietro per potermi guardare negli occhi e sorridermi –E’ per caso una dichiarazione questa?-
-No! Assolutamente!- Affrettai a dire, alzando le mani per scalfire ancora di più la negazione.
Con un finto broncio, si fermo a poco dagli armadietti dell’uscita –Oh, così mi offendi- ma il suo sorriso non tardò a tornare sul suo viso pallido anche più del mio –Scusami se scappo, ma devo proprio andare. E accetto il tuo ringraziamento- E prima che me ne rendessi conto, aveva già le sue scarpe al piede, dei piccoli occhiali da sole forse anche un po’ troppo scuri che coprirono i suoi occhi azzurri e andò via.
Rimasi lì, ferma a guardare nuovamente le sue spalle che questa volta si allontanavano velocemente.
 
Gocce e gocce di sudore impregnavano la mia fronte, col braccio coperto dalla felpa nera, cercai di asciugarne almeno un po’ ma come biasimare la fatica che stavo facendo? Erano mesi che non correvo, mesi che non riuscivo nemmeno più ad avere un passo veloce. Quel peso era diventato parte stessa della mia quotidianità, aveva cambiato le regole e le mie abitudini in non so quanto tempo. Ma finalmente potevo riprendere la mia vita tra le mani, così mi sentivo da cinque giorni.
Passo dopo passo, sentivo il vento spostarmi indietro la frangia nera e seccare il sudore sul mio viso. Con lo sguardo fisso davanti a me e le cuffiette al volume massimo, avevo già percorso ben sette chilometri concedendomi una pausa ogni tanto. Era domenica, il sole era quasi calato del tutto, ed ero arrivata quasi al capolinea. Ero sfinita, stanca ma non mi bastava mai.
Poi un tonfo fece tremare la terra, una grossa nube di polvere si innalzò da lì a pochi metri tanto che riuscii chiaramente a vedere un palazzo intero cadere miseramente e le sue macerie arrivare fino alla strada dove pochi pedoni stavano passeggiando, ferendone alcuni. Chiusi gli occhi per evitare che la polvere e le brecce potessero entrare all’interno, e mi voltai dando le spalle a quel casino.
All’improvviso non sentii più il terreno sotto i piedi, un piccolo urlò uscii dalle mie labbra che vennero tappate poco dopo –Tranquilla! Dobbiamo solo andare via di qui!- Nonostante la voce sembrasse affaticata e forse anche preoccupata, aprendo gli occhi mi ritrovai a pochi centimetri dal viso di Gojo che prestava attenzione a  dove stesse mettendo i piedi.
-Cosa sta succedendo?- Mi aggrappai alle sue spalle, dimenandomi leggermente per poter toccare nuovamente terra ma mi venne vietato.
Con le sue lunghe gambe, ammetto, che il tratto di strada che mi separava da casa non sembrò nemmeno così tanto lungo –Semplicemente un piccolo terremoto. Mi raccomando, non uscire di casa!-
Nemmeno il tempo di poterci capire qualcosa, mi rimise in piedi e con un sorriso largo quanto il suo volto, corse nella direzione del “piccolo terremoto”. E ancora di più, Gojo Satoru diventava un’incognita più marcata.
Con tante domande, e ancora la polvere del palazzo che galleggiava nel cielo, decisi di seguirlo con scarsi risultati, era troppo veloce per me.
 
Quella notte sarebbe stato impossibile chiudere occhio.
Come faceva a sapere dove abitavo? Come sapeva dove mi trovassi? Perché lui era lì? Perché mi ha riportata a casa? E perché non voleva che lo seguissi?
Seduta al centro del mio letto, con luce spenta, presi il cellulare staccandolo dalla carica. Nessun telegiornale parlava di quel terremoto, nessuna notizia a merito. Cosa era successo realmente?
Ma la domanda più importante era; perché ero così interessata a Gojo Satoru?
Con ancora il pigiama indosso, corsi alla porta, infilai le mie converse e il cappotto nero e quasi scappai da quell'appartamento di pensieri e quesiti. Il freddo gelido di quella notte di aprile mi sembrò un piccolo spiraglio di liberta da quelle catene che mi stavano stringendo il cervello.
Non mi allontanai di molto, arrivai solo ad un piccolo parchetto abbandonato a pochi minuti da casa. Da piccola era molto frequentato, soprattutto da me e i miei genitori. Ogni mattina, prima di scuola, era una sosta obbligatoria. Ma di tutto uno spazio verde pieno di giostrine, ne rimane solo un’altalena usurata e pericolosa in alcuni punti. Era impossibile anche sedersi.
D’un tratto il vento si fermò. I miei capelli, che un attimo prima volavano in ogni direzione, adesso si erano adagiati sulle mie spalle ma a muoversi fu l’altalena, quasi come se qualcuno ci si fosse seduto sopra. Scossi la testa, ormai i pensieri erano diventati qualcosa di assurdo. Girai le spalle per poter tornare a casa ma all’improvviso sentii nuovamente quel peso agonizzante sulle mie spalle. No, non di nuovo…
Mi abbassai sulle mie ginocchia, nascondendo il viso tra le mani. Lo sentivo, di nuovo, premeva contro il terreno, quasi come se volesse che mi scavassi una fossa per rimanerci per la vita.
-Oh, Misa-chan… Proprio non la vuoi smettere di prestare vitto e alloggio a queste schifezze- La sua voce risuonò come una campana, forte, chiara. Alzai lo sguardo e Gojo, con gli occhi più chiari che mai, non guardava me… Ma qualcosa alle mie spalle. Anzi, proprio sulle mie spalle.
Con una mano, mi attirò a se, ritrovandomi con la schiena contro al suo petto. Le sue dita affusolate e fredde mi coprirono gli occhi, e un vento, gelido, come quello di pochi giorni prima che aveva portato via quel peso delle mie spalle, si fece risentire. E di nuovo, la leggerezza. Niente più mi spingeva al suolo.
Sentii il suo respiro sulla mia testa, lo sentivo che sorrideva e da un lato mi innervosiva. Scostai la sua mano dai miei occhi e guardai dinanzi a me cercando ciò che lui stava guardando. Ma c’era solo quell’altalena.
-Devi dirmi cosa sta accadendo!- Mi voltai verso di lui, attenta ad allontanarmi tanto quel che bastava per guardarlo in volto –Non ci sto capendo più niente, Satoru. Devi spiegarmi cosa sta succedendo-
-Piccoli incidenti di percorso, tranquilla- Mi sorrise, come se non fosse accaduto nulla –Andiamo, ti riaccompagno-
-Cosa sono quelle schifezze di cui parlavi?- Non mi mossi da dov’ero. Cercai di tenere fermo lo sguardo nel suo, mentre il suo viso si colorava di divertimento.
-Niente di importante- Cercò di avvicinarsi a me, ma arretrai di pochi passi quanti ne aveva fatti lui ma poi si arrestò, mantenendo quella distanza iniziale –Non ti fidi di me?-
-Per niente-
-E’ un peccato- Fece spallucce, come se la cosa non lo toccasse più di tanto. Scosse la testa, come per rispondere ad una domanda nella sua mente e riportò lo sguardo a me –Non c’è niente altro che devi sapere se non che non si cammina da sole in piena notte in un parco abbandonato, nessuno te l’ha mai detto?-
-Credo di poter badare a me stessa-
-Certo, come no- Questa volta rise di gusto.
E se fino a quel pomeriggio ero così interessata dal sapere chi fosse questo ragazzo dai capelli bianchi seduto ad un banco di distanza da me, quella notte mi ricredetti. Io non sopportavo Gojo Satoru. Di segreti ne avevo avuto abbastanza e ne avevo digeriti molti.
Velocemente lo superai per andarmene ma lui non ci mise molto a recuperare il mio passo.
-Ti ho offesa, Misaki?- Lo sentivo il suo tono divertito e provocatorio.
Ormai ero tutta rossa dalla rabbia –Non necessito di sentire la tua voce o ciò che credi, Satoru. Ti pregherei di smetterla di stalkerarmi- Dissi a voce abbastanza alta, forse anche troppo per l’orario.
-Stalkerarti?- Rise di gusto –Viviamo solo molto vicini-
-E vuoi che ti creda?- Accelerai il passo arrivando al palazzo dove c’era il mio appartamento. Entrai nel palazzo, velocemente entrai nell’ascensore che già era al piano terra e prima che Gojo potesse avvicinarsi, chiusi le porte premendo il tasto adibito.
Quando finalmente arrivai al mio piano e l’ascensore l’annunciò, le porte si aprirono facendomi vedere la figura slanciata di Gojo attendermi, ancora più divertito di qualche minuto prima. Poi girò le spalle e camminò verso il mio appartamento. Lo seguii, pronta a dirgliene quattro ma prima che potessi fare altro, cacciò dalla tasca dei suoi jeans un mazzo di chiavi con un portachiavi con su scritto C43. Impossibile.
Guardai la porta di fronte al mio appartamento, con l’inserzione C43.
Sorrise ancora di più se fosse stato possibile ed entrò in casa sua, lasciandomi esterrefatta in quel corridoio poco illuminato.
Gojo Satoru era il mio vicino di banco e ora anche di casa. Ma ancora non riuscivo a capire chi effettivamente fosse.

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Capitolo 3
*** Capitolo II - L'infinito. ***


Routine; se avessi dovuto scegliere una parola per descrivere quell’intera settimana, Routine era quella più adatta. Ogni mattina mi alzavo alle sette. Facevo colazione con la mia solita barretta energizzante alle proteine e frutti rossi. Mi lavavo, sistemavo, indossavo l’uniforme, le scarpe e uscivo dal mio appartamento. E ogni mattina, appena aprivo la porta di casa, a darmi il buongiorno c’era il sorriso a mille denti di Gojo Satoru, perché solo 32 erano pochi.
Quella mattina però sarebbe stata totalmente differente. Era domenica.
Aprii gli occhi prima che la sveglia iniziasse a suonare, guardai il soffitto biancastro e un po’ sporco in alcuni punti. Avendo l’abitudine di dormire con tutte le finestre spalancate, con la coda dell’occhio riuscivo a vedere la tenda bianca gonfiarsi grazie al venticello primaverile che finalmente iniziava a tirare. Mi tirai su a sedere al centro del mio letto ad una piazza e mezza, attendendo il trillo del cellulare che avrebbe dovuto farmi da sveglia. Ma l’unica cosa che sentii fu il campanello.
Infilai le mie ciabatte azzurrine, una felpa al volo che avevo poggiato qualche sera prima sulla sedia della scrivania e mi affrettai ad aprire la porta, innervosita dal continuo suono premuto del campanello.
-Un attimo! Sto arrivando!- Velocemente chiusi la lampo della felpa e aprii la porta, ritrovandomi Gojo, sangue e il suo solito sorriso –Ma cosa…-
Con un panno che probabilmente in origine era di un bianco chiarissimo e in quel momento era totalmente tinto di un rosso acceso, Gojo ci si picchiettava la testa e i capelli anch’essi ormai sporchi di rosso. Non si riusciva a capire da dove provenisse tutto quel sangue e rimasi ferma immobile a fissare quel bagno di sangue che era fermo sulla mia soglia senza dimenticare di sorridere.
-Oh vicina, buona domenica- E sorrise, come se fosse tutto nella norma –Mi dispiace farti alzare a quest’ora del mattino, ma ho lasciato le chiavi nell’appartamento e giù in portineria non c’è ancora nessuno-
Era impossibile intravedere il suo sguardo, dietro a quegli occhiali neri come la pece ma sapevo benissimo che il suo sguardo era concentrato a guardare l’interno del mio appartamento.
-Cosa ti è successo?- Non riuscii a pensare ad altro. Tutto il fastidio, l’irritazione e la rabbia sparì. Non ci pensai due volte prima di fare un passo di lato per concedergli la possibilità di entrare in casa. Cosa che non si fece ripetere a parole.
Gojo entrò a grandi passi, lasciando le scarpe sudice e sporche di fango all’entrata –Mi dispiace se sporcherò, ma prometto di ripulire tutto- Con un piccolo inchino, poi, raggiunse la piccola cucina che avevo arrangiato anche a mo’ di salotto con un divano sul lato sinistro e un tavolino al centro della stanza con solo tre sedie, di cui una venne occupata proprio da lui.
Chiusi la porta di casa e sparii in bagno per recuperare una piccola borsa del pronto soccorso che tenevo per ogni evenienza; garze, antistaminici, cerotti, qualche compressa per lo stomaco. Il minimo indispensabile per poter vivere da sola senza preoccuparmi troppo di dover andare in farmacia.  Tornai da lui, ancora aspettando una risposta.
-Cosa ti è successo, Gojo?- Dissi, scandendo bene il suo nome –E non dirmi che è il solito incidente di percorso. Sono le sei del mattino, il sole è sorto da molto poco e tu sembri aver avuto un grande incidente di percorso- Sospirai, forse un po’ esasperata dal fatto di non riuscire mai ad avere risposte ma questo non mi fermò dal spostargli il panno ormai sudicio per poi iniziare a disinfettare la ferita che aveva tra i capelli, poco sopra la fronte.
Senza dire nulla, si lasciò fare tutto, abbassando la mano che teneva il panno fermo sulla testa –Non posso dirti molto, Misa. E’ complicato- Mai, in tutto quel mese di aprile, sentii la voce di Gojo così seria –Il mondo è fatto di mille pericoli. Ogni angolo ne è pieno, anche quelli di casa tua- Sentivo il suo sguardo ghiacciato sul mio volto nonostante i suoi occhiali.
-Voglio solo capire cosa ti è successo. Non puoi presentarti a casa delle persone all’alba e pretendere di non dare nessuna risposta-
-Non capiresti-
-Ci proverei- Mi fermai, abbassai le mani per concentrare il mio sguardo solo sul suo viso –E’ un mese che mi sembra di averti perennemente tra i piedi. Ovunque io vada, tu ci sei. E se tento di evitarti, sembri apparire ancora con più veemenza. Non so chi tu sia, non so perché tu riesca a fare determinate cose o perché ti trovi costantemente dove c’è il pericolo…-
-E se fossi io il pericolo?-
Scossi la testa di istinto, abbassando lo sguardo. Dopo pochi secondi, senza rispondergli, ripresi a prendermi cura della sua ferita. Effettivamente io non potevo dargli chissà quale risposta. Io stessa avevo appena affermato di non sapere nulla su di lui, come potevo essere certa del fatto che non sia lui il pericolo? Finii di disinfettargli la ferita, coprendola con un cerotto e mi allontanai da lui che era rimasto in silenzio per tutto il tempo a seguire da quella domanda.
-Se vuoi farti una doccia, ti preparo degli asciugamani ma non posso prometterti nulla per i vestiti- Mi avviai alla porta del bagno, per preparargli il tutto. Anche i suoi vestiti erano sporchi di sangue e preparai una maglia abbastanza larga, nera, e una tuta. Ero solita comprare indumenti comodi per la casa, anche dal reparto maschile e considerando il fisico di Gojo, non gli sarebbero stati chissà quanto stretti, probabilmente solo corti.
Quando finii di sistemare il bagno, gli lasciai via libera. Dalle sue labbra non uscii più nessun suono. Sentii la chiusura della serratura della porta e lo scorrere dell’acqua nella doccia un attimo dopo. Quando avrei avuto le mie risposte?
 
-Hai ragione- Finalmente quel silenzio venne spezzato. Erano passate due ore dal suo arrivo e da quel silenzio devastante che aveva invaso casa. Eravamo entrambi sul divano, io con un libro tra le mani per riempire il tempo, anch’io ormai vestita, e Gojo tento a fissare un punto  continuo del soffitto attento a non incrociare il mio sguardo –Ti devo delle risposte-
Con un tonfo, chiusi il libro tra le mie mani, poggiandolo sulle mie gambe incrociate, pronta a dedicargli tutta la mia attenzione. Sarebbero passate molte ore prima che Gojo potesse ricavare un altro mazzo di chiavi senza l’aiuto dei pompieri, quindi sarebbe stato ottimo almeno conoscersi un po’ finalmente.
Gli occhiali ormai erano stati tolti, i suoi occhi azzurri erano su di me, che mi scrutavano persino l’anima, incutendomi e trasmettendomi l’ansia che sembrava attanagliarlo –Prima vorrei che mi prometta di non spaventarti-
Con un lieve cenno del capo diedi il mio consenso, indirizzando anche il mio corpo verso la sua traiettoria.
Alzò lentamente la sua mano destra, ponendola tra lo spazio che ci divideva –Ti chiedo di allungare la tua mano verso di me- Imitando il suo gesto, alzai anch’io la mia mano avvicinandola alla sua –Prova a toccarmi-
Spinsi la mano fino alla sua ma quando ero sul punto di toccare la sua pelle, mi resi conto che a dividerci c’era almeno un centimetro di spazio –Perché non riesco?- Mi avvicinai ancora di più, spingendo la mano verso di lui ma con scarsi risultati. Non riuscivo minimamente a colmare quello spazio.
-Hai mai sentito la vicenda di Achille e la tartaruga?- Scossi leggermente la testa, per dire di no –Beh… Achille doveva raggiungere in corsa una tartaruga a cui gli erano stati concessi metri e metri di vantaggio. Ma per ogni dieci metri che Achille percorreva, la tartaruga ne percorreva un altro-
-Gojo, non ti seguo-
-La matematica è una scienza esatta. E così lo è l’infinito. Io riesco a controllare lo spazio e il tempo che ci circonda- Il suo sguardo si abbasso sulle nostre mani ancora ferme a mezz’aria –Posso aumentare o diminuire lo spazio che ci separa- E in un attimo le nostre mani si toccarono davvero.
Le sue lunghe dita affusolate e bianche entrarono tra gli spazi delle mie dita, stringendo la mia mano in modo delicato e gentile. Tenni lo sguardo sulle nostre mani, ricambiando quella piccola stretta, un po’ confusa ma non spaventata.
-Potrei essere qui in questo momento ma ritrovarmi altrove in un istante- Finalmente alzò lo sguardo su di me –Questo però porta delle grandi responsabilità. Noi possiamo anche vedere le maledizioni che vivono sul nostro mondo e abbiamo la responsabilità di doverle eliminare-
-Noi?-
-Non sono il solo, Misa- Sospirò, ma senza mai lasciare andare la mia mano –Il primo giorno che ci siamo incontrati era il mio primo giorno di scuola, o meglio, in una normale scuola. Sono cresciuto tra altri come me, tra mille addestramenti e delle regole molto rigide… Ma quel giorno ti ho vista e ho visto quell’essere che ti tratteneva al banco con tanta di quella forza che non ho resistito. Dovevo parlarti, aiutarti-
Non riuscivo a tenere per molto tempo il mio sguardo intrecciato al suo, ma ascoltavo ogni singola parola uscisse dalle sue labbra sottili.
-Stamattina sono tornato alla mia reale scuola e diciamo che non sono stati tutti molto d’accordo del rapporto che ho cercato di instaurare con te. Non sono stato attento alle mie azioni. Davanti a tutti ho ucciso la maledizione che ti stava consumando…-
-Era quello il tuo compito…- La voce mi uscii talmente sottile che a stento io stessa riuscii a sentirmi, ma lui sorrise, forse un po’ per compassione per me che non stavo capendo quasi nulla di tutto quel discorso. Avevo passato le notti intere a cercare di capire chi fosse quella persona che ormai riempiva ogni singolo attimo delle mie giornate e adesso il mio cervello non riusciva ad assimilare in modo costante tutte le informazioni che stava ricevendo.
-Non in quel modo. Dobbiamo essere discreti, non dobbiamo agire davanti ad altre persone-
-Allora perché non ci hai pensato due volte? Perché se sai che sarebbero state queste le conseguenze?- Domandai, indicando con un cenno la ferita alla sua testa.
Non mi rispose, abbassò lo sguardo sulle nostre mani ancora intrecciate e sorrise tra se e se.
Forse finalmente stavo risolvendo quella grande incognita che mi aveva perseguitata per settimane intere, eppure non sembrava bastarmi. Volevo di più.

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