Tekisetsuna jiten

di WaterfallFromTheSky
(/viewuser.php?uid=409003)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Driiiin!
Vide una mano emergere da sotto le coperte, atterrando pesantemente sulla sveglia. E così rimase.
«Ooohi! Svegliati.»
Nessuna risposta. Si mise seduto e si leccò una zampetta, poi osservò la luce che raggiungeva il braccio attraverso i buchi della tapparella. Sembrava una mitragliata di luce, pensò.
«Sveglia!» ripeté.
Neanche un gemito in risposta. Lanciò un’occhiata alla sveglia e disse: «Scusa, lo faccio per il tuo bene» quindi sfoderò le unghie e lasciò quattro solchi bianchi sulla pelle chiara del suo amico. Dovette balzare via, prima di finire chissà dove a causa del violento sobbalzo di Ren. Che lo stava guardando malissimo, con i suoi occhietti assonnati e miopi.
«Sì, prego. Ora, se non ti dispiace, preparaci la colazione, grazie.»
«Subito, Sua Signoria Morgana» borbottò il ragazzo, gli occhi ancora mezzi chiusi, mentre si trascinava fuori dal letto. E proprio per questo inciampò nelle sue stesse ciabatte e rovinò sul pavimento.
«Non so se hai una vaga idea di che ore siano, ma fossi in te mi spiccerei» lo ammonì Morgana, precedendolo placidamente in cucina.
Ren si massaggiò i gomiti e scoccò un’occhiata alla sveglia. Nella penombra della sua camera, le cifre rosse spiccavano impietose.
«Porca miseria!» gemette, scattando in piedi senza pantofole e precipitandosi nel corridoio. Precedette Morgana e si affaccendò in cucina, mentre il micio si accomodava sul divano con un salto elegante e accendeva il televisore.
 
֍֍֍
 
Quando mise piede all’aria aperta, si sentì subito meglio. Aveva mal di testa, causa la luce fioca e l’aria viziata nell’aula di diritto pubblico, nella quale era rimasto rinchiuso fin troppo – quel maledetto Minamoto non se ne andava se non tratteneva gli studenti per almeno un’ora dopo le lezioni. Adesso, il calore del sole del primo pomeriggio lo accolse come un abbraccio confortante. Chiuse gli occhi e sollevò il viso, godendoselo per qualche attimo mentre piccoli sciami di studenti provati quanto lui lo superavano scendendo le scale, diretti a casa o in biblioteca o chissà dove.
Già, la biblioteca. Dovrei proprio andarci. Aveva un esame tra meno di un mese e non aveva alcuna intenzione di farsi bocciare.
«Resterai lì fino a stasera?»
La vocina stridula di Morgana lo raggiunse da sinistra. Localizzò il suo amico seduto alla base della breve scalinata del plesso di scienze politiche, gli occhi azzurri che lo investivano con la loro nitidezza. Lo raggiunse in silenzio, le mani nelle tasche della sottile giacca a vento.
«Sei piuttosto pigro oggi» lo punzecchiò Morgana, seguendolo quando Ren lo superò, diretto al cancello.
«Capita» rispose, laconico, seguendo il sentiero in cemento che passava tra le aiuole fiorite del campus. Si fermò di fronte ad una di esse: rotonda, ricoperta di un curato tappeto erboso dal quale sbucavano arbusti fitti di boccioli chiusi ermeticamente che, a fine inverno, sarebbero diventati bellissime camelie. Non vedeva l’ora di vederle nascere: non era un appassionato di fiori, ma trovava il campus fin troppo tetro, e un po’ di colore non avrebbe guastato.
Si voltò in direzione del plesso di scienze politiche: un blocco di cemento rettangolare di tre piani, perfettamente squadrato, di un matto color ardesia interrotto da file di finestre quadrate alle quali mancavano solo le sbarre. Ren sorrise tra sé e sé per quella considerazione cupa.
«Che hai da sorridere?» gli chiese Morgana.
«Nulla.»
«Che pensi di fare adesso?»
«Andrò al Diner. Studio e mangio qualcosa.» Ren distolse immediatamente lo sguardo da Morgana e riprese a camminare: un paio di ragazze lo osservavano parlottando tra loro. Non era la prima volta che qualcuno lo sorprendeva a chiacchierare con Morgana; era quasi certo che in facoltà si stesse diffondendo la voce che gli mancasse qualche rotella. La cosa non gli dispiaceva: ci era abituato, e teneva lontane le persone fastidiose.
Si affrettò a raggiungere il cancello verde militare, spalancato verso la libertà – per oggi ne aveva abbastanza di quel posto opprimente – e salutò l’anziano portinaio nel gabbiotto accanto all’uscita, che rispose con un largo sorriso sdentato.
Morgana si infilò nella sua borsa, facendosi spazio tra i blocchi per appunti, i libri e la bottiglia d’acqua ormai vuota, che fece rumore quando il gatto la calpestò inavvertitamente; Ren non protestò, anche se adesso la borsa pesava molto di più. Un giorno gli sarebbe venuta la scoliosi, ma non aveva il cuore di dirlo a Morgana.
Il micio cominciò a chiacchierare, raccontandogli tutto ciò che aveva visto quel giorno mentre lui era a lezione: ragazze carine che lo avevano coccolato, un gatto che lo aveva importunato, una farfalla che lo aveva spaventato volandogli troppo vicino mentre era sovrappensiero, quel dannato custode che lo allontanava sempre dai suoi fiori agitando la scopa…
Ren lo ascoltò in silenzio, divertito, invidiandolo un po’ per la vita spensierata che conduceva – ma non glielo disse – mentre lasciava scorrere pigramente lo sguardo sulla gente che correva affaccendata dappertutto anche a quell’ora del pomeriggio, su un tizio travestito da Totoro che distribuiva volantini – e che lui evitò mischiandosi ad un gruppo di suoi coetanei –, un paio di piccioni che si posavano su un balcone traboccante di piante in fiore, una libreria che stava facendo degli sconti su diversi romanzi – appuntò mentalmente di passarci non appena fosse stato un po’ più libero.
Con calma, proseguì fino alla stazione per andare a Shibuya.
 
֍֍֍
 
 Ren chiuse il libro e si addossò al sedile in legno, massaggiandosi la nuca anchilosata. Spostò lo sguardo tutt’intorno, sui tavoli vicini. Il Diner era pieno, ma non affollato: giovani di ogni età si incontravano in quel locale per chiacchierare o per studiare come lui, o anche solo per leggere un buon libro in solitudine. I tavoli del Diner erano larghi abbastanza per leggere o scrivere per ore ed erano posizionati in modo da concedere sufficiente riservatezza ad ogni avventore; le sue luci, di un caldo giallo, illuminavano l’ambiente alla perfezione e non appesantivano mai la vista, le cameriere erano tutte carine e cortesi e servivano pasti e bibite ideali sia per chi aveva saltato il pranzo sia per chi aveva solo voglia di spiluccare qualcosa. Quando era alla Shujin, Ren aveva trascorso interi pomeriggi lì a studiare, da solo o con i suoi amici, e non appena si era iscritto all’università aveva ripreso quell’abitudine, a meno che non avesse necessità di ripetere ad alta voce o di consultare qualche libro alla biblioteca della facoltà. Diversamente dal passato poi, adesso c’era anche della musica di sottofondo, che rendeva l’atmosfera ancor più rilassata e accogliente.
Tentò di ignorare il brusio generale mentre sbadigliava, dimenticando di coprirsi la bocca. Poi, allontanò il bicchiere di aranciata ormai vuoto con il dorso della mano. Era ancora freddo, e rabbrividì al contatto con il vetro umido. Lanciò un’occhiata all’orologio in fondo alla sala e decise che era proprio ora di tornare a casa, altrimenti il giorno dopo avrebbe avuto un nuovo risveglio traumatico. Morgana parve leggergli nel pensiero, difatti bisbigliò dalla sua borsa: «Non credi che si sia fatto un po’ tardi? Avrei un certo languorino.»
«Sì. Andiamo» accordò lui, ammiccando alle iridi azzurre che galleggiavano nel buio all’interno della cerniera aperta. Mise via tutte le sue cose, inserendole in borsa senza far male a Morgana, e prese il cellulare con l’intento di controllare se ci fosse qualche notifica. Nulla.
Inviò un messaggio a sua madre, giusto per chiederle come stesse, poi sbadigliò di nuovo e fece per mettere l’apparecchio in tasca, ma lo contemplò ancora un po’, improvvisamente malinconico e indeciso. Solo qualche anno prima era seduto proprio a quel tavolo con…
Introdusse il cellulare nella tasca della giacca a vento, la indossò e, borsa in spalla, si diresse all’uscita senza tergiversare oltre. Morgana gli dedicò una loquace occhiata, ma capì l’antifona e non pronunciò sillaba.
 
֍֍֍
 
Entrò nella sua piccola stanza e accese la luce. Era un disastro: la scrivania era così piena di libri e quaderni che la sua superficie bianca si intravedeva soltanto – si ripromise per l’ennesima volta di sistemare quel ciarpame sulla libreria –, fogli accartocciati circondavano il cestino della spazzatura, già pieno, e l’armadio era rimasto aperto per via della fretta di quel mattino, al pari del letto sfatto. E quella pila di libri alta quasi quanto la scrivania, accanto al letto? E che ci faceva il ventilatore ancora vicino alla finestra? Ormai non serviva più…
«Dovresti mettere ordine. Questo posto è inguardabile. Per fortuna, non hai nessuna ragazza da portarci» commentò Morgana, che come sempre sembrava potergli sbirciare direttamente nella testa.
«Hai ragione» gli rispose, ignorando volutamente la frecciatina sulla ragazza. Rassegnato, decise di provvedere subito almeno in parte: chiuse l’armadio e liberò la scrivania, sistemando sulla libreria sia il materiale di studio sia i libri accatastati per terra. La pattumiera e il ventilatore avrebbero dovuto attendere ancora, tuttavia.
Tirò fuori il pigiama dal cassetto dell’armadio e lo sguardo si posò inavvertitamente su una sequela di fotografie, appese al muro mediante un filo di nylon. Erano tutte le foto che aveva scattato con i suoi amici ai tempi della Shujin. Sorrise nel contemplare ancora una volta la sua figura che tentava inutilmente di afferrare il gelato che precipitava al suolo, e poi una Ann in costume che si sporgeva su Ryuji per infilargli un fiore dietro l’orecchio, e ancora le ragazze fasciate da variopinti kimono il giorno di Capodanno…
Aveva aggiunto perfino l’ultima foto, quella scattata alla loro ultima rimpatriata. A proposito, avrebbe dovuto proporre qualcosa agli altri per rivederli il prima possibile – no, meglio dopo l’esame di diritto pubblico…
Si spogliò, rabbrividendo appena per il freddo, e indossò subito il pigiama nero. Glielo aveva comprato sua madre prima che si trasferisse: per qualche motivo, a suo padre faceva pensare alla tuta del ladro Diabolik, e Ren sorrideva ogni volta che lo indossava, come in quel momento. Se solo suo padre avesse saputo che lui era stato davvero un ladro, seppur fuori dalle righe…
Lasciò gli occhiali sulla scrivania e sedette pesantemente sul letto, ove Morgana era già seduto. Controllò le notifiche per l’ultima volta, trovando solo un messaggio di risposta da parte di sua madre:
 
Tutto bene. Lì da te?
 
Ren rispose laconicamente, come lei. Aveva ereditato quel tratto caratteriale da lei: entrambi erano taciturni e diretti nel dire qualcosa, raramente parlavano più del dovuto.
Ren sorrise. Quando era tornato a casa dopo essere stato un anno in libertà vigilata a Tokyo, i primi tempi aveva evitato quanto più possibile i suoi genitori, e aveva avuto l’impressione che loro facessero altrettanto. Dopo un paio di mesi, tuttavia, sua madre aveva cominciato ad accorciare le distanze, con discrezione e pazienza. Poi si era accodato il papà. Sorprendentemente, i suoi genitori sembravano aver compreso che Ren fosse stato vittima di Shido: vedere gli ottimi voti che aveva rimediato alla Shujin, la sua condotta esemplare, e il fatto che continuasse anche a casa ad essere uno studente tra i migliori, aveva dato ulteriore prova del fatto che lui fosse un ragazzo normale e, anzi, che non meritasse affatto di essere etichettato come un delinquente e di essere ignorato dai suoi genitori. Il processo era stato lento, ma Ren aveva recuperato il rapporto con loro, cosa di cui era lieto. Avevano perfino accettato Morgana, che era stato suo complice in questo: si era finto un dolce e mansueto micio e non aveva creato il minimo problema, anzi, era riuscito a ingraziarsi i due signori e ad alleggerire l’atmosfera in casa di Ren con una serie di sapienti moine. Si era arrivati al punto che, quando era partito per Tokyo, sua madre aveva consumato un pacco intero di fazzolettini a furia di asciugarsi lacrime e naso. Quando ci pensava, ancora ne restava stupito.
Ren scosse il capo con tenerezza, poi rispose al messaggio. Tuttavia, non ripose lo smartphone sul comodino: rimase a fissare il vuoto con sguardo vacuo, poi aprì e richiuse la rubrica per tre volte. Alla quarta scorse i nomi memorizzati fino alla Y, ma poi si spazientì e spense il cellulare, che poi mollò sul comodino. Con gli occhi già mezzi chiusi, spense la luce mediante il pulsante accanto al letto e si infilò sotto le coperte, che erano gelate e lo fecero rabbrividire. Morgana gli si acciambellò nell’incavo delle gambe e gli augurò la buonanotte, risparmiandogli qualsiasi commento.

 
֍֍֍
 
Era distrutta: i muscoli le pesavano talmente tanto che faticava perfino a mettere un piede dietro l’altro per uscire dagli spogliatoi.
«Ciao, ragazze!» salutò fiaccamente, chiudendo la porta alle spalle. Si ritrovò all’aria fresca del corridoio, nettamente in contrasto con quella calda e umida dello spogliatoio; se non altro, servì a darle una svegliata.
Fu solo per un attimo: nemmeno il tempo di raggiungere la piccola hall della scuola di ballo che già aveva di nuovo le palpebre pesanti e il passo di uno zombie. Perché aveva detto a suo padre che sarebbe tornata a casa da sola?
Sbucò nella hall, strizzando appena gli occhi sotto la luce troppo forte del lampadario moderno sul soffitto. Passò accanto al bancone in lucido legno di ciliegio e salutò la gentile e attempata proprietaria. Sfilò accanto ai quadri che la ritraevano, da sola o insieme alle sue compagne, e alle teche di trofei che aveva assicurato alla sua scuola nel corso degli anni, e aprì la porta d’entrata, che in quel momento le parve pesante come il portone in pietra di un castello. Un alito di vento le penetrò nel giubbotto, facendola rabbrividire; chiuse subito la zip, per evitare di ammalarsi, e attraversò la strada sulle strisce pedonali insieme ad un trio di bambini saltellanti.
Mi sento una vecchia.
Mentre procedeva a passo lento, fece scorrere lo sguardo verso l’alto, sui grattacieli che svettavano verso il cielo, su cui brillavano finestre quasi tutte accese. Il cielo soprastante era viola scuro, prossimo al nero della notte. Sul led di una farmacia lampeggiava l’orario, in cifre verde evidenziatore: le 19:00. Se non avesse avuto bisogno di mangiare un bel pasto nutriente dei suoi dopo quegli allenamenti debilitanti, sarebbe andata a letto non appena avrebbe messo piede a casa.
«Sumire!»
Nel sentirsi chiamare da tergo, la ragazza si voltò. Sorrise lieta quando incrociò lo sguardo occhialuto di Futaba.
«Ciao! Freschetto stasera, eh?» esordì, e Sumire non poteva che essere più d’accordo. Le due si avviarono insieme, entrambe dirette alla stazione. Una foglia color minio finì quasi sul viso di Sumire mentre abbandonava il ramo nudo del suo albero per precipitare pigramente verso il suolo.
«Allenamenti, immagino» s’informò Futaba.
«Sì. Scusami, sono così stanca che non ho neanche la forza di parlare.»
«Oh, non è un problema! Significa che parlerò io.»
Sumire ascoltò Futaba con piacere, mentre mangiucchiava una barretta energetica – altrimenti sarebbe svenuta prima di arrivare a casa. Futaba sembrava di buon umore – aveva acquistato tre videogiochi nuovi – e questo alleggerì la stanchezza di Sumire. Quando sbadigliò, suo malgrado, Futaba commentò: «Ohi, sei proprio cotta.»
«Perdonami, Futaba! Non volevo sbadigliarti in faccia…»
«Non importa! Hai delle tonsille affascinanti.» Sumire scoppiò a ridere di cuore, e Futaba sorrise soddisfatta.
Dopo un po’, Futaba disse di punto in bianco: «Ah senti, ti ricordi quando ti invitai alla mostra di Yusuke?»
«Sì, certo. Ancora mi dispiace per non essere venuta…»
«Figurati, ci saranno sicuramente altre occasioni! Anche Makoto non è potuta venire… Comunque, più o meno da quel periodo, Ren è a Tokyo.»
Sumire si fermò all’improvviso nel bel mezzo del marciapiede, rischiando che un ragazzo le venisse addosso. La scansò per un soffio, e solo vagamente percepì la sua occhiataccia.
Futaba non si accorse che l’amica non la seguiva più, infatti stava continuando: «Si è iscritto all’università, si è trasferito qui. Vive da solo. Non è…?» Solo allora si voltò per cercare lo sguardo di Sumire, e vide che era rimasta indietro di alcuni passi, sul viso un’espressione di pura incredulità.
Sumire arrossì e raggiunse Futaba, farfugliando: «Scusami, uhm, credevo di aver visto una persona…»
Futaba sorrise come chi la sapeva lunga, facendola arrossire più di prima. «Dicevo, vive qui da solo adesso, studia a scienze politiche. Almeno una volta a settimana, in genere di mercoledì, viene a studiare al Leblanc e rimane fino alla chiusura. Per me è stata una notizia bomba! Sono strafelice! E anche…»
Futaba le disse che anche Ryuji era tornato da qualche tempo, e Ann faceva la spola tra il Giappone e gli Stati Uniti da quando si era imbarcata in un’audace relazione con Yusuke, ma Sumire la ascoltò a malapena. Aveva lo stomaco all’altezza del cuore. Ren era a Tokyo? Viveva da solo? Quindi era tornato stabilmente?
Santo Cielo! Ren…
Sorrise, incapace di trattenersi. Aveva voglia di saltellare, anche se i suoi muscoli non glielo avrebbero perdonato. Prese il cellulare dalla tasca esterna del borsone sportivo, d’impulso, e cercò il nome del ragazzo nella rubrica, ma quando lo trovò rimase con il dito sospeso sul display.
Gli stava telefonando come faceva un tempo? Sul serio?
Ma che sto facendo?
Non sapeva nemmeno se il suo numero di telefono fosse ancora lo stesso.
D’un tratto, si ritrovò addosso a Futaba, e sgranò gli occhi. La ragazza si era fermata e le si era parata di fronte, e lei non se n’era nemmeno accorta.
«S-scusami!» esclamò.
«Non mi stai ascoltando. Non vedevi nemmeno dove stavi andando. Ho pensato di doverti richiamare sulla Terra.»
«Scusa, ho la testa tra le nuvole! C-cioè, volevo dire che sono stanchissima!»
«Sì, penso siano vere entrambe le affermazioni.»
Sumire arrossì pietosamente e seguì Futaba, infilando in malo modo il cellulare nella tasca del giubbotto.
Quanto sono sciocca!
«E…come sta?» riuscì a domandare. In realtà voleva chiedere almeno un centinaio di cose a Futaba, ma cominciò da lì.
«Uh? Chi?»
«Ren-senpai. Parlavamo di lui, no?»
«Veramente stavo parlando del nuovo live action di Full Metal Alchemist.»
Sumire fu sul punto di andare a fuoco.
Futaba non si scompose, ma le rivolse un sorrisino furbetto che la indusse a distogliere lo sguardo mentre aggiungeva: «Comunque sta bene. Ren voglio dire, non certo Edward Elrich.»
«Chi?»
«Ah, lascia perdere. Ma non voglio spoilerarti nulla, quindi perché un giorno di questi non ci organizziamo per vederci?»
«Uhm, non lo so…»
«Gli allenamenti, sì, lo so. Ma ce l’avrai una domenica libera, no?»
Sumire non rispose. Scoprì di avere una voglia matta di rivedere Ren – fosse stato per lei, lo avrebbe incontrato anche in quel preciso momento –, ma come poteva farlo? E lui, ne aveva voglia?
Lo smartphone squillò, togliendola dall’imbarazzo di rispondere ma facendola anche sobbalzare per la sorpresa. Era solo suo padre: era in giro da quelle parti e le chiedeva se voleva uno strappo a casa. La giovane accettò senza indugio e disse a Futaba: «Scusa, Futaba, io aspetto mio padre qui. Tu prosegui pure verso la stazione, non voglio che fai tardi.»
«Vaaa bene, allora vado. Ci vediamo!» si congedò lei, voltandosi. Compì due passi, poi si voltò di nuovo e disse: «Ah, vedi che il suo numero è sempre lo stesso!» Infine, sorrise come una bimba che ha appena compiuto una marachella di cui va fiera e si allontanò, lasciando Sumire imbarazzata, emozionata e intimorita come una mocciosa inesperta.
 
֍֍֍
 
«…e quindi mi sento morire, come quando non dipingo.»
«Il solito tragico.»
Ren non rispose, tutto intento a completare lo schema che stava preparando per memorizzare meglio il materiale di diritto pubblico. Cominciava ad essere in ritardo sulla tabella di marcia, rischiava di non essere adeguatamente pronto per l’esame. Non poteva proprio permetterselo.
Allungò una mano verso la penna rossa, che si trovava accanto al gomito di Yusuke, seduto di fronte a lui, e sottolineò tre frasi.
«È terribile, Ren. Un vuoto incolmabile. Io…morirò senza di lei.»
«Sei patetico. Non so come Lady Ann possa essersi fatta ammaliare da te.»
Ren spinse gli occhiali verso la radice del naso, scoccando solo una fugace occhiata a Yusuke, che teneva la testa tra i capelli, e a Morgana, seduto accanto a lui, che fissava i lampadari colorati del Leblanc con aria sdegnosa – non aveva preso bene la notizia della sua Lady Ann insieme a Yusuke.
«Ehi, voi tre, vorreste un caffè?» domandò Sojiro da dietro al bancone. Ren immaginò che si stesse annoiando a morte: il locale era vuoto, come i tre quarti del tempo. Fece un cenno di diniego con il capo. Morgana invece non rispose, mentre Yusuke disse: «Per carità, ho problemi a dormire. Ma grazie comunque.»
«E va bene, allora esco a fumarmi una sigaretta.» L’anziano signore si liberò del grembiule che teneva al locale, indossò la giacca e uscì, il pacchetto di sigarette già in mano.
«Mi sembra che manchi da mesi. Credo di…aver sviluppato una dipendenza» si lagnò Yusuke, sospirando affranto.
«Sei patetico» ripeté invece Morgana. Ren cancellò con la gomma la freccia che aveva appena tracciato.
«Ren, devi aiutarmi! Ti scongiuro, non so come fare!» Yusuke gli afferrò un polso, impedendogli di scrivere. Ren, stoico, tolse gli occhiali e si massaggiò le palpebre.
«Yusuke, Ann sta solo sistemando le ultime cose negli Stati Uniti prima di tornare qui definitivamente. Ci vuole del tempo per…»
«Non ce la faccio, Ren. Ogni volta che va via, sto male. Ma perché non può sistemare tutto in una volta?»
«Come poteva vendere la sua auto prima se è comparso un acquirente solo adesso? E poi i contratti che teneva in piedi…»
«Ho il cuore spezzato. Anche questo va bene per dipingere, ma quando smetto…»
«Allora dipingi a oltranza» sbraitò Morgana. Balzò sul tavolo e scattò verso la porta, che Sojiro aveva lasciato socchiusa.
«Potresti essere un po’ più delicato?» fece Ren, liberandosi il polso dalla presa ferrea di Yusuke.
«Scusa, ho esagerato! Non volevo stringerti troppo.»
«Non mi riferivo a quello…» Ren riprese a scribacchiare, ma consigliò: «Però, Morgana non ha torto. Visto che ti sei sbloccato, dipingi e non pensare all’assenza di Ann. Vedrai che tornerà presto. Il fatto che stia chiudendo tutto ciò che ha in sospeso oltremare significa che ha davvero intenzione di rimanere qui. Non mi dispererei, al tuo posto.» Anzi, potessi trovarmi io nella tua situazione
«Sì, lo so. Ma…quella donna è un raggio di sole. Appena sparisce, il buio mi affoga.»
Dovresti accendere la luce, pensò Ren, ma preferì non dirlo, concentrandosi su ciò che stava facendo – anzi, provandoci.
«Qualsiasi cosa faccia…è meravigliosa. Anche quando se ne sta solo seduta a pensare. Quando chiacchiera con sua madre al telefono, sorride in un modo…» Yusuke divenne trasognato. D’un tratto, tirò fuori dalla borsa un taccuino, dicendo: «L’ho disegnata ovviamente, la disegno di continuo, guar…»
«Yusuke, sto cercando di studiare. Per piacere» scattò Ren. Non aveva alzato la voce, ma Yusuke si intristì comunque, e lui si sentì in colpa.
«Mi dispiace, hai ragione. Ti sto importunando» disse, dimesso, mentre metteva via il taccuino.
«Senti, scusami. C’è questo esame pesante e mi ci vuole ancora molto per finire il programma. Comunque, Ann tornerà presto. Sta’ solo attento a non diventare morboso…»
«Morboso? Io? Ann dice sempre che la ignoro e che disegno troppo.»
«Allora…ignorala di meno e disegna quando dorme?»
«Lo faccio già. Ho tre quaderni di lei che dorme.»
Ren corrugò la fronte, senza parole.
«Ren, vivo con una dea. Come potrei non…?»
«Ti spiace se ne parliamo un’altra volta? Sono davvero impegnato, e la mattina ho lezione…»
«Ho capito. Va bene, mi dispiace» concluse Yusuke, alzandosi. Indossò il giubbotto, gli augurò una buona serata e lo lasciò solo. A Ren dispiacque, ma si ripromise di dedicare più tempo a Yusuke non appena avesse potuto. Magari prima di andare a dormire avrebbe potuto telefonargli, o poteva chiedere a Ryuji di uscirci un po’ di più…
Sospirò, massaggiandosi la testa con le mani. Era stanco. Erano tre ore che studiava, poi era arrivato Yusuke e aveva dovuto ricorrere al doppio della concentrazione…
Aveva voglia di andare al jazz club. Sì, lì si sarebbe ricaricato un po’ e avrebbe potuto almeno terminare quegli schemi prima di andarsene a dormire. Il piano gli piacque, ma un velo di malinconia gli calò sul cuore non appena pensò che avrebbe voluto andarci con quella persona
Basta, me ne vado a casa, decise, spazientito. Mise via i libri e controllò il cellulare, trovando un messaggio da parte di una delle ragazze del suo corso. Si chiamava Ichiiro Haruka e gli ronzava attorno con banali scuse già da un po’.
 
Ciao! Ti va un drink dopo cena?
 
Ren sorrise, divertito. Sta passando all’attacco?
Il sorriso gli si spense per un attimo. Pensò che avrebbe proprio dovuto accettare, e al diavolo il resto – che stava aspettando, poi?
Ma aveva da studiare. Sì, aveva decisamente da studiare. Doveva trovare il modo di svegliarsi nel tragitto fino a casa. Forse, avrebbe dovuto accettare il caffè offerto da Sojiro. Bè, faceva ancora in tempo.
 
֍֍֍
 
Sumire era nella hall della scuola di danza. Era in pausa pranzo: seduta ad uno dei tavolini accanto al piccolo bar, stava gustando il suo pasto con calma. Aveva ancora un mucchio di tempo prima di cominciare la lezione – le sue allieve ci avrebbero messo almeno mezz’ora ad arrivare – per cui masticava lentamente il riso bollito con le verdure grigliate, seguendo il telegiornale dal sottile televisore sul muro. Il giornalista, un individuo pelato dagli occhi a palla, stava intervistando una piccola signora di mezza età sul supermercato dove faceva più spesso la spesa. Cominciò la pubblicità e Sumire si guardò intorno, mentre portava le bacchette piene alla bocca.
Era seduta ad uno dei sei tavolini tondi accanto al bancone del bar. Tranne il suo, tutti i tavoli erano vuoti, e il giovane barista li aveva puliti proprio poco prima che ci si sistemasse lei. Sumire lo fissò mentre il ragazzo, un giovane dalla pelle scura anche in inverno e dalla t-shirt giallo limone, sistemava delle bottigliette di succo di frutta nel frigorifero nell’angolo più interno dietro al bancone. Li toglieva da un cartone che ne conteneva sei, li contava, ne controllava la data di scadenza e l’integrità della bottiglia e, se superavano quel breve ma accurato esame, li riponeva nel frigo. Altrimenti venivano rimessi sul bancone, in disparte accanto al lavello. Sumire ammirò la solenne attenzione del giovane barista nello svolgere qualsiasi mansione, anche la più sciocca. Una volta lei si era complimentata con lui per questo; lui aveva risposto che gli atleti, di tutte le età, sono una categoria che va accudita più di qualunque altro cliente: gli sportivi escono esausti dalla sala di allenamenti e hanno bisogno di qualcosa di nutriente per riprendere le forze. È quindi fondamentale che i cibi e le bevande siano di ottima qualità. Da allora, la stima di Sumire per quel ragazzo gentile era cresciuta. Se tutti gli abitanti del Giappone avessero nutrito una passione simile per il loro lavoro, sarebbe stato un paese migliore.
La ragazza distolse lo sguardo dal barista per spostarlo sulle file di sedioline rosse imbottite accanto all’entrata, dove una giovane mamma con un paio di occhiali spessi, che la facevano somigliare comicamente ad un gufo, controllava che nella borsa della sua bambina ci fosse tutto l’occorrente prima di entrare nella sala di danza. La bambina, i cui capelli erano acconciati in un paio di corti codini laterali, se ne stava seduta lì vicino con il suo visino tranquillo, guardandosi intorno come lei. Quando incrociò il suo sguardo, sorrise, genuina, e Sumire rispose allo stesso modo. Quel simpatico contatto con la bambina si interruppe quando la mamma la prese per mano e la condusse verso gli spogliatoi, entrando insieme a lei per aiutarla a cambiarsi.  
Senza accorgersene, Sumire aveva svuotato il suo corposo bento. Lo ripose nel borsone sportivo, poi si alzò. Aveva ancora tempo prima di andare a cambiarsi, per cui si avvicinò ad una delle fotografie incorniciate al muro. Risaliva a un anno prima: ritraeva lei, con una pesante coppa dorata da primo posto tra le mani e un sorriso smagliante, che le andava da un lato all’altro della faccia. Sorrise a sua volta, rispondendo alla sé stessa radiosa della fotografia. Voltò lo sguardo sulla destra, mettendo a fuoco la vetrina dei trofei, ove si trovava anche la coppa inerente a quella vittoria. E il suo sorriso divenne triste.
Se solo ci fossi stato anche tu…
Aveva pensato a Ren quel giorno. Aveva pensato a Ren ogni volta che aveva vinto, desiderando che fosse sugli spalti a vederla, ovunque gareggiasse. Era stato presente ad una sola gara. Ma non era stata colpa sua.
Sumire chiuse il pugno e lo portò al petto, mentre i ricordi venivano a galla, risalendo dal buio in cui li aveva rinchiusi.
Ricordava ancora l’ultima volta che aveva visto Ren. Era una domenica di giugno di circa tre anni prima, una di quelle mattine così soleggiate e fresche che non si può non essere allegri. Ma, quel giorno, Sumire non era affatto allegra. E neanche Ren, perché non era uno stupido, e perché sapeva leggere l’espressione nei suoi occhi, anche quelle che tentava di celare. Quel giorno, lui era venuto a trovarla a Tokyo. Erano andati al parco, avevano pranzato fuori, poi erano perfino andati a fare una passeggiata sulla spiaggia. Erano stati mano nella mano tutto il tempo, ma non erano mai stati più distanti. Alla fine della giornata, Sumire aveva accompagnato Ren in stazione ed era stata sincera.
«Mi dispiace, Ren. Io non sono in grado di portare avanti la nostra relazione in questo modo. Ci vediamo pochissimo, non riusciamo a entrare nella vita dell’altro…e io ho bisogno di serenità se voglio dare il meglio negli allenamenti e vederne i frutti durante le gare. Io…non ce la faccio più. È meglio se la chiudiamo qui. Mi dispiace.»
Così gli aveva detto, con le mani giunte al petto affinchè non tremassero, come invece stava facendo la sua voce. Ren non aveva fatto scenate: non l’aveva pregata, non aveva cercato di convincerla a cambiare idea, non si era arrabbiato, nulla. Aveva capito già da tempo che sarebbe finita così, le disse, ed era andato via augurandole il meglio, lasciandola libera di perseguire la sua decisione senza renderle le cose più difficili. Sumire lo aveva apprezzato, e aveva ammirato Ren più di prima. Aveva pianto con la faccia sotto al cuscino per tutta la serata, e per tutte le sere per l’intera settimana, ma non era mai tornata sui suoi passi. E nemmeno Ren.
Adesso, però, lui era a Tokyo. Lei non aveva idea se ci sarebbe rimasto stabilmente dopo l’università…e a dire il vero non sapeva nemmeno se avesse ancora voglia di rivederla. Futaba l’aveva invitata alla mostra di Yusuke, e le aveva proposto di rivedersi tutti insieme anche quando l’aveva incontrata per strada la settimana scorsa, ma…
Si potrà recuperare quello che abbiamo perso? Lui…vorrà?
Si accorse di essere in apnea quando le mancò il fiato. Si obbligò a rilassare le spalle e prese il cellulare dalla tasca del giubbotto. Aveva mille dubbi, ma esitare non serviva mai a niente, e lo aveva imparato anni fa proprio grazie a Ren. Cercò il suo numero nella rubrica per mandargli un messaggio, ma restò di nuovo paralizzata, come ogni volta che era sul punto di farlo.
Forse dovrei lasciarlo in pace. Sarà andato avanti. Magari, starà frequentando qualche compagna di facoltà…
La loro storia era chiusa da alcuni anni, e proprio per volere suo: aveva senso ricominciare con qualcuno che aveva lasciato lei?
Non so se ha senso, ma forse non sono pronta a scoprirlo se ho ancora tanti dubbi. Ripose il cellulare nel giubbotto e si accinse ad avviarsi verso lo spogliatoio, ma rivolse una nuova occhiata alla fotografia sul muro. Il sorriso radioso della sé stessa vincitrice la contagiò, risollevandole il morale e infondendole la stessa grinta che l’aveva animata quel giorno.
 
֍֍֍
 
«…invece di dipingere! Io voglio parlare e lui mi chiede di non deconcentrarlo! Certo, me lo chiede gentilmente, però che diamine!»
Ren annuì, gli occhi puntati su quel mattone di libro, nel tentativo di sottolineare le parti più importanti di quel capitolo interminabile. Aveva un sonno pazzesco: si era svegliato presto quella mattina per ripetere qualcosa prima di andare a lezione, e adesso sentiva le palpebre pesanti. Inviò una lieve occhiata alla tazzina di caffè vuota che Sojiro gli aveva preparato solo qualche minuto prima; sul fondo scorse un vago sorriso nero, che pareva compatirlo. Tornò sul libro, anche se tra poco le parole avrebbero cominciato a danzargli davanti agli occhi.
«Sojiro, potresti accendere le luci?» domandò. L’anziano, che stava asciugando alcuni piatti appena lavati, replicò scontroso: «Ma è ancora giorno! Non guadagno così tanto da poter sperperare il denaro. Se non ci vedi, prova a studiare da qualche altra parte, ti pare?»
«E dai, Sojiro, anche io non vedo niente. Ha senso risparmiare la luce e pagare l’oculista?» intervenne Futaba, due tavoli più in là, mentre leggeva un manga.
Sojiro borbottò qualcosa e accese solo le luci sospese sui due tavoli occupati da loro.
«Ah, molto meglio, in effetti» disse Ann, seduta di fronte a Ren. Non aveva ancora terminato il suo succo di frutta. Portò le labbra lucide di rossetto alla cannuccia a strisce rosa e tirò un sorso, per poi tornare a sfogarsi.
«Stavo dicendo, non so cosa fare. È una persona impossibile. Sapevo che era particolare, ma non pensavo così tanto!»
«Se lo sapevi, non dovresti lamentarti» bofonchiò Morgana, seduto accanto a lei. Le dava le spalle.
Ann lo ignorò. «Per carità, non è che mi ignora del tutto, e poi mi dice un sacco di cose poetiche, ma…»
«Ora basta.» Ren, spazientito, tolse gli occhiali e li abbandonò sul libro, investendo Ann con tutta la sua irritazione. «Sto cercando disperatamente di studiare. Ho un esame la settimana prossima…» disse, indicando il mattone di pagine con una mano. «…e sto facendo le ore piccole per riuscirci. Ma è inutile se tu e Yusuke venite qui e non mi fate capire niente. Vi ascolto volentieri e lo sapete, ma potreste aspettare a dopo l’esame?»
«Ah, eccone un altro! A quanto pare, deconcentro tutti, io!» si stizzì Ann, incrociando le braccia al petto. Così facendo, gonfiò il seno, e il cuore sulla sua maglietta si allargò come un palloncino. Subito dopo, però, riportò gli occhi su di lui, spalancandoli. «Hai detto “tu e Yusuke”? Anche Yusuke è venuto qui? Quando?»
«Mentre eri negli Stati Uniti per vendere l’auto. Era esaurito perché non c’eri» replicò l’amico, stancamente.
«Davvero?» Ann aveva rimosso la mite sfuriata di Ren: i suoi occhi erano luminosi come un oceano sotto ad un sole splendente. Morgana, invece, aveva abbassato le orecchie.
«Sì, davvero. Quindi porta pazienza, lo sappiamo com’è fatto» replicò Ren, inforcando di nuovo gli occhiali.
«Non basterebbe che ti spogliassi per attirare la sua attenzione?» la punzecchiò Futaba, dalla sua postazione in fondo.
«Che suggerimenti sono questi?! Spero che tu non lo faccia con quel Daichi» intervenne Sojiro, rigido.
«C-c-c-che dic-ci?»
«Ah, magari. Se mi spoglio, mi dipinge. E anche se non mi spoglio. Dovrei attendere che gli venga qualche crampo alle mani?»
«Spezzagliele quelle mani. Oppure nascondigli i pennelli» suggerì Sojiro, spicciolo, suscitando una risata generale che alleggerì i nervi persino a Ren.
«Perle di saggezza da un veterano.»
«Scherza di meno e studia di più, tu.»
«Ci provo, ma fammi un altro caffè, per piacere.»
«Arriva subito.» Sojiro armeggiò dietro al bancone e Ren pregustò il nuovo caffè, soprattutto quando il suo odore si espanse per tutto il locale.
«Tranquillo, Ren. Sei intelligente, passerai questo esame» lo rassicurò Ann, inaspettatamente.
«Non è solo questione di intelligenza. Ma grazie della fiducia.»
«Bè, sei il leader, no? Sappiamo dove puoi arrivare.» Ann ammiccò in sua direzione, e Ren non poté far altro che sorriderle, lusingato.
«Il signorino è servito.» Sojiro posò la tazzina sul tavolo, sorridendo a suo modo, e Ren lo ringraziò con un cenno del capo. Fece per prendere la tazzina di caffè caldo quando udì il tipico tintinnio della campanella sulla porta del Leblanc. I suoi occhi, come quelli di tutti i presenti, finirono su…
«Buon pomeriggio a tutti!»
Quella voce. Quei capelli rossi fermati da quel fiocco cremisi. E quel sorriso così dolce, e quello sguardo così puro…
Gli si fermò il cuore.
«Sumire! Che bello rivederti! Come stai?» Ann fu la prima a reagire, affabile, e Ren gliene fu davvero grato. Lui non riusciva a muovere un solo muscolo, né a pensare.
«Ann! Sto bene! Ho saputo che sei tornata qui, è una bella notizia!»
«Eh già! Un po’ improvviso, ma non credo che mi sposterò di nuovo, almeno non per adesso.»
Gli occhi di Sumire tornarono in quelli Ren mentre gli sorrideva di nuovo. Avrebbe voluto dirle qualcosa, qualsiasi cosa, ma le parole gli si erano bloccate in gola. Non riusciva nemmeno a salutarla. Cos’era quell’improvvisa paralisi? Stava per venirgli un ictus?
Sojiro emise un verso a metà tra un grugnito e una risata e fece: «Bè, vado a comprarmi le sigarette.»
«Io mi sono ricordata di un impegno! Ren, in bocca al lupo per l’esame! E Sumire, ci vediamo presto, assolutamente!» disse invece Ann, il giubbotto su un braccio e la borsa appesa all’altro.
«Ti accompagno all’impegno, qualunque cosa sia!» scattò Futaba, raggiungendo l’amica.
«Io me ne vado a dormire» annunciò invece un mogio Morgana, dirigendosi verso quella che un tempo era la mansarda sua e di Ren, mentre le ragazze e Sojiro si dileguavano oltre la porta del Leblanc.
Ren avrebbe voluto fermarli tutti, ma al contempo apprezzò la loro iniziativa. Riuscì solo a schiarirsi la gola mentre chiudeva il libro con un tonfo, e cercò di trattenere un sorriso che, ne era certo, sarebbe stato veramente idiota.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Aveva preso quella decisione su due piedi, ed era corsa alla stazione prima di cambiare idea. Durante il tragitto ci aveva ripensato almeno tre volte, ma alla fine era riuscita a raggiungere il Leblanc, con l’esofago annodato e il cuore che le martellava in petto. Non se ne pentiva: aveva pensato che, per fugare ogni dubbio, avrebbe dovuto provare a rivedere Ren, anche in compagnia, e vedere che effetto le faceva. Ora che ce lo aveva di fronte, e che tutti si erano defilati con una scusa o l’altra, non riusciva a smettere di sorridere, al settimo cielo.
Gli si sedette di fronte, occupando il posto di Ann, e gli rivolse un nuovo sorriso. Dal sedile promanava ancora il calore di Ann, come se la ragazza avesse voluto lasciarle un segnale per incoraggiarla in quell’impresa.
Ren era come lo ricordava, tranne che sembrava molto stanco, a giudicare dagli aloni grigi che gli contornavano le palpebre inferiori. Era il solito Ren, taciturno e posato. Le sorrise, il che la rincuorò – aveva davvero avuto paura che lui sarebbe stato distaccato? –, ma notò che passava ripetutamente le mani sui jeans.
«Tutto bene?» esordì, pur banalmente. L’importante era iniziare, no?
«Tutto bene. Tu?»
«Bene.» Un silenzio impacciato avvolse i due giovani. Sumire notò la tazza di caffè piena e disse: «Dovresti berlo, altrimenti si fredderà. Sarebbe un peccato, il caffè di Sojiro-san è così buono.»
«Uhm, sì, hai ragione.» Ren bevve meccanicamente un sorso, poi domandò di getto: «Ti va un caffè? Te lo preparo.»
«Va bene, grazie.»
Ren si precipitò dietro al bancone. Sumire lo vide indossare un grembiule, lo stesso di quando abitava nella mansarda del bar, e armeggiare con la macchina del caffè e con le tazzine. Sentì cadere qualcosa sul pavimento, e lui che bofonchiava qualcosa. Si accomodò su una delle sedie di fronte al bancone, incerta su cosa dire. Ma fu lui a parlare: «È un po’ che non preparo un caffè, quindi non garantisco che venga bene.»
«Sarà sicuramente ottimo!» Sumire lo lasciò lavorare in pace, lanciandogli occhiate quanto più discrete possibile. Era carino come lo ricordava. In quel momento, le tornò in mente il pomeriggio in cui, proprio in quel luogo, su quella sedia, lei gli si era dichiarata ed era diventata la sua ragazza. E poi una serie di baci teneri e timidi…
«Come te la passi?» Ren interruppe bruscamente i suoi ricordi nostalgici, porgendole una tazzina di caffè fumante. La ragazza arrossì, ma ringraziò e bevve un sorso. L’odore era ottimo, e il sapore anche: Sumire adorava l’amaro del caffè, che aveva il potere di schiarirle i pensieri. Il suo calore, poi, le riscaldò la gola, rinfrancandola dall’aria fresca dell’esterno.
Mentre carezzava distrattamente le volute azzurre dipinte sulla tazzina, gli raccontò in breve le novità degne di nota: il suo diploma, le gare che aveva vinto, la scuola di danza dove si allenava duramente e dove al contempo insegnava. «È un bellissimo periodo per me. Amo il mio lavoro e le mie allieve, e tra un mese avrò un’altra gara. Sto progettando il vestito, sono emozionata! La coreografia invece è già pronta, devo solo perfezionarla.»
Era partita con un tono incerto, ma si era presto sciolta nel parlare delle sue passioni. Ma non era solo quello: parlare con Ren le era sempre venuto facile. Era felice di poterlo mettere a parte di tutto ma, allo stesso tempo, pensò che era triste non averlo avuto accanto per tutto quel tempo.
Ren era rimasto dietro al bancone e l’aveva ascoltata attentamente, le mani in tasca, annuendo di tanto in tanto, sorridendo con partecipazione e porgendole perfino delle domande. Era interessato a lei, anche dopo tutto quel tempo, anche se lei lo aveva lasciato, e Sumire era sollevata, talmente tanto che quasi glielo disse. Ma si morse la lingua, perché era troppo imbarazzante.
Anche Ren la informò su ciò che lei non sapeva: il suo lavoro nel suo paese natale, la decisione di trasferirsi, l’iscrizione a scienze politiche e gli esami, il condominio in cui viveva. Sumire fu ben lieta di constatare che il ragazzo non si risparmiasse nei dettagli: le raccontò tutto, e le parve felice e spontaneo mentre lo faceva, quasi come un tempo. Le fece piacere ascoltarlo – anche perché aveva sempre adorato la sua voce, ed era un peccato che non fosse un chiacchierone –, e dimenticò tutte le sue paure, tutta la sua ansia, il disagio iniziale. Inoltre, sembrava proprio che lui avesse tutte le intenzioni di restare a Tokyo anche dopo essersi laureato; la cosa non poté che entusiasmarla.
Le ore volarono senza che se ne accorgessero. Fu il ritorno di Sojiro ad annunciare l’avvento della sera. Quando l’uomo tornò, loro due erano ancora al bancone, intenti a chiacchierare in modo fitto, a ridere e a scherzare tra loro quasi come se fossero ancora una coppia.
«Ehi, spero che tu non abbia fatto danni» disse Sojiro, vedendo che Ren era dietro al bancone e indossava uno dei grembiuli.
«Nessun danno! Anzi, ha preparato un ottimo caffè» intervenne Sumire per lui, ammiccando in sua direzione. Ren le sorrise, complice, e a lei venne voglia di abbracciarlo.
«Ma guardali ‘sti due» mormorò Sojiro, sorridendo furbamente. Fece arrossire entrambi.
Sumire controllò l’orario dal cellulare e divenne triste: doveva tornare a casa. Le sembrava di essere stata al bar appena un quarto d’ora.
«Ti accompagno in stazione. Anch’io devo tornare a casa» si offrì Ren, abbandonando in fretta il bancone.
Sumire accettò, gongolante, e lanciò furtive occhiate a Ren mentre metteva alla rinfusa tutte le sue cose nella borsa.
«Prima togliti il grembiule, però» fece Sojiro, ghignando allusivo.
I due uscirono nell’aria fresca della sera, ritrovandosi immersi nel silenzio della strada in cui si trovava il Leblanc. Passando sotto la luce gialla dei lampioni, si diressero alla stazione senza fretta. Quando però vi arrivarono, la linea di Sumire passò all’istante. La ragazza, a malincuore, guadagnò ancora qualche secondo, lasciando che la bolgia circostante salisse prima di lei. Si voltò verso Ren e disse: «Mi ha fatto molto piacere rivederti. E…sono felice che tu sia tornato.»
«Dovremmo…rifarlo» rispose lui, gli occhi fissi nei suoi come faceva quando…
Sumire arrossì, ma non se ne disperò. Rimase lì come una sciocca a ricambiare il suo sguardo, dimenticando di dover prendere la metropolitana.
«Se ne andrà se non ti sbrighi» disse Ren, a bassa voce. Era dispiacere quello che avvertiva nella sua voce?
Sumire si riscosse e, suo malgrado, dovette salutarlo e dargli le spalle.
«Ci vediamo presto!» esclamò, infilandosi nella metropolitana proprio un attimo prima che si chiudessero le porte. Rimase schiacciata contro il vetro, circondata dalle schiene di tre uomini, ma non le importava affatto: era troppo di buon umore per badare ad una cosa simile. Si voltò e lo vide salutarla con un sorriso. Lei ricambiò. La metropolitana partì…e Sumire fu sul punto di gridare di gioia.
 
֍֍֍
 
Ren rimase impalato per alcuni minuti dopo che Sumire era sparita dalla sua vista. Stava ancora sorridendo. Gli parve di essere tornato un adolescente preso dalla sua prima cotta. Bè, in effetti Sumire era stata la sua prima cotta seria, e ora era ritornata…
Non ci aveva più sperato. Aveva benedetto la complessità dell’esame di diritto pubblico – un motivo per gettarsi sullo studio ed evitare di soffermarsi sul resto – e si era privato anche del sonno pur di studiare. Ma lei si era rifatta viva…
Non era un sogno, era tutto vero.
«Ti sei dimenticato di me.» La voce di Morgana lo raggiunse dal basso; Ren sobbalzò nel ritrovarsi l’amico seduto accanto, l’espressione seccata.
«Scusami! Ho avuto una svista…» replicò, sinceramente rammaricato. Come aveva fatto a dimenticarsi di Morgana?
«Non ti preoccupare. So bene che non te la sei mai tolta dalla testa.» Morgana sorrise, ammiccando nella luce fredda e cupa della metropolitana, e lui si rilassò. «E ora, addio studio» commentò il micio, punzecchiandolo.
Ren pensò che non poteva proprio permetterselo però, se avesse potuto farlo, avrebbe davvero voluto passare con Sumire tutto il tempo che aveva a disposizione. Per adesso, tuttavia, doveva tornare a casa, si era fatto tardi. All’improvviso, si sentiva più sveglio ed energico che mai, come se avesse bevuto almeno cinque caffè di Sojiro. Si chinò verso Morgana e gli permise di balzare nella sua borsa, quindi tornò verso le scale per recarsi al suo binario.
«Meno male che hai ignorato quella ragazza» miagolò Morgana.
«Già. Meno male» confermò Ren, sorridendo inebetito.
 
֍֍֍
 
Si fermò davanti alla scuola di danza controllando l’indirizzo sul cellulare. Sì, era arrivato.
«Vado a farmi due passi. Ci vediamo più tardi» annunciò Morgana, saltando fuori dalla sua borsa. Ren annuì e, emozionato, varcò la soglia della scuola. Un profumo per ambienti agli agrumi gli accarezzò le narici non appena si richiuse la porta alle spalle; era miscelato con un vago odore di caffè, che proveniva dal bar in fondo. Ren pensò che si vedeva chiaramente che quel luogo era amministrato da una donna. Lo suggeriva l’accostamento di colori, rosso per le sedie e i tavolini del bar, color panna per le pareti e bianco lucido per i pavimenti, nonché la pulizia impeccabile, i bonsai dalle foglie smeraldine disseminati per la sala d’attesa e un originale ed elegante lampadario costituito da tante luci bianche, rotonde, che lo facevano somigliare alla testa di una medusa. Rimase a fissare il lampadario per svariati secondi, poi si decise a dare un’occhiata in giro: era arrivato in anticipo, Sumire sarebbe uscita almeno mezz’ora dopo. Si avvicinò alla vetrina con i trofei, trovando coppe di tutte le dimensioni, medaglie, ma anche premi dalla forma curiosa. Uno in particolare lo colpì: sembrava fatto d’argento ed era uno spesso cerchio al quale erano saldate due scarpe di danza classica e una stella. Le scarpe erano dipinte di rosa pallido, la stella di argento metallizzato.
Chissà se qualcuno di questi lo ha vinto Sumire?, si domandò, certo che la risposta fosse affermativa.
Abbandonò i premi per studiare le fotografie appese al muro, circondate da una sottile e lineare cornice dorata. In diverse di esse scorse Sumire. Si soffermò su una in particolare: la ragazza aveva i capelli raccolti in un perfetto chignon, la frangia aperta al centro, mentre un brillante sorriso le distendeva il volto. Il suo corpo da atleta era fasciato da un body blu elettrico a maniche lunghe, che si apriva sui fianchi e che le circondava il basso ventre con delle piccole nappe dello stesso colore. Il corpo era costellato di pietre luccicanti argentate e blu di diverse dimensioni: le prime erano disseminate in modo da formare una piccola Via Lattea accanto all’apertura dei fianchi e sui seni, le seconde invece erano sparse sul ventre. Ai piedi calzava delle semplici scarpette impreziosite da piccole pietre blu molto simili a quelle del vestito. A Ren parve bella come una fata, e pensò che dovesse essere altrettanto leggiadra. Chissà com’era migliorata nel frattempo?
Ebbe l’impulso di soffermarsi anche sulle altre fotografie – ne era piena la parete –, ma si avvicinò al bancone, dove quella che doveva essere la proprietaria, almeno a giudicare dalla descrizione sommaria che le aveva fatto Sumire al Leblanc, era impegnata a risolvere un gioco di parole crociate. I suoi occhi piccoli erano fissi su un’unica fila vuota, attraverso i piccoli occhiali squadrati.
«Mi scusi» esordì.
«Prego» replicò lei, pronta e cordiale.
«È possibile assistere agli allenamenti?»
«Ma certo! Mi segua!» La donna, che era alta e longilinea – un’ex ballerina, dedusse Ren – abbandonò il bancone facendogli cenno di seguirla. Attraversarono una porta color cioccolato, oltre la quale Ren vide altre tre porte: due di esse conducevano agli spogliatoi. Presero l’ultima, che dava su un brevissimo corridoio. Oltre quello, una vetrata immensa, che permetteva di vedere l’interno della palestra.
«Molti genitori vengono a vedere i propri figli che si allenano, soprattutto quando sono molto piccoli e possono aver bisogno di aiuto o conforto. Per questo, ho pensato a questa soluzione!» spiegò la signora, evidentemente soddisfatta della sua trovata. Ren la stava ascoltando a malapena, gli occhi fissi oltre la vetrata.
La palestra era di forma rettangolare, larghissima quasi quanto quella della Shujin, ma senza spalti. Il pavimento era di parquet lucido e in alcuni punti la luce dei fari sul soffitto si rifletteva come il sole sull’acqua. Diametralmente opposto alla vetrata, uno specchio copriva l’intera parete – probabilmente serviva agli atleti per controllare i loro movimenti. Sul lato sinistro, una donna con i capelli corti, vestita in top e leggins aderenti osservava con attenzione una giovane che danzava al centro della palestra sulle note di una melodia di pianoforte. Lo sguardo di Ren fu subito calamitato su di lei, e non avrebbe potuto essere diversamente: era meravigliosa. Se esistessero le fate, e se esse potessero ballare, lo avrebbero fatto come lei, pensò Ren.
Sumire aveva i capelli raccolti in uno stretto chignon, come tutte le volte in cui l’aveva vista danzare in passato, e indossava un semplice body da allenamento color magenta. Niente di speciale se non fosse stato per la grazia dei suoi movimenti. Ren la fissò incantato mentre volteggiava per tutta la palestra, insieme ad una palla di gomma dorata che sembrava viva come un partner senziente. Era giunto nel bel mezzo della sua esibizione e sperò che la fine non fosse vicina.
In quel momento, Sumire stava girando su sé stessa con la testa piegata leggermente di lato, mentre faceva passare la palla da una spalla all’altra, lenta come il motivo musicale che l’accompagnava. La palla giunse poi nella mano destra e la ragazza si profuse in una capriola laterale senza mani, e poi una all’indietro, la palla come incollata al suo palmo.
Il ritmo cambiò: la musica divenne gradualmente più incalzante, e così i movimenti di Sumire, come se scivolasse sulle note del pentagramma. La ragazza produsse una ruota in avanti, la lanciò in alto e riprodusse un’altra ruota, riprendendo la palla al volo; un giro su sé stessa, poi sollevò la gamba, dritta come una stecca, il piede ad uncino, le mani che tenevano la palla mentre circondavano la gamba e lei girava sul proprio asse per tre volte. Lanciò di nuovo la sfera in alto, fece una capriola in avanti, tornò in piedi proprio mentre le ricadeva in mano. La musica si fermò per un lungo secondo, pieno di suspence; in quel brevissimo frangente, Sumire restò perfettamente immobile, come una scultura realizzata da uno scrupoloso artista. Poi la musica ripartì, languida, e Sumire riprese allo stesso modo. Tirò la palla in alto ancora una volta, poi fece due giri su sé stessa e accolse la palla nell’incavo delle ginocchia mentre eseguiva una nuova capriola in avanti, dalla quale si ritrovò direttamente in ginocchio con il globo dorato fermo tra le cosce. Le note si fecero acute mentre lei si alzava su una gamba sola, afferrava il piede dell’altra gamba e piroettava con la palla nella mano libera; divennero poi gradatamente gravi mentre lanciava la sfera in aria; il tempo di una piroetta e una nuova capriola, ma stavolta la palla atterrò sul dorso del piede di Sumire e, mentre lei si stendeva sul pavimento con un unico movimento, le rotolò lungo la gamba, sul ventre, sul petto, e poi sul braccio destro e nel palmo della mano. Sumire si rialzò con una capriola in avanti, la palla che le scorreva ora sulla schiena e le ritornava tra le dita. Eseguendo un mezzo giro, la ragazza scivolò in ginocchio, dolce come la melodia, lanciò la palla in verticale e la colpì con gentilezza con il dorso del piede per accoglierla con l’altra mano mentre si stendeva. Concluse torcendo il busto, in modo che il petto premesse contro il pavimento, e così finì. Sorrideva, come aveva fatto per tutta la durata della coreografia: era l’immagine della gioia, e brillava come un astro.
Ren si accorse di essersi emozionato: avvertiva un principio di commozione nel cuore. Se era stata la coreografia, la musica, o semplicemente Sumire e la sua felicità genuina non seppe dirlo, ma di una cosa era certo: era durato troppo poco.
Sumire era notevolmente migliorata dall’ultima volta che l’aveva vista. Ren non se ne intendeva di ginnastica ritmica, ma qualcosa grazie a lei l’aveva imparata, a suo tempo. I movimenti di Sumire gli parvero più aggraziati, sciolti ed elastici di prima e allo stesso tempo più precisi e ben modulati – in una parola, perfetti. La sua coreografia era scandita dalla musica, che sembrava quasi essere stata creata per lei. E l’atteggiamento: sicurezza, concentrazione, naturalezza, affiancate dall’allegria che quell’attività le suscitava. Sembrava che tutti i dubbi e i timori che affliggevano Sumire tre anni fa si fossero dileguati nel passato. Sumire aveva trovato il proprio stile e lo sfoggiava spontaneamente, come il suo sorriso dolce e lieto. Inoltre, ricordava, prima non era brava con la palla: aveva sempre preferito i nastri, ma adesso Ren era orgoglioso di vederla danzare con la palla come se l’avesse sempre usata.
Meravigliosa. Ren aveva quell’unica parola in mente, che gli fluttuava nella testa mentre la vedeva rialzarsi ansimando. Aveva posato una mano sulla vetrata e se ne accorse solo in quel momento. La nascose in tasca, imbarazzato, e arrossì vagamente quando la receptionist, di cui si era dimenticato del tutto mentre ammirava la grazia di Sumire, disse: «Pare che Yoshizawa-chan abbia un ammiratore.»
Non rispose; preferì tormentarsi un ciuffo sulla fronte con le dita.
Vide Sumire sorridere a quella che Ren dedusse essere la sua coach, che le stava dedicando un piccolo applauso. Poi, però, scoccò uno sguardo alla vetrata e i loro sguardi si incrociarono. Il cuore di Ren sobbalzò come se fosse stato trafitto da una freccia, e Sumire per poco non fece cadere la palla. Ren sorrise, senza notare i passi della receptionist che tornava all’ingresso. E sorrise ancora di più quando vide Sumire che si avvicinava alla porta saltellando sulle punte, con una deliziosa contentezza impressa in volto.
 
֍֍֍
 
«Ren!»
Aveva le palpitazioni a mille: se per l’allenamento o perché aveva Ren davanti agli occhi, difficile dirlo.
«Sumire.»
La ragazza gli di fermò di fronte, incapace di celare il suo entusiasmo. Perché avrebbe dovuto?
Ren ricambiava con un sorrisino dei suoi, incardinato nella sua solita postura con le mani in tasca. Morgana non c’era, notò.
«Che ci fai qui?» gli domandò.
«Uhm, ero di passaggio e ho pensato di fermarmi a vedere se c’eri.»
«Mi hai vista ballare? Che te ne pare?» Sumire non lo fece nemmeno rispondere che aggiunse: «No, aspetta, sono tutta sudata, sono impresentabile! Se non sei impegnato, puoi aspettarmi fuori? Faccio una doccia veloce.»
«Sono libero. Ti aspetto» accordò Ren. Le rivolse un nuovo sorriso e le diede le spalle per tornare all’ingresso. Sumire fece un piccolo salto di gioia e tornò in palestra per salutare la sua coach, quindi si precipitò negli spogliatoi per lavarsi e cambiarsi. Si preparò in fretta e furia, piena di energie, come se l’allenamento non fosse stato affatto impegnativo. Quando fu pronta, si diede una veloce occhiata allo specchio: la coda era venuta bene, la frangia era in ordine, e per fortuna indossava la sua tuta nuova, quella nera con le cuciture fucsia, che profumava ancora di bucato. Peccato però che non avesse indumenti migliori di quella tuta…
D’un tratto le parve di essere tornata indietro nel tempo, ai giorni felici in cui Ren la attendeva fuori dalla palestra, come quel giorno. L’entusiasmo era lo stesso, l’impazienza di uscire anche, come pure la curiosità di sapere cosa pensasse della sua esibizione – l’aveva vista tutta?
«Ok, Sumire. Andiamo» si disse, dandosi due colpetti sulle guance. Agguantò i manici del borsone sportivo e uscì dall’umido spogliatoio, lo stomaco contratto di emozione. Attraversò il breve corridoio e giunse nella hall. Cercò Ren con lo sguardo e lo trovò che esaminava una delle foto in cui c’era anche lei, insieme ad altre due compagne. Ricordava bene quella gara: era stata una delle più difficili, ma proprio per questo una delle più soddisfacenti.
«Ehi» lo chiamò. Ren si voltò in sua direzione, dedicandole un sorrisetto che la emozionò. Non ci credeva, non ci credeva che era venuto a vederla, e senza avvisarla. Possibile che…?
Sarebbe un sogno.
«Lì ero in Corea. Sono arrivata terza, mentre le mie compagne prima e seconda» disse lei, indicando con un dito le altre due ragazze. Avrebbe voluto illustrargli tutte le fotografie che la proprietaria aveva appeso lì nella hall, ma temette di sembrare egocentrica. Fece quindi per proporgli di andare da qualche parte, ma lui indicò due fotografie più in là e domandò: «E qui, invece? È una coppa da primo posto?»
Sumire per poco non gli balzò al collo. «Sì! Una delle giornate più belle della mia vita! Lì è stato l’anno scorso, a Pechino.»
«Complimenti allora, anche se in ritardo.»
«Non si è mai in ritardo se si tratta di complimenti.»
«Mi sarebbe piaciuto vederti.»
Sumire rimase di sasso, ma poi una calda gioia le avvolse il cuore quando vide Ren distogliere lo sguardo e toccarsi il ciuffo sulla fronte.
Anche a me sarebbe piaciuto che mi vedessi. Come poteva dirglielo, visto che era stata lei a lasciarlo?
«Puoi…sempre vedermi adesso. Quando sei libero. Come oggi.» Fu un’impresa non balbettare.
Ren si limitò a sorriderle, bonario. E ad annuire, mandandola in visibilio.
«Ti va di fare una passeggiata?» propose lei. Aggiunse: «So che non sono vestita adeguatamente, ma…»
«Io non sono certo vestito meglio» rispose prontamente lui. Il solito galante: stava benissimo, anche se indossava soltanto una maglietta nera, un paio di jeans e una giacca a vento grigia.
«Sei sempre troppo gentile, Ren.»
«Affatto. Non sono uno che mente.» Ammiccò, e Sumire sorrise apertamente.
La ragazza salutò la proprietaria e i due uscirono. Non appena furono fuori, Ren le tolse di mano il borsone per portarlo al suo posto; la giovane non poté che apprezzare il gesto e provare nostalgia per il passato.
«Andiamo al parco Inokashira?» buttò lì Ren. «Ci andiamo con la mia moto.»
«Oh, hai una moto?»
«Un motorino, per la verità. Un regalo dei miei.»
«Che bello! Vorrei proprio fare un giro!»
Ren la condusse due isolati più in là, dove aveva parcheggiato il suo scooter. Era uno Yamaha Xenter 125 di colore blu elettrico. Mentre lui toglieva la catena, lei commentò: «Che carino.» Ren sorrise e salì per primo. Indossò il casco, che era dello stesso colore della moto, e porse l’altro, identico, a lei. Azionò il motore e tolse il cavalletto; Sumire indossò il casco a sua volta e mise il borsone a tracolla, quindi si accomodò dietro di lui.
«Non correre.»
«Andrò come un pazzo» replicò lui, ma Sumire vide che sorrideva ironico attraverso lo specchietto laterale.
Si inserì in strada e partì, dietro ad una berlina bianca. Sumire si sentiva in bilico: non era mai andata su una moto e aveva una brutta sensazione di instabilità, come se dovesse essere sbalzata via da un momento all’altro. E la velocità le sembrava eccessiva, anche se intravedeva il tachimetro da sopra la spalla di Ren e poteva constatare che non fosse così. D’istinto avvolse una mano attorno al busto di Ren per reggersi; lui la lasciò fare, impassibile. Sumire arrossì, ma non si scusò e, anzi, si sentì più sicura.
Il tragitto fino al parco Inokashira fu piacevole: la sensazione di instabilità era scomparsa dopo due minuti, sostituita dall’euforia della velocità. Sumire si divertì come su una giostra: la guida di Ren era agile ma prudente, un po’ come lui. Sumire si sentì leggera dietro di lui, con il vento che le scompigliava la coda e la frangia. Allentò la presa attorno alla sua vita senza staccarsi completamente, anche se non aveva più paura. Arrivarono a destinazione troppo presto per i suoi gusti, anche se il suo orologio le diceva che ci avevano impiegato ben venti minuti.
Il cielo era prossimo al crepuscolo: l’azzurro si lasciava affiancare dal rosa e dall’arancio, intervallati da leggeri cumulonembi dorati dai bordi sfilacciati. Il sole color arancio carico proiettava i suoi raggi attraverso i tronchi sottili, spandendo lunghe ombre sul terreno e sui ragazzi. Gli alberi erano mezzi spogli, come uccelli nel periodo della muta: dai loro rami, una platea invisibile accoglieva i visitatori con un tenue cinguettio, e li accompagnava in ogni sentiero, come una guida fin troppo ciarliera. Alcuni sciami di moscerini danzarono davanti agli occhi di Sumire, ma bastò scacciarli con una mano affinché si sparpagliassero. Ai piedi degli alberi o nel bel mezzo dei sentieri, cuscini di foglie palmate o asimmetriche color fango scricchiolavano sotto le scarpe dei due ragazzi. Era un rumore che a Sumire piaceva: le ricordava le carte di caramelle accartocciate, anche se meno rumorose.
«Come sono andato?» le domandò Ren, non appena si introdussero sul primo sentiero battuto tra gli alberi.
«È stato divertente!»
«Allora, dovremmo rifarlo più spesso.»
Sumire arrossì, commossa. «Mi faresti da autista personale?»
«Perché no?»
La conversazione proseguì con un semplice sorriso.
Ren prese nuovamente il borsone di Sumire e i due passeggiarono in silenzio, l’uno di fianco all’altra. Sumire godette dello scricchiolio delle foglie sotto alle sue scarpe da ginnastica, all’ombra delle ragnate fronde fulve. Un ragazzo passò loro accanto mentre faceva jogging. Non appena fu lontano, Sumire domandò: «Hai visto la mia esibizione?»
«Sì.»
«Cosa ne pensi?»
Ren non rispose subito, lo sguardo fisso di fronte a sé. Sumire si preoccupò.
«Mi è piaciuta. Sei diventata una fuoriclasse.» Ren non si limitò a quel giudizio: si complimentò con lei per aver imparato a usare bene la palla e le disse anche che il suo atteggiamento mentre danzava era cambiato. Adesso lei era più sicura di sé, aveva trovato il suo stile, disse. E i suoi movimenti erano densi dell’esperienza e dell’impegno di quegli anni. Le disse perfino di essersi emozionato, anche se non scese nei dettagli.
Sumire apprezzò molto quelle parole, anzi, si sentì lusingata: non si aspettava che lui ricordasse tanti particolari su di lei e sulla ginnastica ritmica, al punto da esprimersi in modo così ricco nonostante fosse un profano della materia. Lo ascoltò a bocca aperta, con il cuore che le si gonfiava di commozione. Non avrebbe potuto dirle nulla di più bello.
Giunsero sulle sponde del lago: lo specchio d’acqua rifletteva i colori del cielo, e sulla sua superficie piatta galleggiavano due barche solitarie. Su una di esse, Sumire scorse un padre con due bambine, sull’altra una coppia di adolescenti. Una volta, anche lei e Ren erano stati su una di quelle barche: era stato un pomeriggio, come quel giorno.
Il sole era quasi del tutto celato dalle fronde; la sua luce morbida annaspava tra i rami e le foglie, e carezzò le figure di Ren e Sumire, che si lasciarono scaldare gentilmente mentre lanciavano occhiate distratte alle barche. Sumire sedette sullo steccato che circondava il lago, e Ren la imitò, poggiando il borsone per terra.
«Non avevi da studiare, oggi? Mi avevi detto di avere un esame importante a breve» disse Sumire.
«Sì. Ho finito prima. Sono a buon punto.»
Sumire annuì, poi si guardò le mani, giunte sulle cosce. Si strinse nel giubbotto; desiderò che Ren le attenuasse i suoi brividi con un abbraccio, come faceva un tempo.
«Mi…mi ha fatto piacere che tu sia venuto a vedermi, Ren.» La ragazza gli indirizzò un sorriso dolce.
«Anche a me. Forse, ne avevo bisogno. Guardarti è rilassante. Ogni volta che ho un esame tosto potrei…»
«Ren. Ti andrebbe se ci riprovassimo?»
Il ragazzo si interruppe, la bocca schiusa. La fissava, e Sumire non riuscì a sostenere il suo sguardo.
«Lo so che sono stata io a lasciarti. Se hai dubbi, o se semplicemente non vuoi, lo comprendo. Ma…è stato così bello trovarti alla mia scuola, e senza preavviso, come facevi prima.» Sumire gli sorrise. Si sentì sciogliere sotto il suo muto sguardo.
«Ed è così bello stare qui con te ora. Io…»
«Cos’è cambiato da allora, Sumire?»
La domanda di Ren giunse traghettata da un tono mite e sinceramente curioso. Sumire scoccò un’occhiata alla coppia sulla barca: la ragazza era seduta accanto al suo fidanzato e gli teneva la testa sulla spalla. Non ne vedeva il volto perché era troppo lontana, ma era certa che stesse sorridendo beata.
«Sono cambiata io. Prima non ero pronta ad una vera relazione. Ero piccola, ed ero tutta presa dal mio sogno. E tu vivevi lontano, non riuscivo a conciliare la mia relazione con te con il resto della mia vita. Adesso, il mio sogno è vicino. Anzi, ci sono dentro: la ginnastica ritmica è il mio lavoro e la mia vita e ho un raggiunto un livello tecnico tale da poter competere in gare internazionali. Amo la mia vita, Ren. Ma…in tutto questo, mi rendo conto che manca qualcosa. Manchi tu.»
Sumire riportò gli occhi su di lui. Li sentiva lucidi. Si accorse di avere lo stomaco contratto, di essere più tesa in quel momento che non quando si era dichiarata a lui per la prima volta.
«E adesso ci sei» continuò. «Adesso sei qui. Appena l’ho saputo…» Portò una mano sul cuore, sperando che Ren comprendesse ciò che voleva dire.
Ma Ren si limitava a tenerle gli occhi addosso, studiandola in silenzio. Il suo sguardo non era risentito o diffidente: era come quel tramonto, che li abbracciava con malinconica dolcezza.
«È un po’ tardi. Ti riporto a casa.»
Recise il contatto visivo alzandosi per primo, il borsone già in mano. Si incamminò senza attenderla, le dita intente a giocherellare con la solita ciocca sulla fronte.
Sumire raggelò. Ma fu solo per un istante; quello successivo, un nodo le bloccò la gola e una lacrima le scappò dall’angolo dell’occhio destro. La asciugò, rapida, e si affrettò a seguire Ren senza una parola.
 
֍֍֍
 
Il semaforo scattò sul rosso. Ren si fermò ad un incrocio, dietro ad un’utilitaria rossa dalla carrozzeria talmente sporca che sarebbe stato possibile disegnarci qualcosa con le dita. Quando notò le piccole nubi scure che fuoriuscivano dalle marmitte delle auto circostanti, trattenne d’istinto il respiro; preferì quindi sollevare il viso verso il cielo, intravedendo qualche stella tra le nubi invisibili e i grattacieli che torreggiavano come monti sulla popolazione di Tokyo. Riprese a respirare – tanto valeva arrendersi allo smog – e abbassò lo sguardo in direzione del suo stomaco, ove scorse le mani nivee e dalle unghie rotonde di Sumire. La ragazza si stava reggendo a lui. Ormai erano vicini a casa sua: Sumire abitava ancora con i suoi – ma stava cercando un’abitazione più vicina alla scuola di danza, gli aveva detto al Leblanc. Ren ricordava fin troppo bene come arrivare a casa sua, difatti non ebbe alcuna esitazione nell’imboccare il percorso più breve.
Chiuse meglio la cerniera della giacca a vento: cominciava ad avvertire piccoli brividi di freddo lungo la schiena. Proprio allora, il semaforo virò al verde e lui ripartì.
Lui e Sumire non spiccicavano parola da quando si erano alzati dallo steccato al parco Inokashira. Ren non si sentiva in imbarazzo per quel silenzio: ne avevano bisogno entrambi, lui per riflettere, lei per calmarsi.
Quando Sumire lo aveva lasciato tre anni prima, lui ne aveva sofferto molto, anche se aveva accettato la sua decisione senza protestare e sparendo all’istante dalla sua vita. Aveva capito ciò che lei provava allora, e ne aveva ricevuto conferma quella sera quando gli aveva parlato al parco. Era stato meglio così, ne era certo, anche se a lui la distanza non aveva mai impensierito. Ora lei gli si era dichiarata, per la seconda volta…
Si immise nella strada in cui viveva Sumire, sorpassando una serie di villette a schiera che, ad una prima occhiata, gli parvero identiche a quelle che ricordava. Rallentò, fermandosi proprio davanti al cancelletto dell’abitazione di Sumire. Spense il motore e mise il cavalletto, sfilando il casco.
Rivedere la casa di Sumire gli risvegliò una serie di ricordi di loro due davanti a quello stesso cancello grigio chiaro, che si abbracciavano o si salutavano con un bacio sotto quel lampione sempre pieno di falene. Oltre il cancello, vide il piccolo vialetto, costeggiato da due siepi perfettamente curate – dalla madre di Sumire, che ci teneva particolarmente – alte quanto la sua vita e compatte come un muretto di cemento, e poi i tre scalini che conducevano alla porta di casa, grigia come il cancello e come le tegole del tetto spiovente. Fece scorrere lo sguardo tra le finestre, tutte chiuse, e localizzò quella della camera di Sumire, al primo piano, sul lato destro della casa. Intravide le tende e si domandò se le avesse cambiate in quegli anni. Quante volte lo aveva salutato da lì quando lui arrivava in anticipo e lei si affacciava, tutta contenta?
Avvertì una vibrazione nella tasca della giacca e controllò il cellulare. Era un messaggio di Ichiiro Haruka.
 
Sei libero per una birretta?
 
«Ecco a te. Ti ringrazio.» Sumire gli stava cedendo il casco. Era smontata dalla moto.
Ren lo prese, mettendo via il telefono. Sumire teneva lo sguardo basso. Aveva gli occhi lucidi e l’espressione mortificata. Gli si strinse il cuore.
Sono una persona orribile.
Sumire aveva quel potere, e non solo su di lui, sospettava Ren: il modo delicato con cui si imbronciava sarebbe stato capace di far pentire il peggiore dei criminali.
«È troppo tardi, immagino. Lo capisco» disse, stringendo le mani attorno al manico del borsone, che portava a tracolla. Alla fine, si decise a guardarlo. «Va bene così. Me lo merito. Spero che potremo restare amici e che…»
«Non potremmo mai essere amici, noi» sparò Ren. E si sentì ancora più orribile: se l’avesse pugnalata fissandola negli occhi, avrebbe avuto un’espressione meno ferita che in quel momento.
«Capisco» mormorò, distogliendo di nuovo lo sguardo. Si inchinò appena, dicendo: «Grazie per avermi accompagnata a casa. Allora, addio.»
«Ma che addio» fece Ren, mollando entrambi i caschi sulla moto. Non resistette più: smontò, la prese per le spalle per raddrizzarla e si chinò fino a premere le labbra sulle sue.
Il cuore di Ren cantò: si sentì leggero come un palloncino mentre saggiava la morbidezza della bocca di Sumire, piccola e delicata come un bocciolo di lillà. Ma non gli bastò: investì quelle labbra con una lenta cascata di baci, anche se lei se ne restava impacciata e forse confusa tra le sue mani, anche quando schiuse la bocca senza ricambiare – ma senza respingerlo. Finché non sentì le ginocchia molli e pensò che fosse più prudente fermarsi.
Fu così che si ritrovò addosso gli occhi enormi di Sumire, che lo colpivano come la luce di un fanale in una strada senza lampioni. Trattenne un sorriso divertito – o isterico – e la trovò bellissima, come l’aveva sempre trovata dal primo momento che aveva posato gli occhi su di lei. Si accorse che le stava stringendo le spalle troppo forte, quindi allentò la presa, pur senza lasciandola andare.
«Ren…non ti capisco» boccheggiò lei.
Ren non poté fare a meno di sorridere. «Colpa mia. Perdonami.»
«Volevi…farmela pagare un po’. Vero?»
«Già. Scusami.»
«Almeno, smetti di sorridere in quel modo, se vuoi che ti creda.» Per tutta risposta, il sorriso di Ren si allargò; era in brodo di giuggiole – non si sforzò nemmeno di camuffarlo. Smise solo perché Sumire gli saltò al collo e riprese da dove lui si era interrotto, travolgendolo in un vortice di baci di petali che gli fece perdere la cognizione del tempo, del luogo e di sé stesso.
Quando si staccarono, a malincuore, Ren si accorse che aveva avviluppato la ragazza in un abbraccio, e che lei aveva affondato le mani nei suoi capelli. Si sorrisero per qualche secondo, come i ragazzini che erano stati. Ren si sentì tra le stelle.
«Domani…verrai?» sussurrò lei. Ren dovette ricorrere a tutta la sua forza di volontà per non gettarsi insieme a lei in un nuovo turbine di baci.
«Tutti i giorni» soffiò.
«Ma devi studiare…»
«C’è la notte, e la pausa pranzo…e altri momenti.»
Sumire sorrise, raggiante, e Ren pensò che sarebbe andato a vederla per tutta la vita, dovunque, anche in capo al mondo.
«Magari, domani verrò io da te. Vorrei vedere dove vivi. Ti farebbe piacere?»
Tutto quello che vuoi, pensò Ren, ma replicò semplicemente annuendo.
«Bene. Allora…a domani?»
«A domani.» Sumire gli impresse un nuovo bacio sulle labbra e si staccò lentamente da lui. Ren mantenne il contatto visivo con lei mentre si allontanava, si dirigeva al cancello, cercava le chiavi nel borsone e lo apriva; e anche quando lo chiuse e si avviò lungo il vialetto, voltandosi ad ogni passo per sorridergli, e quando aprì la porta di casa e gli inviò un bacio volante con la mano. E anche quando, infine, chiuse la porta con deliberata lentezza.
Ren rimase a fissare la porta chiusa sorridendo come un ebete per un tempo indefinito. Era impaziente che giungesse l’indomani. Si costrinse a tornare alla moto, quindi mise il casco di Sumire nel bauletto posteriore della moto e indossò di nuovo il suo.
«Ti sei dimenticato di me un’altra volta.» La voce di Morgana, stizzita, lo raggiunse da tergo. Ren gli sorrise con un’espressione di scuse. Il micio balzò sulla moto, tra i suoi piedi, mentre lui diceva: «Ottimo tempismo. Non avrei saputo dove venirti a cercare.»
Morgana occhieggiò nel buio. «Io sì, invece. Sapevo benissimo che ti avrei trovato qui.»
Ren arrossì, certo che Morgana avesse seguito la scena dall’inizio alla fine. Poi, però, si limitò a sorridere e ad accendere il motore.






NDA: il titolo significa "Il giusto tempo"

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3975429