Le Chimere di Salomone

di BabaYagaIsBack
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - Prologo: La prima Chimera ***
Capitolo 2: *** - Capitolo primo: Fratelli ***
Capitolo 3: *** - Capitolo secondo: I morti che vivono ***
Capitolo 4: *** - Capitolo terzo: Patti di Sangue ***
Capitolo 5: *** - Capitolo quarto: Riunioni ***
Capitolo 6: *** - Capitolo quinto: Akràv ***
Capitolo 7: *** - Capitolo Sesto - Parte Prima: Il contenitore dell'anima ***
Capitolo 8: *** - Capitolo Sesto - Parte Seconda: Il contenitore dell'anima ***
Capitolo 9: *** - Capitolo Settimo: Una gabbia senza vie d'uscita ***
Capitolo 10: *** - Capitolo ottavo - Part Prima: Fuga ***
Capitolo 11: *** - Capitolo ottavo - Parte Seconda: Fuga ***
Capitolo 12: *** - Capitolo ottavo - Parte Terza: Fuga ***
Capitolo 13: *** - Capitolo nono: Morire centouno volte ***
Capitolo 14: *** - Capitolo decimo - Parte Prima: Io non sono ***
Capitolo 15: *** - Capitolo Decimo - Parte Seconda: Io non sono ***
Capitolo 16: *** - Capitolo undicesimo: Chi non muore si rivede ***
Capitolo 17: *** - Capitolo dodicesimo - Parte Prima: Sconosciuti ***
Capitolo 18: *** - Capitolo Dodicesimo - Parte Seconda: Sconosciuti ***
Capitolo 19: *** - Capitolo tredicesimo - Parte Prima: Il corpo ricorda ***
Capitolo 20: *** - Capitolo Tredicesimo - Parte Seconda: Il corpo ricorda ***
Capitolo 21: *** - Capitolo quattordicesimo: Ti ho visto morire ***
Capitolo 22: *** - Capitolo quindicesimo: A mali estremi, estremi rimedi ***
Capitolo 23: *** - Capitolo Sedicesimo - Parte Prima: Ci sei sempre stato ***
Capitolo 24: *** - Capitolo sedicesimo - Parte Seconda: Ci sei sempre stato ***
Capitolo 25: *** - Capitolo Diciassettesimo - Parte Prima: Non avere paura dei Mostri ***
Capitolo 26: *** - Capitolo Diciassettesimo - Parte Seconda: Non avere paura dei Mostri ***
Capitolo 27: *** - Capitolo Diciottesimo: Per risvegliare un Re ***
Capitolo 28: *** - Capitolo Diciannovesimo - Parte Prima: Non più lo stesso ***
Capitolo 29: *** - Capitolo Diciannovesimo - Parte Seconda: Non più lo stesso ***
Capitolo 30: *** - Capitolo Ventesimo - Parte Prima: Stesso Sangue ***
Capitolo 31: *** - Capitolo Ventesimo - Parte Seconda: Stesso Sangue ***
Capitolo 32: *** - Capitolo ventunesimo - Parte Prima: La linea sottile tra alleati e nemici ***
Capitolo 33: *** - Capitolo ventunesimo - Parte Seconda: La linea sottile tra alleati e nemici ***
Capitolo 34: *** - Capitolo ventunesimo - Parte Terza: La linea sottile tra alleati e nemici ***
Capitolo 35: *** Capitolo ventiduesimo - Parte Prima: Ora e da sempre ***
Capitolo 36: *** - Capitolo Ventiduesimo - Parte Seconda: Ora e da Sempre ***
Capitolo 37: *** - Capitolo Ventiduesimo - Parte Terza: Ora e da Sempre ***
Capitolo 38: *** - Capitolo ventitreesimo: Un corpo troppo umano ***
Capitolo 39: *** - Capitolo ventitreesimo - Parte Seconda: Un corpo troppo umano ***
Capitolo 40: *** - Capitolo ventiquattresimo - Parte prima: Parti di una medesima anima ***
Capitolo 41: *** - Capitolo ventiquattresimo - Parte seconda: Parti di una medesima anima ***
Capitolo 42: *** - Capitolo Venticinquesimo - Parte Prima: Un legame che trascende la paura ***
Capitolo 43: *** - Capitolo venticinquesimo - Parte Seconda: Un legame che trascende la paura ***
Capitolo 44: *** - Capitolo ventiseiesimo - Parte Prima: Addio Noah Dietrich ***
Capitolo 45: *** - Capitolo ventiseiesimo - Parte Seconda: Addio Noah Dietrich ***
Capitolo 46: *** - Capitolo ventisettesimo - Parte Prima: Wòréb ***
Capitolo 47: *** - Capitolo ventisettesimo - Parte Seconda: Wòréb ***
Capitolo 48: *** - Capitolo Ventisettesimo - Parte Terza: Wòréb ***
Capitolo 49: *** - Capitolo Ventisettesimo - Parte Quarta: Wòréb ***
Capitolo 50: *** - Capitolo ventottesimo - Parte prima: Trova il Vitriol ***
Capitolo 51: *** - Capitolo ventottesimo - Parte seconda: Trova il Vitriol ***
Capitolo 52: *** - Capitolo Ventinovesimo: Le colpe del Passato ***
Capitolo 53: *** - Capitolo Trentesimo - Parte Prima: Rebus ***
Capitolo 54: *** - Capitolo Trentesimo - Parte Seconda: Rebus ***
Capitolo 55: *** - Capitolo Trentunesimo: L'ultimo ***
Capitolo 56: *** - Capitolo trentunesimo - Parte Seconda: L'ultimo ***
Capitolo 57: *** - Capitolo trentunesimo - Parte Terza: L'ultimo ***
Capitolo 58: *** - Capitolo trentaduesimo: I nodi che tornano al pettine ***
Capitolo 59: *** - Capitolo Trentatreesimo: Un passo alla volta ***
Capitolo 60: *** - Capitolo trentaquattresimo - Parte Prima: Una promessa ***
Capitolo 61: *** - Capitolo trentaquattresimo - Parte Seconda: Una promessa ***
Capitolo 62: *** - Capitolo trentaquattresimo - Parte Terza: Una promessa ***
Capitolo 63: *** - Capitolo trentacinquesimo - Parte Prima: L'invito ***
Capitolo 64: *** - Capitolo trentacinquesimo - Parte Seconda: L'invito ***
Capitolo 65: *** - Capitolo trentacinquesimo: L'invito - Parte Terza ***
Capitolo 66: *** - Capitolo Trentaseiesimo: Per chi più si ama ***



Capitolo 1
*** - Prologo: La prima Chimera ***




"Fate 
Up against your will
Through the thick and thin 
He will wait until 
You give yourself to him"

-The killing moon (Echo & The Bunnymen)  

 

Medio Oriente, 987 a.C.

Re Salomone strinse a sé il corpo del proprio migliore amico quasi fosse un pargolo inerme. Grosse lacrime gli colavano lungo le guance scarne e la voce spezzata ripeteva una litania sommessa, troppo leggera per poter essere udita da chiunque non fosse il cadavere che con tanta forza si teneva vicino, così stretto da impedirgli di fuggire via, di correre verso il Regno di Dio

Levi era morto quella mattina in una delle tante battaglie in cui il popolo ebraico si era dovuto ritrovare coinvolto e, da quando la sua salma era stata riportata a palazzo, Salomone non aveva smesso di piangere e disperarsi come un fanciullo. 

Sapeva da sé che, presto o tardi, qualcuno sarebbe sopraggiunto per strappargli quel corpo dalle braccia, ma ancora non era pronto a lasciare andar via l'uomo che solo la sera precedente si muoveva ubriaco per il salone, cantando con passione le sue tanto amate ballate e amoreggiando con qualcuna delle serve, vivo. Sentiva ancora la sua voce recitare strofe di canti imparati da bambini, accompagnata dal tintinnare leggero dei suoi gioielli - mentre ora, dalla sua bocca pallida, non usciva altro suono se non uno straziante silenzio.

Quel giovane soldato e il figlio di Davide erano nati nello stesso mese del medesimo anno, cresciuti fianco a fianco come fratelli e, ora, il Dio che tanto avevano servito in quell'esistenza si era portato via la vita che al Re era più cara.

No, non poteva essere vero.

Il suo Signore non poteva aver realmente chiesto l'anima di Levi, non poteva aver scelto lui per rincarare la sua prole di Angeli. Era meschino, un atto orripilante! Ma era anche la prova che aveva a lungo cercato: la conferma a tutti i sospetti che gli avevano pian piano riempito la testa.

 Decine di uomini, provenienti dalle più disparate aree della terra conosciuta, erano giunti alla sua corte e gli avevano parlato di altri culti, di divinità temibili oppure amabili, di rituali agghiaccianti e di feste simili a quelle che indicevano lì, a Israele, in onore del loro Padre. Tutti i viandanti che si erano presentati avevano lentamente alimentato nel Re una domanda, l'eretico dubbio che non vi fosse nessuno sopra le loro teste a vegliarli o che, invece, vi fosse il Dio sbagliato, una creatura che di magnanimo non possedeva nulla. E ora, il fatto che chiunque vi fosse, oltre la coltre di nubi nel cielo, avesse deciso di prendersi il figlio di Yoel, sembrava dar credito a ognuna delle dicerie portate nelle mura della casa del grande Salomone dai visitatori stranieri.

E se quell'entità era stata così impietosa, cosa fermava lui dall'essere altrettanto avventato? Cosa lo costringeva a seguire la rettitudine che per anni lo aveva contraddistinto? 

Nulla.

I lamenti sussurrati del Sovrano s'interruppero di colpo, facendo piombare la stanza in uno strano silenzio. Con un cenno della mano l'uomo chiamò a sé Tamar e Yael, le uniche a cui aveva permesso di assistere al pietoso spettacolo di un Re che si piegava sotto a un'emozione così umana come la sofferenza, mandando in frantumi la sua maschera da creatura intoccabile, potente e divina, prescelta dal Signore, che aveva a lungo indossato.

Le donne si concessero un'occhiata dubbiosa, evidentemente incapaci di capire cosa stesse per accadere, di spiegare a se stesse perché mai il loro monarca avesse smesso improvvisamente di singhiozzare e stringere con foga il corpo dell'amico. In verità, nessuno poteva carpire i suoi pensieri, comprendere le sue azioni - solo quel morto che, ora, non avrebbe più potuto svelare nulla. 

Salomone lanciò loro uno sguardo severo, duro come la pietra con cui era fatto il palazzo, grigio e penetrante come un cielo tempestoso: «Portatemi il mio pitone più bello, una lama d'argento affilata e dell'acqua con sale» comandò con voce roca, eppure non più spezzata dai singulti come si sarebbe potuto pensare. 

Tamar deglutì, visibilmente turbata da quella richiesta. A differenza di Yael, che era arrivata a palazzo solo due inverni prima, lei era tra le grazie del Re da molti anni e qualcosa su di lui era riuscita a scoprirla - cose che forse non avrebbe dovuto sapere, segrete e temibili, capaci di costarle la vita.

Con occhi grandi di incertezza si volse verso l'altra, titubando sul da farsi. Chiunque avrebbe potuto scorgere nello sguardo di Salomone quella punta di febbrile follia, un monito nei confronti di ciò che sarebbe seguito di lì a poco e a cui, con grande probabilità, nessuno avrebbe desiderato assistere.

«Muovetevi!» tuonò l'uomo digrignando i denti a causa di un'urgenza improvvisa. 
La serva più matura sussultò per lo spavento, sicuramente sentendosi il cuore saltare in gola - non era avvezza a quei modi, soprattutto da parte di un uomo come era sempre stato il suo Re: avvenente, pacato, gentile e caritatevole. Un ordine così imperioso stonava nelle corde vocali di Salomone e per questo turbava chiunque potesse subirlo. 

Tamar avrebbe dovuto ribellarsi a quel comando, la sua esperienza glielo stava certamente gridando a gran voce, ma l'amore che aveva nutrito per quel giovane, incoronato prematuramente, la costrinse a ignorare la sua coscienza, girare i tacchi e andare alla disperata ricerca di quegli oggetti, trascinandosi dietro la compagna. 
Il buon senso tentò di ribellarsi con insistenza, facendola fermare di tanto in tanto lungo i corridoi. Doveva lasciar perdere l'ordine impartitole e non far ritorno nelle stanze del Sovrano fin quando non si fosse calmato e un gruppo di uomini avesse portato via la salma, ma ogni istante che perdeva, ferma a guardare oltre le proprie spalle, doveva essere vissuto dalla sguattera come una sorta di piccolo tradimento; per questo le pause si fecero sempre più corte.

Tamar era a conoscenza del fatto che non molti inverni prima, persuaso da viaggiatori eclettici, il figlio di David si era avvicinato a strane pratiche provenienti dalle terre più a est del suo regno, iniziando così a compiere incantesimi degni dei grandi maghi d'Oriente. Erano iniziato tutto con piccoli successi: una scintilla, un fiore sbocciato, una nube dissolta nel cielo - ma poi era peggiorato, arrivando a compiere magie sempre più potenti. 
Quella sola abilità, se si fosse fermata nei limiti dettati dai loro comandamenti, agli occhi dei sudditi sarebbe stata certamente ben vista: un regnante in grado di praticare l'Ars non avrebbe più avuto alcun rivale, tutti i nemici ne sarebbero stati impauriti, concordando sul fatto che il Dio stesso lo avesse proclamato Sovrano di tutti i Sovrani
Peccato solo che i rituali a cui Salomone si fosse avvicinato e con il tempo appassionato richiedessero componenti tutt'altro che innocenti, elementi in grado di far accapponare la pelle e che nessuna Divinità avrebbe mai accettato venissero usati in suo nome. 
Sì, perché il sangue era alla base di tutto. Senza quello, aveva presto capito Tamar, nulla si sarebbe potuto creare o distruggere. 
Era quindi ovvio che il popolo, una volta scoperto quel segreto, non avrebbe più visto così di buon grado la magia del sovrano, lontana e opposta a qualsivoglia legge imposta dal loro Dio di misericordia.

Un pensiero terrificante, a quel punto, le attraversò la mente: che il Re volesse donare se stesso per riavere indietro un semplice Generale? Lo aveva sentito più volte lamentarsi di come fosse difficile, se non quasi impossibile, aprire i cancelli tra la vita e la morte per riportare indietro un'anima, però lo aveva anche visto compiere una simile impresa; giusto un paio di volte e su creature del tutto insignificanti - passerotti, lucertole, serpenti e qualche gatto randagio - certo, ma mai su un corpo umano. E se ciò avesse significato perdere anche lui? E se quell'aberrante peccato avesse privato Israele del proprio Re?
Si morse il labbro, continuando a tenere Yael all'oscuro dei suoi macabri pensieri. Era troppo giovane per poter capire quello di cui le avrebbe parlato, troppo innocente per non tremare di paura di fronte a una simile verità. 

Salomone giocava continuamente con quell'arte oscura, lo aveva visto apprendere da ogni straniero che arrivava a palazzo, cercare scritti e insegnanti pronti a sfamare la sua vorace curiosità, ma mai si era spinto così lontano da voler sfidare la morte e sovvertire le regole della vita - perché ne era certa, ciò che sarebbe accaduto quella notte era la peggiore delle prospettive che si stava figurando nella mente.

Lo aveva spiato per tante sere, nascosta dietro a tende spesse o porte socchiuse. Aveva osservato silenziosamente il modo in cui, con l'argento e il sangue, il suo Sovrano aveva disegnato sulla pietra del pavimento grossi cerchi e simboli di cui lei non conosceva il significato. Lo aveva visto trasformare gli oggetti in oro, gli scorpioni in pietra e altro ancora. Lo aveva visto sperimentare forme e miscele ed era stato bellissimo, all'inizio, ma poi l'ossessione di Salomone aveva iniziato a spaventarla. 
Che fosse un uomo colto e curioso lo aveva sempre saputo; che fosse dolce e di buon cuore, fuori dalla sala del trono e lontano dagli occhi del padre, lo aveva scoperto da sé, tra una carezza e l'altra, ma mai lo avrebbe immaginato così folle.

Il loro Dio non avrebbe perdonato un simile atto, si sarebbe prodigato in tutti i modi a spedire quel suo servo insolente tra le brucianti fiamme dell'Inferno, insieme al suo abominio e tutti demoni della Cabala Ermetica

Seppur magnanimo, non avrebbe mai accettato una resurrezione, neppure se fosse stata fatta per mano di un uomo scelto proprio da lui.

Tamar avrebbe voluto trovare dentro di sé la forza necessaria per fermarlo, per impedire al proprio Re di macchiarsi di un peccato di tal grandezza, ma non riuscì a bloccare i passi, continuando così a vagare per il palazzo - troppo silenzioso in quella notte di lutto e sofferenza, quasi fosse in attesa. Dopotutto come si poteva negare un tentativo a colui che si amava? Come si poteva costringerlo a rinunciare a qualcuno così caro? Inoltre, Salomone era un monarca, lei la sua semplice sguattera.

Con Yael al proprio fianco e dopo aver corso per tutti i corridoi e le sale necessarie, le due donne tornarono nelle stanze del Sovrano. Tra le braccia stringevano il materiale richiesto dall'uomo e, in una cesta di paglia ben chiusa, avevano segregato il serpente, nero come la pece. I suoi occhi altrettanto scuri e grandi quanto semi d'uva l'avevano fissata per qualche istante, prima che riuscisse a ficcarlo dentro al contenitore con cui ora lo sorreggeva. Per un solo istante aveva pensato che la stesse supplicando, che le stesse chiedendo di lasciarlo vivere, ma non si era fatta impietosire - non era pronta a deludere Salomone e venir rinnegata da lui e il suo talamo.

Varcata la soglia, ciò che Tamar vide fu il suo amato ancora stretto alla salma dell'amico. L'espressione sul suo viso, che nel momento in cui lo aveva lasciato altro non era che una maschera di dolore, ora era cambiata e gli occhi dapprima solo arrossati si erano fatti vacui, lontani come quelle del cadavere del Generale Levi. 

L'agitazione colse la serva alla sprovvista, facendola titubare ancora.
Sapeva cosa fosse giusto fare, eppure non sapeva come combattere la reverenza che nutriva nei confronti dell'uomo che aveva innanzi. 

Si chiese quanto fosse corretto dar corda a un'eresia del genere, se ciò sarebbe costato anche a lei caro quanto al Re. Aiutandolo, si sarebbe preclusa il Paradiso? E l'amore per lui sarebbe stato sufficiente a farle sopportare l'Inferno?
Yael le strinse il braccio, aggrappandosi a lei con un'evidente preoccupazione in volto. Si scrutarono a vicenda mentre i lunghi istanti di silenzio parvero congelare quel momento nel tempo, bloccarlo nell'infinito che mai avrebbe avuto fine. 

Era tutto così sbagliato, pensò Tamar stringendo la presa sulla cesta, eppure non aveva alcuna volontà di opporsi a lui. Salvi insieme, si disse, o condannati al medesimo modo
Non lo avrebbe tradito in un frangente di tale portata, non avrebbe voltato le spalle ai suoi bisogni - anche se parevano folli-, così avanzò, trascinandosi dietro la giovinetta.

Quella però, fu l'ultima notte in cui vide il viso dell'uomo di cui si era innamorata, l'ultima in cui gli ripeté del suo amore. Fu l'ultima luna che accarezzò i loro corpi d'alabastro e che le vide muoversi per un palazzo che mai sarebbe stato lo stesso. Lì, i loro polmoni presero le ultime boccate d'aria e i loro cuori batterono ancora una volta, ma fu anche la prima sera e il luogo in cui Levi Nakhaš, la chimera del Re, aprì i propri occhi sul mondo.


 

Nakhaš : serpente/ serpe.
Re Salomone : è stato, secondo la Bibbia , il terzo re d'Israele, successore e figlio del re Davide.  Il suo regno è datato circa dal 970  al 930 a.C.  e fu l'ultimo dei Re del regno unificato di Giudea e Israele. La sua figura è stata spesso associata alla magia.
Chimera : nella mitologia, un animale con testa di acquila, corpo di leone e coda di serpente. Nell'alchimia, viene generalmente utilizzato per identificare una trasmutazione (fusione) di più esseri viventi.

I dati storici presenti in questo testo, potrebbero essere stati in parte modificati, ma comunque tenderò a mantenerli più simili possibili alla realtà. Le parole ebraiche (spudoratamente cercate sui dizionari), sono scritti secondo la fonetica, in modo da facilitare la pronuncia del lettore durante il suo vagabondare attraverso il racconto.

 

 
 

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Capitolo 2
*** - Capitolo primo: Fratelli ***




"Through these fields of destruction
Baptisms of fire
I've witnessed your suffering
As the battle raged higher
And though they did hurt me so bad
In the fear and alarm
You did not desert me
My brothers in arms "

-Brother in arm (Dire Straits)


 

Italia, giorni nostri

Con un broncio tutt'altro che rassicurante si mise a fissare il vicolo buio in cui l'uscita secondaria del locale dava la possibilità allo staff di sgattaiolare via. Ci aveva impiegato quasi due mesi ad arrivare in quella cittadina del Nord-Italia e, per farlo, aveva dovuto riscuotere favori da ogni dove, partendo dagli informatori meno costosi e approdando infine al cospetto di quelli più esigenti - tutta gentaglia, certo, ma comunque utili per il fine ultimo a cui ambiva. Nessuno di quei tizi aveva osato fargli domande, dopotutto erano loro quelli pagati per dare risposte e, così, avevano fatto. Uno alla volta i pezzi di una mappa sconosciuta si erano andati sommando, finché qualcuno non era riuscito a dirgli con precisione in che punto dell'Europa si trovasse almeno uno dei suoi fratelli, colui che più di tutti avrebbe voluto avere al proprio fianco in una simile spedizione.

Con il cuore palpitante e l'ansia a far prudere i palmi, l'uomo si era così deciso ad abbandonare tutto e raggiungere quella specie di parente, scongiurando in ogni modo possibili guai.

Il viaggio che aveva intrapreso dalla Repubblica Ceca fino a lì però, non si era certo potuto definire piacevole: aveva dovuto muoversi con discrezione, accaparrandosi i last minute più possibili e immaginabili, trovando alloggi economici e controllando continuamente il saldo del conto corrente per essere certo di non farsi bloccare la carta - per non parlare poi dei vari imprevisti intercorsi nel mezzo di quell'avventura. Eppure eccolo lì, in attesa di qualcuno o, meglio, qualcosa. 

Il barman, un tizio che aveva cercato inutilmente di fregarlo dicendogli che non aveva idea di chi fosse la persona che stava cercando, non gli era parso poi tanto sveglio e, con le giuste tecniche, gli avrebbe cavato di bocca le informazioni necessarie per trovare Z'év. Ovviamente per farlo doveva attendere che se ne uscisse da quella specie di tugurio, quantomeno per buttare la spazzatura. A quanto pareva però, quel tizio fin troppo palestrato, non sembrava affatto intenzionato a ridurgli l'estenuante attesa che ormai andava avanti da ore.

Che palle!

Il ragazzo si massaggiò la base del naso, restando appoggiato alla parete in modo da passare il più inosservato possibile. Odiava fare certe cose: perlustrare, appostarsi, minacciare e comportarsi da criminale in generale, solo che non aveva altri mezzi per trovare qualcuno che non voleva essere scovato – anche se quel qualcuno era un parente. 
Seppur per poco, aveva creduto di poter finalmente dire addio a quella vita fatta di piccole e grandi efferatezze, ma poi qualcosa era cambiato e tutto si era rimesso a muoversi come sempre: una ruota che non aveva ancora smesso di muoversi, anche se aveva notevolmente rallentato l'andamento.

Ad ogni modo ora era lì, in attesa come il peggior sicario della vittima designata. 
Non vedeva Z'èv da quasi trent'anni, ma si rese conto che decretate con certezza una data precisa era diventato, a quel punto della sua vita, qualcosa di faticoso. Il conto e la misura del tempo li aveva persi ormai da molto: gli anni avevano iniziato a scivolargli tra le dita come granelli di sabbia e, senza rendersene conto, quelli che a lui sembravano essere brevi periodi in realtà erano decenni. Stava di fatto che, però, dell'abbandono dei fratelli si ricordava bene, quantomeno di come era avvenuto - specialmente quello, che gli si era impresso nella memoria a fuoco, anche se mai lo avrebbe ammesso.

Rimembrava quel giorno con più chiarezza di molti altri e, forse, sarebbe stato uno di quelli che avrebbe fatto fatica a dimenticare, se mai ci fosse riuscito.
In casa c'era stata una furiosa litigata, nata da quel lutto tanto sentito da aver scalfito gli animi dei presenti; si erano urlati addosso di tutto, rinfacciando sbagli e colpe, puntando le dita e digrignando i denti finché, in poco tempo, se ne erano andati ognuno per la propria strada, lasciandolo solo in una dimora eccessivamente affollata di ricordi. Aveva udito ognuno degli insulti che avevano riempito i polmoni, ogni lacrima caduta a terra; aveva aspettato paziente che il suono delle cose fatte a pezzi smettesse di rimbombare dalle pareti e, quando finalmente era uscito dalla propria stanza, non aveva trovato nessuno ad attenderlo.

Che periodo di merda, si disse d'improvviso, interrompendo il massaggio al naso e il flebile flusso di ricordi che stavano cercando di riaffiorare. Eppure c'era da dirlo, era stato il peggiore di tutta la sua esistenza.

Sbuffando allontanò definitivamente le dita dal setto. 

Ma quanto ci metteva a chiudere quel postaccio? Se fosse rimasto nel vicolo ancora un per qualche ora avrebbe potuto ricordare la sua intera vita fino alle origini, momento dopo momento e, a essere sinceri, era l'ultima delle cose che desiderasse fare - non quella sera, quantomeno. 
Con un colpo di reni si staccò dalla parete, avvicinandosi alla porticina che collegava il retrobottega del locale con quell'angolo di città pieno di spazzatura che, persino al suo olfatto non troppo sviluppato, iniziava a dar fastidio.

Okay che l'eternità era lunga, si disse, ma in quel momento stava andando abbastanza di fretta.

Provò a carpire qualche suono capace di aiutarlo, a vedere se fosse possibile entrare da lì senza dover scassinare la serratura, ma alla fine si rese conto che nessuno sarebbe miracolosamente apparso e, a quel punto, l'ennesimo sbuffo si riversò fuori dalle sue labbra pallide, a tratti violacee. 

Alle volte avere sangue freddo poteva essere fastidioso.

Delle sue caratteristiche più peculiari, il giovane aveva fatto decine di volte la lista dei pro e dei contro; quella, ad esempio, era un ostacolo nei rapporti interpersonali. Capitava spesso, infatti, che la gente si mettesse a guardarlo biecamente, credendo che indossasse il rossetto della fidanzata o che fosse una specie di Emo un po' troppo cresciuto. Inoltre, quando tentava di approcciare qualche ragazza o una qualsiasi persona con cui dovesse entrare in contatto "fisico", si ritrovava spesso a dover giustificare un corpo più freddo del normale. Quelli però, erano solo alcuni dei lati negativi del suo aspetto.

Si volse sconsolato, pronto a tornare nel proprio angolino nascosto e riprendere l'estenuante attesa. 
Dal punto in cui si era appostato era riuscito a tener d'occhio persino il campanile, una torretta pallida che si ergeva in mezzo ai tetti rossastri delle case su cui aveva lentamente visto le lancette spostarsi, trasformando le undici in mezzanotte e poi quasi l'una. Possibile che nessun dipendente sentisse la necessità di tornarsene a casa? E quanto ancora avrebbe dovuto aspettare, prima di poter spaventare quell'innocente quanto incapace bugiardo di un barista? Iniziava davvero a non poterne più, né dell'attesa, né dell'odore di marcio e neppure della temperatura sempre più rigida. 

Un altro sbuffo ruppe la quiete. Seppur la pazienza fosse stata, nel tempo, una delle sue migliori doti, in quegli ultimi anni l'aveva vista pian piano scemare, rendendolo ogni giorno sempre più irrequieto. Forse, si ritrovò a pensare, era una conseguenza dell'essere rimasto solo e a corto di tempo. Da quando era nato non aveva mai dovuto rimanere a fare i conti con la sola compagnia di se stesso, eppure, dalla divisione della famiglia, quelle occasioni si erano ritagliate del grande spazio nella sua vita - la foga di incontrare chi gli interessava, era una specie di segugio alle sue calcagna.

Fu in quel momento, mentre si ritrovava a fare i conti con tutte quelle lamentele, che un sottilissimo rumore, quasi impercettibile, lo fermò in mezzo al vicolo. Brividi leggeri gli corsero lungo la spina dorsale e lo sguardo baluginò nel buio, scrutando oltre le proprie spalle per vedere chi, o cosa, si stesse muovendo attorno a lui. 
Purtroppo, a differenza di alcuni dei suoi fratelli, non gli era stato fatto il dono né di un buon olfatto, né un udito fine; tutto quello che poteva vantare erano due occhi capaci di squarciare le tenebre della sera, pupille affilate come lame e in grado di trapassare il velo creato dalle ombre.

A prescindere da quanto fosse attento però, non trovò nulla al di là della propria schiena.  
Nulla
Eppure era certo di aver udito un suono simile a un passo veloce, a un correre furtivo degno di un animale - e non seppe se esserne felice o preoccuparsi. Così attese per qualche secondo, in modo d'accertarsi che tutto fosse rimasto immobile come lo aveva lasciato e, infine, riportò l'attenzione verso l'angolo in cui avrebbe continuato ad aspettare quel demente di un barista; magari si era solo trattato di un gatto randagio, oppure di qualche ratto in cerca di cibo. 

Socchiuse gli occhi, allontanando con stizza una ciocca dal viso. Tra le varie opzioni, non lo negò, poteva anche esserci quella di un'allucinazione uditiva dovuta alla stanchezza; in fin dei conti, dormire non era certo stata una sua priorità in quegli ultimi giorni.
Prima che potesse effettivamente riprendere a camminare però, si ritrovò con la faccia schiacciata contro il cemento ruvido dell'edificio che stava controllando, le mani ingioiellate aperte vicino al volto e i piedi piantonati a terra per ridurre l'impatto del resto del corpo. Sicuramente, non si era preparato a una sorpresa del genere, ma i suoi muscoli avevano comunque agito nel migliore dei modi.
Boccheggiò appena, sentendo giusto un lieve dolore alla guancia e il fastidio nell'essersi fatto cogliere alla sprovvista smuovergli l'orgoglio di soldato. 

C'era da dire, comunque, che grazie a quelle peculiarità che tanto aveva denigrato in precedenza, l'impatto non parve destabilizzarlo in altro modo - il dolore, quando lo percepiva, era sempre una sensazione effimera.

Ad ogni modo, a prescindere da tutto ciò,  ecco la conferma ai suoi sospetti: qualcuno aveva deciso di fargli visita.

Il ragazzo imprecò a denti stretti, rendendosi improvvisamente conto di essersi sporcato il cappotto scuro che tanto gli piaceva e che, nonostante il fastidio, non doveva reagire d'impulso: poteva esserci chiunque alle sue spalle, da un ignaro umano a uno di quei fanatici che li perseguitavano da... beh, un po' troppo tempo per i suoi gusti.

«Se vuoi derubarmi, ti avverto che non ho contanti con me» sbuffò, recitando la classica farsa del povero squattrinato con meno enfasi di quanto usasse normalmente. Aveva già sprecato tutte le sue energie nel restare acquattato per ore in attesa di una persona che, a quanto pareva, non si sarebbe fatta viva, non aveva alcuna voglia di sprecare altro tempo - peccato solo che la risposta che ricevette  fu un ringhio gutturale, nato dalle profondità di un corpo animato dal desiderio di ammazzare. Lo riconobbe senza fatica, sentendolo familiare e nulla, al cospetto di quel richiamo, poté impedirgli di sorridere. Oh, quanto gli piaceva!

Un brivido gli corse lungo la schiena, eccitandolo, mentre le mani formicolarono, richiamando a sé la bramosia della lotta, la foga di un corpo a corpo.

Inebriato da quell'improvviso desiderio si mosse svelto, sgusciando fuori dal suo amato cappotto, l'unica cosa che le mani dell'aggressore erano riuscite ad afferrare con una certa concretezza - le spalline imbottite, a loro favore, avevano la capacità di schermare la carne.
Strofinando la pelle del viso contro la parete, dove alcune lievi linee di sangue si andarono a disegnare, si abbassò sulle proprie ginocchia, riuscendo in un attimo a essere a terra e lontano dalle grinfie di colui che aveva osato sfidarlo. Piroettò sulla punta dei piedi al pari di un ballerino di Casatchok e, con l'elasticità di una serpe, si spinse a ridosso di quella figura dietro di sé, ghermendola minacciosamente.

Chiunque avesse assistito a quella scena sarebbe rimasto sconvolto dalla velocità dei suoi movimenti e dalla sinuosità di quel corpo che, a prima vista, avrebbe potuto sembrar tutto fuorché agile. Nel suo metro e ottanta abbondante, con il fisico di un vero guerriero, quel tipo non pareva poter vantare cotanta scaltrezza, eppure era proprio quella a renderlo così letale.


Le dita del ragazzo si strinsero intorno a un collo pallido, lungo e bollente di cui aveva desiderato poter sentire la consistenza per moltissimo tempo, mentre i suoi occhi si persero divertiti in quelli color sangue di Z'èv, colei per cui era arrivato sin lì.

«Shalòm Alexandria Vàradi».
«Shalòm Levi Nakhaš». 
E un sorrisino sinistro si dipinse sul volto di entrambi.    


 

Casatchok: danza tipica cosacca
Shalòm: Ciao/ Buongiorno
Z'èvLupo

(il testo potrebbe essere soggetto a modifiche e/o correzioni)

 

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Capitolo 3
*** - Capitolo secondo: I morti che vivono ***




"Frozen inside, without your touch
Without your love, darling
Only you are my life
Among the dead"  

-Bring me to life (Evanescence)


 

 Alexandria poggiò sul tavolo una tazza fumante, lasciandosi andare sulla sedia. Si sentiva dannatamente stanca, aveva bisogno di riposare dopo le lunghe ore di veglia, eppure l'eccitazione di essersi trovata davanti a Levi e di aver avuto le sue mani strette intorno al collo ancora le vibrava dentro, adrenalina pura che le si muoveva tra le vene - come una sorta di melodia rimasta per troppo tempo taciuta: la ballata del sangue, avrebbe potuto intitolarsi. Ed era al contempo dolce ed estenuante quella sensazione, anche se non si sarebbe mai permessa di confessarlo, in particolare perché non aveva idea da dove scaturisse quel pensiero. Era forse il brivido di aver saggiato il suo estro assassino? Oppure si trattava di altro? Faticava a capirlo anche dopo tutto quel tempo, ma come in altre occasioni non volle approfondire - c'erano altre questioni d'affrontare.

 
Sicuramente, il fatto che in passato suo fratello fosse stato tra i soldati più valorosi degli eserciti dimenticati, che avesse imparato a padroneggiare quasi tutte le armi bianche conosciute nei secoli e persino nello scontro corpo a corpo avesse dato filo da torcere a molti avversari lo rendeva una creatura ancora più affascinante di quanto già non fosse. Dalla sua figura si disperdeva una sorta di aura  impalpabile, eppure terribilmente evidente, che l'aveva sempre affascinata - a tal punto da sviluppare una sorta di perversione nel provare sulla propria pelle la sensazione di essere in balìa della sua potenza, costretta tra le spire di un essere all'apparenza invincibile. 


Nakhaš nella guerra ci era nato e morto, risorgendo e continuando a mietere vite come una sorta di Dio sceso in terra; nelle arterie gli scorreva – oltre al veleno del boa più minaccioso del Re - la furia dei condottieri e lei ne era ammaliata al pari di una bambina con il suo eroe. Sì, Alex era affascinata da lui, era stregata dal primo uomo che avesse mai osato sfidare le leggi di quel mondo per tornare al fianco del suo sovrano; vedeva in lui una scintilla che in sé sentiva essersi spenta da troppo tempo.

Deglutendo, la Chimera-Lupo bevve un lungo sorso della tisana che aveva preparato sia per sé sia per l'ospite, avvertendo sulla lingua il sapore dolce della pesca insieme alla nota pungente dell'ɛvɛn - una delle ultime, si ricordò avvertendo finalmente il gusto di qualcosa che non fosse aria. Dopo lunghissime settimane di astinenza riusciva finalmente a concedersi uno sgarro, ma soprattutto l'illusione di essere ancora umana. Già, perché quella cosetta rossa poco più grande di un chicco di ribes era l'unico oggetto che potesse sostituire le cure di Salomone. 


E lei aveva quasi terminato la propria scorta, ritrovandosi a centellinarne ogni uso.


Mandò giù l'intruglio rossastro sperando di ingerire anche quei pensieri, poi, quando fu certa di non sentire più la sensazione delle dita di lui premute sul collo e l'amarezza di una condanna fin troppo imminente, alzò lo sguardo sul proprio interlocutore.

Levi si slacciò la felpa, rivelando una t-shirt fin troppo aderente e la muscolatura ancora guizzante con cui l'aveva colta alla sprovvista, un dettaglio che Alexandria, notandolo, trovò quasi fastidioso. Se negli anni lei aveva smesso di prestare qualsiasi tipo di attenzione al suo aspetto, anche in vista del fatto che non aveva più nulla per cui combattere, lui aveva continuato a comportarsi come sempre: non doveva aver smesso un solo giorno di seguire le pratiche imparate durante il lunghissimo addestramento militare a Israele. E a differenza sua infatti, il corpo non aveva lasciato posto nemmeno a una curva.

«Allora, che ci fai qui akh?» glielo chiese senza preavviso, cercando ancora una volta di distrarsi dai pensieri poco proficui del momento e mettendo fine al silenzio che dal vicolo in centro li aveva seguiti fino a casa. Per tutto il tragitto Z'èv aveva volontariamente evitato qualsiasi tipo di chiacchiera, conscia di non sapere né come gestire le emozioni che le si agitavano dentro, né di cosa aspettarsi da quella visita inaspettata.  Inoltre, come nella sua vita precedente, aveva preferito tacere piuttosto che intavolare discorsi vuoti atti solo a mascherare le sue ansie, timori che ogni istante si erano fatti più grandi e meno logici e che, inesorabilmente, le fecero tornare alla mente sua madre. Più volte, durante la fanciullezza, quella donna le aveva rimproverato il fatto di non saper intrattenere i propri commensali, allontanando amicizie promettenti o possibili spasimanti, ma Alex aveva compreso i vantaggi di tale atteggiamento solo molti anni dopo, quando l'esigenza era diventata una questione di vitale importanza e Willhelmina le aveva quasi rotto un braccio nel tentativo di spiegarle il suo errore. 

L'Alexandria di quell'istante era il ricordo sbiadito della contessina Vàradi, una fanciulla che tutto aveva in mente tranne che morire e tornare in vita sotto altre spoglie. Quella mocciosa cocciuta era stata la secondogenita di un nobiluomo troppo incline al gioco d'azzardo, un tipo che l'aveva obbligata a sposarsi entro la fine del 1743 con un Duca austriaco di poco conto, il cui patrimonio avrebbe potuto risanare i vari debiti e restaurare il nome della famiglia - ma nessuno, a quei tempi, avrebbe mai pensato che un'imposizione del genere potesse condurla alla morte. 

Nakhaš la fissò di rimando per un tempo che le parve infinito, forse sovrapponendo l'immagine che aveva di fronte con quella di quasi trent'anni prima, cercando in tutti i modi di scorgervi qualcosa di diverso e sconosciuto. Doveva essersi aspettato tutt'altro dalla giovane donna che aveva davanti, eppure lei non aveva fatto altro che tenere i capelli più lunghi e smettere di tingersi - dopotutto non aveva più senso nascondere il grigio caldo della sua chioma, visto ciò che l'aspettava. E così, quasi deluso, si concesse un sospiro: «Se ti sforzassi di essere carina otterresti molto di più dalle persone, sai?» la riprese facendo una smorfia ironicamente scocciata e rievocando il commento che le sorelle erano solite farle quando tornavano a casa dopo le lunghe passeggiate in città.

Z'èv però non gradì affatto il commento e, tagliente, troncò quella stupida conversazione prima che potesse spingersi verso altri, dolorosi ricordi: «Le ragazze carine sono le prime a morire». 
Il silenzio che calò nella stanza subito dopo fu pregno di palpabile imbarazzo; quella che nella testa di Levi avrebbe dovuto essere una battuta innocua si era trasformata in una lama sottile, capace di punzecchiare i nervi ancora scoperti di una ragazza che non aveva mai realmente accettato la propria dipartita. E lei ne era conscia, terribilmente, così come era consapevole del fatto che il fratello non avrebbe mai osato ribattere - per quanto quel tipo potesse apparire ingenuo, spontaneo e alle volte tra le nuvole, forse persino un po' burlone, conservava in sé tutt'altra persona e, proprio quella, gli avrebbe impedito di aggiungere altro.  

«Ad ogni modo,» la padrona di casa puntò il proprio sguardo in quello di lui, studiandolo: «vuoi rispondermi?»  Le sarebbe piaciuto capire cosa frullasse nella mente millenaria di quell'uomo, accaparrarsi ogni suo pensiero per non dover soffrire l'attesa, ma sul viso dell'israelita Z'èv incontrò solo una maschera di divertimento che non pareva volerla aiutare. 
La cicatrice chiara che segnava lo zigomo di Levi si raggrinzì appena e il suo sguardo serpentino, fiero e al contempo indagatore, cercò di metterla a disagio insieme a quella smorfia ambigua - espressione che nel suo insieme le fece torcere lo stomaco.

Il Generale del Re era un'enigma su due gambe e lei non aveva ancora imparato a decifrare nessuna delle sue azioni, anche se lo desiderava con tutta se stessa.

«Quanti anni sono passati dalla morte di Salomone?» la domanda gli uscì di bocca con una strana nota di malizia, poi, lento, prese un sorso dall'intruglio che lei gli aveva porso senza però smettere di fissarla. Perché la stava scrutando a quel modo? E per quale perversa ragione doveva tirare in ballo una questione tanto delicata? Alexandria non ne aveva alcuna idea e, se avesse potuto, avrebbe preferito non farsela mai.
«Cosa c'entra akh? Sei venuto fin qui nella speranza di poter sfogare tutte le tue frustrazioni represse? Beh, se speri che pianga o chieda scusa, sappi che hai fatto un viaggio a vuoto» e appena quelle parole le uscirono di gola i ricordi provarono ad aggredirla, violenti come sempre, impietosi al cospetto di una peccatrice che non sapeva in che modo trovare la redenzione anelata. Un nome, solo un ammasso di lettere pronunciate dalla Chimera di fronte a lei e inesorabilmente il suo equilibrio emotivo aveva preso a vacillare, facendole alterare i connotati del viso e tradendo ciò che aveva appena affermato con tanta falsa sicurezza. 
La pelle alla base del setto prese a raggrinzirsi appena, le labbra le si assottigliarono in una linea scura e i canini si fecero affilati quanto lame, portandola a un passo dall'assumere un primo abbozzo della creatura che era realmente - e se davanti a lei non ci fosse stato il primo di loro a sperimentare tanto orrore, dubitava sarebbe rimasto impassibile.

Nakhaš però, a differenza di altri, non aveva mai osato distogliere lo sguardo dal suo viso, nemmeno una volta. L'aveva vista nelle condizioni peggiori, eppure nei suoi occhi non era passata altra scintilla se non quella della meraviglia. Lui guardava i suoi fratelli nel modo in cui si osservano le cose belle e, seppur Z'èv sapesse di non essere mai stata graziata con un simile dono, neppure nella vita umana, quel modo che Levi aveva di fare l'aveva rincuorata nei giorni in cui specchiarsi era apparsa come la cosa più meschina del mondo. 

E poi, in passato, le aveva detto di trovarla molto più affascinante in morte che in vita.

D'un tratto l'ospite spostò le proprie attenzione, quasi ricordandosi qualcosa e, mordendosi il labbro inferiore, prese a soppesare con una certa evidenza le parole da usare. 
«No, akhòt, non potrei mai desiderare qualcosa del genere, lo sai» ammise, indurendo lo sguardo sul vuoto, quasi a rimproverarla per aver anche solo pensato a una simile eventualità. E in effetti, se non in situazioni che avevano rasentato l'estremo, suo fratello non aveva mai osato né alzare la voce nei suoi confronti, né ferirla: con chi amava, Levi era buono come il pane.


«Ventisei anni».

La voce di Alexandria spezzò il silenzio solo dopo alcuni istanti, intenerendola a tal punto da farla sentire una sciocca. Già, perché rispondere a quella domanda equivaleva ad accettare le persecuzioni della memoria che tanto aveva cercato di sopprimere - peccato che, con il suo arrivo, Nakhaš avesse già allentato la sua resistenza a quelle continue vessazioni.

«Quanti corpi si possono cambiare in trecentododici mesi?» 


La Chimera-Lupo aggrottò le sopracciglia. Cosa si nascondeva dietro a quella sorta di inutile interrogatorio? Dove voleva arrivare? Si stavano rivangando argomenti la cui natura era più dolorosa e oscura di molti altri e non aveva idea del motivo per cui suo fratello volesse così tanto sfidare la sutura che si era malamente cucita sul cuore.
Strinse le mani in grembo, imponendosi di farsi vedere meno interessata di quanto in realtà non fosse: «Cosa stai insinuando Levi?» 

Lui sorrise, tornando a fissarla.

«E' vivo, Z'èv» esordì in un sibilo, leccandosi via dalle labbra il sapore di quelle parole: «Lui non ci ha mai lasciati» continuò, facendola improvvisamente irrigidire sulla sedia. Lo sguardo gli brillò in modo febbrile e il sorriso sul volto s'allargò quasi senza volerlo. L'euforia, al pari del veleno, gli stava intossicando il sangue e la mente - pensò la sorella. Il Generale doveva sentire l'eccitazione montare al solo pensiero di potersi ricongiungere con l'uomo che aveva considerato il proprio migliore amico, unico e vero fratello sia nella vita prima, sia in quella e la cosa gli stava ovviamente facendo perdere il lume della ragione.
La Chimera-lupo poteva avvertire la sua eccitazione persino dall'altro capo del tavolo, ma, al posto di condividerla, ne rimase impaurita. E se Levi fosse impazzito, durante quegli anni? Dopotutto si trattava pur sempre di una creatura millenaria a cui era stata tolta l'unica persona a cui fosse mai stato fedele, la solitudine poteva realmente aver leso la sua psiche. Ovviamente, non c'era solo quella convinzione a dargli tanta gioia. Il suo buonumore doveva essere dettato anche dal fatto che, finalmente, avesse trovato qualcuno a cui parlare di quella follia, una complice; in fin dei conti doveva aver cercato tutti e sei i fratelli, pur di rimettere insieme qualcosa andato distrutto, e il primo di loro che aveva trovato doveva essere stata lei - dubitava fortemente di poter essere la sua unica scelta.

Il Generale si sporse in avanti, trepidante. Lei lo avrebbe compreso, gli sarebbe stata accanto e, di ciò, ne era terribilmente certo, Alex poteva leggerglielo in viso; peccato che visti i trascorsi non era pronta a dar più fiducia a qualcuno che non fosse se stessa, anche se si trattava di Levi.

«Perché diavolo sei venuto, akh?» 
«Come?» il ragazzo batté le palpebre: «Alex... Salomone è vivo, lo capisci?» le sue braccia si allargarono quasi a dirle "guardami, non ti sto nascondendo nulla", eppure più istanti passavano, meno la pazienza di lei pareva essere temprata a sufficienza d'affrontare simili sciocchezze - perché non poteva trattarsi d'altro.

Davvero Levi aveva scordato ciò che era successo? Possibile che dopo tutto quel tempo la sua speranza fosse ancora così viva?

La contessa Varàdi ringhiò: «Salomone è morto, Nakhaš!» Dentro di lei il sangue aveva preso a ribollire. C'era qualcosa di crudele nella convinzione ottimista di quell'essere, una sorta di malignità sottile che la sorella non si sarebbe mai aspetta. Quelle parole le entrarono nella carne al pari di lame, lacerarono in lei ciò che aveva cercato di rinchiudere nelle profondità della propria mente: «E se tu lo avessi dimenticato, sono stata io a far sì che accadesse» sentenziò infine, alzandosi furibonda dalla sedia. 


Lei era l'origine del dolore che aveva spezzato la famiglia e lui, con quell'affermazione, glielo stava ricordando.
Era stata lei  a far sì che quei pazzi del Cultus Sanguinis  riuscissero a sparare un colpo dritto in mezzo al petto di Salomone. Lei che aveva dovuto guardarlo precipitare nel vuoto mentre il suo sangue veniva sparso sulle frange dell'erba.


Era per colpa di Alexandria Orsòlya Varàdi se l'impatto tra il proiettile e il torace del Re era stato così forte e imprevisto da spostarlo fino al ciglio della scogliera, lì dove aveva perso definitivamente l'equilibrio ed era caduto in mare. Il suo corpo, ricordava ancora, era stato inghiottito dall'acqua con un suono strano, come un sasso buttato in un pozzo - e nonostante gli anni continuava a sentire quel suono vibrare con estrema nitidezza fino ai suoi timpani. Rimembrava ancora di essersi buttata tra le onde subito dopo di lui, in fin dei conti non aveva nemmeno dovuto pensare a cosa fosse più importante tra la sua vita o quella di lui.  Aveva seguito il suo Signore oltre il limitare del terreno senza concedersi alcuna esitazione, esattamente come aveva fatto in ogni istante dal momento in cui le aveva donato quella nuova esistenza. Per Salomone avrebbe fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, anche rinunciare a tutto ciò che aveva sempre desiderato. Quello che Z'èv provava per l'antico Re degli Ebrei non era semplice gratitudine, ma totale lealtà, inimmaginabile fiducia, asserzione e annullamento totale.

Alex aveva cercato il suo Sovrano per interminabili e terrificanti minuti, annaspando in quell'ambiente che tutto era, tranne che consono a un lupo come lei, eppure non ottenne nulla se non tossiti e occhi brucianti. Persino Zenas si era tuffato per cercare l'uomo a cui era fedele, ma alla fine, dopo un tempo che era parso infinito, aveva costretto la ragazza fuori dall'acqua prima che potesse annegare anche lei.

«Domani mattina ti voglio fuori da qui, akh».
 Il suo fu un ordine, il primo che si fosse mai permessa di rivolgere a una creatura nettamente superiore a lei e, con la stessa convinzione con cui si rivolse al fratello, cercò subito dopo di scacciare quei terribili ricordi volgendo lo sguardo altrove. Non li voleva con sé, né lui né loro; ciò che desiderava era solo scordare quella colpa, dimenticarsi della presenza opprimente della spada di Damocle che aveva fatto calare sulle teste dell'unica famiglia che le era rimasta, condannandone tutti i membri. E se Levi credeva di poterla persuadere a fingere che nulla fosse realmente accaduto si sbagliava di grosso. Era inutile riempirsi la testa d'illusioni, non c'era più modo di riportare indietro ciò che avevano perduto, soprattutto se quel qualcosa - o meglio qualcuno - era l'unica persona in grado di aprire i cancelli dell'aldilà.

Nakhaš si alzò a sua volta, provando goffamente ad afferrarle una mano: «Ti giuro che è la verità, akoth» ancora una volta si morse il labbro, esitando: «Io... io l'ho visto, Z'èv! O meglio... l'ho sentito».

Silenzio.
Nella stanza si poté udire solo il respiro affannato del Generale che, come una litania, attirò nuovamente a sé lo sguardo della giovane.

Con circospezione lei scrutò i lineamenti dell'interlocutore, soffermandosi sulle labbra che avevano pronunciato quelle parole. Giurare, che termine effimero, pensò. Di quei tempi un giuramento aveva lo stesso valore della polvere, le parole erano solo parole, non valevano più quanto l'onore o qualsivoglia morale di un uomo. L'avvento del ventunesimo secolo si era portato via tutto ciò in cui lei e i fratelli avevano sempre creduto, dando spazio ad una superficialità quasi nauseabonda. Eppure, mentre pensava a quanto effimero fosse il significato di un tale verbo, si ricordò che era stato Levi a dirlo, a giurare. Lui che era nato in un'epoca in cui una promessa valeva quanto la vita, che una volta data la propria parola si batteva fino allo stremo per onorarla. Lui non usava certe frasi solo per gioco, ci credeva veramente.

E se fosse stato davvero, vero? 
Se ciò che suo fratello stava dicendo fosse stato reale? Lei cosa avrebbe fatto? 

Tutto. Avrebbe persino lacerato il mondo dall'interno, pur di riavere Salomone.

«Spiegami» incitò tenendosi lontana, pronta a reagire in caso si fosse trattato dell'ennesima cavolata, eppure sentendo le viscere stringersi e la cicatrice sulla bocca dello stomaco dolere come se avesse vita propria, richiamata improvvisamente dalla voce di colui che gliel'aveva procurata. 
Lo sguardo di Levi brillò, ma l'espressione rimase quanto più seria possibile, preannunciando un discorso tutt'altro che semplice da condividere - forse nemmeno lui era così certo della propria memoria, forse sapeva di non avere alcuna prova a confutare il suo racconto.
«E' successo qualche mese fa» iniziò poi, schiarendosi la voce: «Stavo passeggiando nei pressi di Ponte Carlo, in direzione della città vecchia. Come sempre il percorso pullulava di turisti e gentaglia varia; la conosci anche tu, Praga» Z'év annuì. Sì, la conosceva abbastanza bene da rammentare quei dettagli, dopotutto era sempre stata uno sbocco commerciale utile a ottenere informazioni e scambiare oggetti dalla dubbia provenienza e, sin dal giorno in cui vi aveva messo piede per la prima volta, sapeva quanto copiosa fosse l'affluenza da tutta Europa. 
Il fratello si bagnò le labbra: «Insomma, ero appena sceso dall'autobus e mi stavo incamminando verso casa quando... qualcosa mi ha fatto fermare» fece un breve pausa, afferrando tra i pensieri quello giusto: «Ero lì, fermo come un imbecille sul limitare del Ponte e sentivo il bisogno di voltarmi. Era qualcosa di trascendentale, una sorta di invocazione... e ho risposto. Alex... io non so cosa mi abbia spinto a farlo, mi sentivo come in trance, non avevo più volontà sul corpo e più secondi passavano più la situazione peggiorava e-»
«Ti eri drogato per caso?» gli domandò lei sperando di trovare una vera spiegazione a quella storia. 
Levi ringhiò. Nonostante fosse un verso completamente estraneo alle serpi provò a minacciarla nell'unico modo che un lupo potesse considerare pericolo. 

«Ascoltami, ti prego. Alex, mi sono ritrovato in mezzo a una marmaglia di studentelli del cazzo, capisci? E la cicatrice...» con una mano Levi toccò il pettorale destro, lì dove nella carne era inciso il simbolo di Salomone, il tributo pagato per riavere indietro la sua anima: «il marchio ha pulsato. Lo ha fatto con una forza pari solo a quella del momento in cui sono stato riportato in vita. Non capivo. Il mio corpo stava reagendo a qualcosa che non aveva forma e le mie mani tentavano di agguantare qualcosa a cui non sapevo dare un nome... ma io lo sentivo, percepivo il suo richiamo! E poi» fece un'altra pausa e subito dopo Z'èv  lo vide mettersi a frugare nelle tasche del cappotto al pari di un forsennato. Ci volle qualche istante, poi Nakhaš tirò fuori una targhetta grande quanto un cellulare e gliela porse, costringendola ad avvicinarsi.
 «E' lui, Alexandria. Non può essere altrimenti».
Quando il suo sguardo tornò sul viso del fratello, alla ricerca di una spiegazione più approfondita, ciò che vi scorse fu una supplica tale da farla tremare: Levi le stava chiedendo un ultimo atto di fede.


 

ẖayá̇h : creatura/creature
Akh : fratello
Akhòt sorella
Ponte Carlo : ponte che collega Praga vecchia con la città nuova
ɛvɛn : pietra - nel testo il termine è utilizzato per indicare un elemento derivato dall'alchimia e in grado di sanare il corpo delle Chimere.

(il testo potrebbe subire modifiche o correzioni lungo la stesura. I dati storici non sempre rispecchiano la realtà, ma vengono riadattati per far funzionare meglio la narrazione.)

 

 
 

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Capitolo 4
*** - Capitolo terzo: Patti di Sangue ***





Capitolo Terzo

"I never meant to be the one who kept you from the dark
But now I know my wounds are sewn

Because of who you are
I will take this burden on and become the holy one
But remember I am human"

 

Saviour (Black Veil Brides)

 

Un tonfo anomalo riecheggiò per la sala giungendo fino alla camera da letto, attirando le attenzioni di Alexandria che, presa alla sprovvista, sobbalzò fuori dalle lenzuola con uno scatto tutt'altro che aggraziato. 
I suoi piedi toccarono il parquet prima ancora che lei potesse realmente realizzare quel movimento e, sentendo il cuore martellarle nel petto al pari di una locomotiva, si ritrovò spaesata di fronte all'inaspettato innalzamento d'adrenalina. Non le capitava più di venir colta di sorpresa a quel modo, dopotutto i tempi delle fughe e delle lotte sembravano essere un ricordo lontano, frammenti di una vita che non le apparteneva ormai da molto e, di conseguenza, i suoi sensi avevano smesso di essere reattivi come in passato. Grazie al cielo però, dove il suo corpo umano rallentava, arrivava la Chimera - così, in meno di una manciata di secondi, le sue gambe la portarono dritta in soggiorno, lì dove, armata della sé più feroce e pronta a dar battaglia a chiunque si fosse introdotto in casa propria, si permise un ringhiò gutturale.

Come ogni bestia, anche alla giovane non piaceva l'idea che qualcuno potesse invadere i suoi spazi senza prima averle chiesto il permesso e per questo, quando oltrepassò la soglia della stanza, avvertì il desiderio quasi asfissiante di difendere i propri territori; peccato che ad attenderla non vi fosse alcun malintenzionato - o quantomeno, non dichiarato.

Con le braccia colme di shoppers colorate e tra i denti un sacchettino da bar, Levi si arrestò nei pressi del tavolo da pranzo, sbattendo più e più volte le palpebre in un gesto di totale sorpresa - non doveva aver previsto di farsi scoprire così presto. 

La ferocia con cui l'istinto di Lupo si era palesato in Alexandria svanì in fretta, lasciando posto a una sorta di esasperazione.

Nel torpore del sonno doveva essersi completamente dimenticata di lui e del suo pernottamento lì, eppure, si rimproverò, avrebbe dovuto capire che si trattava del fratello dal rumore lieve dei suoi passi, una specie di strascichio simile all'avanzare dei pitoni, eppure non lo aveva fatto: perché? 
La camminata di Nakhaš era sempre stata quella più singolare tra i membri della famiglia, ma nonostante questo lei era riuscita a confonderla con quella di un umano qualunque. Che fosse passato troppo tempo dall'ultima volta che vi aveva prestato attenzione e avesse finito con lo scordarla? Che lui non sapesse più muoversi con tanta destrezza? Z'év non seppe dirselo - e la cosa non le piacque affatto. Odiava notare come il tempo, d'un tratto, avesse ripreso a scorrere persino per loro, come fossero improvvisamente tornati a essere fragili al cospetto di qualche lancetta: erano stati eterni per così tanto, abituarsi alla normalità era un processo fin troppo sfiancante.

Sospirando in un ultimo tentativo di liberarsi dall'agitazione che l'aveva colta, Alex si mosse verso il fratello ancora sommerso dagli acquisti. Avvertendo l'acquolina farsi strada nella bocca, gli sfilò dai denti quello che doveva essere il suo ultimo tentativo di persuaderla ad accettare la richiesta fattale la sera prima.

Dopotutto, ne era certa, doveva essere convinto che con un cornetto caldo si potesse ottenere qualsiasi sì - e in passato, con lei, era realmente stato così.

Appena le fauci di Nakhaš furono libere le lanciò un sorriso tenero, un grazie quasi sussurrato che lei finse di non udire e che precedette l'accatasto delle borse su qualsiasi sedia libera. La sorella osservò i suoi gesti con nostalgia e curiosità, rimettendo insieme i pezzi del rocambolesco racconto che aveva accompagnato il loro rientro a casa. Da quello che le aveva sommessamente accennato, svoltando tra una via e l'altra della cittadina, Levi era partito da Praga con uno zaino capiente e qualche documento di scorta, ma alla fine era arrivato in Italia con in tasca solo il portafogli e addosso i vestiti che non cambiava ormai da due giorni; nel mentre c'era stato un piccolo battibecco con uno dei tanti seguaci del Cultus che, pur senza la testa della Chimera, era riuscito a portarsi via la sua biancheria, uno spazzolino usato e un paio di magliette prese in qualche negozio di poco conto durante il tragitto. 
Era innegabile dire che l'aggressore fosse tornato dai confratelli a mani vuote, soprattutto visto che quelle cianfrusaglie sarebbero state poco utili per arrivare a un qualsiasi scopo: l'alchimia era un'arte strana, avrebbero dovuto saperlo. Gli oggetti servivano a poco senza un corpo o un'anima a cui legarsi.

Alexandria a quel punto socchiuse gli occhi. Se si escludevano alcuni drammatici eventi, molti dei quali erano stati più una scocciatura a dire il vero, gli incontri e scontri con gli adepti di quel gruppo di folli erano stati per lo più avventure tragicomiche e l'aneddoto di Nakhaš non pareva essere da meno. 
Per quanto ci avessero provato, quei tizi non erano ancora riusciti a combinare nulla di buono - a parte uccidere Salomone, anche se persino in quel caso il loro successo si era svelato il più grande dei fallimenti: senza il Re, nessuno avrebbe scoperto i segreti della sua Ars.

La Contessa si volse, dirigendosi in cucina con il chiaro intento di preparare la colazione per entrambi. Nonostante senza le ɛvɛn i sapori fossero solo una sensazione vaga sulla lingua, non volle rinunciare a quel raro momento di compagnia; non aveva idea di quando, e se, si sarebbe ripetuta una simile circostanza, così lasciò l'ospite a tirar fuori la sfilza di vestiti che si era comprato durante quell'uscita mattutina.

«Ti va un caffè?» gli domandò una volta arrivata davanti alla credenza e prima di lanciargli uno sguardo fugace da oltre la spalla, in modo d'assicurarsi che l'avesse sentita. Nel compiere quel movimento tanto innocente, sotto alla stoffa spessa della felpa che aveva indosso, Z'év sentì i muscoli del trapezio tirare, ricordandole che lo scatto avuto poco prima non l'avrebbe perdonata. Il suo corpo ormai doleva spesso, ad ogni torsione un po' più inusuale piccole fitte le ricordavano lo scorrere inclemente del tempo, ma lei provava a non darci peso, in fin dei conti se non aveva ancora iniziato a cadere a pezzi non c'era nulla di cui preoccuparsi, no? 

Levi non rispose, troppo occupato a rimirare i propri acquisti, e lei non si premurò di chiederglielo ancora. Appoggiando i cornetti ancora caldi sul davanzale della cucina, prese a tirar fuori moka, tazzine e macinato per mettersi poi ad assemblare con sapienza ogni cosa.

Svitò la ferraglia, poi ne riempì il fondo con l'acqua. Aggiunse un pezzo e poi il caffè, ma prima che potesse accendere il fornello una voce fin troppo vicina la fece sussultare, bloccandole il cuore in gola.
«Ti va di darmi una risposta?» 
Andando a sbattere contro una delle tante ante dell'arredo, e mugolando sommessamente per la botta, Alex strinse forte le mani sulla moka, in modo da evitarsi di perderne la presa e fare un disastro rovesciando tutto. 
Ancora una volta suo fratello l'aveva colta di sorpresa, ma ciò che più di tutto la stupì fu l'espressione confusa che gli vide apparire in volto subito dopo. Le sue pupille, già di per sé strette, si fecero ancora più sottili e le labbra vagamente violacee si schiusero appena.

Aveva provato dolore e lui se ne era accorto. 

Peccato che le Chimere non provassero male per botte di così poco conto; per ferirle serviva altro. La sofferenza fisica per loro era una sensazione rara, poche cose potevano davvero fargliela provare. Il marchio di Salomone, l'alchimia, l'argento e le ferite gravi erano ciò di cui avevano certezza - tutto il resto invece veniva avvertito come un pizzicotto: alle volte era fastidioso, altre meno. Eppure quel mugolio era parso a entrambi molto più umano, di quanto avrebbe dovuto.

Levi allungò una mano verso di lei, ma prima che potesse raggiungerla Z'év si scansò: «Non è nulla, mi è venuto istintivo».
«Non dovresti più averli, certi istinti» le fece notare e lei si trovò nuovamente costretta a voltargli le spalle. Suo fratello non doveva in alcun modo scoprire quanto debole la sua carne stesse diventando, la sua era la pietà che meno desiderava.
«Abitudine, akh. Ti ricordo che è dalla notte dei tempi che ci fingiamo umani» tagliò corto rimettendosi a preparare il caffè. Mentire, ovviare e fingere che non ci fosse nulla di diverso dal solito era l'unica alternativa rimastale per vivere dignitosamente quella vita - Nakhaš non doveva impedirle di avere almeno quello.

«Allora,» Levi sembrò crederle, o forse comprese che insistere fosse inutile, perciò tornò alla carica: «vieni con me?»

Durante le poche ore di sonno che era riuscita ad avere, la Contessa Vàradi si era ritrovata a sognare - e quindi rivivere - la tragedia avvenuta ventisei anni prima. Aveva percorso a ritroso il medesimo incubo che per troppo tempo l'aveva ossessionata, ma a differenza di ogni altra volta, quella notte, al collo del suo Signore aveva visto la targhetta che il fratello le aveva dato e a scandire il tempo c'era stata la sua voce.

E' vivo.

Salomone è ancora qui.
Vieni con me.

Quelle parole avevano assunto la connotazione di un mantra e ora, pensandoci, Alexandria riusciva a sentirle un po' più reali. E se ci fosse stata davvero una possibilità? Se in qualche modo il loro Re fosse davvero riuscito a sopravvivere?

Ma allora perché non li aveva cercati?

Si morse il labbro. Non aveva alcuna risposta a cui aggrapparsi, men che meno tutta quella situazione le pareva avere un senso - eppure, proprio perché non vi era alcuna logica che lei potesse comprendere, un fondo di verità poteva esserci.
Salomone aveva sempre avuto una visione lungimirante del futuro, probabilmente data dai secoli di vita, ma la sua mente negli anni era anche diventata un labirinto invalicabile di nozioni, pensieri e ricordi alle volte confusi, come per tutti loro; ad ogni trasmutazione, così come dopo qualsiasi cambio di corpo, sia le Chimere sia il Re avevano dovuto dire addio a piccoli pezzi di memoria, ritrovandosi alle volte persi all'interno della loro stessa testa.

Cosa le impediva, quindi, di assecondare quella follia? Cosa la teneva ancora ancorata lì, in quel trilocale dalle pareti pallide e perennemente in disordine? Dopotutto se il Sovrano d'Israele fosse realmente stato vivo, come Nakhaš supponeva che fosse, si sarebbe potuta liberare dal peso di una colpa che da anni si portava appresso: quella di aver condannato tutti loro. 

Cosa la frenava, dunque? Tanta paura.

Sì, perché seppur nei suoi quasi tre secoli di vita Alexandria Vàradi avesse visto cose inimmaginabili e compiuto azioni indicibili, temeva l'ignoto che aveva di fronte ai propri occhi e quei dubbi annichilanti a cui non sapeva se avrebbe mai trovato risposta. Non desiderava affatto alimentare con speranze fittizie un cuore già di per sé malandante e l'idea di perdere nuovamente qualcosa, o qualcuno di infinitamente importante, la privava del fiato.

Per alcuni istanti le sue mani smisero di avvitare la moka, sfidando la forza di volontà sempre più vacillante. Reprimere l'istinto di voltarsi in direzione dell'altra stanza divenne una battaglia impari contro il suo corpo, eppure provò a farsi forza in tutti i modi - anche se era innegabile il fatto che il nome sulla targhetta rubata la stesse chiamando a gran voce. 
Eppure... eppure quello non era altro che un nome vuoto, un conglomerato di lettere che non avrebbe dovuto suscitarle alcun desiderio, ma lo faceva, ogni ora un po' di più. 

E se fosse stato solo un pessimo scherzo della mente? Magari i sensi di colpa stavano dando vita ad allucinazioni incontrollate e, forse, persino Levi ne era stato, così come era anche in quel momento, vittima. Dopotutto chi, tra le Chimere, poteva realmente dire che le loro menti non fossero state contaminate dall'Ars?

«Akh... » la voce di Z'év uscì come un sussurro e lei si ritrovò ad abbandonare definitivamente l'idea di avvitare la ferraglia che teneva tra le dita. 
Non aveva alcuna idea di cosa fosse giusto fare, non sapeva se dar fiducia alla Chimera più antica del mondo o cedere ai dubbi, però era conscia di non poterlo trattenere lì, anche se lo desiderava con un'inspiegabile intensità. Levi le era mancato, così come ogni giorno sentiva vuoto quell'angolo di mondo in cui si era rintanata. La sua mishpakhá aveva creato un buco incolmabile al centro del suo petto e persino dopo quasi tre decenni la rivoleva con sé. 

Alex socchiuse le palpebre, ricacciando indietro quei pensieri e le lacrime che sentiva bruciarle gli occhi. Doveva lasciare andare Nakhaš, doveva permettergli di inseguire quella speranza prima che anche per lui fosse troppo tardi, quindi provò a mettere insieme le parole migliori per proseguire la discussione. 
Appena quel pensiero prese forma nella sua testa però, una carezza diaccia le si andò ad appoggiare sulla nuca. 
Sentì le dita di lui infilarsi con premura, forse addirittura cautela tra le ciocche color cenere e un brivido le corse irrefrenabile lungo la schiena, facendola sussultare. Le volte in cui suo fratello si era concesso gesti di tale intimità avrebbe potuto contarli su una mano, eppure, nonostante la rarità, li aveva sempre trovati rilassanti, appaganti.

Da oltre il capo lo udì schiarirsi la gola: «Non ho nulla da darti, in cambio...»  
Z'èv si strinse nelle spalle, d'un tratto avvertendo il vacillare delle proprie certezze farsi sempre più intenso, tanto da diventare uno scossone che, era certa, le avrebbe fatte crollare. 
«Tutto quello che puoi fare è donare tu, a me, fiducia. Lo so che è difficile, che ci sono migliaia di motivi per mandarmi a quel paese e vivere la vita che non hai mai potuto avere. Lo so, credimi» le dita di lui sfiorarono appena il collo della ragazza, scivolarono giù lungo la pelle per poggiarsi poi sulla schiena: «Però io, Levi Nakhaš, figlio di Yoel e Generale del Re, ti sto implorando di venire con me. Alex...» fu impossibile, per l'udito fine del Lupo, non notare la titubanza che d'improvviso aveva invaso il tono del fratello, una punta lieve di timore che non si concedeva mai; non doveva essere facile, per il grande Generale dell'esercito d'Israele, implorare qualcuno.

In quel silenzio però, nella fatica e nelle incertezze di lui, la Contessa ebbe modo di mettere fine a quel supplizio agrodolce: «Okay» soffiò, prima di stringere i denti sulla lingua. Non ce la faceva più a combattere le sue richieste, il suo desiderio di averla con sé in un'ultima - e possibilmente distruttiva - avventura: «Okay, Levi... ti seguirò. Però se questo... tizio non fosse Salomone, ti prego di non trascinarmi altrove. È l'ultima vita che abbiamo, non mi va di sprecarla a rincorrere fantasmi». Il cuore le martellava nel petto, mentre il brivido che le era piacevolmente corso lungo la schiena pochi istanti prima diede forma a una pelle d'oca incontrollata. Aveva ceduto, ma dubitava ancora fosse la scelta più saggia, viste le condizioni del suo corpo.
Levi a quel punto scostò la mano e lei si sentì privata di qualcosa, forse della forza con cui, infine, aveva acconsentito. 
«Kamuvan, akhotOra posso avere il mio caffè?»



 

 

Medio oriente, notte dei tempi

Levi sentì un dolore quasi lancinante squarciare la pace in cui era sprofondato, lì dove il freddo e una spessa cortina nera lo avevano avvolto al pari delle braccia delle sue amanti occasionali. Si sentì bruciare, arso da fiamme che non poteva vedere ma solo percepire, così provò a gridare, senza però ottenere alcun risultato. La gola era secca, tanto che le sue urla furono afone. La sua trachea non era altro che un fiume in secca, un deserto privo di oasi. 
Si dimenò in quella sofferenza cercando di capire cosa stesse succedendo intorno e dentro di lui, ma non riuscì a vedere nulla, solo il nero più assoluto, una cortina impossibile da dissipare. Gli sembrò di essere dormiente, le palpebre calate e incollate tra loro, eppure era certo di non esserlo: una sofferenza simile a quella che stava provando avrebbe resuscitato persino i morti. 

Che fosse allora finito nella terra dei diavoli? Come?

Lui, che era stato un servo fedele, un ebreo che si era battuto oltre che per il proprio sovrano per l'unico Dio in cui gli avevano imposto di credere, come poteva essere finito in quell'inferno?
Era forse una punizione per le molteplici vittime che aveva mietuto sul campo di battaglia nei suoi quindici anni di servizio all'interno dell'esercito di Re Davide e poi di Salomone? Non capiva. Non trovava alcuna spiegazione che potesse placare i suoi dubbi.

Levi iniziò a toccarsi il corpo: dapprima le gambe, tese nello spasmo di quelle atroci sensazioni e poi il torace, lì dove sentiva scaturire le fiamme che lo stavano lentamente bruciando. La pelle sotto alle dita parve essere fragile come un guscio vuoto e temette che a furia di tastare potesse aprirsi le carni, trovandosi l'interno privo di organi. 
A quel pensiero smise di toccare e subito un brivido freddo gli corse lungo la schiena, ma nemmeno la paura fu sufficiente per placare l'orribile sensazione del sole addosso - dentro persino! - che con la sua maestosità provava ad annientarlo e rinsecchirlo come una salma abbandonata tra le dune. Sabbia alla sabbia, ma in quel buio non vi era nulla di paragonabile al suo amato deserto.

Cercò di gridare ancora una volta, chiamando Salomone e sperando che almeno lui potesse sentirlo, ma nulla, solo il silenzio riecheggiò nelle orecchie.
Dove sono?, si chiese, sentendo lacrime di paura scendere lungo le guance. Anch'elle, che avrebbero dovuto dare almeno un lieve sollievo, parvero ruscelli bollenti sulla pelle già martoriata e, inesorabilmente, il Generale pensò che presto gli avrebbero corroso la cute, incidendo canali fatti di carne viva. Qualcuno mi aiuti, pregò, senza però ottenere risultato.
Perché non riusciva a svegliarsi da un simile incubo? Che lo stessero squartando vivo nella vita al di là delle palpebre chiuse? Perché dovevano essere per forza chiuse, non vi era mai stato al mondo un nero così denso come quello del sonno, nemmeno la notte, che dalla finestra della sua stanza era sempre stata puntellata di stelle, tante da mozzare il fiato anche all'uomo più insensibile - e le lacrime scesero ancor più copiose a quel pensiero.

Nei suoi ultimi venti inverni, Levi non ricordava di aver mai pianto a quel modo. Sì, era accaduto quando ancora era bambino, ma una volta iniziati gli addestramenti marziali quel lusso era stato bandito dai suoi occhi dorati - nessun soldato doveva farsi vedere fragile, men che meno poteva permetterselo un uomo della sua importanza. In quel momento però gli fu impossibile trattenersi, l'ignoto e l'inferno erano i suoi timori più grandi.

E così si ritrovò a pregare che tutto cessasse, che qualcuno corresse in suo soccorso, ma nessuno si presentò. Avrebbe sofferto all'infinito, dibattendosi come una tigre in gabbia e poi, semplicemente, sarebbe perito in quell'agonia senza fine. Vi erano forse alternative?

In risposta a quella silenziosa domanda il dolore parve iniziare a scemare. Che l'incubo stesse volgendo al termine? Ma no, diamine! Non poteva essere un banale cattivo sogno, quello che aveva provato era vero come la sua stessa esistenza o le else delle spade che brandiva quotidianamente. Era una sofferenza tangibile. 

Provò a inspirare, ma non percepì l'aria entrare nei polmoni, solo vuoto. Titubò. Cosa stava accadendo? Che fosse già morto e in attesa del giudizio divino?

Un suono leggero lo fece distrarre.

Levi scosse la testa, tastò lo spazio intorno a sé allargando le braccia e cercando qualcosa che non avrebbe saputo ben identificare. Un altro suono, questa volta più vicino e nitido, lo raggelò. Era stato un sibilo, ne era certo, e quei versi potevano essere prodotti solo da una cosa: serpenti. Ma come potevano esserci dei rettili nell'aldilà? No, ciò che stava udendo dovevano essere  solo delle allucinazioni uditive. Magari la sera precedente aveva esagerato con i festeggiamenti, forse aveva fumato più oppio del dovuto e mandato in confusione la mente... sì, era certamente per quel motivo che stava avendo simili visioni, non potevano esserci altre spiegazioni. Quello che stava vivendo doveva essere frutto della droga e nulla di ciò che stava provando era vero, nemmeno quell'atroce dolore che infine lo stava abbandonando. Si stava semplicemente auto suggestionando. 

O forse no?

La follia iniziò a prendersi gioco di lui, sbeffeggiando la ragione. Ogni volta che si convinceva che fosse solo un sogno, la coscienza gli gridava l'opposto e viceversa, in un circolo vizioso ansia.

Poi improvvisamente una flebile luce, uno squarcio sopra alla sua testa, illuminò una parte di quel nero. Levi dovette stringere le palpebre per non essere ferito e, quando dopo alcuni istanti all'apparenza brevissimi, le aprì nuovamente, prese a  guardarsi attorno con circospezione. Il suo sguardo saettò da un lato all'altro dell'ambiente in cui si trovava, ma nemmeno stavolta riuscì a scorgere qualcosa. Vi era ancora, e solo, la spessa cortina in cui era stato per tutto quel tempo, però riuscì a comprendere di essere sdraiato su un'enorme lastra nera. Non era né fredda come la pietra, né calda come il deserto, ma piuttosto qualcosa d'indefinito a cui provò a dare un nome, cercando nei ricordi qualcosa che potesse vagamente assomigliargli. Che razza di materiale poteva essere? 
Puntellando i gomiti per potersi sollevare e vedere meglio, provò a trascinarsi per quello spazio, ma presto si rese conto di non essere più in grado di compiere alcun movimento. Era paralizzato, incollato, fuso con quel pavimento dall'origine sconosciuta.

Ancora una volta la voce non uscì dalla gola; nessun'imprecazione, grida o altro, solo il silenzio tornato a regnare intorno al corpo come un tiranno senza coscienza. 
Levi digrignò i denti, bestemmiando contro il Dio che tanto si era sforzato di amare, in modo da essere graziato con la sua misericordia - una dote che Re Davide, prima e più di Salomone, gli aveva affibbiato durante ogni discorso pubblico dall'alto del pulpito che vegliava sulle teste del popolo; un ammasso di gente che ora, a quel Generale disperato, pareva essere pieno di pecore timorose. Quella gente si era appesa alle labbra di un Sovrano-profeta credendo che vi fosse una vita migliore ad attenderli dopo la morte e, per questo, non avrebbe temuto di lottare per una causa per cui, forse, era inutile battersi - perché se quello era il tanto decantato Paradiso, c'era poco in cui sperare.

Bastardo era stato quel Re a illudere lui e qualsiasi altro uomo che non avrebbe provato dolore nella crociata per il Signore dei Cieli.

Guardami Davide, chiamò Levi puntando lo sguardo verso lo squarcio sopra di lui.

Guarda il tuo Generale venir punito per i tuoi peccati, per una fede vacillante.
Stava delirando, eppure non smise.
Ti pare giusto farmi questo? Ti pare corretto tentare di uccidermi in questo terribile sogno?

Per alcuni istanti attese una risposta, ma nessuna voce sembrò placare la sua rabbia o dare una spiegazione a tutto ciò che stava provando.
Era quindi un incubo, un'allucinazione, la morte o altro? Cosa?

 

Intorno a lui riecheggiò un nuovo sibilo, questa volta più ravvicinato e nitido dei precedenti, poi un peso, lì nei pressi dell'ombelico, fece ammutolire la sua rabbia.
Il ragazzo sbarrò gli occhi e alzando la testa giusto quel tanto per riuscire a vedere da cosa fosse generata quella sensazione, si sentì venir meno. Sulla sua pelle abbronzata e segnata da piccole cicatrici pallide, un pitone nero se ne stava placidamente aggrovigliato su se stesso, compiendo ogni tanto piccoli movimenti in direzione di un foro che, d'un tratto, Levi si accorse squarciargli il pettorale destro. 

Il terrore lo colpì con una forza inimmaginabile, bloccandogli il cuore in gola.

Il serpente prese a muoversi, il Generale lo sentiva strisciare viscidamente su di sé scavandogli l'addome e poi il torace, creando conche lungo la carne, i muscoli e le ossa. Il suo andamento era simile a una danza minacciosa e, per la prima volta, Levi si rese conto di odiare quella creatura. Nonostante il suo migliore amico ne avesse allevati a decine, vi andasse in giro indossandoli come ornamenti, improvvisamente se ne sentì terrorizzato - e più avanzava, più quella sensazione si faceva intensa.

Arrivato al centro del suo petto, il pitone alzò il capo. La sua lingua biforcuta usciva a intervalli regolari dalla bocca schiusa, dando l'impressione che si stesse leccando le labbra prima di avventarsi sulla preda.

Il giovane provò a dimenarsi, a scrollarlo via dal proprio petto, ma ogni tentativo risultò inutile. Non si muoveva, men che meno faceva il rettile.

Sarebbe stato mangiato? Sarebbe stata quella la sua fine?
E come a volergli rispondere, la bestia spalancò le fauci, tanto da creare infondo alla propria gola un buco nero di cui non si sarebbe mai potuta vedere la fine. Levi d'istinto tentò di chiudere gli occhi, ma le palpebre non vollero ubbidirgli e così, certo di morire prima di paura e poi a causa di quel mostro, lo vide calarsi dentro al buco nel suo torace, trafiggendolo come una lama.

Nakhaš cacciò un urlo, svegliandosi di soprassalto da un incubo durato troppo a lungo. Aveva il cuore che palpitava all'impazzata nel petto, il corpo imperlato di quello che sembrava sudore e i muscoli erano tesi nello spasmo di una paura ancora viva. Si sentiva stremato, così come il terrore lo avvertiva ancora appiccicato addosso al pari di una patina viscosa. Era stato il sogno peggiore dei suoi ventisette anni, quello che più di tutti avrebbe pregato di dimenticare e, prendendosi il viso tra le mani, sperò che fosse solo un effetto collaterale dell'oppio.
Passandosi le dita ingioiellate sulla fronte e poi tra i capelli, avvertì una strana sensazione, come se il proprio sudore si fosse fatto più denso e, allontanando i palmi per capirne il motivo, si rese conto che ciò che aveva creduto essere un'innocente traspirazione era in realtà sangue.

Sì, sangue.

Levi sgranò gli occhi, incapace di comprendere, poi, mosso da un orrore che non avrebbe mai creduto potergli appartenere, volse lo sguardo intorno al proprio corpo, scoprendone enormi chiazze su tutto il pavimento. Ancora una volta provò a fuggire, ma a fermarlo stavolta, al posto di una lastra scura, vi furono le braccia di Salomone. 

Sconvolto si dimenò come un animale in gabbia, colpì senza logica tutto ciò che rientrava nel suo campo d'azione e, quando infine riuscì a divincolarsi, provò a fuggire. I suoi piedi sbatterono con violenza sul pavimento lercio, cercando di mettere quanta più distanza possibile tra sé e lo sfacelo di quella stanza, ma alla fine, distratto dalla foga, finì con l'incappare in qualcosa di pesante, caldo e al contempo morbido. Il Generale inciampò, ruzzolando a terra senza nemmeno rendersene conto. Con la parte bassa del corpo si ritrovò a schiacciare la stessa cosa che aveva bloccato la sua corsa verso l'uscita di quelle stanze e, involontariamente, mentre il mento gli sbatteva a terra, si ritrovò a imprecare - però non avvertì alcun dolore. Il suo era stato più un insulto verso il fato, che nei confronti della ferita che si sarebbe dovuto procurare. 
Confuso, ma più di tutto agitato, si affrettò a staccare il viso dalla pietra facendo leva sulle mani insozzate di sangue e, appena si voltò per vedere cosa gli avesse impedito di fuggire, scongiurando silenziosamente che non si trattasse dell'immenso pitone nero di pochi istanti prima, deglutì. 
Ciò che vide fu ben peggiore di quella bestia. 
Sotto le sue gambe nude, il corpo di Tamar se ne stava immobile. La gola era stata recisa come quella di un animale e gli occhi, vacui e lattiginosi, erano rivolti nella sua direzione. Lo fissavano e mutamente lo accusavano di qualcosa che nemmeno lui si seppe spiegare. 

Che diamine era successo durante il suo sonno?


 

Mishpakhá: famiglia

Kamuvan: certo/certamente

 

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Capitolo 5
*** - Capitolo quarto: Riunioni ***




Capitolo Quarto

"Tell the world that I'm coming home 

Let the rain wash away
All the pain of yesterday 
I know my kingdom awaits 
And they've forgiven my mistakes 
I'm coming home"

-Coming Home pt.II (Skylar Grey)

 

Italia, giorni nostri

Quando scesero dal treno, ore dopo esservi saliti, Levi si concesse il lusso d'inspirare l'aria viziata della stazione. I fumi dei macchinari, delle sigarette e l'odore delle persone di passaggio si andavano a mischiare con un lieve sentore di salsedine, creando una fragranza che più volte costrinse la sorella ad arricciare il naso e coprirsi il viso. A differenza sua, Alexandria doveva soffrire quel fetore con molta più forza, ma cercava in tutti i modi di non darlo a vedere: le apparenze, in fin dei conti, erano ciò su cui avevano fondato la loro intera esistenza e, persino in quell'ultimo viaggio avrebbero dovuto crearne di perfette, armature indistruttibili per gli occhi famelici delle persone. Certamente, confondersi e passare inosservati sarebbe stata la scelta più saggia, ma dato il loro aspetto tanto peculiare, fingersi semplicemente una coppia di strampalati o vittime di una moda eccentrica era la soluzione più pratica.

Il ragazzo, rallentando il passo in uno spicchio di luce, si concesse il lusso di alzare il viso verso il sole, beandosi per qualche istante del tepore mattutino. Per raggiungere Venezia non avevano impiegato più di una manciata d'ore, ma restare rinchiuso in un vagone di latta, senza riscaldamento, era stata per lui una tortura. Aveva sofferto il freddo per tutto il tragitto, trovandosi nuovamente a maledire la propria condizione di mezzo rettile e rinunciando così al sonno tanto anelato; i serpenti, dopotutto, come le lucertole bramavano il calore - e questo gli aveva impedito di poter recuperare le ore di riposo perse nelle settimane precedenti.

Quasi fermo, si permise di sbadigliare pigramente, stiracchiando i muscoli. Negli ultimi giorni non aveva fatto altro che dibattere con la sorella sul piano da seguire e ascoltare interminabili resoconti su avvistamenti fatti da persone dalla dubbia fiducia, esattamente come gli era capitato solo due sere prima quando, circospetti, si erano dovuti affidare alle parole di uno degli informatori più vecchi di lei che, trovandosi di fronte due ragazzi della metà dei suoi anni, aveva esitato a credere che si trattasse delle stesse persone che lo avevano assoldato decenni prima. Era stato un incontro strano, condito da una buona dose di diffidenza, ma comunque utile al fine designato. Grazie a un uomo dal naso a patata, l'accento dell'Est Europa e l'alito pregno di alcol, si erano accaparrati le informazioni necessarie per proseguire nella loro bizzarra avventura, approdando in quella meravigliosa città.

‹‹Mi auguro che sia qui. E che non ci cacci via›› sbuffò Alex passandogli accanto. Imperterrita, quasi avvertisse l'urgenza di mettere fine a quella gita, si mise a percorrere il tragitto che dai binari portava sul Gran Canale, muovendosi tra la gente esattamente come un animale randagio. Era lesta, sicura e Levi le dovette correre dietro per non perderla tra la folla. Nella mole di turisti presenti alla stazione di Santa Lucia, Z'èv si sarebbe tranquillamente potuta confondere con le altre decine di ragazzette presenti lì in mezzo. Sfortunatamente per lei, e come per molte donne della sua epoca, il dono di un'altezza in grado di distinguerla dal resto delle persone le era stato negato: il suo metro e sessanta abbondante non la rendeva un bersaglio facile nemmeno agli occhi di un altro predatore. E lui non poteva permettersi una simile privazione. C'era qualcosa, nell'essersi finalmente rivisti, che rendeva il pensiero di un nuovo allontanamento terribile. 
‹‹Perché dovrebbe farlo?›› le chiese innocentemente, cercando di tenere il suo passo. 
Sì, Zenas era stato attaccato brutalmente dai fratelli, ma non si sarebbe tirato indietro al cospetto di una proposta del genere: nessuno lo avrebbe fatto davanti alla possibilità di rivedere il proprio Re - inoltre, persino un energumeno di duemila anni non si sarebbe opposto a un comando diretto del Generale d'Israele, braccio destro del Sovrano e prima Chimera, da loro conosciuta, ad aver messo piede sulla terra.

Alexandria sbuffò ancora: ‹‹Ti devo ricordare le accuse degli altri? Oppure sei abbastanza lungimirante da comprendere che certe parole, dette dalla tua stessa famiglia, scavano solchi incolmabili?››
‹‹Con te lo hanno fatto?›› Da oltre le lenti scure, Levi provò a scature l'espressione di lei, ma da quella posizione tutto ciò che riusciva a vedere era la punta del suo naso.
Lei parve non prestare alcun tipo d'attenzione alla sua domanda, troppo occupata a tenere lontano il passato, così lui fece finta di non averlo mai chiesto. Forse, ancora una volta, aveva osato questionare qualcosa che non lo riguardava.
‹‹Comunque, se fossi in te, non mi preoccuperei eccessivamente per lui. Nostro fratello è grande abbastanza da comprendere le circostanze, sa che ciò che è stato detto non era altro che lo sfogo di un gruppo di persone poco... gestibili››. 
Z'èv si fermò di colpo e, ignorando gli insulti di coloro che per poco non gli erano andati contro, si volse verso di lui: ‹‹Lo pensi davvero, akh?››

Molto tempo prima, tutti i membri di quella strampalata famiglia avevano puntato il dito l'uno contro l'altro, accanendosi su Zenas per via della sua età: era la Chimera più vecchia che quel giorno fosse uscita con Salomone, era colpa sua se Alexandria si era persa il corpo del Re in mezzo alle onde dell'oceano. Eppure, Levi ne era certo, lei si era sentita colpevole anche di quell'odio ingiustificato. Possibile che non avesse ancora compreso che il destino gioca sporco, che a furia di sfidare le leggi del mondo si finisce con il dover pagare un prezzo altissimo? Possibile che non si rendesse conto che lei era solo l'ennesima vittima delle conseguenze delle scelte e degli esperimenti di Salomone?

In parte infastidito, il ragazzo espirò: ‹‹Non fraintendere le mie parole, Alex. So che non è stato facile, che alle volte alcuni termini sono lame nella consistenza dell'anima, però conosco Zenas da molto più tempo di te. E' una persona saggia››.

Nonostante le buone intenzioni, Z'év parve non gradire le parole del fratello e, afferrandogli il bavero della giacca, lo tirò a sé. Come solo qualche giorno prima, i loro visi erano nuovamente a un soffio l'uno dall'altro e, seppur divisi dalle lenti degli occhiali da sole che il Generale ancora indossava, i loro sguardi era dritti in quello di chi avevano di fronte, quasi sfidandosi.
‹‹Ma non cambia il fatto che tutte quelle pugnalate avrebbero dovuto colpire me e me soltanto››. Fu un sussurro, eppure apparve come uno stridio fastidioso a ridosso dei timpani. Odiava sentirle dire simili frasi. Detestava l'idea che ancora non si fosse perdonata per qualcosa che non avrebbe potuto cambiare - quando forse, l'unico colpevole, era lui.

Delicatamente le scostò la mano, cingendole con le lunghe dita il polso. Il calore della sua pelle lo fece rabbrividire, dolce e allettante esattamente come i raggi del sole che aveva dovuto abbandonare solo qualche minuto prima: ‹‹I lupi non nuotano, akoth, ed esattamente come me non sei altro che vittima di un fato ingiusto. Salomone ha sfidato troppe volte la clemenza dell'Ars, per questo è stato punito. Non avresti potuto far nulla più di ciò che hai fatto e stai facendo ora›› la voce di Levi si trasformò in un sibilo vellutato, una sorta di minaccioso rimprovero. Vi erano alcuni momenti in cui, il Nakhaš del passato, quello che guidava i soldati in sanguinose battaglie, prendeva ancora il sopravvento su di lui; istanti fugaci che erano però in grado di scuotere l'animo di chiunque, anche di un animale selvatico. Aveva imparato a rendere la propria presenza soggiogante, a issarsi sopra alla cocciutaggine e all'irriverenza dei suoi sottoposti e così avrebbe fatto anche con lei - pur di non perderla in un limbo di colpe prive di reale senso. 
Rimettendosi dritto, e senza darle tempo di replicare, riprese la marcia chiudendo quel discorso prima che potesse sfociare. Se i suoi fratelli l'avevano accusata di essere un'inetta, nonché in parte il boia delle loro esistenze, lui non l'avrebbe mai incolpata di essere l'artefice di un simile disastro, certo che nemmeno Salomone lo avrebbe fatto. Lo conosceva abbastanza da sapere che non era uno stolto, che comprendeva le sue colpe meglio di chiunque altro - e condivideva ogni suo pensiero e colpa, pur perdonandoglieli ogni giorno. Loro due erano gemelli senza essere fratelli, erano uniti indissolubilmente senza avere lo stesso sangue; più banalmente, erano ẖbrym. E persino quando le opinioni erano contrastanti, accettavano l'idea l'uno dell'altro senza imporsi. Su Z'év, ad esempio, nel tempo avevano avuto molto di cui dibattere e altrettanto su cui concordare.

Allontanandosi nel marasma, Levi potè percepire con chiarezza lo sguardo di lei graffiargli la schiena. Le pupille della sorella erano fiamme brucianti, tizzoni ardenti abbandonati sulla pelle nuda. Li sentiva con una nitidezza tale che per un attimo si domandò se non fosse stato troppo severo con lei, se ricordarle di essere impotente di fronte a ciò e chi le aveva dato vita fosse stata una verità fastidiosa da udire, seppur innegabile - eppure non si volse nemmeno per un istante, certo che alla fine anche Z'èv avrebbe accettato quelle parole.
 

Dopo il fastidioso scambio avvenuto alla stazione, i due fratelli vagarono silenziosi per le calle veneziane, proferendo parola solo quando necessario. Levi stava provando in tutti i modi a ricordarsi l'intricato dedalo di vie e canali che li avrebbe condotti in zona Certosa, mentre Alex aguzzava i sensi per individuare qualsiasi cosa le sembrasse fuori posto: uno sguardo, un portamento, una figura ambigua - tutto ciò che avesse potuto indicare la presenza di qualche malintenzionato del Cultus, anche se ormai era da anni che non ne vedeva nessuno sulle proprie tracce.

Persa a osservarsi attorno, Z'èv non si accorse dell'improvviso arresto del fratello, finendo a sbattergli contro e rimbalzare qualche passo indietro.
«Ci siamo» lo sentì sussurrare in un ragionamento tra sé e sé ad alta voce.
Bene o male, secondo le indicazioni che avevano ricevuto dal suo informatore slavo, dovevano essere arrivati nella zona corretta, così, rincuorata dall'affermazione del Generale,  si mise a cercare il numero tre accanto alle piccole e rare porte presenti nell'angustissima via, muovendo piccoli passi su e giù per la calla.
Fu lui a fermarsi per primo, individuando l'oggetto del loro interesse e tirando uno strano sorriso.

«E' qui, ne sei certo?»  Sollevando un sopracciglio e scrutando la porticina in legno, così vecchia da sembrare della sua stessa epoca, Alexandria si fece vicina. Non vi era nulla di rassicurante in quella visione di abbandono e logorio, eppure il numero tre pendeva al fianco di quell'ingresso con innegabile evidenza.
Era strano pensare che Zenas, il loro Zenas, si potesse rifugiare dietro un simile derelitto in una calla talmente stretta d'apparire soffocante persino per lei: come poteva passarci un uomo della sua stazza, lì? Le sue spalle erano talmente larghe da sembrare infinite e, valutando le dimensioni della strada, certamente doveva averle più volte strusciate contro le pareti intonacate.
Z'év storse le labbra, confusa.
 ‹‹Così ha detto il tuo informatore›› ricordò l'altro fissando l'edificio da cima a fondo, forse colto improvvisamente dai suoi medesimi dubbi. 
Certamente, dell'eleganza che loro fratello aveva tanto ostentato negli anni, quel luogo, non aveva nulla, poteva dirlo chiunque lo avesse conosciuto.
‹‹Deve averci fregato allora...››

‹‹Ma non avevi detto di fidarti, di lui? Anni e anni di collaborazione!›› La schernì, rivolgendole un meraviglioso sorriso, tanto naturale che anche lei non riuscì a trattenerne uno.
‹‹C'è sempre una prima volta, quando si parla di fregature››. 

Alex però era ancora scettica. Qualcosa in lei, forse il sesto senso o l'esperienza, le ricordò che  gli informatori non erano più quelli di una volta e che, con grande probabilità, oltre quella soglia li avrebbe attesi il nulla - e certamente avrebbe dovuto punire quel vecchio truffatore per averli fatti andare sin lì. 
Nakhaš allungò un braccio, i muscoli tesi sotto alla manica della giacca erano testimoni delle sensazioni di cui, in quel momento, era succube. Sicuramente non gli sembrava possibile che dentro a quelle mura ci fosse Zenas, esattamente come non sembrava a lei, ma oltre a quello c'era altro, anche se Z'èv non riuscì a comprendere cosa. Non poteva trattarsi della semplice suggestione dovuta a quell'ingresso malconcio, non era il tipo da farsi influenzare in tal modo - c'era altro a dargli ansia, però cosa?
Il ragazzo respirò profondamente e, prima di afferrare il battente stretto tra le fauci di un leone d'ottone arrugginito, concesse alla sorella una lunga occhiata d'intesa, anche se con le lenti scure nel mezzo Alex dovette solo supporre che si trattasse di quel tipo di sguardo.
‹‹Mal che vada non ci risponde nessuno, no?›› Seppur improvvisamente l'agitazione aveva preso a smuovere anche la sua sicurezza, la Chimera-Lupo cercò d'incoraggiare entrambi e, così, lui colpì per due volte il battente. Il silenzio che ne seguì parve la peggiore delle risposte alle loro domande.

E se il Cultus fosse arrivato prima di loro?


ẖbrym : amici

 

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Capitolo 6
*** - Capitolo quinto: Akràv ***




  "You know I've seen a lot of what the world can do
and it's breaking my heart in two" 

-Wild World (Cat Stevens)

Il cuore di Alexandria prese a battere con così tanta forza che per un attimo temette potesse schizzarle fuori dalla gabbia toracica e, più si sforzava di percepire un qualsiasi rumore, più i palpiti nel petto parevano diventare assordanti. Erano anni che non provava una simile ansia, eppure bastava il fantasma di una minaccia, o di una delusione, a piegarla a quel modo. Possibile che si fosse rammollita tanto?
Certo, c'erano molte possibilità che non vi fosse nessuno all'interno dell'edificio, viste le condizioni in cui vergeva, ma ve ne erano altrettante che si trattasse di una trappola del Cultus; in fin dei conti sapeva bene quanto scrupolosi e infimi fossero quei tizi, ma arrivare a temerli a tal punto le parve ridicolo. 

Seppur si trattasse di una setta centenaria, sicuramente più antica di lei, solo una volta era riuscita ad avere la meglio su di loro e, a essere del tutto onesti, non era nemmeno stata un'occorrenza voluta: dubitava fortemente che dopo le peripezie e i cadaveri che avevano accumulato, l'intento di quel gruppo di folli fosse semplicemente quello di uccidere Salomone. Anzi, per quel che ne sapevano, era esattamente l'opposto. Il Cultus Sanguinis desiderava il Re per la sua conoscenza dell'Ars, per comprendere come fosse possibile, dalla morte, dar vita alle Chimere e, certamente, raggiungere l'immortalità.

Erano alchimisti, o così amavano definirsi, ma non avevano mai raggiunto la grandezza del Sovrano d'Israele; e a confutare quella verità c'era l'innumerevole susseguirsi di fallimenti che aveva segnato l'esistenza della loro loggia. Che senso avrebbe avuto, altrimenti, dare la caccia alla loro famiglia, se già da soli potevano controllare una simile magia?

Negli anni Z'év si era domandata spesso, mentre si macchiava le mani con il sangue di quei poveri idioti, per quale ragione non riuscissero a ottenere ciò a cui tanto ambivano, ma ogni volta che lo aveva chiesto a Salomone la risposta era stata vaga, diversa. Forse nemmeno lui la conosceva realmente, quindi provava a barcamenarsi tra i propri pensieri. Alla prima occasione le aveva detto "ignoranza, credo", "mancanza d'ambizione" quella successiva. Una volta le aveva persino sussurrato che "l'Ars sceglie i propri figli, non il contrario" - e lui ne era la prova, Levi e tutti i suoi fratelli le altre sette. Quella, forse, era stata la risposta più sensata, anche se a distanza di trent'anni non avrebbe più saputo dire quanto ancora vi credesse; dopotutto una come lei cosa aveva di speciale? Non lo riusciva a immaginare, eppure era riuscita a sopravvivere sia alla Délet -b Ge'henom , sia a quel corpo. Non tutti potevano dire lo stesso.

Prendendo un grosso respiro, la Contessa provò a ritrovare la calma perduta. La tachicardia non aveva smesso di assillarla per un solo momento da quando il fratello aveva bussato, peccato che in una situazione del genere non potesse in alcun modo lasciarsi sopraffare dalla sé umana.
Nonostante in trecento anni avesse ucciso, compiuto empietà indicibili e lasciato che la Chimera prendesse più volte il controllo sulla sua volontà, provando persino un appagante piacere, quella che era stata Alexandria Orsòlya Vàradi non ne era mai stata realmente divorata. Le fauci del Lupo le si erano strette attorno, come una gabbia, però non si erano permesse di strapparle di dosso l'anima, anche se più volte aveva creduto d'essere sul punto di venire sbranata. In lei, così come doveva essere per le altre creature del Re, uno strano gioco di pieni e vuoti si era andato a creare tra le due entità - ed era forse per quel motivo che i loro corpi non si erano mai trasformati del tutto, mantenendo per la maggioranza una parvenza... normale.

Levi la osservò, dubbioso, e lei ricambiò alla stessa maniera. Nessuno dei due riusciva a capire cosa stesse succedendo, men che meno cosa fosse meglio fare - era la prima volta dopo molto tempo che si ritrovavano in una situazione del genere.

Z'èv a quel punto si volse verso la fine della calla, osservando il nulla e riflettendo su una qualche strategia, ma proprio quando le labbra le si schiusero per dire qualcosa, uno strano fastidio le fece pizzicare la cicatrice sulla bocca dello stomaco.
Arricciando il naso si portò le dita all'altezza del Sigillo, cercando in qualche modo di capire cosa le stesse succedendo. L'ultima volta che l'aveva sentito fremere era stato quando, in punta di piedi, era scappata dalla casa che aveva condiviso con la sua famiglia - la stessa che ora Nakhaš stava cercando di rimettere insieme.
La ragazza corrugò le sopracciglia, quasi il gesto potesse aiutarla a schiarirsi le idee, peccato che i suoi pensieri furono presto interrotti dalla voce roca del fratello che, del tutto alla sprovvista, picchiò un palmo sulla porta: «Akh! Lemmas!» lo udì inveire contro chiunque vi fosse in casa - sempre se vi fosse stato, qualcuno. 
La pazienza stava pian piano abbandonando entrambi, o forse sarebbe stato meglio dire che l'ansia stava avendo sulla loro psiche; in fin dei conti il semplice essere insieme, allo scoperto, e in una città non pi così familiare li rendeva prede facili, nonostante entrambi fossero spietati predatori. 

Mordendosi il labbro, Alex non poté evitarsi di pensare che, come lei, anche il fratello percepiva nell'aria l'elettricità di due nemici equamente letali: il Cultus e il tempo.  Già, perché ogni minuto d'attesa era un battito in meno dei loro ormai fragili cuori, muscoli che senza Salomone avrebbero presto smesso di funzionare. Era solo per merito suo se i loro corpi non erano marciti con il passare dei giorni e, per evitare che l'eventualità potesse presentarsi prima del dovuto, dovevano sbrigarsi a ritrovarlo - ma se Zenas non si trovava lì allora voleva dire che le ore trascorse nel fetido vagone ferroviario, che da Milano li avevano condotti fino a Venezia, erano solamente state vane, un ritardo che avrebbero fatto meglio a non accumulare. 

Se non si fossero spicciati lo zman li avrebbe ridotti in cenere, così come le Sacre Scritture narravano.

Z'èv si fece ancor più vicina. Sentiva i nervi tendersi a ogni nuovo colpo, a qualsiasi richiamo da parte della Chimera accanto a lei, eppure non aveva idea di come risolvere il problema.  
«Provo a sfondarla» disse d'un tratto, senza realmente riflettere su quel piano.
«Scordatelo».
Confusa, si volse a fissarlo. Nelle enormi lenti scure poteva vedersi riflessa, una cosetta pallida e tutt'altro che minacciosa a cui Levi, senza giri di parole, fece notare la stupidità di quella affermazione: «Sei quasi la metà di me, come pensi di buttare giù una porta che è praticamente sopravvissuta fino ad oggi?»
In effetti, ammise tra sé e sé, se nemmeno le alte maree erano riuscite a farla marcire non doveva poi essere tanto frangibile: come pensava di poter essere più resistente, viste le membra che si ritrovava? Però non le parevano esserci chissà quante altre soluzioni - o lasciavano perdere, o provavano con le maniere forti.
Alzando le spalle, Alex cercò di farsi valere: «Tentare non mi costa nulla, no? Mal che vada verrò rimbalzata indietro» ma nel fingere indifferenza si rese conto che, se quell'anta non avesse ceduto, il suo corpo gliel'avrebbe fatta pagare amaramente - non ne aveva già avuto prova a casa propria, andando a sbattere contro la cucina?

«Z'èv...» ancora visibilmente restio all'idea, Levi provò a chiamarla nel vago tentativo di farla rinsavire; sfortunatamente per lui, la cocciutaggine era una dote che Salomone si era premurato fosse intrinseca di tutte le sue Chimere, dalla prima all'ultima, quindi Alexandria fece qualche passo indietro.
Sciogliendo la tensione nella parte superiore del corpo, la ragazza studiò con attenzione l'anta di fronte a sé. Doveva individuare il punto che, venendo colpito, avrebbe permesso alla serratura di cedere e, quando infine si convinse di averlo trovato, si preparò all'impatto.
«Non starai facendo sul se-» ma prima che il fratello potesse concludere la frase, i piedi di lei si staccarono dal pavimento.


Uno, due, tre.

Peccato che a interrompere la sua corsa non vi fu nulla. 

La Chimera-Lupo si ritrovò a oltrepassare la soglia con uno slancio tutt'altro che aspettato, finendo persino con l'inciampare nel vuoto di un dislivello imprevisto e sentendo il vuoto riempirle lo stomaco. Le ci vollero pochi istanti per comprendere che presto avrebbe picchiato il viso contro il pavimento, piegandosi a una violenza tale che certamente non l'avrebbe lasciata illesa, così strinse gli occhi nella speranza di avvertire meno dolore. In un ultimo e disperato gesto, che sapeva bene non sarebbe mai stato abbastanza repentino, si portò le braccia davanti al volto, ma stranamente queste arrivarono prima dell'impatto.

Ciò che avvertì non ebbe nulla a che fare con il contraccolpo che aveva immaginato, fu piuttosto un forte pressione allo stomaco, un comprimersi nauseante di un oggetto rigido contro le sue budella.

E poi una presenza. Un'agghiacciante sensazione di pericolo che le fece nuovamente spalancare gli occhi.

Il cuore le si bloccò in gola, il panico le mozzò il respiro e, quando nella penombra di quel luogo scorse i riflessi scuri di un immenso pungiglione puntato alla sua nuca, avvertì l'urgenza di gridare, ma purtroppo le fu impossibile.

«At ... » sentì sussurrare da un punto cieco al di là della sua schiena prima di venir mollata senza preavviso. Alex cadde a terra e il dolore non si palesò come aveva previsto, però la paura parve non abbandonarla per un solo istante. 
Con gli occhi sgranati e arrancando sul pavimento gelato, la ragazza provò a mettere distanza tra sé e quell'immenso arto animale, un'arma tanto letale che persino lei si ritrovò quasi paralizzata innanzi al suo cospetto.

Era la coda di uno scorpione. 
La mutazione di Zenas.
Akràv, la seconda Chimera.


Eppure, prima che potesse rendersene realmente conto, un'altra figura fece capolino nel suo campo visivo. Levi si scagliò come una furia contro il fratello, afferrandolo bruscamente per qualsiasi indumento avesse indosso e allontanandolo ancora da lei, forse preoccupato all'idea che l'artiglio di lui potesse conficcarsi nella sua carne e ucciderla. 
«Hamessakenn! Tagezim zott Z'èv! » Gridò il Generale del tutto in balìa delle emozioni. E come biasimarlo? Persino lei avrebbe ucciso chiunque avesse attentato alla sua vita, dopotutto difendersi l'un l'altro era stato il mantra della loro famiglia per secoli.


Zenas a quell'aggressione non si oppose, piuttosto alzò le mani e si lasciò strattonare. Con gli occhi scuri rivolti verso di lei, permise al fratello di urlargli contro, di spostarlo di peso e farsi maltrattare in un evidente ammissione di colpevolezza. Sapeva di aver sbagliato, di aver quasi compiuto un omicidio indicibile; lo stava ammettendo e, il tutto, pensò Alexandria, perché non l'aveva riconosciuta.

 

Délet -b Ge'henom : Porta dell'Inferno (forse, ancora non ho ben chiaro come si usi -b)
Lemmasapri
Zman tempo
At Tu
Hamessakenn Disgraziato
Tagemiz zott Z'èv E' la tua Z'èv

(Mi scuso per la brevità del capitolo e se le traduzioni italiano-ebraico non coincidono alla perfezione. Il testo potrebbe subire cambiamenti o modifiche. Ogni stellina e commento è sempre ben accetto)

 

 

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Capitolo 7
*** - Capitolo Sesto - Parte Prima: Il contenitore dell'anima ***





Capitolo Sesto - Parte Prima

"Your imagination gets so twisted when you
Think you've seen my worst but 
have an instinct that can never be reversed
My vengeance is a curse"

- Kill or be killed (new year's day)

Innsbruck, Primavera del 1743

Zenas fece per avvicinarsi alla sconosciuta. Allungando una mano verso il suo viso, incuriosito dallo stato di mutazione tanto avanzato, provò a scostarle una ciocca di capelli, ma ella balzò indietro, muovendosi al pari di un animale in trappola. La vide arretrate fin quando il muro non le impedì di proseguire nella fuga e, poi, rannicchiarsi a terra in un gesto d'inutile difesa. Nascosta tra la libreria e il camino, nella penombra inframmezzata dalle lingue di fuoco che di tanto in tanto facevano scoppiettare i tocchi di legno, il Greco poteva leggerle in viso paura e confusione - e amaramente, come già era capitato in passato, rivide in lei il sé che aveva seguito il lazerikhah
Ricordava ancora la moltitudine di emozioni che lo avevano assalito quel giorno, la percezione differente di tutte le cose che gli stavano attorno; la vista più acuta, l'udito più fine, la carne stranamente insensibile. Non aveva dimenticato l'agitazione nel ritrovarsi coperti di sangue, il panico dato da un incubo atroce che non pareva avere conclusione e, men che meno, i pensieri di quella sera - pensieri che si era presto reso conto essere più veri e terrificanti di quanto la sua umana concezione avesse mai potuto concepire. Morire e resuscitare nelle stesse carni di sempre, seppure diverse, era qualcosa di spiazzante, ma non impossibile a quanto aveva scoperto, esattamente come accettare quella verità. E la sconosciuta che aveva di fronte in quel momento avrebbe a sua volta dovuto comprenderlo: in caso contrario, se non il corpo, sarebbe stata la mente a tradirla - e probabilmente ucciderla.

Con la mano ancora a mezz'aria, rivolta verso la ragazza, Akràv si chiese per quale stupida ragione Salomone ne aveva infine creata un'altra. Per quale motivo, il suo Re, aveva voluto aggiungere alla propria collezione una nuova Chimera, o l'ennesimo fallimento, in caso il suo involucro di carne avesse rigettato l'anima e l'Ars? Possibile che dopo tutti quegli anni, i decenni e i secoli, per non parlare delle promesse, il loro Signore non aveva ancora compreso quanto orribile poteva essere un'esistenza come quella? Erano perennemente costretti a fuggire, mentire e uccidere al pari di sicari, nascondendosi senza mai costruire nulla di realmente concreto. Zenas non lo avrebbe mai augurato a nessuno, nemmeno ai suoi peggiori nemici - seppur in tutto quel male avesse trovato anche del bene.  
Però, mentre i suoi occhi scuri si concedevano qualche altro istante di esitazione sull'estranea, si ricordò le parole che erano state pronunciate qualche tempo prima proprio dall'uomo che ora se ne stava seduto alle sue spalle, in attesa: niente più figli del sangue e dell'alchimia, nessuna riapertura delle porte dell'Inferno. Erano già in cinque, accollarsi una nuova vita avrebbe significato un maggior consumo dell'Hagufah e, quindi, trasmutazioni più frequenti. Per quanto Salomone sembrasse essere immortale, nonché imperturbabile di fronte alle leggi del mondo, la continua pratica dell'Ars faceva sì che i contenitori si consumassero più velocemente, costringendo tutta la famiglia a compiere un nuovo trasferimento dell'anima in lassi di tempo sempre meno lunghi. 

Nonostante quella consapevolezza però, il Re aveva deciso di venir meno alla sua stessa parola, dando vita a lei: ma perché? Cosa aveva di tanto speciale una fanciulla del genere? Non era bella come Colette e men che meno sembrava astuta o calcolatrice come Willhelmina, ma a prescindere da ciò era lì, in casa loro, e condannata al medesimo destino.

«Mi zeh?» chiese ritirando la mano. Con un sospiro tutt'altro che rassicurante Akràv si rimise dritto, scrutando senza sosta la giovane ancora rannicchiata nell'angolo. Da sotto al cappotto con cui Levi l'aveva avvolta si poteva intravedere l'elegante vestito ornato di pizzi e merletti, di un colore simile al tramonto. In più punti, soprattutto nella parte appena sotto al bustino, ma probabilmente anche più su, chiazze scure raccontavano l'atrocità di ciò che l'aveva portata sin lì. Sicuramente, oltre che della sua morte, quell'abito recava con sé informazioni riguardanti le sue origini: a occhio e croce, constatò la Chimera, quella fanciulla doveva far parte della borghesia con cui Salomone, Nakhaš e Wòréb s'intrattenevano nei salottini di Innsbruck alla ricerca di persone o investimenti con cui assicurarsi affari proficui.

Il Signore d'Israele si sistemò una ciocca sfuggita dalla coda. Da quando erano rientrati, con quella tizia al seguito, non doveva essersi concesso alcuna tregua, visto l'aspetto.


«Alexandria Orsòlya Vàradi. Zott habatt rozenn Gàbor Andràs Vàradi» il tono pacato fu un mero tentativo del Re di far apparire la confessione meno grave, peccato che non ebbe l'effetto sperato. 
Ci fu un lungo istante di silenzio in cui Zenas corrugò le sopracciglia tanto d'avvertire una specie di fastidio, ma rimase muto, incapace di comprendere se quello del suo Sovrano fosse un pessimo scherzo o la terribile verità. Aveva idea di cosa comportasse la trasmutazione di quella donna? Non era una prostituta qualsiasi, come loro sorella maggiore, e nemmeno si trattava di una condannata a morte al pari di Akavish: quell'affarino terrorizzato era la figlia di un nobile, un uomo che avrebbe potuto aizzargli contro i seguaci del Cultus.

«Zott atsili!» ringhiando, Akràv ribaltò una delle sedie presenti attorno al tavolo a cui era appoggiato Salomone. Il legno colpì con inaspettata violenza il pavimento, facendo ancora una volta sussultare la nuova arrivata. Con la coda dell'occhio il Greco scorse Alexandria prendersi la testa tra le mani, soffocare l'ennesimo singulto. Un gemito però le sfuggì di bocca, attirando con preoccupazione le attenzioni del Re che, fino a quel momento, non aveva smesso di osservare l'amico. Sul suo viso, pallido e scavato dopo lo sforzo della trasmutazione, fu fin troppo facile scorgere l'intensità dell'interesse che nutriva per quella creatura e, voltandosi a sua volta nella direzione di lei, Zenas si sentì stringere il cuore. Nell'osservarla in quella posa di totale fragilità, gli fu impossibile non provare per lei una tenerezza assoluta, un'empatia tale da fargli desiderare di placare tutto ciò che in quel momento la stava tormentando - purtroppo però, in un angolo recondito del suo cuore, non poté fare a meno di pensare alla sua involontaria pericolosità. Alexandria Orsòlya Vàradi era una Contessa, non sarebbe mai passata inosservata fino al giorno in cui i suoi cari sarebbero rimasti in vita, ma soprattutto, era stata la prima persona a far cambiare idea a Salomone: per lei, il loro Signore aveva infranto una delle sue promesse.
 


 

 

Venezia, giorni nostri

In quel preciso momento, con Z'èv riversa sul pavimento, a Zenas parve di fare un salto indietro nel tempo. Con la mente tornò al giorno in cui l'aveva vista per la prima volta, spaventata e piagnucolante in un angolo, con la stoffa del bell'abito imbrattata di sangue e il corpo soggiogato da una mutazione che, ora, a distanza di anni, era diventato il suo vero aspetto. La Contessina Vàradi era nuovamente ai suoi piedi e, come in precedenza, Akràv si sentì un mostro di fronte a quegli occhi sbarrati.

«Alexandria...» la chiamò con voce spezzata, ignorando gli insulti che il fratello continuava a rivolgergli mentre lo strattonava lontano da lei: «ani mitseta'erett. I-io... no-non so cosa-cosa...» Levi tirò ancora, costringendolo a spostare lo sguardo sui suoi occhi serpentini. 
Le pupille di Nakhaš, due spilli in un mare d'oro e smeraldo, se ne stavano fisse nelle sue e i canini, così lunghi e sottili, riuscirono ad apparire fragili e al contempo pericolosamente letali, forse più della sua coda a pungiglione. La pelle sugli zigomi della prima Chimera iniziò a sollevarsi, dando forma a piccolissime scaglie rosee e dalla sua gola, in profondità, un verso raggelante impedì al Greco di distrarsi da ciò che aveva innanzi. 

«Non ti azzardare a toccarla di nuovo». Nella voce del Generale d'Israele vi era un'imperiosità tutt'altro che rassicurante; la sua sembrò una vera e propria minaccia, una lama d'argento puntata alla gola di Zenas che, involontariamente, se ne sentì realmente addosso la punta. L'uomo avvertì la pericolosità di qualsiasi movimento, sarebbe persino bastato un respiro sbagliato per riversarsi contro la furia di Levi - ed era conscio che, mutazione o meno, non sarebbe riuscito ad avere la meglio contro la creatura più antica del mondo. 

Così attese, sentendo la tensione aumentare a ogni secondo di silenzio. Le pupille del fratello sembrarono voler recidergli la pelle del viso, oltrepassare la carne e strappargli dal cranio i pensieri, ma dopo un tempo che parve infinito, ciò che accadde fu ben diverso. Seppur evidentemente riluttante all'idea di lasciarlo andare, Nakhaš mollò la presa su di lui, volgendosi infine verso la sorella e porgendole con riverenza le proprie dita in aiuto - fu inevitabile, osservando quell'insolita scena, non sentirsi un vero mostro. L'aveva quasi uccisa, Sant'Iddio! Lui, che si era sempre prodigato nel proteggere lei e qualsiasi altro dei fratelli più piccoli, aveva infine attentato alla sua vita; e l'avrebbe ammazzata, ne era certo, se per miracolo divino non si fosse accorto del grigio dei suoi capelli, se nel passargli accanto non avesse generato un fastidioso pizzicorio alla schiena. 

Eppure era riuscito a evitare la tragedia, anche se con alcuni noiosi risvolti. Come avrebbe fatto a fidarsi ancora di lui, a guardarlo con il solito cipiglio amorevole, tipico di una sorella, dopo che le aveva puntato il pungiglione  alla nuca con il chiaro intento di spezzarle l'osso del collo?

Zenas strinse i pugni, li serrò tanto che le nocche sbiancarono e, con un gesto di stizza, allontanò lo sguardo dai due visitatori: non se la sentiva d'incontrare le loro espressioni colme di paura e disprezzo - non un'altra volta. Gli erano già bastati l'odio di Colette, la disapprovazione di Willhelmina e la delusione di Hamza, non aveva bisogno d'altro. Dopo trent'anni dall'ultimo incontro con la sua famiglia, tutt'altro che roseo, il Greco aveva sperato che la riunione successiva fosse meno brutale, che tra i presenti riaffiorasse solo il desiderio di stare insieme, non di allontanarsi il più in fretta possibile dalla sua persona, da colui che si era assunto la responsabilità di colpe non sue.

Con gli occhi rivolti altrove, sempre più combattuto, provò a trovare dentro di sé la forza per dire qualcosa, per sibilare l'ennesima scusa, per giustificarsi, per cacciare quei due prima che potessero accanirsi contro di lui, ma le labbra parvero incollarsi tra loro, rifiutandosi di ubbidire alla volontà.
Dekára!, sibilò allora tra i pensieri, mordendosi la lingua. Possibile che fosse diventato così incapace? Possibile che non riuscisse a prendere alcuna posizione, nemmeno in una situazione del genere? Avrebbe dovuto agire, eppure ogni gesto gli sembrava sbagliato. Scusarsi aveva un sapore amaro, sapeva che avrebbe nuovamente aizzato le ire di Levi, eppure persino cacciarli gli appariva come la scelta peggiore da prendere: dopotutto erano arrivati sino a Venezia per lui, qualcosa doveva pur dire, no?
Imprecando tra sé e sé, Zenas si estraniò da ciò che stava avvenendo poco più in là, così, quando un tocco dapprima lieve, poi sempre più intenso lo sfiorò, si ritrovò a sussultare. Le sue membra vibrarono, i brividi lo invasero senza alcun preavviso e il cuore gli balzò in gola.
Lentamente avvertì il corpo di Alexandria stringersi al suo, cingergli la vita con le braccia esili, poggiare la testa contro il suo torace e restare innocentemente in ascolto - e a quel punto, nonostante sapesse a quali guai sarebbe potuto andare incontro, sentì la gioia scoppiargli nel petto.
Era sì, un mostro tra mostri, il peggiore tra i diavoli visto ciò che era successo poco prima, eppure era anche l'uomo più felice del mondo nel poter affondare il viso tra i capelli della sorella e ricambiare con vigore quell'abbraccio.

«Ani mitseta'erett...» le sussurrò a ridosso dell'orecchio, certo che quelle scuse avrebbe ora avuto tutt'altro significato.
C'era un tempo per ogni parola, avrebbe dovuto saperlo ormai, e alle volte persino pochi minuti, se non addirittura secondi, potevano fare la differenza.

Z'év aumentò lo stretta: «Lo khashuv, akh» e, scostando il viso dal suo petto, tentò di abbozzare un sorriso. 
Non era cambiata, constatò l'uomo, nel suo sguardo poté ritrovare la stessa bontà che aveva abbandonato anni prima - e fu abbastanza per fargli capire che, nel pronunciare quelle parole, sua sorella non stava mentendo, era realmente consapevole di quanto fosse dispiaciuto per quell'incidente.

Restarono fermi a guardarsi per lunghissimi istanti, entrambi commossi nel ritrovarsi - perché seppur trent'anni non fossero nulla per i loro corpi, lo erano per le anime e, forse, pensò l'uomo a quel punto, umani erano stati e umani sarebbero sempre rimasti.

Lazerikhah : Risveglio
Hagufah : Corpo
Mi zeh : Chi è?
Zott habatt rozenn : E' figlia del Conte
Zott atsili : E' nobile
Dekára : Dannazione (greco)
Ani mitseta'erett : Mi dispiace
Lo khashuv : Non importa 

(Nonostante la revisione sono ancora poco convinta...)

 
 

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Capitolo 8
*** - Capitolo Sesto - Parte Seconda: Il contenitore dell'anima ***





Capitolo Sesto - Parte Seconda

"Don't be ashamed 
of all the monsters in your head"

- Kill or be killed (New year's day)


 

Levi poggiò il calice di vino sul tavolo, attendendo una qualsiasi reazione da parte del fratello che, dopo tutte le chiacchiere, aveva distolto lo sguardo, interrompendo così il contatto visivo. 
Nonostante lo conoscesse da secoli, per la prima volta si ritrovò a non comprendere il suo gesto: stava forse soppesando con serietà le sue parole? Oppure ne aveva già decretato l'improbabilità?

Con Zenas, doveva ammetterlo, affrontare la questione non era stato facile come con Alexandria. Parlare di ciò che era successo a Praga era apparso come un ostacolo quasi insormontabile, ma dopo un lungo silenzio, denso di preoccupazione, le parole erano infine riuscite a riversarsi fuori dalle labbra. Aveva raccontato tutto, forse persino più dettagliatamente della prima volta e, probabilmente, per via del fatto che Akràv  non era affatto incline alla speranza - dopo ciò che aveva visto nei suoi quasi duemila anni di vita, aveva imparato ad andarci piano con simili cose, perché dare troppa fiducia, credere incondizionatamente nel lato positivo, gli aveva più volte spezzato il cuore. Suo fratello avrebbe preteso una garanzia: non gli avrebbe concesso il beneficio del dubbio come Z'év, ne era consapevole, soprattutto ora che l'assenza di Salomone minacciava ogni aspetto delle loro esistenze. 

«Credi davvero che sia lui?» portandosi via dalle labbra i resti del vino, il padrone di casa tornò a fissarlo, indagando ogni sfaccettatura della sua espressione. Sembrava cercare in lui una feritoia, una crepa da cui far crollare la sua storia - persino il tono con cui gli rivolse quella domanda parve mettere in dubbio la veridicità della questione. 
Nakhaš sentì in bocca un gusto amaro, ben diverso da quello dell'alcolico che stava bevendo, e si chiese per quale motivo avesse creduto così fermamente di trovare, con una certa facilità, il sostegno del fratello: Zenas sembrava tutto fuorché propenso a seguirli in quella stravagante ricerca - eppure, se persino Alexandria aveva messo da parte il proprio dolore, forse anche in lui c'era qualcosa a cui appigliarsi. Il problema sarebbe stato scoprirla. 
Senza rendersene conto, nel valutare quei pensieri, lo sguardo gli scivolò nei pressi della finestra, lì dove loro sorella stava cercando di rilassarsi tra una boccata di nicotina e l'altra.
Non li stava guardando, per questo il Generale poté concedersi il lusso di soffermarsi sulla linea del suo collo pallido, il trapezio delle spalle e la schiena che per tre quarti era rivolta nella loro direzione. Fissarla lo calmava, rasserenava ogni sua tensione, anche se non ne conosceva il motivo - ma era una condizione che aveva scoperto già al loro primo incontro.

La voce della Contessa, durante tutta la sera, non aveva mai fatto capolino tra le sue frasi. Z'év lo aveva lasciato parlare come una bambina che ascolta la favola della buonanotte e, adesso, scrutandola dal tavolo dell'angusto salottino, Levi si domandò se anche lei, dopo aver udito nuovamente il suo racconto, si stesse domandando quanto quella follia potesse realmente portare a qualche risultato. Mordendosi una delle punte della lingua si rese conto di non poter perdere la sua fiducia, non a quel punto, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per trattenerla a sé e farsi accompagnare in quell'ultimo viaggio. 
Sapeva di non poter provar né a lei né ad Akràv ciò che era successo a Praga, tutto ciò che aveva erano i ricordi di quel giorno e il suo corpo, la reazione che aveva avuto al passaggio dello sconosciuto, dell'Hagufah; e nessuna delle due cose poteva essere condivisa. Bisognava provarlo a propria volta. Bisogna incontrare Salomone.

«E tu? Credi davvero alle fantasie di un pazzo?» d'un tratto, interrompendo il flusso di pensieri in cui il Generale di era ritrovato immerso, la voce di Zenas si rivolse verso la finestra, facendolo irrigidire sulla sedia. Levi osservò il Greco tendere un poco la testa in direzione della sorella, ancora immobile. Le sue preoccupazioni stavano ora per essere svelate, in base a ciò che lei avrebbe risposto, si sarebbe decretato l'esito della sua avventura.


Alexandria però non rispose subito, per un istante fece credere di non aver udito, ma poi, tirando un'ultima volta dal filtro, girò il viso verso di loro. Mentre le Chimere più antiche del mondo avevano parlato della possibilità di ritrovare il proprio creatore, lei era rimasta vigile a scrutare nelle prime ombre del crepuscolo, forse timorosa all'idea che gli alchimisti del Cultus potessero interrompere la loro piccola riunione, ma non per questo le sue orecchie si erano fatte trovare sorde e, solo in quel momento, voltandosi, Nakhaš riuscì a scorgere nella sua espressione una sorta di indecisione - e la cosa non gli piacque affatto. Chissà quale, dei dubbi del fratello, la stava tormentando.
Zenas aveva sicuramente mosso giuste osservazioni, non poteva negarlo, ma in una situazione del genere affidarsi alla logicità non era la scelta corretta. Da quando l'alchimia, l'Ars, seguiva le regole della razionalità? Loro tre non erano forse la prova che il limite al possibile rasentava l'infinito? 
Certo, nemmeno lui riusciva a capire perché Salomone non li avesse cercati, in quegli anni, perché lo avesse abbandonato senza nemmeno una parola, così come non si spiegava la sua sopravvivenza: in che modo era riuscito a compiere una trasmutazione, se era stato colpito da una pallottola? Le sue condizioni fisiche dovevano aver rasentato la penosità, una qualsiasi magia avrebbe dovuto ucciderlo, eppure, a distanza di quasi tre decenni, aveva solcato Ponte Carlo.

D'improvviso, sbattendo le palpebre, Levi si rese conto di come Alex lo stesse guardando, del modo in cui i suoi occhi cremisi si fossero soffermati su di lui. Sapeva di apparire nervoso e non voleva nemmeno provare a nasconderlo. Lui, a differenza dell'uomo seduto all'altro capo del tavolo, a quella speranza voleva restare attaccato, avrebbe infilato le unghie nella sostanza di quella convinzione fino a strapparsele; e lei doveva saperlo, doveva capire quanto fosse importante che gli restasse accanto.   
In lui, dopotutto, viveva ancora la ferma convinzione che dietro a tutti quei sotterfugi, al vuoto che aveva separato quel giorno passato all'esatto momento in cui si trovavano adesso, ci fosse un piano perfetto, ideato dalla mente del più acclamato Re israeliano, nonché l'alchimista più potente mai conosciuto. Non poteva essere altrimenti e, per questo, Nakhaš pregò che lei non si tirasse indietro. 

Alexandria prese un grosso respiro, poi socchiuse gli occhi, celando alla vista di lui le proprie emozioni. Fu quasi lacerante sentire il suo sguardo allontanarsi, il Generale poté sentire il dolore procurato dal quel gesto farsi sempre più fastidioso.

Non avrebbe sopportato perderla.

«Sinceramente?» Nakhaš avvertì lo stomaco stringersi e la nausea montare. «Preferisco partire con Levi e cercarlo, piuttosto che morire col dubbio di averlo perso per sempre». E quando i loro sguardi tornarono ad allacciarsi, l'uomo si sentì sollevare. Alexandria gli stava donando i suoi ultimi anni di vita, si stava affidando a lui come ci si affida alla corrente quando si galleggia senza meta. Lo stava appoggiando, gridando in silenzio che sarebbe stata la lama della sua spada ancora una volta, in un'ultima battaglia - e gliene fu grato; con lei al proprio fianco avrebbe potuto sfidare qualsiasi nemico.

Zenas però non parve altrettanto felice di sentire simili affermazioni.
«Pensavo di conoscervi abbastanza, invece mi rendo conto solo ora di avere a che fare con due stolti. A quanto pare l'età non aiuta la mente!» Con una mano l'omaccione iniziò a massaggiarsi le palpebre, provando a mantenere una calma che sicuramente doveva essere sul punto di crollare. «Non vi è nemmeno passato per l'anticamera del cervello che, forse, se davvero si tratta di Salomone, non vuole essere trovato?» 
D'improvviso, la sala ripiombò in un silenzio teso. 
Sì, Levi se lo era chiesto in pi occasione nelle notti che a Praga passava in solitudine, attendendo notizie dai suoi informatori, ma aveva voluto credere che il suo migliore amico si fosse semplicemente allontanato da loro per salvaguardarli dal Cultus, anche se le motivazioni reali potevano essere molteplici. 
Il loro Re sarebbe quindi stato disposto a tornare a quella vita, se loro si fossero presentati al suo cospetto, rovinandogli il piano? Egoisticamente avrebbero detto sì, eppure, come la sorella minore, si concesse qualche secondo per ponderare le diverse risposte. 
In quel silenzio, osservando Alex, il Generale fu certo che lei volesse rivederlo quanto lui; che volesse riabbracciarlo con la medesima bramosia; che volesse parlargli, dirgli tutto ciò che negli anni era stato taciuto, ma lui? 

Nuovamente, anche lei cercò il suo viso e, abbozzando un timido sorriso, si fece portavoce di entrambi: «Noi lo troveremo, akh. Lo troveremo e a quel punto sarà lui a dirci se andar via o restare. Non importa quanto tempo ci vorrà».
 


 

Yaga:

Sicuramente, rispetto alla versione iniziale, ora il capitolo a un pov più chiaro e meno giri di parole, ma ancora non so se definirmi soddisfatta o meno.

Voi come lo avete trovato? Avreste preferito qualche approfondimento in più? 

Let me know!

 Nel mentre, proseguo con la correzione dei 38 capitoli seguenti T.T

 

 




 

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Capitolo 9
*** - Capitolo Settimo: Una gabbia senza vie d'uscita ***




Capitolo settimo
Una gabbia senza vie d'uscita

 

"I think it's finally sinking in

I am nothing but a product of your sins
Hoping for the best but now I steady watch the hands of time
Oh, moving like a guillotine and swiftly counting down my life
And it goes on and on and on"

-Broken (Falling in Reserve)


 

Akràv scosse nuovamente la testa, contrariato più che mai dall'insistenza quasi nauseante di Levi. Tutti avrebbero voluto rivedere Salomone, in fin dei conti si trattava pur sempre di una sorta di padre, fratello e amico, solo che bisognava essere onesti con se stessi: ogni cosa era destinata a finire - dettaglio che, forse, con l'immortalità avevano dimenticato. Ed esattamente come ogni altra situazione, anche la loro avventura doveva dirsi giunta al termine. Quel viaggio perpetuo tra terre, persone, alchimia e tempo stava appassendo come un fiore privato d'acqua e luce; non c'era più nulla a cui aggrapparsi e, amaramente, dovevano accettarlo. 
L'eternità aveva trovato il modo di spezzarli per sempre, lottare per evitarlo era inutile. Inoltre, anche se a nessuno sarebbe piaciuta quell'idea, avevano tutti vissuto abbastanza d'accettare l'epilogo della propria storia.

Visibilmente turbato, l'uomo si alzò dalla sedia su cui era rimasto seduto durante buona parte della mattina e, quasi girando su se stesso, si spostò dal viso alcuni dread sfuggiti dall'acconciatura. Ogni suo gesto faceva trasparire il nervosismo crescente, ogni pensiero stava diventando una piccola guerra tra le pareti della mente, incapace di prendere reale forma e raggiungere le labbra. Dal discorso della notte precedente non erano passate altro che una manciata di ore, eppure eccoli nuovamente riuniti in un salotto troppo stretto e poco illuminato per ospitarli senza generare un senso di claustrofobia, quasi fossero stati messi in gabbia. Alexandria, forse più lungimirante di lui, si era messa in disparte, accovacciandosi nuovamente nella nicchia dove una piccola finestra dava sulla calla. La sua bocca non si era schiusa nemmeno una volta, nessuna parola aveva fatto capolino dalla gola; dopotutto, quello che doveva dire lo aveva già detto: era stata chiara, probabilmente troppo per i gusti del fratello. Avrebbe seguito Levi e, per quanto infastidito, Zenas ne poté immaginare il motivo - e non la biasimò, non del tutto, quantomeno. Il passato che avevano condiviso era stato lungo e pieno di insidie, li aveva avvicinati e allontanati più volte, lasciando in sospeso fin troppe questioni. Conoscendo Z'év, quindi, sapeva che avrebbe cercato in tutti i modi di liberarsi di ciò che ancora le gravava sulle spalle - colpe, segreti e rimpianti. E il Generale d'Israele, con la sua folle richiesta, gliene stava in parte dando modo.
Loro fratello aveva scelto di cercare Salomone, di rimettere insieme i pezzi di una vita distrutta, di inseguire il fantasma di quello che erano stati e avevano avuto - e lei aveva scelto di dargli fiducia, di credere in quelle sensazioni che non aveva provato in prima persona ma che percepiva reali nelle parole di lui.

Akràv avrebbe voluto definirla sciocca, ma più l'aveva fissata, la notte prima, più si era reso conto che sua sorella era tutto tranne che quello. Nel suo sguardo aveva letto un dolore profondo, un senso di colpa che la stava mangiando viva - e la capiva, diamine se la capiva! Aveva vissuto quei trent'anni fingendosi chi non era, anelando una vita normale che, stranamente, aveva potuto saggiare solo con loro. Nonostante le fughe, i bracconaggi, le menzogne e il dam con cui si erano macchiati le mani e in cui avevano imbevuto le anime, c'era stata la felicità a riempire i suoi giorni, un sentimento che ora avrebbe detto quasi sconosciuto - e per questo si sentiva colpevole. Si sentiva un mostro nel desiderare segretamente di negare all'Ars di riprendersi il suo corpo, di concedergli ancora la sua famiglia, quel branco di abomini che avevano colmato i vuoti del suo cuore.

«Perché dovrei sprecare gli ultimi anni che mi restano cercando un fantasma?» sbottò infine, rinsavendo. Cedere era sbagliato, lo sapeva. Doveva pagare per i crimini compiuti, tornare dalla sua sposa e il loro bambino, non certo anelare altra vita; anche se era al fianco di quei due.

Nakhaš picchiettò i polpastrelli sul tavolo. Quel gesto tradiva con fin troppa ovvietà la calma che cercava di mantenere in un simile momento e Zenas lo conosceva abbastanza da saper leggere gran parte delle sue reazioni e, avrebbe osato insinuare, anche dei suoi pensieri. Sicuramente, nella mente del Generale, quel termine, sprecare, doveva starsi ripetendo all'infinito, con sempre più fastidio. Per lui, qualsiasi questione riguardante Salomone era tutto tranne che una perdita di tempo, se fosse stato altrimenti infatti non gli sarebbe restato accanto per tutti quei secoli. Non c'era cosa più importante, per Levi, del suo giuramento al Sovrano - e in passato, Akràv dovette ammetterlo, era stato così anche per lui; ma ora? Adesso era davvero disposto a chinare nuovamente il capo e adempiere alla promessa fatta? Era davvero disposto a rinunciare a tutto ciò che aveva costruito in quel breve lasso di libertà? A rispondere alle sue domande venne una stretta al cuore, una pressione fastidiosa che gli fece storcere le labbra.

«Perchè, stando qui a girarti i pollici cosa pensi di ottenere? Uh? Non puoi fare progetti a lungo termine akh, non puoi innamorarti, stringere legami. Non puoi circondarti di marmocchi o vivere come un fottuto adám. Non lo sei, nessuno di noi lo è» il tono di Nakhaš vibrò nell'aria al pari di una scossa elettrica, pizzicando le orecchie del fratello con molta più violenza di quanto si sarebbe mai aspettato. Quelle parole lo colpirono forte, facendolo tentennare ancora una volta. Levi aveva ragione: non c'era nulla per cui valesse la pena restare lì, eppure non poteva negare che vi fosse qualcosa che gl'impediva di acconsentire a cuor leggero alla partenza. Forse paura, oppure codardia.

Così, digrignando i denti, Zenas provò ancora una volta a tirarsi indietro: «Per duemila e centocinquantasette anni ho dovuto fingere di possedere vite non mie. Per più di duemila anni ho dovuto rinunciare a ogni cosa. Per ogni singolo giorno extra che ho vissuto, tutto quello che ho fatto, l'ho fatto per il mio Re... e ora, fratello, ora che lui non c'è più, che possiamo davvero essere liberi, tu mi dici che devo cercare un morto per mantenere le mie promesse? Sei un fanatico, Levi, figlio di Yoel. La morte del nostro Re è stata solo la liberazione che forse stavamo tanto anelavando». L'asperità nel tono con cui si rivolse all'altro attirò persino Z'év. Dal modo in cui la sorella lo fissò fu chiaro che non potesse realmente credere alle proprie orecchie. Rinnegare Salomone a quel modo, credere che la sua morte fosse stata una benedizione era forse la peggiore delle dichiarazioni che una Chimera, una sua creatura, potesse fare - lo sapeva meglio di chiunque altro e, seppur stesse tentando di mantenere un certo contegno ed evitarsi altro dolore, si sentì ferito dalle sue stesse affermazioni.

«Lui ti ha donato la vita». Se Alexandria era parsa sconvolta, Levi si limitò semplicemente ad aggrottare le sopracciglia. Qualsiasi cosa gli stesse frullando nella testa poteva essere terribilmente pericolosa, o infinitamente demoralizzante.
«No akh, lui ce l'ha rubata. Pensaci! Pensa a quello che non siamo più. Tu saresti potuto diventare il più grande condottiero della storia! Io avrei potuto solcare i mari e diventare come Ulisse, un eroe indiscusso. Alex sarebbe potuta diventare una duchessa, una sposa e una madre» le iridi scure dell'uomo si posarono sui due ospiti: «Invece guardaci... siamo corpi immondi, esseri orribili celati sotto sembianze quasi innocenti. Siamo i peccati di un pazzo, i mostri che terrorizzano il mondo, ʁoʦeax!»
Ma a rispondergli, stavolta, non fu l'essere che aveva di fronte, bensì dalla nicchia in fondo alla stanza si levò come un tuono la voce della Contessa Varàdi«Siamo la storia del mondo Akràv. Siamo i resti delle nostre epoche, gli sbagli degli umani, gli innocenti ammazzati. Siamo i demoni che vivono tra gli umani e portano con sé i segreti più oscuri. Siamo haẕá̇lẇb şdym. Quando riuscirai ad accettarlo sarai libero, con o senza Salomone». Alle sue parole, nessuno seppe replicare: né Levi né Zenas, d'un tratto sorpreso di udire una simile rabbia e decisione scaturire da un corpo tanto esile. Dietro a tutte quelle definizioni c'era il dolore pungente di chi sapeva di aver perso tutto, ma che pur di andare avanti si era aggrappato alla convinzione di non essere frutto del male, piuttosto opera di una bellezza eretica. Lei conosceva il loro valore, lo accettava, ma soprattutto era disposta a non perderlo, esattamente come una reliquia tra le mani di un archeologo.

«Ora, a prescindere dal fatto che questo vostro inutile battibecco poteva concludersi benissimo ieri sera accettando di fare una dannatissima gita tutti insieme, c'è un modo per uscire di qui? A parte questo ingresso, ovvio» improvvisamente, nell'espressione di lei comparve una sorta di rigidità, un nervosismo che aveva sovrastato la rabbia a tal punto da fargli credere che ciò che la sorella aveva detto solo pochi istanti prima non fosse altro che un'allucinazione. Con la coda dell'occhio, allontanando appena lo sguardo, Zenas notò come la pelle di Levi avesse preso a riempirsi di squame. Nel fissare la sua mutazione, l'uomo si sentì confuso, incapace di spiegarsi il motivo di una simile reazione, ma poi, esattamente come fulmine a ciel sereno, una consapevolezza si fece strada in lui: il Cultus.
I membri di quella stupida setta erano lì, li avevano trovati. Gli alchimisti avevano infine scoperto il suo nascondiglio, forse pedinando Z'év e Nakhaš, e ora li stavano minacciando proprio come cacciatori con le loro prede.

Il Greco si morse la lingua, lo fece forte, ma senza provare alcun dolore. Erano stati così presi a combattersi tra di loro che non avevano notato come, pian piano, si erano tramutati proprio in animali in gabbia - e quella baracca era tutto, tranne che il luogo in cui restare.
 


 

dam: Sangue
adám : Umano
ʁoʦeax: Assassini
haẕá̇lẇb : Salvatori
şdym: Mostri


 

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Capitolo 10
*** - Capitolo ottavo - Part Prima: Fuga ***




Capitolo Ottavo

FUGA
parte prima

 

"Now I feel the fear rising up
Climbing up, taking over my body
And I feel my pulse starting up
Waking me again"

-Set me on fire (Flayleaf)  

 

Il padrone di casa, cercando di trovare la concentrazione necessaria, storse le labbra chiedendo alla sorella di fare un calcolo veloce: quante voci sentiva? Quanti passi? Erano più o meno di loro? Ma Alexandria si limitò a digrignare i denti, indispettita: «Se ti chiedo una via di fuga è perché non siamo in grado di contrastarli al momento, quindi, per l'amor del cielo, vuoi dirmi se c'è o meno un modo per andare via da qui senza che ci vedano?» Il suo fu poco più di un sussurro, ma arrivò chiaro alle orecchie dell'uomo che, stringendo la morsa sulla lingua, provò a mantenere la calma - la pace che si era costruito in quell'angolo di mondo stava per essere fatta a pezzi e non era certo di essere pronto a dirgli addio - ci erano voluti anni per ottenere quella parvenza di normalità! Eppure, volente o meno, il destino stava scegliendo per lui, indirizzandolo ancora una volta verso Salomone.
Abbandonare quella casa, pensò amaramente, avrebbe equivalso a ritrovarsi senza un luogo in cui stare e fuggire da Venezia lo avrebbe costretto a perdere il proprio lavoro e ciò che aveva costruito sino a quel momento, trasformandolo nuovamente nella Chimera che avrebbe desiderato non essere più, ma che alternative aveva, se non desiderava diventare una cavia da laboratorio? 
Dalle labbra sottili gli sfuggì un sospiro greve. La consapevolezza di non aver altra scelta se non quella di scappare con i fratelli si fece tanto concreta che, alla fine, si ritrovò a far loro un cenno. 

Passo dopo passo, senza guardarsi indietro, Zenas si avviò verso la piccola scala a chiocciola che conduceva al piano superiore. L'esperienza gl'impedì di restare incagliato tra un gradino e l'altro, ma Levi, dal canto suo, si ritrovò a inciampare più volte durante la salita. Le sue imprecazioni li accompagnarono fino al pianerottolo successivo, mentre Alexandria, a chiusura della fila, cercava in tutti i modi di non commettere i medesimi errori. Nonostante tenesse una mano in avanti, pronta ad afferrare il ragazzo che aveva davanti in caso di caduta accidentale, o trovare appiglio se mai fosse stata lei quella a ruzzolare, la giovane non distolse gli occhi dalla porta d'ingresso, sempre più lontana, così come fece Akràv. L'ansia stava crescendo in tutti loro con prepotenza, lo sentiva nelle ossa senza dover soffermarsi a guardare le espressioni dei fratelli - eppure gli parve di essere l'unico a provare anche un po' di paura. Per quale ragione però? Perché stava per dire addio a tutto? Perché in gioco c'era la sua vita e quella dei membri della sua famiglia? Oppure perché una cattura avrebbe significato non rivedere Salomone?

Deglutendo, l'uomo mise piede sul pavimento del primo piano e, a grandi falcate, si diresse al lato opposto del corridoio, lì dove un'altra scala li attendeva per condurli verso la mansarda. Nelle orecchie udiva appena i passi delle altre Chimere, lievi come fruscii, e per un attimo si sentì stringere il cuore. Quanto gli era mancato quel suono, la consapevolezza di essere con i propri simili, di non dover fingersi qualcun altro. Se d'improvviso la sua spina dorsale avesse preso a scricchiolare e allungarsi, sapeva che loro non avrebbero avuto alcuna reazione, che non si sarebbero spaventati - al massimo, avrebbero potuto mostrare a loro volta le mutazioni dell'Ars.

Aggrappandosi al corrimano, lanciò un'ultima occhiata al di sopra della testa della sorella, mutamente salutando la propria casa e controllando ancora una volta che nessuno avesse già fatto irruzione lì dentro, poi prese a salire.

«Venite, ci siamo quasi...»

L'angusta mansarda li accolse tra scatoloni e libri ammucchiati e, per evitare di picchiare la testa, sia lui che Levi dovettero restare piegati in avanti, schiacciandosi il più possibile per permettere anche ad Alex di raggiungerli in quel marasma. Se Zenas avesse mai pensato che un giorno, prima della sua nuova morte, quel luogo potesse essere utile per fuggire dal Cultus, certamente avrebbe evitato di riempirlo d'inutili cianfrusaglie - peccato che con il passare del tempo aveva finito col credere che a Venezia sarebbe spirato anche senza l'aiuto di quei folli.

Alzando il viso verso le travi del tetto, il Greco indicò l'unica via di fuga rimasta loro: il lucernario. Non si trattava d'altro che d'un mero rettangolo di vetro fissato al legno e, nel fissarlo, un dubbio si fece strada in lui: ci sarebbero passati? Perché come per l'ordine assente di quella stanza, anche la dimensione della finestra non era stata scelta per essere usata come uscita secondaria in caso di pericolo.
«Scherzi?» Levi portò una mano all'infisso, studiandolo accuratamente: «E' un doppio vetro, inoltre...» guardò dapprima lui, poi sé stesso e infine la sorella, «Tu ed io abbiamo le spalle grosse».
«Vedi altre opzioni, akh?»

Il Generale storse le labbra, increspando la pelle del viso. Nella luce di quella mansarda le sue squame sembrarono quasi finzione, eppure Akràv non poté che trovarle rassicuranti. Aveva un ché di tranquillizzante vedere il fratello nella sua forma meno umana - perché nel caso non fossero riusciti a passare, almeno avrebbero potuto combattere.
«Riesci a spaccarlo?» 
Anche l'omaccione portò le proprie dita verso il vetro e, dopo averne valutato lo spessore, annuì. La sua carne era una corazza, un guscio abbastanza resistente da permettergli di non ferirsi - oltre a ciò, tra di loro, era il più robusto.

Alex si fece vicina: «Sapete, vero, che nessuno di noi è un animale da salto sui tetti e là fuori è pieno giorno?» 

Zenas si sentì vacillare. In effetti non aveva valutato nemmeno quel dettaglio. Se non potevano usare le loro doti da Chimera a causa dei possibili spettatori, come avrebbero fatto a muoversi sulle tegole traballanti dei tetti?
Ma poi, a smorzare la tensione, arrivò Levi. Con uno dei suoi sorrisi rassicuranti li osservò entrambi: «Mai sentito parlare del parkour? Ci basterà fare qualche acrobazia nelle vicinanze della folla e nessuno si soffermerà sul nostro aspetto».
«Mi hai mai vista fare acrobazie?»
«Beh, non conosco tutte le tue doti, akhot» bastò una leggera piega per trasformare l'espressione di Nakhaš in una maschera di malizia - ma quello non era certo il momento migliore per stuzzicarsi tra loro.

«Avete finito di flirtare come due ragazzini? No, perché abbiamo qualcosa di più importante a cui pensare...» e così dicendo, sfilandosi la felpa dalle spalle, il Greco se l'avvolse intorno al polso e sulla mano, in modo da attutire il colpo - perché più che per la propria carne, che faticava a subire danni, temeva di far rumore e attirare le attenzioni degli alchimisti.
Premurandosi subito dopo di far allontanare i fratelli, si preparò a colpire. Il pugno che tirò al vetro fu veloce, secco, ma non servì a mandare in frantumi la lastra; ciò che ottenne fu solo una ragnatela di crepe.
Dekára, imprecò prima di riprovare e, stavolta, una pioggia di schegge trasparenti cadde loro addosso, sfiorandoli senza ferirli. I cocci colpirono il suo viso con inaspettata dolcezza e poi, d'improvviso, la frescura mattutina arrivò nella mansarda accarezzando tutti - e Zenas, dovette ammetterlo, quasi la sentì sussurrare parole di salvezza.

«Vado per primo, se a voi sta bene» a chiunque, quell'affermazione, sarebbe potuta apparire egoista. Con che presunzione, il padrone di casa, lasciava indietro i suoi ospiti? Non avrebbe forse dovuto pensare prima a loro, o quantomeno ad Alex, l'unica donzella lì presente? Eppure, le motivazioni dell'uomo erano in realtà ben più altruiste di quanto si potesse credere: il suo corpo, a contatto con i resti del vetro rimasti attaccati all'infisso, non avrebbe subìto danni e quindi lasciato tracce per quei fanatici, per non parlare del fatto che se le tegole fossero state instabili, lui avrebbe potuto utilizzare la propria coda per attaccarsi al tetto e non precipitare al di là della grondaia.
Così, concedendo un'ultima occhiata ai fratelli, Akràv si aggrappò ai bordi frastagliati e si issò oltre il bordo del lucernario. La testa passò senza alcun problema, ma quando fu il turno delle spalle, si ritrovò incagliato nel rettangolo di alluminio. Dovette stringere i denti, far leva sui bicipiti, muoversi un po' all'interno dello spazio disponibile e, tra la caduta di un coccio e un pezzo di stoffa stracciato, riuscì infine a sgattaiolare fuori da quella angusta mansarda. 

Le suole delle infradito provarono a tradirlo sulla ceramica rovente. Avvertì i piedi scivolare più volte e, all'ennesimo ruzzolone scampato, si levò le ciabatte con un grugnito.

«Si vede che non sei più abituato alle fughe!» La risata di Levi gli fece volgere lo sguardo verso il buco nel tetto, lì dove il Generale, con meno difficoltà di lui, stava sgusciando fuori da casa.
«Tu invece sì?»
L'altro, sedendosi sul bordo, alzò un piede verso di lui, facendo bella mostra degli anfibi: «Io sono pronto a qualsiasi cosa, akh!» e subito, senza dagli modo di controbattere, con un gesto lesto si piegò nuovamente verso l'interno dell'edificio.
Nakhaš stava evidentemente facendo il cavaliere e al contempo il giullare, provando a smorzare la tensione. Con la schiena curva su quel che restava della finestra, tese un braccio alla sorella, invitandola a raggiungerli lì sopra - peccato che dal modo in cui i suoi muscoli reagirono, persino a Zenas fu chiaro che qualcosa stava andando storto. 

 


 

 

Ritrarre le dita fu un gesto tanto inaspettato per Levi, quanto per lei. Alexandria osservò i polpastrelli di lui, lo smalto scuro sbeccato in più punti, gli anelli che nella luce della mattina riflettevano piccole scintille, eppure non riuscì ad afferrarli.

«Akhòt... che stai facendo? Muoviti, dobbiamo andare! Non ti starai mica cacan-» 
«No! Ma voi... voi  andate, okay? Io arrivo». Sentiva il cuore martellarle nel petto, l'agitazione crescere a ogni istante in cui, volontariamente, evitava lo sguardo di lui per mantenersi salda alla follia che aveva preso a vorticarle nella mente - però seppe comunque che, sul viso del fratello, il sorriso di solo qualche istante prima stava pian piano svanendo. 
«Amád at hiţĕbȧdé̇ẖa? Lo et réga-h tzodék!» ma Z'év mosse un passo indietro, allontanandosi.
«ʼny ywdʻ, avál shem ráẕáh rak mʻt réga» disse ancora, sentendo il tallone sfiorare il vuoto - la rampa di scale era proprio alle sue spalle, mentre il nervosismo di Levi evidentemente davanti ai suoi occhi.

Lo vide sporgersi sempre più, mugugnare qualche minaccia e, a quel punto, voltandosi, iniziò a scendere le scale prima che lui potesse decidere di farla uscire di lì con la forza - una prospettiva tanto assurda quanto reale, ne era conscia.

Sì, suo fratello aveva perfettamente ragione, dovevano fuggire e mettersi in salvo, ma non avrebbero mai potuto farlo se prima non avesse recuperato qualcosa di estremamente prezioso, abbandonato al piano di sotto: la targhetta con il nome e l'indirizzo del nuovo Hagufah.

I suoi piedi si mossero svelti lungo i gradini, saltando gli ultimi per recuperare quanto più tempo possibile. Sbatté contro qualche anta nella foga della corsa, mugolando per il dolore che avvertiva, ma alla fine raggiunse il salottino. 
Aveva i sensi in allerta, sentiva la minaccia farsi maggiore dopo ogni battito di ciglia. Erano in tanti, lo sapeva, e si trovavano proprio nella calla oltre l'ingresso, a pochi metri da lei - e se d'improvviso fossero entrati? Oh, in quel caso l'avrebbero sicuramente trovata impreparata. Con un corpo in condizioni simili era consapevole di non poter contrastare più di un paio di loro, eppure era corsa lì, da sola. Avrebbe potuto chiedere a Levi, oppure a Zenas, invece non lo aveva fatto: perché? Forse un'altra di quelle sue stupide manie? La sete di perdono che aveva anelato senza sosta per quasi trent'anni? Non lo sapeva, ma il tremore delle mani parlava di una paura assai più chiara delle motivazioni per cui era tornata in quella stanza. Il suo Re.
Salomone.
Sempre lui.

A tentoni, Z'èv prese a cercare la targhetta. Tastò il tavolo, spostando senza risultato i pochi oggetti rimastigli sopra, poi provò a cercare nei pressi della finestra dove era stata rannicchiata tutta la sera, ma nemmeno a quel punto la trovò - piuttosto però, scorse ombre tutt'altro che rassicuranti al di là dei vetri sabbiati.
I battiti del cuore si fecero sempre più veloci, urtando contro la gabbia toracica finché, d'un tratto, se lo trovò in gola.

Doveva sbrigarsi.

Senza reale logica si fiondò verso la cucina. Doveva essere lì, non c'erano altri posti in cui aveva visto Akràv o  Nakhaš maneggiarla. Con foga prese ad aprire ante, a guardare dentro ai barattoli più disparati e, alla fine, in un angolo accanto al lavandino, sotto al panno con cui suo fratello aveva asciugato le stoviglie della sera prima, vide l'oggetto del suo interesse, insieme a qualcosa di altrettanto interessante. E così, mentre le sue dita si stringevano intorno al metallo, gli occhi venivano completamente rapiti dai bagliori rossastri delle ultime ɛvɛn. Non erano molte, giusto una manciata, ma abbastanza da stuzzicarle l'appetito; con quelle la sua carne avrebbe smesso di dolere e riempirsi di piccoli lividi, la sua parte Chimera avrebbe trovato pace - e diamine, se le voleva.
Premendo gli incisivi nel labbro, Alexandria cercò di resistere al desiderio di afferrarle e ingozzarsi senza ritegno, anche se le venne difficile, ad ogni secondo sempre più - quindi alla fine infilò la mano libera dentro il barattolo, tirandole fuori e inebriandosi all'idea del sollievo che avrebbero potuto darle. Erano state una droga in quegli anni di solitudine, ne aveva abusato spingendosi quasi a consumarle tutte e, quando il Generale si era presentato alla sua porta, si era chiesta cosa avrebbe pensato di lei nello scoprirlo - dopotutto, come Zenas, Hamza e Colette, lui non ne aveva tutto quel bisogno; i loro corpi erano stati sottoposti a così tanti rituali d'aver ampliato i limiti della sopportazione. Che male avrebbe fatto, quindi, appropriarsi di quei resti? Se fossero restate in quella casa le ɛvɛn sarebbero andate sprecate - perché permetterlo?

Attenta, la Contessa posò tutte le sfere nel panno che aveva accanto e poi, con altrettanta cautela, ne fece un fagottino che infilò nella tasca della giacca alle sue spalle, quella che, come Levi al loro arrivo, aveva adagiato sullo schienale della sedia. Nel rimettersela addosso però, non poté negare a se stessa di sentirla molto più pesante di come la ricordava, quasi quelle piccole palline cremisi potessero sfondare il tessuto da un momento all'altro, svelando il suo riprovevole gesto.

Fu in quel momento, però, che qualcuno bussò alla porta, riportandola con violenza alla realtà - una violenza che le fece tremare le gambe e afferrare con forza il bordo del pianale della cucina.

Erano loro? Il Cultus aveva infine deciso di agire?

Paralizzata, Z'èv non riuscì a impedire agli occhi d'incastrarsi tra le venature del legno dell'orribile porta che, ancora una volta, le parve troppo malandata e sottile per poter restare in piedi e farle da scudo.  

Uno.
Due.
Tre.
Quattro.
Perché le mie gambe non si muovono?, si chiese, incapace persino di deglutire.

Cinque.
Sei.
Sette.
E se stavolta muoio davvero? Se lo faccio prima di ritrovarlo?, non seppe spiegarselo, ma gli occhi iniziarono a bruciare con eccessiva intensità. Da quanto tempo il terrore non l'attanagliava a quel modo? Sicuramente abbastanza da farle provare ogni sensazione in modo amplificato.

Otto.
Nove.
Dieci.
Ma io non posso perderlo ancora, non prima di...

Un nuovo tentativo la ridestò. 
Doveva andare, correre verso i fratelli il più velocemente possibile. Il Cultus era lì e lei non poteva permettersi né di essere catturata nè di fargli trovare la targhetta che teneva nella mano - avrebbero saputo dove cercare gli altri e, soprattutto, avrebbero potuto trovare lui.
Così, armandosi di fermezza, si mise a fuggire. Falcata dopo falcata, Alex si spinse su per i minuscoli e minacciosi gradini della scala a chioccola, ma appena mise piede sul pianerottolo del piano superiore, il suono della porta che veniva scardinata la fece sussultare e inciampare sui propri passi. 
Erano entrati. 


 

Amád at hiţĕbȧdé̇ẖa?: stai scherzando?
Lo et réga-h tzodéknon è il momento giusto
ny ywdʻ, avál shem ráẕáh rak mʻt régalo so, ma ci vorranno solo pochi istanti

 

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Capitolo 11
*** - Capitolo ottavo - Parte Seconda: Fuga ***




Capitolo Ottavo - Parte Seconda

Fuga
 

"You'll never feel at home,
Anywhere, anywhere you go,
And when you sit around,
All your questions they start to grow,
They won't give you any answers,
And they lie about what they don't know"

Heavy Prey (Lacey Sturm & Geno Lenardo)

 

Innsbruck, primavera del 1743

Colette le tirò malamente i capelli, facendola mugolare per l'ennesima volta. Il cuoio capelluto stava iniziando a darle fastidio, ma non avrebbe saputo dire se fosse per la brutalità di quelle spazzolate, oppure per qualche altro motivo - ricordava gran poco di ciò che era successo la notte precedente e l'unica certezza rimastele era che si trovassero lì per levarle di dosso i resti di quegli eventi che, purtroppo, si ammassavano sfocati nella mente. Da più di un'ora si erano richiuse in quello che si sarebbe potuto definire come un sottotetto, dove sottilissime linee di luce entravano con timore dalle tegole poggiate male,  illuminando appena l'ambiente. Persino i raggi del sole sembravano riluttanti a sfiorare i loro corpi e, Alexandria, osservandoli, non riuscì a biasimarli: chi avrebbe osato addentrarsi in quel luogo con un monstru come lei presente? 
Volgendo lo sguardo in direzione dell'unico specchio presente, si concesse ancora una volta il raccapricciante lusso di spiare i cambiamenti del proprio corpo. Nuda e rannicchiata in un scomodo catino pieno d'acqua fredda, poteva scorgere ogni dettaglio di ciò che la rendeva simile a un demonio e, quindi, repellente anche per il sole.
I suoi bellissimi capelli dorati stavano virando verso una tonalità cinerea, smunta, malata, mentre le iridi parevano essere macchiate di sangue, non più "ricolme di muschio", come era solita dire bunică Orsòlya. Sotto alla pelle, le vene creavano con maggior intensità arabeschi bluastri che andavano a raggrupparsi nei pressi di lividi più o meno grandi, delineando una percorso a tappe che conduceva al centro del busto, sulla bocca dello stomaco - lì dove un'insolita cicatrice era comparsa. 

La Contessina vi passò sopra le dita.

Sembrava essere vecchia di anni, eppure era la prima volta che la vedeva. Non aveva idea del perché si trovasse su di lei, ma sapeva essere parte di quel cambiamento, della nuova sé - e temette quali altri significati si stessero nascondendo tra le linee di carne frastagliata che si susseguivano l'un l'altra dando forma a un simbolo sconosciuto. Che fosse un sigillo? Il marchio del Diavolo? Che fosse quella la ragione per cui, tutto ciò che Dio aveva creato, persino il sole, sembrava intimorito da lei?

La donna alle sue spalle strattonò ancora, strappandola da quei pensieri nel tentativo di togliere gli ultimi grumi di sangue dalle lunghezze annodate. 
«Santi Numi, sembri uscita dalla trincea... che ti hanno fatto?» La retoricità di Colette era evidente, il suo non era altro che un quesito rivolto a se stessa ad alta voce, ma Alexandria volle ignorarlo. Era morta e risorta in una sola notte, questo era ciò che sapeva, e aveva bisogno di approfondire la questione, di capire. Sentiva il desiderio lacerante di spiegarsi ogni cosa, anche se ne aveva paura - dopotutto le era stato insegnato che eresie del genere potevano solo essere frutto del Maligno in persona e, chiunque ne avesse tratto profitto, sarebbe stato condannato alle fiamme infernali per l'eternità. E lei era tutto, fuorché una peccatrice. Pregava ogni giorno, compiva atti di carità nonostante la precaria situazione familiare; andava in Chiesa, ubbidiva ai propri genitori con accondiscendenza, amava il prossimo senza mai nascondere secondi fini; era casta, altruista, eppure eccola in quella situazione, toccata dal Demonio. Forse non era stata la figlia più fedele del Signore, forse il suo credo aveva vacillato più volte negli anni, soprattutto quelli, ma non per questo si meritava un destino tanto crudele. Sì, le era capitato di desiderare l'uomo altrui, ma solo una volta - una! Era forse giusto punirla così?

Confusa, si strinse le ginocchia al petto, nascondendovi il viso: «Suppongo d'esser stata assassinata» ammise poi, avvertendo i brividi riempirle l'epidermide. Dirlo le parve ancora più irreale di quanto fosse pensarlo, in fin dei conti chi mai avrebbe desiderato la sua morte? Non aveva arrecato torti, né pensava di essere tanto antipatica da meritarsi una simile fine, quindi perché ucciderla? Era forse opera di qualche strozzino con cui suo padre si era indebitato? Una resa dei conti? Oppure si trattava di qualche fanciulla innamorata del suo futuro sposo, accecata dalla gelosia e pronta a tutto pur di restare l'unica ospite del suo talamo?

Non ne aveva idea, però non era quella la domanda che più l'assillava, al momento. Ciò che maggiormente la turbava era il come potesse essere ancora viva. Stava respirando, il suo cuore batteva, i sensi percepivano ogni cosa con maggior nitidezza - non c'erano dubbi sul fatto che avesse vinto la morte, peccato che, da quello che aveva studiato sulle Sacre Scritture, solo Lazzaro era stato graziato con un miracolo di tale entità e, a operarlo, era stato Gesù stesso. 

«Supponete bene, cara, ma ciò non toglie che vi abbiano ridotto pietosamente».

Alexandria rimase muta, tornando a fissare lo specchio. Sì, il suo aspetto era terribile, ma forse la donna con lei non si stava riferendo a quello; probabilmente, il suo disappunto era causato solo dalle incrostazioni di sangue.

«Perché voi non avete paura di me Frau Colette?» 
Seppur non si fosse ancora realmente soffermata sulla questione, non poteva negare di averci in parte pensato. Da quando aveva aperto gli occhi nella carrozza di Lord Van der Meer, o dell'uomo che si faceva chiamare con tale nome, nessuna delle persone che aveva incontrato l'aveva guardata con orrore. Niuno si era permesso di additarla come un mostro, men che meno le aveva inveito contro - o quantomeno così le era sembrato, visto che non aveva compreso nemmeno mezza parola dei loro discorsi. Sembrava quasi che per loro fosse normale vedere simili abomini e, se doveva essere del tutto onesta con se stessa, pensando a Levi e ai suoi occhi le parve di capirne il motivo; che fosse a causa sua? Era... anche lui come lei?

Dopo un nuovo tentativo fallito, Colette sbuffò, rinunciando per qualche istante a finire la toiletta. Abbandonando la spazzola a terra, gattonò poi di fronte al catino, frapponendosi tra l'ospite e il suo macabro riflesso. Quelli della donna furono movimenti scoordinati, intralciati dalla lunga sottogonna e il grembiule allacciato in vita, ma le permisero di arrivare a lei in pochi istanti - e solo a quel punto, la Contessina Varàdi, notò quanto grandi e profonde fossero le iridi della sconosciuta con lei e come, nei suoi capelli, si potessero scorgere riflessi bluastri, ammalianti; fu come posare lo sguardo sul piumaggio di un meraviglioso esemplare di corvo, anche se mai si sarebbe permessa di paragonare un simile uccellaccio all'incantevole creatura che aveva di fronte.
Colette era bella, sublime. Sin dal primo momento in cui l'aveva incontrata, nel salotto di quella che sarebbe dovuta diventare sua suocera, Alexandria ne era rimasta affascinata - eppure, a guardarla bene e così da vicino, qualcosa in lei sembrò anche terribilmente minaccioso.

«Di cosa dovrei avere paura, di grazia? Voi ed io, mi preme farvelo notare, siamo uguali. E se ancora non vi fosse chiaro, chiunque in questa casa è esattamente come noi. Siamo la stessa cosa, seppur diversi. Siamo fratelli, Z'èv» allungando una mano verso di lei, e accarezzandole la gamba, la donna pronunciò per la prima volta un nome che la Contessa avrebbe presto imparato a sentire proprio.
Z'év, il Lupo.

 

Venezia, giorni nostri

Fratelli.
Era da loro che doveva tornare, si disse. Restare lì, a metà di una stupida scala a chiocciola, non avrebbe fatto altro che metterla in pericolo. Non aveva idea di come il Cultus intendesse piombare in casa e, se non voleva rischiare la cattura, doveva allontanarsi da quella stanza il prima possibile.

Deglutendo, seppur a fatica, s'impose di riprendere il cammino. Non doveva esitare, non ora che era riuscita a trovare una ragione per vivere ancora qualche tempo. Levi e Zenas la stavano aspettando, confidavano nel suo ritorno così come lei faceva in quello di Salomone - e non poteva deluderli. Non un'altra volta.
Aggrappandosi con forza al corrimano, e premendo sulle punte dei piedi, Alexandria si diede la spinta necessaria per balzare al piano superiore e ruzzolare nel corridoio deserto, dove con la spalla andò a sbattere contro una porta e le ginocchia le ricordarono quanto incoscienti fossero quei movimenti, ma al posto di fermarsi e dare al corpo un po' di tregua, si lanciò senza pietà verso la rampa seguente.

Le suole schiacciarono alcune schegge di vetro cadute poco prima, infastidendole l'udito. Intorno a lei iniziavano a esserci troppi rumori, troppo caos - e temette di non percepire in tempo il pericolo. Sentiva il battito del cuore aumentare a ogni falcata, lo scricchiolare delle assi sotto al suo peso; percepiva il proprio respiro grosso, il frantumarsi dei resti a terra, i colpi lontani di quei luridi, finti alchimisti farsi sempre più insistenti e si sentì vacillare. Non ricordava di essersi sentita tanto minacciata come in quell'istante, anche se era certa fosse già successo prima - ma come per ogni cosa, la memoria tendeva a giocarle brutti scherzi.
Così, forse in balìa dell'ansia o del timore di essere troppo lenta, il corpo reagì contro la sua volontà, iniziando a mutare in modo da darle più forza.
Il viso si allungò appena, assumendo connotati ferini; le ossa scricchiolarono lievemente, rompendosi e ricomponendosi in brevissimo tempo, assumendo posizioni tutt'altro che armoniose e tirando la stoffa dei vestiti quasi al limite. Le unghie divennero veri e propri artigli e, se qualcuno avesse potuto vederla in quel momento, avrebbe erroneamente pensato di essere al cospetto di un lupo mannaro - ma quelli, purtroppo, altro non erano che i risultati degli esperimenti e delle mutazioni che Salomone aveva compiuto su di lei. Ecco come l'alchimia si era piegata al desiderio di un Re folle, capriccioso ed eccessivamente curioso, deturpando la giovane donna che era stata.

Z'èv si agganciò al legno di alcuni scalini, si issò e, prima che se ne potesse rendere conto, fu nuovamente nella mansarda, a un passo dal tetto su cui segretamente sperò di trovare ancora i fratelli, in attesa. 
Presa dalla foga, e incurante del fatto che con un simile aspetto avrebbe potuto attirare su di sé le attenzioni meno desiderate, si concesse un nuovo balzo, afferrando i bordi zigrinati del lucernario e facendo leva sulle braccia doloranti. 
Sentì il vetro tagliente impigliarsi nella stoffa dei vestiti, minacciare la giacca dove aveva nascosto il suo bottino e, allora, cercò di rallentare i movimenti, anche a costo di diminuire il vantaggio sugli alchimisti - dopotutto le ɛvɛn erano ben più importanti di qualche istante di ritardo. 
Ringhiando e scalciando, si sforzò di trovare la forza necessaria per uscire da quel buco e, appena ci riuscì, si ritrovò ad arrancare sulle tegole. Non lo avrebbe ammesso, non di fronte ai fratelli, ma sentiva di essere sul punto di avere un capogiro. Stava davvero rischiando grosso, eppure non era intenzionata a confessare le sue reali condizioni; l'avrebbero lasciata indietro, ne era certa. Chi, in una situazione del genere, si sarebbe assunto la responsabilità di portarsi dietro un peso morto? Chi, nella loro condizione, avrebbe messo a repentaglio ogni cosa per un'unica persona?

Levi la strattonò, costringendola a mettersi dritta: «Che cazzo ti è saltato in mente?!» Nel suo tono c'era una rabbia inusuale, una preoccupazione che le fece schizzare il cuore in gola: «Il Cultus ci è addosso e tu ti preoccupi di... cosa? La giacchetta?»
Alex si morse il labbro, lasciando che il corpo tornasse alla sua forma più umana. Non sapeva che dire, ma era certa di dover rispondere in fretta; non poteva correre il rischio che si accorgesse di ciò che aveva rubato, men che meno che credesse fosse un'incosciente - così alzò il braccio dove, malamente, pendeva la targhetta: «Non potevamo lasciarla indietro, ci avrebbero trovati. O avrebbero trovato lui» ansimò.

Il Generale spostò lo sguardo dal viso della sorella all'oggetto, aggrottando le sopracciglia. Ci mise qualche istante prima di mollare la presa su di lei e, poi, con un grugnito, le diede le spalle.

«Dovevi dirmelo».
«Non avremmo fatto in tempo, Levi. Stanno per entrare, dobbiamo agire svelti e... e quella era la soluzione più rapida».

«Ma non la più saggia! Dannazione!» Portandosi le mani al viso, l'uomo cercò di nascondere il proprio fastidio, ma ogni suo muscolo ne tradiva il tentativo - e Z'èv se ne sentì in colpa. Odiava sapersi il motivo di tanta frustrazione, detestava l'idea di averlo fatto agitare a quel modo per una semplice noncuranza; se se ne fossero accorti prima, era ovvio, non avrebbe dovuto rischiare la cattura. 
Fece per aprir bocca e giustificare la decisione presa, ma prima che potesse proferir parola Zenas si mise in mezzo: «Okay, fanculo! Ha agito da sciocca, può succedere, ora però abbiamo altro di cui preoccuparci, quindi che ne pensate d'iniziare a correre?»

E, silenziosamente, nel sentire il fratello riportare l'attenzione sulla vera minaccia, Alex lo ringraziò. Involontariamente le stava evitando d'affrontare un'inutile e fastidiosa discussione, un dibattito che era quasi certa di perdere.
 


 

Monstru: mostro (rumeno)

Bunică: nonna (rumeno)

Frau: signora (tedesco)

 
 
 

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Capitolo 12
*** - Capitolo ottavo - Parte Terza: Fuga ***




Capitolo Ottavo - Parte Terza

Fuga

 

You're 11 minutes away and I have missed you all day
So why aren't you here?
Why aren't you here?
Why aren't you here?

- 11 Minutes (Halsey feat. Yungblud)

 

Un piede davanti all'altro, i tre si ritrovarono ad avanzare - e a tratti arrancare - sulle tegole malferme di una città tanto gremita da farli passare inosservati. 
Grazie al cielo, gli occhi dei turisti si soffermavano sulle vetrine colorate delle botteghe, i canali su cui le gondole galleggiavano abbandonate, gli scorci più caratteristici di Venezia lasciando modo a i tre fratelli di muoversi velocemente, anche se le continue interruzioni e i cambi obbligati di direzione parevano complottare contro di loro al posto di quegli umani. Più volte infatti, si ritrovarono ad arrestare la corsa a pochi centimetri dal vuoto, arrivando ansimanti a un passo dalle tettoie arrugginite che non avrebbero retto il loro peso - ed era in quei momenti che, con il cuore in gola, Zenas si concedeva il lusso di osservare giù, in mezzo alla folla. Il suo sguardo vagava frenetico sui passanti sotto di loro, saltando da una testa a quella successiva alla disperata, ma non eccitante ricerca di qualche viso minaccioso. 

Più scrutava quegli sconosciuti però, più si rese conto che la sua mente si stava piegando al terribile gioco della paranoia; già, perché persino negli occhi dei bambini che si soffermavano a fissare il cielo e i gabbiani gli pareva di scorgere la perversione degli adepti del Cultus.

Così, di fronte all'ennesimo salto troppo lungo per essere compiuto, si ritrovò amaramente a pensare di essere infine giunti al momento di cambiare strategia - perché andare di tetto in tetto, rischiando tuffi di decine di metri o scivoloni rovinosi, non sembrava più essere la soluzione pratica che era stata all'inizio.

Aprendo le braccia in modo da bloccare le Chimere con lui, Akràv si concesse il lusso di un sospiro, poi, quando fu certo che i due alle sue spalle fossero abbastanza vicini da udirlo nonostante il fiato corto, disse: «Separiamoci.» 
Il suo commento fu un colpo di scena che, dovette notare, lasciò i fratelli più interdetti di quanto si sarebbe immaginato, visto il silenzio che ne seguì - eppure, ne era certo, non doveva essere il solo ad averci pensato.
Dopotutto, in una situazione del genere, quella era sì, la soluzione più pericolosa, ma al contempo anche la più logica. Certo, dopo tanti anni di separazione persino qualche ora avrebbe potuto spaventare, però di quel passo non avrebbero concluso nulla di buono - inoltre, gli alchimisti che avevano alle calcagna avrebbero potuto sfruttare le loro difficoltà del momento per bloccargli la fuga; e a quel punto non avrebbero avuto modo di scappare e raggiungere il Re.

Oltre a ciò, c'era da dire che dividendosi avrebbero potuto rimettere piede a terra, camuffarsi da tra i turisti e farsi strada fino a un posto nettamente più sicuro di quei tetti, mentre muovendosi a quel modo non avrebbero fatto altro che continuare a rischiare di essere visti. 
Insieme non erano altro che un bersaglio facile, ma da soli potevano diventare un'effimera visione.

Con la coda dell'occhio, Zenas vide Levi passarsi una mano tra i capelli e alzare il viso verso il cielo: «Articola il piano.»
«Muovendoci a questo modo siamo esposti a troppi rischi, quindi credo sia meglio separarci, depistare maggiormente quei fanatici e ritrovarci tra un paio d'ore.»
«Dove?» chiese il Generale, forse conscio quanto lui di non poter continuare a correre su tegole sempre meno sicure.
«E poi?» domandò invece Alexandria, che dal tono scocciato era ovvio che fosse meno propensa dei fratelli ad allontanarsi.

Il Greco spostò lo sguardo su di lei, voltandosi appena. Il modo in cui teneva le braccia strette al petto e lo sguardo fisso su di lui era tanto loquace da permettergli di immaginare ogni singolo pensiero le stesse passando per la mente in quell'istante. Sua sorella era palesemente preoccupata. Sicuramente temeva di scendere in mezzo alla folla e ritrovarsi braccata, un animale in trappola. Si doveva già immaginare galvanizzata, rinchiusa, trasformata in una cavia o, addirittura, ammazzata - e come biasimarla? Anche lui provava le stesse sensazioni; anche lui sentiva il cuore bloccato in gola alla sola idea di dover abbandonare ogni speranza proprio ora che ne aveva scorte di nuove - però, nel circolo vizioso in cui si erano ritrovati incastrati, non avevano molte alternative.

 «Ci ritroviamo a Campo Nazario Sauro, vicino alla stazione. Prima di raggiungervi mi fermerò ad acquistare i biglietti per Milano, in modo da non dover restare fermi per troppo tempo in attesa del treno, poi una volta là partiremo per Vienna.»

«E' rischioso» puntualizzò lei: «potrebbero non esserci corse per l'Austria, in giornata, oppure gli alchimisti potrebbero precederci e...»
Nell'arrancare di Alex, Levi s'intromise.
«Hai altre proposte?» I loro visi si voltarono quasi all'unisono, prendendo a scrutarsi - e, per un attimo, Zenas temette che fossero sul punto di mettersi a bisticciare.

La ragazza rimase zitta per qualche istante, forse cercando di sostenere uno sguardo che, celato dietro alle lenti scure, doveva essere puntato proprio nel suo, poi, con una scrollata del capo, sembrò arrendersi. La sua ostinazione, fu facile capirlo, non era frutto della poca fiducia nel piano, ma piuttosto della paura di non ricongiungersi più.
«No, ma...»
Nakhaš le si fece vicino. Giusto un paio di passi, notò il Greco, quasi desiderasse sfiorarla ma ne temesse le conseguenze: «Dobbiamo andare da Lui, Z'év. Il più in fretta possibile e a qualunque costo. Abbiamo già perso troppo tempo» aggiunse poi, esortandola - e Akràv non poté che annuire. Levi aveva perfettamente ragione: se volevano incontrare Salomone dovevano sbrigarsi - perché esitare li avrebbe potuti condannare, vista anche la ricomparsa del Cultus nelle loro vite. 

Alexandria spostò lo sguardo su di lui, lo scrutò a tal punto che pensò stesse cercando di leggergli la mente; infine, stringendosi nelle spalle si lasciò sfuggire un sospiro.

«Okay».

 

Il tramonto arrivò presto, forse più di quanto si sarebbe aspettato. Ne scorse i raggi rossastri sulle facciate degli edifici più alti, sui tetti che fino a poco prima lo avevano aiutato a fuggire da casa propria e, con una morsa allo stomaco, Zenas decise che fosse giunto il momento di raggiungere Campo Nazario Sauro.

Stringendo le dita sui biglietti che teneva nascosti nella tasca di una giacca rubata, dove ringraziò di aver trovato anche qualche spiccio, lanciò un paio di occhiatacce intorno a sé. I turisti animavano ancora gran parte della città, muovendosi a fiumana lungo le calle principali - solo quelle più strette e tortuose venivano lasciate vuote e, seppur sapesse di star per compiere una sciocchezza, lui vi si infilò dentro.

A passo spedito, e andando a sbattere di tanto in tanto contro i muri, a tratti troppo ravvicinati per il passaggio delle sue spalle larghe, Akràv si fece strada nel dedalo di viuzze che rendevano Venezia così simile a un labirinto, riuscendo però a orientarsi a sufficienza da esitare solo un paio di volte. 
Mancava poco al loro incontro e perdersi era tutt'altro che gradito - anche perché, fare ritardo o restare bloccati per più di qualche manciata di minuti, non era un'alternativa ammissibile: in primo luogo non avevano un posto in cui rifugiarsi lì in città, secondariamente dovevano stare attenti a qualsiasi movimento sia fisico sia bancario, se non volevano farsi scoprire o rimanere senza soldi - e affittare stanze, così come acquistare altri biglietti, poteva risultare castrante per il loro scopo; anche perché, per quanto ne sapeva, Alexandria era l'unica ad avere ancora con sé il proprio portafogli e, a meno che in quegli ultimi decenni non fosse diventata ricca, dubitava potesse sostenere le spese di tre persone da lì fino a Vienna per più di qualche giorno.

Arrivato in prossimità dell'ultima traversa prima della piccola piazzetta, Zenas rallentò il passo fino a fermarsi e, acquattandosi contro una parete, provò a sbirciare in direzione della marmaglia di passaggio.
I turisti erano ovunque, e così come avrebbero schermato lui da possibili occhi indiscreti, lo avrebbero fatto anche con i suoi fratelli - un dettaglio su cui, nel momento in cui aveva proposto quel luogo, non aveva riflettuto. Già, perché se Levi poteva in qualche modo distinguersi per aspetto, la sua capacità di mimetizzazione lo rendeva comunque invisibile, giocando a suo favore in situazioni come quella, mentre di Z'év, purtroppo, non si poteva dire altrettanto. Il suo metro e sessantacinque era un problema tanto per lui quanto per lei, perché impediva a entrambi di avere una visuale sufficiente da individuarsi.
Così, imprecando, l'uomo non poté far altro che abbandonare il proprio nascondiglio e avanzare tra i presenti - il tutto scongiurando una possibile cattura.

Mani in tasca e sguardo furtivo, lasciò che le infradito scandissero i suoi passi. 
Falcata dopo falcata si mise a scrutare con sempre maggior attenzione i presenti alla ricerca di visi familiari. Eppure, più gironzolava come un cane randagio in mezzo ai visitatori, più gli sembrò impossibile scovarli - e per un attimo, uno soltanto, gli sembrò di essere ritornato a Cipro, quando per i mercati del pesce rincorreva una persona che, ormai, non c'era più da molto tempo.
Zenas aveva infatti scelto di vivere a Venezia perché, in piccola parte, gli ricordava casa, un luogo in cui volontariamente aveva deciso di non tornare mai più. Allo stesso modo però, la nostalgia e l'amarezza che aveva conservato nei secoli lo avevano spinto a trovare un posto che potesse, di tanto in tanto prima della morte, fargli riaffiorare i ricordi di quel periodo.

Suo figlio avrebbe amato quell'angolo di mondo, pensò. Peccato però che Niketas fosse svanito da secoli e lui, in quel momento, avesse ben altro a cui badare: trovare Alexandria e Levi in primis.

Arrivato all'altro capo della piazzetta si volse verso il punto da cui era partito. Non li aveva visti. Nessuno gli era apparso familiare o lo aveva riconosciuto;  era quindi possibile che non fossero ancora lì?
Sfilando un braccio dalla tasca, alzò il polso quel tanto da rivelare l'ennesimo bottino dei furti che aveva compiuto nel raggiungere la stazione. Il quadrante dell'orologio segnava già cinque minuti di ritardo e la cosa non gli piacque affatto.

Dove diamine erano finiti i suoi fratelli?

Si morse la lingua, tornando a fissare di fronte a sé. 
Soggetti di ogni tipo si muovevano scoordinatamente avanti e indietro per il rettangolo di pietra che era Campo Nazario Sauro, eppure nessuna chioma od occhiale da sole catturò la sua attenzione. Più volte confuse i capelli grigiastri di alcune signorotte con quelli di Z'èv, così come ogni bel ragazzo dal fisico slanciato e un look insolito gli fece credere si trattasse di Nakhaš - peccato che non fossero mai loro.

Che si fossero persi? Dopotutto non si potevano certo dire esperti quanto lui di quelle calle e, visto il numero di turisti presenti, confondersi poteva essere una conseguenza pressoché naturale.

Nuovamente abbassò lo sguardo sull'orologio.
Quasi dieci minuti.

Di quel passo avrebbe dovuto partire da solo - sempre se avesse scelto di farlo, visto che in fin dei conti lui non aveva nulla da perdere e poco da guadagnare con quel viaggio; era solo per loro, per i suoi fratelli che, alla fine, si era deciso a intraprendere un'ultima avventura. In assenza di quei due però, non aveva alcuna ragione per inseguire un fantasma.
Anche se si trattava del Re. Di Salomone. Dell'uomo a cui aveva giurato eterna fedeltà.

Improvvisamente qualcosa lo strappò via da quei pensieri.
Una forte pressione gli strinse il braccio, poi il calore di un corpo fece capolino da oltre i vestiti. C'era qualcuno accanto a lui e quella consapevolezza gli fece schizzare il cuore in gola.

Sono fottuto, si disse, ma subito dopo una voce si fece strada verso di lui, rassicurandolo.

 «Amore, scusa il ritardo! Trovare un bagno è impresa impossibile» sbuffò Alexandria abbastanza forte da farsi riconoscere. 

Grazie al cielo.

Zenas volse il capo nella sua direzione e, trovandola sorridente accanto a sé, non poté impedirsi di ricambiare: «Sì, immaginavo, anche se a un certo punto ho pensato ti avessero rapita» confessò volontariamente in quel fittizio scambio di battute.
Apparire umani, normali: questa era stata la prima regola che Salomone gli aveva chiesto di seguire - e loro lo avevano fatto, tanto da diventare un gesto istintivo anche quando non vi era necessità.

Z'év si protese un poco col busto, cercando all'altro fianco del fratello qualcosa, o meglio qualcuno, che per lui non fu difficile immaginare. Ma Nakhaš non era lì e la preoccupazione sul viso di lei fu più chiara di molte parole, esattamente come la forza con cui aumentò la stretta su di lui, quasi a cercare sostegno.
Chinandosi, quasi a volerle dare un bacio sulla fronte, sussurrò un: «Arriverà» di cui però non fu certo nemmeno lui, poi poggiò le labbra tra i capelli di lei e si rimise dritto. Alexandria ad ogni modo non gli diede nemmeno il tempo di rimettersi a osservare la folla, alzò lo sguardo e il rosso cupo delle sue iridi sembrò diventare ancora più scuro, denso come il sangue rappreso: «Non puoi dirlo. E io non posso accettare una bugia, nemmeno se sei tu a pronunciarla.»

 «Mi fido di lui, akhòt, è diverso.»
 «Ma non ha alcun controllo sul Fato, è questo il problema.»
Fu lieve, ma in quelle parole Zenas udì l'incrinatura della sua voce, quel tremolio fastidioso che stava cercando di nascondere - e non la biasimò. Così la tirò un po' più vicino, finendo con l'intrecciare le dita alle sue.

Dove diamine era finito?

L'uomo si morse il labbro:  «Possiamo aspettarlo» sussurrò, ma sapeva bene che il tempo a disposizione stava diminuendo e, arrivati a un certo punto, se ne sarebbero dovuti andare con o senza Levi: «Abbiamo ancora un po' di margine.»
Z'év gli si aggrappò alla giacca senza proferire parola. Le reazioni del suo corpo, quei gesti, facevano bene intendere quanto fosse impegnata a cercare il fratello tra i passanti, forse persino pregare quel Dio che avevano ripudiato in modo che esaudisse il suo desiderio, chissà.
Così attesero l'uno accanto all'altra in un silenzio carico di tensione. Lo fecero per uno, due, cinque, dieci minuti, ma del Generale d'Israele nemmeno l'ombra - e ormai non potevano più concedersi il lusso di restar lì.

Akràv strinse la presa sulla mano di lei, scuotendola appena. 
«Dobbiamo andare» sibilò poi con una freddezza che gli parve estranea, troppo dura per il cuore palpitante della sorella.

E la vide, seppur con la coda dell'occhio. Nell'espressione della Contessina Varàdi si andò a formare una crepa, una smorfia tutt'altro che piacevole e che lo fece sentire colpevole - perché nonostante non fosse lui la causa del ritardo di Nakhaš, era per sua decisione che lo stavano lasciando indietro.

Mosse un passo, sentendo resistenza. Alexandria era ancora attaccata alla sua mano e alla giacca che aveva indosso, ma faticava a seguirlo - lì, a una falcata di distanza, la sua esitazione era evidente.

«Non possiamo restare, Z'év. Hevé lĕ־şá̌m ẖykh, capisci?» 
Con dolcezza si portò la mano di lei al petto, sul cuore, in modo che potesse sentirlo battere tanto quanto il suo.
Vi fu ancora un altro istante di esitazione, un lunghissimo frangente in cui la vide combattere contro se stessa, poi cedere, e infine incamminarsi.



Hevé lĕ־şá̌m ẖykh: Lui ci aspetta

 

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Capitolo 13
*** - Capitolo nono: Morire centouno volte ***





Capitolo Nono
Morire centouno volte

 

"I could never see how it hurts, to feel the worst,
I'll never make it, even though how it hurts,
That I won't be that type of guy that never tried,
That never took a chance, or took his moment to fly to be free"

Love the Fall (Michael Paynter)


 

Ogni due falcate la Contessa Varàdi si volgeva all'indietro. I suoi occhi dardeggiavano come frecce tra i passanti, infilandosi tra di loro, nelle traverse, fra le tende delle finestre aperte alla disperata ricerca del sorriso del fratello - ma tutte le volte finivano con il tornare di fronte a lei, in direzione della Stazione Ferroviaria Santa Lucia.

Più si avvicinavano alla loro destinazione, più Alexandria sentiva le gambe farsi molli nel tentativo di tradirla, quasi il corpo le stesse anticipando il peggio - e tutte le volte che si soffermava sul quel pensiero, il cuore le batteva nel petto tanto da farle male.

Aveva paura, non lo negava. 
Era terrorizzata perché, se lo conosceva abbastanza bene, sapeva che Levi non avrebbe mai fatto ritardo in circostanze come quelle - oppure, se fosse accaduto, non sarebbe stato per sua volontà. Doveva quindi essere successo qualcosa e, quel qualcosa, pensò con un groppo in gola, doveva avere a che fare con il Cultus.

Aggrappandosi con forza alla mano di Zenas, la ragazza tentò di non lasciarsi sopraffare dai sentimenti, anche se all'ennesimo, tragico pensiero le fu quasi impossibile continuare ad avanzare.

E se Levi fosse stato catturato
Quasi inciampò.


No, si disse, quella non era un'opzione.
Con più probabilità, se gli alchimisti erano riusciti a raggiungerlo e a metterlo spalle al muro, suo fratello doveva aver scelto la morte - già, perché Nakhaš non si sarebbe mai fatto prendere vivo, questa era una certezza. Troppe volte durante le perlustrazioni o i viaggi più sfiancanti, tra una chiacchiera e l'altra insieme ai fratelli, il Generale d'Israele aveva ripetuto quell'affermazione, camuffandola però da scherzo: piuttosto che tra le loro grinfie, sotto metri di terra. Nessuno, a quei tempi, si era mai azzardato a considerare reale quella promessa, eppure Alexandria aveva sempre temuto il momento in cui Levi fosse stato messo alle strette. Lui, come molti di loro, non si sarebbero lasciato trasformare in schiavo o cavia da laboratorio, non avrebbe concesso né il suo corpo e ancor meno la sua anima a dei folli come i membri del Cultus. 
Perché i segreti e i peccati di Salomone avrebbero dovuto scomparire con loro, riportando il mondo al proprio equilibrio. Troppi criminali, negli anni, avevano giocato a fare Dio e l'alchimia era stata per loro l'arma con cui minacciare l'umanità - non potevano permettere che accadesse ancora.

Senza rendersene conto, Z'év iniziò a stringere anche la targhetta nella tasca del cappotto. Era l'unica cosa rimastale di Levi, la sua ultima speranza, il motivo che lo aveva spinto sino a lei e, se davvero aveva smesso di vivere, sapeva che avrebbe avuto bisogno di aggrapparcisi quanto più possibile, in modo da non arrendersi.
Alexandria lasciò che il metallo le segnasse il palmo, che formasse sulla pelle delle sottili linee rosse simili a tagli - perché nonostante tutto, conscia di come si dovesse comportare in quel momento, si sentiva colpevole dell'assenza del fratello. Nonostante l'esperienza, l'addestramento e qualsiasi cosa avesse vissuto nei suoi trecento anni di vita, quello era un dolore che ancora non si sentiva pronta d'affrontare - e se si fosse imposta un po' di più, se si fosse rifiutata di separarsi da loro, forse a varcare l'entrata della stazione sarebbero stati in tre.

Ma non lo erano.
Levi non era lì e la nausea diventava sempre più insopportabile - per questo ogni volta che qualcuno le passava vicino cercava sul suo viso gli occhi serpenti di lui, la cicatrice pallida che gli solcava con fierezza lo zigomo. E pregò fino all'ultimo di incontrarlo, perché se così non fosse stato, lo sapeva, una parte di lei sarebbe perita per sempre, come il giorno in cui avevano perso Salomone - o forse peggio.

Senza accorgersi digrignò i denti.

Quanto avrebbe voluto fermarsi, voltarsi e aspettarlo. Quanto le sarebbe piaciuto andargli incontro e, se necessario, fracassare qualche cranio per permettergli di scappare con loro, di raggiungere il Re che tanto aveva amato; ma non poteva permetterselo. A prescindere da ciò che poteva provare in quel momento aveva un compito da portare a termine - e lo doveva a tutti i suoi fratelli, da Nakhaš a Akhbàr, nessuno escluso.
Dopo ciò che aveva fatto, dopo che aveva permesso al Cultus di colpire e forse uccidere Salomone, ritrovarlo e riunire la famiglia era la sua unica possibilità di riscatto. Le serviva il suo perdono per i peccati passati e presenti, per questo non si era ancora arresa alla morte nonostante un corpo sempre più debole.

«Alex...» Zenas la chiamò, riportandola alla realtà: «per di qua.»
Ci fu un istante di esitazione. Sotto all'enorme tabellone pieno di scritte luminose, Z'év si sentì smarrita. Aveva suo fratello a pochi passi, pronto a condurla al binario, eppure non si sentì forte abbastanza da proseguire.

Non voleva esserlo, a dire il vero.

Con gli occhi lucidi, ma senza piangere, posò lo sguardo su di lui. 
Sul suo viso non vi era la medesima preoccupazione che sembrava logorare lei, men che meno lo stesso dolore; Akràv appariva solamente stupito, sconvolto di fronte a quella reazione - così le tornò quanto più vicino possibile, stringendola a sé.
Le sue braccia l'avvolsero, divennero riparo contro la tempesta che Alexandria sentiva incomberle addosso. La cullarono piano, lente come brezza, ma lei comunque si trattenne dallo scoppiare in lacrime.

Non era né il luogo né il momento per farlo.

Le dita di Zenas le salirono dal collo alla nuca, poi in mezzo ai capelli. Si chinò su di lei, tanto da posarle nuovamente le labbra sulla testa: «Non è morto, bambina mia» sussurrò poi, come se potesse leggerle tra i pensieri più catastrofici e non restarne turbato.
Il battito del suo cuore era infatti così regolare, calmo, da darle quasi fastidio.  Ma come poteva dirle una cosa del genere con tanta tranquillità? Non si rendeva conto che sperare, in un simile frangente, era come premere una spada sul petto? Sarebbe bastato un colpo, uno solo, e la lama avrebbe perforato la carne.

  
Z'év si aggrappò alla t-shirt del fratello.

«Arriverà... hevé khipús tamíd ekhád dérekh al ẖázar m my le'ehóv» disse ancora, staccandosi quel tanto da poterla guardare negli occhi: «Ho vissuto con lui più di tutti voi, akhòt, confido nella sua esperienza.»
E di fronte a quelle parole, Alex non poté che deglutire. Anche lei avrebbe voluto conservare così tanta fiducia, concedersi il lusso di non pensare al peggio - ma troppe volte lo aveva fatto e altrettante ne era rimasta delusa.

Dall'altoparlante la voce squillante di una donna prese a echeggiare confusa tra il chiacchiericcio dei presenti. La lasciarono ripetere lo stesso messaggio per qualche minuto e in diverse lingue e infine, mutamente, si decisero a sciogliere quell'abbraccio.
Ancora scombussolata, ben lontana da aver riacquistato un po' di pace, la Contessina si rimise in moto.
«Ani lo heʼèmiyn -l nas» disse poi, in un sussurro che non seppe dire se il fratello udì o meno e di cui, a dire il vero, nemmeno si accertò. 

Passo dopo passo quindi, incurante delle spallate dei viaggiatori e delle occhiate torve di Zenas, Alexandria si fece largo tra la folla fino a raggiungere il binario da cui sarebbero partiti e lì, ancora un volta, strinse la presa sulla targhetta di metallo.

Non lasciarmi ora, supplicò in un ultimo atto di fede, non farmi andare da Salomone senza di te, biascicò tra un pensiero e l'altro quasi Levi potesse sentirla - peccato che tutto ciò che ricevette in risposta fu una lieve spinta sul coccige, un invito da parte del Greco a proseguire all'interno del vagone - il terzo.
Lei ne assecondò il movimento senza lasciarsi nuovamente sopraffare dall'esitazione, dai ripensamenti o dalla voglia di fare retro front e andare a scoprire dove diamine fosse finita la prima Chimera del Re, ritrovandosi d'improvviso a fare i conti con un disorientante mix di odori nauseanti.
Le ci vollero un paio di istanti prima di riprendersi, ma grazie a Zenas fu semplice trovare la strada verso il proprio sedile.

«Prima classe?» domandò sedendosi.
«Ho speso qualcosa in più, ma almeno qui non daremo eccessivamente nell'occhio. Meno gente, meno sguardi che possono avere il tempo di studiarci.»

Z'év annuì.

«Tra quanto partiamo?»
«Poco. Sette minuti se non fa ritardo» il fratello le si mise accanto, poggiandole poi una mano sulla coscia. Alex la fissò. Era grande, forse più di come se la ricordava, ed era segnata qua e là da alcuni tagli che si doveva essere procurato durante la fuga da casa propria qualche ora prima - e, pensando a quel momento, al modo in cui Nakhaš le aveva porso il braccio per sgusciare fuori dal lucernario, non riuscì a impedirsi riportare lo sguardo di fronte a sé, sul sedile vuoto in cui avrebbe dovuto esserci lui.

Dannazione! Imprecò mordendosi il labbro.
Avrebbe dovuto seguirlo, chiedergli di restare insieme inventandosi qualche stupida scusa, eppure si era fidata di loro, aveva accettato la decisione delle Chimere più antiche del mondo mettendo da parte il proprio istinto - e ne avrebbe pagato le conseguenze fino al giorno in cui sarebbe morta.

Lenta, estrasse dalla tasca della giacca la targhetta che non aveva smesso di stringere dal momento in cui avevano abbandonato Campo Nazario Sauro, portandosela sotto agli occhi. I pochi raggi di sole che entravano dal finestrino si riflettevano sopra al metallo, mettendo in evidenza ciò che vi era scritto.
In quelle incisioni ad Alexandria parve fosse rimasta impigliata la speranza di Levi, il suo sogno di tornare da Salomone ancora una volta, forse l'ultima - così al riflesso sfocato del suo viso sovrappose quello del fratello il giorno in cui si era presentato da lei per parlargli di quel tipo, del ragazzo che aveva incontrato a Praga, e il nodo in gola si fece ancora più soffocante. 
Percorrendo le lettere del nome provò a imprimersi nella mente il ricordo ogni singola cosa potesse vedere: il nome e il cognome dello sconosciuto, l'indirizzo di un'università che forse doveva frequentare e l'illusione dello sguardo febbrile di una persona che probabilmente, dopo più di duemila anni, non c'era più. 

Era per lui che stava facendo tutto ciò. Era per quello stupido mezzo serpente se al posto di scoppiare a piangere e disperarsi stava abbandonando l'Italia, e tutto quello che si era costruita, insieme a un fratello che non vedeva da trent'anni e che era ingiustamente stato accusato, in parte, dei suoi errori.

Morse più forte, spaccandosi il labbro.
Il sapore del proprio sangue le pizzicò la lingua; amaro scese lungo la gola.

Che schifo, ringhiò tra sé e sé, poi, quasi ridestandosi da una trance, aggiunse: «Devo andare in bagno.» Ma non avrebbe saputo dire se per vomitare o piangere ciò che sentiva bloccato nel petto.
Akràv la fissò bieco: «Non puoi-»
«- scendere a cercarlo, lo so.»
Gli passò davanti schiacciandosi contro al tavolino per sfriorarlo il meno possibile, restia all'idea di essere toccata ancora, ma faticò comunque a sgusciare fuori dalla fila di sedili senta ritrovarsi nuovamente le mani del fratello addosso. Zenas le tenne i fianchi per impedirle di cadergli addosso, poi la spinse appena nel corridoio adiacente. 

Alexandria si volse subito, spostando lo sguardo altrove: non voleva dargli modo di scoprire quanto stesse soffrendo. Quindi controllò i due capi del vagone alla ricerca dell'insegna luminosa, prendendo l'occasione per studiare anche i visi dei presenti - perché seppur dubitasse vi fossero alchimisti lì con loro, proprio su quel treno, preferì non abbassare la guardia.Le ci volle qualche secondo, poi infine si mosse.

Non c'era nulla a trattenerla oltre, esattamente con vi era più niente a impedire al mezzo di restare lì. Fuori dai finestrini Venezia li stava salutando e il suo cuore prese a battere con sempre maggior forza.

Alla fine erano partiti.
Senza Levi.

Leccandosi il sangue dal labbro, senza distogliere lo sguardo da ciò che scorreva al di là del vagone, portò una mano di fronte a sé alla ricerca della maniglia, la spalancò e, prima che potesse rendersene davvero conto, andò a sbattere addosso a qualcuno. La sorpresa la fece sussultare, costringendola ad arretrare di un passo e cercare appiglio altrove - inutilmente, vista la disposizione interna del vagone. 
Z'év sentì quindi le ginocchia farsi molli e, quando la persona che aveva di fronte parlò, con un brivido quasi cadde a terra.
«Per trovarti ho impiegato sei mesi, sai?» Colui che le aveva ostruito il passaggio si prodigò ad afferrarla, premendola appena al proprio corpo: «Tu invece non mi concedi nemmeno mezz'ora. A quanto pare hai dimenticato le buone maniere, Harozenett Varàdi.» 


 

hevé khipús tamíd ekhád dérekh al ẖázar m my le'ehóv : lui trova sempre un modo per tornare da chi ama
Ani lo heʼèmiyn -l nas : Non credo nei miracoli
Harozenett : Contessa

(Il testo potrebbe essere modificato. La parte in ebraico non assicuro essere scritta correttamente)

 

§ Non so, nonostante abbia ampiamente modificato e corretto questo capitolo, dubito ancora essere una lettura piacevole. Sicuramente ci sono parti prevedibili (ma i cliché dopotutto ci piacciono), ma temo piuttosto che le paturnie di Alex risultino troppo ripetitive T.T
Vabbè, per ora farò finta di nulla e aspetterò dei feedback che possano aiutarmi.

Al prossimo capitolo! §

 

 
 
 

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Capitolo 14
*** - Capitolo decimo - Parte Prima: Io non sono ***





Capitolo Decimo
Io non Sono
parte prima

 

"I'm stronger than I ever knew
I'm strong because of you"

Roots (In this Moment) 

Vienna era ben diversa da come se la ricordava, Alexandria lo aveva compreso prima ancora di mettere piede sulla banchina del binario otto. Dai finestrini del vagone aveva visto decine di palazzi grigi, tristi come il cielo sopra le loro teste, e della sfarzosità del passato non aveva scorto nemmeno un accenno.

La prima volta che era stata lì, durante uno dei tanti viaggi che il padre le aveva imposto di compiere, il verde delle fronde degli alberi, o dei prati dei parchi, aveva colmato i suoi occhi di fanciulla. Gli edifici che vi si ergevano accanto le erano parsi incantevoli opere architettoniche degne delle favole più romanzate, come quelle che a sera leggeva alle sue sorelle, Karina e Vanjia, mentre ora, ciò che aveva davanti, appariva più come il grottesco conglomerato di costrutti decadenti. Della città che aveva conosciuto, forse, rimanevano solo alcuni scorci nell'area più centrale, ma non avrebbe saputo dire quanta, della bellezza di un tempo, vi avrebbe ritrovato.

Con uno sbuffo, del tutto sconsolata, tornò a fissare la mappa sotto al proprio naso provando a concentrarsi sulla conversazione, ma sapeva bene che la stanchezza, per non parlare dell'ansia, l'avrebbero presto portata a distrarsi nuovamente. 
L'indice di Levi era posizionato su un rettangolo aranciognolo identico a decine d'altri e con l'unghia laccata sottolineava il nome di una via. In quel punto, per quello che le avevano confermato anche all'info-point della stazione, si trovava l'università dove, teoricamente, avrebbero trovato Salomone.

«Dobbiamo trovare un alloggio che non dia nell'occhio.» 
Gli sentì dire, seguito subito dopo da una controbattuta di Zenas: «Certo, ma non possiamo nemmeno allontanarci troppo dall'ateneo, sennò come facciamo a tenerlo controllato?»
«Okay, ma più siamo vicini, più rischiamo di mettere Salomone a repentaglio. Il Cultus ormai sa che siamo vivi e insieme, non possiamo dargli modo di avvicinarsi a lui.»
«Beh... c'è l'albergo qui sull'angolo, quello che ci ha consigliato la signorina di prima. Che ne pensi?»

A quel suggerimento, Z'èv storse le labbra: «E come lo paghiamo? Sono cento euro a notte per la doppia, ottanta per la singola. Non ho tutti quei soldi, akh
«Ma non sono tanti...»
«Per una notte, certo, ma se ci dovessimo fermare una settimana? Per non parlare dei viveri, di nuovi vestiti e tutto il resto. Non possiamo dilapidare il mio conto corrente solo per stare qui, dobbiamo pensare anche al dopo. Nessuno ci assicura che lo troveremo, men che meno che ci rivoglia con sé.»

«Beh, a quel punto ruberemo! Esattamente come abbiamo fatto decine di altre volte» mugugnò l'uomo sistemandosi un dreadlock sfuggito alla crocchia. 
Nel suo tono Alex udì un'ovvietà che le piacque gran poco, soprattutto vista la situazione. 
Rubare, ripeté stizzita, Facile a dirsi, peccato che lo fosse molto meno nel momento in cui si passava alla pratica. Forse Zenas non si era accorto di come, in trent'anni e più, le cose fossero cambiate: se prima, sgraffignando un portafoglio, era possibile trovare una discreta quantità di banconote colorate, di quei tempi ci si doveva accontentare di un variopinto ventaglio di carte di credito e tessere prepagate, rendendo così ogni acquisto tracciabile e ben meno istantaneo.

Levi d'improvviso, forse notando il disappunto sul viso della sorella, scoppiò in una flebile risata e, stravaccandosi maggiormente sulla sedia, si portò una mano alla fronte. 
«Di che ti preoccupi, Rozenett? Non è la prima volta che restiamo senza soldi» annotò dopo qualche istante, allontanando lo sguardo e posandolo da qualche parte nel parco intorno a loro.
Alexandria provò a seguire la traiettoria del suo viso, a capire cosa stesse osservando tra i passanti, l'erba verde o le fronde non più tanto rigogliose degli alberi, poi, incapace di riuscire in quell'impresa, tornò a fissargli il volto: «Solitamente c'era Salomone con noi, ricordi? E lui trasformava i sassi in oro pur di farci avere un tozzo di pane. Stavolta siamo soli, Levi.»
A quelle parole, con uno scatto simile a quello di un predatore che scorge la preda, il giovane abbandonò la propria contemplazione per girarsi verso di lei. Lo scricchiolio lieve delle sue ossa la fece rabbrividire, eppure nonostante il disagio Z'èv sorresse il suo sguardo - impresa semplice, viste le lenti scure nel mezzo.
«E tu forse dimentichi una cosa, akhòt: siamo soli da tre decenni. Non ce la saremmo cavata bene, ma non mi pare neppure che sia andata tanto male.»
Aveva ragione, pensò mordendosi la lingua. Per quel che aveva potuto capire nessuno di loro, in quegli anni, aveva vissuto di stenti; forse avevano faticato a trovare un posto in cui stare, avevano impiegato qualche tempo a costruirsi una carriera professionale, ma certamente non si erano ritrovati moribondi all'angolo di una strada - ed erano riusciti a farlo anche senza il loro Re. Salomone era utile e necessario, certo, ma non indispensabile. Così come non era indispensabile rubare portafogli. Prendere furtivamente una mela al banco frutta, del pane dal fornaio all'angolo, sfilare dalla borsa della spesa di una vecchia qualcosa di commestibile non era poi impresa impossibile; le doti da ladri le avevano affinate nel tempo, insieme a tante altre abilità - perché una vita di fughe era anche una vita di lezioni da cui o si imparava qualcosa, o si rischiava la pelle.

Alexandria sospirò: «Credevo di aver smesso con certe vigliaccate.»
«Purtroppo, Z'èv, siamo mostri e come tali ci è permesso comportarci. Inoltre, direi che abbiamo alle spalle già abbastanza crimini da non doverci più preoccupare di compierne di nuovi» con il pollice Nakhaš si sfiorò il labbro inferiore sottolineandone la tonalità innaturale e lei, seppur controvoglia, si ritrovò a pensare a quante volte, negli anni, si fosse ripetuta una simile giustificazione. 
Involontariamente pensò a quando, insieme ai fratelli maggiori, aveva rapito ragazzini innocenti per dare a Salomone un nuovo hagufah. Rievocò tutte le occasioni in cui, per bisogno, era saltata al collo di umani e alchimisti. Erano state situazioni in cui aveva volontariamente lasciato alla bestia in lei il controllo su un corpo che le apparteneva a metà - e ogni volta si era detta: non sono forse rinata abominio? E' questo che quelli come me fanno.  Quindi gli omicidi, i rapimenti, le truffe e i crimini di ogni genere erano diventati parte integrante della sua esistenza - cosa era un semplice furtarello a confronto?

Zenas le mise un braccio intorno spalle, tirandola a sé: «Sistemeremo ogni cosa, un giorno» ma il suo tentativo di persuasione ebbe ben pochi risultati - perché seppur Alex si sarebbe prestata a quegli escamotage, continuava a trovarli soluzioni tutt'altro che piacevoli.

«Sistemare non ci redime dai peccati, akh, ma semplicemente ci convince di averlo fatto» soffiò d'un tratto, abbandonandosi alla sua presa. «Dopotutto è come ha detto lui: siamo mifeletsett, anche se da qualche parte conserviamo un cuore pulsante.» Già... c'era del buono in loro, dentro a quei corpi deturpati dall'Ars viveva ancora un'anima umana, eppure l'aspetto e le azioni riprovevoli che avevano compiuto sembravano dire l'esatto contrario - e se la Contessina Alexandria Orsòlya Varàdi di trecento anni prima avesse visto la sé di quel momento, probabilmente l'avrebbe condannata senza possibilità d'appello a bruciare tra le fiamme dell'Inferno.

La redenzione era qualcosa di astratto per loro e, anche se avessero potuto ambirci, con la scelta di ritornare da Salomone stavano volontariamente repellendo quella salvezza.

Ma ritrovarlo valeva davvero un simile sacrificio? Ciò che li attendeva da quel momento in poi significava realmente così tanto da permettere a un matusalemme di stringere nuovamente un nodo intorno ai loro colli? 

Z'èv avrebbe voluto dire di no. Le sarebbe piaciuto affermare che nulla di quello che sarebbe successo di lì in avanti sarebbe valso così tanto - eppure non poté.
Per il suo Re avrebbe fatto qualsiasi cosa, esattamente come la sé di un tempo. Avrebbe mentito, pedinato, derubato, fracassato crani e, se necessario, sarebbe ancora una volta risorta dalla morte; perché glielo aveva giurato.

In ginocchio di fronte a lui, con il corpo tremante e le guance rigate di lacrime lei aveva promesso di essergli fedele per il resto della sua esistenza.

Sarebbe morta cento volte per Salomone, ma sarebbe tornata in vita altrettante, se non di più.

 

Rozenett : Contessa
Hagufah : Corpo/Contenitore
Mifeletsett : Mostro

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Capitolo 15
*** - Capitolo Decimo - Parte Seconda: Io non sono ***




Capitolo Decimo

Io Non Sono

parte seconda

 

"Oh Lord won't you save me
Save me from myself
Oh Lord won't you forgive me
For I have lost control"

- Oh Lord (In This Moment)


 

Dieci. Undici. Dodici. Tredici…

Aumentando la stretta sulle braccia, quasi facendosi male, Noah alzò gli occhi verso il soffitto dei bagni cercando nel bianco dell'intonaco una sorta di pace.
Stava contando i respiri insieme ai secondi, eppure nonostante tutti gli escamotage gli parve di non ottenere alcun risultato e, più guardava in alto, meno gli sembrava di poterlo fare.
Rannicchiato a terra, con la schiena a ridosso della parete della latrina, sentiva ancora il cuore battergli con così tanta forza da colpire persino la gabbia toracica - e a essere sincero, non ce la faceva più. Ormai erano mesi che la situazione andava avanti così, che gli attacchi di panico giungevano senza preavviso mozzandogli il fiato persino nei momenti meno opportuni; e non importava quanto lui si sforzasse di tenerli sotto controllo, loro sovrastavano anche quella volontà, esattamente come molti, moltissimi anni prima.

La prima volta che le allucinazioni erano tornate a fargli visita aveva creduto fosse per colpa della tensione, del viaggio in aereo, la seconda invece a causa degli esami imminenti; alla terza, purtroppo, si era ritrovato senza giustificazioni.

Il battito accelerato, così come la sensazione di soffocamento e gli incubi notturni, non arrivavano più solo in momenti di stress elevato o durante la veglia, ma facevano la loro comparsa anche in circostanze del tutto naturali: mentre faceva colazione, durante una passeggiata, quando era con gli amici o con Gretchen in camera propria; e persino a lezione, come quel giorno. Lo lambivano dalla nuca sotto forma di carezze, passando le loro viscide dita sulla pelle oltre i vestiti e, per completare quella sadica opera, gli mostravano cose - persone, luoghi, disegni ed eventi che non aveva idea da dove provenissero e che riuscivano a turbarlo ancor più di tutto il resto, esattamente come da bambino.

Ma perché?
A quale scopo vedere ciò?

Prima, a detta dello psicologo, erano frutto della fervida immaginazione di un moccioso e con il tempo, crescendo, erano pian piano svanite, ma adesso per quale motivo erano tornate? Ora che sulle spalle aveva ventiquattro anni come potevano essere ancora "fantasie"?

Chiuse le palpebre, respirando a bocca aperta.
Non ci trovava alcun senso, solo la remota possibilità che stesse impazzendo. Forse la sua mente era sbagliata, rovinata. Forse in qualche ramo della famiglia un prozio lontano aveva sviluppato una forma di schizofrenia che con il susseguirsi delle generazioni era arrivata a lui, o forse...
Qualcuno bussò alla porta, facendolo sussultare. 
«Ehi, Noah, tutto okay?» 

Hans, realizzò con stizza, scoprendosi per la prima volta infastidito dalla presenza di quello che per anni era stato il suo migliore amico - perché in quel momento avrebbe voluto qualcun altro al proprio fianco, ma faticava a ricordarne il nome o l'aspetto. Sapeva che era qualcuno di importante, una persona fondamentale per lui, ma non riusciva a identificarla.

«Noah, ci sei? Amico, va tutto bene?»
Il ragazzo grugnì.
Come poteva fargli una simile domanda dopo che era corso via dall'aula, abbandonando una delle sue lezioni preferite e rifiutandosi di ascoltare le lamentele del docente? Era forse stupido?

«Mi stai facendo preoccupare, sai? Pure Gretchen si è agitata. Sei scappato via come se ti avessero detto che è morto qualcuno.» 

Beh, pensò con un sorriso nervoso, in effetti un cadavere lo aveva incontrato, ma solo nella propria testa - e rispetto alle volte precedenti, quest'allucinazione era stata nettamente peggiore. Ogni cosa gli era parsa definita, reale. Il suo corpo aveva davvero percepito il peso dell'altro tra le proprie braccia, così come la sua pelle aveva sentito il gelo della carne morta addosso. Il suo petto si era schiacciato sotto al dolore di una perdita incolmabile e in gola gli era parso di sentire un nodo di lacrime bloccare il desiderio di urlare come un dannato - per questo era fuggito, perché temeva di poter compiere qualche sciocchezza.
Aveva visto la vuotezza della sclera bianca oltre le palpebre socchiuse, le labbra ancora incrostate da lievi rimasugli di sangue rappreso; aveva passato le dita, con premura, su uno squarcio ricucito alla bene e meglio, percependo la violenza del filo che teneva insieme i lembi del pettorale e poi, passando lungo un collo adorno di collane d'oro, aveva spostato gli occhi su una linea di pelle più chiara, sentendosi stringere il cuore.

A quel ricordo si morse il labbro. Lo fece con violenza, in modo da scacciare l'immagine: chiunque fosse quella salma, per quanto ne sapeva, non aveva nulla a che fare con lui, quindi non doveva concedergli così tanto potere sulla propria psiche.

Eppure... Eppure quel corpo gli sembrava così familiare. Lo conosceva, in qualche modo, anche se non riusciva in alcuna maniera a capirne il perché.

Con veemenza strinse i pugni, infilandosi le unghie nella carne.

Dannazione!

La voce di Hans tornò nuovamente a riempirgli le orecchie: «Non voglio fare lo stronzo, okay? Però sei strano ultimamente. Da quando siamo tornati da Praga hai iniziato a comportarti diversamente. E'… beh… è successo qualcosa? Hai iniziato a usare qualche droga particolare o..? Insomma… non ti giudico, lo sai, ma vorrei capire» e a quel punto Noah si convinse di non poter più restare lì ad ascoltare tutte quelle idiozie. Non ne aveva la pazienza. Con un colpo di reni e facendo leva sulle ginocchia si rimise in piedi e poi, con un movimento brusco, aprì la porta della latrina, facendo sussultare l'altro.
 «Sono solo in ansia per gli esami» mentì, senza però saperne il motivo. Avrebbe potuto dire la verità, dopotutto si conoscevano dal liceo, ma invece non lo fece - perché la possibilità di essere un pazzo voleva tenerla quanto più nascosta possibile, in modo da non mandare la propria vita in rovina; inoltre, ancora non aveva trovato una spiegazione per quel tipo di allucinazioni. E finché non l'avesse fatto avrebbe evitato l'argomento.

A passo deciso si portò di fronte al lavandino, intenzionato a lavarsi via ciò che aveva visto, ma quando il suo sguardo incontrò il riflesso nello specchio si interruppe, sorpreso. I capillari si diramavano sulla sclera, rossi come dopo un lungo pianto e il grigio delle iridi pareva argento fuso, vivo - ben diverso da come se lo ricordava. Tonalità violacee gli contornavano gli occhi, rendendo quell'insieme ancor più estraneo. Per un solo istante gli parve che quel volto non gli appartenesse, che fosse di qualcuno che non conosceva. Gli era estraneo, eppure era conscio che fosse suo da sempre.
Si fissò con diffidenza e, se non fosse stato per l'ennesimo commento di Hans, avrebbe allungato una mano per sfiorarsi i lineamenti, dalle sopracciglia lungo il naso, gli zigomi e poi il mento - ma con quella presenza alle spalle un gesto del genere avrebbe davvero rotto il ghiaccio sopra cui Noah stava ora camminando.

«Sì, beh… forse stai prendendo la cosa troppo seriamente, non credi? Mancano ancora mesi e mesi alla laurea.»
Si morse la lingua, allontanando lo sguardo dal proprio riflesso: «Si vede che a differenza tua ci tengo ad avere buoni voti» sbuffò poi, aprendo il rubinetto e mettendoci sotto le mani, in modo da riempirle d'acqua ghiacciata. 
Il cuore continuava a battergli forte nel petto, seppur  in modo meno sincopato, e la sensazione di pesantezza sembrava essersi in parte dissipata, ma nulla era realmente sparito: quei sintomi continuavano a inseguirlo come belve pronte all'attacco - e lui era e restava la loro preda più succulenta.

Si bagnò la faccia.
Magari, come da bambino, con pazienza e un aiuto professionale sarebbe riuscito a tenere sia le allucinazioni sia il resto sotto controllo, arrivando a farli sparire ancora una volta - perché non poteva essere pazzo, non voleva.
«Sei già il migliore del corso, Noah, non credo ti debba sforzare tanto. Difficilmente potresti fallire» bofonchiò Hans portandosi le braccia al petto e incrociandole strette. Il suo sguardo si spostò dalla schiena dell'amico al pavimento, poi lungo le fughe delle piastrelle e lo zoccolino in plastica. L'invidia che provava per lui era palese; ogni smorfia, gesto o parola di quel momento ne confutavano la presenza - peccato che non avesse la più pallida idea di quale caos stesse prendendo piede all'interno della sua stupida testa.

A dire il vero, Noah stesso dubitava di comprenderne ancora la vera entità.

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Capitolo 16
*** - Capitolo undicesimo: Chi non muore si rivede ***




Capitolo Undicesimo
Chi Non Muore Si Rivede

 

"Open your eyes   
Cause you're never gonna know if your next move might be your last
Living a lie"

Losing my mind (Falling in reverse)


 

Levi si strinse una mano sul petto, quasi potesse già avvertire la bruciante sensazione che lo aveva sopraffatto a Praga mesi prima. Sentiva il proprio torace vibrare all'agitarsi compulsivo del cuore; percepiva la carne scaldarsi dolcemente sotto ai vestiti - peccato che a essere onesti non avesse idea di come rintracciare Salomone nella miriade di corridoi e stanze dell'edificio di fronte a loro. Sperava di cogliere ancora la sua presenza, ma non aveva la certezza che sarebbe accaduto - dopotutto non si erano mai allontanati per così tanto tempo l'uno dall'altro, non sapeva come il suo corpo mutato avrebbe reagito. Forse il legame che li univa avrebbe ancora una volta fatto scaturire in lui qualcosa, oppure se ne sarebbe rimasto sopito, facendolo passare per fesso davanti agli occhi dei fratelli.

Chissà se lui, il suo Re, lo avrebbe scorto tra la folla. Chissà se avrebbe riconosciuto il suo volto, il suo portamento, il sangue che gli scorreva nelle vene e la vita che gli aveva donato. Chissà se l'Ars avrebbe fatto tremare entrambi o solo lui. 
Nakhaš se lo domandò stringendo maggiormente la presa sulla t-shirt, cercando in qualche modo di sfogare la tensione che si era fatta pian piano più opprimente. La sua era eccitazione mista a paura, era il febbricitante desiderio di portare a compimento qualcosa di estremamente importante, la bramosia di rivedere suo fratello, l'unico e vero, nonché l'uomo per cui era ritornato dall'Inferno e aveva rinunciato a... 

Salomone doveva essere lì.

D'un tratto, silenziosa come un'ombra, Alexandria gli si affiancò. Con la coda dell'occhio Levi la vide osservare con espressione tesa la facciata dell'edificio e, per un attimo, desiderò sentirle dire qualcosa, qualsiasi; voleva solo essere certo che fosse ancora intenzionata a seguirlo.
Da quando si erano svegliati infatti, né lui né Zenas l'avevano sentita pronunciare mezza parola. La Contessa Varàdi si era chiusa in se stessa cercando di nascondersi dietro a una maschera di nervosa indifferenza, eppure era certo che anche lei avesse la testa piena di pensieri e il petto colmo di emozioni contrastanti come lui - lo capiva dai gesti, dagli sguardi e, purtroppo, anche da quel silenzio.

«Se entrassimo tutti e tre dubito che potremmo passare inosservati» brontolò Akràv facendo un passo in avanti. Tra le mani teneva il terzo cornetto della mattinata e, a differenza loro, sembrava davvero essere quello meno emozionato per l'imminente incontro. «Tre strambi insieme generano troppo scalpore» aggiunse dopo l'ennesimo morso.
«Quindi vuoi negare a due di noi la possibilità di vederlo?» La voce di Z'év uscì roca, seppur bassa come un sussurro. Non si scompose, men che meno distolse lo sguardo dall'edificio. Sembrava di pietra, eppure lui riuscì a scorgervi le prime crepe.
«No, assolutamente. E' qualcosa di importante per tutti noi, però al contempo mi rendo conto che insieme potremmo generare interesse e al momento non possiamo permettercelo. Inoltre serve qualcuno che faccia la guardia.»
«Ed è ovvio che Levi sia il solo ad avere il reale diritto di entrare lì dentro» mutamente tutti lo avevano dato per scontato, ma sentirlo dire, con quel tono, lo fece tentennare. Avrebbe voluto essere così magnanimo da cedere il proprio onore a uno di loro, ma purtroppo le labbra non si schiusero - era lui a dover incontrarlo.

Zenas piegò la testa da un lato, poi dall'altro. Con lo sguardo perso altrove e il mezzo cornetto alla marmellata davanti al viso parve soppesare quelle parole - finché Nakhaš mosse un passo: «At gá̇mar im ly, Z'èvZe at miyn ot yakhól ʼipĕşé̌r şǐṁẇşǐy
«Al mah dérekh
«Horeykha 'eynay, hem roim yoter tov.»
Alexandria a quel commento gli si parò davanti, confusa: «Ma non sappiamo quale sia il suo aspetto, akh.»
E lui le sorrise a labbra strette, tirando un angolo della bocca. 

Aveva ragione, ma per la prima volta nella sua lunghissima vita sentiva di non poter affrontare quel momento da solo - temeva ciò che lo attendeva, così come temeva la propria reazione di fronte al Re - per questo gli serviva una scusa per portarla con sé.
Allungando una mano le scostò una ciocca di capelli dal viso: «Ma io so che tu lo vedrai, Rozenett» e, non seppe dirsi se per via delle parole o di quel contatto, la vide sussultare e ritrarsi appena. Tra quei due, ne era certo, molti anni prima qualcosa era rimasto in sospeso; e vederla reagire così gli strinse il cuore - per questo era altrettanto sicuro di non poterla abbandonare lì fuori.

In parte deluso, Levi ritrasse la mano, volgendosi in fretta verso l'uomo alle sue spalle: «Per te può andare bene?»
Akràv, con le guance gonfie dell'ultimo boccone e gli occhi spalancati in sorpresa, stupito di essere stato colto in flagrante, si limitò ad annuire prima di ingollare i resti della sua prolungata colazione: «Il fratello maggiore sei tu, e se l'ẖéẕiy del Re vuole la Contessa Varàdi al proprio fianco, chi sono io per oppormi?»

Héziy... Levi si passò quella parola sulla lingua, l'assaporò con estremo piacere provando a ricordarsene il gusto. Da quanto tempo non si sentiva definire in quel modo? Troppo per i suoi gusti, e per questo non riuscì a impedirsi di chiedersi se tra di loro qualcosa, dopo tutti quei giorni, mesi e anni, non si fosse inesorabilmente rotto; se lo amasse ancora come un vero fratello, come la propria metà, oppure avesse veramente deciso di distruggere la loro storia - dal primo vagito all'ultimo respiro.

Per un lunghissimo attimo rimase quindi a fissare il viso sorridente di Zenas. Come riusciva a nascondere così bene i suoi timori? Come riusciva a usare quella parola senza dubitare del suo significato? Gli sarebbe piaciuto domandarglielo, ma invece si volse verso l'università e, poggiando le dita alla base della schiena di Alexandria, la sospinse davanti a sé: «Che la caccia abbia inizio, allora.»

Orientarsi, in un edificio del genere, parve una vera e propria sfida per Alexandria. Infatti, oltre all'ansia di potersi perdere, si sentiva addosso il peso della fiducia di Levi e la tensione nel sapersi a un passo da Salomone e, più si faceva largo tra le aule e i corridoi di quel posto, più la nausea sembrava volerla bloccare - peccato che non potesse farlo, anche se lo avrebbe voluto.
Appena aveva varcato l'ingresso dell'ateneo la consapevolezza di essere sul punto di rincontrare l'uomo che non era riuscita a salvare le aveva afferrato lo stomaco, strizzandolo tanto da far tornare in gola il tè bevuto qualche ora prima. Ad ogni nuova svolta si sarebbe quindi voluta concedere il lusso di vomitare, ma tutte le volte si tratteneva, conscia che non si trattava né del luogo né del momento adatto per cedere a simili atteggiamenti.

Levi, dal canto suo, le camminava accanto senza accorgersi di nulla. Il suo sguardo balzava di viso in viso senza mai concedersi tregue perché, per quanto ne sapevano, ogni ragazzo poteva essere il loro Sovrano.  E lei cercava di fare altrettanto, anche se le veniva difficile.

Con le mani nel cappotto si mise a passare le dita tra le ɛvɛn, sfiorandone la superficie liscia nella speranza che potessero in qualche modo chetare quelle fastidiose sensazioni - avrebbe preferito ingerirne un paio, ma da quando erano fuggiti da Venezia ancora non si era azzardata a mangiarne una. Si era costretta a patire le ansie, le paure e i tremori, ma in quel momento desiderò davvero potersi fermare e...

Z'év d'improvviso si bloccò.

A qualche passo dall'ennesima rampa di scale le sue gambe si pietrificarono, il sangue le defluì dal viso e il cuore, come spaventato, le schizzò in gola. Il suo corpo reagì prima che la mente potesse comprendere con lucidità la situazione, eppure, ciò che le fu chiaro sin dal principio, fu che c'era qualcosa di strano nell'aria, qualcosa che la stava supplicando di fermarsi.
Non si trattava di un profumo, men che meno di una presenza. Vi era altro, come una sorta di vibrazione - e, senza rendersene conto, nel sentirsi venir meno afferrò le dita di Levi per sorreggersi.
«Che hai?» Nakhaš le fu subito accanto, con il petto la schermò da sguardi indiscreti e, senza liberarsi dalla sua presa, si chinò su di lei quasi sfiorandole la fronte con la propria.
Erano talmente vicini che Alexandria si sentì vacillare. D'improvviso non fu più certa che ciò che stava sentendo oltre al proprio battito fosse reale - così si umettò le labbra e in un sussurro chiese: «La senti?» 

Il ragazzo corrugò le sopracciglia. Le sue labbra violacee si schiusero appena e, osservando quel lieve movimento, Alexandria scongiurò di udire un "sì"; se lui le avesse dato quella conferma nulla l'avrebbe fermata dal correre lungo i corridoi come una forsennata.

«Mah?» 

Z'év esitò.
Davvero non riusciva a sentirla? Era davvero un'allucinazione o...
«şǐyr ʻereş̂» disse infine col fiato mozzato, quasi quella confessione le stesse costando uno sforzo incredibile - e lui sussultò. Oltre le lenti scure le pupille del Generale si dilatarono, divennero enormi e, con la mano libera, le afferrò una spalla schiacciandola al muro.
«Ripetilo» anche la sua voce uscì sotto forma di sussurro, una carezza lieve e minacciosa che la fece tremare.
La şǐyr ʻereş̂ era l'unica cosa che Salomone avesse creato senza utilizzare l'alchimia, eppure immortale esattamente come le Chimere. Si trattava di una melodia cristallina, gentile come la brezza serale in primavera e pura, generata dalla meraviglia di un'anima eterna che aveva conosciuto la più grande bellezza del mondo, ma anche la più atroce tra le sofferenze.

Z'év si morse la lingua. Temeva di pronunciare nuovamente quella parola, intimorita dal fatto che potesse sbagliarsi, eppure, guardando il fratello, si convinse che doveva essere quello, non poteva sbagliarsi - così sgusciò via dalla presa di Levi.
Svelta si riportò nel corridoio da cui erano arrivati e, passo dopo passo, ignorando l'agitazione crescente, avanzò come un segugio tra i pochi studenti presenti in quella zona dell'ateneo. Più procedeva, più le note diventavano intense, chiare alle sue orecchie attente - e ne fu certa, non stava sognando, c'era davvero una sinfonia che stava facendo vibrare l'aria intorno a lei, che la stava chiamando a sé con timida violenza; e lei voleva ubbidirle. Desiderava raggiungerla con ogni fibra del proprio corpo, succube di emozioni che in quel momento non volle approfondire.
Un piede davanti all'altro quindi, si sospinse fino alle aree più desolate dell'edificio e, tra il fumo delle sigarette e il flebile chiacchiericcio di qualche ragazzo, scorse una targhetta che la fece improvvisamente rallentare, ma mai fermare. 

Auditorium.

Era da lì che proveniva la melodia.
Era in quell'aula che il suo destino sarebbe stato deciso.
Era oltre le enormi ante che aveva di fronte che doveva trovarsi lui, il perdono a cui lei anelavao la condanna che l'attendeva - così le gambe le si fecero molli e per un attimo temette di crollare a terra.

Lui era a qualche metro da lei e forse non avrebbe mai voluto rivederla. In fin dei conti in sospeso c'erano tante cose, tra cui una quasi morte. Però continuò comunque ad avanzare, finché le mani non toccarono il legno e lo sguardo cadde sulla misera platea presente - ma da quel punto non riusciva a scorgere né il pianoforte né chi lo stava suonando.

Le dita scivolarono lente lungo la porta, si aggrapparono alla maniglia mentre i passi di Nakhaš si facevano vicini, scandendo il battito del suo cuore.

Doveva solo entrare, si disse. Bastava oltrepassare quella soglia e ogni cosa si sarebbe nuovamente messa al proprio posto, eppure non ci riuscì. Rimase paralizzata a spiare i presenti, invidiandoli per la loro tranquillità, per l'ignoranza con cui ascoltavano quel brano e, poi, senza alcun preavviso, poggiandole una mano alla base della schiena, Levi abbassò la maniglia in vece sua, facendole così compiere un ingresso trionfale. Spinse entrambi dentro all'auditorium catturando l'attenzione generale e, per un istante, Alex si sentì venir meno. Tutti gli occhi erano ora rivolti a loro, ai maleducati che avevano dovuto disturbare quella performance, e il silenzio che ne seguì la colpì al pari di uno schiaffo. 
Osservò uno ad uno gli studenti seduti percorrendo una fila alla volta e, infine, in quel susseguirsi di facce sconosciute, con il cuore bloccato in gola, raggiunse il palco che tanto aveva temuto. Lì, la sagoma scura del pianoforte a coda l'ammaliò come una sirena. Ogni curva, linea o decoro le impediva di distogliere lo sguardo, eppure, più si avvicinava allo sgabello sui cui doveva essere seduta la persona che aveva suonato fino a qualche secondo prima, più un bruciore inspiegabile prese a infastidirla.
Dalle labbra le sfuggì un mugolio e, inconsciamente, si sfiorò la bocca dello stomaco. Sotto alla stoffa del maglioncino, il marchio del Re sembrava gridare a gran voce il nome di Salomone - e a quanto parve, non fu l'unica a sentirlo.
Le dita di Levi le strinsero i vestiti e la carne, si aggrapparono a lei quasi volendola sorreggere in previsione di una possibile caduta, ma Z'év non se ne curò, non ci riuscì in alcun modo. Avrebbe dovuto avvertire quella  sensazione, provare qualcosa, sentire quelle mani su di sé, ma tutto ciò che in quel momento riuscì a realizzare fu la presenza di due enormi occhi grigi fissi nei suoi. Era uno sguardo in grado afferrarla con una brutalità tale da annullare tutto il resto, di schiacciarla sotto un peso che la nauseò. Erano le iridi di una persona che aveva creduto non rivedere mai più e che, invece, adesso era lì.

Avvertì il battito del proprio cuore aumentare, le lacrime formarle un nodo in gola, ma prima che potesse lasciarsi andare a una sola di quelle emozioni la voce di Nakhaš spezzò il silenzio: «Noah...»

No, Salomone.

 

At gá̇mar im ly, Z'èv: tu vieni con me, Z'èv
Ze at miyn ot yakhól ʼipĕşé̌r şǐṁẇşǐy: la tua natura mi può essere utile
Al mah dérekh?: in che modo?
Horeykha 'eynay, hem roim yoter tov: i tuoi occhi, vedono meglio.
ẖéẕiy : metà
Mah: cosa
şǐyr ʻereş̂: NinnaNanna

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Capitolo 17
*** - Capitolo dodicesimo - Parte Prima: Sconosciuti ***






Capitolo Dodicesimo

Sconosciuti
parte prima

 

"I think about you every single day
And every time I see your face, I wake
And it brings me to tears
We hadn't spoken in years

We were close when we were young and naive
We grew up and we learned other things"

-Amelia (Tonight Alive)  

 

Alexandria avvertì le gambe cedere davvero stavolta. Se non fosse stato per la mano di Levi ancorata alla sua schiena sarebbe crollata a terra senza forze, incapace di contrastare il peso della gravità. 
A destabilizzarla tanto però non era il dolore alla bocca dello stomaco, piuttosto quelle quattro lettere, quel nome che sapeva essere corretto, ma che, purtroppo, aveva un ché di terribilmente sbagliato per le sue orecchie.

Quello era Salomone, non Noah - eppure non riuscì a dirlo, come se le labbra le fossero state cucite insieme. 

Avrebbe voluto avere anche lei la lucidità del fratello, la capacità di distinguere ciò che aveva davanti da ciò che sentiva dentro. Le sarebbe piaciuto poter vantare altrettanto sangue freddo da riuscire ad agire, reagire, ma sfortunatamente non aveva idea di cosa fare di fronte a quegli occhi, a quello sguardo, a lui. Era pietrificata dinnanzi alla sua presenza, alle sensazioni che la stavano assalendo e non riusciva a fermare.

«Hey... wir suchen Noah, Noah Dietrich» la voce di Levi stavolta suonò cristallina, alta. Nel suo tono si poté udire qualcosa di diverso, una nota particolare, della speranza - e Z'èv a quel punto rinsavì, sentendosi stringere il cuore. Nonostante temesse quell'emozione non riusciva a scacciarla dal proprio petto; non importava quanto il suo sesto senso le stesse gridando a gran voce di non abbassare la guardia, di restare in allerta, qualcosa in lei si stava aggrappando a quel suono.

Il giovane davanti a loro sussultò sullo sgabello, ridestandosi da una sorta di trance, e il suo sguardo improvvisamente si fece meno intenso, anonimo. Fu come assistere a una trasfigurazione e, al cospetto di quel cambiamento, il respiro di Alexandria si bloccò. D'un tratto la magia in cui si era ritrovata coinvolta sembrò spezzarsi, il sigillo smettere di bruciare e la realtà colpirla con violenza, facendola arretrare di un passo.

Nakhaš non parve accorgersi di quella ritrazione, la sua attenzione era solo ed esclusivamente rivolta al ragazzo seduto al pianoforte. Non c'era nulla, in quel momento, in grado di distrarlo da quel tizio - eppure lei avrebbe voluto strattonargli il braccio e dirgli di guardarla, perché colui che avevano dinnanzi non era il Re, o quantomeno non il loro. Forse Noah Dietrich non era l'hagufah di Salomone, ma piuttosto... un suo conoscente? Un allievo? Un parente? 
Ognuna di quelle possibilità avrebbe spiegato il motivo per cui sapeva suonare la ninnananna scritta per alleviare i loro incubi, quando i ricordi diventavano mostri ben più violenti di quanto potessero essere le Chimere stesse - oppure poteva averla sentita da qualche parte e memorizzata abbastanza da poterla riprodurre perfettamente.

A quelle supposizioni la testa iniziò a dolerle. Sentiva le tempie gonfie, bollenti e tutto ciò che aveva di fronte o aveva pensato fino a quell'istante improvvisamente divenne sbagliato, confuso, vacuo. Con amarezza pensò che essere andati sin lì fosse stata la peggiore delle idee, che si fosse fatta fregare nuovamente. Aveva riposto la propria fiducia in un fantasma e ora, quello spettro, le stava ricordando quanto fosse stata sciocca a cedere a Levi, ad assecondarlo in una simile follia - e non poteva permettersi il lusso di giocare, di credere in qualcosa che probabilmente non si sarebbe mai realizzato. Per Alexandria spezzarsi ancora una volta avrebbe significato non guarire più, perché tutti i colpi che aveva subito, i sacrifici a cui si era volontariamente offerta, la stavano riducendo in cenere.

Polvere alla polvere, non era forse stato scritto così nella Bibbia? Ebbene, se non avessero trovato Salomone, e se lui non avesse posato le proprie mani su di lei, presto quella sarebbe stata la sua fine - e ci sarebbe giunta prima di ottenere il perdono e la libertà desiderate.

Improvvisamente da sopra il palco lo sgabello si mosse, producendo un rumore stridulo. Il ragazzo che aveva suonato fino a qualche minuto prima si alzò piano, chiudendo la tastiera con premura, poi si voltò ancora una volta verso di loro. 
Persino da dove era, Z'èv, riuscì facilmente a cogliere ogni sfaccettatura del suo viso: la smorfia confusa che lasciava socchiuse le labbra carnose, la mascella lievemente contratta, ben delineata e incorniciata dal biondo dorato di qualche ciocca troppo lunga; le sopracciglia folte, corrugate e le lievi occhiaie che andavano a incupirne gli occhi - tutto in lui sembrava familiare e al contempo terribilmente estraneo, per questo se ne sentì ancor più repulsa.

«Ich bin es, aber würdest du..?»

Febbraio 1837, fuori Canterbury

Colette scosse la testa, stizzita. «Santi Numi! Sei così... giovane» le sue mani colpirono le cosce e il suono che ne derivò fu l'ennesima testimonianza dell'enorme disappunto provato. Dopo ore di ostinato silenzio aveva infine ceduto, non riuscendo più a restar zitta. Salomone, d'altro canto, non poté che sorriderle. Ormai era fatta, non si poteva tornare indietro - o quantomeno non subito -, quindi ci si sarebbe dovuta abituare esattamente come le volte precedenti e, alla fine, aspettare il prossimo corpo. 
«Temi che ti possano scambiare per mia madre?» L'espressione sul suo visino parve riempirsi sia d'innocenza che di malizia, andando a creare un evidente contrasto tra l'aspetto del momento e la natura che vi si celava dietro. Il modo in cui le labbra gli si tesero, o forse la strana luce nello sguardo, resero quel bambino ben diverso da qualsiasi altro.
Era il secondo hagufah che Alexandria gli vedeva cambiare, eppure, grazie a quella peculiarità, si stupiva nel non trovare alcuna differenza tra il contenitore precedente e quello successivo. Era sempre lui, anche se diverso. 
Per quel che la riguardava aveva conosciuto Salomone nei panni di un aitante nobiluomo danese, poco più che trentenne, poi lo aveva visto diventare un borghesuccio francese di mezz'età, ed ora se lo ritrovava davanti in forma di fanciullo che, per quel che ne sapevano, non doveva avere più di dieci anni - nonostante ciò però, il modo in cui il loro re lo vestiva, donava a quel corpo lo stesso fascino antico, misterioso e ancestrale dei precedenti.

Willhelmina soffocò una risata, ridestandola da quei pensieri. Coprendosi le labbra con una mano guantata provò a nascondere il viso, ma la cosa che le servì a ben poco, vista l'occhiataccia che le arrivò dalla sorella maggiore. 
Fu facile capire che il suo malumore stesse peggiorando. Agli angoli del viso infatti le spuntò qualche piccola piuma nera e, subito, si volse altrove.
Nonostante l'età, i trascorsi e tutte le privazioni a cui quella vita l'aveva costretta, Colette aveva sviluppato un odio profondo per i bambini, ancor più per l'idea di diventare madre. Qualcosa in lei sembrava ripudiare quell'aspetto dell'essere donna, ma Alexandria non ne aveva mai capito il motivo - e chiederglielo, a essere oneste, un po' la spaventava. Cosa c'era di più gratificante di dare la vita a qualcuno? Di condividere le proprie esperienze, la conoscenza con una creatura propria?
A Salomone, certamente, quella sensazione doveva piacere in modo assoluto, per lui doveva essere una vera e propria droga, un'assuefazione a cui faticava a rinunciare: altrimenti loro non sarebbero state lì - possibile che a Wòréb una cosa del genere non piacesse? Possibile che nemmeno la incuriosisse?

Accanto a sé la Contessa la udì brontolare qualcosa. Non riuscì a capire se fosse un insulto o solo l'ennesima lamentela, ma per evitare guai tornò a fissare l'orizzonte fuori dalla carrozza. 
Distese verdi si protraevano per miglia e miglia, affiancandosi a campi coltivati e, alle volte, a piccole cascine disperse nel nulla. Ovunque posasse gli occhi si ritrovava a scorgere paesaggi sconosciuti, paeselli di cui, forse, mai avrebbe conosciuto il nome e su cui l'ombra dell'industrializzazione avrebbe presto gettato le proprie tenebre - e inesorabilmente si chiese dove fossero Levi e Zenas in quel momento. Da quando avevano abbandonato Londra non si erano più fatti vivi, di loro nemmeno una traccia, solo una destinazione comune da raggiungere nel minor tempo possibile. 
Alexandria si domandò se avessero già trovato una nuova casa per tutti loro, oppure se stessero ancora cercando di depistare il Cultus che, come sempre, aveva mandato in frantumi la campana di normalità sotto cui si erano rifugiati e per cui, il Re, aveva dovuto nuovamente cambiare pelle.

D'un tratto, a spezzare quel silenzio e i pensieri che le stavano affollando la mente, tornò a farsi viva la voce di Salomone. Non si rivolse a Colette, men che meno a Willhelmina. Le sue attenzioni era tutte per lei, quasi la sua opinione contasse più di tutte le altre:  «E tu Alexandria, cosa ne pensi del mio nuovo hagufah?» 
Volgendosi appena, Z'év incontrò lo sguardo del bambino. Stava ancora sorridendo in quel modo ambiguo e, di tutta risposta, la sua mente sovrappose al visino di quell'istante quello dell'uomo che aveva incontrato sulla strada per Innsbruck anni prima. 

«Un corpo vale quanto un altro, quando si parla di te.»

Vienna, giorni nostri

Un corpo vale quanto un altro, quando si parla di te, eppure di fronte alla confusione di quel ragazzo le sembrò non essere così. Forse Noah poteva avere uno sguardo simile a quello del suo Re, ma di Salomone per quel che la riguardava non c'era altro. Guardandolo dall'alto degli spalti, Alexandria non riuscì a sovrapporre i visi degli hagufah precedenti al suo. Più l'osservava e meno la sua espressione sembrava rassomigliare la mimica dell'uomo che lei aveva conosciuto e a cui si era votata. Non importava quanto si sforzasse di trovare similitudini, in modo d'assecondare la follia di Levi,  quello che avevano davanti non era il melekĕ.
Non era nessuno, a dire il vero, solo un altro umano qualunque.
Sarebberp potuti restar lì ore e giorni, ma lui non li avrebbe mai riconosciuti. Probabilmente nemmeno sapeva chi fosse Salomone, il grande Re d'Israele, o avesse qualche nozione d'alchimia; certamente dalla sua bocca non sarebbero mai uscite parole quali mishepakhah, mifelatsott khaye netsakh - anzi, non sarebbe mai uscito nulla in ebraico.

Era giunta sin lì per... una chimera, sì. Si era lasciata illudere da Levi di poter rimettere insieme i cocci della loro meravigliosa campana di vetro, redimendosi, ma alla fine si stava ritrovando punto e a capo - tra le mani Z'év aveva solo polvere.

Con la coda dell'occhio vide il fratello fare un passo in avanti, cercare di diminuire la distanza tra sé e il falso Re e, d'istinto, gli afferrò un polso. Strinse così tanto sulla sua pelle che per un istante le sembrò di essere sul punto di diventare un tutt'uno con lui, ma poi Nakhásh si volse, fulminandola con lo sguardo. 

«No...» sibilò, supplicandolo di fermarsi e darle retta, di non cadere in trappola - eppure lui parve restio.
«Levi, io non... non credo dovremmo essere qui» e a quelle parole, o forse di fronte alla sua voce tremante, il fratello sembrò rinsavire. Battendo le palpebre il Generale fu come colto da una rivelazione e, addolcendo la smorfia, smise di fare resistenza.
«Che stai blaterando? Lui è -»
Ma Alexandria non gli permise di finire. Sgusciando al suo fianco tornò a rivolgersi al giovane sul palcoscenico: «Entschuldigung für die Unterbrechung, wir wollten nur den Namen eines so guten Pianisten wissen. Wirklich herzlichen Glückwunsch!» poi con un sapore terribilmente amaro in bocca fece qualche passo indietro. 

Gli occhi di Levi si fissarono nei suoi. Mutamente le stava chiedendo di fermarsi, di spiegargli, ma lei non si vacillò nemmeno di fronte alla sua mera resistenza. 
«Khaki, akhòt!» I piedi di lui per un istante parvero incollarsi al pavimento. Non importava quanto lei tirasse il suo polso, il Generale restava immobile: «Ani tsarikhe lidevar ito.»
«Lo, atah lo tsarikhe. Lo 'akheshav.»
La strattonò. Il movimento fu così inaspettato e repentino che Z'év non riuscì a impedirgli quella fuga, barcollando all'indietro e finendo a sbattere con la schiena contro la porta. La maniglia le picchiò al centro della colonna vertebrale e, seppur lieve, avvertì del dolore.
«Zeh ett hamelekhe sheli, akh sheli.»
A quelle parole si aggrappò alla manetta che l'aveva pugnalata. Un fastidio profondo e inspiegabile prese a crescerle dentro, a farle stringere lo stomaco. Perché non si accorgeva dell'errore? Perché si stava ostinando a credere a una menzogna? Perché preferiva credere che un perfetto sconosciuto fosse suo fratello mentre a lei, la persona con cui aveva convissuto per secoli, non riusciva a dar fiducia? Per quale, stupido motivo, Levi non voleva ascoltarla?

Si morse la lingua. I canini appuntiti minacciarono la carne fino a riempirle la bocca di un sapore ferroso, poi sputò: «Okay» scosse piano la testa: «Az tishaer 'im rukhott harefaim shelekha, Levi Nakhásh» disse infine, lanciando un'occhiata torva appena oltre le spalle di lui, su quel ragazzo che ancora non aveva smesso di osservarli - e poi, senza alcuna esitazione, abbassò la maniglia per correre via.


 

Hey ... wir suchen Noah, Noah Dietrich: ehi... stiamo cercando Noah, Noah Dietrich (tedesco)
hagufah: corpo
Ich bin es, aber würdest du...?: sono io, ma voi sareste...? (tedesco)
Wòréb: corvo
Melekĕ: Re 
Mishepakhah: famiglia
Mifelatsott: chimere
Khaye netsakh: vita eterna
Entschuldigung für die Unterbrechung, wir wollten nur den Namen eines so guten Pianisten wissen. Wirklich herzlichen Glückwunsch!: Scusa l'interruzione, volevamo solo sapere il nome di un pianista così bravo. Davvero, complimenti! (tedesco)
Khaki: aspetta
Ani tsarikhe lidevar ito: devo parlare con lui
Lo, atah lo tsarikhe. Lo 'akheshav: no, non devi. Non ora.
Zeh ett hamelekhe sheli, akh sheli: Lui è il mio Re, mio fratello.
Az tishaer 'im rukhott harefaim shelekha: allora resta con i tuoi fantasmi.

 

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Capitolo 18
*** - Capitolo Dodicesimo - Parte Seconda: Sconosciuti ***





Capitolo Dodicesimo
Sconosciuti

parte seconda

 

"I miss you and it still feels like I know you
I've got pictures of us side by side to show you
But it feels like I owe you so much more"

- Amelia, Tonight Alive

 

 

Noah rimase immobile, o almeno fu ciò che provò a fare perché, seppur impercettibilmente, le gambe avevano preso a tremare, così come le mani e, per un breve istante, poco prima, gli era parso di essere sul punto di svenire. Si era dovuto costringere a non restare aggrappato al pianoforte quando aveva chiuso la tastiera, quasi temesse che quei due scorgessero le sue debolezze eppure, mentre la porta sembrò sul punto di richiudersi alle spalle della ragazza che era corsa via, si sentì vacillare - fu come essere privato di ogni forza: ma per quale ragione?

Ad ogni falcata di lei il suo corpo reagiva negativamente. Perché?

Umettandosi le labbra fissò il proprio sguardo sulle spalle tese dello sconosciuto rimasto nell'auditorium. Osservò ogni minimo dettaglio e persino sotto al cappotto, ai vestiti, a qualsiasi cosa, riuscì a immaginarsi i suoi muscoli contratti. Li vedeva di fronte a sé con incredibile nitidezza, quasi fosse nudo. Riusciva a scorgerne i nei, il rilievo della colonna vertebrale e delle scapole, le cicatrici e... sussultò.
Quali cicatrici? Come poteva immaginarsi simili sfregi su un corpo che persino in lontananza e nascosto sotto strati di stoffa appariva statuario? Non ne aveva idea, eppure era certo vi fossero. Conosceva quei segni come se fossero suoi, ma non ricordava chi li avesse fatti o come - men che meno quando li avesse scorti.

D'un tratto, forse attirato dal peso dei suoi occhi su di sé, l'estraneo si volse, abbozzando un sorriso. La sua tensione sembrò essersi sciolta, la preoccupazione dissolta - pareva che nulla di ciò che fosse successo fino a quell'istante avesse mai avuto luogo. Il cuore di Noah iniziò a battere forte, a colpire con veemenza il torace. Lo sentiva al pari di un tamburo nello sterno e più tempo passava, più il ritmo aumentava. Rimasero sospesi in quell'osservarsi per qualche lunghissimo secondo, solo loro due, poi l'illusione si ruppe.
Il ragazzo davanti a lui scosse piano la testa, si prese la montatura degli occhiali e l'abbassò appena, giusto il necessario per permettergli d'incontrare le palpebre chiuse che vi si celavano dietro: «'akheshayv ani tsarikhe bediyuq lalekhett, sheli Melekĕ» disse poi in un sussurro che Noah non riuscì a dirsi se si fosse immaginato o meno - dopotutto erano troppo distanti perché lo potesse udire, eppure... eppure quando l'altro aprì gli occhi, rivelando lo strano colore dell'iride e l'innaturale forma della pupilla, una voce, negli angoli più reconditi della sua mente, gli disse che ciò che aveva sentito era reale, dalla prima sillaba sino all'ultima. E si sentì bruciare. Fu come essere investito dal vento che corre tra le dune del deserto, colpito dai raggi del sole che impietosi inaridiscono ogni cosa. Gli sembrò di essere schiacciato nella sabbia rovente, di venirne sepolto in mezzo - peccato che fosse ancora nell'auditorium universitario al centro di Vienna.
Il palpitio del suo cuore divenne un susseguirsi serrato, un principio di ipocondria. Avrebbe voluto boccheggiare, stringersi una mano al petto e con l'altra tenersi saldo a qualcosa, ma non riusciva a far altro che osservare quello sguardo, quegli occhi così particolari, ammalianti, pericolosi e anche terribilmente familiari.

Ma cosa diamine gli stava succedendo? Perché la presenza di quei due tizi lo stava alienando fino a quel punto? Chi erano!?

Lo sconosciuto si girò verso la porta, la bloccò giusto prima che si chiudesse definitivamente. Mosse il primo piede e Noah a quella vista si sentì sopraffare dall'agitazione, da una strana e inspiegabile sensazione di perdita mista a nostalgia.

Perché se ne stava andando? 
Dove stava fuggendo?

«Ani ekhezor elayikhe, akh» gli sentì dire d'improvviso un po' più forte, squarciando il lieve mormorio che si era alzato dai pochi studenti presenti.
Quella frase fu un vero e proprio schiaffo, un colpo dritto in pieno viso - soprattutto quell'ultima parola: fratello.

Le mani presero a tremargli senza logica, il petto a dolergli e, a quel punto, lo riconobbe. Quel ragazzo era lo stesso che aveva visto nei suoi incubi, nelle allucinazioni che lo assillavano giorno dopo giorno disturbando la sua vita da mesi. Era il cadavere che si era ritrovato a stringere tra braccia, la persona che sentiva di dover trovare, la risposta a ogni fottuta cosa!


 

'akheshayv ani tsarikhe bediyuq lalekhett, sheli Melekĕ: adesso devo proprio andare, mio Re
Ani ekhezor elayikhe, akh: tornerò da te, fratello



Yaga:

Non sono nemmeno 1000 parole, a saperlo tenevo tutto il capitolo insieme 😂

 

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Capitolo 19
*** - Capitolo tredicesimo - Parte Prima: Il corpo ricorda ***





Capitolo Tredicesimo
Il Corpo Ricorda
parte prima

 

"We're kings of the killing,
we're out for blood,
We never shoot to stun"

- Monster (Ruelle)

 

Le falcate di Alexandria erano ampie, i suoi piedi toccavano terra con una decisione che Levi non riuscì a spiegarsi: perché stava reagendo a quel modo? Per quale motivo era voluta scappare via? Cosa l'aveva spaventata? Non capiva, seppur lo desiderasse con tutto se stesso. 
Aumentando la velocità tentò di raggiungerla, di afferrarla per fermarla, ma ogni volta che gli pareva d'essere sul punto d'acciuffare un suo polso, una spalla, la sua giacca lei sgattaiolava più lontano, sfuggendogli. Eppure dovevano parlare, gli doveva almeno un confronto prima di gettare la spugna a quel modo - perché seppur lei avesse sacrificato solo una settimana della sua vita, lui aveva aspettato quel momento per mesi.

«Alex! Alex, bevaqashah tafessiq!» Sgusciando tra uno studente e l'altro cercò più volte di chiamarla, di attirare la sua attenzione, ma Z'év finse di non udire nemmeno una delle sue richieste. Lo stava volontariamente ignorando, dopotutto era ovvio che lo stesse sentendo, che il suo udito da predatrice carpisse anche il più lieve dei suoi suoni, eppure si ritrovò a rincorrerla per un intero piano, per decine di corridoi quasi supplicandola di dargli retta finché, lungo il marciapiede da cui erano arrivati, infine, riuscì a prenderla per la manica e trattenerla a sé. 
La strattonò appena e per un istante, quando si voltò, temette di essere stato troppo brusco. L'espressione della sorella era contratta dalla frustrazione, dal fastidio, da un rabbia che non aveva ragione d'esistere; in fin dei conti non avevano scoperto nulla, non gliene aveva dato modo!

«Che diamine ti è preso?» Le chiese allontanando la mano, svelto.

Z'èv si morse il labbro, lo fece con veemenza allontanando appena lo sguardo. La vide cercare qualcosa, forse un appiglio, poi tornò a guardarlo con più decisione: «Non è lui» gli disse in un soffio, bagnandosi il punto in cui gli incisivi si erano premuti - e a quelle parole Levi corrugò le sopracciglia e scosse la testa, confuso. Per quale ragione Alexandria parlava a quel modo? Non era forse stata lei a sentire e riconoscere la şǐyr ʻereş̂? Non si ricordava che di quella stupida ninnananna, che di quella melodia scritta appositamente per loro, non esisteva più alcuno spartito? Nessuno, se non il Re, avrebbe saputo suonarla.

 «C-che stai dicendo?» le sue braccia si alzarono ai lati del busto per poi ricadere lungo i fianchi con un tonfo:  «Lui-» 
La Contessa però non gli diede modo di finire: «Hai visto quanto quel ragazzo fosse spaesato? Hai notato la sua espressione, i suoi occhi e... » fece una pausa, afferrandosi la testa con entrambe le mani. Sembrava esasperata, sul punto di scoppiare in un pianto irrefrenabile, eppure non si fece sfuggire nemmeno una lacrima:  «Non ci ha riconosciuti, Levi!»
 «Non gliene hai dato modo, Alex!» Stavolta la sua voce suonò imperiosa, possente, ben diversa dal tono pacato che aveva cercato di mantenere fino a quel momento. Si rese conto di star digrignando i denti solo quando scorse lo sguardo di Zenas dietro alle spalle della sorella. Lo stava rimproverando, ma al contempo pareva non capirne il motivo.

Nuovamente la vide muovere il capo: «No. No, mi spiace. Quel... ragazzo non è il nostro melekĕ.»
 «E il sigillo? Uh!? Anche tu lo hai sentito, anche a te ha fatto male, o vuoi dirmi che me lo sono immaginato?» L'aveva vista. Con la coda dell'occhio aveva visto la sua mano afferrare la stoffa sopra alla cicatrice, stringere con forza, aggrapparsi a quel ricordo - non poteva mentirgli! E men che meno negare ciò che aveva percepito in quella stanza. L'aveva sentita fremere a ridosso del proprio palmo mentre provava a darle coraggio, l'aveva percepita quasi fosse un'estensione di sé - poteva mentire, ma era certo che nel suo sguardo avrebbe scorto la verità.
Il sigillo che Salomone aveva intagliato nella loro carne aveva reagito, si era risvegliato di fronte a colui che aveva aperto le porte dell'Inferno per ridar loro la vita, lo sapeva lui quanto lei, quindi doveva concedergli quantomeno il beneficio del dubbio. 

Alexandria cacciò i pugni in tasca: «No, io...» ma le parole parvero morirle in gola. Con le labbra schiuse e le palpebre serrate Z'év sembrò vacillare. Non sapeva come rispondergli, non aveva idea di come supportare quella sua sciocca teoria e, per un attimo, un fugace e singolo attimo, Nakhaš credette di averla convinta - ma fu certezza breve perché la voce di lei tornò presto a riempire lo spazio vuoto tra di loro, a colmare il silenzio che aveva seguito quella negazione: «Ciò che ti lega a Re Salomone trascende il tempo, la vita e la morte stessa, Levi. Come si può dimenticare una cosa simile? Sono quasi tremila anni che vivete fianco a fianco su questa terra, che esplorate in lungo e in largo il mondo... sì, è vero, l'Ars richiede un prezzo alto ogni volta che la sfidiamo, ma cose del genere l'anima non le dimentica. Possiamo rinunciare a pezzi di memoria, a parti di umanità, ma questo,» sfilando una mano si toccò la bocca dello stomaco: «questo non si potrebbe mai dimenticare.»
Forse in quelle parole c'era del vero, forse, invece, sua sorella si stava solamente facendo soggiogare dalle emozioni, dalla paura di venir ripudiata dal Re dopo ciò che era successo trent'anni prima - non poteva saperlo. A essere sinceri, nemmeno voleva. Tutto ciò che gli interessava era tornare da quel Noah con entrambi i suoi fratelli, parlargli, mettere insieme i pezzi mancanti e capire. Perché anche se non si trattava dell'hagufah c'erano domande che necessitavano una risposta. 
Riportando lo sguardo sul viso della sorella, il Generale si accorse di come gli occhi di lei si fossero fatti lucidi, di come la sua corazza stesse pian piano cedendo sotto il peso della preoccupazione, del fantasma della delusione. La sua fermezza sulla questione, i suoi timori, erano reali e, soprattutto, la stavano logorando dentro.
E in quel momento, pensò,  una sua lacrima sarebbe stata in grado di trafiggerlo come una lama.

A voce rotta Z'év riprese a parlare: «Non posso illudermi, capisci? Non posso sprecare tempo dietro a un tizio che... zeh lo hu» con un braccio prese a indicare l'istituto: «Io ho bisogno di Salomone, ho...» si zittì, riprendendo a mordersi il labbro. C'erano così tante cose che le aveva sempre visto tacere, frasi che non si era mai permessa di finire o addirittura pronunciare, quasi fossero segreti inconfessabili, tradimenti atroci - e aveva sempre sperato, un giorno, di conoscerli. Era sua sorella, dopotutto. Era parte di lui esattamente come Salomone, eppure alle volte gli sembrava che per lei esistesse solo il Re, come in quel momento.
Un brivido freddo gli percorse la schiena, dalla nuca sino al coccige. Fu come risvegliarsi dopo un lungo torpore, come uscire da una trance in cui nemmeno si era accorto d'essere caduto.

«Ed io ti ho portata da lui. Ci ho portati da lui» sibilò stringendo i pugni. D'improvviso un moto di fastidio sembrò assalirlo. Non avrebbe saputo spiegarsi bene il perché di quella reazione, ma per qualche ragione l'associò a lei, a quella sua ostinazione. 
Noah e Salomone erano legati, ne era certo, e non avrebbe permesso alle paure di Z'év di mandare in fumo tutto il lavoro fatto per rintracciarlo, per arrivare a lei, Zenas e in futuro gli altri fratelli. Doveva fidarsi di lui, del suo stesso corpo, delle sensazioni che aveva provato in quello stupido auditorium - perché le veniva così complicato? 
Con che coraggio si opponeva al linguaggio dell'Ars, dell'alchimia che le scorreva nelle vene? Il suo sangue aveva ribollito di fronte a quel ragazzo, si era agitato al pari di un mare in burrasca e volente o nolente sua sorella avrebbe dovuto cedere al cospetto della verità: c'era qualcosa del loro creatore in quell'umano.

Poi, senza preavviso, Alexandria avanzò verso di lui tanto da quasi sfiorargli il petto. A separarli c'erano poche dita, eppure parve che in quello spazio vi fosse una vera e propria voragine. Erano vicini, sì, ma anche terribilmente lontani.
«Ma lui non ci vuole!» si sentì ringhiare contro nonostante la poca fermezza nella voce di lei. A quella distanza fu fin troppo semplice per Nakhaš scorgere sul suo viso i primi segni della mutazione, così come fu facile notare l'annichilante delusione presente nel suo sguardo - e, per la prima volta da quando erano sgattaiolati fuori dall'ateneo, si domandò se quella di Z'év non fosse altro che una scusa.

«E se non ci vuole, che sia o meno il Re, è inutile restare qui.»
Lo spazio tra loro aumentò. Un passo alla volta.
«Non gli hai dato modo di parlare con noi, Alex» Levi insistette ancora.
«I suoi occhi mi hanno detto tutto ciò di cui avevo bisogno.»

«Incontriamolo ancora una volta, ti chiedo solo questo...»
La vide scuotere la testa: «Se tu e Zenas volete farlo, nessun problema, ma io non voglio più prendere parte a questa farsa» e nascondendo ancora una volta le mani in tasca si volse, iniziando a camminare.

«Tishaer kann, akhòt
Non si girò.
«Mazal tov


 

Alex! Alex, bevaqashah tafessiq! : Alex! Alex, ti prego, fermati!
Zeh lo hu: non è lui
Tishaer kann: resta qui
Mazal tov: auguri/buona fortuna

 

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Capitolo 20
*** - Capitolo Tredicesimo - Parte Seconda: Il corpo ricorda ***




Capitolo Tredicesimo
Il Corpo Ricorda
parte seconda

 

"Once upon a time I could take anything, anything.
Always stepped in time, regardless of the beat
I moved my feet, I carried weight
what I could not do I faked
I dug seeking treasure
just to wake up in an early grave" 

- This is letting go, Rise Against

 

Ciò che Alexandria aveva scorto in quel triste auditorium universitario non le piaceva per niente. Non importava quanto suo fratello si ostinasse a credere diversamente, lei non riusciva a riporre alcuna fiducia né speranza nel ragazzo che si erano trovati davanti. Eppure, al cospetto delle domande e delle obbiezioni di Levi si era trovata priva di difese, persa. Si era sentita mettere spalle al muro, aveva percepito la sua autorità, la sua fede nei confronti del proprio migliore amico schiacciarla contro una parete di gelide sensazioni e, pur di non crollare, aveva lasciato che la frustrazione la sormontasse fino a farla fuggire. Non era da lei scappare in simili circostanze, o almeno così aveva creduto - peccato che per la seconda volta si fosse allontanata da Akràv e Nakhaš privandoli della possibilità di difendere le proprie idee. 
E non solo: era scappata anche dalla persona che avevano rincorso per un'intera settimana. 
Il cuore a quel pensiero le si strinse in una morsa tanto vigorosa da farle male e, persino nolente, il viso confuso di Noah tornò a riempirle la mente. Erano stati quegli occhi grigi a dirle che non si trattava del suo Re, il modo in cui non lo aveva visto reagire di fronte a Levi - non lei, ma al Generale, alla prima Chimera, colui per cui Salomone aveva ripudiato il Dio tanto amato e aveva osato oltrepassare il limite tra vita e morte. 

Di un legame del genere non ci si sarebbe mai potuti dimenticare.

E quindi, quel ragazzo, per quanto le membra le dicessero altrimenti, non poteva essere lui.

Costringendosi in una via appartata, una diramazione della vena principale in cui si trovava, Z'év sentì l'urgenza di nascondersi da chiunque: i cittadini intorno a lei, i fratelli che avrebbero potuto correrle dietro e i sensi di colpa che avevano preso a morderle le caviglie. Si ritrovò ad arrancare per qualche metro, poi le fu impossibile proseguire. La vista divenne d'improvviso meno nitida, gli occhi presero a bruciarle e portandosi una mano alla bocca tentò di soffocare un singhiozzo. Le lacrime presero a scenderle calde lungo il viso, le colarono lente sino al mento obbligandola ad appoggiarsi a uno degli edifici lì presenti; ma perché stava piangendo? Per quale stupida ragione si sentiva così turbata, fragile, in balìa di... non avrebbe saputo dire con chiarezza di cosa si trattasse, eppure era una sensazione di vuoto che pareva espandersi dalla bocca del suo stomaco - così con le unghie andò astringere la carne sotto al maglione, lì dove i polpastrelli incontrarono le linee della cicatrice. Bruciavano ancora, terribilmente. La pelle raggrinzita del sigillo sembrava essere fatta di tizzoni ardenti, ma non riusciva a comprendere se fosse un'illusione e realtà - in quel momento, a dire il vero, fatica a capire molte cose.

Pigramente si raggomitolò su se stessa sino a toccare terra.

Non avrebbe voluto ridursi in quello stato pietoso. Non avrebbe nemmeno voluto ritrovarsi tutte quelle domande a gonfiare la testa e quel vuoto a divorarla dalla pancia, eppure non riusciva a placare né l'una né l'altra sensazione. Più si ripeteva di dover ritrovare un po' di contegno, più i singulti si facevano serrati, mozzandole il fiato.

Quel Noah non sapeva chi fossero e, d'improvviso, si rese conto che a ferirla a quel modo era stata proprio la sua domanda: aber würdest du..? - e voi chi sareste?
Ci aveva sperato, era questa la verità. Per nove giorni non aveva fatto altro che alimentare un'aspettativa lasciata a digiuno. L'aveva osservata riempirsi la bocca fino a scoppiare e non soddisfatta le aveva servito altri sogni di cui cibarsi; e quando Levi, a casa sua, le aveva giurato che si trattava del loro Re, in un angolo profondo di sé aveva davvero creduto alle sue parole, a quel trasporto così coinvolgente che lo aveva spinto sino a lei. Si era convinta di aver quasi saziato la propria speranza e che presto si sarebbe trasformata in realtà. Aveva quindi iniziato a immaginarsi il loro primo incontro con Salomone, gli abbracci, le lacrime di gioia, il perdono - e invece si era ritrovata di fronte a un viso confuso, una voce tremante e uno sguardo vacuo.

La sua illusione era morta insieme al battito di ciglia di Noah Dietrich.


«Che è successo?» Zenas aprì bocca solo dopo che Alexandria fu uscita dal loro campo visivo, lasciando andare la presa su Levi. Appena il fratello aveva capito che se ne sarebbe andata, abbandonandoli lì, si era mosso per inseguirla e trattenerla ancora, così Akràv era dovuto intervenire. 
Nonostante Nakhaš non fosse il solo a temere di poterla perdere, visti i precedenti, lui sapeva che in un modo o nell'altro sarebbe tornata: perché per quanto i lupi potessero apparire solitari, il branco veniva prima di qualsiasi altra cosa - e loro, fino a prova contraria, erano ancora la sua famiglia.

Z'év in quel momento era furiosa, sicuramente qualcosa doveva averla scossa nel profondo e insistere non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. Le serviva tempo, solo quello; inoltre, loro avevano ben altro a cui pensare.

Seppur visibilmente restio all'idea di lasciar perdere l'inseguimento, Levi si volse nella sua direzione. Aveva le labbra tese in una linea dura e passandosi una mano tra i capelli disse: «Lo abbiamo trovato, stava suonando la şǐyr ʻereş̂» ma dell'entusiasmo che Zenas si sarebbe aspettato d'udire non vi era traccia. 
«E allora...?» La confusione che investì l'uomo fu totale. Non riusciva a spiegarsi né la ragione per cui Alexandria avesse reagito a quella maniera né il motivo per il quale il Re non era uscito insieme a loro. Se era lui, perché non era lì?

Il Generale scosse il capo: «Fammi finire.» La frustrazione stava pian piano iniziando ad avere la meglio su di lui, gli si leggeva in faccia, ma fu difficile capirne l'origine.  Poteva trattarsi sia della fuga della sorella, di quello che si erano detti lì fuori o addirittura dentro l'edificio, sia di Salomone e del perché non li avesse seguiti - così Akràv attese il resto del racconto, scongiurando il peggio.
«Sì, noi... noi lo abbiamo trovato, akh. Sono certo sia lui. Era nell'auditorium, stava suonando la ninnananna scritta per Nikolaij e il sigillo quando ci siamo guardati ha bruciato, ma...» si interruppe. Le due estremità della lingua passarono svelte sulle labbra violacee, tradirono in modo impercettibile la sua sicurezza, poi riprese: «non ci ha riconosciuti.» 

Zenas sussultò. Di fronte a quella rivelazione le parole di Alexandria assunsero tutt'altra connotazione, divennero ben più taglienti di quanto gli era parso all'inizio - e dovette confessare a se stesso di non essere più così certo del suo ritorno. Ora comprendeva la sua rabbia, la tensione che le aveva visto contrarre i muscoli, le sue affermazioni.
Come poteva non riconoscere Levi? Tra tutte le Chimere o le persone esistenti al mondo, lui era quello con cui Salomone aveva passato più tempo. Aveva avuto lo stesso aspetto per secoli, millenni... non capiva.
«Come è possibile?»
«Pensi lo sappia? Ci potrebbero essere decine o centinaia di spiegazioni, lo sai quanto me che quando si parla di lui tutto è possibile.»
«Sì, sì, certo, ma quel Noah che vi ha detto? Come fa a ricordarsi la şǐyr ʻereş̂ e non noi?»
Inaspettatamente le labbra dell'altro si tesero in un sorriso, un ghigno ad essere più precisi: «Vorrei saperlo, davvero. Peccato che nostra sorella abbia un problema nel gestire l'agitazione!» Con un calcio Levi colpì qualcosa. Zenas sentì il tintinnio metallico allontanarsi sempre più, lo udì per qualche istante, poi il silenzio tornò a frapporsi tra loro. Sarebbe voluto scoppiare a ridere, tirargli una pacca sulla spalla e dirgli che persino dopo tanti anni di vita ancora non aveva capito nulla delle donne, in particolare di lei, ma qualcosa, d'improvviso, catturò la sua attenzione.


Dapprima avvertì un brivido scuotergli il corpo, poi un dolore che dal pettorale destro, lieve, prese a diramarsi lungo tutto il torace, il busto e persino la punta delle dita. Gli parve che tanti, piccoli spilli gli si stessero infilando nella pelle, ma non l'avrebbe potuta definire come una sensazione fastidiosa, quanto più come qualcosa di dolce, appagante, totale.
Le membra di Levi vennero percorse dal piacere di quella contrizione e involontariamente, capendo, tornò a fissare Akràv.
Con una mano il fratello stava provando a sfiorarsi la scapola. Le sue dita arrancavano sul cappotto nel tentativo di raggiungere il punto preciso in cui era stato trafitto secoli prima, lì dove Salomone aveva posto il suo sigillo per sfidare nuovamente Dio - ed esattamente come lui, anche l'uomo che aveva accanto stava sperimentando quella strana sensazione, quel delizioso bruciore; era certo che se glielo avesse chiesto, Zenas avrebbe confermato di sentire il sangue ribollirgli nelle vene, il cuore palpitare scoordinatamente e il respiro rarefarsi ad ogni secondo di più. Così, compiendo un gesto innaturale, Levi torse il collo. Le sue ossa scricchiolarono appena, eppure riuscì a portare il mento al di là della spalla, in modo da osservare in tutta la sua figura colui che aveva deciso di seguirli, di non lasciarli andare via. 

La consapevolezza di non essersi sbagliato, di aver davvero trovato l'hagufah, gli fece dimenticare ogni cosa, anche di essere in mezzo a un marciapiede e alla mercé di qualsiasi sguardo. 
Nakhaš si concesse il lusso di saggiare quella sensazione, di avvertire il suo corpo reagire alla presenza di Noah. Era qualcosa di inspiegabilmente giusto, reale - e non importava se Alexandria avesse dubitato, se si fosse convinta che quello non era il Re, lui l'avrebbe riportata da Salomone. L'avrebbe fatta ricredere.
Per istanti lunghissimi il Generale rimase immobile beandosi di quei pensieri, poi, sentendo i muscoli del trapezio tirare, si volse con tutto il corpo verso il ragazzo. 
Il fiato corto e le guance arrossate di quest'ultimo erano prove inconfutabili di una corsa sfrenata, del disperato tentativo di raggiungerli dopo l'esitazione avuta in precedenza e, in qualche modo, Levi seppe che qualcosa, in lui, doveva essere cambiato. Forse aveva faticato a credere che le sue Chimere lo avessero trovato, forse dalla distanza a cui erano non li aveva riconosciuti - c'erano decine di supposizioni plausibili a cui aggrapparsi, ma l'unica cosa che davvero importava, in quel momento, era il fatto che li avesse inseguiti.

D'improvviso Noah deglutì, mettendo fine al flusso di pensieri di Levi. Mosse un passo in avanti senza distogliere lo sguardo dai loro e poi, con voce tremante, gli chiese: «Chi sei tu?» 
 


 

hagufah : corpo
şǐyr ʻereş̂ : ninna nanna

 

 
 

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Capitolo 21
*** - Capitolo quattordicesimo: Ti ho visto morire ***




capitolo quattordicesimo

Ti ho visto morire

 

  "All my tears won't drown my pain,
Free me from your sorrow, 
I can't grieve you again.
I watched you let yourself die,
Now it's too late to save you this time."

- Bury me Alive, We are the fallen 

 

Non avrebbe saputo affermare con certezza per quale ragione il suo corpo si fosse mosso, a dire il vero lo aveva fatto a dispetto della volontà, e così ogni passo si era fatto più veloce, ogni falcata più ampia. Senza nemmeno rendersene conto si era scoperto a correre a perdifiato per i corridoi dell'ateneo, il cuore a mille e una soffocante preoccupazione a schiacciargli il petto.
Aveva abbandonato ogni cosa per colpa di quel tizio, del suo viso, delle parole che aveva pronunciato con un'inspiegabile naturalezza, quasi fosse certo che l'avrebbe compreso - e in effetti era successo veramente. Quello sconosciuto lo aveva chiamato akh, fratello, e Noah non riusciva a capacitarsi di come la sua mente avesse tradotto quelle tre lettere, men che meno di come una parte di lui fosse certa di essere stata appellata in quel modo decine di centinaia di volte prima. Un senso d'inspiegabile appartenenza lo aveva travolto, spingendolo a rinunciare a tutti i programmi della giornata perché l'unica cosa davvero importante, d'improvviso, era diventata quel ragazzo. 

Ma per quale motivo? Chi era in realtà?  
Se lo era domandato dall'istante esatto in cui i suoi piedi avevano iniziato a muoversi e nei pochi minuti impiegati per raggiungerlo non aveva fatto altro che ripetersi quelle domande sperando di trovare una risposta e, ora, al suo cospetto, si accorse di non saper più cosa dire.
La gola gli si era inaspettatamente seccata e la lingua aveva deciso di incollarsi al palato impedendogli di pronunciare anche solo una sillaba - era pietrificato, eppure riusciva a percepire dentro di sé una moltitudine indefinita di sensazioni che si agitava senza sosta.
C'era paura, ma anche nostalgia; avvertiva la gioia e persino l'eccitazione e doveva capirne il motivo a qualsiasi costo. Non si trattava di semplice curiosità, il suo era un bisogno viscerale, una necessità d'importanza vitale - quindi si costrinse a stringere i pugni e ripetere la domanda.

«Chi sei?» 

Il cuore prese a battergli sempre più forte. Noah lo percepiva palpitare prepotentemente sotto alla maglia e alla carne e per un istante credette essere sul punto d'esplodere. Avrebbe voluto afferrarsi lo sterno per provare a calmarlo, eppure ogni azione in quel momento gli sembrò impossibile: tutto ciò che riuscì a fare fu spostare gli occhi dall'energumeno con i dreadlock a colui che aveva inseguito.
Erano finalmente uno di fronte all'altro e a separarli non c'erano più di una manciata di metri. A quella distanza poteva vedere tutto di lui, dalla postura al modo in cui i capelli gli incorniciavano il viso, dalla montatura degli occhiali sino alla cicatrice che gli solcava in orizzontale lo zigomo destro. Ad ogni secondo la figura dello sconosciuto parve diventare più familiare, rassicurante - eppure nella testa del ragazzo quell'individuo continuava a non avere un nome, anche se sentiva di averlo sulla punta della lingua.

Il tizio tese un sorriso, un ghigno a dire il vero, e infilandosi le mani nelle tasche dei jeans gli chiese: «Chi credi io sia?» 

Se non fosse apparsa come la più ridicola delle risposte, Noah avrebbe detto "un fantasma". In quel frangente non trovò altre parole con cui descriverlo, dopotutto lo aveva visto morto tra le proprie braccia in una moltitudine di allucinazioni; e se all'inizio erano stati solo piccoli frammenti di sogno, con l'andare del tempo il corpo dello sconosciuto si era andato definendo fino a quelle ultime settimane, quando era riuscito a scorgere ogni dettaglio e avvertire ogni sensazione quasi avesse realmente vissuto quel momento. Eppure, come aveva potuto constatare poco prima, non si trattava di un'entità eterea. La persona che aveva davanti era fatta di carne e ossa, era viva e vegeta e l'avevano vista tutti all'interno dell'auditorium, quindi chi o cosa era, in realtà?

D'improvviso l'omone accanto allo sconosciuto gli tirò una gomitata, spezzando il flusso dei suoi pensieri. 
«Akh, per favore, sii serio.»
Quella richiesta fu una sorta di fulmine a ciel sereno e Noah, sorpreso, si ritrovò a sussultare. Aveva sentito bene? Sbagliava o anche lui aveva appena usato la parola fratello? Si trattava di un termine così inusuale che faticò a credere alle proprie orecchie, arrivando a dubitare della sua lucidità.  Nonostante ciò, quando l'altro scosse piano la testa, senza però smettere di guardarlo dritto in viso, si rese conto di aver capito bene. 

«Lo sono, cosa credi? Voglio solo sentire la sua risposta.» 

Ma in quel momento, a dire il vero, non c'era. Tutto ciò che gli riempiva la mente era il numero sempre maggiore domande, di lacune. Bastava che loro, quel gruppo di estranei aprisse bocca e lui andava in tilt, come sovraccaricato di informazioni - peccato che in realtà non gli avessero ancora detto nulla. I suoi erano vuoti da colmare, fame da saziare, non pieni da liberare.

Ridestandosi, notò come i due se ne stessero lì in attesa, fermi come statue. Pendevano dalle sue labbra quasi dovesse rivelare il più sensazionale dei segreti, eppure si rese conto di non aver nulla di concreto da dire. 
Chi era? Non lo sapeva. Più si sforzava meno gli sembrava di avvicinarsi a una qualsiasi risposta, peccato che fosse proprio sulla punta della sua lingua, la sentiva in bilico tra il dentro e il fuori della sua bocca - così strinse i denti. 

Chi diavolo era quel ragazzo!? 

Le tempie sembrarono gonfiarsi prendendo a fargli male e Noah avvertì la pressione diventare sempre più insostenibile. Aveva le parole bloccate in gola, ancorate nella trachea come uncini che non riusciva a tirare fuori. Gli sarebbe bastato uno sputo per riversarle al di là dei denti, per farle ruzzolare giù dalla lingua, peccato che più si sforzasse più queste sembrarono andare a fondo finché, infine, sbottò.
«Non ne ho idea!» E ammetterlo, per qualche strana ragione, gli diede fastidio. Vedere come gli sguardi di quei due si fossero rabbuiati mentre comprendevano il senso della sua frase gli sembrò un'ammissione di colpa, una prova inconfutabile di quanto fosse stupido - ma infondo per quale ragione avrebbe dovuto conoscerlo?

Vide il ragazzo passarsi una mano sulla fronte, scostare i capelli e gonfiarsi il petto con un sospiro. La sua delusione era evidente nonostante gli occhiali scuri a schermargli lo sguardo, la vedeva in ogni suo gesto, percependola con una chiarezza disarmante. 
«Beh... non è certo la risposta che-»
«Però ti ho sognato» disse in fretta, interrompendolo quasi temesse di poterlo in qualche modo allontanare da sé - e, senza alcuna logica, Noah si trovò nuovamente a corto di fiato, con il battito accelerato e la premura a pizzicargli le caviglie. Aveva paura di aver detto qualcosa di sbagliato, di aver dato a quello sconosciuto un motivo per andare via - ma perché? Cosa gli importava di lui? Stranamente, tutto.

Così strinse i pugni con più forza, umettandosi le labbra prima di aggiungere: «T-tu eri... eri morto.» 

Il silenzio che ne seguì fu totale. Non importava se Vienna intorno a loro stesse continuando a vivere e muoversi, non c'era alcun suono, a parte quello della propria ansia, in grado di arrivare sino alle sue orecchie.
Era solo di fronte alle conseguenze di quella confessione e la reazione che vide da parte dei due sconosciuti lo fece vacillare. Forse aveva detto troppo stavolta. 
Le figure innanzi a lui si irrigidirono dentro ai cappotti; vide le loro mascelle contrarsi e le espressioni farsi serie e per un attimo, uno soltanto, gli sembrò di aver toccato un nervo scoperto - peccato che non potesse essere vero. Forse li stava semplicemente spaventando, oppure gli stava dando prova di essere uscito di senno.

«Che intendi con "eri morto"?»

La domanda risuonò ovunque, sovrastando persino il battito sincopato del suo cuore. Non doveva essere stato più che un sussurro, eppure Noah lo percepì al pari di un boato. Ogni lettera gli arrivò addosso come se fosse stata lanciata, palle indirizzate dritte al suo stomaco.
Incerto se proseguire o lasciar perdere, si concesse il lusso di scostare lo sguardo, facendolo passare sulle mura pallide dell'edificio universitario. Chissà se, se qualcuno in quel momento lo avesse sentito, lo avrebbe considerato un povero pazzo o lo schiavo di qualche strana droga. Hans certamente sarebbe stato il primo a sospettare qualcosa di simile, seguito con una certa titubanza anche da Gretchen. Entrambi lo avevano visto cambiare nel corso di quei mesi, quindi cosa li avrebbe frenati dal pensare che il motivo potesse essere uno di quelli?
Eppure, se da un lato sentiva di star per fare un'enorme cavolata, dall'altro non poteva negarsi di desiderarla. Voleva conoscerne le conseguenze, mettere fine a tutte quelle stranezze e capire: cosa diamine gli stava succedendo? 

Si morse la lingua.
«Che ti ho visto, io... ti ho visto inerme tra le mie braccia. Eri fermo, freddo e... lo so che può sembrare una follia, magari lo è, però... eri tu» si affrettò a dire. «Avevi addosso una tunica, dei gioielli e-» Noah si toccò il pettorale, concedendosi d'improvviso una breve esitazione. Quello che stava per dire era forse il dettaglio più macabro di tutte le sue allucinazioni, ma era anche il più importante. Non poteva tacerlo, non in quel momento, così stringendo la presa sulla maglia aggiunse: «e avevi una ferita enorme, uno squarcio mal suturato qui.» D'un tratto, concludendo la frase, si rese conto di aver involontariamente mosso qualche passo nella direzione del ragazzo. La necessità di sapere se tutto ciò avesse senso o meno sembrò annullargli il raziocinio e spingerlo sempre più vicino a lui.
«Quindi te lo chiedo ancora, chi sei?»

Lo vide voltarsi verso il compare, il "fratello", quasi stesse cercando in lui una sorta di approvazione. Non si dissero nulla, le loro labbra rimasero sigillate per un lasso di tempo che a Noah parve lunghissimo. Lo stomaco gli si torse nella pancia, si raggomitolò su se stesso ad ogni istante in più d'attesa, arrivando a nausearlo.
Perché si stavano comportando a quel modo? Perché semplicemente non gli davano una risposta? Stavano forse valutando come e quanto prendersi gioco di lui?

«Il mio nome è Levi Nakhaš, un tempo figlio di Yoel,» lo sconosciuto più giovane tornò a rivolgersi a lui: «Generale al servizio dell'esercito d'Israele e del suo Sovrano, il mio melekĕ, akh sheli, sheett» e con un'eleganza d'altri tempi, Levi compì un inchino profondo, una riverenza così estranea a quei tempi d'apparire magica. 

Nonostante quella sorta di malia però, Noah non riuscì a trattenersi. Irrefrenabile una risata gli risalì lungo la gola, scappandogli fuori dalle labbra. L'ilarità lo travolse come un fiume in piena, piegandolo su se stesso e costringendolo a portarsi una mano alla bocca, in modo da non attirare troppo l'attenzione. 
 Aveva capito bene? Quel tizio si era veramente definito un generale israeliano al servizio del Re? 

«Divertente, amico! Davvero! Cazzo, io sembrerò matto da legare, ma tu... tu non sei da meno!» 
Levi alzò il capo: «Come, scusa?» Sembrava seriamente confuso da quella reazione.
«Davvero pensi che qualcuno possa credere a questa stronzata?» gli domandò a quel punto, cercando di frenare le risa e racimolare un po' di contegno - eppure, sui volti di quei due stralunati Noah non riuscì a scorgere nemmeno un accenno d'ironia. 


«Ehi» lo additò l'omaccione: «ti ricordo che sei stato tu a dire di aver sognato Levi. Ti consiglio di valutar bene quale tra le affermazioni fatte sia più simile a una "stronzata".»

E d'improvviso il buonumore di Noah sparì.
In effetti, ad orecchie esterne, le sue parole sarebbero forse potute apparire come quelle più ridicole - in fin dei conti non era cosa da tutti i giorni sognarsi gente morta vestita al pari di una ricostruzione storica -, mentre lui, quel Levi, poteva semplicemente aver cavalcato l'onda delle sue blaterazioni. 

Aprì bocca per controbattere, però non trovò nulla da dire. Non aveva alcuna idea di come difendersi da quell'appunto, così, semplicemente, strinse i denti.

L'uomo davanti a lui scosse la testa: «Ascoltami, Noah. E' così che ti chiami, giusto? So che tutto questo può sembrare uno scherzo di pessimo gusto, fidati, anche io ero estremamente scettico nel venire a cercati, ma... mio fratello qui presente» con un gesto particolarmente teatrale della mano indicò il ragazzo che aveva accanto, poi un punto indefinito alle sue spalle: «e mia sorella» - che probabilmente doveva essere la ragazza che con Levi aveva fatto irruzione nell'auditorium - «sono convinti che tu abbia a che fare con una persona che credevamo essere morta molto tempo fa. Lo abbiamo dato quasi per scontato dopo anni di silenzio. E... vedi, il fatto che tu abbia sognato la vera morte di Levi e conosca la nostra ninna nanna non fa altro che rendere queste supposizioni più reali., per questo abbiamo bisogno di te, di conoscerti... meglio.»
Noah corrugò le sopracciglia: «Continuo a non comprendere il nesso con la storia del Generale d'Israele, i miei sogni e... se non sono io la persona che state cercando, chi è, esattamente? Avete un nome, una foto o -»

Levi mosse un passo verso di lui, interrompendolo. Gli si avvicinò così velocemente da smuovere l'aria intorno al suo corpo, da riempirgli le narici con un profumo che gli fece pensare a qualcosa di familiare e al contempo perduto, di caro. In un moto di spontaneità avrebbe osato dire che gli ricordava casa, ma non quella in cui era cresciuto, bensì un posto che sapeva di aver conosciuto e poi abbandonato.
«Nessun altro» sibilò - e a quella distanza, separati solo una spanna,  il ragazzo riuscì nuovamente a scorgere qualcosa dietro alle lenti scure. Per quanto quelle pupille a spicchio, quelle iridi color dell'oro sembrassero l'ennesimo scherzo della sua mente, Noah ne fu certo, si trattava della realtà. Ebbe come l'impressione di aver sempre avuto quello sguardo addosso, di averlo amato e odiato in un eterno circolo vizioso e, involontariamente, sentì il cuore stringersi.
«Però» le palpebre di Levi si chiusero, allentando la morsa che stava avendo su di lui, poi fece un passo indietro: «a quanto pare tu non ti ricordi.» Con un'inspiegabile naturalezza infilò le mani in tasca e piegò la testa da un lato, retrocedendo ancora: «E posso capire la tua confusione. L'ho provata, credimi. Quindi penso sia il caso di darti tempo, di... permetterti di valutare cosa sia meglio fare. Infondo, per quanto ci riguarda, non abbiamo alcuna fretta» le sue labbra si tesero in un sorriso, mettendo in risalto la tonalità violacea.
Aveva un aspetto particolarmente intrigante, era innegabile; un connubio di bellezza e minacciosità capace di affascinare anche il soggetto più scettico - e Noah, in quel momento, si sentì terribilmente succube della sua presenza, tanto da non accorgersi di aver schiuso la bocca e lasciato uscire delle parole. 
«Cosa dovrei valutare?»

Il sorriso si fece più grande: «Tutto.»
«In particolare se fidarti di noi, permettendoci di conoscerti e mettere a tacere le domande che ti e ci frullano nella testa» aggiunse l'altro affiancando il fratello. Lo superava di una spanna, eppure nonostante la stazza dava l'idea di essere molto più bonario.


Li osservò in silenzio, la gola improvvisamente secca. Cosa c'era da valutare? Per quale motivo avrebbe dovuto dargli retta? Non era ovvio che ciò che avevano detto sino a quel momento non avesse alcun senso, che si stessero semplicemente prendendo gioco di lui?
Eppure...
«E se non volessi?»
Levi scrollò le spalle, quasi in realtà g'importasse gran poco.
«Ce ne andremo, esattamente come siamo arrivati. Non siamo qui per obbligarti a far nulla.»

Una proposta allettante, non poté negarlo. Se se ne fossero andati forse avrebbe potuto conservare quel minimo di dignità rimastagli, la lucidità necessaria per resistere ancora qualche mese prima di toccare il fondo. Dopotutto dar modo a degli estranei di minare la sua già labile stabilità mentale non era certo il più ambizioso dei desideri che aveva al momento, però... però c'era qualcosa, in lui, che sembrava anelare la loro presenza nella propria vita più di qualsiasi altra cosa al mondo.

Nuovamente alzò lo sguardo su Levi: «Chi sei, tu?» 

 

Melekĕ : Re
 Akh sheli, sheett: mio fratello, tu


 

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Capitolo 22
*** - Capitolo quindicesimo: A mali estremi, estremi rimedi ***





Capitolo Quindicesimo
A mali estremi, estremi rimedi

 

"Together we would stand our ground and fight " 

On your side, The veronicas

 

Levi sorrise. Lo fece con una genuinità inaspettata persino per se stesso.
La domanda di Noah, seppur già posta, in quel momento suonò diversa - la sua voce sembrò diversa - e per una qualche ragione la Chimera fu certa nascondesse un significato più ampio. L'Hagufah non gli stava semplicemente chiedendo un nome, lo stava supplicando di raccontargli chi fosse per lui, cosa li legasse. Lo capì dal suo sguardo, dalla fermezza con cui aveva nuovamente deciso di aprir bocca e dire: chi sei, tu?

La risposta appariva semplice, terribilmente, eppure non lo era affatto.

Lui era Levi, sì, così come era un soldato, ma anche un suddito, un servo e un amico. Oltre a questo però era un rinato, un esperimento, una follia compiuta da un disperato. Qualcuno lo aveva persino chiamato mostro. Ciononostante, era la Chimera del Re, la sua anima gemella nel più platonico dei sensi, suo fratello - e dire tutto ciò pareva ridicolo. Per essere compresa appieno, ognuna di quelle definizioni doveva essere accompagnata da un ricordo, da una sensazione che dubitò il ragazzo potesse sperimentare in quell'istante; e non perché non volesse, quanto più perché pareva non esserne in grado.

Certo, esattamente come lui, Zenas e Alex anche Noah doveva sentire l'Ars risvegliarsi ogni volta che i loro corpi si avvicinavano, ma tutto ciò non bastava. Le parole, aveva imparato nella sua lunga vita, avevano dei limiti e in quel momento, purtroppo, si rese conto essercene molti.

«Nakhaš shelekha» disse, sicuro che in un angolo recondito di sé Salomone avrebbe compreso quella frase. Lui era il suo Nakhaš, la sua creatura più cara - e seppur impercettibilmente, Levi vide il ragazzo vacillare. Le labbra si schiusero appena, ripetendo il nome che gli aveva dato secoli prima, le sopracciglia si corrugarono e, con la coda dell'occhio, scorse sulle sue braccia una lieve pelle d'oca. A quella visione il cuore gli si strinse.
Forse stava capendo. Così mosse un passo, ma subito Noah retrocedette, sopraffatto da una sorta di evidente repulsione.

«No» gli sentì dire, pietrificandolo. «Mi spiace, io... ho fatto una cavolata nel seguirti. Voi...» Il suo sguardo rimbalzò incessantemente da una Chimera all'altra, sempre più confuso. Era chiaro che qualcosa, a un certo punto, si fosse insinuata in lui riportando a galla i dubbi e affogando l'essenza del Re, eppure Levi non riuscì a capirne il motivo. L'incantesimo dell'Ars si era spezzato senza alcuna ragione e di fronte a quella nuova consapevolezza il Generale non seppe che fare, come trattenerlo, persuaderlo. 

L'Hagufah scosse la testa: «dovete lasciarmi in pace, chiaro?» I suoi piedi si mossero ancora, allontanandolo sempre più. Li stava rifiutando, stava mettendo un muro - e nonostante il tentativo di Zenas di trattenerlo, Nakhaš in quel momento riuscì a pensare solo a una cosa: dovevano fermarsi. Non erano pronti a parlargli, non avevano alcun arma con cui contrastare le sue paure. Salomone era lì, era dentro quel corpo, lo sapeva, però avevano dato per scontato che ne avesse il controllo. 
Fu a quel punto che, seppur riluttante, Levi bloccò il fratello tendendo un braccio, impedendogli di andare oltre sia a parole sia fisicamente; dovevano lasciare a qualcun altro il compito di ricondurre Noah a loro - l'Ars doveva fare il suo corso.

«Sì, scusaci. Forse... hai ragione tu, abbiamo esagerato con questo atteggiamento» si sentì diplomaticamente uscire di bocca prima di piegarsi in una nuova riverenza. «Perdona la nostra irruenza, non accadrà più» e dopo aver abbassato il capo ed essersi portato una mano al petto, la Chimera alzò lo sguardo su di lui. I loro occhi si incontrarono ancora una volta, gli sguardi si unirono senza che le lenti si frapponessero tra loro e, abbozzando un sorriso, il Generale si concesse l'ennesima mossa, conscio di poter mettere in scacco Salomone: «Zeh hayah ta'anug amiti, hamelekhe sheli, ki bishevilekha ani amutt pi meah.»
Le sue labbra si mossero svelte nonostante ogni parola fosse soppesata con estrema cura. Non stava parlando con il corpo che aveva di fronte, bensì con l'essenza che vi si nascondeva tra le carni e, infine, senza smettere di sorridere, si volse verso il punto in cui Alexandria era sparita. I suoi piedi presero a muoversi, fingendo che nulla di ciò che fosse successo avesse realmente avuto luogo. Sapeva che era un rischio, ma al contempo si rendeva conto che non vi erano altre alternative in quel preciso momento. Insistere avrebbe solamente peggiorato la situazione e, alla mercè di quel marciapiede, difficilmente sarebbero riusciti a concludere qualcosa senza attirare attenzioni indesiderate.
Un passo davanti all'altro quindi, con le mani in tasca e il fratello al seguito, Levi procedette verso un piano che di lì a poco avrebbe iniziato a prendere forma - e solo il tempo, a quel punto, gli avrebbe dato ragione.

 

 

 

Nei suoi occhi, Akràv sapeva starsi riflettendo il cielo plumbeo di Vienna, lì dove grosse nuvole solcavano le sue iridi al pari dell'orizzonte, inseguendo la medesima brezza gelida che gli stava sfiorando le caviglie nude, facendolo rabbrividire e tenendolo sveglio - una manna, sotto certi punti di vista. Sì, perché ormai era vigile da più di ventiquattro ore e Morfeo, quella notte, aveva fatto tutto tranne che visitarlo. Non era importato in quale posizione si fosse messo, quante pecore avesse contato, o quante camomille avesse ingurgitato, un'incontenibile agitazione lo aveva lasciato insonne e, se doveva essere onesto, il motivo gli risultava fin troppo ovvio. L'incontro con Noah lo aveva scosso, non poteva negarlo; il suo corpo aveva vibrato con un'intensità tale da lasciarlo quasi senza fiato. Aveva avvertito il calore, la bruciante sensazione dell'hazerikhah farsi strada in lui - ed era stato esattamente come Levi gli aveva promesso, anche se solo in parte. Oltre a quello però, durante la veglia, a tenergli compagnia c'era stata anche la preoccupazione per Alexandria. Più volte, tra una tazza di camomilla e un programma di dubbio intrattenimento, si era spinto sino alla finestra, scostato le tendine bianche, e cercato la figura della sorella lungo la strada, ma lei non era tornata. E chissà quando l'avrebbe fatto - sempre se si fosse decisa a farlo.

Premendosi i palmi sugli occhi, Zenas si lasciò andare a un profondo sospiro.

Restare fermo su quella panchina non lo stava affatto aiutando. I pensieri continuavano ad ammassarsi gli uni sugli altri facendogli pulsare le tempie e, se avesse potuto, se ne sarebbe andato altrove pur di distrarsi - peccato non gli fosse concesso. 
Dopo il disastroso incontro del giorno prima, Nakhaš aveva deciso di adottare un piano tanto banale quanto efficace, seppur dispersivo e noioso. Il compito di Akràv si poteva riassumere in poche e semplici azioni: seguire l'Hagufah, studiare le sue abitudini, capire se in lui si stesse risvegliando qualche ricordo e, nel momento opportuno, tentare un nuovo approccio. In sintesi, gli aveva detto Levi dopo mezz'ora di giri di parole, sarebbe dovuto diventare il suo stalker.

All'inizio aveva dubitato un po' di fronte a quella richiesta, poi però si era ricordato di quante volte lo avesse già fatto prima e, soprattutto, di quanto fosse importante stare accanto a Salomone. Era fondamentale seguirlo, aspettare ed essere pronti a entrare in azione nell'istante in cui un barlume, anche se piccino, si fosse acceso nella sua memoria. Non potevano perdersi un'occasione del genere - ed era stato per quel motivo che Levi aveva scelto di pedinarlo una volta finite le lezioni, appostandosi fuori da quella che aveva scoperto essere casa sua e restando in agguato per tutta la notte. 

La Chimera sbuffò, premendo con maggior forza i palmi. 
Nonostante le motivazioni, doveva ammetterlo, la stanchezza stava iniziando a ghermirlo con sempre più prepotenza e -

«Atah nireah keilu shetsarikhe qafeh.»

Zenas quasi saltò per lo spavento. 
Spalancando gli occhi di fronte a sé, sentì il cuore schizzargli in gola, bloccandogli a metà della trachea un gridolino del tutto inaspettato per un uomo della sua stazza. 
Davanti ai propri occhi, ben più sfatta di quanto si ricordasse e con due tazze di carta tra le mani, realizzò che si trovava, confusa, Alexandria - eppure, in quel frangente, gioire fu l'ultimo dei suoi pensieri.
«Dannazione! Ma sei scema? Ti pare il modo di fare?» 
Scampato il pericolo, e portatosi una mano al petto, Akràv tentò di ritrovare un po' di calma. «Da dove diavolo sei spuntata?»  

Z'èv tese un sorriso. 
A guardarla bene, si rese conto l'uomo, nemmeno lei doveva aver chiuso occhio quella notte. Gli aloni violacei sotto le palpebre inferiori erano evidenti, così come il pallore del viso. I rimasugli del trucco enfatizzavano maggiormente la stanchezza e i capelli arruffati davano l'idea che si fosse appena abbassata il cappuccio. A quanto pareva, non era stato l'unico a rimuginare sugli eventi del giorno prima.
«Da là» staccando un indice dal bicchiere di carta, la ragazza indicò la fine della strada.
«Sì, ma...»
«Ti ho portato il caffè» con una nonchalance invidiabile, Alexandria allungò un braccio nella sua direzione: «Ho pensato potesse farti piacere.»

Afferrando l'offerta della sorella, Zenas corrugò le sopracciglia.
«Come... come sapevi che ero qui?»
Compiendo una mezza piroetta la ragazza gli si sedette accanto: «Non lo sapevo» confessò. «O meglio, non sapevo chi avrei trovato.» La vide stringere entrambe le mani intorno al bicchiere e piegare appena la testa da un lato, lasciando scivolare i capelli sulla spalla. «Però all'albergo mi hanno detto che eri uscito presto, mentre Levi non si era ancora visto, quindi ho provato a immaginare il vostro piano d'azione e... beh, Noah è qui.»

«Capisco» annuì, dovendo ammettere la prevedibilità delle loro azioni. Come già constatato, quello di Levi era un piano semplice.

«Allora, avete fatto progressi?»

Zenas sussultò un'altra volta. Aveva sentito bene? Non era forse lei quella che ventiquattrore prima aveva sbraitato nel tentativo di persuaderli a lasciar perdere? Perché, allora, gli stava facendo una domanda del genere?
Strabuzzando gli occhi si volse verso di lei, scrutandola come se la stesse notando solo in quel momento. Per qualche secondo rimasero immobili faccia a faccia: lui confuso, lei stranamente calma. Era seria? Si era forse ricreduta? Akràv non seppe dirlo. Dovette mordersi la lingua più e più volte prima di rendersi conto che non si trattava affatto di un sogno e, a quel punto, distogliendo lo sguardo e portandolo ancora una volta sull'edificio lì di fronte, disse: «Il ragazzo è Salomone, Z'èv.» 
E d'innanzi a quel commento Alexandria provò a trattenere una risata. Con la coda dell'occhio il fratello la vide fissarsi la punta degli stivali e tendere un angolo della bocca: «Ho chiesto se c'erano novità, non se Levi fosse riuscito a farti il lavaggio del cervello.»
Quasi sovrastando la voce di lei, Zenas si affrettò ad aggiungere un dettaglio fondamentale, qualcosa in grado di farle rivalutare tutta la questione: «Dice di averlo sognato. Noah, intendo. Dice di aver sognato Levi» si interruppe, tornando al caffè. Passandosi la parola successiva sulla lingua ne assaporò ogni sfaccettatura, ogni sillaba. Ripercorse le lettere come se stesse rievocando i ricordi a essa legati e, infine, in un soffio si lasciò sfuggire: «mett».

Morto.

Le mani di lei furono scosse da un fremito lieve, impercettibile, eppure sufficiente per essere notato dai suoi occhi animali - compiacendolo.

«Esistono una marea di strambi a questo mondo.» 
«Vero» le rispose, faticando a restar serio: «Ma dubito che uno solo di loro possa sapere dove e come, un Generale dell'esercito di Re Salomone, sia stato ferito a morte.»

Alex si volse. D'improvviso quelle parole sembrarono scalfire la sua corazza e l'espressione che le si disegnò in viso non riuscì a nascondere nessuna delle emozioni che in quell'istante le si stavano agitando dentro. Akràv lesse nella piega delle sue labbra la sorpresa, in un occhio lo scetticismo e nell'altro la speranza, nelle rughe della fronte la confusione - e senza pensarci, con il cuore occupato a stringersi in una morsa, la tirò a sé. Abbracciò la Contessa così forte d'arrivare a nasconderla a ridosso del petto, tra i vestiti. L'avvolse come se fosse qualcosa di fragile, fugace, e ne respirò il profumo familiare per essere certo di averla davvero tra le proprie braccia.
«Una sola scintilla magari è innocua, Z'év, ma se seguita da altre è in grado di dar vita a un incendio. Incontrandolo noi abbiamo dato il via a questo fuoco. Parlandogli ne abbiamo alimentato le fiamme. Aspetta con noi, aiutaci e vedrai che il nostro sarà il più maestoso dei falò» e chinando il viso, le posò un bacio tra i capelli - fu quel gesto, inaspettatamente, a farle abbassare le ultime difese; o forse, pensò lui, era tornata da loro perché conscia di essere sul punto di crollare. Volente o nolente, anche Alexandria si conosceva a sufficienza da capire le reazioni dell'Ars.

 


 

Hagufah: corpo
Zeh hayah ta'anug amiti, hamelekhe sheli, ki bishevilekha ani amutt pi meah: è stato un piacere, mio Re, perchè per te io morirei cento volte
Hazerikhahrisveglio
Atah nireah keilu shetsarikhe qafeh: hai la faccia di uno che ha bisogno di caffè
Mett: morto

 

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Capitolo 23
*** - Capitolo Sedicesimo - Parte Prima: Ci sei sempre stato ***






Capitolo Sedicesimo
Ci sei sempre stato
parte prima

 

 "And all the people say
You can't wake up, this is not a dream
You're part of a machine, you are not a human being"

- Gasoline, Halsey

 

In casa propria, al riparo da qualsiasi occhio indiscreto, Noah si mise a frugare tra gli scatoloni in cui aveva stipato le poche cose che si era portato via quando era partito per Vienna - alcune le aveva infilate lì dentro per paura che andassero perse, altre per una sorta d'imbarazzo: segreti, ricordi intimi e altro che avrebbe preferito nessuno vedesse, non ancora, quantomeno. Così, ammassati ordinatamente gli uni sugli altri, in una logica ben precisa, c'erano magliette a cui si era particolarmente legato, fotografie di dubbia serietà, raffiguranti lui, Hans e altri conoscenti, disegni dalle forme strane e diari che considerava tesori inestimabili, pagine su cui aveva scritto le stramberie più insolite e, soprattutto, i primi accenni delle allucinazioni.
Rovesciando senza premura il contenuto sul tappetto, Noah iniziò ad aprire alla rinfusa i taccuini alla disperata ricerca di qualcosa, delle pagine che gli erano tornate alla mente per colpa di quel Levi, delle sue parole: "ki bishevilekha ani amutt pi meah". Il significato di quella frase gli era estraneo, non poteva negarlo, eppure in qualche modo gli sembrò di averla già udita. Più la ripeteva, più gli sembrava avere il suono di un ricordo lontano, familiare; una sorta di ninna nanna cantatagli da pargoletto e rimasta impressa nella testa dell'adulto che era diventato - ed era sicuro fosse legata a una parte di sé che aveva cercato di lasciare nel passato, esattamente come i deliri che invece erano tornati a fargli visita.

Raccolse tutti i diari, se li portò vicini, poi con una certa frenesia prese a girare una a una le pagine ingiallite. Non seppe nemmeno dirsi in quale ordine li stesse leggendo, sapeva solo che ogni volta che non si imbatteva in ciò che stava cercando finiva con il digrignare i denti, infastidito. Aveva fretta nonostante nessuno gliene stesse mettendo, ma la sua fame di conoscenza diventava ogni minuto più grande, gli torceva le budella arrivando quasi a nausearlo. Doveva capire. Doveva dare un senso a quelle parole, ai sogni, alle sensazioni provate e a Levi stesso, così estraneo eppure conosciuto. 
Incurante buttò a lato il primo diario, lasciandolo ruzzolare sul pavimento, poi afferrò il successivo. I suoi occhi si mossero spasmodicamente da un foglio all'altro, soffermandosi giusto ogni tanto per essere certi di non perdersi nulla, ma subito riprendevano la corsa, quasi impauriti dalla possibilità di finire il tempo a disposizione - peccato avesse tutta la notte davanti a sé.
Noah avanzò tra le righe scritte anni prima negandosi il piacere di assaporare quelle parole, i pensieri che aveva avuto o le avventure che aveva vissuto fin quando, finalmente, scorse ai lati di alcune pagine la forma malferma di un triangolo capovolto, al cui centro si univa un altro simbolo che, infine, si andava completando con l'immagine di un serpente intento a mordersi la coda: l'uroboro, così gli sembrava si chiamasse - e per quel che ne sapeva, si trattava di un simbolo antico, di un disegno spesso associato a culture passate od occulte di cui, da bambino, dubitava avesse potuto conoscerne il senso; eppure lo aveva replicato. Perché?

In punta di dita, quasi preoccupato dall'idea di potersi ferire, ne percorse le linee nella speranza di capire. Dove lo aveva visto? Chi gliene aveva parlato? Ma la cosa che in quell'istante più lo interessò fu un'altra.
La prima volta che i suoi occhi avevano incontrato quelli di Levi infatti, nella mente si era palesata quell'immagine, era apparsa come un flash, una visione incomprensibile - ed ora, fissandola, gli parve di averla già vista prima di quell'incontro, in uno spazio temporale che si frapponeva tra il momento in cui aveva redatto i diari, la sua adolescenza e quel pomeriggio; più precisamente nelle sue allucinazioni. Se si sforzava di ricordare, riusciva a scorgerlo sul corpo morto che aveva stretto a sé in ognuna di esse, al posto della ferita suturata malamente. Gli sembrò quasi che fosse sempre stata lì, ma mai gli avesse prestato la giusta attenzione.

Immobile rimase a studiare ogni curva e ogni linea, ma nonostante ciò non riuscì a capire.
Perché aveva disegnato quel simbolo? Cosa rappresentava? E, soprattutto, per quale motivo lo associava a quel tipo?

Seppur scettico, Noah riprese a volgere le pagine, stavolta con più premura. Su ognuna di esse scoprì lo stesso disegno, tracciato ogni volta con matite o penne diverse. In alcuni casi, accanto, vi erano altri segni, lettere, avrebbe osato dire, ma non era certo fosse stato lui a scriverle.
Ancora una volta arrivò alla fine.

«Merda!» bofonchiò. 
Non poteva davvero essere tutto lì! In qualche modo doveva esserci di più, molto di più - così tornò alla prima pagina, cercando di capire a quale anno appartenesse quel reperto. La scorse in un angolo, piccola e malferma. 
Preso da un nuovo impeto quindi, iniziò a sfogliarne gli altri diari: quello successivo per primo, poi i precedenti. Passò tra frasi sottolineate, adesivi, resti di fiori e foglie, abbozzi vaghi e... d'improvviso si fermò. 
In mezzo a quel marasma di ricordi e pagine incomplete, Noah ne trovò alcune scritte fitte fitte in una calligrafia che presto riconobbe propria, seppur ben lontana dal poter appartenere a un bambino di sette anni. Non si era mai accorto di come, alle volte anche da piccino, la sua mano avesse scritto in quel corsivo armonioso, elegante - e per un attimo si domandò se non fosse stata aggiunta in seguito, magari in preda a un delirio.
Con cautela prese a leggere, muovendo le labbra senza però emettere suono. Seguì il flusso di parole a tratti sconnesse, tipiche dei mocciosi, avanzando lungo un testo che sarebbe potuto apparire come un racconto, ma poi, d'un tratto, trovò qualcosa che gli fece tremare le mani. Quasi rischiò di perdere il segno, ma provò a resistere, a controllarsi. Il cuore iniziò a battere forte, a fargli male, eppure i suoi occhi non si scollarono dal punto in cui si trovavano.

Nakhaš.

"Nakhaš significa serpente. Mamma non ci crede. Io però so che si dice così perché è il mio animale preferito. Lei mi sgrida quando li chiamo così. Dice che non me le devo inventare le parole, che solo i bimbi stupidini lo fanno. Ed io non sono stupidino. Forse lo è lei. Alle volte mamma non sa le cose e se io le so si arrabbia. Forse è per questo che non ci crede.
Quello è un Nakhaš, comunque.
Ed è bello, ma non come il mio. Lei non lo ricorda, ma io ne avevo tanti, ci giocavo tutti i giorni. Li tenevo nella cesta, in quell'altra stanza, quella strana. Ogni tanto me li mettevo sulle spalle come sciarpe e loro se ne stavano lì, buoni buoni. Mi davano i bacini. 
Mamma dice che non ho mai avuto un'altra stanza, che la mia cameretta è sempre stata questa, ed io penso, ma le mamme possono dire le bugie? Perché per me questa lo è. Io ho avuto un'altra stanza, molto più grande, e ho anche avuto dei Nakhaš. Erano colorati. Mi facevano la linguaccia.
Le ho chiesto di prendermene uno oggi. Al negozio del signor Peter, quello vicino alla scuola. Siamo entrati per prendere la pappa a Riz e io sono andato dove ci sono le scatole dei serpenti. Erano tutti molto belli, anche se nessuno assomigliava al mio. Lo volevo tanto perché lui mi manca, però mamma ha detto no, che gli animali schifosi non li vuole, che è cattivo. 
Non è vero. Io lo so. Le cose cattive non danno i bacini.
Lei non lo sa perché non li vuole, lo dice perché è una fifona.

Se vedeva il mio però cambiava idea. Lui è così bello che tutti se ne innamorano, soprattutto le signorine. Ha gli occhi verdi ed è tutto nero. Ha anche un segno sulla faccia. Gliel'ho fatto io, ma lui non mi odia. Gli piace. Il mio Nakhaš è sempre allegro e mi parla di ogni cosa. La sua lingua con le due punte non sta mai ferma. Lui è un soldato, quindi è forte e super pericoloso. Gli piace arrotolarsi intorno al mio braccio, sta sempre lì. Si chiama Levi e..."

Levi Nakhaš.

Il fiato di Noah si mozzò.
Ora ricordava.

Il serpente nero, Levi, era stato l'amico immaginario che più aveva amato, il primo a essere apparso e l'ultimo a essersene andato dalla sua mente, nonché la ragione per cui i suoi genitori lo avevano portato dallo psicologo - eppure in quelle righe l'immagine dell'animale si era più volte sovrapposta alla descrizione del ragazzo che aveva incontrato: occhi verdi, cicatrice sul viso, l'essere un soldato o, come meglio aveva detto lui, un Generale. Come era possibile? E perché da un rettile la sua fantasia si era trasformata in persona? Forse...
La testa iniziò a fargli male, le tempie presero a pulsare come se i pensieri stessero battendo i pugni contro il cranio. Non ci capiva nulla, niente di niente, per non parlare dell'impressione di star ancora dimenticando qualcosa - ma cosa?!

Soggiogato dalla pressione dei pensieri, Noah si raggomitolò su se stesso fino ad appoggiare la fronte sul tappeto. La premette piano nella speranza di portare un po' di pace, di schiacciare tutto ciò che si trovava dentro la sua testa in quel momento, ma fu inutile. Ricordò ogni singola volta in cui, da bambino, aveva sognato quella creatura, le ore trascorse nello studio asfissiante del dottore e le notti passate a esorcizzare il pensiero del Nakhaš fino a dimenticarlo, a renderlo una semplice fantasia infantile - ed ebbe la certezza di dover mettere un punto a tutta quella storia.
 


 

ki bishevilekha ani amutt pi meah:  "perchè per te io morirei cento volte"

uroboro : con questo termine viene indicata l'immagine del serpente (coccodrillo/drago) che si morde la coda, formando un cerchio. Nell'alchimia l'Ouroboros  è un simbolo palingenetico (dal greco "che nasce di nuovo") che rappresenta il processo alchemico, il ciclico susseguirsi di distillazioni e condensazioni necessarie a purificare e portare a perfezione la "Materia Prima". 

Nota dell'autrice: In alto ho messo la raffigurazione del sigillo di Salomone (ovviamente è frutto della mia fantasia - anche se ogni simbolo ha un significato ben preciso), ma dovete tenere presente che l'uroboro, sui corpi delle Chimere, è un semplice cerchio.

 
 

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Capitolo 24
*** - Capitolo sedicesimo - Parte Seconda: Ci sei sempre stato ***





Capitolo Sedicesimo

Ci sei sempre stato
parte seconda

 

"I walk in fields of ghosts, feeling the Earth come down around me
The universe I know left me in pieces, locked away
I dream that I'll forget someday the hope that I'm alive
But life has taken you from me, got nothing left inside"

- Fire in my mind, Andy Black

 

Per due notti non aveva chiuso occhio. Ogni volta che la stanchezza sembrava avere la meglio su di lui, incubi incomprensibili provavano a trascinarlo in un girone infernale da cui gli sembrava non sarebbe più riuscito a scappare, così si svegliava di soprassalto, agitato, sudato e con il fiato corto. In più occasioni, ridestandosi da quei brevi momenti di incoscienza, gli era parso di essere osservato, eppure nel vagare per casa alla ricerca di intrusi si era scoperto solo - sempre. Non importava quante volte perlustrasse l'appartamento o quanti caffè ingerisse: quelle sensazioni sembravano non dissolversi mai.
Dopo l'incontro con Levi e la rilettura di quei diari, per non parlare dei ricordi rispolverati, Noah si era reso conto non riuscire a concentrarsi, a tenere la mente libera da qualsiasi cosa che ruotasse intorno a quei tre argomenti - e più si sforzava, più si affaticava e meno otteneva, così, sulla tromba delle scale che conducevano al secondo piano dell'ateneo, avvertì la testa vorticare nuovamente e l'equilibrio farsi improvvisamente precario. 

Sapeva che la mancanza di riposo, prima o poi, gli avrebbe giocato qualche brutto scherzo, ma mai avrebbe pensato in un momento simile e con tanta intensità.
Avvertendo le gambe cedere, si affrettò ad allungare un braccio e afferrare il corrimano, provando in qualche modo a scongiurare il peggio - dopotutto gli mancavano ancora una decina di gradini, qualche metro e un paio di aule per potersi finalmente svaccare su una sedia e recuperare le forze. Alzando lo sguardo verso la fine della rampa però, d'un tratto, gli sembrò essere di fronte alla più titanica delle imprese. I pochi metri che lo separavano dalla lezione di chimica biologica divennero chilometri impercorribili per le sue gambe e, portandosi la mano libera alla fronte, provò a convincersi di poterli percorrere; lo aveva già fatto decine di volte, cosa c'era di diverso, ora?

Facendo leva sul corrimano, Noah tentò di issarsi sul gradino successivo e poi quello dopo ancora, ma ad ogni passo la percezione dello spazio intorno a sé si fece più vaga, fluida. Gli sembrò di galleggiare in mezzo al nulla come in uno stato di profonda ubriacatezza, così si arrestò ancora, boccheggiando. Persino il più piccolo dei movimenti gli stava costando fatica, sfiancandolo peggio di una maratona - e la sensazione, dovette ammetterlo, era pressoché identica: si sentiva estenuato, debole. La vista non era nitida e la testa gli girava quasi stesse avendo un calo di zuccheri. 
Provò a deglutire, a mandar giù la saliva in modo da liberare la gola da possibili intralci - aveva bisogno d'aria in quel momento - poi si guardò alle spalle in cerca di qualcuno che potesse aiutarlo, magari accompagnandolo in cima alle scale oppure riportandolo a pian terreno, in infermeria, peccato però che non vi fosse nessuno. In effetti, soffermandosi su quel dettaglio, si rese conto che quasi tutte le lezioni dovevano essere iniziate e che, quindi, gli studenti dovevano ormai essere seduti ai propri posti, in ascolto - nessuno si sarebbe preoccupato per lui, nemmeno Hans o Gretchen: in fin dei conti i motivi per cui avrebbe potuto non presentarsi potevano essere molteplici e certamente, loro, ne avrebbero trovato uno abbastanza valido per non insospettirsi. Non sarebbe stata la sua prima marinatura. Più volte, infatti, aveva evitato di perdere tempo in quelle aule per portare a termine commissioni arretrate, studiare qualche argomento di maggiore interesse o recuperare un po' di sonno, però, pensò amaramente, stavolta non si trattava né di semplice noia e men che meno di impegni di altra natura e, viste le premesse, forse avrebbe fatto bene a contattarli, a chiedere loro aiuto: non poteva permettersi di collassare lì sulle scale.

Con la mano libera prese quindi a tastarsi le tasche della felpa, poi quelle frontali dei jeans. Premette le dita negli stessi punti più e più volte, incontrando sempre e solo monetine - così, preso dalla foga, lasciò la presa sul corrimano, toccandosi forsennatamente i fianchi: il suo cellulare doveva pur essere da qualche parte, era certo averlo portato con sé.

Incurante di quanto il suo corpo gli stesse facendo capire di non poter reggere quel ritmo, Noah afferrò le bretelle dello zaino. La vista era sempre meno nitida, la concezione dello spazio intorno a lui inesistente, eppure non si arrestò: doveva trovare il telefono e avvertire i suoi amici prima che potesse perdere i sensi - peccato che, nello sfilare un braccio per portare la sacca di fronte agli occhi, si sbilanciò tanto da perdere l'equilibrio.
Il cemento che fino a quel momento lo aveva sostenuto venne a mancare, l'aria intorno al suo corpo si aprì come un'onda che s'infrange contro lo scoglio e fu certo, con una lucidità inaspettata, di star cadendo all'indietro. Sarebbe ruzzolato giù da quella rampa, avrebbe picchiato la schiena e la testa, forse si sarebbe rotto qualcosa e, se ci pensava, poteva già percepire il dolore dell'impatto. 
In un ultimo, disperato tentativo di salvezza provò ad aggrapparsi nuovamente al corrimano, ma le sue dita sembrarono scivolarvi sopra senza riuscire ad afferrarlo. Non riusciva nemmeno a vederlo - a dire il vero, in quel momento faticava a distinguere gran parte di ciò che aveva innanzi. 
Strinse i denti cercando sia di ritrovare un po' di lucidità, sia di prevenire l'eccessivo dolore dell'impatto, certo che quello lo avrebbe sentito, eppure, ciò che la sua nuca incontrò, fu ben diverso dalla durezza del pavimento.

Qualcosa di tiepido e morbido accolse la sua testa al pari di un cuscino e da sotto le ascelle avvertì spuntare delle braccia sottili come giunchi, seppur forti come tronchi, che lo sorressero più di quanto avrebbe fatto qualsiasi altra cosa lì presente - e una sensazione di appartenenza e calore lo investì completamente, facendogli per un solo istante recuperare lucidità. In quel breve frangente i suoi occhi misero a fuoco un sorriso lievemente forzato, provato in parte dallo sforzo di sorreggere i suoi settanta chili; eppure, se ne rese conto nel torpore, aveva un ché di estremamente dolce, familiare. Conosceva quell'espressione nonostante non riuscisse a scorgere a chi appartenesse. Avrebbe voluto sfiorarne le labbra, forse la sua mano provò a farlo, ma non seppe dire se ci stesse riuscendo o meno - ormai nulla, se non il corpo a cui era appoggiato, sembrava avere consistenza.

«Al tideag, yesh lekhe oti» udì mentre le forze veniva meno, incerto se si trattasse già di un sogno o ancora della realtà. Quello che aveva percepito accanto all'orecchio era poco più di un sussurro, un suono carezzevole che però riuscì a chetare ogni sua preoccupazione. 
Senza doverci pensare, nel limbo in cui sapeva di star precipitando, Noah si permise di rispondergli:  «Ani somekhe 'alayikhe.» 

Nuovamente qualcosa sembrò riscuoterlo: un tepore umido al centro della fronte, un palpito incontrollato - peccato che in quello stato non fosse in grado di comprenderne l'origine. Ogni cosa stava pian piano sfocando nel nero, anche il sorriso o il soffitto che aveva avuto davanti sino a quel momento, ma non ne ebbe timore. In qualche modo sapeva di potersi finalmente rilassare, di poter cedere all'incoscienza - colui che lo stava sorreggendo lo avrebbe protetto, si sarebbe preso cura di lui sino al suo risveglio; così lasciò che le palpebre si facessero sempre più pesanti, smise di combattere contro la gravità fin quando non si chiusero definitivamente e, a quel punto, sprofondò nella narcosi.
 

I sogni di Noah, per la prima volta dopo mesi, ebbero la consistenza di racconti gioiosi. Nessun cadavere provò a disturbarlo, men che meno l'opprimente sensazione di dolore o mancanza fece la sua comparsa. Nei meandri dell'incoscienza si trovò invece in un'enorme sala dorata, ricca di affreschi, luci e drappeggi. Ogni cosa trasudava sfarzosa regalità, allegria, magia. Innumerevoli ospiti, radunati lungo il perimetro della stanza, brindavano e sorridevano in direzione della pista da ballo, lì dove sette persone mascherate, tre donne e quattro uomini, danzavano in sua compagnia. A turno, ognuno di loro gli si faceva vicino, separandosi dal compagno precedente per passare al successivo e, nel farlo, i loro abiti smuovevano l'aria, i pizzi e i merletti gli si agitavano attorno riempiendogli gli occhi di colori e trame. Uno alla volta, piroettando, andavano a intrecciare le mani con le sue e che fossero cavalieri o dame poco importava, tutti finivano con lo stringere il proprio corpo al suo per qualche passo e una giravolta, poi si allontanavano di nuovo, lasciando posto al ballerino seguente.
Nascosti dietro ai musi di animali finemente intagliati, gli sconosciuti gli sorridevano, gli parlavano. Dalle loro labbra uscivano suoni che per colpa della musica Noah non riusciva a udire - eppure aveva la certezza che stessero dicendo qualcosa d'importante, di fondamentale per capirne l'identità. In più frangenti si era sentito domandargli di alzare la voce, di ripetere, ma nessuno di quei sette gli dava ascolto, troppo occupati a ballare.

Non seppe dirsi per quanto tempo quella festa andò avanti, ma come nella realtà, pian piano, gli invitati si fecero sempre meno, la musica tacque e le luci si affievolirono, fino a sparire - fu a quel punto che, con un rantolo, si rigirò nel letto, prendendo coscienza di dove fosse.

Oltre le ciglia scorse timidi raggi di sole passare tra i battenti delle finestre, dandogli il buongiorno, e nell'aria poté fiutare il profumo del caffè e del pane appena sfornato che, nel torpore del sonno, ancora confuso, gli fece venire l'acquolina in bocca e brontolare lo stomaco - purtroppo per lui però, fu sensazione breve. Gli bastò chiedersi cosa lo attendesse per colazione per ricordarsi che in quell'appartamento, da sempre, viveva da solo.

Noah balzò fuori dal letto prima ancora che gli occhi potessero realmente aprirsi e, in parte barcollando, si fiondò verso la porta, spalancandola già sul piede di guerra - ciò che però non si sarebbe mai aspettato, piombando nel proprio salotto, fu di sentirsi cadere addosso il peso di tre sguardi confusi.

All'inizio vi fu una sorta di sorpresa generale, un silenzio teso, poi i presenti si osservarono tutti: Levi accanto alla libreria si volse verso la ragazza appoggiata con il sedere allo schienale del divano, mentre l'omaccione, armato di mestolo e bacinella, si soffermò prima su uno e poi sull'altro compare - e l'intruso, in quella scena, sembrava solo essere lui.

Il più vicino tra i tre gli sorrise: «Buongiorno, raggio di sole» e come un podista allo sparo del giudice, a quel saluto, Noah gli si scagliò contro, schiacciandolo al muro. 
Perché erano lì? Come avevano fatto a scoprire dove abitava? 
Furente, il ragazzo strinse i pugni attorno alla maglia di Levi, stringendo tanto da far sbiancare le nocche: «Che diamine ci fate qui?» sbraitò, quasi fosse sul punto di azzannargli la giugulare: «Chi vi ha dato il permesso di entrare?» Era davvero fuori di sé, in qualche maniera si sentiva violato, preda dei loro giochi perversi, vittima delle loro ossessioni - anche se aveva desiderato, nell'intimità di quella stessa casa, di capirne la ragione. Perché lui? In che modo era collegato alla persona che stavano cercando? 
Nessuno dei presenti gli rispose, men che meno i due estranei restanti si mossero in aiuto del compare. Tutto ciò che fecero, per quel che riuscì a capire, fu restare a osservarlo, quasi lo stessero studiando; al contempo però, sembravano non avvertire alcuna minaccia da parte sua. Nonostante i pugni a ridosso del viso del loro amico, i denti digrignati, e la possibile denuncia per violazione di proprietà privata, lo stavano sottovalutando - ma non avrebbero dovuto. Seppur non fosse un amante della violenza o delle risse, se fosse stato necessario, avrebbe colpito Levi fino a farlo sanguinare, non gli importava. Quella era casa sua, la sua vita, chi aveva dato loro il diritto di piombarvi dentro?

«Rispondimi! Che cazzo ci fate qui?» Esortò ancora, picchiando con più forza la schiena dello sconosciuto contro la parete - e a quella percossa, da oltre le sue spalle, la voce della ragazza si levò nella loro direzione.

«Beseder, zeh massepiq. 'akheshayv shakherer-»  
«Shetoq!» L'ordine di Noah risuonò per tutto l'appartamento. La sua voce tuonò con una potenza tale che, appena dopo averlo pronunciato, si rese conto dello sgomento che aveva generato - e persino lui, alzando lo sguardo su Levi, basito, si domandò cosa avesse detto.

 


 

Al tideag, yesh lekhe oti: Tranquillo, ci sono io
Ani somekhe 'alayikheMi fido di te
Beseder, zeh massepiq. 'akheshayv shakherer- : Okay,  basta così. Adesso lascialo-
Shetoq: taci!

 

 

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Capitolo 25
*** - Capitolo Diciassettesimo - Parte Prima: Non avere paura dei Mostri ***




Capitolo diciassettesimo
§ Non avere paura dei Mostri §
parte prima

 

"I'll stop the whole world,
I'll stop the whole world

From turning into a monster and eating us alive
Don't you ever wonder how we survive?
Well now that your gone, the world is ours.
I'm only human, I've got a skeleton in me
But I'm not the villain, despite what you're always preaching
Call me a traitor, I'm just collecting your victims
They're getting stronger, I hear them calling"

- Monster, Paramore

 

D'improvviso Noah si sentì paralizzare, incapace di dare un senso a quello che era appena accaduto. L'aveva capita. Lui, che nemmeno aveva idea di quale lingua fosse, era riuscito a capire le parole di quella sconosciuta - e metterla a tacere. Come, non se lo riusciva a spiegare.
Allentando la presa su Levi, senza però mollarlo del tutto per paura che gli potesse sfuggire di mano, volse il capo in direzione del divano, lì dove, sbigottita, la ragazza lo stava fissando a sua volta.
Bagnandosi le labbra, la vide sporgersi con il busto verso di lui, quasi fosse un animale incuriosito dalla preda, pronta a saltargli addosso: «Lo parla davvero. Lui... lui sa l'ebraico» le sentì uscire di bocca. Non seppe dirsi a chi si stesse rivolgendo, a dire il vero dubitò stesse parlando con qualcuno in particolare, eppure quelle sue parole lo fecero rabbrividire - o forse fu il suo sguardo, rosso e caldo come il sangue.

Ebraico, ripeté tra sé e sé, cercando di ricordare quando mai l'avesse udito, ma più tentava di riportare alla memoria quel momento, meno gli sembrava essere avvenuto in un passato vicino o lontano.

Dalla cucina, facendolo sussultare, arrivò il vocione dell'uomo coi dreadlock: «Non hai detto che è successo anche ieri sulle scale?» le domandò, riprendendo a mescolare qualsiasi cosa ci fosse nella bacinella incurante della situazione e lei, come ridestandosi dai propri pensieri, si ritrasse nuovamente.
«Ha farfugliato, potevo benissimo aver capito male.» Ora, più che sorpresa, dava l'idea di essere infastidita e, nel guardarla, Noah non si accorse di aver mollato definitivamente la presa su Levi, permettendogli di sgattaiolare via. Il corpo di lui gli scivolò via dalle dita in un batter d'occhio e nel rendersene conto il cuore prese un'impennata, schizzandogli in gola. Visto il modo in cui lo aveva spinto al muro, urlandogli addosso e digrignando i denti, gli venne naturale temere una vendetta che, stranamente, non ebbe luogo. 
Piuttosto che scagliarglisi contro e ripagarlo con la medesima violenza, il ragazzo prese le distanze alzando le mani in segno di resa. A quella distanza, l'attenzione di Noah poté concentrarsi non solo sul suo sguardo, ma anche sull'espressione che aveva in viso. Era serafico, i lati della bocca si spingevano leggermente verso l'alto e, in quella posa, la cicatrice sul suo zigomo prendeva la forma di una linea netta, un taglio deciso che lo fece tremare. Fu solo a quel punto che gli tornarono alla mente le parole del sé bambino e, intrecciando nuovamente lo sguardo con quello di Levi, sussurrò: «Nakhaš.»

Tutto, in lui, corrispondeva alla descrizione nel suo diario - e se si sforzava, se si impegnava davvero fino allo stremo, poteva immaginare la pelle del ragazzo riempirsi di scaglie scure.

Come aveva letto, Levi era bello. Qualsiasi maschio, etero o meno, avrebbe faticato a negare l'incredibile fascino che lo contraddistingueva; e non si trattava solo del suo look stravagante o del fisico scolpito, ogni aspetto della sua persona sembrava distinguerlo da qualsiasi altro individuo - in particolare, Noah dovette ammetterlo, ciò che più di tutto catalizzò nuovamente il suo interesse furono gli occhi: spaventosi, inumani, eppure mozzafiato. Se ci si soffermava a sufficienza, si potevano scorgere nelle sue iridi dorate pagliuzze verdi, nere e ambrate, per non parlare delle pupille, solchi, o meglio feritoie, verso l'ignoto - ma anche la meraviglia.
Certo, anche le labbra violacee e la lingua biforcuta avevano suscitato in lui grande interesse, ma nulla era paragonabile a quello sguardo pieno di vita e al contempo brutalità, quasi avesse visto l'inimmaginabile.

Sicuramente, guardandolo, qualcuno avrebbe potuto definirlo mostruoso - in effetti anche a lui era apparso tale all'inizio -, i più eclettici invece lo avrebbero potuto paragonare a una creatura sputata fuori da antiche leggende o fantasie malate, eppure, mentre se ne restava lì, immobile a studiarlo, Noah d'un tratto si accorse di trovare Levi familiare, giusto. Qualsiasi peculiarità del suo aspetto era corretto esistesse, così, inspiegabilmente rincuorato dalla sua visione, il padrone di casa rilassò i muscoli. Per qualche strano motivo la sorpresa, ma anche la paura, si erano dissolte, lasciando spazio solo all'esasperazione.

«Che diamine sta e mi sta succedendo?» chiese, stavolta con più pacatezza, esausto alla sola idea di dover lottare ancora contro loro e se stesso - perché ogni volta che li osservava, che si trattasse di Levi o i suoi fratelli, sia la mente sia il corpo sembravano sfuggire al suo controllo. A intermittenza smetteva di essere padrone di sé e la cosa, seppur involontariamente, lo sfiancava; inoltre, doveva convincerli a rispondere alle sue domande.
Forse, pensandoci, quei tre non erano il suo problema, piuttosto la soluzione. Forse, ciò che gli serviva era mettersi seduto e ascoltare ciò che avevano da dirgli - mal che fosse andata, in fin dei conti, avrebbe sempre potuto denunciarli per stalking.

Dal fondo della stanza, la voce della ragazza tornò a pizzicargli le orecchie: «Dubito ci crederesti se te lo dicessimo.»
«Davvero? Mettetemi alla prova, dopotutto non avete nulla da perdere.»
L'uomo ai fornelli trattenne una risata, distraendolo: «Beh, non mi sembra tu lo abbia fatto quando Levi si è presentato...» e in effetti, ripensandoci, non poteva dargli torto - ma nemmeno loro potevano farlo con lui! Chi mai avrebbe creduto di aver di fronte un Generale dell'esercito di Salomone? Erano passati mille anni dalla caduta del suo impero e Levi, persino abbondando con l'età, non doveva essere più che trentenne. Oltre a ciò, l'immortalità era solo una chimera.
«Vuoi biasimarmi? Tre estranei piombano nella mia vita, mi perseguitano, si fanno trovare a casa mia e quando chiedo loro chi diamine siano o cosa vogliono da me, rispondo in modo vago o dicendo cose che.. beh, non è che abbiano gran senso.» Trascinando i piedi, Noah si portò fino al centro della stanza, poi, come se nulla fosse, si mise a sedere per terra, in un punto strategico. Doveva poter osservare tutti i presenti, in modo da tenerli controllati, così come doveva essere abbastanza vicino alla porta della propria stanza in caso fosse stato necessario fuggire.
«E ora cos'è cambiato?» domandò lei, sempre meno garbatamente.
«Diverse cose.»
«Tipo?»

Noah aprì bocca per parlare, ma Levi lo precedette, quasi gli avesse letto, in parte, nel pensiero. Senza staccargli gli occhi di dosso il ragazzo si rivolse alla sorella, citando solo alcuni dei motivi per cui, in quel momento, aveva deciso di dar loro una chance.
«Mi ha visto in sogno, ad esempio. E non in una circostanza qualsiasi, ma... beoto layelah, lifeney shehi mite'orerett. Inoltre ti ha parlato nella nostra lingua, Z'év, e poco fa mi ha chiamato per nome. Suppongo anche che senta ciò che sentiamo noi quando gli siamo vicini» fece una pausa, incrociando le braccia al petto: «E sicuramente c'è altro, ma spero questo possa bastarti, per ora.»
Lei distolse lo sguardo, puntandolo da qualche parte sui listelli del parquet.

Z'év.
Noah ripeté quella parola più volte, assaporandola esattamente come aveva fatto con Nakhaš. Aveva il sospetto che, come per quello di Levi, anche il nome di lei nascondesse un significato più profondo e arcanoma non trovandovi alcun significato, men che meno un ricordo ad esso associato, decise di lasciar perdere - aveva cose ben più importanti su cui concentrarsi. 

«Bene, adesso che conoscete il motivo per cui non vi sbatto fuori, di grazia, volete rispondere alle mie domande?» 
E spuntando dalla cucina, il terzo fratello si fece avanti: «A tutte quelle che vuoi, mio Melekĕ. Abbiamo quaranta minuti prima che la torta sia pronta.»

Beoto layelah, lifeney shehi mite'orerett: quella sera, prima del risveglio
Melekĕ: Re


 

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Capitolo 26
*** - Capitolo Diciassettesimo - Parte Seconda: Non avere paura dei Mostri ***




Capitolo Diciassettesimo
§ Non avere paura dei Mostri §
parte seconda

 

"When this began
I had nothing to say
And I get lost in the nothingness inside of me

(I was confused)

And I let it all out to find
That I'm not the only person with these things in mind"

- Somewhere I belong, Linkin Park

 

Mentre il profumo della torta si faceva sempre più prepotente all'interno dell'appartamento, Levi si concesse il lusso di osservare Noah. A ridosso della parete, con un libro qualsiasi aperto sotto al naso, quasi a depistare il suo interesse per ciò che stava accadendo, se ne stava silenzioso a studiare la scena di fronte ai suoi occhi - o meglio, a studiare lui, l'Hagufah. Con le mani giunte tra le ginocchia e il torso proteso in avanti, il giovane si era finalmente messo a sedere, abbassando le difese; e Zenas, senza troppi complimenti, si era assunto la responsabilità di affrontare qualsiasi domanda lui gli avrebbe posto, da quelle più recenti sino al loro primo incontro - ma non quello avvenuto nell'auditorium lì a Vienna, bensì a Praga, quando mesi addietro le due anime più antiche del mondo avevano attraversato Ponte Carlo e si erano riconosciute, chiamate. Era stato quello l'inizio di tutto, la svolta, la scarica di adrenalina che improvvisamente lo aveva fatto nuovamente sentire vivo - e nonostante i suoi fratelli quel giorno non fossero presenti, Nakhaš sapeva che Akràv sarebbe stato più bravo di lui a gestire le emozioni e dire a Noah qualsiasi cosa volesse sapere; in fin dei conti, tra tutte le Chimere, era il più paziente e amorevole, l'unico a essere mai stato padre e aver compreso l'importanza della calma, del raccontare con minuzia soppesando anche il più piccolo dei quesiti.

Lui non ce l'avrebbe mai fatta. Si conosceva abbastanza da sapere che la foga avrebbe avuto la meglio sul buonsenso, che la smania di ritrovare Salomone lo avrebbe spinto a diventare quasi... molesto, sì, esattamente come qualche giorno prima - si era dovuto sforzare per fermarsi, per non spaventarlo.

Passandosi la lingua sul labbro, Levi d'improvviso scostò lo sguardo, portandolo su Alexandria. Dal punto in cui si trovava la vedeva appena, eppure non poté che sentirsi rincuorato nel trovarla appollaiata sul pianale della cucina, le gambe accavallate, le braccia tese lungo i fianchi, gli occhi socchiusi e le orecchie tese, insieme al capo, in direzione del divano. 
Stava ascoltando anche lei - e, nel constatarlo, sorrise.

«Ci hai chiesto chi siamo, giusto? Bene, allora partiamo dal principio e permettimi di introdurci così, ragazzo: noi tre siamo nati in epoche lontane, in epoche che le persone forse non ricordano bene, ma di cui parlano ancora, alle volte con estrema ammirazione, affascinati da ciò che ha definito il mondo, alle volte con riluttanza e timore. Il problema, però, è che ci siamo anche morti in quelle epoche, ma non del tutto, non veramente. So che suona strano, eppure vedi... c'è stato un uomo, tantissimi anni fa, un Re che ha saputo unire scienza e magia meglio di qualsiasi altro. Questa persona si è votata alla conoscenza, al coraggio e nel farlo ha compiuto l'impossibile, sfidando tutti gli Dei conosciuti e le leggi del cielo e della terra. Lui, Noah, ha piegato l'alchimia al suo volere, riportando in vita sette corpi morti, anime che a suo dire non potevano andar perdute così presto perché diverse, speciali» lo sguardo di Zenas cadde su Levi, su colui per cui tutto ciò era accaduto, la ragione che aveva spinto Salomone a oltrepassare qualsiasi limite. Il Generale sentì il peso di quegli occhi posarsi sulle spalle, ne fu in parte schiacciato, ma resistette - persino dopo tanti anni, in Akràv, era ancora possibile scorgere della risentimento, seppur tenue. 
«Ebbene, quella è stata la nostra fine e il nostro inizio. Sembra la trama di un pessimo romanzo fantasy, non trovi? Io l'ho pensato così tante volte... peccato non ci sia mai stato nulla di finto in ciò che abbiamo visto, fatto, vissuto. Senza comprendere come tutto ciò fosse possibile ci siamo ritrovati nuovamente su questa terra, ma non come prima. Eravamo gli stessi, in qualche modo, ma anche terribilmente diversi e... beh, a causa di questa diversità abbiamo finito con il camminare in lungo e in largo per il pianeta, a solcare mari, oceani, scalare montagne, affrontare guerre dalla parte dei conquistatori ma anche dei conquistati. Ci siamo ritrovati negli agli anni ruggenti di ogni periodo storico e anche in mezzo a terribili carestie senza invecchiare di un singolo giorno. Abbiamo perso ricordi, averi, amicizie, ma mai la speranza, l'amore, il sorriso o quella sorta di famiglia che ci eravamo costruiti... o quantomeno è stato così fino a ventisei anni fa.» 
Involontariamente Nakhaš fece correre la propria attenzione dalle pagine del libro al fratello e, subito dopo, su Alexandria. Era certo che Zenas l'avrebbe guardata, che avrebbe cercato sul suo viso la smorfia di impronunciabile dolore che le si formava ogni volta che si parlava di quel giorno, dello scontro con il Cultus, dell'annegamento del Re - eppure non lo fece. A differenza sua Akràv rimase fisso su Noah, quasi si stesse aspettando dal ragazzo una qualsiasi reazione, proprio come lui stava facendo con Z'év: peccato che nessuno dei due, a quelle parole, batté ciglio. 
Con le palpebre chiuse, la Contessa sembrava essere diventata parte del mobilio. Era immobile, tanto che a malapena si poteva notare il movimento del suo petto quando inspirava o espirava l'aria e, a quella vista, Levi si sentì stringere lo stomaco. Uno scatto d'ira o un pianto isterico sarebbero stati molto più confortanti di quell'apatia, della sua totale indifferenza alla questione perché, in qualche modo, l'avrebbe capita, avrebbe potuto immaginare i suoi pensieri, le emozioni che le si agitavano dentro; invece, di fronte a quell'inerzia, si sentì perso e la cosa non gli piacque affatto - ma d'improvviso, a costringerlo a distogliere lo sguardo da Alexandria, arrivò la risata roca di Noah.

«Dannazione...» soffiò: «La sicurezza del manicomio da cui siete scappati deve fare schifo, e anche parecchio.» I muscoli delle braccia gli si tesero, tradendolo. Si stava sforzando di restare calmo, eppure era evidente che non vedesse l'ora di tirare un pugno dritto sul grugno di Zenas, immolatosi per la loro causa, anfitrione delle Chimere - così, svelto, Levi chiuse il libro e si rimise in piedi per scongiurare il peggio; peccato che non si potesse propriamente dire pronto per una simile evenienza. Non si era mai trovato in una situazione del genere, men che meno avrebbe pensato un giorno potesse succedergli: non era preparato ad affrontare una sfida di quel tipo e Salomone avrebbe dovuto saperlo. Cosa diavolo gli era saltato in testa? Non era forse stato lui a dirgli che in alchimia ogni trasmutazione aveva un prezzo e che se mal pagato poteva portare a gravi conseguenze? E per quel che Nakhaš aveva potuto capire, Noah doveva proprio essere il risultato di un ẖázar finito male.

Frugando nella tasca posteriore dei jeans il Generale estrasse il pacchetto di sigarette, portandosene una vicino alla bocca: «Non c'è bisogno che tu ci faccia notare quanto tutto questo sembri ridicolo, sai? Ci siamo già passati, Noah, eppure come puoi vedere sia Alexandria sia Zenas sono qui. Non pensi che forse un fondo di verità ci sia, quindi?» La infilò tra le labbra e subito dopo averla accesa l'estrasse un'altra volta - non si aspettava alcuna risposta da lui, perciò non gli diede il tempo per formularne una: «Non ho fretta. Nessuno di noi tre ce l'ha, per cui, anche se non ci credi, noi non ci arrenderemo e useremo ogni cosa in nostro potere per dimostrarti che non stiamo dicendo cazzate» e non mentiva, affatto. Per Salomone, per riavere il suo unico e vero akh, avrebbe fatto qualsiasi cosa, anche sprecare i suoi ultimi anni a cercare un modo per far riemergere nella memoria di quel ragazzo tutti i ricordi persi.

«Bishevilekhe ani amutt akherott meah pe'amim, hamelekhe sheli.» La voce di Alexandria arrivò a Levi con la stessa forza di uno schiaffo, lo fece vacillare appena, obbligandolo a interrompere il proprio discorso: «Per te io morirei altre cento volte, mio Re» aggiunse dopo qualche istante con la medesima fermezza che aveva usato la prima volta che aveva recitato quel giuramento. «Ti dice niente, moccioso?» E stavolta anche il padrone di casa sembrò riscuotersi. Tutta la rabbia che gli aveva contratto i muscoli si dissolse, ammutolendolo, eppure sul suo viso un'espressione profondamente sorpresa alimentò la speranza che avesse compreso il significato di quelle parole.

Con una sola frase, la più ovvia e al contempo la meno facile da pronunciare, Z'èv aveva preso in mano la situazione, catturando Noah nel modo in cui avrebbe voluto fare lui - e involontariamente rivide davanti a sé le spalle del suo Sovrano, quell'enorme schiena che gli aveva impedito di osservare la scena. Con il capo chino per poter guardare dritta negli occhi la sua sesta Chimera, Salomone le doveva aver sorriso e, in risposta, la Contessa Vàradi aveva concluso il suo giuramento: "Qualsiasi cosa tu mi chiederai, qualsiasi sacrificio la tua lingua mi dirà di compiere, io ubbidirò. Sarò spada implacabile e scudo impenetrabile per il tuo regno, perché per te morire altre cento volte, mio Re."

E così, come tutti i suoi fratelli, anche lei ogni volta che il pericolo sembrava puntare alla sua giugulare, si affidava alle cure del loro Signore, oppure lo assisteva durante un ẖázar, Alexandria ripeteva quelle parole. Era prova della fiducia che aveva in lui, della riconoscenza che provava nei suoi confronti, ma in quel momento, in quel salotto così estraneo, divenne testimonianza dell'affetto e della speranza che fastidiosamente nutriva ancora nei suoi confronti - e seppur nolente, Levi non poté evitarsi di sentire in bocca un inspiegabile sapore amaro nell'osservarli.

 

Noah avvertì il sangue defluirgli dal viso, quasi si fosse alzato in piedi troppo velocemente.

Le parole di lei gli si scagliarono addosso come una pugnalata, violente. Le sentì arrivare dritte in mezzo al petto e minacciarlo al pari di una lama - peccato che non sapesse dirsi cosa lo colpì maggiormente, se quella frase, la sua voce o lo sguardo con cui gli si era rivolta, ma qualsiasi cosa fosse, era certo averla già sperimentata prima. Ma perché?

D'improvviso si sentì come se avesse la risposta a tutto ciò che gli stava capitando, era lì, proprio sulla punta della sua lingua, ma non riusciva né a pronunciarla né a definirla - e più si sforzava, più le tempie sembravano fargli male, gonfiarsi per la pressione incontrollata dei pensieri. Dovette mordersi il labbro per distrarsi da quel dolore e, nel socchiudere gli occhi, inaspettatamente, un'immagine gli si palesò davanti. Fu un flash, ma bastò a farlo nuovamente sussultare. 
Forse... forse quello che Z'év gli aveva appena detto aveva qualcosa a che fare con i suoi vecchi diari, forse loro potevano spiegargli l'origine di quel simbolo, dei suoi deliri infantili! Così, senza pensarci, Noah si gettò verso l'appendiabiti seguito dagli sguardi confusi degli ospiti e, frugando ossessivamente tra le cose appese, si mise alla ricerca del proprio zaino - perché doveva essere lì, doveva assolutamente trovarlo.

Con il battito a mille e le mani tremanti fece cadere ogni giacca, sciarpa o felpa a terra e, una volta trovato l'oggetto del proprio desiderio, vi infilò dentro le dita con sempre più foga. Spostò cose di cui non si domandò l'utilità, tirò fuori libri che lanciò senza cura ai propri piedi e imprecò più volte a bassa voce finché, d'improvviso, sfiorò un mucchio di fogli arrotolati malamente - e un fremito, una sorta di spasmo, lo scosse fin alla punta dei piedi.
Eccole, si disse estraendo le pagine che aveva strappato dai diari riesumati qualche giorno prima. Se le era portate appresso per poterle consultare con calma tra gli scaffali della biblioteca universitaria, certo di poter trovare qualche informazione in più, ma forse, tutto ciò che gli serviva, erano proprio quei tre stramboidi.
Frettolosamente prese un foglio dal mucchio e, appena ne vide sopra il disegno, si rivolse ai tre: «Cosa è? Voi lo sapete, giusto? Perché quella frase, quella che lei... quella che ha detto ora, è collegata a questo simbolo, vero?»

D'un tratto si accorse d'avere il fiato corto, come se avesse corso per ore. Era così smanioso di trovare un senso a ciò che aveva letto che, senza accorgersene, aveva finito con l'agitarsi più del dovuto - e chissà se anche loro, guardandolo, non si fossero ritrovati a pensare di essere al cospetto di un folle.

Mordendosi il labbro tese il braccio verso gli ospiti e, nel farlo, scorse sui loro visi un moto di sorpresa; ma se per Zenas e Z'év lo stupore fu assoluto e sconvolgente, per Levi fu solo questione di pochi istanti. Fin troppo facilmente sul suo viso andò a disegnarsi un sorriso malizioso, una sorta di confortante compiacimento.
Lui sapeva. O meglio, tutti loro sapevano, ma più dei fratelli quel tizio sembrava felicitarsi di ciò che lui gli stava mostrando.

Puntando l'indice verso il simbolo, l'omone aprì bocca, costringendolo a spostare lo sguardo. «Quello è...» eppure parve faticare a proseguire e, nella sua esitazione, la sorella si fece spazio.
«Dove lo hai visto?»
Che domanda era? Possibile che non riuscisse a rispondere ai suoi dubbi senza mettere in mezzo altri quesiti? 
Avrebbe voluto chiederglielo, oppure sbraitarle contro, ma piuttosto che deviare nuovamente il discorso si limitò a corrugare le sopracciglia e tirare un profondo sospiro: «Io... non lo so» ammise amaramente abbassando lo sguardo sulla cellulosa ingiallita - ed era vero. Per quanto si sforzasse non aveva memoria di quel simbolo, a malapena riusciva a ricordare il giorno in cui ne aveva tracciato linee con il pastello, eppure era collegato a loro e a qualsiasi cosa gli stesse succedendo, così aggiunse: «L'ho solo disegnato. Per anni. Su decine e decine di pagine.» Si umettò le labbra: «Ma tu ne conosci l'origine, vero?» Si volse verso Zenas, poi verso Levi: «Tutti voi, o sbaglio?» E a quella sorta di velata affermazione anche loro si osservarono, silenziosamente ammettendo la loro colpa. Così ogni fratello guardò l'altro, si studiarono quasi stessero avendo una conversazione muta. Sembrava bastargli un battito di ciglia, una piega dell'espressione, per comunicare senza che lui potesse capire il loro linguaggio segreto e, infine, a mettere un punto alle sue ansie, Z'èv scivolò giù dal mobile della cucina su cui era rimasta seduta sino a quel momento, avanzando di qualche passo.

Fissando gli occhi su di lui, quasi volendolo spingere e bloccare con le spalle al muro, si afferrò l'orlo del maglioncino. Le sue dita esitarono appena, dubbiose su quanto fosse giusto fare qualsiasi azione stesse per compiere. La vide mordersi il labbro, stringere la mano libera a pugno, ma poi, lenta, si decise ad alzare la stoffa dell'indumento fin sopra all'ombelico - e per un attimo, nel vedere quel lembo di pelle pallida, Noah sentì l'imbarazzo pizzicargli le guance, fargli torcere lo stomaco e aumentare ancor di più il battito e, seppur si trattasse di qualche centimetro di carne e quella sconosciuta non fosse la prima donna "nuda" che si ritrovava di fronte, si sentì come se stesse spiando qualcosa di proibito. C'era qualcosa di sbagliato nel guardarla, eppure, d'un tratto, un dettaglio catturò la sua attenzione, annullando ogni pensiero o senso di colpa.

Il cuore d'improvviso sembrò fermarsi e il respiro, fino a quel momento affannato, si mozzò.
Non riusciva a credere ai propri occhi.

«C-che diavolo... significa?» si sentì dire.

Nella mezza spanna di pelle che divideva l'ombelico di lei dalla bocca dello stomaco, quasi come le fosse stata incisa nella carne, una cicatrice svettava con incredibile nitidezza - ma non si trattava di quello, ciò che più di tutto lo sconvolse fu la forma dello sfregio perché, seppur meno preciso, era identico al suo disegno. Un triangolo isoscele, rovesciato, la cui punta mirava verso il basso, era sovrastato da una sorta di strano ghirigoro al cui centro si trovava un minuscolo cerchio; e non importava quanto lo guardasse o si ripetesse che fosse impossibile, era lo stesso simbolo.

Alzando gli occhi sul viso di Z'év, la scrutò in cerca di una spiegazione e, non trovandola, si volse verso Zenas - e anche lui, sollevandosi mestamente la maglia sopra la testa, rivelò l'immensa schiena su cui Noah, nuovamente, incontrò lo stesso marchio. Fu quasi scontato, girandosi in direzione di Levi, scoprire anche su di lui la medesima cicatrice; ma a differenza dei fratelli, con lui il ragazzo sapeva già in che punto del suo corpo l'avrebbe trovata, lo aveva visto in sogno.

«E' uno scherzo, vero? Voi... voi siete dei fanatici, fate parte di una setta o -» Nakhaš lo interruppe. Cautamente fece qualche passo nella sua direzione: «Ci chiamano Chimere, mifelatsott, il più delle volte.»

E Noah di fronte a quelle parole scosse il capo, sempre più incredulo: «Chimere? Hai almeno idea di cosa siano? Si tratta di essere ibridi, di animali diversi fusi ins-» ma d'un tratto le parole gli morirono in gola. Un lampo gli attraversò i pensieri, facendolo tentennare. In effetti in biologia si parlava di chimera quando un soggetto presentava diversi zigoti che davano origine a cellule distinte, mentre nella mitologia era una creatura con il corpo formato dall'unione di un leone, una serpe e una capra e, seppur quei tre all'apparenza sembrassero umani, si rese conto che in loro si potevano scorgere anche altre caratteristiche - inoltre, Zenas aveva parlato di alchimia.
«N-no... è... è impossibile.»
«Cosa?» Z'év si fece avanti portandosi le mani sui fianchi pronunciati. Sembrava scocciata, ma fu difficile per lui capirne la ragione. «Il fatto che il pessimo libro fantasy di cui ti parlava Akràv possa essere realtà? La tua, per giunta? Beh, non lo è. Ed ora ascoltami bene, ragazzino: noi siamo morti da umani e risorti da mostri, da abomini dell'alchimia-»
«L'alchimia non esiste! Smettetela con questa stronzata! O quantomeno non esiste nel modo in cui la state descrivendo voi!» Sbottò, zittendola. Nulla di ciò che gli stavano dicendo aveva senso. L'alchimia, per quel che ne sapeva lui, non era altro che un antico sistema filosofico esoterico la cui espressione concreta si era sviluppata attraverso varie discipline come la chimica, la fisica, l'astrologia, la metallurgia e la medicina. Non si trattava d'altro che del precursore della chimica moderna prima della nascita del metodo scientifico, non era certo magia! Persino l'alchimista più promettente non sarebbe mai stato in grado di dar vita a una vera e propria chimera o resuscitare i morti!

Levi soffocò una risata: «Davvero?» e quando Noah si volse verso di lui, pronto a ribattere, si trovò di fronte a qualcosa di ancor più inspiegabile della loro cicatrice.
Sul viso di Nakhaš, quasi come un'onda lenta, l'epidermide prese a frastagliarsi. Piccole increspature simili a squame gli ricoprirono ogni centimetro di pelle, rendendolo ben più minaccioso di quanto potesse sembrare a una prima occhiata - e a quella visione, involontariamente, il ragazzo rimase stregato.

Il serpente più bello, gli sussurrò nuovamente una vocina tra i pensieri.

Levi in quel momento poteva benissimo essere paragonato a un mostro, sì, eppure Noah non provò alcun ribrezzo o paura, solo sorpresa, meraviglia e un inspiegabile senso di sicurezza, quasi conoscesse quelle mutazioni e sapesse che non sarebbero mai state usate contro di lui, ma piuttosto per lui. Così, deglutendo, spostò lo sguardo altrove, nei pressi del divano. Con la maglia ancora stretta tra le mani, Zenas lasciò alla sua mercé la propria schiena, lì dove la colonna vertebrale parve gonfiarsi, muoversi stranamente sotto la pelle fino a squarciarla nella zona lombare, permettendo a una sorta di coda di uscire e innalzarsi fiera fin sopra la sua testa. Scuro e lucente come un'armatura, il prolungamento si andava a concludere in un artiglio intimidatorio - e persino di fronte a quella visione, ciò che sentì smuoversi dentro non ebbe nulla a che fare con il terrore, piuttosto avrebbe voluto avvicinarsi e sfiorarlo, sentirne la consistenza. 

«Ti basta?» La domanda di Z'év lo fece sussultare, costringendolo a muovere un passo all'indietro alla ricerca di un sostegno. Le gambe di Noah si fecero molli, terribilmente, succubi dell'attonimento - e forse, si disse, c'era davvero un fondo di verità in ciò che stavano cercando di dirgli.


 

ẖázar : ritorno 
mifelatsottmostri

 

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Capitolo 27
*** - Capitolo Diciottesimo: Per risvegliare un Re ***




Capitolo Diciottesimo
§ Per risvegliare un Re §
parte prima

 

"You want a martyr, I'll be one
Because enough's enough, we're done
You told me think about it, well I did
Now I don't wanna feel a thing anymore"

King for a day, Pierce the Veil


 

Per le due ore seguenti Noah ascoltò ciò che le Chimere avevano da dirgli, intrecciando i propri pensieri con le parole di Zenas. Silenzioso e con le mani davanti alla bocca, lasciò all'uomo il privilegio di condurlo tra gli aneddoti, le informazioni che alle volte gli parvero essere parte di una favola, altre di deliri; in alcuni casi, udendo la sua voce, avvertì una sorta di consapevolezza picchiargli le tempie, più sporadicamente una nostalgia atavica attanagliargli le viscere. Non osò interromperlo nemmeno di fronte alle questioni più complesse, quasi temesse che, una volta zittita, la sua voce non fosse più in grado di coinvolgerlo nello stesso modo.

Zenas in quei quaranta minuti d'attesa gli parlò principalmente di Salomone, di chi era e cosa significava per loro, del legame che intercorreva tra le sue creature, la nismtt e l'hagufah - quello che, a detta sua e dei fratelli, era lui; un contenitore, l'involucro impotente per un'anima eterna. Ed erano state quelle parole, più di qualsiasi altra, a destabilizzarlo e farlo fremere, ma si era trattenuto sino al trillo del forno. A quel punto, vedendo la Chimera alzarsi per andare a controllare l'impasto, con un sospiro si lasciò andare sullo schienale del divano, coprendosi il viso con entrambe le mani.

Cazzo... si disse dopo qualche istante di totale annullamento, d'incapacità nel mettere insieme pensieri di senso compiuto.
Tutto ciò che gli era stato raccontato sino a quell'istante aveva dell'irreale, eppure non riusciva, nemmeno sforzandosi, a convincersi che si trattasse di fandonie - c'era una parte di lui, in qualche angolo recondito del suo essere, che gli gridava a gran voce di ascoltare quelle parole, di aggrapparcisi con forza perchè, in qualche modo, erano vere.

Peccato che conservassero, oltre alla meraviglia, anche una sorta di agghiacciante bruttezza - perché se quei tre stavano dicendo la verità, lui non era altro che un fantoccio, la crisalide senza valore di una farfalla che avrebbe potuto risvegliarsi da un momento all'altro; e nulla, di ciò che aveva vissuto o provato, gli apparteneva davvero.

Noah si morse la lingua. Pigiò i denti sulla carne tanto da sentire il sapore ferroso del sangue invadergli la bocca, ma non riuscì a deglutirlo - ogni gesto o concetto gli costava fatica, gli faceva dolere qualcosa: la testa, i muscoli, le viscere. Era esausto pur non avendo fatto nulla.

«Non è facile...» 
Il cuscino sotto di lui sembrò schiacciarsi maggiormente e fu chiaro, dalla vicinanza della voce, che Levi gli si fosse seduto accanto.
«Dici?» una risata nervosa gli sfuggì dalle labbra, costringendolo a ingoiare la saliva. Sembrava volerlo prendere in giro, anche se con grande probabilità non volontariamente - ma ciononostante non poté ignorare il fastidio che ne seguì. Per loro ogni cosa, ogni stravagante affermazione che gli si riversava fuori dalla bocca pareva essere normale, un'informazione all'ordine del giorno, peccato che non fosse così. Non per lui, quantomeno. Forse un qualche suo coetaneo esaltato, ancora succube delle fantasie infantili, avrebbe creduto con inspiegabile facilità di essere l'eroe di una storia al limite dell'impossibile; in lui, invece, ragione e sensazioni si andavano a scontrare con indicibile violenza, lasciandolo intontito ed esausto.
«Ci vuole tempo, ragazzo» con pochi passi misurati Zenas tornò in salotto, strappandolo dai propri pensieri. A ogni falcata, l'invitante profumo della torta appena sfornata si fece sempre più intenso e, per un istante, a Noah parve davvero di potersi prendere una pausa da tutto quel caos. Il suo corpo d'un tratto non riuscì a percepire altro se non quella delizia: persino i ragionamenti sembrarono venir annegati nell'acquolina. La sua mente si liberò da qualsiasi cosa, divenne una tabula rasa, ogni pensiero si bloccò a metà illudendolo di potersi concedere qualche respiro, ma all'apice dell'abbandono la voce di Z'év fece capolino, mandando in fumo le sue speranze.

«Ma non ne abbiamo» dalle fessure tra le dita, il ragazzo provò a scorgerla.
Seduta scomposta, con una mano a sorreggere la fronte e l'altra appoggiata inerme sul legno, la Chimera stava scrutando il fratello e nel suo sguardo, persino senza soffermarvisi, era possibile notare una fermezza preoccupante, ma non solo. Sembrava in qualche strano modo impaurita, quasi minacciata, eppure Noah non riuscì a spiegarsi né quell'espressione né le sue parole - non era stato Levi, più volte, a dirgli di avere a disposizione tutto il tempo del mondo? E non era stato Zenas ad aver sottolineato il fatto che fossero immortali? Per quale ragione, quindi, lei doveva affermare il contrario?
D'improvviso la vide mordersi il labbro e spostare gli occhi altrove. Sul suo viso, il passaggio dalla paura alla demoralizzazione fu breve quanto un battito di ciglia e, subito, venne seguito da alcune conclusioni che il ragazzo non riuscì a comprendere - non del tutto, quantomeno.
«Non abbiamo più ɛvɛn. Noi... siamo vulnerabili, stanchi e... beh, l'Hagufah non mi pare poterci essere d'aiuto, viste le sue condizioni.» Con la stessa mano con cui si era tenuta la fronte, Z'év si scostò i capelli rivelando una nuova mutazione della sua espressione: frustrazione - e seppur Noah stesse continuando a spiarla da dietro le dita, come un bambino eccessivamente timido, con la mente si era già distaccato dalla conversazione.

Hagufah, ripeté tra sé e sé. 

Le Chimere avevano usato quel termine più volte per rivolgersi a lui, glielo avevano anche spiegato, eppure nonostante tutti i miseri tentativi di farlo apparire come un vocabolo innocuo o privo di qualche attribuzione negativa, a Noah continuava ad apparire terribilmente freddo, vuoto, denigrante. Già, perché lui non era un semplice contenitore, come quella parola stava a significare, era di più; una creatura senziente, capace di provare emozioni e sensazioni diverse - e non gli avrebbe permesso di considerarlo diversamente da quello che era: una persona. 

«Ho un nome» sbottò, liberando gli occhi in modo da incrociare quelli di lei - e Z'év parve cogliere sin da subito la sua sfida.
«Sì, ne sono consapevole, Noah Dietrich, ma ciò non toglie che in questo momento siamo messi male. Che io ti chiami con il nome che porti ora, con quello con cui ti facevi chiamare il giorno in cui sei salito sulla mia carrozza, con qualsiasi appellativo ebraico o solo con Salomone poco cambia. Abbiamo bisogno del nostro Re, non del suo Hagufah che brancola nell'amnesia autoinflitta perché da stupido ha voluto sfidare la morte senza di noi!» Il tono della Chimera si era fatto sempre più rabbioso, tanto che per un attimo, uno solo, era stato certo si sarebbe alzata picchiando i pugni sul tavolo. Ad ogni parola i denti di Z'èv dovevano essersi stretti e i nervi si erano dovuti tendere. Gli parve quasi di saperlo con assoluta certezza, per questo la sorpresa che ne seguì lo lasciò privo di parole - per fortuna però, Levi sembrò essere più preparato di lui.
«E allora cosa dovremmo fare, akhòt? Fingere di non averlo mai trovato? Tornare alle nostre "vite"?» se gli si prestava la giusta attenzione, Noah notò che persino nella sua voce era possibile udire una nota di fastidio.

A quella domanda, la ragazza quasi sussultò. «Io...»  ma sembrò non trovare le parole per proseguire.

«Ragazzi, per favore, non mi sembra il caso c-» il tentativo di Zenas di interrompere il battibecco però ebbe vita breve. Levi diede l'impressione di non starlo nemmeno ascoltando.
«Parla, Alexandria! Cosa vorresti fare?»
E lei, dal fondo della stanza, grugnì: «Accelerare i tempi!»

Silenzio.
La tensione crebbe con una lentezza sfiancante, eppure era lì, presente, palpabile.

«Come?»

Noah la scorse bagnarsi le labbra, soppesare le parole con cui rispondere al fratello e, nel mentre, lui non riuscì a impedirsi di chiamarla con quel nuovo nome, quello usato da Nakhaš: Alexandria. Perché gli sembrava molto più dolce e familiare di Z'èv?

«Magari se usasse l'Ars...»

Come sorpreso da un'esplosione, Levi balzò in piedi: «Ett tsokheqett, nakhonn
Noah non lo guardò, a dire il vero stava ancora osservando lei, il modo in cui sembrava venir scossa dalle parole di lui, eppure ebbe la certezza che, girandosi, lo avrebbe trovato sconvolto, con gli occhi sbarrati e le narici allargate. Non dovette nemmeno sforzarsi, quell'immagine apparve limpida tra i suoi pensieri - un ricordo, avrebbe osato dire, ma non volle concedersi un simile lusso; dopotutto non era ancora sicuro di voler credere d'essere la reincarnazione di un Re.
«Lo hai detto tu stessa, Alex: brancola nel vuoto, è schiavo dell'amnesia per...» probabilmente strinse i denti, cercando di trattenere la rabbia: «qualsiasi errore abbia commesso durante la trasmutazione» sbottò poi. «Se usasse l'Ars ora, senza averne memoria, sai benissimo quanto me che potrebbe peggiorare la situazione. Potrebbe morire, sant'Iddio!»

I denti di Alexandria affondarono nella carne, Noah riuscì quasi a percepire la consistenza delle sue labbra e desiderò, per un solo istante, mettere fine al loro battibecco - peccato che non avesse idea di come fare.

«Se la nismtt di Salomone alberga in lui, se è davvero il nuovo Hagufah e non qualcun altro, credi davvero che si lascerebbe auto-distruggere?»

Nuovamente silenzio.

Uno, due, tre, quattro secondi.

«Lo yiqereh.»
«Ma potrebbe essere la soluzi-»
«Amareti lo! Al titenn lekhe ett tsarikhe lehorott

I pugni di lei si strinsero tanto da far sbiancare le nocche: «Besederakh.»

Ma se fosse davvero bastato quello?  


 

Nismtt: anima/spirito  

Ett tsokheqett, nakhonn?: stai scherzando, vero?
Lo yiqereh: Non se ne parla/non accadrà
Amareti lo! Al titenn lekhe ett tsarikhe lehorott: Ho detto no! Non far sì che te lo debba ordinare

Beseder, akh: d'accordo, fratello

 


 

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Capitolo 28
*** - Capitolo Diciannovesimo - Parte Prima: Non più lo stesso ***





Capitolo Diciannovesimo
§ Non più lo stesso §
parte prima

 

"I'm making up my mind right now, right now
No more looking back, now I'm looking toward the future
Waited for my time, it's right now, right now"

One Man Army, Sleeping with sirens

 

Dopo il battibecco tra Levi e Alexandria, nessuno aveva più aperto bocca - a parte Zenas - e per un intero giorno Noah si era trascinato tra la propria stanza e il salotto, alternando i pensieri a qualche episodio di Lost o alle futili chiacchiere con l'omaccione.

Aveva rimuginato più volte sulle parole di lei, su quella proposta a cui il fratello si era tanto opposto e, se doveva essere del tutto onesto con se stesso, non poteva negare di aver sviluppato una sorta di curiosità a riguardo; dopotutto, se come dicevano loro era la reincarnazione di un alchimista millenario, compiere una piccola "trasmutazione" non avrebbe dovuto causargli alcun problema - al contrario però, se non lo fosse stato, gli effetti collaterali sarebbero potuti essere disastrosi: detta di Nakhaš sarebbe persino potuto andare incontro alla morte. E non era certo una prospettiva che, a ventiquattro anni, lo allettava più di tanto.

Così, dopo un'intera giornata passata rinchiuso tra le mura domestiche, aveva infine deciso di tornare a lezione, in modo d'allontanare la mente da tutto ciò che riguardava Salomone e le sue Chimere - e per farlo, aveva chiesto loro di non seguirlo. Sarebbero potute rimanere nell'appartamento a patto che gli lasciassero un po' di spazio, che gli dessero modo di ritrovare un po' di normalità, ma quella mattina, subito dopo aver varcato la soglia di casa ed essersi richiuso la porta alle spalle, non poté evitarsi di dubitare fortemente di essere riuscito a convincerle. Per quel che aveva potuto sperimentare infatti, non erano creature propense a farsi persuadere.

Ad ogni svincolo o fermata del bus, aveva quindi cercato oltre le proprie spalle le loro ombre, tra la folla i loro visi, eppure non le aveva scorte nemmeno una volta: possibile che gli avessero dato ascolto?
E persino in università, quando Hans e Gretchen gli avevano chiesto chi fossero i due ragazzi apparsi nell'auditorium, si era guardato attorno con circospezione, sperando che parlando di loro non desse il via a una sorta di evocazione - dopotutto non sapeva ancora cosa fosse o meno in grado di fare -, ma né Levi né Alexandria erano apparsi, lasciandogli modo di illudersi per qualche ora di essere davvero tornato alla propria quotidianità.

Fu solo durante la terza lezione della giornata che, voltandosi verso la finestra che dava sulla strada principale, si rese conto di quanto sciocco fosse stato a credere che tutto ciò fosse possibile. Non c'era più nulla di normale nella sua vita e Zenas, tra un'omelette fatta volare al di sopra della propria testa e una spruzzata di limone sul petto di pollo, si era prodigato a spiegargliene il motivo e a fargli capire per quale ragione fosse necessario che lui non venisse mai lasciato solo. A detta sua infatti, da secoli, un nemico, o come lo aveva definito lui ro'a gadol , aveva tentato di catturare l'Hagufah e le Chimere: nel primo caso per estorcere a Salomone i segreti dell'Ars e imparare a governarla, nel secondo per compiere chissà quali esperimenti. Eppure, mentre l'uomo gli parlava di tutti quei pericoli, Noah si era ritrovato a pensare che, a parte loro tre, in tutti i suoi anni di vita non aveva mai incrociato alcun soggetto sospetto, men che meno si era sentito pedinare - di cosa avrebbe dovuto aver paura, quindi?
 

Appoggiando il mento su un palmo, quasi a nascondere il viso da chiunque altro, si lasciò sfuggire un sospiro esasperato, poi fece un cenno ad Alexandria. Seppur inutilmente, stava cercando di attirare la sua attenzione, di farle sapere d'averla notata; peccato che lei sembrasse tutto fuorché realmente interessata a lui - e la cosa, in parte, lo fece sentire ancor più sconsolato.
La scorse osservarsi attorno con circospezione, infossandosi sempre più in un cappotto evidentemente troppo grande e provando passare inosservata, eppure tutto ciò a Noah parve impossibile. A direi il vero, più ci pensava e meno riusciva a spiegarsi come le Chimere fossero riuscite a non farsi notare per tutto quel tempo; anche se Levi, a spizzichi e bocconi, aveva cercato di spiegarglielo.

Prima che Zenas s'intromettesse nel discorso, portando a galla la fantomatica minaccia di "un nemico", Nakhaš aveva accennato ad alcuni stravaganti aneddoti nel tentativo, forse, di risvegliare in lui qualche ricordo; ma anche in quel caso era stato tutto pressoché inutile.
Nel rievocare quei momenti, nello sguardo serpentino del Generale si era fatta sempre più luminosa la luce della speranza, un ardore che era parso tangibile - e il suo entusiasmo aveva pian piano coinvolto anche lui, strappandogli sorrisi, mozzandogli il fiato e facendolo sentire come un bambino all'ascolto della meravigliosa favola della buonanotte. Alcune volte si era sentito il cuore bloccato in gola, altre aveva percepito il vuoto nello stomaco, ma mai c'era stato di più - e come lui, anche Levi doveva essersi accorto di quel muro invisibile erettosi tra di loro, così alla fine si era rintanato in un silenzio che, insieme a quello di Alexandria, aveva perseguitato il ragazzo fino al momento in cui il sonno aveva avuto la meglio.

Noah a quel pensiero socchiuse gli occhi, poi tornò a fissare Z'èv.
C'era qualcosa, in lei, che lo attirava come una calamita, una sorta di questione in sospeso che sentiva di dover risolvere, eppure ogni volta che le si avvicinava, la Chimera faceva un passo indietro, rintanandosi al di là di quello stesso muro che lo teneva lontano anche da Nakhaš e, in parte, da Akràv - peccato che non riuscisse nemmeno a immaginare cosa potesse essere.

D'improvviso il rumore delle sedie strisciate sul pavimento e il vociferare sempre più confuso dei compagni lo riportarono con lo sguardo di fronte a sé: la lezione era finita. Nemmeno si era reso conto del passare dei minuti, di non aver preso appunti; era stato completamente assorbito dai propri pensieri, dalla figura di Alexandria addossata alla parete - e dovette affrettarsi per non restare indietro.
Infilando alla bene e meglio i libri in borsa , prese a seguire la fiumana di studenti fuori dall'aula scongiurando i gran segreto di non incrociare ne Hans né Gretchen - non aveva tempo per loro e, men che meno, aveva voglia di rispondere a qualsiasi nuova domanda potessero fargli. Come avrebbe risposto a quesiti più specifici? Non ne aveva alcuna idea e persino le poche, false spiegazioni che gli erano venute in mente non sembravano abbastanza plausibili.
Non importava quanto le Chimere sostenessero che fosse esperto nell'evitare verità e celarsi dietro le menzogne, lui era certo di non poterci riuscire.

Alzando lo sguardo indagò i visi dei presenti cercando un segno, qualcosa che mettesse a tacere i suoi dubbi. Chissà se anche in quel momento, uno qualsiasi degli studenti, riuscisse a leggergli in faccia la fatica nel tacere, nel nascondere tutto ciò che aveva scoperto in quei giorni. Chissà se, invece, tra di loro ci fosse qualcuno che, come lui, fosse a conoscenza della verità, di tutto ciò che Levi, Zenas e Alexandria gli avevano raccontato. E se tra di loro ci fosse stato un alchimista? E se anche lui avesse compiuto a sua volta dei Lazerikhah, oppure avesse vissuto decine di centinaia di vite oltre a quella? Un brivido gli corse lungo la schiena, facendolo sussultare. 

E chissà come avrebbero reagito i suoi amici, i suoi genitori!
A quel pensiero, mordendosi il labbro, si chiese se in passato avesse mai svelato a qualcuno quel segreto, se oltre alle Chimere vi fossero state persone degne di conoscere la verità. Come avevano reagito? E come si era comportato, il sé di quelle vite?
Amaramente si rese conto che avrebbe davvero voluto ricordare, in modo da sapere, da agire senza commettere errori - perché viste le premesse, poteva davvero combinare enormi casini.
Se solo la sua mente fosse riuscita a sbloccarsi avrebbe potuto conoscere le risposte a tutte quelle domande, rivivere le sensazioni che tanto aveva visto smuovere Nakhaš e i suoi fratelli - eppure non succedeva mai. Persino le allucinazioni, da quando quei tre si erano catapultati nella sua vita, parevano essersi dileguate: sintomi febbrili schiacciati dall'azione del paracetamolo. E così, si era ritrovato senza nulla a cui aggrapparsi. Solo le loro parole, le flebili reazioni del suo corpo e quella instancabile sensazione nostalgica erano rimaste a fargli compagnia e, se doveva essere sincero, non sapeva bene che farsene.

Noah si lasciò sfuggire uno sbuffo prima di passarsi la mano sugli occhi, quasi a levarsi di dosso la frustrazione che sentiva crescere. La situazione diventava sempre più sfiancante e non negava che temesse per i giorni a seguire. Dopo la notizia di essere un Re millenario, un alchimista e il bersaglio di un ipotetico nemico, cosa lo aspettava ancora?

Svoltando, si ritrovò improvvisamente di fronte al portone d'ingresso all'ateneo e, intontito, rallentò il passo. Non si era accorto di aver corso lungo i corridoi sino a raggiungere l'uscita, men che meno di essere sceso lungo le due rampe di scale che dividevano l'aula di Fisica Generale dal piano terra - eppure, la sua confusione fu presto sedata. Oltre la soglia, a qualche manciata di metri da lui, scorse nuovamente la sagoma di Alex ancora addossata all'edificio di fronte; e quasi guidato dall'istinto, Noah le andò incontro, zittendo ogni dubbio.

C'era qualcosa di inspiegabilmente rassicurante, calmante nella sua presenza. Forse, pensò, perché era stata lei, un paio di giorni prima, a correre in suo soccorso quando aveva perso i sensi; a salvarlo, se così si poteva dire. Oppure, perché rispetto ai fratelli non era altrettanto assillante: non gli parlava di Salomone, non cercava di far emergere in lui ricordi probabilmente inesistenti. E così, seppur avesse disubbidito alla sua richiesta di non essere seguito, Noah non riuscì a impedire alle gambe di raggiungerla - perché Alexandria, in fondo, lo attirava davvero come una calamita.


ro'a gadol
: un grande male
Lazerikhah: risveglio

 

 

 


 

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Capitolo 29
*** - Capitolo Diciannovesimo - Parte Seconda: Non più lo stesso ***




Capitolo Diciannovesimo
§ Non più lo stesso §
parte seconda


 

Avrebbe preferito negarlo, eppure le fu impossibile. Sin dall'istante in cui Noah aveva oltrepassato la soglia dell'università i suoi occhi non erano riusciti a perderlo di vista - e più le si era fatto vicino, più distogliere lo sguardo le era stato difficile. La sua figura era diventata una sorta calamita per lei, un magnete a cui le veniva impossibile resistere, anche se avrebbe voluto.
Il suo istinto predatore stava cercando in lui qualcosa, un segno, tracce dell'uomo che aveva conosciuto e con cui aveva convissuto per quasi tre secoli - perché se doveva essere del tutto onesta, quell'Hagufah non sembrava aver nulla a che fare con i precedenti.

Che Noah fosse un bel vedere era cosa indiscutibile, persino un orbo lo avrebbe notato, ma c'erano stati altri corpi altrettanto ammalianti prima di lui e, per questo, Alexandria non riusciva a capacitarsi di come le venisse complicato guardare altrove. Più se lo domandava, meno capiva e, a un tratto, anche lui sembrò accorgersene.
«Ho qualcosa in faccia?»
A quella domanda Z'év sussultò. 

Si sarebbe dovuta aspettare un commento di qualsiasi tipo di fronte a tanta irriverenza, eppure la prese comunque alla sprovvista.

Svelta spostò lo sguardo sull'asfalto del marciapiede. «No» tagliò corto prima di staccarsi dal muro a cui era rimasta appoggiata per l'ultima ora e muovendo i primi passi in direzione della fermata del bus, quasi volesse fuggire da lui, dalla sua presenza.

Noah la metteva a disagio, terribilmente - e il fatto che non riuscisse a ritrovare in lui alcuna traccia di Salomone era un aggravante ancor più difficile da ignorare.
Già dal loro primo incontro quella sensazione si era fatta largo in lei e, con l'andare dei giorni, non le sembrava affatto essersi placata. Al contrario, si era sentita sempre più indesiderata.
Nell'auditorium, infatti, le era parso che l'unico filo di speranza a cui era rimasta aggrappata per tutti quegli anni si fosse infine definitivamente spezzato; ed era stato l'Hagufah stesso a reciderlo, condannandola. Quando i suoi occhi le si erano posati addosso, senza riconoscerla, la gravità aveva ripreso a fare il suo dovere facendola precipitare in uno luogo tanto scuro che, purtroppo, Alex temette non avere alcuna via d'uscita, eppure non era riuscita a spiegarsene il motivo. Avrebbe piuttosto dovuto gioire di quella situazione, sentirsene in qualche modo confortata - dopotutto se il Re non ricordava lei non poteva essere accusata di nulla -, ma non era stato così. Non era così. Il fatto che Noah non avesse alcun ricordo di lei significava che non avrebbero mai potuto parlare di ciò che era successo e, quindi, non avrebbe mai potuto ottenere il suo perdono o la sua condanna.

«Qualcosa non va?»
La voce del ragazzo la fece nuovamente sussultare, riportandola con brutalità al presente. Nemmeno si era resa conto di essersi persa nei propri pensieri, troppo a disagio per poter prestare reale attenzione alla situazione.
«No» soffiò ancora, questa volta allungando il passo e cercando di mettere più distanza tra loro. Avvertiva Noah vicino, troppo per i suoi gusti, e fu certa che, girandosi, se lo sarebbe potuto trovare a pochi centimetri dal viso.

«Ne sei sicura?» 
Lo ignorò. Non aveva alcuna intenzione di iniziare una conversazione con lui e altrettanto avrebbe dovuto fare l'Hagufah. Perché mai avrebbero dovuto parlarsi, infondo? Lei lo stava evitando, troppo sopraffatta dalle sensazioni di quegli ultimi giorni e preoccupata da quale piega potesse prendere tutta quella storia, e lui a malapena sapeva il suo nome e cosa fosse: non vi era alcun motivo di approfondire... qualsiasi cosa!
«Alexandria?»
Ancora una volta non gli diede retta. 
«Alexandria, fermati!»

E d'improvviso, quasi il suo corpo avesse smesso di appartenerle, le gambe smisero di muoversi - ma non per colpa dell'Ars o del sigillo, bensì del suo tono, di quella voce.

Noah le si parò davanti accertandosi di bloccarle la strada e, con il fiato corto, le puntò addosso gli occhi, facendola vacillare appena. Per un solo istante Z'év sentì il bisogno di aggrapparsi a qualcosa, di trovare sostegno perché, quando i loro sguardi s'incontrarono, un brivido freddo le corse lungo la schiena. D'un tratto le fu impossibile fingere di non vedere in lui ciò che Levi aveva scorto sin da principio: il loro Sovrano. Fu come trovarsi di fronte a un fantasma, una visione - e come tale, durò solo pochi istanti, ma furono sufficienti a farle desiderare di allungare una mano, aggrapparsi alla sua maglia e tirarlo a sé, premendoglisi al petto.

«Mi spieghi che problema hai con me?» 

Alex batté le palpebre, mandando in frantumi l'illusione.
«C-che?»
«Non fare la finta tonta, okay? E' ovvio che non ti piaccio e che non vuoi avere nulla a che fare con me.»
Guardandosi attorno, Z'év si rese conto di essere fin troppo esposta alle orecchie dei passanti: «Non credo sia il caso di affrontare questa discussione qui e ora, Noah.» Chiunque avrebbe potuto ascoltarli, persino qualcuno di indesiderato, come gli adepti del Cultus - e doveva evitare a qualsiasi costo che quella possibilità potesse diventare realtà. Peccato che il suo interlocutore sembrasse non rendersi conto del pericolo.
«E quando vorresti affrontarlo? A malapena mi rivolgi la parola, non fai altro che fissarmi male!»
«Ti ho dett-»
«Levi e Zenas non fanno altro che parlarmi del passato, mi stanno addosso in modo quasi soffocante, mentre tu... tu mi eviti! Perché diamine li hai seguiti se non vuoi avere nulla a che fare con me?»

E d'istinto, rendendosi conto di non sapere come zittirlo, gli afferrò il colletto della giacca costringendolo ad abbassarsi alla propria altezza; come Nakhaš, anche lui la superava di quasi una spanna, forse più - e per tenere il tono di voce il più basso possibile, quella le parve l'unica soluzione adottabile.
«Ascoltami bene, moccioso, ho duecentosessantadue anni, okay? E negli ultimi ventisei, ogni singolo giorno, ho creduto di essere la ragione per cui le persone che più di tutto amo sarebbero morte, quindi scusami se il fatto che tu non abbia memoria di me, di noi, mi destabilizza.» Sapeva di avere le narici dilatate, i denti digrignati e la mascella contratta, eppure si rese conto che Noah non si stava preoccupando di nessuno di quei dettagli: aveva gli occhi erano fissi nei suoi, completamente persi e, rendendosi conto di cosa potesse vedervi all'interno, o pensare guardandoli, lo spinse via, rimettendo distanza tra loro. 

Non doveva dargli modo di scorgere alcuna delle sue reali emozioni, di intravedere la colpa. Non in quel momento, non così presto, non senza prima ricordare quel giorno.

Il ragazzo parve vacillare, sopraffatto con grande probabilità da ciò che non riusciva a capire; e come biasimarlo? Privato della propria memoria non era altro che un involucro vuoto, un corpo incapace di empatizzare, di consolarla, di placare i suoi rimorsi.

«Credi che lo faccia di proposito?» lo sentì biascicare dopo qualche secondo: «Fidati, non è così. Quindi smettila di incolparmi per qualcosa che non posso controllare.» 

Alex si morse il labbro tentando di trattenere le parole, ma fu inutile. Prima ancora che potesse rendersene conto, le sentì uscire di gola: «E' solo che ho bisogno di lui, NoahE tu... tu non puoi aiutarmi. Non ora, quantomeno.» 
Lo vide aprir bocca, provare a dire qualcosa, ma non gliene diede modo. Avanzando - e quasi sbattendogli contro - Z'év riprese a camminare verso la fermata del bus. Stringendosi nelle spalle, in parte imbarazzata e in parte amareggiata, si maledì per avergli dato corda anche solo per quei pochi minuti: non avrebbe dovuto. 
«Muoviamoci, ci aspettano.»

 

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Capitolo 30
*** - Capitolo Ventesimo - Parte Prima: Stesso Sangue ***




Capitolo Ventesimo
§ Stesso Sangue §
parte prima

 

"God damn I think I'm stuck again
Last call it's time to sink or swim
Blacked out I end up on my back
And I know I should stop"

Washed Out, Counterfeit

 

Per il resto del tragitto Alex rimase zitta. Le sue labbra non si schiusero nemmeno una volta, facendo sentire Noah in difetto: ma per quale ragione? Dopotutto era lei quella che non voleva parlare con lui, che cercava di stargli quanto più lontana possibile pur non avendone la facoltà. Non era forse lei quella che era piombata nella sua vita, a casa sua, senza essere invitata? E allora per quale ragione doveva farlo sentire così... sbagliato?
Avrebbe voluto chiederglielo sia durante il tragitto in autobus, sia mentre salivano la rampa di scale che li separava dal suo appartamento, ma ogni volta che si era girato verso di lei per aprir bocca l'aveva trovata rivolta in tutt'altra direzione, persa in chissà quali pensieri - e le parole avevano finito con il morirgli in gola.
Approcciarsi a Z'èv alle volte gli pareva impossibile, faticoso; e non si trattava solamente dei suoi modi scostanti, spesso era lui stesso ad avvertire la sensazione di essere dalla parte del torto, di averle arrecato una qualche offesa da dover sanare prima di poter tornare a far la pace. Peccato che non avesse la più pallida idea del motivo di tutto ciò.

D'un tratto però, ormai sul pianerottolo di casa, vedendola afferrare la maniglia Noah si ridestò dai propri pensieri e, colto da un'urgenza che non avrebbe saputo spiegarsi, esattamente come moltissime altre cose da quando li aveva conosciuti, le chiese d'un fiato: «Finisce così?» E Alexandria nell'udire la sua voce sembrò irrigidirsi, addirittura sorprendersi, ma non a sufficienza per voltarsi verso di lui. Per un solo istante, scrutando quella reazione, a Noah parve che la Chimera non volesse incrociare il suo sguardo, che stesse provando a nascondergli le proprie emozioni; perché? Cosa avrebbe potuto vedere se si fosse girata?

«Cosa?» gli domandò in un sospiro.
«La nostra conversazione.»
La sentì trattenere una risata: «A malapena è iniziata, ragazzino. Inoltre ti ho già spiegato che ci sono cose lasciate in sospeso tra me e la persona che non sei, quindi smettila di insistere» e a quel punto abbassò del tutto la maniglia, quasi a voler mettere fine a una discussione che Noah non era intenzionato a concludere a quel modo.

«"Cose" di che tipo? Alexandria, voglio solo...»
Stavolta, ne fu certo, vide i suoi muscoli contrarsi.

«Sei scocciante» sbuffò togliendosi la giacca.
«E tu malmostosa, irascibile e davvero poco amichevole!» si sentì sbottare, infastidito da quel continuo respingerlo. Infondo non stava facendo nulla di male, anzi! Voleva davvero capire, dare un senso alle stranezze che gli erano capitate dal giorno in cui era nato, ma per farlo aveva bisogno di tutto l'aiuto possibile, anche del suo. «Sto cercando di venirti incontro!»
Di tutta risposta, a quel commento, la Chimera si girò sbigottita verso di lui - di certo non doveva aver apprezzato gli aggettivi con cui l'aveva descritta, in effetti erano ben lontani dall'essere carini, ma Zenas, a ridosso del tavolo da pranzo e intento a preparare chissà quale altra leccornia, dovette nascondere il viso con una mano per camuffare la risata che, comunque, non gli risparmiò un'occhiata fulminante da parte della sorella.
E per quanto minuta, Z'èv sapeva bene come mettere soggezione.

«Come, scusa?» domandò subito dopo aver rimproverato Akràv, tornando così a fissare l'interlocutore: «Non credo di aver capito, moccioso.»
Ed ecco che, forse intimorito dalle possibili reazioni di lei, Zenas cercò di intervenire: «Alex, dai, stava scherzando...» peccato che il suo fu un tentativo inutile. Piuttosto che fermarsi, lei avanzò tanto da costringere Noah a retrocedere di qualche passo, ritrovandosi così spalle al muro. Era in trappola e il legno della porta sembrò diventare freddo quanto la roccia; nemmeno il suo colpo più potente avrebbe potuto farla spalancare e permettergli la fuga.
«Al tite'arev, akh...» sentì ringhiare prima di vederla nuovamente accorciare la distanza tra loro, quasi a volerlo far sentire sempre più in suo potere - e ormai, a dividerli, c'erano giusto un paio di spanne. Un mix di imbarazzo e agitazione parve afferragli lo stomaco e stringerlo, ma non seppe bene come giustificarlo. Da quando si erano conosciuti, infatti, per quel che l'Hagufah si ricordava non erano mai stati tanto vicini. Alexandria aveva sempre cercato di mantenere le distanze, di ergere tra di loro una sorta di invalicabile muraglia, eppure in quel momento parve oltrepassarla per poterglisi scagliare addosso - e involontariamente sentì una vampata scaldargli il viso. Come era ovvio, anche lui non era immune alla sua assoggettazione.
«Sto parlando con il ragazzo» la udì aggiungere dopo qualche istante sempre in direzione del fratello, e il modo in cui gli occhi di Z'èv si fissarono nei suoi sembrò d'improvviso allontanare ogni sensazione di disagio, lasciandogli in bocca un'unica domanda: perché non voleva aprirsi con lui? Cosa era successo, di tanto terribile, tra lei e Re Salomone?
Ora che la poteva guardare bene in viso, così vicino, tutti i timori che aveva creduto provare divennero innocui. Sì, Z'èv faceva effetto, poteva essere pericolosa, ma non con lui - non in quel frangente, quantomeno.

«V-voglio solo capire, Alexandria, d-davvero. I-io...»
«Ti ho detto che non ne voglio parlare, chiaro? Mi sembra di aver usato la tua lingua, non l'ostrogoto, o sbaglio? Ma se vuoi posso ripetertelo in altri quattro modi» ancora un passo avanti.
Più lo spazio tra di loro diminuiva, più Noah si sentì sopraffare da nuove, strane sensazioni; come il brivido che in quel momento gli corse lungo la schiena, una sorta di dolce scarica elettrica che parve offuscargli il raziocinio.
«Sono disposto a fare qualsiasi cosa tu voglia, ti sto solo chiedendo di spiegarmi, di darmi la tua versione di...» Alex si mise in punta di piedi e allungò il collo, mozzandogli il fiato: erano davvero troppo vicini ora, gli venne da pensare.
Aveva i palmi sudati, il respiro corto e, per un solo istante, deglutendo a fatica, temette che la Chimera fosse sul punto di mettergli le mani intorno alla gola, ma non accadde. La ragazza si fermò a metà del movimento, restando sospesa, e in un sibilo gli disse: «Non puoi fare nulla, hai capito o no? Tu non sei il mio Re.»
Ma come poteva dirlo? Con quale fermezza si opponeva a ciò a cui, invece, i suoi fratelli credevano così tanto? Perché ad essere onesto, con la loro convinzione, sia Akràv sia Nakhaš erano riusciti a far dubitare persino lui di se stesso e di ciò che aveva sempre conosciuto - e non avrebbe mai pensato potesse essere cosa così semplice. Né nell'infanzia né nell'adolescenza si era mai immedesimato negli eroi stereotipati dei libri fantasy, eppure se sentita dalle labbra di quei due, quell'ipotesi, poteva quasi apparire vera. Forse muovendo qualche piccolo passo verso di loro avrebbe davvero spalancato le porte su un mondo che mai avrebbe creduto esistere.
«È per via di... di quello che vi siete detti tu e Levi? È perché non so usare l'Alchimia?» e se quello era il problema e al contempo la soluzione, avrebbe provato in tutti i modi a dimostrare ad Alexandria di tenere alla loro causa.

Il rumore della sedia sul pavimento tradì Zenas: «Alex, per favore. Credo che adesso sia meglio lasciar perdere e-»

«Amareti sheatah tsarikhe al tite'arev, Akràv!» Il fiato di lei gli sfiorò il viso. Noah poté sentirne il bollore, l'aroma di caffè rimastole in bocca - e nonostante stesse parlando con il fratello non distolse lo sguardo da lui nemmeno per un istante. Il suo corpo gli era quasi addosso, la sua rabbia palpabile e minacciosa più di quanto si sarebbe aspettata. Alex d'un tratto divenne lava in procinto di bruciarlo, eruzione implacabile che lui stesso aveva scatenato scavando nei punti giusti dei crateri rimasti intonsi. Noah poté percepire il pericolo con estrema nitidezza stavolta, eppure non volle ritrarsi. Qualcosa, in lui, gli stava suggerendo di non ritrarsi, di lasciarla avanzare fin quando non gli avrebbe sfiorato la carne. La sua ustione non lo avrebbe ferito, lo sapeva, era già successo, ma quando? Quando l'aveva percepita tanto ostile e al contempo sul punto di crollare?
Mosso da chissà quale involontario masochismo, l'Hagufah le afferrò le braccia per bloccarla, placarla nella speranza di farle capire che lui non era il nemico, bensì un alleato, ma ciò che ottenne quando le sue dita la toccarono fu ben diverso.

Nell'istante esatto in cui le loro pelli entrarono in contatto, Noah vide Alex sgranare gli occhi e schiudere appena le labbra, quasi l'ossigeno le stesse venendo strappato dai polmoni. Le pupille le si dilatarono in una sorta di spasmo, mentre il rosso delle iridi parve attenuarsi tanto da assumere un colore quasi naturale - e più queste si facevano umane, più il sangue in lui sembrò aumentare la velocità di circolazione. Le dita gli presero a formicolare, il cuore ad accelerare maggiormente. Si sentì inebriare da una sensazione piacevole, seppur indefinita, da un appagamento che non avrebbe saputo dire se avesse già provato o meno e lei, quella creatura così innocua adesso, ne era l'origine.
Non se ne chiese il perché, non aveva alcun interesse nel farlo - quello che sapeva è che ne voleva di più, desiderava essere pervaso da quel piacere così inusuale; nemmeno una scarica di adrenalina lo avrebbe fatto sentire tanto... vivo.

«N-Noah...?»
Riconobbe Zenas, la sua voce, eppure non gli diede alcuna importanza perché, in quel momento, non era in grado di concentrarsi su altra cosa se non Alexandria e il loro contatto.
«Noah, basta! Fermati.» Il suono dei passi della terza Chimera arrivò ovattato, l'Hagufah non avrebbe saputo dire quanto fosse distante da loro, ma ancora una volta non gli diede alcuna rilevanza. Pian piano, infatti, gli occhi di Z'èv erano tornati di un verde cupo, i capelli del color del caramello e, guardandola in quello stato di quasi normalità, gli venne naturale chiedersi se quello fosse il suo vero aspetto perché, a essere onesti, se lo ricordava diverso. Forse era il modo in cui i capelli le ricadevano accanto al viso, liberi da qualsivoglia acconciatura, oppure era quel trucco così marcato, che sottolineava in modo aggressivo il taglio degli occhi, o ancora quegli abiti aderenti, poco consoni a una donna come lei; non riusciva a capire.

In un gesto istintivo, così naturale da dargli l'impressione di averlo fatto decine di altre volte prima, Noah aumentò la presa tirando Alexandria più vicina.
Da quanto tempo non la vedeva?
«ShalomZ'èv» sibilò: «Hishetaneyta.» Dalla bocca gli uscirono parole che non sapeva di conoscere, in un tono tanto calmo e profondo da essergli estraneo - e d'improvviso, udendosi, si accorse di riuscire sì, a concepire ogni cosa intorno a sé, ma allo stesso modo di non essere realmente lui il padrone del proprio corpo. Percepiva le sensazioni, lo stordimento, ma a tratti ebbe l'impressione di essere solo uno spettatore: perché? Cosa gli stava prendendo?

L'espressione della ragazza d'un tratto s'irrigidì, nel suo sguardo sembrò passare una scintilla di paura e dalle labbra, quei due spicchi rosati, il sangue defluì fino a farle impallidire. Una sorta di tremore le fece schiudere maggiormente, quasi stesse provando a dirgli qualcosa, eppure più l'aspetto di lei cambiava, quasi deperendo, più a Noah parve impossibile lasciarla andare.
Doveva trattenerla a sé se voleva continuare a sentire quelle sensazioni, ma allo stesso modo, la voce che gli aveva detto di afferrarla per impedirle di perdere il controllo, improvvisamente, prese a gridargli di smetterla perché qualcosa non stava funzionando correttamente.

Peccato gli fosse impossibile. Seppur il formicolio nelle mani stesse diventando sempre più intenso, il battito accelerato e il suo corpo bollente, staccarsi da Alexandria non sembrava essere un'opzione contemplabile.

«lo! Io, tafessiq!» Ma non ci riusciva. Anche se le suppliche di Zenas stavano diventando vere e proprie grida, a Noah parve di non riuscire a comprendere realmente il loro significato.

«S... Sal... om-one... a-atah hor...eg oti.»
Dalle labbra di Alexandria uscì una sorta di rantolo, un sussurro roco e privo di forza che, d'un tratto, lo fece sussultare, riportandolo alla realtà.

Come?

Ma prima che potesse realmente spiegarsi quelle parole, una pressione soffocante lo premette contro il muro, strappandogli di mano le braccia della Chimera.



 

Al tite'arev, akh: stanne fuori, fratello.
Amareti sheatah tsarikhe al tite'arev, Akràv: ho detto che devi starne fuori, Akràv
Shalom, Z'èv, hishetaneyta: buongiorno, Z'èv, sei cambiata
lo! Io, tafessiq!: No! No, basta!
Atah horeg oti: mi stai uccidendo

 

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Capitolo 31
*** - Capitolo Ventesimo - Parte Seconda: Stesso Sangue ***




capitolo ventesimo
§ Stesso Sangue §
parte seconda

 

"Say you want me one more time
Say you need me one more time
Before I go, you're all I know
I feel you inside of my bones
So say you want me one last time, yeah"

Bones, Mod Sun

Innsbruck, primavera del 1743

Poteva sentire il cuore dolergli nel petto ad ogni nuova falcata, eppure non avrebbe saputo dire, con certezza, per quale ragione si sentisse tanto destabilizzato; in vita sua aveva assistito a scene simili decine di volte, ma quella, come poche altre in precedenza, parve scuoterlo fin nelle viscere - il perché, però, oscillava tra due motivazioni differenti e quasi equamente valide. Così, correndo come un forsennato per riuscire a tenere il passo con Levi, Salomone cercò di raggiungere la Contessa Varàdi prima che questa potesse accasciarsi al suolo.
L'avevano scorta per pura fortuna, o meglio, Nakhaš aveva cercato di non perderla di vista per un solo istante nel momento in cui, del tutto inaspettatamente, l'aveva scoperta fuggire dalla propria festa. Voleva dirle qualcosa, forse della loro scommessa e chissà cos'altro, per quello lo aveva seguito nei giardini dove Alexandria, sola, si era addentrata protetta dalle tenebre serali. Ed era stato per colpa sua se, a un certo punto, gli occhi della Chimera avevano cambiato traiettoria. In quei pochi minuti, giusto il tempo di qualche domanda e vaga risposta, la tragedia era avvenuta, cogliendoli alla sprovvista. Era stato il verso soffocato di lei a riportarli con violenza al presente e, in quell'esatto istante, avevano entrambi visto il suo corpo piegarsi in avanti, rigido, rivelando davanti a sé una figura scura, difficile da riconoscere.

I loro cuori, di fronte a quella scena, dovevano essersi fermati all'unisono, paralizzandoli. Nemmeno i pensieri sembravano voler collaborare. Salomone avrebbe voluto capire, realizzare prima ciò che stava succedendo a pochi metri da loro, ma la sua mente si era inaspettatamente trasformata in una tabula rasa - e solo al levarsi in aria di una lama la realtà lo aveva colpito.
Levi era scattato in avanti. Non gli aveva nemmeno dato tempo di decidere come comportarsi che, esattamente come il predatore che era, aveva riconosciuto la minaccia, il nemico, la preda. E gli si era scagliato addosso con il chiaro intento di eliminarlo.

Lekhal harukhott! Lo hi, lo hi... si era detto stringendo i denti e correndo dietro al proprio migliore amico; peccato che fosse sempre troppo lento. Vide la schiena di Nakhaš allontanarsi sempre più, tendersi fino allo spasmo per poi chinarsi di colpo a terra e raccogliere tra le braccia la Contessa. E più gli si era fatto vicino, più, per la prima volta, nella tensione delle sue spalle aveva scoperto qualcosa di nuovo. Dolore? Rabbia? Non avrebbe saputo dirlo, così esitò.

«Du musst mich ansehen, Alexandria, ich bitte dich.» La voce di Levi non fu più di un sussurro, eppure Salomone l'udì chiaramente, tanto che per un attimo si domandò se lo avesse fatto di proposito, per fargli capire quello che ormai era fin troppo ovvio. «Alles wird gut, vertrau mir.» Seppur in modo lieve, all'uomo parve di vederlo cullarla: «Nakhonn, hamelekhe sheli?» E quando, di fronte a quella domanda sì ridestò, si accorse degli occhi del fratello puntati su di sé, pesanti come macigni e penetranti come spade. Di che stava parlando?
«Mah zott omerett, Levi?»
Sul viso impallidito della Chimera la pelle prese a mutare, lasciando spazio a una trama squamosa che, nella luce della luna, sembrò diventare una sorta di armatura.
«Atah yode'a.»
Stava scherzando, vero? Non poteva stargli realmente chiedendo di infrangere la promessa fatta agli altri per... cosa? Una ragazza conosciuta nemmeno due settimane prima?
«Lo» gli rispose, stringendo i pugni con forza. Non poteva venir meno alla sua stessa parola, men che meno poteva permettersi il lusso di esporsi a quel modo. Compiere un hazerikhah lì, nei giardini di un palazzo pieno di gente, in fretta e furia e senza avere tutto ciò che gli serviva era semplicemente una follia.

«Bevaqashah, akh.»
«Ani lo yakhol, atah tsarikhe lada'att ett zeh.» Mosse un passo indietro, valutando l'idea di voltarsi e tornare alla festa, ma per qualche motivo non ci riuscì. Sapeva che se lo avesse fatto, abbandonando Levi, le conseguenze sarebbero state disastrose. Nel migliore dei casi Alexandria Orsòlya Vàradi sarebbe morta di lì a qualche minuto, convincendo Levi ad andarsene, nel peggiore, lo avrebbero trovato col lei tra le braccia, rendendolo così l'unico sospettato di quell'omicidio.
Digrignando i denti, Nakhaš gli si rivolse con più rabbia. In qualche angolo recondito di sè, lo sapeva bene, lo stava accusando del crimine peggiore del mondo. «Atah rotseh sheani kore'a berekhe leragelayikhe? Ett rotseh sheetekhanenn? Tagid li mah-» ma le parole gli morirono in gola nell'istante in cui, con un tossito, la Contessina gli sputò addosso del sangue, rischiando inoltre di soffocarsi. Stava morendo, era ovvio, e lo stava facendo con una lentezza agghiacciante, aggrappandosi alla vita con tutta la forza che aveva in corpo - peccato che con quella ferita fosse tutto inutile.
«Ruhig, ruhig. Ich hab es dir gesagt...» ancora una volta la voce di Levi sembrò bloccarsi, incapace di concludere la frase. In punta di dita provò a pulirle l'angolo della bocca, peggiorando la situazione. «Kol mah shetiretseh, akh. Tisheal oti hakol, ani atsayett
«Levi...»

«Ani raq mevaqesh zeh. Bemeshekhe hashanim me'olam lo shaaleti otekha shum derishott, ey pa'am... aval 'akheshav ani shoel otekha hi, ett khayayv.»
Con la coda dell'occhio, Salomone vide Nakhaš stringere la presa su Alexandria che, d'un tratto, forse sentendosi ormai sul punto di svanire, alzò una mano nel tentativo di sfiorargli il viso, di aggrapparsi alla realtà - ma lui non lo notò, o forse lo fece, ma s'impedì di distogliere lo sguardo per impedirgli di fuggire via, di trovare la forza per negargli quella speranza. E se il Re fosse stato sincero, in quel momento avrebbe dovuto ammettere di aver paura. Per la prima volta dal giorno della loro nascita, Levi sembrò desiderare stare al fianco di qualcuno più di quanto desiderasse restare al suo.
«Ani lo... mah sheani tsarikhe» ma non servì a nulla. Quello fu lo spiraglio da cui la speranza di Nakhaš trapelò.

«Ani assiyg lekhe oto. Ani... tagid li mah atah tsarikhe. Ba'al khayim, nakhonn? Veaz mah? Kessef?» E con la mano con cui aveva pulito il viso della Contessa la Chimera si mise a frugare nelle tasche della giacca. La foga fu tale che Salomone sentì lo stomaco stringersi e quando Levi tirò fuori ciò che aveva cercato, seppe di non potersi più tirare indietro. Doveva salvarla, altrimenti la cosa peggiore di quella notte non sarebbe stata l'accusa di omicidio, piuttosto la perdita di un fratello.
Avanzò. Poi, senza badare ai propri abiti eleganti, si inginocchiò accanto ad Alexandria. Buttando a terra la maschera che ancora stringeva in mano, si concesse finalmente modo di osservare la ferita di lei. Il bustino dell'abito era stracciato e dal foro sgorgava, copioso, il sangue. La stoffa ormai aveva assunto tutt'altro colore e, di quel passo, l'emorragia avrebbe presto messo fine alla sua vita - ma doveva farlo in fretta se voleva dargli modo di riportarla in vita prima che qualcuno li scoprisse.

Levi gli porse qualcosa.
Mordendosi la lingua, Salomone spostò lo sguardo dalla ferita alla mano di lui e lì, luminosa, vide la moneta con cui avevano decretato il vincitore della loro scommessa.

«E' argento puro, lo hai detto tu. Dovrebbe andare bene, no?»
Aumentando la stretta dei denti, il Re valutò con minuzia quell'oggetto. Non ne aveva mai usato così poco, non aveva alcuna idea di come sarebbe potuto andare l'hazerikhah con materie prime tanto limitate. E se non ci fosse riuscito? E se gli effetti collaterali avessero colpito anche lui? Cosa sarebbe potuto succedergli?

«Io non...»
Senza dargli ascolto, Nakhaš sollevò la Contessina a sufficienza per poterla mettere tra le sue braccia: «Voi... voi restate qui, va bene? Io... devo trovare un'altra vita» e appena fu certo di aver assicurato per bene la giovane alla presa del Re, si gettò alla ricerca di una bestia.
«Akh...!» Ma gli fu ovvio sin da subito che, pur sentendolo, non si sarebbe mai fermato - in quel momento l'unica priorità di Levi era... lei.
Nuovamente abbassò lo sguardo su Alexandria e, con un sussulto, si accorse che lo stava fissando a sua volta. Gli occhi le si erano fatti umidi, ma nonostante le lacrime poté scorgere fin troppo facilmente la patina opaca che di lì a poco l'avrebbe accecata - e doveva esserne consapevole anche lei, visto l'evidente il terrore.

Lo stomaco gli si strinse maggiormente.
Per quanto fosse avvezzo alla "fine" di una vita, Salomone si ritrovò improvvisamente incapace di dire o fare qualsiasi cosa. Nel ritrovarsi tra le braccia quella ragazza si rese conto di quanto, in fondo, il desiderio di Levi non fosse del tutto errato. Sì, forse non poteva capirlo appieno, ma di certo poté immaginare qualcosa. Anche lui aveva provato una sorta di curiosità per lei, una predilezione rispetto a tutte le persone incontrare durante quel secolo e, certamente, quella morte non sarebbe mai stata degna di un'anima dolce come la sua - innamorarsi di Alexandria Orsòlya Vàradi, dopotutto, non doveva essere cosa tanto difficile, così la strinse a sé.

 

«Willst du leben, Gräfin?»  Chiese, chinandosi su di lei col busto: «Möchtest du für immer bei mir bleiben, kleine Alexandria?»

Lei gli afferrò il colletto della giacca, portandosi il viso del Re più vicino - e quello che gli sussurrò tra un rantolo e l'altro fu sufficiente a fargli prendere una decisione definitiva.
 

 

Lekhal harukhott! Lo hi, lo hi... : Maledizione! non lei, non lei...
Du musst mich ansehen, Alexandria, ich bitte dich: Devi guardarmi, Alexandria, te ne prego. (tedesco)
Alles wird gut, vertrau mir: andrà tutto bene, fidati di me. (tedesco)
Nakhonn, hamelekhe sheli: Vero, mio Re?
Mah zott omerett, Levi?: Che vuoi dire, Levi?
Atah yode'a: Lo sai.
Lo: No.
Bevaqashah, akh: Ti prego, fratello.
Ani lo yakhol, atah tsarikhe lada'att ett zeh: Non posso, tu dovresti saperlo.

Atah rotseh sheani kore'a berekhe leragelayikhe? Ett rotseh sheetekhanenn? Tagid li mah-: Vuoi che mi inginocchi a te? Che ti supplichi? Dimmi cosa-

Ruhig, ruhig. Ich hab es dir gesagt...: Tranquilla, tranquilla. Ti ho detto che...

Kol mah shetiretseh, akh. Tisheal oti hakol, ani atsayett: Qualsiasi cosa tu voglia, fratello. Chiedimi ogni cosa, ti obbedirò.

Ani raq mevaqesh zeh. Bemeshekhe hashanim me'olam lo shaaleti otekha shum derishott, ey pa'am... aval 'akheshav ani shoel otekha hi, ett khayayv: Ti sto solo chiedendo questo. In tutti questi anni non ti ho mai fatto alcuna richiesta, mai... ma ora ti chiedo lei, la sua vita.

Ani lo... mah sheani tsarikhe: Io non... ho ciò che serve.
Ani assiyg lekhe oto. Ani... tagid li mah atah tsarikhe. Ba'al khayim, nakhonn? Veaz mah?Kessef?: Te lo procuro io. Io... dimmi cosa ti serve. Un animale, giusto? E poi cosa? Argento?

Willst du leben, Gräfin?: Volete vivere, Contessa?
Möchtest du für immer bei mir bleiben, kleine Alexandria?: Vorreste restare con me per sempre, piccola Alexandria?

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Capitolo 32
*** - Capitolo ventunesimo - Parte Prima: La linea sottile tra alleati e nemici ***





capitolo ventunesimo
parte prima

 

"I know we both want to do the right thing
But the needle in our compass is trembling
Trapped in the flame as our house burns down
Left for dead 'cause we can't find common ground"

Common Ground, Our Last Night



 

Era bastato un secondo. O meglio, era bastato un gesto per far sì che il mondo intorno a lui si annullasse nuovamente, trasportandolo altrove. Il modo in cui la schiena di Levi si era piegata in avanti per afferrare Alexandria, per impedire che si accasciasse a terra esanime lo aveva riportato a quella notte di chissà quanto tempo prima, a Innsbruck, e lì li aveva rivisti entrambi. Era stato come venir spinto coscientemente in un sogno e nonostante gli fosse parso di restarci imprigionato per lunghissimi minuti, non dovevano essere trascorsi più di alcuni istanti, giusto il tempo di venir schiacciato contro la porta. Quando il braccio della Chimera si era allontanato dal suo petto anche quelle immagini si erano dissolte, riportandolo con eccessiva violenza alla realtà - peccato che avrebbe preferito non succedesse.
Nello scorgere la testa abbandonata di lei oltre le spalle di Levi, Noah sentì il sangue defluirgli dal viso facendolo vacillare.
D'improvviso la paura di averle fatto del male, del male serio, lo investì al pari della furia del suo Generale e così, premendo i polpastrelli sulla porta per essere sicuro di non crollare a terra, si spinse in avanti col busto, allungando il collo tanto da sentire la pelle tirare; perché doveva vedere, doveva essere certo di non aver fatto qualcosa di irreparabile.

Deglutì.

Pian piano però, in quello sforzo, le dita si allontanarono sempre più dal legno fin quasi  a staccarsi completamente; solo il medio lo teneva ancorato a quello che aveva sperato essere il suo appiglio in caso di un cedimento delle gambe, quegli stessi arti che avevano finito con il muoversi da soli facendolo timidamente avanzare in direzione delle Chimere. 
Anche Zenas, seppur in ritardo rispetto al fratello, si era curvato silenzioso su Alexandria per vedere... cosa? Dei cambiamenti? Degli sfregi? Oppure segni di vita? Che l'avesse ammazzata davvero? A quel pensiero, Noah tremò. 
No, si disse, Z'èv non poteva essere morta. Non dopo ciò che aveva visto. Aveva così tanto da dirle, da chiederle, da capire!
Mosse un altro passo, arrivando finalmente a scorgerle il viso. Non importò quanto le due creature la stessero stringendo, chiudendosi su di lei quasi a proteggerla, da quel punto il ragazzo riuscì a vederla - ed era viva, grazie al cielo, anche se visibilmente sconvolta. Aveva gli occhi sbarrati, fissi su un punto indefinito del soffitto sopra le loro teste, i capelli più scuri a incorniciarle il volto e, sotto la pelle terribilmente pallida, le vene svettavano come le linee di una mappa. Stava boccheggiando, anche se a lui sembrò che in realtà stesse ripetendo una specie di litania.

«S-St-a b-bene?» gli sfuggì di bocca in un sussurro. E Levi nell'udirlo parve irrigidirsi. «Sta... b-bene, vero?»
Quasi stesse maneggiando del cristallo, Nakhaš si protese verso il fratello. Con una delicatezza quasi innaturale lasciò tra le braccia di Zenas la ragazza e poi, con uno scatto, gli si scagliò contro; e stavolta l'impatto con la porta fu ben più violento, tanto che nello sbattere la testa Noah si morse la lingua, riempiendosi la bocca con il sapore ferroso del sangue.
«Che cazzo ti è saltato in mente? Eh?!» stingendo il pugno sull'orlo del colletto, Levi gli arrivò così vicino da fargli sentire la vibrazione della propria voce nell'aria. Aveva lo sguardo febbrile, i denti digrignati e, soprattutto, il viso ricoperto di squame irte e minacciose. Era furioso, fuori di sè: «Amareti lakhem lo lehitebadeakh 'im ʼalĕki̇ymĕyáh!» Lo sentì gridare a ridosso della propria faccia - e involontariamente non riuscì a frenarsi dallo spostare lo sguardo, dal posarlo oltre la rabbia di lui, le sue spalle, arrivando così a leiLa sua sesta Chimera. E si sentì morire. Quell'aberrante spettacolo non valeva un solo minuto dell'ebrezza provata poco prima e se lo avesse saputo si sarebbe fermato, l'avrebbe allontanata il più in fretta possibile, l'avrebbe protetta da se stesso e il potere che ora si scoprì possedere e, soprattutto, temere.

 

«Ani medaber itekha!» Il pugno di Nakhaš gli si premette addosso con maggior forza, lo scosse appena, eppure Noah non riuscì a distogliere l'attenzione da Alexandria. Avrebbe voluto avvicinarsi a lei, sfiorarla, chiederle come stesse; peccato che il corpo sembrasse tutto fuorché intenzionato a muoversi. Imprigionato tra la porta e il busto della Chimera si sentì nuovamente incapace d'agire.
«Salomone!» Un nuovo grido. Un richiamo. Un sussulto.
Sbattendo le palpebre il ragazzo tornò in sé riacquistando la lucidità persa e riprendendo coscienza delle proprie membra.
Salomone, ripeté volgendosi verso Levi. Quello non era il suo nome, pensò, eppure in qualche modo complicato e perverso sapeva appartenergli, sapeva che avrebbe finito con il rispondere ogni volta che lui lo avrebbe chiamato a quel modo. Lo faceva da sempre, anche in quel momento.

«I-io... non volevo» biascicò, incapace di difendersi. «N-non so nemmeno...»
«Yekheleta leharug otah!» La voce della Chimera si fece roca, graffiante. Noah poté percepire la vibrazione quasi dolorosa delle sue corde vocali, la voglia di colpire e far male, di punirlo per ciò che aveva quasi fatto - un errore irreparabile, un peccato mortale. E seppur in quel momento non riuscisse a esprimerlo, comprendeva la paura di Levi meglio di quanto lui potesse credere. La sentiva anche lui, ne distingueva le dita ruvide aggrovigliarsi intorno al cuore e stringere, quasi a volerlo sopprimere. 
«Yekheleta...» ma non riuscì a finire. Poco distante da loro, con un tono assai più pacato, Zenas si mise in mezzo.
«Basta. Tafessiq, akh.» Entrambi si volsero verso di lui, scoprendolo in piedi. Ritto in mezzo al salotto, serio come mai Noah lo aveva visto, l'omaccione teneva Alex in braccio. Con la testa abbandonata sulla sua spalla, persino lei li stava guardando, rimproverandoli mutamente per quella sceneggiata. Non sembrava arrabbiata, piuttosto esausta, sfinita sia per ciò che era successo, sia per ciò a cui stava assistendo - e come biasimarla? Doveva star passando le pene dell'Inferno dopo quello che le aveva fatto. «Stai solo peggiorando la situazione, akh.» Continuò imperterrito Akràv: «Il ragazzo non l'ha fatto apposta. È stato sopraffatto dalle emozioni, può succedere.»
Levi mollò la presa sulla maglia del giovane e con una sorta di grugnito scosse la testa: «No. No, non può succedere. Non deve succedere» sentenziò. «Può capitare che in preda all'ira si tiri uno spintone, che si urli, che si rompa qualcosa, ma non questo. Vi avevo detto di non usare l'alchimia, di aspettare. Non è pronto, lui-»
«Zo ashemati» soffiò la ragazza per sedare il fratello; e per un attimo, subito dopo, il silenzio calò al pari di una ghigliottina. Scese nella stanza veloce come la lama che trancia la nuca del condannato e cogliendo tutti di sorpresa gli fece inarcare le sopracciglia. Le parole di Z'èv arrivarono inaspettatamente e anche se Noah non aveva idea di cosa volessero dire, solo guardandola e incrociando lo sguardo con il suo, seppe che lo stava difendendo. Per una volta era dalla sua parte. Nonostante l'avesse quasi ammazzata lo stava spalleggiando, proteggendo dalla furia della Chimera-Serpente.
«S-sono stata io a... istigarlo. Lui...» per un attimo Alex parve essere a corto di fiato, incapace di proseguire, eppure non demorse. Stava davvero cercando di impedire a Levi di inveire contro di lui: «Noah voleva s-solo... parlare.» Ma anche quella dichiarazione parve non essere sufficiente.
Soffocando una risata infatti, Nakhaš avanzò verso i fratelli: «Mi auguro tu stia scherzando.»
Dal punto in cui era, Noah non riuscì a vedere l'espressione sul viso del Generale, eppure qualcosa, nel modo in cui i muscoli gli guizzarono sotto alla t-shirt stropicciata, gli fece capire che doveva essere ben lontano dall'essere divertito. 

«È stato... un errore, Levi.»
«Un errore che ti sarebbe costato la vita!» Un nuovo ringhiò fece sussultare i presenti. «Ti avevo espressamente detto di lasciar perdere, Alexandria!» E tremando appena tra le braccia di Zenas, Z'èv si ritrovò a tacere, forse consapevole del proprio sbaglio, e d'improvviso un lieve rossore le colorò le gote, tradendola. Era chiaro che fosse sull'orlo del pianto, lo si poteva cogliere con una semplicità disarmante - e se Levi non fosse stato così agitato, furente, se ne sarebbe reso conto a sua volta. «Zo hayetah pequdah, rozenett Varàdi» sibilò, peccato che a quel punto, innervosendosi, Akràv strinse la presa su Alex. Nel modo in cui il suo corpo si mosse sembrò quasi che volesse allontanarla quanto più possibile dal fratello e, corrugando le sopracciglia, sfidò la sua autorità: «Bada alle tue parole, Nakhaš! Anakhenu shelekha shavimanakhenu lo hakhayalim shelekha.» Lentamente, la sua pelle parve farsi lucida, trasformandosi in una sorta di guscio: «Al momento l'ultima cosa di cui ha bisogno è sentirti gridarle addosso per una cosa del genere. È stato un incidente, non l'ha premeditato! Iddio, non riesci a capire che è terrorizzata anche lei?!» Ancora una volta la tirò a sé, tanto che a Noah venne spontaneo pensare che volesse nasconderle il viso per permetterle di piangere a ridosso del proprio petto. E avrebbe fatto bene a scoppiare in lacrime. Dannazione, aveva tutto il diritto di farlo, di sfogarsi, singhiozzare e urlare come una forsennata, dopotutto chissà quanta paura doveva aver provato nel sentirsi strappare via di dosso la vita. Chissà cosa le era passato per la mente mentre lo guardava dritto negli occhi e si rendeva conto di essere tra le mani del proprio carnefice. Chissà se lo aveva maledetto, biasimato o se, semplicemente, era stata proiettata nella sua stessa visione perdendo cognizione della realtà; ma anche in quell'ultimo caso non doveva certamente essere stato un bello spettacolo. Chi avrebbe voluto rivivere un simile momento?

Sulle spalle di Levi improvvisamente sembrò cadere un peso enorme. La consapevolezza di aver esagerato d'un tratto ebbe la meglio su di lui, facendogli prendere coscienza di quanto poco avesse pensato prima di agire, di quanto le sue emozioni avessero avuto la meglio ignorando lo stato d'animo della sorella.

Lo sguardo di Zenas restò per alcuni istanti fermo su di lui, poi, lentamente, parve addolcirsi. Probabilmente sul viso di Nakhaš doveva essere emersa la colpa, il rammarico che Noah in quell'istante potè solo immaginare; dopotutto gli stava ancora dando le spalle.

«Ragazzo?» senza preavviso Akràv si rivolse a lui facendolo sobbalzare ancora una volta contro la porta. Deglutendo un groppo di saliva e sangue, l'Hagufah premette i palmi contro il legno: cosa stava per dirgli? Aveva intenzione d'infierire anche su di lui?
«Posso portarla nella tua stanza?» Con un movimento lieve delle braccia sollevò il corpo di Alexandria: «Ha bisogno di riposo.» Avvinghiata a quella specie di colosso sembrava essere piccola e indifesa al pari di una bambina e, di certo, se in quel momento avesse potuto guardarla in faccia avrebbe trovato la medesima espressione corruciata di quando ci si fa la bua e si viene sgridati da mamma o papà.
A quel pensiero il cuore gli si bloccò in gola, mozzandogli la voce. Avrebbe voluto deglutire ancora, trovare quantomeno la forza per spiaccicare un "sì", eppure non ne fu in grado: non in quel momento, non con Alex in quello stato. Come poteva rivolgersi a lei dopo che l'aveva trascinata in quel casino? Come poteva permettersi di disturbarla? Nonostante il suo silenzio però, la Chimera parve leggere la risposta nel suo sguardo e, senza aggiungere altro, si diresse verso la stanza lasciandolo solo con Levi.
Scorse la sua schiena allontanarsi, udì il suono dei passi Zenas farsi sempre più leggero e, d'un tratto, si rese finalmente conto di quanto tutto ciò che gli avevano raccontato fosse vero.

 



 

Amareti lakhem lo lehitebadeakh 'im ʼalĕki̇ymĕyáh!: ve l'avevo detto di non scherzare con l'alchimia!
Ani medaber itekha!: sto parlando con te!
Yekheleta leharug otah!: potevi ucciderla!
Yekheleta... : potevi...
Tafessiq, akh: smettila, fratello
Zo ashemati: è colpa mia
Zo hayetah pequdah, rozenett Varàdi: era un ordine, contessina Varàdi
Anakhenu shelekha shavim, anakhenu lo hakhayalim shelekha: siamo tuoi pari, non tuoi soldati

 

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Capitolo 33
*** - Capitolo ventunesimo - Parte Seconda: La linea sottile tra alleati e nemici ***




Capitolo Ventunesimo

La linea sottile tra alleati e nemici
parte seconda

 

"It's so hard to find the truth

When the other side wants to bury you, to bury you
And it's so hard to find a way"

 

Common Ground, Our Last Night

 

Alexandria annaspò.
Aggrappandosi al bordo del letto di Noah, quasi sopraffatta da un conato di vomito, cercò di sostenersi al meglio perché, volente o nolente, doveva ammettere di non essere affatto uscita indenne da quel loro secondo contatto. Se la prima volta, sulle scale dell'università, lo aveva afferrato sentendo una piacevole vampata scaldarle le membra, poco prima, nel salotto, si era sì sentita ardere, ma per venir poi bruciata viva. Più le mani di lui l'avevano stretta a sé, più lei aveva avvertito il corpo diventare cenere.
E poi lo aveva visto.
Il suo volto le era apparso davanti come una visione, un fantasma. Sulla sua faccia era comparso ancora quel sorriso dolce e al contempo stanco, negli occhi era tornata la preoccupazione che lei tanto aveva odiato scorgere quella notte - ed era stato come venir schiacciata al suolo. Salomone, o meglio l'Hagufah che lei aveva conosciuto, era tornato di fronte a lei, l'aveva presa tra le braccia e con quell'espressione così ambigua le aveva chiesto ancora una volta: "Willst du leben, Gräfin? Möchtest du für immer bei mir bleiben, kleine Alexandria?" e come allora lei aveva pronunciato la medesima risposta. "Ich will leben, diesmal wirklich". Per davvero, questa volta.

Pigiando i denti nella carne del labbro Z'èv tentò di trattenere le lacrime, le stesse di quella volta, e spostando lo sguardo altrove si perse a osservare la stanza, a studiarla. Il profumo di Noah era ovunque, dalle lenzuola sotto cui si era rintanata fino alle pareti. L'aveva cullata durante il suo breve riposo fin quasi a diventare familiare, un po' come quello di lui. Su una sedia adiacente l'armadio aveva notato alcuni dei suoi vestiti, ben piegati e immacolati, mentre libri di ogni dimensione, genere e colore riempivano le mensole, il pavimento e anche il davanzale della finestra accanto a lei in ordine nettamente più casuale. Una manciata di locandine di film d'epoca riempivano le pareti chiare e, soffermandocisi appena, Alexandria si accorse di conoscerli tutti. In particolare però, si rese conto di non essere affatto stupita di vedere in bella mostra quei poster: per ognuno poteva capire il motivo per cui era stato scelto, quasi conoscesse i gusti del padrone di casa al pari dei suoi. Un paio erano stati messi lì per la grafica accattivante, altri per la bellezza della pellicola in sè - e nel rendersene conto per poco non le sfuggì un sorriso che, prontamente, provò a coprire con il dorso della mano, quasi qualcuno potesse vederla. Se avesse chiuso gli occhi in quel momento, ebbra della sua presenza, e avesse trattenuto il respiro, di certo il viso di Noah le sarebbe apparso davanti con estrema vividezza, come se la stesse ancora stringendo tra le proprie mani, e a quel punto dissipare l'imbarazzo sarebbe stato impossibile. Sapeva che se avesse cercato di allontanare la sua immagine dalla mente non avrebbe ottenuto alcun risultato, così come era altrettanto consapevole che, ad ogni tentativo, i connotati di quel corpo sarebbero sempre più mutati sino a diventare quelli del Salomone che aveva conosciuto molto tempo prima; e a quel pensiero una morsa le strinse lo stomaco. Più provava a non pensarlo, più il ricordo delle loro ultime ore insieme si faceva assillante, arrivando a trasformare dell'innocente imbarazzo in un soffocante senso di colpa.
«Dannazione!» Mugolò d'improvviso stringendo la presa sul bordo del materasso e liberando la bocca; di quel passo il suo peccato sarebbe tornata a ghermirla e il dolore e il vuoto provati allora l'avrebbero fiaccata seriamente - e con che coraggio avrebbe nuovamente incrociato gli sguardi delle persone al di là della porta di quella stanza? Spostò lo sguardo: non ne aveva idea. Anzi, nemmeno voleva immaginarlo. Dopo ciò che era successo poco prima non poteva permettersi un crollo, non poteva lasciare ai ricordi il potere di soggiogarla; e per essere certa di poter scampare a quella sorta di auto-condanna, per quel che sapeva, il rimedio perfetto stava solo a una stanza di distanza.
Guardinga tese le orecchie in direzione della porta. Ma che male c'era, infondo? Non aveva forse rubato le ɛvɛn di Zenas per situazioni come quelle? Beh, a dire il vero no, ma perché non sfruttarle in un momento di tale bisogno? Dopotutto il suo corpo era comunque stato provato dal contatto con Noah, non si trattava certo di un mero capriccio, no? Così, digrignando i denti, Alexandria fece leva sul braccio che l'ancorava al letto e issandosi in fretta si ritrovò presto a barcollare sulle proprie gambe - e per un attimo, dovette ammetterlo, temette persino di cadere. Nonostante fosse rimasta in quel letto per più di un'ora si scoprì ancora terribilmente debole e, nel prenderne coscienza, non poté impedire a un sapore amaro di riempirle la bocca: dove era finita la sua forza? Possibile che Noah fosse riuscito a destabilizzarla fino a quel punto? Alzando nuovamente lo sguardo sulla porta di fronte a sé si convinse che ciò che stava per fare fosse davvero la cosa migliore e, un passo dopo l'altro, si spinse sino alla maniglia dove, chinandosi, provò a spiare dal buco della serratura. Nessuno doveva vederla in quello stato, o meglio, Levi non doveva farlo, perché certamente avrebbe notato il suo lieve claudicare, il pallore evidente, avrebbe udito il respiro grosso e, a quel punto, nascondere il deterioramento del proprio corpo le sarebbe stato impossibile. Inoltre, ora che avevano tra le mani Salomone, seppur in quelle condizioni particolari, non poteva permettersi il lusso di essere messa in disparte; cosa che, visti i pericoli, era certa sarebbe successa.

Mordendosi il labbro, Z'èv aguzzò la vista. Nakhaš sembrava non essere nei paraggi, mentre Zenas e Noah erano entrambi seduti in cucina, di spalle, intenti a parlare di chissà cosa. Se fosse stata abbastanza svelta e silenziosa forse sarebbe persino riuscita a passare inosservata e raggiungere il bagno senza doversi fermare a parlare, valutò, così, prendendo un grosso respiro, la Chimera abbassò lenta la maniglia. Il click della serratura parve riecheggiare ovunque, tuonare fino alle orecchie dei due presenti nell'altra stanza, eppure nessuno, oltre a lei, parve accorgersene. Con un movimento continuo e ponderato, Alexandria aprì la porta fino a creare uno spazio abbastanza grande in cui passare, ma al posto di scattare in avanti e correre verso il bagno come aveva pensato all'inizio, viste le proprie condizioni, si ritrovò a scivolare lungo la parete del salotto lanciando, di tanto in tanto, qualche occhiata in direzione dei due. Avrebbero potuto scoprirla in qualsiasi momento, lo sapeva fin troppo bene, ma nemmeno per un istante smise di pregare perché non accadesse.
Un piede dopo l'altro, quindi, si spinse fino alla porta del bagno e quando fu certa di aver evitato il peggio, il suo piano svanì al pari del vapore che le colpì il viso. Le sue dita non avevano fatto in tempo a stringersi intorno al pomello di metallo che l'anta si era spalancata con un movimento deciso, facendo spuntare insieme alle folate bianche e bollenti anche un Levi dai capelli gocciolanti e un asciugamano a coprirgli le spalle.

«Rahat!» uscì dalle labbra di Alex insieme a un sussulto, attirando così la tanto indesiderata attenzione collettiva. Gli sguardi dei presenti le calarono addosso con estrema rapidità e, nel venir colta alla sprovvista, il cuore prese a batterle veloce nel petto, tanto da darle fastidio. Era stata talmente occupata a preoccuparsi dell'Hagufah e Akràv da non accorgersi di alcun rumore insolito, finendo alla fine di fronte alla persona che meno avrebbe voluto incontrare in un simile momento.

In un angolo recondito di sé aveva sperato che lui non si trovasse in casa, che fosse uscito per sbollire la rabbia, che si fosse concesso una sigaretta lontano da quello che era stato il palcoscenico della sua morte scampata, ma invece le era sempre rimasto sotto al naso e non si era accorta di nulla; e per questo si maledì. Possibile che più tempo passava, più diventava impacciata e incosciente? O che, a differenza sua, Nakhaš fosse rimasto la stessa creatura meravigliosa e letale di una volta?
Digrignò i denti, sentendosi in fallo. Già immaginava quale rimprovero suo fratello le avrebbe fatto, con che tono le si sarebbe rivolto. Lo aveva visto comportarsi da generale talmente tante volte nella propria seconda vita da riuscire a prevedere buona parte dei suoi atteggiamenti, così si strinse nelle spalle ripetendo tra sé e sé la stessa imprecazione di poco prima. L'avrebbe sgridata, lo sapeva, ed ecco che come una bambina scoperta a infrangere le regole abbassò lo sguardo per non incrociare quello di lui, eppure, nell'attesa dell'ammonimento, ciò che accadde le dimostrò di non poter ancora immaginare tutte le reazioni di Levi. In punta di dita il ragazzo le scostò una ciocca dal viso e, in un sussurro che forse non avrebbe voluto pronunciare ad alta voce, constatò: «Riesci a stare in piedi, bene.» E a quel contatto il respiro le si mozzò, ma fu questione giusto di pochi istanti. Quando si rese conto che nulla avrebbe seguito quelle parole e che sia lui sia i suoi polpastrelli si erano già allontanati, l'ossigeno parve ricominciare a riempirle i polmoni e la mente a funzionare. Cercando la sua schiena con lo sguardo, si chiese per quale ragione non l'aveva rimproverata; perché non le avesse ricordato quanto stupida era stata a sfidare una bomba ad orologeria come... ma nemmeno il tempo di spostare il pensiero su di lui che la sedia su cui era seduto strisciò a terra, facendola rinsavire.
Come richiamato dai suoi pensieri Noah si accorse di lei e, in un sussurro, provò a chiamare il suo nome, peccato che prima ancora che dalle sue labbra potesse uscire una sillaba Z'èv si fiondò in bagno, richiudendosi la porta dietro la schiena. Vi si appoggiò sopra con tutto il peso, vi si pigiò tanto da sentire le scapole dolere a ridosso del legno e, tutto, nella speranza di bloccare qualsiasi cosa al di là di quella stanza. Con il cuore bloccato in gola si rese conto di non essere ancora pronta a guardare quel ragazzo in viso. Non voleva scorgere nel suo sguardo la bramosia di prima, men che meno il terrore che l'aveva seguita e, soprattutto, non voleva rivedere Salomone in lui.

Dannazione.

Ogni qualvolta il suo fantasma faceva capolino tra i pensieri si scopriva indifesa, impreparata, quasi tremante - e ricordarsi il perché non faceva altro che peggiorare la situazione.

Portando le dita alla serratura fece girare la chiave, chiudendosi dentro al bagno in cui, infastidita, d'un tratto si accorse permeare ancora il profumo di bagnoschiuma e Levi - e più aveva cercato di evitarlo, più lui la stava prendendo in contropiede.
Fece per prendere un grosso respiro, ma prontamente si fermò a metà dell'azione. Non le pareva il caso; era già sufficiente avvertire la sensazione delle sue dita addosso per farle stringere lo stomaco, riempirsi i polmoni con il suo profumo avrebbe solo accentuato l'impressione che fosse ancora nei paraggi, con gli occhi fissi su di lei - e con che coraggio avrebbe ingurgitato le ɛvɛn trafugate a Venezia? Con quale sfacciataggine sarebbe uscita da quella stanza facendo finta di nulla? Non ne aveva alcuna idea in quel momento, eppure fu certa di doversi sbrigare e, soprattutto, di trovare poi un modo per nascondere a tutti il cambiamento del suo corpo; così, accertatasi che non vi fosse alcun rumore al di là della porta, vi si staccò per gettarsi ai piedi del lavandino. Le ginocchia sbatterono con forza sul pavimento, ma il dolore arrivò ben più ovattato di quanto si sarebbe aspettata. Forse fu l'ansia, la foga o il desiderio di allontanare la sensazione che suo fratello fosse ancora lì,  Alexandria non seppe dirselo, eppure dentro al mobile, ancorato tra i tubi di scarico, trovò ciò che aveva sapientemente nascosto. La sua mano destra si strinse al sacchetto in cui aveva travisato la refurtiva, poi lo tirò a sé. Il suono lieve delle ɛvɛn che cozzavano tra di loro la fece piacevolmente rabbrividire e quando i suoi occhi ne incontrarono il riflesso rossastro l'acquolina le pervase la bocca.

Aici sunt ei, pensò stringendosele al petto. Erano tutte lì, non ne mancava nessuna - ed esattamente come una tossica di fronte alla nuova dose, Z'èv se ne sentì sollevata.
 


 

ɛvɛn: pietre
Aici sunt ei (rumeno): Eccole qui


 

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Capitolo 34
*** - Capitolo ventunesimo - Parte Terza: La linea sottile tra alleati e nemici ***




Capitolo Ventunesimo
La linea sottile tra alleati e nemici
parte terza


Nell'incrociare Alexandria sulla soglia del bagno, Levi non era riuscito a tenere a bada il senso di assoluto sollievo che lo aveva pervaso e, senza rendersene conto, aveva allungato la mano e scostato dal viso della sorella una ciocca sbiadita, quasi a volersi assicurare che fosse realmente lei. Il solletichio dei suoi capelli sulle dita lo aveva infine rincuorato, dimostrandogli che non si trattava di alcuna allucinazione: stava bene, o quantomeno era abbastanza in forze da reggersi in piedi - cosa che, ad essere onesti, aveva seriamente temuto non potesse più accadere, soprattutto quando di mezzo c'erano l'Alchimia e un alchimista incapace di controllare il proprio smisurato potere.
Sì, in Noah risiedeva l'anima di Salomone, ma purtroppo ciò non bastava a renderlo l'uomo che era stato in passato, così, quando Nakhaš aveva avvertito l'Hakhotem bruciare, il sangue ribollirgli nelle vene e il corpo andare in fibrillazione in quel modo, aveva capito che doveva intervenire prima che la situazione potesse degenerare. Di certo però, piombando in salotto, non si sarebbe mai aspettato di trovare Z'èv coinvolta in tutta quella faccenda; e la paura a quel punto aveva avuto la meglio. Già, perché la sola idea che l'Hagufah le stesse strappando via la vita aveva fatto scattare qualcosa, in lui, e se non fosse stato per la lucidità sviluppata in tanti anni di addestramento probabilmente avrebbe seriamente fatto del male a Noah, anche se ciò avesse significato ferire il proprio migliore amico, l'uomo a cui aveva giurato assoluta obbedienza. Il suo era stato un gesto istintivo, del tutto privo di logica e, sinceramente, avrebbe preferito non rendersene conto perché poi, sotto al getto d'acqua della doccia, tra i pensieri che lo avevano assillato era riemerso un ricordo, una promessa; non a caso ci era voluto un po' prima che Levi riuscisse a smaltire la preoccupazione e la rabbia e, anche quando aveva avuto la certezza che Alex stesse bene, il sapore amaro che aveva in bocca non era passato. Si era arrovellato su tutta quella situazione fino all'ultimo, ma poi, una volta rivestito e tornato in salotto, nello scorgere l'espressione crucciata del ragazzo, si era reso conto di quanto ciò che era successo fosse stato un errore di entrambi. Letale, certo. Stupido, senza alcun dubbio, eppure solo un mero errore, un impeto che tutti e due non avevano saputo tenere a bada. A chi non era mai capitato? Lui per primo aveva perso il conto di quante volte gli fosse successo; così, alla fine, si era avvicinato a Zenas, gli aveva chiesto di preparare qualcosa per cena e, con una certa nonchalance, aveva preso il suo posto finendo con il fronteggiare colui a cui, per poco, non aveva rotto l'osso del collo.

«Come ti senti?»
Gli occhi di Noah si spostarono nella sua direzione, rivelando un senso di colpa tanto grande da risultare quasi opprimente.
«Mi prendi in giro? Come dovrei stare? Ho quasi ammazzato-» l'Hagufah sembrò mordersi la lingua prima di voltare il capo con stizza. Nemmeno riusciva a pronunciare il nome di lei, a dire ad alta voce cosa era accaduto; e come biasimarlo? In quella vita non doveva mai aver fatto nulla di vagamente simile, non doveva aver conosciuto l'assuefazione data dall'Ars, la sensazione di assoluto potere che si provava nel sentire tra le dita l'esistenza altrui e, di certo, doveva esserne rimasto inebriato, tanto da perdere contatto con la realtà.
Con un sospiro lo vide poi prendersi la testa tra le mani, nascondendosi: «Non so nemmeno come sia stato possibile, io...»
«Ti ha per caso istigato?» estraendo il pacchetto di sigarette dalla tasca delle brache la Chimera se ne portò una alle labbra.
«No!» udì rispondere con prontezza prima di trovare l'accendino: «No, noi... stavamo solamente parlando» e a quell'affermazione, involontariamente, Levi corrugò le sopracciglia.
«Di cosa?» ma il suo tono parve non tradire la curiosità che si stava pian piano facendo sempre più fastidiosa. Quale discorso poteva aver aizzato i poteri del Re? Quali parole aveva usato, Alex, per far scoppiare una simile bomba? Nakhaš voleva saperlo. Voleva dare un nome o una spiegazione al fattore scatenante dell'Ars, ma soprattutto voleva impedire a Noah di riuscire nuovamente a far del male ai suoi fratelli - perché nonostante gli anni di lontananza non aveva mai smesso di pensare a loro, di preoccuparsi per quella che era la sua unica famiglia.

«Io...» per un attimo sembrò quasi che l'Hagufah stesse faticando a ricordare i fatti, a trovare le parole giuste con cui raccontare la disavventura, ma d'un tratto, per sua fortuna, fu qualcun altro a concludere la frase, facendo sussultare tutti i presenti.
«Voleva sapere per quale ragione lo evito.»
Gli occhi di Levi saettarono verso il lato opposto della stanza, lì dove, appoggiata al muro, Z'èv li stava osservando da... quanto? Non si era minimamente accorto di lei, della sua presenza. Non aveva avvertito la vibrazione dei suoi passi sul pavimento o del suo respiro nell'aria, non aveva percepito la temperatura aumentare con il suo arrivo. Come c'era riuscita? Ma nell'osservandola per capire, Nakhaš notò in lei qualcosa di diverso rispetto a prima. Sembrava rinvigorita. Il colorito del suo viso aveva una tonalità più rosea e il corpo pareva meno instabile - eppure quanto era passato dal loro quasi scontro? Poco. Troppo poco per far sì che si riprendesse a quel modo.

Le labbra di Levi si schiusero appena, ma non a sufficienza da far cadere la sigaretta: «E?» le domandò cercando di prendere tempo, di trovare una spiegazione plausibile.
«"E?" cosa, akh?» Con le braccia conserte e lo sguardo severo, Alexandria sembrava tutto tranne che propensa a conversare con lui della questione.
«La ragione per cui lo eviti quale sarebbe, se davvero ce n'è una?»
La vide ridere. I suoi denti brillarono come lame nella penombra del tardo pomeriggio e, per un solo istante con la coda dell'occhio, gli parve veder Noah ritrarsi appena. Anche lui aveva scorto quella sorta di minaccia in lei, la sensazione che fosse pronta alla caccia. In qualche modo la sua parte animale, la Chimera, stava avendo la meglio sul quella umana. Era forse un effetto collaterale di ciò che era successo prima? Possibile? Era quella la causa del suo cambiamento?
«Davvero me lo stai chiedendo?»
«Così pare.» Strinse i denti. Più cose notava e meno riusciva a spiegarsi cosa stesse succedendo alla sorella.

Alexandria a quel punto alzò lo sguardo al cielo e staccandosi dalla parete avanzò verso di loro, riportando, dopo un paio di falcate, la propria attenzione su di lui. Lo stava fissando dritto negli occhi esattamente come un predatore che si ritrova di fronte un avversario - e un brivido quasi piacevole gli corse lungo la schiena a quel pensiero.

«Sappiamo tutti perché lo faccio, General Levi» un passo dopo l'altro, la vide avvicinarsi pericolosamente a Noah, a colui che solo un'ora prima l'aveva quasi uccisa, ma nonostante il rischio a cui Z'èv stava andando incontro non riuscì a muoversi, a impedirle di mettersi nuovamente a repentaglio; il suo corpo sembrava essersi bloccato. Nakhaš avrebbe voluto alzarsi, frapporsi tra di loro impedendole di fare una sciocchezza, ma le gambe non collaborarono minimamente.
Il braccio di lei riuscì così ad allungarsi fino ad arrivare allo schienale della sedia su cui si trovava l'Hagufah: «Yesh li harageti be'avar, im hu hayiti lehiterakheq bo nevater shezeh yiqereh shuv. Non pensi?» Disse prima di interrompere il loro contatto visivo per portarlo sul ragazzo accanto a sé - e a quel punto il brivido di prima si fece più intenso, peccato che al posto di risultare piacevole gli fece storcere lo stomaco. Odiava la sola idea che dalle labbra di Alexandria potessero uscire simili parole, che nella sua testa esistesse ancora quella convinzione.
Strinse i denti e poi i pugni, ma prima che il fastidio potesse avere la meglio su di lui Zenas gli poggiò una mano sulla spalla, distraendolo.

«Smettila con certe sciocchezze, akhòt
«Perchè dovrei? Dacă n-aș fi fost pentru mine, pentru ceea ce am făcut, nu am mai fi în această situație acum

L'uomo storse le labbra: «Alex, per favore...» e lei, quasi ignorando l'evidente fastidio dei due fratelli, si chinò tanto da sfiorare con la guancia quella di Noah - e il cuore di Levi quasi perse un colpo.
«Che ho detto di male? Siamo comunque entrambi qui, in un modo o nell'altro.» Sorrise, e nuovamente il suo ghigno parve quello di una belva, ma il suo sguardo, era evidente, celava ben altro - colpa o dolore, per Nakhaš fu difficile capirlo.
Akràv si protese verso di lei e con la mano con cui prima aveva stretto la spalla del Generale afferrò il braccio di Z'èv: «Non giocare con il ragazzo, akhòt, non vedi che a differenza tua è ancora turbato?»
L'Hagufah fu colto da un sussulto.

 «Oh, suvvia!» La guancia di lei si staccò dal viso di lui: «per così poco? Non è certo la prima volta che-»
 «Che ti tengo tra le braccia mentre muori?» Noah si scostò: «No, infatti. E realizzarlo mi ha sconvolto esattamente come in quel giardino.» Stavolta ad allontanarsi fu Alexandria. I suoi occhi si fecero grandi di stupore, mentre le labbra si schiusero appena. 
«C-cosa?» la si sentì biascicare; e anche Levi, si rese conto, avrebbe voluto fargli quell'esatta domanda, entrargli nella testa e sapere cosa era riemerso dalla memoria del Re - perché di quella notte c'era davvero molto che sarebbe stato meglio dimenticare.

 Il ragazzo abbassò il capo, intimidito da ciò che aveva rimembrato o, addirittura, da lei: «Io... ti ho vista. Ti ho sentita... ho ricordato il momento in cui sei morta.»
Z'èv mosse un altro passo indietro, quasi riluttante all'idea di star vicino a Noah. E da predatore, improvvisamente, si tramutò in preda. Perché? Cosa era successo quella notte che lui non aveva visto?
 «H-hai ricordato altro?»
Zenas a quel punto strinse la presa sul suo braccio, forse prevedendo prima di Levi la possibile reazione della Contessa: «Akhòt...»
«Ce ai mai văzut?» sibilò lei in rumeno, nella lingua che più le era familiare come se volesse proteggersi.
L'Hagufah corrugò le sopracciglia: «I-io non... non capisco.»
E lei strinse i denti quasi si stesse preparando a ringhiargli contro - e quando Nakhaš scorse il pericolo, finalmente, si frappose tra loro schermando il proprio sovrano. Occhi negli occhi con la sorella, provò a minacciarla con la propria stazza, con l'autorevolezza che da sempre lo aveva distinto e se lei avesse assunto le proprie fattezze inumane, ne era certo, l'avrebbe vista abbassare le orecchie e piegarsi a lui.
«Tafessiq.» Sibilò allargando le narici.
«Mishum? Hu 'alul-»
«Shama'eta oti, Z'èvTafessiq, zo pequdah» la sua voce non divenne mai più di un sussurro, eppure la fermezza delle parole parve sufficiente per metterla a tacere. Nonostante il comando però, i loro sguardi si sorressero ancora per qualche istante. Alex doveva ubbidirgli, era essenziale che lo facesse visto che non avevano la più pallida idea di quali parole o reazioni avrebbero potuto nuovamente far perdere il controllo a Noah - e appena lei piegò il capo, arrendendosi, lui aprì bocca, rivolgendosi stavolta a Zenas: «Totsi otah, akh. Hu tsarikhe al lisheof avir.» E così dicendo, lasciò cadere un silenzio greve nel salotto. La tensione divenne palpabile, fastidiosa, ma lui non cedette e, senza allontanare gli occhi da Z'èv, attese che il fratello l'accompagnasse a indossare scarpe e cappotto per poi condurla alla porta. Fermo come una statua attese che i loro corpi oltrepassassero la soglia e, solo a quel punto, si concesse un lungo sospiro.

Yesh li harageti be'avar, im hu hayiti lehiterakheq bo nevater shezeh yiqereh shuv: l'ho già ammazzato una volta, se mi sta lontano evitiamo che succeda ancora.
Dacă n-aș fi fost pentru mine, pentru ceea ce am făcut, nu am mai fi în această situație acum: Se non fosse stato per me, per quello che ho fatto, ora non saremmo in questa situazione. (rumeno)
Ce ai mai văzut?cos'altro hai visto? (rumeno)
 Tafessiqsmettila/ferma
Mishum? Hu 'alul-: Perchè? Lui potrebbe-
Shama'eta oti, Z'èv. Tafessiq, zo pequdah: Mi hai sentito, Z'èv. Smettila, è un ordine.
Totsi otah, akh. Hu tsarikhe al lisheof avirPortala via, fratello. Ha bisogno di prendere aria.

 

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Capitolo 35
*** Capitolo ventiduesimo - Parte Prima: Ora e da sempre ***


"Give me a sign
Come back to the end
The shepherd of the damned
I can feel you falling away

No longer the lost
No longer the same

And I can see you starting to break
I'll keep you alive
If you show me the way
Forever and ever
The scars will remain"

Breaking Benjamin, Give me a sign

Sia nello scendere le scale, sia nell'avanzare lungo i marciapiedi umidi di Vienna, Zenas non era riuscito a distogliere lo sguardo dalla testolina sbiadita di Alexandria, dalle sue spalle fin troppo dritte e quel modo di camminare eccessivamente sicuro, simile all'incedere di una belva a caccia. C'era qualcosa di particolarmente insolito in lei, nel fatto che avesse cercato di opporsi a Levi, così, soprattutto per quest'ultimo motivo, non aveva obiettato di fronte all'ordine del fratello di allontanarla dall'appartamento di Noah. Comprendeva fin troppo bene la preoccupazione di Nakhaš nei confronti dell'Hagufah e, soprattutto, di Z'èv, ma loro sorella non era affatto una stolta, non avrebbe fatto nulla che potesse compromettere la momentanea tranquillità in cui si trovavano, anche se qualcosa, in quel suo atteggiamento, suggeriva persino a lui di non abbassare la guardia - ma perché? Cosa diamine le stava succedendo? Possibile che l'incidente avuto poco prima l'avesse scombussolata tanto da dargli l'impressione che fosse su di giri, come succube di una qualche droga?
Per tutto il tragitto, e poi anche seduti al pub, avrebbe voluto cedere al formicolio nelle proprie mani, afferrarla, scuoterla e chiederle spiegazioni, ma si trattenne. In qualche angolo recondito di sé temeva le conseguenze di quell'azione, quasi il suo sesto senso volesse avvertirlo di un possibile pericolo. Così, fingendosi meno preoccupato di quanto non fosse in realtà, Akràv aveva risposto a ogni sguardo della Contessa con un sorriso a labbra strette; l'aveva dunque scrutata infilarsi in un locale a molte straßen di distanza da casa di Noah e lì, a intermittenza irregolare, sporgersi oltre il bancone per sollecitare al barista "eine weitere Runde!", un altro giro. Chiunque non avesse assistito a ciò che era successo, a quella sorta di involontario tentativo d'omicidio, avrebbe potuto supporre che la sesta Chimera stesse festeggiando qualche avvenimento particolare - cosa che, ad essere onesti, aveva pensato anche lui nel vederla sorridere e flirtare con tutti quegli sconosciuti -, peccato che in quel momento ci fosse gran poco di cui essere felici.
Sì, Noah aveva dimostrato ancora una volta di essere Salomone, smentendo in definitiva i sospetti di Z'èv, ma purtroppo nel farlo aveva anche dato prova di essere una sorta di mina vagante. Sarebbe bastato mettere un piede nel punto sbagliato e... puff! sarebbero saltati tutti in aria, esattamente come era quasi capitato alla ragazza accanto a lui. E in effetti il fatto che lei fosse sopravvissuta a quella quasi esplosione si poteva considerare un motivo di celebrazione; peccato che nel suo caso risultasse un comportamento terribilmente forzato.

Così Zenas, per evitare di mandare in frantumi quella calma apparente, si era fatto ombra accanto a lei, restando a fissarla in un silenzio intervallato solo da poche e fugaci parole in un tedesco grezzo. Mordendosi la lingua si era concesso il fastidioso piacere di guardare come gli insegnamenti di Colette e Willhelmina, la terza e quinta Chimera, avessero plasmato la contessina ungherese cresciuta nella castità cattolica tanto in voga nel diciottesimo secolo, segnando i confini tra l'umana del passato e il mutaforma a cui Salomone aveva dato vita. Morire equivaleva a cambiare, si ricordò a un certo punto spostando lo sguardo dalla sorella alla propria pinta, e quella era una certezza. Non solo fisicamente, come poteva sembrare di loro a una prima occhiata, ma soprattutto più in profondità. Era un po' come per Alice che attraversa lo specchio: la bambina che torna a casa dopo essere stata nel Paese delle Meraviglie non è la stessa che ci è entrata quella stessa mattina, come dice persino Lewis Carroll. È cresciuta, sì, ma non solo. Qualcosa in lei, quando rimette piede nella realtà, viene brutalizzato. Forse la sua spensieratezza, forse la sua innocenza, forse tutto ciò che era stato seviziato anche nella loro anima nel momento del lakhazor.

Con un sospiro Akràv aveva poi bevuto ciò che era rimasto nel suo boccale e per scacciare quei nauseanti pensieri aveva chiesto: «Andiamo?»
In un'altra circostanza, con meno preoccupazioni addosso, probabilmente sarebbe rimasto in quel pub con Z'èv fino al mattino successivo, ma il suo sesto senso non aveva smesso per un solo istante di dargli il tormento: era certo che qualcosa, quella sera, sarebbe andata male. Non sapeva cosa, se una discussione, una rissa o altro, ma stava di fatto che più restava fermo a guardare la sorella e i suoi insoliti modi di fare, più la coscienza batteva i pugni e sbraitava, dicendogli che abbassare la guardia sarebbe stata la loro fine.

Alex volse il capo: «Di già?» Non era chiaro se fosse infastidita da quella richiesta, men che meno se stesse provando una qualsivoglia emozione; d'un tratto sembrò che nel rivolgersi a lui si fosse levata di dosso una maschera, rivelando la vera sé - apatica, forse svogliata. Della persona che fino a un paio di istanti prima stava amabilmente fraternizzando con sconosciuti non c'era più traccia.
«Zeh messukann lehiterakheq mi malekenu. (E' pericoloso stare lontano dal nostro Re)»
E in risposta una risata le sfuggì di bocca: «Strano, avrei detto tutto il contrario...» ma a quanto parve fu l'unica a trovare la cosa divertente.
«Alex...» Zenas scosse la testa, sempre più stanco. Possibile che nonostante lo scorrere delle ore sua sorella sembrasse ancora fuori di sé? «Al titegareh ett hassavelanutt sheli. (Non sfidare la mia pazienza)» suggerì poi con uno sbuffo esasperato, portandosi la mano al portafogli ed estraendo una banconota di grosso taglio - una delle ultime rimastegli, viste le spese di quei giorni. «Uvakhenn,» allungando una mano nella sua direzione, l'uomo corrugò le sopracciglia, cercando di apparire più minaccioso del solito: «bo nelekhe. (bene, andiamocene)»
Ci furono alcuni istanti di silenzio, uno sguardo poco convinto e, alla fine, il cedimento. Z'èv inaspettatamente non fece alcun tipo di resistenza, abbandonando il proprio boccale per intrecciare le dita con quelle del fratello e, saltando giù dallo sgabello su cui era rimasta appollaiata per tutto il tempo trascorso lì, si fece condurre verso l'uscita al pari di una bambina. Con la mano di Alex stretta alla sua, Akràv si sentì improvvisamente invadere da una dolcezza che, negli anni trascorsi in solitudine, gli era mancata tanto da fargli rimpiangere di non aver combattuto a sufficienza per tenere insieme la loro famiglia. Tutti quei gesti innocenti erano diventati fantasmi, lo avevano assillato giorno dopo giorno e, adesso, percepire nuovamente il calore di quella mano esile e al contempo brutale addolcì senza preavviso la durezza di poco prima. Appena i loro piedi ebbero varcato l'uscita del pub attirò a sé la sorella, poggiandole il braccio sulle spalle e cingendola in una sorta di abbraccio.

«Stai bene?»
Lei alzò il capo, corrugando le sopracciglia. «Non dovrei?»
«Ti ha quasi uccisa. Puoi raccontarmi tutte le palle che vuoi, ma non ci si riprende così da una cosa del genere» nemmeno per un istante i suoi occhi calarono in quelli della Contessa, certo che nell'osservarli avrebbe finito con l'intenerirsi maggiormente.
Z'èv sospirò, forse riportando anche lei lo sguardo sulla strada: «E come ci si riprende, akh? Quella di oggi non era la prima volta, non sarà nemmeno l'ultima... tanto vale fingere che non sia mai successa, esattamente come in passato.»
«Quelle erano altre circostanze.»
«Hayu nissuyey (erano esperimenti)» ancora un sospiro: «Lo so.»
Zenas si morse l'interno guancia, provando a scacciare i ricordi di quei momenti prima ancora che potessero far capolino nella memoria. C'era stato un tempo in cui tutti loro, oltre che sudditi, soldati, fratelli e mostri erano stati cavie. Ciò però non aveva mai abbassato Salomone al livello del Cultus, non lo aveva mai reso simile a quei degenerati, no. Lui aveva compiuto quelle pratiche solo per poter salvaguardare le Chimere, per renderle più forti, più autonome, meno... nemmeno Akràv avrebbe saputo come definire sé stesso e i suoi fratelli, ma stava di fatto che gli altri, quei mezzi alchimisti da quattro soldi, con le loro membra avrebbero fatto ben altro, avrebbero perseguito gli scopi peggiori - e se da un lato al loro Re avevano permesso di fargli qualsiasi cosa, a simile feccia mai.

«In quei casi eri, eravamo consapevoli. Stavolta no. Stavolta ti ha presa in contropiede e -»
«E' stato meglio di qualsiasi altra volta prima» lo zittì. Gli occhi dell'uomo si fecero grandi di stupore e per un attimo, uno solo, non riuscì a capire. Di che diamine stava parlando? Le si era davvero fritto il cervello?
Alexandria scosse la testa: «Dio, sembro una di quei feticisti a cui piace farsi maltrattare se dico così» poi rise piano, seppur in quel suo modo contagioso che gli fece tendere gli angoli della bocca nonostante la confusione del momento. «Intendo dire che non ho provato dolore. Non del tutto, quantomeno. Ma ho rivisto il passato, sai? Per quei pochi minuti sono tornata a Innsbruck, alla sera in cui ho ballato con lui e poi sono morta.»
«Per fortuna non volevi passare per una masochis- coff!» Zenas quasi sputò. La gomitata della sorella era arrivata inaspettatamente, mozzandogli il fiato e facendolo piegare in avanti con il sorriso ancora stampato sulla faccia. Non aveva avvertito alcun dolore, come sempre del resto, ma i muscoli si erano comunque contratti per l'impatto.

«Guarda che nonostante tutto è un bel ricordo, akh!» Bofonchiò prima di svoltare in una delle traverse secondarie trascinandolo con sé e, tossendo ancora un paio di volte, Zenas cercò di recuperare un minimo di contegno: «Sfido chiunque a non trovare bello il ricordo del proprio assassinio, sai?» Un'altra risata, stavolta seguita a ruota da quella di lei.
«Ideyott (idiota)!» Lo apostrofò accorciando il passo e obbligandolo a rallentare, come se non volesse far finire il momento - e sentendo la dolcezza di poco prima farsi più densa, concreta, Zenas non si oppose, rallentando. Beandosi di quell'andamento pacato, della brezza frizzantina che sfiorandogli il viso si contrapponeva al calore del corpo di Alexandria, l'uomo si mise a osservare la città, o quantomeno l'angolo di essa in cui si trovavano. Poche auto si intervallavano a un silenzio interrotto, di tanto in tanto, da qualche tv accesa oltre le finestre dei palazzi; gatti randagi saltellavano da un punto all'altro dei marciapiedi alla ricerca di cibo; piccoli gruppi di amici, di tanto in tanto, facevano la loro comparsa per sparire nelle vie di Vienna poco dopo, dando l'idea di non essere mai passati di lì - eppure, in quella normalità, qualcosa gli diede l'idea di stonare. In effetti, più si allontanavano dall'area commerciale, dove pub, kebabbari e negozi vari facevano capolino tra un edificio e l'altro animando la sera, più il silenzio gli diede l'impressione di essere innaturale.

Involontariamente strinse la mano di Z'èv, tanto da farla voltare con espressione corrucciata. I suoi passi si fecero ancora più lenti, la sua postura rigida. C'era una vibrazione, nell'aria, qualcosa di elettrico che d'un tratto mise in allerta i suoi sensi - ma cosa? Non avrebbe saputo dirlo. Con circospezione lanciò occhiate in ogni direzione senza mai fermarsi, temendo le conseguenze di un simile gesto.

«Che st-» strizzando maggiormente le dita della sorella la fece zittire.
«Sefatt hazott betokhe lo (non in questa lingua).»

Alexandria parve capire. Esattamente come ogni volta, seppur in silenzio, si parlarono. La tensione di uno divenne quella dell'altra e Zenas allungò il passo.
«Mashehu tazehir sheatah, akhòt? (avverti qualcosa, sorella?)»
Ma al posto di ricevere una risposta, Akràv si ritrovò tirato in un vicolo buio e schiacciato contro il muro dell'edificio che fino a pochi istanti prima avevano costeggiato. Il freddo della parete lo fece rabbrividire più di quel gesto. Che le era saltato in mente?
Con il cuore in gola e la sorella premuta contro di sé, tentò di capire cosa stesse succedendo. Abbassando lo sguardo sulla testolina sbiadita di lei, l'uomo fece per aprir bocca, inutilmente.

«Sssht! Ani shome'a ulay 'akheshayv (adesso forse li sento).»

Zenas allora tacque, lasciando alla sorella la quiete necessaria per cogliere ciò che lui non sarebbe mai stato in grado di udire. Nonostante fossero entrambi predatori, Z'év apparteneva a una specie diversa; lei sentiva tutto, dallo zampettio di un ratto sulle scale lì vicino al boato di una granata a chilometri di distanza. Più volte aveva dimostrato la sua superiorità. Uno scorpione poteva percepire le vibrazioni, i cambiamenti del tempo, ma un lupo poteva vantare orecchie sopraffine. 

«Dei passi» stabilì Alex dopo qualche secondo. 
Di fronte a quell'affermazione chiunque avrebbe tirato un sospiro di sollievo, dopotutto poteva trattarsi di chiunque, magari qualcuno dei ragazzi incrociati in precedenza, eppure né lui né lei parvero farlo. Era chiaro che d'improvviso avessero entrambi i sensi in allerta, ma da come il sesto senso lo stava mettendo in guardia, Akràv era certo ci fosse ben poco di rassicurante in chicchessia stesse arrivando. 

«Hem shehenn atah khoshev? (pensi che siano loro?)»
Un'insolita tensione strinse le viscere dell'uomo, forse facendogli persino tremare involontariamente le mani visto che Z'èv si volse verso di lui con un cipiglio preoccupato in viso. La vide mordersi appena il labbro inferiore prima di rimettersi in ascolto - ma stavolta di bocca gli sfuggì un'imprecazione.
Merda! Come avevano fatto a non accorgersi prima della loro presenza? Da quanto erano alle loro calcagna? E Noah? Erano anche lui e Levi in pericolo? Avrebbe voluto estrarre dalla tasca un cellulare, chiamare il Generale e assicurarsi che stessero bene, avvertirli di ciò che stava succedendo, ma non poteva. Non ne aveva i mezzi e, soprattutto, se qualcuno lo avesse sentito sarebbero stati guai ancora più grossi.
Mordendosi la lingua, Zenas tirò Alexandria a sé: «Hem lehate'ott anakhenu tserikhim (dobbiamo depistarli)» le sussurrò poi, cercando il suo sguardo.
«Mah zott omerett? (che vuoi dire?)»
Senza risponderle prese a camminare nella direzione opposta all'entrata del vicolo. Imboccandone uno per volta forse sarebbero riusciti a rimettere piede in un'area più viva della città e disperdersi tra la gente evitando lo scontro - perché anche se non voleva ammetterlo, come tutti loro non era più la Chimera di una volta. La sua corazza di pelle non avrebbe sopportato la medesima quantità di colpi, il pungiglione non avrebbe prodotto la stessa quantità di veleno e, ancor meno, la sua velocità di guarigione sarebbe stata la stessa di trent'anni prima. Non potendo fare affidamento sull'Ars di Salomone per possibili cure post scontro, il decidere di affrontare i membri del Cultus a viso aperto sarebbe stata una follia, ne era fin troppo consapevole; inoltre, non aver subito più alcun teqes (rito) per quasi tre decadi aveva lasciato su quel corpo segni visibili e non dubitava fosse altrettanto per la sorella. Erano in svantaggio, lo sapeva prima ancora di conoscere il numero dei loro inseguitori.

«Lehitemoded itam anakhenu lo yekholim (non possiamo affrontarli)» ammise infine, rivelando parte dei suoi timori. Se solo avesse avuto le ɛvɛn, se avesse quantomeno potuto contare su quel briciolo di Ars...
Un contraccolpo lo fece fermare. Con il braccio teso dietro alla propria schiena e la Contessa Varàdi attaccata all'estremità opposta, Akràv sgranò gli occhi, incapace di dare un senso a quel gesto. Allora il suo cervello aveva davvero smesso di funzionare!
«Lo mishum? (perchè no?)»
Spaventato dall'idea che qualcuno potesse notarli spinse Z'èv contro il muro, afferrandola per le spalle: «Be khissaronn anakhenu mishum! (Perché siamo in svantaggio!)»
«Raq hamissepari. (solo numerico) Nissayonn yesh lanu hem lehavedil, akh. (a differenza loro abbiamo l'esperienza, fratello)»
«Ma non la forza! Non l'Ars!» Ringhiò, premendo le dita con sempre più veemenza. Non avevano speranze.

«Noi siamo l'Ars» e nel pronunciare quelle parole i canini le si fecero affilati, lame di osso avorio pronte a dilaniare la carne. «Abbiamo affrontato nemici più pericolosi, akh. Siamo sopravvissuti a vere e proprie cacce, a guerre... e sinceramente se cinque stronzi rischiano di mettere a repentaglio la vita del mio Re sono disposta a perdere qualche arto» la decisione nel suo sguardo lo fece vacillare: «Dopo di noi cercheranno Levi. Sanno che è vivo e non possiamo permetterci che gli saltino alla gola, non ora. Noah non deve restare solo
D'improvviso un brivido colse Zenas alla sprovvista, facendogli allentare la presa e retrocedere di un passo.

Alexandria aveva ragione. Il loro Re doveva essere salvaguardato sopra ogni cosa e, per farlo, doveva restare con Levi - quindi, degli alchimisti avrebbero dovuto occuparsene loro.

«Beseder (va bene). Sbarazziamocene.»



Yaga:

 

Tanti cambiamenti per un singolo capitolo (che praticamente ho quasi riscritto da capo T.T).
Ma bando alle ciance, mie piccole Chimere lettrici: che ve ne pare di questa svolta? E cosa diamine è successo a Z'èv? Improvvisamente Noah è diventato il suo Re? Oppure c'è sotto qualcos'altro? Sarebbe bello saperlo.

Oltre a questo ho un ulteriore quesito per voi: che ne pensate delle traduzioni direttamente accanto alle battute/parole in quello che dovrebbe essere ebraico? Ho usato la tecnica che si può trovare anche in Miss Bahun: caccia ai vampiri ; ho pensato che potesse essere più funzionale del glossario a fine capitolo. Datemi una vostra opinione a riguardo e, intanto, vi auguro un caloroso proseguimento di serata!

XoXo,

La vostra amichevole BabaYaga di quartiere.

 

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Capitolo 36
*** - Capitolo Ventiduesimo - Parte Seconda: Ora e da Sempre ***



 

"Was hoping this suspense will kill you
Tell me, how would you begin?
Watching the way you sink your teeth in"

- Bring me the horizon, Why you gotta kick me when I'm down?


 

 

Percepiva il cuore batterle a mille. Ogni palpito le rimbombava nella cassa toracica come un batacchio nella campana. Si sentiva vibrare, ma non avrebbe saputo dire se fosse colpa dell'adrenalina, della paura o degli ultimi rimasugli di ɛvɛn che le stavano ancora circolando in corpo; eppure qualcosa, in lei, fremeva.

Acquattandosi nelle ombre di un vicolo di cui non conosceva né nome né direzione, Alexandria tese le orecchie, in modo da udire qualsiasi rumore insolito, qualsiasi segnale che potesse tradire i loro inseguitori. Ci avevano messo un po' per trovarne uno perfetto, che potesse rispondere alle esigenze di creature sovrannaturali come loro, ma alla fine, sgusciando sempre più verso la periferia urbana, avevano scorto quell'angolino. Era appartato, lontano da occhi indiscreti e, soprattutto, buio. Tutti dettagli fondamentali per far sì che i loro corpi mutassero e gli anni di fughe e scontri dessero i loro frutti.
Si erano quindi posizionati in punti diversi, uno più avanti ed uno un po' più indietro, restando in attesa del Cultus - e Zenas, evidentemente più di lei, sembrava tutt'altro che entusiasta di fronte a quell'imminente incontro. Il modo in cui teneva stretti i pugni, in cui i suoi occhi non si spostavano mai da quella che avevano decretato essere l'entrata del vicolo tradivano la sua compostezza. E forse, se non fosse stata in quello stato alterato, non lo avrebbe affatto biasimato: ora che avevano ritrovato Salomone morire sarebbe stato stupido. 

Si morse il labbro, soffiando dalle narici.
Stavano davvero rischiando moltissimo, ma nulla poteva essere paragonato alla salvezza dell'Hagufah, il loro Re, a parte...

Con la coda dell'occhio Alexandria vide il fratello piegarsi leggermente in avanti, mettendosi in posizione di partenza. Che il suo corpo avesse percepito una nuova vibrazione nell'aria? L'aumento di elettricità? Anche lei fece altrettanto, tornando a concentrarsi sul vicolo. Non era facile sentire i passi nel mormorio di una città come Vienna, men che meno distinguerli da quelli di persone qualunque - perché in fin dei conti cosa erano gli adepti del Cultus, se non semplici uomini e donne? Sì, aspiranti alchimisti, ma nulla più. Non erano né idoli, né dèi, e ancor meno mostri del calibro delle Chimere - quindi distinguerli da persone qualunque era praticamente cosa impossibile.

Strinse i pugni, sentendo il formicolio farsi meno insistente. Era stato dal momento in cui si era resa conto del pericolo che la bramosia aveva avuto la meglio sulla razionalità, risvegliando la parte di sé che Salomone aveva creato. Si rese conto di desiderare il contatto con un corpo, di anelare la sua resistenza, la foga della lotta - ma non poteva negarsi anche di temerla, seppur in piccola parte. Ricordava ancora, con fin troppa chiarezza, il mugolio che aveva trattenuto a casa propria settimane prima, con Levi, e anche tutto il dolore che aveva dovuto tacere mentre, in balìa dell'ansia, erano fuggiti da Venezia. La sua carne era debole, le sue gambe lente, le zanne fragili: come avrebbe potuto affrontare uno scontro? Ma prima che potesse effettivamente soppesare una risposta, qualcosa catturò la sua attenzione, facendola sussultare appena.
Passi misurati, circospetti, si stavano avvicinando sempre più, si trovavano a pochi metri dal vicolo e, a quel punto, quasi avvertendo l'imminente minaccia, Zenas schioccò la lingua nella sua direzione, distraendola. 
Lo vide muovere le mani, ma non riuscì a dare un senso al suo gesticolare frenetico - e così lui ripeté i movimenti, poi lo fece un'altra volta ancora fin quando, nella mente della Contessa, non si sbloccò un ricordo: stava usando la lingua dei segni. E le stava chiedendo quanti fossero i loro inseguitori. 
Alex si rimise velocemente in ascolto. Contò i passi basandosi sugli intervalli con cui le suole toccavano terra e poi, mordendosi il labbro, indicò un numero con le dita; per quello che poteva percepire si trattava di quattro persone, non di più, si augurò serrando i denti.
Malamente quindi provò a comunicare con il fratello nel suo medesimo modo. 

"Arrivano" gli disse, e Akràv annuì.
"Procediamo come da piano, va bene?" ma anche se non le fosse andato bene non avevano chissà quante altre alternative. 
Il cuore di Alex ebbe un'impennata, iniziando a batterle ancor più forte. Ce la potevano fare. C'erano già riusciti molte volte prima - così la ragazza uscì dal proprio nascondiglio, mettendosi allo scoperto. Nel frangente di pochissime falcate divenne bersaglio mobile per quei folli e mentre loro si facevano sempre più vicini, lei si chiese se le gambe l'avrebbero retta. Doveva solo correre, per il momento, ma scongiurò di essere abbastanza stabile e veloce da evitarli. O quantomeno evitare ogni loro trucchetto.
Molleggiò per un ultimo istante, poi, udendoli rallentare e farsi ancora più sospettosi, iniziò a indietreggiare sotto lo sguardo attento di Zenas. I suoi occhi balzavano senza sosta da lei al fondo del vicolo in un'immaginaria partita a ping-pong, fremendo esattamente come la sorella. Alexandria lo sentiva, lo sapeva. E attese. Conosceva alla perfezione il copione da interpretare, quali muscoli muovere per assumere l'espressione giusta, come far fremere di finta preoccupazione il proprio corpo; aveva già interpretato quel ruolo - così, quando gli adepti si sporsero appena per scorgere ciò che li stava aspettando, la Contessa Varàdi schiuse le labbra, prese a respirare affannosamente e spalancò le palpebre.

Eccoli. Ed eccola, pensarono probabilmente loro.
Mosse un paio di passi titubanti all'indietro, fissandoli con un terrore che non le apparteneva - in realtà era più combattuta che altro: da un lato temeva di non poter sopportare uno scontro mentre, dall'altro, sentiva Z'èv desiderarlo, essere pronta.
Le ci vollero pochi secondi per puntare i talloni sull'asfalto e girarsi, aumentare la lunghezza delle falcate e ritrovarsi d'improvviso a correre. Ogni tanto, giusto per rendere quella sua recita più credibile, voltava il capo per lanciare sguardi timorosi oltre la spalla e, esattamente come topi che si infilavano nella trappola, gli alchimisti le si gettarono dietro, ignorando completamente il fatto che fosse sola. Che pensassero veramente che lei e Zenas si fossero separati, magari per muoversi più velocemente e dare meno nell'occhio? Idioti. Più tempo passava e meno pareva che imparassero dagli errori dei loro predecessori.
Li vide agitarsi lungo i metri che li separavano, arrancare nonostante lei stesse correndo al minimo dello sforzo per essere certa di vedere l'azione del fratello e non farsi perdere di vista da quei quattro mentecatti e poi, come da piano, Akràv emerse dall'ombra esattamente quando l'ultimo di loro ebbe sorpassato il punto in cui si nascondeva, placcandolo con talmente tanto vigore da sbatterlo contro il cassonetto dietro cui si era rifugiata lei, piegandone la latta. Il tonfo sordo del corpo dell'alchimista fece fermare i compagni, mozzandole il fiato.
Dannazione, non dovevano fermarsi; non dovevano concentrarsi solo su suo fratello.
I tre rimasero immobili a fissare la scena, forse colti alla sprovvista, forse pronti alla carica. Avvolti nei loro cappotti scuri e con chissà quali trucchi nelle maniche, puntarono la loro attenzione sulla Seconda Chimera, facendole tremare le gambe.
Li vide valutare la mossa successiva, piegare appena le gambe nella direzione opposta alla sua.

No.
No, no e ancora no, non dovevano puntare a Zenas. Quattro contro uno sarebbe stata una sconfitta quasi certa e restare entrambi lì avrebbe potuto attirare troppa attenzione. Che fare, quindi? Si morse il labbro, indecisa. Se si fosse rimessa a correre probabilmente quei tre si sarebbero fermati lì, avrebbero soccorso il compagno e fatto fronte comune per abbattere almeno una Chimera, per poterne catturare anche una. Sarebbero stati glorificati, ricoperti di lodi e onori, peccato però che non potesse succedere. Piuttosto la morte di entrambi.
Così Alexandria si morse la lingua e, con uno scatto felino, si lanciò verso il gruppo. Nella confusione del momento afferrò il primo braccio che le capitò a tiro, senza badare alla stazza del nemico, fece una mezza piroetta e s'infilò di schiena tra il torace e l'ascella dell'uomo. Facendo leva con buona parte della propria forza, lo issò sopra di sé e puntando bene i piedi a terra lo ribaltò.
Lo sbigottimento fu generale, tanto da permetterle, in un secondo, di voltarsi verso il fratello e ringhiare: «Vai da Lui
A quelle parole, negli occhi di Zenas passò un lampo di terrore, lo vide tremare appena. Di certo si doveva star chiedendo se fosse impazzita; non solo aveva citato un Lui che poteva rappresentare solamente qualcuno di davvero importante, ma lo aveva fatto in una lingua che persino quei fanatici avrebbero potuto comprendere.
Perché?
Alex avrebbe voluto dirglielo, sul serio, ma in quel momento c'erano di mezzo le loro vite e quelle di Levi e Noah, quindi doveva a tutti i costi rimettere il piano per liberarsi del Cultus in carreggiata.

Ringhiò ancora.
«Vai!» e, a dispetto di quello che si sarebbe potuto pensare, Akràv ubbidì - ma non fu il solo.
Cogliendo al volo quell'istante di finta distrazione, l'alchimista che Z'èv aveva atterrato e di cui ancora stringeva il braccio diede uno strattone facendola inciampare e, poi, in un latino fin troppo fluente, esortò i compagni rimasti inermi a inseguire l'altra Chimera.

Perfetto, pensò la Contessa Varàdi incespicando sui suoi stessi piedi. Il piano si era rimesso in carreggiata - o quantomeno fu ciò che sperò. L'allettante possibilità che Zenas potesse portarli da un altro bersaglio, o che potesse rivelare loro l'esistenza di qualcuno che ancora non conoscevano, era sufficiente a far abbassare la guardia, a spingerli a compiere azioni avventate come quelle: a separarsi e dimezzare le forze. Peccato che, nella distrazione di Alexandria, l'alchimista che l'aveva strattonata si rimise in piedi, rimettendo tra loro una distanza di sicurezza che non le piacque affatto.

«Und wer wärst du? (E tu chi saresti?) Die fünfte oder die sechste Chimäre? (La quinta o la sesta chimera?)» le domandò in un tedesco fluente a cui lei, con un ghigno, rispose sprezzante.

«Oh mein! Weißt du überhaupt, wer ich bin? Ihr Magister muss wirklich verzweifelt darauf bedacht sein, unfähige Leute zu unserem Unterricht zu schicken (Oh cielo! Nemmeno sai chi sono? Il vostro Magister deve essere davvero disperato per mandare al nostro inseguimento degli inetti).» Scrollando la testa, Z'èv si levò dal viso le ciocche che le ostruivano la vista e, puntando lo sguardo dritto in quello dell'omaccione, aggiunse: «Keine Sorge, wir werden es bald beheben (non ti preoccupare, rimedieremo presto)» e, così dicendo, si flesse sulle ginocchia scattando in avanti. Era certa di colpirlo, di riuscire ad atterrarlo ancora e poi ucciderlo, invece, all'ultimo, la schivò.

Merda!, pensò. Quel tizio dava tutto tranne l'idea di essere veloce, doveva ammetterlo, e per questo lo stava sottovalutando - un errore da principianti, ammise - ma ciò non toglieva che lei sarebbe in ogni caso stata più lesta. Così, saltando su una gamba ruotò il busto, sollevando l'altra. Piegò appena il ginocchio puntando alla bocca dello stomaco e, con un unico movimento ben ponderato, colpì il nemico. L'alchimista si piegò in avanti digrignando i denti per non mugolare, per non darle la soddisfazione di saperlo in svantaggio; eppure, nel momento in cui Alex alzò i gomiti per poi calare sul coppino di lui, questi trasformò la smorfia in un ghigno. Lo vide all'ultimo e il cuore le balzò in gola.
In un attimo le mani dell'uomo si strinsero intorno alla gamba ancora sollevata, all'altezza della coscia e il panico fece contrarre lo stomaco della Chimera. Il calore penetrò il jeans tanto che a Z'èv parve che decine di spilli le stessero perforando la carne fino al muscolo. Riuscì a sentirli tutti, uno a uno. Avvertì il dolore con così tanta chiarezza che capì subito di dover interrompere quel contatto, altrimenti sarebbe stata la sua fine - e l'istinto ebbe la meglio.
Le sue dita si infilarono sotto al cappuccio della felpa, nei capelli dell'alchimista. Si premettero contro la nuca e strinsero esattamente quanto stavano facendo i polpastrelli di lui.
Alexandria era conscia di non aver la forza per spaccargli il cranio e nemmeno ci provò; piuttosto spinse la testa di lui di lato, lottando contro la resistenza del collo e, a quel punto, agì. Spalancando le fauci calò sul nemico, infilando i propri denti nella carne viva e pulsante del trapezio. La bocca le si riempì di sangue bollente, viscido. La lingua le pizzicò quasi vi avesse buttato sopra del peperoncino, ma non mollò. Pigiò sempre più, sentendo i muscoli contrarsi per respingerla, il corpo di lui ribellarsi alla sofferenza. Udì i gemiti di dolore, il tentativo di soffocarli in gola. Gli tirò i capelli cercando si aver più spazio d'azione - e finalmente l'alchimista tolse le mani dalla gamba per mettergliele al petto e spingerla via.

 

 
 

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Capitolo 37
*** - Capitolo Ventiduesimo - Parte Terza: Ora e da Sempre ***


"We were born to dream of heaven in-between
But we're walking towards the slaughter, footsteps right behind the sheep
You better run, you're the maker of your doom"

Shadows, Hollywood Undead

Alex retrocedette barcollando, quasi le gambe non riuscissero a sorreggerla a dovere. Nel giro di qualche secondo, poi, sentì la testa farsi pesante, la vista offuscarsi un poco. Incespicò fin quando non avvertì il muro alle proprie spalle e solo a quel punto, aggrappandosi, abbassò lo sguardo alla ricerca di qualcosa che, doveva ammetterlo, avrebbe preferito non trovare - eppure, persino sul jeans scuro e in quelle condizioni, vide la macchia di sangue allargarsi inesorabilmente. Lì dove quel bastardo aveva stretto le mani c'era il segno evidente di un suo passo falso, di una possibile e non improbabile sconfitta. Non aveva idea di quale tecnica avesse usato il nemico, ma di certo aveva scalfito anche gli effetti benefici della ɛvɛn che aveva ingurgitato ore prima. Ma come? Possibile che Noah avesse destabilizzato il suo corpo a tal punto da impedirle di contrastare un banalissimo alchimista come quello? Si augurò che non fosse così; lo sperò con tutta se stessa, peccato che più la chiazza si faceva grande, meno la sua convinzione restava salda - e una sorta di paura prese il sopravvento.

No, si disse corrugando le sopracciglia e arricciando il naso, non poteva finire così.
Lei non poteva morire così. Aveva ancora delle questioni in sospeso, troppe cose mai dette da confessare: uccidersi per evitare la cattura o essere uccisa nel tentativo di sottrarsi a quella decisione erano quindi le ultime cose che poteva permettersi. Doveva reagire, tirare fuori gli artigli e mostrare le zanne a qualsiasi costo. Dopotutto cosa poteva valere un arto? Nulla se messo a confronto con il resto. Così, al pari di un tuono che arriva all'improvviso, un suono gutturale le salì dal profondo delle viscere trasformandosi in un ringhio appena uscito dalle labbra. La voce di Alexandria cambiò a tal punto da rendere quasi incomprensibile il suo: «Beim nächsten Biss ziele ich auf die Halsschlagader (Al prossimo morso mirerò alla tua carotide)». Nonostante ciò, però, dal lieve sussulto del tizio di fronte a lei fu chiaro che l'avesse comunque capita. Il modo in cui i tendini della mano gli si tesero aumentando la pressione sul collo fu un segno inconfondibile dell'agitazione crescente e, quando poi fece un paio di passi indietro, Z'èv non ebbe più dubbi: aveva un'arma da sfruttare.

Gli occhi di lui non si staccarono mai dal suo viso, le rimasero incollati dandole modo di leggervi dentro la preoccupazione che la sua, più che una minaccia, potesse essere una predizione certa; eppure, quando aprì bocca, a lei non rivolse mezza sillaba. Ripeté per un paio di volte quello che doveva essere il nome del compare e quando questi ripose, avvicinandosi, sembrò esserne sollevato.

Stolto, sfuggì tra i pensieri di Alex. Quella mera tranquillità gliel'avrebbe presto strappata via coi denti. Era ovvio che quella notte qualcuno sarebbe morto e, bagnandosi le labbra, la Chimera ebbe la certezza che non sarebbe stato il suo turno - non ora che sapeva di avere la paura dalla sua parte.

Piegandosi in avanti col busto e preparandosi al contrattacco, Z'èv percepì il corpo mutare. La pelle della schiena, insieme a quella del viso, si tirò a tal punto da farle male, mentre le ossa scricchiolarono in modo agghiacciante sotto alla carne. Le sentì frantumarsi per poi incastrarsi malamente, avvertì la scarica elettrica dell'Ars correrle lungo i muscoli, i nervi, i capillari e ancorare i frammenti di scheletro in modo che potessero sopportare qualsiasi tipo di forza esterna. Si sentì andare a fuoco in quel modo dolce, rassicurante che non sentiva da tempo e seppe, senza nemmeno guardarsi, di non avere più nulla di umano nel proprio aspetto.

I due adepti del Cultus si fecero sempre più vicini, quasi volessero stringersi l'un l'altro per darsi sostegno come dei bimbi di fronte a un film horror. Gli occhi sgranati e le gambe tremanti. Alexandria riuscì a vederlo persino nel buio della sera e una sorta di piacere le tese le labbra.
Percepiva il loro sbigottimento, quell'incantevole timore misto a disagio tipico di chi ha un incubo; e mentre saggiava con gli occhi la loro reazione, quel briciolo di benignità rimastale non riuscì a impedirle di biasimarli. Potevano aver visto più cose dei semplici umani, certo, ma una Chimera viva e vegeta, retta sulle proprie zampe e pronta a mutilarli... beh, era diverso. Quante potevano averne incontrate nella loro misera vita? Probabilmente lei sarebbe stata la prima e anche l'ultima - e, non a caso, mentre i vestiti che aveva addosso si tiravano e stracciavano per la mutazione, sentì uscire dalla bocca di uno dei due alchimisti una domanda. Si trattò di un sussurro, ma le sue orecchie non se lo lasciarono sfuggire.

Wäre das eine chimäre? (Questa sarebbe una chimera?)

Sì, quella che avevano davanti era una chimera e, di certo, aveva ben poco di ciò che si poteva vedere sui libri - Z'èv, ad essere onesti, assomigliava più ai licantropi dei racconti folkloristici che ad altro.

In punta di dita si sfiorò la coscia. Sentiva il sangue caldo appiccicarle i polpastrelli e, quando lo avvertì sotto le unghie, quasi a volersi nascondere, scattò.
Puntando sull'effetto sorpresa e su quell'istante di confusione provò ad avvicinarsi tanto da poterli attaccare, mutilare, uccidere.
L'alchimista che aveva azzannato retrocedette di un singolo passo, mentre l'altro si parò tra di loro. Le sue mani si mossero svelte, toccarono il petto e poi l'asfalto del vicolo. L'elettricità dell'Ars si diramò intorno a loro e prima che Z'èv potesse rendersene conto una lingua scura si levò dal terreno schermando i due uomini. Il suo corpo vi rimbalzò contro, facendola barcollare.
«Dannazione!» imprecò tra i denti, ma non ebbe tempo di aggiungere altro. Da sinistra un attacco si diresse verso di lei alla stessa velocità di un fulmine. Lo vide con la coda dell'occhio per puro miracolo e con un ringhio scartò all'indietro. Sentì la vigorosa sferzata dell'asfalto schiaffeggiarle la punta del muso e il cuore d'un tratto prese a batterle con talmente tanta forza da rimbombarle nelle orecchie. L'aveva scampata giusto in tempo, pensò, ma ciò non la rincuorò minimamente. Erano in due ed erano più veloci di quello che si sarebbe aspettata, mentre lei era sola e meno preparata di quanto avrebbe creduto; e chissà se Zenas se la stava cavando meglio, chissà se a un certo punto sarebbe corso in suo aiuto.
Si morse il labbro.
Non era qualcosa su cui poteva fare affidamento, doveva restare concentrata e convinta del fatto che il fratello non sarebbe tornato indietro per lei - perché il piano era un altro, perché Salomone doveva essere protetto.
Tese i tendini delle mani fino a farsi male e le unghie divennero artigli sempre più lunghi. Doveva trovare un modo per ammazzare quei due nel minor tempo possibile, ma più il suo sguardo si soffermava sulle onde scure che emergevano dal terreno, ferme e minacciose, più il dubbio di non avere speranze si fece strada in lei - eppure si era trovata in situazioni ben peggiori, sant'iddio!

D'improvviso un fischio sommesso interruppe i suoi pensieri, facendola muovere d'istinto. Lo spillo che le era stato lanciato contro a mo' di proiettile nemmeno lo vide, ma ne sentì l'affilatezza sfiorarle il collo, oltrepassare i capelli e ficcarsi in quello che suppose essere un muro. Sgranò gli occhi, ma prima che potesse rendersene conto i suoi piedi presero nuovamente a muoversi. Svelta e silenziosa come un felino si lanciò verso il nemico scivolando tra le lingue d'asfalto che provarono a interrompere la sua corsa. Avvertì la tensione stringerle la gola, percepì la consapevolezza di star rischiando più del dovuto aggrapparsi alle caviglie per rallentarla, eppure non si fermò. Avanzò come una furia, un'assassina, e quando i due alchimisti se la videro spuntare a lato del primo scudo trasalirono.

Quello che aveva plasmato l'asfalto  si portò nuovamente le mani al petto, ma prima di riuscire a sfiorare qualsiasi cosa catalizzasse la sua Ars, Alexandria gli piombò addosso.
Iti miday (troppo lento), pensò mentre con la mano aperta sul suo viso lo spingeva verso terra. Fece leva sulle gambe, ma nonostante la stilettata di dolore non tentennò e appena il suono del cranio di lui contro il terreno le arrivò alle orecchie ogni sorta di male si annullò. Un brivido di puro piacere le corse lungo la schiena, facendole socchiudere appena le palpebre e commettere un passo falso. Ancora.
L'alchimista alle sue spalle emise un verso, poi la sensazione fastidiosa provata al loro primo scontro si palesò all'altezza del bacino.
Alex si lasciò guidare dal corpo. Prima che potesse realizzarlo il suo gomito colpì con inaudita violenza la faccia dell'aggressore. Sentì nitidamente la mascella di lui dissestarsi prima di vederlo ruzzolare a terra.

Un nuovo ringhio.
Un nuovo verso.

«Du musst aufhören! (Devi smetterla!)» muovendosi goffamente gli si fece vicina, torreggiò sopra di lui con la bava che dalla bocca ricadeva sui suoi vestiti scuri. Lo vide arrancare sull'asfalto, trascinarsi con le unghie ferendosi. Aveva sangue ovunque e la paura negli occhi. Sapeva di non poter sferrare altri attacchi, il nemico non glielo avrebbe permesso - ma forse poteva scappare, no?

No, gli rispose Alex senza aprir bocca. «Dummer Mann (stupido uomo)» soffiò subito dopo, schifata. In passato aveva provato pietà, lo doveva ammettere, ma non ci era voluto molto prima che la compassione diventasse astio, ribrezzo, insofferenza.
Si chinò e senza lasciargli tempo di realizzare ciò che sarebbe successo, o semplicemente di gridare, gli afferrò il collo stando bene attenta a posizionare gli artigli lì dove le zanne avevano perforato la carne. Poi strinse.
Negli occhi sgranati dell'alchimista si vide riflessa, si trovò orribile, eppure non allentò la presa. Non le importò quanto lui si stesse dibattendo, quanto i suoi versi fossero gutturali e rabbrividenti. Forse qualcuno l'avrebbe udito di sfuggita senza capire, forse si sarebbe messa a repentaglio, ma ciò non bastò a farla smettere con quella tortura, anzi. Z'èv pigiò con più gusto i polpastrelli nella carne; si permise il lusso di godere della resistenza di quello sconosciuto. Mentre si dibatteva sotto di lei, incapace di liberarsi dalla sua presenza, la Contessa Varàdi faceva maggior resistenza con i propri arti. Doveva, o meglio voleva, farlo sentire un topo in gabbia. Se lo meritava in fondo, no? Dopotutto lui, i suoi predecessori, i loro avi... tutti quegli alchimisti da strapazzo avevano provato a far sentire lei, i suoi fratelli e persino Salomone così - e come diceva il Codice di Hammurabi: "se a un uomo togli un occhio, dovrai pagare con un occhio".
Fece per premere un po' di più, in modo da vedere il terrore sfigurargli i connotati, ma una nuova, fastidiosa vibrazione nell'aria mise in allerta il corpo che, istintivamente, si mosse; peccato che nel ruzzolare lontano dal nemico gli artigli si impigliarono nel collo e, in preda alla foga, Z'èv finì col mozzargli davvero la giugulare. Sentì i rantoli dell'uomo, il suo affogare nel sangue che gli riempiva le vie respiratorie, ma non gli prestò la benché minima attenzione - non aveva tempo.
Usando un ginocchio come perno ruotò su se stessa, tornando a fronteggiare chi aveva sperato essere già morto.
«Merda!» ringhiò in una lingua: «Wenn du Asphalt so sehr liebst, werde ich dafür sorgen, dass du für immer eins bist! (se ami tanto l'asfalto farò sì che siate una cosa sola per sempre!)» aggiunse poi in un'altra. Aveva evitato l'ennesima lingua di bitume per pura fortuna, ma sapeva che la bilancia presto avrebbe iniziato a pendere in negativo; andava sempre così.

Puntò una mano a terra e, come i velocisti, spinse per darsi lo sprint necessario per piombare addosso al nemico.
Era lì, steso al suolo, inerme, retto solo su un gomito mentre il palmo dell'altra mano premeva sul petto. Il fiato corto, il sudore a imperlargli la fronte.
Lo avrebbe ucciso velocemente, pensò Alexandria. Lo avrebbe fatto rompendogli l'osso del collo. Un crack rapido che avrebbe messo fine a quella pantomima.

Si lanciò.
Premendo le suole delle scarpe sull'asfalto fece poche, lunghe falcate verso il bersaglio. Con il cuore pulsante a riempirle le orecchie allungò le braccia per afferrarlo prima, per ghermirlo, per fargli percepire come ultima cosa il tocco della morte, la paura - peccato che si accorse troppo tardi di non essere la sola a desiderarlo.
Alex vide il catrame intorno al braccio poggiato a terra muoversi, ribollire, prendere vita. Lo vide e sgranò gli occhi.
Ecco che la sfortuna veniva a reclamare il suo pegno.

 

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Capitolo 38
*** - Capitolo ventitreesimo: Un corpo troppo umano ***


"I find myself in the jaws of destruction

Tested, by the force of the tempest.
Pushed, to the point of no return.
Losing ground.
Let the steel of my resolve
be not bested by the sum of my fears"

Karma, Parkway Drive


 

 

Zenas atterrò l'ultimo alchimista. Attese che il suo corpo cadesse a terra con un tonfo prima di sputare un grumo di sangue tenuto in bocca per troppo tempo, poi mugolò un "ikhes" (che schifo) passandosi la lingua sui denti.
Era stanco, anzi, esausto. L'ultimo scontro risaliva a una data che nemmeno ricordava e gli allenamenti di thai boxe non erano paragonabili a una cosa come quella; la mutazione richiedeva sforzo, l'Ars consumava energie - o quantomeno lo faceva con lui. Levi era una Chimera perfetta, altri fratelli ci si avvicinavano abbastanza, ma lui... beh, era quel che era: un esperimento - e come tale aveva difetti.
Socchiudendo gli occhi di fronte a quel pensiero lasciò cadere la testa all'indietro. Inspirò aria troppo calda e poi riaprì le palpebre verso un cielo privo di stelle, dove il nero delle nuvole e la luce lampeggiante di un aeroplano furono le uniche cose che riuscì a scorgere. Intorno a lui tutto sembrava essere finalmente precipitato in uno stato di quiete: niente rumori molesti, versi soffocati e bestemmie sussurrate. Ora che persino l'ultimo dei suoi avversari aveva smesso di mugolare e il veleno aveva fatto il suo corso la pace era tornata ad accompagnare la sera - e sembrava essersi portato via anche le ansie precedenti, le tensioni accumulate in quei giorni.
In quella quiete Zenas poteva sentire il fruscio leggero dei dreadlock che penzolavano dal capo lungo le spalle e, poco più in là, come una presenza terza, la propria coda dondolare seguendo un venticello mesto. Se avesse posato lo sguardo sulla propria ombra, pensò, probabilmente l'avrebbe persino vista, imponente come un triste mietitore che attende.
Sfoderarla durante quello scontro aveva fatto male, si disse, forse più dell'ultima volta e, a ogni movimento, sentiva ancora un lieve fastidio lì dove la pelle si era lacerata per farla uscire. Nonostante il dolore però gli era piaciuto. Era stata una sensazione quasi confortante, una consapevolezza masochista che lo aveva fatto sentire pericoloso, invincibile. Forse non avrebbe dovuto ammetterlo, ma era qualcosa di inebriante, assuefacente...
Gli venne da ridere.
Accogliendo quella consapevolezza non riuscì a trattenere una risata breve e roca, una liberazione.
Dio! Era davvero diventato un mostro, si disse appena le corde vocali smisero di vibrare. Chi mai avrebbe potuto trovare una cosa del genere piacevole, appagante, familiare? Altri mostri. I suoi fratelli, aggiunse senza esitazione, tutti quanti - e facendo scorrere i loro volti nella mente, in ordine sparso, si ricordò improvvisamente di Alex, di come l'aveva lasciata, del pericolo a cui era esposta.
Merda!
Sussultando si rese conto di non avere ricevuto sue notizie da... provò inutilmente a cercare un orologio, come se potesse servirgli a qualcosa. Guardò ovunque, affannandosi fin quando non si rese conto non avere alcun senso e che, piuttosto che soffermarsi su simili cavolate, avrebbe dovuto correre dalla sorella; così contrasse i muscoli dei glutei, strinse i pugni e la sensazione dolorosa alla base del coccige lo fece trasalire. Il pungiglione si ritrasse lentamente, tornando al proprio posto sotto la pelle e uniformandosi con la schiena, come una corazza per la spina dorsale e, solo a quel punto, cercò di ripercorrere i propri passi.
Scavalcò i cadaveri dei due alchimisti senza degnarli di alcuno sguardo, consapevole di ciò che avrebbe visto. Calpestò le crepe createsi sull'asfalto ogni volta che era caduto a terra e i coltelli di lamiera che uno dei suoi avversari aveva inutilmente scagliato contro di lui vi si erano conficcati dentro, poi provò a tendere le orecchie per scorgere un suono, uno qualsiasi.
Si sentiva frastornato, ma non a sufficienza da abbandonare Alexandria. Se poteva esserle d'aiuto lo sarebbe stato e fanculo le regole, pensò. Sapeva che la priorità era fuggire, tornare alla base e avvertire Levi, lo aveva sempre fatto e non se lo sarebbe risparmiato in futuro, ma Z'èv era pur sempre la sua sorellina.

Deglutendo quella cognizione cercò quindi di aumentare l'andatura, di velocizzare i passi quanto più gli era possibile, ma a ogni falcata gli pareva di arrancare.
Si spronò più volte, con sempre maggior grinta, fino a svoltare oltre l'ultima diramazione di cui avesse memoria e, con sorpresa, finì con l'inciampare su alcuni cassonetti ribaltati sulla strada. Akràv ruzzolò a terra. Sentì le gambe cedere sotto al suo stesso peso, tradirlo all'ultimo come il peggiore dei nemici e... Tuck!
L'asfalto grattò via un po' di pelle dagli avambracci, facendogli torcere la smorfia dal fastidio.
Dannazione! Aveva consumato talmente tante energie da riuscire persino ad avvertire il lieve bruciore di ferite così sciocche! - e in tutta onestà non gli piacque affatto rendersene conto. Nemmeno la sua corazza riusciva più a proteggerlo.
Osservandosi frettolosamente la pelle graffiata e la carne viva che faceva capolino sotto alla peluria imprecò; se fosse stato abbastanza lungimirante forse si sarebbe ricordato delle ɛvɛn in cucina, di quello stupido mucchio di biglie rosse che negli ultimi trent'anni gli avevano permesso di sopravvivere come una persona normale - ma non era stato così. Che stupido. L'ansia lo aveva colto talmente alla sprovvista d'annullare il suo pragmatismo, portandolo in quel vicolo a trattenere l'ennesima bestemmia.
Scosse la testa, poggiò le mani a terra e con un grugnito si issò per riprendere la ricerca di Alexandria, peccato che nell'istante in cui credette di essere pronto a correre, la gamba sinistra gli cedette ancora, facendolo barcollare.

Sversò gli occhi, sibilò qualche insulto nella sua lingua natia e poi, stizzito, abbassò lo sguardo.
I jeans erano stracciati in più punti, alcuni voluti, altri capitati durante lo scontro. Accanto a molti però, chiazze scure lasciavano ben poco all'immaginazione: nonostante avesse combattuto bene, cercando di contenere i danni, era stato ferito.
Possibile che tutto gli stesse andando storto? Quale altra sfortuna lo attendeva? E chiedendoselo, un groppo gli si formò in gola. A dire il vero, si disse, preferiva non saperlo viste le opzioni.

Mosse la gamba, la scosse per capire se lo avrebbe sostenuto o meno, poi riprese a camminare, stavolta più cautamente - perché doveva cercare di non strafare, non sapeva cosa lo avrebbe atteso più in là; e risparmiare le forze era la scelta più saggia in quel momento.

Zenas avanzò a tentoni. Un passo dopo l'altro si convinse sarebbe presto arrivato dalla sorella - eppure più procedeva, meno il suo corpo gli pareva essere reattivo: perché? Non aveva subito danni, per quel che gli era parso, così come le mani degli alchimisti non si erano mai avvicinate a sufficienza al suo sigillo da metterlo in difficoltà. Che aveva, allora? Avrebbe voluto prendersi il tempo per indagare, per capire meglio, ma un'ombra scura entrò nel raggio d'azione della vista periferica facendogli schizzare il cuore in gola.
Un nemico? Ancora? Questo allora voleva dire che Alex... senza doverci pensare scartò di lato. Il suo fu un movimento fulmineo che venne, purtroppo, accompagnato da un suono e un fastidio che avrebbe preferito non conoscere. Ruzzolò a terra malamente, finendo a picchiare la schiena contro un muro e bestemmiare a denti stretti.
Era la fine.
Qualsiasi cosa sarebbe successa da quel momento in poi per lui non ci sarebbe stata speranza.
Basta.

 


 

 

Alex lanciò il braccio della sua vittima verso il fratello. Lo fece senza pensarci, troppo occupata ha mimare col viso espressioni schifate e a mostrare la lingua come se vi fosse sopra qualcosa di terribilmente amaro - peccato che quell'incoscienza aveva spinto Zenas a compiere un'azione brusca, facendolo inciampare. Le ci volle qualche secondo e la smorfia sofferente di lui per capire, troppo tardi, di aver fatto una cavolata.
Abbandonando l'arto strappato a morsi in mezzo alla via, Z'èv si precipitò verso l'altra Chimera. Le suole slittarono sul terreno, facendole perde parte dell'equilibrio: «Ehi» soffiò gettandosi al suo fianco con il cuore già in gola: «Che hai?»
Sapeva di star fissando Akràv con gli occhi di una pazza, ma non le importò. L'agitazione in lei era tale da farle ignorare ogni cosa. Avrebbe dovuto tenere un tono di voce più basso, stare attenta a non lasciare troppe tracce, eppure non riuscì a controllarsi. Con le mani insanguinate prese il collo del fratello, poi il viso per costringerlo a guardarla: «Che hai?» ripeté con meno voce, ma senza calmarsi.
Zenas digrignò i denti alzando gli occhi al cielo e Z'év si allontanò appena, indagando con gli occhi ogni centimetro del corpo di lui.
Sapeva che stava soffrendo. Lo vedeva con una chiarezza lampante, peccato che non avrebbe dovuto provare alcun dolore.
Le dita di Alexandria toccarono ovunque, sopra e sotto i vestiti partendo dal torace e scendendo lungo il busto, i fianchi, le cosce e - sussultò appena l'uomo emise un verso di fastidio, ritraendosi e finendo col culo per terra.

«Atah sovel? (Stai soffrendo?)»
Zenas arricciò il naso: «Sento un bruciore e fatico a muovermi» confessò.
«Ani khoshev sheatah zeh hayah patsu'a (credo che tu sia stato ferito)» cautamente gli si fece vicina, passando la punta dei polpastrelli sulle gambe. Stette attenta ad ogni sua smorfia e a ogni sensazione insolita finché, un po' sollevata e un po' scocciata, trovò il problema.
Non dovette nemmeno stracciare il jeans per capire che il femore di Zenas si era rotto e aveva lacerato la carne, fuoriuscendo.

«Merda!» ringhiò.
«Fammi indovinare: ho un osso rotto» e, del tutto fuori luogo, Akràv abbozzò un sorriso.
«Quello sarebbe relativamente semplice da gestire» gli rispose con poca convinzione, provando a immaginare l'entità del danno. Avrebbe voluto sbirciare la ferita, studiare quanto l'osso fosse uscito, ma togliergli i pantaloni avrebbe comportato due problemi: niente protezione per lo squarcio e un catalizzatore di attenzioni - come se già il loro attuale aspetto non lo fosse.

«Ti sei indebolito troppo, dannazione...» se persino la sua pelle-corazza non era stata in grado di proteggerlo la situazione si faceva davvero preoccupante. Sarebbe bastato che la squadra di recupero, o semplicemente un altro gruppo di alchimisti, si fosse precipitata lì per far capitolare ogni cosa. Non avevano né tempo né scampo, questo era certo; dovevano quindi andarsene, ma dove? Con Zenas conciato in quel modo non potevano certo darsi alla macchia, sarebbero stati un bersaglio facile, per non parlare delle ferite riportate e del loro evidente bisogno di trattamenti; e allora che fare?
Alex si morse la lingua: «Riesci a muoverti?»
Lui rise ancora: «Male e lentamente, ma sì. Non sento dolore, solo fastidio, anche se ammetto che un paio di ɛvɛn non guasterebbero.»
E a quelle parole, se non fosse stata abbastanza attenta, Z'èv avrebbe sussultato.
Già le ɛvɛn.
Quelle che lei gli aveva rubato. Quelle che aveva nascosto nel bagno di Noah perché, come una tossica, aveva temuto che le venissero negate. Sì, proprio loro: la sua unica certezza per non cadere a pezzi. Come confessare quel furto? Come ammettere di averle tenute per sé sino a quel momento? Come impedire che i fratelli le reclamassero? 
Non lo sapeva. Ad essere onesta non voleva farlo.
Erano sue ora, solo ed esclusivamente.

Strinse con più veemenza i denti, sentendo il sapore ferroso del sangue riempire la bocca.
«Okay» disse svelta, cercando di non farsi prendere dal panico. «Okay, adesso alzati, dobbiamo andare» allungò una mano, afferrando il braccio del fratello e tirandolo verso di sé nonostante la lieve resistenza di lui. Zenas pesava ben più di quanto potesse dare a vedere. La sua pelle aveva uno spessore diverso, la sua coda aggiungeva massa a tutto il resto - e lei dovette puntare i piedi sull'asfalto per rimetterlo dritto.
«Shebo? (dove?)» Chiese Akràv subito dopo e lei, quasi colta di sorpresa, come se non si aspettasse tale ingenuità da lui, rispose: «Mishelanu melekhe (dal nostro Re).»

L'uomo sgranò gli occhi e ad Alex non servì altro per capire ciò che gli stava passando per la mente. Sì, forse la sua era la decisione più sciocca da prendere in un momento del genere, ma che alternative avevano?
«Taaminn li (fidati di me), akh» lo supplicò: «bevaqashah (ti prego).»
«Sai in che guaio ci stai cacciando? A quali rischi lo stai esponendo?» Con un gesto brusco, Zenas si liberò dalla mano della sorella. Fu come ricevere uno schiaffo per Z'èv, eppure non vacillò.
Non avevano scelta e, soprattutto, dovevano mettere in guardia Levi.

«E se fossero anche sulle loro tracce?» ancora una volta strinse le dita sulla giacca di lui, strattonandolo come una bambina implorante: «Dobbiamo metterli in guardia e cercare di sistemarti, altrimenti-»
«Potremmo portarli dritti da ciò che cercano!» Quasi urlò, facendola irrigidire.
Sì, anche quella era un'opzione plausibile, lo sapeva anche lei, peccato che non riuscisse a farsi venire  in mente altro. Non avevano un posto dove rifugiarsi, alleati a cui chiedere aiuto. Non avevano nulla se non la Prima Chimera e un Hagufah incapace di utilizzare il proprio potere o semplicemente ricordarsi delle sue vite passate. Forse, riunendosi a loro però, avrebbero potuto partorire un'idea abbastanza solida da permettere a tutti di uscirne illesi - o quasi, pensò abbassando gli occhi sulla gamba del fratello.

«Può darsi» ammise: «ma preferisco essere con loro se quei pazzi dovessero trovarli, quindi...» si umettò le labbra, ancora sporche del sangue altrui: «ti prego, torniamo da Noah e-e... parliamo con Levi. Lui saprà che fare.»
«E' una follia, te ne rendi conto?»
«Come se non ne avessimo mai compiute, akh!»
Provò a sorridere, cercando di persuadere il suo lato più tenero - e, in qualche strano modo, ci riuscì.
«Okay, ma appena avverti qualcosa che non va mi lasci indietro, chiaro? Preferisco morire da solo che condannarvi tutti e tre.»
E, seppur per nulla convinta, Alexandria annuì.

 

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Capitolo 39
*** - Capitolo ventitreesimo - Parte Seconda: Un corpo troppo umano ***




"Yeah, I come alive, I'll survive, take on anything
So paint a target on my back let 'em come for me
I don't fall, don't quit, don't ever sleep
'Cause, I'm on another level that you'll never reach"

- I prevail, Bow Down


Muoversi con il braccio di Zenas intorno alle spalle era difficoltoso, soprattutto in quelle condizioni. Il suo peso la stava schiacciando insistentemente a terra, mentre la gamba malconcia tentava di farli inciampare entrambi ad ogni tentativo di accelerazione - non a caso si stavano muovendo lenti. Troppo.
Alexandria poteva sentire il proprio cuore battere all'impazzata e farle male, ma non avrebbe saputo decretarne con certezza il motivo. Era stanca, ovvio, stava facendo uno sforzo incredibile a trasportare il fratello dopo lo scontro con gli alchimisti e la mutazione, ma oltre a quello c'era anche la paura. E se qualcuno li avesse visti? Erano conciati da far spavento. I visi tumefatti, gli indumenti lisi, la pelle imbrattata di sangue; parevano essere stati vittime del peggiore degli incidenti; ma più degli umani veri e propri Alex era intimorita da altro, o meglio, il Cultus. Potevano ancora rintracciarli, catturarli, rinchiuderli e seviziarli se non si fossero tolti la vita prima, ma in quelle condizioni non era certa ci sarebbero riusciti. E ciò la faceva sentire in gabbia.
Sapeva senza dover avere alcuna conferma che Zenas non avrebbe avuto la forza per iniettarle il suo veleno e, men che meno, che lei avrebbe avuto le palle di recidere la giugulare del fratello. Erano entrambi incredibilmente deboli e tutto per colpa di un'unica persona: Noah. Se quello stupido Hagufah avesse saputo come usare l'Ars, se avesse mantenuto la presa sui ricordi della sua anima millenaria forse non sarebbero stati così fragili. Invece no; aveva perso ogni cosa, dalla sua memoria alla capacità di mantenerli in vita. E se avesse potuto Z'év lo avrebbe maledetto per aver compiuto una simile, riprovevole azione. Possibile che Salomone fosse stato così ingenuo? Possibile che non avesse messo in conto nessuna conseguenza? O forse lo aveva fatto volontariamente?
A quel pensiero il cuore le si strinse, aumentando il dolore che sentiva e facendola inciampare sui suoi stessi piedi - e se non fosse stato per la prontezza di Akràv sarebbero ruzzolati a terra. Con il braccio teso e il palmo premuto contro il muro di un edificio, l'uomo sorresse entrambi, rivolgendole un sorriso che Alexandria in quel momento non riuscì a trovare davvero rassicurante.
«Con calma, akhòt.»
Si morse il labbro, allontanando lo sguardo dal viso di Zenas. Avrebbe voluto dirgli che di motivi per restare tranquilli ce n'erano davvero pochi, che avrebbero fatto meglio a trovare un piano di riserva, eppure tacque, conscia di quanto quei pensieri, probabilmente, stessero facendo capolino anche nella sua mente.

Un piede davanti l'altro si rimisero in moto, stando attenti a qualsiasi rumore o sensazione i loro corpi riuscissero a percepire.
Quando passi insoliti si facevano vicini, Alex si lasciava premere dal fratello contro qualunque edificio avessero accanto. Permetteva alle mani e alle braccia ferite di Zenas di nascondersi sotto ai suoi vestiti, sfiorandole la pelle, così come alle sue labbra di posarsi all'angolo della propria bocca. Celavo il viso di uno a ridosso dell'altro, mentre tra le ciocche di capelli scrutavano i passanti per essere certi di non correre alcun pericolo e, poi, guardinghi, riprendevano il cammino. Mutamente ringraziò più volte i lampioni arancioni, tremolanti e le ombre della sera, la stanchezza, le droghe o l'alcol che gli umani che incrociavano il loro cammino avevano ingerito perché, a differenza del passato, passare inosservati sarebbe stato molto più complicato in una situazione del genere. In silenzio si mossero per le strade senza sapere quanto mancasse alla meta, orientandosi a tentoni in una città che in quelle poche settimane le parve di non aver studiato a sufficienza e più volte, arrivata di fronte a un incrocio, si era chiesta dove andare. Destra? O forse sinistra? E se fossero andati dritti sarebbero comunque stati in grado di ritrovare la strada?
Per fortuna, dove poteva, Zenas aiutava con il suo senso dell'orientamento e, falcata dopo falcata, si ritrovarono a scorgere vie quasi familiari.
Ci volle più di mezz'ora prima che ad Alexandria fosse possibile dire "manca poco", anche se quel "poco" era relativo; in quanto distanza non ne restava molta tra loro e casa di Noah, ma in quelle condizioni il tempo di percorrenza si sarebbe potuto dilatare senza freni. Con suo fratello in uno stato migliore forse quel "poco" sarebbe stato una tempistica rassicurante, reale, ma sfortunatamente non era così e il paio di chilometri che mancavano all'arrivo le parvero estenderei davanti a loro come oceani interi. Quasi le venne la nausea a pensarci.

«Possiamo farcela» sentenziò dopo qualche istante di riflessione, cercando di convincersi - peccato che, in tutta onestà, Alex non si sentiva più sicura di nulla. Da quando Salomone era sparito, e soprattutto ora che c'era Noah al suo posto, l'unica certezza che aveva era proprio l'incertezza. Sarebbe arrivati a destinazione? Probabilmente sì. Zenas avrebbe ricevuto le giuste cure? Forse no. Sarebbero riusciti a fuggire tutti e quattro da Vienna e il Cultus? Difficile a dirsi. Molto.

Akràv mosse una gamba. Il suo passo battè pesantemente sull'asfalto e Z'év si ritrovò nuovamente con la mente sul presente.
Nessuna esitazione.
Stringendo i denti riprese a camminare, costringendosi a non pensare ad altro se non la loro destinazione.

 


 

 

Sentiva l'aria frizzante dell'autunno pizzicargli le guance, ma anche il calore sempre più intenso del corpo di Alexandria contro il proprio. Di certo stava sudando, pensò, perché nonostante la natura alterata della sorella un soggetto della sua stazza era difficile da trascinarsi dietro, soprattutto dopo aver speso tante energie con gli alchimisti del Cultus.
Aveva provato più volte ad agevolarle il lavoro, ma la stanchezza e le condizioni della gamba non avevano fatto altro che intralciare quella brutta versione di una fuga; quindi, tutto ciò che era riuscito a fare per essere d'aiuto, era stato fingere di pomiciare con lei per nascondere agli occhi dei passanti le chiazze di sangue che dal mento le scendevano fino alle cosce. Z'èv sembrava essere uscita dal set di un film splatter, bisognava ammetterlo, e lui in un certo senso non era da meno. Chiunque li avrebbe notati se non fossero stati attenti - e così avevano cercato d'essere. Sicuramente qualche occhio più attento aveva notato parte delle loro ferite mentre si strusciavano l'un l'altra, ma il pudore e l'imbarazzo dovevano aver convinto gli ignari spettatori a non indagare oltre, permettendo loro di arrancare lungo le straße della città. Eppure Zenas non era soddisfatto. Sentiva di non star contribuendo come voluto. E Alexandria era gracile, sfiancata... come riuscisse a procedere senza cedere era per lui qualcosa di incomprensibile.
La Contessa Varàdi, forse più di lui, soffriva la mutazione e la mancanza di cure. Il suo corpo, seppur centenario, non era ancora abbastanza temprato, le avrebbe fatto pagare a caro prezzo uno sforzo del genere ed era certo lo sapesse anche lei - nonostante questo però, non sembrava essere intenzionata a fermarsi.
Merda!, imprecò tra sé e sé rimuginando su quei pensieri. Per quale stupido motivo non avevano recuperato un cellulare? Perché la loro lungimiranza si era assopita tanto da fargli commettere un errore così basilare? A quell'ora avrebbero già avvertito Levi, messo in salvo Noah, capito come agire secondo le indicazioni del fratello maggiore. Invece eccoli lì, ad arrancare lungo una via sempre meno trafficata, in un'area residenziale in cui chiunque avrebbe potuto notarli.

«Stai bene?» Domandò d'improvviso, sentendo il fiato corto rendere le parole instabili.
Alex abbozzò un sorriso senza distogliere lo sguardo dalla strada di fronte a loro: «Ci sono state serate migliori, non posso negarlo» provò a sdrammatizzare, ma era ovvio che fosse ben lontana dallo stare bene. Era paonazza, la fronte leggermente imperlata di sudore. A guardarla con attenzione, seppur dalla sua prospettiva, Zenas notò le pupille dilatate, il colore strano delle iridi e poi il modo convulso in cui le piccole narici si allargavano per poi restringersi. Era allo stremo.

«Lasciami qui e vai avanti. Avverti gli altri, i-»
«Togliti dalla testa questa stronzata, akh» sentenziò dura, molto più di quanto si sarebbe aspettato da lei. Fece altri passi, corrugando la fronte per la fatica: «Non ti lascio alla mercé di quei pazzi o di un qualsiasi enoshiy (umano, inteso dalle Chimere come persona comune). Tu non lo hai mai fatto con me.»
Una stretta dolce gli ghermì il cuore, ma allo stesso tempo si sentì in dovere di insistere, proteggerla dal pericolo; non era forse il compito di un fratello maggiore? Ebbene, allora doveva insistere. Che mancassero dieci, cento o mille metri non gli importava, Z'èz doveva correre da Levi e avvertirlo, solo a quel punto avrebbero potuto pensare a lui.
Deglutì, preparandosi ad agire.
Non era certo delle proprie azioni, sotto sotto forse provava anche una sorta di paura. Non aveva alcuna idea di come si sarebbe potuta evolvere quella notte e, viste le premesse, dubitava di potersi in qualche modo tranquillizzare. E se finalmente fosse arrivato il suo momento? Beh, a essere onesto avrebbe preferito avvenisse in modo diverso, altrove, ma avrebbe accettato quell'evenienza se non avesse coinvolto la sua famiglia e il nuovo Hagufah; così provò a scansarsi da Alexandria.

«Stai buono, akh!» la sentì gemere mentre stringeva la presa su di lui: «non è la situazione migliore per fare il bambino.»
«Allora non farlo, akhòt» puntò i piedi, ribellandosi. Anche se malconcio e malfermo la sua stazza si sarebbe bene opposta alla forza della ragazza al suo fianco, l'avrebbe convinta a procedere senza di lui - eppure, mossa da una grinta inaspettata, Alex lo strattonò tanto da smuoverlo, farlo vacillare, avanzare un passo e sentire il bordo del marciapiede minacciare il tallone.

No!, pensò, ma fu troppo tardi. Non aveva visto il pericolo, men che meno era riuscito a prevederlo; così mentre lei barcollava nel tentativo di evitare la catastofe, Akràv perse definitivamente l'equilibrio. Il dolore che ne seguì fu lancinante, sentì la carne lacerarsi di più a causa dell'osso già rotto. Si morse la lingua con talmente tanto vigore che fu certo essere sul punto di mozzarsela e in un pensiero che aveva l'intensità di un grido imprecò e supplicò.
Possibile che riuscisse a provare tutto quel dolore?

 

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Capitolo 40
*** - Capitolo ventiquattresimo - Parte prima: Parti di una medesima anima ***




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"You pull the trigger just for fun
Forgetting I'm a loaded gun
So hate me for the things I've done
And not for what I've now become
"

- Reincarnate, Motionless in White


 

 

Con il corpo allungato sul divano e un libro stretto tra le dita, Noah tentava di distrarre la mente da qualsiasi cosa avesse a che fare con Salomone: dal fatto che probabilmente fossero la stessa persona alle Chimere - eppure ad ogni paragrafo si mordeva il labbro nell'inutile speranza di restare concentrato. Così, all'ennesimo affondo degli incisivi, spostò lo sguardo sull'orologio appeso alla parete della cucina.
Le due e venticinque.
Dove erano finiti Zenas e Alexandria? E perché Levi sembrava non interessarsi in alcun modo alla loro assenza?
I suoi occhi passarono dalle lancette al profilo aguzzo dell'uomo. La luce fioca della lampada accanto alla libreria metteva in risalto il lieve strato di sudore che gli imperlava la fronte e inumidiva il braccio che poggiava a terra, intento a piegarsi ogni manciata di secondi e scandendo la quarta serie di flessioni a cui si stava dedicando.
Aveva i capelli scompigliati, tirati indietro in chissà quale momento degli allenamenti, quando ormai le sue parole avevano smesso di riempire l'aria lasciandogli modo di evitare il discorso su di sé, il suo hagufah e tutte quelle novità che aveva cercato di comprendere e poi ignorare. Lo osservò attentamente, perdendosi in ogni dettaglio come se non lo avesse mai visto prima.
Aveva ciglia lunghe che incorniciavano iridi di un verde che a tratti pareva oro, il naso dritto e le labbra ben proporzionate. Gli zigomi alti davano al suo volto un taglio duro, maturo che tentava di essere smorzato dalla rasatura perfetta della barba. Il pomo d'adamo si muoveva lungo il collo come il pendolo di una campana e i suoi muscoli - tutti - si tendevano a ogni nuova risalita. Li vedeva sotto la pelle nuda e riusciva a immaginarli oltre gli indumenti, quasi come uno scultore li avesse modellati lui. Era statuario senza apparire eccessivo e, certamente, molto più guizzante di quanto ci si sarebbe potuti aspettare.
«Non sei preoccupato?» domandò Noah d'improvviso, soffermandosi sull'espressione concentrata di lui.
Le labbra di Levi si tesero, incurvandosi appena: «Per cosa?» chiese con fare quasi canzonatorio, come se il suo quesito in qualche modo lo divertisse.
L'Hagufah strizzò gli occhi, confuso: non era ovvio a cosa si stesse riferendo?
«Per Zenas e Alexandria.»
«Tu lo sei?»
Si umettò le labbra secche. Lo era? Ad essere onesto, sì. Era già da qualche pagina, persino prima di guardare l'orologio, che una certa irrequietezza si era fatta strada in lui. Una sensazione lieve, certo, ma costante.
«Sono usciti ore fa...»
Nakhaš si fermò. Con il braccio teso a sorreggere tutto il resto del corpo voltò il viso verso di lui, un'espressione bonaria a contrastare i lineamenti duri e seducenti. Noah non faticò a immaginare quanti cuori, nei secoli, quel tizio doveva aver ghermito.

«Non farlo, Noah.»
«Cosa?»
«Preoccuparti troppo per loro.» Il suo mento tornò quasi a sfiorare il pavimento: «Zenas cammina su questa terra da quando Omero ha scritto l'Odissea, Alexandria invece è più vecchia dei tuoi ultimi quattro corpi» gli fece notare, come se quella fosse un'attenuante. Eppure lui non ci riusciva. Più la sua mente tornava all'orario e al modo in cui si erano lasciati, più l'irrequietezza si agitava, aizzando il suo sesto senso.

«Siete immortali, non invincibili.»
A quelle parole il braccio di Levi ebbe un fremito. Lo vide cedere, poi notò la contrazione lieve della mascella.
«Già, ma sappiamo badare a noi stessi.»
«Questo lo so, ma...» affondò i denti nel labbro inferiore, distogliendo lo sguardo.
«Arriveranno, fidati» e così dicendo Nakhaš terminò il proprio allenamento, rimettendosi dritto. Con l'orlo della maglia si asciugò la fronte e il volto, guardò l'orologio a sua volta e infine sospirò: «Vado a farmi una doccia, okay? Non ti arrovellare troppo su quei due. A Zenas piace bere e Alex perde la cognizione del tempo quando è in sua compagnia.» Noah annuì. Anche se non si sentiva sereno provò comunque a riaprire il libro e scorrere qualche altra riga, ma appena i passi di Levi smisero di risuonare per la stanza e la porta del bagno si chiuse, lui fece altrettanto col romanzo che teneva tra le mani. Qualcosa non andava. Era certo che Salomone lo stesse mettendo in guardia - così si alzò e in punta di piedi si avvicinò alla scarpiera: forse una boccata d'aria gli avrebbe fatto bene. Afferrò le converse usurate, le infilò veloce e si spostò verso l'ingresso: «Esco un attimo, ci vediamo quando finisci» e senza dar modo a Levi di fermarlo o semplicemente rispondere sgattaiolò fuori.
Svelto scese la rampa di scale che lo separava dal portone, gettandosi fuori come un fuggitivo a cui viene ridata la libertà. Sentì la brezza serale accarezzargli le guance e scompigliargli i capelli, riempirgli le narici e dargli un lieve, anzi, lievissimo senso di leggerezza.

Magari gli serviva veramente una passeggiata, forse Nakhaš aveva ragione a dirgli che le sue erano paranoie inutili...

Le gambe presero a muoversi da sole. Non ragionò né sul percorso da fare né sulla meta da raggiungere, semplicemente iniziò a camminare. Un piede dopo l'altro si inoltrò tra le ombre notturne, avanzò lungo le strade della periferia Viennese e, d'improvviso, la casa alle sue spalle sparì dietro ad altre.
L'urgenza di andare lontano, di muoversi, lo stava spingendo inconsciamente verso qualcosa d'incerto e quando infine attraversando l'ennesimo passaggio pedonale, girò un poco lo sguardo, capì. O meglio, ci mise qualche istante a realizzare cosa avesse di fronte, ma quando nella mente i pezzi si andarono a unire, completando il puzzle, la prima cosa che fece fu portarsi la mano alla bocca per trattenere un conato. Il calore del vomito invase la gola, il sapore acido gli pizzicò la lingua, eppure dalle labbra non uscì più di qualche rantolo.

Sangue, si disse. Sangue ovunque, pensò. Carne lacerata, aperta, corpi lividi.
Saká̇náh (pericolo), sussurrò poi una voce nella sua mente, stringendogli con più vigore lo stomaco.

Che diamine era successo?

 

Zenas intravide un'ombra. Aveva gli occhi stanchi per la fatica, il corpo indolenzito e la mente persa sulla ferita che Alex faticava a toccare forse per paura di peggiorare la situazione, così non seppe riconoscere più dei contorni sfocati della figura alle spalle della sorella. Si limitò a fissarla per qualche istante con il cuore bloccato in gola, scongiurando in tutte le lingue che conosceva il peggio. E se fosse stato un membro del Cultus? Un enoshiy (umano)? In che modo avrebbe affrontato la situazione?

«Al posto di cacarti sotto vieni qui, Noah» la voce di Z'èv spezzò la sua ansia. Così, spostando lo sguardo e riuscendo almeno a mettere a fuoco lei, Zenas si accorse che da sopra la spalla sua sorella stava fissando nel punto in cui si trovava l'ombra. Nemmeno le chiese come avesse fatto a riconoscerlo, sapeva che doveva averlo sentito in qualche modo e, ovviamente, fu grato di sapere che fosse lui e non qualsiasi altra persona - amica o nemica.
In un moto di sollievo portò la testa all'indietro e nel farlo quasi si perse le ultime parole della Contessina: «Bevaqashah, Shelemah hamelekhe... (ti prego, Salomone)» seguito subito da un rumore sempre più intenso di passi.

Akràv sorrise. Nel dolore e nonostante la gamba completamente deturpata, mezzo sdraiato sull'asfalto, non riuscì a capire da cosa fosse più intenerito: se dalla richiesta di sua sorella, dal modo in cui si era rivolta a Noah, da lui che era corso in loro soccorso oppure dal fatto che, infine, Levi aveva ragione. Quel tizio era davvero il Re.

Sentendo la sua presenza ormai a ridosso della propria, l'uomo tornò a fissare davanti a sè.

«Ch-che d-diamine è-» lo vide trattenere un conato, come chiunque fronteggiasse per la prima volta uno spettacolo raccapricciante come quello.
Alex ringhiò: «Se vomiti ti ammazzo, hai capito?» Aveva gli occhi lucidi, lo si notava persino da lì: «Dobbiamo portarlo in salvo, c-ci stanno cercando e... » finì la frase deglutendo con forza, quasi volesse mandar giù le parole. Noah a quel punto corrugò le sopracciglia. Non chiese chi fosse alle loro calcagna, men che meno sul momento volle altre spiegazioni. La sua espressione cambiò e con una risolutezza insolita annuì, quasi avesse capito tutto: «Okay. Okay, ci penso io adesso.» 
«Come?» Gli occhi di Z'èv lo seguirono mentre si alzava da terra guardandosi intorno con circospezione. La sua confusione era ancor più evidente delle lacrime che stava cercando di trattenere.
«Aiutami a tirarlo in piedi» le ordinò l'Hagufah prima di rivolgersi a lui: «L'altra gamba come è messa?» Zenas sorrise scrollando il capo, poi tese un braccio nella sua direzione come se non fosse ridotto uno schifo. C'era qualcosa di drammaticamente divertente in quella situazione, anche se c'erano in gioco le loro vite.
La stretta di Noah lo colse alla sprovvista, così come la forza con cui lo sollevò da terra. Con un unico movimento si mise il suo braccio intorno alle spalle e con l'altro gli cinse la vita: «Z'èv, tafus oto (afferralo)» le ordinò con un tono tanto secco e autoritario da farlo sobbalzare come un animale colto alla sprovvista.
Aveva sentito bene? Akràv gli lanciò un'occhiata confusa, incerto sull'esattezza di ciò che gli era parso di udire. Ebraico, si disse, ancora. I lati della sua bocca si alzarono maggiormente, mentre un calore dolce e rassicurante gli saliva dalle viscere verso il cuore - e nel volgere il capo verso di lui, ora così vicini da notare ogni singolo dettaglio del suo viso, si accorse di come lo sguardo del ragazzo fosse deciso, intenso, vivo...

Shelemah hamelekhe, pensò, rievocando le parole della sorella poco prima. E più tempo passava, più la convinzione che Salomone sarebbe presto tornato si faceva concreta, tanto da rendere la sua ferita un neo in tutta quella situazione. Sì, lo avrebbe sistemato, ne era certo. Una volta in salvo Noah avrebbe dimostrato di essere un Hagufah degno di quel ruolo - dovevano solo raggiungere l'appartamento prima che il Cultus potesse individuarli...
 

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Capitolo 41
*** - Capitolo ventiquattresimo - Parte seconda: Parti di una medesima anima ***







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...ma raggiungere l'appartamento fu impresa meno facile di quello che si sarebbero potuti aspettare. Zenas arrancava, a ogni passo persino la sua gamba buona sembrava cedere - e Alex dava l'idea di essere altrettanto provata. La sua fronte brillava sotto i timidi raggi dei lampioni, la sua bocca stava aperta come quella di una bestia dopo una lunga corsa e fin troppo spesso strizzava gli occhi per riuscire a mettere a fuoco ciò che aveva di fronte. Era impossibile negare che avessero bisogno delle cure di Salomone, ma sfortunatamente dovevano sopportare ancora gli ultimi metri che li separavano dall'appartamento. Era lì, giusto a qualche falcata. In meno di una manciata di minuti avrebbero oltrepassato la soglia dell'edificio e a quel punto... beh, a quel punto ci sarebbero state tre rampe di scale ad attenderli. E di fronte a quella prospettiva Akràv si sentì scoraggiare. In altre circostanze sarebbe stato una sciocchezza fare quella strada, lo sapeva, ma d'improvviso ciò che li aspettava aveva più l'aspetto di una sfida. Dannazione, imprecò tra sé e sé, sfiduciato innanzi a tutto ciò, ma poi un pensiero gli solleticò la mente: Levi era in casa, avrebbe potuto correre da loro liberando Z'èv dal gravoso compito di trascinarlo su per i gradini. Lui e Noah certamente avrebbero fatto meno fatica, sarebbero stati più veloci. Un colosso del suo calibro lo avrebbero issato quasi come un fuscello e una volta nell'appartamento, al sicuro, si sarebbero potuti riposare.

«Lamarebeh hamazal atah bileti enoshiyim, bileti nitanim la'atsirah, o sheani to'eh? (fortunatamente siete inumani e invincibili, o mi sbaglio?)» in un fiato che pareva una sorta di risata spezzata, la voce di Noah interruppe i suoi pensieri e quelli della sorella, che sussultò accanto a lui presa alla medesima sprovvista. L'Hagufah non aveva usato il suo solito tono, piuttosto quello di un sé passato, lontano, che nemmeno Zenas riusciva a ricordare con nitidezza; persino la sua lingua si era prostrata a un alfabeto diverso, così familiare e al contempo inusuale da lasciarlo perplesso - e si chiese ancora chi ci fosse al loro fianco in quel momento, se Noah Dietrich o il Re d'Israele. Probabilmente se fosse stato più lucido, come era Alexandria, glielo avrebbe chiesto insieme a decine di altre cose, ma invece tacque, soffocando a propria volta l'ilarità.
«Ha-hayita ts-tsarikhe lekhashuv 'al z-eh lifnê (dovevi pensarci prima)» sputò tra un affanno e l'altro, parlando quasi con un vecchio amico.

«Khosser shiqul da'att shel tse'irim (errori di gioventù)» un altro ghigno, stavolta più evidente, ovvio, tanto che il tempo parve riavvolgersi su se stesso, portarli indietro fino a epoche dimenticate, ingiallite insieme alle pagine dei libri di storia. Akràv sentì il cuore perdere un colpo, poi stringersi e far esplodere un'emozione che gli inumidì gli occhi. I piedi si scontrarono, arrancò ancora e obbligò i suoi compagni a rallentare, ma dannazione! Quel bastardo di Levi alla fine aveva ragione.

«Veyesh lenatush otanu? (e abbandonarci?)» la voce di Alexandria sembrò il fruscio del vento. Se non l'avesse avuta tanto vicina probabilmente nemmeno si sarebbe accorto di quella domanda così pesante e al contempo leggera. La stretta nel petto aumentò e ciò che stava provando cambiò, si attenuò fino a diventare altro.
Malinconia.
Amarezza.
Nostalgia.
Forse pure una punta di dolore.
Alla fine la sua lucidità aveva avuto la meglio.

L'Hagufah si bagnò le labbra, il sorriso ancora appollaiato lì, imperturbabile quasi non avesse udito nulla. L'arroganza sul suo viso, quella vena maliziosa non ebbe alcun tipo di cedimento - perché di certo il Re sapeva che quella domanda sarebbe arrivata e probabilmente si era persino preparato in tutti quegli anni. I suoi occhi non scesero mai su quelli della Contessa, rimasero fissi davanti a loro e quando aprì bocca Zenas temette di udire la sua risposta. Chissà cosa avrebbe detto, come si sarebbe giustificato di fronte a un atto tanto egoista. E se ciò che li aspettava non fosse stato di loro gradimento? Non volle pensarci, Akràv provò a focalizzarsi su altro, sulla sua instabilità, sul male che il suo corpo riusciva a percepire.

«Tareu ett, haakh hagadol hu kann (guardate, il fratellone è qui)» e d'improvviso il suo sguardo cambiò. In un attimo, esattamente come poco prima, Noah tornò a essere se stesso e quando Levi scansò Alex per prendere il suo posto sotto la spalla del fratello, di Salomone parve non esservi più alcuna traccia. Niente più espressioni tracotanti e beffarde, nessuna risposta in arrivo.
«Ehi!» Stavolta la voce di Alexandria raggiunse le orecchie di tutti, si levò forte sopra alle imprecazioni di Nakhaš facendolo voltare appena, furioso.
«"Ehi" un cazzo, Z'év!» sibilò, i denti stretti e con grande probabilità il viso già sul punto di mutare, riempiendosi di scaglie. Zenas non faticava a immaginarsi la sua espressione, i pensieri che stavano attraversando la mente del fratello: erano ancora in pericolo, alla mercé di qualsiasi cittadino di Vienna e, soprattutto, degli adepti del Cultus; la priorità era nascondersi. «Vai di sopra e recupera degli asciugamani puliti, muoviti.» L'autorevolezza nella sua voce non accettava né esitazioni né insubordinazioni di alcun genere. Per qualche istante poi vi fu silenzio. Loro sorella probabilmente tremò, cercando di contenere rabbia e chissà quale altro tipo di emozioni. Lo intuì dal modo in cui le dita di Levi si strinsero con maggior forza intorno al suo braccio, quasi stesse cercando di mantenere il ruolo di capo, di Generale per i soldati del Re. Solo quando Alex li oltrepassò affrettandosi sulle scale sentì la pressione scemare e il corpo di Nakhaš prepararsi alla salita.
«Mi aspetto un resoconto completo da tutti voi appena ti avrò messo a posto» sibilò ancora. E sentendosi rincuorato, Zenas abbozzò un sorriso: «Lapequdott shelekha, akh (ai tuoi ordini, fratello).»

 

Con gran poca premura, Nakhaš lasciò andare la presa su Akràv. Il corpo della seconda Chimera si accasciò sul divano, stremato dopo qualsiasi cosa fosse successa in quelle poche ore che lui e Alexandria avevano passato lontani dall'appartamento. Era ovvio che ci fosse stato uno scontro con gli adepti del Cultus, ma non avrebbe saputo dire quanto bene, o male, fosse andato.

«Alex, socchiudi le tende» ordinò senza voltarsi, infuriato per ragioni che nemmeno lui avrebbe ben saputo definire: «Non troppo, chiaro? Deve sembrare che chi abita qui voglia solo un po' di privacy, non che stia cercando di nascondere qualcosa. Poi vai in bagno e prendimi degli asciugamani.» Sulle spalle nude Levi non sentiva il bruciore del suo sguardo, il fastidio che le aveva letto in viso poco prima, ma nell'aria avvertì la vibrazione dei suoi passi decisi, rabbiosi. Accolse quell'astio come un pugno scagliato addosso, poi proseguì: «Tu,» stavolta si rivolse a Noah, «metti qualcosa alla radio e portami dell'acqua calda.»
«C-come?» L'Hagufah corrugò le sopracciglia.
«Mi serve dell'acqua calda per togliere il sangue rappreso, poi se ci sono delle bende» si passò una mano tra i capelli scompigliati e ancora umidi dalla doccia: «Poi metti qualcosa dei Twisted Sister... "Leader of the pack" credo possa andare.»
L'altro mosse un passo, poi si fermò. Nuovamente guardò con confusione la Chimera. Aprì bocca.
«Serve per coprire le nostre voci» si affrettò a dire, come se già sapesse cosa Noah volesse chiedergli: «e perché ho bisogno di concentrazione.»
Zenas sotto di lui rise. Con una mano sporca di sangue si coprì gli occhi, lasciando segni rossi sulle tempie: «Theós! (Dio!) Gli anni passano ma i tuoi gusti restano discutibili» scherzò - e quantomeno, se aveva ancora voglia di fare il simpatico, voleva dire che tanto male non era messo. Anche Levi a quel punto si concesse un sorriso. A metà tra il rincuorato e il nervoso si concesse poi d'osservare finalmente lo sbrego da cui lo stinco del fratello fuoriusciva. La pelle lacerata lasciava intravedere parti di osso e persino un occhio meno esperto del suo avrebbe decretato che si trattava di una gran bella frattura - ciò che non avrebbe saputo dire, a differenza sua, è che persino se avessero avuto delle ɛvɛn non si sarebbe sistemata tanto facilmente. Una lunga serie di imprecazioni fece capolino tra i suoi pensieri.
Solo Salomone, il vero Salomone, sarebbe riuscito a guarire quella ferita in un lasso di tempo accettabile per le loro esigenze.
Con la coda dell'occhio Nakhaš cercò Noah. Lo vide intento a riempire d'acqua bollente un pentolino, le bende già appoggiate sul tavolo accanto alla cucina, pronte per l'uso. Se solo l'anima del Re si fosse risvegliata... se solo quel corpo avesse ricordato... D'improvviso Levi grugnì, chinandosi all'altezza della gamba di Zenas e strappando con un unico movimento il jeans insanguinato. Alexandria arrivò poco dopo, gli asciugamani stretti tra le mani e il viso contratto in una smorfia preoccupata.
Senza domandargli nulla gli mise in grembo uno dei teli, stando attenta a non far sfiorare le loro pelli: «Puoi sistemarla?»
Lui si morse un lembo della lingua biforcuta, poi cautamente si sedette a terra e prese la gamba del fratello. Questi non emise alcun rumore, semplicemente si concesse una smorfia di fastidio che tradì il vago tentativo di nascondere il dolore. Doveva essere una sensazione lieve, vista la natura di Akràv, ma non ignorabile - e come biasimarlo? Un umano qualsiasi avrebbe gridato e pianto, si sarebbe dimenato come un ossesso per il male a cui stava facendo fronte, quindi anche una Chimera non ne sarebbe stata immune.
Levi esaminò con più cura la ferita. Ruotò la gamba quanto più possibile per vedere se vi fossero altre lacerazioni, studiò l'angolatura dell'osso e valutò con quanta pressione spingerlo in sede. 
«Dovresti già conoscere la risposta» sussurrò, troppo concentrato per concederle una qualsivoglia spiegazione. Alex a quel punto si avvicinò, forse per capire meglio cosa avesse intenzione di fare. Una ciocca le scivolò davanti al viso, sfiorandogli la spalla e facendolo rabbrividire.
«Seriamente, akh
Nakhaš socchiuse gli occhi, inspirando il profumo di lei e quello del sangue. Li conosceva entrambi così bene...
 «Rimettere a posto l'osso è semplice, così come ricucirgli la carne,» le prime note del brano che aveva richiesto si mossero lungo le pareti del salotto, avvolgendoli: «ma non so quanto ci vorrà prima che possa camminare normalmente... senza ɛvɛn sarà un processo lungo, lo sai anche tu.»
Zenas sbuffò. «Sono su questa Terra da quando Troia è caduta, non sarà una gamba rotta a uccidermi, akh
«Non è questo il punto.»
A quel punto Akràv si tirò su. Il piede andò a premersi sulla bocca dello stomaco di Levi e un rivolo di sangue fresco scivolò a lato della ferita: «Il punto è se sarò in grado o meno di camminare e correre, mi è chiaro» sputò, infastidito.
Ancora una volta i denti di Levi si premettero su una delle punte della lingua. Già, la sua preoccupazione più grande era esattamente quella. Appena lo aveva visto, ferito e sorretto da Alexandria e Noah, il suo pensiero era andato a parare lì. Se il Cultus era riuscito a scovarli significava che dovevano fuggire, allontanarsi da Vienna il prima possibile - e questo voleva anche dire: nascondersi, correre, combattere. In quelle condizioni suo fratello ci sarebbe riuscito? Quasi certamente, no.
«Senza l'Ars potrebbero volerci settimane.»
«E allora voi andrete avanti senz-» Noah gli spuntò accanto. Con il pentolino in una mano e la bende nell'altra corrugò le sopracciglia, intromettendosi.
«Di cosa diavolo state parlando?» Sembrava inorridito, come se in qualche modo sapesse cosa tutto ciò stesse a significare. «V-voi... voi non starete pensando di-»
«Calmati, moccioso» il tono deciso di Z'év arrivò prima che Levi potesse anche solo formulare un pensiero di senso compiuto, mettendo a tacere parole che avrebbero infastidito chiunque, lì dentro. «Stiamo solo valutando la situazione» aggiunse poi, allontanandosi dalla sua spalla: «Senza un alchimista che possa supportarci siamo limitati.» Di fronte a quella considerazione fu semplice per Nakhaš vedere l'ombra di colpevolezza ghermire il ragazzo. Capiva anche lui a chi Alexandria si stava riferendo, dopotutto non esistevano altri alchimisti al pari di Salomone - e l'Hagufah in fin dei conti era ciò che rimaneva del Re, il suo lascito, l'unico a poter curare le Chimere; sarebbe stato compito suo rimediare a quel casino, lenire il dolore e sanare le ferite, se solo non fosse stato in quelle condizioni.
«Io... potrei provarci, potrei...» le parole che gli uscirono di bocca furono poco più di un sussurro, una proposta di cui nemmeno Noah era certo visto ciò che era accaduto con Alex ore prima. Levi avvertì la necessità di alleviare la coscienza del suo Signore, di liberarlo dal peso di quel compito gravoso a cui era ovvio non potesse far fronte. Così prese un respiro profondo, fece correre i palmi delle mani lungo la gamba di Zenas, tra i peli incollati alla carne e il sangue in parte rappreso. Cercò le aree più gonfie e, senza alcun preavviso, diede un colpo.

Crack!

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Capitolo 42
*** - Capitolo Venticinquesimo - Parte Prima: Un legame che trascende la paura ***





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"I'm going away for a while
But I'll be back, don't try and follow me
'Cause I'll return as soon as possible
See, I'm trying to find my place
But it might be not here where I feel safe"

-Misguided Ghost, Paramore


 

 

Noah emise un urletto e Zenas in risposta strinse i denti. Per un attimo temette di sentire amplificarsi il dolore, di percepirlo aumentare fino a farlo soffrire veramente, ma così non fu. Grazie al cielo il suo corpo continuava a sostenerlo, a proteggerlo da ciò che avrebbe potuto renderlo enoshiy (umano). Così attese che la voce di Levi desse conferma che quella manovra inaspettata avesse messo a posto l'osso.
«Passami l'asciugamano» gli sentì ordinare alla sorella, seguito poi dal suono rassicurante dell'acqua, delle gocce che ricadevano nel pentolino come pioggia in una pozzanghera. Il calore della stoffa bagnata arrivò subito dopo, facendogli tirare un sospiro di sollievo. Non si era accorto di aver accumulato tanta tensione e la calma nel tono del fratello gli confermò di potersela finalmente poteva scrollare di dosso. Come ingranaggi i suoi muscoli sembrarono far uscire la pressione accumulata in soffi di vapore bollente. Nakhaš nel mentre tamponava con cura dal centro della ferita verso l'esterno, portando via sporco e sangue. Ripeté quella sequenza di movimenti un paio di volte prima di chiedere ad Alex un ago e del filo e a Noah il disinfettante e le bende che ancora teneva in mano come giocoliere improvvisato in una sala operatoria ben poco adatta.
I due si mossero svelti, ubbidendo silenziosi al volere del Generale più antico del mondo. Zenas non poteva vederlo, ma riusciva a immaginarselo mentre, con il dorso della mano, spingeva via dal viso le ciocche ribelli.
«Ora, di grazia, mi spiegate cosa è successo?» Aveva un tono pacato, della frustrazione di poco prima sembrava non essere rimasto nulla - ma Levi sapeva dissimulare bene, il suo era un talento innato; così cautamente gli versò sulla ferita un po' di disinfettante che colò lungo la pelle. Nessuno aprì bocca. Solo il rumore gracchiante della rotella dell'accendino si fece strada oltre la musica. Sicuramente era intento a scaldare l'ago, a disinfettarlo per suturare i lembi di carne recisi; così Akràv dovette concentrarsi un attimo per riuscire a trasformare la sua pelle  in quella di una persona qualsiasi e quando la punta provò a perforarla sentì un sibilo simile a un'imprecazione sfuggire dalle labbra del fratello.
Solo quando ebbe finito, passando al bendaggio, Alexandria si concesse il lusso d'accasciarsi accanto a Zenas. La vibrazione dei suoi movimenti fu inconfondibile. Con un panno umido prese ad accarezzargli il viso, pulendolo da qualsiasi segno fosse rimasto dopo la lotta. Il suo tocco era leggero, cauto ogni volta che tornava a tamponare. Lo stava sfiorando quasi come se potesse romperlo - che sciocca, pensò lui, di quali conseguenze aveva paura?
«Ci hanno trovati» la udì sussurrare, soffermandosi con più attenzione su un punto accanto alla tempia. La sentì premere con veemenza e allora le cinse il polso, allontanandole la mano. Dolcemente fece un sorriso a labbra strette, aprendo appena una palpebra e sbirciando dalle dita con cui si era coperto gli occhi poco prima. La scorse mordersi il labbro inferiore, come se fosse stata scoperta, abbassare lo sguardo e rimettersi seduta in modo quasi composto, arresa.
«Eravamo in un pub, credo ci abbiano visti lì.»
«Credi?» Le domandò Levi con tono deciso. Ora non sembrava più tanto sereno, ma Akràv dubitava che qualcuno, oltre a lui, potesse notarlo.
«Sì, credo.» Vide la sorella alzare appena lo sguardo, fissare la Chimera di fronte a lei e poi tornare all'asciugamano che teneva tra le mani: «Non voglio mentire, okay? Io... non ho percepito il pericolo fino a quando non siamo usciti. Solo a quel punto ho-»
Levi per errore fece un giro di garze troppo stretto, tradendosi. «Già a Venezia ci stavano addosso. Ed è da quando siamo arrivati qui che vi dico di non abbassare la guardia» precisò con durezza, lasciando che denti di Alex premessero maggiormente nella carne; lei però non osò aprir bocca. Era palese che sapesse di aver sbagliato, eppure la sua era stata una singola, misera svista. Già, ma nella loro esistenza anche quelle sciocchezze potevano essere fatali.
«Quanti erano? E vi hanno visti altrove o seguiti in questi giorni? Sapete se ci sono squadre in arrivo o...»
Domande logiche si susseguirono una dietro l'altra finché Zenas, esasperato, si tirò dritto con il busto, liberandosi gli occhi dalla mano e decidendo di usare le ultime energie per prendere attivamente parte a quell'interrogatorio: «No.» Il suo sguardo si incontrò con quello del fratello: «No, non sappiamo nulla.»
«Non vi hanno risposto o non avete chiesto?» In effetti, nella foga dello scontro e della fuga, nella consapevolezza di non essere al pieno delle proprie forze, avevano dimenticato i basilari da seguire in simili situazioni. Avrebbero dovuto persuadere almeno uno di quegli alchimisti, lo avrebbero dovuto mettere in ginocchio e chiedergli tutto ciò che ora Nakhaš stava domandando loro - ma non lo avevano fatto e questo sarebbe potuto diventare, nella giocata del Cultus, un vero scacco alle Chimere.
Il silenzio che seguì fu quindi una risposta più che sufficiente.
«Come immaginavo» Levi scansò la gamba dell'uomo. Aveva le mani e il torso chiazzati qua e là di rosso, il sigillo di Salomone in bella vista insieme ad altre cicatrici  pallide. Se non fosse stato per l'espressione infastidita e il tono con cui ora si stava rivolgendo loro, sarebbe davvero potuto passare  per un medico di guerra.
D'improvviso accanto a loro Noah intervenne: «Quindi adesso che si fa?» Una sorta di amara tenerezza invase Zenas. L'ingenuità del nuovo Hagufah era incredibilmente simile a quella di un bambino. Insegnargli da capo ciò che lui aveva insegnato loro sarebbe stato un lavoro terribilmente lungo.
«Prepariamo i bagagli» rispose Alexandria: «Sperando di averne il tempo...»
Il ragazzo vacillò. La sua postura si fece rigida e al contempo instabile, il suo viso divenne una maschera di dubbi. Sembrava preoccupato. «E dove andrete?»
Tutte e tre le Chimere si ritrovarono a trattenere un sorriso, ma nessuna di loro parve riuscirci del tutto: «Dove andremo» lo corresse Akràv strofinandosi le mani insozzate sui jeans altrettanto sporchi, ottenendo da lui ancor più confusione. Era ovvio che non fosse ancora entrato nell'ottica di essere in pericolo, di dover rinunciare a tutto per tornare a una vita che aveva dimenticato, forse nella speranza di non dover più vivere - purtroppo però, la sua doveva era stata fiducia mal riposta: «Nessuno di noi è al sicuro, qui.»
«Ma stanno cercando voi, giusto?» I suoi occhi grigi si posarono prima su di lui, poi su Alexandria e infine su Levi, dove si soffermò con più insistenza, quasi confidasse nel fatto che la Prima Chimera potesse concedergli una sorta di grazia. Fu tutto inutile. «Io... io ho una vita qui, okay? Ho una famiglia, degli amici, mi sto per laureare e-»
«E noi ti stiamo dando l'opportunità di perderli in un modo ben più clemente di quanto potranno mai fare i membri del Cultus.» Nakhaš si alzò, prese una sigaretta dal pacchetto che teneva in tasca e se la mise tra le labbra violacee. Aveva finito il suo lavoro e ora si stava preparando a procedere con quello successivo. Con le mani insanguinate si tirò indietro i capelli, il costato si tese sotto alla pelle tirando le cicatrici che gli costellavano il torso; ed era innegabile il fatto che Levi rappresentasse ancora l'essenza ultima del guerriero, la musa per qualsiasi scultore volesse dar forma a un Dio greco. Da qualsiasi prospettiva lo si guardasse, qualsiasi gesto potesse compiere in quel momento, si poteva percepire l'essenza occulta, profana e bellica del suo essere, seppur per la maggior parte del tempo apparisse come un beone troppo incline allo spezzar cuori. «Se pensi che noi siamo mostri, fidati, loro possono essere peggio.» Una folata bianca gli uscì al lato della bocca: «Non risparmieranno nessuno pur di arrivare a te, alla tua conoscenza, al potere che nascondi... noi siamo solo il premio di ripiego se paragonati a te.» Zenas vide il fratello avvicinarsi cautamente alla finestra, sbirciare oltre il tessuto leggero delle tende e sfilarsi il filtro dalle labbra, riflettendo. Stava cercando nelle ultime ombre qualche movimento, il presagio del pericolo. «Se resti qui, loro scopriranno chi sei, quali sono i tuoi affetti più cari e li useranno contro di te. E onestamente? Non dubito che possano arrivare a far loro del male se tu ti dovessi opporre.»
Noah rimase immobile, solo le braccia si mossero: «E allora non lo farò! Io... non opporrò resistenza!»
Alex d'improvviso scoppiò, furente. Teneva i denti stretti e le parole le uscirono come un ringhio: «Quindi sei disposto a farci ammazzare?! Dopo quello che abbiamo fatto per-» ma Levi la mise a tacere.
«Quello che abbiamo fatto per lui è passato, akhòt. L'Hagufah non ricorda, non può sapere. Ciò che è successo appartiene a un'altra vita in questo momento.»
Lei provò a insistere: «Però-» stavolta fu Zenas a farla zittire. Allungandosi verso di lei, con gli occhi stanchi e il corpo dolorante, l'uomo le afferrò un braccio. Le sue dita si strinsero su di lei, provando a farle capire che l'unico a dover parlare, ora, era il Generale. Convincere Noah a scegliere loro, ancora, non era compito che li riguardasse.


«Ascoltami, Noah, tu sai cosa vuole il Cultus
Il ragazzo tacque per qualche istante, la fronte corrugata: «Salomone, la sua conoscenza dell'Ars...»
Levi prese un'altra boccata, stringendo le braccia al petto - e Akràv, d'improvviso, si chiese se qualche giorno prima, quando aveva provato a raccontare a Noah della loro storia, avesse omesso la vera ragione per cui quei pazzi stessero dando loro la caccia. Non si era preoccupato di approfondire la questione, dopotutto la conoscevano talmente bene che aveva dato per scontato potesse arrivarci anche lui, eppure dal modo in cui ora l'Hagufah stava rispondendo a Nakhaš gli sorsero dei dubbi a riguardo.
«Sì, ma per quale ragione?»
Noah scosse la testa, abbassando le mani e guardandosi attorno come se potesse trovare la risposta da qualche parte sulle pareti o le assi del pavimento: «Per... il potere...»
«Sì, per il potere.» Levi si scostò appena, forse alla ricerca di un posacenere: «Il potere di diventare immortali, di piegare la vita e la morte sotto il proprio capriccio... ma anche per noi Chimere, ovvio. Per poter resuscitare i morti e trasformarli in abomini, soldati inumani al loro servizio. Instancabili, forti, minacciosi e letali» aggettivi che a dire il vero, quella sera, avevano dimostrato non essere del tutto reali. «Il Cultus Sanguinis è una loggia di fanatici chiamati erroneamente Illuminati, al cui vertice stanno uomini privi di scrupoli, i Magister. Loro sognano di possedere tutto, ma per farlo hanno bisogno di te e di ciò che si cela nell'anima di Salomone.» Fece una pausa, fermandosi a pochi passi dal ragazzo: «E adesso dimmi, pensi di potergli dare tutto quello che desiderano?»
Persino dal divano, dove lui e Alexandria stavano assistendo a quella scena, Zenas poté avvertire la determinazione del fratello, la rabbia che sotto sotto doveva stargli ribollendo nelle vene. La sua autorevolezza alle volte era annichilante, persino un uomo della sua stazza sarebbe riuscito a farsi intimorire da Levi - e Noah, infatti, faticò a sorreggere il suo sguardo.
«Io non...» indurì la mascella, si morse il labbro: «ricordo nulla.»
Nakhaš fece una smorfia infastidita, come se un cadetto avesse appena ammesso le proprie colpe, poi sospirò: «Appunto.» E in un gesto discordante gli afferrò una spalla, quasi a volerlo consolare: «Tu non ricordi nulla e non saranno certo degli estranei a farti tornare la memoria» aggiunse dopo poco, allontanandosi in direzione del lavello. «Fingeranno di esserti amici, poi appena capiranno che per ottenere ciò che vogliono servirà altro tempo inizieranno con le maniere forti. Torture di chissà quale natura. Meno tu gli darai, più loro esigeranno, mostrandoti chi sono realmente.»
«Potreste farlo anche voi.»
D'improvviso Levi scoppiò in una risata: «Certo,» ammise a cuor leggero, come se dirlo non implicasse ledere la fiducia dell'Hagufah «ma ti ricordo che l'ultima volta che la Contessina Alexandria Orsòlya Vàradi qui presente, con il suo dolce temperamento, ha provato a essere violenta con te l'hai quasi ammazzata.» Sotto alla sua stretta, Zenas avvertì la sorella sussultare. «Onestamente, pensi che giochi a nostro favore farti incazzare? Puoi ucciderci semplicemente sfiorandoci, Noah, ma con loro... oh! Con il Cultus e le condizioni in cui sei non hai alcun modo di proteggerti o proteggere quella che ora chiami famiglia.» Akràv non seppe dirsi se il fratello stesse recitando o meno, se la sua fosse una reazione allo stress o altro, ma per un attimo giurò che Levi fosse sul punto di sputare dopo aver pronunciato quella parola.
«E se vengo con voi? Uhm?! Non andranno comunque a cercarli?»
«Potrebbero» forse sentendosi tirare in causa Z'èv s'intromise nel discorso: «ma certamente sarebbe per loro un lavoro più faticoso.» Lenta alzò lo sguardo sul ragazzo, temendo forse di trovare sul suo viso qualcosa di spiacevole: «Non saprebbero come rintracciarti, cosa dirti. Non hanno nemmeno idea del fatto che Salomone sia dormiente dentro di te, quindi non sanno quanta leva queste persone con cui sei cresciuto hanno sul nuovo Hagufah.»

Noah schiuse le labbra, colto senza preavviso da una nuova consapevolezza. Zenas osservò con attenzione ogni sua reazione, il modo in cui il suo corpo stava reagendo a quel sovraccarico di informazioni e poi, quasi rassegnato, disse: «Un'ora. Prendiamoci tutti un'ora. Il ragazzo potrà riflettere sulla questione, io riposare e nel mentre valutare con voi il da farsi. A quei pazzi non basterà per ripulire le loro tracce e venire a cercarci, inoltre tra un paio d'ore sarà l'alba. Non agiranno con tanta luce e in piena città.» 
Alex gli rivolse un sguardo strano, Levi nemmeno si degnò di rispondere, ma il fratello fu certo che approvasse quella decisione e, infine, Noah semplicemente si limitò ad annuire. Avevano tutti bisogno di tirare il fiato prima di fare qualsiasi scelta.

 


 

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Capitolo 43
*** - Capitolo venticinquesimo - Parte Seconda: Un legame che trascende la paura ***




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"Life ain't fair
And this growin' up stuff man I don't know
I just don't wanna let you go."

-The night before the life goes on, Carrie Underwood



 

 

Terre d'Israele, Notte dei Tempi

Levi si inchinò esattamente come faceva ogni volta che vi era qualche sorta di evento importante: al cospetto di un funzionario straniero, alle cerimonie, durante le benedizioni prima della battaglia. Le sue ginocchia toccarono il pavimento in pietra e la sensazione che ne scaturì fu strana, diversa da qualsiasi altra cosa avesse avvertito nelle ultime ore. La durezza dell'arenaria era reale, così come il calore che ne riscaldava la superficie e sembrava amplificarsi sulla sua pelle, lasciandolo comunque bramoso.

Salomone lo fissò perplesso, mettendo bene in mostra il fatto che non riuscisse a capire il senso di quel gesto proprio in un momento simile. Avevano appena finito di sbarazzarsi dei corpi di Tamar e Yael trasportandoli per i corridoi addormentati del palazzo, salendo e scendendo scalinate utilizzate per lo più dalla servitù. Erano arrivati nei pressi della lavanderia, dove qualche povera martire stava già lavorando cercando di far meno rumore possibile, e poi avevano deviato per raggiungere le sponde dello Yarmuk, il fiume che attraversava tutta la città. Bardati nei loro mantelli, avevano cercato di muoversi nelle ombre che anticipavano l'alba e una volta arrivati a destinazione, certi che la corrente avrebbe portato via ogni cosa, avevano lasciato che l'acqua inghiottisse le salme di quelle due giovani donne.
Levi non aveva posto alcuna domanda al suo Sovrano, aveva eseguito le sue richieste esitando solo nel momento in cui i suoi occhi avevano nuovamente incontrato quelli vitrei di Tamar. Un brivido lo aveva scosso sin nelle interiora, ma era rimasto muto e aveva finito di avvolgere il corpo in uno dei teli con cui Salomone aveva fatto ornare il proprio letto a baldacchino.
Per tutto quel tempo non si erano quasi rivolti la parola. Le uniche cose che erano sfuggite dalle loro labbra si potevano riassumere in una manciata di indicazioni.
Come erano sgattaiolati fuori da palazzo, così ci erano tornati, muovendosi al pari di ladri nonostante fossero le figure più importanti all'interno delle mura dell'intera città. Un velo di colpa si era posato sul Generale, mentre il Re aveva continuato a incedere con le spalle dritte, fiere, quasi quell'omicidio avesse per lui il valore di un successo.
Levi aveva rimuginato sul suo atteggiamento e su ciò che era accaduto fin quando non erano tornati nelle stanze di Salomone e, a quel punto, si era inginocchiato. Qualsiasi cosa il Sovrano avesse fatto, pensò, lo aveva fatto per lui.

«Qum 'al haragelayim, akh (Alzati, fratello)» gli disse, passandosi una mano in viso. Salomone era stanco, il suo aspetto era ben lontano da quello che Levi si ricordava. Emaciato, con grosse occhiaie e i capelli scompigliati, una benda stretta intorno al polso sinistro, era l'ombra dell'uomo che aveva lasciato a palazzo prima di partire per l'ennesima battaglia - eppure le sue labbra avevano una piega felice, serafica.
Il Generale non si mosse. Che fosse un ordine o meno, poco gli importava.
Nonostante gli frullassero per la mente decine di domande a cui aveva deciso momentaneamente di non dar risposta, era certo che dovesse, prima di qualsiasi altra cosa, fare quello: ringraziarlo. Una voce lontana continuava a dirgli che quell'uomo si era spinto al di là dell'indicibile per lui - e se ci si soffermava con attenzione poteva addirittura sentirlo. Dentro di sé il Generale percepiva la vita pulsare come mai prima d'allora. Avvertiva ogni singola vibrazione che smuoveva l'aria e faceva tremare impercettibilmente il terreno; la sua vista nelle ombre della sera sembrava essere più acuta, carpire anche il movimento più lieve. Si percepiva diverso, anche se non avrebbe potuto dire con precisione in che modo.

Salomone scrollò il capo. Levi lo capì dal tintinnio degli orecchini che gli pendevano ai lati del viso. «Mah sheatah 'osseh? (cosa stai facendo?)» gli chiese, chinandosi sulle ginocchia come un padre che cerca lo sguardo del figlio.
Levi non alzò lo sguardo, non subito, quantomeno: «Lo meshaneh mah atah 'assiyta, ani modeh lekhe, akh (qualsiasi cosa tu abbia fatto, ti ringrazio, fratello)» Quando poi ebbe finito, i suoi occhi incontrarono quelli dolci e familiari dell'amico con cui aveva condiviso gli ultimi ventisei inverni. Li vide riempirsi di lacrime, arrossarsi e rendere il grigio delle sue iridi ancora più vivo, come se fosse argento fuso.
«Akh...» la voce di Salomone sembrò già sul punto di spezzarsi, così gli rivolse un sorriso quanto più grato possibile; ma al posto di venire avvolto dalle sue braccia, come aveva pensato, il Generale si ritrovò a vederlo sgattaiolare via. Trascinando i piedi nudi sull'arenaria il Re si portò alla finestra, poi oltre sulla piccola balconata e lì, forse provando a cacciare indietro le lacrime, si aggrappò alla pietra del parapetto chinando il capo sulla città sopita.

«Al todi li (non ringraziarmi).» La voce di Salomone giunse amara alle orecchie di Levi che d'improvviso, sentendo la preoccupazione montare alla gola come un conato, si alzò.
La brezza notturna smuoveva appena le tende di lino, le vesti imbrattate di sangue che l'uomo teneva ancora addosso. Persino i suoi capelli, fili color terra, danzavano lenti nel silenzio.
«Ani... 'assiyti mashehu kol kakhe nora... (io... ho fatto qualcosa di così orribile...)»
Il Generale mosse un passo verso l'amico: «La'olam lo qal liretsoakh (uccidere non è mai semplice)» anche se non era certo di star dicendo il vero.
«Lo... Lo, akh (No... no, fratello)» la testa del Re cadde all'indietro, come se fosse esasperato. La punta del naso dritta verso la luna, le sopracciglia corrugate: «Ani medaber shel mah sheett ani 'assiyti lekhe (parlo di quello che ho fatto a te)» sospirò, mentre una lacrima gli scivolava al lato del viso.
«Lamah atah mitekavenn? (cosa vuoi dire?)» Levi non seppe che fare, se avvicinarsi o restare lì. Una parte di lui gli suggeriva di non muoversi e chiudere quel discorso, di non approfondire, mentre un'altra lo supplicava di affiancare il proprio migliore amico e farsi spiegare cosa volesse dire il sogno fatto poco prima.
Ci fu del silenzio dopo quella domanda, istanti che divennero lunghissimi, sfiancanti, poi Salomone tornò a guardare la città: «Bitsa'eti kefirah, Levi (ho compiuto un'eresia)» con una mano si portò via la lacrima. «Heveti lekhe akhorah minn hametim, akh... 'al gakhamah (ti ho portato indietro dalla morte, fratello... per capriccio)» un'altra pausa, un singulto: «ki beli lekha ani efes (perchè senza te sono niente). Levadi ba'olam hazeh (solo in questo mondo).»
Il Generale corrugò la fronte. Stava parlando seriamente? Ma la risposta era ben evidente di fronte a lui. Bastava guardare il modo in cui il Sovrano si stava atteggiando, pensare ai corpi di cui si erano sbarazzati, delle sensazioni che provava, dell'incubo in cui era rimasto intrappolato - e del bruciore al petto che non lo aveva abbandonato da quando il serpente ci si era infilato dentro. Con le dita sfiorò quel punto. La viscosità del sangue lo accolse, seguito subito da lembi di pelle in rilievo, incisi come cotenna. Abbassò lo sguardo. Un simbolo strano, un disegno che aveva già visto tra gli appunti sgualciti che Salomone aveva redatto negli ultimi anni. D'improvviso capì.
L'uomo davanti a lui aveva sfidato Dio, aveva accolto gli insegnamenti eretici degli stranieri e li aveva dominati come nessuno prima d'allora, soggiogando il potere al suo volere. E tutto per lui.
«Atah akh sheli, hivetakheta li shela'olam lo tukhal af pa'am natush (tu sei mio fratello, avevi promesso che non mi avresti mai abbandonato).»

Levi si avvicinò, silenzioso.

«Khayim, Levi (una vita, Levi). Eykhe yakholeti lekhayott khayim bile'adeykha? (come potrei vivere una vita senza di te?)»
Gli venne da sorridere. Già, come avrebbe fatto? Lui che non era in grado di dire di no, di difendersi da coloro che volevano il suo trono e il regno. Lui che l'unica volta che aveva impugnato una lama era riuscito a ferirlo facendola roteare senza senso, che preferiva passare le ore con i suoi animali, le piante che tanto amorevolmente curava...

«Atah hayakhid sheani yakhol mishepakhatt (tu sei l'unico che io possa chiamare famiglia)» ironicamente nemmeno i suoi figli avevano ricevuto tale onore, ancor meno le donne con cui li aveva concepiti. Levi sapeva che non stava mentendo.

Lo affiancò, posandogli una mano sulla spalla.

«Vaani habayetah (ed io sono tornato)» gli sussurrò, ingoiando la paura di scoprire cosa tutto ciò comportasse. Sentiva di essere diverso da prima, di non assomigliare più a nessuna persona al mondo, eppure Salomone aveva bisogno di lui, quindi non si sarebbe tirato indietro.
Nuovamente si inginocchiò, ma stavolta tenne gli occhi fissi in quelli dell'amico: «Bakhayim haeleh shehe'enaqeta li, ani mavetiakh lekhe shelo af pa'am lo ahases (In questa vita che mi hai dato, ti prometto che non esiterò mai). Ett haguf sheli tamid yiheyeh akhed hakelim bayadayim shelekha ki ett, hamelekhe sheli, zeh hayah messugal latalush li 'al yedey hagoral mibassar ra'ott (il mio corpo sarà strumento nelle tue mani perché tu, mio re, sei stato capace di strapparmi dal fato infausto). Ett qoli ya'aneh 'al raq lasheelott shelekha veatah titekhanann 'adayinn rakhamim mimeni (la mia voce risponderà solamente alle tue domande e ti pregherà ancora di avere pietà di me). Ett kharevi sheani lesherutekha 'akheshav velatamid (la mia spada è al tuo servizio ora e per sempre). Ett hadam sheli yishafekhe likhevod mizeh shevu'att, mishum bishevilekhe ani amutt 'od meah pe'amim vaani ikhezur meah veekhad meha'olam hhrugym (il mio sangue sarà versato in onore di questo giuramento, perché per te morirei altre cento volte e ne tornerei centouno dal mondo dei caduti).»

 


 

 

Di fronte alla porta chiusa della stanza di Noah, che aveva accettato con riluttanza di partire con loro, Levi si sfiorò il petto sotto alla t-shirt provando a elaborare le parole giuste da dire; ma ce ne erano? Persino prima aveva faticato a trovarne, perché per quanto fosse certo che in lui vivesse l'anima del suo Re si rendeva conto che il nuovo Hagufah era una persona completamente diversa da quella con cui aveva vissuto per decine di centinaia d'anni: di Salomone restavano pochi ricordi che facevano la loro comparsa sotto forma di flashback, qualche vaga nozione di lingua ebraica e il potere dell'Ars, ma il resto sembrava più un susseguirsi di lacune piuttosto che di certezze. E non poteva negare che dopo quanto accaduto ai fratelli quella situazione stesse diventando snervante.

La mano di Zenas gli si poggiò sulla spalla stringendosi appena: «So che sei preoccupato, akh, ma dobbiamo pensare ai preparativi per la partenza» gli ricordò, come se potesse dimenticarsene; come se non sentisse il ticchettio dell'orologio farsi sempre più intenso.
«Sì» sbuffò strofinandosi gli occhi: «sì, hai ragione.» Noah non avrebbe partecipato a quella conversazione, era chiaro, ma loro dovevano comunque pensare a come agire. Di lì a poche ore sarebbero dovuti fuggire con o senza un piano, in modo da sfruttare il caos cittadino, peccato non avessero nemmeno una meta.
«Quindi non lo coinvolgiamo?» Alexandria si era accovacciata vicino a una delle finestre e ogni tanto lanciava sguardi indagatori oltre le tende. Sembrava provata, addosso ancora i segni dello scontro notturno, eppure non si era mossa da lì nemmeno quando Noah aveva annunciato che li avrebbe seguiti. Era assente, immersa in pensieri che Levi avrebbe tanto voluto conoscere, per questo dalle sue labbra uscì ancora quella domanda.
«Non vuole esserlo, altrimenti sarebbe qui.» Prese l'ennesima boccata di nicotina da un filtro ormai eccessivamente inumidito. Lei annuì, tornando poi a guardare la strada sotto al palazzo.
A cosa diamine stava pensando?
Scrollò il capo: «Vediamo di sbrigarci, così entro sera saremo in viaggio» spense la sigaretta, si alzò dal divano e si diresse verso la cucina, dove poco prima aveva abbandonato tre tazze fumanti. Il profumo del tè al bergamotto e melissa riempiva l'aria cercando di infondere una pace che dubitava avrebbero trovato, ma a cui avrebbe tanto voluto aggrapparsi. Osservò il liquido bollente. Riflessi verdi tremolanti ne solcavano la superficie ambrata, creando un gioco di sfumature in cui si vide riflesso. La sua espressione tradiva ogni tentativo d'apparire sereno.

Zenas d'improvviso prese parola, spezzando il silenzio: «Abbiamo ancora dei risparmi? Oppure dovremmo pesare sulle spalle del ragazzo?» Alexandria lo aveva aiutato a ripulirsi: come una brava infermiera lo aveva accompagnato in bagno, gli aveva sfilato i vestiti con premura e lavato il corpo da tutto il sangue che aveva addosso. Levi l'aveva spiata dallo stipite della porta mentre, con attenzione, aveva strofinato il corpo del fratello evitando la medicazione che lui stesso gli aveva fatto. Era rimasto lì anche quando lo aveva asciugato con i pochi salviettoni intonsi e lo aveva rivestito. Una volta finito, si era offerto di farlo riaccomodare sul divano in modo che potesse riposare ancora un po' - e da lì non si era più mosso.
«Io ho ancora qualcosa» gli occhi della ragazza caddero sul fratello. L'unica di loro abbastanza lungimirante da tenere la carta di credito sempre nella tasca della giacca. Avevano evitato di usate i suoi soldi per non lasciare tracce, ma visto che ormai erano stati scoperti potevano concedersi un prelievo senza lasciare ulteriori tracce.

«Quanto?» Da sopra la spalla Levi le lanciò un'occhiata indagatrice. Aveva bisogno di capire quanto in là si sarebbero potuti spingere.
Z'év ricambiò l'occhiata: «Abbastanza, akh
«Non è sufficiente» soffiò, portando poi un silenzio grave. Sua sorella tornò a guardare fuori dalla finestra: «Venti mila.»
Abbastanza, sì.
Afferrando la tazza si volse, dando così le spalle alla cucina. Ovunque fossero andati, per qualche settimana o mese avrebbero potuto cavarsela se fossero stati attenti.

«Marsiglia» eruppe senza preavviso Zenas, catturando l'attenzione dei fratelli.
Nakhaš lo guardò confuso. Provò a mettere insieme tutti i fili che avevano condotto l'uomo a quella proposta. La casa che Salomone aveva comprato nei pressi di Marsiglia, sulla costa ovest, non era certo l'opzione migliore che lui avrebbero svelto. Italia, Austria e Francia in fin dei conti non distavano molto tra di loro, inoltre la villa era abbastanza isolata da impedire una fuga inosservata in caso di attacco.
«Andiamo lì» aggiunse, mordendosi il labbro.
«Perché? Potrebbero trovarci nel giro di qualche settimana.»
Zenas fece ciondolare la testa prima da un lato e poi dall'altro, quasi stesse cercando di trovare i motivi per cui aveva optato per quel luogo.
«Oppure no» affermò spostando giusto lo sguardo, incuriosendolo. Levi si sistemò, appoggiandosi al tavolo e attese. Negli occhi del fratello una luce maliziosa che conosceva. «Faranno il nostro stesso ragionamento, akh. Più lontano possibile da qui. Di conseguenza metteranno uno dei loro in ogni aeroporto, controlleranno i nomi dei passeggeri e noi non abbiamo documenti falsi con cui registrarci... Marsiglia è perfetta.»
Vero, pensò. Zenas aveva mosso un'osservazione corretta: allontanarsi troppo, ora, li avrebbe messi a rischio.
«Inoltre il ragazzo deve sapere di essere libero di tornare a casa in qualsiasi momento. Siamo le sue guardie, ma lui non è un carcerato.» Altro punto a favore di quella proposta, anche se egoisticamente sperò fosse una probabilità irreale.

«E» intervenne Alexandria dal suo angolino: «quella è una delle case più isolate. Potremmo provare a insegnargli un po' di alchimia. Le basi teoriche, quantomeno. Magari cercare di fargli compiere qualche trasmutazione senza ci siano occhi altrui a vederlo.»
«Ci sono anche alcuni dei diari di Salomone, lì... potrebbe essergli utile leggerli.»

Nakhaš fissò prima Z'év e poi Akràv, soppesando con cura ciò che avevano detto. Tornare in quella casa non sarebbe stato positivo solo per Noah, per la sua "riabilitazione", se così la si poteva chiamare, ma anche per loro. In quelle mura avrebbero potuto trovare un po' di tranquillità, il calore di un passato che pareva essere un sogno. Forse nei nascondigli ideati da Salomone avrebbero potuto trovare spunti per rintracciare gli altri fratelli, visto che si era premurato di ricongiungersi solo con Alexandria. In mezzo a qualche foto sbiadita, tra le cartoline, in quei diari citati da Zenas il suo migliore amico poteva aver raccolto tracce - perché era certo che nessuno di loro si fosse realmente staccato dalla vita che avevano vissuto con lui.

«Da lì?»
A rispondere fu ancora il fratello, nonostante Levi stesse guardando da tutt'altra parte: «Vedremo strada facendo, akh. La priorità è Noah. Dobbiamo proteggerlo, prepararlo a qualsiasi cosa il Fato abbia in serbo per lui.»

Silenzio.
Noah prima di tutto. Salomone sopra a ogni loro desiderio. Forse trovarlo e raccontargli chi era, cosa aveva fatto, perché dovesse restare con loro non era poi stata la mossa più saggia. Quel povero ragazzo era stato condannato.

Con un sospiro Nakhaš riappoggiò la tazza dove l'aveva presa, massaggiandosi il setto. Si sentiva stanco, dubbioso, eppure era conscio di non aver tempo per concedersi simili lussi né di fare passi indietro. Il suo egoismo aveva avuto la meglio, ancora.

Annuì.
Sì, sarebbero andati a Marsiglia.

«Alex» la chiamò con un filo di voce: «lascia tracce. Dobbiamo depistarli.»
Lei corrugò le sopracciglia.
«Bagnati le mani, poi tocca qualche oggetto. Se ci sono delle cartoline in casa afferrane una, lasciala in giro. Magari scrivi su un foglio qualche orario di voli o treni. Le tracce inumidite di sangue potrebbero far credere a quei bastardi che abbiamo fatto qualche scelta frettolosa. Li depisteremo così.» Fece una lunga pausa, riflettendo. Forse non avrebbero mai trovato l'appartamento di Noah, ma in caso ci fossero riusciti... beh, avrebbero trovato tutto pronto.
«Pochi indizi. Un occhio esterno non deve pensare che sia successo qualcosa all'Hagufah. Inoltre devono sembrare vere e proprie distrazioni da parte nostra.»

Z'èv sembrò rifletterci e nella sua esitazione Levi riprese parola: «Akràv, tu occupati dei biglietti del treno. Prenota a nome di Noah Dietrich, quattro posti in economy.  Vedi anche per il noleggio di un'auto quando arriveremo là» fece scivolare le dita lungo il naso, sulle guance per poi accarezzare il mento. C'erano così tante cose da fare e il tempo gli sembrava minimo. Dovevano preparare le valige, vedere se l'alibi dell'Hagufah fosse stabile, camuffarsi, scegliere il tragitto da percorrere e, infine, partire - il tutto in una manciata d'ore al massimo.
Si morse il labbro: «Tra poco esco» annunciò.
«Dove vai?» il tono acuto di Alexandria gli strinse lo stomaco, i suoi occhi grandi di preoccupazione gli fecero sentire una punta di colpa a ridosso della gola.
«Bisogna recuperare qualcosa per renderci meno riconoscibili, akhòt. I tuoi capelli non passano inosservati e Zenas ha bisogno di stampelle.»
Non parve rassicurarla. Dopo Venezia dubitava che lo avrebbe lasciato uscire a cuor leggero con il Cultus alle calcagna. Lei non più abituata a provare una simile paura, lui a vederla così scossa.
«Non farò ritardi stavolta, ve lo prometto.»

 
 

 

Yarmuk : fiume affluente del Giordano. Attraversa la Siria, la Giordania e Israele con una lunghezza totale di 120,80 km.

(Non assicuro la corretta traduzione e sintassi delle parti in ebraico)

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Capitolo 44
*** - Capitolo ventiseiesimo - Parte Prima: Addio Noah Dietrich ***




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"So say goodbye and hit the road

Pack it up and disappear
You better have some place to go
'Cause you can't come back around here "

Good Goodbye, Linkin Park


 

 

Alexandria avanzò in punta di piedi, dubbiosa. Le braccia incrociate strette davanti al seno e lo sguardo basso. Si era fatta strada all'interno della stanza, della sua unica alcova, senza chiedere il permesso, eppure dal modo in cui aveva timidamente aperto la porta Noah aveva capito quanta riverenza provasse per quello che era il suo spazio. Per un istante, addirittura, aveva creduto che lei avesse paura di lui - e per questo non si era opposto a quell'invasione, anche se tutto ciò che avrebbe voluto in quel momento sarebbe stato chiudere fuori da quelle quattro mura qualsiasi cosa non fosse la sua vita prima.
Prima delle allucinazioni.
Prima della sensazione di non appartenere a nulla di quello che lo circondava.
Prima delle Chimere.

La osservò.

Dal materasso su cui era seduto Noah fece un sospiro tutt'altro che silenzioso, buttando fuori l'aria che da troppo tempo teneva imprigionata nei polmoni. Voleva dire qualcosa, sapeva di doverlo fare, ma nonostante questo non riuscì a trovare le parole o le domande da pronunciare; aveva così tanto caos nella testa che faticava persino a comprendere i propri pensieri. In due settimane era passato dall'essere un normale studente universitario, con giusto qualche piccolo problema di mente, a Re di un intero popolo nonché  protagonista del mito; e infine aveva scoperto di essere un alchimista...

Sant'Iddio! Persino a pensarci sembrava una cavolata di dimensioni inaudite, eppure era tutto vero. Ma come?
Si prese la testa tra le mani, tirò i capelli con le dita e poi si volse appena in direzione di Alexandria sperando che fosse lei a spezzare il silenzio, a tranquillizzarlo, invece la trovò rivolta verso il cielo grigio al di là del vetro sporco, intenta a fissare chissà quale panorama; e fu strano, ma gli parve di averla già vista decine di volte in quella posa, con quella smorfia... 

D'improvviso la Chimera si ravvivò la chioma, abbassando leggermente lo sguardo. Sembrava crucciata, persa in chissà quali pensieri e dalla gola, a quel punto, a Noah sfuggì qualcosa: «Io...»
«Non vuoi partire, lo so. Sei spaventato e non hai idea di cosa aspettarti» concluse lei, sopprimendo una sorta di ghigno.
Lui si morse il labbro inferiore, poi annuì tornando a fissarsi le mani strette in mezzo alle ginocchia.
Sì, in effetti era così, ma avrebbe anche voluto dire altro in quel momento, magari qualcosa che non avesse nulla a che fare con la partenza, l'alchimia o... con la coda dell'occhio vide Alexandria scrutarlo. Le sue pupille lo mettevano in soggezione come mirini di fucile e, quando li spostò per soffermarsi sui poster e le fotografie appese qua e là, quasi si sentì sollevato. 
«Puoi rifiutarti, se lo vuoi.»
Poteva davvero?, si chiese, seguendo la traiettoria dello sguardo di lei. Anche Noah si soffermò sulla maschera di un Darth Vader del 1983 appeso sopra al comò, abbozzando un sorriso nel notare cosa avesse catturato l'attenzione della Chimera. Per quel poster aveva speso tantissimo, più di quanto aveva mai fatto per qualsiasi altra cosa, eppure non se ne era mai spiegato il motivo; lo aveva visto in un negozio vintage e non era stato in grado di frenare l'impulso d'entrare e prenderlo. 
«Per quel film Nikolaij aveva comprato i biglietti per tutti, te lo ricordi?» l'intonazione nella voce di Alexandria non riuscì a nascondere la dolcezza mischiata alla nostalgia che provava per quel ricordo e d'un tratto, come un lampo nel cielo notturno, Noah capì il motivo per cui  anni prima aveva dovuto portare a casa quella locandina: Salomone, le Chimere, una vita passata. «Oh, come si era incazzata Colette quel giorno...» il materasso si schiacciò sotto il peso di un altro corpo e il calore di lei gli pizzicò il braccio. Era vicina, molto.
«Non è fan dell'Impero?» scherzò, fissando la punta dei calzini con le pecorelle che Alex aveva ai piedi. Li teneva vicini in modo insolitamente composto e poi dalle caviglie i jeans risalivano fino alle ginocchia, dove tagli sfilacciati mostravano la pelle nuda. Se ci si soffermava attentamente un alone viola spuntava da sotto la stoffa: chissà se sentiva male da qualche parte, se le ferite che aveva addosso erano gravi o sciocchezze. Chissà se sforzandosi avrebbe potuto guarirla, come il sé di una vita prima.
«La fantascienza non è pane per i suoi denti, no!» La sentì ridere di soppiatto e, dovette ammetterlo, fu confortante: «Ma il problema in realtà era un altro» gli occhi di Noah ripresero la corsa, salendo dalle cosce al maglioncino chiaro che aveva sostituito gli indumenti ridotti a brandelli durante lo scontro. Si era ripulita, della colluttazione con i nemici restavano ben poche tracce. «Ti immagini sette Chimere e un Alchimista seduti uno accanto all'altro, in un luogo chiuso e con le luci spente? Momento perfetto per un agguato!»
Anche lui rise: «Ma alla fine lo abbiamo visto, giusto?» solo dopo averlo detto si rese conto di aver usato il "noi", sentendosi parte di quel ricordo pur non avendone memoria - e anche lei dovette accorgersene, perché per un istante tacque.
«Sì, sì, lo abbiamo visto. Tu e Levi convinceste tutti» la scorse bagnarsi le labbra, tenderle: «Ci sedemmo a piccoli gruppi per tutta la sala, la tensione a mille e i sensi in allerta. Fu divertente, non lo nego.» Appena Alexandria finì la frase un silenzio strano pervase la stanza. Arrivò da sotto la porta, il letto, da dentro l'armadio a parete e si fece strada sino a loro. Cinse le caviglie di lei spaventando le pecorelle sulle calze e si aggrappò ai pantaloni della tuta di lui come un gatto che si fa le unghie. Persino una sciocchezza come l'andare al cinema, si ritrovò a pensare, per le Chimere era qualcosa di speciale e al contempo pericoloso: come sarebbe stata la sua vita nel momento in cui avesse scelto di seguirle? Temette la risposta, ma allo stesso modo sentì di bramarla.
Desiderava l'ignoto che si stava aprendo di fronte a lui, il brivido, l'idea di avere qualcosa di tanto speciale da poter raccontare con la stessa foga con cui Zenas o Levi parlavano del passato ed essere poi preso per folle. Anelava l'idea del fantastico, dell'adrenalina che gli stava porgendo la mano, eppure iniziava a intuirne i rischi.
Già... la sua era un'aspirazione da sciocchi, lo sapeva bene, ma sapeva anche che chiunque, a quel mondo, aspettava per tutta l'esistenza un'avventura come quella che stava venendo offerta a lui; dopotutto se fosse stato altrimenti non ci sarebbero stati così tanti esploratori, scrittori, pittori e sognatori. Nemmeno gli alchimisti.

Guardò Alexandria.

«Cosa mi aspetta?» le chiese, arrendendosi all'idea che sarebbe partito - pro e contro.
Lei lasciò cadere il capo da un lato. I capelli le scivolarono oltre le spalle: «Tutto ciò che puoi immaginare, Noah Dietrich.» Aveva in viso l'espressione di chi aveva già visto molto, la pace di chi non teme il pericolo.
E Noah rise, provando d'un tratto a sdrammatizzare: «In questo momento se devo essere onesto mi immagino in una cella torturato da un gruppo di fanatici.»
Le labbra di Alex si schiusero, tradendo il suo divertimento: «Beh, non posso negare che la possibilità sia alquanto reale...»
A quelle parole lui sobbalzò, impreparato: «C-come?» chiese sentendo la gola seccarsi. Per un istante nel sorriso della Chimera l'Hagufah cercò di trovare conforto, ma fu un'impresa pressoché inutile. Sapeva che lo stava prendendo in giro, ma solo fino a un certo punto.
«Non voglio mentirti, okay? Loro ci danno la caccia, sono disposti a tutto per trovarci.»
«E cosa succederebbe se... se ci dovessero prendere?»
Alex scrollò le spalle: «Non ne ho idea. Per ora non è mai successo.»
«Mai? E non vi siete nemmeno fatti un'idea?»
«Mai» confermò lanciandogli un'occhiata veloce: «Siamo stati bravi in questi ultimi ottocento anni. Ci siamo protetti l'un l'altro in modi assurdi, inoltre gli alchimisti del passato non erano potenti come oggi e quelli di adesso non lo saranno come in un domani. Si evolvono, ma sono sempre rimasti un passo indietro a te.»

«Ma se non vi hanno mai preso allora come fate a sapere che vogliono catturarvi e farvi del male?»
«C'è stato un tempo in cui non erano così ossessionati da noi. Molto prima della mia nascita...» si fermò giusto un istante, cambiando tono: «quella vera, intendo, non la mia rinascita» tenne a precisare, come se Noah non sapesse vi fosse stato un prima anche per lei. «Beh, da quello che ci raccontaste tu, Levi, Zenas e Hamza ci furono vari approcci da parte del Cultus. Volevano imparare a usare l'Ars, a piegare la vita e la morte per gli stessi motivi che li spingono ora. Ti rifiutasti di farlo. Non condividevi nessuna delle loro idee, non volevi essere la causa del male che eri certo avrebbero portato. L'Alchimia è un'arma molto più subdola e feroce di quelle che l'uomo ha ora...» Nuovamente la scorse umettarsi le labbra. Era la prima volta che la sentiva parlare così a lungo, con calma, spiegandogli davvero qualcosa riguardo a loro - e gli piacque quella versione di Alexandria, gli portava alla mente una quotidianità persa. «Sta di fatto che la tua decisione non gli andò a genio, quindi chiesero almeno una delle Chimere. Potevi scegliere quale, l'importante è che li aiutassi almeno in piccola parte a perseguire i loro obiettivi. Rifiutasti di nuovo e quindi passarono alle maniere forti.»
«In tutti questi anni loro non...» Noah non seppe come concludere, eppure la Contessa capì.
«No. Non ci sono ancora riusciti. Forse si sono avvicinati, magari hanno capito qualcosa, ma per quello che sappiamo non hanno creato Chimere o riportato in vita qualcuno. Se ci fossero riusciti avrebbero smesso di darci la caccia, non pensi?»

Già... e oltre a quello, probabilmente, avrebbero già iniziato la loro ascesa al potere.
Prendendo consapevolezza di ciò che le parole di Alexandria stessero a significare, l'Hagufah arrivò a un'ultima domanda. Ovvia, certo, ma di cui aveva comunque bisogno di sentire la risposta: «Rischio la vita venendo con voi, vero?»
Lei rimase un momento in silenzio, forse soppesando un pensiero, poi parlò: «Sì.» La sua fu una risposta cruda, un colpo secco al centro dello stomaco. Noah avrebbe voluto dirsi terrorizzato, pronto a far marcia indietro e aggrapparsi a quell'istinto di autoconservazione che si rese conto in quell'istante di non avere più.
Morire durante quel viaggio era una possibilità estremamente reale. Sì, i loro nemici magari non l'avrebbero ucciso di loro spontanea volontà, ma sarebbe bastato uno scontro improvviso col Cultus, la perdita di controllo sull'Ars e lui avrebbe potuto perdere la vita.

«Non è confortante» sussurrò più a se stesso che a lei.

Z'év a quel punto si alzò e andò dritta verso l'armadio. Prese a frugarci dentro come se fosse roba sua, ma a Noah la cosa non generò alcun fastidio.
«Non ha alcun senso mentirti, lo sai benissimo anche tu che il rischio c'è» d'improvviso la schiena di lei tornò dritta e quando si volse tra le mani teneva un borsone, forse quello che solitamente lui usava per andare ad allenarsi in piscina. «Ma noi siamo qui per te. Tutti noi» disse, puntando gli occhi color sangue dritti nei suoi.
«Pensavo di non piacerti» rise mentre la Chimera poggiava il borsone sul letto dove prima era seduta.
«Abbiamo questioni in sospeso, te l'ho già detto. Cose di cui parleremo quando sarà il momento, quando la tua memoria sarà un po' meno offuscata. Per ora ti basti sapere che ho fatto un giuramento, il giorno in cui mi hai salvata... e purtroppo per me, sono nata in un'epoca in cui giurare equivale a mettere in gioco la propria vita. Non permetterò a nessuno di farti del male, non più.» La sicurezza delle sue parole fu disarmante, come il giorno in cui per la prima volta aveva parlato con Levi.
«Voi fareste davvero di tutto per Salomone» gli sfuggì di bocca ricordando ciò che gli era stato detto fino a quel momento. 

Alexandria si morse il labbro, non lo guardò forse per timore, poi aggiunse: «Non immagini ancora cosa abbiamo già fatto e cosa potremmo fare per il nostro Re.» Poi prese un grosso respiro, quasi risvegliandosi da una trance. Con gli occhi si fissò su un punto alle sue spalle, in modo da guardarlo indirettamente: «Te lo lascio qui. Quando hai finito Zenas ed io saremo di là ad aspettarti. Fai le tue valutazioni, okay?» E come era arrivata sparì, lasciandolo solo.
 

 
 

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Capitolo 45
*** - Capitolo ventiseiesimo - Parte Seconda: Addio Noah Dietrich ***




N.B. controlla sempre i capitoli precedenti per essere certo di non aver perso alcun aggiornamento
 

"Well, if I'm there to catch you when you fall

You'll have a friend down in Hell after all
And if you're there to catch me when I fall
Then maybe Hell ain't so bad after all"

- If I'm there, Bad Omens


 

 

Intorno a sé la folla si muoveva in fiumi incontenibili. C'era chi andava e chi tornava, chi stava in attesa di un familiare o una destinazione. Ovunque cadessero i suoi occhi c'era un viso che non gli piaceva. Sentiva addosso un insolito disagio, il timore che da un momento all'altro mani sconosciute si stringessero intorno alle sue braccia per portarlo via, in un luogo sconosciuto e pericoloso.
Sapeva che Alexandria e Zenas, forse anche Levi, erano lì, nascosti da qualche parte all'interno della stazione, camuffati in modo che nessuno potesse riconoscerli, eppure il fatto di non vederli gli seccava la gola.

Stava per compiere un passo che avrebbe per sempre cambiato la sua vita, quella vita, la centesima che gli era stata concessa. Una volta salito sul treno che lo avrebbe portato a Marsiglia non ci sarebbe stato alcun ritorno, lo sapeva. Non importava quanto le Chimere avessero insistito sul fatto che era libero di andarsene in qualsiasi momento, tutti sapevano bene che non era così; non c'era via di fuga da qualcosa di così... incredibile.

Fece un sospiro. Era stata sua volontà seguirli, aveva capito fosse la cosa giusta da fare nel momento in cui aveva chiuso quel dannato borsone che adesso gli penzolava dalla spalla - eppure aveva paura.
Circospetto si guardò ancora una volta attorno, ignaro di come le Chimere volessero agire. Gli ci volle un po', e non fu nemmeno certo che fosse lui, prima di scorgere Zenas dall'altra parte della zona in cui si trovava. Il greco ne stava appoggiato a un cartellone pubblicitario, i lunghi dread scuri sciolti e la tracolla lasciata a penzoloni su un lato del corpo. Aveva addosso strati di vestiti che lo rendevano ancora più massiccio di quanto fosse e con le mani stava girando una sigaretta artigianale che non avrebbe mai fumato. Da quella distanza sarebbe potuto apparire come un hippie qualunque, per questo Noah non fu del tutto sicuro che si trattasse di Akràv. 
Più si sforzava per capire se fosse lui, meno ne era certo - e la cosa lo annichilì. La capacità delle Chimere di camuffarsi era davvero qualcosa di fuori dal comune. Non importava quanto il loro aspetto fosse inusuale, quanto, al di fuori di simili situazioni, la loro presenza risultasse imponente: se braccati sapevano come sparire persino ai suoi occhi.
D'improvviso l'uomo che stava osservando fece un gesto con il capo. Chiunque avrebbe pensato si stesse solamente allontanando i dreadlock dal viso, ma a Noah quello parve un segnale, così seguì la traiettoria disegnata dai capelli di Zenas.
Con lo sguardo finì sulle schiene di decine di persone in coda al bancone di un bar. Alti, bassi, grassi e magri, uomini e donne e, sotto un caschetto biondo reso meno individuabile da un berretto, Alexandria. Teneva tra le mani un bicchiere di carta, in spalla uno zainetto da studentessa e, fingendo di guardare un punto indefinito, lo teneva d'occhio.

Fu un sollievo riconoscerla, scoprire con certezza che erano tutti lì per lui, per proteggerlo davvero da qualsiasi minaccia. Lottò contro l'istinto di compiere qualsiasi gesto per farle sapere che l'aveva vista e, fingendo indifferenza, portò lo sguardo sull'immenso tabellone luminoso davanti a lui.

Prese a scorrere le destinazioni dei treni, l'orario di partenza, i binari dove erano collocati. Scese fin quasi a metà della lista, poi scorse "Frankfurt". Lì avrebbero fatto il primo cambio e nel giro di qualche ora avrebbero raggiunto la stazione di Marsiglia dove Levi si era premurato di noleggiare un'auto che li avrebbe condotti a "casa", come l'aveva chiamata lui. Noah non aveva la più pallida idea di come fosse, quella "casa". Aveva provato a immaginarla per tutto il tempo, senza trovare il coraggio di chiedere alle Chimere alcun dettaglio. Era un edificio vecchio? Moderno? Era in mezzo ad altre case o appartato? Sui muri erano appesi quadri, mappe o foto? C'erano libri? Quante stanze aveva? Si poteva vedere il mare? C'era un giardino?
Socchiuse gli occhi. Chissà se anche a lui quel luogo sarebbe parso così familiare da essere chiamato "casa".

Dopo qualche istante si sistemò meglio il borsone e prese coraggio, mosse il primo passo, poi il secondo e gli altri vennero da soli. Si fece largo in mezzo alle stesse persone di cui qualche minuto prima aveva temuto l'identità e con il biglietto stretto in una mano avanzò verso il treno ad alta velocità fermo al binario 6. A ogni metro in meno però si sentì più pesante, pieno di domande e preoccupazioni che aveva cercato di tenere lontane - e si rese contro di desiderare accanto a sé Levi, la sicurezza della sua persona, quel sorriso confortante con cui lo aveva persuaso al loro primo incontro. Con le sue chiacchiere sarebbe riuscito a distrarlo fino a quando la stazione ferroviaria di Vienna non fosse stata una macchia indefinita in distanza - peccato però che non ci fosse. Con grande probabilità anche lui lo stava osservando come i fratelli, ma il fatto di non averlo visto nemmeno di sfuggita gli fece torcere lo stomaco.

Noah annusò l'aria malsana della stazione. Respirò gli odori di Vienna per un'ultima volta e lo fece amaramente, conscio che più che un "a presto" il suo era un addio. Per quanto si sforzasse di restare positivo sapeva, in cuor suo, di non avere certezza di ritorno, anzi, in tutta onestà non aveva più certezza di nulla.
Forse sarebbe ripassato per le strade di quella città, forse no; forse avrebbe rivisto i suoi genitori, Hans e quella sorta di fidanzata che era stata Gretchen, o con più probabilità avrebbe incontrato nuove persone e sviluppato affetti diversi; forse sarebbe morto, o magari avrebbe riscoperto come restare vivo in eterno.

Socchiuse gli occhi e quando li riaprì vide l'enorme bruco di lamiera pronto a partire; accanto il tabellone luminoso riportava il nome del luogo dove era diretto.
Nonostante avesse letto decine di volte il numero della carrozza e quello del proprio posto a sedere, Noah alzò il biglietto di fronte al viso. Carrozza otto, posto 6c, ripeté ancora, come se non lo avesse mai letto prima.
Le Chimere avevano preso i biglietti a coppie, in modo da essere certe che nessuno restasse solo e alla mercé di possibili imprevisti, ma non si erano premurati di dirgli chi sarebbe rimasto al suo fianco. Lo avevano fatto per "sicurezza", aveva detto Zenas prima di uscire, ma l'Hagufah non era certo di cosa intendesse. Di certo avevano un piano e questo, in parte, lo tranquillizzò.

Prendendo un nuovo respiro si mise in marcia. Percorse la banchina ostentando una sicurezza che dubitò calzargli bene e, una volta arrivato al vagone, mettendo il piede sul primo gradino, si concesse un secondo di esitazione. Noah fu investito da un pensiero insolito, da una nostalgia precoce che istintivamente lo fece voltare un'ultima volta verso l'ingresso della stazione. D'improvviso, a dispetto di qualsiasi convinzione lo avesse assillato sino a qualche istante prima, avvertì la sensazione di non essere mai realmente appartenuto a quel luogo. Stava abbandonando Vienna, certo, ma non casa. Per quanto volesse credere che fosse quello il posto a cui apparteneva, dove doveva vivere, comprese che non era altro che l'ennesima città. Stava anche lasciando coloro che avevano riempito la sua vita, ma non la sua famiglia, no... le persone a cui si sentiva indissolubilmente legato in realtà stavano compiendo quel passo insieme a lui.

Il cuore gli si strinse.
Come potevano essere sue quelle sensazioni? Perché improvvisamente aveva la testa colma di certe convinzioni? Che fosse l'anima di Salomone a parlare?

Non seppe dirselo. Avrebbe voluto,  ma più domande si poneva più il sesto senso cercava di imporsi - poi, d'un tratto, qualcuno lo richiamò alla realtà.

«Hey! bewegst du dich? (Ehi! Ti dai una mossa?)»
All'inizio non riconobbe la voce, ma quando si voltò, incrociando gli occhiali da sole di Levi, gli venne l'istinto di rispondergli come sempre - ma non poteva, ne andava della copertura. Svelto si morse la lingua, poi annuì: «Ja, ja, tut mir leid (Sì, sì, scusami).» E nel voltarsi, con la coda dell'occhio scorse Alexandria proprio alle spalle del fratello, la mano intrecciata a quella di lui come due amanti. Un'altra fitta gli serrò lo stomaco.

«Beeil dich, wir haben nicht den ganzen Tag Zeit (vedi di sbrigarti, non abbiamo tutta la giornata).»

Dietro alla Chimera si era ammassato un capannello di persone tutte in attesa di salire. Non se ne era nemmeno reso conto. Deglutendo la saliva a fatica, l'Hagufah annuì ancora e, issandosi, abbandonò l'ultimo stralcio di Vienna e di sè al di là della carrozza 8.

Da quel momento non sarebbe più stato la persona che aveva sempre creduto di essere. Il suo viaggio verso Salomone stava realmente per avere inizio.

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Capitolo 46
*** - Capitolo ventisettesimo - Parte Prima: Wòréb ***




N.B. Ricorda di controllare sempre i capitoli precedenti in caso ti sia sfuggito qualche nuovo aggiornamento - ti ricordo che il testo è in revisione
 

"I wouldn't hold my breath if I was you
'Cause I'll forget but I'll never forgive you
Don't you know, don't you know?
True friends stab you in the front "

- True friends, Bring Me The Horizon

 

Avevano abbandonato Marsiglia ancor prima di scoprirla, annusarla e vederla veramente. Dal vagone del treno ad alta velocità erano scesi lungo il binario insieme a una fiumana di gente facendosi strada a tentoni e stando attenti a non perdersi mai - cosa di cui Noah era segretamente terrorizzato - arrivando infine in una piccola area dove, quasi come in un mercato mediterraneo, i taxisti urlavano a gran voce la propria svendita personale. Ce n'erano a decine, di ogni forma e nazionalità. Alcuni se ne stavano ben ancorati ai finestrini delle proprie vetture, altri si muovevano come cavallette per lo spiazzo, arrivando persino a importunare i viaggiatori afferrando i loro bagagli e "invitandoli" a usufruire dei loro servizi. Per un attimo il desiderio di tornare sul treno, nella cabina dove avevano passato le ultime ore, si era fatto quasi invincibile. L'Hagufah si era dovuto aggrappare con tutta la forza di volontà al pensiero di essere quasi arrivati, di non poter tornare a casa proprio in quel momento - poi era intervenuto Levi che, con una pacca in mezzo alle scapole, lo aveva sorpassato gettandosi come un gladiatore in mezzo all'arena che era il piazzale. Sfoderando uno dei suoi soliti sorrisi sornioni si era subito messo a contrattare con uno dei tanti autisti presenti. Dalle sue labbra, persino dalla distanza che li separava, Noah poteva udire uscire un francese quasi perfetto, contaminato giusto da qualche accento messo male. Le parole gli scivolavano fuori di bocca trasformando la sua lingua biforcuta in una rampa da cui lanciarsi, ed era stato così che nel giro di poco si erano ritrovati seduti stretti-stretti nella Honda Civic di un uomo indiano dalla barba lunga e brizzolata. Messo in mezzo tra Alexandria e la Chimera più antica del mondo, Noah fece di tutto per non toccare troppo ne l'una né l'altro, intimorito da ciò che ancora non riusciva a controllare e dagli occhi fissi e cupi di una riproduzione di Shiva che, appesa allo specchietto retrovisore, sembrava tenerlo d'occhio e sussurrargli "so cosa sei". Gli ci vollero molti brani hindi, parecchi chilometri di viaggio e il passaggio da un panorama urbano a uno più rurale prima di riuscire a rilassarsi e smettere di pensare che quella statuetta lo stesse giudicando.
Ovunque guardasse, piegandosi appena in avanti per scorgere oltre il parabrezza, l'Hagufah incrociava grosse nuvole bianche e gabbiani, una vegetazione marittima e strutture turistiche alle volte lussuose, altre fatiscenti. La provincia marsigliese aveva un aspetto così diverso dai paesaggi austriaci, pensò; lì, nonostante fosse autunno inoltrato, si veniva ancora accarezzati da un tepore dolce che esaltava la salsedine nell'aria e le persone si riunivano sulle piccole spiagge sparse lungo la strada, assaporando fameliche le ultime giornate di bel tempo.
In parte le invidiava. Anche a lui sarebbe piaciuto sentire la sabbia sotto i piedi, sedersi su una stuoia per ascoltare i suoni del mare e liberare la mente da ogni sorta di pensiero - peccato non potesse.

Z'év d'un tratto gli picchiò dentro con la spalla e, quasi risvegliandosi da uno strano stato di torpore, Noah si volse nella sua direzione incapace di capire se fosse un gesto voluto o il goffo tentativo di mettersi più comoda.
«Tutto okay?» si sentì chiedere. In testa Alexandria portava ancora la parrucca scura e il berretto, in viso un lieve strato di trucco che le assottigliava lo sguardo incupendo il rosso delle sue iridi.
Lui annuì in risposta, tirando un sorriso. Era stranito e stanco, non poteva negarlo, ma si sentiva tranquillo in mezzo a loro, come un bambino che cammina con le mani strette a quelle di mamma e papà.
«Tu?» le chiese, prendendola alla sprovvista. Z'èv sbatté un paio di volte le palpebre, Levi accanto a lui si volse strusciando la pelle del trench scuro che aveva indosso.

«Sì, tranquillo» abbozzando a sua volta un sorriso, Alex gli carezzò in punta di dita una spalla e il tocco lo fece fremere tra sorpresa e ansia. E se per errore le avesse fatto del male? Se il suo potere fosse esploso in quel momento? Ma nulla accadde. Il viso di lei tornò a fissare fuori dal finestrino e un senso di sollievo lo investì.

Dal sedile anteriore Zenas fece un mezzo sussulto, girando il capo verso di loro. Sul viso un'espressione soddisfatta: «Prima tappa raggiunta, signori!» Annunciò col suo vocione, trasformando Noah in un cane che fiuta un cambiamento nell'aria. Si tirò dritto, come se la cosa potesse fargli scorgere meglio i dintorni, poi prese a guardare in ogni direzione, curioso.
Dove erano? Cosa avrebbero fatto da quel momento?
«Benvenuti a Carry le Rouet» aggiunse Akràv rimettendosi composto.
Da quell'annuncio ci volle un'altra decina di minuti prima che potessero abbandonare l'abitacolo del taxi e le musiche hindi di Ravi, mettendogli in mano una quantità di banconote che Noah mai avrebbe speso per un viaggio del genere. Aveva poi seguito una merenda abbondante in una boiserie del piccolo centro cittadino e, infine, la decisione comune di trovare un nuovo taxista per proseguire il viaggio.

Ne cambiarono due dopo Ravi, ed entrambi più che inclini alle chiacchiere di circostanza - conversazioni a cui Levi, Zenas e Alexandria non si sottrassero, anche se nelle loro espressioni Noah fu certo di intravedere del fastidio. Non capiva ciò che si stavano dicendo in quel francese tanto veloce da mandarlo in confusione, ma era sicuro che se avessero potuto tacere, le Chimere non avrebbero esitato a farlo. Sembravano contrarie all'idea di dover fornire una qualsivoglia informazione, anche se fasulla, eppure per non dare eccessivamente nell'occhio - cosa che all'Hagufah pareva già di per sé difficile - continuavano a rispondere alle domande di colui che stava alla guida; prima un uomo sulla quarantina, poi un vecchio con grossi baffi sale e pepe e una camicia a righe il cui colletto svolazzava nel vento.
La quarta tappa del loro viaggio era stata Port-de-Bouc, un paesino marittimo alle foci del Canale di Caronte, dove cambiare passaggio era risultata essere un'impresa molto più ardua del previsto e poi, a Port-Saint-Louis-du-Rhône, qualche chilometro più a ovest, si erano infilati in quell'ultimo taxi di fortuna, forse nemmeno registrato per fornire quel genere di servizio, e si erano addentrati nel Parco regionale della Camargue. Imboccata la D570 poco dopo, avevano viaggiato per altre due ore, arrivando verso il tramonto in una zona sperduta appena fuori la riserva naturale. A quel punto Zenas aveva preso il controllo della situazione. Dando indicazioni sempre più precise, aveva fatto accostare l'uomo in un'area all'apparenza quasi disabitata, vicino a una deviazione che si spingeva verso l'interno della costa. Per un po' aveva perso tempo a rassicurare il vecchio, dubbioso sul fatto che sapessero realmente dove stavano andando, e di fronte alla sua incertezza sempre più fastidiosa Akràv aveva aggiunto al suo compenso un'altra banconota di grosso taglio che aveva fatto storcere il naso a Noah.

«Theós! (Iddio!)» grugnì appena richiuso il baule della vettura e salutato l'uomo: «Possibile che più la gente invecchia più diventa impicciona?»
Alex gli si fece vicina e in un gesto pieno di stanchezza e comprensione gli poggiò la testa al braccio: «Avremmo potuto fare la stessa fine, sai?» scherzò in un sussurro che fece sorridere anche Noah. Non se le immaginava proprio, le Chimere, vecchie. Persino sforzandosi per lui non poteva esistere altra loro forma se non quella.
«Ti avrei chiesto di tapparmi la bocca con un calzino, piuttosto» rispose Zenas scuotendo il capo, inorridito di fronte a quella possibilità - e con la mano libera aveva poi scompigliato i capelli della sorella, ormai liberi dal giogo della parrucca. A Carry le Rouet infatti avevano tutti e quattro dismesso i propri travestimenti, cambiato abiti e finto di non essere altro che un gruppo di vacanzieri arrivati da Parigi e pronti a godersi qualche giorno di mare. In tutte quelle ore di viaggio l'Hagufah aveva sentito dire loro un'infinità di bugie e il fatto che finalmente potessero smettere di mentire gli tolse un peso di cui nemmeno era a conoscenza dal petto. 

«Quando avete finito di parlare dei vostri strani giochetti,» intervenne d'un tratto Levi, raccogliendo uno degli zaini da terra: «direi che possiamo incamminarci verso casa, non trovate? Forse voi non ne sentite la necessità, ma sono certo che Noah abbia bisogno di riposo e cibo.»
Il ragazzo corrugò la fronte: «Vuoi dirmi che non siete stanchi?»
Anche Zenas si caricò in spalla uno dei bagagli: «Non come te, moccioso» affermò strizzandogli l'occhio.
«Ma abbiamo-»
«Il nostro senso della fatica è diverso dal tuo» lo precedette Nakhaš come se sapesse cosa stesse per dire: «così come quello della fame.»
Le due Chimere più antiche del mondo si incamminarono e lui gli corse dietro: «In che senso? E poi Akràv è ferito!» Puntualizzò notando l'incedere claudicante dell'uomo. Potevano dirgli qualsiasi cosa, ma era ovvio che stesse ancora soffrendo.
A ridosso della sua spalla, vicina quasi quanto durante il tragitto in auto, Alexandria gli rispose, facendolo sussultare lievemente: «Te lo abbiamo già detto, no? I nostri corpi non sono umani, sono fatti per sopportare di più. Possiamo digiunare e rinunciare al sonno per giorni e settimane se necessario.»
Sì, glielo avevano già accennato, eppure non riusciva a farsene una ragione. La ferita di Zenas era profonda, grave. Fino alla sera prima aveva sanguinato e inzuppato gli asciugamani di casa, non poteva credere che non gli stesse procurando alcun dolore.
«Okay, ma-»
«Ah-ah!» Davanti a lui, dietro a una spalla dritta e abbronzata, Akràv lo stava fissando con quel suo solito sguardo bonario da fratello maggiore: «Stiamo bene, Noah, davvero.» Come se nulla fosse tornò a guardare di fronte a sé, verso una meta che non doveva essere poi tanto lontana. Le teste e le schiene delle Chimere erano baciate dal sole e i loro passi andavano a schiacciare un sentiero fatto di granelli dorati. La sterpaglia che dai lati dello sterrato si andava a infittire per miglia e miglia intorno a loro dava invece l'impressione di essere sul punto di prendere fuoco e se Noah assottigliava lo sguardo in una qualsiasi direzione poteva scorgere in lontananza i riflessi del mare. 
«Una volta che saremmo arrivati a casa ci concederemo una buona tisana con le ɛvɛn (pietre), se ne sono rimaste. Vedrai che con quella ci riprenderemo in un attimo!»
A quelle parole l'Hagufah fu riportato alla realtà. Per un attimo si era perso nella contemplazione del paesaggio, quella meraviglia che durante il tragitto si era perso. 
«ɛ-ɛvɛn? Cosa sono? Non è la prima volta che le citate.»
«Come, non te ne abbiamo parlato?» Noah scosse il capo, anche se non era certo Zenas potesse vederlo. «Dannazione! Ero convinto avessimo tratto l'argomento...»
«Beh, abbiamo ancora un quarto d'ora di cammino prima di arrivare, direi che puoi istruire il ragazzo sull'argomento, no?» Sul profilo di Levi si tese un sorriso.
«Vero, vero...» asserì il fratello prendendosi qualche istante per mettere insieme i pensieri: «beh, le ɛvɛn sono frammenti, caro Noah, che ci permettono di sanare il corpo da ferite non mortali e rimetterci in forze. Sono dei lenitivi per quando non si vuole intervenire direttamente con l'alchimia» spiegò Akràv rallentando il passo. L'Hagufah non avrebbe saputo dire se fosse per via della ferita o semplicemente perché la Chimera volesse accertarsi che la udisse bene, così provò ad accelerare e affiancarla.
«Frammenti di cosa, esattamente?»
«Di Pietra.»
«Pietra?» Quella risposta lo confuse più di quanto si sarebbe aspettato. Non capiva e Zenas pareva non rendersi conto di quale fosse il problema; così intervenne Levi, che dalla sua posizione di capo fila non sembrava nemmeno essere attento alla conversazione.
«Pietra Filosofale, akh.»

Il cuore di Noah balzò in gola.
Aveva sentito bene?

«S-stai scherzando?»
L'altro rispose agitando il capo: «Okay che ho un incredibile senso dell'umorismo, Noah, ma su queste cose vorrei che ricordassi il più possibile.»
«Quindi esiste? Davvero? Non è un'invenzione o una trovata alla J.K. Rowling?»
Nakhaš soffocò una risata: «Dio, non dirmi che pensavi fosse una roba esclusiva di Hogwarts!?»
«No! No, certo che no... Solo che non credevo esistesse sul serio. Pensavo che anche quella di Nicolas Flamel fosse una leggenda!» D'un tratto dopo le sue parole tra di loro calò un insolito silenzio. Zenas deviò lo sguardo sull'orizzonte, Levi forse finse di non aver sentito. La sensazione di aver detto qualcosa di sbagliato gli attanagliò la gola, ma persino sforzandosi Noah non riuscì a immaginare dove fosse il problema. Aveva forse detto una castroneria? Eppure era certo di aver letto qualcosa riguardo la Pietra Filosofale e quel tale...
«Beh,» Alexandria alle sue spalle si schiarì la gola: «invece la si può creare, se ci si mette d'impegno. La sua forma grezza è ciò che aiuta noi a sopravvivere. Evita che i nostri corpi si deteriorino, ci infonde una dose minima di Ars, un po' come se fossimo tossicodipendenti in riabilitazione. E' il nostro metadone.» L'intervento di lei parve sbloccare i fratelli, come il segnale durante una partita a Un, due, tre, Stella!  Zenas tornò con lo gli occhi su di lui, mentre Levi soffocò una risata.
«Esattamente,» riprese la Chimera al suo fianco dopo un grosso respiro: «e per questa sua funzione essenziale abbiamo lasciato delle scorte nascoste in quasi tutte le nostre case.»
«Perché?»
«Oh, beh...» Akràv gli mise una mano sulla spalla facendo una leggera pressione, come se in qualche modo lo stesse usando come appoggio: «dovevamo essere sicuri di non restarne senza. Tenendole nascoste nelle case che abbiamo abitato e possediamo, se per qualche ragione dovessimo averne bisogno, ci basterebbe passare di lì e prenderle. Inoltre, se per qualche ragione fossimo in fuga o avessimo bisogno di un tetto sopra la testa, in casa avremmo tutto ciò che ci serve. Potremmo trattare le ferite lievi» e con la mano libera sembrò indicare il proprio stinco: «o semplicemente recuperare in fretta le energie perse e prepararci a un nuovo scontro.»
«E quando finiranno le scorte? Perché potrebbe succedere, no?»
Nuovamente dalle narici di Zenas uscì un grosso sospiro, una sorta di rassegnata consapevolezza, un'ovvietà: «Beh, a quel punto aspetteremo la morte come un qualsiasi centenario esistente al mondo.»
I passi di Noah rallentarono.
Quindi anche le Chimere potevano morire di vecchiaia.

Alexandria gli afferrò lo zaino, sospingendolo per non far perdere il ritmo. Seppur stessero salendo una semplice collinetta, nessuno di loro sembrava intenzionato a fermarsi.
«E quante ne avete ancora?»
L'altro fece spallucce: «Chi può dirlo... siamo sette fratelli che si sono divisi solo la quantità di ɛvɛn presenti nella casa di São Jacinto, qualcuno potrebbe averle già finite ed essere corso a prenderne altre.»
«Senza dire nulla alle altre Chimere?»
Lo sguardo di Zenas si incupì.
«Non ti sei mai chiesto perché solo tre di noi sono venuti a cercarti?» Stavolta fu Levi a rallentare. Da oltre la spalla, come aveva fatto il fratello poco prima, l'occhio destro lo fissava con un'immobilità quasi raggelante. La cicatrice sullo zigomo si intravedeva appena.

No, a essere onesto nel turbinio di eventi e informazioni quel dubbio non aveva mai fatto capolino tra i suoi pensieri.

«La tua "morte" ci ha divisi, ognuno di noi ha preso la propria strada» continuò Akràv, avvicinandosi sempre più al fratello e alla cima della collinetta. Quando fu accanto a Nakhaš questi gli diede una pacca, sorrise e poi tornò a guardare Noah: «Ma con il tuo ritorno speriamo di poter rimettere insieme tutti i cocci» aggiunse, anche se per un istante all'Hagufah parve che non si stesse realmente rivolgendo a lui - poi, come una scintilla, Zenas ricambiò il gesto di Levi con uno scossone.

«Akh! Yesh mishehu bifenim (c'è qualcuno in casa).»

Alexandria a quel punto lo tirò indietro, poi lo sorpassò per affiancare i fratelli come se stesse succedendo qualcosa di grave, qualcosa che Noah in quel momento non riuscì a capire. 
«Atah tsokheq 'alai ?(stai scherzano?)»
Nella rigidità delle Chimere fu facile leggere sorpresa e agitazione, anche senza vedere i loro visi poteva immaginare l'espressione che ne contraeva i connotati.
«Mi zeh yakhol liheyott? (chi potrebbe essere?)» chiese ancora Z'èv, sempre meno rassicurante.
«Einn li mussag... (non ne ho idea), akhòt.»
Qualcuno deglutì.
Il fatto di non poter capire cosa stesse succedendo spinse l'Hagufah ad avvicinarsi con cautela, aguzzando la vista quanto più possibile. Nello spazio tra le teste delle Chimere scorse in lontananza un edificio vecchio, dai muri di mattoni e pietre grigie, con il tetto spiovente non troppo alto e le imposte di un azzurro tanto smunto d'aver preso il colore delle tegole. Persino da quella distanza sembrava grande a sufficienza da ospitare almeno una dozzina di persone, ma ciò che più di tutto lo lasciò di stucco furono le finestre aperte oltre cui tende pallide danzavano nella brezza e dall'altro lato, dove il sole pareva battere di più, corde spesse si legavano a due alberi simili a ulivi, sorreggendo lenzuola come nelle migliori pubblicità per detersivi.

Un nodo gli strinse lo stomaco: «C-che vuol dire?»
Nessuno si degnò di guardarlo in viso.
«Ce lo stiamo chiedendo anche noi...» Zenas si portò una mano alla fronte.
«Chi p-può esserci? Insomma, avevate detto che-»
L'uomo quasi ringhiò: «Lo sappiamo anche noi cosa abbiamo detto! La casa doveva essere disabitata!»
«Se ci fossero degli occupanti?»
«Vedremo di occuparcene.»
«Come? Non penso lascerebbero la casa di propria spontanea-»
«Allora useremo le maniere forti!» Fu Alexandria a zittirlo, gli occhi pieni di nervosismo. Nemmeno loro potevano aspettarsi un simile risvolto e di certo si stavano preparando meglio di lui al peggio. Già, ma come?

«In che modo?» Si sentì chiedere, incapace di frenare la lingua e i brutti pensieri che gli stavano affollando la mente.
Lei si bagnò le labbra, forse capendo: «Nello stesso in cui faremmo se ci fossero i membri del Cultus là dentro.»

Tutto ciò che a Noah venne in mente udendo quella risposta fu sangue, violenza, morte. E la consapevolezza che quei tre fossero davvero capaci di ammazzare chiunque gli fosse capitato davanti senza porsi alcuna remora. Scosse la testa per togliersi il pensiero dalla mente, lo fece strizzando gli occhi e sentendo in bocca un sapore amaro.
«E se ci fosse uno di voi?» domandò nella speranza che quello scenario non avesse mai luogo.
«Quella è un'altra storia...» soffiò Zenas, muovendo il primo passo quasi in simbiosi col fratello maggiore. Levi non aveva proferito parola, ma era chiaro fosse in allerta, teso come una corda di violino per riuscire a capire, a pianificare una qualsiasi strategia - o almeno questo fu ciò che Noah credette fino all'ultimo, perché all'improvviso, senza alcun segnale, la postura della Chimera cambiò completamente e sul suo viso apparve un sorriso burlone.
«Oh, beh! Perché star qui a farci tanti problemi? Andiamo e vediamo, no? Magari è gente simpatica.»
A quelle parole la saliva che aveva in bocca gli andò di traverso. L'Hagufah prese a tossire tanto da credere di soffocare. Era serio? Ma dal modo in cui i suoi passi si fecero leggeri e il suo andamento molleggiato fu chiaro che lo fosse, a dispetto di tutto quello che si erano detti fino a un attimo prima.

 



Shiva: (sivà) è una divinità maschile post-vedica. Fondamento, a partire dall' epoca Gupta, di 7 mistiche a lui dedicate. Śiva è, in età moderna, uno dei culti principali dell'induismo. E' un Dio poliedrico, divenuto tale dopo moltissime evoluzioni nel corso della mitologia hindu.


 

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Capitolo 47
*** - Capitolo ventisettesimo - Parte Seconda: Wòréb ***



 

"You can run
But you can't hide
Time won't help you
'Cause karma has no deadline"

True Friends, Bring me the Horizon


 

 

Levi bussò un paio di volte. Lo fece con poca insistenza e tanta curiosità, bramando quella non risposta che stavano ricevendo. In cuor suo si stava convincendo che quell'atteggiamento da parte di chiunque fosse in casa lo autorizzasse poi a sfondare la porta e far gazzarra come un vero teppista che cerca di riprendersi un territorio sottrattogli da una gang rivale. Aveva voglia di sgranchire i muscoli, di avvertire l'adrenalina corrergli lungo il corpo ed era stato così sin dalla sera precedente, quando aveva visto Zenas e Alexandria ridotti uno schifo dopo una semplice scaramuccia con gli adepti di quella dannatissima setta.
Entrare nell'edificio era di certo la priorità assoluta visto che nell'arredo al suo interno era conservata una storia centenaria e nei nascondigli dietro ai muri o sotto le assi del pavimento abbastanza ɛvɛn da rimettere in sesto i suoi fratelli, ma non poteva negare di sperare almeno in una piccola zuffa. Ne aveva bisogno.
Così, all'ennesimo colpo di nocche, storcendo la bocca, Nakhaš si volse verso i fratelli e Noah. Sui loro visi poteva leggere una tensione che condivideva parzialmente e una stanchezza che cercava in tutti i modi di far capolino, anche se nessuno di loro, al momento, voleva dargliene modo.

«Penso ci toccherà sfondare la porta» disse con un sospiro, come se fosse qualcosa all'ordine del giorno nonché la stessa scocciatura di sempre. A quella proposta Alexandria incrociò le braccia al petto, portando tutto il peso del corpo su una gamba: «Sei serio? L'ultima volta che "abbiamo" sfondato una porta Zenas per poco non mi ammazzava!»
Levi soffocò una risata evidentemente inappropriata, sfuggendo allo sguardo della sorella. Sì, lo ricordava bene. Troppo, se doveva essere del tutto onesto, ma al momento pensare a quello spiacevole inconveniente gli provocò un'ilarità poco condivisa. Non a caso Akràv abbassò gli occhi sulle misere aiuole lì attorno, Z'èv corrugò le sopracciglia e Noah si fece sfuggire un «Come?» inorridito.
«Sono dettagli, akhòt! Mi sembra che alla fine tu sia viva e vegeta, no?»
Ma da lei non ricevette alcuna risposta di conforto: «Facile a dirsi quando non sei tu la vittima» sibilò; e non aveva nemmeno tutti i torti a ritenersi offesa.
«Hai altre proposte?»
Noah si sporse di lato prima che lei potesse rispondere e indicando un punto alle spalle di Nakhaš suggerì: «Potremmo entrare da lì.»
Il Generale volse il capo all'indietro, lo fece in quel suo modo inumano che generò una melodia di scricchiolii tutt'altro che piacevole e, come c'era da aspettarsi, ciò che i suoi occhi videro fu una delle tante finestre aperte.
«Eviteremmo di rompere la porta e mettere in allarme gli inquilini. Sempre che siano in casa...» ed effettivamente Noah non aveva tutti i torti, anche se la sua proposta andava a escludere parte della violenza a cui Levi stava anelando.
Sbuffò prendendo a massaggiarsi il setto sotto il ponte degli occhiali.
«Ottima idea, akh» e per un momento, dopo aver pronunciato quell'ultima parola, si sentì una specie di nodo in gola. Era forse la prima volta che si riferiva al nuovo Hagufah con quel termine, chiamandolo fratello... aveva un ché di insolito - e probabilmente anche lui lo percepì tale, visto che di risposta fece un cenno vago, timido come quello di un bimbo che viene lodato di fronte alla classe.
Senza esitazione scavalcarono l'aiuola, si acquattarono lungo la parete esterna e avanzarono cautamente fino all'imposta più vicina, quella che Levi ricordava essere il salotto. Si sollevò gli occhiali sulla testa per essere certo di poter vedere in mezzo alle ombre interne, poi si allungò sinuosamente fino al misero davanzale e iniziò a spiare. Dentro, la stanza non sembrava essere particolarmente cambiata.
La libreria che occupava tutta la parete sinistra era stata dipinta di bianco e i libri che ne riempivano gli scaffali davano l'impressione di essere sempre gli stessi se non addirittura di più. Piante dai lunghi rami pendevano, in imbracature di corda, dalle travi del soffitto. L'enorme quadro raffigurante una barca a vela latina, preso all'incirca nel 1832 da Zenas nell'atelier di un artista poco conosciuto e con cui Hamza aveva una specie di relazione, stava ancora al suo posto davanti alla finestra, in modo da osservare il mare, e lì accanto, sulla parete di destra, il caminetto faceva da abbellimento. Di diverso, oltre a quei piccoli dettagli, c'erano poi un divano beige relativamente nuovo, una poltrona dello stesso set e il tappeto peloso.

«Non sembra esserci qualcuno. Voi avvertite qualcosa?» Parlò piano, tanto che per un istante si chiese se anche Akŕav, in fondo alla fila, lo avesse udito.
Con la coda dell'occhio vide Alex scuotere la testa e la sua risposta gli bastò per prendere la decisione di entrare.
Si mosse svelto, sicuro, e il suo corpo produsse solamente un fruscio leggero che si confuse con quello delle tende spostate dalla brezza. I piedi affondarono nell'enorme tappeto, attutendone il tonfo. Era dentro e il profumo di casa lo investì, lasciandolo stordito. Si respirava ancora la nodosità del legno, la sua presenza sopra il capo e sotto le scarpe e, senza doversi sforzare, la traccia lieve di incenso al sandalo.

Casa, si ripeté nella mente, ora osservando con più trasporto il salotto. Quanti ricordi aveva di quel posto e quanti stavano provando ad assalirlo. Così deglutì tutto - saliva, nostalgia, dolcezza e anche amarezza - poi si volse per aiutare la sorella.
Alexandria aveva appena appoggiato il sedere sul davanzale quando lui le cinse la vita, facendola sussultare. Nakhaš sentì il corpo di lei irrigidirsi, tentare la fuga e, se non l'avesse tenuta abbastanza saldamente, sarebbe balzata a terra mandando in fumo lo sforzo di non fare rumore.
Le dita della ragazza si strinsero repentinamente poco sopra i suoi polsi, impedendogli di compiere qualsiasi altro movimento, e gli occhi screziati di rosso si puntarono nei suoi, rivelando un certo disagio.
«Mi hai presa alla sprovvista» le sentì sussurrare.
«Scusa» Levi si morse una delle punte della lingua: «sono stato un gentiluomo per troppo tempo, penso sempre abbiate bisogno di me, Contessa.» Ma non fece in tempo ad allargare il sorriso che lo sguardo di Alexandria volse altrove, facendogli dubitare di aver usato le parole più appropriate.
L'aiutò a scendere.

Dannazione, pensò subito dopo averla lasciata andare. Sapeva che con lei doveva stare attento, era sempre stato così. Dal giorno in cui l'aveva conosciuta fino a quel momento - e Salomone glielo aveva detto più volte, si era premurato di ricordaglielo.
Tornò alla finestra, stavolta nel tentativo di aiutare Noah e, con lui, Zenas. Con la gamba ancora provata dallo scontro e la sua stazza, Akràv sarebbe di certo stato quello più goffo. Ci vollero quindi un paio di tentativi e di grugniti soffocati prima che anche lui riuscisse a mettere piede in casa. Una volta dentro, anche nella sua espressione fu possibile leggere le stesse emozioni che aveva provato Levi poco prima.

«Casa, eh?»
Già, casa.

Alexandria e Noah nel mentre avanzarono nel corridoio, lei cercando di fiutare qualcosa, lui per mera curiosità. Si volsero dal lato opposto all'ingresso, così quando fu il turno di Nakhaš di uscire dal salotto, per scrupolo, guardò verso la porta che non gli avevano lasciato sfondare.
Accanto all'uscio, sull'appendiabiti, erano stipati pochi capi: due giacche dal taglio vintage e alcuni foulard variopinti che davano colore alla pallida carta da parati messa a nuovo.
Chiunque avesse preso residenza lì non doveva avere una famiglia numerosa, questo era certo. Doveva trattarsi di una, massimo due persone.

«Aspetta.» La voce di Alexandria, seppur un soffio, lo fece voltare di scatto. Aveva la mano stretta intorno al braccio di Noah, bloccato a metà del primo gradino che portava al piano superiore, e lo guardava dritto in viso, preoccupata: «Non muoverti senza uno di noi, okay? È pericoloso.»
Di fronte alla scena una sorta di gelosia lo colse alla sprovvista. C'era qualcosa, in quello sguardo, in quel loro toccarsi, che lo urtava più di quanto si sarebbe mai aspettato. Riflettendoci non avrebbe saputo dire con precisione chi, tra di loro, gli procurasse tanto fastidio, se  Alexandria Orsòlya Vàradi che a dispetto di qualsiasi previsione aveva messo di farsi remore riguardo a Noah, o proprio lui, che senza rendersene conto aveva finito con il ghermirla a sé esattamente come nelle vite precedenti.

Quando stavolta i denti affondarono nella lingua, Levi poté sentire in bocca il retrogusto del sangue.

Involontariamente le gambe si mossero. A grosse falcate divorò lo spazio che lo separava da loro, si fece così vicino da poter sentire il profumo della pelle di Alex, il deodorante di Noah. Sapeva di star agendo nel modo sbagliato, di star dando campo libero all'animale in lui e se ne rese maggiormente conto quando, ancor prima di raggiungerli, la pupilla della sorella gli si incollò addosso, facendogli formicolare le mani e stringere i pugni.
L'Hagufah si volse nella sua direzione: «Qualcosa non va, Levi?»
Sì, lui, il suo desiderio, la bramosia che montava all'improvviso e senza controllo.
Nakhaš si bagnò le labbra: «No, è solo che preferirei non vi allontanaste» mentì: «Ancora non sappiamo chi abita qui.»

Alexandria annuì e solo a quel punto mollò la presa sul braccio di Noah, alleggerendo il petto del fratello.

Finalmente.

«Direi di controllare il piano inferiore, allora. Che ne pensi?»  Senza aspettare la sua risposta, Z'èv riprese la perlustrazione, ma le bastarono pochi passi prima di fermarsi nuovamente.
«Che hai?» le chiese notando le sopracciglia corrugate.
Con il naso rivolto verso l'alto Alexandria si mise a fiutare l'aria al pari di un cane da tartufo e dalla sua espressione fu chiaro che qualcosa la stesse allertando.
Mosse un altro passo, poi fece una sorta di giravolta lenta. Non stava capendo da dove la traccia arrivasse né dove stesse portando, era ovvio, ma qualcosa di più strano sembrava preoccuparla.
«Akhòt...?»
«Dio, non... non può essere.»
Poi un'ombra e un tonfo.
Z'èv sussultò presa alla sprovvista e d'istinto Nakhaš afferrò l'Hagufah tirandoselo alle spalle per fargli da scudo. Ancora una volta. Sempre. Salomone in fondo veniva prima di tutto: prima della sua carne millenaria, del suo cuore umano, della sua anima mostruosa.

Lo sguardo di Levi saettò intorno a  loro alla ricerca del pericolo, certo di trovarlo. Osservò ogni angolo del corridoio, su lungo la scala che portava al piano superiore e poi giù verso l'ingresso, incapace di scorgere qualsiasi cosa. Ma come era possibile? Poi, come nei peggiori film horror, il braccio di Zenas spuntò dal vano che portava al salotto. La mano spalancata sul pavimento, le dita ancorate al parquet in cerca di aiuto. E poi i grugniti soffocati, come se avesse la faccia schiacciata al pavimento.
Cosa cazzo stava succedendo?
In un gesto rabbioso l'arto dell'uomo sparì nuovamente nella stanza dove la colluttazione stava avendo luogo e al suo posto un paio di cesoie da giardinaggio rimbalzarono contro il muro, rovinandolo.
Per un momento Levi non riuscì a ragionare, incerto se lasciare Noah alla mercé di possibili aggressori o se correre da Akràv in difficoltà; poi l'istinto, oppure il cameratismo che provava per i fratelli, lo fece scattare in avanti.
Si precipitò nella stanza pronto a colpire l'aggressore, il corpo teso e guizzante, le mani pronte a stringere. Caricò il colpo senza riflettere, agendo con una naturalezza che nemmeno lui ricordava, ma un grido alle sue spalle lo bloccò al pari di un incantesimo.

«È Colette!»
E immense iridi nere si alzarono ferocemente su di lui, facendogli perdere un battito.

 

 
 

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Capitolo 48
*** - Capitolo Ventisettesimo - Parte Terza: Wòréb ***




 

"What if I can't forget you?
I'll burn your name into my throat

I'll be the fire that'll catch you

What's so good about picking up the pieces?
None of the colors ever light up anymore in this hole"

Caraphernelia, Pierce the Veil


- controllate sempre i capitoli precedenti per essere certi di non aver perso alcun aggiornamento -

 

Immense pupille nere, tanto espanse da dare al viso una connotazione deliziosamente bizzarra. Noah non riusciva a guardare altro che quella mutazione. Dalla distanza a cui si trovava non era in grado di distinguere la pupilla dall'iride e ancor meno dalla sclera, ma a essere onesti non aveva nemmeno la certezza vi fosse una differenza. La donna a cavalcioni su Zenas, coi i suoi dreadlock stretti e tirati in una mano e l'altra a bloccargli con forza il viso a terra, era ovvio fosse una di loro, una Chimera. I lunghissimi capelli neri lanciavano riflessi bluastri, a tratti verde petrolio e si muovevano in onde leggere cullate da un vento che in quel momento lui non riusciva a sentire, dando l'impressione di essere un mantello di piume. 

Addolcendo appena l'espressione e allentando la presa sulla chioma del fratello, la donna puntò distrattamente l'indice nella direzione in cui si trovavano lui e Alexandria nascosta alle spalle di Levi. Per qualche istante restò immobile, studiandoli esattamente come un rapace, poi, in uno scatto che gli strinse lo stomaco, lo puntò. L'Hagufah si sentì schiacciare contro il muro, un animale in trappola, e gli parve che persino la Chimera al suo fianco avesse percepito una sorta di pericolo muoversi verso di lui.
Noah avrebbe voluto deglutire, o meglio ancora sparire oltre la spalla dell'arco che si apriva tra corridoio e salotto, in modo da non farsi vedere, ma ormai era lì e le sue gambe non lo avrebbero mai fatto fuggire.

«Chi è?» gracchiò lei in modo quasi buffo, ricordando una vecchia comara che si accorge di un intruso - e d'improvviso sembrò che tutti intorno a lui tirassero un enorme sospiro di sollievo. 
Levi, più di tutti, scoppiò in una fragorosa risata. Calda, piena e gioiosa, apparì inappropriata per il contesto, per non parlare del fatto che fino a un momento prima fosse sul punto di tirare una pedata dritta in faccia alla sorella. «Colette! Vecchia cornacchia del malaugurio, allora sei tu ad aver occupato casa! Ci hai fatto prendere un colpo, sai?» Fu facile immaginare che sul suo sorriso si fosse appollaiato un enorme sorriso.

«Come osi?» La donna afferrò la prima cosa che le sue lunghe dita trovarono e con rinnovata vena omicida nello sguardo la tirò al fratello. Levi non fece fatica a evitare il libro, ma Noah per poco non se lo sentì arrivare nello stomaco. Furono i riflessi di Alexandria a salvarlo - nemmeno riuscì a ringraziarla con uno cenno, tanto era pietrificato.
«Vecchia? Chi credi di essere, brutta canaglia?! Recentemente hai controllato il calendario? Se non te ne fossi accorto è quasi il tuo duemilanovecentosettantottesimo compleanno!»
Con un colpo di reni Zenas colse quell'animato scambio tra i fratelli come scusa per liberarsi e, una volta toltosi il peso di lei dalla schiena, le si gettò addosso, stringendola tanto da farla avvampare. Non fu chiaro se il suo fosse un semplice gesto d'affetto o un tentativo di bloccarla dal tirare altro contro Levi, ma di certo servì a chetarla un minimo. «Santi numi! E' dal tuo millesimo anno che ti stuzzica con queste battute, possibile che tu te la prenda ancora?» Il fatto che stesse sorridendo sicuramente non giovava all'interpretazione di quel gesto.
Con metà viso nascosto nei capelli di lei, Akràv sembrava bearsi di quel contatto in modo genuino e d'istinto i muscoli di Noah si rilassarono.

«Eddai akòth! Sei comunque bella come al tuo primo secolo» ridacchiò Nakhaš allontanando una ciocca dal viso.
«Tu, stupida serpe, hai un'idea distorta di come si facciano i complimenti!» Nonostante la dimostrazione d'affetto di Zenas e l'atmosfera ora più gaia, l'Hagufah la vide comunque storcere la bocca e digrignare i denti quasi non riuscisse a ignorare l'ironia dietro quei commenti o... una sensazione poco piacevole tornò a stringergli lo stomaco. Aveva un brutto presentimento. Forse non voleva ignorarla.

Levi mosse un paio di passi verso di lei e nello vederlo ridurre lo spazio tra sé e la sorella Noah sentì il bisogno di trattenerlo per l'orlo della maglia. L'osservò fare un mezzo inchino e porgere alla pazza una mano con quel suo solito fare cavalleresco e, ignorando il pericolo che lui sentiva essere in agguato, Zenas mollò la presa su Colette liberandola.
Noah non ebbe il tempo di aprire bocca.
La donna si aggrappò con voracità alle dita di Nakhaš, sul suo viso un'espressione tutt'altro che confortevole. Veloce come un'aquila che si scaglia sulla preda sfoderò artigli neri quanto le sue iridi che, curvandosi, entrarono nella carne di lui, ferendolo. Rivoli di sangue colarono lungo il palmo, il dorso e il polso di Levi, cadendo in goccie sul pavimento, non troppo lontane dal tappeto chiaro. L'Hagufah si sentì bruciare la carne. La sensazione che ci fosse lui al posto di Nakhaš fu così intensa da fargli spalancare la bocca in cerca d'aria. Conosceva quel dolore, lo percepiva proprio - mentre a differenza sua l'altro non fece una piega.
Il Generale si portò la mano della sorella alle labbra, la baciò con una delicatezza che in quell'istante Noah gli invidiò, poi l'appoggiò alla fronte: «La tua radiosità è talmente ovvia che nessuna parola potrebbe renderle giustizia, ma chèrie» concluse ignorando la violenza gratuita di cui era stato vittima.
Gli artigli imbevuti di sangue uscirò dalla carne di Levi, procurando all'Hagufah un nuovo bruciore. Le labbra carnose di Colette d'improvviso si tesero in una smorfia di compiacimento e con una frivolezza fuori luogo si lasciò sfuggire un verso di sorpresa. Nessun'ombra di rimorso nell'espressione, come se non avesse fatto alcun gesto riprovevole nei confronti del fratello: «Vedo che qualcosa in questi anni hai imparato... brutta bestia la fame d'amore, vero?» e inarcando il sorriso, sotto e intorno agli occhi spuntarono dalla pelle delle macchie scure che, crescendo veloci come piante nei documentari in tv, divennero presto delle piccole piume. Era inquietante vedere la naturalezza della sua mutazione spuntare dal nulla, eppure aveva un ché di bellissimo.

Nakhaš mollò la presa sulla mano di lei e si rimise dritto, spezzando la magia del suo inchino: «Fame d'amore?» le chiese, puntando il proprio sguardo in quello della sorella: «Direi piuttosto galanteria fuori moda, akhòt, ma lasciami rimediare, ho una sorpresa.» Le stesse dita a cui Colette si era aggrappata con tanta avidità si mossero nell'aria compiendo un mezzo cerchio fermandosi poi in direzione di Noah. Come un presentatore al circo portò l'attenzione generale sull'ospite d'onore, il prossimo artista e, nuovamente, il cuore del ragazzo riprese a battere forte, mentre lo stomaco si strinse nauseandolo. No, si disse, non voleva ancora gli occhi di quella squilibrata su di sé. Se un fratello lo aveva quasi accoltellato con le cesoie da giardino e all'altro aveva lacerato una mano, non volle nemmeno immaginare cosa potesse fare a uno sconosciuto. A lui, per l'esattezza.
 

Colette corrugò le sopracciglia. Il suo corpo immobile rivolto nella direzione in cui si trovava, spalle al muro e incapace di fuggire. Restò in quella posa per un tempo che all'Hagufah parve infinito, poi con l'ennesimo scatto gli si fece vicina. Fu un fulmine scuro che smosse con violenza l'aria intorno a lui. La sentì sfiorargli il viso, le narici, ma non entrò nei polmoni. Si ritrovò in apnea.
Di nuovo la testa della donna si piegò da un lato, studiandolo meglio. Noah poteva percepire le sue pupille su di sé come polpastrelli indesiderati. Sentiva la pelle tirare, il volto venir mosso da una parte e poi dall'altra nonostante lei non avesse alzato su di lui alcun dito. I secondi sembrarono dilatarsi, l'ansia mangiargli le interiora, poi Colette parlò: «Per quanto mi piacciano i ragazzi più giovani, qui mi sembra di esagerare...» Le sue labbra si piegarono in una sorta d'espressione insoddisfatta, quasi stesse davvero pensando che i fratelli le avessero portato un toyboy con cui divertirsi.

Una pressione confortante si strinse sulla spalla del ragazzo che, come strappato da un sogno, si accorse della presenza di Levi al suo fianco. Quando era arrivato? Come aveva fatto a raggiungerlo?
«So che il tuo genere è più... maturo, ma fidati, hu shoneh mageberim akherim (lui non è come gli altri).» Le parole di Nakhaš suonarono come quelle di un commerciante intento a chiudere la vendita più proficua della giornata e Noah ebbe davvero l'impressione di essere messo all'asta.

Le sopracciglia di Wórèb si corrugarono, tradendo la sua curiosità. Indietreggiò di un passo, facendo scorrere i suoi occhi dalla testa ai piedi dell'Hagufah, poi nuovamente su, come a soppesarlo. Chissà cosa stava pensando, si chiese, e chissà se sarebbe giunta a sola alla conclusione corretta.
La sua testa scattò ancora e stavolta si fissò su Alexandria. Per un istante a Noah parve che un tik nervoso l'avesse sopraffatta, come se stesse trattenendo un fastidio e il suo corpo si volesse ribellare, poi tornò a osservarlo. Che avesse sperato di leggere sul viso della sorella la risposta? Che si fosse innervosita non trovandola? Si bagnò le labbra con la punta della lingua: «E' un alchimista?» nella voce della donna stranamente si poté sentire un miscuglio di stupore, dubbio e paura, tutte emozioni che Noah sentì proprie. 
Le Chimere erano diffidenti con gli alchimisti, in fin dei conti la stragrande maggioranza di quelli rimasti erano membri del Cultus, a detta loro, quindi riusciva a capire il perché di quel tono. E in tutta onestà non gli piacque. Cosa avrebbe fatto se in un ennesimo gesto privo di controllo si fosse avventata su di lui? Levi sarebbe riuscito a salvarlo?
Accanto al proprio orecchio il ragazzo percepì le labbra di Nakhaš tendersi in una tracotanza che lo agitò ancor di più: «L'Hagufah» sibilò.

Il tempo tornò a dilatarsi.

«L'Hagufah?» Ora, sul viso di Colette, regnavano solo due emozioni, l'incredulità e la paura. Guardò Levi con così tanta intensità che parve i suoi occhi dovessero uscire dalle orbite, poi si volse verso Alexandria, stretta nelle proprie spalle in un atteggiamento insolito. Girò su se stessa per cercare Zenas, anch'egli muto e serio, poi tornò a fissare il fratello maggiore: «Zeh khata leshaqer (mentire è peccato).»
«Zuq az shelanu (allora noi siamo assolti)» le rispose.
Wòréb a quel punto non poté più ignorare la sua presenza. Gli si fece vicino, tanto che le linee nere spuntatele intorno alla parte alta del viso apparvero finalmente per quel che erano: piccolissime piume, delicate come quelle di un pulcino.
Noah  avrebbe voluto diventare parte del muro e sparire. Odiava sentirsi osservato da lei, la temeva più di quanto temesse ognuna delle altre Chimere.
Quando la mano di Colette gli si strinse sul mento alzandogli bruscamente il viso, bloccandogli il cuore in gola, di un'unica cosa fu certo: l'avrebbe ucciso. Eppure non accadde. O quantomeno non in quel momento.
«Qisheqush! (Stronzate!)» gridò: «Lanetsakh qeilu noteru ett hakhoteim (i peccatori restano tali per sempre)» e prima ancora che potesse fargli qualsiasi cosa o solamente pensare di spezzargli il collo, Alexandria le afferrò il polso, ringhiando. Il cuore di Noah battè un unico colpo, una sorta di singulto che gli fece credere d'avere un mancamento - grazie al cielo la stretta di Levi lo tenne fermo.
Le dita di Colette si staccarono dal suo viso con una certa riluttanza, come se le stessero impedendo di compiere la cosa giusta.

«Tissetaqel 'alaiv! (Guardalo!)» Anche Alexandria si fece sfuggire di bocca un tono alterato: «Guarda i suoi occhi e ascolta... Come fai a non sentirlo?» le scrollò il braccio con veemenza, infossando i polpastrelli nella carne del polso. 
Colette digrignò i denti, strattonò la sorella a sé e arrivò a un soffio dal suo viso. La superava di una spanna, a sufficienza perché desse l'impressione di volerla azzannare. «So cosa sento, Alexandria!» sputò: «Ma tu hai detto di non averlo salvato! Tu lo hai fatto morire!» 
All'inizio Noah non capì. Avvertì solo un peso soffocante cadere addosso a tutti i presenti, ammutolendoli, poi l'udito parve ovattarsi, il respiro riprendere con una lentezza tale da non essere sufficiente a farlo stare sveglio. Di cosa stavano parlando?
Avrebbe voluto guardare Z'év, cercare in lei una spiegazione, ma il suo corpo si rifiutò d'obbedire, annebbiandogli la vista. Così premette un palmo contro l'occhio, scuotendo la testa. Fuori da ogni logica, nella sua bocca si fece strada il sapore salato del mare, poi quello ferroso del sangue. Il pavimento sotto i piedi divenne liquido e in un istante si ritrovò barcollante.
Che gli stava succedendo?
Levi lo sorresse. Entrambe le sue mani gli si strinsero addosso come se conoscessero quel corpo alla perfezione, poggiandosi in punti in cui nemmeno le sentì - poi il nulla.

 



 

Yaga: Finalmente Colette è stata introdotta, cosa che mi auguro essere apparsa, a voi lettori, corretta a livello di tempistiche. E' un personaggio impetuoso, un'onda di energia racchiusa in un gran bel pezzo di figliola, ma come avete visto non è stabile.

Ammetto che la sua backstory è quella che più amo e spero prossimamente di poterla approfondire con voi - perché merita, fidatevi.

Mi raccomando, per pietà nei miei confronti lasciatemi qualche feedback T.T

 

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Capitolo 49
*** - Capitolo Ventisettesimo - Parte Quarta: Wòréb ***




- Ricordati sempre di controllare i capitoli precedenti per essere certo di non aver perso alcun aggiornamento -


 

Un lampadario.
Quando gli occhi di Noah si riaprirono la prima cosa che vide fu quella sagoma nella penombra. I cristalli pendenti oscillavano dolcemente sopra di lui, gettando scintillii tenui sul soffitto.
Per qualche istante rimase fermo a osservarli, incapace di distinguere la realtà dal sogno, poi corrugò le sopracciglia, confuso. Una volta resosi conto d'esser sveglio provò a capire in che modo fosse finito lì, ma faticava a ricordare gli istanti prima di quel momento e non si capacitava di come dal tramonto fossero passati a... si guardò attorno. Non c'erano orologi nella stanza in cui lo avevano coricato, solo un arredo modesto appartenente a chissà quale epoca passata ridipinto per farlo sembrare meno datato. Le lenzuola con cui era stato coperto profumavano di sapone di Marsilia e attorno sentiva solo l'eco lieve di una musica priva di parole.
Si mise a sedere.
Lo specchio sul piccolo armadio davanti al letto gli rimandò indietro un'immagine stropicciata di sé. Per quel poco che riusciva a distinguere notò che aveva i capelli scompigliati, il viso leggermente gonfio per il sonno e addosso la maglia con cui aveva viaggiato. Sul comodino erano appoggiati il suo cellulare, il caricatore e un abat-jour simile a quelle che aveva visto solo sulle bancarelle durante i mercatini delle pulci. Con il polpastrello ne sfiorò un angolo, certo che se non fosse stato cauto l'avrebbe rotta. Nello scivolare lungo il paralume si accorse della piega involontaria che avevano preso le sue labbra e, dubbioso, interruppe il contatto tra il dito e la stoffa. Quella stanza, seppur mai vista prima, d'un tratto gli generò in petto una sorta di nostalgia e gli venne naturale paragonare la sensazione che stava provando a quella che si poteva provare tornando a casa dei nonni dopo anni d'assenza. Conosceva quel luogo nonostante gli fosse estraneo e, quando distrattamente il suo sguardo incrociò la piccola scrivania sotto la finestra, avvertì il cuore stringersi maggiormente. Istintivamente si trascinò sul materasso, appoggiò i piedi a terra e allungò una mano per sfiorarne il legno. Sotto i polpastrelli sentì scanalature innaturali, simboli che si intrecciavano tra di loro come parole scritte e riscritte sopra altre - e un conforto che gli sembrò latente da troppo tempo s'insinuò lungo le dita e il braccio fino a raggiungere il petto in tumulto dal suo risveglio.
Con la punta della lingua si bagnò le labbra secche.
Chissà quante lettere o ricerche il suo sé di decenni o secoli prima aveva redatto, curvo su quel pezzo di legno. Chissà se mai avrebbe ricordato quei giorni. Chiuse gli occhi e prese un grosso respiro.
L'aroma del legno e del detersivo si mischiarono alla traccia lieve di salsedine e, seguendo le necessità del suo corpo, allungò l'altra mano, quella libera. Noah si ritrovò ad aprire le imposte cigolanti, scoprendo così un cielo che già preannunciava l'alba - aveva dormito più di quanto si sarebbe immaginato e, con più preoccupazione, si domandò che fine avessero fatto gli altri. Li avrebbe trovati in qualche stanza, intenti a confabulare qualcosa? Oppure avevano finito con l'ammazzarsi a vicenda? A quell'ipotesi s'irrigidì. I ricordi del pomeriggio prima guizzarono uno a uno davanti ai suoi occhi: l'aggressione di Zenas, Colette, la mano insanguinata di Levi, le dita della quarta Chimera strette al suo viso, le parole rivolte ad Alex... una fitta alla tempia interruppe il flusso di pensieri. La mano che aveva usato per aprire le imposte gli sfiorò la fronte, premendo appena nel punto dolente.
Dannazione, come aveva fatto a perdere i sensi in un momento tanto cruciale? Cos'altro si era perso?
Mordendosi forte la lingua si voltò verso la porta, le sopracciglia nuovamente corrucciate. Qualunque cosa fosse successa dopo il suo svenimento, lui era rimasto illeso, pensò, quindi anche le Chimere dovevano star bene - ma aveva comunque bisogno di accertarsene.
Svelto si precipitò sulla maniglia di ferro, la strinse tra le dita tirandosela al petto prima di catapultarsi in un corridoio confortante, dai muri giallini e il pavimento in legno. Nemmeno dovette perder tempo a orientarsi. I suoi piedi nudi inseguirono leggeri la melodia che si faceva via via più intensa. Ad ogni nuovo passo le sue orecchie sembravano distinguer meglio il brano e, una volta arrivato sul limitare delle scale che collegavano il piano dove si trovava con quello che intuì essere il terra, si stupì nel sorridere e dare un nome alla composizione. Morgen! correva per le stanze della casa come un inno al nuovo giorno e Noah, ghignando ancor di più scuotendo il capo, si lasciò sfuggire un pensiero: Colette non cambiava mai. Richard Strauss era stato il suo grande amore musicale, aveva ascoltato i suoi brani così tante volte da poterli suonare lei stessa a memoria, eppure non si era mai stancata, nemmeno dopo tutto quel tempo.

I gradini sotto di lui divennero sempre meno, il suono più intenso e, una volta arrivato sulla soglia di quella che gli parve una bellissima cucina rustica, si fermò. Wòréb se ne stava lì: i capelli raccolti malamente con un mollettone, lo sguardo rivolto all'orizzonte oltre la finestra sopra il lavello e una tazza in mano. Il suo corpo ondeggiava lento seguendo la melodia, una marea placida.

«Hite'orareta (sei sveglio).» La voce di Colette arrivò d'improvviso spezzando la poesia di quel momento e facendolo sussultare, conscio di poter essersi inconsciamente messo alla mercé del pericolo. E se lo avesse aggredito? Chi sarebbe corso in suo soccorso?
«I-io... sì. Sì, mi sono svegliato.» 
La donna si volse, in viso un sorriso timido e quegli occhi. Avvolgenti, penetranti, misteriosi. Chissà quante persone aveva ghermito e terrorizzato con il suo sguardo; chissà cosa avevano provato, le sue vittime, nel vedersi riflesse in quelle pupille che diventavano un tutt'uno con le iridi.
Gli fece cenno con il capo: «Shebi (siediti)» disse poi con un tono così dolce da fargli dubitare essere in realtà un ordine - e Noah osservò il tavolino addossato al muro, deglutendo. Attorno c'erano solo tre sedie, tutte così vicine da stringergli lo stomaco in una morsa. Se si fosse accomodato lei sarebbe stata a un soffio da lui e non era certo di volerle dare tutta quella confidenza.
«Guarda che i corvi non mordono» le labbra della Chimera si tesero maggiormente, intriganti e mefistofeliche.
«Già, ma banchettano comunque con le carcasse» sfuggì all'Hagufah prima ancora che potesse mordersi la lingua. Dannazione! Come aveva fatto a essere così sciocco?
Dalla gola di Colette però uscì senza preavviso una risatina e con la mano libera si coprì la bocca per nascondere l'ilarità. «Non importa quanti corpi cambi, mio Re, resti sempre così sagace!»  E ancora insistette con il capo.

Noah avanzò. Sentiva il cuore in gola, i muscoli tesi. Era ovvio che quella decisione fosse stupida, ma nonostante questo la prese, chiedendosi se sarebbe riuscito a fuggire in caso di necessità - e onestamente lo dubitava.
Si sedette. Lo scricchiolio del legno sotto di lui ebbe il suono di un grido agghiacciante, fu così fastidioso da fargli storcere il naso e stringere i pugni. No, nemmeno la sedia prometteva bene, figurarsi una qualsiasi conversazione che avesse avuto luogo con quella creatura.
Sperò che una qualsiasi delle Chimere gli venisse in soccorso, peccato che i secondi passassero e nessuno spuntasse dalla soglia.

Wórèb afferrò un'altra tazza, la riempì e gliela mise sotto al naso con un gesto meno violento di quanto l'Hagufah si sarebbe aspettato. Lo sguardo gli cadde involontariamente sul liquido ambrato: che fosse avvelenato? Gli sarebbe piaciuto capirlo, ma il profumo intenso di camomilla impediva al suo olfatto di percepire altro.

Fissò lei. In viso ancora quel suo sorriso ambiguo, spiazzante. Possibile che Colette soffrisse di bipolarismo? Oppure era solo una psicopatica lasciata alla mercé del tempo e della solitudine? Lo impauriva, doveva ammetterlo, eppure in un angolo recondito di sé aveva il sospetto che mai gli avrebbe fatto del male - certo, peccato che avesse perforato la mano di Levi con i propri artigli e cercato di sgozzare Zenas solo il giorno prima...

«Quindi» la donna si lasciò cadere sulla seduta: «questo è il nuovo corpo?»

Beh, rifletté Noah, tutti gli indizi sembravano dire di sì, eppure non se la sentì di rispondere con fermezza a quella domanda: nel profondo della sua coscienza stava ancora sperando che fosse tutto un sogno. Non riusciva a crederci davvero, ne aveva paura; dopotutto il sospetto che il pericolo fosse imminente non lo abbandonava mai, in particolare dopo gli avvenimenti di Vienna. Sarebbe seriamente stato capace di vivere una, cento vite così?
Smosse la tazza: «A quanto pare...» sussurrò poi.
«E a te invece cosa pare?» Il tono incuriosito di Colette sovrastò la musica intorno a loro catturando l'attenzione. Era intenta a osservare il fondo della propria chicchera con una smorfia di delusione stampata in faccia, come se avesse bevuto qualcosa di terribilmente amaro.
«In che senso?»
«In quel senso» nuovamente un sorriso: «Insomma, ti sarai fatto un'idea della situazione?»
L'Hagufah si bagnò le labbra. Erano secche come la gola, restie al parlare - peccato che estraniarsi dalla conversazione non avrebbe certo potuto giovare.
«Sono un contenitore, per quel che ho capito, quindi c'è poco su cui crucciarmi.»
«Oh! Non sminuirti così! Tu sei Salomone.»
Noah trattenne una risata: «Davvero? Perché a me non sembra. Lui è  lui ed io... sono io. Quando Salomone prende possesso di questo corpo io...» si interruppe, scuotendo il capo. Non era certo di saper descrivere la sensazione che provava quando la coscienza di Salomone emergeva, a dire il vero non ci si era mai soffermato. Diventava una sorta di co-pilota? Uno spettatore inerme?
«Tu cosa?» lo precedette Colette poggiando la tazza sul tavolo. Era vuota, completamente. Le pupille della Chimera si mossero curiose dalla ceramica a lui: «Ti hanno mai spiegato come funziona essere l'hagufah? Cosa accade quando avviene questo genere di trasmutazione?» gli chiese come una professoressa durante un esame.

Noah corrugò le sopracciglia.
No, onestamente né Levi né Zenas o Alexandria si erano mai premurati di spiegargli quel tipo di dinamiche e lui si era preoccupato di altro, come la consapevolezza che al mondo esistesse qualcosa come l'alchimia nella sua forma più fantastica, la fuga da casa, le giustificazioni da dare... no, quello non era stato tra gli argomenti che aveva approfondito.

Wòréb si mordicchiò le labbra. Erano carnose, ben definite e rosee: chissà quante verità sarebbero potute uscire da lì.
«Non che io sia la più esperta, chiariamoci... Mio fratello Nakhaš ha certamente più conoscenze in merito, eppure capisco che sia difficile parlare con lui di queste cose.» Con eleganza accavallò le gambe: «Lui è più... peraqeti (pratico).» E in effetti, Levi non si era mai preoccupato di parlargli dei tecnicismi dell'Ars, in verità nemmeno Zenas lo aveva fatto; entrambi si erano concentrati sui ricordi, sulle emozioni del passato. «Ad ogni modo, se può consolarti, io lo sento. So che sei il mio Re, ma immagino che per te sia un altro discorso.» fece una piccola pausa soppesando i concetti da esprimere: «Vedi, quando avviene una trasmutazione l'anima ha bisogno di un involucro nuovo, uno spazio da riempire, un po' come per la camomilla.»
La confusione fu tale che Noah non dovette dire nulla, sul suo viso si disegnò automaticamente un punto di domanda che persino una squilibrata come Colette non riuscì a ignorare, quindi riprese: «Nella mia tazza ora c'è aria. Solo ed esclusivamente. Se io però la  dovessi riempire con la camomilla, l'aria sparirebbe.»
«Quindi?» 
«Quindi?» gli fece eco: «Oh, caro! Quando hai deciso di entrare in questo corpo tu hai ucciso l'anima proprietaria! Era una questione di sopravvivenza, o tu o lei. Insieme non ci sareste stati!» 
Ancora più confusione.
La Chimera si protese: «Non esiste alcun Noah. È morto quando tu sei stato sposato.»

Un groppo gli si formò in gola. Se per errore avesse avuto la camomilla in bocca ci si sarebbe strozzato.

Lei invece rise, esattamente come ci si sarebbe aspettato. 

 «Ma-» Noah si lasciò andare sullo schienale, le mani ora inermi tra le gambe: «Questo vuol dire...»
Colette si sporse verso di lui, alcune ciocche sfuggite al mollettone le scivolarono davanti alle spalle:  «Ben ritrovato, sire.»
 «Io però-» scosse il capo.
 «Non hai memoria, non ti senti chi sei veramente e bla, bla, bla!» Le sue pupille si alzarono al cielo per ricadere scocciate su di lui:  «Ma guarda! Paiono proprio i sintomi di un'amnesia e... beh, caro, vorrei ricordarti che giocare con le anime e i corpi, oltre alla morte, può portare anche conseguenze sulla psiche.» A quel commento l'Hagufah si morse la lingua. Avrebbe voluto risponderle che sì, glielo avevano già detto, ma ora guardando lei ne aveva avuto la riprova. Peccato non fosse tanto masochista. «Toglimi una curiosità però» la voce di Colette lo strappò ai propri pensieri: «perché nonostante l'amnesia ti sei fatto trascinare ancora in questa storia? Insomma... o hai dovuto compiere una trasmutazione di corsa, o hai volontariamente deciso di farla male. Hai scelto di dimenticare, forse per liberarti di chissà quale fardello, quindi perché tornare da noi?»

Le labbra di Noah si schiusero desiderose di dare una risposta, eppure non l'aveva. L'ipotesi intavolata dalla Chimera non aveva mai minimamente sfiorato i suoi pensieri e, se l'aveva fatto con quelli dei suoi compagni di viaggio, di certo non l'avevano condivisa con lui. In tutta onestà, non gli erano state lasciate molte alternative. Catapultandosi nella sua vita, Levi, Zenas e Alexandria avevano stravolto ogni cosa. Sì, gli avevano detto che se avesse voluto avrebbe potuto rifiutarsi di partire con loro, ma avevano aizzato in lui una curiosità logorante, nonché si erano portati appresso la minaccia del Cultus. Restando a Vienna avrebbe messo a rischio non solo se stesso, ma tutte le persone a cui si era affezionato. La risposta alla domanda di lei poteva quindi essere solo una: «Non avevo scelta.»

Colette si passò la lingua sulle labbra nascondendo un sorriso, poi allontanò lo sguardo verso l'alba sempre più simile a una mattina: «Non prendiamoci in giro, mio Re.» Tornò a guardarlo. La luce dorata del giorno le carezzò la chioma mettendo in risalto le sfumature bluastre, a tratti verdi: «Ho vissuto davvero tanti anni, più di quelli che avrei voluto, lo sai. Ti ho conosciuto, Salomone. Ho visto ogni tua faccia, sia esteriormente che internamente. Tu non dubiti, non cedi a nessuno se sotto sotto non lo vuoi. Sei un Sovrano ed è questo che gli uomini come te fanno. Hai avuto scelta ed è qui che ti ha portato. Chissà se è stato il tuo amore per Levi o il brivido dei bei vecchi tempi a farti cambiare idea. Me lo dovrai spiegare, un giorno.»
Con le dita affusolate s'impossessò della tazza che gli aveva porto poco prima, se l'accostò alle labbra e ne bevve un sorso.

«E se non dovessi mai ricordare?» gli sfuggì di bocca prima che potesse realmente soppesare quelle parole.
Lei fece spallucce.
«Lo farai.»
«Come fai a esserne tanto sicura?»
Colette allontanò la ceramica dal viso. Il suo sguardò cadde lontano: «Capisci l'ebraico, giusto? Questo è già un segno.» La tazza tornò sul tavolo e la Chimera colse l'occasione per sciogliersi i capelli. Sembrava così serena rispetto al giorno prima. Nonostante gli sbalzi d'umore che l'avevano colta anche durante quella conversazione, a Noah parve di poter compiere un passo falso vista la sincerità con cui gli aveva parlato; così deglutì il timore.

«Posso farti una domanda?» Di fronte a quella richiesta le sopracciglia di Wòréb si piegarono in un arco perfetto, il suo viso s'illuminò. «Perché quando Salomone è morto vi siete separati?»
La gioiosa sorpresa di lei mutò improvvisamente. Le labbra si piegarono all'ingiù e le sue immense pupille fuggirono da lui. Scosse appena la testa.
«Non è colpa di nessuno» biascicò, quasi stesse parlando tra sé e sé. Aveva smesso di rivolgersi a lui e, di tanto in tanto, nell'esitazione delle sue parole, il capo le scattava compiendo un movimento tipico dei rapaci. «O forse di tutti. Un tempo si sono levate molte accuse, sai? Alcune talmente maligne che hanno creato squarci impossibili da ricucire. Anche adesso, per quel che mi riguarda.» Il tono era acuto, come se stesse provando a recitare un copione la cui scena drammatica era giunta; eppure Noah non dubitò nemmeno per un secondo della sua sofferenza. Se la voce e le parole avevano un ché  di forzato, i suoi occhi umidi e vacui valevano più di tutto il resto:  «La sofferenza unita al verbo è un'arma micidiale, mio Re, persiste nei secoli e può essere maneggiata da chiunque, anche dagli stolti. Arriva dritta al cuore e lo lacera, una lama che non ammette errori... La piccola Z'év ha avuto semplicemente la sfortuna di diventare il capro espiatorio di un fallimento comune.» Tese le labbra per un istante, l'ennesimo tic che provò a tradirla. «Zenas ha provato a difenderla, me lo ricordo bene... ed è finito a sua volta nel mezzo. Abbiamo compiuto un massacro nei giorni seguenti alla tua scomparsa, ci ferivamo con così tanta rabbia...»

All'Hagufah si strinse lo stomaco. Nemmeno riusciva a immaginarsi quei momenti, la frustrazione e il senso di smarrimento che doveva aver colto le Chimere.
«E Levi? Lui non ha preso le redini della situazione? Non ha...»
Stavolta il ghigno di Colette rimase sul suo volto per più tempo: «Cosa avrebbe dovuto fare? Era distrutto. La sua vita improvvisamente aveva perso un senso d'essere. Tu sei il motivo per cui lui esiste. Non ti aveva mai realmente perso. Per te aveva rinunciato anche al suo desiderio più grande, io lo so! E d'improvviso non c'eri più.» Finalmente tornò a fissarlo. Un'ombra le aveva oscurato lo sguardo: «Nakhaš non mangiò o uscì dalla propria stanza per giorni e quando lo fece, beh... era ormai troppo tardi. Alexandria era partita di notte senza dire nulla a nessuno e Nikolaij l'aveva seguita, forse. Zenas ed io stavamo preparando i bagagli per luoghi differenti, convinti che mai avremmo voluto rivederci. Hamza e Willhelmina invece uscivano, sprofondavano nell'alcol e nei vizi, tornavano giusto per lamentarsi di quanto fossimo infantili e poi sparivano di nuovo.» Si morse le labbra con veemenza, rischiando di romperle. «Tu non c'eri più, non saresti tornato ed il nostro mondo era sprofondato nell'oscurità. Finalmente eravamo libere, anche di morire, eppure la cosa ci faceva talmente male da non volerlo realizzare.» 

La stretta allo stomaco aumentò e una sorta di nausea parve minacciare la gola di Noah. Era stato davvero così importante un tempo? Aveva davvero distrutto le loro vite e la famiglia imperfettamente perfetta che erano stati sino a quel momento? Si sentì bruciare. Con una mano strinse forte la maglia, all'altezza del petto in modo da far passare più aria possibile. Tirò tanto che il collo di cotone emise un rumore di cuciture rotte tutt'altro che rassicurante.

Non riusciva a comprendere. Più si sforzava meno otteneva, esattamente come quando cercava di ricordare. Senza accorgersene affondò i denti nel labbro inferiore. Con un pugno picchiò sul tavolo: «Vorrei riavere indietro la sua memoria, davvero. Vorrei potervi aiutare, capire, rispondere, ma...» La sensazione di calore aumentò, il suo corpo ne fu invaso. Doveva a loro così tanto da far male nonostante li conoscesse da poco più di un mese, eppure sapeva che la storia del Re e le sue Chimere nasceva molto prima della sua attuale coscienza.
Premette il braccio sul tavolo, lo fece con una rabbia che non riusciva a controllare e, d'improvviso, qualcosa accadde. Il legno si fece molle come un materasso, il suo pugno vi sprofondò dentro nascondendo tutto il mignolo - quando Noah se ne rese conto, spostando lo sguardo, si accorse di aver sciolto la superficie del piano.

Colette spalancò le palpebre: «Oh, beh! Direi che imparare nuovamente a governare l'Ars potrebbe essere un ottimo punto di partenza per noi!» Con dita sicure, cosa che lui al suo posto non avrebbe mai osato fare, gli cinse la mano. Per tutti i secondi in cui la loro pelle restò a contatto, l'Hagufah trattenne il fiato, terrorizzato all'idea di rivivere con Wòréb ciò che era accaduto con Z'év: «Però gradirei che il tuo allenamento non coinvolgesse l'utensileria di casa mia, caro... sai, ci tengo» scherzò poi, come se il loro contatto non avesse generato in lei alcuna reazione.
Come era possibile?

Habemus Capitolo! E quasi non ci credo T.T
Stravolgere la conversazione tra Noah e Colette (e in generale l'apparizione della Quarta Chimere) è stato davvero estenuante, sarò onesta, ma mi auguro che il risultato ne sia in parte valsa la pena. Di certo ci sarà bisogno di un'ulteriore revisione, più avanti, però per adesso mi accontento del risultato - voi, invece, fatemi sapere cosa ne pensate!

 

A presto!

 

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Capitolo 50
*** - Capitolo ventottesimo - Parte prima: Trova il Vitriol ***




- controlla sempre i capitoli precedenti per essere certo di non esserti perso alcun aggiornamento -
 

"This is the time when all I was convinced of gains a new meaning,

an unknown awareness, a secret life of words.
You may say my eyes are empty and my skin is so withered,
but unlike a candle my life burns from both ends!"

From yesterday to ashes, Harakiri for the sky


 

 

A Levi ci erano voluti giusto un paio di pomeriggi per recuperare dai meandri della casa diari e libri che Salomone, in una delle sue tante vite precedenti, aveva avuto la premura di nascondere, forse sospettando che a un certo punto gli sarebbero potuti tornare utili. Da quello che aveva detto la Chimera erano stati messi in punti strategici, protetti da sistemi di sicurezza che solo chi aveva grande conoscenza dell'Ars, o era stato presente il giorno in cui erano stati attivati, avrebbe saputo come raggirare. E Noah non si era preoccupato di chiedere altro. A dire il vero, non gli piaceva l'idea di apparire agli occhi delle sue creature come uno stolto. Così aveva preso i volumi poco per volta, leggendoli con una certa, intima bramosia. Non voleva che i suoi compagni di viaggio sapessero con quanto desiderio, in solitudine, volesse scoprirsi. Era stufo di essere ignorante, di non sapere, di essere sopraffatto dalle loro confessioni - per una volta avrebbe voluto potersi dire preparato.

Così, nella libertà che gli era stata concessa, l'Hagufah aveva appreso più cose di quanto si sarebbe mai immaginato. Si era letto in epistole scritte a persone che mai le avevano ricevute e in diari che parevano essere più delle tesi di laurea che confessioni a se stesso.
Insieme a tutto ciò era sopraggiunta anche una tranquillità familiare. Si muoveva per la casa come se fosse sempre stata sua e durante le telefonate con gli amici e i parenti della vita che stava provando ad abbandonare gli uscivano di bocca menzogne di cui si accorse non pentirsi. Finalmente, dopo tanto tempo, si sentiva al posto giusto e con le persone a cui era destinato da... sempre. Tutte le allucinazioni che lo avevano assillato si erano fatte concrete, carne, ossa, profumi e suoni in cui trovava conforto ogni giorno - e in quel conforto si spinse a osare.
La mattina presto, quando Levi usciva per allenarsi, Colette per andare in città a svolgere chissà quale attività e Alexandria restava sotto le lenzuola, lui scendeva al piano di sotto e prendeva possesso di una delle sedie in cucina. Restava lì mentre con sapienza Zenas preparava leccornie per la colazione. La prima volta che gli aveva posto una domanda, la Chimera aveva interrotto il suo impastare aggressivo, si era voltata con le labbra schiuse e aveva corrugato le sopracciglia prendendosi diversi minuti prima di dire qualsiasi cosa. Il giorno seguente era andato pressoché nella stessa maniera, poi Zenas aveva pian piano ridotto le reazioni, limitandosi a far diventare le sue risposte parte integrante della preparazione dei croissant. I dubbi di Noah erano diventati più specifici e, a un certo punto, si era concesso il coraggio di chiedere il motivo per cui la sua Ars fosse tanto speciale, ma soprattutto perché il Cultus la volesse.
Le mani di Akràv erano affondate nell'impasto, l'avevano stretto e schiacciato e con estrema pazienza aveva iniziato a raccontare ciò che sapeva. Agitando la testa per allontanare il dreadlock sfuggito dalla crocchia, Zenas gli aveva detto che c'erano stati altri alchimisti nel tempo, ma nessuno di loro aveva mai potuto apprendere direttamente da Salomone. Erano orbitati intorno alla loro famiglia senza mai riuscire a farsi accettare veramente, così avevano estrapolato dai pochi discorsi con il Re le basi, rielaborato i concetti secondo le ideologie moderne e, alla fine, avevano creato un ibrido abbastanza accettabile da venir chiamato nella stessa maniera. La loro però era più un'accozzaglia di scienza e filosofia, non qualcosa di paragonabile alla magia e, forse, perché nessuno aveva oltrepassato gli insegnamenti della Magnum Opus come aveva fatto lui. Insomma, il Cultus aveva creato delle imitazioni, non dei veri e propri alchimisti. Molti di loro riuscivano a manipolare un elemento, a trasformarlo e muoverlo secondo il proprio desiderio, ma nulla più. Il Re, invece, aveva controllo su tutto, persino la vita e la morte.

Apprese quelle nozioni Noah aveva ripreso i suoi studi per poi, qualche giorno dopo, avvicinare Colette. A lei aveva chiesto cose semplici, basiche persino, giusto per essere certo di aver compreso bene gli appunti preliminari dell'Hagufah che lo aveva preceduto. Con lei aveva chiarito il perché fosse necessario avere un'ottima conoscenza della chimica e, di conseguenza, quanto i suoi studi all'università lo stessero agevolando in tutto quel percorso. Le loro erano state chiacchiere, più che insegnamenti o spiegazioni, un confronto insolitamente normale e maturo.

Il terzo approccio, abbastanza involontario, era stato quello con Alexandria che, trovandolo in giardino intento a studiare, gli si era seduta accanto allungando il collo per sbirciare a che punto fosse. Per un momento aveva creduto che fosse stato Levi a mandarla lì. In un angolo recondito di sé sospettava che lo stesse tenendo d'occhio, forse perché Zenas, o addirittura Colette, lo avevano informato dei loro incontri.
Alex prese un sorso di succo. Lo teneva in una tazza di metallo piena di segni d'usura e bozzi dovuti a chissà quali tipi di urti. «Vedo che sei arrivato al vitriolo» constatò leccandosi le labbra come un animaletto. Lui distolse lo sguardo: «Già, ma ci sto capendo gran poco.» Eppure avrebbe dovuto essere un argomento semplice, l'ennesimo elemento composto da ripassare e superare - peccato che negli appunti di Salomone sembrasse essere altro, più di quello che aveva sempre saputo. Ne scriveva come se nascondesse qualcosa, un potere simile, ma non uguale o altrettanto evidente, a quello del sangue. Eppure non riusciva a capirne il motivo.
La Chimera bevve ancora: «E perché mai?» La risatina lieve che le uscì di bocca sembrò un tintinnio nel vento.
Noah scosse la testa, incapace di trovare la situazione divertente, e in un gesto involontario chiuse il diario prima di abbandonarlo tra di loro, quasi rinunciando a proseguire. Sentiva i pensieri affollarsi nella mente, premere sulle tempie chiedendogli di uscire.
«Non so» ammise: «è solo che ne parla come se... non si trattasse di semplice vetriolo.»
Alexandria afferrò il diario. Con movimenti cauti lo aprì, fece scivolare una pagina dietro l'altra davanti al proprio viso. Nell'osservarla, all'Hagufah sembrò di restare incantato dalla sua espressione serafica e compiaciuta, da quella consapevolezza per nulla celata di stargli per rivelare qualcosa che gli era sfuggito.
«Io ho detto vitriolo, non vetriolo» sogghignò, come se vi fosse qualche differenza.
«Tu usi i termini della tua epoca» la punzecchiò, sentendo una certa soddisfazione nell'averla presa alla sprovvista. Dopo tutte le volte che lo aveva definito un "moccioso" gli parve la ricompensa più adeguata - peccato che lei non fece una piega.
Con il sorriso ancora appollaiato sul viso, Z'év interruppe la propria ricerca e, aprendo per bene le pagine del diario, proseguì ignorando il suo commento: «Vitriol, Noah. Tu non hai scritto del vetriolo, hai scritto di qualcosa molto più importante.»
Il ragazzo corrugò le sopracciglia.
Non capiva. Anzi, se doveva essere del tutto onesto gli parve di andare ancor più in confusione; e Alex dovette capirlo. Senza esitazione mollò la tazza in un punto sicuro, poi si sporse tanto che Noah sussultò nel momento in cui i loro nasi quasi si sfiorarono. La mano di lei si premette sul suo petto e un brivido gli corse lungo la schiena. Il battito accelerò a tal punto che sembrò prendere la rincorsa per bloccarglisi in gola e per un momento, uno solo, credette che lo avrebbe baciato. Mentre le dita della Chimera gli si stringevano con bramosia sulla t-shirt, il suo corpo riuscì a elaborare solo un'immagine, seguita dalla sensazione delle labbra secche di lei sulle sue.
Z'év però aveva un controllo ben superiore a quello che lui aveva creduto e si fermò alla distanza perfetta per illuderlo, per fargli credere tutto ciò.

«Il Vitriol» la mano di lei strinse maggiormente sulla stoffa, parve volerlo trascinare ancora un po' più a sé: «non indica solo qualcosa di fisico. Benché in passato si credesse che fosse talmente corrosivo da poter penetrare fino al centro della Terra, arrivando al suo nucleo, il vitriolo ha anche un altro significato. Mi segui?» Noah avrebbe voluto dire di sì, ma temette che qualsiasi movimento delle proprie labbra, persino il semplice schiudersi per respirare, l'avrebbe portato a baciarla come mai aveva pensato di fare - così rimase immobile. Era conscio di star provando qualcosa di sbagliato, di non dover desiderare quel contatto per una ragione al momento oscura, eppure non riuscì a mettere a tacere i propri istinti. Più stavano vicini, più d'un tratto la desiderava - o forse era solo un gioco perverso dello stress.
Alex tese gli angoli della bocca, ignara di tutto ciò che la sua presenza gli stesse facendo provare. Nemmeno una volta, nelle occasioni precedenti, si era sentito sopraffare da quei sentimenti, dal desiderio di compiere un gesto tanto sconsiderato.

Doveva per forza essere un tiro mancino della stanchezza.

«Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem.» Sibilò facendo cadere il proprio sguardo sulla parte bassa del suo viso, quasi stesse pronunciando quelle parole per fargliele ingoiare, come un respiro, una boccata di fumo. Lo stomaco di Noah si torse. Conosceva quelle parole e d'improvviso conosceva le azioni di Alexandria, perché un tempo erano state sue. Anche i suoi occhi caddero sulle labbra di lei: «Visita l'interno della terra e rettificandoti troverai la pietra nascosta» sussurrò in quel modo intimo e sensuale con cui lei lo stava indottrinando, come le era stato insegnato in passato.
Lo sguardo della Chimera incrociò il suo: «Esattamente. Ma parafrasiamo il tutto, che ne dici?» Improvvisamente il viso di lei si allontanò, ridandogli aria e un senso di incompiutezza fastidioso. La mano allentò la presa sulla maglietta e Alexandria smise di provare ad ammaliarlo: «Devi cercare dentro di te, negli angoli più oscuri e profondi. Devi trovare il fondo del tuo animo e, solo comprendendone l'essenza, potrai trovare il fulcro del tuo potere e ghermirlo.»

Finalmente Noah deglutì.
Era quello il senso. Era sempre stato quello - e chissà quante cose gli erano sfuggite durante la lettura degli scritti di Salomone; chissà quanti significati nascosti aveva celato dietro parole di quel tipo. Forse, persino quello che gli aveva detto Zenas riguardo alla Magnum Opus e all'incapacità del Cultus di padroneggiare l'Ars ai suoi livelli era collegato al Vitriol.

Fissò Alexandria. Le fu grato come mai prima d'allora. L'istinto di baciarla tornò a fargli visita e, senza controllo, si chinò su di lei. Le sue labbra le toccarono lo zigomo, vi si premettero con forza. Ne sentì il sapore sulla punta della lingua. La pelle di lei era come un dolce.
«Grazie, Z'év» e imbarazzato dal suo stesso gesto, con il cuore a martellargli in petto, prese il diario e corse via senza alcuna spiegazione.

 
 
Magnum OpusLa Grande Opera, conosciuta in latino come Magnum Opus, è l'itinerario alchemico di lavorazione e trasformazione della materia prima, finalizzato a realizzare la pietra filosofale. Consiste in diversi passaggi che conducono gradualmente alla metamorfosi personale e spirituale dell'alchimista, ai quali corrispondono, secondo la tradizione ermetica, altrettanti processi di laboratorio.

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Capitolo 51
*** - Capitolo ventottesimo - Parte seconda: Trova il Vitriol ***




- controlla sempre i capitoli precedenti per essere certo di non aver perso alcun aggiornamento -




Levi aveva assistito alla conversazione tra Noah e Alexandria a distanza di sicurezza, restando sdraiato su una porzione di tetto adiacente alla finestra di camera propria, quella che un tempo aveva condiviso con Hamza. Era rimasto immobile al sole, crogiolandosi nel suo tepore, ma non aveva potuto evitare di sentirsi sopraffare da un brivido quando, con la coda dell'occhio, aveva visto prima il viso della sorella avvicinarsi pericolosamente a quello del Re, poi, lui non fermarsi e poggiare le proprie labbra sulla guancia di lei. Il senso di fastidio e gelosia che aveva provato al loro arrivo lì, quando li aveva visti vicini nel corridoio, era rimontato in lui come un geyser, facendogli stringere i pugni e fuggire dal lato opposto della veranda.
Era saltato giù con la sua consueta agilità e aveva finito con l'incamminarsi verso il mare, a ridosso del limitare della proprietà, armato solo di un libro che aveva rubato dagli scaffali di Colette.
Camminava svelto, imperterrito, pronto a mettere quanto più spazio possibile tra sé e quella scena - perché odiava essere solo uno spettatore, detestava l'idea che qualcuno potesse essere al suo posto. Ma non poteva ammetterlo. Non poteva ribellarsi. Lo aveva giurato quella notte pur di ottenere qualcosa di più importante e mai si sarebbe permesso di infrangere la propria promessa.
Involontariamente strinse la presa sul libro. La ruvidezza della copertina gli infastidì i polpastrelli. Se fosse stato suo lo avrebbe lanciato a terra, ma si trattenne. Doveva riprendere il controllo di sé, mettere a tacere ogni sorta di sentimento inappropriato e fingere di non aver visto nulla per l'ennesima volta.

Levi prese un grosso respiro e nell'alzare gli occhi al cielo vide le fronte dei lecci che segnavano la fine del loro giardino; poco più avanti, il muretto che Colette aveva detto di aver fatto costruire per questioni burocratiche. Un senso di illusoria tranquillità lo accolse e lui non si fece remore a sedersi sulle radici di uno di quegli alberi. Si beò del rumore del vento tra le foglie, della salsedine che, persino da qualche chilometro di distanza, arrivava sin lì. Chiuse le palpebre e appoggiò la testa al tronco provando a rallentare il battito.

Uno, due, tre, quattro, cinque.
Uno, due, tre, quattro. Cinque.
Uno, due, tre. Quattro. Cinque.
Uno, due. Tre. Quattro. Cinque.
Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque.

Rimase immobile per un tempo che non riuscì a calcolare e nel mentre,  con una certa timidezza, qualche pensiero tornò a fargli visita.
Quanto gli era mancato quel posto, ammise. Quanto gli era mancato il sollievo procurato dalla consapevolezza di dove fossero e come stessero i suoi fratelli, aggiunse. E quanto gli era mancata la certezza che Salomone fosse a un passo da lui. Per troppo tempo aveva creduto che sensazioni di quel tipo non sarebbero più tornate, eppure da quando aveva trovato Alexandria, poi Zenas e infine Noah, la nostalgia si era dissolta. Quasi faticava a crederci. Se solo un paio di anni prima, chiunque, gli avesse detto che sarebbe tornato tra le braccia della sua famiglia avrebbe generato in lui fastidiosa ilarità. Più ci pensava, più il disagio si faceva flebile e un senso di tranquillità andava aumentando. Levi si fece cullare da ognuno di quelle parole e pensieri, forse si appisolò leggermente, ma alla fine, come Caronte dalla sua barca, una voce lo riportò alla realtà.

«Ehi.»

Nakhaš schiuse appena una delle palpebre, sbirciando da sotto le ciglia chi lo avesse seguito sin lì. Come invocato dai suoi pensieri, la Chimera trovò l'Hagufah che lo fissava diverse spanne più in alto. Le guance rosse e il fiato grosso per la corsa - o forse per quello che era successo con Alex, lo pizzicò malignamente il subconscio. Involontariamente una stretta gli afferrò lo stomaco, ma provò subito ad allontanare dalla mente quell'idea. No, il suo aspetto era solo frutto dello sforzo fisico, si convinse.

«Ho una teoria» sputò Noah continuando a fissarlo.
Levi sorrise: «Riguardo a cosa?»
Il ragazzo alzò un braccio, in mano un paio di diari che lui stesso gli aveva dato. Uno era quello riguardante il Vitriol, l'altro faticò a riconoscerlo, ma di certo doveva contenere qualche argomento altrettanto importante. «Io sono la fonte, la pietra filosofale. Da me ha origine la forza per poter mutare il mondo, giusto? È per questo che l'Ars di Salomone era così potente.»

Nakhaš si stiracchiò le braccia, abbandonando definitivamente il torpore dell'abbiocco.
«Sembra quasi la descrizione di come nasce un Jedi, sai? Però sì, hai quasi capito.» Gli occhi di Noah si fecero grandi di gioia, la soddisfazione ridisegnò l'espressione che aveva in viso. Levi lo invitò a sedersi di fronte a sé: «L'alchimia è una forma di magia che si sviluppa nel corpo di alcuni soggetti, ma tu non sei la pietra filosofale... o meglio, lo siete tutti una volta che siete vivi e umani» spiegò cercando di farla sembrare una nozione semplice, in modo da non deludere le sue aspettative. Voleva aiutare il nuovo Hagufah più di chiunque altro, voleva fornirgli tutto ciò che fosse stato necessario per farlo tornare il Re a cui aveva giurato fedeltà, il fratello con cui aveva condiviso ogni cosa, la persona per cui avrebbe ancora rinunciato a tutto.
Con pazienza attese che Noah si fosse messo comodo, poi gli fece una domanda: «A che punto sei con le letture che ti ho dato?» Nei giorni precedenti lo aveva visto studiare senza sosta, ma non era riuscito realmente a tenere il conto di quanto, del materiale che gli aveva fornito, fosse riuscito a leggere.
«Ammetto che l'ebraico non è stato d'aiuto, ma ho quasi finito. Mi manca qualche lettera.»  

Nakhaš non riuscì a trattenere il sorriso. In meno di un mese era stato capace di fare ciò che, il sé del passato, aveva quasi impiegato anni a redigere.
«E..?»
Noah si umettò le labbra, riflettendo su cosa o come dirlo: «E fa paura, in parte,» ammise dopo qualche secondo, abbassando lo sguardo sulle proprie dita appoggiate ai diari: «alcuni concetti mi risultano così confusi e strani, ma è anche tutto così dannatamente affascinante... io...» scosse la testa, forse stupendosi di se stesso. «Non riesco a fingere di non volerne sapere di più.» Negli occhi grigi dell'Hagufah si mosse qualcosa, un lampo febbrile che mozzò il fiato di Levi. Il nome del Re gli sfiorò le punte della lingua, fu sul punto di pronunciarlo, ma si morse una guancia per non commettere quell'errore. Di fronte a lui non c'era Salomone, non ancora - ma si stavano avvicinando sempre più.

Con una mano si smosse la chioma scura, un mero tentativo di nascondere la propria gioia: «Cosa ti spaventa?» domandò retoricamente, conoscendo già la risposta che sarebbe sopraggiunta. In qualsiasi vita che avevano vissuto, le paure del suo migliore amico erano rimaste le stesse. Alle volte le taceva, altre le sussurrava. Poteva cambiare la forma in cui le confessava, ma restavano loro - e se Noah aveva letto ogni singola pagina di quei diari e lettere, se davvero nella sua mente si erano impresse formule e simboli, ciò che poteva spaventarlo era solo il mĕẖiyr (prezzo) imposto dall'eresia che avrebbe compito.

L'Hagufah si concesse qualche istante, si guardò alle spalle in direzione della casa, come se da quella distanza qualcuno potesse udire i suoi timori, ma alla fine parlò: «Ci vuole sangue, sempre, anche per la trasmutazione più piccola. Questo vuole dire che l'Ars è mossa dalla violenza.»
Già, persino Salomone, che di quella magia era diventato il più grande esponete, sapeva che sinonimo di sangue era la vita, quindi, l'Alchimia aveva un'essenza macabra e violenta.
Nakhaš sospirò.
«La quantità varia in base a cosa vuoi fare.»  Gli confermò, schiarendosi la gola. «Se parliamo di trasmutazioni semplici basta una goccia, qualche centilitro al massimo, se invece vuoi compiere questo» con una mano s'indicò da capo a piedi, soffermandosi appena in prossimità del sigillo: «ti serve tutto il sangue di un corpo e non solo. Litri, per essere precisi.»
Innanzi a quella confessione, Noah non parve vacillare. Doveva già esserci arrivato da solo, oppure la natura curiosa del Re stava avendo la meglio sulla sua coscienza.
Vide i suoi denti affondare nel labbro inferiore, lo sguardo assentarsi per qualche breve momento, poi ritornare sul presente con più vita. 

«Come ho pagato il debito per la tua anima, Levi?»

Senza alcun preavviso una morsa strinse il cuore millenario della Chimera. Il battito rallentò a tal punto che pensò si stesse fermando, come durante la mutazione. Nakhaš non seppe spiegarsi il motivo di una simile reazione. Sapeva bene che Noah aveva dimenticato tutto, che quel poco che sapeva era frutto delle allucinazioni che lo avevano perseguitato da bambino, ma la cosa lo rattristò comunque, perché lui non sarebbe mai riuscito a scordare la propria rinascita. Ogni dettaglio di quella notte era marchiato a fuoco nella sua memoria e nonostante i rituali gli avessero rubato altri momenti di quella seconda vita, il suo hite'orerutt (risveglio) era rimasto lì insieme al dolore, al pavimento viscoso su cui era caduto, al sangue che gli era finito in bocca, tra le dita, sul petto, i vestiti e i gioielli. Ricordava ancora, come se li avesse rivisti poche ore prima, gli occhi vuoti di Tamar e Yael, le loro gole sgozzate. E ricordava Salomone in mezzo a quel macello. Il suo sguardo sconvolto, il petto e la bellissima tunica da lutto sporcati dello stesso rosso che ricopriva ogni cosa. Riusciva ancora a tenere il ritmo del tremore del suo corpo e vedere sul suo viso le lacrime che lo avevano solcato portandosi via il sangue rappreso. 

Lui invece non aveva più nulla di quella sera con sé. E lo invidiava.

Levi si grattò una guancia, sfiorando la cicatrice sullo zigomo, ma infine rispose: «Con la vita della donna di cui ti eri invaghito, un'altra serva e il tuo pitone più bello. Ti tagliasti il palmo e versasti su di me nove gocce. Il numero della permanenza, del ciclo che riparte.» Tagliò corto per evitare che i pensieri tornassero in quella stanza a Israele.
Per quanto Nakhaš fosse avvezzo alla morte, agli omicidi, alla guerra e a tutto ciò che di brutto c'era al mondo, il prezzo che Salomone aveva dovuto pagare per riaverlo con sé di tanto in tanto ancora lo tormentava. Tamar e Yael infondo erano innocenti, l'una più dell'altra - e lui le aveva uccise entrambe pur non muovendo un muscolo. Non era stato come per i suoi fratelli, dove i loro aguzzini erano spesso diventati il sacrificio per riaverli indietro. Lui era altro, diverso, maledetto.

«Due vite per una...» sussurrò Noah, allontanando le mani dai diari e poggiandole lungo i fianchi per cambiare postura: «è così alto il limite da superare?» 
Levi abbozzò un sorriso. Cosa avrebbe dovuto rispondergli? Erano entrambi colpevoli di crimini efferati, di azioni sconsiderate ed estreme.
«No, non sempre.» Sibilò: «Io ero il primo, il solo. Con me hai osato fino all'estremo, hai... agito nell'ignoranza del tempo. Non te ne ho mai fatto un problema, non potevi fare altrimenti vista la decisione che avevi preso. Negli anni successivi però hai sperimentato, ti sei corretto e hai trovato la formula giusta.» Una risata soffocata, stanca e rassegnata gli sfuggì di bocca: «Credi che le tue creature siano state solo sette? No, hai compiuto cinquantasei esperimenti, me li ricordo tutti. Ma delle cavie coinvolte solo noi siamo sopravvissute alla mutazione. Abbiamo preso il nome di Chimere perché siamo creature indefinite, non umane ma nemmeno mostri, per quanto sia il termine che meglio ci si addice.»  Nakhaš si morse il labbro. Alcuni dei soggetti coinvolti li aveva uccisi lui, altri Zenas e un paio Colette. Non tutti erano stati in grado di accettare la nuova condizione, molti erano impazziti, in alcune circostanze i corpi avevano rigettato l'anima e si era dovuto agire in fretta. Qualcuno aveva deciso di uccidersi da solo.
Grazie al cielo non era mai successo con soggetti a cui si erano affezionati.

«Cinquantasei?» Noah era una maschera di sorpresa e ribrezzo davanti ai suoi occhi, ma non sembrò davvero terrorizzato da quella confessione, quasi una parte di lui già sapesse.

La Chimera annuì. Dopo di lui, il Sovrano aveva tentato due trasmutazioni prima di provare su di sé lo spostamento dell'anima,  e se quelle erano fallite miseramente, il suo passaggio al nuovo Hagufah era invece stato un successo. Erano seguiti altri quattro tentativi per arrivare a Zenas, una trasmutazione fatta nel bel mezzo del deserto durante una traversata a cui quel poveretto era stato costretto. Dieci tentativi dopo Hamza era entrato a far parte del loro gruppetto, poi era servito un numero che Levi faticava a ricordare per incontrare Colette, al tempo Cornelia. Lei era stata la prima donna su cui Salomone si decise di compiere il rituale, nonché la trasmutazione che più lo aveva preoccupato. Con l'arrivo di Willhelmina si era deciso a mettere una fine a quella storia; dopotutto avevano seminato troppi cadaveri alle proprie spalle. Così, tutti avevano creduto e concordato con la decisione del Re. Finalmente avrebbero potuto mettere via le armi e gli artigli, iniziare a lavarsi di dosso il sangue altrui e trovare un posto in quel mondo così diverso da quello che avevano conosciuto. Peccato però che nelle loro vite, sulla strada verso l'Austria, era spuntata Alexandria e ogni promessa era andata in fumo. Salomone aveva ceduto, infrangendo il proprio codice d'onore senza che gli venisse chiesto. Nikolaij fu l'ultimo incidente di percorso, perché persino il Re aveva compreso quanto fosse rischioso proseguire.

Levi rise: «Che vuoi che ti dica? Eri ambizioso» stemperò, forse più per sé che per Noah - anche se si trattava di un dato di fatto. Salomone era stato vanaglorioso in modo sconvolgente, accaparrandosi successi e fallimenti al pari di medaglie da sfoggiare sulla propria divisa di Melěkè Barùkh (Re Benedetto) - ma in fin dei conti quella era una condizione necessaria per arrivare dove era arrivato lui. E nessun altro Alchimista poteva definirsi al suo livello. L'Hagufah si morse il labbro in silenzio, rimuginando sulla questione. 
«No.» Il soffio che uscì dalle labbra di Noah lo strattonò nuovamente nel presente, facendogli corrugare le sopracciglia: «Ero un folle. Un sadico. Ti rendi conto che quello che ho fatto non è normale?»
Nakhaš inarcò le sopracciglia. Dopo alcuni e brevi secondi, seppur sapesse che fosse la cosa peggiore da fare, non poté impedirsi di scoppiare in una fragorosa risata, tanto intensa da fargli lacrimare gli occhi. Nessuno aveva mai osato definire il Sovrano "sadico" e se era successo non certo in modo così diretto. Ad aggiungere ancora più ilarità alla cosa, c'era il fatto che ad affibbiare un simile aggettivo al Re fosse lui stesso.
«Sì, potremmo dire che lo eri!» riuscì a dire tra un tentativo di riprendere aria e l'altro.
Avrebbe voluto mantenere più compostezza vista la natura della loro conversazione, ma più ci provava, meno ci riusciva.

L'espressione di Noah divenne una maschera di sconvolgimento: «Lo trovi divertente? Ma ti rendi conto che abbiamo ammazzato più gente io e te di un qualsiasi dittatore moderno?» chiese, anche se fu difficile capire se il suo tono fosse ironico o meno - e di conseguenza, Levi non riuscì a placarsi, finendo col piegarsi su se stesso per i crampi allo stomaco.

Sì, tutto ciò gli era davvero mancato, ma più di tutto gli era mancato il suo unico, vero akh.
 

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Capitolo 52
*** - Capitolo Ventinovesimo: Le colpe del Passato ***




N.B. ricordati sempre di controllare i capitoli precedenti per essere cert* di non aver perso alcun aggiornamento

"It's too late to turn back now

Oh God, I tried but I don't know how
I want to be someone you used to hateWithout the memory of the painI went too far, now we can't restart"

- Bad Omens, Take me first


 

Porto, 1990

Le gambe di Colette ebbero un fremito. Con occhi sgranati e cuore in procinto d'esploderle nel petto  non voleva credere a ciò che aveva udito, non poteva. Tra tutte le cose possibili e immaginabili quella era la meno probabile e desiderata.

La chiamata che aveva ricevuto sul posto di lavoro era stata vaga, Will le aveva parlato di un incidente grave senza però scendere in alcun tipo di particolare e lei, con il batticuore, era corsa a casa temendo che fosse giunto il momento di fare i bagagli e scappare - ancora. Eppure, quando aveva oltrepassato la soglia del salotto, l'aria grave che permeava all'interno le aveva fatto capire che c'era di più in ballo, molto di più. Quindi le sue gambe avevano provato a tradirla.
Gli sguardi dei fratelli la stavano oltrepassando quasi fosse un fantasma, incapaci di vederla veramente ma sapendo che lei era lì. Nessuno di loro osò proferire parola. Non un saluto o un grido, niente. Era invisibile, lontana, isolata.
Levi e Salomone non c'erano, notò, sempre più agitata, e chi era in quella stanza aveva un aspetto tutt'altro che confortante, così li contò. Non mancava nessun'altro oltre al Re e i suo vassallo, sempre troppo occupati a sistemare le cose per nascondere l'esistenza di tutti loro, quindi perché quelle facce stravolte e gli occhi gonfi?
Fece per aprire bocca e chiedere, ma Nikolaij si schiarì la gola e la precedette in modo tagliente. Disse poche frasi concise, sufficienti a darle un quadro della situazione che, in tutta onestà, le parve così surreale da farle credere che si trattasse di uno scherzo. Più lui parlava, meno lei gli credeva. Nelle sue parole non doveva esserci nulla di vero, solo le battute di un copione studiato a memoria - dopotutto suo fratello minore non era altro che un monello, un bugiardo cronico persino a dispetto dei suoi cent'anni appena compiuti. Si divertiva un mondo a farla imbestiale con le sue marachelle e, questa volta, coinvolgendo anche i fratelli maggiori nella sua sceneggiata, stava davvero esagerato.

Dove diavolo erano Levi e Salomone? Loro di certo non avrebbero mai mentito su una cosa simile, probabilmente non sarebbero nemmeno stati in grado di concepirla una bugia come quella. Li cercò con lo sguardo un'altra volta, li chiamò senza però ricevere risposta. Oh, ma quel cretino di Akhbàr doveva solo aspettare che lei trovasse Nakhaš; di certo lui non le avrebbe tolto il piacere di prenderlo a sberle per aver detto delle simili sciocchezze - il problema era che non si stava facendo vedere da nessuna parte. Colette doveva quindi agire da sola, a dispetto di tutti quei vigliacchi dei suoi fratelli che se ne stavano lì impalati.

Senza alcun preavviso quindi, allungando una mano nella sua direzione, afferrò il fratello minore. Lui provò a divincolarsi in tutti i modi, gridando e chiedendole pietà, ma era inutile. L'avevano fatta correre via dallo studio legale, le avevano fatto venire il batticuore, la stavano tutt'ora prendendo per stupida - non l'avrebbero passata liscia, lui più di tutti; sennonché, tirandoselo vicino, Wòréb notò che sia i vestiti sia la sua pelle di Nikolaij erano sporchi di terra, erba e qualche piccola chiazza di sangue.
Alzò lo sguardo.
Anche Zenas aveva lo stesso aspetto del fratello e Alexandria, nell'angolo, non sembrava da meno. A differenza degli altri due però, aveva i capelli bagnati e un asciugamano a coprirle il corpo tremante.

No, pensò, e scrollando la testa riprese a strattonare Akhbàr per farsi dire la verità.

Era squallido da parte loro fingere che Salomone fosse morto. Un insulto a cui sperò che né il Re né il suo Generale avessero preso parte.
«Dì subito la verità moccioso! Parla prima che il Corvo divori il Topo!» gridò digrignando i denti per mettergli ancora più paura. 

Nikolaij tra un mugolio e l'altro provò ancora a liberarsi, ignaro che gli artigli della sorella sarebbero facilmente potuti entrargli nella carne del braccio da un momento all'altro. 
«Akoth lasciami! Non mento, lo giuro!» piagnucolò come un bambino, il muco già a scendergli dalla narice: «Alex diglielo che ti sei tuffata ma non l'hai trovato, diglielo!» Implorò sempre più in balìa delle lacrime. L'altra però tacque. Si strinse nelle spalle quasi a voler diventare un tutt'uno con l'asciugamano, sparendo dalla vista di tutti. Pareva un'ombra. C'era fisicamente, ma la sua presenza si andava dissolvendo ogni volta che le ciglia di Colette battevano. E il suo pareva essere un gesto così colpevole...
Ma no, non poteva davvero essere successo. Santo cielo!
Colette scosse il capo: possibile che dovessero costringerla a usare le maniere forti?

Le sue unghie d'improvviso mutarono e lente si conficcarono nella carne del fratello minore. L'urlo che ne seguì parve voler mandare in frantumi i vetri di tutta casa, fu straziante, ma la cosa non la fece fermare e, piuttosto, lo strattonò ancora cercando di tappargli la bocca con l'altra mano. Prima che potesse riuscirci però, Hamza si fiondò su di loro separandoli. La spinse indietro facendola andare a sbattere contro lo stipite della porta e in un movimento elegante si chiuse a riccio sul fratello, in modo da proteggerlo da un ulteriore attacco. Goccioline rosse caddero dalla manica di Nikolaij sul tappetto indiano, rovinando il disegno.
L'occhiata che il fratello maggiore le lanciò fu eloquente. Era furioso, eppure troppo devastato per affrontarla a dovere. Il suo viso parlava più di qualsiasi oratore al mondo.

Un brivido allora la prese alla sprovvista.

No.

 «Cosa cazzo ti salta in mente?!» urlò Hamza digrignando i denti: «Il Re è morto, Colette! Hai capito? Morto! E Nikolaij non c'entra nulla!» Grosse lacrime iniziarono a colargli sulle guance terrose, a cadere sul colletto della sua camicia oversize. Il viso divenne quello di un bimbo ferito, di un cucciolo abbandonato a sé stesso.
No.

Un vuoto le si aprì nel petto. La consapevolezza che le parole di Akhbàr potessero essere vere d'improvviso le fece mancare l'aria e, arrancando, provò ad allentarsi il bavero stretto al collo. Aveva bisogno di respirare a pieni polmoni, ma i vestiti la stavano soffocando.
Non era possibile che Salomone fosse morto, no. Lui era immortale, lui aveva vissuto mille anni in centinaia di corpi, lui... no. Un dolore lancinante la fece piegare su sé stessa, la necessità di trovare un appiglio la colse impreparata e si ritrovò così a caracollare a terra. La fronte pressata contro il pavimento mentre le lacrime non trovavano via d'uscita.

Picchiò un pugno sul marmo. «C-come?» domandò poi tirando su il capo e cercando nei volti dei fratelli una risposta, una specie di conforto. Non poteva veramente finire così, non dopo tutto ciò che avevano condiviso. Doveva sapere, doveva avere ogni dettaglio di ciò che era successo così, magari, insieme avrebbero potuto trovare una soluzione e riportarlo in vita. Lui lo aveva fatto sette volte con loro, cosa gli impediva di provare, di ricambiare il favore? Forse quei corpi deformi? Beh, se per loro non era possibile lo avrebbero chiesto alla Cultus! Quei folli sarebbero stati capaci di tutto per conoscere i segreti delle Chimere e del Re, avrebbero persino acconsentito ad aiutarli per riportarlo in vita.

Nessuno le rispose.

Come potevano farle questo? Non stavano forse provando il suo medesimo dolore? Non riuscivano a capire?
«Come?!» gridò ancora, sentendosi graffiare la gola a causa dello sforzo. 

Zenas dunque mosse il capo nella sua direzione, rivolgendole uno sguardo vuoto: «Come vuoi che sia successo? E poi riesci a non strillare?» sputò un grumo di sangue vicino ai propri piedi, poi riprese: «È morto perché non siamo riusciti a tenere a bada gli alchimisti, mi sembra ovvio! Erano troppi, noi...» non alzò la voce e nemmeno concluse la frase, ma bastò il tono per far capire quanto fosse furioso. Akràv non era tipo da perdere le staffe, non quando la priorità era la sua famiglia. Se si fosse fatto vedere debole in un momento del genere, distrutto dalla consapevolezza di aver fallito, ogni cosa sarebbe crollata. Ma a Colette nulla di tutto ciò bastava. Voleva nomi e fatti, voleva qualcuno da incolpare e ferire; una persona da far soffrire tanto quanto stava soffrendo lei.

«Chi?! Chi non l'ha difeso? Chi aveva il compito di essere la sua ombra?» barcollando si tirò in piedi facendo guizzare le enormi pupille su tutti i presenti alla ricerca di un qualsiasi indizio: una smorfia, uno sguardo negato, un pugno stretto con troppa forza.
Zenas titubò. Non voleva confessare, era ovvio, ma lo avrebbe fatto. Doveva, altrimenti lei gli avrebbe strappato gli occhi dal cranio.
Mosse il primo passo, chiamando il suo nome per incitarlo. Lo vide scuotere la testa e mordersi la lingua, ma prima che la seconda falcata potesse compiersi, dall'angolo dove era rintanata, Alexandria parlò, raggelando l'atmosfera.
«Anì.»

Io.

Colette per un momento non volle crederci. Non poteva essere stata sua sorella, la sua preferita, eppure dal modo in cui sorresse il suo sguardo, dall'espressione con cui la stava sfidando, capì che non vi erano menzogne. Ecco perché si stava comportando a quel modo. Ecco perché era rimasta zitta.
La rabbia che assalì Wòréb fu tale che in meno di un secondo, nel pieno della mutazione, piombò addosso a Z'év. Non volle nemmeno concederle una spiegazione, una giustifica. Non voleva sentirla parlare e ancor meno farsi intenerire. Colette agì con l'intento di ucciderla.
Il rumore dell'impatto del cranio di Alexandria sulle piastrelle infatti riecheggiò per la stanza al pari del rintocco di un'enorme campana funebre. Fu agghiacciante e, quasi certamente, qualcuno pensò che fosse sufficiente così, ma non Colette, no. Lei voleva ucciderla per davvero. Con gli artigli le cinse il collo e uno dei seni, certa che sarebbe potuta arrivare al suo cuore e recidere l'aorta più facilmente. Non le importava nulla di chi fosse la sua preda, sua sorella doveva essere punita e ogni ferita l'avrebbe portata sempre più vicina alla morte - e questa consapevolezza le bastava.
Mentre lei le riversava  addosso tutto il suo disprezzo, Z'év non fece altro che fissarla. Immobile e alla completa mercé della sua furia, la guardava dritto in viso con la colpevolezza scritta nello sguardo. Alex avrebbe potuto ribellarsi, pensò Colette, sarebbe riuscita a contrastarla senza grandi difficoltà vista la natura della sua mutazione, eppure non lo fece, lasciandole mozzare il proprio respiro. Il viso le si fece paonazzo, le labbra presero una tonalità ancora più violacea. Se avesse stretto, pensò Wòréb, se solo avesse stretto un po' di più e mosso un colpo secco, il collo di sua sorella si sarebbe spezzato per sempre tra le sue dita.
Dopotutto era colpa sua. Era stata lei, la Contessina Varàdi, la stupida ragazzina borghese per cui Salomone aveva infranto la promessa fatta a tutti loro a ripagarlo con la morte. Meritava quella fine.

«Tu... Tu sei un cancro! Sei il demonio! Dovevamo lasciarti crepare quella dannatissima notte!» gridò, finalmente piangendo le lacrime che aveva trattenuto. Le sue unghie penetrarono sempre più in profondità, si riempirono di sangue viscoso e caldo.
Un lampo di paura attraversò lo sguardo di Z'év, ma fu così veloce da convincerla fosse solo un'illusione.
Improvvisamente qualcuno alle sue spalle l'afferrò, provando a spostarla dal corpo della sorella.
«Hai rovinato tutto! Tutto! Spero che il Diavolo in persona venga a strapparti ogni organo dal corpo, mi hai capita?» ormai stava singhiozzando, se ne rese conto dal modo in cui il viso di Alexandria divenne un'ammasso confuso di colori e forme. Poteva ancora ucciderla però, le sarebbe bastato spingere l'artiglio giusto nella sua gola, eppure, nonostante fosse certa che non sarebbe mai più riuscita a perdonarla, non riuscì a compiere quel gesto. Non seppe se fosse per colpa della foga con cui la scansarono, così come non si chiese se sarebbe andata fino alla fine, ma fu certa che avrebbe tanto preferito vederla ansimante e morente sul pavimento, piuttosto che ferma e vuota.

 


 

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Capitolo 53
*** - Capitolo Trentesimo - Parte Prima: Rebus ***




N.B. Ricordati sempre di controllare i capitoli precedenti per essere cert* di non aver perso alcun aggiornamento
 

"How did I read the stars so wrong
I'm wide awake

And now it's clear to me
That everything you see
Ain't always what it seems"

Wide Awake, Katy Perry



 

Fuori dalla finestra il suono della brezza autunnale si faceva strada tra le fronde dei pochi alberi e i fili d'erba intorno alla casa, mentre il gracchiare di gabbiani stanchi balzava alle orecchie come un allarme. All'interno, invece, il silenzio faceva da padrone. Nel percorrere pigramente il solito corridoio e le scale che conducevano alla cucina, Noah si scoprì stranamente preoccupato. Un'agitazione inusuale gli pizzicò le piante dei piedi facendolo avanzare con circospezione mentre, dal piano inferiore, non arrivava nemmeno il suono familiare di Zenas ai fornelli.
L'Hagufah tese le orecchie provando a cogliere il minimo suono fuori posto - o un qualsiasi suono, a dire il vero -, perché non credeva possibile che fossero usciti tutti senza premurarsi di avvertirlo; non era da loro. Certo, la probabilità che avessero preferito non disturbarlo era plausibile, ma sicuramente conoscendo le Chimere dovevano avergli lasciato da qualche parte un bigliettino per rassicurarlo.
Entrò in cucina mozzando uno sbadiglio incontrollato e sperando vivamente di aver ragione, ma né sul tavolo né sul frigorifero trovò note a lui indirizzate. Nella stanza aleggiava solo il profumo di una tisana e della torta di mele abbandonata sul top del bancone, intonsa. La sfiorò con un dito, scoprendola calda. Ma come poteva essere possibile? Era stata lasciata lì senza che qualcuno si premurasse di tagliarla o metterla in un punto sicuro, lontana dalla minaccia delle mosche - che fosse successo qualcosa? Realizzandolo quell'ipotesi, Noah corrugò le sopracciglia. Qualcosa non andava, ne era sempre più certo, e una tenaglia gli strinse lo stomaco costringendolo a immaginare cosa potesse aver fatto allontanare le Chimere con tanta fretta. E le opzioni, come di consuetudine, erano ben poche.
«Ti prego,» soffiò rivolgendosi a un'entità astratta, avvertendo il prurito ai piedi aumentare: «fa che non sia successo nulla...» L'ipotesi più probabile che gli saltò alla mente fu quella che i membri del Cultus fossero nelle vicinanze. E non gli piacque, affatto, così si morse forte la lingua.
No, pensò dopo qualche secondo scrollando il capo, non doveva tirare conclusioni affrettate. Quelle creature avrebbero potuto stupirlo in un'infinità di modi, lo sapeva benissimo.

Alzò lo sguardo dalla torta, provando a mettere a tacere i pensieri peggiori.
Dietro al lavello la finestra dava sul retro della proprietà, deserta. Non vi era alcuna traccia di vita se non il gracchiare fastidioso dei gabbiani che gli diede ai nervi.
Doveva indagare meglio, si disse, doveva avere la certezza che non fosse accaduto qualcosa di grave e, in caso, prepararsi al peggio prima che questi potesse bussare alla porta.
Noah si volse, ritornando a grosse falcate nel corridoio e spingendosi fin dentro al salotto dove Colette aveva quasi ucciso il fratello.
Si guardò attorno. Il suo sguardo passò da una mensola all'altra, tra le copertine dei libri e cadde sul divano dove una rivista di interior design se ne stava aperta su un articolo riguardante la perfetta scelta delle tende. Sotto le sue pagine, la sagoma di un sedere.
Sì, i suoi coinquilini dovevano essere andati via in fretta, preoccupandosi poco di non lasciare tracce.

Un groppo di ansia gli si bloccò in gola.
E se il Cultus fosse davvero stato lì vicino? Come avrebbe dovuto comportarsi? E se le Chimere non avessero fatto ritorno? Se le cose fossero davvero andate per il verso peggiore. Il cuore accelerò senza preavviso, costringendolo ad afferrarsi il petto. Non voleva pensare a nessuna di quelle ipotesi, era sbagliato e nocivo, ma se non lo avesse fatto?

«Dai, apri!» la voce familiare di Zenas squarciò il silenzio, facendolo sussultare come un "booh!" gridato nella notte. Senza realizzarlo Noah si buttò verso la finestra, afferrò i lati dell'infisso e sporse la testa fuori, sgranando gli occhi nella sorpresa e nella speranza di non essersi immaginato quel richiamo. Allungò il collo fin quasi a farsi male, i muscoli tesi e i polpastrelli sempre più premuti sull'alluminio del telaio, pronti a imprimervi la propria traccia - ed eccole, infine. Sedute intorno al tavolino di ferro, concentrate su qualcosa che dal punto in cui era non riusciva a distinguere, se ne stavano le Chimere. Come personaggi di un quadro occupavano lo spazio, catturando ogni suo battito di ciglia e dissipando i pensieri malevoli che lo avevano sopraffatto. Noah si sentì pervadere da una tranquillità che si poteva sperimentare solo nelle gallerie e sale dei musei e, involontariamente, sospirò. Erano lì, grazie al cielo, e nessun pericolo aveva osato portagliele via, pensò.
Incurante del fatto che non si fossero accorte della sua presenza - o che lo stessero volontariamente ignorando - l'Hagufah scavalcò infisso e davanzale, balzando coi piedi scalzi sull'erbetta isipida.
Il desiderio di richiamare la loro attenzione gli pizzicò la gola, peccato che a ogni passo la voce sembrasse venir meno, inghiottita fino al fondo del suo stomaco vuoto. In compenso, l'udito si fece attento, raccogliendo con chiarezza maggiore i discorsi delle sue creature.
Fu ovvio sin da subito che qualcosa le stesse turbando e il senso di preoccupazione provò ad agguantarlo nuovamente per le caviglie.

«Mi spieghi di cosa hai paura?» Alex si abbandonò sulla sedia, le braccia in grembo.
«Beh, chi ci assicura che non sia una trappola?» le chiese Colette indicando l'oggetto nascosto dalla schiena di Zenas.
Noah arrivò a ridosso del tavolino, coinvolto come una comara dal loro discorso. Soffiò un saluto timido che venne ricambiato da un "buongiorno" distratto da parte di tutte le Chimere che, ancora, non lo degnarono di uno sguardo.
Cosa diamine c'era di tanto importante da catturare tutta la loro attenzione?, si chiese, perché le poche volte che le aveva viste riunite a quel modo era stato prima di una fuga o in previsione di un agguato da parte dei nemici e, in tutta onestà, sperava vivamente che non si trattasse né di una né dell'altra opzione.
Mentre si sporgeva per dare finalmente una forma a ciò che stavano guardando con tanto sospetto e timore, l'Hagufah sentì Alexandria rispondere alla sorella: «Non lo sapremo mai se qualcuno non si decide ad aprirla! Siamo realisti, chi conosce l'indirizzo di questo posto? A parte gli enti statali, s'intende...» Un lampo passò nella mente di Noah. Che si trattasse di una raccomandata? Una multa? Si sporse maggiormente, ma prima che i suoi occhi potessero rivelargli l'identità dell'oggetto la voce di Z'év tornò a riempire le sue orecchie: «Facciamo fare il lavoro sporco a Noah, allora!» lo stava indicando col palmo della mano, un'espressione poco rassicurante in viso.

L'agitazione improvvisamente lo raggiunse, aggrappandoglisi alle caviglie; non era sicuro che la proposta fosse del tutto priva di rischi.

Colette si alzò di scatto, correndo subito in sua difesa come una mamma chioccia col suo piccolo: «Ma sei matta? E se fosse davvero una trappola? Non ti è bastato farlo morire già una volta?» le chiese, forse senza badare realmente alle proprie parole o forse ponderandole giustappunto per infastidirla. Non era la prima volta che succedeva e seppur dormissero ogni notte nella stessa stanza la tensione tra loro non era minimamente diminuita. Wòréb attaccava "quasi" apertamente Z'év e quest'ultima provava in tutti i modi a non reagire. Anche se le costava fatica. Noah se ne accorse persino in quel momento. La mascella di Alex si strinse nonostante sulle sue labbra continuasse a resistere l'espressione beffarda - perché rendere Colette vincitrice di quel match immaginario doveva pesarle più di subire tutti quei colpi. L'orgoglio, in fin dei conti, doveva essere un nemico crudele anche per le Chimere.
L'Hagufah fece per aprir bocca e stemperare il nervosismo crescente, ma, prima ancora che potesse iniziare, Levi si fece avanti al pari del paladino che era sempre stato sfoderando un: «Quasi, akoth, bada alle tue parole» e il modo con cui si rivolse a Wórèb fu sufficiente a farla ammutolire. Fu palese, anche con gli occhiali da sole a schermarlo, che la stesse fulminando con lo sguardo. Noah sentì l'effetto di quel rimprovero attraverso le dita di lei, che si strinsero sulle sue spalle facendogli storcere il naso. «In quei tuoi artigli stai stringendo carne calda, non un cadavere» sibilò ancora il fratello prima di schiacciare il mozzicone nel posacenere.
Il rumore della deglutizione di Colette accanto al suo orecchio parve terribilmente sordo, Noah quasi ebbe pietà di lei. Non avrebbe dovuto, lo sapeva, eppure ognuna di quelle persone gli sembrava, di tanto in tanto, un'estensione di sé. Dalla sera in cui Zenas e Alexandria erano stati attaccati le emozioni delle Chimere avevano preso a infilarglisi sotto pelle, diventando un po' sue; sentiva quindi l'attuale agitazione della donna che aveva accanto, la pace di Akràv quando ogni mattina si metteva ai fornelli, i dubbi di Levi che si alternavano a fiducia indiscussa e i sensi di colpa che assalivano Z'év senza preavviso, stringendole lo stomaco.
Si rese conto da solo che doveva dimostrare loro di non incolpare nessuno per ciò che non ricordava essergli accaduto, che in quel momento erano tutti dei pari, così in uno scatto si sporse. Le sue dita si strinsero sulla carta della busta che stavano osservando prima ancora che qualcuno potesse avere l'ardire o i riflessi per fermarlo e, persino lui, si stupì di quel gesto. Un senso di soddisfazione lo pervase lentamente, rallentando il battito di un cuore che non si era reso conto aver accelerato tanto.
In mano stringeva una lettera. La guardò con dubbio e stupore, incapace di capire come potesse un oggetto così insolito e innocuo mettere in allarme le Chimere. Sulla busta non vi era il nome di alcun mittente, solo un francobollo bianco dalle scritte cirilliche sui bordi. Tese le labbra in una smorfia che pareva sul punto di cedere e farlo scoppiare in una fragorosa risata. «Non penso che questa» la sventolò, spavaldo: «possa uccidermi.»

Colette provò a schiaffeggiargli la mano per fargli mollare la presa, ma Noah si ritrasse con un movimento felino. Una ruga in mezzo alle sopracciglia tradiva qualsiasi suo tentativo di nascondere l'agitazione: «Questo lo dici ora! Potrebbe essere cosparsa di una mistura velenosa, oppure avere un qualche sigillo impresso sopra!» Gli fece notare, trasformando improvvisamente l'innocua cellulosa in un'arma di cui lui mai avrebbe sospettato. In effetti nemmeno gli era passato per la mente che quella lettera potesse essere un modo del Cultus per arrivare a lui o alle sue creature, cosa che, invece, ebbe la certezza loro avessero valutato.
L'istinto di lasciare la presa lo aggredì, eppure la paura che quella reazione potesse scatenare conseguenze peggiori lo fece desistere. «Quindi ora che faccio?» chiese senza rivolgersi a qualcuno in particolare, con la voce leggermente tremante e il battito nuovamente irregolare.
Zenas alzò lo sguardo su di lui. Stava abbozzando un sorriso rincuorante, ma Noah fu certo che fosse in ansia quanto lui. Chi non lo era? Se gli fosse accaduto qualcosa a chi si sarebbero potute rivolgere le Chimere? Dopotutto loro non potevano usare l'alchimia a proprio piacimento, le avrebbe divorate.
«La rimetti a posto e lasci fare a noi, okay?» Peccato che farlo avrebbe voluto mettere in pericolo loro e, in tutta onestà, gli sembrò un'idea persino peggiore. Non le avrebbe condannate, per alcun motivo. Dopo ciò che aveva appreso dai vecchi diari di Salomone non avrebbe permesso alle Chimere di sacrificarsi ancora per lui - anche se lo avrebbero fatto, forse fino alla fine del tempo.
Noah fece passare lo sguardo da Zenas alla busta, prima sul fronte e poi sul retro. A parte il francobollo riconducibile all'est Europa e una calligrafia particolarmente elegante non vi era alcun indizio che potesse tradire il mittente. Forse non si trattava del Cultus, forse era solo un vecchio conoscente di cui tutti si erano dimenticati - perché dare per scontato che qualcuno dovesse morire? Chiudendo gli occhi e ripetendosi che in ogni caso solo lui avrebbe potuto adempiere a quel compito, l'Hagufah fece un respiro profondo nel vano tentativo di calmarsi. Voleva restare positivo, credere che tutto si sarebbe risolto per il meglio, ma sotto sotto la preoccupazione che il pericolo lo stesse attendendo dentro quella busta non voleva dargli pace.
«Noah...» con una nota di fastidio ad alterargli la voce, Levi sembrò intuire i piani dell'amico e, soprattutto, disapprovarli. Per sfortuna della Chimera però, Noah non si fece intimorire e, infilando l'indice attraverso uno degli angoli privi di colla e sentendo la minaccia sia della carta che del suo Generale, aprì uno squarcio nella busta, mettendo fine alla questione.

 

 

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Capitolo 54
*** - Capitolo Trentesimo - Parte Seconda: Rebus ***




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Il respiro generale si mozzò nell'esatto istante in cui il rumore della carta strappata cessò. Il tempo intorno a Noah parve fermarsi e lasciarlo sospeso nella consapevolezza che precede la tragedia, ma nulla accadde. Quando il suo primo battito di ciglia ebbe concluso il movimento non venne investito da alcun dolore, men che meno da una qualsiasi sensazione che potesse ricordare una reazione allergica. Vi fu solo silenzio. Neppure il battito del suo cuore riuscì a penetrare lo strato di attesa e confusione. Forse si stava muovendo velocemente, troppo per far sì che il veleno o i sigilli citati da Colette potessero attivarsi; eppure i secondi passavano, le sopracciglia delle Chimere si corrugavano di più e niente succedeva. Forse, invece, Colette si era sbagliata.
Deglutì forte, rompendo la stasi. Lo sforzo fu tale che gli parve di udire l'eco della sua saliva rimbombare dentro la casa, tra i corridoi fino alla sua stanza, tra i sassi e i fili d'erba lì attorno - poi respirò. Con titubanza guardò la busta, i bordi frastagliati che si erano rotti in modo discontinuo rivelando qualcosa al suo interno, come un foglio, una lettera destinata alla famiglia.

Non era certo fosse il caso di esultare, eppure dentro di sé sentì una certa soddisfazione bollire come l'acqua che si prepara per il té. Non era morto e, anche se non si poteva ancora dichiarare salvo, non aveva nemmeno permesso a una delle sue creature di subire un qualsivoglia effetto collaterale. Era incolume Lo erano tutti.

«Beh... direi che è andata piuttosto bene, no?» la domanda di Alexandria arrivò come il fischio del bollitore e altrettanto fastidiosamente sul suo viso si delineò una smorfia beffarda indirizzata poco oltre la spalla di Noah; non fu difficile immaginare a chi si stesse rivolgendo.
L'altra non rispose. Forse non si accorse nemmeno che si stava riferendo a lei. L'ansia che Colette stava provando pareva ben più importante di qualsiasi screzio vi fosse tra loro - magari, se si fosse voltato giusto di qualche grado, l'Hagufah avrebbe visto con la coda dell'occhio che tutta l'attenzione della donna era rivolta in un unico punto: la porzione di lettera che spuntava dalla busta. Era lì, nelle sue mani, e li chiamava entrambi, forse addirittura tutti e cinque - e la curiosità prese a mordergli le dita. Cosa li stava attendendo? Quale messaggio si nascondeva oltre quel misero strato di carta ingiallita? Avrebbero trovato finalmente il nome del mittente? Li avrebbe rincuorati o, al contrario, messi ancora più in allerta? Noah non ne aveva idea. Dubitava persino che una sola delle sue Chimere potesse dire diversamente; così allungò l'altra mano, strinse un angolo della lettera tra pollice e indice, scongiurando il peggio.
Si scoprì tanto preoccupato quanto bramoso e, in un ultimo movimento avventato, sfilò il foglio. Gli artigli di Colette gli agguantarono le spalle con lo stesso impeto con cui lui compì quel gesto, provando a penetrare tessuto e pelle e allontanarlo in caso di pericolo, come se da un momento all'altro la busta avesse dovuto scoppiargli tra le mani - neanche stavolta successe qualcosa.
Il viso della Chimera-corvo si fece vicino, Noah potè sentirne il calore accanto all'orecchio. Aveva il fiato dolce, corto e incredibilmente bollente. I suoi boccoli scuri gli solleticarono il collo facendolo quasi rabbrividire e, quando parlò, quasi gli si torse lo stomaco: «Leggi ad alta voce, okay?» Averla addosso era tutto fuorché rassicurante, ma non l'allontanò, avvertendo il bisogno di entrambi di avere un supporto.
L'Hagufah annuì e con timorosa cautela divise il bordo superiore della lettera da quello inferiore, aprendo il foglio per rivelarne il contenuto - ciò che vi trovò, però, non fu affatto ciò che aveva creduto di scoprire.
Gli occhi di Noah si spalancarono, le sue iridi inghiottirono i segni tracciati dall'inchiostro di una comune penna a sfera e ne fecero indigestione, costringendolo a stringere le dita in uno spasmo involontario di tutto il corpo. Vi erano linee più lievi che andavano a formare lo scheletro di un disegno, uno schizzo fatto con una certa, preliminare noncuranza, poi ce n'erano altre più marcate, sicure come se l'artista si fosse deciso sul soggetto.
Un cerchio, pensò l'Hagufah, ma sapeva bene che non si trattava solo di quello. Era una sorta di anello ricoperto di scaglie, come la pelle di Levi quando la mutazione emergeva, ma c'erano anche due piccole zampe da gallina che agguantavano l'aria, il vuoto della cellulosa. Simmetricamente, ali sproporzionate si allargavano verso l'alto, preannunciando un volo che difficilmente avrebbe potuto essere spiccato. Se si seguiva il percorso, in un senso o nell'altro, si poteva poi scorgere una coda ingoiata da una sorta di testa di lucertola. Era un cerchio, sì, ma era anche qualcosa di più, qualcosa che Noah sentì insinuarsi in lui attraverso gli occhi e riempirlo.

«Un Uroboro» deglutì Colette ancora attaccata alle sue spalle, confusa.
Lui guardò meglio il disegno cercando di riconoscerlo e, in un lampo, gli scorsero nella mente i diari di Salomone, gli appunti e gli scarabocchi che aveva abbandonato su quelle pagine. Sì, anche se in forma diversa aveva visto quel medesimo simbolo, lo aveva annotato tra le cose da chiedere alle Chimere ma a cui non aveva dato poi grande importanza. Che sciocco! In punta di dita sfiorò la testa della creatura, scivolò sul suo dorso come se fosse quello di un maestoso destriero e, in ultimo, si accorse di un ulteriore dettaglio. Al centro esatto del cerchio che formava il corpo di quella bestia, quasi fosse stata abbandonata lì per errore, se ne stava una minuscola lettera. Un'iniziale, probabilmente.
Noah corrugò le sopracciglia, le sue labbra si schiusero come se volesse soffiar e fuori il suono. Si trattava di un'elegante enne, ricamata al pari dell'intestazione della busta. Era la consonante con cui iniziava il suo nome e quella consapevolezza non gli piacque affatto. Sentì lo stomaco contorcersi, la nausea salire dalla pancia lungo la gola e se non ci fosse stata Colette a tenerlo per le spalle si sarebbe allontanato per vomitare.
Gli venne spontaneo chiedersi se fosse un segno, una minaccia. Era forse la prova che qualcuno sapeva di lui e di chi fosse in realtà? La gola sembrò seccarsi. Cosa diamine stava a significare? Perché certamente non si trattava di un errore; non lo era mai quando in ballo c'erano Salomone e l'Ars.

Senza preavviso Levi gli sfilò la lettera dalle dita, rischiando di strapparla. In viso aveva un'espressione ben poco rassicurante e quando abbassò gli occhiali sulla punta del naso, per vederci meglio, Noah sentì i muscoli di tutto il corpo irrigidirsi.
«Che significa?» gli domandò in un soffio veloce, come se gli mancasse la forza per parlare. L'altro non rispose - non subito quantomeno.

Le Chimere si precipitarono intorno al fratello maggiore chiudendosi su di lui. Persino Colette, che gli era stata accanto sino a quel momento lo abbandonò per mettersi a confabulare con gli altri. All'Hagufah quella reazione piacque ancor meno.
«Atém amár mah ze axat résha mazal? (Dite che è un brutto segno)» Chiese la donna, seguita subito da Zenas.
«Mi yakhól ómer... (chi può dirlo...)» il cruccio sul suo volto non fece altro che accrescere le ansie di Noah. Perché non spiegavano anche lui quello che pensavano stesse succedendo? Perché tentavano ancora di tenerlo all'oscuro?
«Uroboro lo ze ʼipĕşé̌r af pá'am axat ra mazal (l'Uroboro non è mai stato un cattivo presagio)» Levi si lasciò andare contro lo schienale in ferro della sedia, sospirando. Sembrava stanco, eppure riprese a parlare: «Nell'antichità rappresentava il ciclo, il continuo ripetersi delle cose. Equivaleva al ritorno, alla rinascita, dovreste saperlo bene, ormai. Qui...»
«Potrebbe rappresentare il Re» a parlare fu Zenas, eppure gli occhi di Levi baluginarono verso Noah. Il modo in cui prese a fissarlo sembrò quello di un predatore che si prepara a inghiottire la presa. Un groppo gli si bloccò in gola e la cosa parve attirare l'interesse di tutte le altre Chimere. Stavano forse fiutando la sua paura? Erano d'accordo anche loro che quella lettera, quel messaggio in codice fosse rivolto a lui? Per un momento si convinse di non voler conoscere la risposta alle proprie domande.

Ancora una volta la voce di Zenas prevaricò: «Ouro, il Sovrano... si sentiva spesso dalle mie parti, era un termine egizio» constatò, esattamente come faceva quando in cucina si parlava di qualche spezia particolare.
«Ed è un concetto spesso associato all' Hèn tò Pân. "L'uno è il tutto", se non erro» Alexandria si portò una ciocca dietro l'orecchio, poi si scansò leggermente dai fratelli maggiori, quasi a disagio: «Però quella enne non indica lui...» parve riflettere tra sé e sé.
A Noah quasi venne spontaneo intromettersi, ma fu pronto a mordersi la lingua prima che un "Sei seria?" Gli potesse sfuggire di bocca. Non avevano forse appena dichiarato che l'Uroboro era un simbolo collegato alla figura del Re? E non era lui il nuovo hagufah di re Salomone? Come poteva, Z'èv, saltarsene fuori con un commento del genere?

Noah si concesse qualche istante di riflessione, sfuggì agli sguardi generali che ritmicamente si posavano su di lui e, poi, chiese: «Come fai a dirlo?» Dopotutto i pochi dettagli riconducevano a lui, al sovrano, all'alchimista.
Alexandria scrollò le spalle: «Per quale ragione mettere una enne? Tu dovresti essere Salomone, non Noah. Questo tuo nome, quello che hai ora è... passeggero. Nel prossimo corpo ne avrai un altro e così via. Ciò che di te resta invariato è l'anima e quella non è di Noah Dietrich, lo studentello di chimica che vive a Vienna, ma di Re Salomone, figlio di Davide.» Il suo ragionamento non faceva una piega. Con le labbra ancora schiuse in un'obiezione che non avrebbe mai fatto, il ragazzo fece calare lo sguardo sui propri piedi. In mezzo all'erbetta verde e marroncina sembravano terribilmente pallidi, esangui come doveva essere il suo viso. Z'èv poteva aver ragione, quella lettera poteva rappresentare altro, ma allora perché associarla a quel simbolo? Non se lo spiegava, non ci riusciva nemmeno sforzandosi. Si morse il labbro inferiore.
«E se invece fosse un modo per dire "so chi sei ora, so come venire a prenderti, come persuaderti"? Se il mittente conosce la mia identità potrebbe arrivare alle persone che frequentavo, ai miei genitori e-»
Sul viso di Alex spuntò un sorriso, un evidente tentativo fallimentare di nascondere una risata ben più irriverente.
«Ti rendi conto che Levi ci ha messo quasi trent'anni per trovarti, vero?» Nel porgli quella domanda il viso le si inclinò appena, cercando in tutti i modi di allacciare i loro sguardi per poter scrutare i suoi dubbi, per tenerlo in pugno e precederlo: «Stiamo parlando del tuo Generale, tuo fratello, l'uomo che è morto e risorto per te, il fanatico che ti ha seguito durante tutta questa follia!» La mano si levò verso Levi. Lo indicò con forza, ma lui parve non sentirsi tirato in causa. Noah lo percepiva lontano, perso nei propri pensieri, nelle supposizioni che si andavano a scontrare nella sua testa calpestandosi le une con le altre. E la sorella, in quel silenzio, proseguì: «Se lui ci ha messo tutto questo tempo dubito che qualcun altro sia riuscito ad arrivare a te, a tutte le informazioni che ti riguardano, in poche settimane.» L'Hagufah tornò a fissare Nakhaš. Lo fece con ostinazione, aggrappandosi alle ciocche che gli ricadevano in viso nella speranza di non cedere all'agitazione. Di certo, Alexandria non aveva tutti i torti. Se persino una creatura millenaria, che lo conosceva quasi come le proprie tasche, era arrivata a lui dopo mesi dal loro primo incontro su Ponte Carlo - che Noah ricordava solo come un fremito del corpo e un lieve dolore al petto - chiunque fosse il mittente della lettera non poteva averli preceduti e, forse, nemmeno raggiunti. Eppure...
Una fragorosa risata squarciò la tensione, facendo sussultare tutti. Noah si dovette afferrare la maglia all'altezza del cuore per essere certo che questi non balzasse fuori dal torace per lo spavento e, involontariamente, mosse un passo all'indietro sentendosi venir meno - cosa che, a occhio e croce, non sarebbe certamente capitata a Levi. La sua testa chinata in avanti, la bocca spalancata e gli occhi stretti a tal punto da fermare le lacrime che minacciavano di uscire parvero una visione grottescamente fuori luogo; nonostante ciò, la sua fu una risata piena di gioia, un suono roco che in un modo contorto sembrò rincuorare Noah da tutte le momentanee preoccupazioni. Fu come venir liberato, perché se Nakhaš rideva voleva dire che tutto si sarebbe risolto per il meglio.
«Siamo degli stupidi!» grugnì altrettanto improvvisamente, levandosi gli occhiali da sole per poter asciugare le lacrime. Le iridi avevano preso una spiccata tonalità giallognola, mentre le guance gli si erano imporporate appena - a guardarlo pareva il perfetto ritratto della felicità e spensieratezza.

Colette balzò accanto al fratello e afferrandolo per i capelli castani gli tirò indietro la testa: «Che diavolo stai insinuando, akh?» soffiò, minacciosa come il giorno in cui l'avevano incontrata.
Levi allargò il sorriso, spostando lo sguardo su di lei: «Hai ascoltato tua sorella, Wòréb? "Il tutto è uno", cosa ti ricorda?» poi i suoi occhi scivolarono su Noah. Un groppo in gola gli fece pensare che il cuore volesse ora uscire dal corpo risalendo la trachea, così serrò i denti fino a sentir male alle ossa della faccia. Persino senza approfondire la questione ebbe la certezza di centrare qualcosa, di essere lui il soggetto a cui la Chimera si stava riferendo. Ci volle giusto una ruga di dubbio tra le sopracciglia di Colette per far riprendere il discorso del fratello: «È una specie di rebus, akhòt. Su, so che puoi risolverlo con me.» E mentre lei si arrovellava sulla questione, Zenas picchiò il palmo sul tavolino, generando l'ennesimo sussulto collettivo: «Ma certo! Quando le cose andavano male Salomone ce lo ripeteva sempre, era il suo modo per motivarci a restare positivi, perché alla fine saremmo rimasti uniti!»
«Esattamente!» Lo sguardo di Levi brillò, il suo sorriso divenne ancora più grande, eppure nella gioia del momento non si mosse minimamente, certo come l'Hagufah che avrebbe dovuto dire addio a qualche ciocca di capelli. «Ascoltate,» le due estremità della lingua gli bagnarono il labbro inferiore, mentre le braccia si aprivano ai lati del suo corpo al pari di un predicatore: «Noi eravamo il suo tutto e al contempo eravamo e siamo ancora un'unica cosa: la sua famiglia.» Poggiando la lettera di fronte a sè, ben aperta sul tavolino, la Chimera indicò il disegno: «L'ouroboro in questo caso non vuole indicare solo la figura del Re, ma noi, il suo Hèn tò Pân. E in questo tutto, sono sicuro riuscirete a darmi una risposta, c'era qualcuno particolarmente appassionato di indovinelli...»
Le sopracciglia di Alexandria si inarcarono, il viso di Colette sbiancò, la mano di Zenas gli passò sul viso come a sorreggere lo sgomento. La risposta fu chiara a tutti - escluso Noah.

 



 

Uroboro: Questa diffusissima figura simbolica rappresenta, sotto forma animalesca, l'immagine del cerchio che personifica l' eterno ritorno. Esso sta a indicare l'esistenza di un nuovo inizio che avviene tempestivamente dopo ogni fine.
Nella tradizione alchemica, l'Ouroboros è un simbolo palingenetico che rappresenta il processo alchemico, il ciclico susseguirsi di distillazioni e condensazioni necessarie a purificare e portare a perfezione la "Materia Prima". Durante la trasmutazione la Materia Prima si divide nei suoi principi costitutivi, per questo motivo l'Ouroboros alchemico viene spesso rappresentato anche nella forma di due serpenti che si rincorrono le code.

La Chrysopoeia di Cleopatra (alchimista greca) contiene l'immagine di un Ouroboros, metà bianco e metà rosso, con all'interno la scritta ἒν τὸ Πᾶν (hèn tò Pân), traducibile come "l'Uno (è) il Tutto". Un'etimologia «ermetica», non linguistica farebbe risalire l'ouroboros a un «re serpente»: «In lingua copta Ouro significa "re", mentre ob, in ebraico, significa "serpente"».

(come sempre vi ricordo che le frasi in ebraico sono scritte secondo la fonetica e potrebbero essere incorrette)

 
 
 
 

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Capitolo 55
*** - Capitolo Trentunesimo: L'ultimo ***




N.B. ricordati sempre di controllare i capitoli precedenti per essere cert* di non aver perso alcun aggiornamento
 

"I'm afraid
I'm afraid
I'm afraid
Afraid, afraid of a ghost "

Breed, Nirvana


 

 

La seconda lettera di Nikolaij era arrivata dopo due settimane dalla prima. Zenas l'aveva recuperata all'ufficio postale e nonostante la trepidazione del momento era riuscito ad aspettare di arrivare a casa prima di aprirla e scoprirne il contenuto. Noah era rimasto in disparte insieme a Colette, osservando la gioia dell'uomo con un distacco che lo aveva tormentato per tutta la sera. Levi e Alexandria avevano brindato con il fratello, ma non era certo lo avessero fatto per il medesimo motivo e lui, dal canto suo, avrebbe tanto voluto reagire in modo diverso. Esultare all'idea di aggiungere un nuovo tassello al puzzle che era la sua mente sarebbe certamente parso più appropriato, eppure era riuscito solamente a forzare un sorriso. La realtà dei fatti era che aveva paura. Noah temeva che con la settima Chimera potessero arrivare guai e il pensiero che la stasi raggiunta in quei giorni potesse andare in frantumi non lo aveva fatto dormire per diverse di notti.

Grazie al cielo, come una vera guardia del corpo sempre in servizio, ogni volta che era uscito dalla propria stanza per cercare conforto nel cielo stellato e nella brezza frizzantina di fine Ottobre aveva trovato Levi seduto in giardino: le gambe sul tavolino e la sigaretta a bruciare tra le dita, fumata da Eolo o chissà quale altra divinità. In quelle notti Nakhaš era diventato un confidente, ma soprattutto un porto sicuro. Noah gli aveva parlato dei suoi dubbi e lui lo aveva rincuorato con quel suo solito sorriso ammaliante.
Alla terza notte, anche lui si era deciso che ricongiungersi con Nikolaij sarebbe stata la cosa migliore per la famiglia. Subito dopo averlo detto ad alta voce, in modo che risuonasse più reale e che Levi potesse poi ricordargli ciò che aveva deciso, si era accorto di come, mentre lo ascoltava, la Chimera si rigirasse tra le dita un ciondolo circolare. Quando gli aveva chiesto cosa fosse, Nakhaš aveva trasformato il suo sorriso in una smorfia nostalgica.
«È una promessa» gli aveva confessato, afferrandolo con forza nel palmo. Aveva poi inspirato l'ennesima boccata di nicotina, aggiungendo: «Una promessa che ti ho fatto diversi secoli fa. La porto con me per non dimenticare.»
Era stato titubante nel chiedergli di cosa si trattasse e Levi ci aveva pensato su parecchio prima di rispondergli: «Lo ricorderai, akh. È una storia troppo lunga per essere raccontata stanotte.» Aveva poi spento la sigaretta e messo fine ai loro incontri notturni.
La mattina seguente, sempre a quel tavolino e sempre con gli occhi puntati sul petto della Chimera più antica del mondo, per scorgere la sagoma di quella promessa, l'Hagufah aveva ascoltato il piano per incontrare Nikolaij.

Non molti giorni dopo, la gravità delle sue scelte lo condusse nel vivo dell'azione.

Noah si portò una mano al petto, cercando in tutti i modi di calmare il battito del proprio cuore. Si era reso conto di non essere pronto a nulla di ciò che sarebbe dovuto accadere già quando la sveglia aveva suonato accanto al suo orecchio. La sensazione era poi andata peggiorando quando l'auto di Colette si era messa in moto verso Marsiglia. Nel momento in cui il suo sedere si era poggiato sulla poltroncina della caffetteria scelta per l'incontro, aveva infine capito di voler solo tornare a qualche sera prima e rimangiarsi le parole che aveva confessato a Levi - e, a sentire una delle sue accompagnatrici, non doveva certo essere l'unico.
«È stata una pessima idea» sentì sbuffare Wòréb a poche spanne dal lui. Era già al terzo caffè e i suoi tic sembravano stranamente sotto controllo, al contrario del suo malumore. «C'è qualcosa che non va, me lo sento. Quel sorcio porta solo rogne» non stava guardando ne lui né Alexandria, ma piuttosto un punto indefinito oltre la vetrata che dava sulla strada. Avevano scelto un posto affollato per confondersi meglio, ma il chiacchiericcio dei presenti non aveva fatto altro che aumentare la sua agitazione e la frustrazione di Colette.

«Per quel che ricordo, erano i corvi gli uccelli del malaugurio...» Alex prese un morso dalla brioches che aveva di fronte e, nell'osservarla, Noah si chiese come riuscisse a mangiare con tanta tranquillità in una situazione simile. Al solo pensiero di ingurgitare qualcosa gli saliva la nausea.
La sorella continuò imperterrita a guardarsi attorno, certa che prima o poi lo avrebbe scorto, come in una sfida di "Trova Waldo": «Non quando c'è quel moccioso in giro!»
L'Hagufah deglutì. Mentre loro parevano gustarsi quella colazione improvvisata, lui si sentiva un fascio di nervi. Sotto il tavolo le gambe erano rigide come tronchi e sopra aveva la gola secca, le labbra incollate tra loro; dubitava persino d'essere in grado di proferire parola quando sarebbe giunto il momento.
Con estrema fatica provò a girarsi nella direzione in cui stava guardando Colette. Sentì i muscoli del collo ribellarsi a quel gesto e temette fino all'ultimo di farsi male, ma alla fine riuscì nell'impresa. Dietro di lui le strade erano meno affollate del loro arrivo mezz'ora prima e qualche negozio sembrava in procinto di chiudere per la pausa pranzo. Gli occhi di Noah balzavano da un dettaglio all'altro, preoccupati di scoprire in mezzo al via vai qualche membro del Cultus - come se per lui fosse possibile distinguerli dal resto della gente -, ma le uniche facce che riuscì a riconoscere furono, a ridosso di un incrocio, quelle di Zenas e Levi intenti a chiacchierare come due amici qualunque. Erano loro i "pali", come aveva sentito dire in centinaia di film d'azione. Se ne stavano fermi per un po', poi si spostavano, separandosi anche; uno dei due faceva il giro del circondario e poi tornava, replicando la performance precedente - e finché loro andavano avanti con lo spettacolo, avevano detto, non ci sarebbe stato nulla di cui temere. Eppure Noah, forse influenzato dalla vicinanza di Wòréb, non riusciva a restar tranquillo.

«Non fissarli» la voce di Alexandria lo colse alla sprovvista, facendolo sussultare: «Più lo fai e più rischi di farli finire nelle attenzioni sbagliate.» L'Hagufah si morse la lingua tornando al proprio bicchiere di spremuta, intonso.
«Vorrei potervi essere d'aiuto» la voce, come preventivato,  faticò a uscirgli di gola.
Z'év allungò le dita nella sua direzione. Prima gli sfiorò il mignolo, poi quando fu certa di non correre alcun pericolo, visto il suo stato d'agitazione, gli poggiò sulla mano l'intero palmo: «Già il fatto che tu sia qui e non a casa, alla mercé di un'imboscata, per noi è sufficiente, fidati» peccato che a Noah non sembrasse affatto così. Fermo lì, seduto a tentare di fare una colazione che a dire il vero nemmeno voleva, si sentiva solamente un peso. Non importava quanto Alexandria si sforzasse, neppure il suo sorriso riusciva a rincuorarlo.

Colette sbuffò ancora, stavolta riportando l'attenzione al tavolo: «Mi fate quasi sentire di troppo, sapete?» La sua mano si levò in direzione del cameriere e appena questi incrociò lo sguardo della Chimera la si sentì ordinare il quarto caffè della mattinata. Sembrava un pozzo senza fondo e l'Hagufah sperò che tutta quella caffeina non avesse ripercussioni indesiderate sulle sue prestazioni in caso di attacco nemico. Era già abbastanza alterata di suo, non aveva alcun bisogno di aiuti.
«È in ritardo, vero?» la domanda di Wòréb, in quel tono scocciato, lo fece irrigidire maggiormente. Nello sguardo della donna c'era una luce nuova, severa e al contempo irrequieta - e gli fu chiaro che lei doveva aver colto qualcosa che a lui stava invece sfuggendo.
Alexandria si guardò il polso: «Di dieci minuti» puntualizzò.

Entrambe sembrarono storcere il naso.

«Non è un buon segno, lo sai, vero?» Il cameriere porse il caffè. Aveva lo sguardo perso chissà dove, forse tra i boccoli sinuosi di Colette oppure sulla curva del seno che si poteva scorgere sotto al maglioncino accollato. Lei lo ringraziò con un sorriso ammiccante indossando l'ennesima maschera di normalità, fingendo una calma che all'Hagufah quasi diede fastidio. Come poteva non sentirsi in pericolo? Come riusciva a ignorare l'ansia? La invidiava, non poteva negarlo, e sapersi così vulnerabile non migliorava affatto la situazione. Si sporse quindi in mezzo al tavolo, cercando di far sentire solo a loro le proprie parole: «Non è presto per dirlo? Potrebbe aver trovato traffico, oppure potrebbe essersi perso tra le vie della città... insomma, Marsiglia è grande, no?» bisognava mettere in conto qualsiasi intoppo, non solo la circostanza più macabra, pensò.

Le dita della donna-corvo gli pizzicarono il mento in modo ironicamente amorevole: «Quanta tenerezza in questa tua ingenuità, Salomone...» sussurrò, procurando al cuore di Noah una sussulto. Avevano agito con tanta discrezione sino a quel momento e poi, in una leggerezza priva di logica, Colette si lasciava sfuggire quel nome; era forse pazza? «Ma purtroppo non possiamo permetterci di restare allo scoperto, soprattutto in gruppo, in una situazione di questo tipo. Basta che qualcuno abbia intercettato la chiamata tra lui e Zenas e per noi potrebbe essere la fine.» Svelta mollò la presa sul viso dell'Hagufah, afferrando al suo posto la bustina di zucchero: «Gli concedo ancora dieci minuti, a quel topo di fogna, poi ce ne andiamo a casa» con noncuranza mischiò il caffè. Sembrava del tutto ignara della gravità del nome usato, andando avanti a spiegarsi come se nessuno potesse udirla - e persino Alexandria parve non curarsi di quella svista. «Vedi, il ritardo è un brutto segno, ci mette un attimo a trasformarsi in assenza e poi tragedia» disse infine, ingurgitando la bevanda bollente senza fare una piega.

«Se fosse stato furbo» intervenne Z'év allontanando la mano dalla sua: «sarebbe arrivato qui con almeno una giornata d'anticipo.» Si grattò la guancia, togliendo le briciole che vi erano rimaste appiccicate: «In questo modo avrebbe potuto studiare la zona e capire come muoversi - e in tutta onestà, io credo che lo abbia fatto. Non è così sprovveduto. Quindi-»
«Quindi pensi anche tu che gli sia successo qualcosa?» lo stomaco di Noah si contorse, l'agitazione lo abbracciò cingendogli la vita. E se il Cultus fosse davvero stato più abile di Nikolaij? Se lo avesse preceduto e acciuffato? Era già successo in passato? Come si erano comportati in quelle occasioni?
La suola della scarpa iniziò a tamburellare nervosamente sotto al tavolo, mischiando l'ansia del ragazzo al vociare confuso nel bar.

Alex fece spallucce: «Mi concedo il beneficio del dubbio.» La coda le oscillò nell'aria mentre con lo sguardo si perdeva tra la folla dove anche lui, poco prima, aveva esitato. Chissà se stava cercando i propri fratelli. Chissà se avrebbe incrociato la sagoma dell'ultima Chimera.

«Forse dovremmo andarcene...» sfuggì dalla bocca di Noah, dando voce a un pensiero che probabilmente avrebbe fatto bene a tenere per sé e che, purtroppo, Colette colse al volo, come una gazza che vede luccicare un ninnolo nell'erba. Tendendo l'angolo della bocca assunse una smorfia divertita: «Non gli concedi nemmeno dieci minuti? Si vede proprio che l'idea di incontrarlo ti schifa!» il suo corpo planò dolcemente sullo schienale della poltroncina, aprendosi verso di lui.
«N-no!» saltò l'Hagufah. Nonostante incontrare Nikolaij non gli paresse la scelta migliore, soprattutto in un momento simile, non era certo quello ciò che voleva intendere col suo commento. Scosse il capo: «Diamine, Colette, n-non farmi passare p-per il cattivo!» 
La vide alzare le mani in segno di resa, calare le lunghe ciglia per poi riaprire le palpebre e fissarlo dritto in viso: «Ani mitseta'er (perdonami), mio Re, non intendevo farti passare come tale. Mi era solo parso di cogliere, da parte tua, una certa riluttanza nell'incontrare quel sorcio.» Il sorriso le si allargò in viso: «E non ti biasimo, sia chiaro. Nikolaij è... particolare, ecco. Di certo non il fratello che più mi piace, ma si sa, difficilmente si ha modo di scegliere la famiglia in cui si capita.»
La lingua di Alexandria schioccò, catturando per un breve istante l'attenzione della sorella.
«Non sto dicendo nulla di male per ora, akhòt.» I loro sguardi si incrociarono giusto per un istante e la tensione tra loro si fece palpabile, tanto che Noah sentì l'urgenza di allontanarsi prima che potessero estrarre entrambe gli artigli - poi l'ennesimo tic di Wòréb fece capolino, riportando sul suo viso un'espressione di complicità. «Noah caro, quello che voglio dire è che siamo ai tuoi ordini. Se vuoi andartene e lasciare quel topo di fogna qui, io non mi opporrò. Sono al tuo servizio, chiaro? Chiedimi la vita e mi strapperò il cuore dal petto. Comandami la morte e condurrò qui l'Inferno per te.» Si sporse, tanto d'arrivargli a una spanna dal naso. Le enormi pupille della Chimera si dilatarono inghiottendo come un buco nero la sclera, poi il sorriso le si aprì mostrando denti perfettamente bianchi: «Quindi che si fa?»
Un groppo chiuse la gola del ragazzo.
Non lo sapeva. A essere onesto non aveva la più pallida idea di cosa fosse giusto fare. Abbandonare Nikolaij sembrava un atto meschino, egoista e del tutto privo di logica, visto che si erano spinti sin lì, ma aspettarlo diventava ogni minuto più stressante. Dopo l'incidente di Vienna temeva che qualsiasi occasione potesse mettere a repentaglio l'incolumità delle Chimere, soprattutto sapendo che vi era anche una singola possibilità che il Cultus avesse intercettato la chiamata tra Zenas e il fratello - e il solo pensiero di rischiare la vita o la libertà delle  sue creature gli faceva defluire il sangue dalle mani. Dopo tutto quello che avevano vissuto insieme in quel mese e mezzo non poteva immaginare di perderle.
Deglutì a fatica, volgendo lo sguardo fuori dalla vetrata nella speranza di incrociare Levi e la sua sicurezza, in modo da farsi forza. A differenza sua lui sapeva come agire, quando restare e quando fuggire, peccato che si trovasse dall'altra parte della strada e non avesse modo di soccorrerlo. Nonostante avesse bisogno di lui, Nakhaš per la prima volta parve non accorgersi delle sue necessità, forse troppo occupato a tenere sott'occhio la zona, forse in allerta.

Il palmo di Alexandria batté sul tavolo, facendolo sussultare per l'ennesima volta: «Andiamo.» Decretò al pari di un soldato che esegue gli ordini, lapidaria.
«C-come?» l'Hagufah sul momento non capì. Non era forse stata lei a concedersi il beneficio del dubbio, a sperare segretamente che il fratello infine arrivasse? La vide sfilare dallo zaino un portafogli, lasciare sul tavolo una banconota da cinquanta euro e mettere via tutto: «Ho usato una lingua che conosci, no?»
«S-sì, ma... non è presto? Avevate detto-»
Colette balzò in piedi: «Venti minuti di ritardo, Noah. Se non gli è successo qualcosa ha volontariamente deciso di non presentarsi.» Sul viso un sorriso amorevole, fuori luogo. La vide chinarsi su Alexandria, stamparle due baci sugli zigomi alti e fingere qualche convenevole prima dei saluti finali, seguendo le indicazioni di un copione imparato a menadito: «Se è vivo e cambiasse idea sa come contattarci.» Anche Z'év abbandonò la poltroncina, lasciando alla sorella lo spazio sufficiente per raggiungerlo e porgergli la mano: «Noi però non possiamo rischiare, inoltre non mi sento tranquilla, oggi.»
Si alzò anche lui, facendosi poi trascinare dai movimenti delle Chimere. Non era certo di star seguendo le indicazioni che gli erano state date, in tutta onestà faticava persino a ricordarle, però aveva la certezza che, in caso di necessità, doveva solo seguire le direttive di quelle due, volente o nolente - o quantomeno era ciò che Levi gli aveva caldamente consigliato di fare per non finire nei guai.

La bocca di Colette si accostò al suo orecchio, la voce melodiosa gli accarezzò lobo e timpano come una piuma: «Fai attenzione con lei, okay?» Noah corrugò le sopracciglia. Perché lo stava mettendo in guardia? Possibile che non si fidasse di Alexandria? Quando si staccò da lui per concludere i saluti, la donna esitò qualche istante. I loro sguardi si allacciarono il tempo sufficiente per fargli scorgere sul suo viso una certa preoccupazione, quasi temesse veramente che potesse succedergli qualcosa di brutto.
Un altro tic le fece scattare il collo, la testa si piegò giusto di qualche grado mentre il sorriso che stava tendendo faceva a cazzotti con il resto.
«E tu» non guardò la sorella, ma fu chiaro si stesse rivolgendo a lei: «lo la'assott ta'uyott (non commettere errori).»
Z'év non rispose. Ciò che fece fu semplicemente far scivolare la propria mano in quella di Noah, intrecciando le dita con le sue. Un brivido corse lungo il braccio dell'Hagufah, salendo fino alla base della nuca. La pelle di Alex era calda, ma il suo palmo asciutto non tradiva alcuna ansia, come se a dispetto suo e di Colette fosse insensibile al pericolo.
«Ci vediamo a casa.»

Un lieve strattone fece capire a Noah di doversi muovere. Era arrivato il momento di uscire di scena e concludere lo spettacolo. Il cuore sembrò quindi rallentare l'andamento tenuto sino a quell'istante, levandogli dal petto un peso di cui ancora non aveva preso coscienza. Quasi non riusciva a credere di potersi finalmente ritenere salvo.
Senza rimostranze seguì quindi i passi della Contessa che lo condussero fuori dal bar, poi lungo il marciapiede dove una brezza insolitamente calda e poco piacevole gli sfiorò il viso invitandolo a voltarsi e cercare Levi. Chissà se li aveva visti uscire. Chissà se anche lui e Zenas si erano accorti del ritardo e avevano ritenuto il loro gesto la cosa giusta da fare. Di certo, avrebbero concordato sul fatto che quei venti minuti di protrazione fossero davvero tanti per un appuntamento di quel tipo, per un incontro tanto delicato. Eppure, quando i suoi occhi presero a saltare da una persona all'altra, si rese conto di non trovarlo da nessuna parte, ne accanto all'incrocio di poco prima né in un altro punto della strada. Levi era sparito, così come il fratello.
Lo stomaco gli si contorse.
«Gli altri-»
Alex lo precedette: «Tranquillo, ci pensa Colette ad avvertirli» e strinse la presa sulla sua mano, come a trasmettergli coraggio.
I denti di Noah affondarono nel labbro inferiore, gli fecero male. Davvero funzionava così? Si chiese, abbassando lo sguardo sulla tesa del cappello che copriva il viso della Chimera. Davvero bastava una sua richiesta, qualche minuto di ritardo, e loro abbandonavano persino un fratello che non vedevano da decenni? Davvero Levi e Zenas sarebbero tornati a casa con loro?
Avrebbe tanto voluto chiederglielo, peccato che la bocca sembrasse improvvisamente sigillata, come se la saliva lasciata dagli incisivi avesse incollato le labbra tra loro. L'Hagufah quindi tacque, seguendo Z'év lungo un percorso che non capì come lei potesse conoscere o semplicemente ricordare. Si mossero lungo tutto l'isolato senza proferir altra parola, mano nella mano passando da una via all'altra e inoltrandosi sempre più fuori dal centro. Noah si perse a osservare le vetrine dei negozi, le facciate degli edifici e poi su verso il cielo azzurro dove piccioni e gabbiani parevano rincorrersi. Il mondo attorno a lui era calmo, spensierato. Avrebbe quasi osato dire innocente, ma non aveva più la certezza che quello fosse l'aggettivo più appropriato per descriverlo. Da quando l'Ars rientrata nella sua vita, mostrandogli in sogno o tramite le allucinazioni frangenti delle sue vite passate, aveva capito quanto potesse essere violento e corrotto.
Fece per rivolgersi ad Alexandria, ma quando i suoi occhi tornarono a terra un dettaglio catturò la sua attenzione. Davanti a loro, a un paio di metri di distanza, la chioma di Colette si agitava attorno al suo corpo, mossa dalla stessa brezza che fastidiosamente non aveva smesso di sbattergli contro.

Sentì le sopracciglia corrucciarsi fin quasi a toccarsi, le labbra poi gli si schiusero.
Stava forse sognando?

«Come da piano» accanto alla sua spalla, Z'év gongolò. Riusciva a intravedere sotto la tesa del suo cappello il sorriso che le creava una sorta di fossetta all'angolo della bocca e, in un istante, gli tornò in mente lo schema tracciato da Levi: separarsi per poi ricongiungersi, in modo da restare al sicuro.
«I-io non me ne ero nemmeno accorto...»
Lei gli carezzò il braccio con la mano libera: «Vuol dire che siamo bravi, non pensi?» poi alzò il mento verso di lui in modo che si potessero guardare.
«Sì, solo... da quanto è davanti a noi?»
«Un paio di traverse fa. Doveva aspettarci più avanti ma... beh, suppongo non si fidi di me.»
Noah lanciò un'occhiata alla schiena di Colette. Doveva trattarsi ancora della sua morte, pensò, di quando avevano creduto d'averlo perso per sempre.
«Le passerà, ne sono certo.»
«Forse» anche lei tornò a guardare la sorella: «L'unica cosa certa è che non le andava bene fossi io la tua "accompagnatrice" per oggi. So che ha cercato di convincere Levi a cambiare idea.» Nella voce di Alexandria si poteva percepire una velata delusione, una tristezza vecchia ma non passata. 
«Perché non l'ha fatto lei, allora?»
La testa della Contessa gli cadde sulla spalla, come gustandosi quella vicinanza. Noah sapeva essere una finzione, eppure avvertì una profonda dolcezza riempirgli il petto.
«Il suo corpo ha dieci anni più del tuo, avreste dato nell'occhio» ammise, facendolo sentire uno sciocco per non esserci arrivato da solo. «Ma in diverse occasioni siete stati una coppia bellissima, sai? Sia quando fingeva di essere tua moglie, sia quando diceva di essere tua sorella. Oh, e anche con Levi al tuo fianco-»
«Levi?» l'Hagufah sussultò, bloccandosi improvvisamente. Persino Alex fu costretta a fermarsi per non lasciarlo indietro. «C-cosa vorresti dire?»
Le gote della Chimera si imporporarono appena e le palpebre sbatterono un paio di volte: «Beh... entrambi avete u-un fascino indiscutibile e...»
Le sopracciglia di Noah si alzarono tanto da fargli male: «Quindi io e Levi...?» Non riusciva a crederci. Nemmeno nei suoi sogni più bizzarri aveva mai pensato di fingersi innamorato di lui, di comportarsi come ora stava facendo con lei, di baciarlo o-
«Beh, sì! Hai avuto anche degli hagufah femminili, era normale che ad accompagnarti fosse un uomo.»
La testa prese a girargli. Più ci pensava, più le scene che gli passavano per la mente lo destabilizzavano. Non era in grado di scindere l'immaginazione dal ricordo e la cosa non fece altro che peggiorare la situazione.
«Okay, ma... solo accompagnarmi, giusto?» Inconsciamente lasciò la mano di Alexandria per sfiorarsi una tempia.
«No, insomma... principalmente si trattava di quello, ma dovevate comunque fingervi una coppia, come con Colette, Will, me o Zenas.»
«Anche lui?!» Quasi lo urlò. Perché mai nessuno glielo aveva detto prima? Perché il discorso era dovuto uscire in una situazione come quella?
Z'év gli si gettò addosso coprendogli la bocca. Il suo palmo a ridosso delle labbra era salato, molto più caldo di prima. Profumava di burro e marmellata e il tutto sembrò peggiorare i capogiri. Vide la Chimera lanciare sguardi alle loro spalle e sibilare qualche imprecazione che non comprese, poi fulminarlo: «Santi numi, Noah!» Lentamente mollò la presa: «Non è il momento di reagire così!» Lo rimproverò. «Capisco che può imbarazzarti, ma fidati, ci sono cose ben peggiori.»
Sì, lo sapeva, ma nonostante ciò si sentiva davvero provato da quella scoperta. Non capitava certo tutti i giorni di venire a conoscenza di situazioni del genere.
«C-certo» biascicò distogliendo lo sguardo dal viso di Alexandria e facendolo scivolare sull'orlo della t-shirt che aveva indosso: «Scusami, i-io... non ero pronto a scoprirlo.»
Lei sembrò impietosirsi, così tornò ad afferragli la mano e sorridergli: «E' tutto okay. Ora però riprendiamo a camminare. Colette ci ha quasi seminati.»
Lui annuì e i giramenti di testa divennero più intensi, come se quel movimento avesse accentuato il movimento vorticoso dei pensieri e fosse sul punto di svenire. Strinse le palpebre convinto di aiutarsi, poi se le strofinò, ma quando le riaprì verso il fondo della strada venne sopraffatto da un flash e poi una sensazione paralizzante. Nemmeno si rese conto di ciò che stava succedendo, sopraffatto dal turbinio che ora gli si stava muovendo per tutto il corpo. Per un momento si sentì come la casetta di Dorothy durante il tornado, inerme e immobile, poi con la coda dell'occhio scorse una macchia nera al proprio fianco. Una persona incappucciata, forse. Esile e veloce gli andò a sbattere addosso, facendogli completamente perdere l'equilibrio. Noah cadde a terra, il coccige picchiò con violenza sull'asfalto e una stilettata di dolore risalì lungo la schiena facendogli sfuggire un guaito.

Z'év agì d'istinto.
Sentì i suoi passi smuovere l'aria, la belva in lei ringhiare e scuotergli le ossa già dolenti, poi il suono ovattato di un corpo schiacciato contro una parete gli arrivò ai timpani come un abbaglio.
Erano sotto attacco? riuscì a pensare, il cuore in gola e la vista oscurata. Cosa stava succedendo? Come doveva comportarsi? Dove erano le Chimere?
Infine, il rumore di ringhio sovrastò tutto: «Zeh otekha! (tu!) Mah khashaveta? (cosa stavi pensando?)Eh?! Parla!»
Noah alzò lo sguardo nella direzione da cui gli sembrava arrivare la voce di Alexandria. Strinse più volte le palpebre per riuscire finalmente a mettere a fuoco e, quando lo fece, ebbe un tuffo al cuore.

Con il collo minacciato dagli artigli della Chimera, un bambino le sorrideva in modo tanto genuino da farlo sembrare un folle. 
Noah quasi non volle credere ai suoi occhi. Doveva essere un'allucinazione, per forza! No, no...
Nikolaij non poteva essere lui! Gli altri non gli avevano detto che fosse... poi scorse meglio il suo viso pallido e incorniciato da una zazzera scura. Le tracce della mutazione non lasciavano dubbi.

«Akòth Z'év!» lo sentì gridare, annientando così ogni possibilità che non si trattasse della persona che stavano aspettando.


 

Yaga:

Avete presente un parto? Ecco...

 

 
 

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Capitolo 56
*** - Capitolo trentunesimo - Parte Seconda: L'ultimo ***


N.B. Ricordati sempre di controllare i capitoli precedenti per essere cert* di non perdere alcun aggiornamento
 

"Take this life
Empty inside
I'm already dead
I'll rise to fall again"

Give me a sign, Breaking Benjamin


 

 

New York, 1913

La prima cosa che si notò di Akràv, quando entrò dalla porta urlando, furono le vesti sporche di sangue e il terrore che gli riempiva gli occhi. Subito dopo venne ciò che teneva stretto tra le braccia: un corpo.
Sul momento Salomone non capì, ma il suo istinto prevalse facendolo muovere, come se sapesse. In un attimo abbandonò la poltrona su cui era rimasto fermo a leggere per l'ultima ora e, con il libro ancora in mano, andò incontro alla Chimera nella speranza che il corpo non fosse quello di Hamza, vista la zazzera scura. Faticava a vedere così lontano e la cosa lo agitò più di quanto il suo hagufah attuale potesse permettersi. Era ormai agli sgoccioli, l'aveva prosciugato tanto da costringerlo agli occhiali.
Le braccia fecero su e giù mimando una sorta di volo lento e calmo, in modo da tranquillizzare Zenas.
«Hu zaquq la'ezerah (ha bisogno di aiuto)» urlò quasi con la bava alla bocca, oltrepassandolo senza nemmeno notare il tentativo del Re di placarlo. Subito alle sue spalle comparve Z'év, il volto pallido e chiazze rosse a segnarle la giacca. Che si trattasse davvero della sua terza Chimera?
«È Hamza?» le chiese in un fiato, certo che con uno sguardo la Contessa avrebbe potuto ucciderlo. Non era necessario parlare in situazioni di quel tipo.
«Lo, al tideag (No, tranquillo)» mollando la presa su un angolo della gonna gli afferrò il braccio, strinse per dargli conforto e poi procedere: «ma dobbiamo fare qualcosa.» In un attimo fu lontana da lui e accanto al fratello. Senza esitazione si chinò sul tavolo da pranzo sbattendo a terra il candelabro, la frutta secca e i centrini che Willhelmina aveva ricamato con tanta meticolosità.
In un attimo il piano ligneo fu libero e Zenas vi adagiò sopra il corpo. Forse aveva pianto nel tragitto fin lì, forse lo stava ancora facendo e, in un certo modo, Salomone si sentì al contempo addolorato e preoccupato mentre avanzava verso la sala da pranzo.
Akràv d'improvviso abbassò il viso sul proprio tesoretto, gli porse la guancia per sentirne il respiro sulla pelle. Era un fascio di nervi, si notava persino con la vista offuscata.
«Hu 'adayinn noshem! Bevaqashah... (Respira ancora! Ti prego...)» si volse verso di lui, gli occhi rossi e la bocca impastata. Sì, Zenas aveva pianto.
Salomone mosse qualche passo pesante, le assi del parquet scricchiolarono sotto il suo peso. Sentiva nell'aria una sensazione che conosceva, una consapevolezza che avrebbe tanto voluto ignorare e che gli torse lo stomaco, eppure non disse nulla. I rumori della casa si mischiarono al respiro grosso dell'amico, alla frenesia di Alexandria nel cercare qualcosa e, in ultimo, al gocciolare ritmico del sangue. Era ovvio ci fosse una grossa emorragia in corso e che il tempo a disposizione si stesse assottigliando come una corda che brucia, eppure avanzò con inerzia sino ad arrivare accanto alla sua Chimera.

«Mi zeh? (Chi è?)» domandò risalendo con lo sguardo dalle scarpe lise, probabilmente di qualche numero più grandi del necessario, lungo brache rattoppate, bretelle di cuoio e una camicia rovinata in più punti, non più bianca ma rossa come la morte. Quello sul suo tavolo era un corpo minuto, ancora da svilupparsi. Il viso parlava di un'infanzia rubata dal lavoro e di una tragedia appena accorsa.
Zenas deglutì per rispondere, ma appena aprì bocca la voce di Colette entrò nella stanza squarciando aspramente l'atmosfera: «Ganav qatann (un ladruncolo).» 
Salomone le lanciò uno sguardo da sopra la spalla. Si era aspettato la smorfia schifata e il movimento lesto con cui si levò i guanti, ma non il tic. «Un altro di quei mocciosi che non sanno tenere le mani al proprio posto» i boccoli rimbalzarono intorno al suo meraviglioso viso, facendogli domandare ancora una volta come tanta bellezza potesse celare un simile ribrezzo per il prossimo.
Accanto a sé, il Re percepì un movimento, forse uno scatto che bloccò prima che potesse provocare un disastro.
 «È mio amico! Un bravo ragazzo!»
Colette si tolse il giacchino, avvicinandosi a sua volta al tavolo. Non rispose subito, prima si concesse il lusso d'osservare il piccolo: «Al tuo posto, akh, rivaluterei chi chiamare con tale nome.» I due si lanciarono sguardi di fuoco e, stretto nella propria mano, Salomone poté sentire il muscolo del braccio di Zenas contrarsi, resistere all'istinto di divincolarsi e afferrare la sorella per il collo.
«Come puoi essere una tale arpia?»
Lei slacciò il primo bottone della camicia del ragazzino, ignorando la domanda di Akràv.
«Ha cercato di rubarmi la borsetta,» soffiò rivolgendosi a nessuno in particolare e continuando a slacciare: «i "bravi ragazzi" a mio avviso si comportano diversamente.»
«Tu non lo conosci!» Ringhiò l'altro.
Una fitta alla tempia fece socchiudere gli occhi del Re. Non ne poteva più di tutte quelle discussioni, erano ormai mesi che Colette sembrava insofferente alla presenza del fratello e non riusciva a capirne il perché.
«E nemmeno è qualcosa che bramo fare, akh» Alexandria l'affiancò porgendole una bacinella d'acqua e degli stracci. «Di grazia!» sbottò: «Abbiate un minimo di contegno, potrebbe morire e voi state qui a bisticciare come due infanti?» Poi si rivolse a Salomone: «Adon, atah yakhol la'azor lo? (Sire, potete aiutarlo?)»
Il Re tornò a fissare il ragazzino ora a petto nudo. Grossi ematomi gli chiazzavano la pelle chiara e sicuramente doveva avere una ferita non indifferente all'altezza della nuca. Fiaccamente lasciò la presa su Zenas, allontanandolo a sufficienza per poter prendere il suo posto accanto al volto della vittima. Avrebbe tranquillamente potuto rimettersi seduto sulla propria poltrona e lasciare che i minuti facessero il loro inesorabile corso, ma per amore di Akràv finse ci fosse almeno una possibilità per quel poveretto.
«Zeh niqera Nikolaij (si chiama Nikolaij)» mugolò la Chimera accanto al suo orecchio, facendogli quasi venir voglia di storcere la bocca.
Non voleva saperlo. A dire il vero non voleva sapere nulla di lui. Sapere, conoscerlo, avrebbe creato tra loro un legame, gli avrebbe fatto provare un'empatia, una pietà che si era ripromesso decine di volte di estirpare dal proprio essere.
Con il pollice gli alzò una palpebra, incontrando solo sclera e un alone vago dove l'iride e la pupilla dovevano essersi nascoste. Fece la stessa cosa sull'altro occhio.
«Lavora con me al porto.»
Non dirmelo, avrebbe voluto urlargli.
«Lui e lo zio si occupano della famiglia. Ha due fratelli più piccoli. Lui... li ama così tanto... N-noi dobbiamo» Zitto! «aiutarlo. So che possiamo!»
Delicatamente Salomone passò una mano sopra il costato del piccolo. Tastò con premura in alcuni punti, sentì le costole rotte sotto polpastrelli la cui sensibilità stava andando scemando. Probabilmente doveva aver riscontrato più di un trauma; forse l'emorragia che lo stava uccidendo non era una.
Alzò lo sguardo su Colette e lei capì, ma tacque. Avrebbe potuto dire l'ennesima cattiveria, strappare al fratello la speranza, eppure non lo fece. Da qualche parte in lei esisteva ancora un cuore pulsante.
«Adon... non si può morire a dodici anni.»
Taci!
Salomone chiuse gli occhi, strinse forte i denti e si chiese se, provandoci, ce l'avrebbe fatta.
«Uscite» ordinò dal profondo della propria gola, sentendo una scossa pizzicargli la carne. L'Ars si stava muovendo, reagiva al suo stato d'animo. Era pronto a imporlo se avessero osato resistere.
Z'év lo guardò. Era allibita. «M-ma possiamo-»
«Lasciatemi, ho detto. Solo Wòréb può restare.»
Zenas lo strattonò malamente. Le sue mani ruvide gli sgualcirono la giacca e con il viso arrivò a pochi centimetri da quello del Re. A quella distanza, persino se fosse stato cieco, Salomone avrebbe potuto leggere i pensieri della Chimera dalle pieghe sul suo viso.
«Stai scherzando?»
«No.»
«Lei è pronta a lasciarlo morire! Hai sentito come lo ha definito!» Gocce della sua saliva gli sfiorarono le guance, impigliandosi nella barba sale e pepe. Akràv era furioso e la cosa gli torse lo stomaco. «È solo un bambino!»
«Ma se il suo destino è quello di morire oggi io non posso oppormi, akh
A quelle parole la stretta aumentò, il braccio prese a formicolargli e un'altra scossa pizzicò sia lui sia la Chimera, circuito chiuso in cui far passare le scariche fatali dell'Ars.
«Eppure hai sette persone che testimoniano il contrario, Sire.» Il viso più vicino, la minaccia della mutazione come un'ombra sfuocata alle spalle di Zenas. Salomone sapeva che, nonostante la rabbia, mai lo avrebbe colpito, eppure sentì la forza della sua rabbia, del suo dolore, investirlo con la medesima violenza che avrebbe avuto quel pungiglione. Nella mente di Akràv Nikolaij doveva star prendendo, a distanza di secoli, il posto che una volta era stato del suo Niketas.
«Esci.»
«Promettimi che lo salverai.» Alexandria afferrò il fratello per la vita, incurante della sua coda a minacciare entrambi. Con dolce decisione provò ad allontanarlo dal Re che, guardando negli occhi la propria creatura, si chiese se alla fine avrebbe avuto il coraggio di domandargli ciò che ancora stava tacendo.
«Farò ciò che mi è umanamente possibile. Altro non mi compete più, yoda'att zott (lo sai bene).»
La smorfia di Akràv fu pura delusione e, mollando la presa sul suo sovrano, fece qualcosa che scosse Salomone nel profondo. Volgendo il capo dall'altra parte sputò ai suoi piedi, gli rivolse un ultimo sguardo scrollandosi di dosso le braccia di Alex e se ne andò - non fuori dalla sala da pranzo, ma dalla casa. Lei lo seguì senza che il Re dovesse dire nulla. Sapeva bene cosa fare, quali compiti era necessario svolgere.

Quando la porta d'ingresso si richiuse alle loro spalle, Salomone si concesse un lunghissimo momento di silenzio.

Era esausto.

Quell'hagufah, quella vita, la piega che la loro coesistenza stava prendendo diventava ogni giorno più logorante.

«Cosa vuoi che faccia? Chiamo il becchino o qualcuno che ne lasci il corpo in un vicolo?» Aveva le braccia conserte e un'espressione annoiata. Era insensibile a tutto, pensò lui invidiandola, persino al sangue che le avrebbe macchiato la camicetta.
«Ho detto a tuo fratello che avrei provato a salvarlo» una specie di sorriso gli tese le labbra. Doveva a Zenas almeno un tentativo, pensò.
«Sappiamo entrambi che non è possibile. Non umanamente. E lascia che sia brutalmente onesta con te, mio Re,» il peso della donna andò a gravare su una sola gamba. Una ciocca ribelle le cadde davanti al viso, catalizzando lo sguardo di Salomone su quelle iridi immense e scure come il sonno più profondo. Il modo in cui l'Ars aveva mutato Colette era qualcosa di spaventoso. L'aveva resa ancora più bella e crudele, una sirena pronta a strappare la vita di qualsiasi persona si fosse trovata persa: «un topo di fogna in vita non verrà santificato dalla morte. Questo moccioso non è fatto per la nostra mishpakha (famiglia).»

«Non credi nella sua redenzione?» Soppesando quel momento di finta calma, dove un quasi cadavere se ne stava sdraiato sul tavolo dove quella stessa sera avrebbero cenato, l'uomo si sistemò gli occhiali.
«Ho visto cosa quest'esistenza ci ha fatto.»
Salomone rise. Cosa fare? Tradire ancora una promessa per amore o pugnalare la fiducia di un fratello? «Sbaglio o non hai gradito il fatto che ti abbia rubato la borsetta? Cosa nascondevi lì dentro di tanto caro?»
Colette sbuffò, il suo sguardo fuggì lontano per nascondere qualcosa.

«Non mi piace. Non lo voglio, ma non sono io a dover decidere, giusto?»
 

 
 

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Capitolo 57
*** - Capitolo trentunesimo - Parte Terza: L'ultimo ***




N.B. ricorda sempre di controllare gli aggiornamenti precedenti per essere sicur* di non aver perso nulla.

Marsiglia, giorni nostri

 

Mosso da una fitta inaspettata, Noah riprese possesso del proprio corpo stringendosi la testa tra le mani, come se un suono acuto lo avesse colto alla sprovvista. Un brivido lo percorse completamente, facendogli per un istante temere di vomitare ciò che era rimasto nel suo stomaco dalla sera precedente.
Le immagini che gli erano passate veloci davanti agli occhi lo avevano scosso profondamente. Tutto quel sangue, le ferite, l'indifferenza sua e di Colette lo avevano letteralmente sconvolto provocandogli una nausea destabilizzante.

Noah si raggomitolò maggiormente su se stesso costringendosi a non spostare nuovamente lo sguardo su quel ragazzino, sul suo viso. Non voleva in alcun modo incrociare i suoi occhi, i più inquietanti che avesse mai donato a una Chimera - peccato che con le palpebre strette la memoria continuasse a proiettarvi sopra scene confuse di quel giorno, episcopio impazzito su schermi di pelle.
Scorse il luccichio di un bisturi, il pallore nauseante delle costole, la disapprovazione sul volto di Wòréb, la bocca del moccioso spalancarsi in un urlo flebile. Si sentì frustrato, stanco. Poi udì un comando ovattato, vide la confusione di Colette e un'ombra alle sue spalle. Un'altra donna dietro di lei, gli occhi grandi di sorpresa estremamente simili a quelli della Chimera con lui, labbra carnose e capelli à la mode. Si chiese chi fosse, ma la risposta era lì ad attenderlo come una sagoma in controluce dietro una tenda.
L'Hagufah si morse l'interno guancia, scosse il capo.
No, non voleva vedere altro, non voleva sapere - eppure in un attimo scoprì di come avevano ucciso Nikolaij mettendo fine al suo dolore con un cuscino sopra la faccia, di come quella donna sconosciuta, Willhelmina, avesse provato a capire la situazione e dissuaderlo insieme alla sorella. Poi, in un turbine frenetico, comprese come aveva riportato in vita quel bambino. Davanti a sé ripercorse i passaggi della trasmutazione come se stesse ripassando uno schema e, d'istinto, annaspò.

Levi piombò su di lui comparendo dal nulla, un predatore che finalmente attacca vedendo la preda in difficoltà. «Akh! Akh! Tissetakel 'alay! (guardami!)» sibilò con quella sua solita autorevolezza impossibile da contrastare. Le sue pupille a spillo lo colpirono. Senza le lenti scure a separarli sembrarono entrare in lui come zanne e strappare le immagini nella sua mente riportandolo con violenza alla realtà. Noah respirò forte, riempiendosi i polmoni dell'aria salmastra e del profumo della sua creatura. Boccheggiò annusando il tanfo di conoscenza e magia, di eresia e promesse come se improvvisamente si rivelassero a lui nuovi odori, sapori e colori.

 
Ora ricordava.
Ora sapeva come riportare in vita un uomo.
Eppure la felicità divenne presto un'aggiunta fastidiosa alla nausea che già lo stava torturando.

Deglutì nella speranza di ingoiare il conato di vomito che sentiva volerlo tradire.

Le sue palpebre batterono una volta sola, lentamente, e il viso di Levi divenne talmente nitido da sovrapporsi a decine di circostanze simili. Poteva sfiorare con le ciglia ognuno di quei momenti senza aver presente alcun contesto, alcuna memoria aggiuntiva benché in quell'istante gli sembrasse che la connessione con il suo vero sé stesse raggiungendo l'apice. L'Ars gli stava rivelando qualcosa, una parte della persona che era stata. Stava sfamando la sua neshama (anima) con assaggi frugali che parevano mettere ancor più alla prova il suo stomaco.

«Ho visto» bisbigliò, incapace di trattenere una lacrima e il senso di colpa nel provare tanto ribrezzo per ciò che aveva fatto nelle vite precedenti.
Non dubitava Levi avrebbe capito. Lo aveva conosciuto così bene in passato e persino in quel preciso momento Noah era certo potesse leggergli in viso ogni singola cosa. Erano legati in modo indissolubile dall'Ars.

Nakhaš strinse le proprie dita sul suo braccio, aggrottando le sopracciglia. Persino la cicatrice sembrò prendere una forma più dura, preoccupata.
«Cosa?» sussurrò talmente piano da fargli dubitare fosse stato più di un movimento di labbra e aria.

«Lemavet shelo (la sua morte). Khazar shelo (il suo ritorno).»
Lo sguardo di Levi si riempì, le sue guance divennero, se possibile, ancora più pallide - e Noah non comprese. Mentre i loro visi si facevano pian piano più distanti sentì il legame tra di loro assottigliarsi. Perchè?
«Hai ricordato?»
Passi veloci alle loro spalle. Il ticchettio deciso degli stivali di Colette sempre più vicino e distinto. L'ombra di Z'èv, come quella di Willhelmina, accanto al fratello maggiore.

Noah avvertì la gola seccarsi, gli sguardi di tutti schiacciarlo a terra.
Cosa avrebbe dovuto dire, esattamente?

«I-io...»
Uno squittio poco distante, leggero: «Mi zeh? (chi è?)» e la voce di Alexandria subito dopo.
"Lui."
L'Hagufah alzò lo sguardo, lo appoggiò su di lei e, involontariamente, si ritrovò a scivolare su Nikolaij. Era così simile e così terribilmente diverso da ciò che aveva visto... poi un ricordo lo tradì. Il torace aperto di quel corpo, la  necessità di controllare l'origine dell'emorragia, le ossa rosse e bianche a erigersi come guglie maledette sopra alle macerie dei suoi organi.
Istintivamente Noah si piegò di lato con una mano alla bocca, certo che stavolta avrebbe vomitato. Sputò saliva mischiata al sapore salato di un'altra lacrima, ma nulla più.
Colette arrivò in scivolata e si inginocchiò davanti a lui. Il rumore delle sue rotule sull'asfalto si sentì distintamente, ma lei rimase impassibile. Senza esitazione gli strinse le mani al viso cercando il suo sguardo e l'Hagufah, in qualche modo, soffrì al suo posto. 
«Respira» gli suggerì con una preoccupazione tale da renderla umana, ben diversa dalla persona che aveva scorto nel flashback di poco prima: «Respira, Salomone» - e lui ubbidì, provando a scacciare quelle immagini orrifiche dalla testa. 
«Salomone?» di nuovo quella voce cristallina, immatura che gli fece salire un brivido fino alla nuca: «Ma che diamine vi prende?»
Wòréb distolse lo sguardo dal quello del Re, portandolo da qualche parte dietro di lui. Fu ovvio dove, Noah nemmeno dovette immaginare.
«Cento anni e la stessa inettitudine di quando ne avevi dodici» sputò la donna: «Possibile che non te ne sia accorto quando ti sei avvicinato?»
L'Hagufah avrebbe voluto vedere l'espressione di Nikolaij, gli sarebbe piaciuto trovare la forza per girarsi e guardarlo, peccato che il corpo volle disubbidirgli, forse più consapevole della volontà di quanto rischioso sarebbe stato quel gesto.
«Akhòt, ti prego...» ancora Levi, esausto come se già sapesse come avrebbe potuto evolversi quella conversazione.
«Cosa?» Davanti a sé Noah vide Colette alzare le sopracciglia e in contemporanea allargare le palpebre socchiudendo appena le labbra carnose, rese ancora più ammalianti dal lucidalabbra colorato: «Per poco il ragazzo non aveva un infarto! Il minimo che può fare è capire, avvertire i segnali! Dannazione!» La vide sfiorarsi un polso e, lì, scorse il sigillo: «Possibile che gli formicoli la nuca e non gli venga nessun dubbio?»
Di nuovo la voce di Nikolaij: «Scusa se non so che avete trovato un nuovo adon! Sai, è qualche anno che non vi vedo né vi parlo! Poteva tranquillamente essere solo colpa vos- ouch!» Noah immaginò Alex colpirlo, magari con una gomitata nel fianco o con un pizzicotto al braccio.
«Bada alle tue parole e all'intensità con cui le dici» ringhiò: «non siamo al sicuro e lo sai.»
Colette tornò a guardarlo. La dolcezza che gli rivolse parve quella che aveva scorto durante la loro prima conversazione da soli: «Stai meglio?» I suoi tic erano del tutto spariti, ma i suoi cambi d'umore non avevano nulla di rassicurante.
Noah annuì per abitudine benché non fosse così sicuro delle proprie condizioni e, in un angolo della mente, si chiese se le gambe lo avrebbero retto. Chissà se voltandosi verso la settima Chimera il suo stomaco gli avrebbe giocato un nuovo, brutto colpo destabilizzandolo tanto da farlo cadere a terra ancora una volta.
Si guardò i piedi. Parevano normali, affidabili come sempre. Forse non sarebbe successo nulla, oppure... Wòréb si raddrizzò. I jeans all'altezza delle ginocchia rovinati, la pelle subito dietro, per quel poco che si riusciva a vedere attraverso i buchi, sbucciata come quella di una bimba al parco. Cautamente gli porse una mano che Noah esitò ad afferrare, remore di ciò che aveva fatto a Levi qualche settimana prima. Se si concentrava a sufficienza poteva ancora percepire il dolore che i suoi artigli avevano causato a quel poveretto e si domandò se accettare l'aiuto fosse una mossa saggia - peccato che prima che potesse ponderare adeguatamente cosa fare, Levi lo afferrò strattonandolo. In un attimo Noah fu in piedi difronte al suo generale e a Colette.
«So che sei confuso e provato, akh, davvero, ma non possiamo perdere tempo» Nakhaš lo stava fissando. Aveva lo sguardo dritto nel suo come a volergli entrare nella testa per riportare alla luce i pericoli a cui sarebbero potuti andare incontro - e in effetti, in quell'istante Noah si accorse della mancanza di Zenas tra loro. Dove era finito? Li stava tenendo d'occhio a distanza? Era rimasto indietro oppure era andato avanti? Stava forse distraendo dei nemici? A quel pensiero il cuore iniziò ad accelerare. No, non voleva credere che il Cultus fosse davvero arrivato a loro, che gli stesse col fiato sul collo.
«Lo chiami già akh?» Nikolaij tornò alla carica facendolo sussultare: «Non credevo lo avresti fatto con altri...» Nemmeno questa volta il suo corpo volle girarsi nella direzione in cui si trovava e Noah ebbe il sospetto di dovergli apparire scortese con quell'atteggiamento. 

Mollando la presa sull'Hagufah, Levi fulminò il fratello. La sua voce uscì sottile e tagliente come una lama appena affilata: «Non ci sono altri, Niko.» Ed esattamente come un'arma si stagliò tra le due Chimere colpendo un punto scoperto. La corazza d'ignoranza di Nikolaij stavolta non riuscì a proteggerlo e in un respiro chiese: «C-che intendi?»
Colette incrociò le braccia sotto il seno, portando tutto il peso su una gamba: «Sei davvero così tardo?»
«Non prendetemi in giro!» Noah sentì un passo e avvertì una presenza farsi più vicina: «I-io c'ero! Io h-ho visto! Alex, lei-» si immaginò la creatura cercare sui visi dei fratelli una sorta di appiglio, dell'ironia o qualsiasi cosa potesse tradirli, ma era ovvio che non vi avrebbe trovato nulla. Non stavano mentendo, per quanto l'Hagufah lo avrebbe voluto. Lui era Salomone in una forma nuova, non solo in un corpo diverso. Era una sua versione ibrida e malandata, incompleta, in divenire - e per quanto la cosa potesse apparire irreale, non lo era affatto, esattamente come tutto ciò che aveva scoperto su se stesso in quell'ultimo mese e mezzo.

Ancora un passo, una presa salda e al contempo minuta intorno al polso. Un invito a voltarsi, poi un tiro più deciso. Quando Noah si vide poi riflesso negli occhi rossi e bianchi di Nikolaij capì di dover davvero iniziare a fare i conti con ciò che era e aveva fatto.

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Capitolo 58
*** - Capitolo trentaduesimo: I nodi che tornano al pettine ***




N.B. ricorda di controllare sempre i capitoli precedenti per essere cert* di non aver perso alcun aggiornamento.
 

"And if the sinner's asleep then how can I rattle his cage?
I'm so sick of these dark days chasing me further underground
But I'll find my way to light and you'll find your own demise
We were not born the enemy and we will not stop for anything
So try to tell me all the things that I've done wrong
This fire will burn until we fall"


 

- Rise for the Runaways, Empire the Crown

 

A Nikolaij era stata concessa un'ora per raccattare tutte le sue cose e farsi trovare nei pressi del porto; lui aveva impiegato solo quaranta minuti per tornare all'appartamento che aveva affittato, prendere lo zaino da trekking grande la metà del suo corpo e raggiungere Alexandria e Colette nella Lancia Thema nera che la sorella maggiore aveva comprato da un vecchino di zona. Levi aveva affidato a loro il compito di recuperare la settima Chimera, ma Z'év non avrebbe saputo spiegare con certezza il motivo di tale decisione. Forse voleva tenere Niko lontano da Noah visto ciò che era successo, forse preferiva stare di persona accanto al Re dopo il flashback destabilizzante. Probabilmente aveva valutato il fatto che in auto con due donne un ragazzino avrebbe destato meno sospetti, oppure, nel più insolito dei casi, aveva preso quella decisione per evitarsi i battibecchi tra Wòréb e Akhbar, come se a lei, invece, non dessero sui nervi.

Con le mani strette intorno al volante di plastica Alex lanciò uno sguardo veloce allo specchietto retrovisore, incontrando il sorriso innocente del fratellino.
«Hai paura che sparisca ancora?» Le chiese poggiando la testa sul finestrino. Lei tornò a guardare la strada. La radio trasmetteva un brano dei The Libertines di cui ricordava il motivetto, ma la tensione che si respirava nell'abitacolo le impedì di godersi il momento. Avrebbe dovuto gioire, Nikolaij era finalmente tornato da loro e all'appello mancavano solo due fratelli, eppure non ci riuscì. Accanto a sé aveva una persona che l'odiava, forse pentita di non essere riuscita a spaccarle il cranio prima che intervenissero le altre Chimere e, alle spalle, aveva colui che per poco non aveva fatto venire un infarto al Re, mettendo nuovamente tutto a repentaglio.
Forzò un sorriso.
«Tranquillo, akh, ho la sicura alle portiere posteriori proprio per evitare la fuga di mocciosi come te.» Persino senza guardarla era chiaro che stesse gongolando per la battuta; non si sarebbe fatta sfuggire alcuna occasione per punzecchiarlo e, di rimando, nemmeno lui.
«Non pensavo che un'auto da nonna come questa potesse avere un simile optional!»
«
È vintage, si vede che in questi anni non hai sviluppato alcun gusto.»
«
È quello che ti ripeti allo specchio ogni mattina per giustificare il calo di spasimanti?»
Alex dovette frenare l'impulso di ridere mordendosi la lingua. Fortunatamente a distrarla c'era anche il traffico della A55.
«Almeno io li ho, o sbaglio? Anche perché nel tuo caso non si tratterebbe di pedofilia?»
Z'év ebbe un sussulto, i suoi occhi si fecero grandi di imbarazzo e stupore e il piede scivolò sul freno rischiando di farla inchiodare: «Ti sembrano cose da dire?» Per la prima volta dopo giorni i loro sguardi si incrociarono. Faccia a faccia con la sorella, Alexandria si stupì di come i suoi occhi fossero rimasti così profondi e vivi.
«Beh, non è così? Avrà pure il corpo di un marmocchio, ma è pur sempre un centenario, come definisci la cosa?» Per un momento soppesò la logicità di quel commento, poi riprese a guardare fissa la strada. Non era certa che rispondere sarebbe stata la scelta migliore.
«E comunque,» riprese Colette, ravvivandosi una ciocca sfuggita dal mollettone: «che hai combinato in questi anni? Ricordo che eri partito con Hamza e Will.»
Niko fece spallucce. Dallo specchietto Alex lo vide girare il viso verso la corsia accanto e riflettere.
«Li ho persi a Basilea. Il Cultus ci stava addosso e tra un vicolo e l'altro abbiamo finito con il separarci. Avrei potuto aspettarli all'ostello in cui alloggiavamo, ma era troppo rischioso» fece una pausa per strofinarsi il naso, lo sguardo ancora perso sulle macchine che stavano sorpassando: «Così dopo qualche giorno, forse una settimana da solo ho deciso di prendere in mano la situazione. Se fossi rimasto lì sicuramente sarei morto.»
«E che hai fatto?» Gli domandò Z'év cercandolo nel rettangolo di specchio. Era curiosa, ben più di quanto si sarebbe aspettata - dopotutto era in parte colpa sua se suo fratello era finito a vagare come un orfano per il mondo. Inoltre, quel suo corpo doveva avergli reso le cose ancora più difficili.
Akhbar fece un grosso respiro, poi tornò a guardare verso il cruscotto: «Ho cercato le mie origini. Mamma e papà venivano dalla Polonia, quindi lì avrei trovato dei parenti. C'erano dei cugini ancora in vita e i loro figli. Me la sono giocata bene e mi sono fatto ospitare per qualche anno, poi... beh, con questo aspetto non potevo restare per molto, quindi ho finto di morire e ho girato per un po'. Alla fine sono tornato alla casa di San Pietroburgo.»
Un nodo strinse lo stomaco di Alexandria. Anche lei aveva pensato di tornare nella propria terra, cercare i pronipoti delle sue sorelline e vedere quanta strada il sangue dei Varàdi avesse fatto, peccato che al momento di scegliere la propria destinazione era finita a Innsbruck. Aveva passeggiato per la città, ripercorso i sentieri di ghiaia del giardino in cui era morta. Aveva vagato per i corridoi di una villa ora museo ricordando i suoi giorni lì e, una volta raggiunta la sala da ballo, aveva chiuso gli occhi e ricordato il valzer che era stato suonato in suo onore. Una danza a cui il suo futuro marito si era negato e che aveva permesso a Salomone di farle da cavaliere. Era stato in quel preciso istante che aveva capito di non poter più tornare a "casa", perché l'unico luogo degno di quel nome era scomparso insieme al Re e alle altre Chimere.

D'un tratto il cartello con lo svincolo per la D9 balzò davanti agli occhi di Alex, riportandola al presente.
In meno di tre quarti d'ora sarebbero arrivati a destinazione, constatò mentre si destreggiava tra gli altri veicoli per arrivare in tempo all'uscita.

«Non è stato semplice, questo è certo, ma non posso negare di essermi anche divertito. I domestici pensano io sia il figlio del padrone. Ho fatto credere loro che per affari vive a Dubai, ma che preferisca io abbia un'educazione tradizionale.» Un nuovo sorriso gli tese le labbra.
«Ti piace proprio mentire, eh?» Colette tirò fuori un burro cacao. Sembrava che quel suo commento fosse più un pensiero detto erroneamente ad alta voce che una vera domanda.
Nikolaij si sporse verso di lei, le mani a ghermire il poggiatesta della sorella maggiore: «
È l'unica costante che mi è rimasta. A te no?»
Wòréb abbassò il parasole avvicinandosi allo specchio, si passò lo stick sulle labbra carnose e poi le premette tra di loro per omogeneizzarlo sulla superficie: «Ora abbiamo Salomone. La mia costante è lui.»
Il cuore di Alexandria iniziò a battere forte.
«Ma non c'è stato per gli ultimi trent'anni, questo non lo rende una costante.»
Lo percepì a ridosso della gabbia toracica, sempre più impetuoso, gonfio di ansia. Sapeva che prima o poi sarebbero arrivati a quel discorso, sapeva che presto o tardi avrebbe dovuto fare i conti con quel giorno e con i propri fratelli, Colette in particolare.
«Ventotto, per la precisione.» Le sentì dire con la stessa nonchalance dei commenti precedenti: «Ma anche nell'assenza, lui c'è sempre stato. Lo abbiamo intorno a noi quando abitiamo le case che ci ha lasciato, quando usiamo le ricchezze che ci ha concesso. Lo abbiamo addosso grazie al sigillo e dentro per colpa dell'Ars e del suo sangue. Salomone è una costante.» Eppure Alexandria non era certa che quel pensiero fosse stato, per la sorella, un mantra durante gli anni precedenti.
Niko tornò al proprio posto: «Il Salomone che ho visto prima non mi sembrava così... saldo. O sbaglio?»
«Solo un'impressione-»
«Akhòt» a quel punto, con un principio di dolore al petto, Alex non riuscì a frenare la lingua: «Akhbar ha ragione. Noah non è ancora l'uomo di un tempo, non è...»
«Noah?» Improvvisamente la ragazza sentì addosso gli occhi di entrambi i fratelli. Nikolaij la osservava con evidente confusione, come se non capisse.
«Il suo nome. Si chiama Noah.»
«Il nome dell'hagufah, intendi» la imbeccò il bambino.
Colette incrociò le braccia sotto il seno, la testa scattò con quel suo solito tic.
«No, il suo.» Le sembrò che la gola si stesse seccando, eppure non si fece intimidire. Niko doveva capire ed era meglio se iniziava a farlo sin da subito. Meno domande faceva a Noah, meglio sarebbe stato per lui. Non aveva bisogno di altri dubbi, di affrontare ancora una volta il caos che la sua situazione poteva generare. «Lui è Noah Dietrich e sarà tale finché non ci dirà di essere pronto.»
«N-non credo di capire...»
Z'év si bagnò le labbra, poi morse l'inferiore pensando a come spiegare in modo semplice ogni cosa - si arrese in fretta.
«Non sappiamo come né perché, ma ha perso la memoria. Salomone è... da qualche parte dentro il nuovo hagufah.»
«No, aspetta...» incoscientemente Akhbar si slacciò la cintura, portandosi in mezzo ai sedili anteriori per poter osservare meglio il viso delle sorelle: «mi stai dicendo che quello non è il nostro Re?»
Alexandria fece un sorpasso azzardato, soprattutto visto il motore della Lancia: «No! No, assolutamente» pigolò: «lui è il Re, solo che non ne ha memoria.»
«E come avete fatto a convincerlo a seguirvi? Come diavolo lo avete trovato? Insomma, lui era... morto. Io c'ero! E tu pure! Lo abbiamo visto venir ferito, cadere dalla scogliera... c'era il suo sangue tra le onde!»
Un conato di vomito colse Alexandria alla sprovvista, sentì l'acido della colazione risalirle in gola. Dannazione se ricordava quel giorno! Se si sforzava poteva persino ricordare il sapore ferroso e salato dell'acqua di mare quando si era immersa.
Colette distolse lo sguardo. Non disse nulla e per un istante parve smettere anche di respirare. Il suo silenzio fu assordante perché permise all'eco delle sue grida di sfiorare le orecchie di Z'év.

Quanto mancava a casa? Quanto tempo doveva ancora sopportare quella conversazione e le reazioni del proprio corpo?
Alexandria fece cadere lo sguardo sul display del cellulare, il navigatore a darle sicurezza e conforto.

Dieci minuti.

«L-Levi lo ha incontrato per caso e... beh, quando lo abbiamo rivisto Noah ci ha riconosciuto.»
«Come? Hai detto che non ha memoria!»
Perché cavolo si era imbarcata in una situazione simile? Avrebbe fatto bene a cambiare discorso, a lasciare a Levi la responsabilità di informare Niko - o forse averlo fatto salire in auto con lei faceva parte del suo piano.
«Ha dei flashback!» Sbottò prima di abbassare il finestrino per pagare il casello. Goffamente cercò i soldi e ripartì appena la sbarra si alzò davanti a loro. «Lui... si è ricordato alcune cose, per ora.»
«E dell'Ars? Che mi dici di quella?»
Alex sussultò. Un altro tasto dolente con cui dover fare i conti.
«Non la controlla come una volta» soffiò Colette: «ma la può usare.»
«E allora come facciamo a essere sicuri che sia Salomone? Chi ci assicura che non sia un erede? Qualche nipote nato da un bastardo che si è lasciato dietro?» Il tono di Nikolaij stava prendendo note sempre più acute, la sua espressione era una maschera di pura preoccupazione - e come biasimarlo? Gran poco di quello che gli avevano detto sembrava essere sufficientemente rassicurante.
«È lui.» Tuonò Wòréb: «Il sigillo non mente e se tu non lo percepisci forse non sei abbastanza Chimera. Noah» sottolineò quel nome in modo teatrale e ad Alex sembrò quasi che si stesse sforzando a chiamarlo così: «ha gli occhi di Salomone. Non solo per il colore, ma anche per il modo che ha di guardarci. Nessun discendente potrebbe ricordare ciò che i flashback gli hanno mostrato.» Un silenzio spesso calò nell'abitacolo, avvolgendo tutti in una coperta di disagio e fastidio. Non era chiaro il motivo di quelle sensazioni, eppure Z'év poteva distinguerle nitidamente.

L'auto imboccò il sentiero di casa. Niko si rimise a posto senza aggiungere nulla. Quegli ultimi metri parvero interminabili. Non importava quanto l'edificio o l'auto dei fratelli si facessero grandi e definiti, ad Alexandria parvero irraggiungibili - ma infine arrivarono a destinazione.
Nello spegnere il motore si concesse di deglutire la saliva che era rimasta immobile nella sua bocca per tutto quel tempo. Era finita, pensò.

«Non ero mai stato qui» bisbigliò Akhbar più a se stesso che a loro. In effetti lui aveva visto gran poco dell'Europa: nei settant'anni insieme avevano viaggiato oltreoceano sì, bazzicato in Russia e in Portogallo, ma nulla più. Nikolaij aveva molto da recuperare e, forse, ora che avevano Noah sarebbero riusciti a mostrargli tutto.
Lo scatto della serratura arrivò un istante dopo quel pensiero. Svelto il ragazzino aprì la portiera: «Grazie per il passaggio, ragazze» e in un istante fu fuori. A Z'év sembrò quasi che il fratello stesse correndo verso la porta, lontano dalla tensione, e desiderò anche lei poterlo fare; tuttavia, per rispetto nei confronti di Colette, esitò ancora un momento concedendosi un sussurro: «E anche questa è fatta.» Provò ad abbozzare un sorriso, ma dubitò la smorfia potesse apparire in qualche modo piacevole, così portò la mano sinistra alla maniglia, spalancò la portiera e si sporse fuori dalla cabina - in fin dei conti dovevano star aspettandole, no?

Nell'uscire dall'abitacolo però si ritrovò la giacca impigliata in qualcosa.
Abbassò lo sguardo per incontrare le dita della sorella e il cuore perse un colpo.
«Alex...» non la stava guardando, probabilmente dopo la conversazione con Akhbar doveva costarle fatica, eppure per lei era sufficiente a farla sentire come una scolaretta davanti alle prime difficoltà.

«Io... ani rotseh ledaber (mi piacerebbe parlarti).»
«Bameh medubar? (di cosa si tratta?)» Con la gola secca si abbassò a sufficienza per poterle guardare il viso. Era sempre stata bellissima, persino con quella smorfia crucciata. Alexandria l'aveva invidiata per tantissimo tempo.

L'altra chiuse le palpebre lasciando cadere la testa all'indietro. Pareva riposarsi dopo una grossa fatica: «Al hayom hahu (di quel giorno).»
Z'èv sentì il sapore acido del rigurgito tornare a farle visita. Non era pronta a sentirsi additare ancora una volta, ancor meno desiderava discutere con la sorella.
«Ti prego, non ho le forze per parlare ancora del passato.»
«Ma il passato ci definisce, Alex, e io ho bisogno di parlartene» quando riaprì le palpebre, gli occhi di Wòréb si posarono su di lei, macigni a tenerla ferma in quella posizione scomoda. «Quella volta sbagliai a prendermela con te. Non è stata colpa tua, ma io...» una risata nervosa le sfuggì dalle labbra: «non riuscivo ad accettare il fatto che avessi perso anche Salomone. Vedi, dopo Nicholas... no, non potevo perdere un'altra persona così importante, fondamentale per la mia esistenza.» Un velo umido le riempì gli occhi, ma nessuna lacrima volle osare cadere: «Dover accettare il fatto che non ci fosse un colpevole da accusare era inconcepibile per me, ma questo non doveva darmi il diritto di provare a ucciderti. Tu sei mia sorella e il bene che ti voglio... è immenso, davvero» gli angoli della sua bocca si piegarono verso il basso, ma Colette parve voler nascondere il dolore riportandoli al loro posto - tentativo vano. «Non sono pazza fino a quel punto e non voglio essere ricordata da te in quel modo.»

Istintivamente Z'év scattò dentro all'abitacolo, le ginocchia ad affondare nel cuscino del sedile come il suo viso nei capelli della sorella.
Sentiva il cuore gonfio, pronto a esplodere, ma anche lei trattenne le lacrime.
«Ricordo tante cose di te, Colette. Ricordo il giorno in cui mi togliesti di dosso i resti di Alexandria Orsòlya Varàdi con una spugna ruvida e dell'acqua fredda, in un catino nella soffitta di un ostello. Ricordo tutte le volte, nelle settimane che seguirono quel momento, in cui ti infilasti nel mio letto per abbracciarmi e dirmi che era solo questione di tempo, che alla fine una vita sarebbe valsa come un'altra» respirò il suo profumo al gelsomino e sandalo beandosi della sensazione di familiarità che le riempì i polmoni. «Ho memoria delle tue lezioni sulla seduzione e dei consigli di bellezza che non ho più messo in pratica. Ho stampate nella mente le nostre passeggiate e le fughe, i regali inaspettati e le volte in cui mi hai protetta come una sorella maggiore. Ricordo ogni cosa bella che hai fatto per me, akhòt» il primo singulto di Colette le fece quasi battere la testa contro il tettuccio: «ma purtroppo ricordo anche fin troppo bene che quel giorno pregai tu riuscissi a spaccarmi il cranio su quel fottuto pavimento.» Ringhiò dolcemente, certa che quelle parole avrebbero fatto male quanto un morso: «Io ho distrutto tutto. Voi per primi. Levi più di ogni altra persona al mondo. Meritavo tutto l'odio che foste capaci di partorire... nondimeno ho sempre saputo, mentre mi stringevi il collo e mi picchiavi la testa sulle piastrelle, che alla fine sarei morta amata.» Lentamente, Alexandria si staccò dalla sorella. I loro sguardi si incrociarono, unendosi come calamite. L'orrore sul viso di Wòréb le strinse lo stomaco, eppure riuscì a trovare la forza di tendere un sorriso a labbra strette.
«Ma grazie, akhòt. Ho desiderato sentirti dire queste parole dal giorno in cui Noah è tornato nella nostra vita.»

 



 

Yaga:

Sento in lontananza il rintocco delle campane che suonano a festa.
Sì, ho ufficialmente finito la prima rifinitura dei capitoli "bozza" che avevo pubblicato anni fa.

Da ora parte il lavoro verso l'epilogo di questa avventura!

A voi che siete arrivati sin qui chiedo con tutto il cuore la cortesia di darmi un piccolo feedback, se ne avete modo, altrimenti ci rivedremo alla fine di questo percorso.

Per il resto, buona serata <3

 

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Capitolo 59
*** - Capitolo Trentatreesimo: Un passo alla volta ***



 

"My head won't let me go like if I died you'd never know
I made friends with the dark parts that are inside of my mind
I tie them up to the commas back in juvenile rhymes

And my eyes are about to blow
But that's all part of this freak show"

Hope for the underrated youth, Yungblud


 

 

Nikolaij tentò per giorni di avvicinarsi a Noah, peccato che la presenza costante di Zenas tra di loro fu d'intralcio ai piani del fratellino, cosa che invece il ragazzo apprezzò infinitamente. Non si sentiva tranquillo in sua presenza. Il suo aspetto così singolare gli metteva addosso una certa ansia, come facevano i rimasugli di un sogno poco piacevole al risveglio. Era difficile dire se fosse per colpa dei suoi occhi, così simili a quelli di un albino o per il suo aspetto in generale, eppure Noah non riusciva proprio a desiderare di restare solo con lui. 
C'erano stati alcuni tentativi di conversazione durante i pasti, ma il malumore di Colette e la sua insofferenza nei confronti di Niko gli avevano permesso di evitare di rispondere a qualsiasi domanda. Per una volta la stravaganza della donna gli stava tornando utile.
Mentre Zenas, Levi ed Alexandria cercavano di rendere l'arrivo del fratellino un evento gioioso che avrebbe dovuto risanare parte delle ferite famigliari, lui e Colette provavano a estraniarsi dai festeggiamenti. Si muovevano insieme, scudo l'uno per l'altro, stando in silenzio per la maggior parte del tempo, occupati entrambi ad affrontare chissà quale tipo di battaglia con i propri pensieri.

Fu però la mattina del quinto giorno, con l'arrivo del gelo di fine autunno, che Noah capì di non poter continuare a nascondersi dietro le frecciatine velenose che Wòréb non si era risparmiata. Doveva affrontare Nikolaij, la sua presenza insolita ed estranea che aveva scombussolato la pace raggiunta. Così, stretto nella felpa del pigiama, con la tazza di caffè-latte tra le mani, l'Hagufah si avvicinò cautamente al bambino. Incurante del freddo, Akhbar se ne stava seduto al tavolino in giardino. Le punte dei piedi, avvolte in calzini spessi, toccavano appena il terreno stepposo sotto di loro, mentre la copia di Libération che stava leggendo lasciava che le proprie pagine ondeggiassero nella brezza. Per un misero istante a Noah saltarono alla memoria scene di "Home Alone 2", facendogli sovrapporre la figura di un piccolo Macaulay Culkin a quella della Chimera.
Socchiuse gli occhi scacciando l'immagine, poi poggiò la tazza sul tavolino: «Buongiorno» mugugnò con la bocca ancora impastata di sonno e rimasugli di caffeina.
Nikolaij si volse nella sua direzione abbandonando l'articolo che lo aveva tenuto impegnato e quando il suo sguardo si posò su Noah, l'Hagufah avvertì il proprio corpo inconsistente. Quegli occhi dai contorni rossi e chiazze carta da zucchero non sembrarono vederlo veramente, ma piuttosto attraversarlo per perdersi nel nulla oltre le sue spalle. Si muovevano svelti come se ricevessero stimoli continui, eppure nell'espressione del bambino non c'era la fatica che solitamente caratterizzava l'incapacità degli albini di resistere all'intensità della luce.
La Chimera sorrise e, ancora una volta come nei giorni precedenti, Noah notò una piega curiosa sul suo labbro superiore, come una traccia sbiadita di cheiloschisi. «Adonay (mio signore)» lo salutò con un cenno reverenziale del capo provocandogli un senso di impaccio, quasi fosse sbagliato, da parte sua, rivolgergli la parola dopo tutto il tempo passato a evitarlo. «Solo? Oggi il vostro familio vi ha abbandonato?» Le sopracciglia dell'Hagufah si piegarono quasi a toccarsi e le labbra si schiusero come se dovessero pronunciare una risposta che in realtà nemmeno aveva preso forma. Nikolaij sussultò: «Intendo Colette!» si affrettò a dire.
«Oh!» Finalmente Noah capì: «Oh, scusa! Io sono... ancora un po' addormentato» sospirò scuotendo il capo. Faticava a seguire le allusioni delle Chimere, usavano termini e associazioni che per la maggior parte del tempo a lui parevano estranee.
«Figuratevi! Non tutti sono animali notturni come me» sorrise nuovamente, ma il modo in cui lo fece sembrò ben lontano dall'appartenere a un bambino. L'espressione di Akhbar rasentava quella di un vecchio provato dalla vita e, nel notarlo, un brivido corse lungo la schiena di Noah. Chissà se anche il sé precedente provava lo stesso disagio nel guardare quella creatura. Chissà se si fosse mai pentito di aver relegato Nikolaij in quel corpo.
Forse notando qualcosa sul suo viso, la Chimera chiuse il giornale tenendo il segno con una mano, mentre con l'altra indicò una delle sedie libere: «Se volevate accomodarvi fatelo pure! Non dovete aspettare un invito, dopotutto siete-»
«Noah. Sono Noah.» Lo interruppe bruscamente. In tutta onestà, per quanto si fosse sforzato ad accettare quella situazione, trovava fastidioso il modo in cui gli si rivolgeva usando quella forma così ossequiosa ormai dismessa e, non poteva negarlo, disprezzava anche il fatto che tutte le Chimere, di tanto in tanto, si rivolgessero a lui con appellativi quali "Adon" (Signore/Sire), "Melekh" (Re) o semplicemente Salomone. Sapeva che ognuno di quei termini gli apparteneva, li sentiva risuonare da qualche parte dentro di sé tra il costato e le budella, ma non gli piaceva. Non ancora o non più, quantomeno.
Akhbar annuì.
«Come desiderate.»
«E... ti prego, dammi del tu» aggiunse afferrando lo schienale gelido della sedia.
L'altro strinse il sorriso senza però distogliere lo sguardo. Lo seguiva, i suoi occhi non si staccavano mai veramente dalla faccia di Noah, eppure continuavano a dargli l'idea di non vederlo veramente.
L'Hagufah bevve un sorso dalla tazza, il calore della bevanda scivolò lungo la gola fin nello stomaco. Una sensazione dolce parve distendergli le interiora che fino a quel momento, forse per l'agitazione o forse per il freddo, erano rimaste contratte. 
«Non pensavo sarest...i» Nikolaij si morse la lingua prima di sbagliare ancora e, nel notare il suo sforzo, Noah non riuscì a evitarsi un sorriso di tenerezza. Insolito, si ritrovò a pensare, eppure non quanto si sarebbe aspettato. «Sì, saresti...» la Chimera socchiuse gli occhi e sospirò: «Dicevo, non pensavo saresti mai venuto a fare due chiacchiere con me.»
Beh, solo un orbo non avrebbe notatogli evidenti tentativi di stargli lontano, pensò il ragazzo. Aveva provato a camuffarli, peccato che le sue abilità a riguardo, lo aveva punzecchiato Colette, facessero alquanto pena.
«Già...» ammise: «nemmeno io.»
Il fruscio della carta gli solleticò le orecchie, lasciando poi che il silenzio avanzasse tra loro come nubi di tempesta all'orizzonte. Di certo la sua non doveva essere stata una confessione piacevole da sentire, men che meno sospettava che un qualsiasi interlocutore fosse pronto a udirla.
«Ho per caso fatto qualcosa di sbagliato?»
Noah corrugò le sopracciglia, spostando l'attenzione dal bordo della tazza alle mani di Niko, elegantemente poggiate sulla carta stampata. Provava ancora una specie di timore nell'incrociare il suo sguardo, così s'impose di soffermarsi sui dettagli del suo corpo poco per volta. Avrebbe imparato a conoscerlo con cautela, in modo d'arrivare al volto senza sentirsene turbato.
«No, figurati...» scosse il capo e le ciocche color frumento gli sfiorarono le tempie: «Solo che non sono ancora abituato a voi, alle vostre...»
Le mani di Akhbar abbandonarono i fogli per accogliere il suo meno a mo' di coppa. Inesorabilmente Noah si ritrovò a osservargli la bocca, dove un sorriso sghembo lo accolse. «Mutazioni?» Lo precedette.
«Esatto.»
La testa di Niko si piegò da un lato, abbandonandosi sul palmo più lontano.
«Sì, in effetti non sono una bellezza da vedere» scherzò: «Mi consola il fatto di non essere il solo così trasfigurato, però. Nemmeno Hamza si può definire il tuo lavoro meglio riuscito, per non parlare di Will. Quando le si apre l'altro paio di occhi è... bleah!» Tirò fuori la lingua facendo una smorfia disgustata. «La sua fortuna è che può nasconderlo se non si incazza, mentre noi...» La sua mimica era esattamente come quella dei bambini: esagerata, gioiosa, quasi divertente. Persino senza guardargli il viso nell'insieme si poteva comprendere ogni sua emozione dal modo in cui le labbra si piegavano in un modo o nell'altro.
«Sembriamo fanatici di Halloween praticamente tutto il tempo!» concluse e, solo a quel punto, Noah si pose il dubbio d'essere stato scortese. Lui che li aveva condannati a quella vita, con quell'aspetto, ora se ne ritrovava inorridito - ipocrita da parte sua.
«Diamine! Io... sono stato-»
«Ehi, ehi, ehi!» Quando le dita sottili di Nikolaij gli sfiorarono la spalla, l'Hagufah non riuscì a a impedirsi di sussultare provando quasi ad allontanarsi. Nonostante il tocco della Chimera fosse stato delicato si sentì preso alla sprovvista - cosa che però non parve infastidirla.
Akhbar si sporse in modo che i loro occhi s'incrociassero e, a quel punto, Noah si ritrovò a dover fare i conti con l'inevitabile. Fissò il ragazzino cercando in tutti i modi di non allontanarsi maggiormente, combattuto tra sforzo e senso di colpa. Come poteva trattarlo a quel modo? Niko era una sua creatura, parte della famiglia che si era creato. Aveva scelto lui stesso di riportalo in vita!
«Non è colpa tua, okay? Può succedere. L'Ars è... imprevedibile.» Gli sorrise con quel fare comprensivo tipico dei nonni che parlano ai nipoti e, solo ricordandosi che quel moccioso era in realtà nato agli inizi del ventesimo secolo, l'Hagufah riuscì ad attenuare il senso di disagio. Le Chimere erano così brave ad apparire giovani, umane, che alle volte si dimenticava chi fossero in verità - e certamente, con un po' di abitudine, avrebbe finito con il considerare anche l'aspetto di Nikolaij normale.


Il ragazzino rimise distanza tra loro. Le sue dita si allontanarono dal corpo di Noah provocando all'Hagufah un insueto senso di vuoto: «Certo, non mi sarebbe dispiaciuto essere un bel pezzo di manzo come Levi o un gigante come Zenas, ma almeno con le ɛvɛn posso camuffarmi un po'!» e la mano s'infilò svelta nel tascone della felpa che aveva indosso. Come un topo in dispensa cercò qualcosa di suo interesse e, dopo poco, ne uscì con una scatoletta di latta tonda e bassa. L'agitò leggermente facendo tintinnare il contenuto, la soddisfazione a rasserenargli lo sguardo. Noah osservò con curiosità i suoi gesti, l'oggetto che aveva tirato fuori e che sembrava la confezione di vecchie caramelle alla liquirizia. Quando Akhbar ruotò i due lati, aprendo il buco sul fianco della latta, l'Hagufah ne vide uscire una pallina rossa come il sangue che lanciò riflessi sul palmo pallido della Chimera. Per un istante ne rimase affascinato. Già nelle settimane precedenti gli era parso di vedere quelle cosine. Se la memoria non lo ingannava, cosa abbastanza probabile, aveva visto Colette tritarne qualcuna e metterla nella tisana dei fratelli, come a zuccherarla. Fino a quel momento non si era mai posto la briga di chiedere cosa fossero esattamente, supponendone solo l'identità. Ora che Nikolaij dava loro un nome però, ricordò di averne letto nei diari: si trattava di frammenti di pietra filosofale, difficilissimi da ottenere e di grande aiuto per le Chimere. Ed era forse stato grazie a loro che la gamba di Akràv, la ferita atroce che si era procurato a Vienna, era guarita con tanta velocità.

Niko ingoiò la ɛvɛn senza dire una parola, poi socchiudendo gli occhi alzò il viso verso il cielo per permetterle di scendere senza intoppi lungo la gola. Noah scorse il suo misero pomo d'adamo mai veramente sviluppato andare su e giù accompagnando la discesa di quella pallina. Si scoprì a trattenere il fiato, come se si aspettasse chissà quale tipo di reazione, eppure nulla accadde.

Rimase muto a osservare il profilo della Chimera, incapace d'immaginare il proseguo di quell'azione, poi Akhbar spezzò ancora una volta il silenzio.
 «Senza queste saremmo fregati!» Quando le sue palpebre si riaprirono, iridi nero pece caddero su Noah come macigni.

 

 

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Capitolo 60
*** - Capitolo trentaquattresimo - Parte Prima: Una promessa ***



 
" I think I'm gonna choke, I think I'm gonna choke
Running, running, running, running though the dark
Watch me run a little more
'Cause when I said forever, I meant forever, now "

- Memories, Yungblud

Il fatto che gli occhi di Nikolaij avessero assunto un aspetto umano aveva permesso a Noah di accettare con più leggerezza il suo arrivo in famiglia. Certo, c'era voluta circa una settimana prima che ciò accadesse, ma alla fine si era riusciti a trovare un compromesso e il fatto aveva reso la vita nella casa di Colette decisamente meno tesa. Sì, Wòréb girava ancora per le stanze come un'anima in pena, dispensando battute taglienti al fratellino e sguardi imploranti in direzione di Alexandria, eppure all'Hagufah sembrava di aver già fatto grandi passi avanti nella convivenza con le Chimere. Mentre le due sorelle si rincorrevano nella speranza che una conversazione alla volta le avrebbe riportare al legame di un tempo, cosa che Noah percepiva agitare particolarmente Colette, lui aveva persino trovato il tempo per rimettersi a studiare. Non con poche difficoltà, bisognava sottolinearlo, perché tra le ansie di una Chimera, i tormenti dell'altra, la gioia avvolgente di qualcuna ancora e una costante sensazione di estranea soddisfazione, all'Hagufah sembrava di non essere mai solo. Non bastava che dentro di lui, di tanto in tanto, si risvegliasse la coscienza di Salomone riportando alla mente frammenti di vite passate, aveva anche cinque altre creature con cui fare i conti. La sua testa sembrava un condominio pieno di inquilini iperattivi e la pace per concentrarsi solo su se stesso alle volte gli pareva impossibile da trovare. Aveva comprato penne e quaderni, fatto riassunti e pianificato esercizi che potessero aiutarlo a riappropriarsi dell'Ars, eppure quando finalmente si trovava solo, a sera, era talmente stanco da non riuscire a combinare nulla. Si sedeva alla scrivania scrostata, posizionava davanti a sé vari oggetti e chiudeva gli occhi ritrovandosi in un turbine incontrollato. Così si metteva a toccare i monili scelti, ne seguiva le forme e le texture, provava a figurarseli nella mente per entrare in connessione con la loro essenza. Gli pareva sempre che la punta delle proprie dita, a un certo punto, si scaldasse e che qualcosa, in lui, si muovesse dal centro del corpo verso quegli oggetti, ma quando riapriva le palpebre loro erano ancora lì, intatti. E la cosa lo frustrava. Immensamente. Allora li stringeva, li odiava, provava a trattenersi dal lanciarli in qualche angolo della stanza. Nemmeno quella rabbia riusciva a scatenare una reazione - e alla fine aveva rotto due o tre tazzine di porcellana, strappato pagine di libri che Colette gli aveva gentilmente concesso e sbucciato le nocche colpendo la scrivania o il muro. Perché non ci riusciva? Perché l'Ars, ora che ne aveva più coscienza, lo abbandonava?

Dopo ogni seduta fallimentare, si metteva a letto nel cuore della notte e se ne stava lì, sotto le coperte, a rimuginare. Capitava, qualche volta, di avvertire nell'aria l'odore acre di una sigaretta e c'erano state sere in cui le risate leggere delle ragazze gli avevano solleticato le orecchie portando nella sua frustrazione un lieve, amorevole calore; altre, in cui gli era sembrato che al piano inferiore qualcuno suonasse la shir eres (ninnananna) come se sapesse che lui ne aveva bisogno. A dire il vero, spesso aveva creduto che fosse solo opera della sua fantasia. Chi mai si sarebbe messo alla chitarra a un'ora tanto tarda? Eppure immaginare una delle Chimere pizzicare le corde, seduta al tavolo della cucina, lo tranquillizzava. Erano fiere di guardia alla porta del suo palazzo, soldati pronti a tutto pur di proteggerlo e, questo, rendeva i suoi nervi meno tesi. Il sonno a quel punto lo sorprendeva senza che nemmeno se ne accorgesse, trascinandolo in una serie di insoliti sogni che, volentieri, la mattina seguente faticava a distinguere da veri e propri ricordi.

Quel giorno, mentre abbassava sul tavolo un tris di assi e una scala reale, Levi gli lanciò un'occhiata che sembrò leggergli dentro. Non parlò subito, attese che Noah concludesse la sua mano e poi, con l'impassibilità di una statua, chiuse.
«Eddai, akh!» Era la terza partita che finiva così. Gli aveva ancora una volta concesso solo l'illusione di poter vincere e poi, subdolamente, lo aveva fregato. Non era certo che fosse tutta semplice bravura, sicuramente il caso ci stava mettendo lo zampino e, inoltre, la stanchezza che lo accompagnava da giorni non facilitava nulla. Sbuffò, lasciando cadere le carte rimastegli.
«Che posso dirti, sono baciato dalla fortuna!» Fece spallucce prima di tirarsi su le maniche lanose. Il cardigan che indossava gli cadeva largo, lasciando a disposizione degli occhi giusto una striscia di cotone scuro. Sembrava, come spesso accadeva quando si aggirava per casa, un mix tra un vecchio rinchiuso in una casa di riposo e un bohemien moderno. Era una contraddizione continua, eppure ogni suo atteggiamento insolito diventava un'armonia unica che a Noah sarebbe piaciuto ascoltare in eterno, perché con Levi tutto diventava calmo, rilassante, giusto.
La Chimera si sporse sul tavolo per recuperare le carte: «Tu invece dai l'idea di bramare un bacio passionale da Morfeo» scherzò osservando gli aloni violacei che aveva sotto gli occhi. Noah scosse la testa con rassegnazione e, forse felice di aver colto nel segno, Levi tese un angolo della propria bocca. La piega delle labbra fece scendere gli occhi dell'Hagufah lungo una striscia di rosea comprensione che lo tranquillizzò - per qualche strano motivo il modo in cui Levi lo capiva sembrava sollevarlo sempre da pesi che non sapeva di portarsi addosso. 
Le mani di Nakhaš si spinsero fino al suo lato del tavolo e, nel farlo, l'orlo della maglia che indossava si aprì tanto da far fuggire un flebile scintillio, un richiamo a cui lo sguardo di Noah non riuscì a resistere.

«Quella è...» istintivamente gli venne d'allungare le dita e afferrarla, ma con la sua solita maestria la Chimera scivolò indietro, lasciandolo con una mano sospesa nel vuoto e lo stupore a schiudergli le labbra. Impercettibilmente, all'Hagufah sembrò che l'espressione dell'altro fosse cambiata, che la comprensione di poco prima fosse ora solo una copertura per qualcosa di più intimo.
Levi si rimise seduto al proprio posto, lontano dalla sua curiosità e a una distanza che a suo avviso doveva essere abbastanza sicura da impedirgli di toccare nuovamente "la promessa", come l'aveva chiamata molti giorni prima. Con il corpo abbandonato sullo schienale e le dita intente a percorrere su e giù quella che doveva essere la catenina del suo medaglione, Nakhaš dava tutta l'idea di essere combattuto tra cose che Noah in quel momento avrebbe voluto conoscere, magari ricordare. Cosa si erano promessi? Quando?
«Una moneta, sì.» Ammise la Chimera abbassando lo sguardo con fare colpevole, come se quello fosse un peccato difficile da confessare; ma perché?
La curiosità di Noah aumentò, il desiderio di afferrare quell'oggetto sembrò fargli prudere i polpastrelli nonostante avesse iniziato ad avvertire nitidamente la resistenza di Levi, il suo fastidio a voler parlare di quello che rappresentava. 
«Una promessa racchiusa in una moneta... deve essere davvero importante se l'hai ancora» osò, deglutendo una sorta di nodo che aveva iniziato a formarglisi in gola. Levi corrugò le sopracciglia, forse riflettendo, poi si bagnò le labbra e mosse la mano libera verso il pacchetto di sigarette. Ne afferrò una. «Lo è.» disse, lapidario, prima di iniziare a tamburellare il filtro sul dorso di una carta abbandonata lì vicino. Sembrava star davvero soppesando i propri pensieri, le parole che avrebbe voluto pronunciare e quelle che desiderava ingoiare. Ci mise qualche secondo, frazioni di minuto che a Noah parvero lunghissimi, prima di aprir bocca: «Mi giurasti qualcosa, con questa» con un po' di fatica tirò la catenina fino a far spuntare il cerchio argentato della moneta, poi la lasciò cadere sulla maglia. Non era una forma lineare, i bordi erano incerti, le incisioni tanto logore da essere quasi sparite. In risalto sul cotone scuro, l'Hagufah riuscì a vederne ogni difetto, a percepirne, anche se inspiegabilmente, la pesantezza. Perché gli dava quell'impressione? E perché le sue dita, il suo corpo tutto, avrebbero voluto scattare per afferrarla? Che conservasse in sé tracce dell'Ars? Che, toccandola, potesse riappropriarsi dei propri ricordi, del potere che non riusciva più a controllare?
Sotto al tavolo dovette stringersi le mani fino a farle dolere, doveva tenerle ferme.
Levi si portò la sigaretta alle labbra: «Ed io la tengo per ricordarmi quella sera, le tue parole, la mia scelta.» Ancora una volta l'angolo della sua bocca si tese, ma la smorfia stavolta apparve ben diversa da quella precedente.
«A quando risale?»
La rotella dell'accendino della Chimera gracchiò tra di loro, le scintille divennero presto una fiamma rossastra che gli illuminò il viso mettendo in risalto la cicatrice sullo zigomo. Prima della risposta ci furono un paio di boccheggi, altra attesa che a Noah fece contorcere dita di mani e piedi. Doveva resistere. Poco alla volta, una domanda dopo l'altra, certamente Levi gli avrebbe spiegato tutto.
«Diciottesimo secolo circa, si tratta di un taler» dichiarò, risvegliando nell'Hagufah solo un innocente ricordo delle scuole medie. Era una moneta d'argento diffusa prevalentemente in Germania, dal valore alto, ma Noah non avrebbe saputo dire di più a suo riguardo. Nei secoli ne erano stati coniati diversi, dalle rappresentazioni più disparate.
«Quindi vivevamo in Germania al tempo?» sapeva che il suo tentativo di spillare qualche informazione in più non era dei migliori, così come sospettava che anche Nakhaš avesse intuito i suoi piani. Lo vide passarsi il pollice sul labbro inferiore, la sigaretta stretta tra indice e medio mentre un rivolo di fumo grigio si alzava verso il soffitto. «No, noi eravamo lì per affari. Un mercante di quell'epoca doveva essere sempre in viaggio.»
«Cosa vendevo?»
«Gioielli. Meravigliose creazioni che Will preparava per le donne più belle o abbienti del momento» un lampo di nostalgia gli attraversò lo sguardo e Noah sentì l'urgenza di fermarlo, di corrergli dietro come una volpe con la lepre per poterlo acciuffare e vedere ciò che Levi, a differenza sua, non aveva perso. 
«Immagino gli affari andassero bene se in tasca avevamo un taler» le parole dell'Hagufah uscirono da sole, nemmeno gli parvero sue. Il busto gli si protese verso la Chimera e la bocca si piegò in un modo che non conosceva. D'improvviso si sentì come se avesse assunto una posizione di sfida, ma non riuscì a capirne il motivo.

Levi non sembrò accorgersene. Aveva la mente persa altrove, tra i ricordi, lontano nel tempo e nello spazio. «Fin troppo. Questo» sfiorò la moneta: «te lo diedero la mattina del giorno in cui promisi. Era il pagamento per un bracciale con sole tre perle.»
«Ricordi addirittura come me lo guadagnai? Come fai a esserne c-»
In uno scatto la Chimera schiacciò la sigaretta nel posacenere. Nemmeno era arrivato a metà. «Nessuno ti pagava in talleri in quel posto. Erano tutti troppo ricchi di tasche e poveri d'animo. Solo loro, lui. È per questo che usasti questa moneta per la promessa.»
Noah sussultò. Quelle parole, quelle frasi tanto brevi e incapaci di aiutarlo avevano un suono familiare; se si sforzava e corrugava le sopracciglia fino a farle toccare gli sembrava quasi di poter scorgere i contorni sfocati di un ricordo che però non riusciva a rivivere.
Nakhaš si alzò facendo stridere la sedia sul pavimento.
«Chi erano loro?» provò a chiedergli.
«Qualcuno che ora non c'è più.» Il tono con cui la Chimera rispondeva stava diventando sempre meno tranquillo. Lei, era sempre meno tranquilla. 
«Okay, ma chi erano?» Anche l'Hagufah si alzò, incerto se fosse la cosa giusta da fare. Temeva che Levi potesse andarsene lasciando il discorso a metà così come aveva lasciato a metà la sigaretta, negandogli la possibilità di sfiorare quella moneta e riappropriarsi di qualcosa che era sicuro si nascondesse nell'argento di cui era fatta.
«Dei nobili, Noah, come tutti quelli che abbiamo incontrato in quei giorni.»
«E cosa avevano di speciale? Perché il loro denaro era più importante degli altri?»
Non stavano discutendo, ma la tensione che seguiva ogni domanda non era facilmente ignorabile. C'era qualcosa che gli sfuggiva, ne era certo, un tassello che se fosse stato più lucido probabilmente avrebbe colto.

Levi scosse la testa: «Nulla. Loro... erano una famiglia gentile, tutto qui. Tu...» ancora una volta la mano gli corse alla moneta. Ci si aggrappò per un istante breve, come se avesse bisogno della sua concretezza per riuscire a parlare. Era forse la prima volta che lo vedeva in tale difficoltà e per un momento il pensiero di lasciar perdere gli solleticò la mente - ma prima di poter valutare seriamente quell'opzione, Nakhaš riprese: «Volevi fare un regalo alla madre per ringraziarla dell'aiuto che ci avevano dato, ma il capofamiglia, lui era... un tipo fastidiosamente orgoglioso, quindi pur di non passare per un pezzente ti diede questa come pagamento. Quel bracciale ne valeva almeno il doppio, ma fingesti che era troppo, che non potevi accettarlo... alla fine gli facesti credere di essersi comportato da gran signore. Mentire è sempre stato un tratto fondamentale per noi.»
A quell'affermazione Noah sentì lo stomaco stringersi e un dubbio si fece largo tra i suoi pensieri, incapace però di fermarsi lì: «E tu ora mi stai mentendo?»
Levi sgranò gli occhi.

«No, akh! Sant'Iddio, che ti salta in mente?» Non c'era dell'orrore sul suo viso, solo un'ombra di preoccupazione che avrebbe fatto insospettire chiunque, ma non l'Hagufah. A dire il vero, il dubbio aveva avuto vita breve, solo il tempo di venir sparato fuori dalla gola ed esplodere come un fuoco artificiale. Sapeva che Levi gli era fedele, sentiva, tra le viscere calde, che sopra ogni cosa aveva messo il loro legame, ma qualcosa, come una voce che gli apparteneva e al contempo gli era estranea, lo stava mettendo in guardia.

Nakhaš non gli avrebbe mai mentito, ma alcune cose era attento a tenersele per sé; e Noah - no, Salomone - in quel momento le voleva. Desiderava ogni frase e pensiero che stava tacendo.
«Allora perché sei tanto restio a parlarmi di questa storia?» I toni presero ad alzarsi, i muscoli a contrarsi.

La Chimera strinse la mano intorno alla moneta: «Io devo tenere fede a quella promessa, Noah, non tu. Tu hai già fatto la tua parte.»
Ma c'era qualcosa di importante nascosto in quei ricordi, qualcosa che di certo aveva significato moltissimo, qualcosa che doveva aver messo in discussione la loro esistenza se dopo tutto quel tempo Levi conservava il tallero con tanta gelosia.
«E cosa promettesti, allora?» gli chiese a bruciapelo, avvicinandosi per poterlo guardare in viso. 
 La mascella di Levi si contrasse, le sue pupille vibranti sembrarono combattere tra il restare ferme e allontanarsi, come a non voler fargli vedere che, ancora una volta, stava omettendo qualcosa.
«Che non avrei mai lasciato il tuo fianco. Bashevil shum daber (per nulla al mondo).»

Noah non capì. Cosa c'era di diverso da tutte le altre volte in cui glielo aveva detto? Non lo aveva forse giurato sia nella sua prima vita, quella umana, sia in questa? Perché, circa trecento anni prima, aveva dovuto fare nuovamente quella promessa?

Una lieve fitta alla tempia provò a distrarlo, ma stringendo i denti gli resistette.
«Perché avresti dovuto farlo?»
Levi distolse lo sguardo e deglutì. Il suo gesto fu così denso, carico di un sentimento indefinito simile a dolore e colpa, che d'improvviso l'Hagufah temette la risposta. Inconsciamente strinse i pugni, gli occhi presero a vagare freneticamente sul viso della Chimera alla ricerca di un segnale che potesse fargli tappare le orecchie in tempo - eppure una parte di lui voleva sentire, voleva capire. Ma quale? Salomone o Noah?
La mano libera di Nakhaš si mosse svelta, in un attimo gli afferrò la nuca e lo premette contro il corpo. Noah sentì la guancia della Chimera schiacciata contro il suo orecchio. Era bollente e al di là della pelle celava il digrignare lento dei denti. Lo stava abbracciando, seppur tra loro vi fosse un pugno che impediva al suo petto di sfiorare la moneta.
«Perché trovai un'altra ragione per vivere e morire» sibilò Levi giusto l'istante prima che Nikolaij spuntasse sulla soglia della cucina, come se avesse sentito il fratellino avvicinarsi.

«Oh! Ho interrotto qualcosa?»
Nakhaš mollò la presa su Noah che sentì un insolito gelo sfiorargli la carne dove all'improvviso non c'era più la guancia della Chimera. e il sipario parve alzarsi. L'espressione sul viso dell'altro mutò completamente diventando un ghigno poco rassicurante. «Sì, mocciosetto!» sbottò: «Del sano affetto fraterno. E sai cosa?» a passi ponderati, ma con una postura ben poco aggraziata, Levi prese ad avvicinarsi ad Akhbar. Il piccoletto impallidì e subito si mise all'opera per evitare che la distanza tra loro diminuisse.
«N-no?» Aveva le sopracciglia alte e gli occhi grandi di preoccupazione, una scena che, in un altro momento, probabilmente avrebbe strappato a Noah un sorriso come quando lo vedeva bisticciare con Colette - peccato per i pensieri però, per ciò che Levi aveva detto. Ancora una volta, l'Hagufah avrebbe voluto ricordare la sua vita precedente e le centinaia ancora prima anche a costo di scavare nella fossa della sua memoria riesumando le carcasse peggiori.

Nakhaš d'un tratto fece un balzo allargando le braccia accanto al corpo come un mostro, costringendo così l'altra Chimera a fare un urletto che riportò violentemente Noah coi piedi per terra. «Adesso è il tuo turno per qualche bacetto!» Gridò, e in un baleno si scagliò sul fratellino. I due si misero a correre lungo il corridoio e su per le scale, fuggiasco e inseguitore. Ogni cosa che era successa poco prima dissolta, divorata dalle risate che fuoriuscivano dalla gola di Nakhaš al posto di quelle verità monche, traslucide - perché mentire, e quindi fingere, era un tratto fondamentale per loro.
 

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Capitolo 61
*** - Capitolo trentaquattresimo - Parte Seconda: Una promessa ***



 

"When I awake, you disappear
Back to the shadows,with all I hold dear
With all I hold dear"

- Still Here, Digital Daggers

Levi infine aveva vinto. Nonostante l'agilità di Nikolaij e il suo corpicino minuto, il topo era finito vittima del serpente. Stretto tra le braccia del fratello maggiore, in trappola, si era dovuto sorbire baci su fronte e testa come se fosse un animaletto da compagnia. Non erano serviti a nulla i tentativi di fuga, le lamentele o le suppliche in direzione di Noah - ed era stato dolce guardarli e pensare a quante volte dovesse essere già successo prima, peccato che nella mente dell'Hagufah non fosse svanita per un solo istante la confessione di Levi, così come nei suoi occhi il riflesso di quella moneta. C'era qualcosa di terribilmente spaesante in ciò che si erano detti, qualcosa che inaspettatamente aveva smosso in lui della paura. Scoprire che Nakhaš, il suo più fedele compagno, l'uomo che aveva sfidato il tempo al suo fianco, la creatura che aveva compiuto le efferatezze più indicibili in suo nome avesse trovato un motivo per cui abbandonarlo gli faceva stringere il cuore. Cosa valeva più del loro legame? Non certo un misero tallero. Cosa si erano promessi, quindi?

D'improvviso Levi alzò gli occhi su di lui, in viso un sorriso pieno di gioia che pareva aver cancellato ogni fatica affrontata durante il loro discorso e lo mise con le spalle al muro. Per un istante Noah si sentì colto in flagrante. Sussultò appena, confuso, ma fortunatamente l'altro sembrò non accorgersi di nulla e, anche se lo fece, finse magistralmente.
«Stai lì a guardare perché vuoi due bacini anche tu, akh?» Rise, bello come il sole che cala in mezzo alle dune e tra le fronde delle palme. Di tutte le Chimere, se si escludeva Colette, Levi era davvero la più bella.
«Ti lascio importunare Nikolaij, vedo che apprezza il tuo affetto!» Cercando di camuffare lo straniamento, anche Noah provò ad abbozzare un sorriso.
«Oh, non ci pensare nemmeno brutto rettile!» Il ragazzino mise le proprie mani sul volto del fratello, cercando in tutti i modi di allontanare il più possibile le sue labbra leggermente violacee: «Ve lo dico a entrambi, me la pagherete per tutto questo!» e l'ennesima risata di Levi si levò lungo il corridoio, attirando l'attenzione di Zenas.
Con lo strofinaccio in mano e quell'espressione d'amorevole papà, la Chimera si appoggiò allo stipite della cucina osservando la scena. Noah ne fissò il profilo: le lunghe ciglia e l'iride scura come la pece, il naso alla greca che dalla fronte creava una continuità perfetta fino al setto e andava a terminare in una punta stretta con narici larghe, le labbra tese e uno spiraglio appena accennato sui denti. Non si radeva da giorni e la barba fosca aveva iniziato a riempirgli uniformemente il viso diventando un tutt'uno con le basette spesse e i dreadlock che teneva, come sempre, legati sopra al capo.
«Avete almeno cent'anni a testa e vi comportate ancora come ragazzini!» Li ammonì finendo di asciugarsi le mani. Levi si volse verso l'omone, allentando la presa tanto a far fuggire il fratellino che gattonò subito accanto a Noah. Accucciato alla parete opposta a quella del suo aggressore, con il fiatone, sembrò quasi un cucciolo indifeso e, per un momento, il pensiero di accarezzargli la testa o accovacciarsi al suo fianco lo assalì. Per lui Nikolaij, a dispetto dei fratelli maggiori, barcollava in modo estremo sul confine tra innocenza e mostruosità. Bastava incrociare il suo sguardo nel momento sbagliato per essere aggrediti da un'intenso senso di ribrezzo - fortunatamente per Noah, però, Colette aveva ancora abbastanza ɛvɛn da permettergli d'evitare sempre più spesso simili circostanze.
Le dita dell'Hagufah si mossero impercettibilmente nell'aria in direzione della zazzera scura del ragazzino, ma prima che potessero effettivamente sfiorarla la voce di Nakhaš lo distrasse: «Si dice che quando si invecchia si torni un po' bambini, non lo sapevi?» e svelto strinse la mano a pungo, come se temesse qualcuno potesse notarlo. Le volte in cui si era concesso spontanei gesti d'affetto nei loro confronti Noah le poteva contare sulle dita di una mano. In tutta onestà non sapeva ancora come le Chimere avrebbero reagito all'essere toccate da quell'hagufah. Le poche occasioni in cui era capitato di sfiorarsi lui di certo le aveva vissute con una costante tensione, una specie di stretta poco convinta alle budella, e una parte di sé, nonostante l'atteggiamento di quei cinque, continuava a farlo sentire distante. Forse il fatto che non riuscisse ancora a ricordare? Beh, quella non si poteva definire che un'attenuante, ma anche il fatto che non fosse ancora in grado di padroneggiare l'Ars a proprio piacimento valeva gran parte di quel disagio.
D'improvviso lo straccio di Zenas volò dritto sulla faccia di Levi soffocando la sua risata: «Mi auguro che il prossimo passo non sia doverti mettere un pannolone, akh!» e senza che se ne rendesse conto, quella battuta strappò a Noah una sorta di sorriso, allontanandolo dai propri pensieri.

Nakhaš ricambiò il lancio, senza però ottenere lo stesso risultato: «Ridi poco, che abbiamo solo duecento anni di differenza!» e in un attimo fu nuovamente in piedi.
«Così pochi?» a quella domanda persino Noah si stranì. Da quando due secoli erano pochi?
Le sopracciglia di Akràv disegnarono due folti archi: «Salomone! Ti ci metti anche tu?»
Alzando le mani l'Hagufah provò a mimare una smorfia innocente. La testa si mosse dolcemente da un lato all'altro: «Era solo un'osservazione, anche tu ormai inizi a essere vecchio!» e poi, come una scintilla, si accorse di come Zenas l'avesse chiamato, di come né lui né gli altri ci avessero minimamente fatto caso.

La Chimera puntò l'indice nella sua direzione, ma nonostante stesse cercando di apparire minaccioso il divertimento era palese sul suo volto: «Ah, la pensi così?» i lembi del canovaccio spuntavano irregolari dalla mano con cui lo stava accusando, muovendosi nell'aria ogni volta che il braccio faceva avanti e indietro. «Allora, visto che tra tutti il tuo è il corpo più giovane, mio caro Re, vieni con me a prendere sia la spesa sia Colette! Vediamo chi è il "vecchio" quando dovrai sollevare le due casse di verdura che ho fatto preparare!»

Di nuovo quel modo di rivolgerglisi. Di nuovo Salomone.
«Eddai, Zenas, scherzavo!»
«Non mi interessa. Siete due dementi ed è giusto che ve ne assumiate le conseguenze. Vecchio a me! Detto da voi, poi...» Si volse brontolando, pronto a tornare in cucina e finire chissà cosa, ma ecco che probabilmente si ricordò che i "dementi" da punire erano due. Girò il torso giusto a sufficienza per incrociare lo sguardo di Levi: «E mentre siamo fuori, signor Primo Generale, vedi di mettere un po' in ordine e capire che fine ha fatto Alex.»
Nikolaij balzò in piedi, un grillo parlante al fianco di Noah: «Posso venire anche io in paese con voi? Non ci resto a casa da solo con questo assalitore» e l'occhiataccia che lanciò al fratello maggiore lo fece scoppiare in una fragorosa risata. Nemmeno l'astio di un'altra Chimera sembrò scalfire Nakhaš.

 

 

Mezz'ora dopo lo sportello della Lancia Thema di Colette, la macchina più schiavizzata tra le due a disposizione, si chiuse accanto a Noah con un tonfo metallico ben poco rassicurante, schiacciandolo così tra il finestrino e il braccio massiccio di Zenas intento a sistemare lo specchietto retrovisore. Alle loro spalle, già calato nel personaggio, Nikolaij stava smanettando con foga sulla console Nintendo che si era portato dalla Russia.
«Siamo pronti?» con un rimbalzo floscio delle chiappe sul sedile, Zenas si volse in modo da guardare entrambi e, stando all'entusiasmo sul suo viso, si sarebbe quasi potuto pensare che stessero andando in gita.
Noah sorrise. C'era un che di rassicurante e leggero nei modi della Chimera, qualcosa che, come con tutte le altre, alle volte gli faceva completamente dimenticare la sua vita prima di rincontrarle. Non esisteva più la famiglia con cui era cresciuto, quei genitori che aveva sempre creduto suoi e i parenti tutti; sparivano dietro tende di altri ricordi ed emozioni quelli che erano stati i suoi migliori amici, Hans e Gretchen. Non vi era più alcuna urgenza di prendere la laurea in chimica quando, nelle vite precedenti, ne aveva collezionate a decine. Vienna si trasformava di giorno in giorno in un luogo che mai più avrebbe avuto il sapore di casa, e d'improvviso, pensando a quella città, Noah ebbe un sussulto: «Aspetta!» pigolò, «tu sei sicuro di riuscire a guidare?» Già, perché nonostante Akràv non si fosse più lamentato del dolore, dallo scontro con il Cultus non erano passati più di un paio di mesi - e se un uomo normale per guarire da una tibia letteralmente spezzata in due poteva impiegare anni, una Chimera non poteva certo riprendersi in sette settimane, no?
Con un gesto della mano Zenas minimizzò la questione: «Sto bene, davvero, basta che stia attento e non prema troppo sull'acceleratore!» Sghignazzò complice, come se qualcuno, in quell'auto, potesse mai pensare che la sua fosse una guida spericolata. Quell'aria benevola, da padre un po' palestrato, non avrebbe fregato nessuno. Senza staccargli gli occhi di dosso, Akràv girò la chiave nel quadro e si preparò a partire: «Inoltre, Colette mi ha concesso tutte le ɛvɛn di cui avessi bisogno. Sono praticamente come nuovo!» e si diede una pacca sulla coscia tutt'altro che rincuorante - eppure Noah non insistette, la solita vocina interiore gli disse che sarebbe stato inutile perché, come tutti i suoi fratelli, Zenas era cocciuto.

«Un giorno dovrò assaggiare quelle robette, devono essere miracolose!»
Cigolando, gli ammortizzatori della Lancia presero ad attutire malamente i dislivelli della stradina sterrata davanti alla casa.
Niko si sporse tra i sedili anteriori, il motivetto del videogioco a far da sottofondo: «Non credo tu possa mangiarle, sai?»
«Perché no?» Noah volse la testa trovandosi la punta del naso a una spanna da quella del ragazzino. Grazie al cielo, pensò, almeno lui le aveva mangiate prima di uscire. Le iridi di Nikolaij erano di un azzurro slavato, mentre le pupille, seppur nere come quelle di un comune mortale, sembravano conservare sfumature rossastre.
Piegando la bocca in una strana smorfia, il ragazzino fece spallucce: «Non ne ho idea» ammise, «solo che non te ne ho mai vista ingoiare una.»
«Davvero? Mai?» Le sopracciglia di Noah quasi si toccarono e il suo sguardo balzò appena oltre il viso di Akhbàr.
Zenas dovette sentire i suoi dubbi su di sé e scrollando il capo, ma senza distogliere l'attenzione dalla strada, prese parola: «Non le hai pensate per i tuoi corpi. Troppo umani, troppo... normali, ecco!» L'auto rallentò appena, lui si sporse con il busto per riuscire a scrutare ambo i lati della provinciale prima di immettervisi. Non aveva bisogno di alcun navigatore, sembrava conoscere le strade a memoria. «Le ɛvɛn sono una specie di abbozzo della pietra filosofale, un suo scarto per quel che ho capito, di conseguenza non riusciresti ad assimilarle senza utilizzare su di te l'Ars. E non avrebbe senso. Mangiarle per assimilare potere, ristabilirne gli equilibri e guarire mentre consumi quello stesso potere. Naaah!» mosse la mano come a scacciare quel concetto: «Non ha senso, capisci? Per noi però è diverso. Noi siamo l'Ars.»
Noah sentì una sensazione dolce invadergli la pancia, un'insolita soddisfazione avanzare. Quindi lui, seppur in un'altra vita, aveva creato la pietra filosofale. Che gioia doveva essere stata, e che conquista dover averla resa qualcosa di utile per le sue creature. Qualcosa che persino senza di lui aveva permesso loro di sopravvivere.

«Vi guarisce davvero così in fretta?»
Nikolaij, forse stufatosi del discorso, tornò al proprio posto.
«Nella maggior parte dei casi, anche se la mia gamba non è certo guarita "in fretta"» una risata roca gli uscì dalla gola.
«Beh, stiamo parlando di poche settimane, non mi sembra tanto...»
Zenas smise di ridere, ma gli angoli della sua bocca rimasero sollevati. Il suo buonumore era inattaccabile. «Se fossi stato in grado di usare l'alchimia a tuo piacimento, maleki (sire), sarei guarito in pochi minuti! Le ɛvɛn sono solo un palliativo in assenza delle tue cure.» Una stilettata traditrice aggredì nel vivo Noah che, come distratto dal panorama fuori dal finestrino, si voltò per non mostrare la propria espressione ferita. Accanto a sé vide la striscia blu del mare dividere di netto l'orizzonte come uno strappo doloroso simile alla consapevolezza di essere, per ora, inutile. Risentito si morse la lingua, ma non poté impedirsi di pensare che gli servisse ancora un po' di tempo. Presto, più di quanto immaginassero, avrebbe ritrovato se stesso e la sua Ars. O almeno era quello che sperava. Doveva solo capire come sbloccare i ricordi, come liberare Salomone dalla gabbia in cui la sua ultima hakhlafa (sostituzione) lo aveva imprigionato. Poi, uno scintillio tra le onde gli riportò alla mente il tallero al collo di Levi e il desiderio quasi fastidioso di toccarlo. L'urgenza di saperne di più montò in lui, cancellando ogni altro pensiero. Forse quella moneta non avrebbe cambiato nulla, o forse sarebbe stata la chiave per allentare alcune delle catene che tenevano rinchiuso il Re - e ciò, di certo, lo avrebbe aiutato a riprendere il controllo sul suo potere.

«Cambiando discorso...» avanzò, anche se nell'istante in cui vide gli occhi di Zenas scivolare nella sua direzione ebbe la sensazione che un nodo gli si formasse in gola, ostacolando il proseguire della domanda. Chissà se anche loro sapevano dell'esistenza di quell'oggetto e della promessa che si erano fatti. Chissà se gli avrebbero rivelato qualcosa o avrebbero, invece, spifferato di quella sua curiosità a Nakhaš.
Noah vacillò, ma quando la Chimera tornò a guardare la strada trovò il coraggio di deglutire le proprie incertezze: «voi sapete qualcosa dell'amuleto di Levi?»
Alle sue spalle, non proprio concentrato sulla conversazione, Niko ripeté: «L'amuleto?» E già quella risposta gli parve un brutto segno. Forse stava chiedendo alle persone sbagliate, ma chi, se non loro, poteva aiutarlo?
Ancora una volta si ritrovò a deglutire con fatica, poi provò a mimare con le mani forma e dimensione della moneta: «Sì, il tallero che porta al collo, quella specie di strano ciondolo...»
Nikolaij alzò gli occhi al cielo, riflettendo: «Ho presente, però non ne so nulla. Quando lo conobbi lo aveva già da diverso tempo e non mi ha mai nemmeno incuriosito a tal punto da fargli domande. Un po' come la fede di Colette. Chissà a chi l'ha rubata, quella cornacchia!»
Un sussulto fece voltare Noah, la confusione per quel dettaglio a distrarlo dall'argomento principale: «La fede di Colette?» chiese per poi concentrare tutta la sua attenzione su Zenas. Lui, di certo, poteva rispondere dell'origine di entrambi quei gioielli - non a caso, il sorriso sul suo volto scemò e la mascella sembrò contrarsi contro la sua volontà.
«Siete due ficcanaso» bofonchiò, aizzando maggiormente la curiosità dell'Hagufah.
«E' stata sposata?»
Zenas sospirò: «Esclusi il moccioso qui dietro e Hamza, tutti noi lo siamo stati almeno una volta. Abbiamo costruito parte del nostro patrimonio con le eredità dei nostri coniugi.»
Logico, certo, ma non giustificava il fatto che Colette avesse conservato una fede. L'anello simbolo di un legame speciale. Doveva esserci qualcosa di più dietro a quell'oggetto e Noah si sentì affamato di sapere cosa. Ogni informazione, ogni dettaglio potevano condurlo sempre più vicino allo scassinare le serrature che lo tenevano prigioniero - e se prima di scoprire cosa nascondesse il tallero di Levi fosse potuto venire a conoscenza di altri eventi non gli sarebbe poi tanto dispiaciuto attendere.

«Okay, ma per conservarne una nello specifico deve esserci un motivo.»
Forse inconsciamente, Akràv prese la curva un po' troppo stretta, costringendo Noah ad aggrapparsi al sedile. Persino Nikolaij se ne lamentò, affermando che quella manovra gli avesse fatto perdere la partita.
«Probabilmente era più bella di altre» peccato che il tentativo della Chimera apparve sin da subito claudicante. E per fortuna che mentire era il loro forte...
Noah, accertatosi della stabilità della vettura, si sporse verso l'autista ammiccando: «Zenas...?» Questi gli lanciò uno sguardo veloce, colpevole, poi si umettò le labbra con fare palesemente dubbioso. Sicuramente si stava chiedendo cosa fosse giusto fare, se mantenere quel ricordo un segreto per chissà quale motivo, oppure informare il suo Re perché potesse aggiungere un altro tassello al puzzle che era la sua memoria. Alla fine, probabilmente mordendosi la lingua, cedette per la causa: «Sì... è speciale per lei.»
«Come mai?»
Nuovamente le lamentele di Nikolaij si levarono dai sedili posteriori su cui, a un certo punto, si era sdraiato come sul divano di casa: «Chissenefrega della vita sentimentale di quella befana! Sicuramente il marito è scappato prima che lei potesse ucciderlo e ci è rimasta male! Quelle come lei non hanno cuore, né in vita né in morte.»
Noah non riuscì a trattenere un sorriso: «Eddai, la dipingi peggio di come è, Niko!» Rise, ma quando tornò a guardare Zenas la sua espressione appassì. Non c'era alcun divertimento sul viso della Chimera.

«Nicholas è morto, sì, ma Colette non c'entra nulla. Lo ha sposato per amore e lo ha perso per colpa di questa nostra vita.»
Un sapore amaro riempì la bocca dell'Hagufah, come se sulla lingua si stesse spalmando una verità che non gli piaceva: «Il Cultus?» domandò anche se in cuor proprio sapeva che non si trattava di loro. Quando Akràv posò i suoi occhi su di lui, improvvisamente Noah capì di aver ragione: non erano stati quei pazzi.
«Chi, allora?»
Le mani della Chimera si strinsero sul volante facendo attrito sulla gomma, i tendini dei polsi oltre il bordo della manica si tesero. Ci furono alcuni istanti di silenzio prima che Zenas aprisse bocca, secondi così pesanti che quando Noah percepì il barlume del ricordo avanzare lo ricacciò nei meandri da cui arrivava. No, quell'aneddoto non lo voleva. Aveva già capito a chi addossare la colpa.

«Ti interessava il tallero di Levi o sbaglio?»
Colto alla sprovvista trasalì : «S-sì. Sì!» anche se non ne era più così certo. «N-ne sai qualcosa?»
Intorno a loro il mare, le rocce e la vegetazione morente erano stati sostituiti da case e piccoli palazzi dai toni pallidi divisi da strade, vicoli e rotonde. Zenas vi si addentrò senza esitazione come Cesare d'innanzi al Rubicone. Non un semaforo o un pedone a intralciare la sua avanzata.
«So quando l'ha indossato per la prima volta e nel tempo immagino di aver capito cosa simboleggi, ma voi due siete gli unici a conoscerne la storia per intero.» Non per un momento la sua smorfia parve tornare serena. Gli echi del passato, di quell'evento che persino lui aveva scelto di ignorare nonostante potesse aiutarlo, dovevano essergli alle calcagna come nemici.
«Beh, al momento è il solo, a dire il vero...» precisò Noah tornando a sedersi composto. «Mi piacerebbe quantomeno sapere da dove arrivi esattamente.»
Con un unico movimento, impassibile, Akràv portò a compimento la manovra per il parcheggio. Il quadro si spense e il motore della Thema, in un ultimo rantolo, smise di tossire.
Nikolaij riemergendo dalla sua avventura in pixel si mise dritto, guardò fuori con fare da topolino quale era, e gioì: «Finalmente! Posso andare in edicola mentre prendete la verdura e recuperate Colette?» Zenas lo guardò amorevolmente e annuì, lasciandolo balzare fuori esattamente come un qualsiasi padre farebbe con il proprio ragazzo.
«Se hai bisogno raggiungici alla farmacia vicino al comune, okay?» gli gridò prima che la portiera riportasse intimità nell'abitacolo. Tra di loro s'insinuò altro silenzio carico di tensione, un'attesa che fece stringere lo stomaco di Noah.

«Lui non ti ha detto nulla?» Chiese Akràv massaggiandosi la coscia della gamba offesa. Nonostante avesse negato era ovvio che provasse ancora del fastidio, come aveva detto lui stesso le ɛvɛn altro non erano che un palliativo.
Umettandosi le labbra e abbandonando il capo contro il poggiatesta, l'Hagufah sintetizzò: «Ha detto che rappresenta una promessa. Me l'ha fatta in un momento in cui aveva pensato di lasciarmi...»
Nell'estrarre le chiavi lo sguardo di Zenas si perse in un punto indefinito e la sua testa ondeggiò come se, a differenza di Noah, avesse capito qualcosa; poi, senza aggiungere nulla, afferrò la maniglia della portiera facendo scattare l'apertura. Sembrava pronto ad andarsene lasciando il discorso a metà, senza risposte - e non poteva farlo, pensò l'Hagufah. Non poteva privarlo di quell'informazione dopo che si era lasciato sfuggire della fede di Colette. Se avesse solo provato a farlo Noah gli sarebbe saltato ai polsi e gli avrebbe estorto ciò che voleva sapere. Gli serviva, dannazione! Come potevano pensare che sarebbe tornato l'uomo di un tempo se continuavano a dirgli solo ciò che faceva loro comodo? La loro storia non era forse fatta di ombre e peccati?
Con uno sbuffo, giusto prima di spalancare lo sportello e rischiare di essere assalito, Zenas disse ciò che Noah stava bramando: «Correva l'anno 1743 dopo Cristo, è d'allora che lo indossa» si lasciò sfuggire un sorriso nell'istante in cui una folata gelida entrò nell'auto: «Sono certo che la prossima volta che ti soffermerai a guardarlo capirai.»
Un campanello tintinnò dentro l'Hagufah, seguito da altri suoni.

«Non sai dirmi altro?»
La Chimera fece spallucce: «Mi spiace. Purtroppo non ero presente. Come ho detto: i dettagli li sapete solo voi.» sorrise ancora, stavolta con più dolcezza. «Ora però andiamo, che altrimenti Colette si lamenta che siamo in ritardo!»

 
 
 

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Capitolo 62
*** - Capitolo trentaquattresimo - Parte Terza: Una promessa ***





 

«Okay, ma non puoi nemmeno dirmi dove eravamo? Il 1743 è un po' vaga come informazione...» chiese all'inseguimento di Zenas. Persino a piedi la Chimera si muoveva con una sicurezza invidiabile; gli erano bastate solo una decina di visite per imparare la mappa del paese a memoria - e Noah, nolente, faticava a stargli dietro. Più volte si era ritrovato a dover allungare il passo perché lui svoltava o attraversava all'improvviso senza preoccuparsi di avvisarlo.
Akràv, con le mani in tasca e i lembi della giacca a svolazzargli accanto al corpo, fece spallucce: «Se Levi non ti ha detto nulla un motivo penso ci sia.» Dai quasi dieci centimetri che li separavano fece cadere lo sguardo su di lui. Una luce benevola a illuminarlo. «Sono convinto di una cosa, Noah. Vuoi sapere quale è?» non attese risposta: «Uomini o demoni, siamo tutti gelosi del nostro dolore. Conserviamo una sorta di paura nell'esporre le ferite. Il tempo può passare e lenire, ma cosa succederebbe se non fossero guarite abbastanza? Magari si potrebbero infettare, o peggio, riaprire. Levi non è rimasto sfregiato da molte cose, quindi i graffi che ha dentro se li tiene ben nascosti e... beh» sospirò, lasciando che una tenue nuvola di fiato gli sfuggisse di bocca, «sono sicuro che ciò che quella moneta rappresenta deve essere ancora una ferita aperta per lui.»
Noah soppesò con cura quelle parole e, nel farlo, qualcosa di gravoso si adagiò sul suo petto. Non riusciva a smettere di voler sapere di più di quella storia, eppure al contempo si sentiva colpevole di desiderare quei ricordi, di voler soverchiare la riservatezza chiesta da Levi per un suo egoistico diletto.
La voce di Zenas tornò tra loro, pacata: «Prima mi hai chiesto di Nicholas» il suo sguardo non era più rivolto verso di lui, ma sul cielo azzurro. Con la lingua si umettò le labbra, la barba parve sfrigolare con il tendersi della pelle. Noah incespicò sui propri piedi, il cuore velocizzò il ritmo. «N-non voglio tu debba-» provò a dire per evitarsi che qualcosa di spiacevole potesse far capolino nella sua mente in quel preciso momento, ma la Chimera scosse il capo, ignorando le sue claudicanti rimostranze.
«Non scenderò nei particolari, tranquillo. Non me li chiedesti quel giorno e non intendo rivelarteli ora, ma voglio che tu sia a conoscenza di alcune cose.»
L'Hagufah deglutì un timore che gli stava bloccando la trachea. Sentiva smuoversi intorno un monito, un'ombra che presagiva tutto. Non voleva ricordare perché sapeva, in cuor suo, che si trattava di un argomento spiacevole e brutale, eppure, come aveva pensato lui stesso in auto poco prima, la sua esistenza e quella delle Chimere era fatta anche di peccati. Prima o poi avrebbe dovuto riviverli tutti.
«Lui è la ferita più grande e pulsante di Colette, infatti non le sentirai mai pronunciare il suo nome o ricordare gli anni insieme. Gliel'abbiamo procurata tu ed io, per questo la sua esistenza è nota, ma se chiedessi a Willhelmina, Alex o Niko non saprebbero di cosa stai parlando.»
Una sensazione anomala sembrò afferrare Noah per le caviglie nel tentativo di arrampicarsi sui suoi polpacci, lungo le natiche e la schiena. Se la sentì addosso come un ragno dalle mille zampe e con la coda dell'occhio provò a guardarsi alle spalle per accertarsi che non vi fosse veramente qualche strana creatura.
«Non è mai guarita. Ha continuato a tamponare l'emorragia della sua anima per secoli e...» le narici di Zenas si fecero grosse, la smorfia di rabbia gli tese gli angoli della bocca verso il basso: «ha iniziato a barcollare.»
«Che intendi? Anche lei ha pensato di abbandonarci?»
La Chimera scosse il capo, i dreadlock si mossero come un'onda scura: «No. Non lo ha mai fatto perché mai ha saputo che l'assassinio di Nicholas è avvenuto per mano nostra. E non deve saperlo, okay?» La durezza dell'occhiata che gli rivolse sembrò a Noah quella di nocche ossute contro lo zigomo. Gli fece male pur senza sfiorarlo e non ebbe il coraggio di aprir bocca, così si limitò ad annuire. Akràv rallentò il passo. Dall'altro lato della strada il negozio del fruttivendolo da cui erano diretti li aspettava immobile. «Le voglio bene. Davvero. Non le avrei fatto alcun male se avessi potuto scegliere, ma ho dovuto compiere il tuo volere.»
La sensazione alle spalle dell'Hagufah sembrò agitarsi di meno nonostante le sue zampe sottili non avessero smesso di tirargli gli orli della felpa e, in un soffio, chiese: «Perché?» Zenas si fermò del tutto. Erano faccia a faccia, tesi come corde di violino. «Insomma... perché hai assecondato una richiesta tanto ignobile? Avete sempre detto che ero un uomo saggio, magnanimo...» non capiva. Più si sforzava, meno riusciva a comprendere il motivo che lo aveva spinto a prendere una simile decisione. Era inorridito da Salomone, da ciò che aveva fatto a Colette e chissà a quali altre Chimere. Non avevano sempre detto che l'amore che provava per loro era infinito e viceversa? Per un momento fu grato di non sentirsi lui, di non riuscire ad accostare il proprio essere a quello del Re. Fu felice di poterlo giudicare dall'esterno, giuria e non condannato - eppure quella sensazione durò poco, perché il modo in cui Zenas si guardò attorno gli diede l'impressione che volesse nascondere qualcosa non solo al mondo esterno, ma anche a lui. Sentiva, seppur distante, il rimorso che stava logorando la Chimera e immaginò senza fatica la forza con cui doveva starsi mordendo la lingua. Forse, anche senza sentirsi il Re, restava colpevole e in qualche modo la sua mente provò a dirglielo.
«Nicholas è stato il tuo unico allievo. Da sempre.» Il ricordo di una risata riempì le orecchie di Noah. Non era quella di nessuna delle sue creature, ma aveva un suono familiare, dolce come uva fragola e vino novello. «Era promettente, curioso, innovativo... dicevi che ti rimembrava il ragazzo che eri stato. L' alkhimai che aveva trovato un modo per resuscitare il suo migliore amico.» Nella testa dell'Hagufah guizzò l'immagine di mani ingioiellate intente a sfogliare libri indicando annotazioni in una lingua che non riuscì a identificare. «Ed esattamente come te voleva qualcosa di impossibile... Un figlio, da Colette.»
La sensazione aggrappata a lui balzò in avanti, con le zampe gli strinse la gola e un conato parve volerlo tradire risalendo acido dallo stomaco, eppure tutto quello che vomitò fu: «Voleva creare un omuncolo...» Un termine di cui si era riappropriato solo grazie ai diari che Levi gli aveva fatto leggere, un procedimento che nemmeno lui, il grande Salomone, aveva mai provato a compiere.
Zenas annuì.
«Ma per farlo doveva sperimentare su di lei e questo ti mandò in bestia. Colette era tua, così come tutti noi, e nessuno doveva osare metterla in pericolo a quel modo, perché tanto sarebbe valso cederla al Cultus.» La mascella della Chimera si contrasse: «Quando lo scopristi provasti a dissuaderli entrambi, ma Flamel non voleva sentirne ragione. Voleva una stirpe con lei, una prova eterna del loro amore... non fosse che Wórèb sarebbe potuta morire nel tentativo di ottenere quel figlio e nessuno sapeva se ne sarebbe mai valsa la pena.» Akràv fece una pausa che gli permise di sentire la stretta intorno al collo allentarsi, poi lo vide riportare lo sguardo su di lui. Nei suoi occhi si poteva scorgere l'ombra di una guerra interiore tra sensi di colpa e senso del dovere. «Non so perché chiedesti a me e non a Levi, ma sta di fatto che prima che riuscisse a portare a termine gli studi su cui Paracelso mise le mani, colmando le lacune del suo predecessore, mi mandasti a ucciderlo. Non avevo mai spezzato il collo di un amico, ma lo feci per te e per lei. Per noi tutti.»

La repulsione, se così si poteva chiamarla, scese di nuovo lungo il suo corpo. Lo fece con lentezza, pronta a riagguantarlo.
«Perché me lo stai dicendo? I-io non so cosa dovrei dirti o-o fare... io-»
Con una mano Zenas gli afferrò la spalla. Le sue dita strinsero per dargli calma: «Perché la mente di Colette ha iniziato a cedere in quel momento. Non hai notato i suoi scatti o quegli atteggiamenti insoliti?» Difficile non notarli, pensò Noah. «Finché eri in vita, finché eri Salomone, sei riuscito a tenerla sotto controllo. Poi sei sparito e la sua ferita si è allargata come una macchia. Nulla, se non quel poco di autocontrollo che le era rimasto, le ha impedito di impazzire.» La Chimera mollò la presa riportando la propria mano lungo il fianco: «Quindi ti chiedo di non forzare Levi. Non potrei sopportare un altro fratello sanguinante.» Impigliata tra le dita di Zenas, la mente dell'Hagufah iniziò a immaginare come sarebbe stato vedere Levi al posto di Colette, come sarebbe stato dover vivere con un essere del suo calibro in quelle condizioni e temere, in parte, le sue reazioni. Ricordava ancora l'ansia nel dover restare solo con Wòréb, l'agitazione che gli tendeva i muscoli quando lei restava ferma a fissarlo o il tic che le faceva piegare la testa al pari di un rapace. Aveva temuto più volte che senza preavviso afferrasse la forchetta e gliela piantasse nella mano, come i suoi artigli avevano fatto a Levi il giorno in cui erano arrivati da lei.
Così si chiese se scoprire il segreto di quel tallero valesse davvero un rischio del genere. La risposta arrivò da sé: no, certo, però tutto ciò che avrebbe potuto apprendere, tutti i ricordi o l'Ars che vi si nascondevano dietro... Forse quelli sì.

Akràv gli diede una pacca, facendolo rinsavire: «Evitiamo di rovinarci l'umore e perdere altro tempo, akh, altrimenti finisce che arriva prima Niko e quella lo butta sotto a un'auto!» Scherzò ritrovando il sorriso, peccato che Noah non riuscì a ridere di quella battuta: le probabilità che succedesse veramente qualcosa del genere erano fin troppo alte per pensarle solo come una burla - e ora ne aveva la certezza. Se l'instabilità di Colette era davvero così borderline, lasciarla sola con Nikolaij avrebbe significato ritrovarsi con sei Chimere su sette.

L'Hagufah ancora una volta affiancò Zenas senza però proferire altre parole. C'erano questioni ben più complesse ad affollargli la mente, dubbi maggiori e immagini frammentarie che avrebbe voluto lasciare alla vita del vecchio sé. Non che non le volesse, ma nemmeno le bramava in quel momento. Desiderava ottenere altri ricordi, memorie utili per tornare a ripadroneggiare i suoi poteri - i peccati di Salomone li avrebbe accolti poi. E mentre Akràv raccoglieva in alcune casse di legno i sacchetti con gli acquisti per la settimana, Noah si impegnò a scacciare il pensiero di Nicholas Flamel.
Due ceste a testa, poi si rimisero in cammino verso l'auto. Zenas iniziò a raccontare di quanto diverso fosse quel luogo quando, nel 1878, si erano stabiliti lì per dieci anni. Parlò delle poche case e altrettante botteghe presenti, del commercio ittico che si spingeva nell'entroterra e di un poliziotto così invaghito di Willhelmina da non accorgersi che l'oggetto del suo amore passava la maggior parte dei pomeriggi a spassarsela con una delle sue sorelle minori. Raccontava e rideva di quei giorni con una leggerezza così lontana dalla serietà di poco prima che gli riportò alla mente Levi e il modo in cui, dopo avergli confessato di averlo quasi abbandonato, si era messo a giocare col fratellino. Era sorprendente, pensò Noah, come tutte le Chimere riuscissero a passare da uno stato d'animo all'altro senza sforzo, o per meglio dire, come riuscissero a nascondere le proprie vere emozioni; perché, e di questo ne era certo potendo percepire Zenas come un'estensione sfocata di sé, in realtà stava ancora rimuginando sulla confessione fatta, sull'omicidio e sulle conseguenze che questo aveva avuto.
Una parte dell'Hagufah avrebbe voluto allungare una mano, mettendo a repentaglio cipolle, broccoli, sedani e carote, per afferrargli una spalla e portarsi via quel cruccio. L'altra gli ricordò di non sapere come fare - e mentre lo ascoltava e pensava a tutto ciò, Noah si accorse di come l'incidere dei passi della Chimera si fosse fatto più stanco e incerto. Il dolore alla gamba doveva infine essersi risvegliato. Chissà con che intensità lo stesse provando. Chissà quanto tempo gli sarebbe servito per guarire del tutto. Chissà se un giorno, presto, sarebbe lui stesso riuscito a guarire le sue creature da ogni male.

«Mettiamo tutto nel bagagliaio, okay?» Il tono ora più deciso di Akràv, diverso dalla gioia del racconto sulla loro vita lì, lo fece sussultare. Nemmeno si era accorto di essere arrivato a destinazione. Annuì, cercando di apparire il più tranquillo possibile.
«Posso guidare io al ritorno?»
Zenas corrugò le sopracciglia.
«Non ho mai usato un'auto vintage, mi piacerebbe provare» mentì, sicuro che un'altra mezz'ora di viaggio avrebbe provato maggiormente la Chimera. Questa, chiudendo lo sportello del bagagliaio, fissò la carrozzeria per qualche istante, valutando la proposta.
«Sei sicuro di esserne capace? Non è agevole come una vettura moderna.»
Noah gli porse la mano in attesa delle chiavi: «Ho riportato in vita sette persone qualche tempo fa, cosa vuoi che sia guidare un'auto senza servosterzo?» L'espressione di sorpresa della Chimera pareva lì lì per creparsi in una risata, ma prima che potesse accadere scosse la testa e gli diede il mazzo.
«Come non detto, sire!» e sghignazzando sotto il pizzetto scuro si rimise in marcia verso la farmacia dove Colette li doveva star aspettando. Non ci misero più di una manciata di minuti a raggiungerla, anche questa volta guidati dall'ineccepibile senso dell'orientamento di Zenas, e quando arrivarono la trovarono nel piccolo piazzale intenta a tirare Nikolaij per un braccio. A vederli in lontananza parevano davvero madre e figlio: stesse chiome scure, visi dalla forma a cuore, nasi dritti e sottili. Solo avvicinandosi si poteva notare quanto, in realtà, fossero diversi. Chissà se entrambi, nelle loro vite precedenti, avevano vantato occhi color del cielo e sorrisi pieni di gioia. Mentre Noah gongolava di fronte a quella scena, Akràv sussultò, mettendosi quasi a correre loro incontro: «Ehi! Fermi, fermi!» gli urlò ancor prima di raggiungerli «Che diamine succede qui?»
Wòréb alzò lo sguardo su di lui, le iridi più grandi di come l'Hagufah se le ricordasse. Non c'era quasi più sclera a renderli umani, eppure non una piuma era spuntata da sotto la pelle di lei.

«Non ti intromettere, Zenas!» ringhiò la donna.
«No, invece devi fermarla! Mi sta facendo male!» piagnucolò l'altro provando a sfuggirle.
«Oh, ti faccio male? Allora la prossima volta non azzardarti più a fare una sceneggiata del genere!» gli si fece così vicina che lo stomaco di Noah si contorse su se stesso immaginando che da un momento all'altro potesse mordergli un punto qualsiasi della faccia. Un movimento lesto come una beccata e sul viso di Nikolaij si sarebbe aperto uno squarcio che avrebbe grondato sangue e messo in una terribile posizione tutti quanti; fortunatamente, Zenas si frappose tra i due. Spalle al ragazzino e occhi dritti in quelli della sorella, gonfiò il petto per torreggiare su di lei - peccato che, da qualsiasi punto li si osservasse, Colette restava decisamente più minacciosa e impassibile. Non vacillò nemmeno per un istante e la sua mano sul braccio del fratellino rimase salda.
Lo sguardo di Akràv di fronte alla riluttanza di lei si incupì, il suo sorriso divenne meno accogliente, ma non per questo gli sparì dalle labbra. Stava cercando di mantenere un'apparenza innocua per chiunque li potesse vedere, eppure a Noah sembrò ovvio che fosse sul punto di afferrarla e spingerla lontano da Akhbar: «Atah noten mofa, akhòt (stai dando spettacolo, sorella)» l'ammonì. Concentrandosi, l'Hagufah poté avvertire l'intensità delle emozioni di entrambi: la decisione di lui e la rabbia di lei.
Colette mosse un passo nella direzione dell'uomo, a separarli solo lo spazio di un pugno: «Io?» sussurrò: «Avresti dovuto assistere alla performance del tuo moccioso, sai?»
«Lo 'assiyti kelum, akh! (Non ho fatto niente, akh!) Setam tsakhaqeti (stavo solo scherzando)» provò a giustificarsi l'accusato, spingendo Noah a farsi più vicino per provare a separarli nonostante temesse la reazione di Wòréb.

La testa di quest'ultima scattò da un lato nel solito stravagante tic, ma i suoi occhi rimasero fermi su Zenas benché non stesse parlando con lui: «Bello scherzo di merda, akhberosh (ratto/verme)» rispose: «Entrare in negozio e dire davanti a tutti i presenti, colleghi e clienti, "salut, maman" quando non ho mai parlato di famiglia o figli è proprio il modo perfetto per rovinare la mia vita qui. Lo sai cosa comporta tutto ciò, o forse quel tuo cervellino da moccioso non lo ricorda?»
Akràv sussultò e, come mosso dagli stessi fili di Noah, si volse verso Nikolaij, ora paonazzo per ben altri motivi.
«Non credevo che avessi detto tanto della tua vita privata!»
Lei mollò la presa, alzando le mani al cielo: «È proprio perché ho detto poco che la cosa risulterà strana!» scosse la testa allontanandosi dai fratelli. Passo dopo passo fu sempre più vicina all'Hagufah. Una sensazione di disagio lo pizzicò, ma per sua fortuna la Chimera non gli diede alcuna attenzione: «Quale madre non nausea i conoscenti con aneddoti sulla propria prole, eh?!» bofonchiò stringendo le dita intorno alla tracolla della borsa. Noah la lasciò passare accanto a sé e stranito ne seguì la scia con lo sguardo. Dopo la confessione di Zenas, cioè la rivelazione del desiderio di Colette di avere una famiglia, sentirle usare un tono tanto seccato lo lasciò di stucco. Possibile che nonostante avesse desiderato un figlio non riuscisse a vedere in Nikolaij quella possibilità? Dopotutto avevano abbastanza anni di differenza da poter dare quell'idea e, inoltre, ad Akràv sembrava venir incredibilmente naturale, così come a Levi e Alexandria il trattarlo come un nipote o il fratellino minore che era. Per lei, invece, sembrava un condanna.
Un senso di nostalgia e fastidio sfiorò Noah come una brezza lieve e, improvvisamente, capì che per Colette non sarebbe mai stato possibile amare Akhbar. Un figlio, o meglio l'idea di averne uno, le avrebbe sempre ricordato ciò che aveva perso.

 



 

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Capitolo 63
*** - Capitolo trentacinquesimo - Parte Prima: L'invito ***



 

"Don't know what's going on
Don't know what went wrong
Feels like a hundred years
I still can't believe you're gone
So I'll stay up all night
With these bloodshot eyes"

Gone Forever, Three Days Grace

 

 

Colette si era appropriata del sedile anteriore senza curarsi di nessuno. Per logica aveva dovuto intuire che se lei si fosse seduta lì, al suo fianco ci sarebbero potuti essere solo Zenas o Noah, ma non quella peste del fratellino. Così vi si era piazzata e svelta aveva allacciato la cintura per assicurarsi il posto ed evitare una possibile usurpazione. Quando l'Hagufah le si era messo accanto, indeciso se proferir parola o meno, lei gli aveva lanciato un'occhiataccia che aveva dissipato ogni dubbio. Dal canto suo, Akràv aveva invece fatto diverse battute sul fatto che dietro stesse particolarmente stretto. Tra i sedili bassi e lo spazio angusto, le ginocchia gli arrivavano quasi al petto e, di certo, il tentativo di Noah di evitargli ulteriori fastidi alla gamba si rivelò inutile. Nikolaij, ancora imbronciato, tirò fuori il volume di Nathan Never che doveva aver recuperato in edicola e copiando lo stesso mutismo della sorella vi si immerse proprio come avrebbe fatto un qualsiasi ragazzino - e, in onestà, all'Hagufah tutte e tre le Chimere parvero dei bambinoni capricciosi degni di qualche film tragicomico alla Wes Anderson, cosa che, inaspettatamente, gli strappò un sorriso. Li avrebbe visti bene in un remake de "I Tenenbaum".

Allungando il braccio e continuando a sogghignare Noah avviò il motore, inserì la retro e a metà della manovra si rese conto di non sapere da che parte svoltare dopo, così osservò Zenas per qualche secondo, l'imbarazzo sulle guance a tradirlo e l'ilarità di prima in fuga.
«A sinistra, poi sempre dritto fino al secondo incrocio. Lì giri ancora a sinistra. Sei sicuro di voler guidare tu?»
L'altro riprese a far muovere l'auto per concludere l'uscita dal parcheggio e, prima di inserire la marcia, annuì in direzione dello specchietto retrovisore, certo che Akràv lo avrebbe visto. Non gli avrebbe permesso di sforzarsi più del necessario. Doveva guarire in fretta e finché lui non fosse stato in grado di aiutarlo con l'Ars lo avrebbe quantomeno fatto con quelle premure.
Colette abbassò lo sguardo sui pedali: «Ti avviso, non voglio morire oggi.»
«Guarda che guido da quando avevo diciannove anni!» Il divertimento sulle sue labbra tornò, come se dovesse chiamare tana durante una partita a "un due tre, stella!". C'era qualcosa di rassicurante nel modo in cui le Chimere tendevano a punzecchiarlo, qualcosa che diventava ogni volta sempre più confidenziale, facendogli davvero credere di non aver avuto alcuna famiglia o gruppo di amici prima di loro.
«E adesso quanti ne hai?»
«Ventiquattro.»
Lei si volse verso Zenas sedutole alle spalle: «Stiamo scherzando, vero?»
Noah sgranò gli occhi. Stava davvero mettendo in dubbio le sue capacità? Non aveva mai preso una multa, men che meno i suoi genitori avevano mai ritrovato un'ammaccatura sulla carrozzeria della macchina. Era bravo e si era sempre considerato tale, non avrebbe permesso a Wòréb di mettere in discussione le sue capacità. Inconsciamente allungò le dita e le pizzicò la coscia più vicina, ma al posto di un sobbalzo o un verso dolorante, la Chimera fece una smorfia a metà tra lo stupore e l'orrore. E Noah fu sopraffatto dal pensiero di aver fatto la scelta sbagliata. 
«Mi hai pizzicata?» gli chiese.
«P-per g-gio-gioco...» il timore che potesse vendicarsi gli fece traballare le parole fuori dalla bocca e il fatto che non potesse soffermarsi su di lei per controllare la strada lo mise ancor più in allerta. E se lo avesse picchiato?
Colette assottigliò lo sguardo: «Hai del coraggio, adon (sire)»
Il groppo che gli si formò in gola fu difficile da deglutire. L'Hagufah lo sentì incastrarsi a metà della trachea mentre svoltava nel punto indicatogli da Zenas. Improvvisamente rivalutò la decisione di essersi messo alla guida. Forse stare accanto a Nikolaij sui sedili posteriori sarebbe stato per lui il punto più sicuro.
«Dolcezza,» precedute da un tono profondo e calmo, le mani di Akràv le si posarono sulle spalle per tranquillizzarla, anche se ciò che Noah scorse con la coda dell'occhio apparve più come un modo per trattenerla in previsione di un possibile scatto: «sai cosa pensavo di preparare stasera?» Le sopracciglia di lei si corrugarono di fronte a quel cambio di discorso tanto repentino. «La ratatouille!» Svelò Zenas più entusiasta di qualsiasi persona presente in auto. Dallo specchietto retrovisore l'Hagufah vide i suoi occhi brillare d'entusiasmo e le labbra tendersi in mezzo alla barba.
Con un tic della testa l'espressione e il tono di Colette mutarono: «Pensi davvero di distrarmi così?»
«Beh, un tentativo dovevo pur farlo, no?» la Chimera fece spallucce, poi mollò la presa: «Ora svolta verso destra» aggiunse rivolgendosi a Noah. Nemmeno lo stava guardando, ma egli eseguì, ritrovandosi magicamente fuori dal paese. Un sollievo leggero sciolse la tensione che inconsciamente l'Hagufah aveva accumulato, un mix di ansia da prestazione e paura che Colette potesse in qualche modo aggredirlo. Oltrepassare il confine tra le ultime case e la strada verso il ritorno si era trasformato in una specie di rito di passaggio, il superamento di una prova. 
Wòréb sbuffò: «Dovevi proporre il sanguinaccio, quello sì che mi avrebbe distratta.»
«Che acquolina!» Squittì Nikolaij senza distogliere l'attenzione dal fumetto, quasi già sapesse che la sorella non gli avrebbe concesso alcuna grazia. Lo ignorò come se fosse un fantasma e quando Akràv prese parola non fu chiaro se si stesse rivolgendo a entrambi o solo a lei: «Non è così facile trovare gli ingredienti!» Dal canto suo, Noah nemmeno sapeva di cosa stessero parlando. Il suono di quella pietanza era per lui sconosciuto e, anche sforzandosi, non riusciva a ricollegarlo ad alcuna ricetta già sentita. La curiosità lo spinse quindi ad allungare il collo cercando il volto di Zenas nella porzione di specchio: «Di che si tratta?»
Ma Colette gli parlò sopra, zittendo la domanda e involontariamente dandogli i primi, macabri dettagli: «E che ci vuole? Ti compro un porco e poi lo sgozzi! Non sarà certo il primo!»
Noah inorridì. Non era più certo di voler sapere altro.
«E come lo trasporti un maiale? In groppa?»
«Non dirmi che tu non hai più agganci loschi!? Eddai, akh, non ci crede nessuno.» Anche Wòréb si sporse e una ciocca scura ondeggiò accanto al viso dell'Hagufah, sfiorandogli appena la guancia. Lo stomaco gli si strinse. Non si trattava di una sensazione sgradevole, quanto più insolita. Se si fosse voltato, probabilmente avrebbe trovato il viso di lei a meno di una spanna dal suo - così volse il capo verso il finestrino, facendo cadere lo sguardo sullo specchietto laterale. Il profilo del  paese diventava sempre più sottile e, ogni tanto, l'auto dietro di loro lo oscurava completamente.

«Mica mi portano un maiale! Al massimo mi danno informazioni» Zenas si aggrappò al sedile della sorella, tirandosi in avanti. Lei tornò a sedersi composta, le braccia incrociate sotto al seno.
«Vuol dire che non li paghi abbastanza» sentenziò con quel suo fare sfacciato e saccente che la rendeva ancor più affascinante.
La testa di Akràv spuntò tra lei e Noah. Stavolta furono i suoi dreadlock a cadergli addosso: «Scusami, ma che vorresti dire? A te portano animali da ammazzare?»
«No, ovvio! Mica mi metto a fare quei lavoracci! Hai idea di quanto sia poroso il pavimento del garage?» accanto alla discussione, l'Hagufah si chiese se l'aver accettato di seguire Zenas in quel giro di commissioni fosse stata davvero una buona decisione. Da quando era uscito di casa si era trovato in diversi bisticci, una confessione e il trasporto di frutta e verdura; Levi, invece, doveva essersene bellamente rimasto sul divano o in giardino a leggere e fumare, magari sprecando giusto una mezz'oretta a capire se Alexandria fosse ancora in spiaggia o meno. «Il sangue non viene via come sulle  piastrelle!»
Stavolta Nikolaij abbassò il volume che teneva tra le mani: «Allora faglielo sgozzare in cucina, almeno si pulisce meglio. A me il sanguinaccio va moltissimo!» peccato che il suo commento, dalla sorella, fu percepito per l'ennesima volta come una sfida.
«L'unico sangue che non mi infastidirà versare in casa sarà il tuo, Akhbar!»
Il sospiro rassegnato che Noah riversò fuori dalle labbra fu seguito dal botta e risposta delle due Chimere, intervallato sporadicamente dai tentativi di Zenas di calmarle. Era in parte divertente sentirli animarsi a quel modo, davano davvero l'idea di essere due fratelli, ma esattamente come in una qualsiasi famiglia diventava quasi estenuante doverli sentire in continuazione. Ancora una volta lo sguardo dell'Hagufah cadde sul panorama dietro di loro e, ancora una volta, nel riflesso sfalsato dello specchietto scorse l'auto di prima. Ci si soffermò un attimo. Era una vettura imponente, di un blu elegante e con i vetri parzialmente oscurati. Faticava a vedere la persona alla guida, ma aveva mani pallide e ben strette intorno al volante. Targa francese. Stava loro vicino, abbastanza da far dubitare stesse rispettando le distanze di sicurezza, ma non a sufficienza da far pensare ad un imminente sorpasso.
La voce di Zenas emerse dal battibeccare, una nota stonata in mezzo al coro di insulti e lamenti: «Allo stop gira a destra, poi è dritta per almeno sette chilometri» Noah si limitò ad annuire. Rallentò appena l'andamento della Thema e si fece vicino alla linea bianca sull'asfalto.  Davanti a loro la segnaletica indicava da un lato Saintes Maries de la Mer e dall'altro BeauducMarseille e l'autostrada, destinazioni che per un istante pizzicarono la mente di Noah facendolo stranire. Non avrebbe mai creduto, solo due mesi prima, di poter arrivare sin lì, circondato da persone che gli erano più care di quelle con cui aveva passato gli ultimi anni della sua vita. Senza premurarsi di mettere la freccia e concedendosi un'ultima frettolosa occhiata, l'Hagufah si beò di quei pensieri, seguendo con estrema naturalezza le indicazioni che gli erano state date e immettendosi nella nuova corsia, accompagnato dagli incessanti insulti tra Colette e Niko. Di tutto quello che si dicevano carpiva poco, ma per la  maggior parte del tempo i loro commenti sembravano voler mettere a repentaglio il suo tentativo di restar serio e l'incolumità minacciata dagli artigli di Wòréb. Il loro era un susseguirsi di domande taglienti e risposte ancor più affilate, paragoni improbabili e altri così veritieri da invogliare la sua immaginazione a figurare le scene peggiori. Dietro di lui, Zenas andava via via rassegnandosi, e notare il suo sconforto dallo specchietto retrovisore fu l'apice del divertimento. Il sorriso si allargò sul viso di Noah fin quasi a dolergli e per un istante, uno solo, avvertì la sensazione di déjà-vu farsi largo tra tutto. In qualche vita passata, non molto prima, aveva assistito a quella medesima scena; aveva scorto sul viso della Seconda Chimera quella stessa espressione, udito quei commenti e pensato a quanto, in fondo, amasse la sua famiglia.

Lanciando un'altra occhiata in direzione di Akràv, e continuando a sogghignare, Noah si accorse di un insolito cambiamento nella sua espressione. La giocosa rassegnazione si era trasformata in altro, un cipiglio cupo e allarmato. Fu scontato per Noah chiedersi se si fosse perso una vessazione più cattiva delle altre, qualcosa che lo avesse toccato nel profondo, eppure in cuor suo sapeva che non doveva essere quello il problema. Non era sufficiente nulla di tutto ciò per alterare Zenas fino a quel punto, così l'Hagufah provò a studiarne il profilo, o quel che di esso riusciva a vedere tra un'occhiata alla strada e una al riflesso della Chimera. Sembrava che avesse l'attenzione persa altrove, fuori dell'abitacolo, ma nessuno, oltre a lui, pareva essersene accorto. Tra di loro volavano ancora i botta e risposta dei due fratelli minori, ogni tanto qualche piccola goccia di saliva spinta dal fiato e dalla foga, una mano che gesticolava per l'esasperazione, ma nulla più; e a Zenas di tutto ciò non pareva nemmeno importare qualcosa. I muscoli del collo e delle spalle gli si tesero e quasi in simbiosi lo fecero anche quelli di Noah. Gli parve di avvertire la sua medesima ansia - peccato non fosse così. Benché provasse a concentrarsi, l'Hagufah non riusciva a percepire con chiarezza il reale stato d'animo della Chimera. Nel marasma creato da Wòréb e Akhbar definire  chi-stesse-provando-cosa diventava per lui una sfida eccessivamente ardua.
Mentre i chilometri si consumavano sotto i copertoni della Thema, le supposizioni si facevano sempre più stravaganti e all'idea di togliersi ogni dubbio Noah si sentiva la lingua incollare al palato. Esattamente come per la storia di Flamel si rese conto di non desiderare realmente conoscere ciò che a Zenas passava per la mente, quasi l'inconscio sapesse già qualcosa che alla sua parte vigile sfuggiva.
Poi, fulmineo, Akràv tornò a guardare la strada con un'espressione ancora più torva: «A sinistra» ringhiò «Ora!» Il cuore di Noah balzò in gola, le braccia si irrigidirono e le mani strinsero con inspiegabile tensione il volante. Svoltò bruscamente, costringendo Colette ad aggrapparsi al sedile e  Nikolaij a lasciare il fumetto per proteggersi dall'urto contro la spalla del fratello.
«Cosa cazzo ti salta in mente?!» urlò Wòréb appena conclusa la manovra. Non era chiaro a chi si stesse riferendo, ma in ogni caso fu Zenas a parlare.
«Segui la strada e non azzardarti a rallentare.» Che stava succedendo? Perché tutta quella fretta?
Colette si volse con tutto il corpo, la cintura di sicurezza a stringerla: «Tedaber! (parla!)» ma anche il fratello stava voltato, ignorandola completamente.
«Dove stiamo andando? Akh, che ti prende?» Con le sue manine da bambino, Akhbar tirava un lembo della giacca di Akràv nel tentativo di farsi dare una risposta, ma lui continuava a tacere e la cosa fece aumentare il battito dell'Hagufah. Perché non dava alcun tipo di informazione? Perché continuava a ignorarli? Troppo impegnato a spiare cosa stesse succedendo dallo specchietto retrovisore, involontariamente con il piede diminuì la pressione sull'acceleratore e, esattamente come un soldato in trincea, fece esplodere la mina sopra cui era finito.
«Ho detto di non rallentare, adon!» Fu come in una scena dei film, il sussulto che seguì quel comando lo costrinse a premere con più forza e il motore dell'auto ruggì in modo poco rassicurante. Fu a quel punto che le espressioni di Colette e Nikolaij parvero rilassarsi, passando dalla rabbia alla comprensione.
«Tagid li sheatah tsokheq... (dimmi che stai scherzando)» il tono di Wòréb fece stringere lo stomaco di Noah. Sarebbe bastato davvero poco per farlo vomitare. Era certo, ora, che qualsiasi cosa stesse preoccupando Zenas fosse in realtà una questione di vita o di morte.
Alle sue spalle Akhbar squittì: «Lo yakhol liqerot shuv (non può succedere di nuovo)» Non riusciva a vederlo, ma era certo che i suoi occhi fossero grandi di preoccupazione e il suo viso esangue. Lo sentiva, così come poteva percepire l'Ars agitarsi intorno a loro freneticamente.
Akràv tornò seduto. Con la testa fece più volte no, poi si sporse tra i sedili anteriori: «Non succederà di nuovo. Ma l'importante, Noah,» i loro sguardi si incrociarono, la fermezza della Chimera cercò di sostenere il peso della sua ansia: «è non condurli da Levi e Alex.»
«Chi ti dice che non siano già là?» Nikolaij si premette contro il fratello più grande nel tentativo di attirare la sua attenzione. Colette di tutta risposta soffocò un urlò rabbioso.
«Non si sarebbero presi la briga di seguirci, ci avrebbero aspettati a casa.»
Wòréb fu assalita dal suo solito tic: «Potrebbero star facendo entrambe le cose, akh.»
«Chiama Levi allora. Dobbiamo avvisarli.»
Con un groppo in gola, probabilmente ancora il suo cuore, l'Hagufah osò una domanda: «C-chi vi dice che si tratti del Cultus? Non potrebbe-»
«No. Sono loro.» Zenas si girò ancora verso il lunotto: «Infatti eccoli che arrivano.» Gli occhi di Noah corsero al riflesso dell'auto dietro di loro. Era la stessa di poco prima, i vetri semi oscurati, la velocità maggiore. Effettivamente diede anche a lui l'impressione che stesse provando a raggiungerli - ma poteva anche essere una coincidenza, no?
Umettandosi le labbra e ingoiando la tensione, l'Hagufah tentò un nuovo approccio: «O-okay, ma... come fai a esserne sicuro?»
Akràv sembrò imitarlo: «Non lo sono, adon, ma preferisco non rischiare con te presente.» Una sensazione amara gli riempì la bocca. Non solo non era in grado di guarire le sue stesse creature, ma per loro non era altro che un peso. Forse, se non ci fosse stato, avrebbero accostato e aspettato che la vettura dietro di loro li sorpassasse, oppure che si fermasse per dare il via allo scontro. In entrambi i casi avrebbero ottenuto la risposta desiderata, ma con lui lì fermarsi avrebbe potuto significare mandarli tutti e sei a morire.
«Cosa facciamo allora?»

Accanto a loro arrivò uno sbuffo, seguito da un altro tic. Colette stava iniziando a innervosirsi, era ovvio da fin troppi segni. Ai lati dei suoi immensi occhi scuri e sulle guance rosee le prime, piccole piume osavano fare la loro comparsa: «Non risponde quella stupida serpe!» e con un pugno colpì la portiera prima di rimettersi a pigiare sulla tastiera di un cellulare che, probabilmente, nemmeno sapeva cosa fosse una connessione internet. Sbirciando frettolosamente, Noah lesse il nome di Levi sulla schermata verde. Chissà quanti tentativi sarebbero serviti prima di ottenere risposta. 
«Torniamo in un centro abitato e proviamo a disperderci tra la folla» suggerì Nikolaij. Aveva un tono talmente maturo che per un momento sembrò non appartenergli, un po' come i primi giorni che aveva passato con loro. Noah quasi si convinse che, se si fosse girato, avrebbe incrociato una persona diversa, un uomo ben più grande di lui e con addosso i segni di una vita infima.
«È un'arma a doppio taglio, akh.»
«Beh, ma è anche l'unica che abbiamo, o sbaglio?»
«Possiamo continuare a guidare per capire se mi stia sbagliando o meno, anche se lo dubito... e nel mentre valutiamo il da farsi.»
L'Hagufah deglutì. Non gli sembrava affatto una buona idea, ma fortunatamente a esprimere la sua stessa riluttanza per quel piano fu di nuovo Niko: «Con il serbatoio di questo catorcio quanto pensi di poter andar lontano? Eh?»
Anche Zenas, improvvisamente, sembrò sul punto di colpire qualche parte della vettura, ma a dispetto della sorella si trattenne, limitandosi a mordere con ferocia il labbro inferiore. «Okay, allora facciamo inversione e torniamo in città» sentenziò stringendosi nelle spalle. Nonostante avesse appena concordato con Akhbar pareva non convinto di quella decisione. Noah continuò a guardarlo dallo specchietto retrovisore. Cercava sul suo volto l'approvazione per compiere quella manovra o qualsiasi altra cosa, ma non vi trovò nulla che potesse assicurargli di star facendo la cosa giusta. Con i muscoli sempre più tesi e dolenti spostò la propria attenzione dalla Chimera al veicolo che li stava seguendo, scongiurando il peggio. Deglutì con forza la saliva accumulatasi in bocca, inspirò rendendosi conto di non ricordare l'ultima volta che lo aveva fatto e, quasi sul punto di pregare un Dio che aveva sempre trovato inutile, per non dire inesistente, sterzò.
Il fischio degli pneumatici sull'asfalto fece storcere il naso a tutti. Il cellulare scivolò dalle mani di Colette cadendole tra i piedi e costringendola a chinarsi tra una bestemmia e l'altra. Stava ancora provando a rintracciare Levi, palesemente senza esiti positivi.
Noah sentì il proprio stomaco svuotarsi, il cuore saltare un battito. Per un momento ebbe anche il dubbio di poter perdere il controllo della Thema e finire fuoristrada, ribaltato in mezzo a uno dei tanti campi lì attorno - eppure non accadde. Appena riuscì a rendersene conto, pigiò con forza il piede sui pedali, un gioco veloce tra freno, frizione e poi acceleratore. Se ogni tanto aveva avuto il dubbio di essere il protagonista di un qualche libro per ragazzi, d'un tratto si convinse davvero di esserlo in un film d'azione e, come tale, nell'istante in cui la loro auto iniziò ad avvicinarsi a quella che li aveva seguiti il tempo per l'Hagufah si dilatò. L'incrociarsi avvenne quindi con una lentezza mostruosa, una lentezza che troppo tardi gli fece realizzare quanto stupido fosse stato quel gesto.
Volgendo leggermente lo sguardo sulla corsia opposta si rese conto che il finestrino del veicolo accanto era già abbassato, le due persone sui sedili anteriori girate a loro volta a guardarli. Il braccio del passeggero era teso davanti a quello del guidatore, la mano a mimare una pistola e qualcosa di informe a scivolargli lungo le dita. 

Sgranando gli occhi, Noah riuscì a pensare solo una cosa: Zenas aveva avuto ragione sin dal principio.

Con uno scatto rapidissimo del polso, seguito da una sorta di scossa che fece credere all'Hagufah di perdere coscienza del proprio corpo, il membro del Cultus sparò. Il rumore del vetro in frantumi arrivò dopo la sensazione di essere sfiorato, i cocci gli caddero addosso come gocce di pioggia e, colto dalla paura, Noah inchiodò.
 


 

 

Sanguinaccio: Dolce tipico della cultura contadina italiana a base di sangue di maiale. Il sanguinaccio si presenta come una crema al cioccolato molto setosa. Si preparava (è infatti una ricetta in "via d'estinzione a causa della difficoltà nel reperire l'ingrediente principale, oltre a vari limiti imposti dalla legge) con il sangue del maiale raccolto in un recipiente al momento della macellazione. Il sangue ancora caldo  doveva subito essere mescolato per evitare la coagulazione e poi veniva conservato in un luogo fresco e asciutto. Dopo qualche giorno era necessario colarlo e filtrarlo per eliminare eventuali coaguli che potevano essersi formati durante il riposo.

 

 
 

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Capitolo 64
*** - Capitolo trentacinquesimo - Parte Seconda: L'invito ***




Lo stridio delle gomme sull'asfalto sembrò penetrare i timpani dell'Hagufah come uno spillo e, se non fosse stato troppo impegnato a mantenere il contegno necessario per evitare di uscire fuori strada, avrebbe stretto le palpebre e sperato di essere in un brutto sogno. Si sentiva paralizzato, un vuoto allo stomaco come quando negli incubi si cade da un precipizio - e nel suo caso, quel precipizio fu la consapevolezza che il Cultus non fosse solo una leggenda, men che meno il polveroso nemico nelle menti delle Chimere. Era reale e, soprattutto, i suoi membri erano sulle loro tracce, lì!
Osservando l'auto grigia oltre il parabrezza della Thema, il fiato corto e il cuore a mille nel petto, Noah non riuscì a fare nulla. Il piede ancora pigiato sul freno, le mani strette al volante e il motore silenzioso, forse spento, a rendere tutta la scena surreale. Cosa avrebbe dovuto fare adesso? Dove sarebbe dovuto correre?

Accanto a lui un tonfo sordo, plasticoso, lo colse alla sprovvista facendolo sussultare. Involontariamente si trovò a conficcare le unghie nella gomma del volante e forzare il collo per volgere lo sguardo su un'immagine che lo preoccupò più della presenza degli alchimisti.
Colette si stava rialzando dal tentativo di recuperare il cellulare caduto, i capelli scombinati e vere e proprie piume a coprirle come una maschera i lati degli occhi, ora completamente oscurati dalle iridi.  Sembrava una erinne pronta alla guerra, una dea mitologica travestita. Noah non aveva mai visto una sola delle Chimere in uno stato di mutazione tanto avanzato e ne ebbe timore. Più notava la furia montare in lei, più fu ovvia la piega che avrebbe preso la situazione di lì a poco. E vista la reazione di Zenas, ebbe la certezza di non essere il solo ad aver previsto il futuro peggiore.
«Akhòt, zeh lo hazem- (non è il moment-)»
Lei soffiò, o comunque emise un verso animalesco che zittì all'istante il fratello. Fu in quell'istante, soffermandosi sulle sue labbra, che l'Hagufah notò una striscia rosso cangiante sul mento della donna. Era una linea netta, viva, pulsante. Era la traccia lasciata dalla pallottola che avrebbe dovuto colpirlo - e che invece aveva quasi fatto saltare la mandibola di Colette.

«Az matay?(allora quando?)» aveva artigli lunghi e affilati la cui base, la zona più vicina alle cuticole, tendeva a un raccapricciante tono di nero. Sembravano sporchi, eppure il primo pensiero di Noah fu rivolto alle zampe di un enorme rapace; il secondo fu afferrarle la mano e trattenerla. Lo fece.
«Non ci pensare nemmeno» non aveva previsto tutto quel tremore nella propria voce. A malapena aveva creduto che aprendo bocca sarebbe uscito alcun suono.
Colette non lo guardò. La sua attenzione era rivolta verso la vettura davanti a loro.
Dal sedile posteriore, Zenas gli afferrò il braccio scollandoglielo in modo che lasciasse perdere la sorella: «Fai inversione, adon. Sbrigati!» e come un'eco Niko aggiunse "andiamo via, muoviti!" spaventato quasi quanto si sentiva Noah.
Sì, pensò, non doveva soffermarsi su di lei, non sarebbe stata tanto folle da buttarsi da un'auto in corsa se si fossero messi in moto, no? A guardarla, però, l'Hagufah non ebbe la certezza di poterla definire così ponderata.
Di fretta girò le chiavi nel quadro d'accensione. Di risposta solo un gorgoglio per nulla rassicurante. Forse non stava premendo abbastanza la frizione, si disse, ma non era sicuro vi fosse altro margine tra la leva del pedale e il fondo del cruscotto.
Colette sembrò puntare alla maniglia della portiera e il panico lo assalì alla stessa velocità con cui Nikolaij fece passare il braccio accanto al suo, premendo il tasto della sicura e sigillandoli dentro l'abitacolo. Lo sforzo per tenerlo bloccato evidente sulla sua mano paffuta. Noah colse quell'occasione al volo e, mentre la Chimera accanto a lui sembrava bestemmiare in tre lingue differenti, lui fece un nuovo tentativo. Stavolta il motore ruggì, come il suo cuore al pensiero di poter fuggire.

Gioia breve, ovviamente.

Prima ancora che qualcuno di loro potesse realizzarlo, un urto al posteriore costrinse la Thema a piroettare compiendo un movimento testa-coda che li fece sbattere l'uno contro l'altro e contro l'interno della carrozzeria.
La testa di Colette picchiò contro il torace dell'Hagufah procurandogli una scossa, poi colpì il vetro. Il mugolio della Chimera si confuse con lo strillo di Niko e il battito amplificato di decine di volte del cuore di Noah.

Glielo avevano detto. Lo aveva già visto a Vienna: il Cultus non si sarebbe fermato. Eppure una parte di lui, forse quella che ancora apparteneva solo a Noah Dietrich e non a Salomone, aveva creduto che la bolla in cui stavano vivendo non sarebbe mai scoppiata.

Stolto.

Quando l'auto smise di muoversi ed ebbe il coraggio di aprire gli occhi, l'Hagufah si accorse di come, d'improvviso, erano in trappola. Nessuna nuova via di fuga, solo la coscienza di essere fottuti e tanta, troppa paura.
Gli alchimisti alla guida della prima auto erano già scesi, sicuri si muovevano verso di loro alla luce del sole come se non vi fosse alcun pericolo di essere scoperti. Erano in due: un uomo brizzolato, con barba e baffi ben curati, e un ragazzo che avrebbe potuto essere suo figlio. Era stato lui a sparare, pensò Noah riconoscendo la mano nuda.
«E-e or-ora?» Non riuscì a deglutire. La gola così secca che ebbe paura la pelle potesse spaccarsi dall'interno.
Accanto a loro, meno distanti dai colleghi, altri due alchimisti fecero il loro ingresso in scena sbattendo le portiere. Il muso della Jeep provato dall'impatto quanto la tempia di uno dei suoi passeggeri - eppure tutti e due ancora abbastanza integri da potersi muovere.

Merda. Merdamerdamerda!

Fu per l'ennesima volta Colette ad agire. Senza proferire parola sganciò la cintura di sicurezza, emettendo l'insolito verso di poco prima, e con il gomito sfondò il finestrino. Insieme al rumore dei cocci e al sussulto di Nikolaij, a Noah parve di sentirle dire "Li ammazzo" e, d'istinto, gli venne d'afferrarla ancora. E se fosse stata lei quella a rimanerci secca? Poteva davvero concederle di andare da sola all'attacco? Poi il rumore della sicura che si sganciava accanto a loro lo fece trasalire.
«Anakhenu yekholim la'assot et zeh (possiamo farcela)» la voce profonda di Zenas lo colpì come un pugno e il desiderio di ordinare loro di non muoversi gli tese le corde vocali senza però uscire.  «Sheloshah neged areba (tre contro quattro)» lo sentì aggiungere, considerando davvero lo scontro. Lo guardò sgranando gli occhi, incapace di comprendere come da un piano di fuga fossero passati a quell'opzione.
«Tu sei ferito!» gli urlò, come se potesse in qualche modo fargli cambiare idea. Akràv di risposta serrò la mandibola, la pelle tesa sui muscoli contratti divenne quasi lucida. Stava mutando anche lui, chiarendo il fatto che non si sarebbe fermato nemmeno di fronte a quel dettaglio. «No, akh, non puoi davvero-» ma le sue rimostranze incontrarono solo l'aprirsi della portiera. In un attimo Zenas fu fuori. Incredulo, l'Hagufah spostò lo sguardo su Colette, mostruosamente bella ed esaltata. «Ti prego, Wòréb...» nemmeno la presa intorno al suo polso fu sufficiente. Lo strattonò tanto che Noah sentì la leva del cambio provare a infilzargli il torace, il viso a sfiorare la pelle calda del sedile. In un attimo anche lei fu fuori.

No, pensò. Non poteva permettere loro di rischiare la vita. Con un nodo in gola si volse verso la sua ultima speranza: Nikolaij. Era ancora fermo sul sedile, le sopracciglia corrugate e la tensione a fargli stringere i denti. Almeno lui non era sceso. Almeno lui...

«Adon, tu resta qui, okay?»
«Non vorrai...?» svelto si tirò su: «E' una follia, lo sai, vero?»
Niko scrollò le spalle: «Sono pochi e noi notevolmente più forti e preparati. Possiamo farcela finché tu resti al sicuro.» Un sorriso a labbra strette gli si appollaiò sul viso. Se doveva essere un modo per rassicurarlo, beh... stava davvero fallendo. Il cuore di Noah sembrò accelerare ancora e forse, se fosse stato da solo, altrove, avrebbe persino pianto.

 

Zenas prese un respiro profondo. Sapeva che con la gamba ancora dolorante avrebbe potuto far ben poco, ma era certo che Colette e Nikolaij sarebbero stati in grado di sopperire alle sue mancanze. L'unica cosa importante era proteggere il Re, a qualsiasi costo. Lo sapevano tutti e tre ed era sicuro che i fratelli avrebbero fatto tutto il necessario per permettere a Salomone di scappare. Certo, se Levi avesse risposto...
Uno degli alchimisti, il più vecchio, sorrise. Allargando le braccia si rivolse a tutti e nessuno in particolare. «Che onore. Che magnifico onore vedervi dal viv-» Fu Wòréb a interromperlo - o meglio, a sputare a terra in segno di evidente ribrezzo e disinteresse.
«Spero fosse sulla lista dei vostri ultimi desideri, allora.» Lo imbeccò, provocando agli adepti del Cultus un sussulto. Da dov'era, Zenas le vedeva solo spalle e schiena, ma non dubitava che stesse sorridendo loro in quel suo insolito modo macabro, da folle. Se qualcuno, tra loro, poteva spaventarli, quella era di certo Colette.
Anche Niko a quel punto scese dalla Thema.

Perfetto, pensò. Ora che erano tutti e tre schierati potevano iniziare le danze, e meno tempo ci avrebbero impiegato più chance di mettere al sicuro Noah avrebbero avuto. Il problema, a giudicare dalla situazione, era però iniziare. Colpire per primi era una scelta poco saggia, avrebbe infatti significato diventare preda, mentre loro dovevano restare predatori. Zenas allora si morse il labbro inferiore e strinse i pugni lungo i fianchi: «Quindi? Siete qui per guardarci e basta? Se ci lasciate i numeri vi mandiamo anche qualche selfie.» Uno degli alchimisti quasi si strozzò con una risata. Tutti si volsero verso di lui con evidente confusione e rimprovero nello sguardo. Il più vecchio mosse un passo in avanti, il suo secondo puntò la mano come se fosse una pistola - intorno alle dita qualcosa di liquido gli si muoveva come un animale. Doveva essere una qualche sorta di metallo, valutò la Chimera. I pochi progressi che quei dementi erano riusciti a fare negli anni erano sempre correlati a qualche lega metallica, alla roccia o all'acqua. Certo, per loro riuscire a compiere una trasmutazione di quel tipo doveva sicuramente essere stato un gran traguardo, ma a conti fatti nulla di particolarmente significativo.

«Simpatico, davvero...» l'alchimista sorrise. Aveva uno sguardo febbrile e una cicatrice che spuntava da sotto la giacca risalendo di qualche dita lungo il collo. Sembrava un graffio, una ferita che in passato aveva già visto addosso a qualche altro cadavere. Per un istante gli ricordò gli attacchi di Hamza, il modo in cui i suoi artigli lasciavano strisce lunghe e delicate, seppur letali. L'uomo compì un altro passo nella loro direzione e le spalle di Colette parvero fremere, distraendo Akràv dai propri pensieri. «Ma credo sappiate perché siamo qui.»
«"Cosa facciamo stasera, Magister?"» la vocina di Niko prese qualche nota troppo alta, canzonatoria: «"Quello che facciamo tutte le sere, miei seguaci! Cerchiamo di acciuffare le Chimere!"» aggiunse in tono più grave. Sembrava una sorta di citazione, ma nessuno a parte lui parve coglierla. Fu in quel momento, nella distrazione generale, che Colette agì. Zenas la vide scattare in avanti, come se stesse per attaccare. Il cuore gli si strinse nel petto tanto da fargli perdere cognizione di come respirare - eppure la sorella non si mosse veramente. Il suo fu solo un passo, eppure lo spavento di poter essere attaccati fece agire il più giovane tra gli alchimisti. Stringendo gli occhi fece fuoco, mirando a chissà quale punto in direzione di Wòréb. Lei schivò con fin troppa facilità e in un attimo gli fu addosso. Il colpo prese in pieno lo specchietto sul lato passeggeri mandandolo in frantumi. Con la coda dell'occhio Akràv vide Noah sussultare all'interno dell'abitacolo e aggrapparsi con forza al volante. Se solo fosse stato Salomone... pensò nell'istante prima di lanciarsi a sua volta verso i nemici. Se al posto dell'hagufah ci fosse stato il Re non avrebbe dovuto temere. Salomone sarebbe stato in grado, seppur meno delle sue creature, di difendersi, di trasformare quella pallottola in liquido innocuo prima che potesse colpire chiunque di loro. Salomone avrebbe aiutato mentre Noah... scosse la testa. Non era né il momento né il luogo per simili considerazioni. Noah era quello che era, ma un giorno, se fossero usciti vivi da lì, sarebbe tornato a essere molto di più.
Davanti a lui, intanto, Colette tentava di affondare gli artigli nella gola dell'alchimista, peccato che quel pidocchio sapesse combattere. Muoveva calci e pugni con sapienza e lei, che probabilmente non aveva più avuto alcuno scontro corpo a corpo da quasi trent'anni, non riusciva a trovare un punto in cui colpire.
Anche Niko si era lanciato all'attacco. Dal lato opposto, verso i due adepti che li avevano tamponati, si destreggiava con sicurezza evitando un attacco dopo l'altro. Il fatto di essere tanto piccolo e esile si sposava alla perfezione con la sua natura di ratto.

A lui, invece, era rimasto il vecchio. Occhi negli occhi avevano entrambi decretato chi fosse l'obiettivo. Zenas si fece sempre più vicino, i pugni pronti, la colonna vertebrale sul punto di diventare un pungiglione. Non gli stava correndo incontro, non ci sarebbe riuscito, ma provò comunque a muoversi il più velocemente possibile - peccato che l'altro stesse ponderando in egual misura le proprie mosse.
D'improvviso lo vide battere la scarpa a terra per tre volte e il terreno sotto i piedi iniziò a vibrare, l'asfalto si fece molle e le suole sembrarono appiccicarsi al catrame. Ogni passo divenne più difficile e i muscoli dovettero sforzarsi per permettergli di avanzare. La prima fitta allo stinco lo tradì. Per quanto le Chimere non percepissero il dolore come gli umani, un osso spezzato era comunque un danno serio - e le poche ɛvɛn che aveva ingerito in quei giorni non sembravano aver sortito il giusto effetto. Sì, la pelle si era rimarginata ed era rimasto solo un livido, la frattura aveva iniziato a calcificare, ma era ancora un punto dolente - e sforzarlo in quel modo non avrebbe giovato.

«Potreste seguirci risparmiandovi questa fatica» sentì urlare nella sua direzione. Rabbioso alzò lo sguardo sull'uomo. Possibile che li credesse tanto sciocchi o stanchi? Possibile che pensasse veramente che anche uno solo di loro fosse disposto a diventare una cavia? Non avevano alcuna empatia, questo era certo. Fece per rispondergli, ma come un'apparizione vide l'ombra di Colette spuntare alle spalle del suo nemico. Lo sguardo isterico, gli artigli grondanti sangue. Lo stomaco di Zenas si contorse, il sollievo pronto a sciogliere il nodo una volta che il terreno avesse smesso di ostacolarlo. Wòréb era davvero una pazza, una furia senza freni. Come avesse fatto a starle lontano per tutto quel tempo un dubbio a cui mai si sarebbe dato risposta.
La vide calare la mano sull'uomo, il sorriso immenso e terribile, la mutazione al suo massimo - poi più nulla. O meglio, solo le sue dita artigliate bloccate dentro una lastra scura e disomogenea, tanto densa da impedirle di sfilarle via.

I piedi di Akràv affondarono maggiormente, come se fossero finiti in mezzo a delle sabbie mobili. No, pensò. Non poteva permettere a quel farabutto di fregarlo così.
Grugnendo e stringendo i denti fino a farsi male, fece uscire dalla pelle la propria coda. Il brivido della carne lacerata e la sensazione viscosa del sangue a soffocare il dolore. In un attimo il pungiglione si conficcò in un punto solido, tirandolo lontano e permettendogli di sfuggire all'affondo.
Da qualche parte oltre il muro, gli insulti di Colette divennero un tutt'uno con i suoi.

«Resistere è inutile...» Estremamente affascinato, il vecchio sfiorò col polpastrello un artiglio ricurvo che spuntava alle sue spalle. Sembrò studiarlo, soppesarne l'affilatezza, poi, senza preavviso, diede un colpo secco verso l'alto e il suono di un osso rotto fece rabbrividire Zenas. Dalla bocca di Wòréb, invece, nemmeno un gemito.

Furente, Akràv cercò Nikolaij con lo sguardo e, d'improvviso, scorse un nuovo alchimista. Da dov'era spuntato? Perché era rimasto nascosto fino a quel momento? Ce n'erano altri?
Mordendosi la lingua, tentò di studiare un piano d'azione.
«E' arrivato il momento di accettare il nostro invito, il Magister non vede l'ora di-»
«Vedere altri adepti ridotti a cadaveri?» lo interruppe rimettendosi in piedi: «Quanti di voi sono rimasti? Immagino pochi.»
L'alchimista si allontanò dalle dita di Colette, muovendosi più vicino a lui e alla Thema. Per un momento il panico assalì la Chimera. Lo stava sì distraendo dalla sorella, ma non poteva permettersi di farlo avvicinare troppo all'Hagufah. L'altro piegò la testa da un lato, sorridendo con una sicurezza che a Zenas diede sui nervi: «A sufficienza da poterci occupare di voi, se è questo che ti preoccupa.»
Un mugolio poco distante, familiare, per poco non costrinse Akràv a voltarsi: Niko doveva essere stato colpito. Quanto fosse grave l'attacco subito restò un dubbio a cui si impose di non rispondere. Distrarsi, in un momento del genere, avrebbe potuto essere fatale. Che fare? Con Colette bloccata oltre al muro di asfalto e Niko, il meno preparato di loro, circondato da ben tre alchimisti la situazione stava d'improvviso prendendo la peggiore delle pieghe. Doveva pensare a un piano. Uno qualsiasi, solo funzionante.

«Guarda tutti voi, Chimaeram (chimera, latino)» L'uomo allargò le braccia un'altra volta, tronfio a tal punto che se fosse stato colpito probabilmente sarebbe scoppiato: «Non siete più le creature di una volta, avete bisogno di noi.» Un altro suono di ossa rotte fece storcere il naso di Zenas. Nikolaij doveva essere seriamente in difficoltà, ma come agire? Il terreno davanti a lui era ancora molle, la sua coda non sufficientemente lunga da poter colpire quello spocchioso alchimista. Perché diamine non c'era Levi lì con lui? Di certo non sarebbero arrivati a quel punto. «La scomparsa di Salomone vi ha provate, ma il Magister, lu-» un'ombra scura comparve alle spalle del vecchio, i suoi occhi sgranati come a percepire il pericolo; le labbra schiuse a metà della frase e poi... lento, un rivolo di sangue gli scivolò al lato del collo, passando come un ruscello sopra alla cicatrice.
Il suo corpo cadde prima in ginocchio con un tonfo sordo, poi di faccia sull'asfalto ancora morbido, emettendo un rumore simile a quello di una torta calpestata. Akràv impallidì. Quando alzò lo sguardo, Colette stava già per sputare una seconda volta.
«Quante» respirò affannosamente: «parole inutili.»
Una sensazione di totale sollievo investì Zenas e l'urgenza di correrle incontro e abbracciarla gli fece muovere un passo, poi un altro, ma all'ennesimo mugolio di Nikolaij dovette fermarsi.
Il fratellino era a terra, una chiazza rossa lungo il fianco, il fiato grosso e la paura nello sguardo. Fu come rivedere Niketas. Il volto di suo figlio si sovrappose a quello di Akhbar, il suo bisogno di protezione a cancellare ogni altra necessità. I piedi di Zenas cambiarono direzione, si mossero svelti per raggiungerlo il più in fretta possibile, poi un altro urlo soffocato lo colse a tradimento insieme all'ennesimo tonfo. Le suole delle scarpe raschiarono l'asfalto, il suo cuore balzò in gola. Che stava succedendo? Il suo sguardo baluginò da un fratello all'altro, scoprendo Wòréb a terra, prona, di fronte alla lastra che l'aveva imprigionata poco prima. Qualcuno doveva avercela scaraventata, ma chi? Quale alchimista aveva osato... Piegato sulla strada, con un sorriso soddisfatto sul viso, l'ultimo adepto comparso sembrò rispondere alla sua domanda. 
Una rabbia incontrollata gli montò nel petto e senza alcuna remora, ignorando qualunque cosa non fosse quel tipo, gli si fiondò contro. I loro sguardi si incrociarono, la consapevolezza della morte a oscurare il viso del suo bersaglio che, arrendevole, non tentò in alcun modo di sfuggirgli. Zenas lo vide stringere qualcosa, poi muovere la mano sull'asfalto come a mimare il movimento di un'onda. Un'altra vibrazione scosse il terreno giusto l'istante prima che riuscisse ad afferrare quell'inetto per il collo e picchiargli la testa contro il muso della Jeep. Le pulsazioni nella carotide dell'alchimista dettarono il ritmo dei colpi con cui la Chimera si accanì su di lui; ma il sangue sulla carrozzeria continuava a essere troppo poco, il corpo troppo caldo, il battito troppo vivo. Doveva ammazzarlo, prima lui e poi gli altri due, si ripeté. Doveva farlo per il bene dei suoi fratelli e dell'Hagufah, non aveva altre alternative.


Un fruscio poco distante fece scattare il pungiglione alle spalle di Zenas. Mosso dall'istinto lo scagliò contro una delle figure lì accanto, ma l'alchimista fu abbastanza veloce da evitarlo. Akràv non demorse e mollando la presa sul cadavere si gettò sui nemici rimasti, la gamba a intralciarlo con qualche fitta lieve e l'odore pungente della morte ad accompagnare i suoi movimenti. Colpì e colpì ancora senza però riuscire ad arrivare al bersaglio, troppo distante o forse troppo lento. Non riusciva a capire il motivo di tanta difficoltà finché, nella foga, non finì con l'incastrarsi nella lamiera di una delle portiere. Un'imprecazione soffocata gli scappò dalla gola.
Possibile che con Alexandria fosse riuscito a mettere al tappeto quattro di quei fanatici e ora, con Nikolaij e Colette, quei cinque stavano avendo la meglio?
L'adepto più vicino puntò il braccio, il palmo rivolto verso l'alto e una piccola quantità d'acqua a riflettere il sole del tramonto. Gli bastò arricciare il naso perché la pozzanghera si trasformasse in tanti piccoli spilli di ghiaccio che poi volarono nella sua direzione. Zenas tentò di schivarli alla bene e meglio. Quelli che colpirono la coda rimbalzarono sulla corazza saettando altrove, ma un paio riuscirono a trovare uno spiraglio nella carne. Non sentì dolore, quanto più un bruciore lieve, ma ciò non significava che potesse prendersela comoda. Con rinnovata furia si volse, puntò il piede sulla carrozzeria dell'auto e fece leva. Spinse più e più volte mentre la sensazione di fastidio aumentava e quando fu certo che il colpo successivo sarebbe stato ben più studiato, scardinò la portiera lanciandola addosso all'alchimista. Il contraccolpo sembrò quello di una campana e l'uomo ruzzolò lontano, scomposto. Se non lo aveva ammazzato sul colpo, pensò, doveva almeno avergli tolto la possibilità di muoversi fino al giorno in cui non avesse tirato le cuoia.
Con soddisfazione sorrise all'ultimo alchimista, impegnato a puntare le dita alla faccia di Niko come a volerlo minacciare con un "se ti muovi, lo ammazzo", peccato che la punta di paura nel suo sguardo ne tradì gli intenti. Sapevano bene entrambi che non avrebbe ucciso in quel modo una Chimera, erano troppo importanti per i fini ultimi del Cultus - e di certo quel verme non avrebbe rischiato di perdere una simile occasione. Zenas allora si pulì il sudore tra naso e bocca, barcollando appena. Era pronto ad attaccare ancora perché, a differenza del nemico, a lui non importava affatto di portare a casa un ostaggio vivo. Poteva farcela, considerò, dopotutto erano uno contro uno e nessun altro a mettersi in mez- 
Un dolore lancinante lo piegò in due. La mano corse da sola verso la spalla e quando la toccò sentì la viscosità del proprio sangue colare in mezzo alle dita. Cosa diamine era stato?

«Akh!» Il grido di Wòréb lo arpionò, costringendolo a voltarsi verso di lei esterrefatto. Era stato colpito, questo gli fu chiaro ancor prima di vedere l'orrore sul viso della sorella, ma da chi e come, erano tutt'altro discorso.
Quando Colette entrò nel suo campo visivo la scoprì imprigionata tra la lastra di asfalto del vecchio e quello che sembrava essere un guscio scuro, una corazza inamovibile. Il busto era parzialmente bloccato, dal polso sinistro fino al seno e su in direzione della spalla opposta non vi era per lei possibilità di fuga; con poca forza agitava le gambe in una vana speranza di spingersi fuori dall'involucro e il braccio destro se ne stava abbandonato lungo il fianco, le dita della mano gonfie e in posizioni che non lasciavano presagire nulla di buono - quella stupida doveva essersele rotte durante lo scontro precedente. Da dove si trovava, Wòréb lo guardava con occhi sgranati e pieni di lacrime, terrorizzata, forse più di lui. Un groppo in gola provò quindi a soffocarlo. Qualcosa di terribile li stava aspettando, ma cosa? Inoltre chi diavolo era rimasto in vita e in grado di fargli q-
«Vattene! Subito!» La voce della donna tirò l'uncino con cui l'aveva afferrato la prima volta, riportandolo ancora coi piedi per terra. Zenas la guardò, ferita e spaventata, ma non arresa: «Portalo via!» Le sentì aggiungere mentre le piume sul suo viso cadevano una dopo l'altra, esattamente come le lacrime. «Porta via Noah!»
Per un breve momento gli sembrò di non capire. Perché avrebbe dovuto farlo? Sarebbe bastato ancora poco e avrebbe ucciso anche l'ultimo alchimista, non c'era ragione per fuggire. Ma forse, a differenza sua, Colette sapeva qualcosa che a lui stava  sfuggendo - e quando il  terreno sotto di lui sembrò ricominciare a vibrare la consapevolezza che un altro gruppo di alchimisti stesse per arrivare lo fece scattare. 

Il Re!, pensò, doveva portare in salvo il Re  per evitare che la tragedia si ripetesse, ma... lei? Che ne sarebbe stato di sua sorella? Doveva liberarla, o quantomeno provarci. Dovevano tornare a casa insieme, fuggire e recuperare il tempo perso. Dovevano proteggere il loro Sovrano l'uno al fianco dell'altra così come avevano promesso, ma prima che potesse anche solo pensare di muovere un muscolo verso di lei, Colette capì - e lo anticipò. «No!» la voce parve graffiarle la gola, un verso fastidioso per tutti, soprattutto per lui. «Non io, akh!» Il suo sguardo gli si parò davanti come un macigno irrimovibile: «Nadareta nadar, Akràv (hai fatto un giuramento, Akràv). Lui
Alle sue spalle un rantolo, Nikolaij intento a ribellarsi, forse a colpire e uccidere. Potevano farcela, pensò, se solo lei... «Vai!»

Zenas scosse il capo: «Non puoi chiedermi-»
«Lo shoel otekha, akh (non te lo sto chiedendo, fratello).» Colette suonò imperiosa. I suoi ordini sempre più laceranti. Stava davvero dicendo di lasciarla indietro? E se fosse stato l'ennesimo cedimento della sua testa? Se se ne fosse pentita nell'istante esatto in cui lui avesse adempiuto al giuramento?
Un altro colpo fendette l'aria, la Chimera avvertì il sibilo sfioragli l'orecchio e superarlo. Erano lì, realizzò con una fitta nel centro del petto; erano vicini, troppo. Forse sua sorella aveva ragione. Forse non ci sarebbe stato scampo, non avrebbe avuto altra occasione per rimediare all'errore del passato, per salvare Salomone; così chiuse gli occhi, ricacciando indietro le lacrime. Non avrebbe voluto, ad essere onesto, perché una voce dentro di lui continuava a urlare che non poteva davvero finire in quel modo, che forse lottando e sfidando i limiti del suo corpo avrebbe potuto salvarli tutti, eppure un'altra parte di sé gli disse che non c'erano altre soluzioni. E nel dubbio, osare sarebbe equivalso a un rischio troppo grande.
Zenas si morse la lingua tanto da sanguinare. Doveva a sua sorella la felicità che le aveva tolto, non la morte, e nonostante questo mosse un passo indietro.
«Noah!» chiamò lei con tutta l'aria che aveva in corpo rivolgendosi a qualcuno di molto più potente, qualcuno che avrebbe davvero potuto piegare la volontà del fratello: «Ordinaglielo! Andate via!» Ma dall'abitacolo della Thema l'Hagufah non sembrò in grado di proferire parola. Anche per lui quello spettacolo doveva essere raccapricciante, inaccettabile, doloroso.
«Cole-» tentò di persuaderla mentre il tempo scivolava dalle loro mani come polvere, ma lei non lo ascoltò. Per l'ennesima volta si sporse digrignando i denti. «Vattene!» gracchiò, sempre più umana, sempre più fragile. Stava cedendo al destino, alla cattura, ma non al Cultus. Quello mai. Si sarebbe uccisa, così come avevano promesso, ma a vederla in quello stato, con una mano rotta e l'altra bloccata, Zenas si chiese quando
Un'altra vibrazione attentò al suo equilibrio e la gamba dolorante lo costrinse a fare ancora un passo indietro. Non c'era più tempo, pensò, e un verso gutturale e iracondo emerse dalle viscere del suo corpo ferendogli la gola. Aveva giurato: Salomone prima di tutto, anche di sé stessi - anche dei suoi fratelli. 
Colette tentò un sorriso, un abbozzo di approvazione. Le venne qualcosa più simile a un ghigno riluttante. Il pugno di Akràv colpì con violenza la Jeep ormai ridotta a uno scatafascio lasciando un solco: «Khakeh li geyhinom (aspettami all'inferno)» soffiò nella speranza che il vento le portasse quelle parole, che sapesse quanto bene le volesse, quanto quell'addio fosse lancinante. Costringendosi a procedere, ad agire come il soldato che era diventato, girò le spalle a Wòréb mentre le prime lacrime presero a scendergli lungo le guance, impigliandosi nella barba incolta così come la sua coda sembrò fare con la pelle. Le falcate si fecero sempre più lunghe e veloci, seppur mai realmente decise. Per il Re, si ripeté ogni volta che i piedi toccavano nuovamente terra. Con la coda dell'occhio scorse Niko poco lontano, intento ad azzannare con i suoi dentini da roditore il braccio del nemico, a schivare i pugni e le ginocchiate. Non si fermò ad aiutarlo, nemmeno gli venne in mente di farlo - appena l'auto fosse stata messa in moto li avrebbe raggiunti sgattaiolando via dallo scontro.

Zenas picchiò col palmo sul cofano, Noah all'interno della Thema sussultò, ridestandosi da quello che sicuramente avrebbe definito come un incubo. In un attimo gli fu seduto accanto.
«Accendi!» tuonò: «Muoviti!»
«M-» Sopraffatto, Akràv lo afferrò per il bavero della maglia, strattonandolo. Occhi negli occhi, vide il terrore oscurare lo sguardo dell'Hagufah e per un brevissimo istante si chiese se anche nel suo ci fosse tutta quella paura.
«Dobbiamo andare, ti prego.»
«L-lei...»
«Noah!» ancora uno strattone: «Noah... non abbiamo scelta.» Ma anche se l'avessero avuta, difficilmente avrebbe messo a repentaglio quel ragazzo. Lo scorse esitare, aprire bocca per poi richiuderla, deglutire. Tremante lo vide afferrare la chiave: «L-la salveremo, ve-vero?»
Il cuore della Chimera perse un colpo. C'era così tanta innocenza e speranza nella sua voce che gli sembrò di soffocare.
No, non l'avrebbero fatto. 
No, per Colette non c'era più alcuna speranza perché se non l'avessero uccisa gli alchimisti, avrebbe fatto lei tutto il lavoro. Sapeva come. Salomone e Levi stessi lo avevano spiegato a ognuno di loro.

La presa sulla maglia di Noah si affievolì, il palmo di Zenas trovò la base della sua nuca e spinse per avvicinare i loro visi: «Sì» soffiò, «noi ci riprenderemo Colette.» Fu una bugia così grande e una speranza già morta che temette l'Hagufah potesse rendersene conto, leggergli dentro, capire e decidere di fare qualcosa di stupido - poi il rumore del motore gli riempì le orecchie.

Avrebbe voluto dirsi sollevato. Si sentì ancora più vile, colpevole, infame...
Mollò la presa su Noah, lasciandolo fare il suo dovere.
Con un'abilità che fino a quel momento non era sembrato appartenergli, l'Hagufah compì una manovra veloce, rimettendo l'auto in direzione di casa. Il terreno sotto di loro vibrò, l'auto sembrò affondare. «Vai!» gli ordinò afferrandogli la coscia prima di voltarsi verso Nikolaij: «Akh! Temaher! (sbrigati!)» Questi scartò di lato, evitando un pugno. Agile scivolò accanto al nemico, gli passò dietro la schiena e si piegò in avanti per uno scatto. Come in fuga da un predatore, si lanciò verso l'auto, la salvezza, la tana tanto agognata.
L'auto iniziò a muoversi lenta, in modo da non perdere tempo ma permettere comunque a Niko di raggiungerli.
L'ennesimo scossone. Zenas si volse per guardare il fratello. Quanto ci stava mettendo?
Lo vide agitare le braccia, usarle per darsi la spinta. Alle sue spalle l'alchimista intento a fermare il sangue che gli colava dalle numerose ferite. Oltre, un'altra auto diretta verso di loro. Dovevano muoversi.

 

D'improvviso Nikolaij si coprì la testa con le mani e il lunotto della Thema scoppiò. Noah emise un grido, lo spavento gli fece pigiare di più sull'acceleratore.

Cazzo.
Cazzocazzocazzo! 
«Muoviti!» ma i piedi di Akhbar sembrarono smettere di collaborare, mettersi scoordinatamente l'uno davanti all'altro e-

In un attimo lo vide a terra.
No, non anche lui. 
Zenas fece per lanciarsi fuori dall'auto, il cuore in gola, la paura alle calcagna e la certezza di morire al seguito, ma l'ennesimo urlo di Colette, così alto da poterlo raggiungere, lo raggelò.

«Avor hamelekhe, akh! (per il Re!) Et khayeynu avuro! (le nostre vite per lui)»
I denti riaffondarono nella lingua. Il sapore del sangue ovunque: in bocca, lungo la gola, nello stomaco, sull'anima.

Digrignando i denti premette la mano sul ginocchio di Noah, lo costrinse a premere sull'acceleratore e a lasciarli indietro. Lo sentì provare a obiettare. Gli urlò contro. Lo scorse muovere il piede in direzione del freno. Lo bloccò mostrandogli i denti.

Per il Re, pianse tra i pensieri.
Colette e Niko per lui.

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Capitolo 65
*** - Capitolo trentacinquesimo: L'invito - Parte Terza ***




 

"No compromise as I fight to break the cycle
And bring an end (to this suffering)
I'm a shadow, a black out, a storm in the background
(One man's whisper is another's scream)
Forsaken, I walk the night alone
No sanctuary
No place for me to call my home"

Break the Cycle, Motionless in white


C'erano state alcune grida e diverse bestemmie.

C'erano stati fiati mozzati e cuori in frantumi nel giro di pochissimi istanti.
C'era stata una sedia riversa a terra, poi un tavolo e per poco una porta sfondata in qualche stanza della casa a cui i suoi occhi non poterono accedere, non subito almeno.

C'erano state tante cose in quella manciata di minuti, ma non lacrime. Non da parte delle Chimere, quantomeno. A differenza loro, lui non era riuscito a guardare Alexandria e Levi negli occhi senza piegarsi in avanti e vomitare. Sul selciato innanzi alla casa aveva rigurgitato tutto ciò che aveva nello stomaco e le lacrime si erano mischiate con lo schifo. Non era servito altro. O forse si erano guardati negli occhi, loro e Zenas, e il tutto era stato chiaro.
Levi era rientrato in silenzio. Per qualche istante non si erano uditi altro che i conati di Noah, poi era arrivata la rabbia. Per ogni oggetto rotto, un'imprecazione. Per ogni imprecazione, un verso furioso.

Alex era rimasta tremante sotto il portico per poco, lo sguardo perso in qualche punto indefinito vicino alla chiazza di vomito. All'Hagufah era sembrato che lei fosse sul punto di piangere, invece aveva scosso veemente la testa e aveva dato loro le spalle.

Tirandosi su, il primo pensiero di Noah era stato quello di inseguire lei e il fratello, ma Zenas aveva scosso il capo e sussurrato un semplice "sbrighiamoci". Sanguinava da una spalla e aveva il viso segnato da sudore e sporco, i vestiti rovinati. Barcollando lo aveva preceduto in casa e lui aveva confusamente seguito i suoi passi, uno dopo l'altro senza riuscire a mettere insieme un pensiero di senso compiuto. Cos'era successo? Si chiese. Come avevano fatto, dall'essere in vantaggio, a ritrovarsi in quella situazione? Non riusciva a capire. In qualche modo gli sembrava essere vittima di un incubo, di un trip sbagliato. Quasi per trovar sostegno, si aggrappò allo stipite dell'ingresso. Avevano davvero lasciato indietro Colette e Nikolaij? Con che coraggio? Per quale motivo? Non avrebbero forse dovuto...?
Incurante del lerciume e del sangue rappreso che lo ricoprivano, Akràv si lasciò cadere sul divano, esausto. Un sospiro gli si riversò fuori dalle labbra seguito da un verso dolorante. Noah lo vide socchiudere gli occhi e deglutire con forza, il pomo d'adamo a percorrere su e giù la gola. Levi gli stava seduto di fronte, le mani a tirare indietro i capelli e gli occhiali da sole distrutti ai suoi piedi. Sembrava davvero un brutto trip, perché nessuno avrebbe mai reagito a quel modo; nessuno, davanti a ciò che era accaduto loro, si sarebbe semplicemente seduto in salotto - eppure eccoli lì. Tesi, certo, ma non abbastanza, decretò.
«Che state facendo?» chiese loro in un sussurro e continuando a tenersi alla parete, un po' com'era accaduto la prima volta che aveva messo piede in quell'edificio. Le dita di Levi si strinsero, tirando maggiormente i capelli. «Che diamin-» Alexandria spuntò dalla cucina con in mano un catino d'acqua calda e tra i denti un panno. Noah la fissò avvicinarsi al fratello, sederglisi accanto ed esaminare la ferita in completo silenzio. Con attenzione gli sfiorò la zona intorno al foro d'entrata di quello che pareva essere un vero e proprio proiettile, poi rialzarsi e sparire ancora una volta chissà dove. Nessuno osava dire nulla, quando in realtà ci sarebbero state mille cose da urlare - e più guardava le Chimere, meno gli sembrò che qualcuna di loro l'avrebbe fatto.
Titubante provò a staccarsi dalla parete, muovere un passo, ma la figura svelta di Z'èv gli corse davanti tagliandogli la strada per tornare da Zenas. Stavolta tra le mani stringeva una scatola di alluminio dall'aspetto estremamente datato.
Con dolcezza fece piegare il fratello e con altrettanta premura gli sfilò la giacca di jeans, poi la maglia. Aveva i muscoli delle spalle ancora tesi, la colonna vertebrale innaturalmente in rilievo accanto alla cicatrice recante il Sigillo. Alex prese a pulirgli la ferita con il panno imbevuto d'acqua del catino, rossa già alla seconda immersione. Lo fece in silenzio, come in un film muto.
Noah li fissò tutti, incapace di spiegarsi il loro atteggiamento. Non si guardavano in faccia, non mostravano più dell'ombra di una qualsiasi emozione - sembravano arrabbiate, ma non digrignavano i denti né gridavano; sembravano tristi, ma i loro occhi non erano lucidi né i loro corpi erano sconquassati dal pianto - e la cosa lo alienò. Come potevano comportarsi a quel modo? Come potevano fingere che non fosse accaduto qualcosa di terribile?
«P-perché non... non dite nulla?» Finalmente riuscì a muovere un passo verso il salotto. Sentiva le gambe deboli e il cuore troppo vicino alla gabbia toracica, gonfio. A rispondergli arrivò il cigolio della cassettina di latta. Alexandria tirò fuori una pinza chirurgica e un bisturi che lanciarono verso di lui dei bagliori sinistri. Sembravano nuovi e recenti, preparati ad hoc per l'occasione.
Lo sguardo di Noah baluginò verso Levi, immobile. Tutta la furia di poco prima svanita, un soffio di vento che aveva scosso il suo animo per poi tornare alla quiete. Quasi dubitò vi fosse stato.
Lo schiocco della lingua di Alexandria costrinse l'Hagufah a distogliere l'attenzione da Nakhaš, riportandola su di lei e Zenas. La scorse storcere la bocca, fare delle valutazioni tra sé e sé prendendo le misure con la lama del bisturi, poi sbuffare.
«Eykhe zeh nareeh? (come ti sembra?)» la domanda dell'uomo fu poco più di un sussurro profondo, calmo come nulla avrebbe dovuto essere in quel momento.
«Patir. (gestibile)» gli rispose la sorella con un altro sussurro, gli occhi fissi sul foro e le labbra strette in una linea dura priva di emozione.
Davanti a quella scena i pugni di Noah si strinsero lungo i fianchi, le unghie gli ferirono i palmi e le nocche sbiancarono. Lo stavano forse prendendo in giro?
La punta del bisturi sfiorò la pelle. Zenas non emise alcun verso, il suo viso non tradì alcun dolore - chissà se lo sentiva. Chissà se c'era qualcosa di più forte, come i sensi di colpa, a distrarlo.
«Yesh nezeq, akhòt? (ci sono danni, sorella?)»
Alexandria allontanò l'arma. Osservò il lavoro fatto come se si trattasse di un dipinto, soppesando con incredibile placidità il proprio operato. Nulla sembrava metterle fretta. Non aveva urgenza né paura, solo... vuoto. All'Hagufah sarebbe piaciuto leggere i loro stati d'animo, capire se il loro atteggiamento nascondesse qualcosa di simile al suo dolore, al suo timore, al groppo in gola che sentiva essere sempre più soffocante - ma era troppo teso per riuscire a farlo, troppo in collera con loro.
«Lo nareeh kem- (Non semb-)»
«Lo nireah lekhe?(Non ti sembra?)» La interruppe, urlando in quella lingua che improvvisamente sembrò appartenergli da sempre. Alex parve sussultare, ma non osò alzare lo sguardo su di lui. «Uh?!» la incalzò. Noah sentiva la mascella serrata, i denti schiacciati gli uni sugli altri, le unghie sempre più vicine al tagliare la carne: «Ideb et akhinu, Z'év (abbiamo perso i nostri fratelli). Eykhe et qoret lezeh? (come lo definiresti questo?)» I suoi occhi fecero nuovamente il giro dei presenti, studiandoli. Sembravano feriti nell'animo, eppure non a sufficienza. Non quanto si sentiva lui. «Ta'aneh li! (rispondimi!)» intimò ancora, e in un istante Levi balzò in piedi, gli si parò davanti e l'afferrò per il colletto della maglia. Erano così vicini che l'Hagufah riuscì a vedere distintamente l'insolita trama delle sue iridi, l'attaccatura delle ciglia e la texture della pelle. Lo erano come tante volte prima, eppure, al contempo, come pochissime.
«Tafessiqi! (smettila!)» sibilò con altrettanta imperiosità e rabbia: «Smettila, akh.» ma Noah non si fece intimorire. Su quelle gambe deboli cercò di restare saldo, di sfidare Nakhaš, di impedirgli di zittirlo - perché innanzi a ciò che era successo non avrebbero potuto fermarlo.
«Perché dovrei?» ringhiò: «Per permettervi d'ignorare ciò che è successo? Per fingere che non abbiamo abbandonato Colette e Niko-» l'impatto col muro gli rimbombò nella schiena, in mezzo alle scapole, mozzandogli il fiato. Il fiato di Levi a sfiorargli la punta del naso, il suono dei loro cuori così nitido ed egualmente veloce da sembrare quello di un'unica persona. Se Noah avesse ricordato come respirare, forse avrebbe inalato il sentore pesante e umido della rabbia.
«Tu non hai idea, Noah.» Nakhaš sottolineò il suo nome con forza, lo impresse nella sua mente come se per un istante gli fosse sfuggito. Voleva evidenziare qualcosa, una differenza che l'Hagufah sentì tagliargli le labbra e la lingua come il bordo di un foglio di carta.
Si guardarono con un livore non proprio sconosciuto e al tempo stesso con un senso di comprensione che non si sarebbe potuto dire da dove venisse. Qualcosa di lontano echeggiò tra di loro, ma non a sufficienza da permettere a Noah di capire cosa fosse.

«Però io ero lì.»
Le narici di Levi si allargarono, la cicatrice sul suo zigomo parve spiegazzare maggiormente la pelle lungo i bordi. Forse l'avrebbe colpito. O forse avrebbe abbandonato quello stupido battibecco con il suo solito fare.

«E nonostante questo, non hai potuto far nulla. Zenas, non avrebbe potuto far nulla.» I loro corpi si fecero distanti, le dita della Chimera abbandonarono l'orlo della maglia per tornare lungo il fianco. L'Hagufah scoprì nuovamente la freschezza dell'aria nei polmoni e, oltre a quello, il sapore amaro del sangue sulla lingua. Se la stava mordendo, perché in fin dei conti Levi aveva ragione. Non aveva fatto niente per impedire che Colette e Nikolaij venissero presi. «Quanti erano?»
Noah corrugò le sopracciglia. Le sue labbra si schiusero per dare una risposta, poi tornarono a toccarsi. Tanti, avrebbe risposto.
Gli occhi di Nakhaš lo percorsero dalla testa alle ginocchia, poi nuovamente risalirono sul viso: «E quanti di voi avrebbero potuto opporsi?» chiese ancora, senza dargli tregua. «Anche se foste rimasti, se aveste combattuto, avreste avuto la certezza di tornare qui tutti insieme?»

Dal fondo della stanza, più precisamente dalla zona in cui si trovava il divano, la voce roca di Zenas si levò in risposta: «Avrei potuto tentare di portar via Niko, quantomeno.»
Levi si morse il labbro e un sospiro grave gli uscì dalle narici: «Lo avresti salvato?»
«Avrei potu-»
«Non ti ho chiesto se c'era una possibilità, akh, ti ho chiesto se ci saresti riuscito senza mettere a repentaglio il Re.» Il silenzio calò come un sipario sugli attori. Rimasero tutti immobili, tesi, fin quando Nakhaš non si passò una mano sul viso nel tentativo, forse, di portar via una sensazione spiacevole. «Abbiamo già percorso questa strada» soffiò tornando verso la poltrona: «e la meta non è piaciuta a nessuno di noi.»
Con la coda dell'occhio Noah vide Alexandria stringere la presa sul bisturi, spostare lo sguardo e inspirare con forza.
«Invece questa?» con le mani giunte davanti al corpo, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e lo sguardo fisso sul fratello, Akràv parve sfidarlo. «Ci piace la meta a cui stiamo andando incontro? In tutta onestà, a me no. Per niente.»
Levi parve trattenere una risata nervosa: «Abbiamo altra scelta?»
Staccandosi dal muro, in uno slancio, dalla bocca di Noah uscì un "" che catturò l'attenzione di tutti, anche solo per qualche istante. Stavolta, le labbra della Chimera non riuscirono a restar ferme, tenendosi in un sorriso tutt'altro che confortante.
«E quale? Andare a salvarli?» I loro sguardi si incrociarono, il cuore di Noah balzò in gola impedendogli di parlare, anche se era ovvia la risposta che avrebbe dato. «Quattro stronzi contro... quanti? Quanti sono gli adepti del Cultus? Nemmeno lo sappiamo.»
«Non molti, questo è certo» la risposta di Alex arrivò timida, non più di un sussurro che fece raggelare Levi. Il modo in cui i suoi occhi si riempirono di stupore, le labbra si schiusero e il corpo sembrò diventare di pietra fu eloquente. Da lei non si sarebbe aspettato alcuna presa di posizione, eppure...
«Dimmi che scherzi.»
«Levi, pensaci» nel volgersi verso di lui, Noah notò come la luce le sfiorò il viso, mettendo in risalto quelli che sembrarono brividi sulle sue guance scavate: «Di alchimisti, di veri alchimisti, ne nascono una manciata ogni decade e noi in tutto questo tempo abbiamo continuato a ucciderli. Non possono essere tanti.»
Per qualche secondo nessuno osò proferir parola. C'erano solo loro due, occhi negli occhi, lontani da quel salotto a cercare di capirsi - poi, arrendendosi, Levi scosse il capo e allontanò lo sguardo dalla sorella: «Ma sono comunque più di noi.» Anche Alexandria parve capitolare. La sua bocca si serrò in una linea dura e come se nulla fosse tornò alla ferita di Zenas.«Ma con un piano» Noah avvertì l'urgenza di non far cadere il discorso, di osare fin tanto che vi era il fantasma di un'approvazione da parte di almeno due delle Chimere, ma il pugno con cui Nakhaš colpì il bracciolo della poltrona lo zittì ancora. «Quale piano?» lo imbeccò: «Siamo in minoranza, deboli e nemmeno conosciamo la planimetria della loro sede.» Non si guardarono, ma all'Hagufah parve di essere come un bimbo rimproverato dai propri genitori. «Non siamo su un campo di battaglia, qui è tutt'altra cosa.» Fece una piccola pausa e ancora una volta si passò la mano sul viso: «Inoltre, a quest'ora mi auguro siano entrambi già morti.»

Noah si sentì mancare.
«C-c-che stai... che stai d-dicendo?» Non capiva. Aveva davvero detto quelle parole? Come poteva sperare che i suoi fratelli, la sua famiglia, fossero morti? Quale mostro avrebbe mai osato dire una cosa del genere?
Il suono metallico del bisturi sul tavolino lo fece sussultare, ma non a sufficienza da fargli distogliere lo sguardo dal profilo tagliente di Levi - a quello ci pensò la voce di Alex.
«Quello che nessuno vorrebbe dire, ma che forse pensiamo tutti.» fino a quel giorno, Noah non aveva mai pensato che i suoi occhi potessero sgranarsi tanto da fargli male: «Meglio che si siano già tolti la vita, piuttosto che concedere a quei fanatici la possibilità di renderli cavie.»
L'aria sembrò diventare densa e non passare più per le narici. Il vuoto allo stomaco divenne una voragine, un buco nero che provò a inghiottire ogni sensazione.
«È- è questo che succede? Voi... voi vi-vi ammazzate?»
«È quello che cerchiamo di fare prima di essere presi.»

Non voleva crederci. Fino a quel momento non si era posto il dubbio se le Chimere avessero un piano alternativo alla cattura, dopotutto nessuna di loro era mai stata presa - o almeno nessuna di quelle con cui lui era entrato in contatto o di cui si ricordasse qualcosa - e l'idea che Colette e Nikolaij potessero essere già morti...

«C-come... come facciamo a sapere ch-che siano-» nemmeno sforzandosi riuscì a finire la frase, ma non fu difficile capire cosa volesse intendere.
«Non possiamo.» Alex si piegò con le pinze sulla schiena del fratello, penetrò nel foro allargato con il bisturi ed estrasse un ammasso informe grande quanto un bottone: «O perlomeno, noi non possiamo.» I suoi occhi lo sfiorarono giusto per un istante, come a sott'intendere qualcosa - e a dispetto di tante alte volte, Noah comprese. Le Chimere non erano collegate l'un l'altra, ma ognuna lo era a lui e, forse, poteva percepire più dei loro stati d'animo. Certo, era una cosa rara e vaga, eppure ci riusciva, quindi avrebbe potuto capire se Colette e Nikolaij erano ancora vivi. Forse, quando una sua creatura moriva, lui lo sentiva.
«Quindi ci sono buone p-possibilità che siano ancora... qui
Levi lanciò prima un'occhiata alla sorella, poi si rivolse a lui: «Non lo sappiamo. Ergo, non rischieremo altre vite per un'impresa folle.»
«Ma io so che sono vivi!» Una speranza, più che una bugia; di certo, non la verità. In fin dei conti chi avrebbe potuto obiettare se lui era il solo ad avere quel legame con le sue creature? Nessuno poteva sapere dove iniziassero o finissero le sue menzogne in una circostanza del genere - e mentire, dopotutto, era il pane quotidiano delle Chimere, giusto?
«No!» L'urlo di Nakhaš fu un tuono nel salotto. Un brivido freddo e inaspettato. Perché proprio lui si stava tirando indietro? Perché la Prima tra le Chimere si stava ribellando a quel modo? «Non rischierò la tua vita, akh! E nemmeno la loro! Abbiamo fatto un giuramento, abbiamo sacrificato ogni cosa per onorarlo, quindi la tua incolumità viene prima di tutto e se possiamo salvarci in pochi sarà sempre meglio che nessuno.»

Per la prima volta da quando le Chimere erano rientrate nella sua esistenza, Noah si sentì sull'orlo del pianto. Come poteva lui, la sua vita, essere più importante di qualsiasi altra? Come poteva Levi accettare una cosa del genere?

Poi, dal nulla, Akràv aprì bocca. «Io però non ci riesco» sbottò: «Non riesco a togliermi dalla testa la faccia di Wòréb mentre la lasciavo lì. E nemmeno quella di Akhbar. Ho già perso Niketas, Levi... non posso andare avanti abbandonando la mia famiglia.» 

«E cosa vuoi fare? Andare a riprenderti due cumuli di cenere? Hai giurato, akh. Io c'ero e ci sono sempre stato. Ti ho visto fare cose inimmaginabili in onore di quelle parole.»
«Lo so. Lo ricordo.» Lo sguardo scuro e profondo di Zenas incontrò prima il viso del fratello, poi quello dell'Hagufah. Stava parlando a lui e al contempo a Levi. Stava implorando, in qualche modo contorto: «Ma se il mio Re mi concederà questo capriccio, se mi farà grazia di poterci quantomeno provare, io andrò a reclamare la Quarta e la Settima Chimera. Non infrangerò alcun giuramento, non lo coinvolgerò ed egli sarà salvo.»

Doveva solo farlo, pensò Noah. Doveva semplicemente dirgli che era libero di fare ciò che più riteneva opportuno; ma Akràv era ancora ferito, debole, non poteva darlo così ingenuamente in pasto al nemico. Un conto era muoversi come un gruppo, un altro lasciarlo andare da solo.

«E nella sua clemenza,» Alexandria poggiò tutti gli attrezzi nel catino d'acqua per togliere il sangue dall'acciaio, poi si lasciò cadere sullo schienale del divano: «sono certa che Sua Maestà mi permetterà di andare con lui.» Il sangue sembrò defluire dal viso di tutti.
«Alex-» iniziò Zenas, voltandosi per guardarla.
«Perché?» soffiò Nakhaš, visibilmente in disaccordo.
Lei si passò una mano sulla fronte spostando i capelli e lasciando sulla pelle piccole strisce rosse. Sembrava stanca e Noah avvertì tutta la sua fragilità venire a galla. Nella sua testa aveva già distrutto quella famiglia una volta, non avrebbe permesso che accadesse di nuovo. E soprattutto non lo avrebbe fatto restando ferma. «Tu cosa vuoi fare, Levi? Continuare a fuggire, nasconderci, fingere di essere chi non siamo nella speranza che Noah torni a essere Salomone?» parlò piano, con un tono leggermente crepato: «E se non succedesse?» Nakhaš sospirò, il viso contrito a causa di una battaglia interiore che l'Hagufah non riuscì a capire. «Pensaci. Colette e Niko non saranno la parola fine a questa storia. Finché l'ultima di noi sarà viva e loro anche, non saremmo mai al sicuro.» Come a cercare sostegno, Alexandria posò una mano sulla schiena di Zenas. Non lo guardò, piuttosto volse lo sguardo oltre la finestra, dove il tramonto stava ormai virando nella sera: «Noah può essere libero. Lo era prima di noi e potrà esserlo anche dopo. Ma noi? Difficile dirlo. Ora abbiamo una scusa e l'occasione per mettere fine a tutto questo. Se non vincendo, quantomeno impedendo anche a loro di farlo. Morte le Chimere e perso il Re, non avranno più nulla.»
«Quindi sei pronta a morire, a perdere tutto per davvero?»
«Non lo ero nemmeno la prima volta, o sbaglio? Abbi fiducia in me, Levi. Io l'ho avuta in te mesi fa.» un sorriso mesto le tese le labbra. Levi rimase immobile a guardarla mentre lei continuava a scrutare l'orizzonte, poi si passò entrambe le mani sul viso. Rimase in quella posizione per alcuni secondi, poi riemerse come liberandosi da una melma invisibile: «Ci serviranno delle armi e dei documenti falsi.»
Noah sussultò. Sì, ce l'avevano fatta, sarebbero andati a riprendersi Nikolaij e Colette!
«Quindi il quartier generale del Cultus è fuori dall'Europa? Quanto ci metteremo per arrivare?»
Zenas scosse la testa; doveva aver colto qualcosa che a lui, invece, era sfuggito.
«No, la loro sede non è molto lontana da qui, ma tu devi sparire. Nessun Noah Dietrich per qualche anno.»
«In che senso?»
Levi si alzò, la mascella tesa e lo sguardo severo: «Hai sentito Alex, no? Tu puoi essere libero, ma soprattutto salvo.»
Un peso parve schiacciarlo a terra, soffocarlo. 
«No» biascicò afferrandosi la maglia con una mano. «No, scordatevelo.»
Nuovamente, Nakhaš tornò a torreggiare davanti a lui. Avvolto in quel suo cardigan da nonno, d'improvviso parve incredibilmente minaccioso. Le sue spalle apparvero più grandi di come erano sempre parse sotto la fantasia a rombi, le pupille sembrarono più taglienti che mai, eppure Noah tentò di resistergli. «Noi andiamo. Tu ti metti al sicuro.»
«Questa è la nostra guerra! Noi siamo-» ma s'interruppe, incapace di trovare le parole giuste per proseguire. In effetti lui non sarebbe stato di alcun aiuto, anche se lo desiderava con tutto se stesso. Non lo era stato poco prima e non lo sarebbe stato durante un attacco diretto. Si morse la lingua, spostando lo sguardo a terra.
Nakhaš gli poggiò una mano sulla spalla. Era grande, forte, callosa persino. Gli anelli che portava alle dita cozzarono contro il suo trapezio provando a lasciare il segno: «La sede del Cultus non è il posto per te, akh. Ciò che accadrà lì è qualcosa che hai dimenticato ed è meglio che resti tale.»
Il cuore di Noah accelerò, i suoi occhi balzarono sul viso della Chimera: «E qual è il posto per me?» gli chiese a bruciapelo, scrollandosi di dosso la sua presa. «Dimmelo, perché non lo era il luogo dove sono nato e men che meno Vienna.» 
«Noah...» Zenas lo stava fissando, ma non sembrava convinto. Forse avrebbe voluto persuaderlo, ma nonostante ciò non fu in grado di aggiungere altro.
«Voi siete ciò a cui appartengo. Ovunque andrete io sarò al vostro fianco, non vi libererete di me. Volete salvare Niko e Colette? Bene, lo faremo insieme perché, volente o nolente, loro sono parte della mia famiglia.»
«Tu non verrai.» Insistette Levi.

Un angolo della bocca dell'Hagufah si sollevò, rivelando un sorriso sghembo: «Fermami.»
«Non mi sfidare, akh. Non sei mai stato al mio livello.»
Il sorriso gli si allargò maggiormente e un passo si mosse involontario verso la Chimera. «Forse non fisicamente, ma fidati» distogliendo lo sguardo da Nakhaš per qualche istante si rivolse anche a Zenas e Alexandria: «se provate a lasciarmi indietro inizierò a girare per tutta la Francia parlando di voi, raccontando delle conoscenze alchemiche che ho ottenuto. Il Cultus non c'impiegherà molto a trovarmi.»
«Non lo faresti.»
Noah avanzò di un altro passo. L'espressione beffarda a fronteggiare la sicurezza di Levi: «Vuoi scommettere? Eppure dovresti conoscermi. Ho fatto di peggio e per molto meno in passato, no?» ancora una volta provò a osare, a mentire. Non ricordava affatto se ci fossero state situazioni del genere, ma qualcosa, forse un barlume di logica, gli fece credere che in più di mille anni di vita, almeno una volta, doveva essere successo.
Le narici di Levi si allargarono, il suo sguardo serpentino scivolò lungo ogni tratto del suo viso alla ricerca di un brivido, di uno spiraglio - Noah rimase immobile. Non avrebbe permesso a nulla di separarlo da loro.

 

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Capitolo 66
*** - Capitolo Trentaseiesimo: Per chi più si ama ***



 

"Musing through memories, losing my grip in the grey
Numbing the senses, I feel you slipping away
Fighting to hold on, clinging to just one more day
Love turns to ashes, with all that I wish I could say
I'd die to be where you are
I tried to be where you are
Every night, I dream you're still here
The ghost by my side, so perfectly clear
When I awake, you disappear
Back to the shadows, with all I hold dear
With all I hold dear"

Still here, Digital Daggers

 

E alla fine, Levi aveva ceduto - perché in qualche vita passata, per motivi più o meno futili, Salomone aveva davvero fatto ogni cosa necessaria per ottenere ciò che maggiormente aveva desiderato, fosse questo un capriccio o qualcosa di più importante. Noah aveva in qualche modo vinto sulle Chimere, forse sfruttando un potere di cui non riusciva davvero a rendersi conto, ma una voce, come un monito, lo aveva spinto a chiedere qualcosa ancora: una promessa. Con una decisione che tutto era fuorché sorretta da gambe stabili, aveva domandato a Levi di dare la propria parola - e conoscendolo, tra tutte le sue creature, lui sarebbe stato quello che meno si sarebbe tirato indietro. Dopotutto era rimasto al suo fianco fino a quel momento. Dalla notte dei tempi, nella morte, a quel giorno.

L'altro aveva storto il naso, tentato di farlo desistere, si era allontanato per non stringergli la mano. Stanco aveva chiesto ai fratelli di provare a loro volta a fargli cambiare idea e, quel punto, Noah aveva detto qualcosa che mai avrebbe creduto possibile.

«Siete parte di me, akh. Lo siete stati dal primo giorno in cui vi ho visti in quell'auditorium e prima ancora in sogni, stralci di ricordi che adesso so appartenermi. Non puoi chiedermi di vivere incompleto, ferito ed esposto ai rimorsi. Non puoi obbligarmi a dirvi addio per la seconda volta.»

Levi aveva guardato ancora il divano, i suoi fratelli. Forse capiva cosa Noah volesse dire. Anzi, l'Hagufah ne era certo. Lui sapeva, aveva conosciuto quella sensazione e probabilmente non se l'era mai dimenticata.
«Non hai nemmeno trent'anni...» aveva soffiato, lo sguardo sui propri pugni stretti lungo i fianchi.
Noah si era lasciato andare contro il muro, lo stesso che gli aveva mozzato il fiato e da cui aveva provato a fuggire.
Aveva davvero importanza? «In questa vita, akh. Ma li ho avuti decine di centinaia di volte.» Si erano guardati con la coda dell'occhio per alcuni istanti, in silenzio, fiacchi dopo quello che era successo: la confessione che gli aveva fatto quella mattina, l'attacco subìto, la perdita di Nikolaij e Colette, quella lunga ed estenuante discussione per convincere le Chimere ad andare a cercare i fratelli.
In tutta onestà, pensò, nemmeno avrebbe voluto arrivare a quell'età senza di loro. I sensi di colpa lo avrebbero logorato, sarebbero entrati dai solchi lasciati dalla loro assenza, si sarebbero fatti ruggine e lo avrebbero corroso lentamente.

O insieme, o nessuno, si disse.

Le Chimere avevano quindi accettato la sua decisione, forse riluttanti, forse confortate dal fatto che nonostante l'amnesia fosse pronto a seguirle e, infine, avevano giurato per l'ennesima volta prima di mettersi all'opera.

Alexandria aveva preparato per Zenas qualcosa di caldo e vi aveva sciolto dentro delle ɛvɛn che teneva nascoste nella tasca della felpa, poi aveva afferrato da un ripiano della sala una cartina dell'Europa così vecchia da essere diventata gialla. L'aveva aperta sul tavolino del salotto mentre Levi si procurava carta e penna.
Noah si era quindi inginocchiato vicino a loro in modo da assorbire ogni informazione, da capire e memorizzare. Voleva in qualche modo essere parte attiva di quel progetto pur sapendo di non poterlo essere veramente. L'Ars in fin dei conti non si era palesata nemmeno nel momento del bisogno, obbligandolo a fuggire, quindi era per loro privo di utilità. Cosa avrebbe potuto fare se una delle Chimere si fosse trovata nuovamente in pericolo? Non sarebbe nemmeno stato in grado di attaccare se ce ne fosse stata la necessità. L'alchimia il più delle volte sembrava rigettarlo, cedendo solo ogni tanto per distrazione: non bastava. Non sarebbe stato in alcun modo sufficiente. Noah si era convinto, soprattutto in quegli ultimi giorni, che Salomone doveva aver abusato del potere a tal punto da essersi tramutato in un alchimista al pari dei membri del Cultus: mediocre, goffo. Non era più il prescelto di quella magia, solo uno tra i tanti, forse ancor meno.

Per un paio d'ore era quindi rimasto zitto ad ascoltare quei tre. Il taccuino di Levi era girato di mano in mano riempiendosi di nomi e numeri imparati a memoria. Informatori, trafficanti di notizie e armi - perché per quanto sovraumane, le Chimere non avrebbero potuto affrontare a cuor leggero quel gruppo di pazzi; inoltre, una pistola avrebbe fatto comodo anche a lui visto che non aveva altri modi per aiutare a contrastare i nemici.
«Non sarà facile.» Aveva detto Alexandria subito dopo che Levi aveva reso tutti partecipi di quella decisione. Noah aveva corrugato le sopracciglia senza però guardarla. Vi era forse qualcosa di semplice in tutta quella storia? Sparare sarebbe stato il minore dei problemi, pensò. «Uccidere, intendo.» aveva subito aggiunto Z'èv con una tranquillità tale che per un momento era parso gli stesse parlando d'altro.
Lui aveva deglutito a fatica: «Ma è necessario.» aveva poi risposto con una certa urgenza, come se temesse che le Chimere potessero rivalutare la sua partecipazione se si fosse fatto vedere spaventato dall'idea. Ammazzare un essere vivente non era cosa da poco, non per un ragazzo come lui - come Noah, quantomeno, ma se si fosse trattato di Salomone? Con gli incisivi si era pizzicato il labbro in un moto di amaro rimpianto.

«Sì, ma tituberai, lo abbiamo fatto tutti almeno una volta.» Alex si era ravvivata i capelli spostandoli da un lato del volto.
«Non accadrà.» E finalmente l'aveva guardata, anche se per poco. Z'év aveva chinato la testa da un lato e stretto le labbra in una smorfia scettica: «Assicurati di essere vicino a me o a Levi quando accadrà. Eviteremo qualsiasi inconveniente.» Involontariamente lo sguardo dell'Hagufah era rimbalzato su Zenas, che subito si era assicurato di dargli una pacca sulla spalla e sorridere. «Potrei non essere abbastanza veloce. Per non parlare della mia coda. L'hai vista, è ingombrante, potrebbe ostacolarti.»
Noah aveva annuito, tornando a fissare la cartina. La base del Cultus, segnata con un cerchio d'inchiostro blu, si trovava in una zona tra Avignone e Grenoble - e mai si sarebbe aspettato che le Chimere scegliessero un punto così vicino al nemico per alloggiare - ma poi pensò che forse era vero che difficilmente ci si accorge di quello che si ha sotto il naso.

Definiti gli ultimi dettagli, Levi aveva congedato tutti con un "cerchiamo di rilassarci, per quanto possibile. Se avete ultimi desideri fattibili, o robe simili, cercate di assecondarli. Sapete come funziona." prima della cena, che a occhio e croce sarebbe stata preparata molto tardi. L'appetito doveva aver abbandonato lui, i fratelli e, di certo, Noah. Chi avrebbe mangiato sapendo che Niko e Colette potevano essere morti?

Akràv si era quindi alzato, aveva provato a sgranchirsi i muscoli e decretato che sarebbe andato in spiaggia. Un ultimo sguardo al mare e qualche riflessione in solitaria prima dello scontro. Non aveva invitato anima viva e nessuno si era proposto di andare con lui. Nell'essere resi partecipi di quella sua decisione, nonostante la forma fisica gli fosse avversa, l'Hagufah aveva scorto nello sguardo dei fratelli una rispettosa comprensione, come se fosse scontato, giusto così.
Nakhaš lo aveva accompagnato alla porta con il taccuino in mano, tra le dita opposte la sigaretta spenta. Aveva aggiunto, giusto prima di oltrepassare la soglia del salotto, che sarebbe uscito a chiamare tutti quei numeri per vedere chi avesse informazioni e chi, invece, qualche arma non registrata da portargli il mattino seguente, insieme a un'auto, viste le condizioni della Thema. Z'év, dal canto suo, si era prodigata a riporre tutto ciò che era rimasto in giro, cancellando le tracce del loro piano. Non sembrava intenzionata a fare nulla di più, così Noah rimase a fissarla per alcuni minuti cercando di interpretare il suo stato d'animo. Negli ultimi mesi erano state le Chimere a sostenerlo, a parlargli nei momenti in cui gli era sembrato di essere più demoralizzato - e adesso, vedendola vagare per il salotto senza un reale obiettivo, gli parve di dover ricambiare almeno con lei il favore.
«Non hai ultimi desideri?»
Z'év lo guardò da sopra la spalla abbozzando un sorriso: «Tu, invece?»
Sospirando lasciò cadere la testa da un lato: «Non sviare, akhòt.» L'ammonì in un fiato, un poco sovrappensiero.
«Da quando mi chiami così?»
Nell'accorgersi dell'errore sentì l'imbarazzo pizzicargli le guance come una zia a Natale. In effetti con lei, Zenas, Colette e Nikolaij non si era mai permesso, se non per distrazione, di usare quel termine; solo con Levi era diventato un'abitudine - perché lui, più di tutti, lo sentiva essere davvero un pezzo fondamentale della propria esistenza, un'estensione della persona che era stato, un fratello.
Si morse la lingua: «Non lo facevo prima
Alexandria rimise a posto la cartina nascondendola tra due libri dal dorso consumato. Fece spallucce senza però voltarsi veramente verso di lui: «Sì, ogni tanto. Diciamo che con altri ti capitava più spesso.» Non sembrava infastidita da quel ricordo, men che meno gli parve che vi stesse dando una qualche importanza. In un certo senso doveva essere un nomignolo, un aggettivo in cui nemmeno lei si era mai rispecchiata veramente.
Allungando le braccia dietro la schiena e piantando i palmi nel tappeto, Noah provò allora a immaginarsi in un altro corpo, in un'epoca lontana e circondato dalle Chimere per capire se sarebbe stato meno strano rivolgersi a lei come sorella - non ci riuscì. Tutto ciò che gli venne in mente fu il giorno in cui salvò Nikolaij, l'ennesima riprova che né il suo vecchio sé, né l'Ars, volevano avere a che fare con lui. Sospirò.
«In ogni caso non hai risposto alla mia domanda.»
Alex finalmente si girò verso di lui: «Un ultimo desiderio?» incrociando le braccia al petto alzò gli occhi al cielo e si pizzicò il labbro inferiore con i denti. La sua calma quasi lo annichiliva, eppure dopo aver convinto Levi ad andare a salvare la Quarta e la Settima Chimera si rese conto di essere meno teso anche lui. Non calmo come lei, ma nemmeno nervoso. Sì, forse stavano andando incontro alla morte, ma almeno lo avrebbero fatto insieme e per una giusta causa - doveva troppo a quelle creature. I debiti che Salomone aveva lasciato in sospeso con loro un po' gli appartenevano e, persino nolente, sapeva di doverli estinguere in qualche modo. Quello, per iniziare; e non poteva negare che la cosa lo rendesse quieto.
«Di fattibile, solo uno.» A quella risposta, in parte inaspettata, per poco non sussultò. Il cuore gli batté un po' più veloce nel petto e senza accorgersene sbatté più volte le ciglia.
Senza aggiungere altro, Z'év si avvicinò maliziosa allo stereo, il cellulare tra le mani a lanciare strane ombre sul suo viso spigoloso. La curiosità prese a mordere i polsi dell'Hagufah.
«Di che si tratta?» Le chiese in un soffio, sporgendosi leggermente nella sua direzione e sperando, forse, di riuscire a scorgere ciò che lei stava cercando su quel povero schermo.
La vide fermare le dita e sorridere. «Sai ballare?» gli chiese a bruciapelo, con una nota divertita nella voce.
«In che senso?» Le sopracciglia di Noah si incontrarono al centro della fronte.
«Balli da sala, i classici.»
Le sue labbra si schiusero involontariamente e per alcuni secondi non riuscì a risponderle, troppo confuso, e in quell'esitazione, lasciando il telefono vicino a una delle casse, Alexandria si mise a spingere il divano verso la libreria che vi stava dietro. Quando i loro sguardi si incrociarono tra una sua falcata e quella successiva, Z'év gli sorrise: «Allora, sei capace o no?» e spinse anche la poltrona a ridosso del caminetto.
Noah ebbe un fremito: «I-io... non lo so, non ho mai... di certo non in questa vita!»
La Chimera gli fece cenno di spostare il tavolino e il tappeto, e lui con un balzo fu subito ai suoi ordini. Nemmeno si pose il dubbio di ciò che stava facendo, piuttosto ammassò un pezzo accanto alla poltrona e l'altro lo arrotolò sul divano, lasciando che il pavimento riemergesse in tutta la sua usura. C'erano segni che potevano appartenere a tacchi, mobilia e chissà cos'altro, ma non ebbe tempo di soffermarcisi troppo.
«Non ci sono più gli uomini di una volta!» e inaspettatamente un angolo della bocca di Noah si alzò, tradendo il leggero smacco che il suo orgoglio parve subire.
«Sicuramente non quelli del vostro secolo, Contessa!» Dalle labbra di lei uscì un fischio stupito, le sopracciglia divennero due archi pallidi che le raggrinzirono la fronte mentre tornava verso lo stereo.
Touché, per una volta le aveva risposto a dovere, pensò l'Hagufah con un certo compiacimento.
Z'èv pigiò sullo schermo e, avanzando nuovamente verso di lui, allargò il sorriso: «Tu però dovresti essere più vecchio di loro, sai? Giusto qualche annetto!» Noah si leccò le labbra alzando lo sguardo e scuotendo la testa - eccola contrattaccare. Di tutte le doti che invidiava alle Chimere, la capacità di sostenere un botta e risposta di ogni genere e in qualsivoglia situazione era in cima alla lista - e il fatto che Alexandria non si facesse sfuggire nemmeno un'occasione per ricordarglielo era sia svilente che eccitante.

«Guido io, okay?» e nel momento in cui sentì la mano di lei stringere la sua una sorta di agitazione lo sopraffece. Si rese conto, forse un po' troppo tardi, di quanto fossero vicini e di quanto, ogni volta che lei decideva di ridurre i loro spazi personali, l'ansia di farle male sopraggiungesse senza preavviso. Una scarica fredda lungo la schiena, il preludio di una sincope. Con lo sguardo cercò quindi sul viso di lei tracce di dolore, ma ciò che scorse fu solo tanta stanchezza. La calma che le aveva invidiato non era altro che una maschera indossata per nascondere quanto fosse provata. Le labbra gli si schiusero un'altra volta, eppure non fece in tempo a chiederle nulla perché le prime note, leggere, si insinuarono nella stanza dal basso come nubi di fumo: Noah le immaginò aggrovigliarsi intorno alle loro caviglie, risalire gli stinchi e la curva delle ginocchia. Z'év allora mosse un passo, poi un altro sussurrando un tempo a cui lui cercò di prestare faticosamente attenzione. I suoi piedi sembravano non voler collaborare e il fatto che non riuscisse a staccare gli occhi dalle proprie scarpe per paura di pestare quelle di lei o di restare ingrovigliato nella musica lo tese tanto che Alex non riuscì a trattenere qualche battuta. Si stava muovendo come un tronco, ne era consapevole e si rimproverò, certo che lei lo stesse odiando. L'unico desiderio di quella poveretta si stava trasformando in un incubo a causa delle sue pessime capacità motorie e nemmeno sforzandosi avrebbe potuto cambiare la situazione - poi, alle sue spalle, una voce profonda gli diede il colpo di grazia, costringendolo a fermarsi con un groppo in gola.

«Oddio, i miei occhi!»

Noah si volse, imbarazzato. Non solo stava rovinando il ballo di Z'év, ma si stava anche rendendo ridicolo davanti a Levi, due cose che improvvisamente gli parvero di immensa gravità; poteva andare peggio di così? Forse sì, giusto se Zenas fosse magicamente ricomparso e avesse dimostrato che nonostante la stazza e le ferite fosse un ballerino migliore di lui.
«N-non ho mai ballato un-» si rese conto di non aver nemmeno riconosciuto la melodia. Anni di pianoforte completamente dimenticati. Grazie al cielo, Alexandria corse subito in suo aiuto, sogghignando: «Valzer. Questo è un valzer.»
«Esatto!» sentiva di avere le guance rosse e la gola secca - di certo doveva essere per loro uno spettacolo tragicomico, e se quello era il suo modo di ripagare le Chimere per il loro aiuto e supporto avrebbe fatto meglio a smettere sin da lì.

Nakhaš si staccò dalla spalla del muro scuotendo la testa. Ciuffi castani gli svolazzarono davanti sottolineando il suo dispiacere e la tensione che gli fiaccava il viso: «Non pretendo di vederti ballare un boogie, ma un valzer...» un passo dopo l'altro li raggiunse al centro della stanza e afferrandolo per il bacino provò a mostrargli la posizione da tenere, anche se a fatica. Non importava quanta pressione facesse sul suo corpo, questi si rifiutava di collaborare.
«Se è tanto facile fallo tu!» Lo imbeccò Noah all'ennesimo fallimentare tentativo dell'altro e, di rimando, sentì un colpo in mezzo alle scapole che lo costrinse a mettersi dritto.
«Ho ballato troppi valzer nella mia vita, ma grazie per la considerazione.» Nella mano, l'Hagufah sentì quella di Alexandria provare a scivolare via, ma in qualche modo riuscì a trattenerla e, senza demordere, continuò. Se Nakhaš lo aveva già fatto altre volte di certo sarebbe stato un compagno migliore per la sorella. Inoltre, trattandosi del suo ultimo desiderio, sarebbe stato giusto farglielo godere fino all'ultima battuta - ed era certo che anche lui avrebbe concordato. «Se sei tanto bravo mostrami come si fa! Ti cedo il mio posto» una fitta al centro del petto, come un battito troppo vicino allo sterno, lo sorprese costringendolo a spostare l'attenzione dalla Chimera al proprio corpo. Che diamine gli stava succedendo? Non gli era parso che Levi lo avesse colpito con tanto impeto.
La presa della Chimera sulla sua spalla aumentò, ma lui quasi non se ne accorse, troppo impegnato a dare un senso a quel malore. Forse, più che per il contraccolpo, quel fastidio doveva essere frutto della tensione che stava rilassando i muscoli, valutò.
«Ha chiesto a te, Noah.»
L'Hagufah deglutì. Non poteva distrarsi, altrimenti Levi avrebbe colto l'occasione per fuggire da quella situazione. «Eddai! Se è l'ultimo desiderio di Alex puoi fare un'eccezione, no? Io rischio di pestarle i piedi ogni due passi e ci servite tutti in perfetta forma, non possiamo ammettere infortuni.» Tendendo i lati della bocca tanto da far dolere le guance, Noah si volse verso di lei: «O sbaglio?» In quel modo avrebbe fatto la cosa giusta, pensò, e l'indomani, mentre si dirigevano al covo del Cultus, Alex non si sarebbe pentita di averlo chiesto a qualcun altro piuttosto che a lui. La vide dubitare, la sentì incerta e preoccupata. Si chiese se forse la titubanza del fratello l'avesse offesa, ma poi, come se qualcuno avesse schioccato le dita, lei annuì: «In onore dei vecchi tempi, no?» Fece una sorta di sorriso indecifrabile, quasi nemmeno a lei andasse veramente il cambio di cavaliere. Noah si sentì stringere lo stomaco e, intanto, Nakhaš alle sue spalle parve ponderare con troppa serietà quell'idea. C'era qualcosa che gli stava sfuggendo? Un sospiro rassegnato scivolò fuori dalla bocca della Prima Chimera sfiorandogli la base del collo. Un nuovo brivido lo percorse, diverso da quello provato poco prima, ma rimase saldo nella sua convinzione e, abbandonando Alexandria, corse allo stereo per fermare il brano e rimetterlo dall'inizio. Nel lasso di tempo che lui impiegò per compiere quelle semplici azioni, i due fratelli rimasero immobili l'uno di fronte all'altra, rigidi come se d'un tratto non sapessero più cosa fare. Tra loro aleggiava qualcosa di sbagliato, una muta rimostranza benché nessuno avesse realmente rifiutato quel ballo.
«P-pronti?» o forse se lo stava solo immaginando.

Alexandria fu la prima a ridurre la distanza tra sé e Levi. Avanzò di un unico passo, tanto deciso che fece davvero credere a Noah di starsi immaginando una tensione irreale. Che fosse quella gelosia che ogni tanto lo coglieva alla sprovvista? Era già successo in passato, soprattutto quando l'attenzione di Nakhaš si rivolgeva così dettagliatamente a una persona diversa da lui.
Le braccia di Z'év si alzarono lente, delicate. Una si fermò a mezz'aria in attesa, piegata appena, mentre l'altra lasciò che la mano invitasse quella del fratello a raccoglierla. Per il tempo di una deglutizione Levi restò immobile, lo sguardo basso sui propri piedi e le labbra strette in una linea dura. Sembrò cercare nella propria mente le istruzioni, i ricordi delle centinaia di volte in cui, in passato, aveva ballato un valzer - e Noah, nell'osservarlo, si portò una mano lì dove sentiva crescere il fastidio. Aveva già visto quell'espressione sul suo viso, aveva già avvertito quelle sensazioni prive di nome agitarsi in lui; infine, anche Nakhaš prese posizione. Il suo corpo si incastrò negli spazi che Alexandria gli aveva preparato senza che vi dovessero essere aggiustamenti del caso. Si ricongiunse a lei come se già conoscesse il peso del suo braccio, la delicatezza della sua mano filamentosa. L'Hagufah avvertì il mondo intorno a lui raccogliere il respiro, rallentare; poi le note del valzer ruppero l'attesa, delicate ed eteree come la prima volta, eppure letali. Le dita della Prima Chimera percorsero la schiena della sorella dalla base fino all'esatto centro, costringendola un po' più vicina. Tra loro poco più di una spanna.
Le labbra di Noah si schiusero in attesa, come se da un momento all'altro dovesse succedere qualcosa - forse una piroetta, oppure una di quelle scosse che lui conosceva bene. Seguì i loro movimenti dapprima con una certa curiosità, forse persino del divertimento, poi dopo il primo giro, lento, il fiato gli si accorciò e la mano con cui si teneva il petto pigiò con più forza sulla carne. Le unghie tentarono di penetrare il tessuto e qualcosa di sgradevole gli si mosse nello stomaco. Si scoprì al contempo stregato e nauseato da quella visione, dal modo in cui Z'év e Nakhaš si muovessero all'unisono, lontani da ogni cosa, persi nel tempo come i fantasmi di Anastasia. Più i loro corpi si scioglievano, ricordando, più lui si sentiva strano, agitato. Si morse la lingua quando d'un tratto lo sguardo di Levi incrociò quello di Alexandria, strappandole un sorriso che parve più come un sospiro mozzato - e d'un tratto, compiendo l'ennesima piroetta, dall'orlo della maglia di lui spuntò un bagliore cupo. Noah avvertì il dolore al petto aumentare, si dovette piegare un poco in avanti per trattenere il gemito che gli sfuggì dai denti e, quando i suoi occhi tornarono su Nakhaš, il tallero che aveva al collo lo ferì al centro del petto. La fitta fu tale che gli sembrò di venir pugnalato dall'argento con cui era fatto, una lama fredda e precisa oltre lo sterno - e dalle labbra, in un pensiero che esplose prima nella mente e poi scivolò come fumo sulla lingua, gli sfuggì un...

 


 

 

«Testa o croce?» lo sguardo di Levi apparve confuso. Le sue labbra appena schiuse a confermare il sospetto di Salomone.
«Scusa?»
Il Re volse la testa verso le proprie dita, lì dove il tallero ricevuto poche ore prima si muoveva giravoltando dall'indice al mignolo e viceversa: «Ti ho chiesto se punti sulla testa o sulla croce.» No, nemmeno stavolta sembrò capirlo. Ormai erano alcuni decenni che faticavano a ritrovare la loro consueta sinergia, quell'equilibrio perfetto che permetteva all'uno di precedere i pensieri dell'altro. Salomone si umettò le labbra, fermando la moneta. «Croce, potrai avere tutto ciò che vuoi. Te lo concederò senza fiatare» sibilò, ritornando al viso del fratello. Più che stanco l'avrebbe definito "provato", ma non comprendeva appieno quale fosse il motivo. «Testa,» iniziò, pensando a quanto amare fossero quelle parole: «potrai avere il prossimo ballo con lei e nulla più. Mai. Tornerai a casa con me e i tuoi fratelli e questa storia, questa tua...» si morse la lingua, incapace di pronunciare il seguito della frase. La sola idea di poterlo perdere, di essere a conoscenza che al mondo, per il suo Generale, esistesse qualcuno di più importante lo mandava in bestia. Strinse la moneta: «Più nulla.» ripeté lapidario.
Accanto a lui Levi fremette, impaziente e impaurito. Gli aveva concesso tutto sin dalla Notte dei Tempi, non gli aveva imposto nulla se non il tener fede al proprio giuramento, ma adesso basta. Quella sarebbe stata la sua ultima concessione.
«Ordunque?»
«Perché mi fai questo?» le narici di Nakhaš si erano allargate e le sue labbra si erano tese biecamente, rivelando quanto in quel momento provasse astio nei suoi confronti.
Il Sovrano tornò a giocare con il tallero: «Ti concedo vittoria in ambo i casi, non vedo cosa ci sia di male» lento, spostò la propria attenzione dalla moneta al centro della sala, incontrando l'origine di tutta quella storia. Lì, ferma in un angolo, il sorriso di circostanza in risposta a tutti quei boriosi nobili e borghesi e lo sguardo cupo di un condannato, cercava di camuffarsi con la tappezzeria. Quanto la odiava. Quanto avrebbe voluto che il loro incontro non avesse mai avuto luogo. Eppure, nonostante quei sentimenti, nonostante la logorante gelosia che provava per lei, sentiva una pena senza fine nei suoi confronti. Se solo Levi non si fosse invaghito di lei... «Allora?» quando si volse verso la Chimera la scoprì a fissarla, e amaramente si rese conto di non averla mai vista fissare qualcuno a quel modo. Lo stomaco gli si strinse fino a nausearlo. Come poteva desiderare un essere tanto effimero? Come poteva scegliere lei sopra alla propria famiglia, a lui? Li avrebbe abbandonati per qualcuno che sarebbe diventato polvere così velocemente...
Nakhaš si girò di spalle negandosi quella visione. Con una mano strinse il bordo del tavolo in legno, le nocche bianche: «Sai già la mia risposta.»
Il sorriso che gli tese le labbra Salomone lo sentì fastidioso, falso. Aveva davvero sperato che scegliesse un semplice ballo quando potevano attenderlo altri cento? Per un istante ancora esitò sulle pieghe ruggine dell'abito della Contessina Varàdi, sullo scollo interrotto dal misero giro di perle che lui stesso le aveva venduto, sulle sue guance imporporate dall'agitazione di sapersi alla gogna dei giudizi dell'alta società di Innsbruck e non solo. Di certo doveva star trattenendo la rabbia e le lacrime - e come biasimarla, visto il marito che si sarebbe presto trovata al seguito? Quel bastardo aveva visto più sottane di una sarta e persino quella sera non si era fatto alcuno scrupolo. Lo aveva sorpreso lui esattamente come l'aveva fatto lei. Chi dei due contasse il maggior numero di avvistamenti era un dubbio a cui Salomone decise di non dar risposta.
«Lanciala» sussurrò Levi a denti stretti mentre una lieve scossa attraversava il corpo del Re dal centro fino alle estremità. Per quanto amasse Nakhaš, non gli avrebbe concesso di scegliere qualcun altro, qualcuno così fragile, qualcuno diverso.
Il tallero allora volò e roteò su se stesso il tempo di un respiro; quando lo imprigionò tra il dorso di una mano e il palmo dell'altra Salomone già sapeva chi aveva vinto. E per quanto negli ultimi secoli avesse sempre confidato nel fato quella sera barò, conscio del fatto che suo fratello non avrebbe dubitato di quel risultato - di lui non lo aveva mai fatto, e di certo non avrebbe iniziato quella sera, sbagliando.

Il Sovrano finse di essere agitato, attese, poi rivelò a entrambi il verdetto.
Si umettò le labbra, lo stomaco stretto in una morsa nauseante: «Spero per te sia una brava danzatrice.» commentò cercando di risultare impassibile benché si sentisse felice e al contempo in errore, ignobile, egoista.
Come un brivido, la striscia di pelle tra il colletto della camicia e la tempia di Levi mutò. Un'onda di squame color carne si sollevò per poi sparire veloce oltre l'attaccatura dei capelli. Era ovvio che non fosse ciò che voleva. Era palese che se non fossero stati in un luogo gremito di gente avrebbe gridato e fatto di tutto per ottenere un'altra risposta da quella stupida moneta - invece dalle sue labbra uscì un secco "Non posso" prima d'ingollare in un sorso il vino rimasto nel calice.

Salomone sussultò. Che stava dicendo? Dopo avergli fatto passare le pene dell'Inferno in quell'ultima settimana rinunciava a lei così? No, quella risposta non gli piaceva. Celava troppo e questo, con Levi, non era un bene.
Rimettendo la moneta in tasca il Re lasciò che un'altra scossa riportasse le due facce alla normalità: «Rinunci?»
«Pensi che... la'azazel! (dannazione!)» La mascella gli si contrasse, i tendini del collo emersero minacciosi: «Mi fai assaggiare qualcosa che sai già non potrò avere, come una bestia incatenata ai piedi del banchetto del suo padrone! Mai...» la Chimera scosse la testa, procurandogli una fitta al fianco.
«O questo o nulla, akh
Tra loro s'insinuò un silenzio che parve dilatare il tempo, un'attesa infinita per il cuore del Re. Ad ogni secondo in cui il suo migliore amico stava zitto, soppesando quell'unica clemenza, lui si sentiva agonizzare. Più tempo passava, più i sensi di colpa sembravano volerlo ghermire per fargli cambiare idea, ma non avrebbe ceduto, non se in gioco c'era Levi. Così, senza attendere una qualche risposta da parte sua, Salomone si allontanò dall'angolo in cui si erano appartati. Aggrappandosi al tallero che ancora teneva in tasca si mosse lungo la sala a passo deciso incurante dei sibili che sentiva nelle orecchie. Avanzò tra gli ospiti, gli occhi fermi su Alexandria e nessun altro. Non si fece distrarre da alcun saluto o tentativo di chiacchiera da parte di chissà quale nobildonna o gentiluomo; il suo incidere non traballò nemmeno quando, con la coda dell'occhio, si accorse dell'ombra familiare che tentava di raggiungerlo. Peccato che arrivò alla vittima più velocemente di quanto la mano di Levi potesse agguantarlo e fermarlo.

La prima a notare la sua presenza fu Karina, la secondogenita dei Varàdi: «Lord Van Der Meer!» La risata della quindicenne suonò come un campanello di ceramica a ridosso dei timpani, una nota gioiosa in mezzo a tanto caos e, rispetto alla sorella maggiore, pareva starsi divertendo molto.
Salomone sorrise prima di inchinarsi alle due giovani e a loro madre poco dietro: «Quanta gioia mi reca il fatto che siate lieta di vedermi, Contessina.»
La piccola porse la propria mano per un saluto e come il bon ton le richiedeva si coprì la risata con il ventaglio: «Non dovrei? Siete il nostro salvatore, dopotutto!»
Anche Alexandria parve nascondere il sorriso. Era tesa non meno di quanto apparisse dall'altro capo del salone. Sotto la cipria, se si osservava attentamente, si riuscivano anche a intravedere i solchi delle occhiaie e, ancora una volta, Salomone si chiese cosa vi trovasse Levi di tanto bello in lei. Non aveva lineamenti aggraziati, i suoi occhi color muschio non vantavano una cornice di lunghe ciglia. Il suo seno non doveva essere più grande di una mela. «E' davvero un piacere vedervi, Lord Van Der Meer.» E con evidente esitazione gli diede la mano guantata.
«Già stufa delle pettegole di corte, mia cara? Mi duole informarvi che stasera avete gli occhi puntati addosso, miele per orsi.» I loro sguardi si incrociarono poco prima del baciamano. Lui lesse in quello di lei rassegnazione mista a riluttanza, lei una compassione che Salomone avrebbe voluto non provare nei suoi confronti e che, fu certo, non riuscì a nascondere.
La Contessina si divincolò dalla sua presa: «Chissà per quale dei miei tanti difetti, naturali o derivati.» Comprese con fin troppa facilità a cosa si riferisse. La odiava, sì, ma non veramente. In realtà solo da quando Nakhaš aveva confessato di voler restare a Innsbruck per lei. Per il resto Alexandria era solo una piccola martire, una donna che avrebbe dovuto vivere una vita diversa in un tempo diverso. Amava la lettura e ne parlava con trasporto, le piaceva giocare con le sorelle e correre scalza nei prati. Nei giorni di pioggia l'aveva vista fuggire da quell'edificio per rifugiarsi sotto le fronde degli alberi e inspirare il profumo della natura bagnata e più volte la madre l'aveva ripresa quando, con poco contegno, si era avvicinata ai cani-lupo del futuro marito per concedere loro una carezza.
La Contessa madre si schiarì la gola con un colpo di tosse, il viso leggermente arrossato per l'imbarazzo: «Santi numi, figlia mia! Difetti? Una futura Marchesa non ha difetti.» Probabilmente, nascosta dalla gonna della figlia, doveva aver tentato di pizzicarla per rimproverarla. «Sei una giovane colta, delicata, di sani principi e devota.» E in qualche modo, Salomone comprese quanto la donna credesse in quelle parole. Per quanto si sforzasse di adattarsi al nuovo rango e ambiente della figlia, amava ogni cosa di lei, sia quel suo essere ribelle, sia il suo animo puro. «Per non parlare dei tuoi talenti! Lord Van Der Meer, avete mai avuto il piacere di vederla danzare? E' radiosa, dovreste proprio invitarla al prossimo ballo!»
Ed ecco che, senza nemmeno dover faticare, la Contessa madre gli aveva servito su un piatto d'argento l'occasione perfetta per mettere in atto il suo piano. Il fato era nuovamente tornato a suo favore, pensò.
Benché si sentisse ancora soggiogato dalla stretta allo stomaco, Salomone allargò il sorriso. Volente o no.

«Che splendida idea, mia Signora» fu facile mimare entusiasmo, ormai era abituato a recitare, lo faceva da decine di vite; alle volte nemmeno riusciva a distinguere quali sue reazioni fossero reali e quali dettate dalla situazione. «Devo, ad ogni modo, rifiutare nonostante mi lusinghi sapere che riteniate la mia persona degna di tale onore.»
Un cipiglio deluso apparve sul viso della Contessa mettendone in evidenza le rughe: «Oh, come potrei non farlo? Siete per noi una persona di grande rispetto e valore. Per noi, per Alexandria,» poggiandole una mano sulla schiena provò a sospingerla nella direzione del Re, quasi invitandola a persuaderlo: «sarebbe un modo per onorare la vostra gentilezza.» Segretamente la ringraziò per tanta insistenza, per essere madre chioccia e donna di salotti borghesi. Desiderava così ardentemente che la figlia venisse coinvolta nella vita sociale della nobiltà che l'avrebbe spinta tra le braccia di chiunque pur di vederla al centro della pista da ballo, oggetto del desiderio per quel marchesotto tronfio che sarebbe diventato presto suo marito.
Salomone si girò, il palmo orientato verso l'alto mentre si rivolgeva alla figura rimasta immobile, furente, alle sue spalle: «Non sono che un ballerino da salotto, mie care, ma permettete che mio nipote» gli sorrise complice, fiero «accetti l'invito in vece mia.» Chissà se, se fossero stati soli, lo avrebbe afferrato per il bavero del frak e sbattuto al muro. Chissà se le sue nocche bianche avrebbero incontrato la durezza dello zigomo.

Un'attesa statica si insinuò tra i presenti. Nessuno osò fiatare per qualche istante, la Contessa non proprio piacevolmente sorpresa dalla proposta e la figlia maggiore intenta a far passare lo sguardo dall'uno all'altro senza capire, forse offesa. Di certo sentirsi rifiutare a quel modo doveva essere per lei fonte d'imbarazzo.
«Non credo che vostra signoria Alexandria voglia danzare con me, zio» sibilò Levi, chinando il capo in segno di scuse, rigido quanto una statua di marmo. Il sorriso di Salomone scemò appena. Il timore che ciò che stava facendo avrebbe potuto portare a ripercussioni più gravi di una semplice arrabbiatura gli pizzicò l'addome facendogli contrarre i muscoli.

Karina saltellò tra di loro, entusiasta e sfacciata come solo una fanciulla della sua età poteva essere: «Se mia sorella rifiuta, potete danzare con me, Levi. Potremmo fare invidia a gran parte delle debuttanti di questa stagione, insieme.»
Lentamente, la mano con cui stava indicando la Chimera perse energia, iniziando a calare verso il fianco. Perché non voleva ballare con lei? Credeva di scampare alla decisione presa dal tallero?
Gli angoli delle labbra di Nakhaš salirono. Non era un sorriso, ma il tentativo di non far trasparire il proprio disagio: «Dolce Karina-»
«Sarò invero lieta di danzare con il signor Levi, kis veréb (passerotto), non ti affannare.» Alexandria si mosse fino ad arrivare a un passo dalla Chimera e il cuore del Re perse un colpo: «Sempre se almeno a voi aggrada concedermi questo...» con un'occhiata fugace scrutò l'orchestra «valzer.» Gli porse la mano, ma non tremò nemmeno per un istante malgrado il suo portamento tradisse la tensione che l'aveva assalita. Non bastava la rabbia nel sapere che il suo futuro sposo fosse disperso da qualche parte con chissà quale delle sguattere, protetto dal silenzio dei genitori e dalla negazione della servitù, ora doveva anche sopportare il fatto che due uomini, per ragioni a lei sconosciute, non volessero ballare con lei.

Quanto dolore l'aspettava, pensò Salomone deglutendo a fatica. In un'altra vita, forse, non si sarebbe permesso di colpirla anche a quel modo.

Levi guardò le dita affusolate che lei gli stava porgendo, il candore del guanto che saliva oltre il gomito, poi si rivolse verso il proprio Signore, furibondo. Sapevano entrambi che se avesse afferrato quell'invito la loro scommessa sarebbe stata conclusa, un accordo sigillato e senza vie di fuga com'era stato deciso dalla moneta e dall'Ars. Rifiutare sarebbe però apparso crudele e, di certo, lui non si sarebbe mai perdonato di averle fatto del male gratuitamente.

Il primo accordo vibrò tra gli invitati, le gonne delle dame, le loro chiacchiere e i calici che in molti tenevano in mano. La mano della primogenita Varàdi tremò appena. La resa di lui, la debolezza del suo spirito di fronte a lei, arrivò giusto prima che dalle labbra schiuse di Alexandria potesse uscire una qualsiasi parola.
«Con permesso...» non si rivolse a nessuno nello specifico, ma parve comunque soffermarsi su Salomone più che sulle signore lì accanto, quasi volesse accertarsi di poter davvero procedere e di star così firmando la propria condanna.
Il Re li seguì con lo sguardo fino al centro della pista da ballo, il cuore in gola che gli fece credere di potersi strozzare in ogni momento e i palmi sudati. Li osservò mettersi l'uno davanti all'altra senza guardarsi veramente, in posizione. La Contessina persa sulle pieghe della camicia di lui, Levi oltre l'acconciatura di lei.

L'orchestra iniziò a suonare. Una nota dopo l'altra la sinfonia crebbe e i ballerini mossero i primi passi all'unisono come uno stormo che segue una traiettoria invisibile. Nakhaš afferrò Alexandria, prima la mano con cui l'aveva accompagnata, poi poco sopra la base della schiena avvicinandola a sé.

I polpastrelli di Salomone formicolarono, costringendolo a nasconderli. Avvertiva nitidamente il ritmo cardiaco della Chimera. Tra una ripresa dei violini e il susseguirsi dei tasti del pianoforte il cuore di Levi si fece più pesante e lui ascoltò quella sofferenza storcendo la bocca. Aveva mai provato qualcosa di simile all'idea di perderlo?
Osservò il proprio migliore amico condurre quella sciocca ragazzina con sicurezza, perso però in chissà quali pensieri, ancora restio a guardarla. Perché tanta riluttanza? Non era forse lei il motivo per cui avrebbe rinunciato alla vita eterna? Allora per quale stupida ragione non si stava imprimendo il suo viso nella mente? Era disposto a venir meno al suo giuramento per Alexandria, una semplice donna che si sarebbe persa nel tempo, non una regina né una principessa, men che meno un'alchimista. Nemmeno Colette era stata tanto sciocca quando Flamel era entrato nelle loro vite.

D'improvviso, a metà del secondo giro, la Contessina Varàdi alzò lo sguardo catturando sia Salomone sia Levi. Le sue labbra si mossero svelte, un sorriso dolce a tenderle mentre, impavida, lasciava che gli occhi mostruosi della Chimera affondassero nei suoi. Il Re s'irrigidì, ansioso provò a decifrare il suo labiale senza successo, troppo distante e troppo veloce. Ciò che comprese perfettamente fu il sussulto che il cuore di Levi ebbe. Lo avvertì come se gli appartenesse.
Dannazione!, pensò, cosa gli stava dicendo? Quali stupidaggini gli stava raccontando per portarglielo via?
Nakhaš si chinò accanto all'orecchio di lei con fare complice, terribilmente sensuale. Forse le rispose, oppure rise e basta; forse le concesse un sospiro. Di certo la strinse un po' più a sé per sollevarla in una piroetta a mezz'aria, innocente agli occhi di tutti tranne che ai suoi. Di cosa stavano ridendo? Quale segreto si stavano confessando? Che consistenza aveva il corpo di lei nelle sue mani?

Involontariamente Salomone avanzò di un passo nella vana speranza di udire qualcosa, ma un ospite gli si parò davanti impedendogli di andare oltre. Con lo sguardo tentò di ritrovare Levi e Alexandria in mezzo al marasma di ballerini. Li scorse in fondo alla sala, ancora stretti, troppo. Possibile che nessuno notasse come Nakhaš stesse provando a ridurre a ogni giro lo spazio tra loro? Se si concentrava a sufficienza Salomone poteva udire il fastidioso suono del cuore della sua Chimera ricolmo di gioia, sempre più vivo. Gli occhi gli pizzicarono e i denti digrignarono nella bocca; sentiva la lingua spingervi contro.
Un ondeggio alla volta, li vide avvicinarsi sempre più e quando la musica rallentò, iniziando a scemare, anche il palpitare di Levi si fece più lento e pesante.

Il suo regalo per quella vita stava giungendo al termine.

L'orchestra interruppe la performance, si alzò per prendere gli applausi dei ballerini, ma loro due rimasero fermi. I respiri grossi, le guance di lei più rosee e gli occhi meno cupi. Chissà se conosceva i sentimenti di lui. Chissà se li ricambiava con altrettanta smania. Chissà se avrebbe accettato un mostro al proprio fianco.

Le gambe del Re presero a muoversi, una falcata dopo l'altra si avvicinò a loro per allontanarli, per riprendersi Nakhaš e sparire per sempre nel mondo e nel tempo che li attendeva - ma prima ancora che potesse raggiungerli, il sorriso di Levi tornò a essere una linea dura sul suo viso. Gli occhi della Chimera si posarono su di lui come lame puntate alla gola. Salomone avanzò finché non ne sentì la punta a ridosso della pelle. Piuttosto che lasciarlo lì con lei, pensò, si sarebbe fatto sgozzare.
«Vostra madre non vi ha reso giustizia.» Sorrise, anche se era certo che Levi stesse incontrando sul suo viso un ghigno beffardo: «Non sono riuscito a staccare gli occhi da voi, Contessa.»
La confusione scese lentamente sul volto di lei. Restò a labbra schiuse per qualche istante, cercando di dare un senso alla tensione che certamente aveva sentito cadere attorno a sé. «Non adulatemi, Lord Van Der Meer. Vostro nipote ha saputo guidarmi con maestria. Persino la peggiore delle ballerine potrebbe sembrare portata con un cavaliere del suo calibro al proprio fianco.»
Sfortunatamente per lei, quella sarebbe stata la sua unica occasione.

Il Re chinò il capo: «Ho sentito dire che anche il Marchese è un portento, confido nel fatto che anche con lui saprete risplendere sulla pista da ballo.»

Un fremito fece tremare la mano di Levi. Salomone avvertì la furia, il desiderio di colpirlo e farlo tacere, ma Alexandria fu più svelta: «Hanno riferito anche a me delle sue doti. Mi spiace solo che stasera non si sia sentito sufficientemente in forma per partecipare alla festa. O quantomeno a questa.» deglutì, conscia che anche lui avrebbe compreso il suo riferimento, poi abbozzò un nuovo sorriso che doveva nascondere altro: amarezza, probabilmente. «Ora scusatemi, tutti quei volteggi mi hanno dato alla testa. Forse dell'aria fresca potrebbe aiutarmi.» Timidamente rivolse uno sguardo prima a lui e poi a Levi. Esitò. «Grazie per questo valzer, so che lo ricorderò con piacere.» Un dolore acuto aveva sorpreso Salomone. Chissà se tutto quel male, un giorno, Nakhaš l'avrebbe potuto dimenticare. Forse, con il passare del tempo, avrebbe compreso le sue ragioni e Alexandria, così come tante altre persone a cui avevano voluto bene, sarebbe sparita dalla sua mente. L'abito ruggine di lei smosse l'aria, il suo profumo di peonie e ciclamino lasciò come una traccia alle sue spalle, filo di Arianna per il cuore di Levi.

«Potevi risparmiartelo.» Un sibilo veloce, appuntito.
«A cosa ti riferisci?» Gli occhi di Salomone tornarono sulla Chimera, mentre quelli di quest'ultima rimasero impigliati nei merletti dell'abito della Contessina. Per quello che sembrò un tempo lunghissimo, Nakhaš non aggiunse altro, bramando con il cuore in gola di poterle correre dietro, di poterle confessare ciò che gli era stato proibito. Fu così facile leggerglielo in viso.
«A lei.»
Con noncuranza e tenendo le mani dietro la schiena, anche il Re la cercò tra gli invitati. La scorse giusto prima che un uomo dalle basette enormi si frapponesse tra loro e il resto delle persone lì presenti, cancellandola dalla vista così come le lancette degli orologi avrebbero fatto dalla vita. «La tua concessione è finita. Un ballo. E so per certo che se non fosse stata lei a congedarsi, tu non l'avresti allontanata.»
«Potrei ribellarmi a tutto questo, te ne rendi conto? Potrei semplicemente sparire dalla tua vita e tornare da lei.»
Il dolore aumentò, Salomone dovette afferrarsi lo stomaco: «Ed io potrei semplicemente schioccare le dita, akh. Tu non muoveresti un passo lontano dal mio fianco, mai più.» Una scossa gli fece pizzicare i polpastrelli, l'Ars a vibrare intimidatoria tra loro. Non aveva nemmeno una volta minacciato Levi a quel modo e si era ripromesso, negli anni, nei decenni, nei secoli, di non arrivare a tanto per nessun motivo - eppure eccolo a ritrattare i propri propositi per colpa di una donna qualsiasi. Aveva sempre permesso a Nakhaš di scegliere, di tenere volontariamente fede a un giuramento che non gli aveva neppure chiesto di fare - ma lui si era inginocchiato, quel giorno di tanto tempo prima, e aveva detto che mai lo avrebbe abbandonato.

Nell'oscurità dell'oblio più profondo, tu mi hai trovato. Mi hai porto la mano, Signore della vita e della morte. Il tuo sangue ha rimarginato le ferite che hanno piegato il mio corpo condannando l'anima che vi dimorava all'interno. Ove gli Déi tremavano, esitanti, tu sei sceso e mi hai raccolto, bestia senza valore ma con il vanto di possedere un luogo d'onore nel tuo cuore. Mi hai donato nuova linfa e differente esistenza, ordunque per colui che tanto ha osato, per l'uomo che ha conquistato i cieli più alti dell'infinito e le tenebre più fitte della fine del mondo salvando la mia sciocca anima mortale, giuro che mi farei trafiggere da altre migliaia di lame. Affronterei, senza più paura, i regni dell'oltretomba per trovare l'uscita e riprendere il posto al suo fianco, pronto a morire ancora e a rinascere senza fine.

Ciononostante, il suo essere tremava all'idea che la scia lasciata da Alexandria potesse sparire, impedendogli di ritrovarla.
La mascella di Levi si contrasse, i suoi occhi divennero ancor più inumani. Solo davanti ai nemici si era concesso quel lusso - e ora, a quanto pareva, il nemico era diventato l'uomo che per lui si era trasformato in un eretico.
«Puniscimi quanto vuoi, Salomone. Rendimi il tuo cane,» c'era resa oppure odio nella sua voce? Salomone non riuscì a capirlo, anzi, nemmeno volle saperlo: «fammi abbaiare al tuo volere, incatenami per diletto, per ricordarmi che non sono nulla più che una bestia da compagnia per te, ma chiedile perdono.»
Un sorriso confuso gli tese le labbra: «Perdono?» bastò uno sguardo per fargli capire a cosa si stesse riferendo e, forse, quello effettivamente glielo doveva. Sapeva già da sola a cosa fosse condannata, il fatto che lui le avesse ricordato quanto stretto fosse il cappio intorno al collo era stata una cattiveria gratuita.
Sospirò.
«Come credi, akh.» poi gonfiò il petto: «Ma appena avrò fatto ritorno ci congederemo da questa fanfara e torneremo dai tuoi fratelli.» Non attese una risposta, semplicemente si volse e provò davvero a seguire la traccia di profumo che Alexandria si era lasciata dietro, ora così dilatata e leggera nell'aria da poter mettere in difficoltà anche il miglior segugio.
Non si mise alcuna fretta, avanzando tra gli ospiti del Marchese come un fantasma. Forse qualcuno provò ancora una volta a fermarlo, a rivolgergli un saluto o un complimento, ma lui non fece altro che limitarsi a un sorriso a labbra strette per tutti. Ogni passo lo portava più vicino all'enorme vetrata da cui si accedeva alla balconata che dava sul giardino, e più lo spazio tra loro diminuiva più si rendeva conto di quanto amara fosse stata quella vittoria. Sì, Levi sarebbe rimasto con lui, ma a che prezzo? Il loro legame stava davvero diventando cenere e a giocare con la miccia era stato lui durante tutto quel tempo. Avrebbe dovuto fermarsi prima.

L'aria fresca della sera gli sfiorò le guance, riportandolo al presente. Le luci del salone si stagliavano, oblunghe, lungo la pietra della balconata fino al parapetto lungo cui coppie di amici o terzetti di dame imbellettate scambiavano chiacchiere di ogni sorta, ma tra di loro nemmeno l'ombra della Contessina Varàdi. Il suo abito non somigliava a nessuno di quelli delle donne in sala e, corrugando le sopracciglia, si chiese dove fosse finita. Aveva detto di andare a prendere una boccata d'aria, no? Quindi quella poteva essere la sua unica meta; inoltre l'aveva vista imboccare quella direzione.

Si volse da una parte e poi dall'altra, senza scorgere il suo viso tra quello dei presenti. Camminò ancora fino a raggiungere il limitare di quell'area e scrutò con crescente ansia il giardino. Non poteva certo essere sparita. Il suo sguardo cadde sulle siepi alte, basse, squadrate e rotonde, sulle piccole fontane che nell'ombra della sera si faceva fatica a distinguere e sentieri che a tratti sparivano dalla mappatura creata dal giardiniere - poi, come una visione, una sagoma spuntò lungo una di quelle linee di sassolini per sparire poco dopo dietro un muro di foglie. La riconobbe dal taglio gonfio dell'abito, dall'andamento sicuro e tranquillo. L'aveva vista passeggiare lì in mezzo con le sorelline e Levi così tante volte che ormai l'avrebbe distinta da chiunque; ma dove diamine stava andando? L'urgenza d'inseguirla, forse per un'inconscia paura che stesse fuggendo perché in quello scambio con Nakhaš lui le avesse promesso di salvarla dal suo destino, lo investì con una violenza tale che in un attimo fu alle scale. Nessuno lo avrebbe notato una volta che si fosse allontanato di qualche metro, nemmeno uno di quei borghesotti lo avrebbe visto inseguire la futura sposa, fermarla, chiederle spiegazioni. Quasi le corse dietro, in parte ricordando il punto in cui l'aveva vista, in parte immaginando quale strada potesse aver preso.

Se Levi avesse osato fare una cosa del genere, studiarsi un piano di fuga con lei, nemmeno riuscì a immaginare come avrebbe reagito.
Più il rumore delle chiacchiere e l'esibizione dell'orchestra si facevano lontane alle sue spalle, più le falcate di Salomone si allungarono. Aveva fretta, un'ansia che gli faceva battere il cuore a mille. Possibile che Alexandria Orsòlya Varàdi fosse disposta a mettere in ridicolo la propria famiglia fuggendo con un uomo che conosceva da sole due settimane? Possibile che Levi fosse stato capace di tanto? E quando aveva ideato quel piano?
Il Re svoltò per un vialetto che, per quel che gli sembrò di ricordare, doveva condurre alle gabbie dei cani-lupo del Marchese e, poco più in là, alle stalle. Il terrore che la Contessina stesse davvero tentando la fuga aumentò la nausea che sentiva agitargli lo stomaco.

«Arur! (Maledizione!)» digrignò, conscio che alla fine sarebbe arrivato a lei e delle scuse che doveva farle non vi sarebbe stata nemmeno l'ombra. Si passò una mano sul viso, odiandosi.
Arrivò alla fine del selciato e, senza nemmeno domandarsi che direzione quella mocciosa avesse preso, si girò a destra, bloccandosi.

Lei era lì, ferma, piegata su se stessa come se dovesse crollare da un momento all'altro. I raggi di luna a delinearne la sagoma tetramente. C'era qualcosa di insolitamente sbagliato nel modo in cui le sue spalle si alzavano e abbassavano velocemente. Non aveva corso, ne era certo, allora perché sembrava avere il fiato corto?
«C-Contessa?» Un groppo in gola gli impedì di deglutire, la consapevolezza di aver fatto un errore, a inseguirla, sempre più grande.
Alexandria si volse appena, il profilo sgraziato a rivelare della paura e, in lontananza, una macchia scura, goffa a mettere distanza tra sè e quel luogo. Salomone mosse un passo, poi i suoi occhi, come liberati da un incantesimo, caddero in basso, scoprendo una delle mani della ragazza chiazzata di quello che fu certo essere sangue.
«I-i-io...» singhiozzò senza piangere, bagnandosi le labbra: «io...» Cadde sulle proprie gambe come preannunciato, una macchia scura in espansione sul bustino dell'abito e il terrore sempre più evidente. In un attimo le fu accanto, le ginocchia batterono sul terreno duro e dei resti di ghiaia provarono a oltrepassare la stoffa dei pantaloni.
L'agitazione lo sopraffece, l'odio per lei si dissipò completamente. «Chi è stato?» le chiese d'istinto realizzando cosa fosse quella sagoma sfocata. Le tremava il labbro, gli occhi erano lucidi, ma ancora nessuna lacrima: «Alexandria, ditemi chi è stato?» gli importava, sì, ma sapeva anche che in quel momento non avrebbe fatto nulla per portarla in salvo o consegnare il suo attentatore alla giustizia. Vista la situazione, sarebbe stato lui l'unico a venir incriminato.
Un'ombra calò su di loro, il cuore gli si bloccò in gola. Aveva gli occhi fissi sulla Contessina, eppure capì subito di chi si trattasse.
Strinse le labbra in una linea dura e socchiuse le palpebre, sentendosi un mostro: «Dobbiamo andarcene.» Lei non disse nulla. Sembrava un infante tra le sue braccia, così cheta e innocua.
«No...» un brivido gli scese lungo la schiena facendo fremere anche lei.
«Levi...» ringhiò, inconsapevolmente stringendo la contessa a sé e macchiando la propria camicia con il sangue di lei: «Yaashiymu otanu im nishear (se restiamo ci daranno la colpa).»

«Non posso.»
Salomone strinse i denti. Stava scherzando? Intanto, a ridosso del suo petto, Alexandria non dava segni diversi dalla più annichilante calma. Sentiva il respiro faticarle oltre le labbra.
«Taqeshiyv li! Anakhenu khayavim lalekhett (ascoltami! Dobbiamo andarcene). Hu gvss (sta morendo).» Finalmente si volse a guardare il fratello. Le narici di Levi erano grandi, lo sguardo così inumano e febbrile da farlo rabbrividire come al cospetto delle porte dell'Inferno stesso. Non gli stava dando retta. La sua mente già lontana, persa in chissà quale angolo buio. «Akh!» lo chiamò.

«Allora vai.»
«C-come?» Un mugolio gli fece capire di star stringendo troppo forte la ragazza. «Cosa stai blaterando?»
«Vattene, Salomone!»
Le dita affondarono nel tessuto ruggine, crearono solchi nella carne soffice: «Non metterti a fare il capriccioso...» poi un colpo di tosse li fece sussultare entrambi e quando tornò a fissare Alexandria la trovò terribilmente pallida, in bocca una saliva densa e rossa. Presto sarebbe soffocata nel suo stesso sangue e lui si sarebbe per sempre ricordato il peso di quel corpo. Provò a lasciarla, ma le braccia non collaborarono. «Tu vieni con me, Levi.»
Un fiato poco distante dal suo orecchio, poche lettere confuse lo sfiorarono e una fitta al centro del petto lo tradì. Ancora una volta i suoi occhi incontrarono quelli della Contessina. La patina della morte aveva preso a calarle sullo sguardo trasformando il muschio delle sue iridi in melma. Che fine ingiusta a un'esistenza ingiusta, pensò; e in parte era colpa sua. Lui l'aveva offesa e lei era fuggita nell'oscurità di quel giardino incontrando... chi? Un malintenzionato? Un nemico del Marchese? Una delle sue amanti gelose? Non ne aveva la più pallida idea.

«Az tatsil otah (dunque salvala).»
Il cuore perse un colpo, le membra fremettero. Cos'aveva detto?
Stavolta, quando si rivolse a Levi, comprese che ciò che avrebbe fatto con Alexandria avrebbe decretato il loro destino. Ars o meno, suo fratello lo avrebbe lasciato - se non nel corpo, nello spirito.
«I-io... ho fatto un-»
«Ta'asseh et zeh ani aqeshiyv lekhal mah sheatah omer (fallo e ubbidirò a ogni cosa dirai).» Il viso di Nakhaš divenne una maschera di squame, le sue nocche si fecero bianche nello sforzo di trattenersi: «Eynekha ohev (Non l'amerò). Lo omer lekhe mashehu (Non le dirò nulla). Eheyeh hal'aani lo yakhol la'amod mulam la'azov ett hatsad shelekha leshaqul ett zeh (Le starò lontano e non oserò più lasciare il tuo fianco o pensare di farlo), hamelekhe sheli (mio re).»

Salomone si morse la lingua. L'ultima volta che aveva udito tanta fermezza nella voce di Levi era stato più di mille anni prima e, amaramente, sapeva che ciò che gli stava offrendo sarebbe stato un scambio alla pari, un giuramento che li avrebbe tenuti legati: la vita della persona che più amava per la sua.
 

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