La strega e il cacciatore

di shana8998
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Strega ***
Capitolo 2: *** Cacciatore ***
Capitolo 3: *** Spettro ***
Capitolo 4: *** Anima ***
Capitolo 5: *** Maligno ***
Capitolo 6: *** Zaffiro ***
Capitolo 7: *** Demonio ***
Capitolo 8: *** Non mentirmi ***
Capitolo 9: *** La condanna del bambino fantasma ***



Capitolo 1
*** Strega ***


                                                                                        Strega

C'è qualcosa di spettrale in un corpo toccato dalla magia. Quasi tutti notavano per prima cosa l'odore: non la puzza di marcio tipica della putrefazione, ma un miasma dolciastro nelle narici, un sapore acre sulla lingua.
Qualcuno, di rado, percepiva anche un fremito nell'aria. Un'aurea che aleggiava sospesa sul cadavere del malcapitato: perché è di questo che si parla, di malcapitati.
Persone normali, anonime. Vittime. Le stesse che venivano colpite da sortilegi e irreversibilmente, perdevano da prima se stesse e poi la vita.
Nell'ultimo anno erano stati trovati tredici cadaveri: più del doppio dell'anno precedente.
La Chiesa, il corpo di polizia, l'intero stato si era sforzato di mantenere il segreto riguardo le circostanze di quelle terribili morti e tutte le vittime erano state dapprima seppellite in bare chiuse e in seguito, seguendo un repentino cambio di programma, bruciate.
Streghe: qualcuno aveva azzardato questa parola durante un notiziario.
Pensare che nel ventunesimo secolo possano esistere donne dotate di certi poteri ed in grado di possedere altri umani o di lanciare malefici e chissà quale altra follia, è da pazzi. Eppure è così. Le streghe esistono, sono esseri letali ed io sono una di quelle.
«E' di stamane la notizia del ritrovamento del settimo cadavere, Camila Labelle, figlia dell'imprenditore Ector Labelle. La ragazza, appena maggiorenne, giaceva esanime sulla riva del fiume Hudson[...]»
Camila era scomparsa nel cuore della notte e, con mio grande sgomento, era riapparsa - con la gola squarciata - sulla riva di quel maledetto fiume. Sapevo di trovarla li. Avevo captato la sua vita spegnersi, forse, un attimo prima che accadesse ed ancor prima di vederla nella mia testa, con la mera speranza di trovarla  prima che la vita le venisse meno. Una volta arrivata sulla riva dell'Hudson, però, potei solo constatarne la morte.
Comunque,  la cosa peggiore non era di per se la morte ma il modo in cui era morta.
I suoi lineamenti erano cambiati - troppo cambiati.
A ventiquattro anni era diventata vecchia.
Le rughe, la cataratta, i capelli bianchi. A quel punto non c'era molto da capire: era stata vittima di un sortilegio.
Chi poteva avercela con lei? Camila era una ragazza adorabile. Al College era un'allieva modello. Studiosa e dalla media altissima in quasi ogni materia; faceva parte di diversi corsi extra-scolastici ed anche in quelli emergeva come la punta della stella di un albero di Natale.
Per non parlare, poi, del suo modo di rapportarsi agli altri. Le avevo dato l'appellativo "Caramellina" proprio per il suo eccesso di dolcezza e carineria verso tutti, anche verso chi non era affatto dolce e carino con lei.
Ma se Camila poteva non aver nemici, suo padre Ector - il ricco imprenditore Ector - invece, ne aveva accumulati molti.
Ero quasi certa che uno di questi portava la gonna e lavorava in qualche casino della zona.
E' consuetudine delle streghe, quella di appoggiarsi nei bordelli. Li è più semplice procurarsi la linfa vitale.
Le Mantidi rosse.
Le chiamano così proprio per la loro predilezione nel togliere la vita agli uomini. Per questo, il più lavora come escort nei casini di New York. Proprio come la mia amica Colette...

«L'hanno trovata» Dissi ancor prima che mi facesse entrare nella sua stanza «E' stata una strega. Una di voi.».
Colette mosse un passo indietro: il viso contrito.
Entrai nella sua stanza lasciando che la luce rossa, che traluceva dalla abat-jour sul piccolo comodino bianco, mi invadesse il viso.
Chiuse la porta alle mie spalle e respirò pesantemente.
«Parli di noi streghe come se il nostro sangue non ti appartenesse».
Erano settimane che lei ed io litigavamo in balia delle incomprensioni, di quel mio rifiuto.
Non volevo essere una strega. Non ero una Sanguinaria come loro, non avevo mai ucciso nessuno. Io sentivo e vedevo la gente morire per colpa delle Mantidi e l'unico mio desiderio era quello di poter salvare almeno una vittima.
Altre avrebbero pregato per partecipare a quel Purgatorio.
«Quanti nei hai uccisi, Colette? Tre, dieci, venti? Quanti, solo questa settimana?»
Colette serrò la mascella e le sue gambe esili e ambrate percorsero velocemente la stanza per un paio di volte. I nervi la stavano divorando. Raccolse alcuni indumenti sparsi e li risistemò maldestramente dentro il cassetto di un comò.
«Non abbastanza e comunque non una ragazza. Mai, una ragazza!»
Quando avevamo incominciato ad odiarci io e lei? Quando, le nostre strade avevano fatto capolino dinnanzi ad un burrone ed io ero rimasta indietro?
Colette, da quel burrone, si era lanciata.
Aveva accolto la sua maledizione come un dono ed era fiera delle sue origini, di quella stirpe maledetta.
«Lucille-» si fermò di colpo difronte a me raccogliendo le mie mani nel suoi palmi «posso giurarti che  nessuna delle streghe qui dentro ha torto un solo capello a quella ragazza». Il viso di Colette sprigionava nel mio petto una terribile incertezza. Avevo la mesta sensazione che quel sorriso triste e quegli occhi lucidi fossero solo apparenza. Una maschera posta sul viso di una verità che mi avrebbe fatto soffrire.
Ma Colette era come una sorella per me. Non ricordavo un solo momento trascorso senza di lei. Le disavventure, la migrazione verso il nuovo stato, avevo passato tutto con lei.
«Voglio crederti» Le avvolsi un braccio sulle spalle appena coperte da un filo di raso bianco «Scusa se ho dubitato di te, Colette.».
Ricambiò la mia stretta «Giuro che ti aiuterò a trovare chi le ha tolto la vita. So che eravate amiche e ti conosco, stai soffrendo»
La sua mano esile si mosse lungo il mio braccio, trascinandosi le dita fino a sfiorare le mie vene. Le carezzò delicatamente «Lo sento dal tuo sangue.»
Ci sono molte, moltissime cose che le Mantidi sanno fare ed una di quelle è persuadere chiunque esse vogliano.
Sono ammaliatrici, in grado di farti fare qualsiasi cosa.
Ritrassi il braccio e le pagliuzze d'oro nei suoi occhi da cerbiatta smisero di brillare all'istante.
Il volto di Colette tornò serio, seccato.
«Ora...devo proprio andare.»
Ultimamente, dopo che i suoi poteri da strega si erano manifestati in tutta la loro brutale magnificenza, Colette mi metteva a disagio.
«Dove?» Si mosse verso il piccolo baldacchino coperto di pompose coperte di tulle bianco e rosato, lasciandocisi cadere sopra di schiena. Intrecciò le braccia sotto la nuca e spostò lo sguardo su di me «A casa? In ostello? Dov'è che andrai?»
Ci volle un attimo perché la sua voce balzasse da uno stato d'animo all'altro: ora era irritante.
«Voglio schiarirmi le idee. Fare un giro in centro, magari.» Il mio sguardo planò alla moquette vinaccio ed alle ciabatte con un accenno di tacco e tante, tante, piume incollate sulla fibbia.
«Fa come ti pare» Sospirò ruotando a pancia in giù «ma cerca di non farti beccare. Ora che loro sanno che è stata una strega, non tarderanno a cercarci.»
Mi abbottonai la zip della felpa sin sulla gola, «Vale anche per te» e raggiunsi la porta, «sono quasi certa che incominceranno proprio dai bordelli, perciò...cerca di non esserci quando loro saranno qui.».
Lasciai che la manopola scivolasse nel mio palmo e la girai. Uscii dalla stanza, prima che Colette potesse aggiungere altro, calandomi sulla testa il cappuccio. Speravo che il buio di quel corridoio mi divorasse allo stesso modo dei pensieri martellanti nella mia testa.
Un attacco da parte di una Mantide prevedeva una ed una conseguenza soltanto: la caccia alle streghe.
Si sarebbero mossi tutti, dalla Chiesa alle autorità...ai Cacciatori.
Ciò che mi preoccupava di più, in quel momento, erano proprio loro.
Giravano leggende sulle atrocità che loro riservavano a noi streghe. Catturarci non significava soltanto farci confessare il misfatto, no. Saremmo state vittime di violenze indecenti - torture -, che ci avrebbero portato solo a pregare la morte.
Mi colse il terrore di trovare Colette proprio come Camila. Uccisa, questa volta, da un Cacciatore.
Uno spasmo mi fece quasi piegare, mentre scendevo lungo la scalinata di legno stretta e scricchiolante del piano riservato alle cortigiane.
«Lucille? Sei tu?» Incespicai sull'ultimo scalino quando la voce di Babette mi solleticò la nuca.
La vecchia strega, cieca e avvizzita, si caracollò annaspando nel buio dei suoi occhi vitrei con un braccio sollevato alla ricerca della ringhiera di legno.
«Baba, sono io.» 
La sua mano rugosa mi sfiorò una guancia. «Piccola mia, vai di già?»
C'era un ritaglio nel mio cuore che rievocava il periodo passato in Francia, quando ancora Colette ed io eravamo poco più che bambine e Babette si prendeva cura di noi.
Annuì un paio di volte ed io mi interruppi «Si, ho-».
 «So quello che ti passa per la testa, piccola mia. Ma non ti preoccupare, vedo un futuro stupendo per te.»
Sorrisi dimenticandomi all'istante ogni preoccupazione, proprio come quando, da piccola, incominciavo a vedere volti sconosciuti spegnersi e correvo nel suo letto in preda alle lacrime.
«Ho paura» Mormorai. Era difficile impedire alla voce di non scappare dalle mie corde vocali rotta.
Avrei voluto piangere stretta fra le sue braccia.
«Tutte ne abbiamo. Ma non accadrà nulla se resteremo unite.»
Non avrei mai detto a Babette del mio rifiuto. Non avevo accettato il rito di purificazione, nè il battesimo da strega. Ma a lei dissi che li avevo rimandati perché questo era quello che la mia anima magica mi diceva di fare.
Baba non obiettò, ma io sapevo che era in attesa. Avrebbe assistito alla funzione in lacrime, proprio come aveva fatto per Colette.
«Torna presto, Lucille» Mi diede due buffetti sulla guancia. Di colpo ripiombai nel presente ma tutto mi era più chiaro.
Dovevo tornare sulla riva di quel fiume. Solo li avrei trovato degli indizi.
Annuii regalandole un bacio sulla fronte e poi corsi verso la porta di vetro. La campanella tintinnò ma, ancor prima di quel suono, avvertii l'aria gelida di Novembre graffiarmi le guance.
Mi calai nel gelo dell'autunno perdendomi fra la folla di gente che rincasava da una lunga giornata di lavoro o da una passeggiata e sperai, ancora una volta, di sparire fra di loro.

L'Hudson era illuminato da un faro sul cavalcavia sopra la mia testa. La luce bianca del led rendeva il manto del fiume un'enorme distesa nera, e l'erba grigia e spenta.
Percepivo il cuore di Camila: non mi parve strano. Avevo già avuto una sensazione simile nonostante la vittima fosse già morta. Era successo con Matisse, il mio gatto.
A cinque anni, Colette aveva incominciato a mesticare con gli incantesimi ed uno di questi prevedeva un sacrificio. Il mio gatto.
Ricordo vividamente che lo cercai per due notti e due giorni avvertendo il suo cuoricino battere all'impazzata nella mia testa. Poi, quando raggiunsi un punto nel bosco attorno casa e vidi quella grande bruciatura sul terriccio, il suo cuore smise di rimbombarmi nella testa.
Capii che fosse morto li.
Non ho mai perdonato Colette per quel gesto, anche se Baba la giustificò dicendo che per lei gestire le sue pulsioni da Mantide, alla sua giovane età, non era facile.
Poteva provarci. Poteva farlo per me.
Ad ogni modo, adesso stavo provando la stessa sensazione. Un misto di angoscia e fretta che mi obbligava a correre fra l'erba scura e umida, incespicando qua e la, quasi da costringermi a raddrizzarmi prima di finire per terra.
Solo quando il cuore di Camila divenne un soffio nella mia testa mi fermai.
Li, nel punto dove l'avevo vista morire, c'era dell'erba schiacciata. Se avessi osservato un po' meglio, avrei potuto vedere la sagoma del suo corpo.
Mi chinai poggiando una mano li dove potevo immaginarla riversa.
Sfiorai l'erba, era calda sotto il mio palmo. Non tenni conto di quel dettaglio: la mia pelle aveva arso altre volte per lo stesso motivo.
Noi streghe percepiamo il calore di un corpo morto anche dopo settimane.
Ciò che, però, mi colse del tutto impreparata fu la sabbia depositata sui fili d'erba.
Sabbia che nessun cadavere, vittima di una Mantide, lascia dietro se.
La sabbia era più il risultato di un rito esoterico, una possessione più forte di quella prodotta da una Sanguinaria.
Chi era in grado di un simile sortilegio? Ci vogliono decine di linfe vitali per poter possedere in tal maniera qualcuno.
E poi, il corpo di Camila era avvizzito, imbruttito. Tutto mi sapeva di vendetta, di perfidia. Le Mantidi cacciano per fame, per-
«Ferma li, strega!»
Il cuore fece un tuffo nel vuoto del mio petto.
Gli occhi, al contempo, mi pizzicarono come se ci avessi spruzzato del limone.
Alzai il capo di scatto, dritto sull'unica sagoma ,oltre la mia, su quella riva.
«U-Un» I tremori mi pervasero a tal punto che fu impossibile non traballare risollevandomi.
«Cacciatore...».
Nel buio non potevo vedere che la canna della sua pistola riflettere il bagliore del lampione sulle nostre teste.
Mossi, per istinto, un passo indietro e lui gridò ancora.
«Non un altro passo o sparo!»
Nel marasma confuso dentro la mia testa riuscii a farmi coraggio: se avesse voluto spararmi lo avrebbe già fatto.
Sollevai, così, entrambe le braccia, «Non sono una strega.», pregando clemenza dentro di me.
«Fa silenzio!»
Intimò ancora, questa volta venendo verso di me.
«Credimi, ti stai sbagliando! Non sono una strega, la ragazza che è morta qui era una mia amic-» Sollevò un braccio al cielo e sparò un colpo che d'istinto mi portò a rannicchiarmi verso terra stringendomi sul capo le braccia. Serrai gli occhi.
«Dimmi il tuo nome, strega!» E quando tornai a guardare, l'unica cosa che vidi fu la punta dei suoi stivali.
Era ad un passo da me e ciò mi tolse il fiato.
«Non uccidermi ti prego» Lo supplicai tremante «Non sono una strega». Il volto bruciò intensamente sotto i flotti di lacrime che me lo stavano graffiando.
Il cacciatore afferrò il mio polso sinistro con irruenza e lo scoprì dalla manica della felpa.
Fu allora che mi diedi la forza per guardare il suo viso e i suoi occhi chiari si spalancarono tristemente sorpresi.
«Non c'è.» Proferì senza fiato «La stella non c'è!» e poi con rabbia.
Mi lasciò andare il braccio con uno strattone.
«Te lo avevo detto, non sono una strega» Mi risollevai, ed ora, la mia voce aveva riacquistato tutta la sua tenacia.
Aggrottai la fronte e lo fissai con un cipiglio marcatissimo mentre mi asciugavo le lacrime con la manica della felpa.
Lui mi fissò per un istante, inespressivo, come se fosse normale aggredire una persona in quel modo.
«Gradirei delle scuse, comunque»
Le sue palpebre si abbassarono di un millimetro «Che ci fai qui? E' notte e questa è la scena di un crimine.»
Anche se mi parlava con molta più pacatezza, il fatto che non mi avesse chiesto scusa marcava il mio pensiero sui cacciatori.
Erano assassini. Punto.
Che la polizia e la Chiesa li avesse assoldati per proteggere le persone mi lasciava perplessa proprio per questo.
«Come ti ho detto, era una mia amica.»
«Ah.»
Ah?
«Bene-» Gesticolai facendo un passo indietro «credo sia ora che io vada.»
«Non così in fretta.» Ebbi nuovamente uno spasmo «Sei un umana, dico bene?»
Annuii.
«Allora perché quella sabbia ti è rimasta attaccata alle dita?» Indicò, con l'indice di una mano ed il cenno del capo, le mie dita.
Le guardai. Dannazione! Era veramente ancora li!
Corsi verso la riva del fiume. «Devo essere inciampata e forse ho toccato la sabbia sulla riva».
Strofinai per bene le mani nell'acqua, quasi a ferirle ma, per fortuna, la sabbia sparì.
«Ecco, vedi? E' andata via.» Gli mostrai i palmi delle mani ben aperti e dietro essi un enorme e tirato sorrisone.
Sembrò convinto. Io ero confusa, invece. Quella sabbia sarebbe dovuta restare sulle mie dita per un bel po' di giorni avendo io il sangue di una strega.
«Bene.»
Dentro di me, mi sentii quasi salva.
«Ora mi lasci andare?»
Incrociai mentalmente le dita. Non bastò.
«Non è il caso che un'umana giri di notte per le strade di New York con i tempi che corrono. Ti accompagno a casa.»
Deglutii a vuoto. 
Casa? Quale casa? Quella con Babette e Coco, l'ostello-barra-night club-barra covo delle Mantidi? 
Scossi la testa; le labbra tiratissime «No, guarda non è il caso.»
«Non ti sto facendo un favore, devo farlo. Perciò è meglio che ti muova, inizia a far freddo sulla riva.»
Decisamente, aveva dimenticato le buone maniere a casa.
«E' che io una casa non ce l'ho.» Mi affrettai a dire. Era già in marcia e pareva non considerarmi affatto.
«Ehy, mi hai sentita?» Affondai un piede nella melma umida rischiando di finirci di faccia. Per fortuna mi ripresi in tempo.
«Dico a te, Cacciatore!»
Il ragazzo si voltò troppo in fretta: quasi ci andai a sbattere.
«Si, ti sento. Puoi anche non gridare.»
«Allora se mi hai sentita, perché non mi lasci andare?»
Sollevò entrambe le sopracciglia «E' dove? Hai detto che una casa non ce l'hai.»
Eh...be', l'avevo detto.
Mi morsi un labbro.
«Ok. Non mi sembra che ci siano molte altre opzioni, perciò-»
«Perciò» mi sovrastò «non ti costerà nulla seguirmi. Faremo il giro di ronda e poi ti porterò a casa mia.»
Le guance mi si gonfiarono di colpo. Sbottai in una tronfia risata.
«Non dire cretinate! Non andrò a casa di uno sconosciuto! Potresti...Potresti farmi miliardi di cose terribili!»
Mi rifilò un'occhiata eloquente «Giusto. Mentre qui, sulla riva dell'Hudson, sola, di notte, con degli assassini in giro, sei più al sicuro. Giustamente.»
Adesso mi mordevo l'interno della guancia cercando di non piangere nuovamente.
Come diavolo mi ero cacciata in una situazione così assurda?!
«Rilassati. Non ti farò niente e poi...non sei il mio tipo.»
Non son-Come prego?
«Ma certo! Con queste parole ti sei conquistato tutta la mia fiducia!»
Tornò a camminare disinteressato quasi più di prima. Però ridacchiò.
«Se la fai lunga!»
«Che insolente! Non ti hanno insegnato le buone maniere?»
«Tic-tac, tic-tac, il tempo scorre!»
«Oh sei veramente insopportabile!»
Le sue spalle vennero scosse dal fremito di una risatina. La seconda da quando lo avevo incontrato.
Era decisamente la peggior situazione che potesse capitarmi.

 

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Capitolo 2
*** Cacciatore ***


                                                                                          Magia nera
Le streghe erano sempre accompagnate da quell'odore. Dolciastro, con un sentore di erbe, ma pungente: troppo pungente.
Ancora adesso,  quel vago aroma me lo sentivo bruciare in gola. L'avevo seguito lungo tutta la riva dell'Hudson e mi aveva portato da questa ragazza.
Ero certo di aver captato una strega, ero pronto a far fuori chi aveva ucciso la povera Camila, ma poi...la stella non c'era.
Quell'odore, una volta raggiunta la scena del crimine, era sparito lasciando spazio a due grandi occhi verdi innocui.
«Ne abbiamo ancora per molto?»
Lucille, così mi aveva detto di chiamarsi, non la smetteva di massacrare le maniche umide della sua felpa, fissando la strada oltre il parabrezza, e le persone che passeggiavano lungo il marciapiede accanto alla nostra auto.
Aveva l'aria annoiata e smaniosa di andar via allo stesso tempo. Ma non lo avrei permesso.
Non mi ero mai sbagliato in passato: quando sentivo quel fetore, subito, appariva anche una strega. E se quel fetore mi aveva portato da lei, allora molto probabilmente doveva essere una strega camaleontica e molto brava a nascondere la sua identità.
«Manca ancora un po'.»
Allungai una mano verso il cruscotto alla ricerca del mio pacchetto di sigarette. Di riflesso, Lucille allontanò entrambe le ginocchia verso la portiera.
«Come fai a fare - questo - tutta la notte?».
Mesticai con la mano al suo interno e finalmente lo trovai. Ne cacciai fuori una, assieme  all'accendino, dall'astuccio morbido delle Marlboro rosse; arsi la fiamma e respirai una boccata.
«Come faccio a fare cosa?»
Spostò la testa ed il suo sguardo piombò su di me.
«Startene qui, dentro la tua auto, a fissare il vuoto. Non dovresti essere per strada a caccia di streghe?».
Aggrottai la fronte.
«Noi cacciatori non facciamo questo. Per lo meno non come lo intendi tu. Le streghe sono esseri difficili da trovare. Ad esempio se adesso facessi irruzione in un bordello, stai pur certa che troverei solo prostitute smarrite e spaventate. Non streghe.»
Una scintilla le balenò nello sguardo. Ora si, che sembrava più interessata alla conversazione: si era mossa sul sedile con le braccia agganciate alle ginocchia e l'espressione curiosa.
«E come le stanate?»
Una parte di me sapeva che quella ragazza era una strega, eppure, per quel momento, ero certo che fosse una ragazzina come tante altre, incuriosita da tutto ciò che di mistico c'era a New York.
«Non le staniamo-» mi passai una mano sul mento «diciamo che aspettiamo che si manifestino.»
«E lo fanno?» Lucille si scostò una ciocca  liscia dalla fronte.
«Mh, direi che è più probabile che una Mantide lo faccia.»
La sua bocca sottile e piccola formò una O di stupore.
«Quindi, voi avete catturato molte...Mantidi»
Perché stavo facendo questo genere di discorso con lei, se probabilmente era umana?  Secondo il voto io non potevo - per nessun motivo - rivelare dettagli del genere ad una persona normale.
Tirai un'altra boccata di fumo, passandomi una mano fra i capelli.
«Diciamo di si. Ad ogni modo non credo che siano questi i discorsi che dovrei intrattenere con un'umana» -A patto che tu lo sia.
Si inumidì le labbra e tornò a fare scivolare le sue gambe giù dal sedile.
Lo sguardo, ora, lo rivolgeva alle sue cosce.
«Già, hai ragione. Noi umane non dovremmo essere a conoscenza di certi dettagli».
Aveva detto umane e lo aveva fatto in una maniera che lasciava adito a parecchi dubbi. Non aveva dato un tono preciso a quelle poche lettere, come se quella parola non le appartenesse affatto.
O forse era tutto frutto di una mia congettura?
L'osservai. Forse per un attimo mi persi proprio a guardarla: non aveva nulla che ricordasse l'aspetto di una strega.
Le streghe non hanno i capelli chiari, né gli occhi verdi. Le streghe hanno le pagliuzze che scintillano nelle iridi quando sono accanto ad un cacciatore, hanno fame di linfa vitale e non se ne stanno tranquille appollaiate sul sedile di un'auto con il presunto aguzzino seduto accanto.
Lei non aveva molte cose che le streghe hanno.
«Uffa! Che noia!» cantilenò sprofondando in una posizione quasi fetale sul sedile, con le ginocchia che toccavano il cruscotto «Perché non scendiamo?»
No, decisamente il suo atteggiamento non era quello di una strega.
«Per andare dove?»
Si voltò a guardarmi con un grosso sorriso furbo stampato in faccia. La sua mano corse alla maniglia dello sportello e in un batter d'occhio si catapultò sul marciapiede.
Lanciai a volo il mozzicone dal finestrino e scesi.
«Ho fame» disse, già parecchio lontana dall'auto «Perché non ci fermiamo in quella caffetteria?»
Avrei potuto decidere di abbandonarla li, ma c'era sempre quel presentimento che mi impediva di farlo.
«Dobbiamo restare in auto!».
Alzò gli occhi al cielo e mimò di scacciare l'aria con la mano. Poi, tornò a camminare trotterellando verso Mary's Bakery.
Le campanelle sulla porta della caffetteria tintinnarono ed una zaffata di vaniglia mi travolse.
Mary's era semi-vuoto quella sera: giusto qualche coppietta ed una famiglia che trangugiavano coppe gelato e Smoothie.
Lucille si piantonò davanti la grande vetrina colma di dolci. 
I suoi occhi brillavano davanti a quelle leccornie e ammetto, che venne fame anche a me guardandole.
«Mh-» Mugugnò «mangerei tutto quello che c'è qui dentro!»
«Moriresti di diabete» l'accostai fissando gli enormi croissant colmi di crema al pistacchio esposti su un vassoio proprio davanti a me.
«Devi per forza farlo?» Sollevò gli occhi a me.
«Cosa?»
«Razionalizzare qualsiasi cosa venga detta.»
Feci spallucce.
Probabilmente essere realista è la prima cosa che mi è stata inculcata quando sono nato, assieme all'odio per le streghe, ovviamente. Sono figlio del regime autoritario del vescovo a capo del clan dei cacciatori, non potrei essere diverso da quello che sono.
«Vediamo...» Tornò a fissare la vetrina con aria indecisa «Prenderò questa e...questa e-»
«Per me va bene un croissant vuoto e un caffè.» La commessa sorrise timidamente e con una pinza afferrò ciò che avevamo scelto.
Lucille mostrò un broncio irritato «Stavo finendo di ordinare!». 
Mi voltai diretto al primo tavolino libero che i miei occhi erano riusciti ad intercettare. Percorsi il locale solcando il pavimento di marmo chiaro illuminato fiocamente dai led a luce naturale attorno al bancone.
«Due caffè!» Dissi allora, alla commessa con noncuranza, scostando una delle due sedie di ferro nero, con la seduta imbottita, dal tavolino.
Lucille piombò su quella difronte alla mia: le braccia conserte dimostravano quanto fosse seccata.
«Ti hanno mai detto che sei insopportabile?»
Afferrai il porta fazzoletti rettangolare, facendolo girare su uno dei quattro angoli con un dito, osservandolo come se non ci fosse altro da guardare in quel locale.
Lu allungò una mano verso il mio passatempo facendolo tonfare sul tavolino di vetro.
«E a te?» Gracchiò con gli occhi ridotti a due fessure.
Sospirai.
«Ecco i vostri cornetti.» Per fortuna la commessa apparve fra noi due smorzando la pesantezza di quel momento.
Poggiò due piccoli vassoietti dorati sul tavolino e i due caffè fumanti.
«Finalmente qualcosa con cui tapparti la bocca» borbottai. Pensavo di averlo fatto abbastanza a bassa voce perché lei non potesse sentirmi. Invece mi sentì.
«Come hai detto?!» Staccò un pezzo di cornetto intriso di crema alla nocciola e me lo tirò contro.
Per evitarlo quasi non caddi dalla sedia.
«Sta buona!»
Il broncio vistoso, ora, era diventato una faccia infuriata.
Morse il cornetto con rabbia senza distogliere gli occhi - che stillavano odio - da me. E per qualche motivo sghignazzai.
Mangiai prima il mio croissant e poi versai dello zucchero, da una bustina fra le tante sistemate nell'apposito contenitore accanto al mio braccio, nel caffè.
«Non era niente male»
«Qui fanno le paste migliori di tutta la zona»
Una strega non mangia tutta quella quantità di zucchero. Le streghe odiano i dolci.
I dolci sono più per gli umani o per...
Un brivido poco piacevole mi percorse la spina dorsale.
Appoggiai di colpo le mani sulla superficie del tavolino e mi sollevai altrettanto velocemente.
«Cosa ti prende adesso?»
Lucille restò a fissarmi con il cornetto gocciolante di crema alla nocciola stretto in due dita. L'espressione confusa e preoccupata.
«Non lo senti? No, ovvio che non lo senti» - ma io si.
Io lo sentivo: di nuovo quel fetore.
Un'odore, che ora, mi sembrava ben diverso da quello di una strega.
Era più...zolfo e calendula. Un accoppiamento che le mie narici non avevano mai sentito prima di quel momento.
«Di che diavolo parli? Io non sento niente.» 
Dovevo uscire da li subito, o quell'odore sarebbe sparito ancora.
Lucille abbandonò il cornetto e qualche spicciolo sul tavolino. Afferrò poi, un fazzoletto e si pulì gli angoli della bocca.
Ero già fuori quando aveva eseguito quel rituale; sulla strada, in cerca del possessore di quel puzzo.
«Si può sapere che hai?» Pochi attimi dopo, le campanelle della caffetteria avevano tintinnato e lei era accanto a me, stretta fra le braccia e infreddolita.
Io, invece, ero vittima di un bollore che non aveva alcuna intenzione di smorsarsi.
Mi guardai prima a destra e poi a sinistra: le strade si erano svuotate. Doveva essere molto tardi.
«Diamine! Vuoi dirmi cosa stai facendo? Si gela qui fuori!»
L'odore svanì, di nuovo.
Però un lato positivo c'era: che lei non avesse sentito quell'odore stava a dimostrare che mi ero sbagliato, che era umana.
Se fosse stata una strega, be', forse avrebbe dimostrato entusiasmo e poi avrebbe attaccato.
Come tutte loro, attendono di essere in gruppo prima di lanciare un attacco ad un cacciatore.
Al contrario, Lucille sembrava veramente confusa.
«Niente, è che ho avuto un'impressione...» Scossi la testa; per quella sera, forse, avevo sforzato troppo il mio olfatto di cacciatore.
Arricciò le labbra, « Be' fattele passare certe impressioni», e si rincamminò verso l'auto.
Possibile? Possibile che mi ero sbagliato per ben due volte nella stessa sera?
Tornammo a calarci sui sedili. Avevo voglia di rintanarmi nel mio alloggio e farmi una bella dormita.
Scrutai con la coda dell'occhio lei. Avevo la - quasi - certezza che fosse umana, ed ora dovevo solo lasciarla da qualche parte.
Girai le chiavi ancora inserite nel cruscotto e misi in moto.
«Dimmi che il tuo giro è finito.» Sbadigliò forte.
«Si, è finito.»

                                                                                                        Lucille
L'auto del cacciatore sapeva di tabacco e muschio. Non so perché ma quell'odore mi aveva provocato una stretta nella pancia. Mi piaceva e al tempo stesso creava nel mio stomaco una nausea insopportabile.
«Dove mi porti, adesso?»
Lo vidi inumidirsi le labbra: non aveva la minima idea di dove portarmi.
Di certo non mi avrebbe veramente portata a casa sua. I cacciatori, almeno da ciò che so io, non abitano in città.
Piuttosto si rintanano sulle montagne, nei monasteri abbandonati o dentro antiche catacombe, un po' come i vampiri.
Difficilmente un cacciatore andrà in giro di giorno e ancor più difficilmente accompagnato da quella che crede essere un'umana.
Dopo attimi di silenzio, fissando fuori dal parabrezza disse: «Veramente non hai una casa?». 
Svoltò in una strada asfaltata sulla destra e proseguì a guidare.
Feci spallucce «Ti sembra strano? New York è piena di senzatetto.»
Mi rifilò la seconda occhiata eloquente per quella sera.
«Ok, ce l'ho una casa. Ma è molto lontana da qui.»
«Lontana, tipo?» Decelerò leggermente.
«Tipo in Francia» mi voltai verso lui «E la Francia è veramente lontana da qui.»
Mi guardò storto.
«Che c'è, hai cambiato idea ora? Non dovevi portarmi da te?» Ammiccai un paio di volte e trovai veramente divertente farlo.
Metterlo in imbarazzo e farlo sentire fuori luogo era divertente.
Sospirò più pesantemente «Pensi che se ti portassi da me, ne ricaveresti qualcosa?»
Mi morsi un labbro guardando distrattamente fuori dal finestrino, «Una doccia calda, un letto comodo e tanto sonno», stirandomi poi le braccia sulla testa.
Sospirò un sorriso di naso.
«Casa mia è dall'altra parte, dopo il centro.» 
«Non è un problema.»
Lo vidi irrigidirsi per un attimo e mi parve - oltre che buffo - strano.
Si passò una mano fra i capelli, poi sterzò per rigirare.
Era la seconda  volta che gli vedevo passarsi le dita fra i capelli, ed ero quasi certa che lo facesse tutte le volte che si sentiva a disagio; ma mi sarebbe servito vederglielo fare  in un altro paio di occasioni per poterlo affermare con sicurezza.
«Sei agitato?»
Eccolo che tornava ad irrigidirsi.
«Affatto.»
«Si che lo sei.»
Strinse il volante quasi da far diventare le nocche delle sue mani bianche.
«E' che non vivo solo.»
«Vivi con la tua ragazza?»
Mi guardò come se mi fosse appena spuntata una seconda testa sulla spalla.
«Ma che dici?!» Starnazzò.
«Mio Dio, ti ho solo chiesto se hai una ragazza!» Appoggiai il braccio contro lo sportello e il viso sulla mano.
Per qualche istante scese un silenzio strano, riuscì ad imbarazzare persino me.
«Vivo con altri cacciatori e non credo che sia una buona idea portarti li.» Fece una pausa e riprese a parlare gesticolando con una mano «Ok, lo so, ti avevo promesso di portarti a casa. Ma ora che ci penso...».
Stava andando tutto secondo i piani. Il cacciatore si sarebbe defilato da quella sua proposta ora che aveva la certezza che io fossi umana. Non aver sviluppato quasi per niente i miei poteri da strega, per una volta, mi era tornato utile.
Ripensai a tutte quelle occasioni dove, per via del mio essere e non essere una strega vera e propria, ero stata derisa dalle mie sorelle.
Ora sembrava tutto un brutto ricordo, quasi gioivo. Sarei stata l'unica di un intera stirpe ad aver passato tutta una serata con un cacciatore e che avrebbe potuto raccontarlo.
«Be', se proprio non te la senti...Mi lasceresti sulla sesta strada?»
Il cacciatore si ammutolì per un momento «Si, certo».
Perfetto, era fatta.
Allacciai le braccia dietro la nuca e socchiusi gli occhi: dovevo aver una bella espressione soddisfatta stampata in volto.
Ma come è ovvio, non c'è mai fine al peggio ed i guai bussano sempre alla porta di chi se li cerca.
Infatti, proprio quando la sesta Avenue era ad un passo da me, qualcosa di invisibile sollevò la nostra auto dall'asfalto.
All'inizio ce ne accorgemmo appena: il cacciatore dovette ridurre gli occhi a due fessure per potersi accorgere che le ruote non toccavano più terra, forse, di un paio di centimetri.
Ma poi...Eh, poi l'auto si era alzata, sospesa nel vuoto e come un proiettile era schizzata per aria e noi ci ritrovammo incastrati dentro, a testa in giù.
La testa e le spalle contro il tettuccio, le gambe imprigionate nella cintura di sicurezza che proprio lui, il cacciatore, mi aveva obbligato a mettere, e la radio che suonava un brano rock imposto da me come ripicca.
«Maledizione! Che diavolo succede?!»
Il cacciatore spostò lo sguardo dalle sue gambe imprigionate a me «Non lo so. Non ho avvertito niente!».
Potevo vedergli lo sgomento stampato negli occhi e per qualche motivo, mi fece sprofondare nel panico.

                                                                                                 Cacciatore.
Perchè non avevo sentito niente questa volta?
La presenza di una strega si sente lontana chilometri, anche se sei in auto.
«Facci uscire da qui!»
Se fossi stato solo, poi, sarebbe stato tutto più semplice: c'era Lucille con me. Un'umana - per quello che ne sapevo- che domani avrebbe avuto un bello shock post-traumatico e sarebbe toccato a Cartier intervenire facendole dimenticare ogni dettaglio di questa serata.
«Se la smetti di urlare e mi lasci pensare!» Mi resi conto che i suoi occhi erano arrossati e le uscivano un mucchio di lacrime. Ebbi una stretta alla pancia. Dovevo salvarla.
Mi guardai attorno, non avevo niente a portata di mano. Proprio quella sera avevo deciso di lasciare la mia Balisarda a casa, che stupido!
«Ok, ascoltami Lucille» I due occhioni verdi, rossi come tizzoni ardenti, mi fissarono sgomenti «Adesso dovrai fare esattamente quello che ti dico.»
In meno di un secondo, avevo già in mente un piano. Dovevo solo sperare che riuscisse.
La ragazza annuì senza obiettare.
«Provo a sganciare la mia cintura, va bene?»
«Mh, mh.» Notai che aveva iniziato a tremare e mi parve tanto strano quanto normale.
I miei dubbi si erano del tutto fusi alla certezza che fosse umana e questo mi spingeva a doverla -anzi, a volerla - salvare a tutti i costi.
Allungai la mano verso la chiusura della cinta di sicurezza e pigiai il pulsante.
Finii di colpo contro lo sterzo e le mie ginocchia si scontrarono con il tappetino. Per un momento mi ritrovai più incastrato di prima, ma con un po' di forza nelle braccia, riuscii ad issarmi sul sedile. 
«Ci sono» Mi aggrappai prima al mio poi al suo sedile e alla cinta. Per un momento soffrì per via della stessa che, tirata da me, le stava ferendo il collo ma la supplicai con lo sguardo di resistere.
«Ancora un attimo» Finalmente riuscii a toccare il pulsante. Lucille piombò fra le mie braccia ed io di schiena contro il cruscotto.

                                                                                    Lucille
Quello era decisamente il momento peggiore per finire fra le braccia di qualcuno in quel modo.
E soprattutto, per costatarne la bellezza.
Già, il cacciatore era un vero figo. I lineamenti giovanili e sin troppo angelici- per uno che fa stragi di streghe- avevano incastonati due grandi occhi verde-azzurro stupendi. Adoravo i capelli castani negli uomini e lui li aveva, rasati sui lati e molto più lunghi sopra, lisci, e da come sembravano alla vista dovevano persino essere setosi. Non potevo vedere altro di lui in quella posizione e soprattutto con l'auto che ballonzolava qua e la nel vuoto, ma ciò che sentivo sotto di me mi piaceva. Parecchio - mi piaceva parecchio-
Quando sollevai la testa nuovamente dalla sua spalla, l'auto ancora era sospesa in aria e quell'incubo non era finito. Adesso faceva su e giù. Ero costretta, involontariamente, a stringergli le spalle e poi, dopo l'ennesimo giro di lavatrice, a stringermi a lui come una cozza al proprio scoglio.
Questa volta l'odore di muschio che invadeva le mie narici mi piaceva.
Strinsi i denti e serrai gli occhi pronta ad un ennesima capovolta.
«Se non usciamo da qui diventeremo due Smoothie umani» piagnucolai.
«Se solo riuscissi ad alzarmi...» pronunciò come se stesse provando fatica. Ad un tratto, inaspettatamente, lo sentii allungare una gamba verso il vetro del finestrino e colpirlo con forza.
Non sono il tipo che si lascia aiutare facilmente ma in quasi tutte le occasioni della mia vita, c'era stato qualcuno che lo aveva fatto. Questa volta, però, volevo contribuire anche io, e sentirmi proprio come chi aveva aiutato me.
Per questo colpii anch'io il vetro. Forte.
Ci volle un po', ma alla fine esplose in miliardi di schegge.
Il cacciatore tentò di coprirmi il viso con il suo braccio e il gesto mi creò una sorta di imbarazzo misto alla gratitudine.
«Pronta?» 
Annuii. 
L'auto vorticò di nuovo e noi ricademmo sui sedili e poi sul tettuccio e poi ancora sui sedili.
«Tu guarda se stasera non torno con tutte le ossa rotte a casa!» Borbottò lui strisciando verso l'unica via d'uscita a disposizione.
Mi prese la mano e lo seguii carponi verso l'esterno dell'auto.
Le ossa ci avrebbero fatto male sia l'indomani che il giorno a seguire e quello dopo ancora, dato che fummo costretti a buttarci da più di due metri d'altezza; ma quando atterrammo sull'asfalto potei sentirmi libera per la prima volta.
Il cacciatore non perse tempo, si rialzò da terra, tornò ad afferrarmi la mano e mi costrinse a correre verso la distesa d'erba accanto alla strada secondaria che portava fuori città.
Perché poi avesse imboccato proprio quella strada, proprio non saprei.
Una volta raggiunto un punto abbastanza lontano ci voltammo a guardare l'auto che finiva accartocciata su se stessa, come se un gigante o il Big-Foot stesso ci stesse giocando a palla.
Attorno a noi, però, c'era solo vuoto e silenzio ed io non avvertivo nulla se non un aurea lieve, quasi impercettibile.
«Andiamo via da qui.»
«Si.»

Sarebbero successe molte altre cose strane con il corso del tempo, ma io ancora non potevo saperlo.


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Capitolo 3
*** Spettro ***


                                                                             Spettro
Perché mi sento così debole? Le gambe non mi reggevano più. Sembravano gelatina: molli e instabili.
Che mi succede? Lentamente, mentre il cacciatore ed io stavamo ripercorrendo a ritroso la strada che ci separava dal centro città, il mio corpo incominciò a cedere.
Non avevo mai provato una sensazione simile: la vista offuscata, la debolezza, il dolore dappertutto.
Mi dissi che, quasi sicuramente, l'aver sbattuto qua e la dentro l'auto mi doveva aver ammaccata per bene. Cercai, più che altro, di consolarmi con quel pensiero perché tutto ciò che stavo provando era ben diverso dall'essere stati percossi.
Più avanzavo, più la distesa d'erba davanti ai miei occhi sembrava un ritratto ad olio sbiadito. Vacillai un paio di volte. La testa confusa come i pensieri.
«Non mi sento molto bene» sussurrai con le poche forze che sembravano essermi rimaste, prima di cadere con le ginocchia a terra.
Il cacciatore si voltò di scatto e mi venne incontro.
«Che ti prende? Stai bene?» Mi tese una mano e poggiò l'altra dietro la mia schiena, fra le scapole.
Scossi la testa «Non lo so. All'improvviso mi sento come se fossi appena stata masticata e sputata via» dissi accennando una risatina triste come quel momento. Soccorsa da un cacciatore: io, una strega. Ed era la seconda volta per quella sera.
«Vuoi fermarti?» mi aiutò a tornare dritta per qualche secondo, prima che le mie gambe facessero nuovamente cilecca. La sua mano corse alle mie costole e mi strinse.
«Non mi sembra un'ottima idea, ma penso proprio di non farcela a camminare ancora».
Il cacciatore si guardò attorno: eravamo finiti all'interno di una cancellata bianca che girava intorno ad un fienile dai pannelli rossi per ettari.
Probabilmente era una proprietà privata.
«Mi è sembrato di vedere una luce all'interno della casetta rurale accanto al fienile mentre eravamo in auto» mi fece notare «Magari c'è qualcuno che può darci una mano».
Era l'idea meno allettante che avessi sentito fino a quel momento, ma si rivelò l'unica chance.
Strinsi i denti quando una fitta mi fece irrigidire tutti i muscoli dell'addome «Va bene, andiamo».
A fatica e molto lentamente riuscimmo a costeggiare il fienile e poi con altrettanto sacrificio a salire gli scalini che ci dividevano dall'ingresso della  casetta.
C'era una panchina accanto alla porta di legno e tanti vasi di fiori appesi a ganci che oscillavano sulle nostre teste ogni volta che un soffio di vento arrivava a colpirli.
Una bicicletta di vecchia data e leggermente arrugginita era poggiata su un lato accanto alla ringhiera di legno bianco, mentre, su quello opposto un dondolo di ferro, con tre cuscini celesti sulla seduta, ondeggiava leggermente.
«Provo a bussare» Il cacciatore mi aiutò a sedermi sulla panchina e con le nocche colpì la porta un paio di volte.
«Sei sicuro di averci visto qualcuno qui dentro?» Domandai dopo un po'. Intanto le fitte, man mano che passava il tempo, si facevano sempre più intense, insopportabili.
Non rispose. Colpì di nuovo la porta, questa volta con più vigore.
Immaginai chiunque abitasse li dentro - ammesso che ci abitasse qualcuno - impugnare il fucile ed uscire in tenuta da notte pronto a spararci contro. Come diavolo gli veniva in mente di bussare a pugni stretti!
Passarono una manciata di minuti prima che una luce si accendesse risplendendo dalla finestra accanto alla vecchia bici arrugginita.
Mi parve un sollievo vederla.
«Chi è?» Chiese una voce di donna.
«Signora, non si allarmi-» Il cacciatore avvicinò il viso alla porta e parlò con un tono di voce abbastanza deciso «ma c'è una ragazza che sta male. Abbiamo bisogno di aiuto»
Sentii lo sportellino dello spioncino, davanti agli occhi del cacciatore, sfregare contro l'occhiello ed immaginai la donna spiarci dentro con il viso preoccupato ed il timore che di li a poco avessimo potuto farle del male.
«Sono sola in casa, mio marito non c'è.» Disse infatti con la voce che le tremava appena.
«Signora mi ascolti-» Lui poggiò una mano sulla porta e parlò più in fretta «non vogliamo farle del male, mi creda. Dei teppisti ci hanno rubato l'auto sulla succursale qui accanto e hanno tentato di picchiarci.»
Ascoltai ogni parola sperando, fino alla fine, che tutte quelle bugie bianche mi portassero dentro quella casa così da potermi stendere.
La donna titubò per un istante. Sentii solo dopo qualche attimo liberare il chiavistello ed abbassare la maniglia.
«Le siamo grati» disse lui con aria debitrice.
Non vidi subito la sagoma dentro il riquadro della porta, ma dagli occhi rasserenati del ragazzo dedussi che potevamo fidarci.
«Cosa vi è capitato?» Quando sbucò dalla luce che le brillava alle spalle e mi raggiunse, scoprii che era una donna come tante altre: occhi castani, capelli castani, esile. Il suo viso dimostrava circa quarant'anni d'età ed era disteso per quanto angosciato dal vedermi piegata e dolorante.
Si chinò davanti alle mie ginocchia accarezzandomi una guancia.
«Ci hanno rapinati.» Le dissi mantenendo fede al copione.
Si coprì la bocca con il palmo della mano. Sembrava realmente scioccata.
«Venite dentro.» Si mosse velocemente, tornando a sollevarsi e correndo in casa.
Il cacciatore agganciò il mio braccio alla sua nuca e mi aiutò a sollevarmi.
«Come vi ho detto-» pronunciò la donna da una delle tre porte che vedevo lungo il corridoio della villetta «mio marito non c'è. Perciò vi lascerò dormire in camera nostra». Tornò da noi chiudendosi la porta alle spalle.
«Non si preoccupi, pensiamo di ripartire il prima possibile».
La donna sorrise dolcemente «Potete restare tutto il tempo che volete.» 
La seguimmo verso la scalinata chiara che portava ad un piano superiore.
Passando accanto alla porta quadrettata da dove l'avevo vista uscire, notai un bambino che dormiva fra cuscini e piumone sul divano di quella che sembrava essere la loro sala.
Quella donna doveva aver un animo infinitamente buono per far entrare due sconosciuti in piena notte nella sua casa mentre suo figlio stava dormendo beatamente.
«Riesci a salire?» Mi chiese il cacciatore a bassa voce.
Annuii.
Arrivare all'ultimo gradino mi fece sentire come un'alpinista sulla cima dell'Everest.
Boccheggiavo ma ce l'avevo fatta.
«Questa è la stanza, dentro c'è la porta del bagnetto privato. Se avete bisogno di altro non esitate a chiedere.»
«Grazie mille».
La donna tornò a scendere le scale e noi entrammo nella stanza da letto chiudendoci la porta dietro.
C'era una piccola abat-jour accesa accanto al letto e dando un'occhiata all'esterno, dalla finestra, vidi esattamente la stessa strada che avevamo percorso in auto. Doveva essere per forza la luce che aveva visto il cacciatore.
«Sei ferita?» 
Tonfai a sedere sul materasso «Non credo».
Quando razionalizzai la situazione mi sentii soffocare da una vampata di calore e non era per via della pelle che sembrava andarmi a fuoco.
Ero sola, in preda a non si sa cosa e con un cacciatore in stanza con me.
Se proprio quella notte i miei poteri si fossero risvegliati, per me si sarebbe messa male.
«Lascia che dia un'occhiata.» Si mosse verso di me; di riflesso sollevai un piede da terra e parai un braccio a mezz'aria davanti a me.
Mi guardò con uno sguardo indecifrabile «Che ti prende? Non voglio farti del male.»
Ne ero certa, eppure, qualche parte nascosta del mio subconscio mi spingeva a proteggermi come se dentro me si fosse attivato un campanello d'allarme.
«S-Si, lo so. E' solo che non sono abituata a farmi toccare da qualcuno e poi mi fa male tutto, secondo me ho qualcosa di rotto» terminai in fretta.
Lui sospirò e raggiunse con un passo il bordo del materasso.
«Cercherò di toccarti il meno possibile, sta tranquilla.» Avevo sentito la sua voce colma di rabbia, poi di agitazione, poi ancora di risolutezza ma pacata come in quel momento no. Mi rassicurava.
Si sporse quasi sopra me, movimento che mi costrinse a poggiare la mia fronte sul suo addome. Sentii le guance prendermi fuoco e poi il freddo incresparmi la pelle quando mi sollevò la felpa sulla nuca.
Mi concentrai sulla T-shirt bianca e sulla lampo della giacca di pelle che mi dondolava davanti al naso cercando di scacciare dalla testa le sue dita che mi sfioravano la schiena ed i brividi bollenti che mi procuravano.
Gli uomini, Lucille, non sono altro che fonte di cibo e i cacciatori elementi da cancellare.
«Hai solo la pelle arrossata» si chinò sulle ginocchia. Aveva l'espressione seria e concentrata mentre le sue mani sfioravano il bordo della felpa davanti. 
Trattenni il respiro.
Non ero mai stata toccata da un uomo. Da nessun uomo. Babette, sin da piccola, mi aveva instradata all'odio per il sesso maschile. Loro erano cibo o guerra, nulla di più. E per anni io li avevo visti così. Non avevo mai avuto un'attrazione particolare per nessuno dei miei compagni di scuola, né alle elementari, né per quelli al College. 
«Sei sicura che ti faccia male l'addome?»
Forse, perché nessuno mi aveva mai sfiorata.
«Si.» mormorai quasi sottovoce. Lui mi guardò e per un momento mi sentii terribilmente stupida.
Non disse nulla però, questo limitò il mio imbarazzo.
Provai a schiarirmi la voce «Tu come stai?»
Il cacciatore mi abbassò la felpa e si accomodò a sedere affianco a me.
«Non c'è un osso che non mi faccia male. Ma tutto sommato sto bene»
Ebbi la tentazione di chiedergli se potevo 
controllare, ma all'impatto con quel pensiero mi vergognai e non lo feci.
«Grazie per avermi aiutata. Potevi lasciarmi li.»
Si passò le mani sul viso «Non lo avrei mai fatto.»
Dal collo gli pendeva un ciondolo con un piccolo zaffiro incastonato nell'argento. Restai a fissarlo per un pò.
«Ora che ci penso, non ti ho chiesto il tuo nome.»
«Zane»
«Zane» Ripetei «E' un bel nome».
Mi sorrise appena, poi si sollevò.
«Prova a riposare»
Lo seguii con lo sguardo «E tu?».
Toccò la maniglia della seconda porta, quella del bagno «Ho bisogno di pensare un momento.»
Ed eccolo che tornava a rabbuiarsi.
«Allora, svegliami quando dobbiamo andare via.»

                                                                                          Zane
Mi chiusi la porta alle spalle e finalmente potei ricacciare l'aria incastrata nei miei polmoni.
Allungai una mano verso l'interruttore della luce e artigliai il lavandino.
Per qualche motivo, avevo nascosto il dolore che provavo dietro la schiena a Lucille. Probabilmente il ruolo che ricoprivo mi imponeva di farmi vedere sempre forte, ma adesso quel dolore era lancinante e sentivo dell'umido caldo fra le scapole.
Mi scesi le maniche della giacca lungo le spalle voltandomi di schiena verso lo specchio appeso sul lavandino di granito.
Sangue: ce n'era in quantità e aveva macchiato la mia T-shirt formando un grosso cerchio rosso.
«Merda».
Mi liberai della giacca lanciandola sulla tavoletta chiusa del WC e mi sfilai la maglietta dalla testa.
Un grosso taglio mi segnava per verticale la schiena, non profondo ma abbastanza dentro la carne per farmi uscire flotti di sangue che gocciavano fino al bordo dei jeans scuri.
Cercai attorno a me un asciugamano. L'unico che trovai a portata di mano era bianco.
Pensai, mentre tamponavo la ferita come potevo, a dove nasconderlo l'indomani.
Era difficile passare lungo tutto il taglio e nel muovermi urtai la porta.
«Tutto bene li dentro?»
«Si» dissi. La fronte mi si imperlò di sudore.
Girai la manopola dell'acqua e ci bagnai l'asciugamano tornando a tamponarmi la ferita. Proprio in quel momento...le vidi. Due mani sulle mie clavicole. Non erano distinte, non sembravano nemmeno dita quei rilievi rossastri sulla mia pelle se li guardavo da vicino, ma bastava che mi allontanassi di un passo dallo specchio perché potessi delinearne i contorni.
Il fiato mi si mozzò in gola.
Allora, chi ci aveva attaccati era in auto con noi! Che si trattasse di un fantasma?
Ne avevo sentito parlare ma erano solo leggende.
Un magone mi attanagliò lo stomaco.
Molto tempo prima di quel momento, mi era stato raccontato che le streghe, un tempo, erano spiriti rimasti intrappolati sulla terra. Esseri invisibili alla ricerca della libertà e che per rabbia infestavano intere città perseguitando malcapitati casuali.
Forse, quello era anche il mio caso anche se le streghe di cui mi era stato raccontato erano vissute almeno mille anni prima di quel momento.
Dovetti sedermi sul bordo della vasca per riprendere fiato. Troppe cose per la testa, mi sentivo soccombere.

                                                                                  Lucille
Dormivo pesantemente quando la voce di Zane - la voce molto agitata di Zane - mi destò dal sonno.
Le sue mani mi agguantavano le spalle scuotendole. Aveva il volto sconvolto come se avesse appena visto un fantasma.
«Dobbiamo andarcene, Lucille!»
Le sue parole mi raggiunsero la coscienza dopo un paio di volte che le pronunciò. Per un momento mi sentii fuori da me stessa.
«C-Che sta succedendo, Zane?» Chiesi preoccupata sbattendo le palpebre.
«La donna che ci ha fatto entrare ha incominciato a gridare nel cuore della notte e da quel momento è un continuo rompersi di oggetti»
Un fragore di cocci rotti rimbombò per tutta casa facendomi drizzare il peletti sulla nuca.
Sbarrai gli occhi verso la porta oltre la spalla del cacciatore.
Un vento innaturale si sollevò per tutta la stanza e lentamente l'anta si separò dallo stipite.
Ciò che mi aspettavo di vedervi apparire dietro, la donna, non c'era. Al suo posto la sagoma minuta di suo figlio prese spazio al centro della cornice della porta.
Il viso pallido, gli occhi vitrei e spenti ed i piedi che non gli toccavano terra.
La sua testa penzolava all'indietro inanimata.
«Che diavolo è quello?!» Dissi balzando sul materasso.
«Uno spettro»
Era la prima volta che sentivo pronunciare quella parola. Babette non mi aveva mai parlato di loro.
«Cioè, un fantasma?»
Zane mosse un passo indietro sfoderando dalla cinta la sua pistola «Non proprio»
Il bambino sollevò le mani avanti a se: erano coperte di sangue. Un vistoso ghigno malefico prese spazio sul suo viso, allargandosi sempre di più e gli occhi privi di vita si piantonarono sul cacciatore.
«Sei tu. Sei tu. Sei tu...» Incominciò a ripetere.
«Ce l'ha con te?» Vidi Zane impallidire.
«Non starlo a sentire» Mi afferrò il polso, scivolai dal materasso e corremmo via verso la porta.
Sorpassammo lo spettro: il suo corpo restò piantonato sul posto mentre la sua testa girava su se stessa seguendoci ed emettendo scricchiolii da voltastomaco.
Ci calammo lungo le scale quasi senza respirare. Una grossa pozza di sangue ci aspettava dopo l'ultimo gradino.
La donna che ci aveva accolti, portava un grosso squarcio sulla gola ed era riversa a terra. Sulla pelle, tante piccole ferite a forma di croce rovesciata.
«Non puoi scappare dal tuo destino!»
Mi voltai verso le scale d'istinto. Lo spettro mi fissava dritto negli occhi ghignando diabolicamente.
Era me che voleva, non Zane.
Guardai il cacciatore che, per un momento, sembrava essersi paralizzato davanti al cadavere. Decisi di tenere quella sensazione per me.
Se fosse stato proprio così? Cosa poteva volere da me?
«E'-E' morta» mormorò quasi come se non credesse ai suoi occhi.
«Zane, dobbiamo andare!» Lo implorai quasi piangendo.
Guardò di sfuggita dietro se e le sue palpebre fecero un piccolo scatto. Poi tutto tornò in moto: scavalcammo il cadavere correndo fuori dalla villetta.
Non sentivamo nemmeno l'aria gelida battere sulla nostra pelle.
«Non puoi scappare!» Il grido diabolico dello spettro fu accompagnato dalla porta d'ingresso che si chiudeva bruscamente.
Era quasi l'alba. L'erba riluceva argentea e ben presto il sole sarebbe sorto scaldando la terra umida, o forse no. Forse, quella mattina per qualcuno non ci sarebbe stata nessuna alba.
Un bagliore penetrante illuminò il prato. Come un'enorme esplosione silenziosa venimmo travolti dalla luce intensa delle fiamme.
La casa aveva preso fuoco.
«Cosa sta succedendo, Zane? Cos'è che ho appena visto?» Tremai. Persino per me che ero una strega, era troppo. Pensai alle due vite rubate, alla donna e a suo figlio che di umano non aveva più neanche la parvenza. Il male si era impossessato di quella famiglia e giaceva nel cuore dell'artefice di quell'incubo.
"Non puoi scappare"
La voce indemoniata del bambino, o di qualsiasi cosa fosse dentro di lui, mi tornò in mente come un pugno in pieno stomaco. Materializzai una certezza, tutto quello a cui avevo assistito era «Un maleficio».

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Capitolo 4
*** Anima ***


                                                                                      Anima

Della mattina seguente ricordo ben poco. Il cacciatore, Zane, mi aveva lasciata davanti ad un portone qualsiasi. Avevo finto fosse casa mia per poi rincamminarmi verso la casa chiusa gestita da Madamme Surett e Baba.
Di giorno Colette, non aveva clienti e solitamente io occupavo la sua stanza per sonnecchiare un po'. Di notte, assistevo ai suoi spogliarelli in un angolino del piano sotterraneo del Moulin Rogue, sorseggiando l'unica bevanda che, da un po' di tempo a quella parte, riusciva a placare il mare di strane sensazioni che provavo. Succo al mirtillo.
Odiavo dover passare le notti li sotto a guardare spettacolini hard e streghe togliere linfa vitale a persone anonime, ma ripensando a quella precedente - forse - starsene li non era poi così male.
«Dove sei stata questa notte?» Surett, che amava vestirsi da Geisha giapponese, apparì dietro la porta di ferro sul retro del locale. Lo sguardo torvo e ammonitore.
«In giro».
Scostò l'anta del tutto. Il locale, a quell'ora della mattina, era pressoché morto. Le luci spente, il silenzio. Neanche il pian terreno adibito a sala massaggi era in funzione prima delle diciotto del pomeriggio.
«In giro?» 
Mi tolsi la giacca e l'abbandonai sul piccolo bancone nocciola accanto all'ingresso.
La tenda ciliegia, che divideva il punto in cui ci trovavamo dall'ala massaggi, era chiusa e copriva anche la gradinata di legno che mi avrebbe portata alla stanza di Coco.
Surett aprì il ventaglio davanti al mento, «Cos'è questa puzza?»,  e brontolò storcendo il naso.
«Di quale puzza parli? Io non sento niente» La sorpassai ma mi seguì come un'ombra.
«Come fai a non sentire niente? Persino un umano la sentirebbe!» 
Scostai la tenda tanto quanto mi bastava per passarci in mezzo e raggiunsi in due falcate la scalinata.
Balzai i primi due scalini. Dovevo allontanarmi da quella megera: sapevo che odore le sue narici pignole stavano annusando.
«Coco è di sopra?»
Aggrottò la fronte «Non cambiare discorso. Dove sei stata questa notte?». Il tono era minaccioso e mi innervosì.
Avevo fretta di buttarmi addosso qualche goccia di Celium, meglio conosciuto come lacrima di strega: un intruglio che per qualche ragione cancellava l'odore di cacciatore dalla pelle di noi streghe.
Veniva usato dopo i combattimenti, poiché, il loro odore per noi è come plastica bruciata che resta nelle narici per giorni.
«Ho marcato.» Proferii serafica. Sperai che anche la mia espressione fosse marmorea.
Surett sollevò un sopracciglio con aria felina «A si? Hai marcato, davvero?».
Ogni qualvolta assumeva quell'atteggiamento, me la immaginavo con la lingua biforcuta che le usciva dalle labbra.
«Lo trovi strano?» Artigliai il corrimano con forza immaginando fosse il suo collo.
Surett socchiuse le palpebre e fece un mezzo giro su se stessa richiudendo il ventaglio, una palpebra le schizzò in aria ed il suo occhio velenoso, come di solito lo era il suo sguardo, mi raggiunse dai piedi delle scale «Non credevo che le mezzane potessero marcare».
Ridacchiò prima di allontanarsi.
Digrignai i denti e dovetti tirare ben due grossi respiri per calmare i nervi.
Surett era sempre stata così: venale, arrogante, prepotente ed amava prendersi gioco di chiunque reputasse inferiore. Questo perché era considerata una delle streghe più forti della nostra congrega e la cosa le aveva pompato l'ego a dismisura.
Salii i gradini che mi restavano con l'amaro in bocca. Mi ero sentita ripetere così tante volte quella parola: mezzana.
Metà strega, metà umana. Un essere che non contava nulla per la congrega.
Non sarei mai stata chiamata in guerra, né tanto meno dalla congrega delle veggenti - la classe più bassa fra noi streghe -, i miei figli sarebbero nati tutti come me o peggio, senza alcun potere, e se ci fosse stato da migrare ancora, questa volta, non mi avrebbero salvata.
Più volte, era stata proprio Surett a rimarcare il fatto che avendo avuto ben poche visioni nella mia vita senza riscontri tangibili, non ero altro che una sensitiva e chiunque poteva esserlo, persino un umano.
«Nemmeno i tuoi genitori ti hanno voluta»
Surett non si era mai fatta scrupolo con me. MAI.
Solo Baba mi aveva accettata per quello che ero, ma sempre con la speranza che per me le cose cambiassero.
«Mio Dio, che faccia!»
Coco era sdraiata sul materasso quando scansai l'anta della sua porta dallo stipite.
 Mi sentì entrare e si buttò la rivista che stava leggendo sul petto lanciando uno sguardo scioccato dritto al mio volto.
«Non ne voglio parlare, per favore.» Mi chiusi la porta alle spalle cercando di fare il minimo rumore. Non so perché, ma avevo bisogno di silenzio; la mia testa ne aveva bisogno.
Coco si sollevò a sedere e di colpo lo stupore divenne un velo di preoccupazione stampato sul suo viso olivastro.
«Erano tutte in pensiero per te. Dove sei stata questa notte?-» - Ma dai...non mi dire - « Non mi chiedere di non farti il terzo grado, perché sai che te lo farò ugualmente».
Mi diressi verso la porticina del bagno accanto al comò chiaro.
«Ho marcat-»
«Lucille-» mi canzonò con la voce «non puoi mentire a me.»
Scivolò giù dal materasso e con un piccolo spostamento d'aria mi piombò davanti. Appoggiò una mano alla mia spalla destra mentre con l'altra mi riportava una ciocca chiara dietro l'orecchio.
Gli occhi di Coco si riempirono di pagliuzze dorate.
«Sei stata sull'Hudson? Sento odore di erba bagnata.»
Se Surett aveva l'olfatto fino, Coco la batteva.
Era un vero segugio, nulla le poteva sfuggire.
Annuii.
«Avevo bisogno di cercare risposte.»
«E le hai trovate?» Mi accarezzò una guancia con due dita.
Ciò che volevo dirle mi arrivò sulla punta della lingua e ci rimase.
Per nulla al mondo le avrei raccontato di Zane. 
Non solo perché Coco stava cambiando nei miei confronti ma, soprattutto perché , conoscendola, sarebbe uscita a cercarlo.
«No. Forse...cioè...» Mi sfregai le dita, une con le altre. Non la stavo più guardando negli occhi, preferivo abbattere lo sguardo sfuggendo al suo «Ho trovato della sabbia stregata nel punto dov'è morta Camille.»
La fronte di Coco si pieghettò per un secondo «Sabbia?»
«Non so-» mi divincolai dalla sua presa spostandomi per la stanza «Quale strega può lasciare  dietro un cadavere della sabbia?»
Coco si fissò a guardare il vuoto. Probabilmente stava immaginando un grande libro e dentro ci stava leggendo tutte le nomenclature e i ranghi appartenenti a noi streghe, proprio come facevamo da piccole.
«Non ne ho idea. Ma questo mi fa pensare ad una strega molto forte, persino più forte di Surett.»
La preoccupazione sul suo volto era tangibile.
«Già...» mormorai a malincuore. I miei pensieri però, in quel momento, erano stati convogliati tutti in un preciso punto: perché non mi chiedeva della puzza del cacciatore?
Impossibile che non l'avvertisse.
«Hai il Celium?» La istigai. Non sapevo perchè una parte di me voleva raccontarle tutto. Era la seconda volta in pochi minuti che sulla punta della mia lingua si formava quel breve racconto della notte passata.
Colette aggrottò la fronte «Che devi farci?».
«Niente, ne ho bisogno.» Farfugliai.
Il viso di Coco si distese pian piano, prima che incominciasse a ridacchiare «Oh, mon amour, non è bagnarti con quella roba che ti farà diventare una strega!»
A quel punto mi imbronciai e lei lo notò.
Mi girò attorno e si posizionò dietro le mie spalle: il mento su una e la mano sull'altra.
Sentivo i suoi ricci invadermi il collo e un calore familiare mi avvolse.
Non so per quanto sarebbero durate tutte quelle sensazioni, ma di certo me ne sarei beata fino alla fine. Coco sarebbe stata per sempre mia sorella, seppur non avessimo lo stesso sangue.
Notando che non sembrava affatto infastidita dall'odore che avevo arpionato addosso, mi rilassai e risi con lei.
«Hai ragione» sguisciai dalle sue dita sottili e scostai la porta del bagno.
«Meglio che vada a farmi una doccia.» Dissi. Coco annuì «Ti porto del succo?»
«Volentieri».

La musica assordante che era nella mia testa si materializzò al piano sottostante e mi costrinse a battere le palpebre impastate dal sonno.
Fuori era buio: dalla finestrella dietro il baldacchino non  filtrava un raggio di luce.
Quanto tempo avevo dormito? Dov'era Coco?
Ruotai da un lato. Accanto a me, sul comodino, un bicchiere colmo di succo al mirtillo. Si era ormai scaldato e la condensa aveva formato tante goccioline sul vetro che avevano finito per bagnare tutto il legno.
Sospirai rassegnata. Odiavo quella sensazione: appena ti svegli il mondo ti piove addosso e non è piacevole.
Tornai a rigirarmi fra le lenzuola piombando con la schiena sul materasso e mi passai una mano sul viso.
Sarei potuta restarmene li, rintanata tutta la notte e avrei potuto dormire ancora. Sarebbe stato bello, si, ma non volevo far preoccupare Baba e Coco.
Delle altre non mi interessava un granché, sapevo che nessuna si era chiesta dove fossi finita, in verità. Ah, no! Solo Surett, ma per infastidirmi una volta tornata.
Mi sollevai decisa a scendere giù, negli inferi di quel postribolo.
Dovevo solo infilarmi qualcosa di pulito. Arrivai al comò e feci scorrere un cassetto.
Le mie mani ed i miei occhi perlustrarono capo per capo: ne afferravo uno e lo tiravo sul letto dietro le mie spalle, poi un altro e...niente, via anche quello.
Possibile che Colette non avesse una T-shirt e un pantalone qualsiasi?
Cerano un mucchio di abitini succinti e i miei occhi brillavano di strass e pailette.
Sbuffando agguantai i pomelli del secondo cassetto. Intimo, decisamente non quello che faceva al caso mio.
In fine, dopo aver scavato per bene ed aver starnutito per qualche scialle piumato che mi aveva stuzzicato le narici, trovai ciò che mi ricordava la parola anonimo.
Mi calai dentro un paio di jeans scuri e molto aderenti e infilai la testa in una canottiera a bretelle nera.
Era tutto molto - troppo - aderente, ma non potevo chiedere di meglio a Coco.
Le scarpe. Dov'erano le mie scarpe?
Avevo portato il mio paio di Converse fino al bagno ed ora non ce n'era più traccia.
Girovagai per la stanza senza una meta ben precisa, ispezionando angolo per angolo.
«Siete...sotto il letto!» Sollevai di colpo la matassa del piumone con le lenzuola aggrovigliate attorno e appesi la testa di lato fino a raggiungere il pavimento. 
Niente.
«Allora, siete...» Agguantai l'anta di un piccolo armadietto di legno massello che scricchiolò parecchio aprendola.
Non erano nemmeno li, in compenso però, trovai un mucchio di scarpe col tacco e un paio di stivali simili a degli anfibi.
Non riuscivo ad immaginare Coco con quelli ai piedi; me però si.
L'odore di bucato pulito mi inebriò. Baba ci teneva molto a tutte noi li dentro.
Ad ogni modo, finalmente potei scendere.
Percorsi la prima scalinata con relativa tranquillità. Il bicchiere con il succo stretto nelle dita, l'aria di una che era di casa li dentro; ma poi, quando arrivai all'arco che sovrastava la fila immensa di scalini in vetro mi parve di avere uno spasmo.
«Hai marcato, ma davvero?»
«Non è possibile»

Surett si era beffata di me una marea di volte ed io l'avevo sempre ignorata, allora perché in quel momento avevo voglia di nascondermi?
Non mi era mai capitato fino ad allora.
Guardai il succo scuro e polposo stretto fra le mie dita, berne un sorso avrebbe potuto aiutarmi. Magari ciò che sentivo faceva parte di qualche sbalzo ormonale da strega.
Mandai giù un paio di sorsi e la gola sembrò rinfrescarsi come se avessi ingoiato un ghiacciolo.
«Lucille»
Una sagoma dai capelli mossi e castani mi si accostò sul primo gradino della scalinata.
All'interno dell'arco le luci soffuse facevano luccicare il vetro delle scale di un unico colore, il blu.
«Amelie» le sorrisi. 
La strega ricambiò subito, quasi contenta, ma poi quando Agatha e Sandrine apparvero alle mie spalle, la curva tiepida sulle sue labbra sparì.
Si afferrò i lati del pomposo abito rosso che indossava e si fiondò giù per gli scalini.
Le altre due mi passarono accanto urtandomi prima una spalla e poi l'altra.
Stronze.
Non potevo considerarle in maniera differente.
Abbozzai - come al solito - e decisi che starmene li avrebbe solo aumentato la possibilità di incrociarmi le altre streghe.
Feci un respiro profondo e mi calai nel buio che traluceva di argento, di blu e poi ancora di mille sfumature di oro, di rosso e di bianco dei fari appesi al soffitto.
Il Moulin Rogue era già stracolmo di uomini e non erano nemmeno le undici di sera.
Sfilai fra due poltroncine e per sbaglio, mi resi conto che gli occhi di un uomo sulla cinquantina si incollarono prima al mio sedere e poi in risalita al mio volto.
Lo fissai senza guardarlo veramente.
«La piccola Lucille! Hai fame?» La voce di Cordelia mi raggiunse da dietro il bancone del bar.
Lo stomaco si aggrovigliò al pensiero del cibo mentre mi issavo sullo sgabello. Declinai la sua offerta.
Lei mi sorrise teneramente. Strano, ma a qualcuna stavo simpatica seppur non sapessi uccidere o lanciare malefici qua e la come coriandoli.
«Che mi racconti? Ho saputo che questa notte hai marcato.» Era raggiante.
«Le voci corrono in fretta» mormorai accennando un sorrisetto «Comunque...si.»
Congiunse le mani davanti a sé «Che meraviglia! Allora posso programmare il battesimo?!»
Abbandonai il bicchiere di succo sul bancone per sventolarle le mani davanti «No, no. Credo sia ancora troppo presto. Ho marcato, è vero, ma dopo aver ingurgitato la prima zaffata di linfa sono stata male.»
In realtà ero stata male, ma non sapevo minimamente quale fosse stato il motivo.
«Oh...» La sua espressione si trasformò in apprensione materna «Sei stata male? Dai, non preoccuparti, la prossima volta andrà meglio»
fece un grosso sorriso incoraggiatore e tornò a parlare poggiando i gomiti sul marmo verde e nero del bancone «Allora? Dimmi, era un vecchio viscido o un pervertito a cui hai dato il ben servito?»
Dov'era finita la mammina premurosa di un attimo prima? Il suo sguardo si era fatto furbo e affamato di vendetta.
Non capivo perché odiassero tanto gli uomini, che in passato una di loro avesse sofferto per amore?
«Ecco...»
«Un Martini» 
Per fortuna il braccio coperto da una costosa giacca di Tailer grigio e il Rolex scintillante sul suo polso, stopparono la conversazione.
Cordelia si voltò verso il ripiano delle bottiglie e afferrò quella richiesta, ma quando tornò a guardare l'uomo l'aria seccata che aveva rasentava l'ira.
Agguantò un bicchiere dal bancone davanti a se e lo tirò su verso il marmo.
«Comunque sei un maleducato. Non hai visto che stavamo parlando?» Versò il Martini senza guardare l'uomo negli occhi.
Il tizio sembrò arrossire dalla vergogna per un momento ma poi, qualcosa - forse il suo orgoglio ferito - lo fece rinvigorire: si infilò una mano in tasca e lanciò sul bancone 5 dollari.
Cordelia si trattenne dall'aggiungere altro, ma sapevo che se avesse potuto gli avrebbe spaccato la bottiglia in testa.
«Adesso capisci perché odio gli uomini?» Riavvitò il tappo e tornò a mettere apposto la bottiglia.
«Credo di capire...»
Se tutti gli uomini erano come quel tipo, be', li avrei odiati anche io.
«Ti verso altro succo?»
Mimai di no con la testa «Ti dispiace se vado a farmi un giro?» Indicai con l'indice la sala ormai gremita di persone -e non solo- dietro le mie spalle.
«Va pure» Agganciò un sorriso alle sue labbra tesissimo.
Non so perché, ma quella sera trovavo tutti troppo strani con me.
Che sia stato per l'odore che emanavo? Ma allora perché né Coco ne lei mi avevano detto qualcosa a riguardo?
I pensieri divennero un onda frastagliata nella mia testa.
Ero confusa e piena di dubbi, ma la cosa peggiore era che incominciavo a sentirmi strana. Di nuovo.
La pelle continuò ad incresparsi di brividi fino a che no raggiunsi il centro della stanza. Sulla mia testa ondeggiava una grata agganciata al soffitto, sopra di essa gattonavano streghe. Abiti succinti, espressioni accattivanti: attorno a me sembravano tutti rapiti da quelle pagliuzze brillanti.
I loro occhi rilucevano di una luce non umana, incantando, uno ad uno, ogni presente.
Restai per un po' con il naso all'insù a guardare verso di loro, fino a che le mie ginocchia non sembrarono molli e la mia testa non si svuotò dai pensieri.
«Sei bellissima questa sera» Appoggiai la testa sul petto della voce che mi parlava.
«Colette»
Ridacchiò nel lobo del mio orecchio quando pronunciai il suo nome.
Le sue mani mi avvolsero la vita e senza volerlo ci ritrovammo a seguire il ritmo della musica che inondava di note il locale.
«Che mi succede?» Già, che mi stava succedendo?
Perché mi sembravano tutti così lontani?
Coco mi fece girare su me stessa. «Sei qui tutta sola?»
«Non sono sola. Sono con te» Risi come se avessi appena mandato giù l'intera bottiglia di Martini che avevo visto versare poco prima.
«E' pericoloso.» La voce di Colette mi parve l'unico suono che riuscivo a sentire. Che volevo sentire.
Mi ritrovai fra le sue braccia e per un momento le incrociai lo sguardo.
Era confusa. Lo ero anche io. 
Rise e mi fece volteggiare di nuovo.
Vidi ombre e forme strane attorno a me e quando piombai fra le sue braccia per la seconda volta, una nuova sensazione mi stava spaccando il petto. Avevo fame, una fame assurda. Volevo un'anima.
Non importava di chi fosse, ma desideravo ardentemente un'anima.
Le pagliuzze nelle iridi di Colette divennero meno luminescenti e pian piano l'espressione sul suo viso si scavò.
Un assaggio allevia il nostro fardello.
Le poggiai le mani sulle guance e lei mi afferrò i polsi delicatamente «Lucille?»
A quel punto la mia mente era totalmente annebbiata.
Mi sporsi verso le sue labbra: il mio stomaco ruggiva.
Le guance di Coco si tinsero di rosso ma sciamò presto.
Quando le sfiorai, la sua anima stava scivolando già nella mia gola.
Il calore mi inondò le vene, lasciandosi dietro una scia incandescente mentre scendeva fino alle dita dei piedi.
Non potevo staccarmi da lei. Non volevo, staccarmi da lei.
Coco sbarrò gli occhi, era terrorizzata. Cercava di divincolarsi ma le mie unghie entravano nella carne del suo viso ogni volta che cercava di scacciarmi, sempre di più.
Guardò di lato, gli occhi umidi di lacrime. La pelle che le si stava ingrigendo.
«Lasciala! Lasciala, Lucille!»
Mi sentii afferrare per le braccia e qualcosa dentro di me protestò.
«Coco» Ad un tratto attorno a noi apparvero Cordelia, Baba e Surett.
Quest'ultima afferrò Coco per la vita mentre Cordelia e Baba mi strinsero per le braccia.
Ci separarono come un francobollo dalla sua busta e solo allora tornai a respirare. - Tornai in me.
Non capivo cosa fosse accaduto, per lo meno non con precisione, ma sapevo di aver spaventato a morte Colette.
Era fra le braccia di Madamme Surett e le lacrime le rigavano il viso, mentre mi guardava come se avesse davanti un mostro.
«Che diavolo le hai fatto?! Che le stavi facendo?!» 
Agatha ci raggiunse come una folata di vento, e si scagliò contro di me.
«Maledetta!»
Sollevò il braccio a mezz'aria pronta a colpirmi e ci volle l'intervento di Baba per fermarla.
«Maledetta mezzana!» Gridò ancora.
Mi sentii come la più miserabile degli esseri viventi. Avevo attaccato una mia sorella.
La vista mi si appannò di lacrime. Guardai Babette «Non volevo farle del male».
Baba che di solito tendeva a giustificarmi, quella volta mostrò del rammarico. Chinò il capo e si allontanò.
Le altre, Colette compresa, la seguirono senza aggiungere altro ed io mi ritrovai sola.
Non mi ero accorta che la pista si era svuotata, non mi ero accorta proprio di nulla. Il locale era vuoto, all'improvviso. Forse erano state loro. Sicuramente, certe scene non erano per un pubblico di umani.
Caddi sulle ginocchia singhiozzando.
Quello non era più il posto per me.

                                                                                           Zane
L'arcivescovo mi scrutò oltre le punte delle sue dita. Occhi gelidi. Labbra strette in un'espressione severa. Capelli striati di grigio sulle tempie. «Qualcosa si sta muovendo. Persino la congrega delle streghe sembra in fermento.»
Aggrottai le sopracciglia, mi agitai sulla sedia. Di colpo, il suo studio mi sembrava  infinitamente piccolo.
«Che siano pronte a sferrare un attacco decisivo? Un'altra guerra?»
Fece un sorriso triste e si sporse con i gomiti sulla scrivania «Se così fosse, saremmo stati noi a dichiarare guerra a loro. Ma no, questa volta si tratta di altro»
Sentii bruciare l'ansia nel mio petto.
Erano secoli che il clan combatteva la congrega delle streghe, sin dai tempi dei roghi e delle persecuzioni. Da sempre, era stata una guerra interminabile durata così tanto, che nel ventunesimo secolo, eravamo stati chiamati di nuovo alle armi.
L'arcivescovo mi rifilò un'occhiata tagliente «Si tratta di qualcosa di serio, qualcosa che mi costringe a vedere te, Zane, in prima linea» Si sollevò dalla poltrona ed incrociò le mani dietro la schiena .
«Me?!».
Che voleva dire? Cosa stava succedendo?
«Questa notte, mi è arrivato un telegramma da Madamme Surrett.»
Sussultai. Da quando l'arcivescovo aveva a che fare con le streghe?
«Pare che una della sua congrega, una strega mezzana, abbia quasi ammazzato una compagna.»
Deglutii.
«Questo è un bene, no?»
Lui passeggiò per la stanza «Lo sarebbe, se non fosse che la mezzana in questione ha quasi ingoiato tutta l'anima della strega. » 
«H-Ha detto anima?» Era impossibile. Le streghe non si nutrivano d'anime. 
 Mi raggiunse e poggiò una mano pesante sulla mia spalla. Fui costretto a sollevare lo sguardo incrociando il suo «Voglio che mi porti quella strega, Zane. Voglio che mi porti, quella che Surett dice di essere  la strega maledetta.»

 E Zane avrebbe adempito ai suoi compiti. Ad ogni costo.

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Capitolo 5
*** Maligno ***


                                                                                            Maligno
 
                                                               Zane
Quella mattina, io non avrei trovato il male. Lui avrebbe trovato me.
Madamme Surett non aveva dato alcuna indicazione all'arcivescovo. Né un posto dove cercare la strega, né una descrizione delle sue fattezze.
Cosa avrei dovuto fare, quindi? Era tutta la mattina che me ne andavo a zonzo per la città. L'arcivescovo era stato chiaro: seppur avessi cacciato durante la notte, l'indomani mi  sarei dovuto trovare per strada, cercando di captare l'aura della strega in questione. Ammesso che di una strega si trattasse.
«Un caffè, grazie» Appoggiai l'avambraccio sul banco di ferro di un chioschetto a bordo marciapiede. La ragazza dietro la cassa mi sorrise, si voltò ed estrasse il braccetto dalla macchina per il caffè. Con maestria, fece scendere un po' di caffè dal macinino e riagganciò il braccetto.
Mi concentrai sulla codina nocciola che uscì dopo pochi attimi piombando nel bicchierino di carta. Come mi sarei dovuto muovere?
Mi voltai verso la Sesta Avenue alle mie spalle. Era gremita di volti anonimi: alcuni annoiati, altri affrettati.
C'era odore di pioggia della sera prima e di Hot Dog caldi per tutta la strada ed il vociare, i clacson e la vita facevano da cornice caotica a tutto il resto.
«Un dollaro e venti» Sussultai tornando a voltarmi ed il mio sguardo si concentrò sulle unghie laccate di nero della ragazza, mentre stringevano il bicchierino fumante.
Mi infilai velocemente una mano in tasca e le lasciai quanto chiesto sul bancone.
Bene, avevo il mio caffè, ora?
Presi a camminare seguendo una direzione immaginaria, sorseggiando il caffè.
Non era eccezionale, ma mi rinvigorì.
Cercai con lo sguardo un cestino per l'immondizia e nel farlo incrociai lo sguardo di due liceali. Due ragazzine poco meno che maggiorenni. Una di loro mi guardò da cima a fondo, arrossì e poi parlottò all'orecchio dell'amica. Anche lei mi rifilò un'occhiata veloce e ridacchiò.
Spostai velocemente lo sguardo sul riflesso di una vetrina oltre le due ragazze: non avevo nulla che non andasse, occhiaie a parte.
Scossi la testa e decisi di dimenticare quel momento.
Non ero mai stato per la città di giorno.
Tutta quella gente mi infastidiva. Certo, le prime ore di buio erano praticamente identiche, ma con il passare del tempo la città tendeva a spopolarsi e per me era meraviglioso.
Il silenzio, il buio, facevano incondizionatamente parte del mio Habitat.
«Sta attento!» Un uomo dal fare minaccioso sollevò un braccio imprecando. Lo avevo urtato appena, eppure, lui aveva reagito come se gli avessi sferrato un destro sul naso.
«Praticamente non ti ho toccato» Provai a fargli notare con un po' di insofferenza.
Si tirò su la manica della felpa scoprendo un braccio intriso di tatuaggi incomprensibili e sciatti.
«Cerchi rogna questa mattina?» Fece un passo avanti. Non arretrai.
«Assolutamente» Mi arrivò ad un palmo dal naso e scoprii che era di una spanna più basso. Testa rasata, abbastanza grassoccio. Un spacciatore o comunque, un teppistello.
«Secondo me, hai voglia di provare uno di questi sulla faccia» Mosse il pugno stretto un paio di volte, ghignando.
Ma come diavolo avevo fatto a finire in una zuffa, così, senza nemmeno volerlo?
«Ascolta, non sono nelle corde per fare a botte con qualcuno, perciò-» Sollevai la mani a mezz'aria davanti a me «Ti chiedo scusa. Ora lasciami in pace.»
L'espressione sul suo viso, dapprima si fece sbalordita e dopo, più aggressiva di come lo era in partenza.
«Cosa credi che bastino le scuse?» Sollevò il gomito pronto a colpirmi. Ma che diavolo gli avevo fatto per essere così astioso nei miei confronti?
Il suo braccio disegnò velocemente una curva che terminava dritta, dritta, sul mio naso ma proprio quando pensavo di essere pronto a ricevere uno sonoro cazzotto  - senza poter reagire ad un umano, fra l'altro - e chiusi gli occhi, una folata di vento mi accarezzò una guancia.
L'uomo mugugnò di dolore. Sollevai le palpebre senza capire cosa stesse accadendo: lo vedevo coprirsi il naso con entrambe le mani ed erano rosse di sangue.
«Così impari, stronzo!»
Voltai lo sguardo lentamente verso il mio lato sinistro. Ero ingessato, sbigottito e...
Di nuovo lei?!
Lucille, avvolta in una felpa molto più grande della sua misura, guardava il ragazzo grassoccio con aria torva. I pugni chiusi e l'aria di chi non ha paura di fare a botte.
Lei, piccola e mingherlina com'era. Mi piovve addosso un pesante imbarazzo.
«Da dove sbuchi?» Le chiesi cercando di non farmi tremolare la voce.
I suoi occhi verdi si spostarono dallo "stronzo" a me e sorrise fiera.
«Dalla pasticceria!» Esclamò con ovvietà, rizzando le spalle.
Il suo indice era rivolto proprio li, alla porta di una piccola pasticceria.
«Tu! Brutta puttanella!» Ci voltammo all'unisono verso il tizio che sembrava esser tornato combattivo.
«Non ti è bastato?! Ne vuoi un altro?» Replicò spavalda lei.
Avevo una vaga idea di dove avrei passato il resto della giornata se Lucille non avesse smesso di ribattere: al pronto soccorso.
«Ok, puoi darci un taglio?» Bisbigliai.
Al contrario suo, io non potevo aggredire un umano. Era uno dei precetti che, di norma, imparavamo in accademia.
Arricciò le labbra con disgusto «Fai sul serio? Lo hai capito che vuole romperti la faccia?»
L'afferrai delicatamente per le spalle cercando di spostarla fisicamente verso il lato opposto del marciapiede «Ho capito che quel tipo cerca lite, ma io non posso aggredirlo» Le spiegai sempre a bassa voce.
La bocca di Lucille si spalancò per dire qualcosa.
Il ragazzo grassoccio ci venne incontro pronto a colpirci e poi...
Un boato interruppe tutto.
Il terreno sotto i nostri piedi tremò così tanto che per un attimo ebbi l'impressione di perdere l'equilibrio. Il cielo diventò plumbeo ed un aria innaturale saturò l'atmosfera.
In un attimo, il traffico si congestionò al centro della strada, le persone a piedi si chinarono proteggendosi il capo. Qualcuno urlò la parola attentato.
«Che succede?» Lucille sgranò gli occhi verso la colonna di fumo che si era sollevata in cielo. Proveniva da uno dei due grattaceli infondo alla strada.
«Non lo so. Sembra-» Qualcosa saettò come un proiettile da un punto indefinito del cielo piombando sul ragazzo che ci aveva aggredito.
Quello che, ai miei occhi, divenne un pezzo di cemento lo schiacciò letteralmente spezzandogli la spina dorsale. Un rivolo di sangue zampillò dalla sua bocca prima che esalasse l'ultimo respiro.
Lucille si tappò la bocca con le mani e gridò nella gola.
Un attimo dopo, altri oggetti si sollevarono da terra. Schizzarono come saette, scontandosi con qualunque cosa: auto, palazzi, persone.
Grida si sollevarono dalla strada. L'agglomerato di persone si mosse come un'onda. Correvano ovunque. Qualcuno piangeva, altri si lamentavano di dolore.
Chi era chiuso in auto e non aveva fatto in tempo a mettersi a riparo, aveva trovato la morte in fretta. Altri, quelli più fortunati, si erano riparati sotto i balconi dei palazzi a ricasco dei due marciapiedi ai lati della strada. I proprietari dei negozi avevano serrato le saracinesche. Fu orribile constatare che in un momento di estremo pericolo, chi bussava alle loro porte restava inevitabilmente chiuso fuori.
«Dobbiamo allontanarci da qui!» Dissi, ma Lucille sembrava di tutt'altro avviso. Quando la presi per mano non si mosse.
Continuava a guardare nella direzione dei due grattaceli come se ci vedesse qualcosa.
«Non posso andarmene.» Mormorò all'improvviso «Devo vedere cosa sta succedendo»
Inconsciamente, sollevai lo sguardo accorgendomi di un lampione che stava piombando in picchiata dal cielo. In un batter d'occhio le attorniai la vita con un braccio spingendola verso il muro.
«No, io devo controllare. Tu devi trovare un posto sicuro, lontano dal cielo aperto.»
Scosse la testa mantenendo lo sguardo li, dove le esplosioni si stavano susseguendo come colpi sulla pelle tesa di un tamburo.
Senza aggiungere altro, scacciò via il mio braccio e corse verso le auto incastrate nel traffico.
«Lucille!»
Dannazione! 
Si insinuò fra le auto come un gatto, mentre oggetti di qualunque tipo le si infrangevano accanto, sui cofani, sui tettucci, ai suoi piedi.
Si coprì di riflesso il capo quando un'altra auto si sollevò da terra infrangendosi su una Geep ferma ad un metro da lei.
Magia nera. Ne sentivo il tanfo.
«Lucille, torna indietro! E' pericoloso!» Mi issai con un braccio sul cofano di un'utilitaria ferma per sbieco fra altre vetture e ci scivolai sopra.
Dentro, un'intera famiglia aveva perso la vita. I volti intrisi di sangue. Quella che presumibilmente doveva essere la madre dei due piccoli seduti dietro, aveva battuto la testa contro un finestrino. Sperai che fossero morti tutti in fretta. Mi si strinse il petto. Non mi ero mai sentito così disarmato difronte qualcosa.
Lucille rallentò di colpo e poi si fermò ai piedi dei due grattacieli, davanti alla fontana in disuso a forma di cavallo marino.
Ripresi fiato appoggiandomi alle mie stesse ginocchia.
C'era puzza di zolfo e di bruciato ovunque. L'aria era irrespirabile e la cenere mista al fumo sporcavano la visuale.
«Torna indietro, Lucille» Annaspai di fatica.
Lei che era di spalle, si voltò. Gli occhi intrisi di terrore.
«Va via.» 
Sbarrai le palpebre. Il respiro mi si bloccò in gola: Lucille era attorniata da ombre nere, della stessa consistenza del fumo.
«Non puoi fermarmi, cacciatore»
«Non puoi fermarmi»
Alcune ombre incominciarono a vorticare intorno alla ragazza mentre altre, che le si stavano formando sotto i piedi, piano piano incominciarono a serpeggiarle sulle gambe, sulla vita, sulle braccia.
Da un angolo di un occhio le uscì una lacrima.
«Aiuto» Mormorò di labiale.
Avanzai verso di lei, ma le ombre presero a vorticare impazzite e un vento innaturale mi fece indietreggiare strusciando i piedi a terra.
«Lucille, resisti!» Gridai.
«Non puoi fermarmi.»
Ripetè la voce eterea.
Provai a darmi una spinta verso la nebulosa nera che si era formata attorno alla ragazza. L'unico spiraglio libero, adesso, mi permetteva di vederle appena il volto. Quella che pareva essere una mano nera e fumosa le si stava attorcigliando alla gola e le dita inumane le toccavano appena una guancia.
Gli occhi di Lucille stillavano terrore. Era paralizzata, posseduta dalla forza di quelli che sembravano essere proprio spettri.
Fra lo sgomento e la paura, vinse la tenacia.
Era giorno e c'erano umani dappertutto, ma non avrei permesso alle entità maligne di vincere. Stavano mietendo sin troppe vittime.
Tirai fuori dal colletto della mia T-shirt il ciondolo e lo sollevai davanti a me.
«Audi me: servus autem lux» Attorno a me si materializzò una luce cobalto. Avanzai verso le ombre. «Liberate res huius mundi tenebris» 
Il fumo maligno si divise in due, permettendomi di entrare dentro di lui.
«Ei liberate, Dominus lux»
La luce sprigionata dal ciondolo, mi avvolse rilasciando la sua potenza sotto forma di fiamma blu. Arrivai ad un passo da Lucille. Le ombre le avevano divorato il viso, potevo vedere solo il verde di un occhio.
Allungò una mano verso di me.
«Ei liberate, Dominus lux» Continuai a ripetere.
Sollevai la mano libera e le nostre dita si intrecciarono.
Non ti lascerò morire.
«Ei liberate!»
Come erano apparsi, gli spettri scomparvero, soccombendo nelle profondità della terra.
La luminescenza del mio ciondolo svanì e Lucille sembrò perdere tutte le forze cadendo sulle ginocchia.
Mi mossi un attimo prima che tonfasse a terra.
«Lucille!» Le spostai una ciocca dal viso.
Attorno a noi, il fumo si stava rarificando ed il cielo era tornato sereno ma potevo ancora sentire quel tanfo. L'odore del male.
 
                                                                                     Lucille
Quando riaprii gli occhi, fui sorpresa di essere ancora viva. O forse non lo ero. Ero circondata dall'oscurità. Che la vista mi avesse abbandonata? Ma quando i miei sensi tornarono a funzionare, a poco a poco la vista si adattò al buio.
La prima cosa che vidi furono delle sbarre.
Sbarre.
Trassi un respiro tremante mentre il mio cuore accelerava. Con i crampi allo stomaco aprii la bocca inaridita, cercando di respirare.
Un malsano odore di muffa aleggiava nell'aria, assieme ad un pungente puzzo di vomito. Sotto di me c'era un asse fredda e rigida.
Sapevo dove mi trovavo.
Giù, nei sotterranei del monastero di Sant'Agustina e quella dove ero imprigionata era una gabbia per demoni. Non sapevo nemmeno se fossero state mai utilizzate. I demoni non si erano più manifestati dopo il sedicesimo secolo e nessuno, né streghe, né cacciatori avevano la certezza che loro fossero realmente esistiti.
Ero certa che le sbarre davanti ai miei occhi fossero, quindi, impossibili da rompere. Non che potessi provarci. Non riuscivo a muovermi. Qualunque cosa scorresse nelle mie vene blu e in rilievo sulla pelle, me lo impediva.
Un crampo lancinante mi contrasse i muscoli e mi tolse il fiato. Ansimando, attesi che passasse. Da qualche parte dietro di me si sentiva un gocciolio continuo. L'unico suono da cui capii che non mi trovavo in una specie di buco nero.
Mentre me ne stavo li a fissare il buio, rividi gli occhi dilatati di Zane e ricordai il momento in cui le ombre mi stavano divorando.
Mi aveva portata lui qui? No, non poteva avermi portata lui. Mi aveva salvata, non sapeva nemmeno che fossi una strega dato che io - a differenza delle altre - non avevo un odore o un'aura.
Allora come diavolo c'ero finita nei sotterranei del monastero di Sant'Agustina?!
Qualcuno mi aveva deliberatamente trasportata in Francia mentre dormivo e...Cielo! Per quanto tempo ero stata prima di coscienza!?
La confusione nella mia testa si amplificò.
Poi arrivò la nausea. La stessa nausea che avevo provato dopo aver quasi rubato l'anima a Coco.
Non capivo perché mi fosse arrivata in quel momento, dato che non avevo rubato l'anima a nessun altro. C'erano tante domande ma, di nuovo, nessuna risposta.
Dopo un po' il dolore allo stomaco e l'intorpidimento al resto del corpo degenerò in un dolore pulsante. Ciò che vedevo -letteralmente - scorrermi dentro, mi impediva qualsiasi gesto. Con il passare delle ore, cominciarono a dolermi altre parti del corpo, poi arrivarono i crampi allo stomaco per la fame. 
Avevo la gola in fiamme. Acqua. Mi sembrò l'unico rimedio per attenuare quella sensazione atroce.
In breve quel pensiero diventò un'idea fissa, l'ossessione di come sarebbe stato sentirmela scivolare in gola.
Quando infine riuscii a parlare anziché sussurrare, cercai di chiamare qualcuno. E continuai a chiamare fino a che la voce non mi abbandonò di nuovo.
Passò altro tempo. Ore. O forse giorni? A un certo punto riuscii a muovere le gambe e poi le braccia seppur incatenate sulle mia testa. Potevo quasi stare seduta senza sbattere la fronte sulle sbarre della gabbia, ma ero esausta.
E ancora non venne nessuno.
Deboli squittii e il raspare di artigli aguzzi sul cemento si unirono al suono dell'acqua che gocciolava. Ratti. Zampettavano tutti intorno, con gli occhietti che brillavano nel buio. Cercai di rannicchiarmi sul fondo della gabbia in posizione fetale.
Mi bruciavano gli occhi. Non volevo morire li dentro quella cella. Non volevo morire e basta.
Non era la strega in me che aveva paura. Ero io. Volevo continuare a vivere.
Passò altro tempo e persi la sensibilità delle dita delle mani. Laggiù faceva molto freddo e i ratti si avvicinavano alle sbarre cercando un modo per entrare.
Avevo ormai perso il senso del tempo, quando una lucina spuntò da qualche parte dietro la gabbia, spingendo le disgustose creaturine a ritirarsi nuovamente nell'ombra fitta. Con i muscoli deboli e doloranti, mi costrinsi a sollevare la testa.
La luce inondò la stanza ed ora potevo vederne le pareti di mattoni e le fiaccole spente agganciate ad esse.
Udii un suono di passi avvicinarsi e la luce si affievolì.
L'uomo di fronte a me indossava una tunica bianca ed un cappello di forma ovale sulla testa. Aveva lo sguardo gelido.
«E' lei?»
Ma la paura nacque un attimo a seguire, quando dal buio del corridoio di pietra sbucò la sagoma di Zane seguita da quella di Madamme Surett.
Come potevano avermi fatto questo? Come avevano potuto consegnarmi nelle mani di un uomo che desiderava ardentemente lo sterminio di tutte le streghe?
«Surett» mormorai distrutta.
La strega rivolse lo sguardo settico all'arcivescovo «Si».
«Perché mi fai questo?» Le chiesi in lacrime dimenandomi. La catena che  mi teneva imprigionate le braccia, tintinnò ritirandomi indietro e facendomi sbattere la schiena contro la pietra.
Il dolore si irradiò per tutto il corpo, nulla a confronto di quello che stavo provando al cuore.
«Allora restiamo di patto»
Il cacciatore, che era rimasto in disparte, guardò l'arcivescovo. L'espressione bastonata.
«Solo se risparmierete la mia congrega.» Controbattè la strega.
L'uomo sembrava contrariato ma non potette far altro che accettare.
«E così sia. La sua congrega verrà risparmiata-» Proferì a gran voce, poi si rivolse al cacciatore «Zane, ordina alla tua squadra di non cacciare a New York questa notte».
Zane aveva lo sguardo contrito, strinse i pugni ma annuì.
«Perché? Perché, Zane? Cosa ho fatto?» Ero disperata, confusa e mi sentivo profondamente tradita.
Non capivo per quale motivo fossi li dentro. 
«State sbagliando tutto! C'è una strega li fuori, una strega potente e mieterà vittime a non finire!» Cercai di gridare.
«Fa silenzio, abominio!» L'arcivescovo mi folgorò con un sguardaccio che disegnava perfettamente lo sdegno ed il disgusto che provava per me.
«Le do un giorno di vantaggio, Madamme. Questa notte, la sua congrega potrà migrare verso un posto nuovo a noi sconosciuto.»
Surett si sventolò il ventaglio davanti al viso. Gli occhi le rilucevano di vittoria.
«Lei è veramente clemente, Monsieur.» Fece un mezzo inchino.
«Trovi un posto sicuro, allora.»
Era ripugnante tutto ciò: streghe che facevano accordi con la chiesa.
Le stesse streghe che per secoli erano state vessate da loro e sterminate in maniere indicibili.
Surett faceva schifo. Quell'uomo faceva schifo.
«Posso farle strada?» Lui mosse un passo accompagnando la strega con la mano fra le spalle.
«Ma certo».
Surett si lasciò accompagnare verso il corridoio ma non prima di schioccarmi un'ultima occhiata.
Sguardo del tutto incomprensibile. Un misto di fierezza, risolutezza e dolore celato dall'insipidità dei suoi occhi.
I miei pensieri ora erano tutti rivolti alla sorte che mi sarebbe spettata.
Sarei morta, questo era certo, ma sicuramente dopo essere stata torturata. Cosa peggiore, senza un valido motivo. 
I due passarono accanto al cacciatore che fece un inchino: capo basso e sguardo rivolto a terra. Non lo aveva mai sollevato da quando erano arrivati li sotto e assolutamente mai verso di me.
Stava per andarsene, quando attirai la sua attenzione.
«Zane...» Ansimai «Zane, ascoltami. Ti scongiuro».
Un muscolo sulla sua mascella guizzò.
«Vi state sbagliando. Non sono niente di ciò che mi credete» Singhiozzai appena, non avevo più le forze neanche per piangere come si doveva.
Vedevo in lui il desiderio di allontanarsi il più possibile da me. Era certo che l'arcivescovo si fosse sbagliato, che Surett si fosse sbagliata, e lo vedevo.
Si sentiva colpevole, glielo si leggeva in viso.
«No, no, no, non andartene» Mossi la catena sulla mia testa.
Il cacciatore si fermò indeciso. Raggiunse la mia gabbia e dopo un po' di titubanza si chinò. Non ebbe il coraggio di guardarmi nemmeno allora.
«Mi dispiace per quello che ti sta capitando» mormorò. La Balisarda agganciata alla cinta e la giacca blu con lo stemma dell'arcivescovato stampato sul taschino.
Non sembrava lo stesso Zane che avevo conosciuto pochi giorni prima.
«Vi siete sbagliati. Tutti quanti!» Protestai ancora.
Un sussulto lo fece tremare.
«Non posso aiutarti, mi dispiace.» Si sollevò.
«Aspetta!»
La mia voce lo fece rinunciare ad andarsene per la seconda volta.
«Almeno, liberami le mani».
Sembrò combattuto per un momento, ma quando vide le mie dita bianche e senza abbastanza sangue che vi circolasse dentro, si decise.
Estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca e ne cercò una in particolare fra le tante.
Infilò la chiave in una piccola toppa e girò.
Quando la gabbia si aprì, una zaffata d'aria fredda mi inondò. Fu strano, dalle sbarre passava sicuramente abbastanza aria da darmi la stessa sensazione, eppure quel freddo era differente.
Zane raggiunse gli anelli di ferro sulla mia testa e con una seconda chiave liberò, dapprima la catena e poi i miei polsi.
Li massaggiai. Facevano un male cane, ma la sensazione del sangue che tornava a circolare era più forte.
«Ti fanno molto male?» Ritrovai il viso del cacciatore ad una spanna dal mio. La sua mano che scivolava sui polsi, lo sguardo a loro.
Sentii le guance farsi roventi senza motivo.
«Abbastanza».
I miei occhi intercettarono la parte aperta della gabbia. Se fossi stata colpevole di ciò che mi accusavano, sarei scappata.
Ma non lo ero e non volevo agire come se lo fossi.
Zane lo notò e si sentì sollevato dal fatto che non stavo tentando di metterlo nei guai.
«Mi brucia la gola» dissi abbassando lo sguardo.
«Non ti hanno portato dell'acqua?»
Mimai un no.
I lineamenti del suo viso si indurirono.
«Te la porterò io questa notte.»
Sorrisi appena.
«Non sono io quella che cercate e tu lo sai.» 
Zane si lasciò cadere a sedere sulla paglia accanto a me. L'aria esausta e confusa, si passò una mano sul viso e poi fra i capelli.
«C'eri tu dentro l'auto quando qualcosa ci ha aggrediti. E c'eri tu questa mattina; immagino che fossi sempre tu, colei che ha quasi succhiato tutta l'anima alla strega della congrega di Surett.»
Vibrai.
Vivere in prima persona certe cose ti confonde, ma sentirsele spiattellare in faccia era ben altra cosa.
«E' vero. Ma questo non vuol dire niente, il male può costringerti anche a fare cose che non vuoi. Ed io non volevo ucciderla.» Parlai in fretta, con decisione «Per quello che riguarda gli altri episodi, immagino che persino tu hai captato la presenza della magia nera.»
Le sue labbra si separarono per dire qualcosa, ma dalla sua bocca non uscì nulla.
«Come puoi pensare che io, che ho avuto un paio di visioni in tutta la mia vita e che non porto nemmeno il tanfo delle streghe addosso, possa essere capace di tutto quello che ci è accaduto!»
 
                                                                                   Zane
Lucille aveva ragione. 
«Voglio che tu sappia che non è stata, comunque, una mia idea metterti qui dentro. Sono stato costretto.»
I suoi occhi verdi incrociarono i miei. Sprigionavano rabbia e amarezza.
«Potevi opporti, fare qualcosa.»
Potevo, aveva ragione. Ma tutto quello che mi era capitato negli ultimi giorni aveva un unico punto in comune: la sua presenza.
E poi la lettera che quella strega aveva mandato all'arcivescovo, parlava chiaro. Lo aveva ammesso lei stessa: aveva mangiato un'anima.
C'era però da dire, che sin dal primo momento, io avevo covato il dubbio che lei fosse una strega proprio per via del fatto che in lei non avvertivo nulla.
Lei stessa aveva ammesso di non aver sviluppato alcun potere ed era perciò impossibile che fosse l'artefice delle esplosioni e della morte di quella famiglia nella fattoria fuori città.
«Ok. Ok, poniamo il caso che ci fossimo sbagliati, perché Surett incolpa te? Insomma, voi streghe siete "sorelle di sangue".»
La rabbia disegnata sul suo viso si marcò.
Serrò la mascella e, a pugni stretti, cercò di controllare l'ira.
«Mi odia, ed è reciproco. Se fossimo migrate ancora, mi avrebbe lasciata qui. Io non ho nessun potere, sono un'umana praticamente» 
«Ma sei cresciuta con le streghe» Le feci notare.
Lei mi rivolse lo sguardo più triste che le avessi mai visto sul viso «Crescere con le streghe non significa essere una strega. Mia madre lo era, non io.»
«Tua madre...E' morta?»
Annuì sofferente.
«Quando ero molto piccola.»
Sperai che non fosse morta per colpa di uno di noi. Allo stesso tempo mi chiesi, perché?
Perché provavo dispiacere per lei e per la sorte di sua madre?
«Capisco...». Poggiai la testa sul muro di pietra dietro di noi.
«Loro mi hanno adottata ma, molto probabilmente, hanno cresciuto per vent'anni un'umana come tante altre.» Non potevo sapere come si sentiva realmente, ma dalla tristezza che emanava la sua voce, sicuramente si sentiva inutile agli occhi delle altre.
Non essere una strega al cento per cento le aveva dovuto procurare non poco dolore.
Ero ancora indeciso se crederle o no. Liberarla sarebbe significato abdicare ed essere perseguitato alla stregua di come noi perseguitiamo le streghe, ma la parte più umana del mio cuore, mi diceva: liberala.
Quella ragazza non poteva essere la causa di tutte quelle circostanze misteriose che mi avevano visto protagonista.
Mi sollevai «Ti farò uscire di qui. Così sarai libera di scappare lontano da New York e da Sant'Augustina».
Le sue palpebre si allargarono. Gli occhi le brillavano di speranza e devozione.
«Dici sul serio?»
Dicevo sul serio?
Tirai un grosso respiro. «Si, ma dovrai sparire. Promettimelo.»
Annuii un paio di volte.
«No-» Le presi le mani fra le mie «giuramelo. Loro non ti lasceranno in pace. Ti perseguiteranno e perseguiteranno quelle della tua congrega quando scopriranno che ti ho fatta evadere. Perciò medita bene.»
Il suo viso si rabbuiò nuovamente.
«Questo significa che daranno la caccia a Coco e alle altre?...»
«Si.»
Strinse le labbra fra di loro, l'espressione pensierosa.
«Non c'è altro modo?»
Non vedevo altre soluzioni, se non...
«Aspetta, un altro modo ci sarebbe!»
 
                                                                               Lucille
L'espressione euforica di Zane non prometteva niente di buono.
«L'arcivescovo vuole tenerti qui per fare di te la sua cavia» Ammise «E noi gli daremo modo di farlo.»
«Cosa?!» Lui si sollevò ed io schizzai in piedi beffandomi delle forze che non avevo.
«Certo-» Si picchiettò la punta del mento parlando quasi fra se e se «questo vorrebbe dire che io non...e poi dovrei...»
Mi irritai «Ei, puoi rendermi partecipe dei tuoi monologhi interiori?»
Sollevò lo sguardo al soffitto come se stesse continuando a pensare poi tornò a prestarmi attenzione.
Si avvicinò di un passo e sfilò dal colletto della sua giacca il ciondolo con lo zaffiro che gli avevo visto la prima sera.
Emanò un piccolissimo bagliore che mi fece strizzare una palpebra.
«Infila questo» Se lo sfilò e lo fece passare sulla mia testa.
«Cos'è?»
«Racchiude l'essenza di noi cacciatori. E' la porta che ci permette di evocare incantesimi bianchi e esorcismi.»
Afferrai la collana fra due dita «E questa a cosa mi sarebbe utile?» e feci dondolare il ciondolo davanti al mio naso.
«Be', se sei una strega dovrebbe impedirti di sprigionare magia, mentre se tu fossi un demone come credono loro quell'amuleto ti ucciderà.»
«Un demone» Sbottai a ridere «Che stronzata». Lasciai ricadere il ciondolo lungo il collo e rimbalzò un paio di volte sul mio sterno.
«Bene. E...ora? Che si fa?»
«Ti porterò sopra.»
Inarcai le sopracciglia. Stava dicendo sul serio?
«Sei forse impazzito?»
«No-» Sospirò «devi solo fare ciò che ti dico».
Mi lasciai convincere.
«Sappi che non amo prendere gli ordini» Annunciai seguendolo lungo il corridoio di pietra.
«Dovrai abituartici».
«Come mi dovrei abituare a questa specie di camicia da notte bianca? Perché diavolo mi avete tolto i vestiti?»
Il cacciatore si fermò sul posto «Ti prego, non farlo»
«Non fare, cosa?»
«Lagnarti...».
 
Cosa aveva in mente Zane? Seguirlo nel suo piano mi avrebbe portato fra le braccia della morte?
 

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Capitolo 6
*** Zaffiro ***


                                                                                         Zaffiro    
L'arcivescovo mi schiaffeggiò in pieno viso. Il rumore riecheggiò nel  silenzio del suo ufficio vuoto. Era scesa la notte su Sant'Agustina, i cacciatori erano ognuno nella propria cella e i cardinali in preghiera nell'abazia.
Mi portai una mano alla guancia e lo guardai con rabbia silenziosa. Zane si mosse nervosamente accanto a me, a disagio.
«Orribile abominio.» L'arcivescovo strabuzzò gli occhi in maniera allarmante «Come l'hai convinto a farti scarcerare?»
«Non l'ho convinto, Signore.» 
«Osi mentirmi?!»
Si udì bussare da dietro la porta di legno massello. 
«Eminenza, va tutto bene?» Un altro cacciatore, con il tono preoccupato della voce, non osò entrare.
«Tranquillo. Arriverò in sacrestia fra poco.» L'arcivescovo drizzò la schiena e si sistemò la tonaca, traendo un respiro profondo.
Riportò su di me l'attenzione; passò un lungo momento di silenzio dove ci guardammo con odio.
«Cosa devo fare con te?»
Non ebbi il coraggio di parlare. Il mio viso non avrebbe retto un altro mal rovescio.
In compenso, però, il ciondolo che nascondevo sotto la tunica bianca aveva fatto si che le vene increspate sotto la mia pelle sparissero e che anche il mio corpo tornasse rinvigorito. Più o meno.
«Come può essere una strega, signore?» Zane fece un passo avanti e poi esitò nuovamente.
L'arcivescovo lo folgorò.
«Come dici?»
Lo sguardo del cacciatore si impolpò di timore.
«Guarda! Guarda cosa hai fatto, strega!» Il palmo dell'uomo si allargò in direzione di Zane.
«Sei una criminale che si accompagna ai demoni. Hai plagiato e coinvolto un cacciatore in più di un'aggressione, insieme a...altre cose.» Piegò le labbra in un ghigno e mi scrutò con disgusto palpabile. Cercai in vano di ignorare la vergogna che mi ribolliva dentro. Era stato un incidente. Non lo avevo coinvolto intenzionalmente.
Non avevo mai finto di essere una brava persona. Io lo ero, non avevo nulla a che fare con ciò che la congrega faceva ai cacciatori o agli umani.
«Plagiandolo, la sua reputazione è rovinata.» proseguì l'arcivescovo.
«Signore-» Zane si inchinò al suo cospetto: il capo basso e la mano sul petto «questa ragazza non ha fatto alcunché. E' vittima delle circostanze, per quanto, le chiedo solo di non mantenerla nei sotterranei ma di trovarle alloggio presso i piani alti. Sarà a sua disposizione qualora voglia.» Pronunciò l'ultima frase guardandomi, cercando il mio consenso.
Non lo avrebbe mai avuto, ma di certo non avrei obiettato causandogli altri problemi.
L'arcivescovo sospirò, l'aria pensierosa. Raggiunse la sua scrivania e sprofondò a sedere sulla poltrona.
«Sarò costretto a sollevarti dal tuo incarico, Zane. Ne sei cosciente?»
Il cacciatore si irrigidì «Ma io vivo per la nostra causa. Sono il capitano del clan dei cacciatori e-»
«Basta così. Questa è la mia decisione: se lei resta, sarai tu a dovertene occupare. Questo sarà il tuo compito d'ora in avanti» fece una breve pausa e ricominciò «Non posso rischiare che la santità dei cacciatori venga messa in dubbio. Che la MIA santità venga messa in dubbio.»
Mi fissò. Assunsi un'espressione contrita, per paura che gli prudesse di nuovo la mano. Soddisfatto della mia aria pentita, tornò ad alzarsi.
Era chiaro che mi trovava ripugnante, ma il suo sguardo d'acciaio continuava a soffermarsi su di me. Come una falena attratta da una fiamma. Mi studiava in cerca di qualcosa, soffermandosi sui miei occhi, sul naso, sulla bocca. Sulla gola.
Cercava...risposte. 
Risposte che non avrebbe mai avuto da me.
«E' deciso» mormorò in fine, rassegnato.
Mi appellai al cacciatore decisa a far si che tutto quel teatrino poco felice terminasse all'istante.
«Non puoi volerlo sul serio. Stai perdendo tutto a causa mia.»
L'arcivescovo guardò prima Zane e poi me. Di nuovo un ghigno.
«L'eretica dice bene, Zane.»
Avrei tanto voluto tirare un pugno a quella faccia rivoltante.
«Non c'è altro modo.» Le sclere negli occhi di Zane si pieghettarono di capillari rossi.
Il panico mi artigliava la gola, assieme alla consapevolezza di quello che stava accadendo.
Stavo infrangendo ogni regola, ogni patto, ogni...tutto. E stavo rovinando la vita a Zane.
Tornò a sollevarsi da terra, la schiena leggermente incurvata dalla delusione.
«Sei come un figlio per me, Zane.» L'arcivescovo, prima di uscire dalla stanza, allungò un braccio per stringergli la spalla: un topo che confortava un elefante. Una parte della mia mente avrebbe voluto ridere. Zane era di ampi valori, quell'uomo era solo una figura a cui appellarsi in preghiera.
«Cerca di riflettere. Non buttare via la tua vita, la tua carriera, solo per aiutare questa miscredente. Lei non farebbe lo stesso con te.»
Il sangue tornò finalmente sul viso del cacciatore...no, gli infiammò il viso. Risalì sulla gola e si propagò sulle guance. Lo vidi serrare la mascella ed un muscolo guizzò sotto pelle. «Ho preso la mia decisione, signore.»
Ebbi uno spasmo. Poi un altro. Non si trattava di sola agitazione, stavo male. Sentii risalire la bile in gola e, senza riuscire a trattenermi, eruttai uno spettacolare arco di vomito sui piedi dell'arcivescovo, che indietreggiò con un balzo e un grido di disgusto.
«Come osi...!» Alzò il pugno per colpirmi ancora, ma il cacciatore agì con prontezza. La sua mano afferrò il polso dell'arcivescovo.
L'uomo lo guardò con stupore, sbigottito dal gesto del suo sottoposto.
Dalla sua bocca sembrava voler uscire qualcosa ma tacque.
Il cacciatore mollò la presa e mi guardò, e un rossore più intenso gli risalì lungo il collo. «Hai bisogno di riposare» proferì timidamente.
Annuii lasciandomi accompagnare fuori dall'ufficio dell'arcivescovo.
Eppure una domanda restava: cosa voleva l'arcivescovo da me? Perché era chiaro che voleva qualcosa. Gli avevo letto la fame negli occhi. Prima scoprivo di cosa si trattava e prima avrei potuto sfruttarlo a mio vantaggio.

«Avanti, entra.» Zane spostò l'anta di legno di una porta. All'interno una piccola candela accesa, poggiata su un comodino, illuminava appena il rettangolo bianco che era il suo alloggio.
Spoglio, settico, anonimo.
Veramente Zane e gli altri cacciatori vivevano li?
Non vedevo niente di suo. Né una foto, né degli effetti personali. Persino gli abiti erano tutti riposti ordinatamente fra armadietto e comò.
Mi fece cenno di sedermi a bordo letto. Accanto ad esso e al comodino c'era una seconda porta più piccola e stretta. Ci sparì dentro per qualche istante lasciandomi sola con la mia nuova vita.
Osservai le travi di legno scure sotto i miei piedi e il bianco candido del lenzuolo sotto di me.
Cercai con lo sguardo altro che potesse ricordarmi anche solo un briciolo della mia vita fuori da quelle mura, e lo trovai.
Si trattava di un ritaglio incuneato nel muro. Una piccola finestra quadrettata da cui - se mi fossi arrampicata - avrei potuto vedere la luna.
Mi rincuorò l'idea che ogni tanto avrei persino potuto sbirciare la libertà.
«Ecco, prendi questo» Zane riapparve dal bagno con un bicchiere colmo d'acqua  fra le dita e me lo porse.
Bruciavo dentro e fuori. Che mi doveva capitare ancora?
Trangugiai l'acqua in quattro sorsate. Non mi era mai mancata così tanto.
«Piano, piano, o la rigetterai tutta.»
Guardai il volto del cacciatore oltre il bordo del bicchiere.
Perché aveva deciso di spingersi fino a quel punto per me?
Mi parve una condanna, per me ma anche per lui.
«Va meglio?» Chiese quando stirai il braccio verso di lui restituendogli il bicchiere.
Annuii.
L'arsura sembrava passata, ma i crampi allo stomaco ancora mi frustavano l'addome.
Dannazione! 
Qualcosa mi bruciava esattamente al centro dello sterno, ma non capivo il perché.
«Ti lascio riposare.» Poggiò il bicchiere sul comodino.
«E tu dove andrai?» Cosa mi interessava? Perché dovevo credere di aver ancora bisogno di lui?
«Farò un ultimo tentativo con l'arcivescovo. Gli chiederò di farmi uscire a caccia.»
Non avrebbe mai acconsentito. Era già un miracolo che io non fossi finita di nuovo nei sotterranei, o peggio al rogo.
«Fa attenzione.» 
Il cacciatore annuì privo d'espressione e lasciò la stanza.

                                                                                Zane
Mi svegliai molto prima di Lucille. Anchilosato. Dolorante. Intorpidito da una nottata passata sul pavimento. Sapevo che era ferita, che il suo corpo doleva più del mio, non potevo rubarle il letto o costringerla a dormire nella vasca.
Mi pentii della mia cavalleria, però, non appena varcai l'ingresso del campo d'addestramento. Evidentemente si era già sparsa la voce per tutta la cattedrale. Uno dopo l'altro, i cacciatori mi affrontarono con una scintilla negli occhi e la determinazione nella spada. Ciascuno mi attaccò con insolita bellicosità.
«Notte lunga, eh, capitano?» ghignò il primo sfidante. Demetrie.
«Combatti!» Lo sovrastai.
Che dei miei sottoposti si rivolgessero così a me, proprio non lo digerivo.
Ci sfidammo per circa un quarto d'ora, poi quest'ultimo lasciò il posto ad Andrè.
«Dormi con una criminale, adesso?» Sferrò un colpo che mi finì dritto fra le costole. Persi il fiato.
«Non sono affari che vi riguardano.» Ringhiai sollevando la spada pronto a replicare.
«Frequenta le streghe»
«Ha abdicato?»
«Perché l'arcivescovo gli permette ancora di stare qui?»
«E' ovvio, perché è il prediletto di paparino»
Colpì alla testa quell'ultimo con l'impugnatura della spada, lasciando Andrè da parte. Allargai le braccia e girai lentamente su me stesso. Sfidando chiunque osasse mettersi contro di me. Sanguinavo da un taglio sulla fronte ed anche quello sulla schiena si era riaperto.
«Qualcun altro ha un problema con la mia nuova condizione?»
Fra tutti, avanzò l'unico che non mi sarei mai aspettato di vedere li, contro di me.
Sebastien. Il mio migliore amico da quando avevo memoria.
«Zane» Avanzò con aria di sfida «Non ti facevo così sicuro di te. Eppure...sei ridotto male.»
Serrai la mascella.
«Sebastien, veramente? Anche tu?»
Gli occhi cobalto del ragazzo mi scrutarono dall'alto in basso.
«Anche io? Perché non io, dovresti chiederti»
Impugnò la Balisarda e con un gesto del capo gettò il guanto di sfida.
La rabbia mista ad un mare di altre emozioni mi inondò come un fiume in piena.
Ci vidi rosso.
Sebastien colpì per primo. Una stoccata semplice, rapida. Gliel'avevo insegnata io.
Quindi, la parai con altrettanta facilità.
«Una strega. Zane, che ti prende? Abbiamo fatto voto, o l'hai scordato?»
Ruotammo su noi stessi e colpimmo solo quando i nostri occhi tornarono ad incrociarsi.
Il clangore delle spade si riversò su tutta la piana. Nessuno parlava. C'era solo fragore di ferraglia e le nostre voci sommesse da esso.
«Ricordo perfettamente a cosa ho fatto voto-» colpii alla sua destra «ma lei non è una strega» e poi alla sua sinistra.
Parò. Le nostre spade si scontrarono per almeno un'altra decina di volte prima che decidessimo di fermarci per prendere fiato.
Ero stremato. Sopraffatto da tutto ciò che mi stava capitando.
Il petto di Sebastien si gonfiava più velocemente del mio. Dopo tutti quegli anni non aveva ancora imparato a gestire il fiato durante gli sforzi fisici.
«Non è una strega, quindi?» Mi punzecchiò ancora drizzando la schiena «Te lo ha detto lei?»
Qualcuno attorno a noi rise.
Gli passai accanto urtandogli una spalla.
«Falla finita, Sebastien». Attraversai il cortile e gettai la spada nella rastrelliera. I miei sottoposti si spostarono per farmi passare. Bisbigliavano ancora, ma lasciai correre.
Purtroppo Sebastien non aveva scrupoli, e mi seguì come una piaga di locuste.
«Te la scopi? E' per questo che l'hai portata qui? Perché, così, puoi andarci a letto quando vuoi?»
All'impatto con quella frase mi voltai di scatto e gli afferrai il colletto della canottiera.
Avrei preferito le locuste.
«Osa un'altra volta mancarmi di rispetto e giuro che la fine che spetta a quella ragazza, la faccio fare a te.»
La rabbia nei miei occhi si riflesse in quelli di Sebastien che serrò le labbra senza aggiungere altro.
Non ci eravamo mai accapigliati. Eravamo come fratelli e...Non capivo cosa mi stesse capitando. Perché stavo voltando faccia al mio sangue?
Lasciai andare la canottiera di Sebastien e raggiunsi l'androne dell'entrata posteriore della cattedrale.
Dire che ero sconvolto risultava un eufemismo.

                                                                            Lucille
Non riuscii a frenare un gemito di dolore. Mi contorsi sul materasso e strinsi con tutta la forza che avevo in corpo un lembo delle lenzuola.
Quelli che fino a ieri sera erano i crampi di uno stomaco vuoto e irritato, oggi erano vere e proprie frustate di dolore lancinante.
La fronte grondava. Il petto sembrava spaccarsi per il battito accelerato del cuore.
Di quale strano sortilegio ero vittima?
Mi sollevai sul materasso con le braccia tremanti.
Un sole fioco e spento, illuminava il bugigattolo dove ero rinchiusa. Cercai di concentrarmi sui suoi raggi e sulla polvere che riluceva dentro di essi. Ma non bastava.
Gridai. 
C'era qualcosa dentro di me: lo sentivo.
Non avevo la più vaga idea di cosa fosse, ma ero certa che qualcosa aveva avvelenato il mio corpo.
Ripensai alle vene increspate.
«Cosa mi avete iniettato?!» Aggredii Zane appena fece capolino dalla porta.
Lui mi fissò. Gli occhi sbarrati, impauriti.
«Niente» bofonchiò in preda all'ansia.
Chiuse in fretta la porta alle sue spalle e raggiunse velocemente il bordo del letto.
La sua mano sfiorò la mia fronte.
«Bolli»
Diressi lo sguardo al suo viso «Non mi hai detto niente di nuovo».
«Da quand'è che sei in queste condizioni?»
Feci mente locale «Da ieri sera, solo che oggi è peggio.»
Zane si risollevò appena con la schiena, l'aria perplessa. Che stesse pensando anche lui a qualcosa che l'arcivescovo o Surett mi avevano fatto?
«Vado a chiederglielo» proferì deciso.
Gli afferrai un polso prima che potesse muoversi verso la porta «No. Non farlo.»
«Se sono stati loro, sapranno anche come farti stare meglio.»
Scossi la testa leggermente e con aria supplichevole lo guardai dritto negli occhi «Se sono stati loro, crederanno che io sia chissà quale essere infernale e questa, per loro, sarebbe solo una prova».
Dall'espressione che mostrò, probabilmente, anche lui pensava la medesima cosa.
«Mi passerà vedrai. Sarà un'infezione.»
Sapevo che i topi o qualsiasi altro agente esterno non potevano avermi causato le vene increspate e quel dolore.
Zane mi guardò impensierito. Si accomodò sul bordo del letto ed incrociò le mani fra le ginocchia.
«Mi riprenderò»
«Non è solo questo il problema.» I miei occhi corsero al suo profilo.
«E quale?»
Deglutì. C'era qualcosa che voleva chiedermi ma che allo stesso tempo che negava a se stesso.
«Sei un demone, Lucille?»
Strabuzzai gli occhi. «Sei impazzito di colpo? Cos'è, l'arcivescovo è riuscito ad insinuare nella tua testa quel pensiero ed ora ci stai credendo sul serio?».
Provò del rammarico. Glielo vedevo stampato in volto.
Chiuse le palpebre per un momento e sospirò.
«Scusami. E' stata una giornata difficile.»
Si passò una mano fra i capelli, come era solito fare e mi rivolse lo sguardo.
«Chiederò a qualcuno in medicheria di visitarti».
«Va bene» mi sforzai di rispondere ammonendo una fitta.
Mi sollevai seduta stringendomi il ventre. Dentro, avevo un tripudio di dolori ma dovevo sforzarmi di sommetterli.
Zane aveva incominciato a credere che fossi un demone e questo remava solo contro di me.
Non sapevo quanto mi fossi potuta fidare di lui.
Sapevo solo che era stato un folle a salvarmi e ancora non trovavo spiegazione a questo.
«Puoi lasciarmi sola?»
Batté le palpebre un paio di volte.
«S-Si, certo.»
Si sollevò dal materasso, mi guardò un paio di volte preda dell'indecisione e poi girò il pomello della porta.
Finalmente sola, raggruppai le mie ultime e uniche forze e corsi in bagno.
Artigliai le estremità del lavabo e giù, altro vomito. Questa volta verde.
I miei occhi liberarono un mucchio di lacrime silenziose. Guardai il mio riflesso nel piccolo specchio sopra il lavandino e chiesi disperata a me stessa di combattere. Anche se non sapevo contro cosa.
Stavo morendo. Ne ero sicura.
Il pensiero che alla fine sarei morta proprio dentro la tana del lupo mi colpi come un destro in faccia.
Separò di tristezza il mio petto e mi fece scoppiare in un lento e strozzato singhiozzo.
Coprii il viso con le mani ricadendo a sedere accanto a me, sul bordo della vasca.
Provavo un terribile senso di incompletezza, come se da sempre avessi vissuto la mia vita a metà. No, anzi, ero stata sempre spettatrice della mia stessa vita.
Mi dicevo di non voler essere una strega solo perché incapace di esserlo, e essere esclusa come tale mi aveva rovinata.
Ed ora qualcuno aveva scelto per me la morte. Quindi cosa stava a significare la mia esistenza sulla terra?
Un'altra fitta mi fece piegare su me stessa. Mi rifiutai di combatterla.
Mi stavo arrendendo? Forse. Ero stanca, provata, vuota.
Un bruciore intenso mi fece pizzicare il centro del petto.
Avevo l'impressione di avere un tizzone ardente sulla pelle che bruciava sempre di più.
All'inizio, mi ricordò la stessa sensazione di quando ci si brucia il polpastrello con la fiamma di un accendino, ma poi, man mano che accresceva ed il dolore si faceva più pungente, arrivó al punto di farmi implorare acqua fredda sulla pelle. Mi costrinse a spogliarmi in fretta e furia della tunica che indossavo.
Rossa. La pelle, li nel punto che mi doleva sembrava ustionata. La bruciatura si irradiava fra i miei seni circoscrivendo il punto esatto dove il ciondolo, lo zaffiro, poggiava.
Le mie dita tremarono avvicinandosi alla pietra. Sfiorandola ritrassi la mano di scatto ed una piccola voluta di fumo si sollevò sia dalle mie dita che da essa.
Incominciai a tremare in preda al terrore.
«Be', se sei una strega dovrebbe impedirti di sprigionare magia, mentre se tu fossi un demone, come credono loro, quell'amuleto ti ucciderà.»
Le parole del cacciatore fecero eco nella mia testa.
Voltai lo sguardo nuovamente allo specchio. Gli occhi verdi ed arrossati che stavo vedendo erano veramente quelli di un demone?

 

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Capitolo 7
*** Demonio ***


                                                                               Demonio.
Il buio avvolgeva la piana, inghiottendola. Tutto attorno a noi sapeva di silenzio e oscurità. Tutto, all'infuori del punto dove un grosso falò illuminava circolarmente qualche metro di terriccio e fili d'erba.
«Pronuncia il tuo nome, strega!» Sebastien puntò la Balisarda sulla carotide della donna che giaceva a terra. Gli occhi le scintillavano di pagliuzze dorate. La pelle le riluceva di un bagliore innaturale e quel tanfo...Quel tanfo l'avvolgeva da capo a piedi.
Dovetti tapparmi il naso per un istante.
La megera dai capelli castani ghignò.
«Perché dovrei? Tanto mi ammazzerai lo stesso».
Sebastien digrignò i denti «Sai perfettamente che non è così che funzionano le cose. Ho detto dimmi il tuo nome!».
La punta della lama penetrò di pochissimo nella pelle diafana della strega e un rivolo di sangue le colò giù, lungo la carotide, ed ancora fra i seni.
Le dita sottili di lei strinsero l'erba.
Rise sguaiatamente. Suono, che riecheggiò nel buio, terrificante.
C'erano altri due cacciatori assieme a Sebastien e me. Erano lontani da noi di qualche metro ed il falò era stato opera loro. 
Avevano ucciso la compagna di questa donna. Una certa Isobel.
Adesso toccava a noi far pronunciare il nome alla strega per poterla castigare a rogo.
Senza il loro nome, infatti, il sortilegio che le proteggeva non ci permetteva di ucciderle.
Senza quel dettaglio, erano praticamente esseri immortali.
Sebastien tirò fuori dalla sua divisa blu lo zaffiro che, alla presenza della megera, brillò di sua sponte.
La giovane si portò una mano davanti agli occhi cercando di ripararsi da quel bagliore.
«Ahh! Toglilo!» Gridò «Toglilo!».
Sul volto di Sebastien piombò la soddisfazione.
Veder soffrire le streghe, per lui, come per tutti noi, era pura gioia.
Qualcuno di noi ci provava persino gusto nel torturarle. Non io ovviamente.
Di solito, speravo che si risolvesse tutto molto velocemente senza troppo spargimento di sangue.
Peccato che da quando Surett era piombata a Sant'Agustina, qualcosa nell'arcivescovo si era riacceso.
Niente più Celium Lux. Niente più esorcismi o tentativi vani di scacciare il male nelle vittime di sortilegio. Si bruciavano. Tutti.
Mi ritrovai l'unico in tutto il regimento ad essere contrario a quella pratica.
Il rogo era disumano, per chiunque.
«Sebastien, lascia perdere. Con il Celium
Mi guardò torvo.
«Non dire stronzate! Deve soffrire e il rogo è la giusta soluzione!»
Spinse ancora la lama. La lacrima di Agatha sul ferro delle nostre Balisarde, scivolò dritta dritta nella ferita della strega che si ritrovò immobilizzata.
Era utile quell'unguento. Don Orville ci aveva visto bene.
Il volto della strega parve divertito. Un'insolita espressione sorniona le fece maschera sulle labbra.
Ci fissava, ascoltava. Si beffava di noi.
«Cos'hai da ridere, strega?» Sfilai la mia spada a quel punto. Mi stava irritando.
La pietà non sopprime l'odio. E io le odiavo, tutte.
Storse la testa da un lato ed i suoi occhi chiari mi scrutarono con curiosità.
«Spergiuro, verrai fuori prima o poi.» Disse estasiata dalle sue stesse parole.
Sebastien sgranò lo sguardo verso di lei e poi lanciò un'occhiata fugace ed esitante a me.
Temeva di perdere di vista la strega, ma io sapevo che non si sarebbe mossa da terra.
«Di cosa parla, Zane?!»
I muscoli sul suo braccio, quello che serrava l'impugnatura della Balisarda, si fecero in rilievo.
Uno guizzò persino sulla sua mascella.
La strega mantenne lo sguardo su di me. Ad un tratto, per lei, la lama era sparita, Sebastien era sparito. Tutta l'attenzione era concentrata su di me.
«Diglielo cacciatore!» La sua voce divenne più stridula «Ammetti il tuo inganno!»
Di cosa stava parlando?
Strinsi il pugno attorno al manico della mia Balisarda ma la mano mi tremò.
«Confessa» Sibilò acidula. 
«Confessa».
All'improvviso un vento innaturale si sollevò da terra. La gonna lunga fino alle caviglie della strega incominciò a vorticarle attorno alle gambe ed i suoi piedi si staccarono dall'erba.
La sua schiena si piegò all'indietro in una curva innaturale, prima di tornare dritta.
Afferrò la lama della spada di Sebastien con una mano, incurante del sangue che le stava sgorgando dal palmo e dello squarcio che le si stava creando accanto alla carotide.
«Confessa».
La sua voce si fece sempre più eterea. Un sospiro che potevo sentire nella mia testa ancor prima di sentirlo nei lobi delle mie orecchie.
Tremai; non ero l'unico.
Sebastien cercò di forzare sull'impugnatura della spada ma essa vibrò così tanto che fu costretto a lasciarla.
La strega ghignò ancora e poi tirò la spada lontano, nel buio.
Ormai il suo corpo fluttuava davanti a noi.
«Confessa e ti dirò il mio nome.»
Si avvicinò a me.
Potevo vedere le sagome in lontananza dei nostri compagni: altre streghe.
Li avevano accerchiati.
«E' una trappola» mormorai.
Guardai Sebastien «E' una trappola!».
Non avevo mai visto tanta paura negli occhi di qualcuno. Quelli del mio giovane compagno ne erano intrisi.
«Scappa, Sebastien!»
La mano esile della strega mi afferrò il mento.
«E' troppo tardi, Cacciatore». 
Allargò un braccio.
I miei occhi si riempirono di lacrime.
«E' già successo e succederà ancora molte altre volte»
La mia Balisarda schizzò via dalla mano, si sollevò a mezz'aria e rivolse la sua punta contro Sebastien.
Era lontano, correva disperato ma fu ugualmente inutile.
L'unico suono che udii fu un fiato strozzato, poi il suo corpo cadde a terra fra l'erba.
«NO!!»
Anche gli altri cacciatori stavano perendo sotto l'attacco delle streghe. Ero solo e sarei morto li.
«Uccidimi! Che aspetti!» Singhiozzai.
Il riso maligno stampato sul suo volto sarebbe stata l'ultima immagine di quella notte. Della mia vita.
Le lacrime scesero lungo le mie guance bruciandole: mi arresi.
Gli arti non rispondevano più, il mio corpo era inerme, ad un palmo da terra, retto solo da quella mano malvagia che stringeva il mio mento.
I miei occhi si spostarono a ciò che si muoveva dietro le sue spalle.
I miei uomini cadevano come birilli. Erano arrivati altri cacciatori in soccorso ma sembrò tutto inutile.
"E' come quella notte."
"E' tutto come allora."

«Maledetta! Era il mio migliore amico. Mio fratello!»
Le unghie affilate spinsero nella mia carne.
«E quella che hanno ucciso i tuoi amici era mia madre.»
I suoi occhi ribollirono di astio.
Qualcosa, in quel preciso momento, si arrestò nel mio petto.
In quella circostanza assurda, noi non eravamo meno colpevoli di loro.
Era una guerra. Una guerra ad armi pari. E pari erano anche le colpe.
Per generazioni il nostro clan aveva perseguitato la loro congrega. Le avevamo bruciate e poi c'era stata la tregua ed ora il fuoco tornava ad ardere.
«Ciò che più mi diverte-» Sollevò un sopracciglio mimando una voce beffarda «è che a darci la caccia è proprio colui che protegge la strega.»
«Parli dell'arcivescovo?» Mi dimenai in quella presa tanto forte quanto sovraumana.
Abbassò le palpebre e poi le risollevò lanciandomi un'occhiata felina.
«Siete più finti e menzogneri di noi, uomo di Chiesa»
Allargò il braccio con la quale mi stringeva, e mi scaraventò a metri da lei.
Poi tornò a poggiare i piedi sull'erba. La sua mano si mosse come se stesse tessendo una tela invisibile e la Balisarda di Sebastien tornò accanto a lei.
Le si poggiò sulle mani ed i suoi occhi l'osservarono.
Guardò la lama come se ci fosse qualcosa al suo interno.
Ad un tratto, il suo sguardo mutò; i suoi occhi si fecero languidi, quasi lacrimosi. La sua voce cambiò come se ci fossero state due anime nello stesso corpo.
«Non so chi tu sia, Cacciatore, ma stai facendo la cosa giusta. Non lasciarla alle streghe. Non lasciare Lu alle streghe.» Mormorò come se fosse in procinto di piangere.
I miei occhi si sbarrarono. Che stava succedendo? Che cosa aveva preso posto nel corpo della strega, e chi era Lu? Lucille?
Cercai di sollevarmi con le braccia. Ero ferito e addosso avevo del sangue ma non riuscivo a capire da dove provenisse.
La strega impugnò la spada e la sollevò all'altezza del suo collo «Il mio nome è Estrella, comunque.» poi si tagliò la gola, di netto.
Il respiro mi morì dentro.
                                    
                                                                               Lucille.
Il mio corpo sembrava essersi indurito come il legno. Avvertivo il freddo del pavimento sotto di me ed ogni arto era anchilosato e dolorante.
Avevo perso i sensi, questo era certo.
Cercai di separare le palpebre impastate. La pelle attorno agli occhi mi tirò a tal punto che per un attimo dovetti impegnarmi per tornare a vederci.
E poi vidi.
Me. Nuda. Per terra.
«Che diavolo è successo?»
Provai a farmi su con le braccia. A fatica riuscii ad aggrapparmi al bordo del lavandino e a issarmi.
Il piccolo specchio sopra il lavabo non fu magnanimo.
Osservai con disappunto il mio riflesso.
Guance pallide, occhi gonfi. Labbra screpolate. Sembravo morta. Mi sentivo morta.
C'era però un dettaglio che non potei far a meno di notare: la bruciatura al centro del mio petto era sparita.
Sparita, come se non ci fosse mai stata.
La porta della stanza da letto si aprì, ma io continuai a guardarmi spaesata, smarrita nei pensieri. Avevo sempre avuto gli incubi, ma quella notte...quella notte era stato peggio.
Passai due dita fra i seni. Doveva essere li, la bruciatura doveva essere li. Ma dannazione! Non c'era.
«Lucille, sto entrando.» La voce del cacciatore spazzò via tutti i miei pensieri.
Mi chinai con rapidità felina e raccolsi la tunica bianca che mi aveva costretto ad indossare sua eminenza, calandomela sulla testa alla velocità della luce.
Quando l'anta si separò, lo sguardo di Zane occupò praticamente tutta la stanza. Due profonde occhiaie gli facevano da contorno agli occhi chiari. Aveva l'aria stanca...no, distrutta.
«Cos'è successo?» Gli chiesi rapidamente.
Lui sollevò lo sguardo a me e poi lo ammonì di nuovo.
Non poteva mentirmi: la sua divisa era logora ed insanguinata.
Mossi un passo verso di lui e per un solo istante mi parve di vederlo arretrare. Ma poi la sua mano restò sul pomello della porta ed io decisi di avanzare.
«Sei ferito.»
Allungai le dita di una mano verso la giacca blu con lo stemma dell'arcivescovato e sfiorai un bottone per separarlo dall'asola. Zane mi afferrò il polso.
«Non è niente, sto bene.» Mi freddai «Tu, piuttosto, come stai?»
I suoi occhi non incrociarono i miei nemmeno allora.
«Bene. Sto...bene.»
Ritrassi la mano dalla sua presa.
«Mi fa piacere.»
Le labbra erano tese, forse aveva qualche preoccupazione?
Si passò una mano sul viso «Ascolta, dovrai venire con me questa mattina.»
«Dove?»
«Ad un funerale.»
Mi inumidii le labbra. Ad un funerale?
«Zane, chi è morto?»
Le sue labbra si separarono per rispondere qualcosa ma non ne uscì un fiato.
Al contrario, i suoi occhi non tardarono ad arrossarsi. Strinse più vigorosamente il pomello della porta, quasi con rabbia.
Mossi un altro passo verso lui senza prendere in considerazione un suo possibile disappunto e gli sfiorai una guancia. Notai quattro piccoli tagli che ricordavano molto la forma di quattro unghie affilate. 
«Ci hanno attaccati» Mormorò accorgendosi che continuavo a fissare il sangue sul suo viso e sulla divisa.
«Chi? Le streghe?»
Annuì con rammarico.
«Era mio fratello. Era il mio migliore amico.» Ringhiò senza frenare il dolore. Fremiti gli scuotevano il corpo e due lacrime isolate scesero lungo il suo viso rigandolo.
Mi venne spontaneo stringerlo a me. Gesto che lo fece irrigidire per un attimo.
«Mi dispiace così tanto...»
Sul serio. Anche se in cuor mio avevo la certezza che l'attacco della notte precedente era solo il frutto della persecuzione attuata dall'arcivescovo, mi dispiaceva per Zane. Perdere qualcuno è doloroso a prescindere dalla fazione di appartenenza.
«Non ho nemmeno fatto in tempo a chiedergli scusa per l'altra mattina» Zane si coprì gli occhi con una mano ed appoggiò il mento sulla mia spalla.
Il tessuto della tunica si inumidì di lacrime proprio in quel punto.
Se avesse saputo ciò che ero e a che fazione appartenevo, gli avrei chiesto perdono a nome di tutte.
Non so perché, ma lo avrei fatto.
«E' così ingiusto.» Mormorai senza rendermene conto.
Il cacciatore si scostò da me e mi guardò.
Aveva il viso arrossato e gli occhi gonfi.
«Certe guerre dovrebbero finire. Gli spargimenti di sangue non portano lode a nessuno»
Sviai lo sguardo: un altra parola e mi sarei potuta ritrovare nei guai.
Zane mi scrutò ancora ma non parlò. Lo fece solo per chiedermi scusa mentre mi sfiorava la spalla umida.
«Non preoccuparti» mormorai appena.
Vederlo così, ammetto, mi spezzò il cuore.
«Ti procuro un altra tenuta e poi» indicò la porta della stanza frettolosamente «...andremo...».
La voce tornò a tremargli sulle labbra.
«Va bene» Cercai di fare in fretta a rispondere. Almeno non lo avrei visto piangere ancora. 

                                                                                      *****
Le manette attorno ai miei polsi sapevano di dolciastro. Il ferro argenteo era ricoperto da una sostanza violacea che mi stava letteralmente frustando le narici. Non bruciava sulla mia pelle, il ché mi consolò.
«Cerca di evitare gli sguardi. Non ti faranno piacere quelli che riceverai» Disse Zane affiancandomi lungo il corridoio.
Eravamo scesi di qualche piano. C'erano poche persone dove ci eravamo ritrovati, ma potevo avvertire già da li l'aria funesta di quella mattina.
Attraversammo gli ultimi metri prima che il corridoio si aprisse ad uno spazio più ampio. Davanti a noi una porta di vetro e ferro, dietro, vedevo altre scale.
L'aria settica non mancava nemmeno li. C'erano armature probabilmente molto antiche e impolverate. Qualche stendardo e una bandiera più recente. Tutto era disposto ai lati dello spazio che divideva ben tre porte: quella che dovevamo sorpassare noi, una che chiudeva dietro se il giardino ed una d'uscita.
Osservai per un attimo tutto quanto, mentre Zane era fermo a parlare con un uomo che indossava una tonaca nera.
Gli strinse la spalla e da quello che potevo capire dal suo modo di fare, stava porgendo lui le condoglianze. Condoglianze, alla quale Zane rispose con un cenno del capo. 
«Lucille, per di qua.»
Alzai gli occhi da una targa in memoria di qualcuno che non avevo nemmeno mai sentito pronunciare e mi mossi per raggiungerlo.
I miei occhi, però, incrociarono quelli dell'uomo con la tonaca nera. Il suo sguardo mi passò parte parte, in un misto di sdegno, paura e ribrezzo che mi ferì mortalmente.
Se solo avessi potuto spiegare a tutti loro che io non ero ciò che credevano. O meglio, lo ero. Ma non ero un'assassina.
Zane ed io salimmo l'ultima rampa di scale in cemento chiaro silenziosamente.
Ci ritrovammo davanti ad un portone scuro. Sembrava un altro edificio ed invece era contenuto dentro Sant'Agustina.
All'interno di quella che sembrava essere a tutti gli effetti la chiesa del convento, c'era brusio.
Tanti cacciatori. Tanti sguardi astiosi.
Abbassai il mio velocemente sistemandomi infondo, dietro tutte le panche.
Zane si inchinò al centro dello spazio fra una fila di panche e l'altra e fece il segno della croce davanti al Cristo inchiodato in alto, dietro l'altare. Si risollevò.
Il capo basso, lo sguardo mesto.
Mi accostò e sospirò.
«Dovresti sederti fra loro»
Con la coda dell'occhio mi regalò un'occhiata veloce.
«Non posso lasciarti qui.»
Guardai le manette che stringevano i miei polsi. Non sarei scappata. Non lo avrei messo nei guai.
«Non mi muoverò.»
Per un momento sembrò titubante. Guardò le manette e ci pensò ma poi scosse la testa e rivolse lo sguardo dritto all'arcivescovo.
Era dietro l'altare e stava sfogliando quella che ad occhi e croce doveva essere una Bibbia.
Si schiarì la voce e fu solo allora che calò il silenzio.
Di tanto in tanto qualcuno tirava su con il naso: si trattava dei genitori di tutti i cacciatori che erano morti la notte precedente.
Alcune donne avevano il capo coperto da un velo scuro. I fazzoletti alla mano ed i mariti accanto pronti a sostenerle qualora ce ne fosse stato bisogno.
Osservai il dolore impresso sui loro visi.
Il dolore vero, quello misto all'amore materno o paterno. Quello che non cancelli nemmeno con la morte.
«Tua madre ti ha abbandonata.»
«Neanche lei ti ha voluta»

Lo stomaco si torse.
Se io fossi morta, per me non ci sarebbe stato nessuno.
NESSUNO.
«Tutto bene?»
La voce del cacciatore mi colse di sorpresa.
«Mh, si, perché?» 
Allungò una mano e con il pollice mi sfiorò l'angolo di un occhio «Ti lacrima un occhio».
Corsi con la mano al mio viso e lo sentii umido.
Stavo piangendo? 
Zane ed io ascoltammo la funzione senza più scambiarci parola, fino a che l'arcivescovo non parlò dell'attacco da parte delle streghe.
Si era svolto a New York. Questo stava a significare che la congrega non si era spostata.
Io però ricordavo perfettamente che i patti erano altri.
Surett si era fatta giurare protezione per la congrega dall'arcivescovo in persona.
Aveva promesso di spostare la congrega lontano da New York e lontano da Cesarine.
Allora perché quelle streghe erano li?
«Cosa è successo questa notte?» Domandai al cacciatore senza distogliere lo sguardo dall'altare.
«Ci hanno attaccati, te l'ho detto.»
«Voglio i dettagli».
Zane storse la bocca seccato «Perché dovrei darteli?»
Già, effettivamente non ce n'era motivo dato che ero un'umana per lui.
«Perché le streghe hanno ucciso una mia compagna di classe. Voglio saperne di più.»
Parve credere alla mia spiegazione.
«Eravamo usciti in quattro. L'arcivescovo ci aveva mandato in perlustrazione. Un nostro commilitone, però, ci aveva fatto una soffiata su un ipotetico nido». Fece una pausa, si guardò attorno e tornò a parlare «Sei streghe che stavano creando scompiglio fuori New York. Doveva essere una cosa facile. Le dovevamo spaventare. L'arcivescovo ci aveva ragguagliato sull'accordo preso con Surret.»
Respirò e si passò una mano fra i capelli «Ma a Sebastien quell'accordo non piaceva affatto. Così assieme a Marcus decisero di prendere la prima strega a caso e bruciarla. Questo ha fatto scatenare le altre e poi...»
Ebbi la sensazione che l'intero accaduto gli si stesse ripresentando davanti agli occhi.
Lessi lo sgomento nello sguardo.
«Ok, ok. Ho capito.» Non volevo fargli rivivere quei momenti proprio durante il funerale del suo migliore amico.

                                                                             *****
La funzione terminò poco dopo ed io rimasi un passo dietro Zane per tutto il tempo.
Una donna lo aveva fermato. Gli parlava con estrema confidenza e da ciò capii che doveva trattarsi della madre di Sebastien.
«Eri come un fratello per lui.» Si asciugò una lacrima con il fazzoletto.
«Lo era anche lui per me.»
Lei sorrise e raccontò un aneddoto che li vedeva protagonisti quando avevano entrambi dieci anni.
Fu l'unico momento dove vidi sorridere entrambi.
Il solo, prima che lo sguardo di lei saettasse sulla mia immagine.
I suoi occhi si spalancarono ed attorno alla sua bocca si formarono due rughe. La fronte le si corrucciò e poi la rabbia esplose.
«Perché quella ragazza ha le manette?» Si sporse verso me e Zane allungò un braccio d'istinto per non farla passare.
«E' una di loro? E' una strega?!».
Tutti coloro che stavano uscendo dalla chiesa rivolsero lo sguardo a me.
In un attimo mi sentii soffocata da tutti quegli occhi.
«E' solo una prigioniera» cercò di spiegarle Zane opponendosi alla sua ira che spingeva verso me.
La donna alzò lo sguardo a lui «E tu te la porti persino dietro!»
Sollevò una mano e lo schiaffeggiò in pieno viso.
Lui non si mosse. Io però si.
«E' impazzita?»
«Lucille, stanne fuori per cortesia»
Intanto attorno a noi la parola strega venne pronunciata un bel po' di altre volte prima che la folla impazzisse.
«A morte la strega!»
«Al rogo!»
Sembrava di essere tornati epoche addietro.
Era tutto così surreale. Quel posto. Quella gente.
«Non sono una strega» incespicai un passo all'indietro «Lo giuro.».
«Prendiamola!»
Il più era umano. I cacciatori non si erano pronunciati ma i loro sguardi, sia quando Zane ed io eravamo entrati in chiesa, sia dopo, erano eloquenti.
Non cercarono di placare la folla, più semplicemente se ne lavarono le mani e fu così che io e lui ci ritrovammo a scappare per Sant'Agustina inseguiti da una bolgia di persone inferocite.
Se avessero avuto dei forconi, non si sarebbero risparmiati ad usarli.
Zane mi afferrò un polso che costrinse l'altro a sollevarsi di riflesso essendo bloccati entrambi dalle manette.
«Corri!»
Vergognosamente, nemmeno l'arcivescovo aveva mosso un dito uscendo dal portone scuro. Eppure stava assistendo a tutto.
«Dove stiamo andando?»
«Non lo so. In un posto sicuro, lontano da loro.»
Non contai il numero di corridoi che attraversammo né di gradini che falcammo, ma alla fine eravamo saliti su una scala a chioccia e ci eravamo ritrovati davanti ad un tendaggio rosso vinaccio di velluto. Dietro di noi le voci erano lontane e sparse; dovevamo averli seminati. 
«Che posto è questo?» Chiesi vedendo in Zane l'esitazione.
«Credo sia la vecchia ala di Sant'Agustina. Qui c'era l'infermeria una volta.»
Zane allungò la mano verso il tendaggio e lo scostò.
Era buio dietro, ma alcune luci blu elettriche fluivano da quelli che dovevano essere i bordi di alcune porte.
«Questo posto mi fa paura» mormorai seguendolo.
La tenda si richiuse dietro le mie spalle ed un silenzio mistico ci avvolse saturando l'aria.
«Ci sei?»
Al buio era veramente complicato muoversi.
«Più o meno» Risposi allungando una gamba e tastando con la punta delle scarpe il pavimento.
«Aggrappati» Sentii le mani di Zane sui miei polsi. Li tirò fino a che la punta delle mie dita non toccò il tessuto della giacca scura che aveva indossato per il funerale.
Procedemmo così lungo buona parte di quel corridoio austero, fino a che un suono, proveniente da dietro una delle molteplici porte, non attirò la nostra attenzione.
«Che diavolo è stato?»
Assomigliava ad un rantolo ma era più gutturale. Più...umano.
Zane si fermò «Proveniva da qui dietro.» e allungò una mano verso la maniglia della porta.
«Aspetta!» Lo freddai «Prima toglimi queste. Insomma...in caso succedesse qualcosa».
Stirò le labbra poco convinto ma poi accettò e mi liberò i polsi.
Me li massaggiai. Erano intorpiditi.
Aprì la porta in questione un attimo dopo.
La luce del neon sulle nostre teste era spenta, ma potevamo vedere ugualmente la barella al centro della stanza ed il corpo che ci giaceva sopra.
Attorno, monitor e ampolle piene di strani liquami. Uno fra i tanti di colore blu elettrico.
«Ma che diavolo...» Zane si agirò nella stanza.
«Zane. Zane! Dove vai?» bisbigliai in preda all'ansia.
Quel corpo non mi rassicurava affatto. Potevo avvertire uno strano sentore di zolfo attorno a lui e non prometteva bene.
Infatti, mentre il cacciatore mesticava accanto ai due monitor, un occhio gli si spalancò.
Il bulbo ruotò un paio di volte prima che la pupilla guardasse verso me.
«Emh...Zane?»
«Che c'è?!» borbottò lui, voltandosi di scatto.
Impallidì all'istante.
L'uomo prese vita.
Lo fissammo inorriditi, raggelati, mentre le sue ossa incominciavano a scricchiolare. Incominciò a muoversi per scendere dal lettino ad arti invertiti.
Articolazioni che si piegavano e uscivano dalla propria sede in maniera innaturale. Una scintilla ferina gli brillava negli occhi, e sibilava.
Zampettò verso di noi come un ragno.
«Fuori, fuori, fuori!»
Zane mi trascinò via dalla stanza e richiuse la porta. L'uomo si abbatté contro di essa lanciando un guaito raggelante.
«Che diavolo era quella cosa?»
«Il demonio».

 

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Capitolo 8
*** Non mentirmi ***


                                                                                 Non mentirmi.
«Riproviamo?»
Guardai l'uscio con apprensione. «Dobbiamo proprio?»
Zane schiuse leggermente un'altra porta e sbirciò all'interno. «Questa dovrebbe andare bene.»
Spiai da sopra la sua spalla e vidi una donna seduta davanti all'unica scrivania presente nella stanza.
Una piccola abat-jour illuminava alcuni fogli incollati al muro con dello scotch: disegni a carboncino, incomprensibili.
Anche sotto i suoi gomiti il tavolo ne era colmo.
I lunghi capelli castani erano sciolti dietro le scapole. La loro corposità e il fatto che ci fosse rivolta di spalle, mi impediva la visuale sulle sue mani, ma da come le si muoveva la schiena, dedussi che le stava spostando sul suo viso.
«Che diavolo...»
Quando alzò la testa e voltò lo sguardo verso noi balzai all'indietro portandomi il pugno chiuso alla bocca.
Il pezzo di carboncino appuntito stretto nella sua mano aveva la punta insanguinata e del sangue le gocciava anche dalla bocca.
La donna ghignò malignamente. I denti neri e gialli di sporco erano contornati di liquido rosso.  Afferrò il suo labbro inferiore scoprendo tante piccole incisioni nella carne. Era da li che proveniva tutto il sangue che le stava invadendo la bocca.
«Ma-Ma quelle sono croci.» Croci rovesciate, simbolo indiscusso di Mefisto.
Qualcosa però non tornava. L'odore che proveniva dall'interno della stanza era lo stesso che aleggiava attorno al corpo posseduto dell'uomo che avevamo visto attimi prima. E non era opera di una strega.
Ma non era nemmeno opera del diavolo.
Il mio olfatto da megera aveva ben imparato a distinguere il tanfo di un maleficio da quello del male in persona e quello che emenavano quelle vittime non apparteneva a nessuno dei due.
Zane però sembrava più confuso di me.
Come cacciatore aveva sicuramente sviluppato un olfatto "fino" e mi pareva strano constatare che quel puzzo  acre e ben lontano da quello delle streghe lo avesse disorientato.
Fissai la donna per un'altra manciata di secondi, dritta negli occhi.
Le pupille erano molto più che dilatate: le occupavano quasi tutta la sclera. Nere, infernali.
Nonostante ciò, nel suo sguardo riuscii a scorgere un velo di supplica.
Sollevò una mano e chiese pietà. Qualunque maleficio l'avesse afflitta però non le evitò il peggio.
Un nugolo di locuste le fuoriuscì dalla bocca, strozzandola. Dai suoi occhi incominciarono ad uscire lacrime di sangue e rantoli strazianti invasero la stanza e tutto il corridoio.
«NO» arretrai pietosamente «Gli insetti proprio no.»
Zane chiuse la porta di colpo e ritrasse la mano come se avesse appena toccato del liquame maleodorante. 
«Non capisco» impiegai un po' per riuscire a parlare di nuovo «-non ho mai visto qualcosa del genere.»
Zane si passò una mano sul viso e prese aria «Nemmeno io. L'odore che emanano quei corpi mi è sconosciuto ma è forte e acre e credo non si tratti di stregoneria.»
Già, avevo captato un sentore di ferrugine e nessuna strega lanciava malefici con quel puzzo.
«Quale essere è in grado di scagliare un maleficio tanto potente?»
Attesi per qualche istante la risposta di Zane. La sua espressione era il ritratto di mille pensieri in balia del caos. Non aveva idea di chi o cosa avesse un potere simile.
«Esistono diverse categorie di streghe» proferì dopo un po', all'improvviso «Le Mantidi sono le più comuni. Poi ci sono le tessitrici, le veggenti e poi gli esseri infernali come le succubi.»
«Le...cosa?»
Zane avanzò di qualche passo provando a sollevarsi sulle punte per vedere dentro un ritaglio chiuso da una piccola piastrina di vetro al centro di una porta.
«Le succubi. Le schiave del demonio.» Osservò all'interno della stanza, scosse la testa e proseguì a camminare.
Mi affrettai a seguirlo.
«Vuoi dire che sulla terra esistono esseri del genere?»
Incominciavo a credere che noi streghe - forse - eravamo le creature meno singolari.
«Be'...No. Sono esistite centinaia di anni fa. Ora i loro volti sono riportati nelle grandi enciclopedie dell'occulto. Ma non saprei dare altra spiegazione a...» Si fermò accanto ad una porta costringendo i miei piedi a fare lo stesso. «Questo.»
All'interno, un corpo pieno di pustole giallastre gattonava e muoveva le mani come se stesse imitando un gatto con il particolare che era privo della testa.
«Mio Dio! Ma cos'è questo posto?!»
«Credimi, sono scioccato quanto te.» Affermò con aria mesta.
Forse avrei dovuto credergli. Insomma, a meno che non fosse un attore eccelso, la sua espressione parlava chiaro. Non aveva idea di cosa fosse accaduto a quella gente.
Zane afflosciò le spalle. Le braccia lungo i fianchi, la testa leggermente piegata in avanti. Non potevo vedere il suo viso ma immaginai la delusione.
«Ho creduto per anni che questo fosse un posto sicuro. Un posto dove il male non avrebbe mai avuto accesso. Dove lottiamo per qualcosa di superiore al semplice ordine nel caos. Ma questo...questo va oltre ogni limite dell'immaginazione.»
Mossi un passo avanti e gli posai una mano fra le scapole «Sono certa che esiste un modo per rompere questo tipo di incantesimi.»
Zane mi scrutò da sopra la sua spalla «E tu cosa ne sai di incantesimi?» 
La sua voce non fu più alta di un sussurro.
Ritrassi la mano; con la stessa mi grattai un braccio nervosamente. 
«Niente. Ma c'è sempre una soluzione. Solo alla morte non c'è rimedio.»
Zane sospirò un sorriso, si voltò e mi posò una mano sulla spalla. Gesto che fece accelerare il battito del cuore nel mio petto per un attimo. «Sei così ingenuamente ottimista, Lucille.»  
Piegai l'angolo della bocca in un mezzo sorriso. 
«E tu fin troppo pessimista, Cacciatore
Per la prima volta da quando mi ero ritrovata li dentro, avevo fissato i suoi occhi e ci avevo visto qualcosa di diverso. 
Qualcosa di meno formale ed astioso nei miei confronti. Che Zane avesse incominciato a fidarsi di me?
Lo superai scacciando via quel pensiero.
«Avanti, cerchiamo un modo per uscire da qui.»

                                                                                          ********
"Biblioteca ala est"
Era questa la dicitura dell'unica targa che avevamo incontrato dopo ore di marcia nel buio di quel postaccio.
Le grandi finestre dietro le nostre spalle illuminavano un'altra ala di Sant'Agustina. Questa, usciti dall'ennesimo mucchio di tende rosse di velluto, assomigliava molto più al corridoio di una vecchia scuola abbandonata. C'erano porte di legno logore e puzza di carta bagnata. La polvere, in oltre, saturava l'aria ed il mio naso non tardò a prudermi.
«Etciù!»
«Lucille!» 
Feci spallucce asciugandomi la punta del naso con un dito e ripresi a muovermi fra gli scatoloni e i vecchi banchi accatastati qua e la.
«Studiavi qui?»
Sollevai da uno scatolone un vecchio tomo dalla copertina strappata per metà.
«No. Quest'ala era già in disuso quando sono arrivato qui.»
«Però qualcuno ci è passato di recente» Zampettando fra i mucchi di ciarpame sparsi attorno a noi, trovai una torcia. Pigiai un paio di volte il bottone accanto al manico e la luce si accese.
«Non puntarmi addosso quell'affare!» Protestò Zane intento, invece, a cercare altre targhe che ci indicassero un'uscita secondaria.
«Ci hai fatto caso?» Scavalcai una sedia rovesciata su un mucchio di fogli scritti fitti fitti «E' già notte fuori.»
Mi sembrò un'affermazione normale come molte altre ma quando il cacciatore guardò all'esterno, il suo volto si scavò di qualcosa che si avvicinava decisamente allo sgomento.
«Che ti prende?»
«Quanto tempo abbiamo passato dentro quel corridoio? Non può essere già scesa la notte.»
Si avvicinò alla finestra ad arco e guardò fuori.
«Senza orologi né finestre è possibile che abbiamo perso la condizione del tempo.»
Fissò il cielo ancora per qualche istante.
«Non ne sono certo.»
Si allontanò dal vetro incerto e tornò al centro del corridoio. Mi tese una mano e si fece cedere la torcia.
Attorno a noi, alleggiava un'angosciosa aria che sapeva di posto abbandonato e ricordi dimenticati.
Avevo l'impressione che il Tristo Mietitore fosse il proprietario della vecchia ala di Sant'Agustina; potevo palparela sensazione di morte ovunque.
«L'arcivescovo ha studiato qui?»
Zane scrollò le spalle «E io che diavolo ne so!»
Inarcai entrambe le sopracciglia brontolando uno «Oh, scusami tanto per la domanda» fra i denti.
Demorsi dall'idea di dialogare con il cacciatore per un po' e ne approfittai per capire.
Capire dov'eravamo e come potevamo uscire da li senza essere visti dalla mandria inferocita che ci stava inseguendo.
Se ancora lo stava facendo...Ma certo se era notte forse avevano abbandonato la caccia giàda un pò!
Sollevai un dito a mezz'aria per far partecipe Zane della mia deduzione lampante, quando il mio sguardo cadde sul fascio luminoso che fuoriusciva dalla torcia nelle sue mani.
Non proprio ad esso ma a ciò che stava illuminando.
Una foto, ed io l'avevo già vista.
«Ho trovato una porta e non è chiusa a chiave. Forse possiamo uscire da qui» Zane si voltò all'indietro e constatò quanto fossimo lontani perché io potessi sentirlo «Lucille?».
Tornò sui suoi passi e mi si accostò.
«Questa foto. L'ho già vista ed era in una bacheca identica a questa» Sfiorai il ferro che manteneva agganciati i pannelli di vetro della bacheca.
Socchiusi gli occhi e cercai di ricordare.
«All'ingresso.» Proferii con sicurezza un attimo dopo.
Zane si chinò su un ginocchio ed osservò foto per foto, tutti i ritratti. La bacheca aveva un piedino dei quattro spezzato e pendeva da un lato, ma alcune cornici - forse per la troppa sporcizia - sembravano essere incollate al legno delle mensole.
Inclinammo la testa all'unisono concentrati sui volti in bianco e nero nei ritratti.
Tutti sconosciuti. Tutti tranne quello di «Madamme».
«E' impossibile che sia lei» disse Zane cercando un modo per aprire l'anta.
«Sono certa che quella sia proprio Madamme. Come potrei dimenticare quella faccia di mer-»
Zane storse le labbra ed io alzai gli occhi al cielo.
«Già, già...Le parolacce» 
Mi rifilò uno sguardo d'intesa leggermente canzonatorio e tornò a guardare la bacheca.
Le sue mani raggiunsero il gancetto di ferro in alto e la chiave dentro la piccola toppa al centro delle due ante. Impiegò un po' di forza, ma alla fine, con un "clap", l'anta si aprì.
Infilò la mano e tirò fuori la foto.
Ora che guardavo meglio, anche le suore attorno a lei avevano volti famigliari.
«Aspetta ma quella è Baba!» Esclamai e mi morsi la lingua subito dopo.
Lo sguardo di Zane saettò sul mio viso che si arroventò di riflesso.
«E' solo una donna che vedo spesso con Madamme.» Deglutii cercando una scusa, la prima che mi era venuta in mente.
«Sai, non ti ho mai chiesto come mai conosci Madamme e perché lei ti ha portata qui spacciandoti per una strega.» Ad un tratto l'espressione di Zane divenne dubbiosa. I suoi occhi inquisitori perlustravano il mio viso in cerca di prove ed io incominciai a sentirmi in trappola.
«Faccio la prostituta nel suo bordello.» Mi affrettai a dire sorprendendomi delle mie stesse doti da menzognera quale ero appena diventata.
Schiuse le labbra e forse avrebbe voluto dire altro, ma non gli uscì un fiato.
«Ci sei rimasto male?»
Si grattò una guancia drizzando leggermente la schiena come se volesse prendere le distanze da me.
«No è che...non ci avevo pensato.»
Qualcosa lo aveva deluso o per lo meno così mi sembrò.
«Forse dovremmo tornare a concentrarci sulla foto.» La indicai, stretta fra le sue dita.
Lui guardò me, poi il ritratto e poi di nuovo me.
«Si, giusto». Imbarazzato me la porse ed attese che i miei occhi si abbassassero su di lei.
Ma non li distolsi da lui.
Il bagliore della luna lo rendeva leggermente pallido sfiorandogli la pelle del viso ma io potevo vedere ugualmente il rossore sulle sue guance.
«Che ti prende?» Chiese timidamente.
«Non sei mai stato in compagnia di una prostituta?» 
Appoggiai le mani sul pavimento e mi allungai con la schiena verso lui. Un sopracciglio sollevato, l'espressione sorniona. La cosa mi divertiva parecchio.
«Che ti importa?»
Sogghignai. «E così, sua eminenza non vi fa frequentare le donne...»
L'espressione di Zane si fece nervosa.
«I nostri matrimoni sono combinati e non avvengono prima del quarantesimo anno d'età. Quando siamo troppo anziani per il servizio sul campo e troppo giovani per il pensionamento.»
«Ah. E fino ad allora...» Mossi due dita come a mimare un gesto eloquente che stava a significare  "non si batte chiodo".
Zane serrò i denti e poi si sforzò di ridere. Nervosamente.
«Se stai cercando di farmi confessare cose del tutto intime, sappi che non lo farò» Si sollevò di colpo.
Restai a fissarlo dal basso del pavimento.
«No, mi basta osservare come mi guardi.»
Certo, calarmi nella parte della poco di buono era molto più semplice e divertente del dovermi calare nella parte dell'umana senza peccato e senza vergogna.
Schioccai lui un occhiolino e mi sollevai.
Il viso di Zane si cristallizzò. Impietrito, in un'espressione che, se non lo avessi superato lungo il corridoio, mi avrebbe fatta scoppiare a ridere.
«Tornando al discorso di prima. Questa è Madamme» Gli tirai la foto che svolazzò dietro le mie spalle ondeggiando fino al pavimento.« Ed ora voglio sapere perché è vestita da suora e perché accanto a lei c'è anche l'arcivescovo.»
Zane la raccolse e un suono strozzato gli uscì dalla gola. Dovette tossire un paio di volte.
«Non te ne eri accorto?» Poggiai una mano sulla maniglia della porta di legno alla quale aveva accennato prima e mi voltai a guardarlo.
Era più serio ora.
«No, non ci avevo fatto caso.» Guardò la data riportata sulla cornice bianca attorno al ritratto.
«Credevo che fosse la stessa che ho visto all'ingresso fino a che non ho guardato la data. E' di almeno novanta anni dopo. Sempre in bianco e nero, ma molto più recente.» Lo informai.
Zane sollevò lo sguardo disorientato e mi fissò come se cercasse spiegazioni immediate da me. Ma io non le avevo. Ero confusa, tanto quanto lo era lui.
«Non chiedermi perché le stesse facce sono su quasi tutte le foto nonostante siano di epoche differenti.»
«Non capisco» mormorò «Non può essere veramente Buvier.»
«Forse il tuo amato arcivescovo ti nasconde più cose di quel che credi» - e Madamme le nasconde a me.
Zane strinse le dita sulla foto, sgualcendola.
La rabbia lo stava mangiando dentro.
«Forse è solo una coincidenza. Forse quello è un suo parente»
A quel punto qualcuno doveva aprirgli gli occhi.
Con un paio di falcate lo raggiunsi e gli afferrai il mento spostandogli la visuale su tutte le foto agganciate alle pareti o buttate nel dimenticatoio, agli angoli del corridoio.
Afferrai la torcia dalla sua mano e le illuminai.
«Tutti? Sono tutti suoi parenti? Apri gli occhi, Zane. Ti sta mentendo e Madamme sta mentendo a me.»
Mi strappò via la mano senza lasciarmi il polso.
«E' diverso. Quell'uomo mi ha cresciuto come fossi suo figlio.»
Di riflesso, per rabbia, tirai via il braccio «Cosa ti fa pensare che non sia stato lo stesso fra me e Madamme? Come pensi che mi sono sentita quando mi ha venduto al tuo Dio !?» Afferrò subito la frase capendo che mi stavo riferendo a Buvier e si infuriò.
«Al mio Dio?!» Mi seguì a passo svelto mentre cercavo di sottrarmi nuovamente all'ennesima discussione.
«E non è anche il tuo Dio, megera?»
La mano restò a mezz'aria fra la maniglia e il vuoto.
«Una prostituta» Soffiò una risata salace «Una con l'espressione da cerbiatta come l'hai tu, non può essere una prostituta.» Avanzò lentamente verso di me costringendomi a richiudere la porta e a voltarmi verso lui.
Mi sentivo inghiottire dal suo sguardo. 
«Che dici! Lo sono!» Schiacciai la schiena contro la porta «E poi dacci un taglio con questa storia della strega. Hai tutte le prove per credere il contrario.» Il tono autoritario che speravo di avere se ne andò a farsi benedire. La voce mi tremava come una foglia al vento, come le gambe e tutto il resto del mio corpo.
Zane, che ormai era ad un passo da me, avanzava predatore con la mano sulla Balisarda e l'aria di uno che non ci avrebbe impiegato molto a togliermi di mezzo.
La luce fioca che filtrava dai finestroni gli oscurava parte del viso rendendolo tetro, pericoloso.
Mi arrivò ad una spanna.
Ebbi l'impulso di piangere ma mi costrinsi a combattere. Gli angoli degli occhi si inumidirono ugualmente.
«Ho il tuo zaffiro e sono ancora viva. Non mi sta uccidendo come hai detto tu.» mormorai in un filo di voce.
Sollevò le mani e le poggiò accanto al mio viso, sulla porta. In un attimo mi ritrovai intrappolata fra lui, i suoi occhi e l'anta dietro le mie spalle.
Ma quando incominciai a temere il peggio lui mi spiazzò.
«Ti sembrerà stupido, ma non reggerei un altro inganno» Distolse lo sguardo, rivolgendo i suoi occhi al il pavimento. «L'arcivescovo mi ha mentito. Madamme ci sta sicuramente ingannando tutti e tu...Non voglio che anche tu finisca per ingannare me e gli altri.»
Schiusi le labbra e trattenni il respiro.
«Non so perché, ma non reggerei se mi mentissi anche tu.»
Se avessi potuto non ingannarlo, giuro, lo avrei fatto. Ma io ero una strega e una strega non può confessare la sua natura ad un cacciatore anche se quest'ultimo l'ha salvata dalla morte.
Mi inumidii le labbra. Il fiato mancava e la carotide pulsava nel mio collo. Temetti che fosse perché mi era troppo vicino ma poi, preferii credere che fosse perché lo stavo ingannando anche io come gli altri.
Sollevò il mento.
«Che vuoi fare?» Mi spinsi di riflesso ancor più contro la porta che tremò.
«Quando Madamme ti ha portata qui, ha detto che lo aveva fatto per proteggere le altre streghe da te. Avevi quasi rubato un'anima...be' io ho un'anima e se tu sei quella strega me la ruberai.»
Il cuore mi rimbombò nella testa. 
«Non ci pensare nemmeno» Cercai di spingerlo via, ma era molto più forte di me.
«Non te lo sto chiedendo per favore.» 
Lo avrei ucciso. Lo avrei sicuramente ucciso e sarei rimasta sola.
«No. Non lo farò e tu...tu devi starmi lontano!» Afferrai le sue braccia fino a conficcare le unghie nel tessuto della sua giacca e puntai un piede dietro di me per spingerlo via. Non si mosse.
«Non costringermi a farlo...Ti prego» sussurrai.
«Stai ammettendo che potrebbe succedermi qualcosa?»
Deglutii a fatica.
«No, è che...»
Cosa potevo dirgli per farlo demordere? Che mi sentivo violentata? O dovevo ricordargli della sua castità?
Cosa?
COSA?!
Trattenni nuovamente il respiro e questa volta fu decisamente più doloroso nel petto.
Zane allungò il collo verso me e le sue labbra piombarono pericolosamente vicino alle mie. Potevo sentire il suo respiro sulla mia pelle e il calore del suo corpo scaldare il mio petto da sopra la camicetta.
«Tu...hai paura.» Sussurrò provando a sfiorarmi le labbra con le sue ma fermandosi un attimo prima.
Annuii.
Non solo per lui. Anche per me.
«Se credi che ti farò qualcosa di brutto, ti sbagli. Non ti farei mai del male.»
Anche se in quel momento mi parve la frase più falsa e patetica che potesse avermi detto, ora penso che non me ne avrebbe mai fatto sul serio.
«Posso fidarmi?»
Mosse il capo lentamente mimando un si.
Speravo che demordesse, che il vedermi spaesata e impaurita lo facesse decedere. Invece Zane voleva certezze. Voleva verità. Voleva sapere.
Lo zaffiro dentro la camicetta, al centro dei miei seni, si scaldò quando il suo proprietario si avvicinò ancor di più.
Se lo ucciderò non me lo perdonerò mai.
Chiusi gli occhi e mi arresi.
Se Zane era pronto a rischiare la vita io non ero assolutamente nessuno per poterglielo impedire.
Di colpo mi resi conto di avere il petto premuto contro il suo. Un calore inspiegabile mi avvolse come se mi stessi crogiolando sotto il sole estivo.
Non era possibile...
Zane mi stava baciando.
All'inizio la carezza della sua bocca fu esitante, un mero sfiorarsi delle labbra, senza fretta. Ogni muscolo del mio corpo si bloccò, ma io non mi ritrassi come avrei dovuto e dal profondo della gola di Zane scaturì un verso roco che mi fece correre un brivido lungo la schiena.
I miei sensi andarono in corto, scintille schizzavano in tutte le direzioni dentro di me. 
Non dovevo continuare a baciarlo ma lo volevo. Lo volevo disperatamente e non sapevo il perché.
Se lui però si fosse allontanato, ero certa, lo avrei attirato nuovamente a me.
Ma non si allontanò.
Infilò una mano dietro la mia nuca e risalì immergendo le dita fra i miei capelli.
Non potevo scappare - finalmente.
Permisi che la sua lingua sfiorasse la mia. Dopo qualche attimo, mi resi conto che le mie mani erano sul suo petto, sotto la sua giacca e se non le avessi controllate le avrei ritrovate chissà dove sotto i suoi indumenti.
Piegai la testa e non mi feci indietro nemmeno quando l'altra sua mano mi sfiorò un fianco.
Quel bacio era esattamente ciò che mi aspettavo da un bacio e anche di più. Esplosivo. Travolgente. Il mio cuore palpitò come una farfalla impazzita, scosso da un desiderio così intenso che dardi di puro terrore mi scoccarono nelle vene.
Stavo pensando a Zane in un modo che non avevo mai preso in considerazione. E non dovevo.
Scostò il viso. Aveva un'espressione compiaciuta, persino un po' audace. Ed io avevo la sensazione di essere nei guai.
«Hai visto, non ti ho fatto nulla di male» mormorò lui con la voce roca, lasciando scivolare via le dita dalla mia nuca.
Avrei dovuto rispondere semplicemente "e io non ti ho ucciso", invece l'unica cosa che riuscii a mormorare fu un penoso «Hai un piercing sulla lingua.»
Mi sentii una sciocca.
Zane risollevò la schiena.
 «Siamo nel ventunesimo secolo non è poi così strano averne uno» ridacchiò grattandosi distrattamente la nuca.
Ovviamente, per lui che lo indossava era una cosa del tutto normale ma per me che non avevo mai baciato nessuno sentire quella pallina sferica sulla lingua fu qualcosa di eccezionale. Ero certa che quella notte non avrei smesso di pensare a quel dettaglio.
«Già...» 
Sicuramente avevo il viso in fiamme. Me lo sentivo bruciare molto più dello zaffiro nascosto sotto i miei abiti.
Restai per un momento in silenzio e forse la cosa lo imbarazzò tanto che fui io stessa a parlare nuovamente per prima.
«Adesso...Mi credi, giusto?»
Un sorriso gli apparve sulle labbra ma sparì subito.
«Adesso si.»
Dovevo potermi sentire rilassata ed invece ero un fascio di nervi.
Zane allungò il braccio accanto a me. Per un momento mi irrigidii ma quando poi abbassò la maniglia l'unica sensazione che provai fu delusione.
Volevo essere toccata ancora da lui? O che mi baciasse di nuovo?
Forse la seconda.
«Andiamo, magari riusciamo a trovare qualcosa più in la.»

Non avevo ucciso Zane e questa era una consolazione. Ora però, qualcosa si era acceso dentro me: un desiderio proibito. Un desiderio che mi avrebbe portato ad infrangere ben più di una regola soltanto.



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Capitolo 9
*** La condanna del bambino fantasma ***


       
                                                        La condanna del bambino fantasma.
Oltre l'ampia porta di legno trovammo l'ennesima lingua di mattonelle a scacchi panna e rosse.
Aule vuote ed impolverate, vecchi mappamondo, vecchie cartine geografiche e tomi ammuffiti.
Praticamente nulla che potesse esserci d'aiuto.
«Proviamo a tornare indietro. Usciremo da dove siamo arrivati» Decise allora Zane e così facemmo.
Peccato però, che una volta arrivati davanti alla targa "Biblioteca ala est" il tendaggio di velluto fosse sparito.
Al suo posto era apparsa, come nel peggiore degli incubi, la porta di legno logoro che sapevo essere sul lato opposto di quel corridoio.
Sbarrammo gli occhi. La fronte si imperlò di sudore rapidamente e uno spasmo mi attorcigliò lo stomaco.
«Questa porta...» mormorai non credendo ai miei occhi.
«Era dall'altro lato» disse per me Zane, voltandosi alle sua spalle.
Nel buio vagamente illuminato dalla luce bianca della luna, potevamo vedere la replica della stessa porta sull' altro lato, oltre le cattedre rovesciate e le sedie gettate qua e la.
«Non può essere!» Afferrai la maniglia e l'anta cigolò rumorosamente quando la spalancai .
Lo stesso corridoio che avevamo trovato una volta usciti dall'infermeria apparve davanti ai miei occhi.
Come una doccia fredda, la consapevolezza di essere finiti nei guai - guai seri - mi piovve addosso raggelandomi.
«Il tendaggio vinaccio era proprio qui! Era qui!» gridai in preda al panico.
Il cacciatore era impietrito. Fissava dritto davanti a se. Non poteva credere a ciò che stava vedendo.
Corsi oltre l'anta della porta a perdifiato.
Sul lato destro: le stesse porte di legno. Aule vuote, polverose, che si susseguivano come in un incubo senza fine.
Oltre le ampie finestre il buio della notte era statico: non tirava un filo di vento, non cantava nessun gufo, era tutto così inconsuetamente placido da mettere i brividi.
Urtai con la spalla l'ennesima porta alla fine del corridoio e spalancando l'anta, «Biblioteca ala est», ciò che vidi mi lasciò sgomenta.
Le dita delle mani mi tremarono senza che potessi riuscire a fermarle.
«È un incubo...»
Ogni porta conduceva esattamente al centro del primo corridoio, quello con la falsa targa che riportava "Biblioteca ala est".
«È un fottuto incubo!» mi portai le mani fra i capelli e strinsi la testa fra i palmi.
Gli occhi mi bruciavano, le sclere tiravano e la paura galoppava nel mio petto.
«Ci deve pur essere una spiegazione» La voce di Zane vacillò pericolosamente. Potevo leggere la paura nelle sue iridi chiare.
«Tutto questo non ha senso. Siamo entrati da qui! Dietro questa porta doveva esserci la vecchia infermeria»
Quella specie di loculo che nascondeva anime devote chissà a quale essere infernale, si era volatilizzato nel nulla. In un'altra circostanza ne sarei stata anche sollevata, ma ora che mi trovavo al centro di un loop infinito, l'idea che fossi in trappolata in un corridoio senza via d'uscita mi stava soffocando.
«Non voglio morire qui dentro.» piagnucolai fra le labbra.
«Credi che io lo voglia? Cerchiamo di capire cosa sta succedendo» Per fortuna, fra i due, Zane era quello più razionale. Avevo imparato in quel breve periodo passato in sua compagnia, che difficilmente si lasciava trascinare da emozioni come paura o tristezza.
Probabilmente le rifiutava e questo lo aveva portato ad essere...coraggioso.
Tutto il contrario di me.
«Siamo arrivati da qui, giusto?» Calpestare nuovamente la stessa carta straccia, le stesse foto sparse sul pavimento, mi stava serrando la gola. Il presentimento che sarei morta li dentro si stava tramutando in realtà nella mia testa. 
«Cosa non abbiamo fatto quando siamo passati qui?»
Lo seguii un passo dietro. 
«Ed io che diavolo ne so!»
Che razza di domanda era? 
Zane arrestò i piedi, rizzò la schiena e voltò metà viso verso me. L'aria eloquente ed una spanna d'ovvietà spalmata sul viso.
«Non siamo entrati nelle aule» disse come se avessi dovuto saperlo.
«Cosa credi di trovare li dentro? Sono cinque stanze piene di vecchi libri e quattro di loro sono chiuse a chiave» Passai attorno ad una cattedra ribaltata su un lato appoggiando le mani sui bordi.
«Non lo so. Ma so che non ci siamo entrati in quella aperta e dovremmo farlo, per sicurezza.»
In fin dei conti era una buona idea. Forse fra quei vecchi libri impolverati avremmo trovato qualcosa di utile.
Zane abbassò, quindi, la prima delle cinque maniglie, l'unica priva di serratura.
Una vecchia aula con ancora qualche banco di legno si allargò davanti a noi.
Sui muri erano inchiodate alcune carte geografiche. Accanto alla cattedra, un vecchio mappamondo aveva sopra almeno tre dita di polvere.
C'erano libri di lingua e di storia appoggiati su un banco.
L'odore di chiuso era soffocante.
«Siamo d'accordo che questo sia il frutto di un sortilegio, si?» Zane ispezionò con gli occhi alcuni quaderni rilegati in una copertina di cuoio allacciata con dello spago, girando attorno ad uno dei banchi. Le dita che scivolavano fra le pagine. Esse erano ingiallite, senza quadretti o righe. Chiunque aveva scritto li sopra, di certo, non lo aveva fatto con una penna a sfera.
Quei fogli potevano avere anche più di cento anni.
«Di certo non è normale ritrovarsi sempre al centro dello stesso corridoio, a meno che non ci abbiano drogati e questo sia un trip stratosferico.» Sfogliai anch'io uno dei vecchi quaderni. Spostando un pagina, però, un'animaletto argenteo sguisciò fuori zampettando sotto il banco. Ritrassi la mano strozzando un respiro.
«Questo posto deve per forza brulicare di insetti?» Protestai quasi fra me e me.
«Ehi, Lucille, guarda qui.» Zane sollevò un grosso libro dalla copertina spessa e scura.
«Cos'è?» Girai attorno al banco e per sbaglio urtai lo scheletro di ferro di una sedia che non avevo visto affatto. Il rumore riecheggiò nell'aula facendomi temere di aver svegliato persino qualche  avo dall'aldilà.
Afferrai lo schienale e guardai Zane dritto negli occhi. Restammo in silenzio per un secondo ma non accadde nulla.
«Dicevi?»
Mi avvicinai a lui e spiai all'interno del volume.
Una pagina era scritta fitta fitta, mentre sull'altra un disegno occupava tutto lo spazio.
Sfiorai le fiamme che rilucevano nella notte pittata dietro le sagome infernali: quelle di mostri con il corpo di donna e i denti aguzzi.
«Cosa sono?» Mi scoprii affascinata da quei corpi. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dai loro occhi animaleschi, dalle lunghe zanne o dagli artigli.
La loro pelle grigia era evidenziata dall'autore del disegno che l'aveva calcata con la punta di una matita.
«Ricordi quando ti parlavo delle succubi?»
Sollevai lo sguardo sul viso di Zane.
«Sono loro»
Erano rappresentate accanto alla fiamma di un falò. Se ci fosse stata una strega al posto loro, sarebbe morta in pochi attimi.
Lasciai che Zane mi passasse il volume. Portai la torcia fra i denti e lo raccolsi con entrambe le braccia stringendo con le dita il bordo superiore.
Non avevo idea di cosa fossero le succubi, ma in qualche anfratto della mia coscienza, i loro volti mi risultarono tristemente familiari.
«Loro sono in grado di possedere umani?»
Zane si strofinò il naso «In realtà cacciano anime per conto del diavolo in persona. È lui che poi li possiede, ma l'occulto è così ambiguo...Può succedere di tutto.»
Forse c'erano cose che né Madamme, né Babette, mi avevano mai raccontato. Forse, l'occulto nascondeva più segreti di quanti ne potessi immaginare.
Mi appoggiai ad un banco sedendo di ginocchia sulla sedia. Gli avambracci puntati sulla superficie, una mano a sollevare la torcia e gli occhi incollati alle pagine del grosso libro.
«Sapevi che le Mantidi possono nutrirsi solo di linfa vitale?» Mi rivolsi a Zane che intanto stava aprendo ogni cassetto presente nell'aula.
«Si. Ma ci sono alcune streghe che bevono sangue come vampiri.»
«Le vedove nere
Ero affascinata da quel genere di streghe. Così infinitamente belle e potenti, così spaventose e letali.
Sfiorai il ritratto di una di loro, la più importante.
«Dorothy Fednes. Fu condannata e bruciata a rogo nel 1609» lessi.
I suoi occhi rilucevano di miele e pagliuzze dorate persino attraverso quel disegno.
«Venne bruciata perché fra le vittime imputate a lei, c'era un bambino.» Sollevai lo sguardo ritrovandomelo ad un palmo da me con un grosso scatolone stretto fra le braccia.
Tornai a fissare il viso della donna e un velo di delusione si posò su di me.
«Non sarei mai in grado di uccidere qualcuno, figuriamoci dei bambini» commentai storcendo un labbro. Un altro mito mi era crollato in pochi istanti.
Zane posò lo scatolone e tirò fuori il contenuto: quaderni ovviamente.
Una voluta di polvere si sollevò in aria quando soffiò sopra alla copertina sgualcita di uno di essi.
«Di Sam - non riesco a leggere il cognome- , otto anni» disse.
Lo scrutai con un sopracciglio inarcato «Ti stupisce? Studiavano qui dentro ci saranno scritti i compiti per le vacanze.»
Zane mi rifilò un'occhiata al sapore di "stai zitta" al quale risposi con indifferenza tornando a sfogliare qualcosa di più interessante, almeno, finché non lesse la prima pagina.
«Ventitré Marzo 1604. Oggi, nostra eminenza Buvier ci ha spiegato come uccidere una strega.» 
Rizzai le orecchie sollevandomi di colpo e strappando il quaderno dalle mani di Zane. Afferrai la torcia dal banco e la puntai sulle parole di Sam.
«Ha detto Buvier?»
Sam continuò a raccontare, pagina per pagina, della sua vita dentro Sant'Agustina.
Raccontò di come lo stavano instradando a diventare cacciatore e di come, di punto in bianco, si fosse ritrovato solo li dentro.
«Perché i suoi compagni erano spariti?»
Zane scosse la testa «Non lo so. Quando sono arrivato in questa cattedrale, non sono mai stato separato dal resto dei miei compagni.»
"Buvier dice che non posso più stare con gli altri. Che per me si prospetta un futuro diverso. [...] ma io voglio stare con loro.
"[...] Mi manca la mamma. Buvier non mi permette di vedere nessuno, nemmeno lei."

Perché l'arcivescovo di quell'epoca -ammesso che non si trattasse dello stesso Buvier dei giorni nostri- aveva isolato Sam?
Più andavamo avanti con le pagine, più il racconto del bambino si faceva intriso di tristezza.
"[...] Due dottori in camice bianco mi hanno svegliato nel cuore della notte. Hanno chiamato nostra eminenza e mi hanno portato in un posto orribile. Non voglio più tornarci."
"[...] Sento le grida di qualcuno dalla stanza accanto."
La gola mi si strinse «Sta parlando dell'infermeria, vero?»
La mascella di Zane si contrasse. «Credo di si»
"Questa notte, mi hanno iniettato un liquido colorato. Ora sento scottarmi la fronte e le vene sulle mie braccia si sono gonfiate."
"Buvier mi chiama con un nome strano. Nocturn."

Le pagine si rarificarono. Dopo una manciata lasciate in bianco, sull'ultima trovammo poche righe.
"Sto sempre peggio. La mia pelle è pallida e le occhiaie sono sempre più scure. Credo di essere dimagrito. La mamma si preoccuperà se mi vedrà così. [...] Non vedrò la mamma. Non vedrò più nessuno. [...] Credo che morirò. [...]."
«"Che morirò qui dentro"» All'improvviso da uno scaffale caddero un paio di libri. Il loro tonfo fu seguito dallo scalpicciare di passi lungo il corridoio.
«Cos'è stato?» 
Chiusi il quaderno di colpo e puntai la torcia verso la porta dell'aula.
Avevo il cuore in gola e sudavo per la paura.
Zane si mosse prima di me affacciandosi fuori dalla stanza.
«Non vedo niente, non c'è nessuno.»
Io però continuavo ad avere paura. Una paura folle.
«Sei sicuro? Controlla meglio.» Lui mi guardò sospirando e lanciò una seconda occhiata lungo il corridoio.
«Puoi venire a vedere. Non c'è nessuno.»
Esitando, mi avvicinai a lui, gli agguantai un lembo della giacca e puntai la torcia lungo il corridoio ancor prima di sporgere la testa dall'anta della porta.
Effettivamente era vuoto. Nessun rumore. Nessun suono.
«Magari ci siamo mossi e abbiamo fatto tremare il pavimento. Magari i libri sono caduti per questo.»
Sollevai lo sguardo oltre la mia fronte e lo scrutai con un vistoso cipiglio «E che mi dici dei passi?»
Avrebbe voluto dirmi che lui non li aveva sentiti, ma lo aveva fatto.
Schiacciò le labbra l'una contro l'altra e si scansò dalla porta.
«Senti, non credo che per questa notte riusciremo a trovarci fuori da questo posto, perciò, passi o meno, cerca di stare calma.»
Aggrottai la fronte «Sai che potrei tenerti sveglia tutta la notte se ho paura?»
Zane si mosse all'interno della stanza «Non chiudo occhio da tre giorni, come minimo ti staccherei la testa»
Decisi comunque di chiudermi la porta alle spalle. Non che una semplice anta di legno potesse garantirmi protezione dalla magia, ma sicuramente mi sentivo più sicura.
«Quindi? Le tue intenzioni quali sarebbero?»
Lo vidi svuotare un grosso scatolone troppo recente per essere del 1600. Staccò lo scotch e allargò le alette.
«Sicuramente voglio dormire.» Lo posò a terra e gli regalò della morbidezza spargendo mucchi di fogli sopra di esso.
«Prendine uno» Sorrise sornione. Quel modo strafottente mi stava irritando.
«Io non voglio dormire, voglio uscire di qui!» Sbraitai.
Zane lanciò la testa all'indietro sollevando gli occhi al cielo. «Anche io, ma ho bisogno di riposarmi»
Purtroppo non avrei potuto fare molto. Sapevo perfettamente che la carenza di sonno era in grado di far -letteralmente- impazzire i cacciatori.
Per meglio dire, le loro cellule impazzivano. In oltre, senza Zaffiro dato che lo avevo io al collo, i tempi potevano sicuramente accorciarsi perché ciò accadesse. Non volevo che mi uccidesse di punto in bianco, assolutamente.
Mi morsi un labbro e strinsi i pugni «E va bene».
Ringhiando mi mossi rassegnata verso un secondo scatolone appoggiato sul ripiano di una mensola di legno accanto alla cartina della Germania.
Tirai fuori vecchi libri, uno scarafaggio morto e qualche penna. -E con penna intendo proprio penna di pennuto.
L'espressione piatta e snervata mi accompagnò fino alla porzione di pavimento accanto a Zane.
Distesi lo scheletro dello scatolone e ci buttai sopra qualche pila di fogli polverosi.
«Odio tutto questo» Mi sdraiai e coprii gli occhi con gli avambracci avvolgendomi alla coperta di rabbia e nervi che mi stava assalendo.
Nel silenzio i pensieri incominciarono a prendere forma.
Cosa avevamo per le mani? Io decisamente poco.
Sapevo poco dei cacciatori, all'infuori del fatto che si spostassero grazie allo zaffiro -motivo per cui Zane era a New York le notti passate, mentre Sant'Agustina era in Francia- che potevano invocare incantesimi con lo stesso nome del siero a base di lacrime di strega, che erano fedeli ad uno psicopatico che rimbalzava da un'epoca all'altra e che se non dormivano per più di un paio di giorni perdevano il senno. 
E del resto? Be' sicuramente che qualcuno stava usando la magia nera per infettare la popolazione e per far ricadere la colpa sulle streghe. Almeno io ero arrivata a questa conclusione ma perché? A cosa serviva fare tutto questo? Una cosa era certa, avrei sempre presunto che l'unico colpevole fosse Buvier.
Quella faccia di merda.
Zane mugugnò nel sonno. Trattenni il respiro e lo guardai di sottecchi.
Il suo viso era disteso. Dormiva placido, come se non ci trovassimo affatto in un incubo dalle fattezze stramaledettamente reali!
Sospirai.
"Vorrei avere un quinto della calma che hai tu"
Per l'appunto, infatti, non riuscii a chiudere occhio. Quel posto mi metteva i brividi: avevo fretta di andarmene.
Mi sollevai ed afferrai la torcia che andavo abbandonando qua e la ogni volta che mi muovevo per l'aula.
Tornai al banco e al quaderno di Sam, lo presi e mi accomodai a sedere con la schiena contro uno dei quattro piedi di ferro.
Rilessi da capo le pagine analizzando, frase per frase, ogni parola. Quel bambino, non solo era stato usato come una cavia, ma era una piccola vittima nelle mani di essere spregevoli.
«Ma cosa...» Qualcosa mi svolazzò fra le ginocchia. Mi sporsi per raccogliere il pezzo di carta e scoprii che erano due foto.
Una dal retro giallo e macchiato, l'altra intatta e candida.
"1601 Sam Winterburg" 
Lessi finalmente per intero il suo cognome e mi parve familiare. Dove avevo già letto quel cognome? 
Mentre cercavo di pensarci mi concentrai sul soggetto principale della fotografia.
Il bambino ritratto indossava la divisa dell'arcivescovato. Non aveva più di otto anni: calzoncini corti e calzini lunghi sulle ginocchia.
La cravatta stretta e la camicia ben inamidata.
Osservai i riccioli neri che gli ricadevano accanto alle tempie e gli occhi così chiari che persino nella foto in bianco e nero risaltavano intensamente.
Sfiorai il suo viso con le dita.
"Che ti hanno fatto?"
La seconda foto si era praticamente incollata sul retro.
Dovetti impiegare tutta la pazienza in mio possesso per non strapparla ma, nonostante ciò, qualche pezzetto venne via ugualmente.
Persi un battito.
La mia mano tremò esitando sulla viscosità della fotografia.
«Non...Non è possibile»
"1994 Zane Winterburg"
Lo stesso bambino della foto precedente apparve ai miei occhi con un nome diverso ma con gli esatti stessi lineamenti.
Gli stessi occhi chiari, la stessa espressione priva di emozione. Zane. Lo stesso Zane che stava dormendo ad un passo da me.
I miei occhi saettarono sul viso del cacciatore.
Era lui, non c'erano dubbi. Certo, non aveva gli stessi ricci folti di Sam ma ero certa che se si fosse messo una parrucca il risultato sarebbe stato lo stesso. Erano due gocce d'acqua.
Mi sollevai di scatto e la torcia ruzzolò a terra spegnendosi.
«Merda.»
Provai a muovere la mano a tastoni nel buio tornando ad inginocchiarmi sul pavimento.
«Andiamo. Andiamo!» 
Nel buio il tonfo ferruginoso di un barattolo mi raggelò.
Ogni muscolo del mio corpo si irrigidì. Restai immobile ascoltando solo il suono del mio respiro che, nei lobi delle orecchie, sovrastava persino quello di Zane.
Sollevai lentamente lo sguardo al bagliore fioco che da qualche istante stava vibrando accanto alla porta.
Lo sgomento la fece da padrone.
La sagoma minuta di un bambino avvolta da una luce cobalto, innaturale, apparve davanti ai miei occhi.
Le sue manine sottili avvolgevano il piede di un banco ed i suoi occhietti azzurri erano fissi su di me.
Schiusi la bocca ma la voce non uscì.
Il cuore galoppò così veloce che, di li a poco, avrei visto sicuramente tanti puntini neri e poi sarei svenuta. O morta.
Probabilmente oscillai per uno spasmo al braccio e Sam si spaventò.
«No, aspetta! Non scappare!» Allungai una mano verso di lui e mi sollevai come un gatto che è appena ruzzolato giù da un balcone.
«Che succede?»
Zane si sollevò a sedere.
«E' Sam! Cioè sei tu, ma è Sam!» Gridai prima di lanciarmi alla rincorsa del piccolo spiritello.
Zane, anche se confuso, non se lo fece ripetere due volte e uscì correndo rumorosamente dall'aula.
Ero molto più lontana di lui e non mi voltai a cercarlo. 
«Sam! Non scappare!»
Senza rendermene conto, sbucai da una porta ritrovandomi al centro di una serie di porticine di legno.
La luce tornò ad invadere quella porzione di cattedrale, sotto forma di fiamme che ardevano sulla punta di alcune fiaccole agganciate ai muri.
A terra un lungo tappeto rosso divideva alcune celle.
Le porte erano spesse e di legno scuro con qualche rifinitura, in ferro, nera: una era aperta.
«Ti ho trovato» Presi fiato per la corsa estenuante.
Sam era seduto sul bordo di un letto coperto da una trapunta pomposa di color porpora. Quattro cuscini erano appoggiati allo schienale di legno pregiato e un tendaggio con rifiniture dorate ricopriva lo scheletro del baldacchino sulla sua testa.
«Questa è la tua stanza?» Gli domandai  cercando di entrarci in confidenza. Nel frattempo pregai che Zane apparisse alle mie spalle. Quel bambino era lui e tutto aveva preso una piega decisamente terrificante.
Sam annuì sorridendo.
«E...posso entrare?»
Mosse ancora la testolina riccia mimando di si.
Abbassai il capo e passai sotto l'archetto della porta.
C'era luce nella stanza ma non riuscivo a capire da dove arrivasse.
Tanto, fra le cose strane quella era solo una delle molteplici.
Sam picchiettò il materasso con una mano ed io esitando mi accomodai accanto a lui.
Le mani strette fra le cosce e l'angoscia che strangolava la mia gola.
«Io ti conosco» disse «Ti ho vista arrivare qui»
Sbattei le palpebre un paio di volte «Ah si?».
La mia risposta ovviamente uscì come lo squittio di un roditore.
Sam sorrise «Eri insieme a quel ragazzo, quello che mi assomiglia tanto.»
«Parli di Zane?»
La mia attenzione era rapita totalmente adesso e aveva superato la paura.
«Si chiama Zane?»
Mi grattai la nuca «Si, in quest'epoca...credo»
Sam sorrise più marcatamente. «Tu e Zane mi aiuterete non è vero?»
Lo scrutai con apprensione «Aiutarti? A fare cosa?»
Il bimbo abbassò lo sguardo rivolgendolo alle sue piccole dita. I piedini che dondolavano a mezz'aria.
«A fermare l'uomo cattivo.»
Ma certo, faccia di merda Buvier!
«L'arcivescovo.»
L'espressione del bambino mutò. La paura si avviluppò distruggendo il suo dolce sorriso e si impossessò di lui.
«Ha fatto delle cose orribili. A me, al tuo amico e a tante altre persone»
«Ascolta, i posseduti...sono opera sua?»
Sam apparì accanto alla porta costringendomi a cercarlo con lo sguardo.
«Non posso dirtelo.»
«Se non lasci che io scopra la verità, non potremmo aiutarti» cercai di fargli capire, preoccupata «E' stato lui? Lui ti ha ucciso e ha lanciato quel maleficio a quella povera gente?»
Sam guardò la porta alle sue spalle. La paura divenne sgomento.
«Loro mi stanno cercando. Sanno che tu e Zane siete qui. Dovete andarvene!»
«Loro chi? Aspetta!»
All'improvviso la luce svanì assieme al piccolo spettro.
Mi ritrovai a sedere su un materasso impolverato e la stanza era satura di un tanfo acido e stomachevole. 
Mi voltai distrattamente alle mie spalle e lo spavento mi fece balzare per aria.
Il corpo di Sam, ormai ridotto ad un cumulo di ossa, riposava il sonno eterno fra le coperte logore e i guanciali intrisi di sangue di quel baldacchino.
Mi portai una mano alla bocca e questa volta non frenai le lacrime.
«Lucille.»
Zane spalancò la porta all'improvviso. Guardò me poi il  piccolo scheletro.
«Lo ha ucciso Buvier. È stato lui.» Singhiozzai.
Zane mi raggiunse e le sue braccia mi avvolsero le spalle. Poggiò il mento sulla mia testa e mi accarezzò le braccia.
«Lo fermeremo.»




Nota: il capitolo è stato scritto e pubblicato in direttissima, perciò per eventuali errori chiedo scusa. Buona lettura.

 

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