Bounty Killers Chronicles - Rising

di Cassidy_Redwyne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

“Here we go again
I will not give in
I’ve got a reason to fight
Every day we choose
We might win or lose
This is a dangerous life”
 

Nell’aria della foresta, silenziosa fino a pochi attimi prima, si udì improvvisamente uno stridere di lame, il cui eco fece volare via gli uccelli appollaiati sui rami degli alberi. Erano loro gli unici spettatori dei frequenti combattimenti che prendevano luogo in quella splendida radura, la quale, per l’occasione, diventava un vero e proprio campo di battaglia.

«Sei stanca?» domandò Riadh con un sorrisetto.

Dawn ricambiò senza esitazione lo sguardo del suo maestro, che stava bloccando il colpo della sua lancia a due lame.

«Assolutamente no!»

Riadh la osservò controllare lo spazio intorno a lei con un rapido sguardo, come le aveva insegnato, e trarre le sue conclusioni. Aveva poche chances di passare il turno.

Dawn riuscì a spingere verso l’alto la sua spada e, con uno scatto fulmineo, arretrò di qualche passo, ma non aveva più abbastanza spazio per muoversi.

Quella volta fu lui ad attaccare, affondando pesantemente la sua arma su di lei, e la cacciatrice dovette prepararsi per la difesa. Ancora una volta si ritrovarono con le armi incrociate, come abbracciate in una danza mortale.

«Dawn, non sono io a guidare, sei tu» la incitò Riadh, che voleva spingere al massimo le potenzialità della sua giovane allieva.

Continuava a ripeterle che, come nella danza, anche nel combattimento c’era chi guidava e chi seguiva. Se fosse riuscita a guidare, avrebbe vinto, ma era più facile a dirsi che a farsi.

Lei non disse nulla. Saltando, sferrò un calcio nel fianco destro del suo maestro, che rotolò agilmente sul terreno per poi rialzarsi subito da terra, pronto come non mai ad un nuovo attacco.

Senza mai interrompere il contatto visivo, cominciarono a girarsi intorno, mantenendo sempre qualche metro di distanza, come due tigri che si studiavano prima di attaccarsi.

Riadh le puntò contro la spada. «Non devi temere il giro delle lame della tua lancia. Ricorda che è una tua alleata.»

Dawn annuì e Riadh si accorse che, malgrado l’ostinazione, la ragazzina iniziava ad avere il fiatone. La resistenza poteva sempre fare la differenza, ma era una qualità che doveva ancora sviluppare. I combattimenti che duravano a lungo come quello finivano sempre per sfiancarla, ma migliorava giorno dopo giorno.

Dawn cominciò a girare la lancia tra le mani come lui le aveva detto, formando un cerchio perfetto nell’aria. La tensione aumentò, la paura che una di quelle lame potesse tagliarle un arto era sempre di più, così forte che Riadh poteva percepirla, ma era certo che Dawn avrebbe corso il rischio.

Corse verso di lui e tentò di infierire, ma Riadh schivò il colpo con un salto. Mentre atterrava, lui le tirò un calcio in pieno viso e la fece cadere per terra. Scansò via la lancia a due lame e le rivolse la punta della spada.

«Vedo che abbiamo un vincitore.»

Ripose l’arma nella fodera e aiutò la ragazza ad alzarsi, porgendole una mano. Vide che gli occhi di Dawn erano lo specchio dell’insoddisfazione e le circondò le spalle con un braccio, in un improvviso moto di tenerezza.

«Via quel muso lungo, avanti! Hai fatto dei progressi enormi.»

«Ma non riesco ancora a batterti» ammise amaramente la ragazza, che Riadh sapeva ormai essere un’orgogliosa di prima categoria.

Lui si passò una mano tra i folti capelli corvini e fece un sorriso vanesio. «Questo non succederà mai, tesoro.»

Lei gli rifilò un pugno nello stomaco, che lo fece pentire immediatamente di aver pronunciato quelle parole. «Idiota.»

«È la verità» continuò il suo capo, massaggiandosi il punto in cui lei l’aveva colpito. «Ci sono persone che non potrai mai battere, per volontà o per mancanza di forza. Prima te lo metterai in testa, e meglio sarà. Dannata orgogliosa.» Sogghignando, aggiunse: «Un’altra cosa che hai in comune con Zoro.»

Dawn non condivideva né l’una né l’altra affermazione ed espresse tutto il suo disaccordo con svariati improperi. Raccolse la sua lancia, la infilò nella sacca che portava a tracolla, dietro le spalle, e poi si affrettò a raggiungere il ragazzo, che la stava aspettando appoggiato ad un albero.

«Con le pistole come ti trovi?» le chiese lui.

Gli occhi della ragazza si illuminarono.

«È come se fossero l’estensione del mio braccio» disse, mentre ne estraeva una dalla fodera che aveva al fianco.

«Bene» disse Riadh, soddisfatto. «Fai in modo di far diventare parte di te anche la lancia, intesi?»

Dawn annuì con slancio, e si avviò insieme al suo capo fuori dalla radura degli allenamenti.

Era ormai pomeriggio inoltrato e la foresta concedeva loro uno spettacolo fantastico, donando colori vivi ed un alto contrasto tra luci ed ombre alla fitta vegetazione.

«Non mi hai ancora assegnato una missione, oggi» fece notare la ragazza al suo maestro.

Lui scansò una frasca che intralciava il loro cammino. «Alla Marina è stata appena segnalata la presenza di un pirata a largo da qui. È tuo compito fare in modo che non raggiunga nessuna delle isole circostanti. Adesso ti faccio vedere sulla cartina dove si dovrebbe trovare.»

La aprì con accuratezza e la mostrò a Dawn, indicandole un tratto di mare ben preciso. Era conosciuto anche come la Rotta dei Delfini, dato che, in un certo periodo dell’anno, passavano di lì in grandi quantità.

«Perfetto» disse la ragazza, poggiando le mani sui fianchi. «Spero proprio che valga almeno cinque milioni di berry. Ho voglia di guadagnare, stavolta!»

Riadh si riscosse. «Ah dimenticavo, non andrai da sola.»

Dawn lo guardò storto. «Credi che non ce la possa fare? Ti ricordo che non sono più una novellina.»

Riadh dovette ammettere che aveva ragione. Erano mesi ormai che lavorava nella Gilda e non aveva mai fallito una missione, sia in coppia che da sola. Ricordava lo stupore di tutti, quando era tornata a Sheltz Town sopra al peschereccio sgangherato, ricoperto da una dozzina di pirati catturati soltanto da lei. Quell’avvenimento gli aveva fatto capire la vera determinazione che animava la ragazza.

«Lo so Dawn, ma Morgan non mi ha detto molto su questo pirata, e non voglio correre il rischio di perdere la mia più giovane e promettente cacciatrice di taglie.»

Dawn si sentì stringere dalle braccia forti di Riadh e, se prima stava quasi arrossendo per le lusinghe, in quel momento stava per dare di matto. «E lasciami! Non sei mio padre!»

«Ma è come se lo fossi!»

«No!»

«Va bene, va bene» disse lui, imbronciato, lasciandola andare.

Quando finalmente uscirono dalla foresta, vennero illuminati in volto dalla luce calda del tardo sole pomeridiano. Il profilo dell’enorme casa di Riadh svettava oltre le cime degli alberi, come fosse in punta di piedi per sbirciare al di là del bosco.

«Chi verrà con me?» chiese Dawn.

Lui fece un sorriso sornione. «Zoro.»

Lei si inviperì. «Perché lo metti sempre in coppia con me?!»

Riadh fece una breve pausa ad effetto. «Perché siete bellissimi insieme, ovvio.»

Dawn lo colpì in faccia con tutta la forza che aveva.

«Non ricominciare con questa storia!» lo minacciò, rimanendo in posizione d’attacco, pronta a colpirlo di nuovo.

Riadh si asciugò un rivoletto di sangue che gli fuoriusciva dal labbro spaccato. «Va bene, va bene. Però devi ammettere che ho ragione.»

Dawn serrò i pugni per la rabbia e gli voltò le spalle.

«Sei un idiota!» fu l’ultima cosa che gli urlò, mentre se ne andava via a grandi passi.

 

Dawn era veramente stufa delle battutine che avevano iniziato a fare nella Gilda.

Solo accostare il suo nome a quello di Roronoa Zoro le dava la nausea. Era logico, quindi, che non riuscisse a sopportare tutte le storie fantasiose ricamate sulle loro frequenti missioni. Ormai erano mesi che Johnny e Yosaku continuavano a prenderla in giro, ma la verità era che Dawn odiava e ammirava Zoro al tempo stesso.

Mentre percorreva la strada sterrata che portava al porto di Sheltz Town, vide in lontananza due figure che riconobbe subito: erano proprio Johnny e Yosaku, che si avvicinavano raggianti.

Quando si sentì chiamare a gran voce dai due cacciatori di taglie, sbuffò innervosita. Li vide ridacchiare e sussurrarsi qualcosa l’un l’altro e capì subito di cosa stessero parlando.

«Non fate commenti» intimò loro, una volta che li ebbe raggiunti.

«Ma come, non sei contenta di avere un po’ di tempo per stare con Zoro?» le chiese Yosaku con uno sguardo ammiccante, dandole di gomito.

Dawn cercò di trattenersi dal prenderli a colpi e sospirò. «È il mio vicino di stanza, insieme a voi due cretini, per cui l’ho visto anche fin troppo.»

«Non provare a negarlo» disse Johnny. «Abbiamo visto come lo guardi ogni volta che scende per prendere qualcosa da bere da Alma.»

La ragazza arrossì di rabbia. «Io non lo guardo in nessun modo, chiaro?! Smettetela di ridere!»

«Sei tenera pure quando ti arrabbi!»

L’affermazione di Yosaku fu la goccia che fece traboccare il vaso. Dawn odiava sentirsi trattare come una bambina e nulla le impedì di atterrare il compagno con un calcio ben assestato.

«Prova a dire di nuovo che sono tenera e ti faccio saltare le cervella!»

Johnny accorse subito in aiuto dell’amico. «Avanti, lo sai che Yosaku scherza, non devi essere così macabra. Siamo tuoi compagni, dopotutto.»

Dawn riprese la strada verso Sheltz Town, dando loro le spalle. «Non è una motivazione valida per non farvi fuori.»

 

Quel pomeriggio il porto era stranamente calmo, e il mare liscio come l’olio. Qua e là, qualche vecchio pescatore si dedicava alla propria mansione, gli occhi sognanti fissi sull’oceano.

Zoro l’attendeva sul vecchio peschereccio. L’uomo inspirò appieno l’aria salmastra e guardò ogni singola barca ormeggiata al molo del piccolo porto che, placida, si faceva cullare dalle leggere onde del mare. Sì, pensò, il tempo era dalla loro parte.

«Non vi divertite troppo» si raccomandò Johnny, mentre guardava Dawn raggiungerlo sulla barca.

Zoro ridacchiò, mentre Dawn si voltò e alzò il dito medio verso di loro, senza dire una parola.

Lo spadaccino accese il motore del peschereccio e attese che la ragazza si mettesse al timone per manovrarla. Ormai era abituato a lavorare con Dawn e aveva capito che, se c’era lei sulla nave, ognuno doveva ricoprire esclusivamente i propri ruoli. E lei, cascasse il mondo, doveva stare al timone.

Zoro si affacciò al parapetto, una leggera brezza che gli scompigliava i corti capelli verdi, gli occhi fissi sul porto di Sheltz Town che si faceva sempre più piccolo. Dietro di lui, Dawn teneva decisa il timone di legno grezzo tra le mani, sicura della direzione da prendere. Era rassicurante che almeno uno dei due sapesse dove stavano andando.

«Non c’è proprio verso di toglierti dai piedi, eh?» commentò lui, voltandosi.

Si recò nella cabina e portò sul ponte il necessario per la missione. Sbuffando per la fatica, abbassò gli occhi sullo scatolone, pieno di coltelli e armi da fuoco che, ovviamente, appartenevano tutti alla cacciatrice.

Dawn lo guardò storto. «Guarda che non provo alcun piacere nel lavorare con te. È quell’idiota di Riadh che continua a metterci insieme.»

«Sarà...»

Lo spadaccino lasciò in sospeso la frase mentre, come suo solito, si sdraiava sul ponte con la schiena appoggiata al bordo della barca. «Comunque ho intenzione di catturarlo io, il pirata, quindi puoi anche rilassarti.»

«Scordatelo» s’intromise subito la ragazza. «Il merito andrà a me, stavolta. In tutte le missioni che abbiamo fatto, hai sempre ricevuto tutte le lodi anche quando non le meritavi, dato che sei un pallone gonfiato.»

Lo spadaccino alzò gli occhi al cielo e non ribatté. Il silenzio si fece ben presto padrone del peschereccio, che era l’unico ad interromperlo con il suo rombare e i suoi scoppiettii non troppo rassicuranti.

In un paio d’ore raggiunsero il famoso tratto. Quel giorno non era animato da nessun delfino, ma ancora qualche mese e sarebbero arrivati ad animare l’oceano.

Zoro si alzò e andò a prua, affacciandosi sul mare, lo sguardo fisso sull’orizzonte. Non c’era nulla.

Si schermò gli occhi con una mano per contrastare l’intensa luce del tramonto e guardò di nuovo. No, ecco, c’era qualcosa, stagliato contro l’orizzonte. Pareva il profilo di una barca di piccole dimensioni, una scialuppa, ma era come rivestita da uno strato semitrasparente.

Non può essere.

Doveva trattarsi del riflesso del sole, non c’era altra spiegazione.

«Dov’è il binocolo?» domandò, voltandosi verso Dawn.

«Hai visto qualcosa?» gli chiese lei.

Lui scosse la testa. «Non ne sono sicuro, devo controllare.»

«Il binocolo è nella cabina, attento a non perderti» lo schernì lei, facendolo sbuffare scocciato.

Lo spadaccino tornò dopo un momento con il fantomatico oggetto in mano, si sporse nuovamente a prua e, inforcato il binocolo, guardò dritto di fronte a sé.

Per poco lo strumento non gli cadde fuoribordo. Non era affatto il riflesso del sole.

«Cosa succede?» Dawn doveva aver notato la sua espressione sconcertata.

«C’è una barca di fronte a noi, ma... è dentro ad una bolla.»

Era consapevole dell’assurdità di ciò che aveva appena detto, e s’immaginò Dawn pensare che avesse definitivamente perso il lume della ragione. La ragazzina, nel frattempo, aveva bloccato il timone in quella direzione e si era avvicinata in fretta al compagno.

«Impossibile, da’ qua.»

Gli strappò il binocolo dalle mani e guardò anche lei nella stessa direzione.

«Cosa diavolo è quell’affare?»

Zoro incrociò le braccia e le rivolse uno sguardo di superiorità. «Visto, che ti dicevo?»

Ma la ragazzina non sembrava in vena di discutere. Sbatté il binocolo sul petto di Zoro e ritornò a grandi passi al timone. «Non ha importanza, basta che sia facile da rompere e che non ci dia problemi.»

Man mano che si avvicinavano, il profilo della barca si fece sempre più chiaro, così come la bolla sferica che l’avvolgeva.

«Sicura che sia quella?» chiese Zoro, dubbioso, quando ormai furono abbastanza vicini da riuscire a scorgere una figura ai remi.

Dawn si diede una manata in fronte. «Ci hanno detto che c’è una barca in questo tratto di mare, per caso ne vedi altre, oltre a quella? Idiota!»

Zoro le lanciò un’occhiataccia, poi si affrettò a sguainare le sue tre spade, mentre Dawn sistemava velocemente i coltelli e caricava le due pistole, infilando altre munizioni nelle tasche dei pantaloni.

Il peschereccio ormai era così vicino da attirare l’attenzione dell’uomo, un giovane dalla pelle scura e dalla corporatura robusta che, vista l’espressione distesa e tranquilla, pareva li stesse aspettando. Aveva già messo la mano sull’elsa della spada che portava fieramente a fianco e Zoro lanciò un’occhiata a Dawn per metterla in guardia. Poi, senza temere lo strano strato che ricopriva la nave, saltò sulla scialuppa.

Come per magia, si ritrovò all’interno della bolla senza averla rotta e, neanche il tempo di dire una parola, che si ritrovò minacciato dalla sua lama.

«Si può sapere che vuoi, stronzo?» chiese il ragazzo che, con la mano lasciata libera dalla spada, aveva estratto anche una pistola dalla fodera.

Zoro gli lanciò una breve occhiata. La pelle scura di lui sembrava quasi brillare sotto la luce del sole cocente, i muscoli contratti pronti a scattare in qualsiasi istante.

«Che accoglienza» commentò, ghignando. «Ma dopotutto i pirati non sono famosi per la loro educazione.»

Si mosse all’improvviso e il pirata sparò un colpo, ma la sua traiettoria venne bloccata dai due pugnali di Dawn, che nel frattempo era saltata a sua volta sulla scialuppa, la quale ondeggiò pericolosamente sotto il loro peso, la bolla che seguiva i rollii come se fosse stata parte integrante dell’imbarcazione.

La ragazzina scartò di lato, evitando per un soffio un altro colpo dell’uomo, poi rotolò a terra e gli lanciò dei coltelli, che vennero abilmente parati, mentre la barchetta oscillava come fosse stata in mezzo ad una tempesta.

Il ragazzo aveva riposto in fretta e furia la pistola ed aveva afferrato la sciabola con entrambe le mani per rispondere agli attacchi delle tre spade di Zoro. Mentre si difendeva dai fendenti del cacciatore, il pirata intercettò in un attimo i coltelli di Dawn ed invertì la loro traiettoria con la sciabola.

Dawn era a bocca aperta e Zoro dovette trattenersi per non scoppiare a ridere, vista la teatrale delusione comparsa negli occhi di lei.

«Non hai idea di chi stai sfidando, ragazzina» ghignò lui, che doveva aver notato la stessa cosa.

Dawn serrò i pugni. «Neanche tu, stronzo!»

Si gettò su di lui, che in un lampo estrasse la pistola e fece fuoco su di lei, la quale schivò i proiettili per un soffio. Nello stesso istante, il pirata parò un fendente di Zoro con la sciabola.

Zoro schivò a sua volta un proiettile del pirata e fendette l’aria con le sue spade, riuscendo a colpirgli superficialmente le braccia. Eppure, non era soddisfatto. Non riusciva a far cadere la sua difesa impenetrabile e a danneggiarlo seriamente come avrebbe voluto.

È forte.

«Qual è il tuo nome, pirata?»

Il ragazzo ripose velocemente la pistola ed estrasse la sciabola. Un sorriso di sfida apparve sul suo volto.

«Khalasar D. Thalef» disse fieramente.

«Bene, mi piace sapere chi sto per battere.»

Thalef strinse l’elsa della spada e si avventò contro lo spadaccino, che respinse la sua lama, mentre Dawn lo tempestava di pugnalate alla schiena che, però, non sembravano sortire alcun effetto. Il ragazzo tornò ad attaccare, ancora ed ancora, mentre il cacciatore continuava a parare. Se non altro, si stava facendo molto avventato e Zoro poteva finalmente sfruttarlo a suo favore.

Con un paio di colpi, riuscì a disarmare Thalef della sua sciabola e ad atterrarlo, impedendogli di sferrare colpi con la pistola. Adesso lo sovrastava, minacciandogli il collo con le lame delle sue spade. Ciononostante, gli leggeva negli occhi una sicurezza disarmante, come se fosse stato Zoro quello a terra con una lama puntata alla gola, e non lui.

Prima che riuscisse a realizzarlo, Thalef si gettò su un lato della barca, incurante del taglio che la lama di Zoro gli disegnò sul volto. La barchetta s’inclinò, facendogli perdere l’equilibrio, e il pirata ne approfittò per tirarsi in piedi e spingerlo contro la prua dell’imbarcazione, che gli arrivò dritta nello stomaco.

Zoro urlò di dolore, e per poco la spada che teneva fra i denti non gli cadde in acqua. Voltandosi, vide che Thalef stava affrontando Dawn, che appariva poco più di una nana in confronto a quell’imponente pirata, il cui volto aveva preso a sanguinare copiosamente.

Lei scattò in avanti per colpirlo, ma lui le rifilò un calcio in pieno viso e la fece cadere a terra. Lei sfilò prontamente i suoi coltelli e riuscì a parare appena in tempo la spada di lui, che si avvicinava pericolosamente al suo collo. Zoro era già sul punto di intervenire, ma vide che Dawn se la stava sbrigando da sé. Dopo aver sferrato un calcio dritto nelle parti basse di Thalef, era scattata in piedi, approfittando dell’attimo in cui il pirata aveva allentato la presa su di lei.

«Avanti, Roronoa» disse lei, raggiungendo il compagno con un balzo. «Catturiamo questo stronzo.»

Quando entrambi gli furono addosso, Zoro già si immaginava il termine della missione. Sarebbero tornati vittoriosi a Sheltz Town, avrebbero riscosso la taglia del pirata e quella sera avrebbero festeggiato ubriacandosi da Alma.

Poi Thalef colpì con la sua testa quella di Dawn, che cadde lunga distesa accanto a lui, e quel gesto lo riportò bruscamente alla realtà. Una realtà in cui le cose si stavano mettendo peggio del previsto.

«Tutto bene?» le domandò Zoro, abbassando un attimo lo sguardo prima di tornare ad attaccare il pirata.

«Sì!» Lei si asciugò un rivoletto di sangue dalla tempia con il dorso della mano e tornò all’attacco.

Thalef, nel frattempo, si era spostato indietro sulla scialuppa, allontanandosi dai due cacciatori per guadagnare spazio. Zoro sentiva lo sguardo di Dawn fisso su di sé, come quando la ragazza aveva in mente una delle sue idee folli, il che non significava niente di buono.

«Che hai intenzione di fare?»

«Non ti incazzare, per favore» fece Dawn per tutta risposta.

Indietreggiò anche lei sulla scialuppa, poi corse verso di lui e, una volta salita agilmente sulle sue spalle, si diede lo slancio coi piedi e saltò. La barchetta oscillò come una foglia al vento sotto di loro e i due pirati mulinarono le braccia, alla ricerca di un precario equilibrio.

Dawn voltò dritta contro Thalef, che la scaraventò in acqua con un pugno, oltre la bolla, ma lei riuscì a sparare una raffica di colpi prima che lui la colpisse.

Zoro sorrise tra sé e sé. Quei colpi a distanza ravvicinata erano andati a segno e, pur non avendolo colpito in alcun punto vitale, il pirata aveva le braccia coperte di sangue. Non sarebbe più riuscito a difendersi.

Zoro ne approfittò per scagliarsi contro di lui ma, contro ogni previsione, Thalef bloccò il suo affondo con la sciabola, come se non fosse stato appena impallinato. Il fuoco si agitava nel suo sguardo. Sembrava che quei colpi l’avessero acceso, invece di averlo ferito.

In mezzo al clangore delle spade che si infrangevano l’una contro l’altra, Zoro udì indistintamente uno sciabordio d’acqua e poi vide la chioma bruna di Dawn spuntare in superficie, mentre si issava a bordo.

«Dawn, attenta!»

Il suo urlo non bastò ad avvertirla. Thalef si era lasciato ferire il braccio da lui per poter estrarre la pistola. Tre proiettili colpirono di striscio il braccio di Dawn, che urlò di dolore.

«Fottuto stronzo!»

Zoro si voltò verso la compagna e, approfittando della sua distrazione, Thalef lo colpì al petto con la sciabola. Zoro trattenne un gemito di dolore. Non si guardò neanche la ferita, ma sapeva che l’aveva trafitto in profondità.

Dawn, tornata a fatica sulla scialuppa, alzò la pistola con il braccio sano e sparò a raffica. Ma, proprio come all’inizio, Thalef riuscì a parare i suoi colpi e al contempo a difendersi dai fendenti delle tre spade di Zoro, per nulla rallentato dalle ferite procurategli prima da Dawn. Sembrava non averne mai abbastanza.

Penetrando la sua difesa, Thalef lo colpì di nuovo con la sciabola nello stesso punto. Zoro gridò, sputando sangue, e si sentì spingere a terra dal pirata senza che lui riuscisse ad opporsi.

Zoro si tastò la ferita e la sentì viscida di sangue, ma strinse i denti e cercò di rimettersi in piedi, la barca che ondeggiava sotto di lui. Non poteva lasciare da sola la mocciosa.

Thalef le si stava avvicinando con fare minaccioso e Dawn fece per sparare un altro colpo, ma il pirata fu più veloce. Un proiettile le colpì il braccio già ferito e, urlando di dolore, la ragazzina fu costretta ad abbandonare la pistola. Un altro colpo e si trovò inginocchiata a terra.

Il cuore di Zoro gli rimbombava nelle orecchie, gli occhi fissi su Dawn, che si stringeva il braccio ferito per tentare di bloccare l’emorragia, e non perdeva di vista la sciabola del ragazzo. Forse pensava di schivarla rotolando, ma non ce l’avrebbe mai fatta.

«È arrivata la tua ora, bastarda!»

La sciabola di Thalef calò su di lei e Zoro non ci pensò due volte. Semplicemente, agì.

Fu un attimo.

Qualcosa si frappose tra Dawn e la lama del pirata. Un corpo. Il suo.

Il silenziò piombò nella scialuppa, il tempo sembrò fermarsi per un istante.

Zoro percepì la lama trapassarlo da parte a parte, il dolore che lo raggiungeva in ogni parte del corpo. Abbassò gli occhi sulla punta della sciabola lurida di sangue, il suo sangue, e pensò di aver fatto la cosa giusta. Fu l’ultima cosa a cui pensò.

Da qualche parte, molto lontano, la voce di Dawn. «Zoro...»

Chiuse gli occhi e cadde a peso morto sul pavimento ligneo della scialuppa, il sangue che si allargava in una pozza sotto di lui.

«ZORO

Da lì in poi, i ricordi si fecero parecchio confusi.

Udì, sempre da molto lontano, rumore di spari, grida di terrore, percepì qualcuno tastargli il petto, assicurarsi che respirasse ancora, ed infine si sentì sollevare a fatica. Non riusciva ad aprire gli occhi, il dolore lo stordiva, il mondo scorreva troppo veloce intorno a lui. Poi qualcosa lo riportò alla realtà dal torpore in cui era caduto.

L’inconfondibile e scoppiettante rumore del motore del peschereccio sgangherato.

Aprì lentamente gli occhi. Il sole, malgrado stesse ormai calando sul mare, era fin troppo luminoso per lui e fu costretto a richiuderli di scatto.

Si rese conto di essere seduto, la schiena contro il parapetto della barca. Quando aprì di nuovo gli occhi e riuscì faticosamente a mettere a fuoco, vide che Dawn era inginocchiata vicino a lui, lo sguardo pieno di terrore. Non ricordava d’averla mai vista così.

«Sei proprio un idiota» gli disse, guardandolo storto.

Ora sì che ti riconosco, ragazzina.

«Perché l’hai fatto?» gli chiese.

Zoro si accorse che la voce di lei voleva essere forte e decisa come suo solito, ma non riusciva a nascondere il terrore che doveva stare provando. Le mani le tremavano febbrilmente, mentre si strappava un lembo della sua canottiera, rimanendo con la pancia scoperta. Fasciò la sua ferita e quella del suo compagno alla bell’e meglio, stringendola per non far uscire ulteriore sangue.

«Ho dovuto» riuscì a rispondere lui, con un filo di voce.

In un altro momento avrebbe rifiutato le cure mediche improvvisate della ragazza, anche perché le fasciature non facevano altro che rallentarlo, ma non aveva la forza di controbattere.

«Cerchi sempre di fare l’eroe» lo rimproverò lei, mentre tentava di tamponargli la ferita.

Zoro trattenne una smorfia di dolore. «Il pirata dov’è?»

Lei non rispose subito.

«Ci sta inseguendo» disse infine, incrociando il suo sguardo, in cui lui scorse un’indicibile paura.

Zoro sospirò, lo sguardo fisso sul ponte. Ora sì che erano nella merda.

Dawn l’aveva lasciato un momento per affacciarsi fuoribordo e Zoro, malgrado la vista appannata, la vide estrarre le pistole. Thalef doveva essere a tiro. Abbassandosi per essere riparata da peschereccio, sparò tutti i proiettili che le rimanevano. La risposta di lui non tardò ad arrivare, ma fortunatamente non colpì nessuno dei due.

Dawn ritornò in fretta e furia da Zoro. Trovandolo sempre sveglio, un sorriso le sfuggì dalle labbra.

«Se non altro, ogni tanto la tua testardaggine serve a qualcosa» borbottò, il sollievo che trapelava dalla sua voce.

Zoro voltò a fatica la testa verso la cabina.

«C’è il pilota automatico?» domandò con voce flebile.

Sentiva il sapore metallico del sangue sulla lingua e si asciugò un rivolo che gli stava colando lungo il labbro, maledicendo quello stronzo di un pirata e il punto in cui l’aveva colpito.

«Sì» rispose Dawn, per poi trarre un lungo sospiro. «Ma il peschereccio non viaggia più veloce di così.»

Non ci fu bisogno di aggiungere che, se avessero continuato a quell’andatura, il pirata li avrebbe ben presto raggiunti. Lo sguardo di Dawn correva da Zoro al punto in cui doveva trovarsi Thalef, e il ragazzo le lesse il panico nello sguardo. Era stremata dalla fatica, e non aveva la più pallida idea di cosa fare.

«Non ce la farai da sola. Sei ferita» sputò fuori lui insieme al sangue.

«Grazie per l’incoraggiamento, Roronoa.»

Sapeva che a Dawn faceva rabbia ammettere di non essere abbastanza forte, perché capiva quella sensazione, e sapeva anche che non avrebbe mai acconsentito, ma lui tentò comunque.

«Chiama Riadh.»

Due semplici parole che corrispondevano ad un gesto altrettanto semplice, ma non per Dawn. Sapeva che, anche in quella situazione di disperazione, quella ragazzina cocciuta non aveva perso il suo orgoglio e non avrebbe mai chiamato il suo capo.

Dawn scosse la testa con decisione. «Assolutamente no.»

«Dawn, fa’ come ti dico!» sbuffò Zoro, trattenendo una smorfia. «Pensi che mi faccia piacere ricorrere al suo aiuto? Ma è tutto quel che possiamo fare, adesso.»

La cacciatrice si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per il peschereccio, bloccandosi di tanto in tanto per controllare se Thalef li stesse raggiungendo. Era visibilmente nervosa. All’improvviso si arrestò in mezzo al ponte, come avesse avuto un’illuminazione.

«Johnny e Yosaku!»

La ragazzina corse in cabina a prendere il lumacofono e Zoro ne approfittò per alzarsi. Qualcuno doveva rimanere di guardia. Cercò di rimettersi in piedi, appoggiandosi al parapetto, ma cazzo, era più difficile del previsto.

Appena Dawn fu di ritorno ed ebbe intercettato le sue intenzioni, accorse da lui. «Zoro, rimettiti giù!»

Zoro digrignò i denti. «Sto bene, è solo una ferita, niente di…»

Dawn lo prese per le spalle e lo mise a sedere, stranamente senza discutere, poi compose il numero sul lumacofono e attese, tamburellando con le dita sul bordo dell’imbarcazione.

Non riusciva a non guardare Zoro, e lui se n’era accorto. Continuava ad intercettare il suo sguardo ma, ogni volta che i loro occhi si incrociavano, non riusciva a mantenere il contatto visivo per più di una manciata di secondi. Zoro sapeva che si sentiva in colpa per aver lasciato che lui si facesse trafiggere al posto suo.

«Dawn, perché ci hai chiamati?»

La voce di Johnny risuonò chiara ad entrambi, tanto era squillante.

Zoro udì Dawn tirare un sospiro di sollievo. «Ragazzi, dovete venire subito alla Rotta dei Delfini.»

«Non adesso, Dawn. Siamo a largo di April Island e stiamo tornando a Sheltz Town.»

Zoro fece mente locale su dove fosse April Island. Non molto lontano da lì ma, conoscendo la pigrizia dei due pirati, in un momento normale non li avrebbero mai raggiunti.

«Forse non mi sono spiegata. Zoro è...» La sentì esitare. «è stato ferito.»

«COSA?!» La voce di Johnny rimbombò nell’apparecchio. «Come sta? È in grado di combattere?»

Le domande arrivavano una dopo l’altra in una cacofonia di voci spaventate.

«Vi prego... venite più in fretta che potete.»

Ci fu un attimo di silenzio. Zoro guardò Dawn, continuando a stringersi la ferita con la mano, la fasciatura improvvisata zuppa di sangue. La ragazzina evitava il suo sguardo. Si doveva essere accorta di aver pronunciato quella frase con un tono alterato che mal si addiceva alla sua fama di orgogliosa killer senza cuore.

«Arriviamo subito.»

Dawn chiuse la comunicazione e corse a riporre il lumacofono nella cabina.

«Vado a cercare delle bende!» annunciò poi, scomparendo all’interno dell’abitacolo.

Zoro sbuffò. Dannata ragazzina. Faceva tanto la gradassa, ma continuava a compiere errori da principiante. Ne aveva di cose da imparare. Si era già dimenticata di Thalef?

Si tirò su con un gemito, individuò le sue tre spade a prua e zoppicò fino a lì per prenderle.

«Non sei ancora morto, vedo.»

Zoro si voltò, in posizione d’attacco, cercando d’ignorare il dolore martellante che gli si propagava in ogni fibra del corpo.

Thalef incombeva su di lui, la sciabola in pugno, un sorriso omicida sulle labbra.

S’incontrarono a metà del ponte e lì incrociarono le lame. Malgrado le ferite, il fiato mozzo e il sangue che cadeva a piccole gocce sulle assi di legno, Zoro non arretrò d’un passo. La sua fine non sarebbe stata di certo lì. Aveva un bel po’ di cose da fare, prima di crepare.

«Prova di nuovo a toccarlo e giuro che ti faccio saltare quella cazzo di testa!»

Dawn era riemersa dal ponte, con delle garze fra le braccia. Le buttò a terra, caricò con le ultime munizioni entrambe le sue pistole e si avventò su di lui.

Thalef si liberò di Zoro con un poderoso calcio in mezzo al petto, infierendo sulle sue ferite e, dopo averlo lasciato esanime sul ponte, si voltò per dedicarsi a Dawn.

Zoro boccheggiò. Gli mancava l'aria. Voltandosi, vide confusamente Dawn saltare addosso a Thalef, facendolo cadere sulla schiena, puntargli una pistola addosso e premere il grilletto. Lui non si fece problemi a perdere quasi una mano nel tentativo di cambiare la traiettoria della sua canna, ma quella mossa destabilizzò la ragazzina, facendola tentennare per un attimo.

Bastò un secondo ed era stata disarmata ed atterrata a sua volta.

Zoro scosse appena la testa, mentre si rialzava in piedi a fatica. Quello era uno dei tanti problemi di Dawn. Dava sempre per scontato di essere la più forte, e ci rimaneva di sasso ogni volta che qualcuno le dimostrava che non era così. Lei e quella sua dannata spocchia l’avrebbero fatta ammazzare, un giorno o l’altro.

«Pensavo fossi più sveglia, piccola cacciatrice. Dovresti aver capito da un pezzo che non sono come i vostri piratucoli del Mare Orientale» rise Thalef, avvicinandosi al suo volto.

Lei si accasciò a terra, senza fiato, e lui prese a tempestarle di pugni il viso e il petto. Zoro non riuscì a sopportare la visione della propria compagna ridotta a quel modo un secondo di più. Recuperò le spade da terra e, ignorando la testa che gli doleva e la terra che ondeggiava sotto i suoi piedi, si avventò sul pirata.

«Chi cazzo sei?» tuonò, liberando Dawn dalla sua furia.

Durante il combattimento era stato ferito più e più volte, tra i suoi fendenti, le pugnalate di Dawn e le sue pallottole, ma combatteva ancora come se avesse appena iniziato, mentre loro arrancavano come privati delle loro forze. Non era come i pirati che aveva incontrato fino a quel momento, pensò. C’era qualcosa di diverso in lui.

«Te l’ho già detto» ghignò lui. «Il mio nome è Khalasar D. Thalef.»

Zoro si lanciò su di lui, ignorando le fitte al petto. «E perché cazzo sei qui? Chi ti manda?»

Sul volto di Thalef comparve un sorrisetto. «Il Babbo.»

Si avvicinò a lui e Zoro avvertì un giramento di testa, le ferite che gli bruciavano, il fiato che iniziava a mancargli. Dawn era ad un passo da loro, a terra, il volto tumefatto e le mani strette sul petto. Thalef doveva averle rotto qualche costola.

Con un guizzo, il pirata riuscì a disarmare Zoro della spada che teneva fra i denti e la usò per scagliarlo di nuovo sul ponte. Mentre lo prendeva a calci, lo spadaccino incrociò lo sguardo di Dawn, immobile accanto a lui, e poi le indicò con gli occhi le pistole che Thalef le aveva tolto, che giacevano a terra, poco lontano da lui.

Lei non se lo fece ripetere due volte. Scattò, cadde malamente sul ponte, riuscì ad afferrare le pistole ma, prima che riuscisse a sparare un solo colpo, ci furono degli spari in lontananza.

Thalef crollò in ginocchio davanti a Zoro, con un buco nella pancia.

Dopo un attimo di stordimento, anche Dawn fece fuoco sul pirata, che cadde lungo disteso sul ponte, in un lago di sangue.

Zoro si voltò e vide la barca di Johnny e Yosaku, il fumo che usciva dalle canne dei loro fucili. Appena furono più vicini, i due cacciatori di taglie abbordarono il peschereccio e saltarono sul ponte. Il pirata, che si stava già faticosamente alzando in piedi, sotto gli occhi esterrefatti di Zoro, venne immobilizzato. Nonostante continuasse a opporre resistenza, Johnny e Yosaku riuscirono ad ammanettarlo e a legarlo con delle corde.

Zoro e Dawn erano immobili a terra, con il fiato grosso.

Mentre Yosaku finiva di occuparsi del criminale, Zoro vide Johnny avvicinarsi a Dawn. La ragazzina era in stato di shock. Tremava come una foglia, gli occhi enormi di paura.

«Dawn, tutto bene?» le chiese. Poi si accorse del braccio. «Sei ferita!»

«Sto bene» tagliò corto lei, indicandolo con un cenno del capo. «Occupatevi di Zoro. Dobbiamo arrivare il prima possibile a Sheltz Town, altrimenti…» La sua voce tremò. «…morirà. Io devo... devo parlare con Riadh.»

Sotto gli occhi dei tre cacciatori, la ragazzina si afflosciò priva di sensi sul ponte del peschereccio.
 

***

 

Era al capezzale di Zoro, che giaceva immobile e privo di sensi, mentre Alma e il medico della cittadina tentavano di salvargli la vita, quando Dawn fece il suo ingresso nella stanza.

Riadh si voltò subito verso di lei e sospirò di sollievo, vedendo che la ragazza, al di là del braccio fasciato e il volto ammaccato, pareva stare bene. Il suo sguardo, però, era assente, fisso sulla sedia su cui erano ammucchiati le fasciature e gli utensili del dottore, tutti imbrattati del sangue dello spadaccino.

Stretti l’uno all’altro, Johnny e Yosaku si mantenevano lontani dal letto di Zoro, ma tenevano gli occhi fissi su di lui, e non sembravano neanche essersi accorti dell’improvvisa comparsa della ragazzina.

Riadh le andò incontro per abbracciarla. «Stai bene?»

Dawn non ricambiò l’abbraccio né considerò la domanda, ma lo scansò con freddezza e si diresse al capezzale del compagno ferito.

«Cosa sta succedendo?» chiese ad Alma.

Riadh si accorse che la voce le tremava.

«Quando Johnny e Yosaku vi hanno portano qui, tu eri sempre svenuta. Abbiamo dato la precedenza a Zoro, visto che nel tragitto aveva perso molto sangue, e poi io sono venuta da te» spiegò in fretta la locandiera, mentre passava le bende al dottore.

«Il pirata che fine ha fatto?»

«Lo abbiamo portato alla Marina» s’intromise Riadh, ancora stupito dalla reazione di Dawn. «Se si fosse risvegliato, non avremmo saputo come trattenerlo. Cosa vi è successo?»

Dawn lo ignorò nuovamente. Si inginocchiò davanti al letto di Zoro e gli strinse la mano. Il ragazzo non mosse un muscolo.

«Cos’è successo?» insistette Riadh.

Dawn fece di nuovo finta di non averlo sentito. Se ne stava immobile, china su Zoro, e aveva cominciato a tremare impercettibilmente, come se il dolore, o la rabbia, stessero covando sotto la superficie e fossero sul punto di traboccare all’esterno.

Yosaku parve accorgersi della tensione che andava creandosi e si affrettò a rispondere al posto suo. «Quel dannato pirata si è rivelato più forte del previsto, Riadh. Zoro è stato ferito, la situazione è degenerata, e Dawn ci ha chiamati.»

«Bene» disse lui, degnandolo a malapena di uno sguardo. «Ma volevo sentire la versione di Dawn.»

Le si fece più vicino, ma la ragazza continuò ad ignorarlo con ostinatezza. Non si girava nemmeno a guardarlo.

Alma si alzò e si diresse verso Riadh, stringendogli le braccia nel tentativo di calmarlo. Anche lei doveva aver intuito la tensione che stava crescendo tra i due.

«Per favore, Riadh. È ancora scossa dal combattimento, lascia che si riprenda.»

«Non metterti in mezzo, Alma» la interruppe lui, subito pentendosi di quel tono perentorio. «Non è lei quella stesa sul letto in fin di vita, quindi penso che possa rispondere ad una domanda.»

Il silenzio calò nella stanza.

Gli occhi di tutti i presenti si spostavano da Riadh a Dawn, sempre in ginocchio vicino al compagno.

Nessuno dei due voleva aprire bocca, e l’unico suono che spezzava quell’apparente quiete erano i flebili respiri di Zoro.

Riadh scansò Alma e si avvicinò. «Dawn, guardami.»

Lei non disse nulla, continuando a dargli le spalle.

«Guardami, ho detto.»

Solo in quel momento, finalmente, Dawn si alzò e si voltò verso di lui.

Aveva gli occhi pieni di lacrime, ma il resto del volto era rigido e freddo, senza traccia d’emozione.

Gli lanciò uno sguardo traboccante d’odio, poi attraversò la stanza a passo di carica e aprì la porta come se avesse voluto scardinarla.

«Vuoi parlare?» ringhiò. «Esci.»

Riadh si affrettò a seguirla fuori dalla stanza, lasciando i loro compagni stupefatti e un poco intimoriti.

Dawn si diresse a pianterreno, i passi pesanti che rimbombavano sulle scale, e Riadh la seguì senza dire una parola. Era strano vedere il Food Foo, di solito allegro e traboccante di vita, così vuoto, silenzioso e male illuminato. Le candele si stavano già consumando, gettando nella penombra l’interno della locanda.

Quando furono giunti nella sala, tra le sedie e i tavoli vuoti, si fermarono. La cacciatrice incrociò le braccia sul petto e si voltò a guardarlo.

E Riadh realizzò che lei non l’aveva mai guardato così. Dentro a quegli occhi c’era una tempesta. Vi si agitavano confusamente rabbia, paura, delusione, dolore. Non c’era traccia dell’orgoglio e dell’affetto con cui lei era solita guardarlo.

Quello sguardo disperato gli scavò nel profondo, facendolo tentennare per un attimo e, prima che Riadh avesse il tempo di riprendersi, Dawn partì all’attacco.

«Vuoi sapere cosa è successo? Siamo andati a morire come due criminali al patibolo, ecco cos'è successo!»

Riadh trasse un lungo sospiro. «Sapevi fin dall’inizio quali fossero i rischi di questo lavoro ed hai accettato ugualmente di far parte della Gilda» disse poi, gli occhi fissi nei suoi, cercando di non lasciarsi scalfire dal suo dolore.

Dawn non disse nulla. Tremava dalla rabbia, gli occhi bassi e i pugni chiusi.

«Noi cacciatori di taglie abbiamo a che fare con la morte ogni dannatissimo giorno» proseguì Riadh imperterrito, «quindi non metterti a piagnucolare solo perché hai incontrato un pirata più forte di te.»

Dawn alzò di scatto la testa, come fosse stata schiaffeggiata, e si avvicinò a lui con fare minaccioso. «Qui non si tratta di me!» urlò, indicando con il braccio sano il piano di sopra. «Si tratta di Zoro, che è ridotto così per colpa tua! Quel pirata non era solo più forte di noi due, era più forte di qualsiasi altro pirata nel fottuto Mare Orientale!»

Riadh la fissò. «Stai dicendo che è colpa mia?»

Gli occhi di Dawn si strinsero. «Esatto.»

Riadh non credeva alle proprie orecchie. «È colpa mia se Zoro è quasi morto?»

La ragazza rise con amarezza. «L’hai capito, finalmente.»

Riadh si passò una mano sul volto, incredulo. «No» sussurrò, più a se stesso che a Dawn.

Lui e Zoro erano fratelli. Non c’era niente che non avrebbero fatto l’uno per l’altro, dopo tutto quello che era successo loro ai tempi del Paradiso. Lui aveva salvato Zoro, tanto tempo addietro, accogliendolo nella Gilda, permettendogli di seguire il suo sogno. Non l’avrebbe mai messo in pericolo. Mai.

Ricambiando lo sguardo di Dawn e la consapevolezza che vi era dietro, avvertì una strana sensazione alla bocca dello stomaco. D’un tratto non aveva più voglia di discutere con quella mocciosa.

«Quello che stai dicendo non ha senso, Dawn. Tagliamola qui.»

La liquidò così, dirigendosi verso le scale, con l’intenzione di tornare dagli altri e di non pensare più all’eventualità che lui avesse messo in pericolo la sua famiglia.

Dawn, però, non doveva essere dello stesso avviso. «Ah no, Riadh, non ho ancora finito.»

Riadh si sentì afferrare e strattonare per un braccio, e la ragazzina non lo mollò finché non fu tornato dov’era prima.

«Lasciami» le ordinò, in tono d’avvertimento.

«E invece no» ribatté lei con stizza. «Perché se sono io, a rimetterci durante una missione, tanto meglio, ma se è uno dei miei compagni non la passi liscia. Zoro ed io non sapevamo a cosa saremmo andati incontro.»

Quelle parole furono come uno schiaffo sul volto di Riadh. «E cos’avrei potuto fare io, Dawn?»

Non era con loro. Non era stato messo in guardia da Morgan. Non era stato avvertito dai suoi uomini.

«AVRESTI DOVUTO DIRCELO!» urlò lei. «Invece di riferirci che la Marina aveva avvistato un pirata qualsiasi nella fottuta Rotta dei Delfini. Grazie al cazzo, Riadh!»

«IO NON LO SAPEVO!»

Il silenziò piombò nella locanda. Dawn lo scrutò, gli occhi sgranati per la paura, ed indietreggiò di qualche passo. Sebbene lavorasse da poco nella Gilda, lo doveva sapere anche lei. Doveva sapere che lui non perdeva mai la calma. E non alzava mai la voce.

«Avresti dovuto saperlo» disse, dopo un momento, con voce bassa e tremante. «Sei il nostro capo, no? Dovrebbe essere il tuo lavoro. Non siamo degli schiavi pronti a sacrificarsi per te e per i tuoi soldi.»

Riadh alzò gli occhi, schiaffeggiato ancora una volta. «Pensi che non m’importi di voi? Come credi che abbia reagito quando Johnny e Yosaku sono tornati, uno che reggeva Zoro in fin di vita e l’altro te svenuta?»

«Non lo so» ammise Dawn, e per un attimo allentò le sue difese, e Riadh la vide per com’era davvero, nient’altro che una ragazzina spaventata che in poche ore aveva rischiato di perdere tutto quello che aveva costruito. Per colpa sua. «E non mi interessa» concluse, guardandolo con sfida, eretto di nuovo il suo muro.

Si allontanò da lui, per poi fermarsi davanti ad uno dei tavoli di legno della locanda. Si sfilò i guanti di pelle, che le erano rimasti dal combattimento, e ve li poggiò sopra.

«Che stai facendo?» chiese Riadh, anche se lo sapeva benissimo.

Dawn lo guardò. I suoi muri tremarono. «Nella mia vita ho già perso troppe persone a cui tenevo, Riadh. Non voglio più sentirmi in quel modo.»

Sfilò le sue due pistole dalla fodera e posò anche quelle sul tavolo.

Riadh sapeva cosa stava per fare, ma non la fermò.

Dawn si avviò all’uscita della locanda ed aprì la porta, facendo penetrare un refolo all’interno della sala che spense le poche candele rimaste accese.

«Perché non mi hai chiamato?» le chiese lui.

Lei si girò a guardarlo un’ultima volta. «Perché non volevo deluderti.»

Poi uscì e chiuse la porta.



NOTA: Gli OC protagonisti della storia saranno Riadh, Alma ed Aibell, che compare nel prossimo capitolo. Dawn, che serviva per introdurre la vicenda e la cattura di Thalef, rimarrà sullo sfondo (ma ci sarà, la amo troppo) perché non mi appartiene. È un personaggio creato dalla mia migliore amica, con cui ho ideato l’ambientazione di questa fanfiction e della sua (ci vogliono addirittura due cervelli per elaborare un’ambientazione così scialba e perlopiù in un universo già esistente, chiederete voi? Ebbene, se ve lo state chiedendo, avete ragione).

Non so cosa io stia facendo. Non lo so davvero. Probabilmente una cazzata. Però la faccio comunque.
Questa storia giace sul mio pc da qualcosa come sei anni. In questo momento ho quattro scadenze a fine Aprile e dovrei scrivere di TUTTO fuorché di fanfiction, ma l’ispirazione mi ha preso (stile “HO VISTO LA LUCE!” di Jake Blues) e siccome accade molto, molto di rado, l’ho sfruttata.
Non so se questa fanfiction attirerà la vostra attenzione, considerando quanto sia improbabile. È ambientata nella prima isola su cui Rufy capita (penso di averla scelta per essere un po’ “libera” con le ambientazioni, ma dico penso perché, in tutta onestà, non mi ricordo) ed è problematica sotto diversi punti di vista (che vi sciorinerò strada facendo). Allo stesso tempo, mi piaceva l’idea di parlare di coloro che nell’universo di Oda sono un po’ ignorati: i “normali”, i cacciatori di taglie, i brutti ceffi™, nonché del passato di Zoro come cacciatore di taglie e di un cattivo che secondo me aveva discrete potenzialità ma che è stato fatto fuori un po’ troppo presto da Rufy. Spero davvero che vogliate dare una chance a questa storia :*


Vi dico che non so cosa io stia facendo con cognizione di causa: avevo smesso di leggere One Piece dopo la mazzata morte di Ace + flashback del suo passato, portando amorevolmente il lutto per tutto questo tempo. Ho ricominciato a leggere il manga solo di recente, per poi bloccarmi di nuovo a causa di vari impegni™. Tutto questo preambolo per farvi capire la mia follia, il mio amore per Ace e il fatto che io sia molto, molto arrugginita. E tuttora affezionata a One Piece. Quindi, insomma, l’OOC è dietro l’angolo e sono pronta ad aggiungerlo nelle note, anche se farò di tutto (DI TUTTO!) per scongiurarlo.

Un bacio,


Cassidy.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


CAPITOLO I

“I was born without this fear
Now only this seems clear
I need to move, I need to fight
I need to lose myself tonight”


«Il solito?» domandò l’omaccione dietro al banco, urlando per riuscire a farsi sentire al di sopra del brusio.

«SÌ!» gridò Aibell in risposta.

Quella sera nel locale c’era un tale putiferio che a nulla erano valse le minacce del barista di cacciarli tutti fuori. Solo l’aver menzionato un ipotetico intervento della Marina aveva appena acquietato il cicaleccio degli avventori, che però non erano affatto intenzionati a zittirsi.

Il principale argomento delle loro conversazioni era uno solo: l’avvistamento di una famosa flotta pirata al largo dell’isola.

In una cittadina insignificante come quella, una notizia del genere aveva fatto subito scalpore. I cacciatori di taglie non si erano fatti pregare e, riuniti nelle bettole più malfamate della città, discutevano animatamente sulle imboscate che avrebbero potuto tendere ai membri del rinomato equipaggio, se mai si fossero di nuovo palesati, dato che, dopo quell’unico avvistamento, la ciurma sembrava scomparsa nel nulla.

Aibell, dal canto suo, poteva capirli. Le taglie che pendevano sulle teste di quei pirati erano da far girare la testa. Era certa che la maggior parte dei buzzurri presenti lì dentro non sapesse neanche leggere cifre contenenti tutti quegli zeri. Ma, nonostante quelle taglie la tentassero non poco, il motivo per cui lei quella sera si trovava nel locale era un altro. Stava cercando di informarsi.

Diffidente com’era di natura, non riusciva a gioire appieno di quella notizia senza pensare alle ragioni che potevano esservi dietro. C’era qualcosa sotto, ci avrebbe scommesso. Perché, altrimenti, una flotta di tale fama si sarebbe diretta proprio su un’isola come Sheltz Town? Insignificante come uno sputo nella vastità del Mare Orientale, invisibile alle richieste d’aiuto dei suoi cittadini, stanchi tanto dei numerosi malfattori quanto del pugno di ferro con cui erano governati.

Le pubbliche relazioni, purtroppo, non erano il forte di Aibell. Era entrata nel locale con tutta l’intenzione di chiedere notizie a qualcuno, ma il suo carattere ombroso ben presto l’aveva relegata al bancone, da sola, chiusa nella sua corazza fatta di silenzio e occhiatacce ai pochi sventurati che incrociavano il suo sguardo.

Dopo un po’, stare lì senza avere nient’altro di meglio da fare che fumare e fissare il barista mentre serviva alcolici le aveva fatto venire una gran voglia di bere, così aveva ordinato qualcosa. Magari, aguzzando l’udito, avrebbe potuto origliare qualche conversazione e apprendere qualcosa di interessante. In caso contrario, il giorno dopo si sarebbe rivolta a Riadh.

Il suo loquace amico era sempre molto più informato di lei e non aveva mai nulla in contrario a rivelarle ciò che era venuto a sapere da questo e da quello, nei numerosi giri che aveva modo di frequentare in città. Anzi, era stupita di non trovarlo lì, quella sera, ma era un paio di giorni che non si faceva vedere in giro.

Mentre si guardava intorno, in attesa di qualcosa da buttar giù, Aibell udì una voce alticcia alle sue spalle.

Dal momento che era quasi sicura di essere l’unica donna presente nel locale, oltre alle cameriere, era probabile che si stesse rivolgendo a lei, quando disse: «Che ci fa una bella brunetta come te in questo postaccio?»

Aibell si voltò ed ebbe conferma dei suoi sospetti, ritrovandosi a fronteggiare uno dei tanti avventori di quella decadente bettola: che era ubriaco lo aveva intuito dalla voce e poté confermarlo dalla puzza d’alcol che emanava il suo alito pestilenziale. Capelli scuri, un accenno di barba, la pancia prominente che sembrava sul punto di strappare la camicia unta da un momento all’altro, la sciabola al fianco e un avviso di taglia che spuntava dalla tasca dei pantaloni andavano a completare la figura di quello squallido ubriacone.

La mano della ragazza si posò istintivamente sul suo fucile, ma poi pensò che attaccare briga in una serata già instabile come quella non fosse propriamente una buona idea.

E poi, si disse, poteva essere un cliente. Era venuta lì con tutt’altri piani ma, se il tizio avesse pagato bene, si sarebbe fatta andar giù anche la buzza e l’alitosi.

Ricambiò il saluto dell’uomo con un impercettibile cenno del capo e gli fece spazio vicino a sé.

Mentre le si avvicinava, ad Aibell cadde l’occhio sull’elsa della sua sciabola, riccamente decorata, con dei ghirigori dorati sulla manica e il pomolo color rosso rubino. Pensò distrattamente che fosse una bella arma, sprecata nelle sue mani. Probabilmente l’aveva rubata.

«Posso offrirti qualcosa?» domandò lui, lasciandosi cadere rumorosamente sullo sgabello accanto al suo.

Il barista sembrò venirle in aiuto, perché nel frattempo le aveva poggiato davanti la tanto agognata bevanda. Aibell la mostrò all’uomo, come a dire che avrebbe messo quella sul suo conto, e la tracannò a lunghe sorsate.

L’alcol puro e bruciante che le scese in gola fu in egual modo sgradevole e rigenerante, ma bastò a darle la forza di affrontare quel tizio repellente. Magari avrebbe potuto anche scucirgli qualche informazione ma, visto lo stato in cui versava, ne dubitava parecchio.

Poggiò il bicchiere sul bancone e si voltò risoluta verso di lui ma, nello scorgerla in viso, quello fece una faccia stupita.

«Hai pianto, piccola?»

Aibell strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche, nel sentire com’era stata appena apostrofata, ma chiamò a raccolta tutta la sua capacità di sopportazione.

«No» disse, intuendo il perché di quella domanda.

Persino gli uomini con la vista annebbiata dall’alcol prestavano ai suoi occhi più attenzione del dovuto.

Dato che l’uomo non replicava, ma continuava a fissarla come imbambolato, la ragazza decise di saggiare il terreno. «Devi essere molto audace o molto stupido per venire qui a rivolgermi la parola. Sai, di solito la gente preferisce starmi alla larga» disse quindi, facendo un sorrisetto.

Alla sua affermazione, lui rise fin troppo sguaiatamente ma, per via del brusio presente all’interno del locale, nessuno gli destò particolare attenzione.

«Sono solo voci, lo sanno tutti» disse, e rise di nuovo.

Aibell si limitò a rimanere in silenzio, continuando a far finta di sorridere. Lei stessa all’inizio aveva creduto che si trattassero solo di coincidenze, diffuse da chi l’aveva più in antipatia.

Sistemandosi sullo sgabello traballante, l’uomo ne approfittò per farsi ancora più vicino, tanto che la ragazza poté sentire il suo respiro sibilante sul collo. Aibell deglutì a fatica, imponendosi di non muoversi, e decise di tentare il tutto per tutto. Prima che lui le offrisse un’altra bevuta, e chissà che altro. Prima che perdesse il contatto con la realtà. E prima che succedesse qualcosa che il mattino dopo avrebbe mandato giù a forza di pasticche.

«Sai nulla a proposito dell’arrivo di quei pirati in città?» buttò lì, attirando l’attenzione del barman, perché le portasse un altro bicchiere. Tanto valeva sfruttare il buzzurro fino in fondo.

L’uomo ridacchiò sommessamente, come se si trattasse di una cosa esilarante.

«Non c’è cacciatore di taglie a Sheltz Town che non ne parli, di questi tempi.»

«Ma perché proprio Sheltz Town?» borbottò lei, più a se stessa che a lui, percorrendo il bordo del bicchiere vuoto con la punta delle dita.

Non riusciva a capacitarsi del fatto che dei pirati con cifre esorbitanti stessero venendo proprio a bussarle alla porta di casa. Si sapeva che pirati del genere non giravano nel Mare Orientale. E, in ogni caso, se avessero avuto dei problemi con la nave o un urgente bisogno di un porto, c’erano isole molto più vicine. Ma allora...?

«La Gilda non starà con le mani in mano, così dicono.» L’uomo interruppe bruscamente il filo dei suoi pensieri. «Dovrebbero esserci più donne lì, non credi?»

Sospirò con aria sognante, mimando le curve femminili con le mani.

«Già.» Aibell distolse lo sguardo, e si sforzò di non assumere un’espressione troppo disgustata.

La Gilda di cacciatori di taglie di Riadh era ormai da diverso tempo nelle grazie della Marina, e i due organi erano in stretto rapporto di collaborazione. Anzi, per usare un’espressione che Aibell aveva sentito più e più volte nelle bettole, Riadh era ormai la puttanella di Morgan. In ogni caso, il patto che l’amico aveva stipulato con quel folle d’un Marine gli aveva fruttato bene, e aveva fatto sì che la concorrenza venisse sbaragliata. I cacciatori della Gilda ricevevano notizie di prima mano e tutti gli altri – lei compresa – arrancavano a stare loro dietro. A maggior ragione, era convinta che Riadh possedesse qualche informazione utile. Avrebbe parlato con lui di quella faccenda al più presto.

Il barista, nel frattempo, le aveva portato un’altra bevuta e lei, dopo aver agitato il bicchiere davanti al suo nuovo amico con espressione innocente, vi si era attaccata come se non bevesse da settimane.

«A proposito di voci» fece lui, avvicinandosi ancora di più, tant’è che il resto della frase le venne pronunciato nell’orecchio. «Tra i cacciatori di taglie ne gira anche un’altra, sul tuo conto... Be’, mi auguro che sia vera.»

Aibell sospirò. Un sospiro lungo e ambiguo, come se avesse voluto essere scopata lì e in quel momento, o avesse voluto sbattergli in testa il bicchiere e andarsene via, o forse tutt’e due le cose.

Prima che avesse il tempo di comunicare le sue intenzioni, però, lui le aveva già poggiato una mano sulla coscia nuda.

Fu un attimo. Un’immagine.

 
Un corpo riverso a terra, nel buio.
Un colpo di pistola.
Il sangue che si allarga in una pozza, s’infila nelle fessure dell’acciottolato, scorre lungo la strada.
 

La ragazza si pietrificò all’istante e, dimentica di tutti i suoi propositi, reagì d’istinto.

Ignorò la tentazione di ricorrere al fucile che aveva al fianco e afferrò con entrambe le mani il polso dell’uomo, frenando il percorso che le sue dita stavano compiendo verso il suo inguine con un brusco movimento, che provocò un croc che lasciava ben poco all’immaginazione.

«Cazzo!» berciò l’uomo, afferrandosi il polso dolorante con l’altra mano ed allontanandosi di scatto da lei.

Nel brusco movimento, il suo sgabello cadde a terra con un tonfo ed Aibell percepì le teste di tutti gli avventori voltarsi all’unisono nella loro direzione.

Vedendo come l’ubriacone indietreggiava, senza staccarle gli occhi di dosso, gli uomini intorno ripresero a parlottare, lo sguardo sempre fisso su di loro. Non era difficile immaginare quale fosse l’attuale argomento di conversazione, ma la ragazza ormai ci aveva fatto il callo.

«Schifosa puttana» sibilò l’uomo, guardandola come se avesse voluto sputarle in faccia.

Per un attimo, Aibell pensò che l’avrebbe fatto davvero. Invece, dopo averla maledetta sottovoce più e più volte, uscì a passo di carica dal locale, scortato dal rumoroso vociare dei presenti.

Aveva ancora gli occhi fissi sull’uscita dal quale l’uomo si era appena dileguato, quando il barista si schiarì la voce e attirò la sua attenzione.

Voltandosi e incrociando il suo sguardo, Aibell vide che era piuttosto seccato.

Lei ricambiò l’occhiata con quanto più odio riuscì a mettere insieme, si alzò in piedi, rimise al suo posto lo sgabello caduto e, dopo aver lasciato qualche berry sul bancone, imboccò l’uscita senza proferire parola.

 

Era furente, mentre procedeva a grandi passi per le vie deserte della città, e percepiva ancora sulla pelle il tocco dell’uomo, mentre le faceva strisciare la sua lurida mano sulla gamba. Sempre meglio di ciò che aveva visto dopo, in ogni caso.

Sbuffò. Ecco come finiva sempre per mettersi nei guai, per l’appunto cercando di evitarli.

Oltretutto, per aver reagito d’istinto ed aver attirato l’attenzione in quel modo, la sua già dubbia reputazione ne aveva risentito. Del giudizio degli altri se n’era sempre fregata, ma era almeno la decima locanda in cui dava spettacolo e da cui veniva cacciata e, se fosse andata avanti così, di lì a poco avrebbe dovuto trasferirsi.

Sapeva che la gente avrebbe parlato. Di nuovo. Non che le importasse più di tanto, ma forse era davvero lei ad avere qualche problema con gli altri, e non tutto il resto del mondo ad avercela con lei, come credeva inizialmente. Ma c’era poco da fare. Lei amava i combattimenti con le spade, le bevute al bar in compagnia e le taglie dei pirati alla sua portata. Non era come Alma, che era la prima persona che le veniva in mente quando pensava ad una brava ragazza dalla faccia pulita, e dubitava lo sarebbe mai stata. Ma non era quello, o il fatto che girasse con un fucile d’assalto per le vie di Sheltz Town, suscitando le ire dei Marines della zona, il vero problema.

A segnare irrimediabilmente la sua reputazione, in quello schifo di posto, era stata lei.

Si era sempre detta che erano coincidenze, ma avevano iniziato ad accadere spesso. La gente aveva iniziato a parlare, a fare collegamenti, e adesso era difficile evitare le occhiatacce e le offese quando camminava per la strada e veniva adocchiata da qualcuno. Certo, quelli che rimanevano vivi poi tornavano sempre, altrimenti non le avrebbero attaccato quell’etichetta per il vizio di cui persino quello squallido ubriacone, giù al bar, era a conoscenza.

A essere sincera, nemmeno lei andava molto fiera di quel passatempo. Eppure, era un modo per fare soldi facili molto più sicuro della caccia ai pirati, considerando quanto si fosse fatta spietata di recente la concorrenza tra i cacciatori di taglie. E poi, per lei era qualcosa di liberatorio. Un attimo di sollievo, una doccia d’acqua gelata che la inondava, le schiariva le idee e da cui usciva piacevolmente svuotata. Ma, se c’era una cosa che quella doccia non le toglieva, era lo sporco, che si faceva sempre più consistente sulla sua pelle, nonostante fosse invisibile agli occhi di tutti gli altri.  

Sentirsi schifosamente sporca era l’unica cosa che aveva in comune con lei e quello che le mostrava ogni notte. All’una e all’altra cosa, di solito, si sottraeva facendo semplicemente finta che non esistessero, o impasticcandosi prima di andare a letto. Forse, si disse, le due cose erano collegate. Forse era proprio lei il vero motivo per cui aveva iniziato a prostituirsi.

Qualcosa ruppe il corso dei suoi pensieri, mentre camminava nel buio, senza una vera meta.

Si imbatté all’improvviso in una figura riversa a terra, immobile in mezzo alla strada, che catturò la sua attenzione e in un attimo fece tabula rasa nella sua mente.

Sembrava morta, e Aibell ne ebbe la conferma vedendo la pozza di sangue in cui giaceva.

Non era certo la prima volta che, in mezzo alle risse dei cacciatori di taglie, ci scappasse il morto. Se volevano evitare le punizioni della Marina, certo, gli assassini dovevano essere molto discreti. Quello di lui doveva essersi dileguato già da un pezzo.

Stava già scavalcando il cadavere, quando un dettaglio attirò la sua attenzione.

Il pomolo rosso rubino della sua sciabola.

Aibell si pietrificò. Poi, con un’immagine di morte che le si agitava dietro le palpebre e il cuore in gola, non poté fare altro che avvicinarsi all’uomo per esaminarne il volto.

I capelli scuri, il mento con un accenno di barba... con il cuore in tumulto, riconobbe i lineamenti dell’uomo con cui aveva parlato al locale. Non dovette neanche controllare la ferita. Sapeva che era morto per un colpo d’arma da fuoco.

Merda.

Si allontanò di scatto, come se avesse preso la scossa. Cercò di controllare il tremito che si era impossessato delle sue mani, ma gli arti sembravano non risponderle.

No, era impossibile, si disse. Era solo una coincidenza. Un’altra.

Il suo corpo stava reagendo a quelle parole, rendendo il tremito più controllabile, ma dentro di sé sentiva che quella che si stava raccontando, tentando di autoconvincersi, era solo una menzogna.

Non sono solo voci.

Si portò le mani alla bocca e soffocò un singhiozzo. Qualcosa, dentro di lei, non riusciva a farle staccare gli occhi da quelli vitrei dell’uomo, rimasti aperti. Sembrava che la stessero accusando.

Corse via soffocando un grido, dopo solo un momento di esitazione, e non si voltò indietro.
 


Ciao!
 
Una piccola nota: spero di riuscire ad aggiornare a cadenza settimanale, ma da lunedì mi toccheranno dieci giorni di isolamento per il ritorno in campus e temo che li sfrutterò tutti per mettermi a studiare sul serio :P Ma cercherò di fare del mio meglio!
 
Due paroline su questo capitolo (sì, in confronto al prologo è tipo uno sputo, mi dispiace ç-ç). Mi serviva un capitolo a sé per presentare il personaggio di Aibell, che spero vi abbia lasciato un pochino di curiosità (so che tutto appare moolto confuso, ma le spiegazioni arriveranno)! È legata a Riadh e Alma, che avete già conosciuto nel prologo, ed è un personaggio piuttosto delicato da trattare, come credo abbiate intuito, quindi mi auguro di non fare un casino. In ogni caso, le sue “doti” potrebbero davvero far comodo a qualcuno nella ciurma del Babbo ;)  Ma non specifico quali doti, lol.
 
Mi scuso perché fino al capitolo 3/4 non ci saranno volti noti D: Era per presentare al meglio le ambientazioni, i personaggi originali e le loro relazioni, ma spero di non annoiarvi troppo. Continuo a scusarmi per ogni cosa ma sono leggermente nel panico, dato che ho iniziato a progettare questa storia nel 2014 (se non addirittura prima) e da allora davvero tante cose sono cambiate, sia nel manga che nel fandom :) Cerco di stare aggiornata il più possibile ma mi sembra che la storia sia “datata”, non so se mi spiego XD
 
Ringrazio di cuore _Fenixx per la bellissima recensione e per aver messo la storia tra le seguite. Grazie davvero! Ringrazio anche chi le ha silenziosamente dato un’occhiata, non me l’aspettavo! E, se vorrete lasciare un parere in futuro, qualsiasi esso sia, ve ne sarò profondamente grata.
 
Un bacio,

Cassidy.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


CAPITOLO II

“Wake up
Grab a brush and put a little make-up
Hide the scars to fade away the shake-up
Here you go create another fable”


Per Alma quello era il primo giorno di lavoro e, nonostante cercasse di non darlo a vedere, era un po’ in ansia.

Avrebbe voluto vestirsi come di routine, ma Ririka aveva insistito per farle indossare qualcosa di più elegante, senza però scendere nell’appariscente.

«Mamma, penso che così possa bastare» disse, mordendosi il labbro e fissando Ririka attraverso lo specchio, che si bloccò dal colorarle ulteriormente le guance con il pennello.

In cuor suo, era anche un po’ emozionata. Era la prima volta che la madre apriva la sua trousse del trucco per lei, prova che quello fosse un momento davvero speciale.

«Non voglio dare una brutta impressione il primo giorno... lo sai com’è fatta quella gente, potrebbero fraintendere» spiegò poi, dando uno sguardo di sfuggita al suo riflesso.

Il suo volto, reso un po’ meno anonimo dal filo di trucco dato dalla madre fino ad un attimo prima, la stava fissando di rimando, i capelli castani ramati che ondeggiavano dietro di lei in una coda di cavallo. Si affrettò a distogliere lo sguardo, come se fosse stata colta in flagrante a fissare sfacciatamente una sconosciuta.

Ririka annuì piano. Alma sapeva che capiva benissimo le sue ragioni. «Comunque, l’unica cosa che potrebbero equivocare è il modo in cui lo mostri, non il trucco in sé. Tu sei una ragazza affidabile, te lo si legge negli occhi. Non si sbaglieranno.»

«Stiamo a vedere...» rispose Alma esitante, abbozzando però un sorriso.

Il locale in cui era stata assunta era situato nella periferia della città e, anche se di solito non ospitava malviventi, non si poteva certo dire che i suoi frequentatori abituali fossero degli stinchi di santo. Lo si poteva definire una via di mezzo, cosa non scontata, vista la sua posizione. D’altronde, sapeva bene che sua madre non l’avrebbe mai mandata a lavorare in un luogo simile se non avesse conosciuto il locale ed il proprietario.

Si sentiva molto determinata all’idea di cominciare e, in cuor suo, era anche piuttosto ottimista. Dalla sua, aveva la capacità di trovarsi subito a suo agio con gli altri – succube degli altri, avrebbe detto la sua cara amica Aibelle l’esperienza di una cameriera in servizio da anni, nonostante la giovane età.

Ad uno strillo proveniente dal piano di sotto, sua madre si alzò in piedi.

«Rika!» esclamò e, non ricevendo risposta, uscì in fretta dalla stanza, lasciando Alma lì a tormentarsi le mani.

Quel lavoro era di vitale importanza per la sua famiglia. La paga che offrivano era anni luce dallo stipendio che avrebbe ricevuto rimanendo al Food Foo, il loro locale, per quanto un paio di braccia in più avessero sempre fatto comodo a sua madre. In quel modo, però, avrebbe permesso alla sorellina di vivere un’infanzia come meritava, senza essere costretta ad entrare in servizio pochi anni dopo.

Alzò gli occhi, incontrando nuovamente il suo riflesso nello specchio, e stavolta non si ritrasse. Sì, era decisamente la cosa giusta da fare.
 

Al piano di sotto, nella cucina della locanda, Rika si era bruciata ai fornelli. Pur di cucinare senza l’aiuto della madre, aveva preso uno sgabello dal bancone e vi era montata sopra, arrivando così al livello del piano di cottura. Ma la sua trovata era un po’ traballante e, mentre sorvegliava il riso che cuoceva sui fornelli per i suoi onigiri, aveva perso l’equilibrio e aveva afferrato la prima cosa che aveva a tiro per non cadere: la pentola bollente.

Gli strilli si dovevano essere uditi anche dall'altra parte di Sheltz Town.

«Rika! Tutto bene?!»

Sua madre si era scapicollata al piano di sotto e adesso fissava ad occhi sgranati la figlia, che si teneva la mano ustionata con l'altra. Passando in rassegna lo sguardo da lei alla pentola bollente, parve capire.

«Ti sei bruciata? Quante volte ti ho detto che non puoi ancora cucinare da sola? Dammi la mano, la mettiamo un attimo sotto l’acqua.»

«Ma io volevo cucinare il pranzo per Alma!» ribatté lei, mettendo il broncio, senza opporsi quando la madre le mise le dita ustionate sotto il getto dell’acqua fredda.

Ririka non riuscì a trattenere un sorriso. Diede un’occhiata al contenuto della pentola e al ripieno degli onigiri, ordinatamente sistemato sul banco della cucina, e disse: «Stai diventando proprio brava! Ma vedi di fare attenzione, la prossima volta.»

«Va bene, mamma.»

 

«È successo qualcosa?» Alma comparve sulla soglia della cucina, un po’ preoccupata.

«Ti sto preparando il pranzo al sacco per dopo!» esclamò Rika, facendo un sorriso a trentadue denti che la sorella maggiore ricambiò subito.

«E si è ustionata» aggiunse la madre con un sospiro rassegnato, affrettandosi a spiegare che non era nulla di grave.

«Chissà come sono buoni!»

Alma si avvicinò al banco di cucina, sentendo a malincuore montare l’acquolina in bocca.

Era tipico di sua sorella viziarla con ogni sorta di manicaretti, che lei non riusciva proprio a rifiutare, un po’ perché Rika ci metteva sempre il cuore e, nonostante la giovanissima età, ai fornelli ci sapeva proprio fare; un po’ perché lei, soprattutto quand’era nervosa, sapeva essere davvero una buona forchetta.

Impallidì leggermente all’idea che, se quel pranzo delizioso fosse diventato di routine, avrebbe di certo influito sul suo fisico già di per sé morbido, ma poi si rese conto che, sgobbando tutto il giorno come cameriera nel nuovo locale, avrebbe di certo avuto modo di tenersi in forma.

«Allora, che ne dici di finire questi onigiri? Tua sorella tra poco deve andare a lavoro.»

Ririka asciugò con un panno la mano della figlia più piccola, che sembrava essersi ripresa completamente dallo shock post bruciatura. Gli occhioni umidi erano tornati colmi di vivacità e, in un attimo, Rika salì di nuovo sullo sgabello e si mise a finire le sue polpette di riso con la minuzia di uno chef. Di fronte alla sua teatrale concentrazione, Alma e la madre non riuscirono a trattenere un sorriso.

Pochi minuti dopo, Rika aveva finito. Dopo aver avvolto gli onigiri con dell’alga nori ed averli delicatamente riposti in un cestino per il pranzo, consegnò l’involto ad Alma, che abbracciò la sorellina con affetto.

«Grazie mille, Rika. Così oggi, quando verrà l’ora di pranzo, mi sentirò un po’ meno sola.»

«Il Food Foo sentirà la tua mancanza, oggi» mormorò Ririka, facendo un sorriso triste.

Era da anni ormai che madre e figlia lavoravano duramente per mandare avanti il loro modesto locale affacciato sul porto che, con il tempo, si era fatto anche un notevole numero di affezionati. Con una persona in meno sarebbero sorte non poche difficoltà, ma avevano bisogno di quei soldi.

Dopo aver sciolto l’abbraccio con Rika, Alma si passò una mano sui vestiti, come a voler eliminare delle pieghe invisibili, e fece un respiro profondo.

«Allora io vado.»

«Te la caverai!» le assicurò Ririka, forse notando la sua ansia.

Mentre Alma apriva la porta di casa, le poggiò una mano sulla spalla.

E, con quel gesto di conforto e gli occhi della sorellina sulla schiena, Alma uscì per affrontare il suo primo giorno di lavoro.

 

***

 

Quando le due figure fecero il loro ingresso nel locale, facendo tintinnare un campanello sopra la porta, Alma aveva già avuto modo di entrare nel trantran dell’attività, conosciuto il burbero proprietario del bar e familiarizzato un po’ con le cameriere, tutte più o meno nella sua situazione: giovanissime, entrate in servizio per aiutare la propria famiglia e per farsi le ossa in attesa di un impiego migliore.

Alma notò che, vedendoli, tutti si erano voltati nella loro direzione e avevano trattenuto il fiato. Il capo aveva aggrottato le folte sopracciglia, mentre il mestolo che aveva tra le mani era stato piegato fin quasi a spezzarsi a metà.

Lei, dal canto suo, cercò di fare assolutamente finta di nulla. Abbassò lo sguardo sul lavello e continuò a insaponare bicchieri, sfregando così furiosamente sul vetro da screpolarsi i polpastrelli.

Solo quando i due si furono seduti a un tavolo in un angolo del locale e i clienti ebbero perso quasi del tutto l’interesse per loro, osò avvicinarsi.

«Si può sapere cosa ci fate qui?» bisbigliò stizzita, con la scusa di prendere le ordinazioni.

«Un sakè e una birra, grazie» disse l’uomo serafico, scompigliandosi i lunghi capelli corvini in un gesto che le era ormai molto familiare.

Per tutta risposta, Alma lo fulminò con lo sguardo.

La donna accanto a lui non riuscì più a trattenersi, scoppiando a ridere.

Decine di paia d’occhi si voltarono a fissarli e Alma desiderò scomparire per un attimo, prima di fare un lungo sospiro e riacquistare la calma.

«Vogliamo finire qui questo teatrino, e dirmi perché siete venuti? Qui non siete ben visti come al Food Foo, mi pare che le occhiate che vi stanno rivolgendo tutti da quando siete entrati parlino chiaro» mormorò, mentre faceva palesemente finta di scrivere qualcosa sul blocco.

Forse da lontano il capo non se ne sarebbe accorto.

«Riadh mi ha detto che questo è il tuo primo giorno di lavoro in questo posto...» disse Aibell, guardandosi attentamente intorno, senza nascondere la propria curiosità.

«Appunto» sibilò Alma a denti stretti.

«Ci serviva un posto tranquillo dove parlare e ne abbiamo approfittato per venire a vedere come te la cavavi» spiegò Riadh. «Ma mi pare di capire che ti facciamo sfigurare... quindi fa’ pure finta di non conoscerci, se la cosa ti crea tanto fastidio.»

Di fronte al suo broncio offeso, Alma sorrise divertita. Di solito non aveva nulla in contrario a fare quattro chiacchiere con i suoi amici, ma le circostanze di quel momento la mettevano in difficoltà. Sua madre ormai si era abituata – anche se con fatica – a vederli entrare e uscire dal loro locale quotidianamente, ma non sapeva come avrebbe potuto reagire il capo se avesse scoperto che i delinquenti appena entrati erano i suoi più cari amici, e persino a lei era giunta voce di quello che aveva combinato Aibell la sera prima, in uno dei locali del porto.

«Vado a prendervi da bere» disse, girando sui tacchi.

Mentre tornava al bancone, vide che il capo le stava facendo un cenno. Mordendosi il labbro, si avvicinò di qualche passo.

«C’è qualcosa che non va?» chiese cauta, sondando il terreno.

Il proprietario del locale, un omone dalla pancia prominente, due folti baffi grigi e un’espressione non poi così crudele come si era immaginata, lanciò uno sguardo eloquente al tavolo dal quale era appena tornata.

«Li conosci, per caso?»

La mente di Alma correva veloce. Doveva essersi accorto che aveva impiegato un po’ troppo tempo rispetto a quanto ce ne avrebbe messo qualsiasi altra cameriera. Poteva dare colpa alla sua inesperienza, ma lui aveva visto come se la cavava alla svelta con i clienti.

«No...» Esitò. «…Ma ho ricordato loro che non sono in una bettola qualunque e non possono comportarsi come vogliono. Lo sa come sono fatti!»

Levò gli occhi al cielo, come a voler evidenziare ciò che diceva, ma dentro di sé lottava con i propri sensi di colpa. Non le era costato poco parlare a quel modo dei suoi amici.

L’espressione del capo fece capire ad Alma che aveva abboccato.

«Sì» rispose infatti, «Hai fatto bene. Non ho mai avuto guai con la Marina e non voglio iniziare ad averne proprio adesso.»

Rabbrividì, e la ragazza pensò che non avesse tutti i torti. Le punizioni dei Marines a Sheltz Town non erano note per essere delle più misericordiose.

Lasciò il capo, che nel frattempo era andato ad accogliere dei nuovi clienti – sicuramente più ben visti di Riadh e Aibell – e andò a recuperare un boccale e una bottiglia di sakè già stappata dalla credenza dietro al bancone.

Mentre riempiva i bicchieri, si rese conto che, come primo giorno, non stava andando poi così male. Il capo era un buzzurro, ma non un aguzzino come aveva temuto, e le altre cameriere parevano molto solidali. Solo quel commento che si era vista costretta a fare su Aibell e Riadh le bruciava ancora, ma aveva il fugace sospetto che avrebbe dovuto farci l’abitudine, perché quella era la legge di quei locali. Più rospi e ingiustizie avesse inghiottito, meno problemi avrebbe avuto in seguito.

 

Con un bicchierino a testa, le cose cominciavano già a ragionare, ma Aibell non era del tutto sicura che sarebbe riuscita a farsi bastare la sua birra media.

Non dopo ciò che stava per affrontare con Riadh, quel terreno minato che l’aveva tenuta sveglia a rimuginare per quasi tutta la notte, insieme alla rabbia e alla paura che aveva risvegliato in lei ciò che aveva trovato nella periferia della cittadina, prima che decidesse di ricorrere ai suoi rassicuranti sonniferi.

«Allora, di cosa avevi bisogno di parlarmi?» domandò lui, scolandosi il sakè in un’unica sorsata.

Aibell giocherellò con le dita sul tavolo, prima di incrociare il suo sguardo. «Cosa sai dell'arrivo di quei pirati, qui a Sheltz Town?»

Riadh fece un sorriso obliquo, notando la sua espressione pensierosa. «Non sei contenta, forse? Se fosse vero, finalmente avresti modo di riscuotere qualche taglia anche tu senza dover picchiare a morte gli altri cacciatori.»

Aibell ignorò la frecciatina. Detestava quando il suo amico tergiversava inutilmente, giusto per prenderla un po’ in giro e farla spazientire.

Lo inchiodò con lo sguardo e sillabò: «Rispondi.»

Lui levò gli occhi al cielo. «Va bene, va bene. Con te non si può neanche scherzare un po’, lo sai?»

Ripeté cose che ormai Aibell conosceva quasi a memoria, tante erano state le volte che le erano giunte a voce, ma erano tutte informazioni superficiali, niente di esclusivo come si era aspettata di sentire da un tipo come lui.

Spesso non riusciva proprio a capacitarsi di come una persona come Riadh potesse trovarsi a capo di una delle bande più chiacchierate dell’intera cittadina. Sul fatto che si fosse guadagnato quel posto senza mezzi sporchi, poi, non c’erano dubbi: nonostante la sua indole da bonaccione, infatti, sapeva essere un temibile combattente e un abilissimo cacciatore di taglie, ma preferiva assumere un comportamento scherzoso con tutti, al limite dell'esasperante. Era proprio unico nel suo genere.

«Aspetta, cos’hai detto?»

Fece segno a Riadh di bloccarsi. Le era arrivata all’orecchio una frase che l’aveva particolarmente colpita.

«Che c’entrano Zoro e Dawn con questa faccenda?»

«È solo un sospetto che ho» precisò Riadh, «ma ho come l’impressione che la causa scatenante sia stata una missione che ho affidato a quei due quattro giorni fa.»

Aibell fece un rapido calcolo. «È più o meno da quando sono iniziate a circolare le voci.»

Il giovane le lanciò un’occhiata penetrante. «Esatto.»

«E in cosa consisteva questa missione?» lo incalzò Aibell, canzonando il suo tono criptico.

Riadh non rispose subito. Si guardò intorno, ma nessuno stava prestando loro attenzione, all’infuori di Alma, il cui sguardo protettivo vigilava su di loro dal bancone. Quando incrociarono il suo sguardo, lei sorrise, prima di abbassare gli occhi sul lavello e riprendere a lavare bicchieri.

«Apparentemente, una solita cattura. Certo, Morgan non mi aveva detto a quanto ammontava la taglia del pirata, ma non era la prima volta, e non avevo motivo di preoccuparmi. Così mi sono sentito più che tranquillo nell’affidare la missione a Dawn e Zoro.»

Aibell si lasciò sfuggire un sorriso. Era risaputo che Zoro, il braccio destro di Riadh, fosse lo spadaccino più in gamba della città, ma quanto a Dawn… quella ragazzina era stata una vera e propria rivelazione. Nient’altro che un’orfanella, accolta sotto l’ala protettrice del capo della Gilda, che in pochissimo tempo aveva dimostrato un’abilità senza pari con qualsiasi arma avesse tra le mani.

L’unica nota dolente era che i due si detestavano ma, quando non tentavano di uccidersi l’un l’altro, formavano davvero una bella squadra.

«E suppongo che tu abbia deciso di metterli insieme per la loro bravura, non certo perché speri che tra quei due possa nascere qualcosa…» mormorò la ragazza, per cui i magheggi di Riadh non erano affatto una novità.

Lui fece un sorriso malizioso. «È solo questione di tempo, vedrai.»

«È solo questione di tempo prima che lei lo sgozzi» ribatté Aibell. «Comunque, stiamo divagando.»

«Dicevo, ho affidato l’incarico a Zoro e quella piccola peste, nella speranza che i loro rapporti migliorassero un po’ e non nuocessero più alla Gilda» riprese Riadh, ed Aibell ipotizzò che quella fosse la stessa scusa che aveva usato con loro. «Forse ho sbagliato, ma d’altra parte non potevo immaginare ciò che sarebbe successo dopo. Quel pirata si è rivelato un vero mostro

L’uomo si interruppe, rabbuiandosi all’improvviso, e lei si bloccò dal sorseggiare la sua birra. Raramente le era capitato di dover cavare a forza qualche parola dalla bocca dell’amico.

«Perché?»

«Dicono di non aver mai incontrato un pirata come quello in tutto il Mare Orientale.» Riadh fece una lunga pausa. «Zoro è quasi morto, nel combattimento» disse infine, evitando il suo sguardo. «E Dawn ha lasciato la Gilda.»

Aibell lo fissò, senza riuscire a credere alle proprie orecchie. «Eh?»

«Proprio così» continuò lui, notando la sua espressione. «Io non ho avuto modo di intervenire, ma fortunatamente Johnny e Yosaku sono accorsi ad aiutarli, e in quattro sono riusciti a catturarlo.»

Riadh si sentiva evidentemente in colpa per ciò che era successo, ed Aibell non poteva certo biasimarlo: era stato lui a mettere i suoi pupilli in pericolo. D’altro canto, Zoro era probabilmente il miglior cacciatore di taglie dell’intera Gilda, al pari di Riadh stesso. Se persino uno come lui ci aveva quasi lasciato le penne… di che pirata stavano parlando?

«E poi…?»

«Poi lo abbiamo portato da Morgan, che si è rifiutato di darci qualunque spiegazione. Io li avevo raggiunti poco dopo la cattura e mi sono incazzato nero con lui, ma non l’ho spuntata. Non mi ha detto nulla su quel dannato pirata, e non mi ha neanche pagato. So solo che, da quel giorno, pare che una certa ciurma abbia fatto rotta verso Sheltz Town. Nient’altro.»

«Non può essere una coincidenza» disse Aibell, e Riadh annuì.

Anche se credeva di trovare l’amico molto più informato, le aveva dato comunque molto su cui riflettere. Chissà se c’era lo zampino del Capitano Morgan. Aibell detestava quell’individuo irascibile e violento. E dopo ciò che le era stato appena raccontato…

«La Marina però sta smentendo l’arrivo della flotta sull’isola» gli fece notare.

«Be’, nega l’evidenza.»

«E Zoro e Dawn?» domandò lei. «Hanno scoperto qualcosa su di lui?»

Morgan non sembrava voler scucire loro nulla, ma dopotutto loro erano i cacciatori che lo avevano catturato, dovevano pur aver notato qualcosa.

«Non molto» disse Riadh, con un’alzata di spalle. «Era da solo su una scialuppa, e forse aveva i poteri del frutto. Questo spiegherebbe la sua forza. Sembrava fosse in cerca di suo padre, o qualcosa del genere.» L’uomo ricambiò lo sguardo perplesso di lei. «E aveva un nome strano, tipo Khalasar…»  

Riadh fu interrotto da uno scampanellio, subito seguito dal vocione del proprietario del locale.

«Buongiorno! A cosa devo la visita?»

Il suo tono, che cercava senza troppo successo di nascondere il nervosismo, mise Aibell istintivamente in allarme. Lei e Riadh si voltarono all’unisono e, vedendo i nuovi arrivati, si irrigidirono di colpo.

Anche il resto della clientela doveva aver avuto una simile reazione, a giudicare dal silenzio tombale che accolse i due Marines, stretti nella loro divisa immacolata e con un’aria tutt’altro che amichevole, non appena ebbero varcato l’ingresso.

Aibell e Alma, dall’altra parte del locale, si scambiarono un’occhiata preoccupata.

Il proprietario tremava visibilmente e, di fronte al silenzio dei due, il suo sorriso di pura circostanza vacillò. Gli uomini, infatti, si stavano guardando intorno e, dopo aver scandagliato a fondo il locale con una rapida occhiata, il loro sguardo si posò sul tavolo dei due cacciatori di taglie.

Aibell si sentì gelare il sangue. I suoi pensieri corsero agli eventi della sera prima, al corpo senza vita di quell’uomo. Di solito nessuno si interessava alle faide dei cacciatori di taglie, ce n’erano troppe per poter essere controllate e per di più punite, ma forse il cadavere era stato ritrovato, forse qualcuno aveva fatto il suo nome giù al bar, rivelando alla Marina il loro battibecco…

«Cerchiamo lui» disse il Marine più alto, indicando Riadh.

Si udì un rumore di vetri rotti proveniente dal bancone, su cui si concentrarono per un attimo gli sguardi di tutti gli avventori. Alma doveva aver appena fatto cadere un bicchiere. Quando Aibell lanciò un’occhiata nella sua direzione, però, non la vide. Doveva essersi già chinata a raccogliere i cocci.

Se anche Riadh aveva avuto una qualsiasi reazione, dopo che i Marine e tutti i presenti gli avevano piantato gli occhi in faccia, non lo diede a vedere. Il suo corpo, così come il suo solito sorrisetto, non si mossero di un millimetro. Aibell aveva sempre ammirato il suo sangue freddo.

Attese serafico che i due uomini si facessero avanti e, anzi, quando furono di fronte al loro tavolo, lui intrecciò le mani dietro la nuca e si abbandonò contro lo schienale, con tutta la calma del mondo.

«Buongiorno. A cosa devo la visita?» domandò, e la ragazza si augurò che il proprietario fosse troppo stupido per accorgersi che Riadh lo stava palesemente prendendo in giro.

Il Marine alto, quello che lo aveva additato prima, gli lanciò uno sguardo torvo, evidentemente seccato dal fatto che non bastasse il suo aspetto a mettere in soggezione Riadh com’era accaduto con gli altri avventori.

«Non ditemi che ho combinato qualcosa» esclamò lui, fingendosi incredulo.

A quel punto gli occhi del Marine allampanato mandavano lampi.

«I-il Capitano Morgan vuole vederti» spiegò l’altro, che non aveva ancora spiccicato parola, ed Aibell intuì il perché. A giudicare dalla sua voce, che sembrava lo squittio di un topino, doveva aver inaugurato la divisa proprio quel giorno. La ragazza provò quasi compassione per lui.

Chiarito lo scopo della loro presenza, Riadh le lanciò uno sguardo d’intesa e lei annuì impercettibilmente: dei risultati di quel colloquio ne avrebbero discusso il prima possibile.

«Bene, bene. Allora non facciamolo attendere.»

Riadh balzò in piedi, allungò una pacca sulla spalla di Aibell e quindi si diresse verso l’uscita, seguito a ruota dai due Marines.

Alma, nel frattempo, era riemersa dal bancone ed il ragazzo fece per salutarla, ma poi, forse ricordandosi dell’esistenza del suo datore di lavoro, rimasto di fronte all’ingresso come pietrificato, parve cambiare idea.

Anche dopo che il trio fu uscito, facendo tintinnare il campanello della porta, la loro ingombrante presenza rimase ad aleggiare nel locale. Il proprietario si allontanò dalla porta, ancora evidentemente scosso, e solo con il passare dei minuti i clienti ripresero a parlare con spensieratezza, come se niente fosse successo.

Aibell fissò il posto vuoto davanti a sé. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter essere presente all’incontro tra Riadh e Morgan, per capirne di più. Ma non era la puttanella del Capitano e, data la sua condotta, mai lo sarebbe stata – anche se sicuramente in città c’era chi insinuava il contrario – per cui le sarebbero sempre stati preclusi colloqui con i pezzi grossi.

Finì la sua birra e poggiò rumorosamente il boccale vuoto sul tavolo, asciugandosi le labbra umide con il polso. Quando incrociò per un attimo lo sguardo del proprietario, capì che doveva sloggiare.

Se mai era stata la benvenuta lì dentro, e ne dubitava fortemente, dopo ciò che era successo con Riadh lo era ancora meno. Probabilmente l’omaccione aveva pensato che il suo amico avesse davvero combinato qualcosa. I più non erano a conoscenza della sua spontanea collaborazione con Morgan, il quale di norma evitava di far sapere in giro del patto che aveva stretto con un manipolo di malfamati cacciatori di taglie, dato che lo avrebbe messo in cattiva luce.

Fu mentre si alzava in piedi, frugandosi nelle tasche alla ricerca di qualche berry, che ebbe di colpo un’illuminazione.

Ciò che era appena successo poteva anche averla costretta ad andarsene, rifletté, ma aveva smascherato Morgan. Non avrebbe mai mandato a chiamare Riadh in pieno giorno se non si fosse trattata di una questione della massima importanza.

Aibell sorrise tra sé e sé.

Non c’era solo lo zampino di Morgan, in quella faccenda.

Il Capitano c’era dentro fino al collo.

 
 
Ehilà! Vi scrivo nel bel mezzo del mio isolamento, mentre vado avanti a biscotti perché sembra che nessun corriere sappia trovare il mio indirizzo inglese. Se non muoio di stenti, vedrete gli aggiornamenti di questa storia XD
 
Ok, la smetto di scrivere puttanate. Capitolo praticamente di passaggio, non lanciatemi pomodori, dal prossimo vi darò molto di più che chiacchiere da bar e una bambina che sforna onigiri, lo giuro :P E quando dico molto di più, lo intendo sul serio!  Devo far ingranare la storia, ma questa è la quiete prima della tempesta ;) In ogni caso, spero di non avervi annoiato!
 
Non ho molto da dire sul capitolo, se non che presenta in modo un po’ più approfondito il personaggio di Alma (ciccina), e che sua madre e sua sorella appartengono ad Oda (la sorellina è la bambina che porta gli onigiri a Zoro nel primissimo volumetto di One Piece ç-ç). Prestate attenzione alle parole della canzone (ciau System) perché sono davvero calzanti per la vicenda di Alma. Piccolo spoiler, sarà il personaggio più sfigato di tutta la storia, ma le vogliamo bene lo stesso.
 
Grazie a _Fenixx per la recensione positiva, mi ha fatto davvero piacere! <3 E grazie anche ai silenziosi che seguono la storia, chissà se tra quelle quasi cento visite qualcuno si azzarderà a lasciarmi un parere (positivo o negativo che sia!) :P Ma, essendo una lettrice fantasma io stessa, non posso che esprimere la mia solidarietà XD 

Un bacio e a presto,


Cassidy
.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


CAPITOLO III
 
“At the same time, I wanna hug you
I wanna wrap my hands around your neck
And you make me so mad, I ask myself
Why I’m still here, or where could I go”
 

«Penso che possiate anche lasciarmi andare, ora» fece notare Riadh a quelli che forse avrebbero voluto essere i suoi aguzzini.

Tentativo miseramente fallito, pensò, visto che fin dall’inizio si erano rivelati due completi idioti. I Marines, infatti, lo avevano scortato fino al quartier generale tenendolo ciascuno per un braccio, neanche fosse il più temibile dei pirati. Una volta lì, poi, non davano segno di volerlo lasciare andare.

Riadh sbuffò. Non solo non gli si scollavano più di dosso ma, cosa ancor peggiore, sembravano del tutto sordi alle sue parole.

«Non ho bisogno della balia, di qui in avanti» sbottò, maledicendo la sua impulsività un attimo dopo.

Doveva mantenere la calma e continuare a fingere: aveva giocato a fare il prigioniero per tutto il tragitto, dato che avrebbe potuto liberarsi dalla loro patetica stretta in ogni momento, ma quell’azione in seguito si sarebbe sicuramente ritorta contro di lui. La cosa migliore da fare, in quel frangente, era lasciar loro credere di essere più furbi di lui.

«Modera il linguaggio, cacciatore di taglie» sbraitò il Marine alto e secco.

Riadh colse in quel tentativo di offenderlo una perfetta occasione per liberarsi senza ricorrere alle mani.

«Cacciatore di taglie, appunto» ribatté. «Non sono qui per farmi sbattere in cella, ma per parlare con il vostro capo, quindi potete lasciarmi. Di certo non vi aggredirò, non sono un pirata!»

Riadh evitò accuratamente di aggiungere che, se i due avessero continuato con quell’atteggiamento un secondo di più, lo avrebbe fatto di certo.  

«E poi, vi sembro così pazzo da attaccare briga con la Marina proprio nel territorio di Morgan Mano D’Ascia?»

Il più giovane e ragionevole dei due dovette rendersi conto che il suo ragionamento aveva perfettamente senso, perché si affrettò a lasciargli libero il braccio. L’altro, anche se palesemente contrariato, fece lo stesso.

«Grazie» fece Riadh, con lo stesso tono con cui li avrebbe mandati a fare in culo. Cosa che, a giudicare dalle loro facce, non doveva essere sfuggita a nessuno dei due.

Ora che poteva di nuovo respirare, il giovane si appuntò mentalmente di rivalutare il potere della diplomazia. Quindi si allontanò dai due, attraversando a grandi passi il vasto spiazzo in terra battuta che circondava la base della Marina, in cui uno spazio centrale, ripulito e transennato, segnalava l’inizio di qualche lavoro. Rivolgendogli uno sguardo distratto, Riadh si chiese cos’avesse in mente di far costruire quel mitomane di Morgan, mentre saliva a due a due i gradini che portavano all’ingresso.

Andare lì gli provocava sempre un senso di disagio, nonostante fosse ormai in buoni rapporti con i Marines della zona. O così pensava di essere, almeno fino a quel giorno. Era riuscito a corrompere almeno la metà di loro, ma il trattamento che gli riservavano i novellini e i più conservatori, com’era accaduto poco prima, era la conferma che certi uomini della Marina non lo considerassero onesto fino in fondo. Non che, effettivamente, lo fosse. Riadh faceva il cacciatore di taglie per guadagnarsi da vivere, non certo per permettere ai bambini di girare per i vicoli di Sheltz Town senza che le madri fossero in pensiero. Così facendo, comunque, agevolava il lavoro della Marina, che però lo considerava più simile ai ceffi a cui dava la caccia che ai suoi uomini, i quali tentavano di essere corretti e puliti come le loro immacolate divise.

Quel giorno, se possibile, Riadh era ancora più teso, viste le circostanze in cui si erano lasciati lui e il Capitano Morgan l’ultima volta. Ricordava come gli aveva dato contro, le parole che aveva usato in preda all’ira, e gli venne voglia di strapparsi la lingua, pensando al carattere rancoroso del Marine. Ma era il minimo per aver messo in pericolo Zoro e la piccola Dawn in quel terribile combattimento. Non avrebbe mai dimenticato lo sguardo atterrito di lei, che aveva tentato senza successo di nascondere dietro la sua solita aria insolente, e le cose che gli aveva detto.

Probabilmente il Capitano lo aveva convocato con tutta quell’urgenza per fargli una lavata di capo, prima di consegnargli il gruzzolo riscosso dalla taglia. Perché, altrimenti? Di solito le procedure successive ad una cattura non si svolgevano in quel modo e, pur sforzandosi, non riusciva a farsi venire in mente nessun’altra motivazione. Da tempo non gli rimproverava lo scorretto comportamento dei suoi sottoposti, quindi non poteva trattarsi neanche di quel genere di richiamo.

Ma non tutto il male veniva per nuocere. Se Morgan non lo avesse prima decapitato di netto con la sua ascia, quel giorno avrebbero sicuramente affrontato la questione del pirata misterioso, catturato al largo della Rotta dei Delfini. Finalmente ne avrebbe saputo di più. Al solo pensiero, gli prudevano i palmi dalla trepidazione.

Fu con quei sentimenti contrastanti che Riadh giunse in cima alle scale, dove, proprio di fronte alla porta d'ingresso, era spaparanzato il cane da guardia del figlio di Morgan, una vera e propria bestiaccia.

Tale cane, tale padrone, pensò vagamente divertito, mentre azzardava qualche passo verso il portone semiaperto.

Soro alzò di scatto la testa e lo fissò, riducendo gli occhi d’ambra a due fessure, mentre emetteva un basso ringhio d’avvertimento.

«Sta’ buono, cagnaccio...» lo ammonì Riadh, facendo per scavalcarlo.

Il lupo gli si rivoltò contro per morderlo e il giovane cacciatore di taglie spostò la gamba un attimo prima che finisse chiusa tra le sue mascelle. Non appena mise piede dentro l’edificio, però, non contento di averlo quasi azzannato, Soro iniziò ad abbaiare a tutto spiano.

«Zitto! Zitto, maledizione!»

«Cos’hai fatto al mio cagnolino?»

Nell’udire quella voce petulante, Riadh levò gli occhi al cielo.

Hermeppo, uscito trafelato da quella che doveva essere la sua stanza, si diresse a passo di carica verso di lui, con uno sguardo che mandava lampi.

Vedendo il padrone, Soro parve calmarsi un po’, e si rilassò del tutto non appena quello iniziò ad accarezzarlo. Scodinzolò e mugolò soddisfatto, finendo con lo sdraiarsi a pancia in su.

Di fronte a quel completo atto di sottomissione, Riadh non poté che inarcare un sopracciglio, piuttosto perplesso.

«Allora? Perché il mio Soruccio stava abbaiando? Ah già, lui ha un buon fiuto per i criminali...» commentò Hermeppo, sprezzante.

Riadh evitò di rispondergli per le rime e chiese, calmo: «Tuo padre è di sopra? Voleva vedermi.»

Il ragazzo annuì e non riuscì a nascondere un sorriso perfido. «Coshai combinato, stavolta?»

«Niente che ti riguardi» tagliò corto lui, superandolo e imboccando la curva delle scale.

In fin dei conti, era la verità, anche se Hermeppo detestava oltre ogni cosa essere escluso dalle faccende paterne. Nel profondo, quel ragazzo insopportabile gli faceva un po’ pena: persino il padre lo considerava un idiota, figurarsi i suoi sottoposti. E Riadh non poteva dar loro tutti i torti.

Giunto di fronte all’ufficio di Morgan, Riadh bussò un paio di volte, cercando di ignorare l’inquietudine che cresceva dentro di lui.

Dopo un tempo che gli parve infinito udì un secco «Avanti» e, fatto un profondo respiro, si decise ad entrare. Dietro in lui, un paio di uomini di servizio stavano bisbigliando sottovoce.

Lo studio del capitano Morgan era come lo ricordava: in perfetto ordine, con la grande finestra aperta che lasciava entrare la morbida luce pomeridiana all’interno della stanza. In netto contrasto con la rigida figura che la dominava, che Riadh riuscì a vedere nitidamente solo quando ebbe socchiuso gli occhi. Era in controluce, seduta alla scrivania, mentre fumava un sigaro senza mai smettere di fissarlo.

Morgan era uno strano individuo, secondo Riadh. Ormai collaborava da tempo con la sua Gilda, lasciandole una certa libertà nel proliferare, ma era ancora inafferrabile come la prima volta che l’aveva conosciuto. Negli anni aveva imparato a trattarlo con i guanti, ma non sapeva mai cosa aspettarsi da lui, e questo lo turbava. Un momento prima scherzavano insieme come amici di vecchia data, quello dopo minacciava di rovesciargli addosso la scrivania, in un improvviso moto di collera.

Era un Marine fin troppo autoritario ed alcuni dei comportamenti che assumeva con i civili, con i suoi sottoposti, così come con il figlio, lasciavano Riadh ancora destabilizzato. Non era un mistero il perché tutta Sheltz Town vivesse nel terrore delle sue punizioni. Inoltre, aveva sempre avuto un che di losco nei modi di fare, e dava l’impressione di essere disposto a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di raggiungere i suoi scopi. Per questo Riadh lo immaginava bene a lavorare in un giro di cacciatori di taglie, non nella giustizia.

Quel giorno non era diverso dagli altri, e Morgan possedeva la sua solita aria sfuggente.

Riadh fece un passo avanti, pensando a qualche frase di circostanza per rompere il ghiaccio, ma il Marine lo bloccò sul nascere, facendogli lo sbrigativo segno di mettersi a sedere.

Il cacciatore di taglie fece come ordinato, sistemandosi sulla sedia, senza resistere all’impulso di darsi un’occhiata intorno: i mobili chiari contro la parete, i meriti e gli attestati della Marina appesi al muro, qualche soprammobile qua e là. Niente era cambiato dall’ultima volta. La scrivania di mogano era completamente sgombra, ad eccezione di una scatola di sigari su cui Riadh concentrò il proprio sguardo, preparandosi all’incombente sfuriata per aver osato mancare di rispetto al Capitano.

«Hai avuto problemi con quel maledettissimo cane?» domandò di colpo lui e Riadh alzò gli occhi, sorpreso. «L’ho sentito abbaiare da quaggiù» continuò, aspirando le ultime boccate.

Oggi è una buona giornata.

Riadh si sistemò meglio sulla sedia, percependo la tensione allentarsi un po’. Le chiacchiere contribuivano sempre a metterlo a proprio agio.

«Ha solo tentato di azzannarmi una gamba. Ma non è stato abbastanza rapido.»

Morgan volse lo sguardo alla finestra. La ferraglia che aveva al posto della mandibola scricchiolò rumorosamente e il giovane capì, dopo un attimo, che quello era il suo modo di ridacchiare.

«Una bella fucilata e sarebbe sistemato.»

Riadh non riuscì a trattenere un sorriso, pensando che Aibell sarebbe stata più che disposta ad assumersi quell’incarico, giusto per tenersi un po’ in allenamento con il suo amato fucile.

«Ma, bando alle ciance.» Morgan spense il sigaro e si raddrizzò sullo schienale, voltandosi verso di lui, che si affrettò a tornare serio. «Visto che l’ultima volta non ci siamo lasciati nel migliore dei modi.»

Riadh captò il cambiamento di tono, che da neutro si era fatto gelido. «No, affatto, ma cerca di metterti nei miei panni. Ho quasi perso i miei uomini migliori per cercare di catturare un pirata senza identità.»

«Forse non dovresti tenere delle poppanti, tra i tuoi uomini.»

«Non mi risulta che la ragazza che ti portato in manette Wilda Roberts e un’intera ciurma di pirati, giusto per dirne un paio, sia una poppante» osservò Riadh, fissandolo senza batter ciglio. «E, comunque, mi pare che la missione sia andata esattamente come volevi tu.»

A quel commento, Morgan ridusse gli occhi a due fessure e Riadh deglutì, capendo di aver tirato troppo la corda. Di nuovo.

I raggi del sole riflettevano un bagliore sinistro sull’ascia che l’uomo aveva al posto della mano destra. Il moro rabbrividì, pensando che era lì che sarebbe finita la sua faccia, se non si fosse dato subito un contegno.

«Piuttosto» proruppe, «cosa ci faceva lì un pirat…»

«Volevi sapere chi era, giusto?» Lo interruppe lui, afferrando da un ripiano posto accanto alla scrivania un’imponente pila di avvisi di taglia. «I tuoi uomini dopotutto hanno fatto il loro dovere.»

Esclusa la frecciatina su Dawn, era la cosa più simile ad un complimento che probabilmente il Capitano di Vascello gli avesse mai fatto.

Dopo aver spulciato rapidamente tra i manifesti, Morgan posò sulla scrivania un avviso sgualcito e, visto l’effetto che ne conseguì, fu come se vi avesse lanciato una bomba.

«Stai scherzando?»

Riadh si avventò sull’avviso di taglia, senza riuscire a credere ai propri occhi. Forse aveva le traveggole.

«Guardalo bene e dimmi se non è lui.»

Morgan aveva ragione. Il ragazzo riconobbe gli occhi color antracite del pirata che aveva quasi ucciso Zoro sul volto scuro, incorniciato da lunghi ricci neri; qua e là, nella folta capigliatura afro, aveva delle trecce decorate con perline, che gli davano un’aria piuttosto bonaria, quasi ridicola. Ma era solo apparenza, prova il suo aperto sorriso di sfida, denti perfettamente bianchi in contrasto con la carnagione scura, e la ricompensa per la cattura.

Il giovane sbatté le palpebre. Forse vedeva doppio: solo così si sarebbe spiegata la presenza di tutti quegli zeri.

Cento milioni di berry sonanti.

Era la cifra più alta che Riadh avesse mai visto nella sua veneranda carriera di cacciatore di taglie.

«Khalasar D. Thalef» fece Morgan, e Riadh fissò a sua volta le lettere scritte a caratteri cubitali sull’avviso di taglia del pirata, che assumeva finalmente una vera identità.

La voce del Marine, che continuava a parlare, gli giungeva lontana, come ovattata. «Un osso duro, senza dubbio. Questi sono i soldi della ricompensa.»

Aprì un cassetto e posò sulla scrivania la somma di denaro in contanti.

Riadh era ancora incredulo, ma quei soldi, i suoi soldi, lo attraevano in modo irresistibile. Allungò una mano titubante, afferrò la prima mazzetta, frusciante sotto le sue dita, e se la pose in grembo, con la stessa delicatezza con cui vi avrebbe deposto un neonato.

Dovette ripetere l’operazione cinque volte per sgombrare la scrivania.

Morgan pareva quasi divertito dalla situazione. La sua mandibola di ferro cigolò di nuovo. «Fa uno strano effetto, vero? Qua nel Mare Orientale non si trovano pirati che valgano più di dieci milioni.»

Riadh stava giusto pensando che il pirata più fruttuoso su cui avesse mai messo le mani, in quel tratto di mare, gli era valso neanche otto milioni di berry, ma lo tenne per sé. Dopo aver rivolto un ultimo sguardo al manifesto e alla cifra astronomica di cui era di colpo divenuto proprietario, alzò gli occhi.

«Tu sapevi che si trattava di un pirata da cento milioni di berry? Lo sapevi, quando mi hai affidato l’incarico?» mormorò, inchiodandolo con lo sguardo.

Anche se l’espressione del Capitano non mutò, le sue pupille guizzarono impercettibilmente da un lato prima di tornare a fissarlo.

Beccato, pensò Riadh, serrando le palpebre.

«Temevo che, se ti avessi rivelato subito l’identità di questo tizio, ti saresti rifiutato di far intervenire la Gilda» spiegò lui, infine. «Ma non potevamo perdere quest’occasione.»

Tutto d’un tratto Riadh percepì il peso di quei soldi, che divennero macigni sulle sue gambe. Era per quei berry che Zoro aveva combattuto tra la vita e la morte per un giorno intero, che Dawn aveva lasciato la Gilda, forse per sempre. Per quei berry aveva quasi perso la sua famiglia.

«Resta il fatto che ci hai usati per i tuoi scopi» ribatté, incrociando le braccia al petto.

Thalef, intanto, continuava a sorridergli dal manifesto.

«Non potevo perdere questa occasione» ripeté Morgan, meccanicamente.

«Che occasione?» fece Riadh spazientito, maledicendosi l’attimo dopo.

Il Capitano non rispose subito. Sembrava tenerlo sulle spine di proposito. Si alzò in piedi con una calma quasi studiata e, per un lungo attimo, la sua stazza coprì il sole, gettando l’ufficio nella penombra. Dopo essersi voltato verso la finestra, Morgan chiuse le imposte, come per premurarsi che nessuno ascoltasse ciò che stava per dire.

Riadh pensò che fosse davvero paranoico.

«Se fossi uno dei miei stupidi sottoposti, ti direi che l’ho fatto perché non potevamo rischiare che un pirata simile girasse in libertà nelle nostre acque» disse Morgan, continuando a dargli le spalle. «Un intento nobile, degno della mia uniforme. Ma mentirei.» L’uomo si voltò di scatto verso di lui, tanto da farlo sobbalzare. «Tu sai delle voci che girano a Sheltz Town da qualche tempo? Quelle sulla ciurma diretta qui?»

«Certo. Quelle che voi della Marina state mettendo a tacere.»

«Non potrò farlo ancora per molto» borbottò Morgan, grattandosi pensieroso il capo con le dita della mano sana.

Riadh sgranò gli occhi. Dove voleva andare a parare?

«Khalasar D. Thalef è un nome che ti dice poco e nulla, lo so» fece poi, dopo una pausa. «Scommetto che non avevi mai visto un suo avviso di taglia in giro, prima di oggi.»

Riadh si ritrovò ad annuire.

Morgan stava saggiando la scure con la mano sana. «Ma se ti dicessi che si tratta di uno degli uomini di Marco la Fenice? Credo che di lui, invece, tu ne abbia sentito parlare. Anche troppo. Visto che voci dicono che si stia dirigendo proprio qui.»

L’avviso di taglia di Thalef cadde dalle mani di un Riadh stupefatto e finì svolazzando ai suoi piedi.

«Allora è vero?» fu tutto quello che riuscì a blaterare.

Morgan fece un sorriso storto, che gli deformò il volto ancora di più. «Oh, sì. Vengono a riprendersi il loro amichetto.»

Il giovane deglutì. «E tu lo sapevi?»

Ma certo, suo padre. Maledetto Zoro, non un padre qualunque. Il Babbo!

Morgan si chinò a raccogliere il manifesto di Thalef e, dopo averne lisciato i bordi spiegazzati, si rimise rumorosamente a sedere.

«Sono settimane che sorveglio la loro rotta. Anche se adesso sembra siano scomparsi, probabilmente grazie a qualche frutto del diavolo, sono certo che siano qui.»

Di fronte allo sguardo sbalordito di Riadh, in cui probabilmente doveva leggersi la consapevolezza di essere stato ingannato, Morgan parve perdere la calma glaciale dimostrata fino ad allora.

«Hai idea di quante siano le possibilità che una ciurma come quella di Edward Newgate passi attraverso il Mare Orientale? Che costeggi Sheltz Town, nient’altro che uno scaracchio nell’oceano?»

«Quasi uniche, direi» commentò Riadh, che cominciava a vederci più chiaro. Dopo l’iniziale sbigottimento, stava tornando a ragionare con lucidità.

Morgan annuì con slancio. «Un’occasione che non può essere sprecata.»

Riadh capì finalmente cosa intendesse dire. Tutti i pezzi stavano andando al loro posto.

«Quindi tu sapevi da tempo che Barbabianca e i suoi sarebbero passati attraverso il Mare Orientale. Hai scoperto che un membro della divisione di Marco avrebbe attraversato la Rotta dei Delfini e hai fatto intervenire me, perché lo catturassi. Tutto questo…» Riadh si bloccò e alzò gli occhi su di lui. «…per attirare loro sull’isola.»

Morgan annuiva ad ogni sua parola. «Era quasi scontato che i suoi compagni si sarebbero preoccupati per lui, non vedendolo tornare alla nave. Quei pirati si comportano come un’allegra famigliola. Abbiamo attirato nella rete un pesce piccolo» mormorò, accartocciando con la mano sana l’avviso di taglia di Thalef, il cui volto sorridente si deformò fino a scomparire, «ma a breve lo raggiungeranno i pesci grossi. Sono loro quelli che mi interessano.»

Riadh scosse la testa. Il Capitano aveva una visione del tutto discutibile riguardo ai pesci.

«Signore, Thalef sarà anche una nullità in confronto al suo comandante, ma non era affatto un pesce piccolo. Ci sono voluti quattro dei miei migliori uomini per stenderlo» osservò, ed ebbe una fugace visione di Zoro, coperto di sangue, steso nel letto della locanda di Alma. «La mia Gilda non ha alcuna possibilità contro quei pirati. Perché è per questo che mi hai convocato, vero?» continuò in tutta sicurezza. «Perché ti servono i miei cacciatori di taglie.»

Sapeva che gli uomini di Barbabianca erano molto legati gli uni agli altri, lo sapeva meglio di quell’idiota di un Marine, e sarebbero stati pronti a tutto per i propri compagni, il che metteva loro in una posizione molto pericolosa. Aveva giurato a se stesso che non avrebbe più messo in pericolo i suoi uomini, la sua allegra famigliola, ed ecco che quel pazzo di Morgan se ne usciva con quel piano. Che purtroppo aveva già parzialmente messo in atto.

«Erano solo in quattro. Per i prossimi sarete meglio preparati» fece Morgan con un’alzata di spalle, e Riadh capì di aver smascherato i suoi intenti. «Inoltre, è probabile che non vogliano dare nell’occhio, e che quindi giungano sull’isola a piccoli gruppi. Il che rende tutto più facile per voi.»

Il giovane serrò i pugni. «La mia Gilda non è in grado di affrontarli» ripeté. «E poi, non è un dovere dei Marines proteggere la propria città? Hai pensato al pericolo che quei pirati rappresentano per i civili, per l’intera Sheltz Town?»

Morgan scrollò le spalle e Riadh lo fissò, aggrottando la fronte. A pensarci bene, era un’azione quasi prevedibile da un tipo come Morgan. La Marina, l’onore, la divisa… a chi voleva darla a bere? Aveva sempre sospettato dei suoi presunti ideali.

«Non ti facevo un paladino della giustizia» commentò Morgan, la mandibola di ferro che cigolava orribilmente. «Sarò onesto. Quando penso a quei pirati diretti nella nostra città, non m’importa un cazzo di quegli idioti che la abitano. Lo sai a cosa penso? Alla promozione che mi spetterebbe. Commodoro, contrammiraglio… viceammiraglio. Non suona bene, viceammiraglio Morgan?» L’uomo chiuse gli occhi con aria sognante. «Il grado è tutto, Riadh.» Quando riaprì gli occhi, si dovette accorgere di chi aveva davanti, perché la sua espressione si fece quasi compassionevole. «Ma che te lo spiego a fare… a quelli come te importa solo dei soldi, giusto?»

Riadh incassò il colpo senza muovere un muscolo.

«A proposito, ovviamente non lavoreresti gratis. Non credere che non ci guadagneresti, da questa flotta. Quello» Morgan indicò con lo sguardo tutti i soldi che Riadh aveva in grembo, «è solo l’inizio, se accetti di collaborare.»

«E se non accetto?» domandò Riadh, intuendo già la risposta.

Morgan mimò con ciò che rimaneva della sua mano destra un gesto che non ci fu bisogno di ripetere.

Per un attimo, l’immagine di un altro uomo e dell’arma che aveva al posto della mano si sovrapposero a Morgan, prima che Riadh tornasse bruscamente alla realtà. Gli sembrava di vivere un déjà-vu, ma stavolta era diverso. Non aveva via d’uscita. Nel profondo, aveva temuto che quella fosse una strada a senso unico. Morgan non era uno a cui si potesse dire di no a cuor leggero. I suoi uomini sarebbero stati entusiasti di tutti quei soldi, ma a che prezzo? Se anche avesse iniziato ad allenarli fin da subito, rifletté, se anche si fosse messo in prima linea a combattere… sarebbe stato un suicidio.

Riadh fece un respiro profondo, tentando di riacquistare la calma.

«Promettimi una cosa» esclamò, e Morgan lo fissò sorpreso. «Se le cose si mettono male, farai intervenire la Marina» disse, concedendosi di aggiungere, con un sorriso a fior di labbra: «Quella vera

Stavolta fu Morgan a dover incassare. Annuì. «Daccordo.»

«Bene» fece Riadh di rimando, schiarendosi la voce. «Ne discuterò con la Gilda e ti comunicherò al più presto la nostra decisione.»

Morgan lo guardò. Pareva divertito.

«Certo» rispose. «Come se aveste una scelta.»

 

***

 

Le strade della città erano stranamente animate, quella sera. Dalle varie locande illuminate si udiva il vociare dei marinai, di ritorno dai loro viaggi, e quello dei cacciatori di taglie, che millantavano la loro ultima cattura o giuravano d’aver intravisto qualche membro della famosa flotta di Barbabianca.

Zoro si faceva largo tra la folla di persone che, approfittando della serata decisamente calda, avevano deciso di uscire di casa per una passeggiata al calar della sera.

Le ferite non si erano ancora rimarginate del tutto e non riusciva ancora a muoversi perfettamente, ma si stava comunque riprendendo in fretta, tant’è che avrebbe voluto volentieri strapparsi di dosso quelle medicazioni. Ciononostante, aveva dovuto discutere animatamente sia con Alma che con Riadh per uscire e, al solo ricordo, gli veniva da sbuffare. Entrambi, infatti, avrebbero preferito che restasse ancora nella sua camera al Food Foo a riposare e riprendere le forze, ma lui si era opposto. Non sopportava l’idea di continuare a non fare niente a giornate, andava contro la sua natura. E poi non era uscito per farsi una bevuta.

Johnny e Yosaku gli avevano raccontato che Dawn aveva lasciato la Gilda, dopo quello che era successo sulla Rotta dei Delfini. Riadh non aveva detto niente al riguardo, ma Zoro aveva subito intuito che lui c’entrasse qualcosa.

Sebbene non avesse più rivisto la compagna dopo il combattimento, su di lei giravano storie così assurde che non sapeva se crederci o meno. Alcuni dicevano che fosse andata a rifugiarsi nella palude – cosa poco probabile, considerando quanto Dawn odiasse quel posto –, che avesse appiccato fuoco ad una casa, altri sostenevano che in quei due giorni avesse picchiato almeno tre baristi impudenti e rotto qualche tavolo.

In tutti quei racconti c’era una parte di verità, Zoro ci avrebbe scommesso. Lo spadaccino conosceva bene il caratteraccio di Dawn e sapeva che in una situazione del genere ne avrebbe sicuramente combinata una delle sue.

Uscì dalla cittadina e, dopo aver sbagliato strada almeno una dozzina di volte, imboccò finalmente la via che portava alla spiaggia.

Era un luogo in cui la ragazza andava spesso quando voleva stare da sola, perché sapeva che lì nessuno l’avrebbe disturbata. A volte Zoro l’aveva vista sedersi sulla sabbia morbida e guardare il mare e le sue placide onde, immersa in chissà quali pensieri.

Fu lì che la trovò, che passeggiava a piedi nudi sulla spiaggia, sbandando da una parte all’altra. Zoro notò subito che teneva in mano una bottiglia di sakè, ormai mezza vuota. Sospirò e alzò gli occhi al cielo. Dawn non era solita bere, anche perché non riusciva a reggere nemmeno un bicchiere d’alcol. Non doveva essere proprio un gran momento, per lei.

Si avvicinò lentamente, continuando a guardare come si faceva avanti a stento sulla spiaggia.

«Ehi, ragazzina!» la chiamò, facendola voltare.

Quando si rese conto di chi aveva davanti, la cacciatrice scoppiò in una risata sguaiata e alzò la bottiglia in direzione di Zoro.

«Ma chi si vede!» esclamò.

Gli fece cenno di avvicinarsi e, non appena lui le fu accanto, la ragazzina si lasciò cadere scompostamente sulla sabbia. Fece per dare un’altra sorsata, ma Zoro fu più veloce e le strappò la bottiglia dalle mani, con grande disappunto di Dawn.

«Non fare lo stronzo, ridammela!»

«Non ci penso neanche» disse lui, bevendo avidamente.

A quel punto anche lo spadaccino si sedette, gettando via la bottiglia ormai vuota. 

Dawn lo guardò di nuovo, ridendo sommessamente.

«Che c’è?» chiese lui, scoccandole un’occhiata.

«Niente, sono solo sorpresa di vederti» disse lei, avvicinandosi sempre di più. «Pensavo che fossi morto» sussurrò, come se gli avesse appena rivelato un segreto.

«Ci vuole ben altro per farmi fuori.»

Lei si stese sulla sabbia, le mani intrecciate sotto la nuca. Lo spadaccino la osservò chiudere gli occhi, e per qualche minuto il silenzio calò sulla spiaggia. Tuttavia, nessuno dei due provava imbarazzo. Dawn doveva essere troppo ubriaca anche solo per notarlo e Zoro era abituato a quella quiete.

Ad un certo punto, la ragazza aprì un occhio. «Allora, si può sapere perché sei qui? Aspetta, fammi indovinare… ti ha mandato Riadh, sperando che, con i tuoi muscoli, tu possa convincermi a tornare nella Gilda.»

«Già, più o meno» ridacchiò lui.

Ma quanto cazzo è ubriaca?

«Be’, sappi che non riuscirai a convincermi comunque.»

Quando Dawn beveva, si trasformava completamente. Diventava solare e scherzosa, ed in lei non c’era traccia di quella ragazzina sempre arrabbiata e scontrosa, che minacciava di sparargli o mettergli le mani al collo. A Zoro non dispiacevano quei momenti, in cui non dovevano per forza litigare per ogni nonnulla.

«Avanti, alzati» le disse improvvisamente.

Lei si mise seduta, sgranando gli occhi. «Eh?»

«Alzati. Ti riporto a casa.»

Provò a prenderle un braccio, ma lei lo scansò bruscamente.

«Non ci penso nemmeno. L’ho già detto a Riadh, non voglio più sentirmi in quel modo. Ho chiuso, basta, ho bisogno di una nuova vita.»

«Oh, piccola Dawn» la canzonò Zoro, «eri davvero così preoccupata per me?»

«Eh sì, ti piacerebbe» rispose lei, facendo un sorrisetto malizioso.

Si alzò improvvisamente in piedi, avviandosi verso il mare.

Zoro inarcò un sopracciglio. «Che stai facendo?»

Dawn non rispose. Sotto gli occhi perplessi di lui, si tolse la canottiera scura, che lanciò sulla sabbia, e rimase in shorts. Poi si voltò verso lo spadaccino e gli fece un cenno con la mano, i seni nudi rivolti nella sua direzione, i capezzoli scuri che spiccavano impertinenti sulla sua pelle color latte.

«Se vuoi riportarmi nella Gilda, devi prima prendermi.»

Immerse un piede nell’acqua fresca, camminando all’indietro.

A Zoro sfuggì un sorriso. «Se stai cercando di conquistarmi, lo stai facendo nel modo sbagliato. Sei piatta come una tavola.»

Dawn fece finta di non aver sentito e continuò a indietreggiare nell’acqua. Quando le fu arrivata allo stomaco, si girò e si tuffò, sollevando un mare di spruzzi.

Zoro non l’aveva persa di vista un attimo, ovviamente, ma era rimasto sulla spiaggia. Non aveva voglia nessuna voglia di rincorrerla, quindi avrebbe aspettato che uscisse.

Aspettò un minuto.

Due minuti.

Dawn non tornava fuori dall’acqua.

Zoro a quel punto scattò in piedi. «Dawn?»

Non vedendola tornare, corse in acqua senza pensarci due volte, per paura che le fosse successo qualcosa.

«Avanti, non scherzare!»

Incurante delle ferite che presero a bruciargli a contatto con il sale marino, continuò ad avanzare. 

Dawn uscì all’improvviso fuori dall’acqua, sollevando una marea di spruzzi e, scoppiando a ridere come una bambina, cominciò a schizzarlo. «Eri preoccupato per me?»

«Dawn, smettila.»

«Perché? Ti dà fastidio?»

Ormai le sue fasciature erano completamente zuppe, sarebbe stato inutile provare a salvare qualche parte. Non che a Zoro dispiacesse granché. Era un’ottima scusa per liberarsene. «Non mi sfidare, ragazzina.»

Vedendo che però lei non accennava a smettere, Zoro le afferrò la testa e la immerse con forza sott’acqua. Sentiva che Dawn si dimenava, agitando le braccia e schizzando acqua dappertutto, ma non aveva intenzione di mollare la presa. Un sorriso furbo si fece largo sul suo volto.

Quando tornò in superficie, Dawn provò a dargli uno schiaffo, che lui schivò facilmente. 

«Sei proprio un bastardo!»

«Adesso andiamo?»

«Eh no! Prima devi prendermi.»

Dawn era veloce persino in acqua. Schivava con facilità ogni assalto di Zoro, oppure sfuggiva sott’acqua, guizzando da una parte all’altra come un pesce. Lo spadaccino tentava di starle dietro, in quella strana danza, ma era sempre un passo dietro di lei. La sentiva ridere come non aveva mai fatto prima. Forse era la prima volta in cui la vedeva veramente felice.

Appena si accorse di averla più vicino, la circondò rapido con un braccio e la bloccò, quasi soffocandola. Con la mano libera, le immobilizzò le braccia dietro alla schiena.

«Presa.»

Uscirono dall’acqua senza dire nulla. Dawn si passava le mani tra i corti capelli bruni, cercando di sistemarseli dietro le orecchie. Provò a camminare dritta, ma finì comunque con lo sbandare contro Zoro, che prontamente la sorresse.

«Non sei più così in forma, eh?» la prese in giro.

La cacciatrice si passò una mano sulla fronte. «Mi gira la testa... forse non avrei dovuto bere così tanto» ammise con un sorriso.

Entrambi si sedettero sulla sabbia. I loro sguardi si incrociarono nuovamente, e nessuno dei due distolse lo sguardo. Senza dire nulla, sembrava che entrambi fossero diventati consapevoli del loro legame, di ciò che si era creato lavorando fianco a fianco nella Gilda.

«Potresti almeno aspettare di ricevere la taglia. A quel punto deciderai cosa fare» proruppe Zoro, rompendo il silenzio e rivolgendo lo sguardo verso il mare.

Dawn sembrò pensarci su. «Sì, mi sembra ragionevole.»

Lo spadaccino le appoggiò delicatamente una mano sulla testa, sovrappensiero, e Dawn lo guardò stupita. «E questo cosa sarebbe, un gesto d’affetto?»

«Vaffanculo» borbottò lui, ritraendo subito la mano.

Dawn ridacchiò sommessamente. «Ti stavo solo prendendo un po’ in giro, non te la prendere. Puoi essere un grande anche spadaccino anche se ogni tanto dimostri di avere dei sentimenti.»

Zoro distolse lo sguardo dalla compagna. La frase di Dawn gli aveva riportato alla mente tutto ciò che era successo e che l’aveva fatto arrivare fin lì. Tutto quello che avrebbe ancora dovuto fare, se avesse voluto essere un grande spadaccino.

«È quello che vuoi diventare, giusto?»

Il ragazzo annuì senza guardarla.

«Perché?» continuò a chiedere lei. «Perché proprio lo spadaccino?»

Zoro sospirò, chiedendosi da dove venisse tutta quella curiosità. Fino a quel giorno lei non aveva mai chiesto nulla sul suo passato, perché lui non aveva mai chiesto nulla del suo. Entrambi erano sempre stati molto discreti.

«L’ho promesso ad un’amica. Lo faccio per lei» disse, sperando di chiudere lì la conversazione.

Dawn non chiese altro. Malgrado la sbronza, doveva aver captato il suo cambiamento di voce e forse non voleva infierire.

«Vieni, su» le disse allora Zoro, alzandosi in piedi e relegando il ricordo di Kuina, delle sue promesse e degli errori compiuti nel Paradiso in un angolo della mente.

Dawn stava per ribattere, ma lui la interruppe sul nascere. «Per una volta puoi fare come ti dico senza discutere?»

Lei sbuffò, ma non ribatté. Recuperò la sua canotta, si alzò in piedi barcollando e, vedendo che non riusciva a reggersi in piedi, Zoro si chinò e la prese sulle spalle, sospirando con rassegnazione.

Lei lo circondò con gambe e braccia, appoggiando la testa sulla sua schiena.

«Cerca di non addormentarti» l’ammonì lui, guardandosi intorno per cercare di capire da dove fosse arrivato.

Voltandosi un attimo verso Dawn, vide che la ragazzina aveva già chiuso gli occhi, sicuramente per fargli dispetto. Stava sorridendo.

Non credeva di averla mai vista con un’aria così serena e, senza neanche rendersene conto, si ritrovò a sorridere anche lui.

 

***

 

Riadh arrancava lungo la salita che portava a casa, trascinando a fatica l’ingente borsone che Morgan gli aveva dato sulla ghiaia del vialetto. Se disgraziatamente la tela avesse dovuto rompersi, facendo rotolare tutti i soldi a valle, sarebbe stata la fine. Cercò di non pensarci.

Il tetto della villa che gli era stata lasciata da quando era rimasto solo al mondo, e nella quale era tornato ad abitare da quando aveva deciso di ritirarsi dall’organizzazione, svettava oltre le fronde dei pini che la circondavano. Imponente e statuaria, era situata in cima alla collina più alta di Sheltz Town, abbastanza lontana dal paese e dalla Marina. Riadh non avrebbe potuto chiedere di meglio da un’abitazione.

Tendendo l’orecchio, riusciva a sentire chiaramente le grida dei suoi uomini che provenivano dalla casa. Decisamente, non era stato l’unico a subire il fascino della villa e non c’era giorno in cui non si maledicesse per aver avuto la malsana idea di metterla a disposizione degli uomini della Gilda. Un giorno o l’altro sarebbe caduta a pezzi.

Quando, dopo aver faticosamente salito i gradini dell’ingresso, giunse di fronte all’imponente portone in legno di quercia, lasciò andare il borsone e bussò con entrambi i pugni, sperando che bastasse a sovrastare il frastuono. Non aveva voglia di mettersi a cercare le chiavi. Sapeva che qualcuno dotato di un udito abbastanza fine lo avrebbe sentito. Con suo sollievo, fu proprio così.

La porta venne aperta e Riadh fu libero di sgusciare all’interno, trascinandosi dietro il peso del pirata affrontato da Dawn e Zoro, destinato a marcire in una delle squallide celle della centrale, e del folle piano in cui Morgan lo aveva coinvolto.

«Grazie» disse Riadh, ricacciando il pensiero di Thalef e Morgan in un angolo della mente, rivolto ad Ektor, un fidato membro della Gilda, e alle sue orecchie.

«Non c’è di che, capo» fece lui, spostandosi per farlo avanzare. «E questo cos’è?» aggiunse, indicando il borsone.

«Vedrai» tagliò corto Riadh, incamminandosi lungo il corridoio diretto alla sala, Ektor che lo seguiva fedelmente. Man mano che procedeva, le grida e le risate si facevano sempre più chiare.

Quando videro chi aveva appena varcato la soglia del salone, gli uomini che fino ad un attimo prima stavano facendo allegramente baldoria si zittirono di colpo.

Riadh fece un respiro profondo e, prima che tutti potessero accoglierlo a gran voce, alzò una mano e fece loro segno di fare silenzio. Per un attimo l’occhio gli cadde sul grande divano che, dalla parete, era finito rovesciato al centro della stanza, ai vetri rotti sul pavimento, ma poi scrollò le spalle. Non gli importava. Anzi, in cuor suo sperava che le cose potessero rimanere così per sempre, che al suo ritorno potesse sempre ritrovare casa sua in quello stato.

«Dobbiamo fare una riunione» annunciò, realizzando in un soffio che le sue speranze erano del tutto vane.

Quello era l’inizio della fine, e lui lo sapeva. Aveva già provato sulla pelle una volta la loro forza. I pirati più forti di tutti i mari stavano per fare visita a Sheltz Town e, per quel che ne sapeva, potevano essere addirittura già sbarcati sull’isola.

Riadh si ricosse. A maggior ragione, non c’era tempo da perdere.

 
 
 
Ehilà!
 
Finalmente entriamo nel vivo della storia. Morgan, il principale antagonista (e fa già ridere così) fa qui la sua prima apparizione. Ammetto che mi diverto un sacco a scrivere le sue scene (tra matti ci s’intende, capite). È completamente pazzo, paranoico, corrotto fino al midollo e, nonostante ciò, la Marina lo lascia a tiranneggiare, e ha pure messo nei guai il povero Riadh. Mi dispiace sinceramente che Rufy lo abbia fatto fuori dopo un capitolo e mezzo, perché come personaggio mi intrigava. Probabilmente il “mio” Morgan sarà un po’ più forte, ma non troppo. Come vi avevo accennato, questa storia ha diversi problemini, tra cui l’ENORME sproporzione di forze (Barbabianca e Morgan, cos’è, una barzelletta?) ma diciamo che i nostri eroi non arriveranno allo scontro diretto se non dopo un bel po’. E Morgan non sarà da solo, in quel momento… Ma mi sto dilungando troppo.
 
Niente da dire su Dawn e Zoro… sono dei ciccini ç-ç Comunque tenete a mente quella palude accennata da Zoro, perché ci servirà.
 
Io, nel frattempo, inizio a buttare lì qualche indizio sul passato di Riadh ;) Tra parentesi, il suo rapporto con Zoro è una delle parti di cui preferisco scrivere, le origini della loro “fratellanza” si delineeranno pian piano e spero piacciano anche a voi <3 In ogni caso, a tempo debito sapremo che ci fa questo cacciatore a Sheltz Town, qual è la sua storia, come mai sembra conoscere Newgate, qual è il patto che ha stretto col diavolo, eccetera eccetera :P Una cosa: Riadh non dà del lei/voi a Morgan come si dovrebbe fare di fronte ad un ufficiale ma, trattandosi di un cacciatore di taglie (ergo, la feccia della società), mi sembrava un po’ inverosimile XD
 
Ringrazio _Fenixx per la sua recensione (sei gentilissima!) e anche chi le ha dato solo silenziosamente un’occhiata. Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto!
 
Un bacio e alla prossima,
Cassidy.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


CAPITOLO IV
 
“I crash landed in a Louisiana swamp
Shot up a horde of zombies, but I come out on top

What’s it all about?
Guess it just reflects my mood
Sitting in the dirt
Feeling kind of hurt”
 
Marco ne aveva visti di posti. Il Babbo lo aveva portato in lungo e in largo, dal torrido deserto di Alabasta alle profondità dell’Isola degli Uomini Pesce, ma raramente aveva visto luoghi così poco ospitali come quello che ora gli si profilava davanti.

«Cos’è esattamente questa… cosa?» proruppe Ace, guardandosi intorno con aria preoccupata.

Marco si voltò a fissarlo. Allora non era l’unico ad aver avuto quell’impressione. Nonostante si trovasse perennemente in disaccordo con il giovane e focoso pirata da poco unitosi alla loro ciurma, stavolta Marco non poteva che convenire con lui.

«Sembrerebbe una palude» disse.

In quel preciso istante, a pochi metri dalla sponda, la loro barchetta si arrestò di botto. Colti di sorpresa, i due pirati si tennero saldamente al parapetto per non perdere l’equilibrio.

Osservando l’acqua sporca e fangosa, Marco ipotizzò che fosse ormai bassa e che la deriva della loro barca si fosse insabbiata. Difficile a dirsi, comunque, perché la superficie era spaventosamente torbida. E puzzava pure, realizzò il pirata dopo un momento.

Si tirò su, fissando Ace con una certa insistenza.

«Scordatelo. Io non scendo» fece lui, capendo al volo. Incrociò le braccia al petto e ricambiò il suo sguardo con sfida.

Marco sospirò. Era troppo stremato dal viaggio – chi aveva dovuto remare fino a lì, ovviamente? – per discutere.

«Grazie dell’aiuto» borbottò, balzando agilmente fuori dalla barchetta.

Il movimento brusco sollevò un getto d’acqua melmosa che colpì Ace in pieno, strappandogli un urlo.

Mentre il moro tentava convulsamente di ripulirsi, tra un’imprecazione e l’altra, Marco sorrise tra sé e sé. Si chinò a tastare il fondo della barca, cercando a tentoni la deriva, che scoprì essere diversi centimetri sotto la sabbia. Capendo che sarebbe stato impossibile liberarla, si alzò in piedi e, recuperata la cima d’ormeggio dalla prua, avanzò nell’acqua scura, con l’orlo dei pantaloni che si inzaccherava sempre più ad ogni passo.

«Forse dovresti scendere» azzardò Marco dopo neanche un metro, sbuffando per la fatica. Non solo non muoveva un dito per aiutarlo, ma non era neanche un peso piuma!

Stranamente, Ace obbedì senza protestare. Quando Marco lo udì scendere, tirò la cima e la barca filò leggera dietro di lui. Superati i pochi metri che lo separavano dalla sponda, uscì dall’acqua e, con l’aiuto di Ace che spingeva da poppa, trascinò l’imbarcazione sulla riva sabbiosa.

«E adesso?» domandò Ace.

Mollata la fune, Marco fu libero di guardarsi intorno. Davanti a loro si ergevano alberi e arbusti che probabilmente non avevano mai visto la mano dell’uomo, le cui fronde rigogliose coprivano quello che forse un tempo era stato un sentiero, ormai interamente ricoperto dal verde. Intorno, solo silenzio.

Marco scacciò con la mano un ramo che gli stava solleticando una guancia. Quel posto non gli piaceva per niente.

«Proseguiamo» mormorò in tono che non ammetteva repliche, mettendosi in marcia.

Ace sbuffò e per un attimo Marco temette che si sarebbe rifiutato di seguirlo. Osservandolo con la coda dell’occhio, però, vide che il ragazzo gli stava venendo dietro, e si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.

L’ultima cosa che desiderava, in quel momento, era fare da balia ad Ace D. Portgas.

Dopo aver tentato senza successo di sconfiggere il Babbo in combattimento e dopo che i suoi Pirati di Picche si erano uniti alla ciurma, tutti speravano che Ace piegasse il capo e iniziasse a dimostrare loro un po’ di lealtà, ma così non era stato. Il giovane pirata aveva continuato a fare di tutto per tentare di uccidere Barbabianca, ovviamente senza alcun risultato. E, con tutto quello che era successo di recente, la ciurma aveva deciso di spedire Ace insieme a lui e di impegnarlo nella ricerca di Thalef, così che non fosse d’intralcio al Babbo per un po’.

Ma Marco aveva problemi più urgenti a cui pensare, anziché preoccuparsi di quel ragazzino ribelle che sembrava godere nel rallentarlo, come capire cosa fosse successo a suo fratello, apparentemente scomparso nel nulla durante un giro d’avanscoperta.

In ogni caso, non era preoccupato per Thalef. Malgrado avesse ancora molto da imparare, il giovane pirata era perfettamente in grado di cavarsela da solo, ed era certo che non gli fosse successo nulla. Andiamo, erano nel Mare Orientale. Probabilmente era accaduto qualcosa alla sua barchetta e, per non affogare, era stato costretto a recarsi sull’isola prima di loro. Avrebbero setacciato il porto ed ogni locanda della città, cercando di non dare nell’occhio e, dopo averlo trovato, avrebbero aspettato il Babbo per mettere in atto il piano. Certo, se solo quel ribelle di Ace si fosse attenuto agli ordini.

Con l’immagine di Thalef che gli danzava dietro le palpebre, avanzarono tra gli arbusti nel più completo silenzio, interrotto solo dai rami che si spezzavano sotto le suole delle loro scarpe e il respiro che si faceva sempre più pesante per la mancanza di aria.

«Ah, che schifo!» esclamò Ace all’improvviso.

«Che succede?»

Marco si voltò nella sua direzione, giusto in tempo perché un nugolo di zanzare gli volasse dritto in faccia. Tossì e sputò, agitando convulsamente le mani per liberarsi degli animali, e solo il pensiero che se avesse aperto la bocca gli si sarebbe riempita di insetti lo trattenne dal bestemmiare.

Quando riuscì finalmente a riaprire gli occhi, si trovò davanti il sorriso sornione di Ace.

«Ops…»

Marco sospirò. «Fa’ attenzione al sentiero» borbottò poi, riprendendo a camminare, scacciando con le dita qualche zanzara superstite.

Aveva notato che la terra asciutta si stava facendo sempre più rarefatta, sostituita dal fango muschioso della palude, tanto che ben presto furono costretti ad avanzare sempre più lentamente, mettendo un piede dietro l’altro come se stessero camminando sopra una fune. Tutt’intorno, pozze di acqua torbida coperte di muschio che fecero loro storcere il naso per la puzza.

«Be’» commentò Ace, «di certo non corriamo il rischio di incontrare qualcuno, in questo posto.»

Marco non replicò, ma in cuor suo stava sperando lo stesso. Dopotutto, era per quella ragione che avevano deciso di sbarcare in quel luogo inospitale. Sia lui che Ace erano armati e pronti ad ogni evenienza, ma Marco voleva evitare di dare nell’occhio e non avrebbe voluto coinvolgere dei civili inutilmente. Il Babbo era stato irremovibile su quel punto. Avevano raggiunto l’isola della conchiglia con uno scopo ben preciso, ma dovevano agire in fretta e senza arrecare inutili danni.

Su quell’ultimo punto Marco non era molto sicuro, dato che non poteva fidarsi di Ace. Avrebbe voluto considerarlo un fratello come tutti gli altri, lo desiderava davvero, ma il suo comportamento ostinato, che tanto divertiva lui e i suoi compagni, mentre attentava con scarso successo alla vita del Babbo, in quell’occasione rischiava solo di rallentarlo. Strinse i denti, ripensando alle risate di Izo, Satch e gli altri, quando era stato deciso che Ace partisse con lui. Sulla Moby erano già in corso le scommesse, con chi credeva che Marco sarebbe riuscito a domare i bollenti spiriti di Pugno di Fuoco e lavrebbe fatto tornare a bordo docile come un agnellino, e chi sosteneva che Ace sarebbe riuscito a far vacillare persino la sua incrollabile pazienza.

Lanciò un’occhiata di sbieco al moro, che in quell’istante stava lottando contro i rami di un albero, dietro di lui, e si trattenne dal levare gli occhi al cielo.

Dopo quella che parve loro un’eternità, i due pirati sbucarono finalmente fuori dalla fitta vegetazione. Di fronte a loro si apriva un vasto spiazzo erboso privo di alberi.

Un particolare, in mezzo a quella radura, attirò la sua attenzione.

«Merda» fece Marco, passandosi le mani fra i capelli.

Ace seguì il suo sguardo e spalancò la bocca. «Non posso crederci! Chi diavolo abiterebbe in un posto del genere?» Senza attendere risposta, aggiunse, cogitabondo: «Un orco, forse.»

Davanti a loro si ergeva una casetta, così fuori luogo rispetto all’ambiente circostante che sembrava precipitata lì dal cielo. Situata all’ombra degli alberi, era piccola, con una facciata di mattoni in pietra e due finestrelle rettangolari dal quale non sembrava provenire alcuna luce. La flebile speranza che fosse disabitata si disintegrò quando Marco vide levarsi un filo di fumo dal comignolo.

«Vuoi andare a chiederglielo?» fece il biondo indietreggiando, di colpo all’erta.

Malgrado stesse calando la sera, erano comunque troppo esposti in quel punto e, se non si fossero immersi subito nella boscaglia, avrebbero rischiato di essere visti.

«Be’, perché no?» esclamò Ace d’improvviso, illuminandosi.

Sotto gli occhi perplessi di Marco, il ragazzo si avviò passo svelto in direzione della casa.

Marco gli andò dietro, afferrandolo per un braccio e costringendolo a fermarsi. «Che stai facendo, sei impazzito?»

Ace si voltò verso di lui, liberandosi con uno strattone. «Vado a bussare a quella porta» disse poi, e sembrò godere della confusione comparsa per un momento sul volto impenetrabile del compagno. «Magari possono dirci come uscire da questa schifosa palude. E darci qualcosa da mangiare. Tu non hai fame?»

Marco fece appello a tutto il suo autocontrollo. Fortunatamente per Ace, ne aveva in abbondanza. «Non puoi. Potrebbero sapere chi siamo. Rischi di mandare tutto all’aria, Ace, non lo capisci?»

Uno scintillio balenò negli occhi neri di Ace. «Forse voglio mandare tutto all’aria. Non me ne frega niente della vostra ciurma e del vostro piano. Tantomeno di quel Thalef. Sono i tuoi uomini, non i miei.»

Marco arretrò d’istinto. Quelle parole lo avevano colpito come uno schiaffo. «Quegli uomini sono la tua nuova famiglia» disse poi, senza riuscire a capacitarsi del fatto che per Ace non fosse altrettanto ovvio.

Per tutta risposta, il moro sbuffò e scosse la testa, senza mai smettere di fissarlo. «Voi non sarete mai la mia famiglia.»

Detto ciò, gli diede le spalle e fece rotta verso la casetta di pietra.

Marco lo osservò incamminarsi, le parole di lui marchiate a fuoco nella sua testa. Poche cose lo scalfivano, e tra quelle rientrava attaccare la sua famiglia. Dopo che lo avevano risparmiato, dopo che lo avevano accolto a bordo come un fratello. Aveva dovuto trascinare con sé quella zavorra fin sull’isola, si era dovuto sorbire tutti i suoi capricci, e doveva anche stare a guardare mentre quell’idiota mandava in fumo tutti i suoi piani!

«Non ti azzardare» sibilò, cercando di non alzare la voce. «Non ci provare neanche!»

Si mise a correre nella sua direzione, ventilò l’idea di usare i poteri del frutto, che in meno d’un attimo gli avrebbero consentito di raggiungerlo, poi ci ripensò, perché non voleva ferire inavvertitamente il fratello e, mentre era tutto preso dalle sue riflessioni, Ace era già bell’e arrivato a destinazione.

Il moro salì rapido i gradini che portavano all’ingresso, si voltò un’unica volta nella sua direzione con un’espressione furbetta e, senza smettere di fissare Marco, bussò alla porta.

 

***

 

«Te la sei cavata, Alma» disse il capo. «Ma non mi aspettavo niente di meno dalla figlia di Ririka.»

«Grazie» sorrise lei, che in quel momento si stava allacciando il grembiule, pronta ad entrare in turno.

I primi clienti serali stavano iniziando ad arrivare, facendo tintinnare il campanello all’ingresso, e ben presto, così le avevano detto le sue colleghe, il locale sarebbe stato pieno zeppo.

La giornata era volata e, tolto il piccolo intoppo generato dai Marines, era filato tutto liscio. La sua mente andò di colpo a Riadh, a com’era stato prelevato di malo modo da lì, e si augurò che l’amico non si fosse cacciato in qualche guaio. Poi tornò ad osservare il locale, che pian piano andava riempiendosi. Certo, non poteva negare che un po’ le mancasse il Food Foo. Se fosse stata lì, in quel momento, probabilmente avrebbe visto arrivare Aibell, Riadh e i suoi uomini, appena tornati da un’intensa giornata di lavoro e vogliosi di rinfrescarsi la gola. Avrebbe assistito ai battibecchi di Zoro e Dawn, agli aneddoti di Riadh, agli incontri di Aibell con i suoi clienti. 

Alma sospirò piano. Nulla di tutto ciò sarebbe accaduto quella sera. Se non altro, pensò, sarebbe stata una serata tranquilla, senza i suoi focosi amici a piantare grane.

Vedendo che una coppia le stava facendo un cenno dal tavolo, si affrettò ad avvicinarsi per prendere l’ordinazione.

«Due pinte di birra» le disse l’uomo, sorridendole, la mano stretta a quella che doveva essere la sua compagna, sul tavolo.

«Subito.»

Alzando gli occhi dal loro tavolo, Alma intercettò per una frazione di secondo lo sguardo di un uomo, in un angolo del locale. Il genere di individuo che si sarebbe aspettata di trovare in una bettola del porto. Sedeva da solo, in disparte, aveva folti capelli grigi e l’aspetto trasandato. Quasi stonava con il resto dei presenti.

Alma abbassò subito lo sguardo e tornò a passo svelto al bancone, sapendo che non era così che si sarebbe dovuta comportare. Ma lo sguardo di quell’uomo l’aveva turbata. Solo quando si trovò dall’altra parte del bancone, al sicuro, fu in grado di alzare di nuovo gli occhi. Lui la stava ancora fissando.

Vorrà solo ordinare.

Deglutendo a vuoto, Alma riempì due calici di birra e lì portò al tavolo della coppia.

Loro la ringraziarono, ma lei udì a malapena le loro voci, concentrata com’era sulla sua prossima mossa. Facendo un respiro profondo ed ignorando il tamburellio del suo cuore nel petto, Alma prese il coraggio a due mani e si avvicinò al tavolo dello sconosciuto.

«Vuole ordinare?» Aveva sperato che la sua voce suonasse tranquilla e sicura di sé, ma il tremolio tradì la sua apparente calma.

L’uomo sorrise, mettendo in mostra i due denti davanti che gli mancavano. Alma si sentì venire meno, ma si sforzò di sorridere a sua volta.

«Saké» rispose lui, dopo un lungo momento.

«Certo» fece lei, girando sui tacchi.

Mentre si recava al bancone, poteva sentire gli occhi di lui bruciarle sulla schiena.

«E così, hai conosciuto Squalo.»

Mentre afferrava una bottiglia di sakè, Alma si voltò verso il capo. «Eh?»

Lui indicò con un cenno l’uomo sdentato in fondo al locale. «Squalo» ripeté, indicandosi poi i denti davanti, come ad indicare che fosse quella la ragione del soprannome affibbiatogli.

Alma non replicò. Afferrò un bicchiere e fece per stappare la bottiglia, cercando di ignorare l’ansia che le serpeggiava nel petto. Quell’uomo non le aveva fatto nulla e, malgrado l’aspetto poco rassicurante, non c’era motivo perché lei reagisse in quel modo. Eppure, aveva captato qualcosa in lui, qualcosa che l’aveva messa in allarme, come un cerbiatto quando sente avvicinarsi un cacciatore in punta di piedi. Non lo può ancora vedere, non sa che è lì, ma sente scricchiolare le foglie del sottobosco, e sa che deve tenersi all’erta.

«No, no» esclamò il capo, facendola di tornare di colpo alla realtà. «Portagli pure tutta la bottiglia. A Squalo piace trincare.»

Alma annuì, affrettandosi a poggiare bicchiere e bottiglia su un vassoio, e poi fece per dirigersi al suo tavolo, dal quale Squalo continuava a fissarli.

«Ah, Alma» la chiamò il capo, come si fosse ricordato all’improvviso di qualcosa.

Lei si arrestò, voltandosi nella sua direzione con aria confusa.

«Non ti preoccupare per lui» le disse, quasi le avesse letto nel pensiero. Forse aveva notato l’improvviso pallore sul suo volto. «È un tipo un po’ strano, ma non è cattivo.» Dopo una pausa, in cui evitò di guardarla, aggiunse: «È solo… sensibile al fascino femminile, ecco. Ma se non attiri l’attenzione e ti comporti bene, non ti darà fastidio.»

Alma deglutì a vuoto. «Va bene» mormorò poi, debolmente.

Lei non attirava mai l’attenzione. Lei si comportava bene. Se lo ripeté come un mantra, mentre si avvicinava a passo lento al tavolo dell’uomo.

Lei non attirava mai l’attenzione. Lei si comportava bene.

«Ecco il sakè» mormorò.

Poggiò sul tavolo il bicchiere e la bottiglia il più rapidamente possibile ma, quando ancora la sua mano era nella sua traiettoria, l’uomo ebbe un fremito e le afferrò di scatto il polso.

Lo stomaco di Alma si capovolse.

«Come ti chiami?» chiese l’uomo, scrutandola con i suoi occhi da cacciatore.

La sua presa sul suo polso era dolorosa, e stringeva così forte che Alma per un momento temette che le avrebbe spezzato l’osso, mentre l’attirava a sé.

Il cuore che le scoppiava nel petto, Alma artigliò il vassoio con la mano libera, ponendolo davanti a sé come uno scudo, e si guardò intorno alla ricerca d’aiuto, tra i numerosi avventori che chiacchieravano e le cameriere che giravano fra i tavoli. Incrociò infine lo sguardo del suo capo, in quel momento dietro la cassa che, accortosi della situazione, si limitò a farle un cenno con il capo, come a dire “Lascialo fare.”

«Alma» disse lei con un filo di voce, cercando di sottrarsi a quella stretta.

Lui, però, non sembrava avere alcuna fretta di lasciarla andare, le unghie sudice piantate nella sua carne. Lei non lo guardava, la gola arsa e una smorfia di terrore sul volto. Teneva gli occhi fissi in quelli del capo, ma lui distolse in fretta lo sguardo da lei e da quella scena, come se la cosa non lo riguardasse.

«Sei nuova?»

«Sì» rispose lei, rigida come un ciocco di legno, sempre senza guardarlo.

Con la coda dell’occhio, vide che il sorriso sdentato dell’uomo si era fatto più largo. «Allora ci rivedremo, pupa.»

Fu con quelle parole nient’affatto rassicuranti che infine la lasciò andare.

Alma si allontanò come se avesse preso la scossa, massaggiandosi il polso dolorante, i segni delle sue unghiate rimasti impressi sulla pelle. Aveva la nausea, come se avesse mangiato qualcosa che le aveva dato fastidio.

Le ultime parole di lui, suonate al pari di una minaccia, continuavano a rimbombarle nella testa.

Fece un respiro profondo, mentre raggiungeva il bancone, dal quale il capo le fece un breve cenno, come fosse soddisfatto di come aveva gestito la cosa. Dopotutto, lei era un’esperta nella tecnica dell’indifferenza. Era abituata a lasciarsi scivolare addosso i commenti sconci, gli sguardi lascivi e le mani che s’infilavano sotto il grembiule.

Sì, si disse, sarebbe andato tutto bene.

Si sarebbe comportata meglio, e non avrebbe più attirato la sua attenzione.

 

***

 

«Marco la Fenice» lesse Aibell, srotolando l’avviso di taglia sul tavolo.

Un tizio dalla faccia squadrata, gli occhi non particolarmente svegli e ridicoli capelli biondi – che alla ragazza ricordarono vagamente un ananas – ricambiò il suo sguardo dal manifesto.

«Non riesco a credere che un tizio con questa faccia possa valere tutti questi milioni» borbottò fra sé, grattandosi la nuca.

In fin dei conti, poco le importava. Se quello era uno degli uomini più forti della ciurma di Barbabianca e stava davvero venendo lì a Sheltz Town, non se lo sarebbe fatto certo sfuggire. Si aspettava di doversi battere con pirati dall’aspetto feroce, dei veri bruti, ma quel tipo non la metteva granché in soggezione, e non poteva che essere un bene. Avrebbe fatto meglio il suo lavoro.

La sua mente corse a Riadh, che probabilmente doveva aver concluso da un pezzo il suo colloquio con Morgan. Chissà cosa gli aveva raccontato, chissà se anche lui ricopriva un ruolo nella faccenda, come lei credeva che fosse. Non vedeva l’ora di saperne di più.

Srotolò con cura gli altri avvisi di taglia sul tavolo, studiando i volti e le cifre dei membri della ciurma di Barbabianca, i palmi che le prudevano dall’eccitazione. Accanto a lei, oltre a tutte quelle pergamene, un bicchiere di sakè che ogni tanto si portava alla bocca, gustandoselo con calma, e un coltello infilato per metà nel legno del tavolo. Non ricordava come fosse finito lì – forse stava litigando con qualcuno – ma osservandolo Aibell si compiacque, come potesse già immaginarlo nelle schiene di quei pirati. Anche se, a pensarci bene, era davvero improbabile che usasse un coltello da cucina. Lanciò una fugace occhiata al fucile d’assalto appeso a un gancio del muro, all’ingresso, e sorrise, prima di abbassare di nuovo gli occhi sui manifesti.

«Marco la Fenice» ripeté, riponendo testa-d’ananas in fondo al tavolo. «Jaws» continuò, osservando la foto di un omone dalla faccia allungata che pareva un gorilla. «Satch» proseguì, spostando il volantino di un tizio dall’assurda capigliatura bombata e l’aria elegante, che poco si addiceva a quella di un pirata. Alzando il manifesto dell’uomo successivo, Vista, vide che vi erano dozzine e dozzine di altri avvisi di taglia, e gli occhi le si illuminarono.

Ma quanti cazzo sono?

Quando Riadh avesse sguinzagliato i cacciatori della Gilda, certo, non sarebbe stato facile stare al loro passo, ma nella ciurma di Barbabianca c’era tanta di quella carne fresca che ognuno sarebbe riuscito ad averne un pezzetto. O, almeno, così sperava.

«Questo deve essere quello nuovo» mormorò poi tra sé Aibell, soffermandosi sul ritratto di un giovane dai capelli corvini e le lentiggini. E una ricompensa di quattrocento milioni di berry.

Fu in quel momento che bussarono alla porta.

Aibell alzò gli occhi dall’avviso di Ace D. Portgas con uno sbuffo, lanciando un’occhiata alla porta chiusa e poi al tavolo ingombro di carte, il coltello che spuntava a metà dal legno, il disordine e la sporcizia sul pavimento. Chi diavolo poteva essere, a quell’ora?

Forse un cliente.

Strano. I suoi clienti si contavano sulle dita di una mano mozza, e quei pochi di solito non s’arrischiavano a venire lì, specialmente al calar della sera. Tuttavia, malgrado non ricevesse spesso visite, a volte qualche sporadico individuo, che aveva sentito le voci in giro su di lei e voleva scoprire se fossero vere o meno, era capitato. C’era chi trovava eccitante in modo morboso il fatto che, dopo aver fatto la scopata del secolo, non sapesse se si sarebbe svegliato il giorno dopo oppure no. Aibell non riusciva a capire quelle dinamiche, ma in fin dei conti non le importava granché. L’importante era che pagassero.

Si alzò in piedi con uno sbuffo, lanciando un’ultima occhiata al marasma che aveva lasciato sul tavolo prima di recarsi alla porta. Poggiò la mano su una maniglia ma, prima di abbassarla, si premurò di guardare dalla finestra, dalla quale cominciavano a intravedersi le ombre della sera, stando attenta a non essere vista dall’esterno.

Per poco non cadde a terra. Spalancò la bocca, la mascella sospesa a mezz’aria.

La faccia squadrata. Gli occhi non particolarmente svegli. I ridicoli capelli biondi.

E l’altro. Capelli corvini e lentiggini.

I pirati a cui aveva intenzione di dare la caccia avevano appena bussato alla sua porta.

 

 
Questo capitolo necessita di due precisazioni. Innanzitutto, una mia decisione che interferisce con la storia principale: Ace si unisce alla flotta di Barbabianca (e gli è ostile) due anni prima della narrazione. Inizialmente, la mia storia doveva collocarsi in quel lasso di tempo, poi sono stata costretta ad ambientarla in tempi moderni (non me ne voglia Chaplin, lol), quindi in teoria Ace dovrebbe essere fedelissimo al Babbo, anzi, dovrebbe già essere sulle tracce di Teach. Qui non è così, anche se mi sono immaginata che, ai tempi di Alabasta, tutto sia più o meno come nella storia principale. Insomma, qui le cose accadono solo molto più velocemente.
 
Altra precisazione, direttamente collegata a questa. Marco ed Ace non sono ancora culo e camicia, e spero di non cadere nell’OOC perché il loro rapporto prima che Ace giurasse fedeltà a Barbabianca è abbastanza oscuro, se non che Marco gli fa capire la filosofia che c’è tra di loro ** Quindi, insomma, sono andata molto di fantasia, con Marco che è diviso tra i suoi doveri fraterni e l’irritazione che gli suscita questo combinaguai che si diverte a fare sempre il bastian contrario. Per quanto riguarda Ace, mi sono immaginata che la sua forzata permanenza sulla Moby, unita al fatto che molti membri degli Spade Pirates lo stessero “tradendo”, avvicinandosi sempre di più a Barbabianca, potessero provocare in lui un fastidio e un dolore tali da farlo agire in questo modo indisponente :P Però, ecco, è opera della mia più becera fantasia e libera interpretazione dello speciale su Ace, quindi mi scuso se non apparirà molto accurato :)
 
Non ho nulla da dire sulla scena di Alma se non… POVERINA ç-ç Ed è solo l’inizio delle disavventure per la nostra locandiera.
 
La palude come dimora di Aibell, comunque, è motivo di grande ilarità tra me e la mia migliore amica da tempo immemore. Per un certo momento abbiamo pure parodiato il nome della cittadina in “Shrek Town” per ovvi motivi, immaginandoci Aibell che si affacciasse alla soglia davanti ai due pirati ed esclamasse “Questa è la mia palude”. Per questo non ho potuto che far pronunciare ad Ace la frase sull’orco, lol. Tra l’altro, io ho una vera e propria passione per le paludi (sì, sono pronta per un TSO). Però non so, sono dei posti che mi affascinano moltissimo, specialmente i bayou della Louisiana con tutti i riti legati ai Cajun! **
 

Sono molto emozionata all’idea di pubblicare il prossimo capitolo, che è quasi delirante. Riuscirà Aibell nella sua impresa? Ovviamente è una domanda retorica, le prenderà di brutto XD 

Ringrazio di cuore _Fenixx per la recensione e chi ha dato alla storia anche soltanto un
occhiata!

Un bacio e a presto,
Cassidy.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


CAPITOLO V

“Don’t believe a word
For words are so easily spoken
Don’t believe me, don’t believe me
Not a word of this is true”

 

Aibell deglutì a vuoto.

Erano proprio loro, i due pirati dei volantini. Erano esattamente come nelle fotografie. Marco la Fenice, con quell’improbabile ciuffo di capelli biondi e l’espressione trasognata, una camiciola viola lasciata aperta sul petto tatuato, pantaloni a mezza gamba e sandali; Ace Pugno di Fuoco, con un cappello che gli copriva parzialmente gli sbarazzini capelli mori, la camicia gialla sbottonata sul torace, pantaloni e il fodero di un coltello appeso al fianco.

Aibell poteva vedere chiaramente la taglia che pendeva sulle loro teste, lì fuori dalla finestra, senza neanche un minimo sforzo d’immaginazione, tanto a lungo aveva studiato quei manifesti.

Cazzo. I manifesti.

Con terrore, Aibell si voltò verso il tavolo, ricoperto dagli avvisi di taglia.

Merda, merda, merda.

Lanciò un’ultima occhiata fuori dalla finestra e, nel vedere che Marco la Fenice stava cercando di strattonare il compagno via dall’uscio, il cuore prese a batterle all’impazzata. Non poteva farsi sfuggire quell’occasione. Non sarebbe riuscita a sconfiggerli entrambi in combattimento, per cui doveva giocare d’astuzia. Gli tornò in mente Riadh che la prendeva in giro, dicendole che finalmente avrebbe avuto modo di concludere una cattura, s’immaginò che la vedesse in quell’istante, ma accantonò in fretta e furia quel pensiero. Aveva altro a cui pensare.

Si lanciò verso il tavolo, arraffò tutto quello che riuscì a mettere fra le mani, corse fino allo sgabuzzino sul lato destro della parete, aprì la porta con un calcio e vi buttò tutti i manifesti, le mappe e gli appunti che aveva, in un fruscio di fogli e imprecazioni.

Bussarono di nuovo.

«Cazzo!»

Aibell corse di nuovo verso il tavolo, litigò con il coltello da cucina finché non riuscì a estrarlo dal legno e, dopo averlo abbandonato lì, si guardò intorno con il cuore in gola.

No, no, c’erano ancora troppe cose che non andavano.

Correndo come una forsennata, tornò a prendere il fucile all’ingresso e raccattò tutte le pistole in vista che riuscì a trovare, facendo sparire tutto all’interno dello sgabuzzino.

Quando fu sicura che il suo atrio assomigliasse a quello di una qualsiasi persona civile e non di una sanguinosa cacciatrice di taglie, chiuse lo sgabuzzino a chiave, se la cacciò nella tasca dei pantaloni e corse ad aprire la porta.

 

Marco tirò un sospiro di sollievo. «È evidente che non c’è nessuno.»

Ace gli lanciò un’occhiataccia. «Forse non hanno sentito.»

Fece per bussare di nuovo, ma stavolta Marco lo afferrò per la manica della camicia e lo strattonò via dall’uscio, strappandogli un’imprecazione.

«Che diavolo fai!»

«Ce ne andiamo» borbottò il biondo, allontanandosi e trascinandosi dietro il moro. «Siamo stati anche troppo fortunati.»

Fu in quel momento che, con un cigolio che lasciava ben poco all’immaginazione, la porta si spalancò.

Merda.

«Chi siete?»

Marco ed Ace si immobilizzarono.

Davanti a loro, ritta sull’ingresso, era apparsa una giovane donna dai lunghi capelli bruni raccolti in una treccia. Era piuttosto carina, si ritrovò a pensare Marco, con un viso ovale e lineamenti delicati e, a giudicare dall’espressione da triglia lessa di Ace, lì accanto a lui, anche il moro doveva aver pensato la stessa cosa.

Indossava una canottiera nera che metteva in risalto due seni piccoli e sodi, e un paio di pantaloni larghi, da lavoro, che non davano molti indizi sul fisico che vi fosse al di sotto. L’espressione della ragazza era innocente, di genuina sorpresa. Ma a colpire Marco furono i suoi occhi. Erano bruni, ma anche da quella distanza poteva vedere quanto fossero arrossati, come se avesse pianto.

«Ciao!» esclamò Ace, tornando subito sui suoi passi.

Trattenendosi a stento dall’afferrarlo per il colletto della camicia, Marco lo osservò allontanarsi da lui senza che potesse fare nulla.

Sul volto della giovane comparve un largo sorriso. «Ciao.»

«Siamo nuovi di qui» proseguì Ace, salendo i gradini. «Sai, siamo appena sbarcati.»

Marco si morse la lingua, facendosi avanti a sua volta, nel tentativo di salvare la conversazione.

«Volevamo sapere come si arriva in città» disse.

«… se potevamo fermarci per cena» disse Ace nello stesso istante.

I due si scambiarono un’occhiataccia.

La ragazza ridacchiò sommessamente, poi schiuse le labbra in un sorriso. «Certo che potete fermarvi a cena» disse, osservandoli a lungo, prima di aggiungere: «E posso anche spiegarvi la strada per arrivare in città.»

«Sì!» esclamò Ace, facendo un sorriso a trentadue denti.

«Grazie» rispose Marco, azzardando un passo in avanti.

La ragazza si affrettò a farsi da parte per lasciar libero l’ingresso. «Prego, entrate.»

«Abiti sola?» domandò Ace, già sull’uscio, sbirciando all’interno della casa.

La ragazza annuì. «Siete stati fortunati a trovare la mia casa. È l’unica della zona. Cosa ci fate nelle paludi di Sheltz Town?»

Marco si affrettò a seguirli all’interno dell’abitazione, temendo che Ace si lasciasse sfuggire qualcosa. Guardò fuori solo un’ultima volta, verso la fitta vegetazione della palude e le sagome di quella che doveva essere la centrale della Marina, in lontananza, prima di entrare. Erano ancora troppo lontani dalla città.

Chiudendosi la porta alle spalle, la giovane parve notare il suo turbamento e lo scrutò con i suoi occhi tristi. «Va tutto bene?»

Marco annuì piano, fattosi guardingo di fronte a tutto quell’interessamento. Quella ragazza pareva fin troppo gentile nei loro confronti. Per quanto sembrasse sincera, non era abituato a ricevere tutta quell’ospitalità, e sentiva che sarebbe stato meglio rimanere all’erta.

Eppure, forse non c’era nulla sotto. Forse lei abitava davvero da sola, e non c’era nessuno in quella casa pronto a battersi con loro in un fiacco tentativo di accaparrarsi la taglia vertiginosa che pendeva sulle loro teste. Forse quella sperduta ragazza di campagna non aveva la minima idea di chi fossero loro due, troppo isolata per essere a conoscenza della vita di città e degli affari dei cacciatori di taglie.

Poi ricorse all’Ambizione.

«Avete un posto dove stare, stanotte?» sentì che chiedeva ad Ace, che nel frattempo si era già spaparanzato su una sedia, i gomiti poggiati sul tavolo come fosse stato a casa sua.

Marco si guardò intorno, cauto. L’interno dell’abitazione era piccolo e accogliente, per quanto spoglio e trasandato. La porta dava su un atrio di modeste dimensioni, dalle pareti color salmone, nel quale troneggiavano un lungo tavolo di legno tarlato, una brandina poggiata contro il muro, un camino acceso e due armadi sgangherati. Sul lato destro si apriva una stanza che, sbirciando, Marco scoprì essere una piccola cucina, stretta e lunga. Sul lato sinistro, invece, c’erano due porte, poste l’una vicina all’altra. La prima era chiusa, mentre l’altra era aperta per metà e, intravedendo il corrimano di una scala, Marco ipotizzò che dovesse condurre ad una cantina.

«In effetti, no» rispose Ace, pensoso.

«Possiamo trovare una locanda» si affrettò a rispondere Marco. «Così saremo più vicini alla città.»

«Non state a scomodarvi» disse lei sorridendo. «Potete fermarvi qui. Io vivo sola, qui di posto ce n’è in abbondanza. E poi, non mi dispiace avere un po’ di compagnia.»

Ace stava già annuendo entusiasta e Marco capì che, se avesse voluto andarsene, avrebbe dovuto litigare con lui, che gli avrebbe di sicuro dato contro e, come minimo, avrebbe deciso di rimanere lì per partito preso. Non poteva lasciare suo fratello lì ma, come l’Ambizione gli aveva rivelato, nessuno dei due rischiava granché neanche se fossero arrivati ad uno scontro fisico. Avrebbe escogitato qualcosa senza dare nell’occhio.

Mentre rifletteva, si mise ad osservare distrattamente le pareti, alle quali erano appesi svariati bozzetti di Sheltz Town e l’isola a forma di conchiglia sul quale sorgeva, disegnati a matita, ma la ragazza si affrettò a sospingerlo verso il tavolo, quasi come non volesse che curiosasse troppo in giro.

Mentre lo faceva accomodare, chiese: «Cosa dovete sbrigare in città?»

«Dobbiamo incontrare un amico» si affrettò a rispondere Marco, prima che lo facesse Ace, con un’alzata di spalle. «Ripartiremo presto.»

«Bene» mormorò la ragazza, per poi lanciare un’occhiata ai bozzetti che Marco stava osservando un attimo prima. «Be’, vi accorgerete che avete scelto un luogo piuttosto deprimente per un incontro.»

L’espressione di Ace si fece d’un tratto pensierosa. «Non mi pareva un brutto posto, dalla Mob…»

La gomitata che Marco gli assestò nelle costole lo mise bruscamente a tacere.

«Se ti riferisci a questa palude, non posso darti torto» mormorò, rivolto alla giovane, per poi afferrare un coltello che giaceva nel mezzo del tavolo, come fosse stato dimenticato lì. «Cos’è, hai intenzione di farci fuori?» chiese distrattamente, mettendosi a giocherellare con la lama, curioso della reazione che avrebbe suscitato in lei.

Dopo un attimo di silenzio, la ragazza scoppiò a ridere, gli occhi fissi nei suoi. «Stavo giusto iniziando a preparare la cena. Mi avete interrotta.»        

Ace, che nel frattempo si stava massaggiando il punto in cui lo aveva colpito, alzò di colpo gli occhi. «Cena?»

Lo sguardo della ragazza si spostò rapidamente sul moro. Doveva essersi accorta che a lui non era sfuggito il suo attimo di esitazione, prima che si mettesse a ridere per stemperare la tensione creatasi.

Gli strappò il coltello dalle mani, sempre evitando accuratamente di guardarlo. «Vi va bene della zuppa?»

Gli occhi di Ace si illuminarono. «SÌ!»

 

Recatasi in cucina, Aibell poté finalmente smettere di sorridere come un’idiota.

Non riusciva a stare ferma, tanta era l’adrenalina che aveva in corpo. Accese il fuoco, versò dell’olio in una pentola capiente, vi buttò due agli sbucciati e la pose sul fornello. Le mani le tremavano febbrilmente.

Quella era l’occasione della sua vita. Non sapeva bene come e perché, ma il destino per una volta pareva averle sorriso.

Quanto ai pirati, il moro sembrava un pezzo di pane, ed ingannarlo sarebbe stato facile come rubare delle caramelle ad un marmocchio. Con la Fenice, invece, avrebbe dovuto essere più cauta. Pensava che sarebbe stata una bazzecola ingannarlo, ed invece quei suoi occhi imperscrutabili le erano parsi piuttosto sospettosi. Non sembrava essersi bevuto fino in fondo la favoletta della ragazza che viveva nell’idillio della campagna, e stava ancora troppo all’erta per i suoi gusti, specialmente dopo l’attimo di incertezza che aveva avuto con quel dannato coltello, che adesso giaceva sul ripiano della cucina, a pochi passi da lei. Quando aveva incrociato il suo sguardo, poi, aveva avuto una strana sensazione, come se il ragazzo stesse cercando di leggerle dentro, ma si disse che si trattava di suggestione. Non poteva essere successo sul serio. In ogni caso, a giudicare da come battibeccavano, i due pirati non sembravano andare molto d’accordo l’uno con l’altro, e questo poteva giocare a suo favore.

Diede un’occhiata all’aglio che sfrigolava nell’olio per accertarsi che non bruciasse, e si mise a tagliare a rondelle carote, patate e cipolle direttamente nella pentola. Era così agitata che sentiva che di lì a poco si sarebbe affettata un dito.

«Che profumino delizioso!» sentì Ace esclamare, dall’altra stanza, e sorrise.

«Vedrai» gridò lei in risposta. «La mia ricetta è un portento.»

Specialmente con un certo ingrediente segreto…

Aibell ringraziò il giorno in cui aveva deciso di riporre i veleni insieme alle spezie, nel mobiletto in alto della cucina, sopra la sua testa. Sarebbe stata dura trovare una buona scusa, se avesse dovuto mettersi a frugare nei cassetti nell’altra stanza, sotto gli occhi dei due pirati, alla ricerca delle sue polveri.

Dopo aver finito di affettare le verdure ed aver abbassato la fiamma, Aibell si mise a frugare nel ripiano. Le serviva qualcosa di inodore, potente ed efficace. I due non sarebbero dovuti arrivare all’indomani. Belladonna o cicuta, pensò. In alternativa, poteva servirsi dei semi di mela e di mandorle amare che aveva ridotto in polvere e dalla quale aveva ricavato del cianuro.

Le sue mani si bloccarono quando le dita si strinsero sui coperchi dei vasetti che le servivano, sui quali era stata attaccata un’etichetta, ormai rovinata e sbiadita – fortunatamente li conosceva a memoria – e ne rivelarono l’interno. Erano vuoti.

«Merda!»

«Tutto bene?» Era la voce di Ace.

Aibell imprecò fra i denti. «Sì, sì. Mi sono solo bruciata» disse poi, sforzandosi di mantenere un tono di voce pacato.

Non poteva aver finito tutti i suoi veleni. Non quel giorno. Eppure, non era un’ipotesi così improbabile. Era da tempo che non ricorreva a quegli stratagemmi, e non aveva più controllato le sue scorte.

La mente di Aibell correva veloce. C’erano dei cespugli di belladonna, poco lontano da lì, ma non poteva uscire di casa per andare a raccoglierla. Avrebbe perso del tempo prezioso e rischiato di farsi scoprire.

Poi ebbe un’idea. Prima di metterla in atto, però, Aibell tolse dal fuoco una mestolata di zuppa – la sua porzione – e la mise in un piatto. Se non l’avesse mangiata anche lei, avrebbe certo attirato qualche sospetto.

Sbuffando, si mise poi a frugare con gesti nervosi nel mobiletto tra ciò che le rimaneva. Spostando mazzetti di timo, maggiorana, menta, e dozzine di altre erbe e spezie, riuscì a recuperare un po’ di passiflora, valeriana e camomilla, che si affrettò a gettare nella pentola. Non troppi, realizzò poi, o i due ne avrebbero avvertito il sapore. Avrebbe potuto coprirle con delle spezie, ma in tal caso il biondo avrebbe di certo iniziato a sospettare qualcosa.

Per incrementare l’effetto delle piante, Aibell lasciò cadere nella pentola svariate pasticche di barbiturici, procurate grazie a Riadh, dopo averle pestate nel mortaio. Non troppe, o non avrebbe più avuto nulla da assumere quando lei sarebbe venuta a farle visita nel sonno.

Aibell cominciò lentamente a rimescolare la zuppa, finché la polvere bianca non venne del tutto incorporata nel composto, e sorrise.

Un sonnifero. Non abbastanza generoso per mandarli all’altro mondo, ma sufficiente per stenderli ben bene. Il fatto era che adesso, senza veleni e senza una dose letale di barbiturici, avrebbe dovuto finire lei il lavoro. Pensò d’istinto al suo fucile, chiuso nello sgabuzzino, e sospirò piano.

«Serve una mano?»

Aibell si riscosse di botto. Cacciò tutte le piante e le pastiglie che c’erano in giro all’interno del mobiletto e lo chiuse di scatto, per poi voltarsi in direzione della voce.

Ace si era affacciato nella cucina, sorridendo con aria cordiale, e lei tentò di imitarlo.

«No, non importa» si affrettò a dire, lanciando un’occhiata alla zuppa che andava sul fuoco e al suo piatto, fortunatamente fuori dalla visuale di Ace perché nascosto dalla pentola.

Lui però non accennava a schiodarsi di lì, forse per la fame, e lei non aveva bisogno di ulteriori distrazioni. Il giovane si era messo a giocherellare con la fiamma del fornello e, dopo un attimo di spaesamento, Aibell ricordò che il pirata era soprannominato “Pugno di Fuoco” per una ragione.

«Ecco, magari puoi mettere la tovaglia» esclamò poi, aprendo un cassetto. «Al resto penso io.»

Non ricordava di averla messa una volta, da quando viveva lì, ma avrebbe fatto di tutto pur di sbarazzarsi della sua presenza. Avrebbe potuto dirgli di apparecchiare, certo, dato che le posate si trovavano nell’armadio del soggiorno ma, pensando alla quantità di armi e munizioni che c’erano in quei cassetti, insieme a forchette e coltelli, non la ritenne un’idea oltremodo saggia.

«Va bene» rispose Ace, allontanandosi dai fornelli e lanciando un’ultima occhiata colma di desiderio alla zuppa.

Aibell fece per passargli la tovaglia. Fu un attimo, il tempo di sfiorarsi le dita. Un’immagine.
 

Fuoco. 
Urla strazianti.
Guerra che infuria alle loro spalle.
Odore di carne bruciata e di sangue e di morte.

 

Aibell tentennò, e dovette appoggiarsi al ripiano della cucina per non cadere a terra.

Ace, nel frattempo, le aveva dato le spalle ed era tornato nell’altra stanza. Non sembrava essersi accorto di nulla.

Grosse lacrime avevano cominciato a cadere dagli occhi di Aibell, che si affrettò ad asciugarsi rabbiosamente le guance, il corpo ancora scosso dagli spasmi. L’immagine era stata straordinariamente vivida, come se l’avesse avuta davanti, la potenza di quella morte tale da sconquassarle il corpo e l’animo contro la sua volontà.

Cercò di regolarizzare il respiro. Raramente, nelle visioni di lei, le capitava un tale coinvolgimento emotivo, come se fosse stata in qualche modo legata a quel pirata.

Serrò i pugni. Niente di tutto ciò sarebbe mai successo. Il suo sguardo corse al coltello da cucina, ad un passo da lei. La fine di Ace D. Portgas sarebbe stata quella notte.

 

La casa era immersa nel buio. Nessun suono, al di fuori dei pirati che russavano della grossa, giù in cantina.

Musica per le orecchie di Aibell.

La ragazza si alzò dalla branda e avanzò in punta di piedi fino allo sgabuzzino. Avrebbe potuto camminare anche normalmente, pensò poi, dato che, grazie al sonnifero, quei due non si sarebbero svegliati neanche se in mezzo alla palude fosse caduto un asteroide.

I due pirati, con grande piacere di Aibell, parevano aver gradito la zuppa, in particolar modo Ace che, di fronte alla sua faccia esterrefatta, aveva fatto il bis almeno sei volte. Ad un certo punto aveva smesso di contare. Sembrava che il ragazzo non mangiasse da settimane, mentre trangugiava la zuppa e leccava il piatto fino a renderlo immacolato. 

«Fa sempre così» aveva detto Marco, a mo’ di spiegazione, forse notando la sua espressione perplessa, prima di portarsi un cucchiaio di zuppa alla bocca.

Lì per lì, vedendo che il moro le stava finendo tutte le scorte, Aibell aveva provato una punta di fastidio ma, si era detta poi, se fosse riuscita a mettere mano sulla sua taglia, non avrebbe più avuto alcun problema con le proprie finanze. Aveva controllato con attenzione quasi morbosa ogni loro movimento, ed era certa che entrambi avessero assunto una dose di sonnifero tale da non rappresentare più alcun problema.

Aibell cacciò la chiave fuori dalla tasca dei pantaloni e trafficò al buio con la serratura, finché la porta dello sgabuzzino non si aprì. Cercò a tentoni il fucile e, dopo aver richiuso la porta, si assicurò di avere abbastanza proiettili.

Vedendo che in canna le era rimasta una sola cartuccia, attraversò la stanza fino all’armadio. Teneva le munizioni nel cassetto di sinistra, ben nascoste sotto un mucchio di fogli.

Aprì il cassetto con impazienza, cercando il pacco di munizioni a tentoni.

«’fanculo» mormorò.

Non c’erano.

Impossibile. Era certa che fossero lì. Controllò ancora, ricontrollò meglio, poi frugò anche nei cassetti adiacenti, bestemmiò, andò a prendere una candela, tornò all’armadio e ripeté tutto daccapo. Niente.

Aibell levò gli occhi al cielo. Certo, quando i due pirati si erano presentati alla sua porta aveva fatto il colpo del secolo, ma continuava ad incontrare ostacoli lungo la strada. Sembrava che qualcuno, lassù, volesse proprio che lei si sporcasse le mani.

E va bene, pensò, mettendosi il fucile a tracolla e recandosi in cucina a prendere il coltello. Mentre attraversava la stanza, la lama brillò di un bagliore sinistro, illuminata da un pallido raggio di luna che penetrava dalla finestra, ed Aibell si perse nell’osservarla.

Non avrebbe mai scambiato il suo fucile per nulla al mondo, certo, e chi s’imbatteva in lei munito di spada era già bell’e morto, ma doveva ammettere che le armi da taglio avevano il loro perché. Come aveva spesso sentito dire da Riadh, ci voleva un certo gusto e una certa fantasia nel maneggiarle, nel sapere dove incidere e tagliare, nel sentire il sangue scorrere sulle mani. Era un’arte.

Quando varcò la soglia della cantina, il coltello in mano e la candela accesa nell’altra, a colpirla fu un odore intenso ed acre, acuito dalla totale assenza d’aria.

Aibell arricciò il naso. Forse c’era un topo morto da qualche parte.

Cercando di ignorare quell’odore pungente, Aibell iniziò a scendere gli scalini che portavano alla cantina, le travi di legno che scricchiolavano sotto il suo peso e la luce tremolante della candela che deformava la sua ombra contro il muro. Il fucile le dondolava sulla schiena ad ogni passo, ed era una presenza confortante.

Trovò i pirati addormentati sulle brandine di fortuna che aveva improvvisato qualche ora prima, in modo da dare ai suoi ospiti almeno la parvenza di un giaciglio. Marco dormiva tranquillo, con il capo rivolto verso il soffitto, rigido come un morto, mentre Ace era a pancia in giù, a bocca spalancata, e russava come un trombone.

Aibell scosse piano la testa, quasi divertita da quella situazione. Si rese conto che, quando avesse toccato il moro, avrebbe di nuovo visto quelle immagini, e di colpo tutta la sua sicurezza vacillò. Poi spostò gli occhi su Marco. Si sarebbe dedicata prima a lui. Per l’altro, sarebbe ricorsa all’unica cartuccia che le era rimasta nel fucile.

Con rinnovata sicurezza, poggiò il fucile e la candela su uno scaffale, abbastanza vicina perché illuminasse la stanza, e si fece vicino al pirata biondo, il coltello stretto in mano. In quel momento, si accorse che quell’odore acre si era fatto di colpo più forte.

Che sia lui che puzza come una fogna?

Trattenendo il fiato, montò a cavalcioni su di lui e gli spinse indietro il mento con la mano libera, cosicché il punto sul collo su cui avesse posato la lama fosse ben visibile.

Poi Marco aprì di colpo gli occhi.

«Cercavi queste, prima?»

Aibell trasalì di botto, il coltello quasi le cadde dalle mani. Nel suo campo visivo comparvero per una frazione di secondo le munizioni che non aveva trovato nel cassetto, e lei tentennò per un attimo. Quel momento di esitazione fu sufficiente perché Marco le tirasse un pugno nello stomaco, mozzandole il fiato, e riuscisse a sgattaiolare via da sotto di lei.

«Brutto stronzo» ringhiò Aibell, balzando giù dal letto e facendo per saltargli addosso.

La rabbia la stava divorando e mille domande le ronzavano per la testa. L’aveva visto mandare giù quella zuppa con i suoi occhi, com’era possibile che…

La consapevolezza le arrivò dritta in faccia come il pugno di Marco, l’odore acre che continuava a tormentarla.

L’ha vomitata.

«Barbiturici, eh?» Marco si abbassò, evitando per un soffio la lama del coltello. «Ace ci è cascato in pieno. Ma, che rimanga tra me e te, lo preferisco di gran lunga quando dorme.»

Essendo disarmato, il biondo era chiaramente in svantaggio, ma non sembrava avere affatto paura di essere colpito. Si lanciò su di lei e la spinse contro il muro della cantina, mandando all’aria dozzine di scatoloni. Rumori di metallo e vetri rotti si sovrapposero per un attimo al russare di Ace, che nel frattempo continuava a dormire beatamente.

Aibell gli piantò il coltello nell’avambraccio nel tentativo di liberarsi, ma Marco non sembrò quasi accorgersene, ed infine lei si ritrovò con le spalle al muro, le sue braccia immobilizzate da quelle di lui, da una delle quali continuava ad uscire un fiotto di sangue.

«Ti ho colpito» gli disse, incredula, tornando a guardarlo negli occhi.

La totale calma di lui la spiazzò. Di colpo ebbe paura di quell’uomo, che non aveva neanche battuto ciglio dopo essere stato ferito gravemente, ma si guardò bene dal darlo a vedere.

«Niente di irreparabile» fece lui, scrollando le spalle. «Non vali neanche una trasformazione» aggiunse, aggrottando la fronte. Poi spostò le mani sul suo collo e strinse.

Aibell boccheggiò, e d’istinto gli piantò il coltello nella spalla, ancora e ancora, la mano stretta spasmodicamente sul manico. Si mise a dare calci contro di lui, mentre infieriva sul suo corpo con il coltello, il sangue che le schizzava le mani e la faccia, ma lui non cedette la pressione di un millimetro. Malgrado le ferite inferte, il suo corpo sembrava fatto d’acciaio, e non risentiva di un colpo.

Aibell cominciò a mugolare, le coltellate si fecero meno profonde di quel che avrebbe voluto, e sentì che tutto il suo corpo stava iniziando a tremare. La vista le si annebbiò. Anche se non poteva vederlo, sapeva che la pelle del viso stava cambiando colore, in assenza di ossigeno. Ancora qualche attimo e il suo corpo avrebbe smesso di agitarsi.

«Mal… Maled… Mal…» gorgogliò, prima di afflosciarsi su se stessa.

Udì indistintamente il rumore del coltello che colpiva il pavimento. Poi fu a terra anche lei. Non vedeva niente. Si sentì trascinare per la stanza, poi percepì una superficie rigida contro la schiena e qualcuno che le strofinava qualcosa di ruvido contro la pelle. Capì. Marco la stava legando con una corda ad uno dei pali che sostenevano il soffitto.

Aibell tentò di aprire gli occhi ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a mettere a fuoco. Poteva percepire la presenza del pirata che incombeva su di lei, l’odore del vomito e del sangue, ma si sentiva intontita come se fosse stata sotto effetto di droghe.

Quando dovette aver finito, l’uomo andò a recuperare il fucile dallo scaffale su cui Aibell l’aveva lasciato e si avvicinò di nuovo a lei.

Vedendo indistintamente i suoi piedi muoversi nella sua direzione, una paura sorda le attanagliò lo stomaco e la consapevolezza la fece tornare di colpo lucida. L’avrebbe uccisa.

Marco l’afferrò per il mento, costringendola a guardarlo in faccia. Aibell strinse gli occhi per cercare di metterlo a fuoco. L’uomo non dava alcun segno di cedimento, e le pareva che le ferite che gli aveva inferto – compresa quella sul braccio, di gran lunga la peggiore – non vi fossero più, come se non l’avesse mai colpito. Sbatté le palpebre, l’immagine dell’uomo che le danzava davanti, sdoppiandosi e riunendosi ad ogni battito di ciglia. Non era possibile. Si disse che non era lucida, e che la vista annebbiata le stava giocando qualche brutto scherzo.

«Ho ricevuto l’ordine di non uccidere civili» mormorò il pirata, un’ombra di incertezza che gli attraversava lo sguardo, e il cuore di Aibell prese a battere all’impazzata. «Ma i cacciatori di taglie non rientrano in questa categoria.»

«No!» esclamò lei, precipitosamente, cercando di mettere a fuoco la sua faccia e capire così le sue intenzioni. «Lasciami andare, ti prego. Giuro che non vi darò mai più alcun fastidio» mentì, e simulò anche un singhiozzo nel tentativo di rendersi credibile. La sua mente, nel frattempo, correva veloce. Forse, se fosse riuscita a liberarsi, avrebbe potuto avvertire Riadh – c’era il lumacofono, nell’armadio! – ed insieme sarebbero riusciti ad ammazzarli…

«Vorrei che fosse vero.» Il sorriso mesto dell’uomo la riportò bruscamente alla realtà. «Ma la tua mente è un libro aperto per me.»

Che diavolo significava? Il volto di Marco si era fatto di colpo così inespressivo da sembrare una maschera. Aibell era così concentrata a tentare di decifrarlo che quasi non si accorse del suo fucile puntato contro di lei. Si riscosse solo quando udì il rumore dello sparo.

Il dolore la colpì all’improvviso, propagandosi all’unisono in tutta la gamba. Aibell si trattenne a stento dall’urlare e si morse il labbro a sangue. Lacrime calde cominciarono a sgorgarle dagli occhi.

«Non ti ho colpito l’arteria» le annunciò Marco, distogliendo in fretta lo sguardo per recarsi dal suo compagno, ancora profondamente addormentato. «Ti ho regalato sei ore, o poco più. Puoi ancora salvarti.»

Malgrado gli occhi appannati dalle lacrime, abbassando lo sguardo Aibell poté vedere il buco che il proiettile le aveva aperto nella gamba, squarciandole i pantaloni. Sotto di lei andava formandosi una pozza di sangue. Il dolore era tale che avrebbe voluto urlare a squarciagola, ma si trattenne ancora.

Marco tornò da lei a passo lento, il suo fucile in mano. Teneva Ace sulle spalle.

«Ci hai provato, ma non potevi ingannare la mia Ambizione. Comunque, sei piuttosto in gamba per essere una novellina» fece lui, avvicinandosi sempre di più. «Qual è il tuo nome?»

Per tutta risposta, Aibell gli sputò in faccia.  

«Be’, me lo sono meritato.» Marco si asciugò il viso e un sorriso triste si delineò per un momento sulle sue labbra. «Se Ace fosse sveglio, ti ringrazierebbe per l’ospitalità» aggiunse, incamminandosi sulle scale.

Aibell si lasciò cadere contro il palo, le lacrime che continuavano a scorrerle lungo le guance. Udì i gradini scricchiolare sotto il peso dei due pirati, sperò ardentemente che almeno uno cedesse e li facesse cadere, ma non accadde nulla. Ascoltò i passi di Marco che solcavano la soglia della cantina e attese che attraversassero l’atrio, proprio sopra di lei, e si facessero sempre più lontani.

Aspettò e aspettò ancora, mentre la rabbia la consumava quasi quanto il dolore del proiettile penetratole nella carne. Il sangue le ribolliva nelle vene. Quello stronzo. Quel maledetto stronzo.  

Aibell serrò i pugni. Se fosse riuscita a liberarsi, quell’idiota dai ridicoli capelli biondi l’avrebbe pagata cara.

E sarebbe riuscita a liberarsi.

La paura tornò ad attanagliarle lo stomaco, seppure per un altro motivo. Non osava usare i suoi poteri in combattimento, non vi ricorreva mai ma, se stavolta non l’avesse fatto, sarebbe morta di certo.

“Puoi ancora salvarti”, le aveva detto il pirata. Certo, come no. Nessuno passava mai per la palude di Sheltz Town e nessuno si sarebbe accorto della sua assenza, se non forse Alma e Riadh, ma era notte fonda. Lei non aveva modo di contattarli e, se anche i suoi amici avessero notato la sua assenza, non si sarebbe mobilitati fino all’indomani mattina. L’avrebbero trovata morta lì.

Aibell alzò gli occhi verso il soffitto. Forse sarebbe morta comunque. Se tutte le fondamenta avessero ceduto nello stesso istante, sarebbe rimasta schiacciata tra le macerie. E, se disgraziatamente avesse fatto cadere la candela, avrebbe dato fuoco all’intera abitazione e le esalazioni l’avrebbero uccisa.

Sospirò amaramente. Non aveva altra scelta.

Chiuse gli occhi, serrò i pugni, si concentrò sul dolore più forte che poté. E urlò.

 

 
Sognavo questo capitolo da anni, non sto scherzando. Mi faceva così ridere l’idea che questi due finissero ospiti di una spietata cacciatrice di taglie che ci scrissi persino un tema al LICEO (la professoressa mi fece pure i complimenti per la fantasia, ignara di tutto).
 
Come vi è parso? Del tutto inverosimile? OOC oltre ogni limite? Non lo so, però spero che vi abbia divertito quanto ha divertito me scriverlo. Aibell ci prova, ma ovviamente nulla può contro la forza e l’Ambizione di Marco, che la smaschera in quattro e quattr’otto (ma decide di stare al gioco perché non vuole vedersela con Ace). Una doverosa precisazione: quando i due lottano nello scantinato, tecnicamente le rigenerazioni di Marco dovrebbero essere talmente repentine da non far stillare una sola goccia di sangue (almeno, è così che ci vengono mostrate), ma mi sono presa una licenza poetica perché volevo far scorrere del sangue in questa cantina. Non fateci caso, ho dei problemi.
 
Altra cosa che mi tormenta: Marco può rigenerare le proprie ferite, ma può anche guarire dalle malattie, dagli avvelenamenti e… dai farmaci? Non ero sicura che potesse neutralizzare l’effetto dei barbiturici grazie ai suoi poteri, così, nel dubbio, ho fatto sì che vomitasse la cena (niceeee). Però è un dubbio atroce che ho, e forse correggerò il capitolo in futuro. Il fatto che abbia qualche remora nel voler sparare ad Aibell (CICCINO <3) lo trovo in linea con il suo personaggio e con lo spirito della sua ciurma… però non potevo neanche renderlo troppo misericordioso, dopotutto lui ha percepito le sue intenzioni omicide, le sue bugie, e lei stava praticamente per sgozzarlo ç-ç Però spero di aver fatto intendere che non gli ha fatto alcun piacere farlo!
 
Non dimentichiamoci, ovviamente, che Aibell è venuta a conoscenza di un’importante verità su Ace! :P Perché, poi, ha avuto questa reazione da fangirl? Scopriremo che è in qualche modo legata a lui (e non solo). Ma per il momento è interessata solo alla sua testa, quindi si fa poco e nulla di quest’informazione.
 
Ringrazio Fenix per la sua recensione (grazie, grazie, grazie!) e chi segue la storia silenziosamente.
 
Al prossimo (improbabilissimo) capitolo,

Cassidy.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


CAPITOLO VI

“You are a brick tied to me that’s dragging me down
Strike a match and I’ll burn you to the ground

So we can take the world back from a heart attack
One maniac at a time we will take it back

Hey young blood, doesn’t it feel like our time is running out?”
 

«Guarda chi ti ho riportato.»

Riadh, spaparanzato sul divano del salone, la schiena sul bracciolo e le gambe incrociate sullo schienale, alzò gli occhi dal giornale che stava leggendo.

Sulla soglia, intravide Johnny, Yosaku, e Zoro. E una figura minuta, al fianco dello spadaccino, in shorts e canotta color cachi, con le braccia incrociate al petto e l’espressione torva, come se avesse voluto trovarsi in qualsiasi posto fuorché lì.

«DAWN!»

Riadh mollò il giornale e scattò in piedi, in modo così brusco che per poco non ribaltò il divano. Si precipitò dalla sua giovane allieva, stritolandola in un abbraccio.

«Levati di dosso» lo avvertì lei funerea. «O ti pianto un proiettile in mezzo alla faccia.»

Vedendo che la ragazza aveva già la mano sulla pistola, Riadh si affrettò ad obbedire. Dio, se gli erano mancate le sue minacce di morte non troppo velate!

«Ci ho messo un secolo, per convincere questa testa dura a venire qui» intervenne Zoro, lanciandogli un’occhiata. «Vedi di non vanificare tutti i miei sforzi.»

«Chi sarebbe la testa dura, Roronoa?» lo sfidò Dawn, incenerendolo con lo sguardo.

«Calma, ragazzi, calma» s’intromise Riadh, per poi rivolgersi alla ragazzina. «Allora, hai deciso di tornare nella Gilda?»

Si chinò fino ad arrivare alla sua altezza, come se si stesse rivolgendo ad una bambina piccola, e per tutta risposta lei gli mollò un calcio nello stinco.

«AHIA!» gridò lui, mettendosi a saltellare per il dolore.

«Quante volte ti ho detto di non trattarmi come una bambina?»

«Non cambierà mai» commentò Johnny a voce bassa, dando di gomito a Yosaku, senza specificare a chi dei due si stesse riferendo.    

«Sono venuta per la mia parte» disse poi Dawn. Riadh si accorse che evitava di guardarlo, come se ci fosse dell’altro, ma quella volta evitò di insistere. «Non so se voglio rientrare nella Gilda.»

Lui annuì. Non si era immaginato niente di diverso. «Bene.»

Attraversò il salone a grandi passi, verso un enorme dipinto della Grand Line ad olio, di fronte al lungo tavolo dove si tenevano le riunioni della Gilda. Spostò il quadro di lato, facendo attenzione a non toglierlo dal chiodo, e rivelando una cassaforte incassata nel muro. Si mise ad armeggiare con la combinazione, dando le spalle ai suoi uomini. Sapeva di poter agire indisturbato di fronte a quelli che per lui erano come fratelli.

«Ti converrebbe tornare, Dawn» sentì che diceva Yosaku. «Non ce la faresti da sola a…»

«Puttanate» lo interruppe lei. Anche se Riadh non poteva vederla, sapeva che la ragazzina aveva già serrato i pugni. «Ce l’ho sempre fatta, da sola. Non siete indispensabili per me.»

«Non è quello che intendeva dire Yosaku» intervenne Zoro. «Se almeno lo lasciassi finire…»

«Non intrometterti!»

«Dicevo» ripeté Yosaku, «che non ce la faresti ad affrontare da sola gli uomini che stanno venendo qui. Sono troppo forti. L’unica speranza che abbiamo è essere uniti.»

Mentre afferrava la mazzetta che aveva preparato per Dawn, lo sguardo di Riadh corse un attimo verso il fondo della cassaforte e il suo contenuto. La richiuse di scatto, come nel tentativo di porvi una barriera ed evitare di pensarci, e si voltò verso i ragazzi.

Dawn, di fronte a lui, stava scrollando le spalle. «Sono solo voci.»

Zoro gli lanciò un’occhiata penetrante, seguito a ruota da Johnny e Yosaku.

Riadh sospirò, sostenendo i loro sguardi, una fastidiosa sensazione alla bocca dello stomaco.

«Dawn» esordì, e la giovane si voltò di scatto nella sua direzione. «Eccoti i soldi. Ti dispiace se facciamo due chiacchiere?»

Aveva lanciato la mazzetta lungo il tavolo di mogano, nella sua direzione, e Dawn la afferrò un attimo prima che cadesse a terra. Quando vide che si stava mettendo a contare le banconote, Riadh scosse appena la testa, vagamente divertito.

«Va bene» disse poi lei, alzando gli occhi. Forse aveva intuito che lui non avrebbe accettato un no come risposta.

«Dobbiamo andarcene?» domandò Johnny, indicando la porta con lo sguardo.

Riadh scosse la testa. «No. Sedetevi.»

Si accomodarono al tavolo nello stesso istante, con l’unico rumore delle sedie che strusciavano sul pavimento a sovrastare il silenzio e la solennità di quel gesto.

Riadh si sistemò sulla sedia, a capotavola, guardando uno ad uno i suoi uomini, seduti scompostamente ai loro posti, com’era accaduto quando aveva dato loro quella notizia, il giorno prima. Ma stavolta era diverso. Stavolta c’era chi avrebbe contestato le sue ragioni. Quando suo sguardo si posò su Dawn, la spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco, puntualmente, si ripresentò.

«Ho parlato con Morgan» disse infine lui, dopo un lungo silenzio.

L’unica reazione di Dawn furono le sopracciglia aggrottate.

«…di quello che è successo sulla Rotta dei Delfini.»

La ragazzina s’incupì, raddrizzandosi sulla sedia. «E che ti ha detto, quello stronzo?»

«Qualcosa che non ti piacerà» disse lui, fissandola dritta negli occhi. «Quel Thalef che avete catturato fa parte della ciurma di Barbabianca.»

Stavolta Dawn non fece nulla per mascherare la sua sorpresa. «Barbabianca?» ripeté, sgranando gli occhi.

Riadh annuì.

«Barbabianca» ripeté ancora Dawn, abbassando lo sguardo sul tavolo, come stentasse a crederci. Poi alzò di colpo gli occhi su di lui. «Quindi è vero. Le voci sul fatto che stia venendo qui. Sono tutte vere.»

Riadh annuì ancora una volta. Sentiva gli sguardi degli altri tre bruciargli addosso, e capì che non poteva indugiare oltre.

«E non è finita» riprese lui, sostenendo il suo sguardo a fatica. «Morgan l’ha fatto di proposito. Voleva che catturassimo un’esca per attirare qui i membri più illustri della sua flotta, che sarebbero venuti a riprenderselo.»

Il silenzio calò per un lungo attimo sul tavolo. Gli occhi di tutti correvano da Dawn a Riadh, da Riadh a Dawn.

Poi la ragazzina scattò in piedi e batté con forza i pugni sul tavolo. «Quella testa di cazzo! QUEL PAZZO!»

Riadh non si scompose. Aveva previsto una simile reazione. Ma, se voleva tornare tra le loro fila, era giusto che venisse informata dei piani in cui la Gilda si era ritrovata coinvolta.

«Tu non puoi aver acconsentito!» Dawn lo fissava, il disprezzo che trapelava dai suoi lineamenti. «TU NON PUOI AVER ACCONSENTITO!» Lanciò la mazzetta in direzione di Riadh. «Puoi riprenderteli. Io non li voglio, questi soldi, se li devo guadagnare con il sangue dei miei compagni.»

«Dawn…» fece per dire Zoro, ma lei gli lanciò un’occhiata di fuoco.

«Non ti azzardare a dire nulla!» gridò lei, e qualcosa in lei vacillò. «Tu… che sei quasi morto nello scontro! Fammi capire, quella era un’esca? Gli altri come saranno?» Guardò Zoro, scuotendo appena la testa. «Sei davvero pronto ad affrontare quegli uomini? Solo perché lui te lo ordina?»

Aveva puntato il dito verso Riadh con sguardo accusatore, e lui incassò il colpo senza dire una parola.

Zoro lanciò una breve occhiata in direzione di Riadh e poi tornò a guardarla. «Mi fido di Riadh. Farò ciò che decideremo.» Dopo una breve pausa, aggiunse: «Questo non fa di me un burattino, ragazzina. Io lo faccio perché lo voglio. Ma tu non sai niente di lealtà, sei solo una mocciosa.»

Lei serrò i pugni, schiumante di rabbia, ed era sul punto di ribattere per le rime quando Riadh si schiarì la voce, attirando la sua attenzione.

Si era alzato in piedi anche lui, come per fronteggiarla. Johnny, Yosaku e Zoro invece rimasero seduti ad osservare la scena, mentre facevano distrattamente dondolare le loro sedie, le braccia incrociate sul petto e i piedi poggiati sul tavolo.

«Prima di dare in escandescenza» disse, «magari potresti sentire cosa ho risposto a Morgan.»

Dopo un momento di silenzio, Dawn cadde a sedere sulla sedia, come sconfitta da quella calma.

«Allora?» lo incalzò, incrociando le braccia sul petto.

«Gli ho detto che ne avrei discusso con i miei uomini» spiegò lui, sedendosi a sua volta. Gli tornò in mente con prepotenza l’immagine di Morgan che faceva il gesto di passarsi la lama sul collo e sorrideva, ma la ricacciò in fretta in fondo alla mente. «Voglio la vostra opinione. E, in particolare, Dawn, voglio la tua.»

«La mia?»

«Sei tu che hai affrontato quel pirata, insieme a Zoro. Come ti ho già detto, sei una delle più giovani e promettenti cacciatrici della Gilda. Mi fido del tuo giudizio.»

Non disse altro. Non disse che il modo in cui lei l’aveva guardato, giù alla locanda, lo aveva trapassato da parte a parte come un coltello. Non disse che, dopo l’accaduto, aveva riflettuto sulle parole che lei gli aveva scagliato contro per giorni.

Malgrado tutto l’orgoglio e i modi bruschi, in quei mesi Riadh si era accorto di quanto Dawn si fosse affezionata a lui, ai ragazzi della Gilda. A Zoro. Lei, quell’orfanella diffidente e manesca, aveva iniziato a fidarsi di loro. E lui aveva fatto a pezzi quella fiducia. Aveva messo Dawn in pericolo, aveva rischiato di farla ammazzare. Sapeva che Zoro sarebbe stato pronto a sacrificarsi e non avrebbe dubitato neanche un istante, dopo tutto quello che avevano passato insieme. Ma Dawn non ci era stata. E, senza neanche toccarlo, aveva dato un ceffone a Riadh che gli bruciava ancora sulla pelle. Quella ragazzina piccola e impertinente, ancora con il moccio al naso, aveva osato mettere in dubbio la sua autorità e gli aveva dato una lezione.

Ma, più della lezione morale, Riadh era rimasto colpito dai suoi ideali. Perché erano esattamente i suoi. Le parole che gli aveva detto sui suoi compagni gli risuonavano ancora nella testa. Lei sarebbe stata pronta a morire in ogni momento, ma non avrebbe sopportato di veder morire Zoro. Era esattamente quello in cui Riadh credeva, e lei glielo aveva ricordato. E lui, per quello e una dozzina di altri motivi, la rivoleva nella sua Gilda.

«Io non faccio più parte della Gilda, Riadh» gli fece notare lei, inarcando un sopracciglio.

Lui fece un mezzo sorriso. Poi le lanciò contro i soldi, che Dawn schivò per un soffio, un attimo prima che la colpissero in pieno volto.

Lei lo fissò a bocca aperta, la confusione che le si agitava negli occhi. «Che cazzo fai?!»

«A me risulta che tu sia seduta al tavolo di casa mia, e che io ti abbia appena pagata. E, nel caso tu te lo scordassi, ho una pistola qui con me pronta a ricordatelo» disse lui pacatamente, senza mai smettere di sorridere.

«Devi decisamente cambiare il modo in cui arruoli i tuoi cacciatori di taglie, Riadh» commentò Johnny con un risolino.

Dawn non disse nulla. Dopo aver raccolto i soldi che erano caduti ai suoi piedi, aveva abbassato gli occhi sul tavolo, e Riadh giurò di aver visto l’ombra di un sorriso comparire sul volto della giovane, un attimo prima che lei tornasse a guardarlo.

«Vuoi sapere cosa ne penso?» Dawn fece scorrere lo sguardo sui suoi compagni, soffermandosi un attimo di troppo su Zoro, cosa che, ovviamente, a Riadh non sfuggì. «Penso che dovresti mandare a ‘fanculo Morgan.»

 

***

 

Se prima Aibell aveva giurato di uccidere Marco la Fenice per averla umiliata come nessuno prima d’allora si era permesso, quando scoprì che lo stronzo le aveva anche fottuto il fucile il suo odio divenne sconfinato.

Certo, di armi ne aveva tante, ma nessuna era come quel fucile. Il suo fucile era il suo migliore amico. La sua vita. Ormai conosceva a menadito i suoi punti deboli e i suoi punti di forza, le sue parti, i suoi accessori, le sue tacche di mira e la sua canna. Lo aveva protetto dalle intemperie e da tutto ciò che avrebbe potuto danneggiarlo, come avrebbe fatto con le sue gambe o le sue braccia. Senza di lui, si sentiva proprio come se avesse perso un arto. Era del tutto inutile. E Marco la Fenice glielo aveva rubato.

Malgrado il dolore alla gamba, camminava a passo di carica per le principali vie della città, i pugni serrati e due pistole che le spuntavano dalle fodere che portava al fianco. Le persone che incontrava, perlopiù marinai e casalinghe a zonzo con i loro figlioletti, la guardavano incedere con furia omicida, guardandosi bene dall’attirare la sua attenzione.

«Vieni qui» sentì una madre dire al proprio figlio, prendendolo da parte per evitare che si facesse troppo vicino a lei. «E smettila di fissarla, lo sai che guardarla porta sfortuna...»

«Schifosa» disse un’altra, lanciandole una breve occhiata, con la quale probabilmente sperava di non essere contagiata dalla sua maledizione.

«Ehi, puttana!» l’apostrofò un marinaio. «L’ultimo che ti ha chiavata ti ha azzoppato, per caso?»

Aibell li ignorò, come faceva sempre. Zoppicava ad ogni passo, ma era così furiosa da non sentire più neanche il dolore alla gamba. Si era medicata alla bell’e meglio, dopo essere riuscita a liberarsi dalle corde che la tenevano legata, e aveva bevuto un decotto di ortica e gramigna per placare il dolore. Non aveva rimediato granché alla ferita in sé, che continuava a dolerle ad ogni passo, ma se non altro era riuscita ad estrarre il proiettile dalla carne. Nel farlo, aveva urlato così tanto che per la millesima volta aveva ringraziato il fatto di abitare in un posto tanto isolato.

In testa, però, aveva un solo pensiero. Lui.

Gli era sfuggito da sotto il naso, l’aveva lasciata a morire in cantina, e l’aveva derubata del suo fucile.

In ogni caso, non sarebbe andato lontano con quello, considerando che le munizioni che le aveva sventolato davanti con tanta arguzia erano rimaste a lei e, se fosse entrato in un qualsiasi emporio senza nascondere la sua faccia, lo avrebbero seccato all’istante, considerando che i manifesti con sopra la sua testa di cazzo erano disseminati per tutta la città.

Non sapeva neanche dove cercarlo, ma sentiva che doveva essere da qualche parte lì in città, e la furia omicida continuava a guidarla senza sosta per le viuzze di Sheltz Town, ignorando le malelingue, il dolore alla gamba e la fame che le mordeva lo stomaco. Conosceva la sua cittadina a memoria. Se quel dannato pirata fosse stato nei paraggi, lei lo avrebbe trovato.

E lo trovò. Solo non dove si aspettava di trovarlo.

Si era appoggiata al muro per riprendere fiato, incerta sulla strada da prendere, dato che le sembrava di aver fatto il giro del centro almeno una dozzina di volte, quando alzò gli occhi al cielo.

E li vide. Marco la Fenice ed Ace Pugno di Fuoco. Seduti sul tetto di un’abitazione, esattamente sopra la sua testa. Quando poi il pirata biondo le diede le spalle e vide il fucile oscillare sulla sua schiena, la rabbia la travolse come mare in tempesta.

«EHI, STRONZI!»                                                               

I due, come del resto tutti coloro che stavano percorrendo la via, si voltarono di scatto nella sua direzione. In un attimo i pirati furono in piedi, pronti a scappare. Forse attirare la loro attenzione non era stata la migliore delle idee, dal momento che in quel modo avrebbe dato loro un vantaggio nella fuga ma, non appena Aibell aveva visto il suo fucile nelle mani di quello schifoso, aveva perso completamente il lume della ragione.

Vide che i pirati stavano parlottando tra loro e, prima che escogitasse un modo di salire sul tetto a sua volta, si accorse che i due si erano divisi. Ace stava correndo via sul lato lungo del cornicione, in direzione della periferia della città, sotto gli occhi esterrefatti dei presenti, mentre Marco, dopo aver percorso il lato corto, dalla direzione opposta a quella in cui si trovava lei, si calò giù dal tetto e sparì dalla sua visuale.

Aibell individuò in un batter d’occhio la stradina che conduceva là dove Marco aveva deciso di lasciarsi cadere, e sorrise. Sapeva che portava ad un vicolo cieco.

Si fece largo a forza di spintoni, tra la gente che cercava ancora di capire che cosa stesse succedendo, infilò la strada e si mise a correre, cercando di ignorare le fitte alla gamba che le salivano al cervello ogni volta che il suo piede toccava terra. Corse, corse, e corse attraverso le stradine sempre più deserte, così a lungo che iniziò a chiedersi se non avesse fatto male i suoi calcoli e se quello fosse davvero un vicolo cieco.

Poi si arrestò. Marco era davanti a lei, di spalle. Di fronte a loro, si ergeva un muro di cinta che il pirata non doveva aver messo in conto. Impossibile aggirarlo o scalarlo. Ai due lati della strada c’erano solo edifici, e nessuna possibilità di fuga.

Prima che Aibell potesse dire o fare qualsiasi cosa, il biondo si voltò verso di lei. Nessuna sorpresa sul suo volto, come se avesse saputo fin dall’inizio che lei lo avrebbe raggiunto.

«Ma chi si rivede» esordì, fissandola senza battere ciglio. I suoi occhi corsero con un guizzo alla gamba che lui le aveva impallinato e poi tornarono sul suo volto. «Sei riuscita a liberarti, allora. Come hai fatto?»

Aibell avanzò, estraendo le pistole dal fodero e puntandogliele contro. «Non ha alcuna importanza» disse. «Rivoglio il mio fucile. Ora.»

Marco non mosse un muscolo.

«IL FUCILE, STRONZO!» urlò lei, sparando due colpi alle sue gambe, che Marco schivò per un soffio.

Il pirata imbracciò il fucile e per un lungo, terribile attimo, Aibell pensò che fosse riuscito a caricarlo e che avrebbe risposto al suo fuoco, ma doveva avere a che fare con un individuo piuttosto ragionevole.

«Va bene» disse lui, lanciando a terra la sua amata arma. «Basta che chiudi quella bocca.»

Aibell si lanciò sul suo fucile, e solo un briciolo di contegno rimastole le impedì di baciarlo come un amante al quale si fosse appena ricongiunta.

Marco, nel frattempo, si stava guardando intorno con aria circospetta, come per assicurarsi che nessuno si avvicinasse. O che qualcuno accorresse. Ace D. Portgas sembrava essersi volatilizzato, ma Aibell sapeva che poteva essersi benissimo nascosto per poi tenderle un agguato e aiutare il suo compagno a fuggire.

«Bene» tagliò corto Marco, incrociando le braccia sul petto. «Hai riavuto il tuo fucile. Contenta? Ora vedi di lasciarmi passare.»

Aibell si alzò in piedi, sistemandosi la tracolla, ed estrasse le munizioni dalla tasca dei pantaloni. «Non sarò contenta finché non avrò avuto ciò che mi spetta» sibilò poi, fissandolo con aria truce, mentre caricava il fucile. «Ti sembra questo il modo di ricambiare la mia ospitalità?» aggiunse poi con un sorrisetto, accarezzando la canna.

Marco sputò a terra. «Quando, prima o dopo che tentassi di sgozzarci nel sonno?»

Aibell trattenne un risolino, senza mai staccare la mano dall’arma. «Hai frainteso le mie intenzioni, pirata.»

«Non ho frainteso un bel niente» ribatté Marco, il cui sguardo continuava a correre verso l’uscita del vicolo con un guizzo. «Ora sii ragionevole e fammi passare, senza che sia costretto ad ucciderti sul serio» mormorò, scandendo ogni parola. «Ho delle faccende da sbrigare.»

Per tutta risposta, Aibell imbracciò il fucile. «Anche io, tipo incassare la tua taglia. Stavolta non mi sfuggirai.»

Marco sospirò, come se avesse capito che non sarebbe riuscita a spuntarla con le buone. Poi qualcosa di indefinibile attraversò il suo sguardo.

«Io me ne andrei, fossi in te» le disse all’improvviso.

Sul suo volto comparve un mezzo sorriso, come quello che le aveva rivolto la notte prima, prima di lasciarla a morire. Un sorriso che non si allargava mai più di tanto e non coinvolgeva il resto del volto, quasi fosse stato un motore che continuava ad incepparsi nello stesso punto.

«Cos’è, credi di spaventarmi?» Aibell inarcò le sopracciglia. «Il tuo amico sta venendo a salvarti?»

«Ah, no» si affrettò a dire lui. «Ma tra poco dovrai vedertela con la concorrenza.»

Dopo un momento, le sentì anche Aibell.

Voci. In lontananza. Provenienti dall’entrata del vicolo. Coloro a cui appartenevano dovevano averlo imboccato proprio in quell’istante, e adesso si stavano dirigendo lì.

Aibell lanciò un’occhiata a Marco. Come diavolo aveva fatte a sentirle?

«L’ho visto entrare qui.»

«Ma sei proprio sicuro che fosse lui?»

«Più che sicuro. Era tale e quale al suo manifesto di taglia.»

«Ah-ah! Diventeremo ricchi.»

«Non ha scampo. Di qua c’è un vicolo cieco.»

«Non era da solo. Con lui ho visto quella puttana di Aibell.»

«Be’, non ci intralcerà. Sarebbe un peccato sciuparle quel bel visetto, ma siate pronti a fare tutto quello che è necessario. Quei berry non ci sfuggiranno.»

Aibell sentì la rabbia montare e, suo malgrado, lasciò ricadere il fucile sulla spalla, lanciando una breve occhiata in direzione del vicolo, dal quale s’intravedevano già le ombre dei cacciatori di taglie. Non erano della Gilda, o non l’avrebbero apostrofata a quel modo. Dalle loro sagome e dalle voci, dovevano essere una decina. E non avrebbero diviso un centimetro di quel pirata con lei, a costo di sciuparle quel bel visetto.

«Merda» borbottò, tornando a guardare il pirata.

Marco era immobile, poggiato contro il muro, le braccia incrociate sul petto, come se non avesse alcuna fretta di andarsene. Difficile capire il perché, dato che, se quei malintenzionati lo avessero raggiunto, si sarebbe ritrovato in una situazione ben peggiore della sua.

«Be’, a quanto pare non è il tuo giorno fortunato» commentò il pirata biondo, abbassando un poco il capo. I suoi ridicoli capelli gli coprirono il volto per un attimo.

Aibell deglutì, buttando giù l’orgoglio insieme alla saliva.

«Non prendermi tanto per il culo» fece poi, incrociando le braccia al petto. «Non sei in una situazione migliore per la mia. Non penso proprio che quelli là stiano venendo qui per chiederti un autografo.»

Si guardò intorno, le due pareti a fianco della strada che li circondavano senza lasciare loro alcuna via d’uscita. Davanti a loro il muro e dietro, accanto al vicoletto dal quale era sbucata, un’imponente palazzina.

«Siamo in trappola tutt’e due.» Tornata a guardarlo, aggiunse: «Certo, a meno che non usi i tuoi poteri da uccellaccio del malaugurio.»

Marco continuava a fissare l’entrata del vicolo, il volto ridotto ad una maschera di impassibilità. Alla fine, si staccò dal muro con un sospiro, venendole incontro a passo lento. Sembrava che i cacciatori di taglie in arrivo, le cui voci e i cui passi si stavano facendo sempre più vicini, non rappresentassero alcun problema per lui e, a giudicare da come stava temporeggiando, sembrava anche che non avesse intenzione di ricorrere ai suoi poteri.

«Eccoli!»

Una voce risuonò nel vicolo. Rumore di grida e di passi. In un attimo, vennero circondati da un gruppo di cacciatori armati fino ai denti e con l’aria niente affatto amichevole. Aibell ne conosceva due o tre di vista, ma non si era mai presa la briga di imparare i loro nomi.

«Aibell, tesoro» proruppe uno, rivolgendole la canna della pistola a mo’ di saluto. «Fatti da parte. Il pirata è nostro.»

Per tutta risposta, Aibell imbracciò il fucile. «Col cazzo. Se lo volete, dovrete prima passare sul mio cadavere.»

«Sarà un piacere.»

Ma, un attimo prima che il colpo di pistola dell’uomo le arrivasse dritto in fronte, Aibell e gli altri cacciatori di taglie furono travolti da un lampo di luce accecante. Riparandosi gli occhi con una mano, la ragazza vide che le braccia di Marco erano appena diventate due enormi ali infuocate, le sue gambe due zampe di rapace dagli artigli acuminati e, per una frazione di secondo, fu ipnotizzata da quella maestosità.

Trasformatosi a metà, sotto gli occhi esterrefatti dei cacciatori, Marco spiccò il volo verso i tetti della palazzina di fronte.

«Sta scappando!» esclamò uno degli uomini, ripresosi dalla meraviglia.

«Perspicace» commentò Aibell, sparando un paio di colpi nella sua direzione.

Non controllò se fossero andati a segno. La sua mente correva all’impazzata. Era sommersa dalle pistole, e non sarebbe uscita viva da quello scontro a fuoco nemmeno a pregarlo. Poi la zampa della fenice le passò davanti agli occhi.

Senza pensarci due volte, Aibell mollò il fucile e vi si attaccò con entrambe le mani. Si sentì proiettare in alto e di colpo i suoi piedi si staccarono da terra.

«Che stai facendo?!» gridò Marco, abbassando la testa verso di lei, e schivando un proiettile per un soffio.

«Mi salvo il culo» rispose lei, stringendosi alla zampa con una mano e imbracciando il fucile con l’altra per rispondere al fuoco.

«UCCIDETE LA PUTTANA!» gridò uno dei cacciatori di taglie, prima che lei gli facesse saltare in aria la testa.

Con una mano sola e non poche difficoltà, sistemò il selettore di fuoco in posizione centrale e iniziò a sparare a raffica, cercando di non pensare al fatto che, se fosse caduta da quell’altezza, si sarebbe sfracellata. Sforzandosi di ignorare le disgustose scaglie di quella zampa di gallina, vi si aggrappò con tutte le sue forze.

«Maledetta» sentì che diceva Marco, sbattendo le enormi ali.

Volavano ancora troppo bassi e di colpo Aibell si ritrovò nella traiettoria di una finestra, all’ultimo piano della palazzina. Forse Marco era rallentato dal suo peso, o forse voleva solo liberarsi di quella zavorra, ma lei non glielo avrebbe permesso.

Mollò ancora una volta il fucile, confidando nella pessima mira di quei cacciatori e, stringendosi con entrambe le mani a quella sottospecie di pollo, sfondò il vetro con gli stivali.

All’interno della casa udì delle grida terrorizzate a coprire la pioggia di vetri rotti, ma non ci stette troppo a pensare. Marco, infatti, era atterrato sul tetto dell’abitazione che avevano appena sfondato e si stava ritrasformando.

Lei si issò a fatica sul cornicione, stringendo i denti per le fitte alla gamba ed evitando un altro proiettile per un soffio. Nell’aria risuonavano i rumori delle pallottole destinate a loro ed Aibell era tentata dal rispondere al fuoco, ma non poteva lasciarsi sfuggire il pirata. Dopo un attimo di esitazione, vedendo che Marco nel frattempo si era messo a correre sui tetti, iniziò a seguirlo, cercando di non perdere l’equilibrio, e gli sparò dietro un’altra raffica di colpi.

«Non mi sfuggirai!»

 

***

 

Cosa facesse pensare ai tipacci che frequentavano il locale che tutte le cameriere fossero delle sgualdrine, Johanne doveva ancora capirlo. Non potevano essere brave ragazze che venivano a lavorare per aiutare economicamente la propria famiglia in attesa di un impiego migliore? No, erano lì che giravano per il locale con vassoi e bicchieri soltanto perché vogliose di attenzioni da parte degli uomini.

Johanne fissò la nuova cameriera, Alma, mentre cercava di opporsi come poteva all’abbraccio in cui un uomo al tavolo l’aveva coinvolta, un sorrisino storto sulle labbra che celava il suo evidente disagio, e provò pena per lei. Poi il suo sguardo si posò sull’uomo in questione e i suoi occhi si strinsero.

Squalo. Quell’essere, con i capelli sudici e i denti mancanti, le provocava ribrezzo solo a guardarlo da lontano. E per fortuna era da solo. Quando si presentava al locale con i suoi amici marinai, dei porci schifosi quasi quanto lui, che ridevano sguaiatamente e allungavano le mani dove non dovevano, per Johanne era un vero incubo.

«Dai, pupa, lasciati stringere un po’!»

Osservò Alma cercare di sottrarsi alla stretta dell’uomo e deglutì a vuoto. Squalo sembrava averla già puntata, e sapeva per esperienza che non sarebbe andata a finire bene. Era per lui, dopotutto, che Kisumi aveva cambiato locale ed Alma era stata assunta al posto suo.

Mentre asciugava i bicchieri, lanciò un’occhiata al suo capo, che stava fissando la scena a sua volta, come in attesa di vedere quel che sarebbe successo. Scosse piano la testa. Giusto, perché, quando venivano così ingiustamente importunate, non potevano neanche ribellarsi a dovere, dal momento che il capo le sorvegliava a distanza e avrebbe diminuito loro la paga se solo avessero osato prendersela con qualche cliente.

Povera Alma. Con un po’ d’esperienza, avrebbe capito che il trucco in quel locale era assolutamente bandito, se non voleva essere presa d’assalto come un pezzo di pane in mezzo ai gabbiani.

Quando la ragazza si avvicinò, il capo chino perché nessuno vedesse le lacrime che le pizzicavano le palpebre, Johanne le posò una mano sulla spalla.

«Ehi» mormorò piano, facendole alzare la testa verso di lei.

Gli occhi delle due cameriere si incrociarono. Come immaginava, quelli di Alma erano lucidi.

«Quell’uomo…» La voce le si strozzò in gola, mentre tentava di non scoppiare in singhiozzi.

«Lo so» fece Johanne, lanciandogli un’occhiata colma d’odio. «È uno stronzo.»

«Ma io non gli ho fatto nulla» si difese Alma, tirando su col naso. «Sono stata sempre attenta.»

Johanne le porse lo straccio con cui stava asciugando i bicchieri, poi si guardò intorno per appurarsi che il capo non le stesse guardando. Sapeva che, se le avesse beccate lì a non far niente, entrambe avrebbero ricevuto una lavata di capo.

«Ascoltami» le disse, prendendola per le spalle, come per imprimerle meglio in testa quelle parole. «Qui non c’entra quello che fai o non fai. Non è colpa tua. È lui che fa così e basta.»

Una scintilla di rabbia attraversò lo sguardo di Alma. «E perché il capo non fa niente per punirlo?»

Johanne levò gli occhi al cielo. Quante ce ne sarebbero state da dire, al riguardo!

«Perché a lui interessano solo i guadagni» disse, traendo un lungo sospiro. «Squalo e i suoi amici sono qui a ubriacarsi tutte le sere e pagano bene. A lui importa solo questo.»

«Tutte le sere?» Alma aveva preso a tremare. «E io che faccio?»

L’occhio di Johanne cadde per un attimo sulla pezza di stoffa che le aveva dato per asciugarsi le lacrime, i segni sbavati del trucco che vi erano rimasti impressi.

«Ti darò qualche dritta» disse.

Sperando che basti, pensò.

 

***

 

Marco credeva fermamente che sarebbe stato Ace a fargli infine perdere la pazienza, una volta arrivati a Sheltz Town, aggiudicandosi un primato, ma non aveva ancora messo in conto quell’ottusa cacciatrice di taglie.

Anche senza voltarsi, percepiva chiaramente la sua presenza dietro di lui, mentre saltava agilmente da un tetto all’altro, e sbuffò. Probabilmente era così impegnata a tentare di stargli dietro che non si era neanche accorta che, dove i suoi proiettili lo colpivano, la sua pelle si rimarginava all’istante. Aveva già esaurito le munizioni delle pistole da un pezzo e anche i proiettili di quel fottuto fucile, soprattutto in modalità automatica, non sarebbero durati per sempre.

Marco, la cui mente correva al pari delle sue gambe, era preda di sentimenti contrastanti. Avrebbe potuto fare fuori quei cacciatori in qualsiasi istante ma, ogni volta che era tentato dallo sfoderare i suoi artigli, le parole del Babbo gli riecheggiavano nella mente. Sii discreto. Non attirare l’attenzione. Non coinvolgere civili. Si era detto che trasformarsi per metà, anziché compiere una strage in quel vicolo, lasciando i muri insozzati di sangue come se li avesse firmati, avrebbe dato meno nell’occhio, ma non ne era poi così sicuro. La gente di quei posti non era abituata a vedere in azione gli effetti dei frutti del diavolo, e ricercava le cause di quegli eventi nelle maledizioni e nelle stregonerie che, lo sapeva, facevano sempre un certo scalpore. Aveva l’atroce sospetto, quindi, che la sua azione non fosse passata inosservata come aveva sperato.

Stanco di fuggire, Marco si arrestò, le punte dei sandali che oscillavano sul bordo del cornicione di un’abitazione. Aveva evitato di compiere una carneficina, ma un morto non avrebbe fatto certo la differenza, e si sarebbe confuso tra le vittime di quello scontro a fuoco tra cacciatori di taglie. 

Si voltò per fronteggiare la donna, che era rimasta parecchio indietro e in quel momento si trovava dall’altra parte del tetto. Anche se non poteva vederla, poteva percepirla scalare a fatica la falda attraverso l’Ambizione, accecata dalla rabbia ma rallentata dalla gamba a cui lui le aveva sparato. Marco scosse impercettibilmente la testa. E dire che aveva avuto anche dei ripensamenti, prima di colpirla!

Fu quando tornò a guardare la strada, quasi distrattamente, mentre aspettava che la cacciatrice lo raggiungesse per un altro patetico tentativo di ucciderlo, che vide la locanda sotto di lui.

Era dal lato opposto della via, e l’entrata stretta e striminzita era seminascosta tra le bancherelle di due bazar, ricolme di abiti e stoffe sgargianti, così ben occultata che, nel guardare la strada, all’inizio non l’aveva nemmeno notata. Due uomini erano appena usciti, massaggiandosi le pance rotonde come botti, per cui non v’erano dubbi che fosse aperta.

Marco sgranò gli occhi, di colpo dimentico dell’inseguimento. Prima che lui ed Ace venissero interrotti da quella maledettissima donna, avevano iniziato a fare il giro delle locande, cercando di confondersi tra i passanti e poi tra gli avventori, guardando chi usciva e chi entrava, alla ricerca di un volto familiare, e scandagliando l’interno delle stanze con l’Ambizione. Quella, però, gli era sfuggita. E, visto com’era dimessa, sembrava un posto perfetto in cui nascondersi.

Il cuore di Marco ebbe un fremito. Forse avrebbe potuto seminare i cacciatori di taglie una volta per tutte e, cosa più importante, trovare finalmente Thalef. Lanciò un’ultima occhiata alla donna, di cui intravedeva solo le mani, che avevano appena raggiunto la linea di colmo del tetto. Arrancava a fatica e aveva smesso di sparare, forse perché troppo impegnata ad arrampicarsi, o forse perché non aveva più proiettili in canna. Rappresentava meno che mai una minaccia, ma Marco non poteva permettersi che continuasse a distrarlo.

Corse verso di lei, scalò la falda del tetto e, giunto a sua volta sulla linea di colmo, trasformò rapido le proprie gambe e falciò con gli artigli le tegole alle quali lei si stava aggrappando. I loro occhi si agganciarono, un attimo prima che alla donna venisse a mancare ogni appiglio e crollasse giù in strada insieme alle tegole, in una pioggia di calcinacci.

Marco non stette a guardare oltre. La distanza da terra non era fatale, ma era sicuro che in quel modo se la fosse finalmente tolta dai piedi. Corse dall’altra parte del tetto, sotto il quale aveva visto la locanda e, soffocando la tentazione di trasformarsi completamente, si inginocchiò sul cornicione e si lasciò cadere a terra, i piedi tornati umani.

Mentre si avviava verso la locanda, lanciò una breve occhiata ad entrambi i lati della strada, dal quale non proveniva anima viva. Amplificando al massimo i sensi, percepì la presenza della cacciatrice, ancora viva, immobile nel punto in cui era caduta, ma non quella della banda dei cacciatori di taglie. Nel ripercorrere il vicolo, cercando di individuare la loro presenza sui tetti, i ceffi dovevano aver imboccato un’altra traversa. Tirò un sospiro di sollievo, nel constatare che si era liberato anche di loro.

Giunto di fronte alle bancarelle degli empori, attento a non farsi vedere, rubò un cappello dalla tesa larga e una camicia a fiori, e poi si precipitò nel locale, mentre ancora si allacciava gli ultimi bottoni. Non aveva percepito alcuna forza degna di nota all’interno, quindi Thalef non si trovava lì in quel momento, ma poteva comunque averla scelta come alloggio, anche se a Marco continuava a sfuggire il motivo. Cosa gli era successo? E perché non aveva cercato di mettersi in contatto con loro?

Immerso nella penombra dell’osteria, non guardò nessuno dei pochi avventori presenti e proseguì a capo chino fino ad un tavolo in un angolo del locale, dove si lasciò cadere, calcandosi bene il cappello sulla testa, e poté rilassare i muscoli.

Finalmente.

Sheltz Town gli era parsa un’isola tanto tranquilla, dalla nave, che quasi stentava a credere che lui ed Ace avessero incontrato tanti fastidi, lungo la via. La sua mente corse subito al fratello, e Marco pregò che non fosse nei guai, mordendosi la lingua perché lo aveva lasciato da solo e non l’aveva raggiunto all’appuntamento che si erano dati prima di dividersi. Ma era necessario che rimanesse lì per un po’, cercando di capire se Thalef stesse alloggiando lì e, nel caso, perché. In ogni caso, una volta riunitisi, si sarebbero dovuti dividere comunque per cercare il fratello, come avevano fatto quella mattina, quindi tanto valeva che stesse lì. Oltretutto, rimettendosi in strada, c’era il rischio che incappasse di nuovo in quel branco di cacciatori di taglie inetti, e si augurò che, nella loro spasmodica ricerca, quelli non s’imbattessero proprio nel fratello. Ace era uno dei giovani pirati più forti in cui Marco si fosse mai imbattuto, ma rimaneva un incosciente e non poteva non stare in pensiero per lui.

Nel frattempo, il proprietario del locale, un uomo attempato e con un occhio storto – ipotropia, pensò distrattamente – gli aveva lanciato un’occhiata da dietro il bancone, ma poi era tornato ad occuparsi di un altro cliente e Marco ne fu contento. Presto o tardi avrebbe dovuto ordinare qualcosa, se avesse voluto fingere di essere un avventore qualunque – e, a dirla tutta, quella corsa gli aveva messo addosso una gran sete – ma per il momento era un bene che non s’interessasse a lui. Non era sicuro che quel cappello e quella camicia rappresentassero un travestimento poi tanto efficace.

Si stava guardando intorno, studiando quei volti sconosciuti, quando l’occhio gli cadde sulla porta d’ingresso, che era appena stata aperta. Lì, stagliata contro la luce abbagliante di mezzogiorno, c’era la cacciatrice di taglie.

Cristo santo, pensò Marco, raddrizzandosi di colpo sulla sedia. Era peggio di una zecca, quella lì. Era ridotta così allo stremo delle forze che lì per lì non l’aveva neanche percepita.

La donna era coperta di polvere, il volto tumefatto e graffiato, con un rivolo di sangue che le colava lungo la tempia, e i suoi occhi erano fissi su di lui.

Dopo un attimo di teatrale silenzio da parte degli avventori, seguito a quell’apparizione surreale, la ragazza iniziò a procedere a passo di carica verso di lui, zoppicando vistosamente, il fucile che ancora fumava dietro la schiena, e Marco vide con orrore che tutti si stavano voltando nella sua direzione, mandando a quel paese ogni suo tentativo di apparire discreto.

Così, Marco fece la prima cosa che gli venne in mente. Si alzò di scatto in piedi, mille immagini che gli vorticavano in testa. Scappare a gambe levate, trasformarsi, falciare la donna con un’artigliata e, così facendo, distruggere il bar di quel pover’uomo… afferrò la mano della cacciatrice e la strattonò fino al tavolo, costringendola a sedersi con lui.

Rimasero immobili così, in silenzio l’uno di fronte all’altra, la tensione che saliva attimo dopo attimo, mentre tutt’intorno gli avventori osservavano la scena. Poi, con la coda dell’occhio, Marco vide con sollievo che i clienti, visibilmente delusi dal non veder scorrere del sangue, stavano distogliendo lo sguardo. Qualsiasi cosa riguardasse la loro disputa, non somigliava più ad un conto da regolare e quindi non era più degna d’attenzione.

Dopo essersi assicurato che nessuno stesse più facendo caso a loro, Marco si rivolse alla donna, che continuava a fissarlo in cagnesco, e sospirò stancamente. «Vuoi smetterla di perseguitarmi, prima che ti ammazzi sul serio?»

Per tutta risposta, lei cacciò il fucile sotto il tavolo e gli piantò la canna dritta contro la patta dei pantaloni.

Lui fece un sorrisetto. «Credi che non abbia capito da un pezzo che hai finito i proiettili?»

Non avrebbe aggiunto che, in ogni caso, avrebbe potuto rigenerare anche quello.

«Stronzo» disse lei fra i denti, e dallo sguardo lui capì d’averla smascherata.

«Lasciami andare» le mormorò, fissandola negli occhi e scandendo ogni parola, come se si stesse rivolgendo ad un moccioso particolarmente testardo, oppure ad Ace.

Lei strinse le palpebre. «Mai.» Poi, malgrado fosse del tutto inoffensivo, spinse ancor più il fucile contro di lui, tanto che fu costretto ad indietreggiare sulla sedia.

Marco la fissò, scuotendo impercettibilmente la testa. Il suo volto tumefatto era contorto in una smorfia, un misto di testardaggine e disperazione. Sembrava conscia del fatto che non sarebbe riuscita ad ammazzarlo, ma allo stesso tempo non voleva rinunciare a quell’idea, adesso che era così – letteralmente – vicina a lui.

Sbuffò e si guardò intorno nel locale, maledicendo suo fratello per aver bussato a quella dannata porta, la sera prima, e poi maledicendo gli altri, che avevano mandato Ace con lui, quando avrebbe potuto tranquillamente svolgere il suo lavoro e tornare alla nave in un attimo, e nella mente così affollata dai pensieri per un istante fece capolino un’altra idea, mentre fissava il whiskey color ambra ondeggiare nel bicchiere di un tavolo poco lontano da loro. Un’idea che gli avrebbe consentito di rimanere nella locanda per un po’ e di liberarsi di quella donna con un modo che ai pirati di Barbabianca si confaceva più che l’omicidio.

L’alcol.

In quel momento, un’ombra calò su di loro. Marco fece appena in tempo ad alzare lo sguardo che si trovò ad incrociare quello strabico del locandiere. Per un attimo temette che lui l’avesse riconosciuto, o che avesse visto il fucile che la donna gli stava puntando contro l’inguine, sotto il tavolo, ma l’uomo si limitò a rivolgere loro un sorriso cordiale, un occhio fisso su di lui e l’altro sul pavimento.

«Allora, volete ordinare?»

 

 
Avete capito il piano di Marco per liberarsi di Aibell? E secondo voi come finirà? (ve lo dico io: malissimo!) E, in tutto questo, che fine ha fatto Ace? Inizialmente il capitolo doveva includere anche tutte queste scene, ma poi l’ho diviso all’ultimo perché mi sembrava troppo lungo e, soprattutto, troppo denso di avvenimenti. Perché dobbiamo ancora vederne delle belle ;)
 
Questa faccenda dell’Ambizione è come una catena al collo (o a brick tied to me that’s dragging me down, come Aibell per Marco) e non riesco bene ad intuirne i “confini”. Marco la usa indiscriminatamente o la può (passatemi il termine) attivare? Quanto è potente? Immagino che nel suo caso la sia davvero tanto, considerando quanto il suo personaggio sia intuitivo. Temo comunque di stare sottovalutando la sua reale portata nella scrittura ma, giuro, mi sta facendo dannare! ç-ç
 
Qualche curiosità random: le parole d’amore che Aibell rivolge al suo fucile non sono farina del mio sacco. Si tratta del “credo del fuciliere”, quello che compare in Full Metal Jacket, per intenderci. Ho rivisto il film di recente e a quella scena mi sono detta “No vabbè, ma queste frasi potrebbe dirle Aibell!”. Poi, non l’ho scritto perché non fa parte dell’universo di One Piece, ma il fucile di Aibell è un AK-47 – un kalashnikov!
 
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto. Approfitto di questo spazietto anche per fare una comunicazione. Speravo di avere più tempo libero, in questo periodo, ma purtroppo non è così, quindi temo sarò costretta ad aggiornare ogni due settimane… minimo ç-ç Chiedo infinitamente scusa per questo, ma si tratta di un periodo un po’ complicato, perché a breve devo trasferirmi (pensavo ci fossero poche cose più stressanti dello scrivere scene con il POV di Marco, ma cercare casa a Londra si aggiudica il primato!) Oltretutto, con il fatto che gli esami sono finiti, ogni occasione è buona per fare baldoria e ho praticamente invertito il mio ritmo circadiano ç-ç In tutto questo, spero che l’ispirazione non mi abbandoni, anche se questa storia è sempre in un angolino della mia mente, che prega di essere scritta, più o meno come una mosca che ronza contro una finestra nel tentativo di uscire, ehm.
 
Ringrazio tantissimo Fenix per la recensione dello scorso capitolo, e anche solo chi ha dato un’occhiata alla storia. Se in futuro vorrete lasciarmi un commentino o un messaggio in codice morse o un segnale di fumo, ne sarò davvero felice. Giuro che non mordo! :)
 
Un bacio e a presto (spero!)
Cassidy.

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


CAPITOLO VII

I’ve got the feeling that something ain’t right
I’m so scared in case I fall off my chair

Clowns to the left of me
Jokers to the right
Here I am stuck in the middle with you”

 

«Non credere di aver vinto» sibilò Aibell, fissandolo in cagnesco.

Il pirata e la cacciatrice di taglie erano seduti ai due lati di un tavolo ad angolo, all’interno della piccola locanda del Guercio, una delle poche, per sua fortuna, dalle quali Aibell non era ancora stata bandita. Nel locale non c’erano molti clienti, essendo ormai passata da un pezzo l’ora di punta, e nell’aria risuonavano i tintinnii dei bicchieri di vetro e qualche sporadica risata.

Marco la Fenice aveva indosso una ridicola camicia a fiori sopra la propria e si era calato sul volto un altrettanto ridicolo cappello di paglia, che quell’idiota doveva aver rubato dall’emporio accanto alla locanda. Era un miracolo che ancora nessuno non l’avesse riconosciuto. Un po’ per la tesa larga e un po’ per la scarsa illuminazione, la ragazza riusciva a scorgere chiaramente soltanto il riflesso dei suoi occhi neri, che brillavano nella penombra dell’osteria.

Sul tavolo erano poggiati una bottiglia di sakè, ancora intonsa, e due bicchieri.

«Forse no» disse lui, rilassandosi contro lo schienale. Pareva perfettamente a suo agio in quella situazione. «Ma intanto ci siamo liberati di quegli stronzi.»

«Non ti sei ancora liberato di me» gli ricordò Aibell, sistemandosi meglio sulla sedia. Il fucile, appeso allo schienale, dondolò dietro di lei come un avvertimento. Cazzo, se solo avesse avuto altre munizioni con sé!

Il pirata trasse un sospiro e le scoccò un’occhiata. Pareva seccato. «Finiamola qui. Non hai speranze contro di me, mettitelo in testa. Risolviamola con una bevuta.» Approfittando del suo silenzio, allungò una mano verso di lei. «Tregua?»

Aibell lo incenerì con lo sguardo. «Se fosse stato per te, a quest’ora sarei morta dissanguata nello scantinato di casa mia. Tregua un cazzo!»

Marco scosse la testa. «Stai davvero cercando di passare da vittima?» Senza attendere risposta, continuò: «Se fosse stato per te, a quest’ora Ace ed io saremmo morti sgozzati in quello scantinato.»

Aibell sbuffò, lasciandosi cadere contro lo schienale. «Tregua» borbottò poi, fra i denti, allungandosi per stringere la mano del pirata, con la stessa allegria che avrebbe avuto se quello le avesse proposto di vendergli il fucile.

Marco non disse nulla. Anche se non poteva vederlo, Aibell avrebbe scommesso sul fatto che in quel momento l’uomo stesse di nuovo esibendo quel suo mezzo sorriso arrogante.

Ancora una volta, rimpianse di aver finito tutte le sue munizioni. Purtroppo, però, non aveva altra scelta che stare ai suoi patti. Non aveva possibilità di sparargli e sapeva di non avere speranze in un corpo a corpo. Lo scontro in cantina aveva messo le cose in chiaro e, oltretutto, dopo il volo che lui le aveva fatto fare dal tetto, era un miracolo che fosse ancora tutta intera. La gamba le bruciava come fuoco e, ogni volta che respirava, avvertiva fitte in parti del corpo che neanche pensava d’avere. Non avrebbe potuto inseguirlo, se quello stronzo fosse fuggito di nuovo. L’unico modo per non perderlo di vista era rimanere a quel dannato tavolo, anche se non aveva la più pallida idea di cosa fare.

«Questa la offro io» proruppe di colpo Marco, indicando la bottiglia, che il locandiere aveva servito loro dopo che il pirata aveva sfoderato il suo miglior sorriso e gli aveva chiesto di portargli il sakè che teneva in fresco.

Quando Aibell alzò gli occhi dal tavolo, perplessa, lui si affrettò a spiegare: «Per la faccenda di ieri sera. E il volo dal tetto» aggiunse, dopo un momento.

Aibell decise di ignorare il sottile divertimento che aveva avvertito nel suo tono di voce, e si grattò via con le unghie il sangue che le si stava incrostando sulla tempia. «Direi» borbottò poi, evitando di guardarlo, non del tutto dispiaciuta all’idea di una bevuta gratis. Quell’inseguimento le aveva fatto venire sete. «Se vogliamo davvero regolare i conti, ci vorrà ben altro che una bottiglia di sakè per arrivare alla taglia che pende sulla tua testa.»

Marco scosse piano la testa. «Non pensate ad altro, voi cacciatori di taglie?»

Aibell non ribatté. Non aveva voglia di sprecare fiato con quell’individuo. Fu mentre l’uomo procedeva a stappare la bottiglia che lei si fece d’un tratto pensierosa, gli occhi fissi sul vetro. Un’idea aveva fatto capolino nella sua mente. Un’idea allettante, per quanto rischiosa. Se fosse riuscita a reggere abbastanza, forse sarebbe riuscita a portarsi a casa tutti quei milioni, oltre alla bevuta gratis. Avrebbe solo dovuto fare ubriacare il pirata senza ritegno.

Quando vide che Marco stava versando una quantità generosa di sakè nel suo bicchiere, dopo aver riempito a malapena il proprio, Aibell assottigliò le palpebre, chiedendosi se l’uomo non avesse intenzione di fare la stessa cosa. Non appena poggiò la bottiglia sul tavolo, quindi, lei l’afferrò svelta e si affrettò a riempire il bicchiere del pirata finché il liquido non fu allo stesso livello del suo.

«Non essere timido» gli disse, lanciandogli un’occhiata d’avvertimento. Poi, colpita da un altro pensiero, chiese: «A proposito, il tuo amico dov’è?» 

«Non lo so» ammise lui, evitando il suo sguardo. «Mi auguro non in cella.»

«Andate d’amore e d’accordo, vedo» commentò lei. «Fareste bene a stare in guardia» aggiunse poi, senza neanche sapere il perché. Forse voleva che fosse chiaro che, anche se quello stronzo l’aveva scampata e adesso si stava pure facendo un goccetto, c’era la possibilità che qualcuno potesse farlo fuori da un momento all’altro. «Sheltz Town pullula di cacciatori di taglie.»

Marco sospirò. «Semmai, sono i cacciatori di taglie che dovrebbero stare in guardia.» Senza attendere risposta da lei, aggiunse: «Cos’è che non capisci? Voi siete solo moscerini, per noi.»

«Ah, sì?» Aibell inarcò un sopracciglio. «Lo vedo come hai affrontato quei moscerini, prima, nel vicolo.»

Lui scrollò le spalle. «Be’, se sono tanti possono diventare fastidiosi.»

Prima che Aibell potesse ribattere, il pirata afferrò il bicchiere e lo sollevò nella sua direzione.

«Salute» mormorò, prima di portarselo alle labbra.

Spero che ti strozzi, pensò Aibell, imitandolo.

La sensazione bruciante dell’alcol che le scendeva lungo la gola fu rigenerante. Tempo cinque minuti e si stava già versando il terzo bicchiere, dopo aver riempito nuovamente quello di Marco, che la guardava ad occhi sgranati.

«Che c’è?» fece lei, godendosi la sua espressione sorpresa, nel vedere che mandava giù l’alcol come fosse stata acqua. «I cacciatori di taglie che hai incontrato finora erano tutti astemi?»

Marco recuperò in un attimo tutto il suo aplomb. «Di solito li faccio fuori, non ci vado a bere insieme.»

Man mano che la bottiglia si svuotava, Aibell avvertì la tensione iniziare a sciogliersi, e le fitte nei punti dove aveva sbattuto nella caduta farsi più sopportabili. Solo la gamba e quel dolore bruciante rimasero lì, come avesse avuto un chiodo piantato nella carne, a ricordarle il suo obbiettivo. Era lucidissima, e aveva una voglia matta di intascare la taglia di quel pirata, non appena quello si fosse ubriacato a dovere. Se non altro, però, adesso trovava la sua presenza un po’ meno irritante.

«Come ti chiami?» fece Marco dopo un po’, sorseggiando il suo sesto bicchiere.

La bottiglia giaceva vuota in mezzo a loro.

Per un momento lei fu tentata di chiedergli se volesse un altro sputo in faccia, ma l’alcol l’aveva fatta rilassare appena.

«Aibell» disse.

«Aibell» ripeté lui, come gustandosi il suono di quella parola insieme al sakè, in un modo che ad Aibell non piacque per niente.

«Tu puoi risparmiarti le presentazioni» lo schernì, fulminandolo con lo sguardo. «So a memoria il tuo nome e quelli del tuo dannato equipaggio.»

Marco voltò di scatto il capo verso un uomo dalla pelle scura che aveva appena fatto il suo ingresso nel locale, come se lo conoscesse, poi tornò lentamente a guardarla. «Stento a credere di essere davvero a bere con una cacciatrice di taglie. Quando lo racconterò alla mia flotta, diventerà l’aneddoto del secolo.»

Aibell finì il suo bicchiere e lo poggiò sul tavolo, attirando l’attenzione del locandiere con un cenno.

«Non ti azzardare a dirlo in giro» lo mise in guardia lei. «Ne va della mia reputazione.»

Il proprietario fu presto di ritorno con un’altra bottiglia di sakè.

«E suppongo che anche questa tocchi a me» mormorò Marco, alzando gli occhi su di lei da sotto quel ridicolo cappello.

«Te l’ho detto, ce ne vorrà di sakè per arrivare a tutti quei milioni» ribatté Aibell, incrociando le braccia sul petto.

«Ho una spiegazione migliore» disse lui, protendendosi verso di lei mentre le serviva da bere, ancora una volta riempiendole il bicchiere fino all’inverosimile. «Sei una scroccona.»

Aibell lo incenerì con lo sguardo, e solo altri cinque bicchieri riuscirono a farla desistere dall’imbracciare il fucile dietro di lei e sfracassarlo sulla testa del suo insolito compagno di bevute. Poi si ricordò che era lui che doveva bere, non lei e, maledicendosi, si affrettò a versargli nel bicchiere altro sakè.

Ben presto alle due bottiglie sul tavolo se ne aggiunse un altro paio. I due bevevano piano, avvolti in un silenzio ostile. Tesa come la corda di un arco, Aibell lottava contro l’intorpidimento delle membra, concentrata com
era nel mantenersi lucida. In ogni caso, non era mai stata un tipo loquace e, anche se il suo muro di silenzio cedeva un po’ sotto l’effetto dell’alcol, non si metteva di certo a sparlare. A giudicare dalle lunghe pause del pirata, neanche lui doveva essere un chiacchierone, e Aibell trattenne a stento un sospiro di sollievo. Dover pure fare conversazione con quell’idiota sarebbe stata un’ulteriore tortura.

«Come va la gamba?» chiese Marco dopo un po’, gli occhi fissi sull’entrata della locanda, come se si aspettasse di entrare qualcuno, forse la banda di cacciatori di prima, il suo compagno, o la Marina.

Aibell gli lanciò un’occhiataccia. «Potrebbe andare meglio, se non ci avessi piantato un proiettile.»

Marco poggiò il bicchiere vuoto sul tavolo e si asciugò le labbra con l’orlo della camiciola. «Dico sul serio.»

Aibell levò gli occhi al cielo. «Insomma» borbottò poi, a mezza voce. Non era mai stata un granché a medicare le ferite d’arma da fuoco. Di solito ci pensava Alma a rimetterla in sesto, ma stavolta non aveva potuto recarsi al Food Foo, perché l’amica avrebbe preteso delle spiegazioni che lei non era in grado di darle. «Ho estratto il proiettile e fermato l’emorragia. Anche la tua ferita al braccio sembrava seria.»

Si maledisse per averlo detto. Perché lo aveva fatto? Era stato senz’altro il sakè a parlare per lei.

Marco lì per lì non rispose. Si limitò ad abbassare la manica della camicia, lasciando intravedere gli avambracci. Dopo un attimo, Aibell realizzò che era lì che lo aveva accoltellato. Non c’era neanche una cicatrice. Nella cantina aveva dato la colpa allo stordimento, ma stavolta, malgrado non fosse del tutto sobria, non c’era verso che la vista la stesse ingannando.

La ragazza era a bocca aperta. «Come hai fatto?»

Marco scrollò le spalle. «I miei poteri da uccellaccio.» Ancora una volta, Aibell avrebbe giurato sul fatto che il pirata stesse esibendo il suo solito sorriso a metà. «La prossima la offri tu» aggiunse, indicando le quattro bottiglie vuote, attraverso le quali i suoi contorni apparivano distorti e confusi.

Aibell si trattenne a stento dall’imprecare. Era ancora troppo, troppo lucido. Lanciò un’occhiata al bancone, dietro il quale il locandiere stava lavando dei bicchieri, e deglutì. Dovevano passare all’artiglieria pesante. E non aveva alcuna intenzione di sganciare un soldo.

«Solo se riesci a bere tutto» lo sfidò, voltandosi per poterlo guardare fisso negli occhi.

Le spalle del pirata ebbero un impercettibile sussulto, come se stesse ridendo tra sé e sé. «Con chi credi di parlare?»

«Ah, giusto, avevo dimenticato di non avere speranze contro di te.» Si voltò di nuovo verso il bancone e agitò un braccio, senza degnare l’uomo di una sola occhiata. «Ehi, barman! Vogliamo dieci shot di tequila, qui.» Poi si voltò a guardare Marco, sogghignando, e aggiunse: «Per cominciare.»

«Ti vedo molto sicura di te» commentò il pirata. «Vuoi davvero sfidarmi?»

Aibell levò gli occhi al cielo.

Ma sentilo, questo qui. Vedrai, quando ti porterò da Morgan ubriaco fradicio.

«Certo» rispose, tornando a guardarlo. «E voglio vincere.»
 

 
***
 

All’inizio si era trattato solo di un languorino.

Ace aveva cercato di ignorarlo, di pensare ad altro, di mettersi a guardare le persone per la strada e persino di contare i gabbiani che passavano in volo sopra l’emporio, quello che lui e Marco si erano trovati davanti appena arrivati in città, il luogo del loro appuntamento.

Ne aveva contati appena venticinque quando il brontolio allo stomaco si ripresentò, dolorosamente puntuale, e stavolta ancor più insistente.

Ace sbuffò, abbassando gli occhi sulla strada. Di Marco nessuna traccia e, se avesse continuato a rimanere lì in bella vista, come un manichino dell’emporio, avrebbe sicuramente attirato l’attenzione di qualcuno. Tanto valeva che si schiodasse di lì e andasse a riempirsi lo stomaco. Oltretutto, non sapeva neanche perché fosse rimasto così a lungo nel luogo dell’appuntamento, obbedendo agli ordini. Fu contento che Marco fosse lontano da lì e non potesse vederlo, così non avrebbe avuto modo di rinfacciarglielo.

Si staccò dal muro dell’emporio con un sospiro e si avviò a passo tranquillo per le vie animate della città, godendosi i profumi dei cibi e delle spezie dei mercatini. Non appena intravedeva qualcuno con una sciabola al fianco, si affrettava a cambiare strada, ma solo perché temeva che in uno scontro i negozianti sarebbero rimasti feriti o avrebbero perso le loro merci, non perché fosse realmente preoccupato. Non aveva nulla da temere, lui, che era capitano dei Pirati di Picche e presto si sarebbe preso anche la testa di Barbabianca. Anzi, se ci ripensava gli saliva ancora l’ira, all’idea che lo avessero spedito lontano dalla Moby, accoppiandolo con quel pirata immusonito, quand’era a tanto così dal fare fuori il vecchio.

Ace gironzolò a lungo, con la testa per aria, impegnato a leggere le insegne delle osterie, finché una di esse non attirò la sua attenzione e lo fece arrestare nel bel mezzo della strada. Asako, recitava l’insegna. Birra e arrosto di maiale, otto berry.

Ace si affrettò ad entrare, già pregustando il pranzo. Non che avesse intenzione di pagarlo, ovviamente.

Il locale era piccolo e angusto, in penombra. Qua e là, qualche cliente solitario seduto da solo ad un tavolo per due, ma per il resto la locanda era del tutto vuota. I suoi occhi corsero subito alla ricerca di un familiare volto scuro, poi si maledisse fra sé e sé. Stare in quella ciurma lo aveva davvero rammollito.

La locanda era talmente immobile e silenziosa che ad Ace sarebbe parsa un dipinto, se non fosse stato per la figura minuta di una cameriera che stava facendo avanti e indietro pulendo i tavoli vuoti, una matassa di ricci rossi che, malgrado fossero legati, impedivano al moro di scorgerla in viso.

Ace si schiarì la voce, e il silenzio nel locale era tale che bastò quel colpetto di tosse perché i pochi avventori si voltassero all’unisono nella sua direzione.

«Salve.» Per niente intimidito, s’infilò i pollici nei passanti della cintura e fece un sorriso sornione. «Fate ancora da mangiare?»

La cameriera abbandonò in fretta e furia le pulizie e gli si fece vicina. Il suo volto era tondo e grazioso, con una spruzzata di lentiggini sulle gote.

«Sì, certo» si affrettò a dire, ed Ace si accorse che l’occhio le era caduto per un attimo sul suo torace, lasciato scoperto dalla camicia, prima di tornare a fissarlo in volto. «Accomodati pure.»

Lo guidò fino al bancone, dietro il quale non c’era nessuno, ed Ace balzò agilmente su uno sgabello. Dopo un attimo di esitazione, in cui guardò con una certa insistenza lo straccio che aveva abbandonato su uno dei tavoli, la ragazza si parò dietro il bancone e gli rivolse un sorriso timido.

«Che cosa vuoi da mangiare?» domandò, con lo stesso tono con cui gli avrebbe chiesto quali fossero i suoi progetti di vita.

Ace, tutto sommato divertito dalla situazione, si voltò un attimo verso l’entrata prima di tornare a guardarla. «Quello che c’era scritto fuori. Arrosto e birra, mi pare..?»

«Subito» si affrettò a dire lei, annuendo, come se da quella risposta fosse dipesa la sua vita.

Lui stava per aggiungere il numero di porzioni che voleva della pietanza, ma lei aveva già chinato il capo e si era già avviata a passo svelto verso la cucina. Sulla soglia, però, venne bloccata da un’altra figura. Era un’anziana, notò Ace, piccola e magra, con la faccia costellata di rughe ma uno scintillio furbo nello sguardo che la faceva sembrare più giovane di quel che doveva essere.

«Che stai combinando qui?» l’apostrofò. La sua voce era rauca, pareva il grido di una cornacchia. «Non stavi pulendo?»   

La vecchia lanciò una rapida occhiata alla cameriera, che si era fatta rossa al pari dei suoi capelli, e poi a lui, seduto al bancone, e le sue palpebre si strinsero. Sotto gli occhi perplessi del moro, la vecchia si alzò sulle punte e afferrò la cameriera per un orecchio, strappandole un gemito.

«Frena i tuoi bollenti spiriti, Cora» la redarguì, lasciandola andare con uno scappellotto.

«Sissignora.» La giovane arrossì ancora di più e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata furtiva ad Ace, batté in ritirata e tornò a fare le pulizie.

Dal canto suo, Ace si ritrovò a sorridere tra sé e sé. Sapeva di fare un certo effetto al genere femminile, e la cosa non gli dispiaceva affatto. Soprattutto se, oltre ad una notte di passione, riusciva a rimediare anche qualche pasto gratis.

L’anziana donna si fece avanti, le mani sui fianchi. Ace capì che doveva trattarsi della proprietaria, forse l’Asako dell’insegna. Era così piccola e rattrappita che arrivava a malapena allo sgabello sul quale era seduto, e dovette sollevare la testa per poterlo guardare dritto negli occhi.

«Ma guarda un po’ cosa ci ha portato il mare» mormorò, sogghignando.

Ace inclinò la testa. «Scusi?»   

«Fossi in te cercherei di dare un po’ meno nell’occhio.» Lo sguardo della vecchia corse ai pochi clienti seduti a tavola, poi a Cora, che aveva ripreso a pulire. «Attiri l’attenzione, e non solo quella delle ragazze.»

Lui scrollò le spalle, senza riuscire a trattenere un sorriso. «Non si preoccupi per me.»

«Oh, non è certo per te che mi preoccupo.» L’anziana sparì dietro il bancone, dandogli le spalle, ed Ace intravide solo le sue mani raggrinzite afferrare quelli che avevano tutta l’aria di essere avvisi di taglia sparsi sul legno e infilarli nella tasca del grembiule. «È per la mia locanda.» Poi tornò a squadrarlo. «Birra e arrosto, avevi detto?»

Ace capì che la donna, oltre ad averlo riconosciuto, doveva aver anche ascoltato la sua breve conversazione con la cameriera.

Anche io voglio arrivare con questi occhi e queste orecchie a ottant’anni.

«Sì» rispose lui, e poi sogghignò. «Ma me ne porti cinque, di arrosti.»

Una decina di minuti dopo, in cui Cora continuò a fissarlo di sottecchi, mentre puliva i tavoli senza realmente guardare quel che stava facendo, Ace ebbe finalmente davanti il tanto agognato pranzo.

Vi si tuffò, dimenticandosi ben presto delle posate e trangugiando la carne senza neanche masticarla, tanta era la sua fame. Non aveva neanche fatto colazione, quel giorno, e ventilò l’idea di ordinare altre cinque porzioni di quell’ottimo arrosto mentre attaccava l’ultimo, gli altri piatti già spazzolati e splendenti come se fossero stati appena lavati. Mentre si portava alla bocca una fetta di carne – deliziosa, pensò, tenera al punto giusto e stillante sugo – fu interrotto da uno sbadiglio. Fece appena in tempo a mandare giù il boccone che sentì la forza venirgli meno e cadde lungo disteso sul legno del bancone.

Non seppe dire quando si risvegliò, con la vecchia locandiera che gli faceva aria con un giornale, l’espressione accigliata come se non avesse idea se si sarebbe risvegliato o meno.

«Certo che ne gira, di gente strana, qui a Sheltz Town» stava borbottando tra sé, guardandolo come fosse stato uno evaso di manicomio. «Stai bene?»

«Sì, sì» si affrettò a dire lui, rimettendosi seduto. «Nessun problema.»      

Si massaggiò la testa, che gli doleva un po’ per essersi addormentato sul legno. Stava per rimettersi a mangiare quando si accorse con la coda dell’occhio che una figura, nel frattempo, gli si era seduta a fianco, e non si trattava della graziosa cameriera.

Alzò gli occhi dal piatto per osservarlo meglio. Era un uomo piuttosto basso, infagottato in una camicia nera, il profilo aguzzo incorniciato da una matassa di capelli corvini, legati sulla nuca con un codino.

Nello scorgerlo, l’anziana locandiera, che si era messa a trafficare dietro il bancone, sogghignò.

«A proposito di gente strana…» commentò, con quella voce che pareva il gracchiare di un corvo, ed Ace capì che il tizio doveva essere appena arrivato. «Guarda un po’ chi viene a trovarmi. Chi non muore si rivede, d’altronde. Come ti vanno le cose?»

«Salve, Asako.»  L’uomo sorrise a sua volta. «Non potrebbero andare meglio.»

Ace gli scoccò un’occhiata, stupito dal suo tono sicuro, ma dopo un attimo aveva già perso del tutto l’interesse per lui e si era rimesso a mangiare.

«Cosa ti porto?» riprese la vecchia, avvicinandosi al bancone, a cui arrivava a malapena.

«Riso fritto» rispose lo sconosciuto. «Per me e per lo straniero.»

Ace drizzò le antenne e, nell’alzare lo sguardo, si accorse che l’uomo dai capelli neri lo stava indicando con il pollice. Di colpo incrociò gli occhi di lui, scuri come la pece e dall’aria amichevole.

«Come sai che non sono di qui?» biascicò, pensando al fatto che, se lo sconosciuto gli avesse davvero offerto il pranzo, avrebbe evitato di darsela a gambe per non pagare com’era abituato a fare.

Lo sconosciuto scoppiò a ridere. «Conosco tutti a Sheltz Town, amico. Me ne accorgo, quando vedo una faccia nuova. Benvenuto in città.»

L’uomo gli offrì la mano, l’aria cordiale, ed Ace la strinse a sua volta, sorridendogli. Non gli era andata poi così male.

«Piacere, Ace» disse, ancora a bocca piena.

Per tutta risposta, l’uomo sorrise, scoprendo i denti. «Lo so.»

In quel momento, Asako si affacciò sulla soglia della cucina e guardò l’uomo di sottecchi. «Il cibo arriva subito, Riadh, ma tu vedi di non distruggere il mio ristorante.»

 
***
 
 
Contrariamente a quanto Aibell avrebbe scommesso, quel pirata dalla ridicola capigliatura bionda le stava dando filo da torcere. Ancora una volta. Certo, non poteva dire che quell’uomo non nascondesse delle sorprese. Per un attimo, nella mente annebbiata dall’alcol della cacciatrice, l’antipatia nei confronti del pirata si mescolò con la curiosità.

«Questi li paghi tu» preannunciò Marco, tracannando uno dopo l’altro gli shots.

Erano già alla seconda serie da dieci e il locandiere era sempre più confuso, mentre continuava a portare loro l’alcol senza fare domande.

«Te lo scordi» replicò Aibell, che quasi si strozzò nel mandare giù i suoi.

La loro lotta si era fatta così avvincente che ben presto attirò l’attenzione dei tavoli vicini, i cui avventori si avvicinarono e cominciarono a piazzare le loro scommesse, scambiandosi mazzette e incitando ora l’una e adesso l’altro.

Aibell udiva i loro discorsi sconnessi, le parole che arrivavano in un brusio confuso e attutito. Lo sconosciuto era alto e ben piazzato, decisamente più robusto di lei, dicevano, ma d’altronde quella era Aibell, conoscevano di fama le straordinarie capacità della ragazza nel reggere l’alcol.

Quando non si recava al loro tavolo, il proprietario fissava la scena dal bancone, scuotendo appena il capo. Non sembrava disturbato dalla confusione, probabilmente si augurava soltanto che tutta quella tequila gli venisse pagata.

Aibell, dal canto suo, non poteva permettersi di perdere. Anche perché non aveva un soldo.

«Be’» commentò Marco, scolandosi il tredicesimo shot. «Devo ammettere che non sei così male.»

Aibell non replicò. Sapeva che, se avesse aperto bocca, il suo tono di voce l’avrebbe tradita. Già doveva prestare grande concentrazione a non dondolare troppo sulla sedia e a non rovesciare i bicchieri quando li prendeva in mano.

Al dodicesimo bicchiere cominciò a vederci un po’ appannato, e si maledisse fra sé. Quella notte non aveva chiuso occhio e non toccava cibo dal giorno prima, ad esclusione di poche cucchiaiate della zuppa incriminata, e le conseguenze si stavano facendo sentire. Aveva creduto di potercela fare comunque, di tenere duro, di consegnare quell’uomo alla Marina, ma sentiva che stava perdendo il controllo sulla sua mente, e che presto non avrebbe più risposto delle sua azioni.

Cazzo, cazzo, cazzo!

«Non ti vorrai arrendere ora» la canzonò il pirata, sovrastato dal tifo degli avventori, notando la sua esitazione.

Aibell sperò che fosse almeno un po’ alticcio. Il cappello gli si era un po’ spostato indietro sulla testa, rivelando i suoi lineamenti e un ciuffo di sparuti capelli biondi, ed Aibell pregò che nessuno degli avventori lo riconoscesse. Quell’uomo era suo.

«Mai» rispose lei, a mezza voce, buttando giù il tredicesimo, mentre intorno a loro infuriavano i tifi e le urla, e sudice banconote passavano da una mano all’altra.

Il pirata fece il solito sorrisino storto, sprezzante ed arrogante, quello che lei detestava.

La testa le doleva da impazzire, quasi quanto la gamba, come se qualcuno le stesse piantando un chiodo nella nuca con un martello.

«Lo vedo che non ce la fai più» la prese in giro Marco, bevendo il quattordicesimo shot. Dietro di lui esplosero le grida dei clienti, già certi che la vittoria sarebbe andata a lui.

Aibell tentennò, abbassò gli occhi sul suo bicchiere ed improvvisamente ebbe una gran voglia di vomitare. Ma ricacciò il conato in fondo alla gola e si scolò a sua volta il quattordicesimo, con il tifo degli avventori nelle orecchie.

Quando alzò di nuovo gli occhi, realizzò che quel sorrisino storto non gli faceva più né caldo né freddo.

«Te l’ho detto» ripeté Aibell, incespicando nelle parole. «Io non mi arrendo.»

Al quindicesimo shot, si ritrovò a pensare che, in fondo in fondo, quel sorriso storto non gli dispiaceva.

Al sedicesimo, lo stesso sorrisetto gli provocò un fremito nel bassoventre.

Aibell si bloccò, in un improvviso sprazzo di lucidità, come fosse stata colpita da un fendente in pieno petto. Conosceva quella sensazione, per quanto non la sperimentasse da tempo immemore. E non era normale che la stesse provando lì, in quel momento, e che fosse quella persona – il pirata che l’aveva derubata del fucile e che aveva giurato di consegnare alla giustizia! – a suscitargliela. Aibell scosse vigorosamente la testa, come in un disperato tentativo di riprendersi dallo stordimento di cui era preda. Doveva fermarsi, o sarebbe andata a finire davvero male.

Ma, quando vide che Marco si avvicinava al ventesimo shot, alla vittoria, sentì la rabbia montare, e senza pensarci, si portò il diciassettesimo bicchiere alla bocca, lavando via con la tequila ogni traccia di buonsenso.

Al diciottesimo, neanche quei capelli ad ananas gli parvero più tanto ridicoli.

«Ti arrendi?»

La voce di Marco la riscosse dal torpore nel quale era caduta, mentre fissava il liquido trasparente ondeggiare nei suoi due bicchieri rimasti. Aibell guardò quelli di lui, vuoti e rivolti a testa in giù, e si grattò la nuca. Quand’era successo? Forse era stata troppo impegnata a guardargli quegli stupidi capelli.

Puntellandosi sui gomiti, il pirata si era alzato in piedi e adesso troneggiava su di lei, lo sguardo un po’ appannato. Aibell deglutì, senza riuscire a staccare gli occhi dai muscoli che s’intravedevano dalla camiciola a fiori lasciata aperta e che si sollevavano ad ogni suo respiro. Malgrado avesse bevuto fino all’attimo prima, si rese improvvisamente conto di avere la gola secca.

Intorno a loro era calato il silenzio più assoluto. Gli avventori sapevano che era giunto il momento decisivo, e non volevano perdersi nulla.

Aibell sentiva, sapeva che a Marco il suo sguardo lascivo non era sfuggito. In svariate occasioni, purtroppo, aveva dimostrato di non essere uno stupido. Malgrado gli occhi parzialmente nascosti dal cappello, sentiva il suo sguardo fisso su di lei e, in un soffio, realizzò che forse non era la sola a percepire la tensione che stava montando fra loro. Inspirando a pieni polmoni, Aibell si beò di quella sensazione, vera o falsa che fosse. Socchiuse gli occhi e fece in modo di spalmarsi ancora di più sul tavolo, assicurandosi che Marco avesse una discreta visuale sulla sua scollatura.

«Allora?» la incalzò lui, ad un soffio dal suo volto. Respirava la stessa aria di lei, adesso, intrisa di tequila. «Ti arrendi?»

Aibell aprì gli occhi, e si ritrovò agganciata a quelli di lui. Tutti, intorno a loro, stavano trattenendo il fiato, compreso il barman dietro il bancone, che tentava con scarso successo di fingersi disinteressato.

«Sì. Ti prego» rispose infine, ammettendo la sconfitta come se lo avesse avuto sopra di lei e gli stesse pregando di fotterla più forte.

La locanda esplose di colpo in un boato. Marco venne sommerso di fischi, applausi e pacche sulle spalle, ma i suoi occhi, che brillavano di una strana luce nella penombra del locale, erano fissi sulla cacciatrice.

«Ho vinto» disse, con una certa incertezza nella voce, come resosi conto che quel che stava succedendo non rientrava in nessuno dei piani che entrambi avevano architettato a scapito dell’altro. 

Aibell si alzò in piedi a sua volta, quasi rovesciando la sedia dietro di lei. Barcollava come fosse stata su una nave in tempesta e fu costretta ad artigliare prima il bordo del tavolo con le unghie e poi il bavero della camicia di Marco per non cadere lunga distesa a terra. Lui la lasciò fare. Malgrado l’atteggiamento calmo e pacato, non doveva essere messo molto meglio di lei, o almeno così sperava. Pensare il contrario sarebbe stato decisamente troppo umiliante.

Adesso Aibell era così vicina al pirata che poteva sentirne l’odore. Un odore forte, maschile e salmastro, appena coperto da quello dell’alcol, che le provocò una capriola di eccitazione nella pancia.

Si avvicinò ancora di più, ipnotizzata da quello sguardo. La sua mente era vuota, immobile come la superficie dell’oceano in una giornata senza vento. Sapeva che milioni di sensazioni giacevano sul fondale, impossibili da prevedere. Aibell non ebbe un solo attimo di esitazione. Respirò a pieni polmoni e vi si tuffò.

«Mi dispiace, non ho un soldo con me» lo informò, ad passo dalle sue labbra. «Ma posso pagarti in un altro modo.»




Chiedo venia per l’imbarazzante silenzio stampa. Mi sono successe un bel po’ di cose e questa storia è inevitabilmente passata in secondo piano. Eppure, come mi accade SEMPRE, trovandomi al pc per scrivere di tutt’altro (vedi: tesi), mi sono rimessa a leggere, a fare qualche modifica qua e là, e di colpo avevo una gran voglia di aggiornare. Non so se riuscirò ad essere costante, ma cercherò di andare avanti quando posso. Sono così affezionata a questa storia, ed è come se l’idea di averla pubblicata da qualche parte e non a marcire in una cartella del pc fosse un modo di darle giustizia. Non so se quel che ho scritto abbia un minimo di senso.    
 
Qualche parolina su questo capitolo e, soprattutto, sul finale (eheh). Scommetto che non ve l’aspettavate, eh? No, non se lo aspettavano neanche loro. Ammetto che scrivere le scene di questi due, al di là di realismo e OOC, mi diverte un sacco. Marco sperava di farla ubriacare senza ritegno e togliersela finalmente dalle scatole, Aibell sperava di farlo ubriacare senza ritegno e consegnarlo alla giustizia, ma qualcosa è andato storto nei loro piani. È una delle scene della storia che avevo in mente da sempre, così come quando lei cerca invano di fregarli, e spero di averla resa come la immaginavo nella mia testa XD Non sono sicura che Marco possa sbronzarsi per via dei suoi poteri da uccellaccio
, quindi non ho mai esplicitamente detto che fosse ubriaco, preferendo lasciare tutto alla vostra immaginazione :) In ogni caso, da qui in poi, tutto cambia. Non con l’ammore, però, non ci sarà molto romanticismo in questa fic. Comunque, l’avvertimento lemon è per la scena del prossimo capitolo, se mai arriverò a pubblicarlo.
 
Per quanto riguarda la scena di Ace… chiedo venia. Vi chiederete che cazz ci fanno dei personaggi mai visti prima (vedi: la mia AMATA Asako) così ben dettagliati, ma dovevo. Appartengono ad un’altra mia fic di One Piece scritta a quattordici anni (sulla scia delle figlie di Shanks, per intenderci) che per ovvi motivi non vedrà mai la luce del sole, ma il personaggio della vecchia Asako dovevo incastrarlo da qualche parte perché scrivere di lei mi spezza. Spero che la scena vi sia piaciuta e vi abbia lasciato un pochino di suspence. Perché, insomma, al bancone è arrivato qualcuno di moolto familiare. Chissà se gli andrà meglio che ad Aibell (anche se, insomma, ad Aibell non va poi così male).
 
Mi scuso anche per la monotonia delle ambientazioni. Vi starete chiedendo, ma quante cazz di osterie ci sono a Sheltz Town? La storia non si svolgerà tutta in una locanda, ve lo giuro ç-ç
 

Qualche curiosità random: la sfida di Aibell e Marco è ricalcata su una scena del primo film di Indiana Jones, in Tibet, non so se avete presente. Mi piace strizzare – obbrobriosamente – l’occhio alle opere che mi piacciono, se non si fosse capito.

                                                                 


Spero di tornare presto su questi schermi. Un bacio,
Cassidy

 

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