Baci di Dama

di Flappergiuly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Goodmorning, Woodlands Park ***
Capitolo 2: *** Amara terra mia ***
Capitolo 3: *** Everybody hurts, sometimes ***
Capitolo 4: *** In memory ***
Capitolo 5: *** Man without shadow ***



Capitolo 1
*** Goodmorning, Woodlands Park ***


1. GOODMORNING, WOODLANDS PARK
(Dahlia Swan)7 Febbraio 1930. L’alba è sorta già da un pezzo quando scorgo dalla finestra che il sole non ha ancora accarezzato la campagna del piccolo borgo di residenza britannico non assai distante dalla capitale. La luce inonda la stanza preannunciando una nuova giornata di cielo terso. È da un mese che non piove da queste parti, qualcosa d al quanto insolito e raro, si direbbe, specialmente se si tratta di una stagione simile a quella in cui stiamo vivendo adesso, gli inverni di solito sono piuttosto uggiosi o addirittura nevosi a Cobham. Mi giro sull’altro fianco ma niente da fare. I pensieri non mi danno minimamente tregua, troppa tensione per il saggio, l’ennesimo. Giusto ieri abbiamo iniziato a provare i primi passi, Il lago dei cigni è  proprio una grande impresa e se penso che il grande giorno è arrivato mi sento completamente divorata dall’ansia. Una Signora Coreografia come altrettanto la Platea, tutta la Londra reale e nobiliare sarà presente a quel tanto atteso spettacolo di gala preparato non appena in una settimana. Mi raggomitolo per vedere meglio se riesco finalmente a convincere Morfeo ad abbracciarmi, sembra che sia lontano anni luce da qui, da me. Blocco l’angoscia esistenziale  alzandomi dal letto. Con i capelli ancora scompigliati provo a dare un’altra occhiata alla finestra. Un po’ di foschia preannuncia un nuovo dì piuttosto caldo. Non perdo altro tempo aggiustandomi i capelli e abbassando l’elegantissima camiciola in color caffè per una metà in velluto e per l’altra in pizzo stropicciata dalle smanie notturne. Mi è stata regalata dal mio gemello Alexander, in occasione del nostro ventisettesimo e ultimo compleanno. Io gli ho regalato  una boccetta dorata di colonia che ha molto apprezzato d’altronde, chi non riuscirebbe mai a non innamorarsi di un cocktail di muschio, sandalo e patchouli? Fisso la porta della mia stanza dimenticandomi per un attimo che,  prima di uscire, dovrei cambiarmi. È la porta in ciliegio piuttosto elegante di un’ampia camera in stile inglese d’epoca vittoriana come, del resto, tutta la dimora, essendo sorta nel XIX secolo. Al centro, si erge un letto matrimoniale in seta color gianduia con due cuscini di un Borgogna e un altro di un beige con patterns floreali di un color panna pronti a dare quel tocco in più. Accanto, due comodini in mogano sorreggono le  abat-jours in ferro e in seta bianca. Due grandi vetrate illuminano e riscaldano la camera con dei mosaici geometrici, due finestre bianche, in stile Art Nouveau, abbellite da doppia tenda, una velata e una dorata con pomelli color cioccolato. Le due finestre affacciano sull’immenso giardino con prato all’inglese di Woodlands Park. La parete adiacente a quella del letto è riempita da uno scrittoio in noce che sorregge uno specchietto in ferro e una lampada in ferro e in seta color ocra. A ridosso di questa specie di tolettino c’è una poltroncina di un rosa antico e in frassino. Ma la parete decisamente più ricca è quella di fronte a letto dove s’impone in tutto il suo splendore un grande camino color nocciola, sopra il quale è stato posto un centrotavola in legno con delle pigne. A ridosso, c’è un salottino composto da due poltroncine in legno di betulle in seta color avorio con due cuscini violacei chiari e un tavolino in castagno su cui si innalza un vaso in ceramica grigia con delle calle gialle. Accanto al camino si può notare una vetrina a muro, una sorta di cristalliera. Tre altri specchi appesi fanno luccicare l’ambiente, uno è posto sopra il camino, i rimanenti sulla parete del letto, un po’ più in alto dei comodini. Lo fanno luccicare allo stesso modo dei faretti al soffitto. Anche il candeliere non spezza l’incantesimo. Pende da un fregio floreale inciso sul tetto violaceo chiaro a pioggia di candele e cristalli. Uno dei tanti fregi che ingentiliscono il tetto. Lo stemma gentilizio ricorre un po’ più spesso imponendosi in sommità alle pareti del camino e della porta. Pareti color senape che arricchiscono a loro volta l’atmosfera, anche loro fregiati con cornici astratte. Una parete che sembra diventare di seta all’altezza letto. Per terra vi è una moquette di un borgogna con stampe floreali di un giallo canarino che ravvivano totalmente lo spazio. Leggiadra, faccio scivolare giù dal corpo la veste, il cui movimento mi scopre, mi scopre a poco a poco completamente. Mi avvicino alla cabina armadio, un piccolo spogliatoio accanto alla mia stanza separata da tre gradini una porta in vernice bianca, in vetro e in ottone dorato. Un camerino dalle pareti di un giallo pallido e con una piccola finestra. Prendo il body nero, le calze color carne, le scarpe a punta di un rosa antico e lo scalda-cuore tonalità cipria dall’armadio in quercia, accanto del quale c’è un altro scrittoio che sorregge un lume in ferro e in seta azzurrina con uno specchio con cornice argentata e una sedia in abete rivestita in velluto color nocciola. Mi vesto e mi accorgo di non essermi rinfrescata il volto dall’insonnia che mi ha fatto compagnia per tutte le ore di buio. Esco e mi dirigo per la sala da bagno, sempre adiacente alla camera, preceduto da una specie di antibagno, arredato da un grande specchio con cornice dorata e da tre altre porte bianche. Anche nel bagno ogni cosa lascia col fiato sospeso, un bagno con doccia e con una bacinella rotonda e in ceramica. Una saletta tra faretti e tre specchi, pareti color cappuccino e pavimento verdino a scacchiera in marmo di Carrara. Dopo una rapida rinfrescata, il mio ego suggerisce di scendere le scale per avviarmi verso la scuderia, a sinistra di Woodlands Lane, ho deciso di dare notizia cominciando dal Signor Marion Wallace, il domestico tecnico che si è sempre dedicato alla riparazione delle macchine, un uomo sulla sessantina dalla personalità piuttosto sanguigna e accomodante e per me un secondo padre. Esco dalla stanza e trovo i miei genitori, tornati dal loro viaggio in Scozia, in visita a qualche reale del luogo. Li vedo intrattenersi con la domestica Anne Strong, l'addetta alle pulizie del primo piano, una signorina sulla mezz’età all’incirca, piuttosto giovanile nell’aspetto e dai modi costantemente gentili.
 
“Signorina, Ma è impazzita, se si presentasse così a  Westmininster…” borbotta mio padre, il Lord Richard Swan, uno dei Seniors, uno dei membri più sentiti dell’ala tradizionalista ma nello stesso tempo moderata inglese.  
 
“Lord Richard Swan, ma no, Signore, non diciate così, Milord!” lo interrompe tranquillizzandolo con voce gentile la Signorina Strong.  
 
“Ecco, vedete, vedete? Come se ne esce vestita! Ma se è una ribelle…” non desiste ma viene bloccato da mia madre che lo rassicura mettendogli una mano sulla spalla “Va beh che Sua Grazia il Lord Cassius Wesley l’aggiusterà! Il Duca del Sussex sarà un ottimo marito per lei, più che perfetto!” continua con fare più austero.  
 
“No! Io il Duca non lo sposo affatto, piuttosto, che ci fate qui, Padre?” mi lascio sfuggire io fermandolo con decisione.  
 
S'infuria inutilmente.  
 
“Tu e tuo fratello dovete venire a Westmininster…” s'impone ma lo interrompo.  
 
“Ma ho la serata di gala…” vengo interrotta a mia volta.  
 
“Nemmeno per sogno! La politica prima di tutto o siamo al tappeto, che per miracolo e per fortuna siamo rimasti in piedi, molti sono già decaduti, per un pelo non cadevano pure noi! Ci faranno fuori se non ci difendiamo e non mi fare dire altro, il che risulterebbe peggio! Se faranno fuori anche la corona siamo proprio k o e addio onore! Prima la corona, prima noi! Questi nuovi ci soppianteranno, soprattutto i nuovi partiti radicali, hai visto che è successo in Russia, in Irlanda e cosa sta avvenendo in Italia?” chiede più che convinto.  
 
“Io a Londra non ci torno!” affermo e mi dileguo, avrò tante altre cose da fare.  
 
Mio padre, il Lord Richard Swan, un uomo di vecchio stampo, almeno in questo, un patriarca in famiglia, un succube del credo del suo tempo. Classe 1878, ultimo di cinque figli, unico figlio maschio e unico erede. Mio padre vuole che sposi il Duca del Sussex Lord Cassius Wesley, un conservatore in vista, un uomo piuttosto maschilista e arrogante, non lo tollero proprio. Tutto questo per interessi e che senso ha sposarsi senza un minimo di sentimento, la vita di coppia non si compra per nessuna ragione. Dico questo mentre scendo le scale di corsa dirigendosi verso la cucina per la colazione e poi per la sala studio. Ci vado spesso quando non ho niente da fare, come per ammazzare il tempo facendo qualcosa. Aspetto un po' prima di andare dal Signor Wallace. Oggi ho deciso di incominciare l’ennesimo libro di letteratura classica contemporanea, "Tessa dei D’Urberville", un romanzo edito da Thomas Hardy nell’epoca tardo-vittoriana, per la prima volta nel 1891, per essere più precisi.   
 
“Mediante l’esperienza scopriamo una scorciatoia per mezzo di un lungo vagabondare.”  
 
È questo quanto leggo inciso sulla copertina sotto il titolo e il nome dell’autore. Già questa frase mi incomincia ad ispirare. Un’altra passione che nutro, complementare alla lettura è dipingere e scrivere anch’io, a mia volta, romanzi e libri. È quello che mi ha sempre identificato, sin dalla tenera età, in fondo, sono una laureata. Sono una donna molto attenta ai particolari, una sognatrice ribelle e, per poter far si che tutto ciò si avveri ho bisogno della mia propria libertà, proprio come dice questa frase che sento mia e la mia libertà non è tra la mondanità e il cosmopolitismo metropolitani di Londra dove la società pullula di gente scelta poiché d’alto rango ma mediocre, sempre pronta alla superbia che è una vana gloria. La mia libertà è qui a Woodlands Park, dove ognuno ti apprezza per quello che sei. Ho scelto questo libro anche se è l’ennesima volta che lo leggo, mi piace, già so a memoria ogni singola sua parte, è come se parlasse esattamente di me, mi riconosco in Tessa. È vero che io e Tessa apparteniamo a realtà completamente diverse, soprattutto per il carattere, lei è una povera ingenua, io un'abile filibustiera, lei col capo abbassato e io che non mi sottometto mai a nessuno, cosa di veramente insolito per una donna, soprattutto di una donna come me che deve dare il giusto esempio alla società rosa, parlando di me che sono il vero modello della società femminile, essendo appunto di sangue cobalto ma che non sento pulsi più. Infatti sembrerebbe assurdo eguagliarmi a lei visto che siamo due figure femminili, due donne completamente diverse, anche in questo, ma dovremmo essere diverse, in realtà non lo siamo. Ma in effetti, lei sarebbe una mesta campagnola, io dovrei essere una rispettabile dama. Ma io ho mandato al diavolo tutto e ciò è evidente nel rifiuto che ho deciso di volgere al Duca, che non vedo affatto sincero e nell'avere ritrovato me stessa qui a Woodlands Park. E quindi sono finita per essere come lei. Ma anche lei è come me, abbiamo un esito simile e opposto al tempo stesso. Lei pure era imparentata con gente di un certo livello e alla fine tornò alla vita rurale che conduceva in precedenza. Questo perché siamo figlie dello stesso tempo, di una società che il alcuni casi è cambiata ma ancora non del tutto, figlie di genitori che non ci riconoscono in entità a sé stanti e quell’eguale destino che si stava preparando per noi. Queste sono i punti in cui incontro Tessa, ma ci sono anche dei punti in cui mi scontro con lei o se mi incontro, se la raggiungo è solo per superarla. Questi momenti sarebbero che io appunto non conosco qualche termine ma non per miscredente genuinità. Io misconosco il termine sottomissione e il termine sindrome di Stoccolma solo per principio. Io sono libera, attiva, lungimirante. Il Duca e Alec sono la stessa persona, io so il Duca chi è e io schiaccio lui prima che lui schiacci me. Io ci rinuncio al vigore regale se devo essere quello che gli altri vorrebbero che io sia, io sono quella che sono e non ce niente che possa impedirmi ciò e non ce di niente di più bello di ciò. Non ho bisogno di Angel di aspettare nella più piena incertezza di qualcosa o qualcuno che è ancora più incerto. Perché se io devo esserlo non devo essere, io non sono una principessa che deve essere salvato ma sono una regina che sa benissimo come salvarsi da sola, che sa benissimo di essere già salva perché, so rialzarmi perfettamente da sola, so che cado all’in piedi, so che non cado mai, so che non conosco sconfitta né la conoscerò mai. Ho finito di leggere, ho fatto anche colazione e poi ancora sono stata dal Signor Wallace, nella scuderia appena di fronte alla proprietà e ho anche fatto una grande cavalcata con Ohana, la mia giovane puledra purosangue. È un altro mio diversivo quello dell’equitazione l’ho sempre amato. Ora sono in camera, a cambiarmi, in attesa di divorarli. Sentivo una domestica, la Signora Wilson che oggi ci saranno i noodles e ho capito pienamente perchè ma non vedo l’ora di divorarli ugualmente. Ho indossato un vestito di velluto rosso sfrangiato, stile anni ‘20. Scendo le scale e mi accomodo nel salotto. Prima di dirigermi verso la sala da pranzo mi metto a cavalcioni con la disinvoltura sul divano di pelle turchese e sfoglio un magazine di moda e di gossip boccheggiando una lunga sigaretta nera. Scorro le pagine e i poster si accavallano l’uno all’altro, bombardando a più non posso. Vedo lo scatto della giovanissima Vivian Leigh, la posa dell’affascinante trentenne Zelda Seyre-Fitzgerald insieme ad altre flapper girls a fumare ancora la stessa sua sigaretta lunga di circa dieci anni fa. E poi ancora Marlene Dietrich, Cary Grant, Betta Davis, l’appeal di Humphrey Bogart, Greta Garbo, il sensuale Clark Gable, James Cagney, Fred Astaire, il simpaticone di Charlie Chaplin, il temperamento di Henry Fonda, lo charm di Gary Cooper e tanti altri. La chiamano l’altra élite, quella nascente, quella di un posto che si chiama e si presenta assai simile a questo, quello che, al di là dell’oceano porta il nome di  Hollywoodland. Un posto che sognano tutti, un posto che sa proprio di moderna libertà. A destra il deserto del Far West degli Yankees, a sinistra l’oceano di Santa Monica, Beverly Hills, Malibu, Santa Barbara, in alto San Francisco, in basso la Baja California e n el  Mexico. Un territorio più o meno suddiviso come questo in Contee quello della California statunitense, diviso politicamente in contee, la contea di Pasadena, dove vivono i più grandi magnati del tempo e la Contea più grande ormai la metropoli del futuro dal nome di Los Angeles. E ora possiamo aggiungere anche due altre nuove grandi invenzioni, le vie della modernità, una è la strada di residenza dei vip, la famosa Mulholland Drive e l’altra la Route 66, che collega Chicago al Pacifico. Incomincia la fame a crescere e incomincia a sentirsi sempre di più, anticipo non aspettando che qualcuno, la troupe mi chiami per prendere posto a tavola che ci vado io personalmente di proposito. Entro nella sala da pranzo e vedo già mio fratello seduto a capotavola, lui è peggio di me. Lo osservo, lui è troppo intento ad aggiustarsi la cravatta a tal punto da non avermi visto ancora. Com’è elegante. Prendo posto e lo guardo ancora si gira a sinistra alzando la mano in segno di saluto verso qualcuno che ancora non sono io. Attira la mia attenzione mi giro anch’io e vedo un uomo abbastanza raffinato, di un narcisismo maniacale. Per dire questo significa che l’abbia riconosciuto certamente, ahimè. È il Signor Oswald Moseley, menomale che non si è accorto della mia presenza, è troppo, come dire, esuberante, vanitoso, superbo. Ora si è fatto crescere anche un leggero baffo che gli dà ancora più quell’aria di, che ne so, "so tutto io". Ancora vedo mio fratello fargli cenno di prendere posto, oh mio dio, no, non lo sopporto proprio a quell’uomo, è un pessimo modello e mio fratello si fa l’amichevole con lui, non lo tollero proprio. Mio fratello continua a parlottare con il tipo senza notarmi ancora, tutto intento chissà di cosa staranno dibattendo mai, di cavalli? Mi chiedo. Era un altro Alec, mi stava sempre in mezzo ai piedi ma nemmeno lui farebbe per me. Mi giro indietro, verso la porta e vedo che entrano anche i miei genitori, mio padre è un po’ rilassato meno impettito e meno sulla difensiva come prima, il suo volto è più sereno. Mia madre è affabile come sempre, lei mi capirebbe, sicuramente più di lui.   
 
“Ciao, Dahlia, come sei bella!” mi saluta con una pacca sulla spalla.  
 
“Madre, grazie!” ricambio.  
 
Mia madre prende posto a sedere accanto a me e incominciamo a parlare.   
 
“Com'è andato il viaggio?” domando.
 
“È stato incantevole! A dir poco, che ti sei perso, cara! La Scozia è fantastica!” esclama completamente meravigliata “E tu che hai fatto?” continua.  
 
“Letto, suonato il piano, cantato, cavalcato, giocato a tennis e a scacchi, ballato, lavorato a maglia, scritto, cucinato, dipinto…” rispondo con un lungo catalogo di trascorsi.  
 
La sala si è riempita rapidamente e anche per i tanto graditi e apprezzati noodles non dovetti aspettare tremendamente a lungo. Dopo una spolverata veloce di assaggini di entrées, antipastini della terra  prodotti dai domestici e dagli affittuari, arrivarono finalmente pure loro.  
 
“Alex, tu che hai fatto?” chiede un’altra volta lei gridando per farsi sentire da lui dall’altra parte della tavola a tal punto da attirare l’attenzione  di più di qualcuno facendoli girare tutti.  
 
“Madre, Dahlia!” replica Alexander.  
 
Rispondo anch’io con un cenno di mano.  
 
“Milady, ciao, Lady Dahlia Swan e un saluto alla Signora!” ed ecco che anche il Signor Moseley si accorge di me.  
 
Rispondo al saluto a malincuore ma senza darlo a notare.   
 
“I noodles sono una rarità qui a Woodlands Park!” esclamo.  
 
“E una delizia!” aggiunge mia madre "Dopo io lo so che c’è, il beef!” continua deliziata “E infine il cheesecake di confettura alle albicocche, è Domenica, ragazzi! offre la casa!” continua ancora più eccitata.  
 
La tavola decorata, imbandita, profumata e non solo di cibo. Il vino era l’incenso di quel pasto, un vino rosso nostrano, coltivato nella nostra terra. Il pranzo è volato e io sono ancorata a terra sazia. Annaffio un po’ la gola con un ottimo digestivo gin, qualcuno chiede whiskey irlandese, chi brandy, chi tè inglese senz’aspettare le cinque pomeridiane com’è solito fare secondo la tradizione inglese.  
 
“E adesso ce la farò a ballare?” chiedo ironicamente.  
 
“Tuo padre ha fatto rinviare tutto, finché non si risolve la faccenda politica non si fa niente ha detto!” interviene mia madre che mi ha sentita.  
 
Sbuffo. No. Io non me ne vado di qui, qui io ci rimango, non voglio tornare a Londra.  
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Amara terra mia ***


2. AMARA TERRA MIA
(Cassandra De Santis) 7 febbraio 1930. Un nuovo giorno di freddo pungente nella capitale del Regno d'Italia, cosa insolita per noi che viviamo nella culla del Mediterraneo. Gli inverni di solito, sono piuttosto miti e abbastanza soleggiati, non me lo ricordo un clima simile in vita mia. E invece quest’anno la neve è scesa anche al di sotto dei trecento metri d’altitudine, presentandosi in tutta la sua più piena bellezza anche al di là dei sette colli, fino a fondersi con la sabbia e la ghiaia in un'unica immacolata e candida purezza, vedremo se riuscirà a purificare questa madida atmosfera che stiamo vivendo. Una squallida atmosfera resa tale non solo dalla calda umidità proveniente dal Lungotevere e dalle meste paludi di San Lorenzo, qui c'è cattivo odore di qualcosa di apparentemente astratto che in realtà è evidente e concreto più di ogni altra cosa. Quando tornerai ad essere libera, Roma, quando tornerai finalmente a cantare l'amore tra le varie etnie, tra i vari sessi, senza più distinzione alcuna di pensiero, di razza, di fede, di abilità, come nonostante tutto hai sempre fatto, prima d’oggi. Il tuo amore che, anche se profondamente cattolico, non è stato mai così inutilmente limitato, negato e soppresso come sta succedendo da ben otto lunghi anni, da quando furono emanate quelle maledettamente famose Leggi Razziali. So io come stanno combattendo alcuni miei cari, chi è costretto a parlare cripticamente esprimendo una pseudo-libertà verbale, chi può uscire esclusivamente di casa indossando una medaglietta distintiva. È una città che vivo da ventisette anni ma, ogni volta che la guardo, me ne innamoro quasi fosse il primo giorno di noi. Nonostante tutto, niente e nessuno potrà mai allontanarmi da lei o quanto meno cancellare lei dai miei pensieri e ricordi, nonostante fosse ormai una Roma ischeletrita nonostante fosse una Roma senza cuore è una Roma irreale e non più città eterna. Ischeletrita e non dal gelo di quest’anomalo inverno che la rende più incantevole semmai. Come sei bella Tiberina quando sei imbiancata, sei particolarmente bella, sei spettacolare mentre ti contemplo in lontananza da uno dei ponti che circondano Roma da millenni. Ormai mortale, dannatamente mortale come questa neve, come questa neve che non appena evaporerà tu riappassirai come i petali di una stella alpina. Riappassirai ma non nei miei ricordi, nelle fotografie, in questa neve, in un tempo in cui brillavi, nella tua più piena lucentezza di una così definibile età dell'oro. Entro in casa dopo aver preso il bus che passava dalla mia strada. La prima persona che trovo è mia madre, che mi viene incontro avendo sentito il rumore di porta che si apriva. 
 
“Ahò, Cassandra, c’è Sveva di là nella tua stanza, se vuoi saperlo...” avvisa. 
 
“Mà, ho fatto un po’ di spesa al negozio alimentare qua fuori, prima di rincasare!” rispondo poggiando i viveri appena acquistati sul tavolo quasi consumato in arte povera del soggiorno. 
 
“Grazie, Cassandra, stasera, amatriciana, sei contenta?” chiede dopo aver ringraziato.  
 
“Certo, mà, non c’è cosa migliore!” esclamo. 
 
Detto questo, mi dileguo e mi ritiro in camera dove c’è già Sveva, la mia migliore amica. 
 
Sveva Martini, una delle più belle ragazze dell’Università, quando andavamo, quest’anno sono quattr’anni che siamo laureate, il tempo passa, non aspetta nessuno e nessuno se ne accorge. Quella sventola di un 175 cm e una pelle chiara da sembrare una sovietica. In effetti, i suoi genitori non sono italiani a tutti gli effetti, i suoi genitori sono dei benestanti imprenditori tessili inglesi che hanno girato il mondo, arrivando fino all’Australia per poi tornare in Europa soggiornando lungamente in Italia. Quegli occhi cerulei, quante altre vittime sono pronti a fare ancora. Un fisico magro e formoso al punto giusto, una ragazza tutti pregi e niente difetti, io invece ho almeno non sono proprio così alta, ma nella norma e poi anche altri, non credo, per esempio, di essere così carina come lei.  
 
“Ciao Sveva!” saluto chiudendo la porta.  
 
“Ciao Cassandra!” ricambia alzandosi dalla poltrona sotto la finestra e venendomi incontro per abbracciarmi. 
 
Io ricambio il gesto e mi accomodo sul letto. 
 
“Potevi rimanere dove stavi!” esclamo ancora accennando un amichevole sorriso. 
 
“La sai l’ultima?” chiede con tono contento. 
 
“No, sarebbe?” chiedo a mia volta.  
 
“C’è quel bel tipo di Andrea che mi ha chiesto un appuntamento, gli ho chiesto tempo, ora che ci ripenso, gli dico di sì! Aveva detto poi che sarebbe venuto con Francesco per te! Ti rendi conto? Ecco il sogno pronto a diventare realtà! Prepariamoci non importa che abbia detto di no, ho il numero e poi so dove incontrarlo, tu vieni con me? Ho portato anche qualcosa di bello!” racconta.  
 
“Scema, potevi dirglielo, per me hai detto di no, non è vero? Cosa? Certo, andiamo!” bofonchio sorridendo ancora. 
 
 
 
“Come sei bella, Sveva!” complimento come la vedo nell’insieme una volta uscite di casa.  
 
“Sei bella anche tu, amica! Andiamo!” risponde.  
 
Con quei capelli cotonati all’ultima moda, Sveva è proprio al top. Io invece ho preferito legarli in uno chignon.  
 
“E se ti dicessi che gli ho detto a loro di venire qui? Aspettiamoli qua fuori, fuori casa mia!” insinua con modi piuttosto civettuoli. 
 
“Eccoli, arrivano!” esclamo guardando in fondo alla strada con il capo flesso a sinistra.  
 
Una serata spensierata creata dal nulla, il modo migliore per dimenticare il quotidiano, il modo migliore per dimenticare tutto, il modo migliore per dimenticare, per ritornare, per ritrovarsi e per ritrovarci, come se ci fosse una macchina del tempo per ritornare a quando andava tutto bene, come se ci fosse una gomma del tempo pronta a cancellare tutto quello che odiernamente non va. Ma come capita spesso, non ci vuole molto per spezzare l’incantesimo, per spezzare tutto e tornare al presente e anche se ad attendere è un presente diverso fa lo stesso tanta e altrettanta paura, è sempre un ignoto che non sai dove porterà. É tutto quello che si prospetta una volta arrivati alla festa proposta da Andrea e Francesco. Francesco De Rossi e Andrea Marini, classe 1895, ex tenenti arruolatisi nell’esercito liberale della Grande Guerra, della Prima Guerra Mondiale, due combattenti della Triplice Alleanza. Andrea è un bel ragazzo dai tratti mediterranei, capelli neri e occhi ambrati, alto 187 cm e fisico scolpito, un ragazzo di polso e di buona eloquenza. Altrettanto carino è Francesco De Rossi, un ragazzo affascinante e ambizioso dalle spalle larghe, capelli castani e occhi verdi, alto giusto 180 cm.  
 
Arriviamo in anticipo a tal punto da non notare la presenza di molta gente.  
 
“É la Serata di Gala dei Veterani, la festeggiano ogni anno per commemorare la guerra e chi vi è caduto, è l’undicesimo anno questo che la celebriamo, accomodatevi con la massima libertà, su!” suggerisce Andrea. 
 
Mi guardo intorno per vedere se riconosco qualcuno pur essendo la cittadina di una grande metropoli, la più grande d’Italia. È impossibile conoscersi qui, è una città veramente numerosa, come fare a fare amicizia con migliaia di migliaia di persone. 
 
“Questo è il nostro tavolo! Accomodatevi, ecco il menu! Aspettate un attimo che ci chiamano i superiori, penso che non ci vogliano così!” ordina Francesco. 
 
 Mi giro intorno per l’ennesima volta e realizzo che la maggior parte è gente scelta, per lo più militari. Guardo con più attenzione e noto anche un gruppo di uomini del Regime al lato sinistro della sala che ancora non hanno preso posto a sedere. É l’unica cosa che lascia a desiderare, del resto sembro essere trapiantata chissà dove. É la sala di uno degli alberghi più rinomati di capoluogo laziale e anche uno dei più spettacolari e più lussuosi. Non vi ero mai entrata, quale onore o tanto ancora meno possibilità, agio economico avrei mai potuto avere per accedervi, era impossibile una volta a tal punto da non essermi mai passato dalla mente e nemmeno a Sveva, per quanto sicuramente più in vista di me possa risultare.  
 
“Intanto, ma tu sapevi già tutto o no?” insinuo, rivolta alla mia amica.  
 
“A dire il vero, no!” mi risponde ridendo. 
 
“Beh, sediamoci e ordiniamo!” la invito.  
 
“Cosa ordinate, Signora Marini?” le chiedo ridendo e incuriosita. 
 
“Zitta, che ti sente!” esclama.  
 
Mi volto nuovamente verso la sala, distratta dagli alti ufficiali del Fascio alzano la mano in avanti in segno di saluto, dopo di che vedo infinite file di soldati avanzare con la mano altrettanto tesa. Il primo verso di me è proprio Francesco, non pensavo vi avesse aderito, riaffiorano dubbi che non fanno che diventare sempre più fermi, più che fermi. Osservo poi Sveva che invece non sembra minimamente muovere piega per poi tornare ad assistere ancora alla scena rituale.  
 
“Guarda Andrea, che baldo con la nuova divisa! Mi dà senso di virilità, pure Francesco sta bene, è già il fascino della divisa che li migliora ma questa, decisamente, non ho parole! A te no? Che ne pensi? Già prima stava bene, ma ora!” esclama.  
 
Faccio finta di non aver sentito continuando a guardare i vari numeri dello spettacolo che si susseguono. Finisce la Parata e i due ragazzi tornano al tavolo.  
 
“Sono tornato, Cassandra!” esulta Francesco “Non mi hanno ancora sparato!” continua accomodandosi anche lui.  
 
“Buonasera Signori e Signore, piacere mio a tutti voi sono la conduttrice della Serata, Antonella De Angelis, prima di continuare la Cena e lo Spettacolo con balli, canti ecc. siamo giunti al momento della prima Premiazione! Chi sarà premiato, andrà a Londra, a Westminster, per l’esattezza! Vi andrà con rispettiva compagna! Due posti per ora! I primi sono De Rossi Francesco e Marini Andrea!” annuncia la presentatrice della serata che gira tra i tavoli degli invitati una volta scesa dal grande palco in fondo alla sala. 
 
Applaudiamo tutti, mi crolla il mondo addosso. Lui fa cadere una mano sulla gamba ed è questo il momento crolla del tutto il mondo addosso, quando il mondo era già del tutto crollato. 
 
 

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Capitolo 3
*** Everybody hurts, sometimes ***


3. EVERYBODY HURTS, SOMETIMES
 
(Tommy Shelby) 7 febbraio 1930. Sono sepolto da una marea di carte che navigano tra gli scaffali e la scrivania del mio studio, nella mia tenuta di Arley Hall. É un pantano, sembrano tante e innumerevoli meduse che galleggiano sull’oceanico cuoio grigio topo che preserva, quanto più è possibile, il delicato legno di platano secolare per non far sì che si danneggi facilmente e gratuitamente, quasi si trattasse di qualcosa di sacro, il che non è totalmente escluso, essendo un mobile piuttosto di pregio alquanto datato e nobiliare. Carte bianche e giallastre imbevute di inchiostro nero sommergono persino me stesso come gli infiniti escamotages diplomatici che mi identificano prettamente da uomo d'affari che sono e tutti quei pensieri che altrettanto non mi hanno ancora abbandonato. Questi corvi opachi fanno più rumore di questi innumerevoli catasti d'origami che continuano ancora a svolazzare come gabbiani in lungo e in largo per tutta la stanza. É come se facessero non altro che acquisire le sembianze di albatros e fenici leggiadri nel cuore di una crepuscolare staffetta in cui il giorno è sempre pronto a cedere il testimone alla notte, le cui tenebre sono sempre pronte puntualmente ad incombere, prima parzialmente, poi completamente. Castelli di carta che mi giocherei in scommesse persino di poker, io mi gioco tutto. Mettiamo che ho un re ed un asso di cuori, mi prendo tutto quello che c’è in campo e almeno tutto quello che ho azzardato e, se ho fatto azzardare a sua volta qualcuno dei giocatori incalliti ivi presenti convincendolo a seguirmi, ancora meglio, ancora più vincente, semplice, quando poi di semplice non ci sarebbe alcunchè. Bussano alla porta, entra Lizzie, mia moglie, dicendo che è l’ora di cena. Mi aspetta il caviale, suggerisce, mentre ho lo sguardo ancora che continua a fluttuare e fissare perdutamente il vuoto, quello sguardo vitreo come il ghiaccio e non solo perchè proviene dai miei occhi cerulei. Uno sguardo pietrificato dalla sua stessa lava, uno sguardo che brucia più della canna della revolver nel momento in cui si preme il grilletto al di là di quegli occhiali, più vitrei delle lenti stesse. È uno sguardo senz’anima, uno sguardo che incute ignoto e paura persino a me stesso. I pensieri della guerra sono tornati da quando è morta Grace, la mia prima moglie, il mio unico amore. Nemmeno una voce soave cotanto simile riesce a distogliermi da tutto questo caos che lievita dentro me, che si nutre del mio sangue ormai prosciugato, cicatrizzato più degli stessi solchi incisi e ormai parte della mia pelle e che mi differenziano, di un nero più tetro di queste stesse parole. Ancora la storia dei russi che non vuole finire, pensavo fosse capitolo chiuso ma quello che era stato precedentemente battuto era non appena che un sottotitolo di una lunga sfilza di tanti altri, altrettanto ancor più svilenti. La rivoluzione bolscevica e il biennio rosso li avrebbero dovuti segnare già da un pezzo, ma qui mi risulta, invece, che non li hanno minimamente scalfiti. Anche il Cremlino ormai di imperiale non ha altro se nonché una lunga serie cupole e dipinti pronti a rievocare lievi ed evanescenti sprazzi di un percorso vitale lungo secoli e secoli andati in fumo e cenere come il foro della calibro e la macchina a vapore del non ritorno pilotate da Trotskij, ha fatto sì che finisse vittima egli medesimo dello stesso, di se stesso e so benissimo tutto questo cosa voglia veramente dire ma non del tutto. Eppure nonostante tutto questi, sono sicuro che resisteranno anche alle guglie moscovite della cattedrale bizantina da qui a poco millenaria ancora eretta, nonostante la loro ospitante capitale fosse stata continuamente dilaniata da fiamme e gelo. Il sovietismo ha posto radici già da un pezzo e loro stanno ancora qui e non solo ancora brillano del loro onnipresente splendore. Sono fortunati e si vede che persino la roulette ha paura di loro. No, ancora la duchessa Tatiana. Già, ora combaciano tutte le combinazioni, ora si spiega tutto, avrà sedotto pure loro con le sue più dionisiache provocazioni, avrà ricattato anche loro pur di salvare la propria vita in una maniera o nell’altra fatale.

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Capitolo 4
*** In memory ***


nda: in omaggio a Zia Polly Gray, la regina dei gitani di Watery Lane, passata a miglior vita in serata per via d'un tumore a soli 52 anni. Polly è insostituibile come altrettanto lo è il suo ruolo.

4. IN MEMORY

(Thomas Shelby) Suonano alla porta, il mio pensiero va subito ai russi, saranno già arrivati? Chiedo tra me e me. Poca voglia d'andare ad aprire, così faccio, fingo di non aver sentito. Sarà solo uno scampanellio, tutto qui. Svanirà. Ritorno assorto tra le slavine di carte e pensieri che minacciose pullulano e mi rincorrono. Piramidi di piani fumeggiano tra la mente e la stanza come i grigiastri camini di Small Heath che, anche se lontani per diverse miglia da qui, riecheggiano ancora, eppure lo fanno tuttora. Gli affari con gli italiani non sono stati gli ultimi, bensì i primi degli ultimi. Ho ancora tanto da vivere, ho ancora tanto da vedere. Ho ancora tanta gente da vedere crollare, come gli scarlatti mattoni degli sfatiscenti ruderi di Birmingham. I miei occhi cadono su una sorta di biglietto, una pergamena, vedrò di che e soprattutto di chi si tratta. Incomincio a leggere, è una lettera, un messaggio, per l'esattezza. Una calligrafia corsiva curva, una scrittura maschile, lessico scelto ed elegante.


"Westmininster, 6 febbraio 1930

Egregio Signor Shelby,

non crederà mica che la storia sia finita tutto qui? Ho lasciato Westmininster solo per un paio di giorni onde, presto, ci rivedremo. Ci sono un paio di cose che vanno messe in chiaro. Domani tornerò da questo mio breve soggiorno fuori porta, non molto lontano da Londra. Sto partendo ma prima volevo chiarire e avvertirla di questo.

La saluto cordialmente,

Oswald Moseley".

E ancora una volta lui, uno di tanti, solo uno di questi. Accantono il foglio, ritrovandomi di nuovo di fronte a un'altra grafia di carattere alquanto diverso. Una stesura con una serie di simboli appena pronunciati e non fortemente calcati, dall'andatura inclinata e rapida, ahimè, quasi indecifrabile. Aspetta, quelle che saranno mai? Che c'è scritto qui? Quella è una V? Sembra delle formule scritte da uno psicoanalista. Le stesse A e le stesse T di uno che svolge tale lavoro. Non si tratterà mica mai di un arabo? Chiedo ancora tra me e me, a mano mano che mi addentro sempre più nella lettura dell'esposizione.

"Covent Garden, 5 febbraio 1930

Egregio Signor Shelby,

non ho mica paura di Lei, delle sue amicizie e delle sue inclinazioni. Sarò pure un ebreo, sarò pure un fottuto ebreo, ma il coraggio non mi manca affatto. La volevo solo avvertire di questo.

La saluto dichiarandomi a Lei apertamente,

Simeon Solomons".

Ecco, un altro, decisamente l'ennesimo della lista, ma non l'ultimo. Suonano nuovamente alla porta, ma stavolta con insistenza. Indifferenza fino a un certo punto, ora gliele dirò e darò di santa ragione. Lascio le carte svolazzare nella massima confusione di sempre. Mi alzo dalla poltrona dello scrittoio, dò uno sguardo rapido al mio orologio da tasca laccato in oro a 24 carati costatomi un accidenti quando decisi finalmente di acquistarlo, una volta tornato dalla guerra. Lo avvistai davanti alla vetrina della boutique di Albert Watson in Garrison Lane. Non direi che erano tempi migliori se non perchè ero più giovane. I tempi migliori li avevo persi già da un pezzo, come i cari amici caduti tra la battaglia della Somme e di Verdun. Guardo le lancette sul quadrante che luccicano ogni volta che rintoccano. É proprio il radio e il mercurio che dà loro quell'effetto fluorescente. Le osservo attentamente, mi indicano le ore otto e trenta postmeridiane. Mi avvicino alla porta della stanza e vedo mia moglie che mi viene incontro.

"Sarà per te, io vado un attimo da mia madre! Ho capito perchè non vuoi mangiare, perchè hai ospiti!" esclama.

"Aspetta, veramente prima di tutto non lo sapevo, secondo li faccio entrare e poi vai!" rispondo fermandola con fare deciso.

M'avvio verso la porta, la apro.

"Michael, che vuoi? Traditore!" chiedo contrariato spingendolo al di là della soglia.

"Lasciami parlare, presto!" replica facendo resistenza.

Lo guardo in faccia, ha una brutta cera ma continua ancora a non urtarmi sentimentalmente.

"Hai litigato con tua moglie e cerchi alloggio da me per non dar fastidio alle donne?" continuo in modo piuttosto scostante.

Lo guardo in faccia, quell'espressione persiste.

"Accomodati, parla!" lo invito ad entrare sbuffando e chiudendo la porta dietro di noi.

Incomincia a piangere.

"Dai, sei uomo! Allora!" minimizzo cercando di farlo arrivare al dunque.

Smette di piangere per un attimo, si riprende e incomincia a parlare.

"Ero in ufficio, mi arriva una chiamata, rispondo ed era Ada..." incomincia a raccontare.

"Cosa?" lo interrompo incominciando ad uscire.

"Ecco, quando si fa il nome delle donne, Tommy accorre subito!" replica.

"Tu non fai nemmeno questo!" rispondo.

"Aspetta!" mi blocca.

"Ah, è Michael! Io esco, a dopo! Ciao, ragazzi!" Spunta mia moglie uscendo di casa.

"Anche lui inopportuno!" aggiungo esclamando.

"Tommy, stavo in ufficio quando all'improvviso mi chiama Ada tutta preoccupata! Sto al Garrison, stavo discorrendo con zia Polly davanti a una tazza di tè irlandese, dice, quando all'improvviso zia Polly ha incominciato ad urlare! Sta male!" esclama.

"Andiamo!" ordino e usciamo di casa.

Apro le porte del Garrison con la massima veemenza, Michael mi segue con la stessa aria di prima, Polly accasciata per terra nel bel mezzo della sala consumazione.

"Tommy, bravi, alla buon'ora!" rimbrotta Ada "Sembra non dare segno di vita!" continua.

"Sarà incosciente, ma hai sentito il polso? Aspetta, faccio io!" mi affretto.

"Ambulanza! Polly! Com'è successo? È entrato qualcuno e le ha sparato? Io non vedo niente! Avrà fatto qualcos'altro!" replico ininterrottamente per un po' schiaffeggiandola in volto.

"No, è successo, così, all'improvviso!" biascica Ada dando una risposta alquanto vaga, almeno per me.

Caso archiviato e, almeno per ora, da indagare.

"L'ho chiamata ma niente da fare!" continua .

Avvicino l'orecchio alla bocca, per qualche secondo, per controllare qualche eventuale presenza di respiro. Gli premo con due dita la parte sinistra del collo, il lato più vicino al cuore, per controllare qualche eventuale presenza di polso. Mi fermo qualche istante per controllare qualche eventuale presenza di movimento. É quello che mi hanno insegnato in guerra, in fondo sono stato anche nella nursery da campo oltre che in trincea. Ero un infermiere militare, volontario della Croce Rossa Britannica. Non so quale dei due ambienti sia stato il migliore, non so se dire bene o male riguardo alla postazione alternativa. Come non so più chi sono, curo e uccido, uccido e curo, ma perchè? Continuo a chiedermi. Un corpo senza mente o una mente senza corpo. Sono il generale o la truppaglia, niente più insieme. Mi hanno smembrato, i fucili, gli animali del fronte. Vorrei provare a darmi pizzicotti come stimoli per vedere e sentire se riesco ancora ad avvertire veramente il dolore, davvero. Sento un rumore, rumore di porta che si apre, un saluto. É la voce graffiante e vellutata di Arthur che prolunga la rottura del silenzio. Riaffiora Michael da dietro il bancone dopo essersi appartato per un po'.

"Il dottore sta arrivando!" avverte.

"Finalmente, ho provato a rintracciarlo più volte e risultava sempre occupato!" esclama Ada.

Di nuovo le porte del Garrison si aprono improvvisamente, seguite da un saluto che cerca invano di smorzare la tensione. Il dottore si fa strada tra i tavoli invitandoci, con dei cenni del capo, di accantonarli e di uscire dalla sala principale. Ci accomodiamo nella saletta privata del mio pub. Silenzio, sguardi nel vuoto, è solo l'ansia e la speranza a farsi spazio e a parlare di sè monitorando tutto. Mi appare il volto di Polly accanto a quello di Grace tra gli intarsi floreali della carta da parati della saletta privata, quasi si trattasse l'ennesima profezia.

"Esco, non ce la faccio!" esclama improvvisamente Michael uscendo dalla saletta, infrangendo gli ordini.

Si riaffaccia dopo un po', opaco e trasparente al tempo stesso, più di prima. Lo segue il dottore, con la stessa espressione al tempo stesso senza espressione. Intuisco, capisco, ma con timida certezza e sfrontata incertezza. Esita per un po', si gratta la gola, vocalizza in un emissione di fiato.

"Mi spiace!" sospira.

Notte fonda, Lizzie scende dalla Bugatti nera dopo esser arrivata e aver parcheggiato a Harley Hall. Mi coglie in fragrante seduto sui gradini di fronte alla porta d'ingresso, con lo sguardo basso fisso sul terreno nascosto dietro al mio berretto di velluto grigio.

"Tommy, che ci fai qui tutto solo? Fa freddo, entra! É inverno ed è tardi!" chiede avvicinandosi.

"Nel bel mezzo di un gelido inverno!" mi lascio trascinare accendendomi l'ennesima sigaretta.

"Cosa? Hai bevuto? Entriamo e basta fumare, non sei lucido! Dai, su! Non fare il bambino!" ulula.

"Sono rimasto solo, orfano di padre, di madre e..." sembro delirare.

"Che dici? Cosa sono ormai ste cose?" m'interrompe.

"É il guaio e che non so il perchè!" blatero.

"Che voleva Michael, piuttosto?" chiede.

"Zia Polly è morta!" mi lascio scivolare alzandomi.

"Eravamo ormai tutti una famiglia!" esclama.

Una voce del tutto differente come la mia d'altronde. M'accorgo per un attimo d'avere un'anima per poi di nuovo ripiombare nel nichilismo più assoluto dei perchè, un nichilismo ancora più fitto. Perchè in fondo in me ancora un filo d'anima c'è?

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Capitolo 5
*** Man without shadow ***


5. MAN WITHOUT SHADOW

(Simeon Solomons) 8 febbraio 1930. Sono ormai un morto vivente, non riesco a trovare più alcuna via d'uscita. Tutto per colpa di lui, dell'amore e poi. Amore che dai, amore che togli, perché ti ostini così tanto con noi umani? Domande senz'alcuna risposta. Tutto per proteggere lei, Ondine Orwell, da quel farabutto che mi ha accusato ingiustamente di aver bruciato il diario della ragazza. Maledetto polacco. Ora lei non è più qui, che stupido che sono stato, perché ho agito così, non ne valeva affatto la pena, le donne sono tutte così. Esattamente così ho intrapreso la mia carriera da gangster, è proprio così che è incominciata ad andare a rotoli la mia vita. Ho incominciato tutto dandomi alle scommesse, soprattutto durante le corse di cavalli, è nelle scuderie che ho perso la mia verginità e, da lì, ovviamente non l'ho più riavuta indietro come anche la mia innocenza, la mia libertà, la mia salvezza. È passato molto tempo da quel giorno eppure lo ricordo ancora, le ricordo tutte, come fosse ieri, benissimo. Era la volta di Brighton, era una notte di luna nuova, notte fonda, dovevo tornare a casa ma non l'ho fatto, proprio come un licantropo, un ibrido, una creatura delle tenebre, sapevo dove andare, anche questo benissimo. Ho tirato dritto per quello che volevo mi aspettasse ovviamente senza ormai un minimo di senno, senz’alcun segno di lucidità, o c’era e come se c’era. Ero ancora molto giovane, oltre che a sentirmi ancora colpevole di quello che avevo fatto, di quello che avevo fatto a lei. L'avevo persa, per sempre, ora lo so, fa male, malissimo. Ero innamorato, inizialmente non ci credevo. Volevo lei e ora, sinceramente non lo so più, lei, il mio peccato originale. Ho preso proprio al volo la chance, studiandola persino nel migliore dei modi, come per farmi strada, per intraprendere la strada più corta per raggiungere il massimo successo. Ora sono tra i migliori di Camden Town e di tutta Londra, questo sì. Pur di fare quello che mi frullava per la testa ormai riempita di tutta quella spazzatura che girava e gira ancora a Small Heath e che ho finito per portare qui. Ero disposto a tutto e, non contento, ho cambiato persino il mio nome, rinnegando persino la mia fede. Sapevo che solo così potevo avere la meglio in questo mondo che veramente più che tale mi sembra a una bolla razzista e antisemita che anziché assorbirsi si è ingrassata in una maniera veramente notevole e che sento proprio che prima o poi riscoppierà. Ora non mi chiamo più Simeon Solomons, ora mi chiamo Simmy Lewis e non mi riconoscono più ormai solo come il fratello dell'altrettanto losco fornaio Alfie ora, non più ora, io sono io. È vero bastava farmi chiamare solo Sandokan e basta, il soprannome che ho sin dalla mia più giovane età per il mio essere alto 6 piedi e 5 pollici e con una struttura possente come lo sono tutti i membri della mia famiglia. È passato molto tempo da allora sembra che sia morto e mi sia incarnato in un altro corpo senza vita animandolo con la mia stessa ombra senz'ombra, perché sono un uomo senz’ombra con la mia stessa anima da vampiro perché come un vampiro mi nutro del sangue. Sangue innocente o meno che sia, questo non importa, basta che sia sangue e io son contento, solo allora lo sono. Ho sete, sete marcia di sangue, di risse e non importa se si tratti di persona disonesta o meno, di nemico o amico, non sono discorsi che riguardano quelli come me, ciò che ci riguarda sono solo gli affari d'onore, è ciò che tutti vogliono e in questo non c'è alcuna distinzione, qui proprio il migliore amico è il peggior nemico. Il sangue è molto più delle sigarette, più del rum, più del whiskey, più di qualsiasi altro alcolico, più di qualsiasi altra semplice cosa. Il sangue è come il sesso. Per un vampiro il sangue è vita, per un vampiro il sangue è tutto.  
 
(Tommy Shelby) Entro in casa, ma giusto per far contenta mia moglie. Quel che provavo precedentemente era solo l'antipasto, la genesi dell'apocalisse. Ora mi sento molto più dilaniato di quanto lo fossi stato già in guerra, vado a letto solo perché insiste lei. Non dormirò sicuramente. La cosa che pugnala di più è l'incomprensione, ripeto a chiedermi continuamente perché. Perché Polly? Perché lei e non io? Perché è successo e come poi? Sarà stato qualcuno o qualcosa? Io credo più nella prima opzione. Una volta spogliato, mi rintano nelle coperte come se mi difendessero da tutto, il che è del tutto impossibile. Potranno proteggere dal freddo esteriore dell'inverno semmai ma non da quello interiore provocato dai pensieri. Mi copro fino alle orecchie girando le spalle a Lizzie. Una notte insonne, una notte alquanto lunga. Lunga ma non infinita come l'eterna notte che non è ancora né mai tramontata. Finirà quando finirò io.  
 
Il silenzio tombale e assordante del cuore delle tenebre notturne viene improvvisamente stravolto. Uno squillo, una serie di squilli. A catena, uno dietro l’altro. L'inquietudine cresce essendo allarmato più che mai. Chi sarà mai a quest'ora? Penso. Non mi capacito, nemmeno per un secondo, nemmeno per sogno. Esco dalle coperte, scendo dal letto senza accendere la luce. Non vorrei svegliare Lizzie, non vorrei proprio infastidirla. Una candela basta. Proseguo a tentoni per evitare di fare rumore. Apro la porta della stanza, scendo di sotto. Diritto verso la sala da pranzo, un vano immenso. Entro nella stanza, esattamente come mi ero prefissato prima. Il telefono non ha ancora smesso di squillare.  Mi avvicino alla console color panna, è lì che è posto il telefono, un telefono nero lucido. Afferro la cornetta e la alzo, la avvicino all’orecchio. Rimango qualche secondo senza parlare ma solo origliare, silenzio assoluto, assordante. Solo sospiri, come se al di là dell’apparecchio qualcuno volesse veramente parlare ma è quasi come se non avesse il coraggio di parlare o almeno di essere il primo a farlo. Una risata interrompe quella pace preesistente, illogica, del tutto irreale. Un momento ancora più glaciale di prima e puntualmente più incomprensibile, completamente. Un silenzio che si sgretola come un castello di carte, come il mio cuore ha fatto già da tempo ma che ora non più, non avrebbe alcun senso. Lo fa e come, dietro a una frase indecifrabile ma che io decodifico e benissimo. 

“Tu sarai il prossimo!” sbotta e chiude. 

 

Mi sveglio di soprassalto. Sarà un sogno, sempre. Mi ripeto. Ma stavolta non è il solito, ora, una volta che ci ripenso mi ridico. Come d’altronde nemmeno la mia vita è più la stessa senza Polly al mio fianco, al nostro fianco. No, non sarà più la nostra vita di prima oramai. Crolla, ma non posso perdermi d’animo. Ho tutta una giornata davanti da affrontare come le cose e una in particolare. Diversa dalle altre, ma non del tutto. Mi alzo dal letto e mi avvicino alla finestra rubato dal primo raggio mattiniero che irradia la campagna di Arley Hall. Qualcosa di insolito, qui è raro che batta il sole. Figuriamoci d’inverno. Infatti è il primo, ma non mi meraviglia affatto. Non mi sfiora minimamente, è difficile che uno Shelby si sottoponga o venga sottoposto a questo. Specialmente Thomas e persino la natura. Lui predomina anch’essa e non solo gli uomini, figuriamoci di loro. Questione di secondi e ritorno alla realtà. Distolgo lo sguardo da fuori e mi giro dietro in direzione del letto dove lei ancora dorme. Non mi perdo d'animo come per non sprecare altro del mio prezioso tempo invano e prendo la strada del bagno. Dopo una rapida rinfrescata di viso torno in camera per cambiarmi. Apro l'anta sinistra e afferro la camicia bianca righe verticali blu. La infilo senza indugiare lasciandola cadere con la massima leggiadria sulla maglia beige di lino. Poi prendo il gilet e i pantaloni neri e torno al comodino per indossare anche quelli. L'orologio d'oro da tasca, prendo anche quello. Guardo l'ora, sarà ancora presto. Ma non per me, mi continuo a dire. Calcolo in fretta in furia, come sempre e lo lego con la mia altrettanta destrezza, puntualmente presenti. Mi siedo sul letto piegandomi. Infilo i calzini di lana color cremisi e le scarpe in pelle nera lucida entrambi abbandonati sotto il letto dalla sera precedente. Allaccio queste ultime e mi alzo. Mi dirigo verso il comò. Afferro il pacchetto di sigarette, lo apro e ne prendo una. La punto all'angolo sinistro della bocca. Prendo l'accendino e lo avvicino. Ecco che la fiamma incomincia ad ardere, come esattamente la mia ambizione. Essendo una la proiezione dell'altra e lo posso gridare fieramente a squarciagola. Lo faccio e come. Mi dirigo verso l'armadio per chiuderlo. Anticipo tale azione con la mia più astuta prontezza. Agguanto il cappotto nero, poi il cappello, infine la revolver. Per ora va bene portare anche solo quella. Prendo la via delle scale, scendo al piano di sotto. Vado in cucina. Un tè irlandese può essere l'inizio ideale e il whiskey meglio ancora. Sarebbe decisamente e ancora meglio se si manda giù anche questo, anche giusto un piccolo sorso. Che capo sarei altrimenti, continuo a farfugliare. Sono i miei migliori antidoti a tutto, sono me stesso.

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