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di Supercorp00
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Villa Luthor, 1898

 

Avevo appena portato a termine i miei compiti, sistemare il giardino, controllare i cavalli e perlustrare la zona, dunque me ne stavo ferma dinanzi alla solita piccola finestra della cucina. Spesso il mio sguardo si perdeva nell’immensità della corte dei Luthor; a volte, sognante, guardavo dritto verso il maestoso ciliegio – il nostro –; altre, come quella volta, invidiosa e amareggiata, guardavo verso quella panchina, quella dove lei era solita sedere nei pomeriggi d’autunno.

L’ammiravo mentre si arrotolava sul dito una ciocca dei suoi meravigliosi capelli, così lucenti e ordinati. Osservavo le sue labbra rosa che s’inarcavano in un sorriso, un sorriso timido, sincero, di quelli che un tempo riservava soltanto a me. La contemplavo adorante e, allo stesso tempo, desideravo immergermi tra le sue braccia fino a ubriacarmi del suo delicato profumo. Desideravo essere sua e bramavo di farla mia. Lei, però, decise che io non ero abbastanza, che non la meritavo, che non ero all’altezza di ricevere il suo amore. Ella prese la sua decisione e io non potei oppormi. M’infranse il cuore, ma dovetti rispettare la sua scelta.

Tutto accadde un soleggiato dì d’estate, di tanto tempo fa. Stavamo passeggiando per le campagne appartenenti alla sua famiglia, quando la trattenni. La guardai negli occhi ed ella mi regalò il più bel sorriso che mai mi fu dato vedere. I suoi occhi verde azzurri brillarono come non mai. Le mie mani sfiorarono le sue e le nostre labbra s’incontrarono, per la prima... e ultima volta. Quel giorno, quel maledetto giorno di luglio, ella decise che non poteva appartenermi; e una parte di me morì lì, su quelle colline. La parte gentile di me, la parte affabile del mio animo perì in quel momento e non l’avrei ritrovata mai più.

Lena faceva parte della mia vita da quando ne avevo memoria. Ricordo di averla incontrata per la prima volta quando eravamo soltanto due fanciulle. La sua famiglia era la più influente della città e mia madre le faceva da bambinaia, così io l’accompagnavo quando Alex non poteva badare a me e trascorrevo il tempo con quella dolce fanciulla dai capelli corvini. Diventammo presto inseparabili, per noi non esisteva altro che spensieratezza e giochi che, il più delle volte, si svolgevano nel grande giardino fiorito della sua dimora.

Un giorno, verso i miei sedici anni − quindici per Lena − , aprii gli occhi, mi destai come da un sogno durato fin troppo a lungo e compresi che quella donzella rappresentava ben altro per me. Capii che la sua lontananza mi faceva star male: quando non eravamo insieme, mi sentivo persa, ma bastava rivedere il suo viso per farmi tornare il sorriso; il mio cuore ricominciava a battere e il corpo a fremere ogni volta che lei era accanto a me. Non sapevo ancora cosa volesse dire amare, ma lo avrei scoperto da lì a poco. E sarebbe stato magnifico... magnifico e doloroso!

Impegnavo il mio tempo lavorando nella stalla il mattino e trascorrendo i pomeriggi in compagnia di quella leggiadra padroncina.

Da fanciulle giocavamo nei giardini con il bel tempo e nella sua grande stanza piena di ogni gioco quando fuori pioveva. Poi crescemmo e cominciammo a trascorrere sempre più tempo a passeggiare per la grande campagna che circondava la dimora. Ella si sedeva sull’erba e io mi ci sedevo accanto. Parlavamo pomeriggi interi, mi raccontava delle sue giornate, mi insegnava a leggere e a scrivere. Mi raccontò della sua prima infatuazione, per un ragazzo più grande, figlio di un amico del padre. Mi raccontava tutto e io la guardavo rapita, mi perdevo nei suoi occhi e mi godevo i suoi sorrisi ingenui. A volte scorgevo qualche lacrima sul suo viso. A volte la facevo ridere, e quelle erano le giornate migliori. Il suo sorriso era capace di illuminare anche la peggiore delle oscurità e di far battere più forte il mio giovane cuore. Tuttavia, nulla di tutto questo era destinato a durare nel tempo. 

La mia spensieratezza ebbe fine quando, un bel giorno, arrivò un giovane che, a poco a poco, se la portò via, lontana da me. Tutto ebbe inizio come una simpatia, tra loro, quando egli cominciò ad accompagnarci nelle nostre passeggiate. Ero gelosa dell’affezione che Lena nutriva per lui, ma non potevo darlo a vedere, non ne avevo diritto: io non ero nessuno. Ero solo la povera figlia della domestica, mentre egli era il facoltoso figlio dell’avvocato.

Il mio cuore cominciò a sgretolarsi quando Lena iniziò a chiedermi di rimanere a casa, così che essi potessero trascorrere del tempo in solitudine, o forse dovrei dire intimità . L’aspettavo sempre, con lo sguardo fisso attraverso la finestra della cucina, da dove riuscivo a scorgere il vialetto che portava alla dimora dei padroni. Li vedevo arrivare felici... ridendo. Ella rideva di qualche cosa che egli le raccontava e io morivo pian piano. A volte c’erano quei giorni, quelli in cui ella mi chiamava e tornavamo sulle nostre colline, solo noi due. Ridevamo e correvamo. E la felicità s’impossessava di me.

Disgraziatamente, un poco alla volta, quelle giornate finirono ed ella non mi degnò più di uno sguardo. Anzi, mi guardava, ma di nascosto, con sguardo timido, come se fosse sbagliato. Come se io fossi sbagliata. E tecnicamente lo ero, come poteva una donna amare un’altra donna? Nessuno avrebbe mai approvato e probabilmente rischiavo di essere uccisa se solo avessi provato a farmi avanti. 

Un giorno le chiesi di venire con me almeno un’ultima volta sulla nostra collina prediletta, quella dove crescevano tutti quei fiori che ella amava tanto raccogliere. Acconsentì riluttante ma, quando fummo di nuovo soli e lontani da casa, si lasciò andare e tornò a essere la Lena di sempre, quella felice e spensierata. Sapevo già di amarla e sapevo che lei mi amava a sua volta, solo non sapeva ancora di farlo. Ero convinta fosse così.

La guardai intensamente in quegli occhi grandi – due preziosissimi smeraldi− e poggiai le mie labbra sulle sue, dapprima incerta, poi ella si sciolse tra le mie braccia, lasciandosi andare a quel bacio... il nostro bacio. Tutto attorno a noi cambiò d’improvviso: divenne incantevole, cristallino. I colori della natura mi sembrarono più vivi che mai, e il mio cuore cominciò a battere solo per la donzella che tenevo tra le braccia. Ma ancora una volta decise di uccidermi nel preciso istante in cui mi disse che non andava bene, che quel bacio era sbagliato. Pensai che ritenesse me sbagliata e mi odiai per non poterla contraddire, per non poterle dare una ragione che le facesse cambiar opinione.

Ma come poteva l’amore essere sbagliato? Come si poteva decidere di non provare più un sentimento così puro come l’amore che alloggiava nel mio cuore, tutto per lei?

Non potevo e non volevo rinunciare a quel sentimento. Il mio cuore mi diceva che non sarei mai riuscita a farlo, che avevo soltanto due possibilità: o l’amavo... o morivo.

E parte di me morì in quell’istante.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


 

I giorni passavano, adagio, fin troppo. Io stavo morendo lentamente, ero sempre più cupa, mi chiusi al mondo esterno, immersa a rivangare tra i ricordi che custodivo di Lena. Mi stavo consumando a poco a poco. Nel mentre, guardavo Lena passeggiare per i suoi giardini, mano nella mano con il suo promesso sposo: Jack Spheere. Se ne dicevano di ogni sul suo conto, tanti ne erano intimoriti e altrettanti ne erano affascinati. Aveva poco più di vent’anni, capelli neri come la pece e due occhi che facevano gelare il sangue nelle vene ogni volta che si aveva la sfortuna di incrociarli, dalle sfumature dorate decisamente singolari; alle volte sembrava brillassero nell’ombra. Proveniva dalla famiglia più antica della zona, gli Spheere. 

Notai che Lena iniziò a cambiare, più si allontanava da me e più tempo passava con lui, più il suo aspetto mutava. Mi accorsi che le sue guance chiare non si coloravano più di quel rosa acceso come quando passava il suo prezioso tempo con me. Le sue gote non avevano più quel colorito rosato che tanto mi piaceva, era più pallida che mai. Avrei pensato fosse stata colpita da qualche malanno, se non fosse stato per i suoi occhi sempre limpidi e vivi e per le sue labbra rosse, rosse come non le avevo mai viste prima.

Non ebbi più occasione di vederla da vicino, ma i suoi occhi sembravano aver assunto delle sfumature nuove, quasi argentee, ne sentii parlare anche tra gli inservienti. Rimaneva comunque meravigliosa ai miei occhi e lo sarebbe sempre stata, ma ciò non toglieva la mia preoccupazione. Ero sempre più convinta che Jack le avesse fatto qualcosa per renderla così, il mio istinto mi diceva che le fosse accaduto qualcosa di terribile, qualcosa peggiore di un qualsiasi malanno.

Mia madre notò il mio essere sempre più cupa e furente e non impiegò molto a comprendere che il mio umore nero era dovuto all’allontanamento da Lena; che i sentimenti che provavo per lei mi stavano consumando, uccidendo lentamente.

Un pomeriggio si avvicinò a me, mi guardò negli occhi e mi disse che il giorno seguente, all’alba, avrei dovuto farmi trovare sotto il grande ciliegio in fondo al giardino se avessi avuto desiderio di rivedere Lena. Rimasi incredula, a bocca spalancata, non riuscivo a capire. Accortasi del mio stupore, ella mi spiegò che aveva preso da parte la signorina mentre sbrigava le faccende nella dimora dei padroni e l’aveva pregata di concedermi di vederla almeno un’ultima volta, in memoria dei tempi lontani. Lena dapprima si rifiutò – mi raccontò mia madre –, però ella le riferì del mio dolore, delle giornate intere che trascorrevo davanti a quella finestra e, in fine, acconsentì all’incontro. Disse che mi voleva ancora bene e che era avvilita e rammaricata nell’avere notizia che ero triste. Mi sentii molto in imbarazzo. Non avrei voluto che Lena, la mia piccola dolce Lena, fosse a conoscenza del dolore che affliggeva la mia anima.

Mi svegliai prima dell’alba, molto prima, e mi preparai a quell’incontro. Mi lavai e indossai il mio completo migliore, quello che mia madre mi faceva conservare per la messa della domenica e per le grandi occasioni. E si trattava, senz’ombra di dubbio, di una grandissima occasione!

Era ancora buio pesto, se non fosse stato per la grande luna piena e splendente. Non avrei comunque avuto bisogno di più luminosità, mi bastava quel flebile fascio che proveniva da quel così maestoso corpo celeste; la strada la conoscevo già, era impressa a fuoco nella mia mente. I miei piedi sapevano esattamente dove poggiarsi su quell’arrido terreno.

Il ciliegio era l’albero più imponente presente in quel giardino e, soprattutto quando era in fiore, io e Lena amavamo appoggiarci al suo vecchio tronco, seduti sull’erba a leggere e parlare, ammirando i suoi piccoli fiori rosati. E, mentre ci godevamo l’ombra offertaci dai suoi rigogliosi rami, ella poggiava la testa sulla mia spalla e mi ascoltava leggere. A volte le piaceva giocherellare con qualche ciocca dei miei capelli  “Sono dello stesso colore del grano maturo”, mi sussurrava di tanto in tanto.

La nostra lettura preferita era Moby Dick, le cui pagine erano talmente consumate a causa del continuo sfogliarlo che alcune parole erano lievemente sbiadite, mentre altre non erano nemmeno più visibili. Amavo leggere per lei, sentire il suo profumo invadermi le narici a ogni folata di vento, vederla assopirsi pian piano per poi risvegliarla dolcemente quando arrivava l’ora di cena. Erano momenti nostri, ricordi impressi nella mia mente che nessuno mai avrebbe potuto portarmi via.

Era proprio lì che la stavo aspettando mentre cominciava ad albeggiare, con il nostro libro stretto tra le mani tremanti e il cuore che galoppava nell’attesa di rivederla. A farmi compagnia, soltanto il timido sole che spuntava all’orizzonte, quasi avesse avuto paura di sorgere quel giorno. La scorsi in lontananza, riconobbi il rumore dei suoi passi leggeri, lo riconoscerei anche oggi, tra mille. Indossava una vestaglia color smeraldo sopra la sua candida veste da notte. I corvini capelli le scendevano sulle spalle avvolte dalla svolazzante seta verdognola in boccoli perfettamente definiti. Si avvicinava con passo deciso ma lento e io fremevo dall’impazienza di rivederla da vicino, di stringerla tra le braccia, di assaporare di nuovo le sue labbra color ciliegia. Cominciai ad avvertire il suo profumo... sapeva di fiori, sapeva di lei, sapeva di puro amore.

Quando fu a pochi passi da me, scrutai intensamente i suoi occhi e mi persi: la sua divina bellezza mi aveva rapito un’altra volta. Le pupille erano così dilatate che quasi non riuscivo a scorgere il verde delle sue iridi, che lasciò spazio sempre più a sfumature color argento brillante. Non era ancora del tutto giorno, ma i suoi occhi illuminavano tutto quello che ci circondava. Sembravano due stelle prese direttamente dal cielo, sembravano irreali, fantastici; e ne rimasi irrimediabilmente affascinata.

Rimanemmo in silenzio, a rimirarci l’un l’altra per un tempo indefinito. Feci un passo verso di lei. Le ero così vicina da riuscire a scorgere ogni vena pulsante sul suo collo sinuoso. Lasciai cadere il libro che stringevo tra le mani, il quale si posò sul terreno bagnato di rugiada, ma ella non distolse lo sguardo dai miei occhi. Sfiorai le sue mani con le mie e avvertii una sensazione bizzarra, di freddo, di gelo. Ella si ritrasse in un istante e io fremetti per avere ancora un contatto con la sua pelle, anche minimo. Avvicinai il viso al suo e, quando mi resi conto che rimase immobile, in attesa, poggiai le labbra sulle sue. Non ricordavo il suo sapore fosse così... come definirlo? Gelido.

Il cuore mi batté forte, ma non di emozione o desiderio, no. Batté come se dovessi provare paura, come se cercasse di dirmi di scappare. Ero confusa, ma non ebbi il tempo di comprendere quelle sensazioni che ella si staccò da me, in fretta, come se si fosse scottata al contatto con le mie labbra, come se le mie labbra fossero state di fuoco e le sue di ghiaccio.

«Non possiamo! Kara, è pericoloso», il suono della sua voce investì i miei timpani − prepotente e dolce allo stesso tempo − facendo vibrare ogni parte del mio corpo.

«Lena, non c’è nessuno qui a quest’ora del mattino. Nessuno potrà mai saperlo», cercai di tranquillizzarla.

«Non è per questa ragione... Non te la posso confidare, ma ti devi fidare di me. Puoi farlo, Kara?»

«Sì,sai che lo faccio, mi fiderò sempre di te. Ma devi sapere una cosa... Fremo dal desiderio di dirtelo, fin da quel giorno sulla collina. Sono impaziente di confessarti i miei sentimenti, lo devo fare. Io ti amo! Oh, mia piccola Lena, ti amo più di quanto ami la vita stessa. Ti amo come se amarti fosse il mio unico destino, la mia unica ragione di vita», le rivelai senza mai distogliere lo sguardo dalle sue argentee iridi.

«Oh, lo so. Lo so da molto tempo oramai... e io amo te, mia adorata Kara. Tuttavia questo non può che tenermi ancor più lontana. È proprio l’amore a costringermi a fuggire ancor più lontano da te».

«Non dire così, Lena. Se mi ami, come affermi, allora fuggiamo insieme. Tu e io. Giù per le colline, a sud. Lì ci potremo amare, potremo avere una vita tutta nostra, piena di amore e felicità. Potremo costruire il nostro avvenire dal nulla», le dissi tutto d’un fiato.

Sapevo che non saremmo mai stati destinati a stare insieme: ella proveniva da una famiglia facoltosa e abbiente, mentre io non avevo nulla da offrirle ed ero una donna; nessuno avrebbe mai approvato la nostra relazione. Ma una volta lontani avremmo potuto essere soltanto due innamorate qualsiasi.

«Non potremo mai! Tu devi promettermi, mia amata, devi farmi un giuramento, qui e ora: devi imporre al tuo cuore di non amarmi più, devi fuggire lontano da me. Io non sarò mai per te ciò che il tuo cuore brama. Devi andartene, Kara».

Il sangue mi si gelò nelle vene all’udire delle sue parole. Mi arrivarono al cuore come una pugnalata, come migliaia di frecce avvelenate, una dopo l’altra. 

«Se è ciò che desideri... ma sappi che il mio cuore batte solo per te e questo non lo posso cambiare, qui o mille miglia lontano, io ti amerò per l’eternità» le confessai, nella speranza di farle cambiar idea, ma l’espressione del suo viso non cambiò, mi guardava ancora dritto negli occhi, supplichevole. «Me ne andrò oggi stesso, se è questo che desideri, ma non posso prometterti, tantomeno giurarti, di smettere di amarti. Questo non me lo puoi chiedere, Lena» conclusi, con il cuore appesantito e gli occhi gonfi di lacrime.

«Devi solo giurarmi di non cercarmi più. Mi basterà».

«Come desideri! Con il dolore nel cuore e nell’anima, farò come mi chiedi: me ne andrò tra poche ore».

«Devi giurarmelo, Kara!»

«Te lo giuro...»

«Addio, amore mio!» pronunciò, sfiorandomi il viso con la sua gelida mano.

Quelle furono le ultime parole che mi fu dato udire dalla sua voce melodiosa e dolce. Non ebbi le forze per risponderle ed ella se ne andò subito dopo, correndo verso casa, illuminata dai raggi del sole oramai sorto

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