Veleno

di Plume de cristal
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un evento estremamente sfortunato ***
Capitolo 2: *** La casa delle ombre ***



Capitolo 1
*** Un evento estremamente sfortunato ***


Un evento estremamente sfortunato

                       Un evento estremamente sfortunato

 

 

 

C

 

 

 

’era una volta una ragazza che viveva in un piccolo villaggio, il suo nome era Callisto.

Era una ragazzina dall’aspetto strano, pallida ed esile, con lunghi capelli neri che le cadevano simmetricamente su entrambi i lati della testa. Aveva il viso ovale, la fronte alta, ma il mento stretto, le labbra sottili e il naso perfettamente dritto, se non un tantino troppo lungo sulla gobba.

Erano tuttavia gli occhi a dominare i suoi lineamenti, enormi occhi scuri di un viola sconvolgente, attraverso i quali osservava il mondo con un’intensità cupa e inquietante.

Viveva in un villaggio chiamato Gabbiano, nel profondo cuore delle paludi nere.

Un nome alquanto bizzarro, dal momento che nessuno degli abitanti del villaggio aveva mai visto un gabbiano e tanto meno il mare. Sempre che non si considerasse il vecchio Bram, che forse aveva viaggiato per tutto il regno e visto moltissime cose, che uno gli credesse o meno.

Il villaggio era costruito su palafitte. Una moltitudine di piattaforme di legno collegate tra loro si allungavano sopra un lago oscuro e soffocato dalle alghe, ondeggiante tra enormi alberi di sughero e secche erbose che affioravano dall’acqua grigio-marroncina.

 A volte le secche venivano inghiottite dall’acqua, quando questa si alzava fino a raggiungere quasi il livello delle case; a volte invece il lago si abbassava così tanto che era possibile scorgere le sagome scure degli esseri che vi nuotavano in attesa di agguantare sprovveduti.

Qui nelle paludi nere la vita era precaria: l’unico terreno veramente solido era quello che ci costruiva con le proprie mani.

Callisto abitava in una capanna rotonda vicino alla sponda del lago, dove una fitta fila di alberi dalla corteccia cornea correva proprio vicino all’acqua. Divideva la capanna con la zia.

Avevano una piattaforma tutta per loro: attorno al muro della capanna correva una passerella circolare fatta di tavole traballanti e una balaustra di rami storti.

La loro piattaforma era collegata a quella vicina da un ponticello a corde con un buco là dove una delle assicelle era marcita. Callisto si ricordava si ricordava di averlo sempre sorpassato con un saltello sin da quando era una mocciosa che aveva appena imparato a stare in piedi sulle estremità posteriori.

Fino a qualche tempo fa si sedeva sempre sul bordo di quel buco per starsene con le gambe a penzoloni. Sua zia le aveva detto di non farlo, ma Callisto era sempre stata una bambina testarda e aveva sempre ignorato i suoi consigli.

Poi un giorno il lago si era gonfiato in maniera straordinaria, e lei stava con i piedi a penzoloni quando un pesce capra dall’acqua.

Aveva scorto la sua gigantesca ombra cornuta un istante prima che guizzasse fuori dalle tenebre, con la bocca spalancata come un abisso e trascinandosi dietro una barba di viticci. Riuscì a tirarsi su appena le fauci velenose si serrarono, proprio dove prima c’erano le sue gambette.

Il pesce era abbastanza grande sbranargliele in un sol boccone. Quella volta Callisto aveva imparato la lezione.

Sua zia, Chryseis, lo diceva sempre che Callisto non seguiva non seguiva mai i consigli degli altri e che faceva sempre il contrario di ciò che le veniva detto.

Per una volta Callisto prese in considerazione di fare esattamente l’opposto e di seguire i consigli di sua zia alla lettera, ma alla fine decise che avrebbe fatto soltanto confusione e quindi lasciò perdere.

«In te c’è un pizzico del Vecchio Sangue, Callisto» Bram le aveva detto una volta. «Di quel tempo in cui gli uomini e le donne erano forti e governavano il Regno. »

«Che n’è stato di loro? » aveva chiesto seduta come sempre sul tappeto davanti al fuoco,  mentre il vecchio, sulla poltrona in vimini sgangherata, pipava dal narghilè posato vicino a lui sul pavimento.

«Si sono rammolliti» rispose Bram. «La vita era felice, il Regno era in pace. Ma all’uomo non piace essere in pace. Va contro la sua natura. Così le persone presero a bisticciare tra loro e dai bisticci nacquero dei veri e propri conflitti, e un conflitto è una cosa semplice da iniziare, ma altrettanto difficile da fermare. Allora scoppiò la Guerra dei Molti Fronti, e quando fu finita l’Uomo ormai era diviso e debole. Si rifugiò nelle paludi e in mezzo ai monti, voltando le spalle ai suoi simili. Ora le antiche città sono vuote e in rovina, infestate dal fantasma del passato proprio come noi. » aspirò dal suo narghilè e soffiò fuori una boccata di fumo aromatico, che si mise a svolazzare nella corrente del fuoco, dissipandosi poi lungo il soffitto di paglia.

Callisto sapeva tutto sulla Guerra dei Molti Fronti –o almeno ne conosceva le leggende, perché chi poteva sapere cosa era realtà e cosa era finzione?- tuttavia le piaceva ascoltare i racconti del vecchio.

Bram era considerato una persona stravagante, molto più di quanto lo fosse lei. Comunque lui se ne stava per conto suo, spesso rimaneva assente per lunghi periodi, e quando tornava aveva sempre nuove storie da raccontare.

Magari sotto altri aspetti era del tutto inoffensivo, ma per i genitori del villaggio il solo fatto che fosse un giramondo era sufficiente per voler tenere i figli alla larga da lui. Non poteva venire di buono dal mondo esterno.

Là fuori ci vivevano fate, demoni e folletti, e cose senza nome. Non erano pochi al villaggio a mormorare che anche nel vecchio c’era qualcosa di fatato.

Essere così arzillo alla sua età poteva significare soltanto che guai.

«Ma tu, ragazza mia» sibilò infine « tu hai un po’ di quello spirito antico, proprio come me. La vita qui non ti soddisferà. Tu vedi quello al di là di quello che ti sta davanti agli occhi.

«A volte vorrei poter essere soltanto…felice. Felice con quello che ho» confessò Callisto. «Come le altre ragazze della mia età.»

«Ah! » tuonò con un guizzo della mano rugosa e avvizzita il vecchio. «Non confondere l’accontentarsi con l’essere felici, Callisto. inoltre» disse fissando il fuoco con un espressione improvvisamente distante «alcuni di noi sono nati nel posto giusto, mentre altri se lo devono andare a cercare. »

 

 

Callisto aveva trascorso tutto il giorno vagando per le paludi più fitte che circondavano lago su cui si ergeva Gabbiano, alla ricerca di funghi e radici con il suo falcetto arrugginito, servivano a sua zia per preparare infusi ed impiastri per guarire dalle febbri della palude ad altre malattie.

Chryseis era un po’ come una dottoressa, e la sua arte alchemica era quella di saper trattare piante, sia quelle buone sia quelle velenose, per trarne dalle loro anime fibrose potenti farmaci che erano somministrati ai malati; per questo veniva molto spesso interpellata se qualcuno nel villaggio aveva preso la febbre della laguna o la polmonite palustre. Callisto venerava questa sua attività, e a volte, quando lei acconsentiva, la starla a guardare in religioso silenzio, mentre tritava con un pestello di vetro Artemisia e Belladonna dentro una ciotola di legno, o faceva fermentare strani intrugli su alambicchi esposti al calore di una fiammella bluastra.

Osservava con ammirazione le enormi polle di vetro posate sopra il tavolo del suo laboratorio, collegate tra loro con sottili corridoi di vetro, attraverso i quali arcobaleni di sostanze si fondevano l’una con l’altra, in armonia di colori e luci del nord, fino a formare il cuore stesso della vita o della morte, racchiusi in una sottile prigione di vetro.

Con fare lento e indolente passò davanti a un paio di bambini che si stavano arrampicando su un albero come scimmiette per raggiungere i rami dove appendere una gabbia per gli spiriti. Chiacchieravano tra loro mentre fissavano quella sfera fatta di stanghette di legno, che nel cuore custodiva una candela. La candela era infilata in un bulbo di vetro colorato, e quando l’accesero emanò un morbido bagliore rosa purpureo.

Callisto gettò un’occhiata un po’ più in alto e notò il fianco muscoloso di un serpente delle tenebre che se ne stava tranquillamente acciambellato su un ramo ad osservare senza molto interesse quei bocconcini prelibati sotto di lui.

Per i serpenti delle tenebre era ormai troppo tardi per cenare e di questo quei due avrebbero sicuramente ringraziato il cielo, se solo avessero saputo che stava lì. Soltanto un paio d’ore prima, il tenue tepore del sole avrebbe risvegliato il metabolismo del serpente, che li avrebbe morsi entrambi e si sarebbe avvolto attorno ai loro corpi paralizzati per spappolargli le ossa. Callisto si chiese quante altre volte ancora la morte li avrebbe soltanto sfiorati prima di afferrarli per sempre.

Invidiava i ragazzi della sua età nella cittadina, che riuscivano a dimenticare le preoccupazioni nell’allegria di una festa, che non aspiravano a nient’altro che a un buon marito o una bella moglie e a tirar su bambini per perpetuare se stessi.

Lei non riusciva a pensarla così. Non riusciva a passare sopra il fatto che uno su cinque di loro moriva di polmonite palustre entro il trentesimo anno, e che un neonato su due nasceva morto, o che ogni anno ragazzini sparivano inghiottiti nella palude, senza mai far più ritorno a casa.

I vecchi del villaggio erano afflitti e tormentati dall’asprezza della vita, ma nessuno alzava un dito per fare qualcosa.

Sembrava che la gente fosse più felice se accettava il proprio destino. Ma lei non si rassegnava. Sposare un giovanotto del villaggio, sistemarsi e sprecare tutta la vita a sfornare bambini e sacrificarsi per loro? Piuttosto si sarebbe gettata da sola in mezzo ai pesci capra. Almeno quella sarebbe stata una morte veloce, in confronto a quella lunga e lenta che si prospettava a Gabbiano.

Non aveva voglia di tornare a casa, né di partecipare alla festa, così decise di allungarsi nel suo giro di raccolta.

Poco dopo era ferma sulla riva della laguna palustre nel fitto interno della palude nera, lontana dal villaggio e dalla civiltà. I rumori della festa e le urla dei bambini si erano assopiti, soffocati dalla vegetazione rigogliosa, uccelli e altri animali indefiniti trillavano tra le foglie verdi e lucide.

Attorno a lei c’erano solo grandi e neri alberi ricurvi, che allungavano le loro chiome piangenti verso l’acqua scura e melmosa, coperto da una patina verdognola.

Lanciava piccoli sassi neri e lisci con la mano destra e guardandoli saltare una due, tre volte sul pelo dell’acqua, coperta da una nebbiolina eterea, in un gioco di cerchi concentrici che a partire dal centro si allargavano.

Le libellule, piccole equilibriste dell’aria, si libravano tra i giunchi, le cicale e i grilli frinivano tra l’erba ricoperta da gocce di rugiada.

In lontananza, tra le lontane chiome più lontane, poté scorgere un’imponente colonna di fumo grigio, che si alzava lenta contro il cielo.

Forse avevano preparato un enorme falò per la festa.

È strano come le cose possono accadere così in fretta, senza che tu possa fermarle, un attimo prima ti senti il padrone del mondo, tutto sembra bello come un meraviglioso dipinto ad acrilici, dove il sole splende alto nel cielo, gli uccellini cinguettano beati e la natura sboccia in tutta la sua bellezza; però basta un attimo, un filo spostato nella trama del destino perché il mondo ti crolla addosso, e ti rendi conto che la vita non è il bianco delle favole, popolato da principi, principesse e fatine buone, ma il mondo è grande, spaventoso, e ha zanne affilate che possono morderti in qualsiasi momento.

Il fato non andò leggero con lei, e la sfortuna arrivò puntuale, come la trista Signora in persona, anche se questo non era coperto da un mantello nero, né aveva una falce, e di certo non era tutto fuorché uno scheletro.

All’improvviso, come comparsa per magia, un’ombra nera, grossa e distorta fece capolino dalla nebbia, tagliandola come un coltello taglia il burro, arrancando malamente tra l’erba alta, forse diretta verso di lei.

Callisto sentì una scossa di paura, anche se da tempo aveva smesso di credere ai mostri sotto il letto e ai fantasmi per dedicarsi a cose più concrete, sentì che c’era qualcosa di cattivo nell’aria immobile, come in quieta attesa che succedesse qualcosa. Strinse più forte il ciottolo caldo e liscio che teneva nel palmo della mano, desiderosa di tirarglielo addosso e metterlo in fuga, ma quando riconobbe la figura, su felice di non averlo fatto, perché altri non era che il Ministro della Magia Cornelius Caramell in persona.

Lui era un amico di sua zia, e una volta si era fermato con sua moglie a cena a casa loro. Callisto se lo ricordava, perché era raffreddato, e ogni cinque minuti doveva alzarsi per soffiarsi il naso.

Quello che le piaceva di sua zia era che la trattava come un’adulta, e la faceva partecipare ad impegnativi discorsi su politica, corruzioni, ciò che un giorno avrebbe potuto servirle.

Caramell quando la vide le sorrise cordiale, toccando la tesa della bombetta verde acido in segno di saluto. Il suo faccione era rosso e lucido, come un sole spalmato di grasso. «Buondì Callisto, bella giornata oggi, vero?» disse allegramente in tono vano, guardandosi attorno come se quello che lo circondava fosse un bellissimo paesaggio di campagna, invece di una palude, con un prato d’erba alta e una piccola spiaggia fangosa, lambita da acqua fetida e salmastra. «Eh sì, a mio parere non c’è niente di meglio che una bella passeggiata per smaltire un po’ di ciccia» si diede qualche colpetto al grasso ventre.

«C’è qualcosa che non va signor ministro?» chiese secca Callisto inarcando appena un sottile sopracciglio, e fissandolo con quegli strani e intensi occhi.

La sensazione sgradevole aumentò, fino a diventare pesante come un macigno rotolato dentro il suo petto. Una vocina pestifera, che lei tanta odiava e che rappresentava la sua parte pragmatica le sussurrò malignamente all’orecchio: “Ma certo che c’è qualcosa che non va, altrimenti perché mai un pezzo grosso come il Ministro della Magia in persona dovrebbe scomodarsi tanto per vedere una mocciosa come te?”

«Zitta» pensò Callisto. «Zitta, stai zitta».

Ebbe un terribile cedimento al cuore e fu inghiottita da una voragine di presentimenti.

Caramell le lanciò uno sguardo tra l’impietosito e l’imbarazzato, si tolse rapidamente il cappello, che appoggiò al petto rigirandolo nervosamente tra le tozze dita.

Fece un sospiro, cercando le parole giuste per annunciarle quella terribile notizia. «Callisto…» incominciò, chinando la testa lucida per guardarsi le scarpe incrostate di fango. «Mi duole tantissimo informarti, che per evento estremamente sfortunato, tua zia è perita  in un incendio, che ha anche distrutto la tua casa, mi dispiace.»

Se avete mai perso qualcuno, allora capite come ella si sentì in quel momento, altrimenti non potete neanche lontanamente immaginare il dolore sordo che provò.

È una cosa curiosa la morte di una persona cara. È come salire le scale al buio per andare in camera di letto e credere che ci sia ancora uno scalino, il tuo piede cade nel vuoto, e c’è un nauseante momento di tetra sorpresa.

«Hanno cercato di fare il possibile per salvarla, ma è stato tutto inutile…» stava spiegando il ministro, continuando a tormentare la bombetta.

Callisto non stava ascoltando. Sembrava che il mondo di fosse rimpicciolito, e fosse diventato grande quanto il sasso liscio che teneva nel palmo della mano tremante. Tutti i suoni erano attutiti, persino la voce ronzante di Caramell, che si proclama in una lunga spiegazione dei fatti.

Callisto riusciva solo a sentire il lento sciabordio del sangue spargersi in tutto il corpo e il ritmo cadenzato del proprio respiro.

Una mano inguantata del Ministro si posò sulla sua spalla, lei, però la scostò bruscamente, facendo poi un passo in avanti.

«Sai cosa significa perito? » le chiese gentilmente Caramell.

«Certo che lo so!» rispose stizzita la ragazzina, ripensando alle tante cose apprese durante quei sei anni della sua esistenza, e ai libri che doveva ancora aprire. Non sarebbe mai più riuscita a leggerli.

Avvertì una forte fitta al petto. Piccole,  salate gocce di rugiada fecero capolino dagli angoli degli occhi, ma lei le cacciò subito via, cercando di mantenere un po’ di quel contegno che le era rimasto.

«Era una bravissima donna, mancherà a tutti noi» dichiarò Caramell solennemente, ma questo però non fece sentire meglio Callisto. Si vedeva che avrebbe pagato oro per non essere stato colui che le aveva dato la notizia, ma di questo non si poteva fargliene una colpa, dopotutto non è facile spiegare ad una bambina che solo da poco si era affacciata la vita la morte.

 

Era entrata con piccoli passi esitanti, la prudenza dei bambini, quando vogliono qualcosa.

Appoggiata ad una valigia si era messa a fissare la zia dondolando un piede su e giù.

Fuori era novembre, e il vento invernale aveva fatto gelare i boschi.

«È vero che parti?»

«Sì, Callisto».

«Allora resto a dormire con te».

Chryseis le aveva detto va bene, e lei era corsa a prendere il pigiama e il suo libro dal titolo la vita delle piante, poi le era venuta accanto nel letto: minuscola, indifesa, contenta. Fra qualche mese avrebbe compiuto i cinque anni. Tenendola stretta stretta, Chryseis si era messa a leggerle il libro, d’un tratto le aveva puntato gli occhi negli occhi e posto quella domanda.

«La vita che cos’è?»

Chryseis non era brava con i bambini, non sapeva adattarsi al loro linguaggio, alle loro curiosità. Le aveva dato una risposta sciocca, lasciandola insoddisfatta.

«La vita è il tempo che passa fra il momento in cui si nasce e si muore».

«Tutto qui?»

«Ma sì Callisto. Basta».

«E la morte che cos’è?».

«La morte è quando si finisce e non ci siamo più».

«Come quando viene l’inverno e un albero secca?»

«Più o meno».

«Però un albero non finisce, no? Viene la primavera e allora lui rinasce, no?»

«Per gli uomini non è così, Callisto. Quando un uomo muore è per sempre e non rinasce più».

«Anche una donna? Anche un bambino?»

«Anche una donna, anche un bambino».

«Non è giusto!»

«Lo so. Dormi».

«Io dormo ma non ci credo alle cose che dici. Io credo che quando uno muore fa come gli alberi che d’inverno seccano ma poi viene la primavera e loro rinascono, sicché la vita deve essere un’altra cosa».

« È anche un’altra cosa. E se dormi te la racconterò».

«Quando?»

«Domani, Callisto.»

L’indomani era partita per un lungo viaggio, forse per cercare una risposta alla sua domanda.

 

 

Un vento gelido soffiò facendo ondeggiare le canne, che produssero un suono come d’ossa sbatacchiate tra loro.

Calò un imbarazzante silenzio, durante il quale la ragazzina e l’uomo guardarono entrambi verso la spumeggiante striscia dell’orizzonte, senza un solo pensiero in testa, se non un terribile presagio futuro.

«Bene» disse infine il Ministro, continuando a torturare il cappello. «Bene, bene, bene» ripeté, come se una volta sola non gli bastasse.

La bambina tirò su con il naso, asciugandosi gli occhi appannati con una manica del vestito.

«Su, su, andiamo» disse apprensivo Caramell, circondandole le spalle con un braccio «Andrà tutto bene, vedrai. Ti abbiamo anche già trovato una nuova casa e una famiglia che scommetto sarà felicissima di ospitarti. Li conosco, e so che sono delle brave persone, hanno anche un figlio della tua età molto gentile e educato. Sono sicura che ti sentirai a tuo agio con loro».

Callisto alzò la testa verso di lui. Strano, prima a poco tempo prima, desiderava andarsene da Gabbiano, ma adesso l’idea di lasciare il villaggio dove aveva trascorso un po’ della sua infanzia le spezzava il cuore.

Sapeva che gli altri cittadini non l’avrebbero accolta bene nelle loro case, al di fuori di Bram, ma lui era troppo vecchio per potersi occupare di una bambina.

«E chi sarebbero?» chiese.

«I Malfoy.» Rispose Caramell raggiante.

 

*

 

L’ indomani, alle prime luci dell’alba, partì. Non fu un addio tragico, e nemmeno tanto doloroso. Nessuno la venne a salutare, a parte il vecchio Bram, che la strinse le braccia per un infinito istante.

«Buona fortuna» le sussurrò.

Le non disse niente. Raggiunse la carrozza nera con le tendine abbassate e dalle verdi lanterne accese che l’aspettava appena ai confini di Gabbiano, trainata da due possenti Thestral sbavanti, trattenuti a fatica dal piccolo cocchiere seduto in cassetta, coperto da un pastrano dieci volte più grande di lui dal collo alto come quello di un becchino e che portava, ben calcato in testa, un cappello a cilindro che gli nascondeva completamente il volto e lasciava fuori solo un pezzo del suo naso appuntito.

Ormai non aveva più senso che lei rimanesse ancora a Gabbiano, soprattutto perché ora non aveva un tetto sopra la testa. La sua capanna era completamente distrutta, e al suo posto c’era un cumulo di cenere e la carcassa bruciata di un’antica presenza.

Nessuno conosceva la vera causa dell’incendio, e benché fossero state svolte le più accurate indagini, si scoprì solo che era stato appiccato da una grande distanza, e in pochi attimi, la casa fu divorata dalle fiamme.

Fu catalogato come un incidente, forse accaduto, mentre Chryseis cercava di scoprire qualche nuova formula, ma Callisto sentiva che c’era qualcosa che stonava, una stecca acuta che rovinava l’opera di quella storia. Conosceva sua zia, e sapeva che metteva molta cura nel maneggiare i suoi fragili oggetti, e la delicatezza con cui li riponeva negli scaffali era come una danza fatta in punta di dita.

Inspiegabili, come l’origine delle fiamme, altri misteri si schiusero davanti agli occhi di Callisto. Ogni famiglia ha i suoi segreti, porte lasciate chiuse, ma ora lei si rendeva conto che la più piccola scoperta, scatenava nella sua testa un vortice di domande.

Domande, che ora temeva non avrebbero trovato risposte.

Così divenne un’orfana.

La carrozza partì, con uno schiocco possente, e ben presto, il villaggio Gabbiano fu un solo ricordo dietro la scia della sua vita.

 

 

C’era un certo albero che cresceva nelle paludi chiamato la pianta dell’ernia, le cui foglie erano rinomate per la loro proprietà elastica. Quando era più piccola, Callisto era riuscita a trovarne un po’, con un chiodo aveva fissato un’estremità alle assi di una piattaforma e di era messa a tirarla per vedere quando lontano sarebbe riuscita ad arrivare.

Era affascinata da come la foglia si assottigliava diventando sempre più lunga e alla fine, quando ormai l’aveva tirata troppo lontano, si spezzò facendola ruzzolare a terra.

Non c’era paragone più adatto alla sensazione che le era cresciuta dentro durante il pomeriggio. Nel giro di un’ora, con il suo passo veloce e traballante, la carrozza del Ministro l’aveva portata così lontana da casa come non lo era mai stata, e prima che scendesse la sera il mondo le era diventato del tutto ignoto.

Sentì che il suo legame con Gabbiano era come quella foglia della pianta dell’ernia, diventava sempre più sottile e sempre più teso, nel tentativo di riportarla indietro quanto più si allontanava.

Callisto pensò che non avrebbe mai rivisto il caro e vecchio Bran, il cantastorie, o persino gli altri abitanti del villaggio. Nel profondo dell’animo si rese conto di essere assolutamente, completamente sola.

La sua casa era ormai alle spalle, e nel cuore sentì un improvviso, terribile dolore, uno struggimento che non avrebbe mai pensato di poter provare.

Poi, quando cadde il crepuscolo, il legame si spezzò.

Il dolore e l’afflizione vennero a meno, trasformandosi in eccitazione.

Con la presa di coscienza che non c’era alcuna possibilità di ritorno, arrivò anche la consapevolezza che l’unica strada era andare avanti.

Alla fine arrivarono.

Era una dimora immensa, e si stagliava scura contro la notte, e in quella notte flagellata dalla tempesta, sembrava avere un aspetto truce.

 La pioggia spazzava i picchi circostanti e tra la coperta di nubi nere, di tanto in tanto serpeggiava il silenzioso di lampi, prima che un tuono si rovesciasse sul paesaggio e fuggisse poi lontano.

Il maniero era l’unico segno di vita in quel posto desolato. Se ne stava accovacciato imponente e solitario, disteso sopra la vetta di un monte, un tremito di torrette e merlature, balaustre, guglie e torri, tutto scolpito nella pietra. Era stato costruito su un terreno irregolare e quindi era irregolare anche nella forma. Seguiva i contorni della roccia crudele e nuda che gli aveva donato un aspetto così sbilenco,  tanto che l’ala volta a ponente si adagiava molto più in basso rispetto al corpo centrale  del castello.

“benvenuta a casa” pensò Callisto.

 

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Capitolo 2
*** La casa delle ombre ***


La sala grande era gremita di studenti, le risate, i chiacchiericci risuonavano nell’aria come cori argentini, simili al tinti

                                            La casa delle ombre

 

 

 

 

 

 

D

                     

ue uomini sedevano nel salotto Privato; una vasta stanza dedicata solo alle riunioni più importanti, e dove i commensali si sedevano intorno ad un elegante tavolo ovale di lucente palissandro, sul quale si trovavano vari bicchieri e caraffe, e una rastrelliera d’argento con una fila di pipe. L’arredamento era molto sfarzoso, con le pareti di marmo verde scuro venato appena di grigio fumo, che sembravano inglobare nelle loro profondità recondite la debole luce dei candelabri, in modo che regnasse perpetua l’oscurità; accentuato dal fatto che tutte le finestre a rosone erano chiuse da pesanti tendaggi di velluto color bottiglia, che non sembravano mai essere stati scostati per lasciar entrare la luce del sole. Alcuni muri erano tappezzati d’arazzi intrecciati molto laboriosamente anni addietro dai toni sanguigni ormai stinti dal tempo ma con ancora i disegni ancora chiari e brillanti che raffiguravano uomini all’attacco, oppure bestie mitologiche e incantesimi arcani tessuti nella fitta trama in lingua arcaica, in modo che tenessero quel luogo di invisibile mistero agli occhi stranieri.

L’alto soffitto a cattedrale era tenuto da quattro granitiche colonne poste ai vertici della stanza; esse erano incise con figure di grossi serpenti in rilievo, che si avvolgevano a spirale lungo quasi tutto il tronco, e la loro testa, dalla bocca scoperta e i denti veleniferi ben in vista, sbucava da appena sotto il capitello. Erano così veritieri che sembravano strisciare lungo l’architrave per poi sparire nelle tenebre. L’unica luce, lì dentro, veniva dal caminetto, ove una vivida fiamma di ceppi si assestò lievemente, spruzzando faville su per la canna fumaria.

Benché fosse bello, quel salone aveva un qualcosa di spigoloso e asettico, tutto era pulito e ordinato, un po’ troppo per essere definito “vivibile” ed era privo del calore che si prova in un abitazione vissuta, come se fosse perpetuamente velato da una specie di oscura cortina, un anatema che faceva in modo che se anche il sole battesse a picco sul nastro azzurro del cielo, lì dentro vi fosse  sempre più ombre che luce, ombre che inghiottivano i lucenti mobili di mogano, coprendoli di una patina nerastra e informe, e  faceva piombare il  freddo. Molto freddo. Inoltre la casa sembrava stringersi intorno ai proprietari come una fortezza. Vuota. Severa e triste.

Se era vero il detto che la casa rispecchiava il carattere dei suoi abitanti, allora avevano ragione, perché non c’era famiglia più fredda e ombrosa di quella dei Malfoy.

«Signor Malfoy, il suo gesto è davvero notevole!» trillò sinceramente meravigliato il Ministro della Magia Cornelius Caramell, asciugandosi il sudore dalla fronte pelata  con un fazzoletto. Le sue tozze dita, somiglianti a salciccia tamburellarono nervosamente sulla tesa del cappello a bombetta di un vistoso colore verde acido che egli portava in grembo «Occuparsi della figlia del suo amico, in circostanze così tragiche, lei ha veramente un grande cuore».

Lucius, immerso nell’ombra, sorrise galantemente, ma il suo sorriso non si estese fino ai pallidi occhi, che rimasero freddi ed immobili.

C’era un forte contrasto tra lui e il grassoccio Ministro. Lucius era un uomo alto dalle spalle possenti, dal ceruleo viso crudele, con gli occhi che sembravano mandar lampi e accendersi di un riso selvaggio. Era un viso da cui esser dominati, o con cui lottare; non certo da poter considerare con condiscendenza o compassione, mai.

Ogni suo movimento era ampio e perfettamente equilibrato, come quello di un animale selvatico, e tutte le volte che compariva in una stanza come quella faceva appunto pensare a un animale selvatico chiuso in una gabbia troppo piccola.

Si portò il bordo della tazza vicino alle labbra severe, singolarmente strette e sottili e bevve un breve sorso di the prima di rispondere al ministro «L’ho preso come un dovere, Ministro» disse con falsa modestia«Come potevo lasciare una povera bambina in mezzo alla strada? E poi non c’è da escludere che è la mia figlioccia e poi Severus ha chiesto esplicitamente che me ne occupassi io, visto la mia posizione agiata. Lui purtroppo con il suo misero stipendio di insegnante può a malapena pensare a se stesso, figurati ad un figlio…»

Malfoy abbassò improvvisamente la voce, i suoi occhi, guizzavano maligni qua e là nella stanza, percorrendola come il raggio d’una torcia: scrutando, perlustrando, esplorando ogni angolo come se fosse alla febbrile ricerca di qualcosa. Freddi dapprima, poi sempre più roventi a ogni balenio di quel loro sguardo letale.

«Detto tra noi, signor Caramell, Piton non è quello che si dice un tipo magnanimo. Come lei sicuramente saprà, egli faceva parte dell’esercito di Lei-sa-chi, anzi, era uno dei suoi alleati, più….intimi, diciamo, ecco perché non ci si può fidare; infatti è stato proprio lui  ad obbligarmi a diventare Mangiamorte dopo aver partecipato ad una loro riunione. A quell’epoca ero ancora giovane e sciocco, e le promesse di denaro e grandezza mi hanno fatto gola, ho provato a dirgli che non volevo, ma ha minacciato di raccontare tutto alla mia famiglia, se non stavo al gioco…»

La bocca del Ministro  si spalancò in una “O” perfetta,  chiaramente sconvolto dalla rivelazione.

«Ma devo ancora chiarire chi è la madre della bambina?»

«Bellatrix. Bellatrix Lestrange, che è anche mia cognata e sorella di mia moglie».

«Questo è scandaloso!» sbraitò battendo un pugno sul tavolino.

«Concordo, non mi stupirei se la defunta avesse deciso di togliersi la vita spontaneamente, spero solo che Chryseis, dio l’abbia in gloria, non abbia sofferto molto nell’esalare il suo ultimo respiro». Malfoy fece una pausa ad effetto in modo che quelle parole, così grevi e solenni, rimanessero impresse nella mente di Caramell. L’unico rumore era quello sei ceppi che scoppiettavano dentro alla fornace, e che faceva pensare ancor più realmente all’incendio distruttore. Il viso di Lucius era triste per la tragica perdita, invece i suoi occhi ridevano spietati, rivelando tutto il suo divertimento. « Io e mi moglie Narcissa ci prenderemo personalmente cura di Callisto, come se fosse figlia nostra…»

Qualcosa di terribile era celato in quelle parole, ma Caramell non riuscì a coglierlo,

«Questo farà una buona impressione al comitato del Wizgamot interloquì invece, con soddisfazione. «So che  devono processarla tra qualche giorno per la faccenda della alleanza con i…Mangiamorte, vero?»

«Sì, anche se si tratta in dubbio di un terribile disguido» rispose pomposamente Malfoy “«Che spero di sopperire presto, in quanto a nuovo tutore di Angel e grazie ad una generosa” sottolineò la parola» donazione all’Ospedale San Mungo, sperando solo che lei metta una buona parola con i membri del consiglio, naturalmente per la mia inequivocabile generosità. La vostra opinione influenzerebbe molto il risultato dell’udienza» .

Tirò fuori dal mantello un sacchetto di pelle rigonfio, che gettò  spezzante sul tavolo con un  tintinnio soave di monete.

Gli occhi di Caramell si colmarono di cupidigia, arraffò frettolosamente il sacchetto, guardandosi attorno rapace, come se temesse che qualcuno sbucasse fuori dal muro, e lo fece scomparire soddisfatto dentro al mantello gessato.

«Certo, mi avete dimostrato tutta la vostra buona fede, Lucius» gongolò infine, sprofondando comodamente nella poltrona e sorseggiando il suo the  con un disgustoso risucchio. «Un uomo del vostro stampo non può assolutamente essere un Mangiamorte, dovete essere stato stregato da qualche subdolo tranello».

«È quello che penso anch’io» assentì Malfoy «Ma purtroppo le malelingue sono dappertutto e il giornale tende a gonfiare le notizie».

«Non si preoccupi, sono solo chiacchiere, si dissiperanno pesto. Bene, è stato bello parlare con lei,  ma ora ho altri impegni che mi attendono».

Lucius si alzò e strinse affabilmente la mano a Caramell con uno stonato sorriso sul volto appuntito «Spero che l’udienza abbia buoni risultati, comunque ci incontreremo ancora al Ministero. Jinky vi accompagnerà verso l’uscita».

Un elfo dalla pelle color polvere  e due rotondi e sporgenti occhi gialli vestito semplicemente con una lurida e sfilacciata federa grigiastra fece  la sua comparsa e si curvò in un profondo inchino come un fedele maggiordomo, fino a che il suo puntuto naso a matita non toccò terra, e aspettò paziente il Ministro sulla soglia della sala. Caramell lo raggiunse e si voltò ancora un’ultima volta verso Malfoy.

«Arrivederci».

«Arrivederci» .

Malfoy aspettò che il Ministro uscisse prima di sorridere sornione “Sciocco pallone gonfiato” mormorò ridacchiando tra sé e sè.

Si girò con un elegante fruscio del lungo mantello, simile al rumore delle foglie morte.

I suoi passi echeggiavano sordi sul pavimento di legno, come se lui potentemente volesse farsi annunciare a gran voce a tutta la casa addormentata.

Raggiunse l’androne, dietro e davanti a lui i corridoi si spalancavano bui e umidi, simili a bocche sbadiglianti nel levigato pallore delle pareti.

A sinistra, le scale, già in ombra per metà, conducevano ad  un corridoio ancora più cupo. A destra, il pesante portone di rovere sembrava tendere la maniglia verso di lui in un beffardo, vano, gesto d’aiuto.

Malfoy Manor era un diabolico intrico di ambulacri bui e senza finestre, molti dei quali ciechi o irti di subdoli trabocchetti, che sembravano spuntare e finire nell’oscurità e si allungavano per chilometri e chilometri, facendoti sprofondare sempre di più nelle viscere della casa. Essi erano tutti perfettamente identici, per rafforzare ulteriormente la sensazione di smarrimento e confusione, fino a rasentare la pazzia. C’era solo una porta a Malfoy’s Manor. Quella d’uscita. Molti l’avevano cercata inutilmente, fino alla pazzia, altri erano morti nel tentativo, in ogni caso nessuno degli “Ospiti” speciali, amici di Lucius, che visitavano la casa era mai uscito per raccontare gli orrori che si celavano dietro a quella facciata aristocratica. Perdersi era molto facile, ritrovare la via del ritorno impossibile, ed era per questo che la villa era anche chiamata la “Magione del Dedalo”.

L’uomo raggiunse a passo piuttosto marziale l’ala Ovest, fino a raggiungere l’unica porta di una stanza situata in fondo ad un andito spoglio e senza finestre, in cui la penombra che vi regnava aveva il marchio dell’eternità, non toccata dallo scorrere del tempo. Tutto sembrava pietrificato in un limbo arido. Quello era un luogo dove un bambino non sarebbe mai riuscito a diventare grande.

Lucius prese da una tasca della veste una chiave d’ottone, che strinse nel palmo prima di inserirla nella serratura e farla scattare due volte. Aprì la porta di quello che sembrava un minuscolo studio, interamente adorno di scaffali pieni di libri e pergamene.

« Callisto ».

Callisto si girò di scatto e lo fissò con occhi spiritati, cercando di coprire con il corpo una pergamena srotolata dietro di lei, aprì la bocca, ma nessun suono le uscì, se non un pigolio spaventato.

«Rispondi, ragazza!» esclamò l’uomo, battendo il bastone sul palmo della mano.

Il suo occhio di falco fu attratto magneticamente dal piano della scrivania, e la sua espressione d’improvviso divenne dura come la pietra, mentre i suoi occhi metallici ardevano rabbiosi «Cosa nascondi là dietro?» esclamò con tanta violenza da far girare la bambina su se stessa come un cavatappi.

«Niente, davvero…» balbettò la piccola.

Sotto la stretta dell’uomo, il bastone si inarcò come un gatto.

«Non mentirmi, bambina» sibilò «Nessuno può prendere in giro Lucius Malfoy» Callisto fu percorsa da un tremito e non rispose. L’uomo rilasciò la punta del bastone, che fendette l’aria con un sibilo agghiacciante. Poi con quel tono vellutato che faceva pensare a miele spalmato sulla carta vetrata disse:«Devi sempre dire tutto al tuo tutore Lucius, lo sai quanto ci tengo a te». Fece una breve pausa, come pere controllare l’effetto delle sue parole. Provò a ridere, ma la risata gli raspò la gola,  si bloccò e si spense, prima d’aver visto la luce.

Callisto deglutì rimanendo silenziosa.

Con un gesto sprezzante, Malfoy spinse senza alcun riguardo la  bambina da un lato per passare, facendola quasi sbattere contro una parete, e prese tra le mani inguantate il foglio ingiallito, che lei tanto aveva cercato di celare. Sopra di esso era schizzato uno scarabocchio che rappresentava una donna sorridente.

Ci fu un silenzio di tomba, la calma prima della tempesta. L’unico movimento era il tremore rabbioso delle spalle e delle mani dell’uomo.

Quando Malfoy si voltò, i suoi occhi lampeggiavano d’ira «Ti sembra divertente?» le chiese con ferocia, lasciando il suo tono mellifluo e ruggendo come un leone ferito. La carta incriminata s’incendiò da sola e fluttuando nell’aria si consumò lentamente fino a diventare a posarsi per terra come cenere.

«Ero stanca volevo solo riposare…» mormorò debolmente la bambina.

Una grossa vena spuntava dalla tempia di Malfoy, pulsando come la gola di un usignolo. La sua voce era aspra e dura.

 «Riposare? Dopo che io ti ho accolto nella mia dimora e dato l’opportunità di studiare privatamente tu mi ringrazi così? »

Lucius aveva incominciato a spostarsi da una parte all’altra, impedendole ogni via di fuga. Angel aveva il muro alle spalle. Non c’era speranza di evitare la fustigazione.

Il viso dell’uomo si contrasse in un grottesco sorriso, però i suoi occhi fiammeggiavano rabbiosi. Callisto non aveva mai visto occhi così orribili.

«Quello che ti serve, ragazza mia» disse lascivo con la voce che tremava di perversa eccitazione «È la disciplina» sottolineò duramente la parola. «Per anni hai fatto quello che hai voluto, ma adesso le cose sono cambiate, non è più tempo per giocare, in casa mia o si ubbidisce ai miei ordini o si viene puniti». Il bastone di legno colpì ancora il palmo aperto con uno schiocco secco che fece tremare la ragazza da capo a piedi.

«Mi dispiace signor Malfoy, non lo farò più».

«Allora, non lo farai più, eh, ragazza? Sarai fortunata se avrai delle gambe su cui reggerti in piedi, dopo che avrò finito, mia pigra bestiola».

Sollevò il bastone e lo tenne sospeso, come una bacchetta magica il cui tocco, però, avrebbe recato solo distruzione.

Callisto emise un verso stridulo, a metà tra un grido e un singhiozzo, e si rattrappì contro al muro, schermandosi convulsamente il viso con le mani. «No!».

Per un moneto l’uomo s’ immobilizzò così, con il braccio levato, come una spaventosa statua vivente. Poi, lentamente, il bastone si riabbassò.

«No…» disse, in un’ eco beffardo del grido di Callisto.  «Stavolta proveremo un metodo nuovo».

Fece una pausa, mentre la bambina levava lo sguardo su di lui, in attesa di una spiegazione.

«Non ti piace il buio, vero, piccola?»

Lei lo fissò ammutolita, senza capire. Le sue labbra tremavano.

«Immagina una foresta, a notte fonda: l’ululato di creature invisibili, il luccichio di occhi sconosciuti, un battito d’ali alle tue spalle, e la paura del pericolo in agguato. Terribile, non è vero?» ghignò l’uomo. «Non sai dove sei. Non sai dove sai andando. Però puoi correre. Sì è una foresta grandissima. C’è tantissimo spazio. Puoi almeno provare a scappare…»

Un suono, simile al guaito d’un cucciolo percorse, quasi impercettibile,  la stanza. Le labbra dell’uomo si piegarono in una smorfia crudele. Stava tessendo la sua perfida ragnatela, e come un ragno, aspettava che le vittime vi cadessero. Riprendendo la tessitura, assaporò il potere chiuso nel palmo della mano.

«Che cosa può esserci di peggio? A meno che…» fece una pausa e si avvicinò alla piccola. «A meno che…tutt’a un tratto non hai più dove scappare…L’universo intero si racchiude su di te…Pensa, nel cuore della notte, le tenebre e l’ignoto e tutta           quella paura…E tu, chiusa in luogo così piccolo da non poterne fuggire!» Con un ringhio si lanciò sulla bambina, la afferrò per il colletto dell’abito e la sollevò di peso. «Dentro, adesso!» urlò, e, aperta la porta di un armadio ad angolo, ve la spinse dentro.

Si levò un ultimo grido disperato, che echeggiò nella stanza, penetrò le mura e scese fin nelle fondamenta  della casa, finché l’intero edificio non parve vibrare in accordo a quel suono angosciato.

Era un lamento così miserevole, così tormentato, che sembrava gettare un ponte attraverso i secoli. Era un pianto che proveniva dall’inizio dei tempi.

Con un sorriso, l’uomo chiuse la porta dell’armadio, girò la chiave nella serratura e uscì dalla stanza.

 

 

                                                                                                       


**


 

 

Callisto sedeva in terra, rannicchiata su se stessa e la schiena contro una parete di quell’armadio che ogni secolare istante che passava sembrava stringersi di più, togliendole il respiro dai polmoni gonfi d’aria repressa e paura.

Tutto ciò che fuoriusciva dalla sua bocca semiaperta era un rantolio affannoso, pesante, che inquinava l’aria ancora pulita, facendola annegare poco a poco nelle tenebre, senza uno scoglio su cui appigliarsi.

Si sentiva stringere, soffocare da una morsa invisibile che l’avvolgeva come una pesante coltre, non c’erano vie di fuga, tutto l’universo era chiuso in quello spazio angusto, tutto intorno a lei, che come lei si dibatteva con le unghie e con i denti per ritrovare la libertà.

Improvvisamente qualcuno girò la chiave nella toppa, e la luce, come un coltello, tagliò le tenebre. La bambina con uno squittio disperato si rattrappì, con la paura che Lucius fosse tornato a compiere la sua missione di demolizione. Tremava come la coda di un serpente a sonagli, e i suoi occhi vitrei erano fissi sulla porta semi aperta, diabolicamente invitante. «Esci» disse una voce di donna, in tono autoritario.

Callisto si avvicinò all’uscio, e sbirciò con un occhio il campo, se la via era libera.

«Non ti preoccupare» la rassicurò la voce femminile, con  voce leggermente nasale. «Lucius se ne è andato».

Rincuorata, Callisto uscì allo scoperto.

Narcissa, moglie di Lucius, la guardò con freddezza in un angolo, con le sottili braccia incrociate al petto.

Callisto rimase colpita da quella bellezza sfiorita, come una rosa bianca sciupata per essere rimasta troppo a lungo in un vaso di cristallo. Narcissa aveva un bellissimo viso, piccolo, ma perfetto in ogni dettaglio, che sembrava scolpito nell’alabastro più puro. Il bianco del viso risaltava con le labbra rosso rubino, unico tocco di colore in mezzo alla neve.

Gli occhi, due biglie celesti come il cielo in estate, erano morti, ghiacciati, come stagni gelati, svuotati completamente della loro luce da anni e anni di permanenza in quella casa e dalla presenza di Lucius.

«Grazie».

Narcissa sollevò appena gli angoli della bocca, dopodiché si sistemò, con un certo vezzo  narcisistico, l’acconciatura, che peraltro non aveva bisogno di cure, impeccabile come la sua graziosa figura; lei, al pari della sua dimora, aveva un che di impersonale, e come un qualsiasi soprammobile di Malfoy Manor il suo aspetto esteriore doveva apparire sempre perfetto e pulito. Arricciò appena il naso all’insù -in un gesto aristocraticamente sdegnato- nel vedere il viso sporco della fanciulla, così le si inginocchiò affianco pulendoglielo con un fazzoletto ricamato e sistemandole i capelli arruffati, in un gesto che forse doveva sembrare affettuoso, ma anche quello risultò solo sbrigativo, come una pesante incombenza da concludere rapidamente.

«Sei piuttosto bruttina» borbottò studiando attentamente il volto di Callisto da vicino, prendendolo tra le lunghe dita dalle unghie laccate di rosso. «Non assomigli affatto a tua madre, lei era davvero bella. Per fortuna i bambini crescono e con il tempo maturano e cambiano».

Callisto sgranò gli occhi per la sorpresa. «Lei ha conosciuto mia madre?»

«Certo» rispose veemente Narcissa, come se fosse la cosa più naturale al mondo. «Lei era mia sorella. Eravamo molto legate noi due da piccole».

«Io però non ho mai sentito parlare di lei».

Il viso della donna si contrasse in una smorfia di disappunto. «Mia cara» esclamò con voce acuta e via via più furiosa. «Mi vuoi far credere che nessuno ti ha mai detto che fine avevano fatto i tuoi genitori?»

«La zia ha detto che morirono in un incidente d’auto appena dopo la mia nascita» rispose timidamente la bambina sorpresa da quel improvviso cambio d’atteggiamento.

«Morti? Morti?» sbraitò la donna «Temevo che quella stolta di Chryseis avrebbe cercato di nascondere il tutto, ma mai fino a questo punto…»

Chiuse gli occhi e respirò con calma, cercando di riprendere il controllo. Poi si rigirò verso la sua interlocutrice. «Fu proprio a lei che promisi di prendermi cura di te» disse con voce dolce ma ferma, con un velo di tristezza in quelle grevi parole.

«Callisto, tu sei mia nipote».

La mente della bambina parò quel colpo, senza che quella idea, così assurda, le entrasse in mente.

«Cosa

«Tu sei figlia di Bellatrix Black e Severus Piton» ripeté meccanicamente Narcissa con gli occhi chiusi, come se recitasse delle parole incise all’interno della proprie palpebre. «Erede dei due Mangiamorte più famosi all’interno della cerchia Oscura. I tuoi genitori erano i più intimi sostenitori di Colui-che-non-deve-essere-nominato e sono crollati con lui nel giorno della sua disfatta. Adesso lei marcisce ad Azkaban e tuo padre si è rifugiato ad Hogwarts alla ricerca della protezione di Silente».

«NO…» mormorò Callisto,  sentendo qualcosa che le si spezzava nel petto.

Narcissa sogghignò «In effetti è piuttosto singolare che la figlia dei più famosi Mangiamorte sia nata proprio nel giorno della distruzione del loro signore, mentre uno stupido ragazzino si prendeva fama e gloria per questo».

Le si avvicinò a passi leggeri, mentre nei suoi occhi imperversava una fredda collera.

«È vero nipote» disse. «Un tempo volevo che il posto di Bellatrix accanto all’Oscuro Signore fosse mio. Era così sbagliato nutrire qualche ambizione? Era così sbagliato chiedere qualcosa in cambio di tutti gli anni in cui guardato le mie sorelle guadagnarsi tutta la gloria e il consenso?». Ghignò. «Ma tu sei figlia unica: come puoi sapere che cosa vuol dire vivere nell’ombra di qualcuno?»

Strinse le mani a pugni, il suo sguardo magnetico era catturato verso di lei.

«Questa è una scena per farti ridere» disse la donna come se stesse parlando alla casa intorno a sé. «Le mie sorelle sono sempre state forti. Bellatrix la dea e Andromeda l’avventuriera coraggiosa. Io?» Rise senza ironia. «Io? Ero  sempre e solo Narcissa la debole. Narcissa la sorella di mezzo. carne né pesce. Non ero bella e popolare come Bellatrix, né vincente come Andromeda. I miei genitori hanno sempre preferito loro a me, per anni ho dovuto stare zitta mentre le mie sorelle si crogiolavano nell’alloro dei loro successi».

Le labbra sanguigne si schiusero in un ghigno folle. «Ma poi nascesti tu, prima del matrimonio con Lestrange. Una spuria, e i miei genitori finalmente si accorsero che la loro perfetta figlia non era poi così perfetta».

Esplose in una risata roca, gelida. « Naturalmente non volevano disonorare il loro nome della casata “Toujours pur” costruito con fatica dai nostri avi, almeno non quanto avesse già fatto quell’idiota di mio cugino Sirius, la pecora nera della famiglia… »

Il vento ululava, con l’intensità di un branco di lupi, portando sferzate di pioggia addosso alla finestrella. Attorno a loro la casa scricchiolava cercando di resistere alla gelida furia dell’uragano, e gemeva come uno spirito senza quiete.

«Naturalmente la cosa dopo molte discussioni fu sotterrata, quando si trattava della loro figlioletta preferita tutto andava bene, oppure per cadere più in basso di quando Andromeda scappò  con quell’insulso babbano, Ted Tonks. Le ordinarono di sbarazzarsi di te. Eri un bambino fuori dal vincolo coniugale, suo marito naturalmente non ti volle, e neanche tuo padre si incaricò di  prendersi cura di te, infondo che se ne faceva di una ragazzina? Almeno se portavi a casa una paga, saresti sta utile, invece eri solo un peso, una bocca in più da sfamare, così ti affidò ad una lontana parente. Lei fu l’unica che ebbe un po’ di fegato per prendere con sé una bambina maledetta, nessuno si sarebbe voluto maritare con una che aveva un fardello simile sulle spalle».

Il suo sguardo da rabbioso si fece improvvisamente triste e colpevole. Lo abbassò al livello del pavimento, quasi si vergognasse troppo per guardare Callisto in faccia.

«Quando appresi la notizia che volevano diseredare Bella e lasciare tutto a me per la prima volta nella mia vita mi sentii…felice. In quel momento le augurai persino di morire sola come un cane. Non m’importava se il sangue del mio sangue non avrebbe avuto i soldi per pagarsi una pensione dove pernottare; ero soddisfatta di me perché avevo sposato Lucius, dopo quel giorno infatti tutti mi videro con luce nuova.  Sono stata l’unica ad aver onorato come ai vecchi tempi la Casa dei Black, dopo le delusioni di Andromeda, Bellatrix e Sirius…»

Un lampo bianco saettò per un attimo nel cielo, tracciando una scia bianca satura di elettricità nel tessuto color piombo. Il tuono fece il rumore di una tela strappata in maniera lenta e deliberata, e si concluse con un’esplosione che fece letteralmente tramare l’edificio fin dalle fondamenta.

Il viso della donna si tinse un attimo di bianco.

«Poi però me ne pentii. Forse è per questo che ho deciso di portarti qui, non voglio far soffrire Bella più di quanto tu abbia già fatto con la tua sola presenza».

Il mondo, quel grande e pacifico universo che Callisto conosceva, le sembrò crollare, sbriciolandosi in mille pezzi. Tutti quegli anni, di sorrisi, d’allegria, di gesti d’amore… fallaci sogni che come castello di sabbia, erano crollati con la prima mareggiata.

«Ora fai parte di questa famiglia che ti piaccia oppure no». Disse con veemenza Narcissa. «Dovrai abituarti, oppure Lucius te lo farà piacere con le bastonate».

«S-siete sei mostri» disse la bambina.

Hai ragione, la mia mano è macchiata di sangue, ma la tua non è diversa…e questo tu lo sai bene».

Callisto si tappò le orecchie, mentre quelle parole le trapassavano il cervello come un trapano.

La donna sospirò. «Ho sempre desiderato una figlia, ma purtroppo dopo il mio Draco non ho potuto avere altri bambini...» sembrò che improvvisamente un’ombra fosse passata sul suo viso, oscurandolo e velandole gli occhi di profonda tristezza. Però riacquistò subito il suo portamento fiero ed elegante. «Quando sarai pronta» disse con orgoglio «Ti faremo sposare con qualche ricco signore, e finalmente la casata dei Black riacquisterà un po’ del lustro degli anni passati. Tu sei nata in questo mondo luccicante di gioielli e titoli altisonanti, ed è questo che va bene per te ».

Voltandosi e tenendo sollevati i lembi della lunga gonna, Narcissa si avviò verso la porta, però cambiò improvvisamente idea e girandosi si rivolse nuovamente a lei: «Ricordarti che è per pura cortesia se ti abbiamo ospitato qui» aggiunse « Quando avremmo potuto benissimo lasciarti in un qualsiasi orfanotrofio babbano. Credo che milioni di ragazzini sarebbero felici di prendere il tuo posto. Perciò devi esserci grata. E d’ora in poi esigo di essere chiamata zia o signora, chiaro?»

«Sì» rispose mesta la bambina.

«Sì che cosa?» l’interrogò puntigliosamente Narcissa sollevando appena un fine sopracciglio biondo.

«Sì zia».

La porta sbatté e un altro tuono esplose facendo tremare i vetri.

Callisto aspettò, finché l’echeggio dei passi non risuonò lontano, istintivamente mise una mano in tasca e sentì qualcosa di morbido sotto le dita. Ritrasse la mano e si trovò a stringere un nastrino nero. Chiunque la conoscesse bene, sapeva che Callisto stava inventando qualcosa quando i suoi lunghi capelli erano raccolti con un nastro.

In un mondo di oggetti abbandonati e materiali scartati, lei sapeva che c’era sempre qualcosa, qualcosa che poteva trasformare in quasi ogni congegno in quasi ogni occasione. Si legò la chioma, e d’improvviso le venne un’idea; con l’aiuto di lenzuola, coperte e sedie trascinate in mezzo alla stanza, fabbricò una rozza tenda e vi si mise di sotto, mentre la pioggia fuori ticchettava incessantemente, e lì, dopo molte ore, crollò addormentata, con ancora  il cuore pesante come piombo.

Rifugio: è una parola che qui significa un piccolo posto sicuro in un mondo inquietante. Come un’oasi in mezzo ad un grande deserto o un’isola nel mare in tempesta.

Callisto si godette la serata nel rifugio che aveva costruito, ma in cuor suo sapeva che il mondo inquietante era appena fuori di lì.

 

 

 

 

             

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