Trenta minuti

di Sapphire_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Daniel & Chloe ***
Capitolo 2: *** Max & Agatha ***



Capitolo 1
*** Daniel & Chloe ***


Ecco che ritorno in questo fandom con qualcosa di nuovo!

Dopo “La fisica dell’attrazione” avevo voglia di darmi a qualcosa di nuovo, preferibilmente un’altra long, ma dato che su quella ci sto ancora lavorando (e come mio solito ho ventimila idee in testa), ho deciso di rispolverare una vecchia idea che avevo avuto qualche anno fa, rendendola una one-shot.

A dire il vero, credevo di creare una raccolta basandomi sempre proprio sullo stesso concetto di questa storia, creando sempre situazioni diverse con personaggi diversi; non so quanto potrò essere costante però, per questo motivo ho deciso di pubblicarla come autoconclusiva e, se poi avrò altra ispirazione, la modificherò in raccolta aggiungendo altri capitoli.

Non mi dilungo ulteriormente e vi auguro buona lettura, sperando in qualche commento che possa dirmi come sono andata!

Un abbraccio,

 

~Sapphire_

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

~Trenta minuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Che situazione di merda.»

Affermo questo mentre mi lascio scivolare lentamente alla parete dell’ascensore e anche se non lo guardo so perfettamente che anche lui la pensa come me.

«Mh.»

Mugugna appena e io mi volto a guardarlo indispettita.

«Ma non sai dire altro oltre i tuoi soliti mugugni insensati?» sbotto infastidita e così facendo mi guadagno la sua solita occhiata indifferente – quella che mi fa venire voglia di mollargli tanti di quei ceffoni da rendere il suo favoloso volto in un ammasso di lividi violacei.

Cazzo, quanto bel materiale sprecato con una personalità degna di un becchino alle prese con l’ennesimo cadavere infiocchettato in una bara floreale.

Danny tace e io lo osservo incartato nel suo solito completo di alta sartoria grigio antracite – ma io dico, non poteva scegliere un colore più allegro contando che sta andando al matrimonio del suo migliore amico?

Sospiro e osservo il mio bellissimo vestito color fiordaliso che mi è costato l’ultimo stipendio.

«Non potrò nemmeno sfruttarlo.» piagnucolo ad alta voce.

«Cosa?»

Lo osservo obliqua.

«Ah, ma allora ogni tanto ti degni di rivolgermi la parola.» rispondo piccata – ma niente, la sua risposta è un appena accennato scrollamento di spalle.

Decido di risollevarmi su – meglio non rovinare ulteriormente quel favoloso vestito – e lancio l’ennesima occhiata al mio compagno di disavventure.

Daniel Sherwood è il classico uomo che fa girare le persone per strada: alto, biondo, con profondi occhi scuri e dal fisico prestante. Peccato abbia la personalità emotiva pari a quella di un sasso.

Lo conosco da quando ero alta meno di un metro e il mio petto aveva la stessa curvatura dell’amato tavolo in ciliegio di mia madre, ma le uniche volte in cui ha mostrato un’espressione che andava oltre “indifferenza” e “non mi interessa di voi poveri mortali” sono state forse un paio, e anche in quei casi forse ero vittima di allucinazioni.

«Quanto hanno detto che ci mettono?» chiedo, più per riempire il silenzio dell’ascensore che per sapere realmente la risposta. E infatti lui mi guarda con una vaga espressione che potrei solo tradurre come “sei scema?” per poi concludere con uno sguardo di impassibilità.

«Trenta minuti.» è la sua telegrafica risposta.

Annuisco, non sapendo che altro dire.

E che cavolo, bello mio, cerca anche tu di fare conversazione!

Non che possa davvero pretendere qualcosa da qualcuno che, se sta fermo per più di un minuto, assomiglia più a una statua che a una persona – una bellissima statua, certo, ma comunque un qualcosa privo di volontà propria.

Dio santo, mio fratello mi ucciderà. E anche la mia futura cognata, a cui avevo assicurato di essere onnipresente in caso di crolli psicologici nei cinque minuti precedenti alla cerimonia.

«Sta tranquilla.»

La voce di Danny mi trascina via dai miei pensieri che comprendevano il mio omicidio da parte di una sposa particolarmente isterica e ostentai un atteggiamento superiore.

«Io sono tranquilla.» sottolineo con enfasi il “sono”, in caso la bella statuina qui presente non riesca a cogliere le sottili sfumature emozionali delle persone normali, e incrocio le braccia al petto.

Lui inarca un sopracciglio – oddio, è un’espressione quella che vedo?

«Non direi. Sono sicuro che stai già analizzando i vari modi in cui Elise potrebbe programmare di ucciderti.»

…Era ironia, quella?

Sono sicura che la mia espressione sia piuttosto chiara in seguito a quell’affermazione, perché Daniel si lascia scappare uno sbuffo.

«Ti conosco abbastanza da capire quello che potresti pensare in una situazione del genere.»

Ok, sono ufficialmente senza parole.

Non so se più perché sto chiacchierando con lui – il massimo delle conversazioni tra me e lui di solito sono “mi passi l’acqua?” o “dov’è Andrew?”, ovvero mio fratello – o perché a quanto pare mi conosce piuttosto bene.

Penso che la mia espressione attuale lo stia infastidendo perché una leggera smorfia compare sul suo bel viso e mi guarda seccato.

«Avanti, Chloe, siamo praticamente cresciuti assieme, penso che sia ovvio conoscerti.»

Sbaglio, o c’è un leggero tono imbarazzato tra le sue parole?

Io taccio ancora e lui sbuffa, finendo per togliersi la giacca del suo completo e lasciandomi a osservare con occhi sgranati il tessuto aderente della camicia che gli fascia le braccia – e che braccia.

Ok, Chloe, riprenditi. È il migliore amico di tuo fratello, sai come vanno queste cose.

Anzi, sai come va la tua vita sentimentale, dopo Tom.

«Non pensavo avessi notato queste cose di me.» borbotto più per dire qualcosa che per altro; lui continua a osservarmi con quegli occhioni scuri e io abbasso i miei, in tinta con il vestito.

«Sei una persona abbastanza vivace da esternare chiaramente come la pensi, in certe situazioni.»

Il suo modo preciso di parlare mi fa sfuggire un sorrisetto che mi fa guadagnare un’occhiata incuriosita – cioè, un’occhiata incuriosita! Mi devo segnare questo giorno sul calendario – anzi, no, è già segnato. In fondo, è comunque il matrimonio di mio fratello.

Come penso questo il mio telefono prende a squillare come impazzito e mentre lo cerco nella borsetta considero l’idea di cambiare suoneria, è davvero troppo assordante.

«Pronto?» chiedo e non faccio caso al nome sul display, ma evidentemente i miei pensieri avevano avuto una qualche funzione evocatrice perché la voce che mi aggredisce è quella di Andrew.

«Chloe! Dove cazzo sei finita, si può sapere?»

Il ringhio finale mi costringe ad allontanare il telefono dall’orecchio mentre un’espressione colpevole già si dipinge sulla mia faccia che, a quanto pare, mostra subito i propri sentimenti.

«Andrew…» piagnucolo in un primo momento – è assurdo come i rimproveri di mio fratello abbiano sempre il potere di farmi tornare una tredicenne, e che cavolo!

«Credo che Elise stia avendo un tracollo isterico e io non posso andare da lei perché è fissata con l’assurda idea che non posso vederla prima della cerimonia e mi sta venendo voglia di tirarti il collo – avevi detto che ci avresti pensato tu a lei!»

Parla così veloce che a malapena riesco a seguirlo e mi chiedo perché non potessi avere un fratello normale come tutti gli altri, no, dovevo beccarmi l’esagitato ansioso che è più in ansia della sposa per questo matrimonio.

Mi ritrovo senza parole, ma per fortuna c’è Daniel con me, lui e la sua solita calma dovevano aver sentito le urla di mio fratello perché allunga la mano per prendere il cellulare. Io glielo porgo senza fiatare – che si sbolognasse lui quell’isterico, in fondo erano migliori amici! 

«Andrew, per favore, calmati.»

Doveva essere una richiesta, suppongo, ma il tono è così tanto quello di un ordine che finisco per impormi io stessa di calmarmi.

Dalla cornetta giunge solo un respiro affannato, evidentemente mio fratello aveva adoperato tante energie ad urlarmi dietro, ma Daniel continuò a parlare.

«Sono insieme a Chloe, siamo rimasti chiusi in ascensore e ci hanno detto che fra trenta minuti»si interrompe, lanciando un’occhiata all’orologio «facciamo ventitré, saremo fuori di qui. Posticipate la cerimonia di poco e saremo entrambi lì, io a sopportare i tuoi scatti e tua sorella a sostenere la tua futura e adorata moglie.»

Ok, il suo tono velatemene sarcastico mi ha fatto più sesso di quanto mi aspettassi, ma d’altro canto lui stesso mi ha sempre fatto venire voglia di farmi sbattere come panna montata – Chloe, è il migliore amico di tuo fratello, ricorda!

Andrew deve essersi calmato perché il tono di voce è diminuito parecchio, abbastanza da non farmi più capire quello che dice, e Danny continua ad ascoltarlo aggiungendo di tanto in tanto degli “mh” che subito mi fanno capire che è davvero lui e non mi ritrovo con un suo sostituto in ascensore.

Forse ha esaurito la sua dose giornaliera di emozioni.

Nel giro di trenta secondi chiude la chiamata e mi restituisce il cellulare.

«Posticipano di poco la cerimonia, in modo che potremmo esserci anche noi.» mi informa sereno e tranquillo come una papera nello stagno, e io però inizio a sentirmi svenire – dannati spazi stretti, ma con quello che costa questo hotel non potevano fare degli ascensori più grandi?

«Tutto bene?»

Ovviamente se n’è accorto, quindi cerco di mantenere un poco di dignità con un blando sorriso mentre cerco di ignorare la nausea che si fra strada nel mio stomaco – forse dovevo evitare lo champagne prima della cerimonia – e faccio finta di niente.

«Sì, certo.»

Certo un corno, mi sento sudare freddo e anche lui si accorge di qualcosa perché si avvicina e cerca di farmi aria con la mano.

«Sei un po’ pallida.»

Dannato fondotinta, per fortuna doveva coprire le imperfezioni.

«Solo un piccolo giramento di testa.» rispondo rapida.

Ma io sono sfigata per natura, lo so da quando ho scoperto di essere nata di venerdì diciassette, quindi l’ascensore decide che è il momento giusto per scendere di un paio di metri in maniera repentina e io cado come una pera cotta – ma non con la stessa grazia.

Daniel mi prende al volo e vorrei poter pensare che in altre situazioni, a quella distanza da lui, sarei stata concentrata solo sul suo bellissimo profumo molto macho e molto sensuale, ma in quel momento la nausea si fa solo più forte e lui se ne accorge.

«Ok, che ne dici di sederti un attimo?» me lo chiede ma in realtà mi costringe a chinarmi e sbatto con poca grazia il sedere sul pavimento, ricevendo un lieve “scusa” da colui che mi ha praticamente tirata giù.

«Metti la testa tra le gambe e respira lentamente.»

Ma deve sempre usare quel dannato tono da generale?

Comunque faccio come dice e mi sento lentamente riprendere – ah, forse aveva ragione.

Passa qualche secondo in cui sento la sua mano fresca massaggiarmi leggermente la schiena, mi sento rabbrividire e con orrore mi rendo conto che non ho un contatto del genere con un uomo da troppo tempo per impedire che i miei ormoni rispondano come quelli di un’adolescente.

«Stai meglio?»

Cazzo, anche la voce bassa e sensuale da porno deve usare.

«Sì, alla grande.» rispondo a voce bassa, la testa chinata come la mia dignità da donna che non si sente male per simili sciocchezze, però non lo allontano perché i miei ormoni lo vogliono ancora lì vicino e chi sono io per disubbidire?

Credo siano passati alcuni minuti in quella posizione e quindi cerco di rimettermi un po’ in piedi.

«Fra quanto dovremmo uscire di qui?»

«Penso un quarto d’ora.» risponde telegrafico e io maledico quelli dell’assistenza, che evidentemente non riescono a lavorare più rapidi, e mi appoggio a lui sfruttando la situazione.

Allora, per mettere le cose in chiaro: non è che sono innamorata follemente di lui o qualcosa del genere, diciamo che ho passato vari anni della mia vita persa dietro la sua bellezza, per poi rendermi conto che nessuno si vuole fare la sorellina del proprio amico e che era meglio ripiegare su qualcosa di più vicino alle mie possibilità, tipo Tom.

Caro ragazzo, Tom, siamo stati insieme per tanti anni finché non ha avuto la brillante idea di mettere incinta la figlia della nuova moglie del padre, creando una situazione divertente per alcuni e desolante per me.

Quell’idiota mi deve un sacco di soldi spesi in cibo e in fondotinta per coprire le occhiaie.

Comunque sia, insomma, mi sono messa via da un sacco di tempo la mia cotta da quindicenne, però ecco, ho comunque ventisei anni e questo gran pezzo di figo mi sorregge e mi guarda con quegli occhioni tanto belli.

«Stai per vomitare?»

…bello quanto insensibile.

Sollevo gli occhi al cielo mentre mi scosto da lui – ok, forse ero l’unica a fare un certo tipo di pensieri.

«No, mi sono ripresa.» borbotto seccata e lui mi osserva con un’aria leggermente confusa.

E dai, idiota, avrai preso tutte le borse di studio di questo mondo ma a volte sei un po’ tardo, sai?

Mi chiudo in un ostinato silenzio, decisa a farmi passare quei pensieri e quel calore che mi aveva risvegliato toccandomi leggermente – ecco, guardate a che punto sono arrivata, povera me – ma lui doveva aver guadagnato altri punti-energia per mostrare emozioni perché mi rivolge un leggero sorriso dispiaciuto.

«Non pensavo ti desse fastidio, scusa.»

Eh?

«Cosa?» mugugno curiosa.

«Che ti toccassi. Volevo solo darti una mano.» spiega e continua a rivolgermi quel sorriso triste che mai avrei immaginato di vedere su di lui, e il mio cuore si scioglie alla pari di un pupazzo di neve che ama i caldi abbracci.

Non riesco a impedirmi una smorfia imbarazzata mentre vaneggio con la mano.

«Ma che dici, mica mi dai fastidio.» non credo che la mia voce dovesse sembrare così acuta.

Lui mi osserva.

«Ah, no?»

«Certo che no.» ok, adesso era davvero troppo acuta «Come potresti darmi fastidio?» chiedo, e la mia dovrebbe essere una domanda retorica però lui sembra pensarci davvero.

«Non so, ogni volta che mi guardi sembra che tu mi voglia uccidere con lo sguardo.»

Ah, che bello sapere queste cose. È proprio l’idea che vorrei dare all’uomo con cui da tenera sedicenne avevo pensato di procreare dei figli.

«Assolutamente no!» sono veloce a negare, mentre nella mia mente mi deprimo pensando alle sue parole, e cerco i termini giusti per spiegargli senza sembrare completamente deficiente «Vedi, quella è la mia faccia, mica ho qualcosa contro di te! Credo di aver qualche problema nelle espressioni facciali, sai, tipo un tic, ma non è assolutamente vero che voglio ucciderti.»

No, ok, gli sono sembrata una deficiente.

Daniel però sorride e io mi impegno davvero per non arrossire, ma senza troppi risultati.

«Ah, per fortuna.» sussurra, e io credo davvero di aver un attacco di cuore.

Chloe: niente castelli di carte, per favore, che quando cadono ti ci vogliono almeno tre fette di torta al cioccolato prima di riprenderti e la tua pelle ti farà pagare un conto davvero salato.

«Mi dispiacerebbe che tu mi odiassi.»

Eh, ma basta!

Cavolo, io mi ci impegno davvero per non farmi film mentali, ma se mi dici certe cose in quel tono, non è che ci posso fare granché io!

«Davvero?» ma io devo continuare a chiedere perché così poi posso farmi meglio del male, ovvio.

Lui mi sorride e mi chiedo perché non lo faccia sempre, dato che a momenti il sole inizia a splendere anche dentro questo microscopico ascensore pieno di specchi per dare l’illusione che sia più spazioso.

«Sì.» dice solo, e vorrei davvero tanto chiedergli perché, ma poi l’ascensore traballa ancora un po’ e lo sentiamo scendere all’improvviso.

La mia reazione? Urlo e mi lancio sopra Daniel.

«Oddio. Oddio. Non voglio morire giovane, non voglio morire ora.» strillo e sento che i neuroni corrono affaccendati per la mia testa cercando di trovare la calma, ma quello che riescono a ottenere sono soltanto altre frasi idiote che strillo tra le braccia dell’aitante biondo che mio fratello ha come migliore amico.

«Non voglio che Tom sia l’ultima persona che ho baciato!» sbraito e la mia dignità rimane piani sopra rispetto all’ascensore che continua a scendere, non così veloce come mi sembra ma comunque abbastanza da farmi prendere dalla tachicardia.

Si blocca di colpo, ma io sono ancora stretta a Danny, aggrappata come un koala a un albero di fico e con la stessa sua grazia.

«Non vuoi cosa?»

Lo sento domandare mentre io sono con gli occhi chiusi, le braccia strette sulla sua camicia e il suo dannato profumo che si miscela al mio – penso vagamente che ci sono dei vestiti di troppo, ma questo pensiero si auto-elimina quando realizzo davvero la sua domanda e le mie parole di poco prima.

La cosa triste è che mi sono lasciata con Tom da più di un anno e mezzo.

Apro gli occhi e incontro i suoi – da vicino noto delle venature più chiare e le sue ciglia lunghissime anche senza un minimo di mascara, la sua bocca è arricciata in un sorriso divertito e io divento rossa come un melograno.

Mi lancio per terra, cercando di mettere più spazio tra di noi, peccato che siamo in un luogo chiuso e non ho possibilità di fuggire.

«Niente.» gracchio e afferro il cellulare «Ma quanto cazzo ci mettono questi poveri idioti?» sì, dai, cerchiamo di cambiare l’argomento di conversazione.

«Davvero l’ultima persona che hai baciato è il tuo ex?»

Ma proprio non puoi far finta di non aver sentito? Di solito sei così indifferente a tutto.

«Credo che tu abbia sentito male.»

Seh, neghiamo.

«Non penso, dato che me lo hai strillato nell’orecchio.» obietta lui e sa che io so che ha ragione, ma riesco a tirare su un’encomiabile faccia di bronzo e scrollo le spalle.

«Avrai avuto un’allucinazione uditiva.» affermo sicura e lui ride e la mia faccia di bronzo diventa un po’ meno di bronzo e un po’ più di cartapesta.

«Non c’è nulla di cui vergognarsi, sai?» mi chiede, ma io sono così sconvolta dal vederlo ridere che mi mancano le parole, la saliva e tutto quello che potrebbe permettermi di elaborare una frase di senso compiuto.

«Infatti non mi vergogno!» replico stizzita e questo non fa altro che farlo sorridere di più – mi chiedo che ne abbia fatto delle emozioni in tutti quegli anni che l’ho conosciuto.

«Non mi sembra.» obietta.

«Perché non capisci un cazzo.» freccio piccata e lui perde subito la verve ironica a favore di uno sguardo più sarcastico.

«Diciamo che capisco più di quello che mostro.» commenta e mi chiedo cosa intenda dire. Il mio sguardo confuso deve valere più di una domanda dato che continua a parlare «Tu pensi che io sia un insensibile privo di emozioni, ma il fatto che io non mostri niente non significa che non capisca un cazzo.»

Mi ritrovo ad arrossire dopo che lo sento ripetere le mie stesse parole.

«Non intendevo dire proprio quello.» borbotto in imbarazzo.

«E cosa, di grazia?»

Di nuovo quel lato ironico.

«Non lo so.» mugugno in difficoltà e lui mi sorride, questa volta più dolcemente.

«Non volevo metterti in difficoltà. Credo sia carino il tuo modo di fare, e credo che sia normale che tu non abbia avuto altre occasioni da quando Tom ti ha tradita. Insomma, rifidarsi di un uomo dopo una cosa del genere non è facile.»

È normale che io mi senta rincuorata dalle sue parole? Perché in realtà credo che dovrei sentirmi ancora più in imbarazzo, ma invece mi chiedo come mai sia così gentile e comprensivo nei miei confronti.

«Non è quello.» sussurro, a disagio. Mi guarda incuriosito. «Cioè, l’ho superata la questione di Tom – per carità, l’ho maledetto così tanto che mi stupirebbe sapere che se la passa bene, ma alla fine me la sono messa via.»

«E allora qual è il problema?»

«Non ho un problema.» rispondo, ma non è realmente vero «Potrei rifidarmi di qualcuno, ma non c’è nessuno per cui valga la pena.» dico questo e scrollo le spalle minimizzando la cosa – in verità ci sarebbe qualcuno per cui varrebbe la pena, e quella persona è di fronte a me, ma cerco di non farglielo capire perché per quanto lo voglia risentire ridere vorrei evitare che sia nei miei confronti.

«Come dovrebbe essere un uomo per cui ne varrebbe la pena?»

Mi fa questa domanda e io entro in crisi. E ora che gli dico?

«Beh…» inizio incerta, cercando di pensare all’idea di uomo che vorrei avere al mio fianco «Una persona che mi conosce bene, con cui non devo ricominciare a spiegare tutto della mia vita, con cui sarebbe semplice stare insieme. Che capisca che non voglio passare ventiquattr’ore su ventiquattro con lui, ma è perché mi piace avere dei momenti per me e che non si prenda male per questo. Qualcuno che condivide la mia passione per i drive-in e i film trash, che sia sensibile e premuroso ma non soffocante. Che quando mi guarda riesca ad incendiarmi in un secondo.»

Nel momento esatto in cui finisco di parlare mi do della cretina.

Con che coraggio ho fatto un discorso del genere? Sapendo soprattutto che lui corrisponde alla maggior parte di quei criteri – anche se dubito fortemente che gli piacciano i film trash e il drive-in.

«Io adoro il drive-in e i film trash.»

Sì, e io sono la Madonna. Questa è di sicuro stata un’allucinazione uditiva causata dallo scarso ossigeno nell’ascensore.

Lo guardo e sono sicura di sembrare un pesce lesso.

«Davvero?» che frase di merda che mi è uscita.

«Sì.» afferma e mi sorride con quel sorriso che crea un minisistema solare e io ho le stesse reazioni di un incontro ravvicinato con il sole.

Che diavolo, perché adesso fa così? Perché proprio ora, quando non posso fuggire da nessuna parte e l’aria odora del suo stesso profumo e le sue labbra sono così invitanti che mi farei risucchiare anche l’anima molto volentieri?

«Ah-ah, bella battuta.» dico ironica e spero che questo possa smorzare la strana aria che si sta venendo a creare in questo cubicolo.

Lui mi osserva e il suo sguardo sembra possa oltrepassare la trama del tessuto del vestito. Divento bordeaux e sposto lo sguardo.

«Non è una battuta. Penso che abbiamo più cose in comune di quanto pensi.» afferma.

Io scrollo le spalle – sento l’acuto bisogno di muoversi per togliermi l’ansia di dosso.

«Io penso che tu non sappia granché di me.» dico con vago tono saccente e sono consapevole di trattarlo così solo perché mi sento in imbarazzo, non perché voglio davvero trattarlo male.

Daniel però non si scompone e punta i suoi occhi sui miei; ha la strana capacità di rendermi gelatina, ma come fa, mi chiedo.

«Invece penso di sapere varie cose.» afferma e fa un passo verso di me «So che mi stai rispondendo in questo modo perché sei in imbarazzo, so che hai una forte personalità ma con tuo fratello non riesci a reagire perché ti sembra di ritornare una ragazzina, so che odi i profumatori ambientali floreali perché ti fanno lacrimare gli occhi, che odi il cibo piccante ma che lo mangi lo stesso perché è il preferito di tua cognata, che amavi il pianoforte a coda dei tuoi nonni ma hai comunque deciso di venderlo per aiutare tuo fratello a pagare il matrimonio.»

Tace e mi osserva, mi rendo conto che si è fatto più vicino solo in questo momento ma dietro di me c’è solo la parete dell’ascensore.

«So che avevi una cotta per me per tutta l’adolescenza, ma non mi sono mai avvicinato a te perché tuo fratello mi aveva minacciato di morte, e so che anche ora sei attratta di me e che potrei corrispondere a tutte le tue idee descritte prima, e tu sai che mi corrispondono, e so anche che molto probabilmente hai la stessa voglia di baciarmi che ho io.»

Credo di aver perso definitivamente l’uso della parola.

E la causa è la sua vicinanza e la sua sicurezza che mi ha riversato addosso, riempiendomi le orecchie di fatti reali – aspetta, voglia di baciarmi?

«Hai davvero voglia di baciarmi?»

Sussurro e lui mi regala un altro di quei sorrisi che rendono la mia temperatura molto vicina a quella del sole.

«E tu?»

Vorrei potergli rispondere di sì, ma lui anticipa la mia risposta e mi bacia in un modo che potrei definire soltanto come travolgente.

Le sue mani che prima mi erano sembrate fresche ora sono così roventi mentre mi accarezzano la schiena lasciata nuda dal vestito, mentre mi sfiorano i riccioli biondi parzialmente tenuti da mille forcine brillanti.

Io non posso fare altro che appigliarmi a lui con più forza, lasciando che la sua bocca lambisca ripetutamente la mia, per poi scendere sul mio collo e torturarlo in maniera così piacevole che sento il mio sangue ribollire.

Sento le sue mani che dalle cosce risalgono più su, tra la stoffa del vestito, ed è inevitabile passargli le mani tra i capelli che sono così morbidi come non mi sarei mai immaginata.

Devo mordermi un labbro per trattenere un gemito e lui deve accorgersene, perché sento un sorriso premere sulla pelle sensibile del collo prima che ritorni a baciarmi con quella lingua così calda che mi viene naturale pensarla in altri lidi del mio corpo.

Sono così assorta in questi baci che il grugnito imbarazzato lo sento con qualche secondo di ritardo.

E ci stacchiamo come due magneti dello stesso segno, mentre la porta dell’ascensore è finalmente aperta e di fronte a noi, con l’aria scioccata e imbarazzata, troviamo i tecnici dell’ascensore e mio fratello – ha la bocca così aperta che mi chiedo se non gli possa entrare una mosca all’interno scambiandola per una finestra.

«Oh, finalmente!»

Non so da dove mi sia uscita questa totale nonchalance, ma osservo gli astanti con aria indifferente mentre mi rendo perfettamente conto di avere la bocca gonfia, il vestito leggermente sollevato e i capelli con qualche ciuffo fuori corso.

«Chloe…?» la voce di Andrew sembra provenire da un altro pianeta mentre sposta lo sguardo tra me e il suo migliore amico in un modo degno di una partita di tennis. 

La situazione sta raggiungendo vette che non immaginavo, ma i tecnici – due uomini sulla quarantina – intervengono cercando di fare finta di niente.

«Beh, state bene?» chiedono e io lancio un’occhiata a Daniel. Anche lui è leggermente scomposto – la camicia stropicciata, le labbra arrossate e i capelli sfatti. Noto con imbarazzo che la giacca è tenuta con attenzione di fronte al cavallo dei pantaloni e mi giro cosi velocemente che sento una calda fitta di dolore al collo.

«Alla grande.» dice lui e in un secondo è ritornato il solito Daniel dall’aria indecifrabile. Peccato che sia molto poco indecifrabile cosa stava succedendo dentro l’ascensore.

«Grazie dell’aiuto, ma faremo presente di questo increscioso incidente.» affermo gelida – o comunque all’apparenza, perché non è così poco freddo in mezzo alle mie gambe.

I tecnici annuiscono frettolosi e dopo appena un “arrivederci” fuggono. Sono tentata di richiamarli quando mi accorgo della situazione, ovvero di me, Daniele e Andrew che ci guardiamo l’un l’altro.

«Abbiamo fatto in fretta, no? Beh, io vado da Elise!» trillo innocente e riuscirei anche a fuggire se non fosse che Andrew mi placca con la sua stazza da giocatore di rugby.

«Tu.» dice gelido e si volta poi verso Danny «E tu.» tace e ci osserva.

«Che cazzo stavate facendo?»

Mi giro verso Daniel che osserva Andrew che osserva me.

«…controllandoci il cavo orale a vicenda?» abbozzo con un vago sorriso.

Un urlo inumano e la carica in avanti di Andrew mi fa capire che sì, il fatto che sia nata di venerdì diciassette mi segnerà per sempre a vita.

Beh, almeno però posso dire di non dover morire avendo dato il mio ultimo bacio al mio ex.

È sempre qualcosa, no?

 

 

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Capitolo 2
*** Max & Agatha ***


È ormai passato quasi un anno da quando ho pubblicato qualcosa dall’ultima volta, anche se di certo non ho smesso di scrivere in tutto questo tempo.

Volevo pubblicare qualcosa da un po’ di tempo, ma tutte le idee che ho in testa sono per ora difficili da buttare giù, quindi ho optato per qualcosa che mi portasse via poco tempo e quindi rieccomi qui, con una nuova one-shot per questa raccolta che fino ad ora aveva solo una storia. Lo stile è diverso da quello della precedente, ma spero che possa piacere comunque.

Avevo optato per un finale diverso, all’inizio, ma alla fine non ce l’ho fatta!

Beh, non mi perdo in altre chiacchiere, quindi vi auguro buona lettura e, se vi va, lasciate un commentino!

Buona lettura!

 

~Sapphire_

 

 

 

~Trenta minuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Agatha aveva sempre pensato che non esistessero le “coincidenze”.

Se una cosa deve succedere, succederà, punto. E se essa accade, non è per un qualche assurdo scherzo del destino, ma solo perché tu hai voluto che accadesse e hai fatto sì che le circostanze portassero a quel risultato.

Da avvocato, d’altronde, aveva una visione alquanto pragmatica e logica della vita.

In quel momento, però, chiusa in un ascensore con il suo peggior nemico, pensava che di sicuro ci fosse lo zampino di qualche strana entità malevola, perché lei di sicuro non aveva voluto tutto quello.

«Non sentirti parlare, per una volta, è un episodio da segnare sul calendario.»

«Fottiti, Stone.»

L’uomo affianco a lei scoppiò a ridere – ma non era una risata gentile, di cuore, no, era una risata beffarda e cattiva.

Agatha alzò lo sguardo verso il suo – purtroppo – collega, e sperò che l’occhiataccia fosse sufficiente a renderlo cenere. Sfortunatamente, non bastò.

«Se mi guardi così mi consumi, lo sai?» la canzonò ancora il giovane uomo, appoggiato con indolenza su una delle pareti dell’ascensore, la cartella di pelle poggiata con poco riguardo per terra.

«Magari ti consumassi, almeno spariresti dalla mia vista.» sibilò la donna, stretta nel proprio tailleur giacca-pantalone color crema, la cartellina del suo ultimo cliente stretta al petto come baluardo di salvezza.

L’uomo alzò gli occhi al cielo.

«Rilassati, fiorellino, dovrai stare qui con me per un’altra mezzora almeno.» soffiò melenso l’uomo.

«La mezzora peggiore della mia vita.» continuò la donna, masticando un’imprecazione tra sé.

L’altro si limitò a sbuffare una risata e tacque.

Era quantomeno assurdo che l’ascensore si fosse bloccato proprio quando lei e quel… coso erano lì dentro. Avrebbe preferito rimanere rinchiusa con un serial killer, piuttosto che con Maximilian Stone, suo acerrimo rivale dai tempi del college, odioso quanto sfacciatamente bello.

Sì, era sempre stato un fottuto modello, e questo era l’unico motivo per cui aveva avuto un’imbarazzante cotta per lui alla misera età di diciannove anni. Cotta sfumata nel momento in cui l’aveva contraddetta di fronte al loro docente di diritto, in mezzo all’aula, facendole fare la figura dell’idiota incapace.

Lo odio.

«Già che siamo qui, perché non mi parli del tuo cliente? Ho saputo che hai perso miseramente l’ultima udienza, magari posso darti una mano.» soffiò dolce Max «Se me lo chiedi per favore, ovvio.» aggiunse ironico.

Dalla gola di Agatha uscì un suono che sembrò un ringhio – come cazzo aveva fatto a sapere di quella figuraccia? Certo, di sicuro gliel’aveva detta quel deficiente di Thomas, quello stupido assistente non sapeva tenersi la bocca chiusa!

«Non ne ho bisogno.» rispose tagliente.

«Sicura? Posso aiutarti, lo sai…» continuò suadente l’altro e Agatha non poté fare a meno di alzare lo sguardo e fissarlo. Gli occhi neri dell’altro la osservavano con un tono canzonatorio e la voglia di mandarlo all’inferno si faceva più prepotente ogni secondo che passava.

«No.» si limitò a dire, trattenendo l’insulto sulla punta della lingua.

Insultarlo non le sembrava la scelta migliore, dal momento che avrebbe dovuto passare un’altra mezzora – anzi, altri venticinque minuti ormai – chiusa in un cubicolo di due metri per due con l’idiota.

«Quanto sei noiosa.»

Agatha continuò a tacere.

Ma cosa ho fatto di male per meritarmi questa piaga?

Sì, perché Maximilian per lei era la propria personale piaga – altro che locuste, acqua trasformata in sangue e pioggia di fuoco! Quello era una piaga, accidenti!

«Dato che dovremmo rimanere qui per altro tempo, potremmo conversare, non credi?»

La donna, con aria altezzosa, si spostò dal viso la ciocca di capelli castano mogano sfuggita al serioso chignon e aprì la propria cartella.

«Non credo.» disse secca, per poi chinare lo sguardo sui fogli che spuntavano e iniziando a leggerli in maniera ossessiva – che conoscesse a memoria ogni singola parola stampata su di essi non era importante, d’altronde, il suo obiettivo era ignorarlo su tutti i fronti.

Ma non servì a niente fare finta di nulla, dato che un attimo dopo una mano le strappò via fogli e cartella compresa, allontanandoli dalla propria portata.

«Ehi!» strillò infuriata.

Max, dall’alto del suo metro e novanta – ma che gli avevano dato da mangiare, per renderlo così alto?! – sollevò in aria ciò che aveva appena rubato e la fissò divertito.

«Non è carino ignorare le persone, sai?»

«Non me ne frega nulla di cosa è carino o no! Di certo non mi spreco con te!» continuò infuriata.

Era assurdo come il proprio aplomb scomparisse come vapore nel momento in cui l’uomo le rivolgeva la parola. Lei, che riusciva a mantenere il perfetto controllo anche quando sentiva gli insulti di pazzi omicidi che si ritrovava a difendere in tribunale, di fronte a quel tizio perdeva le staffe come mai le capitava.

«Su, un po’ di controllo, fiorellino.»

«Non chiamarmi in quel modo, idiota!»

Max scoppiò a ridere scuotendo la testa e così facendo i suoi capelli neri, sotto le luci bianche dell’ascensore, assunsero delle strane sfumature bluastre.

«Adoro le tue reazioni!» disse fra le risa e ad Agatha non rimase che arrossire, sempre più arrabbiata.

«Ma cosa hai, cinque anni?» sbottò poi «Ridammi i fogli!» ordinò perentoria, ma la frase che voleva essere gelida risuonò alquanto infuocata dalla rabbia.

«Come si dice?» la prese in giro l’altro.

«Ridammi i fogli, altrimenti non uscirai mai più da questo ascensore.» disse ancora la donna «O, perlomeno, non sulle tue gambe.» aggiunse in un sibilo.

Max dovette accorgersi delle fiamme che lampeggiavano negli occhi castani dell’altra, perché scrollò le spalle divertito e si arrese a riconsegnare il tutto alla donna, che li afferrò con uno strattone per richiuderli nella cartella giallo canarino.

Fu per un solo secondo che le loro mani si sfiorarono, ma quel contatto fu sufficiente per far rabbrividire la donna che ostentò nonchalance, sperando che l’altro non se ne fosse accorto.

Povera illusa.

«Non pensavo che toccarmi ti scatenasse ancora una reazione simile.» frecciò svagato Max.

«Quale reazione?»

Negare, negare sempre.

«Hai rabbrividito, l’ho visto.»

Fanculo lui e la sua vista da lince.

«Hai le mani fredde.»

«Bugiarda.»

Agatha non rispose e l’ascensore cadde nel silenzio assoluto mentre la donna guardava ostinatamente un punto fisso sul muro.

«Non è che…» l’uomo iniziò a parlare e Agatha sperò davvero che non dicesse quello che pensava.

Di nuovo, povera illusa.

«…Non è che ripensi ancora a quei momenti in biblioteca?»

Era inevitabile arrossire se tirava fuori quell’argomento – l’unica macchia nel perfetto curriculum di Agatha. L’unica cosa che, per quanto si sforzasse di rimuoverla dalla propria testa, rimaneva cementificata nella memoria a lungo termine.

«Non ripenso proprio a nulla.»

Bugiarda.

«Davvero?»

La domanda di Max suonò casuale.

«Sì.» altra risposta secca.

«Quindi non ripensi a quando ti sbattevo sulla libreria, a come ti baciavo, a come ti toccavo…»

«Non ripenso proprio a un bel niente!» strillò la donna – l’altro scoppiò a ridere.

Perché doveva fare così? Perché doveva rinvangare quei ricordi che cercava di seppellire altrove?

«Peccato.»

Agatha finì per guardarlo e lo trovò che percorreva il suo corpo con aria maliziosa. Appena si accorse di essere osservato, si stampò in volto un’espressione innocente e un sorriso angelico.

«Sì?»

«Smettila di guardarmi così.»

«Così come?»

«Come se…!» si interruppe.

Come se volessi strapparmi i vestiti di dosso.

Ma non serviva pronunciare ad alta voce quelle parole, erano già sospese tra di loro e se Max godeva nel giocherellare con esse, insinuando più di quanto non dicesse realmente, la mora cercava di farle sparire come fumo nell’aria.

«Come se…?»

Eppure, l’altro voleva sentirle dalle sue labbra – ma lei non gli avrebbe concesso quella vittoria, per questo tacque e spostò lo sguardo.

«Hai intenzione di fare così per tutto il resto del tempo?» continuò ancora l’uomo – proprio non voleva tacere, notò Agatha.

«Perché mi tormenti in questo modo?» finì per chiedere la donna, e la sua domanda risuonò tragicamente disperata in quel cubicolo che sembrava diventare sempre più stretto ogni minuto che passava.

Ma, a quella domanda, Max per la prima volta tacque. La fissava, gli occhi neri che erano diventati quasi pesanti, e Agatha per un attimo pensò che fossero come buchi neri, la cui forza gravitazionale la attraeva verso di loro. Si costrinse a spostare lo sguardo.

«E tu, perché non mi guardi più?»

La domanda fu un soffio e la donna percepì una strana nota desolata in quella domanda, una nota che non seppe spiegarsi.

«Che domanda è questa?» finì per borbottare la donna, confusa.

Max alzò gli occhi al cielo e sorrise.

«Lascia stare.»

Se fino a un momento prima avrebbe accolto quella frase con sollievo, in quell’istante le diede persino fastidio.

«No. Spiegami.» ordinò perentoria. Max la fissò divertente.

«Sai che non puoi costringermi, vero?»

Agatha sbuffò.

«Ti conosco abbastanza da sapere che, se non avessi voluto rivelarmi nulla, non avresti detto quella frase dall’inizio.» disse secca.

Ed era la verità: Max, da bravo avvocato, non lasciava nulla al caso, men che meno una frase. Conosceva bene il potere delle parole.

«Touché.» ammise l’uomo e scrollò le spalle.

«Quindi, che significa quello che mi hai detto?»

Il silenzio che intercorse tra quella domanda e la risposta fu più lungo di quanto Agatha si aspettasse. Lo osservò mentre si lasciava scivolare indolente per terra, la schiena lungo la parete dell’ascensore, e lo vide che apriva la bocca per un secondo di troppo prima di iniziare a parlare.

«…Hai smesso di considerarmi da quando abbiamo finito il college. Perché?»

Il tono con cui venne fatta la domanda era un misto tra la tristezza e il fastidio, e Agatha si ritrovò a guardarlo spiazzata.

«Non ho smesso di considerarti. Siamo colleghi dello stesso studio, come potrei non considerarti?» frecciò sarcastica – eppure sapeva cosa intendeva, anche se faceva la finta tonta.

«Sai cosa intendo.»

Ma come la donna conosceva bene Max, anche lui conosceva bene lei.

«Che vuoi che ti dica? Ci odiamo a vicenda, che dovrei fare, starti sempre appresso?» fece retorica e con una vena sarcastica nemmeno troppo sottile.

«Io non ti odio.»

Se le avesse detto “Ho deciso di cambiare sesso”, forse sarebbe rimasta meno scioccata.

«Ma che dici? Sì che mi odi.» balbettò irritata.

«No, sei tu che pensi che io ti odi.» continuò ostinato l’altro – e Agatha proprio non sapeva come rispondere, non se lui la guardava con quegli occhi neri, per la prima volta dal basso verso l’alto e non viceversa.

«Tu vorresti che io ti odiassi, e così ti sentiresti giustificata a odiarmi a tua volta.» continuò con una logica tutta sua.

Agatha scoppiò a ridere – ma la risata suonò strana all’interno dell’ascensore, quasi stridula.

«Stronzate.» disse solo, senza aggiungere altro, ma solo perché non sapeva bene come rispondere.

Agatha Prince che non sapeva come rispondere. Avrebbe iniziato a piovere viola.

Ma a quel punto Max sembrava essersi stancato di quelle negazioni continue, e dopo essersi alzato con aria indolente si avvicinò alla donna. Agatha avrebbe volentieri arretrato, peccato che dietro di lei la parete le ricordasse che non ci fossero altri posti in cui rifugiarsi.

«Sai che non sono stronzate. Tu pensi che io ti odi perché quella volta sono andato a letto con Susan.»

Fu come essere pugnalate, solo molto peggio, ma Agatha si costrinse a ridere.

«Sai quanto mi importa.» frecciò sprezzante – no, a lei non importava proprio un bel niente di quella sottospecie di tradimento con quella poliziotta alle prese con un caso di loro competenza. Non le importava niente.

Niente.

Max la osservò con i suoi occhi indagatori e per un secondo ad Agatha le parve di essere tornata in biblioteca, lì dove, al riparo da occhi indiscreti, l’uomo aveva preso ad osservarla con una strana luce negli occhi. Dopo ciò, aveva imparato ben presto che adorava quando i suoi occhi si posavano su di lei.

«Invece ti importa eccome.»

L’ennesima frase con quel tono supponente le fece perdere le staffe. Praticamente lanciò per terra quella fastidiosa cartellina gialla mentre un sibilo di fastidio le sfuggiva dalle labbra tinte di un rossetto pesca.

«Smettila, maledizione! Non mi importa proprio un cazzo di come ti sei scopato quella deficiente, né del fatto che non riesci a tenertelo nei pantaloni per più di un minuto. Quindi smettila di infastidirmi e continua a vivere la tua vita respirando lontano da me.»

Sentì il petto alzarsi e abbassarsi furiosamente dopo quelle parole – era sicura che le fosse saltato un bottone da quella camicia che già quella mattina le sembrava troppo stretta sul seno, ma non le importò.

Si costrinse ostinatamente a non osservare un’eventuale reazione da Max per poi chinarsi e prendere la cartelletta.

Il silenzio che era calato però era davvero troppo.

Max la fissava con un’espressione indecifrabile negli occhi – anche la sua aria sarcastica e pungente era scomparsa mentre lasciava scivolare lo sguardo su di lei.

«Che vuoi?» voleva davvero trattenersi da porre quella domanda, ma non ce la fece.

Solo a quel punto Max si lasciò andare in uno sbuffo che nascondeva appena un sorriso.

«Finalmente riesco a farti scomporre.» soffiò appena – Agatha si ritrovò ad arrossire senza nemmeno sapere il perché, o forse lo sapeva ma non lo voleva ammettere.

Lui la guardava e lei per un attimo capì come ci si dovesse sentire dietro il banco dei testimoni davanti al quale c’era sempre lei, forte e sicura delle domande che doveva porre.

«Perché non mi lasci tranquilla e basta?» avrebbe voluto usare un tono meno desolato ma non riuscì a trattenersi.

Nemmeno Max però dovette riuscire a impedirsi quello che aveva da dire, perché dopo essersi appena morso un labbro si arrese a parlare.

«Perché odio vederti così tranquilla e serena senza di me. Perché tu riesci a continuare la tua vita senza nemmeno degnarmi di un’occhiata, anzi, odiandomi addirittura, mentre io continuo a cercare le tue attenzioni come il diciannovenne che ti faceva gli agguati in biblioteca per sfruttare del tempo con te. Sono ancora il ragazzino che non vuole ammettere che tu mi piaci e che per farsi notare da te ti tratta male.»

Agatha non era sicura che quelle fossero le parole che voleva sentire, eppure udirle fu come se qualcuno avesse improvvisamente scoppiato il palloncino che rimaneva sospeso nel petto.

«Cosa stanno a significare queste parole?»

Avrebbe davvero voluto non avere la voce spezzata.

Quelle parole però erano troppo vaghe, troppo poco pragmatiche per far sì che un avvocato come lei le comprendesse. Lei aveva bisogno di fatti certi, di prove, di regole scritte e clausole che spiegavano come evitarle. Non di vaghe frasi su sentimenti passati.

«Hai capito bene che cosa voglio dire, Agatha.»

Ma il problema era che lei non voleva capire.

Lo guardò senza vederlo realmente mentre la sua mente si affaccendava per cercare di dire qualcosa – una qualsiasi cosa. Ma non sapeva lei stessa cosa pensare.

«Signori, siete ancora lì? Fra pochi minuti apriremo le porte, vi chiediamo qualche attimo di pazienza.»

La voce di un uomo provenne metallica dall’altoparlante dell’ascensore, rompendo quella strana situazione che si era venuta a creare.

Prima ancora che Max potesse realizzare la frase, Agatha già si era precipitata davanti all’altoparlante.

«Sì, siamo qui. Per favore, sbrigatevi.»

Il tono voleva essere seccato e misurato, ma con orrore si accorse di essere suonata come una ragazzina spaventata. E lei non lo era.

«Hai intenzione di fuggire appena si apriranno le porte?»

La voce di Max la raggiunse mente gli dava le spalle.

«Ho una riunione.» rispose solo. Sentì lo sbuffo sarcastico dell’altro.

«Quindi sì, hai intenzione di fuggire. Complimenti, Agatha, ti credevo più matura.» la frase suonava sprezzante e la donna fece violenza su sé stessa per non replicare.

Doveva solo attendere qualche minuto, poi tutto quello sarebbe finito. E sarebbe potuta correre via da quell’ascensore, da quella situazione, da lui.

Non poteva dirle quelle frasi, non in quel momento, non in quelle condizioni.

Le porte iniziarono ad aprirsi lentamente e lei si voltò verso Max che la fissava con una desolazione che mai aveva visto nel suo sguardo – uno sguardo sempre sicuro, controllato, superiore.

«Davvero non vuoi dirmi nient’altro?»

Sentire quel tono di vaga preghiera fu come un pugno allo stomaco per Agatha. Oltrepassò lui con gli occhi, fissandoli sulle porte che si aprivano; oltre riconobbe i volti degli addetti e altre persone che curiose osservavano la scena.

«…io…» soffiò appena, fu solo un sussurro.

E lo oltrepassò, uscendo fuori da quell’ascensore che aveva appena assistito a ciò che lei mai si sarebbe aspettata accadesse. 

«State tutti bene?!»»

Stavano tutti bene?

Agatha si voltò verso di Max.

«Sì, tutto a posto.» sussurrò.

Si girò, la cartellina stretta tra le mani, lo sguardo fermo, lo stesso che usava quando era di fronte al giudice.

Fece un passo. Poi un altro e un altro ancora

Ma si bloccò prima che potesse impedirselo e si voltò.

Max era ancora lì, la guardava e ignorava gli addetti alla sicurezza, ignorava tutto il resto tranne lei, e non era sicura che quel sentimento nei suoi occhi fosse solo la sua immaginazione.

«Credo…» si interruppe e fu un dolore piacevole quello che provò nell’osservare il lampo di speranza negli occhi dell’altro.

«Credo che mi servirà un’opinione sul caso Roxwell-Avery.» disse, non osando spostare lo sguardo per paura che quello che vedeva negli occhi di lui potesse sparire.

«Tu sei disponibile?»

Max la osservò in silenzio. Lo vide fare qualche passo verso di lei e sorridere.

«Certo, se proprio non puoi farcela senza di me.»

«Idiota.» le sfuggì.

Ma Max scoppiò a ridere e lei fu sicura che ciò che vedeva in quegli occhi non era solo la sua immaginazione.

Poi la superò, sempre con un vago sorriso stampato sulle labbra e uno strano luccichio negli occhi scuri.

«Ricordami di mandare un assegno alla ditta degli ascensori.»

Le lanciò un ultimo sguardo prima di precederla.

«Devo ringraziarli.»

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