Un lavoro come un altro

di Mannu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Un lavoro come un altro
Si svegliò poco a poco e indugiò pigra tra le lenzuola, nel tepore del monolocale. Poi squillò il terminale.
Guardò l'ora, pensando a chi potesse essere il seccatore. Si spaventò: era in ritardo.
«Petra, cazzo! Proprio il giorno della videoconferenza devi farmi questa stronzata? Non sei pronta!»
Era il capo a sbraitare. Era il giorno della presentazione del software.
«Attiva il video, sbrigati! Mancano cinque minuti!»
In fretta e furia si infilò il cheongsam sopra il pigiama e andò in bagno a prepararsi a tempo di record. Per sua fortuna la videoconferenza cominciò con qualche minuto di ritardo.
Osservò attentamente lo schermo del terminale. L'immagine principale era l'inquadratura proveniente dalla sede centrale, dove il Direttore in persona avrebbe assistito alla presentazione del software al Comitato Direttivo. Ma a decidere sarebbe stato solo lui, poiché teneva il Comitato sul palmo della propria mano. Tale infatti era il suo potere, derivato dall'appartenenza a una delle famiglie mafiose più potenti.
Gli altri che già apparivano in piccole finestre video come satelliti erano i suoi colleghi e il capo degli sviluppatori. Quest'ultimo, dopo aver sbraitato contro di lei, si era messo a parlottare preoccupato con il responsabile del marketing. Entrambi avevano finestre video di pari dimensioni, circondate da immagini contenenti i visi dei loro collaboratori. Questi piccoli satelliti dei satelliti erano davvero minuscoli e servivano solo ad aumentare col loro numero il prestigio del rispettivo capo. Lei si cercò e si trovò in mezzo ai colleghi sviluppatori, una manciata di pixel dai quali si intuiva a stento la capigliatura nera, gli occhi cupi e la bocca rossa. Aveva perfino perso tempo a pettinarsi: non si vedeva nemmeno il cheongsam che indossava. Meglio così, si disse, ben contenta di non essere chiaramente visibile.
Poi la riunione cominciò.
Esattamente come previsto, parlarono solo i più alti nella gerarchia. Presentarono il software, risposero alle domande e alle obiezioni del Direttore, del suo antipatico assistente personale, e perfino alle timide osservazioni fatte da un paio dei membri del Comitato. Ebbe quindi tutto il tempo per studiare quell'uomo, anche se non ne aveva affatto bisogno.
Anthony Kesher Bran per il mondo della finanza, Antoniu Kasherban stando alla lunga fedina penale, nome da lui stesso cambiato per sembrare più cosmopolita, da sempre affiliato alla mafia italo-albanese. Questa affondava le sue radici fino ai tempi dei primi cantieri orbitanti. Stava allargando le sue aree di influenza nel terzo settore, approfittando dell'aperto conflitto fra le gemelle e i russi. L'azienda informatica di cui era alla guida era solo una comoda copertura per altri traffici estremamente più redditizi. Il suo grado di affiliazione era cresciuto ultimamente fino a portarlo vicino ai vertici.
Vicino, ma non abbastanza.
La videoconferenza ebbe finalmente termine, ma dovette sorbirsi la tiritera di rito. Kesher Bran aveva autorizzato la fase finale dello sviluppo, e i relativi investimenti. Il capo degli sviluppatori era passato da un teso nervosismo a un insopportabile, euforico ottimismo. Condiviso dai colleghi, com'era facile intuire dai loro visi che affollavano lo schermo.
Il capo approfittò dell'occasione per ripartire i nuovi incarichi e per distribuire la mole di lavoro. I consulenti come lei vennero liquidati con poche, sbrigative parole: avanti come al solito. Non si era aspettata nulla di diverso.
Anche quella parte della riunione si concluse: se ne andarono tutti, ma la connessione video non si interruppe.
«Che verme... tutto il lavoro che hai fatto, e nemmeno una parola.»
Stephan: biondo, carino, l'aveva presa in simpatia. Si era pure fatto avanti. Il contratto era in scadenza, era preoccupato di interrompere la relazione con lei, sebbene solo lavorativa. Avevano lavorato allo stesso progetto per una dozzina di ore, ciascuno dal proprio domicilio: era simpatico, collaborativo e molto cortese.
«Tranquillo: il triste destino di noi consulenti a progetto è rimanere nell'ombra...»
Aveva risposto controvoglia: non aveva certo intenzione di dargli ascolto più del minimo indispensabile.
«Mah... non sono convinto - il viso del giovane si contrasse in una smorfia delusa - Tu che fai, inizi subito?»
Si strinse nelle spalle, piegando le labbra in una smorfia dubbiosa.
«Non so... non ne ho molta voglia...»
«Visti i risultati, eh? Tutto il merito a quel buffone del nostro capo.»
Si era divertita a scrivere un po' di codice in quei giorni. Aveva fatto finta di avere un lavoro normale, e per un po' le era piaciuto.
«Se ti va di uscire, magari andiamo a berci qualcosa insieme. Possiamo anche non parlare di lavoro, se vuoi.»
Respinse l'invito più cortesemente che poté, sorridendo. Chiuse il collegamento con gli usuali convenevoli e si sdraiò un poco sul letto, pensando.
Pensò a come avrebbe potuto essere lavorare tutti i giorni per guadagnarsi da vivere, magari proprio scrivendo software: le riusciva piuttosto bene. Pensò alla vita di coppia: ricevere una chiamata dal fidanzato, essere invitata fuori, andare a divertirsi dopo il lavoro. E poi la ricerca di un'abitazione, fare la spesa per due, la routine della vita in comune, i litigi e le tenerezze.
No, si disse scrollandosi di dosso quelle immagini. Se stessa in pantofole e vestaglia, se stessa armata di aspirapolvere mentre pulisce la casa, se stessa alle prese coi problemi del lavoro e con quelli della vita in coppia. No, si disse. Non per me.
Aveva tempo, ma preferì non indugiare oltre. Si recò in bagno e prendendo ispirazione ma non troppo dal cadavere di Petra che aveva accomodato lì, terminò di perfezionare il proprio trucco. Ne imitò il colorito che era stato leggermente olivastro, aggiustò la parrucca scura, sistemò il naso finto e si truccò com'era stata abitudine della defunta collaboratrice a progetto di cui aveva preso il posto un paio di giorni prima. La giacca con le spalline imbottite colmò la differenza di corporatura e un paio di scarpe con la soletta spessa ridusse la differenza di altezza. Quando ebbe terminato controllò il proprio riflesso nello specchio: era perfetta. Chiunque l'avrebbe scambiata per la povera Petra, che invece giaceva lunga distesa sul pavimento del bagno della sua casa, lo sguardo di vetro e la pelle grigia, rigida come un pezzo di ferro.
Ripulì tutto e raccolse le sue cose, incluso il processore vocale che l'aveva aiutata a emulare la voce di Petra durante i collegamenti tramite terminale. Gran bella cosa il telelavoro, si disse. Era uno dei motivi per cui aveva scelto Petra, molto schiva e mediocre consulente informatica: non incontrava mai di persona i colleghi, le uniche persone che frequentava spesso.
Uscì dal minuscolo appartamento, si mischiò alla gente in coda di fronte agli ascensori e presto fu completamente avvolta nel mantello dell'anonimato, circondata dall'indifferenza e dal disinteresse altrui. Il viaggio fino all'enorme edificio nel settimo settore fu soltanto una lunga, noiosa formalità: non accadde nulla e poté concentrarsi a fondo su quanto stava per fare.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Un lavoro come un altro
Una volta scesa dal Tubo si mischiò alla folla in uscita dalla sottostazione, ma non si diresse verso gli ascensori. Attraversò l'atrio inferiore dell'edificio e imboccò una uscita di servizio su cui spiccava il divieto di accesso per il personale non autorizzato: la blanda sorveglianza lo consentiva. Percorse un buon tratto del largo corridoio che aveva di fronte fino a raggiungere una porta aperta: gli spogliatoi del personale addetto alla manutenzione. Aveva controllato in precedenza: in quel posto il viavai era continuo. Aprì un armadietto, non scelto a caso. Poté recuperare gli abiti che vi aveva messo in precedenza. Petra cessò definitivamente di esistere: dallo spogliatoio uscì, non notato da alcuno, un tecnico ascensorista come mille altri. Una donna dai capelli a caschetto castano chiaro nascosti da un berretto grigio piombo col bordo rosso e il logo aziendale, con la divisa da lavoro del medesimo grigio piombo, scarpe pesanti sporche e usurate, uno zaino anonimo sulle spalle.
Badando a sostare il meno possibile entro i campi visivi delle telecamere, di cui aveva memorizzato la posizione, salì sugli ascensori di servizio fino a raggiungere la sommità dell'edificio, aprendo ogni varco elettronico col badge aziendale. Non incontrò colleghi ascensoristi ed ebbe solo brevi conversazioni di circostanza con due donne del personale delle pulizie.
Ogni angolo libero del tetto era utilizzato per installare apparecchiature di comunicazione, componenti dell'impianto di ricircolo e condizionamento dell'aria, motori di ascensori e molto altro. Un intricato, angoloso labirinto di metallo, plastica e imballi abbandonati. La vertiginosa vista del pozzo gravitazionale, quel giorno sfumato da una nebbia grigia, era gravemente limitata dalla folla di apparati, antenne, tubature, strutture di sostegno.
Il pozzo gravitazionale: il nucleo della stazione, lasciato vuoto. Per fornire un panorama mozzafiato ai pochi danarosi eletti che potevano permettersi un attico? O solo uno spazio forzatamente vuoto, lì per il semplice fatto che la stazione era cilindrica? Di certo offriva una vista che non lasciava indifferenti. Una gigantesca città cresciuta, strato su strato, lungo le pareti interne di un tubo. Ma lei non era lì per turismo. Si diresse decisa verso quello che sembrava un grosso container e vi entrò sbloccando la porta con la chiave elettronica contraffatta. Era il locale dei motori idraulici di uno degli ascensori secondari, simile a quelli che aveva usato per salire lungo i novanta piani dell'edificio. Fece scattare un interruttore, illuminando il locale con la fredda luce azzurrognola dei neon installati lungo gli spigoli delle pareti. I motori acquattati al centro del locale esprimevano la loro potenza ringhiando continuamente, protetti da una gabbia di rete metallica. Posò lo zaino in un angolo buio e si diresse decisa verso un armadietto a parete. Lo aprì con la medesima chiave e con mani esperte montò rapidamente un fucile di precisione, prelevando i pezzi da due cassette colme di attrezzi da lavoro, dove lei li aveva lasciati poco tempo prima. Con l'arma a tracolla si arrampicò sulla rete metallica, raggiungendo la sommità a forza di braccia. Storse la bocca in una smorfia: dai motori sotto di lei saliva una corrente di aria calda e puzzolente, e il poco spazio tra la sommità della gabbia e il soffitto del locale la costringeva a stare carponi. Non senza fatica rimosse la grata di ventilazione attraverso cui i motori scaricavano il loro calore nell'ambiente esterno. Sporse la testa. Via libera.
Strisciò sul ventre fin quasi al bordo, nella posizione che aveva verificato in precedenza essere la migliore. Poteva vedere l'edificio: una enorme, futuristica scheggia mozzata nel curvo panorama frattale del pozzo gravitazionale. Imbracciò il fucile e aprì il bipiede per stabilizzare la mira. Col potente mirino cercò i riferimenti che aveva memorizzato e trovò la finestra che le serviva. Il telemetro della sua arma segnalava una distanza di trecentotrentasette metri. Un tiro difficile, ma non impossibile.
Appoggiò il fucile di precisione e scoprì il braccio sinistro, dove portava il bracciale olografico di Petra. Aveva lavorato due giorni nei suoi panni, più che sufficienti a impadronirsi di quella piccola vita. Penetrata nella rete informatica dell'azienda molto tempo prima, aveva avuto modo di ascoltare, imparare e preparare la trappola con cura. Facendosi scudo con l'attività dell'inconsapevole Petra, aveva introdotto un virus che, prontamente annidatosi nella centrale telefonica, aveva pazientemente sorvegliato Kesher Bran e registrato le sue chiamate. Ritorcendo la potenza di calcolo dei server infetti contro il loro stesso proprietario, quel virus era ora in grado di usare le registrazioni delle telefonate dell'amante del Direttore per simulare a comando una conversazione telefonica credibile. Sapeva di poter contare su quella donna che, altezzosa, dispotica e capricciosa, non era solita perdersi in chiacchiere coi sottoposti. Nemmeno l'assistente di Kesher Bran gradiva intrattenersi con quell'arpia più del minimo indispensabile: non avrebbe osato contraddirla.
Inviò il segnale al virus in ascolto: un pacchetto dati camuffato in modo da sembrare innocuo. Al centro della trappola, attese Kesher Bran, certa che il suo assistente non avrebbe esitato a interromperlo qualunque cosa stesse facendo. La vittima a lungo studiata non si sarebbe fatta alcuno scrupolo pur di trascorrere del tempo al telefono con la sensuale amante.
Lo attese al centro del mirino elettronico, in grado di superare la polarizzazione dell'ampia finestra indifesa e di correggere l’errore di traiettoria dovuto alla rotazione della stazione sul proprio asse.
È sempre un errore sentirsi intoccabili, pensò un attimo prima di tirare il grilletto. Il proiettile corazzato volò via preciso e mortale, prolungamento invisibile della volontà di lei che lo aveva preparato dopo aver scelto con cura l'arma. Avrebbe voluto evitare di vedere la testa dell'uomo esplodere: non amava compiacersi della parte più cruenta del proprio lavoro, ma il mirino era luminoso e catturava molti dettagli. Dopotutto per lei era solo lavoro.
Scese dal tetto del locale motori e smontò l'arma. Scottava ormai, se ne sarebbe presto liberata. La infilò nello zaino insieme agli abiti di Petra, insieme alla parrucca scura e anche a quella castana. Si spogliò degli abiti grigi dell'ascensorista, pensando a come sarebbe stato lavorare con le macchine anziché con gli uomini. Vita facile, ipotizzò: si verifica un guasto, si va a ripararlo. Io e la macchina, e nessun altro. Niente riunioni, niente collaborazioni, niente colleghi che ti invitano a pranzo o a bere il caffè.
Terminò di rivestirsi in modo sciatto e banale con gli abiti che aveva preparato nello zaino. Raccolti i suoi capelli rossi in una coda spettinata lunga fino alle spalle, con l'aiuto di uno specchietto per il trucco tolse dal viso, dal collo e dal petto tutto il fondotinta che le alterava il colore della pelle, riportandone alla luce il naturale pallore e le numerose lentiggini chiare. Dallo zaino estrasse uno strumento identico a quello utilizzato dalla polizia per la ricerca di materiale genetico sui luoghi del delitto e dette una ripulita, cancellando le tracce del suo passaggio. Aveva tutto il tempo di farlo, in sicurezza, impunemente.
Infine si mise a tracolla lo zaino, ora davvero pesante, e si avventurò nel dedalo di macchinari e impianti che affollavano lo smisurato tetto dell'edificio, badando bene a non ripercorrere la medesima strada fatta all'andata. Il percorso era studiato per essere al riparo addirittura da un ipotetico osservatore che, dotato di un binocolo, cercasse di localizzare il cecchino guardando attraverso la finestra della vittima.
Trovò le scale di emergenza, riuscì facilmente a neutralizzare il sistema anti-intrusione: l’aveva violato il giorno prima. Percorse dieci piani in discesa senza che i sensori appositi registrassero la sua presenza. Raggiunse quindi una uscita d'emergenza e la attraversò in senso opposto. Un gioco da ragazzi, poiché aveva scoperto facilmente che i dipendenti del bar di lusso che si trovava a quel piano usavano quell'uscita per andare a farsi di roba sulle scale, lontano dagli occhi dei clienti e del titolare. Per aver vita più facile avevano manomesso loro stessi il sensore di apertura della porta e sabotato la serratura. Potevano aprirla con uno strattone quando rimanevano accidentalmente chiusi fuori, sulle scale.
Aperto e richiuso il varco di sicurezza senza fare rumore, si infilò svelta nel vicino bagno delle donne e qui si cambiò d'abito per l'ultima volta. Non era riuscita a procurarsi una vera divisa da inserviente, ma usando il berretto grigio da ascensorista, opportunamente privato del logo distintivo, della camicia bianca di Petra e dei pantaloni da lavoro, ottenne un buon grado di somiglianza. L'ora di pranzo era lontana, ma nella cucina ferveva l'attività di preparazione delle colazioni di lavoro, e c'era un discreto viavai nonostante la scarsa clientela. Si dedicò alla raccolta dei rifiuti: si calò meglio il cappello e si affrettò ad afferrare un carrello di scarti della cucina mezzo pieno. Infilato lì dentro lo zaino, non vista terminò di riempirlo di immondizia celando il vero contenuto. Un lavoro umile, si disse: raccolgo l'immondizia, la smaltisco... rendo un servizio alla comunità. La quale mi ripaga con gratitudine eterna, e scansandomi come un'appestata. Nessuno si mise sulla sua strada mentre si dirigeva di buon passo verso l'uscita di servizio, il cappello in testa con la visiera calata sugli occhi. Il carrello era pesante e le impediva di procedere agevolmente, ma non ci fu bisogno di sveltire il passo. Trovò il montacarichi esattamente dov'era indicato nella pianta dell'edificio, che aveva ben impressa in mente, e scese fino al livello della manutenzione. Qui si sfilò il berretto, si sciolse i capelli e li arruffò; recuperato dal carrello dei rifiuti lo zaino, che ormai celava solo il fucile, se ne andò. Ma non prima di aver correttamente smaltito la spazzatura, e con essa i suoi travestimenti.
Consulente informatica, ascensorista, killer e spazzina. Tutto in poche ore. Forse sì, pensò mentre si avviava verso un nastro pedonale affollato. Forse il mio vero mestiere è proprio questo: sono una spazzina. Elimino i rifiuti, facendo ciò che serve ma che nessun altro vuole fare.
Un lavoro come un altro.

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