Lingering

di _Blumenonfire_
(/viewuser.php?uid=919406)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ottobre 2018 ***
Capitolo 2: *** Ottobre 2018- una settimana dopo ***
Capitolo 3: *** Giugno 2018 ***
Capitolo 4: *** Novembre 2018 ***
Capitolo 5: *** Agosto 2018 ***
Capitolo 6: *** Dicembre 2018 ***
Capitolo 7: *** Settembre 2018 ***
Capitolo 8: *** Senza data ***
Capitolo 9: *** Febbraio 2019 ***



Capitolo 1
*** Ottobre 2018 ***


Ottobre 2018

Non aveva mai davvero dimenticato la sensazione del suo corpo nudo steso contro di lei, o come la sua pelle si cospargesse di minuscoli rilievi quando veniva attraversata da un brivido di freddo o di eccitazione.
Probabilmente stavolta era un misto delle due cose, pensò mentre con un dito gli ripercorreva le costole e poi scendeva giù verso la curva della vita e fino all’osso del bacino.
Fuori il tempo era terribile, secchiate di pioggia continuavano a battere sulla finestra sopra il letto e il vento faceva tremare pericolosamente i vecchi vetri. Più di una volta aveva avuto seriamente paura che si sarebbero spaccati di colpo e che un milione di schegge taglienti le sarebbero esplose addosso conficcandosi nella carne. Ma era un’immagine che svaniva subito, spazzata via da mani che la esploravano e respiri umidi che le ustionavano il collo.
Se anche una lastra intera l’avesse trafitta, probabilmente non avrebbe percepito alcun dolore.
La stanza tutto intorno era stata inghiottita dal buio, non avrebbe saputo dire quando fosse successo. Era lì dal primo pomeriggio e a giudicare dai lampioni accesi in strada adesso saranno state almeno le sei e mezzo di sera. Avrebbe voluto ripescare il suo telefono per esserne sicura, ma l’idea di muovere un solo muscolo sembrava oltre i limiti dell’immaginazione.
Lui era girato su un fianco, il braccio piegato che gli supportava la testa, immobile come se fosse una silhouette ritagliata da un cartoncino. La poca luce che filtrava le permetteva di distinguere i tratti del suo viso, tutto un intrico di spigoli coperto di pelle chiara. Le sue pupille erano dilatate, per l’oscurità e forse per le endorfine che gli circolavano ancora nel sangue. Le sembrava che un sorriso gli incurvasse le labbra, ma non poteva esserne sicura, doveva limitarsi a sperare.
Sorridere era positivo. Sorridere voleva dire che questo andava ancora bene, qualunque cosa questo fosse.
Pensarci risvegliava una forza oscura che le stringeva il petto e le mozzava il respiro. Da lì era una caduta libera: la Cosa si ramificava in fretta dentro di lei e le avvolgeva gli organi, risalendo pian piano fino alla sua mente, là dove poteva prendere vita in voci sensuali che iniziavano a tormentarla e non la lasciavano andare più.
C’era un tempo in cui, quando lei si ritrovava avvelenata dall’interno e non poteva fare altro che rannicchiarsi e piangere, lui la teneva stretta e le lasciava scivolare parole amorevoli all’orecchio finché non riusciva a respingere la Cosa nel covo non identificabile dove si nascondeva.
Ma ora erano in un’epoca diversa e non poteva essere sicura di cosa sarebbe potuto succedere se si fosse ridotta di nuovo in quello stato. Non se la sentiva di scoprirlo.
“Fra poco devo andare” sospirò infine, insultando mentalmente gli orari dei treni e la patente che non aveva mai preso. Si sentiva così stanca, avrebbe voluto solo accoccolarsi lì e smettere di lottare contro il sonno.
Era sempre così dopo un pomeriggio del genere. Non era solo il sesso, era più il senso di conforto dello stare così vicini, chiusi nella loro bolla lontani dal resto del mondo. Non aveva ancora trovato un altro posto dove sentirsi finalmente così in pace.
Lui si tirò su a sedere e tastò il letto finché non ritrovò i suoi vestiti, lanciati prima in giro nella frenesia del momento.
“Vuoi un passaggio?” le chiese mentre si rivestiva. Ci stava mettendo un po’ perché era tutto girato nel verso sbagliato ed era troppo buio per affidarsi alla vista.
Gli rispose di no, che aveva portato un ombrello.
Le avrebbe fatto comodo il riparo di un’auto con quella tempesta, ma non era così che funzionava.
Uscire fuori rendeva troppo vero quello che succedeva in quella stanza, ed entrambi sapevano di non aver bisogno di un confronto del genere.
Se volevano che andasse tutto bene, dopo questi loro incontri dovevano separarsi in fretta e ributtarsi nella vita vera senza guardarsi indietro. Separare il loro mondo da tutto il resto era essenziale, un piccolo sforzo per assicurarsi di non creare confusione.
La confusione portava dubbi e i dubbi diventavano domande e le domande erano bastarde assassine.
Davvero, erano più felici così.
Era già alla porta, ricomposta e pronta ad andar via.
Si guardò indietro e vide che un’anta della finestra ora era aperta. Lui aveva i gomiti poggiati al davanzale e si stava accendendo una sigaretta. Le gocce di pioggia gli colpivano la faccia con violenza, ma lui non sembrava farci caso.
Inspirava ed espirava lentamente, gli occhi fissi verso il cielo denso di nuvole.
“Allora ci sentiamo” le disse senza guardarla.
Lei annuì, anche se si rendeva conto che lui non poteva vederla. Senza aggiungere nulla, tirò giù la maniglia e lasciò la stanza.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Ottobre 2018- una settimana dopo ***



Ottobre 2018- una settimana dopo

I residui di caffè si univano in figure contorte sul fondo della tazzina e lei le stava studiando come se fossero una finestra su un altro universo misterioso e tremendamente invitante.
Aveva sprecato gli ultimi venti minuti così, mentre il manuale da cui avrebbe dovuto studiare se ne stava dimenticato sul tavolo, con pagina sette che la giudicava silenziosamente.
Il resto della caffetteria era quasi vuota e tranquilla, eccetto il tintinnio delle stoviglie e l’occasionale scampanellio della porta d’ingresso. Si era scelta un angolo appartato, semi-nascosto da una grossa pianta da interni che dava davvero l’impressione di ossigenare l’ambiente.
Dato l’andazzo avrebbe potuto pagare e tornarsene a casa, ma qui il tempo sembrava scorrere più lentamente, con una pigrizia e una mancanza di giudizio che le regalava l’opportunità perfetta per lasciarsi affondare nelle fantasie.
Lo schermo del telefono si illuminò per un istante, ma non si scomodò per controllare le notifiche. Sapeva già che erano messaggi dal Matteo che aveva visto la sera prima e che da allora stava sistematicamente evitando.
Non che le avesse fatto qualcosa o fosse tanto peggio degli altri. L’aveva conosciuto su una di quelle app di incontri che tutti dicevano di scaricare tanto per noia, un ragazzo un paio di anni più grande, che studiava Ingegneria e suonava il basso in una band e aveva un pastore tedesco. Abbastanza simpatico da non sembrare molesto, l’aveva convinta ad andare a cena con lui in questa paninoteca che serviva hamburger gourmet dai nomi assurdi e costosa birra artigianale.
Alle dieci e quindici, tre drink e un Fiore del deserto dopo, si erano ritrovati in macchina al parcheggio deserto di un discount, protetti dall’oscurità e dalla desolazione della provincia.
Non avrebbe saputo dire come fosse andata la cena o di cosa avessero parlato o se lo avesse particolarmente odiato, tutto si confondeva in un’unica pozza fangosa di istanti, troppo astratti per essere focalizzati e riordinati in un quadro logico. Avrebbe voluto dire che era per colpa dell’alcol, ma la verità era che le importava così poco da non aver fatto caso a cosa le succedesse.
Si erano baciati a lungo e lui le aveva lasciato scivolare due dita fra le gambe, con una certa distaccata dimestichezza. Probabilmente era stato bello, ma era difficile dirlo con certezza.
Erano tutte uguali serate del genere, identiche sessioni di esperienze perfettamente interscambiabili fra di loro.
In fondo non è che lo facesse per piacere o perché non avesse nulla di meglio da fare. Era un puro portare a spasso il proprio corpo, un gesto abitudinario come cambiare le lenzuola almeno una volta al mese.
Faceva bene divertirsi un po’, vedere gente nuova, o almeno questo era quello che le avevano detto. Nelle ore e ore di conversazioni fra amiche su cose che succedono o che si vorrebbe succedessero o che avrebbero fatto succedere, almeno in questo modo poteva aggiungere anche lei la sua buona dose di racconti. Poteva parlare di tutti i suoi Matteo senza abbassare lo sguardo nemmeno una volta, perché questo era socialmente accettato.
E poi c’era il resto, che custodiva gelosamente lontano da tutti. Le giornate nella stanza dalle pareti blu erano il suo sporco e delizioso segreto, a cui non poteva pensare senza sorridere un po’ nervosamente.
Sapeva che non poteva andare avanti per molto, la sua storia perfetta nell’altro mondo.
Per questo si impegnava a nutrire la se stessa che lasciava a casa quando prendeva il treno per andare da lui, quella che studiava all’università e usciva con i ragazzi e si occupava del suo futuro. Per quanto avrebbe desiderato poter scegliere, sapeva che era quella lì la persona con cui avrebbe dovuto convivere per il resto dei suoi giorni, non l’altra creatura eterea che era capace di sentire in modo così intenso.
Tutta l’invidia del mondo non sarebbe bastata per renderla per sempre come lei, per quanto potesse illudersi sapeva che non dipendeva affatto dalla sua volontà.
Fra le sue notifiche c’era anche un suo messaggio. Un semplice “Vieni stasera?”, ricevuto tre ore prima.
Era consapevole di quanto fosse assurdo mandare avanti quella bugia, che non sarebbe mai potuta crescere se non avesse lasciato andare.
Sul serio, glielo avevano ripetuto talmente tante volte che non poteva in nessun modo non saperlo.
E ci provava a far finta di niente, a concentrarsi sull’esistere nella realtà che le sarebbe rimasta in eredità a breve, lontana dalle illusioni che la stavano distruggendo e medicando allo stesso tempo.
Eppure non poteva fare niente contro la nostalgia di ciò che era, di ciò che per poche centinaia di minuti poteva far finta di tornare ad essere.
Mettersi un bel vestito, un filo di rossetto, un sorriso splendente.
Che differenza c’era fra una farsa e l’altra? Solo il modo in cui si sentiva riempita fino all’ultimo interstizio dell’anima quando erano insieme, si rispose da sola.
Prese al volo la sua borsa colpevole di dove sarebbe andata una volta uscita da lì.
Lanciò un’ultima occhiata ai granelli scuri sulla porcellana della tazza. Si chiese come fare per saltarci dentro e semplicemente sparire.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Giugno 2018 ***


Giugno 2018

La rendeva orgogliosa il modo in cui lo vedeva sorridere quando erano insieme, pensare di essere l’unica al mondo a renderlo così, che da nessun altra parte si sarebbe potuto sentire allo stesso modo.
Sapeva anche se si sarebbe dovuta vergognare di questo egoismo, che era una concezione distorta del volere, ma da quando aveva iniziato ad amarlo la moralità era diventata poco meno di una bella idea che se ne sta nell’Iperuranio, lontana anni luce dal suo interesse. E le piaceva assaporare quella libertà da tutte le costruzioni sociali e le piccole regole autoimposte che le avevano permesso di rimanere una persona decente fino ad allora. Da quando si era immersa in quella storia, ed era scesa giù e giù sempre più in profondità, là dove non arrivavano né la luce del sole né il sillabare della propria coscienza, tutti gli altri avevano smesso di avere peso, si erano trasformati in ricordi sbiaditi di un’esistenza precedente. Irrilevanti, perché lo Straniero che aveva incontrato alla fermata dell’autobus dominava ora indiscusso tutta la sfera del suo desiderio, senza lasciare nemmeno un briciolo di ossigeno per tornare in superficie.
Ma paradossalmente le piaceva sentirsi soffocata a quel modo, ristretta in uno spazio cosmico in cui c’era posto solo per loro due. Null’altro poteva insinuarsi lì, nulla poteva danneggiare il loro delicato equilibrio. La bolla isolante diventava una casa, densissima di felicità allo stato più puro che avesse mai potuto assaggiare. Non avrebbe permesso a nessuno di squarciare l’involucro e riportarla sulla terra ferma, là dove i soprusi del mondo la minacciavano ogni istante di vivisezionarla a piacimento e tenerla lì cosciente a contorcersi sotto il freddo del bisturi e il pizzicore degli aghi.
Era un altro pomeriggio (non sapeva di che giorno perché il tempo, insieme al resto, aveva smesso di essere una variabile) e sul letto perennemente sfatto i raggi del sole le cullavano dolcemente la pelle nuda, bollente per il caldo e per l’euforia. Non un solo rumore popolava il mondo se non le loro voci, squillanti note gioiose che più che in parole di senso compiuto si articolavano in risate e venivano mangiate dai loro baci.
Un momento talmente puro da sembrare finto, eppure era solo uno di tanti che avevano già condiviso insieme, attimi in cui non avrebbero voluto essere da nessun’altra parte al mondo.
Mentre lei lo guardava contarle i nei sulla pancia e ricontarli con la punta della lingua per farle il solletico, perché diceva che l’avrebbe uccisa facendole esplodere il cuore, si chiedeva se lui fosse consapevole di essere in trappola. Sapeva, nello stesso modo doloroso in cui lo sapeva lei, che quello che avevano avrebbe reso per contrasto tutto il resto insignificante? Poteva mai aver capito di essere ormai condannato ad un’esistenza in cui non sarebbe mai stato in pace se non accanto a lei?
E di nuovo lei sentiva di essere colpevole, di averlo manipolato e indotto ad amarla in modo così vulnerabile, tanto da tagliar via ogni ponte.
Perché lui era unico e incredibile e di una sensibilità tutta sua, ma era troppo ingenuo per vedere altro al di là dello star bene. Invece lei, anche se salva dall’annientamento finché rimaneva nella bolla sul fondale marino, non poteva impedirsi di spargere la catastrofe tutto intorno a sé, anche in ciò che più amava.
Quindi subito la visione dei suoi occhi scintillanti di affetto si deformava e veniva sostituita dalla cupa premonizione di quando quelle stesse iridi sarebbero state iniettate di odio nei suoi confronti.
“Come hai potuto farmi questo” parole talmente inevitabili nel domani che riusciva già a sentirle adesso, mischiate ai “Ti adoro” mormorati nell’incavo della spalla.
Avrebbe dovuto fermarlo lì e svelargli la farsa, togliersi le vesti di sirena per mostrare la sua vera forma di mostro subacqueo, che ammanta e uccide lentamente i poveri marinai alla deriva.
Ma appunto da due mesi a questa parte, assieme all’amarezza era scivolato via anche il suo senso del dovere e ci aveva già preso così tanto gusto nell’avere ciò che voleva che riusciva ormai a zittire la tendenza ad essere una persona migliore.
Tutto ciò a cui riusciva a pensare, durante quell’estate sospesa in un’era inesistente, era che avrebbe prolungato quella pace per sempre o sarebbe morta provandoci.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Novembre 2018 ***


Novembre 2018

Non era normale ciò che stavano facendo. Una parte di lei continuava a ripeterle quanto fosse patetico e sbagliato il modo in cui si stringevano le mani sopra il bracciolo che divideva le loro poltroncine.
Se avesse guardato un po’ a sinistra l’avrebbe fisicamente vista, la Se Stessa che la odiava tanto. Se ne stava lì a guardarla senza proferir parola (non ne aveva certo bisogno, in fondo era sempre un abitante della sua mente), bella come il Diavolo con le sue gambe elegantemente accavallate e le sue labbra dipinte di cremisi.
Per tanto tempo aveva desiderato essere esattamente così: misteriosa e sensuale e irresistibile.
Immaginava di navigare la vita con grazia e arguzia, di essere una glaciale dominatrice che dispensava in egual misura carezze e veleno, per disporre a suo piacimento le pedine ed entrare in scena solo quando c’era da fare scacco matto.
Ma i tentativi che aveva messo in atto per vivere il suo sogno da femme fatale erano risultati più ridicoli che altro, come una bambina che gioca con i tacchi della mamma per sentirsi grande.
Forse nella vita vera non esistevano personaggi del genere, forse quella che rischiava di farle venire un attacco di panico lì nel buio del cinema era solo il prodotto di tutte le donne nei film scritti da uomini, che più che un’incarnazione di forza sono il fantoccio di ciò che gli uomini stessi  hanno paura di desiderare.
Fatto sta che la sua Marla poco approvava il fatto che avesse accettato di venire con lui a guardare quella commedia dozzinale, che chiaramente era più che altro una scusa per sedere vicini a respirare la stessa aria stantia e polverosa.
Era successo per caso, davvero. Si erano incontrati in centro e si erano salutati amichevolmente facendo finta di non essersi ignorati nell’ultimo mese, poi aveva cominciato a calare il sole e si erano ritrovati a leggere le locandine sbiadite di quel piccolo cinema che puzzava di popcorn bruciati.
Non sapeva spiegarsi come fosse nato quel silenzio, che era stato il più lungo che fosse mai durato tra loro, ma in quelle settimane aveva dovuto riscoprire come ci si sentisse ad essere costantemente radicati al suolo e, nonostante le ore di viscerale autoanalisi, non era riuscita a capire come questo la facesse sentire.
Era abituata all’instabilità, perché in fondo era quella la vera linfa del loro accordo (la fragile beatitudine, la traballante eccitazione del dubbio), ma il gelido stallo in cui si erano ritrovati senza preavviso non poteva che alimentare un’ansia tormentante, che più di una volta durante la giornata la obbligava a fermare quello che stava facendo per ricordarsi come si facesse a inspirare ed espirare.
Cos’erano loro due? Cosa stava facendo a se stessa? Che senso aveva?
Le risposte a queste domande, per cui di solito bastava il surrogato del loro distrarsi a vicenda, ora graffiavano dentro di lei pretendendo di essere cercate. Ma più tentava di sciogliere i nodi della verità, meno riusciva ad ottenere qualcosa, perché non faceva che ingarbugliarsi nella complessa impalcatura delle menzogne.
Se all’inizio era solo un trucchetto per vivere un po’ di più, ora la farsa era diventata così elaborata che non riusciva più a distinguere il vero dal falso, ciò che davvero provava da ciò che credeva di dover provare e ancora da ciò che raccontava a se stessa e al mondo di provare.
Strati e strati di costumi, un intricato gioco di storie che rimandavano ognuna a qualcos’altro, senza un filo rosso da poter seguire, sotto il quale, temeva, non avrebbe trovato niente.
Mentre passavano le settimane e sprofondava centimetro per centimetro in questa messa a nudo, diventava sempre più difficile prendere il telefono per chiamarlo, o anche solo pensare a lui alla stessa maniera spensierata di quando fantasticava guardando fuori dalla finestra.
Ma nonostante barcollasse sull’orlo dell’Ignoto, spaventata dalla possibilità di vivere in un mondo fatto di carta velina, non era crollata in briciole come si sarebbe immaginata. Alla fine di quel mese e mezzo, contro ogni aspettativa, era ancora lì ad esistere, in fin dei conti, non troppo peggio della normalità. Forse con meno innocenza, ma comunque integra. E questa resilienza, davvero, sarebbe stata una delle più importanti scoperte che avrebbe mai fatto su se stessa.
Ma là dove non ci si ferisce da soli, arriva il caso ad affondare il coltello. E spesso i suoi sicari sono così seducenti che è impossibile dire di no.
Era bastato poco per ritornare ad essere l’altra Sé, quella che nelle ultime settimane aveva imparato a riconoscere per ciò che era, nulla di più di una fantasia distruttiva. Credeva sul serio di poter difendere questa scoperta davanti alla tentazione di lasciarsi trascinare lontano, ma nell’esatto momento in cui si erano visti sapeva già di aver perso, che non avrebbe mai desiderato nulla più intensamente del ricadere nei suoi vizi. In fondo è improbabile resistere di fronte ad una dose della propria droga preferita, quando ti viene offerta su un vassoio d’argento ed è così ridicolmente facile dire sì.
Con lui era sempre stato così semplice accettare e seguirlo ovunque volesse. Se l’avesse raccontato ad alta voce, l’avrebbero guardata con sospetto e forse con un pizzico di pietà, spiegandole che è sbagliato farsi manipolare in questa maniera. I poveri illusi non sapevano che non aveva bisogno di nessuna pressione per buttarsi a capofitto, che di sua spontanea volontà si scorticava i gomiti e il viso, che era quel dolore l’unica cosa in grado di farla sentire una persona in carne e ossa.
Le sue dita ora le accarezzavano il polso mentre uscivano dalla sala commentando allegramente il film che non avevano davvero guardato e sotto la pelle pulsava sangue caldo ed elettrico.
Avrebbe dovuto andare a casa, chiuderla lì prima di perdere il controllo. Anche se sembrava tutto come prima, con le loro battute e la loro sigaretta smezzata e la loro incapacità di non toccarsi almeno un po’, sapeva che era solo un’altra illusione della sua mente marcia per sradicarla dal suolo. Un’altra dose che la avvicinava di un passo al fondo, che forse aveva già toccato dal momento in cui si erano guardati per la prima volta.
Le obiezioni morirono lentamente, soffocate dal familiare odore dei sediolini della sua auto, dal modo in cui i suoi capelli si arricciavano sulla nuca per colpa dell’umidità, dall’esatta morbidità delle sue labbra premute sulle proprie.
Ancora una volta, aveva dimenticato che esistesse un giusto e uno sbagliato, da qualche parte là fuori, e aveva dimenticato che gliene fosse mai importato qualcosa.
Dallo specchietto retrovisore appannato, Marla la fissava scultorea, una singola lacrima che le solcava la guancia. Avrebbe chiuso gli occhi per non vederla più.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Agosto 2018 ***


Agosto 2018

La cena nel piatto era ormai fredda e i pezzi di arrosto erano diventati un’unica poltiglia spalmata sulla ceramica candida, come il fango di un campo di battaglia. Se ci fosse stata sua mamma l’avrebbe sicuramente sgridata dicendole che era uno spreco di cibo, oltre che una vera cafonata in un posto elegante come quello. Perché diamine si fosse trovata a mangiare lì, lei che era tanto incapace di maniere graziose, non ne aveva la più pallida idea, ma ora non poteva che irritarsi per i tovaglioli di cotone bianco e il vino troppo costoso.
Era difficile concentrarsi su qualcosa o anche solo visualizzare un oggetto qualunque con cui tentare. Erano tutti così, quegli ultimi giorni: una serie infinta di nubi evanescenti, che attraversava trascinata dalla corrente, senza vedere nulla. Si disse che avrebbe ritrovato uno spiraglio di luce, prima o poi, che era quello che succedeva sempre.
“Non sei sola” le ripeteva continuamente lui quando scorgeva il nulla dietro le sue pupille. Non riusciva a credergli molto, ma non le spiaceva cullarsi in quell’idea.
Lui era seduto di fronte e teneva fra due dita lo stelo del calice, facendo ondeggiare distrattamente il liquido porpora all’interno. Le stava chiedendo che dolce volesse prendere e, data l’espressione strana sul suo viso, non doveva essere la prima volta che le rivolgeva quella domanda. Lei alzò le spalle in un gesto indefinito, mentre dentro di sé tentava di tenere a bada l’improvvisa agitazione che le faceva venir voglia di grattarsi la pelle fino a farla scorticare e sanguinare.
Si chiese se anche qualcun altro intorno stesse provando la stessa cosa, lo stesso lento e inesorabile panico di star perdendo il controllo, e invidiò la loro capacità di dissimulazione.
Chissà se lui invece si era reso conto che non aveva toccato cibo e che aveva a malapena pronunciato una parola, pensò con una punta di amarezza, e se il suo costante allungarsi sulla superficie sul tavolo nel mezzo di un discorso per sfiorarle il dorso della mano avesse una qualche intenzionalità o fosse un vuoto meccanicismo.
Si rigirava nella mente quel dubbio, fino a deformarlo e renderlo vuoto e grottesco, tanto da rendere irreale tutto ciò che ruotava intorno a lei: le luci soffuse della sala, il chiacchiericcio dei tavoli, la ruvidezza della tovaglia sotto i polpastrelli.
“Stai bene?” le aveva chiesto lui. Lo guardò e lo vide sinceramente preoccupato, tanto che quasi si sentì in colpa per la rabbia inspiegabile che provava verso di lui.
Odiava la sua calma, odiava la sua perfetta sensibilità, odiava la luce che irradiava ovunque andasse e più di tutto odiava come tutto ciò la facesse sentire bene, quanto sentisse di averne bisogno.
All’improvviso l’immagine di lui sembrò sdoppiarsi e i suoi contorni dissolversi nell’ambiente circostante, come se fosse una macchia che si scioglie sotto l’acqua, nulla di più di un’elaborata allucinazione della sua mente deteriorata, che per la prima volta spariva e le mostrava al suo posto un estraneo che per qualche motivo l’aveva raccolta e ora se ne stava lì, a ripeterle il suo nome a bassa voce ma con crescente insistenza.
La nausea la soffocò e si dovette piegare in due sulla sedia per proteggersi dalla cappa che si stringeva su di lei da tutte le direzioni. Lui ora aveva una mano sulla sua spalla e continuava a produrre suoni incomprensibili.
Avrebbe voluto chiedergli chi fosse e che ci facesse lì, cosa volesse da lei che non aveva nulla da offrire al mondo, ma non riuscì a verbalizzare una singola sillaba. Si irritò ancora di più perché lui non riusciva a guardarla e capire e se ne stava lì con la sua premura e il suo affetto come se fossero la cura miracolosa ad ogni male.
Avrebbe voluto scuoterlo e urlargli in faccia di smetterla con i teatrini e scoprirla per cos’era davvero.
Oh, quanto avrebbe desiderato che le facesse del male, che le sputasse in faccia tutto il veleno che di sicuro serbava da mesi dentro di sé. Avrebbe provato un immenso piacere ad essere tagliata in due da lui, per mostrarsi nuda e inerme sotto il suo sguardo gelido.
Forse era questo ciò di cui aveva bisogno, ciò che avrebbe rimesso a posto i pezzi sparsi del suo io una volta per tutte. L’amore l’aveva sempre resa insicura e traballante, l’odio invece lo capiva talmente a fondo da averne fatto il centro del proprio universo.
E cosa sarebbe stato meglio di essere disprezzata da colui che collocava più in alto in assoluto, là fra le costellazioni di un firmamento purissimo?
Avrebbe desiderato che comprendesse questo suo bisogno viscerale di tortura, avrebbe potuto impegnarsi a trovare le parole giuste per spiegarglielo. Si immaginò di aprire il dizionario e segnare su una pagina immacolata tutti i vocaboli che le sarebbero sembrati utili.
Alienazione. Sublimazione. Controllo.
Le avrebbe incastrate come gemme fra congiunzioni e pronomi e avrebbe fabbricato una tesi intaccabile, talmente sgorgante di emozione che lui non avrebbe potuto protestare facendo appello alla propria moralità, anzi l’avrebbe visto come un santo dovere, una naturale conseguenza del suo amore.
Pensò a tutto questo e avrebbe voluto dirglielo, iniziare a parlare e non fermarsi mai più.
Stava per schiudere le labbra per iniziare, ma l’oblio fu più svelto e la trascinò giù con sé.
Quando riaprì gli occhi erano già in un’altra dimensione, spogliata e rannicchiata sotto delle lenzuola fresche che sapevano di bucato. Appena riconobbe la stanza, girò la testa e distinse la figura di lui seduto alla sua destra, ancora in camicia e jeans, con una sigaretta mezza fumata fra le dita. Sul davanzale della finestra il posacenere era pieno di mozziconi e da alcuni si librava ancora un sottile fumo grigio, che saliva e saliva in volte sinuose e poi spariva fuori dalla finestra nella calura della notte estiva.
Anche se non aveva fatto nessun rumore, lui si accorse subito che era vigile e si affrettò a spegnere la sigaretta. Si girò e rimasero per un attimo lì immobili, a guardarsi nel buio, come se cercassero di catturare qualcosa oltre la superficie di un dipinto.
Lei aprì la bocca, ancora memore dei suoi progetti, ma le argomentazione si spensero una ad una e rimase senza luce alcuna. Riuscì solo a sibilare un impercettibile “ti amo”.
Senza dare una risposta, lui le scostò dalla fronte una ciocca di capelli appiccicata di sudore, poi si alzò e venne inghiottito in qualche punto dal buio della notte.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Dicembre 2018 ***


Dicembre 2018

I cubetti di ghiaccio galleggiavano inerti nell’ultimo sorso di vodka lemon, pronti a sciogliersi in acqua e sparire per sempre. Passò il bicchiere all’altra mano, perché quella di prima era arrossata per il contatto con il vetro gelido, poi si diresse a piccoli passi verso un tavolo popolato di bottiglie di tutte le forme e colori.
Pensò che non le andava davvero un altro drink, ma voleva tenersi occupata in qualche modo per non far vedere quanto fosse impacciata fra tutta quella gente. Mischiò un paio di liquidi un po’ a caso e se ne tornò al suo angolo accanto alla finestra con l’intruglio aranciato stretto al petto.
L’appartamento era al quarto piano e guardando fuori si poteva vedere la distesa di palazzi della città, puntellati di luci che si sfocavano verso l’orizzonte per poi perdersi del tutto nella nebbia. Anche se sapeva che dietro quelle facciate mute c’erano decine e decine di persone riunite per festeggiare la fine dell’anno, aveva l’impressione che il mondo fosse totalmente deserto, come se l’intera umanità si fosse trasferita all’improvviso su un altro pianeta e l’avesse dimenticata lì sulla Terra insieme a quegli altri intorno a lei.
Sul marciapiede di fronte vide passare un gruppo di ragazzi che sembravano urlare e ridere fra di loro esuberanti e, anche se non poteva esserne certa da lassù, capì che non potevano avere più di sedici anni. Provò un moto di invidia per la spensieratezza con cui camminavano, incuranti del freddo e probabilmente senza una reale meta, e pensò che anche lei avrebbe dovuto passare così l’ultimo dell’anno, a farsi trascinare dall’atmosfera di attesa che impregna le strade, invece di rinchiudersi fra quattro mura a far finta di avere qualcosa da condividere con il resto della gente.
Lanciò un’occhiata alle sue spalle e li vide, raggruppati in capannelli più o meno coesi, che chiacchieravano e bevevano e ballavano sparsi per la sala. In realtà a guardarli bene c’era qualcosa di strano, una sensazione di comune discontinuità, come se ognuna di quelle persone appartenesse a un universo totalmente estraneo e incompatibile con quelli degli altri, e fossero lì presenti a interagire cordialmente solo con il corpo e non con la mente.
Sulla parete di fronte c’era un vecchio divano di ciniglia rossa e all’estremità destra se ne stava seduta Alice, accanto a lei un ragazzo in camicia bianca che si avvicinava a lei ogni minuto di più. Stava per farle un cenno ma poi pensò che non l’avrebbe nemmeno notata, impegnata com’era ad arricciarsi i capelli sull’indice e inarcare le labbra in un sorriso avvenente. Era stata lei a chiamarla due giorni prima per invitarla a quella festa a casa di uno di Scienze Politiche che era amico di un amico di qualcuno, con quel suo tono squillante che faceva sembrare qualunque cosa un’avventura incredibile. Era stata lì lì per dirle di no, ma tutto d’un tratto il suo piano originario di festeggiare la fine dell’anno da sola a casa la depresse incredibilmente. Al massimo se ne sarebbe pentita, pensò, ma non sarebbe stato tanto peggio del solito.
Guardò l’orario sul telefono: le undici passate.
Fra poco meno di un’ora tutti si sarebbero uniti in un’unica massa e avrebbero iniziato a contare i minuti e poi i secondi fino allo scoccare della mezzanotte. Avrebbero iniziato il 2019 fra baci, abbracci e fiumi di prosecco.
Guardandosi intorno già si iniziava a percepire un certo tremolio di eccitazione, mentre molti chiedevano ossessivamente che ore fossero e ancora di più cercavano di abbordare qualcuno da tenersi stretto nelle prime ore del nuovo giorno.
Si chiese se avesse dei propositi per quell’anno, un qualche obiettivo a cui mirare da lì al prossimo dicembre. Si ritrovò con la testa vuota e per quanto si sforzasse di cercare non riuscì a trovare una sola cosa che desiderava accadesse nei successivi dodici mesi. Le sembrava che se anche le fosse capitata la peggiore delle disgrazie o il più incredibile miracolo, non sarebbe riuscita a raccoglierli con nulla se non un’indifferente osservazione.
Da settimane ormai sentiva la vita scivolarle addosso, come se fosse fatta di una materia aliena che rigetta gli elementi terrestri. Continuava a dormire, mangiare, studiare, leggere, passeggiare, non una virgola era cambiata nella sua routine, ma si era fatta sempre più definita la sensazione che non fosse davvero lei a compiere quei gesti, o meglio che la sua vera essenza non fosse più incollata al suo corpo. Non era una certo una novità, già da tempo era in grado di guardarsi fare azioni quotidiane come si guarda un concorrente di un reality show, con quell’apatico tono giudicante, in attesa che succeda qualcosa di abbastanza importante da meritare attenzione.
Il vero cambiamento, oltre che nell’intensità di questo stato, stava nel fatto che non le interessava più farci qualcosa. Se prima perdeva il sonno per capire come far sì che almeno un po’ di realtà le si appiccicasse sulla pelle, convinta che una grande svolta degli eventi avrebbe permesso il ricongiungimento di tutte le sue parti in un unico Io, ora aveva deciso che non se ne sarebbe preoccupata e che se davvero non aveva potere su se stessa, tanto valeva non sprecare energie.
Anche la sua più dolce consolazione aveva assunto alla fine un retrogusto amaro.
Quella sera, dopo il cinema, per la prima volta dopo molto tempo si era sentita piena di speranza verso il futuro e quasi si sentiva intimorita dal moto di positività che le sgorgava spontaneo da dentro.
Per un po’ aveva dipinto i suoi giorni di una luce pura e la sua mente di una linfa che la faceva sentire rinata, senza un singolo peccato e piena di curiosità per la vita.
Inaspettatamente si rese conto di sentirsi autenticamente felice, nel senso che non doveva fermarsi a pensarci su e che le sembrava un’assurdità tentare di spiegarlo a parole. E ogni volta che si vedevano quest’emozione si rigenerava e amplificava e con un effetto alone abbracciava tutte le persone che incrociava, dalla sua famiglia agli sconosciuti alla stazione dei treni.
Come due innamorati ai primi appuntamenti, passeggiavano per la città, gettando a destra e a manca i loro pensieri, incapaci di trattenere qualcosa dentro di sé, tanto che sembrava che i loro confini personali si fossero dissolti nel vento, lasciandoli liberi di unirsi in una forma unica senza inizio né fine.
Un pomeriggio di fine novembre in cui il sole splendeva in modo anomalo, si erano ritrovati distesi in una zona deserta del parco, a guardare il cielo e ascoltarsi respirare piano.
“Vorrei rimanere per sempre qui” le aveva detto lui. Lei gli aveva risposto con un sorriso che sarebbero morti congelati. Ricordava perfettamente il modo in cui lui si era voltato per fissarla con tenerezza, l’esatta tonalità di verde che avevano i suoi occhi in quell’istante e l’ampiezza di dilatazione delle sue pupille.
“Nel senso che vorrei rimanere in questo momento, con te”
Lei credeva che così però si sarebbero persi tutta una vita insieme e che, se lo volevano, ogni istante insieme sarebbe potuto essere uno da cui non si vuole andar via. Glielo disse ad alta voce e lui le diede ragione.
“Ma almeno niente potrebbe andar storto” aveva aggiunto tornando a guardare le nuvole. Erano rimasti in silenzio come se nulla fosse.
Ciò di cui non si rendeva conto, mentre credeva di aver finalmente trovato la chiave a tutti i suoi mali, e che proporzionalmente alla sua apparente gioia cresceva la distanza con la vera sé, che a sua insaputa la attendeva acquattate in un angolo.
Quella che era con lui, ancora un volta, era solo un’altra proiezione, e per quanto fosse convinta di essere davvero cambiata, di poter dire addio a tutto il dolore che l’aveva definita in passato, non era altro che un dolce sogno da cui ben presto si sarebbe svegliata.
Era una ruota della morte da cui non poteva scappare.
Iniziò con i mal di testa, lancinanti fitte come se le inchiodassero il cranio, che la bloccavano giorni interi a letto con le tapparelle abbassate. E proprio lì, direttamente dall’oscurità, erano riemersi i suoi cari vecchi compagni di vita: l’angoscia che la strangolava e la faceva tremare da testa a piedi, la pesante coltre di tristezza che la schiacciava fra le coperte, la frenesia febbricitante di pensieri che le ripetevano cose orribili su di sé.
Non riusciva a fare niente: né leggere, né mangiare, né dormire.
La sua esistenza l’aveva messa in carcere e le sue due uniche alternative erano accettare il suo destino o tentare la via estrema della fuga. Peccato che Dio non le avesse regalato nemmeno un briciolo di coraggio e che non potesse fabbricarselo artificialmente, come tutte le sue altre finte qualità.
Lui si era preoccupato, come si preoccupava sempre, ma quando era riuscito a raggiungerla il caos dentro di lei si era già appiattito in una sorda apatia, lasciandola svuotata di tutto. A quel punto aveva capito che sarebbe stato inutile provare a farsi aiutare, che era arrivata l’ora di abbandonarsi al nulla e ricominciare da zero.
Le serviva una cancellazione che mettesse fine della storia.
Una mano sulla spalla la fece sobbalzare. Alice le stava urlando che mancava un minuto alla mezzanotte e contemporaneamente la stava trascinando al centro del salotto in mezzo a tutti. Le cacciarono in mano un bicchiere già pieno di spumante mentre già iniziava il coro del countdown.
“Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno…”
Il nuovo anno esplose intorno a lei e la tramortì con la forza di un uragano. Bevve d’un fiato il prosecco e subito gliene offrirono altro. Distribuì auguri a destra e a manca e si lasciò trascinare almeno in superficie dall’entusiasmo generale, sorridendo a vuoto e accettando baci umidi e strette sui fianchi.
Il telefono le vibrò e nonostante il tumulto riuscì a decifrare le parole che ballavano sullo schermo.
Buon anno. Ti penso sempre.
Nel cielo fuori apparvero colorati fuochi d’artificio, che per quella notte avrebbero sostituito le stelle.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Settembre 2018 ***


Settembre 2018

Forse era meglio così, continuava a ripetersi silenziosamente mentre metteva un piede davanti all’altro sul marciapiede umido di pioggia. Teneva lo sguardo basso e osservava le macchie di fango e le foglie rinsecchite, cercando di trovare un senso nelle loro forme che la tenesse ancorata al suolo e non la facesse volare via.
Calcolò che ci avrebbe messo dieci minuti ad arrivare in stazione, a passo veloce sarebbe riuscita a saltare sul treno delle 17:45 e, se fosse stata fortunata, ad abbandonarsi nel conforto di un sedile libero.
Intorno a lei percepiva vagamente il rumore di tante scarpe, ma i proprietari le sembravano quasi evanescenti, come se fossero ombre che si erano divertite a rubare i vestiti agli umani e ora vagavano per le strade in questa nuova forma ibrida.
“Forse è meglio così” le aveva detto lui, guardandola dritto in faccia. Sembrava genuinamente a pezzi, con profondi solchi sotto agli occhi e la pelle grigiastra e cadente, e si chiese se l’avesse mai visto altre volte in quello stato, senza poi aver fatto nulla.
Non aveva risposto né a quella affermazione né a quelle precedenti, limitandosi ad annuire quando le veniva chiesto se capisse cosa intendeva. In realtà non capiva davvero, era avvolta in una bolla che distorceva le informazioni intorno a sé e la rendeva inerte e passiva. All’improvviso le era venuto un sonno mortale, tanto che avrebbe voluto pregarlo di parlarne un’altra volta e lasciarla dormire per un po’. Avrebbero potuto stendersi giù e riposare insieme, pensò che anche lui sembrava molto stanco e che forse un paio d’ore di incoscienza avrebbero spazzato via tutta l’amarezza. S’immaginò che si sarebbero risvegliati all’unisono, come in risposta ad un tacito segnale, e sarebbero rimasti immobili a mettersi a fuoco a vicenda mentre uscivano dal torpore. Poi le avrebbe sorriso e le avrebbe chiesto se le andava un caffè, lei avrebbe risposto di sì come al solito ma alla fine sarebbero rimasti lì, incapaci di alzarsi, a bearsi della magia dello stare così vicini a condividere il silenzio.
Calpestò un alone scuro che le ricordava la faccia di una fata, contornata di ali, e le venne in mente che di solito era un gioco che si faceva con le nuvole, quello di ricercare cose che non esistono. Lo scricchiolio del fogliame la accompagnava come il ticchettio di un orologio e scandiva un tempo che le scivolava inesorabilmente fra le dita. Accelerò il passo mentre nuove gocce di pioggia cominciarono a colpirla.
“Sai che ti voglio bene, vero?” aveva allungato le dita per farle una carezza, ma le aveva subito ritirate come se avesse toccato il fuoco “Ma così non ce la faccio”
Fiumi e fiumi di parole che si intrecciavano e perdevano significato, riecheggiavano in lei come suoni di un mondo alieno. Non riusciva a provare dolore né rabbia né delusione e proprio questa grande assenza la rendeva inquieta.
Ora che il peggio era accaduto, cosa avrebbe dovuto aspettarsi?
Avrebbe voluto sentire una qualunque scintilla dentro di sé, qualcosa che le accertasse di essere ancora viva e non già in un girone dell’Inferno, dove avrebbe espiato i suoi peccati camminando in una città di carta pesta per il resto dell’eternità.
“Allora a presto” si era lasciata avvolgere in un veloce abbraccio sulla soglia di casa sua. Un arrivederci che aveva il sapore dell’incertezza, più potente e destabilizzante di quanto sarebbe mai stato qualunque addio.
La familiare voce metallica gracchiò dagli altoparlanti di non avvicinarsi alla linea gialla e solo allora si rese conto di essersi teletrasportata al binario giusto, in mezzo alla ressa di fantocci senza faccia e senza nome.
La vita di tutti i giorni, con i suoi ritmi e le sue strutture, andava avanti senza curarsi dei dilemmi dei suoi individui, trascinandoli in un moto perpetuo e continuando ad illuderli di avere un qualche controllo sul proprio destino.
Tic tac tic tac fino alla fine del tempo, in un punto lontano anni luce dalla fine del suo corruttibile e imperfetto corpo di essere umano.
Alzò gli occhi al cielo mentre il treno si fermava e tutti si affrettavano ad accalcarsi alle porte e scoprì il grigio omogeneo del cielo, che non dava spazio alle interpretazione.
Tic tac tic tac finché non avrebbe sentito più nessun rumore e sarebbe caduta nell’oblio.
Chissà se tutta quella gente si rendeva conto di star passando accanto ad un fantasma.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Senza data ***


Senza data

Niente da dirci.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Febbraio 2019 ***


Febbraio 2019

“Per essere un ristorante così costoso potrebbero permettersi un gin un po’ meno di merda” alla sua sinistra lo vide appoggiare i gomiti al parapetto e bere un sorso da un bicchiere, senza guardarla. Aveva i capelli un po’ più lunghi e una camicia blu che non gli aveva mai visto addosso.
“Ancora non so che ci faccio alla festa di laurea dei gemelli ricchi” gli rispose.
“Beh, sembra il ricevimento di un matrimonio. Secondo te in quanti siamo?”
“Claudia mi ha detto che hanno invitato cinquecento persone. Non so manco come facciano a conoscerle cinquecento persone”
“Saranno amici del padre, quello conosce tutti”
“E sempre papi gli avrà già fatto pulire il posto in ufficio alla Mercedes”
Lo sentì ridere, una risata singhiozzante che le fece pensare al rumore di perline che cadono su un pavimento di marmo.
“Non fare finta di essere invidiosa, non ci andresti mai a lavorare alla Mercedes nemmeno se ti ci portassero in braccio” le disse, trattenendo l’ultimo strascico di risata. Pensò che non faceva così ridere la sua battuta, ma si sentì comunque contagiata dall’umorismo.
“Ovvio che no, sai che depressione. Però pagano tanto e se c’è qualcosa che so è che i soldi fanno la felicità”
“Ed è per questo che studi Lettere?”
“Vaffanculo” gli lanciò un’occhiata di traverso, ma un sorrisetto la tradì. Tornò poi a fissarsi le nocche screpolate per il freddo. “Tu quando pensi di laurearti invece?” chiese in tono serio.
“Spero quest’anno”
“E dopo che fai?”
“Voglio fare domanda per lo stage in quell’agenzia pubblicitaria a Dublino, ti ricordi che ne parlavo tempo fa” fece una pausa, lasciando che il silenzio si addensasse nello spazio fra loro due “Vado a servire il capitalismo in terra estera” aggiunse poi con curata nonchalance, facendo tintinnare il ghiaccio contro il vetro.
Il sole all’orizzonte iniziava a tramontare in un’esplosione di arancio che si spargeva come sangue da una ferita aperta, divorando lentamente ogni angolo di cielo. Se ne stavano appoggiati alla ringhiera della terrazza, lontani dal caos della festa che continuava da ore dentro la grande villa bianca, tremanti per l’aria sempre più fredda che li investiva.
“Comunque sono contento tu stia meglio, avevo paura ce l’avessi con me” disse lui dopo un po’, girandosi a fissarla intensamente. Lo guardò anche lei, ritrovandosi un volto più sereno e placido, come investito da un moto di saggezza superiore.
Si chiese cosa vedesse lui in lei in quel momento, se stesse silenziosamente cercando prove di quel miglioramento. Forse qualcosa nel modo in cui si era truccata, o i capelli tagliati corti, le davano l’immagine di un personaggio che è arrivato alla fine del suo viaggio.
Pensò a quanto fosse assurdo il caso, che bene o male lasciava sempre che le loro strade si incrociassero. Si chiese se fosse davvero destino o solo l’ovvio prodotto dell’incrocio di infinite variabili, che inconsciamente studiavano entrambi per trovare e direzionare le loro scelte in maniera ottimale. C’era davvero una differenza?
“Ormai dovresti sapere che non è colpa tua” gli rispose infine, finendo in un sorso il suo vino. Vide una goccia scura caderle sulla manica della giacca e cristallizzarsi per il freddo.
“No, ma forse avrei dovuto lasciarti in pace prima. Sai che avevo solo paura di non vederti più” un’ombra del vecchio dubbio sconvolse la tranquillità dei suoi lineamenti. Lei sorrise, pensando che avrebbe voluto detestarlo, ma non poteva far altro che guardarlo come si guarda un bambino che ha trasformato buone intenzioni in un cattivo gesto.
“Lo so. Ma forse è proprio per questo che è meglio così”
Non rispose. Lei tirò fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca e gliene offrì una. Rispose che aveva smesso e la lasciò a fumare da sola.
“Starai bene?” le chiese infine, dopo aver fatto un paio di passi indietro.
Lei gli sorrise e si rigirò la sigarette fra le dita, osservando la cenere incandescente che brillava nel buio sempre più denso. Da dietro qualcuno urlava nella loro direzione, ma non gli prestarono attenzione.
“Non meno di come starai tu”
Lui annuì, poi le voltò le spalle e tornò dentro il locale, chiamato per nome da qualcuno che se ne stava sulla soglia d’ingresso.
Vide la sua schiena rimpicciolirsi e sparire dietro la porta a vetri, in una direzione indefinita dove stavano tutti gli altri.
Lei rimase a finire di fumare, fissando gli ultimi angoli di città al limite della vista ancora illuminati dalla luce.
Sarebbe stata bene, perché era l’unica scelta che aveva: ricomporre i pezzi e accettare quel che ne veniva fuori.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3979066