Nell’abbraccio del nemico

di Nadine_Rose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un’amara salvezza ***
Capitolo 2: *** Tristemente prescelta, felicemente amata ***
Capitolo 3: *** Fra tormento e rimpianti ***
Capitolo 4: *** Un pizzico al cuore ***
Capitolo 5: *** Palpiti di vita e sussurri dal cuore ***
Capitolo 6: *** Come miele era il colore dei tuoi occhi ***
Capitolo 7: *** Oltre le tue brutture ***
Capitolo 8: *** Di mute parole d’amore ***
Capitolo 9: *** Più forte di una catena ***
Capitolo 10: *** Come sassi sulle onde del mare ***
Capitolo 11: *** Ebrea per un quarto (Prima parte) ***
Capitolo 12: *** Ebrea per un quarto (Seconda parte) ***
Capitolo 13: *** Salvami ***
Capitolo 14: *** Un dono della Provvidenza ***
Capitolo 15: *** Bianco è il colore dei miei sogni infranti ***
Capitolo 16: *** Un treno per Auschwitz (Prima parte) ***
Capitolo 17: *** Un treno per Auschwitz (Seconda parte) ***
Capitolo 18: *** L’amore sognato ***
Capitolo 19: *** Gocce di miele ***
Capitolo 20: *** Pane e marmellata ***
Capitolo 21: *** La morte nell’anima ***
Capitolo 22: *** Rosso sangue ***
Capitolo 23: *** Azzurro cielo ***
Capitolo 24: *** Nell’abbraccio del nemico (Prima parte) ***
Capitolo 25: *** Nell’abbraccio del nemico (Seconda parte) ***
Capitolo 26: *** Cioccolato ***
Capitolo 27: *** Fiori e cioccolatini ***
Capitolo 28: *** Un atto di generosità ***
Capitolo 29: *** Brandelli di cuore a Fossoli ***
Capitolo 30: *** L’ebrezza di una notte idillica ***
Capitolo 31: *** Tornare ***
Capitolo 32: *** L’infausto giorno della partenza ***
Capitolo 33: *** Trentacinque chilometri da Berlino ***
Capitolo 34: *** La di lui dipartita ***
Capitolo 35: *** Il cuore e i suoi inganni ***
Capitolo 36: *** Ricordi d’amore ***
Capitolo 37: *** Quando le farfalle smetteranno di librare ***
Capitolo 38: *** Il vuoto d’amore ***
Capitolo 39: *** Finché morte non ci separi ***
Capitolo 40: *** Un finale diverso ***
Capitolo 41: *** Dare vita al futuro ***
Capitolo 42: *** Le nude pareti del cuore ***
Capitolo 43: *** Un amore mai dimenticato ***
Capitolo 44: *** Sinfonia d’amore ***
Capitolo 45: *** In una normale, monotona e sonnolenta domenica pomeriggio ***
Capitolo 46: *** La strage degli innocenti (Prima parte) ***
Capitolo 47: *** Il fantasma dell’altro ***
Capitolo 48: *** La strage degli innocenti (Seconda parte) ***
Capitolo 49: *** Le ragioni del cuore ***
Capitolo 50: *** L’inizio della fine ***
Capitolo 51: *** Come suo padre ***
Capitolo 52: *** La ferita dell’abbandono ***
Capitolo 53: *** Un matrimonio sbagliato ***
Capitolo 54: *** Lacrime e lividi ***
Capitolo 55: *** Parlarsi ***
Capitolo 56: *** Arrendersi (Prima parte) ***
Capitolo 57: *** Di svastiche, lustrini e vecchi valzer viennesi ***
Capitolo 58: *** Arrendersi (Seconda parte) ***
Capitolo 59: *** Non è lei ***
Capitolo 60: *** E fu violenza ***
Capitolo 61: *** Sogno ad occhi aperti ***
Capitolo 62: *** La pellicola dei ricordi (Prima parte) ***
Capitolo 63: *** La pellicola dei ricordi (Seconda parte) ***
Capitolo 64: *** Un invito insistente ***
Capitolo 65: *** Un amore a Fossoli ***



Capitolo 1
*** Un’amara salvezza ***


Capitolo 1

 

Un’amara salvezza

 

“Io so cosa vuol dire non tornare.

A traverso il filo spinato

ho visto il sole scendere e morire;

ho sentito lacerarmi la carne

le parole del vecchio poeta:

«Possono i soli cadere e tornare:

a noi, quando la breve luce è spenta,

una notte infinita è da dormire».”

Primo Levi, Il tramonto di Fossoli

 


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Immagine dal film “Schindler’s List”

 

Gonzaga (campo di transito Dulag 152), 19 dicembre 1944

 

Hermann sedeva sulla poltrona. Le gambe accavallate e il secondo bicchiere di vodka in mano. Aveva già indossato la sua divisa da SS-Obersturmführer, intuendo che qualcosa da lì a poco sarebbe accaduto. Il silenzio di quella notte propagava nell’aria un triste presagio di morte che s’insinuava in tutto il suo essere. Gli faceva paura il silenzio negli ultimi tempi poiché lo costringeva a fare i conti con se stesso, a fare a pugni con l’uomo che era diventato: un debole a causa di una donna, a causa di un’ebrea. E lei dormiva ancora, completamente nuda, semicoperta dal lenzuolo bianco che esaltava il colore olivastro della sua pelle e il colore nero dei suoi capelli. Dormiva beatamente, rannicchiata su se stessa, nella sua acerba e strafottente bellezza che, per l’ennesima notte, lo aveva sedotto e vinto. La odiava per lo stesso motivo per cui l’amava. Tra le braccia di Sarah metteva a nudo la sua vulnerabilità, ritrovandosi fragile nel suo bisogno di dipendere da un altro. Era un qualcosa che lo tormentava ma che, allo stesso tempo, gli dava piacere e non poteva fare a meno di ricercarlo ancora. Viveva ormai dimentico delle vere ragioni per le quali si trovava a Fossoli, delle sue responsabilità, del suo grado, del suo progetto di ascesa militare, dei suoi ideali di superiorità ariana, aspettando un’altra notte per aggrovigliarsi nei fili di una passione malata e della sua esistenza in subbuglio, per lasciarsi morire tra le pieghe di quelle lenzuola.

Sarah allungò la mano, credendo di trovarlo ancora al suo fianco e si sdraiò, emettendo un lieve gemito. Poi sedette e, stringendo forte al petto il lenzuolo, lo fissò lungamente con espressione disfatta. Hermann aveva il potere di farle toccare il cielo con un dito e, subito dopo, farla risprofondare nel baratro della solitudine, tra le ombre dell’incertezza. Il legame che le garantiva la sopravvivenza si era trasformato in un amore senza il quale non poteva vivere. Lo amava pur sapendo che tutto ciò fosse sbagliato e irrazionale, folle e immorale, non corrisposto e senza futuro e a confermarglielo erano quegli occhi verdi che sembravano guardarla di nuovo con disprezzo.

“Che succede?” gli domandò con un fil di voce, scorgendo nel suo sguardo fiero e sprezzante un velo di paura.

“Rivestiti, che ho un brutto presentimento!” rispose Hermann, riprendendo quel suo tono autoritario.

“L’ultima volta che lo hai detto il campo è stato quasi distrutto[1]”, fece Sarah atterrita mentre il tenente si alzò di scatto.

“Non controbattere e sbrigati!” disse per poi dirigersi verso la piccola finestra.

Spostò la tendina: attraverso i vetri bagnati dal freddo, tutto sembrava normale e tranquillo, avvolto da un sottile velo bianco che gli richiamava alla mente profumi e ricordi degli inverni in Germania, fino a quando l’eco di una sparatoria[2] non squarciò feroce il silenzio e frenò i suoi pensieri, ormai già approdati a un passato tanto vicino per gli anni trascorsi quanto lontano per come li percepiva. Vide le due sentinelle cadere uccise e la neve sotto i loro corpi tingersi velocemente di sangue e i partigiani, un numero smisurato, correre verso il campo di transito. Con respiro affannoso, caricò in fretta la pistola e la ripose nella fondina sul fianco, voltandosi e rivolgendo lo sguardo a Sarah che adesso era in piedi sull’uscio della porta, tremante di paura nel suo cappotto di due taglie più grande. Anche lui aveva paura. Le andò incontro, con la fulminea e tormentata decisione che, qualsiasi cosa fosse successa quella notte, ne avrebbe fatta l’occasione giusta per metterla in salvo per salvare se stesso. Facendola scappare dal campo avrebbe ritrovato se stesso, liberandosi da ciò che in realtà amore non era. Era forse ossessione, evasione per sopravvivere a quel latente senso di colpa per le crudeltà viste e inferte, un diversivo alla solitudine di una realtà quotidiana stravolta da un incarico militare diverso in una terra straniera, un gioco fomentato dall’inconscio fascino del proibito, pensò.

E fuori lo scenario si presentò apocalittico: i partigiani, furenti e armati fino ai denti, avevano attaccato in contemporanea i tre presidi della Guardia nazionale repubblicana, della Brigata nera e del campo di transito mentre i fascisti, i tedeschi e i prigionieri correvano disorientati per quell’attacco imprevisto e urlavano, chi per dare ordini, chi per paura, accompagnati dall’incessante sottofondo di spari ed esplosioni. Sarah piangeva sommessamente aggrappata al braccio di Hermann che si guardava attorno confuso tra il bisogno di proteggerla e il desiderio di reagire all’attacco nemico. Le prese il viso tra le mani e, con un bacio, le rubò l’ultima lacrima. Nessuno avrebbe fatto caso a loro.

“Sarah, ascoltami”, disse, costringendola a guardarlo negli occhi, “adesso dovrai scappare.”

La ragazza, stravolta da paura e tristezza, dissentì con il capo e abbassò lo sguardo e, prima che Hermann potesse controbattere spazientito e arrabbiato, si ritrovarono con tre mitra puntati contro. Il tenente rivolse un rapido sguardo ai partigiani, che si guardarono tra di loro interdetti da quell’insolita scena, per poi ritornare a Sarah.

“Quando questa maledetta notte sarà finita”, riprese con tono più calmo e persuasivo, “ci saranno ritorsioni contro i prigionieri e, se mi uccideranno, chi ti proteggerà? Devi scappare, Sarah.”

“Insieme… Scappiamo insieme… Lascia tutto e vieni via con me”, fece la ragazza concitatamente, tenendosi forte alle sue braccia.

“Non capisci?” continuò, scuotendola un po’. “Io non posso tradire la mia patria, la divisa che indosso, gli ideali di una vita intera.”

“Ed io cosa sono stata per te?” A questa domanda, seria e rotta da deboli singhiozzi, rimase per la prima volta senza una risposta pronta e Sarah diede al silenzio un’interpretazione che la illudesse ancora.

Una forte esplosione li riportò alla realtà e ricordò loro la minacciosa presenza dei tre partigiani. Uno di loro si avvicinò di più a Hermann e con il mitra gli premette forte sulla mostrina da colletto fino a farlo inginocchiare dolorante.

Alzò le braccia in segno di resa mentre Sarah iniziò a urlare disperata, supplicando i partigiani: “No, vi prego! Non fategli del male, mi ha salvato la vita!”

In un simile frangente, il tenente avrebbe reagito tirando fuori la sua pistola e, invece, restò immobile per proteggerla da un ulteriore pericolo e, in quella posizione di sottomissione, capì di amarla veramente.

è una prigioniera, portatela via!” urlò.

L’amava e adesso era disposto a lasciarla andare non per riprendere in mano la propria vita ma per salvarla a lei. Poi un colpo alla nuca con il calcio del mitra e tutto divenne buio. Per il forte shock, Sarah non proferì né un urlo né parola alcuna e tutt’attorno i suoni e i rumori cominciarono a giungere alle sue orecchie attutiti e ovattati. Tremante, sudata e ansimante, mentre la vista perdeva nitidezza, permise a due mani di afferrarla con forza fino a condurla di corsa fuori dal campo verso un’amara salvezza.

 

“Notte scura, notte senza la sera,

notte impotente, notte guerriera.

Per altre vie, con le mani le mie

cerco le tue, cerco noi due.”

 

Pierangelo Bertoli & Tazenda, Spunta la luna dal monte



[1]In riferimento al campo di Fossoli trasferito a Gonzaga in seguito ai bombardamenti.

[2]In riferimento alla battaglia sostenuta dai partigiani modenesi e reggiani nella notte tra il 19 e il 20 dicembre 1944. 

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Capitolo 2
*** Tristemente prescelta, felicemente amata ***


Capitolo 2

 

Tristemente prescelta, felicemente amata

 

“Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: «Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia».”

Francesco Petrarca, Ascesa al Monte Ventoso

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Napoli, maggio 1946

 

Ogni mattina alla stessa ora, quando il sole iniziava a regalare il suo calore e l’asta del pesce era ormai conclusa, Matteo alzava gli occhi dalla rete che stava riparando e lei era lì, appoggiata alla ringhiera della banchina, con lo sguardo fisso verso il mare, avvolta da un alone di misteriosa e intrigante malinconia. Forse era il suo rituale prima di andare al lavoro, dato che indossava una divisa da cameriera. La camicetta bianca esaltava il colore nero dei suoi lunghi capelli e la gonna nera a campana si adattava perfettamente alle forme del suo corpo. L’eleganza nel portamento donava agli abiti che indossava particolare classe e dignità. Un forte scappellotto lo riportò alla realtà.

“Mattiuccio, acàla ’a capa e fatìca!”[1] lo rimproverò il compare e Matteo accennò un sorriso per nascondere il suo imbarazzo.

Anche la ragazza, guardando quella scena, sorrise per poi andare via in fretta.

“Faresti meglio a togliertela dalla testa, la romana non è pane per i tuoi denti”, continuò il compare con tono canzonatorio. “è una tipa un po’ altezzosa che sta sempre sulle sue, lavora al Gran Cafè.”

“Compàr, site addiventato ’nu carabinièr?”[2] lo interruppe Matteo e il discorso si concluse con una risata collettiva.

Il giorno dopo, Matteo era seduto a uno dei tavolini del Gran Cafè.

 

Sarah raggiunse in gran fretta il Gran Cafè, un bar poco lontano dalla banchina e a due passi dalla spiaggia, velocemente legò i capelli in uno chignon e indossò il grembiule bianco. Sempre carina e sorridente, lavorava con grande professionalità; educata e precisa, a volte assumeva un’espressione così seria da farla sembrare quasi presuntuosa. Tirò fuori il blocchetto dalla tasca della gonna e iniziò a prendere le ordinazioni ai tavolini all’aperto. Lavorava sodo per costruirsi una nuova vita in quella provata ma ridente città della provincia di Napoli, per mandar via i pensieri tristi e dimenticare gli anni della guerra, per dimenticare la sua prigionia a Fossoli. Di Hermann non le restava altro che il rumore atroce di un colpo alla testa e la mera speranza in una sua fortuita sopravvivenza. In fondo, era a lui che doveva la propria vita.

Dopo la battaglia partigiana di Gonzaga, Sarah era stata accolta da una famiglia modenese e aveva vissuto nascosta nel buio del loro seminterrato insieme a una bambina ebrea di cinque anni che divenne la sua ragione di vita in quegli interminabili mesi; finita la guerra, aveva fatto ritorno a Roma ma lì il dolore per l’assenza dei suoi cari era troppo opprimente e insieme ad Hannah, una sua vicina di casa e amica d’infanzia, anche lei sopravvissuta ai campi di concentramento e sola, decise di partire alla volta della terra del sole e del mare, dei pescatori e dei naviganti, dove un vecchio conoscente di suo padre aveva offerto loro lavoro e ospitalità. E in quella terra di persone semplici e cordiali, benedetta da Dio con ogni bellezza che la guerra non aveva potuto deturpare, il suo cuore trovava un po’ di pace.

Il Gran Cafè cominciò ad affollarsi, avvolto dai raggi del sole che ne penetravano le tende, mentre la radio trasmetteva una canzone dal ritmo dolce e malinconico e, sebbene lei non conoscesse la lingua napoletana, riuscì a capire che parlava di maggio, di amore, di un addio e di un ritorno[3]. Dal palazzo di fronte vide una donna stendere energicamente un lenzuolo bianco e un ricordo, né felice né triste, si fece strada tra i suoi pensieri.

 

Campo di Fossoli, maggio 1944

 

Affacciata alla finestra della stanza di Hermann, Sarah osservava i bambini giocare all’acchiapparella rincorrendosi attorno alle loro mamme frettolosamente intente a lavare e stendere il bucato. Anche il sole si divertiva rincorrendo con i propri raggi i passi svelti dei bimbi che ridevano più forte e arrossendo i volti distesi, quasi contenti delle donne inconsapevoli del loro tragico destino. Sarah sapeva. Sapeva della tragica destinazione dei convogli ferroviari verso Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Ravensbrück. Sapeva che a quelle donne, che si affaccendavano per l’imminente partenza, il bucato sarebbe stato tolto e che quei bambini probabilmente non avrebbero visto un’altra primavera. Destino che a lei era stato risparmiato. Lacrime di gratitudine e di senso di colpa si mescolarono sulle sue guance mentre un abbraccio l’avvolse da dietro.

“Non permetterò a nessuno di portarti via da me. Tu sei mia.”

 

Il ricordo della voce decisa e suadente di Hermann, sussurrata al suo orecchio, le attraversò con un brivido lungo tutta la schiena e si sorprese nel ritrovarsi desiderosa di sentirsi ancora al sicuro, protetta come in quella mattina assolata di metà maggio a Fossoli. Tristemente prescelta, felicemente amata. Ritornò subito in sé e, distolto lo sguardo dal balcone di fronte, continuò il giro per i tavolini.

 

Matteo arrotolò le maniche della camicia, impacciato in una tenuta per lui troppo elegante, preoccupato per la persistente ed inevitabile puzza di pesce che la quantità eccessiva di profumo non aveva di sicuro debellato. Ai suoi occhi, che non avevano smesso di fissarla, la misteriosa ragazza era sembrata allontanarsi verso un altro pianeta in un rapido viaggio che le aveva portato via il sorriso. Quando fu vicina al suo tavolino, le parole gli si impastarono in bocca come mai gli era capitato prima. Non aveva mai visto creatura più perfetta.

Sarah riconobbe subito nel volto di quel giovane uno dei pescatori che intravedeva ogni mattina alla banchina. I capelli scuri e ricci, scarmigliati gli coprivano in parte il viso un po’ stanco, precocemente segnato dal sole e dalla salsedine mentre gli occhi marroni si sgranavano in un’espressione di irrequieto stupore. Il giovane pescatore era lì per lei, intuì, già pronta a mettersi sulla difensiva.

“Che cosa desiderate, signore?” gli chiese in tono altero, corrugando la fronte e suscitando imbarazzo in Matteo.

“Un caffè espresso, grazie”, biascicò, mentre in cuor suo avrebbe voluto dirle altro, chiedere il suo nome, conoscerla di più e lo fece.

“Posso conoscere il vostro nome?” domandò con cuore a mille e, intanto, la canzone d’amore lasciò il posto a un’altra che assomigliava più al chiasso delle voci dei venditori ambulanti[4].

Sarah sospirò, alzando gli occhi al cielo in un’espressione infastidita, ma dovette rispondergli per non apparire scortese nei confronti di un cliente.

“Sarah”, disse, addolcendo il tono della voce.

“Complimenti, è un nome bellissimo, molto elegante.” La risposta del giovane piena di ammirazione le riportò alla mente un altro ricordo.

 

Campo di Fossoli, febbraio 1944

                      

Sull’attenti e tremante di paura, Sarah non osava alzare lo sguardo, limitandosi a guardare del tenente solo gli stivaloni neri. Iniziò a girarle lentamente attorno e a parlarle con voce bassa e autoritaria.

“Da questo momento sei al mio servizio, ti occuperai solo di me. Tutti i giorni dovrai tirare a lucido la stanza e il bagno, lavare e stirare le mie uniformi, soddisfare ogni mia necessità.”

Sarah era sempre più confusa e impaurita mentre una scia di profumo di ambra e muschio le penetrava nelle narici.

“In cambio sarai risparmiata al trasferimento, avrai doppia razione di cibo al giorno e, se farai la brava, ti porterò io qualcosa dalle cucine degli ufficiali”, concluse con tono beffardo per poi afferrarla per il mento, costringendola a sollevare il capo.

Sarah s’imbatté in due occhi verdi privi di un’espressione decifrabile: erano belli e feroci, ghiacciai che sembravano sciogliersi pian piano.

“Qual è il tuo nome?” le domandò severo e sprezzante.

“Sarah”, rispose con un fil di voce, incespicando nelle lettere.

è un bel nome, quasi reale”, fece il tenente, lasciandosi rabbonire nel tono e nello sguardo.

 

“Il caffè arriverà fra un attimo!” esclamò Sarah il cui sorriso tirato, forzato deluse Matteo.

E il caffè arrivò subito ma a portarglielo non fu Sarah.

“Potrei avere carta e penna gentilmente?” chiese alla cameriera con un nodo alla gola.

 

“Perché indimenticabile ancora sei per me

anche se i giorni passano più duri senza te.

Tutte le cose che farò avranno dentro un po’ di te

perché lo so dovunque andrai in ogni istante resterai

indimenticabile.”

 

Antonello Venditti, Indimenticabile



[1]“Matteo, abbassa la testa e lavora!”

[2]“Compare, siete diventato un carabiniere?”

[3]Riferito alla canzone “Era de maggio”, basata sui versi di una poesia del 1885 di Salvatore Di Giacomo e messa in musica da Mario Pasquale Costa.

[4]Riferito alla canzone “’A rumba de’ scugnizze”, scritta nel 1932 da Raffaele Viviani.

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Capitolo 3
*** Fra tormento e rimpianti ***


Capitolo 3

 

Fra tormento e rimpianti

 

“T’amo e non t’amo come se avessi nelle mie mani le chiavi della gioia e un incerto destino sventurato. Il mio amore ha due vite per amarti. Per questo t’amo quando non t’amo e per questo t’amo quando t’amo.”

Pablo Neruda, Sonetto XLIV

 


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Immagine dal film “Schindler’s List”

 

Il ricordo del primo incontro con Hermann, come un vortice, attanagliò lo stomaco di Sarah che si precipitò nel bar, intenta a farsi sostituire. Il giovane pescatore, senza volerlo, aveva fatto riemergere in lei molteplici sentimenti: il dolore e la malinconia, il senso di colpa e la vergogna di un amore malato, la paura e la repulsione di essere ancora desiderata.

“Hannah, scusami, potresti sostituirmi ai tavolini fuori? Credo di non sentirmi molto bene e ho bisogno di andare al bagno”, chiese alla sua collega e amica.

“Certo! Ma vuoi che ti accompagni? Non hai una bella cera”, fece Hannah con apprensione, notando il suo improvviso pallore.

“No, non preoccuparti, vado da sola”, rispose per poi correre in bagno e, piegatasi sul lavandino, vomitò.

Vomitò con forza come per liberare le proprie viscere dal ricordo di Hermann, della sua voce calda e autoritaria in un italiano stentato, del suo profumo intenso e avvolgente, dei suoi occhi insondabili come l’oceano, delle sue mani che l’avevano salvata facendole del male.

 

Campo di Fossoli, febbraio 1944

 

Tenendola per il mento, il tenente iniziò a muoverle il viso da un lato all’altro, squadrandola con seria attenzione.

“Quanti anni hai?” le domandò, mantenendo un tono di sufficienza mentre Sarah cercava di tenere lo sguardo fisso su un punto che non fosse il verde dei suoi occhi glaciali.

“Venti”, rispose con voce fioca e rotta dalla paura.

Poi le passò il pollice sulle labbra, socchiudendogliele leggermente e facendole ingoiare l’odore forte del guanto in pelle. Il respiro di Sarah divenne più affannoso.

“Puoi sederti”, le disse con improvvisa e sospetta gentilezza, indicandole il letto.

Si tolse il cappello, i guanti, la giacca e, allentando il colletto della camicia, proseguì risoluto: “Con quanti uomini sei stata?”

Sarah trasalì di vergogna e paura e capì le vere intenzioni del tenente.

“Nessuno”, balbettò, domandandosi come avrebbe potuto salvarsi da quel pericolo.

Il tenente emise un ghigno sarcastico.

“Voi stupide ebree italiane, che giocate a fare le puritane, siete le peggiori di tutte”, disse, versandosi un bicchiere di vodka.

Sarah si alzò di scatto, mossa da un coraggio che non credeva di avere in un simile frangente. Soffrire la fame, il freddo, abbandonarsi all’incertezza di una nuova destinazione, forse in un campo di lavoro forzato in Germania, sarebbe stato meglio che perdere se stessa.

“Io rinuncio a qualsiasi trattamento di favore”, esordì impaurita ma, allo stesso tempo, con tono deciso mentre l’espressione del tenente divenne ancor più dura, accendendosi di rabbia.

Di certo non si aspettava una reazione del genere e, con uno schiaffo fortissimo, la scaraventò a terra.

“Come osi sputare nel piatto che ti offro da mangiare?!” le urlò contro, incespicando nel suo italiano.

Sarah rimase immobile, pietrificata dal dolore e dalla paura a guardare, attraverso il velo di lacrime, le gocce di sangue dal naso cadere sul pavimento.

 

“Sarah! Sarah! Stai bene?!” fece Hannah preoccupata, picchiando forte alla porta del bagno.

Quella voce amica la riportò alla realtà presente.

“Sì!” rispose stordita, sciacquandosi vigorosamente la bocca. “Un attimo, Hannah!”

Aperta la porta, Sarah si ritrovò addosso due occhi sgranati di apprensione.

“Il signor Gennaro dice che puoi tornare a casa, se non ti senti bene”, le disse Hannah, scrutandola impensierita.

“Sì, credo proprio che tornerò a casa”, ribatté Sarah con un sospiro, portando le mani sulla fronte e poi fra i capelli, nel tentativo di sistemare dietro alle orecchie i ciuffi sfuggiti dallo chignon.

“Ah! Quasi dimenticavo.” Hannah frugò nella tasca della gonna, tirando fuori e porgendole un biglietto. “Ho trovato questo per te.”

Sarah prese il biglietto e, a sua volta, lo conservò in tasca, senza neanche chiedersi di cosa si trattasse.

“Grazie”, rispose in tono quasi assente.

Tornata a casa, Sarah si sfilò le scarpe e, con la schiena appoggiata alla parete del corridoio, si lasciò scivolare a terra. Sciolse lo chignon scompigliato e, con entrambe le mani, massaggiò la testa appesantita, incapace di aggrapparsi a un pensiero che non fosse Hermann. Per quanto si sforzasse di mandarlo via, lui restava lì, tra le pieghe del suo cuore, in ogni angolo del suo corpo, fino a raggiungere le profondità del suo essere, diviso tra angoscia e nostalgia. Amava ancora il suo carnefice e questa era l’assurda e vergognosa verità che da due anni cercava di nascondere a se stessa. Lo amava fra il tormento dei sensi di colpa e del suo sentirsi sporca, fra il dolore per le ferite da lui inferte e il rimpianto di ciò che erano diventati assieme. Mise la mano nella tasca della gonna in cerca del biglietto, in cerca di un diversivo ai suoi pensieri e, apertolo, lesse le poche parole di una scrittura imprecisa e piena di errori ortografici.

«Per Sarah. Perdonatemi se vi ho mancato di rispetto. Da Matteo.»

Accartocciò il biglietto e, con uno sbuffo, lo gettò, lanciandolo lontano sul pavimento.

 

Campo di Fossoli, febbraio 1944

 

Afferrandola per il braccio, il tenente la sollevò bruscamente dal pavimento.

“Tu farai quello che voglio io!” le disse, stringendole forte il braccio fino a quasi imprimere le dita nelle sue ossa.

Sarah sapeva benissimo di non avere alcun scampo, di non poter nulla contro tanta violenta forza ma era decisa a sfidarla, a combattere per proteggere la sua integrità. Tra lacrime e gemiti, tentò di svincolarsi dalla presa ma il tenente l’afferrò da dietro e la strinse forte contro il suo petto. Quasi le mancò il respiro e credette di morire. Una mano entrò nella camicetta, alla ricerca smaniosa delle sue nudità mentre l’altra le tappava la bocca per zittirne le flebili urla. Poi il tenente le strappò di dosso il vestito, graffiandole la pelle, lacerandole l’anima e, come se pesasse poco più di una piuma, la gettò sul letto, schiacciandola con il proprio corpo. Sarah tentò ancora di resistergli scalciando e colpendolo al petto con pugni ma dovette arrendersi dopo due forti schiaffi che la stordirono. Mentre il dolore accresceva, chiuse gli occhi per evitare il suo sguardo bramoso e si tappò le orecchie per non sentire i suoi spasimi di piacere. Tra le sue mani era come una bambolina di pezza da girare e rigirare, da scuotere e fare a pezzi, fino a quando non fu stanco di giocarci.

 

Strisciando sul pavimento, Sarah raccolse il biglietto e, stiratolo, lo lesse di nuovo. Si sentiva sola ma, nonostante fosse una pazzia, non riusciva a immaginarsi accanto a un uomo che non fosse il suo Hermann.

 

Matteo distolse lo sguardo dalla rete che stava riparando per rivolgerlo alla ringhiera della banchina ma, questa volta, Sarah non era lì.

“T’avev ritt je”[1], gli disse il compare con tono canzonatorio, calpestando il suo dispiacere.

 

“Tu sarai per sempre

il mio peccato originale.

In questa corsa per la vita

tu sei il mio lavoro nero.

Ed io non posso farne a meno

farmi di te e farmi male,

far tardi a leggere la notte

i tuoi pensieri col pensiero.”

 

Claudio Baglioni, Niente più



[1]“Te l’avevo detto io.”

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Capitolo 4
*** Un pizzico al cuore ***


Capitolo 4

 

Un pizzico al cuore

 

“Ci innamoriamo ancora una volta e di nuovo si apre la spirale del cuore e dentro corrono melodie, risate, fiori e ali, e il mondo è come una festa e al centro c’è solo il nostro danzare.”

Fabrizio Caramagna

 


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Napoli, giugno 1946

 

Per Sarah i giorni passavano tutti uguali, nella monotonia di un lavoro diventato ripetitivo e senza grandi aspettative, nella solitudine alleviata soltanto da una vuota chiacchierata con la sua amica Hannah prima di andare a dormire, nel combattimento interiore per ricacciare la nostalgia dei momenti tristemente felici che furono con il suo Hermann. In questo tumulto di ricordi, aveva perso il sorriso e la gioia di vivere, limitandosi a sopravvivere e negando a se stessa anche le più piccole gioie quotidiane, come contemplare il mare al mattino. Aveva paura di incontrare di nuovo il giovane pescatore poiché, inspiegabilmente, già il solo pensiero di lui le rimandava alla mente il lato peggiore di Hermann. A volte si sentiva osservata, pedinata e sapeva che era Matteo che aspettava il momento opportuno per avvicinarla, conoscerla e, intanto, lei si preparava a chiudergli il cuore.

Finito il lavoro, Sarah si lasciò abbagliare dai colori rosso e arancio del tramonto e un’inaspettata sensazione di pace le attraversò il cuore, spingendola verso il luccichio dorato del mare. Si tolse le scarpe e la sabbia, ancora riscaldata dal sole della giornata, le fece raggiungere in fretta il bagnasciuga. Regalò a se stessa un lieve sorriso e iniziò a camminare verso il lato opposto alla banchina, con l’acqua, non troppo fredda, che le arrivava alle caviglie e le bagnava l’orlo della gonna. Era da tempo che non si sentiva così bene. Aveva superato di qualche passo il Miranapoli, un raffinato albergo a picco sul mare, quando iniziò ad avvertire di nuovo quella sgradevole sensazione di essere seguita e si volse, ritrovandosi di fronte il giovane pescatore, a piedi scalzi, con i pantaloni color marrone arrotolati al ginocchio, la camicia bianca, larga, un po’ sbottonata alzata fino al gomito, i capelli più scarmigliati e gli occhi sempre sgranati in un’espressione di stupore.

“Quando smetterete di seguirmi?” gli domandò infastidita, quasi sprezzante per poi riprendere il suo cammino.

“Quando smetterete di fuggire da me?” ribatté Matteo con voce pacata, restando al proprio posto.

Di sottofondo le urla in dialetto delle mamme contro i loro figli che non volevano saperne di uscire dall’acqua.

Sarah si volse di nuovo e, con tono quasi di sfida, portando le mani ai fianchi, disse: “Che cosa volete, sentiamo?”

Matteo amò quel suo ostentato atteggiamento da smorfiosetta e desiderò sfiorarle le labbra, inarcate in un sorrisetto derisorio. Sapeva che qualcosa di speciale, di diverso si nascondeva dietro il suo modo di fare, di parlare e, al solo pensiero, ne era affascinato.

“Vorrei soltanto parlarvi… Dirvi quanto siete bella”, le rispose palpitante di emozione ma Sarah alzò annoiata gli occhi al cielo che, intanto, iniziava a imbrunire.

“Chiedervi di incontrarci per un gelato o quello che volete”, concluse Matteo mentre Sarah, con espressione seriosa, infilò le scarpe.

“Non ho tempo per queste cose”, disse, lasciandolo nella delusione di una speranza malamente troncata.

Corse verso la strada con il peso del suo cuore accartocciato, indurito, spaventato, incapace di riaprirsi e accogliere il bene di un altro e con gli occhi inumiditi di tristezza e rimpianto per aver mostrato al giovane pescatore ciò che in realtà lei non era.

 

Si avvicinava la festa del Santo Patrono e la città era tutta in fermento. Di sera, la Cattedrale si gremiva e dai vicoli addobbati con fiori, luminarie e lenzuola alle finestre riecheggiava sempre il suono di tamburelli, chitarre e mandolini. Sul lungomare erano state allestite le giostre e le bancarelle di dolciumi e giocattoli e dappertutto si respirava un’aria di fremente gioia per la prima festa patronale dopo la fine della guerra. Una gioia che aveva il profumo di libertà, di nuove speranze e voglia di ricominciare e che tentava in ogni modo di contagiare Sarah. Il suo viso iniziò a distendersi in un’espressione più serena mentre Hermann tornava a essere un ricordo lontano. Matteo aveva smesso di seguirla e, se guardava nelle profondità di se stessa, si sorprendeva a sentirne la mancanza.

Uscita dal Gran Cafè, insieme alla sua amica Hannah, Sarah fu travolta dalla musica di tamburelli, fisarmoniche e triccheballacche. Sulla spiaggia, un gran numero di persone avevano improvvisato una danza a ritmo di pizzica-tarantella, scandita da una voce che cantava in dialetto antico.

Due ragazzine, ridendo a squarciagola, le sfrecciarono davanti dirette verso la spiaggia mentre Hannah, afferrandola per un polso, esclamò entusiasta: “Andiamo anche noi!”

“No, Hannah, io sono un po’ stanca. Voglio tornare a casa”, fece Sarah con tono annoiato.

“Dai, Sarah, non fare la guastafeste, andiamo!” insisté Hannah, strattonandola un po’ e Sarah si lasciò convincere dalla sua espressione quasi supplichevole.

“E va bene”, disse con un sorriso di resa.

Correndo, raggiunsero l’allegra compagnia e iniziarono a ballare l’una di fronte all’altra. Il ritmo di quella danza ricordava tanto il saltarello romano e la mente di Sarah andò alle sagre di quartiere e alle feste di paese, a quando la presenza della sua famiglia era un qualcosa di scontato e la solitudine neanche un pensiero lontano. Ma non permise alla malinconia d’insinuarsi ancora nel suo cuore e decise di essere felice, almeno per quella sera.

Seduto sulla sabbia, insieme ai suoi amici, Matteo la vide e fu subito un colpo al cuore che spazzò via ogni traccia di orgoglio. Stralunato, la guardava muoversi in una danza di capelli che fluttuavano come alghe del mare, danza di sguardi e di sorrisi che scintillavano ai raggi della luna, di guance arrossate dal calore dei fuochi accesi sulla spiaggia, danza di forme che sussultavano a ogni salto e giravolta che ne scopriva le ginocchia. Incurante di un altro possibile rifiuto, si alzò e, come ipnotizzato dal suono dei tamburelli e dal ritmo delle sue movenze, si diresse verso di lei. Si antepose alla sua amica che subito capì e indietreggiò, scomparendo tra la folla danzante.

Sarah si ritrovò davanti il giovane pescatore. Si sorprese ma non ebbe paura, non spense il suo sorriso, non rattristì il suo sguardo e continuò la sua danza insieme a lui. Un filo di barba su un viso già abbronzato, i capelli più ricci che cadevano sulla fronte imperlata di sudore, un’espressione vispa in due occhi color marrone come la terra in cui disperdere la sua tristezza e le mani protese verso di lei pronte ad accogliere le sue. Sarah lo vide bello in quell’aspetto un po’ rude e trasandato e, mentre il ritmo dei tamburelli diventava più incalzante, sentì un qualcosa mai provato prima, come un formicolio nello stomaco, la mente svuotarsi da ogni pensiero e ricordo di Hermann e il cuore battere più forte, fortissimo, fino ad abbattere il muro che impediva a Matteo di entrare. Gli permise di stringere le sue mani e ballarono insieme. Gli sguardi allegri e complici, i sorrisi più larghi, le mani intrecciate fra un saltello e una giravolta, entrambi ebbero la sensazione di ritrovarsi da soli, sotto un cielo stellato, davanti a un mare immenso, illuminati dalla luce dei falò. Finita la musica, Sarah corse verso la riva del mare, ridendo, felice come non mai, libera, viva, con la speranza che Matteo la inseguisse e così fu. Si fermò sulla sabbia bagnata e si volse indietro: il giovane teneva le mani poggiate sulle ginocchia e, piegato in due, tentava di regolare il respiro.

“Allora?” le domandò sorridente e ansimante. “Posso offrirvi un gelato?”

“No”, rispose con il fiato corto, ostentando un’espressione seriosa e suscitandogli l’ennesima delusione.

“Zucchero filato!” esordì divertita, con la spensieratezza dei suoi vent’anni ritrovati e Matteo rise in un profondo sospiro di liberazione.

 

“Si turnata, si turnata

e je me so’ perze ancora

dint’ ’e capille tuoje,

je t’apparteng ohiné.

Te voglio bene,

je penz assaje cchiù ’e te

e te staje zitt ohiné.”

 

Alunni del sole, Tarantè

 

***

 

Campo di concentramento di Sachsenhausen (Lager sovietico speciale n. 7), 9 giugno 1946

 

Prigioniero in uno dei campi che fino a pochi anni prima aspirava a comandare, Hermann era legato a una sedia in una stanza buia, tremante e sudando freddo. Smagrito e rasato, con il viso tumefatto da sangue e lacrime, qualche osso fratturato e cicatrice da ustione, e un solo pensiero che lo teneva ancora in vita: Sarah. Uno dei due soldati russi lo slegò dalla sedia, facendolo cadere esausto sul pavimento e gli assestò un calcio nello stomaco. Hermann si rannicchiò in posizione fetale e il russo lo finì con uno sputo in faccia.

“Sporco nazista!” esclamò disgustato.

Delirante per le torture, le percosse, la fame, la sete e le violenze psicologiche, Hermann guardò la sua mano violacea aggrapparsi al pavimento sudicio e di colpo si ritrovò tra le lenzuola bianche del suo letto a Fossoli, con le dita che viaggiavano lungo la schiena nuda di Sarah fino ad affondare nei suoi lunghi capelli. Intanto, dalla camera di un fascista giunsero le note della canzone “Lili Marleen” e lui iniziò a canticchiarla ripetendone le parole nel suo italiano stentato. Sarah si volse, sorridendogli con aria dolce e assonnata e il soldato russo lo zittì con un altro calcio.

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Capitolo 5
*** Palpiti di vita e sussurri dal cuore ***


Capitolo 5

 

Palpiti di vita e sussurri dal cuore

 

“La memoria è necessaria, dobbiamo ricordare perché le cose che si dimenticano possono ritornare: è il testamento che ci ha lasciato Primo Levi.”

Mario Rigoni Stern

 


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La luna, adagiata su un angolo di cielo stellato, si specchiava nel mare scuro e calmo della sera mentre, dal Vesuvio, le luci scintillavano sull’acqua una festosa moltitudine di colori. In lontananza, la musica dei tamburelli e il fragore delle voci allegre tentavano invano di elevarsi al suono dolce delle onde che timidamente s’infrangevano sulla riva, spruzzando gocce salate in viso e nello zucchero filato. La brezza infreddolì la pelle sudata di Sarah che, improvvisamente impacciata, non sapeva cosa dire e si limitava a sorridergli, impiastricciandosi le dita e la bocca della dolce nuvola bianca. Un profondo sussulto di vita le attraversò il corpo, mentre il cuore le batteva forte di felicità, guardando il luccichio in quegli occhi scuri, grandi, rassicuranti spalancati su di lei. D’altra parte, anche Matteo restava in silenzio per non rovinare la magia di quel momento e, continuando a mangiare lentamente lo zucchero filato, si saziava dei suoi sguardi e dei suoi sorrisi complici che gli lasciavano immaginare un futuro insieme. Ma la magia svanì presto. Un improvviso lampo di tristezza apparve negli occhi di Sarah, color marrone chiaro come guscio di castagna matura e, di nuovo, sembrò isolarsi dalla realtà per raggiungere un altro pianeta. Era il pensiero e il ricordo di Hermann, il richiamo della sua voce e il desiderio delle sue braccia che irrompeva in lei con un tonfo alla bocca dello stomaco, una morsa stringente al cuore, un nodo alla gola e brividi di freddo che bruciavano alla schiena. Si alzò lentamente con aria sconvolta.

“Devo andare. Si è fatto tardi”, disse, suscitandogli meraviglia e dispiacere.

“Ci rivedremo?” ribatté Matteo con voce quasi supplichevole mentre Sarah gli rivolse uno sguardo impassibile.

“Non lo so”, lo freddò per poi scappare via.

Correva Sarah, tra i colori e i profumi di una città in festa, sfiorando l’allegria di persone danzanti e dimentiche di un difficile passato non troppo lontano. Correva con aria persa e stravolta, verso una notte insonne, di testa nascosta sotto il lenzuolo e lacrime silenziose sul cuscino, di ginocchia strette al petto, tormentato e oppresso da un groviglio di sentimenti. Si sentiva sola ma non aveva permesso al giovane pescatore di varcare la soglia della sua solitudine. Provava nostalgia per Hermann e, allo stesso tempo, ne aveva repulsione mentre di Matteo temeva e desiderava un nuovo incontro. Si sentiva in colpa per come lo aveva trattato e aveva paura che lui iniziasse a detestarla. Strinse i denti di rabbia contro se stessa e contro Hermann che, seppur assente, continuava a manovrare la sua esistenza, impedendole di vivere.

Il giorno seguente ricorreva la festa del Santo Patrono e, questa volta, fu lei a cercare Matteo tra le migliaia di persone devotamente in processione, spinta dal bisogno di fare chiarezza nelle proprie emozioni. Affiancata dalla sua amica, Sarah camminava decisa nel suo voler mettere alla prova il proprio cuore per sentirne la reazione e capire se, rivedendolo, avrebbe provato di nuovo quel palpito di vita capace di sobbalzare via il ricordo di Hermann.

“Chi stai cercando, Sarah? Il tuo bel pescatore?” proruppe Hannah con tono vagamente ironico, notando i suoi continui tentativi di scorgerlo tra la folla, sollevandosi sulle punte e alzando il collo.

“Ti prego, Hannah, sta’ zitta”, rispose Sarah in mezzo ai denti, infastidita.

“Sei davvero antipatica”, concluse Hannah ed entrambe torsero il naso in una medesima espressione di ostentato sdegno.

E, intanto, la statua del Santo proseguiva lenta, ondeggiando solennemente sulle spalle dei portantini tra i quali Sarah finalmente lo intravide. Il portamento fiero e orgoglioso, i muscoli del collo e delle braccia contratti per lo sforzo, lo sguardo attento e concentrato, qualche ricciolo ribelle che cadeva sulla fronte aggrottata e rigata di sudore e di nuovo il cuore di Sarah si mosse in un sussulto veloce. Lontana dalla sua amica e a pochi passi dalla statua, tenne stretta questa emozione nel petto, conservandola durante tutto il rito nella Cattedrale e, quando la celebrazione fu terminata, decise di aspettare Matteo seduta su una delle panchine della piazzetta. Quando il cuore riprese i suoi battiti normali, Sarah iniziò a chiedersi quali fossero le ragioni che la trattenevano lì, seduta su quella panchina all’ombra di un albero, a fissare il portone della Cattedrale. Stava aspettando qualcuno che nemmeno conosceva, con il quale aveva condiviso soltanto una danza, uno zucchero filato e poche parole e che aveva saputo fomentare e, allo stesso tempo, zittire il richiamo di Hermann. Irrequieta, alzò lo sguardo e cercò un po’ di pace negli sprazzi di cielo azzurro che apparivano tra la danza delle foglie mosse dal vento leggero. Poi si volse verso il mare: una tavola piatta, immensa, di un blu cristallino che luccicava ai raggi del sole, accarezzata dolcemente dalla brezza del primo pomeriggio. Davanti alla visione di quella bellezza, Sarah rasserenò il viso fino a quando non riapparve vivo il ricordo di Hermann, delle loro mani saldamente intrecciate nella danza della passione, dei suoi baci caldi e appassionati che accendevano in lei l’illusoria speranza che fosse vero amore. Si alzò di scatto dalla panchina, come per fuggire da se stessa e dai ricordi che quello scenario incantevole aveva bruscamente ridestato. Ma subito una voce familiare, attutita dall’imbarazzo la fermò, chiamandola per nome. Si volse e ogni ricordo svanì nelle fossette del sorriso di Matteo. Le emozioni iniziarono a rincorrersi come farfalle nello stomaco e la mente ad annebbiarsi, confondendo i pensieri e la percezione di sé nella realtà. Era come se non fosse più lì.

Matteo le porse la mano in un gesto gentile e rassicurante e, con voce calda e un po’ roca, le disse: “Vieni con me.”

Timidamente ma senza tentennare troppo, Sarah mise la mano nella sua e, ricambiando la stretta, ribatté in un sussurro: “Dove mi porti?”

“Al mare.” A questa risposta dal tono dolce e sicuro, Sarah rimase per un attimo perplessa dato che si trovavano già a pochi passi dal mare ma si fidò di lui e gli permise di condurla di corsa alla banchina, nella sua barca.

Il cuore batteva all’unisono con i palpiti del motore mentre guardava con occhi socchiusi dal vento lo sguardo serio e concentrato di Matteo alla guida della barca. La brezza del mare diventava sempre più forte, portandosi via il dolore e donandole l’ebrezza di un’inspiegabile felicità, pizzicando sulla pelle e facendole sollevare e attorcigliare i lunghi capelli. Entrambi ne risero e le labbra di Sarah si aprirono in un largo sorriso, tra gioia e imbarazzo. Parlarono con lo scambio silenzioso di sguardi e di sorrisi e, in poco tempo, raggiunsero una spiaggetta racchiusa tra scogliere e sovrastata dalla montagna. Prendendola per le mani, Matteo la aiutò a scendere dalla barca e lei inciampò tra le sue braccia, soffocando un’esclamazione di soggezione. Si guardò attorno con occhi sgranati di meravigliato stupore: il fondale roccioso rendeva l’acqua cristallina e le pietre sulla spiaggia si mescolavano in mille forme e colori. Sedettero sui ciottoli in riva al mare e, contemplando quello sprazzo di bellezza, nella sua luce intensa e nella sua aria pulita, la mente di Sarah andò improvvisamente ai mesi trascorsi nel buio e nella polvere del seminterrato aspettando nascosta la fine della guerra. Fu grata a Dio per essere sopravvissuta e perché l’aveva condotta in quell’angolo di paradiso incastonato tra mare e monti. Subito grosse e irrefrenabili lacrime le rigarono il viso senza passare inosservate.

“Tutto bene, Sarah?” le domandò Matteo con apprensione.

“Sì”, rispose con un sorriso, confidandogli la parte più allettante di verità, “adoro questo posto.”

In una carezza, Matteo le spostò dietro l’orecchio una ciocca di capelli arruffati dal vento in barca, in un gesto di tenerezza e conforto, per sollevare il velo di malinconia che aveva improvvisamente coperto i suoi occhi e che solitamente precedeva la sua fuga. Questa volta ne seguì un sorriso da bambina, poi Sarah prese a raccontargli di Roma, delle estati torride in città troppo lontane dal mare, del solo refrigerio presso le fontane e all’ombra dei monumenti. La sua mente sembrava aver azzerato gli anni della guerra ed Hermann era come non fosse mai esistito, mentre lei tornava ad essere la ragazzina seduta sulla fontana a fantasticare il vero amore e un futuro roseo.

E Matteo l’ascoltava con interesse e ammirazione, sorridendo di tanto in tanto ai suoi accenti d’ironia, poi la interruppe: “Possiamo essere amici?”

Sarah sapeva che questa non era la sua vera intenzione e, in fondo, anche lei desiderava qualcosa di più.

“Sì”, rispose flebilmente, con un sorriso pacato e felice.

Non era più sola.

 

Campo di concentramento di Sachsenhausen (Lager sovietico speciale n. 7)

 

Due mani lo afferrarono sotto le ascelle, scuotendolo dal sonno e, gettatolo gravemente a terra, lo trascinarono fuori la baracca. Privo della più minima forza fisica, Hermann sentì che questa volta non sarebbe sopravvissuto alle torture dei russi e, mentre strisciava lungo il corridoio, in un tragitto che aveva imparato a conoscere bene, decise di abbandonarsi alla morte ormai vicina. Ma il soldato russo non varcò la porta della famigerata stanza, deviando a sinistra e proseguendo lungo un altro corridoio. Lo trascinò ancora per un po’, poi, sollevatolo con violenza, lo spinse in quello che doveva essere un ufficio. Hermann emise un rantolo e l’uomo seduto alla scrivania, di fronte all’ufficiale sovietico si girò e si alzò di scatto, rivolgendogli uno sguardo sconvolto. Alla vista di suo padre e dei suoi occhi che diventavano lucidi di commozione e pietà, la prima emozione fu di vergogna e la sua mente andò al loro ultimo incontro: al suono del tappo che saltava dalla bottiglia di champagne per festeggiare la sua nomina a SS-Obersturmführer e supervisore di un campo di concentramento, delle risate orgogliose di suo padre e di sua madre che correva felice e indaffarata in cucina a sfornare la cena. Furono gli occhi e la voce del sangue a dare conferma all’uomo che quel mucchio di ossa che si reggeva a malapena in piedi, in vestiti logori e pelle livida, con aria persa e impaurita era suo figlio.

Gli prese il viso tra le mani e, con voce rotta dalla commozione, gli disse: “Coraggio, adesso è tutto finito. Ti riporto a casa.”

La vergogna lasciò spazio a un sentimento che Hermann aveva dimenticato e che assomigliava alla felicità. Era finalmente libero, libero di ritrovare Sarah.

 

“Ma i ricordi non passano mai,

stanno con noi.

Sono molto più forti di noi,

più vivi.”

 

Amedeo Minghi, I ricordi del cuore

 

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Capitolo 6
*** Come miele era il colore dei tuoi occhi ***


Capitolo 6

 

Come miele era il colore dei tuoi occhi

 

“Così ti amo perché non so amare altrimenti che così,

in questo modo in cui non sono e non sei,

così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,

così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.”

Pablo Neruda, Sonetto XVII

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Berlino, gennaio 1944

 

Hermann tratteneva un sorriso di superba felicità, mantenendosi impettito in un atteggiamento di calma fierezza mentre il capitano gli annunciava il suo avanzamento di grado e dovette regolare il respiro quando iniziò a dirgli che, di lì a pochi giorni, avrebbe comandato un campo di concentramento. I suoi sogni di ascesa militare, di potere e autorità sugli altri si stavano realizzando, superando addirittura le sue aspettative. Ma subito la contentezza svanì e il sorriso trattenuto divenne una smorfia di delusione; vide i suoi sogni trasformarsi in un incubo e la sua promozione in un castigo.

“… Fossoli. È un campo di concentramento italiano, in provincia di Modena”, proseguì il capitano, mentre Hermann continuava a trattenere le sue emozioni in un contegno fiero e fermo. “Diventerà un campo di transito per i prigionieri destinati ai nostri lager.”

Da quel momento, iniziò a sentirsi come in una bolla e, salendo lentamente le scale di casa, si accarezzava la mostrina da colletto. Per un attimo ebbe quasi la sensazione di soffocare: non voleva lasciare il suo paese e sprecare la sua promozione, duramente ottenuta, per lavorare in mezzo a italiani, voltabandiera e nullafacenti, spaghetti e mandolino. Aperta la porta di casa, fu accolto da un profumo di arrosto al forno e dallo stappo di una bottiglia di champagne, da suo padre che con grande gioia e una certa riverenza gli porgeva una coppa piena fino all’orlo e da sua madre che lo guardava con occhi sfavillanti di entusiasmo e ammirazione.

“Congratulazioni, figliolo!” proruppe suo padre, gonfio di orgoglio. “Abbiamo saputo del tuo avanzamento di grado e della tua immediata nomina a comandante di un lager!… Quasi non potevamo crederci!”

Intanto sua madre, con uno scatto e un’esclamazione di preoccupazione, corse in cucina a recuperare dal forno la cena.

“Anch’io”, ribatté Hermann, la cui voce bassa di afflizione mista a risentimento ne palesò l’insofferenza.

Suo padre spense il sorriso e, con aria seria e apprensiva, gli domandò: “C’è qualcosa che non va, Hermann?”

“Non è un lager ma un campo di transito in Italia”, rispose mentre sua madre poggiò l’arrosto sul tavolo e si fermò a guardarli, sorpresa da quel discorso.

“E allora? Qual è il problema? Proprio non capisco il tuo malcontento. Avrai un compito ancora più importante. Il tuo sarà un ruolo fondamentale nel sistema delle deportazioni e della Endlösung der Judenfrage[1]. Queste cose dovresti insegnarle tu a me”, quasi lo rimproverò suo padre, rientrando nei panni di ex membro della Gestapo, ai suoi tempi conosciuta come Dipartimento 1A della polizia di Stato prussiana. “Devi accettare questo trasferimento con la determinazione e la forza d’animo che ti contraddistinguono e per le quali sei stato promosso. E sta’ sicuro che questo è soltanto il primo gradino della tua carriera, il trampolino di lancio verso una carica militare più alta. Io ne sono più che convinto.”

“Sì, hai ragione”, rispose Hermann, abbozzando un sorriso ma non ne era ancora pienamente sicuro.

Le parole di suo padre lo aiutarono pian piano a rientrare in se stesso, a riprendere il controllo delle proprie emozioni, a ritrovare le forze e l’entusiasmo, trasformando la delusione di un’aspettativa soddisfatta a metà in motivazione per raggiungere i vertici più alti della gerarchia delle SS. E quando fu sul treno diretto verso il campo di Fossoli, con le ambizioni dei suoi trent’anni, era già convinto nell’affrontare a muso duro il suo incarico di comandante, le sue responsabilità, i suoi subalterni e quelli da lui considerati vigliacchi italiani fascisti e sudici prigionieri ebrei, forte nei suoi ideali di superiorità ariana.

 

Berlino, 20 giugno 1946

 

Un panno ghiacciato gli si posò sulla fronte, facendolo svegliare di soprassalto. Hermann aprì gli occhi e, per primo, gli apparve sfocato il volto di sua madre. Ne riuscì a scorgere un’espressione di sgomento e preoccupazione che non le aveva mai visto prima e che velava di tristezza i suoi occhi, stanchi di troppe lacrime versate per un figlio che credeva morto. Pian piano, le immagini divennero più nitide e vide suo padre di spalle che, inveendo contro i russi e gli inglesi, batteva un pugno alla parete per poi affondare nel braccio la testa.

“Ti prego, Karl, così peggiori soltanto la situazione”, disse sua madre in un lamento e, d’improvviso, un senso di oppressione premette sul petto di Hermann, fermandogli per un attimo il respiro.

La vista e l’udito iniziarono a offuscarsi e lui a perdere la cognizione di sé e della realtà, contorcendosi negli spasmi delle convulsioni febbrili.

“Karl! Karl!” La voce spaventata di sua madre gli arrivò come un suono ovattato e, come un filmato a rallentatore, vide i suoi genitori chinarsi su di lui, muovendo le labbra in parole di concitata apprensione che però Hermann non riusciva più a sentire, e spostarlo su un lato.

In un ultimo spasmo, sgranò lo sguardo nel ricordo di due occhi color miele e un nome gli si annodò nella gola: Sarah.

 

Campo di Fossoli, 12 febbraio 1944

 

Il clima in Italia era generosamente più mite, tanto da far sembrare quel mattino invernale un preludio di primavera. Orgoglioso nella sua divisa da SS-Obersturmführer, Hermann fumava una sigaretta con aria superba e ghigno soddisfatto, nell’attesa che dalla stazione ferroviaria di Carpi arrivassero al campo di Fossoli altri camion carichi di prigionieri. Come sempre, al loro arrivo seguivano momenti di confusione da rimettere in ordine con l’abbaiare rabbioso dei cani, le urla di minaccioso disprezzo e lo schiocco intimidatorio del frustino.

“Muoversi! Muoversi! Più veloci!” urlava Hermann e, strattonando duramente un prigioniero, nella confusione, una ragazzina gli inciampò tra i piedi.

Tremante, si alzò, con una calza rotta e qualche macchia di fango rappreso sul cappotto rosso, che ben si adattava al colore nero dei suoi capelli, arruffati per la caduta. Per un attimo, lo guardò con occhi sgranati e luccicanti di paura, occhi color marrone chiaro, che divennero come miele alla luce di un raggio di sole ed Hermann, il tenente che aveva ricevuto il compito di comandare un campo di concentramento, riuscì a mantenersi a stento nel suo atteggiamento di disprezzo. Poi, di scatto, la ragazzina abbassò lo sguardo e indietreggiò, unendosi a un gruppo di bambini affiancati da un anziano sacerdote.

“Signor tenente, la prego”, biascicò il prete.

“Questi ragazzini sono italiani, cittadini di Roma, di religione cattolica. Credo ci sia stato un errore. Ho qui tutti i certificati di nascita e di battesimo. Guardi, la prego”, concluse, porgendogli i documenti ma Hermann non li prese, limitandosi a ridergli in faccia con ghigno ironico.

“Nessun errore!” ribatté, rientrando nel suo tono severo e sprezzante. “Questi ragazzini sono ebrei che lei teneva nascosti nella sua chiesa ed io non ho tempo da perdere!”

Poi si rivolse subito ai suoi soldati, per impartire gli ordini: “Portate il prete al Campo Vecchio[2]. I ragazzini rimangono al Campo Nuovo[3].”

“La prego, non mi separi dai miei bambini!” implorò a voce alta l’anziano sacerdote, mentre i due soldati lo portavano via con la forza.

Intanto, uno dei più piccoli iniziò a piagnucolare e la ragazzina, sussurrandogli qualcosa all’orecchio con un sorriso ostentato, lo prese in braccio per poi accodarsi alla fila dei prigionieri, seguita dai bambini.

“Più veloci! Muoversi!” Hermann aveva ripreso il suo lavoro con la durezza di urla e strattoni e, all’improvviso, si sorprese a ricercare con lo sguardo, tra le file di ebrei, quel cappotto rosso che abbracciava la ragazzina dai capelli neri e gli occhi color miele.

 

Berlino, 21 giugno 1946

 

La prigionia nel lager sovietico lo aveva distrutto, fisicamente e moralmente, prostrandolo in uno stato di mancanza di forze e svuotamento di se stesso, ma ciò che più lo tormentava era il pensiero di essere libero senza poter ritrovarsi con Sarah. Hermann non riusciva a muoversi dal letto e, a stento, sollevò il braccio per guardare l’ago per la flebo posizionato sul dorso della mano, livida, smagrita. Per un attimo, ebbe la sensazione di vedere e di sentire la mano di Sarah intrecciarsi alla sua, mani piccole e fredde che, nelle infinite notti a Fossoli, sapevano anestetizzare il suo ego e sciogliergli l’anima. Troppo tardi aveva rinunciato ai suoi ideali di purezza e al suo amor di patria, per i quali si era poi condannato all’inferno di Sachsenhausen, troppo tardi aveva capito di non poter vivere senza di lei.

 

Campo di Fossoli, 16 febbraio 1944

 

L’ufficio di Hermann affacciava proprio sulla baracca dove alloggiava la ragazzina ebrea con il cappotto rosso e, dalla sua finestra, la scrutava, imparandone le abitudini: l’età della ragazzina era, sicuramente, compresa tra i diciotto e i vent’anni e, dai modi, sembrava essere di buona famiglia; la mattina usciva dalla baracca, raccoglieva i capelli in uno chignon scarmigliato e si sbracciava le maniche del vestito color marrone chiaro, per aiutare le donne nelle faccende domestiche; parlava poco, limitandosi ad annuire e, di rado, sorrideva; dopo pranzo usciva di nuovo, con i capelli sciolti e con indosso il suo cappotto rosso e, ferma sull’uscio della baracca con le braccia incrociate, per una buona mezz’ora, teneva d’occhio i bambini mentre giocavano. Ed era questo il momento in cui Hermann si soffermava a guardarla, lasciando che i pensieri spaziassero in fantasie nella cascata dei suoi lunghi capelli e nella generosità delle sue forme, nell’espressione triste e impaurita di due occhi sbarrati e di due labbra socchiuse, pensieri che lo inseguivano la notte fino a degenerare in desiderio smanioso di averla.

“Agli ordini, signor tenente!” Scattò sull’attenti il soldato, battendo i tacchi.

“Nell’ultimo convoglio, qualche giorno fa, è arrivata una ragazza ebrea con un prete e un gruppo di bambini”, disse Hermann, con tono di sufficienza, lasciando la finestra e portandosi davanti alla scrivania. “Mi serve come cameriera, da questa sera.”

E, quella sera stessa, la ragazza era al centro della sua stanza, sull’attenti e a testa bassa, tremante, in una divisa da cameriera e i capelli semi raccolti con una lunga ciocca che le copriva mezzo volto. Contenendo irrefrenabili pulsioni, Hermann entrò, a passo lento e autorevole, chiudendo la porta dietro di sé.

 

“Le tue mani mai,

il tuo corpo mai,

la tua mente mai più.

Il tuo nome mai,

i tuoi occhi mai,

la tua voce mai più.

Come sabbia sei nel mio pensiero,

aquila che ormai non ha più cielo

e cade in volo.”

 

Valentina Giovagnini, Il passo silenzioso della neve



[1]Soluzione finale della questione ebraica.

[2]Campo di concentramento, amministrato dalla Questura di Modena e gestito dagli italiani, per antifascisti, partigiani, giovani renitenti alla leva, operai in sciopero, detenuti comuni, civili di nazionalità nemica e persone che fornivano aiuto ai perseguitati.

[3]Campo di transito, amministrato e gestito dai tedeschi, per ebrei e oppositori politici.

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Capitolo 7
*** Oltre le tue brutture ***


Capitolo 7

 

Oltre le tue brutture

 

“Non ti voglio pensare.

Aspetto che i ricordi di te diventino più morbidi, più sfumati, meno taglienti.

Ancora ci si può far male, se provo a guardarci dentro.”

Fabrizio Caramagna

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Campo di Fossoli, 17 febbraio 1944

 

Hermann sollevò la testa dal cuscino e, passandosi una mano fra i biondi capelli, si stiracchiò dal sonno con un sospiro soddisfatto. Girando lo sguardo attorno, la vide, seduta per terra, con la schiena appoggiata alla parete, come una bambola rotta. Bianca, come di porcellana senza alito di vita, con gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto, le guance livide e i capelli aggrovigliati, come rami intrecciati, stringeva un lembo di sottoveste, sporco di sangue, tra le sue intimità. La ragazza era stata sincera sulla sua verginità e lui ne aveva violato l’innocenza, senza pietà. Qualcosa di simile al rimorso sembrò vibrargli dentro, restituendogli un po’ di umanità verso quel corpo che aveva desiderato, intrappolato con l’inganno di un compromesso, preso con violenza, usato e che adesso giaceva per terra come morto, sporco di lividi e sangue, immobile, rannicchiato nel suo dolore.

Tenendo lo sguardo fisso su di lei, Hermann lentamente si ricompose, sollevandosi i pantaloni e, alzatosi dal letto, le si avvicinò. In uno slancio di compassione, la prese in braccio e la ragazza, come se il suo corpo fosse realmente privo di vita, lasciò la testa ciondolare all’indietro e le braccia aprirsi e penzolare mollemente nel vuoto. La portò in bagno e la mise nella vasca, aprendo i rubinetti. I suoi occhi, che non avevano più il colore caldo del miele, erano ancora spalancati e persi nel vuoto in un’espressione indecifrabile, mentre, come filamenti, il sangue iniziava a colorare l’acqua. Hermann chiuse i rubinetti e, continuando a guardarla, nei capelli diramati dall’acqua e nelle forme che trasparivano dalla sottoveste bagnata, rientrò nella sua risoluta strafottenza di nazista: quella ragazza era un’ebrea, un qualcosa senz’anima, senza valore, che lui poteva usare a suo piacimento. Abbottonandosi la camicia, uscì dal bagno e dalla stanza per poi guardare a destra e sinistra nel corridoio.

“Kellnerin[1]!” richiamò l’attenzione di una cameriera che passava di lì. “C’è da ripulire in bagno!”

Hermann aveva già ripreso il suo atteggiamento di orgoglio e di disprezzo.

 

Berlino, 21 giugno 1946

 

Al ricordo di Sarah, distesa in quella vasca, con lo sguardo assente e il corpo paralizzato dalla sua violenza, abbandonata come uno straccio sporco, due grosse lacrime gli solcarono il viso. Una era per lei, l’altra per i suoi errori. Hermann alzò gli occhi e, guardando la sacca della flebo, emise un sospiro tremante che gli morì in gola. Era strano come il lager di Sachsenhausen, disumanizzandolo, lo avesse reso più umano, capace di guardare ai ricordi da un’altra prospettiva, di rendersi conto dell’inutilità dell’odio razziale, per il quale aveva sacrificato i migliori anni della sua vita, di entrare nelle ferite inferte a Sarah e di piangerne di rimorso. E adesso, che era solo, libero da ogni vincolo ideologico e senza difese, diede il nome di amore ai sentimenti vissuti a Fossoli. Hermann alzò un po’ la mano e rivolse un altro sguardo all’ago della flebo. Presto, la febbre sarebbe passata e avrebbe ritrovato le forze per mettersi in viaggio e riabbracciare la sua Sarah.

 

Napoli

 

Era da un po’ di giorni che Sarah si svegliava di buon umore al pensiero di Matteo e, con il sorriso sulle labbra, iniziava a contare le ore che la separavano dal loro prossimo incontro. Durante il giorno, a casa, a lavoro, per strada, brividi di felicità, all’improvviso, la scuotevano al ricordo delle loro passeggiate al tramonto che sfociavano nel rincorrersi giocando ad acchiapparella in riva al mare e dei loro giri in barca con la promessa di farle vedere un giorno le bellezze di Sorrento. Con Matteo, Sarah aveva trovato un amico e ritrovato la spensieratezza di fanciulla, vivendo, senza nemmeno accorgersene, una tappa che, a causa di Hermann, era stata costretta a bruciare. Inconsapevolmente innamorata, pendeva sognante dai suoi racconti di mare e di pescatori, sorrideva con aria serena alle sue risate per le battute di Pulcinella, guardando lo spettacolo dei burattini e si compiaceva di quel suo timido e goffo corteggiarla.

Inseguita da Matteo, Sarah correva a perdifiato sul bagnasciuga, ridendo a squarciagola e sfogandosi in gridolini di felicità. La brezza d’inizio estate spruzzava in viso gocce salate e la sabbia, sollevandosi al loro veloce passaggio, pizzicava alle caviglie. Nello sfondo degli ultimi bagliori del sole, correvano senza una meta ma con l’obiettivo di tenersi stretta quella felicità, protraendola all’infinito per non relegarla a un semplice ricordo. Poi Sarah fuggì in strada e, fermando la sua corsa davanti a un palazzo diroccato, si volse verso Matteo, ormai a pochi passi da lei. Guardandolo con aria vispa, s’infilò le scarpe e, per un attimo, abbassò lo sguardo. Nemmeno il tempo di rialzare gli occhi che Sarah subito li chiuse all’inaspettato tocco di due labbra appoggiate alle sue. E il bacio di Matteo sapeva di acqua di mare e dei profumi portati dal vento dell’estate, di fuochi accesi sulla spiaggia e di albe stellate, della tenerezza di un’esperienza non ancora maturata, poiché quello doveva essere senza dubbio il suo primo bacio, e sapeva anche del ricordo di Hermann. Indietreggiando a occhi socchiusi, Sarah allontanò le labbra dal bacio gentile di Matteo e, senza accorgersene, entrò nella casa abbandonata, mentre la memoria del cuore la riportava al primo bacio di Hermann, profondo e determinato, passionale e travolgente, che aveva dilatato i suoi sensi e le sue emozioni, fino a farla sentire desiderata e amata, illusoriamente.

Frenato di colpo il ricordo, che le aveva lasciato sulle labbra un sapore agrodolce, Sarah si guardò attorno e, senza nemmeno sfiorare il discorso del bacio di Matteo, come se fra loro non fosse successo nulla, gli chiese smarrita: “Dove siamo qui?”

C’erano fogli dappertutto, su scrivanie e in mobili posizionati alla rinfusa e, alle pareti, vi erano disegnate delle svastiche, malamente cancellate. L’abbandono e la sporcizia regnavano ovunque, nel tetrore di quella grande stanza.

“Qui c’erano i tedeschi. Era il loro stazionamento durante la guerra”, rispose il giovane, tristemente meravigliato per la tanta facilità con la quale Sarah si era fatta scivolare addosso le emozioni del suo bacio, per lui il primo e sfogò il suo dispiacere in parole di rabbia verso i nazisti, i nazifascisti, l’8 settembre, l’attacco ai cantieri e l’occupazione della città.

Alle orecchie di Sarah, la voce di Matteo arrivava come un suono lontano, ovattato, indecifrabile e, nella sua mente, si concatenavano i ricordi di Hermann, dell’arroganza nel suo sguardo glaciale e nella sua voce imponente, nel suo portamento fiero e nel suo passo risoluto, della crudeltà nei suoi modi di fare e degli slanci di tenerezza verso di lei, che la facevano sentire al sicuro e che rendevano amabili finanche le sue brutture.

“Matteo”, lo interruppe Sarah, con voce afflitta. “Io sono ebrea”, disse, più per ricordarlo alla se stessa di Fossoli che per confidarlo a Matteo.

E negli occhi scuri del giovane vide un improvviso lampo che, intensificandosi, esprimeva un groviglio di sentimenti, di stupore, di tristezza, di compassione, di imbarazzo, di paura.

Rimasto senza parole a quella rivelazione, distolse lo sguardo da Sarah, dai suoi occhi lucidi e quasi imploranti di una risposta, per rivolgerlo a una finestra senza vetri e, con voce spezzata, riuscì soltanto a dire: “Si sta facendo buio. Devo andare a lavorare.”

Uscì in gran fretta e Sarah, ferma sull’uscio, seguì con lo sguardo la sua corsa sulla spiaggia verso la banchina, fino a quando non divenne un puntino lontano, indistinguibile tra la folla di pescatori. Era certa che non lo avrebbe più rivisto e, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime trattenute, si sorprese dolcemente innamorata di Matteo e ancora prigioniera del suo folle amore per Hermann.

 

“Quante volte lo lascerei,

sai quante volte di nuovo io lo inventerei.

Io porto i segni del suo dolore

e lui respira seguendo il ritmo del mio cuore.

E dalla ruota del mio destino

lui sale e scende

ed ogni volta sembra un po’ più grande.”

 

Mia Martini, Quante volte



[1]Cameriera.

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Capitolo 8
*** Di mute parole d’amore ***


Capitolo 8

 

Di mute parole d’amore

 

“La memoria è uno strumento molto strano, uno strumento che può restituire, come il mare, dei brandelli, dei rottami, magari a distanza di anni.”

Primo Levi

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Matteo correva verso la banchina, chiedendosi perché mai fosse fuggito in quel modo lasciando Sarah con chissà quale idea sbagliata sul suo conto. La rivelazione della ragazza aveva aperto un varco nella sua memoria, facendo riemergere dei ricordi dolorosi, caduti in quello stato di oblio per mezzo del quale lui, come tante altre persone, aveva fronteggiato i traumi dell’immediato dopoguerra. Correndo, mentre il vento schiaffeggiava in viso, poteva avvertire di nuovo dentro di sé e sulla propria pelle il dispiacere provato, quando ancora frequentava la scuola di avviamento al lavoro, per l’inspiegabile allontanamento di un suo compagno di classe, all’indomani delle vergognose leggi razziali, compagno che non rivide mai più. Davanti agli occhi della mente gli passavano le immagini di quegli ignobili cartelli esposti nelle vetrine dei negozi e sulle porte dei locali con la scritta “vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei” e nella sua testa riecheggiavano gli orribili e, a quei tempi, inverosimili racconti di ciò che accadeva agli ebrei in Germania. Sarah era ebrea. Correva Matteo, forse per scappare da quel senso di inadeguatezza, immaginando le sofferenze che la ragazza di cui si era innamorato aveva patito, anche a causa dell’indifferenza di tanti italiani, e della sua; o forse fuggiva per la paura di una nuova ondata di odio razziale che avrebbe potuto coinvolgere anche lui, intraprendendo una relazione amorosa con Sarah; correva Matteo, mentre la testa gli si riempiva di domande, a cui il suo cuore aveva già dato una risposta.

 

Berlino

 

Sua madre spalancò le finestre per lasciar entrare l’aria buona e leggera d’inizio estate ed Hermann socchiuse gli occhi alla luce di un raggio di sole, mentre suo padre si apprestava ad aiutarlo a sollevarsi. Sedutosi sulla poltrona accanto al letto, seguì con lo sguardo sua madre che apriva l’armadio, alla ricerca della biancheria pulita, rovistando tra le sue uniformi e i cimeli di una vita che ormai non gli apparteneva più, il cui ricordo poteva soltanto suscitargli paura e tristezza.

“Perché avete ancora quella roba?” domandò Hermann, rivolgendo lo sguardo a suo padre e fu lui a rispondergli.

“Sono i ricordi di un passato glorioso e la speranza di un ritorno al potere”, disse con tono di sufficienza, come se quella fosse la cosa più scontata al mondo.

I suoi genitori erano ancora nazisti.

“Un passato vergognoso che non sarebbe mai dovuto esistere e che non potrà mai più ritornare”, ribatté Hermann, stringendo di rabbia i denti.

“Figliolo, quale lavaggio del cervello ti hanno fatto i russi?” fece suo padre, con un’espressione di meraviglia mista a compassione e la sua memoria andò alle notti di Fossoli, a quando, tra le braccia di Sarah, ogni ideologia nazista e ogni suo progetto non avevano più alcuna importanza e lui smetteva di essere l’acerrimo comandante del campo.

“L’ho capito ancor prima dell’arresto che tutto ciò fosse una pazzia, ma non riuscivo ad ammetterlo a me stesso”, confessò Hermann, mentre gli occhi pian piano gli diventavano lucidi. “Non sono state le botte dei russi a farmelo capire, ma l’amore. Io mi sono innamorato di una ragazza ebrea.”

Questa volta, fu sua madre a rispondergli, con un tonfo sul pavimento.

“Birgit!” urlò suo padre, correndole in aiuto.

Sua madre era svenuta ed Hermann ne rimase impassibile, mentre, con gli occhi della mente, rivedeva il viso di Sarah incorniciato tra le sue mani, illuminato di bellezza e passione e in procinto di stendersi in un dolce e ampio sorriso, prima di rotolarsi assieme ridenti tra le lenzuola.

 

Napoli, luglio 1946

 

Era ormai da una settimana che Matteo non si faceva più vivo e Sarah aveva smesso di sorridere, intrappolata in un vortice di interrogativi, che ruotavano attorno a un’unica domanda, al “perché” il giovane fosse fuggito in quel modo. Era bastato soltanto dirgli di essere ebrea per farlo allontanare per sempre da lei, forse impaurito, e non riusciva neanche a immaginare una possibile reazione, di Matteo o di qualsiasi altro uomo, se avesse confessato della sua storia con Hermann. Nessuno mai l’avrebbe compresa nel suo incoerente groviglio di sentimenti, o più voluta a causa della sua disonorabilità ed era destinata a una vita di solitudine; nessuno l’avrebbe sposata e mai avrebbe realizzato il suo sogno di famiglia, al quale ambiva sin da bambina, ed era condannata a un futuro di tristezza. Era il giorno del suo compleanno e Sarah lo aveva proprio dimenticato, così persa nei suoi malinconici pensieri. A ricordarglielo fu la sua amica, che la svegliò con un caffè e un fazzoletto[1] e, con un’allegra canzoncina di buon compleanno, riuscì a strapparle un lieve sorriso. Non era poi così sola.

Poi, con espressione vispa, Hannah le sventolò davanti agli occhi, spalancati di perplesso stupore, una busta da lettera, dicendole: “Sei stata molto fortunata, Sarah. Il signor Gennaro ti ha concesso l’intera giornata di riposo e, in più, ti manda questa.”

Le porse la busta e, quando l’aprì, Sarah quasi si commosse nel vedere all’interno due giorni di paga.

“Fossi in te stamattina andrei al mare”, proseguì Hannah, sorridente.

“E poi andrei a comprarmi un bel vestito per questa sera”, concluse, alludendo a una possibile sorpresa.

Con gli occhi lucidi, stordita dall’emozione, Sarah aveva dei buoni motivi per non essere triste in quel giorno. E iniziò con l’ascoltare il primo consiglio della sua amica, indossò il costume da bagno e un vestito, entrambi color turchese, prese la sua vestaglietta a stampa floreale e corse in spiaggia. La folta presenza e l’euforica allegria dei bagnanti facevano sembrare la guerra, con tutte le sue drammatiche conseguenze, soltanto un ricordo lontano e poco importava se, alle loro spalle, ci fossero ancora cumuli di macerie e case diroccate. Con un sorriso a fior di labbra d’inguaribile malinconica, Sarah guardava la vita continuare, nei bambini che giocavano nella sabbia e negli adulti che prendevano il sole, nei ragazzi che facevano caciara[2] e nelle ragazze che ridevano al loro corteggiamento, nelle forze dell’ordine che di tanto in tanto sorprendevano qualche donna con indosso quel tanto chiacchierato costume da bagno chiamato bikini, nei pescatori che accostavano le loro barche alla riva per vendere il pesce appena pescato. E, mentre la folla di bimbi curiosi e di persone interessate ad acquistare si avvicinava spedita all’imbarcazione, i suoi pensieri non potevano che andare a Matteo, ai loro giri in barca e alle loro passeggiate al tramonto, al suo timido bacio e alla sua inspiegabile fuga. Socchiuse gli occhi, che bruciavano per la luce del sole e il calore di lacrime trattenute e poi, aggrappandosi al suono rilassante delle onde e al brusio felice della gente, decise di lasciarsi scivolare quel dolore e tenersi del giovane pescatore un bel ricordo. Pian piano, rasserenò il viso e, aprendo lo sguardo al golfo di Napoli, alle sue isole e al suo Vesuvio, indirizzò i pensieri alla festa che l’attendeva di lì a poche ore, stringendosi forte a quella sensazione di entusiasmo. Fantasticando sulla sorpresa che il signor Gennaro e i suoi colleghi avevano in serbo per lei, tra un tuffo in acqua e una chiacchierata con qualche cordiale signora, il suo umore si risollevò e anche Sarah sembrò contagiarsi di quella strana e collettiva spensieratezza della prima estate dopo la fine della guerra. Verso mezzogiorno il sole iniziò a scottare e la sete a farsi sentire. Sorridente, mise la sua vestaglietta a stampa floreale e si avviò in fretta verso il chioschetto per comprare una limonata. Prese la bibita, ringraziò l’allegro e anziano acquafrescaio e, sorseggiando lentamente, si volse verso gli incalcolabili chilometri di spiaggia e la movimentata vita dei suoi bagnanti. Ma la visuale di Sarah fu subito ostacolata dall’improvvisa comparsa di due ragazzi che le piombarono davanti con un’aria ridicola di spavaldi conquistatori.

“Ciao, lo sapete che siete bellissima? Vi possiamo conoscere?” proruppe uno dei due, quello un po’ più alto.

Alla loro espressione sottilmente maliziosa, Sarah, dapprima, s’infastidì, poi rimase impietrita mentre la sua testa e i suoi sensi associavano quella scena a una situazione già vissuta, a Fossoli, qualche giorno prima dell’eccidio degli internati politici. Anche allora era luglio, anche allora l’aria era tremendamente calda.

 

Sarah uscì di corsa dalla baracca. Dentro, il caldo era opprimente, per l’eccessivo affollamento e per il sole che, inesorabile, batteva sul tetto e penetrava dalle finestre e da ogni possibile fessura. Ma a spingerla fuori era stato anche, e forse soprattutto, un senso di oppressione che le aveva reso difficile respirare e scalpitante la voglia di fuggire. Di notte, Hermann sembrava amarla per davvero ma, di giorno, era come se lei non esistesse. Ferma sull’uscio, Sarah tentava di farsi vento soffiandosi in viso con un fazzoletto, fino a quando non le si fermarono davanti due soldati delle SS. Frenò il più minimo movimento e ogni suo malinconico pensiero, a quelle risatine e a quegli sguardi maliziosi verso di lei che traducevano perfettamente il loro dialogo in tedesco. Il cuore le batteva forte, mentre il timbro di voce e gli occhi dei due soldati si avvampavano sempre di più nel fermento della malizia, e avrebbe voluto indietreggiare, nascondersi nella baracca, ma temeva una loro violenta reazione. I tedeschi, infatti, negli ultimi tempi, erano diventati più cattivi. Poi quello più alto fra i due, continuando a parlare e sghignazzare con il suo commilitone, le mise una mano fra i capelli, arricciandole una ciocca attorno al dito, e Sarah, sempre più ansimante di vergogna e paura, sperava che Hermann apparisse da un momento all’altro per salvarla da quella situazione, per difenderla, proteggerla. E, anche se i minuti, i secondi che scorrevano sembravano per lei infiniti, quel momento non tardò ad arrivare. I due soldati scattarono sull’attenti. Sui loro volti c’era adesso un’espressione di sorpreso imbarazzo e legittimo timore, davanti alla figura austera di Hermann e al suo sguardo severo, lo stesso che per un attimo rivolse anche a lei. Poi iniziò a parlare in tedesco ai suoi subalterni, in un crescendo di voce sempre più incalzante e autorevole e, alle ultime parole, pronunciate quasi urlando, i due soldati batterono di nuovo i tacchi e andarono via. Rimasti da soli, Hermann la fissò per alcuni istanti ma, davanti ai suoi occhi lucidi di sgomento per ciò che le era appena accaduto e quasi imploranti di una qualsiasi parola gentile, non rabbonì lo sguardo e, afferrandola per il braccio, la indirizzò verso l’ingresso della baracca.

“Devi uscire da qui solo per venire da me, hai capito?” la rimproverò, con voce bassa e dura, stringendole forte il braccio fino a farle male.

Sarah annuì con un cenno della testa, contorcendo il viso in una smorfia di dolore, mentre Hermann la spinse nella baracca. Si accarezzò dolorante il braccio e, pian piano, quella smorfia di dolore si trasformò in un mezzo sorriso, nel ripensare agli occhi adirati di Hermann come a occhi infuocati di gelosia e nel cogliere, dal suono della sua voce incollerita, le vibrazioni di mute parole d’amore, fantasie con le quali nutrì il suo cuore affinché sopravvivesse fino a sera. E fece della sua immaginazione una certezza quando seppe che Hermann aveva punito quei due soldati facendoli marciare per quattordici chilometri, scortati in macchina da un sottoufficiale.

 

Con l’espressione di chi sembrava aver visto un fantasma, Sarah scappò via, lasciando quei due ragazzi in uno scambio di sguardi attoniti. Correva per sfuggire e, allo stesso tempo, andare incontro al suo bisogno del verde profondo di quegli occhi glaciali e dell’accento tedesco di quella voce imponente, di sentirsi protetta da quelle mani forti. Sarah aveva ancora bisogno di Hermann e, fra i suoi ricordi, il giovane pescatore era diventato quello più lontano.

 

“E io non le credevo ma

nella mente avevo solo lei.

Dopo un po’ rimase chiusa in me

e qualcosa ora ho ancora dentro.

È amore! Io non so se la risveglierò.

È tutto ciò che io di vero ho.”

 

Alunni del sole, E mi manchi tanto



[1]Dolce di pasta sfoglia.

[2]Trambusto, in dialetto romano.

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Capitolo 9
*** Più forte di una catena ***


Capitolo 9

 

Più forte di una catena

 

“Fui tuo, fosti mia. Tu sarai di colui che ti amerà,

di colui che raccoglierà nel tuo orto ciò che io ho seminato.”

Pablo Neruda, Farewell

 


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

Sarah decise di non darla vinta alla tristezza, di non cedere alla nostalgia di Hermann e, quasi con avida rabbia, afferrò dal comodino i suoi due giorni di paga e uscì di nuovo, con l’intento di fare qualcosa per se stessa per liberarsi dalla malinconia. La sua prima tappa fu in un piccolo negozio di abbigliamento, dove la sua attenzione era già stata attratta da un vestito nero con tanti piccoli fiorellini rossi, esposto in vetrina. Provò l’abito e lo specchio le rimandò l’immagine di un viso un po’ scurito dal sole e spento dallo sconforto, di un corpo più tondito dall’aria buona del sud e piegato dai ricordi del dolore e dell’amore. Fu come vedere sulle proprie spalle tutto il peso che portava dentro di sé della sofferenza per ciò che aveva vissuto durante la guerra, il disprezzo della gente, la separazione dalla famiglia, e per ciò che avrebbe voluto continuare a vivere nel campo di Fossoli con il tenente Hermann. Ma il vestito le stava bene e Sarah tentò ancora di aggrapparsi a quel sottile filo di entusiasmo per la festa a sorpresa che l’attendeva di lì a poco tempo e così sfuggire alla tristezza del suo passato. E si obbligò a riuscirci.

Fece una giravolta davanti allo specchio e, sorridendo compiaciuta alla propria immagine riflessa, si rivolse alla seriosa e compassata negoziante. “Lo prendo… E prendo anche quei sandali con la zeppa in sughero”, disse, indicando uno scaffale vicino alla porta.

Uscì dal negozio con indosso il vestito e i sandali nuovi e, fermatasi davanti a un salone di parrucchiere, decise che era arrivato il momento di cambiare qualcosa di sé, per iniziare a scucirsi di dosso quel pezzo di vita, fradicio di infinite lacrime e logoro di folli rimpianti. Sarah guardava dallo specchio i suoi capelli fluttuare sul pavimento e le mani di Hermann, che amavano tanto affondarvici dentro, diventare un ricordo un po’ più lontano. Sentì di essere libera e si forzò a sorriderne, mentre il loquace parrucchiere le portò i capelli a una lunghezza media, sistemandoglieli in un’acconciatura con onde e riga laterale e persuadendola a farsi applicare in viso un velo di trucco e colorare di rosso le labbra e le unghie. Uscì dal salone e, prima d’incamminarsi verso casa, alzò le spalle in un profondo respiro: si sentiva più bella, più forte, pronta a ricercare la felicità nella propria vita, pur senza un uomo al suo fianco, pur senza Hermann.

“Ma guardati, Sarah, sembri un’attrice di Hollywood!” esclamò piena di entusiasmo Hannah, che la stava aspettando sull’uscio di casa, prendendola per mano e facendole fare una mezza giravolta.

“Esagerata!” rispose Sarah con una risatina ironica e, varcata la porta d’ingresso, il cuore le sobbalzò e le sue labbra si aprirono in un sorriso a trentadue denti al rimbombante e gioioso urlo di “sorpresa”.

Se l’aspettava, ma vederli tutti lì, il signor Gennaro con la moglie e tutta la sua famiglia, i suoi colleghi e i clienti più affezionati del Gran Cafè, che le si avvicinavano sorridenti per farle gli auguri e porgerle un regalo, fu comunque una grande e incontenibile emozione. Quelle braccia protese verso di lei per abbracciarla, quegli sguardi che riflettevano un affetto sincero, quei baci sulla guancia che sigillavano tenere e incoraggianti parole di auguri la facevano sentire a casa e le restituivano il calore di una famiglia. Era proprio vero: tante persone le volevano bene e non poteva più dirsi sola.

Dopo la cena, costituita da un’allegra spaghettata, in tutta la casa si sparse un profumo di caffè e di dolci e, da lontano, iniziarono a giungere le note di “’O surdato ’nnammurato”, una canzone dal ritmo vivace e dal significato struggente, tanto famosa che anche Sarah aveva ormai imparato.

E, mentre il suono di quella voce tonante e avvolgente, accompagnata da chitarra e mandolino, si faceva sempre più vicino fino a risuonare nella casa, Sarah, pensando che fosse un’altra sorpresa del signor Gennaro e dei suoi colleghi, allargò il sorriso e disse alla sua amica: “No, pure la serenata? Non ci posso credere!”

All’ultima nota, tutti applaudirono mentre Hannah si alzò di scatto per andare ad accogliere il giovane e corpulento cantante e, da dietro le sue grosse spalle, apparve Matteo, ben pettinato e vestito e con in mano un mazzo di fiori. Il cuore di Sarah accelerò di un battito per lo stupore di rivederlo e nel ricordare i loro giri in barca, le loro corse in spiaggia, il suo bacio a fior di labbra, ma il suo sorriso si spense, palesando il risentimento per la sua inspiegabile fuga e la sua assenza protratta per ben una settimana. Davanti allo sguardo di Matteo, che la fissava con l’espressione di chi sembrava aver avuto una visione celestiale, Sarah abbassò gli occhi e, intanto, la musica riprese, più lenta, più triste. Il cantante iniziò a dare voce e gestualità al tormento di una passione descritta come più forte di una catena e i pensieri di Sarah non poterono che andare a Hermann. Sulle note di quella struggente canzone, gli occhi di Sarah e di Matteo cominciarono a muoversi, abbassandosi e rialzandosi, nascondendosi e ricercandosi, in una danza di sguardi lucidi, per lei di malinconia e tristezza, per lui di sospirante attesa. D’un tratto, la moglie del signor Gennaro le si avvicinò e, sedendosi accanto, la prese per mano.

“Vai, Sarah. Non aver paura, è un bravo ragazzo. Mio marito ha preso informazioni su di lui, vai”, le sussurrò all’orecchio, strattonandole lievemente il polso, nel tentativo di farla alzare.

Ma Sarah svincolò la mano, incrociò le braccia con un broncio quasi da bambina e non si mosse dalla sedia. Alzarsi da quella sedia, avvicinarsi a Matteo, accettare i suoi fiori significava rassegnarsi all’idea che Hermann fosse morto, lasciar morire il ricordo dei suoi occhi verdi di smeraldo per due occhi color terra, delle sue mani morbide e bianche per due mani scure e callose, della sua pelle dal profumo orientale che evocava luoghi sconosciuti per una pelle dal perenne odore di alghe e salsedine, dimenticare il suono della sua voce, il sapore delle sue labbra, le loro notti di passione a Fossoli e lei non era poi così sicura di volerlo fare realmente, di volersi realmente liberare da quelle catene. Fu colta da un improvviso senso di vuoto nel petto e il cuore iniziò a batterle più in fretta, agitato dalla prospettiva di un futuro di solitudine e si sentì di nuovo fragile. Fu la paura a spingerla ad alzarsi e ad andare verso Matteo, con l’andatura e l’espressione di chi sembrava andare incontro a una condanna. Prese i fiori, senza nemmeno un sorriso e, mentre le sue labbra disegnavano un debole “grazie”, due grosse lacrime le caddero dagli occhi. Sarah guardava Matteo, i suoi occhi scuri spalancati di interrogativi e le sue labbra asimmetriche socchiuse di ammirazione, e pensava a Hermann, all’ultima immagine che aveva di lui, inginocchiato con espressione persa e impaurita davanti ai fucili partigiani. E, intanto, il cantante interpretò gli ultimi versi:

 

“Te voglio bene,

te voglio bene assaje.

Si’ tu chesta catena

ca nun se spezza maje.

Suonno gentile,

suspiro mio carnale,

te cerco comm’a ll’aria,

te voglio pe’ campà!”

 

(Dicitencello vuje, Rodolfo Falvo & Enzo Fusco)

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Capitolo 10
*** Come sassi sulle onde del mare ***


Capitolo 10

 

Come sassi sulle onde del mare

 

“L’amore ti cambia i battiti del cuore, la direzione del sangue, ti fa crescere invisibili strutture alari dentro le ossa, ti cambia persino il senso del gusto. Non ti riconosci più. O forse è solo in quel momento che ti riconosci davvero.”

Fabrizio Caramagna

 


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

“Non erano lacrime di gioia quelle, vero?” fece Matteo, con la voce spezzata dallo sconforto e Sarah alzò la testa, rivolgendogli lo sguardo in un’espressione quasi d’insofferenza.

Una ciocca le copriva un occhio e, con le spalle appoggiate al muro fuori casa, teneva le mani dietro la schiena e i piedi incrociati.

“Perché mai avrei dovuto gioire?” ribatté indispettita e, muovendo un po’ la testa, scostò dal viso i capelli. “Sei fuggito senza una spiegazione, sei scomparso per una settimana e adesso riappari con tanto di fiori e serenata.”

Sarah carpì dal suono risentito della propria voce un’assordante nota di affetto, che la spiazzò e le fece paura.

“Mi dispiace, Sarah, non volevo sembrarti insensibile o chissà cos’altro”, riprese Matteo, più mortificato, più emozionato. “È solo che mi sono tornate alla mente tante cose e avevo bisogno di fare chiarezza nei miei sentimenti. Io mi sono innamorato di te dal primo momento che ti ho vista, appoggiata alla ringhiera della banchina, mentre guardavi il mare.”

Gli occhi di Sarah divennero più lucidi, più dolci e, senza sapere come, si ritrovò con le mani nelle mani di Matteo, che, con sguardo somigliante al suo, proseguì il discorso: “Il signor Gennaro mi ha detto che sei stata in un campo di concentramento a Fossoli e che sei riuscita a scappare durante una rivolta dei partigiani. Mi dispiace davvero tanto, Sarah, per quello che hai dovuto subire.”

Sarah poté udire il battito accelerato del proprio cuore, mentre davanti agli occhi della mente le passarono in un attimo tutte le immagini, belle e drammatiche, della sua storia con Hermann e tentò di rivelarla a Matteo.

“Matteo, io devo parlarti”, biascicò, ma fu subito interrotta dalla comparsa del signor Gennaro sull’uscio di casa.

“Sarah, devi rientrare per il taglio della torta”, disse, con un fare severo che divise di colpo le loro mani.

Sarah guardò Matteo con occhi lucidi di parole trattenute, di drammi vissuti, di ferite aperte e lui, con un’espressione empatica, rispose: “Domani sera, vicino alla cassa armonica.”

 

Berlino

 

Era da un po’ di giorni che Hermann aveva ripreso a mangiare da solo, ad alimentarsi senza l’aiuto della flebo e il dolore, che prima avvertiva in tutto il corpo, andava via via mitigandosi. Fumando una sigaretta, dopo una lunga e forzata astinenza, si guardava intorno alla stanza, alla ricerca di un qualcosa, un oggetto, una sensazione, che lo facesse sentire a casa. Ma quella non era più casa sua e coloro che lo avevano messo al mondo, ancora avvinti dalla mentalità nazista, non erano più la sua famiglia. O forse era lui a non essere più lo stesso. La sigaretta non gli dava più piacere e la spense nel posacenere sul comodino. Continuando a guardarsi attorno, poteva soltanto rivedere le immagini della sua storia con Sarah, in un concatenarsi di momenti belli e drammatici, e sulle labbra si ritrovò il sapore salato del loro ultimo bacio. Era Sarah la sua famiglia e lui doveva ritornare a casa, tra le sue braccia. Iniziò a chiedersi dove fosse in quel momento e, mentre la sua mente si aggrovigliava in congetture, il suo cuore scalpitava sempre più nel desiderio di ritrovarla. Forse Sarah era rimasta a Modena e adesso stava preparando la cena per suo marito, uno dei partigiani che l’avevano salvata da Fossoli, o forse era tornata a Roma e adesso stava aiutando sua madre a portare i piatti in tavola, prima di sedersi con i suoi affetti e la sua fanciullezza ritrovati. In entrambe le ipotesi, Sarah sorrideva e lui era soltanto un triste capitolo della sua vita che aveva ormai dimenticato. Il pensiero di averla ormai persa per sempre divenne sempre più forte, in un’escalation di paura, ansia, irrequietezza che lo spinse, con una forza che, dopo Sachsenhausen, credeva irrecuperabile, ad alzarsi dal letto e a recuperare dall’armadio una valigia.

 

Napoli

 

“Io e la mia famiglia non eravamo né fascisti né antifascisti e non eravamo fra quelli che hanno combattuto per cambiare le cose”, iniziò a dire Matteo, con una punta di mortificazione nella voce e nello sguardo. “Le leggi razziali ci mettevano tristezza ma eravamo troppo presi dalla nostra sopravvivenza. Con lo scoppio della guerra, eravamo diventati molto poveri e a casa nostra si pensava soltanto a cosa e se avremmo mangiato l’indomani.”

Sarah guardò commossa il suo viso, velato dall’ombra di tristi ricordi e, nella cornice dei suoi disordinati ricci neri, ne colse la bellezza tra i colori rosso e arancio del cielo al tramonto. Passeggiando sul bagnasciuga, si ritrovarono nei pressi del Miranapoli, l’albergo a picco sul mare, e si fermarono lì, dove il fondale era meno sabbioso e i ciottoli davano pizzicore ai loro piedi nudi. Le onde si infrangevano delicate sugli scogli, che sulla riva formavano un semicerchio, che sembrava accoglierli come in un abbraccio, e spruzzavano su di loro gocce d’acqua leggere e sottili come la rugiada.

In un improvviso slancio di affetto, Matteo le prese il viso tra le mani, incorniciando il luccichio dei suoi occhi color miele e il tremore delle sue labbra rosate e, con espressione seria, ribadì: “Io non sono scappato perché mi hai detto delle tue origini.”

“Lo so”, rispose Sarah, in un sussurro.

L’aria, i suoni, i colori tutt’attorno creavano fra i due l’atmosfera giusta per un tenero bacio, che però non avvenne. Prima che le labbra di Matteo potessero sfiorare le sue, Sarah si scansò un po’, lasciando scivolare il viso sulla sua spalla, dove trattenne una lacrima.

“Mi dispiace”, biascicò e, alzando lentamente il capo, s’imbatté in due occhi scuri che, luccicando di stupore e delusione, la mortificarono ancor di più.

Con dita tremanti, gli prese le mani e, con voce rotta dalla commozione e occhi velati di lacrime, gli disse: “Matteo, tu sei un bravo ragazzo e, prima che fra di noi le cose diventino più serie, devi sapere la verità.” Con un profondo sospiro, Sarah si preparò a dirgli di Hermann. “Hai mai sentito parlare di Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Ravensbrück?”

“Sì, di Auschwitz sì”, ribatté Matteo, afflitto.

“Fossoli era un campo di transito e le persone che finivano lì erano destinate a questi campi di sterminio nazisti. E anche io lo ero. Ma, appena arrivai a Fossoli, piacqui subito a un ufficiale tedesco che comandava il campo.” Sarah emise un altro sospiro e gli lasciò le mani, mentre temeva e sperava che Matteo scappasse via di nuovo, stavolta davvero per sempre. “La prima volta abusò di me ma poi accettai il compromesso.”

Forse fu il pudore di vederle riaprire quella ferita o la paura di scoprire di lei un lato incompatibile con la ragazza che aveva davanti a far sì che Matteo la interrompesse, prendendole di nuovo il viso tra le mani e dicendole: “Sarah, non è necessario tutto questo. Non m’importa di quello che hai dovuto fare per sopravvivere. M’importa di te, adesso.” Con i pollici iniziò ad accarezzarle le guance calde e arrossate. “Della ragazza straordinaria che ho qui di fronte a me.”

Le parole di Matteo, dal tono tenero e deciso, spiazzarono Sarah, lasciandola confusa e dibattuta in una tempesta di sentimenti contrastanti di delusione e di gratitudine. Lui non l’aveva giudicata e nemmeno aveva preso parte al dolore del suo passato. Lui non era il grande amore della sua vita ma aveva aperto le braccia per stringerla a sé, per accoglierla nonostante il suo disonore. Forse nessun uomo lo avrebbe più fatto. Lui l’avrebbe curata dall’ossessione per Hermann e dai vuoti della solitudine. Sarah si abbandonò nell’abbraccio di Matteo e, a quel suo sentirsi amata, il suo cuore rispose con un sussulto d’amore. Poi, tenendo premuta la guancia sul suo petto, rivolse lo sguardo verso l’orizzonte imbrunito dal crepuscolo della sera e affidò al mare i suoi ricordi, come sassi lanciati sulle onde.

 

“Noi due che dell’errore, abbiamo fatto amore.

Noi due, due arterie diverse dello stesso cuore.

Tu, ora dove sei?

Se vivi un’altra storia, con chi stai?

Chi ti prenderà?

Chi ti stringerà?

Chi ti griderà sei unica?

Che danno è amore.”

 

Antonello Venditti, Unica

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Capitolo 11
*** Ebrea per un quarto (Prima parte) ***


Capitolo 11

 

Ebrea per un quarto

 

Prima parte

 

- Improvvisamente sola, improvvisamente più grande -

 

“Nelle intenzioni fasciste, [in Italia] la caccia all’ebreo non avrebbe dovuto essere meno accanita che nella Germania alleata, ma è stata ampiamente vanificata dalla sensibilità umana degli italiani, dalla indifferenza politica di allora, e dal discredito di cui il fascismo si era ormai coperto.”

Primo Levi, Perché non ritornino gli olocausti di ieri

 


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Roma, gennaio 1944

 

Il grande Crocifisso dominava la navata centrale della chiesa e, fissandolo, come se tutt’attorno non ci fosse nessuno, i pensieri di Sarah si rincorrevano veloci, spaziando nei ricordi di avvenimenti recenti e concludendosi in “perché” da rivolgere a Dio, anche Lui ebreo, anche Lui perseguitato.

Solo pochi mesi prima aveva scoperto di essere ebrea, che nelle sue vene scorreva per il 25% sangue ebreo, quando, dopo il 16 ottobre, a casa sua s’iniziò a respirare una strana aria di tensione e paura. Nonostante suo padre avesse difeso la Patria durante la Grande Guerra, nonostante lei e la sua famiglia vivessero da onesti cittadini e buoni cristiani, si ritrovarono improvvisamente apolidi e, subito dopo, ricercati dalla polizia tedesca e da quella italiana. Tutto era successo così in fretta da non sembrarle vero.

Da un giorno all’altro, suo fratello aveva smesso di essere un ragazzo, quell’amico con il quale lei scherzava, litigava e giocava, per diventare improvvisamente uomo, imbracciare un fucile e sparire nella Resistenza. Sua madre ne portava già il lutto.

Ogni notte, intravedeva suo padre nel buio della cucina, seduto con i gomiti poggiati sul tavolo e la testa fra le mani, alla ricerca di una possibile soluzione per sfuggire all’ignoto destino crudele che li attendeva mentre sua madre gli stava accanto, passandosi da una mano all’altra un fazzoletto con il quale, di tanto in tanto, asciugava una lacrima. Prima che potessero perdere la casa, i suoi genitori avevano deciso di intestarla a un certo Gennaro, un amico napoletano che suo padre aveva conosciuto al fronte tra gli orrori delle trincee e che adesso possedeva un bar vicino al mare di una città della provincia di Napoli.

Da quel momento in poi, lei e la sua famiglia iniziarono a vivere come fantasmi, passando di casa in casa, fino a quando la lista di amici fidati non si concluse con il caro don Franco, l’anziano parroco della loro parrocchia.

“Padre, come riuscite a conciliare ciò che predicate con tutto questo?” fece suo padre, senza rabbia ma con una punta di rassegnazione nella voce.

Sarah era tornata nella realtà presente e, per un attimo, alzò lo sguardo verso la cantoria, dove lei cantava ogni domenica, fino a quando alcuni, tra coro e assemblea, non cominciarono a guardarla male e adesso sapeva che il motivo non era una sua possibile stonatura.

“Cari figlioli, non confondete il silenzio della Chiesa con l’indifferenza”, rispose il sacerdote, mettendo le mani sulle spalle dei suoi genitori per incoraggiarli. “Stiamo in silenzio per poter agire meglio: è la nostra resistenza passiva. Il Santo Padre ci ha dato tutte le indicazioni per mettere in salvo quante più persone possibili.”

“Sarah starà al sicuro?” intervenne sua madre, con voce spezzata.

“Non temete, la madre superiora le ha già preparato dei documenti falsi. Fra dieci o quindici giorni una suora verrà a prenderla e, nel frattempo, resterà qui con i bambini. Ma adesso pensate a voi, don Luigi vi sta aspettando”, ribatté più sicuro l’anziano parroco, per poi avvicinarsi a un’altra coppia di genitori, intenti a salutare il loro bambino.

Sarah non poteva credere che ciò che stava vivendo fosse vero ed entrò come in una bolla, restando immobile agli abbracci e alle carezze d’addio dei suoi genitori, muta e sorda alle loro ultime parole d’affetto e incoraggiamento. Se ne pentì, in seguito.

Smarrita, impaurita, riusciva a udire soltanto i singhiozzi disperati di quel bambino e pensava che anche lei avrebbe voluto fare lo stesso, come il piccolo, ribellarsi all’imminente e straziante distacco. Ma non versò neanche una lacrima per non dare un ulteriore dispiacere ai suoi genitori, che continuavano a guardarla con occhi velati di lacrime e ad accarezzarle il viso con mani tremanti. Li guardò andare via con sguardo perso, implorante un finale diverso e, con un sospiro, trattenne una lacrima, stringendosi nel suo cappotto rosso. Sarah si ritrovò improvvisamente sola, improvvisamente più grande.

“Fatti forza, figliola”, le disse don Franco, poggiandole una mano sulla spalla, “con l’aiuto di Dio supereremo tutto.”

Ma, per lei, era difficile anche solo sperarlo.

 

Due settimane dopo, Sarah sedeva sui gradini dell’altare. La chiesa era fredda e illuminata soltanto dalle candele votive. Nuvolette di fumo le uscivano dalla bocca mentre il freddo del marmo le oltrepassava il cappotto, dentro il quale si era stretta un po’ di più, arrivando fino alle ossa.

In canonica aveva tutto il necessario per vivere dignitosamente ma la mancanza del tepore di casa sua e dei suoi affetti familiari era troppo forte, quasi soffocante e il piagnucolare dei bambini più piccoli non l’aiutava a distrarsi da questa sua insofferenza. Per questo si era rifugiata nel silenzio della chiesa. Ma anche il silenzio non le era d’aiuto.

Sarah alzò lo sguardo verso la porta principale della chiesa dalla quale un tempo, che sembrava già lontanissimo, sognava di entrare vestita di bianco. Adesso non sognava più, ma solo sperava di avere un futuro davanti a sé, di ricongiungersi presto con la sua famiglia, di rivedere suo fratello sano e salvo, che quella suora sarebbe arrivata da un momento all’altro per portarla in un posto più sicuro e che la guerra, con tutte le sue follie, sarebbe presto finita.

All’improvviso, un forte colpo alla porta la fece sobbalzare dai gradini e, per alcuni istanti, rimase impietrita. Ogni suo pensiero era come ghiacciato, annullato sul nascere. A un secondo colpo più forte, sobbalzò di nuovo e, all’udire il rumore di passi svelti e pesanti e il vociare concitato fra italiani e tedeschi, corse verso la canonica. Don Franco era già accorso sull’uscio e le si fermò davanti affannato, pallido come un fantasma, sconvolto, con gli occhi spalancati e le labbra tremanti e la lunga corona del rosario attorcigliata dalle dita al polso, stretta come un’arma.

“Sarah, nell’armadio alla destra della mia scrivania c’è un passaggio che porta in soffitta”, le disse, con voce bassa e spezzata.

“I bambini sono già lì, raggiungili presto e non fate alcun minimo rumore”, concluse più preoccupato, mentre Sarah annuì sgomenta per poi correre verso il rifugio segreto.

Trovò i bambini in silenzio, seduti per terra, rannicchiati al muro, impauriti. I più grandi tenevano tra le braccia i più piccoli, cullandoli lievemente per non farli piangere e Sarah, trafelata e con gli occhi pieni di lacrime trattenute, si unì a quell’abbraccio disperato. Il suo cuore sobbalzava, i suoi occhi si chiudevano, a ogni tonfo di oggetti pesanti rovesciati a terra, a ogni schiamazzo che si faceva sempre più vicino, mentre una ragazzina le si stringeva al collo.

Dalla chiesa, giungevano le urla dell’anziano sacerdote: “Non potete farlo! Questa è la casa del Signore! Dio vi punirà!”

Ma quelli non avevano alcun dio da temere e, mentre i loro passi si affrettavano sulla scala che conduceva alla soffitta, Sarah sapeva che presto la sua vita sarebbe precipitata in un incubo senza possibilità di risveglio. Con violenza, la porta fu aperta. La ragazzina urlò forte, tanto da stonarle un orecchio. E l’incubo ebbe inizio.

 

“Un giorno il denaro ha scoperto la guerra mondiale.

Ha dato il suo putrido segno all’istinto bestiale.

Ha ucciso, bruciato, distrutto in un triste rosario.

E tutta la terra si è avvolta di un nero sudario.”

 

Pierangelo Bertoli, Eppure soffia

 

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Capitolo 12
*** Ebrea per un quarto (Seconda parte) ***


Caro lettore,

prima di immergerti nella lettura di questo capitolo, ti consiglio di rivedere le parti in corsivo del capitolo 6: https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3821421&i=1.

Grazie e buona lettura!

 

Capitolo 12

 

Ebrea per un quarto

 

Seconda parte

 

- Nel mare verde dei tuoi occhi -

 

“Alla fine, ai miei occhi tu eri destinata.”

Pablo Neruda

 


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12 febbraio 1944

 

Sarah aveva smesso di piangere. Tutti nel treno, stretti come sardine, erano stanchi e non versavano più lacrime. I bambini, assieme ai quali era stata arrestata, dormivano, mentre don Franco pregava sommessamente, in un frenetico movimento di labbra, senza rosario, spezzato e perso durante la colluttazione in chiesa da quelli che non avevano alcun dio da temere.

“Dove ci portano?” gli aveva domandato Sarah, conoscendo già la risposta e, intanto, guardò uno dei bambini più piccoli, chiedendosi cosa avrebbe mai fatto un bimbetto come lui in un campo di lavoro forzato in Germania.

Li avrebbero uccisi tutti, come aveva detto suo fratello prima di andar via, e a confermarglielo era stata la risposta di don Franco, priva di una qualsiasi illusoria speranza: “Prega, figliola, prega.”

Si sentì attanagliare il petto da una morsa di paura e rassegnazione, mentre il sovraffollamento e la puzza nel treno, destinato in realtà al trasporto di animali, diventavano sempre più opprimenti. Poi, anche lei, un po’ per stanchezza, un po’ per evasione, chiuse gli occhi e si ritrovò bambina, a correre sulla spiaggia di Santa Marinella, inseguita da suo fratello.

Era il ricordo della loro unica vacanza al mare. Poteva ancora sentirne gli odori, vedere i suoi piedi immersi nella sabbia, udire le risate di suo fratello e le proprie.

Non avrebbe mai più rivisto il mare, suo fratello, i suoi genitori. Sarebbe morta lontana dai suoi cari, in una terra straniera e ostile, più dell’Italia, nell’inferno di un campo che, probabilmente, non era soltanto di lavoro forzato, senza mai conoscere l’amore, senza che il suo grembo conoscesse mai il battito di una vita. I sogni che coltivava sin da bambina si erano infranti, decomponendosi in fretta e rilasciando lo stesso puzzo che imperava nel treno, spirando tra i gemiti di persone innocenti condannate a morte e gli strepiti di un vagone fatiscente.

“Sarah! Sarah! Svegliati!” fece l’anziano sacerdote, scuotendole un po’ il braccio.

Sarah aprì gli occhi, confusa, scarmigliata e, come tutti gli altri, balzò in piedi. Il treno si era fermato.

“Vieni a vedere, Sarah!” proseguì don Franco, con voce di concitata euforia, invitandola a guardare attraverso una fessura del vagone. “Il Signore ha ascoltato le nostre preghiere: siamo ancora in Italia!”

Un raggio di sole sembrò illuminare il cartello della stazione di Carpi, facendolo brillare di mille colori, mentre una voce maschile dal tono pacato e dalla dizione impeccabile, rivolgendosi proprio all’anziano sacerdote, disse: “Qui vicino c’è un campo di concentramento italiano con personale italiano. Sicuramente rimarremo lì fino alla fine della guerra. Ormai manca poco.”

Gli occhi di Sarah, che continuavano a fissare il cartello attraverso la fessura, si velarono di commozione.

“Hai sentito, Sarah?” fece don Franco, anche lui palesemente commosso, ponendole una mano sulla spalla. “Possiamo ancora sperare.”

Ma le porte del treno furono aperte con violenza da quelli che non erano soldati italiani.

E i tedeschi urlavano, un po’ nella loro lingua e un po’ in un italiano stentato, spingevano, strattonavano, picchiavano e aizzavano i loro cani ad abbaiare rabbiosamente contro i malcapitati. Era forse come quella di Fossoli l’accoglienza all’inferno?

Durante il breve tragitto in camion, il volto di don Franco si era corrugato in un’espressione preoccupata e impaurita che non aveva più cambiato, i bambini erano sempre più stremati e insofferenti, mentre Sarah continuava con fatica ad aggrapparsi al conforto di essere ancora in Italia.

Si sentì piccola piccola tra le baracche di un campo che le sembrò grande quanto un’intera città, ancor più fragile nella confusione di una moltitudine di persone disorientate, spaventate, maltrattate da soldati crudeli che sembravano più grossi di quello che in realtà erano.

E, davanti a lei, un tedesco, con indosso una divisa diversa dagli altri, colpì con il frustino un uomo, per poi strattonarlo con violenza. L’uomo rischiò di inciampare, ma a cadere fu lei. Le mani di Sarah sprofondarono nel terreno fangoso e, per un soffio, non sfiorarono gli stivaloni neri dell’ufficiale. In quei pochi e interminabili secondi, poté sentire i battiti accelerati del proprio cuore, che pulsava forte contro la terra sulla quale era distesa, e il respiro farsi più corto e affannoso. Quasi volle piangere, non per il dolore della caduta, ma per la paura di ciò che le sarebbe accaduto, una volta rialzatasi.

Prima che don Franco potesse porgerle una mano per aiutarla, Sarah si fece forza sulle braccia e sulle ginocchia indolenzite e, tremante, si rialzò lentamente. La prima cosa che vide, alzando un po’ lo sguardo, furono due spalle larghe su di un corpo alto e imponente. Ma non le arrivò nessuno schiaffo, nessun colpo. Impaurita e confusa, osò alzare ancor di più lo sguardo e s’imbatté in due occhi verdi, le cui sfumature le ricordarono i colori del mare che aveva rivisto in sogno.

Un breve scambio di sguardi e gli occhi di Sarah, come distese di grano tra le mani del vento, s’incrociarono con le profondità oceaniche di quegli occhi smeraldo. Il viso cereo e severo dell’ufficiale, per un attimo, sembrò addolcirsi e anche la sua postura, fiera e sprezzante, andò rilassandosi. L’inferno non doveva essere poi così terribile, se chi ne era a comando possedeva quegli occhi e aveva avuto pietà di lei.

 

“Sulla terra io e lei,

eravamo amanti e stranieri io e lei.

Io e lei,

eravamo il mare e la terra io e lei.

Dimenticando il tempo,

né ieri né domani.

Io e lei,

sulla terra io e lei.”

 

Riccardo Cocciante, Sulla terra io e lei

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Capitolo 13
*** Salvami ***


Capitolo 13

 

Salvami

 

“Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.”

Primo Levi, I sommersi e i salvati

 


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

Napoli, luglio 1946

 

L’abbraccio di Matteo racchiudeva in sé il profumo della brezza marina, che, leggerissima, soffiava sulle pagine della vita di Sarah, nel tentativo di voltarne il tormentato capitolo di Fossoli, che ancora sanguinava nell’incoerente intreccio tra dolore e rimpianto.

Con la guancia premuta sul petto di Matteo, Sarah guardava il mare calmo della sera e sentiva ancora il dolore per la perdita di suo fratello, di sua madre, di suo padre, di don Franco e dei bambini, suoi compagni di sventurato viaggio, e la nostalgia degli occhi verdi di Hermann, crudelmente belli.

Strizzando un po’ gli occhi per trattenere le lacrime, strinse di più le mani attorno ai fianchi di Matteo. Quell’abbraccio poteva essere per Sarah la morbida culla della sua salvezza o la recinzione spinata di una nuova prigione e poteva uscirne come da grembo verso la rinascita o come da precipizio verso un’esistenza spaccata a metà tra il ricordo agrodolce di Hermann e l’amore acerbo del giovane pescatore.

Fu pervasa da un improvviso senso di colpa, questa volta non verso i suoi cari, per essere indegnamente sopravvissuta, ma verso Hermann, per quelle braccia che la stringevano e che non erano le sue.

Strizzò ancora gli occhi: forse, quando li avrebbe riaperti, alzando lo sguardo verso il volto di Matteo, avrebbe rivisto gli occhi verdi, d’insondabile oceano, di Hermann e il suo viso cereo e severo, di celata dolcezza; la spiaggia si sarebbe trasformata nel terreno fangoso di Fossoli e l’infinito orizzonte del mare sarebbe mutato nei suoi confini spinati, di un inferno che, di notte, diventava per lei un illusorio paradiso. Ma sapeva che tutto ciò fosse una pazzia, una distruttiva fantasia della sua piccola mente fuorviata dagli eventi passati e adesso ammalata.

Quando alzò lo sguardo, vide due occhi marroni, che la guardavano attraverso un velo di tenerezza e commozione e, in un sussulto, spinse il suo cuore ad aprirsi a quell’amore puro e acerbo, che la sua adolescenza non aveva mai conosciuto.

Matteo era la sua cura, la sua salvezza.

“Mi aiuterai a guarire?” gli chiese, con voce flebile e spezzata, guardandolo profondamente negli occhi.

In precedenza, il giovane pescatore si era precluso la possibilità di conoscere l’intera verità e, credendo che Sarah si riferisse alle ferite di un passato che accomunava tanti dei sopravvissuti ai campi di concentramento, lasciò che le lacrime inondassero la terra dei suoi occhi e scivolassero lungo le sue guance scurite dal sole.

“Sì, io mi prenderò cura di te”, le disse, prendendole il viso tra le mani e avvicinando, ancora una volta, le labbra alle sue.

Sarah sapeva che Matteo non avrebbe mai compreso pienamente il dolore che l’affliggeva, ma s’innamorò delle sue lacrime, delle sue parole, e accolse il suo tenero bacio. Una lacrima le rigò il viso e lasciò che Hermann morisse per quelle labbra che avevano il sapore del mare e che lei baciò con passione tra i bagliori color indaco del cielo al crepuscolo della sera, alba della sua nuova vita.

 

Berlino

 

Hermann aprì la valigia sul letto e, afferrando dall’armadio un mucchio di vestiti a caso, li gettò nervosamente al suo interno, appiattendoli. Solo pochi gesti e già sentì le forze venir meno. Per un attimo, si fermò a guardare le proprie mani, sprofondate tra i vestiti nella valigia, un po’ tremanti, ancora troppo deboli, ed esitò. Forse non era ancora fisicamente pronto per affrontare il viaggio verso l’Italia, gli inevitabili controlli delle autorità militari delle potenze occupanti in Germania, l’estenuante ricerca della sua amata tra le città italiane.

Ma il pensiero di Sarah era la sua forza e le braccia che lo attendevano sarebbero state la sua cura.

In fretta, tolse il pigiama e si vestì, per poi chiudere la valigia, con uno scatto deciso, rumoroso.

“Hermann!” lo chiamò suo padre, stupito e sconvolto. “Cosa stai facendo?!”

“Torno in Italia”, rispose con tono di sufficienza, senza rivolgergli lo sguardo e rovistando freneticamente nei cassetti del comodino, alla ricerca dei suoi documenti.

“Sei impazzito?! Nelle tue condizioni?!” continuò suo padre, avvicinandosi. “E poi, per quale motivo?! Per rincorrere una sottana ebrea?!”

Il tono della sua voce era diventato più severo, più pungente ed Hermann strinse le mani a pugno, accartocciando nel cassetto due mucchietti di fogli inutili.

Rivolse a suo padre uno sguardo infuocato, accorgendosi anche della silenziosa presenza di sua madre sull’uscio della camera, e replicò: “Non capisci?! Il nazismo è finito, definitivamente! Non esistono più differenze tra ebrei e non ebrei, anzi non sono mai esistite!”

è per colpa di quelli come te che abbiamo perso la guerra. Avrei dovuto lasciarti marcire a Sachsenhausen”, ribatté suo padre, tra biasimo e disprezzo, mentre sua madre accostò il fazzoletto alla bocca per trattenere le lacrime.

A quelle parole, Hermann non si lasciò ferire e, afferrata dal letto la valigia, sfidò suo padre con sguardo altrettanto sprezzante, dicendo: “Meglio nelle mani dei russi che in casa di borghesi che giocano ancora a fare i nazisti.”

Fece per andarsene, ma suo padre lo fermò, mettendosi davanti e prendendogli le braccia.

“Tu non uscirai da questa casa”, affermò perentorio e, allo svincolarsi di Hermann, iniziò fra i due una colluttazione.

La valigia cadde per terra, aprendosi e sparpagliando il contenuto, mentre Birgit, ferma sull’uscio, tratteneva a stento i singhiozzi nel fazzoletto. Volarono indumenti, effetti personali, fogli e volò anche qualche schiaffo, ma Hermann non se ne accorse nemmeno, abituato ormai al trattamento di Sachsenhausen. Vedeva solo Sarah davanti agli occhi, immaginando il momento in cui l’avrebbe riabbracciata e si faceva forza, pur sapendo di essere ancora troppo debole e di non riuscire a tenere testa neanche a suo padre. Infatti, l’ex SS-Obersturmführer ruzzolò sul pavimento.

“Va bene.” Karl sembrò arrendersi alla tenacia di suo figlio. “Va’ pure. Ritorna dalla tua ragazzetta ebrea. Ma prima devi vedere una cosa”, disse, sollevandolo bruscamente per un braccio, per poi trascinarlo verso il comò.

Lo costrinse a sedersi davanti allo specchio e, alla violenza di questo movimento, Hermann avvertì un dolore alla schiena e pensò che forse non ce l’avrebbe mai fatta a mettersi in viaggio.

“Guardati”, lo esortò suo padre, stavolta con tono più calmo, più persuasivo, mentre lo specchio rifletteva l’immagine deforme di un viso e di un corpo smagriti, lividi, “cosa vedi?”

Sconvolto, gli occhi di Hermann si velarono di lacrime: no, non poteva essere lui quel mucchio di ossa, senza capelli, con espressione triste e smarrita da reduce, da sopravvissuto.

“Credi che lei ti riconoscerà? Cosa penserà di te?” continuò suo padre e, pensando che il tempo avrebbe curato la sua ossessione, rincarò la dose mostrandogli una sua foto in divisa. “Di chi credi si sia innamorata? Del comandante di Fossoli? O di ciò che ne resta?”

Quelle parole sembravano essere l’eco dei suoi pensieri e, intanto, si fece vivo, quasi percepibile sulla pelle, il ricordo delle dita di Sarah che affondavano nelle sue spalle, larghe e forti; dei suoi piedi che, nell’intreccio appassionato dei loro corpi, gli sfioravano le gambe, ancora coperte dai pantaloni dell’uniforme.

“Rimettiti in sesto e poi, se è questa la tua decisione, potrai partire”, concluse suo padre con tono fermo e, rimasto solo davanti allo specchio, Hermann cercò nel verde dei propri occhi un po’ di sé.

Ma, attraverso il velo di lacrime, trovò soltanto il ricordo di due occhi color miele che lo guardavano, mendichi di protezione e di sicurezza, ciò che a Sarah non avrebbe potuto più dare in quelle condizioni.

Non era ancora tempo di tornare da lei.

 

“Ti salverò da ogni malinconia.

Perché sei un essere speciale.

Ed io avrò cura di te.

Io sì, che avrò cura di te.”

 

Franco Battiato, La Cura

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Capitolo 14
*** Un dono della Provvidenza ***



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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Dal capitolo 6:

 

Campo di Fossoli, 16 febbraio 1944

 

L’ufficio di Hermann affacciava proprio sulla baracca dove alloggiava la ragazzina ebrea con il cappotto rosso e, dalla sua finestra, la scrutava, imparandone le abitudini: l’età della ragazzina era, sicuramente, compresa tra i diciotto e i vent’anni e, dai modi, sembrava essere di buona famiglia; la mattina usciva dalla baracca, raccoglieva i capelli in uno chignon scarmigliato e si sbracciava le maniche del vestito color marrone chiaro, per aiutare le donne nelle faccende domestiche; parlava poco, limitandosi ad annuire e, di rado, sorrideva; dopo pranzo usciva di nuovo, con i capelli sciolti e con indosso il suo cappotto rosso e, ferma sull’uscio della baracca con le braccia incrociate, per una buona mezz’ora, teneva d’occhio i bambini mentre giocavano. Ed era questo il momento in cui Hermann si soffermava a guardarla, lasciando che i pensieri spaziassero in fantasie nella cascata dei suoi lunghi capelli e nella generosità delle sue forme, nell’espressione triste e impaurita di due occhi sbarrati e di due labbra socchiuse, pensieri che lo inseguivano la notte fino a degenerare in desiderio smanioso di averla.

“Agli ordini, signor tenente!” Scattò sull’attenti il soldato, battendo i tacchi.

“Nell’ultimo convoglio, qualche giorno fa, è arrivata una ragazza ebrea con un prete e un gruppo di bambini”, disse Hermann, con tono di sufficienza, lasciando la finestra e portandosi davanti alla scrivania. “Mi serve come cameriera, da questa sera.”

E, quella sera stessa, la ragazza era al centro della sua stanza, sull’attenti e a testa bassa, tremante, in una divisa da cameriera e i capelli semi raccolti con una lunga ciocca che le copriva mezzo volto. Contenendo irrefrenabili pulsioni, Hermann entrò, a passo lento e autorevole, chiudendo la porta dietro di sé.

 

Capitolo 14

 

Un dono della Provvidenza

 

“Pensare che separati da treni e da nazioni tu e io dovevamo semplicemente amarci, confusi con tutti, con uomini e con donne, con la terra che pianta ed educa i garofani.”

Pablo Neruda

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

16 febbraio 1944

 

La vita a Fossoli procedeva decisamente meglio di quanto Sarah avesse immaginato, in una tranquillità spezzata soltanto da voci, provenienti soprattutto dal Campo Vecchio, dov’era stato portato don Franco, che presagivano un trasferimento in Germania. Ma lei, nonostante ne avesse paura, stentava a crederci: perché farli attendere lì e non deportarli subito? Non avrebbe avuto alcun senso.

Il cibo scarseggiava ma questa mancanza veniva sopperita dal buon cuore degli abitanti delle zone circostanti che, con grande coraggio, riuscivano a far entrare nel campo anche medicine e capi di vestiario.

In una moltitudine di dialetti italiani e stili di vita diversi, tra i prigionieri vi era una forma di solidarietà e sostegno reciproco che, al cuore di Sarah, infondeva pace e una certa sicurezza. Maria, una donna sulla quarantina, che condivideva la sua stessa baracca, le aveva regalato un paio di calze nuove.

Proveniva da Bologna e, sposata con un pianista ebreo, aveva seguito la stessa sorte del marito. I due non avevano figli – o forse, più semplicemente, non ne parlavano poiché nascosti in qualche rifugio segreto –, eppure in loro traspariva un particolare istinto materno e paterno verso i bambini della baracca e verso di lei. Nei loro occhi brillava un sentimento di bontà incondizionata. Al suo arrivo, Maria, con delicatezza di madre, le aveva medicato il ginocchio sbucciato per la caduta, aiutandola anche a pulire il cappotto dalle macchie di fango. In quella baracca, Sarah aveva ritrovato un po’ di calore familiare.

Seppur temuta, la presenza dei tedeschi non era poi così ingombrante e non troppo pesanti erano le mansioni da svolgere. Sarah aiutava le altre donne della baracca nelle faccende domestiche e, a volte, riusciva addirittura a sorridere. Anche i bambini, con i quali era arrivata a Fossoli, insieme a don Franco, sembravano più sereni, fuori dal buio di una canonica, liberi – per modo di dire – di giocare con i loro coetanei, sotto un generoso sole pomeridiano.

Guardandoli, si strinse di più nel cappotto, nel ricordo di suo fratello, dei loro giochi da piccoli, delle loro chiacchierate poi da grandi, domandandosi dove lo avesse condotto la Resistenza e se fosse ancora vivo. Le mancava la sua famiglia. D’un tratto, si sentì osservata, in una sensazione sempre più pressante: forse erano gli occhi vigili dei soldati armati sulle torrette, ma non osò sollevare la testa e, con espressione impaurita, scossa, continuò a guardare i bambini rincorrersi e giocare.

 

Sarah stava pettinando i capelli alla ragazzina più grande del suo gruppo di bambini, quella che aveva urlato in soffitta all’arrivo dei tedeschi. Si chiamava Agnese e i suoi capelli erano castani, riccissimi.

“Ahi!” si lamentava la piccola di tanto in tanto, a causa dei nodi.

“Shh”, la rassicurava Sarah, cercando di fare più piano, “abbiamo quasi finito.”

Quando, all’improvviso, entrò nella baracca un soldato delle SS, spalancando con violenza la porta che sbatté alla parete e urlando il suo nome: “Bonanni Sarah!”

Sarah scattò in piedi, lasciando cadere la spazzola sul letto dov’era seduta con Agnese e divenendo come di pietra. Il sangue le si gelò nelle vene, mentre la voce del soldato arrivava alle sue orecchie come un rumore lontano. Di quel discorso, scandito aspramente in un italiano stentato e intervallato da parole in tedesco, per lei già incomprensibili, riuscì soltanto a capire che il tenente Von Wildenberg Hermann, al comando del Campo Nuovo, l’aveva convocata per quella sera stessa. Perché? Cosa aveva mai fatto? Voleva piangere, sparire, tornare a casa sua. Come un lampo, le passò davanti agli occhi l’immagine del suo capitombolo all’arrivo a Fossoli, del fango schizzato a causa delle sue mani sprofondate nel terreno e tremò di paura al pensiero che il tenente volesse posticipatamente fargliela pagare per avergli macchiato i suoi begli stivali lucidi, o per aver avuto poi l’ardire di incrociare il suo sguardo. Cosa le avrebbe fatto?

Quando il soldato andò via, Maria le si avvicinò e, ponendole una mano sulla spalla, le chiese dolce e apprensiva: “Sarah, cara, hai capito cosa ti ha detto?”

Sarah, ancora immobile e confusa, dissentì debolmente con la testa, senza neanche guardarla, e la donna proseguì: “Il comandante del campo ti vuole a servizio come cameriera.”

Sarah si tranquillizzò un po’, ma non emise alcun sospiro di sollievo.

 

Perché il tenente aveva scelto proprio lei e non una donna come Maria, oppure una delle tante giovani staffette partigiane nelle cui vene non scorreva neanche una goccia di sangue ebreo? Sarah indossò la divisa da cameriera – che una donna sulla cinquantina, forse una cuoca, dai tratti del viso severi e spigolosi, le aveva consegnato – e, aggiustandosi una calza, un pensiero brutto affiorò nella sua mente. Ma subito lo mandò via, al ricordo delle leggi razziali: il tenente non avrebbe mai potuto approfittare di lei.

“Io non voglio andarci”, sussurrò, accennando un broncio quasi da bambina.

Sarah aveva ugualmente paura di presentarsi a quell’ufficiale tedesco.

“Sarah, io non credo che questo sia un invito. E non credo che tu abbia molta possibilità di scelta”, le disse Maria con tono serio, aiutandola a sistemare una ciocca di capelli che non voleva proprio saperne di stare ordinata nello chignon. “Non avere paura. Ho sentito dire che le cameriere godono di svariati privilegi. L’inverno è lungo, Sarah. E, oltretutto, hai sentito anche tu quelle voci che parlano di un possibile trasferimento in Germania. Lavorare come cameriera ti garantirebbe la permanenza qui.”

Poco lontano, seduto su una sedia, vide il marito di Maria lanciare verso di loro uno sguardo strano, che non gli aveva mai visto prima, tanto eloquente quanto indecifrabile, in un misto di preoccupazione e biasimo, di compassione e nervoso, il cui significato lo avrebbe compreso solo in seguito.

“Perché proprio io?” replicò Sarah ancora spaesata, intimorita e con le lacrime agli occhi.

“Consideralo un dono della Provvidenza”, fece la donna con un’espressione rassicurante e, con un mezzo sorriso, le sistemò la ciocca ribelle dietro l’orecchio. “Coraggio. E mi raccomando”, continuò più seria e apprensiva, “occhi bassi e parla solo se interrogata.”

Sarah annuì, ma non era per nulla risollevata.

 

Di sera, l’atmosfera al campo era tetra e spettrale, quasi inquietante, in quell’oscurità illuminata soltanto dalla luce gialla di pochi lampioni e delle torrette di sorveglianza. Una folata di vento le percosse il viso, facendo sfuggire altri capelli dallo chignon, mentre il suo passaggio richiamava l’attenzione di un gruppetto di soldati della Guardia nazionale repubblicana, al di là del filo spinato, nella zona che divideva i due campi.

Uno di loro fischiò malizioso, un altro si mise a canticchiare con ironia: “L’amore coi fascisti non conviene. Meglio un vigliacco che non ha bandiera, uno che non ha sangue nelle vene, uno che serberà la pelle intera. Ce ne freghiamo.”[1]

Un altro ancora, ostentando del rammarico, disse: “I tedeschi si prendono sempre le più carine.”

Di nuovo, nella mente di Sarah affiorò quel pensiero brutto, al quale si aggiunse il ricordo dello sguardo strano del marito di Maria. Affrettò il passo e incrociò le braccia, stringendosi forte nella sua divisa da cameriera, per proteggersi dal freddo, come per nascondersi dagli sguardi di quei fascisti e soffocare i suoi brutti pensieri.

Quando giunse all’edificio occupato dai tedeschi, che non era molto distante dalla sua baracca, un soldato delle SS la condusse al primo piano e, quasi al termine del lungo corridoio, la chiuse in una stanza e, prontamente, andò via. Sussultando allo sbattere della porta, Sarah sgranò gli occhi, mentre il cuore accelerò i suoi battiti: la stanza in cui si trovava non era un ufficio, o un qualsiasi altro luogo consono a un colloquio, ma una camera da letto. Di nuovo, le tornò alla mente lo sguardo del marito di Maria e, più pressante, il pensiero che il tenente potesse approfittarsi di lei. Aveva tanta paura e tanta vergogna di stare lì. Dopo pochi secondi, sentì l’avvicinarsi di passi lenti e pesanti e, stendendo le braccia lungo i fianchi, iniziò a tremare come una foglia. Voleva piangere, sparire, tornare a casa sua. Allo girare della maniglia, Sarah emise un verso strozzato, come un sussulto e, subito, abbassò la testa. Il tenente era entrato.

Occhi bassi e parla solo se interrogata.

 

“Tu di me hai questo tempo,

io di te ancora non lo so.

Tu di me hai la voglia di cadere,

io di te il mare in un cortile.

Io di te non riuscirei mai a liberarmi,

tu di me non riesci a farne a meno e non ne parli.

Io di te mi sono innamorata che era aprile,

tu di me hai notato qualche cosa che era già Natale.”

 

Emma Marrone, Io di te non ho paura



[1]Riferito a “Le donne non ci vogliono più bene”, un inno dei militi fascisti durante la Repubblica sociale italiana. 

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Capitolo 15
*** Bianco è il colore dei miei sogni infranti ***



Capitolo-3

Immagine dal film “Schindler’s List”

 

Dal capitolo 3:

 

Campo di Fossoli, febbraio 1944

 

Afferrandola per il braccio, il tenente la sollevò bruscamente dal pavimento.

“Tu farai quello che voglio io!” le disse, stringendole forte il braccio fino a quasi imprimere le dita nelle sue ossa.

Sarah sapeva benissimo di non avere alcun scampo, di non poter nulla contro tanta violenta forza ma era decisa a sfidarla, a combattere per proteggere la sua integrità. Tra lacrime e gemiti, tentò di svincolarsi dalla presa ma il tenente l’afferrò da dietro e la strinse forte contro il suo petto. Quasi le mancò il respiro e credette di morire. Una mano entrò nella camicetta, alla ricerca smaniosa delle sue nudità mentre l’altra le tappava la bocca per zittirne le flebili urla. Poi il tenente le strappò di dosso il vestito, graffiandole la pelle, lacerandole l’anima e, come se pesasse poco più di una piuma, la gettò sul letto, schiacciandola con il proprio corpo. Sarah tentò ancora di resistergli scalciando e colpendolo al petto con pugni ma dovette arrendersi dopo due forti schiaffi che la stordirono. Mentre il dolore accresceva, chiuse gli occhi per evitare il suo sguardo bramoso e si tappò le orecchie per non sentire i suoi spasimi di piacere. Tra le sue mani era come una bambolina di pezza da girare e rigirare, da scuotere e fare a pezzi, fino a quando non fu stanco di giocarci.

 

Capitolo 15

 

Bianco è il colore dei miei sogni infranti

 

“A volte due persone, per combaciare, devono prima rompersi in mille pezzi.”

Fabrizio Caramagna

 


Capitolo-15

Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

17 febbraio 1944

 

Era quello il prototipo geneticamente perfetto di razza ariana? Dormiva ancora la belva umana che non aveva disdegnato di approfittarsi di una ragazza ebrea. Perché lo aveva fatto, se i nazisti consideravano quelli come lei “vermi che si annidavano nei cadaveri in dissoluzione”, “coloro che avvelenavano tutto il mondo”, nemici pericolosi e ripugnanti? Trovò la risposta nella domanda stessa e si diede della ingenua per non averlo compreso prima: se l’obiettivo dei nazisti era quello di strappare agli ebrei ogni dignità, con lei vi erano riusciti alla grande.

Sarah ruzzolò dal letto e, strisciando lentamente per terra, tremante per il dolore, raggiunse una parete. Non c’era parte del corpo che non le facesse male, un angolo della propria anima che non bruciasse per le ferite. Sedette sul pavimento freddo, appoggiando le spalle al muro e, chiudendo forte gli occhi in una smorfia di dolore, si strinse la sottoveste fra le intimità. Non era così che aveva immaginato la sua prima volta.

Schiaffi, invece di baci. Ingiurie, invece di dolci parole. Sangue e lacrime, al posto di carezze e sospiri. La violenza, al posto dell’amore. Come sigillo, un vile compromesso, anziché una promessa, per diventare la concubina di un nazista, anziché una sposa virtuosa.

Ferita nell’innocenza, si sentiva sporca, umiliata, oltraggiata nel corpo e nell’anima, squarciata e trafitta fin dentro le viscere. Senza più lacrime da versare, sgranò gli occhi in un’espressione di vuoto e iniziò a vedere la belva nazista, sdraiato mezzo nudo sul letto, i mobili e tutt’attorno nella stanza come ombre sfocate. Poi vide tutto bianco.

Bianco, come le lenzuola che sua madre ricamava per lei da vent’anni, ovvero dalla sua nascita.

“Arriverà l’amore e sarà speciale e la tua attesa non sarà stata vana”, le aveva detto un giorno sua madre, mentre ripiegava il corredo nella cassapanca, notando la malinconia sul suo viso adolescente.

Bianco, come l’abito che non avrebbe mai indossato. Bianco, come i confetti che, alle sue amiche del quartiere, già sposate, non avrebbe mai potuto ricambiare. Bianco, come il riso che nessuno le avrebbe mai lanciato, fuori a una chiesa le cui porte per lei non si sarebbero mai più riaperte, neanche per accogliere il suo feretro. Sarebbe morta, o forse lo era già, schiacciata, soffocata dal peso di quell’uomo infame, e il suo corpo sarebbe stato gettato in una fossa comune, in un posto sperduto d’Italia.

Pensieri di morte si rincorrevano veloci nella sua mente, fino a quando, ritornata in sé, non si accorse di trovarsi in una vasca da bagno, con due occhi scuri puntati addosso che la guardavano impietositi.

“Pòra fia, anim”[1], le disse la donna, mentre, con una spugna in mano, si apprestava ad aiutarla a lavarsi, “quando ci avrai fatto l’abitudine, non farà così male.”

Sarah scoppiò in lacrime, mentre un senso di nausea le attanagliò lo stomaco. Meglio essere morta, pensò.

 

Sorrento, settembre 1946

 

Con il permesso e la benedizione del signor Gennaro, Sarah e Matteo avevano ricominciato a vedersi e uscire insieme. La loro relazione poteva già essere definita un fidanzamento ufficiale.

Quel giorno, Matteo aveva mantenuto la promessa fatta a Sarah di portarla a visitare “la terra delle sirene” e, adesso, passeggiavano mano nella mano tra i caratteristici vicoli della città, pieni di negozietti e botteghe artigiane. Sospinta dall’aria frizzante di fine estate, che danzava sugli orli del suo vestito color cielo, Sarah si sentiva leggera, viva, libera, felice e non riusciva a smettere di sorridere. Di tanto in tanto, si fermavano a qualche bancarella, per assaggiare caramelle al gusto di limoncello e provare cappelli di paglia, facendo espressioni buffe e poi riderne. Sarah ne scelse uno e Matteo insisté per regalarglielo.

Camminando lungo stradine in discesa, giunsero in una piccola insenatura che lasciò Sarah a bocca aperta: il porto di Sorrento era un quadro variopinto. Le casette dei pescatori, con i loro colori e panni stesi alle finestre, si affacciavano sul mare che luccicava polvere d’oro, mentre la spiaggetta di sabbia vulcanica sembrava brillare d’argento sotto i raggi del sole di mezzogiorno. All’ombra di una chiesa lì vicina, a pochi passi dal mare, mangiarono il pane appena sfornato e poi, sempre mano nella mano, risalirono verso le strade della città.

Un senso di pace accarezzava il cuore di Sarah, i cui occhi erano spalancati in uno sguardo luminoso e sognante e, dentro di sé, sentì vibrare la spensieratezza di una ragazzina al primo amore, quando, risalendo un vicoletto incorniciato da piante di limoni, Matteo improvvisamente la strinse in un abbraccio e le diede un bacio sonoro sulle labbra. Ma, in fondo, era Matteo il suo primo, vero amore. Matteo le sorrise con aria vispa e Sarah, ricambiando il sorriso, arrossì sulle gote. Lo amò, tra i profumi di zagare e ginestre.

Dopo non molto, giunsero in una villetta, che altro non era che una suggestiva terrazza a picco sul mare circondata da fiori e piante e con una stradina che conduceva al mare, e si appoggiarono alla ringhiera ad ammirare il panorama mozzafiato del Vesuvio, delle isole e della spiaggia sottostante. Qualcuno faceva ancora il bagno.

Estasiata da così tanta bellezza, Sarah alzò gli occhi verso la tela azzurra del cielo e, per un attimo, si sorprese a ricordare Hermann con un senso di gratitudine. Intanto, Matteo cercò la sua mano sulla balaustra e lei gli sorrise, intrecciando le dita alle sue. Era grazie a Hermann se adesso si trovava lì, in quel posto meraviglioso, accanto a un giovane uomo dolcemente innamorato, e non tra le fuligginose nuvole del cielo grigio di Auschwitz.

“Sarah”, proruppe Matteo con espressione tenera e seria, prendendole anche l’altra mano, “io ti amo e voglio trascorrere il resto della mia vita con te, che sei unica e straordinaria, la ragazza più bella, dolce e gentile che abbia mai conosciuto.”

Gli occhi di Sarah luccicarono, divenendo come cristalli dorati e il cuore iniziò a batterle forte, mentre Matteo proseguì più serio: “Vedi, Sarah, io non ho molto da offrirti. Ho solo queste mani”, le strinse fortemente alle sue, “per lavorare in un mare spesso ostile e che, a volte, non dà nulla. E ho questo cuore per amarti.”

Matteo avvicinò le mani di Sarah al proprio cuore e subito gliele lasciò, per poi inginocchiarsi e suscitarle stupore. Frugò nelle tasche dei pantaloni e Sarah, intuendo la sua intenzione, già portò le mani alla bocca per trattenere l’esplosione di emozioni.

Quel momento valeva tutti gli anni di attesa, tutte le lacrime versate a Fossoli per il caro prezzo della sua sopravvivenza, tutti i giorni e le notti spesi a credere in ciò che in realtà amore non era.

E Matteo tirò fuori dalla tasca un anello, un antico gioiello di famiglia e, con voce spezzata, pronunciò quelle parole che Sarah sognava sin da bambina: “Sarah, vuoi sposarmi?”

Sarah scoppiò in pianto, in singhiozzi di gioia. Lo abbracciò, si abbracciarono. Lacrime incontenibili bagnavano il suo viso e la guancia di Matteo, incollata alla sua.

“Sì! Sì! Sì!” ripeté Sarah con entusiasmo e un bacio appassionato sigillò quel momento, in cui il tempo e lo spazio sembrarono fermarsi, annullarsi attorno a loro, per loro.

Non c’era più nessuno, né persone con il loro brusio né panorama con i suoi profumi, suoni e sensazioni, né terra né mare. Poi un’improvvisa folata di vento tiepido rubò il cappello di Sarah, riportandoli alla realtà. Con goffi movimenti di braccia, tentarono invano di afferrare il cappello che finì giù, nella stradina che conduceva in spiaggia e Matteo, con uno scatto, si mosse a recuperarlo.

“Lascia perdere, Matteo!” fece Sarah apprensiva, mentre, tra riso e pianto, lo guardava rincorrere il cappello lungo la stradina.

Quando fu a metà strada, Matteo riuscì finalmente ad afferrare il cappello e, da lontano, lo sventolò vittorioso. Appoggiata alla ringhiera, Sarah rise più forte e alzò gli occhi al cielo, mentre tutto in lei traboccava di felicità. Un gabbiano spiccò il volo.

Arriverà l’amore e sarà speciale e la tua attesa non sarà stata vana.

 

“Ma si sveglierà il tuo cuore

in un giorno d’estate rovente

in cui il sole sarà.

E cambierai

la tristezza dei pianti in sorrisi lucenti,

tu sorriderai.

E arriverà

il sapore del bacio più dolce

e un abbraccio che ti scalderà.”

 

Emma Marrone & Modà, Arriverà 



[1]“Povera figlia, coraggio”, in dialetto milanese.

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Capitolo 16
*** Un treno per Auschwitz (Prima parte) ***


Capitolo 16

 

Un treno per Auschwitz

 

Prima parte

 

- “Piccolina, cosa ti hanno fatto?” -

 

“Nel 1944, quando fummo deportati a Birkenau, ero una ragazza di quattordici anni, stupita dall’orrore e dalla cattiveria. Sprofondata nella solitudine, nel freddo e nella fame. Non capivo neanche dove mi avessero portato: nessuno allora sapeva di Auschwitz.”

Liliana Segre (1930 - vivente), reduce della Shoah e senatrice a vita italiana.  

 


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Immagine dal web

 

17 febbraio 1944

 

La donna dall’accento milanese le rattoppò gli strappi della divisa da cameriera e, con non poca difficoltà, l’aiutò a vestirsi. Come una bambola gessata, Sarah sedeva immobile e assente sulla sedia, con lo sguardo fisso nel vuoto e il respiro così lieve e impercettibile da farla sembrare davvero senza più vita. Se, invece di vestirla e pettinarla, quella donna l’avesse uccisa, lei non se ne sarebbe neanche accorta.

“Pòra tosa”[1], fece la cameriera più apprensiva, “come ti chiami?”

La donna ripeté la domanda più volte, ma Sarah rimase ferma nel suo impenetrabile silenzio. Una parte di lei era già morta.

“Fia méa”[2], riprese la cameriera, aiutandola ad alzarsi e finendo di sistemarle il vestito addosso, “se fai così, è peggio.”

Poteva esserci qualcosa di peggio? Poteva esistere un dolore più grande, più lacerante di quello? Gli occhi di Sarah, persi nel vuoto, tornarono alla realtà, velandosi di lacrime e guardando la donna con aria disperata.

“Va’ a riposare, cara. Per oggi, farò io il tuo lavoro”, concluse la cameriera più comprensiva e già iniziò a rassettare la camera.

Barcollante e con la vista offuscata per il forte stress, la stanchezza e le lacrime, Sarah si trascinava tra le baracche del campo, sperando che nessuno facesse caso a lei. Tremava di vergogna al solo pensiero di dover rientrare nella sua baracca, di incrociare facce amiche e mostrare loro i segni tangibili delle botte e le tracce invisibili dell’abuso. Allentò un po’ lo chignon, coprendosi il viso con qualche ciocca di capelli e, a testa bassa, passò spedita accanto al gruppetto di donne, intente a conversare fra loro e strofinare il bucato nella tinozza. Ma Maria la vide e scattò in piedi, chiamando il suo nome con voce preoccupata e seguendola nella baracca.

“Sarah!” La donna la chiamò ancora e più volte, ma Sarah non si volse e andò a rannicchiarsi nel suo letto, sotto una coperta vecchia e logora, in posizione fetale.

La scena richiamò l’attenzione di alcuni uomini presenti nella baracca, tra i quali c’era anche il marito di Maria.

Sedendosi accanto, la donna le accarezzò lievemente la guancia e, con voce spezzata, le disse: “Piccolina, cosa ti hanno fatto?”

Sarah scoppiò di nuovo in lacrime e, intanto, il marito di Maria, con uno scatto, si mosse velocemente verso la porta della baracca.

“Ma io lo ammazzo quel maiale nazista!” urlò, accentuando per rabbia la sua cadenza bolognese.

Due uomini napoletani, rispettivamente padre e figlio, lo fermarono.

“Ma si’ pazzo? Vuo’ fa’ succédere ’o quìnnece diciòtte?”[3] fece il più anziano, prendendolo di petto e, intanto, anche Maria gli andò incontro per calmarlo.

“Davide, per l’amor del cielo”, sussurrò la donna, come un lamento e gli prese le mani.

Ne seguì un lungo silenzio, spezzato soltanto dai singhiozzi sommessi di Sarah, mentre sguardi d’impotente compassione furono su di lei, che avrebbe voluto sparire di vergogna e paura.

 

In piedi, davanti alla finestra del suo ufficio, Hermann fumava una sigaretta e osservava fuori. Come al solito, dopo pranzo, i bambini giocavano allegramente fuori la baracca ma, questa volta, a guardarli, sull’uscio socchiuso della porta, non era Sarah. Espirando con aria saccente, il fumo della sigaretta appannava i vetri e sbiadiva i colori della sua visuale. Hermann non riusciva a togliersi dalla testa quella ragazza e la immaginava ripiegata nel suo letto, rannicchiata nella poca luce della baracca e nel buio della sua sofferenza, raggomitolata nella sua sincera e pudica bellezza che si scontrava con il suo essere ebrea. L’innocenza che aveva violato gli suscitava un sentimento che non riusciva a comprendere – o meglio, non voleva – e che assomigliava più alla tenerezza che alla compassione. Al contempo, la ragazza aveva risvegliato in lui pulsanti e incontenibili sensazioni, paragonabili a quelle della sua adolescenza, e la sua bramosia non era ancora sazia. Hermann espirò l’ultimo tiro di sigaretta. Quella ragazza ebrea sarebbe stata di nuovo sua, ma non come la notte precedente.

 

Per tutto il giorno, Sarah era rimasta nel suo letto, in silenzio e immobile nella sua posizione fetale, senza toccare né cibo né acqua, nonostante la materna insistenza di Maria.

“Saretta, ti hanno picchiato quei soldati cattivi?” le aveva domandato innocentemente un bambino, con aria triste e regalandole una caramella.

Ma Sarah non rispose, non si mosse e la caramella, che il piccolo conservava da giorni, rimase sul cuscino.

“Sarah deve riposare. Va’ a giocare”, esordì con tono fermo Maria, facendo allontanare il bambino, prendendolo per mano.

E, intanto, Sarah, non riuscendo ancora a trovare un perché a ciò che le era accaduto, iniziò a darsi delle colpe. Forse, all’arrivo a Fossoli, quando aveva incrociato lo sguardo del tenente, i suoi occhi, invece di esprimere timoroso stupore, si erano lasciati andare inconsapevolmente a un’espressione ammiccante; forse, il suo vestito era troppo corto, il colore del suo cappotto troppo appariscente o, forse, lo era lei, senza che se ne fosse mai accorta. Addosso, sentiva ancora il peso soffocante di quel corpo, la pressione di quelle mani che l’accarezzavano con violenza, il soffio di quel respiro affannoso e quell’odore maschile che la sua innocenza non aveva mai conosciuto fino ad allora. Avrebbe voluto strapparsi di dosso i vestiti, la pelle, arrivare fino alle ossa e sradicare dalle viscere l’infamia con la quale il nazista l’aveva marchiata per sempre. All’ennesima fitta bruciante, Sarah si raggomitolò su se stessa, sollevando di più le ginocchia e stringendo forte le mani tra le gambe. Come una supplica, desiderava e invocava, dentro di sé e con un linguaggio da bambina, la confortante presenza dei suoi genitori e quasi riuscì a percepirla in una carezza di Maria che, amorevolmente, la esortava ad assaggiare almeno un cucchiaio di minestra prima che diventasse fredda. Era già l’ora di cena.

“Sarah, è da ieri sera che non mangi. Prova almeno un cucchiaio, dai”, ripeté la donna per l’ennesima volta, con il cucchiaio a mezz’aria e Sarah, arrendendosi alla sua amorevole insistenza, si lasciò imboccare.

La minestra, diventata ormai tiepida, le lasciò sulle labbra un sapore amaro e, dopo pochi cucchiai, non ne volle più. Affondò di nuovo la testa nel cuscino e, intanto, la porta della baracca fu aperta di colpo e con la stessa violenza del giorno prima. La stessa voce che urlava il suo nome, lo stesso soldato che l’avrebbe condotta a una seconda morte. Sarah trasalì di paura, ma non si mosse dal letto.

“Signore, la ragazza è molto stanca. Forse ha anche la febbre.” Davide, seguito da sua moglie, si era avvicinato al soldato, parlandogli con tono sicuro.

“La prego, chieda al comandante se può iniziare domani mattina a lavorare”, intervenne Maria, la cui voce spezzata assomigliava più a un lamento che a una protesta.

Ma il soldato dissentì, alzando e inasprendo di più il tono della voce: “Ho l’ordine di portarla adesso dal comandante e gli ordini non si discutono!”

 “Ordini?” Davide ridacchiò sarcastico, mentre gli animi di tutti iniziarono a scaldarsi.

Sarah intuì la gravità della situazione e, prima che potesse accadere qualcosa di tragico nella sua baracca, decise di alzarsi per andare incontro al suo inevitabile destino. Tanto nessuno, pur volendo, avrebbe potuto salvarla da quella condanna. In silenzio e a testa bassa, per la paura e la vergogna di incrociare gli sguardi, passò lentamente in mezzo ai suoi compagni di sventura e, varcata la porta, seguì il soldato.

 

Gli stivali del soldato che affondavano nel terreno umido e il suo equipaggiamento che sfregava sull’uniforme erano per Sarah come il suono di una marcia funebre, la sua. Il suo cuore sembrava essersi fermato, così come il respiro, mentre, come un automa, seguiva il soldato lungo i corridoi dell’edificio occupato dai tedeschi. Ma la paura accelerò di nuovo i battiti del suo cuore, i respiri e i pensieri, quando il soldato la condusse in quello che doveva essere l’ufficio del tenente. E lui era in piedi dietro la scrivania, intento a mettere in ordine dei fogli. Sollevò la testa e la sua impeccabile capigliatura biondo grano e il soldato, con un battito di tacchi, andò via, lasciandola da sola in mezzo alla stanza. Tenendo la testa bassa e attraverso la ciocca di capelli che le copriva gli occhi, intravide il tenente sistemare l’ultimo foglio e farsi lentamente davanti alla scrivania, appoggiarvi all’indietro le mani e incrociare i piedi.

“Dunque”, iniziò con tono deciso, “credo proprio che abbiamo iniziato con il piede sbagliato.” L’accento ruvido tradiva la sua volontà di parlarle con voce più gentile.

Fece una pausa, mentre Sarah tentò invano di regolare il respiro in quei pochi secondi che le parvero lunghi un’eternità.

“Vedi”, riprese il tenente, “io non sono un mostro e non è mia abitudine stare con una donna, anche se tu sei un’ebrea, usando la violenza e voglio darti la possibilità di scegliere.”

Per un fugace istante, Sarah pensò che forse avrebbe potuto salvarsi e, intanto, il tenente tornò dietro la scrivania, rovistando accuratamente tra i fogli e continuando perentorio il suo discorso: “Qualcosa mi dice che posso fidarmi di te e che quello che sto per dirti rimarrà un segreto fra di noi, che non lo dirai agli altri prigionieri.”

Alzò lo sguardo, aspettandosi un contraccambio da parte di Sarah, ma lei rimase ferma e china, tremante, come un pulcino impaurito.

Trovato il foglio che stava cercando, il tenente le si avvicinò, parlandole con tono più solenne e autorevole: “Tra qualche giorno partirà un treno per Auschwitz e il tuo nome è sulla lista dei deportati.”

Sotto gli occhi di Sarah, per un attimo infinitamente lungo, passò quella lista piena di nomi, di persone innocenti, di vite spezzate. Cos’era Auschwitz? Non aveva mai sentito quel nome ma ebbe subito la sensazione che si trattasse di un posto terribile, più dei campi di lavoro forzato in Germania, di cui tutti parlavano.

E il tenente, alla sua muta domanda, non tardò a rispondere: “Auschwitz è un campo di concentramento tedesco in Polonia. Al suo confronto, Fossoli è un albergo di lusso.” Ridacchiò ironico. “Appena arrivi, ti fanno spogliare davanti a tutti, anche davanti agli uomini e davanti ai soldati”, proseguì serio e crudele, iniziando a girarle intorno e squadrandola, ripetendo così una scena già vissuta, “poi ti tagliano i capelli.”

Le si fermò davanti e, mettendole una mano fra i lunghi capelli neri, ne attorcigliò una ciocca attorno al dito. Puliti, sembravano brillare di sfumature color rame. Poi lasciò che i capelli ricadessero sul petto, vergini colline di terre prima di lui inesplorate, che palpitavano a ogni respiro affannoso, a ogni battito accelerato per la paura. Se lo avesse capito prima, forse le mani di Hermann, la sera precedente, avrebbero goduto di più di quel viaggio. Ricercò un altro contatto fisico e, con uno scatto, le prese una mano. Era gelida.

Salì poi sull’avambraccio, senza stringere troppo e, con tono quasi minaccioso, continuò: “Ti incidono un numero sul braccio e quel numero diventa il tuo nome. Ti tolgono ogni cosa e più nulla ti appartiene, neanche la tua stessa vita. E ti costringono a lavorare, fino allo sfinimento, fino a quando di te non rimane più niente.”

Guardandola fissamente in viso, richiamò invano il color miele dei suoi occhi, per poi afferrarle il mento e costringerla ad alzare lo sguardo.

“Sarebbe un peccato”, disse con ostentato rammarico, “in fondo, sei una bella ragazza.”

Bella. Questa parola, pronunciata da un criminale nazista che aveva abusato di lei, per Sarah sapeva di sporco, di cinismo e volgarità. No, non doveva essere lui il primo uomo a dirglielo e nel mezzo di uno spaventoso discorso impregnato di odio e di morte.

Due grosse e silenziose lacrime rigarono la guancia livida di Sarah e si posarono sulla mano di Hermann, il cui cuore sembrò rallentare di un battito per quegli occhi dorati, lucidi di pianto e sconvolti dalla paura, per quel viso segnato dai suoi schiaffi. Bella. Dicendoglielo, lo pensava realmente.

Prima che potesse cedere a sentimenti di tenerezza e compassione, mostrandosi in qualche modo debole, le lasciò sprezzante il mento e riprese a parlarle con freddezza e risoluta arroganza: “A te la scelta. Se deciderai di stare con me in maniera civile, cancellerò il tuo nome da questa lista”, disse, sventolando un po’ il foglio sotto i suoi occhi, “in caso contrario, sarai la prima a salire su quel treno.”

Diede uno sguardo all’orologio da polso e, gonfio di sé, aggiunse: “Sono le otto. Hai dodici ore di tempo per decidere, a partire da adesso.”

Hermann era così sicuro di quale sarebbe stata la scelta della ragazza.

 


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Immagine dal film “Schindler’s List”

 

“Donne piccole come stelle,

c’è qualcuno le vuole belle.

Donna solo per qualche giorno,

poi ti trattano come un porno.

Donne piccole e violentate,

molte quelle delle borgate.

Ma quegli uomini sono duri,

quelli godono come muli.”

 

Mia Martini, Donna  



[1]“Povera ragazza.”

 

[2]“Figlia mia.”

 

[3]“Ma sei pazzo? Vuoi far succedere il quindici diciotto?”

 

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Capitolo 17
*** Un treno per Auschwitz (Seconda parte) ***


Capitolo 17

 

Un treno per Auschwitz

 

Seconda parte

 

- “Nessuno ti condannerà, né la storia né gli uomini.” -

 

“Non sono mai riuscito a prendere in braccio un neonato, nemmeno i miei figli, perché ad Auschwitz i nazisti ci facevano tirare in aria bambini di pochi mesi e si divertivano a ucciderli, come nel tiro a piattello… Non sono mai riuscito a entrare in una piscina, perché ho visto un prete ortodosso massacrato e annegato dai carnefici.”

Alberto Sed (1928 - 2 novembre 2019), reduce della Shoah e Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

 


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Immagine dal web

 

“Sei ancora qui? Non avrai mica già deciso?” fece il tenente, rivolgendole un ghigno ironico, mentre si versava un bicchiere di vodka.

Sarah non riusciva a muoversi. I suoi piedi erano come incollati al pavimento e la sua mente, in preda al terrore, non faceva altro che ripetere quel terribile nome. Auschwitz.

La domanda del tenente, cinica e allusiva, la riportò alla realtà e, in un sussulto di paura, rispose: “No, signore.”

In fretta, uscì dall’ufficio, mentre Hermann, riposando la bottiglia di vodka sul mobiletto, alzò gli occhi al soffitto.

“Es ist wirklich absurd”[1], la derise, per non ridere di se stesso, di quei brividi che si rincorrevano lungo la sua schiena.

Sarah camminava velocemente verso la sua baracca, con un nodo alla gola che si sarebbe sciolto presto in lacrime, con la testa che quasi sembrava esploderle ripensando al vile ricatto del tenente. Dodici ore di tempo non erano sufficienti per fare i conti con se stessa, con i propri valori morali. La Polonia era una nazione fredda e lontana, chissà quanti giorni di viaggio, da affrontare in un treno sporco, maleodorante e fatiscente; Auschwitz un luogo terribile e ignoto, dove forse i suoi genitori, suo fratello e i suoi cari si trovavano già a soffrirne le pene. Più della morte, Sarah aveva sempre temuto la sofferenza. Entrata nella baracca, si ritrovò davanti Maria, con un’espressione apprensiva e disperata sul viso, e le si gettò al collo, esplodendo in un pianto convulso. Tra quei singhiozzi disperati, avrebbe voluto urlare, a lei e a tutti, la verità sui “trasferimenti” e l’angoscia nella quale il tenente l’aveva fatta sprofondare. Non voleva salire su quel treno, che l’avrebbe condotta sicuramente verso una tragica fine, e nemmeno cedere al compromesso dell’ufficiale nazista.

Tra le braccia di Maria e con la testa poggiata sulla sua spalla, Sarah aveva smesso di piangere. Sedute sul letto, rannicchiate in quell’angusto angolo della baracca illuminato dalla fioca luce di una candela smorta, entrambe fissavano il vuoto nello scorrere silenzioso di una notte insonne, breve e infinita per Sarah.

Maria emise un sospiro e, accarezzandole la testa, iniziò a parlarle: “Io e Davide ci siamo sposati che avevamo all’incirca la tua età.” Ridusse la voce quasi a un sussurro, attenta a non svegliare nessuno. “A quei tempi, si respirava già il clima di odio che ci ha poi condotti qui ma, quando dissi ai miei genitori delle origini ebraiche di Davide, loro non batterono ciglio. Non temevano i giudizi e i pregiudizi della gente. Ci sposammo con rito cattolico. Davide volle convertirsi al cristianesimo per proteggermi, per proteggere la famiglia che avremmo costruito. Dopo neanche un anno di matrimonio, stringevamo già tra le braccia la nostra piccola Rosa, il nostro piccolo fiore, la nostra unica figlia, la gioia del nostro cuore.” Fece una pausa, lasciandosi andare a un sorriso malinconico. “Tu le assomigli moltissimo. Aveva i tuoi stessi occhi e, negli ultimi tempi, il tuo stesso sguardo un po’ perso. Era una ragazza solare e piena di vita, allegra e riflessiva. Le piaceva scrivere e studiava per diventare maestra di scuola materna. Un pomeriggio, subito dopo lo scoppio del conflitto in Italia, la trovammo riversa sul pavimento della sua stanzetta e, dopo tanti accertamenti, i medici ci diedero la notizia che nessun genitore dovrebbe mai sentire. Rosa si era ammalata di un male incurabile.” La voce di Maria divenne più rauca e spezzata. “Iniziò la sua guerra contro la malattia. Lottava con tutte le sue forze per restare aggrappata alla vita e continuò a lottare, anche quando la malattia la costrinse in un letto. Si aggravò, proprio nei giorni in cui a Bologna iniziarono gli arresti[2] e, alla nostra disperazione, si aggiunse altra disperazione. Per troppo tempo ci eravamo illusi che ci fosse qualche speranza per gli ebrei convertiti e i loro figli e non avevamo mai preso in considerazione l’idea di andare via e mettere al sicuro la nostra Rosa. Ormai era tardi e non potevamo spostarla dal suo letto. Lo avrebbero fatto i tedeschi.” Maria si fermò un attimo per asciugarsi una lacrima. “La sua vita era ormai appesa a un sottilissimo filo, pronto a spezzarsi da un momento all’altro, nel giro di qualche settimana o di pochi giorni, e farla soffrire durante l’arresto sarebbe stato inutile e crudele. Così ci disse il dottore, l’unico che era rimasto al nostro fianco, e ci raccontò anche dei violenti interrogatori nella caserma e dei treni che partivano verso ipotetici campi di lavoro. Tutto questo l’avrebbe uccisa e ci convinse a farla andare via in modo sereno. La chiamò «la dolce morte». Io e Davide non avremmo mai pensato di dover prendere una decisione simile, spezzare la vita alla nostra unica e amata figlia, farle del male per il suo bene.”

Maria non resisté più ed esplose in un pianto sommesso, mentre Sarah iniziò a capire dove volesse arrivare la donna con la sua straziante confessione. Non era soltanto lo sfogo del suo dolore.

Infatti, dopo un lungo silenzio intervallato da singhiozzi trattenuti, Maria, riprendendo ad accarezzarle i capelli, le disse: “Non sentirti giudicata per la tua eventuale scelta, Sarah. Nessuno ti condannerà, né la storia né gli uomini, complici di quest’assurda persecuzione. E, se qualcuno un giorno dovesse farlo, sarà soltanto un povero ipocrita.”

Sarah guardava la candela ridursi pian piano a un mucchietto di cera informe, mentre, nella sua testa, le parole tonanti e minacciose del tenente s’intrecciavano con quelle di Maria, di un racconto doloroso dall’epilogo tristemente accomodante. La fioca fiammella si spense alle prime luci dell’alba e, con essa, l’ultimo barlume della sua resistenza al vile ricatto dell’ufficiale nazista. Per salvarsi da Auschwitz, anche lei avrebbe scelto la morte, lasciando morire tutto ciò in cui aveva sempre creduto. A differenza di Rosa, la sua non sarebbe stata una morte dolce e immediata, accompagnata dagli affetti più cari, ma continua e violenta, per mano del nemico. Ormai già compromessa, Sarah decise di sacrificarsi al tenente per continuare a sopravvivere a Fossoli. Nessuno avrebbe potuto giudicarla, neanche la propria coscienza che, in quel momento, si dimenava e piangeva. Sistemò lo chignon e la divisa da cameriera – per lei, da condannata –, aggiustandosi la gonna sui fianchi e stirandone gli orli con le mani, e ignorò le fitte di dolore che ancora le attanagliavano il basso ventre. Rivolse uno sguardo a Maria, vinta dal sonno e dai ricordi allo spuntare del sole, e un senso di forza vibrò sulle corde della sua fragilità. Era la disperata voglia di vivere che, dentro di sé, spingeva per ergersi sulle sue paure e farla uscire da quella baracca a testa alta, con dignità.

Era il 18 febbraio e mancavano quattro giorni alla partenza per Auschwitz.

Hermann distolse lo sguardo dalla porta della baracca, dalla quale Sarah non era ancora uscita, per rivolgerlo al suo orologio da polso. Mancavano cinque minuti alle otto e iniziò a dubitare del proprio intuito. Dentro di sé, si agitò un senso di irrequietezza, al pensiero che la ragazza non avesse ceduto al suo compromesso. Che cosa avrebbe potuto più inventarsi per dissuaderla? Continuando a guardare fuori dalla finestra, prese una sigaretta e iniziò a girarla nervosamente tra le dita, senza accenderla. Come avrebbe potuto rimangiarsi la parola data e cancellare ugualmente il suo nome dalla lista dei deportati? E la ragazza ancora non usciva. Ma, in procinto di accendersi la sigaretta per stemperare la tensione, finalmente la vide e sensazioni di stupore ed eccitazione gli serpeggiarono addosso come scariche elettriche. Confuso e impietrito, si domandò cosa gli stesse accadendo, trattenendo la sigaretta spenta tra le labbra e fissando l’incedere deciso di Sarah verso l’edificio occupato dai tedeschi, verso di lui. Quando la ragazza scomparve dalla sua visuale, Hermann ritornò in sé e, con uno scatto, si allontanò dalla finestra per andare a sedersi dietro la scrivania. Sfilò la sigaretta dalla bocca e cercò di darsi un contegno, rientrando nel suo atteggiamento di sprezzante fierezza.

“Sei in ritardo”, le disse con tono severo, fingendo di guardare l’orologio e scrutandola di sottecchi: con la testa meno china e la schiena più dritta, la ragazza sembrava diversa dalla sera precedente, quasi arrabbiata. “Attenta che non succeda più.”

“Mi scusi, signore, non succederà più”, rispose con una voce indecifrabile, che non esprimeva né timore né sicurezza, come se una parte di lei fosse in quel momento assente.

“Bene, mettiti subito a lavoro”, concluse Hermann più autorevole ed emise una specie di ghigno, ripensando all’infallibilità del proprio intuito.

Sarah si dileguò, mentre lui si stiracchiò sulla poltrona, nel tentativo di scrollarsi di dosso quelle strane sensazioni che di nuovo gli percorrevano il corpo e gli confondevano la mente. Sospirò, come per liberarsene; raddrizzò le spalle sullo schienale della poltrona e riportò lo sguardo sulla scrivania, alla sigaretta che non aveva più acceso e alla lista dei deportati. Su quest’ultima trattenne lo sguardo, poi appoggiò i gomiti sulla scrivania e congiunse le mani sotto al mento. Hermann decise di non cancellare ancora il nome della ragazza dalla lista.

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

“Cambia le tue stelle, se ci provi riuscirai

e ricorda che l’amore non ti spara in faccia mai.

Figlio mio, ricorda bene che

la vita che avrai

non sarà mai distante dall’amore che dai.”

 

Ermal Meta, Vietato morire



[1]“È veramente assurdo.”

[2]A Bologna iniziarono le deportazioni il 7 novembre 1943.

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Capitolo 18
*** L’amore sognato ***


Capitolo 18

 

L’amore sognato

 

“D’un altro. Sarà d’un altro. Come prima dei miei baci.

La sua voce, il suo corpo chiaro. I suoi occhi infiniti.”

Pablo Neruda

 


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Immagine dal set del film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

La cameriera dall’accento milanese, che l’aveva soccorsa dopo la violenza, si chiamava Giuditta e anche lei era di origine ebraica. Fu molto paziente nel spiegarle gli orari e lo svolgimento delle attività lavorative e nel ripeterle lo stesso concetto più volte, quando Sarah sembrava distrarsi ed estraniarsi dalla realtà. Era il pensiero, la paura di ciò che le sarebbe accaduto quella sera e per chissà quante altre sere ancora. Per quanto si sforzasse di essere più forte e di farsi coraggio, ripensando anche al triste racconto di Maria, una parte di lei avrebbe voluto tirarsi indietro, rinunciare a quello sporco compromesso e seguire lo stesso destino degli altri prigionieri. Ma il pensiero di Auschwitz la terrorizzava ancor di più e la spingeva a non cedere al ribrezzo, alla vergogna e alla paura di ciò che l’attendeva di sera con il comandante del campo. Per distogliere la sua mente da quei pensieri fissi e martellanti che si ingarbugliavano fra loro, Sarah lavorò sodo tutto il giorno senza fermarsi un attimo, neanche per mangiare e svolgendo mansioni che non le competevano, aiutando le altre cameriere e le cuoche in cucina, fino a quando la stanchezza non la stordì e fuori si fece buio. Si avvicinava il fatidico momento.

Sarah sostava nella penombra del lungo corridoio, con le spalle appoggiate alla parete e gli occhi rivolti alla porta di quell’ignobile stanza. Iniziò a tormentarsi le mani, poi emise un sospiro tremante e portò la testa all’indietro contro il muro. Fissò per un po’ il soffitto. Mai, nella sua giovane vita, avrebbe immaginato di trovarsi in una situazione simile, in un campo di concentramento, costretta a prostituirsi. Pensò che questo fosse il termine più giusto. Un nodo le strinse la gola, ma non si sciolse in lacrime, neanche quando sentì l’avvicinarsi del tenente. Più che impaurita, adesso era stanca e rassegnata. Volse lo sguardo verso il corridoio, mentre udì il suono duro della sua voce impartire, probabilmente, gli ultimi ordini della giornata a qualche soldato che batté i tacchi, urlando “Heil Hitler!” Poi riprese il pesante calpestio dei suoi stivali, facendosi sempre più vicino e tonante in quel tetro silenzio, e Sarah rivolse di nuovo lo sguardo alla porta chiusa della camera da letto. Il fatidico momento era giunto, in quella temibile ombra silenziosa in divisa, fermatasi alla sua sinistra. Dopo averla squadrata per alcuni interminabili secondi, il tenente aprì la porta, facendole segno di precederlo, e ne seguì una scena già vista. Si tolse il cappello, i guanti, la giacca e allentò il colletto della camicia, mentre Sarah, divisa tra sentimenti di apatia e irrequietezza, non sapeva come comportarsi. Si sentiva fragile e confusa, nella sua inesperienza di ragazza che non aveva mai conosciuto neanche il sapore di un bacio. Dentro di sé, sperava e pregava che non fosse troppo violento, guardando di sottecchi l’ansiosa bramosia nei suoi gesti e nelle sue espressioni facciali e aspettando la sua prima mossa. L’avanzare lento del suo corpo, che propagava nell’aria una scia di ambra e muschio, di vodka e nicotina, la fece indietreggiare, come in una danza a passo di paura e imbarazzo, e cadere inerme sul letto. La spogliò, accarezzandola con mani frementi e, con uno scatto impetuoso e uno spasimo soffocato, l’afferrò per le gambe, costringendola alla sua virilità. Il pensiero di Auschwitz impediva alla bocca di Sarah di urlare, ai suoi occhi di piangere, ai suoi piedi di scalciare, al suo corpo di dimenarsi, di ribellarsi al dolore e all’umiliazione di essere usata per il piacere di un criminale nazista. Avrebbe voluto sparire da quella terribile situazione e ci riuscì, fuggendo dalla realtà per rifugiarsi in ricordi e sogni della sua vita passata. Con espressione assente e occhi fissi tra il soffitto bianco e la fronte del tenente imperlata di sudore e la sua capigliatura biondo grano, adesso non più tanto perfetta, Sarah tornò adolescente; alle sue prime infatuazioni; ai primi sguardi, timidi e furtivi, scambiati nei corridoi o nel cortile della scuola e tra i banchi della chiesa; ai suoi primi rossori; alle risatine entusiaste con le sue amiche, guardando assieme le fotografie dell’attore statunitense Gary Cooper e fantasticando un giorno di incontrarlo, prima di nasconderle nei loro diari; a un giro di lento con il suo cuscino, sulle note della canzone “Ma l’amore no”, sorpreso e interrotto dall’ilarità di suo fratello che si meritò una cuscinata in pieno viso; al lancio di una monetina nella Fontana di Trevi, a occhi chiusi e di spalle, augurandosi di trovare al più presto il vero amore.

E il tenente solcava con violenza la terra del suo corpo indifeso, sradicando i suoi sogni – che altro non erano che aspettative di una vita normale –, senza che Sarah ne provasse più dolore. Ma, soltanto, sentiva il forte cigolio del letto e il respiro affannoso dell’ufficiale. I nazisti si erano presi tutto di lei: la sua famiglia, la sua casa, la sua libertà, la sua dignità e lo stupore, la magia, il tenero imbarazzo, la dolce paura, le parole sussurrate all’orecchio, le timide effusioni d’affetto che, nella sua immaginazione di ragazza, avrebbero coronato la sua prima volta, dopo aver indossato un elegantissimo vestito bianco dalle mille sottane. Era un’intimità, un incontro poetico, quasi sacro, di due corpi e due anime, frutto di quell’amore vero che, sin da bambina, paragonava all’immensità del mare e alla forza delle sue onde, all’infinità del cielo e allo splendore dei suoi astri; un’intimità sciupata, ceduta a quell’uomo brutale che non aveva neanche il coraggio né la voglia di guardare in faccia. Al pensiero dei suoi sogni infranti, Sarah non riuscì più a trattenersi e, in un singhiozzo strozzato, lasciò che due grosse lacrime scivolassero veloci dai suoi occhi, bruciando sulle tempie e perdendosi tra i capelli.

 

Sorrento, settembre 1946

 

La maestosità e l’imponenza del Vesuvio e delle isole, meravigliose sagome che ritagliavano una parte di cielo, e la vastità e il luccichio del mare si offrivano pian piano ai colori di un tramonto indimenticabile.

“Ti amo, Sarah”, le disse Matteo all’orecchio, in un sussurro che le arrivò dritto al cuore, accarezzandole l’anima. Il respiro del giovane era ancora affannato per la corsa lungo la stradina che conduceva in spiaggia, per recuperarle il cappello.

Un’altra lacrima di gioia rigò la guancia di Sarah e Matteo gliel’asciugò, raccogliendola in un lieve bacio.

“Anche io ti amo, Matteo”, rispose Sarah con voce spezzata dall’emozione, continuando a guardare il suggestivo panorama del Golfo di Napoli, appoggiata alla ringhiera, mentre il suo futuro sposo l’abbracciava da dietro. Non riusciva ancora a crederci e rivolse uno sguardo all’anulare sinistro, dove scintillava l’anello, forse un po’ troppo grande per la sua piccola mano.

A un altro timido bacio sulla guancia, seguirono altre dolci parole sussurrate all’orecchio: “Ho trovato già una casa, quella con il tetto rosso, di fronte alla banchina. È da ristrutturare, ma è spaziosa. E ci uscirà anche una stanza per i nostri figli.”

E Matteo le restituiva i sogni di bambina, apprestandosi e affrettandosi a realizzarli, ricuciva la sua innocenza, ricostruiva ciò che nella sua vita e nel suo intimo era stato distrutto, e lei, felice e innamorata, tornava a essere la ragazza di un tempo, quella prima di conoscere il tenente Hermann.

 

Campo di Fossoli, 18 febbraio 1944

 

Il tenente si fermò a mezz’aria sul corpo inerme di Sarah e dilatò gli occhi in un’espressione adirata. La rabbia, con la quale si sentì osservata, richiamò la ragazza alla realtà e, per una frazione di secondo, i loro sguardi s’incrociarono. Impaurita, Sarah strizzò gli occhi e portò le braccia in avanti, tra il petto e le guance, in un gesto istintivo, come per proteggersi da una sua eventuale reazione violenta.

“Non tollero che mi si prenda in giro”, proruppe severo il tenente, scandendo ogni parola e inasprendo così il suo accento, per poi battere forte i pugni sul materasso, a pochi centimetri dai fianchi di Sarah, la quale tremò.

“Alzati immediatamente”, proseguì Hermann risoluto e, aggiustatosi concitatamente i pantaloni, con uno scatto, balzò dal letto.

Prese dal comodino la confezione di sigarette e, con dita tremanti per il nervosismo, ne accese una, mentre la ragazza era già scattata in piedi, pallida e tremante nella sua sottoveste bianca e stropicciata.

Aspirò la prima boccata di fumo e si espresse con parole di ironia e disprezzo, per non cedere alla bellezza di quegli occhi che, come gemme dorate, luccicavano di paura e smarrimento: “Se la mia intenzione era quella di stare con un cadavere, avrei provveduto diversamente.” Un’ebrea non poteva avere degli occhi così belli. “Così non andiamo proprio bene, ragazzina”, disse, in un crescendo di voce sempre più incalzante.

Alle orecchie di Sarah, le parole minacciose del tenente arrivavano come un suono lontano e la sua mente, come annebbiata, non riusciva a formulare nessun pensiero, nessuna risposta con la quale potersi giustificare.

Espirando un altro tiro di sigaretta, Hermann mandò fuori altra cattiveria: “Non credere di poterti salvare, comportandoti in questo modo.” Un’ebrea non poteva essere così bella, con i capelli tutti scompigliati e la faccia mezza livida. “Sappi che non ho ancora cancellato il tuo nome dalla lista”, confessò e la ragazza sgranò gli occhi, guardandolo con un’espressione di terrore.

Era il pensiero di Auschwitz che le gelò il sangue nelle vene e iniziò a farla sudare freddo, mentre le sue labbra provavano ad aprirsi in parole spezzate, biascicate: “Signor tenente, mi dispiace, io…”

Le palpebre si fecero pesanti, la vista divenne sfocata e il corpo oscillò, perdendo il suo equilibrio.

“Io…” Provò ancora a esprimersi, ma si ritrovò nel buio di un vagone diretto verso Auschwitz.

Sarah era svenuta e fu un bene per entrambi.


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

“E lei sognava una musica dolce

e labbra morbide da accarezzare,

chiari di luna e onde del mare,

piccole frasi da sussurrare.

E lei sognava un amore profondo,

unico e grande, più grande del mondo.

Come un fiore che è stato spezzato,

così l’amore le avevan rubato.”

 

Luca Barbarossa, L’amore rubato

 

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Capitolo 19
*** Gocce di miele ***



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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Capitolo 19

                                                               

Gocce di miele

 

“Fummo quello che non si racconta né si ammette, ma che mai si dimentica.”

Frida Kahlo

 


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

Berlino, settembre 1946

 

Hermann sostava sul portico di casa, con la spalla sinistra appoggiata a una delle due colonne e la sigaretta tra le dita, ridotta quasi a un mozzicone. L’ultima boccata di fumo si dissolse nell’aria grigia e fredda della sera, tipicamente berlinese.

In Italia, il clima doveva essere ancora estivo.

Con un’acuta fitta di dolore, la cicatrice dietro la nuca gli preannunciava l’avvicinarsi dell’autunno e gli ricordava quanto fosse stato idiota a non fuggire insieme a Sarah durante la battaglia partigiana di Gonzaga. Per continuare a perseguire gli assurdi ideali di superiorità ariana e il suo sciocco amor di patria, aveva rinunciato al grande amore della sua vita.

Gettò la sigaretta sui gradini e, portando le dita sulla cicatrice, strinse i denti in una specie di ringhio, brontolandosi per il dolore, poi rivolse lo sguardo verso il fondo della strada. Cumuli di macerie si ergevano ancora ai lati dei marciapiedi sui quali, un tempo, le persone passeggiavano tutte in ghingheri, felici e orgogliose, esibendo la loro fedeltà al nazismo con la svastica al braccio. Adesso, come fantasmi, quelle stesse persone si aggiravano in vestiti logori e a testa bassa, ripiegate sotto il peso di una colpa che avrebbe gravato per sempre sulle loro coscienze.

E la sua coscienza pesava delle migliaia di persone transitate per Fossoli, prima di finire nei campi di sterminio, e dei sessantasette uomini di cui aveva guidato il plotone di esecuzione, durante un’alba estiva, presso il poligono di tiro di Cibeno. Quella sera, dopo una lunga e faticosa giornata, tornato nella sua camera, Sarah lo aveva respinto, spintonandolo e colpendolo con un cuscino e dandogli dell’assassino, con le lacrime agli occhi e con la voce carica di disperata rabbia. E lui aveva incassato i colpi, conscio di aver eseguito un ordine insensato e di aver fatto uccidere persone innocenti, tra le quali vi era anche un ragazzino di soli sedici anni[1].

Ripercorrendo le sensazioni di allora, capì quanto avesse temuto di perderla in quei momenti e ancora lo attanagliò la paura, pensando che Sarah potesse ricordarlo per il suo lato peggiore, come un criminale nazista, o peggio, andando a ritroso, come il suo stupratore.

Hermann rabbrividì per i sensi di colpa e il nostalgico desiderio di quegli occhi dolci e dorati, come gocce di miele; di quelle labbra morbide e rosate, così teneramente esitanti ai suoi primi baci; di quella cascata di capelli neri che, sfiorati dalla luce, brillavano di sfumature color rame; di quelle mani delicate e affusolate, da riscaldare prima di farsi accarezzare.

Incrociò le braccia e si strinse nella camicia, ancora un po’ troppo larga, nonostante avesse ripreso qualche chilo. Stentava ancora a riconoscersi e ad accettarsi in quel nuovo corpo, senza più muscoli e pieno di cicatrici, marchio indelebile delle torture inflittegli dai soldati russi. Ed era quello stesso corpo – con il quale, un tempo, aveva percorso la pelle olivastra, vellutata e illibata di Sarah – che, adesso, smagrito e indebolito, gli impediva di tornare da lei.

“Hermann!” La voce di suo padre, accompagnata da una mano sulla spalla, lo ridestò bruscamente dai suoi pensieri. “Tutto bene?”

“Sì”, rispose frastornato e la sua espressione palesemente sconvolta ne rivelò la bugia.

“Non si direbbe, sei pallido come un fantasma”, fece Karl, dando un accento severo al suo tono apprensivo, “vuoi che chiami il dottor Schneider?”

Nessun medico, neanche un luminare come Schneider, grazie al quale stava rimettendosi in sesto piuttosto velocemente, avrebbe potuto curare la sua malattia e, con molta naturalezza e senza alcun pudore, lo lasciò intendere anche a suo padre, dicendo malinconico: “Non avrebbe nessuna cura.”

Karl sospirò profondamente ed emise uno sbuffo disperato, portandosi le mani alle tempie. “Ancora con questa storia? Io non ne posso più”, ribatté e l’esasperazione comparsa improvvisamente sul suo volto fece credere a Hermann che fosse in procinto di prenderlo a schiaffi.

Di suo padre aveva ereditato gli occhi, l’intuito e la caparbietà e sapeva benissimo che avrebbe fatto o detto qualsiasi cosa pur di dissuaderlo dal ritornare in Italia.

“Prova a ragionare solo per un attimo”, riprese, infatti, mentre il suo tono diventava pian piano più morbido e persuasivo, “sono passati due anni e, come te, anche lei potrebbe essere cambiata. Hai detto di averla abbandonata e non credi che potrebbe serbare del rancore e non volerti più?” Ed ecco che suo padre iniziava a dare voce alle sue paure. “Potrebbe aver ritrovato qualche membro della sua famiglia o avere un altro uomo accanto. Perché sconvolgerle la vita? Dopo tutto quello che ha passato, poverina.”

Hermann emise un ghigno e, scuotendo il capo in segno di dissentimento, disse ironico: “Ma quanto sei ipocrita. Vorresti farmi credere che t’importa qualcosa di lei?” Poi si fece d’un tratto serio e lo guardò intensamente negli occhi. “Io tornerò in Italia, con o senza il tuo aiuto.” Ma sapeva benissimo che senza i contatti di suo padre sarebbe stato tutto più difficile.

Karl lo sfidò con sguardo altrettanto tagliente e, sfogando la tensione in un profondo sospiro, ribatté: “E va bene, ti aiuterò. Non sopporto più vederti ridotto in questo stato.” Le parole di suo padre si rincorrevano lente in un intreccio di rassegnazione e disprezzo. “A causa di un’ebrea.”

Con uno scatto rabbioso, gli volse le spalle e rientrò nel portone, lasciando Hermann da solo, deluso ma risollevato, pronto a perdersi ancora nei rimorsi e a rifugiarsi nel ricordo di Sarah.

 

Napoli

 

“Se continui così, finirai per distruggere il tuo meraviglioso anello”, proruppe Hannah, ostentando dell’ironia.

Distesa sul letto, senza la benché minima intenzione di addormentarsi, Sarah non faceva altro che girare e rigirare l’anello di fidanzamento attorno al dito, fissandolo con aria vaga e sognante e ripensando a ogni singolo istante vissuto nella magia di Sorrento, “la terra delle sirene”, insieme a Matteo e fantasticando sul giorno seguente, quando avrebbe visitato la loro futura casa, quella con il tetto rosso, di fronte alla banchina.

Alzò un po’ la testa dal cuscino e rivolse all’amica un ampio sorriso rilassato, dicendole: “Sai, Hannah, non è affatto vero quello che si dice sui pescatori. Lui è così sensibile, gentile, romantico. È speciale.”

Hannah sospirò estasiata, poi si girò su un fianco e, appoggiando il gomito sul cuscino e la testa sulla mano, le chiese: “E lui è il tuo primo amore?”

In un attimo, i pensieri di Sarah e i battiti del suo cuore rischiarono di deragliare verso Hermann.

“Sì”, rispose con un sorriso, mantenendo lo stesso entusiasmo e credendoci realmente.

“Ti prego, Sarah, raccontami ancora”, riprese Hannah e la sua espressione assomigliava tanto a quella di una bambina desiderosa di riascoltare la favola della buonanotte, “raccontami ancora come ti ha chiesto di sposarlo.”

Sarah si aprì in un altro largo sorriso e accontentò il desiderio della sua amica. “Eravamo nella villetta di Sorrento, davanti a un panorama spettacolare. Lui mi ha preso le mani e mi ha detto: «Sarah, io ti amo e voglio trascorrere il resto della mia vita con te, che sei unica e straordinaria, la ragazza più bella, dolce e gentile che abbia mai conosciuto. Vedi, Sarah, io non ho molto da offrirti. Ho solo queste mani per lavorare in un mare spesso ostile e che, a volte, non dà nulla. E ho questo cuore per amarti». Ha portato le mie mani al suo cuore. Batteva fortissimo. Poi si è inginocchiato, ha preso l’anello dalla tasca e mi ha chiesto: «Sarah, vuoi sposarmi?».” La sua voce tremava per l’emozione, mentre il suo animo vibrava d’amore per Matteo.

Ma, quella notte, Sarah non sognò soltanto il suo futuro sposo.

 

“Te lo direi che ho freddo,

che ho paura

e che ti ho sempre amato.”

 

Michele Zarrillo, Adesso  



[1]In riferimento all’Eccidio di Cibeno. All’alba del 12 luglio 1944, sessantasette internati politici del Campo di Fossoli furono fucilati dalle SS al poligono di tiro di Cibeno (Carpi), come ritorsione per l’attentato contro alcuni soldati tedeschi a Genova. Una rappresaglia immotivata poiché condotta contro prigionieri inermi e in un’area lontana dal luogo dell’attentato. Tra le vittime, il più giovane aveva sedici anni.

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Capitolo 20
*** Pane e marmellata ***



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Nella foto, come immagino i genitori di Sarah.

 

L’immagine è tratta dalla docufiction “Figli del destino” che racconta la storia di quattro bambini italiani ebrei, vittime delle leggi razziali fasciste del 1938, tra i quali Liliana Segre.

 

Capitolo 20

 

Pane e marmellata

 

“Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.”

Primo Levi, Se questo è un uomo

 

Campo di Fossoli, 19 febbraio 1944

~ Tre giorni alla partenza per Auschwitz ~

 

Quando si svegliò, Sarah non aprì subito gli occhi. Abbracciata dal calore del letto e dal delicato profumo di lisciva delle lenzuola, lasciò che l’immaginazione la riportasse nella sua cameretta.

Fra qualche minuto, suo fratello si sarebbe alzato per andare al lavoro, blaterando, con voce un po’ rauca per il sonno, di essere in ritardo, mentre sua madre, facendo rumore in cucina con cassetti e stoviglie, avrebbe preparato loro una lauta colazione.

E credette di trovarsi davvero a casa sua, quando il buon profumo della colazione le solleticò realmente le narici, facendole brontolare lo stomaco e intensificare la salivazione.

Escludendo quei pochi cucchiai di minestra che Maria le aveva imboccato, era da ben tre giorni che la ragazza non toccava cibo.

Un senso di amaro le si appiccicò al palato e deglutì più volte la saliva, prima di schiudere definitivamente le labbra e aprire con estrema lentezza gli occhi. Poggiato sul comodino, vide un vassoio di rame con sopra una teiera e una tazza in porcellana; un tovagliolo ricamato sul quale erano adagiati dei biscotti e delle fette di pane; un piccolo vasetto, anch’esso di porcellana, con della marmellata che, a giudicare dal colore e dal profumo, sembrava essere di fragole.

Da quanti mesi non ne assaggiava un po’?

Una volta, in canonica, era stato consegnato un pacco di viveri contenente anche dei vasetti di marmellata, ma Sarah aveva preferito cedere la sua porzione ai bambini.

All’ennesimo brontolio di stomaco, fu quasi sopraffatta dalla tentazione di allungare una mano verso il vassoio e, anche se il braccio le uscì involontariamente fuori dalle coperte, resistette, all’improvviso e spaventoso ricordo della sera precedente. Quella non era la sua cameretta, non era la sua casa e il suo nome era ancora sulla lista dei deportati verso Auschwitz. Mossa dalla paura, si liberò di scatto dalle coperte, trattenendo un verso che assomigliava a un singhiozzo e si mise a sedere, ritrovandosi di fronte il coronamento dei suoi incubi peggiori. Il tenente era già pronto nella sua divisa linda e impeccabilmente stirata e i capelli ben pettinati con la riga laterale e lucidi di brillantina. Fermo sull’uscio del bagno, con la spalla sinistra appoggiata allo stipite della porta e le braccia incrociate, chissà da quanto tempo la stava osservando con quel suo sguardo furbo e allusivo, magari per sorprenderla con la mano nel vassoio. Balzò dal letto caldo e per un soffio non inciampò nel lenzuolo che, nella furia del movimento, le si era attorcigliato attorno alla caviglia.

Le labbra di Hermann si curvarono in un sorriso di tenerezza, per quella scena che gli aveva ricordato il loro primo incontro, ma la ragazza, ovviamente ignara di ciò, lo interpretò come un ghigno derisorio.

Il freddo del pavimento intirizzì i piedi nudi di Sarah, mentre l’aria rigida e umida dell’alba le sferzò le gambe, percorrendo velocemente il resto del suo corpo, coperto soltanto dalla leggerissima sottoveste bianca.

Hermann si trattenne a guardare la cascata di capelli neri che, liberati dallo chignon, si dividevano a metà: una parte ricadeva sul petto e l’altra dietro la schiena, lasciando scoperto il sensuale incavo di una clavicola perfetta. La vide inclinare le spalle all’indietro, in un atteggiamento difensivo; poi fece risalire lo sguardo sul suo viso livido e corrucciato, incrociando i suoi occhi velati di sonno e paura. Si staccò dallo stipite della porta e, tenendo le braccia conserte, si ricompose nella sua postura dritta e fiera.

“Ieri sera sei svenuta e il tuo stomaco ha brontolato tutta la notte”, le disse, deciso a nascondere la sua insolita apprensione in un tono asettico piuttosto che parlarle con ostentata durezza. “Devi mangiare, se vuoi sopravvivere. Ti ho fatto portare la colazione.” Con un cenno della testa, le indicò il vassoio sul comodino e, intanto, gli occhi immensi e lucidi della ragazza si sbarrarono, esprimendo dapprima sospetto, poi meraviglia e, di nuovo, timore. “Mangia, poi rimetti in ordine la stanza e vai a riposarti nella tua baracca”, concluse e, nonostante l’accento grave, quelle parole risuonarono più come un invito che come un ordine, anche alle proprie orecchie.

Sarah restò confusa dal gesto premuroso del tenente e dal suo tono vagamente gentile, che cozzavano con l’aggressività e le minacce di qualche ora prima.

Ma, nel giro di pochi secondi, Hermann, temendo di sembrare debole, assunse di nuovo un’espressione cupa e riprese severo: “I tuoi genitori non ti hanno insegnato a dire «grazie», quando ti viene offerto qualcosa?” Fece una pausa e la vide sussultare di paura. “Non vorrei essere io a dovertelo insegnare adesso.”

La ragazza schiuse lievemente le labbra e biascicò quel «grazie» con voce strozzata.

“Bene”, concluse lapidario e andò via, chiudendo la porta e lasciandosi alle spalle il ricordo di una notte trascorsa quasi del tutto insonne mano nella mano con lei ad ascoltarne i gemiti di tristezza e i brontolii della fame.

Era stata Sarah a ricercare involontariamente, durante il sonno, quel contatto, scambiando la presenza del tenente per quella dei suoi genitori. “No, non mi lasciate, vi prego”, aveva, infatti, sussurrato in un lamento, portando con decisione la mano sulla sua ed Hermann aveva risposto stringendogliela.

Rimasta da sola, Sarah emise un sospiro di liberazione e, a peso morto, sedette sul letto, iniziando a fissare il vassoio con la colazione. Strinse forte le braccia attorno allo stomaco e, nonostante fosse in preda ai dolorosi crampi della fame, dovette farsi ugualmente coraggio prima di toccare quel cibo acquistato a caro prezzo. Prese un biscotto e iniziò a mangiarlo, prendendo piccoli morsi e masticando lentamente, ma senza assaporarne il gusto, mentre si chiedeva se il suo corpo e la sua vita valessero così poco e, allo stesso tempo, così tanto. Era confusa, stanca, impaurita e affamata. Si apprestò a spalmare la marmellata su una fetta di pane e pensò che, se non voleva soccombere e finire su quel treno diretto verso Auschwitz, avrebbe dovuto adattarsi a quella situazione, dimenticando la Sarah di una volta e prestandosi al gioco meschino del tenente. Portò la fetta di pane alle labbra e, al primo piccolo morso, le papille gustative danzarono al sapore dolce della marmellata e quasi si commosse. Avrebbe compiaciuto l’ufficiale tedesco, semmai, assecondando i movimenti frenetici del suo corpo e imitandone i sospiri affannosi. Ma, subito, un singhiozzo strozzato le esplose nella gola, assieme al boccone che aveva ingoiato, per poi sfociare in un pianto sommesso. Sarah ebbe vergogna e paura della donna che sarebbe diventata.

 

“Sono consapevole che tutto più non torna.

La felicità volava, come vola via una bolla.”

 

Ermal Meta & Fabrizio Moro, Non mi avete fatto niente

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Capitolo 21
*** La morte nell’anima ***


Capitolo 21

 

La morte nell’anima

 

“A volte io respiro nella notte

e penso a quante luci sono morte

intorno a un cimitero di bambina.”

Alda Merini

 


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Immagine dal film “Schindler’s List”

 

La dolcezza della marmellata si perse nel sapore salato e amaro delle lacrime che scendevano copiose e silenziose lungo le sue guance, bagnandole le labbra, ma Sarah continuò lentamente a mangiare, ignara di essere osservata. Ricordò di aver sognato i suoi genitori e rivide l’espressione preoccupata impressa sul volto di sua madre e lo smarrimento che traspariva dagli occhi di suo padre al momento del loro addio, sotto lo sguardo del grande Crocifisso, nella navata centrale della chiesa. Immaginò il loro dolore e la delusione di Samuel, suo fratello, se l’avessero vista in quelle condizioni, mezza nuda, sul letto di un nazista, a mangiare il cibo destinato ai soldati. Se solo avesse seguito Samuel nella Resistenza, a quell’ora si sarebbe trovata a combattere il nemico e non a condividerne le lenzuola. Ma, vigliacca qual era, il pensiero di supportare le brigate partigiane, come tante altre ragazze della sua età, non l’aveva nemmeno lontanamente sfiorata alla partenza di suo fratello. Bevve l’ultimo sorso di tè diventato ormai freddo e, tremante, posò la tazza sul vassoio, trattenendo un pianto più disperato.

 

Entrato nel suo ufficio, prima di sedersi alla scrivania, Hermann frugò nelle tasche alla ricerca delle sigarette e si accorse di aver lasciato il pacchetto sul comodino. Scrupolosamente osservante dei propri gesti e rituali quotidiani, si stupì non poco di tale dimenticanza e, a passo sostenuto, si diresse verso la camera da letto. Pensò che Sarah, considerata la fame che le aveva tormentato lo stomaco per tutta la notte, avesse già finito di mangiare e che, in quel momento, stesse rassettando la stanza. Ma, avvicinatosi alla soglia, udì un lamento sommesso, simile al miagolio di un gattino e spinse delicatamente la porta fino ad aprire un piccolo spiraglio. La vide di spalle, seduta sul bordo del letto, ancora in sottoveste e con la colazione davanti. Mangiava a rilento e non voracemente, come aveva immaginato, mentre i singhiozzi trattenuti le scuotevano le spalle e la testa, facendo ondeggiare i capelli. Indugiò sull’uscio, non sapendo come confrontarsi con quegli occhi lucidi ed eloquenti, con quelle labbra mute e tremanti e, per la prima volta nella sua vita, si scoprì vigliacco davanti alla fragilità e alla forza di una ragazza la cui esistenza era stata catapultata in un incubo e lui era uno dei mostri. Il delicato tintinnio della tazza, che Sarah aveva posato sul vassoio, lo riportò alla realtà e, scuotendo un po’ il capo come per liberarsi da pensieri che non gli appartenevano, si costrinse a ricordare i numerosissimi impegni della giornata e a farne un alibi per non rientrare nella stanza. Fra soli tre giorni, sarebbe partito il primo convoglio diretto verso Auschwitz e, sotto il suo comando, tutto doveva filare alla perfezione. Non poteva perdere altro tempo e, mentre la schiena della ragazza fu scossa da un singhiozzo più forte, l’SS-Obersturmführer chiuse lo spiraglio e si allontanò dalla porta. Indossò di nuovo la sua corazza d’indifferenza, ma non aveva più voglia di fumare.

 

“Sarah! Sarah!” Al di là del filo spinato che divideva il Campo Nuovo dal Campo Vecchio, una voce familiare la chiamò, ma Sarah fece finta di non sentirla e continuò a camminare più velocemente verso la sua baracca.

Se si fosse fermata, don Franco, anche solo con uno sguardo, avrebbe capito tutto e lei non voleva.

“Sarah! Sarah!” Il sacerdote perseverava nell’intento di parlarle e Sarah, sentendo il suo respiro farsi più affannoso per l’incedere troppo veloce, considerata l’età avanzata, non ebbe altra scelta che rassegnarsi a quel confronto e a un’eventuale condanna.

Assai trafelato, in una tonaca sgualcita e impolverata, con la barba incolta e il viso segnato da mille preoccupazioni, don Franco sembrava più invecchiato dal suo arrivo a Fossoli.

La guardò con un’espressione infinitamente triste: le guance livide e gli occhi privi di luce gli confermarono la veridicità di quanto aveva sentito sulla povera Sarah e rimase senza parole, come quando, qualche giorno prima, un uomo e una donna gli confessarono di aver praticato l’eutanasia sulla loro figlia malata terminale per sottrarla alle sofferenze dell’arresto e della deportazione. Nel vortice della follia antisemita, dell’uomo contro l’altro uomo, cos’era giusto e cos’era sbagliato?

“Sarah”, iniziò a parlarle con voce spezzata, “perdonami. Non sono riuscito a proteggere te e i bambini.”

Quel «perdonami», rivoltole da un ministro di Dio, suonò strano alla ragazza che avrebbe voluto – e, forse, dovuto – rispondere con un «non è colpa vostra», ma rimase in silenzio, poiché aveva bisogno di sentirselo dire per tutto il male che le era stato fatto. Corrucciò la fronte in un moto di rabbia, ripensando all’abuso subito e fece per andarsene.

“Sarah!” Don Franco la fermò, chiamandola con voce più forte e angosciata. “Non permettergli di farti diventare ciò che non sei.”

Gli occhi di Sarah si velarono di lacrime. Don Franco sapeva già tutto e, con un fil di voce, ponendo la domanda prima a se stessa, gli chiese: “Chi sono io?”

“Tu sei quella bambina, poi quella ragazza che correva verso la chiesa con il suo libro dei canti e che, sorridente, saliva in cantoria con gli occhi e il cuore pieni di sogni e speranze”, ribatté don Franco, anche lui con gli occhi inumiditi dal pianto trattenuto, “quella ragazza che, con grande amore e pazienza, nonostante la paura, mi ha aiutato a prendermi cura dei bambini in canonica.”

Ma Sarah dissentì con la testa e, profondamente angosciata, quasi sul punto di piangere, disse: “No, quella bambina e quella ragazza sono morte lì dentro.” E, atterrita, rivolse lo sguardo all’edificio occupato dai tedeschi per poi girare definitivamente le spalle a don Franco.

“Non lasciarle morire, Sarah!” proruppe l’anziano sacerdote, non in tono di rimprovero, ma come una supplica disperata, mentre la ragazza camminava in fretta verso la sua baracca, senza fermarsi, senza voltarsi. “Non lasciarle morire”, ripeté più rassegnato.

 

Quando fu nella sua baracca e sul suo letto, con la testa sotto la coperta, Sarah poté finalmente dare libero sfogo a tutte le lacrime che aveva trattenuto; lacrime di paura e rassegnazione, di rabbia e vergogna, di sconforto e confusione; lacrime convulse, irrefrenabili, sonanti che non rimasero a lungo inascoltate. All’ennesimo singhiozzo, infatti, sentì un qualcuno salire sul letto e premerle sulle gambe. Scostò un po’ la coperta dal viso, ritrovandosi davanti il faccino di Giulio, il bambino più piccolo, che la guardava con un’espressione triste e interrogativa e, invano, tentò di frenare le lacrime, tirando su col naso un paio di volte.

“Sarah, perché piangi?” domandò innocentemente il bimbo. “Ti fa ancora bua?”

Senza rendersene conto, Sarah si ritrovò ad annuire e il piccolo, piegatosi su di lei, le diede un bacio sulla guancia, quella più livida.

è passata?” riprese il bimbo, mentre Sarah, commossa, non riusciva a trattenere le lacrime ed emise un singhiozzo più forte.

Alla mancata risposta della ragazza e al suo incontenibile pianto, il piccolo Giulio rattristì di più lo sguardo, poi si fece pensieroso e, un attimo dopo, assunse un’espressione allegra. “Il mio papà mi ha promesso che, quando torniamo a casa, mi compra un cavalluccio grande così!” disse e, sulle ultime parole enfatizzate, spalancò le braccia più che poteva. “Se vieni a casa mia, ti faccio fare un giro, però non devi piangere più”, concluse serioso.

Sarah sorrise debolmente al tentativo del bimbo di consolarla, immaginandosi l’improbabile ed esilarante scena. “Va bene”, sussurrò, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano, “non piango più.”

Il piccolo era riuscito nel suo intento e ricambiò con un largo sorriso per poi accovacciarsi accanto a lei. Sarah lo abbracciò e, baciandogli la fronte, pregò Dio che i nomi di Giulio e degli altri bambini non fossero sulla lista dei deportati verso Auschwitz. Dopo pochi istanti, vinta dalla stanchezza fisica e mentale, mentre il piccolo riempiva il silenzio della baracca canticchiando una dolce nenia inventata, la ragazza chiuse gli occhi e, senza accorgersene, dormì fino al giorno seguente, fino a quando una sirena non fischiò all’impazzata.

 

“Sara, non piangere.

Tienimi chiuso dentro questa stanza.

Rompi i tuoi giochi contro l’arroganza del mondo

che è pieno di

cose inutili da fare,

cose inutili da dire.

Quante cose inutili abbiamo nella testa.

Ma il tuo sorriso resta...

In the middle of the night.”

 

Pino Daniele, Sara  

 

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Capitolo 22
*** Rosso sangue ***


Capitolo 22

 

Rosso sangue

 

 “Liberami da me. Voglio uscire dalla mia anima.

Io sono questo essere che geme, che brucia, che soffre.

Io sono questo essere che attacca, che urla, che canta.

No, non voglio essere così.

Aiutami a rompere queste porte immense.” 

Pablo Neruda, Riempiti di me

 


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Immagine tratta dalla locandina del film “L’uomo dal cuore di ferro”

 

Campo di Fossoli, 20 febbraio 1944

~ Due giorni alla partenza per Auschwitz ~ 

 

Al tonante fischio della sirena, Sarah spalancò di colpo gli occhi e balzò a sedere sul letto. Con terrore, immaginò che quell’allarme preannunciasse l’arrivo dei bombardieri, ma fu un altro pensiero a farla rabbrividire. Le luci del crepuscolo mattutino penetravano dalle finestre della baracca, posandosi su volti stropicciati dal sonno di persone che, concitatamente, si preparavano a uscire, alcune coprendo il pigiama che avevano indosso. Si rese conto di aver dormito per un giorno e una notte di fila e, di conseguenza, di non essersi presentata per una giornata intera né al lavoro né al tenente. Le possibilità di scampare al trasferimento ad Auschwitz diminuivano sempre di più. Girando ancora intorno lo sguardo, atterrita, cercò la presenza rassicurante di Maria e la vide mentre, in ginocchio, aiutava il piccolo Giulio – che, piagnucolante e assonnato, si strofinava gli occhi – a indossare il cappottino. Balzò giù dal letto e, ignorando un capogiro, in gran fretta, s’infilò le scarpe e il cappotto.

“Maria!” la chiamò, correndole incontro e lei si volse, prendendo in braccio il bimbo che subito si accoccolò sulla sua spalla, desideroso di dormire ancora.

Per alcuni istanti, le due donne si parlarono con uno scambio di sguardi carichi di tensione, poi fu Sarah a rompere quell’eloquente silenzio. “Cosa sta succedendo?” domandò sconvolta.

Gli occhi nocciola di Maria divennero improvvisamente più lucidi e, con voce rotta dalla preoccupazione, rispose: “Credo che vogliano comunicarci qualcosa di…”

Neanche il tempo di terminare la frase, che Sarah subito la interruppe, incalzando con un tono più concitato: “Perché non mi hai svegliata ieri sera?”

“Ci ho provato, cara, ma ti sei girata dall’altro lato. Eri stanca morta”, le disse, tentando di assumere un timbro di voce e un’espressione in viso più sereni per rassicurarla e, intanto, il piccolo Giulio aveva già ripreso a dormire.

“Sbrigatevi, dobbiamo uscire”, intervenne Davide perentorio e agitato, ponendo una mano sulla spalla di sua moglie e, velocemente, lo seguirono.

Quando la sirena smise di fischiare, nel campo piombò un silenzio quasi surreale. I tedeschi avevano posizionato davanti al loro edificio una specie di palco costituito da due tavole di legno sovrapposte e un folto numero di soldati armati lo circondava. Sarah sentiva nelle orecchie le pulsazioni del proprio cuore e l’ansimare del proprio respiro che, nell’aria fredda del mattino, formava nuvolette di fumo bianche. Sul palco, dietro al microfono e affiancato da un sottoufficiale, si ergeva la figura del tenente. Ben dritto, con le mani dietro la schiena e con indosso il lungo cappotto dell’uniforme, sembrava più alto, più imponente, più minaccioso e Sarah dovette sforzarsi di allontanare dagli occhi della mente la terribile sequenza dei momenti vissuti con lui per essere presente a ciò che stava accadendo. Ma, al soffio di un respiro esalato al microfono, fu di nuovo trafitta dal ricordo del suo ansito e del cigolio del letto e lasciò che quel dolore le scavasse ancora nel corpo e nell’anima, fino a quando il tenente non iniziò a parlare.

Con voce metallica e glaciale calma, pronunciò poche parole che, di colpo, la fecero sprofondare in un’angoscia profonda, forse mai provata prima di allora, lacerandole il cuore: “L’SS-Scharführer Weber Jörg, adesso, leggerà i nomi dei prigionieri che lasceranno il campo. La partenza è prevista fra due giorni e avete un tempo più che sufficiente per raccogliere le vostre cose.” E, subito, indietreggiò di un passo per lasciare il microfono al sottoufficiale che, senza perdere tempo, iniziò a leggere da quei fogli che Sarah aveva già visto.

Soltanto lei, in mezzo a centinaia di persone un po’ smarrite e confuse dall’inaspettato annuncio, era tristemente a conoscenza della verità e, con la morte nel cuore, si mise in un ascolto profondo dei nomi dei deportati verso Auschwitz, contandoli e aspettando rassegnata il proprio turno. Arrivata a cento, perse il conto e strinse forte il braccio attorno alla vita di Maria, quando sentì pronunciare i nomi della donna, di suo marito e dei bambini con i quali era arrivata a Fossoli. Era certa che anche il suo nome fosse su quella lista, dal momento che, per un giorno intero, non aveva svolto il suo lavoro di cameriera e, soprattutto, non aveva mai soddisfatto realmente i bisogni del tenente.

 

Hermann lasciò il microfono al sergente maggiore e, mentre questi iniziava a leggere i nomi dei prigionieri destinati ad Auschwitz, fu libero di ricercare con lo sguardo Sarah. Aveva cancellato il suo nome dalla lista la mattina precedente, prima di farle portare la colazione e, affinché la sua presenza non lo distogliesse – esattamente come stava accadendo in quel momento – dagli impegni e da se stesso, le aveva permesso di riposare tutto il giorno. Non fu difficile scorgere la sua figura, la perfezione in mezzo alla bruttezza di centinaia di esseri per lui inferiori, avvolta nel cappotto rosso.  

Rosso, come lo sfondo della bandiera nazista, simbolo di supremazia della razza e di potenza che, da una torretta di sorveglianza, vide ondeggiare forte a un’improvvisa folata di vento. Ne udì il rumore, mentre la voce del sottoufficiale arrivava alle sue orecchie come un eco lontano, un suono indistinto e i suoi occhi tornavano a Sarah. Era in virtù di quel potere che si era avvalso il diritto di farla sua con ricatto e violenza.

Rosso, come il sangue d’innocenza rubata impresso sul lembo della sottoveste bianca che lei stringeva fra le gambe all’indomani della violenza, seduta sul pavimento, con le spalle appoggiate al muro e gli occhi fissi nel vuoto. E, intanto, la vide stringersi a una donna bionda che teneva in braccio un bambino piccolo, affiancata da un uomo dai capelli neri, folti e spettinati. Mai era successo che una ragazza lo respingesse e che lui si comportasse in modo così abietto.

Rosso, come il colore attribuito alla passione che, forse, avrebbero potuto vivere assieme, se solo avesse cambiato il suo approccio verso Sarah, accompagnandola per mano nei meandri del desiderio, a lei ancora sconosciuto. Desiderò farla sua, sentendosi suo. Desiderò sentire le carezze delle sue mani sul proprio corpo e farle esplorare quel nuovo mondo. Ma, d’improvviso, si costrinse a ritornare in sé, mentre il sergente maggiore aveva già iniziato a leggere l’ultimo foglio della lista.

 

Con gli occhi velati di lacrime e fissi sul sottoufficiale, Sarah attendeva che, da un momento all’altro, questi pronunciasse il suo nome. Attendeva sempre più rassegnata, tra angoscia per le persone – soprattutto, per quei poveri bambini – nominate per la partenza verso Auschwitz e paura per il destino che avrebbe con loro condiviso. Ma il suo nome non fu mai pronunciato, mai divenne un numero inciso sul braccio né lei cenere trasportata dal vento.

 

Berlino, ottobre 1946

 

Seduto sulla sedia, accasciato allo scrittoio della sua stanza, Hermann si era addormentato sopra una distesa di libri tradotti in italiano, dizionari e fogli sui quali aveva esercitato la sua dimestichezza nella lingua straniera, stanco per lo studio ma, soprattutto, tramortito da un vortice di ansia e di entusiasmo. Il giorno seguente, suo padre avrebbe incontrato degli amici, come lui, ex membri del Dipartimento 1A della polizia di Stato prussiana e, successivamente, della Gestapo. Grazie alle conoscenze di suo padre, avrebbe ottenuto tutti i documenti necessari per espatriare in Italia e, con la testa poggiata su “I dolori del giovane Werther”, sognò il fatidico momento in cui avrebbe ritrovato la sua Sarah.

 

“Ti avrò perché sto male,

se non ti sento mia.

Ti avrò perché non posso più aspettare.

Ti avrò perché in futuro

io ti ritroverò.

Ti avrò perché nel libro della vita mia

c’è scritto che ti avrò.”

 

Enrico Ruggeri, Ti avrò  

 

 

 

 

 

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Capitolo 23
*** Azzurro cielo ***


Capitolo 23

 

Azzurro cielo

 

“L’altro, il tiranno delle tue lenzuola, ti strappa fuori da ogni movimento e precipita cupo nel ricordo.”

Alda Merini

 


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

Napoli, ottobre 1946

~ Un mese al matrimonio ~

 

“Basta ca ce sta ’o sole, ca c’è rimasto ’o mare, na nénna a core a core, na canzone pe’ cantá. Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdámmoce ’o ppassato, simmo ’e Napule paisá[1], canticchiava Matteo, verniciando di beige rosato l’ultima parete della camera da letto.

Aveva impiegato l’intera mattina per riuscire a ottenere quel colore e fare una sorpresa alla sua futura sposa che, sicuramente, si aspettava il monotono bianco o, al massimo, un giallo pallido. Non vedeva l’ora di mostrarle il risultato del suo lavoro. A breve, come i pomeriggi precedenti, sarebbe arrivata con un caffè, un bacio e una miriade di sorrisi, sprigionando nell’aria una scia del suo buon profumo ai fiori di mughetto e imprimendogli nella mente e nel cuore l’immagine della sua radiosa bellezza. A volte, pensava di non esserne degno e che, come gli ripeteva spesso il suo compare, Sarah fosse troppo per un povero pescatore come lui. Se Matteo le aveva chiesto di sposarlo, lei aveva fatto sì che la sua proposta diventasse un’immediata concretezza.

Sarah aveva messo in vendita l’appartamento di famiglia per pagare, subito e interamente, la casetta dal tetto rosso affacciata sul mare che avrebbe abitato con il suo sposo, scontrandosi con il dissenso del signor Gennaro che sperava ancora nel ritorno dell’amico conosciuto in trincea durante la Grande Guerra. Inizialmente, anche lui, urtato nel suo orgoglio di maschio e temendo una figuraccia con i suoi futuri suoceri, qualora fossero ritornati dai lager nazisti, aveva dissentito, ma Sarah era stata più forte. Il suo guscio di ragazza dolce e sensibile nascondeva in realtà una donna testarda e determinata il cui carattere era stato forgiato dalle ingiustizie e dagli abusi subiti. Ma Sarah non si era limitata soltanto all’acquisto della casa e, con parte dei soldi rimasti, gli aveva anche regalato una barca, offrendogli così un’indipendenza lavorativa, una responsabilità a cui lui, però, non si sentiva ancora pronto e che lo costringeva a diventare improvvisamente più adulto, più uomo. Temprata dalla sofferenza del passato, Sarah era forte e lo era molto più di Matteo.

La loro decisione di sposarsi subito, senza prima conoscersi di più ma sospinti da un sentimento d’amore e spinti da uno slancio del cuore, aveva suscitato la disapprovazione sia del signor Gennaro sia della famiglia di Matteo, mentre le malelingue del paese mormoravano di un matrimonio riparatore. Ovviamente, non lo era. Il desiderio che Matteo aveva della sua futura sposa era grande quanto il rispetto che nutriva per lei e non ne avrebbe mai approfittato, pur sapendo della sua non più illibatezza. Temendo di poterle riaprire una ferita e di offenderla nella sua sensibilità e nella sua dignità di donna, non le aveva mai chiesto di quell’ufficiale tedesco. A volte, quando era da solo con i suoi pensieri, mentre riparava una rete o riposava sulla battigia oppure, come in quel momento, ristrutturava la loro casetta, si ritrovava a immaginare con rabbia le violenze e le porcherie che la sua dolce Sarah aveva subito per mano di quel criminale nazista, per lui senza nome né volto, ma sapeva che, se le cose fossero andate diversamente, non l’avrebbe mai incontrata. Beneficiario di una felicità frutto di un compromesso, forse, se la vita gli avesse messo davanti quell’essere degenere, lo avrebbe anche ringraziato, prima di ucciderlo con le proprie mani. Ma questo non sarebbe mai accaduto, poiché quel tedesco era soltanto un fantasma del passato, un brutto ricordo sepolto sotto cocci, ceneri e macerie di un mondo da ricostruire, di una vita – quella di Sarah – rinata e a lui donata.

“Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdámmoce ’o ppassato”, continuava a canticchiare Matteo, dando alla parete le ultime pennellate, “simmo ’e…” Si zittì e fermò il suo lavoro, quando, rivolgendo lo sguardo alla finestra davanti a sé, nella cornice del luccichio del sole che si specchiava sul mare increspato del pomeriggio e s’infrangeva sulle barche ormeggiate in banchina, la vide arrivare con il vassoio del caffè tra le mani.

La luce del sole faceva brillare i riflessi ramati dei suoi capelli adornati su un lato da un fermaglietto argentato e che, adesso, un po’ più corti e ondulati, si posavano a malapena sulle spalle coperte da una giacchetta color panna; mentre la brezza del pomeriggio faceva danzare gli orli del suo vestito azzurro.

Azzurro, come il mare che lui navigava e che, generoso, era sempre stato il suo sostentamento e il suo rifugio; azzurro, come il cielo che lui contemplava e che, rassicurante, aveva sempre raccolto i suoi pensieri, paure e speranze.

Matteo adorava quel vestito che Sarah aveva indossato per la prima volta il giorno della sua proposta di matrimonio a Sorrento e ne rievocava il ricordo, i momenti e le sensazioni, il profumo di zagare e salsedine, il suo batticuore di ansia e felicità, il sapore del pane caldo, dei baci avvolgenti e delle lacrime dolci della sua amata.

Sorrise incantato dinanzi a quella visione celestiale che, lentamente e in modo sinuoso, si apprestava a salire i gradini di casa. Poi ritornò in sé e, in fretta, posò il pennello su un barattolo di vernice e si pulì le mani con uno straccio per raggiungerla in cucina.

“Matteo!” Sarah lo chiamò con voce particolarmente allegra, felice per ciò che avrebbe dovuto fare di lì a poco e, mentre appoggiava il vassoio sul tavolo, lui apparve dalla camera da letto, pronunciando il suo nome quasi in un sussurro.

Gli occhi luminosi e le ciglia incurvate dal rimmel, il sorriso raggiante e le labbra colorate di un rosa delicato avevano abbagliato Matteo, attraendolo verso di lei come una calamita. Le andò incontro e l’accolse, salutandola con un dolce “ciao, amore” e un bacio sonoro sulla guancia un po’ arrossata dal caldo.

Bevve quasi di un sorso il caffè diventato ormai freddo e, intanto, Sarah si soffermò a guardare i suoi capelli scuri e ricci impiastricciati di polvere; i suoi avambracci, abbronzati e scoperti dalle maniche arrotolate, imbrattati di vernice; i suoi occhi marroni, segnati da profonde occhiaie di sonno arretrato, fissi su di lei in un’espressione di tenerezza e vagamente vispa che la ragazza adorava.

“Ti sei cambiata”, fece Matteo, posando la tazzina sul vassoio, senza distogliere per un attimo lo sguardo da lei, “oggi non torni al lavoro?”

“Te l’ho già detto ieri”, rispose, fingendosi risentita, ma il timbro di voce gentile e il sorriso incollato sul viso tradirono il suo tentativo, “oggi ho appuntamento con la sarta per provare di nuovo l’abito. Stavolta mi accompagna la moglie del signor Gennaro, perché Hannah non può muoversi dal Gran Cafè.” Sarah divenne più seria e si apprestò a prendere il vassoio dal tavolo, dicendo: “Anzi, è meglio che mi sbrighi. Non vorrei farla aspettare.” L’emozione per l’ennesima prova dell’abito da sposa era mutata in un senso quasi di irrequietezza.

“Aspetta!” Matteo la fermò, afferrandole delicatamente un polso. “Ho una sorpresa per te”, disse e, prendendola per mano, fece tornare il sole sul suo viso, “chiudi gli occhi.”

“Va bene”, sussurrò Sarah, mentre il giovane le restituiva il sorriso e, con una smorfia, chiuse gli occhi, lasciandosi guidare verso la camera da letto.

“Adesso puoi aprire gli occhi, amore.” Alla dolce esortazione di Matteo, gli occhi di Sarah si aprirono, rimanendo incantati nel vedere quelle pareti rosate. “Allora, come ti sembra?” le domandò, già compiaciuto della sua reazione.

è meraviglioso!” ribatté e, esalando un gridolino di gioia, gli si gettò al collo, baciandolo sulle labbra. “Tu sei fantastico!”

Matteo le prese il viso tra le mani, restituendole un bacio travolgente il cui impeto la fece indietreggiare verso l’uscio.

Sarah si scosse nel ritrovarsi con le spalle incollate alla porta che sbatté lievemente contro il muro e si stupì nel vedere le mani di Matteo ferme a mezz’aria sul suo petto.

“Posso, Sarah?” le chiese con il rispetto e la gentilezza che lei, conoscendolo, sapeva avrebbero preceduto la loro intimità, attenzioni fisiche e carezze più audaci che, già da qualche settimana, la ragazza desiderava e pudicamente attendeva dal suo amato.

Ma, forse, non era quello il momento giusto per permettergli di lasciarsi andare, tra il disordine di una casa in ristrutturazione e la sua fretta per l’imminente appuntamento con la sarta, e rispose con un titubante “sì”.

E Matteo non riuscì a scorgere il velo di tristezza dietro le sue ciglia socchiuse, mentre stringeva tra le mani la morbida coppa dei suoi seni e non si fermò, quando lei espresse la sua incertezza, ritraendosi alle carezze e dicendo: “Credo che non sia questo il momento, Matteo.”

“Sei bellissima, amore mio. Sei tutto ciò che ho sempre desiderato nella mia vita”, rispose lui, sordo alle parole di Sarah e ignaro che le sue mani stessero riaprendo vecchie cicatrici e rievocando assurdi rimpianti.

Il forte odore di vernice fresca e di polvere di gesso sparso nella stanza e quello acre di sudore emanato dal corpo di Matteo iniziarono a confondersi con un profumo di ambra e muschio; la guancia scura e ispida di barba incolta che la pungeva, sfiorandole il viso, divenne pelle cerea e liscia d’impeccabile rasatura; le mani callose, la cui ruvidezza oltrepassava la stoffa del vestito, raggiunsero le generose curve dei suoi fianchi, mutando in dita morbide che non avevano mai conosciuto la fatica dei lavori manuali. Sarah gemette di paura e nostalgia, al ricordo di Hermann che prendeva possesso della sua realtà presente con Matteo.

“Basta, Matteo, devo andare. La signora Carmela mi sta aspettando”, lo implorò, afferrandogli le braccia.

Ma il giovane, animato da un irrefrenabile e smanioso desiderio che sembrava averne strappato via la consueta delicatezza, non ascoltò la sua richiesta. “Lasciala aspettare”, ribatté e Sarah quasi volle piangere, sentendosi inchiodata al legno di quella porta.

“No, basta, Matteo”, ripeté più volte, in un tono di lamento, tentando invano di divincolarsi. Poi, con una forza che entrambi non credevano potesse avere, la ragazza lo spinse via da sé. “Ho detto basta”, urlò, dandogli uno schiaffo in pieno volto, “Hermann!”

E fu lo stupore e non il dolore a fargli portare e trattenere la mano sulla guancia, mentre rielaborava il nome con il quale da Sarah era stato respinto e chiamato.

Di quel tedesco Matteo conobbe, dunque, il nome e, sfocato e senza fattezze, scorse il volto nel lampo di rabbia comparso negli occhi di Sarah prima che s’inondassero di lacrime. E vide quell’ombra in divisa riemergere da cocci, ceneri e macerie e occupare minacciosa la distanza che fra loro si era creata.

 

“Azzurro come te, come il cielo e il mare.

E giallo come luce del sole.

Rosso come le cose che mi fai provare.”

 

Modà & Jarabedepalo, Come un pittore 

 



[1]“Basta che c’è il sole, che c’è rimasto il mare, una ragazza cuore a cuore, una canzone da cantare. Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, dimentichiamoci il passato, siamo di Napoli paesano.”

Simmo ’e Napule paisá” è una canzone napoletana del 1944, interpretata da Vera Nandi al volgere del termine della seconda guerra mondiale. La canzone racconta la voglia di rinascita del popolo napoletano e il desiderio di lasciarsi alle spalle i tragici eventi della guerra.

 

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Capitolo 24
*** Nell’abbraccio del nemico (Prima parte) ***


Capitolo 24

 

Nell’abbraccio del nemico

 

Prima parte

 

- “Non mi lasciare.” -

 

“Che hai, che abbiamo, che ci accade? Ahi il nostro amore è una corda dura che ci lega ferendoci e se vogliamo uscire dalla nostra ferita, separarci, ci stringe un nuovo nodo e ci condanna a dissanguarci e a bruciarci insieme.”

Pablo Neruda, I versi del capitano

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Sarah sentì gli occhi inondarsi di lacrime, mentre un tremore improvviso e incontrollabile le percorreva tutto il corpo, arrivando fino all’anima. Quale nome le sue labbra avevano pronunciato? Quale gesto la sua mano aveva compiuto? Attraverso il velo di un pianto frenato a stento sotto le ciglia incurvate dal rimmel, guardava Matteo trattenere la mano sulla guancia che gli aveva colpito e, nonostante la sua visuale fosse offuscata, riuscì a scorgerne in volto l’espressione di sbigottimento. Con uno schiaffo, reazione inconscia e violenta, aveva ricambiato le effusioni amorose del suo futuro sposo e i suoi sacrifici per finire i lavori di ristrutturazione della casa in tempo per il matrimonio, il sonno arretrato, i pasti saltati; con il nome di un altro, ricordo assopito nel cuore e riemerso dalla mente, aveva chiamato l’uomo che amava e che contraccambiava il suo amore, coronando il suo sogno e scegliendola come sposa, malgrado il suo passato. I sensi di colpa le strinsero il petto come una morsa, mentre si domandava cosa stesse provando Matteo in quel momento. Immaginò che dietro il suo sguardo stupito si nascondesse una profonda delusione e che la sua immobilità preannunciasse un moto di rabbia. Comprensibile, dato il trattamento ricevuto, pensò ed ebbe paura. La stessa paura che attanagliava lo stomaco del giovane, vorticando attorno a quel senso di vuoto che gli trasmetteva la perseverante fissità degli occhi umidi e del corpo tremante di Sarah. Era la paura di aver perso il cuore della persona amata.

Nella mente di Matteo, profondamente turbato da quel nome da straniero con il quale dalla sua donna era stato chiamato, un pensiero affiorò e le due terre dei suoi occhi iniziarono a bagnarsi di una pioggia di lacrime. Forse quel tedesco non le aveva circuito soltanto il corpo ma anche la mente e il cuore, facendola innamorare e legandola a sé in un rapporto più intimo che andava al di là del suo appagamento fisico tanto da farsi chiamare per nome e dare del tu. Per un attimo, gli sembrò di vedere l’intreccio dei loro corpi nudi muoversi alle note armoniche del desiderio e le espressioni di piacere avvicendarsi sul viso della sua Sarah e rabbrividì, immaginando che una parte di lei fosse ancora tra quelle lenzuola, consenziente e voluttuosamente partecipe, nell’abbraccio del nemico. La sentì più lontana e, mentre toglieva la mano dalla guancia, la fuga di Sarah in cucina confermò la sua sensazione, concretizzandola.

“Sarah”, la chiamò in un sussurro, mentre lei fuggiva per nascondersi ai suoi occhi velati di pianto trattenuto e alla vergogna per averlo in qualche modo tradito, pensando e nominando Hermann.

La seguì in cucina e, a ogni passo, si scuoteva dalla mente l’immagine di Sarah che i suoi pensieri avevano vergognosamente deformato. La guardò poggiare le mani sul tavolo e piegarsi sofferente e si sentì in colpa, convincendosi che la sua eccessiva insistenza le avesse ricordato la violenza subita da quel nazista con il quale aveva soltanto stipulato un vile e freddo compromesso per la sopravvivenza, nient’altro.

E, intanto, Sarah chiuse le mani a pugno e, in un moto di rabbia verso se stessa, le sbatté su quel tavolo attorno al quale non avrebbe mai mangiato con il suo sposo, ne era dolorosamente certa. Due colpi simultanei, non troppo forti ma sufficienti a far sobbalzare il vassoio e rovesciare la tazzina; poi un singhiozzo strozzato le sfuggì dalla gola, liberando un pianto disperato.

“Sarah”, la chiamò ancora, preoccupato per il gesto di stizza e mortificato per le lacrime da lui provocate, “amore mio.” La voce gli si strozzò in gola, mentre le sue braccia avrebbero voluto protendersi verso di lei, quando le fu ormai vicino.

“Perdonami”, biascicò Sarah, con la voce spezzata dal pianto, asciugandosi il viso con il dorso della mano e tenendo lo sguardo basso sul vassoio.

“No, perdonami tu. Sono stato un idiota, n’omm ’e nient[1]”, ribatté Matteo e, intanto, la ragazza, estremamente provata, tolse anche l’altra mano dal tavolo e gli si fece davanti.

Senza sfiorarla, avvicinò le mani alle sue braccia e fu lei a cercare rifugio sul petto del suo amato. La strinse a sé, accogliendone il pianto che riprese diventando sempre più convulso.

“No, non devi piangere più. Non te lo meriti”, le disse e deglutì per trattenere la commozione, mentre sentiva il proprio cuore battere all’unisono con i suoi singhiozzi. Non l’avrebbe persa.

Un braccio le cingeva i fianchi e una mano sulla nuca le teneva ferma la testa scossa dai forti singhiozzi. Il cuore di Matteo batteva all’impazzata sotto quella camicia già inzuppata delle sue lacrime e imbrattata di rimmel.

“Non mi lasciare”, gli chiese, ancora avvinta dalla paura di perderlo e lui la strinse più forte, avvicinando la guancia alla sua e affondando le labbra nei suoi capelli.

“Chi ti lascia, Sarah? Chi ti lascia?” rispose e una lacrima sfuggì a rigargli l’altra guancia.

 

Campo di Fossoli, 20 febbraio 1944

~ Due giorni alla partenza per Auschwitz ~

 

Il sottoufficiale terminò la lettura della lista e sovrappose bene i fogli, prima di riconsegnarli al suo superiore con un battito di tacchi e il saluto nazista. Il nome di Sarah non era stato pronunciato, ma lei non ne provò alcun sollievo. Al contrario, si sentì stringere il petto in una morsa di ferro e una grossa lacrima le scivolò lenta lungo la guancia livida per gli schiaffi e un po’ arrossata dal freddo, mentre guardava il tenente riprendere la lista e scendere solennemente i gradini di quel palco improvvisato per l’annuncio nefasto. Esser stata risparmiata dalla deportazione ad Auschwitz e, probabilmente, dalla morte non la faceva sentire una privilegiata ma doppiamente condannata, al dolore per la perdita delle persone e dei bambini con i quali aveva legato e all’umiliazione per il disconoscimento di se stessa e dei suoi valori più profondi, al tormento della solitudine e del vuoto per l’orizzonte di un futuro che non riusciva più a intravedere davanti a sé. E quelle catene, che già da prima la tenevano prigioniera, la strinsero così forte tanto da smorzarle il respiro e paralizzare ogni fibra del suo corpo, ad eccezione degli occhi che, atterriti, seguirono i passi del tenente fin dentro l’edificio occupato dai tedeschi. A lui sarebbe stata per sempre vincolata; le sue mani sarebbero state i duri lacci di una prigionia senza fine, obbligandola a ciò che lei non voleva. Ritornò in sé e distolse bruscamente lo sguardo verso un punto indefinito, mentre Maria – con in braccio il piccolo Giulio – e Davide, come tutti gli altri prigionieri, si voltarono a testa bassa per tornare lentamente nella baracca e prepararsi alla partenza. Rimase ferma lì ancora per un po’, da sola, circondata da un tetro silenzio, spezzato soltanto dal rumore di passi trascinati, a cercare dentro se stessa la forza per non soccombere.

 

Durante tutto il giorno, Sarah costrinse il suo cuore a diventare come pietra per non cedere all’angoscia per l’imminente separazione dai suoi nuovi affetti e, nonostante non avesse appetito, si sforzò di mangiare. Non avrebbe dato al tenente la soddisfazione di sentire il suo stomaco brontolare, com’era già successo e, quando in cucina una cuoca le diede una mela, mangiò assaporando addirittura il gusto e riuscì anche a sorridere a una battuta di una cameriera. Ma la determinazione che Sarah si era imposta ridivenne disperazione, quando su Fossoli calarono le ombre scure della notte e lei dovette attraversare il lungo corridoio che conduceva alla stanza del tenente. La porta socchiusa, la luce soffusa: lui era già lì.

 

“E se il nostro poi
non fosse amore, giuro,
io non ti lascerei.
Se pensassi che di me
non te ne importa niente.

Anche se non fossi un angelo
io non ti cambierei.
Perché sei bella, bella, bella,
bella come sei,
sei bella come ti vorrei.”

 

Antonello Venditti, Che tesoro che sei

 

 



[1]Un uomo che non vale nulla.

 

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Capitolo 25
*** Nell’abbraccio del nemico (Seconda parte) ***


Capitolo 25

 

Nell’abbraccio del nemico

 

Seconda parte

 

- “Io ti proteggerò.” -

 

“Dentro di me ci sono delle stanze piene di buio, e altre inondate di luce, corridoi incerti e finestre piene di stupore, e tu sei la prima persona a cui dono una mappa.”

Fabrizio Caramagna

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Il tenente era in piedi vicino al mobiletto, con il solito bicchiere di vodka in mano e avvolto nella nube di fumo della sua sigaretta che, ridotta ormai a un mozzicone, spense nel posacenere, mentre lei entrava nella stanza. Della divisa aveva già tolto il cappello, i guanti e la giacca, segno di una consuetudine interrotta e, nell’aria, la fragranza del suo profumo orientale sembrava sovrastare l’odore di nicotina, come se ne avesse spruzzato da poco altro. Il primo stupito “perché” si fece strada tra i pensieri di Sarah. Conscia di essere osservata, pativa quegli sguardi, pur non scorgendone l’espressione – giacché teneva la testa china –, mentre il sottofondo del silenzio era ulteriore fonte di imbarazzo e umiliazione. Lo intravide avvicinarsi lentamente e allentare il colletto della camicia e ne imitò il gesto, iniziando a sbottonarsi la camicetta, prima che fosse lui a strappargliela di dosso.

Poi, d’improvviso, sentì una voce morbida, quasi un sussurro, e due mani raccogliere delicatamente le sue. “Aspetta”, le aveva detto il tenente e le sue labbra un po’ screpolate dal freddo – sofferto al mattino, durante l’interminabile lettura dell’elenco – si erano schiuse in un’espressione di stupore. “Vieni qui”, la invitò, conducendola a sedersi con lui sul bordo del letto e si portò le sue gelide mani alla bocca, riscaldandogliele col fiato. Strano e intenso fu per Sarah il tocco di quelle labbra vellutate che sfioravano i suoi palmi.

E, in una lenta discesa, il tenente le guidò le mani sul proprio corpo, una sulla coscia, l’altra sul torace. Il cuore gli batteva forte e Sarah si stupì che anche un ufficiale delle SS, macchina da guerra finalizzata alla morte, potesse averne uno di carne; poi sollevò lo sguardo e, oltre la valle verde dei suoi occhi, riuscì a scorgerne addirittura un’anima.

Hermann le lasciò una mano per accarezzarle la guancia sinistra, quella più livida, promettendosi che non le avrebbe mai più fatto del male, ma lei si ritrasse leggermente e chiuse gli occhi, strizzandoli e contraendo il viso in una smorfia di paura, aspettandosi forse uno schiaffo.

“No, non avere paura”, le disse, massaggiandole con il pollice lo zigomo violaceo, “non voglio farti del male, Sarah.”

All’udire il proprio nome pronunciato dal tenente per la prima volta, gli occhi della ragazza si aprirono, emanando un luccichio di stupore. Ed Hermann lo riconobbe: era lo stesso sguardo che gli aveva rivolto, quando le loro strade si erano incrociate per la prima volta, quello stesso sguardo che lo aveva subito inebetito, sedotto e avvinto.

“Fidati di me”, proseguì, assumendo un tono ancor più rassicurante e, dalla guancia, la mano passò lentamente dietro la nuca. “Ti do la mia parola che non ti accadrà nulla di male. Hai visto stamattina?”

“Sì, signore”, rispose Sarah, ma non c’era tremore nella sua flebile voce.

“Hermann”, la corresse prontamente, “quando siamo da soli, puoi chiamarmi per nome e dare del tu. Accorciamo le distanze.” E, sulle ultime parole, le prese la mano – che lei gli teneva ancora appoggiata sulla coscia – e la condusse alla sua virilità.

Sarah sussultò d’imbarazzo e, con occhi sgranati e labbra socchiuse, mostrò in viso un’aria d’innocente pudore; ma nessun cenno di paura, neanche quando una mano fu sotto la sua gonna per ricercare, in un lento viaggio scandito da carezze gentili, la sua intimità. Dal basso ventre, una scossa di calore si propagò per tutto il corpo e la spinse ad aprirgli la sua porta, mentre la mano dietro la nuca, con massaggi concentrici, affondava sempre più nei suoi capelli fino a scioglierli, fino a sciogliere i nodi della sua resistenza. Chiuse gli occhi e si abbandonò sul letto. Poi lei non fu più lei e non vide più un nemico davanti a sé. Si finse in un’altra vita, lontana da Fossoli, dalla guerra e tra le braccia di un vero amore, mentre lui si preparava a cogliere il suo fiore come fosse il primo amore.

“Non avere paura, Sarah. Io ti proteggerò”, ribadì Hermann e la tenerezza nelle sue parole e la sensuale delicatezza delle sue dita che le percorrevano un lato del corpo, scendendo lungo la curva del fianco e risalendo verso la collina del seno e ripetendo più volte questo lento cammino, facilitava la sua immaginazione. “Vieni con me”, aggiunse e un sussurrato “portami via” fuggì dalle labbra di Sarah che si aggrappò alla sua camicia, scostandone i lembi e affondando i polpastrelli nella sua pelle tonica di muscoli definiti.

Sfumature di piacere si dipinsero sul viso della ragazza, mentre essere da lui spogliata non generava più uno strappo all’anima; poi, a sua volta, lo aiutò a liberarsi di ciò che rimaneva dell’uniforme ed Hermann la vide arrossire sotto i lividi. Lo accolse dentro di sé e, stavolta, per l’acerrimo comandante del campo, non fu un possesso per la sola soddisfazione del proprio desiderio ma un concedersi a lei per donarle il piacere di sensazioni mai provate prima. E furono lontani da Fossoli, dalla guerra, dalle sofferenze subite e inferte, dalle differenze ideologiche che li dividevano, dalle loro stesse vite fuori di lì e Sarah volle fingersi da lui amata. Al culmine della passione, un gemito uscì dalle loro gole quasi simultaneamente e la ragazza lo soffocò, premendo con forza le labbra sulla spalla del suo amante. Il piacere sembrò mozzarle il respiro e fu come morire e rinascere e morire ancora. Trattene lacrime che non riuscì a comprendere, mentre Hermann sollevò la coperta per coprire entrambi e stringerla in un abbraccio da nascondere alla propria coscienza nazista.

 

è la notte dei pensieri e degli amori.

Questa notte io ti prendo come fossi un fiore.

È la mano nella mano che conosco.

Per la vita e per amore io ti prendo adesso.”

 

Michele Zarrillo, La notte dei pensieri

 

 

 

 

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Capitolo 26
*** Cioccolato ***


Capitolo 26

 

Cioccolato

 

“Quando morsi la mela del peccato, quando mi feci baciare le ciglia allora, allora mi meravigliai che il mondo fosse gonfio di paura e così il clavicembalo del mondo mi morì tra le mani e fu fuscello.”

Alda Merini, A un amore giovane

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Le labbra socchiuse di Hermann si posarono lentamente sulla tempia di Sarah. Lo sentì deglutire, mentre tentava di riprendere fiato. Gli ansiti sommessi effusero un rilassante calore sulla sua pelle e il braccio che le cingeva l’addome, sfiorandole delicatamente i seni, trasmise conforto al suo animo. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare da quel senso di protezione, mentre l’armonica mescolanza dei ritmi del respiro e del cuore di Hermann le facevano da nenia. Senza accorgersene, adagiò il capo sulla sua spalla e, accoccolatasi volontariamente contro di lui, un sonno leggero la portò lontano.

 

Il momento più bello per Hermann era stato quando Sarah, aggrappandosi alla sua schiena, aveva soffocato un urlo di piacere premendogli con forza le labbra sulla spalla tanto da fargli credere che volesse morderlo. Non gli sarebbe dispiaciuto.

Aveva quasi avvertito disperazione nello sfogo di una passione che a nessuno mai era stato concesso di fomentarle per potergliela poi appagare e questo lo infervorava ancor di più. Aveva ceduto un attimo dopo di lei e, adesso che respiri e battiti erano tornati regolari, avrebbe voluto ricominciare tutto daccapo partendo col riscaldarle le mani – tentativo, tra l’altro, fallito. Aveva goduto nel riempire di tenerezza il suo bisogno di protezione, nello sfiorarla nella sua fragilità e far emergere il desiderio dal suo ingenuo candore e quella sensazione di benessere non gli era ancora passata.

Nessun’altra donna gli aveva mai fatto provare quelle emozioni, neanche la sua fidanzata storica con la quale aveva condiviso ben otto anni di vita, prima di lasciarsi di comune accordo; erano come vibrazioni sulla pelle e nella mente, capaci di abbattere le sue più inconsce difese, sradicandolo dalla realtà di sé e del mondo circostante. Ma Sarah non era come tutte le altre donne e non perché fosse ebrea e questo lo aveva già intuito dalla dignità che preservava nonostante avesse perso tutto, beni materiali e affettivi, nonostante la prigionia, le botte – le sue –, la fame.

Volse lo sguardo verso il comodino e allungò un braccio per afferrare il pacchetto di sigarette, facendo scivolare il capo di Sarah dalla sua spalla e destandola dal sonno. La morbida chioma scura gli scorse sulla pelle come una carezza, destabilizzandolo ancora una volta.

 

Al lieve movimento di Hermann, Sarah si svegliò quasi di soprassalto. Attraverso gli occhi socchiusi, lo intravide accendersi una sigaretta e ipotizzò che quello fosse il segnale per farle capire che doveva andar via. Sentì uno strano senso di malinconia dilagarle dentro, mentre, scostando lentamente la coperta, si apprestava a lasciare il calore del letto e dell’abbraccio di un uomo che, per un breve e infinito lasso di tempo, aveva dimenticato essere il comandante del campo. Si sedette sul bordo del letto e, prima di raccattare i suoi indumenti sparsi tra le lenzuola e sul pavimento, indugiò per qualche istante, frenata dall’insensata aspettativa che lui le chiedesse di restare ancora lì. Poi legò i capelli e, mentre lo udiva aspirare ed espirare il fumo rumorosamente, volse leggermente la testa di lato, mostrandogli un profilo imbronciato di sonno e delusione. Iniziò pian piano a raccogliere i vestiti e i brandelli di sé, guardandolo di sottecchi e scorgendo un’espressione soddisfatta e, di nuovo, comparire strafottenza nei suoi occhi e il ghigno cinico sulle labbra. Si vestì, coprendo la riapparsa vergogna di essere nuda e, una volta infilate le scarpe, raccolse anche gli indumenti di Hermann per poi sistemarli con cura sullo schienale della sedia.

“Sarah”, la chiamò, tirandosi su con le spalle per appoggiarsi meglio allo schienale del letto, “oggi sei stata molto brava.”

La sua voce sembrava aver perso ogni accenno di sensuale dolcezza per riappropriarsi di un accento ruvido, fastidioso alle orecchie di Sarah che ne colse la solita inflessione sprezzante e autoritaria.

Allungò un braccio verso il comodino, aprendo un cassetto e frugandoci dentro e, intanto, Sarah si sorprese con imbarazzo a fissare lo sguardo sui suoi muscoli contratti per il movimento.

“Tieni”, le disse, porgendole una tavoletta di cioccolato sul cui incarto era stampata l’aquila nazista.

Su di essa, Sarah trattenne per un attimo lo sguardo, prima di rivolgerlo a quel mezzo sorriso – che, ancora una volta ed erroneamente, tradusse come derisorio – e sprofondare nel baratro dell’umiliazione, di nuovo e più rovinosamente.

Hermann, o meglio, l’SS-Obersturmführer Von Wildenberg, aveva così ripristinato le distanze e ristabilito la gerarchia tra il comandante del campo e la povera ragazza ebrea, ricordandole che tra loro non esisteva altro che un semplice contratto. Il compito di Sarah era quello di accontentarlo, sottomessa e compartecipe alle sue necessità e, in cambio, lui le garantiva la permanenza a Fossoli, doppia razione di cibo al giorno e – qualora l’avesse ritenuta più “brava” e meritevole – qualcosa di buono dalle provviste dei tedeschi. Come aveva potuto dimenticarlo? Come aveva potuto godere e riposare tra le sue braccia? Si pentì di essersi lasciata andare, tra voluttuosità e tenerezza, e provò vergogna per avergli mostrato quel lato sconosciuto, nascosto anche a se stessa. Avrebbe dovuto fingere, proprio come aveva fatto il tenente Von Wildenberg, seducendola con l’inganno di parole e carezze gentili e facendole credere che potesse esistere una realtà diversa, meno dura attorno a sé e dentro di lui.

“Grazie”, biascicò, prendendo la tavoletta di cioccolato ed Hermann non riuscì a scorgere l’ombra di amarezza comparsa negli occhi di Sarah, né lei seppe cogliere nel suo sguardo la luce di un sentimento nascente.

“Sarah”, la chiamò di nuovo, fermando il suo incedere lento verso la porta e quel «resta ancora qui con me» che avrebbe voluto dirle rimase sospeso tra il cuore e la gola dalla quale uscì: “Domani farò più tardi, puoi aspettarmi qui.” E diede alle parole pronunciate lo stesso valore di quelle non dette.

Aspirò un altro tiro di sigaretta, mentre Sarah annuiva abbassando la testa e, espirando, la lasciò andare via in una nuvola di fumo. Un senso di vuoto iniziava già a scavargli dentro.

 

“Gli uomini non cambiano,

fanno i soldi per comprarti

e poi ti vendono.

La notte, gli uomini non tornano

e ti danno tutto quello che non vuoi.”

 

Mia Martini, Gli uomini non cambiano

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Capitolo 27
*** Fiori e cioccolatini ***


Capitolo 27

 

Fiori e cioccolatini

 

“Perché tu possa ascoltarmi le mie parole si fanno sottili, a volte, come impronte di gabbiani sulla spiaggia.”

Pablo Neruda, Perché tu possa ascoltarmi

 


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

Napoli, ottobre 1946

~ Un mese al matrimonio ~

 

Quando sentirono bussare alla porta di casa, Hannah sbuffò pesantemente, tirandosi il lenzuolo sulla testa e lasciando così intendere a chi delle due sarebbe toccato alzarsi per andare ad aprire.

“Sei sempre la solita pigrona”, le disse Sarah, in tono scherzoso e, con uno sbadiglio poco aggraziato, lasciò il tepore del letto.

Prese dallo schienale della sedia la sua vestaglia color rosa pallido e la indossò, mentre raggiungeva l’ingresso a piedi nudi e con i bigodini in testa, chiedendosi chi fosse a quell’ora del mattino. Preoccupata e annoiata, abbassò cautamente la maniglia della porta e, strizzando un po’ gli occhi per riprendersi dal sonno, aprì uno spiraglio. Subito, la sua espressione si colorò di stupore e un largo sorriso si disegnò sulle sue labbra.

“Matteo!” La voce di Sarah fu una miscela di contentezza e incredulità per l’inaspettata apparizione del giovane ai primi bagliori del mattino e con un enorme mazzo di fiori e una scatola di cioccolatini tra le mani.

Il pomeriggio precedente, dopo l’incidente del nome e il loro muto chiarimento, Sarah era andata via da Matteo con gli occhi ancora bagnati di lacrime e, a causa del conseguente mal di testa, aveva rimandato la prova dell’abito da sposa. E questo il giovane lo aveva saputo tramite il signor Gennaro che, scorgendo al lavoro lo stato d’animo della ragazza e intuendo che lui c’entrasse qualcosa, lo aveva anche rimproverato severo e con tanto di indice puntato contro, dicendogli: “Per me Sarah è come una figlia e, se la farai soffrire, te la vedrai con me. Sono stato chiaro?” E Matteo si era limitato ad annuire mortificato, mentre, al senso di colpa per l’accaduto, si aggiungeva la paura che Sarah non volesse più sposarlo, dal momento che aveva annullato l’appuntamento con la sarta. Ma, adesso, i dubbi che lo avevano tormentato durante la pesca notturna, impedendogli poi di riposare per presentarsi da lei di buon mattino con fiori e cioccolatini da regalarle come richiesta di perdono, affondavano nel luccichio dei suoi occhi stupiti, gioiosi che riflettevano amore. Sorrise risollevato, perdendosi nel suo radioso sorriso.

Sarah si soffermò su quegli occhi scuri e profondi, rassicuranti, belli – anche se cerchiati da troppo sonno arretrato – e su quel sorriso che dava forma a due attraenti fossette sulle guance; poi si portò una mano alla testa ricordando di averla ricoperta di bigodini e, d’un tratto imbarazzata, sussurrò: “Scusami, sono…” Stava per dire «in disordine».

“Bellissima”, la anticipò Matteo. “Volevi dire «bellissima»”, concluse in un tono a metà tra l’affermativo e l’interrogativo.

Sarah abbassò lievemente e per un attimo lo sguardo, sorridendogli lusingata e, aprendo di più la porta, lo invitò a entrare. Fecero colazione insieme ad Hannah, poi Matteo l’accompagnò al Gran Cafè e l’andò a prendere durante la pausa pranzo per mangiare una deliziosa pizza a portafoglio, seduti su una panchina del lungomare – ovviamente, Sarah si sporcò la gonna di sugo ed entrambi ne risero divertiti, mentre tentavano di rimediare al pasticcio. Approfittando di un tempo ancora estivo, passeggiarono verso il porto e, senza accorgersene, discutendo sugli ultimi preparativi del matrimonio, superarono il Cantiere Navale, le Terme Comunali e la Corderia Militare per ritrovarsi davanti alla spiaggetta racchiusa tra le scogliere e sovrastata dalla montagna – la stessa che, all’inizio dell’estate, aveva visto sigillare la loro amicizia. Mano nella mano, si avvicinarono alla riva del mare e, stanchi per aver camminato la bellezza di due chilometri e mezzo, sedettero sui ciottoli levigati dall’acqua. Sarah si accoccolò fra le gambe di Matteo, con la schiena contro il suo petto e la testa sotto il suo mento, con le braccia e le mani saldamente intrecciate alle sue. E il giovane la strinse sempre più forte in quell’abbraccio, fin quasi a formare con lei un solo corpo, una sola vita, nella quiete di una spiaggia deserta, mentre a parlare erano soltanto il soffio del vento, lo sciabordio delle onde e il garrito di qualche gabbiano. Sarah chiuse gli occhi alla meravigliosa visuale del Vesuvio, delle isole e della città in lontananza, lasciandosi accarezzare in viso dalla brezza che profumava di sale e di rinnovate speranze e baciare ripetutamente e con delicatezza la guancia dalle labbra di Matteo. E fu lui a rompere il silenzio.

“Sarah, permettimi di renderti felice”, le sussurrò all’orecchio. Dopo gli ultimi eventi, aveva, infatti, dovuto ammettere a se stesso che lei non lo era realmente, tormentata ancora dal suo passato.

“Ma io lo sono”, rispose con tono dolce e sicuro e, volgendo leggermente il viso di lato, donò gli occhi al suo caldo sguardo, “con te.” E confuse quella sensazione di pace e di benessere che l’avvolgeva con una gioia interiore, la magia dell’innamoramento con un amore già maturo e consolidato.

Matteo avvicinò le labbra alle sue e lei accolse il suo bacio ardente a occhi chiusi, mentre le palpebre pizzicavano per i raggi del sole e lo scaturire di lacrime d’emozione. Il mondo sembrò fermarsi, il tempo scorrere troppo velocemente e andarono via da lì solo dopo quando, ben nascosti in mezzo agli scogli, vissero ciò che, il giorno precedente, era stato loro impedito dal fantasma di Hermann. E fu tenerezza e stupore il loro lasciarsi andare al desiderio di scoprirsi l’un l’altra.

“Perché ti amo. Perché sarai la mia sposa, la mia stessa carne”, disse il giovane, prima che la mano di Sarah giungesse a quietare la sua libido.

 

“Ballo con te

nell’oscurità,

stretti forte e poi

a piedi nudi noi,

dentro la nostra musica.

Ti ho guardata ridere

e sussurrando ho detto:

«Tu stasera vedi sei perfetta per me».”

 

Ed Sheeran & Andrea Bocelli, Perfect Symphony

 

***

 

Berlino

 

A un forte colpo sullo scrittoio, Hermann sobbalzò, alzando di scatto la testa dal libro sopra il quale, come qualche giorno prima, si era assopito. Sotto la mano di suo padre, vide i documenti che da ormai troppo tempo stava aspettando.

“Dato che ti piace così tanto, ti chiamerai come lei: Bonanni.” Karl diede voce al risentimento e al disprezzo che nutriva adesso verso suo figlio e con i quali gli aveva sbattuto sotto il naso quei fogli. “Bonanni Ermanno”, precisò e la sua voce assunse un’inflessione più grave, “e vedi di inventarti una storia che sia quantomeno credibile.”

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Capitolo 28
*** Un atto di generosità ***



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Nella foto, come immagino Davide e Maria.

 

Ho scelto l’immagine della miniserie televisiva “La guerra è finita” che, tratta da una storia vera, racconta il difficile ritorno alla vita di un gruppo di bambini e ragazzi sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti.

 

Capitolo 28

 

Un atto di generosità

 

“Un gesto d’amore cuce cielo con cielo, soglia con soglia e vita con vita. Un gesto di violenza cuce solo nero con nero e dentro quel buio non si innesta nessun fiore, nessun colore e nessuna formula di serenità.”

Fabrizio Caramagna

 

Napoli

 

“Non preoccuparti, Hannah. Ho già parlato con il signor Gennaro. La prossima settimana, mi accompagnerai anche tu per l’ultima prova dell’abito”, la rassicurò Sarah, mentre, aiutata dall’amica, ripiegava accuratamente la biancheria del corredo in una delle valigie che, il giorno seguente, avrebbe iniziato a portare nella sua nuova casa.

“Sono felice che tu abbia trovato l’uomo della tua vita”, riprese Hannah e la sua voce assunse un tono più malinconico, “ma, allo stesso tempo, sono triste perché penso che rimarrò da sola.” Fece una pausa e, lasciando emergere il trauma rimosso della separazione dai suoi affetti, aggiunse: “Di nuovo.”

Sarah la guardò negli occhi e vi scorse un velo di smarrimento, lo stesso che ricopriva il suo sguardo nel momento in cui, dopo la guerra, l’aveva ritrovata seduta sui gradini esterni al portone del loro palazzo a Roma, senza più una famiglia, senza più una casa.

Come allora, le prese una mano e gliela strinse forte e, premendo fino ad affondare le loro mani nel letto sul quale erano sedute, disse: “Non rimarrai da sola, Hannah. Io ci sarò sempre per te. Poi continueremo a lavorare insieme, a fare passeggiate e compere insieme.” Sarah sorrise e strappò un lieve sorriso anche all’amica.

In silenzio, ripresero a piegare il corredo e a sistemarlo nella valigia e Sarah iniziò a mettere da parte, sul letto, alcuni capi di biancheria.

“I miei genitori non sono stati previdenti come i tuoi”, intervenne Hannah, dopo un po’ e con una punta di amarezza nella voce, “quando ritornai a casa… Che stupida.” Scosse la testa e, sorridendo tristemente, proseguì: “Pensavo che fosse ancora mia.”

Dopo aver fatto cadere la maschera di ragazza spensierata, ironica e sicura di sé, Hannah sembrava in procinto di aprirsi al racconto del suo passato e Sarah ebbe paura. Sì, perché, se l’amica le avesse raccontato delle sue ferite nascoste e indelebili, come quel numero inciso sulla pelle che, in estate, le aveva impedito di denudare le braccia e prendere il sole in spiaggia indossando soltanto il costume da bagno, lei si sarebbe sentita in dovere di confessarle la verità sulla propria sopravvivenza, della sua torbida relazione con un ufficiale delle SS, uno di quelli che ad Hannah avevano strappato tutto. Era certa che non glielo avrebbe mai perdonato.

“Non potevi saperlo”, ribatté Sarah e tentò di sviare il discorso, anticipando ciò che aveva già intenzione di fare quella sera stessa. “Prendi, Hannah, questi sono tuoi”, disse, mentre, sorridendole con tenerezza, le porgeva i capi di biancheria che aveva messo da parte per lei.

Hannah sgranò gli occhi in un’espressione stupita, sconvolta e, portando in avanti e agitando le mani, dissentì con voce spezzata dalla commozione: “No, Sarah. Non posso accettare. Li ha cuciti tua madre. Sono un suo ricordo.”

“Hannah, tu sei diventata una sorella per me e lei sarà sicuramente contenta nel vederci, da lassù, dividere il corredo.” Sarah biascicò le ultime parole, trattenendo le lacrime; poi, riprendendo un tono più allegro, aggiunse: “Consideralo anche un regalo di buon auspicio.”

Entrambe sorrisero ampiamente e Hannah le si gettò al collo, stringendola forte. “Grazie, Sarah”, esclamò, ingoiando un singhiozzo di gioia.

E, improvvisamente, Sarah si ritrovò ad abbracciare una bambina dai capelli ricci e castani, con il naso e le guance pieni di lentiggini, sul retro della sua baracca a Fossoli, nella nebbiolina di un mattino invernale. Sentì lo stesso freddo sulla pelle, nel petto lo stesso senso di colpa.

 

Campo di Fossoli, 21 febbraio 1944

~ Un giorno alla partenza per Auschwitz ~

 

“Come faremo, se il viaggio sarà lungo? Non avremo nulla da mangiare. Come faremo con i bambini, Davide?” Maria sistemava nella valigia i loro pochi effetti personali ed esprimeva al marito le sue preoccupazioni riguardo all’ignoto che li attendeva.

“Non preoccuparti, cara”, le rispose Davide, avvicinando la fronte alla sua in un tenero gesto di conforto, “oggi proveremo a mettere da parte qualcosa.”

Naso contro naso, occhi negli occhi, i due sposi rimasero fermi in quella posizione a scambiarsi sguardi e respiri per un tempo sospeso che sembrava dilatarsi nell’infinito. Guardandoli da lontano, Sarah percepì il coraggio che riuscivano a trasmettersi l’un l’altra e provò invidia. Nonostante fossero stati colpiti dalla malattia e dalla morte della giovane figlia, dalla persecuzione nazifascista e, adesso, dalla deportazione verso Auschwitz, Maria e Davide erano forti in virtù di quell’amore che nessuno avrebbe potuto strappare loro e che lei – pensava, già rassegnata – non avrebbe mai conosciuto. Ed era bello quell’amore che né il dramma del lutto né la follia dei nazisti avevano saputo far sfiorire, ma che, addirittura, era riuscito a sbocciare facendosi dono per gli altri, per i più piccoli rimasti senza genitori.

Sarah mise una mano nella tasca della gonna, ricordandosi della tavoletta di cioccolato e non esitò nella sua decisione di darla a Davide e Maria per i bambini.

“Maria”, esclamò, avanzando verso di loro, separandoli e riportandoli alla realtà circostante, ma la vergogna frenò i suoi passi e il suo intento.

Maria e Davide sapevano benissimo a quale prezzo avesse pagato quel cioccolato e, con molta probabilità, non lo avrebbero nemmeno accettato.

Attirata ormai l’attenzione su di sé, Sarah non poté fare altro che rivolgere loro una domanda di cui conosceva già la risposta: “Vi prenderete cura dei bambini?”

Maria le si avvicinò e, accarezzandole una guancia, le rispose con tenerezza: “Ma certo.” Poi forzò un sorriso e aggiunse più seria: “E tu prenditi cura di te stessa.”

Sarah abbassò tristemente lo sguardo, indietreggiando di un passo, conscia che il dolore che serbava dentro l’avrebbe consumata fino a farla ammalare, e scorse anche Davide chinare la testa, a braccia conserte. L’uomo palesava così il suo disagio per non aver potuto salvarla dalla violenza del tenente.

Allontanatasi da loro, da quel silenzio velato d’imbarazzo e da quegli sguardi che, erroneamente, percepiva di biasimo, Sarah si guardò attorno alla ricerca di Agnese, la ragazzina più grande tra i bambini con i quali era arrivata a Fossoli insieme a don Franco. Data l’ingenuità della sua età, lei non avrebbe sospettato nulla sulla provenienza del cioccolato, non l’avrebbe commiserata, giudicata o condannata e, non trovandola nella baracca, uscì fuori a cercarla.

 

Fu davvero una strana coincidenza che, proprio in quel momento, Hermann si alzasse dalla scrivania per sgranchirsi le gambe e distrarsi un po’ a guardare fuori dalla finestra e la vedesse uscire dalla baracca, guardarsi intorno con fare circospetto e avvicinarsi a una ragazzina con i capelli ricci e castani e il viso pieno di lentiggini. Decise di lasciar perdere le sue scartoffie e accendersi una sigaretta, mentre la guardava parlare alla bambina e porgerle la mano con un’espressione forzatamente sorridente. Con blanda curiosità, seguì con lo sguardo i loro passi fin verso il retro della baracca e, intensamente desideroso di rivederla ancora una volta, attese che Sarah riapparisse.

 

“Agnese, adesso, sei tu la più grande. Quindi, dovrai prenderti cura tu dei più piccoli.” Sarah le parlò con tono tenero e deciso e la ragazzina, risoluta e fiera nell’aver assunto un ruolo di mamma verso i bambini, suoi compagni di un destino ignoto e crudele, con espressione accigliata, ribatté: “Lo sto già facendo.”

“Brava.” Forzò un altro sorriso e tirò fuori dalla tasca della gonna la tavoletta di cioccolato. “Prendi”, le disse, porgendogliela, “puoi dividerla con i bambini, se vi verrà fame durante il viaggio di domani.” E la prima bugia si nascondeva dietro a quel «se».

Con occhi sgranati di stupore, Agnese fissò per alcuni istanti l’incarto del cioccolato sul quale era raffigurata l’aquila nazista; poi, rivolgendole uno sguardo pregno di sospetto, le domandò sottovoce: “L’hai rubato ai soldati?”

Ad esser stata derubata era Sarah, derubata dell’innocenza, dei sogni, della speranza, degli affetti, della vita stessa, ma lei si sentiva come se avesse rubato quella tavoletta di cioccolato a chi, come Agnese, l’indomani e per chissà quanti altri giorni ancora, non avrebbe avuto nulla da mangiare. E, forse, a suggerirle quell’atto di generosità non era stato tanto lo spirito altruistico che da sempre la contraddistingueva, bensì un latente senso di colpa e lo confermò la sensazione di liberazione provata, quando il cioccolato non fu più suo.

“No, no”, rispose, tentando di nascondere il suo agitato imbarazzo dietro a più ampi sorrisi e mentì con la prima cosa che le passò per la testa: “Un soldato mi ha visto piangere e me l’ha regalato.”

“Ah”, fece Agnese, alquanto perplessa. “Allora non sono tutti cattivi?”

“No, non lo sono”, disse, ma, stavolta, Sarah non riuscì a sorriderle, ricordando la violenza e la doppiezza di Hermann e pensando che, forse, ad Auschwitz, Agnese l’avrebbe ricordata come una bugiarda.

La ragazzina sembrò convincersi, rilassò le espressioni del volto e, presa e nascosta la tavoletta di cioccolato nella tasca della giacca, le si gettò tra le braccia, spintonandola con una forza improvvisa che la fece indietreggiare di qualche passo e offrendo la scena del loro abbraccio allo sguardo attento di Hermann.

“Uh”, esclamò Sarah, lasciandosi sfuggire una fioca risata, “piano.”

“Grazie, Sarah”, sussurrò Agnese e la strinse ancor più forte.

 

“Chiedi a te stesso di cambiare,

appellati alla volontà.

Lascia lavorare il tuo cuore,

chiedi che sia amore.”

 

Renato Zero, Chiedi

 

 

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Capitolo 29
*** Brandelli di cuore a Fossoli ***


Capitolo 29

 

Brandelli di cuore a Fossoli

 

“Amami, compagna. Non mi lasciare. Seguimi. Seguimi, compagna, su quest’onda di angoscia. Ma del tuo amore si vanno tingendo le mie parole. Tutto ti prendi tu, tutto. E io le intreccio tutte in una collana infinita per le tue mani bianche, dolci come l’uva.”

Pablo Neruda, Perché tu possa ascoltarmi

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Giacché scomparve sul retro della baracca, durò pochi istanti la visione di quell’abbraccio veemente, carico di affetto che a Sarah aveva strappato una risata – fioca, ma che gli era parso di sentire fino a lì, attraverso il vetro della finestra chiusa. Era chiaro quanto lei avesse un forte ascendente sui bambini e sapesse farsi voler bene da tutti – sempre se gli ebrei potessero provare del bene, pensò.

Dal retro della baracca, riapparve dapprima la bambina con i capelli ricci e le lentiggini in viso e, nonostante la distanza e la fitta nebbiolina che aleggiava nell’aria offuscandola, Hermann la vide sfregarsi la tasca della giacca, come per assicurarsi che qualcosa vi fosse ben nascosta e capì allora il motivo di quell’abbraccio. Di certo, Sarah aveva regalato alla ragazzina la sua tavoletta di cioccolato, ma perché?

La sua generosa rinuncia gli destò meraviglia, quasi ne fu sconvolto e, poggiando la mano sul davanzale, trattenne la sigaretta all’ingiù, tra l’indice e il medio. Smise di fumare per concentrarsi su un momento che non avrebbe tardato ad arrivare. Subito dopo, infatti, anche lei, dalla parte opposta rispetto alla bambina, riapparve e la vide come fascio di luce che, abbagliante, squarciava l’oscurità della caligine e dei pensieri, sfociando in un crescente delirio. Iniziò a dubitare della sua origine ebraica e a perdersi in congetture. Sarah sembrava non presentare alcuna caratteristica, né fisica né morale, attribuita agli ebrei, anzi la sua tenacia e il suo spirito di sacrificio – che, adesso, ben trasparivano da un incedere con portamento fiero e sguardo determinato – la rendevano più somigliante a una donna ariana.

Sin da bambino, in famiglia, a scuola e nella Gioventù hitleriana – a cui suo padre non tardò a iscriverlo non appena fu aggiunta la Deutsche Knabenschaft[1] –, gli era stato insegnato che la specie umana si suddivideva in una razza superiore, composta da uomini e donne valorosi che incarnavano la perfezione psicofisica, la purezza di sangue e la nobiltà d’animo e una razza inferiore, bastarda e parassita, fatta di esseri ripugnanti e avari, dediti a manovrare l’altro secondo i propri interessi ed era inverosimile che Sarah potesse far parte di quest’ultima. Da sempre, sapeva che al mondo esistevano l’ariano e il non ariano, il puro e l’impuro, ma, forse, tra le due razze doveva esserci una specie intermedia che gli scienziati nazisti non avevano ancora scoperto e lei ne era il prototipo. Inoltre, Sarah gli dava l’impressione di essere una donna dolce e guerriera, sognatrice e concreta, capace di donare tutto di sé alle persone che amava e lo confermava il suo gesto di altruismo verso una bambina, probabilmente, sconosciuta fino a qualche settimana prima. Desiderò essere lui il destinatario di quell’amore, poi, d’improvviso, i pensieri si dissolsero, quando la sigaretta, ridotta ormai a un piccolo mozzicone, si spense tra le dita, scottandolo. Solo per un attimo aveva distolto lo sguardo, ma Sarah era già sparita dalla sua visuale.

 

Il cuore le batteva forte nel petto, mentre si apprestava a compiere un gesto contrario alla sua indole e ai suoi valori. Sempre attenta a chiedere il permesso per qualsiasi cosa, a volte, persino a casa sua, Sarah non aveva mai rubato nulla nei suoi vent’anni di vita. Ma si fece coraggio, sapendo che fosse per una giusta causa, affinché Agnese e gli altri bambini non soffrissero la fame durante il viaggio verso Auschwitz e, dopo essersi assicurata che nessuna delle cameriere la stesse osservando, prese dal ripiano della cucina due fette di pane per poi nasconderle nella tasca del grembiule.

“Sarah!” Una voce, seppur bassa, squillò nel suo orecchio, mentre una mano le cinse prontamente il polso. “Che cosa stai facendo?”

Si volse tremante, imbattendosi nello sguardo preoccupato di Giuditta, la cameriera milanese che l’aveva soccorsa dopo la violenza di Hermann.

“Sei impazzita?” incalzò la donna, pur mantenendo un tono di voce basso.

Sarah sentì le guance accendersi e gli occhi inumidirsi per la vergogna e, nel tentativo di giustificarsi, biascicò ingenuamente: “Non l’ho fatto per me.”

“Non ha importanza”, ribatté Giuditta e diede alla sua voce un’inflessione più severa, “se lo scopre il tenente, ti ammazza di botte.”

“Non lo farà.” Volte a rassicurare se stessa, le parole guizzarono dalle labbra senza che Sarah se ne accorgesse.

“Cosa te lo fa pensare?” le domandò la donna, assumendo un piglio di curiosità.

“Me l’ha promesso.” A questa risposta, pronunciata come fosse un’ovvietà, Giuditta riprese con un’altra domanda: “Hai ancora la faccia piena di lividi e credi già alle sue parole?” L’espressione della donna si fece più seria e, al contempo, quasi supplichevole. “Sarah, lascia che ti parli come a una sorella più piccola. Lo so che per te è stata la prima volta”, fece una pausa e sospirò, “ma quello che succede fra te e quell’ufficiale nazista non ha nulla a che fare con il sentimento. È uno scambio, un vicendevole usarvi. Lui ti usa per espletare i suoi bisogni di maschio e tu devi usarlo per garantirti una sopravvivenza più dignitosa, fino a quando la guerra non sarà finita. Attenta, Sarah, a non farti prendere troppo, a non lasciare brandelli del tuo cuore sparsi in questo campo, quando sarai finalmente libera.”

Le parole di Giuditta furono come un susseguirsi di buffetti sulle guance che, a poco a poco, la ridestavano, restituendole una consapevolezza che andava inconsciamente perdendosi nel tentativo, forse, di fuggire dalla dura realtà.

Nonostante ne portasse ancora i segni, Sarah sembrava aver già dimenticato gli schiaffi e la violenza del tenente, sostituendoli con il ricordo di carezze gentili, lievi sospiri e parole sussurrate. Si era abbandonata tra le braccia del suo nemico, dimenticando che uomini come Hermann le avevano portato via il calore di una famiglia, di una casa e, se guardava meglio dentro di sé, poteva scoprirsi desiderosa che giungesse presto la sera per cedere di nuovo all’inganno di quella scintilla di bene scorta nei suoi occhi verdi. Si sorprese a immaginare di incorniciargli il viso tra le mani, di fissarlo dritto negli occhi e lacrime di rimorso le appannarono lo sguardo.

 

Napoli, ottobre 1946

 

“Grazie, Sarah”, ripeté Hannah, guardandola con gli occhi luccicanti di lacrime trattenute, mentre stringeva al petto la pila di biancheria regalatale dall’amica. Ma, subito dopo, il suo sorriso commosso si spense e, assumendo un’espressione seria, tornò sull’argomento, chiedendole: “Credi che andranno all’inferno?”

“Chi?” Troppo presa dai suoi ricordi, Sarah mostrò in volto un’aria confusa e Hannah, stupita dalla sua incapacità di comprenderla al volo, ribatté: “Chi ci ha portato via le nostre famiglie.”

“Io non credo siano stati tutti uguali.” Sarah rispose di getto, senza pensare che le sue parole avrebbero potuto far scaturire un’altra domanda pregna di curiosità: “Come fai a saperlo?”

Hannah si mise in attesa nella speranza, forse, di sentire una risposta volta a mitigare la rabbia per ciò che aveva patito a Mauthausen e, intanto, gli occhi di Sarah si velarono di lacrime per il silenzio che stava infliggendo alla sua cara amica.

Un prolungato silenzio che fu interrotto proprio da Hannah che, con uno scatto, balzò dal letto e, forzando un tono allegro, disse: “Va bene, non pensiamoci più. Vado a preparare una bella cioccolata calda.”

Si diresse in cucina, iniziando a canticchiare “’Na gita a li Castelli” e permettendo che Sarah ritornasse a Fossoli, in una mattina di luglio che non aveva né colori né profumi dell’estate, nella sua baracca fatta da Hermann sgombrare per parlarle alla svelta, prima che un’altra sera giungesse a sorprenderli ancora lontani l’uno dall’altra. Stretta forte al suo petto, aveva avvertito un sussulto, come un singhiozzo trattenuto, mentre, con voce roca e tremante, dichiarava di amarla. Sentendolo per la prima volta commosso, vulnerabile, quasi intimorito all’idea di averla persa, era riuscita a perdonargli l’esecuzione di sessantasette uomini[2].

Il ricordo di quell’abbraccio le portò via la magia del pomeriggio vissuto con il suo futuro sposo e si sentì sporca verso di lui, verso Hannah, verso la sua famiglia e tutte le altre vittime innocenti del nazismo.

 

“E la tua luce è morbida.

La patina orrida ch’ora copre il cielo

non compromette la vista ottima.

La verità è una strada a doppio senso e ci s’invortica.

Il fuoco non è uno, sono due per ogni orbita.

E ogni circonferenza è illusione ottica.

L’idea di questa perfezione è dittatura cosmica.

Le paranoie in testa fanno aerobica.

La fantasia mi riordina la mente, non la logica.”

 

Rancore, Luce (tramonti a nord est)

 

 

 

 



[1]Sezione aggiunta alla Gioventù hitleriana nel 1928 per i ragazzi dai 10 ai 14 anni.

[2]Puoi rileggere la nota di chiusura al capitolo 19 “Gocce di miele”.

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Capitolo 30
*** L’ebrezza di una notte idillica ***


Capitolo 30

 

L’ebrezza di una notte idillica

 

“Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri e dei santi.”

Primo Levi

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

“E ti do un altro consiglio, Sarah”, riprese Giuditta, più apprensiva, “vedi quella?”

Con un cenno della testa, le indicò una cameriera molto giovane dai capelli biondo cenere e gli occhi smeraldini che, seduta al tavolo con le gambe accavallate, conversava, sprizzando un inappropriato buonumore.

Sarah notò ogni particolare, nonostante il velo di lacrime che le appannava gli occhi e assentì con un lieve movimento del capo.

“Quella sta con il sergente maggiore. Fa la spia su tutti. Fossi in te, starei attenta a non farmi sorprendere da lei in situazioni come questa”, la mise in guardia Giuditta.

Sarah capì di dover essere più prudente, meno ingenua in futuro. Una volta andati via i suoi compagni di baracca, probabilmente, non avrebbe potuto fidarsi più di nessuno, neanche di se stessa. Infatti, si promise di non donare più la propria anima alle ipocrite carezze di Hermann, di dargli il proprio corpo senza fare con lui l’amore, pur sapendo che non avrebbe mantenuto la promessa.

 

Le ombre della sera calarono su Fossoli come stormi di avvoltoi su quanti ignoravano che quella sarebbe stata l’ultima notte in cui poter ancora poggiare la testa su un cuscino e sperare in un futuro meno amaro. Nonostante sapesse del trasferimento ad Auschwitz, anche Sarah non ne immaginava l’orrore e, prima di recarsi nella stanza del tenente, diede le due fette di pane ad Agnese. Stavolta, la bambina non chiese spiegazioni per quello che sarebbe stato l’ultimo pane offertole con amore.

Tra le baracche del campo, il vento e l’aria particolarmente fredda lasciavano presagire una nevicata e, non appena varcò la soglia dell’edificio occupato dai tedeschi, Sarah fu accarezzata in viso da una piacevole sensazione di calore, mentre una dolorosa fitta di irrequietezza la colpiva nel petto. Sperò di uscire al più presto da lì. Come le aveva già lui preannunciato la sera precedente, Hermann non era ancora nella sua camera e, in attesa che arrivasse, iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza, poi a girare su se stessa fin quando, stanca più mentalmente che fisicamente, non si fermò a fissare il letto, indecisa se sedersi o meno. Infine, scelse la prima opzione. Agitata al pensiero che la cameriera bionda l’avesse vista rubare le due fette di pane, prese a tormentarsi le mani che teneva in grembo, poi si lasciò scivolare su di un lato e, appoggiata la testa sul braccio, permise al suo animo e alle sue palpebre di riposare, «solo un attimo», si disse. Quello che accadde dopo non molto lo visse come un sogno, stordita dal tepore del sonno, inebetita dal tocco delicato di una mano sul suo fianco che l’aveva ridestata e dal verde limpido di due occhi riflessi nei suoi.

“Stai gelando”, fece Hermann, a mezz’aria su di lei che, intanto, si era distesa al suo tocco, “potevi metterti sotto la coperta.”

Sarah non sembrò meravigliarsi di tale gentile e premurosa concessione e, mentre lui cercava la sua mano per intrecciarvi le proprie dita, ribatté in un dolce sussurro: “Ti stavo aspettando.”

E fu Hermann a stupirsi, quando le dita di Sarah si incastrarono con decisione tra le sue stringendogli la mano, prima che i loro corpi diventassero un intreccio nudo di braccia e respiri, di gemiti e fianchi, di gambe e tremiti, di battiti e sguardi.

Giunti al culmine di quel fervido desiderio sospinto dal ritmo di gesti armonici e delicati che si alternavano a movimenti più decisi e concitati, Hermann fissò lo sguardo negli occhi di Sarah, socchiusi e lucidi di piacere e, affinché la sua coscienza nazista non facesse in tempo a prevalere sulle sue emozioni, si affrettò a dirle: “Resta con me questa notte”, fece una pausa e, dandole libero arbitrio, le restituì la dignità di essere umano e di donna, “se vuoi.”

E fu, forse, questo il momento in cui Sarah si innamorò. Senza esitare, gli scostò lievemente una ciocca di capelli dalla fronte imperlata di sudore e non vide più i tratti malvagi del nazista, ma soltanto il viso di un bel giovane uomo. Gli rispose sorridendogli per la prima volta e, con lo stesso lieve sorriso, compiaciuto e rassicurato, si addormentò tra le sue braccia.

 

22 febbraio 1944

~ Giorno della partenza per Auschwitz[1] ~

 

Le ombre della notte non si erano ancora diramate del tutto che, attraverso le timide luci del crepuscolo mattutino che tentavano di penetrare dalla finestra, Sarah lo vide di spalle, completamente nudo. Si era svegliata, sentendolo scivolare via dalla sua schiena e dalle lenzuola, ma fingeva di dormire ancora per godersi i postumi dell’ebrezza dei sensi e delle emozioni provata quella notte e per contemplare adesso la visione offertala all’alba di pelle cerea e muscoli scolpiti, di un corpo perfetto e atletico paragonabile a quello di una statua greca. Con il volto seminascosto da un lembo della morbida coperta, lo guardò mentre allungava le braccia verso l’alto per stiracchiarsi i muscoli dorsali e, iniziando dai trapezi, ne seguì la contrazione verso il basso fino a posare audacemente lo sguardo sul suo fondoschiena. Hermann emise un sospiro e abbassò le braccia rilassandosi, mentre lei chiuse gli occhi e si tirò la coperta sulla testa, imbarazzata di fronte a quelle forme che aveva conosciuto soltanto al tatto e per quel fremito che l’aveva attraversata nel vedere per la prima volta un uomo nudo.

Si alzò dal letto soltanto quando lo sentì uscire dalla stanza e chiudere lentamente la porta dietro di sé. Sarah aveva teso l’orecchio dallo scorrere dell’acqua, mentre lui iniziava a lavarsi, al fruscio dei suoi movimenti nel vestirsi che divenne rumore quando calzò i pesanti stivali e agganciò il cinturone del fodero attorno alla vita. Non era più l’imbarazzo a trattenerla a occhi chiusi sotto le lenzuola, ma la paura di dover affrontare il suo possibile cambiamento, uno sguardo, una parola o un gesto che l’avrebbe catapultata di nuovo nella dura realtà. Fuori da quel letto, Hermann era il comandante del campo e lei la prigioniera ebrea e nessuna fantasia avrebbe potuto smussare gli spigoli del mondo reale. Sul comodino dal suo lato del letto, vide un sacchetto di biscotti alle mele, il compenso e l’offesa per una notte che aveva creduto idillica. Protendere la mano sarebbe stato il primo passo verso il ritorno nell’incubo della realtà.

 

“Io donna, io persona

avvilita come un oggetto,

come bambola da letto.

Io non voglio essere schiava

e neppure esser padrona,

voglio essere soltanto

una donna, una persona.”

 

Mia Martini, Io donna, io persona



[1]Nel convoglio diretto verso Auschwitz, tra i 650 deportati, viaggiava anche Primo Levi che ha rievocato la sua breve esperienza a Fossoli nelle prime pagine del famoso libro Se questo è un uomo e nella poesia Tramonto a Fossoli.

 

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Capitolo 31
*** Tornare ***


Capitolo 31

 

Tornare

 

“No, non tornare, avrei crudo sgomento

e mi toglieresti a questi dolci sogni

o forse troveresti che disfatta

è la mia carne e la mia croce viva,

non tornare a vedermi, sono in pace

con le sfere assolute dell’amore

e mi giaccio scoperta e solitaria

come una rosa sfatta nel sereno.”

Alda Merini, No, non tornare

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Napoli, ottobre 1946

~ Due settimane al matrimonio ~

 

Come al solito, la giornata era iniziata con un bel sole e in allegria. Lungo il breve tragitto che da casa conduceva al Gran Cafè – era abitudine delle due ragazze percorrere un viale alberato del lungomare per andare al lavoro, dopo aver contemplato per qualche istante il reciproco specchiarsi del cielo nel mare e del mare nel cielo nella suggestiva cornice del Golfo di Napoli –, Sarah prendeva in giro la sua amica per aver bruciato il caffè a colazione definendolo «una ciofeca» e Hannah le rispondeva rinfacciandole scherzosamente gli spaghetti scotti del giorno precedente. Tra un punzecchiamento e una risata, entrambe si promisero in cuor loro di conservare e coltivare sempre quei momenti di spensieratezza.

Giunte al Gran Cafè, Sarah entrò per prima e fu subito accolta da un delizioso profumo di paste e torte appena sfornate e dal gioviale «buongiorno» del ragazzo dietro al bancone che, rivolgendosi a entrambe, aggiunse repentinamente: “Vi preparo un caffè?”

Sarah guardò in faccia l’amica e, ostentando dell’ironia, esplose in una risata abbastanza squillante e decisamente poco aggraziata. “Dopo il caffè che ha preparato Hannah stamattina, credo che non ne berrò più almeno per un mese”, gli rispose, mentre indossava il grembiule.

Hannah si finse arrabbiata e, lanciandole contro il grembiule che non aveva ancora indossato, le disse in romanesco: “Ma statte zitta. Menomale che te sposi perché nun te reggae più.”[1]

Risero tutti, anche la ragazza che era dietro al bancone dei dolci e che aveva assistito da lontano al divertente teatrino; poi, d’un tratto, il giovane addetto alla caffetteria divenne serio e fece un cenno con la testa verso Sarah, come per indicarle la presenza di qualcuno alle sue spalle e lei, simultaneamente ad Hannah e all’altra ragazza, riprese il suo abituale contegno, immaginando già di chi si trattasse.

“Vi sembra questo il modo di comportarvi?” Il signor Gennaro raccolse il grembiule dal pavimento e, scuotendolo lentamente su e giù con la mano ben tesa in avanti, proseguì il suo rimprovero: “è così che lavorate nella caffetteria più celebre della città?”

Sarah teneva lo sguardo abbassato e le mani giunte dietro la schiena in un intreccio quasi innaturale, imbarazzata per esser stata scoperta a bighellonare e, allo stesso tempo, sorrideva dentro di sé, intenerita dall’incapacità dell’uomo di mostrarsi severo verso i suoi dipendenti che considerava come figli.

“Scusateci, signor Gennaro.” Hannah parlò a nome di tutti, mentre riprendeva il suo grembiule accingendosi subito a indossarlo, anche lei imbarazzata.

“Stanno arrivando i primi clienti, va’ a prendere le ordinazioni ai tavolini fuori”, le disse e un mezzo sorriso sotto i suoi baffi grigi ne rivelò la consueta transigenza. Poi la sua fronte avvizzita si corrucciò in un’espressione preoccupata e, con tono di voce grave, si rivolse a Sarah: “Vieni con me.”

Sarah pensò subito a qualche problema riguardante le nozze, dal momento che la sera precedente il signor Gennaro e il suo futuro suocero erano andati a concordare gli ultimi dettagli con il proprietario della trattoria vista mare da lei scelta per il ricevimento e considerato il fatto che i genitori di Matteo obiettavano ogni sua decisione.

“C’è stato qualche problema a «La terrazza»?” chiese, infatti, allarmata che qualcosa, o meglio qualcuno, potesse rovinare il gran giorno e frenò il suo e l’incedere del signor Gennaro verso la sala interna del Gran Cafè, rimasta arredata come all’epoca dell’inaugurazione avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento.

“C’è una persona che ti sta aspettando.” A questa dichiarazione, Sarah sgranò gli occhi e il cuore le sobbalzò nel petto facendo sussultare visibilmente anche il suo corpo nelle spalle che si sollevarono e si abbassarono in un tremito incontrollabile. Poi un brivido freddo le percorse la schiena quando l’uomo sembrò confermare il suo presentimento, dicendole ancor più serio e apprensivo: “Ha fatto un lungo viaggio per venire fin qui a trovarti. È molto provato e potresti non riconoscerlo subito.”

Prima di sprofondare nuovamente nel baratro dei ricordi delle lacrime di dolore e degli spasimi d’amore, in una domanda appena sussurrata, Sarah cercò un’ulteriore conferma: “Chi è?”

“Non gli ho chiesto il nome, ma è qualcuno che hai conosciuto a Fossoli”, rispose il signor Gennaro e, scorgendo sul volto della ragazza un profondo turbamento, di cui non immaginava neanche lontanamente il vero motivo, le consigliò: “Non farti vedere così agitata. Quell’uomo ne avrà passate tante.”

Il presentimento divenne certezza e le dimensioni della sua vita presente sbiadirono come se fossero esse ad appartenere al passato. La sognante e trepidante attesa del matrimonio, l’entusiasmo per la luna di miele a Ischia, il volto tenero del vero amore negli occhi e nel sorriso di Matteo, l’innocente intimità nelle loro fughe d’amore, le irritanti e apparentemente insormontabili divergenze con i suoi futuri suoceri, i momenti spensierati di una gioventù ritrovata insieme alla sua amica Hannah, l’ordinarietà di un’esistenza adesso normale. Tutto era pronto a portarle via per sottometterla di nuovo al tormento di un amore malato e sentì che una parte di sé, ancor prima di rivederlo, voleva già cedere a quell’uomo che la stava aspettando nella sala ottocentesca del Gran Cafè, dopo aver fatto un lungo viaggio per ritrovarla e tornare da lei.

«Hermann», sussurrò dentro di sé e gli occhi le si velarono di lacrime, mentre il suo cuore iniziò a battere così forte da rimbombarle nelle orecchie.

Intanto, il signor Gennaro aveva ripreso a camminare, costringendola così a seguirlo nella sala interna e, superati gli unici due clienti seduti sulle poltrone rivestite di velluto beige e il pianoforte a coda laccato in mogano, si fermarono.

“Sarah”, esclamò l’uomo che, alzatosi di scatto, travolse con le ginocchia il tavolino, facendo oscillare la tazzina di caffè sul piattino.

Sarah stentò a riconoscerlo, tanto era cambiato nell’aspetto: il corpo smagrito, i capelli diradati, il viso scavato, gli occhi spenti di chi aveva visto l’inferno ed era tornato indietro per raccontarlo, per tener fede a una promessa fatta poco prima della partenza infausta. Ma non era con lui l’altra metà del suo cuore.

D’altra parte, anche l’uomo non riconobbe subito in lei il volto della ragazza disperata, nascosto da un groviglio di capelli e lividi, malamente afferrata dal terreno innevato e fangoso del campo e strattonata dalla mano del nazista che l’aveva abusata. Era questa l’ultima immagine che aveva di Sarah.

“Davide?” Esalò un sospiro tremante, più risollevata che non fosse Hermann anziché lui fosse ancora vivo.

 

“Torneranno gli innocenti tutti pieni di compassione

per gli errori dei potenti fatti senza esitazione,

senza lividi sui volti, con un taglio sopra al cuore.

Prendi un ago e siamo pronti, siamo pronti a ricucire.”

 

Negramaro, Fino all’imbrunire 



[1]“Ma stai zitta. Menomale che ti sposi perché non ti sopporto più.”

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Capitolo 32
*** L’infausto giorno della partenza ***



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Nella foto, come immagino Davide e Maria.

 

Ho scelto l’immagine della miniserie televisiva “La guerra è finita” che, tratta da una storia vera, racconta il difficile ritorno alla vita di un gruppo di bambini e ragazzi sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti.

 

Capitolo 32

 

L’infausto giorno della partenza

 

- In Davide e Maria, l’abbraccio di un padre e una madre -

 

“Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo.”

Primo Levi, Se questo è un uomo

 

Sarah si gettò tra le braccia di Davide che l’accolse stringendola forte a sé e fu lui il primo a prorompere in lacrime, commosso per aver ritrovato l’unica sopravvissuta dei suoi compagni di baracca a Fossoli e per essere riuscito a tener fede alla promessa fatta da sua moglie a quella ragazza così somigliante alla loro amata figliola per l’età e il colore degli occhi. Maria, l’altra metà del suo cuore, non era più con lui, volata via nel cielo nero di Auschwitz nell’estate del ’44.

Davide pianse lacrime liberatorie, senza vergognarsene, mentre Sarah, anche lei singhiozzante, gli si stringeva al collo, lasciando da parte quel senso di pudore che avrebbe potuto esserci nell’abbracciare così calorosamente un uomo che non fosse il suo promesso sposo. In lui, abbracciò un padre, un fratello e la speranza di veder ritornare i propri cari e la speranza e la paura di sapere Hermann ancora vivo. Intuì quale amara sorte fosse toccata a Maria e rimase a lungo in quell’abbraccio che, a Fossoli, nell’infausto giorno della partenza verso Auschwitz, era stato loro disumanamente negato.

 

22 febbraio 1944

 

Nella camera che aveva iniziato a rassettare, aleggiava ancora un profumo di sapone e crema da barba al quale si univa l’inconfondibile fragranza di ambra e muschio. L’uniforme che aveva posato nella cesta portabiancheria, per andare poi a lavarla, ne sembrava ancora pregna.

Metteva in ordine e spolverava Sarah, muovendosi per la stanza come un automa, volutamente incapace di ascoltare i propri pensieri per eludere il confronto con la parte di sé che avrebbe voluto sfiorare ancora la pelle nuda che indossava quel profumo dalle note orientali.

Avvicinatasi alla finestra, passò lo strofinaccio sul vetro e, sentendo l’eco di molti passi e un fitto vociare dall’accento tedesco provenienti dal campo, guardò in basso. Provò un senso di vergogna per aver dimenticato che giorno fosse, tanto presa dal ricercare e rifuggire le sensazioni suscitatele da Hermann.

Rivolse lo sguardo verso la sua baracca e vide dapprima uscire i bambini, piccole vittime innocenti e inconsapevoli che, tenendosi per mano, si unirono alla fila dei prigionieri che i soldati conducevano ordinatamente al cancello. Posò la sua attenzione sull’appariscente capigliatura riccia di Agnese e una fitta di rimorso la colpì nel petto, propagandosi a tutte le sue membra. Se solo non fosse rimasta a dormire tra le braccia del tenente, avrebbe potuto darle quei biscotti alle mele che, vinta dalla fame e dalla golosità, aveva mangiato fino all’ultimo. Le diede la nausea il proprio egoismo e ricordò l’avvertimento di don Franco di non trasformarsi in una persona diversa e proprio lui, facilmente riconoscibile dalla tonaca, intravide in lontananza, dal Campo Vecchio, salire su uno dei camion diretti verso la stazione di Carpi. Arrivato ad Auschwitz, si sarebbe ricongiunto con i suoi bambini, condividendone lo stesso terribile destino.

Un attimo dopo, vide uscire dalla baracca anche Maria e Davide e, quando l’uomo avvolse con un braccio le spalle di sua moglie in segno di conforto, le apparve davanti agli occhi l’immagine dei suoi genitori, mentre, stretti l’un l’altra, abbandonavano la chiesa, lasciando sola lei. Forse era ancora in tempo a prendersi quell’abbraccio mancato, a proferire loro le parole non dette per il forte sbigottimento e rammarico dell’imminente distacco, sotto lo sguardo del grande Crocifisso che dominava la navata centrale della chiesa. Con decisione, gettò lo strofinaccio sul davanzale della finestra e, di corsa, uscì dalla camera da letto e dall’edificio occupato dai tedeschi per raggiungere Davide e Maria e, in loro, abbracciare suo padre e sua madre un’ultima volta.

Le scarpe di Sarah affondarono nel terreno del campo, a tratti fangoso e imbiancato dalla leggera nevicata notturna, mentre la veemenza dei suoi movimenti allentò lo chignon, facendole ricadere i lunghi capelli sulle spalle. S’intrufolò nella fila e, avanzando tra i prigionieri, riuscì ben presto a trovare chi, disperatamente, cercava.

“Maria”, la chiamò, fermandola per un braccio e lei, stupita e allarmata, replicò: “Sarah!”

“Vai via, Sarah”, intervenne Davide con tono severo e apprensivo, temendo una reazione da parte dei soldati delle SS al loro fermarsi, rallentando così la fila.

E, nelle sue parole, Sarah percepì erroneamente l’asprezza del rifiuto, di un secondo abbandono. “Non mi lasciate, vi prego”, disse, rivolgendosi più ai suoi genitori che a loro.

Con determinazione e tenerezza, Maria le prese il viso tra le mani e, guardandola profondamente negli occhi – che le ricordavano tanto quelli di sua figlia –, proferì la promessa che, due anni dopo, avrebbe portato suo marito a Napoli: “Quando tutto questo sarà finito, verremo a cercarti, te lo prometto.”

E non fece in tempo a sigillare la sua promessa con quell’abbraccio rincorso e sperato da Sarah che la mano di un nazista afferrò la ragazza, allontanandola bruscamente da Maria e scaraventandola a terra. Piegatosi su di lei, il soldato le urlò contro nella sua madrelingua, schizzandole saliva sul viso, prima di colpirla ripetutamente col manganello sul braccio che Sarah aveva messo istintivamente davanti per ripararsi. Lacrime e grida le si bloccarono in gola tanto fu lancinante il dolore, ma esso non valicò il senso di colpa nell’intravedere il soldato avventarsi su Davide – fattosi avanti nel vano tentativo di difenderla – e su gli altri prigionieri la cui marcia verso il cancello era stata rallentata a causa sua, mentre di Maria riusciva soltanto a udire la voce modularsi in parole supplichevoli.

Poi, all’improvviso, una mano dalla forte presa la sollevò dal terreno, afferrandola per il braccio già dolorante e facendole contorcere il viso in un’espressione di sofferenza. Dal profumo che le inondò le narici, capì subito chi fosse e lui impresse le dita ricoperte dal guanto in pelle nella sua carne, aggiungendo dolore al dolore, quelle stesse dita che la sera precedente si erano posate dolcemente sul suo corpo. E non c’era alcun velo di dolcezza sul verde dei suoi occhi, adesso vitrei e dilatati dalla rabbia, né vi fu un’intonazione gentile dalle sue labbra che si aprirono in parole dal sapore sprezzante.

“Ma sei impazzita?” Il tenente parlò con tono di voce basso e furioso e, strattonandola, la spogliò della dignità che lui stesso le aveva restituito. “Vuoi forse andare con loro, stupida ebrea?”

Al dolore, si aggiunsero la delusione e la paura e quell’assurdo senso di colpa per aver rovinato un sentimento nascente in Hermann che, intanto, resosi conto di stringerla troppo forte, allentò la presa e distese i muscoli facciali contratti in un’espressione adirata.

Sapeva benissimo che le sue parole avrebbero allontanato il cuore delicato di Sarah, ma non si trattenne nel continuare a dirle, senza addolcire la voce: “Torna subito al lavoro. Dopo facciamo i conti.” E la lasciò andare via.

 

“Sally ha patito troppo,

Sally ha già visto che cosa

ti può crollare addosso,

Sally è già stata punita

per ogni sua distrazione o debolezza,

per ogni candida carezza

data per non sentire l’amarezza.”

 

Vasco Rossi, Sally 

 

 

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Capitolo 33
*** Trentacinque chilometri da Berlino ***


Capitolo 33

 

Trentacinque chilometri da Berlino

 

“Più non s’incanteranno i miei occhi nei tuoi occhi, più non s’addolcirà vicino a te il mio dolore. Ma dove andrò porterò il tuo sguardo e dove camminerai porterai il mio dolore. Fui tuo, fosti mia. Che altro? Insieme facemmo un angolo nella strada dove l’amore passò.”

Pablo Neruda, Farewell

 


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

Napoli, ottobre 1946

 

Nel racconto della sua prigionia ad Auschwitz, Davide omise i particolari più atroci, parlandole principalmente della sua reale conversione al cristianesimo avvenuta proprio in quei giorni e di come fosse sopravvissuto grazie al suo talento di compositore e musicista, suonando il pianoforte per gli ufficiali delle SS. «I nazisti amavano la musica», le aveva detto con un tono intriso di sarcasmo e amarezza, mentre Sarah pensava a quanto fossero simili lei e Davide. Entrambi avevano ceduto al nemico una parte di sé per continuare a vivere.

Davide posò sul piattino la tazzina vuota del caffè e riprese a parlare, assumendo un’intonazione preoccupata: “Sei pallida e, da quando sono qui, non hai smesso di tremare.”

Con Davide e Maria, era sempre stato così. Entrambi possedevano la capacità di accorgersi dello stato d’animo di chi stava loro di fronte e il dono di saper leggere negli occhi. Il loro era uno sguardo penetrante, comprensivo e mai accusatorio, che induceva però ad abbassare gli occhi per sfuggire alla verità di se stessi.

è che…” Sarah fece una pausa e, allontanando dalle labbra la tazzina del caffè che non aveva ancora bevuto, gli confidò: “Credevo fosse qualcun altro.” E alzò lo sguardo dal tavolino finemente intarsiato per incontrare gli occhi scuri e stanchi di Davide.

“Ah, di questo non devi più preoccuparti”, ribatté l’uomo risoluto, intuendo a chi si riferisse, “quell’infame non potrà più farti del male.”

E lei dilatò lo sguardo in un’espressione interrogativa, mentre una parte del suo cuore si lasciava trafiggere dall’appellativo usato da Davide.

“È stato dichiarato morto”, sentenziò l’uomo apatico e lapidario e le parole continuarono a uscirgli dalla bocca come un fiume in piena che ruppe gli argini e travolse Sarah, facendola annegare in sentimenti che lei stessa aveva voluto sommergere. “Dopo Fossoli, fu messo in congedo per qualche mese a seguito di un lieve trauma cranico.”

Nelle orecchie le riecheggiò il rumore del colpo assestatogli alla nuca dal calcio di un’arma partigiana e il tonfo del suo corpo attutito dalla neve.

“Poi fu richiamato a Berlino e ricevette la nomina di capitano. Gli assegnarono un lavoro nel Dipartimento economico e amministrativo delle SS, ma non riuscì mai a svolgerlo, dato l’arrivo dell’Armata Rossa”, proseguì Davide e, mentre sentiva il proprio cuore accartocciarsi, non le venne da chiedersi perché lui sapesse così tanto e non scoprì mai la sua ossessione per la ricerca di giustizia che nascondeva nello zaino tra i fascicoli degli aguzzini incontrati sul suo cammino. “Fu catturato dai soldati russi e portato in un campo di concentramento a trentacinque chilometri da Berlino. Lì ha finito i suoi giorni.”

L’inammissibile flebile speranza che fosse ancora vivo si era spenta e un brivido di sconcerto le si propagò in ogni angolo del corpo, immaginandone le possibili cause di morte e sentendo nell’anima una vecchia corda vibrare assieme a quella del dolore per la tragica notizia.

“I sovietici non sono stati molto teneri con i tedeschi.” La voce dell’uomo le arrivò alle orecchie come un suono ovattato, lontano e non riuscì a coglierne l’intonazione vagamente soddisfatta. Sulla tazzina abbassò lo sguardo che si perse nel caffè e, mentre gli occhi le si inumidivano di lacrime, incrociò le braccia, stringendo la propria sofferenza di un lutto da metabolizzare, di ricordi da elaborare.

“Sarah, Sarah.” Preoccupato, Davide la chiamò più volte e invano nel tentativo di riportarla alla realtà.

 

22 febbraio 1944

 

“Sarah, Sarah.” All’udire il proprio nome pronunciato da Giuditta con preoccupata insistenza, Sarah scosse bruscamente lo sguardo dal tè che nella tazza aveva ormai smesso di fumare. La donna glielo aveva preparato nel tentativo di rincuorarla, ma lei era rimasta ferma con le braccia incrociate ad attenuare il dolore causato dai ripetuti colpi di manganello e dalla forte presa di Hermann, sopraffatta dalla malinconia per la partenza dei suoi compagni di baracca e dall’angoscia per l’insulto e la minaccia da lui proferiti con violenza.

Dandole della stupida ebrea, Hermann l’aveva riportata indietro, al momento dell’abuso – qualche attimo prima, infatti, l’aveva apostrofata con il medesimo appellativo – e, con quel «dopo facciamo i conti», sembrava volesse infrangere la sua promessa di non farle più del male e la propria speranza nell’immaginare una realtà meno dura. Dopo un’intera notte vissuta tra le sue braccia, pur temendone l’inevitabile cambiamento del quale irragionevolmente s’incolpava, era più difficile immaginarlo nelle vesti di carnefice, almeno verso di lei.

“Forse dovresti andare in infermeria”, esordì Giuditta, mentre, stando in piedi di fianco a lei, asciugava un piatto, “il braccio potrebbe essersi fratturato. Se vuoi, ti ci accompagno io.”

Neanche il tempo di valutare la sua proposta, che la porta della cucina fu spalancata con tale violenza da far scivolare dalle mani di Giuditta il piatto che andò a frantumarsi in tanti pezzi sul pavimento e mettere in allerta le altre cameriere presenti.

Per ultima, giacché dolorante, anche Sarah si mise sull’attenti, all’udire il suono della sua voce autoritaria che tuonava di rabbia.

“Fuori tutte”, proruppe il tenente e Sarah restò al proprio posto, ben sapendo del perché Hermann fosse lì, incredula e spaventata per così tanta veemente fretta nel voler sistemare con lei i conti. “Ferma”, intimò poi a Giuditta, vedendola in procinto di abbassarsi per raccogliere i cocci, “ci pensa Sarah.” E, con un cenno della testa verso il pavimento e i suoi occhi lucidi e spaesati, le fece capire che doveva pensarci subito.

Sarah obbedì al suo muto, tracotante comando e tremò quando Hermann iniziò a battersi il frustino sullo stivale, proseguendo con un ritmo cadenzato ai pensieri che gli vorticavano nella mente. Avvertiva dentro di sé l’inadeguatezza di una parte che si costringeva a recitare.

Sussultò solo al primo colpo e proseguì a raccogliere i cocci con espressione marmorea e mani ferme, nonostante la visibile fatica nel muovere il braccio e la tremenda consapevolezza che, non soddisfatto del lavoro svolto dal suo subalterno, l’avrebbe punita anche lui, magari facendole assaggiare lo schiocco del suo frustino, aggiungendo lividi sui lividi, dolore al dolore, lacrime urlate contro la muta delusione per una promessa in parte già infranta con parole d’ingiuria e di minaccia e, in ultimo, con il suo costringerla a quella posizione mortificante.

Hermann smise di battere il frustino e iniziò a parlare, mentre Sarah lentamente si alzava, lasciandosi sfuggire una smorfia di sofferenza, davanti alla quale lui faticò a restare indifferente.

“Ti ho dato la mia parola e non vorrei essere costretto a rimangiarmela”, disse in un crescendo di voce sempre più alta e perentoria, “non tollero comportamenti sovversivi nel mio campo.”

Forse fu in virtù di quell’intimità vissuta insieme e a cui lei aveva dato un’importanza, che Sarah osò giustificarsi, rispondendogli coraggiosamente, seppur biascicando: “Non era mia intenzi…”

Non era sua intenzione e lui lo sapeva, come anche sapeva quanto sarebbe stato difficile riaprire la porta del suo cuore al calar della sera, mentre la interruppe, urlando: “Silenzio!”

Sarah sobbalzò, strizzando gli occhi per la paura e, stavolta, chiudendo le mani a pugno, fu lei a darsi della stupida.

“Ti ho forse dato il permesso di rispondermi?!” aggiunse più incollerito, ma subito dopo cedette e, sbuffando, come per liberarsi dal peso di se stesso, cambiò atteggiamento.

Si strofinò la fronte con il pollice e l’indice, spostando un po’ di lato il cappello che gli ombrava i lineamenti e socchiuse per un attimo gli occhi, prima di rabbonire l’espressione e il tono di voce.

“Passeranno in molti per questo campo e non puoi affezionarti a tutti. Siamo in guerra e, se vuoi sopravvivere, devi pensare solo a te stessa”, la mise in guardia e, da apprensiva, a ogni parola, la sua voce tornava ad assumere un’inflessione più severa, “e non voglio che tu dia le cose che io ti porto agli altri ebrei.”

Sarah sbarrò gli occhi in un’espressione terrorizzata, ripensando al cioccolato che aveva dato ad Agnese e temendo di aver messo la ragazzina in una qualche situazione di pericolo.

“E non fare quella faccia”, riprese Hermann con un tono più pacato ma di disappunto, “non è mia abitudine togliere i dolciumi dalle mani dei bambini. Non sono così sadico come credi”, fece una pausa, mentre nel cuore di Sarah s’intrecciarono molteplici sentimenti, “e adesso vai, vai in infermeria che non mi piace quel braccio.”

Confusa ma risollevata, si avviò verso la porta con residui di paura da scrollarsi di dosso e lacrime da ricacciare indietro.

“Sarah!” Hermann la fece voltare di nuovo verso di sé, richiamandola con voce decisa e suadente.

 

Napoli, ottobre 1946

 

“Sarah!” Chiamandola con tono di voce più alto e deciso, Davide la riportò alla realtà presente e, mentre gli rivolgeva di nuovo lo sguardo, una lacrima fuggevole le scivolò lungo la guancia.

 

“Non pensarci e perdonami,

se ti ho portato via un poco d’estate

con qualcosa di fragile come le storie passate.

Forse un tempo poteva commuoverti ma ora è inutile credo,

perché ogni volta che piangi e che ridi

non piangi e non ridi con me.” 

 

Francesco Guccini, Farewell

 

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Capitolo 34
*** La di lui dipartita ***


Capitolo 34

 

La di lui dipartita

 

“L’amore è un gioco con delle regole strane. Puoi perdere più del dovuto e amare più di quanto avresti pensato.”

Fabrizio Caramagna

 


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Immagine dal film “La conseguenza”

 

“Sarah”, riprese Davide apprensivo, pronto a porle la fatidica domanda, “non mi dire che…”

E non c’era bisogno di fargli aggiungere altro, poiché Sarah sapeva perfettamente cosa stava per chiederle. Davide aveva letto bene nei suoi occhi, nel suo cuore.

“Sì”, ribatté prontamente e la sua voce divenne un roco sussurro, “è successo.”

Sarah si era legata al suo aguzzino in un sentimento amoroso e, adesso, per la di lui dipartita, una seconda lacrima le rigava il viso pallido. Il dolore che traspariva dai suoi occhi color miele e dal suo corpo inerte fece stringere il cuore di Davide che si pentì per la compiaciuta freddezza con la quale le aveva dato la notizia, tragica per lei. “Mi dispiace”, le disse.

Un istante dopo, Sarah interruppe la sua silenziosa immobilità e, intrecciando sul tavolino le mani e ponendo su di esse lo sguardo, iniziò a tormentarsi le dita per trattenere un pianto che, se esploso, sarebbe stato interminabile. Si fermò non appena giunse all’anulare sinistro e, estraniandosi dalla confessione qualche attimo prima proferita e ostentando indifferenza per la notizia appresa, sollevò il capo per incontrare gli occhi di Davide e mostrargli un’espressione diversa.

“Tra due settimane mi sposo”, esordì seria, quasi austera, più per ricordarlo a se stessa che per annunciarlo a Davide. Poi l’emozione vibrò nella sua voce e addolcì il suo sguardo, mentre, commossa, gli chiedeva: “E vorrei che mi accompagnassi tu all’altare.”

“Ne sarei onorato e felice”, le rispose, frenando a stento le lacrime al pensiero della sua povera figliola e di una nuova paternità simbolicamente donatagli da Sarah.

Ma lo stato d’animo della ragazza non aveva smesso di turbarlo.

 

Berlino

 

Nulla era andato secondo i suoi piani. Al confine con la Svizzera, i documenti e l’esitazione mostrati da Hermann non avevano convinto gli agenti francesi e soltanto grazie al provvidenziale, umiliante intervento di un suo ex subalterno, che lo aveva prontamente riconosciuto, era potuto tornare a casa, risparmiandosi un altro calvario.

«Hauptsturmführer[1], non lasci la Germania. Presto il Großdeutsches Reich[2] risorgerà dalle rovine», gli aveva detto il ragazzo poco più che ventenne con un tono tra il supplichevole e l’esaltato, seppur sottovoce.

Sentendosi chiamare rispettosamente – quasi devozionalmente – con il grado delle SS che non aveva mai potuto esercitare, una scossa di orgoglio e compiacimento gli percorse la spina dorsale e, anche se non aveva alcuna intenzione di restare in Germania per perseguire un’ideologia sconfitta nella quale non credeva più e ritardare il ricongiungimento con la sua Sarah, si sorprese ad annuire, contraendo i muscoli facciali nell’espressione fiera e altera di un tempo.

«Heil Hitler», gli soffiò l’ex soldato all’orecchio nel salutarlo ed Hermann ricambiò con la stessa risolutezza, ma non permise a quel veleno d’insinuarsi ancora nelle sue vene.

E adesso, a una settimana dalla mancata partenza, era di nuovo a letto, febbricitante e in preda a una forte tosse che, a tratti, pareva togliergli il respiro e con sua madre che, ponendogli un panno bagnato sulla fronte, si prendeva cura di lui con la freddezza e il distacco di chi svolge soltanto un mero dovere verso un estraneo. Ma, in fondo, per Birgit, il suo unico figlio non era mai tornato dalla guerra e, in un angolo della casa, conservava ancora l’altarino a lui dedicato con tanto di fotografia in divisa, cero e vasetto con i fiori.

La sentenza del dottor Schneider gli arrivò come una doccia fredda e lo sconvolse: la diagnosi di polmonite lo condannava a rimandare il suo ritorno in Italia, a sentire il proprio corpo debilitarsi una seconda volta, a ripetere gli sforzi per rimettersi in sesto, a prolungare la permanenza in quella casa abitata da sconosciuti e la lontananza dalla sua amata.

«Tutti questi impedimenti», lo aveva ragguardato suo padre a braccia conserte, con una nota di cinica soddisfazione nella voce, «non credi che siano un segno?» Karl sembrava quasi contento nel vedere suo figlio costretto di nuovo a letto, anziché saperlo alla ricerca della sua amante ebrea. In realtà, sperava ancora che il tempo lo avesse rinsanito dalla sua ossessione.

Ed Hermann finì col credere a quelle parole e, provato da un crollo emotivo, iniziò a temere un possibile rifiuto da parte di Sarah, motivo per il quale, forse, il destino gli aveva impedito di partire. E nella testa, sprofondata nel cuscino appoggiato contro la spalliera del letto, i pensieri diventavano tormento, chiedendosi cosa le avrebbe raccontato, se fosse tornato da lei.

Si augurò di morire al più presto, giurando a se stesso di non provare mai più a cercarla, poiché come le avrebbe spiegato il suo compiacimento per la nomina a Hauptsturmführer e la sua risolutezza nel far ritorno in Germania, senza neanche assicurarsi che lei stesse bene con i partigiani? Della Battaglia di Berlino sarebbe stato più onorevole raccontarle della sua iniziale, strenua resistenza al nemico o del suo nascondersi in un canale di scolo delle fogne, intuendo l’imminente sconfitta? A lei che non si era mai scomposta, brava a contenere le emozioni di sofferenza, come avrebbe confessato tutte le lacrime che non aveva saputo trattenere a Sachsenhausen sotto le percosse dei russi e, in ultimo, il suo visibile tentennamento per paura al confine sorvegliato dai francesi che gli era costato la partenza?

Mosso da un impeto d’ira verso di sé, per l’uomo vigliacco e fisicamente troppo debole che era diventato, raccogliendo le poche forze che la polmonite ancora gli consentiva, allungò un braccio verso il comodino e rovesciò tutto ciò che vi era sopra, tra cui alcune scatole di medicine e un bicchiere vuoto. Questi cadde per terra, frantumandosi in mille pezzi e ripetendo lo stesso rumore di un piatto che s’infrangeva sul pavimento della cucina di Fossoli.

Nella mente gli risuonarono lo schiocco cadenzato del suo frustino sullo stivale e l’eco della sua voce dura e astiosa contro Sarah. Ne rivide gli occhi lucidi ma fieri e l’espressione orgogliosa, mentre, piegata sulle ginocchia ma non spezzata dal dolore al braccio e dalla paura che lui ben riusciva a incuterle, raccoglieva i cocci nel grembiule. A differenza sua, lei non recitava alcuna parte e, allo scomparir del sole sulle baracche, nella luce soffusa della sua stanza divenuta loro alcova, non nascose il suo dissenso. Si chiuse a una sua carezza tra le gambe e a lui si negò, incoraggiandolo così a intraprendere la strada che condusse al loro primo bacio. E fu amore, senza farlo.

Fossero passati altri cent’anni, lui l’avrebbe ritrovata.

 

“La lontananza è peggio di una malattia.

Se ami qualcuno che non c’è,

in nome dell’amore non buttarlo via.

Qualcuno ne morirà, se non ritrova te.”

 

Ivana Spagna, Gente come noi

 

 

 

 



[1]Capitano.

[2]Reich Grande-Tedesco.

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Capitolo 35
*** Il cuore e i suoi inganni ***



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Nella foto, tratta dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Matteo e Sarah «nella spiaggetta racchiusa tra le scogliere e sovrastata dalla montagna» ai capitoli 5 e 27.

 

Capitolo 35

 

Il cuore e i suoi inganni

 

“Chi t’insegnò i passi che fino a me ti portarono?

Quale fiore, pietra, fumo ti mostrarono la mia dimora?

Certo è che tremò la notte paurosa,

l’alba empì tutte le coppe del suo vino

e il sole stabilì la sua presenza celeste,

mentre il crudele amore m’assediava senza tregua

finché lacerandomi con spade e con spine

aprì nel mio cuore una strada bruciante.”

Pablo Neruda, Aspro amore

 

Campo di Fossoli, 22 febbraio 1944

 

Sarah si volse lentamente, mostrandogli un’espressione triste e spaesata, interrogativa. Il tono con cui l’aveva chiamata, pronunciando il suo nome, s’era addolcito, lasciandole intendere cosa stesse per chiederle.

“Ti aspetto dopo cena”, le disse infatti, con quell’aria allusiva e insolente che lei ben conosceva, come se nulla fosse successo, incurante del suo malessere fisico e, soprattutto, emotivo.

E, questa volta, fu Sarah a ripristinare le distanze e ristabilire la gerarchia fra di loro. “Sì, signore”, rispose, quasi in tono di sfida e nemmeno si curò di nascondere la sua espressione corrucciata.

La parte forse più razionale di sé si augurò di averlo innervosito, così da scansarsi la notte con lui. Questi, invece, non si scompose e accennò uno dei suoi sorrisi sornioni. “Hermann”, la corresse.

“Sì”, fece una pausa, confusa dalla sua doppia personalità e nauseata per la troppa tensione accumulata e all’idea di abbandonarsi tra le sue braccia dopo tutto ciò che era accaduto – la deportazione di innocenti che aveva eseguito, la crudeltà con cui le aveva parlato –, “Hermann.”

Reggendosi il braccio dolorante, andò via e il nodo che le si era stretto alla gola si sciolse soltanto in infermeria, quando il medico, con non molta delicatezza, le avvolse un bendaggio stretto intorno alla zona contusa, lievemente per fortuna. Lacrime di delusione poterono così liberarsi, nascondendosi tra quelle scaturite dal dolore fisico e non ne avrebbe provato rimorso. Dalla piccola finestra, s’intravedevano già le prime luci del tramonto a preannunciare la notte bugiarda e voluttuosa alla quale, in un modo o nell’altro, si sarebbe sottratta.

 

Napoli, ottobre 1946

 

Il molo situato di fronte all’ex stazionamento dei tedeschi non era molto frequentato dai pescatori che preferivano attraccare al poggio antistante alla Cattedrale, lì dove aveva visto Matteo per la prima volta, mentre nella barca riparava le reti.

Sarah aveva camminato a lungo, ritrovandosi senza neanche accorgersene nella cornice del loro primo bacio e, adesso, sedeva con i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani a piangere la morte di Hermann, laddove in mezzo al mare terminava la banchina. L’enorme sfera arancione del sole che scendeva dietro l’orizzonte delle isole faceva da unico spettatore alle sue copiose, irrefrenabili lacrime.

Tormentata dal rimorso di non aver fatto, di non esser stata abbastanza per convincerlo a spogliarsi della sua divisa durante la Battaglia Partigiana di Gonzaga, confusa dal susseguirsi dei ricordi d’amore e di dolore, nemmeno davanti alla consapevolezza che non si sarebbe mai più ricongiunta alla sua famiglia aveva pianto in quel modo. Lo sciabordio delle onde che s’infrangevano contro il molo tentava invano di sovrastare il suono dei suoi singhiozzi disperati.

Le lacrime di Sarah si dissolsero lentamente, quando la brezza della sera, accarezzandole il viso, divenne il tocco di due mani sulle guance e di un bacio all’angolo della bocca. L’ultimo bacio, le ultime carezze, sotto gli occhi perplessi di un trio di partigiani con i fucili puntati.

Sistematasi a gambe penzoloni sulla banchina, iniziò a fissare sotto di sé l’acqua del mare e un brutto pensiero si fece spazio nella sua mente che, adesso, vagava nel vuoto. Scivolare giù, sprofondare nelle acque scure e calme del crepuscolo sarebbe stata l’espiazione della colpa per non essere riuscita a salvarlo, quando, a Gonzaga, ne aveva avuto la possibilità, la strada che l’avrebbe ricondotta a lui per condividerne l’eternità e riscrivere il passato.

La morte di Hermann aveva riportato in vita un sentimento che, dal suo cuore ancora sanguinante per le ferite d’amore, ogni tanto boccheggiava, ma che era pur sempre vivo.

Il rumore di una barca a motore che solcò veloce la superficie tranquilla del mare, lasciando dietro di sé una scia di schiuma bianca e grigia, la scosse dai suoi pensieri. Seguì con lo sguardo l’imbarcazione, mentre il suo cuore tornava a Matteo, al loro imminente matrimonio, alla loro bellissima casetta dal tetto rosso affacciata sul porto, alla propria immagine riflessa nello specchio della sartoria con indosso l’abito bianco in stile anni ’20, ad Hannah che, più di un’amica, era una sorella, al signor Gennaro e alla moglie che continuavano a prodigarsi per lei come per una figlia, a Davide che l’avrebbe accompagnata all’altare.

Indietreggiando e sedendosi meglio sulla banchina, si aggrappò di nuovo alla vita per le persone che l’amavano e per Hermann che la vita gliel’aveva salvata, da Auschwitz e dal vuoto d’amore.

 

22 febbraio 1944

 

La luce soffusa della stanza avvolgeva la sua figura dritta vicino al mobiletto. I capelli biondo grano spettinati, una bretella abbassata e un lembo della camicia fuori dai pantaloni gli conferivano un’aria vagamente scanzonata che lo rendeva più umano, meno diverso dagli altri uomini. Senza la sua divisa con il fregio del teschio a rievocare la morte e da solo con lei, sembrava esserlo realmente.

“Cosa ti ha detto il dottore?” Hermann la guardò di sottecchi per nascondere un piglio apprensivo, mentre riempiva un bicchiere di vodka. I movimenti erano tesi e rallentati dal cruccio di non sapere come approcciarsi a lei, consapevole del suo stato d’animo dopo quello che era successo.

è una lieve contusione”, biascicò Sarah, guardando un punto impreciso dinanzi a sé, tra la parete e le sue spalle, “tre, quattro giorni di riposo e starò bene.” Dentro di sé, l’impulso di fuggire lottava già contro il desiderio di restare.

“Non volevo essere troppo duro con te”, si giustificò inaspettatamente, sancendo così il vincitore nella lotta, “ma, oltre questa stanza, abbiamo dei ruoli da rispettare.” Le porse il bicchiere e subito cancellò dal viso l’espressione accigliata che un attimo prima aveva ostentato. “Tieni, ti farà sentire meglio”, le disse e, dietro quel tono asettico, tentò ancora di mascherare le sue reali emozioni.

Nonostante avesse dissentito con un cenno della testa, essendo astemia, Hermann le avvicinò il bicchiere alla bocca e lei si ritrovò a intingervi con esitazione le labbra, poggiando involontariamente la mano sulla sua. Solo un sorso e avvertì bruciore alla gola, quasi dolore e indietreggiò, arricciando il naso e strizzando gli occhi per il disgusto. Non si sentiva affatto meglio, né con il braccio né con la mente che aveva preso ad ascoltare il cuore e i suoi inganni. Sentì il suono del bicchiere posato sul mobiletto e il tocco di una mano calda che prendeva la sua fredda per condurla a sedersi assieme sul bordo del letto e tenne gli occhi chiusi al soffio di un profondo respiro sul collo, mentre le abili dita furono sotto la sua gonna.

Gli trattenne la mano, colpendogli e afferrandogli il braccio e un lamento uscì dalle sue labbra tremanti. “No”, sussurrò e un velo di lacrime le coprì gli occhi dilatati per la paura delle conseguenze del suo ardire. Ma, stavolta, non si sarebbe concessa volontariamente a lui che rimase per qualche istante interdetto, prima di incorniciare tra le mani il suo viso provato dalla dura giornata, inducendola a guardarlo negli occhi.

“Tranquilla”, le disse con tenerezza e decisione e già avvertì il tremore abbandonare lentamente il corpo di Sarah, “non faremo nulla che tu non voglia fare.”

Le prese una mano e gliela baciò ripetutamente, piano, fino a sfiorarle i polpastrelli, fino a suscitare in lei un tremito nuovo che abbassò le sue lunghe ciglia nere, inumidite dalle lacrime trattenute e dischiuse le sue labbra di rosa. E fu pronto a liberare il cuore. Per un attimo eterno, si fermò a respirare il respiro della sua bocca e chiuse anche lui gli occhi, mentre univa le labbra alle sue.

 

“Tra l’anima e la superficie, la cicatrice.

Quello che non si dice sul cuore incide

e scava nuove ferite,

mentre vorrei solamente cancellarti per sempre

o forse solo un istante.

Ma tu sciogli i pensieri

e leghi le mani, allora mi ami.

Ma è tardi domani.”

 

Francesco Renga, Cancellarti per sempre

 

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Capitolo 36
*** Ricordi d’amore ***


Capitolo 36

 

Ricordi d’amore

 

“Sento qualcosa di insoddisfatto nel mio cuore, sempre.”

Francesco Petrarca

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Era da ben due anni che Hermann non baciava una donna, attribuendo al bacio un valore d’indiscussa importanza rispetto all’amplesso e astenendosi dal concederlo a signorine di postriboli e avventure di una notte o poco più. Nello scambio di sapori e respiri, vedeva racchiusa la massima espressione d’intimità fisica da riservare a una relazione sentimentale stabile, di fiduciosa complicità e condivisione di vita.

In quel momento, il cuore si era ribellato alla ragione e il crescendo di emozioni lo aveva spinto inconsapevolmente a violare la «legge per la protezione del sangue e dell’onore tedesco», mentre prendeva con dolcezza il viso di Sarah tra le mani per dare intensità al bacio. Non aveva esitato nell’abbassare le proprie difese, nello spogliarsi della maschera di se stesso per offrirsi al muto dialogo dell’amore e sugellare la recondita volontà di appartenere a lei.

Poté avvertire il suo corpo irrigidirsi e i suoi occhi spalancarsi, come se stentasse a credere alla realtà di quello che, considerandone l’innocenza, doveva essere per Sarah il primo bacio. Non glielo avrebbe rubato. Indietreggiò nella ricerca travolgente del sapore della sua bocca per donarle la magia che sapeva appartenere all’immaginario di una ragazza ancora acerba e chiuse le labbra per sfiorare le sue con tocchi leggeri, ripetuti che lei, timidamente, ricambiò quasi subito, fino a lasciarsi andare.

Con gli occhi semiaperti per sbirciare le sue espressioni facciali e coglierne, dietro le ciglia chiuse, l’anima di un sentimento amoroso, gli posò sul petto i palmi delle piccole mani e aprì un poco la bocca per assecondare il desiderio di Hermann che, adesso, era anche il suo.

Lo scorrere delle dita tra i suoi capelli, che, dallo chignon, si liberarono sulle spalle, diede il ritmo alla passione di un bacio che lei accolse tra stupore e tremore e che, emozionata e inesperta, seppe restituirgli soltanto a notte inoltrata nel continuo scambio di aneliti e nell’armoniosa fusione dei battiti dei loro cuori vicini nell’abbraccio, sciolti dalle carezze.

E l’amore aveva il sapore, adesso, dolce del malto della vodka e il profumo muschiato delle guance rasate di fresco; l’odore di nicotina non impregnava più le sue narici né il dolore avvolgeva l’anima sua, protetta fra le braccia di Hermann.

Senza andare oltre, cullati e appagati da tante effusioni e stanchi per la giornata, quasi simultaneamente, chiusero gli occhi e si addormentarono stretti l’uno all’altra, fronte contro fronte, mano nella mano. E non furono più due corpi uniti da un contratto per la sopravvivenza su di un letto macchiato di disonore, ma un’anima sola fuori dal tempo e dallo spazio di un mondo che li voleva nemici.

Le tenui luci del nuovo giorno sorpresero Sarah rannicchiata in posizione fetale al centro del letto con i piedi rivolti verso il bordo e la coperta – tirata un po’ su da Hermann per non svegliarla, quand’era ancora buio – a scaldarle la schiena. Si svegliò con il braccio ancor più indolenzito, ma stralunata e con un motivetto allegro nella testa, con i vestiti addosso solo sgualciti da una notte di tenera passione e spogliata dei suoi dubbi. Sul comodino, una tavoletta di cioccolato che non avrebbe più visto come umiliante pagamento.

 

Napoli, ottobre 1946

~ Una settimana al matrimonio ~

 

La nota di tristezza sul suo viso, incorniciato dal Juliet cap veil[1], stonava con il bellissimo vestito bianco in stile impero con maniche lunghe in pizzo e un leggero strascico e, per assurdo, nessuna delle donne presenti seppe coglierla, troppo prese da lei e dal suo apparire. Fissandosi nello specchio della sartoria, Sarah ricercava dentro di sé e nel luccichio dei suoi occhi quelle emozioni che credeva l’avrebbero accompagnata nell’ultimissima prova dell’abito da sposa.

Hannah raccoglieva nel fazzoletto silenziose lacrime di commozione, immaginando l’ingresso della sua amica in chiesa e fantasticando sul proprio, mentre la sarta le spiegava solerte i passaggi della vestizione e la cura che avrebbe dovuto impiegare nell’aiutarla. Accerchiata, Sarah si sentiva già soffocare dalla nuova vita che aveva voluto ricucirsi addosso per dimenticare il passato.

“Il Signore mi ha donato solo figli maschi”, esordì la moglie del signor Gennaro con un’espressione serena, prendendo dalla sua borsa un cofanetto. Da lì, estrasse un prezioso filo di perle e glielo mise delicatamente al collo. “Questa l’ho indossata al mio matrimonio. Adesso, è tua.” La signora Carmela concluse con un sorriso che Sarah non seppe ricambiare, né ringraziò per quel dono, preannuncio, secondo una vecchia credenza popolare, di lacrime e tristezza nella sua vita futura.

La sarta iniziò a girarle intorno, sfiorando il vestito e illustrandone gli eleganti dettagli alla moglie del signor Gennaro e alla futura suocera – la cui presenza Sarah aveva accettato per non dispiacere Matteo –, compiacendosi dell’ottimo lavoro svolto per “’a guagliona cchiù bell ’ro rion[2]”.

“A me sembra tutto molto eccessivo”, intervenne donna Filomena con un tono di sufficienza, riferendosi all’intera organizzazione del matrimonio. Come al solito, la futura suocera non si era trattenuta nell’esprimere un giudizio negativo che la signora Carmela subito contraddisse, affermando un po’ altera: “La cerimonia in Cattedrale richiede un abito come questo.”

La sarta trovò un buon pretesto per continuare a pavoneggiarsi per l’abito confezionato, mentre Hannah fissava l’amica con sguardo sognante, senza accorgersi della tristezza che incupiva i suoi lineamenti. A nessuno sembrava importare e la solitudine, di nuovo, strinse in una morsa il cuore di Sarah che tentò di liberarsi, aggrappandosi inconsciamente ai ricordi d’amore di cui Matteo non faceva parte.

“Ma certo! Infatti, avrebbe potuto scegliere di sposarsi nella Chiesa della Beata Vergine del Carmelo, come le avevo suggerito io”, insisté donna Filomena, facendo inalberare la moglie del signor Gennaro che ribatté: “Siete forse impazzita, ’onna Filumè[3]?! Quella chiesa è ancora danneggiata dai bombardamenti.”

Il battibeccare delle due donne e le parole di compiacimento della sarta iniziarono ad arrivare alle orecchie di Sarah come un suono fastidioso, poi lontano e sempre più indecifrabile e fu pervasa da un’ansiosa voglia di fuggire da lì, mentre gli occhi che pizzicavano di lacrime trattenute le si aprivano a verità che, fino a quel momento, aveva finto di non vedere sulla famiglia di Matteo e su di sé.

Desiderò spogliarsi del candido abito per vestire la scura divisa da cameriera e la cintura dell’abbraccio sicuro di Hermann che, da dietro, le cingeva la vita, sussurrandole all’orecchio parole rassicuranti. E il desiderio si rifletté nello specchio come proiezione di un momento già vissuto, portando via voci e immagini della realtà circostante, ma, subito dopo, Sarah tornò in sé e nel presente. Scosse e chinò la testa.

Aveva bisogno di parlare con qualcuno che, conoscendo il suo vissuto e giustificando le sue scelte, potesse aiutarla a comprendere il suo stato d’animo e affrontare i fantasmi del suo passato. E chi altro meglio di Davide sarebbe stato capace di farlo?

 

“E i venti del cuore soffiano

e gli angeli poi ci abbandonano

con la voglia di volti e di parole,

seguendo fantasmi d’amore,

i nostri fantasmi d’amore.”

 

Fiorella Mannoia, I venti del cuore

 



[1]Molto in voga negli anni ’20, il Juliet cap veil era composto da un berretto che fasciava il capo della sposa come una cloche da cui partiva un lungo velo.

[2]La ragazza più bella del quartiere.

[3]Donna Filomena.

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Capitolo 37
*** Quando le farfalle smetteranno di librare ***



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Nella foto, dal set del film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Sarah e Matteo in luna di miele a Ischia.

 

Capitolo 37

 

Quando le farfalle smetteranno di librare

 

“Tua moglie, una conchiglia di mistero, donna che si difende alle parole, come Petrarca ne farei una dea.

È donna che ricerca smarrimenti che cerca un’acqua torbida di morte per poi ridiventare sirenetta.

Hai mai capito tu quelle ali unite di troppo maneggevole farfalla che vorrebbe volare oltre i momenti di questa terra gonfia di confini?”

Alda Merini, Tua moglie, una conchiglia di mistero

 

Gli occhi di Sarah si erano aperti e, improvvisamente, aveva compreso il reale motivo di così tanto astio nei suoi riguardi. L’ostilità della famiglia di Matteo, che si esprimeva in un continuo disappunto, non era generata dalle sue origini ebraiche e da un loro possibile, recondito sentimento fascista né dalla vergogna per le chiacchiere di paese sul presunto matrimonio riparatore, ma dal rifiuto a lasciar andare il loro primogenito, fonte di sostentamento economico per i figli più piccoli.

La delusione, frutto dell’acquisita consapevolezza, strinse alla gola un nodo di rabbia che si sciolse in parole di provocazione indirizzate alla futura suocera che, materialista, avrebbe voluto per lei un austero matrimonio di dopoguerra. Ricacciò indietro le lacrime e, ostentando un’aria fiera e altera, si rivolse alla sarta, dicendo: “Se il ricevimento finirà più tardi, avrò freddo e mi servirà una stola di pelliccia. Riuscirete a procurarmela in tempo?” E non aveva esitato al pensiero di dover dare in pegno un cimelio di famiglia per permettersela.

La sua dispendiosa richiesta zittì il parlottio delle donne e riportò Hannah alla realtà. Sul volto di tutte, attraverso lo specchio, vide disegnarsi un’espressione di stupore e, mentre donna Filomena, profondamente contrariata, torceva il naso, i propri lineamenti si contorsero in un ghigno soddisfatto che non le apparteneva. Ne ebbe quasi paura.

“Cara figlia, avresti potuto dirmelo prima”, ribatté la sarta in un tono misto di biasimo e sconforto, temendo di non riuscire ad accontentarla, “ma farò tutto il possibile.” Sorrise per nascondere la sua preoccupazione e rassicurarla, mentre Sarah preferì vedere riflettersi allo specchio l’ombra della tristezza nei propri occhi, anziché il velo di cattiveria che le deturpava il viso, il cuore.

Non era più sicura di voler sposare Matteo e sapeva di non poter attribuire l’intera colpa al rapporto conflittuale con la sua famiglia, poiché c’erano di mezzo il fantasma dell’altro e il ricordo di un amore passato, ma che lontano dal cuore non era.

 

“Gennaro mi ha proposto di suonare nel suo caffè”, la informò Davide, camminando con lo sguardo chino per ammirare le decorazioni in mosaico di anfore, pesci e cavallucci marini che ornavano la pavimentazione di quel tratto del lungomare, “credo che rimarrò qui per qualche mese, poi farò ritorno a Bologna.”

Sarah lo guardò volgere gli occhi al panorama serale del Golfo di Napoli e dischiudere le labbra a un lieve sospiro malinconico e, mentre lei, palpitante, cercava le parole giuste per confidargli i dubbi e la verità del suo cuore, fu lui per primo a confessare il proprio tormento, dicendole: “Questo posto sarebbe perfetto per ricominciare, ma lì ho tutto ciò che mi resta di mia figlia e della mia famiglia.” Si riferiva alle spoglie mortali della sua amata figliola.

Fermarono il loro lento incedere vicino alla ringhiera del lungomare e Davide, poggiandovi i gomiti, guardò le onde del mare portare a riva il ricordo di una giornata estiva sulla Riviera Romagnola a costruire castelli di sabbia con la sua piccola Rosa, sotto lo sguardo sereno e divertito di Maria che, seduta al riparo dell’ombrellone, li osservava dietro il suo ampio cappello di paglia. Si rivide, come la scena di un film in bianco e nero, mentre ricambiava il sorriso a sua moglie.

Con le braccia penzoloni fuori dalla ringhiera, giunse le mani e, rivolgendole un abbozzo di sorriso pregno di rassicurazione, introdusse il discorso: “Ma dimmi, Sarah, di cosa volevi parlarmi?”

Sarah sospirò tristemente e, voltatasi a braccia conserte, poggiò la schiena al parapetto, con forza, tanto da avvertirne il colpo. Fuggì lo sguardo di Davide per meglio trovare il coraggio di parlargli. “Mancano pochi giorni al matrimonio e non sono più sicura di voler fare davvero questo passo.”

“Il matrimonio è un passo importante. Fra qualche giorno prometterai davanti a Dio di condividere per sempre la tua vita con l’uomo che ami”, ribatté e il suo sorriso fu da Sarah accolto, ma non ricambiato. “Il matrimonio rappresenta lo spartiacque nella vita di una persona, c’è un prima e un dopo e i dubbi che ti assalgono in questo periodo sono frutto di un cambiamento che senti già avvenire dentro di te e nella coppia”, affermò, pur sapendo che quei «dubbi», in realtà, avessero il nome dell’ufficiale nazista che aveva condannato la sua amata moglie a divenire cenere e anima effuse nel cielo grigio di Auschwitz. Si sforzò a non indurire il volto.

è proprio la possibilità di un cambiamento che mi preoccupa. Matteo non ha una personalità forte e, quando le farfalle nello stomaco smetteranno di librare, potrebbe essere influenzato dalla sua famiglia contro di me. Ma c’è dell’altro”, fece una pausa e un altro sospiro, distogliendo lo sguardo da Davide per indirizzarlo al cielo terso della sera, dove forse lui era a scontare le colpe in uno dei meandri brucianti, “metà del mio cuore appartiene a un altro uomo.”

Conoscendo già la verità, Davide non si scompose né permise al risentimento verso il tenente di accompagnare le sue parole. “Se non sei pienamente convinta su Matteo, prenditi del tempo e non avere paura di rinviare le nozze. La gente troverà sempre un pretesto per sparlare. Ma non permettere che sia un ricordo idealizzato a condizionare le tue scelte e a relegarti a una vita d’infelicità”, le disse in tono paterno, fermo e, allo stesso tempo, pacato, “parlarne con Matteo potrebbe essere «la prova del nove» per comprendere se è lui l’uomo giusto per te.”

Improvvisamente, Sarah proruppe in un pianto convulso e, dimenticando le volte in cui ci aveva già provato, disperata, dichiarò: “Non ce la faccio.”

“Sì che ce la fai”, la incoraggiò, stringendola paternamente in un abbraccio che le malelingue del paese non tardarono a infamare, “sei molto più forte di quello che credi.” E, dietro i capelli, le parole sussurrate all’orecchio furono equivocate per il gesto di un bacio.

 

Sarah conosceva il sentimento della gelosia. In un’afosa mattina di luglio, lo aveva visto dardeggiare negli occhi verdi di Hermann; lo aveva sentito far male per le sue dita impresse a stringerle un braccio e strattonarla nella baracca; lo aveva amato, eguagliandolo a un tenero istinto di protezione che, al calar di quel giorno, l’aveva indotta a liberare le recondite fantasie dell’amore.

Ma ciò che vide negli occhi di Matteo non era il fuoco della gelosia e nemmeno ne avvertì l’impeto in una tirata di capelli, reazione inaspettata e improvvisa scaturita dalla paura del giudizio altrui.

A causa dello strattone e per lo sconcerto, Sarah lasciò cadere in terra al porticato della loro casa gli ultimi capi di biancheria da sistemare e la volontà di aprirgli il cuore sul suo passato.

 

“Ti brucerai, piccola stella senza cielo.

Ti mostrerai, ci incanteremo mentre scoppi in volo.

Ti scioglierai dietro una scia, un soffio, un velo.

Ti staccherai perché ti tiene su soltanto un filo, lo sai.”

 

Luciano Ligabue, Piccola stella senza cielo

 

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Capitolo 38
*** Il vuoto d’amore ***


Capitolo 38

 

Il vuoto d’amore

 

“Mai in vita mia dimenticherò la tua presenza. Tu mi hai presa quando ero spezzata e mi hai riparata. Su questa terra troppo piccola dove potrei mai voltare il mio sguardo?”

Frida

 


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

“Dove sei stata?” le domandò Matteo, dandosi un tono autoritario e recitando malamente una parte che qualcun altro gli aveva imposto.

Sarah si portò una mano alla testa e, aggiustandosi il fermaglietto argentato che adornava su un lato i capelli, prese del tempo per regolare i battiti del cuore e quietare il turbamento dell’animo che, altrimenti, le avrebbe spezzato la voce e mozzato il respiro, mentre diceva: “Al lavoro e dopo mi sono fermata a parlare con Davide del matrimonio.”

“Abbracciati?” Un tremolio nella voce tradì il suo ostentato atteggiamento pungente e inquisitorio che Sarah capì subito essere frutto dell’assillo di parenti e amici e, con un tono inasprito da tale consapevolezza, rispose: “Davide potrebbe essere mio padre.”

è un uomo ed è un’offesa al mio onore farti vedere dalla gente in atteggiamenti compromettenti e neanche mi piace la tua decisione di continuare a lavorare dopo il matrimonio.” In un crescendo d’impetuosità, visibilmente forzata, le parole di Matteo avevano il suono di catene legate ai polsi e il sapore amaro di una delusione che riempì i suoi occhi di lacrime e spezzò la sua flebile voce in singulti.

“La cosa che più mi rattrista è che tutto questo ragionamento non è farina del tuo sacco”, prese a dirgli, mentre lui, tornato in sé, aveva già capito la gravità dell’errore commesso, dando scioccamente retta ai consigli di chi lo aveva esortato a comportarsi da uomo. “Chi ti ha suggerito di maltrattarmi e di parlarmi così? Tua madre? Il tuo compare?” proseguì Sarah in tono alterato, provocatoria e lo sguardo gli si inumidì per il timore di perderla. “Io ho bisogno di un uomo che sappia ragionare con la propria testa.”

Sulle ultime parole, si sfilò dal dito l’anello di fidanzamento e, lanciandoglielo contro, fece della paura di Matteo una realtà, devastante per entrambi. “è finita”, gli disse in un impeto d’ira, senza tuttavia crederci troppo e, voltandogli le spalle, si preparò a fuggire dal suo sogno spezzato.

I piedi di Matteo si cementarono in terra al porticato e le parole di scusa gli morirono in gola, dalla quale uscì soltanto flebile il suo nome. “Sarah”, la chiamò, tendendo la mano come a implorarla di tornare indietro, ma lei era già lontana.

 

Alle sue spalle, nessun forsennato inseguimento, nessuna parola urlata al vento che tentasse di persuaderla a restare e, quando ebbe varcato e sbattuto la porta di casa, appoggiandovi bruscamente la schiena, la delusione dell’abbandono lasciò il posto al senso di colpa e alla paura della solitudine. Prese fiato, guardandosi attorno. Le luci spente indicavano l’assenza di una spalla amica su cui piangere, ma del resto Hannah non l’avrebbe nemmeno capita, pensò.

Si sentì soffocare tra le mura di una casa vuota e stringere il cuore nella morsa del pentimento per l’errore che credeva aver commesso. E fu l’ultimo frammento di orgoglio rimastole a impedire al suo bisogno d’amore, mascherato dal desiderio di amare, di ritornare subito da Matteo e chiedere, anziché offrire, un perdono.

 

Campo di Fossoli, 23 febbraio 1944

~ Il giorno dopo la partenza per Auschwitz ~

 

Sarah chiuse la porta dietro di sé e, appoggiandovi contro le spalle, si fermò a guardare l’interno della baracca, dove non vi era più nessuno. Nessuna voce pregna di disperata speranza, nessuna risata di ingenua fanciullezza e il motivetto allegro che aveva in testa dal risveglio mattutino lasciò il posto al suono triste del silenzio. Nessuna piccola anima di cui prendersi cura, nessun cuore saggio a cui raccontare la nascita di un sentimento amoroso che, forse, Maria non avrebbe neanche appoggiato e, davanti alla prospettiva del vuoto, le farfalle che libravano nello stomaco per il primo bacio chiusero le loro ali.

Altre persone sarebbero arrivate, intrecciando storie di vita e destini, poi mandate via e il senso di solitudine che iniziava ad attanagliarla non generò sconforto, bensì un’incalzante, soffocante voglia di tornare tra le braccia di Hermann. E visse con tormento le ore che la separavano dalla fine del giorno, reso ancor più lungo dal peggioramento del dolore al braccio.

 

“Cos’hai? Sei pallida.” A Hermann non era sfuggita l’espressione sofferente di Sarah che aveva spento il colorito della sua pelle olivastra. La divisa scura da cameriera e le ciocche dei capelli neri, sfuggite da un più morbido chignon, facevano sembrare il suo viso ancor più cereo. Preoccupato, inarcò un sopracciglio, mentre la guardava reggersi il braccio contuso e sedette sul letto accanto a lei.

Adesso che lo aveva di fianco, in camicia e bretelle, disinvoltamente seduto con una gamba piegata sotto l’altra, il dolore le impediva di concentrarsi sulla sua agognata presenza. “Mi fa troppo male”, rispose con la voce spezzata da un brivido di freddo, reso visibile dall’improvviso tremolio del corpo.

“Hai fatto qualche sforzo?” incalzò e l’accento grave non tradì il suo tono apprensivo.

Sarah dissentì, scuotendo lievemente la testa, con occhi persi da bambina, stanca e febbricitante ed Hermann riprese, dicendo: “Quel medico non mi piace. Fa’ vedere a me.” Per renderle più convincenti, accompagnò tali parole con un movimento della mano verso di sé. “Non sarò un dottore, ma molte cose le ho imparate sulla mia pelle.”

Si sforzò di non deviare lo sguardo su quanto traspariva dalla sottoveste bianca, mentre Sarah, toltasi con il suo aiuto la camicetta, mostrava un braccio gonfio e bluastro a causa dell’eccessiva compressione del bendaggio. Lo aveva immaginato.

“La fasciatura è troppo stretta”, le disse serio e, con espressione concentrata, iniziò a sciogliere il bendaggio, “ti sta bloccando la circolazione del sangue.”

Seguirono attimi di silenzio, di parole dette con gli sguardi. Gli occhi di Sarah si chinarono sulle dita ben curate di Hermann, intente a toglierle con delicatezza le bende, per poi sollevarsi alle sue ciglia chiare e incrociarne lo sguardo velato da un’ombra di dispiacere. Si sentì confortata dall’empatia che seppe cogliere nel verde dei suoi occhi e lo guardò con gratitudine.

Lentamente, un bacio umido si posò sul braccio contuso a lenire il dolore e una carezza del pollice sulla guancia livida fu medicina alla ferita dell’anima. Un senso di protezione s’effuse dallo sguardo, adesso, amorevole di Hermann e Sarah si lasciò andare, appoggiando la testa sulla sua spalla, una mano sul suo cuore. Le braccia forti che dolcemente la cinsero, attente a non stringerla troppo, empirono il vuoto di entrambi.

 

Napoli, ottobre 1946

 

Il paese ancora dormiva, quando lei uscì alle prime timide luci dell’alba, diretta verso la banchina. Seduta sui gradini della loro casa, avrebbe atteso Matteo al ritorno dalla pesca e, vedendolo attraccare al molo la barca, con un balzo, si sarebbe alzata per corrergli incontro. Temeva che non l’avrebbe perdonata.

Invece, da lontano, vide lui sui gradini del portico, seduto con la testa tra le ginocchia. Aveva vegliato tutta la notte sulle ceneri del loro amore, aveva pianto tutte le lacrime, sue e quelle da Sarah trattenute, girando e rigirando tra le dita l’anello di fidanzamento.

La sua figura rannicchiata incarnava la disperazione dell’abbandono e Sarah si sentì ancora più in colpa. Rallentò i celeri passi e, avvicinatasi senza che lui se ne accorgesse, gli sedette accanto.

Allo scricchiolio del legno, Matteo sussultò e, vedendola dietro il velo di lacrime e torpore, pronunciò debolmente il suo nome. “Mi dispiace, Sarah”, proseguì con enfasi sempre più incalzante di rammarico, “non so cosa mi sia preso. Scusami, sono un idiota.” Concluse, passandosi le mani fra i capelli ricci e tirandoli un po’, come a volerseli strappare.

Sarah gli pose le punte delle dita sul braccio, poi salì lentamente più su, appoggiandogli il palmo sul dorso della mano per confortarlo, per farsi confortare.

Intrecciò le dita alle sue e, guidando la sua mano verso il proprio viso, gli disse: “Scusami tu, non volevo metterti in ridicolo davanti alla gente né parlarti in quel modo”, fece una pausa e lasciò scivolare la testa sulla sua spalla, “ho riflettuto e credo che smetterò di lavorare, quando avremo un figlio.”

Senza che lui glielo chiedesse esplicitamente, sottomise se stessa e la propria volontà a un compromesso per timore di perderlo.

“Perché vuoi ancora sposarmi, vero?” La paura traspariva chiaramente dalla voce tremolante, spezzata e gli occhi di Sarah, tristi e socchiusi, non riuscirono ad aggrapparsi a quelli di Matteo, stanchi e vaganti nel vuoto. Qualcosa si era spezzato ed entrambi lo sapevano, pur ignorandolo.

“Certo”, le rispose con un sospiro liberatorio. “Certo che lo voglio.” Ribadì più determinato, abbracciandola e posandole un lieve bacio sulla testa.

E Sarah si aggrappò a lui con tutte le forze, premendo il viso contro il suo petto e stringendogli la camicia, disperatamente grata per quel vuoto d’amore che credeva potesse Matteo colmare.

 

“Per pesare il cuore con entrambe le mani

ci vuole coraggio e occhi bendati,

su un cielo girato di spalle.

La pazienza, casa nostra, il contatto, il tuo conforto

ha a che fare con me,

è qualcosa che ha a che fare con me.”

 

Tiziano Ferro & Carmen Consoli, Il conforto

 

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Capitolo 39
*** Finché morte non ci separi ***


Capitolo 39

 

Finché morte non ci separi

 

“E quando, davanti alla morte,

ho gridato di no da ogni fibra,

che non avevo ancora finito,

che troppo ancora dovevo fare,

era perché mi stavi davanti,

tu con me accanto, come oggi avviene,

un uomo una donna sotto il sole.”

Primo Levi, 11 febbraio 1946

(da Ad ora incerta, l’opera poetica dedicata alla moglie Lucia Morpurgo)

 


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Immagine dal web della Cattedrale di Castellammare di Stabia, comune della provincia di Napoli, dov’è ambientata la storia.

 

6 novembre 1946

 

Un tiepido raggio di sole si posò sul suo viso coperto dal velo e abbassò le sue lunghe ciglia finemente truccate. Fermò per un attimo lo sguardo sulla punta della sua scarpa Mary Jane in satin bianco, mentre si accingeva a salire il primo gradino dell’ampia scalinata in piperno di Soccavo della Cattedrale. Poi alzò gli occhi al parapetto della facciata, dove l’orologio con le due piccole campane segnava le undici. Era stata fin troppo puntuale.

Si aggrappò più saldamente al braccio sinistro di Davide e questi pose la mano destra sulla sua, in segno di maggior vicinanza e premuroso sostegno alle sue emozioni. Sarah fece un bel respiro per liberarsi della tensione e gli dedicò un largo sorriso che, voltatasi indietro, divenne un riso di gioia, incrociando lo sguardo attento e commosso di Hannah, elegante nel suo abito in velluto color verde scuro, china sui gradini a distenderle per bene il leggero strascico del vestito. Era pronta a incamminarsi verso la realizzazione del suo sogno.

Con espressione più decisa, raddrizzò la postura delle spalle e fissò lo sguardo verso l’arco centrale incastonato nelle due colonne capitellate che, a breve, avrebbe solennemente attraversato. Il cuore le batté forte come un tamburo, la mente si perse nella realtà della favola sognata da bambina e lei entrò come in una bolla di candida luce, quando, salendo i gradini più in alto, iniziò a vedere la sagoma in abito scuro del suo promesso sposo ad attenderla davanti all’altare maggiore.

Salendo un ultimo gradino, varcò la soglia della Cattedrale e, con maestosità e potenza, l’organo a canne intonò la marcia nuziale di Mendelssohn. E Sarah avanzò, camminando elegantemente, a passi lenti e sicuri, sulla lucida pavimentazione in marmi bianchi e grigi dalla forma ottagonale e quadrata della navata centrale. Tra gli sguardi di commossa ammirazione – e, purtroppo, anche dardeggianti d’invidia che, per fortuna, lei non colse –, avvertì la presenza visibile dei suoi affetti perduti e sorrise ai volti felici di sua madre e di suo fratello Samuel, di Maria con in braccio il piccolo Giulio e di Agnese affiancata dagli altri bambini.

E Matteo era impeccabile nel suo smoking midnight blue con fusciacca e papillon di raso, con i capelli più corti e ben pettinati all’indietro, le labbra sorridenti e lo sguardo incantato verso la sua futura sposa. Completamente perso nella meravigliosa visione vestita di bianco, neanche si era accorto dell’avvicinarsi di Davide per stringergli la mano.

“L’affido a te come mia figlia. Abbi cura di lei”, gli sussurrò all’orecchio, salutandolo con due baci sulle guance e una leggera pacca sulla spalla e Matteo rispose, annuendo con vigoroso entusiasmo.

Davide si rivolse poi verso Sarah e, dietro a un’espressione seria, nascose la sua profonda commozione, mentre, con un gesto delicato, le sollevava il velo. Prendendole il viso tra le mani, la baciò sulla fronte e, quando la giovane alzò la testa e lo sguardo, vide in lui le fattezze dell’uomo che l’aveva messa al mondo e una lacrima guizzò veloce da un occhio a rigarle la guancia, a liberarle il cuore dalla mancanza di suo padre. E fu Matteo ad asciugargliela con un lieve bacio, sigillo del giuramento che, a breve, avrebbero pronunciato dinanzi a Dio, sprovveduti e innamorati.

Raggiunti l’inginocchiatoio e le sedute a loro riservati, l’organo iniziò a suonare l’Ave Maria di Bach-Gounod e i testimoni di nozze, Gennaro e Carmela, tamponarono già coi fazzoletti le prime lacrimucce.

Il commovente sottofondo musicale, il suggestivo ambiente della Cattedrale, le difficoltà del passato che facevano sembrare la realtà del presente e la prospettiva del futuro un sogno idillico amplificavano le emozioni dei futuri sposi e, quando l’anziano sacerdote si volse verso i fedeli per celebrare il rito del matrimonio, per un attimo, Sarah rivide don Franco come ricordo sereno delle tante volte che da ragazzina, durante le Messe domenicali, dall’alto della cantoria, lo aveva immaginato presiedere le proprie nozze e sentì la sua benedizione.

Esortati dal sacerdote a darsi la mano destra, gli sposi espressero il loro consenso davanti a Dio e alla Chiesa, inibiti dalla forte emozione, dagli sguardi insistenti e commossi degli invitati, dalle lacrime e dai sorrisi da trattenere.

“Io, Matteo, prendo te, Sarah, come mia legittima sposa e prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita, finché morte non ci separi.”

Il tremore scuoteva le dita delle loro mani unite, spezzava la voce flebile di entrambi.

“Io, Sarah, prendo te, Matteo, come mio legittimo sposo e prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita, finché morte non ci separi.”

L’anziano sacerdote benedisse e consegnò gli anelli che Matteo e Sarah si scambiarono, divenendo marito e moglie. 

Una pioggia di riso e di petali bianchi – quest’ultimi idea di Hannah, condivisa da Davide – e un lungo applauso accompagnarono l’uscita degli sposi dalla Cattedrale e i sorrisi poterono finalmente esplodere in risa, assieme alle lacrime di gioia che Sarah e Matteo nascosero agli invitati festanti, proteggendosi scherzosamente l’un l’altro dal lancio piuttosto fastidioso dei chicchi.

 

Strada Panoramica, Trattoria “La terrazza”

 

Avrebbe voluto più tempo per loro, stare abbracciata al suo sposo e godersi dal terrazzo il panorama, nonostante l’aria pungente dell’autunno. Avrebbe voluto una musica diversa dal classico repertorio napoletano, come le canzoni in stile jazz e swing del Quartetto Cetra. Avrebbe voluto un comportamento più sobrio da parte degli invitati di Matteo il quale, adesso, sedeva un po’ brillo al tavolo dei suoi amici ubriachi già da un pezzo e, sbracato, scherzava con loro, senza più fusciacca né papillon né tantomeno la giacca, con i capelli di nuovo ricci e scompigliati. 

Il sorriso non colorava più il viso di Sarah che si era allontanata dai discorsi di Davide e Hannah sulla musica contemporanea al pianoforte, strumento che la ragazza aveva smesso di studiare con l’avvento delle leggi razziali fasciste. L’uomo si era proposto di darle qualche lezione e lei, da quel momento, aveva iniziato a volergli bene e non come gliene voleva la sua amica.

A braccia conserte, Sarah guardava Matteo, ma lui non si accorgeva del suo sguardo imbronciato e malinconico, attraverso la nuvola di fumo prodotta dalle sigarette dei commensali chiassosi e dietro lo sporadico passaggio di coppie danzanti al ritmo della canzone “Funiculì funiculà”.

Sentendosi trascurata e desiderosa di attenzione, nel giorno in cui la sposa avrebbe dovuto essere la protagonista assoluta, decise di non aspettare la fine del ricevimento per il lancio del bouquet e afferrò dal tavolo i suoi fiori d’arancio, mentre si alzava risolutamente dalla sedia.

Ostentando un sorriso gioviale e un atteggiamento più sereno, chiamò Hannah, interrompendole il dialogo con Davide. Subito, seria ed entusiasta, la sua amica si adoperò per organizzare l’emozionante momento, chiedendo all’orchestrina una musica d’atmosfera e radunando le ragazze nubili alle spalle di Sarah che, sbirciando all’indietro, prese bene la mira, affinché fosse lei a ricevere il bouquet. E così avvenne.

Rise di gusto, felice per la gioia che aveva saputo donare a quella che considerava una sorella acquisita e si apprestò a unirsi all’abbraccio delle ragazze che avevano circondato euforicamente Hannah. Ma, prima che potesse compiere il primo passo verso di lei, il rumore di due colpi secchi, di due pugni sbattuti su una tavola imbandita la fece voltare. Vide allora il compare di Matteo, sedutogli accanto, che, alzatosi barcollante, diede un altro pugno, il terzo, sul tavolo. Le vettovaglie sobbalzarono di nuovo, tintinnando e facendo, con il loro suono, da preludio a un inno fascista.

“Faccetta nera, sarai romana e pe’ bandiera tu c’avrai quella italiana.” Con voce rotta dall’ubriachezza e ostentando un timbro da tenore, l’uomo non ci mise molto a coinvolgere nel suo lucido delirio i giovani commensali, fatta esclusione di Matteo che se ne stava inerte e serafico. “Noi marceremo insieme a te e sfileremo avanti al duce e avanti al re. Noi marceremo insieme a te e sfileremo avanti al duce e avanti al re!”

Gli occhi di Sarah si velarono di lacrime e le sue spalle s’irrigidirono, all’udire gli ultimi versi di quell’inno pregno di razzismo e sessismo che, decantando il colonialismo italiano fascista nell’Africa orientale, le rievocava discriminazioni e persecuzione subite per mano della dittatura nazifascista.

Le risate sguaiate e l’animato chiacchierio degli invitati e la musica dell’orchestrina – adesso, alle prese con l’interpretazione della “Tarantella Luciana” – iniziarono ad arrivare alle sue orecchie come un suono ovattato e sempre più lontano e il ricordo dei suoi affetti perduti tornò a essere avvolto dall’ombra dell’angoscia per la loro prematura, indubbiamente terribile morte.

Per un attimo, indirizzò lo sguardo ad Hannah, assicurandosi che non avesse udito l’allegro e vergognoso coretto fascista e, fortunatamente, la vide ancora tutta presa dalla sghignazzante euforia che la circondava; poi i suoi occhi furono verso Matteo, nella speranza che reagisse in favore dei valori che li accomunavano, in suo favore, conoscendone i patimenti sofferti a causa del regime. Sentendosi osservato, il giovane le rivolse lo sguardo e, senza neppure accorgersi del suo malessere, non lo trattenne su di lei, distratto dallo strattone di un amico, la cui battuta gli aprì le labbra a una risata.

Preoccupata come per la sua amica, Sarah si guardò attorno, alla ricerca di Davide, trovandolo all’impiedi, scattato forse per intervenire, forse per lo sconcerto e i loro occhi si incontrarono in un profondo ed empatico dialogo. Pian piano, la musica sembrò svanire e la realtà che li accerchiava – fatta di persone che brindavano, scherzavano, cantavano e ballavano – divenire una sequenza d’immagini sfocate. E furono l’uno lo specchio dell’altra, mentre entrambi trattenevano le stesse lacrime.

Nello sguardo di Davide, Sarah vide riflessi i propri sentimenti di delusione, amarezza, rabbia, disperazione, paura, sconfitta e sparì dalla sua visuale, al passaggio di coppie ridenti e danzanti. Era scappata via.

 

“E ho capito che non serve il tempo alle ferite,

che sono sempre meno le persone unite,

che non esiste azione senza conseguenza.

Chi ha torto e chi ha ragione quando un bambino muore?

E allora stiamo ancora zitti che così ci preferiscono,

tutti zitti come cani che obbediscono.

Ci vorrebbe più rispetto,

ci vorrebbe più attenzione

se si parla della vita,

se parliamo di persone.”

 

Fiorella Mannoia, Il peso del coraggio

 

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Capitolo 40
*** Un finale diverso ***


Capitolo 40

 

Un finale diverso

 

“Siamo stati vaccinati fortemente da vent’anni di fascismo e prima ancora da società molto chiuse. [...] La patria ha dato tante delusioni.”

Piero Angela

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Correvano i piedi, avvolti nelle candide scarpe, correvano i pensieri, lungo la strada che, in leggera discesa, conduceva al mare. Correva Sarah, reggendosi lo strascico con una mano chiusa a pugno, piangendo lacrime asciutte, mentre tentava di ricacciare dagli occhi della mente le facce paonazze per l’ebrezza di vino, il labiale sguaiato degli amici di Matteo che intonavano “Faccetta nera”, il suo sorriso imperturbabile, il suo sguardo disattento e noncurante verso di lei. Correva Sarah, senza aver fissato una meta precisa, con un tacco dondolante e l’abito sgualcito, il cuore a pezzi.

Non era intervenuto Matteo, non aveva impedito che i ricordi tornassero, mediante l’eco di note stonate, nelle vesti del rimorso per i gesti mancati, per le parole non dette. Di nuovo, la tormentò il pensiero di non essersi abbandonata nell’ultimo abbraccio dei suoi genitori e di non aver dato a suo fratello l’addio, né detto un grazie a don Franco per averla protetta e nascosta insieme ai bambini, sacrificando la vita fino al martirio ad Auschwitz, la cui atroce realtà aveva taciuto ai suoi piccoli amici che mai sarebbero diventati adulti, alimentando in loro false speranze con il silenzio e le bugie. Troppo poco aveva ringraziato Maria e mai avrebbe potuto ricambiare l’affetto dimostratole, fino a mantenere, in Davide, la sua promessa.

Correva Sarah, passando disorientata accanto alle pareti scoscese della collina boscosa che sovrastava il mare, come quando, trascinata dai partigiani, percorse tra la fitta boscaglia fuori dal Dulag 152 di Fossoli i primi celeri passi di una libertà malaccetta, perché era sola, lontana dal suo amato. Era stata lei a lasciarlo, privo di sensi, prono sul terreno innevato, senza avergli ricambiato l’ultimo bacio. Neanche un ti amo si eran detti tra gli aneliti dell’amore, mentre i loro corpi si univano per l’ultima volta, prima che la notte si empisse del frastuono di spari e urla, del fiotto di sangue e lacrime. Non era riuscita a salvargli la coscienza dall’ideologia nazista, né la vita dalla prigionia sovietica e neppure un pensiero gli aveva rivolto nel giorno del suo matrimonio.

Correva Sarah, fin quando non si ritrovò, scalza e affannata, in riva alla spiaggetta – che Matteo le aveva fatto scoprire, vivendo assieme i più bei momenti, dapprima di amicizia, seduti sugli umidi ciottoli, poi d’intimità, nascosti tra gli scogli – e, di nuovo, fissando il tenue ondeggiare delle acque del mare, la pervasero pensieri di morte.

 

Berlino

 

La sua salute sembrava deteriorarsi giorno dopo giorno. La febbre persisteva, mentre aumentavano la tosse e l’affanno. Alternando momenti di disperazione, ad altri di speranza, Hermann restava saldamente aggrappato alla vita, forte del pensiero che, prima o poi, avrebbe ritrovato la sua amata.

“Non lasciarmi morire”, sussurrò col fiato corto, rivolgendosi a sua madre e afferrandole la mano posata sul letto, affamato d’aria e bisognoso del conforto di un contatto umano. Era uno di quei momenti in cui pensava di non farcela.

Figlia di un colonnello, comandante del reggimento di cavalleria dell’Esercito Tedesco, severamente educata a valori nazionalisti e ideologie antisemite, ciecamente devota al Reichskanzler[1], più di quanto non lo fosse ancora suo marito, Birgit ritrasse spazientita la mano e, con tono perentorio, disse: “Siamo già tutti morti.” Si alzò di scatto e, riferendosi al Führer, aggiunse: “Con lui.”

Di suo figlio – che, con la stessa caparbietà che lo aveva trattenuto nel suo grembo oltre il termine della gravidanza, rifiutandosi di venire alla luce, si ostinava a non lasciare questo mondo – faticava a prendersi cura, facendolo soltanto per ubbidire al volere di suo marito e, adesso, una nuova cicatrice le aveva impresso, più in alto a quella sul ventre, invisibile, sul cuore a ricordarle la denazificazione della Germania, la fine di un mondo in cui lei desiderava ancora vivere – a volte, immaginandolo. 

“Basta, basta”, si lamentò Hermann, girando la testa sul cuscino a destra e a sinistra, con gli occhi strettamente chiusi, per liberarsi del fantasma di se stesso che vedeva riflesso nella presenza di sua madre.

Pensò che non poteva essere morto, se ancora riusciva a immaginare un finale diverso per quella notte di dicembre in cui la neve bianca si tinse di rosso sangue, vaneggiando di essersi spogliato della divisa nazista per indossare i panni dell’eroe agli occhi del mondo che sarebbe sorto dopo la guerra, agli occhi della sua amata e fuggire mano nella mano con lei tra la boscaglia di Gonzaga. Gli sembrò di udire il calpestio dei loro passi veloci su foglie e rami secchi innevati e il respiro di Sarah, affannato per la corsa, fondersi con il proprio, ansimante a causa della polmonite.

 

Napoli

 

“Sarah!” Sentendosi chiamare da una voce trafelata, la giovane si volse. Il suo respiro stava tornando regolare, assieme ai battiti del cuore che, però, rimaneva stretto in una morsa di dolore.

Di nuovo, i loro occhi si incontrarono in quel muto ma eloquente, empatico dialogo, poi fu lei a rompere il silenzio, dicendogli profondamente afflitta: “Ho sbagliato tutto.” E aprì un poco le braccia, come in segno di resa, lasciandole mollemente ricadere sull’abito bianco.

“Sei ancora in tempo”, rispose Davide, conscio di averla accompagnata, in realtà, a un patibolo, “e io appoggerò la tua scelta.”

Si era pentita di aver sposato Matteo, riponendo in lui le aspettative di una vita da sempre sognata e investendo sul matrimonio i beni di famiglia, ma rifiutava l’idea di poterlo lasciare per rincorrere un fantasma. Hermann non c’era più e nessuno, né Matteo né un altro uomo – con il quale, forse, sarebbe stato anche peggio –, avrebbe potuto colmare il vuoto che le aveva lasciato nel cuore.

Sorpassando celermente Davide, dopo aver ricambiato la sua espressione arcigna con uno sguardo stupito, il giovane sposo, affaticato nelle ginocchia e nel respiro, con la disinvolta inconsapevolezza della gravità di ciò che era accaduto a “La terrazza”, le si avvicinò.

“Sarah”, la chiamò con tono spaesato, non riuscendo a spiegarsi il perché della sua fuga dal ricevimento e del velo di lacrime e rabbia che ricopriva i suoi bellissimi occhi color miele e lei, ritraendosi per schivare la mano intenta a sfiorarle un braccio, gli disse: “Non mi toccare!”

“Perché? Cosa ho fatto?” La indispettì ancor di più l’atteggiamento puerile, esternato con voce desolata e sguardo lucido per il rifiuto e l’ebrezza del vino, ma non riusciva a restare indifferente al suo aspetto scanzonato di capelli ricci e tratti meridionali; ciononostante, non stemperò l’asprezza, mentre gli rispondeva: “Niente, niente. Non hai fatto niente. È questo il problema.”

Poi, reggendosi il vestito con entrambe le mani, gli si fece più vicino e, con aria di sfida, a pochi centimetri dalla sua faccia sbigottita, iniziò a cantare: “Faccetta nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina.”

E, mentre la sua sposa ostentava un timbro di voce maschile e greve, finalmente, Matteo capì e le sue labbra si curvarono in un mezzo sorriso imbarazzato. “Ti prego, Sarah”, disse, accompagnando le parole con il gesticolare, “erano ubriachi e non sanno neanche cosa significa.”

“Ma tu sì.” All’ostinato risentimento, il giovane sbuffò e, con espressione seria e tono austero, ribatté: “Vent’anni sono tanti e, per molti, non è semplice abbandonare la mentalità fascista.” Parve giustificarli. “Ma tu lo sai, lo sai che Gennaro, il tuo caro Gennaro che consideri come un padre e ci hai anche aperto le danze oggi”, proseguì in un crescendo di stizza, invece di rasserenarla e far sì che le lacrime non bagnassero il suo viso impallidito per la delusione, “lo sai che fuori al suo locale aveva un cartello grande così con il divieto d’ingresso ai cani e agli ebrei e che era sempre in prima fila alle adunate fasciste? Lo sai?”

Una verità che Sarah aveva già immaginato, poiché sapeva da sempre della facciata fascista del signor Gennaro per proteggere i suoi amici ebrei e i loro beni, ma era stato crudele a svelargliela in quel modo e ne rimase impietrita. “Avrei perso tutto, la casa, i soldi, il corredo e non starei qui, se non fosse stato per lui”, biascicò, con la voce spezzata dal pianto.

La rabbia che l’animava era scemata per la delusione e questa aveva ceduto il passo a una profonda tristezza che la introdusse in uno stato d’inerzia. Quel vuoto che sentiva dentro era diventato una voragine e lei sprofondò.

Alle braccia di Matteo che le si erano gettate al collo, non si ribellò né ricambiò la stretta e, alle sue parole di scusa – suono muto e indistinto alle orecchie di Sarah – intervallate da singulti, non rispose, ma le accolse, cedendovi e condannandosi.

 

“La festa appena cominciata è già finita,

il cielo non è più con noi.

Il nostro amore era l’invidia di chi è solo,

era il mio orgoglio, la tua allegria.

È stato tanto grande e ormai non sa morire.”

 

Sergio Endrigo, Canzone per te



[1]Cancelliere del Reich.

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Capitolo 41
*** Dare vita al futuro ***


Capitolo 41

 

Dare vita al futuro

 

“Poi c’era la notte. E la notte del lager è una cosa di cui non si parla mai. E la notte del lager è invece importantissima, perché si sentono le grida di quelli che vanno al gas, si sentono i richiami delle mamme che non perdono i bambini, i bambini in tutte le lingue d’Europa, dei mariti che han perso le mogli. E noi sapevamo dove andavano: era la notte.”

Liliana Segre

 


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Immagine tratta dalla miniserie televisiva “La guerra è finita”

 

Sulle ultime parole, in difesa del signor Gennaro, d’un tratto, gli occhi di Sarah avevano smesso di piangere, spalancandosi in un’espressione immota, come immobile era il suo corpo avvolto nell’abito bianco, adesso, sgualcito. Con un abbraccio, Matteo l’aveva afferrata, affinché non sprofondasse nella dimensione di vuoto che il suo sguardo rabbuiato stava contemplando e in cui lui stesso l’aveva spinta con parole crudeli e, prima ancora, al ricevimento, con il proprio atteggiamento vile.

Copiose e inarrestabili, gli sgorgavano lacrime di rimorso dagli occhi serrati e parole di scusa dalle labbra tremanti, mentre ascoltava i battiti del suo cuore non scandire più il ritmo dell’amore, attraverso un corpo che, tra le braccia, percepiva quasi cedevole, a causa del male fattole. Ferendola, si era ferito, giacché di lei ne aveva provocato l’allontanamento, più profondo di quello fisico.

“Torna da me, amore mio. Torna da me, ti prego”, la implorò tra i singulti e, lentamente, le mani di Sarah si posarono sulle sue braccia. Per riaffiorare dal buio dell’angoscia e riprendersi la speranza nel futuro, si era aggrappata all’ultimo barlume d’amore che ancora provava per Matteo e, seppur velato di malinconia, un luccichio di vita riapparve nei suoi occhi, quando lui le prese dolcemente il viso tra le mani.

E dolce parve lo sguardo che lei gli rivolse, mentre, sommessamente, rinnovava la promessa, confermando la sua condanna: “Io non ti lascerò mai.” Più che il sentimento, fu la rassegnazione a vibrare nelle sue parole, ma nessuno dei due se ne accorse e, intanto, con tremore, le braccia di Sarah si aprirono per ricevere e donare l’abbraccio. Finalmente, irreparabilmente.

 

Della guerra contro l’uomo erano stati i giovani a pagare il prezzo più alto, con il sangue versato sul campo di battaglia o sulle strade dell’insurrezione, con il loro futuro compromesso dai traumi subiti. Da lontano, Davide aveva visto le loro labbra scagliarsi l’uno contro l’altra in parole di stizza, le loro mani negarsi a gesti di vicendevole cura; li aveva visti ferirsi – a causa delle ferite inferte loro, direttamente o indirettamente, dall’odio ideologico –, lasciarsi, senza nemmeno accorgersene, ritrovarsi, forse, scoprendosi reciprocamente diversi nel mondo nuovo e sempre uguale.

La scena del loro abbraccio pregno di disperata speranza lo stava riportando laddove la sua vita si era interrotta, tra le braccia di Maria, prima che la mano nazista li separasse nel tumultuoso momento dell’arrivo ad Auschwitz. Da lì, privato del suo bene più prezioso, dopo la sua adorata figliola, sarebbe iniziata una lunga battaglia interiore contro la disumanizzazione, per restare un essere umano e, assieme al corpo da nutrire, far sopravvivere l’anima, alimentandola con i ricordi della vita precedente fatta di valori ed emozioni. Quella futura non sarebbe stata più la stessa, né per lui né per l’umanità ferita e ferente.

Guardando la sagoma della giovane coppia sullo sfondo del cielo e del mare, si era accorto che, salvatosi dalla morte, non aveva ancora ripreso in mano la sua vita, giacché il suo unico progetto per il futuro era quello di ritornare a Bologna per piangere sulla lapide di Rosa. Poco più che quarantenne, non riusciva ad abbracciare il pensiero di reinventarsi, forse, perché, nell’inferno di Auschwitz, anche lui era un po’ morto.

 

“Andiamo, amore?” All’esortazione di Matteo, pronunciata con voce e sguardo di tenerezza, Sarah incupì gli occhi e arricciò le labbra, prima di rispondergli in un tono quasi di sfida: “Io non ci torno lì.” Aveva perdonato lui, non i suoi amici e temeva che Matteo volesse far ritorno al ricevimento.

Ma lui le incorniciò di nuovo il viso tra le mani e la confortò dapprima con un sorriso, poi dicendole risoluto: “Io non intendevo di tornare a «La terrazza», ma a casa nostra.” E Sarah ribatté, sorridendo tra stupore e soddisfazione al suo inaspettato ardire, al suo voler tralasciare per lei uno schema prestabilito, gli invitati, il cambio d’abito, il taglio della torta, la distribuzione dei confetti, a ciò che per Matteo doveva essere un qualcosa di folle.

E, davanti a quel lato che sapeva non appartenergli, la giovane s’illuse che il suo sposo potesse essere sempre così.

 

Mano nella mano, li guardò allontanarsi, dimentichi della sua presenza. Una parte di sé non condivideva la loro scelta, mentre l’altra vedeva racchiusa, nell’intreccio delle loro mani e nel sincronismo dei loro passi, il coraggio di dare vita al futuro. Con la forza della giovinezza, sfidavano il passato e i suoi strascichi, resistendo a se stessi per la volontà di far resistere il sentimento di bene che provavano l’uno verso l’altra. Col tempo, forse, avrebbero imparato anche ad amarsi.

Davide udì una voce che, tremolante, lo chiamava per nome e si volse verso la sua figura tesa di mani giunte sotto il ventre a tormentarsi le dita, avvolta nell’abito di velluto color verde scuro. Nei suoi occhi marroni, c’era quel velo di sofferenza che lui ben conosceva e, nel suo sorriso appena abbozzato, la voglia di ricominciare. La ragazza spostò dietro l’orecchio i capelli castani sfuggiti dallo chignon, poi la mano tornò nella posizione iniziale.

“Hannah”, fece con un’intonazione vagamente sorpresa e non sapeva ancora che in lei fossero racchiusi la grinta che gli avrebbe fatto desiderare di riprendere l’insegnamento all’accademia musicale; i sospiri e i tormenti di un amore sbagliato per la sua morale, data la differenza d’età, che, paradossalmente, lo avrebbero fatto sentire più vivo, di nuovo uomo nella sua completezza; la vitalità che avrebbe moltiplicato i suoi anni.

“Si sono chiariti?” Hannah portò le labbra segnate dal rossetto rosso sbiadito all’interno della bocca, ma non era di Sarah e Matteo che voleva parlare.

Sentir cantare “Faccetta nera”, pur avendo ignorato l’ebro coretto per non rovinare il matrimonio alla sua cara amica, aveva suscitato in lei un impellente e disperato bisogno di raccontare, per la prima volta, nella sua interezza, il terribile vissuto a Mauthausen e di raccontarlo a Davide.

“Sembrerebbe di sì”, le rispose in un sospiro e incrociò le braccia, sorridendo lievemente al loro ridere, mentre Matteo tornava indietro per raccogliere tra i ciottoli le scarpe di Sarah.

“Davide”, lo chiamò di nuovo e con voce più tremante, intrisa di malinconia e lui le rivolse uno sguardo apprensivo. “Io sono pronta a raccontare”, disse tutto d’un fiato, temendo di poter cambiare idea e, scoprendosi l’avambraccio sinistro, gli mostrò ciò che era stata a Mauthausen.

 

“Nei campi di sterminio, Dio è morto.

Coi miti della razza, Dio è morto.

Con gli odi di partito, Dio è morto.

[…] Se Dio muore, è per tre giorni e poi risorge.

In ciò che noi crediamo, Dio è risorto.

In ciò che noi vogliamo, Dio è risorto.

Nel mondo che faremo, Dio è risorto.”

 

Nomadi, Dio è morto

 

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Capitolo 42
*** Le nude pareti del cuore ***


Capitolo 42

 

Le nude pareti del cuore

 

“Le mie parole piovvero su di te accarezzandoti.

Ho amato da tempo il tuo corpo di madreperla soleggiata.

Ti credo persino padrona dell’universo.

Ti porterò dalle montagne fiori allegri, copihues,

nocciole oscure, e ceste silvestri di baci.

Voglio fare con te

ciò che la primavera fa con i ciliegi.”

Pablo Neruda, Giochi ogni giorno

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

La chiave girò nella toppa. La mano grande di Matteo racchiudeva quella affusolata di Sarah per compierne assieme il gesto e varcare la soglia della nuova vita da marito e moglie. L’impazienza correva nelle vene di lui, l’emozione pulsava nel cuore di lei ed entrambi avevano ancora addosso l’adrenalina per esser fuggiti dal ricevimento.

Come da usanza, Matteo prese in braccio la sua sposa e, con un piede, aprì e richiuse la porta. Il pavimento in legno scricchiolava sotto i suoi passi appesantiti, seppur la giovane tra le sue braccia non fosse poi così pesante, diretti verso la camera da letto, mentre le risate di Sarah echeggiavano tra le pareti fresche, alcune ancora spoglie di una casa da ultimare che profumava dei fiori di calendula dalle sfumature gialle e arancioni posti nel vaso sul tavolo della cucina. Per terra, all’ingresso, erano già pronte le valigie per la luna di miele a Ischia, ma non avrebbero aspettato l’arrivo sull’isola per vivere la prima notte di nozze.

Sarah lasciò scivolare le mani dal collo di Matteo, mentre lui l’adagiava ai piedi del letto, ponendosi al suo fianco e poggiando il proprio peso su un lato, i propri occhi su un corpo di donna, le cui nudità ancora celate dai candidi abiti, fino a quel momento, aveva soltanto intravisto, sfiorato, immaginato. Senza più remore, le dita poterono accarezzare il pendio del suo florido seno che palpitava a ogni respiro affannoso, a ogni battito accelerato e fu bravo ad accorgersi che, dietro il silenzio delle sue risate ammutolitesi quasi all’improvviso, si nascondeva un’espressione stanca, triste. Trattenne la mano e si mise a sedere e Sarah, come lui, turbata dalla propria sensazione di malessere e disagio, lo seguì.

Si scambiarono uno sguardo interrogativo. La giovane era intimorita dal non comprendere cosa le stesse accadendo, ma, in quegli occhi un po’ persi che non riuscivano a riflettersi nei suoi, Matteo vide la paura di concedersi, riconducibile alla violenza subita, e, a sua volta, ne fu impaurito, gravato della tensione per quella che sarebbe stata la sua prima volta.

“Aiutami con la cerniera, ti prego”, fece Sarah a fior di labbra, dandogli lentamente le spalle, temporeggiando e acuendo così l’imbarazzo in Matteo il quale quasi balbettò: “Ah… Certo.”

Ma l’ansia non poté inibirlo, quando, abbassandole con accortezza la lampo del vestito, le toccò lievemente la pelle liscia e olivastra, contemplandone poi la schiena dritta e aggraziata, sulla quale non ricadevano i capelli, ancor più corti e dai riflessi color rame più accesi. Solo adesso se ne accorgeva. Capelli, onde morbide e ribelli, che tentò di spostare su un lato del collo per baciarglielo, ma non fece in tempo, giacché Sarah si volse e a lui non rimase altro che imprimerle un bacio sulla rosea bocca. Bacio che la giovane non seppe ricambiare con la stessa passione e al quale presto si sottrasse.

“Sei ubriaco”, gli disse a mo’ di rimprovero e la sua fu più una scusa per prendere altro tempo. Gli occhi lucidi, infatti, la contraddissero.

“Non ho bevuto molto”, ribatté Matteo con l’espressione di un bambino che tenta di giustificarsi per evitare il castigo, l’astinenza da lei.

“Ti preparo una bevanda calda al limone.” Seria e risoluta, Sarah fece per alzarsi, ma lui la trattenne per un braccio, moderando la forza della presa e il tono di voce, mentre le diceva: “Aspetta.” Sapeva che insistere sarebbe stato un errore e che avrebbe dovuto fare tutto il possibile per rassicurarla. “Ci penso io. Tu rilassati e mettiti a tuo agio.”

A tale premura, forse, Sarah non si sarebbe sentita in colpa, se solo avesse saputo che, in un futuro molto vicino, l’indifferenza ne avrebbe preso il posto.

Rimasta da sola e restando seduta, si sfilò il vestito, abbassandolo per le maniche e prese a grattarsi un braccio, con le spalle curve in avanti, gli occhi e la mente vaganti nel vuoto. A darle prurito non era stato il tessuto in pizzo che per tutto il giorno le aveva fasciato le braccia, bensì un senso di nervosismo scaturito dall’incomprensione del proprio turbamento.

 

Campo di Fossoli, 23 febbraio 1944

~ Il giorno dopo la partenza per Auschwitz ~

 

Con un’interiezione di dolore, Sarah ritrasse indietro le spalle e, istintivamente, tentò di allontanargli la mano, morbida e ben curata, intenta a fasciarle il braccio contuso.

“Un po’ deve stringere, altrimenti non serve a nulla.” Sentire l’inflessione apprensiva nella sua voce dall’accento tedesco le faceva sempre un certo effetto, una sensazione dolce e amara allo stesso tempo che giungeva fin sotto la pelle, dentro le ossa a lenirne il dolore e oltrepassava le nude pareti del cuore pregno di mancanze.

Diffidando che la fasciatura adoperata dal medico del campo fosse pulita, Hermann aveva preso dal suo armadietto dei medicinali delle bende nuove. Una scusa per prendersi cura di lei, il desiderio inconscio di abbandonarsi a un gesto d’amore che s’eran nascosti dietro le parole farfugliate nella sua madrelingua contro il dottore ebreo, mentre raggiungeva il bagno per rovistare tra la scorta di medicine.

“Così va meglio?” Quand’ebbe finito, sfiorando l’avambraccio, la mano scivolò lentamente sulla sua e le labbra si posarono sul suo collo. Le vibrazioni delle parole sussurrate all’orecchio, il calore dei baci umidi impressi sulla pelle le suscitarono brividi mai provati che fecero tremare di piacere la sua voce, mentre gli rispondeva in tono lascivo: “Sì… Va meglio.”

Un bacio appassionato sulla bocca, il desiderio dell’appagamento dei propri sensi, il bisogno di provare ancora, all’infinito quei brividi sulla pelle che la svuotavano dai mali presenti e alleggerivano il proprio essere spinsero Sarah a sdraiarsi, ad abbandonarsi sul letto, a lui, a se stessa. E fu più lei a guizzare dalla sottoveste che Hermann a sfilargliela.

Da esperto amatore qual era, il giovane uomo seppe ascoltare e soddisfò la sua muta richiesta d’amore, tracciandole una linea invisibile di baci lungo il corpo di forme e carnagione mediterranee. Partendo dal centro del collo, le labbra percorsero l’incavo tra i seni, scendendo sul pendio dell’addome che, assieme alle espressioni del viso, si era contratto al morbido tocco e veleggiando sul tondo ombelico, fino a raggiungere il basso ventre e poi ancora più giù.

Con gli occhi socchiusi e le labbra semiaperte in una mescolanza di gemiti e sorrisi, fino ad allora, Sarah non immaginava che una donna potesse essere amata in quel modo, ma non ebbe neanche il tempo di stupirsene che le sue mani erano già affondate nei capelli biondo grano di Hermann ad accompagnarlo nell’istinto passionale. 

 

Quasi non si scottò la bocca con la bevanda calda, troppo impaziente Matteo di unirsi alla sua sposa che, dalla cucina, stava osservando, mentre, seduta davanti allo specchio del comò, dopo aver indossato una lunga vestaglia di seta bianca dalle maniche larghe – sensuale momento che non si era fatto sfuggire –, spazzolava i capelli. Metà bevanda finì nel lavello.

Avvicinatosi, mantenendo un contegno riguardoso, le porse una mano che Sarah, visibilmente riluttante, accettò e strinse più forte, mentre da lui si lasciava adagiare sul letto. Lentamente, con dita tremanti, le sollevò l’orlo della candida sottoveste, senza neanche slacciarle la vestaglia e abbassò la cerniera dei pantaloni. L’unione dei corpi non fu armoniosa fusione di menti e cuori.

Paralizzata Sarah dalla rassegnata consapevolezza che, consumato il matrimonio, non avrebbe più potuto revocare la promessa del per sempre e dall’imbarazzo di poter mostrargli la propria esperienza, frenato Matteo da paure tra loro contrastanti di suscitarle brutti ricordi e di ridestarle vecchie emozioni, di farle male e di sembrarle poco virile, entrambi furono incapaci di esprimersi nell’intimità, come lo erano già stati in amore con le verità taciute e inascoltate.

Il cigolio del letto e gli ansiti di Matteo riempirono il silenzio nella stanza e tra di loro, mentre Sarah, a occhi chiusi, stringeva tra le mani lembi di coperta, forzandosi in sensazioni che, con lui, non arrivavano.

Se, con Hermann, aveva imparato a essere se stessa, con Matteo, imparò ben presto a fingere.

 

“Sarò il tuo contadino e tu la terra mia,

combatterò col vento che non ti porti via,

poi spargerò il mio seme nella tua verde valle

e aspetteremo insieme che venga primavera.”

 

Riccardo Cocciante, Primavera

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Capitolo 43
*** Un amore mai dimenticato ***


Capitolo 43

 

Un amore mai dimenticato

 

“L’amore, come il desiderio, è ciò che rende viva la vita.”

Massimo Recalcati

 


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Immagine dal film “La conseguenza”

 

Distesa sul fianco, dandogli le spalle, Sarah già dormiva e non la ridestò, né a lui infastidì, la musica proveniente dal Campo Vecchio. Si sentiva leggero, come non gli succedeva da tanto, troppo tempo e, con l’indice e il medio, partendo dal fondoschiena, percorse delicatamente il suo corpo nudo, indugiando su ogni segmento della colonna vertebrale, fino a raggiungere il collo e, da lì, scivolare giù veloce per ripetere lo stesso viaggio.

«Dammi una rosa da tener sul cuor, legala col filo dei tuoi capelli d’or.» Il grammofono suonava la canzone “Lili Marleen” ed Hermann ne ripeté le parole, sbagliandone ad alcune la pronuncia. «Forse domani piangerai, ma dopo tu sorriderai. A chi, Lili Marleen? A chi, Lili Marleen?» Come se fosse tornato adolescente, lo animò un desiderio di giocosità, mentre, canticchiando a bassa voce, le labbra si curvavano nel sorriso e le dita s’intrecciavano tra i lunghi capelli neri.

Sarah iniziò a stiracchiarsi sotto le lenzuola bianche e, emettendo un profondo sospiro, da lui interpretato come un gemito sensuale, si volse, mostrandogli la tenerezza di un sorriso assonnato. I suoi zigomi non erano più segnati dai lividi.

Era marzo. Fuori dal campo, alle prime carezze della primavera, gli alberi rifiorivano e, in lontananza, si poteva addirittura scorgere il color oro delle mimose. Una mattina quasi non cedette alla tentazione di raccoglierle per lei.

I treni di deportazione partivano dalle stazioni ferroviarie di tutta l’Europa diretti ai lager nazisti e molti, in Italia, eran quelli che transitavano prima per Fossoli. La Wehrmacht aveva invaso l’Ungheria, mentre le truppe sovietiche si apprestavano a liberare l’Ucraina. Presto, la guerra avrebbe preso una piega sfavorevole per i tedeschi e questo, in un primo momento, non sembrò interessargli, troppo preso dall’eccellere nel proprio ruolo di comando e dal combattere i propri sentimenti.

Da nemici, Sarah ed Hermann erano diventati amanti ed entrambi, rifiutando la possibilità di completarsi l’un l’altro al di fuori di quella stanza, facevano esperienza dell’amore che spezza, in un rapporto fatto di possesso e di allontanamenti, di tormento per le loro differenze ideologiche e di esaltante desiderio.

Il primo «ti amo» arrivò nel mese delle rose. Anch’esse non disdegnarono di sbocciare, donandosi alla vista degli abitanti di Fossoli.

Passato per caso davanti alla propria camera, Hermann si era fermato sull’uscio a guardare Sarah, mentre, dalla finestra, osservava il frenetico movimento che, sempre, contraddistingueva il campo nei giorni precedenti alla partenza di un convoglio. Da lontano, scorse di profilo la sua espressione rabbuiata e, non sapendo ancora cosa fosse l’empatia, la interpretò come paura di essere anch’ella deportata. Le si avvicinò con l’intenzione di rassicurarla e Sarah si accorse della sua presenza dietro di sé solo quando l’avvolse nell’abbraccio.

Tra le braccia, ne contenne il sussulto, poi il singhiozzo che le sciolse il nodo di lacrime e, all’orecchio, le disse: “Non permetterò a nessuno di portarti via da me. Tu sei mia.”

Le parole sembrarono non aver sortito alcun effetto, giacché lei non smise di piangere, anzi continuò più forte. Lentamente, la fece voltare, prendendola per mano e, nel movimento, l’aria intorno a loro si riempì di melanconica tenerezza.

Slancio di braccia e impeto del cuore, la strinse forte al petto e le dichiarò i propri sentimenti: “Perché ti amo.”

Il pianto si quietò. A questo, le parole erano finalizzate, si giustificò con se stesso, invano, poiché la mattina seguente una rosa rossa le lasciò sul comodino accanto al sacchetto di biscotti.

 

In primavera, quando i nuovi documenti falsi validi per l’espatrio furono pronti, i postumi della polmonite abbandonarono il suo corpo e, con essi, il conseguente umore depresso. A maggio, Hermann avrebbe ricercato il suo amore, iniziando dalla capitale italiana.

La vasta rete di amici e conoscenze di suo padre arrivava fino al Vaticano e, grazie all’aiuto di un esponente del clero cattolico anticomunista, dopo aver trovato Sarah, sarebbe partito alla volta dell’Argentina, dove già lo attendeva un lavoro come impiegato di banca e un piccolo appartamento pronto da abitare con lei.

Hermann aveva pianificato la loro nuova vita insieme, dando per scontato il consenso dell’altra parte, sicuro che, a lui, fosse ancora legata dal vincolo di un amore mai dimenticato.

 

Svegliata dal rumoroso russare di Matteo, Sarah spalancò di colpo gli occhi, indirizzandoli all’orologio sul comodino che segnava le sei e un quarto. Lui doveva essersi ritirato da poco e subito profondamente addormentato, senza neanche togliersi bene di dosso la puzza del pescato. A volte, le dava la nausea l’odore della sua pelle.

Per il primo Natale insieme, gli aveva regalato un profumo dalle note orientali dell’ambra, la cui scelta, nell’elegante boutique del corso, era stata condizionata dal risveglio dei ricordi. Un regalo che Matteo non aveva saputo apprezzare, considerandolo uno spreco di soldi e rivelando di sé un lato materialista.

Sarah si mise a sedere e, nella penombra della stanza, gli rivolse uno sguardo insofferente. Decise di lasciare il letto, prima che suonassero le campane delle sette, per iniziare una nuova giornata e, trascinandosi le pantofole bianche, raggiunse il comò. Sedette sulla poltroncina con il rivestimento in velluto rosa e, guardando allo specchio il proprio volto segnato dalla tristezza, tolse il primo bigodino.

Sempre, al risveglio, si sentiva sull’orlo delle lacrime e, di mattina, si preparava, svogliatamente, motivata soltanto dal dover presentarsi ben curata al lavoro e dal far dispetto alla famiglia di Matteo, in particolare alla suocera che criticava il suo indossare ogni domenica, per la messa e il pranzo da lei, un abito diverso. Da lui, aveva smesso di aspettarsi complimenti, ricevendo come forma di attenzione solo il biasimo per un’altra spesa inutile, superflua come l’acquisto di un cappotto nuovo, rosso.

Per colore e modello, esso era perfettamente identico a quello regalatole dai suoi genitori, lo stesso che indossava al suo arrivo a Fossoli. Vedendolo esposto nella vetrina, passando sul marciapiede opposto alla boutique, non aveva esitato ad attraversare in fretta la strada e a chiedere il prezzo alla negoziante, sospinta dal ricordo delle sensazioni provocatele dall’esser guardata con anelito da due occhi verdi. 

Almeno, Matteo non le impediva di gestire la propria paga – cosa che, invece, accadeva alla ragazza addetta al bancone dei dolci, il cui marito non le permetteva di tenere in tasca neanche una lira – e, in fondo, a lui piaceva che gli amici lo invidiassero per la sua bella ed elegante moglie.

Agli occhi della gente, il cui chiacchiericcio si era spostato su Hannah e Davide, apparivano come la coppia perfetta e nessuno poteva immaginare che, dietro quell’ostentata felicità, si nascondesse il dramma della solitudine e dell’insoddisfazione.

Un figlio tardava ad arrivare e, tra i due, a desiderarlo di più era Matteo, giacché, per Sarah, l’arrivo di un bambino – nonostante lo sognasse, fin da quando ne aveva memoria – rappresentava, adesso, la perdita della propria libertà. Non che lui si sforzasse più di tanto a farne uno, avendo imprigionato la loro vita matrimoniale in meccanismi abitudinari e costretto, dopo la prima settimana di nozze, la loro unione coniugale a un incontro prefissato per la domenica mattina. Stessa ora, stesso repertorio.

Avevano già cessato di esistere le danze al chiaro di luna attorno ai fuochi accesi in spiaggia, il loro ridere dietro lo zucchero filato alle battute di Pulcinella, le passeggiate al tramonto in riva al mare, i giri in barca, le fughe d’amore nel loro nascondiglio tra gli scogli e sapeva che, con il ritorno della stagione primaverile, ormai alle porte, non ci sarebbe stata alcuna rinascita.

Le sembrava strano ricordare come si sentisse più viva, quand’era circondata dall’ombra della morte che aleggiava sulle vite sospese degli abitanti di Fossoli, più forte, quando Hermann la teneva nel limbo del suo amore, senza la certezza di un futuro insieme.

Con dita fiacche, tolse anche l’ultimo bigodino e, continuando a fissare la propria immagine riflessa nello specchio, esplose in un pianto sommesso che Matteo, immerso nel suo sonno, non avrebbe ascoltato.

E le lacrime divennero quasi preghiera, mentre si domandava se le anime avessero orecchi.

 

“E chi ama canta

tra le voci della vita.

L’acqua che si incontra col suo scialacquio.

Oppure è meglio non cantare,

muti se non è d’amore

e qualcuno deve farlo.

E sono io che ti canterò

e come in fuga nel tuo cuore andrò.”

 

Amedeo Minghi, Cantare è d’amore

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Capitolo 44
*** Sinfonia d’amore ***


Capitolo 44

 

Sinfonia d’amore

 

“Abbi pazienza, mia donna affaticata,

abbi pazienza per le cose del mondo,

per i tuoi compagni di viaggio, me compreso,

dal momento che ti sono toccato in sorte.

[…] Abbi pazienza, mia donna impaziente,

tu macinata, macerata, scorticata,

che tu stessa ti scortichi un poco ogni giorno

perché la carne nuda ti faccia più male.

Non è più tempo di vivere soli.”

Primo Levi, 12 luglio 1980

(da Ad ora incerta, l’opera poetica dedicata alla moglie Lucia Morpurgo)

 


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Immagine dal film “Il pianista”

 

Napoli, marzo 1947

 

A tarda sera, quando ormai anche l’ultimo cliente del Gran Cafè se n’era andato, le dita di Davide continuavano ad accarezzare i tasti del pianoforte a coda laccato in mogano, eseguendo una sua composizione. L’armoniosa melodia non quietava il frastuono dei suoi pensieri.

Amava Hannah che, per la giovane età, avrebbe potuto essergli figlia e, in una sera come quella, nel silenzio della sala vuota, l’aveva baciata, mentre guidava la sua mano nella Sonata No. 16 di Mozart. Seduti sulla panchetta, i loro corpi eran troppo vicini, i loro cuori irrimediabilmente legati dal passato.

Lei gli aveva raccontato ogni cosa, finanche di quanto fosse grata a se stessa per aver ceduto alle dolcezze dell’amore con il fidanzatino perduto in guerra, prima che, a Mauthausen, accettando la proposta di una Kapò, finisse nel postribolo frequentato dai Funktionshäftlinge[1], sotto la falsa identità di una studentessa tedesca antinazista. Lui, invece, le aveva omesso la vera causa della morte di sua figlia, accennando soltanto a una grave colpa che pesava sulle sue spalle.

Lo sviluppo struggente della melodia lo condusse adagio verso le note dell’Ave Maria di Schubert che iniziò anche a cantare.

Si sentiva in pace con la sua defunta moglie, interpretando come un segno l’essersi ritrovato a Napoli e, quindi, l’aver conosciuto Hannah per mantener fede a una promessa da lei fatta a Sarah. Non era il senso di colpa che, giustamente, avrebbe potuto provare verso Maria e neanche l’imbarazzo per l’enorme differenza d’età con la donna che amava a impedirgli di ricominciare una nuova vita, ma l’incapacità, ovvero la mancata volontà, di perdonare se stesso per aver acconsentito all’eutanasia della sua adorata figliola.

Il calore della voce baritonale, la passione nelle note perfette stringevano il cuore delle due ragazze, fermatesi dietro un pilastro della sala interna ad ascoltarlo.

“Tu sai cosa lo tormenta, non è vero?” La voce di Hannah era rotta dalla commozione e dal patimento d’amore, mentre gli occhi di entrambe contemplavano la bellezza da lui emanata.

“Credo di sì”, rispose Sarah e sospirò, “ma dev’essere lui a raccontartelo.” Nelle parole dense di malinconia per la sofferenza provata dall’amica, vibrava una sorta d’invidia originata dal senso di fallimento per la sua vita matrimoniale.

Destinataria lei stessa della sensibilità di Davide e testimone, a Fossoli, della delicatezza nel modo di rapportarsi alla moglie, Sarah sapeva che, una volta riappacificatosi con il passato, questi avrebbe accolto Hannah, donandole la più bella storia d’amore.

Li lasciò soli e, recatasi nel reparto caffetteria, si rattristì, all’udire il signor Gennaro che commentava l’egregia esecuzione musicale con il giovane addetto al bancone e intento a ripulirlo. “Quell’uomo è sprecato qui”, disse rammaricato, seppur conscio di quanto la presenza di Davide avesse alzato di livello la clientela del Gran Cafè.

Sarah era consapevole che, prima o poi, gli eventi della vita l’avrebbero costretta a un nuovo addio, a separarsi nuovamente dai suoi affetti, da un padre, da una sorella e, con Matteo, non avrebbe potuto nemmeno sfogare il suo dolore, dato che lui non li vedeva di buon occhio.

Sulle ultime note dell’Ave Maria, le luci della caffetteria e del laboratorio di pasticceria si spensero. Il suono dei passi che Davide aveva udito alle sue spalle divenne presenza al suo fianco.

Le fece spazio sulla panchetta e, non appena fu seduta, senza tentennamenti, prendendole le mani tra le sue, le disse: “Hannah, tempo fa ti ho accennato di un peccato che mi tormenta.” La sua voce era velata per lo sforzo fatto nel cantare e l’emozione, i loro occhi erano già pozzanghere d’acqua, i loro sguardi come fiumi che si riversano l’uno nell’altro. “Adesso anch’io sono pronto a raccontare.”

Nella comprensione di Hannah, trovò il perdono di sé. Le sue lacrime furono asciugate dai baci di due labbra acerbe e dalle carezze sul viso di polpastrelli di seta. Sul cuore della giovane donna che, alla sua tragica confessione, aveva reagito con la maturità di chi la vita ha costretto a crescere in fretta, Davide poggiò il capo in una dolce tregua, prima che la tenerezza sfociasse in passione. Al loro toccarsi, il fianco di Hannah sfiorò il pianoforte, lasciando sfuggire una nota stonata che fece da apertura all’armoniosa sinfonia d’amore di gemiti e sospiri.

Nonostante la liberazione del cuore e l’appagamento dei sensi, quella notte fu portatrice di un nuovo tormento. Nel suo continuo girare e rigirare la testa sul cuscino, Davide si chiedeva cosa lo differenziasse dagli uomini che entravano nei Sonderbauten[2] per sentirsi vivi, persone e, sebbene fosse stato l’amore a guidare il loro atto carnale, provava un senso di colpa verso Hannah, come se di lei avesse reciso il fiore dell’innocenza.

Una fitta pioggia iniziò a battere sulle finestre. Era il cielo che piangeva al posto suo. Al boato di un tuono, sobbalzò dal letto e si rivestì in fretta. Era pronto a ricominciare con Hannah la sua nuova vita.

Fradicio di pioggia, bussò alla porta della donna che amava. Il paese addormentato non poté vedere la sua corsa né udire il ritmo forsennato dei suoi passi e del suo respiro che, alla vista di Hannah vestita di seta e di stupore, parve fermarsi, come il cuore che sembrò perdere un battito. E, al cuore, motore della vita, assoggettò i movimenti del suo corpo, prendendole le mani e piegandosi su entrambe le ginocchia.

“Hannah, vuoi essere mia moglie?” La proposta di Davide non fu accompagnata dal luccichio di un anello, ma dal sigillo eterno di un bacio posato sul dito anulare sinistro con labbra bagnate di lacrime e brina.

 

“Sì, io ti prendo così,

tu sei chi mi dà pace,

nella pace che è qui.

Sì, io ti prendo così,

tu sei chi mi dà il cielo,

sotto il cielo di qui.

Sì, io ti dico di sì.”

 

Claudio Baglioni, Io ti prendo come mia sposa (2009)

 

***

 

Il tuono la ridestò, rimbombando come una delle tante bombe che furono sganciate sul campo di Fossoli tra l’agosto e il novembre del ’44, provocandone la chiusura e il trasferimento a Gonzaga.

Come allora, con il cuore in gola e gli occhi dilatati nel buio della stanza, Sarah sedette di scatto sul letto e, allungando una mano al suo fianco, ricercò la presenza di Hermann.

Impiegò pochi secondi per tornare nella realtà presente, ma, ancora trafelata dallo spavento provato, non la sfiorò il pensiero di suo marito, sorpreso in mare dall’improvvisa tempesta.

 



[1]“Detenuti-funzionari”, prigionieri di fiducia, come i Kapò, ai quali veniva affidata la sorveglianza degli altri internati e che godevano di diritti speciali.

[2]“Edifici speciali”, bordelli nei campi di concentramento.

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Capitolo 45
*** In una normale, monotona e sonnolenta domenica pomeriggio ***



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Nella foto, come immagino Hermann e Sarah nel 1947.

L’immagine è tratta dal film “La conseguenza”.

 

Capitolo 45

 

In una normale, monotona e sonnolenta domenica pomeriggio

 

“Se tu sapessi com’è terribile raggiungere tutta la conoscenza all’improvviso – come se un lampo illuminasse la terra! Ora vivo in un pianeta di dolore, trasparente come il ghiaccio. È come se avessi imparato tutto in una volta, in pochi secondi. Le mie amiche, le mie compagne si sono fatte donne lentamente. Io sono diventata vecchia in pochi istanti e ora tutto è insipido e piatto.”

Frida

 

All’inizio del mese di maggio, Hannah e Davide avrebbero convolato a nozze secondo il rito cattolico nella Chiesa della Beata Vergine del Carmelo. A causa della vedovanza di lui e dello scandalo che la loro notevole differenza d’età aveva suscitato nel paese, la cerimonia si sarebbe svolta in forma strettamente privata, alla presenza di pochissimi intimi, ovvero il signor Gennaro e la moglie che avrebbero fatto da testimoni e, ovviamente, Sarah e Matteo.

La sposa avrebbe vestito di bianco, con un abito semplice e romantico, scelto insieme alla sua amica e alla signora Carmela, senza strascico e con una coroncina di fiori tra i capelli a reggere il velo donatole da Sarah, lo stesso che aveva indossato al suo matrimonio.

Dopo il rito, non ci sarebbe stato alcun banchetto né viaggio di nozze, ma d’altronde di ogni giorno insieme Davide e Hannah avrebbero fatto una festa nel reciproco rendersi felici e, solo in seguito, sarebbero partiti per concretizzare il loro progetto di vita e non più tornare indietro. Una partenza che, quando fu il momento, Davide decise di rimandare, pensando di poter scongiurare le disastrose conseguenze del ritorno inaspettato di colui che era stato suo nemico e che, a Fossoli, gli aveva dato un’anticipazione della crudeltà nazista.

Solo dinanzi all’irreparabile tragedia, Davide si arrese e partì con il cuore gonfio di dolore e quello di Hannah da sorreggere.

A settembre, Davide avrebbe fatto ritorno a Bologna, dove, in seguito alla sua domanda, gli era stata nuovamente conferita la cattedra all’accademia musicale, mentre Hannah sarebbe tornata tra i banchi di scuola per riprendere gli studi liceali interrotti a causa delle leggi razziali. Era stato lui a convincerla, lasciando primeggiare il suo lato paterno.

Seppur fossero due lavori dignitosi e loro immensamente grati al buon Gennaro, Davide non avrebbe più fatto da intrattenitore musicale in una sala da tè né lei sarebbe rimasta per sempre una cameriera.

Giacché le voleva un bene dell’anima, il sentimento d’invidia che si era annidato nel cuore di Sarah non sfociava in rabbia verso la sua amica, bensì in un senso di tristezza per la mancata realizzazione di sé e, a volte, come luttuosa cantilena, le tornavano alla mente le ultime parole rivoltele da don Franco. Non gli aveva dato ascolto, né allora né mai e, lasciando morire i sogni di bambina e sotterrando i suoi talenti, sentiva di esser diventata ciò che non era, ovvero una persona inasprita, incapace di gioire della gioia di un’amica.

Il rifiuto di Matteo a partecipare al matrimonio non l’aiutava a vivere il suo coinvolgimento nei preparativi e l’attesa del gran giorno pacificata con se stessa.

Fu in una normale, monotona e sonnolenta domenica pomeriggio, dopo il pranzo, durante la partita a briscola con suo padre e il compare, che lui diede alla famiglia la notizia dell’invito ricevuto, mentre Sarah, vestita di rosa, sedeva in terra a giocare con la cognata più piccola.

“E vui ca’ facite? Ce jate?[1]” Pur non sapendo parlare il dialetto, Sarah comprese perfettamente la domanda proferita dal compare con un’intonazione allarmata e, lasciando la bambola di pezza, rivolse accigliata lo sguardo verso suo marito e l’attenzione a ciò che avrebbe risposto.

“Certo che no”, rispose Matteo, in maniera seria e senza distogliere lo sguardo dalle carte, ed esultò per aver vinto il giro.

All’improvviso grido di vittoria, Sarah sobbalzò, mentre gli occhi le si empivano di lacrime per la sconfitta di una guerra che era stanca di combattere.

Facite buon[2]”, intervenne quasi prepotentemente donna Filomena, con la sua stazza robusta, sempre fiera nel suo ruolo di massaia e, portando a tavola il caffè, proseguì in italiano, affinché la nuora potesse capire bene: “Non potete essere complici di un matrimonio disonorevole.”

Sarah immaginava dove sarebbe andato a finire il discorso.

“Ci sono tante vedove di guerra della sua età e lui si risposa proprio con una ragazzina?” Anche la moglie del compare s’intromise, infierendo sui futuri sposi e ferendo Sarah che, seppur inerme, dentro ribolliva. “Avranno almeno vent’anni di differenza. Potrebbe essere suo padre.”

“Di certo, lei non è una bambina e ha guardato ai propri interessi”, riprese la madre di Matteo, incalzando con le sue calunnie. “Prima della guerra, lui faceva il professore e scriveva musica. Era una persona importante e, quando le cose si sistemeranno…” Lasciò il discorso in sospeso e, strofinando pollice e indice, alluse a un interesse economico.

“A iss ’o teng proprij ngann[3]”, affermò il compare, inalberatosi e continuando a giocare. “Ha visto la ragazza sola, senza famiglia e se n’è approfittato”, si concesse una pausa, per meglio lasciar scivolare quella goccia capace di far traboccare l’intero vaso, “come stava per fare con Sarah.”

Sarah non riuscì più a trattenersi e scattò in piedi, pronunciando a voce alta il nome di suo marito con un tono di rimprovero. Su di lei, fu indirizzata un’attenzione fatta più di sguardi irritati che stupiti e, intimorita dal sentirsi tutti contro, trattenne nelle mani chiuse a pugno le parole che avrebbe voluto urlare in difesa dei suoi amici.

Come laghi d’inverno, le lacrime si ghiacciarono nei suoi occhi, poi scintille infuocate divennero le sue pupille di miele verso colui che, ancora una volta, fu cieco al suo dolore, ma riuscì soltanto a dirgli: “Io torno a casa.” Seppur pervasa dall’ira, la sua voce fuoriuscì fioca e tremolante e lui ne fu sordo.

“Finisco questa partita e andiamo via”, ribatté, serenamente concentrato sulle carte, aizzando il fuoco dentro di lei, la quale riprese più decisa: “No, Matteo, io vado via adesso.”

Afferrò dallo schienale della sedia la sua giacchettina color panna, mentre si riappropriava del suo spirito combattivo. Senza salutare nessuno, si diresse verso la porta d’ingresso e, prima che potesse sbatterla alle sue spalle, per Matteo iniziò già una paternale.

“La lasci andare via così?” Sua madre fu la prima a intromettersi, seguita dalla moglie del compare che, però, sdrammatizzò: “Non si capisce più niente, Filumè.”

Pecché nun ’a vai a piglià? È mugliereta, t’adda rispettà[4]”, fece suo padre e il compare non poté che ribadire: “Se non ti rispetta, ca’ omm sì?[5]

Con sguardo fisso e duro, Matteo si alzò e la sedia stridette sul pavimento contemporaneamente allo sbattere della porta. Uscì di casa, a larghe falcate, portando con sé insicurezze e frustrazioni e, con la rabbia da esse scaturita, fermò l’incedere di sua moglie, prendendola per un braccio.

“Devi smetterla di farmi vergognare”, ringhiò, strattonandola verso di sé, “hai capito?”

Fremente di risentimento, Sarah non si sorprese neanche dell’inaspettata violenza, ma ad essa si ribellò, divincolandosi e urlando un perentorio «lasciami», per poi riaffermare decisamente: “Io torno a casa.”

“Tu torni dentro con me”, insisté lui a mo’ di comando, con più forza e un altro strattone.

“No!” Al diniego di Sarah, la sua mano si mosse in fretta, scagliandole un potente schiaffo che l’ammutolì, dapprima per il dolore, poi per lo stupore e la delusione.

Era quello l’uomo che, in realtà, aveva sposato e lei più non era la ragazza di un tempo, quella che, nel luglio del ’44, fu capace di tener testa al comandante di Fossoli.

 

“Forse è vero

mi sono un po’ addolcita,

la vita mi ha smussato gli angoli,

mi ha tolto qualche asperità.

Il tempo ha cucito qualche ferita

e forse tolto anche ai miei muscoli

un po’ di elasticità.

Ma non sottovalutare la mia voglia di lottare,

perché è rimasta uguale.

Non sottovalutare di me niente,

sono comunque sempre una combattente.”

 

Fiorella Mannoia, Combattente

 



[1]E voi che fate? Ci andate?

[2]Fate bene.

[3]A lui lo tengo proprio in gola (non lo sopporto).

[4]Perché non vai a prenderla? È tua moglie, ti deve rispettare.

[5]Che uomo sei?

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Capitolo 46
*** La strage degli innocenti (Prima parte) ***



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Capitolo 46

 

La strage degli innocenti

 

Prima parte

 

- Quando l’alba si tinse di rosso -

 

“Carissimi genitori la presente è per comunicarvi che sto bene come spero di voi tutti. Domattina partirò da Fossoli la destinazione che vado non ne sono ancora a conoscenza. Non appena arrivo a destinazione non mancherò di darvi mie notizie, in tutti i modi non fatevi pensiero che sto molto bene, e spero sempre di rivedervi tutti nella nostra cara casa.”

Dall’ultima lettera di Felice Lacerra, la vittima più giovane dell’Eccidio di Cibeno.

 

Campo di Fossoli, 11 luglio 1944

~ Un giorno all’Eccidio di Cibeno ~

 

“Sta forse discutendo gli ordini, tenente Von Wildenberg?” Dall’altra parte del telefono, l’insinuazione dell’SS-Hauptsturmführer riecheggiò come un suono metallico e distante.

Nella mano sinistra, Hermann stringeva la cornetta, mentre, con l’indice e il medio dell’altra, allentava il colletto della camicia, bisognoso d’aria e temporeggiando, alla ricerca di parole che non lo compromettessero.

“No, signore”, rispose in tono riverente ma deciso, “mi domandavo soltanto quale fosse il vero motivo, dato che l’attentato di Genova è già stato vendicato.”

La brillantina trasudava dall’attaccatura dei capelli, facendo luccicare sulla fronte cerea piccole gocce di sudore, una delle quali scivolò lungo la guancia e la colpa non era da imputare unicamente al caldo che arroventava l’ufficio e la divisa.

“Inoltre, signore, credo che ci sia un errore, perché nella lista dei prigionieri condannati c’è anche un minore di sedici anni”, aggiunse Hermann che, pur udendo il suo interlocutore sbuffare in tono spazientito, temeva più la reazione di Sarah che un provvedimento disciplinare.

“Nessun errore, tenente. Esegua gli ordini senza farsi tante domande né scrupoli.” Poi il capitano diede alla sua voce un’inflessione meno severa, mentre gli diceva: “Tra i giovani ufficiali delle Schutzstaffel, lei è uno dei migliori. Farò finta che questa conversazione non sia mai avvenuta.”

All’alba dell’indomani, Hermann avrebbe dovuto guidare il plotone di esecuzione di settanta internati politici e, presso il poligono di tiro di Cibeno, venti prigionieri ebrei ne stavano scavando già la fossa.

 

Danke, Hauptsturmführer.” Alle orecchie di Sarah, la voce di Hermann parve stanca e rassegnata, come, del resto, la sua espressione che poté scorgere attraverso la porta socchiusa dell’ufficio. Il suo profilo era madido di sudore, mentre parlava al telefono in piedi, vicino alla scrivania.

Ipotizzò che avesse appena ricevuto notizie riguardanti l’avanzata nel centro-nord degli Alleati che già, il 4 giugno, avevano liberato Roma, la capitale, la sua patria.

Alla bella notizia, Sarah, pur se una parte di sé desiderasse ardentemente la sconfitta dei tedeschi nella mera speranza di ritrovare i propri cari, non era riuscita a unirsi ai silenziosi festeggiamenti e agli abbracci commossi dei suoi compatrioti, come lei prigionieri a Fossoli, ma aveva ricercato il conforto tra le braccia di Hermann, conscia che, con l’avanzare delle truppe di liberazione, si faceva sempre più vicina la possibilità di perderlo.

«Il Großdeutsches Reich non si arrenderà mai», le aveva detto sicuro e orgoglioso, sebbene gli occhi ne svelassero la preoccupazione, ma non era questa la risposta che Sarah si aspettava, avendo lui intrecciato le dita alle sue con disperata tenerezza.

 

Heil Hitler.” Hermann salutò, senza neanche sforzarsi nel consueto dinamismo, per poi riagganciare il telefono e volgere lo sguardo alla porta, sentendovi bussare. Di Sarah aveva già scorto l’ombra di corpo sinuoso nella divisa da cameriera, di braccia leggermente protese in avanti a reggere il vassoio.

“Avanti.” Al suo permesso a entrare – pronunciato in italiano, sapendo già che fosse lei –, Sarah aprì la porta con la spalla, avendo le mani occupate dal vassoio e, mentre ne contemplava il lento movimento trasudante fascino, per un momento, sentì di odiarla, ritenendola colpevole della sua perplessità per gli ordini ricevuti.

La guardò poggiare il vassoio con il bicchiere di limonata sulla scrivania nella silenziosa austerità imposta loro dai ruoli che ricoprivano, fin quando non giungesse la sera per tornare a essere soltanto un uomo e una donna. Intreccio di corpi, groviglio di emozioni.

Con un fazzoletto, tirato fuori da una tasca interna della giacca dell’uniforme sbottonata, Hermann si asciugò la fronte imperlata di sudore e, spostando lo sguardo su un punto indefinito della scrivania, invano si sforzò di parlarle con la tracotanza di chi comanda. “Domattina, all’alba, settanta internati politici partiranno per la Germania”, le mentì con le stesse parole che, di lì a poco, avrebbe destinato ai condannati, “e andranno in un campo di lavoro.”

Si piegò leggermente per afferrare il pacchetto di sigarette poggiato sulla scrivania, prima che i loro occhi potessero incrociarsi, rivelando l’inquietudine dell’uno e lo sconforto dell’altra, poi aggiunse: “Dovrò alzarmi presto e preferirei che non venissi da me stasera.”

A tale richiesta, Sarah si stupì, giacché mai, né prima né dopo un trasferimento di prigionieri, Hermann si era sottratto a trascorrere la notte con lei, seppur, non sempre, data la stanchezza di entrambi, sfociasse nell’amplesso e, dietro la nuvola di fumo della sigaretta, non fece in tempo a intercettare il suo sguardo per accertarne la sincerità. Con passo greve e svelto e il consueto saluto nazista, entrò nell’ufficio il sergente maggiore e lei, distolti di scatto gli occhi dal suo amato e accennandogli un inchino, afferrò il vassoio e uscì in fretta.

 

Una notte di ansietà, fra insonnia e sudore, precedette l’alba che si tinse di rosso, del sangue degli innocenti. Sotto il manto scuro del cielo notturno, uno dei settanta condannati trovò la salvezza, altri due fuggirono verso l’orizzonte dei campi, ma non prima di aizzare una rivolta al poligono di tiro. Hermann sapeva che non sarebbe stato facile.

Calce viva fu cosparsa sui sessantasette fucilati, mentre in lui, oltre la rabbia per l’imprevista ribellione che aveva dovuto sedare e l’irrequietezza per l’ulteriore mole di lavoro che ne sarebbe conseguita, covava il cruccio per l’esecuzione di quell’ordine errato, ingiusto.

Portò il pollice e l’indice sul labbro inferiore spaccato da un pugno. Anche della mancanza di prontezza nei riflessi attribuì la colpa a Sarah e, intanto, nel silenzio imposto ai venti prigionieri ebrei, ripose la speranza, affinché nessuna voce arrivasse al campo a farle conoscere la verità.

 

Buio si fece il mattino e, per lei, crepuscolo dell’amore, quando a Fossoli risuonò sommessamente l’annuncio della strage di uomini innocenti.

Uscendo, un brusio inquieto di persone riunite davanti alla baracca di fronte alla sua la indusse a fermarsi stupita e preoccupata e vide un uomo tappare la bocca a una donna per impedirle di urlare. Era il grido di madri, mogli, sorelle, figlie a cui erano stati strappati figli, mariti, fratelli, padri.

Dibattendosi, la donna fu trascinata nella baracca e non bastò la forza di un solo uomo.

“Li hanno ammazzati tutti, ma state zitti, per carità.” La voce flebile e tremolante passò di bocca in bocca, fino a raggiungere Sarah.

Con lacrime silenziose, si unì al dolore della sua gente e non poté che provare odio verso colui che ne era stato il responsabile.

 

“E non riesco più a sorprendermi.

E la pazzia che danza intorno a me.

E penso che dovrei difendermi,

ma è più difficile combattere,

se il pianto di una madre no,

non può salvare la notte.”

 

Nomadi, Dove si va

 

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Capitolo 47
*** Il fantasma dell’altro ***


Capitolo 47

 

Il fantasma dell’altro

 

“Anche se addormentata, il mio costante volgermi è ricco di rivelazioni, il mio largo stupore è maturante un attacco improvviso di perfetti ignorati strumenti, la mia voce prepara i toni della profezia, il mio corpo ogni grado di scintilla vitale, le mie labbra la parola finale cui converge il brivido del sangue.”

Alda Merini, Anche se addormentata

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Napoli, 20 aprile 1947

 

Sul volto di Matteo, non c’era alcun segno di pentimento e, nei suoi occhi, restava immoto un lampo astioso.

L’insistente rifiuto di Sarah a rientrare in casa dei suoi genitori non era stato la causa scatenante dello schiaffo – forte, quasi da dolergli la mano –, ma soltanto la scintilla che aveva fatto esplodere la sua rabbia repressa. Eppure, neanche allora lasciò che il muro di parole non dette, di spiegazioni non reclamate crollasse.

A ferirlo nell’orgoglio di uomo non era certamente la disubbidienza di sua moglie, in quanto, di lei, lo aveva fatto innamorare il carattere indomito che, dopo il matrimonio e fino a quel momento, s’era però assopito dietro l’ombra di un perenne broncio di tristezza e insoddisfazione.

Era cambiata Sarah, divenendo quasi apatica, soprattutto nell’intimità, trasformandosi in una donna completamente diversa dalla ragazza dolce e passionale che aveva conosciuto nel loro nascondiglio tra gli scogli. Distesa immobile sul letto, neanche le mani levava nel gesto di una carezza o per stringersi a lui e, a volte, era come se fingesse.

Della sua demotivazione nell’atto coniugale, all’inizio, aveva attribuito la colpa al trauma per la violenza subita a Fossoli, almeno fin quando Sarah non iniziò a parlare nel sonno e, tra mormorii incomprensibili, proferire languidamente il fastidioso nome di quel nazista.

Il dubbio che fra sua moglie e quell’essere degenere si fosse instaurato un legame sentimentale riapparve più prepotentemente, tanto che, stavolta, non finì nel dimenticatoio ma nell’oblio di un latente delirio che lo indusse a nascondere le sue paure dietro un ragionamento sconclusionato. Il fantasma che agitava le notti di Sarah era colpevole della loro incapacità a procreare, avendo di lei, quand’erano a Fossoli, avvelenato il grembo col suo seme malevolo e rendendolo a lui un’impenetrabile terra.

All’insaputa di sua moglie, fece addirittura entrare in casa uno scaccia malasorte armato di incenso e cornetti rossi e farneticante una litania di scongiuro, mettendo in imbarazzo se stesso, dato che, a differenza della sua famiglia, Matteo neanche credeva nella scaramanzia. Fu solo una coincidenza se il rito sortì l’effetto desiderato e la presenza dell’altro smise di intrufolarsi nel loro letto, giacché le labbra dormienti, perciò inconsapevoli, di Sarah non ne pronunziarono più il nome – almeno momentaneamente.

In quello schiaffo, gesto esprimente il contrario dell’amore e generante umiliazione, aveva in realtà sfogato il suo sentirsi non amato e apprezzato, ma non una lacrima vide solcarle il viso impallidito, poi arrossato dal colpo ricevuto e dalla rabbia che ne era conseguita.

Gli porse l’altra guancia e, guardandolo di sottecchi, ostentando la sua fierezza, dischiuse le labbra in parole di sfida: “Dammene un altro. Più forte. Così dentro sentiranno quanto sei uomo.” Nella voce e nel portamento, era un tremore di foglia agitata dal vento di una dura e inimmaginabile realtà.

A tale provocazione, Matteo reagì con un gesto che, nelle notti inquiete di sua moglie, aveva inconsciamente desiderato e represso. Le tappò la bocca con una mano e premette forte per ridurla al silenzio, mentre con l’altra continuava a strattonarla, intimandole: “Zitta, devi stare zitta.”

Neanche questo si aspettava Sarah e quasi le mancò il respiro, ma fu sua volontà lasciar soffocare la parte di sé battagliera.

“Ora torniamo dentro, aspetti che finisco la partita e ti stai zitta”, incalzò e, liberata dal bavaglio di pelle ruvida e callosa, gli permise di spintonarla verso la porta.

Rientrando in casa, preceduta da Matteo, spossata nell’anima e nel corpo, nessuno s’interessò a lei, noncuranti del suo incedere barcollante a testa china, dei suoi capelli spettinati che lasciavano intravedere sul viso le impronte rosseggianti – che l’indomani si sarebbero tramutate in lividi visibili agli occhi di chi le voleva bene, nonostante lo spesso strato di cerone –, ma non si stupì, giacché erano stati loro a metterglielo contro. Soltanto provava amarezza e disagio nel sentirsi accusata, sbagliata, umiliata, degradata, come un riverberarsi di sensazioni già vissute ai tempi della persecuzione antisemita.

Con espressione cupa e respiro accelerato dalla rabbia, Matteo tornò alla sua postazione e alle sue carte, attorniato da padre e compare, mentre lei, lentamente, prendeva posto in mezzo alle donne. Il silenzio creatosi nella stanza sembrava riflettere un certo imbarazzo per il comportamento forse inaspettato del giovane che l’aveva ridotta in quello stato. Finanche la sua cognata più piccola, lasciata da sola in terra a giocare, aveva smesso di far parlare fra loro le bambole.

Per stemperare la tensione e distrarsi dal dolore sempre più pungente al viso, Sarah iniziò ad appallottolare la giacchetta color panna che teneva sul grembo fasciato dal vestito rosa e, pian piano, rivide le sue mani che stringevano un lembo del grembiule bianco sul fondo nero della divisa da cameriera.

Nel vuoto del suo sguardo, riprese forma l’immagine di Hermann in uniforme, con le mani giunte dietro la schiena un po’ ricurva, di spalle rispetto a lei che sedeva sul letto in preda a un rancore intrattenibile. Attraverso lo specchio del comò, guardava le sue labbra carnose spaccate dalla mano di chi, all’alba, si era aggrappato con forza alla vita e i suoi occhi verdi socchiusi in un’espressione arcigna.

 

Berlino

 

“… Sette, otto, nove, dieci.” Con il viso contratto per lo sforzo, Hermann teneva il conto delle flessioni in italiano.

Esercitava la sua pronuncia, per meglio poter passare inosservato al suo ritorno in terra italica, intanto che tentava di restituire al corpo, reduce da prigionia e malattia, il vigore di un tempo, perché lei lo riconoscesse, allenandosi con la ferrea tenacia di chi si prepara alla battaglia.

 

“Magari un giorno l’universo accoglierà la mia richiesta

e ci riporterà vicini.

Tra l’aldilà e il mio nido di città c’è molta differenza

anche se provo a non vederla.

E giro il mondo e chiamerò il tuo nome per millenni

e ti rivelerai quando non lo vorrò più.”

 

Tiziano Ferro, Per dirti ciao!

 

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Capitolo 48
*** La strage degli innocenti (Seconda parte) ***



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Capitolo 48

 

La strage degli innocenti

 

Seconda parte

 

- Quando l’amore gli smussò le asperità -

 

“Un giorno troverò qualcuno che ama

le parti più impresentabili di me,

i miei arcobaleni spezzati,

i lupi feroci che accudisco nel grembo,

i mostri a cui canto la ninna nanna,

le fantasie che non oso confessare

neppure a me stesso.

E quel giorno forse troverò la pace.”

Fabrizio Caramagna, Se mi guardi esisto

 

Campo di Fossoli, 12 luglio 1944

~ Giorno dell’Eccidio di Cibeno ~

 

Di sottecchi, attraverso lo specchio del comò, Hermann la guardava appallottolare nervosamente il grembiule bianco che teneva ancora indosso.

Il silenzio che, con minacce, era stato imposto ai venti prigionieri ebrei – i quali avevano scavato e ricoperto la fossa comune – gli impediva di credere che la ragione del malessere di Sarah fosse l’esecuzione dei sessantasette internati politici.

Stanco per la dura giornata di lavoro e agitato da quel che non sapeva ancora essere il tarlo del rimorso, rifiutò di perdersi in congetture e, ignorando i suoi occhi gonfi dal pianto e il respiro affannoso che le faceva palpitare visibilmente il petto, iniziò a spogliarsi, partendo dalla giacca. Era preoccupato per lei, ma di più gli premeva lasciarsi alle spalle quella brutta giornata mediante l’appagamento dei desideri carnali.

Egocentrico qual era, mentre sbottonava la camicia, volle ipotizzare che proprio l’essersi negato la sera precedente fosse la causa dello scontroso silenzio di Sarah – la quale neanche gli aveva chiesto il perché di quel labbro spaccato – e pensò a quanto sarebbe stato facile farsi perdonare.

Quando si volse con la camicia aperta sul torso nudo, muscoloso e i pantaloni slacciati a lasciar trasparire la zona pelvica, il suo aspetto aitante non sortì alcun effetto su di lei che, soltanto, provava rabbia e disgusto per la sua strafottenza, domandandosi come facesse a comportarsi come se nulla fosse accaduto. Certamente, non si aspettava di ritrovarlo tra i rimorsi della coscienza, ma quantomeno scosso per aver fatto uccidere degli esseri umani e gli rivolse uno sguardo dardeggiante.

Avvicinatosi, Hermann la chiamò per nome con tono rassicurante e protese le mani per carezzarla e lenire il suo malanimo. Una parte di sé ne aveva già riconosciuto la vera causa scatenante.

“Non mi toccare”, gli disse furente, scansandosi e mettendo i palmi in avanti. “Come puoi far finta di niente?”

Il silenzio diede voce allo stupore per l’inaspettata reazione. Poi, di nuovo, tentò invano un contatto fisico e, stavolta, non fece neanche in tempo a pronunciare il suo nome, zittito dal perentorio diniego: “No, Hermann!”

“Dopo il crimine che hai commesso”, riprese Sarah con maggior sdegno e la voce le s’incrinò nel trattenere le lacrime, mentre diceva: “Erano innocenti. Perché li hai uccisi?”

Lei conosceva la verità. Rimase spiazzato e, per la prima volta nella vita, non sapendo come comportarsi, tergiversò, riassumendo la tracotanza del comandante. “Chi te l’ha detto?”

“Neanche sotto tortura te lo direi”, rispose così solo per provocarlo, giacché, offuscata dalla nebbia del dolore, non si era prodigata nel vedere a chi appartenesse la voce udita al mattino, divulgatrice della straziante notizia.

“Io ho solo eseguito gli ordini”, si giustificò Hermann, ignorando la sua provocazione e senza mostrare alcun segno di cedimento nella voce e nello sguardo.

Gli occhi di Sarah, invece, si persero nel vuoto, mentre, come in un lamento, sussurrava: “Sessantasette vite umane. Persino un ragazzino di sedici anni. Come si può?”

Lei sembrava sconvolta dall’amarezza. Ancora una volta, provò a rassicurarla, sfiorando con la punta delle dita la nudità delle sue braccia e il suo animo con un’inflessione di voce più pacata, sussurrandone il nome quasi in un sospiro. Di rammarico per Sarah, ma non ancora di resa verso la propria coscienza per il delitto compiuto.

“Non mi toccare”, ripeté lei con maggior foga, ritraendosi prontamente e afferrando di fianco a sé un cuscino, arma bianca che, colpendolo, assieme a parole disperate, iniziò a smussare le sue asperità, “sei un assassino. Hai ucciso delle persone innocenti. Neanche di un ragazzino hai avuto pietà. Sei un assassino.”

“Devi calmarti, Sarah, o ti sentirà tutto il campo.” Hermann ritentò un approccio pacato, seppur deciso che, con uno spintone dalla forza inaspettata, fu respinto.

“Non mi faccio toccare da te. Sei un assassino”, insisté e la spinta inferta la indusse ad alzarsi, “io torno nella mia baracca.”

Il suo cuore era già andato via. All’ennesimo rifiuto, il desiderio d’amore si tramutò in istinto di prevaricazione. Un fuoco in lui s’accese e la trattenne, afferrandola violentemente per un braccio.

“Tu resti qui con me”, fece perentorio e la strattonò verso di sé.

Il dolore rimase celato dietro la rabbia che le contraeva il viso.

“No, lasciami”, si oppose lei, divincolandosi, “voglio tornare nella mia baracca.”

Incurante della sua richiesta, Hermann non lasciò la presa, anzi diede ad essa più forza, mentre ripeteva: “Tu resti qui con me”, fece una pausa, prima di concludere con parole di cui si sarebbe presto pentito, “è un ordine!”

Tre parole che zittirono e immobilizzarono entrambi per un tempuscolo che parve un’eternità.

L’ira smise di dardeggiare dai loro occhi e si guardarono l’un l’altra attraverso un rugiadoso velo di sbigottimento e tristezza. Hermann aveva compreso l’errore e allentato pian piano la stretta, fino a lasciarle il braccio e fu lei a rompere il silenzio.

“Ah… A questo siamo ritornati”, disse, trattenendo lacrime di risentimento, “allora, signor tenente, le comunico che non sono più disposta a sottostare ai suoi ordini.” Le parole si susseguivano in un crescendo di fermezza. “Aggiunga pure il mio nome alla prossima lista dei deportati, perché io non soddisferò più le sue necessità.”

 

Napoli, 20 aprile 1947

 

Mentre continuava ad appallottolare la giacchettina color panna che teneva poggiata sul grembo, ricordò che quella sera era andata via da lui, senza voltarsi indietro, senza remore, pur amandolo, nonostante odiasse il suo ruolo.

Da giovane prigioniera, non si era arresa e aveva combattuto per far valere la propria volontà e, adesso, da donna libera, restava seduta inerme a testa china.

Si distrasse dai ricordi e dai pensieri quando, d’improvviso, sentì ostruirsi una narice e vide una goccia di sangue, poi velocemente un’altra e un’altra ancora imbrattare la giacchetta. Frastornata, sollevò il capo e, portando la mano sotto il naso a raccogliere sul palmo altre due gocce di sangue, s’imbatté nello sguardo impassibile di suo marito. Questi non mostrò alcun segno di apprensione o pentimento, né lei versò una lacrima per se stessa o per la fine del loro amore.

 

“Tu, tu sai comprendere

questo silenzio che determina il confine fra i miei dubbi e la realtà.

Da qui all’eternità, tu non ti arrendere.

Portami via dai momenti,

da questi anni violenti.

Da ogni angolo di tempo dove io non trovo più energia,

amore mio, portami via.”

 

Fabrizio Moro, Portami via

 

 

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Capitolo 49
*** Le ragioni del cuore ***


Capitolo 49

 

Le ragioni del cuore

 

“Ho conosciuto in te le meraviglie meraviglie d’amore sì scoperte che parevano a me delle conchiglie ove odoravo il mare e le deserte spiagge corrive e lì dentro l’amore mi sono persa come alla bufera sempre tenendo fermo questo cuore che (ben sapevo) amava una chimera.”

Alda Merini, Le rime petrose

 


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Fu la moglie del compare a porgerle, con un’interiezione di preoccupazione – che, alle orecchie di Sarah, parve di pura ipocrisia –, un fazzoletto, consigliandole erroneamente di mettere la testa all’indietro, non per cattiveria ma per ignoranza – e anche di questo lei dubitò.

Imponendosi di non dare loro la soddisfazione di vederla in preda al panico, piegò la testa in avanti e strinse le narici con mano ferma e sicura, nonostante il profondo turbamento causato dal sangue, nonostante l’acutizzarsi del dolore, nonostante la ferita dell’anima. L’indifferenza di Matteo faceva più male del suo schiaffo.

Di fronte all’ostentata forza d’animo di Sarah, lui restò fermo, finché non si rese conto di aver perso la partita e un altro pezzo del suo cuore, forse irrimediabilmente. Eppure non riusciva a provare rimorso per lo schiaffo datole.

Nel far ritorno in sé, la rabbia deviò verso se stesso e, alzatosi di scatto dalla sedia, con gran foga, lanciò sul tavolo le carte che gli erano rimaste in mano, mentre lei gli rivolgeva uno sguardo attonito e interrogativo.

La perdita di sangue si era fermata e Sarah aveva allontanato il fazzoletto dal naso. Per un attimo, temette un’ulteriore reazione violenta da parte di suo marito e, stavolta, dinanzi a tutti, presagendo già il loro perseverare nel menefreghismo. Istintivamente, spinta da un impulso difensivo, anche lei si alzò.

“Torniamo a casa, Sarah”, disse, senza rabbonire la voce e lo sguardo e provò una sensazione di disagio, quando, accorciando fisicamente la distanza creatasi fra di loro, le cinse i fianchi con un braccio, lo stesso che le aveva alzato contro, per esortarla ad andare via.

 

Campo di Fossoli, 15 luglio 1944

 

Quattro notti d’insonnia e senza amore, tre giorni lontani l’uno dall’altra, lui per orgoglio, lei per delusione.

Oltre che assassino, Hermann era pure bugiardo. Trattandola come qualsiasi altro prigioniero, le aveva mentito sul destino dei settanta internati politici e, ancor prima, sui suoi sentimenti, facendole credere di aver instaurato con lei, seppur nascostamente, un rapporto alla pari. Invece, era per lui soltanto come un oggetto fra gli oggetti di sua proprietà, prigioniera e sgualdrina da usare a suo piacimento, un sottoposto a cui impartire gli ordini e il protrarsi della sua assenza gliene dava conferma.

Forse, Hermann aveva accolto la sua provocazione e, adesso, non essendo previsti nell’immediato trasferimenti di prigionieri verso la Germania, stava escogitando un modo per sbarazzarsi di lei. Forse, più semplicemente, l’aveva già dimenticata, sostituendola magari con la bella cameriera bionda dagli occhi chiari, italica al cento per cento e amante del sergente maggiore, che, approfittando del suo allontanamento dalla servitù, non si era fatta sfuggire l’occasione di rassettargli la camera e servirgli i pasti. Preoccupata per la sua sorte, era stata Giuditta a darle questa informazione.

La parte di sé legata ancora all’illusione di un sentimento amoroso rifiutava di credere alle proprie supposizioni, mentre l’altra, sopraffatta da una ragionevole amarezza, la teneva segregata nella baracca, nonostante la calura di metà luglio, a tagliare le maniche dei vestiti con i quali era arrivata a Fossoli, prima di liberarsi di quelli regalatele da lui, assieme alla rosa rossa che, a maggio, aveva fatto seccare.

Non era abituato a sentirsi dire di no. Viaggiando a ritroso nella memoria, poteva imbattersi in un ragazzino a cui, nonostante la rigida educazione impartitagli talvolta attraverso punizioni corporali, non era stato negato nulla. Seppur ben temprato ad affrontare quella che sarebbe stata la sua vita militare, nessuno gli aveva mai dato la possibilità d’imparare come comportarsi qualora le cose fossero andate in un modo diverso da quello previsto, desiderato.

Prima di Sarah, nessun’altra donna lo aveva mai rifiutato, merito della sua posizione sociale e attrattiva fisica e, preso alla sprovvista da quel che, in fondo, era un prevedibile diniego, aveva reagito, avvalendosi del suo ruolo di comando per trattenerla a sé. Eppure non si sarebbe approfittato di lei una seconda volta.

Dietro la bramosia dell’appagamento carnale, si nascondeva un muto bisogno d’incontro e di presenza, di sentirsi amato. Forse, per convincere Sarah a restare, sarebbe bastato mostrarle il suo lato più vulnerabile, lasciando che le ragioni del cuore motivassero la sua richiesta, sicché essa non diventasse un ordine ma un grido d’aiuto. Forse, avrebbe dovuto piegare il suo orgoglio e giustificarsi dell’esecuzione di quegli innocenti, riconoscendo dinanzi a lei che lo vedeva come un dio di essere soltanto una piccola pedina in qualcosa più grande di lui a cui aveva giurato obbedienza e lealtà, «fedeltà assoluta fino alla morte». Forse, non era troppo tardi per rimediare all’errore di averla persa.

Dapprima fisso nel vuoto, lo sguardo si focalizzò sulla porta socchiusa dell’ufficio e, di scatto, Hermann si alzò, facendo sobbalzare la cameriera bionda che aveva appena posato sulla scrivania il vassoio con il bicchiere di limonata e della cui presenza non si era neanche accorto. Agguantò il cappello dell’uniforme e percorse i corridoi dell’edificio, poi le zolle di terra e fango che lo separavano da lei, indossando la sua truce maschera.

Quando spalancò con veemenza la porta della baracca, tutti si misero in allerta, reduci dal trauma per la fucilazione dei loro compagni, fuorché Sarah che, pur alzatasi istintivamente di scatto dal letto dov’era seduta a rammendare gli orli delle maniche, mantenne una parvenza di calma per mostrarsi a lui indifferente.

“Uscite tutti.” A tal comando, benché sapesse di non esserne destinataria, si avviò anch’ella verso la porta e, come aveva già previsto, Hermann la fermò.

“Tu no.” La voce ancora greve, mentre gli ultimi prigionieri lasciavano la baracca, la mano davanti al suo petto, così vicina da sfiorarla e provocarle un sussulto, gesto che già innestò una battaglia contro se stessa per non cedervi.

E furono soli nel reciproco guardarsi. I lineamenti di Hermann si distesero, mostrando un volto segnato da notti insonni e pasti saltati, mentre un velo rugiadoso gli calava sugli occhi a rivelarne la malinconia. Invano, Sarah perseverava nell’ostentare fermezza, giacché, senza che se ne rendesse conto, ciò che vedeva era anche il suo riflesso.

Distolse lo sguardo e fece per andarsene, ma, di nuovo, lui la fermò, mettendole innanzi la mano. Stesso gesto, diverso atteggiamento, accompagnato da una voce quasi supplichevole. “Aspetta”, le disse.

“La prego, signore, ha dato l’ordine di uscire. Mi lasci andare come tutti gli altri.” Fuori la baracca, via da Fossoli, ma l’accento vibrante di lacrime trattenute rivelava che questo non era ciò che realmente voleva.

“Sarah, ascolta, io non avevo altra scelta.” Più che le parole, fu la remissività nel suo tono di voce a trattenerla. “Ho fatto un giuramento e tradirlo significherebbe finire sotto corte marziale. Neanche tu vuoi questo.”

Assentì con lo sguardo. Non voleva perderlo, ma la ragione le teneva ancora chiuso il cuore nella morsa del dolore e dello sdegno.

“Mi dispiace, Sarah. Sappi che non ti avrei costretta a stare con me”, proseguì, fino a toccare le corde giuste, quelle di entrambi, “avevo soltanto bisogno della tua presenza.” Una pausa, per prendere fiato e maggior coraggio, diede enfasi alla sua dichiarazione. “Io ho bisogno di te.”

Protese leggermente le braccia, mentre lei già cedeva all’illusione, abbandonandosi in un lento scivolare sul suo petto.

“Io ti amo.” Le parole gli fuoriuscirono dalla bocca come un suono strozzato. Rade volte gliel’aveva detto, senza mai commuoversi, sempre offrendo a se stesso false motivazioni che giustificassero il suo parlare. Delle volte era per consolarla, altre per compiacerla e, adesso, sarebbe stato per persuaderla.

Era, invece, l’espressione di un sentimento vero, forte la cui consapevolezza – in quel momento, ancora vaga e sfuggevole – gli suscitò un trattenuto pianto di liberazione.

Anche Sarah dovette accorgersene, poiché lo strinse più forte, aggrappandosi alla sua giacca, come per legarsi per sempre a quell’emozione così rara e difficilmente ripetibile.

“Anch’io ti amo, Hermann”, gli disse e fu lei a piangere sommessamente le sue lacrime.

 

“Troppo cerebrale per capire che si può star bene senza complicare il pane,

ci si spalma sopra un bel giretto di parole vuote ma doppiate.

Mangiati le bolle di sapone intorno al mondo e quando dormo taglia bene l’aquilone,

togli la ragione e lasciami sognare, lasciami sognare in pace.

Liberi com’eravamo ieri, dei centimetri di libri sotto i piedi

per tirare la maniglia della porta e andare fuori.”

 

Samuele Bersani, Giudizi universali

 

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Capitolo 50
*** L’inizio della fine ***



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Nella GIF, tratta dal film “La conseguenza”, come immagino Sarah ed Hermann nel 1947.

 

Capitolo 50

 

L’inizio della fine

 

“Ma questo amore, amore, non è finito,

e così come non ebbe nascita,

non ha morte, è come un lungo fiume,

cambia solo di terra e labbra.”

Pablo Neruda, Amore mio, se muoio e tu non muori

 

Nella debolezza di un singhiozzo malamente trattenuto, la forza di farle dimenticare il suo peccato di collaborazione alla strage dei sessantasette innocenti. Questi sarebbero a lui riapparsi come fantasmi, quando, confrontandosi col passato, la consapevolezza della colpa generò pentimento.

Come se non ci fosse stata alcuna interruzione, l’abbraccio cambiò sfondo. Dalla finestra della camera di Hermann, il vento caldo dell’estate portò le note di una musica lontana, forse solo immaginata – giacché alle orecchie d’ambedue non giungeva la medesima melodia –, sulle quali i loro corpi presero a ondeggiare, stretti l’uno all’altro per un tempo indefinito, ristorandosi dopo la lunga, seppur breve, separazione.

Danza di anime, fusione dei cuori e, sprofondato nel suo petto fasciato dalla camicia, il viso di Sarah era, adesso, asciutto di lacrime. Un melanconico stupore le balenò negli occhi, quando lui la fece distanziare, prendendola delicatamente per mano. Voleva, infatti, che quel momento, così lontano dalla realtà di Fossoli, perdurasse all’infinito.

Nello spazio stretto di un abbraccio, Hermann aveva sperimentato una sensazione di libertà e si abbandonò alla leggerezza dell’essere, facendola girare su se stessa. Roteò la gonna del vestito a fiori di prato, regalo suo e fluttuarono i lunghi capelli semi raccolti, come in una sequenza d’immagini a rallentatore che culminò con la visione di un lieve sorriso di sollievo.

Ricambiò, sorridendole più ampiamente e lei ne impresse negli occhi l’immagine che al cuore avrebbe riportato nei momenti più bui, quando la consapevolezza della sconfitta tedesca esacerbava l’animo di Hermann e la paura della loro fine la affliggeva, svigorendola.

Tra agosto e novembre, l’avvicinarsi degli Alleati e l’intensificarsi delle attività partigiane furono determinanti per il trasferimento del campo a Gonzaga, decretando l’inizio della fine che, già annunziata e scandita dal rumore delle bombe aeree alleate, trovò compimento in una notte di dicembre, col sangue di lui sulla neve, la sua nuca fracassata dal calcio del mitra di un partigiano.

La pellicola si riavvolse, come un film muto a ritroso e, volteggiando sorridente in senso contrario, era di nuovo fra le sue braccia a ondeggiare sulle note del cuore che cantava una melodia senza parole né suoni, accompagnata dal solo leggero soffio della brezza estiva.

 

Napoli, 20 aprile 1947

 

Durante il tragitto verso casa, l’accompagnava un silenzio di vuoto e d’assenza. Matteo non era più l’amore.

Si spegneva il suono di fondo del mare e del vociare delle persone godenti il primo sole di primavera, soffocato dal ritmo affannoso del suo respiro. Lei era qualche passo avanti, lontana dal cuore.

Maschera di un profondo dolore, la rabbia le corrugava il viso arrossato dallo schiaffo e dal riuscito tentativo di zittirla, tappandole con forza la bocca e muoveva i suoi passi in un incedere risoluto che lui neanche si sforzava di sostenere, sopraffatto da una sensazione di disagio che ambedue ignoravano fosse vergogna. Lei non poteva immaginarlo, lui, invece, accettarlo per orgoglio.

Tremanti, le dita di Sarah faticavano ad aprire la serratura della porta di casa e il fastidioso tintinnio di metallo del mazzo di chiavi non faceva che accrescere la sua concitazione. Scalpitava per nascondersi da lui, dalla verità sul suo matrimonio.

Un cigolio accompagnò l’agognata apertura della porta e, prima che Matteo potesse sfiorarle un braccio, lo allontanò col gomito, in un gesto manchevole di forza ma pregno di dispregio.

A passo spedito, si diresse verso il bagno e, sbattendo la porta alle sue spalle, sospirando pesantemente, promise a se stessa che mai più si sarebbe fatta toccare da lui e che lo avrebbe ripagato con lo stesso silenzio che le era stato imposto.

Lanciò nel lavandino la giacchettina color panna e prese a strofinarla energicamente, più per sfogarsi e temporeggiare che per l’urgenza di togliere le macchie di sangue e sul suono dell’acqua corrente si concentrò, affinché smettesse di udire la voce di Matteo che invocava il suo nome.

D’altronde, lui sperava di restare inascoltato, non sapendo cosa dirle, giacché una parte di sé credeva di essere nel giusto e fu essa ad allontanarlo dalla porta. Raggiunse la camera da letto e, concitatamente, indossò gli abiti da lavoro, smanioso di sedare in mare la sua tempesta interiore. L’altra parte di sé temeva che avrebbe potuto farle di nuovo del male e lo sollecitava a sfuggire da lei, da se stesso.

Con movimenti quasi impercettibili, Sarah riapparve, presentandosi a lui scalza, con indosso il vestito rosa schizzato d’acqua, col volto cereo come quello di un fantasma e lo sguardo fisso nel vuoto. Sedette ai piedi del letto e congiunse in grembo le mani, chinando il capo e preparandosi a infrangere la promessa del silenzio.

“Ti dirò soltanto una cosa, poi non sentirai più la mia voce.” Le parole le fuoriuscivano dalla bocca tremule e austere al tempo stesso. “Puoi anche ammazzarmi di botte, ma io andrò al matrimonio dei miei amici.”

Alzò la testa e rivolse gli occhi verso l’uscio della stanza, dov’era Matteo fermo e inerme a subire la propria rabbia di cui lei ignorava la vera causa scatenante.

Con un tono di voce inasprito da quell’ostentata fierezza che le teneva frenato il pianto, lo sfidò, dicendogli: “Tu non sai cosa ho dovuto affrontare nella vita.”

“O chi”, ribatté e fu lui a rievocare il fantasma del passato nella sacralità della loro camera nuziale.

Con uno scatto stizzoso, le volse le spalle e, stringendo forte denti e pugni, a lunghe falcate, percorse il corridoio.

Sarah capì subito a chi si riferisse, domandandosi, tuttavia, perché lo avesse velatamente menzionato in quel frangente. Lo sbattere della porta di casa la fece sobbalzare nel materasso e riemergere dal vortice dei ricordi, dov’era già sprofondata.

La pellicola della sua vita si riavvolse velocemente per poi rallentare, fino a fermarsi sul fotogramma di una giravolta. E fu di nuovo fra le braccia di Hermann.

 

“Finimmo prima che lui ci finisse,

perché quel nostro amore non avesse fine.

Volevo averti e solo allora mi riuscì,

quando mi accorsi che ero lì per perderti.”

 

Claudio Baglioni, Mille giorni di te e di me 

 

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Capitolo 51
*** Come suo padre ***



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Nella GIF, tratta dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Sarah e Matteo in luna di miele a Ischia.

 

Capitolo 51

 

Come suo padre

 

“Il processo di filiazione contiene questo paradosso: la vita umana è attraversata dalla vita dell’Altro, porta dentro di sé non solo un patrimonio genetico come marca biologica della sua provenienza, ma anche le parole, le leggende, i fantasmi, le colpe e le gioie delle generazioni che l’hanno preceduta. È fatta, costituita interamente, dalle tracce dell’Altro.”

Massimo Recalcati, Il segreto del figlio

 

Matteo

 

In malo modo, aveva mandato via il giovane aiutante, retribuendogli le ore di lavoro perdute, per restare da solo con se stesso, in mezzo al mare, sulla barca che portava il nome di sua moglie, mentre la notte incombeva a schiarire i pensieri.

Non s’adoperò nel pescare, ma, sdraiato nell’imbarcazione, con le braccia incrociate dietro la testa e l’espressione arcigna che andava via via mitigandosi col dondolio lento delle onde, fissò gli occhi verso il cielo stellato per un tempo indefinito.

Guardandosi dentro, comprese che, senza accorgersene, in balia della volontà altrui, intrappolato nello sforzo di essere come gli altri volevano, stava diventando come suo padre e quegli uomini che, sin da piccolo, aveva rifiutato di prendere come modello di riferimento nella sua vita, e in quella matrimoniale in particolare.

Aveva lasciato che l’istinto della violenza prendesse il sopravvento, sotto la spinta delle proprie frustrazioni e l’influenza di una mentalità patriarcale retrograda, rozza e si angustiava per la fatica a imboccare la strada del pentimento e nel rendere più vivida alla memoria l’immagine del viso arrossato di Sarah, del suo naso sanguinante.

Essendone il primogenito, ricordava sua madre nei primi anni di matrimonio, l’ardore e la giovialità della sua giovinezza piegati dalle male parole e dalle mazzate di suo padre, il precoce sfiorire della sua bellezza coi tratti delicati del viso e del carattere che s’indurivano con la fatica del lavoro domestico e delle gravidanze e con gli stenti che una prole numerosa, inevitabilmente, comportava. A questa vita stava condannando Sarah e se stesso.

Ponendo nella dimenticanza gli eventi a cui aveva assistito da bambino, s’era precluso di essi l’elaborazione, ma, assorbiti inconsciamente, ne aveva accolto il retaggio. La catena non si sarebbe spezzata.

Un fulmine sull’isola d’Ischia, dov’erano depositati i bei momenti della luna di miele, precedé il lampo che gli restituì alla memoria un ricordo più lontano nel tempo.

Si rivide ragazzino, mentre, nascosto e accucciato nello sgabuzzino in cucina, guardava attraverso una fessura della porticina la lite fra i suoi genitori, i ripetuti tentativi di sua madre di sottrarre suo fratello a una punizione troppo dura per la marachella compiuta che spettava anche a lui, essendone complice.

Non ricordava esattamente che cosa avessero combinato per suscitare una reazione tanto iraconda, ma rammentò alla perfezione sua madre strattonata per i capelli e scaraventata contro il tavolo, le sue braccia protese istintivamente in avanti per proteggere dall’urto il ventre gravido, sul quale, ritrovato l’equilibrio, adagiò poi una mano con espressione sofferente e rassegnata.

Fu in quel momento che, con un linguaggio da bambino, aveva pregato dentro di sé la Madonna, affinché non diventasse come suo padre, ma, se tale eventualità ci fosse stata, di non permettergli di avere figli.

Una preghiera che somigliava più a un giuramento, frutto di un pensiero troppo maturo per la sua età che non riuscì a metabolizzare, obliato al dolore fisico ed emotivo della severa e ingiusta punizione paterna.

L’onnisciente Provvidenza e non il peccato di concupiscenza che, talora, ipotizzava avesse commesso Sarah con l’ufficiale tedesco impediva loro di procreare. L’esaudimento di una preghiera e non l’espiazione di una colpa. Il lato oscuro di sé e non l’ombra di un fantasma. Lui stesso e non quell’Hermann. Poiché sarebbe diventato come suo padre, anzi già lo era.

Fra le dita, come se fosse una sensazione reale, poté avvertire l’intrecciarsi dei capelli di Sarah, mentre, sul pianerottolo della casa che avrebbero abitato, glieli tirava, in preda alle suggestioni della gelosia, condizionato dalle opinioni altrui. Riguardando a tale evento, ne riconobbe l’inconscia emulazione e, in lui, rivide suo padre, in Sarah, sua madre nella scena del litigio a cui aveva nascostamente presenziato da ragazzino. E volle ritornare in quell’angusto sgabuzzino per poter meglio delineare, col medesimo lampo di discernimento d’allora, la verità su se stesso, guardando da una fessura, ovverosia come spettatore, alla propria vita.

Comprese il vero motivo della sua profonda avversione verso Davide per il quale avrebbe dovuto provare soltanto compatimento, dato il tragico vissuto ad Auschwitz e, prima ancora, a causa delle leggi razziali, scoprendosi completamente indifferente rispetto alla scelta di prendere in sposa una donna più giovane e solo in minima parte geloso del rapporto amicale con sua moglie.

Colto e dai modi raffinati, sensibile e dalle ampie vedute, in lui vedeva il padre che avrebbe voluto per se stesso e l’uomo che sapeva non sarebbe mai diventato. Frustrazioni queste dalle quali originava l’invidia che, alimentando la propria disistima, s’esplicitava attraverso un più ammissibile, onorevole sentimento di gelosia.

Sarebbe rimasto fermo sulla sua posizione, ma non avrebbe impedito a Sarah di partecipare alle nozze, usandole violenza, come lei gli aveva lasciato intendere di credere.

Si tormentò nel pensare a quale idea sbagliata si fosse fatta su di lui, poi un altro pensiero abitò la sua mente. Riconobbe di non voler ascoltare la verità sulla relazione di sua moglie con l’ufficiale tedesco per evitare di affrontare il confronto che, indubbiamente, avrebbe retto, se questi fosse restato un nazista stupratore.

Non si accorse del chiarore purpureo apparso nel cielo ad annunziare il sorgere del sole e il suo mancato rientro a casa diede adito al fraintendimento, interpretato, infatti, da Sarah come un abbandono.

 

“Così son diventato mio padre,

ucciso in un sogno precedente.

Il tribunale mi ha dato fiducia,

assoluzione e delitto lo stesso movente.”

 

Fabrizio De André, La canzone del padre

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Capitolo 52
*** La ferita dell’abbandono ***


Capitolo 52

 

La ferita dell’abbandono

 

“Ti amavo al punto di non poter sopportare l’idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le spalle troppo tonde, le sue braccia troppo corte, le sue mani troppo tozze, le sue unghie strappate.”

Oriana Fallaci, Un uomo

 

Sarah


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Immagine dal film “La conseguenza”

 

Dalle finestre, le tendine bianche lasciavano filtrare timidamente il luccichio del sole appena sorto sulle acque tranquille del mare. Lo sciabordio delle onde sulla banchina era un suono quasi impercettibile, sovrastato dall’allegro cinguettio degli uccellini. La pace del creato e l’allegrezza delle sue creature non le ristoravano più l’animo, arrecandole, addirittura, fastidio. Il Creatore si era dimenticato di lei.

Per troppo poco, aveva assaporato con Matteo la dolcezza dell’amore, per poi ingurgitarne tutto in una volta la parte più amara. La storia sembrava ripetersi, ma al contrario.

Seduta davanti allo specchio, con lo sguardo perso e gli occhi arrossati di sonno perduto e lacrime versate durante tutta la notte, fissava un punto indefinito della propria immagine riflessa. Al di là dei lividi su una pelle troppo delicata, benché fosse di colorito olivastro, e delle ferite di un cuore fragile, nonostante ne ostentasse la fortezza, oltre il turbinio dei pensieri che finivan nella rimembranza malinconica dell’amore che fu con Hermann, riemerse una voce, parole che s’articolavano fino a render più vivido il ricordo.

Della vita prima di Fossoli conservava una memoria sbiadita e, sullo sfondo confuso e indistinto di una piazza, qualcosa di simile a una scia d’ombra velata le roteò davanti agli occhi, riassumendo le sembianze di suo fratello nell’atto di voltarsi verso di lei.

«L’ha fatto prima, lo farà ancora», le aveva detto, assistendo alla lite tra fidanzati, loro conoscenti, conclusasi con gli schiaffi del giovane contro la compagna.

Assieme alla coppia, prese forma anche la visione della Barcaccia e si ritrovò seduta sulla scalinata di Trinità dei Monti, un paio di gradini più su rispetto a Samuel.

La scena le aveva suscitato disagio e turbamento, offrendo, invece, a suo fratello lo spunto per una riflessione suggerita da quell’innato spirito partigiano che gli conferiva una maturità maggiore, sebbene fra i due fosse lui il più piccolo.

«La lotta per l’uguaglianza tra gli esseri umani inizia dal rifiuto di ogni forma di abuso di potere. Potrebbe sembrare una cosa di poco conto, ma anche ciò che hai visto è un atto di discriminazione. È il prevaricare dell’uomo sulla donna, del più forte sul più debole e, ogni volta che ciò accade, l’umanità compie un passo indietro nel raggiungimento del mondo nuovo, di giustizia e libertà.»

Parlava Samuel in un crescendo di fervore, poi la sua voce divenne a un tratto apprensiva, o forse quelle che seguirono eran parole dettate or ora dalla propria mente. «Non sottometterti, ribellati a chi ti costringe all’infelicità. Fuggi da uomini come questi, da chi ti fa del male. Perché chi ti ama non ti picchia. Perché l’ha fatto prima, lo farà ancora.»

Suo fratello, la piazza si dissolsero in una nube indistinta nella quale risiedevano, vorticando, vaghi ricordi di fanciullezza, di quando guardava con innocenza alla vita, ignorandone i mali. Strizzò gli occhi dinanzi alla vista del proprio viso che aveva quasi dimenticato essere livido e, nuovamente, le si contrasse dall’amarezza.

Aveva ragione Samuel ma solo in parte, poiché, se il discorso poteva, forse, valere per Matteo, non era, invece, valso per Hermann. Questi, dopo che s’era reso, verso di lei, colpevole di una delle violenze più odiose, aveva saputo donarle un amore romantico e passionale che, implicito, si esplicitava nell’illiceità di una rosa rossa lasciata sul comodino, di un giro di danza su quelle note che soltanto loro potevano udire, di un piacere che le era permesso di raggiungere, giacché egli traeva piena soddisfazione dall’appagarla.

Adesso, puranche l’averla lasciata fuggire con i partigiani riconobbe come un’esplicitazione dell’amore e, rivedendo la scena da tale prospettiva, poté addirittura scorgervi un ardimentoso, inconscio tradimento verso la madrepatria e, in esso, a sua volta, il preludio di un pentimento per il male commesso in nome dell’ideologia antisemita. Ne presunse l’apice prima della morte a Sachsenhausen, momento nel quale, fu certa, aveva rivolto a lei gli ultimi pensieri.

Provò commozione nel pensare che l’amore aveva in qualche modo salvato entrambi. A lui, l’anima. A lei, la vita dalla quale, però, non aveva saputo cogliere l’occasione di riscatto.

Sentì guarire la ferita dell’abbandono infertale da Hermann, mentre l’altra, ovverosia quella della presenza assente di Matteo, già da tempo sanguinava.

Pensava a quanto si sentisse più donna, quando, per il mondo avvelenato dal nazifascismo, non era considerata nemmeno una persona, più amata e protetta nel vincolo profano di una relazione clandestina, quando, agli occhi della sua gente, poteva apparire come una prostituta e una collaborazionista.

Allungò una mano verso il porta trucchi e ciò che, sino al mattino precedente, aveva utilizzato per esaltare la propria naturale bellezza e femminilità serviva, adesso, a nascondere le brutture di un matrimonio per il cui fallimento iniziò ad attribuirsi le colpe.

S’era vera la coesistenza del bene e del male in ogni uomo – e lo aveva visto in Hermann –, lei aveva tirato fuori da Matteo la parte peggiore col suo comportamento ribelle.

Perché era lei quella sbagliata che aveva rifiutato il ruolo esclusivo di massaia, continuando a lavorare al Gran Cafè dopo il matrimonio, offendendolo così nella dignità di uomo capace di mantenere la famiglia. Perché era lei quella che, puntualmente, lo spazientiva, non avendo cura d’interpellarlo prima di una compera inutile, superflua che appagava il suo desiderio di apparire più bella e qualche inconscia mancanza. Perché era lei quella algida che aveva finanche smesso di sorridergli, richiudendosi in un silenzio che non esprimeva sottomissione ma distacco. Perché era lei quella che, colpevole di non sentire più il desiderio di mettere al mondo un figlio e impedendone così il concepimento, lo stava privando della gioia e dell’orgoglio di diventare padre.

Quello schiaffo se l’era meritato – proseguì nei suoi deliranti pensieri –, perché non era una brava moglie, né sarebbe stata una buona madre, qualora lo fosse diventata.

Coi sensi di colpa assolse dall’errore Matteo che tornò ad essere il ragazzo dolce e gentile che la teneva accoccolata fra le gambe in riva al mare, inebriandola con promesse di felicità delle quali lei, soltanto lei, aveva impedito la realizzazione. E tornò ad amarlo.

Di nuovo, aveva confuso per fremito d’amore la paura dell’abbandono che le si agitava dentro.

Lo avrebbe amato, nonostante tutto, tentando di smussare le proprie asperità per adattarsi a lui, semmai fosse rientrato a casa.

Un pianto incontenibile sciolse la maschera di trucco che, tastando freneticamente sul ripiano del comò alla ricerca del cerone fra il disordine dei cosmetici, già si apprestava a rifare, mentre la rassegnazione le metteva indosso un’immagine di donna diversa dalla propria essenza.

Si guardò allo specchio e, con le striature nere sulle guance e i lividi ricomparsi, si vide triste e muto pagliaccio, caricatura di se stessa. Ma fu solo per un attimo, poiché s’era già persa.

 

“Nonostante tutto,

io ti ascolterò quando non parli,

quando non mi guardi

io ti vedrò lo stesso.

Ti aspetterò, ti chiamerò cuore deciso.

Nella mente, nelle pieghe del viso

sarai da curare ancora un poco.

Aggiustami le spalle

che hai piegato.

Ritirati pure dal fianco, se hai tradito.

Io ti amerò lo stesso.”

 

Paola Turci, Ti amerò lo stesso

 

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Capitolo 53
*** Un matrimonio sbagliato ***



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Nella GIF, tratta dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Sarah nel giorno della proposta di matrimonio.

 

Capitolo 53

 

Un matrimonio sbagliato

 

“Perché la mancanza d’amore è la mia pestilenza.”

Alda Merini, Quando tu non ci sei

 

Girava tra i tavolini della sala interna, nascondendo il dolore dietro una maschera di sorrisi forzati, mentre sfuggiva agli sguardi di quanti le volevano bene, conscia che, con il suo viso pesantemente truccato rispetto al solito e i suoi capelli privi di volume, giacché non aveva indossato i bigodini durante la notte, e acconciati con la riga dal lato opposto per camuffarvi il livido più marcato, avrebbe dato adito alla loro intuizione. Ma fu l’ombra di tristezza che le aleggiava attorno a richiamare l’attenzione dapprima di Davide.

Mentre in sottofondo suonava “Parlami d’amore Mariù”, di colei che era per lui come una figlia lo tenevano in apprensione le spalle ripiegate, l’incedere lento, i gesti incerti e quell’espressione che ricordava di averle già visto in un tempo lontano e che, adesso, attraverso il proprio sguardo inquieto, aveva anche Hannah intercettato.

Raccoglieva le ordinazioni Sarah, stringendo forte taccuino e matita per trattenere le mani dal tremare e, quando l’esecuzione musicale fu terminata, indirizzò gli occhi brucianti di sonno perduto e di lacrime che aveva ancora da versare verso il pianoforte.

“Dovresti provare prima tu a parlarle”, suggerì Davide a fior di labbro alla sua futura sposa, anch’ella preoccupata, pensando che con l’amica si sarebbe aperta più facilmente, mentre il bicchiere d’acqua che gli aveva porto rimaneva sospeso in aria dinanzi al suo volto.

Hannah assentì con un cenno del capo, soltanto a lui percettibile, ed entrambi si voltarono simultaneamente, mossi da un istinto empatico, ritrovando lo sguardo affranto di Sarah, per poi riprendere a parlarsi con gli occhi.

Fu l’angoscia che la logorava dentro, ripercuotendosi sul suo corpo e alterando la sua lucidità, a farle interpretare quel tacito dialogo fatto di sguardi intensi e di delicate movenze come un’ostentazione del loro amore e, intanto che guardava Davide raccogliere il bicchiere, la tristezza per l’altrui bene le si tramutò in un moto di stizza.

Con uno slancio improvviso, fuggì da se stessa, dalla constatazione del proprio fallimento e dai consequenziali sentimenti negativi, dirigendosi rapidamente verso i bagni col desiderio di nascondersi e, al contempo, di farsi trovare per ritrovarsi, tornando ad essere come prima.

Sbatté la porta alle sue spalle, sottraendosi agli sguardi attoniti del signor Gennaro e dell’addetto alla caffetteria e ai commenti di biasimo di qualche cliente intento a consumare al banco, distratto e infastidito dal suo scatto.

Aprì il rubinetto, poggiando il palmo di una mano sul bordo del lavandino in ceramica bianca con decorazioni floreali dorate in rilievo e il dorso dell’altra sulla fronte. Il suono dei singhiozzi trattenuti si fondeva con lo scrosciare dell’acqua, finché non lo interruppe un colpo deciso alla porta che fu aperta e lei si volse alla voce allarmata che aveva invocato il suo nome.

Come lavacro, le lacrime avevano sciolto il trucco, spazzato via la menzogna, rivelando i segni di un matrimonio sbagliato, la vera essenza di un uomo che Hannah credeva perfetto. Con l’amica, aveva sognato su quell’amore romantico, allontanandosi un poco alla volta dalle bruttezze del genere maschile conosciute nel postribolo di Mauthausen, prima che Davide le dissipasse per sempre. Mai avrebbe pensato di sorprenderla in un incubo, a confrontarsi nuovamente con la realtà della sofferenza.

E Sarah non poté scorgere commiserazione nei suoi occhi, giacché questi le restituirono il riflesso del proprio dolore. Come aveva con lei partecipato alla gioia, così ne avrebbe condiviso il pianto.

Per rispetto e turbamento, in punta di piedi e senza proferire parola alcuna, Hannah le si avvicinò e, dinanzi allo sguardo che comprovava il fallimento della propria vita e, al contempo, infondeva quell’affetto che, indurita da un recondito, inconfessabile sentimento d’invidia, aveva smesso di cogliere e accogliere, Sarah si commosse profondamente.

Sulla spalla amica, le lacrime non soffocarono, oltrepassando coi singhiozzi le spesse mura, sovrastando la musica allegra del pianoforte che Davide, adagio, interruppe, mentre fra i clienti in sala s’incrementava lo stupito mormorio.

Quand’egli, sospinto dall’apprensione che gli corrugava la fronte in un’espressione adirata, accorse celermente sull’uscio del bagno, il signor Gennaro era già lì, con le braccia incrociate, nella trepidante ma paziente attesa di comprendere l’accaduto che l’abbraccio di Hannah celava, tra l’intreccio dei loro capelli che ricoprivano il volto livido.

Scemando in respiri contratti, il pianto si quietò, mentre la voce spezzata di Sarah s’elevava nella confessione di una verità distorta che s’era imposta di credere per continuare ad amarlo. “Mi ha lasciato, Hannah”, si rivolse solo a lei, pur sapendo della presenza degli altri, “non è tornato a casa stamattina. È colpa mia.”

Soffocò in gola un singhiozzo ed eruppe in un sommesso grido d’aiuto rivolto, stavolta, a coloro che s’era scelta come figure paterne cui, per un attimo a loro bastevole, sollevando un po’ il viso, mostrò i segni della punizione per quello che credeva il proprio errore. “Io non sono una buona moglie”, sibilò.

Pensava, infatti, che, assumendosi la colpa, l’avrebbero aiutata a farlo tornare. A casa, ad amarla.

Padre di una figlia precocemente perduta e padre di una figlia femmina mai nata, Davide e Gennaro, che su Sarah riversavano il loro sentimento paterno di responsabilità e protezione, si guardarono in faccia, scambiandosi il medesimo sguardo. Generando un’emozione simile alla rabbia, in entrambi, eran vibrati l’amara delusione verso Matteo che avevan creduto fosse il marito giusto e il senso di colpa per avergli affidato quella figlia già duramente provata dalla vita. Ma solo uno gli avrebbe parlato.

 

“Ora che non posso più tornare

a quando ero bambina

ed ero salva da ogni male

e da te.”

 

Noemi, Glicine

 

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Capitolo 54
*** Lacrime e lividi ***



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Nella foto, come immagino Lucia e il sergente maggiore Jörg.

L’immagine è tratta dal film “Suite francese”.

 

Capitolo 54

 

Lacrime e lividi

 

“Non t’amo se non perché t’amo e dall’amarti a non amarti giungo e dall’attenderti quando non t’attendo passa dal freddo al fuoco il mio cuore.

[…] In questa storia solo io muoio e morirò d’amore perché t’amo, perché t’amo, amore, a ferro e fuoco.”

Pablo Neruda, Non t’amo se non perché t’amo

 

Non si accorse dello scorrere del tempo, finché il sole caldo di mezzogiorno non sfiorò le sue ciglia socchiuse nel dormiveglia inquieto e le campane della Cattedrale suonarono a richiamare i fedeli al saluto alla Vergine, Matteo a far ritorno dalla sua sposa.

La stanchezza derivante dal sonno perduto e l’emicrania per le troppe ore trascorse in barca, in balia dell’umidità del clima marino avevano sgombrato la sua mente da ogni pensiero, stordendolo e acquietando quel suo sentimento di rabbia repressa che cheto restò, fin quando non scorse in lontananza chi lo attendeva sul porticato di casa, coi baffi grigi a dargli un’aria distinta e severa, le mani sui fianchi e gli occhi dardeggianti a preannunciare l’imminente rimprovero.

Nonostante l’insistenza di Davide nel volergli parlare, Gennaro era rimasto irremovibile nella propria decisione che tale compito a lui spettava, non solo perché presumeva che qualsiasi discorso fatto dal maestro di pianoforte non avrebbe sortito nessun effetto su Matteo, accortosi di come questi non lo vedesse di buon occhio a causa delle malelingue del paese, ma anche e soprattutto in virtù della promessa fatta all’amico, compagno di trincea di prendersi cura dei suoi beni. E Sarah era il più prezioso.

Seppur una parte di sé desiderasse temporeggiare per ritardare l’incontro, Matteo accelerò con rabbioso vigore la cadenza dei remi, autoconvincendosi di essere nel giusto verso Sarah per vincere il timore della paternale e del giudizio di chi gliel’aveva affidata come una figlia.

Senza rivolgergli lo sguardo, ormeggiò la barca di fianco alla banchina e, con mani tremule ma celeri, nascondendo l’espressione corrucciata dietro uno scompiglio di capelli ricci bagnati dall’umidità, legò le funi alle colonnette. Fingendo di non averlo visto, si apprestò a pulire le reti che neanche aveva usato e percepì la sua figura dirigersi verso il molo con austera lentezza.

Più che per vergogna, si nascondeva per orgoglio e non sollevò il capo nemmeno quando Gennaro fu troppo vicino, sicché questi dovette fingere un colpo di tosse per attirare su di sé l’attenzione, prima di rivolgergli un «buongiorno» tra il serio e il canzonatorio.

“Buongiorno a voi”, ricambiò il saluto, imitandone l’intonazione, ma lo tradì un accento irritato che il distogliere lo sguardo, facendo finta di rassettare le reti, non fugò dall’attenzione di Gennaro.

Tienna bella faccia tosta, guagliò[1], ribatté e le parole – a cui il dialetto conferiva maggior enfasi – s’impregnavano di delusione, mentre pensava a come Matteo lo avesse, fino a quel momento, ingannato con una parvenza da bravo ragazzo.

Per la bontà e la buonafede dei suoi sentimenti, non certo perché fosse un buon partito, economicamente e socialmente parlando, gli aveva, infatti, concesso la mano di Sarah, pur se ne disapprovasse la frettolosa scelta resa possibile dalla di lei risolutezza nel mettere in vendita la casa di famiglia.

Quei beni che aveva sottratto agli artigli del nazifascismo eran comunque finiti in mano sbagliata, pensò Gennaro pervaso da un senso di colpa verso l’amico che preferiva credere solo disperso e, indicando la casa con un cenno della testa, concluse più autorevole: “Trasimm, t’aggia parlà.”[2]

 

Tutto sembrava arrecarle fastidio: l’apprensione nelle parole della moglie del signor Gennaro, mentre insisteva affinché riposasse; l’eccessiva gentilezza in quelle di Hannah – artifizio col quale tratteneva il nodo di lacrime per la sorte dell’amica –, mentre s’offriva di svolgere il lavoro al posto suo.

Aveva già rifatto il trucco Sarah e, di nuovo, indossato la maschera di donna forte, stavolta per nascondere l’orgoglio ferito. Mai avrebbe voluto rivelare il fallimento del suo matrimonio, lo sgretolarsi dei suoi sogni alle persone a lei più care – soprattutto, a chi ne aveva inizialmente disapprovato la brevità del fidanzamento – e in un modo poi così disperato, tra lacrime e lividi.

Inibita da un certo timore reverenziale, non era riuscita a contraddire la signora Carmela, ma, rimasta da sola con Hannah, frenò le sue mani in procinto di sollevare il vassoio dal bancone con un gesto rude, inaspettato.

“Faccio io”, esclamò risoluta, mentre le afferrava il polso, colpendoglielo. E il colpo riecheggiò nell’aria, innanzi all’assente presenza di spettatori distratti, e nel cuore, già conscio dell’errore.

Incontrando lo sguardo rugiadoso dell’amica, gli occhi di Sarah, un attimo prima dardeggianti, ne assunsero la stessa espressione di stupore e un varco s’aprì nella sua memoria. Aveva già vissuto una scena simile.

 

Campo di Fossoli, 16 luglio 1944

 

Al solo vederla di spalle coi capelli biondi raccolti in un perfetto chignon con la treccia, quasi a voler pavoneggiarsi di sembianze ariane, sentì ribollire in sé un inconfessato sentimento di sdegno e gelosia che si esplicitò con la rabbia di un gesto irriflesso, quand’ella si accinse a sollevare il vassoio dal ripiano della cucina.

Avvicinatasi fulminea e silenziosa, Sarah le colpì il polso, afferrandoglielo e, con una forza sprezzante, le allontanò la mano che batté contro il fianco, mentre il vassoio ricadeva rumorosamente sul ripiano.

Alcune donne presenti si dileguarono, altre, compresa Giuditta, guardavano di sottecchi la scena, senza la benché minima intenzione di intervenire per timore di una punizione conseguente all’eventuale litigio e tutte furon prese da meraviglia dinanzi al comportamento di Sarah della quale pensarono di non potersi più fidare, com’era per l’amante del sergente maggiore.

Dal giorno dell’ingiusta esecuzione subita dagli internati politici, perdurava, nell’animo di tutte, un profondo stato di turbamento e vulnerabilità, perfino in quello della tanto determinata cameriera bionda. Solo Sarah, sebbene fosse oltremodo empatica, sembrava aver dimenticato la strage di cui era stato vittima anche un ragazzino di sedici anni, obliando la tragica realtà, le incertezze sul futuro e l’angoscia di morte per rincorrere illusioni d’amore.

“Faccio io”, disse e si concesse il privilegio di un tono altero, sentendosi forte della protezione di Hermann, “il signor tenente non ha più bisogno dei tuoi servizi.”

Sul volto dell’altra, il cipiglio corrucciato per l’indelicato gesto subito, di colpo, svanì per lasciar posto a un’espressione di stupore, la stessa che, incontrando i suoi occhi color smeraldo, luccicò, quasi simultaneamente, come impercettibile velo di lacrime trattenute, anche nello sguardo di Sarah, sconcertata dalla propria reazione. In essa riconobbe la tracotanza riconducibile ad Hermann al quale era finita, in quel momento, ad assomigliare, mostrando di sé un lato violento, prevaricatore che non le apparteneva e affibbiandosi il marchio di donna da temere, con l’affermazione, seppur inconscia e implicita, del proprio ruolo di amante del comandante del campo.

Ed ebbe paura di se stessa, ricordando anche il monito di don Franco a non trasformarsi in ciò che non era.

Intanto, onde evitare un possibile coinvolgimento nella situazione che andava surriscaldandosi, le poche donne rimaste in cucina si apprestarono ad uscirvi e la cameriera bionda rivolse loro uno sguardo e un sorrisetto ironici, più per stemperare la tensione che per schernirle. 

“Voi mi vedete come una menefreghista, una traditrice”, esordì e ruppe quel silenzio che, nella sua eloquenza, si prestava a mostrar di lei la vera essenza, rivolgendosi unicamente a Sarah con un tono sempre più lapidario, “come un’arrivista, una poco di buono e fate bene, ma non sono sempre stata così.”

Inaspettatamente per entrambe, sulle ultime parole, la voce s’era incrinata e un’espressione di tristezza mista a rassegnazione aveva disteso i tratti del suo viso. Il silenzio riprese a svelarne il lato vulnerabile.

Poi, d’un tratto, dinanzi al crescente stupore di Sarah, in un’alternanza di risolutezza e commozione, confessò: “Per vigliaccheria ho vestito i panni di staffetta partigiana e mi sono ritrovata a combattere una guerra che non m’apparteneva e che – non me ne volere – non m’importava granché.” Fece una pausa, alzando le spalle, forse, soltanto per poterle riabbassare in segno di resa. “Ma la preferivo alla mia.”

Emise un esile sospiro, prima di proseguire, dicendo: “Non ho avuto il coraggio di affrontare il fallimento del mio matrimonio e sono andata via di nascosto. Senza dire una parola, senza chiedergli il perché.”

Spostò il colletto della camicia e volse lievemente il capo verso destra, mostrandole una cicatrice di forma circolare sul collo, indubbiamente riconducibile a una bruciatura di sigaretta, ma Sarah equivocò su chi ne fosse l’artefice.

“Io cercherò di fare qualcosa per te”, affermò, tornando ad essere quella di sempre, con un tono empatico e, allo stesso tempo, risoluto, pur sapendo che ad Hermann non sarebbe importato nulla.

Le labbra dell’altra si aprirono a una fievole risata sardonica, nervosa per poi esprimersi con mestizia: “Non è stato lui.” Si fermò per emettere un sospiro, stavolta, più profondo. “La cosa brutta è che da uomini come questi, dal tuo nemico te lo aspetti – e anche lui mi ha picchiata –, ma non dall’uomo che ami e che dice di amarti.”

La spiazzò, suscitandole una sensazione d’imbarazzo che divenne, nuovamente, di stupore, quand’ella, in modo improvviso, riprese il suo contegno altezzoso e la sua voce da oca giuliva, mentre, cambiando discorso, le diceva: “Sei una brava persona, Sarah. Fuori di qui, avremmo potuto essere amiche.” E le porse la mano per presentarsi. “Lucia.”

Mai s’innamorarono Lucia e Jörg ai quali toccò la sorte che fu da Sarah ed Hermann elusa. Morì il sergente maggiore nei primi attimi della battaglia partigiana di Gonzaga e lei finì su un treno diretto a Ravensbrück, uno degli ultimi treni di deportazione partiti dal territorio italiano.

Esitante, Sarah le strinse la mano e, con un sospiro di meraviglia mista a rammarico, esalò la sua risposta: “Sì, avremmo potuto.”

 

“E la domanda finale

è se hai più gioia o pene,

se sia più miele o sale,

se un bene può far male

e un male fare bene.

Se conviene il male,

se è irreale o c’è

e se ci tiene insieme,

se è uguale anche per te.

[…] Nemmeno un ultimo addio.

Il tuo è il mio,

ognuno con il suo.”

 

Claudio Baglioni, Mal d’amore



[1]“Hai una bella faccia tosta, ragazzo.”

[2]“Entriamo, devo parlarti.”

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Capitolo 55
*** Parlarsi ***



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Nella foto, dal set del film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Sarah e Matteo in luna di miele a Ischia.

 

Capitolo 55

 

Parlarsi

 

“L’amore è un gesto di disarmo. Esso ci impone sempre di parlare la lingua dell’altro, di imparare un’altra lingua, una lingua differente dalla nostra. L’amore non è mai amore per l’eguale ma per il prossimo in quanto figura dell’alterità.

[…] Quando dichiaro l’amore a qualcuno, quando dico «ti amo», dichiaro di amare nell’altro proprio quello che non so capire, che mi sfugge, il segreto inaccessibile della sua vita. Per questo si ama innanzitutto la libertà dell’altro. È la meraviglia dell’amore: amare l’assoluta libertà della lingua dell’altro.”

Massimo Recalcati

 

Il signor Gennaro entrò per primo in casa, palesando il suo malumore con un’andatura spedita e, al contempo, pesante. Di colpo, frenò i suoi passi dinanzi al tavolo di una cucina impeccabilmente in ordine, a dimostrazione della condotta irreprensibile di Sarah, nonostante il trattamento ricevuto. E fu proprio nell’osservare il vaso con i fiori freschi di calendula dalle sfumature gialle e arancioni posizionato al centro della tavola su un candido centrino ricamato che la sua irritazione accrebbe, ancor prima che Matteo aprisse la bocca.

“Se siete venuto a dirmi che ho sbagliato, potete anche risparmiarvelo”, gli disse, mentre udiva i battiti sempre più accelerati del proprio cuore fondersi con un intercalare arrogante che lui stesso non avrebbe mai e poi mai pensato potesse appartenergli, soprattutto nei confronti di una persona estranea e matura.

Si volse prontamente il signor Gennaro e, mentre il sopracciglio gli s’inarcava in un’espressione sorpresa e irata, dovette trattenersi dal dargli uno schiaffo, ben sapendo che tal gesto istintivo avrebbe potuto compromettere l’efficacia della sua paternale. Lo lasciò quindi parlare.

“Perché lo so già”, proseguì Matteo, pronto a sfogarsi, ma senza scendere nei particolari, “ma voi non sapete che cosa devo sopportare ogni giorno con Sarah!”

Si riferiva alla mancanza di sentirsi da lei amato, voluto e benvoluto, all’umiliazione di sentirsi secondo rispetto a quel nazista, ma fu un azzardo, poiché l’altro, non potendo giustamente immaginarlo, lo colpì con dure parole. In egual modo dettate da un istinto di rabbia, ad esse lo schiaffo sarebbe stato di gran lunga preferibile.

“Che cosa devi sopportare ogni giorno con Sarah, eh? Sentiamo!” Il signor Gennaro non riuscì più a contenersi e sfogò il proprio risentimento in un crescendo di tono, finché le parole non divennero offensive. “Che è una buona moglie e una gran lavoratrice? Che contribuisce al sostentamento economico della famiglia? Che ha venduto i suoi beni per comprare ’sta casa ca’ te mantene linda e pinta e chella barca ppe fatte fa’ ’o padrone?[1]

Puntò energicamente l’indice verso la finestra, pur se, da lì, la barca non fosse visibile, per poi indirizzarlo accusatore contro Matteo che restava impietrito, con gli occhi stralunati e umidi, nel sentirsi rinfacciare ciò che, a Sarah, non aveva mai chiesto.

“Se non era per lei, avevi voglia di restare alle dipendenze del compare e chissà fra quanto vi sareste sposati”, proseguì Gennaro, in procinto di assestargli un colpo ancor più duro del quale si sarebbe presto pentito, “solo per questo l’avissa tenere accussì a chella guagliona.[2]” Stese una mano con il palmo rivolto all’insù. “Perciò, sta’ attento quando parli di Sarah, pecché nun tien’ nient’ e nun si’ nisciuno[3]”, incalzò, puntandogli di nuovo il dito contro, “e bada bene a come la tratti e che non si ripresenti mai più al lavoro con la faccia impiastricciata di trucco per nascondere un tuo livido.”

«Nun tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Le parole gli echeggiarono lentamente, cupamente nella testa, schiacciandolo ad ogni sillaba scandita. Umiliato, ferito in quell’orgoglio maschile già abbastanza compromesso, Matteo non controbatté né si mosse di un millimetro. Soltanto s’intensificò il luccichio nei suoi occhi e, di colpo, impallidì in viso.

«Nun tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Eran le lapidarie parole di una società per la quale non valeva nulla, di un padre deluso, pentito di avergli affidato una figlia che non meritava, perché lui davvero «non aveva niente e non era nessuno». Pensò che finanche quell’altro – Hermann –, seppur nel male, fosse meglio di lui, avendo, difatti, salvato Sarah avvalendosi proprio del suo importante ruolo nella società di allora.

«Nun tien’ nient’ e nun si’ nisciuno». Con parole dure e sferzanti, più dolorose e umilianti di uno schiaffo in pieno viso, gli aveva strappato via la maschera dell’arroganza, rivelando il volto e gli affanni di un ragazzo vulnerabile qual era realmente. Gennaro capì di aver esagerato. Poggiò una mano sullo schienale della sedia accanto a sé e, mentre, chinandosi, esalava un sospiro di pentimento, un verso strozzato sfuggì dalla gola di Matteo.

Pianse e, tra i singhiozzi malamente trattenuti coprendo il viso con una mano, il signor Gennaro seppe cogliere, in parte, le ragioni del suo malanimo.

Sospirò di nuovo, stavolta più profondamente e riprese a parlargli con un tono pacato e comprensivo: “Immagino quanto possa essere difficile vivere accanto a una persona sopravvissuta. Sarah ha perso gli affetti più cari, ha sofferto l’arresto e la prigionia senza motivo, ha subito umiliazioni e privazioni, ha rischiato di essere deportata ad Auschwitz e di perdere la vita com’è accaduto alle migliaia di altri.”

La voce gli s’incrinò e tacque per contenere la propria commozione, dando a Matteo il tempo di ricomporsi. Questi portò la mano alla fronte, stringendo i capelli ricci fra le dita e tirandoli un po’, gesto col quale era solito esprimere il suo disagio. Si asciugò poi il viso con la manica della camicia beige stropicciata da vento e salsedine e, tirando su col naso, soffocò un ultimo singhiozzo.

“A volte, sembra estraniarsi dal presente, perché in passato ha vissuto un tempo sospeso”, proseguì il signor Gennaro, aggiungendo un’intonazione seria e apprensiva alla sua voce. “Devi saper comprenderla e per poterlo fare è necessario che vi parliate, sempre. Ma questo vale per tutte le coppie. Io e mia moglie stiamo insieme da oltre quarant’anni: sei figli maschi, due guerre mondiali, una gravidanza finita male, un locale da portare avanti e tante difficoltà che, se non ci fossimo parlati, non avremmo mai potuto superare. Tante volte abbiamo discusso, litigato e lo facciamo ancora, ma non siamo mai arrivati al punto dove siete voi dopo soli sei mesi di matrimonio.”

Sorrise per non piangere, mentre gli occhi scuri di Matteo deviavano nel vuoto.

Gennaro gli si fece più vicino e, ponendogli una mano sulla spalla, trattenne un sospiro, prima di avviarsi alla conclusione: “Ho sbagliato a parlarti in quel modo, ma Sarah è come una figlia per me e voglio che tu impari a controllare i tuoi istinti. Da questo si misura la vera forza di un uomo.”

“Su, coraggio!” Tal saluto, accompagnato da due pacche sulla spalla, destò Matteo dal suo immobilismo.

Rimasto da solo, si volse di lato e indirizzò lo sguardo inumidito dalle lacrime verso la camera da letto, mentre udiva i passi del signor Gennaro allontanarsi e la porta di casa aprirsi per poi richiudersi. E fu subito sera.

Vide Sarah di profilo, seduta ai piedi del letto, ripiegata su se stessa, con indosso la sua lunga vestaglia di seta bianca dalle maniche larghe che, apertasi sul fianco, le lasciava una gamba scoperta e si avvicinò all’uscio della stanza.

Non si era scomposta Sarah al rumore della porta d’ingresso che s’apriva e si richiudeva, ma, quando i passi lenti e strascicati di Matteo si fermarono sulla soglia della camera da letto, non poté che sollevare il capo e rivolgere a lui lo sguardo.

Negli occhi color miele le rilucevano le lacrime trattenute e sulla guancia impallidita si presentava il livido a rinfacciargli l’errore. Che cosa le aveva fatto?

 

“Abbiamo già un vissuto che, a dire il vero,

somiglia più ad un conflitto.

Il cuore spesso offeso da un dito che

tu mi hai puntato al petto.

Se gli occhi non riescono

a raccontarti ciò che vedi,

proverò io a dirtelo,

perché all’evidenza non ci credi.”

 

Emma Marrone, Mi parli piano



[1]Che ha venduto i suoi beni per comprare questa casa che ti mantiene pulita e ordinata e quella barca per farti fare il datore di lavoro?

[2]Solo per questo la dovresti tenere così (tenere su un piedistallo) quella ragazza.

[3]Perché non hai niente e non sei nessuno.

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Capitolo 56
*** Arrendersi (Prima parte) ***



Nella GIF, tratta dal film “La conseguenza”, come immagino Sarah ed Hermann nel 1947.

 

Capitolo 56

 

Arrendersi

 

Prima parte

 

- Come petalo di margherita caduto in terra -

 

“Mi piaci quando taci perché sei come assente.

Distante e dolorosa come se fossi morta.

Allora una parola, un sorriso bastano.

E son felice, felice che non sia così.”

Pablo Neruda, Mi piaci quando taci

 

Danza di sguardi rugiadosi sullo sfondo della luce soffusa propagata dal lume sul comodino, Sarah abbassò gli occhi sul mazzo di fiori che Matteo teneva penzoloni in una mano e anch’egli vi rivolse lo sguardo. Se n’era quasi dimenticato e comprese quanto fosse stata fuori luogo l’idea di ripresentarsi a lei con dei fiori. I loro occhi s’incontrarono ancora, prima che lo sguardo deluso e insofferente di Sarah ritornasse sul pavimento. Altrettanto amareggiato verso di sé, Matteo guardò di nuovo il mazzo di fiori e lo scosse leggermente, come a voler sottolineare a se stesso l’errore.

Le bianche margherite persero così alcuni dei loro bei petali bordati di rosa che si riversarono ai piedi di Matteo, unendosi alle ceneri del suo matrimonio infelice per la cui salvezza non sarebbe bastato chiederle scusa né giustificarsi attribuendo la colpa a un terzo. Di questi, tuttavia, avrebbe potuto parlarle indicandolo come uno dei motivi della propria infelicità e si sentì pronto a tale confessione.

Sentimenti contrastanti albergavano e si scontravano nell’animo di Sarah e, giacché non aveva provato alcun sollievo nel rivederlo, capì quanto la speranza ch’egli non tornasse fosse più forte rispetto alla paura di averlo perso, sicché l’apatia e la rassegnazione presero a dominare su quella combattiva volontà di parlargli, di chiedergli il perché scaturita dal ricordo di Lucia.

Il mazzo di fiori coi petali strapazzati dal malcontento di Matteo finì su una seggiola accanto alla porta e, intanto, in lui veniva meno il coraggio infusogli dal signor Gennaro del cui discorso prese a ricordare, in un crescendo di tormento, soltanto le parole che lo avevano ferito sminuendo il suo valore.

Si avvicinò a Sarah lentamente, a testa china, piegato sotto il peso della disistima verso di sé, dell’afflizione di sentirsi immeritevole di lei, della paura di perderla e ne fu sopraffatto.

Non provò stupore né compatimento e neppure compiacenza Sarah al tonfo delle ginocchia di Matteo che batterono sul pavimento innanzi a lei. Soltanto sentiva nel cuore l’eco del vuoto, spento anche l’ultimo palpito d’amore.

Matteo si era inginocchiato malamente in terra, quasi a volersi punire e un singhiozzo strozzato, soffocato, premendo la guancia ispida sul ginocchio nudo di Sarah, ne aveva preannunciato il pianto.

Al primo suono rauco, più somigliante a un colpo di tosse, Sarah restò turbata e, da esso derivanti, le lacrime convulse le sottrassero ragione e intenzioni. Il suo cuore trasalì e confuse per battito di rinnovato amore quel ch’era mero sussulto di compassione la quale si radicava nel sentimento di bene.

Matteo versò allora tutte le lacrime trattenute per pudore ed orgoglio in presenza del signor Gennaro e, nel pianto che andava quietandosi, biascicò: “Mi dispiace.”

Ma, forse, lo era più per se stesso. E questo Sarah dovette accorgersene, poiché fermò la mano a mezz’aria sul suo capo in un gesto esitante.

Pensò a quanto, come Lucia, fosse stata manchevole di coraggio, mentre la domanda – quel «perché» che, se pronunciato, avrebbe potuto spingere Matteo ad aprirsi – rimaneva incastrata tra il cuore e la gola. Di lei, però, non avrebbe imitato l’ardire di andar via e si arrese all’infelicità.

Per un istante, chiuse gli occhi per sottrarsi alla realtà a cui s’era già da tempo rassegnata e sospirò debolmente, prima di infrangere la promessa del silenzio che gli aveva fatto la sera precedente.

“Anche a me”, rispose in un sussurro e affondò le dita nello scompiglio dei suoi capelli ricci, carezzandogli la testa.

Un alito di vento si levò, l’ultima sferzata di fresco, prima dello stabilizzarsi della bella stagione, che intirizzì, da sotto la vestaglia di seta bianca, la pelle nuda delle gambe di Sarah e drizzò i folti peli delle braccia di Matteo, scoperte dalle maniche della camicia arrotolate fin sopra ai gomiti.

Danzarono le tende in organza alle finestre di casa e vorticarono, sparendo verso il corridoio, i petali caduti in terra. La brezza di mare batté alla porta d’ingresso e, accompagnati dallo sciabordio delle onde che s’infrangevano con maggior forza contro la banchina, i sospiri del vento fecero da preludio agli ansiti d’amore.

Perché quella stessa notte Sarah venne meno ad un’altra promessa – quella fatta a se stessa – e cedette alle carezze di Matteo, mentr’egli usava il proprio corpo come strumento per chiederle perdono.

A nulla valsero il ricordo di Lucia, la paternale del signor Gennaro e l’amor carnale fu il fallimentare epilogo di un discorso fra i due mai cominciato.

Per la prima volta, Sarah raggiunse con Matteo l’ebrezza dei sensi, accogliendo come disperata passione quello smanioso fremito suscitato dalla paura di perderla, per poi sentirsi ancor più sola, vuota e violata.

Infastidita, quasi umiliata dallo sguaiato sospiro di appagamento di Matteo, Sarah si volse dall’altra parte del letto e una lacrima le scivolò sulla guancia livida, mentre guardava il mazzo di fiori appoggiato sulla seggiola perdere un altro petalo il quale volteggiò nell’aria, prima di cadere anch’esso in terra.

 

“Cercando solo te, io vivo, poi tu mi fai morire

per un nuovo amore, per i silenzi che mi hai dato e che ti porti via.

Ed ora che mi chiami «amore mio» potrei anche perdonarti,

ma nella mente mia non sento niente.”

 

Gli alunni del sole, I tuoi silenzi

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Capitolo 57
*** Di svastiche, lustrini e vecchi valzer viennesi ***



Diapositiva1

Nella foto, come immagino Hermann nel 1947.

L’attore è Alexander Skarsgård, protagonista del film “La conseguenza”.

 

Capitolo 57

 

Di svastiche, lustrini e vecchi valzer viennesi

 

“La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la «comprendiamo». Ma nell’odio nazista non c’è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell’uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia.”

Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947 (in Appendice, 1976)

 

Berlino, 25 aprile 1947

 

Non ci sarebbe stato modo di sfuggire a ciò che i suoi avevano già pianificato. Accettando l’invito e coinvolgendolo a una festa segreta di ricchi, nostalgici nazisti, avrebbero giocato la loro ultima carta per convincerlo non tanto a restare, quanto piuttosto a riabbracciare l’ideologia, forse, pensando e sperando che qualcosa o qualcuno, o soltanto il ritrovarsi, riconoscendosi in quel mondo gli avrebbe fatto cambiare idea.

Aveva risposto subito con un diniego Hermann, giacché, in lui, v’era non solo il rigetto verso quella gente ma anche la paura di un’eventuale ronda da parte delle milizie occupanti e di finire nell’ennesimo guaio che avrebbe posticipato la sua partenza. Il pensiero di tale eventualità lo angosciava ancor più del ricordo delle violenze subite nel lager sovietico.

Da bravo persuasore qual era, merito anche di una carriera da poliziotto, suo padre non ci mise molto per convincerlo.

“Quella gente, come la chiami tu, mi ha aiutato a ritrovarti e a tirarti fuori da Sachsenhausen. Mi hanno prestato dei soldi”, incalzò Karl, sbattendo il pugno sul tavolo e, ansimante, quietò poi il tono della voce, “che molti di loro non rivogliono neanche indietro, perché sei sempre stato stimato e apprezzato.”

Se con tali parole suo padre si fosse fermato, Hermann avrebbe dato lì per lì il proprio assenso, rivestitosi per un lungo attimo stordente di quella tracotanza della quale nel lager sovietico, tra umiliazioni e percosse, era stato spogliato, invece continuò, infierendo su ciò che proprio non riusciva ad accettare: “Anche dopo che è venuta a galla quella merda.”

Un cipiglio irato gli incorniciò lo sguardo perso nel vuoto e, mentre si alzava, lasciando stridere la sedia contro il pavimento, pur egli rispose sbattendo il pugno sul tavolo, ma la profonda disperazione ne trattenne la forza che, di lì a poco, avrebbe espresso chiudendo con violenza la porta della sua stanza.

La gente di quel mondo cui anche Hermann aveva appartenuto, a differenza di suo padre, era stata capace di perdonargli la storia d’amore con Sarah, giacché essi non la ritenevano tale. Taluni lo avevano giustificato, definendola un ricordo distorto per sfuggire alla dura realtà del lager sovietico, altri una sbandata dovuta alla tensione per una guerra ormai persa, attribuendo a lei il ruolo di valvola di sfogo per irrefrenabili pulsioni maschili e di maliarda quale ritenevano fosse una donna ebrea, ma tutti, alla confidenza di Karl, ne avevano irriso l’esagerazione.

Neanche fosse stata l’ultima donna sulla faccia della terra, Karl non avrebbe violato, né allora né mai, e neppure col pensiero, uno dei capisaldi dell’ideologia nazionalsocialista, giacendo con un’appartenente alla razza impura, e si stupiva della leggerezza e dell’ironia, talvolta sfocianti in volgari battutine, con le quali i suoi amici affrontavano l’argomento.

Seppure fosse risorto dalle rovine, il nazismo avrebbe avuto connotati diversi e Karl viveva nella tacita e, a sua moglie, inconfessata malinconia, rimuginando dentro di sé tal pensiero, consapevole che anch’egli era cambiato, giacché un tempo non avrebbe mai e poi mai, e così schiettamente, confessato il reato di oltraggio razziale compiuto da suo figlio.

Questi, intanto, sciolse l’intreccio di dita e sollevò dal pavimento lo sguardo corrucciato. Si alzò dal letto sul cui bordo era seduto e s’arrese al volere dei suoi, sentendo il richiamo di quel mondo che pensò potesse corrispondere al proprio cambiamento e dal quale, inconsciamente, desiderava ricevere ancora gli onori.

Intenzionato ad annunciare la sua decisione, si avvicinò in fretta alla porta della stanza e impugnò la maniglia.

 

Un maggiordomo in giacca bianca aprì loro la porta della sontuosa casa, una villa fuori città che sembrava esser stata immune dalla furia della guerra e dove i suoi abitanti, anch’essi rimasti incolumi dal conflitto, poi ignorati dalla giustizia del dopoguerra, vivevano un tempo sospeso, in attesa della seconda vita del nazismo, fra nostalgia del passato e palpitante aspirazione di fondare un nuovo movimento politico che ne rianimasse l’ideologia.

In smoking nero lucido con papillon, bretelle e fusciacca ad enfatizzare un fisico asciutto e, adesso, con muscoli appena accennati, Hermann posò lo sguardo incredulo sull’enorme drappo rosso con la svastica che sovrastava il camino di una sala già gremita di persone eleganti e gaudenti e il suo cuore fremette, scosso dal timore del passato che tornava e, al contempo, da un tremore di nostalgia.

Incrociò gli occhi di suo padre, due pozzi verdi, un tempo più rassomiglianti ai suoi, ora velati dall’età in una mescidanza di malinconia e severità, il quale, alla sua espressione interrogativa, rispose, ammonendolo come se fosse un bambino: “Non dire nulla che ti faccia vergognare.”

Seppur per motivazioni diverse, Sarah era il chiodo fisso di entrambi.

Consegnarono i soprabiti e, procedendo nel sontuoso e immenso spazio della sala in stile ottocentesco, sebbene fosse rimasto qualche passo indietro, Hermann poté notare l’espressione corrugata di suo padre rilassarsi in un cordiale sorriso, mentre s’avvicinava ai padroni di casa in primis, e all’altra gente poi, seguito da sua madre che, anche lei sorridente, con indosso una gonna lunga fino al ginocchio e coi capelli biondi tinti per l’occasione, pareva ringiovanire in quel mondo.

Rimasto indietro e distanziatosi dai suoi, Hermann si confuse fra la gente alla ricerca di un angolo dove poter fare da tappezzeria e, con in mano una coppa di champagne offertagli da un cameriere di passaggio, lo trovò nel più angusto spazio della sala, tra la parete e il tendaggio di velluto color rosso bordeaux.

Le persone eran per lui come ombre sfocate, i loro discorsi filonazisti gli arrivavano alle orecchie come un trambusto ovattato che s’elevava al vecchio valzer viennese suonato dal grammofono.

In una seconda coppa di champagne, affondò l’angoscia e il desiderio di un ritorno al passato, suscitatigli da quel mondo e, sebbene la mente fosse in confusione e l’animo in lotta, prevalse in lui la consapevolezza.

E comprese Hermann l’impossibilità di sperimentare l’ebrezza dell’egocentrismo, della superiorità e del potere, senza dover considerare un altro essere umano inferiore e sopraffarlo. La scelta era tra il riabbracciare quel mondo in toto o non farlo per niente e tornare a Sarah da uomo libero, liberato completamente dal veleno del nazismo che, subdolo, s’insinuava ancora nelle sue vene, ma lui non aveva alcun dubbio.

Al di là dei pensieri che gli affollavano la mente, dinanzi al vuoto che i suoi occhi fissavano, prese forma un’immagine di donna a lui familiare, di spalle, in abito lungo color oro con lustrini e orlo a sirena stile charleston che le aveva già visto indosso, nella consueta posizione asimmetrica e sensuale con una mano sul fianco e il gomito proteso leggermente all’indietro, coi capelli biondi raccolti in uno chignon impreziosito da un fermaglio gioiello, regalo suo.

Conversava con le altre donne che l’accerchiavano e che, quasi subito, avendolo riconosciuto, con simultanei cenni del capo, la esortarono a voltarsi. Lo fece e, fermatasi di lato, già gli mostrò un paio d’occhi azzurri, quelli che un tempo Karl e Birgit sognarono per i loro nipotini, spalancati in greve stupore.

Era Else, la sua fidanzata storica.

 

“Ciao tu, animale stanco,

sei rimasto da solo, non segui il branco,

balli il tango, mentre tutto il mondo

muove il fianco sopra un tempo che fa

tikibombombom.

[…] Mai più, è meglio soli che accompagnati

da anime senza sogni pronte a portarti con sé, giù con sé.”

 

Levante, Tikibombom

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Capitolo 58
*** Arrendersi (Seconda parte) ***



Else-capitolo-58

Nella foto, come immagino Else nel 1947.

L’attrice è Diane Kruger, dal film “Bastardi senza gloria”.

 

Capitolo 58

 

Arrendersi

 

Seconda parte

 

- “Sul bel Danubio blu” -

 

“La memoria umana è veramente qualcosa di strano. Sfioro un braccio e trovo la voce di un’altra persona. Tocco dei volti e i loro occhi si allontanano. Scopro un cielo azzurro e tutte le forme intorno si nascondono. Attraverso un ponte e non c’è nessun fiume sotto. Come sono inafferrabili taluni ricordi nel loro essere appesi a niente, forme in continuo movimento che restituiscono il niente in un niente più grande.”

Fabrizio Caramagna

 

Il vecchio valzer viennese suonato dal grammofono, i discorsi filonazisti e le risate frivole della gente parvero zittirsi in un silenzio irreale, intervallato in maniera quasi ipnotica dal fruscio dell’orlo del vestito di Else sul pavimento e dal tintinnio dei suoi bracciali in oro, mentre a lui s’avvicinava lentamente, sinuosamente.

La scia di Chanel N°5, il suo profumo da sempre, la precedé, per empir poi di vecchie sensazioni lo stretto, forse, per Hermann, disagevole spazio che fra loro s’interponeva.

Quattro anni e lei sarebbe parsa la stessa, se non fosse stato per lo spesso strato di rouge che celava due guance smagrite e la fresca vedovanza per la quale non aveva mai portato il lutto.

Fondato già su un debole amore, il matrimonio si disfece assieme alla Germania nazista. Terrorizzato dall’arrivo dell’Armata Rossa, svuotato della speranza del delirante sogno d’“impero millenario” in cui Else, invece, non smetteva ossessivamente di credere, il giovane Sturmbannführer[1] si tolse la vita con una pillola di cianuro e mai ricevette perdono per quel che lei considerava gesto egoista, sentendosi abbandonata, e, in primis, vile verso l’amor di patria che tanto li aveva uniti. Finì per odiarlo.

Alzandosi sulle punte delle sue décolleté di raso color bronzo impreziosite da una fascetta di strass, gli si aggrappò alla spalla ed Hermann credette nel saluto di un bacio sulla guancia che già s’apprestava istintivamente a ricambiare.

Invece gli avvicinò le labbra rosse all’orecchio e, dischiudendosi quel tanto che bastava per sussurrare, la sua bocca produsse il suono come di un bacio, prima di chiedergli con voce seducente: “Ti andrebbe di ballare con me, Hermann?”

Scandì ogni parola, ma si trattenne qualche secondo in più sull’ultima, per far sì che il suo nome gli arrivasse all’orecchio come un sospiro, richiamo ammaliante di un silenzioso desiderio che lo avvinse e, mentre il grammofono suonava le prime note del valzer “Sul bel Danubio blu”, la sua mano si ritrovò a stringere quella di Else e fu subito al centro della sala – lui che, dapprima, s’era nascosto all’ombra di un tendaggio per sfuggire all’attenzione della gente.

Else era un concentrato di ricordi dei suoi vent’anni. Danzar con lei era il rievocare la fatica e la gratificazione dello studio prima, della carriera militare dopo, il tremore e il coraggio di deviare il percorso di vita col suo passaggio dalla Gestapo alle SS, affascinato più dalla divisa di suo suocero che da quella di suo padre, il brivido d’orgoglio di sentirsi riconosciuto dalla società dell’epoca, di credersi superiore rispetto a buona parte della popolazione mondiale.

Ma Else era anche la spensieratezza di un amore giovanile con la trepidante, acerba curiosità di scoprire l’altro sesso e se stesso nella sfera dell’intimità, la tenerezza di passeggiate mano nella mano al chiaro di luna, di romantiche cene a lume di candela, gli eccessi di un bagno nudi nel lago Schlachtensee, di una fuga ad Amsterdam, il tentativo d’imparare l’arte della fedeltà da entrambi spesso tradita, di rado la sua manchevolezza perdonata. Eppure ne sorrise al ricordo, mentre s’apprestava a farla volteggiare e il tempo si fermava, dilatandosi.

Lui ed Else erano stati amici, complici, fidanzati, conviventi, amanti – nel senso stretto della parola, proprio durante la sua festa di nozze –, insieme avevano scoperto l’amore nelle varie sfaccettature e superatone il fallimento, senza considerarlo una sconfitta, senza rancori.

Facendola girare su se stessa, l’abito color oro che le stringeva i fianchi si accorciò, allargandosi e roteando in una gonna svasata con stampa a fiorellini, dallo chignon, le bionde ciocche si liberarono, fluttuando in lunghi capelli neri dalle tenui sfumature color rame, e tornò a lui – che rivide anche sé, di sottecchi, sbracato in stivali, camicia e bretelle – con le fattezze e il sorriso di colei con la quale aveva imparato ad amare, sperimentando il sentimento della gelosia e la paura di perdere la persona amata, restandole fedele. Le sorrise come nel luglio del ’44 e furon soli nella sua stanza a Fossoli.

La musica s’era zittita in una silenziosa melodia inventata e, assieme alla sontuosa sala, eran spariti gli sguardi attoniti di chi un tempo li aveva invidiati e di quanti su di loro avevano sognato.

Uno scroscio di applausi lo riportò alla realtà, ma fu Sarah e non Else a prenderlo per mano, la sua voce a invitarlo a salire su per le scale: «Vieni con me». Come in un sogno, le parole vibrarono senza che lei aprisse bocca, la sua immagine apparve sfocata e le sue labbra incurvate nel dolce sorriso che sfavillava negli occhi color miele lo convinsero a seguirla, infervorandolo subito dopo a precederla.

Da lontano, Birgit aveva assistito alla scena e, al vedere come Hermann guardava Else, nei suoi occhi eran rifulsi stupore e speranza. Lo sentì di nuovo suo figlio, mentr’egli imboccava di corsa le scale mano nella mano col primo amore sulle note di un più vivace valzer.

A differenza di sua moglie, Karl aveva percepito la scena in modo diverso e guardato ad essa col volto indurito dalla severità e, non vedendo in Else un’ancora di speranza, bensì la possibilità di uno scandalo per quel figlio che già era sulla bocca di tutti, fece un passo in avanti verso la scalinata che portava alle stanze nell’intento di fermarlo.

Ma una mano si appoggiò sulla sua spalla e una voce gli parlò con il tono ironico e rassicurante che solo un amico di vecchia data avrebbe potuto permettersi: “Suvvia, Karl! Non fare l’antiquato, ché sono stati insieme per tanti anni.” A parlare fu proprio il padre di Else, ma Karl non si stupì di tal linguaggio, conoscendone la mentalità più libertina. “E poi fidati”, proseguì, “sentire di nuovo il profumo di una donna ariana gli rimetterà in ordine le idee.”

Nello champagne, Karl intinse appena le labbra e la coppa rimase a mezz’aria, sospesa, come anch’egli era tra il desiderio di credere a tali parole, scabrose, se pronunciate dal padre di lei, e il suo senso della realtà. Conosceva troppo bene l’ossessione di suo figlio per Sarah e non mutò di espressione, mentre lo guardava voltarsi indietro e sorriderle ancora.

 

“Quanta fatica facciamo a dimenticare,

certi ricordi ci rimangono addosso sempre,

come per dire «guarda cosa ti è successo mentre

salvavi quello che comunemente»

chiamiamo amore, per quante volte

facciamo finta di non ricordarci il nome

che sotto voce si sente eccome,

ma di profilo c’è il tuo seno che mi vuole

e anche se non lo dico

mi fa male tantissimo.”

 

Le Vibrazioni, Tantissimo



[1]Maggiore.

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Capitolo 59
*** Non è lei ***


Capitolo 59

 

Non è lei

 

“Corpo di donna mia, persisterò nella tua grazia.

La mia sete, la mia ansia senza limite, la mia strada indecisa!

Oscuri fiumi dove la sete eterna continua,

e la fatica continua, e il dolore infinito.”

Pablo Neruda, Corpo di donna


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Sugli ultimi gradini, Hermann si volse indietro e le sorrise. Le rosee labbra si curvarono in un rasserenante sorriso, si sollevarono le guance or floride, segno di una buona salute e lui ne fu rincuorato, scintillarono gli occhi color miele sotto le folte ciglia scure, mentre una luce evanescente l’avvolgeva, come in un sogno, come un miracolo.

Poi, d’improvviso, il volto gli si corrugò chiedendosi come avesse fatto a ritrovarla e perché fossero lì, sui gradini scheggiati, fra le pareti grigie, nello sfondo cupo dell’edificio occupato dai tedeschi a Fossoli, ma fu solo per un fuggevole istante.

Non gli importò darsi una risposta né fare delle congetture, giacché ciò che contava era che lei fosse lì, viva e godente di buona salute, felice e, a quanto pareva, condiscendente perdono nei suoi riguardi, a stringere la sua mano come ad aggrapparsi al passato e, al contempo, incoraggiare entrambi a un futuro nuovo insieme.

La sua bocca si riaprì in un sorriso incantato che lo distrasse e al quale lei rispose con una risata vispa e cristallina che non le aveva mai sentito, prima di precederlo per guidarlo verso la sua stanza, la loro alcova a Fossoli.

Aprì la porta, irrompendo entrambi con frenetico entusiasmo in un ambiente che profumava di acqua di rose e lisciva, e, mentr’egli la richiudeva, sciolse l’intreccio delle loro dita.

Rise ancora e fece eco una risata dal timbro civettuolo che lo ridestò da quel sogno ad occhi aperti, catapultandolo in una lussuosa sala da bagno con rivestimenti in onice bianco e finiture in oro rosa e spegnendogli il sorriso.

Distante qualche passo e di spalle, la figura di donna si rivestì del lungo e fasciante abito color oro con lustrini e orlo a sirena stile charleston e, portando le unghie smaltate di rosso fra i biondi capelli raccolti nello chignon adesso scompigliato, si acconciò il fermaglio gioiello, prima di voltarsi lentamente per ostentare sensualità e finti risolini di divertimento.

“Oh Hermann, Hermann”, esordì Else, fingendo anche un respiro ansante, un suono che, unitamente a quello delle risate, rendeva la situazione piuttosto irritante. Lei già lo era, non essendo Sarah.

“Credo di averci perso l’abitudine”, disse e, troppo improvvisa per poterla definire una reazione naturale, le risate si spensero e il respiro tornò regolare. Di colpo, a dimostrazione della sua farsa.

“Allora?” Else riprese a parlare con un tono imperioso, di biasimo, portando le mani ai fianchi. “è vero quello che dice la gente?”

Dinanzi a tale atteggiamento, incrociò le braccia e si rivestì della tracotanza appartenutagli un tempo e, pur sapendo dov’ella volesse andare a parare, rispose con un’altra domanda: “E cosa dice la gente?”

“Che, quand’eri in servizio a Fossoli, avresti perso la testa per un’ebrea.” Fece una pausa, lunga abbastanza da poter imprimergli nella mente l’immagine della sua espressione di disprezzo. “E che, adesso, ti staresti preparando a un viaggio in Italia per ritrovarla.” Di nuovo, si zittì per comporre le labbra a un riso ironico. “Il colmo sarebbe venir a sapere che vorresti anche sposartela.”

Il silenzio come risposta, gli occhi dilatati in un’espressione rugiadosa lasciarono intendere un assenso e tal era, ma furon, in realtà, la reazione a un’irragionevole delusione che lo sopraffò, quand’ella, con atteggiamento beffardo e voce ancor più da oca giuliva, riprese: “Ma dai! Non mi dirai che è vero? Oddio!”

Il senso di delusione assunse così i contorni della rabbia la quale dardeggiò nei suoi occhi verdi e mosse stizzosamente i suoi passi verso di lei. Un fulmineo lampo di stupore le rifulse negli occhi color oceano che tornarono subito a raggelarsi per l’innata sua presunzione, sebben egli le fosse troppo, minacciosamente vicino.

“Ci rivediamo dopo quattro anni e, nonostante tu sappia – perché tu lo sai, la gente ti avrà sicuramente detto anche questo – dove sono stato e tutto quello che ho passato nelle mani dei russi, non mi chiedi neanche come sto.” Di rancore, ringhiava la voce di Hermann, a tratti, spezzandosi e incespicando nelle parole. “Siamo stati insieme per ben otto anni, Else, abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto come se fossimo sposati. Te ne rendi conto?”

“E tu? Te ne rendevi conto, mentre mi tradivi con la mia amica d’infanzia, oppure quando andavi a sollazzarti con la cantante di quel cabaret da quattro soldi?” Nella voce di Else, non v’era nessun tremolio di rancore, né velo di rabbia nei suoi occhi, ma soltanto gli parlò, assumendo un tono di sufficienza e guardandolo con aria di sfida.

Di Hermann stavolta fu il cuore a incespicare, al ricordo dell’uomo che era stato e con il quale, dimenticatosene nel far guerra al sé nazista, non aveva ancora avuto modo di confrontarsi, ma non lasciò trapelarlo né mostrò alcun cenno di esitazione, mentre, restituendole lo sguardo, le rispondeva col medesimo tono: “Come te ne rendevi conto tu, mentre te la spassavi con quello che sarebbe diventato tuo marito.”

“No, ti prego. Di lui non ne voglio sentir parlare.” Con i gesti che rimarcavano la risolutezza della voce, la mano accompagnò le parole, finché non si pose sul suo petto, con le dita a strofinargli il papillon. “Non adesso”, concluse, in tono lascivo.

Come da copione, l’alchimia fra loro fu accesa, ridestata dal tocco ammaliante e seducente di donna, dalle sue labbra rosse socchiuse in un’attesa sensuale, dall’elisir avvolgente del suo Chanel N°5 che fecero emergere l’ego di Hermann.

Questi iniziò a sudare, incapace di trattenersi da ciò che, molto probabilmente, anche con un’altra donna sarebbe accaduto, considerata la lunga astinenza.

“Cos’è che vuoi da me?” Nel tono della voce e nelle espressioni facciali, Hermann sforzò austera indifferenza, mentre le dita affusolate di Else percorrevano lentamente il suo addome, tracciando un’immaginaria linea sinuosa.

“Ricordare il passato con te”, rispose languida e le parole gli arrivarono all’orecchio come un lieve sussurro, alle giunture come brivido libidinoso, ma, poco prima che la mano potesse giungere alla meta, di colpo, gliel’afferrò, allontanandola bruscamente dal suo corpo.

 

“Non è così che puoi comprarmi, baby.

Tu lo sai.

È un po’ più giù che devi andare, lady.

(Al cuore?)

Se ce l’hai.

Io ce l’ho.

[…] Ridi pure, ma

non ho più paure (forse) di restare

senza una donna.”

 

Zucchero, Senza una donna

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Capitolo 60
*** E fu violenza ***


Capitolo 60

 

E fu violenza

 

“Noi ci perdiamo, a volte, ed affanniamo per i vicoli ciechi del cervello, sbriciolati in miriadi di esseri senza vita durevole e completa; noi ci perdiamo, a volte, nel peccato della disconoscenza di noi stessi.”

Alda Merini, Santi e poeti

 


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Un lampo balenò negli occhi di Else, mentre lo sguardo di Hermann riluceva della medesima ira.

Benché ne avesse risentito dell’urto, fu per riprendersi dallo sbigottimento e non per dar sollievo a quel lieve dolore ch’ella si massaggiò il polso, facendo tintinnare rumorosamente, intenzionalmente i suoi bei bracciali in oro.

“Io, invece, non ne ho voglia”, ribatté Hermann serio, più di quanto la situazione necessitasse.

Un sorrisetto malizioso le si dipinse sulle labbra e, con un dito sotto il mento, prese a squadrarlo dalla vita in giù, prima di spezzare l’interminabile istante d’imbarazzo, alzando il sopracciglio dell’ironia.

“Beh”, disse e poggiò le mani sui fianchi, manifestando un atteggiamento sprezzante e un ostentato senso di superiorità, “non si direbbe.”

Denotando un’instabilità spiazzante, irritante, Else avvicinò di nuovo la mano ingioiellata e smaltata al viso e, col gesto di coprirsi la bocca, fece finta di soffocare una risata sguaiata, derisoria che urtò la sua suscettibilità.

“Cos’hai da ridere?” Sulle labbra, Hermann sentì vibrare il risentimento, eppure tali parole fuoriuscirono in tono lapidario e negli occhi rifulse il disprezzo. Verso di lei, verso di sé per le scelte affettive del suo passato. Quello, prima di Sarah.

“Allora erano tutte vere quelle storielle che, ai nostri tempi, si raccontavano tra ragazzi.” Al tono interrogativo di tali parole spezzate dai singhiozzi del riso, egli rispose guardandola fissamente con occhi sgranati di rabbia per l’incapacità di comprendere di cosa stesse parlando e per l’umiliazione già da troppo tempo percepita.

“Va bene, va bene, te le riassumo in termini più eleganti: «conosci intimamente un’ebrea e sarai destinato a perdere la tua virilità».” Scimmiottando un atteggiamento maschile, Else lo aveva spinto al limite della tolleranza e fomentato la reazione che non tardò ad arrivare e della quale, molto probabilmente, sin dall’inizio, s’era posta l’obiettivo.

Eppure frutto di un’intuizione che s’avvicinava alla verità era la sua insinuazione. Per l’ossessione d’amore e in buona parte anche in conseguenza della disumanizzazione subita nel lager sovietico, Hermann aveva sperimentato un calo della libido e la cosa non sembrava turbarlo minimamente. 

La carezza di donna, della donna un tempo amata e dinanzi alla quale non avrebbe potuto restare del tutto indifferente aveva riacceso la scintilla. Le sue parole, crudele reminiscenza di quel mondo che pareva non volesse mai lasciarlo andar via tra impedimenti e l’inganno del pensiero di superiorità che tornava inconsciamente ad attrarlo, avevano divampato il fuoco.

Ridestato dalla rabbia, di essa si nutrì l’ego, quella parte di sé che in passato lo conduceva a ricercare l’amore in modo contrario all’amore, con atteggiamento malsano e ferente, per mera soddisfazione delle pulsioni.

L’afferrò per le braccia, bloccandola contro il lavabo ed ella rispose dardeggiandolo con uno sguardo di sfida che all’istante svanì, ammansito dal desiderio.

La fece voltare, piegandola. Al gesto repentino, l’esili braccia candide, nude batterono sul marmo onice, sicché i bracciali ne graffiarono la pelle ed Else si guardò allo specchio digrignare i denti in una smorfia di fastidio, ma non lo percepì come violenza e si sottomise al bisogno di pacificare l’inquietudine del suo vuoto interiore.

Fu violenza. Generata da impulsi di dominio e di possesso, volta al raggiungimento della soddisfazione libidica, di essa si era avvalso la prima volta con Sarah. Sopraffatto dall’istinto di prevaricazione, di controllo lo guidava adesso una volontà punitiva verso Else, alla quale s’affiancava spasmodico l’intento di mettere alla prova la sua mascolinità.

E fu violenza anche verso se stesso. Struggendosi nel sottofondo degli ansiti, dello strofinio dei corpi, del tintinnio dei bracciali, delle note lontane dell’ennesimo valzer, disconosceva l’uomo ch’era riuscito a diventare.

Per aver tirato fuori la parte peggiore di sé, avrebbe poi incolpato quel mondo in cui s’incarnava il veleno dell’ideologia ed Else col suo atteggiamento voluttuoso, sensuale, provocatorio.

Finì, lasciandola inappagata, sporca e lei che fino a un attimo prima aveva espresso il proprio consenso attraverso una fin troppo accentuata mimica del piacere si sentì improvvisamente vuota, violata.

Lacrime di rabbia le inumidirono gli occhi e, benché si volse di scatto, attese una sua mossa, prima di colpirlo con la durezza della parola, mentre l’orlo a sirena dell’abito ricadeva a fatica sulle gambe.

“Ecco un’altra notizia che alla gente piacerà”, esordì Hermann cattivo, tracotante, aggiustandosi la fusciacca sui fianchi con aria dura e strafottente e anche nell’aspetto parve ad entrambi essere ritornato l’uomo di un tempo. “Mi ha dato più lei in pochi mesi che tu in tanti anni.”

Il solo nominarla iniziò a scavargli dentro, smussandogli le rinnovate asperità e prese coscienza Hermann dell’errore appena commesso.

Un’ombra di cedimento apparì nel suo sguardo, ripercuotendoglisi sul portamento e furon segnali di vulnerabilità per Else la quale gli ringhiò contro: “Sei un vigliacco. Tu non hai mai amato nessuno. Nessuno! Solo te stesso. Perché non sei venuto allo scoperto prima con lei, eh? Perché sei solo un vigliacco e avevi paura di essere condannato da un tribunale nazista.”

Le parole, come acqua di un fiume in piena, lo travolsero, scavandogli una voragine nell’interpretazione dei ricordi.

“Un vigliacco che torna da eroe”, incalzò Else, dando enfasi alle parole con la gestualità, “esonerato dai giudizi della nostra gente, perché creduto impazzito a causa della prigionia sovietica.”

E i ricordi di quando anche il giorno era notte innanzi agli occhi tumefatti bruciarono le cicatrici sulla pelle e tentò di fuggirvi, ma non si chiuse la porta alle spalle, non la ostacolò nell’inseguirlo col rancore che sapeva di meritare.

“Vattene, vattene pure!” Spettinata, stropicciata, Else si fermò a urlare sulla rampa di scale e la sua voce fu eco nel silenzio di un grammofono spento, nel trambusto interiore dei fantasmi del passato di Hermann. “Ma non pensare di tornare da eroe anche da lei che ti sputerà in faccia!”

Non si prefigurò la scena, poiché sapeva che Sarah non l’avrebbe mai fatto, ma fu il ricordo di tale violenza subita a Sachsenhausen a frenarlo, sconvolto, a metà della scala. Un attimo di lucidità lo sorprese nel delirio e si accorse che gli occhi di tutti erano puntati su di lui. Ne colse lo stupore e l’indignazione.

 

“Questo secolo oramai alla fine,

saturo di parassiti senza dignità

mi spinge solo ad essere migliore

con più volontà,

emanciparmi dall’incubo delle passioni,

cercare l’Uno al di sopra del bene e del male,

essere un’immagine divina

di questa realtà.”

 

Franco Battiato, E ti vengo a cercare

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Capitolo 61
*** Sogno ad occhi aperti ***


Capitolo 61

 

Sogno ad occhi aperti

 

“Amo ciò che non ho. Tu sei così distante.

La mia noia combatte con i lenti crepuscoli.

Ma la notte giunge e incomincia a cantarmi.

La luna fa girare la sua pellicola di sogno.

Le stelle più grandi mi guardano con i tuoi occhi.

E poiché io ti amo, i pini nel vento

vogliono cantare il tuo nome con le loro foglie di filo metallico.”

Pablo Neruda, Qui ti amo


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Unisono al brusio della gente immersa in un’atmosfera attonita di calici sospesi a mezz’aria, di Else riusciva a udire il battito accelerato del cuore e gli pareva di vederne il petto ansante di rabbia.

Il tempo s’era fermato e, in quegli attimi dilatati e ovattati, taceva nella mente il pensiero, mentre l’animo si empiva di tormento.

Di coloro che aveva innanzi, eleganti maschere in abiti lunghi e smoking che nascondevano, neanche tanto velatamente, divise macchiate del sangue innocente, non temeva il giudizio e da essi si estraniò definitivamente, quasi sentendone lo strappo, ripudiando in toto il suo passato, suo padre, sua madre, dei quali aveva finanche dimenticato la presenza nella sala.

Piuttosto si tormentava domandandosi come Sarah lo avesse giudicato in quella situazione ch’egli valutò essere di tradimento.

“Sei solo un vigliacco, traditore della patria, amico degli ebrei”, continuò a inveire Else, ridestandolo già alla prima battuta.

Con il sottofondo delle sue parole urlate invano a ripetizione, impotenti di scalfirlo, Hermann riprese a scendere le scale a muso duro, come a sfidare, ignorandoli, gli sguardi e le labbra socchiuse ai bisbigli della gente senza più volto riconoscibile, mentre pensava a quanto avesse bisogno di Sarah per essere un uomo migliore.

Giù dalla scalinata, con il suo incedere disinvolto, si fece spazio tra l’incredulità della gente, da taluni ostentata, finché qualcuno non lo afferrò per il bavero della giacca, tirandolo a sé e, incrociandone gli occhi ch’erano uguali ai suoi, nei lineamenti deformati dalla rabbia, riconobbe il volto di suo padre.

Un luccichio di sbigottimento balenò nei suoi occhi, mentr’egli, strattonandolo, gli chiedeva a denti stretti: “Ma cosa diavolo hai combinato?”

Immaginava, infatti, considerata l’evidenza, che, con Else, suo figlio fosse andato ben oltre un semplice diverbio ideologico.

Cristalli impenetrabili, i suoi occhi lo guardarono con un’espressione indecifrabile, un misto di rassegnazione e stupore, come se fosse stato colto da una rivelazione e, deviando subito dopo lo sguardo nel vuoto, con voce inespressiva, gli disse: “è ora che io me ne vada.”

Via da lì, da Berlino, da se stesso. Lo capì anche suo padre che s’arrese, rassegnandosi a tale volontà.

I pugni chiusi a stringergli la giacca lentamente s’aprirono per lasciarlo andar via e i loro occhi s’incrociarono un’ultima volta, quella definitiva. Lo avrebbe poi rivisto esanime, rimpatriato grazie alla compassionevole empatia di chi, come lui, padre era stato.

 

Napoli, 7 maggio 1947

 

Aveva pianto Davide nel pronunciare il voto nuziale, commosso, forse, più che durante la celebrazione delle sue prime nozze, senza remore né adolescenziale paura dei giudizi altrui, con la gratitudine di chi, sopravvissuto, guardava agli eventi della vita come un dono, consapevole della reale portata del sacramento del matrimonio in virtù dell’età della maturità raggiunta e della conversione al cristianesimo ora veramente avvenuta.

I suoi occhi ancora rilucevano, mentre a tavola conversava col suo consueto modo pacato con uno dei figli del signor Gennaro al quale aveva fatto seguito tutta la famiglia, nuore e nipoti annessi. Del più piccino fermò il giocoso andirivieni, afferrandolo scherzosamente e facendogli il solletico, prima di rivolgere l’attenzione alla sua sposa che per l’intimo banchetto aveva scelto di svestire l’abito bianco per indossare un più serioso tailleur color avana chiaro con grossi bottoni e tasche e corredato di cappello Borsalino in stile Ilsa Lund di Casablanca.

Ed essi s’esibirono in un tu per tu di vicendevoli sguardi e parole sussurrate che scavò in Sarah un vuoto più grande. Nella sua solitudine si rinchiuse, incrociando le braccia sul petto e così stringendosi nel vestito a fiori giallo che, rievocante l’esultanza della primavera, nascondeva l’inverno del suo cuore. Matteo non era lì e lei, tra tutte quelle coppie riunite attorno al tavolo, era l’unica non accompagnata.

Sulla sua assenza aveva mentito giustificandola per motivi di lavoro, ma Sarah non era brava a dire bugie e la tradì il sorriso di tenera commiserazione verso di sé che vide riflesso sul volto degli altri e ne provò umiliazione.

Non le aveva impedito di partecipare alle nozze Matteo, eppure era riuscito, in un certo qual modo, ad allontanarla dagli amici, giacché, a causa delle sue manchevolezze, s’intensificava verso di loro il latente, raggelante sentimento d’invidia.

Quanto più si allontanava dagli affetti della sua vita presente, tanto più si riavvicinava al ricordo di Hermann, romanticizzando il passato.

Fu in quel momento, dinanzi al romantico e sensuale parlarsi bocca a bocca degli sposi, circondata, quasi soffocata dall’affiatamento delle altre coppie, sul sottofondo dei gridolini festosi dei bambini e del rumore dei loro celeri piedini, che, chiedendosi come si fosse comportato in tale circostanza, iniziò a immaginarlo al suo fianco.

Figlio della moderna Berlino, non si sarebbe scandalizzato per quella unione e, partecipando con lei al ricevimento nuziale, da uomo acculturato qual era, avrebbe saputo sostenere una conversazione con Davide e il figlio del signor Gennaro avvocato.

Affidando all’immaginazione la volontà di sopravvivere al senso di solitudine e abbandono, egli divenne così reale tanto da percepirlo seduto accanto a sé, dapprima sentendone il profumo dalle inconfondibili note di ambra e muschio, poi guardandolo di sottecchi in abiti civili, ovvero con indosso uno smoking chiaro, nel gesto di accendersi una sigaretta.

Fece per versarle il vino nel bicchiere, ma Sarah dissentì, sollevando una mano. “No, grazie. Lo sai benissimo che sono astemia”, gli disse e udì la propria voce ovattata.

Nube sfocata di sogno ad occhi aperti essa svanì al tocco gentile di una mano sulla spalla e si ritrovò innanzi il volto preoccupato di una delle nuore del signor Gennaro che, con un’intonazione di stupore, le chiedeva: “Tutto bene, Sarah?”

D’imbarazzo ella impallidì e, pronunciando un flebile, inattendibile «sì», distolse lo sguardo nel vuoto, il cuore verso i ricordi.

Da allora, fece di Hermann il pensiero che le strappava un sorriso nella monotonia dei giorni e, da languido sussurro, il suo nome divenne grido nelle notti di sonno inquieto.

 

“Ma sono vivo

e sono qui

e vengo dentro a prenderti.

Da solo disarmato, innamorato,

tu devi arrenderti.

Ci sono io e sono qui

con la pazzia di stringerti.

Mi hai perquisito gli occhi

e sai sono pulito,

non posso ucciderti mai più.”

 

Claudio Baglioni, Io sono qui

 

 

 

 

 

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Capitolo 62
*** La pellicola dei ricordi (Prima parte) ***



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Nella foto, come immagino Agnese.

L’attrice è Giulia Roberto, dalla docufiction “Figli del destino”, nel ruolo di Lia Levi sopravvissuta alla Shoah.

 

Capitolo 62

 

La pellicola dei ricordi

 

Prima parte

 

- Agnese -

 

“Vorrei tu fossi qui.

O io lì.

O noi dovunque.”

Fabrizio Caramagna

 

Stazione di Roma Termini, 24 maggio 1947

 

Dopo mille chilometri e più, ventiquattr’ore di viaggio, tre infiniti e tortuosi anni di vita, i piedi di Hermann toccavano di nuovo terra italica. Con valigia in pelle alla mano, il cappello Panama nell’altra e nell’incavo del braccio la giacca color beige in tinta con i pantaloni e il panciotto rigorosamente sbottonato come aperti erano anche i primi bottoni della camicia bianca, con qualche chilo in meno e ruga d’espressione in più, gli occhiali da sole a nascondere le occhiaie e altresì, inconsciamente, il suo passato da SS che gli occhi avrebbero potuto riflettere, scese dal treno.

Un pensiero che mai gli aveva sfiorato la mente lo trafisse come una freccia dritta al cuore, costringendolo a fermarsi tra il caotico andirivieni della gente nell’ora di punta: non sapeva dove cercarla. Preso dalla foga di ritornare al più presto in Italia e ossessionato dal desiderio di ritrovarla, non s’era mai fermato a pensare che di Sarah non conosceva nemmeno l’indirizzo di casa. Di lei, in effetti, sapeva poco o niente.

A Fossoli, aveva letto e riletto più volte il dettagliato resoconto del suo arresto e pensò che unico punto di riferimento dal quale iniziare concretamente a cercarla potesse essere la chiesa situata nel rione Castro Pretorio, non molto lontano da lì, dov’era stata catturata dalle SS insieme ai bambini e al prete, traditi da una soffiata di un parrocchiano delatore. Al Grande Reich, Sarah era costata 1.500 lire, quanto un bambino.

Tutto ciò che un tempo era banale normalità, adesso gli suscitava ribrezzo e ancor più il pensiero che anch’egli l’aveva comprata con la promessa di una sopravvivenza più dignitosa, con una tavoletta di cioccolato, un paio di calze nuove.

Roma era immensa, rutilante, tra la suggestione di antiche rovine e lo struggimento di macerie belliche, chiassosa e, da ogni volto il cui sguardo tentava di schivare, sembrava irradiarsi la voglia di tornare a vivere. Com’era diversa dalla malinconica e disperata Berlino, divisa tra le potenze occupanti, schiacciata dal senso di colpa.

Dalle mura in laterizio, all’esterno la chiesa si presentava in puro stile neoclassico, sobria, con due iscrizioni sulla facciata dedicate alla Vergine. Esitò prima di entrarvi giusto il tempo di quietare il tremore di non saper cosa aspettarsi, di poter sbagliare nel relazionarsi con chi avrebbe incontrato, magari tradendosi con un accento troppo marcato o l’eloquenza di uno sguardo a un determinato argomento.

L’interno della chiesa si riproponeva nella medesima semplicità, creando un’atmosfera intima e di raccoglimento che induceva a rivolgere lo sguardo al Crocifisso dominante la navata centrale. Fonti di distrazione a un eventuale dialogo interiore iniziarono ad essere l’andirivieni di una perpetua intenta ad adornare l’altare con paramenti rossi e lo strepito di note prodotto dall’organaro alle prese con l’accordatura dell’organo a canne sulla cantoria in controfacciata.

Rivolse lo sguardo indietro, verso l’alto, lì dove sapeva che Sarah aveva cantato sin da bambina, finché non divenne apolide. Era stata lei a confidarglielo in un momento la cui dolcezza valeva sicuramente la pena ricordare, eppure, tra le immagini, quelle più belle della loro storia, che presero a scorrergli veloci nella mente, non riusciva a focalizzarne il ricordo.

Con eguale velocità, a ritroso, la pellicola dei ricordi si riavvolse, interrotta improvvisamente dalla perpetua, una donna all’incirca della sua età, con capelli riccissimi color castano ramato che fuoriuscivano dal velo in pizzo bianco, i tratti del viso morbidi e le guance ricoperte di lentiggini. Fu pervaso dalla strana e assurda sensazione di averla già vista da qualche parte.

“State cercando qualcuno?” La cadenza austera sembrava collidere con lo sguardo ch’era pregno di accoglienza.

Sospirò mutamente per liberarsi dalla residua paura dell’errore, prima di risponderle sereno e sicuro: “Sì, dovrei parlare con il parroco.”

“Domani celebreremo la Pentecoste e il parroco è molto impegnato in questo momento”, disse, mentre enfatizzava il diniego scuotendo il capo, “potreste ripassare con calma lunedì mattina.”

S’impanicò all’idea di dover ancora attendere e posticipare di nuovo il ricongiungimento con Sarah e ancor di più lo turbò il pensiero che, in fin dei conti, il prete potesse non saperne affatto di lei e ch’egli potesse addirittura essere don Franco, miracolosamente sopravvissuto ad Auschwitz.

“Io non posso aspettare. Ho fatto un lungo viaggio per venire fino a qui”, dichiarò, senza nascondere la sua agitazione, rivelando così un accento straniero che non sfuggì all’attenzione della donna.

Ancor prima delle parole, furono gli occhi ad esprimere il sospetto. “Voi avete un accento particolare. Da dove venite? Come vi chiamate?” 

Non esitò Hermann nel recitare il copione che aveva preparato e ripetuto più volte, conscio del fatto che, prima o poi, qualcosa, come il suo aspetto nordico o il suo accento troppo tedesco, lo avrebbe tradito.

“Vengo dalla Svizzera, ma, prima del ’38, io e la mia famiglia vivevamo a Bolzano. Mio padre, ebreo, nativo di Roma, s’era trasferito lì da ragazzino per lavoro e aveva conosciuto mia madre, austriaca. A casa parlavamo regolarmente il tedesco. Sono tornato in Italia per cercare mio zio, il fratello di mio padre e come unico indirizzo di riferimento ho questa chiesa. Potete aiutarmi? Sono Bonanni, piacere”, disse, porgendole la mano.

La donna sgranò gli occhi in un’espressione mista tra meraviglia e sconcerto e, mentre continuava a tenergli la mano, ribatté con voce afona, tremante: “Quindi voi siete il cugino di Sarah?”

Trasalì, sforzandosi di non darlo a vedere, agitato da quell’improvvisa, strana tensione che aveva pervaso la sua interlocutrice e, adesso, anche lui al pensiero che alla sua Sarah potesse essere accaduto qualcosa di brutto.

“Sarah fu deportata al campo di Fossoli insieme alla mia povera figliola ed è stata l’unica della sua famiglia e del gruppo di bambini affidati alla protezione di don Franco ad aver fatto ritorno”, disse la donna, avendo interpretato come assenso il suo silenzio ed egli ne comprese lo stato emotivo.

Innanzi a sé v’era una madre che viveva nel limbo del lutto, tra l’attesa del ritorno e la realtà della perdita e, osservandone le fattezze, rivide una bambina con i capelli ricci e castani e il viso pieno di lentiggini. Era la madre della bambina a cui Sarah aveva regalato la sua tavoletta di cioccolato e per la quale, insieme ad altre cinquemila anime, lui aveva decretato la condanna al viaggio fatale. Agnese.

“Ma che io sappia non è più qui”, concluse la donna, riferendosi a Sarah e non fu tanto per tal rivelazione ch’egli deviò lo sguardo e ritrasse la mano.

 

“Se non è sincero,

se l’amore è vero, muori dentro.

Un sentimento puro,

no, non ha futuro, se ti perdo.

Darei la mia vita che non è infinita

a un prezzo onesto,

ma per fortuna che,

che poi ci siamo trovati.”

 

Blanco & Mina, Un briciolo di allegria

 

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Capitolo 63
*** La pellicola dei ricordi (Seconda parte) ***


Capitolo 63

 

La pellicola dei ricordi

 

Seconda parte

 

- “Ma l’amore no” -

 

“Lontano, qualcuno canta. Lontano.

La mia anima non si rassegna d’averla persa.

Come per avvicinarla, il mio sguardo la cerca.

Il mio cuore la cerca, e lei non è con me.”

Pablo Neruda


Capitolo-63

 

Chiesa di Santa Maria del Rosario di Pompei, Roma

 

Ritrasse la mano Hermann, colto da una fulminea sensazione di vergogna legata al senso di colpa. La sua mano stringeva quella di una vittima, resa da lui tale, essendo corresponsabile nei crimini del regime nazista contro il popolo ebraico ch’ella, adesso, simbolicamente rappresentava in toto e nel trasferimento della figlia ad Auschwitz, fatale per una ragazzina così piccola.

Se solo la donna avesse saputo la verità su colui che aveva innanzi, non gli avrebbe parlato con modi affabili e voce vibrante di empatica apprensione.

“Circa un annetto fa Sarah ha fatto pervenire una lettera al parroco, nel caso la sua famiglia e suo fratello fossero ritornati. Si è trasferita a Napoli, in una città che si chiama… Mmh”, s’interruppe, portando un dito sotto il mento per sforzarsi di ricordare, “il nome ha a che fare con il mare.” 

Le palpebre strette a focalizzare vanamente il ricordo non esularono lo sguardo della donna dall’incontro con due occhi spalancati, rugiadosi d’improvvisa delusione ch’ella credé esser soltanto paura di non riuscire a ricongiungersi con la persona cara.

La stanchezza del viaggio, la frustrazione per il mancato ricongiungimento con Sarah tolsero lucidità alla mente e fu incapace Hermann di riflettere che il parroco avrebbe saputo dirgli con esattezza dove lei fosse, come infatti lo rassicurò la donna.

Ella tolse il dito da sotto al mento con movenza ed espressione quasi di chi vien colto da un’illuminazione per proferire l’ovvia verità: “Don Carmine ha la lettera e vi dirà precisamente dove si trova adesso Sarah. Vado a chiamarlo.”

Le ultime parole pronunciate su un celere passo ed egli fu subito solo in un silenzio interiore di vuoto che gli provocò inquietudine.

Era paura di ritrovarsi a fare i conti con il proprio passato senza poter porre rimedio al corso degli eventi ed ecco che gli ritornava alla mente l’immagine di sé innanzi all’anziano sacerdote che parroco fu di quella chiesa e che invano presso di lui intercedé per la salvezza dei bambini, supplicandolo infine, almeno, di non separarlo da loro. E fra essi c’era Agnese la cui madre, ignara della sua vera identità, adesso, correva per aiutarlo.

Il senso di colpa per le crudeltà un tempo inferte, la vergogna per le menzogne or ora proferite, per di più avvalendosi del buon nome di Sarah, lo attanagliavano alle viscere in una morsa bruciante, ma sapeva che cedervi avrebbe significato farsi scoprire e mai più ricongiungersi a lei.

Si lasciò distrarre dalla vibrazione di una nota stonata e rivolse nuovamente lo sguardo indietro verso la cantoria e al tempo passato e fu forse per evasione dalle angustie presenti che ad esso erano legate che riuscì ad afferrare il ricordo che stava cercando.

 

Campo di Fossoli, giugno 1944

 

Indugiando sull’uscio della propria stanza ch’ella era indaffarata a rassettare, gli piaceva osservarla di soppiatto per cogliere le espressioni del suo viso. D’abitudine, labbra serrate e cipiglio di concentrazione accompagnavano le movenze fluide di corpo fasciato da un colore che proprio non le donava, ma stavolta aveva svestito la divisa da cameriera per indossare un abito floreale con merletti ricamati da lui regalatole.

Seppur visibilmente segnato dalla stanchezza, il viso le si era disteso in un’espressione serena e la bocca dischiusa nel canto, mentre passava il panno imbevuto di acqua e aceto sul comò.

“Ma l’amore, no, l’amore mio non può disperdersi nel vento con le rose, tanto è forte che non cederà, non sfiorirà.” Ella cantava con voce flebile e piacevole all’ascolto e fissò per un attimo la rosa essiccata, dopo ch’ebbe rimesso il vasetto al suo posto. “Io lo veglierò, io lo difenderò da tutte quelle insidie velenose che vorrebbero strapparlo al cuor, povero amor.”

Ripose gli altri oggetti sul comò, poi tornò alla rosa, toccandone con un dito lo stelo che le era parso forse in procinto di staccarsi e un sorriso di tenerezza gli nacque dentro, prima di tremare sulle labbra.

In lui, si ridestò la voglia di giocare, ma non seppe manifestarla se non con uno scherzo di cattivo gusto e, ostentando un tono di comando – ovvero, il proprio –, le gridò: “Stillgestanden!”[1]

Sarah sobbalzò e, seppur lo avesse riconosciuto incrociandone lo sguardo gioviale, irrigiditasi, quasi non eseguì l’ordine fintamente impartitole, per poi giungere le mani al petto ed esalare il suo nome in un muto sospiro di sollievo. E fu come richiamo che lo attirò a lei.

Le circondò le spalle con un braccio e la strinse a sé, nascondendo in una risatina l’incapacità di chiedere scusa. Ed era più lui a sentir il desiderio di confortarla che Sarah ad aver bisogno di conforto in tale circostanza.

“Hai una bella voce”, ruppe il silenzio, senza metterci troppa enfasi, ma suscitando un reciproco sguardo d’intesa, “canti bene. Dove hai imparato?”

Un’ombra di tristezza le attraversò il viso, eppure non si spense il suo lieve sorriso, mentre gli diceva: “Sin da bambina, ho cantato nel coro della mia parrocchia, finché non sono diventata apolide. Ho imparato lì.”

Nel gesto di una carezza, le spostò una ciocca ribelle dietro l’orecchio ed ella accolse, ricambiandolo, il suo sorriso come dono di conforto.

Aveva sorriso Hermann, immaginandola nella cantoria, con il velo bianco a coprirle la testa e gli spartiti musicali tra le mani, come avvolta da un’aura di angelico candore, poi la voce della madre di Agnese lo riportò alla realtà presente.

 

“Signor Bonanni”, ripeté la donna ed egli trasalì, strappato al ricordo e alla visione di Sarah, immemore del suo nuovo nome. “Don Carmine vi aspetta in canonica.”

 

“Di noi resteranno soltanto ricordi confusi,

pezzi di vetro.

Mi spegni le luci, se solo tieni gli occhi chiusi.

Mi rendi cieco.

Ti penso con me per rialzarmi,

’sto silenzio potrebbe ammazzarmi.”

 

Lazza, Cenere

 

 

 



[1]“Sugli attenti!”

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Capitolo 64
*** Un invito insistente ***



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Nella GIF, tratta dal film “La conseguenza”, come immagino Sarah ed Hermann nel 1947.

 

Capitolo 64

 

Un invito insistente

 

“No, non volgerti indietro, la vestale cammina adagio, lenta, a sé davanti guardando sempre; no, non ritornare su ciò che hai fatto, può essere morte.”

Alda Merini, A mia figlia

 

Il motivetto continuava a ripetersi nella sua testa, senza che riuscisse a ricavarne consolazione, bensì sentendosi sempre più intrappolato nella terra di nessuno tra i ricordi del passato e l’oblio della realtà presente, mentre la madre di Agnese gli faceva strada verso la canonica.

Da quella sorta di limbo si liberò al pensiero di Sarah, sforzandosi di rientrare in sé e nel ruolo del cugino ebreo austriaco per varcare la porta dietro la quale si trovava la chiave che, infallibilmente, lo avrebbe ricondotto a lei.

La lettera scritta di suo pugno ciondolava nella mano del giovane sacerdote, ignaro, o forse consapevole, di aver custodito un tesoro inestimabile. Un solo foglio, a dimostrazione che Sarah non doveva essersi dilungata molto sulle sue vicissitudini, lasciando, più che altro, ai suoi cari le indicazioni su come trovarla.

“Padre”, esordì la donna con un misto di entusiasmo e soggezione, indietreggiando di un passo, affinché foss’egli il protagonista, come difatti avvenne.

“Ah, il cugino di Sarah!” Nell’esclamarlo gioiosamente, il sacerdote lo guardò al di sopra degli occhiali che gli scivolavano sul naso per poi passare in fretta dinanzi alla scrivania.

Dietro di essa, sul lato destro, ora non più nascosta in un armadio, v’era la porta che conduceva alla soffitta, dove don Franco azzardò l’ultimo disperato tentativo di salvare i bambini dalla deportazione.

Profanate dalla violenza, impregnate di urla nemiche e delle lacrime degli innocenti, le pareti della canonica parevano riecheggiarne il ricordo. Immaginandolo in tal slancio d’empatia non solo verso Sarah, esso fu suo.

“Vostra cugina sta bene”, disse don Carmine ed enfatizzò nella voce un tono rassicurante, avendo notato l’espressione sconvolta apparsagli in volto e presumendone il motivo, “si trova a Castellammare, una città della provincia di Napoli. Lavora nel bar di un vecchio amico di famiglia che le ha dato ospitalità.”

Sorridendogli compassionevolmente, gli porse la lettera ed Hermann, fissandone la grafia, l’accolse tra le dita. Senso di colpa ed euforia si concatenarono in un turbinio di emozioni ed egli incespicò nei modi e nel linguaggio.

“Grazie”, disse con voce sussurrante, contraendo le labbra in una smorfia nel tentativo di ricambiare il sorriso, “allora io tornerei alla stazione per prendere il prossimo treno per Napoli.”

Le parole s’incrinarono, mentre, con la lettera stretta nella mano, indicava la porta verso la quale un piede aveva già arretrato.

“Per quanto ne so io, il prossimo treno per Napoli partirà domattina”, sentenziò don Carmine con un’espressione di apprensione e stupore nel constatare l’insolito comportamento, condannandolo ancora all’attesa.

Dietro al perdurare di un sorriso stentato, Hermann nascose la delusione e, ripetendosi in tono e movenze, si corresse, dicendo: “Allora prenderò una camera nell’albergo che ho visto qui vicino e partirò domattina.”

Neanche il tempo di finire la frase che una voce maschile si sovrappose alla sua, inducendolo a voltarsi rapidamente verso l’uscio.

“Ma non esiste proprio che il cugino di Sarah vada in albergo”, esordì l’uomo categorico e, dagli abiti che indossava, Hermann riconobbe l’organaro, “potete tranquillamente venire a casa nostra e restare per tutto il tempo di cui avete bisogno.”

Nel pronunciare le parole «casa nostra», aveva cinto il braccio intorno alle spalle della madre di Agnese, amorevole gesto col quale gli rivelava esserne il marito. Sicché l’uomo era anche il padre di Agnese.

Al cenno di approvazione della donna che annuì col capo e sorrise lievemente, Hermann ribatté con altrettanto sorriso, scuotendo però la testa in senso di disapprovazione.

“Non occorre che vi disturbiate”, disse, stavolta col piede fermo in terra, poiché avanzare verso la porta avrebbe significato guardarli in faccia, accettare il loro invito relazionarsi con i genitori di Agnese, “troverò un alloggio per questa notte.”

Ma l’uomo si ostinò nel voler offrirgli ospitalità, replicando: “Nessun disturbo. è un piacere poter fare qualcosa, seppur indirettamente, per Sarah, dando ospitalità a suo cugino.”

“Questo è davvero il minimo che possiamo fare per Sarah”, intervenne la moglie il cui tono pacato colorì di delicatezza l’invito insistente, “tornati a Roma, non abbiamo neanche avuto modo di ringraziarla di persona per essersi presa cura di nostra figlia e degli altri bambini ch’erano con lei.”

Al sentir pronunciare il suo nome con tal gratitudine, gli vibrò una corda segreta del cuore e, al ricordo di lei che, per la sua indole premurosa, aveva sui più piccoli un forte ascendente – ricordo che filtrava dagli occhi di chi l’aveva conosciuta, serbandone la memoria –, s’immedesimò così tanto nella parte del cugino ebreo austriaco, fino a credere di esserlo realmente.

E fu in quel momento di smarrimento durato un sol attimo che si ritrovò ad accettare l’invito dei genitori di Agnese.

“D’accordo”, disse, mentre il sorriso appena accennato andava spegnendosi ad ogni sillaba pronunciata, già conscio del proprio errore.

 

Mentre la madre di Agnese era intenta a disporre gli addobbi floreali per la celebrazione dell’indomani e suo marito aveva ripreso ad occuparsi dell’organo, Hermann, aspettando che finissero, seduto sull’ultima panca della chiesa, non poté resistere oltre e lesse la lettera di Sarah.

 

Castellammare di Stabia, 28 aprile 1946

 

Miei cari,

vi scrivo guardando dalla mia finestra lo spettacolo del sole al tramonto che si specchia sul mare tra le barche ormeggiate nel porto con il Vesuvio che fa da sfondo. Quanto vorrei che foste qui con me!

Non saprei da dove cominciare a raccontarvi gli accadimenti di questi ultimi difficili anni, ma lo farò partendo dal mio oggi per darvi conforto.

 

Continua…

 

“«Amore, tu sei,

sei l’errore più cattivo che ho commesso nella vita.

Amore, tu sei,

sei lo sbaglio più fatale che ho commesso nella vita.

Amore, tu sei,

sei la prova che gli errori sono fatti per rifarli ancora.

 Tu sei

la puttana che ha ridato un senso ai giorni miei.»”

 

Madame, Il bene nel male

 

 

 

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Capitolo 65
*** Un amore a Fossoli ***


Capitolo 65

 

Un amore a Fossoli

 

“Suona, risuona il mare lontano.

Questo è un porto.

Qui ti amo.

Qui ti amo e invano l’orizzonte ti nasconde.

Ti sto amando anche tra queste fredde cose.

A volte i miei baci vanno su quelle navi gravi,

che corrono per il mare verso dove non giungono.

Mi vedo già dimenticato come queste vecchie àncore.

I moli sono più tristi quando attracca la sera.

La mia vita s’affatica invano affamata.

Amo ciò che non ho. Tu sei così distante.”

Pablo Neruda, Qui ti amo

 


Capitolo-65

Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

Castellammare di Stabia, 28 aprile 1946

 

Miei cari,

vi scrivo guardando dalla mia finestra lo spettacolo del sole al tramonto che si specchia sul mare tra le barche ormeggiate nel porto con il Vesuvio che fa da sfondo. Quanto vorrei che foste qui con me!

Non saprei da dove cominciare a raccontarvi gli accadimenti di questi ultimi difficili anni, ma lo farò partendo dal mio oggi per darvi conforto.

Sicura che avreste approvato la mia scelta, ho deciso di trasferirmi nella città natale del signor Gennaro che mi ha proposto di lavorare come cameriera al Gran Cafè, dandomi anche ospitalità in un piccolo appartamento vicino alla Torre dell’Orologio.

Non sono sola. Con me abita Hannah, la figlia dei nostri vicini di casa che ho ritrovato non appena sono tornata a Roma e che oramai è diventata come una sorella. In questo momento, mi sta porgendo una tazza di tè caldo che ha preparato anche per me.

Sono molto grata. Come papà aveva previsto, il signor Gennaro ha saputo proteggere la nostra casa e tutto ciò che ci apparteneva è tornato ad essere nostro. è davvero una persona tanto cara e, assieme a sua moglie, si preoccupa affinché non mi manchi nulla. Qui tutti sono oltremodo affabili e solari e mi fanno sentire in famiglia.

Nulla mi è mai mancato in questi anni, anche quando mi trovavo nel campo di transito a Fossoli, dove, lavorando come cameriera, mi sono guadagnata il necessario per vivere dignitosamente e lì sono rimasta finché i partigiani non hanno liberato una gran parte di noi.

Questi mi hanno poi affidata ad una famiglia di antifascisti sull’Appennino modenese, marito e moglie sulla sessantina, due persone squisite e disponibilissime che tenevano già nascosta nel loro seminterrato una bambina ebrea milanese di cinque anni dai grandi occhi scuri, bellissimi. Si chiamava Maria Luisa e con lei sono rimasta fino alla fine della guerra.

Proprio qualche settimana fa, con mia grande gioia e stupore, sono venuta a sapere tramite corrispondenza che la piccola ha riabbracciato i suoi cari e spero e prego che questo possa accadere presto anche a noi.

Di tanto in tanto, dai vicoli della città si odono le voci di gente festante e musica di tamburelli, talora per il ritorno di un soldato, altre volte per il rimpatrio di un prigioniero di guerra e sempre il cuore si riapre alla speranza per noi e per tutte quelle persone che ho incontrato lungo il mio tortuoso cammino e che hanno saputo mitigarne le asperità facendomi sentire meno sola.

Intanto, vi abbraccio forte col pensiero, affinché possa raggiungervi tutto il mio amore ovunque voi siate.

Vostra,

Sarah

 

Mentre leggeva la lettera di Sarah, Hermann poteva udirne la voce, delicata e risoluta, e rivederla nei gesti, nello scrivere appoggiata a un tavolo dinanzi alla finestra coi capelli lunghi a ombreggiare il foglio e nel sorridere sospirando grata all’amica, e negli avvenimenti da lei raccontati, dal suo ritorno a Roma, passando per la prigionia nel campo di Fossoli e nel nascondiglio sull’Appennino modenese, sino alle scene di ricongiungimento alle quali aveva assistito nella ridente provincia di Napoli.

Nelle sue parole non v’erano velature d’odio né di sentimento di vendetta e del suo racconto aveva filtrato gli accadimenti, smorzando al meglio le asperità del passato.

Le sue erano parole di speranza e d’amore volte a proteggere i suoi cari e, tra le righe del suo racconto, di lui non v’era neanche un accenno mistificato.

Sarah s’era soffermata sulla premurosità di un tal signor Gennaro e di sua moglie, sulla cordialità delle persone, sulla gentilezza della famiglia modenese e persino sulla forma e il colore degli occhi di una bambina, omettendo però l’esperienza di un amore a Fossoli.

Di lui avrebbe potuto accennare, cambiandone il nome, la patria, il ruolo all’interno del campo e, mentre il cervello s’arrovellava in tali congetture, la paura che Sarah lo avesse dimenticato gli strinse il cuore in una morsa.

Si piegò su se stesso, premendo i gomiti sulle ginocchia e sulla fronte la lettera dove gli pareva ch’ella avesse lasciato impresso il sigillo del suo profumo, dei suoi aneliti, del tocco delle sue mani.

 

Castellammare di Stabia, 28 aprile 1946

 

Una mano scorreva fluida sul foglio a scrivere per i suoi cari parole esprimenti una più accomodante e consolatoria verità, mentre l’altra poggiata sopra ne sosteneva un’estremità spiegazzandola leggermente.

A distrarla, ispirandola a un tono carezzevole, v’erano il gioco di luci e ombre al tramonto che penetrava dalla finestra aperta e l’andirivieni di Hannah alle sue spalle che s’affaccendava vicino ai fornelli.

Fra i tanti appellativi di cui godeva, Castellammare era denominata anche «la città dei tramonti», vantando un panorama mozzafiato durante ogni tramonto, mai uguale, sempre emozionante.

La brezza di mare soffiò fra i capelli che ricadevano sul foglio, vento fresco eppur piacevole che, assieme al ricordo, raggricciò i centimetri di pelle scoperta, mentre s’apprestava a mutilare la sua verità su Fossoli. E tacque su quanto fosse stato per lei scintilla di bene nel buio del male antisemita, sofferenza e desiderio nei giorni e nelle notti altalenanti tra delusioni e speranze, amore nell’odio, Hermann.

 

“Ci vorrebbe un mare dove naufragare

come quelle strane storie di delfini che

vanno a riva per morir vicini e non si sa perché

come vorrei fare ancora, amore mio, con te.

Ci vorrebbe il mare per andarci a fondo

ora che mi lasci come un pacco per il mondo.

Ci vorrebbe il mare con le sue tempeste

che battesse ancora e forte sulle tue finestre.

Ci vorrebbe il mare dove non c’è amore,

il mare in questo mondo da rifare.”

 

Marco Masini, Ci vorrebbe il mare

 

 

 

 

 

 

 

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