Soulmate

di Letsforgethim
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 𝐏𝐫𝐨𝐥𝐨𝐠𝐮𝐞 ***
Capitolo 2: *** 𝟏. ***
Capitolo 3: *** 𝟐. ***



Capitolo 1
*** 𝐏𝐫𝐨𝐥𝐨𝐠𝐮𝐞 ***


Prologue

 



 

 

Mancava poco più di una settimana al compleanno di suo padre e Brittany non era ancora riuscita a trovargli un regalo.

A dire il vero i regali da trovare erano due: suo padre era nato il giorno di Natale di ormai quarantanove anni prima, per cui, oltre a quello di compleanno, la ragazza doveva sceglierne un secondo da incartare e mettere sotto il gigantesco e luminoso albero del soggiorno che, come da tradizione, aveva addobbato insieme alla sua famiglia il primo giorno di dicembre.

Si strofinò le braccia con le mani tentando di scacciare il freddo e tirò sul naso la sciarpa rossa che portava al collo per cercare di ripararsi meglio dal vento ostinato e pungente che soffiava sulla città in quella cupa mattinata.

Brittany detestava il caos di Londra, se c’era una cosa che proprio non riusciva a sopportare erano le strade del centro, i mezzi pubblici, i negozi e le caffetterie stipate di persone, ammassate una sull’altra – evento che in una città importante e piena di interessi come quella non era raro si verificasse, specialmente in periodi festivi o prefestivi, quando ai già numerosi abitanti del posto si aggiungevano migliaia di turisti provenienti da ogni angolo del mondo –, al punto che per passare bisognava sgomitare tra la folla, urlare “Permesso!” ogni tre per due e non si riusciva a trovare posto a sedere né in bus né tantomeno in metro, ti toccavano minuti interminabili in fila davanti al camerino per poter provare un vestito o davanti al bancone del bar, tanto che a un certo punto passava persino la voglia di bere quel caffè che solo pochi attimi prima si era desiderato così tanto.

Per questo motivo era uscita presto di casa, non erano nemmeno passate le otto quando si era chiusa la porta dietro le spalle e si era diretta alla fermata dell’autobus, perché preferiva mille volte affrontare il freddo gelido della mattina piuttosto che tutto quel caos.

E fortunatamente, aveva potuto osservare più tardi quando era giunta a destinazione, in giro non si vedeva ancora quel brulichio che voleva evitare, solo alcuni uomini con le classiche valigette ventiquattrore o con documenti tra le mani che si recavano al lavoro, un paio di studenti che procedevano a passo spedito per non arrivare in ritardo alla prima lezione della giornata e altri che come lei passeggiavano senza una meta precisa. 

Non sapendo esattamente cosa cercare, la ragazza aveva infatti deciso di camminare per le strade del centro guardando con attenzione tutte le vetrine a cui passava davanti, con la speranza che almeno una riuscisse ad attirare la sua attenzione facendole pensare che sì, entrando lì dentro sicuramente avrebbe trovato qualcosa che sarebbe piaciuto a suo padre.

I negozi di vestiti quasi non li considerava – faceva fatica a scegliere i capi d’abbigliamento per se stessa, figurarsi trovare qualcosa per un’altra persona, considerando poi che questa persona aveva dei gusti persino più difficili dei suoi in quell’ambito –, così come le vetrine delle gioiellerie: Daniel Barker non era un amante dei gioielli, le uniche due cose che indossava erano la fede in oro giallo all’anulare sinistro e l’orologio con il cinturino in pelle che la nonna gli aveva regalato per il compleanno un paio di anni prima e a cui lui era particolarmente affezionato. 

Brittany sospirò mentre si domandava come mai dovesse essere così complicato trovare un regalo agli uomini.

Quello che stava capitando con suo padre le succedeva tutte le volte che doveva decidere cosa comprare per Simon, suo fratello maggiore, e per i suoi amici maschi; per le ragazze era più semplice, aveva tremila idee in mente – trucchi, profumi, bigiotteria, peluche –, per i ragazzi, invece, la fantasia veniva sempre a mancare.

Si passò una mano tra i lunghi capelli biondi per rimetterli a posto dopo che una folata di vento glieli aveva scompigliati, facendoglieli finire sul viso, e poi si strinse le braccia al corpo ancora una volta, infreddolita.

Decise di prendere un caffè da asporto – magari l’avrebbe aiutata a scaldarsi un po’ –, pagò la bevanda alla cassa e con il bicchiere di carta fumante tra le mani imboccò Broadwick Street, chiedendosi quanto avesse camminato per essere arrivata fino a lì.

Quando alzò lo sguardo dalla bevanda la sua attenzione venne di colpo catturata da un fabbricato a tre piani coi muri marrone seppia, posizionato nell’incrocio tra la via che stava percorrendo e una delle numerose strade secondarie che la attraversavano.

Curiosa, continuò ad avanzare in quella direzione, fino a che non fu così vicina da riuscire a leggere il nome di quello che, scoprì in quel momento, essere un negozio di dischi: Sounds of the Universe.

Sorrise, felice: suo padre era un appassionato di musica e collezionava dischi in vinile di vari generi e artisti musicali – nazionali e internazionali – sin da quando ancora frequentava le superiori.

Quando abbassava il braccetto del giradischi della Yamaha, custodito nel suo studio come se fosse un tesoro prezioso, e in casa iniziava a diffondersi la melodia, lei e sua madre sapevano subito che, se si trattava di musica classica, aveva bisogno di alleviare lo stress dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro trascorsa tra le corsie e i pazienti dell’ospedale, mentre se era qualcosa di più allegro o rock, significava che era di ottimo umore.

Ma come aveva fatto a non pensarci prima?

Finì il suo caffè, buttò il bicchiere vuoto nel cestino della spazzatura sul marciapiede e poi entrò nel negozio.

Sentì immediatamente la differenza di temperatura tra il freddo tremendo che faceva fuori dalla porta di vetro e il bel caldo che la avvolse non appena ebbe messo piede dentro.

Il negozio era immenso, visto dall’esterno non dava l’impressione di essere così grande. 

I colori all’interno rimanevano sulla stessa tonalità dei muri fuori, a partire dal pavimento in laminato fino al marrone scuro dei numerosi e alti scaffali in legno, colmi di dischi di varie marche e tipologie: si vedevano trentatré giri, quarantacinque giri, così come diversi CD. 

C’era una musica di sottofondo che conferiva all’ambiente un’aria che definire rilassante sarebbe stato altamente riduttivo.

Il commesso – era un ragazzo moro, con gli occhiali dalla spessa montatura color oro calati sul naso. Dal suo volto si capiva che era giovane, probabilmente aveva tre o al massimo quattro anni in più dei ventuno della ragazza – alzò lo sguardo dallo schermo del computer quando la porta, aprendosi, fece tintinnare la piccola campanella che pendeva dal soffitto.

«Buongiorno» lo salutò Brittany con un sorriso. «Posso dare un’occhiata?»

«Certo. Se hai bisogno di qualcosa chiedi pure.»

«Grazie» rispose, per poi avviarsi verso lo scaffale della prima fila a destra, scegliendo di iniziare da quel punto la sua ricerca.

Aveva deciso di prendergli due dischi, ora rimaneva solamente lo scegliere quali tra l’infinità a disposizione davanti a sé.

Non sarebbe stato difficile, però, perché almeno in quel campo conosceva bene i gusti di suo padre e per di più, avendo tutto il tempo a disposizione – quel giorno i corsi all’università sarebbero iniziati solamente nel tardo pomeriggio –, poteva prendersela con calma.

Si sistemò i capelli dietro le orecchie – era un gesto tipico di lei che, spesso anche inconsciamente, compiva tutte le volte che doveva concentrarsi su qualcosa, prima di studiare, mentre era a lezione e doveva iniziare a prendere appunti quando il professore di turno incominciava la sua lezione, così come quando doveva affrontare un discorso importante ed era alla ricerca delle parole giuste da utilizzare – e, incuriosita dalla copertina gialla di un disco che spiccava tra tutte le altre da cui era attorniato, dai colori più scuri, lo tirò fuori, rigirandoselo tra le mani.

Quel posto le stava piacendo veramente tanto: innanzitutto non c’era nessuno e questo gli aveva fatto guadagnare parecchi punti già in partenza, era caldo, accogliente, e poi c’era quella melodia di sottofondo che continuava a infonderle serenità.

Aveva finito di esaminare la prima fila e stava per iniziare con la seconda quando con la coda dell’occhio scorse il ragazzo avvicinarsele.

«Che ne dici di questo?» domandò allungando verso di lei l’album che teneva in mano.

Brittany osservò la copertina rosa e azzurra con la scritta Fine Line sopra e, sorridendo, disse: «Non penso che a mio padre possa interessare l’album di…», alzò lo sguardo, convinta di trovare il viso del commesso che la aveva accolta pochi minuti prima. Rimase sbigottita quando, invece, incontrò i due occhi verdi che la stavano osservando sorridenti e contemporaneamente curiosi, «Harry Styles.»

 







 

Ehilà, buon pomeriggio!
Sembra trascorsa un'eternità dall'ultima volta che ho postato su EFP, quasi non mi sembra vero.
Allora, ho già pubblicato questa fic su Wattpad e mi son detta: perché non pubblicare almeno il prologo anche su EFP?
Spero di avervi incuriositi almeno un pochino.
Se passate dal mio profilo potrete trovare le mie vecchie fanfiction e nella bio ci sono tutti i miei contatti, se vi va seguitemi!
Mi piacerebbe tanto leggere qualche vostra recensione o, se preferite, passate da Wattpad a lasciare qualche stellina e/o commento.
Per ora vi saluto.
M.

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Capitolo 2
*** 𝟏. ***


1.

 

 


 

Harry non era affatto una persona mattiniera, c’erano innumerevoli aggettivi che si potevano utilizzare per descriverlo – acuto, carismatico, talentuoso, divertente, affabile, altruista –, ma sicuramente non mattiniero.

Dormire era tra i primi posti nelle lista delle cose che più amava fare, eppure quella mattina i suoi occhi si erano aperti di scatto, come se d’un tratto fosse partito l’allarme della sveglia e avesse interrotto bruscamente il flusso dei suoi sogni, quando invece attorno a sé, in quella stanza completamente buia, regnava il più assoluto silenzio.

Allungò un braccio verso il comodino per recuperare il telefono che aveva abbandonato lì sopra la sera prima, dopo averci smanettato finché non aveva sentito le palpebre piano piano iniziare ad abbassarsi.

Strizzò gli occhi, infastidito dalla luce dello schermo che lo investì in volto, e un gemito lamentoso lasciò le sue labbra non appena fu in grado di mettere a fuoco l’orario sul display: erano solo le sei.

Buttò con noncuranza il cellulare vicino a sé sul materasso e si girò dall’altra parte per tentare di riaddormentarsi: era praticamente l’alba, che diamine si doveva fare a quell’ora se non dormire?

Continuò a girarsi e rigirarsi sotto le coperte per svariati minuti, togliendo e rimettendo il cuscino sotto la testa, voltandosi prima a pancia in giù, nella posizione che più preferiva per dormire, e poi supino, passando da un lato del letto a quello opposto più e più volte.

Quel letto era senza dubbio troppo grande per essere occupato da una persona sola, ritornò a pensare, certe notti tutto lo spazio vuoto accanto a sé sembrava diventare enorme, come se fosse pronto ad inghiottirlo da un momento all’altro, e non faceva che urlargli quanto nonostante al mondo ci fossero migliaia di persone che lo amavano e che lo sostenevano, la notte in camera si ritrovava completamente solo, abbandonato a se stesso, in balia dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni, senza avere nessuno con cui condividerli, nessuno che lo rincuorasse quando ce ne fosse stato bisogno; non aveva nessuno accanto a cui addormentarsi, nessuno da stringere tra le braccia e la mattina c’era sempre e solo quello stesso ed indefinito vuoto a dargli il buongiorno.

In realtà di ragazze ce n’erano state, così come c’erano state molte donne, ma non si era trattato mai di niente che andasse oltre il sesso, finito quello in nessuna occasione aveva sentito il desiderio o il bisogno di dormire con qualcuna di loro al suo fianco.

Si passò una mano stancamente sul viso, scostò le coperte di dosso e si alzò, era inutile rimanere lì steso con il rumore dei pensieri che si amplificava secondo dopo secondo.

Si infilò in bagno e rimase un bel po’ di tempo sotto la doccia, il viso rivolto in alto, verso il getto dell’acqua calda che gli ricadeva sulle spalle larghe, lungo le braccia muscolose e piene di tatuaggi, lungo la schiena e su tutto il resto del corpo, riuscendo in una qualche maniera ad allontanare – allontanare, non cancellare, purtroppo – i pensieri che gli stavano attanagliando il cervello e nello stesso momento facendogli distendere i muscoli ancora intorpiditi dal sonno.

Non sapeva come incominciare quella giornata, oscillava tra l’infilarsi i pantaloni della tuta e con la musica sparata a tutto volume nelle cuffiette andare a fare una corsa e il lasciar perdere l’abbigliamento sportivo e la musica e uscire a fare una bella e solitaria passeggiata, godendosi la tranquillità e il silenzio, relativo, di una Londra che non si era ancora del tutto risvegliata.

Alla fine optò per la seconda scelta.

Prima, però, il suo corpo stava reclamando con una certa urgenza una bella tazza di caffè bollente, con un cucchino non troppo pieno di zucchero – come lo prendeva abitualmente –, per riuscire ad affrontare quella giornata che, ne era certo, sarebbe stata molto, molto lunga.

La cucina si trovava in fondo all’appartamento, era a pianta aperta e comunicava con l’ampio e luminoso salotto – rischiarato dalla luce che proveniva dalle vaste portefinestre ad arco incastrare al centro del muro che dava sul porto turistico di St. Katharine, da altre due finestre di dimensioni inferiori, ma caratterizzate dalla stessa forma geometrica, posizionate sul lato est e ovest dell’ambiente e anche dalla luce proveniente dalle porte di vetro delle due terrazze presenti sul soppalco –, perciò gli fu impossibile non notare Gemma, rannicchiata su uno dei due divani color grigio tortora lì presenti.

Teneva il cellulare ancora in mano, il plaid le era scivolato quasi del tutto via nel sonno e ora a malapena arrivava a coprirle le ginocchia, decine tra fogli di appunti scritti a computer e pieni di annotazioni aggiunte successivamente a mano e post-it colorati sparsi tra il tavolino di vetro e il pavimento ai piedi del divano.

La sera prima era uscita a cena con una sua collega – Lauren, gli pareva gli avesse detto che si chiamasse –, stavano lavorando insieme alle rifiniture di un articolo sulle ultime tendenze di moda, sia in fatto di capi d’abbigliamento sia in materia di accessori, che bisognava presentare in redazione tra due giorni, doveva aver fatto molto tardi, tant’è vero che lui non l’aveva nemmeno sentita rientrare, e sicuramente aveva continuato a lavorare fino a che il sonno non aveva preso il sopravvento, non lasciandole né il tempo né tantomeno la forza per alzarsi e raggiungere la camera da letto che oramai, per usucapione, era sua di diritto.

Le si avvicinò e cautamente, per non rischiare di spaventarla, le tolse il telefono di mano e le rimboccò meglio la coperta; poi si chinò a raccogliere i fogli e li appoggiò in una pila a fianco del portatile grigio.

Erano passati quasi cinque anni da quando Gemma aveva lasciato Holmes Chapel e si era trasferita in maniera stabile nella capitale inglese.

I primissimi tempi aveva condiviso un appartamento con due sue amiche che aveva conosciuto durante il periodo da universitaria e che, proprio come lei, dopo la laurea avevano lasciato i loro paesi natali per Londra; successivamente, dopo oltre un anno di relazione con Michal, lui le aveva proposto di andare a vivere insieme nella casa che gli avevano regalato i genitori, in un quartiere che distava circa quaranta minuti di macchina dal centro.

Il rapporto che legava gli Styles era da sempre stato qualcosa di realmente unico e speciale, contraddistinto da una sintonia tale che in molte situazioni uno scambio di sguardi diventava sufficiente per capirsi e ogni parola, ogni frase detta, sarebbero solamente risultate superflue.

Harry e Gemma erano andati d’accordo sin da quando erano due bambini e quel legame non aveva fatto che crescere negli anni e maturare assieme a loro; persino durante l’adolescenza – l’età in cui si assiste ad un insieme complesso di cambiamenti, sia fisici sia mentali, che tendenzialmente comporta un aumento del livello di conflittualità tra fratelli, specialmente se di sesso diverso o se ci sono pochi anni di differenza tra di loro –, erano continuati ad andare avanti senza litigi, senza discussioni, riuscendo in ogni occasione a trovare un punto in comune su cui mettersi d’accordo.

Era stato proprio in quel periodo che Harry, nonostante tra i due fosse quello più piccolo, aveva iniziato a sviluppare un istinto di protezione nei confronti della sorella, un desiderio di preservarla e proteggerla da tutto quello che avrebbe potuto turbarla o ferirla, specialmente quando si trattava di ragazzi.

Che fossero così uniti non era difficile da immaginare, lo si poteva intuire semplicemente vedendo la G tatuata sulla spalla destra del ragazzo o la scritta col nome completo della sorella tatuato in ebraico sul braccio sinistro, o anche ascoltando una delle canzoni che aveva scritto e inciso per lei nel suo ultimo album, o da come Gemma, ogni volta che lui tornava a Londra, correva a casa sua, abbandonando per una o due giornate – che non era raro si tramutassero successivamente in una settimana intera – il suo ragazzo.

“Non ci vediamo praticamente mai”, gli diceva sempre,“almeno quando sei qui voglio godermi più tempo possibile con te.”

E Harry non aveva assolutamente niente da obiettare, anzi, la presenza di Gemma in casa non poteva fargli che piacere, le loro chiacchierate la sera seduti sugli sgabelli in cucina davanti a un tè caldo o, nelle giornate un po’ più pesanti, con un drink in mano, riempivano il silenzio che altrimenti, non fosse stato per i rumori della televisione o per quelle poche volte in cui decideva di sedersi al piano o di strimpellare la chitarra, avrebbe regnato sovrano tra quelle spesse mura, la risata argentina della sorella contribuiva a metterlo di buonumore e a farlo sentire meno solo.

Una volta finito anche l’ultimo sorso di caffè, abbandonò la tazza nel lavello e finalmente si decise ad uscire di casa.

Lasciando perdere l’ascensore, imboccò le scale; arrivato al pianoterra salutò il portiere dietro al bancone della reception che, visti il giubbotto pesante e la sciarpa ancora addosso, doveva essere arrivato pochi istanti prima.

Un brivido gli corse lungo la schiena nel momento esatto in cui mise piedi fuori, l’aria gelida lo investì in pieno volto, andando ad infilarsi persino tra quel minuscolo spazio che separava la stoffa del cappotto dal lembo di pelle del collo e facendolo rabbrividire per la seconda volta in pochi secondi.

Era più che conscio del fatto che facesse freddo – lo era persino di pomeriggio, quando il sole era alto in cielo, figurarsi di prima mattina –, ma non si aspettava che facesse così tanto freddo.

Forse il problema era lui stesso, però, passare tanti mesi durante l’anno lontano dall’Inghilterra aveva finito per disabituarlo al suo clima.

Adesso era Los Angeles la sua seconda casa e lì, le temperature, non scendevano mai sotto i nove gradi centigradi.

Per un attimo fu tentato di tornare indietro, al caldo sotto le coperte, ma a fare cosa, si chiese subito dopo, a continuare a rimuginare?

No, grazie.

Perciò, affondò le mani nelle tasche del suo cappotto e iniziò a camminare.

Era questione di qualche minuto e il suo corpo si sarebbe iniziato ad abituare allo sbalzo termico e muovendosi avrebbe iniziato a scaldarsi.

Era ancora buio, erano le luci dei lampioni ad illuminare le strade.

Harry non aveva una destinazione, ma allo stesso tempo i suoi piedi sembravano avanzare da soli, guidandolo con una tale sicurezza e una tale disinvoltura – facendogli imboccare una via rispetto ad un’altra, scegliendo ad un bivio la destra sulla sinistra – che chiunque avesse posato l’attenzione su quel ragazzo avrebbe pensato che invece una destinazione c’era eccome, e lo stava aspettando con impazienza.

Mancava poco al venticinque e l’atmosfera natalizia che si respirava era splendida: aria di festa, di serenità, aria di famiglia, di pranzi e cene attorno a tavoli immensi per far posto a tutti i parenti, aria di regali, di abbracci, di sorrisi, aria di serate passate raccolti attorno al monopoli o ad un qualsiasi altro gioco, seduti vicino al camino ad ascoltare una storia che il nonno e la nonna non avevano mai raccontato, o che magari avevano già raccontato centinaia di volte, ma che era talmente bella che si rimaneva immobili, incantati ad ascoltarli come se fosse la prima.

Per molti era il periodo più bello dell’anno, e lo era anche per Harry.

Guardava le vetrine addobbate di luminarie, fili interminabili di luci colorate, finta neve, presepi, centinaia di Babbi Natale seduti nelle loro slitte stracolme di regali e trascinate dalle renne, il gigantesco e luminoso albero in Trafalgar Square, donato come ogni anno dalla Norvegia, e gli occhi gli scintillavano mentre ripensava a quando, da piccoli, lui e Gemma camminavano mano nella mano con la madre tra i mercatini e i negozi di Holmes Chapel, pregustando il momento in cui avrebbero scartato i regali.

Dopo la lunga camminata si fermò davanti alla vetrina di un negozio di musica, incuriosito sia dallo stile e dai colori dei dischi esposti in bella vista che conferivano a donargli un’aria vintage, nonostante, scorgendo qualche titolo qua e là, aveva potuto notare che il locale era provvisto anche di musica contemporanea e moderna, sia dal fatto che quell’angolo della città sembrava essere rimasto completamente indifferente all’imminente arrivo del Natale, non si poteva scorgere nemmeno una lucina o un fiocco di neve creato con la carta o qualche adesivo a tema sulle vetrate, niente di niente.

Sounds of the Universe, recitava l’insegna, anch’essa rimasta inalterata.

Era un bel nome, originale, coerente.

Il cartello affisso sulla porta d’ingresso segnava le otto e trenta come orario di apertura.

Tirò fuori il telefono dalla tasca per controllare che ora fosse: non mancava tanto, per cui, non avendo niente di meglio da fare, scelse di aspettare lì davanti.

Ormai era talmente abituato ad essere fermato per strada come minimo una volta per uscita da qualcuno che, riconoscendolo, voleva scattarsi una foto con lui, ricevere un autografo e molto spesso anche solo scambiare due parole, che quando ciò non accadeva, proprio come quella mattina, gli sembrava insolito.

Da un lato era meglio fosse andata così, ogni tanto non era male tornare a sentirsi una persona comune e dimenticarsi che il proprio nome, il proprio viso, erano conosciuti in pressoché ogni angolo del globo terrestre.

Quella sensazione, però, durò molto poco.

«Porca vacca, Harry Styles davanti al mio negozio, in carne ed ossa. Se il buongiorno si vede dal mattino…»

Harry si voltò verso la voce stentorea alle sue spalle e sorrise incontrando lo sguardo meravigliato del ragazzo che aveva appena pronunciato quelle parole.

Immediatamente gli si disegnarono nelle guance due fossette, senza dubbi una delle caratteristiche che più lo distingueva. 

«Scusami», aggiunse lui, cercando di tornare in sé dopo la sorpresa iniziale, «ma non capita tutti i giorni di trovarsi di fronte ad una popstar mondiale. Comunque io sono Noah, è davvero un enorme piacere conoscerti di persona» si presentò, porgendogli una mano che il cantante accettò prontamente.

«Harry. Il piacere è tutto mio.»

Si mise da parte e lasciò che Noah aprisse la porta; lo seguì dentro solo dopo che il ragazzo ebbe acceso la luce, si fu tolto il cappotto e si fu sistemato dietro il bancone, il bagliore dello schermo del computer che si rifletteva sui suoi occhiali.

«Ti chiedo scusa se non ti ho dato nemmeno il tempo di aprire con la dovuta calma. I dischi in vetrina mi hanno incuriosito e non avendo impegni ho preferito aspettare qui davanti piuttosto che continuare a girare a vuoto» si scusò Harry, a disagio.

«Ma che, scherzi?» Scosse la testa. «Tutt’altro, mi fa veramente tanto piacere che il mio negozio abbia attirato la tua attenzione.»

«È tuo?» domandò stupito: quel ragazzo gli sembrava troppo giovane per essere proprietario di un negozio.

Noah annuì, senza distogliere lo sguardo dal computer, mentre muoveva velocemente le dita sulla tastiera.

«Era del mio bisnonno» rispose poi, tornando a fissare gli occhi in quelli di Harry. Era una situazione alquanto surreale, trovarsi lì seduto al suo solito posto mentre uno dei cantanti più famosi del mondo, di cui aveva anche gli album lì in negozio, era in piedi davanti a sé che aspettava, sinceramente curioso, la sua risposta. «È stato tramandato a mio nonno e infine è passato direttamente a me perché… beh, diciamo che mio padre non è quello che si può definire un appassionato di musica» gli spiegò, tirando su con l’indice gli occhiali che gli erano scivolati sul naso. «Stavi cercando qualcosa di particolare?»

«In realtà no, no.»

«Va bene, allora ti lascio curiosare in pace. Posso chiederti una foto prima che tu inizi il tuo giro?»

«Ma certo.»

Scattato il selfie, Noah aggiunse: «Ah, Harry, dimenticavo di dirti che i dischi sono sistemati tutti per tipologie e le sottocategorie sono in ordine alfabetico. E il piano superiore è tutto dedicato al jazz, nel caso fossi interessato.»

«Va bene, grazie.»

«Se hai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere.»

Gli scaffali erano alti quasi fino al soffitto e stracolmi, dovevano esserci migliaia di articoli lì dentro.

Stava scorrendo le dita sui dorsi delle copertine quando si sentirono le prime note di Air on G String di Bach riempire l’ambiente.

Curioso di vedere se c’erano anche i suoi due album, provò a cercare sotto la S del suo cognome, S-O, S-P, S-Q… e poi la campanella sopra l’ingresso tintinnò, attirando la sua attenzione e facendolo girare in quella direzione.

Le prime cose che notò della ragazza che aveva appena varcato la soglia furono le guance e la punta del naso arrossati dal freddo.

Lunghi capelli biondi le ricadevano sulle spalle e quando un sorriso fece capolinea sul suo volto, increspandole gli angoli delle labbra verso l’alto, Harry non seppe definire cosa accadde dentro di sé, fu come essere travolti da una marea di sensazioni.

Distolse per un attimo lo sguardo, disarmato, stupito di se stesso, ma un istante dopo i suoi occhi erano di nuovo su di lei, come attratti da una calamita.

Era come se la conoscesse, come se l’avesse già incontrata in passato, ed era strano perché allo stesso tempo aveva l’assoluta certezza di non averla mai vista prima d’ora.

Lei non parve notarlo, scambiò qualche parola con Noah e poi si posizionò davanti ad uno degli scaffali, squadrandolo dall’alto verso il basso.

Harry seguì i suoi movimenti, la guardò mettersi i capelli dietro le orecchie e poi prendere un vinile dalla copertina gialla e rigirarselo tra le mani.

Non riusciva a smettere di guardarla.

Voleva parlarle. Doveva parlarle.

Prima, però, non sarebbe stato male trovare una scusa per andare a farlo.

Gli balenò un’idea, abbastanza ridicola a dirla tutta, ma sempre meglio dello starsene lì fermo, imbambolato a fissarla.

Tornò a cercare il suo album e non appena lo trovò si diresse, insicuro, verso di lei, il cuore che martellava sempre più forte contro il petto a mano a mano che la distanza tra di sé e quella sconosciuta tanto interessante davanti ai suoi occhi diminuiva.

Da quando in qua era ritornato a sentirsi così agitato – e così goffo – prima di parlare con una ragazza?

Nemmeno fosse tornato ad avere sedici anni e avesse perso tutta l’esperienza e la spavalderia che invece aveva acquisito col passare degli anni.

Allungò l’album verso di lei e «Che ne dici di questo?», le chiese, mentre senza che se ne accorgesse un morbido sorriso gli si era dipinto in volto.

«Non penso che a mio padre possa interessare l’album di…» Brittany alzò lo sguardo verso di lui e Harry lesse la sorpresa nei suoi occhi, grandi, scuri e profondi, nel momento in cui lo riconobbe, «Harry Styles» concluse infatti la ragazza, la voce più flebile rispetto all’inizio della frase.

A Londra c’erano quasi nove milioni di persone, quale era la probabilità di ritrovarsi in una fredda mattinata di dicembre alla stessa ora, nello stesso posto in cui si trovava Harry Styles?

Eppure eccolo lì, davanti a sé, talmente vicino che poteva persino sentire il suo profumo, i capelli ricci che gli ricadevano a piccoli ciuffi sulla fronte, il sorriso sulle labbra rosse, le guance scavate dalle fossette e quegli occhi verde smeraldo che continuavano a scrutarla curiosi, scintillanti.

Brittany non si era nemmeno lontanamente accorta che ci fosse qualcun altro all’interno del negozio, pensava di essere sola, mentre lui l’aveva vista ed era addirittura andato a parlarle.

Perché era andato a parlarle?

Era bellissima, pensava Harry nel frattempo, incantato a guardare quegli occhi di un castano scuro che sprizzavano sincerità, gentilezza e spiccavano in contrasto col viso candido, quasi angelico, e le labbra, dal taglio elegante, pitturate di rosa.

Si passò la lingua sulle sue, di labbra, in soggezione.

«Da quando in qua gli artisti vanno in giro per i negozi a vendere i loro dischi di persona? È una nuova tecnica di marketing?» gli chiese lei, scherzosa, inclinando un po’ il volto.

Harry rise. «No, niente marketing, ho solo pensato che magari potessi aver bisogno di qualcuno che ti sappia consigliare della buona musica.»

Si pentì nell’esatto momento in cui quelle parole lasciarono le sue labbra; dentro alla sua testa erano parse perfette, ma non appena le aveva pronunciato erano suonate così vanitose alle sue orecchie che si maledisse per averle dette: l’ultima cosa che voleva era che lei si facesse un’idea sbagliata della sua persona, perché lui era quanto di più lontano dall’essere vanitoso ci fosse.

Anche se non capiva come mai dovesse importargliene così di tanto di cosa potesse o non potesse pensare di lui una sconosciuta. 

La ragazza, però, sembrò cogliere la sua ironia perché rispose al sorriso.

Oddio. È tutto così surreale.

Solo dieci minuti prima stava passeggiando con il suo caffè caldo tra le mani e ora era eccola lì a scambiare battute e sorridere ad Harry Styles.

Non poteva essere vero, stava pensando di darsi un pizzicotto per vedere se non fosse tutto solo uno strano sogno dal quale si sarebbe svegliata pensando a quanto reale era sembrato.

Harry stava per chiederle che album fosse quello che teneva tra le mani quando il cellulare iniziò a vibrare e suonare dentro alla tasca del suo cappotto.

Sempre nel momento meno opportuno, pensò, trattenendosi dallo sbuffare.

Lesse sullo schermo il nome di Jeffrey e fu costretto a rispondere, l’amico conosceva bene Harry e sapeva quanto poco mattiniero fosse, perciò non l’avrebbe mai chiamato a quell’ora se non fosse stato qualcosa di importante.

Seccato da quella brusca interruzione – desiderava ancora stare lì a parlare con quella ragazza – e insieme un tantino in ansia per il motivo dietro alla chiamata, si scusò prima di uscire fuori: «Scusami, devo rispondere.»

Brittany aveva sentito qualcosa di molto simile alla delusione farsi spazio dentro di sé nel secondo in cui era scattata la suoneria del telefono, immaginando che lui avrebbe interrotto la conversazione, ma si strinse nelle spalle come a dire che non c’era alcun problema e seguì con lo sguardo la sua figura uscire fuori dal negozio.

Si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e si impose di smettere di pensare al siparietto così surreale che si era appena svolto – ma soprattutto smettere di pensare agli occhi verdi di Harry che l’avevano guardata con una sincera curiosità e un’attenzione totale per tutto il tempo – e tornare a dedicarsi a ciò per cui era entrata lì dentro, ovvero trovare i regali per suo padre.

Harry non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso dall’inizio della sua conversazione telefonica, ma doveva essere abbastanza lungo perché sentì la porta del negozio aprirsi e voltandosi in quella direzione vide Brittany uscire, un sacchetto di carta in mano.

Anche lei lo vide, poggiato con la schiena contro il muro, la mano libera in tasca.

Gli regalò un ultimo sorriso e dopo aver mimato un «Ciao» con le labbra, si girò e iniziò a camminare nella direzione opposta.

Cos’altro avrebbe dovuto fare?

La voce di Jeffrey continuava a parlargli nell’orecchio, ma l’attenzione di Harry era rivolta altrove.

Una vocina dentro di sé gli stava urlando di andarle dietro, di seguirla, ma i suoi piedi sembravano incollati al marciapiede e ormai era troppo tardi, la ragazza aveva svoltato l’angolo ed era sparita dal suo raggio visivo.

Non sapeva niente di lei, non le aveva chiesto nemmeno come si chiamasse.

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Capitolo 3
*** 𝟐. ***


2.

 




 

Brittany abitava nel Chiswick, un elegante quartiere in un’ansa del Tamigi, nella zona sudoccidentale di Londra.

Era un quartiere tranquillo, quasi interamente residenziale, non fosse stato per i negozi e i caffè indipendenti, pub, banchetti di frutta, verdura e fiori, presenti più numerosi lungo la via centrale e nei dintorni.

Un’inaspettata quiete la accolse quando sfilò le chiavi dalla serratura ed entrò in casa, una quiete che le fece aggrottare le sopracciglia, perplessa, per niente abituata ad un silenzio del genere tra quelle mura che contenevano, ininterrottamente, chiacchiere, litigi, musica – messa a volume talmente alto che se i loro vicini non fossero stati quella coppia di santi dei Laurence adesso avrebbero a carico chissà quante denunce per disturbo della quiete –, risate, rumori di stoviglie sbattute qua e là, l’aspirapolvere passato quotidianamente e puntualmente alle nove di mattina.

Persino di notte non c’era pace, tra William, il suo fratellino minore, che scoppiava a piangere all’improvviso spaventato da qualche incubo, suo padre che tornava tardi per via dei turni di lavoro e apriva e chiudeva il garage per parcheggiare la macchina e, per quanto cercasse di fare piano, il rumore metallico della serranda si sentiva comunque forte e chiaro, Simon che ritornava ubriaco marcio da qualche festa o da un’uscita con gli amici e ad ogni passo che compiva, ad ogni azione che svolgeva, anche la più semplice come quella di accendere la luce, riusciva a creare un trambusto tale da svegliare anche chi dormiva nel più profondo dei sonni.

Senza contare lo scompiglio che si veniva a creare in giardino durante le riunioni di famiglia o le grigliate la domenica o quando il fratello invitava quella banda di scapestrati dei suoi amici a casa.

I suoi genitori quella mattina erano entrambi al lavoro, William all’asilo, ma Simon e Amelia, sua sorella, dovevano essere a casa, lui aveva finito con le lezioni e si stava preparando ad affrontare la sessione di esami che lo aspettava a breve, così come Amelia aveva finito il trimestre del terzo anno di liceo ed era in vacanza già da qualche giorno, perciò non capiva dove potessero essere, ormai era troppo tardi perché fossero ancora a letto, aveva immaginato di trovarli con la musica al volume al massimo o impegnati in una delle loro liti di routine – avevano caratteri affini ed essendo due testardi, uno più dell’altro, ognuno rivendicava la ragione e nessuno ammetteva mai di essere nel torto –, che fossero in giardino era fuori discussione dato che faceva troppo freddo per starsene seduti all’aperto.

Lasciò cadere le chiavi nel piccolo vassoio in argento posto sopra al mobiletto nell’entrata, si sfilò le scarpe e appese sciarpa e giubbotto nell’armadio dell’anticamera.

«Ehi?» provò a chiamare, senza ottenere indietro alcuna risposta. «C’è nessuno?» ritentò, a voce più alta.

Si spostò verso il salotto ed eccolo lì il motivo per cui nessuno si era preoccupato di risponderle: Amelia era seduta a gambe incrociate sul divano, la testa china sullo schermo del cellulare e gli auricolari infilati nelle orecchie con il volume talmente alto che persino lei, da quella distanza, riusciva a sentire cosa stesse ascoltando.

Si avvicinò e le posò una mano sulla spalla, facendola sobbalzare dalla sorpresa.

«Cazzo,» imprecò alzando il viso, «mi hai fatto venire un colpo!» E si portò una mano al petto, come a sottolineare la veridicità delle sue parole.

La maggiore sorrise. «Ti chiedo scusa, ma se fossi rimasta ferma a fissarti te ne saresti accorta fra qualche minuto, se andava bene, e ti saresti spaventata comunque. Simon dov’è?»

«Ha detto che usciva a correre. E tu dove sei stata?»

«Sono andata a prendere i regali per papà» rispose facendo dondolare la busta di carta che teneva nell’altra mano.

«Che cosa gli hai preso?»

«Due vinili. Tu gli hai già trovato qualcosa?»

«Già? Sorellina, non manca neanche una settimana al compleanno di papà, io i regali glieli ho presi più di un mese fa ormai, mi sorprendo che tu ti sia ridotta così all’ultimo. Non è da te.»

«Ti prego, non mi dire così che mi sento già abbastanza in colpa. Non sapevo cosa prendergli.»

Amelia si strinse nelle spalle. «Io avevo trovato un’agenda in pelle in libreria, da Foster Books, e poi un profumo che sono sicura gli piacerà da morire perché è dolce, ma non troppo forte.»

«A quanto pare sono l’unica ad essere negata a fare regali», dedusse, facendo ridere la sorella dell’espressione crucciata che aveva assunto il suo volto. «Vado a nasconderli in camera. Mi aiuti a preparare qualcosa per cena, dopo?»

«Non dovremmo pranzare prima?»

«Mandiamo Simon a prenderci qualcosa per pranzo. Prepariamo qualcosa per stasera, che io ho lezione oggi pomeriggio, mamma è al lavoro e poi deve passare a prendere William da scuola, tornerà tardi e così almeno non dovrà pensare a cucinare, anche perché credo che non ne avrà nemmeno la forza.»

«Ma non ci dovrebbe pensare Gwen?»

Gwen era la governante della famiglia Berker da venticinque anni ormai, da quando era nato Simon.

Sua mamma era giovanissima, aveva appena compiuto ventun anni quando era arrivato il primogenito, mentre suo padre ne aveva ventiquattro, ed entrambi frequentavano l’università, lei quella di Lettere e lui quella di Medicina.

Si erano conosciuti alle superiori, all’epoca la migliore amica di Eloise usciva con il fratello maggiore di Daniel da un paio di mesi – qualche anno più tardi erano diventati anche loro moglie e marito – e li aveva combinato un appuntamento.

Era stato un vero e proprio colpo di fulmine, tant’è che non appena Eloise si era diplomata, Daniel le aveva chiesto di andare a convivere, senza indugi.

Lui all’epoca era al terzo anno di università e nel frattempo svolgeva qualche lavoretto part-time che, anche e soprattutto grazie all’aiuto dei suoi genitori, gli aveva dato la possibilità di permettersi l’affitto di un monolocale non molto lontano da dove studiava.

Non era stato semplice, anzi, i primi tempi era stato tutt’altro che semplice: c’erano stati giorni in cui non riuscivano nemmeno a bere un caffè insieme tanto erano sommersi dagli impegni, dalle lezioni e dallo studio, ma niente di tutto questo li aveva fatto rimandare quel sogno che entrambi avevano da sempre coltivato: diventare genitori da giovani.

Prima che nascesse il bambino, Daniel aveva cercato di convincere Eloise a chiamare qualcuno che desse loro una mano, perlomeno durante i primi mesi, lei aveva sempre declinato quell’offerta, “Non voglio che mani sconosciute tocchino le mie cose o il mio bambino”, diceva, almeno fino a quando non era arrivato il piccolo e la quantità di ore dormite a notte si era drasticamente ridotta.

Ed era stato a questo punto che aveva fatto la sua comparsa Gwen, una donnina di quarant’anni, occhi grigi, vispi, un viso delicato contornato da un caschetto di ricci castani, e un sorriso affabile ed onesto che riusciva immediatamente a conquistarti.

Si muoveva con destrezza, silenziosa come se fluttuasse tra le stanze, portando a termine tutti i lavori domestici in un battito di ciglia, si destreggiava tra i fornelli della cucina come se nella sua vita non avesse fatto altro che cucinare e, essendo a sua volta madre di due figli, era bravissima con Simon.

Ma Gwen, sin dal primo giorno, era stata molto di più di una scrupolosa governante, era stata un’amica con cui ridere a fine giornata sorseggiando un bicchiere di vino in cucina – ma sempre sottovoce per non svegliare il piccolo che si era appena addormentato nella stanca accanto –, una spalla su cui piangere quando le cose non sembravano andare per il verso giusto, dispensatrice di consigli come una madre, un angelo custode, come la chiamavano sempre Daniel ed Eloise, scaldandole il cuore perché anche lei ricambiava quell’amore incondizionato che provavano loro nei suoi confronti, e a casa Berker – che questa fosse il mini appartamento dei primissimi anni o la stupenda villa in cui si erano trasferiti successivamente – si sentiva proprio come a casa sua.

Brittany alzò gli occhi al cielo e «Sono letteralmente venticinque anni che Gwen è qua e ancora non hai imparato che il mercoledì è il suo giorno libero?» le chiese a sua volta.

Amelia si strinse ancora una volta nelle spalle, impassibile. «Ah, ecco perché c’è tutto ‘sto casino in giro.»

Brittany scosse la testa, evitando di dirle che se vedeva del casino era abbastanza grande da potersi tirare su le maniche e farlo sparire per non risultare troppo bacchettona e con la paura che facendo arrabbiare la sorella, questa cambiasse idea e la abbandonasse in cucina a sbrigarsela da sola. «Vado a portare questi su in camera prima che arrivi papà e li veda, e poi scendo che vediamo di preparare qualcosa.»

Amelia sbuffò all’idea di dover abbandonare quella posizione così comoda e per fare cosa, per andare a cucinare, una delle cose che più detestava al mondo; si era sentita insolitamente buona nei confronti di Brittany e aveva accettato di darle una mano, ma solo perché le aveva detto che dopo sarebbe dovuta andare a lezione.

Si alzò, a malavoglia, continuando a canticchiare la canzone che non aveva finito di ascoltare.

Arrivò anche Brittany, in quella cucina spaziosa dove era il bianco a dominare: bianco era il pavimento in resina, bianchi erano tutti gli elettrodomestici, bianche erano le credenze, bianco era il colore dell’isola e del tavolo da pranzo posizionato di fronte ad una grande finestra che dava sul giardino e bianco era il colore del marmo che rivestiva tutti i piani di lavoro.

Aprì il frigorifero a due ante e si piegò per scrutarne il contenuto, in cerca di un’idea.

Non era certamente quella che si poteva definire una grande cuoca, cucinare non era proprio nelle sue corde, perciò il suo cervello si era messo in moto per recuperare una qualche ricetta che magari aveva visto eseguire a Gwen, che fosse non troppo complicata e allo stesso tempo buona. 

C’era anche un’altra cosa che le stava ronzando in testa: doveva raccontare a sua sorella quello che era successo neanche due ore prima o era meglio di no?

Non si sarebbe posta nessun tipo di problema se non fosse che Amelia era completamente e follemente innamorata di Harry Styles – ogni centimetro quadrato della parete dietro al suo letto era ricoperto di foto del cantante, in un angolo della sua camera, appoggiati sul cassettone, c’erano tutti i suoi album, sia quelli di quando era nella band sia quelli da solista, lo seguiva su ogni social esistente, non c’era particolare della sua vita di cui non fosse a conoscenza, sapeva a memoria tutte le sue canzoni e tutte le cover che aveva eseguito, naturalmente, e, Brittany ne era quasi certa, aveva guardato tutte le sue interviste, alcune anche più di una volta –, come l’avrebbe presa?

«Che cosa facciamo?» le chiese lei, interrompendo i suoi pensieri.

«Zuppa con porri, carote e pollo e broccoli in padella. Tieni, lava i porri e le carote mentre io penso ai broccoli.» 

C’era il pollo rimasto dalla cena del giorno prima, così almeno non sarebbe andato sprecato.

Amelia saltò giù da uno dei sei sgabelli – uno per ciascun membro della famiglia – sistemati attorno all’isola della cucina e prese le verdure che le stava porgendo Brittany.

Tirò fuori una ciotola che poi mise nel lavello, sotto il getto dell’acqua.

«Cosa c’è?» domandò ad un tratto alla sorella, lanciandole un’occhiata: era troppo silenziosa, come immersa in pensieri che chiedevano di essere tirati fuori, trasformati in parole.

«Niente. Perché?» Corrugò la fronte: era davvero così facile leggerle dentro?

«Boh, non parli. E se continui a corrugare la fronte così», le disse puntandole contro una carota, «ti farai venire le rughe prima del tempo.»

Brittany si portò la mano libera in fronte, come ad accertarsi se effettivamente fosse comparsa improvvisamente una ruga, tirandola poi giù di scatto.

«Niente», ripeté, «sono concentrata a pulire bene questi cosi.»

«Non sei brava a mentire. Che c’è, si vede che c’è qualcosa che vuoi dirmi.»  

«E va bene, okay», cedette infine, tanto sarebbe stato difficile continuare a tenerlo ancora soltanto per sé. Anche se l’espressione soltanto per sé non era propriamente corretta visto che non appena era salita sulla metro per tornare a casa aveva mandato un messaggio alle sue migliori amiche per aggiornarle immediatamente su quello che le era successo. Ovviamente. «Ho visto Harry Styles, questa mattina.»

Amelia sbatté le palpebre e poi la guardò qualche istante in silenzio, prima di scoppiare a ridere. «Era questo?» domandò.

Brittany la scrutò, stranita da quella reazione: tutto si aspettava fuorché quella risata. 

«Sì, era questo», rispose. «Cosa c’è di divertente?»

«E dai, Britt, pensi che ti creda? Non ci crederei nemmeno se l’avessi visto con i miei stessi occhi, figurati.»

«Come vuoi» annuì, senza aggiungere altro, e se ne tornò al suo lavoro: che le credesse o no poco le importava, lei il peso se l’era scrollato di dosso.

Amelia continuò a fissarla: sua sorella non aveva fatto il minimo sforzo per cercare di convincerla come solitamente fa invece chi cerca di supportare le proprie bugie, nessun dettaglio aggiunto per attirare la sua curiosità, niente di niente, solo quella frase nuda e semplice, quasi sussurrata, e fu in quel momento che capì; dopotutto, perché mai Brittany se ne sarebbe dovuta uscire fuori con una cosa del genere se non fosse successa realmente?

«Oh. Mio. Dio. Tu non stai scherzando. Oh mio Dio, oh mio Dio, oh mio Dio.»

«Okay, era meglio non dirtelo.»

Ecco, pensò divertita, questa sì che era esattamente la reazione che si aspettava.

«Cosa? No!» quasi urlò lei. Si lavò le mani frettolosamente e altrettanto frettolosamente se le asciugò su uno strofinaccio e poi le si parò davanti, poggiandogliele sulle spalle. «Adesso tu ti siedi e mi racconti tutto, tutto: dov’era, cosa faceva, con chi era. Era con qualcuno? Ti ha vista?»

Non solo, pensò Brittany, ma non era proprio il caso che rivelasse alla sorella tutti i dettagli, se le avesse detto che lui si era avvicinato a lei non era del tutto improbabile che si sentisse male.

«Oddio, oddio, oddio. Perché? Non è giusto. Io non l’ho mai incontrato, mai, e tu esci una mattina per caso e boom, te lo ritrovi davanti. Ma come hai fatto?» Era un fiume di parole mentre continuava a girare senza sosta attorno all’isola della cucina.

«Amelia, per favore, perché non ti tranquillizzi e non vieni a sederti qui vicino a me? Mi stai facendo venire il mal di testa.»

«Oh, perdonami se non riesco a stare calma!» Sbottò. «Perdonami se non mi è indifferente come lo è a te. Ma come fai a stare così tranquilla? Hai appena visto Harry Styles e te ne stai lì seduta come se niente fosse.»

«E cosa dovrei fare, invece? E poi hai detto bene, l’ho solo visto, mica mi ha chiesto di sposarlo.»

«Solo visto. Ma lo sai che c’è gente che pagherebbe oro per poterlo vedere anche per un minuto? E ovviamente questa fortuna capita sempre a quelli a cui invece non frega un cazzo. ‘Fanculo! Non è giusto. Ma perché non sono venuta con te?» 

Brittany restò in silenzio; se da un lato la reazione eccessiva della sorella l’aveva divertita, facendole mordere le labbra per non far intravedere il sorriso che stava lottando per spuntare – ci mancava solo che Amelia la vedesse ridere di lei e sarebbero veramente stati guai seri –, dall’altro lato la capiva e quasi si sentiva in colpa per quell’incontro fortuito, nonostante non fosse assolutamente colpa sua, ma appunto quello, un semplice e banale gioco del caso, era stata adolescente anche lei e sapeva bene quanto poteva essere forte quel legame, quell’amore che poteva provare una ragazza per il suo idolo.

Finalmente Amelia parve calmarsi un attimo e si sedette davanti a lei. «Okay, raccontami tutto. Punto uno: dove l’hai visto?»

«Nel negozio di musica.»

E di lì iniziò una raffica di domande a cui Brittany dovette rispondere aggiungendo il maggior numero di particolari possibile – Amelia non si accontentava di risposte secche, no, voleva venire a conoscenza del più minuzioso dei dettagli, come se attraverso il racconto della sorella potesse vivere lei stessa quell’incontro –, omettendo tutta la parte della loro conversazione, limitandosi a dire che Harry era talmente concentrato da non essersi nemmeno accorto della sua entrata.

Non le piaceva mentire, ma quella era una bugia a fin di bene, non c’era bisogno di far star male Amelia per uno sguardo e due frasi buttate lì a caso.

Sicuramente il ragazzo l’aveva scambiata per una persona che conosceva e accorgendosi che non era lei si era comunque fermato a scambiare qualche parola per non risultare strano o scortese, per poi ringraziare dentro di sé chiunque l’avesse chiamato al telefono, salvandolo da quella situazione.

Però, sussurrava una voce nella sua testa, non era sembrato molto contento di quell’interruzione, quasi come se avesse voluto rimanere ancora lì a parlare con lei, ma Brittany accantonò immediatamente quel sussurrio per ribadire fermamente la sua teoria.

E mentre lei era seduta lì su quello sgabello con i gomiti puntati sul piano in marmo dell’isola e gli occhi azzurri, scintillanti di curiosità e insieme di tanta invidia, di Amelia fissi su di sé, in un’altra parte di Londra, non lontano da loro, Harry si richiudeva la porta del suo appartamento dietro le spalle.

«Guarda chi si rivede» lo salutò Gemma quando entrò in cucina, mettendo in pausa la lettura della rivista che stava accompagnando la sua colazione. 

Harry le sorrise; si appoggiò al ripiano della cucina, incrociando le braccia al petto. «Ben svegliata.»

«Mi sono addormentata sul divano, di nuovo.»

«Eh, ho notato.»

«Ho continuato a scrivere e correggere e riscrivere fino a tardi, ero sfinita. E poi hai dei divani troppo comodi, Haz, non è colpa mia. E tu dov’eri finito?»

«Sono uscito a fare una passeggiata» rispose, vago, girandosi a guardare fuori dalla finestra.

Da quel punto dell’appartamento si poteva benissimo vedere il porto di St. Katharine, i vecchi velieri ormeggiati, le passerelle, il molo.

Era una bella vista, specialmente durante il tramonto, quando i colori caldi del cielo si riflettevano sull’acqua del fiume e lui prendeva carta e penna e si metteva accanto alla finestra a scrivere.

Gemma continuò ad osservarlo da sopra la tazza bianca di tè che teneva tra le mani, in attesa, perché sapeva che c’era dell’altro.

«Ho incontrato una ragazza» esordì infine lui, dopo un lungo silenzio, tornando a guardarla.

«Ah, è per questo che sei uscito così presto.»

«No. Non l’ho incontrata nel senso di avevamo un appuntamento, l’ho incontrata per puro caso.»

«Ah» ripeté Gemma, laconica.

«È stato strano.»

«Strano, perché?»

Harry si strinse nelle spalle. «Non lo so. È difficile da spiegare senza sembrare folli, ma nel momento in cui l’ho vista, ho sentito di conoscerla.»

«Magari vi siete già incontrati prima e semplicemente non te lo ricordi» provò a suggerirgli.

«No, non l’avrei dimenticato se mai l’avessi vista prima.» Sarebbe forse stato possibile incrociare quegli occhi e poi dimenticarli? O essere degnati di quello splendido sorriso per poi lasciarlo cadere nell’oblio? «Sono sicuro di non averla mai vista prima di oggi, però non riesco lo stesso a togliermi questa strana sensazione di dosso.»

«Le hai chiesto il numero?»

A questo punto Harry, suo malgrado, scoppiò in una risata breve, ma clamorosa. «Non le ho chiesto nemmeno il nome, Gemma, e tu mi parli del numero di telefono.»

Gemma era sinceramente stupita. «Perché non l’hai fatto?»

«Eravamo in un negozio di dischi. Abbiamo parlato per, non so, saranno stati due, tre minuti ad esagerare e poi mi ha chiamato Jeffrey.»

Sua sorella alzò gli occhi al cielo. «Sempre nei momenti più opportuni», ironizzò.

«Non mi chiama mai di mattina, così sono uscito fuori sapendo che era qualcosa di importante. E dopo qualche tempo è uscita anche lei, mi ha salutato ed è andata via.» Harry ripensò alla sorpresa che aveva letto nei suoi occhi scuri nel momento in cui gli aveva posati su di lui, ripensò alla voce che pronunciava il suo nome, ripensò al suo sorriso. «Credi che ci sia qualche possibilità di rivederla?» chiese nonostante già sapesse da sé qual era la risposta. 

«Beh, fratellino, non per demoralizzarti o altro, ma a questo punto c’è da dire che sono più alte le possibilità che un meteorite piombi in questo esatto momento sulla Terra rispetto ad un secondo incontro.»

«Già» dovette concordare Harry, tornando a puntare lo sguardo pensieroso e rabbuiato fuori dalla finestra, era assolutamente improbabile e si maledisse per non esserle corso dietro quando ne aveva avuto l’opportunità.

Un sospiro gli sfuggì dalle labbra.

«Tieni, mangiati una mela per dimenticare il tuo amore perduto.» E nel dire ciò, Gemma gli lanciò il frutto rosso che Harry afferrò al volo, con una mano sola. «Quando parti per il tour?»

«Dopo il dieci.»

«Perché c’è il Betty Trask Award l’otto. Non te ne sei dimenticato, vero?»

«No, no, certo che no. Ci sarò.»

«Sarà meglio.»

 

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