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di pura_vida
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** sangue ***
Capitolo 2: *** carrozze ***



Capitolo 1
*** sangue ***


Sentivo di star sprecando la mia vita lì. Anzi, ormai la mia vita mi stava sfuggendo di mano...apparteneva sempre più a lui e sempre meno a me. Ero stanca dei lividi, degli insulti, degli abusi… io avevo un sogno, ma ad ogni schiaffo che ricevevo in viso lo vedevo sparire ogni giorno di più. 15 agosto 1920. Mio marito è morto, l’ho ucciso io. Adesso la mia vita è di nuovo nelle mie mani. Mani che ora sono macchiate di sangue, così come la valigia che tengo stretta: dentro, oltre ai pochi vestiti, c’è un biglietto. È il biglietto del traghetto che salperà da Rio de Janeiro verso Roma, portandomi finalmente verso la vita che merito.

 

Questo buio è quasi rassicurante, mi avvolge come una calda coperta dandomi l’affetto che dopo la morte del mio caro padre non ero più riuscita a ricevere . I leggeri soffi di vento mi scompigliano i capelli come un’impacciata carezza, così come la luna mi stampa leggeri baci sulla fronte. Ora è tutto perfetto, sento il cuore leggero e anche le mie braccia piene di lividi sembrano già pesar meno. Le uniche sensazioni spiacevoli sono il tanfo di quel sangue crudele e la sensazione che questo mi lascia sulle mani colando dal coltello, rendendo le mie mani viscide e appiccicose. 

Trasportarlo è davvero un’impresa folle. A quello sporco e ricco poliziotto raccomandato il cibo non era mai mancato, considerando che la mia porzione è sempre stata ridicola in confronto alla sua, nonostante fossi sempre io a gettare sudore davanti ai fornelli. Il profondo fiume che scorreva poco lontano sarebbe stato perfetto come eterna sepoltura. Addio marito mio, ti ho amato anche se tu mi hai sempre odiata. Ma il tuo stesso odio alla fine ti ha ucciso. Addio marito mio, non mi mancherai. Osservando il corpo sulla riva del fiume non provo nulla, nemmeno paura per la mia stessa indifferenza davanti alla morte. Visto così, mio marito è quasi più bello: ha un’espressione serena, il ghigno rabbioso e la luce che attraversava i suoi occhi nei momenti di follia sono scomparsi. Faccio leggera pressione sul suo corpo con il mio piede, attenta a non macchiarmi le scarpe con il suo sangue, facendo rotolare il suo corpo nel fiume. Poi una luce. Un bagliore fugace mi acceca per un momento. Poi passi, rumore di foglie calpestate. C’è qualcuno e la luna non è più mia amica perchè mi illumina il viso rendendomi riconoscibile. Con il fiato corto getto il coltello nell’acqua , più lontano che posso. È tanta la forza che uso che tutti i lividi scuri tornano a farsi sentire. Il dolore delle ferite ed il senso di inquietudine si infiltrano nel mio stomaco stringendolo come in una morsa. È ora di andare. Lavo frettolosamente le mie mani nell’acqua cercando di togliere i residui di sangue poi tocco la spilla che da sempre porto puntata sulla camicia. Subito sento l’immenso potere che ha sempre avuto, ovvero infondermi tranquillità come faceva mio padre che me la regalò. 

 

Sta notte il mare è calmo, increspato solo a tratti a causa dei leggeri soffi di vento. Proprio come il mio animo: tranquillo, ma a tratti turbato dal ricordo insistente di quella luce e di quei passi. Questo viaggio in nave… chissà quanti giorni durerà. Sicuramente per gli altri passeggeri sarà una vera tortura, mentre per me è un varco verso la libertà. Il biglietto che sono riuscita per miracolo a procurarmi non prevede una sistemazione all’interno della nave. Seduta sul ponte a gambe incrociate, senza dovermi più preoccupare di rispettare l’etichetta sociale che grava sulla quotidianità del genere femminile, chiudo gli occhi e poggio la testa alla parete. Il profumo del mare è inebriante. Per me rimarrà sempre l’odore della libertà. Una lacrima mi riga la guancia e porto ancora una volta la mano al petto. Ma il battito ritmico e rilassato del mio cuore si blocca per lasciare spazio ad un martellare ansiogeno e doloroso. La spilla non era più sulla mia camicia.

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Capitolo 2
*** carrozze ***


Le ore sulla nave passano tutte uguali. Sono differenziate soltanto dalle tonalità differenti che la luce del sole o della luna dona alle onde. Per il resto è tutto piatto, ma va bene così. Non ho parlato con nessuno fino ad ora e non lo farò. Questa gente non mi appartiene più, non voglio più averci nulla a che fare. Per quanto sento che i miei obbiettivi possano coincidere con quelli di qualcuno su questa immensa nave, non mi interessa. Ho condiviso la mia vita con un uomo spregevole fino ad ora, e ho anche avuto l’ardito coraggio di amarlo. Ora ciò che è mio è mio, non condividerò più nemmeno un pezzo di pane. Mentalmente ripeto ciò che mio padre mi ha insegnato della lingua italiana. Era un galantuomo del sud Italia, uno sceneggiatore di teatro. Durante una viaggio di lavoro a Rio de Janeiro conobbe mia madre. Lei era una donna umile, lavorava come cameriera in uno dei tanti bar che si affacciavano sulla spiaggia dorata. Era davvero bellissima, così mi ha sempre raccontato papà, e la foto sbiadita che ancora conservo lo conferma. Una donna dalla pelle di cioccolato e i capelli ricci e soffici come una nuvola. Io somiglio ad entrambi: ho i soffici ricci di mia madre e gli occhi verdi di mio padre. I suoi però, a differenza dei miei, erano allegri e spensierati, nonostante la grave malattia che lo affliggeva e di cui era consapevole. Mio padre è sempre stato un uomo forte, uno di quelli che gioiscono delle piccole cose della vita. Sono sicura che anche mamma fosse così. Ritrovarmi senza mio padre, la luce del mio cuore e la mia speranza, fu tremendo. Erano passati già tre anni dal mio matrimonio con Gabriel, matrimonio che al tempo credevo felice. Ero innamorata persa di quel giovanotto alto, con quei morbidi capelli castani… ho perso mio padre all’improvviso a causa del suo tumore allo stomaco, ho visto la sua anima dolce volare via e i suoi occhi buoni chiudersi davanti a me. Mi sentii persa. Fu come guardare il mondo che piano piano si accartoccia inghiottendo nell’oscurità tutte le sue meraviglie. Mi aggrappai a mio marito, la mia unica ancora di salvezza. Il mio amore per lui divenne quasi morboso, avevo bisogno di lui. Ma in cambio ricevetti soltanto la rivelazione che in quei tre anni di matrimonio e due di fidanzamento non ero stata innamorata di un uomo, ma di una maschera. La maschera più accurata e rifinita che abbia mai visto. Nemmeno un piccolo graffio nella vernice o una sbavatura di colla. Quel ragazzo dolce e premuroso sembrava quasi vero, ma ci mise poco a scomparire e a lasciare spazio al mostro che si celava nelle sue viscere. Tutto questo vagare di pensieri mi fa venire il mal di mare più di quanto non lo facciano le maledette onde. Il mare è stato calmo per i primi due giorni, ma sento la tempesta che arriva e non si preoccupa nemmeno di avvicinarsi di soppiatto. Perché dovrebbe in fondo, la natura è così maestosa e possente che segue il suo corso senza nemmeno accorgersi della nostra presenza. O magari se ne accorge ma poco le importa. Siamo solo formiche su una strada di carrozze laccate di rosso, schiacciate non volontariamente ma inevitabilmente. Solo pochi si salvano. L’assenza della spilla sta diventando insopportabile. Fisicamente ho la sensazione di un arto amputato. Sai che non c’è ma la tua mente lo percepisce ancora lì. Ma quando avvicini la mano per poterlo toccare non c’è nulla. Il vuoto fisico lascia però spazio ad un peso enorme sull’anima. Quella dannata spilla era l’ultima cosa che mi rimaneva di mio padre. E ora è l’ultimo frammento della mia serenità sperduto chissà dove.

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