Sopravvissuti | Left 4 Dead

di FreddyOllow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Whitaker ***
Capitolo 2: *** Virgil ***
Capitolo 3: *** Jimmy Gibbs Juniors ***
Capitolo 4: *** La sposa Witch ***
Capitolo 5: *** L'uomo della chiesa ***



Capitolo 1
*** Whitaker ***


La CEDA aveva detto che le cose sarebbero tornate alla normalità, ma quei fottuti bastardi ci hanno abbandonato qui. In una città devastata dalla morte, dall'epidemia verde, da quei fottuti zombie, o infetti del cazzo. Non chiederò scusa per il mio linguaggio perché sono incazzato nero. Sono così incazzato che non riesco nemmeno a dirvi quanto cazzo sono incazzato.

Ok, ora sono calmo. Sono fottutamente calmo. La calma in persona, Cristo!

Tutto ebbe inizio quel giovedì di tre settimane fa o forse quattro. Ormai non conto nemmeno i giorni che passano, tanto sono tutti uguali. Erano le cinque e mezzo del pomeriggio ed ero uscito a fare un po' di spesa. Insomma, cose di ogni giorno. Ero nel reparto vini quando sentii diverse urla provenire dall'ingresso. Sembrava una donna in piena crisi isterica e ignorai quel evento. C'erano così tanti pazzi in città che un evento simile non smosse per niente la mia curiosità. Misi il vino nel carello e mi recai alla cassa. Beh, uno sano di mente avrebbe notato che c'era qualcosa di strano. Voglio dire, non c'era più gente nel supermercato. Ma io ero già ubriaco dalle nove di stamane, perché... Beh, cazzi miei, insomma.
Mi fermai alla cassa e attesi per un momento. Ebbi l'impulso di non pagare e andarmene, quando vidi la commessa che mi dava le spalle. Camminava appena fuori dall'ingresso. Nel chiamarla, quella scattò la testa verso di me. Quello che vidi mi restò marchiato nella mente ancora oggi. Un faccia grigiastra, gli occhi nero pece e del sangue che le sporcava le labbra. Emise un gemito, quasi un grido e si precipitò verso di me. Sulle prime non feci nulla, anche perché ero ubriaco e mi misi a ridere. Ma quando quella fu a qualche passò da me, tentò di tirarmi una manata in faccia. Mi scansai dal colpo e la commessa cercò ancora una volta di colpirmi. La distanziai con il mio carello e quella ci saltò sopra. Un balzo talmente rapido che mi fu addosso in pochi attimi, ma che dico forse nano secondi.
Tentò di sferrarmi schiaffi e pugni, mentre gridava o gemeva, visto che erano quasi la stessa cosa. Mi colpì in pieno volto e vidi tutto sgranato. Un colpo violento, fortissimo da una donna gracile non me lo sarei mai aspettato. Non sapevo da dove avesse preso tutta quella forza. Mi colpì altre tre volte in faccia, quando la vidi catapultata all'indietro. Schizzi di sangue mi macchiarono la giacca verde militare e la faccia. L'eco dello sparo dentro il supermercato mi fece ronzare le orecchie, prima di perdere i sensi.
Quando mi ripresi e mi rialzai, mi vidi puntato in faccia la canna di un fucile a pompa. Uno spaz-12. Una arma letale a corta distanza. L'uomo che mi guardava dietro quella grossa e cazzuta arma mi chiese se fossi infetto.
- Infetto? - Risposi.
- Rispondi alla mia domanda!
- Non capisco dove vuoi arrivare.
L'uomo abbassò il fucile. - Hai visto cosa sta succedendo là fuori?
- Cosa?
Indicò la commessa dal petto squarciato dal fucile a pompa. - Questo per te è normale?
Realizzai solo in quel momento del cadavere della donna. - Oh merda, amico. Senti, io no voglio problemi, ok? - Alzai le mani in aria credendo che fosse una rapina.
- Ma che cosa fai? - Mi chiese l'uomo.
- Prendi i soldi dalla cassa, ok? Io non ho visto niente.
L'uomo scosse la testa. - Sei impazzito? Ti ho appena salvato la vita.
Guardai il corpo della donna, la pozza di sangue sotto di lei e non capivo.
- Ti ha attaccato. - Mi disse. - Non ti ricordi?
Corrugai la fronte e compresi. La vecchiaia mi stava giocando brutti scherzi, o forse era colpa della troppa birra?

Lasciato il supermercato, vidi la devastazione che stava colpendo la città in cui ero cresciuto. La gente che correva terrorizzata, i veicoli che si scontravano, i posti di blocco dell'esercito e CEDA invasi dall'orda di infetti. La stessa CEDA che negli Stati Uniti stavano sviluppando una cura, una modo per arginare l'epidemia verde. Ma quegli stronzi non sapevano proprio nulla. Non avevano un cazzo tra le mani.
Un infetto ci notò, corse verso di noi e l'uomo gli fece saltare le cervella. Attirati dal rumore, un gruppo di infetti si mise alle nostre calcagna. Corremmo rasenti il muro del supermercato, svoltammo l'angolo e continuammo per altri venti metri. Poi girammo a sinistra e attraversammo a tutta velocità il parcheggio. Avevamo ancora gli infetti alle nostre spalle, e quando udimmo degli spari in lontananza, la metà di loro si divise.
Ci rifuggiamo in un deposito, chiudendo la saracinesca. Gli infetti ci sbatterono contro e, gridando, la martellarono di pugni e schiaffi.
- Resta qui. - Mi disse l'uomo. - Vado a dare un occhiata in giro.
- Ehi, aspetta. - Ma quello si era già allontanato. Che giornata di merda, pensai.
L'uomo ritornò dieci minuti dopo. - Il deposito è vuoto. - Disse. - Possiamo uscire dal retro, ma non credo che sia una buona idea.
- E' così ovunque? - Domandai, anche se iniziavo a credere che lo fosse.
- Altre città sono già cadute. I militari non sono riusciti a fermarli, e nemmeno la CEDA. Siamo soli. Completamente soli.
Rimasi in silenzio per un po'. - Ho un rifugio pensato per queste situazione. Si trova sopra la mia armeria.
L'uomo mi squadrò. - Sei Whitaker?
- Sì. Tu come lo sai?
- Tutti conosco quell'armeria, e non per tuo il negozio, ma per il rifugio. - L'uomo sbuffò un sorriso divertito. - Ti definivano pazzo, un eccentrico e vedi ora come siamo messi. Quel tuo rifugio potrebbe salvarci, e tenere lontani gli infetti.
- Potrebbe? - Sottolineai.
- Ti ho salvato la vita. Come minimo dovresti invitarmi nel tuo rifugio, almeno per il momento.
- Sì, ecco, io... - Balbettai. - Lo stavo per fare.
- Non dire stronzate. - Tagliò corto l'uomo. - Riconosco le cazzate.
Rimasi in silenzio.
D'un tratto la saracinesca dapprima si piegò, poi crollò al suolo. Gli infetti sciamarono nel deposito, urlando impazziti.
- Forza, andiamo! - Mi gridò l'uomo.
Salimmo una rampa di scale e corremmo sulla pedana metallica che circondava il deposito. Alcuni infetti si arrampicarono su di essa, e l'uomo gli fece fuori a fucilate. Ci fermammo davanti a una porta di ferro con una piccola finestra e girai la maniglia. Era chiusa.
- Spostati! - Mi urlò l'uomo. Sparò sulla serratura e la porta si spalancò.
Superammo il piccolo ufficio e ci inoltrammo nel corridoio. Gli infetti non accennavo a fermarsi. Sentivo le loro grida quasi dietro alle mie orecchie. Uscimmo dal retro e scendemmo una scala antincendio. Un infetto si lanciò fuori da una finestra aperta, atterrando senza rompersi le caviglie. L'uomo gli sparò in pancia. Sbucammo in un vicolo e continuammo a muoverci. La maggior parte degli infetti erano scomparsi alle nostre spalle, ma otto di loro non avevano intenzione di mollare. L'uomo mi fece fermare, prese la mira e sparò agli infetti in arrivo. Una raffica rapida, precisa di chi è abituato a sparare da una vita.
L'alcool che avevo in circolo si era ormai assopito. Ora cominciavo a realizzare cosa diavolo stava succedendo in città. La mia mente mi riportava l'immagine della commessa, la sua faccia, il suo cadavere. Mi guardai il sangue sulla giacca.
- Credo che raggiungere il tuo rifugio sia ormai impossibile. - Disse l'uomo. - Conosco un posto tranquillo. Ci vive altra gente. Brava gente. Sono tutti armati e le sanno usare. Quindi saremo al sicuro.
Gli lanciai un occhiata distratta. - OK, ma non credo sarà impenetrabile come il mio rifugio.
- Non lo è, ma gli infetti faticheranno molto per entrarci.

Venti minuti dopo arrivammo di fronte al rifugio. Era un edificio in cemento di tre piani sulla cui veranda del secondo piano era montata una mitragliatrice. Tutte le finestre erano state chiuse da assi di legno e sul tetto c'erano tre sentinelle armati con fucili di precisione. Delle macchine erano state messe di sbieco a qualche metro dall'ingresso. Sulla strada a senso unico, c'erano decine di corpi crivellati che riempivano quasi ogni centimetro dell'asfalto. Come diavolo avevano fatto a organizzarsi così in poco tempo?
L'uomo alzò una mano. - Ehi! Sono io, Nolan. - Gridò alle sentinelle poste sui tetti.
La doppia porta di quercia si aprì ed entrammo nel soggiorno puntellato da sacchi di sabbia, casse e diversi tavoli usati come muri di protezione.
Una donna con in mano una pistola magnum si avvicinò a noi, seguita da guardie armate di AK-47. - Chi è questo?
- E' Whitaker. - Disse Nolan.
- L'armiere strambo. - Disse la donna con un ghigno.
- L'ho trovato al Save 4 Less.
- Mi ha salvato la vita. - Dissi.
La donna mi ignorò e si rivolse a Nolan. - Ti avevo detto di non andarci. Abbiamo provviste per mesi. Non possiamo andarcene in giro da soli, lo sai. E poi sei tornato a mani vuote. Quindi perché ci sei andato?
- Lo sai perché. Solo che poi le cose sono andate diversamente. Ho visto Whitaker attaccato da una infetta e l'ho salvato.
- Quindi volevi farti ammazzare per niente.
Corrugai le sopracciglia, infastidito.
- Ci sono altre persone là fuori. - Disse Nolan. - Le ho viste. Possiamo aiutarle. Più siamo, più saranno maggiori le possibilità di sopravvivenza.
La donna lo fissò torva. Poi si voltò e si allontanò insieme alle guardie.
L'edificio in cui ero entrato era in realtà un grande magazzino. C'erano decine di persone armate in giro. Delle lenzuola o tende dividevano gli spazi formando delle stanze. In molti di questi vidi letti, giacigli improvvisati e scaffali pieni di armi. Sembrava che tutti si conoscessero.
Nolan mi condusse in una di queste camera.
- Per sta notte dormirai qui. - Mi disse. - Se domani vorrai andartene, sei libero di farlo. Nessuno ti trattiene.
- Non credo che quella donna direbbe qualcosa se me ne andassi.
Nolan sorrise. - Parli di Jadis? E' solo una facciata. Lei non è così. E' una brava persona.
- Come avete fatto a mettere in piedi un posto del genere così velocemente?
- Non l'abbiamo fatto. Eravamo già preparati. Quelli che hai visto sono tutti survivalisti. Sapevamo che l'epidemia verde non era una stronzata. Molti ci ridevano dietro, e vedi come è andata. Tu puoi capirlo. Anche tu sei uno di noi.
- Ma non avrei mai immaginato che una epidemia di zombie avrebbe messo in ginocchio l'intera nazione.
- Beh, non sappiamo se è così ovunque, ma Jadis lo crede fermamente. E grazie a lei che è stata possibile la costruzione di questo posto. E poi non sono zombie, ma infetti.
- Sono la stessa cosa.
- No, ti sbagli. Gli zombie sono morti. Gli infetti no. Il loro corpo è ancora caldo, c'è ancora vita all'interno. Il virus prende il controllo del tuo cervello, del tuo corpo.
- Tu come fai a saperlo?
- Me l'ha detto uno scienziato della CEDA, Thomas. - Indicò una tenda poco più avanti. - Era qui fino a ieri, poi ha deciso di andarsene. Aveva perso i contatti con la sua famiglia, a Miami. Credo che si sia diretto lì. Spero che c'è l'abbia fatta.
- Quelli avevano detto che andava tutto bene. - Mi sedetti sulla branda.
- Parli della CEDA? - Rispose Tom.
- Chi sennò?
- Ti dirò una cosa: non tutti gli operatori della CEDA credevano di poter arginare questa infezione. Thomas, ad esempio, mi aveva detto chiaramente che se lo cose sarebbero precipitate. Pensava che l'infezione dovesse ancora raggiungere il suo apice o qualcosa del genere. Insomma, credeva che l'infezione avrebbe spazzato via la maggior parte del paese. E poi ha accennato ad un evoluzione. Non ho ben capito dove voleva arrivare con quei paroloni da testa d'uovo, ma sembra che è andata tutto come aveva previsto.
Rimasi in silenzio per un lungo momento. Non ero sorpreso da ciò che avevo sentito, ma irritato dalle bugie con cui la CEDA aveva ingannato la gente.
- Jadis ha più informazioni di me sulla CEDA. - Disse Tom. - Si teneva in contatto con Thomas fino al silenzio radio. L'ultima cosa che ci ha detto è di barricarci dentro un luogo difendibile. Non ha avuto il tempo di dirci altro, perché non lo abbiamo sentito più.

Passai una settimana recluso insieme ai survivalisti. Là fuori la situazione era precipitata con una rapidità orrenda. Le strade erano un tappeto di sangue, viscere e arti menomati. Gli infetti avevano massacrato i sopravvissuti che non erano riusciti a difendersi o trovare un posto sicuro. Chi moriva, poi, si rialzava. Altri si trasformavano senza mostrare sintomi.
In tutto questo caos, cominciarono a comparire strani esseri. Infetti evoluti sul piano fisico e mentale. Il loro DNA creava una nuova combinazione di letali mostruosità che per un sopravvissuto sprovvisto di armi equivaleva a morte certa. Merda, è parola giusta per descrivere questa situazione del cazzo. Una merda di proporzioni gigantesche il cui tanfo ammorba e infesta ogni fottuto angolo di questa città, e forse dell'intero paese.
In questa settimana avevo stretto amicizia con Tom, ma gli altri mi evitavano. Quando gli domandai perché lo facessero, lui si limitò ad alzare le spalle. Non sapevo perché mi trattassero così, ma cominciavo a credere che fosse dovuto alla mia nomea da folle. Eppure non ero più folle di loro che, nelle settimane prima della grande epidemia verde, avevano allestito un edificio a prova di mostri. Qualunque infetto provasse a entrare, finiva crivellato di pallottole.
I problemi cominciarono con l'arrivo degli infetti speciali. Fu un vero massacro. Le sentinelle che si trovavano sui balconi e sul tetto, vennero ammazzati o svanirono nel nulla. Jadis aveva ordinato di non stare più del necessario sul balcone o sul tetto, ma anche stando meno di dieci secondi, quelli sparivano o veniva trovati fatti a pezzi. Non sapevamo chi o cosa stesse facendo questo al suo gruppo, finché non vedemmo un infetto con la lingua a penzoloni. Nel spostarsi, lasciava in aria un orrendo tanfo di fumo. Era così insopportabile che chiunque si avvicinava, tossiva o soffocava sotto quell'aria putrida. Ne morirono due in questo modo, e Tom dovette ucciderli prima che si trasformassero.
Gli sciami di infetti iniziarono a moltiplicarsi. Ci attaccavano giorno e notte, a volte per ore. Li rispingevamo a fatica, ma senza riportare perdite fra le nostre fila. Quando poi insieme a quell'orda cominciarono a comparire gli infetti speciali, le cose andarono a puttane. Letteralmente.
Cominciammo a dare nomi a quelle cose che non avevano nulla di naturale. Gli Hunter erano quelli che più facevano stragi nel gruppo, e con la comparsa di un imponente essere dalle spalle massicce e le gambe esili, che non sapevo come facevano a reggere quella moltitudine di chili sul suo corpo, l'edificio venne quasi raso al suolo.
Gli scaricammo addosso interi caricatori, ma quello continuava a venirci incontro senza accusarne i colpi. Distruggeva le pareti con pesanti pugni e si arrampicava sulle grondaie con una leggerezza alienante per il suo enorme peso. Aiutati dal caos scatenato dal Tank, come lo chiamai io, gli infetti si riversarono nell'edificio e uccisero chiunque sul loro cammino. Mi salvai solo perché Tom, giorni prima, aveva capito che non c'era più niente da fare, e aveva pianificato di fuggire sotto le fogne. Jadis, ricoperta interamente di sangue dalla testa ai piedi, rimase a lottare fino all'ultimo. L'unica superstite di quella carneficina. La vidi schiacciata sotto il pesante pugno del Tank, prima che io e Tom ci inoltrassimo nelle fogne.

Le fogne. Un luogo insolito dove fuggire, eppure mi sembrava che fosse un luogo sicuro. Chi sano di mente verrebbe quaggiù? E invece c'era gente. Incontrammo persone nei condotti laterali che portavano al centro rifiuti. Alcune famiglie, gruppi di amici, persone poco affidabili, ma nessuno era intenzionato a rivolgerci la parola. Se ne stavano per conto proprio, alla larga se era possibile. Alcuni si erano portati a presso tende, cibo, armi. Una coppia di vecchietti, che non sapevo come avevano fatto a sopravvivere, si era portato appresso le foto di famiglia. Mi ripetevano che i loro figli stavano bene e che presto li avrebbero rivisti. E chi ero io per dire il contrario?
Erano stati gli unici a rivolgerci la parola, e quasi mi dispiacque quando io e Tom li lasciamo da soli in quella galleria nauseabonda. Sapevo che non sarebbero sopravvissuti senza protezione, ma cercai di non farmi prendere dai sensi di colpa.
Attraversammo i condotti con fare lento, cauto e con le orecchie ben tese. Non era raro sentire grida, schiamazzi o spari. Venivano da lontano, ma per me e Tom sembravano molto vicini. Per nostra fortuna non incontrammo infetti e arrivammo sotto il centro commerciale.
- La mia armeria è a solo due isolati. - Dissi. - Una volta lì dentro, saremo al sicuro. Ho cibo, armi, munizioni in abbondanza. E poi abbiamo il centro commerciale come foraggio.
- Sempre se non è stato saccheggiato. - Rispose Tom. - Quei posti sono sempre i primi ad essere assaltati. Comunque, il tuo fortino di cemento può tenere lontani gli infetti, ma non il Tank. Hai visto come ha distrutto le pareti di cemento come fossero cartongesso. Forse sarebbe meglio lasciare la città.
- Per andare dove?
- Non lo so. Se troviamo una barca possiamo sistemarci in mare. Non penso che gli infetti sappiano nuotare.
- Ma dovremo sempre tornare per fare rifornimento.
- Possiamo pescare.
- Non parlavo di cibo, ma dell'acqua, del carburante.
- Prenderemo un barca a vela, e poi c'è la pioggia. Può sempre piovere.
- Non credo sia una buona soluzione. Voglio dire, può esserlo per un breve periodo, ma non credo che...
Uno cacofonia di grida, gemiti e spari echeggiò nella galleria.
Tom mi fece segno di salire sulla scala che portava in superficie, e dopo che fui in strada, mi raggiunse e chiuse il tombino. Un momento dopo sentimmo un chiasso infernale da la sotto. Il mio primo pensiero andò alla coppia di vecchietti. Sicuramente erano stati travolti dall'orda, così come tutti gli altri sopravvissuti nelle gallerie. Questo mi fece capire che nessun posto era sicuro, e che forse Tom aveva ragione sul fortino sopra l'armeria.

Proseguimmo rasenti agli edifici senza avvistare nessun infetto. La strada a senso unico ci condusse nei parcheggi del centro commerciale. Avvistammo un posto di blocco militare all'ingresso, seguito da un accampamento della CEDA. C'era una segnaletica solare con scritto "CEDA EVAC --->". La freccia indicava il centro commerciale. Il parcheggio era cinto da reti metalliche, una fila di arbusti alta due metri e le pareti del Save 4 Less. Due grandi tende ospitavano i letti per i pazienti e fuori, sotto un gazebo, svariati tavoli vuoti. Non c'era traccia della CEDA, se non in forma di cadaveri sull'asfalto accanto ad altri corpi.
La strada per l'armeria era bloccata da un camion trainante una cisterna di propano. Tom cercò di trovare un modo per passare, senza successo. Dovemmo fare il giro dell'isolato per ritrovarci di fronte all'armeria, e anche in quel caso non potevamo continuare. La strada era ostruita da reti metalliche sulla cui parte superiore correva il filo spinato. Su di esso penzolavano tre infetti morti, e ai piedi della rete c'erano pile di cadaveri.
- Non sembrano infetti. - Dissi.
- Non lo sono. - Rispose Tom. - I militari li hanno fucilati.
- Li stessi che dovevano proteggerci.
- L'ho visto con i miei occhi poco prima di trovarti. - Continuò Tom. - Ho cercato di fermarli, ma hanno cercato di uccidere anche me.
- E la CEDA cosa ha fatto?
- Niente. Un bel niente. Si sono limitati a girarsi dall'altra parte.
- Ma perché fare una cosa del genere?
- Dicevano che erano infetti. Thomas mi disse che alcuni di noi sono portatori sani dell'infezione. Non mostrano nessun sintomo, ma sono un rischio per gli altri.
- Che intendi dire?
- Sono dei vettori, come li chiama lui. Possono infettare gli altri.
Guardai i corpi senza vita. - Li hanno fucilati per questo?
Tom sollevò le spalle. - Forse. Non lo so.
Notai diversi cadaveri sotto l'entrata dell'armeria. Nessuno di questi mostrava segno di trasformazione, vene nere lungo la faccia e il collo, occhi rossi, labbra sporche di sangue. Tutti erano stati riempiti di pallottole. La cosa che non capivo, era perché i militari avevano creato una sorta di corridoio con ai lati le reti metalliche che andavano dall'armeria a un ponte pedonale. Non restai a pensarci molto, in quanto Tom cercò di arrampicarsi sulla recinzione. Quando arrivò in cima, cercò di passare sopra il cadavere per non ferirsi, ma non ci riuscì. Si fece un taglietto alla mano e scese, imprecando sotto i denti.
- Dobbiamo per forza passare su quel ponte. - Dissi. - Non so perché l'esercito lo abbia scelto come passaggio verso l'armeria, ma forse...
- Credo che volevano tenere la gente lontana dalle armi. - Mi interruppe Tom.
Ed aveva ragione. Molte armerie della città furono saccheggiate, e la gente sparava per un non nulla. Molti credevano di sparare agli infetti, quando in realtà uccidevano persone sane. Altri sparavano per il gusto di farlo. Sembrava di essere in pieno far west con le pallottole che volevano da una parte all'altra. I militari avevano cercato di arginare questo fenomeno, ma con gli infetti in arrivo, non avevano fatto un granché. Anzi, alcune unità finirono per combattere contemporaneamente sia la gente, che gli infetti.
Tom e io tornammo indietro e svoltammo a destra. Ci inoltrammo in una strada dove sulle due corsie erano imbottigliate una infinità di veicoli. Le valige riempivano i sedili posteriori, il portabagagli o erano stati abbandonati sull'asfalto. Alcune persone, sui sedili, si erano sparati un colpo in testa, altri erano stati uccisi da una gragnola di pallottole. Quasi ogni mezzo aveva grossi fori sulla carrozzeria, con il parabrezza, il lunotto e i finestrini rotti. Lo stesso scempio si ripeteva strada facendo. Solo nei veicoli o nelle strade secondarie questo massacro era presente in quantità minima.
- Sembra che avessi ragione sulle armi. - Disse Tom. - Questa è opera di psicopatici.
- La gente è davvero impazzita. - Risposi disgustato.
- Non tutti riescono a restare sani di mente mentre il mondo va a pezzi. Altri hanno semplicemente dato sfogo al loro impulso omicida. Quest'ultimi sono i primi a morire in queste situazione. Voglio dire, magari sopravvivono per alcuni giorni, ma poi incontrano un altro pazzo e si ammazzano a vicenda.
- Merda, se le cose stanno così. Forse è meglio evitare di incontrare gente.
- Non tutti sono così.
- Meglio non rischiare, non credi?
Superato l'isolato, ci imbattemmo in un gruppo di infetti. Vagavano sul marciapiede, vomitavano bile nero o sbattevano contro le auto o le pareti. Alcuni venivano pervasi da una crisi invisibile, un tic nervoso, scuotendo freneticamente la testa fra le mani. Senza attirare l'attenzione, costeggiamo in silenzio i veicoli abbandonati e imboccammo un stretto vicolo. Qui trovammo un Hunter morto. Gli avevano fatto un grosso buco nella pancia e fatto saltare un braccio. Poco distante, c'erano sette militari dal busto e la faccia dilaniati da artigli.
- Ne ha fatto fuori sette prima che tirasse le cuoia. - Disse Tom, chinandosi sull'infetto. - Immagina cosa può fare un esercito di questi mostri.
- Non voglio pensarci. - Risposi. - Comunque il ponte pedonale dev'essere oltre quel muro. Se non ricordo male, segue parallelo la superstrada sotterranea.
Tom si alzò. - Non proprio. La galleria di cui parli è bloccata. L'esercito l'ha sigillata prima che la città andasse in rovina. Non possiamo passare da lì, ma possiamo passare per gli edifici.
- Vuoi passare dagli appartamenti? - Domandai turbato.
- Perché no?
- Potrebbe essere pieno di infetti.
- Potrebbe. - Sottolineò Tom. - E' l'unico modo per passare velocemente sul ponte. In caso contrario, dovremmo fare il giro per un chilometro prima che ci mettiamo nella giusta direzione. E poi non sappiamo se quelle strade sono state bloccate.
- Vuoi rischiartela così?
- Tanto rischieremo ugualmente la pellaccia.
Accettai il suo piano e ci avvicinammo a un condominio. La porta era chiusa, e Tom ruppe la maniglia con il calcio del fucile a pompa. Una volta nell'entrata, notammo una corpo sulla rampa di scala. Aveva il cervello spappolato con la faccia che si vedeva appena sotto la maschera di sangue. Una mazza da baseball giaceva sul pianerottolo.
- Qualcuno si è divertito a spaccargli il cranio. - Disse Tom, serio. - Prendila. Può essere utile contro gli infetti.
- Ho già una pistola. - Risposi. - E la so usare anche bene.
Mi mostrò il coltellaccio sulla cintura. - Se finisci i proiettili, quella ti servirà. Come a me servirà questa.
Prendendola, scorsi pezzi di cranio e materia grigia sul legno. Il tanfo mi fece quasi rimettere. Pulii la mazza sui jeans del morto e seguii Tom sulle scale.
Al secondo piano non trovammo niente, e così anche per il terzo e il quarto le cui porte erano chiuse. Al quinto ci imbattemmo in quattro infetti. Se ne stavano nel corridoio, gemendo o con la testa contro il muro. Ad occhio, potevano sembrare persone sane, ma invece erano tutt'altro.
- Ci conviene usare le armi da mischia. - Disse Tom. - Se spariamo qui dentro, l'eco degli spari ci assorderà. E poi non sappiamo se ce ne siano degli altri.
- Non credo sia una buona idea. - Risposi. - Quelle cose sono forti. Ti ricordi la commessa esile, no? Hai visto come mi ha steso con una manata?
- L'importante è non farsi colpire. Se usiamo bene coltello e mezza possiamo ucciderli facilmente.
- La fai troppo semplice.
- Sei tu che continui a complicarti la vita. E vuoi complicartela di più sparando in un corridoio.
Non risposi subito. - Ma se lo facciamo, poi possiamo correre all'ultimo piano. Magari rifugiarci sul tetto e studiare un piano.
Tom mi guardò confuso. - Studiare un piano? Per cosa? Se ci isoliamo là sopra siamo spacciati. Gli infetti assalteranno il condominio, altri cercheranno di arrampicarsi sulle pareti o sulle grondaie. Per non parlare degli infetti speciali. - Mi fissò in silenzio per un momento, come se stesse pensando. - No, faremo come ho detto. È l'unico modo per non attirare l'attenzione.
Sguainò il coltellaccio e mi fece il segno di coprirgli le spalle. L'infetto più vicino si accorse della nostra presenza ed emise un gemito irato. Si precipitò contro di noi, allertando gli altri infetti alle sue spalle.
Tom gli conficcò la lama nel cranio, mentre io sferrai un colpo, non molto preciso, a un altro infetto tra la bocca e la mascella. Quello indietreggiò stordito dal colpo, e lo colpii nuovamente spaccandogli la testa.
Gli ultimi due infetti si lanciarono addosso a Tom, che riuscì ad ucciderne uno pugnalandolo al collo. L'altro gli tirò un pugno dietro la schiena e lo fece cadere al suolo. Appena fece per colpirlo di nuovo, gli schiantai la mazza dietro la nuca e morì.
Tom si alzò frastornato, faticando a respirare. - Grazie. - Disse quasi in un sussurro.
Annuii con la testa.

Quando si riprese dal quel colpo micidiale, salimmo all'ultimo piano. Forse non era stata una buona idea, in quanto quello che vedemmo ci paralizzò all'istante.
Una gracile donna dalla pelle cadaverica piangeva in fondo al corridoio. Camminava lentamente coprendosi il viso con le mani. Indossava solo biancheria intima. Non sembrava avere un buon aspetto. Anzi, pensai che le fosse successo qualcosa di orrendo.
- Ehi. - Le disse Tom con tono pacato, dolce. - Stai bene?
La donna non sembrò averlo sentito e continuò a camminare verso di noi.
- Mi chiamo Tom. - Continuò alzando un po' la voce. - Lui è Withaker. Siamo sani.
Il pianto sommesso della donna cominciò a declinare, a cambiare tono. Iniziò a ringhiare irritata, come infastidita dalla nostra presenza. Appena fu più vicina, abbassò le mani dal viso ovale e i suoi occhi rosso fuoco penetrarono fin dentro le nostre ossa.
Indietreggiammo lentamente, e notammo che la donna scoppiò nuovamente in un pianto sommesso, coprendosi il viso con le mani. Scendemmo sul pianerottolo, mentre la donna, che chiamai Witch, si voltò e camminò di nuovo nel corridoio. Aspettammo per un lungo momento, scorgendo la Witch fare avanti e indietro come ossessionata dal quel posto.
- Forse dovremmo trovare un altro percorso. - Dissi. - Non credo che la Witch abbia intenzione di allontanarsi da lì.
- No, non lo faremo. - Rispose Tom. - Aspettiamo. Vediamo come va. Magari si allontanerà. La vedi quella porta laggiù? No, l'ultima. Quella sulla destra. È aperta. Forse quella strega viene da lì, e forse ci ritornerà.
- Lo spero. Non mi sarei mai aspettato di incontrare una cosa del genere. Sembra più pericolosa degli altri infetti. Guarda le sue dita. Sembrano artigli. Se non fosse per quelle cose, sembrerebbe una persona sana.
- Comincio a credere che Thomas avesse ragione su ogni cosa. Più passa il tempo, e più gli infetti sembrano evolversi.
Aspettammo per mezz'ora nel pianerottolo, senza distogliere lo sguardo dalla Witch. Quando si avvicinava, scendevamo i gradini per non farci vedere e poi ritornavamo sul pianerottolo appena si allontanava. Non parlammo per tutto quel tempo, e mi parve di sentire dei rumori ai piani inferiori. Non dissi nulla a Tom, in quanto credevo che li sentiva anche lui.
Mi sbagliavo.
Mentre attendevamo, una grossa sagoma sbucò in fondo ai gradini del pianerottolo sottostante. Aveva il corpo massiccio, la testa piccola, incassata nelle spalle. Un braccio piccolo ed esile gli penzolava dal corpo, mentre l'altro, era sproporzionatamente enorme, massiccio e muscoloso.
Tom e io fummo stravolti da quell'essere che, con un grugnito irritato, ci caricò con una spallata dalla parte del braccio possente. Riuscimmo a scansarci dalla sua traiettoria, e si schiantò contro la Witch, che non accusò il colpo. Non si mosse di un millimetro pur essendo assai esile e minuta rispetto all'altro. Come poteva essere?
La Witch di colpo smise di piangere, lanciò un urlo raccapricciante e gli tirò una manata carica di rabbia. Gli artigli trapassarono la carne corrotta dell'essere come fosse gelatina. Il sangue schizzò sulla pareti, sul pavimento e addosso la Witch che, correndo e gridando disperata, svanì dietro la porta aperta del corridoio tenendosi la testa fra le mani.

Cosa cazzo era successo? Come diavolo aveva fatto un essere così gracile a dilaniare un infetto che era il quintuplo di lei?
Sentimmo le grida disperate allontanarsi sempre più, finché non sparirono del tutto. Una volta vicini alla porta da cui era entrata, notammo un grosso buco nel muro del soggiorno. C'erano nove infetti morti al suolo, e un militare seduto contro il muro. Aveva le sue viscere riverse sul grembo.
- Dev'essere stato il Tank a buttare giù mezzo parete - Disse Tom avvicinandosi e guardando il vicolo di sotto. - La scala antincendio è crollata. Guarda quanti cadaveri... È un massacro...
- Il Tank ha fatto tutto questo? - Chiesi.
- Non credo. Non sembrano essere stati schiacciati. Devono essere stati uccisi dagli infetti. Da quassù non posso esserne certo, però.
- Da qui si vede il ponte pedonale.
Tom osservò l'edificio di fronte. Aveva un buco nel muro cui fuoriusciva una colonna di fumo nero. - Guarda lì. - Indicò una finestra del quarto piano. Un ponte di assi di legno collegava quella con la finestra di fronte. - Possiamo passare da là e poi scendere per gli appartamenti. Dovremmo infine ritrovarci a un isolato dal ponte pedonale.
- Sei sicuro che reggerà il nostro peso?
Tom sollevò le spalle.

Scendemmo al quarto piano e aprimmo la porta dell'appartamento, scardinando la serrata con ripetuti colpi del calcio del fucile. L'interno era vuoto. Non ci abitava nessuno.
- Aspetta un attimo. - Dissi. - Chi ha costruito quel ponte di fortuna voleva venire da questa parte.
- E con questo? - Mi rispose con una nota velata di curiosità.
- La porta era chiusa. Chiunque sia fuggito da questa parte è ancora qui dentro.
Tom si guardò intorno nel piccolo soggiorno vuoto, soffermandosi sui tre ingressi.
- Controlliamo le altre stanze.
- Forse non è mai venuto da questa parte. Non perdiamo tempo, e passiamo il ponte.
- Possono essercene più di uno.
Tom non mi ascoltò e lo seguii nella cucina. La finestra era aperta, e Tom posò le mani sulle assi che fungevano da ponte. Ci premette con forza, ma il legno sembrava resistente.
Poi scavalcò la finestra e mise un piede sul ponte, tastandolo con esso. Quando fece per attraversarlo, qualcosa di viscido lo avvolse completamente. Una lunga lingua violacea lo tirò giù dal ponte di assi.
- TOM! - Gridai, affacciandomi alla finestra.
Mentre Tom urlava dimenandosi in quella stretta mortale, puntai la pistola contro la lingua e sparai. Lo centrai più di una volta, ma quella cosa organica sembrava molto resistente.
- Cazzo! - Imprecò Tom disperato. - Mi sta stritolando! Mi sta stritolando!
Seguii velocemente con lo sguardo la lunghezza della lingua e vidi lo Smoker sul tetto. Gli sparai contro e, con uno sbuffo di fumo verdastro che fuoriuscì dal suo corpo ed aleggiò nell'aria, l'infetto speciale cadde giù dal condominio schiantandosi sul cemento. Tom precipitò sulla pila di corpi sottostante.
Quando posai lo sguardo su di lui, mi accorsi che era morto. Gli occhi arrossati fuori dalle orbite, la faccia bluastra, la lingua di fuori.
Fui colpito da una fitta allo stomaco, e sentii le gambe molli. Non riuscivo a pensare a niente. I suoni attorno me si affievolirono. Anche se evitavo di guardarlo, i miei occhi cercavano ossessivamente il suo sguardo. Non riuscivo a crederci che Tom fosse morto. Disperato, mi passai una mano fra i capelli. Girai compulsivamente nella stanza, avanti e indietro.
- È colpa mia... - Borbottai stravolto. - È colpa mia... É colpa mia...

Restai lì per più di mezz'ora, seduto contro la parete della cucina e la testa fra le mani.
- Perché sono così sconvolto? - Mi domandai. - Dopotutto lo conoscevo da poco.
- Ti ha salvato la vita, vigliacco! - Echeggiò una voce gutturale, metallica nella mia mente.
Sobbalzai sorpreso. - Chi... Chi sei? - Mi guardai intorno, ma non vidi nessuno. Non avevo ancora compreso che la voce era nella mia testa.
- Io sono te. - Rispose ghignante. - Tom ti ha salvato due volte. La prima volta al Save 4 Less, la seconda volta quando gli infetti hanno massacrato i survivalisti.
Scattai in piedi. - Sto impazzendo! - Urlai contro le pareti. - Tu non esisti! Sei solo nella mia testa!
- Tu sei pazzo già da un pezzo. - Rise malignamente la voce. - Lo sei sempre stato. Basti pensare al Save 4 Less. Il mondo va a puttane, e tu vai a fare la spesa come se non fosse successo niente. Noti il supermercato vuoto, e non ti soffermi nemmeno a chiederti perché. Voglio dire, te lo domandi in modo superficiale, ma non cerchi di capire il motivo. Se non era per Tom, a quest'ora saresti uno di loro. Un fottutissimo infetto!
- No, No, tu non sei reale. - Dissi quasi in un sussurro, mentre giravo a vuoto nella stanza. - Vattene! Lasciami stare!
La risata malefica della voce echeggiò nella mia mente. - Non ti lascerò mai andare! MAI! Tu ed io ci apparteniamo. Siamo uguali. Non potrai mai...
La voce non riuscì a finire la frase che, preso da una forte sensazione di impotenza e malessere, corsi alla finestra aperta e attraversai il ponte. Ma arrivato a metà, le assi di legno cedettero sotto il mio peso e precipitai di sotto, mentre la voce mi dava del codardo.

Quando mi svegliai, notai la volta celeste puntellata di stelle. La luce della luna piena illuminava un tratto del vicolo. Ero caduto su un ammasso di cadaveri, e il tanfo di putrefazione cominciava a pervadermi i polmoni.
Non sapevo per quanto tempo fossi svenuto, e nemmeno m'importava. La voce era sparita, lasciandomi un flebile mal di testa. Mi alzai e mi guardai intorno, coprendomi il naso con la manica della larga giacca marrone. Proseguii lungo il vicolo, superando corpi lacerati, squartati, eviscerati. Schizzi di sangue coagulato macchiavano le mura e il pavimento di cemento. Quando uscii dal vicolo, una doppia colonna disordinata di veicoli imbottigliati affollava la strada. In lontananza, un posto di blocco militare aveva impedito alla gente di lasciare la città. Rete metalliche divelte o abbattute, sacchi di sabbia con un mitragliatore montato avevano fatto poco o niente contro l'orda venuta da fuori. Si erano riversati come un ciclone, lasciando al suo passaggio cadaveri, arti mozzati, sangue e viscere.
Mi allontanai e ripresi a camminare. Solo dopo aver proseguito per venti minuti, mi accorsi di aver dimenticato la mazza da baseball e la pistola nel vicolo. Mi fermai, guardandomi indietro. Ero indeciso. Volevo andare a recuperarle, ma una parte di me mi suggeriva di proseguire all'armeria. Mi sarei armato con le armi e rifugiato nel mio fortino di cemento. Per quanto? Cazzo ne so.
Mentre ero in combutta con i miei pensieri, udii un gorgoglio poco distante. Mi voltai, ma non vidi nessuno. La strada era deserta, eppure quel gorgoglio non cessava. Anzi, si avvicinava, diventava più forte, profondo.
Decisi di distanziarmi dal quel suono quasi nauseabondo, e svoltai a sinistra. Camminai per una manciata di minuti, ma il gorgoglio non cessava di seguirmi. Lanciando diverse occhiate alle mie spalle, cominciai a correre per un lungo momento e finalmente il gorgoglio svanì. Mi fermai a riprendere fiato.
Quando ricominciai a camminare, scorsi qualcosa nella penombra fra i veicoli. Una sagoma grossa, rotonda. Il fascio della luce del lampione non riusciva a illuminarlo. Rimasi immobile, osservando quella cosa che iniziò a gorgogliare. Poi indietreggiò, e il gorgoglio svanì.
Era un infetto? Fu l'unica cosa che mi chiesi. Doveva esserlo per forza. Nessun essere umano era capace di emettere un suono simile. E mentre ci pensavo, compresi cos'era quel rumore, o almeno a cosa assomigliava. Era il gorgoglio di un stomaco pieno di bile. Ma se era questo, allora doveva essere una persona affamata. Una persona sana.
Appena feci per muovermi, un essere rivoltante sbucò sotto il fascio della luce del lampione. Non era nulla di umano. Un essere dal ventre assai prominente, grasso, marcio, su cui c'erano grossi bubboni pieni di pus. Un altro grosso bubbone sulla tempia gli penzolava dalla faccia grigiastra.
Corse ondeggiando verso di me, con le grasse braccia spalancate, il gorgoglio rivoltante e il grasso sulla pancia che traballava in ogni direzione.
Indietreggiando velocemente, urtai contro la portiera di un auto. Ero nel panico. L'infetto grasso vomitò un gettito di bile verso di me. Si trovava a più di dieci metri dalla mia posizione, eppure la bile quasi non mi finì addosso. Come cazzo aveva fatto?
L'infetto grasso si accorse di non avermi preso e si preparò a vomitare di nuovo, quando cominciai a scappare. Sentii il gettito del vomito dietro mie spalle, e il rumore della bile cadere sull'asfalto. Svoltai l'angolo della strada senza voltarmi e continuai a fuggire senza sapere dove andavo. In quel momento non m'importava. Volevo solo allontanarmi da quella cosa.
Non so per quanto tempo corsi, ma alla fine mi fermai. I polmoni mi bruciavano, le gambe mi tremavano per lo sforzo e nella gola sentivo il sapore metallico del sangue. Senza rendermene conto, mi sedetti sul bordo del marciapiede e ripresi fiato. Nel farlo, tossì più volte per via dell'aria putrida che aleggiava nell'aria. Chinai persino la testa che sentivo pesante come un macigno. Il mal di testa era aumentato, e aveva portato con sé fitte dolorose dietro la testa.
Quando mi alzai, lanciai un occhiata intorno. Erano passati venti minuti, e mi trovavo forse a tre isolati dalla mia armeria. L'infetto grasso, che chiamai boomer, non mi aveva seguito. Non sapevo se sotto quel putrido grasso riusciva ad essere veloce, eppure mi era sembrato così. Mi chiesi se avesse volutamente abbandonato il mio inseguimento, oppure trovato un altro sopravvissuto?

Durante il tragitto verso l'armeria, non avevo incontrato nessuno. Sentivo degli spari in lontananza, seguiti da urla agghiaccianti. Chiunque fosse a sparare, ormai era morto o fuggito nei migliori dei casi. Mi turbai nel vedere le strade vuote, in quanto sapevo che la città era caduta. Certo, ero felice di poter camminare senza aspettare che qualche infetto mi facesse a pezzi, eppure mi spaventava il fatto non di scorgerne nemmeno uno. Pensavo che si fossero tutti nascosti, in attesa di saltarmi addosso tutti insieme quando avrei abbassato le difese. Forse divagavo troppo, forse la mia immaginazione mi stava giocando brutti scherzi.
Superato l'isolato, camminai rasente agli edifici senza mai fermarmi. Giravo alla larga dai vicoli avvolti dall'oscurità, da cui proveniva, sospinta dal vento, un acro odore di putrefazione. Più mi avvicinavo all'armeria, più i posti di blocco militari abbandonati si facevano numerosi. Tra questi c'erano anche alcune tende della CEDA. Numerosi cadaveri tappezzavano quei posti, e tra questi erano pochissimi i militari morti. Cominciai a credere che avessero abbandonato i sopravvissuti a sé stessi, per fuggire chissà dove. Anche quelli della CEDA sembravano essere spariti. Avevano lasciato solo i cadaveri dentro a sacchi neri fuori dalla tenda, e alcuni tavoli e letti vuoti. Sotto la rete metallica, decine di corpi crivellati di pallottole. Tutto questo si ripeteva ad ogni posto di blocco.
Dopo aver camminato per mezz'ora, arrivai di fronte a un parapetto che limitava la superstrada sottostante. Ci poggiai le mani e vidi l'armeria dall'altra parte del ponte pedonale. Un sorriso da idiota si dipinse sulla mia faccia sporca e imbrattata di sangue. Quando feci per salire i gradini, notai un infetto dall'altra parte del ponte pedonale. Sembrava una donna con un corpo molle, strano e la pancia poco gonfia. Una specie di bava acida verde chiaro le rivolava giù dalla bocca storta. Si muoveva tutta scomposta, storta, come se poggiasse su tacchi immaginari su cui non sapeva camminare.
Mi corse incontro con la sua andatura goffa, quasi zoppicante, lasciandosi alle spalle una scia di liquido acido che le colava in continuazione dalla bocca.
Non sapendo cosa fare, scesi i gradini e mi nascosi dietro un furgone. Non potevo affrontarla a mani nude, e nemmeno ero intenzionato a farlo.
L'infetta si fermò sulla scala e si guardò intorno. Sentivo l'acido ribollirle nella bocca.
La vidi scendere i gradini, fermarsi suo marciapiede per un momento e allontanarsi con il suo passo scomposto. Mentre stavo per uscire da dietro il furgone, sentii una specie di sputo. Mi scansai in tempo per non essere colpito dall'acido che corrose in un lampo il tetto del furgone.
L'infetta, che chiamai spitter, sbucò da dietro un macchina. Era a trenta metri da me, e si stava preparando a sputarmi addosso dell'acido. Corsi verso la scala, salii i gradini e qualcosa cadde dietro di me. L'acido ribollì sul cemento, mentre l'infetta mi correva incontro tutta storta.
Attraversai il ponte pedonale e scesi così velocemente la tromba delle scale, che quasi non razzolai giù. Poi udii una serie di spari. Dovevano essere dei fucili di precisione. Rimasi immobile nella tromba delle scale, e quando mi voltai, vidi mezza testa della Spitter saltare dal suo collo. Una strana sostanza marrone scuro, che un tempo doveva essere il suo cervello, schizzò ovunque. Gli spari continuarono, e le pallottole fecero a brandelli suo corpo inerme. Sentii echeggiare delle urla di eccitazione, grasse risate interrotte da insulti amichevoli. Non riuscivo a capire da dove provenissero, come non capivo se mi avessero salvato, oppure mi avrebbero usato come tiro al bersaglio.
Scesi gli ultimi gradini, spiai da dietro il muro e scorsi l'armeria a quaranta metri da me. Finalmente l'avevo raggiunta. Sorrisi come un idiota, ma le risate che udivano nell'aria me lo cancellarono in un lampo. Come cazzo avrei fatto a raggiungere l'armeria? Se quei pazzi si divertivano ad ammazzare gli infetti, non vedevo perché non lo avrebbero fatto con me? Con le persone sane.
Cazzo! Fu l'unica parola che ripetevo come un mantra mentre riflettevo sul da farsi, seguita da "ora che cazzo faccio?". Alla fine non mi venne in mente niente, se non correre disperato verso la porta e chiudermi dentro. Ma più ci pensavo, e più vedevo me stesso steso sull'asfalto con il corpo straziato dai proiettili. Non sarei nemmeno riuscito a fare dieci metri, cazzo!
Ma cosa potevo fare? L'unica soluzione era correre su quella fottuta strada. Così, facendomi coraggio, spiai da dietro il muro e guardai la strada che mi separava dall'armeria. Lanciai un occhiata agli alti edifici circostanti, e scorsi soltanto il riflesso della luna sulle finestre.
Feci un ultimo respiro e scattai verso l'armeria. Sentivo il cuore in gola, lo stomaco in subbuglio, un aria gelida che mi penetrava fin dentro le ossa pur essendoci un caldo estivo. Da un momento all'altro mi aspettavo l'eco degli spari, i colpi che mi avrebbero trapassato la carne, mandato a terra. Ma invece arrivai davanti all'ingresso, inserii la chiave nella toppa, la girai, aprii la porta e mi chiusi dentro a chiave.
Avevo il fiatone. Mi piegai sulle ginocchia raspando per riprendere fiato. Perché non mi avevano sparato? Forse mi ero sbagliato. Forse non uccidevano le persone sane. Forse...
Crollai al suolo, la schiena contro la parete. Vidi del sangue sulle mie mani. Incredulo, abbassai lo sguardo e vidi la maglietta alla base del basso addome pregna di sangue. Sbarrai gli occhi. Ero nel panico. Non sentivo nessun dolore. Niente di niente. Forse avevo troppa adrenalina in circolazione.
Sollevai la maglietta e notai il foro di entrata sul fianco sinistro. Premendo sulla ferita, ne uscii un fiotto di sangue. Non sapevo se la pallottola era uscita, oppure era ancora dentro. Con una mano, tastai dietro il mio fianco e sobbalzai dal dolore nel sfiorare il foro d'uscita. Sospirai per il sollievo, anche se potevo ancora morire dissanguato. Ma almeno potevo prendermi cura della ferita.
Mi alzai a fatica e, tenendo una mano contro la parete, strascicai fino all'armadietto dei medicinali. Avevo diversi kit medici che non avevo mai usato, e altre tanti ne tenevo nel mio fortino. E per mia fortuna conoscevo le basi per trattare una ferita da arma da fuoco.

Ora, mentre scrivo queste pagine, sono passati dodici giorni dai fatti da me raccontati. Mi sono chiuso nel mio fortino e attendo la morte. Ebbene sì, è l'unica cosa reale che mi sia rimasta in questo mondo. Sperare nell'arrivo della guardia nazionale è un stronzata! Sperare nella CEDA è un altra fottuta grossa stronzata!
Morirò qui, chiuso tra queste quattro mura. E nel frattempo, mi ingozzo di cola. Ho già fatto fuori tre cartoni interi. Credo di esserne diventato dipendente. Presto dovrò scendere al Save 4 Less e sperare che ce ne sia rimasta un po'.

Dopo aver posato la penna, mi alzai dalla sedia e andai alla finestra chiusa da sbarre di ferro. Avevo messo delle tende veneziane per impedire che la luce si vedesse dall'esterno. Oltre agli infetti, avrebbe attirato anche i sopravvissuti. Ed io volevo starne alla larga, e credo sappiate il motivo.
Guardai in strada, verso il piccolo parcheggio davanti al Save 4 Less. Non vidi nessuno, e questo mi rallegrava. Da quando mi ero chiuso nel fortino, gli infetti non si erano mai fatti vedere. Ma in compenso si erano fatti vivi i sopravvissuti che mi avevano sparato. Non essendo riusciti ad abbattere la porta massiccia di metallo all'ingresso dell'armeria, o almeno credo, avevano fatto tutto il giro per entrare dal retro. Come potete immaginare anche quella porta era impossibile da abbattere per dei fucili di precisione. Così avevano tentato di entrare nel fortino, e io li avevo accolti a colpi di fucile a pompa. Non sparai per uccidere, ma colpii incidentalmente uno di loro alle gambe. Fu trascinato via dagli altri, mentre sparavo all'impazzata sopra alle loro teste.
Dopo che si ebbero allontanati, pensavo che uno sciame di infetti avrebbero invaso da lì a poco il parcheggio del Save 4 Less, ma invece non si fece vedere nessuno. Sentii alcune grida in lontananza, seguiti da molti spari. Poi torno la quiete.
Passai l'indomani con la paranoia che sarebbero ritornati con l'intenzione di uccidermi e soffiarmi il rifugio, ma invece non si fecero vedere. Tuttavia, verso il tardo pomeriggio qualcuno si fece vedere, ma non erano loro.
Erano quattro persone. Un nero, un uomo in abito elegante, un giovane meccanico e una ragazza nera. Erano armati di fucili d'assalto e fucili automatici. Li avevo visti attraversare il ponte pedonale e dirigersi verso la mia armeria. Non so come diavolo avevano fatto ad abbattere la porta metallica, ma non potevano salire al piano superiore. La porta di acciaio poteva essere aperta con una chiave o tramite il pulsante che si trovava nel mio rifugio. L'unico modo alternativo di entrare era usare granate, lancia razzi o bombe adesive, e nella mia armeria non si trovavano.
Attesi vicino al citofono, ma non riuscivo a stare fermo perché la dipendenza della cola stava cominciando a tormentarmi. Forse se li avessi aiutati a passare, avrebbero ricambiato il favore recuperando della cola al Save 4 Less di fronte?
Avrei fatto così, e mi chiedevo perché non citofonassero. Forse avevano abbattuto la porta? Impossibile. Non poteva essere.
Mentre riflettevo, il citofono suonò.
- Ehi! C'è qualcuno in ascolto? - Disse una voce da donna. - Potete aprire la porta? Siamo diretti al centro commerciale. Ehi! C'è qualcuno? Mi sentite?

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Capitolo 2
*** Virgil ***


Era più di un mese che Virgil e sua moglie Cassandra se ne stavano sulle rive del lago, godendosi la natura e la quiete che avevano sempre amato. Quarantatré giorni splendidi.
Quarantatré giorni tra pesca e coccole.
Quarantatré giorni sulla loro barca che andava a pezzi giorno dopo giorno.
Ed ora, seduti sull'imbarcazione, osservavano il tramonto dalle tinte rosso arancio, mentre la brezza estiva accarezzava i loro volti non più giovani.
- Ho una mezza idea di restare qui per sempre. - Disse Virgil con un sorriso.
- Non sarebbe male. - Rispose Cassandra. - Ma temo che le zanzare ci divorerebbero.
- Siamo ancora in autunno. Possiamo rimanere fino a inizio primavera, e poi spostarci nella baia.
Cassandra ci rifletté. - Si, potrebbe andare. L'importante che la barca non coli a picco mentre dormiamo.
- La nostra Lagniappe II non ci tradirà. - Disse Virgil con un occhiolino.
- Come la Lagniappe precedente, no? - Rispose Cassandra fulminandolo con lo sguardo. - Se non fosse stato per il nostro cane Charlie, a quest'ora staremmo facendo compagnia ai pesci.
- Sei troppo melodrammatica.
- Allora mentre affonderai con la tua barca che ami più di me, non lamentarti se non muoverò un dito per salvarti. Tu e questa dannata barca. Passi più tempo con lei che con me.
Virgil smorzò un sorriso divertito.
- Ti ho visto, sai. - Disse Cassandra corrugando la fronte. - Non ridere. Non c'è niente da ridere.
- Ok. - Rispose Virgil serrando la mascella per non ridere. Ma non riuscì a trattenersi e scoppiò in una grassa risata.
Cassandra scattò in piedi e, sospirando irritata, se ne andò sotto coperta.

Il mattino seguente, dopo aver passato la solita nottata accesa come due adolescenti innamorati in procinto di farlo per la prima volta, scesero dall'imbarcazione con aria appagata e assonata.
Virgil sbadigliò e avvistò in lontananza diverse colonne di fumo nero elevarsi da sopra la volta degli alberi.
- Guarda! - Disse Virgil puntando il dito ossuto. - Proviene dalla città.
Cassandra si accigliò, irritata. - Lo sai che odio parlare appena sveglia, e odio ancora di più se mi fanno domande!
- Forse è scoppiato un grosso incendio. - Continuò Virgil.
E nell'udire la parola incendio, Cassandra osservò il cielo incuriosita. - Non mi sorprende. - Sbuffò. - Sono tutti caseggiati di legno. Primo o poi sarebbe successo...
- Cinica come sempre, eh? Forse è meglio andare a dare un occhiata. Magari serve aiuto.
- L'aiuto serve più a te che a loro. - Lo prese in giro Cassandra con un ghigno.
- Davvero divertente. - Disse Virgil con un sorriso falso.
Entrarono nel pick-up bianco sporco di fango e polvere, e si diressero verso la città. Seguirono il sentiero, finché s'immisero sulla strada asfaltata. E lì notarono il bagliore di molteplici fuochi all'orizzonte.
- Sembra che l'intero villaggio abbia preso fuoco. - Disse Cassandra.
- Qualche ubriacone avrà giocato con le taniche di benzina. - Disse Virgil - Ricordi, Bobby? Il figlio di Fredrik. Quello svitato amava dare fuoco ai rotoli di fieno.
- Vuoi dire balle di fieno?
- È la stessa dannata cosa. Quell'idiota ha quasi fatto divorare dalle fiamme l'intero villaggio a sud. E se non avessero spento il fuoco, l'intera contea sarebbe stata ridotta in cenere.
- Bobby è stato arrestato.
- Lo so. Sto solo dicendo che un altro idiota ha dato fuoco alla città.
Il pick-up svoltò a destra e proseguì sulla strada sterrata. La vegetazione della palude cominciava a chiudersi attorno al veicolo.
- Questa è l'unica strada per raggiungere la citta, e non pensano nemmeno di potare questi dannati rami. - Disse Virgil, infastidito. - Guarda! Mi stanno graffiando tutta la carrozzeria.
- Chiedi troppo a un sindaco che non ha neanche i fondi per asfaltare le strade, figuriamoci per quello. - Rispose Cassandra.

Venti minuti dopo, arrivarono a cento metri dall'ingresso del villaggio. La maggior parte delle sparute case di legno era avvolta dalle fiamme, e colonne di fumo nero oscuravano il cielo. Sulle strade scorsero dozzine di cadaveri.
Stravolti e turbati, scesero dal pick-up e raggiunsero il corpo senza vita di un uomo.
Virgil si chinò a esaminarlo. - Ha dei morsi sul braccio e sulla faccia. Non sembra opera di un animale.
- Cosa diavolo è successo, qui? - Domandò Cassandra quasi in un sussurro.
Virgil si alzò, guardandosi intorno. Vide qualcuno camminare vicino a una casa in fiamme.
- Ehi! - Urlò, agitando le braccia in aria.
L'uomo si girò. Lo guardò per un attimo e, gridando impazzito, scattò verso di loro.
Virgil e Cassandra si scambiarono un occhiata, spaventati.
- Andiamo al pick-up, Cass! - Le disse Virgil. - Forza!
Quando si chiusero nel veicolo, l'uomo li raggiunse. La sua faccia dietro il finestrino sporco di gocce di fango non aveva più nulla di umano. Pelle grigiastra, occhi rossi, bocca insanguinata e vene nere sul viso e sul collo. Cominciò a tartassare la carrozzeria di pugni e schiaffi, urlando a squarciagola.
- Ma cosa gli è preso? - Chiese Cassandra, terrorizzata.
- Non lo so, Cass, non lo so. - Rispose Virgil senza distogliere lo sguardo dall'infetto. Poi si voltò verso sua moglie. - Prendi la pistola dal portaoggetti.
Cassandra lo aprì e ci frugò dentro. Gettò fuori le cartacce e afferrò l'arma. La diede a suo marito.
- La vedi questa, figlio di puttana? - Urlò Virgil puntando la pistola contro l'infetto. - Se non ci lasci in pace, ti faccio in buco in fronte!
Le sue parole ebbero l'effetto contrario. L'infetto si mise a martellare con più violenza la portiera del pick-up.
- Vattene! - Gridò Cassandra.
Virgil le lanciò uno sguardo ansioso e comprese che stava quasi per scoppiare in lacrime. Poi si girò verso l'infetto. - Non te lo dirò un altra volta! Vattene o ti sparo quanto è vero iddio!
L'infetto si agitò ancora di più e, urlando, iniziò a sferrare pugni e testate contro il finestrino.
Virgil stava per premere il grilletto, quando il finestrino si infranse. Spaventato, fece partire un colpo che colpì l'infetto alla spalla. Quello non accusò il colpo e calò una mano dentro il veicolo. Afferrò il polso di Virgil, tirandolo verso di sé.
Cassandra gridò in preda al panico e, cercando di liberare il polso del marito, venne afferrata dai capelli.
Virgil sparò e mancò la testa dell'infetto. Quello mollò la presa da dall'uomo e trascinò fuori Cassandra per i capelli.
- NO! - Urlò Virgil.
Mentre Cassandra si dimenava, l'infetto le affondò i denti nella guancia. Le strappò pelle e filamenti di carne che cominciò a masticare.
La donna gridò dal dolore, tentando inutilmente di liberarsi da quella forte stretta mortale.
Inorridito, Virgil prese la mira e sparò in testa all'infetto e, uscito dal pickup, si chinò su Cassandra.
- Cass! Amore mio! - Le disse in lacrime, prendendole la testa tra le braccia tremanti. - No, no, cosa ti ha fatto?
Cassandra lo fissò negli occhi. - Non riesco a muovermi...
Virgil le mosse le braccia. - Le senti?
- Non sento niente... Ho tanto sonno.
- Resta con me, Cass. - Disse Virgil. - È solo una piccola ferita. Troveremo un medico.
- Ho tanto sonno, Virg... - Ripeteva Cassandra con la vista annebbiata, le vene sul viso e sul collo che diventavano nere.
- Cass! Rimani con me. Tieni gli occhi aperti.
- Non riesco più a vederti... Dove sei, Virg? Parlami, ti prego...
- Sono qui, amore mio. Sono qui. - Le disse Virgil cullandola tra le braccia.
Cassandra borbottò qualcosa, ma era troppo debole per scandire le parole. Delle lacrime le solcarono il viso che stava diventando cadaverico.
- Cass! - Disse Virgil scuotendola dolcemente. - Ti prego, non lasciarmi. Sei l'unica cosa che mi sia rimasta. L'unica cosa buona che mi sia capitata nella mia vita. Non lasciarmi, Cass.
Cassandra si sforzò di parlare, ma le uscì solo un rantolo dalle labbra e morì.
Virgil scoppiò a piangere con la guancia posata sulla sua fronte, mentre alle sue spalle lingue di fuoco s'innalzavano verso il cielo scuro.

All'improvviso il corpo di Cassandra fremette per un momento, e Virgil sobbalzò, spaventato. Fissò le vene nere che le pulsavano sul viso e sul collo, e gli occhi velati che s'iniettarono di sangue.
Poi quella che un tempo era Cassandra, tentò di mordergli la faccia.
- Cass! Sono io, Virgil. - Le disse, mentre cercava a stento di tenerla lontana.
La donna cominciò a urlare, a dimenarsi, finché con una manata lo colpì a un braccio.
Virgil mollò la presa e scattò in piedi. - Cass, sono io. Non mi riconosci?
La donna gli si precipitò addosso, e lui riuscì ad afferrarle i polsi. Ma Cassandra era troppo forte e si liberò subito, cominciando a sferrare pugni e schiaffi.
Virgil arretrò senza farsi colpire, incapace di premere il grilletto. Non capiva o non voleva accettare che quella davanti a sé non era più la donna che aveva amato. Mentre lei gridava, sei infetti la raggiunsero alle spalle.
- Sono dietro di te! - Le urlò Virgil, preoccupato. - Ti faranno del male. Vieni qui, Cass.
Insieme ai sei infetti, Cassandra si lanciò contro Virgil che, sconvolto e mentalmente confuso, se ne restò fermo. Appena gli furono a cinque metri, una raffica di pallottole travolse gli infetti.
- NO! - Urlò Virgil, precipitandosi verso Cassandra che giaceva al suolo. Si chinò e le prese la testa tra le mani. - Rispondimi, Cass. - Disse in lacrime. - Ti prego, dii qualcosa.
Cinque militari armati di fucili d'assalto si fermarono alle sue spalle. Lo guardarono confusi, pur mantenendo l'espressione austera.
- Se gli ficchiamo un proiettile in testa, gli faremo un favore. - Disse un uomo calvo.
- No. Portiamolo dagli altri. - Rispose l'uomo con un occhio bieco. - Dobbiamo sapere se è immune.
- Potrebbe avere qualche rotella fuori posto.
- Fai come dico, soldato! È un ordine!

Virgil fu sollevato di peso e, mentre tentava di liberarsi dalla presa, venne gettato di peso nel retro di un furgone.
- Lasciatemi andare! - Gridò in faccia all'uomo calvo. La sola cosa che desiderava era restare con Cassandra. Non poteva lasciarla lì.
- Smettila di strillare, Dio santo! - Disse l'uomo calvo, infastidito. Gli si sedette accanto, mentre il resto del gruppo saliva sul furgone.
Virgil iniziò a colpire la portiera posteriore del veicolo. - Fatemi uscire!
L'uomo calvo e l'uomo con i capelli corti lo afferrarono e lo misero a sedere.
- Non toccatemi! - Urlò Virgil.
L'uomo calvo lanciò uno sguardo verso l'uomo con l'occhio bieco seduto davanti, che annuì.
- Sogni d'oro, stronzo! - Disse l'uomo calvo con un ghigno.
Virgil fu colpito dietro la testa con il calcio della pistola e perse i sensi.

Quando si svegliò, era steso su una branda. La testa gli doleva un poco e si mise a sedere, guardandosi intorno. Si trovava in una tenda militare. Appena fece per alzarsi, un uomo entrò dentro.
- Ti sei svegliato. - Disse l'uomo con l'occhio bieco.
- Dove... Dove sono? - Domando Virgil, stordito.
- Al sicuro, per il momento. - Si avvicinò a lui allungandogli una mano. - Sono il capitano Edgar Morrison.
Virgil gli guardò dapprima la mano con diffidenza, poi gliela strinse. - Virgil Hook. Sei dell'esercito?
- Quel che rimane.
- Che vuoi dire?
- La faccio breve: l'esercito è stato annientato dagli infetti.
Virgil sgranò gli occhi, turbato. - Annientato?
- È quello che ho detto. Comunque, sei libero di camminare per l'accampamento, ma è vietato uscire.
Virgil non ci capiva più niente. Poi nella mente gli balenò il volto di Cassandra. - Mia moglie. Lei dov'è? Sta bene? È qui?
Edgar lo guardò negli occhi. - Non ricordi? Ti abbiamo trovato a cinque chilometri da qui. Stringevi tra le braccia una donna. Era tua moglie, giusto?
Virgil sentì le gambe molli. - Io.. Lei... - Gli occhi gli diventarono umidi. - Era stata morsa sulla guancia. Una ferita da niente... Io...
- Mi dispiace per la tua perdita, ma basta un morso per diventare come loro.
- Io non capisco. Chi sono questi loro?
- Quelli che hanno cercato di ucciderti. Quello come tua moglie.
Virgil rimase in silenzio.
- So cosa stai pensando. - Disse Edgar. - Credevi che fosse ancora tua moglie, non è vero? Ho visto quello sguardo su padri, madri, figli, fratelli, ma una volta che si trasformano, loro non sono più quelli di un tempo. Mi capisci?
Virgil non capiva. Era successo tutto così velocemente che ancora si ripeteva cosa diavolo stava succedendo? E dov'era sua moglie?
- Ascolta. - Disse Edgar. - Riposati. Sei ancora confuso. Datti del tempo, e poi quando te la senti esci fuori. C'è altra gente nell'accampamento. Persone che come te hanno visto morire i loro cari.
Virgil gli lanciò un occhiata turbata.
- Siediti. - Gli disse Edgar. - Così, bravo. Ora, riposa. Tornerò tra poco.

Virgil sprofondò in un incubo. Correva in un corridoio illuminato da luci rossastre che provenivano dal pavimento. Più correva, e più la porta di legno che vedeva davanti si allontanava. Poi quella si aprì, e sulla soglia apparve Cassandra con addosso una lunga veste bianca. Gli sorrise.
- Cass! - Disse Virgil con un sorriso, ma la sua voce suonava distorta. - Ti ho cercata dappertutto. Perché mi hai lasciato?
Cassandra lo fissò con il suo volto pallido, quasi cadaverico.
Quando Virgil tentò di raggiungerla, fiotti di sangue scesero dal soffitto. La veste bianca s'impregnò di sangue, e il viso di Cassandra mutò in un espressione diabolica, mostruosa.
- No, no. - Disse Virgil fissando le vene nere pulsarle sul volto.
La donna spalancò le braccia e, gridando, si lanciò verso di lui come sospesa da terra.

Virgil si svegliò di soprassalto. Aveva la maglietta bagnata e la fronte imperlata di sudore. Si mise a sedere, udendo una vociare continuò fuori dall'ingresso della tenda. Si portò le dita tra i capelli, e rimase così per un lungo momento.
Edgar entrò nella tenda, seguito dall'uomo calvo e un uomo con il camice bianco.
- Come stai, Virgil? - Gli disse Egdar. - Loro sono Simon, - indicò l'uomo calvo, - e Ector.
Virgil si limitò a fissarli.
Ector gli si avvicinò. - Devo visitarti. - Disse velocemente. - Puoi mettere il braccio sul tavolo?
Virgil lo guardò in malo modo. - Che vuoi fare?
- Deve prelevare il tuo sangue. - Aggiunse Edgar. - Lo hanno fatto tutti. Ector pensa che...
- Devo essere sicuro che tu sia o un portatore del virus o immune. - Lo interruppe bruscamente Ector. - Se non lo sei, rischi che la gente possa infettarti. Qui siamo tutti immuni o portatori del virus. Capisci?
- Non capisco. - Rispose Virgil.
Ector sospirò, irritato. - Poggia il braccio sul tavolo, forza! Non ho tutto il tempo.
- Io non faccio proprio niente. - Disse Virgil scattando in piede. - Voglio andarmene.
Simon lanciò uno sguardo a Ector, che disse: - Al momento non si può. Fai come dice il dottore.
- Statemi lontani, allora.
- Non ti faremo del male, Virgil. - Disse Edgar con tono pacato. - Ector è un medico. Lavora per la CEDA. Lui sta studiando l'infezione, e vuole trovare una cura. Per questo ha bisogno del tuo sangue.
- Non mi farò infilzare da nessuno. - Rispose Virgil.
Simon guardò nuovamente Edgar, che annuì.
- Sembra che stia diventando un abitudine con te. - Disse Simon con uno sbuffò divertito.
Virgil lo vide avvicinarsi e, prima che capisse che intenzioni avesse, gli arrivò un pugno in pieno volto e crollò sul letto, perdendo i sensi.
- Perché fanno tante storie? - Chiese Simon, anche se era più un affermazione.
- Hanno paura, Simon. - Rispose Edgar.
Ector spalancò il braccio di Virgil, diede due schiaffetti con due dita unite sull'esterno del bicipite e gli conficcò l'ago nella vena.
- A prima colpo, eh? - Aggiunse Simon.
- Sono un dottore. - Rispose Ector. - Non un tossico che non centrerebbe la vena nemmeno se la vedesse.
- Ma io no ho detto nulla.
- Sì, certo. Tu non dici mai niente.
Simon smorzò un sorriso.
Ector fece uscire l'ago dalla vena di Virgil, gli mise un panno su cui aveva versato dell'disinfettante e glielo legò attorno al braccio con un nastro adesivo. Poi guardò il sangue nella siringa e se lo mise nel taschino del camice. Infine, lasciarono tutti la tenda.

Virgil si svegliò frastornato e con la mascella gonfia. Notò subito il panno sul suo braccio appesantito e se lo strappò.
- Dannazione! - Disse fra sé.
Poi si avvicinò all'uscita e sollevò un lembo della tenda. Il sole gli accecò leggermente gli occhi, e dovette coprirseli con una mano.
Fu sorpreso di vedere nell'accampamento un via vai di gente. Un accampamento ampio, cinto da alte rete metalliche sui cui correva del filo spinato. Delle torrette di guardie si susseguivano ogni cinquanta metri sui cui erano poste dei soldati armati di fucili d'assalto e di precisione. Era circondata da basse e brulle colline.
Jeep militari con su montati delle mitragliatrici, tre APC corazzati e diversi camion dell'esercito erano parcheggiati poco distanti da un alto cancello. Tutto il perimetro era pattugliato dai militari, e la gente se ne teneva alla larga. Virgil pensò che dovevano esserci un centinaio di persone sparse fra le tende e le casupole improvvisate con lamiere e legna.
Appena superò la sua tenda, si accorse di essere in una base militare. In lontananza vide quattro hangar chiusi, diverse alloggi militari e un altra rete di metallo che divideva la base dall'accampamento, impedendone l'acceso. L'esercito aveva allestito sul davanti un campo per i sopravvissuti.
Le persone che gli passavano accanto lo guardarono solo di sfuggita, senza soffermarsi molto. Virgil evitò di guardarli e si diresse al cancello. Superò una grande tenda usata come mensa da cui proveniva un odore di stufato di carne. Gli venne l'acquolina in bocca, ma se la fece passare. Era deciso a lasciare l'accampamento.
Si avvicinò a una guardia seduta dentro un gabbiotto. - Salve. - Disse impacciato. - Voglio andarmene. Sì, vogliono andarmene, ecco.
Il militare lo squadrò. - Non si può.
- Non potete trattenermi. - Virgil si avvicinò al cancello.
- Allontanati da lì! - Urlò il militare puntandogli il fucile d'assalto.
Virgil lo ignorò e tentò di aprire il cancella chiuso.
- Allontanati o sparo! - Gridò il militare con più foga. - Non te lo ripeterò di nuovo.
- Voglio uscire! - Disse Virgil smuovendo la rete metallica del cancello.
Il militare tolse la sicura dall'arma e, prima che potesse premere il grilletto, Virgil indietreggiò.
- Ora allontanati. - Aggiunse il militare abbassando l'arma.

Ritornò vicino alla sua tenda e si mise a sedere su una cassa, pensando a un modo per poter fuggire. Arrampicarsi e poi scavalcare la recinzione era fuori discussione. C'erano troppe guardie, e in più il filo spinato gli avrebbe dilaniato i vestiti e la carne. Passare di sotto poteva servire, ma le sentinelle lo avrebbero visto appena uscito dall'altra parte. Scavare un tunnel era impossibile senza aiuto e gli attrezzi adatti.
Mentre ci pensava, Edgar lo raggiunse.
- Tutto bene? - Gli disse.
Virgil si limitò a fissarlo, torvo.
- Ho una buona notizia. Sei immune.
- E se non lo fossi stato, cosa mi sarebbe successo?
Edgar si sedette accanto. - Saresti stato un portatore del virus o ti saresti trasformato. E' difficile dirlo. Voglio dire, sei stato a stretto contatto con un infetto, tua moglie. Se lei fosse stata immune, quel morso non lo avrebbe uccisa e poi trasformata. Alcuni si trasformano stando semplicemente vicino agli infetti. Altri si trasformano senza mostrare nessun sintomo. Quello che voglio dire è che il Virus è ovunque, e i sintomi sono cambiano da persona a persona. Questo ha fatto precipitare la situazione a livello nazionale, e forse mondiale. Ti abbiamo prelevato il sangue per essere sicuri che non ti saresti trasformato.
- Se non eravate sicuri, perché mi avete portato qui? - Chiese Virgil.
- Lo facciamo con ogni sopravvissuto che troviamo là fuori. L'epidemia ha infettato la maggior parte delle persone non immuni. La maggior parte che hai incontrato si sono trasformati senza mostrare i sintomi. Forse non se ne sono nemmeno accorti. Invece quelli che vedi ora nel campo sono immuni o portatori del virus. Forse è un po' complicato da capire, ma nemmeno noi abbiamo delle risposte certe.
- Vuoi dire che posso infettare la gente? - Domandò Virgil, confuso.
- No, sei immune. Non sei un portatore. Ma alcuni di noi lo sono. - Rispose Edgar. - Per questo facciamo il test del sangue.
- Ma se qualcuno non è immune, allora viene infettato quando lo portate qui. Anzi, lo infettate voi ancor prima di trascinarlo qui.
Edgar si alzò. - Devi sapere che sono rimasti solo sopravvissuti immuni. Tutti gli altri sono stati spazzati via dalla Grande Epidemia, come la chiama Ector. Certo, qualcuno, non so come, resiste per un lungo periodo all'infezione prima di trasformarsi, e noi vogliamo scoprire cosa l'innesca. Trovare una cura, o un modo per rallentare l'infezione. Ci basterebbe anche questo. Per questo preleviamo il sangue. Tua moglie ha resistito fino al morso, poi è morta e si è trasformata. Se non fosse stata morsa, più avanti si sarebbe trasformata.
Virgil abbassò gli occhi, rattristito. Sua moglie non c'era più, e lui si sentiva spaesato e solo.
- Forse è meglio se ti lascio da solo. - Disse Edgar. - La cena è alle otto. La mensa si trova in quel capannone laggiù. A dopo.

Virgil restò seduto per un lungo momento, prima di alzarsi e dirigersi alla mensa. Sentiva lo stomaco brontolare. Non metteva qualcosa sotto i denti da un giorno. Lanciò uno sguardo alla rete metallica, e comprese come i suoi precedenti pensieri sulla fuga erano pura follia.
Arrivato sotto l'ingresso della mensa, vide una quindicina di persone sedute ai tavoli. Mangiavano una poltiglia strana, e conversavano tranquilli come se fuori dalle mura il mondo non era mai caduto.
Camminando tra i tavoli, evitò gli sguardi sospetti e indifferenti della gente e si fermò davanti un lungo tavolo.
Un uomo dall'altra parte lo guardò di sfuggita.
- I vassoi sono da quella parte. - Gli disse.
Virgil ne prese uno e tornò dall'uomo, che gli versò una poltiglia marrone da un pentolone.
La poltiglia puzzava. Non sapeva dirsi che odore fosse, e si limitò a girare la testa. Si sedette a disparte e, prima di fare il primo boccone, annusò di nuovo il cibo. Gli venne un coniato di vomito. Lo stomaco però, brontolava, e senza sapere il motivo, gli venne l'acquolina in bocca. Aveva davvero fame.

Dopo aver passeggiato tra le tende e le casupole di fortuna dei sopravvissuti per farsi un idea del luogo, tornò nella sua tenda. Si sedette sulla branda e guardò la lanterna sul tavolo. Era indeciso se accenderla o meno, e alla fine non lo fece.
Si sdraiò sul letto con le mani incrociate sotto la nuca e meditò nuovamente sulla fuga, finché il viso sorridente di Cassandra eliminò ogni pensiero. Delle lacrime gli solcarono il viso, finendo la loro corsa sulla barba nero grigia. Alla fine, scoppiò in un pianto sommesso.
- Non dovevo portati al villaggio. - Si incolpò con la faccia arrossata dalla rabbia! - Dovevamo restare sulla barca. La mia dannata curiosità ti ha fatto uccidere! Perdonami, Cass! Perdonami.
Dopo un po' sentì dei passi vicino alla tenda, e smise di piangere, asciugandosi gli occhi con la manica della maglietta. Entrò il capitano Edgar, seguito dal dottore Ector.
- Virgil, giusto? - Disse il Dottore. - Ho bisogno di un altro prelievo.
- Cosa? Di nuovo? - Rispose Virgil, mettendosi a sedere sulla branda. - L'altra volta me lo avete fatto senza il mio consenso, e per giunta mi avete colpito con un pugno.
- Non sono stato io a colpirti. Ma questa volta è diverso. Il tuo sangue è diverso. I tuoi anticorpi riescono a isolare e distruggere lentamente il virus. Sono anormali... Speciali.
Virgil non sapeva cosa dire. Non gli riusciva a trovare le parole.
- Ho motivo di credere che nel sangue potrebbe esserci la cura per questa epidemia. - Continuò il dottore. - Ma ho bisogno della tua collaborazione. Immagina le vite che salverai. Forse è possibile far ritornare gli infetti nuovamente sani.
Nel sentire quelle parole, Virgil si vide dinanzi agli occhi il volto pallido di Cassandra. Trattenne le lacrime e fissò torvo i due. - Non farò niente, mi avete capito? Niente! Non riuscirete a manipolarmi come avete fatto con tutta quella gente là fuori. Non otterrete niente da me! E se anche fosse vero quello che dite, voi avete ucciso mia moglie. Le avete sparato! Lei era solo malata... - Abbassò la testa. - Solo malata... - La rialzò. - Se non l'aveste ammazzata, lei... Lei sarebbe ancora viva. - Non riuscì più a trattenere le lacrime.
- Non era più tua moglie, Virgil. - Disse Edgar, posandogli una mano sulla spalla.
Virgil se la levò subito. - Non mi toccare!
- Capisco la tua rabbia, - aggiunse Ector - ma è imperativo fare quello che ti ho detto per aiutare l'umanità.
- Avete ucciso mia moglie! Uno dice che è possibile curare gli infetti, e l'altro dice che non sono più quelli di prima. Siete degli ipocriti! Bugiardi! Lasciatemi da solo.
Ector lanciò un occhiata a Edgar, che scosse la testa. Poi Ector disse. - Va bene. Ma domani, volente o nolente, ti farò il prelievo. È importante, Virgil. Non puoi essere egoista. Non puoi permettertelo. Non quando l'umanità rischia l'estinzione.
Virgil si sdraiò sulla branda, ignorandolo del tutto.
Edgar fece un cenno al dottore che, prima di andare, lanciò un occhiata risentita a Virgil. Poi insieme a Edgar lasciarono la tenda.

Virgil si addormentò da lì a poco.
Si ritrovò sulla sua barca Lagniappe II mentre le dolci onde lambivano lo scafo. Nuvoloni grigi solcavano il cielo all'orizzonte, e il vento sferzava tutt'attorno. Aveva le mani ferme sul timone, e Cassandra le era accanto. Il suo viso era sereno, i suoi occhi pieni di pace.
Virgil le sorrise con gli occhi inumiditi dalla felicità. Quando lasciò il timone per abbracciarla, il cielo si fece scuro, squarciato da una moltitudine di fulmini. Le onde si ingigantirono e colpirono la barca come se volessero affondarla. Il volto di Cassandra si tramutò all'istante, con le vene nere che le pulsavano sulla fronte, gli occhi iniettati di sangue.
Virgil posò nuovamente le mani sul timone e tutto ritornò sereno. Le nuvole svanirono, i fulmini cessarono, le onde si calmarono. Cassandra gli sorrise, e lui si svegliò.
Rimase a fissare il soffitto. La stoffa della tenda ondeggiava smossa dal vento, e ogni tanto i raggi della luna filtravano attraverso l'ingresso. Fuori il mondo era silenzioso.

Al mattino fu svegliato bruscamente dagli spari. Mentre scattò in piedi frastornato, là fuori sembrava essersi scatenato un pandemonio. Uscito dalla tenda, vide la gente terrorizzata correre per tutto l'accampamento. Non capiva cosa stesse succedendo, e quando cercò di fermare un donna per domandarlo, quella gli gridò in faccia e lo spinse via.
Dirigendosi verso la mensa, scorse gli APC corrazzati muoversi tra le tende e le casupole. Gli spari continuavano senza sosta, finché non si udì un enorme boato. Lingue di fuoco si elevarono al cielo da sopra le tende e i tetti delle casupole, e una colonna di fumo nero velò il sole. Virgil sentì la terra fremere sotto i piedi per un momento e, incredulo, vide un militare volare a diversi metri sopra la sua testa. Si schiantò contro il tetto di una casupola, facendola crollare. Rimase a fissarlo per un attimo, e dopo un po' udì delle grida alle sue spalle. Le stesse grida che aveva sentito quando era stato attaccato dagli infetti. Nel vederli, si pietrificò. Quelli gli corsero incontro, gridando e gemendo. Poco prima che lo raggiungessero, un tank abbatté la tenda che fungeva da mensa e con una violenta manata colpì gli infetti mandandoli in aria per diversi metri.
Virgil fissò il Tank, terrorizzato. Non aveva mai visto niente del genere prima d'ora. Si chiese cosa diavolo fosse quella cosa.
Il Tank batté i pugni sul petto, ruggendo verso il cielo. Poi si lanciò contro di lui. Virgil indietreggiò, finché non si mise a correre alla cieca. Corse talmente tanto che alla fine dovette fermarsi per riprendere fiato. Aveva seminato il Tank, ma lo sentiva intorno. I suoi versi gutturali, i suoi pesanti passi che facevano tremare il terreno.
Mentre gli spari diminuivano, la gente continuava a fuggire in tutte le direzioni. Le mitragliatrice montate sulle jeep vomitavano proiettili senza sosta, falciando infetti e persone sane. I militari lungo il perimetro erano stati per la maggior parte uccisi. Alcuni penzolavano sul filo spinato, sulle rete metalliche divelte o sui parapetti delle torrette. Altri giacevano al suolo eviscerati e squartati, insieme ai sopravvissuti.
Virgil si guardò intorno. L'accampamento era ormai invaso dagli infetti, ma non la base militare. Lì i soldati si erano posizionati dietro gli APC corazzati e i blocchi di cemento, e sparavano senza sosta. Gli infetti cercavano di arrampicarsi rapidamente sulla rete metallica, e venivano crivellati dalle pallottole ancor prima di raggiungerne la sommità. Anche i sopravvissuti cercavano di entrare, e i soldati aprivano il fuoco senza alcuna esitazione. Era un vero massacro.
Virgil era inorridito. Come potevano uccidere le persone che poco prima proteggevano?
Mentre fissava quell'orrenda carneficina, il Tank sfondò una casupola e corse verso i soldati poggiando le nocche a terra come un gorilla. Quelli concentrarono il fuoco verso la creatura che, non mostrando alcun segno di sofferenza, sferrò un pugno contro la rete metallica. Una parte della recinzione cadde al suolo e decine di infetti si riversarono nella base alle spalle del Tank. I soldati indietreggiarono compatti verso l'edificio di cemento, ma il torrente di infetti li divise. Molti di loro furono fatti a pezzi, e solo pochi riuscirono a chiudersi dietro lo spesso portone di acciaio.
Sul tetto un elicottero militare stava per alzarsi in cielo. Virgil scorse Ector e Edgar che si dirigevano verso il velivolo. I due si fermarono a litigare. Ector puntò il dito verso l'accampamento, e Edgar lo afferrò per un braccio e lo trascinò con forza nell'elicottero. Mentre s'innalzava in cielo, gli infetti che si erano arrampicati sul tetto corsero urlando verso il velivolo. Alcuni, cercando di raggiungerlo, saltarono nel vuoto e caddero di sotto, spiaccicandosi sul cemento. L'elicottero virò a Ovest e si allontanò.
L'intero edificio era ormai ricoperto dagli infetti, e altri correvano infuriati nella base militare. Il Tank raggiunse il portone di acciaio e cominciò a piegarlo sotto i suoi pesanti pugni. Il vento portava l'odore di putrefazione, e nell'aria si udivano solo gli strilli e le urla impazzite degli infetti. Virgil osservava esterrefatto e stravolto, finché qualcosa gli saltò dietro le spalle. Si vide dinanzi agli occhi delle piccole mani ossute, raggrinzite. Qualcosa si era aggrappato attorno alle sua testa e cercava di lacerargli la faccia. Sogghignava e rideva istericamente mentre lo tirava all'indietro come se lo stesse cavalcando. Virgil tentò di liberarsi dalla presa, ma qualunque cosa fosse lo teneva ben stretto. Una stretta soffocante, dolorosa. Quelli ossute e corte braccia avevano una forza incredibile.
Virgil sentì i polmoni bruciargli per il tanfo di morte che emanava l'essere, e annaspava per riprendere fiato. La creatura sogghignò e lo spinse verso gli infetti che nel frattempo si erano calmati, camminando irrequieti tra le tende e le casupole ancora in piedi. Poi fu sospinto in avanti e la creatura mollò la presa. Mentre i polmoni si riempivano di aria, si voltò di scatto e vide quella cosa al suolo. Era morta.
Non era nulla di umano, o almeno così gli sembrava. Era un essere piccolo, ingobbito e la spina dorsale visibile da sotto la pelle chiara tutta scorticata. Il busto era inclinato in avanti, e ciuffi di capelli puntellavano la piccola testa deforme incastonata nelle strette spalle. Il viso ricordava vagamente qualcosa di umano, e le dita allungate terminavano con dei piccoli artigli.
Giaceva al suolo con la testa fracassata, da cui fuoriusciva un lento fiotto di sangue. Virgil non capiva cosa fosse successo o chi lo avesse salvato. E fissando quella creatura, decise di chiamarla Jockey per la sua risata simile a quella di un pagliaccio.
Poco distante, vide una ragazza con in mano un tubo di ferro insanguinato. Gli fece cenno di seguirla.

I due si mossero silenziosi tra le tende e le casupole, fermandosi dietro un APC corazzato. Centinaia di infetti barcollavano dalla parte opposta. Gemevano e scuotevano freneticamente la testa come in preda di tic nervosi.
- Grazie per avermi salvato. - Bisbigliò Virgil.
La ragazza annuì.
- Sai come uscire da questo posto?
- Sì, ma dobbiamo aspettare che quei malati si dividano.
- Parli di quelli laggiù?
La ragazza annuì.
Rimasero in silenzio per un lungo momento, finché Virgil notò un militare morto vicino alla rete metallica.
- Ehi. - Bisbigliò alla ragazza. - Possiamo prendere quel fucile. Magari c'è anche una pistola nella fondina.
- È troppo lontano. I malati ci vedranno.
- Non se passiamo dietro quelle tende.
La ragazza corrugò la fronte, indecisa. - Va bene, ti seguo.
Tornarono indietro per una ventina di metri e girarono a destra. Videro un infetta seduta a terra che mormorava frasi sconnesse, parole corte, a volte sillabe.
Virgil era confuso. Come poteva parlare? La ragazza invece, non sembrava sorpresa. Si avvicinò silenziosa verso l'infetta e la colpì in testa, spaccandole il cranio.
Continuarono a muoversi tra i cadaveri sparsi qua e là, e arrivarono a diversi metri dalla rete metallica. Prima di raggiungere il militare morto, si guardarono intorno e, non vedendo nessuno, si tennero bassi e si diressero verso la rete metallica.
Virgil afferrò il fucile d'assalto, e la ragazza estrasse la pistola dalla fondina. E così com'erano venuti, tornarono velocemente indietro. Rifecero lo stesso percorso e si fermarono dietro l'APC corrazzato.
- Sono aumentati. - Sussurrò Virgil. - Come faremo a passare, ora?
La ragazza non rispose.
Virgil si guardò intorno con la vaga speranza di scorgere una via di fuga, ma l'ingresso era del tutto ostruito dagli infetti.
Attesero per quasi un ora, e gli infetti non facevano altro che girare in tondo. Infine udirono degli spari provenire della base militare. Il Tank era entrato nell'edificio. Gli spari continuarono per una manciata di secondi, poi i gemiti tornarono a regnare sulla quiete. Notarono che la maggior parte degli infetti, attratti dagli spari, si era diretta verso la base militare. Davanti al cancello ne rimanevano ancora molti.
- Magari possiamo usare questo affare? - Bisbigliò Virgil, indicando l'APC corrazzato con il mento.
- Sai guidarlo? - Chiese la ragazza.
- No. Tu?
- Io? Non ho nemmeno la patente.
- Ma quanti anni hai?
- Diciassette. Tu?
- Cinquantotto.
- E non hai la patente?
- Certo, ma non per questo coso. Non so come accenderlo.
- E credevi che io sapessi farlo? - La ragazza alzò un sopracciglio.
Virgil si sentì uno stupido. Era una ragazzina. Ma il fatto che lei gli avesse salvato la vita lo aveva portato a pensare che fosse più grande. Oppure era la disperazione a fargli fare questi pensieri che in altre circostanze avrebbe accantonato come irreali.
- Possiamo aspettare qui. - Sussurrò la ragazza. - Prima o poi andranno via.
- E se venissero da questo parte? - Rispose Virgil. - Non avremmo scampo. Ci inseguirebbero... Anzi, saremmo circondati. Siamo già circondati.
- Allora metti in moto il furgone.
- Ma non è un semplice furgone. Non so nemmeno come si chiama.
Rimasero a fissarsi per un momento.
- Non avevi detto che conoscevi una via di fuga? - Domandò Virgil.
- È quella la via di fuga. - Rispose la ragazza indicando il cancello.
- Pensavo che conoscessi un altro modo per poter uscire.
- Non si poteva uscire senza essere visti. I soldati sorvegliavano l'intero perimetro. E poi ce ne sono altri là fuori.
- Altri? Altri soldati?
- Sì. Ci sono degli avamposti. Impedivano ai malati di arrivare qui. Mio padre era un ingegnere e... - La ragazza abbassò gli occhi inumiditi. - Lui è... Lui è morto.
- Mi dispiace. - Disse Virgil.
- Ha aiutato a costruire gli avamposti e l'accampamento. - Aggiunse la ragazza, trattenendo a stento le lacrime. - Lui aveva avvertito Edgar che un orda di malati era diretta qui, e che c'era il rischio che questo posto venisse spazzato via... Ma Edgar non lo ascoltò. - Cominciò a piangere nascondendo il viso dietro le mani. - Così mio padre disse a me e mia madre che appena sarebbe tornato dall'avamposto, ci avrebbe portato al sicuro fuori dall'accampamento, ma lui... Lui non è più tornato. - Scoppiò in un pianto sommesso.
Virgil non sapeva cosa dire, e dolcemente, senza forzarla, la strinse tra le sue braccia. La ragazza pianse sul suo petto, sollevando le spalle ad ogni nuovo singhiozzo.

Quando la ragazza si staccò dal suo abbraccio, si asciugò il viso con la manica della maglietta e disse - Mia madre... Anche lei non c'è più... I soldati le hanno sparato. - Trattenne le lacrime e si voltò. - Hanno ucciso tutta la gente che voleva fuggire. Mio padre aveva ragione nel dire che questo posto era una prigione.
Alcuni infetti furono attirati dai suoi bisbigli e si girarono, infastiditi.
Virgil se ne accorse.
- Entra dentro! - Le disse.
- Cosa? - La ragazza lo guardò, confusa.
Virgil le afferrò il polso e la trascinò frettolosamente nel retro del mezzo corazzato che aveva la portiera abbassata.
- Mi hai fatto male. - Disse la ragazza massaggiandosi il polso.
Virgil non la ascoltò e si mise a cercare un pulsante o una manovella che chiudesse la portiera, ma non trovò niente. Due infetti sbucarono dal retro dell'APC corazzato e, barcollando, si fermano dove poco prima si trovavano i due. Le loro teste scattavano nervose avanti e indietro, e uno dei due vomitò bile nero a terra.
Mentre la ragazza puntò la pistola verso l'infetto, Virgil le posò una mano sull'avambraccio.
- Non farlo. - Le bisbiglio. - Attirerai tutti gli infetti. Abbassiamoci.
Un infetto barcollò lontano verso una tenda. L'altro si sdraiò a terra, gemendo.
La ragazza si alzò, e quando fece per scendere dal mezzo corazzato, Virgil la fermò per una spalla.
- Ferma! - Le sussurrò. - Potrebbero essercene degli altri qui vicino.
- Se non lo uccidiamo, primo o poi ci vedrà e allerterà gli altri. - Rispose la ragazza con tono deciso. - Userò il tubo. Non preoccuparti.
Virgil la lasciò andare, e una volta scesa silenziosamente dall'APC corazzato, si avvicinò alle spalle dell'infetto e gli calò il tubo di ferro sul cranio. Il colpo debole e non preciso lo stordì per un istante. Appena la ragazza fece per colpirlo di nuovo. si bloccò nel vedere l'infetto rialzarsi e strillare furioso. Le sferrò un pugno in pieno volto, facendola crollare al suolo, tra lo sguardo terrorizzato e stravolto di Virgil. E mentre l'infetto che l'aveva colpita cominciò a tempestarla di calci e pugni, una trentina di infetti si precipitarono urlando irati verso loro.
Virgil alzò il fucile d'assalto e, con le mani tremanti, fece partire una raffica. Il rinculo dell'arma gli fece perdere la presa, e l'M60 cadde al suolo facendo partire un colpo. Virgil notò di aver colpito solo l'interno dell'APC corazzato.
Alcuni infetti si arrampicarono sul mezzo corazzato credendo che fosse stato questo a disturbarli. Altri corsero verso la portiera abbassata. Virgil raccolse l'M60 e sparò, cercando di tenere ferma l'arma. I primi infetti vennero crivellati, e quelli dietro tentarono di scavalcarli, ma i corpi ammassati sulla portiera abbassata bloccava loro il passaggio. L'uomo fece partire un altra raffica e li uccise. Adesso era del tutto isolato nel mezzo corazzato, e il tanfo di putrefazione e vomito lo costrinse a coprirsi il naso con una mano. Aprì una piccola finestrella che dava sui sedili anteriori e rimase con la faccia spiaccicata per respirare.
Il suo pensiero andò subito alla ragazza. L'aveva vista cadere a terra, venire ripetutamente colpita da un infetto e forse uccisa. Non lo sapeva con certezza, ma come poteva essere sopravvissuta? Aveva visto molti infetti venirgli incontro, li aveva uccisi e per sua fortuna i corpi avevano bloccato il passaggio all'interno del veicolo corazzato. E quelli che erano rimasti fuori, ora li sentiva muoversi sopra l'APC corazzato. Gli altri, forse, si erano accaniti sulla ragazza. Sentì un nodo alla gola, e cercò di scacciarla via dai suoi pensieri, anche perché le aveva nemmeno detto come si chiamasse.

Era ormai sera. Virgil vedeva la mezza luna nel firmamento tempestato di stelle attraverso il parabrezza antiproiettile. Aveva passato dieci ore chiuso nel veicolo corazzato con la testa vicino alla piccola finestrella, e ora aveva una mezza idea di uscire. Prima di farlo, rimase per un po' in ascolto, ma non sentì niente. Dalla piccola finestrella non vide infetti, così cominciò a spingere alcuni corpi dall'altra parte. Si aprì un piccolo passaggio stando bene attento a non farli scivolare tutti giù. Non voleva ritrovarsi esposto nel caso in cui fosse stato attaccato dagli infetti, e quella pila di corpi era un ottimo muro difensivo.
Una volta fuori, respirò a pieni polmoni, sebbene l'aria fosse ammorbata dall'acre odore di putrefazione, e si mise a cercare la ragazza. Non la trovò.
Lanciò un occhiata intorno, e scorse alcuni infetti in lontananza. Erano quieti, passivi e molti dei loro corpi fremevano di continuo. La maggior parte di essi era sparita, e davanti al cancello non c'era nessuno. Guardò il punto in cui l'aveva vista l'ultima volta, e vide solo la pistola e il tubo di ferro insanguinato. Forse era sopravvissuta, o si era trasformata, pensò. Ma era impossibile. Tutti i militari e i sopravvissuti giacevano a terra morti. Erano tutti immuni o portatori del virus. Non si sarebbero mai trasformati, almeno stando a quello che aveva detto Edgar. Oppure aveva torto? O gli aveva rifilato una bugia?
Mentre ci pensava, udì un rumore in lontananza che si avvicinava velocemente. Vide un elicottero sorvolare il cielo notturno e dirigersi nella sua direzione. Si fermò a mezz'aria per un attimo, poi accese il faro. Un potente fascio di luce si protrasse da sotto il velivolo, illuminando le tende e le casupole e ritornando più volte negli stessi punti.
Virgil, che nel frattempo si era nascosto dietro una Jeep militare, capì che era lo stesso elicottero in cui erano saliti Edgar e Ector. Che fossero ritornati per cercarlo? Pensò. No, forse si stava dando troppo importanza. Forse erano qui per verificare le condizioni in cui versava l'accampamento dopo l'attacco degli infetti. Forse erano intenzionati a ritornarci.
L'elicottero virò a sinistra e sorvolò un tratto della base militare. Poi si fermò a mezz'aria, e il faro illuminò il tetto dell'edificio ove risiedeva il quartier generale della base. Il velivolo si abbassò di quota fin quasi ad atterrare sul tetto, quando riprese velocemente quota e virò a Nord-Est. Il Tank sfondò con un pugno l'asse della porta che dava sul tetto, facendo crollare una parte di muro. Corse con la sua andatura simile a un gorilla verso il velivolo, che si allontanava verso l'orizzonte.
L'imponente essere si fermò a un passo dal parapetto e ruggì furioso, battendosi i pugni sul petto mastodontico. Virgil rimase a fissarlo, spaventato. Il Tank balzò da sopra l'edificio e, atterrando al suolo, creò un piccolo cratere da cui si sollevò un leggera nube di polvere. Poi si mise a rincorrere l'elicottero che era diventato quasi invisibile nella scura volta stellata.

Ovunque andasse, Virgil scorgeva solo cadaveri. Il rumore delle eliche dell'elicottero aveva attirato dietro di sé tutti gli infetti, e ora nell'accampamento regnava la quiete. Si diresse verso la sua tenda, ma la trovò distrutta. Non sapeva neanche lui perché ci era andato.
Così ritornò verso il mezzo corazzato e ci rimase per quasi un ora, seduto di schiena contro una ruota. Lanciava sguardi in tutte le direzione nella speranza che la ragazza ritornasse. Magari si era nascosta e, una volta visto che non c'erano più infetti, sarebbe ritornata lì. Ma la verità è che si sentiva tremendamente in colpa. Aveva ucciso sua moglie Cassandra, e adesso anche la ragazza. Una parte di lui gli diceva che non era così, ma era troppo afflitto dai sensi di colpa per dare retta a quella voce.
Passata un ora e non vedendo arrivare nessuno, si alzò e si diresse lentamente verso il cancello. Rivide di nuovo il Jockey stesso a terra in una pozza di sangue e continuò dritto. Arrivato davanti al gabbiotto del cancello, notò il busto di un soldato diviso a metà. Le sue viscere erano sparse sul cemento sotto un lago di sangue raggrumato. Era lo stesso militare che gli aveva puntato l'arma il giorno precedente. Uscì dal cancello e, lanciando un ultima occhiata all'accampamento, si allontanò lungo la strada sterrata.
Camminò per quaranta minuti circondato dapprima da basse e brulle colline, poi da una fitta vegetazione di alberi scheletrici e silenziosi di arbusti malsani. Infine scorse una radura alla sua destra con un abitazione a due piani. Era circondata da sacchi di sabbia, casse militari, quattro Jeep e due APC corazzati. Virgil pensò che doveva essere uno degli avamposti dell'esercito di cui aveva parlato la ragazza.
Su una finestra era montata una mitragliatrice e al di sotto, centinaia di infetti crivellati dalle pallottole la attorniavano. Non vide nessun soldato tra loro. Girando attorno alla struttura per accertarsi che non ci fossero infetti, vide altre tre mitragliatrici posizionate su altre finestre.
Si avvicinò cauto al portico, salì i due gradini e raggiunse la porta abbattuta. Nel corridoio scorse i cadaveri dei militari fatti a pezzi. Nel soggiorno messo sotto sopra ne vide altri, e così in cucina e nella piccola lavanderia. Le pareti erano tappezzate di schizzi di sangue e fori di proiettili. Al secondo piano il massacro era il medesimo. L'orda che aveva invaso e distrutto l'accampamento, era passata prima da qui. E forse aveva travolto anche tutti gli altri avamposti, pensò Virgil.
In casa, nel ripostiglio, trovò alcune scatolette di tonno, barrette di cioccolato e delle bottiglie d'acqua. Andò a prendere uno zaino militare al secondo piano, ritornò nel ripostiglio e mise tutto nello zaino. Poi, mettendoselo in spalla, lasciò il fucile d'assalto che aveva portato dall'accampamento e ne prese uno dalle fredde mani di un soldato morto. Tolse il caricatore e lo controllò. Era quasi scarico. Prese le pallottole rimaste negli altri caricatori e li mise nel suo. Infine, controllando da una finestra che là fuori nel frattempo non fossero sopraggiunti degli infetti, lasciò la casa e si allontanò ritornando sulla strada sterrata.

Camminò per quasi un ora senza incontrare nessuno. Aveva creduto che l'accampamento fosse vicino al villaggio, ma invece sembrava essere molto più lontano. Non sapeva nemmeno se stesse andando nella giusta direzione.
La vegetazione attorno a lui s'infittiva. Gli alberi palustri avevano un aspetto malsano, sinistro con i contorti rami protesi verso il cielo. Gli arbusti avevano lasciato il posto all'erba alta che spuntava dagli acquitrini, e lungo la strada si susseguivano pozzanghere d'acqua. Comprese che la basa militare si trovava al di fuori della Louisiana, ma che si stava dirigendo nella giusta direzione.
Due ore dopo raggiunse una staziona di benzina. Diversi veicoli erano incolonnati lungo le pompe, e una decina di cadaveri falciati dai proiettili giacevano al suolo. Erano tutti infetti. La facciata di legno del negozio era stata forata dai proiettili, le finestre infrante, la porta abbattuta. La serranda del garage era stata divelta e ai suoi piedi, una pila di cadaveri travolta dal fuoco delle armi automatiche.
Virgil si mise a controllare nelle auto, ma non trovò niente di utile. Quando si avvicinò al negozio, badò bene di non fare rumore camminando sui vetri rotti. Si fermò sotto la soglia e lanciò uno sguardo all'interno. Sembrava che non ci fosse nessuno, ma appena fece un passo, udì un ringhio alle sue spalle.
Si girò di scatto e, puntando il fucile d'assalto, non vide nessuno. Il ringhio aumentò d'intensità, e cominciò credere di sentirlo sopra la sua testa. Mirando al tetto, si allontanò dall'edificio, ma non vide nessuno. Rimase a fissarlo per un lungo momento, finché scorse qualcosa balzare da esso. Riuscì a sparare una breve raffica che colpì l'infetto speciale al busto. L'essere atterrò al suolo con mani e piedi, rimanendo in quella posizione come se stesse aspettando il momento giusto di saltare di nuovo.
Virgil si sentì rabbrividire nel fissare i suoi occhi rossi, la bocca insanguinata, i denti aguzzi che s'intravedevano dietro le labbra. Aveva una felpa blu notte logora e strappata, con un cappuccio che gli ombrava metà viso. Al posto delle dita dei piedi e delle mani aveva degli artigli affilati in grado di recidere la carne e le ossa come fossero gelatina. Virgil lo chiamò Hunter.
L'essere ringhiò eccitato e balzò contro l'uomo che, spaventato, aprì il fuoco. I proiettili lo falciarono a mezz'aria, e la creatura andò a schiantarsi contro la fiancata di una monovolume.
Virgil rimase a puntargli l'arma per una manciata di secondi, poi si avvicinò cauto. Gli toccò il fianco con la punta del piede. Era morto. Ma Virgil era ancora agitato per ciò che era successo, e non si allontanò finché non si convinse della sua morte. Allora abbassò il fucile d'assalto, posò la zaino a terra, pescò una bottiglia d'acqua e fece dei sorsi. Poi la rimise dentro e si rimise lo zaino in spalla.
Appena si voltò per andare via, alla sua destra, trentuno infetti sbucarono dagli acquitrini. Corsero irati e impazziti verso di lui. Le loro urla lo stordirono e Virgil, inerpicandosi frettolosamente sulla pila di cadaveri sotto la serranda divelta, si rifugiò nel garage.
Fu un gesto istintivo. Non pensò minimamente che lì dentro potessero essercene degli altri, come non rifletté che forse si era intrappolato da solo. Gli infetti raggiunsero la serranda piegata, colpendola con calci e pugni. Virgil si guardò intorno e, vedendo una scala, ci si arrampicò. Raggiunse la soffitta quasi del tutto avvolta dal buio, e accese la torcia che aveva sotto la canna dell'arma. Il fascio di luce penetrò l'oscurità, illuminando scatoloni, casse, vari motori, portiere e una finestra chiusa dalle imposte. Gli venne in mente di aprirla, ma non poteva e non voleva allontanarsi dalla scala.
Gli infetti piegarono ancora di più la serranda e, gridando, si riversarono all'interno. Si fermarono attorno ai piedi delle scala, ammucchiandosi sempre più. La loro cieca furia venne improvvisamente assopita da una passività innaturale nel non vedere più Virgil, che ora li osservava da sopra l'entrata del soffitto con fare turbato. Gli infetti barcollarono nel garage ma, essendo tutti compressi, iniziarono a tartassarsi di pugni e calci. Si colpivano finché l'altro crollava a terra morto. E infine ne rimasero nove.
Virgil non riusciva a capire perché si erano uccisi tra loro, come non capiva perché non era successo la stessa cosa quando l'orda aveva invaso l'accampamento. Forse si attaccavano solo quando erano passivi?
Mentre aspettava, andò ad aprire l'imposte della finestra. Una ventata d'aria gelida e putrefatta gli sfiorò il viso. Non c'era nessun infetto sul terreno sottostante, ma non sapeva se era così anche attorno all'edificio.
Ritornando all'ingresso del soffitto, puntò l'arma verso la testa di un infetto. Ma prima di sparare, si ricordò di controllare il caricatore. Aveva solo otto proiettili. Lo rimise al suo posto, e si maledisse per non aver preso tutte le pallottole dagli altri caricatori che poteva mettere nello zaino.
Cominciò a meditare se sparare o aspettare. Ma quanto poteva aspettare ancora? Ormai si era stancato di fuggire e aspettare. Non aveva fatto altro che fare così. Poi gli balenò in mente un idea. Andò alla finestra e osservò i veicoli incolonnati. Poteva fuggire con una di quelle, raggiungere il villaggio e finalmente trovare Cassandra per seppellirla.
- E poi dove diavolo andrò? - Disse sorprendendosi nel sentirsi parlare.
Mentre ci pensava, sentì un rumore. Si affacciò alla finestra e scorse un furgone sfrecciare a tutta velocità sulla strada. Non si fermò alla pompa di benzina, ma continuò spedito. I nove infetti nel garage si precipitarono fuori e, urlando, corsero dietro il veicolo.
Virgil ne approfittò per scendere e uscire dal garage. Raggiunse l'auto in cima alla colonna, controllò rapidamente l'abitacolo e girò la chiave rimasta inserita nel blocchetto d'accensione. Il motore non partì. Girò la chiave una decina di volte, finché, con un rombo, il motore si accese. Sorrise come un idiota dando un pugno sullo sterzo e si allontanò dal posto.

Guidò per ventisette chilometri, e durante il tragitto si imbatté solo in veicoli abbandonati, corpi senza vita e zaini sul ciglio della strada ricoperti di sangue. Arrivò al villaggio quando il cielo grigio si stava colorando di arancio-giallo oro, e il nuovo giorno portava ancora il pesante fardello del precedente. Virgil fermò l'auto dietro il suo pick-up e spense il motore.
Uscendo dal veicolo, vide Cassandra lì dove l'aveva lasciata, attorniata dagli altri infetti. Gli venne un nodo alla gola, gli occhi si inumidirono e si sforzò di non piangere. Fece alcuni lunghi respiri, poi la raggiunse.
Si chinò su di lei, accarezzandole il viso freddo e cadaverico. Aveva ancora le palpebre aperte, e gli occhi le erano diventati vitrei. Il rossore del sangue era sparito. Le chiuse le palpebre, si mise il fucile d'assalto dietro la spalla e, delicatamente, la prese in braccio e andò a sistemarla sul sedile passeggero del suo pick-up. Poi salì alla guida, posò l'arma sul cruscotto, girò la chiave e, con uno sbuffo, il motore si accese.
Le lanciò uno sguardo, rattristito, mentre alcune lacrime gli rigarono il viso. Poi fece inversione a U e ritornò verso la sua barca. Mentre guidava, non faceva che guardarla. Gli sembrava impossibile che Cassandra non ci fosse più. Non riusciva ad accettarlo. Cominciò a piangere, a singhiozzare, a stringerle la mano.
- Svegliati, Cass! Ti prego, Svegliati. Sono qui. Sono accanto a te. Non mi senti? Non senti la mia voce? Svegliati, Cass, amore mio. Mi dici sempre che non ti chiamo mai così. Ora l'ho fatto? Hai visto? Hai sentito? Ti prego, svegliati. Stiamo andando sulla nostra barca. Resteremo per sempre lì. E se non vuoi, andremo dove tu vorrai, ok? Ma svegliati, Cass. Svegliati, per favore.
Ma non ebbe nessuna risposta, così si rivolse a quel Dio con cui parlava a stento.
- Ti prego, Signore. Riportala in vita. Farò tutto quello che vorrai. Mi comporterò bene. Fallo per me. Adesso mi giro dall'altra parte, e Tu la riporterai in vita, ok? Lo sto facendo. Mi giro. Non guardo. Non voglio vedere come lo fai. Non voglio scoprire i tuoi segreti...
E nemmeno Dio gli rispose.
- Sei solo un figlio di puttana! Un vigliacco! Ti maledico! Sei solo uno stronzo ingrato! Perché non la riporti da me? Perché, bastardo? Non ti chiedo mai niente, e una volta che ti supplico di fare qualcosa per me non la fai. Sei solo uno stronzo!
Ma il silenzio era l'unica risposta assordante. Un silenzio opprimente, logorante, interrotto da pianti e singhiozzi.

Virgil seppellì Cassandra sulle rive del lago ove un tempo avevano passato insieme giornate felici e spensierate. Ogni giorno, per tre settimane, andava sulla sua tomba a parlarle. Le diceva cosa aveva fatto, dove si era spinto per trovare cibo e di come alla sua barca Lagniappe II servissero delle riparazioni. Poi una mattina, poco prima di scendere dall'imbarcazione, notò un folto gruppo di infetti lungo la riva. Erano arrivati di notte, e Virgil si sentì fortunato che non fossero saliti sulla barca. Non capì perché fossero lì, finché comprese che era stato il rumore delle riparazione ad attirarli. Alcuni di loro erano già sul molo dove aveva lasciato il fucile d'assalto e, pur avendo una pistola, non sarebbe riuscito a ucciderli tutti prima di esserne travolto. Non era abbastanza veloce con il grilletto.
Infuriato e impotente, si allontanò dalla riva e restò per due giorni a fissare torvo gli infetti che lentamente scemavano altrove. Il terzo giorno ritornò sulla riva, scese dalla barca e andò sulla tomba di Cassandra. Si scusò per non essere andato a trovarla, e la pregò di capire perché non l'aveva fatto.
Il giorno seguente recuperò una radio amatoriale da un caseggiato malridotto in mezzo alla palude. Ci viveva Jack Gordon, un suo amico di infanzia, ma non lo trovò lì. Forse era morto o fuggito altrove.
Montò la radio sulla sua barca e cercò di mettersi in contatto con altri sopravvissuti. Nessuna risposta. Solo silenzio radio. Ma lui non si abbatté.
- Mi chiamo Virgil. Qualcuno è in ascolto?
Continuò a insistere per tutto il giorno finché, arrivata la sera, andò a riposarsi. Le palpebre gli si chiusero da soli, e si dimenticò di tenere accesa la radio. Forse qualcuno gli rispose, ma Virgil non lo seppe mai.
Al mattino, dopo aver fatto una veloce colazione con dei biscotti inzuppati nell'acqua, anche se avrebbe preferito del bacon, si mise seduto davanti alla radio. Passò tutta la mattina e metà pomeriggio a ripetere lo stesso messaggio, a sintonizzarsi su altri canale nella speranza di captare un messaggio. Poi, alzandosi, andò sul ponte dell'imbarcazione a prendere un po' d'aria. L'aria nauseabonda della palude non era un toccasana, ma ormai ci era abituato.
Stava per scendere dall'imbarcazione e dirigersi sulla tomba di Cassandra, quando udì qualcosa. Una voce.
Si girò di scatto e tornò nella cabina, sedendosi così velocemente che quasi cadde dalla sedia.
- Ehi! Mi sentite? - Disse una voce da uomo. - Questo coso funziona? Ellis, vieni qui. È acceso 'sto coso? Funziona?
- Sì, funziona.... Prova a cambiare canale, Nick.
Virgil, che era rimasto stupito di sentire delle voci dopo tanto tempo, prese il microfono.
- Ciao a voi! - Disse esaltato. - Mi chiamo Virgil. Dove siete? Come avete fatto a sopravvivere? Quanti siete?
- Ehi, piano con le domande, amico. - Rispose Nick. - Nemmeno ci conosciamo. Per quanto ne so potresti essere l'ennesimo psicopatico che non vede l'ora di farci saltare le cervella.
- Io... - Virgil non si aspettava una risposta del genere.
- Nick! Levate dalle palle! - Aggiunse una nuova voce da uomo profonda, grave. - Ti chiedo scusa per il mio amico. A volte sa essere una vera testa di cazzo!
- Vaffanculo, Coach!
- Sì, certo. Senti, Virgil. Puoi chiamarmi Coach. Siamo in un grande casa fatiscente, vicino a un fiume. Credo che in questo posto coltivassero delle canne da zucchero. Puoi aiutarci? Siamo bloccati davanti al cancello che da sul molo.
- Ho capito dove siete. - Rispose Virgil, felice. - È la dimora di Micheal Garrison. Posso portarvi in salvo sulla mia barca. Sarò lì tra dieci minuti.
- Grazie, Virgil. Grazie davvero.
- Sì, grazie, Virgil. - Rispose una voce da donna. - Abbiamo passato giorni a sguazzare negli acquitrini. Siamo stanchi e affamati. Vogliono solo riposare in un luogo sicuro. Se ci aiuti, possiamo esserti utile.
- Nessun problema. - Aggiunse Virgil. - Sulla mia imbarcazione sarete al sicuro. Sto arrivando!

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Capitolo 3
*** Jimmy Gibbs Juniors ***


1


- Un uomo. Un auto. Un traguardo. Questo è Jimmy Gibbs Juniors, signori. Comprate il suo libro. La biografia più veloce che sia mai stata scritta. Venite, gente. Venite!

Mentre il presentatore invogliava la folla radunata fuori dal centro commerciale a comprare il libro, Jimmy sedeva al tavolo in silenzio. Era stanco di dover viaggiare, fare autografi, sorridere falsamente alla gente, abbracciarla e doverci scambiare due chiacchiere. Era un mito, lo sapeva. La gente lo adorava, altri lo idolatravano. Ma era stanco di tutto ciò.
Forse era arrivato a un punto della sua vita in cui correre con la sua Dodge Charger non bastava più. Il vento che gli sferzava il viso, l'odore di benzina, dell'olio di motore e il pubblico che lo acclamava dagli spalti, non significavano più niente. Era diventato apatico, depresso e un insolita tristezza lo aveva inghiottito nei suoi abissi.
Una fila di persone estasiate cominciò a fluire verso di lui.
- Ciao, Gibbs. Sei un grande, amico!
- Sei stato fenomenale nell'ultima corsa!
- Hai stracciato tutti!
- Ho comprato cinque copie del tuo libro. Voglio regalarle ai miei figli.
Una ragazza tentò di baciarlo sulle labbra, ma venne trascinato lontano dalla sicurezza. Un uomo cominciò a parlargli incessantemente, facendo incazzare gli altri in coda e venne allontanato.
Passò otto ore firmando autografi, sorridendo, abbracciando e facendo dediche. La fila non faceva che aumentare e il suo libro andava a ruba, finché non ne rimase nemmeno uno sugli scaffali. Ma altri libri vennero trasportati fuori dal magazzino e, prima che i dipendenti li potessero mettere sugli scaffali, la gente li comprò tutti.
Jimmy era arrivato al limite. Lo stress lo stava logorando, ma cercò di non darlo a vedere.
D'un tratto, in fondo alla fila, un ragazzo crollò a terra tra lo spavento generale. Sembrava essere svenuto. Un uomo, che aveva detto di essere un dottore, gli controllò i battiti, e improvvisamente il ragazzo riaprì gli occhi. Era confuso. L'iride cominciò a sporcarsi di sangue e le vene sul viso e sul collo iniziarono a diventare nere. Attimi dopo, il ragazzo sputò sangue in faccia al dottore, che cadde a terra contorcendosi. Mentre la gente urlava spaventata e alcuni fuggivano via, il ragazzo staccò con un morso la carne dalla guancia del dottore.
Poi cominciò a colpire le persone intorno con calci e pugni. Mandò al suolo tre uomini della sicurezza e si lanciò contro Jimmy che, sconcertato, corse verso la sua roulotte.
Tutt'attorno, molta gente cadde preda di tic nervosi e si rialzò urlando a squarcia gola. Il ragazzo infetto smise di inseguirlo e prese di mira il presentatore. Lo colpì in faccia con un pugno e lo mandò a terra, cominciando a martellarlo di pugni calci. L'intero spiazzo davanti al centro commerciale si riempì di infetti, di persone morte.
Jimmy si chiuse dentro la roulotte e spiò dalla piccola finestra incassata nella porta.
Un gruppo di soldati svoltò l'angolo di un'alta recinzione di legno, dove la CEDA aveva allestito delle tende per tenere sotti controllo l'epidemia che stava dilagando nella costa orientale degli Stati Uniti. Aprirono il fuoco.
Medici e scienziati della CEDA dentro a tute hazmat accorsero alle loro spalle. Un soldato gridò loro di tornare indietro, poi raggiunse gli altri commilitoni. Spararono sia sugli infetti che sulle persone, finché ne vennero sopraffatti. Solo quattro militari si rialzarono e, insieme ai centinaia di infetti, si riversarono fra le tende della CEDA.



 

2


Jimmy rimase per tre ore nella sua roulotte. Nessun infetto aveva provato ad entrare e forse nemmeno sapevano della sua presenza. Se ne stavano nello spiazzo a barcollare, a gemere, a vomitare bile nero. Aveva sentito da un amico di Atlanta, che giorni prima nella città era scoppiato il caos. La gente moriva, i soldati fuggivano e strani mostri avevano invaso ogni angolo delle strade. Poi le comunicazioni si interruppero e Jimmy pensò che, come sempre, Brian avesse alzato troppo il gomito. Non si sarebbe mai immaginato che il suo farneticare incessante avesse delle solide basi. Gli aveva sempre detto che questa epidemia era incontrollabile, che gli avrebbe spazzati via dalla faccia della terra. Aveva cominciato a chiamarla La Grande Infezione. Non credeva affatto che il governo avesse i giusti mezzi per controllarla e debellarla. La CEDA era impotente e il governo aveva cercato in tutti i modi di nasconderlo.
Jimmy restò seduto a sbirciare dalla finestra attraverso le tende veneziane. Aveva troppa paura di uscire o di fare qualsiasi cosa. Sperava nell'arrivo dell'esercito, che avrebbe tolto di mezzo gli infetti e messo in sicurezza il centro commerciale. Ma invece non si fece vivo nessuno.
Il mattino successivo, dopo aver dormito malissimo per via dell'ansia di venire sorpreso dagli infetti nel sonno e dei loro continui gemiti, si decise che avrebbe tentato la fuga. Mangiò un pacco di cracker, masticando pianissimo, e bevve un succo all'arancia. Poi si mise in cerca di un'arma. Non trovò nulla.
Questo lo convinse a restare dov'era, ma una parte di lui gli diceva che stava diventando troppo pericoloso. Primo o poi gli infetti lo avrebbero notato, così si decise di andare.
Raggiunse la porta e, girando lentamente la maniglia, l'aprì quanto bastava per sbirciare fuori. Una decina di infetti barcollava a diversi metri dalla roulotte. Jimmy scorse un passaggi in mezzo a due roulotte di fronte. Doveva correre e scavalcare la bassa staccionata di legno. Era sul punto di farlo, quando gli balenarono in mente una moltitudine di immagini orrende. Gli infetti erano veloci, forse anche più di lui che, arrivato alla soglia dei cinquant'anni, non era più scattante e svelto come un tempo. Lo avrebbero fatto a pezzi ancor prima che si fosse infilato nello stretto corridoio fra le due roulotte.
Depresso, chiuse la porta e si sedette di schiena contro il muro, abbassando la testa.
Un'ora dopo udì qualcosa all'esterno. Spiò attraverso le tende veneziane e vide qualcuno sopra il tetto di un negozio alimentare. Indossava una tuta hazmat su cui si riflettevano i raggi del sole. Lanciò una specie di barattolo verde che, volando per alcuni secondi sopra le teste degli infetti, si schiantò sul cemento. Ne fuori uscì una densa nube verdastra, che si disperse nell'aria. Tutti gli infetti nel giro di trenta metri ne vennero attratti e, urlando impazziti, si lanciarono dentro la nube. Si ammassarono, colpendosi con pugni e calci. Alcuni colpivano l'aria. Sembravano tutti accecati da una furia indescrivibile.
Jimmy colse l'occasione al volo. Uscì e corse fra le due roulotte, senza guardarsi indietro. Quando arrivò dall'altra parte, vide una sezione divelta della rete metallica del campo CEDA. La raggiunse frettolosamente e la scavalcò.



 

3
 

Corse verso un condominio di quattro piani ma, prima di entrarci, un Charger si precipitò fuori dall'ingresso.
Jimmy rimase inorridito e terrorizzato da quella cosa. Ringhiando, il Charger lo caricò con una spallata, ma l'uomo riuscì a scansarsi dalla traiettoria. Si rifugiò nel condominio, senza neanche controllare che fosse sicuro. Una volta dentro, gli venne automatico chiudere il portone. Ma questo giaceva al suolo in molteplici pezzi.
Il Charger tornò indietro con un'andatura zoppicante. Mentre ringhiava e si preparava a caricare l'uomo, tre colpi di fucili a pompa lo scaraventarono contro il cassonetto.
Jimmy corse rapidamente sulla scala e, girato l'angolo del pianerottolo, finì contro un infetto. Quello urlò irato e infastidito, e gli sferrò una manata, che l'uomo riuscì a deviare. Ma appena fece per discendere i gradini, l'infetto lo colpì dietro spalla e razzolò giù.
Sentiva la spalla pulsare dal dolore. La vista gli era diventata sfuocata e, mentre si alzava, l'infetto balzò giù dalla scala. Un salto impressionante. Atterrò goffamente vicino a Jimmy, che alzò le mani davanti al viso per non farsi colpire.
Due spari risuonarono nell'entrata. L'infetto venne catapultato indietro, contro i gradini, il petto e l'alto addome squarciati.
Mentre Jimmy sentiva fischiare le orecchie, un uomo gli si avvicinò. Era un soldato. Alto, massiccio, con le orecchie poco a sventola e una barba rada. Aveva una cicatrice sotto l'occhio destro e uno sguardo malaticcio, ma attento. Imbracciava un fucile a pompa.
- Viene con me. - Gli disse.
Jimmy non lo sentì.
Il soldato lo afferrò per la giacca e lo trascinò fuori.

Dopo un primo e timido tentativo di fuggire, Jimmy si lasciò condurre dal militare ovunque volesse portarlo. Si chiese perché il soldato non lo volesse lasciare andare, ma dopo un po' smise di chiederselo.
Seguirono un vicolo costeggiato da alti edifici e si fermarono a pochi passa da una Jeep militare. Era stata messa di sbieco e bloccava la fine del vicolo.
Il soldato si avvicinò a una porta di ferro e ci bussò cinque volte. Venne ad aprire un militare con un M60 a tracollo. Vedendo il soldato, li fece entrare.
Attraversarono un corto e buio corridoio, finché sbucarono in una grande sala illuminata da candele, lanterne ad olio e due fanali da cantiere. L'entrata principale e le finestre erano state sbarrate con assi di legno, dietro le quali erano stati ammassati tavoli, sedie e armadi.
Al centro della sala, c'erano sette soldati seduti a un tavolo, le armi posate su un tavolino vicino. Scrutarono Jimmy per un istante, poi tornarono a parlare.
- Seguimi. - Disse il soldato.
- Dove mi stai portando? - Chiese Jimmy, ma non ebbe risposta.
Proseguirono in un altro corto corridoio ed entrarono nella cucina. Due infetti morti giacevano in un angolo.
Jimmy li guardò di sfuggita e, scambiandoli per persone sane, si fece prendere dal panico. Credeva che il soldato volesse ucciderlo, anche se non capiva perché lo avesse portato fino a qui per farlo. Si fermò per un attimo con le mani tremanti, e corse indietro. Non fece molta strada quando andò a sbattere contro un soldato. Questo lo guardò torvo, sollevando l'M60.
Jimmy fissò l'arma, spaventato. Quando indietreggiò, urtò le spalle contro il busto del soldato che lo aveva condotto qui. Si girò di scatto.
- Sei veloce sia alla guida, che con i piedi - disse con un mezzo sorriso. - Perché l'hai fatto? Sei al sicuro, qui.
Jimmy non sapeva cosa dire.
- Non vogliamo farti del male, se è questo che ti chiedi. Come potrei uccidere a sangue freddo una leggenda come te? Dai, seguimi. Ti porto dagli altri.
- Gli altri? - domandò Jimmy. - Gli altri, chi?
- Sopravvissuti. Sono al sicuro nello scantinato. Cos'è? Ti sembra impossibile. Non fare quella faccia. È tutto vero.
Jimmy seguì il soldato attraverso la cucina, entrarono in un piccolo magazzino e da qui scesero una scala. Il soldato aprì una porta di ferro. Jimmy scorse all'interno una dozzina di persone, tra uomini, donne e bambini. Erano stipati in mezzo a lettini, armadi, cassettoni, banchi, lavelli e scaffali impolverati. Un fascio di sole filtrava attraverso una piccola finestra rettangolare e poche lanterne illuminavano un ambiente in penombra.
Le persone lo guardarono con diffidenza, ma molti lo riconobbero. Lo raggiunsero, contenti, come se la sua presenza potesse portare un senso di normalità in tutto quel caos.
- Sono felice che tu sia qui con noi, Jimmy - disse un padre di famiglia. Poi si rivolse al figlio di cinque anni. - Lui è Jimmy Gibbs Junior, figliolo. Te lo ricordi? Abbiamo fatto una foto insieme a mamma l'anno scorso.
Nel sentire la parola mamma, il bambino scoppiò a piangere. Il padre lo abbracciò piangendo e Jimmy si sentì una stretta al cuore.
Altra gente lo accolse con un sorriso, con un ricordo di una corsa o semplicemente parlandogli di motori.
- Sono così felice che tu sia qui con noi, Jim - disse un ragazzo di vent'anni. - Sono il tuo fans numero uno. La mia camera è tappezzata di tuoi post. Ho visto tutte le tue corse. Le ho registrate tutte. Sei il mio mito! Il mio idolo!
Jimmy si limitava a sorridere, a stringere mani. Persino in una situazione di vita e di morte le persone non smettevano di idolatrarlo.
- Ok, gente - disse il soldato. - Basta così. Io e Jimmy dobbiamo parlare. Fatevi da parte.
Parlare di cosa? Si domandò Jimmy.
Il soldato lo condusse in una piccola camera adiacente, dove c'erano casse, scaffali vuoti e un generatore spento. Sedendosi, indicò a Jimmy la sedia davanti.
- Mi chiamo Ethan Cole - disse il soldato. - No, non serve che ti presenti. So perfettamente chi sei. - Fece una pausa. - Sono stato fortunato a incontrarti. Non tanto perché sei un mito per tutto il paese, ma... Come dire, potresti tornarci utile.
- Utile? In cosa? - domandò Jimmy, turbato.
- C'è una fabbrica a due chilometri dalla città. È spaziosa e protetta da recinzioni. Stiamo pensando di spostarci lì. E tu potresti aiutarci a convincere i sopravvissuti a venire con noi.
- Avete già parlato con loro?
- Sì, e quasi nessuno intende seguirci. Vogliono aspettare qui l'arrivo dei rinforzi. Voglio dire, credono che altri come me verranno qui ad aiutarli.
- E non è così? - chiese Jimmy, speranzoso. - Non verranno altri soldato ad aiutarci? A riprendere il controllo della situazione?
Ethan abbassò lo sguardo. - Non verrà nessuno.


 

4
 

Jimmy passò il resto del pomeriggio sdraiato sul lettino, meditando su quanto Ethan gli aveva riferito. Il governo era caduto, l'esercito distrutto. Ethan aveva perso le comunicazioni con Washington da quasi un giorno e su altri canali c'erano solo silenzio radio e trasmissioni disturbate. Erano da soli. Completamente da soli. Come potevano sopravvivere in un mondo del genere? Come potevano avere un minimo di speranza contro gli infetti? - Ciao - disse un bambino di quattro anni ai piedi del letto.
Jimmy alzò la testa dal cuscino e gli sorrise. - Ciao.
Il bambino arrossì un poco, roteando timido su sé stesso. - Tu sei... Tu sei Jimmy? Quello che, che corre?
- Sì, sono io.
Il bambino si mise un dito in bocca. - Sei arrivato con la tua... con la tua maccila? Io, io ho la tua maccila... è piccola così. - Avvicinò il pollice e l'indice di cinque centimetri. - È bianca con una... con una striccia blu in mezzo.

- Striscia?
- Sì, striccia.
Jimmy si limitò a sorridergli.
- Io, io... posso entrare nella tua maccila? Dov'è? Ha, ha la striccia in mezzo?
- Un giorno potrai entrarci.
- E pecché non adesso?
- Perché la mia auto è dal meccanico. - mentì Jimmy.
- Oh... - Il bambino abbassò gli occhi, rattristito. - Hai, hai fatto un incidente? Io, io faccio scontrare sempre le maccile. È Dive.. è divertente. Faccio così. BRUUUM! POOOF! SPEEEM! Poi, poi faccio venire la polizia, pecché... pecché... - Non trovando le parole, il bambino si imbronciò. - E poi faccio le gare, tante, tante gare e...
- Matt! - disse una donna, avvicinandosi al bambino. - Non disturbare Jimmy. Lascialo riposare. Vieni qui. - Poi si rivolse a Jimmy. - Mi dispiace se l'ha disturbata.
- Non mi ha disturbato - disse Jimmy. - Mi diceva come faceva scontrare le macchine.
- Io, io... - balbettò il bambino.
- Forza, andiamo - aggiunse la madre, che gli afferrò il polso e se lo trascinò dietro.
Jimmy li guardò allontanarsi, poi posò la testa sul cuscino. Non pensò a niente. Si limitò a sentire il continuo bisbigliare della gente. Era confortante.

Due ore dopo, Ethan si fece vivo.
- Ci hai riflettuto? - gli chiese.
Jimmy si mise a sedere sul lettino. - Sì, ma non credo sia una buona idea. Questo posto sembra sicuro. La gente sembra tranquilla, qui.
- Sembra - sottolineò Ethan. - I sopravvissuti non sanno cosa sta succedendo là fuori. - Si avvicinò a Jimmy, per non farsi udire dagli altri. - Non dovrei nemmeno parlartene, ma presto questo posto sarà circondato dagli infetti. Se rimaniamo qui, non potremmo più uscire. Saremmo in trappola. Moriremo di fame o ci massacreranno. Il finale è sempre lo stesso. È importante che tu convinca la gente a spostarsi in quella fabbrica. Ho già mandato alcuni miei uomini a rastrellare il posto. Non dobbiamo fare altro che andarci.
Jimmy non parlò subito. - Come ci muoveremo?
- Ci sono due pullman ha un isolato da qui - rispose Ethan. - Useremo quelli per raggiungere la fabbrica. Non devi fare altro che convincerli.
- Ma non tutti mi seguiranno.
- Lo so, ma la maggior parte lo farà.
- E cosa succederà a quelli che non verranno? Non possiamo abbandonarli.
Ethan deviò il suo sguardo. - È una loro scelta. Non obbligherò nessuno a seguirci. Dobbiamo pensare a quelli che verranno con noi. Avranno bisogno del nostro aiuto.
Rimasero in silenzio per un momento, mentre attorno la gente mormorava e i bambini giocavano facendo attenzione a non fare troppo rumore.
- Lo farai? - Chiese Ethan.
- Sì, lo farò. - Rispose Jimmy, a malincuore.



 

5

 

Mentre Ethan radunava tutta la gente davanti alla scala, Jimmy salì cinque gradini per farsi vedere e udire dagli altri.
- Alcuni di voi mi conoscono come un pilota da corsa e...
- Il pilota numero uno! - lo interruppe il ragazzo di vent'anni, suo fan sfegatato. - Il migliore! Woooh! - Alzò un bracciò in aria.
- Thomas, chiudi quella cazzo di bocca! - aggiunse Ethan, irritato. - Continua, Jimmy.
- Andrò subito al dunque - disse Jimmy. - C'è un posto sicuro non lontano da qui. - La folla rumoreggiò contrariata, ma Jimmy continuò. - Una fabbrica protetta da alte recinzioni. Un luogo sicuro. Lì i bambini potranno correre e giocare in cortile e voi avrete i vostri spazi.
- Non intendo lasciare questo posto - disse un uomo robusto, barbuto, sui quarant'anni. - Là fuori è pieno di pazzi. Io e mia moglie siamo quasi morti. Non ci schioderemo da qui.
Jimmy udì una cacofonia di voci preoccupate, disperate e ansiose. Erano troppe per distinguerle e capire cosa dicessero.
Ethan, le braccia conserte, gli lanciò uno sguardo. Aveva creduto che bastasse una celebrità dalla caratura di Jimmy Gibbs Junior per mettere tutti o quasi tutti d'accordo, ma invece si era sbagliato.
- Io andrò con Ethan! - urlò Jimmy, sovrastando di poco le altre voci. La folla si acquietò e puntò gli occhi su di lu. - Anche se non lo conosco bene, mi fido di quest'uomo. - Indicò il soldato con il dito. - Vuole proteggerci, tenerci al sicuro. È addestrato per affrontare situazioni drastiche, mentre noi non lo siamo. Vi ha protetto fino adesso e credo che tutti voi, me compreso, gli dobbiamo la vita. Per questo vi chiedo di seguirlo, di fidarvi di lui.
La gente si scambiò delle occhiate di assenso e alcuni adocchiarono Ethan, rimasto immobile come una statua.
Jimmy scese i gradini e si avvicinò all'orecchio del soldato. - Credo sia giusto dire loro cosa accadrà a chi rimarrà qui.
Ethan lo fissò, incerto, per un attimo. Poi, mentre tutti lo guardavano, salì tre gradini.
- Sarò sincero con voi - disse. - Avevo scelto di non dirvelo per non spaventarvi, ma credo sia giusto che voi lo sappiate. Tra un giorno, tutta questa zona sarà invasa da un grande orda.
Nei volti dei sopravvissuti cominciò a serpeggiare il panico e la paura. I genitori strinsero i figli, le coppie si abbracciarono e chi era da solo cercava lo sguardo di chi gli stava accanto.
- Vi prego di mantenere la calma - disse Ethan. - Ho un piano e ho bisogno  vostro aiuto. Ci sono due pullman a due isolati da qui. Ci condurranno alla fabbrica in meno di venti minuti.
- E se incontrassimo quelle cose? - chiese una anziana signora, spaventata.
- La strada è libera, ma non lo rimarrà per molto. Ho bisogno che voi prendiate le vostre cose e mi seguiate ai pullman. Dovete essere pronti entro stasera, o domani sarà troppo tardi.

I sopravvissuti si dileguarono e cominciarono a mettere le loro cose negli zaini. I bambini vennero condotti tutti in un angolo e venne detto loro di rimanere qui per non disturbare. Molti si portarono dietro lo stretto necessario, ma altri non avevano intenzione di abbandonare le loro cose.
- È importante - disse la stessa anziana signora che aveva parlato prima. - Non posso lasciarle. No, non posso.
- Non puoi portarti dietro tre valige pesanti - rispose Ethan, calmo. - Un giorno torneremo a riprenderle, ok? Ora dobbiamo solo preoccuparci di raggiungere la fabbrica.
L'anziana signora incrociò le braccia. - Allora rimangono qui. È tutto ciò che mi rimane di mio marito. I suoi vestiti, le sue cose e...
- Ortencia - disse la madre del bambino che aveva parlato con Jimmy. - Anch'io ho delle cose di mio marito, ma non posso portarle. So che resteranno qui al sicuro. Come ha detto Ethan, un giorno verremo qui a riprenderle. Nessuno te le porterà via.
- Ci sono i ladri. Gli sciacalli - rispose l'anziana signora, impaurita. - Porteranno via tutto.
Ethan sbuffò e roteò gli occhi in aria.
- Nessuno ti porterà via niente - aggiunse la donna. - Fidati di me. Vieni. Mettiamo le nostre cose dietro quegli scaffali. Saranno al sicuro. Non li vedrà nessuno. Su, vieni con me.
Jimmy aveva osservato tutta la scena seduto su un gradino della scala. Non aveva nulla da portarsi dietro, come non aveva nessuno a cui pensare. Si sentì tremendamente triste. Uno sconforto che lo colpì come uno schiaffo in pieno viso.
Una sensazione depressiva che riaffiorava intermittente nel tempo. La solitudine gli piaceva, ma non sempre.
Si alzò e raggiunse Ethan alle spalle. Lo guardò rassicurare chi non era mentalmente pronto ad affrontare il viaggio e offrire una parola di incoraggiamento a chi era titubante.



 

6
 

Un'ora dopo, i sopravvissuti erano pronti ad andare. Ethan li fece salire al pianterreno quattro alla volta, due adulti e due bambini, eccettuo le famiglie che si erano rifiutate di lasciare i figli nelle mani altrui. Ethan aveva cercato di persuaderli, ma senza successo. Così era stato costretto ad accettare, sperando che non facessero baccano.
Le persone nello scantinato erano relativamente al sicuro, in quanto i suoni arrivavano ovattati all'esterno. Per accorgersi della loro presenza, gli infetti dovevano stare appiccicati al ristorante.
Ma ora la situazione era cambiata. Bastava un rumore. Uno solo. E gli infetti nei paraggi si sarebbero lanciati contro di loro.
Una decina di soldati sparsi attorno al parcheggio dei pullman, avevano formato un perimetro circolare. Erano nascosti dietro cespugli, veicoli e bassi muretti, e tenevano d'occhio le strade.
Quattro persone uscirono dal retro del ristorante, scortati da tre soldati armati di M60. Seguirono un vicolo che li condusse su un strada a due corsie. Da qui serpeggiarono per un breve tratto tra i veicoli imbottigliati, e s'inoltrarono in un lungo vicolo parallelo. Ottanta metri dopo, raggiunsero il parcheggio dei pullman e corsero verso i mezzi.
La prima coppia era arrivata e altre ne seguirono per mezz'ora. Le famiglie furono lasciate per ultime, poiché molte avevano cominciato a tentennare e altre non volevano più andarci.
Jimmy parlò con loro, cercò di convincerli, ma alcune decisero di rientrare nel ristorante e altri cominciarono a litigare.
- Tu non porterai i nostri figli verso la morte! - disse un uomo dalla pancia prominente, sui cinquant'anni. - Non te lo lascerò fare!
Alcune famiglie si avvicinarono per osservare la drammatica scena.
- Sei uno stupido! - rispose la moglie, una donna della stessa età, mingherlina. - Vuoi farli morire? Perché è questo che accadrà se rimani qui! Quelle cose arriveranno. Arriveranno domani! - Poi si rivolse a Ethan. - Diglielo! Diglielo tu. Non vuole ascoltarmi.
Ethan fece per parlare, ma l'uomo lo anticipò. - Non intrometterti. Non sono cazzi tuoi! - Afferrò i due figli, un maschio e una femmina, di tre e quattro anni, e cercò di trascinarli nel ristorante, mentre piangevano e opponevano resistenza.
La moglie si lanciò contro il marito, tartassandolo debolmente di pugni e schiaffi. - Lasciali andare! Lasciali!
Ethan, Jimmy e altri uomini s'intromisero e tentarono di dividerli.
L'uomo mollò un pugno a Jimmy, mandandolo a terra. Cercò di colpire anche gli altri, che si limitarono a girargli attorno.
- Fottuti stronzi! - urlò l'uomo, irato. - Fatevi avanti! Spaccherò la faccia a tutti quanti!
Irritato, Ethan gli andò incontro, deviò il pugno e lo colpì alla tempia con il calcio della pistola. L'uomo crollò a terra, mentre i bambini corsero ad abbracciare la madre.



 

7


Quando Jimmy riprese i sensi, si ritrovò nel pullman. Era sdraiato su uno dei sedili in fondo, accanto al bambino che giocava con una macchinina. Sentiva il labbro superiore pulsare dal dolore e in bocca il sapore ferreo del sangue. Dai finestrini vedeva scorrere velocemente gli edifici, i veicoli, gli alberi.
- Ti sei, ti sei svegliato - disse il bambino. - Vuoi vedere la mia maccila?
Jimmy fece per parlare, ma si bloccò per un lancinante dolore al labbro.
- Che c'è? - domandò il bambino, inclinando la testa di poco a lato.
Jimmy agitò una mano per dirgli che non era niente.
Confuso, il bambino lo fissò per un attimo. Poi posò la macchinina sullo schienale davanti e, mimando un motore, la fece correre avanti e indietro.
Jimmy si alzò lentamente, poggiando le mani sopra gli schienali. Mentre camminava nello stretto corridoio del pullman, lo gente lo guardava. Raggiunse la parte anteriore del mezzo e notò Ethan alla guida.
- Oh, ehi! - disse il soldato, senza distogliere gli occhi dalla strada. - Come va?
Jimmy si indicò il labbro con il dito.
- Ti passerà.
Si sedette sul sedile accanto e guardò la strada dal parabrezza. Il pullman correva su una strada asfaltata in aperta campagna. Campi, fattorie e staccionate sembravano susseguirsi all'infinito.
Poi il pullman svoltò a destra e, sussultando per le numerose buche, proseguì su una stradina sterrata. Ethan rallentò e afferrò il walkie talkie. - Sono Ethan. Mi ricevi?
Una statica.
- Rodrigo. Mi ricevi?
Un'altra statica.
Ethan sospirò, ansioso. - Sono a duecento metri dalla destinazione. Se mi senti, prepara la squadra e restringi il perimetro a centotrenta metri. Non sappiamo se gli infetti ci abbiano seguito, perciò tenete gli occhi aperti.
Posò il walkie talkie sul cruscotto e si accarezzò la faccia, ansioso.

Il pullman girò a destra e procedette per quaranta metri, fermandosi davanti al cancello della fabbrica. Era chiuso.
Il gabbiotto oltre la recinzione di cemento era vuoto e nel cortile interno non c'era nessuno. La gente cominciò a mormorare tra loro, spaventata.
Ethan spense il motore e si alzò. - Niente panico. Sicuramente sono nella fabbrica. Vado ad avvertirli.
- Aspetta! - disse un uomo, visibilmente preoccupato. - Non puoi lasciarci qui. Non siamo nemmeno armati.
- Non ci vorrà molto. Devo solo controllare.
- Quindi non sei neanche sicuro che siano qui? - L'uomo si guardò intorno in cerca di consensi, che non tardarono ad arrivare.
- Vado io - rispose Jimmy, il labbro che gli pulsava intensamente dal dolore.
Ethan scosse la testa. - No, devo andarci io e...
- È meglio che resti qui. La gente ha bisogno della tua presenza. Li fa sentire protetti.
Ethan lo fissò per un momento. Era indeciso. Doveva andare di persona, accertarsi che non ci fossero problemi. Ma sapeva che la gente non lo avrebbe lasciato andare. Jimmy aveva ragione.
- Ok, ma sbrigati. - Ethan gli allungò la pistola. - Sai usarla, vero?
- No, ma potrei imparare - rispose Jimmy.
- Faresti solo casini. - Ethan rimise l'arma nella fondina. - Prendi questo. Non è molto, ma almeno avrai qualcosa con cui difenderti. Punta la testa. Solo la testa, intesi? Un colpo dritto. Niente fendenti. Niente rovesci. Solo affondi alla testa.
Jimmy annuì e s raggirò nelle mani il grosso coltello da caccia.
- E se... - Ethan si bloccò per un attimo. Poi gli si avvicinò all'orecchio per non farsi udire dagli altri. - E se sono tutti morti, non perdere tempo e vieni subito qui, ok? Non fare cazzate. - Gli posò le mani sulle spalle. - Ora vai. Nel frattempo aspetterò l'arrivo del secondo pullman.



 

8


Jimmy scese dal veicolo e raggiunse la recinzione di cemento alta due metri e mezzo. Per superarla, si inerpicò su una grossa roccia lì accanto e la scavalcò. Una volta dall'altra parte, si nascose dietro un albero. Non si fidava di proseguire lungo il vialetto. Potevano esserci infetti celati dietro cespugli, bassi muretti o tra gli sparuti edifici. Era meglio passare inosservato.
La fabbrica era un grande edificio grigio che troneggiava sulle varie piccole strutture, spiazzi, parcheggi e cortili. Lunghe canne fumarie si elevavano dai vari tetti sovrapposti e grandi finestre rettangolari riflettevano la luce crepuscolare del sole.
Jimmy si diresse al gabbiotto e ci diede una rapida occhiata. Non c'era niente e nessuno. Così proseguì dietro una lunga fila di cespugli, che costeggiavano un vialetto, e arrivò di fronte a un edificio di due piani. Lanciò uno sguardo sulla strada di cemento e corse verso la porta di ferro, senza fare rumore. Tirò la maniglia. Era chiusa.
D'un tratto gli parve di sentire un rumore all'interno e avvicinò l'orecchio contro la porta. Nulla. Rimase in ascolto per un momento, poi si allontanò.
Fece il girò dell'edificio e, muovendosi furtivo dietro i cespugli, si fermò, scioccato, accanto a un alberello. Nove soldati morti giacevano al suolo, in mezzo e dietro a un cerchio di sacchi di sabbia. Una Jeep militare si era schiantata contro un muro e un'altra era finita contro un palo della luce.
Degli infetti non nessuna traccia.
Restò immobile a osservare il massacro, finché udì qualcuno tossire. Lo sentì distante e, mentre si avvicinava, la tosse si fece più forte, più insistente. Sembrava un uomo intossicato, in cerca d'aria.
Jimmy si abbassò e si guardò intorno. Non vide nessuno, eppure quell'orrendo suonò si avvicinava rapidamente. Sentiva il cuore in gola per il terrore, ma rimase calmo.
Poi scorse qualcosa sul tetto. Una figura alta, magra, che si muoveva zoppicando. Una nebbiolina verdastra le cingeva la testa e al suo passaggio quella sorta di nebbiolina aleggiava nell'aria per un momento.
Jimmy sentì le gambe pietrificarsi. Quella cosa zoppicò fino a un tubo pluviale, ci si aggrappò e scese a terra. Restò immobile per un lungo momento, poi cominciò a tossire con la testa inclinata un poco a lato e fissò qualcosa davanti a se. Qualcosa che riusciva a vedere solo l'orrenda creatura. Poi si mosse lungo la facciata dell'edificio e scomparve dietro l'angolo.
Jimmy si sentì sollevato nel vederlo andare via, ma un principio di paranoia si insinuò nella mente. E se ci fossero altre di quelle cose nei paraggi?



 

9


Mentre rifletteva, sentì qualcuno gridare, seguita da una cacofonia di spari. Provenivano dall'edificio di fronte. Corse verso i sacchi di sabbia, dimenticandosi della creatura che aveva visto. La superò e si appiattì contro il muro. Da lì spiò attraverso una finestra. Vide solo scaffali pieni di cianfrusaglie e alcuni tavoli e sedie sparsi per la stanza.
Gli spari continuarono e le grida di dolore lacerarono il silenzio. Jimmy proseguì lungo il muro, finché arrivò davanti a una porta di ferro abbattuta. Sotto la soglia, un soldato morto, la schiena dilaniata, la spina dorsale esposta.
L'ingresso era avvolto dalla penombra e Jimmy si avvicinò piano. Gettò un occhiata all'interno e guizzò le orecchie. Solo silenzio.
Una volta entrato, seguì il corridoio. Lo condusse nell'ampia stanza che aveva visto da fuori. Proseguì tra gli scaffali, il coltello da caccia alzato. Uscì dalla stanza e s'incamminò lungo un corridoio. Da qui sbucò in una camera. Erano gli uffici. Pareti divisori di plastica, sedie, scrivanie, schedari, tutto era stato spazzato via, travolto come da una violenta tormenta. Schizzi di sangue sulle pareti e sul pavimento sui cui erano sparsi una moltitudine di fogli.
Jimmy restò immobile sotto lo stipite. Non vide nessun cadavere. Di chi è tutto quel sangue? Pensò.
Facendo attenzione a non fare rumore, attraversò gli uffici e uscì nel corridoio. Qui vide un militare morto, due profondi tagli sul petto e un braccio mozzato sopra il gomito. L'arto era sparito. Il viso grigiastro, gli occhi velati con qualche puntino rosso e le labbra sporche di sangue.
Non sapeva se anche gli altri soldati si fossero trasformati o se questi venissero da fuori. Una voce gli diceva di tornare indietro, di avvisare Ethan, ma un'altra gli suggeriva di continuare a perlustrare il posto, di essere certo che fossero tutti morti.
Era combattuto. Non sapeva cosa fare.

Meditò per due minuti, poi prese una decisione. Avrebbe continuato.
Camminò nel corridoio e svoltò a destra. Lungo le mura, tre porte. La prima era chiusa a chiave. La seconda era un piccolo sgabuzzino. La terza era una sala ristoro. Qui i distributori erano stati coricati su un lato e un soldato morto giaceva su uno di essi. Il sangue imbrattava il pavimento e le pareti forate dalle pallottole. Altri corpi erano accatastati vicino a un tavolo. Erano tutti infetti.
Jimmy afferrò il mitra leggero poco distante dalla mano del militare. Non aveva idea di come usarla, ma credeva che bastasse puntare e sparare. Alla fine si convinse che fosse così e ignorò ciò che gli aveva detto Ethan sul rinculo.
Dalla sala ristoro, uscì su un corridoio parallelo e raggiunse l'unica porta in fondo. L'aprì lentamente. Non avrebbe dovuto farlo.



 

10


Nell'enorme salone, un centinaio di infetti vagavano tra le macchine di montaggio. I pallidi raggi della luna filtravano attraversi gli ampi lucernari. Gli infetti vomitavano, si urtavano, si menavano. Altri barcollavano, si sdraiavano, poggiavano la testa contro il muro o la scuotevano in balia di un tic nervoso. Tra di loro c'erano diversi soldati.
Spaventato, Jimmy socchiuse la porta con estrema cura.
Li aveva visti. Erano tutti morti.
Tornò rapidamente indietro, stando attento a non fare rumore. Appena uscì dalla fabbrica, una cacofonia di spari ruppe il silenzio. Provenivano dal pullman.
Proseguì di soppiatto dietro la fila di cespugli e, quando arrivò a sessanta metri dal gabbiotto, sentì un rumore acuto. Gli infetti si lanciarono fuori dalle finestre, frantumando i vetri. Altri saltarono giù dai tetti. Le grida di centinaia di infetti assopirono gli spari. Si precipitarono impazziti lungo il vialetto.
Jimmy si appiattì sul terreno, terrorizzato, e si coprì la testa con le braccia. Mentre gli sfrecciavano accanto, alcuni inciamparono sul suo corpo, ma si rialzarono subito e continuarono a correre. Gli spari cominciarono a scemare, finché si udì solo una moltitudine di gemiti. Nessun infetto lo aveva notato.

Quando si alzò sulla ginocchia, Jimmy lanciò uno sguardo verso il cancello. Era stato divelto dalla furia cieca degli infetti, che barcollavano lì davanti. Il tetto del pullman si ergeva sulle loro teste e Jimmy scorse l'altro pullman poco più indietro.
Abbassò gli occhi, lucidi. Perché avevano aperto il fuoco? Si chiese. Contro chi sparavano? Forse contro l'infetto speciale che aveva visto poco prima? La strana cosa avvolta da una nube verdastra?
Sapeva di non poter andare a controllare. L'unica speranza era che si erano salvati. Magari non tutti, ma qualcuno sì. Non potevano essere tutti morti. Non ci voleva credere.
- Gesù... - bisbigliò, sorprendendosi nel sentire la sua voce inorridita. - C'erano dei bambini... dei bambini...
Disperato, si portò una mano sul viso paonazzo. Una rabbia amara si fece largo nella sua mente. Fissò il coltello da caccia, la pallida luna riflessa sulla lama.
Strinse il manicò, finché il palmo gli fece male. Allora allentò di poco la presa e continuò a guardarla per un lungo momento. Poi buttò fuori tutta l'aria dai polmoni, si alzò e si allontanò.



 

11


Seguì un basso muretto di cemento che costeggiava un lungo edificio e si trovò davanti a un cancello chiuso. Nel gabbiotto dalle finestre rotte, trovò il corpo di una guardia, il viso tumefatto. Accanto al cancello, una porta con sbarre di ferro orizzontali. Era chiusa. Si mise il mitra leggero a tracollo, posò un piede fra le sbarre e si arrampicò.
Quando scese dall'altra parte, quello che vide gli fece venire una fitta allo stomaco. A trecento metri, un'orda di infetti marciava caotica lungo la strada. Riusciva a sentire i gemiti farsi più vicini.
Jimmy restò pietrificato per un momento, poi si guardò intorno, sconvolto. Entrambe le direzioni erano bloccati dagli infetti. Gli rimaneva solo una direzione da prendere.
Si abbassò e corse dritto verso gli alti alberi. Si nascose dietro i folti cespugli, non sapendo cosa fare. Non poteva incamminarsi nel bosco di notte. Potevano esserci altri infetti o infetti speciali, o tutte due le cose. E con il buio che c'era, non li avrebbe visti arrivare. La luna non era abbastanza luminosa per penetrare tra le fronde.
Così attese per un momento. Mentre l'orda si avvicinava, Jimmy poteva udire i loro gemiti sovrastare qualsiasi rumore. Continuarono a barcollare in avanti senza uscire dal bordo della strada. Sembravano seguire una direzione precisa, come se si fossero messi tutti d'accordo.
Pensò che comunicassero con i gemiti, ma scartò subito quel pensiero. Era impossibile. Erano guidati da una furia passiva-aggressiva. Non potevano essere intelligenti. Anzi, non avevano nemmeno l'istinto di autoconservazione. Il loro unico scopo sembrava essere l'annientamento dell'umanità.
Mentre l'orda continuava a spostarsi con assoluta calma, Jimmy sperava che nessuno di loro lo vedesse o uscisse dalla strada. Incrociò le dita e cominciò a pregare internamente. Chiese al suo Dio di avere salva la vita, di portare gli infetti il più lontano possibile.
Poi un infetto mise un piede in fallo e razzolò giù dall'avvallamento.
Jimmy sussultò, spaventato, nel vederselo a pochi metri. L'infetto alzò la testa e, urlando a squarcia gola, gli si lanciò contro. Jimmy alzò il mitra leggero e fece fuoco. L'infetto venne falciato da una raffica di pallottole che, trapassandolo, proseguirono la loro corsa fino a colpire il terreno alle sue spalle.
Tutta l'orda si voltò verso gli spari, urlando a squarcia gola. Discesero l'avvallamento in preda a una furia cieca.
Jimmy rimase pietrificato per un attimo, poi si mise a correre. Vedeva poco o niente. I raggi della luna non riuscivano a sfiorare il terreno irregolare e la folta vegetazione formava muri naturali che ne impedivano il passaggio. S'inerpicò su una roccia, saltò dall'altra parte e salì una piccola duna rocciosa. Alle sue spalle, le urla degli infetti echeggiavano fra gli alberi. Non si voltò nemmeno una volta, per paura di vederseli alle spalle e di pietrificarsi. Ma sapeva che lo stavano inseguendo e che non lo avrebbero mollato tanto facilmente.
Superò una serie di contorti e aggrovigliati cespugli e si ritrovò su una strada sterrata. In lontananza, la spettrale sagoma di una fattoria illuminata dalla luna. Corse verso l'edificio, finché notò un furgoncino abbandonato sul ciglio della strada. Quando controllò rapidamente l'abitacolo, una donna infetta, che sembrava morta sul sedile passeggero, lo afferrò per la giacca. Lo strattonò e cercò di sferrargli pugni in faccia.
Jimmy riuscì a liberarsi dalla presa e le sparò. Il cranio implose, pezzi di cervella e cranio macchiarono la tappezzeria e il parabrezza. La donna infetta si accasciò sul sedile passeggero.
Mentre gli infetti sbucarono dalla vegetazione e si riversarono in massa sulla strada sterrata, l'uomo correva verso la fattoria.



 

12


Jimmy si chiuse nell'abitazione. Sbarrò la porta con il tavolo e si precipitò al piano di sopra. Non controllò nemmeno se l'abitazione fosse vuota. Si rifugiò nella camera da letto, che aveva una veranda sul davanti. Quando spiò da dietro la tenda, scorse l'orda di infetti precipitarsi verso la fattoria. Altri ne uscivano dal bosco.
- Sono spacciato... - si sentì dire in un sussurro.
Gli infetti si ammassarono attorno l'edificio, finché non furono più in grado muoversi. Cominciarono a martellare di pugni la porta e le assi di legno inchiodate alle finestre. Alcuni provarono ad arrampicarsi sulle spalle degli altri per raggiungere la veranda, ma caddero al suolo e vennero calpestati.
Jimmy chiuse la porta della camera da letto e la sbarrò con un armadio. Si guardò intorno, confuso. Non sapeva cosa fare.
Poi le assi di legno vennero sradicate, la porta abbattuta. Gli infetti si catapultarono all'interno, urlando infuriati.
Jimmy si chiuse in un armadio incassato in un muro. Li sentì salire al piano di sopra e tartassare di pugni la porta. Poi l'armadio iniziò a barcollare sotto i loro colpi, finché venne giù insieme alla porta. Jimmy vide gli infetti sciamare all'interno attraverso la fessura nella doppia porta dell'armadio.
D'un tratto le grida si acquietarono e gli infetti cominciarono a barcollare.

Rimase nell'armadio per un giorno e mezzo. Aveva fame e sete, ma non poteva uscire da lì. Gli infetti vagavano ancora nella stanza e non sembravano avere l'intenzioni di allontanarsi. L'aria era ammorbata dal vomito nero cosparso sul pavimento. Jimmy si era coperto naso e bocca dentro il collo della maglietta, ma la puzza filtrava ugualmente. Mentre lo stomaco gli brontolava, diversi infetti scattarono la testa all'indietro, irritati. Non capivano da dove provenisse quel suono, così ritornarono a barcollare, a sdraiarsi, a poggiare la testa contro il muro.
Jimmy fissava esausto il mitra leggero che aveva in mano. Un cupo pensiero si fece largo nella mente. Non voleva morire di fame o di sete. Avrebbe preferito farlo affrontando quelle cose. Così si decise che l'avrebbe fatto.
Respirò a lungo, cercando di non tossire per via dell'acre odore. Appena fece per aprire la doppia porta dell'armadio, udì un rombo di motori fuori dall'edificio.
Gli infetti urlarono e si lanciarono letteralmente fuori dalla veranda. Una cacofonia di spari sovrastarono le gride.
Jimmy uscì dall'armadio e sbirciò dalla finestra. Cinquanta contadini, protetti dietro furgoni e auto, sparavano contro gli infetti. Vennero crivellati uno dopo l'altro in una manciata di minuti. Poi gli uomini si misero a girovagare tra i cadaveri, sparando in testa agli infetti ancora in vita.
Quando Jimmy si voltò, vide un uomo che gli puntava un fucile alla testa.
- Merda, stavo per farti saltare la testa, amico - disse l'uomo, abbassando l'arma. Era sulla sessantina, barba e capelli grigi arruffati e increspati. Indossava un pantalone e una maglietta sporchi di terra. - Che ci fai in casa mia?
Jimmy balbettò qualcosa di incomprensibile.
- In altre situazioni non ci avrei pensato due volte a spararti, - disse l'uomo, - ma questa volta faccio un eccezione. Dio! Guarda il pavimento. È un lago di vomito. Cristo, che puzza!

Scesero al piano di sotto e raggiunsero gli altri uomini, che osservavano il casino lasciato dagli infetti.
- Ehi, chi è quel tizio? - chiese un vecchio stempiato.
- L'ho trovato di sopra - rispose l'uomo dai capelli arruffati.
Gli uomini squadrono Jimmy, diffidenti.
- Quello è un mitra che usano i militari? - domandò un giovane dalla faccia sporca di terra. Poi si rivolse all'uomo dai capelli arruffati. - È uguale a quello che abbiamo visto sull'autostrada, Mike.
Gli altri annuirono.
Mike guardò Jimmy. - Dove l'hai preso?
- Da... Da un militare morto.
- Dove?
- Alla fabbrica.
Mike aggrottò la fronte, pensieroso. - La fabbrica di mattoni?
- Non lo so... Voglio dire, non so se era una fabbrica di mattoni. So solo che lì c'erano dei soldati.
- Quella fabbrica è infestata dagli psicopatici - aggiunse il giovane. - Non c'erano soldati.
- Si, c'erano - rispose Jimmy. - Il sergente Ethan ci aveva portati lì. Diceva che era un posto sicuro.
- Beh, lo era fino a tre giorni fa - disse Mike. - Poi qualcosa ha attirato gli psicopatici. Devono essere stati i soldati. Quindi il vecchio Tom aveva ragione, pace all'anima sua. - Si fece il segno della croce, seguito dagli altri. - Aveva visto tre Jeep militari dirigersi da quella parte.
Non gli abbiamo creduto, ma...
- Meglio così - lo interruppe il giovane con fare sfrontato. - Se avessimo seguito i suoi consigli, gli psicopatici ci avrebbero ammazzati insieme a quegli idioti.
Tutti lo guardarono torvo, ma nessuno gli rispose.
- Eri con l'esercito? - chiese Mike.
- Sì, mi avevano salvato da un brutta situazione - rispose Jimmy. Poi gli raccontò tutto ciò che gli era successo.
- Sono tutti morti - disse il giovane.
Jimmy si limitò a guardarlo, torvo.
- Non badare a ciò che dice - aggiunse Mike. - I giovani sono impulsivi. Credono di sapere tutto.
- Parla per te, vecchio!
Mike lo fulminò con lo sguardo e il giovane uscì dall'abitazione, imprecando tra i denti.
- Abbiamo sentito che la CEDA ha allestito un centro di evacuazione in città - disse il vecchio stempiato. - Tu ne sai qualcosa? Non mi sembri un tipo da campagna.
Tutti lo guardarono, interessati.
Jimmy alzò le spalle.
- Noi volevamo dargli un'occhiata, - aggiunse Mike, - ma non eravamo sicuri che... Beh, fosse una buona idea. Quindi abbiamo preferito passare dalla mia fattoria e armarci.
- Armarvi? - Domando Jimmy, perplesso.
- Giù in cantina ho molte casse di munizioni. La mia passione per le armi ci ha salvati tutti - sorrise. - E sembra che siamo arrivati anche in tempo a salvarti la vita.
Jimmy si portò una mano dietro la testa, imbarazzato. - Sì, io... avevo deciso di affrontarli, ma... poi siete arrivati voi, per fortuna. Non so cosa mi sia passato per la testa. Forse è stata la fama o la sete, o tutte due le cose a farmi prendere una decisione simile. Ma grazie per avermi salvato.
- Non preoccuparti - disse Mike, avvolgendogli la spalla con un braccio. - Con noi sei al sicuro. E poi sembra che Dio abbia vegliato su di te, non trovi?
Jimmy non era un credente. Si definiva ateo, ma nelle situazioni cupe e tragiche della sua vita si era ritrovato a pregare. Sapeva di essere un ipocrita, ma la disperazione gli portava a fare cose assai più strane.
- Sì, Dio mi ha protetto - rispose, senza tanta convinzione. Non sapeva se crederci o meno. Poi il suo stomaco brontolò intensamente.
Mike allontanò il braccio. - Sembra che qualcuno abbia fame, qui - gli sorrise. - Little John, dagli da mangiare e bere. E voi altri, venite con me. Dobbiamo caricare le casse sui furgoni. Andiamo!



 

13


l'anziano stempiato di nome Little John, condusse Jimmy fuori dall'abitazione e lo portò accanto a un auto bifamiliare la cui carrozzeria era graffiata, insanguinata e piegata in alcuni punti. Al posto dei finestrini, rete metalliche.
Little John notò lo sguardo turbato di Jimmy rivolto al veicolo. - Abbiamo incontrato un sacco di psicopatici lungo la strada - disse, aprendo il portabagagli. - Alcuni avevano circondato quest'auto. Era del vecchio Tom prima che... Beh, è morto. Lo hanno ucciso quei bastardi. O meglio, si è fatto uccidere. Ultimamente non ci stava più con la testa e credo sia comprensibile per un uomo di novantasette anni. - Si mise a rovistare negli scatoloni.
Jimmy osservò i furgoni e le macchine. - Perché li chiamate psicopatici?
- Bella domanda - rispose il vecchio, dandogli una scatoletta di tonno e un bottiglietta d'acqua. - Non è molto, ma basterà a farti restare in forze. Dobbiamo razionare le provviste. E quando arriverà l'inverno, beh... Speriamo di recuperare altro cibo, finché il raccolto non sarà pronto. Scusami, mi sto dilungando. Cosa avevi detto?
Jimmy cominciò a mangiare il tonno servendosi delle dita - Gli psicopatici - disse con la bocca piena. - Perché li chiamate così?
- Ah, sì. Quelle persone sono impazzite, no? Voglio dire, non sembrano mostri o demoni usciti dall'inferno. Sono solo impazziti. Hanno qualcosa che non va, lo so, ma forse un giorno torneranno normali. Forse sono solo malati o... beh, per me e gli altri viene naturale chiamarli così.
Jimmy bevve un lungo sorso d'acqua. - Grazie per il cibo e l'acqua.
- Figurati - sorrise il vecchio. - Comunque mi chiamo John Harrison, anche se tutti mi chiamo Little John. Credo tu possa immaginarne il motivo.
Jimmy lo indovinò subito. Era palese, d'altronde. Little John era basso, tarchiato e con una ragnatela di rughe sul viso. I pochi ciuffi capelli bianchi gli svolazzavano sulla testa.
- Piacere mio. Io sono Jimmy Gibbs Junior. Vorrei stringerti la mano, ma le ho sporche d'olio.
Little John puntò il dito verso un pozzo in lontananza, vicino a un ontano solitario. - Laggiù c'è un pozzo. Usa il secchio attaccato alla catenella per riempirlo d'acqua. Puoi anche berla, se vuoi. Visto che ci sei, riempi la tua bottiglietta.
Jimmy annuì e si diresse al pozzo. Una volta arrivato, afferrò il secchio e lo lasciò cadere nel pozzo. Lo sentì urtare e affondare nell'acqua. Poi lo tirò su con la catenella e lo appoggiò sul parapetto del pozzo. Due mosche morte galleggiavano nell'acqua. Le tolse e bevve un po'. Infine si sciacquò le mani e riempì la bottiglietta.
Appena fece per andare da Little John, il giovane lo raggiunse.
- Ho capito chi sei - disse. - Sei Jimmy Gibbs Junior, il pilota sportivo. Quello che vince tutte le gare. Io sono Jonas Harrison, il nipote di Little John.
- Sì, sono io - rispose lento Jimmy.
- Sono un tuo fans, eppure non ti ho riconosciuto per... per come sei conciato. Merda, se non era per quel tuo modo di camminare spavaldo, ti avrei confuso con qualcun altro.
- Devo andare. Little John mi aspetta. -
- Dicevo sul serio, prima - disse Jonas. - I tuoi compari sono morti. Li ho visti. Anzi, li abbiamo visti.
Jimmy si fermò e si voltò a guardarlo, preoccupato. - Visti?
- Abbiamo seguito dalla distanza un pullman e tre jeep militari diretti alla fabbrica. Lì c'era un altro pullman e un'altra jeep militare. I soldati si stavano difendendo dagli psicopatici, ma sono stati sopraffatti. Gli altri soldati che erano appena arrivati, hanno cercato di aiutarli, ma hanno fatto la stessa fine. Poi gli psicopatici sono entrati nei pullman e abbiamo sentito un mucchio di urla. Donne, bambini, uomini. - Fece una pausa. - Il vecchio Tom voleva aiutarli, ma Mike non ha voluto. Ha detto che saremmo morti anche noi. Beh, sembrerò uno stronzo egoista, ma Mike ha fatto la scelta giusta e non sono l'unico a pensarlo. Saremmo morti se li avessimo aiutati. Erano troppi. Mai visti così tanti psicopatici in una volta sola.
Jimmy abbassò gli occhi umidi per un momento. Un'intensa rabbia si propagò in tutto il suo corpo, ma rimase calmo, in silenzio. Erano morti. Non aveva senso arrabbiarsi con Jonas, Mike, Little John o gli altri. Capiva il loro gesto, ma una parte di lui gli diceva il contrario.
Decise di non ascoltarla. Dopotutto, Mike e gli altri lo avevano salvato la vita e dato da mangiare e bere.
Così si voltò e raggiunse Little John.

Mike e gli altri caricarono una ventina di casse piene di proiettili sui furgoni. Poi si fermarono a mangiare e bere. I primi raggi del sole spuntavano timidi sopra le fronde degli alberi e un venticello gelido cominciava a soffiare da oriente.
- Ehi, non ci siamo ancora presentati, tu ed io - disse Mike. - Mi chiamo Mike Lewis.
Jimmy gli strinse la mano. - Jimmy Gibbs Juniors. Piacere mio.
Mike aggrottò la fronte, pensieroso. - Mmmh... Mi sembra un nome familiare. L'ho sentito da qualche parte.
- È un pilota sportivo - aggiunse Jonas, avvicinandosi. - Il tizio che vince tutte le gare.
- Ah, sì... - Mike si rattristì. - Mio figlio era un tuo grande fans. Non si perdeva mai una tua gara... - gli occhi si umidirono. - Scusami, devo andare a controllare una cosa.
Quando Mike si allontanò, Jonas disse. - Ha perso suo figlio. Si chiamava Francis. L'ha perso insieme a sua moglie Lana
- Mi spiace - rispose Jimmy.
- Anch'io ho perso i miei genitori, come del resto anche gli altri.
- Ma non sembri aver accusato il colpo.
Jonas serrò gli occhi, minaccioso. - Ehi! Che cazzo ne sai tu?
Tutti si voltarono verso di loro.
- Tu non sai un cazzo di me e di come sto! Stronzo! - Jonas gli tirò uno spintone.
- Ehi, Jonas! - urlò Mike, uscendo dall'abitazione. Si fermò sotto il portico. - Non schiamazzare come un gallo. Vuoi attirare gli psicopatici qui, idiota?
Il volto di Jonas diventò paonazzo dalla rabbia. Little John gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla, provando a calmarlo.
- Non mi toccare! - gridò Jonas, scacciando la mano. Poi si allontanò, infuriato, verso il fienile abbandonato.
Mike e gli altri raggiunsero Jimmy.
- Cosa è successo? - domandò Mike, turbato.
- È colpa mia - rispose Jimmy. - Mi ha detto che ha perso i suoi genitori e io gli risposto che non ne sembrava provato.
Tutti lo guardarono, indignati.
- È stato insensibile da parte tua dirgli una cosa del genere - rispose Little John. - Mio nipote è solo un ragazzo. Anche se da fuori sembra sfrontato e si atteggia a fare il duro, dentro è molto sensibile.
- Devi sapere che ha visto i suoi genitori morire davanti ai suoi occhi - aggiunse Mike. - Per un po' si è isolato. Non parlava con nessuno. Poi ha iniziato a farlo, anche se non era più il Jonas di prima.
- Non c'è bisogno che gli spieghi cosa è accaduto a mio nipote - disse Little John, infastidito.
Mike deviò lo sguardo e arricciò un angolo della bocca.
- Non volevo offenderlo - disse Jimmy, sentendosi in colpa. - Dico davvero. Non volevo farlo.
- Non preoccuparti - rispose Little John. - Mettiamoci una pietra sopra. Ma se vuoi un consiglio da un vecchio ringrinzito, chiedigli scusa. Lui capirà, magari non subito. Ma lo farà.



 

14


Passato il mezzodì, erano pronti a partire. Jimmy non sapeva per dove, come non sapeva se l'avrebbero portato con loro. Così andò da Mike e Little John, che erano vicino al pozzo, in disparte dagli altri. Parlavano animatamente.
- Vale la pena dare un'occhiata, no? - chiese Mike. - Magari la CEDA può aiutarci.
- Secondo me, non è una buona idea - rispose Little John. - Abbiamo visto la città cadere, l'esercito annientato e molti centri evacuazioni distrutti. Cosa ti fa pensare che lì vada tutto bene? Ti ricordo che quel centro si trova vicino al centro commerciale. Quel posto dev'essere pieno di psicopatici, ne sono sicuro.
- Ne sono consapevole, ma dobbiamo dare un'occhiata. Il cibo non basterà per tutti e il raccolto è ancora lontano. Inoltre, l'inverno è alle porte e, se non troviamo delle provviste, moriremo tutti. - Mike fece una pausa, pensando al da farsi. - Ok, supponiamo che il centro evacuazione sia stato invaso...
- Certo che è stato invaso - lo interruppe Little John. - La gente è andata dritta al centro commerciale quando le cose sono andate in malora. Usa la testa, Mike. Quel posto brulica di infetti. Non rischiamo.
Mike sospirò. - Va bene, ma abbiamo bisogno di cibo. Lo capisci, Little John? Gli altri centri erano forniti di provviste e questo non dev'essere diverso. Se poi troviamo la CEDA a...
- La CEDA è svanita assieme all'esercito - aggiunse Little John. - Siamo soli. Spero che tu lo capisca, primo o poi.
Quando Mike fece per andare via, vide Jimmy. - Ah, sei qui. Stavi origliando?
- No, non era mia intenzione - rispose Jimmy, imbarazzato. - Ero venuto a chiederti se sarei venuto con voi?
- Certo, che verrai con noi - disse Little John. - Mica possiamo lasciarti qui. A meno che tu non abbia altri piani.
- Che piani potrebbe avere? - sbuffò Mike in un sorriso. - Il mondo è andato a puttane. Dove potrebbero andare?
Little John lo guardò, stizzito. - Dalla sua famiglia, se ne ha una.
- Sono da solo - rispose Jimmy. - Da sempre, si può dire. Non ho mai un posto dove andare. Sono cresciuto in un orfanotrofio.
Mike e Little John rimasero in silenzio per un momento.
- Allora sei dei nostri, Jimmy - sorrise Mike.
- Grazie mille! - aggiunse Jimmy, felice. - Non voglio farmi gli affari vostri, ma ho sentito che parlavate di un centro commerciale.
I due lo guardarono interessati.
- Io vengo da lì - continuò Jimmy. - Voglio dire, sono fuggito da lì. Il posto è infestato dagli infetti e il centro di evacuazione è stato invaso.
- Il centro commerciale? È sicuro? - chiese Mike.
- Non credo. Ero lì a firmare le copie del mio libro quando è scoppiato il caos. Non credo sia sicuro.
- Certo che non lo è - disse Little John. - È un edifico grande. È impossibile difenderlo senza avere a disposizioni molte persone.
- Non fai che lamentarti - rispose Mike, irritato. - Sto cercando di farci sopravvivere tutti e tu non fai che remarmi contro. Abbiamo bisogno di...
- Non ripeterti come un disco rotto - lo interruppe Little John. - So che hai buone intenzioni, ma non posso mandare te e gli altri incontro alla morte. Non stai ragionando lucidamente, Mike. Basta una sola orda per essere spacciati. E quel centro commerciale ne può avere all'interno più di una. Centinaia di psicopatici, se non migliaia. Non posso lasciartelo fare. Non posso.
Mike non parlò subito. - Non sei tu a decidere, Little John. Faremo una votazione. Sarà la maggioranza a decidere.
- L'ultima volta la maggioranza ci ha quasi uccisi - disse Little John. - Avevano votato per recuperare le provviste dal magazzino di Roberson e com'è finita? Un massacro. Ci vuole un leader. Qualcuno che decide per tutti. E tu lo sei, Mike. Non farti condizionare dagli altri.
- Di nuovo questa storia - sbuffò Mike, irritato. - Conoscevano le conseguenze. Non sono stupidi come tu vuoi far credere. Hanno votato e ora voteranno di nuovo. - Si girò e andò verso gli altri, che aspettavano vicino ai veicoli.
- Ci farà morire tutti con quel finto atteggiamento da democratico. - Aggiunse Little John tra i denti.



 

15


Il convoglio lasciò la fattoria e si diresse verso la città. Lungo la strada asfaltata, cinta ai lati da fitti boschi, videro solo macchine abbandonate e cadaveri. Ogni tanto si fermarono per controllare gli abitacoli e più delle volte trovarono poche o niente provviste.
Continuarono a muoversi per un'ora e mezza, poi si fermarono a sessanta metri da una stazione di benzina. Mike, Little John e Jimmy scesero dall'auto, seguiti dagli altri.
Gli uomini armati formarono un cerchio a protezione del convoglio.
- Voglio alcuni uomini alla guida pronti a partire in caso di problemi - disse Mike a tutti. - Chi si offre volontario per perlustrare la stazione di benzina?
- Io - rispose Jonas, mentre Little John lo rimproverava con gli altri. Era l'unico nipote che gli era rimasto. L'unico membro della famiglia sopravvissuto. E non faceva altro che offrirsi volontario nelle perlustrazioni.
- Altri? - aggiunse Mike, scrutando le facce ansiose del gruppo.
Jimmy si fece avanti. - Conta pure su di me. Sono in debito con tutti voi, e questo è il minimo che possa fare.
Jonas lo guardò, torvo.
Altri tre uomini si fecero avanti dopo un lungo momento.
- Oh, abbiamo finalmente una squadra - disse Mike, poco frustrato. - Jonas, tu guiderai il gruppo. Hai più esperienza. Se trovi degli psicopatici, torna indietro. Non rischiare.
- Non c'è bisogno che me lo ripeti - sbuffò Jonas. - So già cosa fare. - Poi si rivolse alla squadra. - Andiamo!

Si allontanarono dalla strada e s'incamminarono nell'erba alta. Jimmy imbracciava il mitra leggero e gli altri fucili da caccia e pistole. Quando arrivarono accanto al muretto di mattoni che limitava la stazione di benzina dai boschi, Jonas fermò il gruppo. Osservarono le quattro auto abbandonate vicino alle pompe di benzina, l'ingresso di un piccolo negozio e un'officina coperta da un gazebo poco distante. Non sembravano esserci infetti. Rimasero a guardare per due minuti.
Poi Jonas si voltò. - Rimanete vicini. Muoviamoci!
Scavalcarono il muretto e, restando bassi, si avvicinarono dietro una berlina grigia. Da qui guardarono le finestre infrante del negozio. Non sembrava esserci nessuno all'interno. Aspettarono per un momento, poi raggiunsero l'entrata. Jonas lanciò un occhiata nell'entrata ed entrò per primo, seguito da Jimmy e gli altri tre.
Il negozio era stato saccheggiato. Molti scaffali e macchinette erano sul pavimento insanguinato, le porte dei frigoriferi rotte o infrante.
Decine di corpi sparsi nel locale. Erano persone sane uccise a colpi di pistola. Perlustrando il locale, Jimmy si accorse che non c'era nemmeno un infetto tra i morti. Non ne era sicuro, in quanto non sapeva se gli infetti avessero tutte facce grigiastre e occhi iniettati di sangue. Ma l'intuito gli diceva che non si sbagliava.
- Ehi, guardate qui! - disse un uomo barbuto. - Cos'è questa cosa?
Gli altri lo raggiunsero, tappandosi subito naso e bocca. Il tanfo di putrefazione era quasi insopportabile.
- Cazzo, che puzza! - aggiunse un uomo con la camicia rossa, allontanandosi per non vomitare, ma non ci riuscì. Rigettò sul pavimento pezzettini di tonno immersi in una schiuma bianca.
Jimmy sapeva cos'era quella cosa. - L'ho già visto - disse. - È uno Smoker.
- Un che? - rispose Jonas, stranito.
- Credo sia una mutazione, ma non ne sono sicuro. Ne ho visto uno alla fabbrica di mattoni. Camminava sul tetto. Sembrava in ascolto, o qualcosa del genere. Non ne avete mai visto uno?
Jonas si limitò a guardarlo. Gli altri quattro si scambiarono delle occhiate, confuse.
- Quella cosa cos'è? - chiese l'uomo barbuto. - La sua lingua? È lunghissima.
- Basta così - aggiunse Jonas. Poi si rivolse all'uomo con la camicia rossa. - Dominic, sorveglia la porta. Gli altri con me.
Si misero a perlustrare il negozio, passando tra gli scaffali ancora in piedi. Poi entrarono in un corridoio su cui lati c'erano tre porte, e un'altra in fondo. La prima stanza era un piccolo sgabuzzino. La seconda un ufficio. La terza un piccolo magazzino. Non trovarono nulla. Gli infetti non vi erano mai entrati.
Quando arrivarono davanti all'ultima porta, Jonas l'aprì lentamente tenendola socchiusa. L'interno era buio e un fascio di luce che arrivava dal corridoio illuminò un lavandino.
Jonas diede una rapida occhiata al bagno, poi chiuse la porta.
- Torniamo indietro - disse.



 

16


Arrivarono all'ingresso del locale e notarono che Dominic non era di guardia alla porta. Turbati, uscirono fuori e si guardarono intorno.
- Dove diavolo è andato? - chiese l'uomo barbuto.
- Forse è andato a pisciare - rispose l'uomo dagli occhi incavati.
- Andiamo a controllare l'officina - aggiunse Jonas.
Attraversarono lo spiazzo e si fermarono davanti al gazebo, dove c'erano varie casse, banconi e un furgoncino senza ruote. Videro un corpo steso su un fianco che dava loro le spalle. Non sembrava Dominic.
Lo girarono per curiosità e videro qualcosa che non avevano mai visto. Era un Hunter. Sul petto, un lungo squarcio obliquo.
- Cazzo! Un altro mutante - disse l'uomo barbuto, guardandosi intorno.
- Rimani calmo - rispose Jonas. Poi guardò Jimmy in attesa di una risposta.
Quello sollevò le spalle. - Non ho mai visto nulla del genere.
Inorriditi, rimasero a fissare l'Hunter per un momento.
- Facciamo il giro della stazione di benzina - disse Jonas. - Se Dominic è qui, lo troveremo.
- E se non lo è? - chiese l'uomo barbuto.
Jonas non rispose subito. - Lo troveremo. Non può essere andato lontano. Magari è tornato al convoglio. Non è la prima volta che sparisce senza avvertire.
L'uomo barbuto sembrò accettare l'ipotesi.
Girarono lentamente attorno alla stazione di benzina, tenendo gli occhi puntati sui boschi. Quando arrivarono di nuovo davanti al gazebo, si arrestarono.
- Dominic! - gridò l'uomo barbuto. - Dove sei, stronzo?
- Non urlare - disse Jonas. - Vuoi attirare gli psicopatici?
L'uomo barbuto lo guardò, torvo. Non gli piaceva affatto che un ragazzino lo rimproverasse. Ma rimase in silenzio.

Una volta raggiunto il convoglio, Mike e gli altri notarono subito l'assenza di un uomo.
- Cosa è successo? - chiese Mike, preoccupato. - Dov'è Dominic?
Tutti si avvicinarono al gruppo di ricerca.
Jonas scambiò una rapida occhiata con la squadra. - Non lo so. Pensavamo che fosse venuto qui. Le altre volte ha sempre fatto così.
- Hai controllato in giro?
- Sì, abbiamo fatto il giro della stazione di benzina, ma di Dominic nessuna traccia.
- E i boschi? - domandò Little John.
- No - rispose Jonas. - Non li abbiamo controllati.
Tutti guardarono Mike, indecisi sul da farsi. Ma nemmeno lui sapeva bene cosa fare.
- Mandiamo qualcuno a indagare, Mike? - chiese Little John.
Mike non rispose subito. - Jonas te la senti di tornare indietro?
- Mio nipote ha già fatto la sua parte - aggiunse Little John, irritato. - Mandiamo qualcuno che...
- Ok, nessun problema - lo interruppe Jonas, guardando suo nonno di sottecchi.
- Tornate indietro e perlustrate gli alberi attorno alla stazione di benzina - disse Mike. - Ma non allontanatevi troppo. Non sappiamo se i boschi siano sicuri. Noi cercheremo nei paraggi. Ci rincontreremo tutti qui entro un'ora. Poi discuteremo il da farsi.

Il gruppo di Jonas tornò indietro. Mentre camminava, Jimmy si sentì pervaso da una brutta sensazione. Non sapeva se si stesse convincendo della morte di Dominic, o che le cose sarebbero andate in malora. Non voleva ritrovarsi nuovamente da solo, sempre che fosse sopravvissuto agli infetti. Ma si rese conto che stava vagando con la mente e questo non lo aiutava affatto. Doveva restare concentrato.
Il gruppo si fermò nello spiazzo accanto alla stazione di benzina.
- Cosa dite? - domandò Jonas. - Ci dividiamo in due gruppi o restiamo insieme?
Jimmy e gli altri si guardarono, indecisi.
- Restiamo uniti - rispose l'uomo barbuto. Anche Jimmy e l'uomo dagli occhi incavati furono d'accordo.
Si diressero nel bosco e cominciarono a perlustrarlo. Una fitta vegetazione di alberi, arbusti e erba alta ostruiva loro la visuale. Si arrestarono più volte nello stesso punto, cercando delle tracce. Solo l'uomo barbuto sapeva riconoscerle e, poco dopo, dovette arrendersi. Sembrava essere svanito del nulla.
Si inerpicarono su un rilievo roccioso e continuarono a camminare. Batterono tutti gli alberi nelle vicinanze per un'ora, spingendosi persino lontano. Poi, sconfortati, tornarono allo spiazzo della stazione di benzina. Qui diedero un'ultima occhiata in giro, perlustrando il negozio e facendo il giro dell'edificio.



 

17


Quando tornarono al convoglio, non videro nessuno.
- Dove sono gli uomini alla guida? - chiese l'uomo dagli occhi incavati con voce roca.
- È impossibile che Mike abbia ordinato a tutti di battere i boschi - rispose l'uomo barbuto.
Si misero a cercare nei boschi per mezz'ora, ma non trovarono nessuno. Non credevano possibile che tutti fossero spariti senza lasciare alcuna traccia.
Jimmy si sedette contro il tronco di un albero. L'uomo barbuto, Jonas e l'uomo dagli occhi incavati si sedettero a terra. Erano stanchi, i piedi doloranti.
Rimase in silenzio per un momento.
- Se fossero stati attaccati, - disse l'uomo barbuto, - avremmo sentito gli spari, no? Quindi devono essere ancora vivi. Ma dove sono finiti, però?
- Mio nonno non si sarebbe allontanato di molto - rispose Jonas con gli occhi abbassati. - E poi non si sarebbe messo a cercare Dominic se non avesse avuto la certezza che ci fosse almeno qualcuno nei veicoli.
- È quello che penso - aggiunse l'uomo dagli occhi incavati. - Perché non ci sono?
- Forse si sono imbattuti in un'orda che li ha costretti ad abbandonare le auto? - domandò Jimmy.
Tutti lo guardarono.
- Può darsi - rispose l'uomo barbuto. - Se fosse così, allora dobbiamo tenere gli occhi aperti e tornare al convoglio.
E così fecero dopo aver riposato i piedi per venti minuti. Quando sgusciarono fuori dalla vegetazione, rimasero paralizzati. Centinaia di infetti accerchiavano i veicoli. Si abbassarono e si misero a osservarli.
- A quanto pare avevi ragione - bisbigliò piano Jonas. - Ma non capisco perché abbandonare le auto?
Voglio dire, potevano allontanarle dagli psicopatici se erano distanti.
- Forse l'orda è arrivata da entrambe le direzione. - sussurrò Jimmy.
- Se fosse così, l'avremmo vista arrivare dalla stazione di benzina.
- Sì, hai ragione. Forse sono due gruppi differenti. Una viene dalla strada e l'altra dal bosco.
- Ma resta il fatto che i nostri amici sono scomparsi - disse l'uomo dagli occhi incavati.
Nessuno parlò più. Mentre la paura di aver perso i loro compagni li attanagliava, l'orda che avevano davanti faceva un fracasso demoniaco. Gemiti soffocati, bisbigli incomprensibili e strilli improvvisi inquietavano il gruppo.
L'uomo barbuto era un passo da una crisi nervi, non faceva altro che accarezzarsi la barba. A un certo puntò iniziò a strapparsela senza nemmeno accorgersene. L'unico rimasto gelido in quell'inferno, era l'uomo dagli occhi incavati. Non era per nulla a disagio. Anzi, sembrava incuriosito dagli infetti. Li guardava con occhi da studioso.
Non era la prima volta che Jimmy ne vedeva uno. Aveva conosciuto scienziati e costruttori di auto. Tutti loro avevano il medesimo sguardo perso in una qualche meraviglia che vedevano solo loro. E quell'uomo era uno di quelli.
Jonas, invece, era preoccupato. Non lo dava a vedere, ma sperava che suo nonno fosse al sicuro, che non gli fosse accaduto niente di male. Si era quasi messo a pregare quel Dio che ripudiava e che incolpava della morte dei suoi genitori, ma non lo fece. Si sarebbe sentito un ipocrita. Un volta faccia.

Restarono sdraiati per più di un'ora e mezza. Per loro fortuna gli infetti non si erano mai allontanati dalla strada. Sembravano barcollare in circolo e, quando si allontanavano di poco dall'asfalto, quelli tornavano indietro. L'uomo barbuto era stato mandato da Jonas a perlustrare la zona alle loro spalle, per non ritrovarsi gli infetti da dietro. In verità lo aveva allontanato perché l'uomo barbuto stava dando segno di instabilità. Jonas aveva visto come si era ridotto la barba e aveva preferito mandarlo via con una scusa. L'ultima cosa che desiderava era di attirare l'attenzione di quelle cose e l'uomo barbuto avrebbe finito per farlo. Mezz'ora dopo, l'orda si era spostata alla stazione di benzina.
Il gruppo raggiunse un furgoncino e, prendendo dal bagagliaio una bottiglietta d'acqua ciascuno, la bevvero.
- Non toccare il cibo - disse Jonas.
L'uomo barbuto lo guardò, torvo.
- Cosa facciamo? - chiese l'uomo dagli occhi incavati.
- Restiamo qui. - Rispose Jonas. - Primo o poi gli altri ci raggiungeranno.
Passarono quattro ore e nessuno si fece vedere. L'orda era ormai sparita da un pezzo lungo la strada all'orizzonte. Erano rimasti tutto il tempo senza dire una parola ed erano intenzioni volere restare così.



 

18


Il cielo si era dipinto di rosso arancio e gli ultimi raggi del sole filtravano tra le fronde degli alberi.
- Presto sarà notte - disse l'uomo dagli occhi incavati. - Non possiamo dormire qui fuori.
- Lo so - rispose Jonas. - Non c'è bisogno di sottolinearlo.
- Quindi cosa facciamo?
- Torniamo alla stazione di benzina. Dormiremo sul tetto.
- Non mi pare una buona idea.
- Ah, no? È quale sarebbe una buona idea? Perché tu hai un'idea, vero?
L'uomo barbuto rimase in silenzio.
Appena salirono su un'auto bifamiliare, una raffica di spari ruppe il silenzio.
Tutti si guardarono, turbati e sorpresi.
- Viene dal bosco - aggiunse l'uomo dagli incavati. - I nostri sono vivi!
- Non sappiamo se siano loro - rispose Jimmy, ricevendo delle occhiate arcigne.
- Forza! Andiamo a controllare - disse Jonas uscendo dall'auto, seguito dagli altri.
Mentre gli spari continuavano senza sosta, il gruppo entrò nel bosco e proseguì spedito verso la fonte del rumore.
- Merda, credo di aver visto uno psicopatico - disse l'uomo barbuto.
- Non fermarti - rispose Jonas. - Muoviti!
Una manciata di minuti dopo, quando gli spari erano cessati da un minuto, arrivarono a trenta metri da una capanna di tronchi sommersa da piante arrampicanti e dall'erica. Decine di corpi erano sparsi tutt'attorno.
Restarono immobili a fissarli con sgomento. Jonas si lasciò cadere la pistola dalle mani e si precipitò sul corpo inerme di suo nonno. Prendendogli dolcemente la testa, la avvicinò alla sua e cominciò a piangere in silenzio.
Erano tutti morti. Mike, Little John e gli altri. I corpi erano stati fatti a pezzi e una specie di pozza d'acido verde chiaro ribolliva sul terreno.
Jimmy si mise a camminare tra i cadaveri e notò che non c'erano infetti. Mentre si chinava su Mike, uno sparo lo fece sussultare. Si voltò.
Da sopra i rami nodosi di un albero, uno Smoker aveva avvolto con la sua lunga lingua ruvida l'uomo barbuto.
- Mi sta strozzando! - gridò.
Jimmy e l'uomo dagli occhi incavati aprirono il fuoco, ma lo Smoker saltò giù dall'albero e scomparve nella vegetazione, trascinandosi dietro l'uomo barbuto, che smise improvvisamente di gridare.
Jimmy gli andò dietro, finché l'uomo dagli occhi incavati urlò dal dolore. Un Hunter gli era addosso e gli squarciava il petto con i suoi artigli affilati.
Preso dal panico, Jimmy sparò una breve raffica contro la creatura, che crollò sul fianco. Corse ad aiutare l'uomo dagli occhi incavati, ma ormai era morto, la cassa toracica esposta, fatta a brandelli.
Jonas era rimasto inginocchiato su Little John. Non gli importava più di niente. Tutti i suoi familiari erano morti ed ora era rimasto da solo. Che senso ha vivere? Pensò.
Jimmy lo raggiunse frettolosamente, lo afferrò per un braccio.
- Forza, alzati! - disse, cercando di tirarlo su. - Forse ci sono altri mutanti! Andiamo!
Jonas si divincolò dalla presa e tornò a piangere su Little John.
- Non puoi fare più niente per tuo nonno - disse Jimmy. - È morto!
Infuriato, Jonas scattò in piedi e gli mollò un pugno in faccia. Appena Jimmy toccò il suolo, quello gli si mise sopra e cominciò a tartassarlo di pugni.
Jimmy tentò di bloccargli i polsi, ma inutilmente. I violenti pugni gli arrivarono in faccia come macigni. A un certo punto era così stordito, che i suoi muscoli si pietrificarono.
D'un tratto, preceduto da acute risate isteriche, un Jockey si aggrappò intorno alla testa di Jonas e lo tirò indietro, come se lo stesse cavalcando. Mentre questo lottava per liberarsi dalla presa, la creatura gli sfregiò gli occhi e la faccia con i suoi piccoli artigli. Un occhio gli fuori uscì dall'orbita, penzolando sul viso.
Le urla di Jonas arrivavano distorte alle orecchie di Jimmy, steso a terra, la faccia tumefatta, insanguinata. Poi perse i sensi e un tetro silenzio scese nel bosco.



 

19


Quando si destò, scorse i fasci del sole penetrare attraverso il fogliame. La testa gli pulsava dal dolore e l'occhio destro era gonfio. Si mise a sedere sul terreno e un insopportabile tanfo di putrefazione lo fece tossire. Si coprì bocca e naso e si alzò lentamente in piedi, aggrappandosi al tronco di un albero.
Mentre lanciava diverse occhiate in giro, si chiese perché non fosse morto anche lui. Era stato una facile preda per gli infetti e lo era anche tutt'ora. Allora perché era ancora vivo?
Quando tentò di camminare, le gambe gli cedettero e crollò al suolo. Un lancinante dolore lo colpì alla testa. Un dolore così insopportabile, che dovette stringere i denti per non urlare.
Rimase così per un paio di minuti, poi si alzò, sempre aggrappandosi a un albero. Restò fermo per altri minuti, guardandosi intorno. Vide il mitra leggero adagiato sul terreno.
E, prendendo un robusto ramo da terra, strascicò i piedi verso l'arma e la afferrò. Tolse il caricatore, prese un paio di proiettili dallo zaino, li inserì nel caricatore e lo rimise a posto. Nel fare ciò, la testa gli stava esplodendo.
Guardò Mike e Little John per l'ultima volta, poi si allontanò.

Ci mise più di venti minuti per raggiungere il limitare del bosco e, prima di arrivarci, scorse Jonas dentro un piccolo fosso. Il petto squarciato, la faccia insanguinata, ridotta a brandelli di carne e pelle.
Jimmy ci passò affianco, gli diede una rapida occhiata e continuò dritto. Non provava rancore verso quel ragazzo. Sapeva di essersela cercata. Non era la prima che lo riempivano di botte e ne aveva passate anche di peggio. Se non fosse stato per il Jockey, a quest'ora sarebbe morto. Ma c'era solo una cosa di cui si dispiaceva. Non gli aveva chiesto scusa per ciò che gli aveva detto alla fattoria.
Quando uscì dal bosco, il convoglio era ancora lì, fermo sulla strada, e forse ci sarebbe rimasto per sempre. Jimmy si avvicinò alla macchina bifamiliare e controllò le provviste nel bagaglio. C'era poco cibo. Andò a raccattare tutte le provviste delle altre auto e le mise in quella che avrebbe usata per andare via.
Dieci minuti dopo, era pronto a partire. Posò lo zaino sul sedile passeggero, si sedette alla guida è ingranò la prima. L'auto bifamiliare si allontanò dal convoglio.

Non sapeva bene dove andare. Se tutto il mondo era stato messo in ginocchio dalla Grande Infezione, allora ogni posto era uguale all'altro. Fu tentato di tornare al centro commerciale a prendere la sua Dodge sportiva, ma sarebbe stato solo una perdita di tempo. In ogni caso, voleva andarci soprattutto per dare un'occhiata al centro di evacuazione CEDA.
Forse Mike aveva ragione nel dire che potevano esserci degli aiuti lì, ma poi pensò a quello che aveva vissuto. Ne era uscito vivo per un soffio e forse adesso era pieno zeppo di infetti.
Mentre ci pensava, passò affianco a una cittadina. Non si fermò a guardare, ma sfrecciò incurante del caos e della morte che riempivano quelle strade. Che senso aveva preoccuparsi? Sicuramente in quegli edifici non c'era nessuno. E invece si sbagliava. La gente si era rintanata nel municipio e l'avevano fortificato. Ora vivevano tutti nei sotterranei, ma Jimmy non lo seppe mai.



 

20


Alla fine si convinse di dare una rapida occhiata al centro di evacuazione CEDA. Voleva a tutti costi trovare delle persone. Sapeva che da solo non sarebbe sopravvissuto a lungo. Così, verso le cinque e mezza di sera, arrivò a cento metri dalla città. Spense il motore e rimase a guardare le fiamme che si innalzavano dalle finestre dell'hotel Savannah. Pur essendo distante molte centinaia di metri, quell'edificio svettava sulla città. Non era il più alto, ma quello più possente.
Una volta sceso dall'auto, si mise lo zaino attorno alle spalle e s'incamminò verso un posto di blocco che sbarrava la strada. Dovette passare accanto a una fila quasi interminabile di veicoli, ma alla fine giunse davanti a una lunga rete metallica su cui correva del filo spinato. Lì c'era una porta aperta.
Camminò per le strade puntellate da cadaveri, auto e sangue. Le reti metalliche installate dall'esercito, lo costringevano a prendere strade secondarie. A volte persino a fargli fare un lungo giro. Se era fortunato, le trovava divelte e questo gli faceva capire che forse c'erano infetti nei paraggi. Ma almeno non doveva fare tutto il giro per attraversarle.
Ci mise quaranta minuti e, senza aver incontrato nessun infetto, raggiunse il parcheggio del centro commerciale. Lo percorse fino a ritrovarsi in un piccolo spiazzo cementato. Qui si trovavano due tende della CEDA con alcuni letti e tavoli. Diversi pile di corpi erano poco lontano, cinte dalle transenne. Lì vicino, altri cadaveri in sacchi di plastica.
Incuriosito, Jimmy si avvicinò a una porta di ferro rossa. Aveva una finestra con delle assi messe in verticale. Non sembrava una comune porta di servizio. Anzi, sembrava essere stata montata di recente. C'erano ancora gli attrezzi da lavoro lì accanto.
Jimmy spiò all'interno, ma non vide niente per via del forte buio. Provò a bussare, ma l'unica risposta che ebbe fu un profondo eco.
Non avrebbe dovuto bussare.
D'un tratto sentì un gorgoglio alle sue spalle e, quando si girò, venne travolto da un liquido verde. Qualcosa o qualcuno gli aveva vomitato addosso un liquame appiccicoso, che emanava un acro odore di putrefazione. Tossì intensamente, quasi soffocando. Appena riuscì a togliersi il liquido dalla faccia, vide un Boomer. Gli era di fronte. Come diavolo aveva fatto a non sentirlo arrivare?
La creatura corse verso di lui, l'enorme pancia traballante gonfia di pus e liquido verde. Gli sferrò una manata e gli artigli lacerarono obliquamente il suo petto. Schizzi di sangue macchiarono il volto grigiastro del Boomer.
Jimmy urlò dal dolore e sparò all'infetto speciale, che esplose in mille pezzi. L'onda d'urto lo sospinse leggermente indietro, mentre dell'altro liquido appiccicoso gli era finito sopra.
Era troppo frastornato per accorgersi che migliaia di infetti avevano invaso il parcheggio e che si stavano precipitando verso di lui. Non sapeva che quel liquame gli aveva firmato la condanna a morte.
Sentiva qualcosa di strano nel suo corpo. La testa gli scoppiava e fitte allo stomaco lo piegarono dal dolore. Cominciò a sputare sangue e bile nero, gli occhi iniziarono lentamente a iniettarsi di sangue.
L'ultima cosa che vide fu il pugno di un infetto che si abbatté violento contro la sua faccia. Crollò a terra. Poi venne ricoperto da un fiume di infetti che, urlando indemoniati, continuavano sciamare da tutte le parti.

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Capitolo 4
*** La sposa Witch ***


1

 

Era un giorno speciale. Presto Tara si sarebbe spostata con Austin. Un fidanzamento che, tra alti e bassi, durava da quattro anni. Non erano la coppia perfetta, ma si amavano. E questo era l'unica cosa che contava.
Quel giorno Tara stava arrivando verso il parco accompagnata dal padre Marcus su una berlina nera. Entrambi notarono l'assenza di persone in strada. Sembrava che si stessero muovendo in una città fantasma. I veicoli, poi, sembravano essere stati abbandonati in fretta in furia.
Parcheggiò la berlina nera affianco al marciapiede e andò ad aprire la portiera a sua figlia.
Quando Tara scese dall'auto, si accorse che gli invitati non c'erano.
- Dove sono tutti? - Chiese Tara.
Marcus si guardò intorno, confuso. - Non lo so. Dovevano essere tutti qui. Li ho avvisati mezz'ora fa al telefono.
Tara si rattristì. Non avrebbe mai immaginato che il suo matrimonio potesse iniziare così male. Nessuno si era presentato. Com'era possibile?
Marcus notò la figlia a un passo dal pianto. - Non ti preoccupare, tesoro. Sono sicuro che è successo qualcosa di grave. Non avrebbero motivo di non essere qui.
- Ora cosa facciamo? - Disse Tara in lacrime. - Il mio matrimonio è rovinato...
Marcus l'abbracciò. - No, non è rovinato.
D'un tratto sentirono degli spari arrivare dal parco. Confusi e spaventati, andarono a dare un'occhiata. Si fermarono dietro una fila di cespugli, accanto a una corta e ampia scalinata. Al centro del parco, attorno a un padiglione dove si doveva tenere il matrimonio, videro a terra dozzine di corpi.
- Non... Cosa... - Balbettò Tara, scioccata, coprendosi la bocca con la mano.
Gli inviati erano tutti morti. O almeno così aveva pensato, finché non si alzarono in piedi. Le facce grigiastre, le labbra sporche di sangue e gli occhi rosso fuoco. Cominciarono a barcollare, a gemere, a vomitare bile nero.
- Andiamo via, Tara. - Disse il padre, preoccupato, afferrandola per un polso.
- No, hanno bisogno di aiuto. Stanno male. Dobbiamo aiutarli.
Marcus tentò di trascinarla via, ma la figlia puntò i piedi.
- È Austin! - Disse con un sorriso da innamorata. - È vicino al padiglione, papà. Devo raggiungerlo. Mi sta aspettando. - Si districò dalla presa di Marcus e corse verso il padiglione, tenendo sollevata la gonna con le mani.
- No, resta qui! - Rispose il padre, andandole dietro.
Gli invitanti, una trentina in tutto, scattarono la testa verso di loro. Li guardarono irritati. Austin, ridotto a un infetto, piegò la testa di lato.
Tara si pietrificò, gli occhi sbarrati dal terrore. Marcus la raggiunse e la afferrò per un braccio. Quando fecero per allontanarsi, gli invitati si lanciarono contro di loro.
I due fuggirono verso la berlina nera. Il padre aprì la portiera e fece entrare la figlia. Mentre saliva al posto di guida, Austin afferrò Marcus per la giaccia e lo trascinò fuori. Cominciò a martellarlo di calci e pugni.
- No! Fermati! - Urlò Tara, battendo i pugni sul finestrino. - Lascialo andare, Austin! Non fargli del male!
Attimi dopo, gli invitati li raggiunsero e si ammassarono su Marcus.
Tara piangeva e, quando un invitato scattò la testa verso di lei dietro il finestrino, quella se la filò dalla portiera opposta.
Corse gridando aiuto verso un edificio di fronte, mentre tutti gli invitati le correvano dietro, urlando impazziti.
Poco prima di arrivare davanti al portone, scorse un uomo in uno stretto vicolo. Teneva aperta una porta di ferro con la mano.
Tara cambiò subito direzione e gli andò incontro. Una volta varcata l'entrata, l'uomo fece in tempo a chiudere la porta e infilare una sbarra di ferro tra la maniglia. Gli invitati le si riversarono contro, colpendola con pugni e calci.
Si trovavano nella cucina di un ristorante.
- Stai bene? - Chiese l'uomo. Sui trent'anni, capelli neri rasati, viso asciutto, barba rada e fronte ampia. Indossava una giubbotto nero sotto una maglietta bianca, e pantaloni grigi.
- Sì... - Bisbigliò Tara, scossa. Gli occhi arrossati per il pianto. Era successo tutto così in fretta che non realizzò di aver perso suo padre.
L'uomo le guardò l'abito da sposa. - Sembra che le nozze siano da rimandare, eh? - Scherzò l'uomo, cercando di sdrammatizzare.
Tara si limitò a fissarlo con gli occhi arrossati.
- Scusa, io... Io volevo solo tirarti su. Sono un coglione, scusami.
Rimasero in silenzio per un momento.
- Mi chiamo Ian Power. - Le allungò una mano.
- Tara Parker. - Gli guardò la mano, ma non la strinse.
- Se non avessi sentito le tue grida...
Tara sbarrò gli occhi, terrorizzata. Adesso ricordava. Le balenò in mente l'immagine di suo padre sommerso dagli infetti. Scoppiò in un pianto sommesso, accasciandosi contro il muro.
Ian non sapeva cosa fare. Rimase a guardarla per un attimo, poi le si chinò. - Ho perso anche io qualcuno. - Disse piano. - Mio fratello Willy... Lui... - Si zittì alla comparsa delle lacrime e si alzò in piedi, dandole le spalle. - Quelle cose lo hanno raggiunto e... Beh, puoi immaginare.
Tara lo guardò, il viso bagnato, coperto dietro le mani. - Mio padre... Ho perso mio padre...

 

 

2
 

Ian andò a controllare la sala da pranzo sul davanti. Si era chiuso dentro quando aveva visto un nutrito gruppo di infetti assalire alcuni poliziotti. Altri ne erano sopraggiunti dalle strade, e la polizia ne fu sopraffatta. L'esercito aveva montato delle rete metalliche per dividere gli isolati e creato posti di blocco in punti strategici della città.
Non era servito a niente.
Gli infetti erano arrivati come un ciclone, spazzando ogni cosa al loro passaggio. Alcuni soldati erano rimasti a combattere, a cercare di mettere al sicuro la gente. E altri erano fuggiti, lasciandosi dietro gli armamenti, rubati dagli sciacalli.
La città ne era piena.
Se non ti uccidevano gli infetti, ci pensavano le persone. Ian lo aveva visto. Era mancato poco che venisse freddato da un tizio col fucile a pompa.
Oltre all'esercito, c'erano anche quelli della CEDA. Medici e scienziati che avevano allestito diversi centri medici all'aperto in giro per la città. Solitamente erano posti grandi, pubblici. Tutto questo non aveva fatto altro che peggiorare le cose. E al disastro imminente dell'esercito, quei luoghi erano stati convertiti in centri di evacuazione.
Ian stava per raggiungerne uno, quando aveva visto Tara inseguita dagli infetti. Il piano era saltato ed ora sperava di riprovarci.

Ian si avvicinò alla finestra coperta da una tenda e guardò in strada. Sembrava non esserci nessuno. Rimase a osservare per una manciata di minuti, poi tornò da Tara. La trovò seduta con la testa tra le mani.
- Ehi. - Disse Ian. - Va meglio?
Tara non gli rispose.
- Qui vicino c'è un centro CEDA. Magari possono aiutarci. Vieni con me?
- Dove altro potrei andare? - Rispose Tara con voce rauca dal pianto.
- Non lo so, io...
- Scusami per prima.
- Per cosa?
- Non ti ho stretto la mano e...
- Non preoccuparti. Va tutto bene. - Le sorrise e raggiunse un cassetto da cui prese una pistola.
Tara la fissò, spaventata.
- Ehi, non avere paura. - Aggiunse calmo Ian. - Ci servirà per proteggerci. La so usare, tranquilla. Tu hai mai sparato?
- No, ma il mio... - Tara abbassò gli occhi lucidi e si voltò per non farsi vedere. - Il mio fidanzato... Lui amava le armi. Aveva un abbonamento all'armeria di Whitaker.
- Sì, conosco quel tale, Whitaker. È un po' ammattito, ma una brava persona. Sono sicuro che si è chiuso in quel suo fortino sopra l'armeria.
Rimasero in silenzio per un momento.
- Mi dispiace per il tuo ragazzo e tuo padre. - Disse Ian.
- A me per tuo fratello. - Rispose Tara.

 

3
 

Un'ora dopo uscirono dal retro del ristorante. Gli invitati infetti erano spariti. Proseguirono lungo lo stretto vicolo e arrivarono dirimpetto alla centrale di polizia. Ai piedi del cancello di ferro, una pila di cadaveri. Altri erano sparsi lungo la recinzione di cemento e sbarre di ferro. Diverse auto della polizia erano messe di sbieco sulla strada, impedendo l'accesso ai veicoli. Un acro odore di putrefazione aleggiava nell'aria.
I due si tapparono bocca e naso.
- È quello il centro di cui parlavi? - Domandò Tara.
- No. - Rispose Ian. - Si trova a quattro isolati da qui, vicino a un campo da baseball. - Lanciò una rapida occhiata a entrambe le direzioni. - La strada a sinistra è bloccata da una rete metallica. Quella a destra è libera. Sembra che i militari non siano riusciti a chiuderla.
- Come sai che sono stati i militari? - Chiese Tara.
- Li ho visti. Prima di rifugiarmi nel ristorante, ho visto che li stavano montando.
- A che servivano? A chiudere la gente all'interno?
Ian sollevò le spalle. - Non lo so. Ma secondo me hanno fatto un casino. Voglio dire, se quelle cose erano già all'interno, è stato facile per loro uccidere tutti.
- Ma non tutti muoiono. - Rispose Tara. - Quando... Quando sono arrivata al padiglione nel parco, ho visto gli invitati a terra. Sembravano morti. Poi, non so come, si sono rialzati.
Ian non parlò subito. - Sei sicura?
- Sì, l'ho visto con i miei occhi.
- Quindi alcuni muoiono, e altri si rialzano. Eppure ho visto persone trasformarsi improvvisamente. Credevo succedesse così.
- Così come?
- Che basta stare a contatto con alcune persone infette o... Magari infettarsi improvvisamente. Voglio dire, non sono un medico, ma... Credevo fosse qualcosa nell'aria, che succedesse così.
- La CEDA doveva saperne di più, giusto? - Domando Tara.
- Dovrebbe. - Rispose Ian. - Ma sembra che non siano riusciti a bloccare l'infezione, o qualunque cosa sia.

Si diressero a destra, stando vicini agli edifici adiacenti. Quando arrivarono davanti alla rete metallica costruita a metà, sussultarono nel sentire diversi spari. Si voltarono verso la centrale di polizia. Un poliziotto venne scaraventato contro la finestra e cadde giù, schiantandosi sul cortile interno. Poi una dozzina di infetti si lanciarono giù dalla finestra, strillando infuriati.
- Cristo! - Bisbigliò Ian, spaventato.
Tara era rimasta pietrificata dal terrore.
D'un tratto un centinaio di infetti fluirono dalla strada bloccata dalla rete metallica e dal vicolo da cui i due erano venuti.
- Stai giù. - Disse Ian, abbassandosi. - Nascondiamoci dietro quel cassonetto.
Quando lo raggiunsero, Tara vide una sagoma familiare confusa tra gli infetti. Ci mise un po' a capire chi fosse, ma alla fine comprese. - Papà! - Disse quasi ad alta voce.
Ian si voltò verso di lei, confuso. - Cosa hai detto?
- Mio padre. È lì. - Disse Tara, felice. Appena fece per alzarsi, Ian la afferrò per un avambraccio.
- Dove vuoi andare? - Le disse. - Resta giù, o ci vedranno.
- Ma è mio padre. Devo aiutarlo.
- Stai giù.
- No, lasciami andare!
- Non è più tuo padre, Tara.
La sposa si fermò, lo guardò negli occhi. - Tu... Non puoi...
- Non è tuo padre. Non più, Tara. - Rispose Ian, posandole una mano sulla spalla.

 

4
 

Rimasero lì per più di quaranta minuti, finché la maggior parte degli infetti sciamarono altrove. Nessuno di loro si allontanava dagli altri, ma lo facevano solo in gruppo di venti, trenta o più. Sembravano voler restare insieme a tutti i costi.
Poi altri spari si levarono dalla centrale delle polizia, e tutti gli infetti rimasti si precipitarono verso l'edificio. Scavalcarono con una velocità disumana la recinzione di cemento e sbarre di ferro, arrampicandosi come saette sui tubi pluviali o tramite le sporgenze e i buchi nel muro. Le loro grida, poi, sovrastravano ogni rumore.
Ian rimase a fissarli, finché sparirono nell'edificio o sopra il tetto.
- Muoviamoci. - Disse. - Non voglio ritrovarmi quei cosi alle spalle. Il centro CEDA è vicino.
Tara si alzò e lo seguì, rattristita.
Si muovevano vicino le pareti degli edifici, svoltarono un angolo e continuarono a camminare. Superarono una jeep militare e alcuni sacchi di sabbia. Sette soldati giacevano a terra senza vita.
Poi sentirono una specie di ringhio provenire dai tetti. Si arrestarono e fissarono i balconi, le finestre, i cornicioni. Non videro nessuno.
- Stammi vicino. - Disse Ian, alzando la pistola. - Questo suono non mi piace per niente.
- Forse è una cane. - Rispose Tara.
- Non è un cane. Sembra qualcos'altro.
Tara si guardò intorno, terrorizzata. - Cosa vuoi dire?
- Non lo so. Dico solo che non mi sembra un cane.
Continuarono a camminare per un lungo momento, finché il ringhio si fece più vicino. Allora si fermarono, tenendo le spalle contro il muro.
- Cosa facciamo? - Domandò Tara.
- Sssh. Non parlare. - Rispose Ian, lanciando frettolose occhiate attorno.
Rimasero fermi per un po'. Quando fecero per muoversi, videro qualcosa balzare giù dal tetto del sesto piano.
Ian non fece in tempo a sparare, che l'Hunter gli fu addosso e iniziò a lacerargli il petto con gli artigli. La pistola scivolò ai piedi di Tara.
- Toglimelo di dosso! Toglimelo! - Urlò Ian dal dolore, mentre tentava di spingerlo via.
La sposa era rimasta immobile, tremante. Non riusciva a muoversi. L'infetto speciale, i vestiti pregni di sangue, fece un corto salto e si accucciò, pronto a saltare sulla sposa.
Tara si destò come da un incubo. Afferrò frettolosamente la pistola e sparò. Il rinculo gli fece scivolare la pistola di mano che, urtando al suolo, fece partire un colpo. Il proiettile finì contro il serbatoio di un furgone, facendolo esplodere. L'Hunter fu investito dall'onda d'urto e di fuoco, che lo lanciò contro un muro di un edificio. Tara venne scaraventata contro il parabrezza di una monovolume grigia e perse i sensi.

 

5


Quando si svegliò, si accorse di essere in un letto. Si mise a sedere e si guardò intorno, confusa. Le sembrava una stanza di ospedale. Appena posò i piedi sul pavimento, una donna entrò nella stanza.
Era sulla quarantina, capelli biondi raccolti in una coda, un viso rotondo e occhi grigi. Aveva un aria affabile, sincera. Indossava una camicia verde scuro e pantaloni neri.
- Sei sveglia. - Disse con un sorriso. - Come stai?
- Cosa è successo? - Domandò Tara, stordita.
- Non ricordi nulla? No? Ti ho trovata svenuta sul parabrezza di un auto. L'onda d'urto ti ha scaraventata lì. Per tua fortuna ero nei paraggi, in fondo alla strada. Ho sentito l'esplosione e sono uscita fuori. Hai fatto davvero un bel casino. Gli infetti sono arrivati da tutte le parti. Non immagini quanti ne ho visti. - Fece una pausa. - Comunque, prima che arrivassero io e Greg ti abbiamo portata qui.
- Qui? - Chiese Tara, confusa. - Siamo in un ospedale, giusto?
- Sì, al quarto piano. - Annuì la donna. - Ai piani inferiori ci sono gli infetti, ma abbiamo bloccato le scale e gli ascensori. Non possono salire.
- Io... Io... - Tara si bloccò per un lancinante dolore alla testa.
- Ehi, tranquilla. - Disse la donna, aiutandola a stendersi sul letto. - Riposa. Hai avuto una brutta contusione dietro la testa. Nulla di grave ovviamente, ma hai bisogno di riposo.
Tara non riuscì ad ascoltare le ultime parole che si addormentò.

Si svegliò verso le otto di sera. Rimase a guardare la pallida luna dalla finestra per un momento, poi scese dal letto. Indossava ancora il vestito da sposa sporco di terra e bruciacchiato.
Quando uscì dalla stanza, vide altra gente. Uomini, donne e bambini. Stavano nei corridoi o nelle camere laterali. La guardarono camminare nel corridoio, finché Tara entrò nella sala comune. Scorse la donna seduta su un divano con una tazza di caffè fumante in mano. Leggeva una cartella di fogli.
- Ciao. - Disse Tara quasi in un sussurro.
La donna posò la tazza sul tavolo e si alzò. - Ehi, dovresti essere a letto. Non...
- Sto bene. - La interruppe Tara. - Davvero. Sto bene.
- Allora siediti. Vuoi una tazza di caffè? È ancora caldo.
- No, grazie. Ma dell'acqua mi andrebbe bene.
La donna riempì d'acqua un bicchiere di plastica e gliela porse.
- Grazie. - Disse Tara, mentre la donna le si sedeva accanto e bevve un sorso del caffè.
- Non mi sono presentata. Mi chiamo Willow Ortez.
- Tara Parker.
Willow accennò all'abito da sposa. - Dovevi sposarti o ti eri già...
- Dovevo sposarmi... - La interruppe Tara.
- Gli infetti hanno rovinato tutto, eh?
Tara deviò lo sguardo e bevve dell'acqua.
Rimasero in silenzio per un po'.
- Qui sarai la sicuro. - Aggiunse Willow con un sorriso. - Sempre se vuoi restare.
- Sì, mi piacerebbe. - Rispose Willow. - Prima che tu mi trovassi, ero con un ragazzo. Ian Power. Lui è... Morto.
- Mi spiace tanto. Era il tuo sposo?
- No, mi ha salvata dai miei amici. Si erano trasformati. Anche mio padre e Austin.
- Il tuo sposo?
- Sì...
- Io e Greg abbiamo visto un corpo straziato vicino a una macchina. Doveva essere Ian. Dev'essere stato un Hunter.
- Quella cosa a quattro zampe? - Chiese Tara.
- Sì, prima era una persona. - Rispose Willow. - Il virus l'ha mutato in non so cosa. Sembra una animale, si muove come una pantera. Ce ne sono altri infetti di questo tipo. Qui intorno è facile vederli.
- Dici sul serio? - Tara era scioccata.
- Perché dovrei mentire? Quelle cose sono attratte dal nostro odore. Così ha detto Steven, uno scienziato della CEDA. È morto l'altro giorno. Uno Smoker l'ha trascinato fuori dalla finestra con la sua lingua.
Tara non riusciva a parlare. Non voleva crederci che ci fossero dei mostri in giro.
- Va tutto bene? - Chiese Willow, notando la sua preoccupazione.
- Sì... È solo che non immaginavo che gli infetti potessero mutare.
- Steven ci aveva detto che il virus poteva continuare a mutare per anni. Forse quelle cose un giorno si trasformeranno in tutt'altro. Per questo è stato arduo per la CEDA trovare una cura o un vaccino. Il virus non fa che mutare in continuazione.
Tara sbarrò gli occhi, spaventata.
- Ok, credo che per oggi possa bastare. - Fece l'ultimo sorso di caffè e poggiò la tazza sul tavolino. Quindi si alzò. - Stai lontano dalle finestre, specialmente nell'ala ovest. L'edificio vicino è pericoloso. Abbiamo sentito molti gemiti provenire da lì.
- Va bene. - Rispose Tara, lanciando un'occhiata alle tre finestre della sala comune.



 

6


Tara cominciò a conoscere la gente che viveva lì. Sopravvissuti che avevano abbandonato tutto e seguito Greg Roth, un detective della polizia. Li aveva condotti tutti all'ospedale, in quanto aveva saputo che la CEDA stava evacuando la gente tramite gli elicotteri.
Ma in breve tempo si creò confusione, e le persone cominciarono a insultarsi, a colpirsi. Greg e gli altri agenti della polizia non riuscirono ad acquietare gli animi iracondi, e persero totalmente il controllo.
Ci furono accoltellamenti, sparatorie, risse, e di mezzo ci andarono donne e bambini.
Quando arrivavano gli elicotteri, la gente si affrettava a salire, saltando la coda o minacciando gli altri di morte per farli passare.
Con l'arrivo degli infetti, la situazione precipitò. Gli elicotteri, affollati di gente, non riuscivano a salire di quota e precipitarono. La maggior parte delle persone venne uccisa ed altri infettati.
Greg fu costretto a bloccare le scale e gli ascensori inferiori. Dall'altra parte le famiglie gli supplicavano di prendere i loro figli, di metterli al sicuro, ma Greg non rispondeva. Non poteva mettere a rischio la gente all'interno.
Quelli dei piani superiori fecero la stessa cosa. Chi rimase intrappolato sul tetto, cercò di scendere e altri si suicidarono, gettandosi giù.
Poi le grida di dolore e d'aiuto vennero attutite dai gemiti e dalle urla degli infetti. E il silenzio scese nell'ospedale. Gli infetti, però, non rimasero a lungo nei paraggi, in quanto gli spari, le esplosioni e le grida lontane li attiravano come api sul miele.
Tara sentì questa storia dalle bocche dei sopravvissuti, anche se alcuni omettevano o aggiungevano altro. Quando cercò di parlare con Greg, gli dissero che era ancora fuori a cercare provviste.

Verso le otto del giorno dopo, Tara andò a fare colazione nella sala comune. La gente la guardava stranita per via dell'abito da sposa. Sembrava assai singolare che una ragazza se ne andasse in giro così. Poteva cambiarsi. C'erano vestiti o camici da infermiere. Doveva solo scegliere, ma Tara non voleva togliersi quell'abito di dosso. E non sapeva nemmeno perché.
Fece colazione con due brioche al cioccolato e un po' di succo all'arancia.
- Posso sedermi? - Disse Willow.
- Certo. - Rispose Tara. - Sono da sola. Hai l'imbarazzo della scelta.
Willow sorrise e le sedette accanto. - Alcuni non vogliono affezionarsi, e altri sono per natura diffidenti. Senza contare chi va mendicando cibo, quando hanno già la pancia piena. Sei fortunata che nessuno di questi sia venuta da te. Se vengono, sai come trattarli.
- Non mi dispiace stare in disparte. - Aggiunse Tara. - Non conosco nessuno qui e non voglio creare problemi.
- Non preoccuparti. Chi crea problemi viene cacciato.
- Sì? Come? Le scale e gli ascensori sono bloccati. Vuoi dire che li confinante in una stanza.
- No, li cacciamo fuori, li esiliamo. In sala chirurgia c'è una finestra che si affaccia su un piccolo edificio in costruzione. Con una scala è possibile creare un ponte per passarci dall'altra parte, anche se l'abbiamo sostituito con delle assi di legno trovate lì. Quella è l'unica via d'entrata e di uscita da qui.
Tara non parlò subito. - E le persone che sono negli altri piani?
Willow sollevò le spalle. - Non lo so. Forse sono morti di fame o di sete, o si sono uccisi tra loro. Non saprei. Però avevo sentito della gente scendere le scale di emergenza. Non so se sono riusciti a uscire dall'ospedale, ma ne dubito. I piani inferiori sono bloccati, sempre che non li hanno aperti. Noi non apriremo le porte, questo è certo.
Tara inghiottì l'ultimo boccone della brioche. - Però mi avete salvata. Perché non lo fate anche con gli altri?
Willow la guardò per un attimo. - Tu eri da sola. Quelli degli altri piani hanno tentato di ucciderci quando li abbiamo accolti. Volevano il nostro cibo, e altri erano totalmente fuori di testa. - Fece un pausa, bevendo un bicchiere d'acqua. - Quello che ti dirò, non dirlo a nessuno, ok? Bene. La gente qui non ti dirà come è andata davvero. Abbiamo dovuto uccidere quelli del piano inferiore, quando hanno buttato giù la porta delle scale di emergenza. Sono entrati sparando all'impazzata e lanciandosi verso di noi con mazze e coltelli. Abbiamo perso più della metà dei nostri, ma alla fine li abbiamo uccisi. Li abbiamo gettati fuori dalle finestre. - Si zittì per un momento nel ricordare quell'evento. - Non è una cosa che si dimentica in fretta. Tutti noi abbiamo deciso di non farne parola con nessuno, di non parlarne mai.
Tara bevve un sorso di succo all'arancia. Non sapeva bene cosa dire. - Beh, immagino che non avete avuto altra scelta.
- Sopravvivere o morire. - Disse Willow. - La scelta è semplice.



 

7
 

Tara andò nella sua stanza e si mise a leggere un'enciclopedia sugli animali. Ci rimase fino alle due di pomeriggio, finché sentì numerose voci nel corridoio. Andò ad aprire la porta e vide un uomo attorniato da altri uomini, donne e bambini. Sembravano essere felici della sua presenza.
- Hai ucciso molto mostri? - Disse un bambino.
- Hai trovato dei vestiti? - Domandò una donna.
- Novità da parte dell'esercito? - Chiese un uomo.
Ma a salvarlo da quelle infinite domande, fu la comparsa di Willow.
- Ok, gente. Fate largo. - Disse, sgomitando tra la folla. - Allontanatevi, forza! Smammare! - Poi si rivolse a Greg. - Sei tornato tutto intero, eh. - Sorrise.
- Che ti aspettavi? - Le rispose ricambiando il sorriso. - Che ci lasciassi la pellaccia?
Greg era un uomo attraente, sulla quarantina, fronte ampia, barba rada ma folta sul labbro superiore e sotto il mento. Aveva occhi verde scuro, una carnagione chiara e una cicatrice sopra il sopracciglio sinistro. Indossava una giacca militare, una maglietta bianca macchiata di sangue e un pantalone nero.
- Cosa hai preso? - Chiese Willow.
- Vai a dare un'occhiata tu stessa. Ora non vedo l'ora di farmi una lunga dormita. Non chiudo occhio da due giorni.
- Hai mangiato?
- Mangerò dopo. - Si infilò in una stanza e chiuse la porta alle sue spalle.
Tara raggiunse Willow. - Quello era Greg? - Disse.
- Sì, proprio lui. È appena tornato da fuori. Vuoi venire a dare un'occhiata alle cose che ha portato?
- Certo.

Camminarono nel corridoio gremito di gente e, svoltando a destra, proseguirono per altri trenta metri. Poi si fermarono davanti a una porta sorvegliata da due uomini armati di pistole.
- Willow. - Disse uno di loro. - Vuoi entrare?
- Perché credi sia qui? - Gli rispose con un sorriso di circostanza.
La guardia girò la chiave nella toppa e aprì la porta. Willow e Tara entrarono dentro.
Due lanterne poste su un tavolo illuminavano la stanza. Le due finestre erano sbarrate da assi di legno, e piccoli fasci di luce filtravano tra le fessure. In fondo alla stanza, numerose casse e scaffali.
- Le casse vengono da fuori? - Disse Tara.
- No, le abbiamo trovate nello sgabuzzino vicino le scale. Lì dentro ci mettiamo le cose che troviamo.
I due si avvicinarono alle casse e ci guardarono dentro.
- Delle armi. - Aggiunse Willow, contenta. - Finalmente. Ne avevamo davvero bisogno. - Notò le macchie di sangue sulle pistole e fucili a pompa. - Devono essere della polizia.
- È andato alla centrale di polizia? - Rispose Tara. - Ho visto gli infetti assalire l'edificio poco prima che Ian morisse.
- No, non credo. Greg non si esporrebbe troppo. Quindi recuperare la ricetrasmittente è fuori questione...
- Credi ci siano altri sopravvissuti là fuori?
- Sì. Non so dove, ma ci sono. - Disse Willow. - Penso che l'esercito sia da qualche parte, al sicuro. Dobbiamo solo metterci in contatto e verranno a salvarci.
- Ne sembri davvero sicura.
- Devo. Non posso immaginare che siamo rimasti solo noi, che tutto il mondo sia crollato.
Tara la guardò per un attimo. Nemmeno lei voleva crederci, ma gli infetti sembravano essere molti numerosi. Questo le diceva che forse Willow si sbagliava, che erano veramente soli.
Curiosarono tra una cassa e l'altra, scorgendo cibo, acqua, vestiti.
- Tutto questo è stato preso da Greg? - Domandò Tara.
- Certo che no. - Rispose Willow, raggirandosi in mano una maglietta giallo oro. - Come potrebbe? Ha solo due braccia e due gambe. Ci sono alcune persone che lo aiutano. Uomini e donne. Sono pochi, ma sanno il fatto loro. - Posò la maglietta nella cassa e ne prese un'altra di colore blu chiaro. La osservò attentamente tenendola tra le mani. - Alcuni di loro sono poliziotti come Greg, e altri no. Poco importa. L'importante è che non si facciano ammazzare e che non attirano qui gli infetti.
- È mai successo? - Chiese Tara.
- Siamo qui da poco. - Disse Willow. - Per ora gli unici problemi sono arrivati dalle persone. Parlo di quelli sopra e sotto di noi.
- Sì, lo so. Mi chiedo come facciano a sopravvivere. Dove prendono il cibo? E l'acqua?
- Non sono affari nostri, ma credo che molti siano morti o abbiano lasciato l'ospedale. Sento ancora dei rumori ai piani inferiori, ma niente in quelli superiori.
Rimasero in silenzio per un lungo momento.
- Perché non ti metti qualcosa di più comodo? - Disse Willow.
Tara si guardò l'abito da sposa sporco e bruciacchiato. - No, sto bene così.
- Sei sicura? Ci sono bei vestiti qui. Delle gonne, pantaloni, leggins e...
- Davvero, sto bene così. - La interruppe Tara.
- Posso farti una domanda?
Tara la guardò per un attimo. - Dimmi.
- Non te lo togli per... Voglio dire, quell'abito significa qualcosa per te?
Tara abbassò gli occhi. - Sì, ma... Non so perché sia importante.
Willow arricciò le labbra, capendo di aver toccato un tasto dolente. E ritornò a guardare i vestiti nelle casse.



 

8


Verso le quattro del pomeriggio, Tara entrò nella sala comune. Trovò Willow e Greg seduti a un tavolo. Alcuni bambini giocavano in un angolo con i giocattoli nuovi.
Là fuori, silenziose saette irrompevano nel cielo plumbeo.
- Ehi, Tara. - Disse Willow. - Vieni a sederti con noi. Lui è Greg.
Sorridendo, l'uomo le allungò un mano. - Piacere, Greg Roth.
Tara gliela strinse. - Tara Parker. Piacere mio.
Greg bevve un sorso d'acqua e staccò un morso a una mela, parlando con la bocca piena. - Vedo che ti sei ripresa bene. Willow ti ha tutto raccontato, giusto? Sei stata fortunata. Se fossi stata a un metro più in la, saresti diventata un carboncino, come l'Hunter.
- Vi ringrazio. - Disse Tara, accorgendosi di non aver mai ringraziato Willow per averle salvato la vita.
Greg scacciò l'aria con una mano. - Non preoccuparti. - Diede un altro morso alla mela. - Indossi ancora l'abito da sposa. Non ti piacciono i vestiti che abbiamo nel magazzino? Er, voglio dire sgabuzzino.
Tara abbassò gli occhi.
Willow lanciò un'occhiataccia a Greg, che si ricordò cosa le aveva detto prima.
- Sono gusti, alla fine. - Disse Greg, cercando di affossare la domanda precedente.
- Sì, sono gusti. - Rispose Willow, che cambiò subito discorso. - Dove hai trovato le armi, Greg?
- In giro. Io e i ragazzi ci siamo spinti fino alla centrale di polizia. Non ci siamo entrati, perché abbiamo visto del movimento. Credo ci fossero gli infetti, ma non...
- Sì, ci sono gli infetti. - Lo interruppe Tara. - Come ho già detto a Willow, li ho visti entrare dentro.
- Beh, allora dovremmo tenerci alla larga, anche se è un peccato. Ci sono molte armi, tute antisommossa e la ricetrasmittente. Sarebbe fantastico mettersi in contatto con l'esercito. Almeno sapranno che ci sono dei sopravvissuti in città. - Staccò un altro morso alla mela. Poi si rivolse a Willow. - Ah, quasi dimenticavo. Tommy vuole controllare l'Hotel Savannah.
- Cosa? - Disse Willow, sorpresa. - È impazzito? Quel posto è un covo di infetti. Non ne uscirà mai vivo.
Greg strappò un morso alla mela. - Sostiene che ci sia della roba interessante. Hai mai visto le bottiglie di bile? No? Le granate. Quelle con il vomito di Boomer. Dice che ce ne sono un sacco per via della CEDA.
- Come fa a esserne sicuro?
Greg sollevò le spalle. - Dice che è una cosa scontata, che la CEDA si portava a presso quelle bombe di vomito. Potrebbero tornarci utili se venissimo attaccati dagli infetti. Salverebbero molte vite.
Willow gli si avvicinò. - Abbassa la voce. Potresti spaventare gli altri.
Greg si guardò intorno. - Gli altri chi? Ci siamo solo noi tre e quei bambini.
- Le mura hanno le orecchie da queste parti.
Greg si alzò e andò a gettare la mela spolpata fino al tronco nel cestino. Poi aprì il rubinetto. - Merda. Ogni volta mi dimentico che non c'è acqua. - Prese un tovagliolo e si pulì le mani.
- A proposito. - Disse Willow. - Come faremo con l'elettricità? Tra poco andrà via, come è già successo negli altri quartieri.
- Non preoccuparti. L'ospedale ha un generatore di riserva. E poi io e i ragazzi possiamo trovare delle candele, lanterne, torce o altri generatori. Tutto quello che serve, insomma.
- I generatori sarebbero meglio. Non mi va di stare come nello sgabuzzino illuminato da solo laterne. Non si vede quasi niente.
- Poco esigente, la nostra cara Willow. - Disse Greg con un sorriso divertito.



 

9


Passarono tre settimane. Tara si era ambientata piuttosto bene, e si separava raramente da Willow. Erano diventate molto amiche. Greg, invece, rimaneva sulle sue. Non era facile parlargli, se non si discuteva dell'esigenza del gruppo, come era molto restio ad affrontare i discorsi personali.
In quelle settimane, avevano avuto a che fare con i sopravvissuti del piano inferiore. Avevano tentato di abbattere la porta delle scale di servizio, ma si erano ritrovati accerchiati dagli infetti. Erano riusciti a penetrare nell'ospedale, uccidendo e infettando le persone.
Arrivarono fino al piano dove c'erano Tara e gli altri, ma non cercarono di entrare. Greg aveva ordinato di fare silenzio e di aspettare che gli infetti andassero altrove. Ci vollero tre settimane, ma alla fine la maggior parte degli infetti si allontanarono.
Greg e i suoi ragazzi ne approfittarono per fare una veloce perlustrazione e raccattare qualcosa in giro.
- Perché l'hanno fatto? - Chiese Tara, confusa. - Non sapevano che con quel chiasso avrebbero attirato gli infetti?
- Non lo so. - Rispose Willow. - Forse erano disperati, o semplicemente impazziti. Ma credo che lo sapevano. Forse l'hanno fatta apposta. Volevano attirarli.
Tara non parlò subito. - Che vuoi dire? Che senso avrebbe?
- Niente ha più senso, ormai. La gente può impazzire da un momento all'altro. Era già capitato con il gruppo ai piani superiori.
Tara si sedette sul divano della sala comune. Erano da soli.
- Vuoi un po' d'acqua? - Domandò Willow, riempiendo il bicchiere da una bottiglietta.
- No, grazie.
Willow le si sedette accanto. - Credo che siamo gli unici rimasti in questo edificio, a parte gli infetti.
- Forse potremmo espanderci ai piani superiori. - Disse Tara.
- Non sarebbe male, ma credo sia troppo pericoloso. - Aggiunse Willow, bevendo un sorso d'acqua. - È meglio restare tutti insieme. Alla fine non siamo così tanti e ci sono delle stanze ancora vuote.
Tara scorse qualcosa passare a una velocità impressionante sui vetri della finestra, che gettò una fugace ombra nella stanza. - Lo hai visto? - Disse, turbata.
- Cosa?
- Qualcosa è passata da lì. È stato un attimo. Era velocissima.
Willow si alzò e raggiunse la finestra, tenendosi poco distante. La osservò per un momento. - Non c'è nulla. - Si voltò. - Hai visto cos'era?
- No, ma era veloce. - Rispose Tara.
- Forse un Hunter. - Aggiunse Willow, pensierosa. - Non è la prima volta che li vedo camminare sulle mura esterne. Ecco perché è meglio non avvicinarsi molto alle finestre, oltre a tenerle sempre ben chiuse. - Si precipitò verso la porta.
- Dove stai andando? - Chiese Tara.
- Ad avvertire gli altri di stare lontano dalle finestre.

Greg e i suoi ragazzi tornarono verso le cinque e mezza del pomeriggio. Erano spaventati, anche se cercavano di non darlo a vedere. La gente si ammassò nella sala comune, curiosa di sapere cosa avessero portato.
- Siamo fuggiti in tempo. - Disse Greg a Willow. Le persone ascoltavano attenti. - Non so quanti siano, ma sono tantissimi. Non ho mai visto tanti infetti in una volta sola. Sembravano perdersi fino all'orizzonte.
La gente si scambiò delle occhiate, spaventate.
- Andrà tutto bene. - Disse Willow, voltandosi verso gli altri. - Dobbiamo solo fare come le altre volte. Rimanere in silenzio e aspettare che vadano via.
Le persone annuirono, ma non tutti erano convinti delle sue parole.
- Che cosa succederà se quelle cose si accorgono di noi? - Le chiese la madre di due bambini.
- Non succederà. L'importante è stare in silenzio.
- Non mi hai risposto.
- Fidatevi di Willow. - Disse Greg, guardando gli altri. - Io mi fido. Se vi fidate di me, allora non c'è niente di cui preoccuparsi.
Nessuno aggiunse niente.
- Mi dispiace di non avervi portato nulla. - Continuò Greg. - Ma siamo stato costretti ad abbandonare tutto quello che avevamo recuperato sui furgoni. Domani andremo a riprenderli.
Tra le persone iniziò a serpeggiare il panico.
- Linda ha ragione. - Disse un uomo sulla cinquantina, capelli stempiati e un pizzetto biondo. - Se quelle cose arrivano qui, è la fine. - Si guardò intorno in cerca di approvazione, ma incontro solo pochi sguardi. Dopotutto Greg li aveva salvati e portati in salvo. Dovevano dargli fiducia.
- Bob, non turbare la gente. - Disse Willow, fulminandolo con gli occhi. - Ti sei dimenticato di come Greg ti ha salvato la vita? Era intrappolato nella tua macchina e, se non fosse stato per Greg, gli infetti ti avrebbero ucciso. Poteva lasciarti lì dov'eri, ma non lo ha fatto. Ha ucciso gli infetti rischiando di morire e ti ha salvato, Bob. Ti ha salvato la vita!
Sentendosi in colpa, Bob abbassò lo sguardo.
- C'è qualcun altro che ha qualcosa da ridire? - Disse Willow, fissando arcigna i volti della gente.
Nessuno protestò.



 

10


Quella sera i sopravvissuti mangiarono in silenzio con le luci spente. Erano state accese lanterne e candele di sego nei corridoi e nelle camere per illuminare un po' l'ambiente. Le finestre furono coperte da lenzuoli o tende, e bloccati da armadi e scaffali. Era imperativo che nessuno facesse rumore, e i bambini erano al quanto restii a farlo. Ma i genitori o chi si era preso cura di loro li rimasero in riga.
La notte passò tra la paranoia generale, e nessuno chiuse occhio. Quando il sole si levò nel cielo, Greg sbirciò dalla finestra della stanza che fungeva da ingresso. Sbarrò gli occhi, stravolto. Gli infetti erano ovunque in strada. Spalla contro spalla. Erano così tanti che non riuscivano a muoversi. Ma la cosa che lo inquietò era il silenzio. Nessuno di loro gemeva. Alcuni se ne stavano silenti, barcollavano, si muovevano in tondo.
Sapeva che per quel giorno non sarebbe uscito, come sapeva che bastava un minimo rumore per ritrovarseli tutti sopra. Il cigolio di una porta, il pianto di un bambino, la caduto di un oggetto pesante. Dovevano restare in silenzio.
Quando fece per uscire dalla stanza, si bloccò. Non erano gli unici nell'ospedale. C'erano altri sopravvissuti nei piani inferiori. Se ne era dimenticato. Se avessero fatto rumore, avrebbero scatenato l'ira dell'orda. Si sentì impotente. Non poteva fare niente. Fece un grosso respiro e uscì dalla camera.

Quattro giorni dopo, l'orda era ancora lì. Tara credette che altri infetti erano giunti a ingrassare le loro fila, ma non ne era sicura. Li vedeva dalla finestra sciamare dai vicoli, dagli edifici circostanti. Il parcheggio dell'ospedale ne era gremito. Per quanto tempo sarebbero rimasti là? Willow le aveva confidato che avevano provviste per tre mesi, quattro se avessero mangiato una volta al giorno. Non sapeva perché gliele avesse detto, ma Tara cominciò a sospettare che gli infetti non se ne sarebbero mai andati. Forse si stava auto convincendo da sola, oppure era il suo istinto che le segnalava un pericolo imminente.
Scacciò via il pensiero e lasciò la sala comune. Mentre camminava nei corridoi, incontrò lo sguardo delle persone impaurite, tristi, terrorizzate. I bambini sembravano ignari del pericolo, anche se qualcuno percepiva la tensione negli occhi degli adulti.
Tornata nella sua stanza, osservò gli infetti dalla finestra. Non riusciva a non guardarli. Voleva tenerli d'occhio, come se questo avesse il potere di tenerli lontani. Sapeva che stava delirando, ma questo la faceva stare tranquilla. Impediva all'ansia di sommergerla, di sopraffarla.
Poi si sedette sulla poltrona e aprì un libro. Voleva pensare ad altro. Doveva provarci. Mentre scorreva le pagine, venne pervasa da un senso di inquietudine. Non sapeva cosa fosse, ma le impediva di immergersi nella lettura. Si alzò, posò il libro su un tavolino e sbirciò dalla finestra.
Gli infetti erano ancora lì, illuminati da un sole cocente. E lei non riusciva non riusciva a starci lontana.



 

11


Verso le due di notte, dai piani inferiori giunsero una moltitudine di grida. Tara e tutti i sopravvissuti si svegliarono di soprassalto e, spaventati, si riversarono nei corridoi. I bambini piangevano, e altri stringevano i propri cari.
Greg raggiunse la stanza che fungeva da ingresso, seguito da alcuni uomini e donne armati di pistole e fucili a pompa. Avevano svuotato la piccola armeria. Quando l'uomo spiò dalla finestra, vide gli infetti precipitarsi verso l'edificio. Il parcheggio dell'ospedale era quasi vuoto, così come lo spiazzo davanti all'ospedale.
- Tenetevi pronti. - Disse Greg, stravolto. - Chiudete i bambini e chi non può proteggersi dentro lo sgabuzzino. Voi altri, con me.
Willow non capiva. - Aspetta, Greg. - Disse, fermandolo per un braccio. - Cosa vuoi fare?
Greg la condusse in un angolo, in disparte dagli altri. - Credo che gli infetti siano entrati nell'ospedale. Non ne sono sicuro, ma non voglio rischiare. Se salissero le scale d'emergenza fino al nostro piano... Beh, puoi immaginare il finale. - Fece una pausa. - Ora sì che quelle dannate granate di bile ci sarebbero servite tanto. Tommy ci aveva visto giusto.
- Non è meglio rimanere tutti insieme. - Rispose Willow. - Gli infetti potrebbero non salire fino a qui.
- Lo sai meglio di me che primo o poi lo faranno. È solo questione di tempo. Quando avranno finito di sotto, verranno subito qui. Non voglio rischiare. È una cosa che va fatta. - Le mise una mano sulla spalla. - Tienili al sicuro, intesi? Ti ascolteranno.
- Quando ritornerete? - Chiese Willow, rattristita.
- Non lo so. Forse tra tre giorni. Dobbiamo allontanarli da qui. Ora devo andare.
- Aspetta! - Willow lo prese per un polso, si guardarono intensamente negli occhi per un lungo momento. - Stai attento, ok?
Greg le sorrise. - Lo farò. - E andò via.

Tara era rimasta insieme agli altri nel corridoio. Aveva sentito da un uomo cosa voleva fare Greg, e non credeva che sarebbe stata una buona idea. Qualcosa gli diceva che non avrebbe più rivisto né Greg, né i suoi ragazzi. Senza di loro, erano in balia degli infetti. Chi lo avrebbe protetti? Chi avrebbe respinto i sopravvissuti che volevano impossessarsi delle loro provviste? Cercò di scacciare via il pensiero, ma quello ritornava più forte di prima. La ossessionava. Non riusciva a mandarlo via.
- Tara. - Disse Willow in fondo al corridoio. - Mi dai una mano?
- Certo. Vengo. - La raggiunse, e notò che era triste. - Tutto bene?
- Sì, tutto bene. Aiutami a portare...
Un forte boato risuonò nel cielo, facendo fremere le pareti e il pavimento. Proveniva dalla stazione di benzina, a un isolato dall'ospedale.
Willow sbarrò gli occhi, sconvolta. - Oh no, no, no! Questa non ci voleva.
- È stato Greg? - Domandò Tara, confusa.
- No, non farebbe mai esplodere nulla così vicino a noi. Dobbiamo chiuderci nello sgabuzzino. Forza!
Mentre si precipitavano verso la stanza, Willow avvertì le persone di seguirla. Presto tutto i sopravvissuti si rinchiusero nello sgabuzzino.
- Meno male che questa camera è ampia. - Disse Willow. - C'è ancora spazio per quanto torneranno Greg e gli altri.
- Non credo che rimarranno qui. - Rispose Tara. - Voglio dire, se riusciranno ad allontanare gli infetti, non avremo bisogno di rinchiuderci qui dentro, giusto?
- Sì, giusto...



 

12


Quello che non avrebbero mai voluto, si avverò. Gli infetti erano saliti sulle scale d'emergenza e ora battevano i pugni sulla porta di ferro. Tara e gli altri riuscivano a sentirli. I colpi riverberavano nei corridoi vuoti. A complicare le cose e a renderle ancora più terrificanti, era un costante ruggito che arrivava da fuori. Un urlo gutturale, profondo, mostruoso.
I bambini si tappavano le orecchie con le mani, gli occhi lucidi, arrosati dal pianto. Gli Hunter si muovevano freneticamente avanti e indietro sulle mura esterne. Sentivano il loro odore, ma non sapevano dove fossero.
Poi un forte tonfo echeggiò nei corridoi, seguite da centinaia di urla irate. I sopravvissuti capirono. Gli infetti aveva abbattuto la porta ed erano entrati. Da un momento all'altro li avrebbero trovati e uccisi.
Alcune persone si alzarono, spaventate. Si diressero alla porta per aprirla e poter fuggire, ma Willow li bloccò.
- Tornate a sedervi. - Bisbigliò. - Non fate stupidaggini.
Una donna la fissò, torva. - Lasciami andare. Non voglio morire qui!
- Abbassa la voce, Tina.
- Sono là fuori! Gli infetti sono là fuori! Sanno che siamo qua. - Indicò la finestra sbarrata. - Non vedi come quegli Hunter girono in tondo? Loro sanno! Non possiamo rimanere qui! NO!
Indecisi sul da farsi, tutti sopravvissuti si alzarono in piedi, e guardarono Willow.
Willow si piazzò davanti alla porta, insieme a Tara. - Nessuno uscirà di qui. Questo è l'unico posto sicuro. Gli infetti non riusciranno ad entrare. La porta è resistente. Ci vuole ben altro che un paio di colpi per mandarla giù.
- E delle finestre che mi dici, eh? - Rispose Tina con fare presuntuoso. - Non sono sicure. Gli Hunter potrebbero entrare da un momento all'altro. E anche gli infetti possono entrare da lì. Sappiamo tutti come siano in grado di arrampicarsi quasi su ogni cosa.
La gente cominciò a farsi prendere dal panico, a scambiarsi occhiate.
- Non sei di aiuto, Tina. - Disse Willow, irritata. - Greg e i ragazzi sono andati là fuori per aiutarci. Creeranno un diverso per allontanare gli infetti da noi. Dobbiamo solo rimanere calmi e fare silenzio.
Tina sbuffò un sorriso, seccato. - Forse sono già tutti morti. Hai visto quanti infetti ci sono là fuori? Sento le loro urla da qui. Forse sono già nel corridoio accanto. Greg non potrà fare un bel niente. Siamo soli! Soli!
Willow diventò paonazza dalla rabbia. - E dove vorresti andare, eh? Se i corridoi sono invasi dagli infetti, non potrai andare da nessuna parte. Credi di riuscire a superarli senza essere uccisa? Vuoi portare tutti quanti verso la morte, Tina? - La guardò dritta negli occhi. - Allora? È così?
La donna non rispose e abbassò lo sguardo.
Quando Willow fece per parlare ai sopravvissuti, uno grosso squarciò si aprì in mezzo alle due finestre. Qualcosa aveva colpito e distrutto buona parte del muro esterno.
Una densa nube di polvere invase la stanza, mentre il sole accecava i sopravvissuti. Un ruggito terrificante si levò nell'aria, sovrastando le urla degli infetti. Poi le pareti e il pavimento cominciarono a tremare. Qualcosa si stava arrampicando sulla facciata dell'ospedale.




 

13


Mentre le gente tossiva per via della polvere, un imponente figura si stagliò nella nube. Ruggì e si batté i pugni sul petto, poi si lanciò contro i sopravvissuti. Era un Tank.
Le persone si affollarono davanti alla porta, mentre Willow l'apriva. Il Tank schiacciò un uomo con un possente pugno, facendo tremare il pavimento. I sopravvissuti fluirono nel corridoio, solo per vedere gli infetti correre da entrambe le direzioni.
Tara si pietrificò dal terrore. I bambini piangevano, ed altri fuggivano via inseguiti dai loro cari.
Il Tank distrusse l'ingresso con un pugno, e pezzi di detriti colpiranno le persone. Tina corse verso una porta poco distante, ma venne afferrata dal Tank.
- Lasciami andare! - Gridò, tartassandogli di pugni il possente polso ruvido.
Quello la avvicinò alla faccia, le ruggì e la stritolò. Lo scricchiolio delle ossa rotte fece girare Tara, che sentì una fitta allo stomaco.
Il Tank lanciò quello che rimaneva di Tina contro il muro. Poi avanzò barcollando con le nocche sul pavimento.
- Andiamo, Tara! - Urlò Willow, afferrandola per un polso. Se la trascinò dietro lungo il corridoio. Mentre la gente cercava riparo nelle altre camere, il Tank face a pezzi i muri e ne uccise gli occupanti. Questi cercavano di fuggire, ma venivano schiacciati o lanciati con le pareti. E, chi riusciva a superarlo, veniva travolta dagli infetti appena giunti.
Willow e Tara entrarono nella stanza che fungeva da ingresso e bloccarono l'entrata con un armadio. Alcuni infetti si lanciarono contro la porta e cominciarono a tartassarla di pugni e calci. Le loro grida sovrastavano qualsiasi rumore.
- Siamo in trappola! - Disse Tara, stravolta, tremante.
- Aiutami a spostare quella roba! - Rispose Willow.
Raggiunsero gli scaffali, cassettoni e armadi che bloccavano l'uscita. Spinsero uno scaffale con fatica, poi un cassettone.
La porta che dava sul corridoio si aprì un poco, e un infetto calò una mano grigiastra all'interno.
Tara si lasciò scappare un grido.
- Non guardare! - Disse Willow. - Aiutami! Dai!
Appena finirono di spingere l'armadio, l'altro che bloccava la porta venne giù. Gli infetti si riversarono all'interno, calpestando quelli davanti.
- Usciamo! - Gridò Willow passando nello spazio tra il muro e un cassettone.
Un infetto afferrò Tara per una caviglia, che strillò e gli tirò calci in faccia.
- Aiutami, Willow! - Urlò Tara, allungandole una mano.
Willow si fermò a guardarla per un attimo in mezzo al ponte di assi. - Perdonami... - Bisbigliò. Quando fece per fuggire, un Hunter la travolse. Cascarono giù, schiantandosi sul cemento.
- NOO! WILLOOOW! - Gridò Tara, sconvolta. L'infetto cercò di tirarla verso di sé, ma la donna, nel mollargli un calcio in faccia, colpì lo scaffale traballante che crollò addosso agli infetti. Tara scattò in piedi e si precipitò sul ponte di assi.
Un Hunter balzò dalla facciata dell'ospedale, ma la mancò di poco. Altri le saltarono contro, ma Tara riuscì a rifugiarsi in tempo nell'edificio in costruzione. Chiuse la porta di legno alle sue spalle e la bloccò con dei sacchi di tufo.
Sentiva i ringhi degli Hunter oltre l'entrata. Alcuni raschiavano il legno con gli artigli o scavavano sotto la porta. Sapevano che era lì, e altri si limitarono a gironzolare sul tetto.
Tara si accasciò con le spalle contro il muro. Era sul pianerottolo di una corta scala. La porta del piano inferiore era chiusa.
Restò lì per un'ora a piangere per Willow, e per aver perso ogni cosa. Era rimasta sola. Greg e i ragazzi non potevano essere sopravvissuti. Forse nemmeno si erano allontanati dall'ospedale. Forse l'esplosione che aveva dato via al massacro, era opera loro. Qualcosa era andato storto. Forse un colpo accidentale era finito contro una pompa della benzina, facendo esplodere la stazione? Proprio come era successo a lei? Ma i forse non potevano spiegare nulla.




 

14


Passarono due giorni. Tara non si era mossa di un centimetro. Aveva troppo paura. Credeva che persino respirare troppo forte avrebbe attirato gli infetti. Così si era accucciato nell'angolo del pianerottolo e da lì non si era schiodata nemmeno per un momento.
Non riuscì a dormire molto. Forse in due giorni aveva dormito quattro ore in tutto. Si sentiva stanca, debole. Ma quando udiva i ringhi degli Hunter fuori dalla porta, si riprendeva alla svelta.
Lo stomaco cominciò a brontolarle. Non metteva qualcosa sotto i denti da molte ore, e la sete le aveva screpolate le labbra. Si alzò e, tenendo una mano poggiata al muro, scese lentamente la scala. Si fermò davanti alla porta e fissò la maniglia. La mano le tremava. Non voleva farlo. Non voleva uscire da lì. Forse dall'altra parte c'erano gli infetti e gli infetti speciali. Ma non poteva rimanere lì per sempre. Sarebbe morta di fame e di sete. Doveva farlo.
Girò la maniglia e l'aprì quanto bastava per sbirciare all'interno. Nella stanza non c'era nessuno. Il sole filtrava da una finestra coperta da un telo di plastica, e grandi pannelli di legno erano adagiati orizzontalmente contro il muro in attesa di essere adagiati. Tara percorse la camera e s'inoltrò in un lungo corridoio che la condusse su una rampa di scale. Guardò al di sotto, e non vide nessuno. Così seguitò a scendere lentamente.
Le porte sui pianerottoli erano chiuse da grossi catenacci. Tara non volle scoprire cosa ci fosse all'interno, così scese l'ultimo gradino. La porta dirimpetto era semichiusa. Un fascio di luce filtrava da sotto la fessura.
Appena l'aprì, vomitò schiuma bianca sul pavimento. Il tanfo di putrefazione e l'odore metallico del sangue le pervase i polmoni, e dovette tapparsi il naso e la bocca nell'incavo fra l'avambraccio e il bicipite per non avere altri coniati di vomito.
Greg giaceva di schiena contro il muro, il petto squarciato, la testa mozzata sul grembo. Era attorniato dai corpi straziati del suoi ragazzi. Il pavimento e le pareti imbrattate di sangue raggrumato.
Scioccata, Tara voltò la testa per non guardarlo, mentre delle lacrime le rigarono il viso. Passò accanto ai corpi e aggirò le pozzanghere di sangue. Arrivò in fondo alla stanza e, lanciando un'ultima occhiata rattristita a quelli che nelle ultime settimane erano stati i suoi amici, aprì la porta.

Scese una scala e girò a destra. Scorse la luce del sole penetrare dalla fessura sotto la porta. Camminò lungo il corridoio e si fermò, la mano tremante a tre dita dalla maniglia. Sapeva che dall'altra parte c'erano gli infetti. Anche se non li sentiva, lo intuiva. Poi indietreggiò, spaventata. Si era dimenticata degli Hunter. Un moto di terrore gli percorse la schiena. Era da una settimana e mezza che quelle cose si muovevano avanti e indietro sulle mura esterne dell'ospedale, e per poco non l'avevano presa. Forse erano ancora lì.
Si fece coraggio e aprì lentamente la porta. Nello spiazzo non c'era nessuno. Tara uscì cauta e notò che gli Hunter erano spariti lungo le mura dell'ospedale. Forse tutto quanto era stato solo un brutto incubo. Ma la bile nera che tappezzava lo spiazzo la fece ricredere. Era tutto vero.
Non sapeva dove fosse finita l'orda, gli Hunter e il Tank, ma doveva allontanarsi prima che ritornassero. Corse rasente alle pareti dell'ospedale, finché arrivo davanti a un gabbiotto. Una guardia morta sedeva con il viso in decomposizione. Ai piedi della sedia da ufficio, una Glock. Tara la afferrò e uscì dal cancello che giaceva a terra.
Mentre camminava sul marciapiede, adocchiò la pistola. Se la raggirò nella mani, confusa. Non sapeva come usarla, ma credeva che fosse facile. Puntare e sparare. Era tutto qui. Si fermò e mirò un manichino nella vetrina infranta di un negozio di vestiti. Poi abbassò l'arma e continuò a muoversi.




 

15


Vagò lungo la strada per quasi per mezz'ora, finché scorse un negozio di alimentare. Fu tentata di precipitarsi dentro e mangiare e bere qualsiasi cosa avesse trovato. Ma non lo fece. Rimase immobile per un momento, guardandosi intorno. Le sembrava strano che non ci fossero infetti. Dov'erano finiti tutti? Forse erano stati attirati altrove da un rumore? Si era allontanati per questo? Eppure Tara non aveva sentito niente. Nell'aria aleggiava un tetro silenzio.
Zigzagando tra i veicoli abbandonati sulla strada, si avvicinò al negozio alimentare. La doppia porta era stata abbattuta, e la maggior parte dell'interno era in penombra. Quando entrò, scorse alcuni scaffali sul pavimento. Lanciò un'attenta occhiata nel locale e non vide infetti. Così si mise alla ricerca di cibo e acqua, ma non trovò niente. E quando credette di aver trovato qualcosa, si ritrovava in mano cartacce e barattoli vuoti. Dopo un po' capì che il negozio era stato saccheggiato da cima a fondo.
Andò nel bagno e aprì il rubinetto. Gettiti d'acqua vennero giù e Tara ficcò immediatamente la testa nel lavabo per bere. Poi chiuse il rubinetto e, quando andò a prendere una bottiglietta per riempirla, scorse un infetto fuori dall'entrata. Barcollava, scuotendo freneticamente la testa.
Tara si abbassò con il cuore in gola. Lasciò perdere l'idea di riempire l'acqua e, passando da uno scaffale all'altro, si mosse fino all'entrata. Guardò nuovamente verso l'ingresso, ma l'infetto era sparito.
Se era fuori, doveva affrontarlo, ucciderlo. Ma forse poteva sgattaiolare via senza farsi notare. Non sapeva se avrebbe funzionato, ma doveva tentare. In caso contrario, avrebbe usato la pistola.
Raggiunse l'ingresso, tenendo le spalle contro il muro. Quando sbriciò fuori, rimase stravolta. Una centinaio di infetti erano sparsi tra i veicoli nella strada. Alcuni strascicavano i piedi, altri barcollavano, vomitavano, si sdraiavano, scuotevano la testa o la poggiavano contro il muro. Ma tutti erano silenziosi, e solo di rado si sentiva un gemito sommesso.
Tara non sapeva cosa fare. Non poteva più uscire. Era circondata, e rimanere nel negozio equivaleva a morte certa. Primo o poi l'avrebbero sentita, vista o sarebbero entrati. Si fece prendere dal panico e cominciò a respirare con difficoltà. Si accasciò al pavimento, la schiena contro la parete, la testa tra le mani.

 

16


Restò così per un lungo momento, poi si alzò. Doveva restare lucida. Forse nel retro avrebbe trovato un'uscita secondaria. Chinandosi, si mosse tra gli scaffali e arrivò davanti a una porta di legno. Pensò a cosa potesse esserci dall'altra parte, poi l'aprì. Seguì un corto corridoio che la condusse davanti a una porta di ferro. Doveva essere l'entrata per i dipendenti. Non doveva fare altro che spingere la maniglia e fuggire, ma non lo fece. Forse c'erano gli infetti. Se così fosse, sarebbero entrati nel negozio. L'avrebbero uccisa. Ma che senso valeva restare lì? Se non avrebbe rischiato, sarebbe morta ugualmente.
Spinse la maniglia e si ritrovò in un vicolo. Non c'era nessuno. Si era sbagliata, e ne fu felice. Gettò una rapida occhiata in giro e proseguì. Quando arrivò in fondo, posò un ginocchio a terra e osservò la strada. Gli infetti si erano ammucchiati. Le sembrava che ne fossero arrivati degli altri. Che sentissero il suo odore? Che percepissero la sua presenza?
Tara si sentì fortunata di non vedere degli Hunter lungo le facciate degli edifici. E ancora più grata dell'assenza del Tank. Aveva visto cosa era stato capace di fare, e non voleva ritrovarselo davanti. Non voleva mai più vederlo.
La fine del vicolo era ostruito da due cassonetti di immondizia, e un monovolume parcheggiata accanto a un muro. Sarebbe stata al sicuro là, sempre che gli infetti non avessero deciso di invadere il vicolo o gli Hunter si fossero fatti vivi. Poi scorse una scala antincendio e le venne un idea. Si arrampicò su un bidone della spazzatura e salì la prima scala, fermandosi sul pianerottolo. Scrutò dalla finestra l'interno di un appartamento e provò ad aprirla. Era chiusa. Stava per rompere il vetro, quando si fermò. Cosa diavolo stava facendo? Se l'avrebbe rotta, si sarebbe attirata addosso centinaia di infetti.
Salì al secondo pianerottolo, e anche qui trovò la finestra chiusa. Continuò fino al quinto, dove trovò una finestra aperta. Ci entrò dentro. Era un piccolo soggiorno comunicante con la cucina. Tara restò ferma per un attimo, guardandosi intorno. Non sapeva se nell'appartamento ci fossero ancora persone sane o infette. Così camminò cauta nella stanza, la pistola alzata. Varcò l'ingresso della cucina, e non vide nessuno. Poi controllò il bagno, la camera da letto e quello che sembrava un ufficio. Tirò un sospiro di sollievo. Non c'era nessuno.
Tornò di corsa in cucina e aprì il frigorifero. Un sorriso le si dipinse sul volto. Finalmente avrebbe mangiato.




 

17
 

Tara passò sedici giorni chiusa nell'appartamento. Aveva sbarrato la porta d'ingresso con un divano, chiuso tutte le finestre e razionato il cibo. Al quattordicesimo giorno, l'acqua e l'elettricità erano andate via. Non sapeva se era così ovunque, e le venne una mezza idea di andare a controllare gli altri appartamenti. Ma non lo fece. Potevano esserci degli infetti nei corridoi. Non voleva rischiare.
Al sedicesimo giorno, quella paura scomparve, o meglio la fece scomparire la sete. Doveva controllare. Forse nelle altre abitazione l'acqua non era andata via. Spostò lentamente il divano, facendo attenzione a non fare rumore, e aprì un poco la porta. Sbirciò nel corridoio, ma non vide nessuno. Cauta, uscì dall'appartamento e s'incamminò lungo il corridoio. Si fermò davanti alla scala. Gettò un'occhiata al piano sottostante, e non nessun infetto. Non era certa che ce ne fossero ma, prima di scendere, decise che avrebbe controllato le abitazioni di questo piano.
Trovò tre porte chiuse a chiave, e l'ultima aperta. Quando entrò nel soggiorno, le parve di sentire uno scricchiolio provenire dalla camera da letto. Prima di andare a controllare, perlustrò la cucina e il bagno, aprendo i rubinetti e pigiando i pulsanti della luce. Ebbe la conferma che l'acqua e l'elettricità erano andate via ovunque. Come si sarebbe dissetata?
Appena uscì dal bagno, seguì il corto corridoio con estrema cautela e si avvicinò davanti alla porta della camera da letto. Udì di nuovo quello scricchiolio. Puntò la pistola davanti a sé e l'apri lentamente. Un acre odore di morte le pervase i polmoni e tossì.
D'un tratto qualcosa le afferrò il polso, la scaraventò contro il muro. La bocca insanguinata di un'infetta le scattò a quattro dita dalla faccia. Poi si sentì graffiare il collo. Tara si fece scappare un grido di orrore, e tentò di spintonarla lontano. Non ci riuscì. L'infetta era troppo forte. Un colpo di pistola andò a vuoto e colpì il muro. L'infetta si irritò e la lanciò sul pavimento. Mentre le si si gettava addosso, Tara prese la mira e le scaricò tutto il caricatore in corpo.
L'infetta crollò al suolo. Tara scattò in piedi, si guardò le mani, gli avambracci, si tastò il corpo. Credeva di essere stata ferita. Quando andò in bagno a darsi un occhiata, vide due graffi sul collo. Terrorizzata, afferrò il disinfettante nell'armadietto e versò il liquido sull'ovatta. Se lo mise sulla ferita, che cominciò a bruciarle. La tremava la mano. Non sapeva se adesso era infetta, oppure no. Non sapeva neanche come si diffondesse il virus. Prese un'altra ovatta e la bagnò abbondantemente nel disinfettante. Poi la posò sulla ferita e la fissò con dei cerotti.
Mentre si guardava preoccupata allo specchio, si dimenticò del rumore che aveva fatto con la pistola. E dopo una manciata di secondi, sentì le urla degli infetti fuori dall'appartamento.

Si lanciò verso l'ingresso con la testa che le formicolava. Scorse gli infetti svoltare l'angolo delle scale e correrle incontro. Appena chiuse la porta, gli infetti le si lanciarono contro e la martellarono di pugni e calci.
Tara si precipitò verso le scale antincendio. Aveva la gola secca e lo stomaco che le brontolava per la fame. Alzò la finestra e uscì sulla scala antincendio. La scese fino al primo pianerottolo, quando si bloccò. Lo spiazzo sottostante era vuoto, ma un centinaio di infetti arrivavano correndo in fondo al vicolo. Distavano più di cento metri, ma sembravano procedere veloci come ghepardi.
Presa dal panico, scese frettolosamente la scala e corse dalla parte opposta dalla strada. Si lasciò cadere la pistola senza munizioni e girò l'angolo. Si fermò per un istante, come se credesse di imbattersi in altri infetti, ma invece non c'era nessuno. Corse verso un posto di blocco militare e la superò, passando in mezzo a una recinzione divelta. In quell'istante gli infetti svoltarono l'angolo e la inseguirono.
Mentre Tara correva a perdifiato, le parve di intravedere una figura sfuggente sopra un tetto, che si lasciava dietro una nebbiolina verdastra. Poi scorse tre Hunter correre sulle pareti esterne degli edifici. Spaventata, la donna si bloccò per un istante. Poi s'inoltrò in uno stretto vicolo, mentre le urla degli infetti si facevano più vicini. Uscì su un piccolo giardino che dava sul parco. Lo stesso parco dove settimane prima aveva organizzato il matrimonio. Sentì una fitta allo stomaco, e una tristezza pervaderle la mente. Entrò nel parco desolato e si nascose dentro un tendone.
Da lì poteva vedere il tetto del padiglione abbigliato con delle luci. Tavoli, sedie e delle casse acustiche erano sul davanti. Le venne un nodo in gola nel vedere tutto ciò, e le lacrime le inondarono il viso. Poi l'orda di infetti invase il parco, e Tara sentì le loro urla indemoniate tutt'attorno alla tenda.

Restò rannicchiata in un angolo, dietro a delle casse. Uno strano torpore cominciò a impossessarsi della mente, del corpo. Non riusciva a pensare, a muoversi. Persino respirare le costava gran fatica. Poi i suoi pensieri si fecero oscuri, orrendi. Vedeva gli infetti, sentiva i loro gemiti. Quando cercava di gridare per scacciarli, si scopriva senza voce. Cominciò a sentire caldo, a tentare inutilmente di togliersi l'abito da sposa, graffiandosi la pelle e strappandosi lembi di tessuto.
La fronte le si impregnò di sudore, e crollò a suolo. Ora scorgeva gli infetti sopra di lei, le gridavano, alcuni tentavano di colpirla. Sapeva che era solo frutto della sua immaginazione, ma non aveva più controllo dei suoi pensieri. Poi le parve di vedere suo padre e il suo fidanzato, e gli infetti scomparvero. Erano di nuovo sani. Le sorridevano e le tendevano la mano. Tara tentò di afferrarle, ma le braccia le sembrano pesanti come macigni. Si sforzò di alzarle, ma quelle non si mossero. Con fare austero, Marcus e Austin indietreggiarono e uscirono dalla tenda, mentre Tara, in lacrime, cercava di gridare loro di non andare via.
Infine le palpebre si fecero pesanti, e le orecchie cominciarono a fischiarle. Cercò di alzarsi, di tenere gli occhi aperti, ma non aveva più il controllo del suo corpo.
D'un tratto venne percorsa da violenti convulsioni per un po', finché smise di muoversi. Le pupille dilatate, la muscolatura contratta, la bocca spalancata. Gli occhi le si iniettarono di sangue, e iniziò a sputare sangue e bile. I denti le diventarono aguzzi, i capelli biondo platino e le dita le si allungarono in artigli affilati. Si alzò in piedi e cominciò a piangere, coprendosi il viso con le mani. Una volta uscita dalla tenda, camminò lentamente tra gli infetti e raggiunse i piedi del padiglione. Quindi si sedette in un pianto sommesso e desolante.
Era diventata una Witch.





ANGOLO AUTORE: La sposa Witch del mio racconto è un infetto che si trova davanti al padiglione nel centro del parco, nella campagna The Passing. Ho inventato un nome e una storia fittizia che spiega come sia diventata una Witch.

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Capitolo 5
*** L'uomo della chiesa ***


1


- Il pastore Timothy Dunsale?
- Sì, sono io. Cosa volete?
- Sono il sergente Molligan Hardy. D'ora in poi questa chiesa è sotto la giurisdizione dell'Esercito degli Stati Uniti d'America.
Timothy aggrottò le sopracciglia, confuso. - Non potete. Questo luogo è sacro.
- Certo che possiamo. E ora fatti da parte.
Il pastore si spostò, e sei soldati armati di fucili d'assalto entrarono nella chiesa.
- Parlerò con il sindaco. - Disse Timothy, arrabbiato. - Non potete entrare nella casa del signore e metterla a soqquadro. Non avete...
- Sprechi solo fiato. - Lo interruppe il Sergente con fare annoiato. - Hai almeno una minima idea del perché lo stiamo facendo?
Il pastore si limitò a guardarlo.
- Sembra di no. - Aggiunse Molligan. - Come credevo. Ora la domanda è una sola. Vale la pena dirti ciò che ho da dire?
Timothy non parlò. Non gli piaceva affatto l'atteggiamento arrogante di quell'uomo.
- Hai perso la lingua, pastore?
- Non mi piace il tuo modo di porti.
- Ah, no? Mi scusi tanto. Ora dovrei confessarmi, giusto?
Timothy serrò gli occhi, irritato, e scese la scalinata.
Il sergente abbozzò un sorriso trionfante ed entrò nella chiesa. Non gli erano mai piaciuti i religiosi.
La struttura si ergeva su una piccola collina, cinta da una recinzione la cui parte bassa era in pietra e quella superiore con sbarre di metallo nere. Si trovava nella periferia di Riverside e, alle sue spalle, c'era il cimitero.

Timothy uscì dal terreno della chiesa, dove c'erano cinque jeep e un camion militare, e attraversò la strada stranamente deserta. Appena si avvicinò all'emporio, scorse una decina di veicoli nello spiazzo. Il pastore entrò nel negozio affollato di gente con carrelli carichi di cibo e acqua.
- Ok, state calmi. - Disse il proprietario del negozio, Gustavo Hernandez. Un uomo sulla sessantina, carnagione mulatta, i capelli grigi e un paio di folti baffi grigio neri sopra il labbro superiore. - Non c'è motivo di spingere o litigare.
- Ma hai visto cosa sta succedendo là fuori? - Disse un uomo sulla quarantina. - L'esercito sta sigillando i quartieri. Ho sentito dire che quelle cose stanno venendo qui!
Le persone si scambiarono delle occhiate, impaurite.
- Cosa vuoi dire? - Domandò una donna sui trent'anni.
- Che stanno arrivando! L'esercito ci dice di stare calmi, ma non fermeranno quelle cose. Io lo so!
- Signori, vi prego. - Disse Gustavo. - L'esercito è addestrato per queste situazioni. Dobbiamo solo stare calmi e collaborare.
- Fottiti! - Disse l'uomo sui quarant'anni. - Tu non sai un cazzo! Mio cugino Fred mi ha detto tutto. Ha visto quelle cose in azione. Sono dei mostri. Non sono malati. Uccidono chiunque incontrino sulla loro strada! Io non voglio farmi trovare qui quando arriveranno! - Si voltò e corse verso l'uscita con il carrello.
- Ehi! - Urlò Gustavo. - Non mi hai pagato! Fermate quel ladro!
Le persone lo guardarono andare via, senza fare niente.
Timothy lo fermò. - Dove vai così di fretta, figliolo?
- Togliti dalle palle, pastore! - Gridò l'uomo paonazzo dal volto.
Prima che Timothy potesse rispondere, Gustavo li raggiunse e afferrò l'uomo per il giubbotto.
- Non mi toccare, stronzo! - L'uomo lo spintonò contro uno scaffale, facendolo crollare sul pavimento. Quando fece per andare via, il pastore lo bloccò di nuovo.
- Perché ti stai comportando così? - Disse.
L'uomo lo guardò arcigno per un istante, poi gli mollò un pugno in faccia. Mentre Timothy cadde a terra, l'uomo spinse fuori il carrello e corse lungo lo spiazzo.
Preoccupata, la gente si accalcò attorno al pastore.
- Tutto bene, Tim? - Disse Gustavo, aiutandolo ad alzarsi.
- Sì, tutto bene. Non è la prima volta che mi becco un pugno in faccia. - Si toccò lo zigomo destro poco dolorante.
Gustavo andò dietro il bancone e, prendendo il cellulare, compose il numero della polizia. Attese per un momento. La linea era occupata.



 

2


Quando Timothy tornò davanti alla sua chiesa, la trovò piena zeppa di soldati. Sopra il portico, due cecchini tenevano d'occhio le strade. Avevano bloccato l'accesso alla città con due cancelli blindati su cui correva del filo spinato. Sei soldati armati di fucili d'assalto e di precisione erano di guardia. Un'altra recinzione era stata innalzata per sbarrare l'accesso al quartiere residenziale accanto alla chiesa.
Il pastore notò che la gente affluiva nell'edificio, e altra ne continuava ad arrivare.
- Che cosa sta succedendo qui? - Chiese il pastore.
Prima che il soldato potesse parlare, sopraggiunse il sergente Molligan Hardy.
- Siete tornato, pastore. - Disse con un sorriso. - Ah, vedo che hai un bel livido in faccia. Hai fatto nuove amicizie, eh? - Sorrise. - Comunque stiamo allestendo un rifugio per le persone.
- Rifugio? Per cosa?
- Quindi non sai proprio nulla, eh? Il tuo amichetto in cielo non ti ha detto niente? - Sorrise mellifluo.
Il pastore aggrottò la fronte, irritato. - La tua arroganza mi da sui nervi.
- Non dovresti contemplare la pace o qualcosa del genere?
Timothy sbuffò, irato, ed entrò nella chiesa. Lungo la corta navata c'erano una dozzina di persone. Uomini, donne, bambini, anziani. Erano ammassati e sistemati nei sacchi a pelo, sedie e su alcune brande.
- Credo che dovremmo espandere il rifugio. - Disse il sergente, arrivandogli alle spalle. - Da fuori sembra più grande. Sarà perché è costruita sulla collina che gli dona un aspetto... Huh, come dire, imponente.
- Non c'erano altri posti per farlo? - Domandò il pastore. - E poi mi dovete ancora delle spiegazioni.
- Ok, ok, va bene. La situazione è un po' critica. Nulla di grave, credetemi. Ma ho avuto l'ordine di costruire un rifugio proprio qui. Sì, nella tua chiesa, pastore. Sembra un posto sicuro e ben difendibile.
- Difendibile? - Timothy non capiva. - Da chi? Da che cosa?
Il sergente non parlò subito, in quanto non sapeva cosa dirgli. - Da nessuno. - Disse con un finto sorriso. - Proprio da nessuno. È solo una... una precauzione.
- Sì, ma da cosa?
- Te l'ho detto. Da niente. - Milligan si voltò e uscì dalla chiesa.
Timothy si guardò intorno, non sapendo cosa fare.

Verso il tardo pomeriggio andò da Gustavo, ma non lo trovò. L'emporio era stato saccheggiato e abbandonato. Una chiazza di sangue si trovava davanti all'ingresso dell'ufficio, oltre i banconi. La porta era stata abbattuta. Quando Timothy entrò dentro, vide una donna morta di schiena al muro. Aveva il petto squarciato, la faccia sfregiata e un braccio da cui fuoriusciva l'osso all'altezza del gomito. Brandelli di carne erano sparsi sul pavimento insanguinato.
Il pastore si voltò, portandosi una mano alla bocca per non vomitare. L'inteso odore di morte aleggiava nell'aria. Indietreggiò lentamente, finché andò a sbattere contro uno scaffale. Spaventato, corse fuori dal negozio.



 

3


Quando raggiunse la chiesa, il sergente lo fissò, confuso.
- Sembra che tu abbia visto un fantasma. - Disse.
- C'è... c'è una donna nell'emporio. È morta.
Milligan aggrottò la fronte, scosso. - Morta? Le hanno sparato?
- Ha il petto squarciato.
Il sergente rimase interdetto per un attimo. Si voltò e chiamò i due soldati vicini. - Venite con me.
Scesero la scalinata e uscirono dal terreno consacrato. Appena arrivarono davanti all'emporio, si fermarono.
- Voi due entrate dal retro. - Disse Milligan. - Non sparate per uccidere, intesi? Ora andate!
Timothy seguì il sergente all'interno e, quando arrivarono sotto la soglia del piccolo ufficio, scorsero la donna.
- Cristo! - Il sergente serrò gli occhi. - Le hanno aperto la gabbia toracica. Quale psicopatico farebbe una cosa del genere? - Si girò verso il pastore. - La conosci?
Timothy scosse la testa. - Conosco il proprietario, Gustavo Hernandez. Ma non so dove sia finito.
- Forse è fuggito quando il locale è stato saccheggiato. Però mi pare strano che i miei cecchini non abbiano notato nulla.
- Sì, lo trovo strano anch'io.
In quell'istante arrivarono i due soldati.
- Avete trovato qualcosa? - Chiese il sergente.
- Tre corpi, signore. - Rispose uno di loro. - Hanno il petto squarciato.
Uscirono dal retro e si avvicinarono a due bidoni della spazzatura, nel vicolo. Tre corpi insanguinati giacevano vicino a cinque sacchi dell'immondizia, i busti dilaniati, i visi sfregiati. Le pareti che davano sul locale e su un magazzino alle spalle, erano schizzati di sangue.
Il sergente non sapeva cosa dire.
Timothy si fece il segno della croce. - È terribile... - Si chinò su Gustavo. - Era una brava persona. Chi può aver fatto una cosa del genere? - Gli balenò in mente l'uomo che gli aveva tirato un pugno. Che fosse stato lui? No, l'uomo era fuggito a gambe levate con l'intenzione di lasciare Riverside. Non aveva motivo di tornare indietro, a meno che non gli fossero servite altre provviste. Ma scartò anche quell'ipotesi, in quanto c'erano altri negozi sparsi nella città.
- A cosa stai pensando? - Disse Milligan, interessato.
- A nulla.
- Mi sembravi assorto nei pensieri. Hai qualche idea su chi sia stato?
Il pastore non parlò subito. - Sì, ma... Ma non credo sia stato lo stesso uomo che mi ha tirato un pugno in faccia, e rubato la merce a questo pover'uomo. Voglio dire, non mi era sembrato un assassino. Era solo spaventato e voleva lasciare al più presto la città.
- Perché voleva andare via?
- Diceva che dei mostri sarebbero arrivate qui e ci avrebbero uccisi tutti. Poi si era lamentato dell'esercito. Ha detto che stavano sigillando i quartieri. - Il pastore lo guardò per un momento. - Vi siete impossessati della mia chiesa, quindi immagino che sia vero?
I due soldati lanciarono uno sguardo al sergente, che rimase impassibile. - Sì, è tutto vero. Siamo qui per aiutare. Abbiamo ricevuto l'ordine di chiudere la città, e di non far entrare o uscire nessuno.
- Sono sicuro che c'è dell'altro.
- Non hai bisogno di sapere i dettagli. - Il sergente si voltò verso i due soldati. - In marcia. Torniamo alla chiesa.
- Aspetta! - Aggiunse Timothy. - Non possiamo lasciarli qui. Meritano una degna sepoltura.
Milligan sbuffò. - Manderò alcuni uomini ad occuparsene.



 

4


Il mattino seguente, la gente si era radunata nel cortile esterno, alle spalle della chiesa. Si guardavano tra loro turbati, spaventati.
- È successo qualcosa? - Dicevano.
- Saranno vere le voci?
- Siamo in pericolo?
- Non capisco perché ci hanno fatto evacuare dalle nostre abitazioni.
Queste erano solo alcune delle moltissime domande che ronzavano in testa alle persone. Poi il vociferare caotico si fermò, e tutti si voltarono verso il sergente. Era salito su una piccola piattaforma di legno allestita per quell'avvenimento, affiancato da due soldati armati di fucili d'assalto.
- Vi state chiedendo del perché siete qui, giusto? - Disse con voce grave, autoritaria. - Come alcuni di voi sanno già, un virus letale sta seminando morte in tutto il paese. La costa orientale è del tutto invasa dall'epidemia, e ora questo virus si sta spostando verso occidente.
Le persone si lanciarono occhiate, spaventate.
- Andrà tutto bene. Abbiamo tutto sotto controllo. Non dovete preoccuparvi di niente. Vi chiedo solo di collaborare con me, con i miei uomini. Loro sono qui per difendervi.
- Difenderci? - Urlò un uomo anziano per farsi sentire. - Da cosa?
Timothy osservò Milligan, che incrociò le mani dietro la schiena e soppesava le prossime parole. - Credo sia inutile farvi restare all'oscuro di quello che sta realmente succedendo a New York, a Washington e in altre grandi città della costa orientale. - Fece una pausa. - Il virus trasforma le persone, le rende furiose. Ora, non sono un medico o uno scienziato, quindi vi dirò solo quello che ho saputo. La malattia è contagiosa, ma alcuni... alcuni sono dei vettori, portatori sani dell'infezione. Sono immuni al virus, ma sono un pericolo per tutti gli altri. Per questo, da domani mattina, tutti voi siete pregati di farvi prelevare il sangue, così da capire se siete esposti e aiutarvi.
Tra la folla serpeggiò il panico. Non tutti avevano ascoltato il sergente, in quanto impegnati a parlare tra loro.
Timothy aveva finalmente compreso cosa stava nascondendo Milligan, ma non aveva capito da cosa li dovevano difendere. Forse l'uomo che gli aveva tirato un pugno aveva ragione. I malati attaccavano e uccidevano davvero la gente. E se l'infezione fosse giunta fino a qui, dentro la chiesa, le cose sarebbero andate in malora.
- Chi è esposto al virus che fine farà? -Urlò lo stesso anziano di prima.
Il sergente ci meditò un istante. - Gli verrà iniettato un vaccino sperimentale. Questo lo aiuterà a rallentare o a debellarla l'infezione. Purtroppo non possiamo sapere la reazione esatta, ma i nostri migliori scienziati ci lavorano giorno e notte. È solo questione di tempo, prima di trovare una cura.
- E se qualcuno si trasforma?
Quella domanda scosse le persone, che si ammutolirono di colpo.
Milligan scrutò le loro facce preoccupate. - Sarà condotto in quarantena, dove i medici se ne prenderanno cura.
- Dove? Dove verranno portati?
- In un luogo segreto, al sicuro.
Quella risposta non piacque molto alla gente, che cominciò a rumoreggiare contrariata.
- È per la loro e la vostra sicurezza che il luogo deve rimanere segreto. - Disse il sergente, ma non ebbe l'effetto sperato. Così si giocò la carta del senso di colpa. - Avete dei bambini qui. Non vorrete mica metterli in pericolo? È quello che accadrebbe se non separiamo i malati dai sani.
Timothy aggrottò le sopracciglia, schifato. Non lo sorprese vedere il sergente abbassarsi così tanto da premere quel tasto. Forse anche gli altri lo avevano capito, ma la maggior parte delle persone sembravano essersi acquietata



 

5


Timothy si chiuse nel suo piccolo ufficio, sotto il campanile. Era felice del fatto che i soldati non lo avessero messo a soqquadro. Ormai era l'unico posto dove poteva rifugiarsi e riflettere. Riflettere su cosa poi? Riusciva a pensare solo all'invasione dei malati, al massacro che ne sarebbe seguito. I soldati sarebbero riusciti a respingerli? E poi perché se ne preoccupava? L'esercito era addestrato e avevano molte armi. I malati no. Allora come diamine faceva a sapere che non le avevano? Intuizione? Sesto senso?
Sussultò leggermente nel sentire qualcuno bussare la porta. Andò ad aprirla.
- Bel posticino. - Il sergente lanciò un occhiata oltre le spalle del pastore, all'interno.
- Cosa vuoi?
- I miei uomini hanno recuperato i corpi dell'emporio. Non volevi seppellirli?
- Sì, certo. Grazie.
Timothy prese la bibbia dalla scrivania e seguì Milligan. Scesero le scale e attraversarono la corta navata disseminata di sacchi a pelo e lettini. Usciti dalla chiesa, percorsero il cimitero e si fermarono davanti a quattro fosse, attorniate dalla gente e cinque soldati. Quattro corpi avvoltoi dalle lenzuola giacevano sul fondo.
Il pastore osservò i visi sconfortati e tristi delle persone, poi aprì la bibbia.

Quando finì di dire l'omelia funebre, alcune persone presero della terra, la gettarono nelle fosse e si allontanarono. Poi i cinque soldati le riempirono di terra.
- Grazie per aver dato loro una degna sepoltura. - Disse Timothy.
Il sergente ignorò la frase. - Hai contatti con le altre chiese della città?
- No, solitamente ogni domenica ci raduniamo per pranzare insieme. Perché?
- Hai loro numeri di telefono?
- Certo, sono nel mio ufficio.
- Allora dovrai chiamarli.
- Ma perché?
Il sergente lo guardò per un attimo. - Non qui. Parleremo nel tuo ufficio.
Tornando indietro, attraversarono la corta navata, ora piena di gente, e salirono la scala. Entrarono nell'ufficio, e il sergente si avvicinò al telefono.
- Dammi i numeri. - Disse.
- Un attimo. - Il pastore frugò nei tre cassetti della scrivania e pescò un piccolo foglio stropicciato. - Ecco. Sono qui.
Milligan glieli strappò di mano e compose il primo numero. Ascoltò il ricevitore squillare a lungo, poi mise giù e chiamò il secondo.
Timothy si chiedeva del perché il sergente avesse bisogno di chiamare gli altri pastori. Che ci fossero altri soldati là?
Milligan mise giù e chiamò il terzo. Continuò così fino all'ottavo e ultimo numero, poi si lisciò il mento, preoccupato.
- Qualcosa non va? - Chiese il pastore.
- No, niente. Va tutto bene.
- Perché volevi chiamarli?
- Non serve che tu sappia il motivo.
- Mi hai detto che avremmo parlato nel mio ufficio. Ora siamo nel mio ufficio, quindi parla. Voglio sapere cosa diamine sta succedendo a Riverside. Non sento e non vedo una macchina da ore, senza contare le strade deserte, l'emporio saccheggiato e le quattro persone uccise. Cosa sta succedendo?
Milligan gli lanciò un'occhiata, indecisa. Non sapeva se dirgli la verità o lasciare stare. - L'esercito ha allestito rifugi nelle altre chiese. Ogni due ore dovevamo tenerci in contatto per aggiornarci e sapere che andava tutto bene. Beh, fino a dieci ore fa. - Fece una pausa. - Non so cosa sia successo, ma penso al peggio. È impossibile che tutti i rifugi siano... - Si interruppe.
- Siano? - Chiese Timothy, curioso.
- Non ne sono certo, ma credo che gli infetti siano arrivati.
- Infetti? Parlai dei malati?
Milligan annuì.
Il pastore spalancò gli occhi, turbato. - Come... come hanno fatto ad arrivare? Li ha portati qualcuno?
Il sergente si rese conto che il pastore era all'oscuro di tutto. Mentre alcuni sapevano più o meno la gravità della situazione, Timothy non sapeva nemmeno cosa stesse succedendo.
- Allora? - Domandò il pastore, preoccupato.
- Sono arrivati da soli. Si muovono in gruppo, formando delle grandi orde.
Il viso di Timothy diventò cadaverico.
- Non sappiamo come fanno a capire dove siamo, ma credo sia per il nostro odore. - Continuò Milligan. - Voglio dire, tra di loro si riconoscono, anche se alcuni si uccidono di botte quando si urtano per un lungo momento. E abbiamo notato anche delle peculiarità. Alcuni infetti mutano in qualcosa di... di mostruoso. Credo dipenda dal loro stile di vita e dai geni, almeno stando a quanto detto dagli scienziati della CEDA.
Timothy non si sentiva più le gambe e si sedette sulla sedia d'ufficio.
- Questo era il motivo per cui non volevo dirtelo. - Aggiunse il sergente. - Non sapevo come avresti reagito, e non so come avrebbero reagito le persone qui sotto. Ho il dovere di tenerli in vita. Se si fanno prendere dal panico, è finita. Dico sul serio. Gli infetti hanno un udito sopraffino. Basta un rumore troppo forte, uno soltanto, e ce li troveremo qui.
- Hai detto che... che non sei sicuro che siano qui. - Disse Timothy in un sussurro.
- Il silenzio radio mi fa pensare questo, e nessuno di loro è venuto qui. Dovevano farlo in caso di problemi. Era la prassi. - Si affacciò alla finestra e guardò la strada deserta, oltre la recinzione della chiesa. Il sole stava declinando dietro i tetti degli edifici, mandando gli ultimi sprazzi di luce nel cielo rosso arancio. - Rimarremmo qui per due giorni, dopodiché raggiungeremo un centro di evacuazione. Non possiamo rimanere oltre. Se la città è caduta, restare equivale a firmarsi da soli la condanna a morte.
- Forse è davvero caduta. Non c'è nessuno là fuori. Non vedo una persona da giorni e, prima che tu arrivassi, le strade erano semideserte.
Il sergente si voltò. - Alcune persone sapevano quello che stava accadendo sulla costa orientale. Per questo hanno lasciato la città e si sono diretta a occidente. Ma anche lì la situazione stava precipitando.
Timothy lo fissò, sgomento. - Se quello che dici è vero, allora che senso ha raggiungere il centro evacuazione? Moriremo ugualmente...
Il sergente non rispose e si limitò ad affacciarsi nuovamente alla finestra.



 

6


Quei due giorni passarono così lenti, che per Timothy il tempo sembrava essersi fermato. Non aveva detto a nessuno della discussione avuta con il sergente, e mai una volta ne aveva sentito il bisogno di farlo. Credeva che le persone sarebbero impazzite, che si sarebbero fatti prendere dal panico. Forse le parole di Milligan lo avevano persuaso, oppure la pensava come lui. Non riusciva a capirlo, anche se ci pensava da ore.
Arrivati al terzo giorno, erano ancora lì. Il sergente non aveva radunato le persone e detto loro che si partiva verso un luogo più sicuro. Magari avrebbe accennato alla pericolosità del virus, ma non agli infetti. Timothy era più che sicuro. Li avrebbe tenuti all'oscuro. Forse avrebbe aperto bocca quando le cose si sarebbero messe male, quando sarebbero stati assaliti dai malati. Ma allora perché si partiva? Aveva cambiato idea.
Il pastore uscì nel cortile e salutò un uomo e una donna seduti su una panchina con un cenno della testa. Il sole era quasi allo zenit, e alcune nuvole sporcavano il cielo. Si diresse verso le quattro tombe ancora fresche, disse delle preghiere e tornò indietro. Quando stava per entrare nella chiesa, vide Milligan all'ingresso principale. Sembrava preoccupato. Parlava con tre soldati dai visi agitati e indicava la porta. Forse era successo qualcosa di brutto? I malati erano arrivati?
Mentre il pastore si avvicinava loro, altre persone avevano avuto la stessa idea.
Il sergente si interruppe e li guardò. - Cosa volete?
Nessuno dei presenti parlò, eccettuo Timothy. - Posso parlarti in privato?
- Puoi farlo anche davanti a tutti.
- Meglio di no.
- Perché?
Il pastore lo fissò per un attimo. - È una cosa privata.
- Ok. Andiamo a parlare.
Mentre i due si allontanarono, le persone cominciarono a tempestare di domande i tre soldati.

Timothy condusse Milligan nel suo ufficio.
- Allora? - Disse il sergente. - Di cosa vuoi parlarmi?
- Perché siamo ancora qui? Non avevi detto che saremmo partiti per il centro di evacuazione?
Milligan non parlò subito. - Ho dovuto rimandare per... Ci sono stati problemi con i mezzi di trasporto. Tutto qui.
Timothy sapeva che mentiva. Stava nascondendo qualcosa. - Sembravi preoccupato, prima. Di cosa parlavate?
- Con i soldati? Di niente. Solite cose. E poi perché mi stai facendo queste domande? - Il sergente serrò gli occhi, insospettito. - Ricordati che qui comando io. Il fatto che io ti abbia fornito informazioni che la gente non sa, non ti deve far credere di essere speciale, o di esserti guadagnato la mia fiducia, il mio rispetto.
Il pastore si limitò a guardarlo per un momento con fare passivo. - Conosco perfettamente la mia posizione e il mio ruolo, ma la mia era una semplice domanda.
Milligan smorzò un sorriso di circostanza. - Non prendermi per un idiota. So bene dove vuoi andare a parare, come so che non mi hai creduto. A me non frega niente, pastore. Pensa quello che vuoi, ma ci sono cose che non puoi e non devi sapere. Ringrazia il tuo Dio di essermi aperto con te tre giorni fa. Capita di rado. - Si voltò e lasciò l'ufficio, sbattendo la porta alle sue spalle.
Timothy restò immobile per un attimo, poi si lasciò cadere sulla sedia d'ufficio. Era andato tutto a rotoli. Non si sarebbe aspettato una simile discussione, ma almeno aveva capito una cosa. Il sergente stava avendo grossi problemi a far evacuare la gente dalla chiesa. Forse gli infetti erano davvero giunti a Riverside. Un moto di terrore lo fece rabbrividire.



 

7


Verso le otto di sera, Timothy era sceso per cenare. Brodo di carne, come ogni sera. La donna adetta alla mensa gli aveva dato il piatto, e si era andato a sedere insieme a una famigliola di quattro bambini nel cortile illuminato dai lampioni. Mangiavano e conversavano della situazione attuale.
- Sono un meccanico. - Disse l'uomo. - Ho un officina in periferia, tra la quattordicesima e la quindicesima strada. Mio fratello Larry frequentava spesso questa chiesa.
- Larry Thompson? - Chiese il pastore.
- Sì, proprio lui. - Abbassò lo sguardo, rattristito. - Non lo sento da un mese. Spero stia bene.
- Era diretto a Denver per affari, giusto?
- Sì, ma non lo sento da allora. Magari la situazione è degenerata anche li.
Timothy non rispose subito. - Qui siamo ancora al sicuro, e credo che lì sia la stessa cosa.
- Sì, forse hai ragione.
- Papà! Papà! - Urlò un bambino di sei anni. - Guarda cosa ho fatto! Guarda! - Lo afferrò per una mano e la trascinò vicino a una panchina.
Timothy si alzò e salutò la donna seduta al tavolo, poi fece un cenno con la testa verso l'uomo, che ricambiò.
Ritornato in chiesa, attraversò la corta navata, gremita di gente. C'era un silenzio quasi palpabile nell'aria, che non accadeva nemmeno durante i suoi sermoni. Abbozzò un mezzo sorriso e salì la scala. Una volta entrato nell'ufficio, si stese sul letto e chiuse gli occhi. Sentiva un vociare continuo fuori dalla finestra, dove due cecchini confabulavano divertiti. Poi scivolò lentamente nel mondo dei sogni.

Si svegliò all'alba. Un timido sole spuntava da sopra i tetti degli edifici, e un leggero vento soffiava da occidente. Si affacciò alla finestra e vide quattro soldati darsi il cambio della guardia. Si allontanò e uscì dall'ufficio, scendendo la scala. Nella corta navata non c'era quasi nessuno. Tutti erano in fila per andare in bagno, e Milligan aveva fatto montare altri quattro bagni mobili nel cortile, dietro a delle siepi. Ma la gente preferiva il bagno della chiesa, in quanto potevano sciacquarsi la faccia o riempire un secchio o una vaschetta per lavarsi il corpo. Certo, non era come una doccia, ma si arrangiavano.
Fece colazione con due brioche e un bicchiere di succo all'ananas. Non era la sua colazione ideale, ma era questo che passava l'esercito. Erano già fortunati che avessero cibo, acqua ed elettricità, che in molti punti della città era saltata.
Milligan entrò nella chiesa verso le dieci e mezza del mattino, radunando tutte le persone.
- Sarò breve. - Disse, serio. - Lasceremo la chiesa per andare in un luogo più sicuro. Un centro di evacuazione che dista qualche chilometro dalla città. È protetto da spesse mura di cemento armato e ci sono molti soldati.
La gente si scambiò delle occhiate, confuse. Quella notizia aveva spiazzato tutti quanti come un fulmine a ciel sereno, eccettuo il pastore.
- Vi chiedo gentilmente di prendere le cose più preziose e di seguire i miei uomini. Dei pullman vi condurranno lì.
- Perché dobbiamo andarcene? - Chiese una donna. - Qui stiamo bene.
- Le cose sono cambiate. Non vi dirò i dettagli, ma Riverside non è più sicura. Dobbiamo abbandonare la città prima che il virus arrivi qui.
- I malati? - Domandò Timothy, attirandosi addosso l'attenzione degli altri. - Gli infetti? Sono arrivati? Siamo in pericolo?
Milligan lo guardò, torvo. Si chiedeva del perché li avesse nominati. Dove voleva arrivare? Voleva scatenare il panico? - Va tutto bene. Siamo al sicuro. Non c'è nessun malato. Dobbiamo solo allontanarci dalla città per il virus.
Ma le sue parole non sortirono nessun effetto. Il panico si era insidiato nella folla che, spaventata, cominciò a rumoreggiare.
- Dicci la verità, sergente! - Urlò il pastore. - La gente deve sapere! Ha il diritto di sapere come stanno le cose!
Le persone gridarono il proprio assenso.
Milligan corrugò le sopracciglia, irato, e strinse una mano in un pugno. - Ok, volete saperlo? Bene! Ve lo dirò. La città è infestata dagli infetti. Sono ovunque, dappertutto!
Nella chiesa scese un tetro silenzio. Alcuni bambini si strinsero ai propri genitori o a chi si prendeva cura di loro.
- Ora vi starete chiedendo perché non ne avete visto nemmeno uno? Semplice. I miei uomini li tengono lontani, cercano di attirarli dall'altra parte della città. - Fece una pausa. - Alcuni sono morti per tenervi al sicuro, ma voi non ve ne siete nemmeno accorti. Abbiamo fatto il possibile per tenervi all'oscuro di questa situazione, e ora dalle vostre facce sembra che ve ne siete pentiti. A volte la verità non è facile da digerire. - Lanciò uno sguardo verso Timothy. - Ringraziate quell'uomo se adesso i vostri figli piangeranno in piena notte per la paura. Ringraziate quell'uomo se ora siete paralizzati dal terrore. Ringraziatelo!
Timothy si guardò intorno, scorgendo visi corrucciati. Lo hanno voluto loro, pensò. Avevano bisogno di sapere.
Il sergente fece per andare via, quando ritornò sui suoi passi. - Non dimenticate. Prendete solo lo stretto necessario e seguite i soldati. - E andò via.



 

8


Fuori dalla chiesa, i soldati avevano allargato il perimetro difensivo. Alcuni si erano messi sul tetto dell'emporio, altri sui tetti dei pullman messi di sbieco a sbarrare la strada principale. Avrebbero spostato la gente sui pullman militari, scortati da jeep con su montate delle mitragliatrici.
La gente si era radunata davanti allo spiazzo dell'emporio e cominciava a salire a bordo dei veicoli. Quasi nessuno voleva rimanere nella chiesa e, chi l'aveva fatto, poi aveva cambiato idea.
Milligan li aveva persuasi dicendo loro che c'era un'alta probabilità che fossero tutti infetti, e che l'unica salvezza risiedeva nel centro di evacuazione. Lì la CEDA stava sviluppando una cura che li avrebbe salvati.
Timothy non ci credeva. Se avessero davvero una cura a portata di mano, l'intero paese non sarebbe andato in malora. E poi il sergente aveva detto loro che avrebbero preso il loro sangue, ma non l'avevano mai fatto. Perché? Si chiese. Forse perché la CEDA non sapeva nemmeno dove andare a parare?
Mentre le ultime persone salirono sui pullman, Milligan si avvicinò a Timothy.
- Sei sicuro di non voler venire? - Chiese.
- Sicuro. Voglio restare nella mia chiesa.
- Potresti morire. Il tuo Dio non ti proteggerà dagli infetti. A breve saranno qui. Dai, non farti pregare. Vieni con noi.
- Ho preso la mia decisione. Non verrò.
Il sergente lo guardò per un attimo, poi pescò un foglietto dal taschino della giacca. - Tieni. Qui è segnato il punto in cui si trova centro di evacuazione. Segui la linea che ho tracciato e ci troverai. In caso cambiassi idea...
Il pastore lo prese e ci diede una rapida occhiata. - Grazie, ma non mi servirà.
- Tu tienilo lo stesso. - Gli allungò una mano, che Timothy strinse. - Arrivederci.
- Sì, arrivederci.
Il sergente raggiunse i pullman dell'esercito e disse ai soldati di partire. Un momento dopo, il convoglio si allontanò dalla chiesa e sparì in lontananza, dietro una curva.
Il pastore era rimasto da solo. Si guardò intorno per un attimo e salì la scalinata fino all'ingresso della chiesa.
La corta navata era silenziosa. Quasi gli dispiacque di non vedere e sentire nessuno. Il continuo vociare non gli era mai piaciuto, ma adesso ne sentiva la mancanza. Nostalgico, si aggirò tra i lettini, i sacchi a pelo e le panche adagiate di traverso sulle pareti. Nel cortile non scorse i bambini giocare ad acchiapparella, i soldati posti sul tetto della chiesa, le panchine occupate dalla gente. Tutto sembrava essere un antico ricordo, qualcosa che non era mai successo.
Salì nel suo ufficio, chiudendo la porta a chiave. Milligan gli aveva lasciato acqua e cibo per un mese, forse due se avrebbe ridotto le porzioni. Si sedette sulla sedia d'ufficio e guardò il cielo dalla finestra.

Verso le due e mezza, mangiò un pacco di cracker e bevve un po' d'acqua. Poi si mise a leggere la bibbia per trovare conforto e, più le parole scorrevano, più quella sensazioni di solitudine diventava un macigno. Chiuse il libro, lo posò sul tavolo e si stese sul letto. Non era stanco, né aveva sonno, ma si addormentò subito.
Si svegliò verso le sei. Restò seduto sul letto per un lungo momento, poi raggiunse la finestra. Si ritrasse subito, spaventato. Centinaia di infetti barcollavano in strada, nello spiazzo davanti all'emporio e dentro il terreno consacrato. La pelle grigiastra, gli occhi inietti di sangue e la bocca insanguinata. Alcuni vomitavano bile nero, altri si urtavano, si picchiavano. Come avevano fatto ad entrare? Il cancello era chiuso.
Si sentì in trappola. Forse gli infetti avevano anche invaso la chiesa, il cimitero e il cortile. Perché non li aveva sentiti? E la risposta arrivò da sola. Non producevano nessun rumore, a parte un gemito sommesso di tanto in tanto.
Preso dal panico, lanciò uno sguardo verso la porta. Magari erano saliti fino al pianerottolo del suo ufficio. Forse erano dietro quella porta. Cominciò a sudare freddo, il cuore gli martellava nel petto, le mani iniziarono a tremargli.
Milligan aveva ragione. Gli infetti sarebbero arrivati. Aveva sbagliato a non andare con gli altri, ma non poteva lasciare la sua chiesa. Era la casa di Dio, e Lui gli avrebbe allontanati. Lo avrebbe aiutato. Afferrò la bibbia e la strinse forte al petto, come se potesse offrirgli protezione e sicurezza. Alcuni lo avrebbero preso in giro, altri messo in dubbio il suo Dio, ma non Timothy, che ci credeva fermamente.
Si avvicinò alla porta e spiò dalla fessura nella serratura. Non vide nessuno nel pianerottolo. Restò a guardare per un po', poi si alzò. Una parte di lui era tentata di aprire la porta e guardare la scala sottostante, ma un'altra gli diceva di no. Alla fine si allontanò dall'ingresso e si sedette sulla sedia d'ufficio.



 

9


Passarono ventiquattro lunghi giorni, e gli infetti non avevano fatto altro che ammassarsi. Da centinaia, era diventati migliaia. Alcuni erano persino saliti sul tetto dell'emporio dirimpetto, e Timothy si chiese come avessero fatto senza scala?
Aveva finito quasi tutto il cibo, e aveva passato quelle settimane pregando e dormendo. Mai una volta gli infetti erano saliti sul pianerottolo davanti al suo ufficio, e il pastore ringraziava il suo Dio per questo. Si sentiva protetto, ma quando scendeva la notte la sua mente veniva assalita da immagini terrificanti. Gli infetti abbattevano la porta e lo facevano a pezzi. Quasi tutte le notti quelle immagini venivano a perseguitarlo nei sogni. Lo ossessionavano, lo ghermivano. E Timothy si rifugiava nel silenzio della preghiera, l'unico porto sicuro per la sua mente che cominciava a vacillare. Parlava da solo, faceva smorfie, gridava senza emettere alcun suono e scattava a ballare senza musica da un momento all'altro.
- Sei un idiota! - Ghignò una voce nella sua testa. - Credi davvero che ne uscirai vivo? Il tuo Dio non ti aiuterà! Sei da solo!
L'aveva sentita per la prima volta nove giorni fa. Era comparsa dapprima come un vago bisbiglio, poi come un tuono. E ora non faceva che tormentarlo.
- Smettila! Basta! - Disse Timothy.
La voce rise. - Povero imbecile. Cosa credevi sarebbe successo? Ti sei messo in trappola da solo. Sei un coglione!
Il pastore si portò le mani nei capelli. - Lasciami in pace! Vattene!
- Oh, io non andrò mai via. Resterò con te per sempre. - Rise maleficamente.
Timothy afferrò la bibbia e se la strinse sul petto, mormorando una preghiera.
- Stai sprecando fiato, pastore! - Sibilò la voce malignamente. - I mostri verranno a prenderti! Sono là fuori. Ti hanno sentito, e ora arriveranno per te!
Il pastore chiuse gli occhi e, mentre bisbigliava una preghiera, cercò di non sentire la voce che diventava più forte. Poi qualcosa urtò contro la porta e sussultò, spaventato. Fissò l'ingresso, dove sentì altri corpi.
- Stanno arrivando per te, coglione! - Disse la voce. - Vai ad aprire. Non essere maleducato.
Senza distogliere lo sguardo dalla porta, Timothy si avvicinò alla finestra e guardò la strada gremita di infetti. Aprì la finestra e la scavalcò, poggiando i piedi su una passerella di legno. Gli infetti sulla scalinata lo videro e, gemendo irati, si lanciarono contro di lui. Dalla porta i colpi si fecero più forti, un martellamento incessante.
Appena il pastore fece per saltare dalla passerella, oltre la recinzione del cimitero, la porta venne giù e gli infetti si riversarono nell'ufficio.
- Arrivano! ARRIVANO! - Lo ghermì la voce.
Timothy si pietrificò per un istante, mentre gli infetti sottostanti si arrampicavano rapidi sulla passerella. Quelli entrati nell'ufficio, oltrepassarono la finestra e scattarono le teste verso di lui.
Il pastore saltò.



 

10


Atterrò accanto a una tomba e per poco non ci sbatté violentemente la testa. Mentre scattava in piedi, gli infetti si arrampicarono veloci sulla recinzione di pietra e metallo e strillarono furiosi. Timothy corse giù dalla piccola collina, serpeggiando tra le lapidi. Si rifugiò in un piccolo ripostiglio usato dal becchino, vicino all'ingresso del cimitero. Sentiva il cuore martellargli nel petto, una vena pulsargli in fronte.
Gli infetti si fermarono attorno al piccolo edificio, confusi. Non capivano dove fosse finito, e da lì a poco si dimenticarono di lui.
Li sentiva gemere, urlare. Alcuni sbattevano debolmente la testa contro la parete di legno del ripostiglio, scatenandogli attacchi di panico. Poi si quietarono, e il pastore si rannicchiò dietro uno scaffale.
Rimase lì per quaranta minuti, infine si alzò e raggiunse cauto la porta. Spiò dalla fessura e notò che non c'era nessuno. Non era sicuro che anche attorno al ripostiglio fosse vuoto, ma non volle rischiare. Così restò lì dentro per altri dieci minuti, finché si decise ad aprire la porta. Mentre usciva, udì una raffica di spari in lontananza. Provenivano dalla citta. Gli unici sparuti infetti che barcollavano in cima alla piccola collina, si precipitarono furiosi verso la recinzione e la scavalcarono.
Timothy ne approfittò per raggiungere il cancello e correre lungo la strada, illuminata dalla flebile luce dei lampioni. Un momento dopo, raggiunse un'ambulanza abbandonata in mezzo l'asfalto, poco fuori città. Le portiere posteriori erano aperte e un lettino era capovolto lì accanto. Proseguì per altri sessanta metri, finché avvistò una casa e un rimorchio che bloccava il tragitto. Si avvicinò all'abitazione dalle cui finestre proveniva una luce. Si fermò accanto a un pino, sul ciglio della strada, e sbirciò. C'era movimento all'interno. Non sapeva se fossero sopravvissuti o infetti. Restò lì a osservare per un lungo momento, finché rabbrividì sentendo un gemito alle spalle.
Così si avvicinò di soppiatto, quando qualcosa lo colpì le spalle. Cadde a terra, ma subito si rialzò. Appena fece per girarsi, gli arrivò un altro colpo sul bicipite sinistro e indietreggiò, spaventato. L'infetto che aveva davanti gli si lanciò contro e lo buttò al suolo. Il pastore si protesse la faccia con le braccia, mentre l'infetto cominciava a tartassarlo di pugni e calci.
D'un tratto schizzi di sangue e pezzi di cranio gli imbrattarono il viso e le maniche della giacca, seguito da un tonfo sordo. Quando si voltò, vide la testa dell'infetto aperta in due.
- Ma è il pastore Timothy? - Disse una voce uomo.
- Sì, e lui. - Rispose una voce da donna.
Due figure ombrate gli si pararono davanti, illuminate alle spalle da una luce del lampione. Una gli allungò una mano e lo aiutò ad alzarsi.
- Grazie del vostro aiuto. - Aggiunse il pastore, stordito.



 

11

 

Lo condussero nella casa lì accanto e si sedettero sul divano. L'uomo era Stephan Witt. Sulla cinquantina, stempiato, barba incolta e un ventre prorompente. La donna si chiama Alicia Jackson. Sulla quarantina, robusta, capelli biondi con qualche ciocca grigia, labbra sottile e sopracciglia accentuate.
Timothy li conosceva da anni. Frequentavano spesso la sua chiesa, e Alicia lo aveva aiutato spesso per la raccolta fondi dei poveri.
- Non hai un bell'aspetto, pastore. - Disse Stephan, mentre si accendeva un sigaro.
Alicia ritornò nel soggiorno con un bicchiere e una bottiglia d'acqua di vetro. Ne verso un po' e la porse a Timothy, che la bevve tutta d'un fiato. Poi si riempì il bicchiere altre tre volte.
Alicia e Stephan si scambiarono delle occhiate, turbate.
- Cosa ti è successo? - Chiese Stephan.
- Gli infetti. Hanno invaso la chiesa. Sono stato costretto a fuggire.
- Non eri insieme agli altri? - Domandò Alicia.
- No, sono andati via settimane fa. Io sono rimasto. Non potevo lasciare la chiesa incustodita.
- Avresti fatto meglio ad andare. - Disse Stephan, tirando una boccata dal sigaro. - Le chiese possono essere sempre ricostruite, no?
- Hai fame? - Chiese Alicia.
- Sì, molta. - Rispose Timothy, posando la bibbia sul divano. Alicia si diresse in cucina.
- Perché ti sei portato appresso la bibbia? - Domandò Stephan, perplesso. - A cosa ti serve?
- Mi offre conforto. - Rispose il pastore, posandoci una mano. - Mi ha protetto da quei mostri là fuori.
- Veramente è stata la mia vanga. - Stephan indicò il muro dove era poggiata. - Sei stato fortunato che io e Alicia siamo usciti quando abbiamo sentito gemere l'infetto. E poi perché non hai gridato? Non hai emesso alcun suono. Se non fossi stato a terra, credo che avrei colpito a morte anche te. Sai, è buio pesto là fuori. Uno può confondersi, scambiare un infetto per una persona sana, e viceversa, insomma.
Timothy si limitò a sollevare le spalle.
Alicia tornò con due tramezzini al tonno e formaggio. Posò il piattino sul tavolo.
- Grazie mille per la vostra ospitalità. - Disse il pastore, incrociando le mani. - Che Dio vi benedica!
Alicia sorrise, e Stephan si limitò a guardarlo.
Timothy non si fece pregare e, in una manciata di secondi, i due tramezzini sparirono nel suo stomaco.
- Abbiamo sentito che fuori citta c'è un centro di evacuazione. - Disse Alicia. - Tu ne sai qualcosa?
- Sì, l'esercito ha condotto lì la gente che era in chiesa. - Si portò una mano nel taschino della giacca e pescò il foglietto. - Me l'ha dato il sergente Milligan, in caso avessi cambiato idea.
Alicia ci diede un'occhiata. - Non è molto distante. Forse sono sei chilometri.
- Fammi vedere. - Aggiunse Stephan, afferrando il foglietto. Lo lesse. - Sono undici chilometri. Deve essere vicino alla fattoria di Kurt, poco oltre la miniera abbandonata.
- Possiamo usare il furgone per raggiungerli. - Disse Alicia, speranzosa.
- No, faremo troppo rumore. E poi hai visto quanti infetti ci sono a Riverside? Ci inseguiranno. No, meglio di no. - Fece un tiro dal sigaro. - Dovremmo proseguire a piedi per un po', poi troveremo un mezzo e li raggiungeremo.
- I soldati sono andati via con i pullman. - Disse Timothy. - Magari avranno attirato anche loro gli infetti.
Stephan lo guardò per un attimo. - Allora non abbiamo motivo di andarci.
Alicia e Timothy lo fissarono, confusi.
- Perché? - Chiese il pastore, anticipando la donna.
- Sono attratti dai rumori. Magari i soldati non lo sapevano, ma non penso siano così stupidi. Credo che avessero perlustrato il tragitto che dovevano fare e si sono spostati in tutta tranquillità. Ho incontrato un paio di loro quando facevo provviste in città, quindi non mi sorprenderei se si fossero organizzati. Sapevano il fatto loro, dopotutto. Ho visto come erano bravi ad allontanare i gruppi di infetti, anche se ne ho visti morire alcuni.
- Perché prima hai detto che non dobbiamo andarci? - Domandò Alicia.
- Perché tanta gente attira gli infetti, e poi hai visto cosa succede a certe persone. Possono trasformarsi da un momento all'altro. È pericoloso.
- Ma non puoi esserne sicuro. Forse lì ci sono scienziati e medici. Magari stanno lavorando a un vaccino, a una cura. Forse... Forse hanno già una cura.
- Se non siamo andati alla chiesa un motivo ci sarà, non trovi?
Timothy se lo stava domandando da quando era entrato in casa.
- Sei tu che non volevi andarci. Io avrei voluto. - Rispose Alicia. - Insieme siamo al sicuro, ma tu invece credi che sia l'opposto.
- Tu non hai visto cosa c'è oltre queste mura. - Disse Stephan. - Non hai visto la gente impazzire, trasformarsi. Non hai visto gli infetti uccidere e arrivare a frotte da tutte le parti. E poi... - Fece una pausa, come se ricordasse qualcosa di orrendo. - Non hai visto quei mostri. Quelli mutati.
Il pastore si chiese di cosa stesse parlando.
Alicia non rispose subito. - Ma non possiamo rimanere da soli. Alla fine finiremo il cibo, l'acqua e le munizioni. Poi cosa faremo? Se gli infetti ci attaccassero, gli lanceremo pietre?
- Tu non devi preoccuparti di questo. - Disse Stephan, alzandosi dal divano, il sigaro nell'angolo della bocca. - Sai benissimo cosa ho in mente. Ci trasferiremo nella fattoria di Wells. Lì saremo al sicuro. Pianteremo dei semi e ci sfameremo così. C'è anche un pozzo e un fiume poco lontano. Inoltre, è lontano chilometri da qualsiasi città. Saremo al sicuro. Ora vado a riposarmi. - E andò via.
- Mio marito a volte sa essere davvero cocciuto. - Aggiunse Alicia, alzandosi e prendendo il piattino. Poi si diresse in cucina.
Timothy rimase seduto sul divano. Si versò un bicchiere d'acqua e lo bevve.



 

12


Passarono quattro giorni chiusi in casa. Scorsero un folto gruppo di infetti passare di fianco al rimorchio che bloccava la strada, scavalcando la bassa staccionata di rete metallica. Poi udirono degli spari dalla città, delle urla, il motore di un auto, un boato, seguiti da tetri silenzi.
Stephan era il solo a uscire dall'edificio e spingersi verso Riverside. Aveva trovato una cantina piena di provviste e, giorno dopo giorno, ne aveva portati un po' a casa.
Solo una volta si spinse in città, superando la chiesa e dirigendosi a un supermercato. Mancò poco che venisse ucciso da un Charger, sbucato da dietro un furgone. Era riuscito a fuggire, in quanto non era da solo. Un uomo aveva cercato di sparargli alla gamba, attirando l'attenzione dell'infetto speciale. Mentre Stephan si metteva in salvo, il Charger fece a pezzi l'uomo, sbattendolo ripetutamente contro il freddo asfalto. Tornato a casa, non ne fece parola con nessuno e tentò di dimenticarsi dell'accaduto.
Erano le due e mezza, quando Alicia, Stephan e Timothy si sedettero a tavola. La donna aveva cucinato pasta e sugo.
- Se attirerai degli psicopatici, sarà colpa tua. - Disse Stephan, masticando.
- Non mi pare che tu ti stia lamentando del pranzo. - Rispose Alicia, arcigna. - Sembri piuttosto affamato.
- Certo che lo sono. Ma ti avevo di non cucinare niente. L'odore può attirare altra gente.
- A meno che non siano nei paraggi o abbiano il fiuto di un cane, è impossibile.
- Quando ci ritroveremo gente alla porta ne riparleremo.
Timothy mangiava senza ascoltarli. I suoi pensieri andavano a Milligan, alla gente della chiesa. Avevano raggiunto il centro evacuazione? Erano salvi?
Stephan bevve un sorso di birra dalla bottiglia. - Domani andrò a prenderne dell'altra. Non sapevo che Antony fosse un ubriacone.
- Sta diventando troppo pericoloso. - Rispose Alicia. - Abbiamo ancora da mangiare e bere. Non c'è bisogno che vai lì ogni giorno. E se incontrassi gli infetti? Se ti circondassero?
- Ti preoccupi troppo. So badare a me stesso, mica sono scemo.
- Non ho detto che lo sei, ma non mi piace che ci vai sempre.
Stephan fece un altro sorso. - Stai sempre a rompere. Non sei contenta che porto a casa delle provviste?
- Lo sono, ma non voglio perderti. Non voglio che rischi la tua vita così.
- Tu cosa ne pensi, pastore Timothy? - Domandò Stephan.
- Non voglio intromettermi.
- Ma devi. Dopotutto, anche tu mangi ciò che raccatto da quella cantina. Avrai un opinione in merito.
- Io prego ogni volta che tu esci. - Disse Timothy, incrociando le mani. - Prego che Dio ti protegga dai mostri, e credo che le mie preghiere vengono udite.
Alicia lo ringraziò con un sorriso e un accenno della testa.
- Ok, ma cosa pensi in merito? - Chiese Stephan, bevendo un sorso.
Timothy lanciò un'occhiata incerta alla donna. - Non credo sia necessario che tu metta a rischio la tua vita ogni giorno. Puoi anche non andarci per un po'. Da quanto ho capito siete messi bene a provviste. Puoi prenderti del tempo per riposare o...
- O leggere un libro? - Rise Stephan. - Non sono il tipo che se ne sta con le mani in mano. Ho bisogno di movimento, di fare qualcosa.
- Allora pianta qualcosa nel giardino. - Disse Alicia, corrugando la fronte. - Perché non lo fai?
- Non abbiamo sementi. E poi perché non lo fai tu? Sei tu l'esperta di giardinaggio.
Timothy si alzò da tavola. - Con vostro permesso, dovrei andare in bagno.
Stephan smorzò un sorriso, divertito. - Non c'è bisogno che tu chieda il nostro permesso. Questa casa è anche la tua casa.
Il pastore annuì e si allontanò. Una volta entrato in bagno, si sciacquò la faccia e rimase a fissarsi allo specchio per un momento. Trovava il suo viso invecchiato, pur non avendo più di quarant'anni. I capelli sembravano essersi striati di bianco, gli occhi cerchiati dalla stanchezza. Strinse la croce di argento che portava legata attorno al collo, chiuse gli occhi e ringraziò Dio per averli protetti fino a quel momento.


 

13


Erano passati due giorni, e Stephan non era ancora tornato. Alicia se ne stava preoccupata sotto l'uscio della porta, le braccia conserte, gli occhi lucidi. Il cielo oscurato da un ammasso di nuvoloni grigi.
- Vedrai che tornerà. - Disse Timothy, posandole una mano sulla spalla.
La donna non rispose.
Il pastore le rimase accanto per un po', poi uscì nel giardino, nel retro della casa. Osservò in lontananza il campanile della sua chiesa svettare sui pini, e un crescente malessere gli cinse la mente. Aveva abbandonato la casa del Signore, permesso agli infetti di invaderla. Ma cosa poteva fare da solo? Si sentì avviluppato dal rimorso, dai sensi di colpa, e pregò Dio di perdonarlo.
Due ore dopo, un forte boato fece tremare i muri di legno dell'abitazione. Alicia e Timothy corsero fuori e videro una grossa colonna di fumo elevarsi dalla città.
- Dev'essere scoppiata una pompa di benzina. - Disse Timothy.
- Forse... - Balbettò Alicia. - Forse è stato Stephan. Forse... - Le lacrime le solcarono il viso.
Il pastore le cinse le spalle con un braccio.
D'un tratto udirono il riverbero di alcune mitragliatrici.
I due entrarono in casa. Alicia chiuse la porta e le finestre.
- Cosa succede? - Chiese Timothy, confuso dal suo atteggiamento.
- Presto arriveranno. - Rispose la donna, agitata. - É già successo.
- Gli infetti?
- Sì, chi sennò? Quei rumori avranno attirati tutti gli infetti nei paraggi. Forse persino a qualche chilometro da qui.
Timothy spalancò gli occhi, spaventato.
- Adesso aiutami a sbarrare le finestre e le porta. Poi dobbiamo portare alcune provviste giù in cantina. Se gli infetti passano da qui, c'è il rischio che entrino in casa.
Il pastore non stava capendo niente. Stava succedendo tutto così in fretta, che poco dopo si ritrovò ad aiutarla. Infine, dopo aver lasciato le provviste in cantina, si chiusero a chiave e si sistemarono in un angolo in penombra. Solo dalle piccole finestre rettangolari filtrava la flebile luce del sole.
- Ora cosa facciamo? - Domandò Timothy.
- Aspettiamo. - Rispose Alicia.
- Per quanto?
- Per il tempo necessario.
Rimasero in silenzio per un lungo momento, finché di sopra sentirono il vetro di una finestra frantumarsi.
Il pastore incrociò le dita, cominciò a pregare. Alicia teneva la testa bassa e le breccia attorno alle ginocchia.
Poi altri vetri si frantumarono, e lo scaffale che ostruiva la porta venne giù con un tonfo. Udirono gli infetti urlare, il soffitto scricchiolare sotto i loro piedi. Correvano irrequieti in tutta l'abitazione, distruggendo tavoli e abbattendo porte.
Timothy intensificò le preghiere e chiuse gli occhi come se questo potesse teletrasportarlo via da lì. Alicia rimase impassibile, gli occhi arrossati fissi sul pavimento.
Gli infetti si aggirarono in casa per quasi un'ora, poi uscirono e si precipitarono verso Riverside. Altri spari si udivano da molto lontano, e il pastore credette di esserseli immaginati. Salirono al piano superiore e trovarono tutte le stanze a soqquadro, le finestre rotte, le porte abbattute, un parte di muro del soggiorno crollato.
Timothy si guardò intorno, sconvolto. Come potevano quelle cose aver ridotto così una casa? Come avevamo fatto ad abbattere una parte di legno con le sole mani?
- Per fortuna se ne sono andati via presto. - Disse Alicia. - Ma hanno distrutto tutto. Non era mai successo prima. Quei rumori li hanno davvero fatti arrabbiare.
- Sembra che tu li conosca davvero bene. - Rispose il pastore.
- Non quanto Stephan... Lui li conosceva bene, e mi ha detto ciò che sapeva.
- E cosa sapeva?
Alicia lo guardò per un attimo. - Che è meglio non farli arrabbiare. Hai visto cosa succede? Non amano i rumori forti. Li fanno imbestialire. Inoltre, si spostano sempre in gruppo. È molto raro vederli da soli. Quando succede, è perché uno di loro ha sentito qualcosa. Ti ricordi quando ti ha attaccato quell'infetto l'altro giorno?
Il pastore annuì lentamente, ricordando quell'orrendo momento.
- Ti aveva annusato, forse aveva percepito la tua presenza. - Disse la donna. - Quando accade, non te lo togli più di dosso. Ti seguirà ovunque, finché non lo ucciderai.
- Io... - Balbettò il pastore. - Io sono stato inseguito da un gruppo di infetti alla chiesa. Mi sono rifugiato nel ripostiglio del becchino, e loro hanno smesso di seguirmi. Voglio dire, si sono limitiati a brancolare attorno all'edificio.
- Funziona diversamente con i gruppi. - Aggiunse Alicia. - Quando sono insieme, possono inseguirti per un momento, poi si fermano o vengono attirati altrove. Stephan... - Fece una pausa nel dire il nome del marito. - Lui mi ha detto che quando sono in gruppo, la percezione degli infetti si riduce, mentre aumenta la loro rabbia. Diceva che forse è dovuto al loro numero. Più sono, più non riescono a capire o percepire dove si trova una persona sana. Mentre se sono soli, beh... Sanno sempre dove sia.
Quella spiegazione non fece che aggiungere altro orrore nella testa di Timothy, già a un passo dalla pazzia. Si fece prendere dal panico e cominciò a respirare con difficoltà.
Alicia mise una sedia in piedi e lo fece sedere. - Va tutto bene. Respira. Vado a prenderti un bicchiere d'acqua.
Il pastore annuì con la faccia di un pallore cadaverico. Strinse al petto la bibbia e iniziò a mormorare una preghiera.

D'un tratto udì qualcuno tossire fuori dall'abitazione. Spaventato, il pastore lanciò uno sguardo alla finestra. La tosse si faceva più forte, più vicina. Timothy si alzò e corse in cucina. Alicia non c'era. Si guardò intorno, spaesato, e, senza rendersene conto, afferrò un coltello da cucina nel cassetto del ripiano. Lo puntò davanti a sé, la bibbia stretta sul petto.
Sentiva la tosse rauca dietro il muro d'ingresso della casa e scorse una nebbiolina verdognola invadere l'uscio della porta. Si pietrificò per un attimo, poi indietreggiò con cautela.
Un'alta figura avvolta da una foschia verdognola entrò zoppicando nel soggiorno. La faccia grigiastra puntellata da grossi bubboni tumorali, e una lunga lingua violacea gli penzolava dalla bocca da cui tossiva in continuazione.
Timothy rabbrividì. Le mani cominciarono a tremargli, il cuore gli martellava frenetico nel petto. Non aveva mai visto una cosa simile. Sembrava appena rigurgitata dall'inferno. Un'immonda creatura demoniaca mandata dal Diavolo.
Il coltello da cucina gli scivolò di mano e, battendo sul pavimento, produsse un suono metallico che infastidì lo Smoker. Il pastore si girò verso la finestra, ma avvenne avvillupato da una lunga lingua. L'infetto speciale lo trascinò verso di sé ma, prima che potesse tempestarlo di pugni e graffi, una lama gli recise la lingua. Alicia liberò il pastore dal viscido organo rimastogli appiccicato al corpo, e insieme uscirono dalla finestra. Lo Smoker li inseguì, tossendo, finché qualcos'altro lo attirò altrove.
Alicia e Timothy si nascosero sotto un piccolo avvallamento cinto dagli alti pini.
- Stai bene? - Chiese la donna.
Il pastore annuì. - Ci inseguirà?
- Forse, non lo so. Quella cosa è diversa dagli infetti. Sono mutati.
- Ce ne sono altri in giro?
- Sì, e sono diversi.
Timothy aggrottò la fronte, impaurito. - Che vuoi dire?
- Che ci sono altri mutanti. Infetti diversi da quello che hai visto. Stephan ne aveva visti sei, ma forse sono di più.
Il pastore era talmente spaventato, che si rifugiò nella preghiera.
Restarono nascosti per tre quarti d'ora, poi salirono l'avvallamento e si diressero  cauti verso la casa.
- Non credo sia una buona idea tornare indietro. - Disse Timothy, guardandosi intorno, terrorizzato.
- Dove vorresti andare? - Rispose la donna. - Gli infetti sono ovunque. Dovremmo tornare indietro e chiuderci in cantina finché non finiremo le provviste.
- E poi cosa faremo?
Alicia non parlò subito. - Andremo al centro di evacuazione. - Disse con tono triste.
Timothy aveva visto molto sguardi come il suo, sentito molte voci rotte dalla tristezza per capire che lei stava soffrendo. Non disse niente riguardo Stephan, ma fu la donna a menzionarlo.
- Spero che il mio Stephan ritorni presto. - Aggiunse. - Mi manca davvero tanto.
- Sono sicuro che il Signore guida i suoi passi.
Alicia non rispose.



 

14


Passarono cinque giorni chiusi nello scantinato, andando di sopra solo per espletare i bisogni fisiologici. Non usavano il bagno in quanto non c'era più corrente, ma due secchi. Poi gettavano il tutto in giardino, nel retro della casa.
Nessun gruppo di infetti era passato di lì e, se anche fosse passato, non se ne erano accorti.
Timothy non aveva fatto altro che pregare e pensare allo Smoker. Perché era sparito? Non si comportava come gli infetti solitari? Volevo domandarlo alla donna, che passava tutto il giorno da una finestra all'altra in un'attesa logorante. Gli faceva pena, e non voleva disturbarla. Sapeva che le doveva dare tutto il tempo necessario per assimilare la perdita, anche se entrambi non sapevano se Stephan fosse ancora vivo.
Verso sera, dopo aver condiviso un pacco di grissini, sentirono il soffitto scricchiolare. Qualcuno camminava in casa.
Alicia sgranò gli occhi dalla gioia. - È tornato. Stephan è tornato.
Il pastore la fermò per un avambraccio. - Aspetta. Forse sono gli infetti.
Altri passi si unirono al primo, e la donna lo guardò, confusa. - Non sembrano infetti.
- Come lo sai?
- Non è la prima volta che gli infetti irrompono in casa e non lo fanno mai così... Così silenziosi. Forse sono delle persone. Forse... Forse c'è anche Stephan con loro.
Timothy non la lasciò andare. - È pericoloso. Restiamo qui.
Alicia era stupida. - Non ti faceva così diffidente verso le persone. Sei un pastore, dopotutto. Non dovresti predicare la fratellanza?
A Timothy non piacquero per niente quelle parole e la lasciò andare.
La donna salì le scale e sparì oltre lo stipite.
Il pastore udì delle voci, poi un tonfo sul pavimento, seguite da alcune risate. C'erano delle persone. Cosa diamine era successo? Salì i gradini e accostò un orecchio alla porta.
- E chi se lo aspettava che avremmo trovato una donna. - Disse una voce rauca da uomo.
- Non è un granché, ma ci divertiremo. - Risposi la seconda voce.
Timothy aprì la porta quanto bastava per spiarci. Vide un uomo con lunghi capelli neri fin sotto il mento, e un altro calvo e con un pizzetto sottile attorno alla bocca. Poi il suo sguardo si posò su Alicia, svenuta ai loro piedi.
- Oh no... - Bisbigliò Timothy.
Altri tre uomini entrarono nel soggiorno dalla cucina, e notò solo in quell'istante che erano tutti armati di pistole e mazze.
- Non c'è niente, Greg. - Disse un uomo dai capelli castani arruffati.
- Hai controllato lì? - L'uomo dai lunghi capelli puntò il dito verso la porta dello scantinato.
Spaventato, il pastore scese la scala. Si andò a nascondere dietro un tavolo ribaltato su un fianco, avvolgendosi il corpo in un lenzuolo grigio umido e puzzolente. Fu il suo istinto a suggerirglielo, e non sapeva se avrebbe funzionato. Magari lo avrebbero visto ugualmente.
Poi sentì la porta aprirsi e qualcuno scendere i gradini. Si strinse la bibbia sul petto e pregò.
- Bingo! - Disse una voce maschile.
Timothy trasalì, terrorizzato. Forse lo aveva visto? Chiuse gli occhi, aspettandosi che il lenzuolo si sollevasse di scatto dalla sua testa.
- Greg! - Urlò l'uomo. - Qui sotto ci sono delle provviste!
Il pastore tirò un sospiro di sollievo, anche se non era del tutto rilassato.
- Che cazzo gridi. - Rispose Greg, scendendo la scala. - Vuoi attirare gli svalvolati?
- Scusa, non non volevo.
- Sì, ok.
Il pastore non udì nessuno per un momento.
- Non bastano nemmeno per una settimana. - Aggiunse Greg.
- Però abbiamo la donna. Finalmente ce la spasseremo un po'. - Ridacchiò.
- Solo quando mi sarò stancato.
- Sì, certo, Greg. Certo.
Sentì i due uomini salire al piano di sopra e chiudere la porta. Rimase immobile per un lungo momento, poi si tolse il lenzuolo di dosso e si avvicinò alla scala. Uno strano suono proveniva dal piano di sopra. Sembravano delle risate isteriche, quasi diaboliche. Non avevano niente di umano. Poi udì un tonfo.
Timothy si pietrificò, fissando la porta in cima ai gradini. Le risate isteriche continuarono, finché sentì uno zampettare lungo il soffitto. Forse era entrato un cane? Impossibile. Non ne vedeva uno da moltissimo tempo. Tutti i randagi della città parevano essere fuggiti ancor prima dell'arrivo dell'esercito.
Infine lo zampettare cessò, e tornarono a sentirsi le risate isteriche. Il pastore indietreggiò fino a urtare con un piede una sedia.
D'un tratto udì un raspare frenetico sotto la porta. Le risate si intensificarono, seguiti dai gemiti eccitati.
- Quelli... Quelli non sono cani. - Mormorò Timothy, terrorizzato. Si andò a nascondere nuovamente dietro il tavolo e si coprì con il lenzuolo.
Qualunque cosa fossero, ora stavano raschiando la porta con più forza, con più foga. Restò ad ascoltare quel rumore agghiacciante, finché smisero di ridacchiare. Poi li udì scendere i gradini. Sembrava davvero lo zampettare dei cani.
Il pastore chiuse gli occhi, la bibbia stretta nel petto. Gli scappò quasi da ridere nel pensare che reagiva sempre così. Ma cosa poteva fare? Quella risata smorzata, stava diluendosi nell'isterismo. Voleva ridere per il terrore.
Improvvisamente sobbalzò per un colpo di fucile sparato nella casa. Quelle cose ridacchiarono, malefiche, e rabbrividì nel sentirli così vicini. Erano stati a due passi da lui, ma ora zampettarono sui gradini. Se non fosse esploso quel colpo, forse lo avrebbero trovato e fatto a pezzi. Ma come sapeva che lo avrebbero ridotto così?
Mentre ci meditava, altri spari si susseguirono al piano di sopra, seguiti da strilli, grida di dolore e risate isteriche. Poi i rumori si spostarono fuori dall'abitazione, finché scomparvero in lontananza.
Timothy non si mosse. Aveva troppa paura per farlo.



 

15


Restò lì per quasi un'ora, nel silenzio più totale. Aveva pregato intensamente, e questo gli infuse un poco di coraggio. Si tolse lentamente il lenzuolo, aspettandosi che qualcuno gli saltasse alla gola, e si guardò intorno. C'erano impronte di sangue sul pavimento. Piccoli piedi vagamente umani. La scia continuava lungo la scala.
Salì i gradini con cautela e scorse lo squarcio nella parte inferiore della porta imbrattata di sangue. Fissò quel buco per un attimo, aspettandosi che da un momento all'altro ne uscisse una creatura orrenda, ma non successe. Ci mise un po' a trovare nuovamente il coraggio, ma alla fine girò la maniglia.
Con un lieve cigolio, la porta si aprì. Schizzi di sangue imbrattavano le mura e il pavimento, puntellato dai bossoli.
Il pastore si fece tre volte il segno della croce, senza mollare la bibbia dal petto. Poi, facendo attenzione a non calpestare le pozza di sangue, svoltò in cucina. Quattro cadaveri giacevano al suolo, la faccia sfregiata da cui penzolavano lembi di pelle, il ventre e il collo squarciato.
Si portò la mano davanti alla bocca e istintivamente vomitò bile sul pavimento. Fu un gesto che non riuscì a controllare, che lo costrinse a raggiungere la finestra più vicina per prendere aria. E una volta lì, scorse altri tre corpi in pancia in giù.
Si diresse a passo sostenuto oltre l'uscita, nel giardino, e venne percorso da decine di coniati. Gli sembrò che il corpo volesse vomitare pure l'anima.
Non aveva pensato minimamente che ci potessero essere degli infetti o quelle strane cose là fuori. Gli pareva di essersi catapultato all'inferno. Magari era morto, e neanche se ne era accorto. Forse era la sua punizione per aver trattenuto soldi dalla raccolta fondi per i poveri.
S'inginocchiò e incrociò le dita. - Perdonami, Dio, perché ho peccato. la chiesa rischiava di essere demolita. Ho dovuto attingere denaro dalla raccolta fondi, perché le donazioni per le riparazioni erano poche. Non volevo che la tua casa venisse chiusa. Non volevo peccare di avidità. - Alzò lo sguardo e le mani al cielo. - Chiedo il tuo perdono, padre. Perdonami!
In quell'istante si ricordò di Alicia. Come aveva fatto a dimenticarsene? Si alzò in piedi quasi incespicando su una pietra e corse in casa.
La donna non c'era.

Rimase a fissare a lungo, sconcertato, il punto in cui l'aveva vista l'ultima volta. Poi il tanfo di putrefazione si fece troppo forte, e uscì dall'abitazione. Non prese nemmeno una mazza o una pistola dai cadaveri per difendersi. Una simile idea non gli era neanche sfiorata per la mente.
Una volta in giardino, si guardò intorno. Non sapeva cosa fare. Doveva mettersi alla ricerca di Alicia? Magari era nei paraggi. Poi gli balenò in testa un pensiero orrendo. E se si fosse trasformata? Stephan aveva detto che la gente poteva trasformarsi da un momento all'altro. Forse anche lei aveva fatto questa fine? Magari era stata morsa o graffiata da quelle cose che aveva sentito in cantina? O forse era semplicemente fuggita. Allora perché lo aveva abbandonato?
- Certo che sei un vero coglione! - Ghignò la voce interna, facendolo sussultare. - Perché dovrebbe aiutarti? Tu l'hai aiutata quando è stata presa da quel branco di coglioni?
Il pastore balbettò qualcosa di incomprensibile.
- Cos'è? Hai perso le parole, padre? Dov'é il tuo Dio quando serve? Perché ha lasciato accadere tutto questo. - Rise.
- Lasciami in pace! - Disse il pastore, incamminandosi lontano dalla casa, sul limitare tra il bosco e la strada.
- Ah, bene. - Sibilò la voce. - Vedo che stai andando verso la tua chiesa. Perché ci vai? Quelle quattro pareti non ti appartengono più. Adesso hanno nuovi proprietari. Gli infetti! - Ridacchiò malignamente.
Timothy non lo ascoltò e continuò a camminare. Mentre la voce lo ghermiva di insulti e screditava il suo Dio, scorse qualcosa seminascosto nell'erbaccia, ai piedi dei pini.
- Che cosa aspetti? - Aggiunse la voce. - Vai a vedere, imbecille. Magari è uno dei tuoi amici. - E rise a crepa pelle.
Timothy strinse la mano a pugno, irato.
- Oh, il povero pastore si è arrabbiato. - Lo ghermì la voce. - Ora cosa farai? Prenderai a pugni la tua faccia? Non puoi colpirmi, non puoi scacciarmi!
Il pastore aggrottò le sopracciglia, esasperato, e si avvicinò al corpo steso su un fianco. Appena gli fu a pochi passi, gli occhi si umidirono.
- Avevo ragione! - Si compiacque la voce. - Amo avere ragione! Ah, Gesù cristo! Piagnucoli come un moccioso? Nemmeno lo conoscevi bene. Che cazzo te ne frega? Meglio lui, che te, no? Smettila di piangere, coglione! Ora è con il tuo Dio e stronzate del genere! - Ridacchiò.
- Basta! Basta! Smettila! LASCIAMI IN PACE! - Urlò a squarcia gola Timothy. - Vattene! Vattene!
Scese un tetro silenzio attorno a lui. Un silenzio che non gli piacque affatto. Cosa diamine aveva fatto? Era impazzito a urlare in quel modo?
Non ebbe tempo di guardare il viso sfregiato di Stephan e di dire una preghiera, che una serie di urli agghiaccianti lo fecero andare in panico.
Non capì più niente.

Corse lungo la strada asfaltata, senza nemmeno controllare che non ci fossero infetti nella direzione in cui stava andando. Il suo unico pensiero era di raggiungere a tutti costi la chiesa. lo desiderava immensamente.
Le urla degli infetti si fecero più vicini, echeggiavano nei boschi. Dopo una manciata di minuti che gli parvero ore, arrivò davanti al cancello aperto che dava sul cimitero. Nessun infetto in vista, me le orribili grida lo avevano quasi raggiunto. Venivano dai boschi, ne era certo.
Si precipitò lungo la piccola collina che lo condusse prima nel cortile, poi nella chiesa. Salì la scala e rimase paralizzato. La porta era stata abbattuta dagli infetti. Se ne era del tutto dimenticato. Adesso come avrebbe impedito a quelle cose di entrare? E poi perché si era andato a rinchiudere nel suo ufficio?
Più ci pensava, più non ne capiva il motivo.
Le grida irate erano ormai vicine, quasi tutt'attorno all'edificio. Si affacciò alla finestra e non scorse nessuno lungo la scalina che portava sulla strada. Forse gli infetti venivano tutti dal quartiere residenziale, e dai boschi. Non ci pensò due volte e la scavalcò.
- Stai per morire, stronzo! - Ghignò la voce interna.
Era ritornata. Non poteva crederci. Provò un moto di rabbia, che svanì appena sentì una cacofonia di urla al piano di sotto, in fondo alla scala. Erano così tante da sovrastare la voce interna, che non faceva che insultarlo.
Mise i piedi sulla passerella di legno, scese la scala a pioli e corse verso il cancello chiuso. Per sua fortuna non l'aveva chiuso e, quando fu dall'altra parte, inserì la chiave nella toppa.
- Sei proprio un idiota! - Disse la voce. - Perché stai chiudendo il cancello? Quelle cose possono arrampicarsi dovunque. Non crederai che un paio di mura e filo spinato impediranno loro di raggiungerti? Sei proprio un perfetto coglione! Il numero uno dei coglioni! - Ridacchiò maleficamente.
Timothy non lo ascoltò e girò la chiave. Sentì un CLICK! Mise le chiavi nella tasca e corse verso l'emporio di Gustavo. Arrivato a venti metri dall'ingresso, qualcosa gli afferrò un piede e lo fece razzolare in avanti. La bibbia finì vicino a una ruota posteriore di un furgone. Da lì sbucava un infetto incastrato sotto il veicolo. Agitava le mani grigiastre verso il pastore, che lo guardava, spaventato.
Poi si riprese e adocchiò la bibbia. Non poteva lasciarla lì. Doveva assolutamente prenderla. Quando gli avvicinò la mano, l'infetto per poco non gli afferrò il polso. La ritrasse e, appena alzò lo sguardo verso la chiesa, scorse gli infetti lanciarsi dalla finestra come un fiume in piena.
Sussultò, terrorizzato, e scattò istintivamente la mano sul libro. L'infetto cercò di afferrarlo, ma Timothy si ritrasse in tempo. Poi corse dentro l'emporio, la bibbia stretta sul petto.



 

16


Superò il bancone del negozio e uscì dalla porta sul retro, ritrovandosi nel vicolo. Il suo sguardo venne catturato dalle pozze di sangue raggrumato vicino al bidone della spazzatura. Pensò ai corpi che aveva seppellito nel cimitero e a Gustavo.
Poi entrò nel magazzino adiacente, lo attraversò e si chiuse dietro una porta, che non aveva nemmeno controllato. Per sua fortuna la camera era vuota.
Quando spiò nella fessura della serratura, scorse gli infetti irati precipitarsi nell'emporio. Le grida attutivano qualsiasi rumore. Alcuni continuarono a correre, finché entrarono nel magazzino, dove si fermarono di colpo. Anche la loro rabbia diminuì del tutto, emettendo solo sporadici gemiti sommessi.
Timothy camminò nella stanza che doveva essere una sorta di piccolo ufficio, e raggiunse la finestra. La strada era vuota. Gli venne una mezza idea di scavalcarla e di correre lontano, ma alla fine si sedette dirimpetto alla porta. Restò così per un lungo momento, poi il pensiero della fuga gli tornò in mente. Volse il capo verso la finestra.
- Fallo! - ghignò la voce nella sua testa. - O sei troppo vigliacco per farlo? Apri quella cazzo di finestra!
Il pastore cercò di non ascoltarlo.
- Devi solo aprirla e passare dall'altra parte. È molto semplice. Cazzo! Fallo! Scavalca quella cazzo di finestra!
Timothy si tappò le orecchie con le mani, mentre la voce rideva.
- C'è solo una via. Non importa se dovrai passare accanto all'emporio. Tu seguila! VAI!
Sapeva che la voce voleva tormentarlo, tentarlo, e farlo ammazzare. Superare quella finestra e mettersi a correre, equivaleva a morte certa. Lo sapeva chiaramente.
D'un tratto udì una raffica di spari fuori dall'edificio. Gli infetti urlarono a squarcia gola e si precipitarono verso la fonte del rumore.
Timothy li sentì allontanarsi, finché non udì più nulla. Si alzò dalla sedia e andò alla porta. Girò la maniglia e sbirciò fuori. Non c'era nessuno.
- Oh, ma dai! Fai sul serio, cazzo? - aggiunse la voce, irritata. - Dopo quello che ti è successo, vuoi andare di nuovo in quel tugurio.
- È la casa del Signore! - Rispose il pastore.
- Allora sai parlare, coglione? Andiamo dove sono andati gli infetti. Sembra che gli spari provenissero dalla casa di Stephan e Alicia. Magari quella puttana è ancora viva. Perché non andiamo a dare un'occhiata, eh? Solo un'occhiata.
- So dove vuoi arrivare.
- Ah, sì? Dove?
- Vuoi farmi ammazzare.
La voce ridacchiò, diabolica. - Tanto morirai ugualmente, stronzo! Sei morto, padre! MORTO! MORTO! MORTO!
- Smettila! - Urlò Timothy.
La voce scomparve di colpo.
Arrivato davanti al cancello, si guardò intorno, pescò le chiavi dalla tasca e la inserì nella toppa. La girò e aprì il cancello, richiudendolo alle spalle. Poi salì la scalinata e vide la porta d'ingresso abbattuta. Quando entrò, scorse quattro infetti sul pavimento.
Il pastore si immobilizzò per un attimo, finché cominciò a muoversi lungo la parete, senza distogliere lo sguardo da loro. Arrivato sotto la soglia della scala che portava al suo ufficio, notò che gli infetti erano stati calpestati e forse picchiati. Era opera degli altri infetti? O di qualcun altro?
Lanciò uno sguardo in cima alla scala, ma non vide nessuno. Preso dalla curiosità, si spinse nel cortile, poi nel cimitero. Nessuna traccia di sopravvissuti o infetti.
Rientrò in chiesa e sentì degli spari in lontananza. Giungevano dall'abitazione di Stephan e Alicia. Non ne era certo per via del riverbero, ma intuiva che era così.
- Che aspetti? - Ghignò la voce interna. - Vai ad aiutare una povera pecorella bisognosa di aiuto.
Il pastore lo ignorò e salì la scala che lo condusse nel suo ufficio.
- Sei proprio intenzionato a morire qui dentro, eh? - Disse la voce, stizzita. - Mi fai schifo! Non tenti nemmeno di salvare quella povera fanciulla. Sei un insulto per Dio!
- Non nominare il suo nome invano!
La voce rise, malefica. - Altrimenti cosa farai, pastore? Mi ignorerai? - Rise a crepa pelle.
Timothy si sedette sul letto. Non si sentiva quasi più le gambe per la fatica, e un fortissimo mal di testa aveva cominciato a tormentarlo. Poi la bibbia gli scivolò dalle mani e cadde sul pavimento con un tonfo.
- Guardati! Sei spacciato! - Aggiunse la voce. - Non hai nemmeno più la forza di reggerti in piedi.
Timothy provò a prendere la bibbia, ma crollò in avanti. Si alzò lentamente in piedi, quando qualcuno bussò alla porta di ferro rossa montata dall'esercito, al piano terra. Conduceva a una stanza sotto il campanile, accanto al suo ufficio. Non era più andato là da quando Milligan si era appropriato della chiesa. Credeva che lì dentro avessero allestito una specie di armeria, in quanto era vietato entrarci.
Con le poche forze rimaste, afferrò la bibbia, la strinse sul petto e aprì la porta. C'erano delle armi su un tavolo. Fucili a pompa, di precisione e d'assalto, oltre a varie munizioni ammucchiate lì accanto.
Sentì di nuovo bussare alla porta.
- Ehi! C'è qualcuno? - Gridò una voce femminile.
Timothy aprì la porta e rimase felicemente sorpreso.
Alicia era lì, a tre cinque passi da lui. Il volto e i vestiti sporchi di sangue e terra, i capelli scompigliati. Ma nei suoi occhi iniettati di sangue c'era qualcosa di strano.
Timothy abbassò lo sguardo e le guardò l'avambraccio scoperto. Un morso. Era proprio un morso.
Spalancò gli occhi, spaventato.
Alicia gli si scagliò contro, afferrandolo per la camicia. Lo sbatté contro il muro e gli affondò i denti nella scapola destra. Gli strappò un pezzo di carne e lembi di giacca, che sputò a terra.
Timothy gridò dal dolore. Non riusciva a togliersela di dosso. Aveva una forza quasi sovraumana.
Alicia cominciò a tartassarlo di pugni e calci, finché il pastore la spintonò fuori dalla stanza. Quella cercò nuovamente di entrare, ma Timothy le chiuse la porta in faccia. Cominciò a tempestarla di calci e pugni, mentre i pastore si lasciò cadere con le spalle contro il muro.
Si guardò la ferita da cui usciva un debole fiotto di sangue. Perché lo aveva morso? Cosa le era preso? Un attimo prima l'aveva sentita parlare, e un attimo dopo aveva tentato di ucciderlo. Poi si ricordò del morso e comprese.
- Ding Dong! - Ghignò la voce interna. - La morte sta arrivando, padre. Ding dong! Ding dong! Ding dong!
Il pastore si sentì prosciugare l'energia. Più passava il tempo, più non riusciva a restare lucido. Le gambe sembravano averlo abbandonato e, quando cercò di afferrare la bibbia caduta ai piedi del tavolo, le braccia pesanti parevano due blocchi di cemento.
Mezz'ora dopo, sentì una raffica di spari colpire la porta di ferro rossa. Sotto la fessura tra la porta e il pavimento, apparve una pozza di sangue che si andava espandendosi.
Qualcuno bussò.
- Sembra chiusa. - disse una rauca voce maschile.
- Sei sicuro? - rispose una voce più anziana, sempre maschile.
La voce rauca sbuffò, irritata. - Guarda tu stesso, Bill!
Timothy udì dei rumori alla porta. Cercavano di aprirla.
- È bloccata per bene, Francis.
- Te l'ho detto!
- Meglio prevenire che curare... - Aggiunse Timothy, sentendosi scoppiare la testa per il dolore. - Meglio prevenire che curare...
- Hai sentito, Bill? - Disse Francis. - C'è qualcuno.
- Ehi! Mi senti? Siamo immuni. Non siamo infetti.
- Meglio prevenire che curare... - Ripeté il pastore in una cantilena sommessa. Gli sembrava di aver perso il controllo delle parole.
- Facci entrare. - Aggiunse Francis. - Siamo stanchi e affamati. Vogliamo solo riposarci per un po'.
Timothy si lasciò cadere la bibbia dalle mani e, cingendo le ginocchia con le braccia, cominciò a dondolare. - Meglio prevenire che curare...
- Oh, dannazione! - Disse Francis, irato. - Apri questa cazzo di porta!
- Sono io quello che decide chi passa da questa porta! - disse il pastore. - Prima l'ho aperta e sono stato morso. No! Meglio prevenire che curare! Meglio prevenire che curare!
- Ma 'sto tizio è fuori di testa. - Aggiunse Francis. - Ehi, amico. Siamo sani. Siamo immuni. Non possiamo diventare come loro, capito? Facci entrare.
- Preparatevi per il test! - Gridò Timothy, esaltato.
- Test? - Chiese Bill, turbato. - Quale test?
Il pastore afferrò la corda del campanile e lo tirò, facendola suonare. - DING DONG! La cena è servita! DING DONG! DING DONG!
- Fottuto pezzo di merda! - Urlò Francis.
Delle urla agghiaccianti attutirono per un momento il suono della campana, poi si sovvraposero con la cacofonia degli spari.
Timothy scoppiò in una risata malefica. - Hai visto, padre? È così che ci si diverte. Adesso che ho il controllo, non ho più bisogno di te. Spero ti troverai comodo nella gabbia che ti ho preparato! - Rise a crepa pelle.
Ma la voce perse subito il controllo, e Timothy riprese lucidità.
- Oh, no. Cosa ho fatto? Cosa ho fatto? - Disse, divorato dal senso di colpa. - Dio, perdonami. Non volevo. È stata... È stata la voce... - Afferrò la bibbia e la strinse sul petto, mentre la ferita alla scopola gli pulsava dal dolore. - Chiedo il tuo perdono, Padre. Ti prego, ti supplicò, perdonami!
Mentre là fuori gli spari andavano scemando, la vista cominciò ad impannarsi, gli occhi a diventare completamente neri. Come ultimo gesto di espiazione per ciò che aveva fatto, si alzò con fatica e sbloccò la maniglia. Poi crollò all'indietro, sul pavimento.
Non vide più nulla.
Non sentì più nulla.
Si alzò dopo una manciata di secondi, la pelle grigiastra, gli occhi iniettati di sangue, denti aguzzi e artigli affilati. Cominciò a ringhiare e si chinò, assumendo la posizione di un ghepardo. Era diventato un Hunter.
Fuori dalla stanza sicura, i quattro sopravvissuti avevano eliminato l'orda di infetti e diversi infetti speciali. Si avvicinarono cauti alla porta, l'aprirono e crivellarono di pallottole quello che, pochi minuti prima, era stato un pastore di nome Timothy. La sua mano cadde sulle pagine aperte della bibbia schizzata di sangue, come a non volersene separare.
Il dito puntava a un versetto dell'Esodo 9:15.
Se fin da principio io avessi steso la mano per colpire te e il tuo popolo con la peste, tu saresti ormai cancellato dalla terra.

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