Sotto i cieli di Afrodite di Green Star 90 (/viewuser.php?uid=73989)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La piccola fuga ***
Capitolo 2: *** La legge dell'adonide ***
Capitolo 3: *** Al-Qirmiz ***
Capitolo 4: *** Rimpatriata ***
Capitolo 5: *** Vespro dei beati sposi (prima parte) ***
Capitolo 6: *** 22 marzo ***
Capitolo 7: *** Un diavolo in paradiso (interludio) ***
Capitolo 8: *** La metafisica del primo incontro ***
Capitolo 9: *** Il paraninfo degli ultimi ***
Capitolo 10: *** Vespro dei beati sposi (seconda parte) ***
Capitolo 11: *** Il ciclo dell'essere ***
Capitolo 12: *** L'ultimo canto dell'o'o di Kauai ***
Capitolo 1 *** La piccola fuga ***
1- La piccola fuga
La piccola fuga
Debussy, Lent. (Melancolique et Doux)
Un racconto sulla genitorialità
Il mattino si era presentato al cospetto degli inglesi da
poche ore ed era prevedibile che quella sarebbe stata la classica giornata,
neanche a farlo apposta, inglese, uggiosa e grigia di inizio novembre, niente
per cui valesse la pena struggersi, insomma. Beh, quasi niente, a essere
precisi.
La biacca del cielo gettava una luce malaticcia sulla cameretta e sulle
lenzuola bianche della culla, che la sua piccola proprietaria aveva provveduto
a calciarsi di dosso non appena svegliatasi. Per questo aveva ruotato
energicamente il capo da una parte e dall’altra alla ricerca di qualcuno che
potesse aiutarla a liberarsi dalla propria prigione, ma gli adulti sembravano
affaccendati in chissà quali cose di vitale importanza che non comprendeva, e
questo la indisponeva non poco.
Guardò perciò in alto, verso la sommità delle sbarre di legno che la separavano
dal mondo, e in basso, per guardarsi le manine paffute, e pensò che qualunque
fosse l’evento al quale stessero partecipando i grandi voleva farne parte come
qualsiasi bambina ormai grande che si rispettasse.
Afferrò la cima con tutte e dieci le dita e si fece forza per mettersi in
posizione eretta sul materassino: decisamente il mondo era più bello senza
quelle odiose righe marroni, ma non era abbastanza. Facendo leva sulle braccia,
sollevò una gamba e la accavallò oltre la sponda del lettino cercando di
spingersi col proprio piccolo grande corpo verso l’esterno. Piegò anche l’altra
gamba, la fece passare oltre il legno come aveva fatto con la prima e… oplà!
Con un salto finito a terra e un minuscolo tonfo col sedere ce l’aveva fatta,
era libera di andare a esplorare il mondo degli adulti! Certo, il di dietro
faceva un po’ male, ma la libertà era troppo bella per mettersi a piangere,
quindi prese a gattonare sul pavimento freddo della stanza, sollevando gli
occhioni acquamarina verso il suo secondo ostacolo: la porta chiusa.
Proprio nel momento in cui gonfiava le guance per il disappunto questa si aprì
e un paio di scarpe lucide sormontate da galosce si frapposero tra lei e il
resto della casa. Due occhi castani si abbassarono su di lei e due mani leste
si prodigarono a sollevarla da terra.
«Elizabeth!» esclamò l’uomo rivolgendo un’occhiata preoccupata alla culla vuota
«Come hai fatto a scendere da lì?».
La bimba gli rivolse un sorriso sdentato e birichino, poi puntò l’indice verso
l’esterno protraendosi con tutto il busto per infondere maggiore enfasi sul proprio
desiderio di esplorazione.
«Va bene, va bene, ho capito, andiamo da mamma Erina, ti va? Niente capricci
però, altrimenti lo dico a Straitso» mormoro l’adulto con la piccola fuggitiva
in braccio, ingrossando la voce per mimare un tono scherzosamente minaccioso
«se fai la brava signorina ti faccio conoscere un altro bambino».
Elizabeth non aveva afferrato appieno il significato di quelle parole, ma aveva
intuito che fossero collegate al grande evento che aveva tenuto occupati gli
adulti della casa, per cui dimostrò il proprio entusiasmo aggrappandosi alla
giacca dell’uomo e lallando alcuni versi di contentezza mentre percorrevano il
corridoio in direzione della risoluzione del mistero.
«Vediamo un po’… è permesso?» tre colpi leggeri di nocca picchiettarono sul
legno, ai quali seguì una voce delicata di donna attutita dall’interno.
«Possiamo entrare!» fece rivolto alla bambina «Buongiorno signora Joestar, e
buongiorno anche a te piccolo George! Veniamo a rassicurarci della vostra
salute, se non vi reca disturbo».
Le finestre di quest’altra camera da letto filtravano la stessa luce
bianchiccia con la quale si era svegliata la piccina. La puerpera sedeva a
letto con la schiena adagiata su bei cuscini candidi come la sua vestaglia
ricamata e le mani sul grembo ancora gonfio, stanca per le fatiche del parto ma
lieta di ricevere quella visita. Accanto a lei vi era un’altra culla, più
piccola di quella riservata a Elizabeth, schermata da un baldacchino anch’esso
bianco.
«Buongiorno signor Speedwagon, tu non disturbi mai. Mettetevi comodi»
«Grazie, lei è un angelo» il visitatore fece riverenza con un breve inchino e
si avvicinò cauto alla culla «in attesa che papà Straitso venga a recuperare
questa piccola ribelle vorremmo tenervi un po’ di compagnia. Possiamo
presentarci al nuovo Joestar?»
«Permesso accordato, ma solo se dopo Elizabeth viene qui a farsi guardare…
Voglio vedere quanto è cresciuta» fu la risposta di Erina, abbozzando un altro
sorriso in direzione della bambina.
«Oh, certamente… Guarda, Elizabeth. Questo è George».
Scostando appena il velo con l’ausilio di un dito teso, l’uomo e la bambina si
sporsero per ammirare l’ennesimo ma sempre meraviglioso miracolo della natura:
un faccino tondo, bello e incorniciato da ricciolini scuri, riposava tranquillo
nel proprio nido di seta, coi pugnetti chiusi sul petto e i piccoli occhi in
procinto di chiudersi per il primo sonnellino mattutino.
«Gli somiglia così tanto… Così piccolo e già senza un padre» furono le prime
parole che gli uscirono di bocca, mentre tentava maldestramente di trattenere
l’accoramento che si portava dentro dalla notte precedente.
Erina, che sapeva sempre quando l’amico era preda di attacchi improvvisi di emotività,
indicò la poltrona ai piedi del letto.
«Robert, perché non mi dai Elizabeth e ti siedi? Immagino che neanche tu abbia
dormito stanotte».
Speedwagon esaudì silenziosamente la richiesta e, una volta sprofondato nel
velluto, si tolse il cappello scoprendo la zazzera bionda, si coprì il volto
con le mani e iniziò a singhiozzare.
«Mi dispiace, mi dispiace veramente tanto» riuscì a dire tra un singulto e
l’altro «sono così felice di sapere che il figlio di Jonathan sta bene, ma allo
stesso tempo non riesco a non essere triste per il fatto che non ci sia più!
Lui meritava… voi meritavate la felicità, tu meriti la felicità, Erina! Quanto
può essere crudele il destino se un bambino che non ha ancora visto il suo
primo tramonto è condannato a non conoscere mai il papà… L’uomo più buono di
questo mondo?»
«Mio caro Speedwagon, se tutti gli esseri umani avessero un amico come te la
cattiveria non esisterebbe più» disse Erina, che nel frattempo aveva stretto
Elizabeth al seno e le aveva posato delicatamente le labbra sulla fronte «non
possiamo contravvenire alle leggi del destino dal momento in cui siamo soltanto
esseri umani, però c’è una cosa sulla quale mi preme contraddirti: George sarà
pure nato senza Jonathan, ma non è nato senza un padre pronto a volergli bene».
Speedwagon sollevò il capo e si asciugò il viso alla bell’e meglio con la
manica della giacca, sussultando ancora per i singhiozzi. Per un attimo
incrociò lo sguardo con quello della donna, ma lo distolse subito verso un
punto imprecisato alla sua destra.
«Io non… non credo di meritare le lodi che mi tesse. Però se mi concede l’onore
di aiutarla a crescere vostro figlio sarà mio impegno affinché cresca nel
miglior modo possibile, gli racconterò di suo padre e di quello che ha fatto
per me, perché voglio che il suo ricordo non si spenga»
«Così come per me è un onore averti conosciuto».
Tale affermazione venne accolta con religiosa quiete da parte del fu criminale,
che fece una fatica enorme per ritrovare una parvenza di compostezza. Rimasero quindi
in silenzio per un minuto, o forse qualcosa in più, chi lo sapeva, a godersi la
pace ovattata di quella giornata fredda fuori ma tiepida e ristoratrice nei
loro animi, interrotto solo dal giochicchiare di Elizabeth coi lacci della
vestaglia di Erina. E infatti fu proprio lei a riprendere la parola.
«Sai che sei veramente bella?» le sussurrò, mentre le ripercorreva il profilo
del bel nasino con la punta dell’indice, facendo scaturire una risata argentina
nella bambina «Bella e irrequieta, da grande avrai il tuo bel carattere»
«Non so come abbia fatto, ma prima l’ho trovata fuori dalla sua culla, deve
averla scavalcata tutta da sola!» rivelò Speedwagon con una nota di apprensione
in quella esclamazione «Avrebbe potuto farsi male».
«Sì, avrebbe…» ripeté distrattamente Erina perdendosi per un attimo
nell’azzurro mare di quegli occhi così limpidi, come solo quelli di un neonato
che si affaccia alla vita potevano essere. Elizabeth non poteva rendersi conto
dell’immensa fortuna che aveva a possedere ancora la genuinità selvatica dei
bambini piccoli che tutto vogliono scoprire e per i quali è tutto divertimento,
e non lo avrebbe mai fatto, da brava e riottosa piccina. Come l’acqua che
restava attaccata al bicchiere capovolto durante i momenti di gioco con il suo
papà adottivo.
Non li avrebbe ricordati, ma glieli avrebbero raccontati.
Come al piccolo George avrebbero raccontato di suo padre.
***
Musica in Jojo: Il Lent, doux et mélancolique di Debussy è la prima delle tre Images
composte nel 1894 e appartenente alla produzione giovanile del
compositore. La trilogia che include il brano è una dedica a
Yvonne, figlia del pittore Henry Lerolle, che era amico dello stesso
Debussy.
Il brano è il più malinconico e meditativo dei tre, e
sebbene vi sia un certo scarto temporale fra il periodo in cui è
ambientato il racconto e quello della composizione della suite ho
voluto comunque immaginare questa headcanon secondo cui la best waifu
della saga apprezzerebbe Debussy.
Retroscena: Che
dire... se siete giunti/e fino a qui, grazie mille. Quello che avete
appena letto è il primo di dodici racconti, che in realtà
rappresentano una specie di via di mezzo tra una raccolta e una long,
che verranno pubblicati, se tutto andrà bene, a cadenza
settimale, e che verranno accompagnati da mini playlist di tre canzoni
ciascuna.
Non potevo non iniziare con zio Robert che si strugge per la morte del
bro della vita, in qualche modo sono riuscita ad affezionarmici grazie
al meme material che gira su internet, ma è stata la lettura del
manga ad avermelo consacrato nel mio personale olimpo dei personaggi
preferiti, quindi ho ritenuto opportuno aprire le danze con lui.
Esaurito il momento spiegone, rinnovo i miei ringraziamenti per aver letto fino in fondo, nella speranza di non avervi annoiato.
Baci.
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Capitolo 2 *** La legge dell'adonide ***
2- La legge dell'adonide
La legge
dell’adonide
Something in your eyes is makin' such a fool of
me
When you hold me in your arms
You love me till I just can't see
But then you let me down
When I look around
Baby, you just can't be found
Stop driving me away
I just wanna stay
There's something I just got to say
Madonna, Borderline
Un racconto sul dolore
del ricordo
«Perché me lo stai dicendo adesso?»
«Perché non volevo perderti»
«Ma tanto tornerai in America e mi perderai comunque, non è vero? Allora perché
tutto questo?».
Chiunque abitasse a Morio-Cho da abbastanza tempo da
ricordare come fosse prima del boom economico, sapeva chi fosse la giovane
donna seduta da sola, eccezion fatta per la carrozzina che teneva con una mano,
al tavolino del punto ristoro del centro cittadino. Nessuno sapeva, comunque,
chi avesse avuto l’ardire di mettere incinta proprio la figlia dell’agente
Higashikata, anche se si vociferava fosse stato un gaikokujin.
Nulla d’ufficiale, beninteso, erano deduzioni scaturite perlopiù dagli occhi
insolitamente chiari di quel bel neonato che la madre non aveva vergogna alcuna
di mostrare in giro alla faccia delle malelingue. E tanti saluti alla
buoncostume.
Tomoko Higashikata voleva godersi lo shopping post esami universitari e il pomeriggio
agostano con suo figlio ed era intenzionata a rispondere male a chiunque avesse
osato indugiare con lo sguardo anche solo un attimo di più su di loro, dopo di
che sarebbe tornata a casa dove ad attenderla ci sarebbero stati suo padre e
una cena preparata con tanto amore, quello che mancava, per esempio, alle due
cretine che l’altro giorno erano state sorprese a bisbigliare al suo passaggio
e per questo messe immediatamente a tacere con una sfuriata memorabile.
Ci teneva veramente a svelargli il suo, di segreto. Ma
non così, non con una moglie, una figlia e un nipote di mezzo. Cielo,
addirittura un nipote!
«Io… non so cosa dire… Solo che mi dispiace per quello che c’è stato, non
pensavo che per te fosse così importante»
«Importante? Per me è fondamentale! Pensi che per me si sia trattato solo di
un’avventura? Se non l’hai capito io ti…»
«Oh my…»
«Io ti amo! Ti amo con tutta me stessa e se potessi ti porterei con me a farti
conoscere la mia famiglia. Però vedo che ne hai già una ad aspettarti, quindi…
non ti trattengo oltre».
«Da-da!»
«Josuke, tesoro!» Tomoko si sporse per prendere in braccio il bambino che
reclamava le coccole «Ti piacciono le insegne dei negozi? È la prima volta che
le vedi, vero? Guarda!» esclamò subito dopo indicando i vasi da esterno
decorati con fiori gialli e sgargianti all’ingresso del bar «Sai cosa sono
quelle? Sono adonidi! I nostri fiori!».
Il figlioletto si limitò a ricambiarla con un sorrisino sdentato da dietro il
ciuccio. Nel muoversi, sulla nuca, alla base del collo, la maglietta leggera
aveva scoperto per un attimo quella piccola voglia a forma di stella che le
ricordava quanto bello fosse il frutto del suo amore sfortunato. Sicuramente la
sua stazza avrebbe raggiunto quella del padre e non sarebbe trascorso molto
tempo affinché venisse superata in altezza dal suo futuro gigante prediletto,
ma al momento se lo voleva tenere così, piccolo, profumato di innocenza e
ancora ignaro dei pettegolezzi di cui era oggetto costante da quando era nato.
«Non devi toccarle» gli disse la mamma con dolcezza mentre gli sistemava meglio
i pantaloncini sulla vita «Sono velenosi come la mela che la strega dona a
Biancaneve!».
Un altro sorrisino innocente. Tomoko prese la borsa e rimise il figlioletto nel
passeggino.
«Solo un attimo di pazienza, non abbiamo ancora terminato» disse più a sé
stessa che al bimbo «La mamma deve compare ancora un’ultima cosa».
«Ancora un’ultima cosa»
«Dimmi pure»
«Non è una cosa che devo dirti, ma una cosa che tengo a donarti… Li riceverai
in albergo, è qualcosa che simboleggia la mia città di origine, così quando ti
capiterà di rivederli da qualche parte penserai a me».
Dopo poche ore era andata far recapitare un mazzo di adonidi, gialle, tossiche,
pregne di dolore, nella stanza d’albergo dell’unico uomo che avrebbe mai amato
in tutta la sua vita. Chissà se avrebbe collegato quei fiori al significato che
si portavano dietro. Che brutto scherzo, il destino, certe volte.
Era il negozio di dischi Oscar. Le vetrine esponevano una Stratocaster
e un Precision Bass assieme ad alcuni vinili appesi al soffitto con dei fili di
nylon. Quando si decise a entrare venne accolta dal saluto di rito del commesso
e dagli altoparlanti che trasmettevano la musica di una cantante straniera la
cui voce, tuttavia, non le risultava del tutto sconosciuta.
Gonna
have to change your mind
Gonna leave your troubles behind
Your body gets the notion
When your feet can make the motion¹
«Mi piace questa canzone, di chi è?»
«È di una esordiente americana, si chiama Madonna. Non è proprio il mio genere,
però c’è qualcosa di lei che mi cattura».
«Adesso ricordo…» mormorò tra sé guardando distrattamente
gli scaffali coi vinili. Nonostante non fosse la canzone che avevano ascoltato
insieme si disse che quest’altra le piaceva decisamente di più, anche se non
riusciva a cogliere per intero il significato di alcune strofe:
Borderline
Feels like I'm going to lose my mind
You just keep on pushing my love over the borderline
Borderline
Feels like I'm going to lose my mind
You just keep on pushing my love over the borderline
«Mi scusi» disse al ragazzo che l’aveva salutata «vorrei
acquistare un Walkman e… come si chiama la cantante che sto ascoltando in questo
momento?».
Domanda tautologica, ovviamente.
«Ciao, scusa se ti chiamo adesso e senza preavviso, ma
tenevo a ringraziarti per i fiori, sono molto belli».
Un sospiro di mestizia che si frappone fra lei e la cornetta. Stavolta si
tratta davvero dell’ultima occasione a disposizione che ha per rivelarglielo.
«Joseph, io…».
Sono incinta. Divorzia da tua moglie e andiamo a vivere insieme, compriamo
una casa e adottiamo un cane, io farò l’insegnante mentre tu continuerai a fare
l’agente immobiliare, e quando tornerai a casa ci saremo io e nostro figlio ad
attenderti.
«Figurati. Fai attenzione a non toccarli troppo spesso, sono velenosi.
Soprattutto… soprattutto le foglie».
Finalmente terminati gli acquisti e rinchiusa nel comfort
ovattato della sua automobile, Tomoko stringeva tra le dita il jewel case della
musicassetta che aveva appena acquistato. Il primo piano in bianco e nero di
una donna con la quale condivideva pressappoco la stessa età le rivolgeva uno
sguardo conturbante incorniciato dal trucco e da corti capelli biondi
sapientemente arruffati. Sul seggiolone portatile alla sua sinistra, Josuke
succhiava placidamente il ciuccio.
«Tomoko, tesoro, guarda che ti ho cresciuta io e capisco
subito quando fai finta di stare bene».
Tomoko non risponde. Gli occhi gonfi e il principio di nausea lo fanno al posto
suo. L’unico genitore rimastole non la guarda con rimprovero e d’altronde non
potrebbe mai fare una cosa del genere alla persona che lui ritiene più preziosa.
«Presumo fosse importante per te» riprende suo padre sempre con calma «se non
vuoi parlarmene non sarò io a costringerti, però sappi che se farai nascere
questo bambino… forse ti sembrerà scontato, ma sappi che se vorrai farlo
nascere il tuo papà sarà qui ad aiutarti, di questo non devi preoccuparti!».
«Sono a casa!» esclamò Tomoko aprendo l’uscio non senza
qualche impedimento dovuto alla combo buste della spesa più neonato in
passeggino «Pronto? Nipote reclama nonno! Ripeto: nipote reclama nonno!»
«Il nonno ha ricevuto l’ordine forte e chiaro, passo e chiudo!» Ryohei
attraversò di gran carriera l’atrio con indosso la divisa appena stirata e il
cappello in testa «Ciao tesoro, hai fatto compere?» aggiunse subito dopo alla
figlia aiutandola ad alleggerirla dall’impaccio «E qui abbiamo il mio nipote preferito
che diventa sempre più grande!» appena liberatosi dai sacchetti non perse tempo
a prendere in braccio Josuke e a stringergli le guanciotte rosate con quella
sua manona che sapeva essere sempre gentile con chi lo meritava.
«Non sapevo stessi andando al lavoro» commentò Tomoko inarcando un sopracciglio
«quando la smetteranno di darti tutti questi straordinari?»
«Non lo so tesoro, non lo so» Ryohei strinse a sé il nipotino e diede un bacio
sulla guancia della figlia «non pensare a me e al lavoro, goditi questa piccola
vacanza prima di tornare a Tokyo, d’accordo?»
«Se lo dici tu…» borbottò lei prendendo a sua volta il bimbo in braccio «Vuoi
che sia io a prepararti qualcosa quando terminerai il turno?»
«Non ce n’è bisogno, ho già mangiato degli onigiri. A proposito, ne ho lasciati
un paio anche per te, non restare digiuna eh!» si raccomandò l’uomo prima di
chiudersi la porta alle spalle.
«Sì papà, dopo la poppata» rispose lei inespressiva. Quando si ritrovò da sola
con Josuke la prima cosa che fece fu rovistare tra i sacchetti alla ricerca dei
suoi due ultimi acquisti: quando li trovò si diresse in cucina e raccolse anche
il vassoio con gli onigiri di suo padre e, pargolo in braccio, percorse la
rampa di scale diretta verso la propria camera. Da lì la finestra offriva la
vista parziale del quartiere e proprio poco distante dal giardino l’agente
Higashikata si allontanava in bicicletta e sollevava il cappello in segno di
saluto per le due coppie di genitori con figlia adolescente, figlio piccolo e
cane che aveva incrociato nella direzione opposta mentre si recava a lavoro. Il
più giovane e vociante del gruppo, un bambino che non dimostrava più di quattro
anni, faceva vedere a tutti un suo disegno sul quale era stata impiegata una
bella quantità di giallo. Forse si trattava di un fiore, ma non ne era del
tutto sicura; Tomoko indossò gli auricolari e infilò la cassetta nel vano del
walkman. Mentre le prime note sintetizzate di Everybody iniziavano a
estraniarla dal mondo le due famigliole erano scomparse alla vista. Con un
sospiro si allontanò dalla finestra e si portò il figlioletto al seno.
«Ah, che faccino carino che hai» sussurrò, scostando i capelli nerissimi dalla
fronte bianca di Josuke «mi prometti che qualunque cosa accadrà non ti farai
mettere i piedi in testa da nessuno? Mh?».
Il bimbo rispose con un mugolio soddisfatto per la poppata e per il contatto
con il corpo della mamma. Troppo buono per piangere anche quando ne aveva il
diritto e troppo candido per la storia che aveva condotto alla sua nascita, il piccoletto
non aveva idea alcuna di chi fossero le persone che il nonno aveva visto
salutare dal primo piano della camera di sua madre, e d’altronde non avrebbe
potuto neanche volendo. Sia lui che Tomoko non sapevano nemmeno che dopo appena
una decina di giorni una delle due famiglie sarebbe finita sulla cronaca nera
del giornale locale e che dopo una prima reazione di grande sconcerto la
cittadina sarebbe ripiombata nella sua febbre di sviluppo economico dimenticandosi
– quasi del tutto – della faccenda.
«In realtà non so perché proprio le adonidi siano i fiori
simbolo della mia città, ma a me piace il significato che vi sta dietro. Simboleggiano
un sentimento o una persona che si tiene per sempre nel proprio cuore a
prescindere dai casi della vita. Quindi… beh, anche se non ci vedremo più ti
porterò per sempre nei miei ricordi».
***
¹Everybody, singolo d'esordio di Madonna, pubblicato il 6 ottobre 1982.
Musica in Jojo: Il 1983 non
è solo l'anno di nascita di Josuke e Okuyasu: segna anche il
debutto discografico di Madonna, che avviene il 27 luglio per
l'etichetta Sire Records. Borderline, che racconta le difficoltà di un amore non soddisfatto, appare
seconda nella tracklist ed è il quinto e ultimo singolo
dell'album, che sarebbe infatti uscito il 15 febbraio 1984. L'idea
iniziale era quella di inserire Papa Don't Preach come canzone introduttiva, ma riflettendo sulla natura gentile di nonno Ryohei ho deciso di scartarla.
Retroscena: Faccio un'ammissione di colpa: non sono una grande fan di Diamond Is Unbreakable.
La reputo la saga più disomogenea della prima esalogia di Jojo e
anche quella con gli avversari più irritanti (se escludiamo
Kira); in secondo luogo, non riesco a mandare giù il fatto che
Joseph abbia tradito Suzie Q, reputando tale comportmento alquanto OOC.
Tuttavia, penso che Tomoko sia uno dei personaggi secondari più
interessanti della saga e che il tema della maternità non
desiderata all'interno della quarta parte sia stata relagata ai margini
della vicenda pur aleggiando insistentemente tra gli altri personaggi,
motivo per cui ho dedicato il secondo racconto della raccolta alla
Jomom più tosta, per certi versi, della famiglia Joeastar.
E Josuke?
Su di lui, al momento, non mi pronuncio. Apparirà più in
là come protagonista di un'altra vicenda e in un contesto del
tutto diverso.
Grazie mille per aver letto, alla prossima.
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Capitolo 3 *** Al-Qirmiz ***
3- Al-Qirmiz
Al-Qirmiz¹
On and on the rain will fall
Like tears from a star
Like tears from a star
On and on the rain will say
How fragile we are
How fragile we are
Sting, Fragile
Un racconto sulla forza
dell’empatia
Di chiunque fosse stata l’idea di festeggiare l’arrivo in
Egitto con l’alchermes doveva essere di sicuro un idiota, ma Jotaro era troppo
stordito dall’alcol per prendersela col responsabile, che immaginava essere
l’unico con un moncherino al posto della mano sinistra. Lo spettacolo offerto agli
astri dicembrini del Medio Oriente erano tre ragazzini e un vecchio fatti prede
delle grinfie di Bacco e un uomo sobrio che cercava in tutti i modi di
scrollarsi di dosso il più rumoroso e molesto del gruppo con risultati
deludenti. Il tutto era reso ancora più comico dal fatto che quella mattina,
complice la stanchezza causata dalla nuotata post scontro con lo stand di Midler
del giorno prima, proprio il membro più rumoroso e molesto del gruppo avesse
indossato per sbaglio i pendenti di quello più tranquillo e discreto, sicché il
secondo, invece di chiedere che gli venissero resi, aveva preso i perni del
coetaneo teppista e burbero, il quale, a sua volta, con gran sorpresa di tutti
e senza profferire parola, si era reso partecipe di quel gioco iniziato da un
errore decorandosi i lobi con due mezzi cuori che gli sfioravano il colletto
della divisa, e così erano rimasti fino alla notte.
In verità possedeva quel minimo di lucidità mentale che serviva per evocare
Star Platinum e separare la povera vittima dal compagno appiccicoso, ma avrebbe
mentito a sé stesso se avesse dichiarato di trovare la scena per nulla
divertente; per questo motivo si fingeva più rincretinito di quanto non fosse
veramente pur di ignorare apposta le richieste di aiuto che Abdul lanciava con
gli occhi.
«Ehi».
Seduto accanto a Jotaro, Kakyoin gli diede una gomitata leggera sul fianco. Si
girò a guardarlo: il castano degli occhi lucido per la leggerezza del momento e
per gli effetti del liquore gli avevano fatto svanire temporaneamente quella
sua aria perennemente malinconica².
«Mh?»
«Guarda che l’ho capito che hai capito che Abdul vuole che tu lo separi da
Polnareff» aspirò rumorosamente e bevve un altro sorso di alchermes «che fai,
non lo aiuti?»
«Non posso, sono ubriaco» senza trattenere un sorriso, Jotaro gli sfilò la
bottiglia dalle mani e tracannò altro liquido «aiutalo tu»
«Non posso, sono ubriaco» rimbeccò Kakyoin.
Entrambi risero come due scemi.
«Prometti che non ci lascerai più!» piagnucolava Polnareff aggrappato al
braccio di un Abdul più imbarazzato che altro, in balìa della più
appiccicaticcia delle ubriacature «Putein! Mi sentivo così in colpa che
stavo impazzendo, ero distrutto dal dolore… Ti prego, non morire più!».
Sembrava quasi tenero, quasi.
«Prometto solennemente che non ti farò più disperare» Abdul si mise una mano
sul cuore e scoccò un’occhiataccia a Jotaro e Kakyoin che non finivano più di
sghignazzare «però, magari, se mi lasciassi in pace un attimo potrei prendere
la cassetta del pronto soccorso e darvi delle aspirine per scongiurarvi il mal
di testa di domani»
«Quando ammazzeremo Dio ti porto a visitare Parigi… No, anzi, facciamo il tour
de France! Tu, io e gli altri, faremo una vacanza luuuunghiiiiissima»
«Sì, Pol, promesso, grazie per l’affetto che mi dimostri… E molla!» Abdul
riuscì finalmente a liberarsi dalla presa di Polnareff e allungò il busto per rovistare
tra le vettovaglie in cerca del farmaco che avrebbe salvato gli altri quattro
dai postumi.
«Oh, Abdul, se non ci fossi dovremmo, hic! Inventarti» biascicò Joseph
sollevando la propria bottiglia quasi vuota in controluce col fuocherello al
centro dell’accampamento provvisorio «Devo smetterla di comportarmi come se avessi
diciott’anni»
«Tanto la tua età cerebrale è ferma a dodici» sentenziò Jotaro provocando una
reazione collettiva di fischi e risate improvvisi, al punto che Kakyoin si
lasciò cadere di lato con le mani sullo stomaco e Abdul inciampò sul bagaglio
di Polnareff.
«Senti… coso!» inveì Joseph puntandogli il braccio privo di mano meccanica
«Guarda che se non era per me col cavolo che avreste potuto bere in un Paese
musulmano! Alla tua età avevo già combattuto contro tre guerrieri aztechi!»
«E noi la ringraziamo per aver salvato il mondo signor Joestar, e proprio
perché abbiamo ancora bisogno di lei farebbe bene a non esagerare più con
l’alcol».
Come un genitore paziente fa col figlio capriccioso, Abdul sfilò dalla presa di
Joseph la bottiglia coi fondi del liquore e gli mise in mano una borraccia
contenente acqua.
«Ne beva un po’ e si metta a dormire, e lo stesso vale per voi» aggiunse
rivolto agli altri tre.
«Sì papa» ridacchiò Polnareff mentre cercava di rimettere seduto Kakyoin
«oh no, abbiamo perso ciuffetto!»
«Sono ancora qua, cretino» replicò l’ingiuriato con la bocca impastata,
puntellandosi coi gomiti sulla sabbia. Tolse la bottiglia dal grembo di
Jotaro e se la portò alla bocca «Nooo, è vuota, ne necessito!»
«Ne hai avuto già abbastanza, direi che va bene così» Abdul raccolse anche il
vetro che lui e Jotaro avevano svuotato e lo incastrò sotto l’ascella «non ti
facevo così trasgressivo, sono sorpreso»
«Colpa di questo qui» Kakyoin evocò un tentacolo che colpì la catena della
divisa di Jotaro, il quale incrociò le braccia e lo guardò con un’espressione a
metà fra il divertito e il corrucciato. Gli orecchini di Polnareff che
assecondavano il moto della testa verso chi lo aveva accusato del misfatto.
«Non ti picchio solo perché sei ubriaco»
«Oh, facciamo i duri, molto bene» Polnareff afferrò la sciarpa di Kakyoin e se
l’avvolse intorno al collo stando attento che i pendenti di ciliegia fossero
ben visibili «Buonasera, mi chiamo Noriaki Kakyoin e sono vergine».
Jotaro si strozzò con la propria saliva, Abdul fece scivolare accidentalmente
le bottiglie per terra e Joseph esplose in una risata fragorosa che si premurò di
soffocare subito dopo.
«Polnareff!» esclamò il più anziano «Kakyoin, scusa se ho riso, scusa davvero…
oddio» si affrettò ad aggiungere senza smettere di sussultare per le risate
trattenute.
Lo sguardo di Jotaro, nel frattempo, rimbalzava continuamente tra Polnareff e
Kakyoin; gli era parso che sul volto dello studente fosse sceso un velo di
tristezza improvvisa, ma non ebbe il tempo di accertarsene perché lo vide
alzarsi, seppur barcollante, piantare i mocassini sulla sabbia e tenersi i
fianchi con entrambe le mani senza smettere di guardare in faccia chi lo aveva
preso in giro:
«Mon nom est Jean-Pierre Polnareff et je suis un connard».
L’imitazione di Kakyoin era stata così perfetta che Joseph si riscosse
momentaneamente dalle nebbie dell’alcol e si profuse in un applauso sincero con
tanto di «Bravissimo!» urlato in italiano, mentre Abdul e Jotaro
abbandonarono il loro stoicismo consueto e risero di gusto.
Polnareff, invece, si era limitato ad aprire e chiudere la bocca come un ebete
e non profferì neppure una sillaba.
«Ecco, bravo Kak, rendigli pan per focaccia!» esclamò Joseph nemmeno stesse
assistendo a una partita di football «E tu, Pol, prendi e porta a casa».
Dal canto suo, Polnareff aveva assottigliato i suoi occhi azzurri e serrato la
mandibola.
«Me la lego al dito» fu la replica di colui il quale era stato appena trafitto
dal suo stesso fioretto «e la sciarpa me la tengo per la notte assieme ai tuoi
orecchini»
«Nessun problema, amico mio» Kakyoin si risedette accanto a Jotaro e incrociò
le braccia al petto, apparentemente soddisfatto di come si era concluso quel
botta e risposta.
La notte trascorse in maniera relativamente tranquilla tra altre battute e sprazzi
di racconti del passato di Joseph: tuttavia, mentre Polnareff sembrava aver
completamente dimenticato la stoccata subita, a giudicare dall’entusiasmo con
cui commentava i dettagli della cerimonia di matrimonio tra il vecchio e nonna
Suzie, Kakyoin si era chiuso in un mutismo assoluto e contemplava estraniato il
fuoco attorno al quale erano raccolti. Ciò non gli avrebbe costituito
turbamento alcuno se non avesse saputo che proprio Kakyoin non era il tipo da
cambiare umore all’improvviso, soprattutto per una faccenda dalla valenza meno
che risibile. Una volta giunto il momento di andare a dormire si era infilato
nel sacco a pelo senza dire una parola e lì era rimasto, steso sulla schiena e
immobile, facendo credere a tutti di aver preso subito sonno. Quel che non
sapeva era che anche Jotaro fingeva di dormire, e infatti quest’ultimo non si
sorprese quando avvertì un frusciare di tessuto sintetico poco lontano da lui
che gli indicava che il coetaneo si era alzato. Con la coda dell’occhio percepì
la sua sagoma snella trafficare in mezzo ai bagagli di Joseph e allontanarsi silenziosamente
di qualche metro. Maledicendo mentalmente la lingua lunga di Polnareff e
l’insonnia, si strinse il ponte nasale tra pollice e indice e attese il momento
propizio per capire cosa stesse succedendo nella testa di Kakyoin. Una bella
impresa, non c’era che dire.
La domanda, quindi, fu la seguente: c’era davvero un momento propizio?
Di certo con le parole faceva discretamente schifo, ma se la ragione gli diceva
di lasciar perdere, l’istinto gli suggeriva il contrario. Lasciò cadere le
braccia lungo i fianchi, fuori dal sacco a pelo, e per poco le dita non
sfiorarono qualcosa di elastico e vivo che emetteva una debole
luminescenza verdastra. Mettendosi a sedere si accorse che l’area adibita a
bivacco era attraversata dalla rete tentacolare dello Ierofante, appena
intravedibile sotto i granelli.
Anche quando era contrariato per qualcosa, Kakyoin pensava sempre alla
salvaguardia del gruppo.
Ignorando il leggero capogiro da post sbornia, liberò le gambe dall’impaccio e
strinse le spalle nel gakuran: ora che gli effetti della vasodilatazione erano
svaniti, il freddo del deserto notturno tornava a farsi sentire. Si inginocchiò
e, con un dito teso, toccò il tentacolo che si estendeva proprio sotto il punto
sul quale era sdraiato prima; questo si contrasse debolmente ed emanò per un
istante una luce più intensa, segno che il custode silenzioso della barriera
aveva capito che a breve avrebbe condiviso le beghe della privazione di sonno
con qualcun altro.
Jotaro infilò una mano in tasca ed estrasse l’occorrente per fumare una
sigaretta. Con l’accendino in mano e il filtro tra le labbra, seguì la
debolissima scia verdognola facendo attenzione a non calpestarla, finché trovò
il suo portatore girato di schiena rispetto al resto della combriccola
dormiente, seduto e rivolto verso est, con le braccia posate sulle ginocchia
piegate e nelle orecchie gli auricolari di Joseph.
«Posso?» chiese, la bocca serrata per non far cadere la Marlboro.
Kakyoin sollevò il capo e guardò chi gli aveva fatto la richiesta: dal suo
volto inespressivo non trapelava alcuna emozione, ma fece un breve cenno di
assenso prima di tornare a guardare l’orizzonte per metà puntinato dalle stelle
e per metà immerso nella pece.
Jotaro si girò dalla parte opposta, in direzione dell’accampamento, la cui
sagoma era debolmente rischiarata dalla luminescenza di Hierophant Green, e si
sedette poggiando la schiena contro quella di Kakyoin che, avvertendo quel
contatto improvviso e inaspettato, si irrigidì senza però rifiutarlo. E infatti
non passò qualche secondo che i muscoli e i tendini si rilassarono sotto la
stoffa dell’uniforme, e anzi lasciò intendere di gradirlo abbandonandovi anche
la testa, chioma bruna con chioma corvina, in segno di fiducia. Al solleticare
leggero dei capelli di Kakyoin sulla nuca, Jotaro capì di aver fatto bene a
seguire l’istinto, per cui accese la sigaretta e ascoltò il riverbero lieve delle
cuffie del walkman; probabilmente il nastro della musicassetta stava
riproducendo Sting anche se non ne era del tutto sicuro. Comunque fosse attese
che l’altro uscisse dal proprio guscio per parlargli, quindi si armò di
pazienza e tabacco fino a quando lo scatto del tasto “stop” non ebbe decretato la
fine di quel temporeggiamento.
Kakyoin si sfilò le cuffie con un sospiro e distese le gambe. L’odore di
nicotina iniziava a impregnargli i vestiti aggiungendosi a quello dell’alcol.
«Non dire al signor Joestar che l’ho preso in prestito, ma ne avevo bisogno.
Sicuramente non avrai aspettato i miei comodi per questo, vero?»
«No» Jotaro spense il mozzicone nella sabbia e si apprestò ad accendere
un’altra sigaretta «tanto per rassicurati non dirò neanche che avremo parlato,
e tu hai bisogno di parlare più che di ascoltare il tuo cantante preferito… Ah,
ma che cazzo di situazione» si lasciò scappare scuotendo la testa «ascolta… lo
sanno anche i sassi che spesso Polnareff si comporta da deficiente, quindi prendi
le sue provocazioni per quello che sono. E poi non c’è niente di male a essere
vergine a diciassette anni».
Jotaro ringraziò che fosse quasi buio perché le orecchie presero ad
avvampargli. Dietro di lui, Kakyoin rise debolmente.
«Apprezzo molto ciò che dici, veramente, ma sai, non l’avrei presa così male se
lo fossi ancora».
A quell’affermazione Jotaro aggrottò la fronte e trattenne il respiro. Tutto si
aspettava tranne quello.
«Scusa, non ho afferrato»
«Vedi» riprese Kakyoin monocorde, «non ce l’ho con Polnareff, non gli do la
colpa di niente, solo che certe cose… nonostante quello che è capitato a sua sorella…
non credo le comprenderebbe»
«E cosa ti fa pensare che io lo faccia, invece?» ribatté Jotaro, che non aveva
ancora capito dove stesse andando a parare la conversazione.
O forse non voleva capirlo.
«Seduto dietro di me ci sei tu o Polnareff?».
Touché.
«Mh, da dove comincio… ?» mormorò Kakyoin iniziando a giocherellare
nervosamente con gli orecchini di Jotaro «Diciamo che Dio non si è limitato a
impiantarmi il germoglio di carne».
A quelle parole, le mani di Jotaro vennero colte da formicolio. Una sensazione
fastidiosa all’altezza del cardias gli fece aumentare la salivazione.
No, decisamente non voleva capirlo.
«Avevo una paura che non immagini» riprese l’altro «sudavo freddo e per poco
non vomitavo sulle rose… le rose! Dio mio, le rose. Odoravano talmente tanto da
farmi venire la nausea, sembravano quasi volgari con quel rosso scuro».
Jotaro ascoltava in religioso silenzio, con l’unica eccezione del cuore che
sbatacchiava contro lo sterno: la cenere della sigaretta rischiava di cadergli
sui pantaloni, ma le mani gli tremavano troppo per poter compiere un gesto
banale come allungare le dita per allontanare il mozzicone dalla bocca.
«Quello che mi disse prima di farmi il lavaggio del cervello me lo tengo
scolpito nella memoria. Mi disse che non dovevo avere paura e che potevamo
diventare amici, a quel punto fui felice perché non avevo più paura di morire.
Mi piantò il germoglio e poi… i dettagli te li risparmio. Ti dico solo che se
pensi sia stato violento… non lo è stato per niente, era come se conoscesse il
mio corpo meglio di me, e io ero contento di questo, perché almeno ero vivo, un
burattino di carne ma vivo. Attorno a me vedevo le rose che appassivano e
puzzavano di marcio e io continuavo a non ribellarmi perché ero felice di fare
e di farmi fare quello che voleva lui. Quando ha finito mi sono rivestito, sono
tornato in albergo e mi sono messo a letto come se non fosse successo niente…
La mattina dopo mi sono svegliato e ho trovato diciassette rose carminio nel
vaso della mia camera, la stessa varietà della notte prima. Era il suo modo di
farsi beffe del danno. La cosa peggiore è che se avesse fatto anche solo un po’
male il fisico ne avrebbe sofferto e io sarei qui a dirti che porto i segni di
quella… boh, cosa, da qualche parte, e invece è rimasto tutto nella mia mente e
si sa, la mente non ha cicatrici visibili da mostrare alla gente affinché ti
creda».
Il peso sullo stomaco si era impossessato completamente di Jotaro e oltre alla
salivazione acidula si era aggiunta una stretta alla gola che lo aveva
costretto a gettare la sigaretta non ancora terminata lontano da sé e a
premersi entrambi i palmi delle mani sugli occhi, sperando ardentemente che
Kakyoin non si fosse accorto del ribaltamento inaspettato di ruoli. Le orecchie
e il cervello però restavano vigili, captavano ed elaboravano i suoni fatti
fonemi, si tramutavano in significati e poi si evolvevano in sentimenti di
empatia e dolore che gli procuravano sofferenza emotiva e fisica.
Ti prego, non dire quella frase, tu non c’entravi niente.
«Mi vergogno molto di questa cosa. Voglio dire, so che razionalmente parlando
ho subito, ma appunto per questo mi vergogno di aver subito. Quando mi hai
tolto il germoglio è stato come se fossi morto e rinato, una specie di prima e
dopo che mi ha fatto capire che se non avessi fatto qualcosa per riavere
indietro la mia dignità di essere umano non avrei avuto diritto di vivere. Di
questo…».
Non dirla.
«… ti sarò riconoscente a vita».
Jotaro si lasciò scappare un singhiozzo che lo fece sussultare in tutta la sua
figura, costringendo Kakyoin a girarsi preoccupato.
«Ti senti bene?» domandò con una nota di apprensione nella voce «Scusa se ti ho
turbato in qualche modo».
Ma pensa.
«S-scusa a me? Dopo quello che mi hai raccontato? Dovrei essere io a chiederti
scusa per la situazione in cui ti abbiamo messo» una goccia salata sfuggì al
controllo di Jotaro, intercettò un tentacolo e vi si infranse sopra,
accentuandone per un attimo la luminosità. Respirò a fondo, una mano sul petto
e la visiera del cappellino a coprigli gli occhi arrossati «Io sono quello che
dovrebbe chiederti come stai, e invece è finita al contrario… Sono uno
stronzo».
Kakyoin gli si sedette accanto e gli porse il suo fazzoletto.
«Sono uno stronzo che ti ruba sempre i fazzoletti»
«Stavolta non ci sono messaggi minatori scritti sopra. E comunque non sei uno
stronzo».
Jotaro si lasciò sfuggire una breve risata mentre lo prendeva per affondarci il
viso. Stette così per un minuto abbondante, giusto il tempo di riprendere
almeno parte del proprio autocontrollo, poi si voltò a guardare l’amico:
«Posso farti una domanda personale?»
«Dimmi»
«Come hai fatto a sopravvivere a quello che hai passato?».
Kakyoin gli rivolse il sorriso più dolce e al tempo stesso triste che avesse
mai visto.
«Te l’ho detto, sono morto e rinato, non sono sopravvissuto. Non si sopravvive
a certe esperienze, però ci sono parole, sai, che quando vengono pronunciate al
momento sbagliato ti fanno ritornare per un po’ alla tua vita precedente e ci
resti male… Così è stato stanotte. Per questo non ce l’avrò mai con Polnareff…
Cosa ne può sapere?»
«Non che non poter fare niente per te sia tanto meglio» aggiunse Jotaro «ammazziamo
quel bastardo e poi? Ti porti addosso questa zavorra finché campi?».
Kakyoin si alzò e tornò a sedersi dietro Jotaro, schiena contro schiena, ma
stavolta reclinò il capo sulla spalla sinistra dell’altro.
«Mi basta che tu abbia ascoltato e abbia reso tuo il mio dolore. Davvero, non
hai idea di quanto mi abbia fatto bene confidarmi finalmente con qualcuno. Per
il resto, la guerra che ho ingaggiato contro la paura posso combatterla solo
io».
Jotaro tirò sul col naso e deglutì; gli occhi pizzicavano ancora. Adesso quello
era diventato un doppio segreto a due, con le stelle quali osservatrici,
testimoni e custodi di queste e altre verità che mai avrebbero rivelato ad
ascoltatori indiscreti per i secoli a venire. E fu loro grato di questo, anche
se non lo diede a vedere, perché un patto suggellato con le stelle era
destinato a sopravvivere alle creature mortali. Non avrebbe nemmeno dato a
vedere la sensazione di catarsi che lo avrebbe pervaso e acquietato al
sopraggiungere dell’alba, se si faceva eccezione per il ragazzino tranquillo e
discreto col quale aveva condiviso un pezzo della propria umanità e che gli
aveva dato più di quanto lui stesso se ne rendesse conto.
Con un sospiro reclinò anch’egli la testa sulla spalla sinistra di Kakyoin,
afferrò di nuovo il pacchetto di sigarette e se ne mise una in bocca.
«Dobbiamo ubriacarci più spesso» disse d’un tratto, tornando quasi il solito
Jotaro di sempre «mi piace quando sputtani la gente»
«Oh no, per colpa tua diventerò un teppista, addio alla mia reputazione di
studente modello!» ribatté Kakyoin tra il serio e la burla «Scherzi a parte,
sarà la prima cosa che faremo quando finirà. Va bene?».
Jotaro espirò due sbuffi di fumo dalle narici e sorrise.
«Ci conto».
***
¹ Dall'arabo القرم, che vuol dire "cocciniglia", "scarlatto" o "rosso scuro".
² Ho preferito conferire a
Kakyoin una palette colori naturale per omaggiare l'OVA. Nonostante qui
non sia specificato, anche Jotaro ha gli occhi scuri (per la precisione
il canonico nocciola, come indicato nella biografia del personaggio).
Ispirazione numero uno;
Ispirazione numero due;
Ispirazione numero tre.
Musica in Jojo: Fragile è la sesta traccia di ... Nothing Like The Sun,
il secondo album solista di Sting uscito il 13 ottobre del 1987. Al di
fuori del contesto del racconto, la canzone tratta della
fragilità dell'essere umano di fronte alla violenza e alla
forza distruttiva delle armi. Dedicata all'ingegnere civile
statunitense Ben Linder, che venne ucciso proprio nel 1987 in
Nicaragua, sarebbe uscita come singolo l'anno successivo, a ridosso
dell'inizio del viaggio dei Crusaders.
Personalmente non ascolto Sting (miserere di me), ma quando ho fatto
una ricerca approfondita per la stesura di questa one-shot ero
intenzionata a utilizzare una delle sue canzoni più famose,
nella fattispecie quelle appartenenti solo ai suoi primi due album, gli
unici che Kakyoin sarà riuscito ad ascoltare.
Retroscena: Convertendo la
violenza della guerra in violenza fisica e psicologica, ho voluto
parlare di due headcanon relativamente famose all'interno del fandom:
la prima, che adoro, riguarda lo scambio di orecchini tra il Joeastar
più giovane, Kakyoin e Polnareff, mentre la seconda, che ho
sempre detestato per la leggerezza con cui se ne parla, concerne la
teoria secondo la quale Kakyoin si sarebbe concesso a Dio durante il
suo periodo di sudditanza psicologica. Lasciatemi dire che, parole del
manga e dell'anime lette e riascoltate più volte, se dovessimo
prendere per buona la seconda headcanon ci ritroveremmo a parlare
senz'altro di abuso.
Non andrò a mentire, scrivere questo pezzo è stato
più facile a farsi che a pensarsi: è stato come voler
"buttare via" dalla propria testa determinate cose, come se mi
risultassero nocive se solo avessi provato a trattenerle oltre. A ogni
modo, è anche vero che si tratta, forse, del racconto che amo e
odio di più, vuoi perché parlo della mia saga preferita,
vuoi perché il monologo di Kakyoin e la scena animeonly in cui
Dio gioca col suo orecchino mi hanno turbata. Insomma, ci sarebbe tanto
altro da dire, ma non mi dilungo oltre perché altrimenti finirei
per scrivere un saggio, quindi vi ringrazio per aver letto e vi do
appuntamento alla prossima settimana.
xoxo
|
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Capitolo 4 *** Rimpatriata ***
4- Rimpatriata
Rimpatriata
Get up (get up)
Come on (come on)
Why're you scared? (I'm not scared)
You'll never change what's been and gone
'Cause all of the stars are fading away
Just try not to worry, you'll see them someday
Take what you need, and be on your way
And stop crying your heart out
Oasis, Stop Crying Your Heart Out
Un racconto sul
ritrovarsi sempre e comunque
«Vorrei chiederti scusa per essermi comportata male con te».
Proprio da lei non se lo sarebbe aspettato.
Ma com’era cominciata?
La notte precedente stava facendo un caldo tremendo e né le
finestre spalancate né il perizoma quale unico indumento indosso erano riusciti
a conciliare il sonno di Fugo. Sprofondato nella poltrona e quasi annegato nel
suo stesso sudore, si era messo nella condizione di girare canale tenendo
mollemente il telecomando tra le dita appiccicose. Il palinsesto televisivo
estivo sapeva essere più deprimente della pioggia a Pasquetta, ma niente al
mondo riusciva a deprimerlo più dei tormentoni da spiaggia che ogni anno gli
bucavano le orecchie. Ergo, era conseguenza logica che Mtv fosse il canale più
deprimente in assoluto del momento, e tale assunto era stato partorito dal
pensiero del ragazzo nel momento in cui il polpastrello del pollice aveva
premuto per la quinta volta sul tasto otto. Neanche a farlo apposta, alle tre e
venticinque del mattino si stava ritrovando ad ascoltare un tormentone, diverso
dal solito, certamente, ma pur sempre un tormentone.
Il piano sequenza proiettato su un palco da studio stava riprendendo Liam
Gallagher nell’atto di cantare nella sua posa sghemba a polsi incrociati dietro
la schiena e col microfono incollato alle labbra, con il resto della band ad
accompagnarne la voce: “perché le stelle stanno svanendo, cerca di non
preoccuparti, un giorno le vedrai; prendi quello che ti serve e avviati per la
tua strada, e smettila di piangere a dirotto”.
Fugo si era portato la mano libera alla tempia e aveva spento il televisore sul
piano americano della protagonista del video. Il sé stesso dell’anno precedente
avrebbe lanciato l’apparecchio giù dal balcone, ma quella notte si era sentito soltanto
abbattuto, vuoi per l’afa vuoi per ciò che la canzone gli stava evocando.
«Non dormi?».
Dei passi leggeri avevano rotto il silenzio appena ristabilito. Un paio di
braccia si erano sporte oltre la spalliera per far cadere qualcosa di molliccio e viscido che si era spiaccicato ai suoi piedi con un
tonfo.
Fugo aveva piegato la testa in alto e si era ritrovato faccia a faccia con
Sheila E, anche lei accaldata e in mutande.
«Che c’è?»
«Cos’è quel muso?».
Invece di rispondere, Fugo aveva raccolto il prodotto della loro noia.
«Sai che in cucina c’è il bidone della spazzatura?» le aveva chiesto
retoricamente, tenendo sollevato il preservativo per il nodo.
«Ma allora sei vivo» le era venuto da ghignare, un animaletto ancora odorante
di feromoni esattamente come lui «che ti passa per la mente in questi giorni?
Sei strano»
«Corsi e ricorsi mentali, lascia perdere» aveva sbuffato e scollato le natiche
dall’ecopelle per gettare il lattice nella pattumiera.
«Ti dà fastidio se parli con qualcuno?» le aveva sentito domandare dal salotto
d’un tratto.
«Dipende dallo stato di insonnia e apatia di tal qualcuno» le aveva risposto di
rimando dalla cucina.
«Ok, allora vi lascio da soli, io torno a letto» e così, quando Fugo era
ritornato, Sheila E aveva occupato di nuovo – e abusivamente – il suo
materasso.
«Fugò?».
Proprio nel momento in cui era stato in procinto di esprimere la propria
perplessità riguardo la capacità di lei di riaddormentarsi come se in casa non stesse facendo un caldo infernale, una terza voce si era fatta udire dal tavolino di
vetro facendolo imprecare come non mai.
«Mannagg a Cardarell Jean-Pierre, ma che cazzo ci fai qua?!» gli era
venuto da imprecare con tanto di balzo all’indietro «Ci hai sentito mentre…?
No, sul serio Jean-Pierre, ma che cazzo ci fai qua?»
«Ordini dall’alto, e per la precisione da Mista» era stata la risposta pacata
dello spiritello che emergeva per mezzo busto dal carapace del fu Coco Jumbo
«siccome ti vedeva triste da giorni ha pensato di scortarmi qui approfittando
del fatto che Sheila E avrebbe passato la notte da te… Chiedo venia per
l’inconveniente, non avevo previsto il fuori programma di prima»
«Gentile da parte sua, poteva essere lui a parlare con me invece di scomodarti
a quest’ora» aveva sbottato con voce leggermente alterata «bastava tanto così
per farmi evocare Purple Haze Distortion comunque» aveva aggiunto subito dopo
calmandosi un po’. Polnareff era l’ultima persona – persona? – sulla faccia
della Terra che si sarebbe meritata le sue sfuriate; e poi non lo avrebbe mai
ammesso verbalmente, ma gli era sempre piaciuta l’intonazione che dava al suo
cognome quando lo pronunciava.
«Hai ragione, ma sia lui che Giorno pensano che sia io quello con più
esperienza riguardo certe… come dire? Dinamiche della vie. Accendi il
condizionatore e siediti, tanto né io né te abbiamo voglia di dormire
stanotte».
Un’altra cosa che apprezzava di lui era quando indugiava sulle parole come per
pesarne la consistenza, come se temesse che con esse potesse schiacciare non
solo chi aveva davanti ma anche sé stesso. Non per niente era il consigliere
del boss.
«Sai che c’è?» aveva ripreso mentre stava guardando Fugo armeggiare con il
controller dell’aria condizionata «Anche a me quella canzone evoca strani ricordi,
né belli né brutti, solo… mescolati. E questo mescolamento mi risulta indigesto
molte volte»
«Comprendo» Fugo si era seduto di nuovo sulla poltrona, il capo sporto in
avanti per guardare quello strano fuocherello fatuo parlante «ha a che fare con
tu-sai-cosa che somiglia a io-so-cosa?».
Il tu-sai-cosa di Jean-Pierre era un riferimento ai trascorsi giovanili del
braccio destro di Giorno, dei quali aveva intuito la connotazione tragica ma
sulla cui entità non aveva mai domandato delucidazioni al diretto interessato,
mentre il diretto interessato conosceva bene quelli del ragazzo grazie ai
resoconti dei sopravvissuti.
«In un certo senso» Polnareff aveva fatto un’altra pausa, poi aveva ripreso
«quando uno dei capitoli più belli ma anche dolorosi della mia esistenza si è
concluso, per almeno un anno non mi sono permesso di andare a trovare mia
sorella al cimitero. C’era una sorta di rifiuto che non avevo ancora
metabolizzato, era come se assieme a lei andassi a trovare anche le persone
care che avevo perduto in Nordafrica e non mi sentivo pronto a farlo, non
volevo dirgli veramente addio. Un bel giorno ho riaperto il mio zaino e ci ho
trovato dentro la sciarpa dell’amico che mi aveva aiutato a vendicarla e… ho
pianto come un deficiente!».
Fugo aveva sbruffato nell’immaginare un tipo flemmatico come lui lasciarsi
andare a tal guisa.
«Scusami, è che non riesco a farmi un’idea mentale della scena»
«Non è un problema, rimarresti sconcertato se ti venissero a raccontare di com’ero
a vent’anni»
«Probabile» aveva sorriso Fugo «vai avanti: com’è finita con la storia della
sciarpa?»
«Pensa che quella sciarpa gliel’avevo presa una notte in cui ci eravamo
ubriacati tutti assieme… Due settimane dopo la sbronza se n’è andato per sempre
e io non l’ho più restituita… È finita che ho fatto una doccia fredda, ho
comprato dello champagne e dei fiori e sono andato a visitare Cherry. Ho
avvolto la sciarpa attorno alla lapide e le ho domandato come se la passasse
con quei discoli dei miei amici, se ce l’avessero con me per qualcosa che gli avevo
detto d’impulso quando stavano qui e se in qualche modo potessi rimediare al
mio comportamento idiota nonostante quello che avevano fatto per me.
Probabilmente è un pensiero infantile e poco razionale, ma considerato che io
sono ancora qui pur non avendo più un corpo mio mi piace credere che da
qualche parte la stiano proteggendo, anche se… non vedo cosa ci sia da
proteggere in paradiso. Anzi, mi correggo: mi piace credere che da qualche
parte si stiano scambiando aneddoti stupidi sul vecchio me. Non volevo
accettare che mi avessero già perdonato».
Fugo aveva distolto lo sguardo dallo spettro e ghermito il labbro inferiore coi
denti. Il vecchio sé stesso avrebbe trattato certi discorsi alla stregua dei
vaneggiamenti di Mista sulla fortuna.
«E quindi» si era sforzato di pronunziare «non sono l’unico imbecille che certi
giorni dell’anno torna a disperarsi per quello che c’è stato. Molto
sentimentale da parte nostra… A volte mi domando come faccia il mondo a
continuare a girare senza disperarsi per Bucciarati, come faccia Napoli a
esistere senza di lui»
«Molto umano» lo aveva corretto Polnareff «quello che voglio dirti è che non
devi darti dell’imbecille o mortificarti se ci sono giorni in cui ti senti
così, è perfettamente normale provare determinate sensazioni… Non possiamo
pretendere di cancellare il passato con un colpo di spugna, e quello
sì che non sarebbe per niente umano. Ti chiedo solo di… come dire? Non cercare
di nascondere quello che provi a chi ti sta vicino, perché scoprirai che i loro
sentimenti sono i tuoi senza però perdere di vista il futuro che avete davanti».
Fugo non aveva fatto altro che annuire in silenzio. Poi aveva inspirato ed
espirato profondamente per scacciare l’insorgere di uno scoppio di pianto e
guardato di nuovo il suo interlocutore.
«Jean-Pierre, io… quando io e Mista abbiamo fatto pace, per così dire, la prima
cosa che mi ha detto è stata che le ultime parole di Narancia riguardavano il suo
desiderio di terminare la scuola. Quando penso a com’è andata è… difficile.
Grazie a questo non mangio più una margherita da quasi due anni»
«Se ti occorreranno altri due mesi o due anni andrà bene lo stesso, credo che
Narancia sarebbe il primo a dirti che non devi avere fretta di metabolizzare.
Comunque sia» Polnareff aveva cambiato leggermente tono «a proposito di ciò, qualche
giorno fa c’è stato il concerto di Trish all’Alcatraz di Milano. Sono venuti
tutti ad assisterla, persino Murolo si è messo a canticchiare assieme ai
ragazzini, mancavi solo tu. Visto che adesso è a Napoli credo sia una buona
occasione per incontrarla, cosa ne dici?».
Un picco di adrenalina aveva preso il possesso delle viscere di Fugo: non
l’aveva più vista di persona da quando era rimasto inchiodato su quel maledetto
molo veneziano e, fosse stato per i trascorsi non idilliaci o per la missione
del settembre dell’anno precedente, non aveva avuto il coraggio di esprimere il
desiderio di rivolgerle la parola.
«Io…» si era ritrovato a balbettare confuso «non so se lei ha voglia di
rivedere me»
«Ma sì che ne ha» era stata la replica inaspettata di Polnareff «quando prima ho
detto che Sheila E mi ha condotto a casa tua per conto di Mista ho raccontato
una piccola bugia: in realtà l’ordine è giunto sia da Mista che da Trish, e
vogliono che tu li incontri domani sera alla libreria dove lavora Giorno.
Questo è quanto».
Fugo aveva inarcato le sopracciglia e battuto più volte le palpebre. Non gli
era ingiunta idea alcuna di cosa mai avrebbero potuto discorrere lui e Trish,
ma tanto era valso capire cosa avrebbe voluto da lui.
«Va bene, farò come dici» aveva detto, per poi aggiungere, girandosi verso la
porta della camera da letto disfatta dalla quale si udiva Sheila E sonnecchiare
beatamente «solo… ecco, non dire a nessuno del fuori programma, ok? Se Mista lo
sapesse non la smetterebbe più di assillarmi».
Polnareff aveva emesso un suono che poteva essere interpretato come una risata.
«Mes lèvres sont scellées» aveva soffiato con ironia.
Giunto così in Piazza Cavour alle
ventuno del giorno seguente con la voglia, trattenuta a stento, di urlare alla
gente incuriosita dalla tartaruga che teneva al guinzaglio sotto l’ascella “che
spacimma hai da guardare”, si diresse spedito al numero civico 57¹,
dove il capo dell’organizzazione si fingeva uno studente qualunque per
nascondere la sua reale attività.
Più si lambiccava sul dialogo che aveva avuto con Polnareff meno veniva a capo
sul motivo per il quale Trish desiderasse vederlo. A tal riguardo, col senno di
un’attenta autoanalisi tardiva, aveva scoperto di non odiarla, ma non aveva la
minima idea di cosa lei pensasse di lui e tal pensiero lo accompagnò fino a
quando si ritrovò davanti il foglio A4 con scritto “Chiuso per inventario”
appiccicato sulla saracinesca per metà abbassata.
«Pronto?» disse, accompagnandosi con due colpi di nocche sul metallo «Io sono
qua».
La prima cosa che vide fu una serie di trecce colorate che sgusciava dalla
porzione di ingresso lasciata aperta accompagnata da un paio di occhi neri e
ferini.
«Ce la fai a entrare?» gli domandò Sheila E tutta piegata su sé stessa con un
libro di Cicerone in mano.
«Sì, prendi Jean-Pierre però, non voglio fargli male» le disse porgendole
Polnareff, prima di piegarsi a sua volta per entrare nel negozio occupato da
pile di volumi accatastate un po’ ovunque.
«Ciao Fugo» lo salutò Giorno dall’alto di una scala, intento a sistemare alcuni
dizionari.
«Ciao Jojo» Fugo ricambiò. Dietro di lui, Sheila E si era seduta a gambe
incrociate per terra e aveva ripreso a sfogliare Cicerone con Polnareff al suo
fianco.
«Mista e Trish sono dall’altra parte ad aspettarti, datemi il tempo di
catalogare questi e sarò da voi» gli spiegò Giorno senza distogliere lo sguardo
dai DeAgostini impolverati «il libraio è un mestiere meraviglioso, ma ho sempre
detestato fare l’inventario»
«Sicuro di non volere una mano?» si propose l’ultimo arrivato guardando colui
che aveva profferito la lamentela.
«Non preoccuparti, faccio da solo» lo liquidò lui sempre con gentilezza «e poi
non ti abbiamo chiamato perché tu mi aiutassi coi libri»
«Giusto» Fugo si passò una mano tra i capelli, sempre più confuso «quindi…
dov’è Trish?»
«Di là, nella stanza del leggio, ti vogliono parlare» Giorno sollevò un pollice
per indicare il retrobottega.
Senza aggiungere altro, Fugo fece un cenno di assenso e seguì l’indicazione del
capo: il motivo per il quale Mista e Trish non l’avevano sentito arrivare era
che stavano discutendo a voce bassa, anche se in maniera piuttosto concitata,
su…
«Dai, non ci credo che nel Medioevo non esisteva la carta igienica, con cosa si
pulivano altrimenti?» sentì dire da Mista
«E lo chiedi a me? Qua è scritto che nell’Italia post rinascimentale usavano i
“pezzi degli agiamenti”… Nei conventi si pulivano addirittura con le pezze
ritagliate delle tonache vecchie, che schifo»
«No, senti, secondo me la carta igienica esisteva anche ai tempi di Gesù, non
ci credo che la gente si puliva il sedere con la stoffa»
«Salve» li interruppe Fugo «Della Casa aveva ragione, secondo il Galateo
la gente si puliva il sedere con la stoffa»
«Ciao!» Trish chiuse il libro – che era proprio il Galateo di Della Casa
– con uno scatto e gli venne incontro cingendogli le spalle con un braccio per
salutarlo «non ci vediamo da un sacco di tempo»
«Mh, sì, vero» gli riuscì di dire con imbarazzo. Bella roba sorprenderla a
parlare di carta igienica con Mista.
«Eccoti!» esclamò Mista dimenticandosi completamente del dibattito storico sull’igiene
quotidiana nei secoli passati «Lo sapevo che Jean-Pierre fa miracoli! Glielo
avessi chiesto io mi avrebbe tenuto il broncio. Dunque» lo afferrò per entrambe
le spalle e lo costrinse a mettersi seduto al leggio «Trish ha avuto un’idea
malvagia: in realtà il merito è tutto mio, ma facciamo che è stata lei a
pensarci… ahia!» Mista prese a saltellare tenendosi lo stinco sinistro «Perché
mi prendi a calci?»
«Perché tu hai avuto solo l’idea della birra!» rimbeccò Trish sul piede di
guerra, pronta a sferrare un’altra pedata.
«Ok, ok, l’idea è tutta di Trish» Mista incrociò le braccia e guardò in
cagnesco la ragazza, che a sua volta ricambiò l’occhiataccia.
«Io comunque sono qui eh» si intromise un Fugo alquanto perplesso sollevando
una mano «che avete intenzione di fare?»
«Giusto» Trish abbandonò l’espressione torva e sorrise con gentilezza «tenevo a
rivedere il resto della squadra assieme a voi, soprattutto assieme a te»
«Ah» Fugo deglutì. Non sapeva che altro dire.
«Il nostro primo incontro non è stato dei migliori» proseguì lei sistemandosi
una ciocca di capelli dietro l’orecchio «quindi, insomma, so che magari adesso
è tardi per farlo, ma vorrei chiederti scusa per essermi comportata male con te»
«Io…» Fugo inghiottì ancora. Pur sostenendo lo sguardo di chi chiedeva il suo
perdono gli risultò difficile tirare fuori le parole adatte.
«Io…» ripeté «ti ringrazio, anche se pensandoci bene non avevo motivo di
avercela con te. Era solo che… in quel periodo ti ritenevo il capro espiatorio
per quello che era successo e beh, i miei erano i pensieri di un pusillanime
che razionalizzava troppo senza guardare il quadro complessivo, perciò dico sul
serio, non provo rancore nei tuoi riguardi»
«Grazie» Trish si profuse in un altro sorriso, stavolta più ampio, liberatorio
«spero tu comprenda quanto significhi questo per me»
«Anche perché se serbasse rancore sarebbe ancora il coglione che si è fatto
pescare al Meazza» Mista sollevò un’elegante scatola colorata da terra e andò
alla ricerca di Polnareff «Jean-Pierre, ci serve il frigo di Mr. President! Stanotte
si va a bere con Bucciarati! Giorno, hai finito con i dizionari?»
«Da almeno tre minuti, aspettavo che finiste di chiarivi» sentì dire dall’altra
parte.
«Bene, da adesso in poi è ufficialmente il rimpatriata time! Tutti in macchina,
guido io!».
E quando il Guido con la G maiuscola si metteva in testa di essere di buon
umore non c’era verso di fargli cambiare idea.
Come Fugo aveva intuito, e in
seguito scoperto una volta imboccata via Santa Maria Del Pianto, per “bere con
Bucciarati” si intendeva scavalcare il cancello del cimitero per trascorrere la
notte in compagnia dei compagni caduti.
La prima a scendere dall’automobile fu Trish, che ritrovandosi davanti le
sbarre a frapporsi tra lei e i morti che riposavano pensò bene di evocare Spice
Girl per elasticizzarle e permettere al resto del gruppo di entrare senza che
qualcuno rischiasse di rompersi le ossa.
«Se solo il manager mi vedesse in questo momento» sussurrò divertita, prendendo
la torcia che le porgeva Mista «se lo scoprisse si arrabbierebbe un sacco come
minimo»
«Scusa, ma come lo hai convinto a trascorrere la notte a casa di Mista senza
guardie del corpo tra i piedi?» le domandò Fugo.
«Punto primo, ti ricordo che Passione ha scomodato la fondazione Speedwagon pur
di scovarti, quindi scortare Trish in giro per Napoli è una bazzecola in
confronto» Mista prese la parola al posto dell’interpellata «punto secondo,
sono io stesso una guardia del corpo, la migliore di tutta Napoli, per non dire
del mondo, e questo dovresti già saperlo»
«La migliore di tutta Napoli fino a quando i Pistols non mi svegliano alle sei del
mattino per fare colazione» aggiunse Trish piccata «mai e poi mai fermarsi al
bar o al ristorante con lui, diventa un vero incubo!»
«Impara a rispettare le mie esigenze e ci farai l’abitudine, dovresti sentirti
onorata di avermi come scorta» Mista drizzò la schiena con fare tronfio e le
diede una leggera spallata per stizzirla ancora di più.
«Fallo ancora e trasformo quella cosa sulla quale non fai battere il sole in un
elastico» sibilò l’offesa, scatenando le risate trattenute di Fugo e Sheila E.
Prima che Mista potesse ribattere Giorno gli puntò la sua torcia in faccia per
porre fine al battibecco.
«Eccoci» disse serafico «non litigate proprio di fronte a loro, d’accordo?»
«Ok, faccio ammenda» Trish scoccò un’occhiata indispettita a Mista e poi cercò
con lo sguardo tra i loculi esterni, individuando quelli di loro interesse
grazie alle scritte in ottone lucide e alle date di nascita e di morte
ravvicinate che stridevano con quelle più antiche, opache e segnanti vite più
longeve e, forse, meno sventurate.
«Uè farabutti, come state?» Mista si tolse il cappello in segno di
rispetto, si munì di fazzoletti di carta e iniziò a ripulire dalla polvere il
ritratto fotografico di Abbacchio «Che faccia incazzata tieni pure qua, ma là
sopra almeno ti trattano bene, sì? O tipo l’arcangelo Gabriele ti toglie il
vino e pianti il casino?»
«Secondo me non ne avrà più bisogno» disse Fugo sedendosi per terra, accanto al
loculo dei Ghirga, occupato da madre e figlio «altrimenti là sopra si
chiamerebbe là sotto»
«Giusto» si corresse l’altro, mettendoglisi accanto non appena ebbe finito di
lustrare anche le fotografie di Bucciarati e Narancia «di sicuro non se la
passa male, se lo merita»
«In tutto questo abbiamo dimenticato di portargli dei fiori» si rammaricò Trish
accovacciandosi per guardare la tomba di Bucciarati «l’ultima volta che sono
stata qua c’era anche sua madre… non ricordo di aver pianto così tanto come
allora, forse quando è morta mamma»
«Non azzardarti a piangere anche stavolta» la ammonì Mista «e poi cosa se ne
fanno dei fiori quando gli abbiamo portato da bere?» e così dicendo si tuffò
nel carapace di Polnareff per riemergerne subito dopo con un’elegante
confezione di birre artigianali e un vassoio con cinque calici «produzione artigianale
salernitana, mica roba da poco!».
Stappò quindi una bottiglia e riempì i calici di alcolico che si premurò di
distribuire ai presenti.
«Fugo» Giorno lo guardò dritto negli occhi, le dita affusolate che stringevano
con grazia lo stelo «l’ultima volta che sei stato qua era novembre se non
sbaglio»
«Sì» Fugo sporse il labbro inferiore e si voltò verso le zagare rinsecchite nei
vasi dei Ghirga risalenti ad allora «non so perché mi fosse venuto in mente di
prendergli proprio i fiori da matrimonio, forse per la somiglianza col nome…
Fatto sta che gliel’ho portati da solo perché avevo bisogno di parlare con loro
in privato… Che cosa bizzarra da dire» considerò d’un tratto, bevendo un sorso
generoso di liquido giallo «Ti capita mai di voler tornare indietro per
rimediare agli errori commessi?»
«Se potessimo fare una cosa del genere non ci evolveremmo mai come persone» a
differenza degli altri, Giorno non aveva toccato la birra: si limitava a farla
girare nel calice per osservare le bollicine affiorare sulla superficie «anche
se ci sono momenti in cui si desidera tanto poter fare una cosa del genere si
deve prendere atto che siamo fatti per andare avanti per loro, per noi stessi e
per chi è rimasto. E comunque, resto dell’avviso che ci rivedremo, presto o
tardi, ma ci rivedremo. Sai, no? Il motto che ripete Murolo di continuo…»
«”Niente dura per sempre”» recitò Fugo quasi stesse ripetendo una nenia «tenendo
conto di quello che siamo, non c’è sentenza più azzeccata»
«Io tanto ho la fortuna dalla mia» disse Mista versandosi ancora da bere
«camperò fino a centosette anni circondato dall’affetto dei miei tre figli,
sette nipoti e undici pronipoti, la banda suonerà al mio funerale che sarà
pienissimo di gente e verrò ricordato con affetto da tutti»
«Oppure ti ricorderanno come il rompipalle fissato con la iettatura» fu il commento
sarcastico di Trish, che non badò al “gne gne gne” di quest’ultimo soffiato a
bassa voce «Per quel che mi riguarda, non mi interessa vivere così tanto: mi
dico sempre che io sono voi e voi siete me. Se è vero che abbiamo un destino in
comune, a prescindere di come andrà non ho rimpianti»
«La iettatura me la butti addosso tu con questi discorsi» Mista le scompigliò i
capelli «hai sedici anni, mica ottanta! E goditela questa vita!».
Fugo stava per contraddire Mista dicendogli che non era esattamente ciò che
intendevano Giorno e Trish, ma ricevette un pugno sul braccio e il successivo
“no” sussurrato a fior di labbra da Sheila E, che era rimasta zitta per
tutto il tempo. Comprendendo ciò che si celava dietro quella richiesta di far
silenzio decise di ritirare l’obiezione perché a ben pensarci nessuno di loro
aveva effettivamente torto, e poi perché non era giusto infrangere lo spirito
conciliatore di quella nottata fuori dal comune. A ogni modo, sia Giorno che
quello scafato di Murolo avevano ragione su una cosa: non sarebbero morti nel
comfort dei loro letti. Perché se era vero che una giornata storta capitava a
tutti, tale assioma poteva rivelarsi fatale per un mafioso, per quanto votato
al bene potesse ritenersi. Che fosse stato tra dieci giorni o dieci anni, prima
o poi avrebbero incrociato uno strano stand di pietra col loro volto scolpito sulla
superficie e non ci sarebbero stati scongiuri o previsioni che tenessero,
nemmeno di fronte all’evidenza del fato. Un fato che li avrebbe visti perire il
giorno del battesimo dell’unigenito dei coniugi Mista per mano di un traditore,
privando il neonato dei genitori.
Fugo vuotò il calice e si versò altra birra, ignaro, ma nemmeno più di tanto,
di quello che lo attendeva, e pensò alla fotografia di gruppo della sua
vecchia banda sul comodino.
V’era ancora tempo per rivedere Narancia.
***
¹Il numero 57
di Piazza Cavour è veramente una libreria, tra l'altro una delle
più antiche di Napoli. Non avendo mai visitato la città
dal vivo (prima o poi rimedierò, promesso) ho solo presupposto
come fosse al suo interno. Il nome è volutamente omesso per
evitare problemi di ogni tipo, ma grazie a Google è possibile
risalirvi.
Musica in Jojo: Stop Crying Your Heart Out è il secondo singolo di Heathen Chemistry,
il quinto album in studio degli Oasis uscito il 2 luglio 2002,
nonché uno dei tormentoni estivi dell'estate di quell'anno. Era
infatti frequente ascoltare il pezzo sia in radio che nei vari canali
musicali del tempo (qualcuno ricorda All Music?), tra le quali la sopra
menzionata Mtv. Assieme a In My Place
dei Coldplay, ricordo fosse il pezzo meno estivo riproposto in loop
dalle emittenti radiofoniche. Se volete ascoltare, o riascoltare,
quelle canzoni, vi basta cliccare a questo link.
Retroscena: stavolta
non è stato Jojo a darmi lo spunto per il racconto, bensì
questa canzone degli Oasis, che è stata quella che mi ha dato
modo di conoscerli ormai quasi vent'anni fa (e che ad oggi restano una
delle mie band preferite nonostante il loro scioglimento, sigh). Come
avrete notato ho ambientato la vicenda dopo gli eventi di Purple Haze Feedback perché
era mia intenzione delinerare meglio il carattere di un Fugo più
risoluto, più tranquillo e rilassato, ma pur sempre parzialmente
legato al passato, così come lo sono gli altri personaggi, chi
più chi meno. È stata una delle prime one-shot che mi
sono venute in mente e, forse, quella con la gestazione più
lunga. Apparentemente semplici da delineare, i personaggi di Vento Aureo sono quelli che finora si sono rivelati i più difficili da scrivere, compreso il caro e frainteso/bistrattato Fugo.
Grazie come sempre per aver letto, seguito e recensito la raccolta, alla prossima one-shot.
Ps: momento spammino: qualora non abbiate niente da fare siate liberi/e di spulciare il mio profilo Instagram dove troverete foto di dischi, di manga, di libri e... di pappagalli. Ah, e anche gli aggiornamenti relativi a Sotto i cieli di Afrodite, ovviamente.
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Capitolo 5 *** Vespro dei beati sposi (prima parte) ***
5- Vespro dei beati sposi (prima parte)
Vespro dei beati sposi (prima parte)
Saranno fiumi e
cascate di perle
Saranno fiori sbocciati da cogliere fino alle stelle
Per noi che abbiamo tempo passiamo troppo tempo
Ad aspettare l'attimo che accende
Max Gazzé, A cuore
scalzo
Un racconto sugli incontri
inaspettati
A Joseph i cimiteri italiani non erano mai piaciuti.
Anche in una bella giornata come quella, gli ammassi tristi di marmi e angeli
contriti per gli umani peccati non lo disponevano per il migliore degli stati
d’animo. Ma il vecchio non intendeva mostrarsi intristito, non di fronte alla
figlia e all’amico che stava andando a trovare.
Strano ma vero, quell’oggi a Napoli si respirava aria di festa. Dalle campane
delle chiese al chiacchiericcio allegrotto delle donne dinanzi al cancello del
cimitero Nuovissimo, era intuibile che qualcosa di lieto fosse appena accaduto,
ma né i coniugi Joestar né tantomeno l’autista che aveva deciso di aspettare la
coppia in abitacolo avevano idea del perché. A giudicare dagli sprazzi di
conversazione uditi distrattamente dalle comari, si parlottava del matrimonio
di un pezzo grosso di Napoli, roba da giornaletto di gossip, in parole povere. L’unica
a non porsi la questione era la figlia adottiva, che aveva infilato l’ingresso
di via Santa Maria Del Pianto a saltelli subito contagiata dall’atmosfera.
«Shizuka» le fece Joseph cantilenando «ricordati dove stiamo andando»
«Sì, babbo!» la ragazzina rallentò il passo e si portò gli occhiali da sole a
forma di cuore sulla testa per mostrargli il visetto impertinente «”E niente
invisibilità, mi raccomando!”¹»
«Non farmi il verso eh! Guarda che se fai la monella resti senza gelato!»
«Sì babbo» ripeté la figlia, stavolta in tono più mesto, affiancandosi a Suzie
Q.
«Tanto lo so che se non te lo compra il babbo ci pensa la mamma, vero?» le fece
lei accarezzandole il mento «Ah, bimba mia! Quanto invidio la tua giovinezza»
«Ehi, guarda che sono già grande!» sbottò Shizuka, i capelli neri che
ondeggiavano dietro la schiena esile «E poi dove stiamo andando? Per chi sono
quei girasoli?»
«Oh, questi!» Joseph sistemò meglio il mazzo di fiori che teneva incastrato
nell’incavo del braccio sinistro «Questi sono per una persona speciale che mi
ha salvato la vita quando io e la mamma eravamo giovanotti, e oggi andiamo a
chiedergli come se la passa in paradiso».
Shizuka rimase in silenzio. Piegò il collo di lato e assottigliò gli occhi a
mandorla in un’espressione indecifrabile. Era probabile che avesse preso le
parole del vecchio come le esternazioni di un nostalgico, ma era giusto così. Una
undicenne aveva il diritto non comprendere certe cose.
I tre avanzarono quindi senza profferire altro nel paesaggio monotono di
lapidi, fiori appassiti e date di nascita e di dipartita, fino a quando si
fermarono dinanzi a una delle cappelle famigliari più pittoresche del cimitero.
«Anche da morto resti comunque un vanesio» furono le prime parole di Joseph
alla vista della costruzione.
Più che a una cappella somigliava al tempietto di un dio greco: sopra lo
stilobate si ergeva una fila di colonne con capitelli in stile dorico che proteggeva
la cella dentro la quale riposavano i defunti. La croce di Cristo raffigurata al
centro della porticina di vetro colorato si imponeva con la sua fragilità sulla
tracotanza delle scanalature. In alto, l’altorilievo rivestito in oro della
Sacra famiglia occupava quasi per intero lo spazio del timpano e rifletteva i
raggi del sole pomeridiano, mentre il fregio riportava, sempre in oro e con
caratteri eleganti, la scritta “Famiglia Zeppeli”.
«Però a me quella Sacra famiglia continua a piacere, è così bella» commentò
Suzie ammirando il capolavoro posto a protezione della cappella «Chissà, magari
lassù si è fatto una famiglia tutta sua»
«Già, chissà…» borbottò Joseph
«Shizuka, amore di papà, mi aiuti con i fiori?»
aggiunse rivolto alla ragazzina.
«Shizuka?».
Shizuka non ascoltava. Era rimasta indietro rispetto ai due coniugi, lo sguardo
fisso verso il dedalo di lapidi che avevano percorso. Aveva rinforcato gli
occhiali da sole e si era issata sulle punte delle scarpe per guardare meglio
le persone che erano arrivate dopo di loro. Anche Suzie, dopo la contemplazione
dell’altorilievo, aveva lasciato perdere i fiori e si era posizionata alle
spalle della figlia.
«Joseph, guardala!».
Con la fronte corrugata per l’irritazione, Joseph si voltò nella stessa
direzione e per poco non fece cadere i fiori sull’asfalto.
Una sposina, seguita da quelli che dovevano essere il neomarito e tre amici
della coppia che portavano in dono dei mazzi di rose bianche come l’abito della
festeggiata, incedeva con passo leggero reggendo in mano un bouquet di zagare.
Nonostante il luogo serbasse poco spazio per la gioia, il sorriso raggiante della
figura era a malapena celato con grazia dalla mano impalmata, e così
dissimulando invitava gli altri membri del gruppetto a seguirla. Guardando un
po’ i vivi dietro di lei e un po’ i morti ai suoi piedi, era evidente stesse
cercando qualcuno a lei caro tra i secondi, e infatti, una volta individuata
una installazione di loculi non molto distante dalla cappella Zeppeli, si era
fermata a contemplare le lastre di marmo in attesa che gli altri la
raggiungessero. Nel mentre aveva liberato l’involucro di seta che teneva unito
il suo mazzo per ricavarne tre più piccoli, che porse di seguito al congiunto
tendendogli le braccia candide.
Alla vista dei tre mazzolini, lo sposo si portò una mano al viso e chinò il
capo per non mostrarsi alla moglie.
«Abbraccio di gruppo sullo sposo!» esclamò l’invitato vestito di verde scuro,
probabilmente il testimone, che gli si buttò a capofitto e lo avvinghiò con le
braccia.
«Oh, tesoro, sarà andato a trovare delle persone a lui tanto affezionate per
mettersi a piangere il giorno del suo matrimonio» Suzie si asciugò un accenno
di lacrima dal ciglio, intenerita dalla scena di lui che veniva sobbissato di
abbracci dalla sposa e dagli amici che lo accompagnavano.
«Uà, non lo soffocatemi che sennò Leone si incazza e mi rimanda indietro
a calci!» si udì sdrammatizzare dall’oggetto di quel moto di affetto genuino, ottenendo
come risultato uno scoppio di risa generale.
«Mamma» sussurrò Shizuka a Suzie «ma quella con la cicatrice sulla faccia e le
trecce porta una tartaruga al guinzaglio! La voglio vedere da vicino!».
Non le venne nemmeno concesso il tempo di trattenerla: la ragazzina si era
lanciata in una corsa per raggiungere gli sposi e i loro accompagnatori, che in
quel momento erano occupati a decorare le tombe dei cari con le zagare e le
rose bianche.
Con ancora i girasoli in mano, Joseph trasse un respiro profondo. E subito dopo
ridacchiò.
«Quella peste mi farà impazzire prima o poi, non ho mai incontrato persona più
sfacciata di lei».
Suzie sollevò un sopracciglio.
«Abbiamo gli specchi in casa» gli rimbeccò leggermente stizzita «dovresti
usarli più spesso»
«No, grazie, so già di essere bellissimo» fu la risposta di Joseph, che si
voltò per infilare la chiave nella serratura della porticina in vetro
«piuttosto, visto che la peste è andata a farsi conoscere dalla sposa perché
non mi reggi un attimo il bastone? Devo sistemare i girasoli nei vasi».
Suzie obbedì, non senza aver bofonchiato alcune imprecazioni in veneto stretto,
e, bastone da passeggio stretto in mano, assistette alla vista di Shizuka
accovacciata accanto alla sposa, che non sembrava per nulla infastidita da
quella incursione improvvisa, per aiutarla con le rose. Una volta terminato con
il compito si alzarono per andare incontro ai due anziani alle prese coi più
sgargianti fiori gialli, seguite con lo sguardo dai tre uomini e dalla donna
che aveva loro ceduto l’animale.
«Buonasera!» esordì sorridente la sconosciuta, nella voce una forte flessione
dell’estremo Sud Italia «vostra figlia mi ha raccontato che siete venuti
dall’America per andare a trovare il vostro amico: e così lui riposa in questa
cappella, vero? È davvero bellissima».
Adesso che guardava da vicino quegli occhi verdi esaltati dal trucco leggero e
dall’acconciatura elaborata dai riflessi ramati², Joseph dovette ammettere a
sé stesso che era veramente una graziosa tortorella e che il marito aveva buon
gusto in fatto di donne, ma ebbe il buon senso di tenersi dentro tali pensieri:
non voleva beccarsi una bastonata sugli stinchi da Suzie.
«Oh, sì, è molto bella!» esclamò di rimando il vecchio «Una tomba pittoresca
per una famiglia pittoresca col cuore grande».
Joseph guardò prima la sposa, poi Shizuka e infine la tartaruga, e poi riprese
a parlare:
«Anche voi siete qui per i vostri amici?».
La donna si sistemò un boccolo dietro l’orecchio e sorrise mesta. Il primo
sorriso malinconico che le vedevano fare.
«Sì, amici di mio marito per lo più, ma me li porto lo stesso nel cuore da
quando se ne sono andati» si voltò a guardare le persone che erano rimaste a
parlottare tranquillamente nei pressi dei loculi «mi hanno letteralmente
salvato la vita»
«Oh mia cara, dovevano essere dei bravi ragazzi, che Dio li abbia in gloria!»
Suzie aveva gli occhi lucidi «Sono sicura che da lassù stanno festeggiando con
voi il lieto evento, vi auguro tanti, ma tanti anni felici da vivere assieme!
Siete bellissimi!»
«Vi ringrazio» la sposa chinò il bel capo leggermente imbarazzata «era un voto
che ho fatto tanti anni fa, se mi fossi sposata li avrei onorati con i fiori
d’arancio e per niente al mondo avrei mancato la promessa. Ma vi prego, non vi
voglio annoiare con le mie cose» si affrettò ad aggiungere «Posso donarvi una
delle nostre rose? Per il vostro amico, s’intende»
«Al mio amico piacevano un sacco le belle ragazze, quindi la tua rosa sarà
molto apprezzata da quel mascalzone» nell’allungare il braccio per accettare il
regalo inaspettato, a Joseph scappò un sorrisetto malizioso «ma ehi, non dire
niente a tuo marito! Non voglio grane»
«Allora resterà un segreto» la sposa fece l’occhiolino.
La mano rugosa del vecchio sfiorò quella di seta della giovane e un brivido leggero
ma ben percettibile pervase le schiene di quelle due persone che non si erano
mai incontrate prima: per un attimo fu come se avessero avuto la sensazione di
condividere qualcosa di più grande di un semplice incontro fortuito, qualcosa
di talmente grande e sfuggente al tempo stesso che non seppero dargli un nome.
Si scambiarono uno sguardo sorpreso carico di eccitazione e così come la
sensazione era arrivata si spense immediatamente dopo la fine del contatto.
«Grazie» disse Joseph con voce piatta, distogliendo subito lo sguardo dalla
donatrice per sistemare la rosa in mezzo ai girasoli «è stato un bel gesto»
«Si figuri» mormorò lei tenendo stretta la tartaruga.
«Papà» si intromise Shizuka «quando torniamo a New York mi compri una tartaruga
uguale? Guarda quanto è carina questa!»
«Oh, giusto» totalmente riscossosi, Joseph rivolse l’attenzione a quella
mascotte bizzarra col carapace quasi del tutto nascosto da un piccolo cuscino
bianco, che probabilmente aveva funto da portafedi prima della cerimonia «hai
già tre cani, un gatto, cinque cacatua e un pesce tropicale, perché non
aggiungere un altro pezzo al tuo zoo?»
«Io voto per la tartaruga in casa» disse Suzie avvicinandosi all’animale per
accarezzargli una zampa «ciao paggetto simpatico! Sei curioso, sai? Da quando
ti sei avvicinato guardi solo quella volpe di mio marito, lo trovi simpatico?»
Il rettile le tese la zampa anche se teneva il collo allungato per osservare
Joseph, il quale ricambiò la sua occhiata vacua con perplessità.
«Che ti devo dire» concluse l’interpellato stringendosi nelle spalle incurvate
«gli animali mi piacciono e io piaccio agli animali, non è una novità» tese di
nuovo la mano per imitare il gesto di Suzie, e stavolta la tartaruga socchiuse
persino gli occhi con soddisfazione.
«Visto? Già mi vuole bene» prima di lasciare andare la tartaruga la pungolò
affettuosamente sul naso con l’indice destro «come mai proprio una tartaruga?»
«A lui piacciono le persone, non volevamo lasciarlo a casa» rispose la donna grattandole
a sua volta il collo «e poi non potevamo trovare paggio migliore di lui»
«Papà, quando mi sposerò vorrò anche io la mia tartaruga paggio» annunciò
solennemente Shizuka, seria in volto.
«Certo, certo, e gli altri animali ti cuciranno il vestito addosso come
Cenerentola… Ma oh» aggiunse Joseph rivolta alla sposa «tra non molto si farà
sera, non vogliamo che gli invitati vi aspettino per colpa nostra»
«Figuratevi, è stato un piacere conoscervi» l’interpellata incurvò di nuovo le
labbra scoprendo le file di denti regolari «mi ricorderò di voi e degli
Zeppeli… Allora, andiamo al ricevimento, vero?» domandò alla tartaruga, che
aprì e chiuse lentamente la bocca.
«Beh, addio, e tanti auguri» fu il congedo di Suzie, mani strette al cuore e
occhi nuovamente lucidi.
«Grazie, e buona giornata, soprattutto a te Shizuka!» La sposa agitò un braccio
per salutare il terzetto, poi, mentre si allontanava dalla cappella, fece cenno
agli altri di allontanarsi dal cimitero.
Nell’avviarsi in direzione del cancello, le quattro persone che erano con lei
si voltarono all’unisono e salutarono anch’essi i Joestar: tra loro spiccava un
giovane uomo dai bei tratti orientali con una treccia bionda che cadeva lungo
la schiena foderata di damasco. Si fermò per alcuni secondi a osservare con
benevolenza la famiglia giunta dall’America per onorare la memoria dell’amico a
essa caro e poi si affrettò a raggiungere il resto del gruppo senza dire
niente.
«Beata la giovinezza» sospirò Suzie sognante «quanto sarebbe bello riviverla
anche solo per un giorno»
«Perlomeno non avrei dolore costante all’anca» Joseph si ridedicò al mazzo di
Caesar per fare in modo che la rosa spiccasse sui girasoli. Nel sistemarla
meglio fu allora che si accorse di un petalo giallo caduto nella corolla
immacolata; quando cercò di tirarlo fuori delicatamente udì distintamente uno
squittio di dolore provenire proprio da lì dentro.
«Ahi! Il sedere!».
Joseph allontanò da sé la rosa ed evocò istintivamente Hermit Purple: dalla
corolla levitò un omino piccolissimo delle dimensioni e del colore di un
proiettile, con la testa a forma di goccia e il numero uno impresso sulla
fronte.
«Mi hai pizzicato il sedere!» sbottò l’omino con una vocetta stridula.
Il vecchio sgranò gli occhi, e la stessa cosa fece l’omino.
«Tu mi vedi?».
Nessuna risposta. Le liane viola ancora attive e visibili solo al vecchio e
alla creaturina.
Ecco cos’era quella sensazione di prima…
«Papà, cosa- oh» avendo sentito per caso la voce dell’omino nella rosa, Shizuka
si era infilata nel cunicolo della cappella e adesso anche lei si era
ammutolita all’improvviso.
«Ehm» l’omino si torse le mani «io vado allora eh? Ciao! Aspettatemi!».
E senza dire altro sfrecciò via dalla cappella, raggiunse in volo il gruppetto
in festa e si nascose tra i boccoli neri dello sposo girato di spalle.
Joseph e Shizuka si scambiarono un’occhiata carica di sorpresa per quanto avevano
visto e subito dopo, convenendo che fosse la cosa giusta da fare, decisero
tacitamente di non farne parola con nessuno.
Shizuka scoccò un’occhiata indagatrice alla madre: a giudicare da come guardava
ancora gli sposini che diventavano sempre più piccoli alla vista, sembrava non
essersi resa conto di quell’attimo di confusione.
«Che peccato» la udirono sospirare «non le ho nemmeno chiesto come si chiama».
Fortunatamente non se n’era proprio accorta.
***
¹Per questioni di fruibilità, ho fatto in modo che Shizuka riuscisse a controllare il suo stand.
²Ritenuti rosa da praticamente tutto il fandom, ho preferito ispirarmi ad alcune illustrazioni ufficiali di Araki (click 1; click 2) che ritraggono la "futura" sposa coi capelli rossi o ramati.
Musica in Jojo: A cuore scalzo è il secondo singolo di Quindi?,
il settimo album discografico di Max Gazzé uscito nel maggio
2010. La canzone, invece, viene rilasciata il 24 settembre dello stesso
anno. Restando in tema "headcanon e musica" è molto probabile
che Giorno e i suoi possano averla beccata ascoltando la radio.
Retroscena: Scrivere
questa one-shot è stato delirante, e non solo perché a
differenza degli altri racconti il non-narrato è potenzialmente
più interessante del narrato, ma perché fare interagire i
personaggi provenienti da ben quattro serie di Jojo mi stava facendo
impazzire. Oltretutto, l'impresa si è resa ancora più
ardua dal fatto che l'intera vicenda sia percepita dal solo punto di
vista dei Joestar, per cui ho dovuto fare lavoro di autocensura per
evitare di scrivere i nomi della sposa e dei suoi accompagnatori, e
soprattutto per far capire quanto io shippi i due sposi senza dire
esplicitamente che li shippo (lollete).
Altra curiosità: il titolo del doppio racconto (sì, ci
sarà una seconda parte), è un chiaro riferimento al Vespro della beata Vergine di Monteverdi, il brano preferito della best wine aunt.
Nella speranza che anche questa pubblicazione sia risultata gradita, vi
ringrazio per aver letto e vi do appuntamento al prossimo racconto.
xoxo
|
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Capitolo 6 *** 22 marzo ***
6- 22 marzo
22 marzo
Tomorrow could be too late
I wish I could change the date
Tomorrow could be too late
If only you had some faith
Too young, too proud, too foolish
Too young, too proud, too foolish
The Cranberries, Tomorrow
Un racconto sul senso di fratellanza
Il taxi si fermò nei pressi dell’indirizzo indicato. Tre
uomini scesero dall’autovettura.
Sotto le tre paia di occhi a mandorla si distinguevano le occhiaie da jet lag,
ma considerato che il loro non era stato un viaggio di piacere nessuno avrebbe
notato quel particolare, e se anche lo avessero fatto non avrebbero disposto
della sicumera necessaria per controbattere a eventuali commenti malevoli.
Il maggiore del terzetto sapeva cosa significava palesare la propria presenza
dentro quella casa. Significava rivendicare silenziosamente non solo il proprio
posto nel mondo in qualità di essere umano, ma anche il diritto inviolabile di
esternare un dolore che avrebbe dovuto accomunarli, e in cuor suo sperava che
almeno la condivisione dello stesso lutto li avrebbe risparmiati dal
rinfacciargli la sua storia familiare.
Mosse un primo passo verso il vialetto che divideva un giardino ben curato e
che conduceva alla porta della classica abitazione americana, cose da film
americano, appunto. Ciò che stonava veramente con il resto del quartiere e delle
altre case era il ciliegio in fiore piantato alla sua destra, il cui tronco era
cinto da una fascia arancione impossibile da non notare. Cosa mai avesse spinto
il defunto a portarsi un pezzo di Giappone in Florida era un’informazione che
non avrebbe più potuto rivelare a nessuno.
Il primo passo era rimasto anche l’unico, per ora. Si era inchiodato lì e non
riusciva a muovere un muscolo, tranne quello cardiaco, che sentiva perforargli
i timpani, a ricordargli che era ancora vivo. Il sudore freddo che iniziava a
macchiargli la camicia gli comunicava che di lì a poco la pressione sanguigna
lo avrebbe tradito.
«Josuke».
Trattenne il fiato per un attimo. La voce che lo chiamava proveniva da chi gli
stava stringendo il braccio.
«Josuke, ti senti bene?».
Quella stessa voce che gli sembrava lontana parve svegliarlo quel poco che
bastava per riconoscerne il proprietario. Nel contempo, la stretta al braccio
si fece più forte.
L’uomo di nome Josuke riconobbe colui che lo aveva chiamato. Ma sì, era lo
stesso col quale aveva condiviso la seconda classe in aereo e anche una vita
intera.
«Okuyasu, io non… non lo so»
«Sei pallido» gli disse l’amico con apprensione «e scommetto che ti senti anche
le gambe molli»
«Magari se ti portiamo dentro riusciamo a farti sedere» disse la terza voce,
quella dell’altro amico fidato.
«N-no, no, sto bene, è solo l’aereo» Josuke si portò una mano alla fronte per
cercare di riscuotersi, trovandola zuppa e gelata.
Dalle espressioni dei suoi accompagnatori intuì di non essere stato granché
convincente.
«Forse non dovevo trascinarvi con me» proseguì «non dovevate sopportare questo
macello… perdonatemi».
Sentì Koichi afferrarlo per l’altro braccio.
«Non dire queste cose nemmeno per scherzo, chiaro? Se siamo con te è perché
abbiamo voluto farlo»
«Senti» Okuyasu gli si parò davanti e lo prese per le spalle «non è che hai
paura di entrare? Se è così noi aspettiamo con te, non è un problema».
Josuke non poté che fare un cenno col capo per confermare i dubbi di
quest’ultimo. Da quando aveva ricevuto quella telefonata il giorno prima era
come se una parte di sé se ne fosse andata per sempre, cambiandolo nell’anima e
nella mente.
«Io… e se sua moglie non vuole che entri?» domandò guardando la porta aperta e
oscurata da figure sconosciute vestite a lutto «e se sua madre mi odia?»
«Allora» Okuyasu gli cinse il viso con entrambe le mani e lo guardò dritto
negli occhi «se accade quello che dici noi andiamo da loro e gliene diciamo
quattro… No, ascoltami!» aggiunse subito frapponendo un indice teso tra i loro
volti per interrompere sul nascere l’obiezione di Josuke «Non esiste che tu
venga trattato male da persone che non ti conoscono, tu sei la mia famiglia, e
se la mia famiglia viene offesa io mi arrabbio. Giusto Koichi?»
«Giusto» ripeté l’interpellato con risolutezza.
Josuke avrebbe voluto ringraziarli, ma la lingua gli si era incollata al palato
e non aveva energie a sufficienza per poter esprimere la sua gratitudine.
Perciò decise di fare tesoro di quelle parole riprendendo a camminare, seppur a
testa bassa, lungo il vialetto.
Come si aspettava, il terzetto venne accolto con sguardi incuriositi da persone
che non avevano idea alcuna circa la loro identità, eppure Josuke aveva la
sensazione che ogni occhiata rivolta a lui fosse uno spillo nella carne e ciò
gli faceva mancare il respiro man mano che si avvicinava al motivo finale del
suo viaggio intercontinentale. Le persone lo guardavano ma lui le percepiva
come spettri; non voleva che un branco di sconosciuti schernisse la sua
esistenza, però era inevitabile suscitare la loro perplessità.
Non impiegarono molto a trovare la stanza adibita a camera ardente: era
semplicemente la più quieta della casa, pure quella occupata da spettri, anche
se alcuni singhiozzavano piano. Chi erano, non lo sapeva, e non intendeva
farlo. Gli spilli, però, li sentiva tutti, e se non fosse stato per Okuyasu e
Koichi, sempre vigili e attenti, sempre presenti per lui, sarebbe crollato sul
parquet.
I feretri erano aperti e circondati dai fiori. Chi le occupava, banale a dirsi,
sembrava dormire in pace. Un padre e una figlia che riposavano in abiti da
festa.
Josuke allungò un braccio verso il volto sfregiato del defunto. Una cicatrice
suturata post mortem trapassava l’occhio destro e finiva col tagliargli parte
del labbro. Al contatto con la pelle del viso le dita gli restituirono il
freddo e la rigidità della morte, alla quale rispose con un lieve bagliore
dorato che sciolse i punti e ridonò ai tratti la sua originaria bellezza.
«Chissà come se l’era procurata quella ferita» mormorò Koichi osservando i
punti sparsi sui cuscini.
«Credo che non lo sapremo mai» la voce di Josuke era diventata piatta, ma
sapevano che quella era solo una farsa «mi hanno solo detto che è morto e
basta».
Si spostò poi verso la seconda bara, dove a giacervi c’era la più giovane della
famiglia, palpebre delicatamente truccate, capelli acconciati, labbra rosee.
Sul corpo nessun segno di offesa. Somigliava molto a…
A…
Non ci riesco.
Si allontanò dalla camera ardente a grandi falcate, ignorando i richiami di
Okuyasu e Koichi, e uscì dalla casa col fiato corto e le lacrime agli occhi. Si
ritrovò a cercare sostegno nel tronco del ciliegio come un assetato in un’oasi,
vi ci poggiò una spalla e si premette una mano sul nodo della cravatta per
scioglierla dalla gola, maledicendo quella telefonata e quel 22 marzo che lo stava
distruggendo.
Era assurdo, era tutto assurdo.
Era assurdo che il bastardo di una famiglia altrimenti felice fosse andato a
fare le condoglianze a individui coi quali condivideva solo parte del suo
sangue, era assurdo che in una situazione del genere si ritrovasse a pensare
alla sua, di famiglia, quella che si era costruita da solo, e che dentro quella
bara ci avesse visto…
«Josuke?».
Tornò nel mondo reale. A chiamarlo non furono né Okuyasu né Koichi, ma una voce
femminile che non aveva mai udito prima.
Si voltò. Sotto le fronde del ciliegio vi era una donna non più nel fiore degli
anni con due occhi grandi e stanchi che lo guardavano con preoccupazione. Stringeva
un fazzoletto impregnato di chissà quante lacrime e i capelli grigi striati di
biondo cadevano flosci lungo il viso smunto.
«Tu sei Josuke, vero?» domandò nuovamente la donna in perfetto giapponese.
Il cuore di Josuke mancò un battito. Non si aspettava che qualcuno gli parlasse
nella sua lingua madre in una simile occasione.
«Sì» disse piano, a testa bassa.
«Ciao Josuke» la donna si avvicinò ancora e fece un breve inchino «io sono…
sono la mamma di Jotaro, mi chiamo Holly. Ti ringrazio per essere venuto fin
qui a trovare mio figlio e la mia bambina, lo apprezziamo tantissimo».
Non c’era rancore nelle sue parole, solo tanta gratitudine. Era veramente
gratitudine?
«Posso… posso guardarti meglio?» gli domandò sempre con quella voce dolce che
gli faceva venire voglia di lasciarsi andare del tutto «Sono figlia unica e…
sai, avere un fratello o una sorella non mi sarebbe dispiaciuto».
Josuke si staccò dall’albero e le si avvicinò per esaudire la sua richiesta:
lei allungò una mano sottile per accarezzargli il viso e subito le ciglia si
bagnarono di commozione.
«Gli somigli così tanto, si vede che sei un bravo ragazzo, sicuramente gli
volevi… gli vuoi bene, no? Anche se certe volte è un po’ scontroso sono sicura
che sia felice di vederti».
Josuke continuava a non parlare, annuiva e basta. Come spinto da una forza
misteriosa tese le braccia e cinse il corpo della donna in un abbraccio
disperato ma tenero, che gli fece dimenticare la sua condizione di figlio non
legittimo.
«Mi scusi» gli riuscì di dire «non volevo crearvi scompiglio, però non potevo
restare a casa dopo quello che è accaduto… pensavo che non sarei risultato
gradito, dovevo avvisarvi… forse»
«Tesoro, dammi del tu» Holly tirò fuori un fazzoletto pulito dalla tasca della
gonna e se ne servì per asciugargli il volto «non devi sentirti fuori posto,
non con questi occhi buoni che hai… che non dovrebbero essere mai tristi».
Josuke trattenne un singulto e sorrise lievemente.
«Anche Jotaro vorrebbe che tu non piangessi» proseguì «quel caro ragazzo è
tanto sfortunato, da quando è nato non gliene capita una giusta… ormai era come
se… è come se venisse tormentato continuamente dai demoni, anche se non me l’ha
mai detto ho capito che si sente in colpa per essere stato ancora vivo… e io
gli dicevo, gli dico che deve vivere per il bene di Jolyne ma non mi ascolta
mai… quindi adesso, magari… magari è in pace e senza preoccupazioni»
«Vorrei poterlo fare» Josuke si staccò da Holly «ma non adesso, non oggi. Tua
nipote è molto bella»
«Sì, è bella. Ha preso dal papà… Dimmi, Josuke, tu hai figli?»
«Sì» l’uomo aspirò col naso «due bambine, a loro piacciono molto le bambole,
gliene compro sempre… sembra strano ma quando… quando ho visto tua nipote ho
pensato alle bambole delle mie figlie perché sembrava dentro… dentro una
scatola, con il vestito da sera e i capelli acconciati, e poi somiglia tanto a
loro, quindi non ce l’ho fatta e me ne sono andato, ho mollato i miei amici
dentro come un codardo»
«Ti vogliono molto bene, sono in apprensione per te» Holly rivolse un’occhiata
all’ingresso dell’abitazione, dove intravide Okuyasu e Koichi stare a debita
distanza dall’amico per concedergli la discrezione di quel dialogo «sono venuti
per farti compagnia, dovete essere molto legati».
Sul volto di Josuke apparve il barlume di un sorriso.
«Ne abbiamo passate così tante che li considero dei parenti, dei fratelli… sì,
fratelli è la parola giusta anche se non gliel’ho mai detto, ma penso che lo
sappiano»
«Sai, anche Jotaro ha degli amici, sono delle persone speciali che gli vogliono
tanto bene… È stato per loro se ho voluto che venisse salutato qui, così almeno
possono rivedersi dopo tanto tempo… e poi volevo che fosse a casa sua per la
sua ultima giornata in famiglia, con i suoi genitori»
Josuke la guardò interdetto. Da quel che sapeva non ricordava che Jotaro avesse
degli amici stretti.
«Jotaro ha degli amici?»
«Sì» Holly indicò il ciliegio alle spalle di Josuke «loro… se ne sono andati
tanti anni fa per il mio bene, perché per loro ero una persona importante,
quindi ho regalato questo bell’albero a Jotaro affinché se lo portasse in
Florida, così quando tutti passano da qui e lo vedono è come se sappiano che
esistono, cosa hanno fatto per noi… quella fascia l’ho fatta io».
Josuke guardò il tronco dell’albero: la fascia di stoffa pesante che lo
decorava era di un arancione vivace, in contrasto col nero e con l’atmosfera
che si respirava, ed era ricamata alle estremità con dei motivi a forma di ankh.
Ne prese una e toccò le cuciture rosse e gialle che gli comunicavano una voglia
smodata di ribellione e libertà.
«Anche se non li conoscevo, credo che nonostante tutto abbiano scelto di
vivere, perché se non si fa ciò che dice il cuore non si vive. Io sono nato
perché per mia madre era la cosa giusta da fare, quindi se sei qui a parlare
con me vuol dire che hanno fatto la cosa giusta»
«Cerco di dirmelo sempre anche se non è facile, perché adesso sono… da sola»
«No, per favore, non dire questo» Josuke la cinse ancora per le spalle «Non so,
se vuoi… ogni tanto puoi venire a trovarmi… Voglio farti conoscere mia moglie e
le mie figlie, sicuramente ti adoreranno»
«Oh» Holly allargò gli occhi per la sorpresa «Sarebbe… sarebbe bellissimo se
fosse così… sì, voglio conoscere le tue bambine, gli voglio fare da zia e
insegnagli l’inglese, posso, vero?»
«Sì, puoi» Josuke le strinse le mani nelle sue e guardò quelle iridi azzurre
tanto simili al genitore in comune. Trasse un sospiro e lasciò andare la presa.
Era il momento di porre la domanda scomoda.
«Lui lo sa?»
Holly seguitò a sospirare anch’ella. Poteva esserci solo un lui a cui poteva
riferirsi.
«No… non ancora. Non credo che se ne renderà conto. Ha una certa età e quindi…
però continua a chiamare Jotaro e io gli dico che è andato a lavorare, così lui
si calma. Forse in questi giorni gli dirò che è andato dai suoi amici per un
po’… non voglio raccontargli una bugia, non se lo merita»
«Ho… ho capito» fu quello che riuscì a dire Josuke.
Restarono a parlare all’ombra del ciliegio fino a quando il sole non fu
tramontato, inframezzando le parole con altri abbracci, altre lacrime e altri
ricordi, pensando, ma non esternando, a quanto sarebbe stato lieto incontrarsi
in un contesto del tutto diverso, adatto alle loro nature altruiste. Dovettero
invece condividere la perdita della loro parte spensierata, che tanto avevano
tenuto a preservare chi stava loro accanto. Quando arrivò il momento di
separarsi fu il sopraggiungere di altra mestizia colmata solo con la promessa
di rivedersi ancora per vivere e condividere.
«Promettimi che verrai a trovarmi»
«Lo giuro sul mio ragazzo».
Però qualcosa non stava funzionando.
Quella scena non aveva senso, quel funerale ne aveva ancora meno.
Da chi era partita la telefonata? I loro corpi non si erano disintegrati
assieme all’universo? E poi vivere e condividere?
Vivere e condividere?
Vivere?
Ma lei era viva, era lì accanto a loro, com’era possibile? Perché non
riuscivano a vederla?
«Ragazzina» due braccia muscolose la tirarono fuori dall’acqua «questo non è
posto per te, fila da papà, vai!».
Era successo veramente?
Quando venne gettata di mala grazia sulla battigia della spiaggia si ritrovò a
fissare due sclere inchiostrate.
«Dannate ragazzine, me le ritrovo sempre fra i piedi».
***
Musica in Jojo: Tomorrow è il singolo anticipatore di Roses,
il sesto album dei Cranberries pubblicato nel febbraio del 2012. Il
sound è in totale contrasto con il tema trattato nel racconto,
ma ascoltando le parole, e tenendo conto del periodo di uscita del
singolo, non ho potuto fare a meno di includerla in playlist. Mi piace
pensare che Josuke possa averla ascoltata in aereo assieme ai suoi bro
della vita.
Retroscena: Le
cose da dire sarebbero tante. Innanzi tutto Josuke è,
editorialmente parlando, il Jojo meglio riuscito subito dopo Joseph, e
questo grazie alla sua simpatia e alla sua capacità di farsi
apprezzare da praticamente tutti. Anche se, come spiegato
precedentemente, non sono una grande fan di Diamond Is Unbreakable,
gli riconosco un carisma e una versatilità narrativa fuori dal
comune: della serie, starebbe bene sia in contesti comici che in
contesti drammatici, riesce a reggere una storia anche senza il
supporto di personaggi secondari e il suo rapporto con Okuyasu e Koichi
è uno degli elementi di forza dell'intera saga. Il suo incontro
con Holly era stato pensato sin da quando mi ero spoilerata il finale
di Stone Ocean, per cui ho voluto chiudere la prima parte della raccolta con i due figli di Joseph.
Come avrete notato non ci sono molti dettagli in questo dialogo, ma
è fatto apposta per far sì che si agganci alle prossime
sei one-shot che verranno pubblicate a partire dalla prossima
settimana. Come anticipato su Instagram, vi avviso che saranno un vero
e proprio mindfuck con tanto di ambientazione inventata - quasi - del
tutto di sana pianta e incontri improbabili.
E niente, baci, abbracci e grazie mille per aver letto.
|
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Capitolo 7 *** Un diavolo in paradiso (interludio) ***
7- Un diavolo in paradiso (interludio)
Un diavolo in paradiso (interludio)
Carpenter Brut, Souls Wreck
Un racconto sulla recidività
Erba soffice, fresca, carezzevole. Una goduria.
Fu con questa sensazione che rinacque dalle ceneri dell’infinita brutta morte numero…
chi lo sapeva, aveva perso il conto, che mai si stancava di spezzargli il
corpo. Era talmente disabituato alle cose belle da trovare quel contatto quasi
fastidioso. Si tolse i capelli scomposti dalla fronte e si mise seduto. Attorno
a lui il prato, di un verde così vivido da accecare e imperlato di goccioline
di rugiada, si perdeva a vista d’occhio lungo un paesaggio straniante che
sembrava non avere niente di terreno. Di anima viva, o perlomeno umana, non
v’era traccia, ma a fargli compagnia c’erano dei pavoni che, placidamente e
senza mostrare timore alcuno per la presenza dello sconosciuto, zampettavano
senza meta apparente e becchettavano di tanto in tanto le gocce sulle
foglioline.
La linea dell’orizzonte, appena sfumata, univa la terra a un cielo tiepido e
benevolo reso tale da una imitazione pallida e innocua del sole, una specie di
motore immobile che vigilava su una dimensione altrettanto immobile e
immutabile. Si alzò in piedi senza problemi, coi segni della sua ultima
dipartita svaniti nel nulla assieme al dolore delle carni martoriate, che
chissà per quanto tempo ancora avrebbero mantenuto la loro integrità. Non aveva
idea alcuna del luogo in cui si trovava, ma di una cosa era certo: non provava
quella sensazione di benessere da così tanto tempo da desiderare di restare lì
per sempre, da solo, assieme alla rugiada e ai pavoni che arruffavano le ali
sotto quella stella gentile e caritatevole.
Aguzzando la vista verso la propria sinistra scorse il profilo del muro alto,
scuro e all’apparenza invalicabile di una costruzione dalle dimensioni
considerevoli. Con la lentezza che la metafisica del luogo imponeva, percorse a
passi lenti la distanza che lo separava dalla costruzione, con la stella
pallida e i pavoni che non lo abbandonavano mai, come se in qualche modo gli
stessero comunicando che con la sua presenza stava partecipando abusivamente a
una qualche sorta di meditazione sempiterna teoricamente a lui non concessa in
quanto creatura dall’anima empia.
Si avvicinò sempre di più, meditatamente e progressivamente, e quello che prima
aveva scambiato per la porzione di un bastione si rivelò essere una parete di
viti intrecciate tra loro in modo talmente fitto da rendere impossibile la
visione di qualsiasi cosa si celasse dall’altra parte, un mescolarsi di verde,
marrone e viola quasi voluttuoso.
Allungò entrambe le braccia per toccare i pampini e i grappoli turgidi e
invitanti che attendevano solo di essere raccolti; non appena i polpastrelli
vennero in contatto con i frutti un brivido improvviso di gelo gli tolse il
fiato per un istante tanto eterno quanto spiacevole. In lui si fece strada
l’idea di non essere da solo, e la compagnia degli uccelli stavolta non
c’entrava niente. Non sapeva il perché, non sapeva come, ma aveva avvertito la
presenza di qualcuno al di là della parete. Accostò quindi l’orecchio e
trattenne il respiro, non era scontato che la persona – o le persone – protette
dalle viti non si fossero accorte a loro volta di lui.
L’udito percepì una risata sommessa ma cristallina, una risata che gli bastò
per far evaporare velocemente le belle sensazioni che aveva immeritatamente
provato fino a quel momento.
«Visto? Te l’ho detto che ci siamo persi, ma tu continui a voler cercare di
uscire»
«Allora fammi capire, ti piace l’idea di restare qui dentro per l’eternità?»
«Mi piace l’idea di sentirti dire la verità su quello che provi per me».
Un attimo di silenzio. Poi la prima voce, quella che aveva riso, riprese a
parlare:
«Dai, stendiamoci un attimo a riposare, non eri tu quello che mi aveva detto di
sentirsi a suo agio solo quando è al mio fianco? E allora dimmi come dovrei
interpretare quelle parole».
Come se i rami si fossero trasformati in serpenti velenosi, allontanò la testa
di scatto e fece alcuni passi indietro colto da una sensazione traboccante sorpresa,
disgusto e rabbia. Si ravvivò la zazzera e sputò per terra in segno di
disprezzo verso il destino beffardo che aveva deciso di fargli incontrare di
nuovo quei due bastardi che se la ridevano invece di marcire dentro un cappotto
di legno. Se davvero le cose stavano in quel modo, era giusto che a morire più
di una volta non fosse solo lui.
Avvicinò ancora le mani alle foglie e all’uva matura, stavolta per strapparle
via e vendicarsi dell’onta subita, ma dalla parete sgusciò fuori un ramo che lo
schiaffeggiò, accecandolo momentaneamente.
Com’era possibile?
Si portò una mano sulla parte offesa del viso e quando riaprì gli occhi si
ritrovò a mettere a fuoco un boston terrier bianco e nero che gli ringhiava
contro. Anche se la bocca era impegnata a tenere qualcosa, forse la visiera di
un cappellino, il ringhio si faceva sempre più sordo e insistente e le pieghe
del muso arricciato gli conferivano un’aura minacciosa.
«Pensa agli affari tuoi se non vuoi che ti dia un calcio», gli disse con tono
di sufficienza «altrimenti ti ammazzo per primo».
Non l’avesse mai detto.
«Screanzato!».
Si voltò di scatto verso la zona dalla quale era risorto. Una terza voce
squillante irruppe la quiete del paesaggio brumoso, facendo drizzare le teste
di alcuni pavoni. Un damerino vestito di bianco e con un bizzarro cappello a
cilindro in testa avanzava a grandi falcate proprio in sua direzione, gli occhi
fissi su di lui e un’espressione arcigna a contrargli il volto.
«Come ti permetti di insudiciare con la tua aura malvagia questo luogo sacro?
Non sai che solo alle anime giuste è concesso calpestare la terra che
immeritatamente stai insozzando con la tua presenza? Vattene, demonio! Vattene
all’inferno e bruciavi per sempre!».
Non ebbe il tempo di rendersene conto: quattro rami si allungarono
attorcigliandosi lesti per i polsi e le caviglie. Il cane, nel frattempo, non
aveva mai smesso di rivolgergli quel ringhio ostile. Stava diventando
insopportabile.
«Che cosa volete da me?» urlò di rimando l’intruso «Possa anche andarmene
all’inferno se volete, ma non mi priverete della mia sete di vendetta!
Lasciatemi portare con me i traditori che stanno al di là di quelle piante e dimenticherò
il nostro incontro!»
«Non ti sarà permesso insultare la quiete eterna di coloro che hai fatto
soffrire!» rispose il damerino «Nonostante avverta una sorta di legame
misterioso che ci unisce mi repelle anche solo parlare un altro minuto con te!»
«Aspetta un attimo, non- !».
Le ultime parole gli morirono in un conato di sangue. Un quinto ramo si
frappose tra lui e lo spazio immobile perforandogli fatalmente lo sterno.
Il cane aveva smesso di ringhiare; barcollò, poi cadde malamente impattando di
schiena contro la parete di pampini.
«Non farai più del male a nessuno. Ora va’, possa tu patire il tormento eterno
così come chi entra nel giardino di Mitra è baciato dalla grazia».
Furono le ultime parole che sentì pronunciare prima che la coscienza lo
abbandonasse ancora, e ancora, e ancora, e quando sarebbe ritornata più
spezzata di prima sapeva che non bastavano altre mille morti affinché si
purgasse. Perché il riposo eterno non era affare di coloro che mai avevano
provato rimorso per le azioni violente.
E anche se non lo avrebbe mai ammesso a sé stesso, era giusto così.
***
Musica in Jojo: Souls Wreck fa parte di Blood Machine,
la colonna sonora che Carpenter Brut ha rilasciato nel 2020 per il film
omonimo diretto da Seth Ickerman. Ad oggi non è possibile
guardarlo per vie legali (il trailer potete comunque guardarlo qui), ma è possibile ascoltare la colonna sonora consultando la pagina artista di Carpenter Brut su Youtube e Spotify.
Retroscena: Crediateci
o meno, questo breve racconto è in assoluto la prima cosa che
abbia mai scritto di Jojo. Venutami in mente subito dopo la visione di
Vento Aureo e scritta dopo la lettura di Phantom Blood,
resta una delle one-shot più strane che mi accingo a pubblicare
dalla mia iscrizione a EFP. Ergo, se una volta ultimata la lettura vi
sentite confusi/e, sappiate che è del tutto normale. Altro fatto
curioso che ha a che fare con tutta la raccolta e che si collega alla
scelta della playlist presentata: sono una patita di musica
elettronica, per cui quasi tutti i racconti sono stati scritti mentre
ascoltavo synthpop e retrowave a palla.
Alla prossima settimana e grazie per essere giunti/e fin qui!
xoxo
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Capitolo 8 *** La metafisica del primo incontro ***
8- La metafisica del primo incontro
La metafisica del primo incontro
Come you masters of war
You that build the big guns
You that build the death planes
You that build all the bombs
You that hide behind walls
You that hide behind desks
I just want you to know
I can see through your masks
Bob Dylan, Masters
of War
Un racconto sul
non-esistente
Fra tutte le sensazioni che Reimi Sugimoto e Arnold potevano
aspettarsi di provare nella loro nuova casa non v’era certamente l’impressione
di essere stati catapultati dentro un quadro di De Chirico, e per la precisione
un quadro di De Chirico assai confuso. Non che lo spettro della ragazza si
aspettasse un aldilà movimentato, ma non credeva di dovere fare i conti col
paesaggio desolato di una cittadella praticamente deserta e bagnata dalla luce
rossastra di un tramonto – o alba? – sempiterno. Fatto ancora più curioso, ai
due lati del selciato sul quale lei e l’animale si ritrovarono a camminare si
ergevano costruzioni dagli stili architettonici più disparati: un simil
Partenone ultraterreno con la sua esplosione di colori accanto a un obelisco di
pietra reso di fuoco grazie al rosso perenne del mezzo disco solare che sembrava
voler sfidare la sinagoga piazzata di fronte a lui con le sue tre navate e le
sue cupole che faceva di tutto pur di sminuire la grazia discreta di una
cappella con l’effigie del Cristo risorto posto dirimpetto alla gagliarda
pseudoellittica di un anfiteatro romano che oscurava quasi del tutto una statua
votiva del Buddha sdraiato che osservava sornione un palazzone grigio fumo reso
ancora più brutto dalla bellezza variopinta di una Nike ricostruita che
sollevava la mano destra in direzione di una moschea dorata…
Reimi serrò le palpebre per un attimo e abbassò il capo; quel disordine
immobile la confondeva. L’unica certezza di cui disponeva era il contatto
rassicurante col pelo di Arnold, che sollevò il muso lungo la sua gamba e
scodinzolò piano per comunicarle che, forse, anche lui si sentiva spaesato. Reimi
riaprì gli occhi: i palazzi, i templi e il sole rosso c’erano ancora con tutto
il loro carico di inquietudine, ma a rassicurarla c’era comunque il suo amico a
quattro zampe col suo manto marroncino di sempre e la sua espressione
rassicurante dietro gli occhioni docili di cane paziente.
Si accovacciò per accarezzargli il collo e l’animale rispose come di consueto
schiudendo un poco la bocca, e fu allora che si accorse della mancanza di
qualcosa.
La ferita mortale alla gola era scomparsa.
Immediatamente si toccò la schiena alla ricerca del segno che si portava dietro
da quando era stata uccisa e al suo posto toccò nient’altro che la propria pelle
sana e apparentemente mai offesa.
«Strano, non trovi?» domandò al suo unico interlocutore che non poté fare altro
che continuare a scodinzolare.
«Che ne dici se cerchiamo di scoprire qualcosa su dove siamo finiti?» riprese
la ragazza, per nulla felice della situazione, ma nemmeno spaventata.
Una bizzarra situazione.
«Allora, cosa farebbe qualcuno che conosciamo bene?» disse, stavolta più a sé
stessa che ad Arnold «Scommetto che questo qualcuno non perderebbe tempo e
cercherebbe di capire perché sia finito qui, poi si armerebbe di carta e matita
e inizierebbe a disegnare… Ma cosa inizierebbe a disegnare? Forse quella basilica
giù in fondo? Quella statua di Minerva? Oppure quel tera dalla parte
opposta?».
Era certa che il signor qualcuno avrebbe scelto l’edificio o il tuttotondo più
fuori posto che fosse riuscito a trovare, e fu proprio Arnold a suggerirle di
incamminarsi in direzione di quello che finora meritava il primo premio di opera
architettonica più brutta mai concepita da umano ingegno, almeno secondo i suoi
gusti personali.
Le zampe del cane, quindi, si mossero lentamente verso un immenso blocco di
cemento armato a forma di torrione.
«Sì, è veramente terribile Arnold. Ti faccio i miei complimenti» Reimi attraversò
la strada per avvicinarsi alla sua prima vera destinazione concreta da spirito
dell’aldilà chiedendosi se fosse la scelta più saggia da fare.
Non che importasse molto, alla fine. Se lei e Arnold non erano più materia lo
stesso valeva per il luogo che percepivano come reale intorno a loro, quindi
tanto valeva scoprire cosa riservava per loro la vita eterna.
La porta d’ingresso del mostro grigio, già aperta e pronta, a quanto pareva, ad
accoglierli, era minuscola come le finestrelle che si intervallavano sui
fianchi delle torri, ma non fu difficile individuarla perché dall’interno era
percettibile una luce diversa da quella esterna, una luce artificiale che
richiamava quella rassicurante degli interni di una casa.
Fu straniante constatare la differenza tra i silenzi che si interfacciavano
tramite quel rettangolo di vuoto: se fuori l’immobilità recava una sorta di
timore ancestrale della fine anche per lei che l’aveva vissuta, dentro il
velluto rosso e le lampade appese alle pareti le davano la sensazione che non
avrebbe avuto nulla di cui temere. Guardò ancora il paesaggio esterno, come se
volesse accertarsi della presenza di quel sole anomalo, e infine si decise a
mettere piede nell’antro del mostro.
Reimi e Arnold si ritrovarono a percorrere un corridoio bene illuminato e decorato
di specchi incastonati in cornici riccamente elaborate. Il loro riflesso
restituiva l’immagine ribaltata di una studentessa giapponese e del suo cane
all’apparenza in salute, vivi, con tanti anni quanti erano i chilometri dello
stradone che si erano lasciati alle spalle. Il fantasma sbatté le ciglia: due
occhi a mandorla su un bel volto di adolescente in fiore ripeterono il gesto.
«Andiamo» sussurrò al cane riprendendo a camminare «in fondo c’è qualcosa. Ma…
vuoi vedere che…?».
In fondo si intravedeva uno spazio bianco, qualcosa che assomigliava vagamente
a…
«Un’esposizione d’arte? Arnold, vieni, presto!» Reimi accorciò in fretta la
distanza che la separava dalla sua intuizione e quando venne accolta dai
dipinti le fu spontaneo restituire loro la gioia di averli trovati con un
sorriso a trentadue denti.
Quell’ambiente, che non ricordava per nulla il suo triste involucro esterno,
era incommensurabilmente grande. Qualcosa del genere, se rapportato alla città
di Morio-Cho, equivaleva per ampiezza ad almeno metà della sua città natale, e
ciò era incredibilmente straniante. Ma anche meraviglioso.
«Ah, se solo potessi vedermi» mormorò con un senso di riverenza nei confronti
dei Caravaggio esposti alla sua sinistra «credo impazziresti».
Adesso, però, c’era un problema: quale quadro ammirare per primo? Un dilemma
nel dilemma, pensò guardando Arnold che si appropinquava ad annusare l’olio del
Cristo sul Monte degli Ulivi. Stavolta, però, toccava a lei decidere dove
andare, e di certo avrebbe riservato al Merisi una visita approfondita in
seguito.
I piedi si mossero automaticamente: gli diede le spalle, dato che seguitava a
ispezionare quella sezione del museo, e così come aveva deliberatamente
ignorato la fonte dell’attenzione dell’animale fece lo stesso con tutti gli
altri dipinti. Tanto avrebbe avuto l’eternità a disposizione.
E proprio l’eternità le sentenziò che il suo battesimo del fuoco con la propria
condizione di elemento immutabile sarebbe avvenuto davanti a una pala d’altare
raffigurante l’ascensione della Madonna.
Uno sgabello sempre rivestito in velluto, lungo abbastanza da accogliere fino a
quattro persone, la invitava a mettersi comoda per ammirare l’opera dalla quale
era stata scelta, e così fece.
A essere onesti non trovava chissà quali differenze tra questa e altre
ascensioni della Madonna. Era… una Madonnina velata di blu con l’aureola e lo
sguardo rivolto verso l’alto, circondata da una banda musicale composta da una coppia
di angeli ai due lati e tre putti ai piedi. In basso, radunati attorno al
sepolcro, vi erano cinque apostoli e un’altra donna – forse Maria Maddalena? – i
cui occhi erano direzionati in posizioni differenti: due apostoli e la donna
guardavano la Vergine, altri due tenevano il capo chino mentre ancora altri due
fissavano lo spettatore, e fu proprio questo particolare a rimanerle impresso.
Non aveva idea dell’identità di quei due personaggi, ma era come se fossero
stati messi lì appositamente per giudicare le anime dei morti che finivano per
cadere nella trappola trascendentale della loro dimensione, che non era né
terrena né divina. Giudicavano e basta, o almeno si trattava
dell’interpretazione di Reimi. Certo era che se il suo caro qualcuno
avesse definito quell’opera d’arte soltanto una pala d’altare sarebbe salito su
tutte le furie.
«Oh», esternò a un tratto «diventa vecchio e poi, forse, mi farai la ramanzina.
Diventare vecchio…» Reimi concentrò l’attenzione sul volto in ascesi della
Madonna «Devi diventare vecchio sì, altrimenti che ci sto a fare qua? Vero
Alfred?» si girò per vedere dove fosse finito il cane. Con suo stupore l’amico
a quattro zampe si era fatto un altro amico, anche lui a quattro zampe, ma più
grande e con ampie chiazze nere su tutto il corpo. Assistendo alla scenetta per
nulla sacra di due cani che si annusavano il didietro a vicenda non riuscì a
trattenere un risolino.
«Ahahahah, chiedo perdono… Ahahah» fece ai due apostoli indagatori «stanno solo
facendo conoscenza! E poi se sono qua significa che erano due bravi cani… Non è
vero?» domandò poi alzando la voce di un tono «Arnold, perché non me lo
presenti? Arnold?».
Sentendo il richiamo del proprio nome, il cane raggiunse la padrona seguita dal
gigante chiazzato di nero.
«Sei un alano arlecchino!» Reimi allungò le braccia per accarezzargli il
garrese «Un alano grosso e beneducato! Come ti chiami? Io sono Reimi».
Non aspettandosi una risposta articolata, il cagnolone le porse una zampa
mentre seguitava a ispezionarla con l’olfatto.
Eppure, una risposta le giunse.
«Benvenuta Reimi, lui si chiama Danny».
Una risposta fornita in un giapponese dalla flessione impeccabile.
«Oh» Reimi si alzò per indagare sull’origine della voce maschile che l’aveva
appena salutata: l’ingresso della galleria venne completamente ostruito da un
altro gigante, stavolta bipede, vestito di un tuxedo blu notte e no, non era
nient’affatto giapponese.
A quella visione la ragazza spalancò la bocca e provò un leggero imbarazzo per
il suo vestitino rosa. Che avesse dovuto presentarsi alla mostra in abito da
sera?
«Ti prego, rimani seduta, non volevo disturbarti» riprese l’uomo avvicinandosi
alla pala. Ora che lo osservava più da vicino, Reimi constatò che era piuttosto
giovane per la sua stazza; due occhi dolci del colore del cioccolato la
guardavano con benevolenza da sotto i folti, e ribelli, capelli castani, unica
pennellata turbolenta di un quadro che trasmetteva calma e sicurezza¹.
Il tenutario ideale per una razza nobile come quella di Danny.
«Oh, no, lei, tu, insomma, lei non disturba per niente» si affrettò a dire la
ragazza «anzi, se vuole può sedersi qui, c’è tanto spazio!».
Ma che sto dicendo?
«Ti ringrazio» disse lui accomodandolesi accanto «tra l’altro questo è uno
di quei dipinti che non avevo mai analizzato da vicino… Chissà perché ogni
volta che torno a visitare questa mostra in particolare finisco col fare
conoscenza con un nuovo visitatore… A proposito, io mi chiamo Jonathan»
aggiunse, tendendole la mano.
«Piacere» Reimi la strinse «lei parla molto bene il giapponese»
«Accetto di cuore il ringraziamento, ma è merito di questo posto» spiegò lui
«quando si abbandonano le spoglie mortali cadono anche le barriere
linguistiche, quindi se a te sembra che io stia parlando giapponese a me sembra
che tu stia parlando inglese, e lo stesso vale per le altre anime… Comunque
sia, non essere così formale, non sono cattivo» le disse, sollevando entrambi i
palmi come per schermirsi.
«Comprendo…» Reimi arrossì leggermente «Quindi lei… tu da dove vieni?»
«Ero inglese, ma adesso non ha più molta importanza» Jonathan scrollò
leggermente le spalle e alzò lo sguardo verso il volto della Madonna «quando si
viene qui si perde la propria identità nazionale per diventare parte del non
esistente. Gli edifici che ci sono fuori, compreso questo e tutto ciò che vi è
custodito al loro interno, hanno concluso la loro funzione e di loro rimane
soltanto l’essenza, come io, te e i nostri cani. Ogni cosa che vedrai,
toccherai, annuserai, mangerai… in realtà non esiste, perché eravamo e adesso
non siamo più, ed ecco spiegato il motivo per cui le distanze e le grandezze ci
appaiono finite e infinite allo stesso tempo».
Reimi rimase interdetta da quel discorso che, tanto per restare in tema, aveva
senso e non aveva senso al tempo stesso.
«Mi scusi, anzi scusa, ma noi stiamo parlando, no? Vuol dire che le nostre coscienze
stanno interagendo in qualche modo, o sbaglio?»
«Non sbagli, perché non siamo nemmeno immersi in una illusione. Qualcuno o
qualcosa vuole farci sentire finalmente in pace e di ciò non discuto. Siamo
soltanto… come dire, noi anime che ci autocostruiamo il nostro aldilà».
Anche Reimi aveva ripreso a osservare il dipinto. Arnold e Danny proseguivano
la loro esplorazione in silenzio.
«Quindi… mi stai dicendo che questa Madonna non esiste più?».
Jonathan scosse la testa.
«Questa costruzione era stata voluta da Hitler in persona, serviva a proteggere
quello che vedi. La cosa buffa è che l’incendio della Flaktürme Friedrichshain è scoppiato a conflitto terminato e né i tedeschi né i
russi hanno potuto farci un granché… Quindi, ironia della guerra, dal funesto
maggio 1945 tocca a noi trapassati ammirare questo splendore. Sapessi il viavai
di gente che c’è stato in quel periodo… Qualcosa che non avevo ancora visto
prima di allora».
«Saprei io chi farebbe carte false pur di ammirare questo splendore» Reimi inarcò
le sopracciglia e scoccò un’occhiata al suo interlocutore «non so esattamente
perché io meriti di stare qui, è solo che cercavo di fare bene il mio lavoro di
baby sitter, così ho lasciato che il mio assassino prendesse me piuttosto che
il bambino in custodia con me… Quindi… non saprei, può l’anima di un bambino
valere quindici anni di limbo tra i vivi e i morti alla ricerca di giustizia?»
«Certamente» rispose lui «l’hai fatto perché era la cosa giusta e per
nient’altro, hai combattuto contro il tuo istinto di autoconservazione per
salvare una persona. E… dimmi, questo qualcuno che farebbe carte false è per
caso lo stesso bambino che hai salvato?»
«Già, oggi è un fumettista famoso che ama cacciarsi nei guai. Un tipo
spericolato, ma in fondo è un bravo ragazzo».
Jonathan sorrise a labbra chiuse.
«Vedila così, hai fatto in modo che tante persone si appassionassero alle sue
storie, e mentre lui si gode le opere d’arte terrene tu ti godi le essenze di
quelle perdute col vantaggio di poter tornare qui tutte le volte che vuoi… Sai
che non ho ancora esplorato nemmeno la metà di questa sezione? Non bastano
cento anni terreni per ammirare quattrocentodiciassette dipinti, per non
parlare dei tesori che contengono gli altri musei, e sono tutti nostri. Questa
in particolare» aggiunse, riferendosi alla Madonna «è l’Assunzione della
Vergine di Fra Bartolomeo³, abbastanza raffaelliana come ispirazione. Fatto sta che…»
ad un tratto l’interlocutore si voltò verso la nuova venuta e socchiuse gli
occhi «Sai che c’è? Ti sembrerà strano ma i miei primi incontri sono sempre
avvenuti qua, e quando questo avviene significa che c’è una specie di legame
che ci unisce».
Reimi piegò la testa di lato. Adesso che lo osservava bene, quel gentiluomo ben
piazzato gli ricordava giusto un paio di persone che aveva conosciuto quando
vagava come fantasma nel vicolo di Morio.
«Può darsi… Ma non saprei in che modo i nostri destini possano dirsi collegati…»
«Già, chi lo sa… A proposito, mi raccontavi della tua, per così dire, vita da
fantasma. Davvero sei rimasta laggiù per tanti anni?»
«C’era una città da proteggere e avevo bisogno che qualcuno mi desse una mano»
mentre Reimi riprendeva a raccontare la storia della sua non-vita da spettro,
Arnold tornò da lei e le poggiò il muso sulle ginocchia, mentre Danny si era
sdraiato ai piedi di Jonathan «quindi era mio dovere rimanere. Alle persone
cattive non dovrebbe essere permesso di fare quello che vogliono».
Jonathan sembrava guardare un punto indefinito della pala mentre accarezzava
distrattamente il testone di Danny. I suoi occhi per un attimo divennero
lucidi.
«Anche se non sempre è così non posso darti torto. Forse non ci crederai, ma
anche io ho combattuto una guerra prima di trovare davvero la pace, solo che a
differenza tua non c’era il mio spettro a struggersi per il dolore, ma qualcosa
di più tangibile… Qualcosa che ha fatto tanto male a chi non se lo meritava e
che ha distrutto la mia discendenza. Spesso le persone cattive non possono fare
a meno di odiare perché non riescono a riscattare una vita fatta di miseria
spirituale, e per quanto amore tu possa donargli penseranno sempre che si
tratti di uno scherzo o di un inganno. Ma dimmi, Reimi» disse all’improvviso
«hai una famiglia che ti aspetta?»
«Io?» l’interpellata si drizzò sulla sedia: come aveva potuto dimenticare di
ricongiungersi coi suoi genitori? «Certo che ho una famiglia che mi aspetta, me
n’ero dimenticata perché non sapevo dove andare! Però non capisco come sia
finita a parlare con te! Cioè, non voglio offenderti, ma perché tu sei la prima
persona che incontro?»
«Non ne ho la minima idea, ma è sempre stato così con tutti i miei primi
incontri!» Esclamò Jonathan alzandosi e afferrando la pala da un lato «Una
volta fatta conoscenza con gli altri abitanti del posto, però, ne sono sempre
venuto a capo. Sappi che il viale di Clio rappresenta solo una parte
infinitesimale di questo mondo, sei capitata proprio al confine con quello che
noi chiamiamo laggiù. Se lo percorri per intero rischi di finire negli
inferi o di ripiombare tra i vivi, per cui è un’esperienza che non consiglio a
nessuno di provare» tirò il dipinto come fosse una porta e, sorpresa, dietro la
parete vi era un’apertura che conduceva a…
«Benvenuti a Morio-Cho?» Reimi balzò fuori dalla Flaktürme, seguita a ruota da
Arnold, e aggrottò la fronte dinanzi al cartello piantato in mezzo a un campo
di gigli del ragno rosso «Ma come…?»
«Come ti avevo accennato prima, siamo noi a costruire il nostro aldilà. Un
giorno prima vuoi andare a Londra e quello dopo a Tokyo, ti basta volerlo» fu
la risposta di Jonathan, che era rimasto dentro «seguite i fiori fino a quando
i gigli si diraderanno e sarete arrivati»
«Grazie mille, ma…» Reimi guardò sia il cartello che Jonathan «non ti dispiace
se ti lascio?»
«Non preoccuparti, quando voglio restare solo per un po’ vengo sempre qui,
l’importante è che adesso tu riveda i tuoi cari»
«Grazie ancora, Jonathan» disse lei piegando le ginocchia in un breve inchino
«avremo altre occasioni per incontrarci?»
«Ovvio! Se sei la ragazza coraggiosa che hai raccontato di essere aspettati di
ricevere la visita del temibile Iggy del ciliegio! Qualora ti rubasse qualcosa
e lo portasse in dono a un indovino saprai che i nostri destini sono davvero
intrecciati. Quando avverrà ti farò conoscere un sacco di gente interessante»
«Allora non vedo l’ora di farmi derubare!» Reimi sorrise. Non se lo aspettava
così strano, quel paradiso. «Ciao, e a presto!».
Jonathan ricambiò l’inchino e richiuse il quadro: la costruzione era sparita,
così come il viale e la confusione architettonica di prima. Davanti a lei e ad
Arnold si stagliava un campo di gigli rossi che si congiungeva con il
nontiscordardimé del cielo impreziosito da un sole più allegro, quasi estivo.
Reimi sospirò. Finalmente avrebbe riabbracciato i suoi genitori e rivisto le
anime dei ragazzi che erano volati in cielo.
«Forza, Arnold, i nostri cari ci aspettano».
E così camminò per quel campo infinito che però era anche finito, seguendo una
direzione che conosceva per istinto come di rondine perduta che si riunisce
allo stormo, fino a quando non incontrò un puntino giallo in mezzo a tutto quel
rosso, e poi a seguire un altro, e poi un altro ancora, e un terzo, un quarto,
un quinto, il puntino che diventava una linea e la linea che diventava campo a
sua volta sostituendo i gigli.
«Sono adonidi, e quelle laggiù sono abitazioni di samurai!».
Una voglia irrefrenabile di gioire si impossessò di lei: seguita dal fedele
segugio, Reimi si lanciò in una corsa sfrenata nel tentativo di raggiungere il
prima possibile quelle dimore, dimentica della rabbia che l’aveva costretta a
rimandare il suo viaggio e noncurante del boston terrier che le era sfrecciato in
diagonale con il suo ultimo bottino tra i denti.
«Mamma, papà! Siamo a casa!» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Presto anche lei avrebbe avuto a che fare con Iggy.
¹Come ormai si sarà intuito, ho deciso,
laddove necessario, di rendere ai personaggi che ne hanno bisogno una
palette colori naturale. In questo caso ho attinto dalle prime
illustrazioni di Phantom Blood, dove si vede Jonathan con occhi e capelli castani.
²Non avendo idea alcuna di come si presentasse la Flaktürme Friedrichshain al suo interno, ho dovuto giocare di fantasia. Se volete saperne di più, Wikipedia è qui per voi.
³Si tratta di uno
dei dipinti andati perduti nell'incendio. L'ho scelto per la
rassomiglianza con l'ascensione in cielo di Reimi alla fine di Diamond Is Unbreakable. Cliccare qui per approfondire.
Jojo in Musica: Masters of War è una riscrittura della canzone popolare Nottamun Town (qui interpretata da Jean Ritchie) contenuta nell'album The Freewheelin' Bob Dylan del
1963 e uno degli inni pacifisti più famosi in assoluto. La
canzone è una condanna di Dylan nei confronti dei signori della
guerra che mai meriteranno il perdono per i crimini commessi.
Retroscena: In questo racconto
ho voluto parlare un po' del grande assente di questa temibile dozzina
di storiacce: Rohan Kishibe. Non che lo odi, per carità, il suo
stand è il mio preferito in assoluto e la sua lust for knowledge
faustiana lo rende un personaggio interessante. Tuttavia, considerata
la natura della raccolta e il suo carattere particolarmente frizzante,
non sono riuscita a ficcarlo decentemente da qualche parte, quindi
pazienza, immaginatevelo felice e gaudente anche dopo il reset di Made
in Heaven. La scelta musicale è infatti un omaggio sia a Rohan
che a Reimi, la quale, a sua insaputa si è letteralmente
ritrovata a combattere una guerra senza fronte e senza soldati.
Per quanto riguarda l'altro protagonista della storia, ho voluto che i
due personaggi "ponte" tra il mondo dei morti e quello dei vivi si
incontrassero per condividere un destino tutto sommato simile: se Reimi
ha abbandonato il corpo per vagare come spirito alla ricerca di
giustizia, Jonathan si è interfacciato con un destino
complementare, spirito in cielo e corpo nel regno dei vivi.
Come sempre, grazie per aver letto, recensito, preferito e seguito.
Alla prossima.
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Capitolo 9 *** Il paraninfo degli ultimi ***
9- Il paraninfo degli ultimi
Il paraninfo degli ultimi
Mio
fratello è figlio unico
Deriso, frustrato, picchiato, derubato
E ti amo Mario
Mio fratello è figlio unico
Dimagrito, declassato, sottomesso, disgregato
E ti amo Mario
Mio fratello è figlio unico
Frustato, frustrato, derubato, sottomesso
E ti amo Mario
Rino Gaetano, Mio fratello è figlio
unico
Un racconto sul riscatto dei
dimenticati
Era pensiero comune credere che la pioggia sovrannaturale che
investiva le anime della parte buona dell’oltretomba fosse la sublimazione
delle lacrime dei vivi per i cari perduti. Quando il fenomeno si presentava,
chi aveva ottenuto il permesso di valicare le porte del paradiso faceva due
cose: ripararsi nella comodità delle proprie case o fermarsi, ovunque si fosse,
per lasciare che l’acqua mondasse la proiezione psichica della pelle, dei
vestiti, dei brividi di freddo che ricordavano che una volta si era vivi.
Tutti, però, avevano l’obbligo di rispettare una regola fondamentale: ci si
fermava per pensare a chi stesse soffrendo laggiù e si ringraziava in silenzio
per il ricordo che univa i due mondi.
Narancia era uno di quelli che adorava quando pioveva. Quando le nuvole avanzavano
e l’odore ferroso dell’umidità si faceva sempre più pungente, si sedeva sul
gradino del marciapiede accanto alla fermata dell’autobus e, mento sui palmi
aperti, amava immaginare che quelle gocce fossero dedicate a lui e alla mamma. Anche
se l’assenza temporanea di luce gli metteva addosso una gran mestizia, la
pioggia rimaneva la sua cosa preferita assieme ai pavoni¹ che gironzolavano
attorno al giardino di Mitra – o di Dioniso, come aveva sentito dire una volta
dall’anima di un partigiano. Provava come un miscuglio di sensazioni che gli
facevano provare una malinconia che, dopo, lo facevano stare bene, perché gli
piaceva credere di sentirsi amato da chi aveva lasciato indietro a invecchiare,
ed era la stessa sensazione che avvertiva quando ammirava il groppone di un
pavone sollevarsi per mostrare alle femmine i tanti occhi della sua ruota,
perché gli ricordavano che i suoi, di occhi, e quelli di sua madre, non glieli
potevano togliere più.
Se ne stava quindi all’addiaccio, i vestiti inzuppati e i rumori delle bizze
degli spiriti più turbolenti, provenienti dal ristorante dall’altra parte della
strada, attutiti dal ticchettare dell’acqua sul basolato. Non era raro che in
quel locale volasse un bicchiere con ancora il whisky dentro o una bottiglia di
vino, chiunque giungesse al capolinea a bordo di un autobus era stato un’anima
buona che aveva visto solo, o quasi, brutture, e quindi un po’ di quelle
brutture se le portava addosso almeno per un certo periodo, giusto il tempo di
abituarsi alla beatitudine della bellezza. Fino ad allora li si vedeva
bazzicare nel tratto di aldilà più terreno, l’unico luogo in cui giorno e notte
si alternavano come nel mondo dei viventi, senza immischiarsi negli affari degli
altri, quelli buoni e giusti, perché convinti di non meritare ancora il bene.
Si riconoscevano perché tenevano gli occhi bassi, parlavano solo tra di loro e
si ubriacavano da mane a sera pensando di essere vittime di uno scherzo, e lui
era uno di quei loro nonostante avesse prematuramente mosso i primi timidi
passi nei giardini sconfinati dell’eden assieme ai suoi compagni per vedere che
effetto faceva camminare in mezzo ai “giusti”; una volta aveva persino tentato
di offrire della birra salernitana che gli era stata donata dagli amici di
laggiù alle anime che gli avevano offerto una coppa di ciliegie in segno di
benvenuto: approfittando della loro assenza momentanea aveva abbandonato
l’arancio di sua proprietà nel campo dei caduti e aveva lasciato una bottiglia
di alcolico ai piedi del ciliegio decorato con l’ankh, per poi fuggire via
terrorizzato. Per quel gesto si era beccato del cretino da Abbacchio e gli
occhi al cielo di Bucciarati, ma lui aveva avuto la cazzimma di
rimproverare a entrambi che almeno lui aveva portato a termine la missione di
far conoscere una specialità italiana a degli stranieri, i quali avevano
dimostrato gratitudine facendogli recapitare un biglietto di ringraziamenti
scritto in quattro lingue: merci
beaucoup, shukraan jazilaan, arigato gozaimasu e grazie
mille. Il biglietto, adesso, era al sicuro dentro un quadro appeso nella
sua cameretta e ogni volta che ne aveva l’occasione non mancava di ricordare a
tutti che quello era suo, suo e di nessun altro, perché quando lo guardava si
sentiva un bravo guaglione. Non lo volevano ammettere, ma gli altri due avevano
paura di quell’albero e delle persone che riposavano sotto le sue fronde, forse
perché con alcuni condividevano la perdita dei poteri stand o perché avevano
visto un altro scugnizzo prendersi a scazzottate amichevoli col proprietario
del ciliegio – salvo poi beccarli a ronfare della grossa all’ombra di un
salice, insieme, come fratelli, esausti e sporchi di fango – o perché gli era
stato raccontato che il cagnetto tremendo che una volta aveva rubato un fermaglio
di Bucciarati da vivo era capace di evocare tempeste di sabbia o perché si
erano fatti l’idea che quelle fossero brave persone che con loro non dovevano
avere niente di che spartire… O forse perché non riuscivano a sopportare la
sensazione che esistesse un legame che li univa, qualcosa di talmente forte e
incomprensibile che persino lo stesso Bucciarati si era messo a tremare come
una foglia quando la ragazza con gli orecchini a forma di ciliegia si era
avvicinata a lui e gli aveva chiesto di portare con sé Coco Jumbo: lui, così
come Abbacchio e Narancia, non aveva detto niente, l’aveva solo guardata
prendere la tartaruga tra le braccia come si fa con un neonato e aveva chinato
il capo in risposta al suo graziè. Anche quello rimaneva un mistero, ma
tutti e tre avevano pensato che fosse corretto che la tartaruga vivesse la sua
eternità con la ragazza del ciliegio, quello era il soprannome che i tre le
avevano appioppato.
Mentre pensava a quelle e ad altre cose belle e meno belle, Narancia non si
accorse che la pioggia era cessata. Gli ci volle che una mano gli sventolasse
un cartoncino sulla faccia per riscuoterlo dal mulinello in cui stava facendo
annegare il cervello.
«Uè, Nara’!»
«Uè, sbirro».
Era l’ex collega di Abbacchio. Uno dei “giusti” che frequentava assiduamente
quel pezzo di paradiso perché amava ricercare la verità dietro le condotte dei
lanciatori di bottiglie sui marciapiedi: un passatempo, come lo definiva
Narancia, tra i più bizzarri che si potessero praticare.
«Ci sta un avviso di giacenza a nome tuo, vai a vedere cosa ti hanno portato da
giù» gli disse il poliziotto porgendogli il documento «i tuoi compari stanno
già là, quindi sarà sicuramente un regalo di gruppo»
«Ma non è presto per il due novembre?» chiese Narancia sorpreso di leggere la
data di spedizione dell’ordine «Dieci ottobre duemiladieci? Me n’agg a me,
ma quanto tempo è passato?»
«Nara’, qua di tempo non ce n’è perché è una cosa dei vivi, vai a pigliarti sto
pacco e non ci pensare, va bene?» quello gli posò una mano sulla spalla con
tanto di strizzata d’occhi «io torno al ristorante, hanno messo vicine due
tavolate piene così di pisani e livornesi e non vorrei che sfasciassero i
tavoli con tutti i piatti. Ci si becca in giro eh?»
«Ovvio, e grazie!» esclamò Narancia guardandolo allontanarsi per tornare al
proprio dovere.
«Boh, altra birra? Se è così non dico di no» pensò a voce alta, infilandosi in
un vicolo lunghissimo ma anche molto breve che portava direttamente all’ufficio
postale.
Ebbene sì, esisteva la proiezione spirituale di un ufficio postale, che
dall’esterno era uguale agli uffici postali di laggiù, ma senza impiegati né
postini e senza nemmeno un’insegna indicante che quello era un ufficio postale.
Semplicemente i pacchi arrivavano a destinazione e se non si era in casa un
conoscente ti faceva avere l’avviso di giacenza. In parole povere, una figata.
Varcata quindi la soglia si imbatté in un nugolo di suore intente a
spacchettare allegramente dei fiorellini di campagna che lo salutarono
sorridenti e gioiose, alle quali Narancia ricambiò imbarazzato: non si era del
tutto abituato alla gentilezza genuina che gli riservava chi non conosceva.
In quel momento in ufficio, che era immensamente grande ma anche immensamente
piccolo, c’erano solo le suore e, più in là, due giovinastri in abiti firmati
impegnati a raccogliere una generosa quantità di bianco e verde da un rullo
trasportatore fermo.
«Narancia, stai di nuovo fradicio» fu la prima frase che gli grugnì Abbacchio con le mani occupate da
zagare e rose bianche².
«Ma…
sti fiori?» domandò Narancia perplesso «Chi ce li manda?».
A differenza di Abbacchio, Bucciarati sfoggiava un sorriso tenerissimo nel
leggere i nomi dei mittenti sul cartellino.
«Tieni» gli disse soltanto, indicandogli i fiori a lui destinati.
Narancia eseguì: su un pezzo di carta bianco decorato con laminature argento
era scritto un invito di partecipazione di nozze, ma la vera sorpresa fu
scoprire i cognomi dei novelli sposi.
«Guido e Trish si sposano, Guido e Trish si sposanooo!» non appena ebbe
decifrato i caratteri eleganti stampati nell’invito Narancia saltò come un
grillo e improvvisò un balletto in mezzo ai pacchi da smistare, facendo
scaturire nelle suore le risate divertite e le congratulazioni per la lieta
nuova.
Nell’assistere a quella scenetta, la faccia di Abbacchio si fece ancora più
stranizzata.
«Grazie signore, grazie!» Narancia rivolse alle religiose un inchino
esageratamente profondo che costrinse Bucciarati a coprirsi il volto paonazzo
con entrambe le mani. In realtà si stava trattenendo dal ridere in faccia ad
Abbacchio, e ciò non faceva altro che rendere la scena ancora più comica.
«Jamme ja’, andiamo a piantare sti fiori, dai!» esclamò Narancia tirando
le maniche dei due compari «Forza!»
«Aspetta un attimo… Oddio» Bucciarati fece un paio di respiri a narici dilatate
per controllarsi «C’è una rosa di questo mazzo che non ci appartiene, è in
mezzo a quei girasoli».
Narancia inclinò la testa da un lato.
«Eh?»
«Uno che non conosciamo ma che sarà stato sepolto vicino a noi…» Bucciarati
lesse il nome del destinatario della rosa bianca solitaria sul cartellino
«Zeppeli? Ci hanno messo vicino agli Zeppeli? La cappella che sembra un tempio
greco?»
«Non mi dire che…» Abbacchio parve riscuotersi dalla trance della quale era
caduto vittima e divenne, guarda un po’ che novità, torvo «se è chi penso io
fate finta che m’hanno buttato nella fossa comune, io con quel Marcantonio non
ci parlo… No anzi, chiamatemi quando si fa pestare di nuovo di botte dal
giapponese»
«E perché scusa?» domandò Narancia.
«Perché» Abbacchio incrociò le braccia e piegò le labbra in una smorfia «fa
troppo rumore e attacca bottone facilmente».
Narancia stava per ribattere che non vedeva cosa ci
fosse di negativo in quelle due azioni, ma il suo tentativo di convincimento
venne subissato da un altro saluto, più caloroso di quello ricevuto da lui, che
le suore stavano riservando al nuovo arrivato, il quale non aveva perso tempo a
rispondere con altrettanto calore e una buona dose di ruffianeria.
«Fanculo» borbottò a denti stretti Abbacchio.
Il nuovo arrivato era nientemeno che l’ultima anima sulla faccia del paradiso
che il musone dei tre voleva incontrare, figurarsi conoscere.
«Buongiorno!» squillò il Marcantonio biondo allargando le braccia e affettando
un sorriso compiacente «un uccellino mi ha detto che c’è un regalo per me».
Senza attendere che il terzetto si scomponesse raccolse la rosa e i girasoli e
lesse il biglietto col suo nome.
«Anche da morto le donne mi desiderano» gettò il capo all’indietro con fare
teatrale, suscitando i sospiri delle suore più giovani, e si ravvivò la chioma
ondulata «È una vostra amica? Siete fortunati»
«Ciao, io sono Narancia!» il più giovane si avvicinò a quel ragazzone vanesio
porgendogli la mano «Alla mia destra c’è Bucciarati, mentre quello che brontola
sempre è Abbacchio, e Trish è una nostra amica»
«Piacere mio» il Marcantonio gliela strinse con vigore «io sono Caesar, era ora
che venissi a sapere i vostri nomi… Non ve la fate tanto lontano dal quartiere
del guazzabuglio, suppongo siate qui da poco»
«Molto poco» Bucciarati seguitò a stringergli la mano «non immaginavamo che
questo posto fosse così movimentato»
«Meravigliosamente movimentato» aggiunse Caesar «mi ricordate un sacco me
quando sono arrivato io, allora al posto dell’autobus c’era un calesse»
«Sì sì, molto belli i calessi» anche Abbacchio gli strinse la mano, o per
meglio dire cercò di stritolargliela «piacere di conoscerti, gli smeraldi sono
le mie pietre preziose preferite»
«Gli zaffiri arancioni sono più belli» Caesar sostenne lo sguardo di ghiaccio
del suo provocatore senza timore alcuno «spero di vederti più rilassato in
futuro, ricordati che abbiamo l’eternità davanti»
«Lo tengo a mente» rispose Abbacchio che, incontrati gli occhi affilati di
Bucciarati, decise di mettere un freno alla lingua.
«Se siete d’accordo, tengo a piantare questa splendida rosa e i girasoli donati
dal mio carissimo amico nel campo dei caduti. Mi fate compagnia?»
«Sì sì sì! Mi piace piantare i fiori nel campo dei caduti! Andiamo?» fece Narancia
agli altri due, che risposero non verbalmente in maniere del tutto opposte:
Bucciarati accennando un sorriso di contentezza più un “sì” mimato con il capo,
Abbacchio come se gli avessero detto che doveva infilarsi un bastone su per le
terga.
«Molto bene!» Caesar sembrò non accorgersi della faccia disgustata di Abbacchio
e indicò l’uscita sul retro, proprio dietro ai rulli «Prego, dopo di voi».
Con la coda dell’occhio, Narancia percepì il disagio di Abbacchio farsi sempre
più evidente. Lo aveva visto voltarsi verso l’ingresso principale quasi a voler
fuggire da lì piantando gli altri e fiori e non ne capiva il motivo.
Ma, forse, qualcun altro sì.
«Vedo che il vostro amico è più reattivo di voi, entusiasmo, dai!» fu proprio
Caesar ad afferrare le spalle di Abbacchio e condurlo verso la porta sul retro
con un ghigno malefico – o era meglio dire serafico? «Paura dei pavoni?».
Abbacchio non rispose, ma la fronte imperlata di sudore lo faceva per lui.
Dal canto suo, Bucciarati aveva deglutito piuttosto rumorosamente. Anche lui
sembrava provare eccitazione per qualcosa, ma cercava di non darlo a vedere con
risultati non proprio eccelsi.
Una volta varcata e richiusa l’uscita sul retro, sia l’ufficio che il resto
della cittadina scomparvero del tutto, lasciando il posto al sole lattiginoso,
al prato verde e ai pavoni che gironzolavano attorno ai muri di viti del
giardino di Mitra.
«Fanculo» ripeté Abbacchio a denti stretti.
Anche se era entrato solo una volta in quello che chiamavano erroneamente
giardino assieme alla mamma, a Narancia piaceva da matti l’aura di mistero che
emanava, perché potevi entrarci solo se avevi qualcosa da confessare o un
sentimento da esternare a una o più persone a te affezionate. Tuttavia, trovava
difficile capire perché Abbacchio lo odiasse così tanto.
All’ingresso del giardino di Mitra erano state piantate le proiezioni psichiche
di due roseti coi boccioli chiusi; qualche volta era possibile imbattersi in un
carro dorato trainato da colombe bianche³ nei pressi di quel luogo, ma questo
era un racconto che aveva ascoltato distrattamente da alcune coppie di
innamorati, per cui, per quanto lo riguardava, poteva trattarsi di una balla.
Comunque fosse, c’era Abbacchio che guardava terrorizzato i roseti, c’era
Bucciarati che guardava Abbacchio come se stesse pendendo dalle sue labbra,
c’era Narancia confuso e c’era Caesar con sempre quel sorriso stampato sulla
faccia. Infine c’erano i pavoni che facevano i pavoni.
«Io… non…» Abbacchio, come folgorato da una visione, guardò gli altri tre come
ad aspettarsi di sentirsi dare del pazzo «Non credo che verrò con voi. Questi
li pianto dopo perché devo… devo capire da dove viene quella biga con le
colombe».
E così dicendo indicò un punto privo di qualsiasi biga poco distante dai
roseti.
«Io non vedo niente» si affrettò a dire Narancia «stai bene, vero?»
«Se vuoi ti dico una balla e rispondo di sì… Fanculo» stavolta il sudore si era
esteso al resto del viso e al collo «bene, sono l’unico a vederla, molto bene»
«Io la vedo» disse a un tratto Bucciarati «e ci sono anche undici colombe»⁴
«Molto bene» ripeté Abbacchio guardandosi le scarpe «e ora?»
«Vuoi entrare?» lo precedette Bucciarati. C’era un che di enigmatico nella sua
domanda.
Abbacchio sollevò il capo per guardarlo: al sudore si era aggiunta la congestione
alle guance. Strinse a sé i fiori come se potessero proteggerlo da ciò che
implicava tal quesito, poi li abbassò di nuovo, e con essi il capo, e, senza
dire niente, si incamminò lentamente verso l’apertura del labirinto.
«Penso che lo seguirò» disse Bucciarati senza staccare gli occhi di dosso dalla
figura vestita di nero che si allontanava da loro.
«Aspetta, che vuol dire… ehi!» Narancia prese a protestare dinnanzi a quel
comportamento per niente da loro, ma Caesar ebbe la prontezza di tappagli la
bocca con una mano e di invitarlo a osservare i roseti con l’indice dell’altra.
Abbacchio si era fermato all’ingresso, accanto al roseto di sinistra che, al
suo passaggio, aveva dischiuso i boccioli per rivelare un tripudio di rose
color pesca⁵, e lo stesso fece quello di destra non appena Bucciarati lo ebbe
raggiunto. Narancia li vide contemplare per un istante infinitamente lungo quel
fenomeno che comunicava più di quanto i diretti interessati avrebbero voluto e
poi sparirono dietro l’angolo, facendo sì che i roseti ritrasformassero le rose
in boccioli.
«Finalmente quei due ce li siamo tolti dai piedi» pronunziò Caesar liberando
Narancia dall’impaccio «fidati, quando usciranno saranno molto più loquaci»
«No no, senti, aspetta un attimo» boccheggiò Narancia «se io e la mamma abbiamo
ottenuto le rose rosa⁶ e Bucciarati e Abbacchio hanno ottenuto quelle altre,
cosa vuol dire?»
«Facciamo che te lo diranno i diretti interessati» Caesar fece spallucce e
inarcò le sopracciglia col fare di chi se ne intendeva di certe questioni
«quando qualcuno non si è ancora lasciato andare vuol dire che non è entrato
nel giardino di Mitra con la persona giusta… Quando ci sono entrato con i miei
genitori e la mia maestra anche a me sono saltate fuori le rose rosa, ma quelle
pesca le vedo per la prima volta. In ogni caso non spaventarti» gli rivolse una
pacca sulla schiena e un altro sorriso, stavolta senza traccia alcuna di
malizia «non mordo mica».
Narancia guardò sia i roseti che Caesar: il fatto che Abbacchio e Bucciarati
avessero qualcosa in sospeso da confessarsi lo rendeva nervoso perché sia da
vivi che da spiriti non avevano mai lanciato dei segnali a riguardo, e
immaginava che, probabilmente, se fossero sopravvissuti sarebbero rimasti in
quella situazione di stallo finché fossero campati.
«Lo so, però è brutto dirsi certe cose senza più un corpo»
«Guardala sotto un altro punto di vista: adesso che siamo tutti senza vincoli
possiamo finalmente liberarci dalle nostre catene. Sembrerà strano detto in
questo contesto, ma quello che amo di più del posto in cui siamo è che niente e
nessuno ti costringe a fare quello che non vuoi. Era destino che prima o poi
sarebbero entrati nel giardino di Mitra»
«Se lo dici tu…» Narancia lanciò un’ultima occhiata ai roseti «Io penso che…
loro sono delle brave persone, qualunque cosa si diranno spero che saranno
felici, perché se lo meritano»
«Non lo metto in dubbio, altrimenti non avrebbero varcato quella soglia e le
rose non sarebbero sbocciate» Caesar si era già mosso lontano dal labirinto,
verso il campo dei caduti «Andiamo?»
«Mh» Narancia lo seguì senza altre esitazioni, per la prima volta avrebbe
piantato dei fiori in compagnia di uno spirito sconosciuto «anche tu eri un
criminale?»
«Una specie. La rabbia in corpo era talmente tanta che persino la mafia mi
stava alla larga… Alcuni dei tipacci che ho ammazzato me li sono ritrovati
qua».
A quell’affermazione Narancia spalancò la bocca.
«E tu cos’hai fatto?»
«Quello che fanno tutti gli spiriti dei criminali quando conoscono l’eternità:
si picchiano fino a quando capiscono che non ha senso continuare a odiare.
Alcune volte arriva altra gente come vigili del fuoco, sacerdoti e persino
maestre d’asilo a cercare di sedare le liti e si finisce per fare pace. Una sera
la mia maestra mi ha spaccato una padella in testa e sono svenuto sul bancone
degli alcolici, non ne poteva più di vedermi attaccare briga con gli altri… Ma
parlami di quei fiori» Caesar cambiò repentinamente argomento e fece un cenno
col mento al mazzo bianco tenuto all’ingiù dal suo nuovo conoscente.
«Ah, questi» Narancia li sollevò per annusarne il profumo delicato «due amici
che si sposano e che sono venuti a trovarci per ringraziarci. La sposa… suo
padre ha cercato di ammazzarla perché teneva più al suo potere che al suo
stesso sangue, così la mia banda si è ribellata e alcuni non ce l’hanno fatta…
Quindi eccomi qua».
Mentre Narancia parlava stavano già attraversando il sentiero che li avrebbe
condotti a destinazione: la monocromia dell’erbetta si stava diradando per fare
posto alla disomogeneità della flora di proprietà dei defunti. Le piante
appartenenti ai morti di morte violenta si riconoscevano a occhio perché erano
le più rigogliose e vivide, e perché conferivano al paesaggio tanto suggestivo
quanto straniante caratteristiche macchie di colore vivace in mezzo alla
tenuità del resto della distesa.
«Siete dei coraggiosi, si vede dalle vostre facce che la vita non è stata
gentile con voi» Caesar uscì dal sentiero e deviò a destra, dove alcuni metri –
o alcuni chilometri – più in là spiccava gagliardo un fazzoletto di terra
occupato da altri girasoli «quelli me li hanno portati due amici e la maestra,
quando era ancora viva… ho combattuto con un avversario più forte di me per
salvare l’onore della mia famiglia e la vita del mio amico, quindi eccomi qua
anch’io. Quando piove mi ci siedo in mezzo e penso ai suoi figli… Adesso lo
scemo è diventato pure bisnonno… lo so, sono uno di quelli che sbircia nella
vita di chi è rimasto laggiù, sono un impiccione!».
Caesar liberò i fiori dall’involucro e si accovacciò per piantarli: alla base
recisa degli steli crebbero delle radici che attecchirono subito al terreno.
«Alcune delle persone che sono venute qua le conoscevo già grazie al mio
ficcanasare negli affari dei vivi. Comunque non so se sai di questa teoria
secondo la quale le anime che hanno un legame particolare sono destinate a
incontrarsi; quando accade è come se le conoscessi da sempre anche se non sai
niente di loro. Ti è successo?».
Narancia non aveva bisogno di pensarci perché quella sensazione la conosceva
troppo bene, e a dire il vero la stava provando proprio il quel momento.
«Sì, è strano… In realtà la provo spesso, ad esempio quando il cane del
ciliegio cerca di rubarmi la fascia dai capelli o una scarpa, non so perché lo
faccia ma non ho mai avuto il coraggio di chiederlo ai suoi padroni»
«Iggy non ha padroni» quando Caesar ebbe finito di piantare tutti i girasoli e
la rosa, che aveva messo davanti, in bella vista, per non farla sfigurare
tra i petali gialli, si sedette a gambe incrociate in mezzo al suo campetto
personale con un sorriso soddisfatto «ha un caratteraccio, ma anche lui si è
meritato il suo posto tra i buoni»
«Sì ma io non ho ancora capito cosa c’entro con te o con le persone del
ciliegio» gli disse Narancia incrociando le gambe accanto a Caesar. Neanche a
farlo apposta, proprio il ciliegio rimaneva ben visibile anche da quella
posizione così come l’arancio vicino al quale avrebbe piantato le rose «cosa
c’entro con loro? Perché devo averci a che fare? Cioè, io vorrei ma non ne
capisco il motivo»
«Ti credo…» Caesar trasse un sospiro profondo «Da quando quell’albero è stato
piantato piove più spesso del solito, anche se non le ho contate avrò visto
passare almeno una cinquantina di anime sotto quei rami. Quando avrai il
coraggio di farti avanti e parlargli lo scoprirai esattamente come stiamo
facendo adesso noi due. Al che dirai: “perché non vengono loro a presentarsi?”;
domanda più che legittima, ma nessuno vuole recare imbarazzo agli altri, quindi
fanno quello che facciamo tutti: aspettano il momento propizio. Il tempo non
esiste più, ma le nostre anime, i nostri sentimenti, quelli ci sono ancora e
vanno rispettati, e questo vale anche per i tuoi compari che abbiamo lasciato
nel giardino di Mitra. A proposito, sapevi che puoi cambiare aspetto e
ringiovanirti o invecchiarti come ti pare e piace?» aggiunse subito dopo «Quando
il mio amico verrà qui lo saluterò travestendomi da vecchio bacucco per
confonderlo, non vedo l’ora di godermi la scena»
«Mh, hai ragione tranne sull’ultima parte, non voglio diventare vecchio»
considerò Narancia osservando gli spiriti stazionati sotto il ciliegio, il più
bello che avesse mai visto prima d’ora. Se aguzzava le orecchie riusciva a sentire
le loro risate riempire l’aria immobile.
«Mi domando» riprese sovrappensiero abbassando il capo «questa risata, io la
conosco. È della ragazza che ha preso la nostra tartaruga… chi ha potuto farle
del male?».
Caesar sospirò di nuovo, ma stavolta era un sospiro greve.
«Ci sono tante anime che piuttosto che stare qui a non fare niente dovrebbero
innamorarsi di persone vere, costruirsi una vita, una famiglia, invecchiare, ma
non sempre è così. Perlomeno la sofferenza non le toccherà più, ma non so
quanto questo possa consolare i parenti rimasti laggiù a piangerli…
L’importante è non avere rimpianti. Tu ti penti delle azioni che hai
commesso?».
Narancia scosse energicamente la testa.
«Assolutamente no, io sono qui per questi fiori, questi fiori significano tutto
per me!».
Lo disse con una tale convinzione che Caesar si drizzò a sedere e gli applaudì.
«È questo lo spirito giusto!» dopo di che, scrutò
anch’egli il ciliegio con gli occhi ridotti a fessure.
«Ah, Cherry, se solo non avessi dei pessimi gusti in fatto di uomini» cinguettò
d’un tratto cambiando totalmente tono di voce.
«Si chiama Cherry?» domandò Narancia.
«Sì, e il suo nome celestiale rispecchia la bellezza delle sue iridi» Caesar si
porto le mani alle guance con fare sognante «ma non provarci neanche!» scattò,
cambiando tono per la seconda volta, facendo trasalire Narancia «sta già con
qualcun altro… Rose blu⁷, le più rare in assoluto, ed è colpa di quello lì! Ah,
maledetti giapponesi! Con la vostra cortesia innata, la vostra gentilezza, il vostro
spirito di sacrificio e i vostri ciuffi fluenti! Come può una ragazza come
Cherry lasciarsi ammaliare da voi?».
Narancia pensò alle parole che aveva appena ascoltato e, mentre stava per
ribattere che non vedeva cosa ci fosse di negativo in quelle quattro qualità, un
giubilo improvviso si era levato proprio dal ciliegio distogliendo i due
ragazzi da quella conversazione alquanto strana.
«Hai sentito?» Narancia si mise in piedi e osservò la scena: sembrava che altre
anime si fossero aggiunte a quelle che c’erano già prima e che si stessero
abbracciando come se si conoscessero da sempre.
«Ah, però, è arrivata gente» anche Caesar si era alzato «Iggy deve aver rubato un
oggetto a qualcuno di importante per far fare a loro tutto quel chiasso».
La quasi dozzina rumorosa delle anime del ciliegio stava lasciando le piante,
apparentemente diretta verso il centro abitato: una di loro si staccò dal
gruppo e si avvicinò ai girasoli. Aveva le maniche della camicia arrotolate fino
ai gomiti, i pantaloni stropicciati e un improponibile cappellino viola a
celargli parte dei capelli spettinati, ma sul suo volto era dipinta l’immagine
della gioia.
«Ah!» esclamò Narancia, riconoscendolo «è quello con cui ti picchi sempre!»
«Caesar!» urlò lo sconosciuto, che aveva le fattezze di un adolescente «Vieni
con noi e porta anche il tuo amico della birra! Si va al ristorante!».
Così dicendo sollevò un braccio e lanciò qualcosa di piccolo e rosso che andò a
colpire la tempia di Caesar.
«Disgraziato!» abbaiò quello raccogliendo la ciliegia «Te la faccio
ingoiare con tutto il nocciolo, hai capito? Dopo voglio la rivincita della
scazzottata dell’altra volta!» gliela rilanciò contro, ma chi lo aveva
stuzzicato era già corso via per seguire gli altri.
«Mi hanno invitato al ristorante?» Narancia era incredulo «Quindi posso venire
con te?».
Caesar abbandonò per un attimo l’espressione arcigna e guardò il ragazzetto
sottile con gli occhi duri di chi aveva visto troppe brutture per la sua età: sembrava
che la felicità dell’anima che aveva appena conosciuto dipendesse dalla
risposta che avrebbe ricevuto.
«Tu devi venire con me, non ci sono scuse» sentenziò il Marcantonio
mettendogli un braccio sulla spalla «e già che ci siamo riserviamo due posti ai
i tuoi amici, tanto ogni volta che ci sediamo a tavola facciamo passare anche
cinque o sei anni terrestri, possono raggiungerci dopo»
«Evviva, sono contento! Voglio la pizza margherita!» Narancia balzò fuori dai
girasoli, sempre brandendo i fiori degli amici di laggiù, e andò ad accorciare
la distanza che lo separava dall suo piccolo arancio ancora giovane.
«Prima però devo piantare le rose! Mi aspetti, vero?».
Caesar incrociò le braccia e sorrise. Quel tipetto era davvero interessante.
«Ovvio, sono qui apposta. Però sbrigati, tra un po’ si metterà di nuovo a
piovere».
***
¹Tra i vari significati attribuiti al pavone vi è
quello legato all'immortalità e alla resurrezione di Cristo, in
quanto si credeva che le sue carni non fossero soggette a
deterioramento. Era anche l'animale sacro a Era. Qui e qui per ulteriori approfondimenti.
²Le rose,
fiori sacri ad Afrodite, assumono differenti significati a seconda del
colore dei petali. Le rose bianche simboleggiano purezza,
castità e candore, ma anche l'amore platonico, sentimento che,
nella mia headcanon e con una dovuta eccezione, unisce la banda di
Bucciarati. Si contrappongono a quelle carminio (menzionate in Al-Qirmiz), che invece sono simbolo di lussuria e desiderio carnale.
³Il carro dorato trainato da colombe bianche è uno dei simboli di Afrodite.
⁴In numerologia l'undici
è il numero degli amori nascosti e dei segreti personali.
È inoltre accostato ai legami e si caratterizza per
l'uguale presenza di proprietà sia maschili che femminili.
L'accostamento con le colombe, invece, è stata una mia
invenzione.
⁵Le rose pesca indicano un amore segreto.
⁶Le rose rosa indicano un sentimento di tenerezza, gratitudine e delicatezza.
⁷Le rose blu non esistono in natura.
Per questo motivo simboleggiano il mistero, l'infinito e la saggezza,
ma anche un amore impossibile. I personaggi a cui faccio riferimento
con questo tipo di fiore, seppur legati dal destino per colpa di Dio
Brando, sono destinati a non incontrarsi mai nella vita terrena e
pertanto il loro essere "crack ship" li rende, di fatto, una coppia che
non esiste se non nel piano spirituale.
Musica in Jojo: Mio fratello è figlio unico è
uscito come singolo estratto dal secondo album omonimo di Rino Gaetano
nel 1976. Attraverso l'elencazione di una serie di attività
tipiche dell'italiano medio degli anni settanta, Gaetano intende
raccontare della genuinità e della spontaneità di chi non
si conforma ai gusti della massa, emarginandosi da essa in virtù
della propria autenticità esattamente come hanno fatto i
protagonisti del racconto.
Retroscena: E fu così che Narancia insegnò la torture dance a Caesar.
Sono pessima, perdonatemi.
Si sarà capito che questo capitolo mi ha fatto penare? Se non è così, lo ribadisco: scrivere di Vento Aureo per
me è sempre un'impresa perché i personaggi di
quell'arco narrativo sono imprevedibili, incredibilmente imprevedibili
e forieri di bellezza. Croce e delizia è stato anche disseminare
questo improbabile incontro di spiegoni su nozioni simbologiche che ho
acciuffato un po' ovunque per l'internette. Volevo creare questa sorta
di collegamento tra gli emarginati di laggiù e quelli
dell'aldilà attraverso il fiore di Afrodite per antonomasia (nonché di tutta la raccolta in generale) e mi
auguro che questo accostamento vi sia risultato gradito. Oltretutto non
potevo non includere uno degli scorci di "paradiso" made in Araki 100%
con la fermata capolinea dell'autobus in cui Abbacchio rivede il suo
collega: è stato proprio da qui che mi è balenata l'idea
di allargare questa dimensione con altri scenari e simbolismi vari.
Infine, per quanto concerne il giardino di Mitra sarà compito di una
certa coppia per la quale nessuno, ma proprio nessuno, ha mai
fangirlato prima illustrarne il funzionamento, quindi se volete saperne
di più non vi resta che passare nuovamente di qua la prossima
settimana.
xoxo
|
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Capitolo 10 *** Vespro dei beati sposi (seconda parte) ***
10- Vespro dei beati sposi (seconda parte)
Vespro dei beati sposi (seconda
parte)
We’ve been running from love
We’ve been running from love
And we don’t know what we’re doing here
No we don’t know what we’re doing here
We’re only here
Sharing our free love
Let’s make it clear
That this is free love
No hidden catch
No strings attached
Just free love
No hidden catch
No strings attached
Just free love
Depeche Mode, Freelove
Un racconto sull’amore
sottaciuto
«Oh cazzo».
Abbacchio sbatté le palpebre più volte, come se si stesse ridestando da un
sogno a occhi aperti. Il Marcantonio degli anni trenta lo aveva spinto a
varcare la soglia del luogo che lo spaventava di più in assoluto e adesso non
aveva idea di come risolvere la situazione.
«Finalmente siamo entrati» disse la risoluzione della situazione puntando il
naso in alto.
Il cielo, da pallido ed evanescente, si era trasformato in una trapunta di
stelle accompagnate dalla mezzaluna, unica e discreta fonte di luce del
labirinto di viti. I suoni provenienti dall’esterno, comprese le voci delle
altre anime e il papulare dei pavoni, si erano spenti all’improvviso, e questo
fece loro capire di essersi completamente isolati dal resto dell’aldilà.
«Che posto magnifico» proseguì la risoluzione della situazione stavolta
voltandosi indietro, laddove prima c’era l’ingresso coi roseti «la parete è
chiusa, quindi mi sa che Narancia aveva ragione: non si esce se prima non si è
detto la verità».
«Certo, la verità» quello di Abbacchio era appena un mormorio. Se avesse avuto
ancora un vero cuore pompante sarebbe crepato d’infarto «senti, non è che… non
so, mi dici cosa fare? Magari cercare una via d’uscita…».
Bucciarati incrociò le braccia e spostò il peso del corpo su una sola gamba.
Anche se c’era ancora qualcosa che lo tratteneva dall’esprimere la sua vera
essenza, lo trovava più disteso, più umano. Così come lui aveva abbandonato la
maschera del capobanda inflessibile e pragmatico, Abbacchio non si era più
avvicinato a un bicchiere di vino. Due delle cose che li abbruttivano erano
andate distrutte assieme ai loro stand.
«Quante volte devo ripeterti che non sono più il tuo capo e che non devo più
impartirti ordini?».
Dal suo tono di voce sembrava rilassato, se non quasi divertito, eppure
Abbacchio si sentiva come se gli avesse stampato cinque dita in piena faccia.
Scosse il capo e si stropicciò gli occhi: se pensava a quello che avrebbe
dovuto dire per uscire da lì rischiava di farsi venire un attacco di ansia.
«Va bene, ritiro quello che ho detto e cerchiamo di uscire» riprese Bucciarati
facendosi d’un tratto accondiscendente. Sarebbe stato evidente anche a un cieco
che Abbacchio si trovava in difficoltà «vogliamo andare a destra?».
Il più taciturno dei due fece un cenno di assenso e seguì quello che un tempo
era il suo capo verso la direzione scelta. L’ipnosi che gli aveva fatto muovere
le gambe fino a lì era svanita e la paura era tornata ad attanagliargli
l’addome. Chiunque avesse pensato quel posto era sicuramente un genio del male.
«Sei stato bravo a resistere alla forza attrattiva del giardino di Mitra¹
per così tanto» disse Bucciarati proseguendo nel suo cammino «ma presto o tardi
ci saresti entrato lo stesso».
Abbacchio seguitava a non parlare e a stringere convulsamente il mazzo di rose
che gli avevano regalato Mista e Trish. Con quei fiori appresso lui e
Bucciarati sembravano una coppia di sposi che si avviava lungo le navate di una
chiesa.
Che razza di immagine mentale.
«Anche se nella nostra condizione dovremmo essere felici sono preoccupato per
te» Bucciarati aggirò un vicolo cieco e svoltò a sinistra «devi perdonarmi, so
che sto facendo un discorso stupido visto che siamo adulti, ma quando uno dei
miei sta male per qualcosa sto male anche io. È… un brutto vizio, lo so».
Abbacchio emise uno sbuffo dalle narici.
«Adesso salta fuori che siamo tuoi anche se non sei più il capo di niente? Che
è sta storia?»
«Guarda che non mi sto contraddicendo» Bucciarati
si voltò a guardarlo, i fiori stretti al petto come se reggesse il suo tesoro
più prezioso «voi siete miei perché avete dato un senso alla mia vita, mi avete
rubato l’anima e ve la siete tenuta dentro, e io ho rubato le vostre
anime per tenerle con me nel bene e nel male. Voi mi appartenete e io
appartengo a voi perché siamo una cosa sola».
Sentendo quelle parole, Abbacchio si strinse d’istinto nelle spalle e mandò giù
un groppo alla gola che rischiava di sopraffarlo. Da vivo non avrebbe potuto
permettersi di esternare certi pensieri.
«Per dirla in altri termini, questa pace non me la posso godere se tu non fai
lo stesso, e anche se non bevi più da quando siamo qui ti vedo solo soffrire»
«È che» Abbacchio si morse il labbro, si sentiva uno schifo sapendo che proprio
Bruno, che quella pace se la meritava, si sentisse in quel modo per colpa sua
«è che sai come sono fatto… Per farmi fare una confessione devi tirare giù il
calendario con tutti i santi. Sono uno difficile da sopportare»
«Leone» disse Bucciarati senza smettere di avanzare.
Abbacchio si drizzò in tutta la sua figura, era raro sentirsi chiamare per nome
da lui.
«Che c’è?»
«Ti si ama anche per questo, sappilo».
Alla rigidità posturale si era aggiunto il rossore al volto, che cercò di
nascondere chinando il capo per permettere che i capelli gli scivolassero
davanti.
«Ah, questo vicolo lo abbiamo già superato se non vado errato» Bucciarati si
era fermato e con l’indice della mano libera dai fiori si pungolava il mento «mi
sa tanto che ci siamo persi»
«Ci credo, hai imboccato per due volte la stessa strada» Abbacchio sollevò la
testa il tanto che bastava per orientarsi nel dedalo di viti intrecciate e
grappoli, e, braccio e mano tremante, afferrò il polso di Bucciarati per
condurlo nella via opposta, assumendo il comando della missione più difficile a
cui stesse partecipando.
«Vieni, questa parte non l’abbiamo ancora esplorata»
«Va bene capo» lo canzonò Bucciarati.
Pur senza fermarsi, Abbacchio si era voltato a guardarlo con occhi sottili.
«Mi prendi in giro?».
Bruno assunse un’espressione innocente. Lo stava facendo apposta.
«Assolutamente no».
Abbacchio non rispose alla provocazione e tornò a voltargli le spalle: non
c’era proprio verso di uscire, anche perché aveva l’impressione che i rami
delle viti avessero un moto che gli consentiva di creare nuove pareti e nuovi
vicoli ciechi. Ovunque andassero era un susseguirsi di pampini e grappoli gonfi
e invitanti, grappoli gonfi e invitanti e stelle ingentilite dalla mezzaluna
che non smetteva di seguirli proprio come quelle maledette colombe sul carro
dorato.
«Aspetta» disse dopo un po’ girandosi intorno «quella parete prima non c’era,
stiamo camminando verso il centro senza poter proseguire e nemmeno tornare indietro.
Ma come funziona questo labirinto?».
Teneva ancora Bucciarati per il polso, ma il legittimo proprietario non sembrava
infastidito dalla cosa. Anzi, si mise persino a ridere.
«Visto? Te l’ho detto che ci siamo persi, ma tu continui a voler cercare di
uscire» profferì Bucciarati con sguardo enigmatico.
Il punto di non ritorno stava per essere raggiunto e non c’era davvero via di
scampo.
«Allora fammi capire, ti piace l’idea di restare qui dentro per l’eternità?».
Bucciarati liberò delicatamente il polso dalla presa di Abbacchio e infilò
l’ultimo vicolo che avevano incontrato: poggiò la schiena sui rami rigogliosi
di pampini e lì rimase, senza abbandonare i fiori e l’espressione
indecifrabile.
«Mi piace l’idea di sentirti dire la verità su quello che provi per me».
Trascorse un istante interminabile nel quale gli occhi dei due spiriti
saggiarono vicendevolmente le intenzioni dell’altro, consapevoli del fatto che
una conversazione del genere potesse avvenire soltanto al prezzo del martirio
della loro carne.
«Dai, stendiamoci un attimo a riposare» riprese Bucciarati «non eri tu quello
che mi aveva detto di sentirsi a suo agio solo quando è al mio fianco? E allora
dimmi come dovrei interpretare quelle parole».
E ciò dicendo piegò le gambe, si sedette sull’erba, noncurante delle macchie di
terra che potevano contaminargli il bianco del completo, e posò i fiori accanto
a sé.
«Ah» Abbacchio si lasciò scappare un sorriso amaro per simulare il suo vero
stato d’animo. Sperava in qualche modo che quella pseudo – pseudo? –
confessione restasse laggiù e invece gli stava toccando averci a che fare anche
dopo il trapasso. Ma era prevedibile: figurarsi se uno come Bucciarati si
lasciava sfuggire un dettaglio simile.
Rimanendo ancora in silenzio, raggiunse il compagno di aldilà e si accomodò al
suo fianco, più teso che mai. Poggiò anch’egli i fiori a terra e si schiarì la
gola.
«Allora, io… ehi».
Nel momento in cui Abbacchio stava cercando le parole adatte per mettere ordine
nel caos sentimentale in cui si era ingarbugliato, Bucciarati gli rese il
lavoro più complicato piegandosi di lato per distenderglisi addosso, adagiandosi
con la testa sul grembo e spargendogli i capelli sulle cosce.
«Sei un fetente!» fu la prima cosa che venne da dire a un Abbacchio spiazzato
da cotanta sfacciataggine «Dai, dillo che ti stai a divertire a vedermi così,
forza».
Bucciarati si coprì il volto con le mani, anche lui imbarazzato per l’audacia
che lui stesso aveva dimostrato. Due falangi si aprirono per permettere a un
frammento azzurro di iride di sbirciare il volto di Abbacchio e sussultò per le
risate.
«Molto, sono sincero!» gli confessò, mentre spostava lentamente una mano dal
proprio viso al torace di quello che un tempo era un suo sottoposto; percorse
la linea dello sterno e si fermò alla base del collo: i vasi sanguigni, o
perlomeno la loro proiezione psichica, pulsavano furiosamente. Restò così, in
silenzio, crogiolandosi negli ultimi istanti di pace prima della tempesta
emotiva, annunciata dal movimento frenetico del pomo d’Adamo di Abbacchio sotto
le dita, e pian piano il sorriso che gli colorava il viso si spense cedendo il
posto alla malinconia. Quando entrambi capirono che era giunto il momento di
affrontare la questione seriamente lasciò cadere la mano lungo il fianco.
«Dopo che mi hai detto quella cosa sei stato il primo a salire sulla barca. Non
avevo avuto il tempo di capire davvero cosa volessi comunicarmi, ma c’è stato
un attimo in cui il mio cervello aveva smesso di processare perché a essere
onesto, anche se avevo già intuito che la tua non fosse soltanto gratitudine,
non pensavo avessi il coraggio di dirlo di fronte a tutti. Quindi… insomma, se
abbiamo visto quel carro con le colombe e siamo entrati qui dentro vuol dire
che le tue parole significavano qualcosa, e vorrei che me lo dicessi una volta
per tutte… Per te, per me e per questi fiori».
Abbacchio si toccò dove prima c’era stata la mano di Bucciarati e trasse un
respiro profondo. Una cascata di ciocche cenere² accompagnò il chinarsi della
testa per guardare la fonte della propria serenità. Dalla gola uscì una voce
bassa, arrochita da anni di disperazione.
«Non saprei dirti quando è cominciata, però posso dirti che sei il primo uomo che
mi ha fatto dubitare dei miei gusti³… Quello che ho condiviso con te mi ha
fatto rivalutare il senso della mia vita e in virtù di questo non potevo lasciarti
da solo su quella barca. Anzi, non volevo, perché se tu fossi andato via prima
di me non so cosa avrei fatto, come l’avrei affrontato… La mia vita non avrebbe
più avuto senso e… scusa».
Il groppo alla gola che aveva represso a fatica era tornato a fargli male, più
insidioso di prima. Comprendendo quanto gli stesse costando esprimere a voce i
propri sentimenti, Bucciarati non seguitava a non profferire replica, con la
testa sempre sul suo grembo e la pazienza di chi si era conquistato l’immobilità
dell’eternità. A un certo punto gli prese la mano e se la portò al petto, e a
essa intrecciò le proprie come per infondergli coraggio.
Dio, quanto avrebbe voluto baciarlo.
«Mannaggia a te, sei adorabile» Abbacchio tirò su col naso e si passò la manica
sugli occhi lucidi «resti sempre un fetente, ma sei adorabile».
Il sorriso riaffiorò tra le labbra di Bucciarati. Il continuo intrecciarsi,
strecciarsi e ricercarsi delle mani comunicavano quello che era impossibile
esprimere verbalmente.
«Continua, ti prego» lo esortò.
«La fai facile…» Abbacchio lasciava ancora che la sua mano venisse stuzzicata
da quelle di Bucciarati, che così sdraiato altro non voleva essere che un ventenne
qualunque accoccolato sulle gambe del fidanzato. All’improvviso gli tornò alla
memoria un episodio che in un contesto meno straniante avrebbe titillato la
curiosità o il senso del pudore di chiunque.
«Te la ricordi la nostra ultima giornata al mare?».
Bucciarati smise per un attimo di giocare con la sua mano e lo guardò con le
sopracciglia inarcate. Gli riuscì di scorgerlo dischiudere le labbra e
inumidirle fugacemente con la punta della lingua.
«Scherzi? È stato lì che ho capito che non me la raccontavi giusta»
«Ok, è una domanda stupida, ma non mi viene in mente altro per riprendere il
discorso senza diventare una fontana» sbuffò Abbacchio che non sapeva se
sentirsi nervoso o semplicemente confuso «quando io e te ci siamo appartati con
quella ragazza conosciuta in spiaggia e abbiamo iniziato a farci sesso… e
mentre lei ti stava sopra ha spinto la mia testa contro la tua perché… e
avevamo paura che qualcuno della squadra ci scoprisse… come siamo riusciti a
far finta di dormire in tenda ancora non me lo spiego»
«È stato un bel bacio» commentò Bucciarati incrociando le gambe, il respiro
leggermente più pesante «ci avevi messo entusiasmo».
Abbacchio deglutì rumorosamente.
«Mi ero fregato da solo, dovevo intuire che da lì avevi capito tutto» distolse
lo sguardo dai mazzi di fiori candidi posati vicini, decisamente non adatti per
la piega che aveva assunto il discorso «non ho avuto il coraggio di chiederti
di ripetere l’esperienza, con o senza terza incomoda… L’ambiente in cui ci
eravamo ficcati e le voci che avrebbero iniziato a girare… era troppo pericoloso.
Però mi era sempre rimasto il tarlo di volerlo rifare perché così almeno avrei
avuto una buona scusa per… insomma, ficcarti di nuovo la lingua in bocca e
toccarti, anche se non ti avrei detto che quello non era solo sesso mi sarebbe
bastato lo stesso».
Bucciarati si sistemò meglio sul grembo di lui. Impercettibilmente ma
inevitabilmente, la flemma che lo contraddistingueva lo stava abbandonando e a
comunicarglielo erano soprattutto le gambe tenute ostinatamente accavallate.
«Però adesso non devi più accontentarti del sesso, o sbaglio?» nel porre la
domanda, Bucciarati gli aveva posato la mano sul petto, sotto i lembi visibili
della lingerie. La proiezione psichica dei polpastrelli fecero percepire ad
Abbacchio il ritmo irregolare del cuore.
«Mmh, no» la mano libera andò a insinuarsi tra la fronte e la frangetta di
Bucciarati, scoprendola accaldata e leggermente sudata «Ti ripeto, non so
quando ho iniziato a provare interesse nei tuoi confronti, ma quando ti ho
baciato… porca… porca miseria Bruno, mi piaci, mi piaci da impazzire e voglio
passare il resto dell’eternità con te perché tu sei il mio paradiso, la mia
pace… Sei tutto».
Ecco, finalmente lo aveva detto. Peccato – o per fortuna? – che la tempesta
fosse solo cominciata.
«Santiddio che chiavica di dichiarazione che ho fatto» si affrettò ad
aggiungere cercando di sdrammatizzare. Trattenersi dal piangere gli stava
costando una fatica immane e sicuramente di lì a poco avrebbe ceduto.
Bucciarati sorvolò sulla battuta. Si alzò e avvicinò il volto a quello del
confessore, che trattenne il fiato una volta realizzato quanto i loro nasi
fossero vicini. Lo vide indugiare con lo sguardo sulle labbra serrate e poi
espresse a voce il motivo per il quale provasse tanto timore del giardino di
Mitra.
«Sai che le colombe bianche sono visibili solo agli innamorati?» gli prese il
mento tra le dita per costringerlo a guardarlo in faccia «Ti avevo detto più di
una volta che le vedevo assieme a te, ma non c’era verso di farti cambiare idea
in quella testa dura che tieni. Non volevi entrare perché avevi paura di essere
felice una buona volta, non è vero? Perché in cuor tuo sentivi di non
meritartelo».
La fronte di Bucciarati toccò quella di Abbacchio; ormai i respiri si stavano
rompendo sotto il peso degli anni passati a trascurare la loro parte più umana,
e tutto per il bene di un disegno del quale non avevano scelto di far parte.
Un rivolo salato percorse la linea della mandibola e bagnò il pollice di
Bucciarati.
«Quando ti ho visto con quel buco al petto» proseguì quest’ultimo con la voce
sempre più incrinata «e abbiamo dovuto lasciarti da solo, in realtà su quella
spiaggia avevano ammazzato me, anche quando… quando Narancia se n’è andato, me
n’ero andato io, perché siete la mia cosa più preziosa, tu sei la mia cosa più
preziosa… e dovevo stare al mio posto perché non potevo lasciarmi andare, non…».
Altre lacrime sopraggiunsero a spegnergli in gola le ultime parole,
sovrapponendosi a quelle di Abbacchio. Una mano affondò nel caschetto, mentre
l’altra andò ad asciugargli il ciglio da una goccia, e purtuttavia, anche con
quel gesto, non poterono evitare di assaggiare il mescolamento del loro dolore a
lungo sottaciuto attraverso il contatto con le labbra, dapprima cauto, dopo
sempre più profondo, più fisico, più intimo, e mentre le lingue erano intente a
esplorarsi a vicenda non si accorsero inizialmente dello spiraglio d’uscita
creato dallo stesso labirinto che li aveva intrappolati.
Quando si separarono per prendere fiato i sospiri di angoscia si erano
trasformati in fame di desiderio. Fu allora che entrambi scorsero la luce che
li avrebbe indirizzati fuori.
Si guardarono in volto: gli occhi erano gonfi e le ultime lacrime fuggiasche
rigavano le gote, ma non avevano più voglia di tornare a rivedere il sole, o
perlomeno, ad Abbacchio non interessava più uscire da lì. A un certo punto vide
che le gambe di Bucciarati erano ancora serrate, per cui ebbe l’idea di
afferrargli una caviglia per invitarlo a mettersi a cavalcioni sopra di lui.
«Che hai da nascondere? Vieni qua, non farti pregare»
«Devo per forza?» Bucciarati arrossì violentemente. Vederlo così era uno
spettacolo unico.
«Dai» la voce di Abbacchio era appena un mormorio impastato dalle lacrime,
mentre lo tirava a sé per mordergli il labbro «guarda che non mi offendo se mi dimostri
il tuo affetto».
Seppur con qualche esitazione, avvertì il peso del busto scivolargli sul bacino
e il cavallo dei pantaloni di Bucciarati gonfio contro il proprio inguine.
«Mi sono fatto sgamare» ridacchiò piano nascondendo il volto nell’incavo del
collo di Abbacchio, che ne approfittò per infilargli una mano sotto la giacca dove
c’era il pizzo nascosto.
«Che fai, ti vendichi?» sentì dire col fiato spezzato, le labbra gonfie per il
morso di prima che gli sfioravano la clavicola «è colpa tua e dei tuoi ricordi sul
sesso a tre»
«Se vuoi, appena finiremo noi due da soli» gli sussurrò Abbacchio all’orecchio
«possiamo cercare quelle sacerdotesse cretesi⁴ che ci avevano invitato a
entrare quando ci hai raggiunti per la prima volta»
«L’importante è che stavolta tu non fugga…» gli rinfacciò per scherzo
Bucciarati, la sua voce ridotta a un soffio «Avevano tutte diciott’anni ma sono
più vecchie di Cristo».
Abbacchio riuscì nell’impresa di sbottonargli la giacca con le mani che tremavano,
dimentico della propria condizione di fantasma e della miseria che si era
trascinata dal mondo dei vivi; l’avrebbe abbandonata sull’erba del labirinto. Quando
lui e l’amante presero a togliersi i vestiti non fecero nemmeno caso alle altre
lacrime che caddero dal cielo e che li accompagnarono lungo il vero ingresso del
paradiso, quello della psiche.
E lì sarebbero rimasti per sempre.
***
¹Secondo Treccani,
il dio Mitra «garantisce i patti e protegge i giusti». Era
venerato sia in Oriente che presso gli ellenici e i romani ed era una
figura fondamentale nei culti misterici; si ipotizza fosse anche il dio
dell'amicizia. Spulciare Wikipedia per saperne di più. L'accostamento con le viti è dovuto all'identificazione con Dioniso/Bacco («In vino veritas»).
²Irl l'ho sempre immaginato biondo cenere.
³Sorry not sorry, nella mia
headcanon ritengo che Abbacchio e Bucciarati siano attratti sia
da donne che da uomini. La tesi è avvalorata ancor di più
dal fatto che in Purple Haze Feedback si faccia accenno alle tante donne con cui Abbacchio è stato prima di entrare nella squadra.
⁴Non si conosce molto della
civiltà minoica, ma una delle ipotesi riguardo la condizione
femminile è che le donne, almeno quelle di status sociale
elevato, fossero piuttosto emancipate. Come testimoniato dalla statuina
della "signora degli animali", il loro abito tradizionale prevedeva il seno scoperto. Click per ulteriori info.
Musica in Jojo: Freelove è il terzo estratto di Exciter, il decimo album in studio dei Depeche Mode, usciti entrambi nel 2001. Proprio quest'album, assieme a Ultra,
sono stati la mia fonte di ispirazione durante la stesura, quindi se
avete letto tal pezzone di letteratura ringraziate zio Dave e soci.
Trovo che sia la canzone capolista della playlist che l'LP per intero
siano una perfetta descrizione della Bruabba, quindi se volete dargli
un ascolto cliccate qui, vi assicuro che non ve ne pentirete.
Retroscena: Chattando con
alcuni appassionati che leggono Jojo da più
tempo di me, è saltato fuori che anche secondo loro Abbacchio ha
preso una sbandata per Bucciarati. Credo sia stato quello scambio di
pareri, unito alla lettura, seppur in alcuni punti la sottoscritta non
concorda con la visione dell'autore, di questo bell'articolo sulla mascolinità non tossica di Jojo
a darmi la spinta propulsiva per scrivere quello che avete appena
letto. Tutto sommato mi sono divertita a immaginare quei due in
una situazione del genere, volevo dare un contributo leggermente
diverso all'immagine che si ha solitamente di questo paring e ho
iniziato pensando una ipotetica confessione tra i due nell'unico luogo
in cui potranno mai essere felici davvero: l'aldilà. Questo
perché credo che solo nella morte possano tirare fuori le loro
vere essenze di ventenni a cui è stato tolto tutto e che non
desiderano altro che la pace.
Prima di salutarvi vi comunico che domenica 15 agosto non ci saranno
aggiornamenti. Il penultimo racconto sarà pubblicato alla fine
della settimana successiva.
Grazie come sempre per aver letto, recensito e seguito. Un abbraccio e buone vacanze.
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Capitolo 11 *** Il ciclo dell'essere ***
11- Il ciclo dell'essere
Il ciclo
dell’essere
Girl, where do you think you're goin'?
Where do you think you're goin'?
Goin', girl?
Honestly, I know where you're goin'
And baby, you're just movin' on
And I still love you even if I can't
See you anymore can't wait to see you soar
Lady Gaga, Joanne
Un racconto sulla morte
benigna
«Josuke, aspetta!» Okuyasu tentò di fermarlo senza
riuscirci.
«Penso che dovremmo lasciarlo in pace» Koichi si voltò a guardare i feretri e
poi si soffermò sull’amico «se dovesse avere bisogno di noi saprebbe dove
trovarci».
Tutto ciò non aveva senso.
«D’accordo, però voglio andare fuori per tenerlo d’occhio, non voglio che
stia da solo».
Koichi annuì e si incamminò con Okuyasu verso il giardino, ma prima di lasciare
in salotto vennero intercettati da una donna.
«Scusate» sussurrò loro torcendosi le mani «voi siete gli amici di Josuke?».
Avrebbe voluto urlare.
Certo che erano loro, avevi persino insistito per conoscere tuo fratello,
dannazione. Perché ti comporti come se non ci avessi mai avuto a che fare?
I due uomini si scambiarono un’occhiata basita. Parlava giapponese come se
fosse la sua lingua natìa.
«Sì, ci dica pure»
«Io… ecco… il mio nome è Holly, sono la mamma di Jotaro e la sorella di Josuke»
la donna abbozzò un sorriso tirato, di circostanza «vorrei scambiare alcune parole
con lui… Mi è sembrato molto scosso».
Era l’estate del 2009 e tu mi parlasti a lungo dell’altro figlio di nonno
Joseph, come fai a non ricordarlo?
«Io non…» Okuyasu sembrava non sapere cosa fare. Eppure non gli era apparso
che la donna avesse intenzioni malevole nei riguardi di Josuke «… non so se
vorrà parlare con qualcuno ma in caso… potrebbe fare un tentativo»
«Grazie molte» la donna si profuse in un breve inchino «vi prometto che se non
vorrà parlare con me non lo disturberò»
«Si figuri signora, anzi, condoglianze per quanto accaduto».
Non dovevano esserci condoglianze.
Non dovevano esserci fiori.
«Non dovresti essere qui».
Girò la testa. Finalmente qualcuno aveva riconosciuto la sua presenza. Era un
ragazzino in giacca e cravatta seduto a vegliare la salma della defunta.
«Emporio! Riesci a vedermi!» gli andò incontro e lo abbracciò forte «Grazie al
cielo sei qui ad aiutarmi, questo deve essere opera di un attacco stand,
dobbiamo cercare il portatore».
Emporio ricambiò l’abbraccio, ma sul suo volto permaneva la tristezza di chi si
preparava a dire addio a una persona cara.
«Jolyne, non è un attacco stand, sei soltanto finita in purgatorio» le disse
lui sciogliendosi dalle sue braccia «devi tornare indietro da tuo padre e dagli
altri in paradiso, tu adesso non appartieni più a questo mondo».
Jolyne lo guardò come se avesse di fronte un pazzo.
«Ma cosa stai dicendo?» si guardò intorno alla ricerca di conferme che
potessero dare torto a Emporio «Io sono viva, sono qui davanti a te, Emporio
ascoltami!» cercò di afferrarlo nuovamente, ma le mani gli trapassarono il
corpo.
«Emporio…?»
«Non preoccuparti per Holly e Josuke, il vostro funerale non è mai avvenuto.
Continuerò a proteggere le vostre reincarnazioni da quaggiù, e quando sarà
giunto il mio momento ci rivedremo sotto il ciliegio. Addio…»
«Emporio!»
«… Jolyne».
Una mano la afferrò per la collottola e la trascinò via con una forza alla
quale non seppe opporre resistenza. Voleva gridare ma i polmoni si riempirono
subito d’acqua e quel che poté fare fu emettere delle bolle d’aria, e più
scalciava per tentare di liberarsi più si sentiva soffocare. Attorno a lei
vedeva creature marine di ogni genere nuotarle accanto come se niente fosse,
ondeggiando placidamente con le pinne o coi tentacoli, di tanto in tanto
rivolgendole uno sguardo incuriosito, e quasi si sentì mancare quando uno
squalo balena si avvicinò a loro e spalancò la sua enorme bocca per filtrare un
cibo inesistente con le sue branchie.
Strano pensare ai pesci durante una situazione di quel tipo, ma non riuscì a
soffermarcisi oltre perché chi la stava trasportando verso la superficie
l’aveva afferrata per le ascelle costringendola a guardare senza troppe
cerimonie il sole torrido di mezzogiorno.
Atmosfere che sembravano pozzanghere e distanze chilometriche che si
accorciavano.
«Ragazzina, questo non è posto per te, fila da papà, vai!».
Il suo salvatore, se tale poteva definirsi, la gettò sulla battigia come se avesse
scaricato un sacco di patate. Troppo intontita per ribattere a tale pochezza di
cortesia, non le mancò tuttavia di notare le sclere tatuate di nero, nero come
i granelli di sabbia vulcanica della spiaggia.
«Dannate ragazzine, me le ritrovo sempre fra i piedi».
A essere venuto in suo soccorso era un uomo ben piazzato e con una di quelle
facce che avrebbe potuto incontrare solo nell’area maschile di Green Dolphin
Street.
Si portò una mano alla testa e cercò di mettersi seduta, col risultato di farsi
venire un dolore sordo all’osso frontale.
«Bah» biascicò Jolyne massaggiandosi una tempia «ma che t’hanno fatto le
ragazzine per avercela con loro?» poi guardò meglio l’energumeno e aggiunse
«Bello il costume a strisce»
«Non farti più vedere da queste parti» sputò quello indicando un cartello
piantato in mezzo al mare, sul quale era scritto, a caratteri rossi su sfondo
bianco, “no swimming for good people”.
Jolyne sollevò un sopracciglio; non lo aveva proprio visto.
«Ok, ok, mi allontano subito, oggi non mi va di litigare» nell’atto di alzarsi
per togliersi i granelli dal bikini constatò che quel tizio fosse persino
più alto di suo padre. Era seria quando affermava di non volere grane: si
sentiva stranamente in pace con sé stessa dopo un tempo immemore e di sicuro
litigare con un presunto spirito del purgatorio era l’ultimo dei suoi desideri.
«Quindi, cioè, io mi allontano e tu fai lo stesso ma dalla direzione opposta,
va bene? Allora vado eh, ciao e grazie per- oh!».
Nell’indietreggiare da quelle iridi rosse immerse nell’inchiostro urtò
inavvertitamente contro una figura di donna che la tenne ferma per una spalla,
salvandola dalla caduta.
«Sempre gentile con le anime che salvi, vero?» domandò la sconosciuta con
disinvoltura, come se lo conoscesse già «Dove si è cacciata la ragazza plancton
che stava per fare la stessa fine?»
«Sarà attaccata al rubinetto del bar o sdraiata da qualche parte in giro» il
tono di voce dell’uomo si fece meno duro alla vista della donna «se sorprendo
un’altra sprovveduta a nuotare nella zona proibita la lascio annegare»
«Certo, certo» la donna distese il telo che teneva sotto il braccio e vi si
sedette sopra, poi trafficò nella borsa ed estrasse un pacchetto di sigarette e
un accendino «a lei ci penso io, d’accordo? Se a te sta bene, più tardi andiamo
a bere qualcosa. E…»
«Cosa?»
«Fai venire anche Straitso».
L’uomo rispose con una scrollata di spalle e un’occhiataccia a Jolyne, alla
quale lei controbatté con altrettanta e muta stizza. Entrambe lo videro poi
infilarsi le mani in tasca e allontanarsi per incamminarsi verso la vegetazione
alle loro spalle, sparendo alla vista.
«Non prendertela» la donna accese la sigaretta e aspirò una boccata, mentre con
l’altra mano si sfilava gli occhiali da sole rivelando due occhi azzurri e penetranti
«ha un caratteraccio, ma non è pericoloso. Normale per chi faceva l’assassino
di professione» incrociò le gambe e invitò Jolyne a sedersi sul telo «guarda
che c’è spazio per due».
La ragazza ubbidì senza smettere di guardarla: il fisico sodo e tornito era
stretto da un costume intero che esaltava il bel decolleté e il collo. I
capelli cadevano sulle spalle come una cascata di seta marrone che terminava
oltre la vita. Non sapeva perché, ma qualcosa, di lei, le richiamava alla mente
suo padre.
Di certo era veramente bellissima.
«A proposito, chiamami Elizabeth» disse come se in realtà la conoscesse da
sempre «quando sarai pronta scoprirai che abbiamo molto in comune… allora,
Jolyne: perché stavi nuotando nelle acque di confine?»
«Sai come mi chiamo?» Jolyne non nascose sorpresa di sentirsi chiamare per nome
da quella creatura che stentava a pensare un tempo appartenente ai mortali «Ma
come…?»
«Come ho detto prima, quando sarai pronta capirai un bel po’ di cose» la
interruppe Elizabeth «dimmi, però: perché stavi rischiando di perderti in
mare?».
Jolyne guardò il mare mosso appena da onde blande, all’apparenza innocue, e
ricordò subito di essere arrivata assieme agli altri su un battello, poi aveva
voluto tuffarsi e si era ritrovata ad assistere alla visita della sua stessa
camera ardente.
«Volevo solo fare una nuotata» Jolyne si strinse nelle spalle al ricordo di
quello che aveva visto «non immaginavo di trovare la nonna e lo zio al mio
funerale, è stato così assurdo che stavo andando fuori dai gangheri, ma a parte
Emporio non mi sentiva nessuno…»
«Ho capito» Elizabeth aspirò altro fumo «al fine di non farti commettere lo
stesso errore, alle anime buone non è permesso nuotare alla destra di quel
cartello perché il mare e la spiaggia corrispondente appartengono a quelle di
mezzo»
«Emporio mi aveva parlato del purgatorio» aggiunse Jolyne «quindi quella che mi
ha trascinata a riva era un’anima del purgatorio?»
«Purgatorio è un termine semplicistico» Elizabeth fece ondeggiare la bella
chioma mentre si scostava un ciuffo ribelle dal viso «come avrai saggiato
empiricamente non esistono confini netti tra quelli che i vivi chiamano
paradiso, purgatorio e inferno: questo perché è molto difficile che esistano
anime esclusivamente buone o esclusivamente empie. Sono rare, ma non sono
solite socializzare col resto di noi anime grigie, quindi non aspettarti di
intavolare una discussione con loro… Ma per rispondere alla tua domanda nel
dettaglio» e così dicendo accennò col mento alla foresta di palme dietro di
loro «quello è un esempio di anima che da viva ha soltanto avuto una brutta
giornata: un attimo prima stai giocando con tuo cugino per strada e quello dopo
assisti al suo investimento, e da qui un omicidio tira l’altro fino a quando
arrivi a considerare un gruppo di lestofanti la tua nuova famiglia… E che
famiglia, azzarderei ad affermare quasi simpatica. L’odio per gli adolescenti
in generale, invece, è dovuto al fatto che sia stato mitragliato proprio da un
ragazzino. Ma a ogni modo, penso tu sappia quanto danno possa recare il rancore
unito a un trauma non superato»
«Ne so qualcosa» Jolyne piegò le labbra in un sorriso amaro e cinse le proprie
ginocchia con le braccia «da quello che mi hai detto devo dedurre che chi
uccide può comunque aspirare a un oltretomba felice?»
«Se tutti gli assassini finissero all’inferno non esisterebbe nessun paradiso e
le anime rimaste lo renderebbero oltremodo noioso… C’è chi ha ucciso per onore,
chi per proteggere una persona amata, chi per sana e umana vendetta, chi per
salvaguardare il benessere dei propri compagni… La lista è infinita. Solo chi toglie
la vita per il puro gusto di farlo o per malvagità intrinseca finisce
inghiottito dalle tenebre. I nostri piedi calpestano un ecosistema che non si
fonda sui dogmi dei religiosi, ma risponde a regole precise stabilite
dall’essere in sé: così come gli agenti patogeni vengono eliminati
dall’organismo, l’aldilà confina i malvagi per natura laddove non possono
recare più danno fino a quando non saranno pronti per ricominciare a vivere
nella carne»
«Mi stai dicendo che non resteremo qui per sempre?» domandò Jolyne perplessa «Che
siamo destinati a rinascere all’infinito?»
«In un certo senso è così» Elizabeth spense il mozzicone nella sabbia ed espirò
l’ultima boccata «arrivi, trascorri un tempo indefinito, se tempo si può
chiamare, e quando ritieni che le pene della tua ultima vita mortale siano
state liberate il tuo spirito getta via l’immagine spettrale del tuo corpo e ti
rinchiudi tra i petali di un elleboro¹. Quando il fiore sboccerà la tua
anima sarà di nuovo laggiù, pronta a ricominciare il ciclo e a intrecciarsi con
gli stessi spiriti che hai incontrato nelle tue vite precedenti, anche loro in
corpi e coscienze diverse. A conti fatti nessuno muore veramente… ci si rigenera
e basta»
«Mi spieghi allora perché accade? Qual è il senso di purificarsi e tornare a
soffrire all’infinito?» Jolyne guardò un po’ la donna e un po’ la risacca che
risaltava sulla distesa nera «e perché ho visto quelle cose in acqua… quei
ricordi falsati?»
«Per i secondi non esiste alcun mistero» spiegò Elizabeth «il lido di Loki è
fatto per intrappolare nell’inganno le anime sprovvedute che nuotano nelle sue
acque; di per sé non è pericoloso, però è meglio evitare di farci il bagno… non
tutti sono stati fortunati come te e la tua amica. Per quanto riguarda la prima
questione, che dire… dopo un po’ che sei qui ti senti talmente in pace che smetti
di domandartelo e accetti la tua condizione per quella che è. Eviti anche di
chiederti se effettivamente esista o meno una divinità dietro a tutto questo».
Jolyne si dedicò alcuni momenti per pensare a quanto aveva ascoltato,
coadiuvando il processo disegnando spirali sulla sabbia con l’indice.
«Senti» buttò lì, guardando la sconosciuta che rinforcava gli occhiali «dopo
quello che mi hai detto, tu ci credi nel destino? Perché so che ti sembrerà
strano, ma per me è come se fossimo legate da sempre… anche il tipo scorbutico di prima,
mi è parso di condividerci qualcosa che non saprei come esprimere a parole»
«Mh» Elizabeth tese i palmi dietro il busto per godersi meglio quel sole
accecante ma per nulla dannoso «non è un fenomeno raro, di sicuro altre anime
più esperte di me sapranno spiegartelo meglio. Non è qualcosa che accade solo a
chi possedeva poteri spirituali, ma si estende a tutti… lo scoprirai solo
incontrando le altre anime a te affini, e ti assicuro che sono tante, più di
quante immagini. E se non vado errata…» si voltò a sinistra e aguzzò la vista
da dietro le lenti «non accadrà tardi. Alcune ti stanno già aspettando» tornò a
guardare Jolyne e le rivolse un sorriso garbato «credo sia arrivato il momento
di incontrarle. Se ti va, possiamo rivederci al ristorante quando avrò finito
di prendere il sole e di fare della sana bisboccia con gli aspiranti purgati.
Anzi, sai che c’è? Ti chiedo, se non ti è di disturbo, di riservarmi un coperto
accanto a tuo padre, vorrei fare una bella chiacchierata con lui… Mentre mangio
un pasticcio di carne, non ne ho mai assaggiato uno così buono da quando Gloria
lavora come capocuoco…».
Le orecchie di Jolyne si drizzarono.
«Gloria?».
Elizabeth aggrottò la fronte in segno di perplessità.
«Oh, sì, è una ragazza tanto cara che finalmente ha potuto aprire un ristorante
tutto suo da spirito, solo lei riesce a sedare gli animi più ribelli con la
gola»
«Ok…» Jolyne non aveva idea dello stato d’animo che avrebbe dovuto assumere
dopo quell’informazione, ma decise comunque di andare a verificare di persona
«se intendi incontrare mio padre al ristorante farò come chiedi… solo che…»
tese le braccia come per indicare l’infinità del luogo in cui si trovavano «mi
daresti delle indicazioni su come arrivarci?»
«È semplice» Elizabeth indicò a sua volta la sabbia allungando il braccio a
sinistra «percorri la battigia o nuota sempre verso quella direzione senza
tornare indietro. Quando incontrerai la statua di Tueret sarai giunta a
destinazione»
«Va bene, mi fido anche se mi sembra strano» disse Jolyne alzandosi, scoprendo
che il telo era rimasto asciutto.
«Lo è, ma quando la fisica non detta più legge è normale sentirsi spaesati all’inizio.
Non avere paura e segui la tua voglia di ricongiungerti agli altri, il resto
verrà da sé»
«D’accordo… allora io vado. Ci vediamo al… ristorante? Sì, al ristorante».
Jolyne si sentì una stupida mentre pronunciava quelle parole. Davvero gli
spiriti avevano bisogno di mangiare?
«I’ll catch you later» disse Elizabeth sdraiandosi sul telo per prendere
il sole, facendo venire in mente a Jolyne un altro quesito: davvero gli spiriti
potevano abbronzarsi?
Comprendendo però che la conversazione era giunta al termine, decise di tenere
per sé quei dubbi. Dando definitivamente le spalle alla donna, gettò un ultimo
sguardo al cartello che separava i due mari e lasciò che la spuma della risacca
le lambisse i piedi. L’acqua era così limpida che riusciva a scorgere granchi e
piccoli pesci guizzanti.
Quando, avanzando lentamente, la marea raggiunse il torace, trattenne il
respiro e immerse anche la testa.
Sebbene l’acqua fosse salata il contatto della salsedine con gli occhi non le
procurava fastidio alcuno, era come se una mente superiore avesse creato quella
parte di luogo-non luogo privandola di ogni possibile pena fisica. A vorticarle
intorno c’era un piccolo festival di crostacei e altre creaturine marine che si
nascondevano sotto la sabbia, inconsapevoli del loro stato di essenze prive di
materia.
Nuotò ancora per un tempo infinitamente breve e brevemente infinito, tra altri
pesci e altrettanti crostacei per nulla infastiditi della sua presenza, fino a
che un vociare a lei conosciuto interruppe la sua ricerca.
La prima cosa che vide una volta emersa dall’acqua fu una palla da beach volley
volteggiarle sopra.
«Eccoti!».
Uno sciabordio preannunciò l’arrivo e il successivo abbraccio di Foo Fighters,
che dalla foga impiegata per tenerla stretta a sé sembrava che non la vedesse da
tanto tempo.
«Mentre ti aspettavamo abbiamo iniziato a giocare a palla! Non te la prendi,
vero?»
Guardando quegli occhi grandi così puri e infantili, Jolyne non poté trattenere
un sorriso.
«Ma no, tranquilla, continuate pure senza di me!» le disse passando in rassegna
la spiaggia deserta ad eccezione dell’uomo sdraiato all’ombra della statua in
pietra lavica della dea ippopotamo incinta «io devo scambiare due parole con
papà»
«Finalmente sei qua» Ermes prese la palla e si avvicinò a lei «si può sapere
cos’eri andata a fare dall’altra parte?»
«Mi era sembrato di vedere qualcuno che conosco, ma mi ero sbagliata» minimizzò
Jolyne facendo spallucce «se vi siete preoccupati per me non avreste dovuto
farlo».
Ermes aggrottò la fronte e fece una smorfia. Era il suo modo di farle intendere
che non se l’era bevuta.
«Ok, come vuoi» mentì senza dire altro, eccezion fatta per il labiale privo di
suono sopraggiunto subito dopo, con tanto di indice teso fatto ruotare
all’italiana a mo’ di mulinello: they would have talked later.
«Mentre ti aspettavamo siamo stati affiancati da un’altra barca e
chiacchierando con il capitano è saltato fuori che c’è un labirinto dal quale
puoi uscire solo se ti dichiari alla persona che ti piace» mentre diceva quelle
cose, Weather Report si allontanava sempre di più da Anasui «se magari avessimo
la possibilità di ficcarci dentro qualcuno, questo qualcuno smetterebbe di
romperci le palle… Oh, ciao Narciso!» aggiunse rivolto a quest’ultimo prima di
tuffarsi per sfuggire alla sua rabbia.
«Se ti prendo ti ammazzo!» gridò quello paonazzo in volto, evitando
accuratamente di guardare Jolyne.
«Ma tanto siamo tutti morti!» lo canzonò Foo Fighters spruzzandogli l’acqua in
faccia.
«Non importa, lo ammazzo lo stesso, ma prima inizierò con te!» e così dicendo
si avventò su di lei suscitando le risate di Ermes.
Approfittando dello schiamazzo, Jolyne si allontanò dal gruppetto per
raggiungere Jotaro: dentro di sé avrebbe voluto unirsi a loro, ma non aveva
avuto il coraggio di esternare a voce la strana sensazione che provava nel
vederli liberi dalle catene dell’angoscia, e se doveva essere onesta anche lei
sentiva una tale sensazione di leggerezza da riconoscersi a stento. Era inusuale,
seppur bellissimo.
Anche suo padre era in costume, ma a differenza di Elizabeth era disteso
direttamente sulla sabbia e guardava il cielo terso attraverso un oggetto
luccicante simile a un grosso diamante. L’ombra innaturale dell’ippopotamo oscurava
l’intera base della statua, che era stata momentaneamente addobbata coi loro
vestiti messi ad asciugare.
Vedendola giungere sulla spiaggia, Jotaro terminò la sua ispezione della volta
celeste e prese a giocherellare con il diamante:
«Ho visto fin dove sei arrivata. Stavi nuotando in acque internazionali»
«La signora che ho incontrato lì le aveva chiamate in un altro modo» disse lei
prendendo posto all’ombra: in quella zona di spiaggia la sabbia era così
carezzevole da non attaccarsi alla pelle bagnata «comunque pare che siamo
finiti nella prima classe dell’aldilà o qualcosa del genere»
«Una specie» Jotaro riprese a osservare l’infinito col diamante «vuoi sapere
come ho fatto a capire dove ti eri cacciata?»
«C’entra quello?» Jolyne indicò in diamante che il padre teneva in mano.
«Sì» Jotaro ruotava lentamente la base della pietra sull’occhio, un movimento
che le rimembrò le poche volte in cui lo aveva visto muovere il revolver del microscopio
ottico che teneva a casa «se infili un braccio nella bocca di Tueret ricevi in
dono un diamante col quale puoi esaminare tutte le realtà alternative del mondo
di laggiù².
A ogni faccia corrisponde una realtà… la cosa che mi ha lasciato basito è che
in quasi tutte conduciamo una vita normale… persino quella in cui siamo
vampiri»
«Vampiri?» sbruffò Jolyne «non è che questa dea ti ha fregato?»
«Non lo so, però è divertente» Jotaro abbozzò un sorriso, emanava un’aria così
tranquilla da sembrare un’altra persona «in questa realtà noi due siamo vampiri
capaci di trasformarsi in predatori marini, io in orca e tu in una bellissima chrysaora
achlyos… la medusa più grande del mondo»
«E la mamma in cosa si trasforma?»
«La mamma non si trasforma, però riesce a decifrare le aure degli esseri
viventi e degli altri vampiri e possiede una velocità soprannaturale… il fatto
sorprendente è che» Jotaro tornò a guardare la figlia «in nessuna di queste
realtà ho incontrato Pucci».
Jolyne si fece improvvisamente seria sentendolo nominare.
«Cosa vuol dire questo?»
«Vuol dire che la sua anima è destinata a non ripetersi in nessun universo e a
non reincarnarsi in nessun altro essere vivente, condannata per l’eternità a
patire il buio degli inferi. Suppongo sia la punizione ultima per chi si arroga
il diritto di giocare a fare Dio con gli spiriti della gente… Credevo fosse
andata male a un tizio di Morio che ha perso la memoria ma a quanto ho visto
c’è chi sta peggio…»³
«Aspetta» lo interruppe Jolyne «parli proprio di quel tizio? Quello che ha
quasi ucciso te e Josuke?»
«Sì, lui, non ho idea del perché sia finito a fare il sicario per una religiosa
ma sembra che non lo vogliano nemmeno all’inferno… Sii sincera, hai visto anche
questo nel mio disco?»
Jolyne si perse un attimo a guardare Anasui che afferrava Weather Report per la
vita e lo rigettava in acqua tra gli schiamazzi di Ermes e Foo Fighters.
«Sì… è stato strano… Soprattutto vedere te e Josuke così giovani… Josuke con
quei capelli ridicoli, mio Dio... non so come abbia fatto a trovare
moglie conciato così»
«E guai se provavi a prenderlo in giro» rincarò Jotaro «ha mandato in ospedale
più di una persona che si è cimentata nell’impresa».
Risero entrambi al pensiero di un Josuke adolescente che andava in
escandescenza per i suoi preziosissimi capelli.
«Senti» riprese Jolyne dopo un po’ «sei sicuro che stiamo bene in questi
universi alternativi che hai visto? Non è che in qualcuno magari la nonna o la
mamma piangono per noi?»
«Sicurissimo, in un paio sono persino diventato nonno prima dei sessant’anni»
Jotaro interruppe il discorso per godersi la faccia stupita di Jolyne
nell’apprendere la notizia «ma non ti dirò con chi ti sei sposata, questa è una
sorpresa che devi scoprire da sola»
«Ma uffa!» protestò lei pungolandogli il braccio «Non mi dai nemmeno un
indizio?»
«Te ne do uno solo!»
«Ok, spara!»
«Lo conosciamo entrambi»
«Tutto qui?» Jolyne gonfiò le guance per la delusione «Non mi dici altro?»
«È che non voglio farvi discutere, non qui almeno!» si giustificò Jotaro «Non
adesso che, sai… siamo solo essenze».
Jolyne mollò la presa dal braccio del padre. Solo in quel momento si era
accorta di non provare più un briciolo di rancore nei suoi confronti.
«Vorrei poter dire che mi dispiace non vederti invecchiare» proseguì Jotaro «ma
racconterei una bugia. Se non fossimo morti la nostra avrebbe continuato a
essere la famiglia disfunzionale che siamo sempre stata… con l’aggiunta del
sacrificio di chissà quante altre persone con la colpa di voler essere nostre
amiche»
«Un win-win per tutti quindi» Jolyne sollevò un sopracciglio e ripensò
al dialogo che aveva avuto con chi le aveva indicato la via per tornare in
paradiso. Se si concentrava abbastanza riusciva a rievocare il brivido che le
aveva provocato la sua vicinanza.
«Come ho detto prima, ho incontrato una donna al confine col purgatorio»
riprese, volendo condividere in parte l’esperienza della sua breve avventura «e
mi ha fatto un discorso strano sulle anime che rinascono dopo un po’ da dei
fiori… Chissà se questi “noi” alternativi avranno un’anima tutta loro o se ci
incontreremo da qualche parte… una specie di raduno dei sosia… wow, centinaia
di Jotaro con tanti cappellini diversi, te li immagini?»
«Come no!» il Jotaro spirituale trattenne a stento una risata dal naso «Con tuo
sommo dispiacere condividiamo un’anima sola, sicché quando un nostro sosia
morirà i suoi ricordi si ricongiungeranno ai nostri… O almeno questa era la
teoria di un amico che faceva l’indovino. Mi domando dove sia finito adesso»
«Se era una brava persona penso ti stia aspettando» ipotizzò Jolyne.
«Sicuramente» il volto di Jotaro si addolcì «era un tipo che aveva capito come
raggiungere il paradiso pur senza averne contezza»
«Allora perché non ci rivestiamo e andiamo a incontrarlo?» domandò Jolyne «Dai,
non dirmi che non sei curioso di parlarci!»
«Non è questo!» Jotaro gonfiò le guance come aveva fatto prima la figlia e si
parò il viso con il palmo della mano tesa «Siamo appena arrivati, ok? Non
affrettiamo le cose»
«Ah, ho capito» cantilenò Jolyne gongolante «sei troppo emozionato per
rivederlo».
A giudicare dal silenzio ostinato di suo padre, la ragazza comprese di averci
preso.
«Ho indovinato?» incalzò lei inginocchiandosi accanto a lui per scrutargli
l’espressione «Non essere così rigido!»
«No, hai torto» rimbeccò Jotaro.
«Non ti credo!»
«Ti dico che hai torto!»
«E io ti dico che non ti credo!»
«Va bene, sono molto emozionato» Jotaro scoprì il volto e scattò a sedere
digrignando i denti «sei contenta adesso o vuoi ancora inferire?»
«No, la tua faccia da peperone basta e avanza» stavolta toccò a Jolyne coprirsi
il volto con le mani per soffocare l’ennesima risata «non ti avevo mai visto
così, giuro che sei troppo buffo!»
«Ma pensa!» Jotaro la colpì su un fianco con il pugno chiuso per farle perdere
l’equilibrio «Tu e la tua linguaccia!».
Jolyne incassò il colpo senza smettere di ridere. Era incredibilmente tenero.
«Oddio, se ti vedesse la mamma in questo momento…» Jolyne si rialzò non senza
aver asciugato una lacrima «Non sembri nemmeno mio padre».
Jotaro non fece commenti sull’ultima affermazione della figlia; la sola azione
che compì fu sollevare il busto per sistemarsi meglio sulla sabbia. Gli altri
quattro pazzoidi che erano venuti con loro stavano lasciando il mare per
raggiungerli sulla spiaggia.
«Spero che almeno in uno degli universi alternativi che hai visitato tu appaia
esattamente come sei adesso» disse Jolyne mutando tono di voce «è bello vederti
così».
Lo vide guardarla come se in realtà stesse osservando qualcosa di intelligibile
solo a lui, qualcosa che probabilmente non le avrebbe mai rivelato, che fosse
in quella o un’altra vita.
«Mi sono visto» fu la sua risposta «e ci siamo visti, tutti assieme, inclusi
chi non hai conosciuto. E… sì, sono così… E anche il maestro che ti insegna a
usare Stone Free come se tuo padre fosse lui… credo sia la mia scena preferita tra
quelle che ho visto»
«Amico dell’indovino?» chiese Jolyne immaginandosi al fianco di questo
ipotetico mentore.
«Esatto».
Jolyne serrò le labbra.
«Papà»
«Sì?»
«Questa storia degli universi alternativi felici è vera o falsa?»
La domanda ebbe destino di non ricevere risposta perché Ermes e gli altri si
erano avvicinati a loro.
«So cosa state pensando» Jolyne, cambiando subito discorso per non incupirsi,
precedette quello che stava per profferire l’amica «la prossima volta faccio il
bagno con voi, promesso!»
«Tanto anche se non vorrai ti costringeremo» Ermes era più decisa che mai su
quel punto «quindi guai a te se ti perderai»
«Garantito, non preoccuparti» Jolyne allungò una mano alla ricerca dei
pantaloni, ma quando si girò per recuperare gli indumenti vide suo padre
bloccato nell’atto di infilarsi la maglietta, evidentemente distratto da un
movimento di foglie e sabbia al limitare della vegetazione.
«Ma che diamine…».
Dalla penombra della foresta era sbucato un cagnetto bianco e nero dall’aria
pestifera.
Foo Fighters si avvicinò all’oggetto di quella distrazione e gli si inginocchiò
davanti.
«Guardate! È un cagnolino! Che carino, è più piccolo di quelli che vedevamo in
carcere! Vieni qui piccoletto!»
A differenza di Foo Fighters, Jotaro non si era inginocchiato, ma aveva
soltanto sbarrato gli occhi. In effetti quel boston terrier spuntato
all’improvviso dalla macchia costiera non poteva trattarsi che proprio di quel
boston terrier del disco.
«E tu da dove salti fuori?» mormorò Jotaro con stupore avanzando di qualche
passo per accertarsi che fosse veramente lui.
Dal canto suo, il cane trapassò con sguardo indagatore i volti dei bagnanti che
si stavano rivestendo e iniziò ad annusare la mano tesa di Foo Fighters prima
di sollevare il muso per scrutare il profilo panciuto di Tueret.
«Non sapevo che anche i botoli potessero finire qua» Anasui allontanò con
sdegno gli stivali dal naso del cane «signor Jotaro, lei lo conosce?» domandò
poi senza togliere gli occhi di dosso dall’animale che sembrava essere alla
ricerca di qualcosa tra i loro indumenti.
«Sì, ed è un adorabile pezzo di merda, non è vero Iggy?» fece Jotaro rivolto
alla bestia che per tutta risposta disvelò i denti in un ghigno malizioso «Sei
da solo? Non c’è nessuno con te?».
Il cane di nome Iggy continuò a perlustrare i dintorni con l’olfatto mentre il
gruppo terminava di vestirsi; quando Jotaro infilò la giacca allungò le zampe
anteriori sui suoi pantaloni affinché venisse preso in braccio, richiesta che
l’uomo esaudì non senza qualche remora.
«Strano, non dovrebbe, chessò, scorreggiarti in faccia?» chiese Jolyne
perplessa, provocando l’ilarità generale per quella domanda, fatta eccezione
per Anasui che con la coda dell’occhio aveva percepito che quelle di Iggy non
erano buone intenzioni.
«Non mi fido» disse fissando negli occhi quel botolo malefico.
«In effetti potresti avere…» Jotaro si voltò per guardare chi aveva posto
l’obiezione, ma non fece in tempo a terminare la frase che Iggy afferrò coi
denti la visiera del cappellino e gli balzò via dalle braccia, pronto per
fuggire lontano col bottino.
«… ragione».
Il cane ghignò ancora e gli diede le spalle, dopo di che si rituffò nella
vegetazione sparendo alla vista come una scheggia.
«Iggy, il mio cappello!» Jotaro gli lanciò contro il diamante nella vana
speranza di beccarlo, ma quello che ottenne fu solo il tonfo della pietra che
cadeva in mezzo all’erba alta.
«Inseguiamolo!» Jolyne tirò Jotaro per le maniche affinché ascoltasse la sua
esortazione «Forse vuole condurci da qualche parte!»
«Ma pensa! E va bene, maledetto cane!».
Pur senza averne certezza Jolyne sentiva di essere nel giusto. Tra non molto avrebbero
attraversato la vegetazione costeggiante la spiaggia trovandola disordinatamente
infinita – ma anche finita – si sarebbero imbattuti in paesaggi stranianti abitati
da spiriti meditabondi e silenziosi, ne avrebbero quasi urtato uno vestito di
bianco che passeggiava nei pressi del labirinto menzionato da Weather Report,
fino a quando, dopo aver attraversato una sequela di abitazioni di samurai
immerse in una distesa di adonidi, si sarebbero ritrovati a correre per quello
che sembrava il giardino più disordinato e mal assortito su cui avessero mai
posato gli occhi.
Fino a quando avrebbero scorto le fronde di un ciliegio in fiore.
«Papà» Jolyne, che avrebbe superato tutti con un certo stacco, avrebbe
rallentato un attimo per voltarsi a guardare Jotaro «quello somiglia al
ciliegio di casa! Ma che ci fa qua?».
Anche se non avrebbe ricevuto subito risposta sarebbe andata bene così, perché
tanto lo avrebbero scoperto da chi sotto quell’albero ci trascorreva l’eternità
e che attendeva pazientemente il loro arrivo.
Quel mentore che non aveva potuto proteggerla per colpa del destino sarebbe
stato con lei per sempre, e anche se non aveva ancora idea di che tipo fosse
sperava con tutto il cuore che sarebbero andati d’accordo. Le sarebbe parso di
identificarlo nello studente in camicia e mocassini che, con l’espressione incontenibile
di chi si preparava a riabbracciare un amico dopo tanto tempo, avrebbe
indossato il cappello di suo padre e gli si sarebbe gettato addosso, libero dal
giogo della solitudine.
Anche se non avrebbe mai saputo della veridicità degli universi alternativi,
avrebbe scoperto che Jotaro aveva ragione almeno su una cosa: quel presunto
mentore l’avrebbe amata come una figlia.
***
¹Nel linguaggio dei fiori, l'elleboro è il fiore sacro a Dio e simboleggia la liberazione dalle pene. Qui per saperne di più.
²Riferimento agli universi alternativi menzionati in JORGE JOESTAR quali conseguenza degli effetti di Made in Heaven.
³Riferimento a Dead Man's Questions.
Musica in Jojo: Joanne è
l'ultimo singolo, uscito solamente per il mercato italiano, estratto
dall'album omonimo pubblicato il 21 ottobre 2016. Il brano è una
dedica di Lady Gaga alla zia morta di lupus all'età di
diciannove anni. Altri dettagli sulla canzone sono apparsi nel
documentario Gaga: Five Foot Two disponibile su Netflix.
Retroscena: Mi ero incaponita
sulla comparsa di alcuni personaggi di questo racconto. Se negli
incontri inaspettati dei capitoli precedenti era presente un minimo di
senso logico, questa volta ho deciso di fare interagire personaggi che
nulla, o quasi, avevano da spartire l'uno con l'altro. Non so
esattamente cosa mi abbia spinta a scrivere proprio di loro, volevo
solo che fosse così e basta, il resto è venuto da
sé.
Giunti/e quasi alla fine, non c'è molto altro da dire a
riguardo. Posso affermare che si tratta della fine effettiva della
raccolta, in quanto tutto quello che avevo da esprimere è
già stato scritto e metabolizzato e che l'ultimo capitolo farà
semplicemente da "quarta di copertina" virtuale all'intera
pubblicazione. Per questo motivo ho dedicato a Jolyne la shot
più lunga, perché volevo che con lei si
chiudesse un cerchio iniziato tre mesi fa.
Come sempre, non mi stancherò mai di ringraziare chi legge,
recensisce e segue la storia. Alla prossima settimana con la
conslusione!
xoxo
|
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Capitolo 12 *** L'ultimo canto dell'o'o di Kauai ***
12- L'ultimo canto dell'o'o di Kauai
L’ultimo canto dell’o’o di Kauai
We couldn't decipher the things that you said
The only one left with time to go
You wandered the earth, were seen but not heard
No matter how far you went
The story's behind us, not today
As careless with every step
Too hard to believe
Blanco White, Kauai
O’o
Un racconto sulla fine
che non è mai davvero fine
Abdul teneva in mano il suo tomo da un tempo indecifrabile,
ma non aveva alcuna voglia di leggere. Lo stringeva sulle ginocchia, seduto
come di consueto sotto il ciliegio in fiore che condivideva coi suoi compagni
di eternità, immobile, lussureggiante e cinto da una fascia arancione sulla
quale era ricamata una chiave della vita, non ancora aperto.
Non era raro che sui rami si posassero gli uccelli e gli insetti delle specie
più disparate coi loro colori e i loro versi e il loro frullo di ali. Qualche
volta Iggy poggiava le zampe anteriori sul tronco per abbaiarvi contro,
ricevendo come risposta dei versi striduli di scherno o il tonfo sordo di un
esoscheletro che cadeva sul carapace di Coco Jumbo. In quel momento, però,
sembrava che sugli spiriti del cane e della tartaruga fosse calata una sorta di
letizia oziosa, forse la stessa della quale l’indovino era caduto preda, che li
inducevano stare rintanati all’ombra dell’albero in posizione prona, ad
ascoltare la canzone perduta della coppia di volatili che aveva deciso di
esibirsi proprio sotto le loro teste.
Abdul sollevò il capo in direzione del suono: due batuffoli del colore della
grafite facevano gorgheggiare a turno le loro voci, prima una e poi l’altra, seguendo
uno spartito musicale che solo quella specie conosceva. Il maschio dava inizio
al duetto e la femmina rispondeva, probabilmente inconsci del loro non essere
più ma uniti nella gioia di dichiarare all’Aldilà il loro essersi ritrovati. E
qualcun altro, oltre all’indovino e al cane, sempre un maschio e una femmina,
ascoltava quel frammento di natura spazzato via dalla cupidigia di chi abitava
il mondo materiale.
«Era ora che una coppia di ‘o’o venisse a farci visita».
Kakyoin, disteso al sole poco distante da Iggy e con indosso la camicia, staccò
una ciliegia dal pistillo e lo porse a Polnareff, sedutagli accanto a gambe
incrociate, che lo rigirò tra le dita sottili fino a quando il frutto non
ricomparve alla sua estremità, identico a quello che il ragazzo teneva
incastrato fra i denti.
«Come sai che quelli si chiamano… come hai detto che si chiamano?» domandò lei
senza smettere di giochicchiare con la ciliegia, il rosso scuro che si sposava
col candore della mano.
«’O’o di Kauai» ripeté lui prendendo in mano un’altra ciliegia dalla coppa
sempre piena «quando il maschio cercava una compagna per la vita iniziava a
cantare, e se la femmina rispondeva si formava una nuova coppia. Non ricordo di
preciso dove l’ho letto, ma non importa… Lo senti? questo è il maschio».
Kakyoin si ammutolì per lasciare che il silenzio venisse riempito dal richiamo
del passeraceo. Poi anche quest’ultimo si interruppe per permettere alla piccola
consorte di esprimersi.
«E questa è la femmina».
Polnareff chiuse gli occhi e ascoltò la melodia, la ciliegia ancora tra le dita
e la giacca della divisa di Kakyoin piegata sul ventre. Li riaprì solo quando i
due uccelli smisero di cantare, al che corrugò leggermente le sopracciglia e si
voltò verso chi gli aveva fornito l’informazione.
«Se noi riusciamo ad ascoltarli significa che laggiù non ne sarà rimasto
neanche uno».
Kakyoin non parlò subito: aveva incrociato le braccia dietro la nuca e lasciato
che una cetonia gli camminasse sullo stinco destro, confondendosi col verde dei
pantaloni prima di dischiudere le elitre e librarsi in aria.
«Infatti» disse. «mi è rimasto impresso perché si estinto l’anno prima che io e
Mohammed ci conoscessimo».
«Oh» Polnareff inclinò il capo e si sistemò una ciocca scura dietro l’orecchio,
pensosa.
Sentendosi nominato, Abul, che non si era perduto una parola di quel dialogo
espresso con un miscuglio melodicamente strano di giapponese e francese,
sorrise a labbra chiuse. Osservando meglio la ragazza si accorse di un
dettaglio che prima non aveva notato, per cui assottigliò le iridi scure e le
piantò su quelle chiare di lei con fare sospettoso.
«Cherry… ?».
L’interpellata, dapprima conturbata da una nuvola di avvilimento, si riscosse
quasi immediatamente.
«Oui?»
«Quelli che hai alle orecchie sono gli orecchini di Tenmei?».
Sentendo quella domanda, Kakyoin si drizzò di scatto, guardò prima Polnareff e
poi Abdul e infine divenne di porpora.
«Sì, cioè, sono carini e me li ha reg- prestati» balbettò lei «perché?»
«Capisco» Abdul non smetteva di sorridere «ditemi un po’, siete entrati nel
giardino di Mitra?»
«Te l’ha detto Caesar, vero?» ribatté Kakyoin piccato «La prossima volta che lo
vedo gliela faccio pagare»
«Ma va, ce l’avete scritto in fronte! E poi lo avevano capito tutti. Comunque sia,
immaginavo… ehi!» Abdul afferrò al volo un nocciolo di ciliegia lanciatogli all’improvviso
da Kakyoin, che ridivenne subito frutto «Dicevo, immaginavo quando qualcuno che
conosciamo verrà da noi e vi vedrà per la prima volta… Lo shock sarà talmente
grande che si reincarnerà per la disperazione».
I due ragazzi di fronte a lui abbandonarono l’imbarazzo e trattennero a stento
una risata.
«Mon dieu, Cherry! Cos’è questa storia?» Polnareff si mise le mani nei
capelli, spalancò gli occhi e simulò un anglaise perfetto «E tu,
maledetto ciuffetto! Fare questo alla mia sorellina! J'arrive pas à croire!».
Kakyoin dimenticò la vendetta contro Caesar e scoppiò a ridere.
«Sono onesto, un po’ mi manca quello scemo di tuo fratello» disse subito dopo asciugandosi
un accenno di stilla dal ciglio e volgendo lo sguardo alla tartaruga che
riposava all’ombra.
«Se vogliamo accantonare lo scherzo per un attimo» Abdul tornò quasi serio «il
suo compito laggiù stava per volgere al termine se non fosse stato per quel
pazzoide in tonaca… Mi sa che la cena gliela offrirà un altro me stesso mentre
a me toccherà aspettare ancora. Vero Iggy? L’avevo promessa anche a te».
Per tutta risposta il cane emise uno sbuffo e si girò dall’altra parte.
«In realtà potrei offrirla a tutti quando ci riuniremo, anche a quei ragazzi
che sono venuti con Coco Jumbo… Voglio sentire da loro com’è cambiato il mondo
all’inizio del nuovo millennio».
«Le divinazioni non ti bastano?» chiese Kakyoin piegando la testa di lato, il
mento poggiato mollemente su un pugno chiuso.
«Non è questo, è che… quando ascolti una storia da chi l’ha vissuta in prima
persona assume un altro valore».
Pronunziate quelle parole, Abdul incrociò le braccia e tese nuovamente
l’orecchio alla coppia di ‘o’o.
«Sai» Polnareff si rivolse a Kakyoin, mentre distrattamente lisciava le pieghe
della divisa che teneva ancora stretta a sé «non penso farà il melodrammatico,
sarà sereno e basta, magari piangerà quando rivedremo insieme i nostri
genitori, ma dopo sarà solo sereno come tutti quelli che ho incontrato qui».
Kakyoin annuì senza profferire nulla. Era solo questione di tempo perché ciò
che aveva detto Cherry si avverasse, che fosse stato tra dieci, quindici o
cinquant’anni terrestri. Ma tal pensiero venne subito sostituito da ciò che
stava per accadere: senza motivo apparente Iggy si era rizzato sulle zampe e aveva
preso ad annusare in giro con circospezione.
«Sta per arrivare qualcuno?» gli domandò Abdul perplesso.
Il cane sollevò la testa e lo guardò con la sua solita strafottenza, poi volse
il muso verso l’orizzonte e si lanciò in una corsa a perdifiato abbaiando come
un forsennato.
«Ok, sta arrivando qualcuno che verrà qui a lamentarsi di un furto subito da
Iggy, tutto regolare» fu il commento di un Kakyoin più confuso che sorpreso «ma
chi sarà mai?».
Abdul, che non si era mosso dalla propria postazione all’ombra, chiuse gli
occhi ed entrò in tranche per una manciata di istanti. Quando li riaprì sul suo
volto era dipinta eccitazione pura.
«Sono cinque persone… No, sei… Vengono dalla spiaggia. Nessuno di loro ha raggiunto
i cinquant’anni di vita terrena… Siete sicuri di non voler vedere anche voi?».
Sia Kakyoin che Polnareff scossero il capo. Non gli era mai piaciuto osservare
le vite dei mortali perché per loro significava restare ancorati al dolore di
ciò che avevano provato attraverso la corporeità. Tuttavia non fecero nulla per
nascondere una certa curiosità.
«Quando sei arrivato tu ti ho visto inseguire Iggì che ti aveva rubato
la sciarpa» la ragazza si era alzata in piedi e adesso scrutava l’orizzonte
cercando l’animale con lo sguardo «solo allora aveva corso così velocemente,
sono sicura che si tratti di qualcuno che conoscete bene»
«Probabile» anche Kakyoin si era alzato per osservare il paesaggio alla ricerca
di quella macchiolina pelosa e pestifera, ma di fronte a loro si stagliava la
placidità del campo dei caduti con la sua disomogeneità di flora, fauna ed
etnie.
«Eccolo che arriva» Abdul prese Coco Jumbo in braccio e assottigliò lo sguardo
«cos’ha in bocca?».
Non era passato molto, o forse era trascorsa un’eternità intera, che Iggy stava
già tornando al suo pezzo di territorio preferito con qualcosa di un orribile color
melanzana tra i denti. Non appena giunse a destinazione guardò in rassegna le
quattro anime col quale condivideva il ciliegio in fiore più bello dell’intero
paradiso, si scrollò di dosso dei rami di vite e fece cadere a terra un
cappellino viola con una vistosa stella verde stampata davanti.
«Ma questo…» Kakyoin aggrottò la fronte e recuperò il cappello «questo non
dovrebbe trovarsi qui. Chi lo indossa non dovrebbe essere qui, ha ancora tanti
anni davanti a sé»
«Ed è così infatti» chiosò Abdul posandogli una mano sulla spalla «le cose che
sono successe laggiù hanno fatto sì che le loro anime venissero sostituite
affinché si godessero ancora le gioie e i dolori di una vita lunga. Davvero inconsueto
devo dire».
In lontananza si udirono degli schiamazzi allegri, dapprima appena udibili, poi
sempre più fragorosi, fino a che riempirono del tutto la quiete del luogo.
Persino gli ‘o’o si erano zittiti per assistere alla scena.
Un gruppetto di persone attraversava il campo con la gioiosità appartenente a
chi si scopriva immortale per la prima volta, capeggiato da una figura di
ragazza alta e snella con una acconciatura alquanto bizzarra che aveva staccato
di almeno un metro tutti gli altri. Rideva e al tempo stesso si voltava in
direzione dei compagni facendo ondeggiare la treccia tinta di lime. Rideva e al
tempo stesso urlava qualcosa come «too slow!» al più anziano che non
rispondeva ma seguitava a correre e ad avvicinarsi al ciliegio.
Poco prima che la ragazza toccasse il tronco dell’albero, Kakyoin colse un
fiore da uno dei rami più bassi e lo lasciò cadere sul terreno: questo venne
assorbito dall’erba e sparì alla vista.
«Un messaggio di buona fortuna alle controparti terrestri» spiegò facendo
spallucce, indossando il cappello in testa e godendosi gli ultimi attimi di
calma prima della festa grande, che terminarono non appena la più celere fra i
nuovi arrivati toccò la fascia arancione trionfante.
«Prima! Mi spiace ma quel cane ha fatto bene a toglierti quella roba dalla
testa!» la udirono esclamare prima che si accorgesse della loro presenza.
Quando finalmente lo fece staccò immediatamente la mano dal tronco «Chiedo scusa!»
si affrettò ad aggiungere interdetta «È vostro…? Ne ho uno identico nel
giardino di casa!» si voltò a guardare chi stava indossando il cappello «Perdona
la franchezza ma…»
«Trovi che mi stia bene?» domandò Kakyoin con non troppa velata ironia per
nascondere l’emozione.
Il loro primo approccio fu quello di esaminarsi con minuzia in un attimo che
parve infinito, avvertendo di provare già mutuo affetto.
«Trovo che ti stia… veramente di merda!».
A quelle parole, sia lo studente che la nuova arrivata scoppiarono a ridere.
«Girl, where do you think you’re going?» la rimproverò Abdul con
dolcezza, guardando l’espressione divertita sul volto di lei. «Vieni, anzi,
venite, abbiamo un sacco di aneddoti da scambiarci, e poi tra non molto
pioverà».
Ed era veramente così. Nuvole gravide avanzavano alla ricerca della frazione di
cielo più adatta per dare alla luce le lacrime di coloro che piangevano la
perdita di altre vite. O forse provenivano dagli stessi viventi che avevano
dedicato loro il ciliegio, i girasoli, le rose bianche, le zagare e altri fiori
dalle forme infinite come lo spazio e la quiete che solo le anime più nobili e
giuste avevano diritto di godere, ma nessuno di loro si porse simili domande. Si
sapeva soltanto che una volta riconosciutisi si sarebbero abbracciati,
avrebbero condiviso la gioia di essersi trovati e ritrovati e infine avrebbero
condiviso i loro pezzi di esistenza con chi gli era affine, scoprendosi e
riscoprendosi tasselli piccoli ma inestimabili di quel mosaico meravigliosamente
complicato che era il destino e ascoltando il canto degli ‘o’o di Kauai senza
mai saziarsene. Sempre e per sempre fino alla notte degli ellebori.
L’ultimo canto dell’o’o
di Kauai
FINE?
Si riscosse dal dormiveglia che lo aveva colto a metà del
lavoro. La guancia si era incollata alla terza pagina della relazione che aveva
iniziato a leggere controvoglia. Se la staccò dal viso e sbadigliò: l’orologio
al polso segnava le quattro del pomeriggio e tra non molto avrebbe ricevuto
visite.
Nell’attesa cercò quindi di rendersi presentabile; si stiracchiò sulla
poltrona, si raddrizzò il cappello sulla testa e si massaggiò la schiena
all’altezza dei reni cercando di dare sollievo alla colonna vertebrale. Fu
allora che si accorse del fiorellino rosa posato accanto alle foto di famiglia.
Si girò a guardare la finestra: la vista gli mostrava il vialetto di casa
ingrigito dalla pioggia e il ciliegio decorato con una fascia arancione sulla
quale era visibile un ankh, entrambi regali di sua madre. Le imposte erano
chiuse, per cui non si capacitava di come avesse fatto a finire sulla
scrivania, ma era troppo assonnato per potercisi raccapezzare. Si limitò quindi
a farlo girare tra il pollice e l’indice rimembrando il sapore di quel liquore
italiano che aveva bevuto nel deserto per la prima volta, la prima di una lunga
serie di sbronze in compagnia di sopravvissuti scapestrati che amava come la
sua famiglia.
Il rombo di un’automobile e il suono di un clacson annunciarono l’arrivo della
figlia e del fidanzato di lei, allontanandolo dai suoi pensieri. Trasse un
respiro profondo, rimise il fiore dove lo aveva trovato e si apprestò a
lasciare la calma del proprio studio, mentre il clacson strombazzava per la
seconda volta.
«Sì Irene, arrivo» mugugnò concedendosi un altro sbadiglio.
Sotto i cieli di Afrodite
FINE
***
Musica in Jojo: Kauai O'o
è una canzone di Blanco White uscita nel 2020. Trae spunto dalla
registrazione del richiamo dell'ultimo esemplare maschio dell'o'o di Kauai,
estintosi ufficialmente nell'agosto del 1987, l'anno precedente
all'avvio delle vicende di Stardust Crusaders.
Retroscena: Come in Rimpatriata,
l'ispirazione mi è stata fornita da qualcosa che non ha
niente a che fare con Jojo. La storia dell'estinzione dell'o'o di Kauai
mi ha colpito a tal punto da identificarlo col mio personaggio
preferito dell'universo di Araki per scriverci sopra il racconto
conclusivo. Una creatura destinata a vivere la sua breve vita nella
solitudine, che invia il suo ultimo messaggio nella speranza che possa essere recepito. L'idea della crack ship con Cherry
mi è venuta in mente così: solo nella morte l'o'o di
Kauai troverà una compagna con la quale duettare, una creatura
dolce e gentile spirata via per colpa della brutalità
dell'essere umano.
In conclusione:
Sarò onesta, non mi aspettavo di terminare questa raccolta.
Credevo che l'avrei abbandonata in corso d'opera a causa della mancanza
di ispirazione, ma grazie al cielo sono felice di aver avuto torto a
riguardo. Sotto i cieli di Afrodite si conclude qui, ma Jojo in Heaven proseguirà ancora per un po': come annunciato su Instagram (a proposito, se non l'avete ancora fatto seguitemi,
troverete tanti post stupidi e meme scemi sulle cose che scrivo) una
tri-shot-barra-mini-long con protagonisti due (più altri) dei personaggi
già incontrati è in lavorazione e vedrà
la luce, indicativamente parlando, per settembre inoltrato, quindi per vostra
sfortuna mi avrete ancora tra i piedi.
Per ultimo,
ringrazio chi ha letto, seguito, preferito e commentato la storia.
Senza il vostro feedback questa pazzidea di un paradiso bizzarro almeno
la metà delle avventure di Jojo non avrebbe mai visto la luce.
Grazie davvero e a presto.
Green Star 90.
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