Sotto i cieli di Afrodite

di Green Star 90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La piccola fuga ***
Capitolo 2: *** La legge dell'adonide ***
Capitolo 3: *** Al-Qirmiz ***
Capitolo 4: *** Rimpatriata ***
Capitolo 5: *** Vespro dei beati sposi (prima parte) ***
Capitolo 6: *** 22 marzo ***
Capitolo 7: *** Un diavolo in paradiso (interludio) ***
Capitolo 8: *** La metafisica del primo incontro ***
Capitolo 9: *** Il paraninfo degli ultimi ***
Capitolo 10: *** Vespro dei beati sposi (seconda parte) ***
Capitolo 11: *** Il ciclo dell'essere ***
Capitolo 12: *** L'ultimo canto dell'o'o di Kauai ***



Capitolo 1
*** La piccola fuga ***


1- La piccola fuga

La piccola fuga

 

Debussy, Lent. (Melancolique et Doux)

 Un racconto sulla genitorialità

Il mattino si era presentato al cospetto degli inglesi da poche ore ed era prevedibile che quella sarebbe stata la classica giornata, neanche a farlo apposta, inglese, uggiosa e grigia di inizio novembre, niente per cui valesse la pena struggersi, insomma. Beh, quasi niente, a essere precisi.
La biacca del cielo gettava una luce malaticcia sulla cameretta e sulle lenzuola bianche della culla, che la sua piccola proprietaria aveva provveduto a calciarsi di dosso non appena svegliatasi. Per questo aveva ruotato energicamente il capo da una parte e dall’altra alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarla a liberarsi dalla propria prigione, ma gli adulti sembravano affaccendati in chissà quali cose di vitale importanza che non comprendeva, e questo la indisponeva non poco.
Guardò perciò in alto, verso la sommità delle sbarre di legno che la separavano dal mondo, e in basso, per guardarsi le manine paffute, e pensò che qualunque fosse l’evento al quale stessero partecipando i grandi voleva farne parte come qualsiasi bambina ormai grande che si rispettasse.
Afferrò la cima con tutte e dieci le dita e si fece forza per mettersi in posizione eretta sul materassino: decisamente il mondo era più bello senza quelle odiose righe marroni, ma non era abbastanza. Facendo leva sulle braccia, sollevò una gamba e la accavallò oltre la sponda del lettino cercando di spingersi col proprio piccolo grande corpo verso l’esterno. Piegò anche l’altra gamba, la fece passare oltre il legno come aveva fatto con la prima e… oplà! Con un salto finito a terra e un minuscolo tonfo col sedere ce l’aveva fatta, era libera di andare a esplorare il mondo degli adulti! Certo, il di dietro faceva un po’ male, ma la libertà era troppo bella per mettersi a piangere, quindi prese a gattonare sul pavimento freddo della stanza, sollevando gli occhioni acquamarina verso il suo secondo ostacolo: la porta chiusa.
Proprio nel momento in cui gonfiava le guance per il disappunto questa si aprì e un paio di scarpe lucide sormontate da galosce si frapposero tra lei e il resto della casa. Due occhi castani si abbassarono su di lei e due mani leste si prodigarono a sollevarla da terra.
«Elizabeth!» esclamò l’uomo rivolgendo un’occhiata preoccupata alla culla vuota «Come hai fatto a scendere da lì?».
La bimba gli rivolse un sorriso sdentato e birichino, poi puntò l’indice verso l’esterno protraendosi con tutto il busto per infondere maggiore enfasi sul proprio desiderio di esplorazione.
«Va bene, va bene, ho capito, andiamo da mamma Erina, ti va? Niente capricci però, altrimenti lo dico a Straitso» mormoro l’adulto con la piccola fuggitiva in braccio, ingrossando la voce per mimare un tono scherzosamente minaccioso «se fai la brava signorina ti faccio conoscere un altro bambino».
Elizabeth non aveva afferrato appieno il significato di quelle parole, ma aveva intuito che fossero collegate al grande evento che aveva tenuto occupati gli adulti della casa, per cui dimostrò il proprio entusiasmo aggrappandosi alla giacca dell’uomo e lallando alcuni versi di contentezza mentre percorrevano il corridoio in direzione della risoluzione del mistero.
«Vediamo un po’… è permesso?» tre colpi leggeri di nocca picchiettarono sul legno, ai quali seguì una voce delicata di donna attutita dall’interno.
«Possiamo entrare!» fece rivolto alla bambina «Buongiorno signora Joestar, e buongiorno anche a te piccolo George! Veniamo a rassicurarci della vostra salute, se non vi reca disturbo».
Le finestre di quest’altra camera da letto filtravano la stessa luce bianchiccia con la quale si era svegliata la piccina. La puerpera sedeva a letto con la schiena adagiata su bei cuscini candidi come la sua vestaglia ricamata e le mani sul grembo ancora gonfio, stanca per le fatiche del parto ma lieta di ricevere quella visita. Accanto a lei vi era un’altra culla, più piccola di quella riservata a Elizabeth, schermata da un baldacchino anch’esso bianco.
«Buongiorno signor Speedwagon, tu non disturbi mai. Mettetevi comodi»
«Grazie, lei è un angelo» il visitatore fece riverenza con un breve inchino e si avvicinò cauto alla culla «in attesa che papà Straitso venga a recuperare questa piccola ribelle vorremmo tenervi un po’ di compagnia. Possiamo presentarci al nuovo Joestar?»
«Permesso accordato, ma solo se dopo Elizabeth viene qui a farsi guardare… Voglio vedere quanto è cresciuta» fu la risposta di Erina, abbozzando un altro sorriso in direzione della bambina.
«Oh, certamente… Guarda, Elizabeth. Questo è George».
Scostando appena il velo con l’ausilio di un dito teso, l’uomo e la bambina si sporsero per ammirare l’ennesimo ma sempre meraviglioso miracolo della natura: un faccino tondo, bello e incorniciato da ricciolini scuri, riposava tranquillo nel proprio nido di seta, coi pugnetti chiusi sul petto e i piccoli occhi in procinto di chiudersi per il primo sonnellino mattutino.
«Gli somiglia così tanto… Così piccolo e già senza un padre» furono le prime parole che gli uscirono di bocca, mentre tentava maldestramente di trattenere l’accoramento che si portava dentro dalla notte precedente.
Erina, che sapeva sempre quando l’amico era preda di attacchi improvvisi di emotività, indicò la poltrona ai piedi del letto.
«Robert, perché non mi dai Elizabeth e ti siedi? Immagino che neanche tu abbia dormito stanotte».
Speedwagon esaudì silenziosamente la richiesta e, una volta sprofondato nel velluto, si tolse il cappello scoprendo la zazzera bionda, si coprì il volto con le mani e iniziò a singhiozzare.
«Mi dispiace, mi dispiace veramente tanto» riuscì a dire tra un singulto e l’altro «sono così felice di sapere che il figlio di Jonathan sta bene, ma allo stesso tempo non riesco a non essere triste per il fatto che non ci sia più! Lui meritava… voi meritavate la felicità, tu meriti la felicità, Erina! Quanto può essere crudele il destino se un bambino che non ha ancora visto il suo primo tramonto è condannato a non conoscere mai il papà… L’uomo più buono di questo mondo?»
«Mio caro Speedwagon, se tutti gli esseri umani avessero un amico come te la cattiveria non esisterebbe più» disse Erina, che nel frattempo aveva stretto Elizabeth al seno e le aveva posato delicatamente le labbra sulla fronte «non possiamo contravvenire alle leggi del destino dal momento in cui siamo soltanto esseri umani, però c’è una cosa sulla quale mi preme contraddirti: George sarà pure nato senza Jonathan, ma non è nato senza un padre pronto a volergli bene».
Speedwagon sollevò il capo e si asciugò il viso alla bell’e meglio con la manica della giacca, sussultando ancora per i singhiozzi. Per un attimo incrociò lo sguardo con quello della donna, ma lo distolse subito verso un punto imprecisato alla sua destra.
«Io non… non credo di meritare le lodi che mi tesse. Però se mi concede l’onore di aiutarla a crescere vostro figlio sarà mio impegno affinché cresca nel miglior modo possibile, gli racconterò di suo padre e di quello che ha fatto per me, perché voglio che il suo ricordo non si spenga»
«Così come per me è un onore averti conosciuto».
Tale affermazione venne accolta con religiosa quiete da parte del fu criminale, che fece una fatica enorme per ritrovare una parvenza di compostezza. Rimasero quindi in silenzio per un minuto, o forse qualcosa in più, chi lo sapeva, a godersi la pace ovattata di quella giornata fredda fuori ma tiepida e ristoratrice nei loro animi, interrotto solo dal giochicchiare di Elizabeth coi lacci della vestaglia di Erina. E infatti fu proprio lei a riprendere la parola.
«Sai che sei veramente bella?» le sussurrò, mentre le ripercorreva il profilo del bel nasino con la punta dell’indice, facendo scaturire una risata argentina nella bambina «Bella e irrequieta, da grande avrai il tuo bel carattere»
«Non so come abbia fatto, ma prima l’ho trovata fuori dalla sua culla, deve averla scavalcata tutta da sola!» rivelò Speedwagon con una nota di apprensione in quella esclamazione «Avrebbe potuto farsi male».
«Sì, avrebbe…» ripeté distrattamente Erina perdendosi per un attimo nell’azzurro mare di quegli occhi così limpidi, come solo quelli di un neonato che si affaccia alla vita potevano essere. Elizabeth non poteva rendersi conto dell’immensa fortuna che aveva a possedere ancora la genuinità selvatica dei bambini piccoli che tutto vogliono scoprire e per i quali è tutto divertimento, e non lo avrebbe mai fatto, da brava e riottosa piccina. Come l’acqua che restava attaccata al bicchiere capovolto durante i momenti di gioco con il suo papà adottivo.
Non li avrebbe ricordati, ma glieli avrebbero raccontati.
Come al piccolo George avrebbero raccontato di suo padre.

***

Musica in Jojo: Il Lent, doux et mélancolique di Debussy è la prima delle tre Images composte nel 1894 e appartenente alla produzione giovanile del compositore. La trilogia che include il brano è una dedica a Yvonne, figlia del pittore Henry Lerolle, che era amico dello stesso Debussy.
Il brano è il più malinconico e meditativo dei tre, e sebbene vi sia un certo scarto temporale fra il periodo in cui è ambientato il racconto e quello della composizione della suite ho voluto comunque immaginare questa headcanon secondo cui la best waifu della saga apprezzerebbe Debussy.

Retroscena: Che dire... se siete giunti/e fino a qui, grazie mille. Quello che avete appena letto è il primo di dodici racconti, che in realtà rappresentano una specie di via di mezzo tra una raccolta e una long, che verranno pubblicati, se tutto andrà bene, a cadenza settimale, e che verranno accompagnati da mini playlist di tre canzoni ciascuna.
Non potevo non iniziare con zio Robert che si strugge per la morte del bro della vita, in qualche modo sono riuscita ad affezionarmici grazie al meme material che gira su internet, ma è stata la lettura del manga ad avermelo consacrato nel mio personale olimpo dei personaggi preferiti, quindi ho ritenuto opportuno aprire le danze con lui. 
Esaurito il momento spiegone, rinnovo i miei ringraziamenti per aver letto fino in fondo, nella speranza di non avervi annoiato.

Baci. 


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Capitolo 2
*** La legge dell'adonide ***


2- La legge dell'adonide

La legge dell’adonide

 

Something in your eyes is makin' such a fool of me
When you hold me in your arms
You love me till I just can't see
But then you let me down
When I look around
Baby, you just can't be found
Stop driving me away
I just wanna stay
There's something I just got to say

Madonna, Borderline

Un racconto sul dolore del ricordo

 

«Perché me lo stai dicendo adesso?»
«Perché non volevo perderti»
«Ma tanto tornerai in America e mi perderai comunque, non è vero? Allora perché tutto questo?».

Chiunque abitasse a Morio-Cho da abbastanza tempo da ricordare come fosse prima del boom economico, sapeva chi fosse la giovane donna seduta da sola, eccezion fatta per la carrozzina che teneva con una mano, al tavolino del punto ristoro del centro cittadino. Nessuno sapeva, comunque, chi avesse avuto l’ardire di mettere incinta proprio la figlia dell’agente Higashikata, anche se si vociferava fosse stato un gaikokujin.
Nulla d’ufficiale, beninteso, erano deduzioni scaturite perlopiù dagli occhi insolitamente chiari di quel bel neonato che la madre non aveva vergogna alcuna di mostrare in giro alla faccia delle malelingue. E tanti saluti alla buoncostume.
Tomoko Higashikata voleva godersi lo shopping post esami universitari e il pomeriggio agostano con suo figlio ed era intenzionata a rispondere male a chiunque avesse osato indugiare con lo sguardo anche solo un attimo di più su di loro, dopo di che sarebbe tornata a casa dove ad attenderla ci sarebbero stati suo padre e una cena preparata con tanto amore, quello che mancava, per esempio, alle due cretine che l’altro giorno erano state sorprese a bisbigliare al suo passaggio e per questo messe immediatamente a tacere con una sfuriata memorabile.

Ci teneva veramente a svelargli il suo, di segreto. Ma non così, non con una moglie, una figlia e un nipote di mezzo. Cielo, addirittura un nipote!
«Io… non so cosa dire… Solo che mi dispiace per quello che c’è stato, non pensavo che per te fosse così importante»
«Importante? Per me è fondamentale! Pensi che per me si sia trattato solo di un’avventura? Se non l’hai capito io ti…»
«
Oh my…»
«Io ti amo! Ti amo con tutta me stessa e se potessi ti porterei con me a farti conoscere la mia famiglia. Però vedo che ne hai già una ad aspettarti, quindi… non ti trattengo oltre».

«Da-da!»
«Josuke, tesoro!» Tomoko si sporse per prendere in braccio il bambino che reclamava le coccole «Ti piacciono le insegne dei negozi? È la prima volta che le vedi, vero? Guarda!» esclamò subito dopo indicando i vasi da esterno decorati con fiori gialli e sgargianti all’ingresso del bar «Sai cosa sono quelle? Sono adonidi! I nostri fiori!».
Il figlioletto si limitò a ricambiarla con un sorrisino sdentato da dietro il ciuccio. Nel muoversi, sulla nuca, alla base del collo, la maglietta leggera aveva scoperto per un attimo quella piccola voglia a forma di stella che le ricordava quanto bello fosse il frutto del suo amore sfortunato. Sicuramente la sua stazza avrebbe raggiunto quella del padre e non sarebbe trascorso molto tempo affinché venisse superata in altezza dal suo futuro gigante prediletto, ma al momento se lo voleva tenere così, piccolo, profumato di innocenza e ancora ignaro dei pettegolezzi di cui era oggetto costante da quando era nato.
«Non devi toccarle» gli disse la mamma con dolcezza mentre gli sistemava meglio i pantaloncini sulla vita «Sono velenosi come la mela che la strega dona a Biancaneve!».
Un altro sorrisino innocente. Tomoko prese la borsa e rimise il figlioletto nel passeggino.
«Solo un attimo di pazienza, non abbiamo ancora terminato» disse più a sé stessa che al bimbo «La mamma deve compare ancora un’ultima cosa».

«Ancora un’ultima cosa»
«Dimmi pure»
«Non è una cosa che devo dirti, ma una cosa che tengo a donarti… Li riceverai in albergo, è qualcosa che simboleggia la mia città di origine, così quando ti capiterà di rivederli da qualche parte penserai a me».
Dopo poche ore era andata far recapitare un mazzo di adonidi, gialle, tossiche, pregne di dolore, nella stanza d’albergo dell’unico uomo che avrebbe mai amato in tutta la sua vita. Chissà se avrebbe collegato quei fiori al significato che si portavano dietro. Che brutto scherzo, il destino, certe volte.

Era il negozio di dischi Oscar. Le vetrine esponevano una Stratocaster e un Precision Bass assieme ad alcuni vinili appesi al soffitto con dei fili di nylon. Quando si decise a entrare venne accolta dal saluto di rito del commesso e dagli altoparlanti che trasmettevano la musica di una cantante straniera la cui voce, tuttavia, non le risultava del tutto sconosciuta.

Gonna have to change your mind
Gonna leave your troubles behind
Your body gets the notion
When your feet can make the motion
¹

«Mi piace questa canzone, di chi è?»
«È di una esordiente americana, si chiama Madonna. Non è proprio il mio genere, però c’è qualcosa di lei che mi cattura».

«Adesso ricordo…» mormorò tra sé guardando distrattamente gli scaffali coi vinili. Nonostante non fosse la canzone che avevano ascoltato insieme si disse che quest’altra le piaceva decisamente di più, anche se non riusciva a cogliere per intero il significato di alcune strofe:

Borderline
Feels like I'm going to lose my mind
You just keep on pushing my love over the borderline
Borderline
Feels like I'm going to lose my mind
You just keep on pushing my love over the borderline

«Mi scusi» disse al ragazzo che l’aveva salutata «vorrei acquistare un Walkman e… come si chiama la cantante che sto ascoltando in questo momento?».
Domanda tautologica, ovviamente.

«Ciao, scusa se ti chiamo adesso e senza preavviso, ma tenevo a ringraziarti per i fiori, sono molto belli».
Un sospiro di mestizia che si frappone fra lei e la cornetta. Stavolta si tratta davvero dell’ultima occasione a disposizione che ha per rivelarglielo.
«Joseph, io…».
Sono incinta. Divorzia da tua moglie e andiamo a vivere insieme, compriamo una casa e adottiamo un cane, io farò l’insegnante mentre tu continuerai a fare l’agente immobiliare, e quando tornerai a casa ci saremo io e nostro figlio ad attenderti.
«Figurati. Fai attenzione a non toccarli troppo spesso, sono velenosi. Soprattutto… soprattutto le foglie».

Finalmente terminati gli acquisti e rinchiusa nel comfort ovattato della sua automobile, Tomoko stringeva tra le dita il jewel case della musicassetta che aveva appena acquistato. Il primo piano in bianco e nero di una donna con la quale condivideva pressappoco la stessa età le rivolgeva uno sguardo conturbante incorniciato dal trucco e da corti capelli biondi sapientemente arruffati. Sul seggiolone portatile alla sua sinistra, Josuke succhiava placidamente il ciuccio.

«Tomoko, tesoro, guarda che ti ho cresciuta io e capisco subito quando fai finta di stare bene».
Tomoko non risponde. Gli occhi gonfi e il principio di nausea lo fanno al posto suo. L’unico genitore rimastole non la guarda con rimprovero e d’altronde non potrebbe mai fare una cosa del genere alla persona che lui ritiene più preziosa.
«Presumo fosse importante per te» riprende suo padre sempre con calma «se non vuoi parlarmene non sarò io a costringerti, però sappi che se farai nascere questo bambino… forse ti sembrerà scontato, ma sappi che se vorrai farlo nascere il tuo papà sarà qui ad aiutarti, di questo non devi preoccuparti!».

«Sono a casa!» esclamò Tomoko aprendo l’uscio non senza qualche impedimento dovuto alla combo buste della spesa più neonato in passeggino «Pronto? Nipote reclama nonno! Ripeto: nipote reclama nonno!»
«Il nonno ha ricevuto l’ordine forte e chiaro, passo e chiudo!» Ryohei attraversò di gran carriera l’atrio con indosso la divisa appena stirata e il cappello in testa «Ciao tesoro, hai fatto compere?» aggiunse subito dopo alla figlia aiutandola ad alleggerirla dall’impaccio «E qui abbiamo il mio nipote preferito che diventa sempre più grande!» appena liberatosi dai sacchetti non perse tempo a prendere in braccio Josuke e a stringergli le guanciotte rosate con quella sua manona che sapeva essere sempre gentile con chi lo meritava.
«Non sapevo stessi andando al lavoro» commentò Tomoko inarcando un sopracciglio «quando la smetteranno di darti tutti questi straordinari?»
«Non lo so tesoro, non lo so» Ryohei strinse a sé il nipotino e diede un bacio sulla guancia della figlia «non pensare a me e al lavoro, goditi questa piccola vacanza prima di tornare a Tokyo, d’accordo?»
«Se lo dici tu…» borbottò lei prendendo a sua volta il bimbo in braccio «Vuoi che sia io a prepararti qualcosa quando terminerai il turno?»
«Non ce n’è bisogno, ho già mangiato degli onigiri. A proposito, ne ho lasciati un paio anche per te, non restare digiuna eh!» si raccomandò l’uomo prima di chiudersi la porta alle spalle.
«Sì papà, dopo la poppata» rispose lei inespressiva. Quando si ritrovò da sola con Josuke la prima cosa che fece fu rovistare tra i sacchetti alla ricerca dei suoi due ultimi acquisti: quando li trovò si diresse in cucina e raccolse anche il vassoio con gli onigiri di suo padre e, pargolo in braccio, percorse la rampa di scale diretta verso la propria camera. Da lì la finestra offriva la vista parziale del quartiere e proprio poco distante dal giardino l’agente Higashikata si allontanava in bicicletta e sollevava il cappello in segno di saluto per le due coppie di genitori con figlia adolescente, figlio piccolo e cane che aveva incrociato nella direzione opposta mentre si recava a lavoro. Il più giovane e vociante del gruppo, un bambino che non dimostrava più di quattro anni, faceva vedere a tutti un suo disegno sul quale era stata impiegata una bella quantità di giallo. Forse si trattava di un fiore, ma non ne era del tutto sicura; Tomoko indossò gli auricolari e infilò la cassetta nel vano del walkman. Mentre le prime note sintetizzate di Everybody iniziavano a estraniarla dal mondo le due famigliole erano scomparse alla vista. Con un sospiro si allontanò dalla finestra e si portò il figlioletto al seno.
«Ah, che faccino carino che hai» sussurrò, scostando i capelli nerissimi dalla fronte bianca di Josuke «mi prometti che qualunque cosa accadrà non ti farai mettere i piedi in testa da nessuno? Mh?».
Il bimbo rispose con un mugolio soddisfatto per la poppata e per il contatto con il corpo della mamma. Troppo buono per piangere anche quando ne aveva il diritto e troppo candido per la storia che aveva condotto alla sua nascita, il piccoletto non aveva idea alcuna di chi fossero le persone che il nonno aveva visto salutare dal primo piano della camera di sua madre, e d’altronde non avrebbe potuto neanche volendo. Sia lui che Tomoko non sapevano nemmeno che dopo appena una decina di giorni una delle due famiglie sarebbe finita sulla cronaca nera del giornale locale e che dopo una prima reazione di grande sconcerto la cittadina sarebbe ripiombata nella sua febbre di sviluppo economico dimenticandosi – quasi del tutto – della faccenda.

«In realtà non so perché proprio le adonidi siano i fiori simbolo della mia città, ma a me piace il significato che vi sta dietro. Simboleggiano un sentimento o una persona che si tiene per sempre nel proprio cuore a prescindere dai casi della vita. Quindi… beh, anche se non ci vedremo più ti porterò per sempre nei miei ricordi».

***

¹Everybody, singolo d'esordio di Madonna, pubblicato il 6 ottobre 1982.

Musica in Jojo: Il 1983 non è solo l'anno di nascita di Josuke e Okuyasu: segna anche il debutto discografico di Madonna, che avviene il 27 luglio per l'etichetta Sire Records. Borderline, che racconta le difficoltà di un amore non soddisfatto, appare seconda nella tracklist ed è il quinto e ultimo singolo dell'album, che sarebbe infatti uscito il 15 febbraio 1984. L'idea iniziale era quella di inserire Papa Don't Preach come canzone introduttiva, ma riflettendo sulla natura gentile di nonno Ryohei ho deciso di scartarla.

Retroscena: Faccio un'ammissione di colpa: non sono una grande fan di Diamond Is Unbreakable. La reputo la saga più disomogenea della prima esalogia di Jojo e anche quella con gli avversari più irritanti (se escludiamo Kira); in secondo luogo, non riesco a mandare giù il fatto che Joseph abbia tradito Suzie Q, reputando tale comportmento alquanto OOC. Tuttavia, penso che Tomoko sia uno dei personaggi secondari più interessanti della saga e che il tema della maternità non desiderata all'interno della quarta parte sia stata relagata ai margini della vicenda pur aleggiando insistentemente tra gli altri personaggi, motivo per cui ho dedicato il secondo racconto della raccolta alla Jomom più tosta, per certi versi, della famiglia Joeastar.
E Josuke? 
Su di lui, al momento, non mi pronuncio. Apparirà più in là come protagonista di un'altra vicenda e in un contesto del tutto diverso.

Grazie mille per aver letto, alla prossima.

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Capitolo 3
*** Al-Qirmiz ***


3- Al-Qirmiz

Al-Qirmiz¹

 

On and on the rain will fall
Like tears from a star
Like tears from a star
On and on the rain will say
How fragile we are
How fragile we are

Sting, Fragile

Un racconto sulla forza dell’empatia

 

Di chiunque fosse stata l’idea di festeggiare l’arrivo in Egitto con l’alchermes doveva essere di sicuro un idiota, ma Jotaro era troppo stordito dall’alcol per prendersela col responsabile, che immaginava essere l’unico con un moncherino al posto della mano sinistra. Lo spettacolo offerto agli astri dicembrini del Medio Oriente erano tre ragazzini e un vecchio fatti prede delle grinfie di Bacco e un uomo sobrio che cercava in tutti i modi di scrollarsi di dosso il più rumoroso e molesto del gruppo con risultati deludenti. Il tutto era reso ancora più comico dal fatto che quella mattina, complice la stanchezza causata dalla nuotata post scontro con lo stand di Midler del giorno prima, proprio il membro più rumoroso e molesto del gruppo avesse indossato per sbaglio i pendenti di quello più tranquillo e discreto, sicché il secondo, invece di chiedere che gli venissero resi, aveva preso i perni del coetaneo teppista e burbero, il quale, a sua volta, con gran sorpresa di tutti e senza profferire parola, si era reso partecipe di quel gioco iniziato da un errore decorandosi i lobi con due mezzi cuori che gli sfioravano il colletto della divisa, e così erano rimasti fino alla notte.
In verità possedeva quel minimo di lucidità mentale che serviva per evocare Star Platinum e separare la povera vittima dal compagno appiccicoso, ma avrebbe mentito a sé stesso se avesse dichiarato di trovare la scena per nulla divertente; per questo motivo si fingeva più rincretinito di quanto non fosse veramente pur di ignorare apposta le richieste di aiuto che Abdul lanciava con gli occhi.
«Ehi».
Seduto accanto a Jotaro, Kakyoin gli diede una gomitata leggera sul fianco. Si girò a guardarlo: il castano degli occhi lucido per la leggerezza del momento e per gli effetti del liquore gli avevano fatto svanire temporaneamente quella sua aria perennemente malinconica².
«Mh?»
«Guarda che l’ho capito che hai capito che Abdul vuole che tu lo separi da Polnareff» aspirò rumorosamente e bevve un altro sorso di alchermes «che fai, non lo aiuti?»
«Non posso, sono ubriaco» senza trattenere un sorriso, Jotaro gli sfilò la bottiglia dalle mani e tracannò altro liquido «aiutalo tu»
«Non posso, sono ubriaco» rimbeccò Kakyoin.
Entrambi risero come due scemi.
«Prometti che non ci lascerai più!» piagnucolava Polnareff aggrappato al braccio di un Abdul più imbarazzato che altro, in balìa della più appiccicaticcia delle ubriacature «Putein! Mi sentivo così in colpa che stavo impazzendo, ero distrutto dal dolore… Ti prego, non morire più!».
Sembrava quasi tenero, quasi.
«Prometto solennemente che non ti farò più disperare» Abdul si mise una mano sul cuore e scoccò un’occhiataccia a Jotaro e Kakyoin che non finivano più di sghignazzare «però, magari, se mi lasciassi in pace un attimo potrei prendere la cassetta del pronto soccorso e darvi delle aspirine per scongiurarvi il mal di testa di domani»
«Quando ammazzeremo Dio ti porto a visitare Parigi… No, anzi, facciamo il tour de France! Tu, io e gli altri, faremo una vacanza luuuunghiiiiissima»
«Sì, Pol, promesso, grazie per l’affetto che mi dimostri… E molla!» Abdul riuscì finalmente a liberarsi dalla presa di Polnareff e allungò il busto per rovistare tra le vettovaglie in cerca del farmaco che avrebbe salvato gli altri quattro dai postumi.
«Oh, Abdul, se non ci fossi dovremmo, hic! Inventarti» biascicò Joseph sollevando la propria bottiglia quasi vuota in controluce col fuocherello al centro dell’accampamento provvisorio «Devo smetterla di comportarmi come se avessi diciott’anni»
«Tanto la tua età cerebrale è ferma a dodici» sentenziò Jotaro provocando una reazione collettiva di fischi e risate improvvisi, al punto che Kakyoin si lasciò cadere di lato con le mani sullo stomaco e Abdul inciampò sul bagaglio di Polnareff.
«Senti… coso!» inveì Joseph puntandogli il braccio privo di mano meccanica «Guarda che se non era per me col cavolo che avreste potuto bere in un Paese musulmano! Alla tua età avevo già combattuto contro tre guerrieri aztechi!»
«E noi la ringraziamo per aver salvato il mondo signor Joestar, e proprio perché abbiamo ancora bisogno di lei farebbe bene a non esagerare più con l’alcol».
Come un genitore paziente fa col figlio capriccioso, Abdul sfilò dalla presa di Joseph la bottiglia coi fondi del liquore e gli mise in mano una borraccia contenente acqua.
«Ne beva un po’ e si metta a dormire, e lo stesso vale per voi» aggiunse rivolto agli altri tre.
«Sì papa» ridacchiò Polnareff mentre cercava di rimettere seduto Kakyoin «oh no, abbiamo perso ciuffetto!»
«Sono ancora qua, cretino» replicò l’ingiuriato con la bocca impastata, puntellandosi coi gomiti sulla sabbia. Tolse la bottiglia dal grembo di Jotaro e se la portò alla bocca «Nooo, è vuota, ne necessito!»
«Ne hai avuto già abbastanza, direi che va bene così» Abdul raccolse anche il vetro che lui e Jotaro avevano svuotato e lo incastrò sotto l’ascella «non ti facevo così trasgressivo, sono sorpreso»
«Colpa di questo qui» Kakyoin evocò un tentacolo che colpì la catena della divisa di Jotaro, il quale incrociò le braccia e lo guardò con un’espressione a metà fra il divertito e il corrucciato. Gli orecchini di Polnareff che assecondavano il moto della testa verso chi lo aveva accusato del misfatto.
«Non ti picchio solo perché sei ubriaco»
«Oh, facciamo i duri, molto bene» Polnareff afferrò la sciarpa di Kakyoin e se l’avvolse intorno al collo stando attento che i pendenti di ciliegia fossero ben visibili «Buonasera, mi chiamo Noriaki Kakyoin e sono vergine».
Jotaro si strozzò con la propria saliva, Abdul fece scivolare accidentalmente le bottiglie per terra e Joseph esplose in una risata fragorosa che si premurò di soffocare subito dopo.
«Polnareff!» esclamò il più anziano «Kakyoin, scusa se ho riso, scusa davvero… oddio» si affrettò ad aggiungere senza smettere di sussultare per le risate trattenute.
Lo sguardo di Jotaro, nel frattempo, rimbalzava continuamente tra Polnareff e Kakyoin; gli era parso che sul volto dello studente fosse sceso un velo di tristezza improvvisa, ma non ebbe il tempo di accertarsene perché lo vide alzarsi, seppur barcollante, piantare i mocassini sulla sabbia e tenersi i fianchi con entrambe le mani senza smettere di guardare in faccia chi lo aveva preso in giro:
«Mon nom est Jean-Pierre Polnareff et je suis un connard».
L’imitazione di Kakyoin era stata così perfetta che Joseph si riscosse momentaneamente dalle nebbie dell’alcol e si profuse in un applauso sincero con tanto di «Bravissimo!» urlato in italiano, mentre Abdul e Jotaro abbandonarono il loro stoicismo consueto e risero di gusto. 
Polnareff, invece, si era limitato ad aprire e chiudere la bocca come un ebete e non profferì neppure una sillaba.
«Ecco, bravo Kak, rendigli pan per focaccia!» esclamò Joseph nemmeno stesse assistendo a una partita di football «E tu, Pol, prendi e porta a casa».
Dal canto suo, Polnareff aveva assottigliato i suoi occhi azzurri e serrato la mandibola.
«Me la lego al dito» fu la replica di colui il quale era stato appena trafitto dal suo stesso fioretto «e la sciarpa me la tengo per la notte assieme ai tuoi orecchini»
«Nessun problema, amico mio» Kakyoin si risedette accanto a Jotaro e incrociò le braccia al petto, apparentemente soddisfatto di come si era concluso quel botta e risposta.
La notte trascorse in maniera relativamente tranquilla tra altre battute e sprazzi di racconti del passato di Joseph: tuttavia, mentre Polnareff sembrava aver completamente dimenticato la stoccata subita, a giudicare dall’entusiasmo con cui commentava i dettagli della cerimonia di matrimonio tra il vecchio e nonna Suzie, Kakyoin si era chiuso in un mutismo assoluto e contemplava estraniato il fuoco attorno al quale erano raccolti. Ciò non gli avrebbe costituito turbamento alcuno se non avesse saputo che proprio Kakyoin non era il tipo da cambiare umore all’improvviso, soprattutto per una faccenda dalla valenza meno che risibile. Una volta giunto il momento di andare a dormire si era infilato nel sacco a pelo senza dire una parola e lì era rimasto, steso sulla schiena e immobile, facendo credere a tutti di aver preso subito sonno. Quel che non sapeva era che anche Jotaro fingeva di dormire, e infatti quest’ultimo non si sorprese quando avvertì un frusciare di tessuto sintetico poco lontano da lui che gli indicava che il coetaneo si era alzato. Con la coda dell’occhio percepì la sua sagoma snella trafficare in mezzo ai bagagli di Joseph e allontanarsi silenziosamente di qualche metro. Maledicendo mentalmente la lingua lunga di Polnareff e l’insonnia, si strinse il ponte nasale tra pollice e indice e attese il momento propizio per capire cosa stesse succedendo nella testa di Kakyoin. Una bella impresa, non c’era che dire.
La domanda, quindi, fu la seguente: c’era davvero un momento propizio?
Di certo con le parole faceva discretamente schifo, ma se la ragione gli diceva di lasciar perdere, l’istinto gli suggeriva il contrario. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, fuori dal sacco a pelo, e per poco le dita non sfiorarono qualcosa di elastico e vivo che emetteva una debole luminescenza verdastra. Mettendosi a sedere si accorse che l’area adibita a bivacco era attraversata dalla rete tentacolare dello Ierofante, appena intravedibile sotto i granelli.
Anche quando era contrariato per qualcosa, Kakyoin pensava sempre alla salvaguardia del gruppo.
Ignorando il leggero capogiro da post sbornia, liberò le gambe dall’impaccio e strinse le spalle nel gakuran: ora che gli effetti della vasodilatazione erano svaniti, il freddo del deserto notturno tornava a farsi sentire. Si inginocchiò e, con un dito teso, toccò il tentacolo che si estendeva proprio sotto il punto sul quale era sdraiato prima; questo si contrasse debolmente ed emanò per un istante una luce più intensa, segno che il custode silenzioso della barriera aveva capito che a breve avrebbe condiviso le beghe della privazione di sonno con qualcun altro.
Jotaro infilò una mano in tasca ed estrasse l’occorrente per fumare una sigaretta. Con l’accendino in mano e il filtro tra le labbra, seguì la debolissima scia verdognola facendo attenzione a non calpestarla, finché trovò il suo portatore girato di schiena rispetto al resto della combriccola dormiente, seduto e rivolto verso est, con le braccia posate sulle ginocchia piegate e nelle orecchie gli auricolari di Joseph.
«Posso?» chiese, la bocca serrata per non far cadere la Marlboro.
Kakyoin sollevò il capo e guardò chi gli aveva fatto la richiesta: dal suo volto inespressivo non trapelava alcuna emozione, ma fece un breve cenno di assenso prima di tornare a guardare l’orizzonte per metà puntinato dalle stelle e per metà immerso nella pece.
Jotaro si girò dalla parte opposta, in direzione dell’accampamento, la cui sagoma era debolmente rischiarata dalla luminescenza di Hierophant Green, e si sedette poggiando la schiena contro quella di Kakyoin che, avvertendo quel contatto improvviso e inaspettato, si irrigidì senza però rifiutarlo. E infatti non passò qualche secondo che i muscoli e i tendini si rilassarono sotto la stoffa dell’uniforme, e anzi lasciò intendere di gradirlo abbandonandovi anche la testa, chioma bruna con chioma corvina, in segno di fiducia. Al solleticare leggero dei capelli di Kakyoin sulla nuca, Jotaro capì di aver fatto bene a seguire l’istinto, per cui accese la sigaretta e ascoltò il riverbero lieve delle cuffie del walkman; probabilmente il nastro della musicassetta stava riproducendo Sting anche se non ne era del tutto sicuro. Comunque fosse attese che l’altro uscisse dal proprio guscio per parlargli, quindi si armò di pazienza e tabacco fino a quando lo scatto del tasto “stop” non ebbe decretato la fine di quel temporeggiamento.
Kakyoin si sfilò le cuffie con un sospiro e distese le gambe. L’odore di nicotina iniziava a impregnargli i vestiti aggiungendosi a quello dell’alcol.
«Non dire al signor Joestar che l’ho preso in prestito, ma ne avevo bisogno. Sicuramente non avrai aspettato i miei comodi per questo, vero?»
«No» Jotaro spense il mozzicone nella sabbia e si apprestò ad accendere un’altra sigaretta «tanto per rassicurati non dirò neanche che avremo parlato, e tu hai bisogno di parlare più che di ascoltare il tuo cantante preferito… Ah, ma che cazzo di situazione» si lasciò scappare scuotendo la testa «ascolta… lo sanno anche i sassi che spesso Polnareff si comporta da deficiente, quindi prendi le sue provocazioni per quello che sono. E poi non c’è niente di male a essere vergine a diciassette anni».
Jotaro ringraziò che fosse quasi buio perché le orecchie presero ad avvampargli. Dietro di lui, Kakyoin rise debolmente.
«Apprezzo molto ciò che dici, veramente, ma sai, non l’avrei presa così male se lo fossi ancora».
A quell’affermazione Jotaro aggrottò la fronte e trattenne il respiro. Tutto si aspettava tranne quello.
«Scusa, non ho afferrato»
«Vedi» riprese Kakyoin monocorde, «non ce l’ho con Polnareff, non gli do la colpa di niente, solo che certe cose… nonostante quello che è capitato a sua sorella… non credo le comprenderebbe»
«E cosa ti fa pensare che io lo faccia, invece?» ribatté Jotaro, che non aveva ancora capito dove stesse andando a parare la conversazione.
O forse non voleva capirlo.
«Seduto dietro di me ci sei tu o Polnareff?».
Touché.
«Mh, da dove comincio… ?» mormorò Kakyoin iniziando a giocherellare nervosamente con gli orecchini di Jotaro «Diciamo che Dio non si è limitato a impiantarmi il germoglio di carne».
A quelle parole, le mani di Jotaro vennero colte da formicolio. Una sensazione fastidiosa all’altezza del cardias gli fece aumentare la salivazione.
No, decisamente non voleva capirlo.
«Avevo una paura che non immagini» riprese l’altro «sudavo freddo e per poco non vomitavo sulle rose… le rose! Dio mio, le rose. Odoravano talmente tanto da farmi venire la nausea, sembravano quasi volgari con quel rosso scuro».
Jotaro ascoltava in religioso silenzio, con l’unica eccezione del cuore che sbatacchiava contro lo sterno: la cenere della sigaretta rischiava di cadergli sui pantaloni, ma le mani gli tremavano troppo per poter compiere un gesto banale come allungare le dita per allontanare il mozzicone dalla bocca.
«Quello che mi disse prima di farmi il lavaggio del cervello me lo tengo scolpito nella memoria. Mi disse che non dovevo avere paura e che potevamo diventare amici, a quel punto fui felice perché non avevo più paura di morire. Mi piantò il germoglio e poi… i dettagli te li risparmio. Ti dico solo che se pensi sia stato violento… non lo è stato per niente, era come se conoscesse il mio corpo meglio di me, e io ero contento di questo, perché almeno ero vivo, un burattino di carne ma vivo. Attorno a me vedevo le rose che appassivano e puzzavano di marcio e io continuavo a non ribellarmi perché ero felice di fare e di farmi fare quello che voleva lui. Quando ha finito mi sono rivestito, sono tornato in albergo e mi sono messo a letto come se non fosse successo niente… La mattina dopo mi sono svegliato e ho trovato diciassette rose carminio nel vaso della mia camera, la stessa varietà della notte prima. Era il suo modo di farsi beffe del danno. La cosa peggiore è che se avesse fatto anche solo un po’ male il fisico ne avrebbe sofferto e io sarei qui a dirti che porto i segni di quella… boh, cosa, da qualche parte, e invece è rimasto tutto nella mia mente e si sa, la mente non ha cicatrici visibili da mostrare alla gente affinché ti creda».
Il peso sullo stomaco si era impossessato completamente di Jotaro e oltre alla salivazione acidula si era aggiunta una stretta alla gola che lo aveva costretto a gettare la sigaretta non ancora terminata lontano da sé e a premersi entrambi i palmi delle mani sugli occhi, sperando ardentemente che Kakyoin non si fosse accorto del ribaltamento inaspettato di ruoli. Le orecchie e il cervello però restavano vigili, captavano ed elaboravano i suoni fatti fonemi, si tramutavano in significati e poi si evolvevano in sentimenti di empatia e dolore che gli procuravano sofferenza emotiva e fisica.
Ti prego, non dire quella frase, tu non c’entravi niente.
«Mi vergogno molto di questa cosa. Voglio dire, so che razionalmente parlando ho subito, ma appunto per questo mi vergogno di aver subito. Quando mi hai tolto il germoglio è stato come se fossi morto e rinato, una specie di prima e dopo che mi ha fatto capire che se non avessi fatto qualcosa per riavere indietro la mia dignità di essere umano non avrei avuto diritto di vivere. Di questo…».
Non dirla.
«… ti sarò riconoscente a vita».
Jotaro si lasciò scappare un singhiozzo che lo fece sussultare in tutta la sua figura, costringendo Kakyoin a girarsi preoccupato.
«Ti senti bene?» domandò con una nota di apprensione nella voce «Scusa se ti ho turbato in qualche modo».
Ma pensa.
«S-scusa a me? Dopo quello che mi hai raccontato? Dovrei essere io a chiederti scusa per la situazione in cui ti abbiamo messo» una goccia salata sfuggì al controllo di Jotaro, intercettò un tentacolo e vi si infranse sopra, accentuandone per un attimo la luminosità. Respirò a fondo, una mano sul petto e la visiera del cappellino a coprigli gli occhi arrossati «Io sono quello che dovrebbe chiederti come stai, e invece è finita al contrario… Sono uno stronzo».
Kakyoin gli si sedette accanto e gli porse il suo fazzoletto.
«Sono uno stronzo che ti ruba sempre i fazzoletti»
«Stavolta non ci sono messaggi minatori scritti sopra. E comunque non sei uno stronzo».
Jotaro si lasciò sfuggire una breve risata mentre lo prendeva per affondarci il viso. Stette così per un minuto abbondante, giusto il tempo di riprendere almeno parte del proprio autocontrollo, poi si voltò a guardare l’amico:
«Posso farti una domanda personale?»
«Dimmi»
«Come hai fatto a sopravvivere a quello che hai passato?».
Kakyoin gli rivolse il sorriso più dolce e al tempo stesso triste che avesse mai visto.
«Te l’ho detto, sono morto e rinato, non sono sopravvissuto. Non si sopravvive a certe esperienze, però ci sono parole, sai, che quando vengono pronunciate al momento sbagliato ti fanno ritornare per un po’ alla tua vita precedente e ci resti male… Così è stato stanotte. Per questo non ce l’avrò mai con Polnareff… Cosa ne può sapere?»
«Non che non poter fare niente per te sia tanto meglio» aggiunse Jotaro «ammazziamo quel bastardo e poi? Ti porti addosso questa zavorra finché campi?».
Kakyoin si alzò e tornò a sedersi dietro Jotaro, schiena contro schiena, ma stavolta reclinò il capo sulla spalla sinistra dell’altro.
«Mi basta che tu abbia ascoltato e abbia reso tuo il mio dolore. Davvero, non hai idea di quanto mi abbia fatto bene confidarmi finalmente con qualcuno. Per il resto, la guerra che ho ingaggiato contro la paura posso combatterla solo io».
Jotaro tirò sul col naso e deglutì; gli occhi pizzicavano ancora. Adesso quello era diventato un doppio segreto a due, con le stelle quali osservatrici, testimoni e custodi di queste e altre verità che mai avrebbero rivelato ad ascoltatori indiscreti per i secoli a venire. E fu loro grato di questo, anche se non lo diede a vedere, perché un patto suggellato con le stelle era destinato a sopravvivere alle creature mortali. Non avrebbe nemmeno dato a vedere la sensazione di catarsi che lo avrebbe pervaso e acquietato al sopraggiungere dell’alba, se si faceva eccezione per il ragazzino tranquillo e discreto col quale aveva condiviso un pezzo della propria umanità e che gli aveva dato più di quanto lui stesso se ne rendesse conto.
Con un sospiro reclinò anch’egli la testa sulla spalla sinistra di Kakyoin, afferrò di nuovo il pacchetto di sigarette e se ne mise una in bocca.
«Dobbiamo ubriacarci più spesso» disse d’un tratto, tornando quasi il solito Jotaro di sempre «mi piace quando sputtani la gente»
«Oh no, per colpa tua diventerò un teppista, addio alla mia reputazione di studente modello!» ribatté Kakyoin tra il serio e la burla «Scherzi a parte, sarà la prima cosa che faremo quando finirà. Va bene?».
Jotaro espirò due sbuffi di fumo dalle narici e sorrise.
«Ci conto».

***

¹ Dall'arabo القرم, che vuol dire "cocciniglia", "scarlatto" o "rosso scuro".
² Ho preferito conferire a Kakyoin una palette colori naturale per omaggiare l'OVA. Nonostante qui non sia specificato, anche Jotaro ha gli occhi scuri (per la precisione il canonico nocciola, come indicato nella biografia del personaggio).

Ispirazione numero uno;
Ispirazione numero due;
Ispirazione numero tre.

Musica in Jojo:
Fragile è la sesta traccia di ... Nothing Like The Sun, il secondo album solista di Sting uscito il 13 ottobre del 1987. Al di fuori del contesto del racconto, la canzone tratta della fragilità dell'essere umano di fronte alla violenza e alla forza distruttiva delle armi. Dedicata all'ingegnere civile statunitense Ben Linder, che venne ucciso proprio nel 1987 in Nicaragua, sarebbe uscita come singolo l'anno successivo, a ridosso dell'inizio del viaggio dei Crusaders. Personalmente non ascolto Sting (miserere di me), ma quando ho fatto una ricerca approfondita per la stesura di questa one-shot ero intenzionata a utilizzare una delle sue canzoni più famose, nella fattispecie quelle appartenenti solo ai suoi primi due album, gli unici che Kakyoin sarà riuscito ad ascoltare.

Retroscena: Convertendo la violenza della guerra in violenza fisica e psicologica, ho voluto parlare di due headcanon relativamente famose all'interno del fandom: la prima, che adoro, riguarda lo scambio di orecchini tra il Joeastar più giovane, Kakyoin e Polnareff, mentre la seconda, che ho sempre detestato per la leggerezza con cui se ne parla, concerne la teoria secondo la quale Kakyoin si sarebbe concesso a Dio durante il suo periodo di sudditanza psicologica. Lasciatemi dire che, parole del manga e dell'anime lette e riascoltate più volte, se dovessimo prendere per buona la seconda headcanon ci ritroveremmo a parlare senz'altro di abuso.
Non andrò a mentire, scrivere questo pezzo è stato più facile a farsi che a pensarsi: è stato come voler "buttare via" dalla propria testa determinate cose, come se mi risultassero nocive se solo avessi provato a trattenerle oltre. A ogni modo, è anche vero che si tratta, forse, del racconto che amo e odio di più, vuoi perché parlo della mia saga preferita, vuoi perché il monologo di Kakyoin e la scena animeonly in cui Dio gioca col suo orecchino mi hanno turbata. Insomma, ci sarebbe tanto altro da dire, ma non mi dilungo oltre perché altrimenti finirei per scrivere un saggio, quindi vi ringrazio per aver letto e vi do appuntamento alla prossima settimana.

xoxo

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Capitolo 4
*** Rimpatriata ***


4- Rimpatriata

Rimpatriata

 

Get up (get up)
Come on (come on)
Why're you scared? (I'm not scared)
You'll never change what's been and gone

'Cause all of the stars are fading away
Just try not to worry, you'll see them someday
Take what you need, and be on your way
And stop crying your heart out

Oasis, Stop Crying Your Heart Out

Un racconto sul ritrovarsi sempre e comunque

 


«Vorrei chiederti scusa per essermi comportata male con te».
Proprio da lei non se lo sarebbe aspettato.
Ma com’era cominciata?

La notte precedente stava facendo un caldo tremendo e né le finestre spalancate né il perizoma quale unico indumento indosso erano riusciti a conciliare il sonno di Fugo. Sprofondato nella poltrona e quasi annegato nel suo stesso sudore, si era messo nella condizione di girare canale tenendo mollemente il telecomando tra le dita appiccicose. Il palinsesto televisivo estivo sapeva essere più deprimente della pioggia a Pasquetta, ma niente al mondo riusciva a deprimerlo più dei tormentoni da spiaggia che ogni anno gli bucavano le orecchie. Ergo, era conseguenza logica che Mtv fosse il canale più deprimente in assoluto del momento, e tale assunto era stato partorito dal pensiero del ragazzo nel momento in cui il polpastrello del pollice aveva premuto per la quinta volta sul tasto otto. Neanche a farlo apposta, alle tre e venticinque del mattino si stava ritrovando ad ascoltare un tormentone, diverso dal solito, certamente, ma pur sempre un tormentone.
Il piano sequenza proiettato su un palco da studio stava riprendendo Liam Gallagher nell’atto di cantare nella sua posa sghemba a polsi incrociati dietro la schiena e col microfono incollato alle labbra, con il resto della band ad accompagnarne la voce: “perché le stelle stanno svanendo, cerca di non preoccuparti, un giorno le vedrai; prendi quello che ti serve e avviati per la tua strada, e smettila di piangere a dirotto”.
Fugo si era portato la mano libera alla tempia e aveva spento il televisore sul piano americano della protagonista del video. Il sé stesso dell’anno precedente avrebbe lanciato l’apparecchio giù dal balcone, ma quella notte si era sentito soltanto abbattuto, vuoi per l’afa vuoi per ciò che la canzone gli stava evocando.
«Non dormi?».
Dei passi leggeri avevano rotto il silenzio appena ristabilito. Un paio di braccia si erano sporte oltre la spalliera per far cadere qualcosa di molliccio e viscido che si era spiaccicato ai suoi piedi con un tonfo.
Fugo aveva piegato la testa in alto e si era ritrovato faccia a faccia con Sheila E, anche lei accaldata e in mutande.
«Che c’è?»
«Cos’è quel muso?».
Invece di rispondere, Fugo aveva raccolto il prodotto della loro noia.
«Sai che in cucina c’è il bidone della spazzatura?» le aveva chiesto retoricamente, tenendo sollevato il preservativo per il nodo.
«Ma allora sei vivo» le era venuto da ghignare, un animaletto ancora odorante di feromoni esattamente come lui «che ti passa per la mente in questi giorni? Sei strano»
«Corsi e ricorsi mentali, lascia perdere» aveva sbuffato e scollato le natiche dall’ecopelle per gettare il lattice nella pattumiera.
«Ti dà fastidio se parli con qualcuno?» le aveva sentito domandare dal salotto d’un tratto.
«Dipende dallo stato di insonnia e apatia di tal qualcuno» le aveva risposto di rimando dalla cucina.
«Ok, allora vi lascio da soli, io torno a letto» e così, quando Fugo era ritornato, Sheila E aveva occupato di nuovo – e abusivamente – il suo materasso.
«Fugò?».
Proprio nel momento in cui era stato in procinto di esprimere la propria perplessità riguardo la capacità di lei di riaddormentarsi come se in casa non stesse facendo un caldo infernale, una terza voce si era fatta udire dal tavolino di vetro facendolo imprecare come non mai.
«Mannagg a Cardarell Jean-Pierre, ma che cazzo ci fai qua?!» gli era venuto da imprecare con tanto di balzo all’indietro «Ci hai sentito mentre…? No, sul serio Jean-Pierre, ma che cazzo ci fai qua?»
«Ordini dall’alto, e per la precisione da Mista» era stata la risposta pacata dello spiritello che emergeva per mezzo busto dal carapace del fu Coco Jumbo «siccome ti vedeva triste da giorni ha pensato di scortarmi qui approfittando del fatto che Sheila E avrebbe passato la notte da te… Chiedo venia per l’inconveniente, non avevo previsto il fuori programma di prima»
«Gentile da parte sua, poteva essere lui a parlare con me invece di scomodarti a quest’ora» aveva sbottato con voce leggermente alterata «bastava tanto così per farmi evocare Purple Haze Distortion comunque» aveva aggiunto subito dopo calmandosi un po’. Polnareff era l’ultima persona – persona? – sulla faccia della Terra che si sarebbe meritata le sue sfuriate; e poi non lo avrebbe mai ammesso verbalmente, ma gli era sempre piaciuta l’intonazione che dava al suo cognome quando lo pronunciava.
«Hai ragione, ma sia lui che Giorno pensano che sia io quello con più esperienza riguardo certe… come dire? Dinamiche della vie. Accendi il condizionatore e siediti, tanto né io né te abbiamo voglia di dormire stanotte».
Un’altra cosa che apprezzava di lui era quando indugiava sulle parole come per pesarne la consistenza, come se temesse che con esse potesse schiacciare non solo chi aveva davanti ma anche sé stesso. Non per niente era il consigliere del boss.
«Sai che c’è?» aveva ripreso mentre stava guardando Fugo armeggiare con il controller dell’aria condizionata «Anche a me quella canzone evoca strani ricordi, né belli né brutti, solo… mescolati. E questo mescolamento mi risulta indigesto molte volte»
«Comprendo» Fugo si era seduto di nuovo sulla poltrona, il capo sporto in avanti per guardare quello strano fuocherello fatuo parlante «ha a che fare con tu-sai-cosa che somiglia a io-so-cosa?».
Il tu-sai-cosa di Jean-Pierre era un riferimento ai trascorsi giovanili del braccio destro di Giorno, dei quali aveva intuito la connotazione tragica ma sulla cui entità non aveva mai domandato delucidazioni al diretto interessato, mentre il diretto interessato conosceva bene quelli del ragazzo grazie ai resoconti dei sopravvissuti.
«In un certo senso» Polnareff aveva fatto un’altra pausa, poi aveva ripreso «quando uno dei capitoli più belli ma anche dolorosi della mia esistenza si è concluso, per almeno un anno non mi sono permesso di andare a trovare mia sorella al cimitero. C’era una sorta di rifiuto che non avevo ancora metabolizzato, era come se assieme a lei andassi a trovare anche le persone care che avevo perduto in Nordafrica e non mi sentivo pronto a farlo, non volevo dirgli veramente addio. Un bel giorno ho riaperto il mio zaino e ci ho trovato dentro la sciarpa dell’amico che mi aveva aiutato a vendicarla e… ho pianto come un deficiente!».
Fugo aveva sbruffato nell’immaginare un tipo flemmatico come lui lasciarsi andare a tal guisa.
«Scusami, è che non riesco a farmi un’idea mentale della scena»
«Non è un problema, rimarresti sconcertato se ti venissero a raccontare di com’ero a vent’anni»
«Probabile» aveva sorriso Fugo «vai avanti: com’è finita con la storia della sciarpa?»
«Pensa che quella sciarpa gliel’avevo presa una notte in cui ci eravamo ubriacati tutti assieme… Due settimane dopo la sbronza se n’è andato per sempre e io non l’ho più restituita… È finita che ho fatto una doccia fredda, ho comprato dello champagne e dei fiori e sono andato a visitare Cherry. Ho avvolto la sciarpa attorno alla lapide e le ho domandato come se la passasse con quei discoli dei miei amici, se ce l’avessero con me per qualcosa che gli avevo detto d’impulso quando stavano qui e se in qualche modo potessi rimediare al mio comportamento idiota nonostante quello che avevano fatto per me. Probabilmente è un pensiero infantile e poco razionale, ma considerato che io sono ancora qui pur non avendo più un corpo mio mi piace credere che da qualche parte la stiano proteggendo, anche se… non vedo cosa ci sia da proteggere in paradiso. Anzi, mi correggo: mi piace credere che da qualche parte si stiano scambiando aneddoti stupidi sul vecchio me. Non volevo accettare che mi avessero già perdonato».
Fugo aveva distolto lo sguardo dallo spettro e ghermito il labbro inferiore coi denti. Il vecchio sé stesso avrebbe trattato certi discorsi alla stregua dei vaneggiamenti di Mista sulla fortuna.
«E quindi» si era sforzato di pronunziare «non sono l’unico imbecille che certi giorni dell’anno torna a disperarsi per quello che c’è stato. Molto sentimentale da parte nostra… A volte mi domando come faccia il mondo a continuare a girare senza disperarsi per Bucciarati, come faccia Napoli a esistere senza di lui»
«Molto umano» lo aveva corretto Polnareff «quello che voglio dirti è che non devi darti dell’imbecille o mortificarti se ci sono giorni in cui ti senti così, è perfettamente normale provare determinate sensazioni… Non possiamo pretendere di cancellare il passato con un colpo di spugna, e quello sì che non sarebbe per niente umano. Ti chiedo solo di… come dire? Non cercare di nascondere quello che provi a chi ti sta vicino, perché scoprirai che i loro sentimenti sono i tuoi senza però perdere di vista il futuro che avete davanti».
Fugo non aveva fatto altro che annuire in silenzio. Poi aveva inspirato ed espirato profondamente per scacciare l’insorgere di uno scoppio di pianto e guardato di nuovo il suo interlocutore.
«Jean-Pierre, io… quando io e Mista abbiamo fatto pace, per così dire, la prima cosa che mi ha detto è stata che le ultime parole di Narancia riguardavano il suo desiderio di terminare la scuola. Quando penso a com’è andata è… difficile. Grazie a questo non mangio più una margherita da quasi due anni»
«Se ti occorreranno altri due mesi o due anni andrà bene lo stesso, credo che Narancia sarebbe il primo a dirti che non devi avere fretta di metabolizzare. Comunque sia» Polnareff aveva cambiato leggermente tono «a proposito di ciò, qualche giorno fa c’è stato il concerto di Trish all’Alcatraz di Milano. Sono venuti tutti ad assisterla, persino Murolo si è messo a canticchiare assieme ai ragazzini, mancavi solo tu. Visto che adesso è a Napoli credo sia una buona occasione per incontrarla, cosa ne dici?».
Un picco di adrenalina aveva preso il possesso delle viscere di Fugo: non l’aveva più vista di persona da quando era rimasto inchiodato su quel maledetto molo veneziano e, fosse stato per i trascorsi non idilliaci o per la missione del settembre dell’anno precedente, non aveva avuto il coraggio di esprimere il desiderio di rivolgerle la parola.
«Io…» si era ritrovato a balbettare confuso «non so se lei ha voglia di rivedere me»
«Ma sì che ne ha» era stata la replica inaspettata di Polnareff «quando prima ho detto che Sheila E mi ha condotto a casa tua per conto di Mista ho raccontato una piccola bugia: in realtà l’ordine è giunto sia da Mista che da Trish, e vogliono che tu li incontri domani sera alla libreria dove lavora Giorno. Questo è quanto».
Fugo aveva inarcato le sopracciglia e battuto più volte le palpebre. Non gli era ingiunta idea alcuna di cosa mai avrebbero potuto discorrere lui e Trish, ma tanto era valso capire cosa avrebbe voluto da lui.
«Va bene, farò come dici» aveva detto, per poi aggiungere, girandosi verso la porta della camera da letto disfatta dalla quale si udiva Sheila E sonnecchiare beatamente «solo… ecco, non dire a nessuno del fuori programma, ok? Se Mista lo sapesse non la smetterebbe più di assillarmi».
Polnareff aveva emesso un suono che poteva essere interpretato come una risata.
«Mes lèvres sont scellées» aveva soffiato con ironia.

Giunto così in Piazza Cavour alle ventuno del giorno seguente con la voglia, trattenuta a stento, di urlare alla gente incuriosita dalla tartaruga che teneva al guinzaglio sotto l’ascella “che spacimma hai da guardare”, si diresse spedito al numero civico 57¹, dove il capo dell’organizzazione si fingeva uno studente qualunque per nascondere la sua reale attività.
Più si lambiccava sul dialogo che aveva avuto con Polnareff meno veniva a capo sul motivo per il quale Trish desiderasse vederlo. A tal riguardo, col senno di un’attenta autoanalisi tardiva, aveva scoperto di non odiarla, ma non aveva la minima idea di cosa lei pensasse di lui e tal pensiero lo accompagnò fino a quando si ritrovò davanti il foglio A4 con scritto “Chiuso per inventario” appiccicato sulla saracinesca per metà abbassata.
«Pronto?» disse, accompagnandosi con due colpi di nocche sul metallo «Io sono qua».
La prima cosa che vide fu una serie di trecce colorate che sgusciava dalla porzione di ingresso lasciata aperta accompagnata da un paio di occhi neri e ferini.
«Ce la fai a entrare?» gli domandò Sheila E tutta piegata su sé stessa con un libro di Cicerone in mano.
«Sì, prendi Jean-Pierre però, non voglio fargli male» le disse porgendole Polnareff, prima di piegarsi a sua volta per entrare nel negozio occupato da pile di volumi accatastate un po’ ovunque.
«Ciao Fugo» lo salutò Giorno dall’alto di una scala, intento a sistemare alcuni dizionari.
«Ciao Jojo» Fugo ricambiò. Dietro di lui, Sheila E si era seduta a gambe incrociate per terra e aveva ripreso a sfogliare Cicerone con Polnareff al suo fianco.
«Mista e Trish sono dall’altra parte ad aspettarti, datemi il tempo di catalogare questi e sarò da voi» gli spiegò Giorno senza distogliere lo sguardo dai DeAgostini impolverati «il libraio è un mestiere meraviglioso, ma ho sempre detestato fare l’inventario»
«Sicuro di non volere una mano?» si propose l’ultimo arrivato guardando colui che aveva profferito la lamentela.
«Non preoccuparti, faccio da solo» lo liquidò lui sempre con gentilezza «e poi non ti abbiamo chiamato perché tu mi aiutassi coi libri»
«Giusto» Fugo si passò una mano tra i capelli, sempre più confuso «quindi… dov’è Trish?»
«Di là, nella stanza del leggio, ti vogliono parlare» Giorno sollevò un pollice per indicare il retrobottega.
Senza aggiungere altro, Fugo fece un cenno di assenso e seguì l’indicazione del capo: il motivo per il quale Mista e Trish non l’avevano sentito arrivare era che stavano discutendo a voce bassa, anche se in maniera piuttosto concitata, su…
«Dai, non ci credo che nel Medioevo non esisteva la carta igienica, con cosa si pulivano altrimenti?» sentì dire da Mista
«E lo chiedi a me? Qua è scritto che nell’Italia post rinascimentale usavano i “pezzi degli agiamenti”… Nei conventi si pulivano addirittura con le pezze ritagliate delle tonache vecchie, che schifo»
«No, senti, secondo me la carta igienica esisteva anche ai tempi di Gesù, non ci credo che la gente si puliva il sedere con la stoffa»
«Salve» li interruppe Fugo «Della Casa aveva ragione, secondo il Galateo la gente si puliva il sedere con la stoffa»
«Ciao!» Trish chiuse il libro – che era proprio il Galateo di Della Casa – con uno scatto e gli venne incontro cingendogli le spalle con un braccio per salutarlo «non ci vediamo da un sacco di tempo»
«Mh, sì, vero» gli riuscì di dire con imbarazzo. Bella roba sorprenderla a parlare di carta igienica con Mista.
«Eccoti!» esclamò Mista dimenticandosi completamente del dibattito storico sull’igiene quotidiana nei secoli passati «Lo sapevo che Jean-Pierre fa miracoli! Glielo avessi chiesto io mi avrebbe tenuto il broncio. Dunque» lo afferrò per entrambe le spalle e lo costrinse a mettersi seduto al leggio «Trish ha avuto un’idea malvagia: in realtà il merito è tutto mio, ma facciamo che è stata lei a pensarci… ahia!» Mista prese a saltellare tenendosi lo stinco sinistro «Perché mi prendi a calci?»
«Perché tu hai avuto solo l’idea della birra!» rimbeccò Trish sul piede di guerra, pronta a sferrare un’altra pedata.
«Ok, ok, l’idea è tutta di Trish» Mista incrociò le braccia e guardò in cagnesco la ragazza, che a sua volta ricambiò l’occhiataccia.
«Io comunque sono qui eh» si intromise un Fugo alquanto perplesso sollevando una mano «che avete intenzione di fare?»
«Giusto» Trish abbandonò l’espressione torva e sorrise con gentilezza «tenevo a rivedere il resto della squadra assieme a voi, soprattutto assieme a te»
«Ah» Fugo deglutì. Non sapeva che altro dire.
«Il nostro primo incontro non è stato dei migliori» proseguì lei sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio «quindi, insomma, so che magari adesso è tardi per farlo, ma vorrei chiederti scusa per essermi comportata male con te»
«Io…» Fugo inghiottì ancora. Pur sostenendo lo sguardo di chi chiedeva il suo perdono gli risultò difficile tirare fuori le parole adatte.
«Io…» ripeté «ti ringrazio, anche se pensandoci bene non avevo motivo di avercela con te. Era solo che… in quel periodo ti ritenevo il capro espiatorio per quello che era successo e beh, i miei erano i pensieri di un pusillanime che razionalizzava troppo senza guardare il quadro complessivo, perciò dico sul serio, non provo rancore nei tuoi riguardi»
«Grazie» Trish si profuse in un altro sorriso, stavolta più ampio, liberatorio «spero tu comprenda quanto significhi questo per me»
«Anche perché se serbasse rancore sarebbe ancora il coglione che si è fatto pescare al Meazza» Mista sollevò un’elegante scatola colorata da terra e andò alla ricerca di Polnareff «Jean-Pierre, ci serve il frigo di Mr. President! Stanotte si va a bere con Bucciarati! Giorno, hai finito con i dizionari?»
«Da almeno tre minuti, aspettavo che finiste di chiarivi» sentì dire dall’altra parte.
«Bene, da adesso in poi è ufficialmente il rimpatriata time! Tutti in macchina, guido io!».
E quando il Guido con la G maiuscola si metteva in testa di essere di buon umore non c’era verso di fargli cambiare idea.

Come Fugo aveva intuito, e in seguito scoperto una volta imboccata via Santa Maria Del Pianto, per “bere con Bucciarati” si intendeva scavalcare il cancello del cimitero per trascorrere la notte in compagnia dei compagni caduti.
La prima a scendere dall’automobile fu Trish, che ritrovandosi davanti le sbarre a frapporsi tra lei e i morti che riposavano pensò bene di evocare Spice Girl per elasticizzarle e permettere al resto del gruppo di entrare senza che qualcuno rischiasse di rompersi le ossa.
«Se solo il manager mi vedesse in questo momento» sussurrò divertita, prendendo la torcia che le porgeva Mista «se lo scoprisse si arrabbierebbe un sacco come minimo»
«Scusa, ma come lo hai convinto a trascorrere la notte a casa di Mista senza guardie del corpo tra i piedi?» le domandò Fugo.
«Punto primo, ti ricordo che Passione ha scomodato la fondazione Speedwagon pur di scovarti, quindi scortare Trish in giro per Napoli è una bazzecola in confronto» Mista prese la parola al posto dell’interpellata «punto secondo, sono io stesso una guardia del corpo, la migliore di tutta Napoli, per non dire del mondo, e questo dovresti già saperlo»
«La migliore di tutta Napoli fino a quando i Pistols non mi svegliano alle sei del mattino per fare colazione» aggiunse Trish piccata «mai e poi mai fermarsi al bar o al ristorante con lui, diventa un vero incubo!»
«Impara a rispettare le mie esigenze e ci farai l’abitudine, dovresti sentirti onorata di avermi come scorta» Mista drizzò la schiena con fare tronfio e le diede una leggera spallata per stizzirla ancora di più.
«Fallo ancora e trasformo quella cosa sulla quale non fai battere il sole in un elastico» sibilò l’offesa, scatenando le risate trattenute di Fugo e Sheila E.
Prima che Mista potesse ribattere Giorno gli puntò la sua torcia in faccia per porre fine al battibecco.
«Eccoci» disse serafico «non litigate proprio di fronte a loro, d’accordo?»
«Ok, faccio ammenda» Trish scoccò un’occhiata indispettita a Mista e poi cercò con lo sguardo tra i loculi esterni, individuando quelli di loro interesse grazie alle scritte in ottone lucide e alle date di nascita e di morte ravvicinate che stridevano con quelle più antiche, opache e segnanti vite più longeve e, forse, meno sventurate.
«farabutti, come state?» Mista si tolse il cappello in segno di rispetto, si munì di fazzoletti di carta e iniziò a ripulire dalla polvere il ritratto fotografico di Abbacchio «Che faccia incazzata tieni pure qua, ma là sopra almeno ti trattano bene, sì? O tipo l’arcangelo Gabriele ti toglie il vino e pianti il casino?»
«Secondo me non ne avrà più bisogno» disse Fugo sedendosi per terra, accanto al loculo dei Ghirga, occupato da madre e figlio «altrimenti là sopra si chiamerebbe là sotto»
«Giusto» si corresse l’altro, mettendoglisi accanto non appena ebbe finito di lustrare anche le fotografie di Bucciarati e Narancia «di sicuro non se la passa male, se lo merita»
«In tutto questo abbiamo dimenticato di portargli dei fiori» si rammaricò Trish accovacciandosi per guardare la tomba di Bucciarati «l’ultima volta che sono stata qua c’era anche sua madre… non ricordo di aver pianto così tanto come allora, forse quando è morta mamma»
«Non azzardarti a piangere anche stavolta» la ammonì Mista «e poi cosa se ne fanno dei fiori quando gli abbiamo portato da bere?» e così dicendo si tuffò nel carapace di Polnareff per riemergerne subito dopo con un’elegante confezione di birre artigianali e un vassoio con cinque calici «produzione artigianale salernitana, mica roba da poco!».
Stappò quindi una bottiglia e riempì i calici di alcolico che si premurò di distribuire ai presenti.
«Fugo» Giorno lo guardò dritto negli occhi, le dita affusolate che stringevano con grazia lo stelo «l’ultima volta che sei stato qua era novembre se non sbaglio»
«Sì» Fugo sporse il labbro inferiore e si voltò verso le zagare rinsecchite nei vasi dei Ghirga risalenti ad allora «non so perché mi fosse venuto in mente di prendergli proprio i fiori da matrimonio, forse per la somiglianza col nome… Fatto sta che gliel’ho portati da solo perché avevo bisogno di parlare con loro in privato… Che cosa bizzarra da dire» considerò d’un tratto, bevendo un sorso generoso di liquido giallo «Ti capita mai di voler tornare indietro per rimediare agli errori commessi?»
«Se potessimo fare una cosa del genere non ci evolveremmo mai come persone» a differenza degli altri, Giorno non aveva toccato la birra: si limitava a farla girare nel calice per osservare le bollicine affiorare sulla superficie «anche se ci sono momenti in cui si desidera tanto poter fare una cosa del genere si deve prendere atto che siamo fatti per andare avanti per loro, per noi stessi e per chi è rimasto. E comunque, resto dell’avviso che ci rivedremo, presto o tardi, ma ci rivedremo. Sai, no? Il motto che ripete Murolo di continuo…»
«”Niente dura per sempre”» recitò Fugo quasi stesse ripetendo una nenia «tenendo conto di quello che siamo, non c’è sentenza più azzeccata»
«Io tanto ho la fortuna dalla mia» disse Mista versandosi ancora da bere «camperò fino a centosette anni circondato dall’affetto dei miei tre figli, sette nipoti e undici pronipoti, la banda suonerà al mio funerale che sarà pienissimo di gente e verrò ricordato con affetto da tutti»
«Oppure ti ricorderanno come il rompipalle fissato con la iettatura» fu il commento sarcastico di Trish, che non badò al “gne gne gne” di quest’ultimo soffiato a bassa voce «Per quel che mi riguarda, non mi interessa vivere così tanto: mi dico sempre che io sono voi e voi siete me. Se è vero che abbiamo un destino in comune, a prescindere di come andrà non ho rimpianti»
«La iettatura me la butti addosso tu con questi discorsi» Mista le scompigliò i capelli «hai sedici anni, mica ottanta! E goditela questa vita!».
Fugo stava per contraddire Mista dicendogli che non era esattamente ciò che intendevano Giorno e Trish, ma ricevette un pugno sul braccio e il successivo “no” sussurrato a fior di labbra da Sheila E, che era rimasta zitta per tutto il tempo. Comprendendo ciò che si celava dietro quella richiesta di far silenzio decise di ritirare l’obiezione perché a ben pensarci nessuno di loro aveva effettivamente torto, e poi perché non era giusto infrangere lo spirito conciliatore di quella nottata fuori dal comune. A ogni modo, sia Giorno che quello scafato di Murolo avevano ragione su una cosa: non sarebbero morti nel comfort dei loro letti. Perché se era vero che una giornata storta capitava a tutti, tale assioma poteva rivelarsi fatale per un mafioso, per quanto votato al bene potesse ritenersi. Che fosse stato tra dieci giorni o dieci anni, prima o poi avrebbero incrociato uno strano stand di pietra col loro volto scolpito sulla superficie e non ci sarebbero stati scongiuri o previsioni che tenessero, nemmeno di fronte all’evidenza del fato. Un fato che li avrebbe visti perire il giorno del battesimo dell’unigenito dei coniugi Mista per mano di un traditore, privando il neonato dei genitori.
Fugo vuotò il calice e si versò altra birra, ignaro, ma nemmeno più di tanto, di quello che lo attendeva, e pensò alla fotografia di gruppo della sua vecchia banda sul comodino.
V’era ancora tempo per rivedere Narancia.

 
 

***


¹Il numero 57 di Piazza Cavour è veramente una libreria, tra l'altro una delle più antiche di Napoli. Non avendo mai visitato la città dal vivo (prima o poi rimedierò, promesso) ho solo presupposto come fosse al suo interno. Il nome è volutamente omesso per evitare problemi di ogni tipo, ma grazie a Google è possibile risalirvi.


Musica in Jojo: Stop Crying Your Heart Out è il secondo singolo di Heathen Chemistry, il quinto album in studio degli Oasis uscito il 2 luglio 2002, nonché uno dei tormentoni estivi dell'estate di quell'anno. Era infatti frequente ascoltare il pezzo sia in radio che nei vari canali musicali del tempo (qualcuno ricorda All Music?), tra le quali la sopra menzionata Mtv. Assieme a In My Place dei Coldplay, ricordo fosse il pezzo meno estivo riproposto in loop dalle emittenti radiofoniche. Se volete ascoltare, o riascoltare, quelle canzoni, vi basta cliccare a questo link.

Retroscena: stavolta non è stato Jojo a darmi lo spunto per il racconto, bensì questa canzone degli Oasis, che è stata quella che mi ha dato modo di conoscerli ormai quasi vent'anni fa (e che ad oggi restano una delle mie band preferite nonostante il loro scioglimento, sigh). Come avrete notato ho ambientato la vicenda dopo gli eventi di Purple Haze Feedback perché era mia intenzione delinerare meglio il carattere di un Fugo più risoluto, più tranquillo e rilassato, ma pur sempre parzialmente legato al passato, così come lo sono gli altri personaggi, chi più chi meno. È stata una delle prime one-shot che mi sono venute in mente e, forse, quella con la gestazione più lunga. Apparentemente semplici da delineare, i personaggi di Vento Aureo sono quelli che finora si sono rivelati i più difficili da scrivere, compreso il caro e frainteso/bistrattato Fugo.
Grazie come sempre per aver letto, seguito e recensito la raccolta, alla prossima one-shot.  

Ps: momento spammino: qualora non abbiate niente da fare siate liberi/e di spulciare il mio profilo Instagram dove troverete foto di dischi, di manga, di libri e... di pappagalli. Ah, e anche gli aggiornamenti relativi a Sotto i cieli di Afrodite, ovviamente.

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Capitolo 5
*** Vespro dei beati sposi (prima parte) ***


5- Vespro dei beati sposi (prima parte)

Vespro dei beati sposi (prima parte)

 

Saranno fiumi e cascate di perle
Saranno fiori sbocciati da cogliere fino alle stelle
Per noi che abbiamo tempo passiamo troppo tempo
Ad aspettare l'attimo che accende

Max Gazzé, A cuore scalzo

Un racconto sugli incontri inaspettati

 

A Joseph i cimiteri italiani non erano mai piaciuti.
Anche in una bella giornata come quella, gli ammassi tristi di marmi e angeli contriti per gli umani peccati non lo disponevano per il migliore degli stati d’animo. Ma il vecchio non intendeva mostrarsi intristito, non di fronte alla figlia e all’amico che stava andando a trovare.
Strano ma vero, quell’oggi a Napoli si respirava aria di festa. Dalle campane delle chiese al chiacchiericcio allegrotto delle donne dinanzi al cancello del cimitero Nuovissimo, era intuibile che qualcosa di lieto fosse appena accaduto, ma né i coniugi Joestar né tantomeno l’autista che aveva deciso di aspettare la coppia in abitacolo avevano idea del perché. A giudicare dagli sprazzi di conversazione uditi distrattamente dalle comari, si parlottava del matrimonio di un pezzo grosso di Napoli, roba da giornaletto di gossip, in parole povere. L’unica a non porsi la questione era la figlia adottiva, che aveva infilato l’ingresso di via Santa Maria Del Pianto a saltelli subito contagiata dall’atmosfera.
«Shizuka» le fece Joseph cantilenando «ricordati dove stiamo andando»
«Sì, babbo!» la ragazzina rallentò il passo e si portò gli occhiali da sole a forma di cuore sulla testa per mostrargli il visetto impertinente «”E niente invisibilità, mi raccomando!”¹»
«Non farmi il verso eh! Guarda che se fai la monella resti senza gelato!»
«Sì babbo» ripeté la figlia, stavolta in tono più mesto, affiancandosi a Suzie Q.
«Tanto lo so che se non te lo compra il babbo ci pensa la mamma, vero?» le fece lei accarezzandole il mento «Ah, bimba mia! Quanto invidio la tua giovinezza»
«Ehi, guarda che sono già grande!» sbottò Shizuka, i capelli neri che ondeggiavano dietro la schiena esile «E poi dove stiamo andando? Per chi sono quei girasoli?»
«Oh, questi!» Joseph sistemò meglio il mazzo di fiori che teneva incastrato nell’incavo del braccio sinistro «Questi sono per una persona speciale che mi ha salvato la vita quando io e la mamma eravamo giovanotti, e oggi andiamo a chiedergli come se la passa in paradiso».
Shizuka rimase in silenzio. Piegò il collo di lato e assottigliò gli occhi a mandorla in un’espressione indecifrabile. Era probabile che avesse preso le parole del vecchio come le esternazioni di un nostalgico, ma era giusto così. Una undicenne aveva il diritto non comprendere certe cose.
I tre avanzarono quindi senza profferire altro nel paesaggio monotono di lapidi, fiori appassiti e date di nascita e di dipartita, fino a quando si fermarono dinanzi a una delle cappelle famigliari più pittoresche del cimitero.
«Anche da morto resti comunque un vanesio» furono le prime parole di Joseph alla vista della costruzione.
Più che a una cappella somigliava al tempietto di un dio greco: sopra lo stilobate si ergeva una fila di colonne con capitelli in stile dorico che proteggeva la cella dentro la quale riposavano i defunti. La croce di Cristo raffigurata al centro della porticina di vetro colorato si imponeva con la sua fragilità sulla tracotanza delle scanalature. In alto, l’altorilievo rivestito in oro della Sacra famiglia occupava quasi per intero lo spazio del timpano e rifletteva i raggi del sole pomeridiano, mentre il fregio riportava, sempre in oro e con caratteri eleganti, la scritta “Famiglia Zeppeli”.
«Però a me quella Sacra famiglia continua a piacere, è così bella» commentò Suzie ammirando il capolavoro posto a protezione della cappella «Chissà, magari lassù si è fatto una famiglia tutta sua»
«Già, chissà…» borbottò Joseph «Shizuka, amore di papà, mi aiuti con i fiori?» aggiunse rivolto alla ragazzina.
«Shizuka?».
Shizuka non ascoltava. Era rimasta indietro rispetto ai due coniugi, lo sguardo fisso verso il dedalo di lapidi che avevano percorso. Aveva rinforcato gli occhiali da sole e si era issata sulle punte delle scarpe per guardare meglio le persone che erano arrivate dopo di loro. Anche Suzie, dopo la contemplazione dell’altorilievo, aveva lasciato perdere i fiori e si era posizionata alle spalle della figlia.
«Joseph, guardala!».
Con la fronte corrugata per l’irritazione, Joseph si voltò nella stessa direzione e per poco non fece cadere i fiori sull’asfalto.
Una sposina, seguita da quelli che dovevano essere il neomarito e tre amici della coppia che portavano in dono dei mazzi di rose bianche come l’abito della festeggiata, incedeva con passo leggero reggendo in mano un bouquet di zagare. Nonostante il luogo serbasse poco spazio per la gioia, il sorriso raggiante della figura era a malapena celato con grazia dalla mano impalmata, e così dissimulando invitava gli altri membri del gruppetto a seguirla. Guardando un po’ i vivi dietro di lei e un po’ i morti ai suoi piedi, era evidente stesse cercando qualcuno a lei caro tra i secondi, e infatti, una volta individuata una installazione di loculi non molto distante dalla cappella Zeppeli, si era fermata a contemplare le lastre di marmo in attesa che gli altri la raggiungessero. Nel mentre aveva liberato l’involucro di seta che teneva unito il suo mazzo per ricavarne tre più piccoli, che porse di seguito al congiunto tendendogli le braccia candide.
Alla vista dei tre mazzolini, lo sposo si portò una mano al viso e chinò il capo per non mostrarsi alla moglie.
«Abbraccio di gruppo sullo sposo!» esclamò l’invitato vestito di verde scuro, probabilmente il testimone, che gli si buttò a capofitto e lo avvinghiò con le braccia.
«Oh, tesoro, sarà andato a trovare delle persone a lui tanto affezionate per mettersi a piangere il giorno del suo matrimonio» Suzie si asciugò un accenno di lacrima dal ciglio, intenerita dalla scena di lui che veniva sobbissato di abbracci dalla sposa e dagli amici che lo accompagnavano.
«, non lo soffocatemi che sennò Leone si incazza e mi rimanda indietro a calci!» si udì sdrammatizzare dall’oggetto di quel moto di affetto genuino, ottenendo come risultato uno scoppio di risa generale.
«Mamma» sussurrò Shizuka a Suzie «ma quella con la cicatrice sulla faccia e le trecce porta una tartaruga al guinzaglio! La voglio vedere da vicino!».
Non le venne nemmeno concesso il tempo di trattenerla: la ragazzina si era lanciata in una corsa per raggiungere gli sposi e i loro accompagnatori, che in quel momento erano occupati a decorare le tombe dei cari con le zagare e le rose bianche.
Con ancora i girasoli in mano, Joseph trasse un respiro profondo. E subito dopo ridacchiò.
«Quella peste mi farà impazzire prima o poi, non ho mai incontrato persona più sfacciata di lei».
Suzie sollevò un sopracciglio.
«Abbiamo gli specchi in casa» gli rimbeccò leggermente stizzita «dovresti usarli più spesso»
«No, grazie, so già di essere bellissimo» fu la risposta di Joseph, che si voltò per infilare la chiave nella serratura della porticina in vetro «piuttosto, visto che la peste è andata a farsi conoscere dalla sposa perché non mi reggi un attimo il bastone? Devo sistemare i girasoli nei vasi».
Suzie obbedì, non senza aver bofonchiato alcune imprecazioni in veneto stretto, e, bastone da passeggio stretto in mano, assistette alla vista di Shizuka accovacciata accanto alla sposa, che non sembrava per nulla infastidita da quella incursione improvvisa, per aiutarla con le rose. Una volta terminato con il compito si alzarono per andare incontro ai due anziani alle prese coi più sgargianti fiori gialli, seguite con lo sguardo dai tre uomini e dalla donna che aveva loro ceduto l’animale.
«Buonasera!» esordì sorridente la sconosciuta, nella voce una forte flessione dell’estremo Sud Italia «vostra figlia mi ha raccontato che siete venuti dall’America per andare a trovare il vostro amico: e così lui riposa in questa cappella, vero? È davvero bellissima».
Adesso che guardava da vicino quegli occhi verdi esaltati dal trucco leggero e dall’acconciatura elaborata dai riflessi ramati², Joseph dovette ammettere a sé stesso che era veramente una graziosa tortorella e che il marito aveva buon gusto in fatto di donne, ma ebbe il buon senso di tenersi dentro tali pensieri: non voleva beccarsi una bastonata sugli stinchi da Suzie.
«Oh, sì, è molto bella!» esclamò di rimando il vecchio «Una tomba pittoresca per una famiglia pittoresca col cuore grande».
Joseph guardò prima la sposa, poi Shizuka e infine la tartaruga, e poi riprese a parlare:
«Anche voi siete qui per i vostri amici?».
La donna si sistemò un boccolo dietro l’orecchio e sorrise mesta. Il primo sorriso malinconico che le vedevano fare.
«Sì, amici di mio marito per lo più, ma me li porto lo stesso nel cuore da quando se ne sono andati» si voltò a guardare le persone che erano rimaste a parlottare tranquillamente nei pressi dei loculi «mi hanno letteralmente salvato la vita»
«Oh mia cara, dovevano essere dei bravi ragazzi, che Dio li abbia in gloria!» Suzie aveva gli occhi lucidi «Sono sicura che da lassù stanno festeggiando con voi il lieto evento, vi auguro tanti, ma tanti anni felici da vivere assieme! Siete bellissimi!»
«Vi ringrazio» la sposa chinò il bel capo leggermente imbarazzata «era un voto che ho fatto tanti anni fa, se mi fossi sposata li avrei onorati con i fiori d’arancio e per niente al mondo avrei mancato la promessa. Ma vi prego, non vi voglio annoiare con le mie cose» si affrettò ad aggiungere «Posso donarvi una delle nostre rose? Per il vostro amico, s’intende»
«Al mio amico piacevano un sacco le belle ragazze, quindi la tua rosa sarà molto apprezzata da quel mascalzone» nell’allungare il braccio per accettare il regalo inaspettato, a Joseph scappò un sorrisetto malizioso «ma ehi, non dire niente a tuo marito! Non voglio grane»
«Allora resterà un segreto» la sposa fece l’occhiolino.
La mano rugosa del vecchio sfiorò quella di seta della giovane e un brivido leggero ma ben percettibile pervase le schiene di quelle due persone che non si erano mai incontrate prima: per un attimo fu come se avessero avuto la sensazione di condividere qualcosa di più grande di un semplice incontro fortuito, qualcosa di talmente grande e sfuggente al tempo stesso che non seppero dargli un nome. Si scambiarono uno sguardo sorpreso carico di eccitazione e così come la sensazione era arrivata si spense immediatamente dopo la fine del contatto.
«Grazie» disse Joseph con voce piatta, distogliendo subito lo sguardo dalla donatrice per sistemare la rosa in mezzo ai girasoli «è stato un bel gesto»
«Si figuri» mormorò lei tenendo stretta la tartaruga.
«Papà» si intromise Shizuka «quando torniamo a New York mi compri una tartaruga uguale? Guarda quanto è carina questa!»
«Oh, giusto» totalmente riscossosi, Joseph rivolse l’attenzione a quella mascotte bizzarra col carapace quasi del tutto nascosto da un piccolo cuscino bianco, che probabilmente aveva funto da portafedi prima della cerimonia «hai già tre cani, un gatto, cinque cacatua e un pesce tropicale, perché non aggiungere un altro pezzo al tuo zoo?»
«Io voto per la tartaruga in casa» disse Suzie avvicinandosi all’animale per accarezzargli una zampa «ciao paggetto simpatico! Sei curioso, sai? Da quando ti sei avvicinato guardi solo quella volpe di mio marito, lo trovi simpatico?»
Il rettile le tese la zampa anche se teneva il collo allungato per osservare Joseph, il quale ricambiò la sua occhiata vacua con perplessità.
«Che ti devo dire» concluse l’interpellato stringendosi nelle spalle incurvate «gli animali mi piacciono e io piaccio agli animali, non è una novità» tese di nuovo la mano per imitare il gesto di Suzie, e stavolta la tartaruga socchiuse persino gli occhi con soddisfazione.
«Visto? Già mi vuole bene» prima di lasciare andare la tartaruga la pungolò affettuosamente sul naso con l’indice destro «come mai proprio una tartaruga?»
«A lui piacciono le persone, non volevamo lasciarlo a casa» rispose la donna grattandole a sua volta il collo «e poi non potevamo trovare paggio migliore di lui»
«Papà, quando mi sposerò vorrò anche io la mia tartaruga paggio» annunciò solennemente Shizuka, seria in volto.
«Certo, certo, e gli altri animali ti cuciranno il vestito addosso come Cenerentola… Ma oh» aggiunse Joseph rivolta alla sposa «tra non molto si farà sera, non vogliamo che gli invitati vi aspettino per colpa nostra»
«Figuratevi, è stato un piacere conoscervi» l’interpellata incurvò di nuovo le labbra scoprendo le file di denti regolari «mi ricorderò di voi e degli Zeppeli… Allora, andiamo al ricevimento, vero?» domandò alla tartaruga, che aprì e chiuse lentamente la bocca.
«Beh, addio, e tanti auguri» fu il congedo di Suzie, mani strette al cuore e occhi nuovamente lucidi.
«Grazie, e buona giornata, soprattutto a te Shizuka!» La sposa agitò un braccio per salutare il terzetto, poi, mentre si allontanava dalla cappella, fece cenno agli altri di allontanarsi dal cimitero.
Nell’avviarsi in direzione del cancello, le quattro persone che erano con lei si voltarono all’unisono e salutarono anch’essi i Joestar: tra loro spiccava un giovane uomo dai bei tratti orientali con una treccia bionda che cadeva lungo la schiena foderata di damasco. Si fermò per alcuni secondi a osservare con benevolenza la famiglia giunta dall’America per onorare la memoria dell’amico a essa caro e poi si affrettò a raggiungere il resto del gruppo senza dire niente.
«Beata la giovinezza» sospirò Suzie sognante «quanto sarebbe bello riviverla anche solo per un giorno»
«Perlomeno non avrei dolore costante all’anca» Joseph si ridedicò al mazzo di Caesar per fare in modo che la rosa spiccasse sui girasoli. Nel sistemarla meglio fu allora che si accorse di un petalo giallo caduto nella corolla immacolata; quando cercò di tirarlo fuori delicatamente udì distintamente uno squittio di dolore provenire proprio da lì dentro.
«Ahi! Il sedere!».
Joseph allontanò da sé la rosa ed evocò istintivamente Hermit Purple: dalla corolla levitò un omino piccolissimo delle dimensioni e del colore di un proiettile, con la testa a forma di goccia e il numero uno impresso sulla fronte.
«Mi hai pizzicato il sedere!» sbottò l’omino con una vocetta stridula.
Il vecchio sgranò gli occhi, e la stessa cosa fece l’omino.
«Tu mi vedi?».
Nessuna risposta. Le liane viola ancora attive e visibili solo al vecchio e alla creaturina.
Ecco cos’era quella sensazione di prima…
«Papà, cosa- oh» avendo sentito per caso la voce dell’omino nella rosa, Shizuka si era infilata nel cunicolo della cappella e adesso anche lei si era ammutolita all’improvviso.
«Ehm» l’omino si torse le mani «io vado allora eh? Ciao! Aspettatemi!».
E senza dire altro sfrecciò via dalla cappella, raggiunse in volo il gruppetto in festa e si nascose tra i boccoli neri dello sposo girato di spalle.
Joseph e Shizuka si scambiarono un’occhiata carica di sorpresa per quanto avevano visto e subito dopo, convenendo che fosse la cosa giusta da fare, decisero tacitamente di non farne parola con nessuno.
Shizuka scoccò un’occhiata indagatrice alla madre: a giudicare da come guardava ancora gli sposini che diventavano sempre più piccoli alla vista, sembrava non essersi resa conto di quell’attimo di confusione.
«Che peccato» la udirono sospirare «non le ho nemmeno chiesto come si chiama».
Fortunatamente non se n’era proprio accorta.

***

¹Per questioni di fruibilità, ho fatto in modo che Shizuka riuscisse a controllare il suo stand.
²Ritenuti rosa da praticamente tutto il fandom, ho preferito ispirarmi ad alcune illustrazioni ufficiali di Araki (click 1; click 2) che ritraggono la "futura" sposa coi capelli rossi o ramati.


Musica in Jojo: A cuore scalzo è il secondo singolo di Quindi?, il settimo album discografico di Max Gazzé uscito nel maggio 2010. La canzone, invece, viene rilasciata il 24 settembre dello stesso anno. Restando in tema "headcanon e musica" è molto probabile che Giorno e i suoi possano averla beccata ascoltando la radio.

Retroscena: Scrivere questa one-shot è stato delirante, e non solo perché a differenza degli altri racconti il non-narrato è potenzialmente più interessante del narrato, ma perché fare interagire i personaggi provenienti da ben quattro serie di Jojo mi stava facendo impazzire. Oltretutto, l'impresa si è resa ancora più ardua dal fatto che l'intera vicenda sia percepita dal solo punto di vista dei Joestar, per cui ho dovuto fare lavoro di autocensura per evitare di scrivere i nomi della sposa e dei suoi accompagnatori, e soprattutto per far capire quanto io shippi i due sposi senza dire esplicitamente che li shippo (lollete).
Altra curiosità: il titolo del doppio racconto (sì, ci sarà una seconda parte), è un chiaro riferimento al Vespro della beata Vergine di Monteverdi, il brano preferito della best wine aunt.
Nella speranza che anche questa pubblicazione sia risultata gradita, vi ringrazio per aver letto e vi do appuntamento al prossimo racconto.

xoxo

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Capitolo 6
*** 22 marzo ***


6- 22 marzo

22 marzo

 

Tomorrow could be too late
I wish I could change the date
Tomorrow could be too late
If only you had some faith

Too young, too proud, too foolish
Too young, too proud, too foolish

The Cranberries, Tomorrow

Un racconto sul senso di fratellanza

 

Il taxi si fermò nei pressi dell’indirizzo indicato. Tre uomini scesero dall’autovettura.
Sotto le tre paia di occhi a mandorla si distinguevano le occhiaie da jet lag, ma considerato che il loro non era stato un viaggio di piacere nessuno avrebbe notato quel particolare, e se anche lo avessero fatto non avrebbero disposto della sicumera necessaria per controbattere a eventuali commenti malevoli.
Il maggiore del terzetto sapeva cosa significava palesare la propria presenza dentro quella casa. Significava rivendicare silenziosamente non solo il proprio posto nel mondo in qualità di essere umano, ma anche il diritto inviolabile di esternare un dolore che avrebbe dovuto accomunarli, e in cuor suo sperava che almeno la condivisione dello stesso lutto li avrebbe risparmiati dal rinfacciargli la sua storia familiare.
Mosse un primo passo verso il vialetto che divideva un giardino ben curato e che conduceva alla porta della classica abitazione americana, cose da film americano, appunto. Ciò che stonava veramente con il resto del quartiere e delle altre case era il ciliegio in fiore piantato alla sua destra, il cui tronco era cinto da una fascia arancione impossibile da non notare. Cosa mai avesse spinto il defunto a portarsi un pezzo di Giappone in Florida era un’informazione che non avrebbe più potuto rivelare a nessuno.
Il primo passo era rimasto anche l’unico, per ora. Si era inchiodato lì e non riusciva a muovere un muscolo, tranne quello cardiaco, che sentiva perforargli i timpani, a ricordargli che era ancora vivo. Il sudore freddo che iniziava a macchiargli la camicia gli comunicava che di lì a poco la pressione sanguigna lo avrebbe tradito.
«Josuke».
Trattenne il fiato per un attimo. La voce che lo chiamava proveniva da chi gli stava stringendo il braccio.
«Josuke, ti senti bene?».
Quella stessa voce che gli sembrava lontana parve svegliarlo quel poco che bastava per riconoscerne il proprietario. Nel contempo, la stretta al braccio si fece più forte.
L’uomo di nome Josuke riconobbe colui che lo aveva chiamato. Ma sì, era lo stesso col quale aveva condiviso la seconda classe in aereo e anche una vita intera.
«Okuyasu, io non… non lo so»
«Sei pallido» gli disse l’amico con apprensione «e scommetto che ti senti anche le gambe molli»
«Magari se ti portiamo dentro riusciamo a farti sedere» disse la terza voce, quella dell’altro amico fidato.
«N-no, no, sto bene, è solo l’aereo» Josuke si portò una mano alla fronte per cercare di riscuotersi, trovandola zuppa e gelata.
Dalle espressioni dei suoi accompagnatori intuì di non essere stato granché convincente.
«Forse non dovevo trascinarvi con me» proseguì «non dovevate sopportare questo macello… perdonatemi».
Sentì Koichi afferrarlo per l’altro braccio.
«Non dire queste cose nemmeno per scherzo, chiaro? Se siamo con te è perché abbiamo voluto farlo»
«Senti» Okuyasu gli si parò davanti e lo prese per le spalle «non è che hai paura di entrare? Se è così noi aspettiamo con te, non è un problema».
Josuke non poté che fare un cenno col capo per confermare i dubbi di quest’ultimo. Da quando aveva ricevuto quella telefonata il giorno prima era come se una parte di sé se ne fosse andata per sempre, cambiandolo nell’anima e nella mente.
«Io… e se sua moglie non vuole che entri?» domandò guardando la porta aperta e oscurata da figure sconosciute vestite a lutto «e se sua madre mi odia?»
«Allora» Okuyasu gli cinse il viso con entrambe le mani e lo guardò dritto negli occhi «se accade quello che dici noi andiamo da loro e gliene diciamo quattro… No, ascoltami!» aggiunse subito frapponendo un indice teso tra i loro volti per interrompere sul nascere l’obiezione di Josuke «Non esiste che tu venga trattato male da persone che non ti conoscono, tu sei la mia famiglia, e se la mia famiglia viene offesa io mi arrabbio. Giusto Koichi?»
«Giusto» ripeté l’interpellato con risolutezza.
Josuke avrebbe voluto ringraziarli, ma la lingua gli si era incollata al palato e non aveva energie a sufficienza per poter esprimere la sua gratitudine. Perciò decise di fare tesoro di quelle parole riprendendo a camminare, seppur a testa bassa, lungo il vialetto.
Come si aspettava, il terzetto venne accolto con sguardi incuriositi da persone che non avevano idea alcuna circa la loro identità, eppure Josuke aveva la sensazione che ogni occhiata rivolta a lui fosse uno spillo nella carne e ciò gli faceva mancare il respiro man mano che si avvicinava al motivo finale del suo viaggio intercontinentale. Le persone lo guardavano ma lui le percepiva come spettri; non voleva che un branco di sconosciuti schernisse la sua esistenza, però era inevitabile suscitare la loro perplessità.
Non impiegarono molto a trovare la stanza adibita a camera ardente: era semplicemente la più quieta della casa, pure quella occupata da spettri, anche se alcuni singhiozzavano piano. Chi erano, non lo sapeva, e non intendeva farlo. Gli spilli, però, li sentiva tutti, e se non fosse stato per Okuyasu e Koichi, sempre vigili e attenti, sempre presenti per lui, sarebbe crollato sul parquet.
I feretri erano aperti e circondati dai fiori. Chi le occupava, banale a dirsi, sembrava dormire in pace. Un padre e una figlia che riposavano in abiti da festa.
Josuke allungò un braccio verso il volto sfregiato del defunto. Una cicatrice suturata post mortem trapassava l’occhio destro e finiva col tagliargli parte del labbro. Al contatto con la pelle del viso le dita gli restituirono il freddo e la rigidità della morte, alla quale rispose con un lieve bagliore dorato che sciolse i punti e ridonò ai tratti la sua originaria bellezza.
«Chissà come se l’era procurata quella ferita» mormorò Koichi osservando i punti sparsi sui cuscini.
«Credo che non lo sapremo mai» la voce di Josuke era diventata piatta, ma sapevano che quella era solo una farsa «mi hanno solo detto che è morto e basta».
Si spostò poi verso la seconda bara, dove a giacervi c’era la più giovane della famiglia, palpebre delicatamente truccate, capelli acconciati, labbra rosee. Sul corpo nessun segno di offesa. Somigliava molto a…
A…
Non ci riesco.
Si allontanò dalla camera ardente a grandi falcate, ignorando i richiami di Okuyasu e Koichi, e uscì dalla casa col fiato corto e le lacrime agli occhi. Si ritrovò a cercare sostegno nel tronco del ciliegio come un assetato in un’oasi, vi ci poggiò una spalla e si premette una mano sul nodo della cravatta per scioglierla dalla gola, maledicendo quella telefonata e quel 22 marzo che lo stava distruggendo.
Era assurdo, era tutto assurdo.
Era assurdo che il bastardo di una famiglia altrimenti felice fosse andato a fare le condoglianze a individui coi quali condivideva solo parte del suo sangue, era assurdo che in una situazione del genere si ritrovasse a pensare alla sua, di famiglia, quella che si era costruita da solo, e che dentro quella bara ci avesse visto…
«Josuke?».
Tornò nel mondo reale. A chiamarlo non furono né Okuyasu né Koichi, ma una voce femminile che non aveva mai udito prima.
Si voltò. Sotto le fronde del ciliegio vi era una donna non più nel fiore degli anni con due occhi grandi e stanchi che lo guardavano con preoccupazione. Stringeva un fazzoletto impregnato di chissà quante lacrime e i capelli grigi striati di biondo cadevano flosci lungo il viso smunto.
«Tu sei Josuke, vero?» domandò nuovamente la donna in perfetto giapponese.
Il cuore di Josuke mancò un battito. Non si aspettava che qualcuno gli parlasse nella sua lingua madre in una simile occasione.
«Sì» disse piano, a testa bassa.
«Ciao Josuke» la donna si avvicinò ancora e fece un breve inchino «io sono… sono la mamma di Jotaro, mi chiamo Holly. Ti ringrazio per essere venuto fin qui a trovare mio figlio e la mia bambina, lo apprezziamo tantissimo».
Non c’era rancore nelle sue parole, solo tanta gratitudine. Era veramente gratitudine?
«Posso… posso guardarti meglio?» gli domandò sempre con quella voce dolce che gli faceva venire voglia di lasciarsi andare del tutto «Sono figlia unica e… sai, avere un fratello o una sorella non mi sarebbe dispiaciuto».
Josuke si staccò dall’albero e le si avvicinò per esaudire la sua richiesta: lei allungò una mano sottile per accarezzargli il viso e subito le ciglia si bagnarono di commozione.
«Gli somigli così tanto, si vede che sei un bravo ragazzo, sicuramente gli volevi… gli vuoi bene, no? Anche se certe volte è un po’ scontroso sono sicura che sia felice di vederti».
Josuke continuava a non parlare, annuiva e basta. Come spinto da una forza misteriosa tese le braccia e cinse il corpo della donna in un abbraccio disperato ma tenero, che gli fece dimenticare la sua condizione di figlio non legittimo.
«Mi scusi» gli riuscì di dire «non volevo crearvi scompiglio, però non potevo restare a casa dopo quello che è accaduto… pensavo che non sarei risultato gradito, dovevo avvisarvi… forse»
«Tesoro, dammi del tu» Holly tirò fuori un fazzoletto pulito dalla tasca della gonna e se ne servì per asciugargli il volto «non devi sentirti fuori posto, non con questi occhi buoni che hai… che non dovrebbero essere mai tristi».
Josuke trattenne un singulto e sorrise lievemente.
«Anche Jotaro vorrebbe che tu non piangessi» proseguì «quel caro ragazzo è tanto sfortunato, da quando è nato non gliene capita una giusta… ormai era come se… è come se venisse tormentato continuamente dai demoni, anche se non me l’ha mai detto ho capito che si sente in colpa per essere stato ancora vivo… e io gli dicevo, gli dico che deve vivere per il bene di Jolyne ma non mi ascolta mai… quindi adesso, magari… magari è in pace e senza preoccupazioni»
«Vorrei poterlo fare» Josuke si staccò da Holly «ma non adesso, non oggi. Tua nipote è molto bella»
«Sì, è bella. Ha preso dal papà… Dimmi, Josuke, tu hai figli?»
«Sì» l’uomo aspirò col naso «due bambine, a loro piacciono molto le bambole, gliene compro sempre… sembra strano ma quando… quando ho visto tua nipote ho pensato alle bambole delle mie figlie perché sembrava dentro… dentro una scatola, con il vestito da sera e i capelli acconciati, e poi somiglia tanto a loro, quindi non ce l’ho fatta e me ne sono andato, ho mollato i miei amici dentro come un codardo»
«Ti vogliono molto bene, sono in apprensione per te» Holly rivolse un’occhiata all’ingresso dell’abitazione, dove intravide Okuyasu e Koichi stare a debita distanza dall’amico per concedergli la discrezione di quel dialogo «sono venuti per farti compagnia, dovete essere molto legati».
Sul volto di Josuke apparve il barlume di un sorriso.
«Ne abbiamo passate così tante che li considero dei parenti, dei fratelli… sì, fratelli è la parola giusta anche se non gliel’ho mai detto, ma penso che lo sappiano»
«Sai, anche Jotaro ha degli amici, sono delle persone speciali che gli vogliono tanto bene… È stato per loro se ho voluto che venisse salutato qui, così almeno possono rivedersi dopo tanto tempo… e poi volevo che fosse a casa sua per la sua ultima giornata in famiglia, con i suoi genitori»
Josuke la guardò interdetto. Da quel che sapeva non ricordava che Jotaro avesse degli amici stretti.
«Jotaro ha degli amici?»
«Sì» Holly indicò il ciliegio alle spalle di Josuke «loro… se ne sono andati tanti anni fa per il mio bene, perché per loro ero una persona importante, quindi ho regalato questo bell’albero a Jotaro affinché se lo portasse in Florida, così quando tutti passano da qui e lo vedono è come se sappiano che esistono, cosa hanno fatto per noi… quella fascia l’ho fatta io».
Josuke guardò il tronco dell’albero: la fascia di stoffa pesante che lo decorava era di un arancione vivace, in contrasto col nero e con l’atmosfera che si respirava, ed era ricamata alle estremità con dei motivi a forma di ankh. Ne prese una e toccò le cuciture rosse e gialle che gli comunicavano una voglia smodata di ribellione e libertà.
«Anche se non li conoscevo, credo che nonostante tutto abbiano scelto di vivere, perché se non si fa ciò che dice il cuore non si vive. Io sono nato perché per mia madre era la cosa giusta da fare, quindi se sei qui a parlare con me vuol dire che hanno fatto la cosa giusta»
«Cerco di dirmelo sempre anche se non è facile, perché adesso sono… da sola»
«No, per favore, non dire questo» Josuke la cinse ancora per le spalle «Non so, se vuoi… ogni tanto puoi venire a trovarmi… Voglio farti conoscere mia moglie e le mie figlie, sicuramente ti adoreranno»
«Oh» Holly allargò gli occhi per la sorpresa «Sarebbe… sarebbe bellissimo se fosse così… sì, voglio conoscere le tue bambine, gli voglio fare da zia e insegnagli l’inglese, posso, vero?»
«Sì, puoi» Josuke le strinse le mani nelle sue e guardò quelle iridi azzurre tanto simili al genitore in comune. Trasse un sospiro e lasciò andare la presa. Era il momento di porre la domanda scomoda.
«Lui lo sa?»
Holly seguitò a sospirare anch’ella. Poteva esserci solo un lui a cui poteva riferirsi.
«No… non ancora. Non credo che se ne renderà conto. Ha una certa età e quindi… però continua a chiamare Jotaro e io gli dico che è andato a lavorare, così lui si calma. Forse in questi giorni gli dirò che è andato dai suoi amici per un po’… non voglio raccontargli una bugia, non se lo merita»
«Ho… ho capito» fu quello che riuscì a dire Josuke.
Restarono a parlare all’ombra del ciliegio fino a quando il sole non fu tramontato, inframezzando le parole con altri abbracci, altre lacrime e altri ricordi, pensando, ma non esternando, a quanto sarebbe stato lieto incontrarsi in un contesto del tutto diverso, adatto alle loro nature altruiste. Dovettero invece condividere la perdita della loro parte spensierata, che tanto avevano tenuto a preservare chi stava loro accanto. Quando arrivò il momento di separarsi fu il sopraggiungere di altra mestizia colmata solo con la promessa di rivedersi ancora per vivere e condividere.
«Promettimi che verrai a trovarmi»
«Lo giuro sul mio ragazzo».
Però qualcosa non stava funzionando.
Quella scena non aveva senso, quel funerale ne aveva ancora meno.
Da chi era partita la telefonata? I loro corpi non si erano disintegrati assieme all’universo? E poi vivere e condividere?

Vivere e condividere?
Vivere?
Ma lei era viva, era lì accanto a loro, com’era possibile? Perché non riuscivano a vederla?
«Ragazzina» due braccia muscolose la tirarono fuori dall’acqua «questo non è posto per te, fila da papà, vai!».
Era successo veramente?
Quando venne gettata di mala grazia sulla battigia della spiaggia si ritrovò a fissare due sclere inchiostrate.
«Dannate ragazzine, me le ritrovo sempre fra i piedi».

***

Musica in Jojo: Tomorrow è il singolo anticipatore di Roses, il sesto album dei Cranberries pubblicato nel febbraio del 2012. Il sound è in totale contrasto con il tema trattato nel racconto, ma ascoltando le parole, e tenendo conto del periodo di uscita del singolo, non ho potuto fare a meno di includerla in playlist. Mi piace pensare che Josuke possa averla ascoltata in aereo assieme ai suoi bro della vita.

Retroscena: Le cose da dire sarebbero tante. Innanzi tutto Josuke è, editorialmente parlando, il Jojo meglio riuscito subito dopo Joseph, e questo grazie alla sua simpatia e alla sua capacità di farsi apprezzare da praticamente tutti. Anche se, come spiegato precedentemente, non sono una grande fan di Diamond Is Unbreakable, gli riconosco un carisma e una versatilità narrativa fuori dal comune: della serie, starebbe bene sia in contesti comici che in contesti drammatici, riesce a reggere una storia anche senza il supporto di personaggi secondari e il suo rapporto con Okuyasu e Koichi è uno degli elementi di forza dell'intera saga. Il suo incontro con Holly era stato pensato sin da quando mi ero spoilerata il finale di Stone Ocean, per cui ho voluto chiudere la prima parte della raccolta con i due figli di Joseph.
Come avrete notato non ci sono molti dettagli in questo dialogo, ma è fatto apposta per far sì che si agganci alle prossime sei one-shot che verranno pubblicate a partire dalla prossima settimana. Come anticipato su Instagram, vi avviso che saranno un vero e proprio mindfuck con tanto di ambientazione inventata - quasi - del tutto di sana pianta e incontri improbabili. 

E niente, baci, abbracci e grazie mille per aver letto.

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Capitolo 7
*** Un diavolo in paradiso (interludio) ***


7- Un diavolo in paradiso (interludio)

Un diavolo in paradiso (interludio)

 

Carpenter Brut, Souls Wreck

Un racconto sulla recidività

 

Erba soffice, fresca, carezzevole. Una goduria.
Fu con questa sensazione che rinacque dalle ceneri dell’infinita brutta morte numero… chi lo sapeva, aveva perso il conto, che mai si stancava di spezzargli il corpo. Era talmente disabituato alle cose belle da trovare quel contatto quasi fastidioso. Si tolse i capelli scomposti dalla fronte e si mise seduto. Attorno a lui il prato, di un verde così vivido da accecare e imperlato di goccioline di rugiada, si perdeva a vista d’occhio lungo un paesaggio straniante che sembrava non avere niente di terreno. Di anima viva, o perlomeno umana, non v’era traccia, ma a fargli compagnia c’erano dei pavoni che, placidamente e senza mostrare timore alcuno per la presenza dello sconosciuto, zampettavano senza meta apparente e becchettavano di tanto in tanto le gocce sulle foglioline.
La linea dell’orizzonte, appena sfumata, univa la terra a un cielo tiepido e benevolo reso tale da una imitazione pallida e innocua del sole, una specie di motore immobile che vigilava su una dimensione altrettanto immobile e immutabile. Si alzò in piedi senza problemi, coi segni della sua ultima dipartita svaniti nel nulla assieme al dolore delle carni martoriate, che chissà per quanto tempo ancora avrebbero mantenuto la loro integrità. Non aveva idea alcuna del luogo in cui si trovava, ma di una cosa era certo: non provava quella sensazione di benessere da così tanto tempo da desiderare di restare lì per sempre, da solo, assieme alla rugiada e ai pavoni che arruffavano le ali sotto quella stella gentile e caritatevole.
Aguzzando la vista verso la propria sinistra scorse il profilo del muro alto, scuro e all’apparenza invalicabile di una costruzione dalle dimensioni considerevoli. Con la lentezza che la metafisica del luogo imponeva, percorse a passi lenti la distanza che lo separava dalla costruzione, con la stella pallida e i pavoni che non lo abbandonavano mai, come se in qualche modo gli stessero comunicando che con la sua presenza stava partecipando abusivamente a una qualche sorta di meditazione sempiterna teoricamente a lui non concessa in quanto creatura dall’anima empia.
Si avvicinò sempre di più, meditatamente e progressivamente, e quello che prima aveva scambiato per la porzione di un bastione si rivelò essere una parete di viti intrecciate tra loro in modo talmente fitto da rendere impossibile la visione di qualsiasi cosa si celasse dall’altra parte, un mescolarsi di verde, marrone e viola quasi voluttuoso.
Allungò entrambe le braccia per toccare i pampini e i grappoli turgidi e invitanti che attendevano solo di essere raccolti; non appena i polpastrelli vennero in contatto con i frutti un brivido improvviso di gelo gli tolse il fiato per un istante tanto eterno quanto spiacevole. In lui si fece strada l’idea di non essere da solo, e la compagnia degli uccelli stavolta non c’entrava niente. Non sapeva il perché, non sapeva come, ma aveva avvertito la presenza di qualcuno al di là della parete. Accostò quindi l’orecchio e trattenne il respiro, non era scontato che la persona – o le persone – protette dalle viti non si fossero accorte a loro volta di lui.
L’udito percepì una risata sommessa ma cristallina, una risata che gli bastò per far evaporare velocemente le belle sensazioni che aveva immeritatamente provato fino a quel momento.
«Visto? Te l’ho detto che ci siamo persi, ma tu continui a voler cercare di uscire»
«Allora fammi capire, ti piace l’idea di restare qui dentro per l’eternità?»
«Mi piace l’idea di sentirti dire la verità su quello che provi per me».
Un attimo di silenzio. Poi la prima voce, quella che aveva riso, riprese a parlare:
«Dai, stendiamoci un attimo a riposare, non eri tu quello che mi aveva detto di sentirsi a suo agio solo quando è al mio fianco? E allora dimmi come dovrei interpretare quelle parole».
Come se i rami si fossero trasformati in serpenti velenosi, allontanò la testa di scatto e fece alcuni passi indietro colto da una sensazione traboccante sorpresa, disgusto e rabbia. Si ravvivò la zazzera e sputò per terra in segno di disprezzo verso il destino beffardo che aveva deciso di fargli incontrare di nuovo quei due bastardi che se la ridevano invece di marcire dentro un cappotto di legno. Se davvero le cose stavano in quel modo, era giusto che a morire più di una volta non fosse solo lui.
Avvicinò ancora le mani alle foglie e all’uva matura, stavolta per strapparle via e vendicarsi dell’onta subita, ma dalla parete sgusciò fuori un ramo che lo schiaffeggiò, accecandolo momentaneamente.
Com’era possibile?
Si portò una mano sulla parte offesa del viso e quando riaprì gli occhi si ritrovò a mettere a fuoco un boston terrier bianco e nero che gli ringhiava contro. Anche se la bocca era impegnata a tenere qualcosa, forse la visiera di un cappellino, il ringhio si faceva sempre più sordo e insistente e le pieghe del muso arricciato gli conferivano un’aura minacciosa.
«Pensa agli affari tuoi se non vuoi che ti dia un calcio», gli disse con tono di sufficienza «altrimenti ti ammazzo per primo».
Non l’avesse mai detto.
«Screanzato!».
Si voltò di scatto verso la zona dalla quale era risorto. Una terza voce squillante irruppe la quiete del paesaggio brumoso, facendo drizzare le teste di alcuni pavoni. Un damerino vestito di bianco e con un bizzarro cappello a cilindro in testa avanzava a grandi falcate proprio in sua direzione, gli occhi fissi su di lui e un’espressione arcigna a contrargli il volto.
«Come ti permetti di insudiciare con la tua aura malvagia questo luogo sacro? Non sai che solo alle anime giuste è concesso calpestare la terra che immeritatamente stai insozzando con la tua presenza? Vattene, demonio! Vattene all’inferno e bruciavi per sempre!».
Non ebbe il tempo di rendersene conto: quattro rami si allungarono attorcigliandosi lesti per i polsi e le caviglie. Il cane, nel frattempo, non aveva mai smesso di rivolgergli quel ringhio ostile. Stava diventando insopportabile.
«Che cosa volete da me?» urlò di rimando l’intruso «Possa anche andarmene all’inferno se volete, ma non mi priverete della mia sete di vendetta! Lasciatemi portare con me i traditori che stanno al di là di quelle piante e dimenticherò il nostro incontro!»
«Non ti sarà permesso insultare la quiete eterna di coloro che hai fatto soffrire!» rispose il damerino «Nonostante avverta una sorta di legame misterioso che ci unisce mi repelle anche solo parlare un altro minuto con te!»
«Aspetta un attimo, non- !».
Le ultime parole gli morirono in un conato di sangue. Un quinto ramo si frappose tra lui e lo spazio immobile perforandogli fatalmente lo sterno.
Il cane aveva smesso di ringhiare; barcollò, poi cadde malamente impattando di schiena contro la parete di pampini.
«Non farai più del male a nessuno. Ora va’, possa tu patire il tormento eterno così come chi entra nel giardino di Mitra è baciato dalla grazia».
Furono le ultime parole che sentì pronunciare prima che la coscienza lo abbandonasse ancora, e ancora, e ancora, e quando sarebbe ritornata più spezzata di prima sapeva che non bastavano altre mille morti affinché si purgasse. Perché il riposo eterno non era affare di coloro che mai avevano provato rimorso per le azioni violente.
E anche se non lo avrebbe mai ammesso a sé stesso, era giusto così.

***

Musica in Jojo: Souls Wreck fa parte di Blood Machine, la colonna sonora che Carpenter Brut ha rilasciato nel 2020 per il film omonimo diretto da Seth Ickerman. Ad oggi non è possibile guardarlo per vie legali (il trailer potete comunque guardarlo qui), ma è possibile ascoltare la colonna sonora consultando la pagina artista di Carpenter Brut su Youtube e Spotify.

Retroscena: Crediateci o meno, questo breve racconto è in assoluto la prima cosa che abbia mai scritto di Jojo. Venutami in mente subito dopo la visione di Vento Aureo e scritta dopo la lettura di Phantom Blood, resta una delle one-shot più strane che mi accingo a pubblicare dalla mia iscrizione a EFP. Ergo, se una volta ultimata la lettura vi sentite confusi/e, sappiate che è del tutto normale. Altro fatto curioso che ha a che fare con tutta la raccolta e che si collega alla scelta della playlist presentata: sono una patita di musica elettronica, per cui quasi tutti i racconti sono stati scritti mentre ascoltavo synthpop e retrowave a palla. 

Alla prossima settimana e grazie per essere giunti/e fin qui!

xoxo

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Capitolo 8
*** La metafisica del primo incontro ***


8- La metafisica del primo incontro

La metafisica del primo incontro

 

Come you masters of war
You that build the big guns
You that build the death planes
You that build all the bombs
You that hide behind walls
You that hide behind desks
I just want you to know
I can see through your masks

Bob Dylan, Masters of War

Un racconto sul non-esistente

 

Fra tutte le sensazioni che Reimi Sugimoto e Arnold potevano aspettarsi di provare nella loro nuova casa non v’era certamente l’impressione di essere stati catapultati dentro un quadro di De Chirico, e per la precisione un quadro di De Chirico assai confuso. Non che lo spettro della ragazza si aspettasse un aldilà movimentato, ma non credeva di dovere fare i conti col paesaggio desolato di una cittadella praticamente deserta e bagnata dalla luce rossastra di un tramonto – o alba? – sempiterno. Fatto ancora più curioso, ai due lati del selciato sul quale lei e l’animale si ritrovarono a camminare si ergevano costruzioni dagli stili architettonici più disparati: un simil Partenone ultraterreno con la sua esplosione di colori accanto a un obelisco di pietra reso di fuoco grazie al rosso perenne del mezzo disco solare che sembrava voler sfidare la sinagoga piazzata di fronte a lui con le sue tre navate e le sue cupole che faceva di tutto pur di sminuire la grazia discreta di una cappella con l’effigie del Cristo risorto posto dirimpetto alla gagliarda pseudoellittica di un anfiteatro romano che oscurava quasi del tutto una statua votiva del Buddha sdraiato che osservava sornione un palazzone grigio fumo reso ancora più brutto dalla bellezza variopinta di una Nike ricostruita che sollevava la mano destra in direzione di una moschea dorata…
Reimi serrò le palpebre per un attimo e abbassò il capo; quel disordine immobile la confondeva. L’unica certezza di cui disponeva era il contatto rassicurante col pelo di Arnold, che sollevò il muso lungo la sua gamba e scodinzolò piano per comunicarle che, forse, anche lui si sentiva spaesato. Reimi riaprì gli occhi: i palazzi, i templi e il sole rosso c’erano ancora con tutto il loro carico di inquietudine, ma a rassicurarla c’era comunque il suo amico a quattro zampe col suo manto marroncino di sempre e la sua espressione rassicurante dietro gli occhioni docili di cane paziente.
Si accovacciò per accarezzargli il collo e l’animale rispose come di consueto schiudendo un poco la bocca, e fu allora che si accorse della mancanza di qualcosa.
La ferita mortale alla gola era scomparsa.
Immediatamente si toccò la schiena alla ricerca del segno che si portava dietro da quando era stata uccisa e al suo posto toccò nient’altro che la propria pelle sana e apparentemente mai offesa.
«Strano, non trovi?» domandò al suo unico interlocutore che non poté fare altro che continuare a scodinzolare.
«Che ne dici se cerchiamo di scoprire qualcosa su dove siamo finiti?» riprese la ragazza, per nulla felice della situazione, ma nemmeno spaventata.
Una bizzarra situazione.
«Allora, cosa farebbe qualcuno che conosciamo bene?» disse, stavolta più a sé stessa che ad Arnold «Scommetto che questo qualcuno non perderebbe tempo e cercherebbe di capire perché sia finito qui, poi si armerebbe di carta e matita e inizierebbe a disegnare… Ma cosa inizierebbe a disegnare? Forse quella basilica giù in fondo? Quella statua di Minerva? Oppure quel tera dalla parte opposta?».
Era certa che il signor qualcuno avrebbe scelto l’edificio o il tuttotondo più fuori posto che fosse riuscito a trovare, e fu proprio Arnold a suggerirle di incamminarsi in direzione di quello che finora meritava il primo premio di opera architettonica più brutta mai concepita da umano ingegno, almeno secondo i suoi gusti personali.
Le zampe del cane, quindi, si mossero lentamente verso un immenso blocco di cemento armato a forma di torrione.
«Sì, è veramente terribile Arnold. Ti faccio i miei complimenti» Reimi attraversò la strada per avvicinarsi alla sua prima vera destinazione concreta da spirito dell’aldilà chiedendosi se fosse la scelta più saggia da fare.
Non che importasse molto, alla fine. Se lei e Arnold non erano più materia lo stesso valeva per il luogo che percepivano come reale intorno a loro, quindi tanto valeva scoprire cosa riservava per loro la vita eterna.
La porta d’ingresso del mostro grigio, già aperta e pronta, a quanto pareva, ad accoglierli, era minuscola come le finestrelle che si intervallavano sui fianchi delle torri, ma non fu difficile individuarla perché dall’interno era percettibile una luce diversa da quella esterna, una luce artificiale che richiamava quella rassicurante degli interni di una casa.
Fu straniante constatare la differenza tra i silenzi che si interfacciavano tramite quel rettangolo di vuoto: se fuori l’immobilità recava una sorta di timore ancestrale della fine anche per lei che l’aveva vissuta, dentro il velluto rosso e le lampade appese alle pareti le davano la sensazione che non avrebbe avuto nulla di cui temere. Guardò ancora il paesaggio esterno, come se volesse accertarsi della presenza di quel sole anomalo, e infine si decise a mettere piede nell’antro del mostro.
Reimi e Arnold si ritrovarono a percorrere un corridoio bene illuminato e decorato di specchi incastonati in cornici riccamente elaborate. Il loro riflesso restituiva l’immagine ribaltata di una studentessa giapponese e del suo cane all’apparenza in salute, vivi, con tanti anni quanti erano i chilometri dello stradone che si erano lasciati alle spalle. Il fantasma sbatté le ciglia: due occhi a mandorla su un bel volto di adolescente in fiore ripeterono il gesto.
«Andiamo» sussurrò al cane riprendendo a camminare «in fondo c’è qualcosa. Ma… vuoi vedere che…?».
In fondo si intravedeva uno spazio bianco, qualcosa che assomigliava vagamente a…
«Un’esposizione d’arte? Arnold, vieni, presto!» Reimi accorciò in fretta la distanza che la separava dalla sua intuizione e quando venne accolta dai dipinti le fu spontaneo restituire loro la gioia di averli trovati con un sorriso a trentadue denti.
Quell’ambiente, che non ricordava per nulla il suo triste involucro esterno, era incommensurabilmente grande. Qualcosa del genere, se rapportato alla città di Morio-Cho, equivaleva per ampiezza ad almeno metà della sua città natale, e ciò era incredibilmente straniante. Ma anche meraviglioso.
«Ah, se solo potessi vedermi» mormorò con un senso di riverenza nei confronti dei Caravaggio esposti alla sua sinistra «credo impazziresti».
Adesso, però, c’era un problema: quale quadro ammirare per primo? Un dilemma nel dilemma, pensò guardando Arnold che si appropinquava ad annusare l’olio del Cristo sul Monte degli Ulivi. Stavolta, però, toccava a lei decidere dove andare, e di certo avrebbe riservato al Merisi una visita approfondita in seguito.
I piedi si mossero automaticamente: gli diede le spalle, dato che seguitava a ispezionare quella sezione del museo, e così come aveva deliberatamente ignorato la fonte dell’attenzione dell’animale fece lo stesso con tutti gli altri dipinti. Tanto avrebbe avuto l’eternità a disposizione.
E proprio l’eternità le sentenziò che il suo battesimo del fuoco con la propria condizione di elemento immutabile sarebbe avvenuto davanti a una pala d’altare raffigurante l’ascensione della Madonna.
Uno sgabello sempre rivestito in velluto, lungo abbastanza da accogliere fino a quattro persone, la invitava a mettersi comoda per ammirare l’opera dalla quale era stata scelta, e così fece.
A essere onesti non trovava chissà quali differenze tra questa e altre ascensioni della Madonna. Era… una Madonnina velata di blu con l’aureola e lo sguardo rivolto verso l’alto, circondata da una banda musicale composta da una coppia di angeli ai due lati e tre putti ai piedi. In basso, radunati attorno al sepolcro, vi erano cinque apostoli e un’altra donna – forse Maria Maddalena? – i cui occhi erano direzionati in posizioni differenti: due apostoli e la donna guardavano la Vergine, altri due tenevano il capo chino mentre ancora altri due fissavano lo spettatore, e fu proprio questo particolare a rimanerle impresso. Non aveva idea dell’identità di quei due personaggi, ma era come se fossero stati messi lì appositamente per giudicare le anime dei morti che finivano per cadere nella trappola trascendentale della loro dimensione, che non era né terrena né divina. Giudicavano e basta, o almeno si trattava dell’interpretazione di Reimi. Certo era che se il suo caro qualcuno avesse definito quell’opera d’arte soltanto una pala d’altare sarebbe salito su tutte le furie.
«Oh», esternò a un tratto «diventa vecchio e poi, forse, mi farai la ramanzina. Diventare vecchio…» Reimi concentrò l’attenzione sul volto in ascesi della Madonna «Devi diventare vecchio sì, altrimenti che ci sto a fare qua? Vero Alfred?» si girò per vedere dove fosse finito il cane. Con suo stupore l’amico a quattro zampe si era fatto un altro amico, anche lui a quattro zampe, ma più grande e con ampie chiazze nere su tutto il corpo. Assistendo alla scenetta per nulla sacra di due cani che si annusavano il didietro a vicenda non riuscì a trattenere un risolino.
«Ahahahah, chiedo perdono… Ahahah» fece ai due apostoli indagatori «stanno solo facendo conoscenza! E poi se sono qua significa che erano due bravi cani… Non è vero?» domandò poi alzando la voce di un tono «Arnold, perché non me lo presenti? Arnold?».
Sentendo il richiamo del proprio nome, il cane raggiunse la padrona seguita dal gigante chiazzato di nero.
«Sei un alano arlecchino!» Reimi allungò le braccia per accarezzargli il garrese «Un alano grosso e beneducato! Come ti chiami? Io sono Reimi».
Non aspettandosi una risposta articolata, il cagnolone le porse una zampa mentre seguitava a ispezionarla con l’olfatto.
Eppure, una risposta le giunse.
«Benvenuta Reimi, lui si chiama Danny».
Una risposta fornita in un giapponese dalla flessione impeccabile.
«Oh» Reimi si alzò per indagare sull’origine della voce maschile che l’aveva appena salutata: l’ingresso della galleria venne completamente ostruito da un altro gigante, stavolta bipede, vestito di un tuxedo blu notte e no, non era nient’affatto giapponese.
A quella visione la ragazza spalancò la bocca e provò un leggero imbarazzo per il suo vestitino rosa. Che avesse dovuto presentarsi alla mostra in abito da sera?
«Ti prego, rimani seduta, non volevo disturbarti» riprese l’uomo avvicinandosi alla pala. Ora che lo osservava più da vicino, Reimi constatò che era piuttosto giovane per la sua stazza; due occhi dolci del colore del cioccolato la guardavano con benevolenza da sotto i folti, e ribelli, capelli castani, unica pennellata turbolenta di un quadro che trasmetteva calma e sicurezza¹. Il tenutario ideale per una razza nobile come quella di Danny.
«Oh, no, lei, tu, insomma, lei non disturba per niente» si affrettò a dire la ragazza «anzi, se vuole può sedersi qui, c’è tanto spazio!».
Ma che sto dicendo?
«Ti ringrazio» disse lui accomodandolesi accanto «tra l’altro questo è uno di quei dipinti che non avevo mai analizzato da vicino… Chissà perché ogni volta che torno a visitare questa mostra in particolare finisco col fare conoscenza con un nuovo visitatore… A proposito, io mi chiamo Jonathan» aggiunse, tendendole la mano.
«Piacere» Reimi la strinse «lei parla molto bene il giapponese»
«Accetto di cuore il ringraziamento, ma è merito di questo posto» spiegò lui «quando si abbandonano le spoglie mortali cadono anche le barriere linguistiche, quindi se a te sembra che io stia parlando giapponese a me sembra che tu stia parlando inglese, e lo stesso vale per le altre anime… Comunque sia, non essere così formale, non sono cattivo» le disse, sollevando entrambi i palmi come per schermirsi.
«Comprendo…» Reimi arrossì leggermente «Quindi lei… tu da dove vieni?»
«Ero inglese, ma adesso non ha più molta importanza» Jonathan scrollò leggermente le spalle e alzò lo sguardo verso il volto della Madonna «quando si viene qui si perde la propria identità nazionale per diventare parte del non esistente. Gli edifici che ci sono fuori, compreso questo e tutto ciò che vi è custodito al loro interno, hanno concluso la loro funzione e di loro rimane soltanto l’essenza, come io, te e i nostri cani. Ogni cosa che vedrai, toccherai, annuserai, mangerai… in realtà non esiste, perché eravamo e adesso non siamo più, ed ecco spiegato il motivo per cui le distanze e le grandezze ci appaiono finite e infinite allo stesso tempo».
Reimi rimase interdetta da quel discorso che, tanto per restare in tema, aveva senso e non aveva senso al tempo stesso.
«Mi scusi, anzi scusa, ma noi stiamo parlando, no? Vuol dire che le nostre coscienze stanno interagendo in qualche modo, o sbaglio?»
«Non sbagli, perché non siamo nemmeno immersi in una illusione. Qualcuno o qualcosa vuole farci sentire finalmente in pace e di ciò non discuto. Siamo soltanto… come dire, noi anime che ci autocostruiamo il nostro aldilà».
Anche Reimi aveva ripreso a osservare il dipinto. Arnold e Danny proseguivano la loro esplorazione in silenzio.
«Quindi… mi stai dicendo che questa Madonna non esiste più?».
Jonathan scosse la testa.
«Questa costruzione era stata voluta da Hitler in persona, serviva a proteggere quello che vedi. La cosa buffa è che l’incendio della Flaktürme Friedrichshain è scoppiato a conflitto terminato e né i tedeschi né i russi hanno potuto farci un granché… Quindi, ironia della guerra, dal funesto maggio 1945 tocca a noi trapassati ammirare questo splendore. Sapessi il viavai di gente che c’è stato in quel periodo… Qualcosa che non avevo ancora visto prima di allora».
«Saprei io chi farebbe carte false pur di ammirare questo splendore» Reimi inarcò le sopracciglia e scoccò un’occhiata al suo interlocutore «non so esattamente perché io meriti di stare qui, è solo che cercavo di fare bene il mio lavoro di baby sitter, così ho lasciato che il mio assassino prendesse me piuttosto che il bambino in custodia con me… Quindi… non saprei, può l’anima di un bambino valere quindici anni di limbo tra i vivi e i morti alla ricerca di giustizia?»
«Certamente» rispose lui «l’hai fatto perché era la cosa giusta e per nient’altro, hai combattuto contro il tuo istinto di autoconservazione per salvare una persona. E… dimmi, questo qualcuno che farebbe carte false è per caso lo stesso bambino che hai salvato?»
«Già, oggi è un fumettista famoso che ama cacciarsi nei guai. Un tipo spericolato, ma in fondo è un bravo ragazzo».
Jonathan sorrise a labbra chiuse.
«Vedila così, hai fatto in modo che tante persone si appassionassero alle sue storie, e mentre lui si gode le opere d’arte terrene tu ti godi le essenze di quelle perdute col vantaggio di poter tornare qui tutte le volte che vuoi… Sai che non ho ancora esplorato nemmeno la metà di questa sezione? Non bastano cento anni terreni per ammirare quattrocentodiciassette dipinti, per non parlare dei tesori che contengono gli altri musei, e sono tutti nostri. Questa in particolare» aggiunse, riferendosi alla Madonna «è l’Assunzione della Vergine di Fra Bartolomeo³, abbastanza raffaelliana come ispirazione. Fatto sta che…» ad un tratto l’interlocutore si voltò verso la nuova venuta e socchiuse gli occhi «Sai che c’è? Ti sembrerà strano ma i miei primi incontri sono sempre avvenuti qua, e quando questo avviene significa che c’è una specie di legame che ci unisce».
Reimi piegò la testa di lato. Adesso che lo osservava bene, quel gentiluomo ben piazzato gli ricordava giusto un paio di persone che aveva conosciuto quando vagava come fantasma nel vicolo di Morio.
«Può darsi… Ma non saprei in che modo i nostri destini possano dirsi collegati…»
«Già, chi lo sa… A proposito, mi raccontavi della tua, per così dire, vita da fantasma. Davvero sei rimasta laggiù per tanti anni?»
«C’era una città da proteggere e avevo bisogno che qualcuno mi desse una mano» mentre Reimi riprendeva a raccontare la storia della sua non-vita da spettro, Arnold tornò da lei e le poggiò il muso sulle ginocchia, mentre Danny si era sdraiato ai piedi di Jonathan «quindi era mio dovere rimanere. Alle persone cattive non dovrebbe essere permesso di fare quello che vogliono».
Jonathan sembrava guardare un punto indefinito della pala mentre accarezzava distrattamente il testone di Danny. I suoi occhi per un attimo divennero lucidi.
«Anche se non sempre è così non posso darti torto. Forse non ci crederai, ma anche io ho combattuto una guerra prima di trovare davvero la pace, solo che a differenza tua non c’era il mio spettro a struggersi per il dolore, ma qualcosa di più tangibile… Qualcosa che ha fatto tanto male a chi non se lo meritava e che ha distrutto la mia discendenza. Spesso le persone cattive non possono fare a meno di odiare perché non riescono a riscattare una vita fatta di miseria spirituale, e per quanto amore tu possa donargli penseranno sempre che si tratti di uno scherzo o di un inganno. Ma dimmi, Reimi» disse all’improvviso «hai una famiglia che ti aspetta?»
«Io?» l’interpellata si drizzò sulla sedia: come aveva potuto dimenticare di ricongiungersi coi suoi genitori? «Certo che ho una famiglia che mi aspetta, me n’ero dimenticata perché non sapevo dove andare! Però non capisco come sia finita a parlare con te! Cioè, non voglio offenderti, ma perché tu sei la prima persona che incontro?»
«Non ne ho la minima idea, ma è sempre stato così con tutti i miei primi incontri!» Esclamò Jonathan alzandosi e afferrando la pala da un lato «Una volta fatta conoscenza con gli altri abitanti del posto, però, ne sono sempre venuto a capo. Sappi che il viale di Clio rappresenta solo una parte infinitesimale di questo mondo, sei capitata proprio al confine con quello che noi chiamiamo laggiù. Se lo percorri per intero rischi di finire negli inferi o di ripiombare tra i vivi, per cui è un’esperienza che non consiglio a nessuno di provare» tirò il dipinto come fosse una porta e, sorpresa, dietro la parete vi era un’apertura che conduceva a…
«Benvenuti a Morio-Cho?» Reimi balzò fuori dalla Flaktürme, seguita a ruota da Arnold, e aggrottò la fronte dinanzi al cartello piantato in mezzo a un campo di gigli del ragno rosso «Ma come…?»
«Come ti avevo accennato prima, siamo noi a costruire il nostro aldilà. Un giorno prima vuoi andare a Londra e quello dopo a Tokyo, ti basta volerlo» fu la risposta di Jonathan, che era rimasto dentro «seguite i fiori fino a quando i gigli si diraderanno e sarete arrivati»
«Grazie mille, ma…» Reimi guardò sia il cartello che Jonathan «non ti dispiace se ti lascio?»
«Non preoccuparti, quando voglio restare solo per un po’ vengo sempre qui, l’importante è che adesso tu riveda i tuoi cari»
«Grazie ancora, Jonathan» disse lei piegando le ginocchia in un breve inchino «avremo altre occasioni per incontrarci?»
«Ovvio! Se sei la ragazza coraggiosa che hai raccontato di essere aspettati di ricevere la visita del temibile Iggy del ciliegio! Qualora ti rubasse qualcosa e lo portasse in dono a un indovino saprai che i nostri destini sono davvero intrecciati. Quando avverrà ti farò conoscere un sacco di gente interessante»
«Allora non vedo l’ora di farmi derubare!» Reimi sorrise. Non se lo aspettava così strano, quel paradiso. «Ciao, e a presto!».
Jonathan ricambiò l’inchino e richiuse il quadro: la costruzione era sparita, così come il viale e la confusione architettonica di prima. Davanti a lei e ad Arnold si stagliava un campo di gigli rossi che si congiungeva con il nontiscordardimé del cielo impreziosito da un sole più allegro, quasi estivo.
Reimi sospirò. Finalmente avrebbe riabbracciato i suoi genitori e rivisto le anime dei ragazzi che erano volati in cielo.
«Forza, Arnold, i nostri cari ci aspettano».
E così camminò per quel campo infinito che però era anche finito, seguendo una direzione che conosceva per istinto come di rondine perduta che si riunisce allo stormo, fino a quando non incontrò un puntino giallo in mezzo a tutto quel rosso, e poi a seguire un altro, e poi un altro ancora, e un terzo, un quarto, un quinto, il puntino che diventava una linea e la linea che diventava campo a sua volta sostituendo i gigli.
«Sono adonidi, e quelle laggiù sono abitazioni di samurai!».
Una voglia irrefrenabile di gioire si impossessò di lei: seguita dal fedele segugio, Reimi si lanciò in una corsa sfrenata nel tentativo di raggiungere il prima possibile quelle dimore, dimentica della rabbia che l’aveva costretta a rimandare il suo viaggio e noncurante del boston terrier che le era sfrecciato in diagonale con il suo ultimo bottino tra i denti.
«Mamma, papà! Siamo a casa!» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Presto anche lei avrebbe avuto a che fare con Iggy.  


***


¹Come ormai si sarà intuito, ho deciso, laddove necessario, di rendere ai personaggi che ne hanno bisogno una palette colori naturale. In questo caso ho attinto dalle prime illustrazioni di Phantom Blood, dove si vede Jonathan con occhi e capelli castani.
²Non avendo idea alcuna di come si presentasse la Flaktürme Friedrichshain al suo interno, ho dovuto giocare di fantasia. Se volete saperne di più, Wikipedia è qui per voi.
³Si tratta di uno dei dipinti andati perduti nell'incendio. L'ho scelto per la rassomiglianza con l'ascensione in cielo di Reimi alla fine di Diamond Is Unbreakable. Cliccare qui per approfondire.

Jojo in Musica: Masters of War è una riscrittura della canzone popolare Nottamun Town (qui interpretata da Jean Ritchie) contenuta nell'album The Freewheelin' Bob Dylan del 1963 e uno degli inni pacifisti più famosi in assoluto. La canzone è una condanna di Dylan nei confronti dei signori della guerra che mai meriteranno il perdono per i crimini commessi.

Retroscena: In questo racconto ho voluto parlare un po' del grande assente di questa temibile dozzina di storiacce: Rohan Kishibe. Non che lo odi, per carità, il suo stand è il mio preferito in assoluto e la sua lust for knowledge faustiana lo rende un personaggio interessante. Tuttavia, considerata la natura della raccolta e il suo carattere particolarmente frizzante, non sono riuscita a ficcarlo decentemente da qualche parte, quindi pazienza, immaginatevelo felice e gaudente anche dopo il reset di Made in Heaven. La scelta musicale è infatti un omaggio sia a Rohan che a Reimi, la quale, a sua insaputa si è letteralmente ritrovata a combattere una guerra senza fronte e senza soldati.
Per quanto riguarda l'altro protagonista della storia, ho voluto che i due personaggi "ponte" tra il mondo dei morti e quello dei vivi si incontrassero per condividere un destino tutto sommato simile: se Reimi ha abbandonato il corpo per vagare come spirito alla ricerca di giustizia, Jonathan si è interfacciato con un destino complementare, spirito in cielo e corpo nel regno dei vivi.

Come sempre, grazie per aver letto, recensito, preferito e seguito.

Alla prossima. 
 

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Capitolo 9
*** Il paraninfo degli ultimi ***


9- Il paraninfo degli ultimi

Il paraninfo degli ultimi

 

Mio fratello è figlio unico
Deriso, frustrato, picchiato, derubato
E ti amo Mario
Mio fratello è figlio unico
Dimagrito, declassato, sottomesso, disgregato
E ti amo Mario
Mio fratello è figlio unico
Frustato, frustrato, derubato, sottomesso
E ti amo Mario

Rino Gaetano, Mio fratello è figlio unico

Un racconto sul riscatto dei dimenticati

 

Era pensiero comune credere che la pioggia sovrannaturale che investiva le anime della parte buona dell’oltretomba fosse la sublimazione delle lacrime dei vivi per i cari perduti. Quando il fenomeno si presentava, chi aveva ottenuto il permesso di valicare le porte del paradiso faceva due cose: ripararsi nella comodità delle proprie case o fermarsi, ovunque si fosse, per lasciare che l’acqua mondasse la proiezione psichica della pelle, dei vestiti, dei brividi di freddo che ricordavano che una volta si era vivi. Tutti, però, avevano l’obbligo di rispettare una regola fondamentale: ci si fermava per pensare a chi stesse soffrendo laggiù e si ringraziava in silenzio per il ricordo che univa i due mondi.
Narancia era uno di quelli che adorava quando pioveva. Quando le nuvole avanzavano e l’odore ferroso dell’umidità si faceva sempre più pungente, si sedeva sul gradino del marciapiede accanto alla fermata dell’autobus e, mento sui palmi aperti, amava immaginare che quelle gocce fossero dedicate a lui e alla mamma. Anche se l’assenza temporanea di luce gli metteva addosso una gran mestizia, la pioggia rimaneva la sua cosa preferita assieme ai pavoni¹ che gironzolavano attorno al giardino di Mitra – o di Dioniso, come aveva sentito dire una volta dall’anima di un partigiano. Provava come un miscuglio di sensazioni che gli facevano provare una malinconia che, dopo, lo facevano stare bene, perché gli piaceva credere di sentirsi amato da chi aveva lasciato indietro a invecchiare, ed era la stessa sensazione che avvertiva quando ammirava il groppone di un pavone sollevarsi per mostrare alle femmine i tanti occhi della sua ruota, perché gli ricordavano che i suoi, di occhi, e quelli di sua madre, non glieli potevano togliere più.
Se ne stava quindi all’addiaccio, i vestiti inzuppati e i rumori delle bizze degli spiriti più turbolenti, provenienti dal ristorante dall’altra parte della strada, attutiti dal ticchettare dell’acqua sul basolato. Non era raro che in quel locale volasse un bicchiere con ancora il whisky dentro o una bottiglia di vino, chiunque giungesse al capolinea a bordo di un autobus era stato un’anima buona che aveva visto solo, o quasi, brutture, e quindi un po’ di quelle brutture se le portava addosso almeno per un certo periodo, giusto il tempo di abituarsi alla beatitudine della bellezza. Fino ad allora li si vedeva bazzicare nel tratto di aldilà più terreno, l’unico luogo in cui giorno e notte si alternavano come nel mondo dei viventi, senza immischiarsi negli affari degli altri, quelli buoni e giusti, perché convinti di non meritare ancora il bene. Si riconoscevano perché tenevano gli occhi bassi, parlavano solo tra di loro e si ubriacavano da mane a sera pensando di essere vittime di uno scherzo, e lui era uno di quei loro nonostante avesse prematuramente mosso i primi timidi passi nei giardini sconfinati dell’eden assieme ai suoi compagni per vedere che effetto faceva camminare in mezzo ai “giusti”; una volta aveva persino tentato di offrire della birra salernitana che gli era stata donata dagli amici di laggiù alle anime che gli avevano offerto una coppa di ciliegie in segno di benvenuto: approfittando della loro assenza momentanea aveva abbandonato l’arancio di sua proprietà nel campo dei caduti e aveva lasciato una bottiglia di alcolico ai piedi del ciliegio decorato con l’ankh, per poi fuggire via terrorizzato. Per quel gesto si era beccato del cretino da Abbacchio e gli occhi al cielo di Bucciarati, ma lui aveva avuto la cazzimma di rimproverare a entrambi che almeno lui aveva portato a termine la missione di far conoscere una specialità italiana a degli stranieri, i quali avevano dimostrato gratitudine facendogli recapitare un biglietto di ringraziamenti scritto in quattro lingue: merci beaucoup, shukraan jazilaan, arigato gozaimasu e grazie mille. Il biglietto, adesso, era al sicuro dentro un quadro appeso nella sua cameretta e ogni volta che ne aveva l’occasione non mancava di ricordare a tutti che quello era suo, suo e di nessun altro, perché quando lo guardava si sentiva un bravo guaglione. Non lo volevano ammettere, ma gli altri due avevano paura di quell’albero e delle persone che riposavano sotto le sue fronde, forse perché con alcuni condividevano la perdita dei poteri stand o perché avevano visto un altro scugnizzo prendersi a scazzottate amichevoli col proprietario del ciliegio – salvo poi beccarli a ronfare della grossa all’ombra di un salice, insieme, come fratelli, esausti e sporchi di fango – o perché gli era stato raccontato che il cagnetto tremendo che una volta aveva rubato un fermaglio di Bucciarati da vivo era capace di evocare tempeste di sabbia o perché si erano fatti l’idea che quelle fossero brave persone che con loro non dovevano avere niente di che spartire… O forse perché non riuscivano a sopportare la sensazione che esistesse un legame che li univa, qualcosa di talmente forte e incomprensibile che persino lo stesso Bucciarati si era messo a tremare come una foglia quando la ragazza con gli orecchini a forma di ciliegia si era avvicinata a lui e gli aveva chiesto di portare con sé Coco Jumbo: lui, così come Abbacchio e Narancia, non aveva detto niente, l’aveva solo guardata prendere la tartaruga tra le braccia come si fa con un neonato e aveva chinato il capo in risposta al suo graziè. Anche quello rimaneva un mistero, ma tutti e tre avevano pensato che fosse corretto che la tartaruga vivesse la sua eternità con la ragazza del ciliegio, quello era il soprannome che i tre le avevano appioppato.
Mentre pensava a quelle e ad altre cose belle e meno belle, Narancia non si accorse che la pioggia era cessata. Gli ci volle che una mano gli sventolasse un cartoncino sulla faccia per riscuoterlo dal mulinello in cui stava facendo annegare il cervello.
«Uè, Nara’!»
«Uè
, sbirro».
Era l’ex collega di Abbacchio. Uno dei “giusti” che frequentava assiduamente quel pezzo di paradiso perché amava ricercare la verità dietro le condotte dei lanciatori di bottiglie sui marciapiedi: un passatempo, come lo definiva Narancia, tra i più bizzarri che si potessero praticare.
«Ci sta un avviso di giacenza a nome tuo, vai a vedere cosa ti hanno portato da giù» gli disse il poliziotto porgendogli il documento «i tuoi compari stanno già là, quindi sarà sicuramente un regalo di gruppo»
«Ma non è presto per il due novembre?» chiese Narancia sorpreso di leggere la data di spedizione dell’ordine «Dieci ottobre duemiladieci? Me n’agg a me, ma quanto tempo è passato?»
«Nara’, qua di tempo non ce n’è perché è una cosa dei vivi, vai a pigliarti sto pacco e non ci pensare, va bene?» quello gli posò una mano sulla spalla con tanto di strizzata d’occhi «io torno al ristorante, hanno messo vicine due tavolate piene così di pisani e livornesi e non vorrei che sfasciassero i tavoli con tutti i piatti. Ci si becca in giro eh?»
«Ovvio, e grazie!» esclamò Narancia guardandolo allontanarsi per tornare al proprio dovere.
«Boh, altra birra? Se è così non dico di no» pensò a voce alta, infilandosi in un vicolo lunghissimo ma anche molto breve che portava direttamente all’ufficio postale.
Ebbene sì, esisteva la proiezione spirituale di un ufficio postale, che dall’esterno era uguale agli uffici postali di laggiù, ma senza impiegati né postini e senza nemmeno un’insegna indicante che quello era un ufficio postale. Semplicemente i pacchi arrivavano a destinazione e se non si era in casa un conoscente ti faceva avere l’avviso di giacenza. In parole povere, una figata.
Varcata quindi la soglia si imbatté in un nugolo di suore intente a spacchettare allegramente dei fiorellini di campagna che lo salutarono sorridenti e gioiose, alle quali Narancia ricambiò imbarazzato: non si era del tutto abituato alla gentilezza genuina che gli riservava chi non conosceva.
In quel momento in ufficio, che era immensamente grande ma anche immensamente piccolo, c’erano solo le suore e, più in là, due giovinastri in abiti firmati impegnati a raccogliere una generosa quantità di bianco e verde da un rullo trasportatore fermo.
«Narancia, stai di nuovo fradicio
» fu la prima frase che gli grugnì Abbacchio con le mani occupate da zagare e rose bianche².
«Ma… sti fiori?» domandò Narancia perplesso «Chi ce li manda?».
A differenza di Abbacchio, Bucciarati sfoggiava un sorriso tenerissimo nel leggere i nomi dei mittenti sul cartellino.
«Tieni» gli disse soltanto, indicandogli i fiori a lui destinati.
Narancia eseguì: su un pezzo di carta bianco decorato con laminature argento era scritto un invito di partecipazione di nozze, ma la vera sorpresa fu scoprire i cognomi dei novelli sposi.
«Guido e Trish si sposano, Guido e Trish si sposanooo!» non appena ebbe decifrato i caratteri eleganti stampati nell’invito Narancia saltò come un grillo e improvvisò un balletto in mezzo ai pacchi da smistare, facendo scaturire nelle suore le risate divertite e le congratulazioni per la lieta nuova.
Nell’assistere a quella scenetta, la faccia di Abbacchio si fece ancora più stranizzata.
«Grazie signore, grazie!» Narancia rivolse alle religiose un inchino esageratamente profondo che costrinse Bucciarati a coprirsi il volto paonazzo con entrambe le mani. In realtà si stava trattenendo dal ridere in faccia ad Abbacchio, e ciò non faceva altro che rendere la scena ancora più comica.
«Jamme ja’, andiamo a piantare sti fiori, dai!» esclamò Narancia tirando le maniche dei due compari «Forza!»
«Aspetta un attimo… Oddio» Bucciarati fece un paio di respiri a narici dilatate per controllarsi «C’è una rosa di questo mazzo che non ci appartiene, è in mezzo a quei girasoli».
Narancia inclinò la testa da un lato.
«Eh?»
«Uno che non conosciamo ma che sarà stato sepolto vicino a noi…» Bucciarati lesse il nome del destinatario della rosa bianca solitaria sul cartellino «Zeppeli? Ci hanno messo vicino agli Zeppeli? La cappella che sembra un tempio greco?»
«Non mi dire che…» Abbacchio parve riscuotersi dalla trance della quale era caduto vittima e divenne, guarda un po’ che novità, torvo «se è chi penso io fate finta che m’hanno buttato nella fossa comune, io con quel Marcantonio non ci parlo… No anzi, chiamatemi quando si fa pestare di nuovo di botte dal giapponese»
«E perché scusa?» domandò Narancia.
«Perché» Abbacchio incrociò le braccia e piegò le labbra in una smorfia «fa troppo rumore e attacca bottone facilmente».
Narancia stava per ribattere che non vedeva cosa ci fosse di negativo in quelle due azioni, ma il suo tentativo di convincimento venne subissato da un altro saluto, più caloroso di quello ricevuto da lui, che le suore stavano riservando al nuovo arrivato, il quale non aveva perso tempo a rispondere con altrettanto calore e una buona dose di ruffianeria.
«Fanculo» borbottò a denti stretti Abbacchio.
Il nuovo arrivato era nientemeno che l’ultima anima sulla faccia del paradiso che il musone dei tre voleva incontrare, figurarsi conoscere.
«Buongiorno!» squillò il Marcantonio biondo allargando le braccia e affettando un sorriso compiacente «un uccellino mi ha detto che c’è un regalo per me».
Senza attendere che il terzetto si scomponesse raccolse la rosa e i girasoli e lesse il biglietto col suo nome.
«Anche da morto le donne mi desiderano» gettò il capo all’indietro con fare teatrale, suscitando i sospiri delle suore più giovani, e si ravvivò la chioma ondulata «È una vostra amica? Siete fortunati»
«Ciao, io sono Narancia!» il più giovane si avvicinò a quel ragazzone vanesio porgendogli la mano «Alla mia destra c’è Bucciarati, mentre quello che brontola sempre è Abbacchio, e Trish è una nostra amica»
«Piacere mio» il Marcantonio gliela strinse con vigore «io sono Caesar, era ora che venissi a sapere i vostri nomi… Non ve la fate tanto lontano dal quartiere del guazzabuglio, suppongo siate qui da poco»
«Molto poco» Bucciarati seguitò a stringergli la mano «non immaginavamo che questo posto fosse così movimentato»
«Meravigliosamente movimentato» aggiunse Caesar «mi ricordate un sacco me quando sono arrivato io, allora al posto dell’autobus c’era un calesse»
«Sì sì, molto belli i calessi» anche Abbacchio gli strinse la mano, o per meglio dire cercò di stritolargliela «piacere di conoscerti, gli smeraldi sono le mie pietre preziose preferite»
«Gli zaffiri arancioni sono più belli» Caesar sostenne lo sguardo di ghiaccio del suo provocatore senza timore alcuno «spero di vederti più rilassato in futuro, ricordati che abbiamo l’eternità davanti»
«Lo tengo a mente» rispose Abbacchio che, incontrati gli occhi affilati di Bucciarati, decise di mettere un freno alla lingua.
«Se siete d’accordo, tengo a piantare questa splendida rosa e i girasoli donati dal mio carissimo amico nel campo dei caduti. Mi fate compagnia?»
«Sì sì sì! Mi piace piantare i fiori nel campo dei caduti! Andiamo?» fece Narancia agli altri due, che risposero non verbalmente in maniere del tutto opposte: Bucciarati accennando un sorriso di contentezza più un “sì” mimato con il capo, Abbacchio come se gli avessero detto che doveva infilarsi un bastone su per le terga.
«Molto bene!» Caesar sembrò non accorgersi della faccia disgustata di Abbacchio e indicò l’uscita sul retro, proprio dietro ai rulli «Prego, dopo di voi».
Con la coda dell’occhio, Narancia percepì il disagio di Abbacchio farsi sempre più evidente. Lo aveva visto voltarsi verso l’ingresso principale quasi a voler fuggire da lì piantando gli altri e fiori e non ne capiva il motivo.
Ma, forse, qualcun altro sì.
«Vedo che il vostro amico è più reattivo di voi, entusiasmo, dai!» fu proprio Caesar ad afferrare le spalle di Abbacchio e condurlo verso la porta sul retro con un ghigno malefico – o era meglio dire serafico? «Paura dei pavoni?».
Abbacchio non rispose, ma la fronte imperlata di sudore lo faceva per lui.
Dal canto suo, Bucciarati aveva deglutito piuttosto rumorosamente. Anche lui sembrava provare eccitazione per qualcosa, ma cercava di non darlo a vedere con risultati non proprio eccelsi.
Una volta varcata e richiusa l’uscita sul retro, sia l’ufficio che il resto della cittadina scomparvero del tutto, lasciando il posto al sole lattiginoso, al prato verde e ai pavoni che gironzolavano attorno ai muri di viti del giardino di Mitra.
«Fanculo» ripeté Abbacchio a denti stretti.
Anche se era entrato solo una volta in quello che chiamavano erroneamente giardino assieme alla mamma, a Narancia piaceva da matti l’aura di mistero che emanava, perché potevi entrarci solo se avevi qualcosa da confessare o un sentimento da esternare a una o più persone a te affezionate. Tuttavia, trovava difficile capire perché Abbacchio lo odiasse così tanto.
All’ingresso del giardino di Mitra erano state piantate le proiezioni psichiche di due roseti coi boccioli chiusi; qualche volta era possibile imbattersi in un carro dorato trainato da colombe bianche³ nei pressi di quel luogo, ma questo era un racconto che aveva ascoltato distrattamente da alcune coppie di innamorati, per cui, per quanto lo riguardava, poteva trattarsi di una balla.
Comunque fosse, c’era Abbacchio che guardava terrorizzato i roseti, c’era Bucciarati che guardava Abbacchio come se stesse pendendo dalle sue labbra, c’era Narancia confuso e c’era Caesar con sempre quel sorriso stampato sulla faccia. Infine c’erano i pavoni che facevano i pavoni.
«Io… non…» Abbacchio, come folgorato da una visione, guardò gli altri tre come ad aspettarsi di sentirsi dare del pazzo «Non credo che verrò con voi. Questi li pianto dopo perché devo… devo capire da dove viene quella biga con le colombe».
E così dicendo indicò un punto privo di qualsiasi biga poco distante dai roseti.
«Io non vedo niente» si affrettò a dire Narancia «stai bene, vero?»
«Se vuoi ti dico una balla e rispondo di sì… Fanculo» stavolta il sudore si era esteso al resto del viso e al collo «bene, sono l’unico a vederla, molto bene»
«Io la vedo» disse a un tratto Bucciarati «e ci sono anche undici colombe»⁴
«Molto bene» ripeté Abbacchio guardandosi le scarpe «e ora?»
«Vuoi entrare?» lo precedette Bucciarati. C’era un che di enigmatico nella sua domanda.
Abbacchio sollevò il capo per guardarlo: al sudore si era aggiunta la congestione alle guance. Strinse a sé i fiori come se potessero proteggerlo da ciò che implicava tal quesito, poi li abbassò di nuovo, e con essi il capo, e, senza dire niente, si incamminò lentamente verso l’apertura del labirinto.
«Penso che lo seguirò» disse Bucciarati senza staccare gli occhi di dosso dalla figura vestita di nero che si allontanava da loro.
«Aspetta, che vuol dire… ehi!» Narancia prese a protestare dinnanzi a quel comportamento per niente da loro, ma Caesar ebbe la prontezza di tappagli la bocca con una mano e di invitarlo a osservare i roseti con l’indice dell’altra.
Abbacchio si era fermato all’ingresso, accanto al roseto di sinistra che, al suo passaggio, aveva dischiuso i boccioli per rivelare un tripudio di rose color pesca⁵, e lo stesso fece quello di destra non appena Bucciarati lo ebbe raggiunto. Narancia li vide contemplare per un istante infinitamente lungo quel fenomeno che comunicava più di quanto i diretti interessati avrebbero voluto e poi sparirono dietro l’angolo, facendo sì che i roseti ritrasformassero le rose in boccioli.
«Finalmente quei due ce li siamo tolti dai piedi» pronunziò Caesar liberando Narancia dall’impaccio «fidati, quando usciranno saranno molto più loquaci»
«No no, senti, aspetta un attimo» boccheggiò Narancia «se io e la mamma abbiamo ottenuto le rose rosa⁶ e Bucciarati e Abbacchio hanno ottenuto quelle altre, cosa vuol dire?»
«Facciamo che te lo diranno i diretti interessati» Caesar fece spallucce e inarcò le sopracciglia col fare di chi se ne intendeva di certe questioni «quando qualcuno non si è ancora lasciato andare vuol dire che non è entrato nel giardino di Mitra con la persona giusta… Quando ci sono entrato con i miei genitori e la mia maestra anche a me sono saltate fuori le rose rosa, ma quelle pesca le vedo per la prima volta. In ogni caso non spaventarti» gli rivolse una pacca sulla schiena e un altro sorriso, stavolta senza traccia alcuna di malizia «non mordo mica».
Narancia guardò sia i roseti che Caesar: il fatto che Abbacchio e Bucciarati avessero qualcosa in sospeso da confessarsi lo rendeva nervoso perché sia da vivi che da spiriti non avevano mai lanciato dei segnali a riguardo, e immaginava che, probabilmente, se fossero sopravvissuti sarebbero rimasti in quella situazione di stallo finché fossero campati.
«Lo so, però è brutto dirsi certe cose senza più un corpo»
«Guardala sotto un altro punto di vista: adesso che siamo tutti senza vincoli possiamo finalmente liberarci dalle nostre catene. Sembrerà strano detto in questo contesto, ma quello che amo di più del posto in cui siamo è che niente e nessuno ti costringe a fare quello che non vuoi. Era destino che prima o poi sarebbero entrati nel giardino di Mitra»
«Se lo dici tu…» Narancia lanciò un’ultima occhiata ai roseti «Io penso che… loro sono delle brave persone, qualunque cosa si diranno spero che saranno felici, perché se lo meritano»
«Non lo metto in dubbio, altrimenti non avrebbero varcato quella soglia e le rose non sarebbero sbocciate» Caesar si era già mosso lontano dal labirinto, verso il campo dei caduti «Andiamo?»
«Mh» Narancia lo seguì senza altre esitazioni, per la prima volta avrebbe piantato dei fiori in compagnia di uno spirito sconosciuto «anche tu eri un criminale?»
«Una specie. La rabbia in corpo era talmente tanta che persino la mafia mi stava alla larga… Alcuni dei tipacci che ho ammazzato me li sono ritrovati qua».
A quell’affermazione Narancia spalancò la bocca.
«E tu cos’hai fatto?»
«Quello che fanno tutti gli spiriti dei criminali quando conoscono l’eternità: si picchiano fino a quando capiscono che non ha senso continuare a odiare. Alcune volte arriva altra gente come vigili del fuoco, sacerdoti e persino maestre d’asilo a cercare di sedare le liti e si finisce per fare pace. Una sera la mia maestra mi ha spaccato una padella in testa e sono svenuto sul bancone degli alcolici, non ne poteva più di vedermi attaccare briga con gli altri… Ma parlami di quei fiori» Caesar cambiò repentinamente argomento e fece un cenno col mento al mazzo bianco tenuto all’ingiù dal suo nuovo conoscente.
«Ah, questi» Narancia li sollevò per annusarne il profumo delicato «due amici che si sposano e che sono venuti a trovarci per ringraziarci. La sposa… suo padre ha cercato di ammazzarla perché teneva più al suo potere che al suo stesso sangue, così la mia banda si è ribellata e alcuni non ce l’hanno fatta… Quindi eccomi qua».
Mentre Narancia parlava stavano già attraversando il sentiero che li avrebbe condotti a destinazione: la monocromia dell’erbetta si stava diradando per fare posto alla disomogeneità della flora di proprietà dei defunti. Le piante appartenenti ai morti di morte violenta si riconoscevano a occhio perché erano le più rigogliose e vivide, e perché conferivano al paesaggio tanto suggestivo quanto straniante caratteristiche macchie di colore vivace in mezzo alla tenuità del resto della distesa.
«Siete dei coraggiosi, si vede dalle vostre facce che la vita non è stata gentile con voi» Caesar uscì dal sentiero e deviò a destra, dove alcuni metri – o alcuni chilometri – più in là spiccava gagliardo un fazzoletto di terra occupato da altri girasoli «quelli me li hanno portati due amici e la maestra, quando era ancora viva… ho combattuto con un avversario più forte di me per salvare l’onore della mia famiglia e la vita del mio amico, quindi eccomi qua anch’io. Quando piove mi ci siedo in mezzo e penso ai suoi figli… Adesso lo scemo è diventato pure bisnonno… lo so, sono uno di quelli che sbircia nella vita di chi è rimasto laggiù, sono un impiccione!».
Caesar liberò i fiori dall’involucro e si accovacciò per piantarli: alla base recisa degli steli crebbero delle radici che attecchirono subito al terreno.
«Alcune delle persone che sono venute qua le conoscevo già grazie al mio ficcanasare negli affari dei vivi. Comunque non so se sai di questa teoria secondo la quale le anime che hanno un legame particolare sono destinate a incontrarsi; quando accade è come se le conoscessi da sempre anche se non sai niente di loro. Ti è successo?».
Narancia non aveva bisogno di pensarci perché quella sensazione la conosceva troppo bene, e a dire il vero la stava provando proprio il quel momento.
«Sì, è strano… In realtà la provo spesso, ad esempio quando il cane del ciliegio cerca di rubarmi la fascia dai capelli o una scarpa, non so perché lo faccia ma non ho mai avuto il coraggio di chiederlo ai suoi padroni»
«Iggy non ha padroni» quando Caesar ebbe finito di piantare tutti i girasoli e la rosa, che aveva messo davanti, in bella vista, per non farla sfigurare tra i petali gialli, si sedette a gambe incrociate in mezzo al suo campetto personale con un sorriso soddisfatto «ha un caratteraccio, ma anche lui si è meritato il suo posto tra i buoni»
«Sì ma io non ho ancora capito cosa c’entro con te o con le persone del ciliegio» gli disse Narancia incrociando le gambe accanto a Caesar. Neanche a farlo apposta, proprio il ciliegio rimaneva ben visibile anche da quella posizione così come l’arancio vicino al quale avrebbe piantato le rose «cosa c’entro con loro? Perché devo averci a che fare? Cioè, io vorrei ma non ne capisco il motivo»
«Ti credo…» Caesar trasse un sospiro profondo «Da quando quell’albero è stato piantato piove più spesso del solito, anche se non le ho contate avrò visto passare almeno una cinquantina di anime sotto quei rami. Quando avrai il coraggio di farti avanti e parlargli lo scoprirai esattamente come stiamo facendo adesso noi due. Al che dirai: “perché non vengono loro a presentarsi?”; domanda più che legittima, ma nessuno vuole recare imbarazzo agli altri, quindi fanno quello che facciamo tutti: aspettano il momento propizio. Il tempo non esiste più, ma le nostre anime, i nostri sentimenti, quelli ci sono ancora e vanno rispettati, e questo vale anche per i tuoi compari che abbiamo lasciato nel giardino di Mitra. A proposito, sapevi che puoi cambiare aspetto e ringiovanirti o invecchiarti come ti pare e piace?» aggiunse subito dopo «Quando il mio amico verrà qui lo saluterò travestendomi da vecchio bacucco per confonderlo, non vedo l’ora di godermi la scena»
«Mh, hai ragione tranne sull’ultima parte, non voglio diventare vecchio» considerò Narancia osservando gli spiriti stazionati sotto il ciliegio, il più bello che avesse mai visto prima d’ora. Se aguzzava le orecchie riusciva a sentire le loro risate riempire l’aria immobile.
«Mi domando» riprese sovrappensiero abbassando il capo «questa risata, io la conosco. È della ragazza che ha preso la nostra tartaruga… chi ha potuto farle del male?».
Caesar sospirò di nuovo, ma stavolta era un sospiro greve.
«Ci sono tante anime che piuttosto che stare qui a non fare niente dovrebbero innamorarsi di persone vere, costruirsi una vita, una famiglia, invecchiare, ma non sempre è così. Perlomeno la sofferenza non le toccherà più, ma non so quanto questo possa consolare i parenti rimasti laggiù a piangerli… L’importante è non avere rimpianti. Tu ti penti delle azioni che hai commesso?».
Narancia scosse energicamente la testa.
«Assolutamente no, io sono qui per questi fiori, questi fiori significano tutto per me!».
Lo disse con una tale convinzione che Caesar si drizzò a sedere e gli applaudì.
«È questo lo spirito giusto!
» dopo di che, scrutò anch’egli il ciliegio con gli occhi ridotti a fessure.
«Ah, Cherry, se solo non avessi dei pessimi gusti in fatto di uomini» cinguettò d’un tratto cambiando totalmente tono di voce.
«Si chiama Cherry?» domandò Narancia.
«Sì, e il suo nome celestiale rispecchia la bellezza delle sue iridi» Caesar si porto le mani alle guance con fare sognante «ma non provarci neanche!» scattò, cambiando tono per la seconda volta, facendo trasalire Narancia «sta già con qualcun altro… Rose blu⁷, le più rare in assoluto, ed è colpa di quello lì! Ah, maledetti giapponesi! Con la vostra cortesia innata, la vostra gentilezza, il vostro spirito di sacrificio e i vostri ciuffi fluenti! Come può una ragazza come Cherry lasciarsi ammaliare da voi?».

Narancia pensò alle parole che aveva appena ascoltato e, mentre stava per ribattere che non vedeva cosa ci fosse di negativo in quelle quattro qualità, un giubilo improvviso si era levato proprio dal ciliegio distogliendo i due ragazzi da quella conversazione alquanto strana.
«Hai sentito?» Narancia si mise in piedi e osservò la scena: sembrava che altre anime si fossero aggiunte a quelle che c’erano già prima e che si stessero abbracciando come se si conoscessero da sempre.
«Ah, però, è arrivata gente» anche Caesar si era alzato «Iggy deve aver rubato un oggetto a qualcuno di importante per far fare a loro tutto quel chiasso».
La quasi dozzina rumorosa delle anime del ciliegio stava lasciando le piante, apparentemente diretta verso il centro abitato: una di loro si staccò dal gruppo e si avvicinò ai girasoli. Aveva le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti, i pantaloni stropicciati e un improponibile cappellino viola a celargli parte dei capelli spettinati, ma sul suo volto era dipinta l’immagine della gioia.
«Ah!» esclamò Narancia, riconoscendolo «è quello con cui ti picchi sempre!»
«Caesar!» urlò lo sconosciuto, che aveva le fattezze di un adolescente «Vieni con noi e porta anche il tuo amico della birra! Si va al ristorante!».
Così dicendo sollevò un braccio e lanciò qualcosa di piccolo e rosso che andò a colpire la tempia di Caesar.
«Disgraziato!» abbaiò quello raccogliendo la ciliegia «Te la faccio ingoiare con tutto il nocciolo, hai capito? Dopo voglio la rivincita della scazzottata dell’altra volta!» gliela rilanciò contro, ma chi lo aveva stuzzicato era già corso via per seguire gli altri.
«Mi hanno invitato al ristorante?» Narancia era incredulo «Quindi posso venire con te?».
Caesar abbandonò per un attimo l’espressione arcigna e guardò il ragazzetto sottile con gli occhi duri di chi aveva visto troppe brutture per la sua età: sembrava che la felicità dell’anima che aveva appena conosciuto dipendesse dalla risposta che avrebbe ricevuto.
«Tu devi venire con me, non ci sono scuse» sentenziò il Marcantonio mettendogli un braccio sulla spalla «e già che ci siamo riserviamo due posti ai i tuoi amici, tanto ogni volta che ci sediamo a tavola facciamo passare anche cinque o sei anni terrestri, possono raggiungerci dopo»
«Evviva, sono contento! Voglio la pizza margherita!» Narancia balzò fuori dai girasoli, sempre brandendo i fiori degli amici di laggiù, e andò ad accorciare la distanza che lo separava dall suo piccolo arancio ancora giovane.
«Prima però devo piantare le rose! Mi aspetti, vero?».
Caesar incrociò le braccia e sorrise. Quel tipetto era davvero interessante.
«Ovvio, sono qui apposta. Però sbrigati, tra un po’ si metterà di nuovo a piovere».

***

¹Tra i vari significati attribuiti al pavone vi è quello legato all'immortalità e alla resurrezione di Cristo, in quanto si credeva che le sue carni non fossero soggette a deterioramento. Era anche l'animale sacro a Era. Qui e qui per ulteriori approfondimenti.
²Le rose, fiori sacri ad Afrodite, assumono differenti significati a seconda del colore dei petali. Le rose bianche simboleggiano purezza, castità e candore, ma anche l'amore platonico, sentimento che, nella mia headcanon e con una dovuta eccezione, unisce la banda di Bucciarati. Si contrappongono a quelle carminio (menzionate in Al-Qirmiz), che invece sono simbolo di lussuria e desiderio carnale.
³Il carro dorato trainato da colombe bianche è uno dei simboli di Afrodite. 
⁴In numerologia l'undici è il numero degli amori nascosti e dei segreti personali. È inoltre accostato ai legami e si caratterizza per l'uguale presenza di proprietà sia maschili che femminili. L'accostamento con le colombe, invece, è stata una mia invenzione.
⁵Le rose pesca indicano un amore segreto.
⁶Le rose rosa indicano un sentimento di tenerezza, gratitudine e delicatezza.
⁷Le rose blu non esistono in natura. Per questo motivo simboleggiano il mistero, l'infinito e la saggezza, ma anche un amore impossibile. I personaggi a cui faccio riferimento con questo tipo di fiore, seppur legati dal destino per colpa di Dio Brando, sono destinati a non incontrarsi mai nella vita terrena e pertanto il loro essere "crack ship" li rende, di fatto, una coppia che non esiste se non nel piano spirituale.

Musica in Jojo: Mio fratello è figlio unico è uscito come singolo estratto dal secondo album omonimo di Rino Gaetano nel 1976. Attraverso l'elencazione di una serie di attività tipiche dell'italiano medio degli anni settanta, Gaetano intende raccontare della genuinità e della spontaneità di chi non si conforma ai gusti della massa, emarginandosi da essa in virtù della propria autenticità esattamente come hanno fatto i protagonisti del racconto.

Retroscena:
 
E fu così che Narancia insegnò la torture dance a Caesar.
Sono pessima, perdonatemi.
Si sarà capito che questo capitolo mi ha fatto penare? Se non è così, lo ribadisco: scrivere di Vento Aureo per me è sempre un'impresa perché i personaggi di quell'arco narrativo sono imprevedibili, incredibilmente imprevedibili e forieri di bellezza. Croce e delizia è stato anche disseminare questo improbabile incontro di spiegoni su nozioni simbologiche che ho acciuffato un po' ovunque per l'internette. Volevo creare questa sorta di collegamento tra gli emarginati di laggiù e quelli dell'aldilà attraverso il fiore di Afrodite per antonomasia (nonché di tutta la raccolta in generale) e mi auguro che questo accostamento vi sia risultato gradito. Oltretutto non potevo non includere uno degli scorci di "paradiso" made in Araki 100% con la fermata capolinea dell'autobus in cui Abbacchio rivede il suo collega: è stato proprio da qui che mi è balenata l'idea di allargare questa dimensione con altri scenari e simbolismi vari.
Infine, per quanto concerne il giardino di Mitra sarà compito di una certa coppia per la quale nessuno, ma proprio nessuno, ha mai fangirlato prima illustrarne il funzionamento, quindi se volete saperne di più non vi resta che passare nuovamente di qua la prossima settimana.

xoxo





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Capitolo 10
*** Vespro dei beati sposi (seconda parte) ***


10- Vespro dei beati sposi (seconda parte)

Vespro dei beati sposi (seconda parte)

 

We’ve been running from love
We’ve been running from love
And we don’t know what we’re doing here
No we don’t know what we’re doing here

We’re only here
Sharing our free love
Let’s make it clear
That this is free love
No hidden catch
No strings attached
Just free love
No hidden catch
No strings attached
Just free love

Depeche Mode, Freelove

Un racconto sull’amore sottaciuto

 

«Oh cazzo».
Abbacchio sbatté le palpebre più volte, come se si stesse ridestando da un sogno a occhi aperti. Il Marcantonio degli anni trenta lo aveva spinto a varcare la soglia del luogo che lo spaventava di più in assoluto e adesso non aveva idea di come risolvere la situazione.
«Finalmente siamo entrati» disse la risoluzione della situazione puntando il naso in alto.
Il cielo, da pallido ed evanescente, si era trasformato in una trapunta di stelle accompagnate dalla mezzaluna, unica e discreta fonte di luce del labirinto di viti. I suoni provenienti dall’esterno, comprese le voci delle altre anime e il papulare dei pavoni, si erano spenti all’improvviso, e questo fece loro capire di essersi completamente isolati dal resto dell’aldilà.
«Che posto magnifico» proseguì la risoluzione della situazione stavolta voltandosi indietro, laddove prima c’era l’ingresso coi roseti «la parete è chiusa, quindi mi sa che Narancia aveva ragione: non si esce se prima non si è detto la verità».
«Certo, la verità» quello di Abbacchio era appena un mormorio. Se avesse avuto ancora un vero cuore pompante sarebbe crepato d’infarto «senti, non è che… non so, mi dici cosa fare? Magari cercare una via d’uscita…».
Bucciarati incrociò le braccia e spostò il peso del corpo su una sola gamba. Anche se c’era ancora qualcosa che lo tratteneva dall’esprimere la sua vera essenza, lo trovava più disteso, più umano. Così come lui aveva abbandonato la maschera del capobanda inflessibile e pragmatico, Abbacchio non si era più avvicinato a un bicchiere di vino. Due delle cose che li abbruttivano erano andate distrutte assieme ai loro stand.
«Quante volte devo ripeterti che non sono più il tuo capo e che non devo più impartirti ordini?».
Dal suo tono di voce sembrava rilassato, se non quasi divertito, eppure Abbacchio si sentiva come se gli avesse stampato cinque dita in piena faccia. Scosse il capo e si stropicciò gli occhi: se pensava a quello che avrebbe dovuto dire per uscire da lì rischiava di farsi venire un attacco di ansia.
«Va bene, ritiro quello che ho detto e cerchiamo di uscire» riprese Bucciarati facendosi d’un tratto accondiscendente. Sarebbe stato evidente anche a un cieco che Abbacchio si trovava in difficoltà «vogliamo andare a destra?».
Il più taciturno dei due fece un cenno di assenso e seguì quello che un tempo era il suo capo verso la direzione scelta. L’ipnosi che gli aveva fatto muovere le gambe fino a lì era svanita e la paura era tornata ad attanagliargli l’addome. Chiunque avesse pensato quel posto era sicuramente un genio del male.
«Sei stato bravo a resistere alla forza attrattiva del giardino di Mitra¹ per così tanto» disse Bucciarati proseguendo nel suo cammino «ma presto o tardi ci saresti entrato lo stesso».
Abbacchio seguitava a non parlare e a stringere convulsamente il mazzo di rose che gli avevano regalato Mista e Trish. Con quei fiori appresso lui e Bucciarati sembravano una coppia di sposi che si avviava lungo le navate di una chiesa.
Che razza di immagine mentale.
«Anche se nella nostra condizione dovremmo essere felici sono preoccupato per te» Bucciarati aggirò un vicolo cieco e svoltò a sinistra «devi perdonarmi, so che sto facendo un discorso stupido visto che siamo adulti, ma quando uno dei miei sta male per qualcosa sto male anche io. È… un brutto vizio, lo so».
Abbacchio emise uno sbuffo dalle narici.
«Adesso salta fuori che siamo tuoi anche se non sei più il capo di niente? Che è sta storia?»
«Guarda che non mi sto contraddicendo» Bucciarati si voltò a guardarlo, i fiori stretti al petto come se reggesse il suo tesoro più prezioso «voi siete miei perché avete dato un senso alla mia vita, mi avete rubato l’anima e ve la siete tenuta dentro, e io ho rubato le vostre anime per tenerle con me nel bene e nel male. Voi mi appartenete e io appartengo a voi perché siamo una cosa sola».
Sentendo quelle parole, Abbacchio si strinse d’istinto nelle spalle e mandò giù un groppo alla gola che rischiava di sopraffarlo. Da vivo non avrebbe potuto permettersi di esternare certi pensieri.
«Per dirla in altri termini, questa pace non me la posso godere se tu non fai lo stesso, e anche se non bevi più da quando siamo qui ti vedo solo soffrire»
«È che» Abbacchio si morse il labbro, si sentiva uno schifo sapendo che proprio Bruno, che quella pace se la meritava, si sentisse in quel modo per colpa sua «è che sai come sono fatto… Per farmi fare una confessione devi tirare giù il calendario con tutti i santi. Sono uno difficile da sopportare»
«Leone» disse Bucciarati senza smettere di avanzare.
Abbacchio si drizzò in tutta la sua figura, era raro sentirsi chiamare per nome da lui.
«Che c’è?»
«Ti si ama anche per questo, sappilo».
Alla rigidità posturale si era aggiunto il rossore al volto, che cercò di nascondere chinando il capo per permettere che i capelli gli scivolassero davanti.
«Ah, questo vicolo lo abbiamo già superato se non vado errato» Bucciarati si era fermato e con l’indice della mano libera dai fiori si pungolava il mento «mi sa tanto che ci siamo persi»
«Ci credo, hai imboccato per due volte la stessa strada» Abbacchio sollevò la testa il tanto che bastava per orientarsi nel dedalo di viti intrecciate e grappoli, e, braccio e mano tremante, afferrò il polso di Bucciarati per condurlo nella via opposta, assumendo il comando della missione più difficile a cui stesse partecipando.
«Vieni, questa parte non l’abbiamo ancora esplorata»
«Va bene capo» lo canzonò Bucciarati.
Pur senza fermarsi, Abbacchio si era voltato a guardarlo con occhi sottili.
«Mi prendi in giro?».
Bruno assunse un’espressione innocente. Lo stava facendo apposta.
«Assolutamente no».
Abbacchio non rispose alla provocazione e tornò a voltargli le spalle: non c’era proprio verso di uscire, anche perché aveva l’impressione che i rami delle viti avessero un moto che gli consentiva di creare nuove pareti e nuovi vicoli ciechi. Ovunque andassero era un susseguirsi di pampini e grappoli gonfi e invitanti, grappoli gonfi e invitanti e stelle ingentilite dalla mezzaluna che non smetteva di seguirli proprio come quelle maledette colombe sul carro dorato.
«Aspetta» disse dopo un po’ girandosi intorno «quella parete prima non c’era, stiamo camminando verso il centro senza poter proseguire e nemmeno tornare indietro. Ma come funziona questo labirinto?».
Teneva ancora Bucciarati per il polso, ma il legittimo proprietario non sembrava infastidito dalla cosa. Anzi, si mise persino a ridere.
«Visto? Te l’ho detto che ci siamo persi, ma tu continui a voler cercare di uscire» profferì Bucciarati con sguardo enigmatico.
Il punto di non ritorno stava per essere raggiunto e non c’era davvero via di scampo.
«Allora fammi capire, ti piace l’idea di restare qui dentro per l’eternità?».
Bucciarati liberò delicatamente il polso dalla presa di Abbacchio e infilò l’ultimo vicolo che avevano incontrato: poggiò la schiena sui rami rigogliosi di pampini e lì rimase, senza abbandonare i fiori e l’espressione indecifrabile.
«Mi piace l’idea di sentirti dire la verità su quello che provi per me».
Trascorse un istante interminabile nel quale gli occhi dei due spiriti saggiarono vicendevolmente le intenzioni dell’altro, consapevoli del fatto che una conversazione del genere potesse avvenire soltanto al prezzo del martirio della loro carne.
«Dai, stendiamoci un attimo a riposare» riprese Bucciarati «non eri tu quello che mi aveva detto di sentirsi a suo agio solo quando è al mio fianco? E allora dimmi come dovrei interpretare quelle parole».
E ciò dicendo piegò le gambe, si sedette sull’erba, noncurante delle macchie di terra che potevano contaminargli il bianco del completo, e posò i fiori accanto a sé.
«Ah» Abbacchio si lasciò scappare un sorriso amaro per simulare il suo vero stato d’animo. Sperava in qualche modo che quella pseudo – pseudo? – confessione restasse laggiù e invece gli stava toccando averci a che fare anche dopo il trapasso. Ma era prevedibile: figurarsi se uno come Bucciarati si lasciava sfuggire un dettaglio simile.
Rimanendo ancora in silenzio, raggiunse il compagno di aldilà e si accomodò al suo fianco, più teso che mai. Poggiò anch’egli i fiori a terra e si schiarì la gola.
«Allora, io… ehi».
Nel momento in cui Abbacchio stava cercando le parole adatte per mettere ordine nel caos sentimentale in cui si era ingarbugliato, Bucciarati gli rese il lavoro più complicato piegandosi di lato per distenderglisi addosso, adagiandosi con la testa sul grembo e spargendogli i capelli sulle cosce.
«Sei un fetente!» fu la prima cosa che venne da dire a un Abbacchio spiazzato da cotanta sfacciataggine «Dai, dillo che ti stai a divertire a vedermi così, forza».
Bucciarati si coprì il volto con le mani, anche lui imbarazzato per l’audacia che lui stesso aveva dimostrato. Due falangi si aprirono per permettere a un frammento azzurro di iride di sbirciare il volto di Abbacchio e sussultò per le risate.
«Molto, sono sincero!» gli confessò, mentre spostava lentamente una mano dal proprio viso al torace di quello che un tempo era un suo sottoposto; percorse la linea dello sterno e si fermò alla base del collo: i vasi sanguigni, o perlomeno la loro proiezione psichica, pulsavano furiosamente. Restò così, in silenzio, crogiolandosi negli ultimi istanti di pace prima della tempesta emotiva, annunciata dal movimento frenetico del pomo d’Adamo di Abbacchio sotto le dita, e pian piano il sorriso che gli colorava il viso si spense cedendo il posto alla malinconia. Quando entrambi capirono che era giunto il momento di affrontare la questione seriamente lasciò cadere la mano lungo il fianco.
«Dopo che mi hai detto quella cosa sei stato il primo a salire sulla barca. Non avevo avuto il tempo di capire davvero cosa volessi comunicarmi, ma c’è stato un attimo in cui il mio cervello aveva smesso di processare perché a essere onesto, anche se avevo già intuito che la tua non fosse soltanto gratitudine, non pensavo avessi il coraggio di dirlo di fronte a tutti. Quindi… insomma, se abbiamo visto quel carro con le colombe e siamo entrati qui dentro vuol dire che le tue parole significavano qualcosa, e vorrei che me lo dicessi una volta per tutte… Per te, per me e per questi fiori».
Abbacchio si toccò dove prima c’era stata la mano di Bucciarati e trasse un respiro profondo. Una cascata di ciocche cenere² accompagnò il chinarsi della testa per guardare la fonte della propria serenità. Dalla gola uscì una voce bassa, arrochita da anni di disperazione.
«Non saprei dirti quando è cominciata, però posso dirti che sei il primo uomo che mi ha fatto dubitare dei miei gusti³… Quello che ho condiviso con te mi ha fatto rivalutare il senso della mia vita e in virtù di questo non potevo lasciarti da solo su quella barca. Anzi, non volevo, perché se tu fossi andato via prima di me non so cosa avrei fatto, come l’avrei affrontato… La mia vita non avrebbe più avuto senso e… scusa».
Il groppo alla gola che aveva represso a fatica era tornato a fargli male, più insidioso di prima. Comprendendo quanto gli stesse costando esprimere a voce i propri sentimenti, Bucciarati non seguitava a non profferire replica, con la testa sempre sul suo grembo e la pazienza di chi si era conquistato l’immobilità dell’eternità. A un certo punto gli prese la mano e se la portò al petto, e a essa intrecciò le proprie come per infondergli coraggio.
Dio, quanto avrebbe voluto baciarlo.
«Mannaggia a te, sei adorabile» Abbacchio tirò su col naso e si passò la manica sugli occhi lucidi «resti sempre un fetente, ma sei adorabile».
Il sorriso riaffiorò tra le labbra di Bucciarati. Il continuo intrecciarsi, strecciarsi e ricercarsi delle mani comunicavano quello che era impossibile esprimere verbalmente.
«Continua, ti prego» lo esortò.
«La fai facile…» Abbacchio lasciava ancora che la sua mano venisse stuzzicata da quelle di Bucciarati, che così sdraiato altro non voleva essere che un ventenne qualunque accoccolato sulle gambe del fidanzato. All’improvviso gli tornò alla memoria un episodio che in un contesto meno straniante avrebbe titillato la curiosità o il senso del pudore di chiunque.
«Te la ricordi la nostra ultima giornata al mare?».
Bucciarati smise per un attimo di giocare con la sua mano e lo guardò con le sopracciglia inarcate. Gli riuscì di scorgerlo dischiudere le labbra e inumidirle fugacemente con la punta della lingua.
«Scherzi? È stato lì che ho capito che non me la raccontavi giusta»
«Ok, è una domanda stupida, ma non mi viene in mente altro per riprendere il discorso senza diventare una fontana» sbuffò Abbacchio che non sapeva se sentirsi nervoso o semplicemente confuso «quando io e te ci siamo appartati con quella ragazza conosciuta in spiaggia e abbiamo iniziato a farci sesso… e mentre lei ti stava sopra ha spinto la mia testa contro la tua perché… e avevamo paura che qualcuno della squadra ci scoprisse… come siamo riusciti a far finta di dormire in tenda ancora non me lo spiego»
«È stato un bel bacio» commentò Bucciarati incrociando le gambe, il respiro leggermente più pesante «ci avevi messo entusiasmo».
Abbacchio deglutì rumorosamente.
«Mi ero fregato da solo, dovevo intuire che da lì avevi capito tutto» distolse lo sguardo dai mazzi di fiori candidi posati vicini, decisamente non adatti per la piega che aveva assunto il discorso «non ho avuto il coraggio di chiederti di ripetere l’esperienza, con o senza terza incomoda… L’ambiente in cui ci eravamo ficcati e le voci che avrebbero iniziato a girare… era troppo pericoloso. Però mi era sempre rimasto il tarlo di volerlo rifare perché così almeno avrei avuto una buona scusa per… insomma, ficcarti di nuovo la lingua in bocca e toccarti, anche se non ti avrei detto che quello non era solo sesso mi sarebbe bastato lo stesso».
Bucciarati si sistemò meglio sul grembo di lui. Impercettibilmente ma inevitabilmente, la flemma che lo contraddistingueva lo stava abbandonando e a comunicarglielo erano soprattutto le gambe tenute ostinatamente accavallate.
«Però adesso non devi più accontentarti del sesso, o sbaglio?» nel porre la domanda, Bucciarati gli aveva posato la mano sul petto, sotto i lembi visibili della lingerie. La proiezione psichica dei polpastrelli fecero percepire ad Abbacchio il ritmo irregolare del cuore.
«Mmh, no» la mano libera andò a insinuarsi tra la fronte e la frangetta di Bucciarati, scoprendola accaldata e leggermente sudata «Ti ripeto, non so quando ho iniziato a provare interesse nei tuoi confronti, ma quando ti ho baciato… porca… porca miseria Bruno, mi piaci, mi piaci da impazzire e voglio passare il resto dell’eternità con te perché tu sei il mio paradiso, la mia pace… Sei tutto».
Ecco, finalmente lo aveva detto. Peccato – o per fortuna? – che la tempesta fosse solo cominciata.
«Santiddio che chiavica di dichiarazione che ho fatto» si affrettò ad aggiungere cercando di sdrammatizzare. Trattenersi dal piangere gli stava costando una fatica immane e sicuramente di lì a poco avrebbe ceduto.
Bucciarati sorvolò sulla battuta. Si alzò e avvicinò il volto a quello del confessore, che trattenne il fiato una volta realizzato quanto i loro nasi fossero vicini. Lo vide indugiare con lo sguardo sulle labbra serrate e poi espresse a voce il motivo per il quale provasse tanto timore del giardino di Mitra.
«Sai che le colombe bianche sono visibili solo agli innamorati?» gli prese il mento tra le dita per costringerlo a guardarlo in faccia «Ti avevo detto più di una volta che le vedevo assieme a te, ma non c’era verso di farti cambiare idea in quella testa dura che tieni. Non volevi entrare perché avevi paura di essere felice una buona volta, non è vero? Perché in cuor tuo sentivi di non meritartelo».
La fronte di Bucciarati toccò quella di Abbacchio; ormai i respiri si stavano rompendo sotto il peso degli anni passati a trascurare la loro parte più umana, e tutto per il bene di un disegno del quale non avevano scelto di far parte.
Un rivolo salato percorse la linea della mandibola e bagnò il pollice di Bucciarati.
«Quando ti ho visto con quel buco al petto» proseguì quest’ultimo con la voce sempre più incrinata «e abbiamo dovuto lasciarti da solo, in realtà su quella spiaggia avevano ammazzato me, anche quando… quando Narancia se n’è andato, me n’ero andato io, perché siete la mia cosa più preziosa, tu sei la mia cosa più preziosa… e dovevo stare al mio posto perché non potevo lasciarmi andare, non…».
Altre lacrime sopraggiunsero a spegnergli in gola le ultime parole, sovrapponendosi a quelle di Abbacchio. Una mano affondò nel caschetto, mentre l’altra andò ad asciugargli il ciglio da una goccia, e purtuttavia, anche con quel gesto, non poterono evitare di assaggiare il mescolamento del loro dolore a lungo sottaciuto attraverso il contatto con le labbra, dapprima cauto, dopo sempre più profondo, più fisico, più intimo, e mentre le lingue erano intente a esplorarsi a vicenda non si accorsero inizialmente dello spiraglio d’uscita creato dallo stesso labirinto che li aveva intrappolati.
Quando si separarono per prendere fiato i sospiri di angoscia si erano trasformati in fame di desiderio. Fu allora che entrambi scorsero la luce che li avrebbe indirizzati fuori.
Si guardarono in volto: gli occhi erano gonfi e le ultime lacrime fuggiasche rigavano le gote, ma non avevano più voglia di tornare a rivedere il sole, o perlomeno, ad Abbacchio non interessava più uscire da lì. A un certo punto vide che le gambe di Bucciarati erano ancora serrate, per cui ebbe l’idea di afferrargli una caviglia per invitarlo a mettersi a cavalcioni sopra di lui.
«Che hai da nascondere? Vieni qua, non farti pregare»
«Devo per forza?» Bucciarati arrossì violentemente. Vederlo così era uno spettacolo unico.
«Dai» la voce di Abbacchio era appena un mormorio impastato dalle lacrime, mentre lo tirava a sé per mordergli il labbro «guarda che non mi offendo se mi dimostri il tuo affetto».
Seppur con qualche esitazione, avvertì il peso del busto scivolargli sul bacino e il cavallo dei pantaloni di Bucciarati gonfio contro il proprio inguine.
«Mi sono fatto sgamare» ridacchiò piano nascondendo il volto nell’incavo del collo di Abbacchio, che ne approfittò per infilargli una mano sotto la giacca dove c’era il pizzo nascosto.
«Che fai, ti vendichi?» sentì dire col fiato spezzato, le labbra gonfie per il morso di prima che gli sfioravano la clavicola «è colpa tua e dei tuoi ricordi sul sesso a tre»
«Se vuoi, appena finiremo noi due da soli» gli sussurrò Abbacchio all’orecchio «possiamo cercare quelle sacerdotesse cretesi che ci avevano invitato a entrare quando ci hai raggiunti per la prima volta»
«L’importante è che stavolta tu non fugga…» gli rinfacciò per scherzo Bucciarati, la sua voce ridotta a un soffio «Avevano tutte diciott’anni ma sono più vecchie di Cristo».
Abbacchio riuscì nell’impresa di sbottonargli la giacca con le mani che tremavano, dimentico della propria condizione di fantasma e della miseria che si era trascinata dal mondo dei vivi; l’avrebbe abbandonata sull’erba del labirinto. Quando lui e l’amante presero a togliersi i vestiti non fecero nemmeno caso alle altre lacrime che caddero dal cielo e che li accompagnarono lungo il vero ingresso del paradiso, quello della psiche.
E lì sarebbero rimasti per sempre.

***

¹Secondo Treccani, il dio Mitra «garantisce i patti e protegge i giusti». Era venerato sia in Oriente che presso gli ellenici e i romani ed era una figura fondamentale nei culti misterici; si ipotizza fosse anche il dio dell'amicizia. Spulciare Wikipedia per saperne di più. L'accostamento con le viti è dovuto all'identificazione con Dioniso/Bacco («In vino veritas»).
²Irl l'ho sempre immaginato biondo cenere.
³Sorry not sorry, nella mia headcanon ritengo che Abbacchio e Bucciarati siano attratti sia da donne che da uomini. La tesi è avvalorata ancor di più dal fatto che in Purple Haze Feedback si faccia accenno alle tante donne con cui Abbacchio è stato prima di entrare nella squadra.
⁴Non si conosce molto della civiltà minoica, ma una delle ipotesi riguardo la condizione femminile è che le donne, almeno quelle di status sociale elevato, fossero piuttosto emancipate. Come testimoniato dalla statuina della "signora degli animali", il loro abito tradizionale prevedeva il seno scoperto. Click per ulteriori info.

Musica in Jojo: Freelove è il terzo estratto di Exciter, il decimo album in studio dei Depeche Mode, usciti entrambi nel 2001. Proprio quest'album, assieme a Ultra, sono stati la mia fonte di ispirazione durante la stesura, quindi se avete letto tal pezzone di letteratura ringraziate zio Dave e soci. Trovo che sia la canzone capolista della playlist che l'LP per intero siano una perfetta descrizione della Bruabba, quindi se volete dargli un ascolto cliccate qui, vi assicuro che non ve ne pentirete.

Retroscena: Chattando con alcuni appassionati che leggono Jojo da più tempo di me, è saltato fuori che anche secondo loro Abbacchio ha preso una sbandata per Bucciarati. Credo sia stato quello scambio di pareri, unito alla lettura, seppur in alcuni punti la sottoscritta non concorda con la visione dell'autore, di questo bell'articolo sulla mascolinità non tossica di Jojo a darmi la spinta propulsiva per scrivere quello che avete appena letto. Tutto sommato mi sono divertita a immaginare quei due in una situazione del genere, volevo dare un contributo leggermente diverso all'immagine che si ha solitamente di questo paring e ho iniziato pensando una ipotetica confessione tra i due nell'unico luogo in cui potranno mai essere felici davvero: l'aldilà. Questo perché credo che solo nella morte possano tirare fuori le loro vere essenze di ventenni a cui è stato tolto tutto e che non desiderano altro che la pace.

Prima di salutarvi vi comunico che domenica 15 agosto non ci saranno aggiornamenti. Il penultimo racconto sarà pubblicato alla fine della settimana successiva.
Grazie come sempre per aver letto, recensito e seguito. Un abbraccio e buone vacanze.

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Capitolo 11
*** Il ciclo dell'essere ***


11- Il ciclo dell'essere

Il ciclo dell’essere

 

Girl, where do you think you're goin'?
Where do you think you're goin'?
Goin', girl?

Honestly, I know where you're goin'
And baby, you're just movin' on
And I still love you even if I can't
See you anymore can't wait to see you soar

Lady Gaga, Joanne

Un racconto sulla morte benigna

 

«Josuke, aspetta!» Okuyasu tentò di fermarlo senza riuscirci.
«Penso che dovremmo lasciarlo in pace» Koichi si voltò a guardare i feretri e poi si soffermò sull’amico «se dovesse avere bisogno di noi saprebbe dove trovarci».
Tutto ciò non aveva senso.
«D’accordo, però voglio andare fuori per tenerlo d’occhio, non voglio che stia da solo».
Koichi annuì e si incamminò con Okuyasu verso il giardino, ma prima di lasciare in salotto vennero intercettati da una donna.
«Scusate» sussurrò loro torcendosi le mani «voi siete gli amici di Josuke?».
Avrebbe voluto urlare.
Certo che erano loro, avevi persino insistito per conoscere tuo fratello, dannazione. Perché ti comporti come se non ci avessi mai avuto a che fare?
I due uomini si scambiarono un’occhiata basita. Parlava giapponese come se fosse la sua lingua natìa.
«Sì, ci dica pure»
«Io… ecco… il mio nome è Holly, sono la mamma di Jotaro e la sorella di Josuke» la donna abbozzò un sorriso tirato, di circostanza «vorrei scambiare alcune parole con lui… Mi è sembrato molto scosso».
Era l’estate del 2009 e tu mi parlasti a lungo dell’altro figlio di nonno Joseph, come fai a non ricordarlo?
«Io non…» Okuyasu sembrava non sapere cosa fare. Eppure non gli era apparso che la donna avesse intenzioni malevole nei riguardi di Josuke «… non so se vorrà parlare con qualcuno ma in caso… potrebbe fare un tentativo»
«Grazie molte» la donna si profuse in un breve inchino «vi prometto che se non vorrà parlare con me non lo disturberò»
«Si figuri signora, anzi, condoglianze per quanto accaduto».
Non dovevano esserci condoglianze.
Non dovevano esserci fiori.
«Non dovresti essere qui».
Girò la testa. Finalmente qualcuno aveva riconosciuto la sua presenza. Era un ragazzino in giacca e cravatta seduto a vegliare la salma della defunta.
«Emporio! Riesci a vedermi!» gli andò incontro e lo abbracciò forte «Grazie al cielo sei qui ad aiutarmi, questo deve essere opera di un attacco stand, dobbiamo cercare il portatore».
Emporio ricambiò l’abbraccio, ma sul suo volto permaneva la tristezza di chi si preparava a dire addio a una persona cara.
«Jolyne, non è un attacco stand, sei soltanto finita in purgatorio» le disse lui sciogliendosi dalle sue braccia «devi tornare indietro da tuo padre e dagli altri in paradiso, tu adesso non appartieni più a questo mondo».
Jolyne lo guardò come se avesse di fronte un pazzo.
«Ma cosa stai dicendo?» si guardò intorno alla ricerca di conferme che potessero dare torto a Emporio «Io sono viva, sono qui davanti a te, Emporio ascoltami!» cercò di afferrarlo nuovamente, ma le mani gli trapassarono il corpo.
«Emporio…?»
«Non preoccuparti per Holly e Josuke, il vostro funerale non è mai avvenuto. Continuerò a proteggere le vostre reincarnazioni da quaggiù, e quando sarà giunto il mio momento ci rivedremo sotto il ciliegio. Addio…»
«Emporio!»
«… Jolyne».
Una mano la afferrò per la collottola e la trascinò via con una forza alla quale non seppe opporre resistenza. Voleva gridare ma i polmoni si riempirono subito d’acqua e quel che poté fare fu emettere delle bolle d’aria, e più scalciava per tentare di liberarsi più si sentiva soffocare. Attorno a lei vedeva creature marine di ogni genere nuotarle accanto come se niente fosse, ondeggiando placidamente con le pinne o coi tentacoli, di tanto in tanto rivolgendole uno sguardo incuriosito, e quasi si sentì mancare quando uno squalo balena si avvicinò a loro e spalancò la sua enorme bocca per filtrare un cibo inesistente con le sue branchie.
Strano pensare ai pesci durante una situazione di quel tipo, ma non riuscì a soffermarcisi oltre perché chi la stava trasportando verso la superficie l’aveva afferrata per le ascelle costringendola a guardare senza troppe cerimonie il sole torrido di mezzogiorno.
Atmosfere che sembravano pozzanghere e distanze chilometriche che si accorciavano.
«Ragazzina, questo non è posto per te, fila da papà, vai!».
Il suo salvatore, se tale poteva definirsi, la gettò sulla battigia come se avesse scaricato un sacco di patate. Troppo intontita per ribattere a tale pochezza di cortesia, non le mancò tuttavia di notare le sclere tatuate di nero, nero come i granelli di sabbia vulcanica della spiaggia.
«Dannate ragazzine, me le ritrovo sempre fra i piedi».
A essere venuto in suo soccorso era un uomo ben piazzato e con una di quelle facce che avrebbe potuto incontrare solo nell’area maschile di Green Dolphin Street.
Si portò una mano alla testa e cercò di mettersi seduta, col risultato di farsi venire un dolore sordo all’osso frontale.
«Bah» biascicò Jolyne massaggiandosi una tempia «ma che t’hanno fatto le ragazzine per avercela con loro?» poi guardò meglio l’energumeno e aggiunse «Bello il costume a strisce»
«Non farti più vedere da queste parti» sputò quello indicando un cartello piantato in mezzo al mare, sul quale era scritto, a caratteri rossi su sfondo bianco, “no swimming for good people”.
Jolyne sollevò un sopracciglio; non lo aveva proprio visto.
«Ok, ok, mi allontano subito, oggi non mi va di litigare» nell’atto di alzarsi per togliersi i granelli dal bikini constatò che quel tizio fosse persino più alto di suo padre. Era seria quando affermava di non volere grane: si sentiva stranamente in pace con sé stessa dopo un tempo immemore e di sicuro litigare con un presunto spirito del purgatorio era l’ultimo dei suoi desideri.
«Quindi, cioè, io mi allontano e tu fai lo stesso ma dalla direzione opposta, va bene? Allora vado eh, ciao e grazie per- oh!».
Nell’indietreggiare da quelle iridi rosse immerse nell’inchiostro urtò inavvertitamente contro una figura di donna che la tenne ferma per una spalla, salvandola dalla caduta.
«Sempre gentile con le anime che salvi, vero?» domandò la sconosciuta con disinvoltura, come se lo conoscesse già «Dove si è cacciata la ragazza plancton che stava per fare la stessa fine?»
«Sarà attaccata al rubinetto del bar o sdraiata da qualche parte in giro» il tono di voce dell’uomo si fece meno duro alla vista della donna «se sorprendo un’altra sprovveduta a nuotare nella zona proibita la lascio annegare»
«Certo, certo» la donna distese il telo che teneva sotto il braccio e vi si sedette sopra, poi trafficò nella borsa ed estrasse un pacchetto di sigarette e un accendino «a lei ci penso io, d’accordo? Se a te sta bene, più tardi andiamo a bere qualcosa. E…»
«Cosa?»
«Fai venire anche Straitso».
L’uomo rispose con una scrollata di spalle e un’occhiataccia a Jolyne, alla quale lei controbatté con altrettanta e muta stizza. Entrambe lo videro poi infilarsi le mani in tasca e allontanarsi per incamminarsi verso la vegetazione alle loro spalle, sparendo alla vista.
«Non prendertela» la donna accese la sigaretta e aspirò una boccata, mentre con l’altra mano si sfilava gli occhiali da sole rivelando due occhi azzurri e penetranti «ha un caratteraccio, ma non è pericoloso. Normale per chi faceva l’assassino di professione» incrociò le gambe e invitò Jolyne a sedersi sul telo «guarda che c’è spazio per due».
La ragazza ubbidì senza smettere di guardarla: il fisico sodo e tornito era stretto da un costume intero che esaltava il bel decolleté e il collo. I capelli cadevano sulle spalle come una cascata di seta marrone che terminava oltre la vita. Non sapeva perché, ma qualcosa, di lei, le richiamava alla mente suo padre.
Di certo era veramente bellissima.
«A proposito, chiamami Elizabeth» disse come se in realtà la conoscesse da sempre «quando sarai pronta scoprirai che abbiamo molto in comune… allora, Jolyne: perché stavi nuotando nelle acque di confine?»
«Sai come mi chiamo?» Jolyne non nascose sorpresa di sentirsi chiamare per nome da quella creatura che stentava a pensare un tempo appartenente ai mortali «Ma come…?»
«Come ho detto prima, quando sarai pronta capirai un bel po’ di cose» la interruppe Elizabeth «dimmi, però: perché stavi rischiando di perderti in mare?».
Jolyne guardò il mare mosso appena da onde blande, all’apparenza innocue, e ricordò subito di essere arrivata assieme agli altri su un battello, poi aveva voluto tuffarsi e si era ritrovata ad assistere alla visita della sua stessa camera ardente.
«Volevo solo fare una nuotata» Jolyne si strinse nelle spalle al ricordo di quello che aveva visto «non immaginavo di trovare la nonna e lo zio al mio funerale, è stato così assurdo che stavo andando fuori dai gangheri, ma a parte Emporio non mi sentiva nessuno…»
«Ho capito» Elizabeth aspirò altro fumo «al fine di non farti commettere lo stesso errore, alle anime buone non è permesso nuotare alla destra di quel cartello perché il mare e la spiaggia corrispondente appartengono a quelle di mezzo»
«Emporio mi aveva parlato del purgatorio» aggiunse Jolyne «quindi quella che mi ha trascinata a riva era un’anima del purgatorio?»
«Purgatorio è un termine semplicistico» Elizabeth fece ondeggiare la bella chioma mentre si scostava un ciuffo ribelle dal viso «come avrai saggiato empiricamente non esistono confini netti tra quelli che i vivi chiamano paradiso, purgatorio e inferno: questo perché è molto difficile che esistano anime esclusivamente buone o esclusivamente empie. Sono rare, ma non sono solite socializzare col resto di noi anime grigie, quindi non aspettarti di intavolare una discussione con loro… Ma per rispondere alla tua domanda nel dettaglio» e così dicendo accennò col mento alla foresta di palme dietro di loro «quello è un esempio di anima che da viva ha soltanto avuto una brutta giornata: un attimo prima stai giocando con tuo cugino per strada e quello dopo assisti al suo investimento, e da qui un omicidio tira l’altro fino a quando arrivi a considerare un gruppo di lestofanti la tua nuova famiglia… E che famiglia, azzarderei ad affermare quasi simpatica. L’odio per gli adolescenti in generale, invece, è dovuto al fatto che sia stato mitragliato proprio da un ragazzino. Ma a ogni modo, penso tu sappia quanto danno possa recare il rancore unito a un trauma non superato»
«Ne so qualcosa» Jolyne piegò le labbra in un sorriso amaro e cinse le proprie ginocchia con le braccia «da quello che mi hai detto devo dedurre che chi uccide può comunque aspirare a un oltretomba felice?»
«Se tutti gli assassini finissero all’inferno non esisterebbe nessun paradiso e le anime rimaste lo renderebbero oltremodo noioso… C’è chi ha ucciso per onore, chi per proteggere una persona amata, chi per sana e umana vendetta, chi per salvaguardare il benessere dei propri compagni… La lista è infinita. Solo chi toglie la vita per il puro gusto di farlo o per malvagità intrinseca finisce inghiottito dalle tenebre. I nostri piedi calpestano un ecosistema che non si fonda sui dogmi dei religiosi, ma risponde a regole precise stabilite dall’essere in sé: così come gli agenti patogeni vengono eliminati dall’organismo, l’aldilà confina i malvagi per natura laddove non possono recare più danno fino a quando non saranno pronti per ricominciare a vivere nella carne»
«Mi stai dicendo che non resteremo qui per sempre?» domandò Jolyne perplessa «Che siamo destinati a rinascere all’infinito?»
«In un certo senso è così» Elizabeth spense il mozzicone nella sabbia ed espirò l’ultima boccata «arrivi, trascorri un tempo indefinito, se tempo si può chiamare, e quando ritieni che le pene della tua ultima vita mortale siano state liberate il tuo spirito getta via l’immagine spettrale del tuo corpo e ti rinchiudi tra i petali di un elleboro¹. Quando il fiore sboccerà la tua anima sarà di nuovo laggiù, pronta a ricominciare il ciclo e a intrecciarsi con gli stessi spiriti che hai incontrato nelle tue vite precedenti, anche loro in corpi e coscienze diverse. A conti fatti nessuno muore veramente… ci si rigenera e basta»
«Mi spieghi allora perché accade? Qual è il senso di purificarsi e tornare a soffrire all’infinito?» Jolyne guardò un po’ la donna e un po’ la risacca che risaltava sulla distesa nera «e perché ho visto quelle cose in acqua… quei ricordi falsati?»
«Per i secondi non esiste alcun mistero» spiegò Elizabeth «il lido di Loki è fatto per intrappolare nell’inganno le anime sprovvedute che nuotano nelle sue acque; di per sé non è pericoloso, però è meglio evitare di farci il bagno… non tutti sono stati fortunati come te e la tua amica. Per quanto riguarda la prima questione, che dire… dopo un po’ che sei qui ti senti talmente in pace che smetti di domandartelo e accetti la tua condizione per quella che è. Eviti anche di chiederti se effettivamente esista o meno una divinità dietro a tutto questo».
Jolyne si dedicò alcuni momenti per pensare a quanto aveva ascoltato, coadiuvando il processo disegnando spirali sulla sabbia con l’indice.
«Senti» buttò lì, guardando la sconosciuta che rinforcava gli occhiali «dopo quello che mi hai detto, tu ci credi nel destino? Perché so che ti sembrerà strano, ma per me è come se fossimo legate da sempre… anche il tipo scorbutico di prima, mi è parso di condividerci qualcosa che non saprei come esprimere a parole»
«Mh» Elizabeth tese i palmi dietro il busto per godersi meglio quel sole accecante ma per nulla dannoso «non è un fenomeno raro, di sicuro altre anime più esperte di me sapranno spiegartelo meglio. Non è qualcosa che accade solo a chi possedeva poteri spirituali, ma si estende a tutti… lo scoprirai solo incontrando le altre anime a te affini, e ti assicuro che sono tante, più di quante immagini. E se non vado errata…» si voltò a sinistra e aguzzò la vista da dietro le lenti «non accadrà tardi. Alcune ti stanno già aspettando» tornò a guardare Jolyne e le rivolse un sorriso garbato «credo sia arrivato il momento di incontrarle. Se ti va, possiamo rivederci al ristorante quando avrò finito di prendere il sole e di fare della sana bisboccia con gli aspiranti purgati. Anzi, sai che c’è? Ti chiedo, se non ti è di disturbo, di riservarmi un coperto accanto a tuo padre, vorrei fare una bella chiacchierata con lui… Mentre mangio un pasticcio di carne, non ne ho mai assaggiato uno così buono da quando Gloria lavora come capocuoco…».
Le orecchie di Jolyne si drizzarono.
«Gloria?».
Elizabeth aggrottò la fronte in segno di perplessità.
«Oh, sì, è una ragazza tanto cara che finalmente ha potuto aprire un ristorante tutto suo da spirito, solo lei riesce a sedare gli animi più ribelli con la gola»
«Ok…» Jolyne non aveva idea dello stato d’animo che avrebbe dovuto assumere dopo quell’informazione, ma decise comunque di andare a verificare di persona «se intendi incontrare mio padre al ristorante farò come chiedi… solo che…» tese le braccia come per indicare l’infinità del luogo in cui si trovavano «mi daresti delle indicazioni su come arrivarci?»
«È semplice» Elizabeth indicò a sua volta la sabbia allungando il braccio a sinistra «percorri la battigia o nuota sempre verso quella direzione senza tornare indietro. Quando incontrerai la statua di Tueret sarai giunta a destinazione»
«Va bene, mi fido anche se mi sembra strano» disse Jolyne alzandosi, scoprendo che il telo era rimasto asciutto.
«Lo è, ma quando la fisica non detta più legge è normale sentirsi spaesati all’inizio. Non avere paura e segui la tua voglia di ricongiungerti agli altri, il resto verrà da sé»
«D’accordo… allora io vado. Ci vediamo al… ristorante? Sì, al ristorante».
Jolyne si sentì una stupida mentre pronunciava quelle parole. Davvero gli spiriti avevano bisogno di mangiare?
«I’ll catch you later» disse Elizabeth sdraiandosi sul telo per prendere il sole, facendo venire in mente a Jolyne un altro quesito: davvero gli spiriti potevano abbronzarsi?
Comprendendo però che la conversazione era giunta al termine, decise di tenere per sé quei dubbi. Dando definitivamente le spalle alla donna, gettò un ultimo sguardo al cartello che separava i due mari e lasciò che la spuma della risacca le lambisse i piedi. L’acqua era così limpida che riusciva a scorgere granchi e piccoli pesci guizzanti.
Quando, avanzando lentamente, la marea raggiunse il torace, trattenne il respiro e immerse anche la testa.
Sebbene l’acqua fosse salata il contatto della salsedine con gli occhi non le procurava fastidio alcuno, era come se una mente superiore avesse creato quella parte di luogo-non luogo privandola di ogni possibile pena fisica. A vorticarle intorno c’era un piccolo festival di crostacei e altre creaturine marine che si nascondevano sotto la sabbia, inconsapevoli del loro stato di essenze prive di materia.
Nuotò ancora per un tempo infinitamente breve e brevemente infinito, tra altri pesci e altrettanti crostacei per nulla infastiditi della sua presenza, fino a che un vociare a lei conosciuto interruppe la sua ricerca.
La prima cosa che vide una volta emersa dall’acqua fu una palla da beach volley volteggiarle sopra.
«Eccoti!».
Uno sciabordio preannunciò l’arrivo e il successivo abbraccio di Foo Fighters, che dalla foga impiegata per tenerla stretta a sé sembrava che non la vedesse da tanto tempo.
«Mentre ti aspettavamo abbiamo iniziato a giocare a palla! Non te la prendi, vero?»
Guardando quegli occhi grandi così puri e infantili, Jolyne non poté trattenere un sorriso.
«Ma no, tranquilla, continuate pure senza di me!» le disse passando in rassegna la spiaggia deserta ad eccezione dell’uomo sdraiato all’ombra della statua in pietra lavica della dea ippopotamo incinta «io devo scambiare due parole con papà»
«Finalmente sei qua» Ermes prese la palla e si avvicinò a lei «si può sapere cos’eri andata a fare dall’altra parte?»
«Mi era sembrato di vedere qualcuno che conosco, ma mi ero sbagliata» minimizzò Jolyne facendo spallucce «se vi siete preoccupati per me non avreste dovuto farlo».
Ermes aggrottò la fronte e fece una smorfia. Era il suo modo di farle intendere che non se l’era bevuta.
«Ok, come vuoi» mentì senza dire altro, eccezion fatta per il labiale privo di suono sopraggiunto subito dopo, con tanto di indice teso fatto ruotare all’italiana a mo’ di mulinello: they would have talked later.
«Mentre ti aspettavamo siamo stati affiancati da un’altra barca e chiacchierando con il capitano è saltato fuori che c’è un labirinto dal quale puoi uscire solo se ti dichiari alla persona che ti piace» mentre diceva quelle cose, Weather Report si allontanava sempre di più da Anasui «se magari avessimo la possibilità di ficcarci dentro qualcuno, questo qualcuno smetterebbe di romperci le palle… Oh, ciao Narciso!» aggiunse rivolto a quest’ultimo prima di tuffarsi per sfuggire alla sua rabbia.
«Se ti prendo ti ammazzo!» gridò quello paonazzo in volto, evitando accuratamente di guardare Jolyne.
«Ma tanto siamo tutti morti!» lo canzonò Foo Fighters spruzzandogli l’acqua in faccia.
«Non importa, lo ammazzo lo stesso, ma prima inizierò con te!» e così dicendo si avventò su di lei suscitando le risate di Ermes.
Approfittando dello schiamazzo, Jolyne si allontanò dal gruppetto per raggiungere Jotaro: dentro di sé avrebbe voluto unirsi a loro, ma non aveva avuto il coraggio di esternare a voce la strana sensazione che provava nel vederli liberi dalle catene dell’angoscia, e se doveva essere onesta anche lei sentiva una tale sensazione di leggerezza da riconoscersi a stento. Era inusuale, seppur bellissimo.
Anche suo padre era in costume, ma a differenza di Elizabeth era disteso direttamente sulla sabbia e guardava il cielo terso attraverso un oggetto luccicante simile a un grosso diamante. L’ombra innaturale dell’ippopotamo oscurava l’intera base della statua, che era stata momentaneamente addobbata coi loro vestiti messi ad asciugare.
Vedendola giungere sulla spiaggia, Jotaro terminò la sua ispezione della volta celeste e prese a giocherellare con il diamante:
«Ho visto fin dove sei arrivata. Stavi nuotando in acque internazionali»
«La signora che ho incontrato lì le aveva chiamate in un altro modo» disse lei prendendo posto all’ombra: in quella zona di spiaggia la sabbia era così carezzevole da non attaccarsi alla pelle bagnata «comunque pare che siamo finiti nella prima classe dell’aldilà o qualcosa del genere»
«Una specie» Jotaro riprese a osservare l’infinito col diamante «vuoi sapere come ho fatto a capire dove ti eri cacciata?»
«C’entra quello?» Jolyne indicò in diamante che il padre teneva in mano.
«Sì» Jotaro ruotava lentamente la base della pietra sull’occhio, un movimento che le rimembrò le poche volte in cui lo aveva visto muovere il revolver del microscopio ottico che teneva a casa «se infili un braccio nella bocca di Tueret ricevi in dono un diamante col quale puoi esaminare tutte le realtà alternative del mondo di laggiù². A ogni faccia corrisponde una realtà… la cosa che mi ha lasciato basito è che in quasi tutte conduciamo una vita normale… persino quella in cui siamo vampiri»
«Vampiri?» sbruffò Jolyne «non è che questa dea ti ha fregato?»
«Non lo so, però è divertente» Jotaro abbozzò un sorriso, emanava un’aria così tranquilla da sembrare un’altra persona «in questa realtà noi due siamo vampiri capaci di trasformarsi in predatori marini, io in orca e tu in una bellissima chrysaora achlyos… la medusa più grande del mondo»
«E la mamma in cosa si trasforma?»
«La mamma non si trasforma, però riesce a decifrare le aure degli esseri viventi e degli altri vampiri e possiede una velocità soprannaturale… il fatto sorprendente è che» Jotaro tornò a guardare la figlia «in nessuna di queste realtà ho incontrato Pucci».
Jolyne si fece improvvisamente seria sentendolo nominare.
«Cosa vuol dire questo?»
«Vuol dire che la sua anima è destinata a non ripetersi in nessun universo e a non reincarnarsi in nessun altro essere vivente, condannata per l’eternità a patire il buio degli inferi. Suppongo sia la punizione ultima per chi si arroga il diritto di giocare a fare Dio con gli spiriti della gente… Credevo fosse andata male a un tizio di Morio che ha perso la memoria ma a quanto ho visto c’è chi sta peggio…»³
«Aspetta» lo interruppe Jolyne «parli proprio di quel tizio? Quello che ha quasi ucciso te e Josuke?»
«Sì, lui, non ho idea del perché sia finito a fare il sicario per una religiosa ma sembra che non lo vogliano nemmeno all’inferno… Sii sincera, hai visto anche questo nel mio disco?»
Jolyne si perse un attimo a guardare Anasui che afferrava Weather Report per la vita e lo rigettava in acqua tra gli schiamazzi di Ermes e Foo Fighters.
«Sì… è stato strano… Soprattutto vedere te e Josuke così giovani… Josuke con quei capelli ridicoli, mio Dio... non so come abbia fatto a trovare moglie conciato così»
«E guai se provavi a prenderlo in giro» rincarò Jotaro «ha mandato in ospedale più di una persona che si è cimentata nell’impresa».
Risero entrambi al pensiero di un Josuke adolescente che andava in escandescenza per i suoi preziosissimi capelli.
«Senti» riprese Jolyne dopo un po’ «sei sicuro che stiamo bene in questi universi alternativi che hai visto? Non è che in qualcuno magari la nonna o la mamma piangono per noi?»
«Sicurissimo, in un paio sono persino diventato nonno prima dei sessant’anni» Jotaro interruppe il discorso per godersi la faccia stupita di Jolyne nell’apprendere la notizia «ma non ti dirò con chi ti sei sposata, questa è una sorpresa che devi scoprire da sola»
«Ma uffa!» protestò lei pungolandogli il braccio «Non mi dai nemmeno un indizio?»
«Te ne do uno solo!»
«Ok, spara!»
«Lo conosciamo entrambi»
«Tutto qui?» Jolyne gonfiò le guance per la delusione «Non mi dici altro?»
«È che non voglio farvi discutere, non qui almeno!» si giustificò Jotaro «Non adesso che, sai… siamo solo essenze».
Jolyne mollò la presa dal braccio del padre. Solo in quel momento si era accorta di non provare più un briciolo di rancore nei suoi confronti.
«Vorrei poter dire che mi dispiace non vederti invecchiare» proseguì Jotaro «ma racconterei una bugia. Se non fossimo morti la nostra avrebbe continuato a essere la famiglia disfunzionale che siamo sempre stata… con l’aggiunta del sacrificio di chissà quante altre persone con la colpa di voler essere nostre amiche»
«Un win-win per tutti quindi» Jolyne sollevò un sopracciglio e ripensò al dialogo che aveva avuto con chi le aveva indicato la via per tornare in paradiso. Se si concentrava abbastanza riusciva a rievocare il brivido che le aveva provocato la sua vicinanza.
«Come ho detto prima, ho incontrato una donna al confine col purgatorio» riprese, volendo condividere in parte l’esperienza della sua breve avventura «e mi ha fatto un discorso strano sulle anime che rinascono dopo un po’ da dei fiori… Chissà se questi “noi” alternativi avranno un’anima tutta loro o se ci incontreremo da qualche parte… una specie di raduno dei sosia… wow, centinaia di Jotaro con tanti cappellini diversi, te li immagini?»
«Come no!» il Jotaro spirituale trattenne a stento una risata dal naso «Con tuo sommo dispiacere condividiamo un’anima sola, sicché quando un nostro sosia morirà i suoi ricordi si ricongiungeranno ai nostri… O almeno questa era la teoria di un amico che faceva l’indovino. Mi domando dove sia finito adesso»
«Se era una brava persona penso ti stia aspettando» ipotizzò Jolyne.
«Sicuramente» il volto di Jotaro si addolcì «era un tipo che aveva capito come raggiungere il paradiso pur senza averne contezza»
«Allora perché non ci rivestiamo e andiamo a incontrarlo?» domandò Jolyne «Dai, non dirmi che non sei curioso di parlarci!»
«Non è questo!» Jotaro gonfiò le guance come aveva fatto prima la figlia e si parò il viso con il palmo della mano tesa «Siamo appena arrivati, ok? Non affrettiamo le cose»
«Ah, ho capito» cantilenò Jolyne gongolante «sei troppo emozionato per rivederlo».
A giudicare dal silenzio ostinato di suo padre, la ragazza comprese di averci preso.
«Ho indovinato?» incalzò lei inginocchiandosi accanto a lui per scrutargli l’espressione «Non essere così rigido!»
«No, hai torto» rimbeccò Jotaro.
«Non ti credo!»
«Ti dico che hai torto!»
«E io ti dico che non ti credo!»
«Va bene, sono molto emozionato» Jotaro scoprì il volto e scattò a sedere digrignando i denti «sei contenta adesso o vuoi ancora inferire?»
«No, la tua faccia da peperone basta e avanza» stavolta toccò a Jolyne coprirsi il volto con le mani per soffocare l’ennesima risata «non ti avevo mai visto così, giuro che sei troppo buffo!»
«Ma pensa!» Jotaro la colpì su un fianco con il pugno chiuso per farle perdere l’equilibrio «Tu e la tua linguaccia!».
Jolyne incassò il colpo senza smettere di ridere. Era incredibilmente tenero.
«Oddio, se ti vedesse la mamma in questo momento…» Jolyne si rialzò non senza aver asciugato una lacrima «Non sembri nemmeno mio padre».
Jotaro non fece commenti sull’ultima affermazione della figlia; la sola azione che compì fu sollevare il busto per sistemarsi meglio sulla sabbia. Gli altri quattro pazzoidi che erano venuti con loro stavano lasciando il mare per raggiungerli sulla spiaggia.
«Spero che almeno in uno degli universi alternativi che hai visitato tu appaia esattamente come sei adesso» disse Jolyne mutando tono di voce «è bello vederti così».
Lo vide guardarla come se in realtà stesse osservando qualcosa di intelligibile solo a lui, qualcosa che probabilmente non le avrebbe mai rivelato, che fosse in quella o un’altra vita.
«Mi sono visto» fu la sua risposta «e ci siamo visti, tutti assieme, inclusi chi non hai conosciuto. E… sì, sono così… E anche il maestro che ti insegna a usare Stone Free come se tuo padre fosse lui… credo sia la mia scena preferita tra quelle che ho visto»
«Amico dell’indovino?» chiese Jolyne immaginandosi al fianco di questo ipotetico mentore.
«Esatto».
Jolyne serrò le labbra.
«Papà»
«Sì?»
«Questa storia degli universi alternativi felici è vera o falsa?»
La domanda ebbe destino di non ricevere risposta perché Ermes e gli altri si erano avvicinati a loro.
«So cosa state pensando» Jolyne, cambiando subito discorso per non incupirsi, precedette quello che stava per profferire l’amica «la prossima volta faccio il bagno con voi, promesso!»
«Tanto anche se non vorrai ti costringeremo» Ermes era più decisa che mai su quel punto «quindi guai a te se ti perderai»
«Garantito, non preoccuparti» Jolyne allungò una mano alla ricerca dei pantaloni, ma quando si girò per recuperare gli indumenti vide suo padre bloccato nell’atto di infilarsi la maglietta, evidentemente distratto da un movimento di foglie e sabbia al limitare della vegetazione.
«Ma che diamine…».
Dalla penombra della foresta era sbucato un cagnetto bianco e nero dall’aria pestifera.
Foo Fighters si avvicinò all’oggetto di quella distrazione e gli si inginocchiò davanti.
«Guardate! È un cagnolino! Che carino, è più piccolo di quelli che vedevamo in carcere! Vieni qui piccoletto!»
A differenza di Foo Fighters, Jotaro non si era inginocchiato, ma aveva soltanto sbarrato gli occhi. In effetti quel boston terrier spuntato all’improvviso dalla macchia costiera non poteva trattarsi che proprio di quel boston terrier del disco.
«E tu da dove salti fuori?» mormorò Jotaro con stupore avanzando di qualche passo per accertarsi che fosse veramente lui.
Dal canto suo, il cane trapassò con sguardo indagatore i volti dei bagnanti che si stavano rivestendo e iniziò ad annusare la mano tesa di Foo Fighters prima di sollevare il muso per scrutare il profilo panciuto di Tueret.
«Non sapevo che anche i botoli potessero finire qua» Anasui allontanò con sdegno gli stivali dal naso del cane «signor Jotaro, lei lo conosce?» domandò poi senza togliere gli occhi di dosso dall’animale che sembrava essere alla ricerca di qualcosa tra i loro indumenti.
«Sì, ed è un adorabile pezzo di merda, non è vero Iggy?» fece Jotaro rivolto alla bestia che per tutta risposta disvelò i denti in un ghigno malizioso «Sei da solo? Non c’è nessuno con te?».
Il cane di nome Iggy continuò a perlustrare i dintorni con l’olfatto mentre il gruppo terminava di vestirsi; quando Jotaro infilò la giacca allungò le zampe anteriori sui suoi pantaloni affinché venisse preso in braccio, richiesta che l’uomo esaudì non senza qualche remora.
«Strano, non dovrebbe, chessò, scorreggiarti in faccia?» chiese Jolyne perplessa, provocando l’ilarità generale per quella domanda, fatta eccezione per Anasui che con la coda dell’occhio aveva percepito che quelle di Iggy non erano buone intenzioni.
«Non mi fido» disse fissando negli occhi quel botolo malefico.
«In effetti potresti avere…» Jotaro si voltò per guardare chi aveva posto l’obiezione, ma non fece in tempo a terminare la frase che Iggy afferrò coi denti la visiera del cappellino e gli balzò via dalle braccia, pronto per fuggire lontano col bottino.
«… ragione».
Il cane ghignò ancora e gli diede le spalle, dopo di che si rituffò nella vegetazione sparendo alla vista come una scheggia.
«Iggy, il mio cappello!» Jotaro gli lanciò contro il diamante nella vana speranza di beccarlo, ma quello che ottenne fu solo il tonfo della pietra che cadeva in mezzo all’erba alta.
«Inseguiamolo!» Jolyne tirò Jotaro per le maniche affinché ascoltasse la sua esortazione «Forse vuole condurci da qualche parte!»
«Ma pensa! E va bene, maledetto cane!».
Pur senza averne certezza Jolyne sentiva di essere nel giusto. Tra non molto avrebbero attraversato la vegetazione costeggiante la spiaggia trovandola disordinatamente infinita – ma anche finita – si sarebbero imbattuti in paesaggi stranianti abitati da spiriti meditabondi e silenziosi, ne avrebbero quasi urtato uno vestito di bianco che passeggiava nei pressi del labirinto menzionato da Weather Report, fino a quando, dopo aver attraversato una sequela di abitazioni di samurai immerse in una distesa di adonidi, si sarebbero ritrovati a correre per quello che sembrava il giardino più disordinato e mal assortito su cui avessero mai posato gli occhi.    
Fino a quando avrebbero scorto le fronde di un ciliegio in fiore.
«Papà» Jolyne, che avrebbe superato tutti con un certo stacco, avrebbe rallentato un attimo per voltarsi a guardare Jotaro «quello somiglia al ciliegio di casa! Ma che ci fa qua?».
Anche se non avrebbe ricevuto subito risposta sarebbe andata bene così, perché tanto lo avrebbero scoperto da chi sotto quell’albero ci trascorreva l’eternità e che attendeva pazientemente il loro arrivo.
Quel mentore che non aveva potuto proteggerla per colpa del destino sarebbe stato con lei per sempre, e anche se non aveva ancora idea di che tipo fosse sperava con tutto il cuore che sarebbero andati d’accordo. Le sarebbe parso di identificarlo nello studente in camicia e mocassini che, con l’espressione incontenibile di chi si preparava a riabbracciare un amico dopo tanto tempo, avrebbe indossato il cappello di suo padre e gli si sarebbe gettato addosso, libero dal giogo della solitudine.
Anche se non avrebbe mai saputo della veridicità degli universi alternativi, avrebbe scoperto che Jotaro aveva ragione almeno su una cosa: quel presunto mentore l’avrebbe amata come una figlia.  

***

¹Nel linguaggio dei fiori, l'elleboro è il fiore sacro a Dio e simboleggia la liberazione dalle pene. Qui per saperne di più.
²Riferimento agli universi alternativi menzionati in JORGE JOESTAR quali conseguenza degli effetti di Made in Heaven.
³Riferimento a Dead Man's Questions.

Musica in Jojo: Joanne è l'ultimo singolo, uscito solamente per il mercato italiano, estratto dall'album omonimo pubblicato il 21 ottobre 2016. Il brano è una dedica di Lady Gaga alla zia morta di lupus all'età di diciannove anni. Altri dettagli sulla canzone sono apparsi nel documentario Gaga: Five Foot Two disponibile su Netflix.

Retroscena: Mi ero incaponita sulla comparsa di alcuni personaggi di questo racconto. Se negli incontri inaspettati dei capitoli precedenti era presente un minimo di senso logico, questa volta ho deciso di fare interagire personaggi che nulla, o quasi, avevano da spartire l'uno con l'altro. Non so esattamente cosa mi abbia spinta a scrivere proprio di loro, volevo solo che fosse così e basta, il resto è venuto da sé.
Giunti/e quasi alla fine, non c'è molto altro da dire a riguardo. Posso affermare che si tratta della fine effettiva della raccolta, in quanto tutto quello che avevo da esprimere è già stato scritto e metabolizzato e che l'ultimo capitolo farà semplicemente da "quarta di copertina" virtuale all'intera pubblicazione. Per questo motivo ho dedicato a Jolyne la shot più lunga, perché volevo che con lei si chiudesse un cerchio iniziato tre mesi fa.

Come sempre, non mi stancherò mai di ringraziare chi legge, recensisce e segue la storia. Alla prossima settimana con la conslusione!

xoxo  

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Capitolo 12
*** L'ultimo canto dell'o'o di Kauai ***


12- L'ultimo canto dell'o'o di Kauai

L’ultimo canto dell’o’o di Kauai

 

We couldn't decipher the things that you said
The only one left with time to go
You wandered the earth, were seen but not heard
No matter how far you went
The story's behind us, not today
As careless with every step
Too hard to believe

Blanco White, Kauai O’o

Un racconto sulla fine che non è mai davvero fine

 

Abdul teneva in mano il suo tomo da un tempo indecifrabile, ma non aveva alcuna voglia di leggere. Lo stringeva sulle ginocchia, seduto come di consueto sotto il ciliegio in fiore che condivideva coi suoi compagni di eternità, immobile, lussureggiante e cinto da una fascia arancione sulla quale era ricamata una chiave della vita, non ancora aperto.
Non era raro che sui rami si posassero gli uccelli e gli insetti delle specie più disparate coi loro colori e i loro versi e il loro frullo di ali. Qualche volta Iggy poggiava le zampe anteriori sul tronco per abbaiarvi contro, ricevendo come risposta dei versi striduli di scherno o il tonfo sordo di un esoscheletro che cadeva sul carapace di Coco Jumbo. In quel momento, però, sembrava che sugli spiriti del cane e della tartaruga fosse calata una sorta di letizia oziosa, forse la stessa della quale l’indovino era caduto preda, che li inducevano stare rintanati all’ombra dell’albero in posizione prona, ad ascoltare la canzone perduta della coppia di volatili che aveva deciso di esibirsi proprio sotto le loro teste.
Abdul sollevò il capo in direzione del suono: due batuffoli del colore della grafite facevano gorgheggiare a turno le loro voci, prima una e poi l’altra, seguendo uno spartito musicale che solo quella specie conosceva. Il maschio dava inizio al duetto e la femmina rispondeva, probabilmente inconsci del loro non essere più ma uniti nella gioia di dichiarare all’Aldilà il loro essersi ritrovati. E qualcun altro, oltre all’indovino e al cane, sempre un maschio e una femmina, ascoltava quel frammento di natura spazzato via dalla cupidigia di chi abitava il mondo materiale.
«Era ora che una coppia di ‘o’o venisse a farci visita».
Kakyoin, disteso al sole poco distante da Iggy e con indosso la camicia, staccò una ciliegia dal pistillo e lo porse a Polnareff, sedutagli accanto a gambe incrociate, che lo rigirò tra le dita sottili fino a quando il frutto non ricomparve alla sua estremità, identico a quello che il ragazzo teneva incastrato fra i denti.
«Come sai che quelli si chiamano… come hai detto che si chiamano?» domandò lei senza smettere di giochicchiare con la ciliegia, il rosso scuro che si sposava col candore della mano.
«’O’o di Kauai» ripeté lui prendendo in mano un’altra ciliegia dalla coppa sempre piena «quando il maschio cercava una compagna per la vita iniziava a cantare, e se la femmina rispondeva si formava una nuova coppia. Non ricordo di preciso dove l’ho letto, ma non importa… Lo senti? questo è il maschio».
Kakyoin si ammutolì per lasciare che il silenzio venisse riempito dal richiamo del passeraceo. Poi anche quest’ultimo si interruppe per permettere alla piccola consorte di esprimersi.
«E questa è la femmina».
Polnareff chiuse gli occhi e ascoltò la melodia, la ciliegia ancora tra le dita e la giacca della divisa di Kakyoin piegata sul ventre. Li riaprì solo quando i due uccelli smisero di cantare, al che corrugò leggermente le sopracciglia e si voltò verso chi gli aveva fornito l’informazione.
«Se noi riusciamo ad ascoltarli significa che laggiù non ne sarà rimasto neanche uno».
Kakyoin non parlò subito: aveva incrociato le braccia dietro la nuca e lasciato che una cetonia gli camminasse sullo stinco destro, confondendosi col verde dei pantaloni prima di dischiudere le elitre e librarsi in aria.
«Infatti» disse. «mi è rimasto impresso perché si estinto l’anno prima che io e Mohammed ci conoscessimo».
«Oh» Polnareff inclinò il capo e si sistemò una ciocca scura dietro l’orecchio, pensosa.
Sentendosi nominato, Abul, che non si era perduto una parola di quel dialogo espresso con un miscuglio melodicamente strano di giapponese e francese, sorrise a labbra chiuse. Osservando meglio la ragazza si accorse di un dettaglio che prima non aveva notato, per cui assottigliò le iridi scure e le piantò su quelle chiare di lei con fare sospettoso.
«Cherry… ?».
L’interpellata, dapprima conturbata da una nuvola di avvilimento, si riscosse quasi immediatamente.
«Oui
«Quelli che hai alle orecchie sono gli orecchini di Tenmei?».
Sentendo quella domanda, Kakyoin si drizzò di scatto, guardò prima Polnareff e poi Abdul e infine divenne di porpora.
«Sì, cioè, sono carini e me li ha reg- prestati» balbettò lei «perché?»
«Capisco» Abdul non smetteva di sorridere «ditemi un po’, siete entrati nel giardino di Mitra?»
«Te l’ha detto Caesar, vero?» ribatté Kakyoin piccato «La prossima volta che lo vedo gliela faccio pagare»
«Ma va, ce l’avete scritto in fronte! E poi lo avevano capito tutti. Comunque sia, immaginavo… ehi!» Abdul afferrò al volo un nocciolo di ciliegia lanciatogli all’improvviso da Kakyoin, che ridivenne subito frutto «Dicevo, immaginavo quando qualcuno che conosciamo verrà da noi e vi vedrà per la prima volta… Lo shock sarà talmente grande che si reincarnerà per la disperazione».
I due ragazzi di fronte a lui abbandonarono l’imbarazzo e trattennero a stento una risata.
«Mon dieu, Cherry! Cos’è questa storia?» Polnareff si mise le mani nei capelli, spalancò gli occhi e simulò un anglaise perfetto «E tu, maledetto ciuffetto! Fare questo alla mia sorellina! J'arrive pas à croire!».
Kakyoin dimenticò la vendetta contro Caesar e scoppiò a ridere.
«Sono onesto, un po’ mi manca quello scemo di tuo fratello» disse subito dopo asciugandosi un accenno di stilla dal ciglio e volgendo lo sguardo alla tartaruga che riposava all’ombra.
«Se vogliamo accantonare lo scherzo per un attimo» Abdul tornò quasi serio «il suo compito laggiù stava per volgere al termine se non fosse stato per quel pazzoide in tonaca… Mi sa che la cena gliela offrirà un altro me stesso mentre a me toccherà aspettare ancora. Vero Iggy? L’avevo promessa anche a te».
Per tutta risposta il cane emise uno sbuffo e si girò dall’altra parte.
«In realtà potrei offrirla a tutti quando ci riuniremo, anche a quei ragazzi che sono venuti con Coco Jumbo… Voglio sentire da loro com’è cambiato il mondo all’inizio del nuovo millennio».
«Le divinazioni non ti bastano?» chiese Kakyoin piegando la testa di lato, il mento poggiato mollemente su un pugno chiuso.
«Non è questo, è che… quando ascolti una storia da chi l’ha vissuta in prima persona assume un altro valore».
Pronunziate quelle parole, Abdul incrociò le braccia e tese nuovamente l’orecchio alla coppia di ‘o’o.
«Sai» Polnareff si rivolse a Kakyoin, mentre distrattamente lisciava le pieghe della divisa che teneva ancora stretta a sé «non penso farà il melodrammatico, sarà sereno e basta, magari piangerà quando rivedremo insieme i nostri genitori, ma dopo sarà solo sereno come tutti quelli che ho incontrato qui».
Kakyoin annuì senza profferire nulla. Era solo questione di tempo perché ciò che aveva detto Cherry si avverasse, che fosse stato tra dieci, quindici o cinquant’anni terrestri. Ma tal pensiero venne subito sostituito da ciò che stava per accadere: senza motivo apparente Iggy si era rizzato sulle zampe e aveva preso ad annusare in giro con circospezione.
«Sta per arrivare qualcuno?» gli domandò Abdul perplesso.
Il cane sollevò la testa e lo guardò con la sua solita strafottenza, poi volse il muso verso l’orizzonte e si lanciò in una corsa a perdifiato abbaiando come un forsennato.
«Ok, sta arrivando qualcuno che verrà qui a lamentarsi di un furto subito da Iggy, tutto regolare» fu il commento di un Kakyoin più confuso che sorpreso «ma chi sarà mai?».
Abdul, che non si era mosso dalla propria postazione all’ombra, chiuse gli occhi ed entrò in tranche per una manciata di istanti. Quando li riaprì sul suo volto era dipinta eccitazione pura.
«Sono cinque persone… No, sei… Vengono dalla spiaggia. Nessuno di loro ha raggiunto i cinquant’anni di vita terrena… Siete sicuri di non voler vedere anche voi?».
Sia Kakyoin che Polnareff scossero il capo. Non gli era mai piaciuto osservare le vite dei mortali perché per loro significava restare ancorati al dolore di ciò che avevano provato attraverso la corporeità. Tuttavia non fecero nulla per nascondere una certa curiosità.
«Quando sei arrivato tu ti ho visto inseguire Iggì che ti aveva rubato la sciarpa» la ragazza si era alzata in piedi e adesso scrutava l’orizzonte cercando l’animale con lo sguardo «solo allora aveva corso così velocemente, sono sicura che si tratti di qualcuno che conoscete bene»
«Probabile» anche Kakyoin si era alzato per osservare il paesaggio alla ricerca di quella macchiolina pelosa e pestifera, ma di fronte a loro si stagliava la placidità del campo dei caduti con la sua disomogeneità di flora, fauna ed etnie.
«Eccolo che arriva» Abdul prese Coco Jumbo in braccio e assottigliò lo sguardo «cos’ha in bocca?».
Non era passato molto, o forse era trascorsa un’eternità intera, che Iggy stava già tornando al suo pezzo di territorio preferito con qualcosa di un orribile color melanzana tra i denti. Non appena giunse a destinazione guardò in rassegna le quattro anime col quale condivideva il ciliegio in fiore più bello dell’intero paradiso, si scrollò di dosso dei rami di vite e fece cadere a terra un cappellino viola con una vistosa stella verde stampata davanti.
«Ma questo…» Kakyoin aggrottò la fronte e recuperò il cappello «questo non dovrebbe trovarsi qui. Chi lo indossa non dovrebbe essere qui, ha ancora tanti anni davanti a sé»
«Ed è così infatti» chiosò Abdul posandogli una mano sulla spalla «le cose che sono successe laggiù hanno fatto sì che le loro anime venissero sostituite affinché si godessero ancora le gioie e i dolori di una vita lunga. Davvero inconsueto devo dire».
In lontananza si udirono degli schiamazzi allegri, dapprima appena udibili, poi sempre più fragorosi, fino a che riempirono del tutto la quiete del luogo. Persino gli ‘o’o si erano zittiti per assistere alla scena.
Un gruppetto di persone attraversava il campo con la gioiosità appartenente a chi si scopriva immortale per la prima volta, capeggiato da una figura di ragazza alta e snella con una acconciatura alquanto bizzarra che aveva staccato di almeno un metro tutti gli altri. Rideva e al tempo stesso si voltava in direzione dei compagni facendo ondeggiare la treccia tinta di lime. Rideva e al tempo stesso urlava qualcosa come «too slow!» al più anziano che non rispondeva ma seguitava a correre e ad avvicinarsi al ciliegio.
Poco prima che la ragazza toccasse il tronco dell’albero, Kakyoin colse un fiore da uno dei rami più bassi e lo lasciò cadere sul terreno: questo venne assorbito dall’erba e sparì alla vista.
«Un messaggio di buona fortuna alle controparti terrestri» spiegò facendo spallucce, indossando il cappello in testa e godendosi gli ultimi attimi di calma prima della festa grande, che terminarono non appena la più celere fra i nuovi arrivati toccò la fascia arancione trionfante.
«Prima! Mi spiace ma quel cane ha fatto bene a toglierti quella roba dalla testa!» la udirono esclamare prima che si accorgesse della loro presenza. Quando finalmente lo fece staccò immediatamente la mano dal tronco «Chiedo scusa!» si affrettò ad aggiungere interdetta «È vostro…? Ne ho uno identico nel giardino di casa!» si voltò a guardare chi stava indossando il cappello «Perdona la franchezza ma…»
«Trovi che mi stia bene?» domandò Kakyoin con non troppa velata ironia per nascondere l’emozione.
Il loro primo approccio fu quello di esaminarsi con minuzia in un attimo che parve infinito, avvertendo di provare già mutuo affetto.
«Trovo che ti stia… veramente di merda!».
A quelle parole, sia lo studente che la nuova arrivata scoppiarono a ridere.
«Girl, where do you think you’re going?» la rimproverò Abdul con dolcezza, guardando l’espressione divertita sul volto di lei. «Vieni, anzi, venite, abbiamo un sacco di aneddoti da scambiarci, e poi tra non molto pioverà».
Ed era veramente così. Nuvole gravide avanzavano alla ricerca della frazione di cielo più adatta per dare alla luce le lacrime di coloro che piangevano la perdita di altre vite. O forse provenivano dagli stessi viventi che avevano dedicato loro il ciliegio, i girasoli, le rose bianche, le zagare e altri fiori dalle forme infinite come lo spazio e la quiete che solo le anime più nobili e giuste avevano diritto di godere, ma nessuno di loro si porse simili domande. Si sapeva soltanto che una volta riconosciutisi si sarebbero abbracciati, avrebbero condiviso la gioia di essersi trovati e ritrovati e infine avrebbero condiviso i loro pezzi di esistenza con chi gli era affine, scoprendosi e riscoprendosi tasselli piccoli ma inestimabili di quel mosaico meravigliosamente complicato che era il destino e ascoltando il canto degli ‘o’o di Kauai senza mai saziarsene. Sempre e per sempre fino alla notte degli ellebori.

 

L’ultimo canto dell’o’o di Kauai

 

FINE?

 

Si riscosse dal dormiveglia che lo aveva colto a metà del lavoro. La guancia si era incollata alla terza pagina della relazione che aveva iniziato a leggere controvoglia. Se la staccò dal viso e sbadigliò: l’orologio al polso segnava le quattro del pomeriggio e tra non molto avrebbe ricevuto visite.
Nell’attesa cercò quindi di rendersi presentabile; si stiracchiò sulla poltrona, si raddrizzò il cappello sulla testa e si massaggiò la schiena all’altezza dei reni cercando di dare sollievo alla colonna vertebrale. Fu allora che si accorse del fiorellino rosa posato accanto alle foto di famiglia.
Si girò a guardare la finestra: la vista gli mostrava il vialetto di casa ingrigito dalla pioggia e il ciliegio decorato con una fascia arancione sulla quale era visibile un ankh, entrambi regali di sua madre. Le imposte erano chiuse, per cui non si capacitava di come avesse fatto a finire sulla scrivania, ma era troppo assonnato per potercisi raccapezzare. Si limitò quindi a farlo girare tra il pollice e l’indice rimembrando il sapore di quel liquore italiano che aveva bevuto nel deserto per la prima volta, la prima di una lunga serie di sbronze in compagnia di sopravvissuti scapestrati che amava come la sua famiglia.
Il rombo di un’automobile e il suono di un clacson annunciarono l’arrivo della figlia e del fidanzato di lei, allontanandolo dai suoi pensieri. Trasse un respiro profondo, rimise il fiore dove lo aveva trovato e si apprestò a lasciare la calma del proprio studio, mentre il clacson strombazzava per la seconda volta.
«Sì Irene, arrivo» mugugnò concedendosi un altro sbadiglio.

 

Sotto i cieli di Afrodite

 

FINE

***

Musica in Jojo: Kauai O'o è una canzone di Blanco White uscita nel 2020. Trae spunto dalla registrazione del richiamo dell'ultimo esemplare maschio dell'o'o di Kauai, estintosi ufficialmente nell'agosto del 1987, l'anno precedente all'avvio delle vicende di Stardust Crusaders.

Retroscena: Come in Rimpatriata, l'ispirazione mi è stata fornita da qualcosa che non ha niente a che fare con Jojo. La storia dell'estinzione dell'o'o di Kauai mi ha colpito a tal punto da identificarlo col mio personaggio preferito dell'universo di Araki per scriverci sopra il racconto conclusivo. Una creatura destinata a vivere la sua breve vita nella solitudine, che invia il suo ultimo messaggio nella speranza che possa essere recepito. L'idea della crack ship con Cherry mi è venuta in mente così: solo nella morte l'o'o di Kauai troverà una compagna con la quale duettare, una creatura dolce e gentile spirata via per colpa della brutalità dell'essere umano. 

In conclusione: Sarò onesta, non mi aspettavo di terminare questa raccolta. Credevo che l'avrei abbandonata in corso d'opera a causa della mancanza di ispirazione, ma grazie al cielo sono felice di aver avuto torto a riguardo. Sotto i cieli di Afrodite si conclude qui, ma Jojo in Heaven proseguirà ancora per un po': come annunciato su Instagram (a proposito, se non l'avete ancora fatto seguitemi, troverete tanti post stupidi e meme scemi sulle cose che scrivo) una tri-shot-barra-mini-long con protagonisti due (più altri) dei personaggi già incontrati è in lavorazione e vedrà la luce, indicativamente parlando, per settembre inoltrato, quindi per vostra sfortuna mi avrete ancora tra i piedi.

Per ultimo, ringrazio chi ha letto, seguito, preferito e commentato la storia. Senza il vostro feedback questa pazzidea di un paradiso bizzarro almeno la metà delle avventure di Jojo non avrebbe mai visto la luce. Grazie davvero e a presto. 

Green Star 90.


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