Teyvat Stories

di Keeper of Memories
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Glaze Lilies ***
Capitolo 2: *** Almond Tofu and Cecilias ***
Capitolo 3: *** Books and Popsicles ***
Capitolo 4: *** Brothers ***
Capitolo 5: *** Flowers for Princess Fischl ***
Capitolo 6: *** When everything's over ***
Capitolo 7: *** Ideal Circumstance ***



Capitolo 1
*** Glaze Lilies ***


Genere: introspettivo, malinconico
Tipo di coppia: nessuno
Personaggi: Zonghli, Viaggiatore
Avvertimenti: Spoiler!





[Suggerimenti musicali https://www.youtube.com/watch?v=LKKhwWJCzcg ]
 
La foresta di Guyun, anche se non propriamente di una foresta si trattava, aveva l’enorme pregio di fornire una vista meravigliosa sul porto di Liyue a chiunque riuscisse a scalare uno dei tanti spuntoni rocciosi che si ergevano sul mare. Non un’impresa per la gente comune, certo, ma dopotutto il Viaggiatore non era una persona comune, Zhongli lo sapeva fin dal loro primo incontro. Non a caso era lì con lui, seduto con le gambe a ciondoloni sullo scoglio più alto ad osservare l’orizzonte.
«Avevi detto che mi avresti raccontato altre storie, affinché non venissero mai dimenticate» esordì, non appena gli fu abbastanza vicino, i capelli biondi scompigliati appena dalla brezza marina.
«Perdonami Viaggiatore, ma alcune storie sono legate a ricordi preziosi» rispose, sedendogli accanto «difficili da far riemergere senza l’aura di nostalgia e tristezza che inevitabilmente il tempo gli dona.»
«Non era mia intenzione deprimerti… mi dispiace.»
«Non fartene una colpa, dopotutto sono passati secoli… è inevitabile che accada.»
«Allora dimmi Zhongli, cosa vorresti che non fosse mai dimenticato? Cosa vuoi lasciare indelebile nel tempo, nella memoria di un Viaggiatore di Mondi?»
«Avevo un’amica un tempo, si chiamava Guizhong. Era gentile e saggia e aveva sinceramente a cuore il bene degli umani.»
Zhongli tacque, alla ricerca della forza d’animo per proseguire. Aveva sperato di poterla trovare nella linea dell’orizzonte, nello splendido panorama di quella vibrante città. Scoprì con molta delusione che non era così.
«Da come ne parli, sembra una brava persona.» Il sorriso del Viaggiatore invece, era stranamente rassicurante.
«"Questi umani sono piccoli e fragili come la polvere. Poiché sono così piccoli, non sanno quando perderanno la vita a causa di un disastro o di un conflitto, e quindi hanno paura, ma proprio perché hanno paura, si sforzano tanto per diventare più intelligenti.” Questo mi disse la prima volta ci incontrammo.»
«Dalle tue parole sembra una persona stupenda. Era bella?»
Zhongli non rispose subito, chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dalla brezza marina. I ricordi arrivarono così chiari e vividi da essere quasi dolorosi.

La sera stava arrivando e la luce del sole morente si rifletteva nei campi di gigli; eppure, il più bello sembrava adornare il suo capo. Forse era quel sorriso dolceamaro a rendere quell’immagine così bella, o forse quello sguardo gentile e compassionevole che aveva posato su di lui. Nessuno l’aveva mai guardato così.

«Lo era, come i gigli alla luce del tramonto» disse infine, indugiando ad occhi chiusi su quel ricordo «Non i gigli che trovi in città, cresciuti nei vivai. Quelli selvatici, ormai così rari da trovare…»
«Aspetta… allora è per questo che ti servivano dei gigli per il Rito di Commiato!»
Zhongli annuì appena, gli occhi socchiusi e la testa leggermente piegata. «Un tempo ne crescevano in abbondanza, abbastanza da riempire ampie distese in tutta la Piana di Guili.»
«Un tempo? Di quanto tempo fa stiamo parlando?»
«Prima della Guerra, quando io e Guizhong lavoravamo insieme per proteggere gli umani, io con la mia lancia, lei con la sua mente brillante. Una collaborazione per lungo tempo fruttuosa.»
«Capisco. Quindi lei è… morta? Come? Se non vuoi-»
«Fu durante una battaglia.»
Un pesante silenzio cadde tra Zhongli e il Viaggiatore, pochi secondi che sembrarono ore. Zhongli non era felice di riviver tale ricordo, non quello, non quella battaglia.

Sentiva ancora la puzza di sangue e morte nelle narici, i muscoli tesi e doloranti per lo scontro prolungato, il senso di spossatezza per l’uso eccessivo della sua Visione. Nonostante ciò, il momento peggiore fu quando si voltò e vide Guizhong circondata da nemici, la rassegnazione dipinta sul suo viso. Stava morendo, lo sapeva, eppure non c’era dolore né disperazione su quel viso delicato, solo una profonda rassegnazione, mentre la sua forma corporea si dissolveva, diventando polvere.

«Morì, sconfitta dai nemici in battaglia. Da quel giorno, la Piana di Guili divenne paludosa e inospitale e mai più i gigli crebbero su quella terra.»
«Cos’hai fatto dopo? Per quel poco che ti conosco, non mi sei sembrato il tipo che si fa prendere dall’ira o che medita vendetta.»
«Affatto. Ho guidato gli umani a sud, in queste terre dove ora sorge il porto e li protessi come le avevo promesso. Tanto bastò per farmi diventare Archon, alla fine del conflitto.»
«Esattamente ciò che ci si aspetterebbe dal Dio dei Contratti. Hai fatto il tuo dovere fino a… beh, lo sai.»
Zhongli si lasciò sfuggire un sorriso. «Sai, Viaggiatore, il mio compito è finito, poiché gli umani non hanno più bisogno di un Dio per difendersi. A volte però non riesco a fare a meno di pensare a quanto gli abitanti di Liyue di oggi gioverebbero dalla presenza di Guizhong, dalle sue conoscenze e dal suo ingegno. Sarebbe così fiera di quei piccoli e fragili uomini, ora che hanno superato tutte le loro paure.»
«Chissà, magari in qualche modo lo sa» il Viaggiatore alzò lo sguardo, inconsciamente alla ricerca di un segno che confermasse le sue parole. Zhongli non disse nulla.
«È questa la tua storia che vuoi che io porti con me, dunque? Una storia che racconta di quanto tu abbia perso?» il Viaggiatore si alzò lentamente, pronto a ripartire.
«Proprio così. Ma t’inganni se pensi che io abbia perso tutto. In fondo, i gigli non sono mai del tutto scomparsi da queste terre.»








Note conclusive: è la prima volta che scrivo qualcosa in questo fandom, spero di aver reso giustizia a un personaggio splendido come quello di Zhongli. Non so se è necessario precisarlo ma i gigli a cui fa riferimento Zhongli sono le note Glaze Lilies, facilmente trovabili nel gioco. Ho dovuto tradurre un po' a braccio i nomi dei luoghi, sperando di non aver fatto un pasticcio. Grazie per aver speso qualche minuto del vostro tempo per leggere questa storia. Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Almond Tofu and Cecilias ***


Genere: fluff, slice of life, hurt/comfort
Tipo di coppia: shonen-ai
Personaggi: Venti, Xiao
Avvertimenti: Spoiler!




 
He longs for a day to come when he will wear the mask and dance - not to conquer demons but to the tune of that flute admist a sea of flowers.
 
Xiao cadde sulle ginocchia, lo sguardo vacuo posato sui corpi accanto a lui. C’era puzza di morte ora, in quell’isolotto nella palude di Dihua, dopo ore e ore di prolungata battaglia. Tuttavia, non era la stanchezza fisica a debilitarlo, né quell’odore ributtante di cadaveri a cui ormai era fin troppo abituato. Puntò a terra la lancia ancora macchiata di sangue e si tolse la maschera da Yaksha appena in tempo, prima di cadere prono al suolo.
Le anime frammentate di antichi Dei malvagi, che con il loro odio avevano trasformato le creature che aveva appena eliminato in demoni, avvolsero la sua, attratte dal suo potere come una falena dalla luce. Boccheggiò, mentre l’ira di chi ha passato millenni in gabbia lo soffocava, tentando di reprimere il suo io e farlo diventare un burattino. Xiao si rannicchiò, le mani strette al petto, mentre usava ogni briciola del suo potere per recidere la connessione con quelle anime estranee e violente.
Eppure, anche quando riuscì nel suo intento e le anime disperse non ci furono più, quando Xiao si rimise in ginocchio e riprese coscienza del proprio corpo, il suo primo istinto fu quello di uccidere. Le mani tremavano mentre allungava il braccio verso la sua lancia, gli occhi saettarono alla ricerca di una preda nei dintorni.
Tuttavia, quando il vento gli accarezzò il viso portando la melodia di un flauto alle sue orecchie, Xiao trovò un’inaspettata pace.
Pace.
Una parola che non gli era affatto familiare, non ricordava nemmeno quando era stata l’ultima volta che si era sentito così. Demoni sorgevano continuamente da quella terra e non gli era mai importato sacrificare la sua di pace per quella altrui. Uccidere era qualcosa che sapeva fare bene e accettare tutto quel karma negativo era un fardello che aveva imparato a portare con fredda tranquillità.
Eppure, quella melodia che parlava di enormi distese verdi dove delicati fiori bianchi ondeggiavano cullati dal vento gli facevano venire voglia di danzare, non la danza mortale che eseguiva per sconfiggere i nemici, ma una più spensierata e leggera, fatta di passi sospinti dal vento.
Non seppe dire quanto tempo era passato, ma quando finalmente riuscì a sollevare il viso da terra vide chiaramente davanti a sé la fonte di quella musica. Un ragazzino sedeva su una roccia non lontano da lì, uno dei bardi di Mondstadt a giudicare dagli abiti vistosi, sebbene dubitasse che un mortale fosse in grado produrre della musica in grado di acquietare l’ira degli Dèi.
Non appena lo vide rimettersi seduto, il bardo ripose il flauto che stava suonando e gli si avvicinò, un sorriso raggiante stampato in volto tanto brillante quanto i luminosi occhi color acquamarina che osservavano incuriositi Xiao.
«Non mi serviva aiuto» lo anticipò.
«Ma io non ti stavo aiutando» rispose, scuotendo la testa «Stavo andando a trovare un vecchio amico, e passavo di qui. Ma se la mia musica ti ha alleggerito l’animo anche solo per un po', allora ne sono felice.»
«Allora ti auguro buon viaggio, bardo.»
Il ragazzino piegò appena la testa a lato, facendo ondeggiare le due trecce scure che gli ricadevano ai lati del volto. Rimase a guardarlo per qualche istante prima di allungare una mano nella sua direzione.
«Come ti ho già detto non ho bisogno d’aiuto» ribadì Xiao, afferrando l’asta della lancia, già pronto ad alzarsi in piedi per meglio sottolineare le sue parole. Una folata di vento lo investì, abbastanza forte da fargli chiudere gli occhi e quasi perdere l’equilibrio data la sua posizione precaria, ma priva di alcuna violenza.
Accadde tutto molto in fretta. Sentì le braccia di qualcuno attorno alla vita, insolitamente minute per la forza che esercitavano nel sorreggerlo, e la terra mancargli sotto i piedi. Quando riaprì gli occhi, Xiao si ritrovò a mezz’aria, tra le braccia del bardo dalla cui schiena spuntavano due splendide ali bianche piumate. Lo Yaksha faticò a nascondere lo stupore.
«Allora ti porterò a casa» ridacchiò, librandosi in cielo con ancora Xiao tra le braccia «Dove abiti?»
«Rimettimi a terra.»
«Uh-uh. Appena mi dirai dove si trova la tua casa.»
«Non ho una casa...»
«Va bene! Andremo dal mio caro amico Morax, te ne troverà sicuramente una.»
«Morax? NO. Non serve.»
Xiao detestava farsi vedere da chiunque in quello stato, stanco e ricoperto di ferite. A maggior ragione se quel qualcuno era Morax, il suo protettore, colui che lo aveva liberato dalla schiavitù molto tempo prima. Lui stesso gli aveva dato quel nome, “Xiao”, un nome che racchiude il suo essere e il suo scopo. Non a caso Xiao significa “demone”; dopotutto chi meglio di lui, che per millenni aveva ucciso a comando con inaudita ferocia, un demone a tutti gli effetti, poteva essere più adatto a cacciare altri demoni?
«Oookay! Dove ti porto... uhm... come hai detto che ti chiami?»
«Wangshu Inn.»
«Come hai detto?»
«Portami in cima al Wangshu Inn. A volte sto lì.»
«E Wangshu Inn sia! Tieniti forte!»
Il bardo salì rapidamente di quota, finché gli alberi e i corsi d’acqua sotto di loro non si fecero piccoli piccoli, tanto che il Wangshu Inn stesso, che si stagliava contro l’orizzonte in tutta la sua verticalità, non sembrò più poi così maestoso.
«Yahoo!» gridò, prima di scendere in picchiata verso la loro destinazione, l’aria notturna che sferzava il viso di entrambi. Solo quando atterrarono sul balcone dell’ultimo piano, Xiao si accorse della presa spasmodica che stava avendo sul corpicino del bardo e di come per tutta la turbolenta discesa avesse trattenuto il fiato.
«Chi sei?» chiese Xiao, allontanandolo con uno spintone.
«Il mio nome è Venti!» rispose, esibendosi in un plateale inchino, come se avesse appena concluso una performance davanti a un pubblico «Tuttavia, Barbatos è il nome con cui gli umani si rivolgono a me.»
«Il Dio della città di Mondstadt… si spiegano molte cose» rispose Xiao, sedendo a terra, tra una pianta di bonsai e il piccolo altare delle offerte degli Yaksha «Vi ringrazio, Barbatos. Se permettete, vorrei riposare ora.»
«Posso tornare?»
«No.»
«Sembrava ti piacesse la mia musica… Posso tornare e suonare ancora, se vuoi.»
«Non è necessario.»
«Forse, o forse no… ma cos’ha il tuo nome, che è così segreto?»
«Mi chiamo Xiao» rispose, dopo essersi lasciato andare in un lungo e stanco sospiro.
«Xiao! Tornerò tra qualche giorno con delle nuove canzoni. Ci vediamo!» disse, saltando sul parapetto ligneo, impedendo allo Yaksha di ribattere in qualunque modo.
 

«Sono tornato!» annunciò Venti, planando sul balcone in cima al Wangshu Inn. Xiao, che si stava tranquillamente gustando del tofu alle mandorle dopo l’ennesima caccia alle forze maligne, rimase immobile come una statua, con ancora il boccone sospeso a mezz’aria tra le bacchette di legno.
«Ho scoperto delle nuove ballate, vuoi sentirle?» continuò, facendo comparire un’arpa tra le mani.
«Vi avevo detto che non era necessario, Barbatos» disse infine Xiao, cercando di contenere l’irritazione, sfortunatamente amplificata dal pezzo di tofu che aveva deciso di scivolare dalla sua presa.
«Non serve essere così formali! Ti ho promesso che sarei tornato e l’ho fatto» rispose con noncuranza, pizzicando appena le corde dell’arpa.
«Non ho bisogno della musica. Non sono un mortale» ribadì, cercando di lanciare al Dio l’occhiata più torva di cui era capace. Sfortunatamente, non sortì alcun effetto.
«Tutti hanno bisogno di un po' di musica! Perfino tu, Xiao» disse, con il sorriso più luminoso che Xiao avesse mai visto stampato sul suo volto.
«Solo una canzone, per favore.» Xiao si arrese, sperando che assecondandolo sarebbe riuscito a farlo andare via.
Venti non se lo fece ripetere e, accompagnato dalla sua arpa, prese a cantare con voce cristallina. La canzone che intonò era molto diversa da quella che Xiao aveva sentito giorni prima, seppur altrettanto bella: parlava di Liyue, di alte e impervie montagne rocciose che cadono a strapiombo sul mare, della brezza del porto, della vita che anima la città. Xiao rimase ad ascoltarlo in silenzio, pensieroso, trovando a chiedersi invece perché una divinità dovrebbe prendere l’aspetto di un fragile ragazzino mortale e mischiarsi agli umani, mentre osservava i lineamenti delicati e fanciulleschi di Venti.
«Il mio desiderio era quello di portarti pace, eppure sento solo dubbi invadere il tuo animo» osservò Venti a canzone terminata, scuotendo Xiao da un fiume di pensieri su mortali e Dei.
«Sto benissimo.»
Senza aggiungere altro, il bardo si sedette a gambe incrociate davanti a lui, piantò su Xiao i suoi limpidi occhi verdi e rimase in silenzio, in attesa.
«Gli umani sicuramente beneficeranno molto più di me di questa musica, anche se non ne comprendo il motivo. Non trattenerti oltre.»
Venti sbuffò. «Va bene! Ma tornerò.»
«Perché?»
«Perché cosa?»
«Perché prendersi il disturbo di arrivare fin qui, solo per suonare una canzone a qualcuno che non apprezza la tua musica?»
Nonostante quella domanda fosse una chiara provocazione, il bardo non smise mai di sorridergli. «Sai come sono diventato uno dei Sette?»
Xiao rimase qualche attimo in silenzio, prima di rispondere. «Sconfiggendo gli altri dèi.»
La risata cristallina di Venti riempì le orecchie di Xiao. «Temo tu mi stia confondendo con Morax.»
«Non è questo che è successo durante la Guerra?»
«Affatto. Gli umani di Mondstadt hanno scacciato Decarabian, il Dio della Tempesta, con le loro forze.»
Xiao rimase a lungo a fissare il suo interlocutore, incredulo.
«Questo spiega perché ti additino tutti come il più debole dei Sette, ma non perché tu abbia deciso di importunarmi» disse infine, distogliendo lo sguardo.
«Forse sono veramente il più debole… ma sottovaluti questo, cacciatore di demoni. Non sono le spade o le lance le mie armi, ma la capacità di leggere ciò che si nasconde qui» rispose Venti, sporgendosi verso di lui e posandogli la mano sul petto «Puoi mentire a te stesso, ma non a me, Xiao.»
Sebbene l’espressione sul viso del Dio fosse immutata, Xiao non poté non notare il cambio nel tono della voce, ora più seria, sicura quasi. Lo Yaksha non disse nulla, inclinò la testa di lato, gli occhi ridotti a due fessure mentre studiava le parole del suo interlocutore.
«Ho raccolto una flebile preghiera, l’unica voce udibile in una tempesta di muto dolore. L’ho dispersa nel vento, portata ad altre anime silenziose e sofferenti, alimentato il fuoco nei loro cuori finché con le loro stesse mani non hanno spezzato le loro catene» continuò Venti, la voce ridotta a un sussurro mentre un velo di tristezza copriva quei luminosi occhi acquamarina.
Xiao finalmente comprese. Posò le mani sulle spalle del bardo e senza esercitare troppa forza, lo allontanò. «Se ami così tanto gli umani, perché vieni qui? Qualunque cosa tu abbia trovato in fondo al mio cuore, non è più un peso da molto tempo.»
Venti sorrise, le ombre nel suo sguardo ormai andate. «Te lo racconterò la prossima volta!»
Xiao rimase interdetto dalle parole del Dio. Lo afferrò per il polso e lo attirò a sé, prima che potesse alzarsi.
«Dicendomelo ora, eviti un altro viaggio» disse con tono serio, ma ancora una volta insufficienti a convincere il bardo a desistere.
«Un altro buon motivo per non dirtelo! Eheh.»
Una poderosa folata di vento colpì Xiao in pieno volto, costringendolo a mollare la presa su Venti, che in pochi istanti si librò in aria.
«Ci vediamo!» urlò, prima di lanciarsi dal parapetto come al loro precedente incontro. Un “yahoo!” echeggiò nella palude di Dihua.
 

«Eccomi qui Xiao! Ho la tua risposta.»
Xiao rimase per un lungo attimo ad osservare Venti sul balcone del Wangshu Inn, inondato dalla luce del tramonto. Tra le braccia il bardo reggeva una grossa quantità di quegli stessi fiori bianchi che lo Yaksha aveva visto la prima volta che lo aveva sentito suonare.
«Cosa sono?» chiese, a metà tra il dubbioso e lo stupito.
«Cecilie, i miei fiori preferiti. Crescono solo sulle colline più ventose di Mondstad.»
«In che modo queste cecilie dovrebbero rispondere a quella domanda?»
«So quale fardello porti sulle tue spalle, cacciatore di demoni. Sento il peso della solitudine, i sensi di colpa soffocarti. Non mi è possibile condividere il tuo compito, ma permettimi di alleggerirti da questo peso almeno per qualche minuto»
«Non voglio pietà, nemmeno quella di uno dei Sette» rispose gelido Xiao, gli occhi ridotti a due fessure.
«Non è pietà la mia, solo il mio modo di ringraziarti» rispose Venti allargando le braccia. Le cecilie che teneva strette a sé fluttuarono, una danza quasi ipnotica guidata dalle note del flauto che il bardo aveva iniziato a suonare.
Xiao chiuse gli occhi per qualche istante, lasciandosi cullare da quella canzone mentre la stessa sensazione di pace di molte sere prima lentamente riaffiorava. Quando li riaprì, non era più allo Wangshu Inn, ma su un colle baciato dal vento, in un mare di cecilie danzanti: il suo piccolo e insignificante sogno che diventava realtà.
Si guardò intorno meravigliato, mentre il vento gli scompigliava i capelli scuri e il suo cuore si faceva più leggero. Si sedette a terra, tra le cecilie profumate, i petali morbidi sotto il suo tocco. Per una volta, si sentì felice.
«Beh, non c’era qualcosa che volevi fare?» Venti era seduto accanto a lui, con l’immancabile sorriso stampato in volto.
Xiao lo fissò a lungo, indeciso se assecondare il suo cuore o limitarsi a godere di quella pace finché gli era possibile.
Per tutta risposta, il bardo si alzò e gli porse la mano. «Andiamo, dai!»
Lo Yaksha prese la mano, lasciando che Venti lo aiutasse a rimettersi in piedi. «Grazie.»
«Aspetta a ringraziarmi! La parte divertente non è ancora iniziata» rispose il bardo, accennando alla sua lancia, conficcata nel terreno a pochi passi da loro. «Fai ciò che meglio sai fare. Io ti accompagnerò.»
Venti lasciò la sua mano, mentre in quella libera apparve il suo flauto. Xiao si avvicinò alla sua lancia e la rimosse dal terreno, prendendosi qualche istante per saggiarne il peso tra le mani.
«È proprio la mia lancia» osservò lo Yaksha, il volto increspato da un lieve sorriso.
Per una volta, Venti non disse nulla, limitandosi a un cenno del capo, prima di portare il flauto alle labbra e riprendere quella stessa melodia, dal punto in cui l’aveva interrotta.
Xiao si mise in posizione di guardia, descrivendo un ampio fendente con la lancia in un unico, fluido movimento. Seguendo il ritmo della canzone, la fece roteare, passandola rapidamente da una mano all’altra ed esibendosi in una serie di affondi che sferzarono l’aria con precisa e inaspettata eleganza.
Xiao non seppe per quanto tempo quello spettacolo proseguì, si era limitato a riprodurre la solita sequenza di movimenti che sempre aveva fatto in battaglia, semplicemente eseguita con movimenti più ampi e fluidi per renderla più simile a una danza. La differenza fondamentale però, non era tanto nei movimenti quanto nel suo cuore, che gioiva ad ogni affondo, ebbro di quella ventata di libertà, leggero come non gli sembrava fosse mai stato.
Quando Xiao si fermò, anche la musica s’interruppe, lasciando il posto all’emozionato applauso di Venti.
«Woah! Bravo!» disse il bardo, mentre lo Yaksha si esibì in un breve inchino.
«Grazie, Venti» disse Xiao, il sorriso che non accennava ad andarsene.
«No Xiao. Grazie a te» rispose, sfiorandogli appena la guancia con la punta delle dita.
Xiao sbatté le palpebre un paio di volte, impreparato a quel contatto improvviso, tanto che si accorse appena, quando Venti allontanò la mano dal suo viso, che non si trovavano più tra le cecilie, ma al Wangshu Inn.
«Tornerò a trovarti!» disse il bardo, pronto a un altro salto oltre il parapetto.
Deciso a impedirglielo, Xiao lo bloccò in un abbraccio che, dopo alcuni istanti intrisi di stupore, venne ricambiato con entusiasmo.
«Grazie. Non lo dimenticherò» sussurrò lo Yaksha, così che solo Venti potesse sentirlo.
« Tornerò presto, ma anche quando non potrò essere con te, farò in modo che tu possa ricordare questo giorno» rispose, allontanando Xiao quel tanto che basta per poterlo guardare negli occhi «Ci divertiremo, vedrai!»
«Ti aspetterò» disse lo Yaksha, mentre con molta delicatezza sfiorava la guancia del bardo con la punta delle dita, la pelle morbida come i petali delle cecilie.
Per entrambi fu strano sciogliersi da quell'abbraccio, come se ci fosse qualcosa di sbagliato in quel gesto, fuori posto quasi. Si salutarono controvoglia, nessun "yahoo" entusiasta, nessun sospiro di sollievo.
 
Eppure, nei giorni a venire, quando il peso della solitudine tornava a gravare nel cuore dello Yaksha e i pensieri negativi minacciavano di schiacciarlo, sul suo altare, accanto al tofu alle mandorle trovava sempre una cecilia, come un momento di gioia uscito dai suoi ricordi.
 
 






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Note conclusive: eccomi con la seconda oneshot di questa raccolta! Non è stato facile, ma volevo fare qualcosa di più articolato e profondo rispetto alla storia precedente. Avrete notato che, in alcuni punti, Venti parla in maniera molto differente: questo perché ognuno dei Sette ha (secondo la wiki) una “facciata”, una maschera che usano per mischiarsi agli umani (Venti e Zhongli) e nascondere la personalità del Dio (Barbatos e Morax). Per cui il cambio di registro è totalmente voluto! (se sapessi scrivere in rima, avrei fatto parlare Barbatos così, come nel manga… purtroppo ho i miei limiti, sigh.)

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Capitolo 3
*** Books and Popsicles ***


Genere: fluff, slice of life
Tipo di coppia: shonen-ai
Personaggi: Xingqiu, Chongyun
Avvertimenti: Nessuno




 
«Uhm, Xingqiu? Sei sicuro che quello spirito sia qui?»
Chongyun si guardò attorno, le pareti di ghiaccio illuminate dalla torcia che il suo amico reggeva in una mano. Stavano scendendo in una delle tante cavità naturali che la montagna di Dragonspine offriva, con un compito molto importante da svolgere.
«Assolutamente! In molti l’hanno avvistato mentre si nascondeva in questa caverna.»
«Uhm, okay…»
Xingqiu si voltò di scattò, le labbra increspate da un leggero sorriso. Il fuoco della torcia disegnava delle ombre fin troppo inquietanti sul suo volto, ma Chongyun come sempre lo notò appena. Dopotutto era un esorcista, non era esattamente facile spaventarlo in quel modo.
«Non ti fidi di me, Chongyun?»
«Ah no! È solo che stiamo camminando da un po', spero non sia già scappato…»
«Mmmmmm... dovremmo fermarci in ogni caso» rispose, riprendendo a camminare con tranquillità «Potrebbe essere ormai sera, fuori da questa grotta.»
«Una pausa? Di nuovo? È la seconda pausa che facciamo…»
«Affrontare quello spirito senza forze non è una scelta saggia, amico mio.»
«Non hai tutti i torti… siamo in viaggio da stamattina, dopotutto.»
«Precisamente. Se lo spirito vorrà uscire dalla grotta, lo vedremo arrivare.»
«E sia, accampiamoci.»
 
Xingqiu guardò con disappunto l’unico libro che aveva portato con sé in quella bizzarra avventura, finito troppo in fretta come la maggior parte dei libri che aveva acquistato di recente. Alzò lo sguardo sul suo amico, trovandolo totalmente immerso nell’acqua.
Trovare quel lago sotterraneo era stato un vero colpo di fortuna, soprattutto per Chongyun, che adorava fare il bagno nell’acqua gelida tanto quanto adorava gli insapori ghiaccioli che la loro amica Xiangling era solita preparargli. Dopotutto erano tra i pochi metodi efficaci per tenere a bada il suo eccesso di energia yang, che così spesso minacciava di fargli perdere il controllo sulle sue emozioni.
A Xingqiu sfuggì un sorriso quando la sua mente tornò all’ultima volta che un “disastro” simile era accaduto: Chongyun si era messo a conversare chiassosamente con tutti gli avventori del Wanmin Restaurant mangiando sfacciatamente il cibo nel loro piatto; dopodiché aveva iniziato a saltare da un tavolo all’altro urlando a chi vi era seduto che avrebbe offerto la cena a tutti. Il suo amico non aveva memoria di quel lasso di tempo, ma era stato così divertente che sia Xingqiu che Xiangling non perdevano occasione di ricordarglielo e spesso prenderlo un po' in giro.
«Hai letto qualcosa di divertente?»
Chongyun era uscito dall’acqua e ora gli sedeva accanto, i capelli candidi incollati al volto tanto quanto i vestiti fradici al corpo. Xingqiu non se ne preoccupò, conscio che, molto probabilmente, la temperatura non era ancora sufficientemente bassa per le sue necessità.
«Proprio così» gli rispose, continuando a sorridere, prima di riporre il libro.
«Faremmo meglio a riposare a turni, nel caso lo spirito dovesse palesarsi…»
«Mi sembra un’ottima idea, amico mio» rispose Xingqiu con entusiasmo. Proprio non riusciva a confessargli la verità sul perché l’aveva condotto lì.
Stavano ancora decidendo chi avrebbe iniziato il turno di guardia, quando entrambi i giovani sentirono un forte rumore di passi: un gruppo di furenti hilichurl si stava avvicinando a loro, percorrendo velocemente la riva del lago.
Xingqiu estrasse la spada e attivò la sua visione hydro, producendo cinque compie acquatiche della sua arma. Chongyun non fu da meno: rapido scattò in piedi e sguainò la sua claymore, ora ricoperta da un sottile strato di ghiaccio grazie alla sua visione cryo.
Nonostante i nemici fossero in numero superiore, i due giovani riuscirono senza sforzo a sconfiggerli, grazie alla maestria di entrambi nelle arti marziali e alle loro visioni, che usate in combinazione risultavano particolarmente efficaci nel congelare rapidamente i nemici.
La battaglia era durata meno del previsto e Xingqiu aveva appena rinfoderato la spada quando un ruggito rimbombò nella caverna. Il giovane fece appena in tempo a voltarsi per vedere il massiccio Mithachurl caricarlo, troppo veloce e troppo improvviso per essere evitato, e a sollevare le braccia per proteggersi. Il colpo fu doloroso abbastanza da stordirlo, sentì appena Chongyun urlare il suo nome prima perdere l’equilibrio e impattare contro la fredda acqua del lago.
Ci vollero alcuni gelidi minuti prima che Xingqiu riuscisse a riprendere i sensi. Realizzò di essere sott’acqua solo perché l’aria iniziava a mancargli dai polmoni, costringendolo a nuotare rapidamente verso l’alto, verso la superficie del lago. Fortunatamente la sua visione hydro fu di grande aiuto nel riportarlo in superficie rapidamente.
 
 
«Xingqiu!»
Chongyun corse verso il lago, producendo un ponte ghiacciato con la sua visione per raggiungere l’amico più in fretta. Lo afferrò per gli abiti e lo issò sul ghiaccio appena formato, osservando con crescente inquietudine il colorito pallido che Xingqiu aveva assunto. Senza pensarci due un attimo, prese Xingqiu tra le braccia e corse verso la riva, stringendo a sé il corpicino gelido.
«Stai bene? Sei ferito?» gli chiese, posandolo delicatamente sulla riva del lago, e senza attendere risposta afferrò l’amico per i polsi, scorrendo rapidamente lo sguardo sulle sue braccia alla ricerca di eventuali ferite.
«Sto bene, sto bene» rispose il suo amico, abbozzando un mezzo sorriso «ho solo un po' freddo…»
«Giusto, dobbiamo accendere un fuoco» disse, aiutando Xingqiu ad avvicinarsi al minuscolo fuoco da campo che avevano allestito, ridotto ormai a un cumolo di braci dopo il passaggio dirompente del mitachurl «avevi tu i fiammiferi, giusto?»
Xingqiu prese con mani tremanti la scatola che teneva in tasca, fradicia tanto quanto lui, e con uno sguardo mesto gli accennò ai fiammiferi ormai inutilizzabili.
«Immagino che in questo momento sarebbe utile avere una visione pyro» osservò amaramente Xingqiu.
«Alzati! Dobbiamo uscire di qui immediatamente o congelerai» disse Chongyun, porgendogli il braccio «è estate a Liyue, anche se il sole è calato farà comunque abbastanza caldo per asciugarti i vestiti.»
«Va bene, ma per favore calmati o la tua condizione peggiorerà» rispose Xingqiu, afferrando il braccio che gli veniva offerto «hai ancora dei ghiaccioli con te?»
«Stai congelando e tutto quello che riesci a pensare è la mia salute?»
Solo dopo aver pronunciato quelle parole, Chongyun si rese conto di aver quasi urlato in faccia all’amico.
«Ne ho qualcuno, non preoccuparti» aggiunse, abbassando lo sguardo sulle loro mani intrecciate «Usciamo da qui.»
 
Xingqiu non sapeva per quanto tempo avevano corso, sapeva solo che il cuore gli martellava in petto e che molto lentamente aveva iniziato a perdere la sensibilità agli arti, ad eccezione della mano che Chongyun stringeva con forza, da cui lo stava praticamente trascinando. Avevano viaggiato per mezza giornata in quella grotta, arrivando molto in profondità, dubitava di poter arrivare in superficie in poco tempo.
«Chon…yun. Aspetta» riuscì a sussurrare, ansimando pesantemente. Si appoggiò a una parete ghiacciata per non cadere, cercando invano di riprendere fiato. Chongyun si fermò, Xingqiu riuscì a scorgere la sua espressione preoccupata mentre si voltava a guardarlo.
«Xingqiu, hai le labbra blu e sei freddissimo!» disse stringendogli entrambe le mani tra le sue.
«Non riesco a correre…»
«Ti porto sulla schiena, sali» disse Chongyun, dando le spalle all’amico e abbassandosi «sono fradicio anch’io per cui non credo di poterti scaldare molto, ma riesco a correre tranquillamente anche con te sulla schiena.»
Non trovando la forza per ribattere, Xingqui obbedì, circondando il collo dell’amico con le braccia e piegando la testa di lato. Dopo pochi istanti, CHongyun si rialzò e riprese a correre.
«Ehi, Xingqiu! Parlami.»
«Uhm… di cosa vuoi parlare?» chiese Xingqiu, mentre un’improvvisa stanchezza gli calava addosso come una pesante coltre.
«Beh… guardiamo il lato positivo! Abbiamo sconfitto quegli hilichurl, no? Missione compiuta!»
Xingqiu rise debolmente. «Ah, caro Chongyun! Non cambierai mai.»
«Cosa vuoi dire?»
«Non mi aspettavo gli hilichurl, Chongyun… ti ho mentito riguardo agli spiriti.»
«Eh? Cosa stai dicendo? Perché mi hai mentito?»
«Perché è estate e i giorni più caldi si avvicinano… volevo portarti in un posto freddo, dove potessi sentirti meglio. Dev’esserti difficile tenere a bada tutta quella energia positiva…»
«Hai fatto tutto questo per me…?»
Chongyun disse qualcos’altro, ma Xingqiu non riuscì a sentirlo. I pensieri si fecero ingarbugliati e le palpebre divennero troppo pesanti per non chiuderle del tutto. I suoni si fecero sempre più lontani e ben presto Xingqiu scivolò in un sonno profondo.
 
 
Quando Xingqiu riaprì gli occhi, fu un soffitto ligneo ad accoglierlo, da cui filtrava tiepida la luce dell’alba. Mosse appena la testa, scoprendo di essere in un giaciglio di paglia e stoffa, circondato da almeno tre coperte pesanti. Allungò le braccia verso il soffitto, scoprendo quasi con stupore di poterle muovere a suo piacimento.
Confortato, decise di provare a mettersi seduto, scoprendo a sue spese di aver commesso un errore: una fitta alla testa gli ricordò di essere molto debilitato. Si stese nuovamente, portando le coperte fin sotto il naso, un po' meno confortato di prima.
«Ah, finalmente sei sveglio» disse una voce sconosciuta.
Solo allora, guardando nella direzione da cui quella voce proveniva, Xingqiu si accorse della vecchina seduta sulla seggiola di legno in un angolo della stanza.
«Non preoccuparti caro, sei al sicuro ora. Ieri notte il tuo amico ha bussato in lacrime alla nostra porta con te sulla schiena e io e mio figlio vi abbiamo ospitato entrambi per la notte.»
«Dove… siamo?»
«Poco più a sud del villaggio di Mingyun. Per i Sette, sarai affamato, caro» rispose l’anziana, alzandosi a fatica dalla sedia «hai bisogno di un’ottima zuppa per riprendere le energie!»
«Chongyun…?»
«Il tuo amico è rimasto al tuo fianco per tutta la notte, si si. Era disperato poverino, non smetteva di piangere. Si è addormentato appena qualche ora fa, mio figlio l’ha spostato in un’altra stanza. Ora riposa, mentre ti preparo qualcosa da mangiare.»
La signora sparì in una stanza attigua e Xingqiu tornò ad essere solo. Qualcosa non gli tornava: Chongyun era sempre stato una persona tranquilla e posata, non si sarebbe mai lasciato andare in un fiume di pianti. Amenoché…
Una porta si aprì di scatto, sbattendo rumorosamente. «Xingqiu!»
Xingqiu alzò appena la testa, trovando conferma ai suoi sospetti: sulla soglia, un affranto Chongyun lo guardava con le lacrime agli occhi, totalmente preda delle proprie emozioni a causa dell’eccesso di energia yang.
Con uno sforzo immane Xingqiu si rimise seduto, cercando di abbozzare un sorriso e di far uscire qualche parola di conforto dalla bocca. Non ne ebbe il tempo, poiché il suo amico scattò verso di lui e lo strinse in un abbraccio.
«Xingqiu! Pensavo che saresti morto» lo sentì singhiozzare nell’incavo della sua spalla.
«Va tutto bene» gli rispose con un filo di voce.
«No, Xingqiu, non va affatto bene» rispose Chongyun alzando la testa, gli occhi color ghiaccio appannati dalle lacrime «saresti morto per colpa mia, mia soltanto e della mia maledettissima energia positiva in eccesso. Dopo tutto quello che hai fatto e ancora fai per me, non me lo sarei mai perdonato Xingqiu.»
«Adesso sono qui, Chongyun» disse Xingqiu con un sorriso, perfettamente conscio che, in quello stato, l’amico non era in grado di fingere in alcun modo. A volte si chiedeva se non fosse quella la vera personalità di Chongyun e quella che vedeva di solito un costrutto forzato.
«M-mi sono chiesto che cosa avrei fatto se tu fossi morto e… non ho mai avuto così tanta paura, Xingqiu, mai. Nemmeno degli spiriti...»
Xingqiu non disse altro, si limitò ad asciugare con il dorso delle dita una lacrima che minacciava di solcare il volto dell’amico. Voleva lasciarlo parlare, confortarlo, ma non aveva previsto nulla di ciò che accadde successivamente.
In un battito di ciglia, il volto di Chongyun si avvicinò al suo, la testa leggermente piegata mentre le loro labbra si sfiorarono in un timido bacio. Xingqiu sentì il viso scaldarsi e la testa farsi più leggera, in un modo stranamente piacevole.
Solo quando le loro bocche si separarono, Xingqiu capì cosa fosse appena accaduto e l’imbarazzo ebbe la meglio su di lui, trovandosi incapace di guardare Chongyun negli occhi. D’altro canto, Chongyun non sembrava minimamente turbato da quello che aveva appena fatto, si limitò a stringere Xingqiu forte a sé, continuando a mormorare “sei vivo” come una cantilena. Fu la signora anziana a interrompere quell’abbraccio, portando a Xingqiu la tanto promessa zuppa.
 
«Mi dispiace molto se ho causato problemi.»
Era passato qualche giorno dall’avventura a Dragonspine e Chongyun aveva appena scoperto di aver ancora perso il controllo della sua energia yang. Non riusciva a ricordare nulla di ciò che aveva fatto e, per qualche ragione a lui ignota, Xingqiu sembrava piuttosto restio a parlarne.
«Potremmo andare a pranzare al Wanmin Restaurant, che ne dici?» propose invece Xingqiu con nonchalance.
«Ti prego amico mio, se ho fatto qualcosa di sbagliato vorrei saperlo.»
Xingqiu sbuffò, interrompendo bruscamente la passeggiata che i due giovani stavano facendo al porto di Liyue. «Vuoi proprio saperlo?»
«È di vitale importanza.»
«Okay, avvicinati» gli disse e Chongyun fece come ordinato dall’amico, avvicinando il viso al suo. Pensava che gli avrebbe bisbigliato qualcosa all’orecchio, invece Xingqiu gli prese il viso tra le mani e gli schioccò un sonoro bacio sulle labbra. Preso alla sprovvista, Chongyun indietreggiò.
«Ma cosa…?!»
«Hai fatto esattamente questo, Chongyun.»
«Non ci credo, che imbarazzo…» disse, prima di prendere uno dei suoi ghiaccioli e quasi divorarlo, non appena il rossore sul suo viso minacciò di fargli perdere il controllo ancora una volta.
«Ti chiedo infinitamente scusa, non era assolutamente mia intenzione metterti in una situazione del genere. Mi dispiace davvero» aggiunse a spuntino terminato, esibendosi in una lunga serie di inchini dispiaciuti.
«Scuse accettate, non preoccuparti» rispose Xingqiu, riprendendo a camminare con tranquillità. Chongyun si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
 
Seduto al tavolo del Wanmin Restaurant, Xingqiu si ritrovò a sbirciare l’amico da sopra il menù. Chongyun sembrava non essersi minimamente reso conto di quello che gli passava per la testa, ma nonostante gli sforzi, non riusciva proprio a trovare il modo di dirgli che in realtà a lui, quel bacio non era dispiaciuto.

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Capitolo 4
*** Brothers ***


Genere: angst, fluff
Tipo di coppia: shonen-ai
Personaggi: Diluc, Kaeya
Avvertimenti: tematiche delicate, contenuti forti




 
When the silence falls at last 
And the clock tower rings no more 
We'll watch the hourglass 
Trapped like we were before 
And we'll lay awake in fear 
Of the past days come again 
But they'll never find us here 
Before they burn at this world's end

Aviators – They’ll never find us


Quando Kaeya aprì gli occhi, gli sembrò quasi strano trovare Diluc accanto a sé, ancora addormentato. Era così abituato all’odio che per tutti quegli anni gli aveva gettato addosso con quelle poche e taglienti parole che erano soliti scambiarsi, che gli sembrava quasi un sogno poterlo ammirare in quel momento, mentre la luce del mattino si infrangeva sui suoi capelli colore del fuoco attraverso le imposte e tanto delicatamente gli accarezzava il viso. Così bello da far male pensò, sentendo una stretta al petto. Allungò una mano verso di lui, spostando una ciocca rossa dal viso che tanto amava.
In quel momento Diluc aprì lentamente gli occhi e, come se l’orario mattutino non avesse alcun effetto sui suoi riflessi, gli afferrò di scatto la mano, portandosela alle labbra.
«Buongiorno», mormorò Diluc abbozzando un sorriso «sei sveglio da molto?»
«No, affatto» sorrise Kaeya, cercando di ignorare il suo cuore che aveva mancato un battito a quel gesto.
«Davvero? Hai dormito bene, piccolo Kaeya?» chiese Diluc, facendogli cenno con la mano di avvicinarsi. Senza pensarci un attimo, Kaeya si accoccolò tra le sue braccia, da sempre il suo luogo sicuro. Quando suo padre biologico l’aveva abbandonato da bambino, Kaeya ricordava chiaramente come negli anni successivi molto spesso scoppiava a piangere, il trauma dell’abbandono pesante come un macigno sul suo petto. Allora Diluc, di pochi anni più vecchio di lui, aveva iniziato a seguirlo come un’ombra e ad intervenire ogni volta che quelle crisi di pianto iniziavano, abbracciandolo forte finché non smetteva. Pian piano, quegli episodi erano diventati sempre più sporadici, finché non sparirono del tutto, ma l’abitudine era tutt’altro che scomparsa.
«Mmmm, credo di aver fatto un incubo, ma per fortuna non me lo ricordo» rispose Kaeya, portandosi istintivamente una mano al petto dolorante. Non sapeva cosa gli fosse preso, forse temeva ancora che Diluc lo allontanasse, come aveva fatto molto tempo prima quando Kaeya gli aveva rivelato la sua vera identità.
«Vorrà dire che resteremo così finché non ti senti meglio» disse Diluc, accarezzandogli delicatamente la testa «anzi, anche di più. Resteremo così finché vorrai, non andrò da nessuna parte.»
Kaeya non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimasero così, il tempo stesso sembrava essersi fermato tra le braccia di Diluc o forse così lui sperava. Il brontolio di due stomaci, però, ricordò ad entrambi le loro necessità più immediate.
«Se stai un po' meglio, vado a preparare la colazione» disse Diluc, lasciandosi sfuggire un sorriso divertito.
«Davvero? Anche per me?»
«Certamente. Ieri l’hai preparata tu, se ricordi» rispose Diluc, schioccandogli un bacio sulla fronte prima di alzarsi dal letto. 
Kaeya non disse nulla, si limitò a guardarlo, mentre la sua figura si allontanava e spariva oltre la porta della camera. Come aveva fatto a dimenticare di aver preparato la colazione ad entrambi il giorno prima? Perché i ricordi del giorno prima e di quello prima ancora erano così confusi? Perché era tutto così confuso?
Molte domande come quelle si affollarono nella sua mente, procurandogli un senso di vuoto ad ogni mancata risposta che andò solo a peggiorare quel dolore al petto. Così, dopo ben cinque minuti da quando Diluc aveva lasciato la stanza, Kaeya si alzò dal letto, incapace di sopportare ulteriormente quella distanza.
Il profumo di pancetta grigliata avvolse presto Kaeya, dandogli una seconda buona ragione per raggiungere la cucina. Giunto lì, però non entrò subito; si prese alcuni istanti per ammirare Diluc, concentrato sui fornelli, la forma delle sue spalle, i lunghi capelli rossi che accarezzavano delicatamente la schiena muscolosa. Chiuse brevemente gli occhi un paio di volte, cercando di non far scendere ulteriormente lo sguardo, solo ed esclusivamente per evitare il sopraggiungere di un altro tipo di fame.
Dopo alcuni profondi respiri, riaprì gli occhi e ridusse rapidamente la distanza che li separava. Cinse la vita di Diluc con entrambe le braccia, sentendolo sussultare leggermente per la sorpresa, e posò la fronte sulla sua spalla.
«Va tutto bene, Kaeya?»
«Si. No. Lasciami stare un po' così.» 
Sperava che quel dolore al petto sparisse, iniziava a diventare veramente fastidioso. Sentì Diluc sospirare e scostarlo quel tanto che bastava per girarsi e guardarlo in volto.
«Va tutto bene» mormorò Diluc, posando la fronte sulla sua e asciugando una lacrima solitaria che minacciava di bagnargli la guancia con il pollice «Sono qui Kaeya.»
Kaeya non sapeva perché stesse piangendo, non se n’era minimamente accorto, il petto continuava a fargli male, un dolore sordo che non riusciva più ad ignorare. Diluc avvicinò il viso al suo, le labbra si sfiorarono in un bacio a cui Kaeya si aggrappò con una disperazione che nemmeno lui sospettava di possedere. Aveva bisogno di Diluc, di quel contatto che lo faceva sentire così vivo, ne aveva più bisogno dell’aria che respirava. Si sentiva così, come un naufrago caduto in mare che annaspa, incapace di respirare, non capiva cosa mancasse e quella mancanza, così impercettibile eppure così pesante stava diventando insopportabile. Più si stringeva all’uomo che amava, più lo baciava, più lo sentiva estraneo, come se quel tocco non fosse suo, come se fosse qualcun altro, come se fosse tutto nella sua mente.
Kaeya sbattè le palpebre un paio di volte quando Diluc si allontanò, incredulo. La cucina non c’era più, pioveva ma quel dolore non era ancora passato. Per un attimo, non capì perché l’uomo che amava avesse tutto quel dolore nello sguardo, né perché stesse piangendo.
«Diluc?» disse, sollevando il braccio per raggiungere il suo viso e asciugargli una lacrima come aveva fatto lui stesso poco fa. Non solo scoprì di non riuscirci, il dolore al petto divenne tale da costringere Kaeya a tossire, macchiando di sangue gli abiti di Diluc.
Sangue?
Abbassò lo sguardo sul proprio petto, trovandolo trapassato da parte a parte dalla spada di Diluc, all’altezza del cuore. Il suo sangue macchiava già le sue mani guantate.
«Ah. Non è mai successo…»
Il braccio di Diluc gli cinse la vita, impedendogli di cadere a terra, e la sua fronte si posò sulla spalla di Kaeya.
«Mi dispiace» mormorò Diluc, il corpo scosso dai singhiozzi.
«Non preoccuparti, sapevamo entrambi che sarebbe successo…»
Kaeya tossì ancora, altro sangue uscì dalla bocca, altra vita espirò dal suo corpo. Voleva dire tante cose a Diluc prima di morire, ma i perfino i suoi pensieri iniziavano ad essere troppo ingarbugliati.
«Diluc, io… io avrei combattuto contro quel Destino che ci ha messi l’uno contro l’altro, con te e per te. Ma immagino che anche morire tra le tue braccia non sia così male, uh?»
Diluc non rispose, continuò a singhiozzare contro la sua spalla, incapace di dire null’altro se non “perdonami”, all’infinito. Kaeya provò a dire altro, scoprendo di non esserne più in grado. La vista si stava offuscando progressivamente e non riusciva più a sentire il suo corpo, anche i singhiozzi di Diluc si fecero sempre più ovattati, fino a sparire del tutto. L’ultimo pensiero, prima che l’intero mondo diventasse buio, andò nuovamente a Diluc, ormai solo in un mondo che gli aveva tolto tutto.

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Capitolo 5
*** Flowers for Princess Fischl ***


Genere: introspettivo, malinconico
Tipo di coppia: nessuno
Personaggi: Fischl
Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche Delicate
 

Amy alzò lo sguardo, quasi stupita di trovarsi davanti la signorina Lisa, nonostante fosse una presenza costante nella libreria dell’Ordo Favonius. In fondo era pur sempre la bibliotecaria.
«Tesoro, mi spiace, pare che i tuoi genitori non torneranno stasera. Mi hanno chiesto di riaccompagnarti a casa e assicurarmi che tu mangi e vada a letto.»
Amy riabbassò lo sguardo sul libro che teneva in grembo, più dispiaciuta di non poterne leggere l’ultimo capitolo che rattristata dalla notizia. Dopotutto era sempre stato così: i suoi genitori erano parte della Gilda degli Avventurieri, dovevano andare in luoghi pericolosi e non potevano stare sempre con lei. Un po' se l’aspettava.
«Puoi portare con te il libro» aggiunse Lisa, forse intuendo i suoi pensieri «anzi, puoi perfino portarne a casa un altro. Però devi promettermi che andrai a letto presto e non rimarrai a leggerlo fino a tardi.»
«Lo prometto! Grazie» rispose Amy con entusiasmo, gli occhi smeraldini improvvisamente illuminati dalla gioia «posso sceglierne uno?»
«Certamente! Fai presto però, il sole sta tramontando.»
Amy si alzò di scatto, lo sguardo saettante tra i polverosi scaffali della biblioteca dell’Ordine. Scorse i titoli uno per uno, finché, dopo alcuni minuti, venne colta dallo sconforto.
«Qualcosa non va?»
«Uhm… mi scusi signorina, credo di aver letto tutti i romanzi» ammise, fissando insistentemente la punta dei piedi, dispiaciuta di non poter accettare l’offerta della bibliotecaria.
«Su tesoro, troveremo una soluzione! Vado a vedere se tra i nuovi arrivi c’è qualcosa.»
Dopo una breve attesa, Lisa tornò con un libro tra le braccia, che porse delicatamente a Amy.
«Ho trovato solo questo. Pensi possa andare bene?»
«“Fiori per la Principessa Fischl”, Volume uno» lesse ad alta voce, scorgendo l’elegante titolo viola sulla copertina in pelle nera «è la storia di una principessa?»
«Esattamente! È un libro difficile da trovare, abbine cura.»
«Si, signorina Lisa! Grazie infinite.»
«Di nulla cara. Ora andiamo a casa, è ora di cena ormai.»
 
 
Amy guardò la porticina di legno richiudersi, mentre la bibliotecaria usciva da casa sua. Posò lo sguardo prima sul piatto di zuppa fumante sul tavolo, poi sulle due sedie vuote davanti a lei.
«Oggi ho finito di leggere il libro sulle avventure di Venessa» disse ad alta voce, immaginando le sagome di suo padre e sua madre seduti al tavolo davanti a lei «sapevate che era una gladiatrice fortissima?»
Solo il silenzio rispose alla sua domanda, un silenzio opprimente fatto di assenza e solitudine che ora gravavano sul suo petto come un macigno. Era sempre stato così in fondo, ogni vota che tornava in quella casa vuota. Ma forse, non era così abituata come pensava.
«Ha combattuto nell’arena e ha liberato Mondstadt dalla tirannia grazie all’Archon Barbatos, che le è stato accanto» proseguì, la voce spezzata dal pianto «Anche voi mi siete accanto, vero? Non mi lascerete sempre sola?»
Non ricevendo ancora risposta, guardò un’ultima volta la zuppa, lo stomaco serrato in una morsa d’acciaio. Corse nella sua cameretta e si buttò sul letto, incapace di mangiare.
Avevano promesso che sarebbero tornati pensava, mentre le lacrime scorrevano libere bagnando il cuscino, avevano promesso che saremmo andati a raccogliere bacche al lago e che avremmo fatto un picnic domani, per festeggiare.
Perché non sono tornati?  Si sono dimenticati di me?
 
Quando Amy si svegliò, la luna era alta in cielo e il suo viso era sporco di muco e lacrime; senza accorgersene, aveva pianto fino ad addormentarsi. Provò a chiudere di nuovo gli occhi, ma questa volta non riuscì a riaddormentarsi, il cuore le batteva forte in petto e altri pensieri poco piacevoli si accavallavano nella sua mente. Rassegnata, decise di combattere quella brutta sensazione con l’unica arma che conosceva e che in quei momenti sembrava funzionare.
Si pulì il viso con la manica della camicia e accese una candela. Corse nella piccola cucina e recuperò il libro che le aveva suggerito la bibliotecaria, ignorando la zuppa ormai fredda. Si sedette infine sul letto a gambe incrociate, pronta per immergersi in un mondo diverso, un mondo di cui era l’eroina, un mondo in cui era importante e nessuno la lasciava mai sola.
 
Ogni cosa buona, brillante e nobile deve alla fine cadere all'inesorabile distruzione entropica, e la destinazione finale dell'universo è il regno della Prinzessin, Immernachtreich. Questo è il destino di tutti i mondi, dell'universo e di tutti coloro che lo abitano, e la Prinzessin e il suo fedele compagno, il "Corvo della Notte Oz", Ozvaldo von Hrafnavines, sono le Bestie del Mondo che inghiottiranno tutti i sogni.
 
Un raggio di sole aveva fatto capolino dalla finestra ed era giunto sul viso di Amy attraverso le imposte, molesto e pungente con la sua luce troppo intensa. Amy alzò gli occhi dal libro, realizzando solo allora l’arrivo dell’alba. Non era la prima volta che le capitava di leggere fino a notte fonda, ma era sicuramente la prima volta che posava un libro così a malincuore.
Era ormai quasi a metà di quella splendida storia, quella di Fischl, una ragazzina sola e senza amici come lei, che scoprì di essere la Prinzessin di un regno lontano perchè esiliata dallo zio malvagio quando era piccola. Il Corvo Oz le aveva appena rivelato le sue vere origini e l’aveva accompagnata nel suo regno, Immernachtreich, per mostrarle la distruzione che in esso dilagava, quando lo stomaco di Amy iniziò a protestare, costringendola a chiudere il libro che si era sforzata a riprendere.
Con uno scatto, Amy si alzò dal letto e andò in cucina, il libro stretto tra le braccia. Guardò con tristezza la dispensa vuota e con disgusto la zuppa della sera prima. Dopo aver gettato quest’ultima, essersi sciacquata la faccia nel lavello e aver preso una manciata di mora dal salvadanaio, lasciati precedentemente dai suoi genitori per emergenze come quella, uscì da quella casa soffocantemente vuota.
Senza mai lasciare i libri, corse rapida tra le strade di Mondstadt. Raggiunse il Good Hunter, l’unico ristorante aperto a quell’ora, e si sedette a uno dei tavolini.
«Oh, buongiorno piccola Amy! Cosa ti porto oggi?» la salutò Sara, la cameriera.
«N-non sono piccola! Ho dodici anni, oggi…» la corresse, arrossendo leggermente.
«Allora buon compleanno, Amy! Prendi quello che vuoi, oggi offre la casa» disse Sara, dandole un tenero buffetto sulla testolina bionda.
«Grazie! Allora prendo l’uovo fritto e il piatto di salumi.»
«Sei sicura? È molto per-» iniziò Sara, ma venne interrotta dal brontolio dello stomaco di Amy, che nuovamente reclamava d’essere riempito «Va bene, ti porterò tutto!»
Sara tornò alla cucina, ridacchiando tra sé e sé mentre il viso di Amy si faceva progressivamente dello stesso colore dei pomodori maturi. La cameriera tornò poco dopo, portandole le sue amate uova e un enorme piatto con pancetta, salsicce e prosciutto tagliati a fette, mantenuti freschi da un mist flower posato al centro. Con un sorriso sulle labbra, Amy si gustò la sua abbondante colazione.
 
Alla fine di tutto, alla fine del karma stesso, lei concederà a tutte le anime riunite la sua benedizione, e userà la sua Donnernde Vergeltung, per punire tutto ciò che è malvagio. La Prinzessin infiammerà allora il suo stesso cuore, e l'universo rinascerà nella sua luce immortale. Ma prima che tutto questo possa avvenire, la Prinzessin deve vagare per molti universi e visitare altrettanti luoghi sconosciuti.
 
«Amy? C’è qualcuno che chiede di te.»
La voce della signorina Lisa arrivò ovattata alle orecchie di Amy, come giunta da una terra lontana. Forse in fondo lo era, in fondo in ogni libro c’era un universo lontano in cui Amy si immergeva, isolandosi completamente dalla realtà per meglio vivere le magnifiche avventure che l’autore raccontava.
«C’è qualcuno all’ingresso che ti aspetta» ripeté Lisa, non appena riuscì a ottenere la sua attenzione. Realizzando cosa questo significasse, Amy scattò verso la porta, abbandonando i suoi libri e ignorando i stizziti rimproveri della bibliotecaria che le intimava di non correre.
«Mamma!» esclamò, non appena riconobbe la figura familiare nell’atrio del quartier generale dell’Ordo Favonius.
«Amy! Buon compleanno bambina mia» le disse sua madre stringendola in un abbraccio.
«Dov’è papà?»
«È a casa, sta preparando la cena. Ci dispiace essere tornati solo ora Amy, ma abbiamo incontrato alcuni contrattempi» rispose sua madre, indicando la divisa della Gilda degli Avventurieri che indossava, parzialmente lacerata in alcuni punti.
«Mamma! Che cos’è successo?» chiese Amy preoccupata.
«Solo degli hilichurl tesoro, non preoccuparti. Dai, torniamo a casa.»
Amy strinse la mano di sua madre e, con un ampio sorriso in volto, s’incamminò verso quella casa un po' meno vuota.
 
«Allora, che libri hai letto oggi Amy?» le chiese suo padre, posando davanti a lei un piatto di gulasch fumante.
«Oh! Un libro bellissimo che mi ha consigliato la signorina Lisa. Si chiama “Fiori per la principessa Fischl”» rispose Amy, addentando un pezzo di carne saporita.
«Sembra molto bello. Di cosa parla?» aggiunse sua madre, non appena tutti e tre furono seduti.
Tra un boccone e l’altro, Amy raccontò le avventure della sua nuova eroina preferita, gesticolando e recitandone le battute memorizzate in quel pomeriggio, in cui aveva avuto l’occasione di finire di leggere la storia di Fischl.
«…E poi disse: “Fischl von Luftschloss Narfidort, tu sei la Prinzessin der Verurteilung, la mia splendida figlia. Mai dovrai rinunciare alla tua nobiltà e ai tuoi sogni”. È finito così il primo volume.»
«Oh, che bella storia. Visto che ti piace così tanto, Amy, che ne dici se chiamo anche te "Fischl"?»
Suo padre sorrise, le posò la mano sulla testa e le ripeté le parole della storia.
«Fischl, tu sei la mia meravigliosa principessa e la mia splendida figlia. Non dovrai mai rinunciare alla tua nobiltà e ai tuoi sogni.»
In un istante, quelle parole lavarono via la tristezza di molti giorni di soffocante solitudine. All’improvviso, ogni cosa sembrava essere al suo posto, in quell’universo. Forse lei era veramente la principessa Fischl e forse quello era veramente solo uno di quei mondi che doveva visitare, prima di giungere finalmente a Immernachtreich, la sua casa. Un luminoso sorriso dipinse di gioia il viso di Amy.
Il sollievo che quelle parole le portavano tornò molto spesso nei mesi successivi: ogni volta che si sentiva sola o triste, Amy, anzi Fischl, ripeteva ad alta voce le parole del padre come un mantra, il suo mantra.
“Io sono Fischl, una principessa. Mai rinuncerò alla mia nobiltà e ai miei sogni.”
 
 
«Ma non ti vergogni? Hai quattordici anni anche tu ora!»
«Appunto, sei grande! Smettila di comportarti come una bambina.»
«Sei davvero ridicola…»
Stava succedendo di nuovo.
Fischl si era unita a quella piccola gara di tiro con l’arco che i suoi coetanei avevano allestito. C’era un cesto di splendide mele rosse in palio come premio, ma il motivo principale per cui aveva partecipato era far vedere loro il frutto dei suoi sforzi: si era impegnata molto per migliorare la sua abilità con l’arco negli ultimi mesi. Inutile dire che aveva vinto, purtroppo.
Subito avevano tutti iniziato a insinuare che avesse barato, nonostante loro stessi avessero cercato di farla sbagliare di proposito, saltellandole attorno mentre cercava di prendere la mira e urlandole nelle orecchie. Non contenti, avevano iniziato a sminuirla in quel modo, rifiutandosi di cederle il premio.
Stanca di tentare nuovamente di giustificarsi, Fischl semplicemente se ne andò. Non aveva tempo da perdere con quelle persone, non ne valeva la pena.
«Questo non è che un piccolo inconveniente per una nobile principessa. I miei genitori capiranno» mormorò tra sé e sé, marciando rapidamente verso casa.
Le parole che invece le riservò suo padre, colui che anni prima le aveva dato speranza e che era le aveva fatto comprendere quanto luminoso fosse quel mondo che credeva buio, furono invece più dolorose di una spada in petto.
«Hai quattordici anni, Amy. È divertente fantasticare, ma alla fine devi crescere e lasciarti alle spalle i tuoi sogni infantili.»
 
I genitori di Fischl partirono per l’ennesima spedizione, ma lei non andò a salutarli. Non voleva tornare a casa, nemmeno dopo la loro partenza: non ce la faceva di nuovo ad affrontare quel vuoto. Vagò invece per le strade di Mondstad finché la luna non si alzò sull’orizzonte e migliaia di stelle iniziarono a puntellare il cielo sempre più buio.
Non sapeva cosa fare. Continuò a camminare per un po', seguendo la luce dei lampioni lungo il ciglio della strada, finché inconsciamente i suoi piedi non la portarono davanti a un familiare edificio. Le luci al piano terra del quartier generale dei Cavalieri di Favonius erano accese, ad indicare che la biblioteca non era ancora chiusa.
Attraversò la porta a doppia mandata come ormai faceva ogni giorno e, giunta nell’enorme atrio, sgattaiolò silenziosamente oltre la più piccola porta laterale, dove si trovava la biblioteca. La biblioteca a quell’ora era vuota, sperava veramente che la signorina Lisa non l’avesse notata mentre scendeva le scale per il piano interrato.
Fischl si sedette a terra, accucciata in un angolo ai piedi di uno scaffale che sapeva l’avrebbe nascosta alla vista di chiunque si fosse avvicinato. Fece alcuni respiri profondi per calmare il suo cuore in tumulto, ma nemmeno il profumo di carta antica fu d’aiuto. Strinse le ginocchia al petto e abbassò il viso, mentre un fiume di lacrime le bagnava il volto.
Fischl aveva decisamente perso la cognizione del tempo. Che avesse veramente eluso con successo l’occhio attento della bibliotecaria era davvero insolito, ma mai si sarebbe aspettata che i suoi singhiozzi fossero così silenziosi. Eppure, quando sollevò lo sguardo, le luci della biblioteca erano spente e solo il bagliore della luna oltre le finestre permetteva di distinguere le sagome delle pesanti librerie in mogano nella penombra.
Era di nuovo sola, o così credeva. Una strana sensazione le aveva fatto alzare il volto, si sentiva osservata e, non realizzando la tarda ora, aveva pensato fosse la bibliotecaria.
Non si aspettava certo l’enorme corvo nero che in quel momento planò su uno dei tavoli da lettura lì accanto. Fischl si passò una mano sugli occhi arrossati, incredula.
«Guten Abend, Fräulein. Il mio nome è Ozvaldo von Hrafnavines e sono alla ricerca della legittima erede al trono del regno di Immernachtreich» disse il corvo, continuando a fissarla senza però mai aprire il lucido becco nero.
A quelle parole, Fischl scattò in piedi: era tutto vero, reale. Non era lei ad essere sbagliata, come tutti volevano farle credere, tutto quello che aveva letto era vero e quella creatura ne era la prova. Doveva però darsi un contegno e comportarsi come la vera Prinzessin che era sempre stata, o non avrebbe mai convinto Oz. Si schiarì la voce e si lisciò i vestiti.
«Oh, Rebenkönig, gioisci poiché la tua è infine giunta al termine. Io, Fischl, sono la Prinzessin der Verurteilung del lontano regno di Immernachtreich.»
«Meine, Fräulein. È una gioia e un onore per me incontrarvi infine. Permettetemi dunque di consegnarvi cioè che è vostro di diritto, cimelio della vostra nobile famiglia: der Edelstein der Dunkelheit
Il corvo Oz spiccò il volo, raggiungendo la spalla di Fischl in pochi istanti. Nel becco teneva un oggetto di forma circolare, che lasciò alla giovane non appena questa allungò la mano verso di lui. Fischl sgranò gli occhi, ancora una volta incredula: quella che stringeva nel suo palmo era una vision elettro.
 
 



 
 
Note conclusive: salve! Questa oneshot mi è stata richiesta da un lettore che ringrazio per avermi fornito l’ispirazione e per la fiducia. Non è stato facile, ma spero piaccia a tutti voi! A presto^^

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Capitolo 6
*** When everything's over ***


Genere: hurt/comfort, sentimentale
Tipo di coppia: shonen-ai
Personaggi: Diluc, Kaeya
Avvertimenti: Harry Potter AU
 
«Sai, c’è un detto babbano che dice “chi non muore si rivede”. Forse l’hai sentito, Diluc» esordì Kaeya, poggiandosi pigramente alla fredda pietra delle segrete di Villa Malfoy. Il piccolo lume ai suoi piedi tremolava, proiettando la sua ombra danzante sul fondo della cella che il Signore Oscuro gli aveva dato il compito di sorvegliare.
Diluc non rispose, rimase ostinatamente accovacciato a terra, la schiena contro il muro e le gambe piegate contro il petto. La folta chioma rossa ricadeva sul viso ostinatamente nascosto come una cascata di fuoco.
«Suvvia! Pensavo saresti stato felice di vedermi» continuò imperterrito Kaeya, dipingendo sul suo viso il suo solito sorriso malizioso «Poteva andarti peggio. Poteva essere Codaliscia come tuo carceriere, o peggio, quel cane pulcioso di Greyback! Invece hai me… e tutti gli arti ancora attaccati addosso. Non è fantastico, Diluc?»
Diluc sollevò il capo, permettendo a Kaeya di vedere il suo volto scavato. Lui non c’era quando l’avevano catturato e rinchiuso in quella minuscola cella, ma dall’aspetto emaciato e dai vestiti ridotti a brandelli intuì che il suo amato Diluc non aveva reso affatto facile la sua cattura ai suoi compagni mangiamorte.
Kaeya si avvicinò alle fitte sbarre della porta della cella. Diluc lo stava guardando, uno sguardo vacuo come se non lo vedesse affatto.
«Guardati. Il grande Diluc Ragnvindr, massimo dei voti in tutte le materie, stella della squadra di Quidditch di Grifondoro, novello auror. Non ti senti un po' patetico, fratello
«Non più di un traditore della propria famiglia, immagino.»
La voce di Diluc uscì flebile, stentata, lo sguardo ora più acceso e carico d’odio. Kaeya si stupì quasi di provare sollievo, preferiva mille volte la rabbia che nei tempi più recenti gli riversava addosso in quella maniera violenta piuttosto che il vuoto dell’indifferenza.
«Traditore… Ti ricordi quello che mi hai detto quella sera, Diluc?»
Kaeya si rese conto di aver alzato la voce. Non che gli importasse particolarmente, le segrete di casa Malfoy avevano abbastanza protezioni magiche da rendere inudibile perfino un uragano. Abbassò lo sguardo, sulle nocche biancastre delle sue mani che ora stringevano spasmodicamente le sbarre della prigione.
Ci fu un rumore di passi strascicati e una mano candida si posò sulla sua. Kaeya sollevò di nuovo lo sguardo; gli occhi di Diluc incontrarono i suoi, limpidi, sereni, privi di qualunque risentimento. Per un attimo, a Kaeya sembrò di essere tornato bambino.
Un tonfo lo riportò alla dura realtà. Diluc era crollato in ginocchio, ansimante, e solo allora il giovane mangiamorte notò le multiple ferite sanguinanti lungo tutto il busto. Riconobbe immediatamente il tocco sadico della Lestrange.
«Sei ferito.»
«Non è niente.»
Kaeya strinse le labbra, lasciando cadere la sua solita facciata di sfrontatezza. Doveva medicarlo, in qualche modo. Usare la magia era fuori discussione, in quelle celle era praticamente impossibile usarla e se anche ci fosse riuscito, al primo controllo della bacchetta sarebbe stato scoperto.
«Torno subito» annunciò, imboccando rapidamente le strette scale a chiocciola che lo avrebbero riportato alle lussuose sale di Villa Malfoy, fortunatamente vuota. Per ora, pensò. Doveva fare in fretta. Andò alle cucine e, con molta nonchalace, chiese a uno degli elfi domestici una pozione per il mal di pancia.
La vecchia elfa aprì un grosso baule e iniziò a ispezionare le centinaia di boccette in esso contenute. Alle sue spalle, Kaeya trovò esattamente quello che stava cercando: una pozione cicatrizzante, molto blanda, il genere d’intruglio che si dà ai bambini quando si sbucciano le ginocchia. Probabilmente non sarebbe stata sufficiente a chiudere le ferite, ma se non altro avrebbero smesso di sanguinare. Se le ferite fossero effettivamente guarite, qualcuno avrebbe potuto suggerire la sua malafede e non era proprio quello che voleva.
«Credo sia questa!» disse alla vecchia elfa, indicando una pozione randomica, mentre con l’altra mano rapidamente prendeva ciò che gli interessava.
«Mio signore, questa è una pozione per la tosse. Signore.»
«Capisco. Beh, credo di stare già molto meglio! Quella pozione non mi serve più.»
Kaeya uscì velocemente dalla cucina, senza lasciare il tempo alla vecchia elfa di rispondere.
 
 
«Ti prego, bevila.»
«No. Dopotutto, perché un traditore dovrebbe volermi aiutare?»
Diluc era di nuovo seduto contro la parete della cella, la testa posata sulle sbarre della prigione.
«Perché mi sono preso la briga di procurarti questa pozione. Via, sei il fratello maggiore, no? Non fare i capricci.»
Kaeya si accovacciò a terra, alla sua altezza, lo sguardo preoccupato fisso sulle chiazze rosse che lentamente si espandevano sulla camicia candida.
«Non avrei mai potuto fare quello che mi hai chiesto» disse Diluc, con il suo solito tono lapidario.
Una dolorosa fitta attraversò il petto di Kaeya, paralizzandolo, mentre un groviglio di emozioni gli bloccò la gola per un lungo doloroso istante.
«Avevo già tutto pronto. Saremmo rimasti sempre insieme, lontano da questa maledetta guerra» riuscì a mormorare infine. Respirare era diventato difficile.
«Mi hai chiesto di abbandonare la nostra famiglia e nostri amici per nascondermi, Kaeya. Hai detto di amarmi, perché allora mi hai chiesto qualcosa di così contrario a tutto ciò in cui credo?»
«Perché sapevo che saremmo arrivati a questo.»
Diluc rise debolmente. «È per questo che hai lasciato che nostro padre morisse? L’uomo che ti ha accolto in casa quando non avevi nessuno, che ti ha cresciuto come uno di famiglia nonostante tutti gli sconsigliassero di tenere con sé il figlio di un mangiamorte? È per questo che l’hai fatto, Kaeya Alberich?»
Kaeya non disse nulla, ogni parvenza di sicurezza sparita dal suo volto. Non riusciva a guardare Diluc negli occhi, ormai offuscati dalle lacrime, ma sentiva il suo dolore in ogni parola.
Non poteva dire nulla a Diluc. Era diventato un mangiamorte per richiesta dello stesso Silente e pochi altri sapevano della sua missione, era la spia perfetta proprio per le sue origini. Meno persone sapevano, meglio era, soprattutto se questo qualcuno era Diluc.
Non aveva potuto fare nulla per salvare Crepus, semplicemente perché la sua copertura sarebbe saltata e la guerra che Diluc ci teneva così tanto a combattere sarebbe stata irrimediabilmente persa. Aveva pianto la morte del suo padre adottivo in silenzio e senza dare nell’occhio, lontano dal conforto delle persone care. Lontano da Diluc.
Diluc non disse più nulla, ma Kaeya non riusciva a trovare la forza per guardarlo in volto. Tenendo lo sguardo basso, allungò il braccio oltre le sbarre, verso la sua mano mollemente adagiata sul pavimento di pietra.
Diluc non si ritrasse quando le dita di Kaeya sfiorarono lievemente il dorso della sua mano, né quando si strinsero delicatamente attorno alle sue dita.
«Ti prego» disse Kaeya, la voce ridotta a un impastato sussurro mentre gli lasciava la pozione cicatrizzante in mano. Per un istante, sembrava essere tornato il piccolo Kaeya, il bambino disperato abbandonato nei giardini della magione Ragnvindr.
Con uno schiocco la boccetta si aprì.
 
Quasi un’ora passò. Diluc si era addormentato da un po’, l’unico motivo che aveva dato a Kaeya il coraggio di alzare lo sguardo. Le ferite erano ancora aperte, ma almeno non sanguinavano più. Allungò una mano oltre le sbarre per scostare una ciocca ribelle che fastidiosamente ricadeva sul volto sereno dell’uomo che amava.
Diluc aprì gli occhi di scatto, lo sguardo che però rivolse a Kaeya non era rancoroso, ma dolce, velato appena da un’ombra di tristezza. Per un attimo, tornarono ad essere solo Diluc e Kaeya, non il grifondoro e il serpeverde, non l’auror e il mangiamorte; solo Diluc e Kaeya, due persone che si amano.
Il cigolio di una porta che si apre riportò entrambi alla realtà.
«Andrà tutto bene, starai meglio molto presto. Fidati di me. Ci vediamo quando tutto questo sarà finito» mormorò Kaeya a un sempre più confuso Diluc, prima di alzarsi di scatto.
«L’Oscuro Signore vuole vederci tutti, Alberich» esordì Greyback, non appena lo vide «Sistemo i nuovi arrivati e arrivo anch’io.»
Kaeya annuì appena prima d’imboccare la stretta scala a chiocciola.
 

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Capitolo 7
*** Ideal Circumstance ***


Genere: hurt/comfort, slice of life
Coppia: shonen-ai
Personaggi: Alhaitham, Kaveh
Avvertimenti: Nessuno
Note: Questa fanfiction partecipa alla E’ NATO PRIMA L’UOVO O LA FYCCYNA?– REVERSE CHALLENGE! del Gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanart e Fanfiction - Gruppo Nuovo

 
Kaveh si appoggiò sullo schienale della sedia della sua stanza, sfregandosi gli occhi stanchi con palmi. Guardò l’orologio: erano le dieci di sera e la casa era avvolta dal silenzio. Si alzò, allungando le braccia verso il soffitto.
Aveva passato la giornata a studiare e ridisegnare le piantine dell’abitazione del suo prossimo cliente e, concentrato com’era, non era nemmeno sicuro di aver sentito il suo amato coinquilino rientrare.
In quello stesso istante, il “click” metallico delle chiavi nella serratura della porta annunciarono l’arrivo di Alhaitham. Kaveh corse alla porta, pronto a lamentarsi per l’inatteso rientro tardivo, ma si bloccò quasi immediatamente.
«Hai una faccia orribile.»
Alhaitham lo guardò brevemente senza dire nulla, il volto insolitamente pallido, gli occhi pesantemente cerchiati da ombre scure. Quindi si voltò, ignorando totalmente le sue parole, diretto verso la sua stanza.
«Ehi, non ignorarmi!»
«Sono stanco. Andrò a dormire» disse Alhaitham, prima di chiudere la porta alle sue spalle.
Kaveh rimase per alcuni istanti a fissare la porta chiusa, incapace di scacciare un vago senso d’inquietudine che non sapeva spiegarsi. Liquidò la cosa, dandosi dello sciocco. Per cosa si stava preoccupando esattamente?
 
La mattina successiva accolse Kaveh con uno splendido aroma di caffè che proveniva dal soggiorno. Alhaitham sedeva comodamente su uno dei tre divani, gli occhi puntati su un libro dalla copertina consunta.
«Continui ad avere un aspetto orribile» disse Kaveh, versandosi una tazza abbondante di caffè. Il colorito di Alhaitham non era minimamente migliorato, anzi, le occhiaie si erano forse fatte perfino più profonde.
«Resta comunque una visione migliore di quella che hai davanti allo specchio, Kaveh.»
«È invidia quella che sento, Alhaitham? Tsk.»
«Solo la banale verità.»
Kaveh lanciò un’occhiataccia al suo coinquilino che come sempre lo ignorò.
«Piuttosto… stai bene?»
Alhaitham sospirò, sollevando finalmente lo sguardo dal suo amato libro.
«Sono solo un po’ stanco, niente di grave. C’è molto lavoro da fare all’Akademia.»
«Dovresti prenderti una pausa, sai? Non ti fa bene lavorare così tanto.»
«Ti ricordo che, almeno per ora, sono il Gran Saggio Reggente, Kaveh. Non posso esattamente prendermi-»
«Va bene, va bene» lo interruppe Kaveh «però questa volta prendi qualcosa da mangiare. Ho conservato gli avanzi della cena di ieri.»
«La… cosa?»
«La cena di ieri! Per i Sette, ti avevo detto ieri che avrei preparato la cena per entrambi…»
«Perché, sai cucinare?»
«Certo che so cucinare!» sbottò Kaveh infastidito «Semplicemente, non ho mai cucinato per te
«E questa volta l’hai fatto perché…?»
«Ho preso un nuovo mix di spezie da Jut. Ho marinato la carne, ma le porzioni sono troppo grandi per me. Non preoccuparti, ho fatto dei semplici Shawrma.»
Alhaitham annuì appena, riportando l’attenzione sul suo libro senza mostrare apparente interesse a quella nuova informazione.
 
La giornata di Kaveh venne assorbita completamente nel chiasso del Gran Bazar, tra le bancarelle colorate e il profumo delle spezie. Gli servivano diversi pezzi di mobilio per il cliente per cui stava lavorando e, tra una contrattazione e un prezzo da amico, il tramonto arrivò senza che quasi se ne rendesse conto.
Stava per uscire dal Gran Bazaar quando, per qualche ragione, la sua mente indugiò sul suo fastidioso coinquilino, forse per qualche istante di troppo. Gli venne un’idea. Un’idea totalmente sciocca, di cui probabilmente si sarebbe pentito amaramente, ma si conosceva abbastanza da sapere che non erano ragioni sufficienti per fermarsi. Tornò sui suoi passi, sperando che gli ambulanti del Bazar non avessero già chiuso.
 
Era molto tardi quando Alhaitham rientrò, forse in condizioni peggiori del giorno precedente. Sperava fosse solo la sua immaginazione, ma a Kaveh sembrò addirittura che avesse perso peso.
«Per i Sette, sei in condizioni pietose» lo accolse, cercando di nascondere il più possibile la preoccupazione dalla voce.
«È solo stanchezza, nulla di grave.»
«Sciocchezze.»
Kaveh ridusse rapidamente la distanza che li separava con ampie falcate e si parò davanti al suo coinquilino.
«Non stai saltando i pasti, vero?»
Alhaitham sospirò. «Non volontariamente.»
«Che cosa significa non volontariamente?» gli chiese, alzando la voce.
«Significa che a volte ho troppo da fare e me ne dimentico. Ora, perdonami, ma vorrei andare a dormire.»
«Siediti, devi mangiare qualcosa» disse Kaveh, sperando di farlo sembrare un ordine.
«Non ho fame.» La voce di Alhaitham sembrava invece un flebile sussurro.
«Maledizione, fallo e basta!»
Accadde tutto in pochi istanti: Alhaitham smise di parlare e il suo sguardo si fece vitreo.
Il primo istinto di Kaveh fu quello di allungare le braccia verso di lui, come se il suo subconscio sapesse già cosa stesse accadendo, come se il suo cervello avesse già dipinto l’immagine terrificante del suo coinquilino a terra nella sua mente e gli avesse già ordinato di salvarlo dalla caduta. Così Alhaitham crollò tra le sue braccia.
«No. No, maledizione, NO!»
Kaveh si sentiva genuinamente terrorizzato, il cuore gli batteva all’impazzata nel petto e probabilmente l’unica cosa che gli permetteva di reggere il peso del suo coinquilino era la quantità di adrenalina che probabilmente aveva in circolo.
«Svegliati! Non puoi farmi prendere spaventi del genere!» urlò con voce spezzata, senza ottenere alcun risultato.
 
«Quindi? Qual è il problema?»
Lo sguardo di Kaveh saettava tra il dottore del Bimarstan e il volto scavato di Alhaitham, steso e ancora privo di sensi tra un numero forse eccessivo di coperte.
«Un brutto caso di affaticamento da stress, direi. Avete notato cambiamenti d’umore o nel suo comportamento di recente?»
Kaveh scosse la testa. «No, direi di no.»
«Allora saranno sufficienti alcuni giorni di riposo.»
Kaveh accompagnò il medico alla porta, ringraziandolo e scusandosi per averlo fatto arrivare ad un’ora così tarda.
«Perché ci sono così tante coperte?»
La voce infastidita di Alhaitham arrivò alle sue orecchie non appena richiuse la porta alle sue spalle.
«Non sapevo cosa fare, ho improvvisato! Ho chiamato un dottore e-»
«Almeno quella era una cosa giusta da fare» lo interruppe, massaggiandosi le tempie con le dita «Non posso riposare.»
«E invece sì. Sarai costretto.»
«Cosa?»
Kaveh si appoggiò alla cornice della porta, esibendosi nel suo migliore sorriso di vittoria.
«Ho preso le tue chiavi e ho nascosto entrambi i mazzi.»
«Tu… cosa?»
«E ho appena chiuso a chiave la porta. Sarai costretto a restare qua dentro fino a domani.»
Alhaitham si mise lentamente a sedere, spostando infastidito alcune coperte.
«Sei incredibile.»
«Lo so!»
«Non era un complimento.»
«Oh, presto lo sarà! Aspetta qui, non ti muovere.»
Kaveh corse ai fornelli, dove aveva lasciato la cena che aveva accuratamente preparato per entrambi. Pochi minuti dopo, tornò da Alhaitham con due ciotole fumanti di stufato, accuratamente adagiate su un vassoio di legno.
«Ecco qua!» disse, porgendone una al suo coinquilino, assieme alle posate necessarie.
«Che cos’è?»
«La cena. Devi mangiare, altrimenti non ti riprenderai mai.»
Alhaitham guardò i pezzi di carne e verdure per qualche istante, prima di addentarne uno.
«È buono?» chiese Kaveh, accomodandosi su una sedia. Leggere le espressioni di Alhaitham era praticamente impossibile, ci aveva rinunciato molto tempo fa. Se non altro, poteva aspettarsi totale sincerità dalle sue parole.
«È… diverso.»
«Già! Ho usato la carne marinata nelle spezie che ti dicevo stamattina. Una delle migliori idee che io abbia avuto negli ultimi giorni!»
Alhaitham non disse nulla ma ripulì completamente il piatto dallo stufato. Kaveh lasciò la stanza poco dopo, con due ciotole vuote e la gioia nel cuore.
 
 
La mattina seguente, Kaveh entrò nella stanza di Alhaitham con una tazza di caffè appena preparato.
«Buongiorno!»
Alhaitham continuò a leggere il suo adorato libro sgualcito, ignorandolo totalmente. Dal colorito, però, intuì stesse già molto meglio, permettendogli di tirare un sospiro di sollievo.
«Lascia pure la tazza lì» gli disse, indicando il comodino.
Kaveh si avvicinò e fece come gli era stato detto. Stava per girarsi e lasciare la stanza, quando uno strattone al braccio gli fece perdere l’equilibrio, cadendo sul letto. Il suo primo istinto fu quello di rialzarsi ma due braccia forti gli cinsero le spalle e la vita.
«Preso.»
Kaveh iniziò a dimenarsi, ma la presa di Alhaitham era più salda di quanto si aspettasse.
«Che cosa stai facendo? Lasciami!»
«Se rispondi a qualche domanda ti lascio andare.»
«Posso rispondere benissimo rimanendo a dieci metri da te!»
«Impossibile, non saresti sincero. Rispondi e finirà in fretta.»
Kaveh si arrese, sperando che quella farsa terminasse prima che il suo cuore decidesse accidentalmente di uscire dal petto. Sicuramente, la consapevolezza di essere praticamente sdraiato su Alhaitham non aiutava, anzi, tendeva a fargli diventare la faccia dello stesso colore dei pomodori maturi.
«Muoviti.»
«Bene, dimmi la verità. Una sola basta, per ora.»
«Che cosa stai blaterando?» mormorò Kaveh, fissando ostinatamente un punto lontano della stanza.
«Non lo so, c’è molto da dire. Però potresti iniziare ammettendo di essere preoccupato per me» sussurrò al suo orecchio.
«Tsk. Non esagerare, ti ho solo dato una mano» disse, cercando di ignorare un certo brivido lungo la schiena che quelle parole avevano provocato.
«Kaveh, non sono sciocco. Sai che lo stufato è il mio piatto preferito, vero?»
«Lo so» ammise.
«Per preparare lo stufato ci vogliono ore e ieri mattina la dispensa era praticamente vuota. L’unica conclusione logica è che tu abbia acquistato appositamente gli ingredienti per cucinare il mio piatto preferito prima che io arrivassi.»
Kaveh ammutolì. Odiava Alhaitham, odiava il suo essere così sveglio e fastidiosamente razionale. Odiavo come gli bastasse un banale abbraccio per farlo sentire così vulnerabile. Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi per alcuni istanti, alla ricerca di qualche sprazzo di coraggio.
«Ero preoccupato per te, ok? Insomma, sono giorni che torni a casa distrutto, non mangi e vai direttamente a letto. Non sono ritmi sostenibili! Volevo aiutarti in qualche modo, ok? Speravo che il tuo piatto preferito ti avrebbe convinto a mangiare.»
Kaveh espirò, realizzando di aver trattenuto il fiato fino a quell’istante.
«È tutto?»
Alhaitham lo stava guardando con attenzione, le labbra increspate da un leggero sorriso erano l’unica differenza con la sua usale espressione impassibile.
«Si. Ora lasciami.»
«Sicuro sia quello che vuoi?»
«SI.»
Alhaitham allargo le braccia. Kaveh si alzò di scatto e con passi rapidi si diresse verso la porta.
«Kaveh?»
Sentendosi chiamare, Kaveh si fermò di scatto. Si trovava ormai sulla porta, ma non aveva nessuna intenzione di voltarsi indietro.
«Quello stufato era molto buono. Mi piacerebbe mangiarlo ancora.»
 
 

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