Frammenti di Diari

di BabaYagaIsBack
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Before Reading ***
Capitolo 2: *** Chapter One: Don't let me fall ***
Capitolo 3: *** Chapter Two: Relief ***
Capitolo 4: *** Chapter Three - Part One: The one to blame ***
Capitolo 5: *** Chapter Three - Part Two: The one to blame ***
Capitolo 6: *** Chapter four - part one: Not strong enough ***
Capitolo 7: *** Chapter four - Part Two: Not strong enough ***
Capitolo 8: *** Chapter four - Part Three: Not strong enough ***



Capitolo 1
*** Before Reading ***




Before Reading
o

Premessa dell'Autrice

 
Buonsalve lettore,
sono lieta di vederti approdare qui, tra le righe di questa mia storia.
Prima di cominciare la tua (dis)avventura tra i menadri di suddetta bozza vorrei chiederti di prestare qualche minuto del tuo tempo a questa breve quanto necessaria annotazione. E' fondamentale, credimi.

Come mi auguro tu abbia letto nella sinossi, quello che stai per leggere è un sequel, il proseguo di una storia che scrissi ben dieci anni fa e che, altro non è, se non il primo, reale approccio che la me pre-adolescente ebbe con la scrittura: I diari di Jay
Non si tratta di un romanzo profondo, ricco di insegnamenti sulla vita e voli pindarici da capogiro, piuttosto di un'opera che nella sua ingenuità mi ha spinta a migliorare sempre più - e maggiori diventavano le mie capacità narrative, maggiore era la voglia di prendere in mano queste pagine e rinnovarle, vedendole crescere insieme a me. Ciò non toglie che volessi continuare a conservare le sue origini a prescindere da quanto potessero essere sciocche, infondate, un po' deleterie: dopotutto rappresentavano la ragazzina ingenua che sono stata. E' per questo che negli anni ho continuato, ciclicamente, a riprendere in mano il testo, smussando gli spigoli dell'inesperienza. Ho sistemato la sintassi, la grammatica, la forma in tutti i suoi aspetti per poi andare a riempire i buchi, approfondendo parti e delineando con più cura i personaggi che l'hanno popolata.
Insomma, I diari di Jay è quel che è, nulla di ambizioso, ma ha comunque conquistato qualche lettore. Alcuni di loro ci sono stati sin dall'inizio, da quando nel lontano 2013 la postai per la prima volta su questa piattaforma, altri sono arrivati nel tempo. Molti l'hanno vista evolversi e dopo qualche mese dalla sua prima conclusione hanno deciso di seguirmi nell'idea, forse folle, di dar vita a un proseguo, questo - perché era ovvio a tutti che le questioni lasciate in sospeso da Jane dovessero trovare una fine. Ebbene, per un po' entrambi i volumi sono rimasti a disposizione di chiunque volesse dar loro una chance, poi però, per qualche strana ragione, ci si è accorti non esservi più una parte della storia. L'avevo tolta, combattuta tra l'esserne orgogliosa o l'esserne imbarazzata. Mi ci sono voluti moltissimi mesi, anni, per sentirmi nuovamente pronta a cambiarne la forma. E così, nel 2019, ho riaperto questi file impolverati, rivoluzionandoli ancora. 

Ad oggi, sono passate solo poche settimane da quando ho scritto la parola fine sul primo volume e ora voglio rimettermi in gioco con il secondo - quindi, se non hai letto la parte precedente, t'invito a cliccare il link presente in questa premessa e iniziare la lettura dal punto di partenza, lì dove in un letto caldo, durante una placida mattinata londinese, Jane viene svegliata dallo strillare compulsivo di una madre e la propria bava che inzuppa il cuscino.

Spero di avere presto tue notizie, di leggere qualche tuo pensiero o commento riguardo quello che la me del passato e quella del presente ti stanno offrendo - per ora, comunque, posso solo ringraziarti per esserti soffermato qui. 

Yaga


 

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Capitolo 2
*** Chapter One: Don't let me fall ***





Chapter One
§ Don't let me fall §

 

"It gets harder every time I gotta say goodbye
Tears are falling, that's why I can't say it eye-to-eye
Every time that I go, can't find a reason why
Maybe someday you'll know just how I feel inside

Can't hold on, don't let go, going down the same old road
Have it all, take my soul, praying that I'll make it home
And even if I pretend it'll be alright
I know I'll see you again in my other life"

 

Hollywood Undead, Coming Home


 

 

Da piccola pensavo che il dolore più grande che si potesse provare fosse quello di un ginocchio sbucciato o un braccio rotto. Poi da ragazzina è diventato lo schiaffo per un brutto voto, una mancanza di rispetto o un'azione sconsiderata. Fino a qualche tempo fa era il fatto che Jace mi avesse abbandonata per andare a Parigi.
Ora, invece, so che è questo.
So che è la consapevolezza che Charlie è a qualche porta di distanza intento a combattere tra la vita e la morte, mentre noi restiamo in attesa, incapaci di aiutarlo in alcun modo.

Siamo impotenti.
Fragili.
Funamboli che attraversano un precipizio - e se cadiamo, nulla ci salverà dallo sfacelo.
Ed io, personalmente, vorrei riuscire a provare qualcosa di più di questo terribile senso di soffocamento: magari paura, rabbia, nervosismo, disperazione - qualsiasi cosa - ma non c'è altro.


Guardo di sotto e vedo il pericolo, so che c'è, eppure non ho fatto nulla per evitarlo. Se vacillo, precipito. 
Avrei dovuto pensare prima a questa possibilità, agli effetti collaterali delle mie azioni, invece ho preferito saggiare l'ebrezza del volo ignorando i segnali di stop.

Mi sento un'idiota. 
Probabilmente lo sono. 


Tutto quello che mi limito a fare è restar sospesa su questa fune troppo sottile, una striscia di corda che al momento equivale allo star seduta a osservare il vuoto davanti a me. Il dolore che ho provato quando Jace mi ha chiamata si è trasformato in vuoto nel momento in cui sono scesa dal taxi e questo vuoto ha annullato ogni mio senso: udito, olfatto, sapore, tatto - l'unica cosa che mi resta è la consapevolezza di dover respirare, piano, in modo da non soccombere. C'è già abbastanza disperazione, qui.
Dopo aver varcato la soglia del Queen Charlotte and Chelsea e aver chiesto di lui all'infermiera alla reception, ho raggiunto il pronto soccorso e i presenti ritrovandomi improvvisamente succube di un'annichilente sensazione a metà tra l'inutilità e la colpa, dimenticandomi qualsiasi cosa. Come si parla? Quali sono le parole da pronunciare in circostanze come queste? Dovrei mettermi a piangere? Urlare? Cosa dovrei provare, esattamente? Perché al momento non sento niente, solo il nulla che divora, avanza. C'è la minaccia di qualcosa che si avvicina, che mi fa oscillare, ma io purtroppo non so far altro che restare in sua attesa, inerme. Persino le viscere che fino a qualche ora fa stavano andando a fuoco, adesso, non bruciano più: probabilmente sono già diventate cenere. Anche il cuore, che deve avermi battuto così forte nel petto, ha finito con il squarciare la carne e, tra una falcata e l'altra, cadere per strada. E' ruzzolato in terra, svuotandomi definitivamente - per questo sono conscia che basti una folata di vento per perdere l'equilibrio. E farà male, lo so. Il dolore mi dilanierà dall'interno, arrivando a uccidermi.

Mi mordo il labbro senza avvertire duolo, anche se i denti affondano. Il calore del sangue si irradia intorno agli incisivi, sulla curva di pelle, in punta di lingua e mi domando: da quanto tempo siamo qui
Sembra un'eternità.

Abbasso lo sguardo. Lo faccio correre dal soffitto lungo la parete, fino a lasciarlo cadere sulle sedute di fronte a me. 
All'altro lato del corridoio c'è Molly, ricurva. Piange come una bambina, la sua schiena si alza e si abbassa velocemente mentre si tiene la fronte e nasconde la faccia - era già così quando sono arrivata. Sedutole accanto c'è Jace. E' rimasto lì per tutto il tempo, scrutandomi di tanto in tanto come se volesse dirmi qualcosa che per qualche strano motivo gli è rimasto incastrato in gola. Così ha continuato a stringe la madre di Charlie al proprio fianco, accarezzandole la testa e le spalle in quel modo tipico delle persone che condividono o conoscono lo stesso dolore - ma stranamente né lui né Seth hanno ancora versato una lacrima. 
Sono tesi come corde di violino, questo è ovvio. Nei loro occhi si può scorgere la fatica del mantenersi lucidi, vigili, consapevoli - ma si stanno preparando. Per cosa non lo so, o forse non voglio saperlo.

Sposto ancora un poco lo sguardo, incontrando finalmente la sagoma di Morgenstern che, a differenza di mio fratello, si è seduto a terra, in disparte. Gli è vicino pur restando lontano e con le mani si copre parte del viso. 
Sembra esausto. 
Non lo biasimo. 
Negli spazi vuoti tra le sue dita riesco a vedergli le pupille ristrette: sono fisse sulla porta alla fine del corridoio, esattamente come quelle di un predatore. Vuole essere il primo a vedere la minaccia, a comprendere l'esito di questa battaglia di cui noi siamo solo comparse - ed io non capisco dove lui e Jace trovino la forza per restare saldi. Persino il signor Benton, dopo la prima mezz'ora di attesa, ha preferito uscire da qui per respirare aria diversa: aveva bisogno di lasciarsi andare alla paura, ma non si sarebbe mai permesso di farlo davanti agli occhi della moglie o i nostri.

Deglutisco l'amaro del sangue, ingoiando le mie colpe - le lascio depositare nello stomaco per conservarle e far sì che nessuno le veda; me le tengo dentro in modo che possano corrodermi, perché merito questo supplizio: Charlie non sarebbe qui se gli risparmiato quella chiamata all'apice del pianto.

D'un tratto il fischio della gomma sul pavimento mi fa sussultare. Sono suole che strisciano sul linoleum, sono gli anfibi di Seth. Il cuore mi si ferma nella trachea, mi mozza il respiro, così alzo lo sguardo e incontro la sua nuca, le sue spalle. Ha gli occhi fissi sul fondo del corridoio e nel comprendere cosa stiano guardando avverto la sensazione del soffocamento. Lentamente, forse in qualche modo terrorizzata da ciò che potrei scorgere, nell'attesa incontro quello che potrebbe essere il presagio di una tragedia. L'ombra di un medico si muove dietro alle porte chiuse dell'area riservata allo staff, viene verso di noi a passo spedito, come se avesse fretta di dirci l'esito di quelle ore d'operazione per potersene tornare a dormire. Il suo busto si fa sempre più vicino, oscura parte delle finestrelle sabbiate che si frappongono tra le due zone del pronto soccorso e, priva di controllo o razionalità, mi premo le unghie nella carne delle braccia, affondandole tanto da inciderla.

Stringendo i denti sulla lingua inizio a contare i secondi. Tra quanto sarà qui? 
Uno. Due. Tre. Quattro. Quanto tempo gli servirà per ucciderci o graziarci? Cinque. Sei. Sette. Vorrei non desiderare di saperlo, eppure bramo la risposta con ogni fibra del corpo. Otto. Nove. 

Jace si tira su, si accorge di cosa sta succedendo. Esitando giusto qualche istante prima di smettere di consolare Molly Benton, mio fratello si affianca a Seth. Improvvisamente da semplici comparse si trasformano in cavalieri che si preparano alla battaglia, che controllano con meticolosità la propria armatura, consci che un singolo laccio agganciato male potrebbe permettere alla lama del dolore di trafiggerli e ammazzarli. 
Sono spalla a spalla in mezzo a questo corridoio che puzza di disinfettante e plastica e, per la prima volta, nella preoccupazione che sono certa gli stia mangiando le budella, li vedo nuovamente uniti, amici, fratelli. Basta guardare il modo in cui si chinano sotto il peso della gravità della situazione, come le loro mani restino inermi in quell'ultimo alito d'attesa - si conoscono e si capiscono; si supportano come vorrei, ora, facessero con me. Ma la realtà dei fatti è che, per quanto io lo possa desiderare, nessuno di loro due potrebbe farlo. Non capirebbero realmente il mio cruccio. Non ce n'è modo. Dopotutto sono la sola a sapere che l'incidente è avvenuto per colpa mia. Solo io sono a conoscenza del fatto che il suo piede era pigiato a quel modo sull'acceleratore per venire da me. Soltanto io posso immaginare la preoccupazione che lo ha spinto a mettere da parte la cautela e... e...

La serratura della porta antipanico scatta e l'anta bluette si apre facendo comparire di fronte ai nostri occhi la sagoma minacciosa di un medico. Lo guardo con il cuore a mille, incapace di mantenermi calma, e provo in ogni modo a presagire quello che ci sta per dire - sul suo viso però trovo solo la stanchezza post intervento e qualche ruga d'espressione, nulla più. Non c'è un solo connotato che sappia tradire il suo silenzio, la compostezza che il suo lavoro lo obbliga a mantenere.
Mentre si sistema il camice l'uomo ci guarda. I suoi occhi nero pece si posano su ognuno di noi quasi stesse cercando di capire chi dei presenti stia per perdere di più. Si posa sui ragazzi che ha davanti, rigidi nei vestiti con cui li ho lasciati al The Elder and the Moon. Li indaga, prova a capire, poi passa a me. Restiamo zitti per istanti che mi paiono dilatarsi nel tempo, io supplichevole, lui indeciso, ma alla fine abbandona anche la sottoscritta per voltarsi verso Molly, atterrita. A quanto pare non ha scorto il mio peccato, la ruggine che mi sta divorando.

«Lei è la madre?»
La signora Benton annuisce.
«E' qui da sola?»
A questa domanda il mio cuore perde un battito e con la coda dell'occhio vedo Seth vacillare appena, ma Jace prontamente gli afferra il braccio e il suono della sua mano mi schiaffeggia con inaudita violenza.

Perché stanno reagendo così?

Mi alzo.

Molly risponde, avverto la sua voce seppur fatichi a riconoscere le parole. La mia testa si gonfia di pensieri, sono tutti così rumorosi che non riesco a pensare ad altro se non il peggio - e dalle labbra, involontariamente, mi scappa un sussurro.

«E'... è morto?»

Tremo, incontrollata, e quando gli occhi di tutti mi calano addosso come ghigliottine mi pare quasi di avvertire il freddo della lama sfiorare il collo. Ho detto ciò che non dovevo dire. Ho dato voce alla paura collettiva pugnalandoli dritti al petto. Sono orribile.

Sono terrorizzata.

Con la vista annebbiata mi rivolgo al dottore e le unghie, a quel punto, riescono a penetrare le difese della pelle. Il bruciore che ne segue è così lieve che quasi me ne dimentico.
A questo punto dovrei piangere, sì, ma ancora non ci riesco.

Sento lo sguardo di mio fratello posarmisi addosso. So per certo che in questo preciso istante mi sta osservando come si fa con le bestie che disubbidiscono: i suoi occhi devono essere sbarrati e il ribrezzo gli starà contraendo il viso. Nonostante ciò, Jace tace, forse incapace di spiegarsi come dalla mia bocca sia potuta uscire una simile bestemmia - ma non è il solo. Sono sicura che anche Morgenstern vorrebbe schiacciarmi al muro e gridarmi addosso quanto sia stupida, quanto io sia la più abominevole delle persone; eppure persino lui resta in silenzio. E' la prima volta che lo vedo rimanere fermo di fronte a una mancanza di rispetto così brutale, reprimendo il suo istinto e, a quanto pare, l'unica a non riuscire a controllarsi stasera sono io.

Il medico sbuffa, spezza la tensione e la mia impressione di essere il fulcro dell'interesse generale.
«No, signorina, Charles non è morto.»
E ogni cosa improvvisamente si dissolve.

Restiamo esterrefatti. Tutti, nessuno escluso. E' evidente che nessuno di noi sia in grado di riconoscere se si tratti della realtà o se sia solo un'allucinazione, così il dottore si porta le mani ai fianchi e scuote la testa: «Come ho detto, il ragazzo non è morto. Siamo intervenuti in tempo, grazie al cielo, però non si può certo dice che ne sia uscito illeso quindi, se non vi dispiace, ora vorrei parlare solo con i suoi genitori.»

Nel ricevere questa nuova conferma il cuore torna a farsi sentire, mi si gonfia tanto da far male. Oltre lo sterno lo percepisco lottare contro la costrizione della gabbia toracica e, finalmente, mi sembra di riuscire a respirare. Sento qualcosa. Gioia, forse. Mi pervade come una febbre, mi lascia intontita e trepidante e... E' vivo. Sì, sicuramente non starà bene, ma è comunque rimasto con noi. 
Non l'ho ucciso e questa consapevolezza sembra surreale dopo tutta l'attesa. 
Sapere di non averlo perso ha la stessa violenza di uno tsunami, il retrogusto della felicità allo stato puro. E' brutale e appagante, sderenante persino - e quando mi volto per cercare Jace, per trovare il suo supporto, incrocio per la prima volta dopo ore lo sguardo di Seth. Ci fissiamo a labbra schiuse, incapaci di reagire. Una parte di me vorrebbe stringersi a lui, bramosa del calore del suo corpo, della sua concretezza, eppure non riesco a riempire lo spazio che ci separa, qualcosa mi frena. Il precipizio in cui mi sono accorta di poter cadere si frappone tra noi, ai lati opposti di questa gola. Sono ancora sulla fune che oscilla nel vuoto, potrei tornare indietro o avanzare, ma andargli incontro sembra richiedere troppa fatica al momento - quindi lascio che sia Jace a gettargli le braccia al collo per sfogare tutte le emozioni che ci hanno soffocato fino ad adesso, interrompendo il nostro contatto visivo.
La schiena di Morgenstern diventa l'unica cosa che riesco a guardare. La pelle della sua giacca si tira sotto l'abbraccio di mio fratello, lo fa così tanto da permettermi d'immaginare ogni rilievo, ogni muscolo contratto, ogni sensazione che ha taciuto fino ad adesso - e capisco di non essere stata abbastanza per nessuno di loro.
Non ho dato supporto.
Non ho consolato.
Non mi sono comportata come la persona matura che blatero tanto di essere e men che meno ho valutato le conseguenze delle mie azioni, costringendoci tutti qui.
Così seppur tremante faccio un passo indietro e, tendendo un sorriso verso Molly, sussurro: «Vado a chiamare Thomas.» Lei annuisce, felice come mai prima d'ora. Non mi trattiene, forse intuendo il mio stato d'animo o semplicemente desiderando il suo compagno - quindi muovo un altro piede, fino a fuggire via.




 

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Capitolo 3
*** Chapter Two: Relief ***




Chapter Two

§ Relief §

 

"I am finding out that maybe I was wrong
That I've fallen down and I can't do this alone
Stay with meThis is what I need, please"

- My Heart, Paramore

 

Thomas mi fissa, sembra non capire. Ha una sigaretta ormai corrosa sino al filtro stretta tra le dita e gli occhi rossi di chi ha pianto smodatamente. Le rughe sul viso sembrano più profonde del solito e la stanchezza, quella che ci ha temprati tutti stanotte, trapela da ogni dettaglio.
Tiene una mano in tasca, mentre con l'altra, in una posa un po' effeminata, sorregge il mozzicone giallo. Chissà da quanto tempo la combustione si è interrotta; chissà se ha realmente fumato - non credo lo abbia mai fatto prima di questo giorno.

D'improvviso esclama un "Oh!" quasi si sia ridestato da una trance. Involontariamente gli rispondo con un sorriso, ignara di come sia più opportuno comportarsi in una situazione come questa. Per un momento restiamo immobili, poi nuovamente lo vedo spostare lo sguardo umido verso il cielo. Le prime luci dell'alba gli accarezzano la piega dei capelli, la fronte, il naso così simile a quello di Charlie. Gli sfiorano i baffi e poi le labbra, lì dove d'un tratto, seppur impercettibilmente, mi sembra di scorgere un movimento. L'impressione dura poco, mi fa quasi pensare di averlo immaginato perché, subito, Thomas vi passa sopra la lingua. Vorrei dire di capire cosa prova in questo momento, ma tutto ciò a cui riesco a pensare è la pressione nauseante che sento schiacciarmi lo stomaco. Credo di dover vomitare, eppure ancora non ci riesco.
L'ansia non mi abbandona, ma certamente posso dire essersi allentata. Non mi sento più un boia, però non posso nemmeno dire di essere innocente.

Il signor Benton sfila la mano dai pantaloni e senza guardarmi, riportandomi con la mente al presente, mi porge un pacchetto di Marlboro a metà. 
Esito. 
Per qualche strana ragione accettare questa sua offerta mi destabilizza, mi trasforma in un Giuda che siede al tavolo di colui che ha mandato a morire, eppure dopo qualche istante, esattamente come lui, allungo un braccio e afferro una sigaretta, poggiandomela tra le labbra. 
Tasto i jeans certa di avere l'accendino, ma alla fine è ancora lui a venirmi in aiuto. 
«E' sveglio?» Mi chiede subito dopo avermi vista fare un tiro. 
«I- io...in realtà non lo so.» Non ho avuto né tempo né modo di chiederlo, anche se avrei potuto. 

Thomas annuisce. «Non è importante» aggiunge dopo qualche secondo. 
Finalmente butta il mozzicone che tiene tra le dita, poi si passa la mano in viso quasi volesse togliersi dagli occhi la stanchezza e il dolore che ora non hanno più motivo di starsene lì. Resta in quella posizione per un po', forse abbandonandosi a qualche pensiero, e infine torna a fissarmi. E' commosso. Felice, oserei dire. Osservandolo capisco quanto male avrebbe causato la morte di Charlie; non solo a me, ma a tutti - e inevitabilmente i singhiozzi hanno la meglio sulla volontà, sulla compostezza che dovrei tenere. Non ho il diritto di piangere e disperarmi, non ho il permesso di sentirmi sollevata. Sono colpevole, sono d'accusare e additare dopo ciò che gli ho fatto. Eppure, uno dopo l'altro, i singulti si fanno sempre più sommessi. Scossoni inarrestabili mi costringono a piegarmi su me stessa pur di non andare in mille pezzi e a quel punto, inaspettatamente, il signor Benton mi abbraccia. E' il primo a farlo, stasera. Per un attimo, prima, ho pensato che sarebbe stato il petto di Morgenstern quello a cui mi sarei aggrappata, cercando sollievo e rifugio, invece eccomi tra le braccia di un uomo che non ho mai pensato potesse essere così comprensivo. Con le sue mani ruvide mi accarezza la testa, lo fa con una dolcezza che non mi sarei mai aspettata. Mi stringe e mi dondola come fossi una bambina, soffiando tra le labbra nel tentativo di calmarmi.
 «Va bene così, Jane» sussurra ogni tanto, quasi mi stesse confessando un segreto: «Va bene, sta bene». La sua voce è rotta, provata dalle emozioni, ma nonostante questo continua a cullarmi. Forse non sta cercando di consolare me, forse lo sta facendo per se stesso - abbiamo entrambi bisogno di buttare fuori gli ultimi rimasugli di paura, di liberarci dalla tenaglia che ci ha serrato la gola. In qualche maniera condividiamo lo stesso dolore, anche se è diverso. Entrambi saremmo stati schiacciati, soffocati dal vuoto che ci avrebbe assaliti, ma in modo differente. Il mio male ha una forma non uguale dalla sua, eppure porta il medesimo nome.

Restiamo fermi a piangere per un tempo che non riesco a calcolare, poi l'urgenza lo richiama a sé: c'è una moglie che lo aspetta e un figlio da cui correre - lo stesso ragazzo che vorrei poter raggiungere anche io, ma che al contempo temo.
«Molly è andata da lui?»
Tiro su con il naso, allontanando la testa: «C-credo... il dottore... lui-» Thomas mi stringe un'ultima volta, interrompe il mio blaterare inconcludente. Credo riesca a comprendere la mia fatica, lo stato di torpore mentale in cui l'estenuante attesa mi ha portata a cadere.
«Grazie» sussurra dal nulla, senza darmi alcun preavviso. Il suo è poco più di un fiato, scivola nell'aria e non prova nemmeno a combattere i rumori circostanti - eppure lo sento, vedo quella parola piegargli le labbra e involontariamente mi irrigidisco, tentando di trattenere una risata nervosa. 
Perché mi ringrazia? In fin dei conti non c'è alcun motivo per cui farlo, in particolare se il destinatario di una simile gratitudine sono io. Dopotutto non ho fatto nulla di utile. Non sono stata in grado di fare nemmeno la più piccola delle cose giuste; ad essere onesti io sono semplicemente il motivo per cui Charlie è qui. Sono il guardrail contro cui è andato a sbattere, l'airbag esploso con troppa forza. Sono i cocci del parabrezza che gli sono ricaduti addosso e la cintura che gli ha sfregiato la pelle. Non dovrebbe ringraziarmi: dovrebbe punirmi.


Mi scanso malamente, passando frenetica i dorsi delle mani sugli occhi brucianti. Fingo di asciugarmi le lacrime, ma in realtà nascondo la colpa è la nausea che stanno avendo la meglio. Ho la necessità impellente di nascondermi, di allontanarmi da ogni persona e vomitare lo schifo che ho dentro, il peccato che ho ingoiato, il ribrezzo che provo per me stessa.

Sciocca.
Egoista.
Assassina.

Thomas mi passa accanto, l'aria si sposta al suo avanzare. Si allontana, rientra, mi lascia sola.

Cosa ho combinato?
 

 

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Capitolo 4
*** Chapter Three - Part One: The one to blame ***




Chapter Three
§ The one to blame §

 

"So I'll hold my breath in the mean time
I'm falling apart on the inside, yeah
Hurry up and wait
It's a long way down"

 

Bones, Mod Sun

 

Jace mi passa un bicchierino di plastica. Lo fa senza guardarmi e aggiungendo: «Bevi, ti toglie l'amaro dalla bocca.» Ed io ubbidisco al pari di un automa. Nemmeno mi pongo il problema di cosa mi abbia dato, non mi interessa - esattamente come non m'importa pulirmi la bocca dal sapore rancido del vomito, dopotutto si tratta delle mie colpe, dell'ansia che mi ha logorata. E' giusto che stia lì, che mi riempia la cavità orale, ma mio fratello non è d'accordo, anzi, non può capirlo, per questo cerca di aiutarmi.
Osservo l'intruglio, lascio che mi scaldi le mani e intanto ne aspiro il profumo: tè caldo. Al limone, per quel che riesco a capire.

Mi mordo il labbro e il taglio di prima pizzica, forse suggerendomi di tacere, di non fare domande, ma come al solito non riesco a tenere a freno la lingua.
«Seth?» chiedo in un sussurro, intimidita.

Mio fratello sospira, si lascia cadere nello spazio accanto a me e poi si porta le mani dietro la nuca, tendendo i muscoli intorpiditi.
«Gli ho detto di tornare a casa.»
Trattengo a stento una risata nervosa. Mi pare una cosa così ridicola, impossibile; mi fa strano pensare che se ne sia potuto andare senza sapere le reali condizioni di Charlie, senza averlo visto, avergli parlato o... senza avermi cercata - però fino a prova contraria non è qui, per questo mi lascio sfuggire un'altra domanda.
«E lo ha fatto davvero?»

Jace sbuffa ancora, sembra stanco di doversi occupare e preoccupare di me. Improvvisamente mi pare di essere un peso per lui. Sono il prurito che non riesce a grattarsi, il sassolino che non può togliersi dalla scarpa - ed è la prima volta che mi fa sentire di troppo, anche se non riesco a capire se sia solo una mia impressione o la realtà.

Si passa le mani in viso, strofinando gli occhi.
«Non lo so. Non credo, però.»
«Okay, ma-» Mi interrompe.
«Jay, basta.» Quando i nostri sguardi si incontrano scopro nel suo un'insofferenza palpabile. E' stanco e nervoso. E vorrebbe che l'ultimo dei suoi problemi fossi io. «E' stata una nottata pesante. Io... sono distrutto, davvero» continua, gonfiandosi il petto e allontanando gli occhi, quasi gli stia costando troppa fatica guardarmi in faccia: «Voglio solo sapere come sta Charlie, capire se posso vederlo e chiedergli cosa cazzo è successo. Basta. So che Seth è a pezzi quanto me, credimi, ne ho la certezza più assoluta, però... non posso occuparmi anche di lui e delle sue stronzate.»
Sento le lacrime tornare a minacciare la sclera, così anche io distolgo lo sguardo dal suo viso, tornando a fissare il tè.
Non so cosa pensare, forse nemmeno voglio farlo, eppure mi è impossibile non chiedermi dove sia e cosa stia facendo Morgenstern ora - ma soprattutto perché abbia ceduto alla richiesta di mio fratello. Che Jace gliel'abbia chiesto con la stessa rabbia che gli ho visto reprime al The Elder and the Moon? No, non penso - non lo avrebbe mai fatto viste le circostante. Inoltre, prima, in un corridoio così simile a questo seppur meno affollato, li ho visti abbracciarsi, si sono stretti l'un l'altro e hanno gioito insieme come sempre, ebbri di un sollievo che io ho condiviso con me stessa e nessun altro, seppur mi sarebbe piaciuto - così allungo una mano, cerco quella di lui. Trovo il dorso da qualche parte nei pressi della coscia e allora, un po' titubante, l'afferro intrecciando le dita con quelle di lui. Mi ci vogliono pochi secondi per stringerle sempre più forte, tanto d'arrivare a chiedermi se i nostri palmi possano fondersi insieme. Sono qui, che mi aggrappo a lui per chissà quale motivo e poi, senza preavviso, Jace mi tira a sé, mi costringe nell'abbraccio che ci siamo negati per orgoglio, paura e chi può dire quali altri motivi - perché prima di me ha dovuto consolare Molly, poi esultare con Morgenstern e infine... non ne ho idea.
Nel muovermi malamente verso di sé, mio fratello fa straripare un po' di tè dai bordi del bicchierino che sorreggo. Il contenuto scivola bollente sulle mie falangi, finendo col gocciolare a terra e formare tante piccole chiazze ambrate - eppure non me ne curo, esattamente come per tante altre cose. Tutto ciò che in questo frangente riesco a realizzare è il profumo di JJ, il calore del suo petto, il modo in cui la mia fronte gli si incastra alla perfezione tra il collo e la spalla.

«Inoltre,» sussurra: «ho bisogno di stare un po' con te, ora.» Sento il viso di lui poggiarsi accanto alla testa, cerca di sprofondare nei miei capelli, di nascondersi in qualche modo dal resto del mondo - e lì, in quello che pare diventare l'unico rifugio sicuro per lui, odo il suo respiro farsi greve. Il torace di Jace si gonfia a ridosso del mio e la lieve vibrazione che ne segue mi fa capire per quale ragione si stia celando da tutto ciò che ci circonda.

Non avrei mai immaginato le sue lacrime così calde.
Mentre mi bagnano i capelli e inumidiscono la pelle che vi sta sotto, mi pare di sentirle bruciare più del tè che mi si è rovesciato addosso. Scottano, feriscono, fanno male. Piano piano erodono il corpo per cadere a pioggia sull'anima, su quella cosina tremante e rannicchiata che mi grida di essere una persona orribile. E non nego che vorrei nuovamente vomitare fuori quel poco che mi resta nelle viscere. Vorrei liberarmi dello schifo che mi rendo conto starle accanto, danzandole attorno e puntandole il dito contro - perché ho fatto del male a tutti, dal primo all'ultimo. 

E nessuno di loro se lo merita.

Charlie in primo luogo.
Perché anche se l'ho odiato, inveendogli contro per avermi abbandonata, non era questo che volevo gli accadesse. Nemmeno nelle situazioni peggiori gli avrei augurato qualcosa di così terribile.

Neanche Jace, con cui ho litigato per mesi, alternando silenzi a litigi, si sarebbe meritato di soffrire in questa maniera. Lui, che ha solo cercato di proteggermi, è finito nel mezzo di questa storia, dei miei sbagli e dei miei capricci. Se sapesse la verità, se conoscesse tutte le dinamiche che ci hanno condotti qui, probabilmente mi odierebbe - e non lo biasimerei -, così mi stringo con più forza al suo petto, mi schiaccio quasi potessimo diventare un tutt'uno.

«E' passato, JJ, okay? Va... va tutto bene ora. Presto potremmo vederlo, parlargli, abbracciarlo fino a stritolarlo e... starà bene, ne sono sicura.» Mio fratello tenta malamente di trattenere una risata nervosa, con la mano libera mi afferra la nuca, poi dopo qualche secondo inizia ad accarezzarmi i capelli.
Nonostante sia lui quello che sta crollando, ormai logorato sino alle ossa dalla tensione, Jace continua imperterrito, e forse involontariamente, a voler consolare e proteggere me. Qualsiasi tentativo io faccia per invertire i ruoli, lui lo manipola, tornando ad avere il controllo - ma in questo momento, per la prima volta, nessuno dei due pare realmente consolabile.


 

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Capitolo 5
*** Chapter Three - Part Two: The one to blame ***




Chapter Three
§ The one to blame §
part two

 

"Love, I have wounds

Only you can mend
You can mend oh oh oh
[...]

Feel, my skin is rough
But it can be cleansed
It can be cleansed, oh oh ohAnd my arms are tough
But they can be bent
They can be bent
And I wanna fight
But I can't contend"

Can't PretendTom Odell

Apro gli occhi su un soffitto bianco latte, sentendo un peso familiare schiacciarmi contro il solito materasso che sa di casa, ma non di conforto. I raggi del sole entrano dagli spazi tra le tende, vi si riflettono sopra timidamente, ed io mi chiedo quanto e se ho dormito, esattamente come ieri - non nego di star ancora cercando una risposta. Queste due notti mi hanno sfiancata, facendomi perdere la cognizione di ogni cosa. Tra insonnia e incubi mi sono rigirata nel letto senza sosta, ho contato pecore e minuti, ho guardato in lontananza le foto appese alle pareti, lo schermo troppo luminoso di un telefono troppo silenzioso. Ho cercato il calore che sento mancare nelle coperte spesse, tra i cassetti dove conservo magliette rubate, prestate, richieste - tutto inutilmente.
Mi copro il viso con il braccio, incastrandomi nella piega del gomito e sospiro, esausta. Tutta questa situazione sta diventando estenuante.

Gli incisivi affondano nella carne del labbro, premono, ma ciò che ne ricavo è un fastidio che non riesce a distrarmi.

Sono passate settantadue ore da quando abbiamo fisicamente lasciato i corridoi del Queen Charlotte's and Chelsea, eppure la mia mente è rimasta lì, fremente. Osserva la porta verde salvia che divide la sala d'attesa dal pronto soccorso e aspetta, ansiosa, di poter varcare quella soglia per correre incontro a Charlie - ma non si può, né con la fantasia né con il corpo. I medici non ce lo permettono, dicono che è troppo presto, lui ancora troppo debole. Così restiamo aggiornati attraverso le brevi telefonate che Molly fa a Jace, raccontandogli che i momenti di veglia del figlio durano giusto qualche minuto e nell'arco di una giornata si possono contare sulle dita di due mani, quando va bene. Per quello che sappiamo, Charlie spesso si sveglia digrignando i denti, supplicando per degli anti-dolorifici; altre volte, più sporadiche, è troppo stanco per riuscire a dire più di qualche parola.
Non riesco nemmeno a immaginarlo. O più probabilmente non voglio, perchè mi uccide pensarlo lì, in quel letto che trasuda dolore, malattia e morte, che ha visto decine di altre persone prima di lui - alcune ben più fortunate, altre decisamente meno. L'aria, ogni volta che mi figuro il suo viso tumefatto, o il suo corpo costretto in bendaggi e sfigurato da lividi e punti di sutura, sembra rarefarsi a tal punto da potermi far cadere a terra, boccheggiante come un pesce strappato dal mare. Muoio lentamente sapendo di essere io il colpevole di tutto ciò - e se da un lato vorrei andare da lui, gettarmi in lacrime al suo collo e supplicarlo per il perdono, riversandogli addosso tutto ciò che ho provato, dall'altro vorrei sparire dalla sua vita, in modo da non potergli più fare alcun male.

Se lo merita, no? Dopotutto lui è bontà, gioia, amore...

Un singhiozzo, inaspettatamente, mi fa sussultare. Non riesco a fermarlo, esce di bocca prima che la volontà possa concepire cosa stia succedendo, e subito dopo sento le lacrime scendere ancora lungo le tempie. Svelte e calde si rifugiano tra i capelli, che ancora puzzano di quel sonno che non sono certa mi appartenga, per nascondersi, mortificate, vergognose.

Ogni volta che mi ritrovo qui, sola in questa stanza che mi pare stringersi su di me, come una gabbia, loro si palesano, ricordandomi ciò che vorrei dimenticare, cancellare, strappare dalla mente e dal tempo, riavvolgendo il nastro e tornando sul ciglio di casa Benton, in modo da lasciare un messaggio diverso.

Torna da me, sì, perchè ho bisogno di te più che di qualsiasi altra cosa al mondo.
Sali in macchina, raggiungimi, ma fallo pure con calma, che tanto ti aspetto. Hai capito, Charlie-boy? Io sono qui, non vado da nessuna parte perché l'unico posto in cui vorrei essere è tra le tue braccia, ora, gli direi proprio così.

Vomito un altro singulto, poi ancora uno. Mi tappo la bocca con la mano - e mentre il palmo soffoca il mio dolore, le unghie cercano di rompere la pelle della guancia, agganciarsi nella carne, e impedire alla voce di attirare qualsiasi persona presente in questa casa.

Non voglio che vedano.
Non voglio che chiedano.
Non voglio che sappiano.

Così resto nel mio letto a piangere ancora, come una vigliacca. Mi lascio intossicare da tutto ciò che ho fatto e provato in questi giorni, dalla colpa e dal dolore che non mi vogliono abbandonare, che sementano dentro di me mettendo radici. E da quel marciume nasceranno erbacce: cicuta, aconito napello, stramonio e abro che mi avveleneranno se Charlie non uscirà da quel fottuto ospedale e con le sue mani le sradicherà dal mio intestino.

Ma non so quando accadrà. Non ho date precise, sicurezze a cui aggrapparmi; e forse quando finalmente i nostri occhi si incontreranno ancora sarà già troppo tardi, il mio animo sarà sfigurato per sempre - e sarebbe la degna ricompensa per il casino che ho creato, giusto?

Toc toc.
Qualcuno d'improvviso bussa, io sussulto.
Le unghie finalmente riescono a graffiare sul serio, sono certa abbiano lasciato lievi mezzelune ai lati della bocca perché avverto il fastidioso bruciore dei tagli a fior di pelle - dovrò trovare un modo per nasconderli, non posso permettere che notino quanto stia andando a fondo.

«Tesoro?» La voce di mia madre giunge flebile da oltre la porta. «La colazione è pronta, se...» la sento titubare appena, incerta anche lei su come sia giusto comportarsi. E come biasimarla? Non era preparata a trovarsi in mezzo a una situazione come questa, nemmeno se lo sarebbe immaginato, ma nella mia visione egoistica delle cose, in un altro momento, forse lo avrei preteso. Oggi non credo di averne le forze, sono troppo occupata a combattere con me stessa.
Catherine non ha fatto nulla di sbagliato, sta provando a tamponare le ferite, seppur con dei mezzi del tutto privi di efficacia. Di punto in bianco si è trovata due dei suoi figli fatti a pezzi da una tragedia mancata. Li ha visti uscire felici, pronti per festeggiare, e poi è finita con l'andare a prenderli davanti ai cancelli di un ospedale: gli occhi gonfi, le guance segnate, i cuori torturati.
Nemmeno sforzandomi potrei incolparla per la sua ignoranza.
«Beh, se ti va di unirti a noi...»

Deglutisco a fatica, sforzandomi di togliere il braccio da davanti agli occhi.
Nuovamente il bianco del soffitto si palesa di fronte a me, mi assale. Più lo guardo, più sembra calare verso di me.

«Sì, arrivo» rantolo per inerzia, incapace di capire se sia davvero quello che voglio o meno. 

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Capitolo 6
*** Chapter four - part one: Not strong enough ***




Chapter Four
§ Not strong enough §
part one

 

"I feel heavy, I feel weighted
And I feel hungry, I feel wasted
Oh, I can't put my finger on my feelings
Put my ear to the ceiling, where is that coming from?
Where are you coming from?I'm just waiting for the walls of my insides to come clean
I've been praying for the day that my spirit is finally free
Some days it feels like the ocean lies inside of me
Lies inside of meAnd I feel paralyzed, been cut down to size
I hardly have the strength, to open up my eyes
'Cause I am swollen, and this has stolen my sanity
Well it's hard to see beyond this when it's fighting against me"

 

- Tonight Alive, The Ocean

 

Quando varco la soglia della cucina gli occhi di tutti mi cadono addosso al pari di macigni. Li sento colpirmi, gravare sulla pelle e, per un solo istante, avverto l'urgenza di allontanarmi il prima possibile dalla mia famiglia, quella che dovrebbe essere il "posto sicuro" in cui rifugiarmi e che, invece, mi sa tanto di gabbia. Persino loro, in questi giorni, mi fanno sentire come una sorta di fenomeno da baraccone, eppure sono certa che non abbiano la più pallida idea di cosa mi stia passando per la testa, i segreti che nascondo. Nemmeno si immaginano i casini che ho combinato, i rapporti che ho messo a rischio - però mi fissano, curiosi e preoccupati.

Mi siedo in silenzio, lenta, ricambiando i saluti di Liz e papà con un sorriso appena abbozzato e del tutto forzato per sedare il loro interesse e, nel farlo, noto che a tavola manca solo JJ. Se mio fratello non è qui può essere solo in altri due posti: camera sua, o casa Benton.
A differenza mia, infatti, lui sa alla perfezione di non dover anteporre il proprio stato d'animo ai bisogni di Thomas e Molly, a Charlie - sa come comportarsi, cosa fare, mentre io resto a crogiolarmi in questa sorta di autocommiserazione di cui, a essere onesti, farei volentieri a meno. Jace sa come mantenere l'autocontrollo, lo ha dimostrato più volte. Lui è abbastanza maturo da riuscire a gestire le proprie emozioni, quando gli viene richiesto, ed io, invece, non posso dire altrettanto.

Catherine mi passa accanto porgendomi una tazza di tè. Si sofferma alle mie spalle per qualche istante e, mossa da chissà quale istinto materno, mi deposita una carezza sui capelli: «Come stai, oggi?»
Vorrei non doverle rispondere. Anzi, mi piacerebbe che nessuno, fino a quando non avrò parlato con Charlie, mi rivolgesse questa stupidissima domanda, peccato che non mi sia concesso simile potere.

Afferro la ceramica con le dita. Scotta abbastanza da darmi fastidio, così aumento la stretta: «Okay, tranquilla.» Ma non è vero e sono lieta che mio fratello non sia qui per poterlo notare - perché a lui certamente non sfuggirebbero le occhiaie, lo sguardo spento, la tensione in ogni sorriso. Riconosce le mie menzogne quasi fossero sue.
«Sai che ci siamo, se-» la interrompo prima che possa uscirsene con qualche frasetta da film, finta, inutile.
«Non ti preoccupare, lo so.»
I nostri sguardi si incrociano giusto per qualche istante, poi torno a fissare il tavolo nella speranza di lasciar cadere la conversazione altrove, lontano da qualsiasi cosa possa affamare gli incubi che mi perseguitano la notte facendomi rivivere a oltranza quella chiamata, la notizia, il senso di soffocamento, la corsa a perdifiato e poi l'attesa, l'estenuante staticità in cui avrei voluto avere la forza per pregare qualsiasi Dio di non strapparmi Charlie dalle braccia.

Involontariamente mi ritrovo quindi a stringere con più forza la tazza, tanto che i polpastrelli bruciano e le nocche si sbiancano - chi si romperà per prima, le mie ossa o la ceramica?
Sto per scoprirlo, sento una delle due cedere, ma prima che succeda un rumore mi distrae da ogni pensiero. Mi ritrovo così a sussultare sulla sedia e per poco mi rovescio addosso il tè, rischiando di scottandomi. Torno con brutalità alla realtà, un luogo dove mio fratello appare inaspettatamente. Ha il viso paonazzo, la fronte imperlata di sudore e i vestiti da running stretti addosso, ma dalla sua espressione non trapela nulla: è stanco come sono io, arrabbiato, preoccupato o... non riesco a capirlo, a dire il vero non mi soffermo a sufficienza per farlo - vorrebbe dire dare anche a lui la possibilità di capire me.

Jace bacia mamma sulla guancia, rubandole dal piatto che ha davanti un biscotto: «Buongiorno, famiglia!» saluta poi, allegro. C'è però qualcosa di strano nel tono con cui pronuncia queste parole, una screziatura che mi fa irrigidire. Nella sua voce mi sembra di udire una nota eccessivamente acuta, cristallina, un'emozione così forzata da risultare tagliente come vetro - e ho la certezza che mi potrà ferire se non sto attenta, anche se è fragile e può andare facilmente in mille pezzi se colpito nel punto giusto. Così, mossa dal mio latitante istinto di autoconservazione, cerco di non attirare la sua attenzione, in modo da evitare di farci male a vicenda. Il rischio dopotutto è reale, conosco entrambi a sufficienza da sapere che siamo in grado di uccidere -, peccato che JJ sembri ricercare il brivido di questo pericolo, anelare a un contatto, bramare l'adrenalina prima del fendente.
Mi si siede accanto come se nulla fosse e per qualche istante i suoi occhi mi si soffermano addosso indagando l'espressione, poi, dal nulla, una sua mano mi si deposita sul ginocchio. Lo sento stringere la rotula fino a farmi credere che i nostri corpi si possano fondere e, come un lampo, comprendo che ha capito qualcosa, oppure vuole che sia io a farlo.

«Allora, novità su Charlie?» La lingua di Liz pare schioccare a ridosso dei timpani, mi fa sussultare come un petardo che scoppia alle spalle - e Jace lo nota, aumenta la pressione quasi stia cercando di tenermi ferma. Sta forse temendo una fuga?
Beh, fa bene. Se dovessi essere del tutto onesta in questo momento vorrei alzarmi e andare via, chiudermi in bagno e respirare l'aria a pieni polmoni, in modo da soffocare le possibili lacrime; però non ne ho la possibilità, lui non me la dà, così punto i gomiti sul tavolo e resto in attesa del filo del coccio di vetro sulla pelle. Quanto brucerà sentire la risposta di nostro fratello? Quanto sarà lungo il taglio sulla mia coscia?

«Meglio di ieri e peggio di domani, direi, ma sta comunque migliorando.»
Il cuore mi si stringe, lo stomaco si chiude. Avverto la punta del pericolo fare avanti e indietro, cadenzare l'attesa, scegliere il punto in cui affondare.
«Quindi ora potete andare da lui?» mia sorella continua imperterrita, ignara di quanto una conversazione così innocente, al momento, sia per me difficile d'ascoltare.
Jace allenta la presa, ma non mi molla del tutto: «No, non ancora. Per adesso solo Molly e Thomas hanno il permesso di entrare nella sua stanza. I medici dicono che si affaticherebbe troppo, altrimenti. Vogliono che resti tranquillo e... beh, Seth ed io abbiamo concordato di rispettare questa volontà.»

Mordo il labbro. Con gli incisivi tiro la carne, la torturo.
Non sapevo avessero ripreso a parlarsi.
Non immaginavo mi avessero nuovamente esclusa.

Tra me e mio fratello ci sono stati pochi scambi, qualche suo fallimentare tentativo di farmi sfogare e ora questo, nulla più, mentre l'unico contatto avuto con Morgenstern è stato un suo messaggio: "So che stanotte non dormirai, ma provaci, te lo chiedo per favore". Nessuno dei due ha cercato d'imporre la propria presenza per adesso, forse ancora troppo agitati, ma nonostante io non sia certa di volerli accanto a me, ci sono istanti in cui non vorrei far altro che aggrapparmi a loro e piangere, gridare, farmi male.

A Seth comunque avrei voluto rispondere, lo giuro, ma più tempo passavano a fissare lo schermo del cellulare, più la mente si svuotava - c'è una crepa tra noi, esattamente come mi sembra ci sia con Jace, ma non so se sia per colpa di ciò che è successo tra lui, Charlie e mio fratello, o per ciò che ho fatto io, per questo dolo che mi logora da dentro e che temo di confessare.

«Oh, quindi avete fatto pace?»
Ancora una volta non sa tenere la bocca chiusa, dice a gran voce ciò che JJ ed io abbiamo cercato di contenere, così Catherine si mette in mezzo: «Perchè, avevate litigato?» e mio fratello di tutta risposta tira un sorriso per evitare di far sembrare la questione complicata.
Ora lui si bagna le labbra nello stesso mio modo, passa la lingua svelta sulla carne secca e la tira appena con i denti: «Al momento abbiamo cose più importanti a cui pensare» taglia corto, forse a disagio, ma come sempre la nostra famiglia non riesce a tenere il naso fuori dalle questioni altrui.
«È per via della sua frequentazione con Jane? No, perchè ormai tua sore-»
Picchio un pugno sul tavolo facendo sussultare tutti e, non lo nego, mi ritrovo a rimpiangere sin da subito questo gesto, la mancanza di autocontrollo o raziocinio con cui ho brutalmente messo a tacere mamma - già, perché ora i loro occhi sono sgranati, puntano nella mia direzione quasi stessero guardando una pazza.
«Non credo siano affari vostri» bofonchio, sentendo l'imbarazzo e l'agitazione arrossarmi le gote.
E se fino a questo momento Catherine era riuscita a non comportarsi come suo solito, dandomi tregua, ecco che torna a essere la consueta sè.

«Davvero? Signorina, Jace fa ancora parte di questa famiglia, sai? E se succede qualcosa del gen-» ogni sua parola sembra pizzicarmi con sempre più fastidio. La pelle mi si irrita, la smorfia mi si contorce e sono certa, esattamente come lo sono di essere sul punto di un tracollo, che la cosa non finirà bene. Più lei insiste con questa paternale, più stringo i denti e la presa sulla tazza. Stavolta cederà davvero e i cocci che mi ritroverò in mano non saranno dolorosi come ciò che mi uscirà di bocca.
Ciò che temo, è che con la sua insistenza possa toccare tasti dolenti, che tra una frase e l'altra riesca a farci dire qualcosa di compromettente: il fatto che sia rimasta più volte a dormire da Seth, che lui abbia tradito la fiducia di JJ e l'amicizia con Benton, oppure che nel cercare di fare a pugni con mio fratello abbia procurato a me un occhio nero - e allora sì che le cose si farebbero complicate.

D'improvviso sento la voce di papà in sottofondo, fa capolino nel discorso cercando pacatamente di mettere fine allo sproloquio della moglie, alla sua sequenza di concetti a tratti sconclusionati - forse lui lo ha notato, forse si è accorto che sto ancora camminando sul bordo del precipizio da cui credevo di essermi allontanata la notte dell'incidente a Charlie. E se fosse davvero così dovrei realmente rivalutare anche la mia capacità di ovviare i discorsi e le situazioni.
Mamma dal canto suo dimostra di non averlo fatto, di essere cieca di fronte a qualsiasi cosa io stia passando. Continua imperterrita a muovere la lingua e rigurgitare parole arrivando persino ad accusare il marito di essere troppo buono con me, di non affrontare i problemi di casa come è giusto che sia, insieme. Come può non interessarsi alla vita del maggiore dei suoi figli? Come può non capire JJ e le sue paure? Come può permettermi di far dormire un ragazzo nel mio letto senza prima aver chiesto il permesso? Come può non accorgersi che sto diventando sempre meno rispettosa nei confronti di questa famiglia?

Fatico a capire come dalle vicissitudini di mio fratello sia riuscita ad arrivare a me, la mia insolenza, inadeguatezza e tutto il resto. Non comprendo come d'improvviso il fatto che io sia fidanzata sia un problema - così, colta da chissà quale altro moto di sconsideratezza, mi alzo in piedi nel bel mezzo della discussione.
Non riesco a sopportare nulla in questo periodo, figurarsi le scenate di mamma.

Ancora una volta batto il palmo sul tavolo e digrignando i denti mi ritrovo quasi a ringhiarle contro: «Ogni tanto riesci a capire che NULLA di tutto ciò ti deve interessare?! Sono EMERITI CAZZI MIEI, Cat!» senza preavviso mi volto verso Liz, la guardo probabilmente con la stessa rabbia riservata a nostra madre; dopotutto è stata lei a dire la cosa sbagliata, lei a mettere zizzania. Ed ecco che nuovamente sputo: «E DANNAZIONE! Tu sai tenere la bocca chiusa? O vuoi anche far presente a tutti che lui e Jace si sono presi a pugni in questa casa? Eh?!» Mi protraggo un poco verso di lei, la minaccio: «Beh, sai che c'è? Ti tolgo l'impiccio! Così per una volta la smetti» punto l'indice in direzione di Catherine: «di essere uguale a lei!»

Sento una sedia strisciare sul pavimento, con la coda dell'occhio vedo papà alzarsi. Sta per tirarmi una sberla, ne sono certa. Stavolta ho davvero superato qualsiasi limite - e allora mi preparo, lo fronteggio. I nostri occhi si incontrano, nei miei c'è già la minaccia del pianto; e allora provo a rendergli tutto più semplice.
«Vuoi punirmi? Fallo. Ti prego. So perfettamente di essere una stronza egoista e-»
Il colpo arriva, ma certamente non me lo immaginavo così secco, violento, inclemente. Forse in un angolo recondito di me ho persino sperato che non arrivasse, che fossero solo i timori di una bambina un po' troppo cresciuta, ma a quanto pare non è così.

La prima lacrima scende fin troppo velocemente. Scivola lungo la guancia e cade a terra, permettendo al mio petto di gonfiarsi come il pallone di una mongolfiera. Chissà se ora, gettandomi nel precipizio, potrei evitare di cadere.

Jakob si rimette seduto.
«So che stai passando un momentaccio, Jane, esattamente come tuo fratello, ma questo non ti dà il diritto di non aver considerazione per la mamma ed Elizabeth.» Io deglutisco, lui continua: «Stiamo cercando di starti vicino, ma non se queste sono le tue condizioni, sappilo.»

Annuisco, ma non so bene per cosa.
Forse per confermargli che ho sentito le sue parole. Forse per dirgli che ho capito, che sono pienamente d'accordo con lui. Forse mi sto solo evitando di pensare a qualche altra cattiveria da vomitare sui piatti della loro colazione - non ne ho idea e men che meno voglio soffermarmi sulla questione per capirlo.

Il silenzio intorno a noi si sta facendo pesante, prova a schiacciarmi a terra obbligandomi a restar qui e affrontare l'umiliazione - peccato che non ne abbia voglia, che sia già abbastanza provata da tutto il resto. Così prendo un grosso respiro e, un passo alla volta, mi dirigo verso l'atrio. Arrivo all'attaccapanni con la stessa coscienza di un automa, incapace di capire veramente quali siano le mie intenzioni e, qui, prendo dal mucchio di vestiti la mia giacca.

Devo uscire.
Ho bisogno d'aria.

Da qualche punto alle mie spalle Catherine mi chiede cosa stia facendo, dove voglia andare, ma non le rispondo. In questo preciso istante non ho idea di cosa potrebbe sfuggirmi dalle labbra - e direi che uno schiaffo è più che sufficiente per ora.

Indosso la giacca sopra a quello che è stato il pigiama della notte passata e senza voltarmi infilo le scarpe che ho abbandonato vicino alla porta insieme a quelle dei miei fratelli. Non mi premuro di allacciarle, men che meno mi preoccupo di prendere altro. Ho tutto ciò che mi serve: il cellulare nella tasca della felpa, sul viso il segno vivido della mano di papà e negli occhi le lacrime che non riesco più a fermare.
Non ho bisogno di nulla più di questo, o forse...
Esito appena.

Ancora una volta, preoccupata, mamma prova a chiedermi qualcosa, forse cerca di persuadermi a restate, peccato che la sua voce a un tratto paia scomparire dalle mie orecchie.
Se nemmeno Jace prova a fermarmi, allora non ho motivo di restare.
Così chiudo le parole di Catherine dietro la porta di casa. La lascio lì insieme al resto.

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Capitolo 7
*** Chapter four - Part Two: Not strong enough ***




Chapter Four
§ Not strong enough §
part two

 

"Ehi, calmati ti ho detto guardami
È finito il tempo di nascondersi dietro quegli angoli
Adesso dimmi dove corri e perché ansimi
Non l'hai mai visto chi ha ballato coi fottuti diavoli
Chi è cresciuto con sogni forti e mani fragili"

 

Lividi sui gomiti, Måneskin

 

La sua schiena non mi è mai parsa così curva. Esile. La osservo per pochi secondi, giusto il tempo che impiega per fuggire dalla discussione e, istintivamente, avvertendo l'urgenza di alzarmi, afferrarle le spalle e stringere la sua colonna vertebrale a me. Ne ha bisogno. O forse ne ho più bisogno io. Eppure nonostante questo bisogno si sentirla vicina, di sfiorare insieme gli stralci di paura che ci sono rimasti incastrati tra le costole come ragnatele non lo faccio, esattamente come quando l'ho trovata nella reception dell'ospedale, con gli occhi gonfi e sgranati, i vestiti messi malamente e il puzzo di vomito a raccontare di tutto il male da cui non sono riuscito a salvarla. Anche quella volta avrei dovuto abbracciarla, permetterle di aggrapparsi a me, sostenerla per sostenermi e sorreggerci entrambi, ma non l'ho fatto. In qualche angolo recondito di me, guardandola, ho pensato che Jay stavolta non fosse la vittima, né la principessa da salvare.
Così resto fermo sulla sedia, abbasso lo sguardo e mi chiedo: perché, seppur voglio rincorrerla, le mie gambe non si muovono? Per quale motivo vorrei che fosse lei a girarsi, a cambiare idea, chiedere scusa?
Forse è perchè non mi ha ascoltato. Sin dal principio si è tappata le orecchie, mi ha ignorato pur conoscendo solo una misera parte di ciò che mi spingeva a metterla in guardia da... qualsiasi cosa. Forse è per via del fatto che non si è mai realmente soffermata a guardare ciò che aveva intorno. Forse è perché vorrei che fosse lei la prima a...

«Sta prendendo una brutta piega, tesoro.»
Sussulto.
Con le braccia incrociate mamma sta scuotendo la testa, incredula. Mentre parla non fissa nessuno, ma è ovvio che si stia rivolgendo a papà. «Io... insomma, non possiamo più far correre simili atteggiamenti. Questa volt-» è se le gambe non vogliono muoversi, la lingua pare avere ancora la forza per agire. So che mia sorella ha esagerato, dannazione, lo fa sempre, eppure stavolta non posso dare alcuna ragione a Catherine, lei non ha idea di ciò che stiamo passando. Può immaginarlo, certo, ma viverlo è tutt'altra cosa - e Jane è fottutamente emotiva, ogni cosa la colpisce e le rimbomba dentro al pari di una goccia che cade nell'acqua; peccato che sia dieci, cento volte più intenso.
«E' solo turbata, okay?» stringo le mani, serro le dita sui dorsi: «Capisco che voi non abbiate alcuna colpa e che state solo provando ad aiutarci ma-»
«Tu non mi sembra stia reagendo come tua sorella, o sbaglio?» Mamma mi guarda, prova a metterci nuovamente sullo stesso piano, peccato che non sia possibile; perché per quanto simili io e Jay non siamo uguali. Le mie spalle sono nettamente più grandi delle sue, mi sono allenato giorno dopo giorno per poter sorreggere lei e Liz al meglio, per essere il fratello maggiore che si meritano.

«Lei è diversa, mamma.»
«Sì, lo è. Lo è, Jace. E' sboccata, irriverente, negligente... per non parlare della poca considerazione che ha di noi. Sia tuo padre che io-»
Digrigno i denti, prendo un respiro profondo e provo a non perdere la pazienza.
Non sopporto di sentirle dire certe cose. Può essere nel giusto, ma ciò non toglie che vi siano molti più pregi che difetti in mia sorella.
«Charlie è quasi morto, mamma! Vuoi capire che per Jane è stato come essere buttata giù da un precipizio? Sì, può essere un'adolescente ribelle, ma ciò non toglie che fin quando lui non sarà dimesso lei vivrà in uno stato di calma apparente. Lo siamo entrambi e... sinceramente? Non è di voi che abbiamo bisogno, ora.»

Ci guardiamo. Ho il fiato corto, ma non so se sia dovuto all'agitazione del momento o dall'esercizio fisico interrotto da poco. Nessuno dei due sa più cosa dire, anche se conoscendo Catherine sarebbe pronta a continuare questa discussione a oltranza, aggrappandosi a chissà quale concetto privo di attinenza. Ogni tanto il suo bisogno di imporre la propria autorità supera il buon senso, non le piace rendersi conto di avere in casa dei quasi adulti, per lei dovremmo restare i suoi bambini. Un po' la capisco. Se fossimo ancora i pargoli di qualche anno fa potrebbe proteggerci dal male, dalle cazzate con qualche ramanzina o bugia, ma non è così, adesso tutto ciò non ha più effetto. Ed è per questo che Jay scoppia, crepita, fugge; è per questo motivo che io sono andato via, che l'ho presa per mano e l'ho introdotta in quello che credevo fosse comunque un luogo sicuro con o senza me.

Papà tossisce, spezza il silenzio.
«Il mondo non gira intorno a lei, Jay Jay. Le stiamo dando i suoi spazi, non le mettiamo fretta o pressione, ma c'è un limite a tutto. O parla con noi in modo civile, si rende conto della situazione, o ci saranno delle conseguenze.»

Contraggo la mascella, abbassando nuovamente lo sguardo su un punto indefinito tra le mie scarpe.
 


 

 

Yaga:
Buonsalve lettori <3

eccomi di ritorno con un nuovo aggiornamento, il primo che segna la differenza tra "i Diari di Jay" e "Frammenti di Diari". Stavolta a farci compagnia è il pov di Jace, che nella versione originale arrivava un po' dopo. Ovviamente, avendo aggiunto tutta una nuova parte introduttiva a questo sequel, ho dovuto far slittare in avanti queste piccole chicche che, mi auguro, siano di vostro gradimento.
Come avete potuto notare, si tratta di un capitolo davvero misero, ma spero fortemente che con il prossimo, tornando a Jay, si avrà più materiale con cui intrattenervi.

Per ora vi auguro un buon proseguimento di giornata e incrocio le dita per poter presto aggiornare anche "Le Chimere di Salomone" e "Miss Bahun", i cui capitoli mi aspettano incompleti da settimane!

 

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Capitolo 8
*** Chapter four - Part Three: Not strong enough ***




Chapter four
§ Not strong enough §
part three

 

"Cut open my heart
Right at the scar

Listen up
Gonna do what I'm told
Go where I'm told
And listen up
Take a shot in the rain
One for the pain
Listen up
I tried all the way"

- Wait for me, King of Leon

 

Caroline non risponde. Più resto in attesa su una linea telefonica che sembra suonare a vuoto, più mi chiedo se e quando vedrà le mie chiamate. Sono al terzo tentativo per adesso, ma le ho anche inviato un messaggio per essere sicura che sappia che l'ho cercata. Ho bisogno di una spalla su cui appoggiare la tempia, una mano che lenta mi scivoli tra i capelli accarezzandomi la nuca. Ho bisogno di liberarmi dal peso che mi opprime e lei potrebbe essere l'unica a riuscire a sorreggere questo male con me. O almeno questo è quello che credo. Jace ha già dimostrato di essere la persona sbagliata al momento, Liz invece non può capire e Seth... beh, con lui c'è ancora un invalicabile muro invisibile che ci divide, una barriera di cose non dette, di timore e chissà cos'altro. Ed io volontariamente ho deciso di non confrontarmi con lui anche se so che c'è, che è lì in attesa di una mia mossa, di capire. Lo ha scritto in quel messaggio che conservo gelosamente e che ogni tanto rileggo nell'intimità della mia stanza nascondomi sotto le lenzuola in cui, solo qualche settimana fa, abbiamo dormito insieme. Ogni tanto mi pare persino di cogliere il suo profumo tra le pieghe del cotone e quando succede mi ci aggrappo nella flebile speranza di ritrovare lui. Ma non è il giusto. Non lo sarà fin quando non avrò sistemato tutto il resto.

Mentre Londra mi scorre accanto, veloce e caotica come sempre, poggio le dita sul vetro gelido del finestrino. Ho preso un autobus diretto dove non dovrei andare, ho morso le labbra tanto da farle sanguinare e ogni volta che ci passo sopra la lingua sento un bruciore lieve scuotermi, eppure non smetto. Ritmicamente torno a torturarmi come una tossica che consapevolmente si fa del male cercando l'ebbrezza di una dose - magari così facendo arriverà il momento in cui riuscirò a prendere coscienza della realtà, a reagire ed essere forte a sufficienza d'affrontare i miei demoni.

Socchiudo le palpebre e sento le tempie pulsare.

Forse Caroline è agli allenamenti di danza, constato provando a ricordare gli impegni segnati sulla sua agenda. Oppure ha accompagnato la madre e la sorella da qualche parte; in fin dei conti ora che la scuola è finita non ha molte scuse per evitarsi gli impegni familiari, così ciclicamente ci finisce in mezzo. Inoltre, visto che io sono in questa condizione di autocommiserazione e disperazione, chiusa in me stessa come mai prima, le sue vie di fuga si sono ridotte all'osso.
Deglutendo questa consapevolezza ritorno a guardare il panorama al di là del vetro. Non riconosco questi edifici, i negozi che passano svelti uno dopo l'altro; non riesco a dare un nome alle strade, eppure so di essere vicina. Me lo sento nelle membra nonostante abbia smesso di contare le fermate dal momento in cui il mio culo si è spostato dal sedile della metro a quello su cui mi trovo adesso, di certo più comodo ma non meno lercio.
Stanca sposto lo sguardo sullo schermo led che torreggia sopra la testa dei passeggeri.

Ancora tre stop.
Solo tre stop.

Forse Caroline è con Misha, valuto tornando a riflettere sugli impegni della mia migliore amica. Già, direi che è una possibilità più che plausibile, quindi perché non ci ho riflettuto prima?
Nuovamente alzo il cellulare davanti al viso, apro la rubrica e scorro tra tutti i contatti fino ad arrivare a quello della ragazza che una volta era la mia nemesi.
Posso chiamare lei, penso. Posso chiederle di Caro, farmela passare e supplicarla di venirmi a prendere prima di fare una sciocchezza - o piuttosto farmi supportare in caso non sia una decisione tanto ridicola - così pigio sull'icona verde accanto al suo nome e mi porto poi il telefono all'orecchio.
Ho lo stomaco stretto in una morsa lieve, l'agitazione mi attanaglia in quel suo modo quasi familiare, eppure non ho alcuna idea del motivo per cui sia così nervosa.

Il suo telefono suona una volta.
Lo fa ancora.

Probabilmente non risponderà nemmeno lei, soprattutto se sono insieme. E come biasimarle? Solo qualche settimana fa lo avrei fatto anche io. Con Seth al mio fianco scordavo l'esistenza di ogni cosa e persona, anche quelle più importanti.
Di certo quelle due staranno passeggiando in qualche via affollata della City, oppure staranno guardando un film in qualche cinema di periferia. C'è anche la possibilità che stiano scopando a casa di Misha, al sicuro dalle critiche della madre di Caro e sopra lenzuola che costano più del mio intero guardaroba. Me le immagino strette l'una all'altra a sfiorarsi e ridere come il giorno in cui le ho beccate nei bagni della Saint Jeremy, eppure so che non dovrei. Ciò che fanno insieme dopotutto non è affar mio.

Un altro squillo si sussegue ai precedenti e involontariamente mi viene da pensare che sì, staranno certamente scopando su quelle lenzuola costose.

Ancora una volta mi mordo le labbra e il sapore del sangue mi pizzica la punta della lingua. Sono stata una sciocca a credere che avrei trovato conforto con tanta facilità, in fin dei conti la giornata era già iniziata male e non sarebbe mai potuta migliorare.

«Jay?»
La voce della mia coscienza mi chiama, così mi prendo la fronte con la mano libera. So già cosa vuole dirmi: "Jay? Non credi di essere un po' troppo pessimista?" No. Assolutamente. Se fossi davvero pessimista penserei a qualcosa che al momento non voglio nemmeno concepire, distruggerei la calma apparente in cui galleggio valutando gli scenari più avvilenti. L'ho già fatto e ogni volta mi sono ritrovata schiacciata tra le acque di un mare scuro fatto di colpa e dolore.
«Jay, ci sei?»
No. Anche se il corpo è qui la mente è altrove, si è persa da qualche parte nel deserto che sento vivermi dentro.
«Raven, se è uno scherzo vengo a prenderti per i capelli, mi hai capita?» Corrugo le sopracciglia. No, questa non è affatto la voce della mia coscienza, questa è... «M-Misha?»
«No, la fata turchina. Chi cavolo dovrei essere, scusa?»
Quasi mi sento sollevata nel sapere che è lei.
«Hai ragione. Io... mi spiace, ero distratta.» Passandomi una mano sul viso premo appena le dita intorno al mento. Devo ritrovare un minimo di lucidità, mi dico, non posso perdere coscienza di ciò che mi circonda con così tanta facilità. Sappiamo tutti che potrei finire con il fare qualcosa di pericoloso, come attraversare la strada senza guardare, se non mi do una svegliata. «Ti chiamavo per sapere se Caroline è con te.»
Dall'altro capo della cornetta sento sbuffare: «Vorrei che fosse così, credimi, ma purtroppo è alla gara di nuoto della sorellina.»
«Oh...» mi sfugge di bocca prima ancora che possa rendermene conto, e il silenzio che ne segue è pesante, si riempie della sua confusione e del mio rammarico.
«Avevi bisogno di lei?»
Mi lecco il taglio sulle labbra. Come previsto questa giornata sta andando di male in peggio.
«No, fa nulla, tranquilla. Mi arrangio.»
Ancora silenzio, stavolta però appare diverso. Non so quali sensazioni lo stiano colmando e a dire il vero è faticoso prestargli la giusta attenzione, così torno a stringere la pelle del mento. Non voglio pensare più del necessario, mi costa troppo. A dire il vero non devo pensare più del minimo indispensabile per non farmi investire, altrimenti potrei dire qualcosa di stupido, fare qualcosa di sbagliato. Dovrei limitarmi a salutare Misha e riattaccare, dopotutto ho chiamato per sapere di Caroline, per parlare con la mia migliore amica - e se lei non c'è è inutile che io disturbi una persona che di certo ha di meglio da fare che stare al telefono con me, così schiudo nuovamente le labbra, ma prima che possa biascicare un "ciao" lei mi precede.
«Dove sei?» La sua voce d'improvviso spacca il filone sottile dei miei pensieri, mi coglie alla sprovvista. Sento il cuore gonfiarsi insieme al petto, gli occhi bruciare. Perché d'un tratto mi viene da piangere?
Deglutisco provando a rimandare ciò che pare inevitabile. «Sul 70» le rispondo con un'innocenza disarmante, quasi lei possa capire dove sia diretta, quale tratta questa linea copra e perché io la stia percorrendo, eppure, sorprendentemente, lo fa. Nonostante il mio scetticismo Misha mi prende in contropiede.
«Che stai andando a fare là? Quante fermate ti mancano?» Sa davvero la tratta di questo autobus? Oppure per lei è così semplice leggermi nella mente? Forse la realtà dei fatti è che non me ne sono mai accorta, ma a differenza di tutti gli altri lei è quella che mi ha studiata di più, che mi conosce meglio.

Sento i muscoli del viso tendere con forza gli angoli della bocca verso il basso, piegarli in una smorfia che non vorrei assumere. L'arrivo delle lacrime è imminente, lo sento con l'appesantirsi del petto - ma non dovrebbe, non ora, non su un ammasso di latta pieno di sconosciuti o lontana da quello che è stato il mio rifugio negli ultimi giorni.

«Tre.»

Misha tace, soppesa le parole da dire arrivate a questo punto. Preferirei continuasse a parlare: se lo fa posso distrarmi, forse riuscirei a combattere meglio l'esigenza di singhiozzare. Lei però tutto questo non lo sa, così continua a restare in silenzio. Quasi certamente starà pensando a quanto sia patetica.

«Massimo mezz'ora e sono lì, okay?»
Alzo gli occhi al cielo, cerco di non lasciarmi sopraffare: «N-non preoccuparti, d-davvero. Non-»
«Ho detto che arrivo, chiaro?» il suo tono è deciso, non ammette repliche. Per un attimo è come se fossimo tornate tra i banchi delle aule che ci hanno viste crescere: «Chissà in che condizioni sei, santo cielo. Come minimo finisce che ti prendono per una paziente scappata dal reparto di psichiatria... Mi raccomando, Jay, aspettami alla fermata e non muoverti da lì finché non arrivo. Se non ti trovo ti mando a casa il conto del taxi, hai capito?»
Annuisco ignorando il fatto che lei non possa vedermi. Agito la testa svelta e mi copro la bocca con il palmo libero. Non so come dovrei reagire, forse sarebbe meglio ringraziarla e rifiutare questa sua gentilezza, eppure non ci riesco. Di gola non mi esce alcun suono.
«Jay?» Mi chiama ancora, forse per essere certa che l'abbia ascoltata. «Aspettami.»

 

***
 

Ed io lo faccio. Davanti ai cancelli del Queen Charlotte and Chelsea l'aspetto. Con il cuore stretto in gola, oppresso dalla mancanza di spazio per poter battere nella giusta maniera, osservo le finestrelle che danno sulla strada. Si assomigliano tutte, anche se alcune hanno le tende tirate e altre no. So di non essere dove lei mi ha detto di restare, però le gambe si sono mosse da sole. Non torno qui dalla mattina dopo l'incidente, eppure è come se non me ne fossi mai andata. In bocca sento ancora il sapore acido del vomito, sulle guance le lacrime secche.
Mordendomi il labbro osservo i rettangoli sulla facciata con il desiderio di potermi soffermare su uno di loro. Mi piacerebbe che gli occhi riuscissero a spiare oltre il vetro di ogni finestra per scorgere una sagoma familiare, un viso amico, uno sguardo a cui aggrapparmi con gioiosa disperazione, peccato che non abbia la più pallida idea di quale stanza sia quella di mio interesse. O meglio, ne conosco il numero, ma non so su quale piano si trovi, se sia nel lato sinistro o destro dell'edificio; magari dà addirittura sull'altra facciata e anche sforzandomi o scongiurando una qualche divinità superiore non riuscirei a trovare nulla.

Fa paura.
Ho paura, che forse è diverso.

I ricordi e le ansie di quella notte mi attanagliano, si premono al collo come mani che vogliono soffocarmi, uccidermi, schiacciare quel fottuto cuore che ho in gola fino a farlo esplodere.

Me lo meriterei.

E chissà se anche Charlie la pensa così. Chissà se sta bene, ora. Chissà se vorrà ancora vedermi, parlarmi, abbracciarmi.

«Cosa non ti è chiaro del "aspettami alla fermata"?»
Mi volto anche se a fatica. Vedo Misha McCoy avanzare lungo il marciapiede con i capelli rossi che svolazzano ai lati del cappuccio della felpa. Non sembra lei. Con quei vestiti così sportivi e il viso privo di trucco ha ben poco della ragazza con cui ho avuto a che fare per tutti questi anni, eppure non c'è dubbio che sia lei. Il modo in cui arriccia la bocca, le falcate decise, quello sguardo indispettito che stranamente non mi innervosisce, ma piuttosto mi conforta. Grazie a dio è qui.
Tiro gli angoli della bocca nonostante dubiti ne esca un sorriso convincente: «Scusami» e a dispetto di quanto mi sarei aspettata, la sua espressione si addolcisce. Ad ogni passo in meno che ci separa la sua faccia si fa meno truce, i suoi occhi languidi.
«Stai aspettando da tanto?»
Scuoto la testa. Siamo una di fronte all'altra e ci fissiamo come pochissime volte abbiamo fatto prima - e più i secondi si sommano, amalgamandosi con il silenzio che ci circonda, più sento gli occhi bruciare, tentare di tradirmi ancora.
Merda, mi lascio sfuggire tra un pensiero e l'altro maledicendomi per tanta inettitudine. Non posso mettermi a piangere ora, non alla mercè di... Mi umetto le labbra, poi discosto lo sguardo. Non lo so nemmeno io da chi o cosa stia cercando di nascondermi; semplicemente voglio evitare di crollare adesso, di farlo senza potermi poi rifugiare in un posto sicuro.
Tipo camera mia o il letto di Seth. Tipo tra le braccia di Benton.

«Perchè sei venuta qui?» Con le mani in tasca e la testa piegata da un lato, Misha mi guarda dritta in viso quasi stia cercando di aprirmi il cranio e capire quali pensieri vi si trovino dentro. Si rattristerebbe nello scoprire che c'è solo timore?
Alzo le spalle e stringo i pugni. Ancora una volta provo a cercare tra le finestre dell'ospedale un segno, una sagoma conosciuta; ciò che trovo però non è diverso da prima.
Quanto vorrei vederti, Benton. Eppure non ho il coraggio di oltrepassare il perimetro di questo nauseante ospedale, le mie gambe non hanno la forza di muoversi verso la reception e, ancor meno, la mia voce ha la sfacciataggine di pronunciare il tuo nome.
«Perchè è colpa mia» confesso d'improvviso, forse nemmeno rendendomene conto. È più una risposta a me stessa, alla codardia che mi blocca, ma nel momento in cui mi sfuggono queste parole di bocca sento la pressione sul cuore allentarsi appena. Già, non riesco ad andare da lui perché lo temo, perché tremo alla sola idea che possa non volermi più al suo fianco.

«Come?»
Non le rispondo e nemmeno riporto l'attenzione su di lei. Non voglio sapere cosa le passa per la mente. «Jay, che intendi dire?»
Sospiro: «Esattamente quello che ho detto.»
Misha muove un passo. Sento lo scricchiolio delle sue suole sull'asfalto e con la coda dell'occhio la noto avvicinarsi.
«Jane...» so che vorrebbe dire qualcosa di consolatorio, so che vorrebbe placare ciò che mi fa stare male, ma nulla può farlo. Nulla a parte Charlie, quella stessa persona che non ho le palle di incontrare.
Perché sono una codarda colpevole. Una stupida immatura.

«Sono stata io a supplicarlo di tornare a Londra» tremo. È la prima volta che lo dico ad alta voce, la prima in cui confesso ciò che tanto ho tentato di tenere segreto.
«M-mi mancava. Mi mancava da matti e... avevo bisogno di lui» la prima lacrima scende sempre lentamente, non so se qualcuno ci ha mai fatto caso; fa fatica ad emergere dagli occhi, a scavalcare gli argini delle ciglia per poi farsi strada lungo il viso. Ed io in questo momento sento la mia colare con inarrestabile timidezza sulla guancia. «Volevo che tornasse a casa per far smettere Seth e Jace di litigare, per fargli dire che nonostante tutto mi voleva ancora bene e che sarebbe rimasto per me. Con me!»
D'improvviso sono un fiume in piena, non riesco a fermarmi. Le parole escono di bocca una dopo l'altra, si fanno largo come uno tsunami. E che sia giusto o sbagliato poco m'interessa, devo dire queste cose a qualcuno, a una persona che so non mi tradirà - e Misha lo è.
«L'ho chiamato in lacrime quella sera, l'ho supplicato mentre mi aggrappavo alla porta di casa sua nella dannatissima speranza che si aprisse e allora lui si è messo in auto! Ha detto che sarebbe arrivato il prima possibile, capisci? Ha detto che dovevo solo aspettarlo, che sarebbe tornato da me e che dovevamo parlare e... e allora... e allora è successo!» Scoppio. Al pari di una bomba a orologeria i singhiozzi tuonano intorno a noi, scuotendomi sin nelle viscere. Sopraffatta dai singulti mi raggomitolo su me stessa senza alcuna dignità e piango, continuando probabilmente a biascicare frasi senza senso. «È colpa mia! È sempre colpa mia, dannazione! Se non lo avessi chiamato... se non lo avessi fatto sentire in dovere d-di tornare forse... forse non lo avrei... non lo avrei quasi... ammazzato!» Pigio i pugni sugli oggi, scuoto la testa. «Sono una persona orribile! Sono il rigetto del mondo! Dovevo esserci io in quell'auto, non lui! Charlie non... lui non si meritava il male che gli ho fatto. Con che presunzione posso desiderare di vederlo? Eh?! Con che coraggio posso volermi stringere a lui? Dopo quello che è successo, dopo ciò che ha subito per colpa mia dovrei... io dovrei...»
Il peso di un corpo che si schiaccia al mio mi fa tacere, sussultare. Il suo calore pare bruciarmi addosso nonostante gli strati di vestiti che separano il busto di lei dalla mia schiena. Misha mi stringe a sé con così tanta forza che quasi pare voglia inglobarmi, in modo da zittire il dolore. Non lo fa perché la sto imbarazzando, no. Non si comporterebbe a questo modo se il motivo fosse quello. Lo fa per me, perché sente ciò che mi dilania.

«Smettila, Raven.»
Ha la voce spezzata.
«Non azzardarti a dire simili scemenze» si preme a me con più trasporto, poi inizia a passarmi una mano tra i capelli, lungo la curva dell'elice fino alla nuca. «È stato un incidente, mi hai capita? Un fottutissimo incidente e nulla più. Tu non hai colpe e-» deglutisce, quasi faticasse a parlare: «e lui lo sa. Sa quanto ci tieni. Non potrebbe mai odiarti, okay? Mai.»
Agito la testa: «Sì, invece...sì, che può farlo. Gli ho fatto male così tante volte che anche io mi odio!»
La sento staccarsi, poi le due dita mi si premono in viso. Lo tira a sé costringendomi a guardarla in faccia e ciò che vedo è lo stesso sguardo furioso e deciso di quella volta.

«Ascoltami bene, Jay. Charlie ti vuole bene. Te ne vuole a tal punto da mettersi in viaggio nel cuore della notte solo per abbracciarti e dirti che va tutto bene. Chi altro lo farebbe?»
Continuo a piangere. Le lacrime cascano copiose, le bagnano le mani ma lei non fa una piega. Non le rispondo. Non so che dire. Così alla mia ennesima tirata di naso lei socchiude gli occhi poggiando la fronte alla mia: «Dimmi cosa vuoi che faccia per farti smettere, ti prego.»
Dovresti mettere a tacere ogni cosa, Misha. Dovresti spogliarmi di questo senso di colpa, degli errori, del dolore. Dovresti sfilarmi di testa i ricordi, metterli in una giara e nasconderli. Dovresti farmi smettere di essere la ragazza che sono, quella che ha distrutto tutta la sua vita e si è trascinata dietro le persone a cui più voleva bene.

«Fammi sparire» sussurro con la bocca impastata dal pianto - e lei, senza più alzare lo sguardo su di me, annuisce.
«Okay.»


 

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