Lavande

di A_Typing_Heart
(/viewuser.php?uid=715138)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** À quatre mains ***
Capitolo 2: *** Un jour seulement ***
Capitolo 3: *** Ce qui s'est passé à Vienne ***
Capitolo 4: *** Pas de deux ***
Capitolo 5: *** Notre Dame de Las Vegas ***
Capitolo 6: *** L'homme sans poésie ***
Capitolo 7: *** Tourner la page ***
Capitolo 8: *** L'endroit pour être libre ***



Capitolo 1
*** À quatre mains ***


«Devi essere pazzo per presentarti davanti a me.»
Non era la prima volta che sentivo lo chef Durand rivolgersi a qualcuno con quel tono altezzoso, ma mi sorprese sentirglielo fare a servizio ultimato, quando nelle cucine ero rimasto soltanto io a demolire lentamente la gran pila di pentole. Non era una mia abitudine ficcanasare, anzi; ma la straordinarietà della situazione mi portò ad abbandonare il mio angolo della plonge per poter vedere l’ingresso sul retro.
Quell’ingresso dava su una piccola area con una stradina asfaltata che correva tra la recinzione del resort che ci ospitava e la proprietà del casinò adiacente, uno spazio sufficiente per far passare i furgoni dei rifornimenti e dei rifiuti, e utilizzato solo per questi due servizi. Il solo altro a usare quell’ingresso ero io: uno sguattero non aveva il diritto di mettere piede nella sala tra il damascato porpora delle pareti e le sedie imbottite. Secondo chef Durand in verità erano pochi i diritti di uno sguattero, che doveva soltanto sentirsi onorato di essere ammesso nella cucina di un ristorante di livello… come se lavare la padella sporca che ha cucinato un piatto da sessanta dollari fosse più gratificante di lavare quella che ha cucinato un pancake da dodici dollari alla tavola calda.
Vidi la porta dell’ufficio dello chef aperta in cima alla scala che correva sulla parete e lui in piedi sulle due porte spalancate, ma non riuscii a vedere nulla del suo interlocutore, neanche la sua ombra dato che era proiettata dalla luce della cucina verso l’esterno.
«Sapete di chi sono figlio. Mettetemi alla prova se il mio curriculum non basta, non ho paura delle sfide.»
«Perché mai dovrei? Anzi… perché tu sei venuto proprio qui?» fece lo chef, desideroso di tenere un tono basso ma troppo arrabbiato per riuscirci. «Ci sono centinaia di ristoranti stellati che al tuo nome sarebbero felici di stenderti un tappeto rosso. Perché proprio da me, sapendo che non desidero avere a che fare con la tua famiglia?»
«Perché, nonostante la vostra condotta, mio padre ammirava… ammira tutt’ora le vostre capacità. So che voi avete molto da insegnarmi e non risparmierete di farmi faticare.»
Chef Durand esitò e guardò una busta che teneva in mano, che aveva tutta l’aria di una lettera. Alzò gli occhi su di me e io ebbi la prontezza di afferrare subito una teglia da forno e portarla al mio angolo già ingombro senza incrociare lo sguardo. Sapevo comunque che mi avrebbe seguito con quel cipiglio di falco fino al lavandino, come faceva ogni volta che mi permettevo di uscire dal mio invisibile perimetro di competenza.
«Bene, spiegato questo, torniamo alla questione principale» aggiunse allora, con quel suo tono altezzoso da regnante assoluto che così tanto detestavo. «Perché dovrei tenerti a servizio da me? Non mi servono altri cuochi, e neanche sguatteri. Non c’è posto per te qui, vai da qualcun altro.»
Chef Durand chiuse una delle porte e ne seguì un tonfo che non mi seppi spiegare. Incapace di trattenermi mi sporsi di lato a guardare, strofinando la spugna sulla casseruola a caso solo perché il fino orecchio dello chef sentisse che stavo ancora lavorando.
Chiunque fosse il nostro visitatore inatteso era agguerrito e aveva bloccato la porta con il piede. Indossava mocassini scamosciati grigi, qualcosa che io personalmente non mi sarei mai sognato di comprare per me stesso. Fu quello il primo pensiero che ebbi allora e trovo divertente aggiungere che in questo preciso momento ne ho un paio marroni nell’armadio.
«So che uno della brigata se n’è appena andato, vuol dire che qualcuno vi manca» insistette l’uomo. «Non chiedo un contratto né un posto fisso. Prendetemi in prova, vi dimostrerò che merito un posto nella brigata!»
Confesso che ero incuriosito: dopo due anni nella brigata di Durand lo conoscevo bene e sapevo anche se nessuno osava replicargli se non dicendo “sì, Chef” o profondendosi in scuse. Non avevo mai sentito nessuno rispondergli e insistere così tanto: sarebbe stato come rispondere in faccia a un capo di stato maggiore e si rischiavano circa le stesse conseguenze.
«Le occasioni ricche non ti mancheranno, ma non qui.»
«Chef Durand, vi ostinate anche con queste mie promesse di impegno e dedizione a negarmi un’occasione? Nonostante ciò che dovete a mio padre?»
«Questa poi! Che cosa dovrei mai dovere a tuo padre?»
La voce rispose con una dose notevole di incredulità e astio.
«Come potete chiederlo? Non avete certo dimenticato Vienna!»
«Non…!»
Lo chef si interruppe bruscamente e mi ritirai dietro l’angolo appena in tempo. In due passi tuttavia raggiunse la plonge e mi fissò con un sorriso posticcio che non mi convinse neanche per un attimo. Come avrebbe potuto, dato che non mi aveva mai sorriso da quando ero arrivato?
«Basta così, sguattero, torna domattina a finire.»
«Ma Chef Durand, penso che sarebbe meglio…»
«Vai a casa. Ora.»
«Ah… sì, Chef.»
Ho detto che non avevo mai sentito nessuno ribattere a Chef Durand, ed ero incluso anch’io nella ciurma dei vigliacchi. All’epoca in realtà ero il principe dei vigliacchi, avevo troppo bisogno di quel lavoro infernale e ingrato per rischiare di perderlo per qualcosa di così sopravvalutato come l’orgoglio. Purtroppo non ebbi modo di intravedere l’uomo con cui lo chef salì nel suo ufficio e mi toccò andarmene con la coda tra le gambe e molte domande nella testa.
Chiaramente il giorno dopo mi presentai al lavoro con inedita aspettativa e morbosa curiosità; erano anni che non mi sentivo vivacemente incuriosito dai fatti degli altri. Smaltii tutto il lavoro che avevo lasciato in sospeso prima di prendermi una meritata tazza di caffè seduto fuori dalla porta di servizio, finché Leclaire non si affacciò per il solito rimprovero immeritato sulla mia pigrizia e mi intimò di scaricare il pesce quando il furgone arrivò. Non era una novità, ero uno sguattero e anche un garzone: parte del mio lavoro era pulire il pavimento della cucina, lavare le celle frigorifere quando lo chef disponeva, occuparmi dei rifiuti, scaricare i rifornimenti e portarli nella cella degli ingredienti e talvolta andare a recuperare qualcosa che mancava. Molto di rado mi veniva fatta la grande grazia di toccare gli ingredienti per aiutare a pelare patate o ripulire qualche ortaggio o frutto se i commis erano troppo occupati.
Caso volle che quella persona arrivasse mentre scaricavo enormi cassette di pesce semicoperto di ghiaccio tritato, e al mio terzo e ultimo viaggio nella cella lo notai immediatamente mentre seguiva Chef Malone, il braccio destro di Durand. Mi diede l’idea di un ragazzo giovane – avrei imparato solo più tardi che non era affatto giovane come mi era parso – con lunghi capelli castano scuro accuratamente pettinati in una coda bassa, un profilo dal naso dritto, la pelle scura di chi era stato due mesi alle Maldive e un paio di occhi vispi e attenti. Non lo conoscevo, non l’avevo mai visto, ma le poche parole che aveva avuto il coraggio di rivolgere allo chef Durand mi facevano sentire più bendisposto verso di lui che verso chiunque altro in quella cucina, anche se li conoscevo da molto più tempo.
«Chef Aguero è il nostro rôtissier, e responsabile delle portate di carne. Durante il servizio il nostro boucher Chef Porter gli fa da demi-chef de partie…»
Chef Malone era americano fino al midollo, nato e cresciuto in una piccola cittadina del Minnesota prima di studiare cucina, ma non usava mai una parola inglese se soltanto ne poteva usare una francese per dire la medesima cosa, il che ai miei occhi lo faceva sembrare snob ai limiti dell’inverosimile. Difficile scordarsi del mio primo giorno da sguattero, con lo chef Malone che mi bombardava di nomi francesi che non capivo con nessun intento se non mettermi a disagio.
La cosa però non turbava affatto lo sconosciuto ragazzo che annuiva con interesse e scorreva lo sguardo sul grosso pezzo di carne che il boucher – ossia, il macellaio – stava pulendo alla sua postazione.
“È ovvio che è un cuoco che ha fatto la scuola e tutto il resto”, ricordo di aver pensato.
Fu allora che si voltò verso di me. Smise di camminare ignorando lo chef Malone che proseguiva e di riflesso mi fermai anch’io, senza parole per lo stupore: ero abituato a essere praticamente invisibile per chiunque indossasse un’uniforme da cuoco se non aveva da gridarmi contro qualche ordine. Che mi sorridesse mi sembrava fuori dal mondo.
«E lei? Poissonier?»
A malapena venivo notato, figurarsi se venivo mai scambiato per un cuoco. Diedi uno sguardo al vassoio del pesce, ma prima che potessi articolare mezzo suono vidi incombere il peggior incubo della mia vita in quella cucina: il saucier e poissonier in carica, il principe del regno, ossia Aurélien Leclaire. Era un giovanotto venticinquenne di bell’aspetto, alto, ambizioso, quasi insopportabile e quel che era ancora peggio, era il nipote di Durand.
«Se cerchi il poissonier sono io» fece lui, lisciandosi il grembiule immacolato. «Sono il saucier e il responsabile di tutte le portate di pesce di questa cucina. Aurélien Leclaire.»
«Oh, certo… la conosco, ho visto la sua presentazione al programma di Vicky York… un piatto presentato in modo eccellente, chef Leclaire. Sarei felice se potesse riprodurlo per me, tempo permettendo.»
Quel ragazzo aveva fegato da vendere, ai miei occhi era improponibile chiedere a uno chef come Durand o Leclaire di preparare un piatto per me… anche se di certo avrei avuto una diversa autostima se solo fossi stato qualificato almeno come cuoco anziché essere il lavapiatti del regno. Non mi potevo neanche classificare come il Cenerentolo: almeno lei nella fiaba era una vera nobile.
«Che diavolo fai lì impalato?» mi fece allora Leclaire, con uno sguardo truce. «Aspetti che il pesce vada a male qui fuori? Portalo in cella, Rain Man!»
«Sì, chef, mi scusi.»
Questa era la cosa più fastidiosa del lavoro al Liaison: chef May, responsabile dei contorni e delle portate vegetariane, all’inizio del mio ingaggio come sguattero mi trovava lento ai limiti del ritardo mentale e se ne uscì con un crudele nomignolo scaturito dal mio nome reale che secondo lui si adattava bene al mio ritardo. Infatti il mio nome è Efraim Manning, ma tutti mi chiamano Raim. Raim Manning. Capite che l’assonanza ha fatto molto del lavoro al posto di chef May, ma lui si vantava della sua geniale trovata come avesse introdotto una nuova specialità nel menu anziché aver appioppato un nomignolo a un collega, come un bambino delle elementari.
Ormai non avevo reazioni visibili a nomignoli e insulti, tuttavia guardando l’aria indispettita sul viso del nuovo arrivato mi sentii come rincuorato. Aveva tutta l’aria di essersi irritato per come ero stato trattato e ne ebbi conferma mentre trafficavo per aprire la cella con una mano sola.
«È vostra abitudine rivolgervi così al personale?»
«È solo il nostro plongeur. È un lavapentole e un fattorino, non cucina.»
«Pulisce i vostri strumenti. Vi mette in condizione di lavorare il più velocemente possibile e di non trovarvi a lavare per ore dopo un duro turno di servizio» insistette lo sconosciuto. «Avete forse dimenticato la gavetta che avete fatto? Avete dimenticato quanto sia importante questo ruolo?»
«Signor Micheaux» gli fece Leclaire con un gelo che mi era familiare. «Se davvero rimarrete con noi, vi consiglio di ricordare bene la gerarchia di questa cucina e comportarvi di conseguenza.»
«Sì, chef Leclaire, sarà fatto… ma sappia che ciò non mi impedirà di dire “grazie” e “per favore” a tutti.»
Parole come quelle erano senza precedenti nella cucina del Liaison e mi lasciarono sbalordito. Sbalordito ma anche felice: avere almeno una persona che mi trattasse da essere umano non avrebbe potuto farmi che bene e mi trovai a sperare con tutte le forze che il giovane Micheaux restasse nella brigata prendendosi il posto lasciato vacante dalla partenza dello chef Basile.
 
*

Micheaux continuò ad aggirarsi per la cucina e le celle seguendo chef Malone e la sous-chef Kleiner che gli illustravano meticolosamente il dedalo di regole da seguire con annessi i paradossi, o almeno quelli che io reputavo tali. Preso a lavare casseruole, teglie, coltelli e altri strumenti man mano che venivano usati per le preparazioni non riuscii a scollarmi dalla plonge neanche per incrociare lo sguardo con lui, e alla consueta pausa pre-servizio ero ancora pieno di tegami da asciugare.
«Ciao.»
Mi spaventò sentirmi rivolgere la parola, non lo nego. Durante la pausa lo chef Durand restava nel suo ufficio e per tutti gli altri era il momento di un ultimo tè, caffè o sigaretta. Ero abituato a restare solo durante quei dieci minuti e l’ultima cosa che mi aspettavo era che lo chef nuovo venisse a parlarmi.
«Pare che lo chef Malone non ritenga necessario presentarci, quindi lo farò da solo. Sono Sahan Micheaux» si presentò tendendomi una mano affusolata. «Mi direste il vostro nome? Continuo a sentirvi chiamare Rain Man.»
«Io… non c’è bisogno di questa formalità, chef Micheaux, datemi del tu come fanno tutti» mi affrettai a dire mentre gli stringevo la mano; ricordo di aver pensato quanto fosse piccola rispetto alla mia. «Mi chiamo Raim. Raim Manning.»
«Ohh… Rain Man, ecco perché!» osservò lui, e sorrise. «Raim, mh? Hai forse qualche origine mediorientale?»
«No, non che io sappia, signore. È solo il diminutivo di Efraim.»
Sahan si mise a ridere con una tale allegria che mi portò a sorridere di rimando.
«Signore? Signore a chi? Se vuoi che ti dia del tu fai lo stesso, no?»
«Uhm… sicuro? Mi è sembrato che foste piuttosto formale…»
«Mi hanno insegnato a essere formale e ossequioso con gli chef, ma se a te non importa allora ti posso dire che non importa neanche a me» rispose lui scrollando le spalle. «Quando facevo la scuola eravamo tutti molto amichevoli, e anche nella brigata che ho lasciato ci chiamavamo tutti per nome.»
Mi trovai ad annuire e un velo cadde tra di noi. Eravamo entrambi persone estroverse anche se lui lo sembrava molto più di me, e accantonare la formalità del rispetto forzato spazzò via di netto dettagli come il fatto che ci conoscevamo da un minuto.
«Sembra che fossero ambienti piacevoli, perché te ne sei andato?»
«Mh… beh… ci stavo bene, sì… ma quando un cuoco non trova più impegnativo fare il suo lavoro vuol dire che ha preso tutto quello che può dal posto in cui sta… è ora di cambiare e rimettersi in discussione.»
«Questo è molto audace, Sahan. Non ti fa paura cambiare?»
«Se non fa paura non è difficile abbastanza» sentenziò lui, e si appropriò di uno strofinaccio. «L’ultimo posto dove sarei voluto andare era proprio dallo chef Durand… quindi ho pensato che fosse proprio qui che dovevo venire.»
Stavo per elogiare con una punta d’invidia tanto coraggio, ma vederlo prendere una casseruola e asciugarla mi fece rivedere le priorità.
«Non farlo!» sbottai prendendogliela dalle mani. «Questo è il mio… posto… insomma… è il mio lavoro.»
«Che male c’è se ti aiuto? Stiamo aspettando con le mani in mano.»
Risposi senza la minima vergogna né esitazione: in due anni ero stato addestrato a quel credo tanto da non metterlo in discussione.
«Uno chef non lava le pentole… gli sguatteri sono fatti apposta.»
«Uno chef se è fortunato abbastanza da avere uno sguattero non lava le pentole durante il servizio» precisò lui, lievemente accigliato, riprendendosi la casseruola. «E in ogni cucina dove sono stato ogni chef pulisce la sua postazione, e a fine servizio pulisce anche i pavimenti, la cappa aspirante, la griglia e i forni.»
Lo guardai come un naufrago della prima guerra mondiale che viene salvato e informato che nel frattempo è finita anche la seconda. Immaginare Durand o chiunque dei suoi sottoposti maneggiare uno spazzolone mi era impossibile.
«Sul serio? Degli chef… lavano il pavimento?»
«Non siamo mica divinità, siamo persone come tutti, con doveri come tutti» obiettò Sahan, in tono asciutto «Detto questo, questi chef hanno dimenticato che cosa significa stare in cucina. Non ti portano nessun rispetto, ma il tuo lavoro gli permette di iniziare un servizio più riposati e di andarsene a dormire prima quando finiscono.»
Sahan aveva una visione della cucina come io non avevo mai neanche lontanamente immaginato potesse essere. Nella cucina di chef Durand avevo imparato a vivere come in un regime di semilibertà, vedendo Durand come il giudice, Malone come il direttore del carcere, Kleiner come l’agente di sorveglianza e tutti gli altri come vicini spioni pronti a denunciarmi per farmi rispedire in galera. Anche se avevo imparato che cosa rendeva nervosi i singoli chef per poterlo evitare e mi ero abituato a fare il lavoro come volevano che fosse fatto, non avevo mai avuto la minima ambizione di avanzamento né di poter entrare nelle loro grazie: evitare la loro collera mi bastava per tornare a casa e tirare le somme pensando che era andata bene.
Sahan mi studiò durante il mio assorto silenzio e lo trovai ancora preso a guardarmi fisso quando mi riscossi. Notai in quel momento che i suoi occhi castani erano più verdi al centro.
«Dove lavoravi prima, Raim?»
«Da nessuna parte» risposi di getto. «Voglio dire, non avevo mai fatto lo sguattero. Ho risposto a un annuncio, quando sono arrivato per il colloquio era già stato preso un ragazzino… ma lui ha dato forfait e il mio numero era in cima alla lista per il rimpiazzo.»
«Ma quindi tu non sei un cuoco?»
Mi trovai a ridere di gusto.
«Un cuoco, io? Figurarsi, io cucino solo pancetta e uova a colazione… no, no… di tanto in tanto se Isabel è troppo occupata faccio qualcosa per aiutarla… pelo patate, soprattutto. Sono un eccellente pelatore di patate.»
Sahan rise allegramente e non una singola cosa in lui mi fece pensare che il suo atteggiamento sarebbe cambiato nei miei confronti dopo aver saputo che non ero della sua stessa casta. Asciugammo gli ultimi utensili in silenzio e mi affrettai a riportarli alle postazioni – ormai conoscevo a memoria come ogni chef teneva la sua, in modo da sistemare i loro coltelli e strumenti dove erano soliti metterli – quando il maître Kerr annunciò l’arrivo del primo tavolo con due scampanellate prima di tornare in sala a passo svelto. Confuso, Sahan guardò prima il passe e poi me.
«Che succede?»
«Niente, il maître annuncia l’arrivo del primo tavolo così, e…»
Non ci fu bisogno di spiegare altro: la brigata fece rientro in cucina e si piazzò ai posti di combattimento: chef May alla sua postazione piena di verdure allineate in pirofile come un buffet, chef Aguero al suo angolo con gli spiedi pronti e i forni già caldi, chef Porter vicino a lui a mettere padelle sui fornelli a scaldare, Leclaire davanti ai suoi pentoloni di zuppe e salse e nei pressi del suo regno del pesce, presidiato dalla commis Isabel Villalba, chef Kleiner intenta a riprendere le preparazioni preventive dei dessert e ultimo ma mai ultimo il capitano Malone al passe, pronto a leggere gli ordini e criticare aspramente qualsiasi pecca.
In tutto ciò, naturalmente, io mi ritirai nella nicchia dove era stata ricavata la zona di lavaggio. Con mia sorpresa trovai Sahan ancora lì.
«Che fai qui?»
«Beh… non mi hanno dato un ruolo, quindi osserverò e darò una mano dove mi viene chiesto» fece lui, per nulla rabbuiato. «Quindi se ti serve aiuto fischia che arrivo!»
«Non dire sciocchezze» gli sibilai, sotto lo sguardo truce di chef Malone da lontano. «Sei un cuoco, no? Non sei certo qui per imparare a lavare pentole di rame.»
«Perché no? Io imparo tutto, non si sa mai quando una cosa può tornare utile. Nella mia vecchia cucina usavamo alluminio anodizzato, quindi non so bene come si tratta il rame, potresti insegnarmelo.»
Quella frase mi colpì, perché in tempi precedenti anche io ero dell’idea di apprendere da chiunque e qualsiasi genere di cosa… anche se quelle che avevo scelto di imparare non avevano fatto altro che rovinarmi la vita. In quel momento guardando Sahan ebbi la sensazione di stare guardando quello che avrei potuto essere se avessi scelto diversamente, e questo mi fece provare del sincero affetto per lui. Fu allora che davvero decisi di usare qualsiasi informazione e occasione per aiutarlo ad avere il posto che desiderava.
«Se vuoi un’occasione» gli sussurrai allora, mentre il maître si avvicinava al passe, «tieni d’occhio chef May… usa delle presentazioni complicate e gli antipasti rallentano sempre un po’ per causa sua. Se riesci ad aiutarlo quando si impantana farai una bella figura.»
«Così complicate?» domandò lui, interessato. «Scusami, mi sposto più vicino per vederle.»
Si defilò immediatamente e al sentire la comanda preparai le mie spugne e il limone per togliere l’odore di aglio dalle pentole che mi sarebbero arrivate. Per un po’ ebbi modo di seguire il fermento della cucina alle prime ordinazioni e di vedere quanto Sahan fosse attento all’impiattamento machiavellico di chef May; poi toccò a me venire fagocitato dalla valanga di ordinazioni, o piuttosto dalla quantità di stoviglie generate dagli chef che si applicavano a smaltirle.
Chef May non si arenò al punto di aver bisogno di una mano grazie alla notevole quantità di zuppe richieste come antipasti e il mio giovane protetto – per quanto uno sguattero fosse in grado di proteggere un cuoco quanto il guscio di una vongola avrebbe potuto proteggerla dai calci di un canguro – non ebbe occasione per mettersi in luce.
Nulla avrebbe distinto quel servizio da qualsiasi altro se non fosse stato per quell’inaspettato ringhio che uscì di bocca a chef Leclaire. Alzai la testa dal mio lavandino denso di schiuma e vidi che Sahan teneva fra le mani una delle ciotole di  Leclaire, e soltanto il gesto che fece per riprenderla mi fece capire che il ringhio di prima era in realtà un poco amichevole invito a ridargliela.
«Non potete servirla, chef Leclaire!» replicò Sahan, con nessuna intenzione di tenere bassa la voce. «Questa salsa sta diventando acida, non potete usarla, e non vi permetterò di farlo.»
«Non sai di che cosa parli! Torna ad asciugare le pentole con Rain Man, è quello il tuo posto!»
Assistetti atterrito a qualcosa di simile a un tafferuglio tra i due, che tentavano di prendersi la bastardella di salsa, poi d’istinto mi lanciai verso di loro per dividerli come se la porta dell’ufficio di Durand che si apriva mi avesse dato un segnale di partenza. Anche se avrei preferito usare la mia stazza per sollevare Leclaire e allontanarlo finii per puntare a Sahan e tirarlo indietro: era molto più facile per tutti lasciare che quel viziato nipote avesse quello che voleva per chiudere le ostilità. Sahan non si ribellò a me ma lanciò un’occhiata velenosa al mio indirizzo mentre si spostava una corta ciocca di capelli che gli era sfuggita dalla coda.
«Quella salsa è andata a male, Raim!»
«Calmati, Sahan» gli sussurrai pianissimo all’orecchio. «Leclaire è il nipote di Durand. Non lo prendere di petto o sei fregato.»
Durand scese le scale come un fulmine e fu davanti a noi in un attimo. Mi affrettai a lasciar andare Sahan e raddrizzarmi come un soldato sull’attenti, mentre Sahan fissava torvo Leclaire mentre si aggiustava la giacca che gli avevo stropicciato. Lo chef mascherava sempre piuttosto bene la collera, ma i suoi occhi erano già minacciosi abbastanza.
«Che cosa sta succedendo?»
«Questo pivello sta cercando di sabotare il servi–»
Accadde in una frazione di secondo: Sahan afferrò la bastardella strappandola da una presa distratta di Leclaire e la rovesciò deciso dentro il lavabo della postazione del pesce. Schizzi di salsa bianca puntinata di pepe verde finirono tutt’intorno, ma la gran parte scomparve nello scarico sotto gli occhi increduli e indignati dei due chef imparentati e i miei, che erano più vicini alla paura che alla sorpresa.
Ero senza fiato e senza idea di cosa dire o fare, ma Sahan aveva messo su un musetto ostinato da bambino che in un altro frangente avrebbe fatto tenerezza.
«Quella salsa era inacidita e chef Leclaire la voleva usare» scandì a denti stretti. «Avvelenare un cliente non è ammissibile a prescindere dalle giustificazioni.»
«Questa è la tua opinione, e anche del tutto fuori strada!» sbottò Leclaire. «Ora vai tu là fuori a dire al cliente che non può avere quello che ha ordinato perché un pallone gonfiato ha buttato la salsa!»
«Benissimo, ci vado, e avrò premura di spiegar loro esattamente perché è successo.»
Sahan si era già voltato verso il passe senza la minima esitazione, ma Durand lo acchiappò per il braccio con una ferocia che mi mise in allarme.
«È per questo che sei qui? Tuo padre ti ha mandato a portare scompiglio nella mia cucina?» gli ringhiò contro, strattonandogli il braccio. «Sei fuori, mi hai capito?! Torna da dove sei venuto, e dì a tuo padre, quel bugiardo, imbroglione e invidioso che lo chef Durand gli rinnova lo stesso augurio che gli fece a Vienna!»
Al primo accenno di dolore nell’espressione di Sahan scattai immediatamente per allontanare lo chef da lui e il commis pasticciere Baader arrivò nello stesso momento per far indietreggiare lo chef e stemperare animi fin troppo accesi.
«Calmatevi, chef Durand, non perdete la testa!»
«Sahan, ti ha fatto male?»
Sahan sembrava più agguerrito che mai e seppure si stesse massaggiando il gomito scosse deciso la testa.
«Sto bene, Raim.»
«Esigo che tu te ne vada immediatamente dalla mia cucina, Micheaux.»
Mentre Baader tentava di mediare consigliando allo chef di non prendere decisioni drastiche sull’onda della rabbia e la commis Isabel proponeva prima di pensare a come rimediare l’assenza della salsa il mio cervello si scollegò dalle loro voci. In quel momento l’idea che Sahan se ne andasse mi risultava intollerabile; era l’unico con cui riuscissi a parlare tranquillamente, da pari, senza che pensasse a me come una specie di elettrodomestico dal funzionamento singhiozzante. Stabilii che se c’era un modo di salvarlo era dimostrare che aveva ragione e quindi, appena voltato verso il lavabo, afferrai una piccola ciotola d’acciaio che lo chef usava per la citronette e assaggiai col dito la salsa che ci era schizzata dentro. Reagii immediatamente con una smorfia.
«Ha ragione, è acida!»
La mia esclamazione spense il volume di tutti gli altri, che mi guardarono sorpresi, e in un paio di casi indispettiti: in quanto sguattero ero già fuori posto a essere così lontano dalla plonge; figurarsi se potevo permettermi di assaggiare una pietanza e dare un parere a dei cuochi diplomati.
Senza aggiungere nulla porsi la ciotola agli altri. Baader e Isabel l’assaggiarono con reazioni più che imbarazzate e alla fine Durand si decise a fare lo stesso con il fidato cucchiaino d’oro che teneva nel taschino. Chiuse gli occhi per un lungo momento in cui mi parve tentare di controllare la furia, poi guardò Sahan.
«Volevi un’occasione, è così? L’avrai ora» sentenziò, agitandogli contro il cucchiaino come fosse un’arma carica. «Non era ben fatta, ma la salsa era recuperabile, non acida. Buttarla è stato stupido e arrogante. Dovevi venire immediatamente da me se eri sicuro che non andasse bene.»
«Dati i nostri precedenti dubitavo di ricevere giudizi impar–»
«Sto parlando, Micheaux, ascoltami o vattene subito da questa cucina!» lo tacitò Durand, in tono duro ma senza gridare. «Chiederò al maître di proporre in sala un piatto speciale come sostituzione di quello che non possiamo preparare. Sta a te creare un piatto all’altezza di risollevare i nostri ospiti dopo quella che è senz’altro una delusione.»
Guardai Sahan con apprensione, ma la sua rabbia era completamente svanita lasciando posto a un bruciante entusiasmo.
«Non ve ne pentirete, chef!»
«Me ne sono già pentito, Micheaux, ma come sempre l’ultima parola spetta al cliente. Questo tuo padre te lo avrà insegnato, presumo» ribatté Durand riponendo il suo cucchiaino nella tasca. «Solo se il tuo piatto verrà apprezzato ti darò una seconda chance qui da noi, mi sono spiegato?»
«Oui, chef.»
«I clienti stanno già aspettando il secondo, quindi ti consiglio caldamente di sbrigarti… e un’altra cosa» aggiunse quando vide Sahan in procinto di scattare. «Hai fatto questo disastro per arroganza, perciò se speri di essere perdonato rimedia da solo a quello che hai fatto. Nessun altro chef qui dentro ti aiuterà.»
Mi sentii malissimo, ma se Sahan era preoccupato lo nascose piuttosto bene. Durand si voltò verso Malone al passe.
«Che altro doveva uscire con il salmone?»
«Due quaglie e un arrosto» disse lui senza uno sguardo alle comande, come sempre.
«Quanto per quaglie e arrosto?»
«Cinque minuti, chef» rispose risoluto Aguero dal suo angolo delle carni.
«Hai otto minuti, Micheaux. Non puoi rallentare tutta la cucina» fece Durand senza guardarlo, e fece un cenno a Malone. «Passate alla comanda successiva senza salmone e poi tornate a quel tavolo. Tornate tutti al vostro lavoro, e se vedo anche solo un commis passare uno spelucchino a Micheaux licenzio lui e chi gli ha dato una mano, sono stato chiaro?»
«Sì, chef!» fu la risposta in coro della cucina.
Mi trovai smarrito e confuso in mezzo alla postazione delle zuppe quando la cucina riprese il normale tran-tran. Sahan si mordicchiò il labbro per un momento, poi iniziò a guardarsi intorno.
«Quanti ordini di zuppa abbiamo ancora?»
Lo chiese a voce molto alta e chiara, ma non venne alcuna risposta. Guardai lo chef Malone e chef Durand, insolitamente insieme al passe, ma nessuno dei due fiatò. Sahan ripeté la domanda con il medesimo silenzio come risposta. Lo vidi mordersi il labbro e in quell’attimo capii che si era reso conto di aver fatto una mossa azzardata a prendersela con Leclaire in modo tanto ostile. Tuttavia, io non ero disposto a perderlo senza fare niente; non se c’era una cosa qualsiasi che potessi fare.
Malone mi fissò a occhi sgranati quando mi precipitai al passe a leggere le comande, quasi avesse visto un cane aprire un libro. Forse dubitava ancora che avessi mai imparato a leggere, non saprei dire perché fosse così sorpreso.
«Sono… una zuppa di pesce e due di pomodoro, Sahan!»
Incrociai lo sguardo di Durand, ma per la prima volta non riuscii a capire che cosa stesse pensando. Non riuscivo a capire se fosse arrabbiato, indispettito, sorpreso o che altro. Cercai di farmi coraggio sostenni lo sguardo con lui.
«Avete detto che nessuno chef e nessun commis può aiutarlo, ma non avete parlato di sguatteri.»
«Gli sguatteri non cucinano» osservò lui con un accenno di sorriso. «Per questo non ne ho parlato. Ma se ritieni di non essergli di intralcio sei libero di aiutare, le tue padelle possono aspettare sette minuti.»
Era chiaro che se non mi aveva rispedito alla plonge era solo perché era sicuro che non sarei stato di alcun aiuto per Sahan o che addirittura lo avrei affossato. Mi sentii insultato più che dai molti nomignoli presi in quei due anni e serrai la mascella come mi veniva naturale fare in quei casi. Decisi di superare i miei stessi limiti per poter essere di una minima utilità. Volevo che Sahan restasse, lo volevo più di qualsiasi altra cosa.
Tornai da lui, in piedi sulla porta della dispensa.
«Ci sono sette ordinazioni di salmone» gli dissi con vaga apprensione. «Non è detto che tutti chiedano lo speciale, qualcuno potrebbe cambiare con un altro piatto… che cosa pensi di cucinare, Sahan? Dovresti scegliere qualcosa che cuocia in fretta, perché…»
«Grazie, Raim, so che cosa cucinare. Perdonami, ho fretta.»
Lo guardai agguantare riso, dei pesci grigi che all’epoca non avevo la minima idea di cosa fossero e due barattoli di spezie. Così carico temevo rovesciasse qualcosa e mi feci avanti prendendogli il vassoio di pesci e il pacco di riso.
«Posso fare qualcosa per aiutarti? Qualsiasi cosa» gli dissi, e mi accorsi di quanto suonai supplichevole. «Non sono un cuoco, ma…»
«Restane fuori o Durand ti licenzierà in tronco!»
Non lo nego: il modo in cui mi aveva risposto prima mi aveva urtato, perché credevo che davanti alla sua migliore occasione anche qualcuno di gentile come lui non si sarebbe preoccupato di me. Mi sentii sollevato di capire la ragione di quell’improvvisa freddezza e sorrisi mentre lo seguivo fuori dalla cella frigorifera. 
«Ha detto che non ti posso essere di aiuto, quindi posso fare come mi pare.»
Sahan si fermò di colpo guardando verso lo chef al passe, ma lui non gli ricambiò lo sguardo. Rimase accigliato mentre predisponeva un tagliere, un lungo coltello e delle padelle.
«La pensa davvero così?»
«Avevi dubbi?»
«Pochi, in realtà. Bene, Raim, aiutami. Ne ho bisogno.»
Non so se lo focalizzai subito, ma a ripensarci ogni volta che torno a quel momento mi rendo conto di quanto fu importante per me sentire che qualcuno aveva veramente bisogno del mio aiuto: non mi succedeva da quando ero ragazzino e mia nonna si ruppe una gamba. Non mi ero mai sentito davvero necessario e in particolare gli chef, quando si arrabbiavano davvero, amavano sottolineare quanti sguatteri sarebbero arrivati a prendere il mio posto se solo avessero schioccato le dita.
«Farò quello che posso, Sahan. Dammi delle istruzioni!»
Sahan allineò delle padelle sui fornelli e mise il pesce sul tagliere.
«Devo sfilettare il pesce e pensare al riso. Ho bisogno che ti occupi tu delle altre cose.»
«Dimmi che cosa.»
«So che c’è del cocco nella dispensa. Rompi il guscio e raccoglimi la polpa e l’acqua che c’è dentro… un paio dovrebbero bastare.»
«Come li apro, Sahan? Non so come si fa!» gli dissi mentre mi precipitavo a prenderli.
«Prendi la mannaia e mettiti su una scodella» mi spiegò mentre muoveva il coltello dentro al pesce come una danza samurai, senza esitazione. «Dai dei colpetti lungo una linea e raccogli l’acqua del cocco, poi forza l’apertura usando la lama come leva… attento alle mani, Raim. Non avere troppa fretta.»
Seguendo le sue istruzioni per la prima volta presi in mano dei coltelli della cucina per sporcarli invece che per lavarli. Riuscii ad aprire il cocco piuttosto agevolmente e sempre eseguendo le direttive trasformai il cocco in una crema, che Sahan mescolò con la zuppa di pomodoro e il brodo di pesce. Mentre mescolavo il riso nelle padelle per lasciare libere due mani più preziose delle mie lo seguivo con la coda dell’occhio e mi sorpresi quando mi porse una cucchiaiata di quel brodo arancione e corposo che aveva ottenuto.
«Assaggia. In cucina bisogna assaggiare sempre tutto» mi disse con serietà. «Ho bisogno che tu mi dica che gusto senti.»
Mi resi perfettamente conto del ghigno di scherno di Leclaire, che d’altronde era proprio vicino a noi a curare gli altri piatti di pesce. Feci appello a tutte le mie più profonde e inutilizzare capacità e assaggiai la zuppa.
«Pomodoro… sento il pesce, il cocco, qualcosa di piccante… peperoncino o… qualche altra cosa che solletica il naso.»
«Bene, è lo zenzero» mi svelò con un sorriso. «Qualche altra cosa?»
«Mi sembra un riso che prendo al take-away indiano» replicai a bassa voce, con un tono mortificato.
Sahan emise una risata allegra.
«Bene, perché ho aggiunto curry, cardamomo verde, peperoncino e zenzero. Deve sembrare indiano!»
«Però» aggiunsi mentre stava prendendo una mestolata della zuppa, «credo che manchi un po’ di sale.»
Sahan mi guardò sorpreso e non fu l’unico: dal passe chef Malone ci guardava come non credesse ai suoi occhi. Si era girato verso di me come se mi fosse appena scoppiato un petardo tra le mani.
«Mi spiace… voglio solo dire… se lo servissi a me io chiederei del sale.»
Lui assaggiò la zuppa con molta concentrazione e alla fine aggiunse un altro pizzico di sale prima di rimestarla. Pure nella concitazione sorrideva con la bocca e con gli occhi.
«Mi fido di te, Raim. Dopotutto hai un palato buono per non essere uno chef, non trovi?»
Non avevo assolutamente la presunzione di avere un buon palato dato che cucinavo pochissimo per me stesso ed ero cliente fisso di molti fast food della zona, ma avrei imparato a ricredermi su quel punto.
Sahan mi chiese di continuare a mescolare il riso dopo avergli aggiunto il brodo di pesce. Obbedii e di tanto in tanto buttai un occhio dalla sua parte per guardarlo mentre affettava in piccoli tranci i filetti di ricciola e mescolava spezie in una ciotolina di olio. Ancora non avevo idea di che cosa stesse cercando di preparare, perché era ormai evidente che non era un risotto con pesce.
«Speciale al passe tra trenta secondi!» annunciò a quel punto, e prese i piatti da servizio. «Raim, impiatto i primi due da solo, ma tu trovami il cannello per la crème brûlée, sii gentile.»
Dopo un momento di confusione partii verso il bancone in fondo, quello riservato esclusivamente ai dessert. Fu una fortuna che gli chef lasciassero a me il compito di ricaricare il gas del cannello, così sapevo esattamente dove trovarlo senza dover ribaltare la postazione alla ricerca di uno strumento che Baader non poteva dirmi dove trovare.
«Eccolo, ma che cosa devi…?»
Mi bloccai quando arrivai al passe: Sahan aveva impiattato tre speciali con una montagnola di riso al centro che sembrava un’isola affiorante in un mare di un vivace arancio, e i pezzi di pesce erano messi come un fiore al di sopra del riso. Erano coperti di un olio speziato. Non aveva affatto l’aria di un piatto francese, ma faceva venire l’acquolina in bocca.
Sahan mi sorrise mentre mi derubava del cannello in un modo che sembrava una carezza più che un gesto brusco come ci si aspetterebbe dalla fretta, l’accese senza esitazione e abbrustolì appena il pesce: l’olio speziato come reazione al calore sprigionò un intenso aroma che solleticava il naso e anche l’immaginazione. Mi sembrava impossibile che qualsiasi cliente potesse non avere voglia di assaggiarlo non appena posato sul tavolo.
Sahan spinse uno dei piatti verso Durand e Malone, entrambi dall’espressione indecifrabile. Senza una parola Malone prese due cucchiai puliti e il piatto venne assaggiato nelle diverse parti: riso, zuppa e pesce. Il maître Kerr attendeva con il fiato sospeso l’autorizzazione a servire e a me dava l’impressione che fosse molto colpito dall’aspetto invitante dei due speciali fuori menu.
«Emmett, servi gli speciali… con tutte le dovute scuse per il disguido» fu il solo commento di Durand.
«Oui, chef.»
«Tavolo sette, due arrosti e un vegetariano!» chiamò Malone, come nulla fosse successo. «Quanto tempo?»
«Tre minuti per l’arrosto, Chef!»
Sahan lasciò il passe portando via il piatto assaggiato dagli chef e senza sapere cosa fare lo seguii come un cagnolino. A ogni passo l’odore del piatto sembrava dare una sfaccettatura diversa e non mi spiegavo come fosse possibile qualcosa di così magico.
«Dobbiamo servire altri speciali… stammi vicino, ti insegno come impiattarlo da manuale!»
«Io… ora ce la fai anche da solo a cucinare?»
«Se non ne arrivano una valanga penso di farcela, sì… la zuppa è pronta, preparo un po’ di riso in modo che debba solo finire e sia più veloce…»
«Allora io torno al mio posto… chiamami se ti servono due mani.»
Presi la ciotola con il guscio di cocco, il colino e tutto ciò che avevo sporcato nella preparazione, pronto a tornare al mio angolino e smaltire le stoviglie che si erano accumulate. Sahan aveva l’espressione confusa e mi diede l’idea che avesse dimenticato che non ero un cuoco. Feci del mio meglio per sorridere alla sua delusione.
«Mi sono divertito a cucinare con te, Sahan» gli dissi a bassa voce, perché Leclaire tendeva le orecchie per sentirci. «Ma questa è la tua occasione, non la mia… fai una bella figura e resta qui con noi. Sei un bravo ragazzo e ho bisogno di qualcuno di simpatico, qui dentro.»
Tornai al mio lavandino – intasato di pentole, pinze, cucchiai e quant’altro – con la sensazione piacevole di aver fatto qualcosa di davvero importante per la prima volta in molti anni. Stavo pulendo i coltelli con attenzione quando sentii fioccare ordinazioni extra o cambi di comanda dal passe, tutti con lo speciale in lista. Sahan diede un tempo stimato per il servizio successivo e poi fece capolino da dietro la postazione del pesce, con un sorriso sfolgorante.
«Mi prepareresti altro cocco come hai fatto prima?»
Sorrisi e mi asciugai le mani in fretta.
«Oui, chef!»

 
La storia verrà aggiornata ogni sabato.

Per seguire gli aggiornamenti o leggere la storia puoi seguire le mie pagine su:
Facebook: @atypingheart
Twitter: @a_typing_heart
Wordpress: notturnoofnovel.wordpress.com
Wattpad: @a_typing_heart
AO3: @a_typing_heart

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Un jour seulement ***


 

Incrociai lo sguardo di Leclaire quando, a serata finita, uscì dal ristorante dal retro. Mi sorprese molto; lui si credeva troppo prezioso per entrare o uscire dall’ingresso di servizio, ma capii all’istante che l’aveva fatto apposta per potermi vedere. Abbassai la bottiglietta dell’acqua dalla quale stavo bevendo e attesi, ma lui mi passò accanto guardandomi come fossi un brutto insetto sulla finestra e se ne andò senza un commento né un cenno di saluto.

«A gonfie vele» commentai quando fu scomparso alla vista.

Scrollai le spalle; non mi importava granché di stargli simpatico. Lanciai un’occhiata alla porta di nuovo chiusa, di nuovo perso a lambiccarmi il cervello su che cosa stesse dicendo di tanto lungo lo chef Durand a Sahan nel suo ufficio. L’attesa durava da tanto che continuavo a chiedermi se non dovessi andargli in soccorso. Non riuscivo a togliermi dalla testa la ferocia con cui Durand gli aveva strattonato il braccio, perché non avevo mai visto lo chef diventare fisicamente aggressivo.

Sospirai rumorosamente in preda al nervosismo e mi alzai dai gradini abbandonando la bottiglia per fare qualche passo su e giù. Mi sentivo un idiota, e realizzai solo in quel momento che non ero sicuro che Sahan sapesse che lo aspettavo: ci eravamo scambiati un’occhiata mentre lui saliva nell’ufficio dello chef e gli avevo fatto un cenno incoraggiante, ma senza una parola non poteva sapere che l’avrei aspettato per sapere cos’era successo.

Sospirai ancora una volta passandomi le mani sulla faccia, scoraggiato e nervoso. Mi misi a pensare se non fosse meglio andare a casa e scoprire il giorno dopo se Sahan era ancora al lavoro, ma la paura di non trovarcelo avrebbe potuto anche tenermi sveglio tutta la notte. Perché la mia era una paura, ormai.

Quando la porta si aprì vidi Sahan uscirne – si era liberato dell’uniforme e indossava pantaloni e giacca di pelle nera su una camicia di un brillante turchese – ma il suo sorriso scomparve subito e scese i gradini di fretta.

«Ma che stai facendo, Raim?!»

«Oh… beh, sto…»

«Perché cavolo stai facendo pipì qui?! Il bagno è a dieci metri!»

Non sono il tipo di persona che fa i suoi comodi in giro come un cane e l’unico motivo per cui non ero rientrato era che il bagno era già stato pulito e richiuso come era consuetudine. La chiave veniva appesa insieme a quelle dei lucchetti della cantina dei vini e delle celle frigorifere nel “solito posto”. Sapevo qual era, ma per stanchezza e pigrizia mi ero lasciato traviare.

«Non volevo sporcare» belai come risposta.

«Santo cielo, Raim, non puoi fare queste cose davanti all’ingresso della cucina di un ristorante!» mi rimproverò lui, aspro quanto la mia vecchia nonna. «Ci pensi se ti vedesse qualcuno fare pipì proprio vicino a dove i fornitori scaricano la merce? Promettimi che non lo farai mai più!»

«Non l’ho mai fatto prima, lo giuro.»

«Voglio sperarlo! Su, pulisciti» mi fece lui passandomi una salvietta da un pacchettino che teneva in tasca. «Tieni… ecco, prendine un’altra.»

«Okay… okay, bastano, non devo farmi la doccia.»

«Oh, dopo questo ti butterei di peso in un catino di acqua saponata e ti laverei come un grosso cane, credimi» ribatté mentre riponeva il suo pacchetto nella giacca. «L’igiene è tremendamente importante per un cuoco. Io sono un po’ maniacale, anche.»

Non mi stupii, non dopo avergli visto prendere le salviette umidificate dalla giacca. Subito dopo mi prese la mano e ci spremette un goccio di liquido azzurrino che odorava di alcol da una boccetta; anche quella uscì da una tasca della sua giacca.

«Su, strofinale. È antibatterico.»

«Per la miseria, Sahan» feci mentre facevo come mi chiedeva. «Che cosa fai quando devi andare a letto con qualcuno?»

Sahan strizzò i suoi occhi castano-verdi e mi si avvicinò con aria feroce; solo l’angolo della sua bocca che si sollevò suo malgrado mi fece intuire che non fosse davvero arrabbiato.

«Lo sterilizzo col vapore.»

Detto ciò sorrise e si igienizzò lui stesso le mani, alzando gli occhi verso il cielo. Era in arrivo uno dei rari piovaschi di Las Vegas, portato dal vento umido del golfo. Io però avevo in mente una stranezza che mi fece aggrottare le sopracciglia: aveva appena detto “lo”, e non “la”, come mi sarei aspettato che dicesse parlando di persone con cui poteva avere una relazione.

Ebbi allora il primo dubbio riguardo a Sahan, ma poi vidi le luci spegnersi dentro il locale e capii che Durand era sceso per chiudere prima di andarsene a casa. Ciò mi fece tornare alle questioni importanti. Mi fiondai fuori dal cortiletto con fretta eccessiva e portai Sahan con me arrivando a spingerlo materialmente tenendolo per le braccia; mi fermai solo quando arrivammo alla piccola insegna neon che segnava l’ingresso posteriore del Kiwi Theater, un piccolo locale di tendenza frequentato da molti comici e cabarettisti.

«Che ti ha detto lo chef, allora?»

Sahan si mise a ridere.

«Mi stai sequestrando solo per chiedermi questo?»

Mi resi conto di averlo trascinato per un bel pezzo di strada, senza nemmeno sapere da che parte avesse parcheggiato. Naturalmente mi sentii di nuovo un idiota, ma decisi di far finta di niente.

«Dai, che ti ha detto?»

«Mi ha bacchettato» mi rispose lui senza smettere di sorridere. «Per aver buttato la salsa… continua a sostenere che Leclaire abbia solo sbagliato le erbe, ma so che era andata a male. Comunque, visto che ho risolto il dramma e i clienti non hanno protestato, sono ancora dei vostri. Mi ha promosso da voyeur a commis di cucina, non è grandioso?»

«Davvero?»

Sahan mi rispose annuendo vigorosamente e sorridendo più che mai. Sentii un enorme peso lasciarmi libero e lì capii per davvero quanto ci tenevo che restasse. Sospirai con così tanto sollievo che lo feci ridere.

«Ci tenevi tanto, Raim?»

«Beh, sì… sì. Tu mi piaci, Sahan» risposi senza imbarazzo; faccio un vanto di essere una persona diretta. «Sei coraggioso, determinato, e sei gentile con gli altri. Sei educato, e… a me piace essere tranquillo e sereno, e credo che tu sia una persona tranquilla… beh, con la testa un po’ calda, ma non sei cattivo. Pensavo che se fossi rimasto saremmo riusciti a diventare amici.»

«Ma che vai dicendo, tu? Siamo già amici, noi, e ti avrei portato con me in un altro ristorante se mi avessero mandato via!»

Sahan rise e scosse la testa come se non potesse credere a quello che avevo appena detto. Non sapevo se fosse ironico, quindi dopo un momento di attesa decisi di chiarirlo.

«Ma dici sul serio?»

«Sul serio! Sono serissimo, capito? Quella gente che non ti rispetta non si merita uno sguattero! Quando finirò il mio apprendistato qui se lo vuoi puoi venire con me. Non per essere arrogante, ma lo chef Durand ha ragione: potrei andare un po’ ovunque tra Stati Uniti, Francia e Inghilterra e mi assumerebbe chiunque, e ho dei buoni agganci anche in Italia e Spagna. Se mi presentassi raccomandandoti ti assumerebbero se non sono già a pieno regime.»

«Sei davvero uno così importante?»

Un tuono lontano ci fece alzare la testa verso il cielo, interrompendo la nostra conversazione. Sahan fu il primo a riabbassare lo sguardo.

«Conosci un posticino un po’ tranquillo dove bere qualcosa insieme?»

«Vuoi bere qualcosa con me?»

«Beh, se non sei troppo stanco» si affrettò ad aggiungere lui. «Per me è stato un servizio decisamente calmo, ma tu stai sgobbando da tutto il giorno, capisco se…»

«No, va bene» lo interruppi con un sorriso. «È stato un servizio particolare per me, ma non sono stanco. C’è un bar vicino a casa mia, è frequentato da gente del posto, niente turisti… è pulito, tranquillo, costa poco e si sta comodi. Sali che andiamo.»

Una piccola, maliziosa parte di me sperò che Sahan non desse un senso particolare al fatto che il bar fosse vicino a casa mia – mi ero già fissato su quel dubbio – e gli indicai la mia macchina di seconda o terza mano parcheggiata dietro l’angolo. Per quanto Sahan mi piacesse, non mi piaceva in quel senso.

Non ancora.

*

Se mi ero preoccupato che Sahan trovasse il mio locale preferito troppo poco elegante mi dovetti ricredere: non era snob nei confronti dei luoghi come non lo era con le persone e osservò la saletta dalle luci basse, le lanterne di vetro viola che illuminavano dall’alto le bottiglie, i tavolini rotondi e le panche imbottite lungo la parete con vivace interesse; non mi sembrò diverso da come studiava la mise en place in cucina.

«È carino qui, Raim… ci vieni spesso?»

«Da anni… beh, da quando lavoro lì è il mio bar fisso, perché è di strada quando torno, ma non vengo tutti i giorni. Costa poco, ma non così poco.»

«Già, immagino che come sguattero ti paghino una miseria, se devo giudicare in base a quanto rispetto hanno per il tuo lavoro.»

L’arrivo del proprietario e barista del Posticino, Marco, mi risparmiò l’imbarazzo di una risposta onesta a bruciapelo.

«Ehi Raim! Sei in compagnia, vedo» osservò, e allungò la mano a Sahan. «Benvenuto al Posticino, io sono Marco Dallara.»

«Oh, quindi è proprio italiano questo locale!» replicò Sahan, e gli strinse la mano con vigore. «Sahan Micheaux. Sono un collega di Raim.»

«Un tuo collega!» ripeté Marco, scioccato e divertito in egual misura. «Ma guarda un po’, guarda un po’!»

Non mi sorprendeva la sua reazione: avevo passato mesi a lamentarmi di quanto fossero dei maleducati schiavisti i miei superiori al Liaison quando ero stato assunto, e il mio costante silenzio non faceva che riconfermare opinioni già ampiamente espresse e mai riviste al loro riguardo. L’ultima cosa che si sarebbe aspettato era proprio che gli portassi uno dei miei colleghi.

«Che hai in menu oggi, Marco? Muoio di fame» gli feci, nel tentativo di impedirgli di parlare troppo.

«Oh, la mia signora ha preparato i maccheroni ai quattro formaggi, ripassati nel forno, una delizia!»

«Io li prendo» risposi immediatamente; erano il mio piatto preferito del Posticino.

«Abbiamo anche i ravioli dell’angelo, morbidi e delicati» aggiunse, rivolto a Sahan. «Oppure abbiamo una squisita bistecca servita con il pesto della casa, si scioglie in bocca come la neve al sole!»

Sahan esitò appena un secondo quando Marco finì la sua presentazione.

«Voglio assaggiare tutto.»

«Oh… ottima scelta!»

«Okay, Marco, portaci uno di maccheroni, un raviolo e una bistecca da dividere» gli feci, e addocchiai il tavolo vuoto all’angolo che preferivo. «È libero il solito posto?»

«Certamente, accomodatevi e sono da voi in un lampo… da bere che vi porto?»

Sahan si fermò vicino alla cassa, vivacemente interessato a un grosso dispenser di vetro pieno di liquido rosso e frutta: un pezzo forte, per quanto non italiano, di Marco.

«Oh! Sangria? Io prendo questa!»

«Benissimo! Per te, Raim? Il solito?»

«Due di queste per stasera, grazie.»

In realtà ero solito bere birra scura, ma lo facevo un po’ dopo aver finito di mangiare e di norma restavo lì per un bel pezzo. Quella sera non sapevo quando Sahan sarebbe stato stanco e preferii adeguarmi a lui. In ogni caso, la sangria di Marco era fantastica.

Sedemmo sulla panca del mio tavolo abituale, dal quale era possibile vedere il banco, l’ingresso e la porta dei servizi, e una volta serviti di sangria Sahan smise di studiare il locale per guardare soltanto me.

«Abbiamo tempo o hai qualcuno che si chiede dove sei finito, se fai tardi?»

Abbandonai la cannuccia ancora prima del primo sorso.

«Mi stai già chiedendo se sono sposato?»

«Più o meno» fece lui, scrollando le spalle. «Ma più che altro… mi domandavo perché ti ostinassi a restare in quel posto. Ho immaginato fossi in una situazione in cui ti serviva assolutamente un lavoro.»

«Beh, ci hai visto giusto. Mi serve un lavoro, quindi se te ne vai e mi licenziano lasciami detto dove sei finito, che vengo a bussare» gli feci con il massimo della serietà. «Ma mi stavi dicendo prima…»

Feci una pausa per vedere se avrebbe cercato di sviare il discorso. Lui continuava a guardarmi mentre rosicchiava una fetta di mela ripescata dal suo bicchiere, senza la minima ansia.

«Ho sentito la tua conversazione con Durand, ieri sera… sei davvero un pezzo così grosso da essere preso a lavorare da chiunque?»

«Porto un nome pesante, per così dire… Arnaud Micheaux è mio padre.»

Ma per quanto mi disse quel nome avrebbe anche potuto dirmi che era imparentato con un concorrente di The Bachelor: non avevo idea di che cosa avesse dato a Micheaux senior tanta fama. Sahan anziché offendersi scoppiò a ridere e fece un gran sospiro.

«Oh, Raim, tu non puoi capire quanto io sia felice di vedere l’ignoranza sulla tua faccia!»

«Mi dispiace… io non…»

«Ma scherzi? Io sono davvero felice! Essere un Micheaux è un peso, alle volte!»

Ero contento di non averlo offeso, ma non stavo seguendo il suo discorso dal basso della mia ignoranza.

«Ehm, bene, ma… potresti dirmi chi è tuo padre?»

«Preferirei di no, ma immagino che la conversazione diventerebbe frustrante… beh, Arnaud Micheaux è uno dei più eccellenti chef di Francia, anzi, d’Europa… sai, premi gastronomici, coccarde, riconoscimenti stampati in pergamena… viene intervistato in tv, pubblica libri, ha una scuola a suo nome a Parigi, un ristorante sulla Senna, e tre figli che fanno gli chef come lui.»

Emisi un fischio; la sola cosa che riuscii a commentare. Era più chiaro da dove avesse tirato fuori quell’incredibile piatto dal nulla in una manciata di secondi.

«Ma mio padre… è un tradizionalista. Ha viaggiato in quattro continenti per imparare, ma poi ha accantonato tutto… non gli interessa l’innovazione, lui vuole solo esaltare l’età classica della gastronomia francese. Il suo ristorante è la Mecca della cucina francese tradizionale e vuole che resti così, in perpetuo. Che i suoi figli portino avanti il suo credo e che il suo lavoro continui immutato per generazioni.»

«Mhh… e mi sembra che la cosa non ti piaccia, Sahan.»

Avevo scoperchiato il vaso di Pandora pur senza rendermene conto.

«È ovvio che non mi piace! Quella francese è una cucina eccellente e ricca, ma… è una goccia nel mare, e mio padre questo non lo capisce! Ci sono centinaia di paesi con una cucina autoctona, con prodotti locali e metodi antichissimi di prepararli, o al contrario nuovissimi, d’avanguardia!»

Si era acceso. Gli occhi gli brillavano, mi sembrava di potergli vedere il fuoco che aveva dentro direttamente da lì.

«Li ha visti, ne ha sentito parlare, e li ha ignorati. E pretende che anche io lo faccia! Questa è una colossale assurdità, e io non ho la minima intenzione di far finta di non accorgermi di quanto enorme e vario sia il mondo in cui sono nato. Questa non è la Francia dell’anno mille, in cui era quasi impossibile trovare un ingrediente o una spezia esotica! Siamo un mondo unico, più vicini di quanto sia mai stato possibile pensare, e io voglio vedere e provare tutto quello che posso e farlo mio

Alla fine di quello sfogo quasi ansimava, e mi venne spontaneo ridere.

«Va bene, va bene, tigre, calmati o mi scotterai…»

«Ah… scusami, non volevo prendermela con te, ma… mio padre nemmeno mi lascia finire di parlare quando cerco di spiegarglielo… e credo che il solo modo in cui potrò dirglielo è con la mia cucina» mi spiegò, più calmo. «Se io apprendo tutto quello che posso e lo uso per portare ancora più in alto la cucina a cui tiene… posso fargli capire che arroccarsi è sbagliato. Come tutte le arti, anche la cucina evolve insieme all’uomo. Io credo che sia giusto così.»

Mi presi un po’ di tempo per osservarlo, mentre sorridevo. Era così entusiasta, così appassionato… e se davvero mi ero messo nei guai con Leclaire, non avrei mai potuto farlo per una ragione migliore che aiutare quel ragazzo.

«Quanto fuoco, Sahan… non sai come ti invidio. Avrei voluto che anche i miei guai con mio padre avessero trovato uno sfogo così costruttivo. Quando sei in cucina e si parla di cibo sembri veramente felice.»

Sahan mi fece un sorriso più timido che mai e rimestò con la cannuccia nel bicchiere.

«Beh… io sono felice in cucina. Non ringrazierò mai abbastanza mio padre per avermi trasmesso il suo amore per la gastronomia e tutte le sue conoscenze… io non lo odio, Raim, mi credi? Io non odio mio padre. Odio solo che si sia reso un uomo limitato in un mondo di possibilità illimitate.»

«Lo vedo che non lo odi… ci tieni, si vede.»

«Io voglio bene a mio padre…»

«Lo vedo, Sahan… non ho motivo di credere il contrario.»

«Io voglio bene a mio padre» ripeté lui, e vidi i suoi occhi diventare lucidi. «E lui mi ha mandato via. Mi ha detto di non tornare a casa e al Micheaux finché non avessi cambiato idea…»

In quel momento non mi sentii troppo a disagio per la sua improvvisa emotività, e lo ammetto, in buona parte fu perché lo credevo più giovane di quanto non fosse e mi sentivo molto calato nel ruolo di fratello maggiore con lui. Gli posai la mano sulla spalla e la strinsi per fargli coraggio.

«Ehi, ehi… non piangere, Sahan, dai. Padri e figli litigano, è naturale come il ciclo delle stagioni!»

«P-perdonami… perdonami, non…» si interruppe per asciugarsi gli occhi con l’angolo del tovagliolino ed emise un sospiro tremante. «Non pensavo di reagire così… m-ma non ho più parlato con lui, non ho… potuto dirgli niente…»

«Sono sicuro che gli manchi molto» affermai senza la minima prova. «E secondo me… sai, anche mio padre era un tipo severo e orgoglioso… io penso che ti abbia buttato fuori non perché è arrabbiato, ma per liberarti dal suo ristorante… ora sei libero di andare da chiunque, e imparare tutto quello che vuoi, no?»

Mi guardò come un cucciolo bagnato avrebbe guardato il primo passante dopo ore di solitudine e freddo.

«Lo so che i padri così feriscono» insistetti, e almeno stavolta sapevo di che parlavo. «Ma non pensi che potrebbe averlo fatto per farti viaggiare senza… beh, perdere la faccia con gli altri tuoi fratelli?»

Sahan tacque e bevve dalla cannuccia, rimuginando. Io sperai di averlo convinto, di sicuro mi piaceva molto di più quando rideva.

«Non so… è molto orgoglioso, questo sì…»

«Certo, e un po’ fa bene a esserlo se è così bravo come mi dici.»

«Io sono il più piccolo» osservò, mescolando la sangria. «I miei fratelli alla fine si sono piegati a lui… a loro basta far parte di una realtà stellata. Sono contenti di essere parte della gloria di papà.»

«Può darsi che ti abbia trattato più duramente del dovuto per tenere almeno loro insieme a lui» ponderai passandomi le dita sulla barba sulla mandibola. «Se tiene tanto alla tradizione, forse aveva paura che tutti i figli cambiassero stile e interessi, se li avesse lasciati fare. Non è molto bello, ma almeno spiega il suo comportamento… tua madre che cosa ne pensa?»

Scosse la testa.

«Mamma non c’è più da tanto tempo… è morta che io ero bambino.»

«Ah… mi spiace.»

«Non c’è bisogno… anche se mi manca, è passato tanto tempo e ci siamo abituati.»

Annuii rigido, tentando di scovare un argomento meno deprimente per ravvivare l’atmosfera, ma poi Sahan scosse la testa in modo buffo e mise su uno splendido sorriso.

«Perdonami, sto parlando soltanto di me! Raccontami qualcosa di te!» fece in tono vivace, e batté più volte la mano sul tavolo, come un rullo di tamburi. «Che studi hai fatto? Che lavoro facevi prima? Che sogno hai nel cassetto?»

Mi prese di sorpresa, ma accettai con gioia il cambiamento di umore.

«Studi… nessuno in particolare, non sono stato al college, ma mi sono diplomato… anche se con voti così così» ammisi candidamente, scrollando le spalle. «Lo sguattero in pratica è il mio primo vero lavoro e… il mio sogno, mh? Io voglio stare tranquillo. È questo il mio sogno.»

Sahan mi guardò perplesso, aggrottò le sopracciglia scure e si infilò in bocca un chicco d’uva lentamente mentre rifletteva; così lentamente che finii per chiedermi se non stesse cercando di mandarmi un messaggio subliminale.

Con il senno di oggi, mi chiedo da dove mi arrivasse tanta stima di me da pensare di piacere fisicamente a un ragazzo curato e attraente – e giovane, come credevo che fosse – come Sahan.

«Con “stare tranquillo” che cosa vuoi dire, esattamente? Guadagnare abbastanza da non preoccuparti?»

«Beh, mi sembri maturo abbastanza da potertelo dire.»

«Dire cosa?» saltò su lui, con un sorrisetto birbante.

«Sono stato un taccheggiatore, ho spacciato erba e ho anche comprato e rivenduto roba rubata… e sì, sapevo benissimo che era rubata. Sono stato in carcere cinque anni, e una volta uscito dovevo starmene buono e lavorare per almeno un anno.»

«Per la miseria!» fece lui, e si guardò intorno come se temesse che ci ascoltassero; infatti si chinò per avvicinarsi molto a me e sussurrare. «E Durand ti ha assunto sapendolo?!»

«Non proprio… non gliel’ho detto, e poi sono andato al Liaison e non nel primo fast food proprio perché… beh, il resort è di proprietà di un tale, e io andavo a scuola con suo nipote. Eravamo molto amici e mi ha detto di presentarmi per qualsiasi posto disponibile dentro il Monoc.»

Sahan annuiva mentre mi ascoltava.

«È stato molto generoso da parte sua! Beh, ora capisco perché sei rimasto anche se gli chef ti trattano male… faresti fatica a trovare un altro posto, non sei qualificato abbastanza per puntare sulle capacità…»

«Ohi, bada a come parli, moccioso» gli feci, alzando l’indice con fare minaccioso. «Sono così bravo a eliminare il verde dalle padelle che farei diventare di rame anche un prato!»

Sahan scoppiò a ridere così forte che Marco ci diede un’occhiata dal fondo del bancone e non riuscii a trattenermi, finii per ridere anch’io, e più lui continuava più ridevo anch’io. Aveva una risata terribilmente contagiosa e riuscimmo a calmarci soltanto quando arrivarono le nostre ordinazioni: una terrina ovale di ricchi maccheroni coperti di formaggi dalla superficie abbrustolita, una cocotte di terracotta con i soffici ravioli a mezzaluna secondo la ricetta di Martha Dallara adagiati in una squisita salsa bianca, e una piastra calda sulla quale sfrigolava ancora una succulenta bistecca al sangue tagliata a striscioline. Sahan batté le mani per l’entusiasmo, tale e quale a un bambino.

«Oh, sembra fantastico! Che cosa… oh, no, no, non dirmelo, voglio provare a indovinare!»

Pensai che fosse parecchio ardito da parte sua credere che io fossi capace di dirgli quali erano gli ingredienti: pur avendo mangiato un centinaio di volte i portentosi maccheroni di Martha non avevo mai chiesto – né tantomeno indovinato – quali fossero i formaggi usati.

Presi un boccone di pasta e me lo godetti come lo spettacolo di Sahan che tagliava il raviolo, lo osservava, lo annusava e infine lo assaggiava a occhi chiusi.

«Delizioso» commentò subito dopo. «Assolutamente delizioso… vediamo… porro soffritto con il burro, ricotta, crescenza… parmigiano e finferli nel ripieno… noce moscata, besciamella, erba cipollina… ah, questa non è pasta, è poesia

La metà degli ingredienti che aveva citato non avevo idea di che sapore avessero, alcuni nemmeno sapevo che cosa fossero. Non avrebbe dovuto sorprendermi dopo aver saputo quanto i Micheaux fossero cuochi famosi, ma restai davvero di sasso.

«Hai sentito davvero tutta questa roba? Da un boccone solo?»

«Ne ho presi due» mi corresse lui, come se questo sistemasse la questione.

«È una cosa che insegnano agli chef?»

«Uhm… sì e no… è una questione di esperienza» spiegò lui con grande modestia. «Ovviamente quando fai il cuoco cucini tantissimo, tutti i giorni, e con un ristorante che cambia spesso menu o facendo la scuola provi tanti ingredienti… impari a riconoscerli dal colore, dall’odore, o dal sapore.»

«Assaggia anche questi, prova a indovinare!»

Preso dalla foga di quella prova non badai affatto a che cosa avrebbero potuto pensare gli altri clienti nel vedermi imboccare un altro uomo e gli avvicinai una forchettata del mio piatto preferito. Lui non protestò, e a ripensarci in un momento successivo mi resi conto che mi aveva visto benissimo mangiare con la stessa forchetta. Avrei avuto modo quella sera di chiedermi perché non lo avesse disturbato, arrivando alle solite conclusioni idiote.

Sul momento lo guardai mangiare ancora una volta a occhi chiusi e masticare lentamente.

«Mhh… capisco perché l’hai scelto così di getto, senza esitare… sono sublimi.»

«Che dici, li hai riconosciuti i formaggi?»

«Vediamo… sento l’affumicato della scamorza italiana, il gusto ricco dell’emmenthal, la mozzarella, il parmigiano e… uhm…»

«Beh, ce l’hai fatta! Sono quattro, no?»

«Il parmigiano è sopra, ma credo ci sia dell’altro… ma non lo distinguo… non è un formaggio erborinato, eppure…»

Nella sua perplessità e ostinazione Sahan finì col mangiare da solo metà della mia porzione, e mi “vendicai” prendendomi metà dei suoi ravioli dell’angelo. Non riuscì a trovare una risposta sul quarto formaggio pur elencando con certezza svariati altri ingredienti usati per la preparazione. Su mio invito snocciolò anche le erbe usate per aromatizzate la bistecca, che si scioglieva veramente in bocca come la neve, e fece sinceri complimenti sul gusto dei piatti.

«È tutto veramente ottimo… ma non sono poi tanto sorpreso, Raim» fece quando davanti a noi erano rimasti solo piatti vuoti e frutta in fondo al bicchiere. «Tu hai un buon senso del gusto per non essere mai stato in una cucina… ti sei accorto che la salsa era acida, come me. Hai sentito le spezie indiane, le hai associate a quello che conoscevi. Ti manca una conoscenza enciclopedica degli ingredienti, ma hai un palato che chef con cui ho avuto modo di lavorare ti invidierebbero.»

Il mio solo commento fu il rumore della cannuccia che pescava a vuoto.

«Per questo non sono sorpreso. Vieni qui perché hai assaggiato questi piatti e sai, pur non capendo di cosa o come sono fatti, che hanno giusta sapidità, gusto, ed equilibrio. Sembrano piatti pesanti e grassi quelle due paste al forno, ma sono ben fatte e quindi non è affatto difficile mangiarne anche due porzioni.»

Non avevo la minima idea di come averlo portato nel mio locale preferito avesse finito per attribuirmi dei meriti come chef, o almeno il palato di uno di loro. Tuttavia mi sentii onorato, almeno un po’.

«Beh… immagino che Marco e la sua signora ne saranno contenti.»

Sahan iniziò a parlare di un ristorantino di Amsterdam in cui era stato l’anno prima, ma ammetto di non averlo affatto ascoltato: sotto il tavolo aprii il portafogli chiedendomi con un certo imbarazzo se sulla carta avessi abbastanza liquidità per saldare il conto, perché avevo meno di cinque dollari in contanti. Ero stato avventato a ordinare per far contento il mio ospite senza fare due conti, e l’idea che saldasse lui mi era caustica come un insulto personale.

Ricordo di aver annuito a caso chiudendo il portafoglio e Sahan si alzò in piedi di scatto con un cipiglio di falco.
“Che cosa diavolo ho detto?”, mi domandai atterrito.

«Vado a chiedere!»

Non avevo la minima idea di che cosa volesse chiedere e a chi, quindi mi affrettai ad andargli dietro e lo vidi affacciarsi alla cucina prima che riuscissi a bloccarlo.

«Scusatemi, siete indaffarati?» domandò a Martha e alle sue due aiutanti, le sue nipoti. «Oh, siete tutte donne qui dentro, che meraviglia!»

«Chi è questo squinternato?» domandò Martha a una delle nipoti, che scosse la testa.

Mi feci avanti e agguantai Sahan per le braccia.

«Scusaci, Martha, ce ne andiamo subito!»

«No, aspe– hai detto che potevo venire!»

«Che succede?» saltò su Marco, accorso in cucina a quel trambusto.

Ci fu mezzo minuto di caos in cui circa tutti parlammo per fare domande o per rispondere e nessuno capì un accidenti, e io colsi il silenzio del momento in cui ripresero fiato per spiegare quanto più possibile in una piccola finestra.

«Il mio amico è uno chef» sparai fuori d’un fiato, indicandolo con un cenno della mano. «Cercava di indovinare i formaggi dei maccheroni, e voleva chiedere conferme.»

«Quindi non sta reclamando?» fece Marco.

«Non è venuto a spiare?» fece Martha nello stesso momento.

«No… e no… la tua cucina è sempre fenomenale, Martha, e Sahan…»

«Credo di aver sentito parmigiano, scamorza affumicata, emmenthal e mozzarella, ma c’è qualcos’altro, vero?» intervenne Sahan, scandagliando il banco della cucina. «Posso sapere cosa? Sono tremendamente curioso!»

Martha aggrottò le spesse sopracciglia scure e storse la bocca dal rossetto vistoso come sempre – quella sera in un tono molto acceso di magenta – prima di guardare me.

«È un tuo amico?»

Annuii.

«Sì, siamo amici. Lavora al Liaison anche lui, ma è uno chef esperto…»

Martha sospirò e poi sorrise, arrivando una gran pacca sulla schiena di Sahan; così forte da farlo barcollare in avanti.

«Potevi anche dirlo subito, no? Vieni qua, su. Ecco il segreto dei quattro formaggi del Posticino!»

Martha prese un bello spicchio di formaggio dal frigorifero più vicino e rimosse la pellicola trasparente che lo avvolgeva, poi lo avvicinò a Sahan. Lui lo studiò attentamente e l’annusò con interesse.

«Questo è Asiago stagionato, un formaggio ottimo, che ci mandano i nostri parenti italiani» fece la cuoca, e tagliò un pezzo di formaggio per Sahan e un altro che porse a me. «Qui negli Stati Uniti è difficile da trovare e le famiglie italo-americane usano solo parmigiano, panna, mozzarella ed emmenthal, qualcuno usa il gorgonzola, ma quello spesso non piace ai bambini! Questo, invece, è il segreto della casa!»

Sahan assaggiò il formaggio e lo feci anche io: mi stupii di “ricordarne” il gusto, anche se era mescolato a tanti altri sapori. Per la prima volta avevo una dimostrazione che Sahan non si era del tutto sbagliato su di me, ma avrei dovuto averne altre prima di convincermene.

«Oh… è squisito, madame…»

«Certo che lo è! Non è mica roba industriale questa!»

«Questa è la profondità di gusto che sentivo e non sapevo riconoscere» commentò Sahan con un sospiro rapito. «Non credevo che una ricetta con così tanto formaggio riuscisse ad avere quella freschezza… ho ancora molto da imparare sulla cucina italiana, non c’è dubbio…»

«La scorza di limone è il segreto per renderla meno pesante al palato» gli disse una delle nipoti, con un sorriso timido. «Abbiamo sempre fatto così, a casa.»

«Scorza di limone? E la grattugiate a fine preparazione, o…?»

«Sahan» lo chiamai con una certa insistenza. «Sono nel pieno del turno, lasciale lavorare, dai.»

«Oh… sì, certo…»

Guardò Martha intensamente, fece per andare alla porta ma poi si voltò ancora.

«Sarebbe un problema se una volta venissi qui a vedere come preparate le vostre specialità? Credo che potrei imparare molto dal vostro stile rustico, è tutto un approccio differente al sapore.»

La prima reazione che ebbi fu di chiedergli se fosse impazzito, ma prima che riuscissi ad aprir bocca Martha scoppiò a ridere allegramente. Gli negò quella possibilità ma gli promise di scrivergli la ricetta passo passo per consegnargliela la prossima volta che fosse venuto a mangiare da loro. Sahan non era affatto scoraggiato e accettò con grande entusiasmo, smaglianti sorrisi e complimenti a pioggia.

Marco mi scortò al bar – mentre Sahan approfittava di qualche altro secondo di gentilezza dello staff per fare domande sul prezzo dei formaggi – e mi diede qualche pacca sulla schiena con fare incoraggiante.

«Martha gongolerà un mese» mi fece, e tornò a sistemare i bicchieri usciti dalla lavastoviglie. «Adora i complimenti dei clienti! Chiamerà tutte le sue amiche per far sapere in giro che un cuoco di un resort di lusso le ha chiesto le ricette!»

L’allegria con cui Marco e Martha reagirono all’incursione che avevo scioccamente approvato mi calmò e mi sedetti al banco a bere un altro bicchiere di sangria.

«Siete davvero amici, tu e quel tipo?»

Incrociai gli occhi di Marco e dopo un attimo annuii. Non era difficile ammettere che da quando ero finito in galera nessuno si era mai preoccupato di me e che io stesso non avevo preso particolarmente a cuore nulla e nessuno dopo quella dura esperienza. Sapevo che Sahan era diventato un amico di cui mi fidavo, una persona che gradivo e al quale auguravo ogni fortuna per il suo viaggio… dopo appena un giorno.

Marco ricevette una comanda dall’unica cameriera presente quella sera e presi due boccali di vetro dal frigorifero li piazzò sotto il beccuccio dell’impianto della spina.

«Se è così, sono felice per te, Raim. Ethel ne sarà sollevata, è sempre così preoccupata perché tu sei sempre da solo.»

Bevvi un sorso senza commentare. Ethel era mia nonna, e l’unica parente che mi fosse rimasta; la sola persona che mi avesse scritto quando ero in prigione e che per le feste del Ringraziamento che avevo passato dietro le sbarre si era opposta alla sua salute precaria per venire a farmi visita. Non siamo stati molto legati quando ero piccolo, ma dopo la morte di mia madre e poi di mio padre fece del suo meglio per recuperare quel poco che di buono c’era rimasto nel suo unico nipote.

All’epoca in cui conobbi Sahan si occupava ancora di me affittandomi l’appartamento superiore della sua casa mentre lei viveva in quello ricavato al pianoterra, in modo che se la cavasse senza aiuti non dovendo affrontare quotidianamente le scale. Senza il suo irrisorio affitto “contributo spese” non sarei mai riuscito a mantenermi con quel lavoro di sguattero senza dividere l’affitto con dei coinquilini.

«Eccomi, Raim!»

Sahan mi raggiunse mentre rimuginavo sulla nonna e sulle lamentele che veniva a fare a Marco – in quanto vecchio amico di mia madre – e si mise sullo sgabello accanto al mio. Il suo sorriso era raggiante, al confronto la sua felicità per la riuscita del suo piatto al ristorante era un funerale. Riuscì a farmi tornare il sorriso.

«Scusami se ti ho lasciato qui da solo! Non ti stavi annoiando troppo, spero.»

«Non ti preoccupare, Sahan… sei soddisfatto della tua uscita?»

«Oh sì, lo sono! In realtà è stata una splendida giornata» fece lui con aria sorpresa. «Di solito un nuovo posto di lavoro è una cosa stressante… servono giorni per ambientarsi anche nei posti più amichevoli, c’è molto da imparare e… beh, di norma il primo giorno è sempre traumatico… ma stavolta è stato davvero magnifico!»

«Magnifico? Al tuo posto sarei ammattito.»

«Un cuoco non può uscire di testa per una cosa del genere!» protestò battendosi la mano sul petto. «Può succedere di rovinare una salsa, o far cadere un vassoio o che si rovesci una pentola! Non si può ammattire per così poco, bisogna reagire prontamente~»

«Sì, sì, etica del cuoco» tagliai corto con una risata spontanea. «Beh… per quello che vale, Sahan, io invidio molto il tuo coraggio e la tua capacità di gestire lo stress. Su, prendi un altro bicchiere, che non abbiamo nemmeno brindato alla tua grande soirée!»

«Ahh, Raim! Hai parlato francese~»

«Non eccitarti troppo, conosco solo questo. Chef Malone ama dirlo ogni volta che c’è un evento al resort e gli ospiti mangiano da noi.»

Sahan rise e alzò il bicchiere che Marco gli passò per il nostro brindisi. Purtroppo per il mio conto aperto furono ben otto i bicchieri di sangria che ci finirono sopra oltre alla cena, ma non ricordavo più l’ultima volta che a fine giornata mi ero divertito tanto ed ero così rilassato.

Uscendo dal Posticino sentimmo immediatamente l’aria umida e fredda che ancora non aveva portato il temporale promesso, ma era ormai vicino. Alzammo entrambi lo sguardo sulle nuvole che si ammassavano, venate di fulmini. Era una lunga scarpinata verso il ristorante e dopo tutto quel vino non era saggio né farlo camminare tanto né guidare fino a casa, quindi mi girai per suggerirgli di fermare un taxi.

Avevo appena pronunciato la prima sillaba che lo vidi incespicare e per non cadere si aggrappò alla mia spalla. Rise appena e sospirò rumorosamente.

«Non potrei immaginare una serata più bella di questa per concludere una giornata memorabile~»

Sorrisi accomodante pensando che avrei dovuto trovare un modo per chiudere la serata prima che succedesse qualcosa – mi imbarazza ancora pensare a quanto fossi pieno di me, per essere convinto che Sahan facesse quel genere di pensieri! – ma non dovetti farlo: lui si raddrizzò lasciandomi la spalla e attirò l’attenzione di un tassista sbracciandosi dal marciapiede.

«Non vuoi che ti accompagni io alla macchina…?»

«Oh, non mi sento affatto in grado di guidare» replicò lui, col sorriso di un ragazzino. «Sono troppo contento e ho bevuto un po’ troppo vino per mettermi al volante! No, no… meglio farmi portare a casa, e domani riprenderò la macchina!»

«Allora potrei passarti a prendere, per risparmiarti il taxi… almeno domattina» feci, mentre gli aprivo la portiera. «È colpa mia se non puoi venire con la tua macchina, in fondo.»

«Sei gentile, Raim… ma io abito nella direzione opposta a casa tua!»

Sahan salì a bordo e allacciò diligentemente la cintura.

«Grazie di questa bellissima serata… dobbiamo tornarci ancora. La prossima volta offro io, però» affermò con una certa asprezza, come a dirmi di non osare contraddirlo. «Buonanotte, Raim. Fai attenzione fino a casa, guida come una vecchia signora che non arriva a schiacciare i pedali!»

Scoppiai a ridere immaginando mia nonna, che arrivava appena al metro e cinquanta, e risposi al cenno di saluto che Sahan mi fece con la mano. Il taxi partì e io lo seguii con gli occhi finché non girò l’angolo, poi ficcai le mani nelle tasche dei pantaloni e mi avviai a piedi verso casa: non era così vicino, ma anche io mi sentivo di aver bevuto un po’ più del consigliabile e finire in bocca a una pattuglia non era una bella prospettiva per uno che come me era uscito di prigione da poco.

La passeggiata passò velocemente non tanto per il mio passo ma perché per tutta la strada ripensai all’accaduto di quel pomeriggio. Ripensai a Sahan che mi scambiava per il cuoco addetto al pesce, al modo in cui difendeva il mio lavoro con Leclaire, a come mi aveva aiutato con i tegami senza esitazione, e a come si era fidato di me per aiutarlo a preparare un piatto che valeva il suo nuovo posto di lavoro.

Concordavo con lui: era davvero una giornata memorabile.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Ce qui s'est passé à Vienne ***


Con umore allegro che sfiorava l’ingenuità mi presentai al lavoro il giorno dopo ed ebbi anche tanto coraggio da entrare fischiettando in cucina, ma il sorrisetto sulla faccia di Leclaire e il modo in cui mi guardò mi suggerirono che dovevo aspettarmi qualcosa. Qualcosa che non erano ringraziamenti e pacche sulle spalle.

«È tutto okay, qui?»

Leclaire non rispose subito e il suo ghigno si allargò. Lo conoscevo abbastanza da dire solo da quello che non prometteva bene; era la faccia di quando trionfava senza discussioni su qualcuno che reputava dovesse essere rimesso al suo posto. La sola domanda era se questo qualcuno fossi io o fosse Sahan.

«Dipende, sguattero.»

«Da che cosa, chef?»

«Ce l’hai un altro posto di lavoro, se lo chef ti sbatte fuori?»

Non potei evitare di mostrare una reazione ed ebbi una vistosa esitazione mentre raggiungevo il lavabo. Mi voltai verso di lui mentre mi arrotolavo le maniche come facevo sempre.

«No, francamente. È questa la novella del giorno? Sono licenziato?» feci riuscendo a far uscire il tono molto calmo. «Perché se è così non ho intenzione di finire il turno e vado dritto all’ufficio di collocamento.»

«Per questa volta sei salvo… per un soffio, però. Ringrazia il tuo nuovo amico Micheaux.»

Non mi erano nuove vaghe minacce di licenziamento, ma questa era così specifica riguardo a Sahan che non mi limitai ad accettarla passivamente.

«In che senso?»

«Con il suo piatto molto richiesto, anche se poco ortodosso, ha salvato il servizio. Non so se Durand sarebbe stato altrettanto comprensivo, se la tua incompetenza non fosse stata coperta da Micheaux.»

«Ha intenzione di spiegarsi o andiamo di filosofia ermetica ancora per molto?»

Il tono della mia risposta – meno che ossequiosa – fu tale a un insulto per l’innata superbia di Leclaire e sbatté con stizza lo strofinaccio sul bancone. Aveva perso il sorriso.

«Sei stato tu a rovinare la mia salsa al pepe.»

«Io? E come avrei fatto, scusi? Lasciando la schiuma del detersivo dei piatti dentro la vaschetta?»

In un altro momento avrei fatto molta più attenzione a come mi rivolgevo al nipote di Durand, ma quell’accusa mi parve così ridicola e pretestuosa che non riuscii a non replicare.

«Non rispondere ai tuoi superiori con quel tono, sguattero» mi ammonì lui. «È una salsa calda. Deve essere coperta e lasciata intiepidire qui sul banco prima di metterla nel frigo. Distratto e ignorante come sei hai sicuramente messo la salsa nella cella dei preparati quando era ancora calda, e l’hai fatta inacidire.»

«Ma se non apro mai la cella dei preparati! Non ho il permesso di farlo, posso solo portare dentro la roba cruda nella cella degli ingredienti!»

«Per questo non puoi farlo, sguattero. Non sei qualificato per maneggiare i preparati. Hai rovinato una salsa per una volta che ti sei permesso di spostarla.»

«Ma non l’ho fatto!»

«Silenzio!»

Dal mio angolo non avevo visto lo chef scendere dall’ufficio e trasalii. Per qualche secondo mentre scendeva i gradini pensai di essermi giocato il posto proprio nel modo in cui avevo sempre cercato di evitare.

«Un cuoco diplomato, seppure senza esperienza, sa bene che non si deve mettere nulla di caldo in frigorifero. Non l’hai fatto certo intenzionalmente, ma se ti abbiamo vietato di mettere mano a certe cose e in certi posti è perché non servono mani in più se sono inesperte.»

Non trovavo così difficile mordermi la lingua dai miei primi mesi di galera.

«Sì, chef.»

«D’ora in poi non toccare più ingredienti e preparazioni se non quando porti dentro i rifornimenti» mi intimò Durand con il tono che avrebbe usato per un bambino cocciuto. «Non toccare la linea dei cuochi e le comande. Non cucinare nella mia cucina, sono stato chiaro? Se Micheaux desidera avvalersi dell’aiuto degli sguatteri senza nozioni di base è qualcosa che riguarderà lui quando sarà responsabile di una sua cucina, e quel giorno se sarà quella la tua strada ti augureremo buon viaggio. Sono stato chiaro?»

«Sì, chef. Non accadrà più» risposi sputando con difficoltà ogni parola.

«Non voglio sentire che hai combinato qualcos’altro, o il nostro au revoir sarà immediato. Capito?»

«Sì, chef.»

«Bene.»

Quando si voltò si rivolse a chef Malone che era appena rientrato dalla sala e gli chiese notizie del prezzo dei gamberoni rossi che sperava di ottenere da un nuovo fornitore. Leclaire aveva recuperato quel sorriso lezioso mentre triturava erba cipollina e seppi che addossare a me la colpa della salsa rovinata aveva reso giustizia al suo ego senza dover sbattere contro l’innegabile bravura di Sahan. Anche se ero rasserenato che non avrebbero cercato di rimarcare le colpe di Sahan mi bruciava che mi venisse data la responsabilità di un errore quando non avevo neanche le responsabilità di un qualsiasi commis in quel ristorante.

Lavorai con umore molto rabbuiato rispetto a prima e neanche l’arrivo di Sahan e il sorriso che mi rivolse mi fecero sentire meglio. Lui se ne accorse subito e mi venne vicino prima ancora di salutare chiunque altro.

«Che succede, Raim? Hai un’aria così cupa» osservò, con l’aria preoccupata. «Ti senti male ancora per ieri sera?»

«No, sto bene.»

«Non mi sembra proprio.»

Appoggiò la mano sulla mia fronte come a sentirmi la febbre, ma io alzai gli occhi al di sotto del suo polso verso Leclaire; era troppo impegnato a porzionare un grosso salmone facendo scuola a Isabel per notare l’arrivo di Sahan. Lo acchiappai per il braccio.

«Andiamo nello spogliatoio» gli sussurrai, e gli feci strada. Lui non si oppose e mi seguì dentro lo spogliatoio, un locale angusto con una panchina sotto la quale si infilavano le scarpe buone e degli armadietti per stipare oggetti e vestiti di ricambio del personale.

In due ci si stava appena a una distanza di cortesia e mi incuneai in un angolo per lasciare più spazio a Sahan per indossare l’uniforme; nel frattempo lo intrattenni con la cronaca dei rimproveri che Durand e nipote mi avevano impartito. Naturalmente l’espressione di Sahan si infiammò immediatamente: era il ritratto perfetto di un temperamento latino, anche se non saprei dire se i mediorientali godano della stessa fama.

«Questo è scandaloso!» sbottò, del tutto dimentico dei bottoni da allacciare della sua elegante giacca bianca. «È ripugnante, ingiustificabile, assolutamente inconcepibile!»

«Sahan.»

«Ha dato la colpa a te per non ammettere un errore di suo nipote! Che meschino!»

«Sahan, adesso calmati» feci con il tono più basso possibile. «Ti sentiranno.»

«Oh, mi sentiranno eccome! Non basta trattarti come un minorato, sei anche il capro espiatorio per un errore che potrebbe capitare per distrazione a chiunque! Diamine, che cosa sarebbero capaci di fare se quel ragazzo commettesse un crimine? Sono due pazzi!»

«Shh, Sahan! Ti prego, non voglio che ti licenzino!»

Mi si fece incontro come se volesse prendermi a pugni e nonostante io fossi due volte più largo di spalle e trenta centimetri più alto ebbi paura della sua rabbia; ribolliva come un pentolone… di lava, per quanto strano fosse era quello il paragone che mi venne in mente.

«Chi pensi che io sia? Uno così egoista da pensare che sia giusto lasciare a te la colpa pur di conservare un posto di lavoro? Non sono un vigliacco e non mi arrampico sui cadaveri degli altri per arrivare in cima!»

Da quando ero uscito di galera non avevo più incontrato una persona che mi sembrasse tanto minacciosa, e dire che era a una buona distanza dal coltello da cucina più vicino. La mia replica tardava ad arrivare – ero troppo scioccato da un lato del suo carattere che non avevo immaginato esistere – e Sahan spalancò la porta uscendo come una furia dallo spogliatoio. Non appena mi ripresi un momento mi sentii come cadere lo stomaco e gli corsi dietro.

«Sahan!»

Ma era troppo tardi: era già arrivato alla postazione del pesce di Leclaire. Mettendo i brividi non solo a me prese il coltello abbandonato lì e lo piantò in verticale sul tagliere di legno. Naturalmente tutti lo guardarono con sorpresa e paura.

«La tua arroganza è così spropositata, chef Leclaire, da non poter accettare di aver messo una salsa nel frigorifero per sbaglio?» gli fece con gelido disprezzo. «Tu, chef ventiquattrenne, non sei capace di scusarti di un errore di distrazione e ti credi tanto importante da permetterti di sacrificare uno sguattero, no…»

Leclaire lo guardava a occhi sbarrati, non si era ancora ripreso dallo shock.

«Tanto importante da sacrificare un uomo, il suo posto di lavoro, il suo stipendio e tutto ciò che ne consegue sull’altare della tua vanità? Possibile che non ti vergogni neanche un po’ di comportarti come un bambino che scarica le sue marachelle su un altro?!»

Dopo quello scoppio cadde un silenzio attonito sulla cucina. In quel breve momento guardai tutti gli chef presenti e Durand mi fissava come se avesse voluto perforarmi. Mi venne istintivo scuotere la testa per negare di avergli chiesto di prendere le mie difese e al contempo per tentare di non farlo arrabbiare. Non ebbi successo nel mio secondo obiettivo e temo neanche nel primo.

«Come, prego?» scandì Leclaire, indignato.

«Micheaux, non sta a te! Io sono lo chef e io…»

«Oh, voi, chef Durand! Il più parziale dei giudici, visto che l’errore è di suo nipote!» l’interruppe Sahan, e io tentai invano di indicargli senza parole di tacere subito. «Non che dovrebbe sorprendermi, dopotutto!»

«Non rispondermi, Micheaux! Come ti permetti di accusarmi di fare delle preferenze? Assumo e tengo solo chi vale più del minimo che mi aspetto per lavorare in un ristorante d’eccellenza come questo!»

Era l’inizio della catastrofe. Sapevo che da lì non ci sarebbe stato ritorno e mi avvicinai per trascinare Sahan dove potesse sbollire senza dire qualcos’altro di offensivo per gli chef, ma quella sua lingua era tagliente quanto il suo coltello di acciaio damasco.

«Per anni ho pensato che mio padre parlasse della sua condotta per giustificare quello che sembrava essere il suo unico fallimento in carriera» sbottò, spostando il mio braccio. «Ma a quanto pare aveva ragione!»

Durand sbatté la mano sul banco con uno schianto che fece accorrere preoccupato anche il maître di sala. Isabel strizzava il torcione fra le mani dal nervosismo.

«Il tuo aspetto è differente, ma sei tale e quale a tuo padre» commentò Durand, con una smorfia sul viso. «Così sciocco, arrogante e bugiardo! Un piantagrane, che per quanto bravo possa essere verrà sempre buttato fuori a calci per il suo atteggiamento; sempre alla ricerca di qualcosa da criticare per sentirsi superiore! Ti ricorda qualcosa? Questo era tuo padre alla tua età, e così sei anche tu!»

«Non mi sento insultato, visto che è un tale meschino manipolatore a dirlo!»

Non sembrava affatto che non se la fosse presa: gridava con tutto il fiato e solo la barriera del mio braccio gli impedì di andare incontro allo chef con l’aria di uno pronto a una scazzottata. Non avevo affatto avuto l’impressione che Sahan fosse così aggressivo e ne ero turbato.

«Sahan, adesso basta!» sbottai, e passandogli il braccio intorno alla vita lo trascinai verso la porta di servizio. «Chiudi quella bocca, basta!»

«Non mi aspettavo che ammettesse il torto che ha fatto a mio padre, non dopo aver visto che ha insegnato il trucco a suo nipote!»

«Sahan!»

«Fuori dalla mia cucina, Micheaux!» tuonò Durand, facendomi sprofondare il cuore nello stomaco. «Non m’importa dove vai, ma non rimettere mai più piede in un locale dove io sono il responsabile!»

Lo ammetto: in quel momento tappai letteralmente la bocca di Sahan mentre lo trascinavo fuori dalla porta di servizio e in pratica lo sollevai di peso per scendere i gradini. Lui si dimenava come un pesce appena pescato, ma lo lasciai solo una volta arrivati vicino al cancello. Lui mi fissava incarognito ma io non ero meno arrabbiato.

«Come ti permetti di trascinarmi come un buttafuori?!»

«Ho dovuto farlo, non ti rendi conto che hai perso la testa?!»

«Cercavo di prendere le tue difese!»

«Non è vero!»

Finalmente qualcos’altro intaccò l’ostinata furia di Sahan e abbassò il braccio con cui indicava la cucina. Era confuso; si guardò intorno come se si fosse finalmente reso conto di essere fuori e di che cosa aveva appena combinato. Dopo aver gridato così la sua voce uscì un po’ arrochita.

«Certo che stavo… avrebbe dovuto prendersi la colpa, non può…»

«Io non rischiavo nulla, sono stato rimproverato ma non certo licenziato. Non c’era alcuna ragione di scoppiare in quel modo, litigare con gli chef e urlare insulti. Sei davvero così?» gli domandai, sapendo che avrei colpito al centro. «Sei così facile alla rabbia, maleducato e privo di diplomazia?»

Sahan non mi guardò, si mordicchiò il labbro e finalmente si decise ad abbottonarsi la giacca con le dita che tremavano.

«N-no, io… mi dispiace molto…»

«Con questa scenata assurda hai buttato al vento tutto il nostro impegno per salvare il servizio di ieri.»

«Non…»

«Ora lo chef ti ha buttato fuori e io sono di nuovo da solo in una cucina dove nessuno mi tratta come una persona, e forse sarò trattato ancora peggio da adesso. Sarai anche onesto, ma hai un carattere tremendo.»

«Non… non è il mio carattere, Raim, te lo giuro…» fece lui, poco più forte di un sussurro. «Non sono… ti giuro, non sono una persona rabbiosa, e non amo affatto le schermaglie, e…»

«Ma da quando sei arrivato non hai fatto altro che schermaglie contro Durand e suo nipote! Sei venuto per fargli scontare qualsiasi cosa abbia fatto a tuo padre? Perché se è così servirti di me è stato da infame!»

«No!»

Mi strinse la spalla con inaspettata forza e l’espressione spaventata. Sì, era proprio spaventato.

«Non dirlo, non pensarlo nemmeno! Non ti userei mai, io non vedo le persone come strumenti per ottenere dei risultati! Siamo amici e…»

Si interruppe e lasciò la presa sulle spalle.

«Siamo ancora amici… vero, Raim?»

«Non lo so, Sahan» risposi onestamente. «In questo momento sono molto deluso… ti credevo una persona diversa. Quello che hai appena fatto è stato irrispettoso e maleducato, e anche stupido…»

«Ma tu sai di non essere responsabile! Sai che ti hanno scaricato la colpa!»

«Certo che lo hanno fatto, non ho mica detto che sono due santi… ma urlare e disturbare tutti durante la preparazione è stato sgradevole. Il maître è venuto a vedere che cosa stava succedendo, Isabel era turbata… hai reso tutti inutilmente nervosi. Avresti potuto chiedere allo chef di parlare nel suo ufficio, se proprio ci tenevi a insistere.»

Ce l’aveva scritto in faccia che era mortificato. Io ero ancora arrabbiato, deluso, e triste all’idea di aver già perso l’unico amico che avevo mai trovato in quel posto. Sospirai e senza sapere che altro aggiungere mi limitai a stringergli un po’ la spalla e a strofinargli la mano sul braccio in un conforto muto. Dopo quella che parve una lunga, imbarazzante eternità, Sahan deglutì rumorosamente.

«Vado… a riprendere la mia borsa.»

Per un momento pensai di offrirmi di andare io, ma credevo fermamente che Sahan dovesse rientrare e speravo che cogliesse l’ultima occasione per scusarsi, anche se non avevo speranze che Durand tornasse sulla sua decisione. Lo seguii verso la porta ma quella venne aperta dallo chef Durand in persona.

«Ah, sei ancora qui.»

«S-sì… ho… lasciato il mio cambio nello spogliatoio. Lo prendo e vado via, chef.»

«Stammi a sentire, Micheaux.»

Durand chiude la porta alle proprie spalle. Ero stupito, era la prima volta che vedevo lo chef sul retro del ristorante. Era un po’ come vedere la Regina Vittoria nei più squallidi sobborghi di Londra.

«Mi spiace per quello che vi ho detto prima» disse precipitosamente Sahan. «Sono stato uno sfrontato e credo che gli avvenimenti passati tra voi e mio padre mi abbiano–»

«Non ti ho appena detto di ascoltare?»

Sahan tacque e Durand sospirò massaggiandosi la fronte. Se non mi è venuta l’ulcera quel giorno penso che non verrà più per tutta la vita, ero nervoso e teso più di quando mi ero trovato davanti a un giudice.

«Micheaux, è ovvio dal tuo piatto di ieri che hai studiato e appreso molto più di tuo padre. Che hai una visione più aperta della sua. Io penso che lavorare con Aurélien sarebbe di aiuto a entrambi, tu conosci i più profondi segreti della tradizione francese e lui, con il suo ultimo stage al Nanbook di Los Angeles, può di certo insegnarti qualcosa sulla cucina indiana, che credo ti interessi.»

Non vedevo l’espressione di Sahan, dato che ero alle sue spalle, ma il mio stomaco solleticava come ci avessi fatto scoppiare dentro una lattina di cola. Non ero sicuro che stesse per dire quello che mi sembrava di capire.

«Tuttavia, per una collaborazione utile, devi moderare il tuo temperamento. Sei capace di non scoppiare in sterili polemiche e lavorare con gli altri, o sei stato mandato via da Arnaud per questo?»

«N-no, chef, è… stata una divergenza di vedute sulla cucina, come avete intuito» replicò Sahan, raddrizzandosi e mettendo le mani dietro la schiena. «Io… non si ripeterà più una scena come quella di oggi, chef. Io non sono fatto così, mi dispiace.»

Durand scandagliò la faccia di Sahan, poi fissò me.

«Manning.»

Non mi chiamava per nome da mesi, credevo che non lo ricordasse neanche più.

«Sì, chef?»

«Sei responsabile della condotta di Micheaux. Tienilo a freno o la prossima volta dirò adieu ad entrambi.»

Colsi immediatamente l’obiettivo manipolatorio di quella responsabilità, ma come lui anche io pensai che la mia testa fosse il solo prezzo che potesse comprare i servigi di Sahan nella cucina di un uomo che non rispettava come persona. Annuii.

«Sì, chef. Non avrete più di che lamentarvi.»

«Auguratevelo entrambi» fece in una velata minaccia. «Ricomponetevi, ripulite le scarpe e rientrate. C’è molto lavoro da fare, abbiamo un ricevimento da ventotto commensali questa sera. Micheaux, data l’eccezionalità del servizio farai da commis a Baader, che ha un dolce a richiesta da preparare.»

«Oui, chef.»

«Manning, tieni pulite le postazioni, ma non spostare niente senza chiedere.»

«Io… sì, chef.»

Durand tornò dentro, lasciandoci lì fuori a fissarci l’un l’altro con stupore assoluto. Non solo Sahan non era più licenziato ed era stato assegnato alla postazione dei dessert, ma persino io ero stato insignito di una maggiore utilità che mi permetteva di uscire dal mio angolo. Mi aveva persino chiamato per nome, che diamine, era una cosa grossa.

Prima ancora di riuscire a riprendere la parola Sahan mi abbracciò forte.

«Non combinerò altri disastri, Raim, te lo prometto!»

Certo, quell’eccesso di affettuosità mi turbò un po’, ma durò pochissimo perché mi resi conto che era davvero successo: Durand aveva cambiato idea, Sahan sarebbe rimasto con noi. Sorrisi e gli battei la mano sulla schiena.

«Fai tesoro della tua seconda occasione… i nostri comportamenti hanno sempre conseguenze, anche per un ragazzo come te.»

«Mi vergogno di come mi sono comportato… hai ragione, su tutto… Raim, mi dispiace così tanto! Sei dovuto intervenire tu per non farmi fare qualcosa di ancora peggio!»

«Sì, sì… avanti, non servono così tante scuse.»

«Ma ti ho deluso ed è la cosa di cui mi vergogno di più…»

«Su, è un’altra occasione per entrambe le cose. Per fare una bella figura con gli chef e per farmi vedere che eri solo troppo nervoso, oggi… può capitare, no? Su, basta con quella faccia afflitta. Siamo ancora amici, anche se ci conosciamo poco.»

Finalmente riuscii a vedere di nuovo il suo sorriso. Mi strinse la mano con entrambe le sue.

«Ti mostrerò che sono come mi immaginavi! Dopo il servizio usciamo a festeggiare, ti porto in un bistro delizioso di cui conosco lo chef e prendiamo vino, anatra, tutto quello che ti va di provare! Offro tutto io!»

Con un risolino che sembrava pregustare la cena mi batté piano sul dorso della mano, poi strofinò con vigore le scarpe da lavoro sullo zerbino esterno. Scrollai le spalle, ma in realtà mi emozionava non poco l’idea di andare a cena in un posto che piaceva a uno chef preparato come Sahan e vedere che cosa fosse abituato a mangiare.

Per tutto il giorno lo guardai lavorare a una serie di complicate mansioni al reparto dei dolci ogni volta che riuscivo ad alzare gli occhi da spugna e strofinaccio, ma parlammo appena anche nella pausa pre-servizio, per stanchezza o nervosismo non saprei dirlo. Andò tutto liscio, non ricevemmo critiche e Baader anzi strinse la mano a Sahan per congratularsi del suo lavoro.

Com’era normale, fummo io, Sahan e Isabel a sistemare e ripulire dopo il servizio, con Isabel che terminò la sua zona pochi minuti prima di noi e se ne andò dopo uno stanco saluto. Ero anche io piuttosto stanco e dato che il silenzio di Sahan persisteva immaginai fosse anche lui esausto, ma poi mi saltò letteralmente addosso non appena appesi l’ultima pentola di rame.

«Hai finito, Raim? Sei pronto? Andiamo?»

«Oh… non sei stanco? È stata una lunga giornata…»

«Non abbastanza da andare a letto senza cena, e tu?»

Il mio stomaco decise di rispondere da sé brontolando. Sahan marciò spedito verso lo spogliatoio.

«Allora muoviti, la Jarretière ci aspetta!»

«Ja… Jarreti… Giarrettiera? Sahan, non sarà mica un night club, vero?»

Si fermò sulla porta dello spogliatoio e mi fece un sorriso malizioso.

«Hai l’età per entrare, no?»

Non lo nego, ero preoccupato dalla prospettiva… ma poi andai a cambiarmi anch’io. Non vedevo come una o due ragazze impegnate a ballare potessero impedirmi di bere e mangiare, e un uomo nato e cresciuto a Las Vegas, se non ha vissuto invano, matura una difesa naturale verso ballerine e spogliarelliste tale e quale a un vaccino per il morbillo.

 

*

 

Come ebbi modo di scoprire poco dopo, La Jarretière era un locale piccolo, piuttosto intimo e piacevole, francese quanto il Posticino era italiano: piccole coccarde rosse, bianche e blu legavano i tovaglioli sul tavoli, ogni centrotavola aveva lo stemma del giglio, e sulle pareti di un delicato color tortora c’erano serigrafie della torre Eiffel, dell’Arco di Trionfo, di mongolfiere e strumenti di pittura, e una serie di bandierine francesi era allineata nella teca dei dolci accanto all’ingresso. Anche il menu era in due lingue.

«Non è un posto pensato per turisti di lusso, ci sono fin troppi ristoranti d’alta cucina francese a Las Vegas» mi disse Sahan quando notai il menu in francese. «È un posto autentico e semplice per i francesi che sono in viaggio qui… per sentirsi un po’ come a casa. Lo chef è Étienne Vichyse, abbiamo fatto la scuola di cucina insieme…»

La cameriera che ci aveva accolto aveva riportato il nostro arrivo allo chef, che infatti apparve appena pronunciato il suo nome. Scambiò saluti affettuosi con Sahan parlandogli in fitto francese, poi gli venni presentato io. Vichyse parlava un inglese con un accento pesante che Sahan non aveva, e dopo qualche frase di cortesia si ritirò in cucina augurandoci una piacevole serata. Mi aveva fatto una buona impressione.

«È simpatico!»

«Perché la cosa sembra sorprenderti?»

«Beh, i francesi che conosco io sono arroganti e indisponenti, per dirne il meglio.»

Sahan tossicchiò, con un vago sorrisetto che nascose dietro il menu.

«Posso farti notare che sono francese anch’io?»

«Non sei proprio francese, no? Voglio dire… Sahan è un nome francese?»

«No, è vero. Ho un nome turco, l’ha scelto mia madre… era turca anche lei, ma io sono comunque nato a Nizza e cresciuto a Parigi, e non so neanche una parola della lingua turca… ah, però ho imparato a cucinare i piatti che per mia madre erano tradizionali. Questo sì.»

Non si sbottonò oltre sulla madre o le sue origini mediorientali, e per i minuti seguenti mi feci illustrare praticamente ogni piatto del menu: non sapevo nulla di concreto sulla cucina francese se non qualche nome delle salse, e trovai che la cucina della Jarretière era molto più povera e semplice di quella del Liaison… almeno, per come me la presentò Sahan. Per me una porzione di gnocchi di luccio in salsa erano ben oltre il semplice e povero.

Alla fine, dopo aver ordinato zuppa di cipolle, sformato al Munster, una crêpe salata con prosciutto e uovo e quenelle de brochet – vale a dire quella specie di polpetta di luccio – fummo serviti con il vino e lasciati soli a parlare nell’attesa.

«Allora… che ne pensi del mio posticino?»

«È accogliente» risposi, ed ero sincero. «Non credo che a vederlo sarei mai entrato, però… anche se lavoro al Liaison la cucina francese mi mette in soggezione, capisci che cosa intendo?»

«Ti ho portato qui per farti vedere che dietro le cucine di eccellenza c’è una tradizione di cucina tramandata da contadini, allevatori e pescatori… quella francese non fa eccezione. L’elaborazione di salse e cotture lunghe e ricercate è venuta dopo.»

Si interruppe per sorseggiare il vino.

«Pensi che un tempo contadine e mogli di allevatori e pescatori avessero tempo di cuocere in questo modo, con tutti quegli ingredienti? Allevavano i bambini piccoli, pulivano la casa, facevano la spesa… lavavano i panni nelle fontane e nei fiumi, per la miseria! Se oggi fare i lavori domestici richiede tutto quel tempo figurati come poteva essere!»

«Oh… hai ragione, Sahan. Non ci avevo mai riflettuto, ma ha senso.»

«Le malelingue dicono che i cuochi dei nobili si inventassero lunghe e complesse cotture per rendere il cibo prelibato in modo che fossero difficili da replicare, e rendersi difficili da rimpiazzare…»

Risi appena.

«Ma sono malelingue, giusto?»

«Ma naturale! Il motivo è che i francesi sono artisti, ma vogliono fare anche gli ingegneri. Hanno solo combinato le due cose!»

Questa volta risi decisamente più convinto, ma poi posai il bicchiere. Ritenevo che quello fosse il momento adatto per fargli la domanda che mi stavo rigirando nella testa da tutto il servizio.

«Senti, Sahan… forse è una domanda inappropriata, e se lo è basta dire che non vuoi rispondere…»

«Oh, non essere così cerimonioso, Raim! Che c’è? Spara.»

«Beh, io… mi domandavo che cosa fosse quella… questione tra Durand e tuo padre, quella cosa successa a Vienna.»

Sahan si fece pensieroso e guardò verso la porta.

«Mh… se mi fai parlare di questo mi serve anche un dolce, è una questione amara nella famiglia Micheaux.»

Feci immediatamente marcia indietro alzando le mani.

«Allora non c’è bisogno che rispondi! Solo che salta fuori di continuo e mi faccio delle domande…»

Sahan esitò ancora, roteando il calice del vino, poi sospirò.

«Mh… beh, tu sei stato molto onesto e mi hai raccontato di te, quindi lo farò anch’io. Innanzitutto è una vecchia questione, perché mio padre e Durand si conoscono da quando erano ragazzini.»

«Sono amici d’infanzia?»

«Sì. Durand aveva una zia che viveva vicino ai miei nonni, a Nizza, e ci veniva per le vacanze. Si sono conosciuti così, e mio padre trasmise a Durand l’interesse per la gastronomia… sai, i Micheaux sono cuochi da generazioni, quindi lui sapeva già che cosa avrebbe fatto della sua vita.»

Involontariamente pensai che a quanto ne sapevo nella famiglia di mio padre erano tutti panettieri tranne lui, che aveva passato la vita con vodka e cocaina di scarsa qualità. A me non era mai passato per la mente di fare il panettiere, però.

«Fecero la scuola di cucina a Parigi insieme, e poi si separarono per fare diverse esperienze… avevano preso voti massimi ed erano stati molto richiesti nelle cucine prestigiose. Mio padre andò in Inghilterra, in Spagna, in Italia e in Russia, e andò anche in Giappone per un periodo. Ero piccolo quando ci andò e mi mandava un sacco di cartoline.»

Sorrisi all’idea di un piccolo Sahan che leggeva con entusiasmo cartoline di saluti affettuosi del padre, e pensai che era stato molto più presente del mio nonostante io lo avessi avuto in casa tutto il tempo.

«Non sai che cosa fece Durand in quel periodo?»

«No, anche se erano molto amici io non avevo mai avuto modo di incontrarlo e non mi venne mai detto… ma di certo Durand amerebbe spiegartelo per filo e per segno, se glielo chiedessi.»

«Già, ma io non amerei starlo a sentire» commentai di slancio. «Quindi, Vienna?»

«Mio padre venne assunto per un praticantato di pasticceria in un celebre laboratorio viennese, e trovò Durand tra i praticanti scelti. Però la chef aveva intenzione di assumere soltanto due dei sette che aveva chiamato e avrebbe scelto in base alla rapidità con cui avrebbero imparato e al loro impegno… sono molti nell’ambiente a fare questo tipo di scremature, per dedicare il tempo solo a chi ha il potenziale adeguato» mi spiegò, vedendomi accigliato. «Non sono insegnanti, ma imprenditori. Investono su chi può diventare un collaboratore utile.»

«Sì… non mi piace come concetto ma lo capisco» feci, e giocherellai con la coccarda del tovagliolo. «Fammi indovinare… Durand tagliò fuori tuo padre con qualche tiro mancino?»

«Sì, indovinato. Rovinò intenzionalmente le sue farciture per l’assortimento di pasticceria che la chef avrebbe dovuto valutare per scegliere i due allievi. Fu un basso, volgare sabotaggio, e come se questo non fosse già abbastanza brutto lo fece proprio ai danni del suo amico, quando avrebbero potuto passare entrambi.»

«Già… già, perché? Se proprio voleva il posto poteva sabotare l’altra persona, quella che è passata insieme a lui… la terza migliore, diciamo. Avrebbe avuto comunque il posto, no?»

«Voleva essere il primo, e mio padre era migliore di lui. Non avevano mai litigato per qualcosa, non c’erano tensioni tra loro… la sola ragione è che volesse passare lui per primo.»

Meditai un momento, sfiorandomi la barba com’era mio solito.

«O forse lo voleva fare proprio fuori… insomma… far vedere che lui poteva restare in quel posto prestigioso e tuo padre no… forse sentiva di perdere sempre in competizione con lui.»

«Oppure Durand è un infame e ha sempre fatto così con tutti i collaboratori che riteneva una minaccia per la sua gloria» ribatté Sahan velenoso. «Non lo so, ma qualsiasi sia la ragione è un abietto.»

«Beh, sì. Non è affatto un comportamento onesto.»

«Tu che cosa avresti fatto, Raim?»

La domanda mi prese decisamente di sorpresa, tant’è che esitai parecchio a replicare.

«Cosa avrei fatto… in che situazione?»

«In quella di Durand. Se tu avessi avuto l’occasione tra sette di essere preso per studiare con un maestro eccellente… e il tuo amico fosse tra loro… che cosa faresti?»

Mi sembrò strano che mi facesse quella domanda, così strano che non mi parve il caso di liquidare la cosa con un banale ma sincero “non quello che fece lui”. Ci pensai su e Sahan non mi fece fretta, sorseggiando il vino in silenzio.

«Vuoi dire se io volessi un posto in un ristorante importante che vuole gente come te, ci fossero due posti, fossi certo che uno è tuo e io non mi sentissi all’altezza?»

Sahan non replicò, fece un cenno del capo come a trovare accettabile il mio riadattamento. Quindi sorrisi, sicuro della mia risposta.

«Ti chiederei in ogni modo di aiutarmi a fare una bella figura… e tu lo faresti, visto che siamo amici.»

Lui sorrise di rimando.

«Certo che lo farei… anzi, lo sto già facendo.»

«… Eh?»

«Finché rimarrò al Liaison cercherò di insegnarti come usare tutte le doti che hai, così non avrai più bisogno di essere legato per forza al resort e al debito con il tuo amico! Potrai lavorare dove vorrai, anche se non come cuoco.»

Ci fu una pausa per l’arrivo della zuppa di cipolle, che era davvero invitante come Sahan commentò, ma non abbastanza da distrarmi completamente.

«Lo pensi veramente?»

«Oh, penso che tu possa lavorare come cuoco, se lo volessi. Hai un ottimo gusto, solo che per avere conoscenza e manualità serve molta pratica e impegno. Non è qualcosa che possa darti io in modo passivo, così, lasciandotela tra le mani come un tozzo di pane.»

«No, io… so benissimo di non esserne portato… intendevo solo dire se pensi davvero di fare questo per me… e perché, soprattutto.»

«Perché te lo meriti… scusami, ma a me che uno lavori come sguattero non basta per considerarlo un paria» commentò caustico, rivolto piuttosto ovviamente a Durand. «Ora dedichiamo i nostri cuori e pensieri a qualcosa che lo merita più di certa gente con la toque sulla testa, come questa deliziosa zuppa!»

Sorrisi e mi armai di cucchiaio.

«Ha un odore fantastico.»

«Assaggia il formaggio da solo, prima… è Groviera, un formaggio svizzero molto rinomato e con un sapore caratteristico! Nel menu del Liaison non hanno nessuna portata che lo utilizza, quindi è una novità assoluta per te, immagino…»

Obbedii e assaporai il formaggio, che effettivamente sentivo diverso da quelli assaggiati al Posticino. Mentre mangiavo la zuppa – che trovavo molto più gustosa di quanto avrei immaginato un piatto a base di sole verdure – Sahan mi spiegò per filo e per segno il procedimento per caramellare le cipolle con il vino e le varianti che aveva imparato in diverse zone della Francia. Personalmente apprezzai di più il consistente sformato di patate e formaggio Munster, del quale Sahan mi illustrò la ricetta, e la crêpe salata era morbida e croccante insieme, assolutamente deliziosa.

«Non avrei mai creduto di essere il tipo di persona che apprezza una cosa raffinata come la crêpe» commentai mentre la finivo assicurandomi di non lasciare tracce di tuorlo d’uovo nel piatto.

«Davvero ti è piaciuta?»

«Moltissimo. Ne mangerei una tutte le mattine.»

«È il piatto preferito di mio fratello!» mi rivelò con entusiasmo. «L’ho fatto tantissime volte per lui quando faceva la scuola, potrei prepararla anche bendato~»

«Ti terrei sul mio comodino, se solo fosse grande abbastanza.»

Sahan ridacchiò.

«Anche io ho un comodino minuscolo… in compenso, il letto è grande. Se volessi fermarti da me qualche volta ti preparo le crespelle per colazione!»

Ancora una volta ebbi la netta impressione che ci fosse della malizia in quell’invito, ma cercai di affrontarlo con uno spirito più morbido e quindi sorrisi prendendo la bottiglia per versarmi altro vino.

«Non sono ancora abbastanza ubriaco per non riuscire a salire le scale di casa mia.»

«Lo spero davvero, Raim… se devo ospitarti a casa mia mi augurerei che tu fossi in piena salute. Non so se sei il tipo che considera divertente ubriacarsi fino a non sapere più che cosa sta facendo, ma io sono rimasto ragazzino dentro: il mio genere di serata divertente è cinema, cena e sala giochi.»

«Sala giochi, hai detto?»

Sahan fece un sorriso smagliante.

«Io adoro i giochi arcade! Sai, Shark attack, Street fighters, Arkanoid, Bubble puzzle…»

Mi venne istintivo nascondere l’ilarità e bevvi un sorso di vino restando distaccato, come annoiato dalla conversazione.

«Immagino che tu non li conosca» commentò con vago dispiacere Sahan. «Io li trovo un sacco divertenti…»

«Non li conosco, eh?»

Abbassai il bicchiere e mi sfuggì un’esclamazione divertita.

«In qualche deposito c’è ancora qualche macchina con il mio nome memorizzato nei record.»

Sahan si entusiasmò immediatamente e per tutto il resto della cena – conclusasi con una deliziosa crème brûlée agli agrumi – ci immergemmo in ricordi e racconti delle sale giochi, dei giochi preferiti e quelli in cui eravamo completamente negati; e sull’onda di quell’argomento finimmo a parlare di musica vecchia di venti anni, sport praticati in strada e dei rispettivi cani che avevamo avuto da bambini.

Come aveva detto Sahan, non dedicammo più neanche una parola a Durand e alle macchie che la sua uniforme bianca e dorata nascondeva.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Pas de deux ***


Che Durand dimenticasse l’accaduto di quei due frenetici giorni non ci speravo proprio, ma i fatti mi diedero torto. Passammo la settimana successiva lavorando al ristorante quasi come se nulla fosse, anche se il rapporto tra Sahan e Leclaire era teso. Mi dava l’impressione che si sforzasse di coinvolgere il nuovo arrivato nel suo lavoro e che a volte gli chiedesse un parere senza ascoltare la sua risposta, tuttavia non arrivarono mai a rispondersi male e questo mi tranquillizzava moltissimo.

Sahan continuava a fare da assistente a Baader nelle preparazioni dei dessert e durante il servizio si spostava da una postazione all’altra con una versatilità che mi rese orgoglioso di lui quasi fossi stato io a presentarlo per un lavoro. Quanto a me, continuai a occuparmi delle pulizie, anche di quelle delle postazioni; un giorno chef Aguero mi chiese addirittura di preparare i bouquet garni, quindi passai un po’ di tempo alla sua postazione a legare insieme rametti di erbe aromatiche per gli arrosti mentre lui preparava le quaglie per lo speciale del giorno.

Durante quella settimana io e Sahan tornammo due volte al Posticino e un’altra volta alla Jarretière, e fu al ritorno dal bistro quando il taxi lo fece scendere davanti a casa che Sahan mi fece una proposta che non mi aspettavo.

«Domani il ristorante è chiuso per la pulizia mensile.»

Dato che Durand lo aveva annunciato alla fine del servizio mi sembrò strano che me lo ripetesse, comunque annuii. A parte giorni da me richiesti, era l’unica sera libera che avevo in un mese e prospettavo già birra, pizza e una lunga rilassante serata davanti alla televisione. Quando si lavora in un ristorante che non ha giorni di chiusura il solo desiderio che si ha in quel giorno è alzarsi dalla poltrona solo per andare in bagno o al frigorifero.

Sahan si chinò un po’ di più per guardarmi dentro il taxi.

«Perché non vieni da me? Voglio provare delle ricette nuove, mi servirebbe proprio un assaggiatore!»

Il mio cervello era già aggrappato alla poltrona del mio soggiorno e la prima reazione che ebbe fu strillare “no!” come un bambino capriccioso.

«Beh… non so» iniziai, e mi grattai la testa. «Sarebbe il mio… unico giorno libero…»

«Hai già un impegno con qualcun altro?»

«No, però…»

Feci una risata che uscì un po’ nervosa, ma non avrei mai mentito a Sahan.

«Di solito, passo tutto il giorno a casa e mi rilasso… niente di speciale, birra, pizza, film… qualcosa del genere, ma ormai è la mia routine.»
«Se ti prometto che troverai una cena deliziosa, un divano, una televisione a cristalli liquidi e anche della birra posso convincerti a venire?»

Mi dispiaceva dirgli di no per quello che era a tutti gli effetti un programma triste, ma ero affezionato a quel giorno insignificante del mio mese. Feci un sorriso che dichiarò tutte le mie intenzioni, perché Sahan insistette.

«Ho anche la lavastoviglie e non ho paura di usarla!»

Questa volta risi spontaneamente e alzai le mani in una resa.

«Va bene. Va bene, mi hai convinto.»

«Evviva~»

«A che ora vuoi che venga?»

«Che ne dici delle cinque? So che è un po’ presto, ma vorrei farti vedere come preparo quei piatti» mi fece, con un tono supplichevole studiato come quello di un bambino. «Prometto che non ti annoierai.»

«Di questo sono sicuro» ribattei sincero. «Allora a domani, Sahan. Alle cinque.»

«Buonanotte, Raim!»

«Buonanotte.»

Così Sahan chiuse finalmente lo sportello e si avviò sulla breve scalinata davanti a casa sua. Per buona misura presi accordi con il nostro tassista di quella sera perché mi accompagnasse lui il giorno dopo allo stesso indirizzo, mi feci portare a casa – dove scoprii che quel subdolo di Sahan mi aveva rimandato dentro il ristorante a riprendere il fazzoletto di seta che aveva portato al collo solo per pagare in anticipo la corsa mentre non ero presente – e mi misi direttamente a letto, per la prima volta con il pensiero di avere un appuntamento nel mio giorno libero.

 

*

 

Fu molto strano per me uscire di casa un giorno in cui non dovevo lavorare: ero abituato a quei giorni sigillato dentro casa, al punto da abituarmi a fare la spesa il giorno prima, anche la sera tardi al ritorno dal ristorante, se necessario. Vestirmi decentemente – e per decentemente intendevo mettere dei pantaloni senza elastico in vita e una camicia con tutti i bottoni al loro posto – e andare in taxi fino a quel quartiere di case ben curate mi diede la sensazione che fosse un giorno bizzarro della mia vita. Ripensandoci oggi, stavo davvero esagerando con la vita ritirata e il lavoro.

Salii le scale per ritrovarmi davanti a una porta nera lucida che mi ricordava molto Londra e bussai. Vista da vicino la casa era molto curata, non aveva imperfezioni nella vernice, graffi alla porta, e le finestre più vicine erano pulitissime. Feci appena in tempo a notare i fiori di lavanda nella striscia di vegetazione ai lati della scalinata che Sahan mi aprì.

«Eccoti qui!»

«Già, eccomi» feci, e alzai le mani. «Mi spiace essere venuto a mani vuote, ma non sapevo neanche quale fosse il menu.»

«Non dire sciocchezze, l’importante è che sia venuto tu! Su, entra, entra» mi incalzò, tirandomi appena per il gomito. «Benvenuto! Qui vivo solo io, quindi guarda dove vuoi e fai come ti pare.»

Notai una contraddizione in quelle parole, ma non avevo ancora capito quanto Sahan fosse disposto a condividere le sue fortune con gli altri. Per lui era naturale come respirare e parlare, ma avrei capito quanto fosse disinteressata la sua gentilezza solo più avanti.

Accettai senza riluttanza di togliere le scarpe – non ero comodo con delle scarpe da messa della domenica – e dopo aver messo le pantofole che mi offrì lo seguii nel corridoio. Mi indicò rapidamente gli ambienti con il braccio.

«Di qua c’è un salottino comodo, da questa parte la cucina con il salotto da pranzo, come lo chiamo io… c’è un bagno qui e uno di sopra in fondo al corridoio, usa quello che ritieni più appropriato» mi disse, con un certo sorrisetto divertito. «Sai, alcuni uomini si servono del più vicino, altri… preferiscono più privacy~»

«Uhm… e tu quale dei due uomini sei?»

«Se avessi un bagno in soffitta andrei lì, non è imbarazzante se senti che c’è qualcuno che aspetta fuori, o nella stanza accanto che potrebbe sentire qualche rumore? Io divento ansioso solo a pensarci!»

L’idea che Sahan potesse andare in bagno preoccupandosi di una situazione del genere mi fece ridere tanto da non riuscire a trattenermi neanche per riguardo. Come reazione lui mise su un broncio ancora più buffo.

«Non ridere, guarda che è imbarazzante davvero!»

«Ma non capisco perché… insomma, se si è in bagno si ha qualcosa da fare, no? Sarebbe da idioti infastidirsi o trovare maleducato qualcuno che fa qualche rumore dentro un bagno!»

Sahan non replicò, ma mi parve un po’ meno irritato. Mi fece strada in cucina, e a ripensare a casa mia decisi di non invitarlo mai a entrarci.

La sua cucina era enorme, una sfilza di pensili color grigio scuro erano allineati e scintillanti su due pareti, aveva uno spettacolare forno verticale come quello che avevamo in cucina al ristorante, uno più piccolo incassato nella colonna di destra e un piano con la bellezza di sei fuochi. Al centro aveva un’isola di marmo bianco con un lavabo a un’estremità e tutto lo spazio per appoggiare taglieri, vassoi, ciotole e tutto quanto gli potesse servire. Notavo altri dettagli ogni volta che la scorrevo: le luci al neon sotto i pensili per illuminare ogni ripiano, una mensola portaspezie carica come lo scaffale di un drogheria, ciotoline, bicchieri da cocktail e cocotte da forno in bella vista nella credenza con il pannello a vetro. Dal lato opposto c’era un frigorifero così grande che fui sicuro di potermici infilare dentro e stare anche comodo.

«Sahan… è… pazzesca.»

«Davvero ti piace? Ne sono felice! Me la sono disegnata da solo, sai» mi svelò con aria raggiante. «Finché non avrò un mio ristorante è nella mia cucina di casa che devo sperimentare e migliorarmi, quindi mi piace che sia il più attrezzata e spaziosa possibile! Anche se quando trasloco è sempre un po’ un dramma trovare un altro posto grande abbastanza da montarla tutta. Una volta ho dovuto mettere il forno grande nello scantinato…»

In un altro contesto avrei potuto pensare che chi mi parlava così volesse vantarsi, ma Sahan parlava con naturalezza e senza alcuna malizia. Mi piaceva il design della cucina e glielo dissi mentre mi sedevo allo sgabello posizionato sul lato esterno dell’isola col ripiano in marmo; lui mi sorrise e mi spalancò davanti il frigorifero.

«Vino? Birra? O preferisci qualcosa di analcolico, prima di cenare?»

«Si prospetta una serata lunga, no? Meglio cominciare con un passo lento.»

Sahan canticchiò una specie di motivetto mentre guardava dentro quell’immenso frigorifero, e mentre stavo per dire qualcosa per toglierlo dall’imbarazzo esclamò di sorpresa e mi indicò una bottiglia di vetro con un liquido lilla chiaro.

«Ti andrebbe di assaggiare la mia limonata speciale?»

«Se cerchi di drogarmi per derubarmi risparmiala, Sahan, io sono un pollo già spennato.»

Sahan rise e mise sul tavolo bicchiere, bottiglia e cubetti di ghiaccio.

«In realtà ti drogherò per farti arrosto~»

Lanciai un’occhiata al forno professionale.

«Ecco perché sei così attrezzato…»

Rise ancora più forte e mi preparò un bicchiere di quella sua strana limonata ghiacciata. Aveva un odore che non riuscii ad afferrare del tutto, ma che in qualche modo mi faceva venire in mente mia nonna. Aveva un qualcosa di vagamente nostalgico. Quando l’assaggiai sentii molto più il limone di quanto pensassi, ma poi colsi un altro gusto sconosciuto… anche se non del tutto; come una persona che prende il tuo stesso treno ogni giorno ma che non ricordi di aver visto lì quando te la presentano.

«È buona… è dissetante, ma è strana» commentai, e sollevai il bicchiere per guardarne il fondo. «Come mai è di questo colore?»

«È il mio colore preferito» mi rivelò sorridendo. «È una limonata alla lavanda.»

Fu una risposta illuminante: la lavanda cresceva nel giardino della vecchia casa di mia nonna e la raccoglieva per riempirci sacchetti che sparpagliava per tutta la casa e in tutti i cassetti. Mi chiesi come avevo fatto a non riconoscerla, dopo averne sentito l’odore anche fuori dalla casa di Sahan.

«Ah… certo, ce l’hai proprio qui fuori…»

«Sì, ma quella è decorativa, naturalmente ne ho usata una che coltivo sul balcone di sopra per fare la limonata… i poveri cagnolini non possono farci niente, ma io non amo l’idea che facciano pipì su qualcosa che vorrei usare per cucinare!»

Concordai con lui, poi restai lì seduto a godermi lo spettacolo di vedere un cuoco di alta fascia preparare una ricetta in un posto che conosceva perfettamente: allineò dei taglieri davanti a me, mise sui fornelli una pentola e una padella e cominciò a pulire e preparare una grande quantità di pesce e crostacei.

«Quando mi hai invitato come assaggiatore pensavo tentassi una ricetta del Posticino.»

«In realtà era la mia intenzione» ammise mentre svuotava il corpo del calamaro. «Però quando sono andato a rifornirmi ho trovato del pesce eccezionale, molto fresco, e i gamberoni erano a buon prezzo… e anche lo scorfano. Sono elementi perfetti per la zuppa di pesce nel modo che mi ha insegnato una cuoca svizzera, Isolde, che ha la madre che faceva la cuoca in Italia…»

Mi raccontò del viaggio che fece in nord Italia in occasione di un’importante fiera di cioccolatieri a Torino e di come durante il tragitto la neve l’aveva costretto a una sosta non programmata in Svizzera. Qui aveva conosciuto altri cuochi e pasticcieri interessati alla sua stessa fiera, ma aveva legato in particolare con la cuoca svizzera dell’albergo in cui era alloggiato. Mi raccontò di come si erano trovati a parlare e del fatto che si scambiarono alcune ricette, tra le quali la zuppa di pesce all’italiana, e nel frattempo Sahan era venuto a capo della maggior parte dei suoi principali ingredienti ed era pronto a mettersi a cucinare. La sua linea anche in casa era molto ordinata.

«Fammi un favore, Raim» mi fece, allungandomi una bottiglia verde chiaro. «Aprimi questa, sii gentile.»

«Oh… sicuro.»

Mi alzai per prendere il cavatappi che avevo addocchiato accanto a un decanter per vino su una credenza aperta e intanto Sahan andò alla sua ampia padella a versare olio di oliva. Gli stappai la bottiglia senza difficoltà e la posai vicino alle ciotoline dove aveva preparato spicchi d’aglio e quello che sembrava peperoncino secco e sbriciolato.

«Ecco a te.»

«Ottimo, grazie… ecco, siamo pronti per iniziare. L’olio inizia a scaldarsi.»

«Suppongo la tua prima mossa sia l’aglio…»

Sahan mi scoccò un’occhiata allegra.

«Esatto… preferisco lasciarlo intero, così se chi mangia non lo gradisce lo può trovare subito e toglierlo.»

Mise a scaldare l’aglio e il peperoncino, poi mise dentro una bella manciata di calamaro e seppia tagliati a pezzi. Ricordo di aver trovato strano che lo facesse e mi avvicinai al fornello per guardare meglio.

«Probabilmente sbaglio, ma credevo che il calamaro dovesse cuocere poco» osservai, cercando di non sembrare presuntuoso a Sahan. «Piaceva a mia madre, ma lei lo cuoceva pochissimo. Ricordo che non facevo quasi in tempo a lavarmi le mani da quando mi chiamava a quando finiva di cuocere.»

«Oh no, è giusto! Calamari, totani e famiglia devo essere cotti o molto poco o molto a lungo» fece Sahan, alzando i due indici come a indicare una lunghezza. «Qualsiasi altro tempo tra uno e l’altro li farà diventare una gomma con cui strozzare il tuo peggior nemico o rovinare la serata ai clienti, nel mio caso. Questa sera li metto per primi nella zuppa, così cuoceranno più a lungo di tutto il resto e torneranno teneri!»

«Oh! Sai un sacco di trucchi come questo, eh, Sahan?»

«Sono un cuoco» disse lui scrollando le spalle. «È il mio lavoro, e non si finisce mai di imparare… il cibo esiste dall’inizio della civiltà umana, si è evoluto e mescolato, e continua a farlo. Non è mai qualcosa di fermo, e quindi non è neanche qualcosa di limitato.»

Sorrisi istintivamente: quando parlava di cucina gli brillavano gli occhi, potevo dire solo guardandolo che poteva restare in piedi giorno e notte a cucinare senza sosta e non avrebbe perso la gioia di farlo. Mi piaceva moltissimo questo lato di lui e mi piace ancora adesso vedere con quanta passione non solo cucina, ma vive.

Continuò con la ricetta aggiungendo il vino che gli avevo aperto e mi insegnò il significato di sfumare, mi fece assaggiare il brodo di pesce che aveva già preparato e mi disse come lo aveva fatto. Mentre i molluschi soffriggevano nell’olio e nel brodo tornai a prendere un sorso di limonata lilla e mi avvicinai alla parete del salottino, dove regnava un magnifico impianto stereo: di certo la cosa che più potevo invidiare della sua bella casa.

«Che spettacolo questo stereo!» commentai, e mi girai a guardarlo. «Ti dispiace se metto qualcosa in sottofondo, Sahan? Ti dà fastidio?»

«Oh, per niente! Mi piace mettere la musica quando cucino a casa» rispose lui lanciandomi un’occhiata incerta. «Ma non so se troverai un disco di tuo gradimento.»

«Sono di bocca buona anche per la musica!»

Posai il bicchiere sul ripiano accanto a un vaso a forma di testa di Buddha e accesi l’impianto, lasciandomi un po’ di tempo per indagare le impostazioni. Sahan mi disse che lo stereo era stato di suo fratello Majid, un vero patito della musica e chitarrista nel tempo libero, e mentre stavo per rispondere trovai un disco che mi interessava. Mi affrettai a metterlo e appena le note di una composizione da ballo da camera riempirono la cucina Sahan mi guardò con un’espressione tra il divertito e il sorpreso. Io sorrisi di rimando, mentre la mente mi rimandava a un periodo così lontano della mia vita che mi riempì di nostalgia.

«Mi stupisci, Raim, ti facevo tipo da heavy metal… o qualcosa come Led Zeppelin…»

«Il rock mi piace, il metal non moltissimo… dipende molto dall’artista» replicai, avvicinandomi a lui. «A che punto siamo con la zuppa?»

«Ho aggiunto la triglia e lo scorfano, dobbiamo lasciarla andare per un po’ prima di aggiungere altro… ci vorrà un po’ per cenare, mi dispia–»

Aveva appena abbandonato il mestolo e coperto la zuppa che gli avevo preso le mani per allontanarlo dal fornello.

«Abbiamo tempo per un ballo, allora?»

«Un… cosa?»

«Un ballo. Sai ballare il foxtrot?»

Mi divertì la sua espressione che mi stava palesemente chiedendo che cosa accidenti fosse il foxtrot, e mi sentii risarcito dell’imbarazzo di farmi guidare nella preparazione in cucina del primo servizio. I suoi occhi rimasero vacui per un buon mezzo minuto di silenzio.

«Io… t-tu sai ballare, Raim?»

«Oh, sì. Il foxtrot è uno dei miei preferiti.»

L’ostinata incredulità che aveva stampata in faccia iniziava quasi a turbarmi.

«Non guardarmi così, Sahan. Sembra che tu stia guardando una foca che fa giochi con la palla.»

«Oh… s-scusami, io… non… ma davvero?»

Presi un sospiro per intimarmi un po’ di calma.

«Sì, davvero… mentre tu facevi la scuola di cucina e imparavi da tuo padre io andavo a un doposcuola di danza… ho fatto un po’ come Billy Elliott nel film, al doposcuola giocavo a basket, poi un giorno sono andato anche se l’allenamento era stato sospeso e mi sono imbucato a lezione di balli da camera.»

«Io… uhm… credo che non… uhm, non credo di sapere esattamente cosa siano i balli da camera.»

«Questo è semplice: sono balli da fare in due… principalmente» spiegai super riassunto. «Come il valzer, quello lo conoscerai almeno di fama.»

«Oh, certo… ma non ho mai ballato… in realtà, non sono affatto atletico, né aggraziato…»

«Che fortuna che hai un maestro privato, allora. Su, proviamo, è facile, te l’assicuro. Ti faccio vedere il passo base.»

Sahan non si fece pregare ulteriormente e anzi, mi sembrò contento anche se un po’ nervoso. Gli mostrai i passi per il giro e perno, lui tentò qualche volta prima di rifarlo in modo fluido ma siccome era incerto feci la prova del nove: gli feci assumere la posizione giusta delle braccia e scandendo il ritmo – lento, lento, veloce, veloce – ci trovammo a fare uno, due, tre giri insieme senza inciampare e senza pestarci i piedi.

Sahan emise una strana esclamazione confusa e sorrise come quando aveva assaggiato i piatti del Posticino.

«Ho ballato! Raim, ho ballato!»

La sua allegria mi impedì di essere puntiglioso e annuii convinto.

«L’ho visto, Sahan… sei stato bravo!»

«È incredibile, non avrei mai pensato di… possiamo provare ancora? Eh?»

Dopo così tanti anni dagli ultimi passi che avevo fatto ero animato da una specie di fame nostalgica, quindi non pensai neanche di dirgli di no. Sahan andò velocemente a controllare la sua zuppa, aggiunse del brodo e tornò da me per un’altra lezione rapida sul balancé. Mi divertivo a insegnare di nuovo e Sahan, oltre ad avere un sacco di entusiasmo, era anche uno studente dotato.

Dopo le ultime aggiunte di frutti di mare ballammo ancora una volta, e mi sorprese scoprire che era ora di cenare. Sedemmo insieme alla penisola dopo averla sgomberata e apparecchiata con una cura eccessiva per un ospite modesto quanto me, con la pentola di zuppa messa al centro a emanare vapore e un eccezionale profumo di pesce e – non so ancora come mai mi venne spontaneo pensarlo – di Mediterraneo.

«Quindi» esordì Sahan mentre stappava un altro vino bianco per la cena, «davvero hai iniziato a ballare per caso?»

«Il guaio di molte scuole di ballo come quella è che gli uomini sono pochi, e io ero anche più alto della media della mia età… ho iniziato a provare perché mi piaceva la musica, e mi veniva bene. Sono diventato bravo in poco tempo… grazie.»

Presi il crostone di pane che mi porse.

«E quindi, quando la maestra Emily mi ha chiesto di aiutarla con la classe per principianti le ho detto di sì. Ho fatto l’assistente dell’insegnante per un annetto, ma poi ho frequentato della cattiva compagnia e ho smesso, finché mi sono messo nei guai.»

«Ma che peccato, Raim! Sicuro che non vuoi riprovare adesso? Non ti appassiona molto di più che lucidare pentole di rame per quei trichechi tronfi?»

«Ricordo con molto affetto la mia vita di quel periodo… ma no, non ero bravo abbastanza da fare l’insegnante io stesso, oggi, e per quanto mi diverta ancora non penso che sia la strada che devo seguire.»

«Che sia per amore, per nessun altro motivo» citò con una certa solennità. «Che altra ragione c’è se non l’amore per dedicarsi a qualcosa o a qualcuno?»

«Immaginavo che tu la pensassi così, Sahan… ma tu sei animato da una passione… smodata, direi… quando parli della cucina, o del tuo lavoro, o di come pensi che sia la filosofia del cucinare… è come fossi elettrificato. Come quando c’è un temporale in arrivo, e c’è quell’aria elettrica, capisci che intendo? Metti la pelle d’oca, e… è molto bello vederti così acceso. Io adoro l’entusiasmo che metti in tutto quanto.»

Sahan ammutolì, ma mentre abbassava gli occhi sui piatti da riempire di zuppa sorrideva in modo strano.

«Ecco a te» mi disse piano dopo avermi messo nel piatto una bella porzione di zuppa.

«Sahan… ho detto qualcosa di male? Ti sei rabbuiato.»

«Rabbuiato? No, no… sono solo… nessuno mi aveva mai elogiato tanto sul mio entusiasmo… sul mio amore per la cucina… e sono contento che lo possano vedere tutti. Se lo vedi tu, lo vedrà anche mio padre.»

«Sono sicuro che andrà così, se lo vede anche un idiota profano come me…»

Addentai il crostone inzuppato del brodo arancio vivo della zuppa e non riuscii a non lasciarmi avvolgere completamente. Conoscevo pochi piatti a base di pesce e la zuppa che si faceva qualche tempo fa al Liaison, la Bouillabaisse, era diversa da quella ricetta. Fu allora con quel piatto ereditato dalla sconosciuta Isolde che mi scoprii un amante delle pietanze di pesce.

«Sahan, è fuori di testa!»

«Davvero ti piace? Ti piace così tanto?»

«Che diavolo, la mangerei tutti i giorni! Invitami tutte le volte che la rifai, compro un dolce e lo porto.»

Sahan emise quella sua risata spontanea vagamente acuta.

«Puoi venire tutte le volte che vuoi, Raim, anche senza invito! Averti qui è piacevole per me» mi fece, inzuppando meticolosamente il suo crostone. «Mi fai riscoprire la gioia… la semplicità della cucina, che sta nel preparare qualcosa che gli altri possano godersi… come facciamo io e te adesso.»

«Tu sei molto bravo a ricordartene anche da solo… non ti importa di quanto è pregiato un ingrediente, e nemmeno se appare come un quadro. A te basta che sia appetitoso, che faccia venire voglia di mangiarlo, no? Come la pasta del Posticino.»

Avevo un po’ esagerato e Sahan rispose alle mie osservazioni con un timido apprezzamento, poi parlammo del piatto e della Bouillabaisse che una volta era nel menu del ristorante. Quella cena fu divertente e mi confermò ancora una volta che quel ragazzo era anni luce distante dai suoi colleghi arroganti e atteggiati come Leclaire; testimone di questo i modi primitivi in cui si infilava in bocca pane e pesce usando soprattutto le mani. Non che io facessi diversamente, ma non potevo non immaginare la faccia del maître Kerr se ci avesse visto abbuffarci in quel modo a uno dei tavoli del Liaison e questo rendeva tutto molto più allegro.

Se quando avevo accettato l’invito temevo di trovarmi in imbarazzo e pentirmene, quella sera me ne tornai a casa sicuro che non avrei rimpianto quella cena mai e poi mai, qualsiasi cosa sarebbe successa in futuro. Non ero mai stato il tipo che crede al destino, alla provvidenza o ad altre dottrine karmiche, ma per la prima volta ebbi la certezza che conoscere Sahan mi avrebbe cambiato la vita.

Anche se ancora non immaginavo quanto in profondità.

 

*

 

Il giorno dopo andammo al lavoro rilassati e tranquilli, arrivammo per primi e aspettammo qualche minuto l’arrivo dello chef Durand. Aveva l’aria allegra e quando ci vide fece uno strano sorriso che mi mise immediatamente in allerta.

«Oh, proprio voi due… bene, vi devo parlare. Entriamo.»

A quelle parole il mio nervosismo si propagò fino a Sahan. Ci scambiammo un’occhiata preoccupata ma lo seguimmo fino di sopra al suo ufficio senza parlare.

Era la prima volta che vedevo l’ufficio dello chef, ma di per sé non era affatto come lo avevo immaginato: aveva uno scaffale pieno di scatole archivio di cartone, una scrivania di legno con il telefono, il computer e un pesante quadernone ad anelli. Lo chef prese posto sulla poltrona, ma non c’erano sedie per degli ospiti.

«Sono certo che sei molto fiero del tuo operato, Micheaux. Il piatto asiatico che hai offerto la scorsa volta è stato molto apprezzato e ha fatto circolare un po’ di sangue nuovo nelle vecchie vene di questo ristorante.»

Onestamente non sapevo se intendesse fargli un complimento: il suo tono sembrava sottintendere che ciò fosse un crimine da attribuire a un responsabile.

«Grazie, Chef» rispose Sahan, senza inflessioni particolari.

«Ho pensato che l’occasione fosse buona per muovermi. Avevo un’idea in testa da qualche mese, e ora approfitterò della modesta curiosità che hai suscitato.»

Io e Sahan ci scambiammo un’occhiata veloce e confusa.

«Cioè?» l’incalzai, dato che il mio amico taceva.

«Inviterò un certo numero di critici ed esperti dell’ambito della ristorazione, approfittando di un convegno che li ha già radunati in California… inviterò persone del calibro di Van Diel, Babette Lou, John Marshall e il gourmet Philip Mordecai qui al Liaison per una serata privata. Un menu degustazione.»

Come al solito ero l’unico idiota nella stanza e guardai Sahan. Aveva l’espressione neutra, ma così scolpita da mettermi paura. Associai quella sua freddezza al concetto di “menu degustazione” e mi chiesi che diavoleria fosse.

«Un menu degustazione è un menu completo in porzione ridotta, che permette ai commensali di assaggiare molte più portate di un pranzo normale.»

La spiegazione mi era chiara, lo scopo finale di Durand molto meno.

«Naturalmente è un’eccellente occasione per il ristorante e per ognuno di noi, ma in particolare per voi due!»

Sahan non si scompose, come se il minimo movimento portasse un pericoloso predatore a sbranarlo. Io indicai me stesso, stupito ai limiti dello shock.

«A-anche me?»

«Hai fatto da aiutante a Micheaux la volta scorsa, con grande impegno. Ho pensato che nutrissi segretamente ambizioni di avanzamento di carriera, e se è così, questa è la vostra occasione.»

Durand allargò le braccia inclinando lo schienale della sedia all’indietro.

«Offriremo ai nostri ospiti due menu completi in una porzione più modesta, in modo che possano assaggiare tutto. Io ne offrirò uno che rispecchi il meglio della tradizione e dell’esperienza del Liaison, mentre tu potrai proporre il tuo… asiatico, europeo, innovativo. Qualsiasi stile tu ritenga di poter mostrare, e se avrai successo guadagnerai una gloria separata dalla fama di tuo padre… e tu, Manning, in quanto suo collaboratore diretto potrai cercare tutte le opportunità di carriera che desideri.»

La notizia mi stordiva a livello profondo, tanto che non riuscii a spiccicare una sola parola di risposta. Guardai Sahan, che sembrava celare una profonda rabbia. Era tutto fuorché grato, ma ringraziò lo chef per la sua gentile proposta e promise a nome di entrambi che non gli avremmo dato motivo di rimpiangere quella scelta.

Durand si rivolse direttamente a lui quando disse che non serviva che presentassero il menu al suo giudizio in anticipo a meno che non trovassimo difficile reperire un ingrediente, e fu quella la prima cosa a insospettirmi. Era come una sensazione strana sulla pelle, tanto forte che mi massaggiai l’avambraccio per cercare di levarmela.

«Pensateci su e preparatevi. Li ho invitati per venerdì prossimo» annunciò infine, con il ghigno di qualcuno che sa di aver inferto un colpo di grazia. «Ora scendete a cambiarvi e iniziate il lavoro.»

«Sì, Chef.»

Ci congedammo e Sahan macinò la scala quasi correndo, ma senza un fiato. Tentai di rivolgergli la parola mentre entrava nello spogliatoio ma fece finta di non sentirmi, tentai di nuovo quando ne uscì ma mi fece segno di non parlare. Confuso entrai anch’io a cambiarmi – facevo davvero fatica a pensare che fosse vero e mi diedi un paio di terribili pizzicotti nell’interno coscia per vedere se sentivo male – e quando uscii trovai Sahan in fondo nella zona pasticceria, più silenzioso che mai.

«Vieni qui, aiutami a preparare la linea, Raim!»

«Ma non so come si fa la linea della pasticceria» osservai.

«Zitto e stai qui vicino a me» mi sussurrò, mettendo un tagliere davanti a me. «Ti devo parlare, ma non voglio che lo chef possa sentire che stiamo discutendo.»

Lanciai uno sguardo alla porta dell’ufficio, ma non vedevo nulla da quell’angolo. Non sapevo se fosse in grado di vederci o sentirci.

«Che succede, Sahan?»

«Chef Durand non si è dimenticato della settimana scorsa» mi fece mentre ammucchiava delle pesche in una larga ciotola. «Aspettava che gli venisse in mente la punizione più crudele di tutte, e ora che ce l’ha è pronto a distruggerci.»

Mi bloccai mentre stavo per aprire il rubinetto.

«Ti fa presentare un menu a dei critici, non è uno strano modo di vendicarsi?»

«Ce lo farà fare perché sa che falliremo. Ha detto che puoi aiutarmi, e come ha fatto nel primo servizio sono certo che ha già un modo per far sì che nessun altro ci aiuti… e un menu completo con solo uno chef e un aiutante con poca esperienza è un’impresa.»

In quel momento mi sentii in colpa. Anche se avevo ogni desiderio sincero di aiutare, non ero in grado di farlo materialmente. Non ero abbastanza bravo, non ero esperto abbastanza da fare per Sahan quelle cose che potevano sollevargli del lavoro lungo e pesante. Non credo che lui si sia accorto della mia immobilità e dei pensieri che l’avevano indotta.

«E se mi devo basare sul suo curriculum» proseguì Sahan, accigliato, «posso dire che ha già in mente come metterci i bastoni tra le ruote, nel caso non fossimo inetti come crede. Farà di tutto perché il nostro servizio sia un disastro.»

Girai la testa più volte tra lui e la porta dell’ufficio, più confuso che mai.

«Ma è… Sahan, che cosa ci guadagna a metterti nei guai con i critici ora che lavori qui da lui?»

«Ha messo ben in chiaro che il menu non deve essere approvato da lui prima, no? Non vuole responsabilità. Ci dà la massima libertà per darci ogni colpa per gli errori, e non escluderei che possa dire che è stata una mia idea presentare un menu diverso dal suo per mettermi in mostra.»

«Pensi davvero che sia così tanto subdolo?»

«Penso che sia anche peggio di così, se lo chiedi a me… e infatti è così ignobile che ce l’ha con me e vuole coinvolgerti nella mia umiliazione. Vuole stroncarti ogni possibilità.»

Aprii l’acqua e strofinai la buccia delle pesche per bene, prendendomi un momento per riflettere anche se mi sarebbe servita qualche ora almeno. Mi muovevo lentamente, pensavo lentamente: mai stato Rain Man più di quel pomeriggio.

«Ma perché dovrebbe…? Io non sono una minaccia per lui o per suo nipote… sono uno sguattero e non ho affatto ambizioni di carriera in questo settore. Non sono esperto né talentuoso per potermi permettere di fantasticarci sopra.»

«Durand ha visto quello che ho visto io il primo giorno» mi contraddisse lui a voce appena più alta. «La tua manualità, la cura per le istruzioni che ti davo, e il tuo spiccato senso del gusto. Ha assaggiato anche lui, ricordi? Sa che sei tu ad avermi detto di aggiungere più sale…»

«Si può capire qualcosa da un po’ di sale?»

«Per chef come Durand, sì. È ignobile come persona, ma eccellente come professionista, non si discute su questo… e sa che tu hai sentito l’acidità di quella salsa che suo nipote non ha percepito affatto. Hai carte che Leclaire non ha e la cosa lo rende invidioso.»

«Ma è assurdo, no? A che serve? Non so fare nulla, e non ho vent’anni!»

«È vero, Raim, ma… se tu lo volessi davvero, con queste premesse, io ti posso insegnare molto e posso presentarti a chi ti trasformerebbe in uno chef professionista in due anni… anche meno, se ti ci applicassi al massimo. Durand questo lo ha capito, e il talento degli altri gli è sempre andato di traverso.»

Non sapevo se Durand vedesse una minaccia in me e in quel momento il mio pensiero era che Sahan ci vedesse molto più di quello che davvero c’era in quella storia. Al massimo io pensavo volesse darmi una lezione affinché non mi schierassi mai più contro i suoi ordini diretti o che non mi permettessi di attaccare l’esperienza superiore di suo nipote.

Sahan prese uno spelucchino e iniziò a pelare le pesche, così mi affrettai a fare lo stesso, anche se molto più lentamente di lui.

«Se le cose stanno così… Sahan, non sarebbe meglio per noi tirarci indietro e… insomma, dargliela vinta? Così non ti può rovinare la reputazione con i critici. Sarà soddisfatto della tua resa e passerà tutto.»

«Non sarà soddisfatto… mi dispiace da morire averti coinvolto, Raim. Questa è una faida tra famiglie e tu non c’entri, ti ha preso nel mirino perché ho legato con te.»

Sahan si mordicchiò il labbro e abbassò lo spelucchino; la mano gli tremava.

«Sahan.»

A fatica mi guardò, ma gli sorrisi in modo spontaneo.

«Non mi pento di averti aiutato. Non importa se perdo questo lavoro perché Durand si accanisce con te… ma non starò a guardare se il suo intento è rovinare la tua carriera. Dimmi che cosa posso fare per aiutarti e farò meglio di quanto pensi che io possa fare.»

Si morse ancora il labbro e guardò dalla parte opposta, ma stavolta sapevo che lo avevo fatto commuovere o quasi. Gli lasciai un po’ di tempo, quello che ci misi a sbucciare un’altra pesca noce.

«Immagino che la tua zuppa di pesce sia un po’ difficile da mangiare al ristorante… che cos’altro potremmo presentare? Non so nemmeno se te la cavi meglio con il pesce o con la carne.»

Quando mi rispose aveva una voce strana, come se avesse il naso tappato dal raffreddore.

«Non… non so… s-sono più bravo con il pesce, ma… de… devo rifletterci, dev’essere qualcosa che posso preparare insieme a te soltanto, e…»

Tirò su col naso rumorosamente e abbandonò tutto per andare a prendere un pezzo di carta da cucina dal rotolo sopra il lavabo.

«Oh, perdonami, Raim… non voglio dire che sei inutile, ma per un menu servirebbero almeno tre cuochi esperti, e… oh, ogni volta che cerco di spiegarmi non faccio che peggiorarla!»

«Sahan, relax. Guarda che lo so di essere un incapace, ma ho imparato la routine… è come il foxtrot. Insegnami i passi che servono e saprò replicarli quando ne avrai bisogno, per il resto del ballo guidi tu.»

Si tamponò furtivamente gli occhi con la carta.

«Devo sembrarti così patetico! Ho fatto la voce grossa con lui, e adesso…»

«Non dirlo neanche, ma ti pare? Ami il tuo lavoro sopra ogni cosa. Anche se una manciata di critici non possono farti a pezzi in tutto il mondo, è ovvio che ci tieni a fare una bella figura… e la farai! Sei uno chef, no? Lo chef che renderà tuo padre orgoglioso, mica uno qualunque. Ce la caveremo!»

Gli assestai un paio di pacche vigorose sulla schiena per fargli un po’ di coraggio, ma in verità sembrava davvero affranto.

«Negli spettacoli teatrali e nei film c’è sempre un tema» osservai, tornando alle pesche. «Forse dovresti scegliere un tema per primo. Magari davvero un menu di sapori orientali, usi benissimo le spezie… o… a te piace la lavanda, no? Si potrebbe fare qualcosa del genere?»

Sahan mi guardò con un sorriso eroicamente tirato.

«Credi in me, Raim?»

Rimasi un momento confuso, ma solo perché non capivo che senso aveva chiedermelo. Ero troppo cosciente di me stesso per aver fiducia in quello che vedevo, ma con abbastanza fede da dare credito a quello che sentivo.

«Ma certo che ci credo… non so giudicare le capacità di chef di alto livello, e non so se sei migliore di Durand o di Leclaire come cuoco, ma so che ami quello che fai più di loro.»

Sahan emise un sospiro tremante, ma quando finalmente si decise a parlarmi non tremavano più né le mani né la voce.

«Gli presenteremo un menu che non dimenticheranno, Raim. Te lo prometto.»

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Notre Dame de Las Vegas ***


Nonostante tutta la sua fiducia, mi accorsi durante quel medesimo servizio che Sahan era preoccupato. Chef Durand aveva convocato tutta la sua brigata nell’ufficio per dargli la grande notizia, ma tutti loro erano usciti con dei fogli spillati in mano e approfittai della distrazione di Baader che pesava gli ingredienti per i soufflé per sfilare il plico dal suo angolino e portarlo alla plonge dove gli diedi un’occhiata: era il menu di Durand, e il fatto che fosse già compilato con le ricette complete poco dopo averci prospettato la serata mi convinse che i sospetti di Sahan fossero ben più che mera paranoia. Ci aveva preso di mira, avrebbe cercato di metterci in ridicolo ed era evidente dall’incredibile complessità dei piatti. La sola portata di carne, il petto d’anatra confit, aveva una ricetta in sedici fasi riccamente descritte.

«Ma fa sul serio?» commentai tra me e me mentre sfogliavo le pagine.

«Che stai leggendo, Raim?»

Sussultai al suono della voce di qualcuno alle mie spalle, ma poi riconobbi Sahan e sospirai.

«Ah, sei tu…»

«A chi l’hai rubato quello?»

Gettai un’occhiata a Baader, preso dalle sue preparazioni.

«È di Baader» sussurrai mostrandogli il plico. «È il menu di Durand con le sue ricette…»

Sahan mi prese i fogli dalle mani bruscamente e si mise a leggerli con una velocità impressionante, e man mano che sfogliava era sempre più accigliato. La sua tensione rese nervoso anche me.

«Sahan…?»

«Capisco.»

«Sahan, che cosa…?»

«Rimettilo dove l’hai preso, Raim… non abbiamo fatto niente di male, ma preferisco che Durand pensi che non ci siamo preoccupati affatto della sua proposta.»

«Sì, ma…»

Non mi ascoltò; dopo avermi restituito i fogli tornò alla sua postazione e in tono allegro chiese conferma delle istruzioni a Baader. Approfittai del momento per rimettere il ricettario là dove l’avevo preso e Leclaire mi chiese di portare fuori la pattumiera del pesce, così ne approfittai per prendere aria per un attimo e riflettere.

Gettai la busta e misi il solito coperchio perché non facesse cattivo odore nel cortiletto, dopodiché mi stiracchiai e sospirai profondamente. Iniziavo a elaborare, anche se vagamente, che cosa stava succedendo: Durand aveva lanciato una sfida diretta al figlio di un compagno che aveva già buttato a terra una volta per arrampicarglisi sopra verso la vetta. Aveva intenzione di punire il suo talentuoso figlio perché aveva osato seminare confusione durante il servizio, perché aveva usato quel suo tiro mancino di gioventù per farsi assumere o perché si era permesso di scaricare su di lui e sulla sua mancanza di controllo la responsabilità della salsa andata a male? In realtà non sapevo se la risposta fosse una di queste o tutte queste insieme.

Mentre rientravo pensavo solo che dovevo dare il mio supporto a Sahan e che il suo talento avrebbe fatto il resto, ma quando a fine servizio lo vidi attardarsi a ripulire la cella frigorifera sfuggendo persino a me mi preoccupai, e parecchio. Anche se aveva ripetuto a tutti, me compreso, di non aspettarlo e che avrebbe finito lui le pulizie, non pensai neanche di andarmene: attesi che chef Kleiner se ne andasse e che Durand si chiudesse di sopra con le sue carte - fatture, scontrini della sala e copie delle comande – e mi affacciai sulla cella trovandolo inginocchiato a pulire lo scaffale più basso.

«Si può sapere che hai in mente, Sahan?»

«Niente» replicò lui atono. «Sto pulendo.»

«Questo lo vedo, ma mi domando perché» risposi a tono io. «Non ti starai rassegnando a una vita da sguattero, spero.»

Sahan stritolò la spugna e quella gocciolò acqua e schiuma sul ripiano. Sapevo di essere andato a segno e mi inginocchiai vicino a lui spostando il secchio.

«Che succede, Sahan? È stato il menu di Durand a metterti quest’umore addosso?» feci, e strizzai lo strofinaccio per bene. «È così formidabile?»

«Io… non posso raccogliere la sua sfida, Raim. Mi dispiace.»

«Cosa? E perché?»

«Ho visto quel menu, e so che richiede moltissimo lavoro esperto. Si servirà di tutta la sua brigata per metterlo a punto… e quando ho parlato con gli altri durante la preparazione Isabel mi ha detto in confidenza che Durand ha lasciato intendere che chiunque ci dia una mano in qualsiasi modo sarà coinvolto nel nostro risultato…»

Rimasi in silenzio un attimo mentre ripulivo lo scaffale velocemente.

«Quindi se andiamo a picco ci andranno anche loro, è questo il senso?»

«Sì. Come al primo servizio, mi ha messo alle strette…»

«Ma ci siamo riusciti lo stesso» osservai in tono fiducioso. «Non ci credeva nemmeno lui, ma ce l’abbiamo fatta!»

«Era un solo piatto… preparare quattro portate per una decina o una ventina di ospiti è un lavoro complesso… troppo per un solo cuoco. L’ideale per andare a segno è avere quattro cuochi, uno per impostare ogni portata, con gli altri che aiutano man mano che arriva il momento di servire.»

Sospirai e Sahan fece una brutta smorfia. Lo conoscevo ormai abbastanza da capire che si era accorto di avermi di nuovo “insultato” dandomi dell’inutile.

«Sta’ calmo, Sahan. Tu sei un cuoco esperto e sei un bravo maestro, sei riuscito a rendere utile anche me, quel giorno… insegnami quello che hai bisogno che faccia. Imparerò tutti quei compitini che ti possono alleggerire il peso.»

«Raim… non voglio che tu lavori con me questa volta…»

Mi bloccai mentre sciacquavo lo strofinaccio e lo guardai. Lui mi fissava con uno sguardo cocciuto, a lui poteva sembrare da eroe ma a me pareva da idiota, quindi gli lanciai lo straccio sulla faccia strappandogli un verso a metà tra un topo schiacciato e un’anatra.

«Basta cazzate, Sahan, mi sono stufato di dirti di calmarti» gli dissi in tutt’altro tono. «Che ti piaccia o no, tu avrai almeno me. Sbrigati a scegliere il tuo menu, così mi darai più tempo per imparare quello che devo fare! Non deve essere complicato come quello di Durand per essere buono, no? In tv si vedono chef stellati che fanno piatti con tre o quattro ingredienti!»

Sahan mi guardò con un’espressione che mi fece tenerezza: sembrava un bambino che non sapeva se scoppiare a piangere o arrabbiarsi. Restai impassibile e lui non parlò ancora, asciugandosi la faccia con la manica della giacca.

«Io non ci capisco granché di cucina, ma una cosa l’ho capita in questo settore» continuai, deciso a non uscire da quella cella senza che Sahan sorridesse di nuovo. «La cucina assomiglia al cuoco. Sempre.»

Stavolta fu colpito dalle mie parole e mi guardò a occhi spalancati abbassando lentamente il braccio.

«Co… come?»

«Guarda la cucina del Posticino: sembra pesante ed esagerata, e invece resta sempre piacevole e non ti stanca mai, proprio come Martha e Marco. Tu non lo conosci, ma chef Basile, il nostro vecchio pasticciere, era una persona piacevole anche se stava molto sulle sue. Non era mai nervoso e non sembrava mai di fretta… e i suoi dolci avevano la stessa leggerezza, erano ordinati e belli, come lui era uno che teneva al suo aspetto.»

Parlare di Alessandro Basile mi faceva sorridere, era l’unico in cucina a cui neanche chef Malone riusciva a mettere ansia o fretta. Avevo sempre ammirato la sua serena compostezza e ho sempre pensato che gli derivasse dalla sicurezza che aveva nel suo metodo di lavoro. Insieme a Isabel era di certo l’unica persona che non mi bistrattava.

«Durand… ha scelto una cucina complessa, precisa, difficile. È il suo carattere… non pensare a cosa stupirebbe dei critici. Mostragli qualcosa che sei felice di aver imparato, qualcosa che è stato difficile fare, o quella che ti è sempre riuscita bene… parlagli di te, Sahan, non serve altro per piacergli. Al di là dello chef che sei… beh… sei una bella persona.»

Sahan fece una strana smorfia, artigliò l’orlo della giacca con le mani e vidi che tremava. Mi chiesi se bagnarlo dentro una cella frigorifera non fosse stata una cosa stupida da fare, ma poi vidi che gli occhi gli si riempivano di lacrime. La sua smorfia mentre cercava di trattenerle era oltre il buffo e feci fatica a non ridere.

«R-Raim! Vuoi farmi piangere? Che meschino!»

«Stai già piangendo, Sahan» gli feci notare, con la voce incrinata dalle risate represse.

«Non ridere di me! Bite!»

Si asciugò gli occhi con la manica continuando a ripetere quella parola a mezzavoce – avrei imparato anni dopo che in realtà è una parolaccia in francese, non credevo neanche che ne avessero – e tentai di confortarlo dandogli delle pacche amichevoli sulla schiena; ma mi sarebbe venuto meglio se fossi riuscito a smettere di ridere.

«Dai, dai! Vuoi andare a cena da qualche parte? Andiamo al Posticino? Quando sono giù ogni piatto di Martha mi tira su di morale… ah, magari troviamo proprio il tiramisù!»

Sahan saltò in piedi, ma non sorrideva e mi schiaffò in faccia lo strofinaccio: mi trovai capelli e colletto della maglietta zuppi di acqua saponata prima che riuscissi a togliermela di dosso, allibito e disgustato.

«Bleh… credo di averne bevuta un po’… che schifo!»

«Così siamo pari, bluh!» fece lui facendomi una linguaccia.

«… Mica tanto, io un po’ l’ho strizzato prima di tirartelo…»

Non ero arrabbiato comunque, rimisi spugna e strofinaccio nell’acqua e rimisi a posto le cassette di legno delle verdure che Sahan aveva spostato per pulire il ripiano. Secchio alla mano uscii e chiusi con cura la cella. Il calore della cucina era confortante dopo quella mezza doccia, e lo era anche la rinnovata determinazione nello sguardo del mio amico.

«Vado dritto a casa, oggi… devo pensare a un menu che sia gustoso e parli dello chef, ma che sia anche semplice. Se voglio servirmi di te devo metterti in condizione di seguirmi, non posso passare il tempo a badare quello che fai.»

Fui sorpreso da quel cambio di rotta, ma anche felice e annuii convinto.

«Per domattina ti porterò il menu che ho deciso» mi fece, sorprendendomi anche di più. «Ti scriverò gli ingredienti della ricetta, ma ti mostrerò come si fanno di persona. Vengo a cucinare da te.»

«D-da… no, stai scherzando?!» esplosi, gesticolando come se affogassi. «La mia cucina è totalmente inadeguata! Non c’è spazio, e… non ho neanche la cucina a gas, uso delle piastre elettriche! No, no, non va bene!»

Sahan mi guardò sorpreso.

«Non hai il fornello a gas, davvero? Quindi non sai usare la fiamma…»

Lo vidi diventare pensieroso e improvvisamente mi sentii un vero disastro. Sapevo meno di quanto Sahan desse per scontato e avevo davvero paura di essere più un peso per lui che una risorsa.

«Beh, non è importante» commentò lui, dopo una riflessione che mi parve infinita. «Se sarà necessario supervisionerò io tutte le cotture… ma ti insegnerò a gestire il fuoco per sbrigare la tua parte del lavoro. Sei ancora sicuro di volermi aiutare? Dovrai imparare in fretta un certo numero di ricette e di procedure.»

«Sei un bravo insegnante. Ci metterò tutto l’impegno possibile.»

Sahan annuì e fece un sorriso, anche se non smagliante come mi ero abituato a vederlo.

«In qualche modo ce la caveremo. Meglio se vai a riposarti, perché domani inizio a metterti sotto sul serio.»

«Non preoccuparti… mangerò qualcosa al Posticino e filerò a casa.»

«Saluta da parte mia, allora… buonanotte, Raim.»

«Non stare sveglio tutta la notte, Sahan.»

Non mi rispose e dopo aver recuperato la sua borsa uscì senza cambiarsi: lo faceva quando decideva di indossare un’altra uniforme pulita e perfettamente stirata il giorno seguente. Io mi affrettai a pulire il pavimento, a cambiarmi e ad andarmene prima che Durand finisse i suoi conteggi serali, ma quando andai al Posticino avevo in mente tutto fuorché filare a letto presto.

Marco mi accolse con il solito calore, ma alzai la mano per rifiutare la birra che stava per spillarmi nel boccale freddo.

«Grazie, ma stasera no, Marco» gli feci, deciso a stringare i preamboli. «Scusami, ma devo rubarti qualche minuto. Ho bisogno di parlarti.»

Marco preparò in fretta una brocca di vino per un tavolo che stava dilungando la cena e poi si sporse verso il banco a ascoltarmi quando iniziai a parlargli. Gli raccontai di Sahan dall’inizio, della storia controversa della salsa acida, del litigio con lo Chef Durand e della vecchia storia tra Micheaux Senior e lo stesso chef, e della nuova sfida all’orizzonte. Cercai di dire tutto il necessario e niente di superfluo, perché volevo che Marco capisse perché ci tenevo tanto.

«Potrebbe dipendere da questo… il futuro di Sahan in questa città, e forse nel paese… se fallisse potrebbe dover lavorare molto a lungo per cancellare quella falsa partenza… e io, come sai, ne so qualcosa di quanto è duro ripartire da capo.»

Marco annuì con aria grave. Non aveva quasi spiccicato parola mentre raccontavo.

«Cosa posso fare io per te?»

«Sahan mi insegnerà a fare le preparazioni che servono per il suo menu… ma per impararle devo esercitarmi. Posso venire qui? Casa mia non ha neanche i fornelli. Devo abituarmi a muovermi come uno di loro… per quanto si possa in poco tempo.»

Marco non disse niente e si raddrizzò, sistemandosi il grembiule da bar con il logo del ristorante.

«Stasera Martha ha fatto i cannelloni agli spinaci… pensando che venissi te ne ha messa una porzione da parte. Te la porto» mi fece, prendendomi di sorpresa. «Mentre mangi parlo un attimo con Martha.»

Avrei voluto ringraziarlo, ma in quel momento non mi uscì altra voce. Lo guardai entrare in cucina e dopo qualche minuto uscì una delle nipoti con il mio piatto di cannelloni caldi. Marco non tornò e lei rimase al bar a gestire i clienti ritardatari che arrivarono mentre mi rifocillavo.

Avevo già finito quando Marco uscì dalla cucina con l’aria accigliata e mi chiesi se Martha aveva preso male la mia idea.

«Martha dice che puoi venire a provare quanto vuoi, e che ti aiuta se hai bisogno… a due condizioni.»

Il ringraziamento che stavo per buttare fuori con sollievo mi rimase incastrato in gola come una lisca di pesce.

«Quali?»

«Per prima cosa, vuole che Sahan le dia le ricette dei piatti che vuole presentare alla degustazione.»

Inclinai la testa pensando caoticamente per qualche istante.

«Beh… io direi di sì, ma sta a Sahan deciderlo…»

«E secondo, dice che dopo ti insegna a preparare i tuoi piatti preferiti del nostro menu… non esiste che impara soltanto i suoi, ha detto.»

Aspettandomi chissà che genere di controfferta mi sentii sollevato ed ebbi voglia di ridere, ma mi sentivo davvero troppo libero da quella paura di fallire per provare altro che infinita gratitudine. Per la prima volta apprezzavo veramente che Marco e Martha fossero amici di mia madre e che fossero diventati anche miei, ma solo dopo quella difficile cena avrei realmente capito quanto è confortante sapere di avere qualcuno da chiamare quando si ha bisogno di aiuto.

 

*

 

Il giorno dopo restai scioccato di trovarmi Sahan davanti alla porta di casa di buon mattino, e fu uno dei giorni in cui mi vergognai di più in tutta la vita: dietro le mie spalle casa mia era un caos di scarpe buttate per terra, vestiti lasciati dove capitava, il lavabo della mia tremenda cucina ingombro di piatti ancora da lavare – avete presente cosa si dice del calzolaio con le scarpe bucate, vero? - e io stesso con addosso una maglietta lacera piena di buchi che non avevo mai buttato via e i capelli tutti arruffati.

«Sono andato al ristorante a predisporre le preparazioni e ho chiesto dei permessi per tutti e due» mi disse dopo un frettoloso saluto. «Fino a venerdì prossimo è sufficiente che io vada al mattino a lasciare tutto pronto per Baader e si vada tutti e due per i servizi serali. Useremo il resto del tempo per studiare le ricette del menu… l’ideale, nelle condizioni attuali, è che tu sia in grado in linea di massima di preparare tutto il piatto da solo, nel caso ci fosse qualsiasi intoppo.»

«Che… Sahan… Sahan, come sai dove abito?»

«Ho telefonato a Martha, come immaginavo era già sveglia. L’ho chiesto a lei.»

«Come… perché hai il numero di Martha?»

«Possiamo parlarne dopo? Devo insegnarti due anni di scuola di cucina in una settimana, non abbiamo molto tempo da sprecare in chiacchiere.»

Quell’osservazione mi svegliò più efficacemente del campanello e dimenticai l’imbarazzo del momento quasi del tutto.

«Dammi un minuto per vestirmi.»

«Puoi venire anche nudo, basta che ti sbrighi!»

Restai un momento interdetto, poi mi ritirai lentamente verso il divano – il reale luogo dove mi spogliavo, rivestivo e spesso dormivo – per cercare una maglietta nel caos sul tavolino. Sahan fece un solo passo dentro casa, non so se per rispettare la mia privacy o perché quel porcile lo disgustasse… ma ora che lo conosco meglio sono sicuro che era la seconda ipotesi quella giusta.

«Non credo sarebbe molto igienico» commentai, sperando di distrarlo dalla mia frenetica ricerca.

«Ho sempre lo sterilizzatore a vapore a casa… non è grande abbastanza per te, ma a pezzi ti posso comunque ripulire.»

Ricordo che mentre infilavo una maglietta blu decisi con grande fermezza di ripulire completamente l’appartamento non appena archiviata la cena di venerdì. Sahan non mi stava propriamente criticando né la sua faccia esprimeva disgusto o qualche emozione simile, ma mi sembrava di leggergli dentro e sapevo che pensava che tenessi casa mia in modo orrendo.

O forse era il mio senso di colpa e la mia segreta antipatia verso la mia stessa pigrizia a punzecchiarmi il cervello.

«Sono pronto» dichiarai mentre mi infilavo la seconda scarpa. «Beh, più o meno.»

Sahan mi guardò e trattenne una risata mettendosi la mano sulla bocca.

«Più meno che più, Raim…»

Mi ci volle qualche secondo per capire che il motivo per cui sentivo così strano camminare era perché avevo infilato la scarpa destra di un paio e quella sinistra di un altro. Probabilmente ero del colore di un pomodoro maturo mentre lanciavo via la scarpa blu dal piede e raccattavo quella grigia uguale all’altra, ma almeno quel mio stupido errore lavò via quell’espressione seria e seccata di Sahan lasciandolo sorridente e divertito, e tale rimase fino a casa sua.

 

*

 

Poco più tardi ero seduto sullo sgabello della cucina di Sahan, con il suo menu battuto a macchina – non so scherzando, non era stampato da un computer ma battuto davvero con una macchina da scrivere – e il procedimento per prepararlo nelle pagine seguenti, come aveva fatto Durand. Per fortuna il suo menu aveva solo cinque pagine, ma la lunghezza della ricetta del suo dolce mi fece venire i sudori freddi. Per chi non sa cucinare i dolci sono particolarmente terrificanti, e più righe ha la ricetta più sale il livello di stress.

«Sahan… ehm… sei sicuro di questo menu?»

Sahan aspettava a braccia incrociate, con addosso una giacca da chef con il colletto e una striscia di colore fucsia sulle spalle, non tanto il mio giudizio quanto la mia reazione alla lettura.

«Ci ho pensato un po’ su, e ho seguito il tuo consiglio. Ho scelto un menu che mi rappresenta.»

Riguardai il menu, accigliato. Forse conoscevo troppo poco Sahan, perché non lo immaginavo così… per quanto si potesse davvero giudicare una personalità dai piatti che cucinava.

«Quando dici che ti rappresenta, esattamente…?»

Aspettava soltanto che gli chiedessi di spiegarmelo: all’istante ruppe il silenzio e aprì le braccia come se tenerle incrociate gli impedisse di prendere il respiro.

«Entrée: cous cous vegetariano al sesamo» recitò, come da nome del piatto riportato sul foglio. «Questo piatto è una tradizione della famiglia di mia madre, leggero e fresco, ideale per l’estate e un’ottima proposta vegetariana ricca per i clienti di un ristorante. Lo prepareremo a mano, come faceva lei, e questo lo renderà unico.»

Mi era molto chiaro che era legato alle sue origini mediorientali e al ricordo di sua madre, quindi annuii e guardai la descrizione del secondo piatto, il main course di pesce. Quello che mi lasciava più perplesso di tutte.

«Salmone provenzale con purè di verdure verdi e acqua di lavanda: il salmone era il mio pesce preferito fin da piccolo e in questa ricetta ci sono tutti gli odori e i sapori della città in cui sono stato bambino.»

«Sì, questo è molto bello, Sahan, ma… qui c’è scritto “sfere di acqua di lavanda”.»

Il ghigno che mise su quasi mi spaventò, ma non mi spiegò niente. La cucina era ingombra di ingredienti sparpagliati sui ripiani e in mezzo al resto recuperò un vasetto di pirex graduato pieno di acqua – almeno tale mi sembrava – e una piccola ciotola di acqua color violetto con un contagocce immerso. Non ne vedevo uno da quando mi ero diplomato.

«Che è quella roba?»

«Non ho imparato solo cucina dai miei genitori… sai che in Turchia ci sono un sacco di alchimisti?»

«Un sacco di che?»

«Stai a guardare. Non chiudere gli occhi, eh!»

Rimestò nella ciotolina con il contagocce, tirò su un po’ del liquido viola e ne fece cadere qualche goccia nell’acqua e fu allora che, invece di disperdersi come mi aspettavo, la goccia viola diventò tonda e scese sul fondo. In un attimo una serie di palline si ammucchiarono sul fondo come uova di pesce. Ero esterrefatto e Sahan ne era più che compiaciuto.

«Visto? Visto?»

Ridacchiò divertito e ripescò le sferette, che rimasero perfettamente intatte, poi me ne mise una in mano. Era morbida al tatto, come una sfera di gel da bagno o qualcosa del genere. Ero stupito e meravigliato e ammetto che mi lasciai avvolgere da un entusiasmo esagerato.

«E questa cosa si mangia?»

«Ma certo! Mettila in bocca, dai.»

Non me lo feci ripetere e la misi in bocca. Non sentii niente all’inizio, poi con la lingua la schiacciai contro il palato e l’acqua ne uscì, riempiendomi di gusto e aroma – era difficile capire dove finiva l’odore e iniziava il sapore – di timo e lavanda. Non mi era rimasto nulla da deglutire ma la sensazione rimase tutta lì, e mi galvanizzò, letteralmente.

«Sahan! È… è…»

«Buono?»

«È come una magia!»

Mi resi conto che quel commento era infantile, ma Sahan scoppiò in una risata un po’ più incerta e – mi parve – divenne un po’ più colorito in faccia. Spero non suoni brutto da dire, ma con il suo colore di pelle non era tanto facile notare quando arrossiva.

«Magia, uh…? Lo potremmo chiamare così, sul menu: Magia di pesce e lavanda.»

«Quindi vuoi mettere queste palline nel piatto?» gli domandai, mettendomene un’altra in bocca.

«Sì… non sono ancora del tutto sicuro dell’impiattamento, ma penso di mettere il trancio di pesce in questo modo» rispose mostrandomi la composizione con le mani. «E sopra la pelle mettiamo lo yogurt alle erbe aromatiche, che sarà bianco e verde, con le sfere di lavanda… credo sarà un colpo d’occhio notevole, come colore!»

«Magari è una sciocchezza, ma… al posto del purè verde possiamo usare verdure viola, no?»

«Preferisco di no, per due motivi» fece, con l’aria dispiaciuta. «Primo, le verdure viola richiedono una cottura eccellente e una cura particolare, se si perde un po’ di colore con la cottura il risultato è un violetto-rosa un po’ disgustoso da vedere… e secondo, usare il verde nel piatto farà risaltare di più il viola delle sfere, che cattureranno l’attenzione.»

«Oh, per un contrasto… pensi proprio a un sacco di dettagli, Sahan. Mi sento un po’ idiota.»

Sahan mi sorrise.

«Affatto, sei solo inesperto! Ma hai fatto una proposta e questo mi piace molto. Devi dirmi tutte le idee che ti vengono, perché quando un cuoco decide tutto da solo potrebbe non pensare a una cosa che per un altro è ovvia, proprio perché ragiona su troppe cose. Il tuo lavoro è anche farmi domande, così se sbaglio qualcosa me ne accorgo!»

Non avevo mai pensato a questo aspetto, anche perché al Liaison Durand non chiedeva mai nulla neanche al suo braccio destro, a quanto ne sapevo, e nessuno faceva mai delle domande.

«Tu e Durand siete davvero due tipi opposti di cuoco.»

Sahan non rispose subito. Pensai di avergli dato fastidio, ma poi sorrise.

«Penso di sì. Ma per me è più importante che siamo tipi opposti come persone.»

«Lo siete di certo.»

«Ma la questione ora è dimostrarglielo, dico bene?!»

Mi portai la mano alla fronte in un saluto militare.

«Sì, Comandante!»

«Oui, Chef.»

«Oh… giusto. Oui, Chef» mi corressi, e tornai a leggere concentrato il resto del menu. «Il secondo piatto?»

«Filet mignon, un taglio classico nella cucina francese e anche in casa mia… il filetto al vino rosso è il piatto preferito di mio padre, mentre le punte di asparagi al burro mamma le cucinava sempre per le cene speciali… l’insalata di feta e pere grigliate invece l’ho fatta io quando ho scoperto la feta greca, ho fatto un centinaio di abbinamenti di prova!»

«Mi hai preso in parola quando ti ho detto di metterci del tuo…»

«Sì, perché hai ragione, no? Se scelgo qualcosa che mi rappresenta non importa come va a finire, non rimpiangerò quella scelta!»

Sorrisi con fare incoraggiante, ma io mi sentivo un po’ meno convinto mentre leggevo la ricetta del dolce della quale non capivo quasi niente.

«Spero di essere bravo abbastanza da non farti pentire di aver scelto me, piuttosto.»

Sahan non replicò ma prese a fissarmi come se avesse voglia di prendermi a pugni. Deglutii a fatica e presi un sorso della sua limonata alla lavanda.

«Voglio dire, mi impegnerò per non farti pentire nemmeno di aver avuto soltanto me.»

«Lo spero bene» scandì lui, e picchiettò col dito sulla ricetta del suo dolce. «Questo dolce lo conosco molto bene, ma a meno di non andare di mattina a preparare per la cena non ci staremo mai con il tempo.»

Scorsi le fasi delle varie componenti con una certa ansia.

«E ce la faremo…?»

«Questo dolce ha quattro elementi, più due decorazioni. La più complessa è la base di sesamo caramellato, sono estremamente importanti tecnica e temperatura, quindi per questo servizio mi occuperò io di farla… lo stesso vale per la pallina di limone sotto sale chiusa nel caramello, che metteremo come decorazione. Questi due elementi saranno assegnati a me, perché li conosco bene e per te sarebbe difficile impararle in una settimana anche se ti dovessi spiegare quelle soltanto.»

Mi accorsi di stare sbattendo le palpebre ripetutamente e mi sforzai di sembrare meno impressionabile.

«È davvero così difficile da preparare?»

«Per un neofita sì, assolutamente» confermò, ma mi fece un sorriso incoraggiante. «Ma per darmi il tempo di occuparmi della semola, della preparazione del pesce e della carne, e delle varie altre cose, ti insegnerò a preparare sia la pannacotta al gelsomino che la gelatina alla salvia che va sopra… e naturalmente il biscotto di kamut decorativo. Queste preparazioni le farai per prime, così avremo le decorazioni pronte e le basi raffredderanno mentre pannacotta, gelatina e spuma stanno in abbattitore a compattarsi per bene, e possiamo comporle prima di servire!»

Non ero affatto confidente ma annuii cercando di non farglielo capire.

«Mi insegnerai prima queste?»

«Il programma di questa giornata di lezione è farti vedere, anche se al rallentatore, esattamente quello che faremo il giorno del servizio, nell’esatto ordine di priorità. Naturalmente io preparerò solo un piatto per portata, ma voglio che tu abbia chiaro che cosa farò io mentre tu ti occupi di altre cose. Come squadra voglio che sappiamo che stiamo facendo anche senza guardarci, d’accordo?»

«È una cosa normale in una cucina?» domandai incuriosito.

«In una situazione normale, con un menu di opzioni diverse e ordinazioni imprevedibili, non è assolutamente possibile. Per questo si parla con le altre postazioni per dire quanto manca alla fine della cottura, per dare il tempo per il pesce o altri alimenti che cuociono più veloci… ma questo è menu fisso. Siamo noi a decidere che cosa offrire ai clienti di quella serata e quindi, se studiamo le ricette e i tempi dei nostri rispettivi compiti, sapremo che cosa sta facendo l’altro in ogni momento.»

Scorsi la prima pagina con la lista dei piatti, accigliato. Qualcosa mi sfuggiva.

«Per qualche motivo non possiamo parlarci, Sahan?»

«Ma certo che possiamo parlarci…»

«E allora perché dovremmo pensare a questo? Se dovessimo aver bisogno dell’altro basta girarsi e chiamarlo. No?»

Sahan sospirò. Era un sospiro lungo e lento. Girò intorno all’isola della cucina e sedette sullo sgabello accanto a me senza dire una parola. Non lo forzai e aspettai che parlasse, ma non lo fece prima di aver preso bei sorsi dal mio bicchiere di limonata.

«Forse tu non lo pensi… e forse nemmeno lo capirai… ma io sono fortunato ad averti con me in questa occasione, Raim.»

Perplesso, ricordo di aver girato lo sguardo per la stanza. Non so se mi aspettavo una telecamera per riprendere lo scherzo o un qualsiasi indizio materiale che mi spiegasse il senso della sua uscita, ma non c’era né l’una né l’altro.

«Scusami?»

«Tu sei calmo… sei sereno. Se avessi chiesto a qualsiasi altro sguattero sarebbe sopraffatto dalla responsabilità e dalle sue lacune, e se l’avessi chiesto a uno chef avrei probabilmente sbattuto contro qualcuno che voleva metterci del suo per troppo orgoglio o avrebbe avuto paura di bruciarsi con i critici per sfiducia in sé.»

Mi sorrise in un modo così genuino e così solare che, posso dire, smisi di vedere e pensare qualsiasi altra cosa.

«Tu non sei spaventato… né arrogante, né indifferente. Io diventerò più agitato e più esigente man mano che ci avviciniamo alla cena, e tu… Raim, tu devi mantenermi calmo. Devi regolare la mia velocità» mi disse, strizzandomi appena l’avambraccio. «Voglio che impari i nostri tempi perché se accelero devi dirmi di respirare e fare le cose come vanno fatte… con il loro tempo e tutta la cura. So di essere un impulsivo, ma ho te a controllarmi, vero?»

Che era un impulsivo non lo si poteva negare in nessun modo, si era visto da come aveva reagito alle accuse di Durand e sulla salsa acida… ma era anche vero che io facevo della guerra all’ansia una specie di santa crociata, in quel senso ero l’uomo giusto per Sahan. E ora che me ne rendevo conto e che capivo appieno quale fosse il mio principale ruolo mi sentivo molto più calmo: se avessi assolto i miei compiti e fossi riuscito a tenere dritto il timone Sahan ci avrebbe guidati in porto entrambi.

D’altronde, mi dissi, se non mi mettevo in gioco per l’unico che aveva creduto in me da quando ero stato arrestato, per chi altro avrei mai potuto?

«Sono bravo a capire quando le persone diventano nervose» replicai allora sorridendogli. «Ti terrò d’occhio e ti arriverò uno sculaccione ogni volta che diventi ansioso.»

Sahan mi guardò preoccupato e io sollevai la mano.

«Oh, sei nervoso!»

«No! Giuro di no!»

Fu inutile che cercasse di scapparmi, perché gli arrivai una pacca sul sedere col mio braccio “ridicolmente lungo” – lo chiamò così mentre si massaggiava la natica con un vittimismo esagerato. Almeno, però, il suo umore era migliorato.

«D’accordo, Raim… tu prendi appunti. La ricetta è scritta e spiegata, con temperature e dettagli del genere, ma voglio che tu veda come si fa e mi faccia tutte le domande che ti vengono. Non esiste una domanda stupida, okay?»

Presi il quadernino e la penna che mi aveva preparato e mi disse che mentre divideva gli ingredienti secondo la sua linea potevo iniziare a leggere la ricetta del dolce, perché avremmo iniziato da quella. Lo vidi preparare la panna, le uova sgusciate e separate, ammollare la gelatina, tritare il limone salato e disporre tutti gli ingredienti in ciotole di dimensioni diverse, alcune davanti a me e altre accanto ai fornelli.

«Prima che inizi la ricetta, posso una domanda?»

«Sì» mi fece un po’ sorpreso. «Riguarda la mia linea?»

«Perché hai una giacca fucsia?»

Sahan restò ancora più stupito, ma poi si accigliò con un’aria tremendamente irritata.

«Perché un uomo non può indossare una giacca da cuoco o un qualsiasi vestito di colore rosa e magenta, è questo?»

Non pensavo davvero che potesse prendere così male il mio commento e alzai le mani in segno di resa.

«No, no… è che pensavo che i cuochi di livello indossassero solo giacche bianche o nere… anche in tv non mi è mai capitato di vedere una giacca con dei colori così vivaci.»

«Non è assolutamente così. Nel ristorante Micheaux gli chef de partie indossano uniformi bordeaux e i commis la casacca beige… ho lavorato con lo chef Ras Hamadisaba, un’eminenza della cucina vegetariana di alto profilo, che indossa sempre una divisa verde scuro… e questa…»

Sospirò passandosi il dito sotto il colletto fucsia.

«Era l’uniforme che voleva la chef Nocera nella sua pasticceria… ci ho lavorato per sei mesi, un piccolo stage… e voleva che usassi anche un elastico per capelli di questo colore. Come tutti gli artisti, anche gli chef hanno strane fissazioni e alcuni con le uniformi.»

Annuii: ne sapevo qualcosina anche io di artisti con bizzarre fissazioni.

«Sì, capisco… la mia insegnante di ballo vestiva sempre e soltanto di blu elettrico. Si truccava di quel colore anche gli occhi e le unghie, e anche nelle foto delle sue gare da giovane aveva sempre vestiti da ballo e scarpe blu.»

«Meglio del magenta… non so, queste tinte fluorescenti mi irritano un po’. È come se mi stancassero i nervi, è difficile da spiegare.»

Non aggiunse altro e io, tanto per fare qualcosa di utile, mi offrii di aiutarlo a predisporre la linea. Mi misi al lavoro con le uova, ma in quel momento di lavoro mi resi conto che mi mancava la musica in sottofondo… però, dovendo stare attenti al cibo e ai procedimenti, sarebbe stata una distrazione. Per un po’ non avremmo avuto modo di ballare e mi stupii della sensazione cupa che mi dava quell’idea. Non avevo ballato per anni e proprio ora mi sorgeva di nuovo quella voglia…

«Se aprissi un ristorante tuo useresti le uniformi bianche, allora?» domandai, un po’ per distrarmi da quella sensazione di incertezza. «O come nel ristorante di tuo padre?»

«Le uniformi bordeaux mi sembrano un po’ austere… se aprissi un ristorante sarebbe qualcosa di frizzante… nuovo, fresco, allegro… anche un po’ stravagante… sceglierei una cucina così, quindi…»

«Una cucina come te» osservai, senza tenermi il sorriso divertito.

«Oh, signor Manning, sto quasi cominciando a pensare di averti colpito!»

«È successo. Non mi è difficile dirlo: conosco poco la gastronomia e l’ambiente della cucina… in pratica, per niente, e al Liaison è stato come vivere nel campanile di Notre-Dame assordato dalle campane grosse. Ora sto passeggiando fuori insieme a te e vedo un mondo nuovo, che è frizzante, allegro, e stravagante… tu sei la mia Esmeralda.»

Sahan mi guardò e io lo guardai. Dopo un attimo scoppiammo a ridere, quel minimo disagio completamente azzerato.

«Oh, cielo, Raim» fece quando riprese fiato. «Spero di non finire bruciato~»

«Pensi che il ministro Frollo stia fra i critici che ha invitato Durand?»

«Conoscendo Durand non mi stupirebbe per niente!»

Emisi una risatina divertita e nervosa insieme immaginandomi un tale in tunica medievale in sala; per un solo momento fino al giorno della cena mi preoccupai della severità dei critici e fu proprio quello. Per fortuna l’attimo passò quando Sahan si dichiarò pronto a cominciare e mi illustrò la linea – per quale ragione aveva messo questo o quello in un posto o in un altro – prima di iniziare la base al sesamo, la sua prima preparazione che andava raffreddata a temperatura ambiente e richiedeva più tempo.

Feci sparire dubbi e angosce quando feci uscire la punta della penna e seguii la ricetta con la massima attenzione. Anche se dubitavo di avere domande con una ricetta così dettagliata come quelle scritte da Sahan mi trovai a farne una quantità su ogni procedimento di cottura e ogni reazione chimica; a ognuna Sahan rispondeva prontamente dicendomi tutto quello che riteneva importante ed era felice come un professore devoto ogni volta che gli chiedevo qualcosa.

Non lo facevo per dargli fiducia o fargli un piacere. In quanto gobbo incapace e unico sostegno della mia Esmeralda, volevo diventare il miglior supporto possibile per la sua grande occasione.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** L'homme sans poésie ***


Se giovedì sera fui un fascio di nervi al punto di dover bere della camomilla per prendere sonno, la mattina del venerdì fatidico ero tranquillo, fin troppo tranquillo per come la vedevo io. Ripassai mentalmente le ricette del menu di Sahan mentre mi facevo la doccia e non ebbi il vuoto di memoria che avevo temuto, e forse fu questo a consolidare la mia serenità.

Il Liaison rimase eccezionalmente chiuso a pranzo e Durand avrebbe aperto la cucina per iniziare a preparare alle due del pomeriggio in vista dell’arrivo degli ospiti dell’occasione, quindi mi misi in macchina e con calma arrivai al ristorante alle due meno dieci. Quello fu l’altro momento in cui avvertii la massima tensione: quando spensi la macchina e scesi restai bloccato a fissare la porta di servizio.

Mi resi conto dell’enormità di quello che avevo accettato di fare. Dal modo in cui avrei assistito Sahan sarebbero dipesi i prossimi anni della sua carriera, che poteva essere proiettata tra le stelle o rispedita nel fango di altri anni di gavetta a caccia di una nuova grande occasione. Gli altri cuochi, che finora mi avevano trattato davvero come un gobbo dall’utile forza bruta e cervello lento, mi avrebbero visto cucinare accanto a qualcuno loro pari, un professionista uscito da una scuola di cucina e da una stirpe di chef. Potevano decidersi a rispettarmi, o far finta di non vedere e approfittarne per mettermi in imbarazzo. Egoisticamente in quel momento era a me che pensavo; sarei stato riconosciuto o meno? Sarei stato all’altezza dell’impegno che ci avevo messo o meno? Gli altri si sarebbero rimangiati almeno uno degli epiteti che mi avevano affibbiato in quei due anni?

«Raim!»

Venni strappato dal mio rimuginare dalla voce di Sahan, che aveva appena parcheggiato proprio dietro la mia auto e stava scendendo. Indossava i pantaloni bianchi dell’uniforme e una maglietta e portava a spalla una borsa da sport di medie dimensioni.

«Speravo di trovarti prima che entrassi… non ci ho pensato a scriverti di aspettarmi, che sciocco.»

«Che succede, Sahan? Qualche problema?»

«No, no! Anzi, ho una cosa per te… su, entriamo insieme, che te la mostro» mi fece, e batté sulla borsa. «Stai bene? Sei nervoso?»

«Strano, ma direi che sto bene… non mi sento nervoso, o almeno non quanto pensavo di diventare. Cercherò di restare calmo per tutta la serata.»

Sahan mi guardava in modo strano e mi chiesi se avevo l’aspetto di uno che aveva dormito poco o se fossi pallido. Eravamo quasi alla porta quando lanciò un’esclamazione assurdamente acuta.

«Raim, ti sei tagliato i capelli!»

«Oh… sì, un po’.»

Mi ero quasi dimenticato di averli tagliati la sera prima. Ero talmente nervoso e immerso in scenari apocalittici quanto immaginari che mi ero accorciato i capelli con la macchinetta elettrica senza quasi farci caso.

«Ahh~ toccare, toccare~»

Sahan passò le mani ai lati della testa dove li avevo rasati più corti, con una risatina. Cantilenò qualcosa in rima su com’era piacevole la sensazione e in verità non potevo che essere d’accordo. Mi ero rasato raramente i capelli, ma ogni volta che lo facevo mi trovavo ad accarezzarmi la testa quando ero soprappensiero.

«Sei alla moda adesso, perfetto~»

«… Ero fuori moda prima?»

«Non proprio, ma adesso sei coquet~» mi fece Sahan, passandomi le dita nei capelli più lunghi che mi stavano su da soli, come avevano sempre fatto da che avevo memoria. «Meglio così, sono contento che tu ti sia curato, perché voglio che usciamo entrambi in sala oggi.»

«Uscire… in sala? A fare cosa?»

Sahan salì i gradini sorridendo come un ragazzino il giorno della gita e si fermò con la mano sulla maniglia.

«In occasioni come questa gli chef escono a fare una presentazione del menu ai commensali prima di iniziare il servizio… insomma, è la sola occasione in cui i clienti vengono invitati dallo chef e non vengono di loro iniziativa! È educato ringraziare di aver accettato di assaggiare il nostro menu!»

«Oh… s-sì, immagino di sì…»

Aprì la porta con fiducia ed effettivamente era già aperta, e quando vidi la brigata di Durand già al lavoro mi rabbuiai subito. Dato che noi eravamo solo in due avere un po’ più di tempo per prepararci sarebbe stato buono, e invece era quel battaglione di cuochi a cominciare per primo.

«Non è una gara» mi sussurrò Sahan mentre entravamo nello spogliatoio. «Non dobbiamo finire prima di loro… pensiamo al nostro lavoro. Possiamo finire in tempo, lo sai bene, no?»

«Sì» risposi meccanicamente. «Pensiamo al nostro menu e ai nostri clienti, giusto?»

«Esattamente… e poi» aggiunse quando chiusi la porta dietro di me, «Se conosco la tattica di Durand, farà tutto quello che gli verrà in mente per danneggiare la nostra concentrazione. Presta meno attenzione possibile a quello che fanno dalla loro parte della cucina, ci penso io a controllare i nostri tempi di servizio con i loro.»

«Farò come dici. Sei tu il capitano di questa nave, dopotutto.»

«Raim? Prendi questa.»

Mi ero appena infilato la maglietta bianca che indossavo sempre nel mio lavoro di plongeur e che avevo portato anche in questa occasione e mi voltai con attenzione, per paura di tirare una gomitata involontaria a Sahan in quella specie di sgabuzzino. Rimasi di sasso accorgendomi che teneva aperta con entrambe le mani una giacca da chef, bianca con le bordature e i bottoni blu.

Senza spiccicare una sillaba la guardai, la presi delicatamente come fosse fragile quanto un neonato e quando vidi il ricamo in nero sulla sinistra del petto mi morsi il labbro per non commuovermi.

«Non so che cosa succederà domani… né cosa tu potrai scegliere di fare» mi disse con una certa emozione celata. «Ma per me… almeno per questa sera… tu sei chef Manning. Sei al pari di quella schiera di gentiluomini e gentildonne dei fornelli con la divisa nera très chic che vedi dall’altra parte.»

Deglutii a fatica, non so ancora adesso come feci a non commuovermi davvero.

«So che per chi fa il tuo lavoro una giacca come questa è come la spada di un cavaliere… non la disonorerò, Sahan.»

«Lo so.»

Infilai la giacca in religioso silenzio e ne sentii molto la responsabilità, ma anche l’orgoglio che mi derivava. Forse non avevo mai desiderato fare lo chef e non avevo l’esperienza, ma sentivo di essere pronto a onorare la fiducia di Sahan… e perché no, a reclamare il rispetto degli altri. Non mi avrebbero mai accolto tra di loro con un curriculum come il mio, ma almeno non avrebbero più osato – se avevano la decenza di non dimenticare quella serata – chiamarmi Rain Man.

La giacca era perfetta nella misura e mi sorpresi di quanto la sentissi mia; era come se non avessi mai indossato altro.

«Raim, aspetta, aspetta… che frettoloso!»

Sahan uscì dallo spogliatoio dopo di me con in mano un fazzoletto blu. Siccome aveva già indossato il suo fazzoletto da collo – color lavanda, perfettamente abbinato alla sua giacca bianca con i bottoni lilla – capii subito che cosa fosse.

«Non è un po’ troppo per me, Sahan?»

«Affatto!» fece lui passandomelo dietro il collo e iniziando a legarlo. «Sei uno chef come me questa sera. Uscirai con me a parlare con i clienti, quindi devi essere elegante.»

Lo annodò in maniera impeccabile e lisciò la giacca sulle spalle, lanciando una strana occhiata penetrante dietro di me. Bastò voltarmi per metà per vedere Leclaire che ci fissava attraverso i vapori di una delle sue pentole di brodi e fondi di cottura. Per la prima volta non scappai dal suo silenzioso giudizio e mi arrotolai le maniche della giacca ricambiandogli lo sguardo finché non fu lui a voltarsi.

«Tch.»

«Che c’è, Raim?»

«Sembrano dei damerini in uniforme nera e oro, non trovi?»

«Nobili e coperti di stendardi di gloria, come il loro menu» rispose Sahan guidandomi alla cella frigorifera. «Anche se la divisa è un orgoglio per noi non significa che l’uniforme evidenzi il cuoco migliore, o che renda i piatti più buoni.»

Entrammo nella cella e iniziammo dagli ingredienti come burro e panna, necessari per le preparazioni dolci che avevamo in programma per prime, ma mentre stavamo uscendo sentii il respiro di Sahan spezzarsi a metà. Mi voltai e lo vidi impallidito e angosciato.

«Sahan, che…?»

«Dov’è il salmone?»

«Eh?»

Bastò un’occhiata agli scaffali del pesce per notarne l’assenza: c’erano gamberoni, rana pescatrice, due lunghi pesci simili alle anguille, un orrendo scorfano semicoperto di ghiaccio e i piatti, marroncini San Pietro, ma del grosso pesce e della sua carne arancione non c’era traccia. Sahan schizzò fuori dalla cella e puntò dritto verso lo chef Durand, che con il suo voluminoso cappello nero e oro torreggiava sulla sua brigata a controllare ogni ingrediente e ogni pentola.

«Chef!»

“Ti prego, Sahan, resta calmo” mi trovai a ripetere freneticamente nella mia testa.

«Sì, Micheaux? Qualcosa non va?»

«Il salmone che ho richiesto al nostro fornitore dov’è?»

«Il salmone non è arrivato con la consegna di stamattina» replicò Durand senza alcuna inflessione. «Pare ci sia stato un disguido e abbiano portato il tuo salmone a un altro ristorante. Naturalmente ho detto loro di rimediare immediatamente e mi hanno assicurato che il salmone sarà qui prima della cena. Spero non ti mandi in ansia, Micheaux.»

Sapevo che quel serpente stava mentendo e anche Sahan l’aveva capito. Si mantenne calmo, chiese a che ora pensava che sarebbero arrivati e ringraziò come fosse una questione di poco o nessun conto, ma quando si girò aveva lo sguardo di un assassino un attimo prima di prendere un’arma e fare una strage. Gli afferrai il braccio.

«Stai tranquillo, Sahan.»

«Sai che quel pesce non arriverà mai, e se arriverà sarà di una qualità che rasenta l’indecenza» sibilò, afferrando un grembiule con la stessa ferocia che avrebbe usato per il collo di Durand. «Sudicio, miserabile bastardo, salaud, fils de…»

«Shh shh shh, Sahan, niente parolacce in qualsiasi lingua» gli feci mettendogli le dita sulla bocca per un momento. «Ci penso io a trovare il pesce, ci metto un momento. Tu fai le dosi per i dolci e non ti agitare.»

«Sono già agitato!»

«Per questo ti dico di calmarti… hai me, okay? Fidati di me e resta calmo. Lui non deve vedere che riesce a innervosirti.»

Sahan emise una specie di ringhio e prese a respirare come una partoriente mentre si allacciava il grembiule e allineava scodelle e ciotole sul ripiano.

«Bravissimo. Continua finché non torno.»

«Vuoi che vada in iperventilazione?!»

«Continua e basta.»

Con la massima tranquillità uscii – fischiettando di proposito per farmi sentire da Leclaire – e sfilai il telefono dalla tasca dei pantaloni facendo partire una telefonata al numero che avevo chiamato la sera prima. Non mi preoccupò che rispondesse una segreteria telefonica.

«Ciao… siamo messi alle strette come immaginavo. Puoi portarmelo? Ci lavoriamo su tra una mezz’oretta… grazie infinite.»

Rientrai in cucina serenamente sotto gli occhi attenti di Leclaire, ma feci finta di non badare a lui e tornai da Sahan. Naturalmente era ancora in crisi.

«Stai calmo, Sahan… i rifornimenti sono in arrivo. Lavoriamo al dolce come abbiamo pianificato, il pesce arriverà in tempo per lavorarci quando abbiamo finito qui.»

Era già pronto a ribattere, ma quando mi guardò negli occhi richiuse la bocca senza parlare. Mi piace pensare che in quel momento riuscii a trasmettergli la mia sicurezza e che questo rasserenò anche lui, perché non mi fece domande e quando parlò mi aggiornò su che cosa aveva pesato.

Ripetemmo la preparazione della linea e la divisione dei lavori come avevamo provato nella sua cucina e questo permise a un inesperto come me di muoversi come se non avesse fatto un altro lavoro se non cucinare. Infornai i biscottini di kamut prima che Sahan finisse le palline di limone salato caramellate e mi misi immediatamente al lavoro sulla gelatina di salvia e menta, comunicando continuamente a Sahan i passaggi. Sapevo che mi si avvicinava di tanto in tanto per controllarmi, ma non mi fece neanche un appunto e alla fine infilai la teglia di gelatina nell’abbattitore soddisfatto dell’odore e del colore verde brillante che aveva.

«Hai bisogno di aiuto per qualcosa, Sahan?»

«No, grazie, sono dentro i miei tempi» rispose lui, concentrato sulla sua mousse da fare al sifone. «Puoi procedere con la pannacotta, per favore?»

«Subito.»

L’abbattitore era nell’angolo della zona pasticceria che stavamo usando come nostra cucina e tornando al mio banco ebbi qualche momento di pausa per guardare la brigata di Durand: erano tutti molto impegnati in una serie di preparazioni, ma Durand mi fissava ignorando del tutto il lavoro di Isabel accanto a lui e io sorrisi. Aveva la faccia di uno che si stava chiedendo “perché non sapevo che quello sa cucinare?”.

Fu la sola volta nella vita in cui pensai che la vendetta è dolce, ma che diavolo, quella volta avevo ragione. Quando passai dietro Sahan strinsi leggermente la sua spalla mentre mi chinavo per parlargli all’orecchio.

«Quanto vorrei una polaroid di quella faccia.»

Sahan emise una risatina flautata.

«Sadico~»

«Parleremo meglio di questa mia tendenza quando avrà la faccia di un morto annegato nella sua invidia.»

«Mh, se continui a sussurrarmi queste cose finirai per eccitarmi~»

Mi venne da ridere per il tono in cui lo disse e mi discostai per usare la bilancia poco distante dal banco di lavoro di Sahan. In quel momento davamo entrambi le spalle alla brigata di Durand e non so dire quanto avrei voluto avere le pareti coperte di specchi come una palestra.

«Che dolce aveva scelto Durand? Non me lo ricordo.»

«Un grande classico francese, il Paris Brest… se non ha cambiato idea e ne dubito, lo farà glassato con mandorle e nocciole tostate e ripieno di due creme, pistacchio e nocciola» mi rispose Sahan, puntuale come un’enciclopedia. «Per l’occasione farà un Paris Brest unico che taglierà e servirà personalmente al tavolo… gli piace servire al tavolo, alimenta il suo ego, immagino.»

«Quindi è un dolce tipico francese, questo Paris… quello che è?»

«Brest, Paris Brest… sì, è un piatto nazionale, si può dire. In Francia ne abbiamo molti nella pasticceria, e questo è molto amato. Lo serviamo anche noi, ciclicamente, al Micheaux… in un formato mignon. Piccolo, sai, più o meno come un pasticcino.»

«Anche il nostro dolce è qualcosa di francese?»

«Beh, è francese il cuoco che ha ideato questo dolce… basta a dire che è francese?»

Sahan teneva un curioso sorrisetto che compresi soltanto dopo.

«Di chi è?» domandai, poi ripensai allo stage di pasticceria che Durand aveva stroncato al padre. «Di tuo padre?»

«No, è di suo figlio minore. L’ho inventato io quando lavoravo al Micheaux.»

Mi si inceppò il cervello in quel momento e rimasi a guardarlo mentre controllava che le sua palline di scorzette di limone salato coperte di caramello si fossero indurite. Non ci feci tanto caso ma erano bellissime, sembravano stelle comete dalla coda di caramello bruno vitreo.

«Hai creato tu questo dolce?»

«Sì, ne ho creati un po’ quando ero chef pâtissier al Micheaux… questo è il più complesso che creai in quel periodo e modestamente era molto apprezzato dai clienti… per questo l’ho scelto. Rappresenta la mia evoluzione, o almeno, la scintilla da cui è partita.»

Mi trovai a sorridere mentre continuavo a mescolare per incorporare la gelatina nella pannacotta.

«Una scelta eccellente, Sahan.»

«Sono stato consigliato saggiamente al riguardo!»

«Sono quasi pronto… quali stampi volevi usare? Non so dove li tenga Baader.»

Sahan mi recuperò i piccoli stampi a fiore da un angolo dimenticato della cucina – in effetti Durand non amava forme stravaganti e colori innaturali nei dolci del ristorante – e ci immergemmo nella preparazione con la massima concentrazione senza divagare più in discorsi che non riguardassero il procedimento delle ricette. Di quello che Durand e gli altri fecero dall’altro lato nella successiva mezz’ora non seppi niente perché non li guardai né ascoltai neanche una volta.

A quel punto ogni elemento del dolce era finito e sarebbe bastato assemblarle alla fine del nostro turno di servizio, quindi passammo al successivo secondo la nostra tabella di marcia. Percepii l’angoscia di Sahan per il salmone che avrebbe dovuto sfilettare ora e che non aveva, ma decise di anticipare la sgranatura del cous cous mentre io mettevo su immediatamente il vino rosso per la riduzione che avrebbe accompagnato il nostro piatto di carne. Mi dovevo occupare anche delle cipolle, quindi mi sistemai il tagliere vicino al bidone dell’umido per buttare via agevolmente la buccia.

In quel momento sentii il cellulare nella mia tasca vibrare. Un solo squillo, poi un’altra chiamata di un solo squillo. Sorrisi.

«Sahan, esco un momento. Torno subito.»

«E-esci? Come sarebbe, esci?»

«Per la miseria, perché non ti fidi di me e dici solo “va bene”?»

Sahan restò interdetto e mi fissò con un buffo misto di imbarazzo e irritazione, ma borbottò “va bene” e mi voltò le spalle per tornare al suo cous cous, che sgranava a mano con lo stesso procedimento usato da sua madre. Sapevo che il malumore gli sarebbe passato subito non appena fossi rientrato.

Lasciai il grembiule sul tavolo con il solo intento di far pensare a Leclaire che sarei stato via a lungo. Ancora oggi mi domando come mai un cuoco che si riteneva così formidabile sentisse il bisogno di osservarci con tanta attenzione, ma non glielo chiesi mai.

Appena uscii dalla porta di servizio vidi la macchina delle consegne parcheggiata vicino alla mia e la mia cuoca preferita che aspettava. La raggiunsi accelerando il passo.

«Ehi, Raim.»

«Mai stato tanto felice di vederti, Martha.»

«Lo stronzo vi ha davvero lasciato a secco?»

«Più secco di così poteva solo tagliarci l’acqua corrente» confermai io assecondando la sua aria grave.

«Marco mi ha detto di portarvelo al volo quando ha ascoltato la segreteria e mi ha spiegato un po’ così» fece lei mentre apriva il portabagagli. «Come sapevi che ti avrebbe fatto sparire il pesce?»

«Beh… è un po’ imbarazzante, ma…»

Purtroppo il mio preambolo non fu sufficiente a far dire a Martha che poteva aspettare la prossima occasione per parlarne, quindi mi decisi a snocciolarglielo in fretta.

«Lo sai che sono abbastanza negato in cucina… volevo imparare più che potevo per aiutare Sahan, quindi sono andato tutti i giorni al mercato ittico a vedere come pulivano il salmone i pescatori… non che io abbia imparato molto solo guardandoli, ma almeno ero nel posto giusto al momento giusto.»

Avvicinai la grossa scatola di polistirolo che conteneva il ghiaccio e il nostro salmone, per afferrarla meglio.

«Ho beccato chef Malone che ordinava il pesce fresco per la bouillabaisse, e l’ho visto allungare una bella mazzetta per assicurarsi che non ci fosse salmone per il ristorante oggi.»

«Ma serio?!»

«Altroché.»

«Ma che figlio di puttana!»

Non mi sentii dell’umore per smentirla o mitigarla, a dire il vero. Pensare a quello che sarebbe potuto succedere a Sahan se non fossi stato presente per assistere a quel bieco sabotaggio mi indisponeva al perdono: stampare un menu per una degustazione e cambiare all’ultimo secondo avrebbe danneggiato la credibilità del mio amico come professionista. Come mi aveva ripetuto fino alla nausea, una volta stampato il menù è sacro.

«Come state andando, là dentro?»

Guardai Martha e la vidi preoccupata, ma il mio sguardo incupito era solo per il rischio a cui Durand aveva deliberatamente esposto Sahan, esattamente come aveva fatto col padre. Le feci il miglior sorriso possibile.

«Siamo in orario con la tabella di marcia… grazie al vostro aiuto ce la faremo.»

Accennai alla scatola del pesce – che diamine, pesava! - ma Martha non si rilassò per niente.

«Tieni gli occhi aperti, Raim… quel genere di persone, una volta che prova a affondare una coltellata, non smette solo perché è andata a vuoto. Ci proverà ancora fino all’ultimo momento… e ti do una dritta da chef» aggiunse, chiudendo il portello con un tonfo. «Se c’è un buon momento per rovinare tutto è l’ultimo minuto prima di servire… quando non c’è tempo per rimediare.»

Il suo avvertimento offuscò il mio umore, ma se non fosse stata lì ad avvisarmi mi sarei fin troppo rilassato. Avrei dovuto pensarci da solo che non eravamo nella cucina di Sahan, eravamo in territorio nemico, vulnerabili a sabotaggi molto più drastici che far sparire un ingrediente. Mi sentii meno tranquillo, ma molto più attento.

«Grazie, Martha. Farò tesoro del tuo avvertimento.»

«Dì a Sahan di tenere gli occhi e le orecchie aperte» mi disse quasi sussurrando. «Se succede qualcosa, chiama subito. Uno di noi vola qui subito se vi serve qualche altra cosa.»

«Ci sdebiteremo per bene.»

«Fagli ingoiare il suo ego, che fa vergognare tutti noi che facciamo lo stesso lavoro» mi fece, con una smorfia disgustata e un’occhiata alla porta. «E poi venite a mangiare da noi, vi rifocilliamo per bene e apriamo una bottiglia per festeggiare.»

Sorrisi e annuii, poi tornai verso la cucina. La prospettiva di una cena ricca e un po’ di coccole meritate dopo quello sforzo mi fece sentire decisamente più energico e non vedevo l’ora di condividere questa prospettiva con Sahan.

Quando entrai con la grossa consegna tra le braccia Sahan aveva finito il suo cous cous e l’aveva coperto mettendolo nella linea dell’antipasto. Capì immediatamente che cosa portavo e mi venne incontro per sorreggerlo fino al banco. Cominciò a balbettare frasi sconnesse e i suoi occhi erano quasi lucidi, per un po’ mi convinsi che avrebbe pianto di gioia su quel salmone.

«Raim, Raim, come hai fatto?»

«Segreti del mestiere» replicai, abbastanza forte perché lo sentissero dalla parte di Durand.

«Oh, ti bacerei se potessi!»

Sahan afferrò immediatamente il salmone e – in pratica – lo lanciò sul tagliere che aveva preparato prima di armarsi di un lungo coltello sottile e affilato. Lì per lì restai imbambolato come un idiota a chiedermi perché Sahan credeva di non potermi baciare. Avrei dovuto capire allora che il mio modo di pensare a Sahan era cambiato nell’ultima settimana, ma non ero sveglio come credevo.

«Raim, che fai lì fermo? Spicciati, quelle cipolle non si pelano da sole!»

«Oh, sì. Certo. Scusa.»

Diedi una controllata alla riduzione di vino, ancora in alto mare, e andai a tagliare le cipolle più velocemente possibile senza finire mutilato. Sul momento diedi la colpa a quelle, ma so che lo strano calore che sentivo al viso e al collo e la voglia di girarmi verso il tagliere del salmone non erano effetti degli agenti irritanti delle cipolle dorate.

 

*

 

Qualche ora dopo la stanchezza iniziava a farsi sentire e non so che cosa avrei dato per sedermi, ora che le linee erano finite e l’arrivo degli ospiti era imminente. Purtroppo ero impegnato a lavare quello che avevamo usato dalla nostra parte della cucina per rimetterlo a disposizione e approfittavo di quella posizione di vantaggio per controllare che nessuno si avvicinasse alle celle frigorifere dove c’erano i nostri preziosi dolci.

Sahan mi apparve davanti così all’improvviso che mi fece sobbalzare.

«Oh, sei tu…»

«Raim, mi sembri stanco… è stata una preparazione dura, eh? Esci qualche minuto e riposati» mi disse, togliendomi di mano spugna e padella. «Bevi un po’ dalla mia bottiglia. Nella cucina fa caldo e si sta sempre in piedi, devi idratarti o finirai per svenire.»

Avrei voluto negare e continuare come nulla fosse, ma mi sentivo davvero spossato. Sospirai appoggiandomi al bordo del lavabo.

«Sicuro che va bene?»

«Sdraiato per terra nel bel mezzo del servizio non serviresti a molto, sai? Non preoccuparti… posso gestire qualche padella anche da solo mentre tiri un po’ il fiato. Dopotutto non sono ancora arrivati tutti.»

Aveva ragione, quindi non fiatai: lo ringraziai, presi la sua borraccia – anche quella viola, naturalmente – e uscii sul retro a sedermi sui gradini. Il cielo si stava facendo scuro e la città si era accesa, come ogni notte Las Vegas tornava alla sua doppia vita scintillante. Mentre bevevo la bibita al mirtillo rosso di Sahan non dubitavo del nostro successo in quel servizio e mi chiesi se Las Vegas gli piacesse… se, avendo la possibilità di un avanzamento di carriera in un ristorante più rinomato o interessante, Sahan se ne sarebbe andato senza esitare. Vale a dire, senza badare a me.

Una sottile, logica e fredda vocina nella mia testa mi fece notare che se davvero avevo paura di questo sarebbe stato sufficiente danneggiare un po’ il suo menu: non abbastanza da renderlo un disastro e farlo scappare, ma neanche eccellente abbastanza da farlo notare da altri. Era una soluzione pragmatica. Molto logica, che teneva conto della stima dei danni per tutti… ma non era una soluzione praticabile.

«Per nessun motivo lo ostacolerò di proposito… si fida di me.»

Fissai la borraccia, immerso in un confuso fiume di immagini: come nei film mi scorsero davanti agli occhi stralci dei momenti più divertenti e più duri di quel breve ma intenso addestramento, quelli in cui Sahan aveva raccontato cose di sé e quelli in cui le aveva soltanto lasciate trasparire.

«Si fida di me» ripetei a mezza voce. «Non posso tradirlo.»

Lo pensavo davvero, dal profondo di me. Vedevo in quel ragazzo troppe virtù degne di nota per poter pensare di non ricompensarle, o di non dare il massimo perché fossero ricompensate. Mi aveva dato la sua fiducia e la sua amicizia. Sfiorai il ricamo del mio nome sulla giacca e la strinsi come un’icona sacra. Fiducia e amicizia… e orgoglio: non avrei ignorato nessuno dei suoi tre regali.

Sentii la porta aprirsi dietro di me.

«Raim, ci siamo» mi disse lui, con una voce piena di delicatezza. «Si sono seduti… Durand sta facendo gli onori della presentazione. Te la senti di uscire con me?»

Dopo averlo guardato fisso annuii e mi alzai. Ero molto più nervoso per quell’uscita in sala che per tutto il lavoro che dovevo fare ai fornelli: non mi ero preparato che cosa fare o dire agli ospiti e Sahan non disse una parola che fosse di aiuto. Appena Durand rientrò in cucina lui uscì in sala e io lo seguii, con uno straordinario colpo d’occhio della sala in cui non mi era mai stato permesso di passare.

Solo alcuni tavolini lungo le pareti erano rimasti al loro posto e un lungo tavolo era stato posizionato nello spazio ampio al centro; era imbandito con tovaglie color oro pallido, uno sproposito di posate lucide e bicchieri scintillanti, con un imponente centrotavola di rose e orchidee vere. Erano proprio sotto il più grande dei lampadari della sala e questo illuminava vestiti ricercati e aspetto impeccabile dei nostri ospiti, che andavano da una giovane donna dai capelli molto corti a una signora venerabile con occhiali cerchiati d’oro, passando per un giovane dai baffi appuntiti e curati e un uomo brizzolato dall’aria molto seria.

Sahan si fermò a debita distanza dall’angolo del tavolo in modo da non trovarsi alle spalle di chi sedeva a capotavola e con un gesto furtivo guidò il mio braccio in modo da farmi mettere accanto a lui. Feci del mio meglio per ignorare il galoppo dentro il mio petto e pensai solo a stare ben dritto.

«Buonasera, signore e signori… sono Sahan Micheaux» si presentò con un accenno di inchino. «Grazie alla generosità di chef Durand, questa sera potrete gustare due menu di quattro portate, e uno dei due è quello proposto da me, con l’aiuto del mio sous-chef.»

Mi prese molto di sorpresa venire chiamato addirittura sous-chef e mi irrigidii quando Sahan con un gesto del braccio calamitò dodici paia di occhi su di me.

«Chef Manning.»

Cercai di replicare il suo inchino ma sono certo di essere stato molto goffo: una delle signore al tavolo fece un sorriso incoraggiante che mi fece sentire un po’ un idiota. Sahan invece sorrideva tranquillamente, come se fosse a suo agio.

«Vi proponiamo un incontro tra la cucina mediterranea della Provenza francese e gli influssi del Mediterraneo mediorientale… l’incontro che ha generato me, in primo luogo… un incontro che ci auguriamo vi porti in un viaggio fresco e gradevole.»

Sahan mi guardò, improvvisamente incerto. Non so come, ma intuii che stava per chiedermi di aggiungere qualcosa e non volevo farlo. Purtroppo il giovane con i baffi sembrava interessato alla mia persona e prese parola.

«Che cosa avete messo voi in questo menu, chef Manning?»

Il mio cervello elaborò febbrilmente. Ispirazione? No di certo. Professionalità? Avrei almeno dovuto fare lo stesso lavoro di Sahan per osare una simile risposta. Eppure, una risposta ce l’avevo.

«L’amore» risposi senza quasi accorgermene.

Alcuni dei critici restarono sorpresi, altri non cambiarono espressione. Sahan mi aveva lanciato un’occhiata che almeno io potevo capire che era stupefatta, anche se dissimulata decentemente. Io stesso cominciai a rendermi conto della cosa imbarazzante che avevo detto.

«Intendo… l’amore per… questo unico e affascinante incontro» tentai di rettificare. «Il deserto, il mare, le isole… c’è una corrente che tocca posti tutti diversi. Questo menu è come… seguire quella corrente.»

Non ho la minima idea di come riuscii a mettere insieme queste frasi e come trovai il coraggio di dirle a quelle persone, ma con grande soddisfazione vidi che molti si erano scambiate occhiate cariche di aspettativa. Sì, avevo l’impressione che non vedessero l’ora di scoprire il nostro menu.

«Signori, fra poco la cena inizierà con la prima portata di chef Durand… vi presenterò la nostra entrée dopo la sua. Con permesso, buona continuazione.»

Facemmo entrambi un inchino accennato nello stesso momento e fummo salutati da un coro di ringraziamenti e da un mormorio che ci seguì fino al passe. Mi sembrò di respirare di nuovo solo una volta entrato in cucina, non fosse stato per lo scrollone che Sahan mi diede subito dopo.

«Raim! Hai detto una cosa fighissima, non mi avevi detto che ti eri preparato qualcosa per la presentazione!»

«Non… non l’ho fatto!» feci, spostandolo per farlo smettere di scuotermi. «Ho detto quello che mi passava per la testa!»

Sahan mi fissò per qualche secondo in silenzio, poi rise e mi strofinò i capelli dove erano più corti.

«Nella tua testolina passano cose meravigliose~!»

«Micheaux!»

La voce di Durand arrivò dall’altro lato del passe, ma non ci guardava.

«La mia entrée sarà al passe in otto minuti. Regolati per la tua e dammi un tempo.»

Sahan sorrise, ma con un’espressione di sfida.

«Usciremo dieci minuti dopo, ammettendo che i piatti siano già tornati.»

«Molto bene.»

Durand marciò verso la linea degli antipasti e prese personalmente il comando della preparazione. Avevo voglia di guardarlo, ma non era il momento: le verdure per il cous cous erano già tagliate ma andavano saltate ed era il mio compito. Dopo quelle grandiose parole non volevo fare scivoloni e mi misi al lavoro dopo essermi rimesso il grembiule.

Durand fu di parola e dopo otto minuti i suoi piatti avevano lasciato la cucina alla volta del tavolo da dodici. Ero certo che il primo impatto sarebbe stato notevole – dopotutto era pur sempre uno chef stellato – e quindi il nostro doveva avere la stessa intensità, e non poteva succedere se non riuscivo a replicare il gusto che Sahan mi aveva presentato la prima sera di prove.

«Sahan, siamo pronti per impiattare» l’informai quando ebbi tutto pronto e i piatti allineati. «Vuoi controllare?»

Sahan mi raggiunse, assaggiò le verdure per controllare sale e cottura e mi diede il via libera. Sapevo come lo voleva presentare e non feci domande. Misi le verdure, il sesamo tostato e il basilico rosso nel cous cous saltato con le spezie preparate da Sahan, mescolai e presi il dosatore dell’olio.

Se non avessi visto in quel momento Sahan che incideva la pelle del salmone forse non avrei ricordato l’avvertimento inquietante di Martha e non mi sarei accorto che l’olio sembrava scuro, anche se visto attraverso una plastica opaca. Mi fermai prima di capovolgere la bottiglia e lanciai un’occhiata dall’altro lato della cucina; incrociai lo sguardo di Malone ma non mi parve interessato a che cosa stavo facendo o usando. Eppure quel tarlo mi tormentava, perché per la presentazione eravamo usciti entrambi lasciando la nostra cucina senza controllo… e non potevo non pensare quanto fosse stato avventato da parte nostra.

Versai l’olio nella ciotola che aveva contenuto il basilico rosso e vidi bene quanto era scuro e che era punteggiato di nero. Era un olio già usato per una frittura, non c’era verso che uno addetto al lavaggio delle loro padelle non lo riconoscesse. Ero furioso, ma mi limitai a gettare la bottiglia nella cassetta delle stoviglie sporche.

«Sahan, altro olio di oliva?»

«C’è una bottiglia proprio lì» mi disse, indicando automaticamente il posto in cui aveva lasciato quella che era stata scambiata. «Oh… credevo che fosse lì…»

«Non importa, dimmi dove ne prendo altro.»

Recuperai una bottiglia e ne controllai il contenuto, arrivai anche ad assaggiarlo col dito per essere certo di non incappare in un altro trabocchetto. Così riuscii a finire il cous cous con un sapore che mi soddisfaceva e Sahan mi diede il benestare per servirlo dopo averlo assaggiato a sua volta.

«Andato! Quanto per la bouillabaisse, chef Durand?»

«Tre minuti al ritorno delle stoviglie.»

«Bene!»

Sahan prese un gran sospiro e si fermò a bere dalla borraccia.

«Bevi anche tu e respira, Raim… ottimo lavoro. Per il nostro pesce aspettiamo la bouillabaisse, va servita calda e ci vuole un po’ per mangiarla. Metteremo il pesce in padella quando usciranno loro.»

«Le sfere?»

«Le faccio ora… tu riposati un paio di minuti, okay?» mi fece, dandomi un colpetto all’altezza del gomito. «Stiamo andando bene… ce la faremo. La carne ha un contorno freddo che si fa in un minuto e il dolce è solo da comporre… dopo il pesce è una discesa. Cuciniamo tranquilli, d’accordo?»

«Non dovevo essere io quello che ti calmava?»

«Beh, stiamo andando bene… siamo in scia! Ora è tipico di te aver paura di uno scivolone, quindi io devo restare calmo per entrambi!»

Occhieggiai la bottiglia di plastica con l’olio della frittura che sporgeva dalla cassetta gialla delle stoviglie. Ero combattuto: volevo dirglielo perché facesse attenzione a tutto quello che usava, ma temevo che svelarglielo ora l’avrebbe reso furioso contro Durand o, alla meglio, soltanto molto distratto. Decisi di parlargliene dopo, ma per buona norma presi la bottiglia senza farmi notare e la misi da parte per evitare che qualcuno facesse sparire le prove.

Mentre prendevo la pausa – approfittandone in realtà per controllare tutto quello che stavamo usando nel nostro angolo di Liaison – tenevo d’occhio la brigata in nero e oro: con il piatto di pesce in discussione Durand e Leclaire non avevano un attimo da dedicarci ed era chef Malone a osservare Sahan che creava le sue sfere di lavanda. Con il nuovo contagocce stava facendo palline ancora più piccole, grandi non più delle uova di salmone.

“Possibile che sia lui la mente di tutto?”, mi chiesi a un certo punto. Malone era il braccio destro di Durand, era poco più vecchio di Leclaire, e mi chiesi se non stesse macchinando tutto da solo per far piacere allo chef… o forse sperava di aizzare Leclaire e Sahan uno contro l’altro per eliminare almeno uno dei giovani talenti che avrebbero potuto detronizzarlo?

Il nostro servizio proseguì liscio: misi a cuocere le verdure verdi e preparai un purè molto omogeneo come Sahan mi aveva insegnato e la salsa di yogurt alle erbe mentre lui curava con concentrazione estrema dodici filetti di pesce in sei diverse padelle di olio e burro sfrigolanti. Era così preso che pensai di occuparmi io di tenere il tempo del servizio, ma quando gli annunciai che mancava un minuto al servizio che avevamo stabilito mi rispose un gelido “lo so”. Sahan è un ragazzo gentile e vivace, ma quando è in difficoltà entra in una bolla e parla come un robot, è così ancora oggi.

Fidandomi della sua puntualità preparai i piatti e misi il purè sul fondo come avevamo deciso di presentarlo, e difatti dopo pochi secondi le prime padelle di filetti arrivarono lì accanto.

«Obliquo, ricordi?»

«Sì, certo» risposi mentre posizionavo le punte di broccolo romano con un paio di pinze. «Quella pelle ha un aspetto magnifico, Sahan. Un ottimo lavoro.»

La tensione era allentata e lui mi sorrise, anche se aveva decisamente un’aria provata.

«Grazie… spostati di qua, così metto io i salmoni, poi ripassi con la salsa.»

«Okay.»

Così a quattro mani confezionammo dodici piatti di tranci di salmone ben dorati posati sul purè verde brillante e puntellati dal broccolo, con quenelle di yogurt denso alle erbette che il calore del pesce scioglieva lentamente e sormontati da una dose di uova di pesce viola, o almeno tali sembravano. L’incontro dell’arancione del pesce, del verde intenso della purea e del viola delle perle d’acqua di lavanda era spettacolare e sperai che anche ai giudici ricordasse, come al mio amico, campi verdi dai fiori viola della Provenza con la luce arancio del tramonto. Di certo erano colori straordinari, colpivano anche uno come me, un uomo senza poesia né arte.

«Un capolavoro, Sahan. È quasi un dolore mangiarli.»

«Ah, non dire così, è il trionfo della vanità sullo scopo ultimo del cuoco!»

Fece una risata divertita e mi consegnò il suo grembiule.

«Esco un attimo per presentare il piatto e torno. Prendi i filetti e passali di sale e pepe nero sopra e sotto, per favore.»

«Sì, subito» dissi con la gola improvvisamente asciutta.

Lui si avviò dietro i camerieri che servivano il nostro pesce e io mi fiondai dentro la cella frigorifera più velocemente possibile senza mettermi a correre. Devo essere sincero, mi sono passati un migliaio di orrendi scenari possibili in mente, tra i quali i meno peggio erano i filetti presi a martellate, affettati, fritti nell’olio usato che mi avevano propinato prima o con insetti sopra.

Mi sorpresi quasi di più nel vedere il vassoio posato placidamente dove doveva essere, accuratamente coperto da Sahan con la pellicola, con i venti filetti allineati in buono stato. Anche se era ovvio che c’erano tutti li contai due volte e quando li portai all’angolo vicino ai fornelli li controllai uno per uno su entrambi i lati prima di condirli. Sembravano a posto e pensai che forse al nostro machiavellico avversario bastava rovinare antipasto e piatto di pesce per distruggerci e che non avesse pianificato altro.

Purtroppo, mi sbagliavo.

«Raim, abbiamo un problema.»

Non lo guardai subito, perché stavo ripulendo le pentole del pesce per usarle anche per la carne e volevo sbrigarmi. Dalla mia, c’è da dire che lo disse con un tono piuttosto leggero, quindi non pensai che fosse qualcosa di grave.

«Quale?»

«Devo rifare le basi al sesamo.»

A quel punto smisi di strofinare e mi girai con una lentezza densa di tensione verso di lui. Aveva preso il vassoio delle cialde al sesamo dall’abbattitore di temperatura ed erano tutte sbriciolate. Le guardai inorridito e poi lanciai uno sguardo fulminante verso Durand. Lui sembrava accigliato, quasi perplesso mentre guardava verso Sahan, ma Leclaire aveva stampato in faccia un ghigno che mi bastava come ragione per prenderlo a pugni e beccarmi una denuncia per aggressione.

«Devo farle subito» disse Sahan, con una voce leggermente tremante. «Se non le faccio subito non si raffredderanno in tempo per il dolce.»

«A… adesso? Ma come facciamo con il manzo?»

«Se non le rifaccio ora saranno calde e scioglieranno la tua pannacotta…»

«Ma se le rifai non hai tempo di badare alla carne!»

«Infatti no… devi farlo tu, Raim.»

«Io… cosa?!»

Lo shock fu tale da dimenticarmi completamente il motivo per cui volevo picchiare Leclaire. In realtà mi dimenticai della sua stessa esistenza; era come se tutto al di fuori della zona pasticceria che stavamo usando fosse stato smolecolato da un buco nero e avesse cessato di essere.

«Hai imparato la ricetta… mi hai visto prepararla e sai che gusto deve avere. Mi affido a te per il piatto di carne.»

Aveva un tono grave, ma non perché fosse preoccupato che io non ce la facessi. Avevo la sensazione che non avesse dubbi, ma che gli dispiacesse affibbiarmi un compito così faticoso… e se qualcuno di voi ha mai preparato carne per dodici ospiti a casa ha un’idea di come possa essere snervante badare dodici cotture per gente che di lavoro critica quello che mangia.

«Sahan, te l’ho già detto… io non sono un cuoco! Cucino quello che tu mi hai insegnato a preparare, e la cottura della carne non è mai stata un mio compito!»

«Lo so, ma non ho altra scelta che credere in te… non ti ho insegnato la ricetta delle basi di sesamo, e ha un equilibrio delicato di dosi, tempo e temperatura. Non è qualcosa che possa fare chi non è ferrato, tanto meno se non può essere guidato durante il procedimento» spiegò lui, quasi volesse scusarsi. «Devi farlo tu, il filetto. Non ho altra scelta che credere in te… per favore, credici anche tu.»

Che altro potevo dire? Che cosa potevo fare? Davanti a una supplica così sentita e una così grande dimostrazione di fiducia non potevo ribattere. Avevo il mio nome su una giacca da cuoco, proprio come Sahan, lui continuava a trattarmi come un suo pari anche se valevo molto meno… la sola cosa che potevo fare era usare ogni cosa che ricordavo, rivedere nella mia mente ogni minuto in cui aveva cucinato davanti ai miei occhi, riesumare due anni di memorie fotografiche passati dentro un ristorante francese stellato. Avevo i mezzi per farcela? Non avevo l’esperienza manuale, ma contavo sulla concentrazione che avevo tenuto quando il mio amico mi insegnava il suo menu.

Senza una parola aggiunta mi girai e asciugai le padelle prima di metterle sul fuoco. Quel giorno scoprii che anche io entro in una bolla quando sono concentrato – o disperato – ma al contrario di Sahan non parlo affatto. Così in silenzio scaldai quattro padelle con l’intento di cucinare tre filetti in ciascuno, poi passai accanto al lavabo a lavare l’insalata a foglia: non poteva essere preparata prima o si sarebbe appassita nel calore. Nei minuti successivi rimbalzai dalle padelle della carne alle ciotole di insalata al tagliere dove affettai le pere, tornai alla carne prima di ogni altra fase. Sbriciolai la feta greca, affettai sottilissimi i ravanelli rossi, grigliai le fette di pera, riscaldai le cipolle caramellate e la salsa al vino. Non ho ancora oggi un vero ricordo di aver fatto tutte queste cose insieme, ma Sahan era ai fornelli della postazione antipasti di Durand per usare un fornello dato che io li avevo occupati tutti quanti e di certo la logica dimostra che io sono quello che preparò tutti gli elementi.

«Che cosa ti serve, Raim?»

Sahan tornò da me con l’aria preoccupata, ma mi avrebbe raccontato soltanto in seguito di essere stato allarmato dalla fretta che sembravo avere mentre passavo da un angolo all’altro per fare tutto. In realtà in quel momento era quasi tutto pronto.

«Assaggia le cipolle e dimmi se sono come dovrebbero» gli dissi subito, visto che erano la mia preoccupazione principale. «Dopo prendi tu il controllo di queste padelle, non credo di sapere che cosa sto facendo… mi sembra che siano quasi pronti, ma non lo so!»

«Hai fatto un sacco di lavoro, bravissimo, Raim» si complimentò mentre afferrava un cucchiaio e assaggiava le cipolle con l’espressione seria di quando era concentrato. «Bene, ma ci vuole un po’ di pepe, il miele si sente un po’ troppo… fammi vedere.»

Ci scambiammo di posto e aggiunsi il pepe alle cipolle mentre Sahan controllava i filetti tastandoli con il dito; faceva oscillare una padella qui, versava un po’ di burro caldo sulla carne di là. Ancora oggi penso che Sahan sembri un pianista quando è alle prese con le cotture multiple, ma quella fu la prima volta che associai quelle due immagini. Poi lo vidi sorridere.

«Hai ragione, sono pronti… andiamo al passe!»

Ci trasferimmo sul passe con una confusione mastodontica di padelle, ciotole, piatti e posate: l’insalatina greca doveva essere composta come una specie di quadro a un lato dello specchio lucido di salsa rossa al vino e richiese più tempo quella di tutti gli altri elementi messi insieme. Alla fine i filetti erano accostati a un’insalata di foglie e briciole di feta che ricordava vivaci cespugli di alghe e coralli, le fette di pera grigliata formavano come un paravento aperto tra quella e la carne, con un cappellino di cipolle, come lo definì Sahan la prima sera in cui mi mostrò come voleva impiattare. Per farmi ricordare i suoi impiattamenti mi aveva fatto creare delle assurde immagini per associazione, eppure funzionavano.

«Posso fotografarlo?» domandai sottovoce a Sahan mentre pulivo una goccia di salsa dal bordo di uno dei piatti finiti.

Mi misi a ridere quando lo guardai e scoprii che stava davvero fotografando uno dei piatti di filetto con il cellulare, poi come nulla fosse e un gran sorriso autorizzò i camerieri a servire.

«Su, vai.»

«Uh? Vai dove?»

«Questo piatto… l’hai fatto tutto da solo. Sei tu che devi presentarlo ai tuoi clienti.»

Fu abbastanza scioccante rendersi conto che era vero che avevo fatto tutto da solo: in quella linea l’insalata era fatta tutta sul momento per non ossidare o appassire gli ingredienti, avevo messo io la salsa a ridurre, avevo caramellato io le cipolle e avevo portato la carne alla cottura. A parte aiutarmi a impiattarlo e l’assaggio alla fine, Sahan non aveva fatto niente.

«Coraggio, chef Manning. Vai a dire ai tuoi clienti che assaggeranno il tuo filetto al vino con insalata greca.»

Deglutii con una certa ansia, ma non avevo tempo di discutere perché i camerieri erano già in sala. Buttai il grembiule sporco dove capitava e uscii in fretta nella sala, ma l’atmosfera era piuttosto diversa che a inizio cena: tutti sembravano sorridenti e vivaci, il che mi suggerì che entrambi i menu non li avevano delusi… o che il piatto di carne di Durand era stato eccezionale.

«Io… come stiamo andando, signori?»

Non sapevo neanche se potevo chiederlo, ma ormai mi era uscito dalla bocca. Nessuno dei critici accennò un’espressione contrariata o un commento sfavorevole. Mi venne detto che avevano assaggiato piatti di grande qualità e molto “interessanti”. Capii che non si sarebbero sbottonati oltre e cercai di sembrare più sicuro di quello che sentivo di essere.

«Il piatto che avete davanti è un filetto al vino rosso e cipolle, con un’insalata fredda con formaggio greco e pere grigliate… anche se la ricetta è di chef Micheaux, l’ho preparato io per voi.»

La mia era più un’assunzione di colpa che un tentativo di prendermi della gloria, sono sincero. Comunque la notizia sembrò colpirli, perché si misero a osservare la composizione molto più attentamente e un paio di commensali ruotarono lentamente il piatto facendogli fare un giro completo. Non mi venne rivolta alcuna domanda, quindi mi limitai a fare un inchino e ad augurare loro una “buona continuazione” prima di tornare in cucina con il fiato inspiegabilmente corto.

Speravo solo di non aver dato l’impressione di scappare.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Tourner la page ***


Aver superato la crisi del manzo non mi diede sollievo a lungo, ma cercai comunque di restare calmo per non dare ulteriore stress a Sahan, che passeggiava su e giù davanti all’abbattitore pregando in un misto francese che le basi fossero abbastanza fredde. Capivo la sua ansia: mi aveva spiegato che il dessert lascia un’impronta definitiva sul cliente, salvando un menu mediocre o affossandone uno perfetto, e non avevo dimenticato che Sahan si considerava soprattutto un pasticciere, così com’era stato cresciuto al ristorante di famiglia.

«Che dici, diamo una sbirciata?» gli domandai a un certo punto, guardando il Paris Brest di Durand spinto in sala su un carrello. «Non manca molto. Proviamo a vedere.»

L’incarnato mediorientale di Sahan aveva una strana sfumatura e onestamente mi offrii di prendere io il vassoio perché dava l’impressione di stare per vomitare. Le basi rotonde erano intatte e bastò toccarle con un dito per sentirle fredde. Quando sorrisi l’anima stessa di Sahan sembrò riaccendersi.

«Prendo il resto e assembliamo, eh?»

Al suo cenno corsi a prendere tutti gli elementi, notando con gioia che niente era scomparso o era stato compromesso com’era successo alle basi al sesamo. Ma non era finita, anzi: la preparazione del dolce era un susseguirsi di piccole tensioni. La pannacotta si sarebbe staccata senza rovinare la forma dello stampo a fiore? La gelatina aveva il giusto sapore? Saremmo riusciti a tagliarla su misura in modo impeccabile? Il biscotto di kamut si sarebbe infilato come nelle prove che avevamo fatto a casa?

Infatti incappammo in un problema, ed ero stato io a causarlo facendo biscottini troppo spessi. Infilandoli nella gelatina finivano per romperla rovinando l’effetto. Sahan si fece pensieroso, ma io ero mortificato di aver inciampato su un dettaglio tanto stupido e volevo assolutamente rimediare.

«Certo, è un problema… non riusciremo a impiattarlo come volevamo.»

«Io… mi dispiace da morire, Sahan…»

«Morire non serve, no? Pensa a una soluzione» mi disse lui, incoraggiante. «Sei un cuoco, non puoi darti vinto per un intoppo. Che cosa facciamo?»

Sospirai e mi massaggiai il mento, accigliandomi. Sahan non mi aveva mai parlato di una presentazione alternativa, di questo ero certo. Essendo un dolce della sua prima giovinezza mi aveva spiegato la sua presentazione, ma poi affiorò qualche altra cosa. La prima sera, quando mi aveva mostrato come assemblare gli strati, aveva detto che pannacotta, gelatina, mousse, sesamo, caramello e biscotto erano necessari per apportare diverse consistenze al dessert.

«Consistenze» mormorai, assorto.

«Mh?»

«Ecco… il biscotto serve a dare una consistenza più dura alla parte superiore del dolce, quindi lo potremmo sbriciolare sopra.»

«Sbriciolare?»

«Ecco… ti ho mai parlato di mia nonna Ethel? È una gran golosa, sempre stata, ma il dottore le disse di mangiare meglio, un po’ di anni fa» gli raccontai in breve. «Detestava la roba morbida, tipo lo yogurt… non le piace la consistenza, e per mangiarlo ci sbriciola dentro i biscotti.»

Sahan ridacchiò.

«Ah, ecco perché sbricioli gli Oreo dentro il gelato sciolto…»

«Beh, se provassimo così?»

Avevamo impiattato un dolcetto con la gelatina che sembrava essere stata accoltellata e lo usai come cavia: sbriciolai grossolanamente il biscotto di kamut da un lato del fiore, rimisi sopra la spuma di bergamotto con il cucchiaino – era ferma e leggera come schiuma da bagno – e poggiai di lato la pallina di limone caramellata, con la sottile stalattite obliqua contro lo spruzzo di mousse. Mi pareva piacevole a vedersi e cercai l’approvazione di Sahan con lo sguardo.

«C’è un solo modo di sapere se funziona, no?»

Sahan mi allungò un cucchiaino. Dopo un momento di esitazione lo presi e all’unisono li affondammo nel dolce per assaggiare spuma, granella, gelatina e pannacotta nell’insieme. Chiusi gli occhi quando gli accordi di gusto risuonarono in bocca, esattamente uguali a quelli che aveva creato Sahan la prima sera. La lingua percepì il ruvido del biscotto sbriciolato in mezzo alle tre consistenze più morbide e mi ricordò in modo vivido il milkshake ai biscotti di cioccolato che amavo quando ero bambino.

Riaprii gli occhi, ma Sahan non aveva cambiato espressione.

«Dunque, Raim? Che ne pensi?»

«Penso che così sia perfetto.»

Lo vidi sorridere mettendo via il cucchiaino.

«Impiattiamo.»

Si occupò lui di sistemare le pannine e la gelatina sopra, io passai dietro di lui con i biscotti schiacciati, e poi passò di nuovo i piatti con il sifone della mousse di lime e bergamotto – niente al mondo sembrava rallegrarlo di più che spruzzare con il sifone, era come un bambino con un flacone di sapone per bolle – e infine passai ancora io a posizionare la stellina di limone salato caramellato e la fogliolina di menta.

Era non solo il dolce, ma forse la cosa più bella che avessi mai fatto con le mie mani. Rimasi lì, ammutolito dall’emozione confusa che provavo, mentre guardavo i dolci e Sahan che scattava foto con il cellulare. Quando si accorse che lo guardavo scrollò le spalle sorridendo.

«Comunque vada a finire sarà un bel ricordo per entrambi.»

Mi trovai turbato da quella frase. Tolsi il grembiule con un gesto meccanico, poi riuscii a riconquistare la mia voce.

«Sahan, che cosa farai se…?»

Fui interrotto dall’arrivo di Kerr e dei suoi camerieri. Mi informò che gli ospiti avevano terminato con il dolce di chef Durand e chiedeva l’autorizzazione a servire. Non c’era motivo di tenere i nostri piccoli capolavori in attesa e li feci servire; stranamente Kerr non aveva nemmeno guardato Sahan accanto a me. Lì per lì non ci feci caso preso dalle mie preoccupazioni, ma il maître del Liaison aveva trattato me come fossi lo chef.

«Dobbiamo uscire?» domandai incerto a Sahan, ma lui scosse la testa.

«No, lasciagli finire il dessert… usciremo tutti quando i camerieri sparecchieranno, per ringraziare e salutarli… dopodiché, leggeremo le loro critiche nei prossimi giorni.»

Mi stupì vederlo tendermi la mano.

«Ben fatto, Raim… grazie del tuo aiuto. Senza di te non avrei neanche potuto cogliere quest’occasione.»

«Smettila, prima che ti suggerisca dove puoi mettere quella mano» replicai, senza soffocare un sorriso. «Ci portiamo avanti con le pulizie? Prima non te l’ho detto, ma Martha ci ha invitati da lei a mangiare quando avremo finito qui… se non sei troppo stanco.»

«In realtà sono stanco morto… ma ho anche fame, quindi vengo!»

Accennò una risata e come me iniziò a riordinare e ripulire la postazione, anche se dopo il servizio del dessert la sua energia se n’era scesa in cantina, al punto che sembrava trascinare le stoviglie anziché sollevarle e il suo strofinaccio veniva mosso a destra e a sinistra senza gran convinzione. Doveva essere fisicamente e mentalmente esausto dopo quel pazzesco tour de force in due.

«Sahan… perché non ti siedi un po’? Continuo io a pulire, e…»

In quel momento però Durand si avvicinò a noi.

«Hanno finito di cenare… è ora di andare a salutarli» ci disse, e si girò a fare un cenno alla sua brigata. «Date una ripulita. Isabel, lava quello che è rimasto prima di andare.»

«Sì, chef» rispose l’intero gruppo in coro.

«Lucas, tu vieni fuori con me» aggiunse quando Malone fece per avvicinarsi.

«Sì, chef. Grazie.»

Durand e Malone si avviarono verso la sala mentre l’intera brigata del Liaison confluiva nella zona pasticceria per ripulire. Facevo fatica a credere di non stare sognando: chef diplomati stavano pulendo le pentole che io avevo usato, era qualcosa di folle. Era come vivere nelle versione gastronomica di un romanzo di Verne.

«Che aspetto ho?» mi domandò sottovoce Sahan, preso a sistemarsi i capelli già in ordine.

«Splendido, come sempre… quindi stai calmo.»

Sahan abbassò le mani e mi sbirciò con la coda dell’occhio.

«Mi trovi davvero splendido o è solo per farmi sentire meglio?»

«Ti sembra il momento per questo discorso?»

Entrammo in sala mentre finivo di sussurrargli quella domanda e ci zittimmo entrambi. I nostri ospiti erano seduti al tavolo, girati verso la cucina come se ci aspettassero con ansia. Durand e Malone si schierarono, con il secondo un passo dietro l’altro, ma Sahan ancora una volta mi guidò afferrandomi il polso e mi fece mettere esattamente accanto a lui. Stare sulla stessa linea di un Micheaux e di Durand era fin troppo arrogante, ma non volevo che i clienti vedessero le nostre braccia azzuffarsi dietro le nostre schiene.

«Spero che i signori e le signore ospiti abbiano gradito la cena che abbiamo proposto questa sera» esordì Durand, con un tono gentile che non gli avevo mai sentito usare. «Siete stimati professionisti del settore gastronomico e siamo onorati di aver cucinato per voi.»

Durand guardò Sahan invitandolo – con un sorriso che a me pareva stranissimo sulla sua faccia austera – a dire qualcosa anche lui. Il mio amico sorrise spontaneamente, con un residuo di luce negli occhi nonostante la stanchezza evidente.

«Questa è stata un’occasione più che immeritata per uno chef giovane come me, ma ringrazio sentitamente tutti voi di aver fatto un po’ di spazio anche per il nostro menu… di certo quello di chef Durand era buono abbastanza per il bis, quindi grazie di essere stati curiosi!»

Qualcuno degli ospiti rise a quella sua uscita, e tutti e quattro ringraziammo e augurammo loro una buona serata mentre si alzavano da tavola. Pensavo fosse finita e stavo seguendo Sahan verso la cucina quando mi sentii chiamare dal critico con i baffetti.

«Chef Manning, una parola, la prego.»

Non fui solo io a voltarmi con stupore, tutti i cuochi presenti fecero la stessa cosa.

«Qualcosa non va?»

«Affatto, ma… il menu che ho assaggiato mi ha incuriosito molto. Per quanto Micheaux sia giovane il suo pedigree e le sue esperienze precedenti sono piuttosto note… ma lei, chef Manning, da dove viene?»

La domanda dell’uomo suscitò l’interesse di tutta la tavolata, al punto da trattenerla per sentire una risposta… una risposta che in verità non avevo.

«Io… sono di qui. Non ho mai lasciato Las Vegas.»

«In quali ristoranti ha imparato?»

«Io… nessuno… io ho lavorato soltanto qui, al Liaison.»

«Davvero? Eppure credevo di conoscere tutti i cuochi della brigata» osservò una donna sulla sessantina. «In quale ruolo?»

Non sapevo davvero più che cosa rispondere. Non mi vergognavo di essere uno sguattero, ma qualcosa mi diceva che ammetterlo davanti a loro avrebbe intaccato il ricordo della cena e penalizzato una valutazione importante per Sahan. Lo guardai in palese ricerca di aiuto, ma quello che parlò subito dopo non era lui e neanche Durand.

«Beh, il nostro Manning è una specie di fenice, un simbolo di quanto straordinario sia il potere della determinazione!» esclamò Malone, sorridendo. «Non è da tutti passare da sguattero a chef in una settimana… anche se non sappiamo esattamente quanta esperienza abbia fatto nella cucina del Desert State.»

Cadde un silenzio teso sulla sala da pranzo e io iniziai a sentire quasi freddo. Mi mordicchiai il labbro inferiore e guardai in basso; non osai guardare Sahan neanche quando lo sentii afferrarmi il gomito e toccare la schiena cercando di calmarmi, o di confortarmi, non lo sapevo. Non avevo idea di come Malone fosse venuto a sapere che ero stato in carcere e dove, né riuscivo a capire perché avesse deciso di parlarne in quel momento davanti a quelle persone.

Mi sentivo umiliato. Non riuscivo ad alzare la testa, avrei voluto almeno dire che era stato Sahan a insegnarmi tutto quello che mi serviva ma non riuscivo a farlo. Fu l’uomo coi baffi a rompere il silenzio.

«Beh, comincio a pensare che finire al Desert State non sia affatto male.»

La signora sorrise con un’esclamazione divertita, un altro uomo convenne che forse il penitenziario valeva una visita per cena. La tensione si stemperò, vennero rinnovati ringraziamenti da ambo le parti e mi trovai a chinarmi più di chiunque altro agli ospiti che se ne andavano. Non capivo perché, ma mi sentivo come se li avessi imbrogliati, sentivo che era tutto sbagliato e non vedevo l’ora di infilarmi nello spogliatoio e togliermi quella giacca che non meritavo.

Non appena furono fuori dalla porta girai i tacchi e marciai spedito fino in cucina e allo spogliatoio, con Sahan alle calcagna.

«Raim, aspetta, non fare così!»

«Così come?» brontolai; avevo la voce che tremava.

Sahan entrò nello spogliatoio mentre mi toglievo – no, mi strappavo – di dosso la giacca. Avevo completamente perso la testa. Avevo trovato l’orgoglio per un solo giorno della mia vita dopo anni di oblio di me stesso e mi era stato calpestato brutalmente. Non ricordavo di aver mai sofferto più di quel giorno, mi sembrava peggio di qualsiasi altra cosa.

«Malone non sa di che parla! Può sparlare quanto vuole, ma l’essere stato in carcere non ha tolto nulla alla tua persona e al tuo talento!»

«Avrei dovuto ricordarmi quello che mi ero ripromesso di non dimenticare quando sono uscito» ringhiai, più arrabbiato con me che con chiunque altro. «Dovevo tenere a mente di non essere niente. Sapevo che finire in carcere mi aveva reso un uomo distrutto e che niente l’avrebbe mai potuto cambiare.»

«Questa è una cattiveria gratuita!» protestò Sahan, con i pugni serrati. «Tu sei stato bravo, altro che uomo distrutto! Hai costruito splendidamente una nuova vita, hai preso il meglio che un’esperienza così crudele ti poteva insegnare e ora sei… guardati!»

Si aggrappò al mio braccio con tutto il peso per trattenermi dall’uscire.

«Sei una persona umile, gentile, e determinata… sei paziente, calmo e io… io ti devo tutto, tutto quello che verrà da questa incredibile serata!»

Sapevo che diceva sul serio. Vedevo dai suoi occhi che era sincero e sinceramente ferito dal modo in cui soffrivo in quel momento, ma il mio nuovo, piccolo orgoglio sanguinante mi stava impedendo di guardarlo davvero. Della calma e della pazienza era scomparso tutto, volevo solo correre a casa, infilarmi nella doccia e leccarmi le ferite lontano da tutti.

Lo spostai con un gesto brusco del braccio e uscii dallo spogliatoio solo per trovarmi davanti chef Durand, che mi fissava. Era piuttosto improbabile che non avesse sentito la nostra discussione.

«Ci sarà sempre qualcuno migliore» mi disse con l’aria di chi parla fra sé e sé. «Qualcuno che ci surclassa pur avendo studiato meno… avendo meno esperienza e conoscenza. Non nasciamo tutti con lo stesso talento e con le stesse occasioni… né con lo stesso carattere.»

Allungò la mano destra verso di me.

«Servizio eccellente, Manning. Congratulazioni per il vostro successo… di certo è stato meritato.»

Se non fossi stato così stanco e il cervello così lento penso che avrei preso a pugni Durand. Successo? Merito? Dopo tutti i tentativi di affossarci mi faceva piantare quel coltello nella schiena dal suo sicario e osava anche farmi le sue congratulazioni?

Tuttavia, non avevo voglia né la forza di litigare e discutere. Gli strinsi la mano senza trarne la minima soddisfazione, il suo riconoscimento non significava niente in quel momento. Mi sembrava quello che volevo ottenere da quella serata, il rispetto di persone che non mi avevano mai rispettato, ma non riuscivo a esserne felice. Neanche rincuorato, nemmeno un po’.

«Grazie» feci con un filo di voce.

«Manning, ascolta.»

Mi sfiorò la spalla indicandomi il passe, invitandomi ad allontanarci dalla cucina. Stanco e indifferente mi mossi insieme a lui.

«Non saresti l’unico chef con dei precedenti penali che conosco… qualcuno è arrivato persino a dei riconoscimenti ufficiali importanti. Se la cucina ti interessa non lasciarti condizionare dal tuo passato.»

La paternale di Durand era la cosa meno confortante che avessi mai dovuto ascoltare. Con un modo di fare piuttosto rude schioccai le labbra e presi un passo di distanza da lui.

«Proprio voi, con quello che avete combinato al padre di Sahan, parlate a me come se ve ne importasse qualcosa?»

«Quello che è successo tra me e Arnaud è acqua passata da molti anni… e anche se non ci parliamo più, ci rispettiamo ancora come professionisti. Questo significa non farsi condizionare.»

«Ma se avete cercato di sbattere fuori Sahan da quando si è presentato alla porta!»

«Sì, ma solo perché era ovvio dal suo tono che non sapeva come le cose fossero finite tra me e il padre. Non volevo qualcuno con smania di rivalsa nei miei confronti nel mio ristorante» puntualizzò con la massima calma. «Il giovane Micheaux assomiglia a suo padre alla sua stessa età… impulsivo, e precipitoso. Anche Arnaud travisò quello che successe a Vienna… un goccio di vino, Manning?»

Camminando eravamo arrivati al sontuoso american bar dall’altro lato della sala e il barman stava già versando un bicchiere a Durand, come quella fosse un’abitudine. Forse non era una buona idea, ma annuii e venni servito immediatamente di mezzo calice di vino rosso corposo.

«Quello che cercai di fare era aiutarlo… ma naturalmente, non avrei dovuto impicciarmi. Era il mio migliore amico, lo tenevo d’occhio durante la preparazione… fu un lunghissimo esame, dodici ore di preparazioni fatte da soli… ero annebbiato, ma non me ne resi conto» mi raccontò, assorto nel roteare del vino. «Credevo avesse dimenticato ingredienti o fasi fondamentali, così ritoccai le sue preparazioni. Gliele rovinai, ma lo feci davvero con l’intenzione di aiutarlo. Volevo che facessimo quello stage insieme.»

La campana di Durand suonava una musica diversa da quella di Sahan, ma che ragione aveva di giustificarsi con me? Non mi doveva nulla, non ne ricavava nulla: non ero arrabbiato con lui per una vecchia storia che non mi sfiorava, non avrebbe cambiato la mia opinione, non avrebbe influito in nessun modo sulla scelta di andarmene o restare.

Presi un sorso di vino. Era ottimo.

«Lui la prese male. Era come suo figlio, corse a conclusioni e mi affrontò a brutto muso… non capì le mie ragioni, io non fui paziente, e finimmo a litigare. Ci dicemmo cose che non pensavamo… e mi è successo anche con il giovane Micheaux. È così simile a suo padre che istintivamente gli ho risposto allo stesso modo… in questo caso è vero, non mi sono distaccato dal passato, ma non è stato voluto.»

Restai in silenzio, bevvi altro vino. Durand si fece servire ancora, ma io no.

«Avete intenzione di dirlo a Sahan?»

«Non mi crederebbe anche se lo facessi, e mi sta bene che vada così… in ogni caso il ragazzo non resterà a lungo. So qual è il suo curriculum, so che non resta a lungo nello stesso posto… è un nomade, un esploratore. Visto che ti ha insegnato così tanto in poco tempo, Manning, ti consiglio di seguirlo quando se ne andrà.»

Mi sorpresi di quel consiglio e non trovai da replicare.

«Sempre ammesso che abbia anche tu voglia di scoprire mondi nuovi.»

Durand mi osservò con una certa insistenza, poi riconsegnò il calice vuoto al barista.

«Beh, riflettici su. Dopo questa cena pioveranno inviti per Micheaux da ogni angolo del paese… e potrebbe ripartire presto.»

Sentii come un peso scendermi dentro la gola fino allo stomaco e mi portai la mano all’addome. Avevo dato il mio meglio perché non scappasse, ma forse gli avevo solo accorciato il soggiorno.

«Ma questa sera siete stati bravi. Affrontare questa cena soltanto in due è stato coraggioso… quasi da pazzi, ma avete vinto. Dovete premiarvi e rilassarvi per questa notte, tutte le riflessioni importanti puoi rimandarle a quando sarai riposato.»

«Il cervello non ragiona bene quando è stanco, no, Dioraine?» aggiunse il barista, con un sorriso divertito.

«Cerveau reposé, estomac bourré avant de décider!»

«C’est vrai, c’est vrai!»

Non avevo davvero idea che Durand sapesse essere così amichevole, né che sapesse ridere, o che avesse voglia o capacità di dare consigli al prossimo. Vedere quel lato dello chef duro e gelido che credevo di conoscere mi insegnò a prendere la maschera dei professionisti della cucina separatamente dalla persona che erano fuori dal lavoro, ed è una delle lezioni più preziose che abbia mai imparato.

«Vi ringrazio, chef Durand» gli dissi, non appena le risate si acquietarono abbastanza. «Per i consigli e per il vino. Buonanotte.»

«Buonanotte, chef Manning.»

Quando mi voltai, davvero stupito di quanto non sembrasse un tono sarcastico, lui non mi guardava: si era messo a parlare in fitto francese con il barista. Ancora confuso dalla rapida successione di eventi tornai in cucina, dove trovai Isabel e Baader intenti ad asciugare le ultime stoviglie e Sahan, già cambiato d’abito, con un’aria stanca e tesa.

«Stai bene, Raim?»

«Sì» gli risposi, cercando di sorridergli. «Scusami se ti ho fatto stare in pensiero… ero un po’… nervoso, e stanco. Ora è passato.»

«Che ti ha detto Durand…?»

«Durand? Nulla di che… mi faceva i complimenti per il servizio e mi ha dato un paio di consigli… sai come sono i vecchi.»

Guardai su e giù per la cucina, ma la trovai già ben pulita.

«Avete già fatto tutto? E io che credevo di esservi indispensabile!»

Isabel ridacchiò mentre appendeva delle padelle di rame.

«Mio nonno dice che tutti sono utili e nessuno è indispensabile!»

«Suona spietato, detto da un nonno.»

«Mio nonno lo è!»

«Serve qualcosa? Avete davvero finito?» insistetti.

«Abbiamo finito… mi sono offerto volontario per il pavimento, quindi toglietevi tutti dai piedi in fretta» fece Baader in un finto tono burbero. «Ci si vede domani. Riposatevi!»

Se non bravura e talento di sicuro l’intera brigata ci aveva riconosciuto quanto intensamente ci eravamo impegnati per gestire un servizio in due. Ricordandomi della raccomandazione di Durand di “premiarci” per lo sforzo, passai il braccio sulle spalle di Sahan e lo condussi alla porta.

«Allora noi andiamo, ci aspettano per cenare… buonanotte!»

«R-Raim…»

«Saluta, Sahan.»

«Ah… c-ciao!»

Uscimmo con il saluto dei due colleghi in coro, con Sahan che continuava a guardarmi come se si aspettasse che scoppiassi a piangere in una manciata di secondi. In realtà parlare con Durand aveva stabilizzato il mio umore e avevo ritrovato il mio centro, o almeno abbastanza serenità per non incaponirmi ancora di più per l’infelice uscita di Malone. Buon per lui, comunque, che fosse già sparito dalla mia vista.

«Hai preso tu la mia giacca, Sahan?»

«Io… sì» mi rispose titubante. «L’avevi lasciata lì… ma è tua. Dovresti conservarla, qualsiasi decisione prenderai…»

«Continui a ripeterlo come se dessi per scontato che io possa scegliere di fare il tuo lavoro.»

«Ma certo che puoi… il punto è se vuoi. Che sia un lavoro duro e una scuola perenne non si discute, quindi… beh, bisogna scegliere. Forse se quello che intimamente desideri è la serenità, trovare un posto e una vita tranquilla, questo lavoro non è quello che cerchi.»

Aveva ragione, naturalmente. Il lavoro di un cuoco, anche di uno di un piccolo ristorante, è duro. Ci si alza presto, si arriva in anticipo per le preparazioni, si serve e si resta a pulire; se si è proprietari si fanno i conti per le materie prime, le spese, gli incassi. C’è molto lavoro da fare, per non parlare delle cose da imparare e da migliorare. Se si fa questo lavoro si sceglie un amante esigente, come lo spiegò Sahan una volta.

«Non preoccuparti per me… pensa a te stesso, adesso» replicai, strizzandogli leggermente la spalla. «Hai avuto successo… potresti ricevere qualche offerta allettante. Se succede, non esitare ad andare, okay?»

Tolsi il braccio e aprii l’auto con il telecomando, ma Sahan rimase impalato lì dove l’avevo lasciato.

«Sali, dai. Andiamo con la mia macchina.»

«Raim… tu… vuoi restare qui?»

Restai fermo con lo sportello mezzo aperto. Non capivo perché la mia scelta dovesse influenzarlo e l’idea che fosse più di un’ipotesi vaga mi diede fastidio. Non volevo essere un peso di qualsiasi tipo per lui.

«Che importa? Non ha niente a che vedere con te» gli risposi allora, con un tono parecchio brusco. «Tu devi fare le tue scelte, secondo quello che più vuoi… e quello che è meglio per te. Cosa io faccia della mia vita o della mia carriera non deve avere nessun peso nelle tue decisioni.»

«Ma noi siamo amici… e lavoriamo bene insieme» fece lui a voce bassa.

«Sì, ma l’essere distanti non ci impedirà di restare amici… e fidati di uno che di scelte idiote ne ha fatte parecchie: decidere della tua vita sulla base dell’attaccamento alla famiglia, agli amici o ai luoghi finirà per darti dei rimpianti. Guarda che diavolo ho combinato io, a scegliere di aggrapparmi a chi pensavo fosse mio amico.»

Era un modo rigido di vedere la vita, ma dopo essere finito in carcere per proteggere amici che non avevo mai più rivisto né sentito non mi ero mai del tutto ripreso. Avevo passato un lungo periodo senza rapporti sociali degni di nota, senza cercare compagnia, divertimento, sesso, amore, né tantomeno amicizia. Avevo il cuore indurito come un muscolo freddo e la mia tanto decantata serenità assomigliava più a un volontario isolamento, a ripensarci adesso… ma allora ero convinto di quello che dicevo a Sahan e credevo di fare la cosa giusta a dirgli di essere egoista.

Anche se io stesso soffrivo all’idea di separarmi dalla prima persona che era riuscita a conquistarsi il mio affetto dopo tanti anni.

 

*

 

Tanto parlare fu piuttosto inutile, perché dopo l’uscita di alcune ottime recensioni per i due menu del Liaison Durand comunicò a Sahan che diversi chef famosi e ristoranti rinomati avevano mandato inviti per stage e impieghi fissi presso di loro, da San Francisco a New York, persino fino al Canada dove il nostro ospite con i baffi appuntiti stava aprendo un altro locale della sua catena. Davanti a tanta abbondanza di interessanti occasioni l’esploratore dentro di lui non poté resistere a lungo e dopo undici giorni dal suo fenomenale servizio Sahan aveva dato il preavviso allo chef per il suo licenziamento. Non mi aveva avvertito e non mi disse dove sarebbe andato: con una certa aria solenne da addio mi diede la sua email e due suoi numeri di cellulare per assicurarsi che sapessi sempre come cercarlo.

«Chiamami se hai bisogno di qualcosa, d’accordo?»

«Potrei chiamarti anche solo per chiederti come ti trovi nel nuovo posto» gli feci notare mentre appendevo i pentolini di rame.

«Chiamami per qualsiasi cosa, allora.»

Lo guardai cercando tracce di tristezza nella sua espressione, ma in realtà non ne trovai.

«Non vuoi ancora dirmi dove andrai?»

«No, ti manderò un selfie quando uscirò dall’aeroporto, così ti farò una sorpresa~»

«Allora dev’essere un bel posto… a est o a ovest?»

«Niente indizi, Raim, sarà una sor~pre~sa~»

«Okay, okay» feci, mio malgrado divertito. «Va bene, aspetto quella foto.»

Sahan si limitò a sorridere e mi guardò in silenzio appendere in ordine gli stampi di pasticceria di Baader.

«Tu quando hai detto che parti?»

«Oggi pomeriggio… la nonna mi ha detto di andarmene prima che lei torni. Mi sa che non vuole che la veda piangere.»

Nonna Ethel era un tipo non facile alla tenerezza e all’ipotesi che io potessi partire mi aveva riso in faccia, letteralmente. Una volta capito che non stavo scherzando e che avevo davvero ricevuto una proposta di lavoro in California mi aveva quasi calciato fuori di casa dicendomi di fare i bagagli, minacciandomi di diseredarmi se mi fossi azzardato a pensare di restare pensando a lei o alle sue condizioni di salute.

«Ethel è una brava persona… sa che è una grande occasione per te, e non vuole esserti di ostacolo. Mi ricorda un mio amico» aggiunse Sahan, con finta aria pensierosa.

«L’ho salutata stamattina… appena finito qui vado a casa, pranzo da Marco per salutarli e vado in aeroporto. Ho il volo per San Francisco alle 15» gli illustrai brevemente. «Non devi partire oggi anche tu?»

«Sì… ho un volo poco dopo mezzogiorno.»

«Allora dovresti sbrigarti, Sahan…»

«Beh… non c’è così tanta fretta… insomma, voglio salutarti come si deve.»

«Vale a dire?» gli chiesi, impilando gli strofinacci ripiegati alla bell’e meglio. «Baci e abbracci, o stretta di mano e auguri di gloria e restare vivi, un po’ da…?»

Non finii neanche la frase che me lo ritrovai appeso al collo. Non che mi sorprendesse, lo sapevo che Sahan era una persona affettuosa, ma mi aspettavo fosse un po’ più timido nel dimostrarlo in quel momento. Non mi dispiaceva, però, che fosse più sciolto di me al momento dei saluti; lo strinsi e inspirai a fondo con l’intenzione di imprimermi l’odore dei suoi capelli nella memoria il più a lungo possibile.

«Abbi cura di te, Sahan.»

«Tu non fare l’eremita a San Francisco» ribatté con il tono da maestrino. «Esci tutte le settimane… vedi gente, fai sport e divertiti. Fatti degli amici al lavoro e anche fuori.»

«Prometto di fare del mio meglio.»

«Bravo!»

Il suo sorriso era luminoso, non vedevo nessuna traccia di tristezza. Per qualche ragione mi sembrava strano, mi ero immaginato che sarebbe stato triste nel momento di salutarci. In quel momento però ero senza dubbio io quello che stava soffrendo, anche se non eccessivamente.

Qualche altro augurio e qualche raccomandazione e ci salutammo per davvero. Sahan salutò il resto della brigata presente, ringraziò e strinse la mano a Durand prima di andarsene. Il silenzio che si lasciò dietro mi pesava addosso e mi rese particolarmente distratto nell’ultima mezz’ora di lavoro, e finalmente dopo aver anch’io salutato tutti abbandonai la cucina del Liaison, convinto che non sarei mai più ritornato lì. Non avevo una ragione di tornare, e continuai a ripetermelo finché non fui sull’aereo: partivo per una nuova vita, in una nuova casa, in una città dove non ero mai stato, in un ristorante di prim’ordine dove mi era stato offerto un periodo di stage – l’executive chef del Parlour era stata una delle nostre ospiti alla cena – e con una lettera di referenze di Dioraine Durand anche io avevo tante porte a cui bussare. Tornare a Las Vegas poteva succedere per una visita a Ethel e ai miei amici al Posticino, ma di certo non per riprendermi un posto di lavoro che avevo detestato.

Il volo fu breve, appena il tempo di un film, e fu una fortuna dato che scoprii di non essere a mio agio con le altezze. Scesi dall’aereo all’Internazionale di San Francisco e mentre attendevo di trovare la mia valigia tra le molte che scorrevano sul nastro ricevetti un messaggio con uno scampanellio particolare: il tono che avevo impostato per il numero di Sahan. Dato che continuavo a chiedermi dove fosse andato a finire aspettavo con ansia la foto rivelatrice e tirai fuori il telefono così in fretta che quasi mi scivolò dalle dita come una saponetta.

«Ouff» feci quando lo riacchiappai senza danni. «Ci manca rompere il telefono adesso…»

Aprii il messaggio che avevo ricevuto, che era il suo tanto atteso selfie. Nella foto era in piedi davanti a una vetrata con una scritta, e alle sue spalle si vedeva la coda di un aereo con un logo blu come quello che avevo preso io. Mi accigliai, perché anche la vetrata era vagamente familiare, poi sospirai battendomi la mano sulla fronte.

«Quanto sono stupido» commentai ad alta voce. «Ecco perché non eri per niente triste.»

Sahan ridacchiò e mi tirò qualche pacca sulla schiena.

«Ciao, Raim! Ti sono mancato?»

«Ti ho visto quattro ore fa.»

«Oh, che è questo tono?»

«Che cosa fai qui, Sahan? Hai trovato anche tu un lavoro a San Francisco?»

«Oh, sì, mi hanno assunto come assistente al capo-pasticciere al Parlour!»

Lì cominciai ad arrabbiarmi, sono sincero.

«Sahan… sei stato tu? Mi hanno offerto un posto perché hai interceduto per me?»

«Cosa? Ma ti pare che l’avrei fatto senza chiederti se ti stava bene?» replicò lui, piccato. «Affatto, chef Jaeckel ha chiesto a entrambi di lavorare da lei… io ti ho seguito dopo aver saputo che avevi accettato il posto al Parlour.»

Non dubitai di quello che mi disse, ma non mi piacque molto sentirlo.

«Non ti avevo detto che era da stupidi scegliere così?»

«Forse, ma Andrea Jaeckel dispone di un laboratorio di pasticceria all’avanguardia, quindi ero molto interessato alla sua offerta di lavoro… era uno dei tre o quattro posti che mi attiravano di più. Non sapendo scegliere con la massima convinzione una ragione valeva l’altra per arrivare a una conferma, e ho seguito te. Ti dispiace così tanto?»

Naturalmente non mi dispiaceva, ma non ero convinto che mi stesse dicendo la verità, o addirittura che lui stesso fosse consapevole delle sue stesse scelte. In ogni caso gli dissi di no, lui tornò a sorridere e una volta recuperata la mia valigia ci avventurammo insieme verso la città sull’oceano Pacifico.

 

*

 

L’estate di San Francisco non era neanche lontanamente calda come quelle di Las Vegas, e la cosa che mi lasciava più confuso era come potesse essere freddo di mattina e caldo nel pomeriggio, nonché la presenza della nebbia, che per me era una novità assoluta della quale avevo soltanto sentito parlare, riservandole l’interesse di una cosa che non mi avrebbe mai riguardato. Abituarmi al vistoso cambio di clima fu più difficile che adattarsi alla cucina immensa e moderna di chef Jaeckel, impresa relativamente semplice, dato che lei non era affatto superba e rigida come Durand.

«Raim!»

Quel pomeriggio d’estate ero seduto al tavolo della sala da pranzo, molto preso a studiare un manuale di cucina pubblicato da Andrea Jaeckel, quindi quando alzai gli occhi e vidi che Sahan tendeva le mani verso di me non afferrai che cosa volesse.

«Che c’è?»

«Balliamo?»

Tornai un po’ più presente all’appartamento che condividevamo, ai fumi che salivano dalla cucina in cui lui stava preparando qualcosa, la brezza dell’oceano che muoveva la tenda oscurante alla finestra aperta e alla musica che veniva dallo stereo del fratello di Sahan. Era la sua canzone preferita, o almeno, la preferita di quel periodo: non riusciva a non ballarla, che fosse da solo o ci fossi io.

«Sto studiando…»

«Oh, ti prego, solo questa!»

Il suo modo di chiedere era così intriso della sua anima infantile che non potevo mai rifiutarmi, quindi mi alzai abbandonando il libro e gli presi le mani. In fondo una manciata di minuti passati a ballare non mi avrebbero reso un cuoco peggiore, ma di certo mi avrebbero reso un uomo più felice. Ballare continuava a piacermi ed era diventato un hobby comune, tanto che Sahan era diventato davvero bravo in quei pochi mesi.

Gli presi la mano e passai l’altra dietro la sua schiena. Senza altri indugi iniziammo a muoverci, ormai eravamo abituati, non ci imbarazzava più quella vicinanza intima e neanche i testi delle canzoni che ci capitava di ballare ci influenzavano.

«Non ti stanchi mai di ballare la stessa canzone?»

«Mi piace ancora» rispose lui, mentre faceva una perfetta piroetta. «Certe cose non mi stancano così in fretta.»

«Buono a sapersi.»

Non dicemmo altro per la durata della canzone, ma quando ne cominciò un’altra non tornammo ai nostri fornelli e libri. Neanche questo era particolarmente strano. La cosa che trovavo davvero strana è che vivevamo insieme da mesi, lavoravamo insieme, uscivamo insieme, ballavamo insieme ma non c’era stato mai neanche un bacio. Neanche un tentativo di bacio, in effetti. Non riuscivo a capire come mai, perché io ormai mi ero reso conto che lui mi piaceva, e che mi piaceva in quel senso… e per quanto mi sembrasse di essere ricambiato lui non si decideva mai a fare un passo in quella direzione né mi incoraggiava a farne uno io. Anche alla fine di quel ballo ci trovammo spaventosamente vicini, ma nessuno dei due osò accorciare quel poco spazio tra le nostre labbra. Non lo trovavo frustrante, soltanto inspiegabile, come un rebus che non riuscivo a decifrare.

Mi chinai avvicinandomi al suo orecchio per sussurrargli:

«Hai bruciato il crumble.»

Emise una specie di squittio – lo faceva sempre quando si dimenticava qualcosa sul fuoco o nel forno – ma passandogli il braccio intorno alla vita lo trattenni dov’era. Iniziò a dimenarsi come un pesce tirato in barca lanciandomi nomacci in inglese e francese mescolati e alla fine si liberò assestandomi un ceffone che fece molto più rumore che male; ridevo troppo per riuscire a tenerlo ancora.

«Qu'est-ce qu’a en la tête, cet idiot» borbottò mentre tirava fuori dal forno un crumble mezzo annerito. «Ah, merde!»

Sbatté il suo povero crumble defunto nel bidone e si voltò verso di me rivolgendomi qualche altra frase in francese che capii a malapena, ma continuavo a ridere e lui si irritava sempre di più, reagendo con un francese ancora più inferocito e meno comprensibile. Appena ripresi un po’ di fiato mi decisi a fermarlo; gli addominali mi facevano male.

«Sahan… Sahan, frena, frena. Tanto lo sai che non capisco un accidenti di quello che dici in francese!»

«C’est Monsieur Micheaux pour toi, idiot!»

«Quante storie per un crumble… e poi, l’avevi già bruciato quando ti ho trattenuto!»

Borbottò ancora qualcosa, probabilmente in francese, ma parlava troppo piano per capirlo. Non so esattamente perché decisi di muovermi quel giorno, in quel momento anziché un altro… forse fu perché avevamo appena ballato, ma non so perché quella volta fosse stato diverso dalle altre molte volte in cui era successo. Sapevo solo che volevo fargli capire che mi stava bene fare un altro passo, che se lui era pronto ero pronto anch’io… ma per quanto fossimo diretti e sinceri come amici non ero sicuro di riuscire a dirglielo a parole.

A quanto pareva la lunga pausa di ballo aveva fatto male anche alla crema liquida che aveva nella pentola, perché si mise a travasarla in un altro pentolino mettendoci sopra un colino. Io girai intorno all’isola della cucina e notai che il fiocco con cui aveva legato il grembiule si era allentato, di certo per quella nostra zuffa di prima. Bastò tirare appena perché si sciogliesse e siccome Sahan aveva le mani occupate con qualcosa che scottava riuscì a non farlo cadere solo sollevando un ginocchio. Senza parole mi offrii di riparare il danno che avevo causato io; allungai le mani ai lati della sua schiena per prendere il grembiule e lo sistemai con tutta calma.

«Grazie» mi disse lui, già dimentico di essere “arrabbiato” con me.

Incrociai i lacci dietro la sua schiena e li passai davanti per annodarli all’altezza dell’ombelico, come facevamo di solito al lavoro. Nel farlo mi avvicinai più del necessario, tanto che mi appoggiai contro la sua schiena e il suo bacino.

«Posso darti una mano?» gli chiesi piano, con una mano appoggiata sul grembiule a cercare un contatto non proprio naturale. «A fare qualsiasi cosa?»

Il modo in cui aveva raddrizzato le spalle e aveva smesso di mescolare mi confermò che si era accorto che quei gesti non erano stati involontari né casuali. Non mi spostai, feci solo scorrere la mano sul grembiule fino al suo fianco destro e aspettai la sua reazione. Dato che allora non ero neanche davvero sicuro che a Sahan piacessero gli uomini non escludevo la possibilità che colpisse con il mestolo.

«Tu… credevo stessi studiando» rispose alla fine di una lunga riflessione.

«Ci sono cose che non si imparano da un libro.»

Mi sentii incoraggiato dalla reazione cauta – e nervosa – di Sahan. Sporsi il mento sulla sua spalla ostentando un interesse che proprio non avevo per la crema che chiedeva di essere mescolata nel pentolino e nel frattempo feci strisciare lentamente due dita sotto l’orlo della maglietta di Sahan, alla ricerca di un lembo di pelle da sfiorare.

Dal canto suo, non si mosse né fece neanche una finta per spostarmi la mano.

«Raim…»

«Sì… Sahan?»

Più passava il tempo senza sue reazioni brusche più mi sentivo fiducioso nell’esito, tanto che osai fino a posare le labbra sul suo collo, poco sotto l’orecchio sinistro. A quel punto però Sahan reagì, voltandosi verso di me di scatto e mi diede una spinta sufficiente a farmi indietreggiare di un passo. Alzai le mani come se mi avesse puntato un’arma contro e in quei secondi credetti di aver fatto un disastro.

«Raim, non sono una persona gelosa, né qualcuno che si lega al dito le sciocchezze» esordì, lasciandomi perplesso. «Non mi infastidisce se ti trovi qualcuno, o se lo porti qui a casa.»

Ricordo di aver guardato a destra e a sinistra, confuso, chiedendomi di che cavolo stesse parlando. Lui sospirò, con un’espressione finto-determinata – sì, aveva questa espressione nel ventaglio delle sue possibilità facciali – mentre incrociava le braccia.

«Quindi se ti va di divertirti porta pure chi vuoi, basta che non spacci droga in casa.»

«Non credo di capirti, Sahan» replicai, del tutto sincero.

«Non… non sono il tipo che fa queste cose se non ho… dei… uhm…»

«Sentimenti?»

Sahan era in palese imbarazzo – infatti non mi guardava negli occhi, credo fissasse la mia fronte – e annuì. Visto che mi era più chiaro il suo problema sorrisi e allungai le mani verso di lui. Dopo un momento di esitazione si fece avanti e io intrecciai le mani dietro la sua schiena.

«Sono stato un po’ troppo spinto? Ti ho messo paura?»

«Oh, suvvia, Raim… paura… non ho mica tredici anni» protestò lui, non proprio convincente.

«No, ma ho idea che tu non abbia in questo campo un gran curriculum… almeno ne hai uno?»

Non so perché glielo chiesi. Per come ero cresciuto, per gli ambienti che avevo visto e la gente che avevo incontrato mi sembrava impossibile che un ragazzo sano e bello come era Sahan potesse raggiungere i ventotto anni senza neanche una ragazza – o un ragazzo – che lo portasse fino a quel punto. Per questa ragione il suo ostinato silenzio mi lasciò sempre più basito di secondo in secondo.

«Sahan?»

«Solo una parola, Raim, dì solo una parola su questo e ti sbatto quella padella sul naso.»

Altro che parola: il mio cervello si spense completamente, non avrei potuto dirla neanche se avessi voluto. Non replicai neanche quando Sahan tentò di incalzarmi a seguito del mio sguardo inebetito, ero troppo preso da un contorto ragionamento.

Da ragazzo non mi era mai importato se uscivo con una ragazza vergine o no, e anzi, preferivo che non lo fossero per non assumermi scomode responsabilità o incappare in una troppo emotiva che avrebbe trovato in questo una ragione per appiccicarsi a me. No, non ero mai stato un ragazzo romantico, ero un piccolo bastardo come molti altri ma mi vantavo, almeno, di non aver parlato d’amore a vanvera per incantare qualcuna.

Però – e qui il mio cervello si contorceva in modo incomprensibile – pensare che Sahan non fosse stato mai di nessuno e di nessuna era qualcosa di emozionante. Mi piaceva pensare che non ci fosse nessun altro in tutto il mondo che lo conosceva così intimamente, che lo avesse toccato, che lo avesse visto esposto come accadeva in quei frangenti. Mi piaceva l’idea che io potessi essere l’unico a vedere – ad avere – quella meraviglia che era Sahan Micheaux.

«Insomma, di' qualcosa» sbottò Sahan, indispettito. «Mi stai mettendo in imbarazzo!»

«Ah… no, solo… com’è successo? Hai steso tutti con un taser?»

«Io… di che stai parlando? Tutti chi? Io ho lavorato, non avevo tempo per… sciocchezze!»

«Una relazione sentimentale per te è una sciocchezza?»

«Non voglio parlare di questo» sentenziò, incrociando di nuovo le braccia.

Avevo intuito le sue ragioni e le sue paure, e anche se mi incuriosivano e stupivano in egual misura ci sarebbero stati altri momenti in cui le condizioni sarebbero state migliori per parlarne. Avevo ancora le mani intrecciate dietro la schiena di Sahan e lo avvicinai un po’ a me, sorridendogli.

«Allora non serve che parli» gli dissi, mettendoci più dolcezza che potevo. «Vuoi che parli io di quello che provo per te?»

Così a bruciapelo reagì con finta indifferenza, distogliendo lo sguardo e scrollando le spalle, ma non fece neanche mezzo passo per allontanarsi da me o per sfuggire al mio abbraccio, quindi stava bene dov’era.

Mi appoggiai al bordo del ripiano dietro di me e iniziai a parlargli del primo giorno al Liaison, di quello che avevo pensato di lui nei primi momenti della nostra conoscenza. Bastarono un paio di frasi perché tornasse a puntare i suoi occhi castano-verdi nei miei, ma continuai a raccontare di tutto quello che avevo pensato di lui in tanti momenti passati insieme da allora in avanti.

Quel giorno non ci baciammo, e dovetti aspettare una settimana prima che succedesse. Dopo quello passò un altro mese, ma alla fine diventammo una coppia a tutti gli effetti e iniziammo a dormire insieme nella mia camera da letto.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** L'endroit pour être libre ***


La mia vita aveva imboccato uno scambio improvviso quando avevo conosciuto Sahan, ma in verità – includendo il mio arresto nei Grandi Scambi di Binario – ce ne sono tre nella mia esistenza finora. Uno iniziò a profilarsi all’orizzonte quando io e Sahan stavamo insieme da un bel po’.

A San Francisco l’estate era finita, il Natale era passato, la primavera era già esplosa e ci stavamo avviando verso una nuova estate. Il nostro lavoro al Parlour andava a gonfie vele: lui era il primo assistente del pasticciere e io ero ormai stato confermato dopo il mio stage, lavoravo alla postazione della carne con impegno e soddisfazione. La nostra relazione procedeva serenamente tra uscite divertenti e appuntamenti romantici, sincerità sempre in prima linea, qualche battibecco che finiva presto dimenticato e sesso soddisfacente. Onestamente era difficile per me pensare di volere qualcosa di più di quello che avevo già.

Era un nostro giorno libero e così stavo preparando qualcosa di particolare per una cenetta in casa. Cucinavo tranquillo davanti a forno e due padelle, cosa che soltanto un anno prima mi sarebbe sembrata impossibile, e Sahan era affondato nel divano a guardare il suo show preferito che registrava per tutta la settimana. Era una giornata piovosa e freddina e continuavo a voltarmi dalla sua parte per guardarlo: mi piaceva sempre vedere come si avvolgeva in una copertina color giallo crema come in un mantello. Avevo voglia di mettermi lì insieme a lui, ma dovevo preparare la cena e attendere pazientemente il film in prima serata per quel tipo di intimità.

Ci stupimmo entrambi quando suonò il campanello. Era piuttosto raro che qualcuno venisse a trovarci a casa senza invito, specie a quell’ora insolita. Andai io ad aprire e capii all’istante chi era la donna che aveva suonato: aveva la pelle un po’ più scura, ma gli stessi occhi, capelli mossi e naso di suo fratello minore. Era Annette Micheaux.

«Salut» mi salutò in francese, con l’aria nervosa. «Je… cerco Sahan Micheaux.»

«Sì, tuo fratello è qui» le dissi, per farle capire che sapevo chi fosse. «Entra. È in soggiorno.»

Quando ci arrivò fu un vistoso tripudio di gioia fraterna e un fiotto di saluti, domande e affettuosità in francese stretto, ai quali assistetti dai miei fornelli. Non era qualcosa di cui dovessi o desiderassi impicciarmi, così mi preoccupai della cena mentre i due fratelli si parlavano in francese. Intuivo stralci di conversazione riguardo al lavoro, alla casa, e Sahan nominò suo fratello Majid per chiedere come se la stesse cavando.

A un certo punto Annette mi guardò – fu Sahan a dirmelo, dato che davo loro le spalle per cucinare – e parlò un po’ più piano, ma così facendo si rese anche più comprensibile alle mie orecchie non proprio esperte di francese corrente.

«Papà mi ha detto di non chiedertelo da parte sua, ma quando ho proposto il tuo nome lui non si è opposto» esordì, mettendomi immediatamente in allerta. «Alla scuola Micheaux c’è un posto libero… insegnante di pasticceria per le prime classi.»

Sahan non replicò subito.

«Vuoi dire che a papà sta bene che io torni?»

«Non si è opposto» ripeté Annette, con tono più gioioso. «Mi ha mandato a chiedertelo.»

Un viaggio oltreoceano era eccessivo per una proposta di lavoro, ma avrei appreso solo più tardi che Annette aveva fatto uno scalo extra mentre si recava a Los Angeles per la tappa di una prestigiosa fiera gastronomica, quindi aveva più che altro colto un’occasione per venire a trovare il fratellino. Lì per lì ero teso come una corda di violino, perché io avevo nonna Ethel – la sola famiglia che mi era rimasta – piuttosto vicina e seguire Sahan in Francia avrebbe significato lasciarla sola, ma non volevo nemmeno separarmi dal mio fidanzato. Mi piaceva la vita che facevo e non volevo rinunciarvi, quindi la mia prima reazione fu una rabbia capricciosa. Feci fatica a mordermi la lingua e far finta di non aver capito una parola.

«Capisco…»

«Tornerai, allora? Torni, Sahi?»

Sahan esitò ancora e non voltarmi fu quasi doloroso. Avrei voluto gridargli di non pensarci nemmeno, ma non potevo decidere io per lui, proprio come non avevo potuto scegliere che restasse al Liaison insieme a me. A volte in una relazione dare il proprio parere era lo stesso che imporre inconsciamente una scelta all’altra metà facendo leva sul senso di colpa, sull’amore e quant’altro, quindi sperai con ogni fibra del mio essere che Sahan non mi chiedesse niente e scegliesse da solo di non partire.

«Ci devo pensare, Netty… sai, nel ristorante dove lavoro ora sono il demi-chef de partie della pasticceria… e abbiamo un bel laboratorio…»

Sahan elencò altre cose e non le capii tutte, molti nomi tecnici di strumenti e arte culinaria mi erano ancora sconosciuti nella sua lingua madre. Con un tono stranamente formale Sahan chiese a sua sorella se voleva restare a cena, ma lei rifiutò perché aveva un tavolo già prenotato in albergo. Quando li vidi entrambi in piedi capii che si stava congedando e mi avvicinai per salutarla.

«Au revoir, mademoiselle Micheaux

«Arrivederci, signor Manning.»

Il suo sorriso era splendente proprio come quello di Sahan, la loro somiglianza era disarmante. Sahan l’accompagnò alla porta, si dissero ancora qualcosa e poi lei andò via. Io persi il sorriso che avevo a fatica messo su e guardai il mio ragazzo tornare in soggiorno con aria cupa.

«Non guardarmi così, Raim… non è morto nessuno.»

«Andrai?»

«A insegnare alla scuola?»

«Certo» replicai secco, non mi piaceva che temporeggiasse.

«Insegnare è una cosa che mi sono riproposto di fare quando sarà troppo faticoso per me gestire un servizio vero… quando sarò vecchio» mi rispose, e si lasciò cadere di schiena sul divano. «Fino ad allora io voglio imparare, creare e lavorare. Per insegnare ci sarà tempo.»

Mi trovai a sospirare di sollievo a quelle parole. Erano chiare, dirette… non voleva quel posto all’accademia Micheaux, non l’avrebbe voluto per parecchio tempo ancora. Quella sera mi tranquillizzai, non capendo che cosa davvero aveva turbato il cielo senza nuvole nella testa di Sahan.

 

*

 

L’argomento non venne più ripreso e io arrivai a dimenticarmene: quell’estate la salute di Ethel peggiorò drasticamente e mi trovai a prendere permessi regolari per saltare su un aereo e andarla a trovare a casa. Marco e Martha e il loro figlio – che faceva il contabile per un importante albergo di Las Vegas – ci furono molto vicini e badarono alla nonna quando io ero a San Francisco, tuttavia non faceva che peggiorare.

L’ultima volta che la vidi fu per il Ringraziamento: andai da lei e preparai tacchino e patate per cena, anche se erano settimane che non poteva più alzarsi dal letto. Sedevo accanto a lei tagliandole il tacchino a piccoli pezzi mentre lei guardava verso la televisione, anche se la sua vista si era fatta confusa usava tenerla sempre accesa per non sentire un silenzio opprimente quando era sola.

«Sei stato al mare, Ruben?»

«Sono Ephraim, nonna… papà non c’è più, è morto.»

Risposi meccanicamente: erano settimane che Ethel non era presente a se stessa e non riconosceva le persone con lei, continuava a chiamarmi col nome di mio padre.

«Sei stato al mare, Ephraim?»

«Ora fa freddo per andarci, nonna…»

«No… voglio dire, sei mai stato al mare? Hai fatto il bagno nell’acqua calda, con un colore così trasparente che si vede il fondo?»

Mi accigliai, chiedendomi se la sua domanda avesse un senso o fosse qualcosa di illogico partorito dal suo male. Lei sospirò e sorrise.

«Quand’ero giovane andavo in vacanza in Italia… sapessi com’è bello il Mediterraneo, Ephraim! Non è come San Francisco, non è così freddo…»

Mi sorprese che ricordasse dove vivevo attualmente e capii che aveva un momento particolarmente lucido. Sorrisi e le dissi qualcosa per incoraggiarla a raccontare, non ricordo più bene che cosa.

«Oh, ero giovane allora… avevo vent’anni, poco di più… andavamo in vacanza con il comitato…» raccontò, e non la interruppi per dirle che non avevo idea di quale comitato fosse. «Passavamo giorni in spiaggia e notti in discoteca, e nuotavamo nudi nel Mediterraneo! Devi farlo anche tu, Ephraim…»

«Non sono proprio il tipo» le risposi, sinceramente divertito all’idea.

«Promettimelo, mio caro.»

«… Prometterti cosa, nonna?»

In quel momento mi guardò con gli occhi vividi, completamente presente a sé e seria. Non sorrideva più.

«Devi andare anche tu a vedere il Mediterraneo… non devi punirti per sempre, Ephraim. Devi goderti la vita… devi fare cose che quando sarai sul letto di morte, come me ora, potrai raccontare sorridendo.»

Dire che mi allarmai sarebbe poco. Era ovvio a tutti che la nonna stava morendo, ma io non ero ancora entrato nella fase dell’accettazione e mi ostinavo a negarlo anche con me stesso e a credere che si sarebbe ripresa. La rimproverai per quella scelta di parole, ma lei continuava a replicare a ogni mia parola con la pretesa che io le facessi quella promessa, e alla fine cedetti. Non volevo che si agitasse troppo.

Per il resto della serata la lucidità andò e venne, ma almeno mangiò con appetito e ne fui felice, perché la sua infermiera mi aveva riferito che di rado riusciva a vuotare il piatto per scarno che fosse. Non mi trattenni molto dopo l’ora della cena, solo il necessario per assicurarmi che prendesse le sue medicine e avesse tutto il necessario per riposare tranquillamente. Aspettammo l’arrivo dell’assistente notturna e la salutai dandole un bacio sulla fronte.

«Ci vediamo presto, nonna.»

«No, non presto, Ephraim.»

«Sì, prenderò un altro permesso la settimana prossima… comincia a pensare a che cosa vuoi che ti prepari per cena!»

«La settimana prossima non mi troverai, caro. Se puoi portami con te al mare.»

Lì per lì non diedi peso a quelle parole, perché mi sembravano deliranti. La rassicurai che sarei tornato la settimana dopo e la lasciai, e in serata ripartii per tornare da Sahan. Quando due giorni dopo Marco mi telefonò per dirmi che la nonna era morta nel sonno… non ho idea di che cosa gli risposi, non lo ricordo. La prima cosa che ricordo è che Sahan mi teneva stretto mentre piangevo sulla sua spalla e che per giorni continuavo a pensare alle sue ultime parole nei momenti più disparati.

Partecipai ai funerali della nonna insieme a Sahan. C’era tutto l’organico del Posticino e i loro parenti stretti – tutti amici di Ethel – qualcuno dei vicini di casa di un tempo che negli anni avevano traslocato e alcuni suoi anziani conoscenti e compagni di scuola vennero anche da lontano per l’ultimo saluto e per porgermi le condoglianze e le loro memorie di lei. Disposi che venisse cremata e portai come me le sue ceneri a San Francisco. Sahan fu comprensivo e non mosse la minima obiezione al conservare l’urna in casa finché non fossi stato pronto per lasciarla andare.

Ciò non accadde fino a che non arrivò la primavera. In quei giorni – periodo del suo compleanno, anche – diventai un poco irrequieto e Sahan si accorse che avevo ricominciato a sedermi anche per periodi lunghi di tempo sul letto della mia camera, davanti all’urna della nonna.

«Raim, posso parlarti un secondo?»

Mi trovavo proprio lì, seduto davanti allo scaffale con l’urna della nonna, quando si affacciò alla porta e me lo disse. Aspettavo quel momento ma lo temevo: ero convinto che si fosse stancato di tenere un vaso di ceneri umane nella nostra camera da letto e che volesse dirmi che dovevo decidere che cosa farne. Sahan entrò nella stanza e sedette accanto a me sul letto.

«Non ci girerò intorno… voglio tornare in Francia.»

La mia vita e i miei drammi mi avevano fagocitato negli ultimi mesi e me ne accorsi solo allora, a quelle parole. Non mi ero più preoccupato della proposta di Annette, non avevo dato il minimo peso al lieve rimuginare di Sahan perso com’ero nelle mie nuvole. Realizzato questo corsi immediatamente allo scenario peggiore, cioè che intendesse dire che se ne tornava là per sempre e senza di me.

«Co… come?»

«È da un po’ che ci sto pensando… ma Ethel stava male, tu eri molto preoccupato, e poi… ho solo pensato che avessi bisogno di tempo per riprenderti prima di parlarne.»

«Vuoi… tornare a casa?»

«Io credo di aver capito, in parte, i motivi di mio padre… e anche i tuoi.»

Quello che mi diceva non si incastrava con i preconcetti che avevo, e invece di fare domande mi accanivo come una scimmia testarda a cercare di farli combaciare.

«La serenità di cui parlavi… penso che sia stato lo stesso desiderio perseguito da mio padre quando smise di viaggiare e si stabilì a Parigi, per mettere radici… credo avesse rivisto le sue priorità, e… l’ho fatto anche io. Dopo mesi la mia idea non è cambiata, quindi sono convinto della mia scelta.»

Scese un silenzio pesante. Io feci vagare lo sguardo dall’urna della nonna alla faccia di Sahan, che attendeva che io dicessi qualcosa.

«Vuoi… lasciarmi così? Senza neanche…»

«Lasciarti? Chi ha parlato di lasciarti?» domandò brusco Sahan, accigliandosi. «Ho detto che voglio tornare in Francia, può darsi che lasci il lavoro al Parlour, per adesso. È che… anche io ho dei nonni, sai… in Provenza, dove stavo da bambino. Da quando Ethel ha iniziato a stare male ho pensato di tornare per andare a trovarli… stare un po’ con loro. Non li vedo da tanti anni.»

Mi resi conto di aver smesso di respirare solo quando, a quel punto, ricominciai a farlo. Sahan mi fece un sorriso e mi accarezzò la schiena.

«Che ne dici di accompagnarmi? Puoi anche tornare presto, se non vuoi prendere ferie troppo lunghe… capisco che il lavoro qui ti piaccia, quindi non ti chiedo di trasferirti con me» mi fece, e guardò l’urna di Ethel. «Solo, pensavo che… già che volevo andare, potevamo portare Ethel con noi… nel Mediterraneo.»

Alzai anche io lo sguardo sull’urna e ricordai i suoi nostalgici ricordi delle vacanze al mare in Italia. Molti dei suoi vecchi amici giunti per il funerale erano andati insieme a lei e ricordavano quei giorni divertenti… e allora decisi. Acconsentii ad accompagnarlo, e con molto riguardo Sahan decise di sua iniziativa di organizzare la partenza affinché il nostro arrivo a Nizza coincidesse con il compleanno della nonna, in modo da lasciarla libera quello stesso giorno nelle acque delle quali conservava un così felice ricordo.

 

*

 

Così andò, ma fu piuttosto difficile per me vuotare quell’urna quando la barca fu abbastanza lontana da far apparire la riva una strisciolina chiara in lontananza. Non credevo di essere un uomo tanto emotivo. Non avevo pianto per mio padre, neanche per mia madre, ma nell’ultimo anno della mia vita l’inverno era scivolato via dal mio animo, lasciandomi più caldo e più fragile di com’ero prima. Sahan mi rimase vicino passandomi la mano sulla schiena mentre la barca faceva un largo giro per tornare verso il molo, e quando fummo lì lì per attraccare mi asciugai gli occhi con la manica. Per il naso potevo sempre dare la colpa all’aria salmastra.

«Nous voilà» annunciò il nostro capitano quando accostò alla banchina.

«Merci beaucoup, Guyonne» gli disse in un sussurro Sahan, stringendogli una mano fra le sue con affetto. «Que Dieu te bénisse

Il vecchio marinaio rispose qualcosa che non riuscii a sentire e Sahan scese dalla barca raggiungendomi. Sorrideva in modo terribilmente dolce, se non fossi stato tanto scosso lo avrei baciato lì anche con tutte quelle persone che andavano su e giù per il molo e la spiaggia.

«Lo conosci quel marinaio?» gli chiesi, prima che intavolasse qualche altra conversazione.

«Sì, fa il pescatore da quando ero bambino… mi ha portato tante volte sulla barca a pescare con lui. Mi sa che era segretamente innamorato di mia madre, a quell’epoca… non me ne accorsi subito, però…»

Passeggiammo lungo la spiaggia in direzione della casa dei suoi nonni, qualche chilometro più giù, mentre lui raccontava di qualche episodio che – fui d’accordo con lui – sembrava suggerire che Lambert Guyonne avesse un interesse romantico per sua madre. Fui grato di questo curioso intreccio che aveva favorito un epilogo felice per mia nonna e che, speravo, avrebbe dato anche a me un po’ di pace interiore.

Non avevo molta voglia di parlare e fu Sahan a farlo, raccontandomi molte memorie infantili di quelle spiagge non toccate dal turismo massivo. A un certo punto si fermò, lo sguardo perso in lontananza ma non verso il mare. Mi girai per notare un piccolo edificio con una larga e dolce scalinata costruito su un terrapieno di mattoni che lo rialzava di una decina di metri rispetto alla spiaggia sottostante. L’edificio aveva bisogno di essere ridipinto e le piante erano secche e incolte; il posto doveva essere abbandonato da qualche tempo.

«C’era un ristorante, lì» mi disse Sahan, con aria vagamente triste. «Era il nostro preferito… in realtà, venne costruito dai Micheaux, poi venne venduto quando si spostarono nel cuore della città di Nizza. Mamma adorava mangiare lì quando papà era in viaggio, diceva che le ricordava la sua cucina… ed era vero. All’epoca papà era molto più semplice quando cucinava.»

«Sembra proprio che il tempo non risparmi niente.»

«Sì… sembra proprio così.»

Dopo quella scoperta Sahan tacque per un po’ e proseguimmo in silenzio tenendoci per mano, senza fare caso se le persone che incrociavamo lo notavano oppure no. La spiaggia era bella liscia, il mare era quasi piatto, c’era poca brezza e faceva già caldo. Il cielo stava passando ai colori del tramonto mentre il sole scendeva, ma era ancora abbastanza intenso da accecare.

Era una giornata perfetta. Ero per la prima volta fuori dagli Stati Uniti, ero in Francia, in una delle zone d’Europa più gettonate da chi aveva soldi per andare dove voleva, ero lì con il mio uomo e l’unica cosa a cui riuscivamo a pensare erano esequie e ristoranti chiusi da chissà quanto.

“Ma che diavolo stiamo facendo?” mi trovai a pensare.

Mi fermai di botto e improvvisamente il rumore delle onde e il lamento di gabbiani arrivarono alle mie orecchie come le avessi stappate; sentivo l’odore dell’acqua del mare, vedevo i colori del cielo come avessi acceso una tv ad alta definizione. Questa volta ripensando all’ultima visita alla nonna mi venne da sorridere.

«… Raim?»

«Devo fare una cosa!»

Posai l’urna vuota sulla sabbia vicino a una striscia di conchiglie chiare e mentre ero chinato slacciai le scarpe e le sfilai. Mi accorsi del cuore che batteva, dell’aria che respiravo, dei capelli mossi dal vento e in preda a una specie di frenesia mi spogliai in un attimo. Completamente.

«Raim! Che stai… ma sei pazzo?!»

Mi urlò qualche altra cosa, ma non la sentii perché ero già arrivato all’acqua e mi ci ero già tuffato dentro. Lasciai uscire bolle dalla bocca e con quelle un sacco di sensazioni opprimenti legate a troppo tempo prima, e solo dopo aver dato una bella guardata al fondale mi decisi a emergere. L’acqua era molto più fredda rispetto a come sarebbe stata in piena estate, ma più calda di quella di San Francisco.

«Raim! Ma che fai?!»

«Faccio il bagno nudo nel Mediterraneo!» gli urlai di rimando, trionfante come avessi vinto le Olimpiadi. «Un giorno lo racconterò ai posteri, sai!»

«Oh, mon Dieu» lo sentii commentare mentre raccoglieva il mio giacchetto in denim. «C’est… il est un Américain!»

Il fatto che si scusasse coi passanti giustificandomi come “americano” mi fece ridere e feci qualche passo verso la riva, ma Sahan non si calmò affatto, anzi.

«Ma che fai, se esci così…! Resta fermo lì, okay, aspetta che non ci sia nessuno troppo vicino!»

«Rilassati, Sahan.»

«Guarda che in Francia è un reato stare nudi in pubblico! Cosa ti ha fatto pensare che non lo fosse?!»

Notando che l’uomo perplesso aveva tirato dritto e i successivi passeggiatori erano ancora distanti da noi mi si fece incontro fin dove le onde gli lambivano le scarpe, tenendo la mia giacca aperta.

«Su, vieni fuori di lì in fretta e copriti con questo…»

Andai verso di lui fino oltre il punto in cui l’acqua nascondeva la mia nudità, mi fermai solo quando fui a un metro da lui. Mi si avvicinò – doveva aver pensato che coprirmi agli occhi dei passanti valesse un paio di calzini bagnati – ma quando lo fece lo agguantai. Cominciò a darmi ordini e rivolgermi suppliche, metà in inglese e metà in francese, quando lo sollevai di peso; mi voltai per fare qualche altro passo in acqua fino a un’altezza sicura e lo buttai. Ancora oggi rido a pensarci, perché non capivo come un ragazzo così leggero potesse aver fatto più spruzzi di un capodoglio.

Stavo ancora ridendo quando Sahan riemerse boccheggiando e tossendo, ma non abbastanza provato da non prendermi a insulti in francese.

«Smettila di ridere, deficiente

Con i vestiti inzuppati si muoveva come un pinguino in una palude e non sarei riuscito a smettere di ridere neanche se avessi voluto. E dopo mesi di umore mai del tutto positivo volevo ridere fino a sentirmi male.

«Che disastro» piagnucolò, strizzandosi la camicia mestamente. «La mia camicia nuova… le mie scarpe nuove! Raim, smettila di ridere, bon sang! Che t’è preso all’improvviso, insomma?!»

«Un giorno racconterai anche tu che hai fatto il bagno nel Mediterraneo!»

«Ho fatto il bagno nel Mediterraneo migliaia di volte, maudit idiot, io sono cresciuto qui!»

«Oh, è vero… e anche nudo?»

«Certo che sì, quando ero bambino!»

«Beh, ora racconterai di averlo fatto anche completamente vestito!»

L’epiteto che mi rivolse dopo non lo riporterò, fu il peggiore che gli sentii mai dire a me e a chiunque altro. Sul momento comunque risi come un matto, e non persi il sorriso per tutto il resto della serata anche se lui continuava a guardarmi torvo come un gatto indispettito.

 

*

 

Restai a Nizza per due settimane e tornai senza Sahan, che fece ritorno senza preavviso una settimana più tardi. Mi parlò di un progetto che aveva in mente e che aveva maturato durante il suo soggiorno in Francia e mi domandò se volessi farne parte. A essere del tutto onesti non esitai ad acconsentire e come risultato il giorno seguente diedi il preavviso a chef Jaeckel per il mio licenziamento.

La preparazione fu più lunga del preventivato, perché Sahan fece spedire gran parte delle nostre cose in Francia, io tornai alla casa di nonna Ethel – che dopo la sua morte passò a me – a fare una cernita di mobilio e oggetti. Qualcosa lo spedimmo, alcune cose le regalai a conoscenti e amici, vestiti e altre utilità le diedi in beneficenza alla parrocchia di quartiere e qualche scatola e oggetto che ritenevo potesse servire in futuro la misi in un deposito affittato. Sahan vendette la sua macchina – spedirla e sdoganarla gli sarebbe costato più del suo valore – e io lasciai la mia, come pegno di riconoscenza, alla nipote più giovane dei Dallara. Di per sé non valeva niente, ma per una diciassettenne un’automobile che va in moto è un dono inestimabile.

L’affare che richiese più tempo fu vendere la mia casa, ma a metà estate andò in porto anche quella transazione. Eravamo pronti a disdire l’affitto, avevamo sistemato tutti i documenti necessari, chiesto ogni permesso e venduto ogni proprietà che avessimo sul territorio degli Stati Uniti: il ventisei luglio, dopo aver passato i nostri ultimi giorni americani con i nostri amici di San Francisco e di Las Vegas, partimmo per la Francia per non voltarci più indietro.

Non avevo dei reali dubbi sul passo che stavamo per fare. Io amavo Sahan e lo sapevo, lui amava me. Non avevo più una famiglia in vita e mia nonna in verità era nel mare della Costa Azzurra, e se lui sentiva di essere felice più vicino alla sua famiglia io non avevo reali motivi di provare a trattenerlo.

Devo essere sincero: quando mi propose di aprire un ristorante modesto, qualcosa che potesse essere mandato avanti da noi due e qualche aiuto extra, immaginai che avesse messo il pensiero sul rilevare il vecchio ristorante sul mare che era stato dei suoi bisnonni e quando mi propose di andare a vedere subito il locale per cui aveva trattato mi aspettai di vedere un paesaggio familiare. Il borgo medievale che si inerpicava sulle colline e gli sconfinati campi di lavanda a perdita d’occhio mi colsero di sorpresa, perché nel viaggio precedente non mi accennò al fatto di possedere una casa – appartenuta a degli zii ora trasferiti in Bretagna – nella piccola cittadina di Roassy, in Provenza.

«Che ne pensi?»

Distolsi lo sguardo da quell’immensa distesa viola per guardarlo. L’aria era pervasa del profumo della lavanda, come la nostra casa a San Francisco e la sua a Las Vegas, sempre per opera sua.

«Sa di casa» commentai quindi.

«Sono felice di sentirtelo dire.»

Percorremmo un altro pezzo di strada prima di addentrarci nella cittadina. Il borgo centrale era molto antico, estremamente scenografico, e sembrava un luogo in cui il tempo scorre più lentamente. Non mi dispiaceva l’idea.

Sahan parcheggiò prima di quanto pensassi e una volta sceso mi fece strada lungo una via esclusivamente pedonale, poi dentro un arco di pietra che portava a un piccolo cortiletto trascurato. Allora vidi le vetrate e la porta centrale e capii che era il locale.

«Wow.»

«Lo so, è malridotto… per questo costava poco» fece lui in tono di scuse. «Ma dal lato positivo, possiamo sistemarcelo come ci piace e come ci è più comodo. La zona cucina è bella ampia, possiamo sistemarla liberamente… e questo cortile non è un amore? Sarebbe un ottimo spazio per delle piccole cerimonie o delle feste.»

«Sì, è vero» ne convenni. «In estate è uno spazio sfruttabile, ma se non vogliamo rimetterci troppo dovremmo farci venire in mente qualcosa per l’inverno. Dopotutto dobbiamo recuperare le spese di ristrutturazione.»

Sahan parve rallegrato dal mio coinvolgimento e si mise a caccia della chiave della porta nell’ampio anello che gli aveva dato il custode. Gli domandai del parcheggio e scoprii che la strada andava dritta verso una piazza in cui si poteva parcheggiare e che in un giorno fisso ospitava un mercato cittadino, il che prometteva visibilità se avessimo piazzato bene delle insegne. Il locale all’interno era messo meglio dell’esterno, non c’erano molti lavori da fare se non una robusta pulita e l’installazione della cucina.

«Hai già un’idea, Sahan?»

«Riguardo che cosa?»

Usai un vecchio strofinaccio per aprire un oblò nella sporcizia del vetro. Guardavo uno stanzone lurido e un cortile dimesso, ma il mio cuore era sereno. Mi sentivo felice e in pace, lontano dal senso di colpa che mi aveva tenuto schiacciato dentro una vita regolata al minimo.

«Il tipo di ristorante che vuoi… come vuoi arredarlo… e il nome.»

«Vorrei un locale di cucina semplice… magari senza fossilizzarci sulla cucina francese o americana, ma piatti che invogliano a sedersi e mangiare… un ristorante che la gente possa voler frequentare anche quando stacca tardi.»

«Come il Posticino.»

«Sì… sì, l’idea sarebbe questa… non sono a caccia di stelle, di cappelli e di forchette delle grandi guide» mi confessò lui, con un sospiro profondo. «È per me quanto per te… perché ci piace vivere insieme, lavorare insieme… e…»

Gli sorrisi prendendogli la mano e lo trascinai in un ballo silenzioso. Avevo capito che cosa voleva e a cosa pensava nel nostro futuro, e mi piaceva la sua visione.

«Ho io un nome.»

«Dimmelo!»

Mi chinai a sussurrarglielo all’orecchio e mi accorsi immediatamente di come ne fu emozionato.

«Davvero?»

«Perché no?»

«Sicuro che lo trovi appropriato?»

«Mi fa pensare a te… quindi l’amo anch’io.»

Mi strinse forte come raramente aveva fatto prima e ci mise qualche minuto a riprendersi dal felice shock, poi riuscì a dirmi che era d’accordo. E così decidemmo.

L’insegna con il nome del ristorante venne fissata per ultima, quando tutto ciò che restava da fare era riempire la dispensa e apparecchiare i tavolini, e caso volle che inaugurammo nell’anniversario della morte della nonna. Sembrava che mi stesse assistendo dall’altra parte, perché ogni cosa bella che ci succedeva cadeva in qualche giorno noto o in un modo che mi faceva pensare a lei.

«Ti senti pronto?»

Sahan mi lisciò l’uniforme – grigio chiaro con una fascia lilla sulle spalle – con un misto di emozione e orgoglio che lo rendeva adorabile. Aveva assunto tre ragazzi di belle speranze, tutti ex allievi della scuola di cucina, due camerieri e un sessantenne di ottima esperienza come barista della zona, c’era la coda di clienti in attesa di entrare fuori dal cancellino che avevamo installato nell’arco di pietra e nella cucina si sentivano odori meravigliosi. Lui era pronto, il ristorante era pronto, e anche io.

«Sono tranquillo» gli risposi, e gli rubai un bacio fugace. «È tutto come lo sognavi?»

«Anche meglio di come lo sognavo.»

Aprimmo il cancello e le porte alle sette del ventuno novembre. Con tutti i clienti che arrivarono per l’inaugurazione non riuscimmo a chiudere prima dell’una; finimmo esausti ma felici, così tanto che Sahan non smise di sorridere neanche dopo essersi addormentato. Per mesi andò avanti così, replicammo pienoni come quello ogni week end e lavorammo più di quanto avessimo sperato mentre mettevamo a punto complesse strategie di marketing preventivo “se fosse andata male”.

Non eravamo a caccia di gloria ma quella ci seguì fino a quel piccolo borgo, sotto forma di una eccellente recensione di un food blogger che viaggiava per tutte le piccole città d’Europa. Prima che arrivasse la Pasqua il nostro Lavande era il ristorante di nuova apertura più famoso di Francia.

 

*

 

Quell’anno la Pasqua veniva tardi, nella seconda metà di aprile, ed era alle porte. Io e Sahan stavamo decidendo il menu da offrire per la festività in quei giorni, ci restavano dubbi sui dessert. Il servizio era appena terminato con l’ultimo tavolo che aveva appena pagato il conto e stavamo ripulendo la cucina quando tornai sull’argomento.

«Che ne pensi se facessimo un dolce particolare? Stavo pensando alle uova colorate che fanno i bambini…»

«Uova?»

«Sai, quando dipingono i gusci e fanno la caccia al tesoro… pensi sia possibile fare un dolce dentro un… guscio, che sembra un uovo che può essere aperto?»

I ragazzi che lavoravano con noi allora – Stephanie, Lauren e Raphael, si chiamavano – si fecero attenti. Erano sempre molto interessati e incuriositi dalle nostre discussioni sui menu e sulle ricette e il fatto che io continuassi a rivolgermi a Sahan in inglese li costringeva a concentrarsi un po’ di più per seguirmi.

«Tipo la bolla di chef Jaeckel?»

«Mh, più o meno» feci senza troppa convinzione. «L’idea è quella, ma la bolla sarebbe più bella se non si vedesse dentro…»

«Basta farla più opaca… penso di poterci provare, ma non garantisco» acconsentì Sahan mentre chiudeva la lavastoviglie. «Il laboratorio della chef era più attrezzato di noi per certe cose… ma forse potrei ricoprire una bolla sottile con una glassa reale colorata…»

Prima che potessi dare il mio benestare a quel tentativo il nostro cameriere più anziano – si chiamava Aurélien, come il nipote di Durand – ci raggiunse in cucina e come sempre bussò con le nocche sullo stipite.

«Scusatemi, chef… c’è un cliente che rifiuta di andarsene se lo chef Micheaux non parlerà prima con lui.»

L’espressione di Sahan si indurì appena.

«E gli hai detto che non c’è una legge che mi obbliga a farlo, mentre ce n’è una che gli dice di uscire dal mio locale quando lo invito a farlo?»

«Per quanto abbia insistito, chef, non vuole darmi retta… vuole che chiami la gendarmeria?»

Sahan buttò lo strofinaccio sul ripiano, indispettito. Dato che ero molto più tranquillo di lui – e anche meglio piazzato – gli dissi che sarei andato io a dirgli di uscire e così feci. Il cliente era seduto da solo a uno dei tavolini da due, aveva un cappello basco, occhiali da vista, una barbetta corta che ricordava la mia – anche se da qualche tempo non la portavo più – e un abito di panno grigio scuro che gli conferiva l’aria di un professore austero.

«Signore, farebbe meglio a tornare a casa e…»

Gli occhi celesti che aveva mi trafissero con una tale intensità che mi mancò la voce per finire la frase. L’uomo si sfilò l’orologio che portava al polso e me lo consegnò.

«Portalo allo chef Micheaux. Io aspetterò qui.»

Confuso e perplesso tornai sui miei passi in cucina senza replicare e studiai l’orologio. In verità non mi sembrava niente di speciale, non era un modello costoso e aveva l’aria di essere parecchio frusto anche se il cinturino e il vetro frontale erano stati sostituiti di recente. Varcai la porta della cucina nel momento in cui voltai la cassa e vidi l’incisione.

À papa, avec beaucoup d'amour. A. M. S.

«Allora, è andato?»

Alzai gli occhi su Sahan e la sua espressione preoccupata mi diede l’idea generale di come potevo sembrare sconvolto. Deglutii e gli allungai l’orologio.

«Credo… che tu debba uscire a incontrarlo, Sahan.»

Da preoccupato passò a letteralmente terrorizzato quando prese l’orologio e lo riconobbe; senza una parola andò a sorseggiare un po’ d’acqua e respirò profondamente prima di lasciare la cucina. Intuendo un grosso risultato per quel colloquio spedii a casa i cuochi e i camerieri quasi subito, rimandando in via eccezionale le pulizie alla mattina seguente. Purtroppo Arnaud Micheaux parlava a voce troppo bassa e troppo velocemente perché riuscissi a capire più di qualche parola e solo sentendo parlare Sahan mi feci un’idea di cosa gli stesse dicendo o chiedendo. In seguito fu lui a colmare i miei vuoti raccontandomi la loro conversazione.

«Dunque, questo è il tuo ristorante.»

«Sì… non è un ristorante di classe come il tuo. Non è così elegante.»

«È curato, per essere un bistro di provincia.»

«Grazie.»

Non sono certo che il suo volesse essere un complimento, dopotutto.

«Lavande… un nome un po’ insolito per un ristorante. La lavanda ricorda più saponi e profumi che la cucina.»

«L’abbiamo scelto perché ci rappresenta… sai… a Las Vegas, io e Raim…»

«Chi è Raim?»

Mi sentii chiamato in causa e mi assicurai di avere l’uniforme pulita, nel caso mi chiamasse per formali presentazioni. Quella sera però Sahan aveva bisogno di confrontarsi con suo padre e il suo mentore senza nessun altro nel mezzo e una volta capito l’accettai senza risentimento.

«Il cuoco a cui hai dato questo» fece, e immaginai gli avesse restituito l’orologio. «È il mio socio e il mio fidanzato. Viviamo insieme nella vecchia casa di zio Louis, non l’hai saputo?»

«Non ho sentito Louis ultimamente.»

Cadde un lungo silenzio e sentii una sedia leggermente trascinata. Atterrito mi chiesi se la notizia della relazione tra me e suo figlio non l’avesse indisposto e se ne stesse andando, ma sbirciando dal vetro della porta scoprii che era stato Sahan a sedersi con suo padre.

«Sai… ho incontrato Raim a Las Vegas, al ristorante di Durand.»

«Sei andato davvero da Dioraine?»

Per la prima volta la sua voce mostrò qualche emozione, in questo caso lo stupore.

«Sì… e Raim lavorava per lui… faceva lo sguattero!»

«Mi prendi in giro, Sahan?»

«No, affatto… è stata un’avventura meravigliosa. Hai tempo per ascoltarla? Apro una bottiglia se ti va.»

Non sentii risposte ma Arnaud aveva annuito, infatti sentii Sahan andare al mobile cantina, il tintinnare di una bottiglia e di calici, lo schiocco appena udibile del tappo. Sapevo che gli avrebbe raccontato una storia che conoscevo e sorrisi, mettendomi a fare le pulizie lasciate a metà dai ragazzi. Sopra i rumori che facevo e dell’acqua corrente sentivo le voci di Sahan e di suo padre e sapevo che era felice: amava suo padre e sentivo che era contento. Era come se la sua felicità arrivasse fino a me, eravamo anime comunicanti.

Dopo una cronaca della nostra sfida, Arnaud parlò a lungo ma riuscii a cogliere poco o nulla. Quella notte Sahan mi avrebbe riferito la storia che io avevo sentito dalla bocca di Durand sul loro malinteso giovanile e in quell’occasione, ammetto, finsi di cadere dalle nuvole. Non avevo mai accennato al vero contenuto della nostra conversazione e pensai fosse più facile lasciare le cose come stavano.

Arnaud Micheaux, forse sciolto dal vino o dalla rinnovata confidenza col figlio, iniziava a parlare a voce più alta e lo capivo un po’ di più se non si lanciava in lunghi periodi sintattici. Lo sentii quindi chiedere che cosa ci avesse portati così lontani da Las Vegas e San Francisco e nella risposta che Sahan gli diede sentii il nome di nonna Ethel. Senza badare a loro aprii una delle porte a spinta della cucina e sorrisi all’orologio d’antiquariato che avevamo appeso nella sala da pranzo del ristorante: era uno degli oggetti della nonna che avevo tenuto come suo ricordo. Neanche a farlo di proposito Sahan si voltò a indicarlo al padre e i nostri sguardi si incontrarono. Eravamo veramente anime risonanti.

 

*

 

Arnaud Micheaux non diede una reale spiegazione del perché fosse venuto a cena a Roassy dalla lontana Parigi, ma era evidente sia a me che a Sahan che era venuto per rivederlo e per sapere che cosa l’avesse riportato in patria. Non rimase a lungo quella volta, ma tornò dopo circa un mese e quella volta restò in città per tre giorni. Fu una fortuna che il mio francese migliorasse a vista d’occhio parlando con tutte quelle persone madrelingua, perché a maggio io e Arnaud riuscivamo a parlarci senza troppi problemi, e per fortuna lui era stato abbastanza internazionale da potermi tradurre in inglese quello che faticavo a capire e da comprendere quello che non sapevo dire nella sua lingua. Non era propriamente un uomo simpatico, ma era cortese e aveva sempre buoni consigli da dare. Oltre alla cucina era molto esperto di giardinaggio e di tè asiatici.

Il Lavande andava a gonfie vele, tanto che riuscimmo a pagare un impianto di spillatura per il nostro bar, rendendolo molto più appetibile per chi usciva dal lavoro tardi e cenava velocemente prima di rientrare a casa, esattamente come il Posticino che avremmo voluto replicare a modo nostro. La casa che abitavamo insieme era un piccolo sogno con una vista spettacolare sui campi di lavanda, eravamo benvoluti dai vicini e in genere dai concittadini, eravamo soddisfatti sul lavoro e felici sotto il nostro tetto, ed ero anche accettato dal padre di Sahan, dai suoi nonni e dai suoi fratelli. Sentivo Marco e il suo staff ogni settimana e in giugno adottammo una cagnolina, Lucette, che divenne la grande gioia personale di Sahan e la mascotte del nostro bistro. Andava tutto così bene che sembrava uno splendido sogno e a volte, in quei momenti in cui mi alzavo presto al mattino e guardavo l’orizzonte schiarire, mi domandavo con paura quando ci saremmo svegliati.

Non ci svegliammo mai. Non che non ci siano stati brutti momenti: abbiamo avuto problemi con dei fornitori, recensioni negative e serate andate storte; un anno la salute di Lucette ci fece tribolare molto prima che superasse la sua malattia con successo. Ci furono litigi tra Arnaud e Majid che spaccarono in due la famiglia di Sahan per qualche tempo e che non si sono mai saldati del tutto come una brutta frattura; abbiamo detto addio, uno alla volta, a tutti i nostri primi collaboratori. Tra le grandi sfide ci fu anche l’epidemia di Covid, e quella volta Sahan credette davvero che il nostro sogno sarebbe finito… ma non finì. Non è mai finito.

Il Lavande esiste ancora, è ancora nostro e alla parete è ancora appeso l’orologio di nonna Ethel perfettamente funzionante. Il nostro posto di libertà, dove poter cucinare come vogliamo, è ancora aperto, è ancora frequentato e abbiamo clienti che quando entrarono qui la prima volta festeggiavano la maggiore età e ora vengono a festeggiare il compleanno dei loro figli.

 

 

Mi ero messo a scrivere la storia mia e di Sahan, e di come aprimmo il Lavande, per ingannare queste serate senza di lui. Ero convinto che sarebbe tornato molto prima che la finissi, ma il suo viaggio in India si è allungato ancora e manca ancora qualche giorno al suo ritorno. La sua sete di esploratore non si è mai davvero spenta ed è ormai una tradizione annuale per lui partire con suo padre alla scoperta della gastronomia di qualche paese lontano. Lo scorso anno siamo stati in Giappone insieme, ma quando è con me deve adeguarsi alla mia pigrizia e siamo finiti a passare giorni immersi nelle terme bollenti in Hokkaido. Potrei continuare la storia raccontando tutti i viaggi che abbiamo fatto, o raccontando dei più assurdi clienti che abbiamo avuto… potrei raccontare di quando Durand venne a cena da noi e di quello che ci raccontò della vecchia brigata, ma quelli richiederebbero più dei pochi giorni che mancano.

Probabilmente è meglio mettermi a studiare le spezie indiane. Ogni volta che Sahan torna dai suoi viaggi introduce sempre nuovi speciali nel menu e questa volta non farà eccezione. Se non voglio che mi faccia sostituire ai fornelli da nostra figlia di nove anni è meglio che mi tenga aggiornato…

_______


 Alla fine anche questo piccolo viaggio è giunto alla fine. A causa di problemi tecnici al pc non ho potuto rispettare la data per il capitolo finale e per questo mi scuso; per chi l'aspettava sabato è stato deludente.

Lavande è una storia strana. È fuori dal genere che mi è più congeniale, molto più breve delle mie trame normali e priva dei picchi emotivi e drammatici delle mie narrazioni.
Lavande è una storia strana perché con questa piccola storia dolce volevo scappare. Scappare dalle trame complesse da intrecciare, dai molti personaggi da sviluppare, dai grovigli di psicologia ed emozioni da districare. Lavande doveva essere il mio rifugio sereno... e lo è stato per qualche settimana. 

Sahan e Raim resteranno con me, pur essendoci stati per così poco tempo, come affezionati amici di un'estate. Posso solo augurarmi che un pezzetto di loro resti anche con voi e riemerga un ricordo quando vedrete dei fiori di lavanda.

Grazie.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3973543