Eterna condanna

di wolfymozart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


L’aria era frizzante quella mattina di fine maggio, il cielo terso preannunciava una giornata soleggiata e calda, quasi estiva, sul selciato risuonava il rumore delle ruote dei carretti e il vociare festoso dei fruttivendoli che riprendevano il lavoro. Sembrava l’alba di una qualsiasi giornata primaverile per le vie di Parigi, come se i venti di rivolta che soffiavano dalla Vandea, le nubi minacciosi che si addensavano sulla Convenzione, i fulmini e le saette minacciati dai sanculotti fossero lontani anni luce da quello scampolo di strada. Il dottor Clermont serrò l’uscio e inspirò con soddisfazione l’aria fresca del mattino e si avviò, con in mano la borsa dei ferri, verso il caffè, abituale ritrovo degli amici del quartiere di Saint-André. Alto e smilzo, dai capelli bruni e  dall’andatura elegante, il medico riceva al suo passaggio il saluto riverente degli ambulanti ai lati della strada, delle massaie affacciate alle finestre, dei giovani studenti che si avvicendavano con passo rapido lungo il suo percorso: era molto noto nel quartiere e molto stimato, un uomo di scienza, un cittadino esemplare, un deputato della Convenzione a cui andava il rispetto e l’ammirazione di tanti figli del popolo che spesso vedevano in lui un salvatore in grado di strapparli alla malattia senza chiedere nulla in cambio, in nome del giuramento che aveva prestato. L’uomo procedeva con passo tranquillo e rispondeva col sorriso ai saluti e ai numerosi “State bene, cittadino?” che riceveva ad ogni crocicchio. Quei popolani erano pronti a farsi in quattro per fargli sentire la loro riconoscenza: chi poteva gli faceva recapitare primizie dalla campagna, ortaggi, frutta, latte, pane fresco, addirittura selvaggina; altri gli si offrivano per commissioni o servizi; altri ancora, privi di mezzi, si limitavano ad ossequiarlo e riverirlo, gesti che, generalmente, lo infastidivano per il malcelato servilismo che nascondevano. Aveva sempre creduto nel principio di uguaglianza, il dottor Clermont, e ancor di più in quello di fratellanza: aveva divorato i testi degli illuministi, bevendone avidamente gli ideali, le teorie, le idee. Voltaire, Montesquieu, ma ancor più il ginevrino Rousseau, costituivano il suo personale Pantheon laico, a cui aveva consacrato la vita, oltre che la professione. Da un paio d’anni a quella parte si era dato alla politica, traducendo in azione quegli stessi ideali che avevano ispirato la sua missione di medico e avevano infiammato la sua giovinezza.
-Ehi, mio buon Jacques, che si dice stamane? – un uomo piuttosto in carne dall’aspetto gioviale e dai modi affabili si alzò dal tavolino del caffè e gli si fece incontro sorridente. Clermont gli rispose con una calorosa pacca sulla spalla.
- Marchand, amico mio. Come stai? –
- Oh, io sto benone, ma il popolo non pare, anzi pare che abbia il diavolo in corpo ultimamente.- constatò con un rimprovero bonario Marchand, invitando con un gesto l’amico a sedersi insieme a lui.
- Già. Questi tempi non lasciano presagire nulla di buono, temo nuove ribellioni, gesti inconsulti. – convenne Clermont, accomodandosi e appoggiando la borsa a terra.
-Amici miei! Fate posto anche a noi. – esclamò un giovane fulvo dai tratti signorili e dallo sguardo pungente che si avvicinava accompagnato da un uomo taciturno, tarchiato, dall’aria malinconica.
- Laroux, Bonnet, prego, sedetevi con noi. – rispose prontamente Marchand scostando le sedie per far posto ai nuovi arrivati.
Dopo i convenevoli, i discorsi ricaddero inevitabilmente sui fatti di quei giorni: il calmiere sui prezzi richiesto dai sanculotti, la Vandea, le decisioni della Convenzione. Clermont disse la sua, mentre gli amici ascoltavano con attenzione e deferenza il deputato della Convenzione. Ad un certo punto un giovanissimo strillone si avvicinò offrendo loro un foglio di notizie che subito Marchand acquistò. La discussione riprese più accesa di prima, vennero deplorati quei bigotti vandeani che tramavano contro la rivoluzione, si inasprirono le critiche verso Marat, che pure era stato assolto dal Tribunale un mese prima, si vociferava a voce bassa delle intransigenze del Comitato di salute pubblica. Clermont assentiva, ma senza sbilanciarsi o dare giudizi recisi. Da qualche tempo la sua fede rivoluzionaria vacillava, avvertiva foschi presagi addensarsi sulla Convenzione di cui faceva parte, temeva i numerosi nemici dentro e fuori la Francia, temeva più di tutto il fanatismo dei montagnardi.
Tutt’un tratto dalla strada apparve una donna dalla sagoma piuttosto appesantita, una domestica da quanto si poteva intuire dalla divisa, che, scarmigliata e trafelata, si avvicinò con foga al tavolo dove i quattro stavano serenamente conversando. Marchand per primo si girò di scatto verso di lei e, dopo averla squadrata con sguardo incuriosito, si rivolse agli amici: - Una domestica di uno degli ultimi rimasti in città. Chissà che vuole. – insinuò con un sorriso ironico, sottintendo il suo disprezzo per la famiglia nobile presso cui sembrava prestare servizio quella donna.
-Chi tra di voi è il dottor Clermont? Mi hanno detto che l’avrei trovato qui. – chiese a gran voce, senza preamboli.
Clermont si alzò di scatto: - Chi vi manda? – domandò a bruciapelo, lo sguardo severo e indagatore fisso su di lei.
-Siete voi il dottor Jacques Clermont? – chiese per tutta risposta la donna, con un lieve tremore di impazienza nella voce.
- Per servirvi, cittadina. – le fece eco lui. – Ora vogliate rivelarvi chi vi manda a chiamarmi e per quale motivo. -aggiunse sospettoso. Gli amici si guardarono tra loro perplessi, temendo qualche manovra, qualche insidia.
- Si tratta di un’urgenza. Una bambina, la figlia della mia padrona, sta molto male. Non sapeva a chi rivolgersi, poi io mi sono ricordata di una mia parente di Saint-André e così…-
- Sta bene. – la interruppe il medico. – Se è così, non c’è tempo da perdere. – soggiunse afferrando la borsa di lavoro. – Cari amici, mi duole interrompere la nostra chiacchierata, ma il dovere mi chiama. – si congedò con un goliardico inchino.
- Buon lavoro, Clermont. Non v’è dubbio che tu sia uno dei migliori medici di Parigi, prima ancora che un deputato della Convenzione ligio alla Repubblica. – lo canzonò Bertrand Laroux, sottolineando ironicamente la sua celere risposta alla chiamata di una famiglia nobiliare. Il giovane, che aspirava da tempo ad un incarico pubblico, non poté nascondere la punta di invida che covava nei confronti del deputato, evidenziandone in modo spietato la contraddizione nell’agire. Clermont gli rivolse uno sguardo interrogativo, un poco indispettito.
- Non ascoltarlo, Jacques, Bertrand ama gli scherzi! – tentò di rimediare Marchand, con la sua solita bonomia. – Sono sicuro che quella bambina è in ottime mani, in fede mia! – concluse salutandolo con la mano.
Mentre gli altri restavano seduti a sorseggiare la loro tazza di caffè, Bonnet si alzò e raggiunse silenziosamente l’amico che si stava incamminando accompagnato dalla domestica.
-Jacques! – lo richiamò. – Hai bisogno d’aiuto? Se vuoi ti accompagno. – si offrì Bonnet, temendo che quella chiamata nascondesse un’insidia per l’amico.
- Non ti preoccupare, David. – gli rispose Clermont, accennando alla domestica. – Non c’è motivo di mettere in dubbio il reale motivo di questa chiamata. Non è vero, cittadina? –
La donna, colta di sorpresa da questa domanda che il medico le porgeva con uno sguardo interrogativo che non ammetteva repliche, prese a balbettare a mo’ di scusa. – Vi pare, dottore, vi pare che le possa mentire in un tale frangente? – disse tradendo tutta la sua agitazione e la sua preoccupazione per la padroncina.
David Bonnet restava immobile, guardingo, con le braccia conserte: evidentemente non si fidava della donna, era a conoscenza dei tumulti sul punto di scoppiare e temeva per l’amico, deputato della Convenzione, esposto agli odi della nobiltà e del popolo incarognito.
-Chi vi ha fatto il mio nome? – le domandò nuovamente Clermont.
- Leah, mia cugina, la fornaia di Saint-André. Mi ha detto che vi conosce bene e che siete il miglior medico di Parigi. Sapete, il medico della famiglia, il barone Thoreau, ha lasciato Parigi ormai da tempo, – rispose prontamente la domestica, senza nascondere nulla.
- Leah? Oh sì, troppo benevola nei miei confronti. – ribatté Clermont, con un sorriso di modestia. – Vedi, David? Non c’è motivo di temere. Ti ringrazio, ad ogni modo. –
David si congedò dall’amico e, poco convinto, fece ritorno sui suoi passi.
-Ebbene, dove dimora la vostra padrona?- domandò Clermont, con una certa fretta, mentre si disponeva, con il braccio teso, a fermare un calesse.
- Quartiere Feydeau.- si affrettò a rispondere lei.
Clermont non poté trattenere un’esclamazione di sorpresa: uno dei quartieri nobiliari, uno dei più abbienti. Se lo sarebbe dovuto aspettare.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


 
La scalinata maestosa che gli apparve davanti agli occhi fugò ogni improbabile dubbio circa il rango della famiglia da cui era stato mandato a chiamare in modo così rocambolesco. La domestica lo pregò di attendere nell’atrio ai piedi della scalinata finché non avesse avvisato del suo arrivo la padrona. Clermont si guardò attorno incuriosito: l’atrio dal lucido pavimento a scacchi bianchi e neri era inondato dalla luce del mattino grazie ad ampie vetrate che si aprivano sul giardino interno del palazzo, un giardino di straordinaria bellezza e compostezza, opere certo di un sapiente giardiniere. I fiori colorati ondeggiavano nella brezza primaverile, mentre il sole baciava con grazia l’erba novella e l’acqua zampillava allegra nella grande fontana centrale. Il medico restò incantato alla vista di un simile spettacolo della natura e della perizia umana. Erano anni che non metteva piede in un palazzo nobiliare, la sua vita era trascorsa tra quartieri popolari e abitazioni borghesi, dignitose, anche abbienti, ma che non potevano competere con il lusso e lo sfarzo di certe residenze di duchi e marchesi. La sua attenzione venne richiamata dalla domestica che con fare cerimonioso gli annunciava che la contessa lo attendeva nei suoi appartamenti e la pregava di accompagnarlo al più presto al suo cospetto: la figlia sembrava essersi aggravata.
Senza farselo ripetere, Clermont improntò con passo deciso la scalinata di marmo bianco che immetteva al piano superiore, costringendo la poco agile domestica ad affrettarsi trafelata. Arrivati al piano nobile, un domestico in livrea, con un’espressione alquanto stupita dipinta in viso, si premurò di aprire loro i battenti della porta che immetteva nella grande stanza dove i conti erano soliti ricevere gli ospiti. Enormi ritratti alle pareti, alcune imponenti poltrone, una consolle, un cembalo e altri preziosi arredi sfilarono davanti alla vista di Clermont mentre seguiva la concitata domestica attraverso la stanza.

-Ecco l’appartamento della contessa. – esclamò quasi senza fiato per la corsa alla fine di un lungo e luminoso corridoio che dalla sala dei ricevimenti immetteva agli appartamenti privati dei conti.
La domestica si arrestò per bussare con garbo alla porta afferrando la pesante maniglia dorata. Un’altra domestica, giovane e dall’aria spaurita, accorse ad aprire.
-Oh, Louise, quanto tempo ci hai messo! La contessa è molto in ansia per la contessina Juditte, presto, non perdiamo altro tempo. – li sollecitò la giovane, permettendo loro di entrare.
Dopo aver indicato al medico con gesti concitati la collocazione della stanza della contessina, le domestiche si fecero da parte in attesa di altri ordini da parte della padrona. Clermont si avviò verso la porta da loro indicata e bussò con garbo.
-Louise, vi stiamo aspettando, entrate. – esclamò una voce cortese, appena incrinata da nota d’angoscia che tuttavia non offuscava il garbo con toni imperativi.
- Sono il dottor Clermont. – rispose lui, non osando aprire la porta per discrezione. – Posso entrare, contessa?- domandò educatamente, dissimulando il più possibile l’avversione naturale che provava nei confronti degli aristocratici.
Il silenzio restò sospeso per qualche istante. Clermont, impaziente, stava per abbassare la maniglia quando sentì una nuova domanda a lui diretta.
-Come avete detto che vi chiamate, dottore? – domandò la voce, ora più incerta, quasi rotta.
- Clermont, Jacques Clermont. Ora permettetemi di entrare, contessa. – rispose con una certa impazienza.
Ancora silenzio per lunghi istanti. – Entrate. – si sentì infine rispondere.
Il medico non se lo fece ripetere una seconda volta. La stanza era semibuia, le tende erano tirate per non disturbare il riposo della bambina, accanto al cui letto stava seduta sua madre, la contessa Roqueville de Beaufort. Stava con il capo chino sulla figlia e dunque Clermont ne poté scorgere soltanto i boccoli biondi che le ricadevano sulle spalle.
-Quali sintomi presenta sua figlia? – domandò accostandosi alla piccola che dormiva un sonno convulso.
La contessa non rispose, restò per qualche istante china e silenziosa a contemplare la bambina, poi improvvisamente alzò la testa, con un gesto che parve quasi inconsulto, come se non riuscisse a dominarsi.
Clermont si arrestò, deglutì, trattenne con una presa nervosa il manico della borsa e, come impietrito, si ritrovò a fissare i suoi occhi in quelli azzurri, lucidi di lacrime, di lei. Il respiro gli si arrestò in gola. Quello sguardo muto gli parve avesse in sé un che di sfrontato e di colpevole insieme, un qualcosa che lo obbligasse a fermare i suoi occhi nei suoi per concederle un riconoscimento o un’assoluzione. Lei restò muta, quasi immobile, si limitava a fissarlo, accarezzando con gesto ripetitivo i biondi capelli della figlia. Fu il medico a porre fine al precario equilibrio di quella situazione sospesa.
-Permettetemi di visitarla. – le disse chiedendole con un gesto di scostarsi e fagli posto accanto alla bambina. Abbassando lo sguardo, colta da un’improvvisa vergogna, sgusciò di lato, evitando anche solo di sfiorarlo con le pieghe dell’ampia veste e si addossò alla parete, da cui seguì senza far motto le operazioni di lui.
- Ebbene, piccola, vi devo svegliare.- sussurrò con dolcezza all’orecchio della bambina, scrollandole contemporaneamente una spalla.
La bambina aprì gli occhi, azzurri, identici a quelli della madre. Clermont si fermò per un attimo, serrando i denti e deglutendo la saliva che gli chiudeva la gola.
-Buongiorno, signore. – le disse lei, con voce flebile.
-Buongiorno. Come vi chiamate? – domandò sorridendo per infonderle serenità.
- Juditte. Juditte Charlotte Roqueville de Beaufort, signore. Il mio signor padre ci tiene. –
- Tiene a cosa?- domandò incuriosito il medico mentre l’aiutava a mettersi seduta e le scostava la veste per auscultarla.
- Al nome completo. L’ho imparato a memoria, ma io preferisco essere chiamata solo Juditte. – spiegò.
- Oh sì, Juditte è un nome molto grazioso. – le sorrise lui, abbassandole la veste sulla schiena.
- L’ha scelto mia madre. Lei mi chiama solo Juditte. – precisò
- E, mia piccola Juditte, che cosa vi sentite? – domandò.
- Ho male alla testa, mi sento molto stanca, non ho voglia di mangiare quello che mi porta Louise. Le ci resta male, ma io non riesco proprio, mi viene da vomitare. –
- Nient’altro? –
- Nient’altro. – confermò, mentre le palpebre le si chiudevano dalla stanchezza.
- Va bene, ci credo. Ora vi preparerò alcune medicine che dovrete prendere però, mia cara, senza storie. – le disse, rimboccandole le coperte. Juditte annuì obbediente, mentre seguiva con lo sguardo stanco il medico che si avvicinava a sua madre.
- Ebbene, dottore? – domandò ansiosa, fissandolo con quegli occhi di un blu intenso in attesa spasmodica di una risposta. Clermont non sostenne lo sguardo, voltò il capo e disse:
- Lasciamola riposare ora. Ve ne parlerò fuori. –


La contessa de Beaufort non fece obiezioni, e si avviò alla porta, mentre il medico le lasciava il passo.
-Ditemi tutto ciò che devo sapere, senza nascondere nulla. – gli intimò una volta richiusi i battenti alle sue spalle. Si appoggiò con la schiena alla porta quasi le mancassero le forze, in attesa.
- Non c’è nulla di cui dobbiate preoccuparvi. Un’indisposizione di stomaco, una semplice indigestione. Vostra figlia deve aver mangiato qualcosa che le ha fatto male. – spiegò con calma, ostinandosi a evitare lo sguardo della sua interlocutrice.
- Non è possibile. Il nostro cuoco è sempre così attento…- ribatté incredula.
- Non sempre avere un cuoco è la soluzione ad ogni ordine di problemi. – obiettò il medico con una punta di sarcasmo che non passò inosservata. – E nemmeno un esercito di servi. – aggiunse accompagnando queste ultime parole ad uno sguardo gelido.
- E ora che si può fare per lei? – cambiò discorso la madre, riportando l’attenzione all’unica cosa che in quel momento le stava a cuore, la salute di sua figlia.
- Ora vi lascerò un rimedio, badate che le venga somministrato sempre agli stessi orari per alcuni giorni. -rispose estraendo dalla borsa una boccetta e porgendogliela. – Occupatevene voi. Non delegate anche questo ai vostri servi. – le raccomandò, a mo’ di rimprovero.
- Non vi è alcun bisogno di specificarlo. – rispose la contessa, con una punta di amarezza e di offesa nella voce, mentre abbassava lo sguardo.
- Perdonate, non volevo essere indiscreto o insinuare dubbi sul vostro senso materno, volevo soltanto dirvi che potete benissimo occuparvi da sola di vostra figlia, senza necessità di uno stuolo di domestici. – ribadì nuovamente con un sorriso obliquo, amaro. Lei non controbatté nulla, si limitò ad annuire con un cenno del capo appena percettibile, i begli occhi blu fissi sui rombi lucidi del pavimento.
- Se lo riterrete, tornerò fra una settimana per visitarla di nuovo. I vostri domestici sanno dove trovarmi.  I miei omaggi, contessa.- si congedò con un inchino che gli riuscì più goffo di quanto avrebbe voluto e ripercorse in senso contrario il corridoio da cui era venuto.
Nel salone dei ricevimenti, le domestiche lo stavano attendendo e al suo ingresso si alzarono in piedi.
-Allora, dottore?- chiesero all’unisono. Il domestico in livrea che stava in piedi ritto di fianco alla porta squadrò con aria di disapprovazione il quadretto che gli si parava davanti agli occhi.
- Nulla di grave, proprio niente di cui preoccuparsi. La contessina Juditte ha soltanto bisogno di alcuni giorni per rimettersi. – rispose con un sorriso franco e cordiale.
- Oh sia lodato il Signore! – esclamò Louise, eseguendo un rapido segno di croce.
- Ma, mi raccomando, tenete sotto controllo il cuoco. – precisò il dottore con un filo d’ironia.
- Non capisco, il nostro cuoco è uno dei migliori di Francia! Il signor conte l’ha assunto lui stesso dopo un viaggio nel Ponthieu!- replicò quasi indignata la cameriera.
Al sentire nominare quel luogo, Clermont trasalì; ma seppe dominarsi, trasse un respiro e fece per accomiatarsi. Louise si offerse subito di fargli strada e lo scortò fino ai piedi della scalinata. Dopo aver preso congedo dalla domestica, il medico sparì dietro al portone, come avesse fretta di andarsene. L’aria di quel palazzo gli era divenuta infine irrespirabile, la maniglia del portone sembrava quasi che scottasse. Non appena fuori, si concesse il lusso di qualche respiro profondo e lasciò vagare lo sguardo al cielo limpido di primavera, come se potesse fornirgli un gradito sollievo.

Non aveva fatto che qualche passo lungo la via, quando si sentì chiamare:
-Dottore, dottore! Fermatevi, di grazia. –
Clermont riconobbe la voce che lo chiamava. Restò per un attimo dubbioso sul da farsi: la tentazione di proseguire per la sua strada senza prestare ascolto a quella richiesta era grande. Tuttavia arrestò il passo e si voltò, con l’espressione corrucciata di chi viene distolto dal proprio cammino. In attesa di ascoltare quanto aveva da dirgli, rimase con le braccia lungo i fianchi e lo sguardo serio a fissare la contessa.
Anche lei si fermò a qualche passo di distanza, come se non osasse avvicinarsi oltre; i capelli biondi, leggermente scomposti, le ricadevano sulla fronte: pareva essere reduce da una corsa quasi disperata. Ci mise qualche istante prima di riprendere fiato e rivolgergli la parola.
-Perdonate, dottore, me ne stavo per dimenticare. Il vostro compenso. – gli disse tendendogli un sacchetto di monete tintinnanti, accompagnando a quel gesto uno sguardo timido, contrito.
Non poteva giocargli un tiro peggiore, una peggiore umiliazione. Clermont aveva volutamente trascurato di richiedere un compenso e aveva fatto in modo di andarsene il prima possibile da quel palazzo perché non glielo venisse menzionato. Non ne aveva bisogno, non voleva soldi. Non da lei. Aveva sempre pensato che il suo mestiere, la sua conoscenza, la sua perizia non fossero in vendita; per vivere aveva dovuto certo scendere a compromessi, farsi pagare, richiedere giusta retribuzione per il servizio che forniva, ma aveva sempre avuto l’orrore del denaro e soprattutto l’orrore di sentirsi messo in vendita. La sua dignità, il suo onore non avevano prezzo. Così, sdegnosamente, rifiutò deciso.
-Non ce n’è bisogno, contessa. – la congedò lapidario, scuotendo energicamente il capo.
- Insisto, dottore. Avete lavorato, è giusto ricompensarvi. – insistette lei, avvicinandosi con discrezione, con passo quasi incerto, ma ben decisa a non lasciarlo andare via in quel modo. Si scostò una ciocca di capelli dalla fronte con un gesto che costrinse Clermont  prima a volgere altrove lo sguardo e poi a serrare la mascella in un’onda di improvviso sdegno. Quegli intesi occhi azzurri, però, non volevano smettere di fissarlo.
-Per favore, signora. Vi ho già spiegato che non c’è bisogno. Non tutto si può compare. – sentenziò infine, da moralista quale non era mai realmente stato. Continuava a tenere gli occhi bassi, non sopportando il peso di quella conversazione.
 -E sia. Non voglio irritarvi.- concesse infine la contessa, abbassando anche lei gli occhi a celare una punta di delusione: evidentemente aveva sperato in un esito migliore di quel colloquio.
- Se avete bisogno di me, sapete dove trovarmi. – tagliò corto il medico e fece per voltarle le spalle, ma lei fu più svelta e gli afferrò un braccio.
- Vi prego, ascoltatemi un attimo soltanto. Ci sarebbero tante cose da spiegare…- iniziò con rammarico, gli occhi a terra, il capo chino.
- Non c’è nulla da spiegare, mademoiselle Marianne de Blanchard, è tutto sufficientemente chiaro. – la fermò lui, appoggiando con decisione la mano su quella di lei perché gli liberasse il braccio. Non ebbe però l’ardire di fissare per più di un attimo quegli occhi che lo supplicavano. Sentendosi chiamare con il suo nome da ragazza, Marianne trasalì, e allo stesso modo fece al contatto con la mano di lui. Sciolse la presa e si limitò a seguirlo con lo sguardo mentre si faceva largo tra i passanti che affollavano la strada in quella luminosa mattinata parigina.

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


 In rue de Saint-Honoré l’aria era tesa quella sera, capannelli di persone assiepate sui banchi posti ad anfiteatro nella biblioteca del convento discutevano animatamente. “Vandea”, “dannato La Rochejaquelein”, “calmiere”, “insurrezione” erano le parole ricorrenti che si udivano ripetere a gran voce dai giacobini in attesa dell’inizio della seduta. La situazione era fortemente instabile, la rivolta non accennava a placarsi e il giorno precedente la roccaforte di Fontenay era caduta nelle mani dei vandeani. In Corsica Paoli minacciava di prendere le armi, le potenze europee si apprestavano ad attraversare i confini per muovere guerra alla Francia rivoluzionaria. Ma anche nello stesso cuore della Repubblica, Parigi, non c’era pace: il popolo invocava misure più decise, un calmiere sui prezzi, ed era stato placato solo in parte dall’istituzione di un prestito forzoso a carico dei cittadini più ricchi: l’arresto di Hébert e di altri Arrabbiati non aveva certo contribuito a gettare acqua sul fuoco della rivolta. La Convenzione tentava di resistere, di non scendere a compromessi con le istanze più accese e fuorvianti, ma questa situazione non era a lungo tollerabile. I Giacobini erano divisi tra loro, la maggioranza seguiva la linea dura di Robespierre, ma altri erano più concilianti nei confronti dei Girondini e auspicavano un accordo.
Tutt’un tratto il vociare si trasformò in un tenue brusio che poco dopo cessò del tutto. Nella luce fioca che illuminava la galleria, un uomo si avvicinò con passo deciso alla tribuna degli oratori. Il silenzio si fece pieno di rispetto quando venne riconosciuto l’avvocato di Arras, il cittadino Maximilien Robespierre.
L’appello alla rivolta contro la Convenzione scosse gli animi dell’assemblea: numerosi i deputati giacobini che si dicevano pronti a scagliarsi contro i loro colleghi della palude; gli uomini si infervoravano, si accapigliavano tra loro, lanciavano grida di giubilo all’indirizzo degli oratori che si avvicendavano in tribuna. L’energico medico Marat, acceso Montagnardo, aveva ripreso e rilanciato le invettive del collega contro i Girodini per convincere ancor più la platea: l’insurrezione, diceva, era necessaria e doveva essere tempestiva, altrimenti la palude avrebbe avuto la meglio, il rischio di un ritorno dei realisti non doveva poi essere così remoto, visto quel che tramavano Cathelineu e Bonchamps e i loro sostenitori d’Oltremanica.
-Ehi, Clermont, che ne pensi, deputato? – gli si rivolse tutt’un tratto l’amico che gli sedeva a fianco, David Bonnet, acceso in viso dalla foga che avevano scatenato i discorsi dei membri di spicco del Club. – Jacques, mi hai sentito? – ripeté qualche istante dopo non avendo ricevuto risposta. Clermont se ne stava con lo sguardo perso nel vuoto davanti a sé, il viso tra le mani, i gomiti appoggiati sulle ginocchia.
- Perdonami, David. Ero soprappensiero. – si scusò l’amico, impartendo una fraterna pacca sulla spalla di Bonnet, accennando un sorriso. Bonnet era l’amico più caro, quello che l’aveva sempre sostenuto, l’aveva ospitato in casa sua, ne aveva appoggiato la candidatura, ne conosceva i segreti e i pensieri più di chiunque altro. Eppure, al rubicondo e discreto amico qualcosa sfuggiva quella sera. Aveva compreso che qualche fosco pensiero occupava la mente di Clermont, ma non si spiegava quale. Temeva fosse coinvolto in qualche manovra politica, in qualche intrigo rischioso. Per questo aggrottò le folte sopracciglia e gli domandò a bruciapelo: - Non ti credo, Jacques. Dimmi la verità, sei implicato in qualche manovra con i Girondini?-
Clermont scosse la testa con un sorriso comprensivo. – Niente di tutto ciò, amico mio. Non tradirei mai la montagna per la palude. – ribatté con un guizzo fiero negli occhi scuri.
-Non ho mai dubitato della tua lealtà, amico mio. Ma il momento è convulso, non so più che pensare. La Convezione non prende una posizione a favore del popolo, sembra divenuta sorda e cieca. Che sta succedendo là dentro? -
- Oh, Bonnet, mi domandi qualcosa a cui non oso rispondere. Di certo la Convenzione si è molto indebolita dal mese scorso in avanti, ma rappresenta pur sempre il popolo francese, è un dilemma molto serio scegliere tra rispettare il mio dovere di deputato e il giuramento che ho fatto al popolo. Vorrei dirti che si giungerà ad un compromesso nel nome della Repubblica, ma prevedo scenari foschi: la Gironda non arretra di un centimetro e tiene in scacco la Convenzione.-
- Dio, Jacques, non abbiamo creato la Repubblica per restare ostaggio di questi servi della nobiltà.- esclamò risentito Bonnet, picchiando energicamente la mano sul ginocchio in un gesto di stizza.
- No di certo. Per questo dobbiamo batterci, per far sì che l’uguaglianza non resti soltanto una vuota parola. Ma sconvolgere la Convenzione, spargere del sangue…no, non credo sia la scelta più giusta. – ribatté Clermont scuotendo la testa e chiudendosi nuovamente in un mutismo pensieroso.
Gli ultimi oratori si avvicendarono sulla tribuna ribadendo in toni accesi le parole dei due illustri giacobini che li avevano preceduti senza aggiungere alcunché di interessante. Trita retorica alle orecchie di Clermont che, perso nei suoi pensieri, non ne ascoltò che qualche frase. Una volta in strada Bonnet, che per tutto il tempo era stato teso in avanti con un’attenzione spasmodica a quanto andavano professando dalla tribuna, al termine della seduta non stava nella pelle, si infervorava al pensiero degli sviluppi prossimi della situazione e voleva a tutti i costi condividere con l’amico le sue previsioni e le sue opinioni. Clermont, tuttavia, di solito interlocutore brillante e acuto, quella sera non aveva l’aria di volersi intrattenere in una dissertazione sulle ultime manovre che avevano in serbo Marat e Robespierre, pareva stranamente distratto, sfuggente, con la mente altrove. Bonnet se ne accorse ben presto e moderò il suo entusiasmo che pareva non trovare soddisfazione presso l’amico. Procedevano fianco a fianco senza parlare, mentre i loro passi risuonavano nelle strade semi deserte. Bonnet lanciava di quando in quando uno sguardo all’amico per cercare di intuire quali pensieri gli ronzassero per il capo, ma non riuscì a decifrare quell’espressione tesa e assorta che rabbuiava i bei lineamenti regolari del volto dell’amico.
- Jacques, quell’osteria è ancora aperta, che ne dici di un bel boccale di vino? – propose lungo il percorso, per invitare l’amico a sciogliere quel nodo che pareva opprimergli la gola.
La luce fioca della stanza, i canti sguaiati, l’odore di cibo e di vino che aleggiava nella stanza non rappresentavano certo l’atmosfera ideale per delle confidenze, o forse sì, pensò Bonnet, in un locale come questo certo nessuno sospetterebbe di trovare un deputato della Convenzione a quest’ora di notte. Preso posto ad un tavolaccio in legno grezzo in un angolo semibuio, lontano da orecchie indiscrete, davanti ad un boccale di buon rosso, Bonnet pose all’amico quella domanda che da tempo gli frullava per la testa:
-Che cos’hai questa sera, Jacques? C’è qualcosa di strano in te. Non vorrei che ti stessi mettendo in qualche guaio: non perdonano quelli, amico mio. Se ti dovessero sorprendere ad appoggiare gli avversari…- abbozzò subito interrotto.
- Ti ho già detto che non ho intenzione di ficcarmi nei guai. La mia opinione la conosci: non sono d’accordo con la necessità di un’insurrezione in questo momento, ma mai e poi mai scenderei a patti con i Girondini. – rispose con un tono insolitamente stizzito Clermont, sorseggiando senza tregua il vino che continuava a versarsi nel bicchiere.
- Sarà, ma qualcosa stai tramando, l’ho intuito. Di me ti puoi fidare, sai che non ti tradirei mai. Se stai preparando una manovra…- insinuò di nuovo l’amico.
- Basta, David. Non c’è nessuna manovra, nessun accordo segreto a cui sto lavorando. – tagliò corto, con un lampo di nervosismo negli occhi, che l’amico non gli aveva mai visto. Jacques Clermont era l’uomo più mite e pacato che conoscesse, affabile e cortese, arguto e brillante nella conversazione; non si spiegava quell’improvviso rabbuiarsi, quel tono secco e scontroso che non gli riconosceva. Bonnet decise di tacere e di continuare a bere silenziosamente, sollevando di tanto in tanto le sopracciglia perplesso, mentre l’amico si limitava a fissare un punto non identificato fuori dalla finestra.
- Sai chi mi ha mandato a chiamare questa mattina? – domandò a bruciapelo ad un certo punto Clermont.
L’amico scosse la testa e restò in attesa della risposta.
-La contessa Roqueville di Beaufort. La conosci? –
- Oh per Diana, la moglie del conte di Beaufort? – domandò incuriosito Bonnet, abbandonando rumorosamente sul tavolo il bicchiere che teneva in mano.  – Uno degli uomini più potenti di Parigi, un tempo, un pari di Francia, suo padre era amico personale di Luigi XV. Ed ora uno tra i più sfrontati che si ostina a rimanere in città sfidando la Repubblica!- soggiunse poi, sinceramente stupito della rivelazione avuto dall’amico.
- Mio caro Bonnet, non ti devi meravigliare di tanta audacia. Sappiamo bene quanta presunzione, quanta protervia si annidi tra gli aristocratici. Non credere che abbassino la cresta così facilmente. – ribatté Clermont.
- E così madame de Beaufort ti ha mandato a chiamare? Che diamine! Si sono umiliati a tal punto da convocare un medico plebeo? – sghignazzò quasi divertito Bonnet.
- Evidentemente gli esimi colleghi loro simili se la sono data a gambe. - constatò Clermont, senza riuscire a prendere parte al tono ridanciano dell’amico.
 - Amico mio, hai avuto un grande onore ad essere ammesso al cospetto della signora di un pari di Francia e non me lo volevi raccontare. – continuò imperterrito a ironizzare Bonnet, cogliendo il lato comico della situazione che aveva portato un medico rivoluzionario come il suo amico nel palazzo di una delle famiglie più potenti e più reazionarie della città.
- Si è fatto tardi, ora. Me ne torno a casa. Lascia però che ti offra da bere. – fece Clermont alzandosi e gettando alcune monete sul tavolo.
- Non avrei mai permesso ad un amico di offrirmi da bere dopo che l’avessi invitato io stesso; ma immagino che Beaufort ricompensi largamente e quindi per stavolta accetto, amico mio! Ma la prossima, sarai mio ospite. A proposito, mia moglie ti aspetta per pranzo uno dei prossimi giorni. –
- Non mancherò, Bonnet. – salutò frettolosamente, non vedendo l’ora di ritrovarsi da solo per strada.
 
 
 
La luce flebile della candela illuminava fiocamente la stanza, mentre il favonio scuoteva dolcemente le pesanti tende entrando dallo spiraglio della finestra. Juditte si era da poco addormentata, dopo aver diligentemente bevuto la medicina che il dottore le aveva ordinato di prendere, senza storie o lamentele. Il sudore le imperlava la fronte e le coperte le davano impaccio, per questo la madre aveva pensato di scostare la finestra per consentire all’aria fresca della sera di maggio di darle un po’ di sollievo. Solo pochi minuti, si era detta, per paura che alla bambina potesse nuocere troppa corrente. Si alzò dunque dal capezzale della figlia e si diresse alla finestra per accostare l’imposta. Gettò un rapido sguardo nella strada sottostante e scorse la carrozza del marito in attesa di fare il proprio ingresso nel cortile interno, dopo alcuni giorni di lontananza. Sospirò profondamente, non certo sollevata. Marianne Roqueville de Beaufort aveva allora trentun anni, ma se ne sentiva il doppio sulle spalle: gli obblighi di rappresentanza, l’etichetta rigida della vita sociale, l’intransigenza e il rigore del marito verso ogni più piccolo strappo alla regola, le avevano reso quei nove anni di matrimonio un lungo e penoso esame a cui numerose volte avrebbe desiderato sottrarsi. Eppure non si poteva certo dire che la sua famiglia d’origine non fosse avvezza alle consuetudini più ricercate, che la sua educazione non fosse stata rigorosa e raffinata, che lei stessa non fosse una donna naturalmente incline all’eleganza e al buon gusto. Tuttavia essere la consorte di un pari di Francia, di uno degli uomini più potenti dell’antico regime il cui padre poteva vantare una personale amicizia con il defunto re Luigi XVI, imponeva determinati doveri, un formalismo artefatto ma imprescindibile sul cui modello venivano organizzati tutti i rituali della vita quotidiana. Primo fra tutti non dar confidenza alla servitù. I domestici non avevano il diritto di essere messi a parte della vita dei padroni, delle loro confidenze, dei loro, seppur piccoli, segreti: un freddo contegno governava i rapporti tra il conte e i suoi dipendenti, i quali vivevano nell’ossequio e insieme nel timore reverenziale del padrone. Mai un alzare di voce, mai una scenata, mai un plateale rimprovero: chi si macchiava di qualche errore, piccolo o grande che fosse, veniva messo alla porta senza clamore, ma anche senza alcun appello. Un sacro terrore guizzava sui volti dei domestici all’arrivo del padrone, uomo alto, imponente, austero nei modi, dai capelli biondi e dai glaciali occhi verdi. La stessa apprensione si poteva leggere al suo cospetto negli occhi della moglie che, dopo nove anni passati accanto a lui, ancora non osava rivolgerglisi con il tu né contraddirlo in nessuna delle sue richieste. Marianne de Beaufort era una donna profondamente infelice che, dietro quell’aria mite e apparentemente distaccata, celava lacrime amare e profondi sospiri ogni volta che si fermava a riflettere sulla sua esistenza priva di ogni calore e affetto. Non ci si deve stupire dunque se, all’arrivo della carrozza del conte, il suo cuore iniziò a battere per la tensione e per l’angoscia, poiché temeva l’inappellabile giudizio del marito, i suoi freddi rimproveri per la malattia che aveva colpito la figlia. Marianne si riaccostò al letto di Juditte, sedendosi compostamente con lo sguardo fisso sulla porta, in spasmodica attesa. Per un attimo rivide davanti agli occhi la scena di quella mattina, l’ingresso del medico nella stanza di sua figlia. Quel nome le aveva provocato una dolorosa fitta al cuore, le aveva riaperto una ferita che immaginava ormai rimarginata, sopita. Un’altra fitta al cuore, seppur diversa, le provocò l’improvvisa apertura della porta. Con passo baldanzoso e fiero Guillame de Beaufort fece irruzione nella stanza della figlia, lo sguardo accigliato non sembrava tradire preoccupazione, solo un muto rimprovero.
-Buonasera, Guillame. – lo salutò la moglie con deferenza, alzandosi dalla sedia e accennando un inchino.
- Buonasera, Marianne. – rispose lui, avvicinandosi a lei per baciarle la mano. Il contatto con quelle labbra fredde la fece rabbrividire.
- Non vi aspettavo così presto. Com’è andato il viaggio nel Ponthieu? – domandò per rompere il ghiaccio di quella conversazione sospesa.
- Vostro padre vi manda i suoi saluti. – si limitò a risponderle: non amava svelare i suoi pensieri alla moglie, forse non ne aveva abbastanza fiducia per metterla a parte delle sue più intime confidenze, la teneva a debita distanza, limitandosi a pretendere da lei obbedienza e ossequio, in ogni momento.  – Tuttavia sono venuto a conoscenza del fatto che mia figlia Juditte abbia avuto bisogno delle cure di un medico. – aggiunse squadrandola dall’alto in basso con aria di rimprovero.
- Sì, è così. Non vi ho scritto perché pensavo che fosse un malanno passeggero, ma quando si è aggravata l’altra notte ho pensato che fosse necessario chiamare un medico. – si scusò lei, tradendo un lieve tremito nella voce. Poi tacque in attesa della sentenza del marito, che temeva non potesse essere assolutoria.
- Voi non dovete pensare. Non dovete agire, senza prima aver chiesto il mio parere. Tanto più quando si tratta della salute di mia figlia. –
- Di nostra figlia. – si azzardò a correggerlo. – Non crediate che non abbia a cuore la salute di Juditte più della mia stessa salute.-
- Mi riferivano che questo medico che avete mandato a chiamare non fosse il nostro medico di fiducia, il barone di Thoreau, ma uno sconosciuto, un medico dei bassifondi. –
- Il barone è fuori città, di certo non tornerà a breve… - spiegò, sottintendendo quello che era il destino di molti dei nobili, l’esilio. – Così ho mandato a chiamare un altro medico, ma non certo un medicastro dei bassifondi, non so chi ve l’abbia riferito, ma si tratta di un medico referenziato e…-
- Basta così, signora. Non voglio sentire più una parola su questa faccenda. Che il vostro medico faccia il suo dovere e guarisca al più presto mia figlia. – dopo avere messo a tacere con superbia la consorte, si chinò per imprimere un delicato bacio sulla fronte della figlia. Dopodiché, augurando una felice notte alla moglie, sfiorandole appena la mano con un algido bacio dettato dal protocollo, si ritirò nelle sue stanze, socchiudendo con gesto misurato la porta e lasciandosi dietro una corrente di aria gelida. Marianne lo guardò uscire senza accennare a fermarlo o a seguirlo; non poté fare a meno di ricordare quando poche ore prima da quella stessa porta era uscito quell’uomo che tanta parte aveva avuto nella sua vita e che lei non aveva esitato a seguire, a raggiungere in strada. L’amarezza di quel colloquio, tuttavia, non poté impedire ai suoi occhi di riempirsi di lacrime di rimpianto.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Jacques Clermont si dirigeva a passo svelto e a testa bassa verso casa; aveva appena congedato l’amico, in maniera più frettolosa di quanto avrebbe voluto, ma il suo stato d’animo non era tale da poter indugiare in chiacchiere o conversazioni di circostanza. Aveva bisogno di tempo per riflettere: quanto era accaduto quella mattina non l’aveva lasciato indifferente, l’aveva turbato nel profondo, aveva risvegliato spettri del passato che credeva ormai sopiti. Come poteva bastare così poco per rimettere in discussione le scelte di una vita intera? Che poi, in realtà, non si trattava propriamente di scelte da lui fatte, semmai di decisioni altrui di cui aveva dovuto pagare lo scotto, l’umiliazione e le dolorose conseguenze. Si era dal quel momento dedicato a costruirsi una vita degna, protesa verso quell’ideale di giustizia e di uguaglianza che troppe volte aveva visto violato, anche a sue spese. E ce l’aveva fatta, pensava tra sé con orgoglio. Eppure, scrutando pensieroso le ombre gettate qua e là dalla luce della luna che penetrava tra gli edifici, dovette constatare di aver bandito per sempre la felicità alla sua vita, non si era mai più permesso di provare qualcosa che le somigliasse, l’aveva sostituita degnamente con l’orgoglio, la soddisfazione, il giusto appagamento di chi sa di aver compiuto appieno il proprio dovere su questa terra. Ma, nelle notti insonni come quella, non era raro che il ricordo riandasse a quei giorni, a quei pochi mesi felici di molti anni prima, quando la durezza della vita e gli ostacoli imposti da quell’iniquo mondo non avevano ancora potuto intaccare il suo radioso avvenire. Era una sera come quella, si trovò a ricordare, una sera di maggio, mite e ventosa, con la luce della luna che giocava, come in quel momento, a disegnare ombre e contorni sul vasto prato del giardino. Non austeri edifici scuri e tremuli bagliori di lanterne alle finestre, ma un’illuminazione degna di una dimora regale, migliaia di fiaccole, musica allegra e risate spensierate, illuminavano quella notte. E lui non ci sarebbe nemmeno dovuto essere; non era autorizzata la sua presenza, non era gradita la sua partecipazione. Eppure, l’aiuto di quelli che credeva essere amici gli aveva consentito di realizzare quel sogno.
-Mia cara Marianne, come siete bella questa sera! – esclamò una fanciulla dall’elegante vestito rosa cenere, avvicinandosi con garbo all’amica tra la musica dell’orchestra e le chiacchiere dei convitati. La prese poi sottobraccio, facendole scivolare tra le mani un piccolo biglietto spiegazzato. Marianne guardò l’amica con stupore interrogativo e quella si limitò a sorriderle e strizzarle l’occhio.
- Che cos’è mai questo, Elenoire? – domandò sottovoce con un sussurro lievemente preoccupato.
L’amica, che ben la conosceva e che ne desiderava più di ogni altro la felicità, la trasse da parte, lontano da sguardi indiscreti e spiegò a bassa voce:
-C’è qualcuno che desidera vederti. – rispose ammiccando. - E sono sicura che lo desideri anche tu. – aggiunse con un sorriso complice.
Marianne de Blanchard aprì delicatamente quel biglietto, con le mani che le tremavano per l’emozione. Ne lesse rapidamente lo scarno contenuto, riconoscendo all’istante la grafia.
-Oh Elenoire! Come ha fatto ad essere qui? – esclamò infine con gli occhi illuminati da una gioia inaspettata.
- Deve essere riuscito a trovarsi dei validi amici, durante i suoi studi a Parigi…- accennò l’amica interrompendosi poi all’arrivo della madre, la contessa de Blanchard, e, nascondendo, rapidamente il biglietto alla sua vista.
- Buonasera, baronessa. – la salutò riverente con un inchino Elenoire.
- Buonasera a voi, cara mademoiselle de Roussignac., - rispose la contessa, coi suoi modi impeccabilmente glaciali. – Marianne, mia cara, Guillame de Beaufort è appena arrivato, accompagnato dalla contessa sua madre, sarebbe opportuno che gli facessi la dovuta accoglienza: la contessina Elenoire non credo che se ne risentirà. Non è vero, mia cara? – le domandò, squadrandola con l’aria di chi non avrebbe mai ammesso una risposta differente. Ma la contessina Elenoire non era certo tipo da farsi tanto intimidire. – Contessa, non vorrei sottrarre Marianne ai suoi obblighi di padrona di casa, tuttavia avrei urgenza di parlare con lei. Soltanto pochi minuti ancora. Ve ne prego, si tratta di una cosa che mi sta molto a cuore…-
Marianne fissava la madre con aria supplice, ringraziando silenziosamente l’amica di averle offerto quella sponda.
-E sia, mia dolce Elenoire. Non vorrei mai interrompere una vostra confidenza. Ma solo pochi minuti. Intratterrò io i Beaufort nel frattempo. Marianne, il conte ti attende per aprire le danze, non vorrai certo deluderlo. – concluse andandosene, lanciando uno sguardo d’intesa alla figlia.
- Oh, Elenoire, quanto sono felice! – esclamò raggiante non appena la madre se ne fu allontanata e strinse con fervida partecipazione la mano dell’amica. Elenoire de Roussignac ricambiò sorridente quella stretta. – Ma…hai sentito anche tu, dovrò danzare con Beaufort tra poco, sarò impegnata per qualche tempo. Come potremo vederci? Dubiterà di me, ne sono certa. E se poi mi vedesse danzare… – aggiunse abbassando lo sguardo, desolata.
- Cara Marianne, non temere. C’è una soluzione: gli recapiterò io stessa il tuo biglietto. –
- Faresti questo per me? – domandò con ritrovata speranza.
- Certamente, amica mia. Più di ogni altra cosa ho a cuore la tua felicità. – le disse Elenoire tendendole le braccia.
- Non saprò mai ringraziarti abbastanza. – concluse piena di gratitudine e si apprestò a cercare carta e penna.
Nella zona più remota e buia del giardino, sotto i platani secolari, un’ombra si aggirava con passo nervoso, un’ombra alta e longilinea, di cui si poteva scorgere, alla luce filtrante della luna, la chioma scura e i tratti regolari del viso.
-Chi è là? – sussurrò ad un improvviso frusciare tra i cespugli, mentre il cuore gli sussultava nel petto e incominciava a battere all’impazzata.- Un’amica. – si sentì rispondere. Il battito gli si placò al suono di quella voce, che riconobbe come non sua.
- Chi vi manda, di grazia? –
- Mademoiselle Marianne de Blanchard. – rispose la voce, senza mostrarsi. – Questo è per voi. – aggiunse avanzando con la mano tesa e facendosi scorgere alla luce della luna. Non poté non notare lo sguardo ardente e appassionato del giovane che le si parò di fronte, giovane che lei conosceva come un umile paesano del villaggio, che fino a poco tempo prima aiutava la madre come garzone in sartoria. Elenoire de Roussignac aveva sempre nutrito dubbi sull’infatuazione della sua cara amica per quel giovane tanto inferiore a lei, ma non poteva non riconoscerne il fascino ora che aveva fatto il suo ritorno da Parigi in qualità di distinto studente. Vestiva con l’abito migliore, i capelli scuri compostamente raccolti e i modi ingentiliti dalla pratica della capitale: poteva essere considerato degno della sua amica, nonostante non dimenticasse i numerosi ostacoli che si sarebbero interposti sul loro cammino. Si tratta solo di un’infatuazione, si diceva Elenoire, non potrà avere alcun futuro, eppure perché togliere loro quei pochi attimi di felicità? Gli consegnò il biglietto, pregandolo di aspettare il suo segnale. Lui annuì obbediente e ritornò nell’ombra, custodendo gelosamente nella mano quel biglietto.
Non dovette attendere a lungo: l’orchestra si era appena presa una breve pausa, quando, da dietro il tronco di un albero, la scorse avvicinarsi a passo rapido e circospetto attraverso il giardino. Non esitò ad uscire allo scoperto e ad avvicinarsi.
-Marianne! – esclamò non appena fu accanto a lui.
- Siete tornato. – fece lei per tutta risposta, con un sorriso che l’oscurità non gli permise di scorgere, ma il tono dolce e carezzevole glielo poteva fare immaginare.
Fissò nel buio la sua sagoma aggraziata, avvolta dall’elegante abito celeste, i capelli biondi accuratamente acconciati che ricadevano a boccoli sulle spalle nude, gli occhi chiari che brillavano attraverso le tenebre.
-Volevo rivedervi. Non ho desiderato altro in tutto questo tempo. – le confessò con un sorriso aperto, allargando le braccia come a ribadire qualcosa di ovvio.
- Non vi siete dimenticato di me, dunque, a Parigi? –
-Dimenticarmi di voi? Credete sia possibile? –
- Nessuna lettera, nessun segnale da parte vostra, io…- la interruppe poggiandole delicatamente l’indice sulle labbra: si stava spingendo oltre, troppo oltre. Se ne rendeva conto, ma non poteva farne a meno. Dopo mesi, notti insonni, sogni ad occhi aperti era lì, davanti a lui, non poteva lasciarsi sfuggire quell’unica occasione. Le carezzò delicatamente una guancia, dalla pelle fresca, profumata, restò per qualche istante a contemplarla. Sentì le sue mani posarsi dolcemente sulle sue spalle, le loro labbra si accostarono lentamente, mentre la natura notturna li accompagnava con il frinire dei grilli, il frusciare delle fronde, il richiamo lontano di una civetta. Tremava mentre la stringeva fra le braccia e avvertiva un lieve tremore che scuoteva anche il corpo di lei: allontanarsi anche solo per un attimo era impossibile, una misteriosa forza li teneva avvinti dolcemente, la musica lontana della festa giungeva ovattata come se arrivasse da un’altra dimensione, da un altro mondo, a cui loro si sentivano estranei. Ma come ogni incantesimo, anche quello non poteva essere eterno; fu lei a spezzarlo.
- Ora devo andare, mi staranno cercando. – gli sussurrò a fior di labbra, sfiorandogli la guancia con il suo tocco delicato. Lui le afferrò la mano, intrappolandola nelle sue.
- Quando ti rivedrò? – le domandò con una voce che non poté risultare ferma come avrebbe desiderato.
- Presto. – gli rispose, stampandogli un leggero bacio sulle labbra. – Presto. – ripeté allontanandosi lentamente, senza smettere di tenere gli occhi fissi nei suoi. Poi svanì com’era venuta, sgusciando agilmente tra le ombre del giardino per raggiungere quel mondo, il suo mondo, da cui lui sarebbe stato per sempre escluso.
E lui, Clermont, a quel “presto” appena sussurrato, ci aveva creduto. E aveva creduto anche a tutto quello che era seguito, in quell’estate dolce e luminosa, in quelle passeggiate tra i vigneti, di nascosto da tutti, aveva creduto a quei baci appassionati che si scambiavano all’ombra di un vecchio platano, a quei biglietti scritti in fretta pieni di nostalgia e di impazienza, a quei saluti furtivi davanti all’androne del palazzo, mentre lei usciva in carrozza per la consueta visita di cortesia agli amici di famiglia. Aveva creduto anche a quelle promesse mai pronunciate ma ugualmente reali di una futura felicità, per la quale ogni ostacolo sarebbe magicamente stato superato, ogni muro abbattuto, ogni insignificante differenza annullata dal sentirsi affini, simili più di quanto potesse accadere con un altro essere in questo mondo.
 
Clermont scosse la testa con un gesto di stizza e inspirò profondamente l’aria fresca della sera, stringendo i pugni e accelerando il passo. Poco più avanti gli si offerse la vista del suo portone: forzò nervosamente la serratura e salì a passo svelto le scale interne, buie e umide, per rintanarsi nel proprio appartamento. Spoglio, poco spazioso, ma dignitoso. Provò un moto d’orgoglio che gli gonfiò il petto nell’osservare la sua casa, i suoi oggetti, le sue carte sparse qua e là. Ce l’aveva fatta, a dispetto di tutto e di tutti. Si era guadagnato il rispetto, un nome, un posto nel mondo, facendo quello che aveva sempre desiderato fare: aiutare i deboli, gli ultimi. Eppure qualcosa mancava, qualcosa gli mancava sempre. E quell’umiliazione gli bruciava come il primo giorno, lo spogliava delle sue sicurezze, del suo orgoglio. Non importava che fossero passati dieci anni, che la rivoluzione stesse trionfando, che il popolo si stesse prendendo le sue rivincite, che la giustizia non tardasse ad arrivare, che libertà e uguaglianza fossero ormai dei principi riconosciuti: quella cicatrice, mai del tutto rimarginata, si riapriva ogni volta che il suo pensiero riandava a quella drammatica notte. Sentiva risuonare quei passi minacciosi, quelle urla sguaiate, quei colpi. E più di tutto sentiva risuonare roca e imperiosa la voce di Auguste de Blanchard.
 

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Il conte stava seduto alla scrivania della sua biblioteca, una stanza ampia e ricolma di antichi volumi, con una grande finestra da cui si potevano ammirare i vigneti che si estendevano a perdita d’occhio. Uno splendido sole di primavera inondava di luce i campi del Ponthieu, si riverberava sui corsi d’acqua, illuminava le fronde degli alberi del giardino del palazzo dei Blanchard. Attratto da quel cielo terso, dal canto grazioso degli uccelli, Auguste de Blanchard si alzò, lasciando per un attimo le carte che stava leggendo. Scrutò fuori dalla finestra: le sue terre, ricche, floride, gli avevano sempre garantito una rendita notevole. Quanto gli pesava doverle lasciare! Quanto ingiuste erano quelle sciagurate leggi della Repubblica! Un sospiro amaro gli gonfiò il petto e con un gesto di stizza scosse il velo della tenda, per non prolungare oltre quella visione. Eppure, meditava, era meglio salvarsi la vita, mettersi al riparo e sperare in una riscossa di lì a qualche tempo, piuttosto che essere destinati al patibolo. Stava appunto leggendo la missiva che gli era stata fortunosamente recapitata quella mattina da parte del barone Woodville: prometteva ottime prospettive per loro in Inghilterra, li attendevano a braccia aperte. Suo figlio Roland, ex ufficiale dell’esercito regio espatriato oltremanica agli albori di quella nefasta rivoluzione, si era messo in contatto con i maggiori esponenti della nobiltà londinese, cercando aiuto per la sua famiglia. Ed ecco, finalmente, una buona notizia. Restava, però, la difficoltà di organizzare la fuga, sua e di sua moglie, ma anche della famiglia di sua figlia Marianne. Roland lo pregava di parlare con il conte di Beaufort, di convincerlo ad andarsene appena possibile da Parigi, diventata sempre più pericolosa, di smetterla con quello stupido gioco di forza che aveva intrapreso con il governo rivoluzionario: il suo coinvolgimento nella guerra in Vandea e i suoi rapporti epistolari con il marchese de Bonchamps non sarebbero potuti rimanere ignoti a lungo. L’atteggiamento provocatorio e del tutto irresponsabile che manteneva nei confronti della Convenzione avrebbe messo in pericolo la vita di sua sorella e perfino di sua nipote Juditte, tuonava Roland da Londra: quei pazzi dei Giacobini non si sarebbero fermati nemmeno davanti ad una bimba di otto anni, suo cognato stava scherzando con il fuoco e lui, suo padre, avrebbe dovuto fermarlo ad ogni costo.
L’anziano conte si lasciò cadere sulla propria poltrona, in preda a contrastanti pensieri: lui che aveva servito il re per tutta la sua vita, sacrificando agi e affetti alla carriera militare, combattendo perfino nel Nuovo Mondo per l’esercito francese, si trovava ora costretto a scegliere tra la salvezza della propria vita e di quella dei suoi cari e la difesa, strenua ma vana, della patria. Un vile, ecco che cosa sarebbe stato se avesse dato ascolto a Roland, un vigliacco che fugge dinnanzi al nemico, che abbandona le proprie terre nelle mani di contadini inferociti senza nemmeno alzare un dito. Eppure, giunto alla sua età, non aveva più la forza di combattere, di resistere, di opporsi all’inevitabile rovina a cui, dopo aver dominato per secoli, l’aristocrazia francese stava andando incontro. Era immerso in queste amare riflessioni quando nella stanza fece il suo ingresso la moglie, con in piglio che gli apparve subito concitato.
-Ebbene, Auguste, ho appena letto le nuove che ci manda Roland. Ha scritto anche a voi, immagino. Siete, dunque, propenso a raggiungerlo? – gli chiese con quel suo sguardo inespressivo, con tono distaccato, come se la faccenda ben poco la riguardasse.
- Mia cara Eloise-le rispose, facendole cenno di accomodarsi sulla poltrona color senape di fronte a lui. – Credo che Roland abbia ragione, tuttavia non amo lasciare conti in sospeso e fuggire come un vigliacco. Sono un militare, ricordate. Ma, certo, la situazione…-
La contessa lo interruppe fremente: - Auguste, la situazione è disperata. Lo so che cosa state tramando insieme a Beaufort, gli aiuti ai vandeani e tutto il resto, ma qui è si sta parlando della nostra testa! –
-Oh suvvia, credete che io sia un irresponsabile? Pensate che non calcoli il rischio a cui siamo costantemente esposti? Cathelineu e Bonchamps non potranno resistere a lungo, la ribellione della Vandea è destinata ad essere repressa nel sangue, me ne rendo conto. –
 - Nonostante questo continuate ad incontrare nostro genero per organizzare il riarmo dell’esercito degli insorti, continuate a mantenere corrispondenza con i realisti. Se dovessero smascherare i vostri piani, tutti noi faremmo una brutta fine. – lo minacciò con uno sguardo acuto, penetrante.
- State esagerando, mia cara. Io e Guillame de Beaufort stiamo soltanto sostenendo la causa in cui anche voi credete. Vi assicuro, osserviamo tutte le più basilari precauzioni per aggirare la censura e i controlli. Non vi nascondo che la lettera del barone Woodville mi alletta a lasciare tutto e ad andare in Inghilterra, ma ci devo riflettere. Ci dobbiamo riflettere, Eloise. –
- Più di quello che accadrà a noi, caro marito, temo quello che potrebbe accadere a Marianne: Beaufort è un pazzo, un incosciente e la vita di nostra figlia è nelle sue mani. Tutte le famiglie nobili se ne stanno andando da Parigi e lui che fa? Resta e dà scandalo, provoca i Giacobini, sfida la Convenzione aiutando i ribelli della Vandea, espone Marianne e Juditte a notevoli rischi. Arrogante e sfrontato. Ho molta paura di quello che potrebbe accadere. –
- Beaufort è un arrogante, è vero, è giovane e audace: non dimentichiamo che i Beaufort furono pari di Francia per secoli e ora, per colpa di quattro scalmanati, si ritrovano nella polvere. Guillame è troppo orgoglioso per poter sopportare questa ingiustizia, questa aggressione ai nostri diritti, alla nostra classe che ha guidato con sacrificio e lealtà la Francia fino ad oggi: come biasimarlo? Tuttavia sono certo che non metterebbe mai a repentaglio la vita di Marianne e di Juditte. Ne sono sicuro.-
- Vorrei tanto essere sicura quanto voi, ma conservo intatti i miei dubbi. Quell’uomo ama più il suo orgoglio di quanto non ami Marianne, l’ha più volte dimostrato. Ed io non sono altrettanto convinta che abbiamo fatto la scelta giusta, intendo sul suo conto…-
- Oh, Eloise! Non andiamo a rivangare queste vecchie storie. Beaufort è il miglior partito che Marianne avrebbe potuto sposare: un pari di Francia! E poi sappiamo quali fossero le nostre condizioni, sappiamo quanto ci sia stato d’aiuto nelle difficoltà che abbiamo passato, a causa dell’avventatezza di Roland e, lo ammetto, della mia negligenza. Sì, confesso, sono stato negligente nei confronti dei miei figli: non ho vegliato su Roland che dilapidava al gioco le nostre sostanze, non ho vegliato su Marianne. Ve lo ricorderete, immagino, in quale guaio si stesse cacciando. Non avevamo altra scelta e non me ne sono mai pentito. Non avreste di certo voluto un nipote dal sangue bastardo…–
- Non v’è dubbio alcuno che sia stata la scelta più conveniente in quel frangente, ne conservo invece alcuni sul fatto che sia stata la scelta più felice. Tuttavia l’importante ora è che convinciate anche Beaufort ad accettare la proposta di Roland, e a permettere a Marianne di trascorrere qualche tempo qui, da noi, insieme a Juditte.-
- Non mancherò di scrivergli, mia cara. Gli invierò oggi stesso una lettera e lo convocherò qui per la prossima settimana. Siete contenta?-
Eloise de Blanchard sorrise soddisfatta di quella sua piccola vittoria sul marito e, all’ingresso della domestica con il caffè, si trattenne per qualche tempo a sorseggiarne una tazza conversando con lui riguardo ai figli lontani e alle scelte decisive che attendevano la loro famiglia.
 
-Dottor Clermont, perdonatemi se vi disturbo. – esordì Louise, la domestica dei conti di Beaufort, ritornata a cercarlo, quando il medico aprì l’uscio.
- Buongiorno, cittadina, non avrei mai pensato di rivedervi. È successo qualcosa alla bambina? – si allarmò. Era passata una settimana dalla sua visita al palazzo dei Beaufort e si era convinto che la contessa non l’avrebbe mandato a chiamare una seconda volta dopo quel colloquio secco e distaccato. Doveva, perciò, essere successo qualcosa di grave, Juditte doveva essere peggiorata se la domestica era stata nuovamente inviata a chiamarlo.
- No, dottore, non è successo nulla. La contessa voleva soltanto che visitaste Juditte per accertare la guarigione. Sta molto meglio rispetto alla scorsa settimana. Verrete, dunque, a palazzo? –
Questa risposa lo spiazzò. Sgranò gli occhi in un’espressione stupita e interrogativa. Com’era possibile che accettasse di rivederlo, senza una valida e grave ragione? Si prese qualche istante e poi rispose: - Verrò.  Lasciate che prenda i ferri. – e sparì nel buio dell’androne.
Si avviarono a piedi, per le vie di Parigi invase dal sole di giugno, mentre attorno a loro il popolo si affaccendava, qualcuno mendicava per la via, qualcun altro gridava dalle finestre, altri ancora offrivano la loro merce dai carretti, altri passeggiavano sfaccendati con le mani dietro la schiena. Tra i passanti, un uomo si fece vicino, andando loro incontro.
-Clermont! – esclamò con un sorriso, tendendogli amichevolmente la mano.
- Laroux, buongiorno. – lo salutò, evitando quello sguardo grigio e penetrante che lo squadrava da capo a piedi.
- Ebbene, vedo che il lavoro chiama! – alluse indicando la domestica che restava un passo indietro, la stessa che quel giorno era comparsa trafelata al caffè.
- Per noi medici il lavoro coincide con la vita, amico mio. È difficile stabilire dove finisca l’uno e inizi l’altra. E voi, invece?-
- Io sono di ritorno da una visita al nostro Marat: gli ho portato alcuni miei scritti, qualche articolo…-
- E che ne pensa il cittadino Marat? – domandò per cortesia, con una lieve nota ironica nella voce.
Bertrand Laroux parve coglierla e ribatté: - Non era in casa, ho lasciato il materiale al suo segretario. – poi riprese il suo solito sorriso scanzonato: - Leggerete presto qualcosa di mio su L’Ami du peuple!-
-Ve lo auguro di tutto cuore, Laroux. Siete una buona penna e un giovane intraprendente e ambizioso, Marat vi apprezzerà.- disse a mo’ di congedo, sorridendo di rimando.
- Vi ringrazio, cittadino. E portate i miei saluti alla contessa di Beaufort, donna di straordinario fascino e notevole bellezza. – aggiunse con una strizzatina d’occhio, lanciando uno sguardo alla domestica.
- E voi come fate a sapere…?- domandò colto di sorpresa Clermont: come faceva a sapere quale fosse la sua meta?
- Mi sottovalutate, Clermont. Parigi non ha segreti per me. Non sono forse un aspirante giornalista? – lo rimproverò scherzosamente. Clermont, ancora confuso, abbassò lo sguardo, lo salutò in fretta e, dopo un cenno d’intesa a Louise, riprese il cammino.
- Au revoir! – gli fece di rimando Laroux, allontanandosi nella direzione opposta con passo agile e disinvolto.
 
I passi rimbombavano nel silenzio dell’atrio, mentre salivano la grande scalinata di marmo. Stavolta ad attenderli al piano nobile non c’era soltanto il domestico in livrea ma anche la padrona di casa. Clermont alzò la testa improntando gli ultimi gradini e gli apparve il suo sorriso, un sorriso timido, appena accennato, quasi incerto. Incontrò i suoi occhi chiari, limpidi, e un’immagine tornò a fare capolino nella sua memoria.
Un giorno d’estate, caldo e luminoso, un refolo di vento che percorre i vigneti della collina, scuote le spighe di granturco nei campi, fa stormire le foglie del platano alla cui ombra stavano riposando.
-Tu credi nel futuro, Jacques? – domandò accarezzandogli il mento con un filo d’erba appena strappato.
- Nel futuro? Che domanda è? – ribatté lui, sorridendo con le sopracciglia aggrottate.
- Sì, nel futuro, in quello che verrà, ai sogni. – precisò fissandolo negli occhi.
- Io credo nella giustizia, quindi credo nel futuro. Credo in una nuova società, credo nell’uguaglianza, credo…-
- Quante belle parole! Ma io ti sto chiedendo se credi nel nostro, di futuro. – lo solleticò con il filo d’erba che teneva in mano, con uno sguardo di tenera malizia. Quegli occhi azzurri lo fissavano carichi di promesse. Sì, le avrebbe voluto dire, ci credo. Ho fiducia in te, in noi, sono convinto che abbatteremo ogni ostacolo, che affronteremo ogni difficoltà insieme, il disprezzo degli altri, le differenze sociali, i pregiudizi. Tutto, purché insieme. E, invece, si limitò a guardarla negli occhi, a sfiorarle la guancia e a baciarla teneramente, senza che quella domanda avesse una risposta.
 
E in quel momento, in quegli occhi ritrovò quasi un muto rimprovero per quella mancata risposta, nascosto sotto la cortesia e la riconoscenza garbata per la visita. Clermont abbassò lo sguardo, si morse il labbro inferiore e avanzò cauto di qualche passo fino a prenderle la mano per portarsela meccanicamente alle labbra.
-Buongiorno, dottore. Vi ringrazio di aver accettato di far visita a mia figlia. – lo accolse affabilmente, con la voce appena scossa da un lieve tremore.
- Buongiorno, contessa. È mio dovere. – rispose con un inchino, che risultò più goffo di quanto sarebbe dovuto sembrare. Non seppe continuare la conversazione, restò in attesa che lei dicesse qualcosa, che sciogliesse il ghiaccio in qualche modo: non se l’aspettava di ritrovarsela davanti, era sicuro cha avrebbe fatto di tutto per evitare di incontrarlo durante quella visita.
A interrompere quel silenzio imbarazzato ci pensò il domestico in livrea che spalancò la porta d’ingresso al salone dei ricevimenti, fornendo alla contessa il pretesto per allontanarsi dalle scale e fare strada al dottore nella sala.
Clermont avanzava a capo chino, a disagio, e si disprezzava per questo: lui, un deputato della Convenzione, un servitore del popolo, un medico stimato era messo in soggezione da una nobildonna annoiata e da qualche domestico in livrea? La seguì in silenzio nei corridoi, fino a raggiungere la porta della camera di Juditte. Qui Marianne si fermò e gli rivolse uno sguardo tra l’interrogativo e il compassionevole che lui non riuscì a reggere.
-Volete assistere anche voi alla visita? – le domandò con la voce impastata, sperando in cuor suo in una risposta negativa.
- Ne sarei felice, se non vi creo disturbo. – rispose con un sorriso gentile. Quei denti bianchissimi, perfetti, quelle labbra sottili, appena abbozzate, come poteva essere così maledettamente bella? Era una tortura, era un rimestare continuamente il dito nella piaga, era un riaprire quella ferita che da anni gli era parsa in qualche modo sanata.
Juditte stava seduta al bordo del letto e accolse il medico con un sorriso luminoso: si ricordava di lui e l’aveva eletto come suo amico. Non capitava spesso che manifestasse apertamente le sue simpatie, tranne che nei confronti dell’adorata Louise, pertanto la madre fu sorpresa nel notare tanto entusiasmo sul viso della bambina.
-Buongiorno, mia piccola amica. Come state oggi?- le domandò avvicinandosi con un inchino, che Juditte accolse divertita.
-Sto molto meglio, dottore. Le vostre medicine erano un po’ amare, però le ho prese ogni giorno, come vi avevo promesso. Non è vero, mamma? Ditelo anche voi al dottore che sono stata brava! – rispose allegra, volgendo lo sguardo animato ora verso il medico ora verso la madre. Sembrava un’altra bambina da quella della settimana precedente: il colorito non più pallido ma roseo, gli occhi vividi, curiosi, i gesti impazienti di chi non vede l’ora di poter correre a giocare.
Bastò dunque poco al dottor Clermont per certificare una guarigione che sarebbe parsa evidente a chiunque, anche senza il bisogno di ricorrere ad un medico. Per tutta la durata della seppur breve visita si accorse dello sguardo costante di Marianne fisso su di lui e questo gli causò uno strano imbarazzo. Si rese conto che i suoi gesti erano misurati, innaturali, che il suo sguardo evitava accuratamente di sollevarsi verso di lei, che la sua voce non suonava ferma e sicura come avrebbe desiderato. Quella presenza lo metteva profondamente a disagio e non sapeva spiegarsi il perché, o meglio, ne conosceva il motivo e voleva negarlo a se stesso. Marianne Beaufort, dal canto suo, celava accuratamente il suo turbamento dietro un’espressione dolce e partecipe. Seduta su di una poltrona un po’ discosta, non perse di vista nemmeno per un istante le sue mani che, con perizia ed estrema delicatezza, si dedicavano a visitare il corpicino della figlia, le lisciavano capelli, le carezzavano la guancia. Quelle stesse mani che aveva stretto, baciato, accarezzato molto tempo prima, che le avevano restituito affetto, calore, tenerezza. Rimase incantata a seguire i movimenti di lui che si chinava sulla bacinella, immergeva le braccia nell’acqua fino al gomito, si sciacquava e si asciugava con un panno. Lui non osava muovere lo sguardo nella sua direzione, si ostinava ad evitarla, rivolgendo sorrisi complici a Juditte, scherzando con lei di qualche banalità.
Tutt’un tratto la porta della stanza si spalancò senza preavviso, facendo sussultare i presenti. Marianne balzò in piedi, aggiustandosi la veste e ricomponendosi; Juditte si azzittì, guardò la madre come a cercare rassicurazione e approvazione; Clermont, ignaro di quello che l’avrebbe atteso, rivolse alla contessa uno sguardo interrogativo. Non dovette aspettare una risposta perché sentì risuonare una voce alle sue spalle che diceva, in tono padronale:
-Dottor Clermont, sono lieto di fare la vostra conoscenza. Vi prego di accogliere i miei ringraziamenti più sentiti per aver contribuito alla guarigione di mia figlia. –
Clermont si voltò, abbozzando un inchino che gli uscì goffo e forzato, traspariva infatti il suo disappunto, il suo disprezzo per quel tono da padrone. Davanti a lui era comparso un uomo dall’aspetto attraente ed elegante, gli occhi verdi penetranti, i capelli chiari raccolti compostamente, abiti di fattura pregiata, certamente opera dei migliori sarti della città. Un’autorevolezza particolare traspariva dai suoi modi sicuri, quasi a sfiorare l’arroganza, dal suo sguardo fermo e deciso, dalle labbra serrate. Clermont, pur sovrastandolo in altezza, si sentì piccolo al suo cospetto, insignificante. E questa sensazione sgradevole gli bruciò assai. Bastava dunque la vista di un qualsiasi nobilotto di bell’aspetto per farlo ripiombare nella disistima di se stesso, dopo tutti gli sforzi fatti, dopo tutti quei traguardi raggiunti? Bastava il suo sguardo altero e sprezzante per farlo vergognare delle proprie origini? No, forse non si trattava soltanto di una questione di ceto, c’era dell’altro, qualcosa che, anche in questo caso, non volle ammettere. Deglutì e raccolse le sue forze per rispondergli educatamente, senza cedere alla tentazione di un tono aggressivo.
-La vostra gratitudine mi lusinga e mi onora, conte. Ma mi attribuite meriti che non ho, vostra figlia si sarebbe presto rimessa anche senza il mio intervento. –
- Quanta umiltà, dottore. Marianne, avete sentito? Il dottor Clermont afferma di non aver contribuito alla guarigione di Juditte. È dunque usanza presso i Giacobini rifiutare anche i complimenti da parte dell’antica e disprezzata nobiltà. O non è così? –
Marianne tremò sotto lo sguardo carico di livore del marito e si limitò ad annuire in silenzio, con gli occhi sbarrati. Juditte si alzò e le corse incontro, stringendosi al suo fianco. Il padre la fulminò con un’occhiata, ma non ebbe modo di rimproverarla, impegnato com’era in quella conversazione.
Clermont provò a protestare con garbo: - Non è così, vi assicuro. Non avevo intenzione di declinare un complimento, la mia era solo una constatazione. - 
-Marianne, mi è stato riferito che il medico è stato accolto nel salone dei ricevimenti come un nostro pari. Vi prego, per la prossima volta, che sia fatto passare dall’ingresso destinato alla servitù, come del resto richiede la sua condizione. Mi auguro che non ci sia bisogno di ripeterlo. – pronunciò queste parole in tono gelido, senza tradire la benché minima emozione, manovrandole abilmente come affilati coltelli che si conficcavano nell’amor proprio del suo interlocutore. Clermont chinò il capo, sconfitto. Non osava spiare la reazione della contessa, perché anche solo un suo minimo cenno di consenso a quel discorso del marito l’avrebbe distrutto.
- Chi vi ha riferito questo? – domandò lei con un’insospettabile audacia. – Chi si è permesso di gettare discredito su di me, vostra moglie, e sul medico che ha curato nostra figlia? – un lampo di accesa collera infiammò i suoi limpidi occhi chiari.
- Che vi importa, Marianne? Siete voi ad essere in errore. Certamente si è trattato di una svista, non ve ne faccio una colpa, non temete. Vi chiedo solo che un episodio increscioso come quello di stamane non si ripeta in seguito. Il medico deve servirsi dell’ingresso destinato al personale di servizio, come è naturale e giusto che sia. – ribatté Beaufort, disteso, paziente e paterno al tempo steso, come se dovesse spigare un facile concetto ad un allievo tardo di comprendonio.
- Esigo da voi maggior rispetto per il dottore. – lo incalzò lei, il volto accesso da una foga per lei inconsueta.
- Dottore, perdonate mia moglie, alle volte è totalmente incapace di dominarsi. Spero ad ogni modo di non avervi offeso, ribadendo soltanto quella che è una regola da sempre valida. E, ora, se permettete, alcuni affari urgenti mi reclamano. Arrivederci, dottore. Buona giornata, mia dolce Juditte. – detto questo, si congedò lanciando uno sguardo di profondo rimprovero alla moglie, e sparì richiudendosi la porta della stanza alle spalle.
Il silenzio calò sui presenti dopo la plateale uscita di scena del conte. Juditte si staccò dalla madre per guardarla interrogativa in cerca di una risposta convincente.
-Perché il signor padre se l’è presa con il dottore? Che cosa gli ha fatto di male? –
- Non ce l’ha con il dottore, Juditte. – rispose la madre fissando negli occhi Clermont, che, imbarazzato, distolse subito lo sguardo e si diede a riordinare la borsa. – Solo, tuo padre non ha ancora ben compreso quello che sta accadendo a Parigi. I tempi stanno cambiando e il dottore non avrà più nulla di cui vergognarsi nel passare dal salone dei ricevimenti. –
- Contessa, se non avete più bisogno dei miei servigi, tolgo il disturbo. – esclamò in tono molto secco, quasi ironico, senza nemmeno guardarla negli occhi e si avviò verso la porta.  – Arrivederci, Juditte, sono felice che stiate di nuovo bene, non fate penare vostra madre e prendete ancora le medicine per un po’- si congedò sorridendo alla sua piccola paziente. Juditte gli rispose con un suo allegro sorriso e mormorò  - Mi dispiace dottore, spero che vogliate perdonare il mio signor padre. –
- Non c’è nulla di cui perdonarlo. – rispose con un sorriso amaro Clermont, accompagnando la porta alle sue spalle per poi avviarsi verso l’uscita. Aveva una gran fretta di andarsene, non sopportava più quell’aria greve che sovrastava le stanze di quel palazzo, ne aveva abbastanza delle umiliazioni di un nobiliardo qualunque che si permetteva di metterlo alla berlina davanti a lei. Che cosa ne sapeva, Beaufort, di quello che c’era stato un tempo tra lui e sua moglie? No, non l’avrebbe mai saputo e soprattutto non l’avrebbe mai capito, non era uomo da comprendere certi sentimenti. Ma lei, Marianne, come aveva potuto sposare un individuo del genere? Un pari di Francia arrogante, gretto e meschino? Non se ne capacitava, stentava a riconoscerla, come si era potuta ridurre in balìa di quel damerino superbo ed altezzoso? Eppure quelle sue parole, quel suo tono piccato in sua difesa…
Stava rimuginando tra sé questi pensieri mentre si avviava a passo rapido giù per la scalinata quando si sentì chiamare.
-Dottor Clermont! – quella voce lo fece immediatamente arrestare.  La contessa de Beaufort, trafelata, lo stava per raggiungere, un’espressione amareggiata sul volto. Clermont si girò per lanciarle uno sguardo stupito.
- Vi devo delle scuse per il comportamento di mio marito. Non sempre la nobiltà di sangue trova corrispondenza in un comportamento garbato e cortese, come dovrebbe essere. Nel caso di Guillame ciò avviene raramente e soltanto in occasioni studiate. – parlò senza astio o concitazione, come se esprimesse un pensiero da tempo covato nella sua mente.
Clermont restò perplesso, turbato da quest’ammissione: non avrebbe mai immaginato di sentirla esprimere un tale giudizio sul conto del marito e per di più davanti a lui.
-Come ho detto a vostra figlia, non avete alcun motivo di scusarvi per il comportamento del conte, nella sua casa ha pieno diritto di far rispettare le sue regole.- le rispose pacato, controllandosi.
- Ma io desidero lo stesso porgervi le mie scuse. Non aveva alcun diritto di trattarvi in quel modo. Le sue parole hanno umiliato anche me. – continuò avvicinandosi a lui, lo sguardo basso.
-Non vi preoccupate, contessa. Non è successo nulla, ci sono abituato. Sono anni che ci sono abituato…- ribadì cercando i suoi occhi per fissare questa allusione, che tuttavia lei non sembrò cogliere.
Quest’ultima frase restò per un po’ sospesa tra loro, finché Clermont si congedò e Marianne restò a fissare la sua sagoma che percorreva nervosa gli ultimi gradini.
-Dottore! – lo richiamò nuovamente. Clermont prese un profondo respiro, chiuse gli occhi per dominarsi e si voltò, sul viso l’espressione più pacata che gli riuscì di trovare.
- Non sarebbe dovuta andare in questo modo. Perdonatemi. – aggiunse Marianne, forse un’allusione ad un lontano passato? oppure un riferimento all’accaduto di quel giorno?
 La frase, volutamente ambigua, lasciò ancor più perplesso Clermont che, imbarazzato e sfiancato da quella situazione surreale in cui si era venuto a trovare, rispose: - Non è colpa vostra, ma soltanto mia. Non avrei dovuto accettare questo incarico. D’ora in avanti, se Juditte dovesse avere ancora bisogno di cure, fareste meglio a rivolgervi ad un altro medico. Non voglio creare dissapori tra voi e vostro marito. Arrivederci, contessa de Beaufort. – Ciò detto, si avviò senza più voltarsi indietro verso l’atrio, gettando soltanto un fugace sguardo al giardino ormai lussureggiante, illuminato dal caldo sole di giugno.
Marianne de Beaufort, in piedi sulla scalinata, rimase a guardarlo finché non sparì dietro il pesante portone d’ingresso. Si torceva un fazzoletto tra le mani, lo sguardo perso in mille pensieri, quando una voce dal piano superiore la richiamò ai suoi doveri di contessa.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Ponthieu, settembre 1793
 
Una lieve brezza scuoteva le chiome degli alberi in quella tersa mattina di fine estate, mentre il sole dorava i vigneti del Ponthieu ormai prossimi alla vendemmia. L’abito estivo bianco da viaggio faceva risaltare ancor più il corpo esile ed aggraziato della contessa de Beaufort, che sotto l’ampio cappello, sorrideva salutando festosa i suoi familiari. Una carrozza attendeva lei e la piccola Juditte nel cortile del palazzo dei Blanchard, pronta per riportarle a Parigi, dopo un’estate trascorsa in campagna. Juditte aveva tratto giovamento da quei mesi passati nel Ponthieu, all’aria aperta, a correre nei campi, ad aiutare le contadine nella raccolta dei frutti, a giocare con gli animali, ad imparare a cavalcare. Il suo colorito era decisamente più roseo, il fisico irrobustito e l’aspetto più giocondo: non sarebbe per nulla al mondo voluta tornare a Parigi, ma la madre non le aveva lasciato speranze, sarebbero partite alla fine dell’estate per ricongiungersi con il conte suo padre, rimasto in città per alcuni suoi affari.
Quella mattina non fu affatto facile consolarla e convincerla a lasciare la sua stanza a palazzo Blanchard, ci volle del bello e del buono per far sì che si preparasse per il viaggio. Lì, sul piazzale antistante il palazzo, piangeva calde lacrime nel salutare i nonni, la dama di compagnia, la cuoca e tutti gli altri dipendenti che era riuniti per salutarle e augurare loro un buon viaggio.
-Marianne, mia cara, sei proprio sicura di voler tornare a Parigi? – le domandò sottovoce la madre, tenendole le mani, mentre tutt’attorno la servitù si prodigava nel sistemare i bagagli in carrozza.
- Sì, madre, dobbiamo ritornare. Guillame desidera così. – rispose Marianne abbassando lo sguardo: ogni desiderio del marito era un ordine a cui difficilmente si sarebbe potuto contravvenire.
- Vedi, la situazione a Parigi si sta molto inasprendo, io e tuo padre siamo molto preoccupati per quello che potrebbe capitarvi…-
- Lo so, madre. – la interruppe. – Io vivo a Parigi da anni, chi meglio di me potrebbe conoscere i rischi? Eppure non ci possiamo trattenere oltre, Guillame ci ha già concesso di trascorrere qui l’estate, mi rivuole con lui in questo momento difficile per la nazione. Anche lui ha paura. –
- Proprio per questo, Marianne, dovrebbe pensarci bene anche Guillame. Roland ci ha invitati Oltremanica, ha un salvacondotto, tuo padre sta lavorando per ottenere passaporti e certificati, perché non venire con noi?-
- State pensando di espatriare? – esclamò sorpresa Marianne. Nei tre mesi trascorsi con loro non ne aveva mai sentito parlare. Espatriare era forse l’unica soluzione per le famiglie aristocratiche, ma negli ultimi tempi i controlli erano sempre più serrati e la punizione per chi veniva colto sul fatto era quella di trovarsi faccia a faccia con madama Ghigliottina. I suoi genitori, dunque, covavano questo piano? Stavano trafficando per entrare in possesso di documenti falsi? Marianne trasalì al solo pensiero che qualcosa potesse andare storto. Aveva intuito che anche il marito fosse implicato in qualche intrigo non ben identificato, ma non avrebbe mai immaginato suo padre, generale dell’esercito, fedele alla Francia, in procinto di lasciare la nazione come un sorcio, nascosto nella stiva di qualche nave inglese.
- Sì, da tempo tuo padre tiene una corrispondenza con il barone Woodville, un amico di Roland. È questione di pochi giorni, poche settimane al più. Ce ne andremo, l’aria qui sta diventando sempre più irrespirabile, quel pazzo sanguinario di Robespierre…Per questo non sono tranquilla sapendoti a Parigi. Venite anche tu e Juditte con noi, Roland vi aspetta.
- Non è possibile, ve l’ho già detto. Ora dobbiamo partire. Arrivederci, madre. – si accomiatò posando un leggero bacio sulla guancia di sua madre.
- Per l’amor del Cielo, riguardati Marianne e abbi cura di Juditte. – le rispose lei, in pensiero.
Poi fu la volta di suo padre, il conte Auguste, in tenuta da caccia, che la salutò con un inchino e un lezioso baciamano.
-Marianne, comprendo quanto questi tempi siano difficili per la nazione e per noi tutti, ti fa grande onore restare accanto a tuo marito in questo delicato frangente. Beaufort è un uomo molto coraggioso e valoroso, si sta dimostrando un degno pari di Francia. Sii orgogliosa di lui! –
- Caro padre, sono molto orgogliosa di lui e di voi. La Francia ha bisogno di uomini come voi ed è per questo che ho deciso di sostenere Guillame fino in fondo e di non lasciare Parigi finché non la lascerà lui. Ma voi…ho saputo che state per partire…- accennò cauta.
Il padre fece cenno di abbassare la voce, non voleva che la servitù ascoltasse: - Sì, mia cara. Stiamo per partire per raggiungere Roland, tua madre ed io abbiamo preso questa decisione. Ti assicuro che è stata una decisione molto sofferta, ma non avevamo scampo né vie d’uscita. – rispose chinando la testa, come vergognandosi di una sconfitta.
-Capisco. Ma, vi prego, fate attenzione, se dovessero intercettarvi…-
- Non succederà, mia cara. Avremo le carte in regola e un aiuto dal barone Woodville, non sarà una passeggiata, ma sbarcheremo in Inghilterra sani e salvi. –
- Chissà quando ci potremo ritrovare! – sospirò Marianne con uno sguardo mesto, le lacrime agli occhi.
- Molto prima di quanto tu pensi. – rispose il padre, abbracciandola, senza curarsi di violare l’etichetta. Sapeva bene che non sarebbe stato così facile rivedersi, che la situazione era molto più complessa di quanto le avesse prospettato: Guillame non avrebbe mai acconsentito a lasciare Parigi e ad abbandonare i suoi piani controrivoluzionari, era un uomo troppo orgoglioso.
Marianne si sciolse dall’abbraccio e si avviò alla carrozza, tenendo per mano Juditte. Salì sul predellino senza guardarsi indietro, soltanto quando i cavalli si mossero e il rumore degli zoccoli risuonò nel piazzale, osò gettare uno sguardo fugace alla sagoma del palazzo che si allontanava dietro di lei, con il vago sentore che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto in vita i suoi genitori.
I cavalli presero un’andatura di trotto e, una volta usciti dall’arco che segnava l’ingresso della proprietà, si aprirono davanti agli occhi di Marianne gli assolati campi del Pointheu, i colli dolci digradanti verso la pianura, i vigneti ormai carichi di uva matura. Orti, campi, cascinali scorrevano a lato della strada, quando scorse, solitario ai piedi di un colle, un vecchio platano centenario e subito i ricordi le si affollarono nella mente.
Jacques era un tipo curioso, le riempiva la teste con quelle sue strane idee tratte dalle sue letture: uguaglianza, tolleranza, concetti astratti, lontani e quasi pericolosi alle orecchie di una giovane nobile. Eppure lei non si stancava di starlo a sentire mentre si infervorava nei suoi discorsi. Sapeva parlare molto bene, possedeva una rara eloquenza che ne avrebbe fatto un valido oratore se l’avesse voluto. Nonostante l’enfasi che metteva nei suoi sermoni, si rivelava poi estremamente timido in fatto di sentimenti. Arrossiva goffo e impacciato, della sua magniloquenza restava gran poco, ma quel suo sguardo dolce e tenero sopperiva alla mancanza di parole. Lo aveva amato anche per questo. Amava la sua intelligenza al pari della sua tenerezza, ne amava l’eloquenza e la goffaggine, amava quel ciuffo scomposto che non c’era verso di sistemare, quegli occhi scuri tanto profondi che celavano sofferenze ma anche grandi speranze, quella sua andatura composta, elegante e quel suo chinare lo sguardo umile e rispettoso. Quel platano era stato testimone di lunghi pomeriggi d’estate che si protraevano fino al crepuscolo, pomeriggi di letture, di scherzi, di baci appassionati, all’insaputa di tutti, lontani da quel mondo di stupide convenzioni che entrambi non riuscivano a tollerare. Eppure tutto era passato così rapidamente, come l’estate cede il passo all’autunno dopo un improvviso acquazzone. Perché non l’avesse più cercata; perché si fosse rassegnato, non riusciva a spiegarselo. Aveva sognato che ritornasse a palazzo, che la salvasse da quelle nozze indesiderate, che la portasse a Parigi con sé, non importava se in una stamberga o in freddo scantinato, avrebbe tollerato ogni cosa pur di stare con lui. Invece nulla, nemmeno una parola: l’aveva lasciata andare incontro al suo destino, aveva lasciato campo libero al superbo conte de Beaufort, che non l’amava né mai l’avrebbe amata, ma che era spinto dalla prospettiva di mettere le mani sui terreni della sua famiglia nel Ponthieu. La mattina delle nozze, agghindata e ormai pronta per la cerimonia, aveva indugiato a lungo alla finestra della sua stanza, con l’assurda speranza di vederlo arrivare al galoppo o di scorgerlo improntare la gradinata del palazzo con il suo passo elegante tra lo stupore della servitù. Ma si trattava soltanto di sogni ad occhi aperti, Jacques Clermont l’aveva abbandonata, si era scordato di lei, perso a seguire la sua gloria nelle vie di Parigi.
 
 
 
 
Le vie di Parigi sono luogo di incontri, anche sorprendenti talvolta. Una mattina di fine settembre Clermont si sentì chiamare a gran voce dall’altro lato della strada, alzò lo sguardo e scorse Bertrand Laroux che si sbracciava festante. Erano mesi che non si vedevano, da prima dell’estate. Quante cose erano cambiate nel frattempo! L’assassinio di Marat, l’ascesa di Robespierre, il maximum sui prezzi, quelle nuove disposizioni sempre più rigide. Anche Laroux era cambiato, vestiva un abito di foggia pregiata, con la coccarda tricolore in bella vista sul bavero, aveva un’aria ancor più spavalda del solito e un sorriso soddisfatto. Era sempre stato un giovane ambizioso e forse anche invidioso di lui, ma ora sembra aver placato la sua sete di gloria, almeno in apparenza.
-Mio caro Clermont, quanto tempo! – esordì facendoglisi incontro e battendogli una fraterna pacca sulla spalla.
- Come state, Laorux? Che ne è stato del vostro lavoro all’Ami du peuple? Avevate promesso che mi avrei letto qualche vostro articolo su quel giornale. – gli domandò curioso.
- Eh, amico mio, dopo la morte di Marat le cose hanno preso una brutta piega. Ma nella malasorte ho avuto anch’io la mia buona stella: grazie ad un amico – e rivolse l’indice verso l’alto per indicare la posizione eminente di costui – ho ottenuto un posto di segretario al Comitato di sicurezza generale. – rispose tronfio, appuntando i suoi penetranti occhi versi in quelli dell’amico.
- Da giornalista a gendarme, dunque. – constatò con un sorriso che voleva essere cordiale ma che tradì la sua ironia. Da medico ma anche da deputato non aveva mai avuto una grande opinione della categoria. Ne aveva visti fin troppi conciati per le feste dalla mano pesante di qualche gendarme, sia prima che dopo la Rivoluzione. Era un uomo di intelletto, non d’azione, anteponeva la forza delle idee a quella bruta delle mani.
- Non si tratta del termine più appropriato. Semplicemente mi occupo di verificare l’autenticità dei certificati civici e di sorvegliare sui sospetti. Lavoro di scrivania. Non mi vedrete facilmente venire alle mani con i controrivoluzionari, piuttosto ho facoltà di spedirli direttamente da madama Ghigliottina o di concedere la grazia. – sorrise compiaciuto, gli occhi brillavano di soddisfazione. Non seppe spiegarsi il perché, ma Clermont avvertì una sorta di disagio di fronte a tutta questa baldanza. Arrogarsi il compito di stabilire cos’è bene e cos’è male, essere arbitri del destino degli altri uomini, era qualcosa che aveva sempre respinto con tutte le sue forze. E temeva più di tutti quegli individui che si ergevano al livello di giudice supremo.  
- Senza dubbio un compito di grande responsabilità. Sono sicuro che agirete sempre per il bene della Repubblica. – si limitò a dire, accennando un sorriso forzato, ma sfuggendo al suo sguardo.
- Certamente, amico mio. Non dovrei rivelarvelo, ma proprio stanotte abbiamo avuto una soffiata, un complotto di nobiliardi e monarchici sventato grazie anche a me…ma basta! Non posso dirvi altro. Saranno presto assicurati alla giustizia, questi infami. – concluse battendosi con enfasi una mano sulla coscia. – E ora, mio caro Clermont, devo andare: il dovere mi chiama. Chissà che presto non udirete notizie di arresti illustri. -aggiunse strizzando l’occhio. – Viva la Repubblica. –
- Viva la Repubblica, Laroux. Abbiatene cura. – rispose Clermont congedandosi.
- Non ne dubitate, Clermont. – ribadì il giovane con il solito sorriso stampato in volto, prima di svoltare l’angolo e sparire nei meandri delle vie della capitale.
Clermont riprese la sua strada diretto a le Tuileries: era giorno di seduta della Convenzione. L’incontro con Laroux gli aveva lasciato un vago turbamento: quell’uomo aveva assunto un cipiglio da Dio in terra che non gli piaceva per nulla. Era sempre stato un giovanotto ambizioso, Bertrand Laroux, ma non aveva mai avuto un reale potere fra le mani, mentre ora si era appuntato come una medaglia il fatto di essere stato assunto per quell’incarico. Troppi individui, ottenuta la facoltà esercitare un qualsivoglia dominio sugli altri, sfociavano nell’abuso, nel sopruso, nell’arbitrarietà; troppe volte chi aveva la presunzione di detenere la verità, si era degradato a livelli di disumana scelleratezza pur di piegare il resto del mondo al suo pensiero. Mai il deputato Clermont avrebbe permesso di nascondere sotto il nome della Rivoluzione le più feroci nefandezze, mai il medico avrebbe acconsentito all’esercizio gratuito della violenza. In quegli stessi giorni, solo una settimana prima, l’arbitrio pareva essere diventato legge: la cosiddetta legge dei sospetti consentiva di perseguire, arrestare e condannare alla pena capitale non soltanto complottisti controrivoluzionari, nostalgici realisti e acclarati nemici della Costituzione: erano passibili di fermo e di condanna parenti di emigrati, cittadini che avevano dimostrato un amore troppo debole nei confronti della Repubblica, persone che per un motivo qualsiasi si trovavano sprovviste di certificato civico. Un clima di terrore aveva pervaso le strada di Parigi e della Francia, un’atmosfera cupa di sospetto, diffidenza e violenza. La piega che gli eventi stavano prendendo non lo lasciava sereno, eppure mai avrebbe tradito la causa rivoluzionaria e giacobina che aveva sposato. Immerso in questi pensieri, si ritrovò proprio di fronte a le Tuileries, avanzò verso l’ingresso, mostrò il proprio certificato identificativo alla guardia di turno e fece il suo ingresso nella sala di riunione della Convenzione.
 

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


Elenoire di Roussignac non aveva, agli occhi dei più, concluso un buon matrimonio. Ribelle per sua natura, si era incaponita con l’idea di sposare un intellettuale senza arte né parte, poco versato in duelli e pratiche belliche, privo di particolare talento per gli affari, ma con un’approfondita conoscenza della legge e del pensiero degli ideologues, con cui si piccava di aver più volte conversato nei caffè di Parigi: il visconte André de Brionne. Non un uomo ricco, né forse abbastanza altolocato per compiacere la famiglia della moglie, ma dall’animo tanto nobile e dalla mente tanto aperta da conquistarsi l’amore di Elenoire. Brionne, infervorato dai suoi studi, si era votato alla causa dei rivoluzionari, era stato eletto agli Stati Generali del 1789 tra le file del Terzo Stato; aveva in seguito lasciato l’impegno politico, spinto dalla sua indole schiva e riservata, ma conservava tuttavia amicizie e conoscenze persino tra i montagnardi.  Elenoire andava fiera di questo ed era una delle poche nobildonne rimaste a Parigi a potersi mostrare in pubblico senza temere di poter essere insultata, provocata o aggredita da sanculotti esasperati o da popolane riottose. Nonostante le loro strade si fossero divise a causa delle inclinazioni politiche differenti dei rispettivi consorti, Elenoire non aveva mai dimenticato l’amica di gioventù, Marianne de Blanchard, e, sfidando il veto opposto dal conte di Beaufort, si recava di quando in quando a farle visita, per ritemprarle il morale e accoglierne le confidenze circa l’infelice matrimonio. 
-Marianne cara, non sai quanto ti abbia ammirata per la tua decisione di ritornare a Parigi. Per me è diverso, ma per te non deve essere facile. Dover restare chiusa in casa, vivere nell’incertezza, nel timore costante…- Elenoire sorseggiava una tazza di tè bollente, comodamente seduta sulla poltrona color senape della stanza dell’amica Marianne, che con aria trasognata e malinconica fissava le nuvole che correvano veloci nel cielo del pomeriggio. La camera era avvolta dalla luce incerta dell’autunno, liquida e dorata, il silenzio infranto solo dal tintinnio del cucchiaino nella tazza. 
- Non lo è, Elenoire. Non è affatto facile restare qui, dove non siamo certo i benvenuti. Sei l’unica amica che mi è rimasta, tutti gli altri se ne sono fuggiti o, peggio, il popolo di Parigi ne ha visto rotolare la testa in piazza della Rivoluzione. È tutto così ostile, così minaccioso. Ma non temo per me, temo per Juditte. – concluse dopo  qualche istante, distogliendo gli occhi dalla finestra per fissare con sguardo disperato quelli dell’amica. 
- Eppure avreste potuto fuggire, andare da Roland, con i tuoi genitori. Perché non l’hai fatto, Marianne? – domandò sinceramente impensierita Elenoire.
- Guillame. Non l’avrebbe mai tollerato. Non ha alcuna intenzione di lasciare Parigi. Sta tramando non so che, non so con chi. È sempre chiuso nel suo studio, riceve personaggi ambigui oppure sparisce per alcuni giorni. Non oso pensare ai piani che sta tessendo, conoscendolo non può che essere qualcosa di pericoloso che ci arrecherà soltanto danni. – spiegò scuotendo la testa, sconsolata. 
- Guillame è sempre stato un uomo orgoglioso, per questo non lascerà Parigi finché non avrà portato a termine i suoi progetti. Ma tu, Marianne, perché non te ne sei andata? Lo ami a tal punto da sacrificare la tua vita per stargli vicino? – chiese con una punta di incredulità nella voce nel pronunciare quest’ultima domanda. 
- Sai bene che non è così. – la zittì l’amica, con un moto di stizza. 
- E allora perché? – domandò nuovamente Elenoire, prendendole la mano. 
- Perché non ho abbastanza coraggio per oppormi al suo volere, perché mio marito mi tiene in pugno, esercita un tale potere su di me che io non potrei mai venir meno ad un suo ordine. Se volesse, potrebbe distruggere la mia vita in un battito di ciglia: potrebbe portarmi via Juditte. Lo capisci questo? – Marianne tratteneva a stento le lacrime, gli occhi arrossati, le labbra contratte in una smorfia. Appoggiò maldestramente la tazza sul tavolino davanti a lei, il tè scuro si riversò sulla tovaglia di pizzo. Si alzò di scatto e si avvicinò alla finestra, appoggiando la fronte al vetro. 
Elenoire fissava desolata l’amica, sbocconcellando nervosamente i biscotti da tè; conosceva fin troppo bene Marianne: lei, di solito così controllata, si spingeva a gesti inconsulti, che contravvenivano alle norme della buona educazione, soltanto giunta al limite della sopportazione. La tensione, il clima ostile di Parigi, l’intransigenza di suo marito e la sua cocciutaggine nella strenua difesa degli antichi privilegi, avevano messo a dura prova di nervi di Marianne. Elenoire si alzò e le si avvicinò, annunciata dal fruscio della veste sul pavimento. Posò dunque una mano sulla spalla dell’amica:
-Tuo marito è un uomo deciso, risoluto, abituato al comando, ma non lo credo capace di fare una cosa simile. Portarti via Juditte. Per che cosa, poi? Per averla messa in salvo da un pericolo concreto? Di’ la verità, Marianne, è stato lui a minacciarti? – 
Lei si voltò e le sorrise riconoscente: - Elenoire, sappi che apprezzo molto la tua premura e te ne sono grata-
-Per la mia più cara amica questo non è nulla, vorrei poterti aiutare di più.-
- Conosci Guillame, non ha mai detto una cosa simile, non si è mai permesso di esprimere a parole una tale minaccia. Ma lui è ancora molto potente, ha amicizie altolocate, giudici, avvocati: quando le cose torneranno come prima (perché torneranno come prima, amica mia, la Rivoluzione non durerà in eterno) avrà tutte le armi per rivalersi su di me. E la prima cosa che farebbe, sarebbe sottrarmi Juditte, se io facessi la stessa cosa con lui. No, è fuori discussione: senza il consenso di mio marito, non andremo da nessuna parte. – concluse a capo chino, assorta nelle greche del tappeto. 
Elenoire di fronte a queste parole non poté far altro che tacere, ritornando al suo posto e accomodandosi nuovamente sulla poltrona, con un’espressione mesta e impotente sul viso. Assistere alla sofferenza degli amici senza poter intervenire in loro soccorso è una prova molto dura per un essere umano dotato di sensibilità. Anche Marianne si sedette, proprio di fronte a lei, ma ne evitò in ogni modo lo sguardo. 
Restarono così, in silenzio, per diverso tempo, mentre la luce del pomeriggio pigramente sfumava in quella della sera, confondendo i contorni degli oggetti della stanza: le tende scure, i ritratti alle pareti, il grande specchio, tutto si scoloriva sfumando nell’indistinto. Quell’atmosfera sospesa venne improvvisamente interrotta da un bussare convulso alla porta. Entrambe le donne si voltarono sobbalzando. 
-Signora contessa, aprite vi prego. Aprite! – la voce turbata di Louise si stagliò nella penombra. Le due amiche si guardarono per un istante, allarmate, quindi Marianne si diresse senza indugi alla porta e la spalancò.
- Che succede, Louise? Che cos’è questo tono concitato? – domandò dominando la sua stessa ansia.
- Non avete idea, contessa, non avete idea di quello che è successo…-riuscì a spiccicare la devota serva, portandosi le mani al volto. 
- Dimmi, dunque, non tenermi sulle spine! – la incalzò, mentre Elenoire sopraggiungeva impensierita.
- Il signor conte è stato arrestato. Questa mattina mentre si trovava nel palazzo di madame Brizay. – 
Marianne ammutolì, non la scalfì nemmeno il riferimento alla ben nota amante di suo marito: suonava quasi beffardo che l’avessero arrestato mentre si trovava in sua compagnia, quasi che anche la gendarmeria fosse a conoscenza delle dubbie frequentazioni del conte di Beaufort. Calò per qualche istante il silenzio nella stanza, interrotto soltanto dal battito regolare della pendola. 
-Che cosa?!– domandò invece stupefatta Elenoire ad un certo punto. 
- Proprio così, madame. È stato condotto in carcere con l’accusa di tramare contro la Rivoluzione. Ho raccolto le voci di strada. Credo che fra poco la guardia nazionale si presenterà a palazzo per comunicarvelo ufficialmente. – 
- Oh mio Dio! – esclamò Elenoire, mentre l’amica restava muta, immobile, pietrificata. – Sapete questo che significa? – le due donne tacquero, come incoraggiandola a continuare il discorso. – Significa che anche tu, Marianne, sei passibile di arresto! – concluse portandosi una mano alla fronte. 
- Come sarebbe a dire? – domandò incredula la contessa de Beaufort, rivolgendole uno sguardo smarrito. 
- La legge dei sospetti! È di pochi giorni addietro, André non parla d’altro. I congiunti degli arrestati sono anch’essi perseguibili, specie se nobili. Madri, padri, moglie, fratelli, figli e figlie di sospetti controrivoluzionari, nobili emigrati o fedeli realisti possono essere imprigionati, per l’unica colpa di avere con questi un legame di parentela. –
Marianne si accasciò sulla poltrona, spossata, incredula più che spaventata: non aveva ancora messo ben a fuoco la sua delicata situazione. 
– Padrona! – esclamò preoccupata Louise, avvicinandosi a lei per farle aria con un fazzoletto. 
-Non è niente, Louise, non è niente. Vai pure, lasciami con madame de Roussignac.- La domestica le si inchinò devotamente e poi, mormorando qualche espressione angosciata, uscì dalla stanza, ormai buia. 
- Marianne, devi partire, subito! – la spronò l’amica. – Non c’è più tempo! Devi raggiungere i tuoi genitori nel Ponthieu e di lì salpare verso l’Inghilterra. Non ci sono altre soluzioni. – chiarì concitata Elenoire, scuotendo la testa senza darsi pace. Marianne non rispondeva, persa in chissà quali pensieri, figurandosi chissà quali foschi scenari. Elenoire credette per un istante che penasse per le sorti del conte di Beaufort, ma scacciò ben presto quell’idea: era convinta che per Marianne l’uscita di scena di Guillame non potesse essere altro che una liberazione. E allora perché non reagiva? Perché non si ingegnava per sfuggire all’arresto? Il tempo stringeva, scandito dal battito nervoso dell’orologio a pendola. 
Un servo in quel momento entrò per accendere le candele, un secondo fece il suo ingresso con un vassoio di pietanze e si scusò dicendo: - Louise vi ha fatto preparare in anticipo la cena per non intralciare più tardi i vostri discorsi, dice. – Era evidente che la fedele domestica auspicasse una pronta partenza della padrona e la aveva dunque fatto preparare in fretta e furia la cena. Marianne lo capì e nel suo cuore gliene fu grata, tuttavia non era proprio il momento adatto per consumare la cena: lo stomaca le si era del tutto chiuso. 
-Molto bene, Gabriel, lascia pure qui il vassoio. – lo ringraziò Marianne, riacquistando la voce. 
Non appena i servi se ne furono andati, Elenoire riprese ad incalzarla: 
-Devi mandare a chiamare la tua domestica e far preparare Juditte per il viaggio. Nel frattempo io penserò a procurarvi una carrozza: mio marito ci potrebbe venire in aiuto…- rifletteva a voce alta, camminando nervosamente per la stanza in cerca di una soluzione che sottraesse l’amica a quel pericolo imminente.
- Ti ringrazio, Elenoire, ma come potrei fare? Ci vorranno almeno due giorni di viaggio e io non so se in queste condizioni…- 
La conversazione venne interrotta da un nuovo bussare alla porta. Questa volta fu il maggiordomo a fare il suo ingresso nella stanza.
-Contessa, non avrei mai voluto darvi questa notizia ma… - tergiversò l’uomo, vagando con lo sguardo per la stanza.
- Parla, Dominique, che è successo d’altro? – 
- Vedete…il conte ha parlato, ha fatto nomi. Secondo le ultime voci, insomma, non ne sono certo ma… ho sentito che…- cercava le parole adatte per formulare quella frase che avrebbe preferito non dover mai pronunciare. 
- Per Dio, parlate! – lo incitò Elenoire, avvicinandosi con piglio deciso. 
- Ecco…il signor conte de Blanchard e la signora contessa sono ricercati. Pare che stiano seguendo una pista che li vorrebbe pronti per espatriare. - 
Marianne ebbe un mancamento, si appoggiò al braccio dell’amica: - Non è possibile…non è possibile…- mormorava incredula. Elenoire fu pronta a sorreggerla: aiutata dal domestico l’accompagnarono sul divanetto dove la fecero stendere. 
-Ne siete proprio sicuro? – si accertò la contessa de Brionne rivolgendo uno sguardo diffidente al maggiordomo, troppe volte aveva udito fandonie pronunciate dalla servitù, che si infervorava ad ogni minimo pettegolezzo. 
- Madame, ho raccolto quel che si dice in giro. Non ne sono sicuro, la fonte però pare attendibile. Per conferma dovreste attendere l’avviso di garanzia della guardia nazionale. – sembrò infine quasi sfidarla Dominique. 
Marianne intanto si era messa a sedere, la bionda chioma sparsa in modo scomposto sullo schienale, gli occhi vitrei, impassabili, fissi sul pavimento. Ogni piccolo movimento le costava un enorme sforzo, i suoi sensi erano interamente tesi a metabolizzare le notizie ricevute. Ricacciava le lacrime, aggrottava le sopracciglia, chiudeva gli occhi, serrava le labbra, si ingegnava in ogni modo per trovare una via di fuga da quell’intricata situazione che tutt’un tratto le si era parata davanti.
Elenoire congedò il maggiordomo, intimandogli di restare a disposizione per l’intera serata, poi si sedette di fronte all’amica prendendole le mani fra le sue, mentre l’arrosto languiva sul vassoio posato sul tavolino in mezzo a loro. Sempre quei dannati rintocchi a scandire il poco tempo che avevano a disposizione, pensò.
-Non c’è più alcuna speranza, Elenoire. È finita. Per i miei genitori, per me e per Juditte. L’unica soluzione possibile, fuggire con loro, è andata in frantumi. Che cosa mi resta da fare, ora, se non attendere che le guardie giungano a prendermi per seguire la loro stessa sorte? Forse è giusto così, che condivida in tutto e per tutto il destino della mia famiglia e di mio marito. E di tanti altri aristocratici come noi. – constatò amaramente. Elenoire le poté leggere un’ombra cupa che non le aveva mai visto in quegli occhi celesti, malinconici ma mai disperati. 
- Se solo André avesse conservato il suo incarico di deputato! Ma purtroppo ormai non ha più voce in capitolo, la sua posizione di nobile poi non incontra molte simpatie fra i giacobini più accesi…- si dannava l’anima Elenoire cercando disperatamente un modo per sottrarre l’amica al suo destino. La notte intanto si era impadronita delle strade, il buio era calato oltre la finestra, non solo nel cuore di Marianne de Blanchard. Forse poteva ancora sperare di aver ancora qualche ora a disposizione, che le guardie si presentassero all’alba del nuovo giorno. Ma a che cosa sarebbe servita una manciata di ore senza alcun appiglio, alcun espediente, alcun aiuto?
- Non ti crucciare, Elenoire, tuo marito non potrebbe far nulla per me: non è deputato, non è giacobino dunque non verrebbe nemmeno ascoltato. – le rivolse un sorriso riconoscente pur nell’angoscia. – Nessuno mai potrebbe aiutarmi. –
-Eppure ci deve pur essere un modo, una soluzione…- l’amica non si rassegnava, mentre scuotendo la testa, i suoi splendidi boccoli castani le ricadevano sulle spalle. 
- Una via d’uscita ci sarebbe. – mormorò ad un tratto Marianne, senza levare lo sguardo da terra. Elenoire si mise in ascolto, tutta orecchie. 
- E quale sarebbe? – domandò, mentre un barlume di speranza tornava a farsi strada nei suoi occhi.
- Me ne vergogno, mi costerebbe molto dover ricorrere a questo. – rispose a mezza voce la contessa Roqueville di Beaufort alzando ad un tratto i suoi vividi occhi azzurri da terra per piantarli in quelli dell’amica, come in cerca di sostegno, di approvazione.
- Marianne, è in gioco la vita tua e quella di Juditte. Non c’è prezzo che non possa essere pagato per questo. – cercò di infonderle sicurezza, stringendole le mani e cercandone lo sguardo sfuggente nella luce incerta della candela. 
Per qualche istante il silenzio si impadronì della stanza. I respiri trattenuti, i rumori attutiti che giungevano dalla strada, i rintocchi della pendola, il vociare sommesso e concitato della servitù per i corridoi non valsero a scalfire quel muro di muta tensione che aleggiava su di loro. 
- Jacques Clermont. – proruppe infine Marianne, infrangendo l’atmosfera sospesa di quegli attimi. Quanto le costò pronunciare quel nome non avrebbe saputo dirlo, ma il sospiro profondo che seguì poté farlo intuire all’amica. 
- Clermont? – domandò incredula Elenoire. Erano anni che non udiva il suo nome, anni che ne aveva completamente perso le tracce. Evidentemente non era stato così per Marianne, ma non poteva fare a meno di stupirsi che non gliene avesse mai parlato nelle sue confidenze. 
- Sì, proprio lui. Il deputato, il dottor Jacques Clermont, eletto alla Convenzione tra le file dei giacobini. – spiegò abbassando il capo e portandosi le mani al volto. – La persona perfetta, non è così? – domandò in tono ironico con un sorriso sardonico appena abbozzato. Ma Elenoire non si fece incantare, scorse le lacrime che le riempivano gli occhi, pronte a scivolarle rapide sulle guance. 
- Come…come fai a sapere tutto ciò? L’hai forse rivisto? – domandò turbata. Era stata sua complice in molte occasioni, aveva fatto da tramite, l’aveva più volte aiutato ad incontrare Marianne; poi, in seguito, ne aveva perso ogni traccia. In seguito a quella tragica notte in cui le si era presentato sconvolto, sanguinante, disperato; ma di questo Marianne non sapeva né avrebbe mai dovuto sapere nulla.   
- Sì, l’ho rivisto. – rispose laconica Marianne, si alzò e si passò una mano sulla fronte, aggirandosi inquieta tra le poltrone. – Ma non c’è stato nulla, Elenoire. – prevenne la domanda dell’amica rivolgendole uno sguardo carico di dolore e nostalgia. 
- Non alludevo a questo. – si giustificò l’amica. – Devi trovarlo, devi rivolgerti a lui. Stasera stessa. – la incoraggiò.
Marianne arrestò per un istante il suo peregrinare senza meta. Si voltò di scattò verso l’amica, gli occhi luccicanti di lacrime trattenute.  
-Come posso chiedergli una cosa simile? – domandò allargando le braccia in segno di resa.
- Se tu non gli chiedessi aiuto in questo frangente, non te lo perdonerebbe mai. -  

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***


Una vera seccatura doversi intrattenere fino a quell’ora tarda tra scartoffie quali rapporti ufficiali, resoconti di indagini, lettere di protesta e quant’altro, ma questo era il dovere di un deputato e principalmente di un giacobino dedito alla causa. Così si convinceva tra sé, un sorriso ironico sulle labbra, mentre, in maniche di camicia e con aria trasognata intingeva compulsivamente la penna d’oca nel calamaio per vergare un’ultima relazione prima che la smozzicata candela sulla scrivania esalasse l’ultimo bagliore.
Stava per riporre la penna nel suo astuccio, riordinare le carte per poi andare a coricarsi, quando all’improvviso nel silenzio della casa si stagliarono dei colpi nervosi battuti sulla porta. Gli capitava molto raramente di ricevere visite a quell’ora di sera, se non qualche amico ubriaco di tanto in tanto che chiedeva ospitalità, perciò immaginò che si trattasse di un’urgenza, di qualche paziente che avesse bisogno di lui.
-Arrivo, aspettate. – gridò, afferrando con gesto rapido il panciotto dallo schienale della sedia e cercando con lo sguardo la borsa coi ferri del mestiere, pronto ad afferrarla all’occorrenza.
Trafelato, sollevò il chiavistello e spalancò la porta. Davanti a sé apparve una donna, avvolta in un rozzo mantello marrone di lana grezza il cui cappuccio le copriva gran parte del capo.
-Qualcuno ha bisogno di me? – domandò Clermont, avvertendo una lieve nota di ansia che si faceva strada in lui di fronte a quella strana sagoma di cui non scorgeva il viso nella penombra dell’androne.
La donna sollevò il cappuccio con un gesto tanto garbato che non si addiceva certo ad una rozza popolana. Due occhi azzurri, vividi e malinconici nello stesso tempo, lo fissarono muti per qualche istante. Clermont trattenne il fiato: tutto si sarebbe aspettato, ma non questo. Indietreggiò come spaventato, aggiustandosi d’istinto la camicia ancora aperta sul petto, e con voce turbata domandò: - Voi? Che ci fate qui? –
Marianne abbassò il viso, timorosa, quasi colpevole: - Ho bisogno del vostro aiuto. Non mi sarei mai permessa di scomodarvi in altre circostanze, ma non ho avuto scelta. – rispose in un bisbiglio.
-Entrate. – e così dicendo si scostò dalla soglia per farle strada nella sua casa.
Un’abitazione sobria, dignitosa, fiocamente illuminata dalla luce delle poche candele ancora accese, una cassapanca aperta ricolma di libri, un divanetto dalla stoffa non certo pregiata a righe bianche e blu, una poltrona scura, di taglio più pregevole, una misera scrivania su cui giacevano sparse numerose carte illuminate dai bagliori di un moccolo prossimo alla consunzione.
Clermont prese una sedia e la invitò a sedersi: - In che cosa posso servirvi? – domandò ostentando distacco, mentre con la mano si accarezzava il mento ispido di barba. Evitava accuratamente di guardarla negli occhi e per questo si aggirava nervoso per la sala, fermandosi di quando in quando per sistemare oggetti lasciati in disordine.
-Non mi sarei mai premessa di importunarvi, vi dicevo, se non si fosse trattato di una questione della massima delicatezza. – prese a parlare lei, titubante, incerta, tormentandosi le mani sotto al mantello. Clermont taceva, respirava profondamente, sperando con tutto se stesso che lei non si accorgesse del suo estremo turbamento.
- Vedete, oggi mi sono giunte due notizie. Due notizie che hanno stravolto la mia esistenza. Non solo, hanno messo in pericolo la mia stessa vita e quella di mia figlia. – proseguì prendendo coraggio. Lui trasalì a quelle parole, ma non si concesse nemmeno allora di sollevare lo sguardo per incrociare quegli occhi azzurri che l’avevano tormentato per anni nei sogni più dolci e negli incubi peggiori.
- Il conte de Blanchard mio padre e la contessa mia madre sono ricercati. Stanno fuggendo in Inghilterra ed io ne ero a conoscenza. A rivelare il loro nome pare sia stato mio marito, il conte de Beaufort, arrestato questa mattina mentre si trovava nel palazzo della sua favorita, madame de Brizay. L’accusa è quella di aver tramato contro la Repubblica, di avere sostenuto la causa degli insorti in Vandea. Così si vocifera, così mi ha riportato la servitù. Voi conoscete bene quanto riporta la recente legge dei sospetti, voi sapete altrettanto bene quali pericoli corriamo io e mia figlia Juditte. – parlò tutto d’un fiato per la paura che le parole le venissero meno in quel frangente concitato, per il timore che la presenza silenziosa di lui la rendesse incapace di esporre quella così delicata richiesta. – Mi rivolgo a voi per un aiuto. Siete l’unico che potete aiutarci a fuggire all’arresto. Non lo chiedo per me, no, io avrei seguito docile il destino riservato a quelli come noi; ve lo chiedo per Juditte, lei non ha colpe. – gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime, ma fu abile a trattenerle.
Il deputato aveva ascoltato con apprensione crescente le sue parole. Non era a conoscenza dell’arresto di Guillame de Beaufort, anche se le voci che circolavano nei palazzi del potere riferivano di arresti illustri, di complotti sgominati, di nobiliardi finalmente assicurati alla causa della giustizia quel mattino. Non sapeva neppure che i conti de Blanchard non avessero avuto fortuna nel loro maldestro tentativo di fuga: certamente Auguste de Blanchard era implicato nelle trame del genero, era colluso con i realisti dell’esercito, con i vandeani. Beaufort, nel tentativo di alleggerire la sua posizione, non aveva esitato a tradire il suocero. Bel quadretto familiare, non c’era nulla da dire: avrebbero avuto quel che si erano meritati, finalmente. La giustizia aveva fatto il suo corso ed ora avrebbe consegnato nelle mani di madama Ghigliottina quegli arroganti avanzi di un mondo ormai prossimo alla definitiva scomparsa. La sua proverbiale repulsione nei confronti della violenza ebbe un involontario cedimento in quel frangente: gli procurava un inquietante piacere l’immagine di certe teste che rotolavano sulla pubblica piazza. Ma poi un pensiero angosciante gli si affacciò alla mente: la Legge dei sospetti, appena approvata dagli stessi Giacobini, non avrebbe lasciato scampo nemmeno a Marianne. Forse non le sarebbe toccato in sorte il patibolo nell’immediato, ma sarebbero bastati anche solo dei minimi sospetti della sua conoscenza degli intrighi del marito o del padre per decretarne la rovina, la condanna a morte. E la piccola Juditte? Le sarebbe stata senz’altro portata via, forse affidata ad una famiglia oppure lasciata a marcire in un orfanotrofio. Così accadeva per i figli degli aristocratici giustiziati. Eppure, come aiutarla? Come salvare la sua vita senza tradire il suo ruolo, i suoi principi rivoluzionari?
Raccolse tutte le sue forze per risponderle: - Signora, il vostro racconto mi turba e mi rincresce, ma non vedo come io possa aiutarvi. Dovreste chiedere la grazia in carta bollata alla Convenzione, al Tribunale Generale, a Maximilien de Robespierre, io sono un semplice deputato, non ho voce in capitolo in questi casi. – provò a schermirsi, appuntandole gli occhi nei suoi, come a volere sfidare se stesso. Marianne tremò sotto quello sguardo severo, deciso, che poco conservava della tenerezza di quei pomeriggi giovanili.
-Voi potete, invece. Potete procurare a me e Juditte un certificato civico, o meglio un lasciapassare, un qualche documento che ci permetta di espatriare sotto altra identità. – lo incalzò, aggrappandosi alla speranza di poter far breccia in qualche modo nel suo cuore, sforzandosi di non affliggersi troppo per quel suo distaccato contegno, per quel secco diniego che sembra opporle.
- Non mi è possibile. – rispose lui, laconico, serrando la mascella e corrugando la fronte. Scosse il capo per enfatizzare ancor più quelle parole, poi si rintanò nella penombra, accanto alla finestra, fissando con noncuranza il paesaggio al di fuori.
Marianne si alzò dalla sedia e timidamente gli si avvicinò: non capiva nemmeno lei dove riuscisse a trovare la forza per sostenere quella penosa conversazione con un uomo che pareva così profondamente cambiato, così distante, inflessibile.
-Sì che lo è. Basta una vostra parola. Siete un deputato dopotutto, non vi sarà difficile aver accesso al comitato di Sicurezza Generale, avrete sicuramente qualche conoscenza…- insistette con la forza della disperazione.
- Avete idea di quello che mi state chiedendo? Mi state domandando di infrangere la legge! Di tradire la Repubblica! – alzò la voce, con un’espressione talmente risentita che la contessa de Beaufort batté in ritirata.
- Perdonatemi, ho sbagliato a venire qui, ho sbagliato a chiedervi questo. – mormorò dopo lunghi istanti di silenzio e fece per dirigersi verso l’uscita.
Clermont le dava le spalle, immobile, le braccia conserte, lo sguardo fisso davanti a sé, incapace di qualsiasi movimento.
Marianne fece per scostare la porta ed uscire, ma si fermò ancora per un attimo.
-Eppure un tempo dicevate di amarmi. – sospirò profondamente aggiustandosi il cappuccio. Il deputato trasalì a quell’allusione, ma non accennò a voltarsi, in apparenza impassibile.
- Un tempo, in un’altra epoca…- provò a giustificarsi, ponendo una distanza invalicabile tra sé e lei.
- Per me non è così. – esclamò lei, tornando sui suoi passi e scoprendosi nuovamente il capo. La chioma bionda si stagliava nella penombra. Clermont non poté far altro che voltarsi a guardarla, muto, stupefatto. – Io ti ho sempre amato, Jacques, e non mentirei se ti dicessi che ti amo ancora. – aggiunse avvicinandosi a lui e fissandolo negli occhi con un’insospettabile audacia.
Clermont scostò lo sguardo, con fare che sarebbe potuto sembrare sdegnoso ma che era dettato solamente dal turbamento di quelle parole. Inspirò profondamente, si portò una mano al volto, la passò nervosamente tra i capelli, scompigliandoli, sotto gli occhi trepidanti di lei, che non accennava a dargli tregua con quelle sue occhiate così sorprendentemente coraggiose. Che cosa rispondere ad una dichiarazione del genere? Erano passati anni, addirittura un decennio, senza che avesse avuto notizie di lei, anni di silenzio, di solitudine, di rimpianto; e proprio quella sera, in preda al terrore per un possibile arresto, aveva avuto l’ardire di presentarsi a casa sua e spiattellargli in faccia quelle parole? Suonava come una beffa, come un’esca per farlo abboccare; si stava certamente prendendo gioco di lui, del suo antico sentimento di devozione. Riprese a misurare a passi nervosi la stanza, a capo chino, i pugni stretti. Dopo lunghi attimi di silenzio, che parvero a lei interminabili, ritrovò la forza di parlare:
-Sono passati molti anni, madame. Non avete alcun diritto di utilizzare quell’antica storia per indurmi a tradire il mio ruolo, a venir meno al patto di lealtà nei confronti del popolo francese che da deputato mi sono impegnato a rispettare. – la fissò con riacquistata baldanza, la forza degli ideali che l’aveva sempre sostenuto nei momenti più bui.
Marianne scosse la testa con un movimento quasi impercettibile, sospirando amaramente, poi con la voce rotta dal pianto che le opprimeva la gola riuscì a ribattere:
-Non vi sto chiedendo di tradire i vostri ideali, vi sto chiedendo clemenza non tanto per me, quanto per mia figlia, un’innocente, che non deve scontare le colpe di suo padre. –
- Non è in mio potere concedere la grazia, mi dispiace, mi avete sopravvalutato. – seguitò a resistere, ostinandosi in questo gioco di forza che gli stava logorando i nervi.
- Dove se ne è andata la vostra umanità, la vostra pietà? Io vi conoscevo un tempo come un uomo onesto, leale, capace d’amore; che cosa siete diventato ora?– lacrime di sconforto, rabbia, delusione le rigavano silenziose il viso.
- Lo sono ancora ed è per questo che non posso tradire il mio amore per la Giustizia; non posso tradire la Repubblica, unico motivo per cui abbia mai avuto senso vivere e lottare. – ne sostenne a fatica lo sguardo pronunciando queste parole con una punta di soddisfazione nel rinfacciarle tutto ciò.
La contessa de Beaufort, umiliata, sconfitta, ormai allo stremo delle forze nervose, si rassegnò infine. Si avviò, questa volta senza indugiare, verso la porta, fuggendo da quegli occhi scuri diventati così distanti, così spietati. Si era sbagliata, Elenoire: i fantasmi del passato non andrebbero mai rievocati, pena la delusione, la riapertura di vecchie ferite, la mortificazione.
I suoi passi frettolosi risuonarono nell’atmosfera carica di tensione della stanza, la porta cigolò sui cardini quando il silenzio sospeso di quegli attimi venne inaspettatamente interrotto:
-Un’ora prima dell’alba a porte de Clignancourt. Lì troverete un carretto, il carretto di un ortolano. Domandate di David Bonnet, il carrettiere: saprà lui dove condurvi. –
Un sorriso di immensa gratitudine e di nuova speranza si stampò sul volto di Marianne de Beaufort, senza che lui, alle sue spalle, potesse scorgerlo.  

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Capitolo 10
*** Capitolo IX ***


Correvano veloci campi, alberi, casolari, sagome ai lati della strada, nella luce chiara del primo mattino. I raggi del sole autunnale rendevano liquidi i colori accesi dell’estate e si posavano delicati sul viso del cocchiere. David Bonnet, l’aria stanca ma vigile, lanciava sguardi attenti intorno per accertarsi di non essere seguito da nessuno; sotto il tendone, in mezzo alla frutta e alla verdura di stagione, madame de Beaufort, la piccola Juditte e la fedele serva Louise, sobbalzavano, intirizzite dal freddo, ad ogni scossone del carretto sulle strade dissestate di campagna. Da quando erano salite a bordo in città a quando avevano superato definitivamente i sobborghi erano state chine, silenziose, avvolte nei loro mantelli. Bonnet aveva constatato con sollievo che non c’era bisogno di richiamare all’attenzione, di riprenderle o rimproverarle; del resto non avrebbe saputo come rivolgere ordini ad una nobildonna, nemmeno se si fosse trattato di un pericolo di vita: si sarebbe trovato in grande difficoltà nel rivolgersi a lei. Madame de Beaufort, tuttavia, non aveva avuto nulla da obiettare, aveva docilmente seguito tutte le sue indicazioni, incoraggiando la figlioletta e la domestica a fare lo stesso. Per un paio d’ore erano state nascoste tra cavolfiori, ortaggi, patate e carote, con il fiato sospeso, poi, appena fuori dai centri abitati, il carrettiere aveva dato loro la voce, annunciando lo scampato pericolo. La strada, tuttavia, era ancora lunga e dunque le aveva pregate di aver pazienza e di mettersi comode. Uno strano tipo, quel carrettiere, pensava Marianne, taciturno e schivo, non aveva fatto domande, non si era permesso di commentare la loro fuga: Clermont doveva averlo già informato di tutto, si trattava di una persona fidata.
Solo quando il sole si stagliava ormai alto nel cielo azzurro solcato dai rami secchi degli alberi, Marianne si avvicinò al conducente e, al di là del telo, prese la parola:
-Signor Bonnet, scusate se vi disturbo, ma è da ore che siamo in viaggio, vorrei sapere la meta, non ci avete detto nulla in proposito. – esordì titubante, quasi porre quella domanda fosse una colpa.
David Bonnet si girò di scatto, senza mollare le redini, sorpreso da quella domanda. -Madame, non vi ha detto nulla il dottor Clermont? – le chiese istintivamente.
Clermont non le aveva svelato il piano? Non le aveva parlato di quella villa di campagna confiscata alla famiglia Duschamps, occupata per un certo periodo dalle truppe e ora caduta in disuso? Gli pareva molto strano che avesse ordito tutto da solo, senza renderla partecipe. Gli pareva altrettanto strano il fatto che si fosse preso la briga di organizzare la fuga di una nobildonna, moglie di uno dei realisti più reazionari di Parigi. Di certo ci doveva essere sotto qualcosa a lui sconosciuto se il deputato integerrimo si era abbassato a certi sotterfugi per salvare una donna.
- No, mi ha soltanto detto di presentarmi un’ora prima dell’alba a porte de Clignancourt e di domandare di voi. Non so altro. – rispose con onestà.
- Dovrete adattarvi, temo, ad un’abitazione non proprio comoda e ospitale. Si tratta di una residenza requisita ad una famiglia nobile, sfruttata poi come quartier generale dalle truppe. Ora è in disuso, possono essere abitati soltanto i locali della servitù, a pian terreno. Nulla di troppo confortevole, ma avrete almeno un tetto sulla testa. –
- Non avremo difficoltà ad adattarci, vero Louise? – domandò retoricamente alla serva.  – Non so come ringraziarvi per quello che state facendo per noi. Forse potreste pensare che si tratti di un tradimento nei confronti della Repubblica, di un reato, ma io vi dico che state salvando una vita innocente, quella di mia figlia Juditte. –
Bonnet rimase piacevolmente sorpreso da quelle parole, che dimostravano un atteggiamento umile, riconoscente, così diverso dall’alterigia dei nobili a cui era abituato o di cui aveva sentito parlare: Madame de Beaufort era una donna gentile, di animo sincero, la stimò e apprezzò. C’era in lei qualcosa che lo affascinava e in quel momento capì le ragioni dell’amico.
-Non dovete ringraziare me, contessa. Dovete ringraziare Jacques Clermont, è lui che si è occupato di tutto. Pensavo che foste a conoscenza del suo piano, ma dalla vostra domanda ho capito che non lo siete. –
- Non ne so nulla, ieri sera sono andata da lui in cerca di aiuto, senza sapere che ci avrebbe fatto nascondere fuori città. –
Dunque Clermont aveva pianificato tutto questo nel giro di quelle poche ore? Doveva avere molto a cuore la vita di queste persone, se ne aveva predisposto così rapidamente la fuga, assumendosi il rischio di nasconderle in una villa confiscata dalla Repubblica. Bonnet rimase taciturno, interrompendo così la comunicazione con lei. Pensava e ripensava al rapporto che legava questa bella e giovane contessa al suo fraterno amico, rivoluzionario tutto d’un pezzo. Si ricordò che Clermont aveva accennato ad una visita alla figlia del conte di Beaufort, ma certamente la conoscenza tra loro doveva essere di più lunga data: chi si assumerebbe un tale rischio per una persona che si conosce appena?
 
 
-Ebbene, state giocando con il fuoco, Clermont, ve ne rendete conto? – domandò quasi con incredulità Bertrand Laroux dalla sua poltrona foderata di rosso, dietro la scrivania dell’ufficio di segretario, le mani giunte davanti alla punta del naso, l’aria meditabonda.
Clermont si alzò di scatto dalla sedia e prese a camminare nervoso per la stanza illuminata dal sole di mezzogiorno.
-So bene quanto sia rischioso, mi rendo conto che quello che vi sto chiedendo possa sembrare una violazione della legge. – rispose appoggiando infine le mani sulla scrivania e abbassando la testa pensieroso.
- Io sono sempre stato un vostro amico, ed è da amico che ho il dovere di mettervi in guardia dal pericolo che potreste correre. – ribatté Laroux, aggiustandosi un ciuffo di capelli fulvi che gli ricadeva sulla fronte, un gesto di vanità, che si inquadrava bene nel suo personaggio. Si rigirò la penna d’oca fra le mani, fissando Clermont, a capo chino, con i suoi indagatori occhi verdi. Un guizzo di vanagloria lampeggiò nel suo sguardo: il deputato Clermont che si abbassava a domandare un favore, e quale favore, ad un semplice segretario non era cosa che si potesse verificare ogni giorno. L’avrebbe avuto in pugno, se gli avesse concesso quanto chiedeva, cioè un certificato civico con un nome fittizio per una contessa il cui marito era stato arrestato come controrivoluzionario, complice degli insorti in Vandea, tre lasciapassare, anch’essi falsi, per consentire alla donna, a sua figlia e ad una domestica di espatriare in Inghilterra. Non si trattava di un semplice favore, si trattava di un reato, punibile con la ghigliottina. Certo, non era infrequente che si fabbricassero documenti falsi, attestati civici contraffatti, passaporti a nomi fittizi, ma nella maggior parte dei casi venivano subito smascherati; Clermont stava invece domandando al Comitato di sicurezza generale stesso di patrocinare la fuga di questa nobildonna, onde evitare brutte sorprese ai controlli.
- Credete, Laroux, che non sia consapevole del pericolo in cui potrei incorrere? Conosco la legge quanto voi. – ribatté fiero Clermont, appuntando i suoi occhi scuri in quelli dell’amico, che non tardò ad abbassarli.
Laroux finse di sistemare le carte sparse sulla sua scrivania, evitando accuratamente di incontrare lo sguardo del deputato Clermont che, dall’alto della sua statura, lo fissava in piedi, visibilmente teso. Stava prendendo tempo, il segretario, stava frugando nella mente per cercare le parole migliori per esprimere quanto voleva mettere sul piatto della bilancia. Un favore del genere non poteva essere concesso a cuor leggero, nemmeno ad un amico. E lui era tipo da non fare nulla per nulla. Amava il potere, lo bramava sopra ogni altra cosa e quell’uomo che gli stava di fronte, autorevole e stimato, gli pareva l’aggancio naturale per la sua scalata al successo. Tuttavia era meglio accertarsi delle reali intenzioni del deputato Clermont, delle vere motivazioni che stavano alla base di quella richiesta, di per sé esecrabile per un intransigente fautore della Repubblica come lui, ma non solo, in virtù delle nuove disposizioni, passibile di essere considerata un reato punibile con la morte. Per quale motivo Jacques Clermont, rispettato deputato giacobino si interessava in modo così accorato alle sorti della consorte di un nobile complottista condannato a morte?
-Jacques, io vi vorrei aiutare, ma sapete, non mi state mettendo in una felice posizione: si tratta di un reato, di una contravvenzione alle leggi della Repubblica, votate dalla Convenzione di cui voi stesso fate parte. – cercò di spiegarsi, passandosi nervosamente una mano nella chioma fulva.
- Io non ho approvato quella legge. – dichiarò con piglio fiero Clermont poi, rimettendosi a sedere aggiunse: - Ma non si tratta di questo. Vedete, Laroux, voi siete giovane, siete cresciuto infervorato dagli ideali patriottici, educato ad un profondo senso del dovere, della legge. – e a queste parole Laroux scostò lo sguardo: entrambi credevano poco a quel discorso, che tuttavia Clermont terminò ugualmente: - Trovo onorevoli e giuste le vostre obiezioni, lodo il vostro senso patrio, ma debbo ricordarvi che la legge è un fatto squisitamente umano. Le leggi cambiano, si modificano, vengono abrogate, come tutti i fatti umani sono passibili di errore; quello che viene sancito oggi potrebbe non avere più valore domani e, soprattutto, quello che viene sancito oggi potrebbe non essere conforme all’ideale di Giustizia che dovrebbe essere faro di ogni nostra presa di posizione. Applicare ciecamente il diritto non sempre significa perseguire la via della giustizia, al contrario, l’applicazione cieca e acritica della legge può sfociare nella più grande ingiustizia. Diceva Cicerone nel De Officiis “summum ius, summa iniuria”.
Betrand Laroux, la coccarda tricolore ben visibile appuntata sul bavero della giacca, dovette nascondere un sorriso divertito. A tanta eloquenza doveva spingere una donna, pensò. Di certo, se si era degnato di scomodare le polverose pergamene ciceroniane, la questione doveva essere seria: Clermont non avrebbe osato opporre resistenza alle sue richieste, l’avrebbe avuto in pugno per gli anni a venire. Il giovane si accarezzò il mento con fare circospetto, come soppesando ad una ad una le parole dell’amico, poi con i suoi occhi verdi ne scrutò i lineamenti del volto, tesi nella spasmodica attesa di una sua risposta che avrebbe potuto suonare alle sue orecchie come una condanna o un’assoluzione. Laroux si compiacque ancora per un poco del potere che deteneva su Clermont, poi, con fare studiato rispose:
-Amico mio, voi parlate bene, siete un uomo di intelletto e di cultura, ma le vostre parole non hanno il potere di smuovere il mio giudizio sulla questione. La Giustizia è come una donna bellissima, desiderata, amata da tutti e inafferrabile, ma è la Legge la consorte che ci troviamo a fianco, è la Legge che ha il potere di rimproverarci ogni nostra piccola malefatta, ogni disattenzione quando rientriamo a casa la sera. Ora chiedo a voi, chi è quella donna nel nome della quale siete disposto a rischiare così tanto? È forse la Giustizia? – lo sguardo insinuante e impertinente confuse Clermont, costringendolo a scuotere il capo, sulle spine. Cercò più volte di ribattere, ma non trovò le parole adatte, lui, così eloquente nelle perorazioni alla Convenzione.
- Ebbene, Clermont, si tratta forse di un’altra donna? Di una donna in carne e ossa? – lo sollecitò con un sorriso compiaciuto Laroux.
Clermont alzò il capo, sollevò lo sguardo e negli occhi scuri, così profondi, gli si poté leggere un’estrema prostrazione, risultato di una cruenta battaglia interiore che dalla sera precedente si stava svolgendo dentro di lui; una battaglia senza esclusione di colpi, senza appello, senza prigionieri. Si fronteggiavano da un lato la sua lealtà allo Stato, la sua irreprensibile condotta di deputato, l’obbedienza alla causa del popolo; dall’altro, vittorioso, il suo amore, disperato, calpestato, bistrattato, che aveva in tutti modi cercato di allontanare dal suo cuore, ma che restava pur sempre vivo e forte, per Marianne. Non potendo ammettere nemmeno a se stesso quanto grande fosse stato il potere di quelle parole da lei pronunciate la sera prima durante il loro drammatico incontro, celava i suoi più profondi sentimenti dietro a frasi magniloquenti, ad alti ideali, che pur condivideva, ma che sarebbe stato pronto a calpestare se lei glielo avesse domandato.
-Anche se fosse, non sono cose che vi riguardano, Laroux. Io sono venuto da voi da amico, facendo appello alla vostra amicizia, ma forse mi sono sbagliato: vi sto chiedendo troppo, dovreste correre un rischio troppo alto. Non posso dirvi altro, o vi fidate di me, oppure dovrò rivolgermi a qualcun altro. – rispose sostenendo il suo sguardo. Lasciò passare qualche istante e poi accennò ad alzarsi. Laroux non poteva farsi sfuggire una simile occasione:
- Aspettate. – lo fermò, afferrandogli il braccio. – Sono stato indiscreto e vi chiedo scusa, non volevo fare alcun genere di insinuazione. Vi aiuterò Clermont, vi farò avere quei documenti domani stesso. – gli promise con un sorriso aperto, amichevole che accompagnò con un cenno del capo in segno di intesa.
Lo sguardò di Clermont si illuminò, ma non lasciò trasparire in altro modo il suo sollievo, si limitò a ringraziarlo e aggiunse: - Sono vostro debitore.
-Se avrò bisogno, dunque, mi ricorderò di voi. – rispose sempre sorridendo Laroux.
Mentre l’amico usciva dalla stanza, lasciatosi sprofondare sulla poltrona dietro alla sua scrivania, Laroux si prefigurava una fulgida ascesa al potere: Clermont era ormai una sua pedina, avrebbe stabilito all’occorrenza se servirsene come appoggio o se sacrificarla nella grande scacchiera della politica.
 
 
Le stanze al pianterreno della grande villa, solitamente occupate dalla servitù, erano fredde e umide, innumerevoli spifferi lasciavano entrare folate di vento autunnale, mentre l’umidità sollevata dalla pioggia sottile che aveva preso il posto del sole del mattino, si insinuava nelle ossa. Tuttavia non avevano di meglio né di meglio avrebbero potuto chiedere, così pensava Marianne, mentre Louise si prodigava nel rassettare quelle stanze, lasciate in condizioni pietose dal passaggio della guarnigione. Si trattava di un’imponente villa di campagna, appartenuta alla nobile famiglia Duschamps, posta sotto sequestro dalla Convenzione dopo la fuga all’estero dei membri della famiglia. Il giardino, un tempo rigoglioso e popolato da piante esotiche secondo il gusto del padrone, ora versava in condizioni disastrose, i rampicanti erano cresciuti a dismisura, soffocando ogni altra pianta, le erbacce proliferavano incolte nei roseti, sconfinando nei vialetti di ghiaia bianca, e il fango, accresciuto dalla pioggia autunnale, si impadroniva di ogni palmo di terreno lasciato vuoto dalla vegetazione. Migliore sorte non era toccata agli appartamenti al piano nobile e al piano superiore, occupati per qualche mese da una guarnigione: l’antico mobilio era stato portato via oppure distrutto per ricavarne legna da ardere, rimanevano giusto gli elementi indispensabili,: letti, qualche sedia, un paio di cassettiere; tappetti e tendaggi erano stati malamente strappati, così come i baldacchini dei letti padronali, le lenzuola sostituite con rozzi teli militari. A questa zona della villa non si poteva neppure accedere, poiché il comandante di guarnigione aveva dato ordine di sprangare le porte d’accesso affinché non venisse occupata da vagabondi o da contadini ridotti in miseria. Tuttavia erano rimaste agibili le stanze della servitù a pian terreno, la cucina con annesso un ampio tinello. Qui, seduta vicino al fuoco su una sgangherata sedia a dondolo, leggeva un libro di fiabe a Juditte, accoccolata in grembo, entrambe avvolte dal grezzo mantello di cui si era servita per la fuga. A volte, fissando le gocce di pioggia scivolare sul vetro della finestra, la sua mente vagava altrove e si concedeva il lusso che, durante quella rocambolesca giornata, non si era ancora concessa: quello di riflettere. Troppi pensieri affollavano la sua mente, troppi avvenimenti si erano avvicendati nel giro di poche ore. Piangeva per la sorte dei suoi genitori, non osava immaginarli, loro così eleganti, con le vesti migliori, in una gattabuia in attesa di giudizio; pensava poi a suo marito, agli occhi verdi e al suo fare spavaldo di fronte agli inquisitori, al tradimento che aveva perpetrato ai danni dei suoceri, senza il minimo obiettare della coscienza, nel tentativo di salvare se stesso, di scendere a patti con i suoi persecutori. - Che tentativo maldestro!- pensava Marianne. Era davvero convinto che un uomo della sua posizione, un Pari di Francia, un cospiratore conclamato, incastrato da prove più che evidenti che testimoniavano, nero su bianco, le sue trame con gli insorti della Vandea, si sarebbe potuto scagionare mandano al patibolo i suoi suoceri? Perché, si domandava Marianne, infliggerle quest’ulteriore dolore? Perché questa assoluta mancanza di pietà nei suoi confronti, questo estremo ribadire il suo potere su di lei e sulla sua famiglia anche a pochi passi dalla ghigliottina? La sua arroganza non aveva limiti, la sua sete di dominio, il suo senso di possesso su di lei era tale che, se fosse stato giustiziato, l’avrebbe voluta trascinare con sé nella rovina. Per anni Marianne de Beaufort aveva vissuto sotto il giogo assillante del marito, per anni aveva dovuto nascondere in un angolo recondito del suo cuore, i suoi sentimenti, i suoi sogni, se stessa, per paura della sua disapprovazione, per anni aveva temuto ogni volta che i cadenzati passi di lui si avvicinavano alla sua stanza, per anni si era dovuta concedere a lui senza aver in cambio un minimo gesto di affetto, una parola d’amore, ma soltanto la gelida superbia dei suoi occhi verdi. Non aveva mai alzato la voce con lei, non ne aveva bisogno, sapeva intimidirla in modi assai più subdoli, alimentando le sue insicurezze, fomentando i suoi sensi di colpa nei confronti della figlia, dei genitori, instillandole continuamente l’idea di essere stata fortunata perché, per sua grazia, l’aveva resa la moglie di un Pari di Francia, ma allo stesso tempo instillando il dubbio che altrettanto facilmente l’avrebbe potuta sostituire con un’altra donna più compiacente. Non era per amore che gli era rimasta al fianco per tutti quegli anni, certamente no. Era piuttosto per dovere, per paura, per timore di ritorsioni nei confronti della sua famiglia: era ben noto a tutti che Beaufort, sposandola, si era impegnato a risollevare le sorti finanziarie dei Blanchard, il cui patrimonio era stato, in parte, dilapidato al gioco da Roland e, in parte, malamente investito in operazioni maldestre da suo padre. Beaufort li aveva dunque comprati, aveva in pugno l’antica famiglia dei Blanchard, la più nobile di tutto il Ponthieu, e avrebbe ben presto fatto delle loro terre un suo feudo personale: Marianne non poteva permettersi di deludere il marito, pena la rovina di suo padre, l’arresto per debiti di suo fratello, il crepacuore di sua madre. Così si era ritrovata legata a filo doppio a un marito che non aveva scelto e che non amava, malgrado il suo conclamato charme, i suoi penetranti occhi verdi, il suo portamento austero e la sua indiscussa autorità. Per lei era soltanto un uomo algido, dai modi distaccati e cinici, assetato di potere; distante nella sua fredda cortesia e irraggiungibile sia da lei che da sua figlia. Non piangeva il suo arresto: la sua condanna sarebbe equivalsa, per lei, ad una liberazione. Piangeva a calde lacrime, nascondendo il viso nel mantello per non farsi scorgere da Juditte, la sorte di suo padre e di sua madre, una sorte ormai segnata, ineludibile. Li rivedeva in quella mattina di fine estate di poche settimane prima e stentava a credere che non li avrebbe mai più incontrati in questa vita: al pensiero era scossa da singhiozzi e, malgrado tutti i suoi sforzi, non poteva impedire che Juditte se ne accorgesse e la guardasse interrogativa.
-Che cosa avete, mamma? Perché piangete così? Siamo al sicuro qui, vero? – domandava inquieta la bambina.
- Sì, Juditte, siamo al sicuro, ma dobbiamo fare attenzione. Dobbiamo restare qui fino al segnale che ci darà il dottor Clermont. – rispose Marianne, accarezzando i capelli biondi della figlia.
- Quale segnale? –
- Il segnale della partenza, quando ci imbarcheremo per l’Inghilterra dove ci attende tuo zio Roland. –
- Verrà il dottor Clermont a darci il segnale? Lo rivedremo? –
- Non lo so, Juditte, non so se lo rivedremo; ma sono sicura che ci aiuterà. –
In cuor suo sperava di rivederlo, lo desiderava con tutta se stessa; ma sapeva anche che si era già esposto abbastanza concedendo loro il suo aiuto e adoperandosi per farle scappare, avrebbe corso ulteriori rischi se si fosse azzardato a raggiungerle personalmente. Avrebbe probabilmente fatto pervenire i documenti tramite quel brav’uomo di Bonnet, che era immediatamente ripartito per Parigi, lasciandole sole in quell’enorme casa silenziosa. Eppure non riusciva a togliersi dalla testa quello sguardo freddo ma al contempo, lei lo indovinava, dolente, che le aveva rivolto la sera prima alle sue accorate parole. Era soltanto in virtù della sua umanità, per compassione per la loro sorte infelice, che si era mosso per venir loro in soccorso? Si trattava soltanto di pietà per una futura vedova e per un’orfana il motivo per cui, con tanta solerzia, aveva ordito quella fuga, coinvolto un amico, predisposto un luogo per accoglierle? Il suo intuito le diceva che no, che non poteva trattarsi unicamente di compassione, che non aveva ceduto alle sue richieste soltanto per umana pietà. Tradire la sua Repubblica gli doveva essere costato molto, ma forse c’era qualcosa a cui tenesse di più che alla Rivoluzione, che agli ideali di uguaglianza e libertà che le aveva sbandierato durante il loro incontro. Tuttavia non osava cullare flebili speranze. Quell’antico sentimento, semmai fosse ancora esistito, era sopito nel fondo del suo cuore e difficilmente da lì si sarebbe smosso l’aveva ben capito, quando alle sue parole d’amore, le aveva risposto con freddo distacco. Eppure, mentre si dondolava sulla sedia, cullava con sé la speranza che lui, prima della loro partenza, sarebbe arrivato per un commiato, che, anche solo per pochi istanti, l’avrebbe rivisto un’ultima volta.
Così, quella sera, mentre sorbivano un misero brodo sedute attorno ad un tavolaccio traballante, quando si sentì bussare alla porta, sussultò in cuor suo, presagendo il suo arrivo. Si trattava invece di David Bonnet, che si avvicinò al tavolo con aria mesta, funerea.
-Volete favorire, monsieur Bonnet? – chiese Louise porgendogli un mestolo di brodo.
Bonnet declinò l’invito un cenno del capo, si avvicinò al tavolo, senza sedersi, rivoltandosi con nervosismo il capello fra le mani. Mani tozze, screpolate, mani di un lavoratore.
-Qualcosa non va, monsieur Bonnet? – domandò madame de Beaufort con uno sguardo angosciato.
- Non porto buone notizie da Parigi. – rispose lui, gli occhi bassi.
Dopo vari accenni, Bonnet riuscì, alquanto a disagio, a pronunciare queste parole: - Madame, i conti de Blanchard sono stati giustiziati questa mattina stessa. – Poi tacque abbassando il capo in segno di rispetto. Calde lacrime rigarono il volto di Marianne che però non proferì alcuna parola a riguardo, si limitò a domandare con voce tremante: - E mio marito, il conte di Beaufort? –
-A quanto si dice lo stanno interrogando. È ancora vivo. –

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


 
Quella stessa pioggia sottile bagnava le vie di Parigi mentre Clermont rincasava dopo il colloquio avuto con Laroux; un colloquio teso, che l’aveva sfiancato, lasciato privo di ogni energia mentale. Da un lato non poteva non essere soddisfatto di aver ottenuto quel che chiedeva, dall’altro la sua coscienza di onesto cittadino non pareva placata dal suo continuo ripetersi che salvare due innocenti da una fine atroce era stato un gesto di pura umanità. Aveva infranto la legge della Repubblica, cosa che mai si era permesso in precedenza: aveva contestato, sì, le leggi che, a suo dire, non rispecchiavano gli ideali di giustizia, aveva preso posizione contraria, si era speso affinché non venissero approvate, ma non si era mai azzardato, in seguito, a contravvenire a quanto era stato stabilito in nome del popolo. Mai, tranne in quell’occasione. Sapeva, inoltre, che Laroux era tipo da do ut des e che gli avrebbe fatto in qualche modo pesare quel favore così compromettente con richieste che avrebbero potuto anche metterlo in difficoltà. Tuttavia non gli importava molto, a conti fatti, ciò che davvero aveva importanza era essere riuscito a procurarsi quei dannati documenti, al resto avrebbe pensato poi.
Stava così riflettendo mentre, estratto un mazzo di chiavi dal mantello, si accingeva ad aprire il portone della sua abitazione. Nella penombra di quel tardo pomeriggio d’autunno una figura gli si accostò. Si trattava di una donna, intabarrata in un mantello di raso blu di pregevole fattura il cui cappuccio le nascondeva la chioma, anche se un boccolo ribelle le ricadeva sul viso. Una nobildonna, si sarebbe detto dall’aspetto. Clermont restò fermo, sospeso, la chiave in mano, l’espressione incuriosita.
-Deputato Clermont? – pronunciò a mezza voce la donna, accostandosi a lui con fare circospetto.
- Sì, sono io. E voi chi siete? – ma, mentre pronunciava la domanda, incrociandone i vividi occhi verdi, la riconobbe all’istante e tutto quanto gli tornò di colpo alla mente, travolgendolo come una tempesta in alto mare.
- Elenoire de Brionne. – soggiunse poi ricambiando il suo sguardo: - Mademoiselle de Roussignac. –
I contorni del suo viso sfumarono e gli riapparve alla mente la giovane di dieci anni prima, la sposa del visconte de Brionne, che lo fissava sgomenta tenendogli sollevata la testa. I suoi occhi verdi, così limpidi e sinceri, erano stata l’ultima cosa che ricordava di quell’infausta notte, poi il buio si era richiuso sulla sua coscienza. Non avrebbe mai potuto dimenticare il suo viso, l’avrebbe riconosciuta fossero anche passati cent’anni. Ma, oltre al ricordo di lei, ritornò alla mente anche il dolore, l’umiliazione, lo strappo lacerante che aveva tagliato in due la sua vita, precludendogli per sempre la felicità, gettandolo nella più cupa disillusione. Si sentì le gambe cedere per un istante, la testa girare convulsamente, dunque si appoggiò allo stipite del portone e le chiese:
-Per quale ragione siete venuta a cercarmi? Proprio ora, dopo tutti questi anni? –
Lei indugiò qualche istante, lanciando occhiate guardinghe tutt’intorno, infine si risolse a parare.
- Si tratta di Marianne, come ben potrete immaginare. – rispose, facendoglisi vicina, forse oltre al limite che si conveniva ad una nobildonna, e parlandogli all’orecchio. Ma ad Elenoire delle convenzioni era sempre importato ben poco.  Clermont distolse lo sguardò, scosse il capo senza parlare. Elenoire attese in silenzio per qualche istante, non riuscendo a decifrare la reazione del suo interlocutore. Poi proseguì:
- Dovete aiutarla. Solo voi potete farlo. – lo sfidò quasi, con la mano guantata appoggiata al suo avambraccio.
- Soltanto io? – chiese lui con una punta di sarcasmo. – E perché dovrei? Ma soprattutto perché siete venuta voi a chiedermi questo? – fu lui adesso a sfidare lei, con una delle sue espressioni severe che sfoderava in assemblea per mettere a tacere le obiezioni pretestuose.
- Perché durante il nostro ultimo incontro, quella notte, non sono stata abbastanza determinata, ho indugiato troppo e non siete riuscito ad ascoltare la risposta alla vostra domanda. Non vi ho detto al momento opportuno la verità, né ho avuto il coraggio di farlo in seguito. Sono anni che mi trascino questa colpa. Ma ora non posso più temporeggiare, è venuto il momento che mi assuma le mie colpe, anche a costo di sentirmi rinfacciare l’altrui infelicità e cadere nel discredito dell’amica più cara che ho. C’è in ballo la sua vita e io non permetterò a me stessa di tirarmi indietro un’altra volta. –
- A che cosa state alludendo?  - domandò lui con le sopracciglia aggrottate, senza capire del tutto quello strano discorso.
Intanto nella sua mente si dipanava il filo del ricordo di quella dannata notte; prima aggrovigliato e annebbiato, poi via via sempre più nitido. Quanti sforzi per rimuovere dalla memoria quei momenti! Tutti vani, se era bastato un minimo cenno perché gli si ripresentassero alla mente come una livida luce violenta.
Stava rincasando da una serata passata a discutere e scherzare con i colleghi di studi in una qualche bettola nei pressi dell’università, la testa leggera per il vino, gli occhi lucidi, l’animo spensierato. Aveva appena imboccato uno stretto vicolo scarsamente illuminato quando vide una carrozza sbarrare la strada davanti a lui, riuscì a scorgere con la coda dell’occhio un’imponente sagoma scura che scendeva dal predellino, appena prima di girarsi, sentendosi chiamare da una voce alle sue spalle. – Clermont!-
Non si era ancora del tutto voltato che avvertì il suono di una bastonata sulle scapole. Cadde in ginocchio, turbato più dallo stupore che dal dolore: quello sopraggiunse in seguito. Si girò a fatica facendo leva sulle mani e si trovò di fronte un uomo avvolto in un ampio mantello, il volto coperto: - Ne vuoi un altro assaggio? – gli domandò sprezzante, mentre un secondo uomo sopraggiungeva da dietro e gli sferrava un pesante calcio nel fianco destro. Clermont cadde bocconi su selciato e, rantolando, farfugliò: - Chi…chi siete?-
-Jacques Clermont, buonasera. – sentì pronunciare da una voce ben nota davanti di lui. Una voce profonda, autoritaria, soltanto leggermente arrochita da una nota di disprezzo. L’uomo si avvicinò alla luce di una torcia; la figura massiccia, il volto severo, solcato da una profonda ruga sulla fronte, le mascelle serrate da un senso di superiorità, lo sguardo protervo non lasciavano spazio a dubbi.
- Voi? – domandò incredulo, mentre uno dei due aggressori tenendolo per i capelli lo costringeva ad alzarsi da terra e mettersi in ginocchio.
- Mi hai deluso, Clermont, dopo tutto quello che ho fatto per te. In fondo è grazie a me se ti puoi permettere di star qui, a Parigi, a studiare nelle migliori facoltà, è grazie a me se potrai un giorno coronare il tuo sogno di diventare medico. Tutto grazie a me, che ti ho tolto dal fango a cui eri predestinato ancor prima di nascere. Se fosse stato per quella sgualdrina di tua madre…-
- Non osate nominare mia madre! – lo interruppe con un grido rabbioso in cui condensò la poca forza che gli era rimasta.
- Tua madre? Una povera sarta vestita di stracci che arrivava dalla Piccardia con un bambino in fasce. Che destino avrebbe avuto una peccatrice come lei, se non l’avessi accolta nella mia casa, tra la mia servitù? Credi davvero che ti saresti potuto permettere di fare il galletto in mezzo ai figli della buona borghesia con una madre del genere? –
- Come vi permettete di… - tentò di ribattere, ma ricevette un ceffone in pieno volto che gli procurò del sangue dal labbro inferiore. – Zitto – si sentì intimare da uno dei suoi aguzzini.
- Come ti sei permesso tu, mio caro Jacques, dopo tutto quello che ho fatto per tua madre e per te. Rovinare la vita di mia figlia: è stato questo il tuo ringraziamento? – domandò, con lampi di rabbia che gli balenavano negli occhi, Auguste de Blanchard, avvicinando il suo volto minaccioso a quello sconvolto di Clermont, che a quelle parole sgranò gli occhi, incredulo.
- Come potete sapere…Chi vi ha detto…è stata Marianne a confessarvelo? – domandò quasi balbettando mentre mille scenari gli si affacciavano alla mente.
- Marianne fra poco più di un mese sposerà un nobile d’alto rango, un uomo adatto a lei. Che cosa credevi? Mi manda a dirti che non vuole aver più nulla a che spartire con te. Dimenticatela, Clermont, non è cosa per uno come te. – concluse Blanchard, rialzandosi con un gesto di stizza.
- Non è possibile, non può essere…- mormorò Clermont portandosi disperato le mani al volto.
- È così. Fattene una ragione. – ribadì il conte, poi, con tono perentorio ordinò ai suoi uomini: - Andiamocene.-
Prima di seguire il loro padrone, i due assestarono ancora qualche colpo al povero Clermont: uno lo colpì con un destro in pieno volto, l’altro gli accarezzò le spalle con qualche bastonata, prima di lasciarlo riverso bocconi.
-Che siate maledetto, Auguste de Blanchard! – riuscì a mormorare mentre rivoli di sangue gli bagnavano il viso e lasciò ricadere la testa, semivivo, sul selciato.
 
-Alludo a quella notte in cui siete venuto a cercarmi, insanguinato e disperato, quasi esanime. Quella notte in cui mi avete domandato se…- rispose Elenoire de Brionne, infrangendo quel silenzio innaturale che era sceso fra loro e riportandolo di scatto al presente.
- Basta, madame. Non aggiungete altro. – la interruppe con un cenno deciso della mano, perentorio, inscalfibile. Ma dentro di lui i fantasmi del passato che credeva ormai sopiti ritornarono di colpo a fargli visita.
Palazzo de Brionne illuminato dalle luci di una festa da ballo, un pietoso servitore venuto in suo soccorso, il volto sconvolto di Elenoire, la voce premurosa e pacata del visconte; ma soprattutto il suo sangue e le sue lacrime che dal viso gli inzuppavano le vesti, le mani.
Che cosa poteva fare? In quel momento, steso sull’acciottolato di quel vicolo buio, sperimentò un sentimento di impotenza e di immensa solitudine che non aveva mai provato prima. Quando riprese coscienza dopo i colpi ricevuti, mentre in bocca sentiva il sapore ferrigno del sangue, il capo gli doleva oltre modo e le spalle faticavano a reggerne il peso, fu più forte l’umiliazione, il senso di abbandono in cui era stato gettato da quel rapido e crudele scambio di battute. Non aveva alcun amico, lì a Parigi, alcun appoggio che potesse fornirgli un valido aiuto; nessuno lì conosceva la sua storia, aveva conoscenze, certo, ma nessuna di queste avrebbe mai potuto sospettare i tormenti che si celavano nel suo animo da quando, qualche settimana prima, aveva smesso di ricevere lettere dal Ponthieu. Poi, tutt’un tratto, un’immagine gli balenò alla mente: la sua salvezza, l’unica persona che aveva favorito la loro unione, che si era schierata sempre dalla loro parte; mediatrice, consolatrice, amica. Di Marianne, certo, ma di riflesso anche sua. Elenoire de Roussignac, di recente sposa dal visconte André de Brionne, così gli aveva rivelato in una delle sue ultime lettere Marianne. Palazzo de Brionne sarebbe stata la sua meta, avrebbe raccolto le sue ultime forse e vi si sarebbe presentato, anche a costo di essere scacciato a calci dalla servitù: non aveva più niente da perdere, ormai.  
 
-No, non posso tacere questa volta. – ribatté lei, scoprendosi il capo con un gesto di stizza e lasciando fluire la sua folta chioma. – Adesso dovete ascoltarmi, monsieur. – ribadì fissandolo dritto negli occhi con piglio deciso.
- E, sentiamo, che cosa avreste da dirmi, dopo dieci anni? Le cose sono andate come dovevano andare, non c’è più niente che si possa cambiare. Avete forse la presunzione di poter mutare il corso degli eventi con una spiegazione tardiva? – le rinfacciò quasi con rabbia, con un tono inusuale per lui. Negli occhi neri, profondi e lucenti, gli balena un fulgore da tempo sopito. Il cuore aveva preso a battere all’impazzata, ora che si veniva a trovare a pochi passi da quella verità per troppo tempo taciuta, ma doveva dominarsi, non poteva permettersi alcun cedimento al rimpianto: ne andava della sua vita, quella vita che si era costruito passo dopo passo in quei lunghi anni.
 
Gli sarebbe parso impossibile riuscire a giungere a questi traguardi, quella notte. Mentre si trascinava barcollante per le vie della città, appoggiandosi ai muri delle case ogni dieci passi, rantolando e sputando sangue, era convinto che la sua vita sarebbe finita quel giorno, qualora avesse sentito pronunciare una conferma dei suoi sospetti da parte di madame de Brionne. Tutto era nelle mani di lei, che, ne era sicuro, conosceva la verità meglio di ogni altro. Finalmente, dopo sovrumane fatiche, sfinito e dolorante, si trovò di fronte lo sfavillio delle finestre del palazzo del visconte Brionne, illuminato a giorno per un ricevimento. Clermont si appoggiò esausto al portone e lo colpì con foga, con le ultime forze che gli restavano in corpo.
-Aprite, di grazia, aprite. – biascicava. – Ho bisogno di conferire urgentemente con madame de Brionne. Vi prego. –
I colpi non rimasero a lungo inaspettati: un usciere in elegante livrea accorse di lì a poco, togliendo il saliscendi e aprendo il portone.
-Chi siete? – domandò, mentre quello sconosciuto, pesto e sanguinante, gli si accasciava ai piedi.
- Devo parlare con madame de Brionne, mandate a dire che la cerca un vecchio amico, Jacques Clermont. – riuscì a malapena a pronunciare. Il servitore restò per un poco interdetto: non era usuale che bussassero sconosciuti in quelle condizioni alla porta dei visconti de Brionne e, soprattutto, non era opportuno disturbare i festeggiamenti del compleanno del visconte per un affare ben poco chiaro come quello. Tuttavia, spinto dal suo buon cuore, di fronte ad un uomo in tale stato disperato, non si poté rifiutare di tendere la mano. Sollevò quel giovane per le ascelle e lo condusse, peso morto, nell’atrio del palazzo. Lo fece sdraiare appoggiato al muro e gli disse di aspettare qualche istante: sarebbe andato a chiamare soccorsi. Clermont non ricordava quanto tempo fosse passato, la coscienza andava e veniva sopraffatta in certi momenti dal dolore per le botte ricevute, dallo sfinimento per il sangue versato, tuttavia fu in grado di distinguere chiaramente la voce di Elenoire de Brionne, quando sopraggiunse accompagnata dal marito. Entrambi davano poco peso all’etichetta e alle convenzioni, pertanto non si erano fatti grandi scrupoli nei confronti dei loro ospiti a lasciare il ballo: la notizia di un uomo ferito che chiedeva di lei, non poté lasciare indifferente Elenoire. Tanto più che si trattava di un amico di gioventù che tanta parte aveva avuto nella vita della sua più cara amica.
- Clermont, che vi è successo? – domandò concitata, accosciandosi al suo fianco senza il minimo timore di sporcare il suo bel vestito. Non ottenne risposta, Clermont faticava ad articolare sillabe di senso compiuto.
- Conosci quest’uomo, Elenoire? – le chiese altrettanto preoccupato il marito.
- Sì, lo conosco, si tratta di un amico di gioventù del Ponthieu. – gli rispose – André, manda a chiamare un medico, di grazia, sta molto male. – lo pregò.
- Che gli è successo? Chi l’ha ridotto in questo stato? – domandò il visconte, angosciato quanto lei.
- Non ho idea. – ammise la moglie. – Ma di certo le sue condizioni sono critiche. Dobbiamo aiutarlo. –
Il visconte non si fece pregare e, come sempre, il desiderio della moglie divenne un ordine per lui; si allontanò alla ricerca di un servitore da mandare a fare quella commissione.
-Madame. – riuscì infine a dire il giovane.
- Dite. – rispose lei, tenendogli sollevata la testa.
- Ho bisogno di sapere da voi…- farfugliò.
- Se posso aiutarvi…-
- Voi siete l’unica a potermi aiutare, voi sapete forse se…-  faticava a parlare e ancor più a tenere gli occhi aperti, tanto che Elenoire temette più volte che stesse per esalare l’ultimo respiro; ma le sue condizioni non erano poi così drammatiche come lei prospettava.
- Vi prego, Clermont, parlate! – lo esortò Elenoire, visibilmente affannata per quella conversazione così surreale.
- Ho saputo che Marianne si sposerà a breve. Ma lei…è stata una sua scelta? Ho bisogno di sapere, devo sapere, altrimenti ne potrei morire, e forse voi siete l’unica…lei mi ama? – porse queste domande con una tale disperazione negli occhi, una tale angoscia che Elenoire trasalì. Scosse la testa, cercò di prendere tempo:
- Voi mi domandate se Marianne…o Cielo, come potete pormi una domanda simile? Io non sono nessuno per decidere del destino altrui! – tentò di schermirsi.
Quell’uomo le faceva una gran pena, le stringeva il cuore la sua accorata domanda, il suo dolore, il suo disperato amore per Marianne. Ma qual era la cosa giusta da fare? Qual era la decisione migliore per il futuro della sua più cara amica? Quante volte l’aveva appoggiata, sostenuta nel portare avanti quella relazione, quante volte aveva fatto da tramite tra i due innamorati; ma in cuor suo aveva sempre saputo che quella storia non avrebbe avuto un futuro, anzi, avrebbe messo l’amica in un mare di guai. Eppure li vedeva così innamorati, così felici, che non poteva non farsi coinvolgere. Poi il silenzio era calato tra i due, lui non aveva più risposto alle lettere di Marianne, era come sparito, risucchiato dal vortice della vita parigina e lei, Marianne, era stata accerchiata dalle pressioni della sua famiglia e dalle attenzioni galanti del conte de Beaufort. Aveva cercato per lungo tempo di resistervi, ma poi, alla fine, aveva dovuto cedere: senza più notizie di Jacques, senza alcuna certezza sul loro futuro, spinta quasi a viva forza dalla famiglia che le affidava il compito di risanare le disastrate finanze con quelle nozze, aveva ceduto. Il conte de Beaufort era un uomo bello, colto, elegante, autorevole e infinitamente più ricco dei Blanchard, si sarebbe detto il matrimonio ideale, sognato da qualsiasi fanciulla di Francia. Elenoire, sua confidente, l’aveva infine spronata in quel senso, ad accettare la corte di Beaufort e a dimenticarsi di quello spianato studente che aveva fatto perdere le sue tracce. Che si fosse rifatto una vita a Parigi con qualche pittrice, artista o popolana? Elenoire aveva a cuore più di ogni altra cosa la felicità di Marianne e non poteva sopportare di vederla soffrire attendendo invano una lettera che non arrivava mai; dunque, si era detta, la decisione migliore per l’amica sarebbe stata quella di contrarre quel vantaggioso matrimonio che l’avrebbe, forse non subito ma sicuramente col tempo, resa felice.
Ma ora? Era ancora così sicura di aver consigliato l’amica nel migliore dei modi? Ora che con tutta evidenza le si rivelava la profondità dell’amore di Jacques per lei? Non solo non l’aveva sostituita con una qualunque popolana, non solo non l’aveva dimenticata, ma l’amava ancora a tal punto da umiliarsi davanti a lei, Elenoire,  pur di sapere se il suo amore fosse corrisposto. Eppure, pensava, mandare a monte il matrimonio a poche settimane dalla celebrazione - cosa che, non ne dubitava, Marianne avrebbe tentato di fare se avesse saputo- avrebbe creato uno scandalo in tutta Parigi: la famiglia de Blanchard, già in discredito per le avventatezze di Roland e del conte Auguste, sarebbe del tutto stata rovinata e Marianne si sarebbe trovata a vivere, anziché nel fastoso palazzo dei conti Roqueville de Beaufort, in una polverosa soffitta con un dottore squattrinato. Ma, ne era certa, sarebbe stata più felice.
Dunque, alla fine soppesati in quel colloquio interiore i pro e i contro, Elenoire si risolse a rispondere: - Sì, Jacques, Marianne vi ama con tutto il cuore, non ama altri che voi. – pronunciò tutto d’un fiato, la voce rotta dall’emozione.
Ma Jacques aveva ormai perso i sensi e non fece in tempo a sentire quella risposta che gli avrebbe cambiato la vita, né Elenoire, in seguito, ebbe più il coraggio di ripetergli quelle stesse parole che avrebbero mutato per sempre il destino della sua amica.
 
-Quella notte io vi risposi che…- abbozzò Elenoire.
- Non voglio più sentire una parola, madame. – la zittì lui con fare imperioso, lo sguardo fermo, le labbra tremanti. Aveva paura, temeva più di ogni altra cosa la risposta alla domanda che aveva posto dieci anni prima: una risposta diversa da quella che si era immaginato in tutto quel tempo, avrebbe rimesso in discussione ogni cosa, gli avrebbe mostrato come avesse sprecato malamente la sua vita. Non voleva sapere.
Elenoire rimase interdetta, il tono da lui usato non ammetteva repliche e, si domandava lei, che diritto aveva dopo tanto tempo, di riaprire un capitolo per tutti così doloroso? Perciò desistette, abbassò gli occhi e ricoprì il capo con il cappuccio del mantello, pronta ad andarsene. Prima, però, aggiunse:
-Vi prego, aiutatela. È in gravi difficoltà, senza di voi sarebbe perduta. E sono certa che, al di là, di quello che è stato il passato, voi non vogliate la sua rovina. –
Clermont, prima tanto deciso, non seppe cosa rispondere, tentennò: per orgoglio non voleva svelare davanti a lei che si era già ampiamente mosso per aiutare l’amica. – Se ne parlerà. – concluse, cercando di mantenere una certa fermezza nello sguardo, mentre quell’incontro inaspettato l’aveva scosso da capo a piedi.
-Arrivederci, monsieur. – si congedò lei, voltandosi.
-Arrivederci, madame. – rispose lui, restando ad osservarla mentre se ne andava, perplesso, turbato.
 

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


Un mattino livido, grigio si levò sulla campagna, mentre Marianne de Blanchard, dopo una notte insonne, attanagliata da luttuosi pensieri e da foschi presagi, si affacciava alla piccola finestra di quella povera stanza, in mano una tazza sbeccata di latte caldo che Louise si era affrettata a portarle.
-Louise, non riesco a darmi pace. – le rivolse uno sguardo così accorato che la domestica, appoggiate le sporte a terra, fu tentata di avvicinarsi per farle una carezza, ma si trattenne: sarebbe stato un gesto troppo confidenziale per una serva come lei. Eppure soffriva realmente vedendo la padrona così sconfortata, la considerava quasi come una figlia.
- Madame, non vi tormentante: non avreste potuto fare nulla per i vostri genitori, i signori conti. Che Dio li protegga. – rispose Louise facendosi un rapido segno di croce in memoria di conti de Blanchard.
- Sarei dovuta restare con loro, non li avrei dovuti abbandonare in questo frangente. Invece me ne sono andata a Parigi, senza fermarli, lasciandoli andare incontro al loro destino. – ribatté lei, lo sguardo perso oltre la finestra, verso la campagna. Si strinse nello scialle di lana azzurra, uno dei pochi indumenti che aveva portato con sé nella fuga. Nessun abito fastoso, nessun accessorio di lusso, pochi gioielli: solo quelli a lei più cari erano nascosti sul fondo del baule che si era portata appresso.
- No, madame, non avete sbagliato. E Juditte? Pensate a quello che sarebbe potuto succedere a lei: se aveste accettato la proposta di vostra madre, ora anche vostra figlia sarebbe in serio pericolo, non soltanto voi. –
- Lo siamo lo stesso, Louise. Guillame è stato arrestato, secondo le nuove leggi, sua moglie e sua figlia sono perseguibili per il suo stesso reato, ossia il tradimento della Repubblica. È tutto così assurdo, mia cara Louise, noi siamo innocenti, non abbiamo fatto nulla, non sapevamo nulla…- scosse la testa angosciata, affranta, impotente di fronte alla piega crudele che stavano prendendo gli eventi.
- Signora Marianne, - la chiamò confidenzialmente per nome – non vi crucciate, non è tempo ora. Dovete farvi forza e avere speranza. Il dottor Clermont vi aiuterà ad uscirne, ne sono certa. Ci metterà in salvo, non ne dubitate. – provò a rincuorarla.
- Lo spero con tutta me stessa. Ma se lui dovesse fallire? O, piuttosto, se cambiasse idea all’ultimo momento e si tirasse indietro? In fondo gli ho chiesto molto, sta rischiando la sua vita. – tornò a fissare il passaggio malinconica come la pioggia che aveva ripreso, cadenzata, a bagnare la campagna.
- Non conosco bene il dottor Clermont, ma da quel poco che ho visto, non è uomo da tirarsi indietro: ci condurrà sane e salve in Inghilterra. Non vi tradirà, madame. – asserì la domestica con una certa convinzione.
- Anche se avrebbe tutte le ragioni per farlo? – domandò più che altro a se stessa voltandosi a fissare Louise, gli occhi che rilucevano di un azzurro più intenso che mai, trepidanti, sospesi.
 
Trascorse tutta la mattinata cercando di ingannare l’attesa di quell’incontro che avrebbe sancito definitivamente il loro accordo. Si era detto di aspettare fino al pomeriggio prima di presentarsi davanti all’abitazione di Bertrand Laroux: sarebbe stato sconveniente incontrarsi, come il giorno precedente, nel suo ufficio di segretario del Comitato di sicurezza, avrebbe destato troppi sospetti. Così passò il tempo misurando a passi nervosi i pochi metri quadri del suo austero alloggio, degno del più sobrio deputato giacobino. La tensione saliva ad ogni ora: il pensiero del rischio che avrebbe corso e lo scrupolo di tradire in qualche modo la Repubblica e le sue leggi, per quanto da lui stesso ritenute eccessive, non gli davano tregua. Ma, forse ancor più di questo, lo impensieriva quanto l’attendeva quella sera stessa: l’incontro, tanto temuto e desiderato, con lei. Come si sarebbe comportato, quali parole avrebbe adoperato per consegnarle quei documenti, quando e soprattutto come si sarebbe congedato? Rientrare nottetempo a Parigi era fuori discussione, si sarebbe dovuto intrattenere fino al mattino seguente, assistere dunque alla loro partenza. Tutti questi pensieri, queste supposizioni non gli lasciavano requie, mentre, la fronte appoggiata al vetro, spiava le gocce di pioggia lavare le strade di Parigi.
 
-Cerco il cittadino Bertrand Laroux. Ho bisogno di parlargli.– domandò con voce più ferma che poté per non insospettire il domestico che gli si era parato davanti. Non credeva che l’amico disponesse di personale, ma, tuttavia, poteva ben darsi che con il nuovo incarico, piuttosto redditizio, avesse assunto qualcuno che gli sbrigasse le faccende più tediose.
- Chi lo cerca? – domandò quello con fare sospettoso.
- Un amico. Un vecchio amico. – gli rispose, cercando di mantenere il più possibile il riserbo sulla sua identità: la questione era certamente spinosa, pertanto era opportuno che ne fosse a conoscenza il minor numero di persone.
- Il cittadino non riceve, sta lavorando. – ribatté secco il domestico, ma senza abbandonare quell’atteggiamento guardingo.
- Io devo parlargli, siamo d’accordo. – insistette Clermont, mentre una strana agitazione s’impadroniva via via di lui, come un fosco presagio a cui non sapeva dare un nome.
- Un momento. – gli disse quello. – Voi siete il cittadino Clermont? – domandò scrutandolo bene in viso.
Clermont restò interdetto, indeciso se svelare o meno la propria identità, ma infine, nel timore di perdere del tempo prezioso, si risolse a rispondere:
-Sì, sono io. –
- Ecco, questa è per voi da parte del cittadino Laroux. Ora andate via. – gli disse estraendo dalla giacca una busta e porgendogliela.
Il deputato Clermont si limitò ad annuire, con le mani tremanti come se stesse per compiere un reato, poi se ne andò via senza farselo ripetere una seconda volta.

 
Le raffiche di pioggia gli sferzavano la faccia; gli zoccoli del cavallo scivolavano nelle pozzanghere che ingombravano la strada, ma lui non accennava a rallentare quella corsa. Troppe cose non gli tornavano, troppi sospetti: Laroux che si era negato al loro incontro, lo strano comportamento di quell’uomo che gli aveva consegnato i documenti, come se fosse a conoscenza di tutto quanto, lo sguardo quasi ironico della guardia all’ultimo posto di blocco prima di uscire dalla città. Tutto contribuiva ad alimentare in lui presentimenti angoscianti. Doveva fare in fretta, il più in fretta possibile, battere sul tempo gli eventuali inseguitori. Non appena si fosse sbarazzato di quei documenti, non appena Marianne fosse salpata per l’Inghilterra ogni traccia sarebbe andata perduta, ogni cosa sarebbe tornata al proprio posto: non sarebbe potuto accadere nulla di male, né a lui né a Marianne, se la consegna fosse avvenuta in tempo. Per questo, quasi senza avvedersene, dava di sprone con veemenza, con rabbia, scandendo così il flusso inarrestabile dei suoi pensieri. Gli spessi guanti di pelle non valevano a scaldargli le mani, che, intirizzite, avevano ormai perso la sensibilità sulle briglie. Uscito dai sobborghi della città, attraversò paesi, boschi, campagne ma non si accorse nemmeno del mutamento del paesaggio, continuò imperterrito la sua corsa, incurante dei lamenti del cavallo. Eppure una vaga, fastidiosa sensazione non riusciva ad abbandonarlo, a dispetto della velocità di quella corsa: la sensazione di essere inseguito. Si voltava continuamente alle sue spalle, tendeva l’orecchio ad ogni fruscio, sospettoso, teso, si stringeva nel mantello per ripararsi dalla pioggia e al contempo per nascondere il volto a quei fantasmatici inseguitori. Ormai era scesa la sera, il crepuscolo calava rapido regalando giochi di ombre tra le fronde degli alberi. Il cavallo correva veloce, schizzando nel fango, e il cavaliere ne assecondava la corsa, come preda di un sacro fuoco che lo spingeva ad andare sempre più svelto, a non fermarsi, a non voltarsi indietro mai. Non aveva altri pensieri, in quel momento, che non fossero quello di arrivare al più presto a destinazione e di liberarsi di quei documenti, diventati per lui un insostenibile fardello.
Ecco che, finalmente, dopo un tempo che gli parve infinito, si stagliò nell’oscurità della campagna il chiarore di un edificio, intaccato dai rampicanti; nel cielo scuro notò il fumo bianco di un camino, ne percepì l’odore aspro. Odore di casa. Tirò le briglie, trovandosi dirimpetto alla villa un tempo maestosa e scorgendone le luci che spezzavano l’oscurità; trattenne il fiato. Il suo compito era stato quasi del tutto portato a termine, era riuscito a giungere alla sua meta; ma ora, pensò tra sé, avrebbe dovuto affrontare la parte più difficile: ormai non si sarebbe più potuto sottrarre a quell’incontro. Avrebbe dovuto sostenerne la vista, ascoltarne la voce, accoglierne le parole di ringraziamento e questo, per lui, significava riaprire una vecchia ferita mai sanata, ritornare a soffrire l’umiliazione, riaccendere l’antica rabbia contro quell’ordine infame, ingiusto, rimpiangere nuovamente i suoi natali e, in cuor suo, biasimare ancora una volta quella madre pur da lui tanto amata. Come avrebbe potuto sopportare tutto questo? Sarebbe stato come riportare indietro il calendario di dieci anni, come cancellare tutte le conquiste, sue e del popolo francese, smettere i panni del deputato acclamato, del medico stimato per tornare ad indossare quelli insanguinati del giovane aggredito in un vicolo di Parigi.
Non era sicuro di poter riuscire ad affrontare i suoi fantasmi, ma decise che ce l’avrebbe fatta. Esitò soltanto qualche istante prima di bussare alla porta sul retro che immetteva nelle stanze della servitù.
-Chi è? – si sentì domandare da una voce di donna.
- Sono io, Clermont. – rispose senza indugio, scuotendosi la pioggia dal pastrano. Udì il rumore del chiavistello che veniva abbassato, poi scorse il bagliore del fuoco scoppiettante di un braciere nell’ingresso, infine vide la sagoma di Louise stagliarsi sulla soglia.
-Deputato…ehm…dottore…ehm cittadino Clermont, - lo accolse incerta la domestica, poco avvezza ai nuovi appellativi dei rivoluzionari, dopo una vita a servizio dei signori. – Vi stavamo aspettando. –
- Dov’è Bonnet? – domandò entrando nel corridoio e spogliandosi del mantello madido di pioggia e lasciando una scia di acqua sul pavimento. Anche i capelli grondavano e solo in quel momento si accorse di essere completamente fradicio dalla testa ai piedi.
- Monsieur Bonnet è ritornato in città questo pomeriggio. Si era pensato che quei…insomma che i documenti ce li avrebbe portati lui, se non foste arrivato voi, deputato. –
- Dannato Bonnet, lasciare da sole delle donne in questa casa lugubre e sguarnita. – commentò con un rimprovero mentre percepiva crescere la sua tensione. – Stanotte o al più tardi domattina sarà di ritorno, parola mia. – rassicurò parlando più a se stesso che alla domestica.
- Sarete affamato, dopo il viaggio. – gli disse prendendo in mano il mantello che le stava porgendo.
- No, vi ringrazio, non ho fame. Avrei soltanto bisogno di un bagno caldo. – rispose Clermont scuotendo la testa. L’ansia gli attanagliava lo stomaco, non sarebbe riuscito a mandar giù nemmeno un boccone. – Madame de Beaufort dov’è? – trovò, infine, il coraggio di domandare, con un subitaneo bagliore negli occhi scuri che non sfuggì alla vecchia Louise, nemmeno nella luce incerta del corridoio.
- È nella sua stanza. Si è da poco coricata. –
- Allora la dovrò disturbare. – constatò sempre più nervoso, cercando tuttavia di dissimulare di fronte alla serva.
- Non la disturberete, signore. Prima di dormire, deve far addormentare Juditte. – gli venne in soccorso Louise, che, da quando era entrato, non aveva smesso di spiarne di sottecchi le reazioni. Non le era sfuggita la sua impacciata apprensione.
- Se è così, andrò subito a parlarle. – concluse e si avviò, con passo meno fermo di quello che avrebbe desiderato, lungo il corridoio semibuio.
I muri erano scrostati dall’umidità, il pavimento sconnesso in alcuni punti, il letto era semplice, in legno scuro, senza orpelli, tendaggi o altri accessori di sorta. Un letto a cui lei non era certo abituata. Ma un fuoco caloroso scoppiettava nel camino sulla parete della stanza, rischiarando e scaldando quell’ambiente. Juditte riposava serena, tuttavia Marianne, seduta su di una sedia traballante, un povero scialle di lana sulle spalle al posto dei consueti abiti sfarzosi, indugiava nella lettura nonostante la figlia si fosse già addormentata: la cadenza di quelle parole, il suono della sua voce servivano a rasserenare lei stessa, dopo quella giornata tumultuosa, dopo la fuga affannata, dopo tutti i tragici avvenimenti degli ultimi giorni.
Era così assorta nella lettura che non si accorse di essere osservata. Da un po’ Jacques, sulla soglia, appoggiato allo stipite della porta, la ascoltava rapito. Spiava i suoi gesti materni, le sue premure verso la figlia, seguiva la sua voce armoniosa nella lettura di quella fiaba che aveva ascoltato spesso da bambino. Nella semioscurità, fuori dal cerchio di luce della candela sul comodino, se ne stava fermo, incantato da quel quadretto di vita familiare. Contemplava Marianne, la sua compostezza, la delicatezza dei suoi tratti, i boccoli biondi che le ricadevano sulle spalle lasciate nude dallo scialle, la sua eleganza innata e quella premura materna che non le aveva mai visto. Restarono così per un bel pezzo. Lui in piedi in silenzio, lei seduta, assorta nella lettura alla luce della candela. Non osava interromperla, non osava riportarla alla cruda realtà dei fatti, ai pericoli imminenti che incombevano su di loro. Si cullò per qualche tempo nell’illusione che la dolcezza di quegli istanti si potesse protrarre all’infinito, in un futuro a cui, volesse il fato, anche lui avrebbe potuto prendervi parte. Era al futuro sognato o al passato rimpianto che pensava in quel momento?  Louise lo distolse dalle sue riflessioni, riportandolo a quell’incerto e complicato presente.
-Il vostro bagno è pronto, l’acqua è calda, deputato. – gli comunicò, facendolo sobbalzare, da dietro le spalle, senza alzare la voce, quasi temendo di disturbare. Ma Marianne a quelle parole si riscosse dalla lettura e si voltò di scatto, colta alla sprovvista. Finalmente lo vide. I loro sguardi per un attimo s’incrociarono. Si rassettò la veste, prese la candela dal comodino e gli si avvicinò.
- Ben arrivato, dottore. Vi stavamo aspettando. Perdonate, non vi ho sentito arrivare: stavo leggendo. – si giustificò con un sorriso tanto affabile e sincero che Clermont abbassò gli occhi. - Volevate parlarmi? – aggiunse poi cercando il suo sguardo, con una lieve nota di apprensione.
- No. – rispose lui, secco, impacciato, con un cenno di diniego del capo, fuggendo quegli occhi così lucenti che brillavano nella penombra. – Volevo solo consegnarvi questi. – aggiunse, estraendo dalla giacca la busta con i documenti. Gliela porse con mano malferma. Lei, altrettanto tremante, l’afferrò e l’aprì per spiarne il contenuto, poi, subito la richiuse.
- Non so come ringraziarvi. – pronunciò, infine, dopo qualche istante di silenzio, la voce rotta dalla commozione. – Vi sono debitrice. Io e Juditte vi dobbiamo la vita. – proseguì con gli occhi lucidi, cercando di afferrare la mano di lui.
- Non sentitevi in debito. Ho fatto quello che era giusto, quello che ciascun cittadino onesto dovrebbe fare: risparmiare la vita a due innocenti. – si schermì lui, indietreggiando turbato. – Partirete domattina prima dell’alba. Vi condurrà Bonnet: sa già tutto. – aggiunse poi, congedandosi. –
- Buonanotte, dottore. – lo salutò lei affacciandosi alla porta, mentre lui aveva già imboccato a passi rapidi il corridoio senza voltarsi indietro.
 

Si sforzava di concentrarsi su quelle carte, di ripassare i piani fissati per la fuga dell’indomani: tutto sembrava pronto, le tappe prestabilite, i documenti in regola. Mancava solo l’arrivo di Bonnet. Eppure Clermont continuava a rileggere ossessivamente quei fogli per imprimersi nella mente ogni dettaglio del viaggio che avrebbe atteso Marianne il giorno successivo; cercava di prevederne i possibili imprevisti, di mettere una pezza laddove gli pareva che le cose fossero lasciate al caso. Trasudava nervosismo mentre, coi capelli ancora bagnati e in maniche di camicia, vegliava su quei fogli alla luce tremula di un moccolo di candela che di lì a poco si sarebbe spento.
Tutt’un tratto, era ormai notte inoltrata, sentì un sommesso bussare alla porta. Si trasalì insospettito, presagendo chissà quali complicazioni, chissà quali imprevisti. Cercò di sistemarsi alla bell’e meglio la camicia e, afferrata la candela, abbandonò le sue carte e si avviò alla porta. La aprì e restò sbigottito: sulla soglia non apparve Louise come aveva pensato, ma la figura che venne avvolta dalla luce della candela era quella di Marianne, i capelli sciolti, lo scialle azzurro sulla veste da camera. Clermont si irrigidì, come immobilizzato, senza riuscire ad articolare parola o a compiere il minimo gesto. Fu allora Marianne a parlare, fissandolo negli occhi con quel suo sguardo così limpido e disarmante.
-Perdonate il disturbo, ma vi devo parlare. Posso entrare? – gli chiese con una tale naturalezza che sconcertò ancor più il suo interlocutore. Clermont si limitò ad annuire, la testa bassa, e poi si scostò dalla soglia per lasciarle il passo.

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Marianne fece il suo ingresso nella stanza, si guardò attorno nella penombra scorgendo i fogli sparsi sulla grezza scrivania all’angolo vicino alla finestra. Si soffermò su di essi per qualche istante, incuriosita, poi, voltandosi con la grazia che da sempre le apparteneva, posò gli occhi su Clermont, ancora fermo, la candela in mano, davanti alla porta.
-Volevo ringraziarvi per quello che state facendo per noi: so bene quanto vi costi, so bene quello che c’è in gioco, i rischi a cui state andando incontro per noi. Non posso che esprimermi tutta la mia gratitudine, dal profondo del mio cuore. – gli disse con voce ferma ma dolce, portandosi le mani al petto e fissandolo negli occhi in modo aperto, sincero, accorato.
Lui sospirò profondamente, augurandosi in cuor suo che la semioscurità riuscisse almeno in parte a nascondere il suo profondo turbamento. Voleva che se ne andasse, che uscisse da quella porta per non farsi vedere mai più, che la smettesse di tormentarlo in quel modo. Non si accorgeva di quanto male gli stesse facendo con quei suoi modi aggraziati e cortesi? Eppure, allo stesso tempo, desiderava che restasse lì per sempre, che quegli attimi si cristallizzassero in un eterno presente.
Dopo qualche istante, riuscì a dominarsi e a risponderle:
-Vi ho già detto che non dovete ringraziarmi, madame. Ho solo fatto quello che era giusto, chiunque al mio posto avrebbe agito allo stesso modo. – spiegò con il tono più neutro possibile.
- Sapete bene che non è così, ben pochi altri, se non nessuno, si sarebbero assunti un tale rischio. – ribatté lei. Lui inspirò profondamente e stette in silenzio, aveva già oltrepassato il limite della sua sopportazione, non era più in grado di controbattere alcunché: sperava soltanto che quel supplizio durasse ancora per poco. – Non conosco le ragioni che vi hanno spinto a fare questo: so che siete un uomo giusto, onesto, lo siete sempre stato, ma credo che ci sia forse una motivazione più profonda e, se fosse così, di questo vi vorrei parlare. – aggiunse poi con la voce che iniziava ad incrinarsi per l’emozione e gli occhi lucidi. Giocherellava con le frange del suo scialle, anche lei incominciava visibilmente a sentirsi a disagio in quel momento.
- Di che cosa vorreste parlare, sentiamo? Della mia vita negli ultimi dieci anni? Di quello che ho dovuto passare per diventare infine quello che sono? Delle umiliazioni che ho dovuto subire? – sbottò a questo punto Clermont, appoggiando con un gesto rabbioso la candela sulla scrivania e facendo così sobbalzare le carte. Anche Marianne sobbalzò: da che lo ricordava, non l’aveva mai visto così, lui al solito mite, pacato. Si pentì di essere andata da lui, di aver insistito per parlagli. Forse alcuni capitoli della nostra vita dovrebbero restare chiusi per sempre.
- Io della vostra vita non so nulla se non quello che sanno tutti: la vostra brillante carriera professionale, i vostri successi di deputato, la stima che vi circonda. Ma del resto non so nulla, non so se abbiate una moglie, per esempio, dei figli, non so se siate o meno felice. Mi pare di non conoscervi più. – rispose, infine, a mezza voce, lo sguardo basso, stringendosi nello scialle.
- No, è vero, non mi riconoscete più. O forse non mi avete mai davvero conosciuto. – ribatté lui, sarcastico, quasi con cinismo, mentre scompaginava i fogli che aveva per le mani, evitando accuratamente di incrociare lo sguardo di lei: non sarebbe in nessun modo riuscito a sopportare l’amarezza nei suoi occhi, men che meno le sue lacrime.
- Un tempo io pensavo di conoscervi, ma…- abbozzò lei, dopo alcuni istanti di silenzio che parvero eterni.
- Di conoscermi? Non mi conoscevi affatto se hai potuto pensare che io mi sia potuto rifare una vita dopo quello che c’è stato fra noi, se hai pensato che io abbia potuto avere un’altra donna, sposarmi, avere dei figli con lei. Come hai potuto anche solo immaginarlo, Marianne? – la interruppe bruscamente e le rinfacciò tutto d’un fiato, incollerito, dominando a stento il tono di voce per non rischiare di svegliare tutta la casa, ma trattenendo a fatica lo sdegno, la rabbia, il dolore a lungo repressi. Lampi d’indignazione e di sofferenza gli balenavano negli occhi.
- Io non volevo insinuare nulla, non si trattava di un’accusa. - tentò di difendersi lei, impaurita ma al contempo fortemente attratta dalla piega che stava prendendo quel discorso.
- Non c’è posto per le accuse, qui, Marianne. Quel che mi rende folle è il solo fatto che tu abbia pensato che potessi averti dimenticata. Come avrei potuto? Dimmelo tu. Come avrei potuto svegliarmi ogni mattina con accanto un’altra donna che non fossi tu? – domandò in un crescendo di tensione rabbiosa che lo condusse sull’orlo delle lacrime, mentre con sguardo accorato la fissava negli occhi, ormai privo di ogni inutile difesa davanti a lei.
Stavolta fu Marianne a rimare muta, impietrita, gli occhi sbarrati. Quella confessione la turbò fin nel profondo del cuore: a tanto arrivava l’amore di quell’uomo? Non si era dunque ben presto scordato di lei? Non l’aveva abbandonata e consegnata fra le braccia di Beaufort non rispondendo alle sue lettere? Quello che aveva sempre pensato, le sue convinzioni su di lui, l’amarezza e la delusione nei suoi confronti che l’avevano accompagnata per anni, parvero dissolversi all’istante. Ma non riuscì a parlare, non riuscì ad esprimere quei pensieri che in quel momento le affollavano prepotentemente la mente.
Pertanto continuò lui: - E se di accuse vogliamo parlare, l’unico in diritto di accusare qualcuno sono io. – Marianne alzò lo sguardo: - Sono io che ho pieno diritto di accusare tuo padre per quello che mi ha fatto. – concluse guardandola fisso negli occhi con aria di sfida.
-Mio padre? Che c’entra ora mio padre? Che Iddio lo protegga. – rispose stizzita lei, facendosi un segno di croce, mentre una lacrima le scendeva sul volto all’accenno al padre.
Clermont, pur avvertendo una fitta al cuore a quelle lacrime, non si volle fermare: era giunto il momento di sfogare tutta la sua frustrazione per i torti subiti e mai vendicati.
-Vedi questa? – le domandò scostandosi i capelli e mostrando il segno di una cicatrice sopra la tempia sinistra. Marianne guardava senza capire. – E questa? – chiese ancora, sbottonandosi la camicia con foga e mostrando un segno sulla spalla destra.
- Io non capisco. – si schermì lei, senza davvero comprendere dove volesse arrivare.
- Sono i segni delle bastonate che mi ha fatto infliggere tuo padre! Già, non ero degno di te, non ero che il figlio bastardo di una sarta! – concluse amaramente lui, riabbottonandosi la camicia e scuotendo la testa: al ricordo dell’ingiustizia subita, la cicatrice dell’anima ritornava a bruciare.
- Non ci posso credere, non è vero, non può essere vero. – mormorava Marianne, sconvolta, turbata, mentre una collera postuma nei confronti del padre saliva dentro di lei, contrastata al tempo stesso dal conseguente senso di colpa.
- Domanda allora alla tua amica Elenoire de Roussignac. Lei ti confermerà le mie parole, ti saprà dire come mi avessero conciato, quei bastardi.– controbatté Clermont, lasciandosi cadere seduto sulla sedia e prendendosi la testa fra le mani: quel dialogo ne stava mettendo a dura prova la resistenza.
- Elenoire? – chiese Marianne sempre più stupefatta, sempre più irritata dal fatto che tutte le persone attorno a lei sapessero cose di cui lei era stata per anni tenuta allo scuro. Ora anche l’amica più cara veniva coinvolta, anche Elenoire le aveva dunque nascosto la verità? Anche lei l’aveva tradita?
- Sì, lei. La notte in cui tuo padre ordinò ai suoi scagnozzi di malmenarmi, mi rivelò che ti saresti sposata da lì a poco, mi disse che tu non volevi più aver niente a che fare con me, che mandavi a dirmi di sparire, che mi rinnegavi, rinnegavi per sempre il nostro amore. Io non gli ho creduto e ho pensato di rivolgermi ad Elenoire: lei, di certo, conosceva la verità. Mi amavi, Marianne? O mi avevi svenduto per i quattrini e il titolo di Pari di Francia di quel bellimbusto di Beaufort? –
- Perché non hai risposto alle mie lettere? – domandò lei con un filo di voce, dopo aver lasciato spegnersi l’eco di quelle parole. Se ne stava in piedi, lo sguardo basso, torturandosi nervosamente le mani. 
- Le tue lettere? Quali lettere? – chiese e le si avvicinò con aria interrogativa.
- Quelle in cui ti pregavo di salvarmi da quel matrimonio a cui la mia famiglia mi aveva destinata per risanare i debiti di gioco di Roland e quelli di mio padre; quelle in cui ti supplicavo di portami con te a Parigi, fosse anche in una stamberga umida e fredda; in cui ti imploravo di non abbandonarmi fra le braccia di quell’uomo cinico e spietato di Guillame de Beaufort, un uomo che non avrei mai potuto amare, poiché non amavo altri che te. Perché non mi hai risposto?-  spiegò lei, con la voce ormai rotta dal pianto a lungo trattenuto.
- Io non ho ricevuto mai alcuna lettera. Questo è troppo! Questo è veramente troppo! – proruppe Clermont, fuori di sé: l’irreprensibile, compassato deputato della Convenzione era in quel frangente totalmente incapace di controllarsi. Con un gesto di stizza rovesciò la sedia, buttò a terra le carte e tutti gli oggetti che trovava sulla scrivania. Quel moccolo di candela che ancora ardeva si spense bruscamente, precipitando la stanza nella più completa oscurità. Marianne assistette immobile, incapace di qualsiasi gesto, mentre lui spalancava con foga la porta e, borbottando fra sé invettive di ogni genere, si avviava a passi rapidi, nervosi verso il portone d’uscita. Con rabbia sollevò il saliscendi poi, con una violenta spallata, rischiò di divellere la porta dai cardini. Uscì fuori nel buio della notte, respirando a pieni polmoni l’aria satura di pioggia: l’aria di quella stanza era diventata per lui pesante, opprimente.
Sentendo quel trambusto, Marianne si precipitò ad inseguirlo lungo il corridoio: - Dove stai andando? Torna qui, per favore! – varcò la porta ed uscì nel cortile: - Jacques! – lo chiamò allora a voce alta. – Jacques, torna qui! – ripeté cercando di raggiungerlo nel buio, mentre i suoi abiti e i suoi capelli si inzuppavano di pioggia.

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


Al sentirle pronunciare il suo nome, dopo tutti quegli anni, Jacques sussultò, trattenne il respiro. Nell’oscurità non riusciva a scorgerne la sagoma, ma ne percepiva distintamente la presenza ormai vicina. Fu allora che si voltò e, scuotendo la testa, esclamò con forza:
-Ti rendi conto di quello che ci hanno fatto? Tuo padre, Elenoire… ci hanno condannato senza appello, hanno distrutto la mia vita! – urlava quasi con tutta la rabbia che aveva in corpo, in un modo così disperato come mai gli era capitato in vita sua.
 Aveva pensato per anni che Marianne lo avesse intenzionalmente respinto, che avesse deciso di allontanarlo per contrarre quel matrimonio tanto più vantaggioso e che, dunque, Elenoire non gli avesse risposto quella notte per non tradire l’amica e per non gettarlo nella più profonda disperazione. Ne aveva sofferto fino allo sfinimento, certo, ma alla fine se ne era pur fatto una ragione, aveva concentrato tutte le sue energie nella sua professione, nella carriera politica, ed era riuscito a relegare il ricordo di lei in un angolo profondo della mente, da dove soltanto sporadicamente si ridestava. Invece non le cose non erano andate così: Marianne gli aveva scritto, Marianne l’aveva amato, non l’aveva abbandonato per Beaufort, non l’aveva rinnegato come sosteneva suo padre. Quel ricordo sopito ora deflagrava come un incendio nella sua mente, con una forza irresistibile, incoercibile, travolgendo ogni argine che avesse costruito negli anni. Anni buttati via, persi irrimediabilmente a causa delle trame sleali che altri avevano tessuto alle loro spalle. Una vita che poteva essere e che non era stata per colpa di quell’ordine iniquo che regnava fino a qualche anno prima.
- Non pensi che sia andata in pezzi anche la mia di vita? Credi davvero di essere l’unico ad aver sofferto in tutti questi anni? – controbatté lei, alzando a sua volta la voce e squarciando il silenzio di quell’angolo buio del cortile. Gli si avvicinò, gli afferrò un braccio mentre lui tentava disperatamente di divincolarsi, ormai in preda alla furia. – Jacques, ti prego, non fare così. Non serve a nulla agitarsi in questo modo, se non a darla vinta ancora una volta a loro. A mio padre, a mio marito, a tutti quei supponenti aristocratici come loro. – cercò di blandirlo e, infine, ci riuscì. Clermont smise di dimenarsi, abbandonò le braccia lungo i fianchi per guardarla con aria mesta, sconfitta. – Jacques, tu vali molto più di loro e l’hai dimostrato a tutti quanti. Io lo sapevo già, l’ho sempre saputo. – aggiunse Marianne, accarezzandogli dolcemente una guancia e fissandolo dritto negli occhi con un sorriso appena abbozzato ma che gli rendeva tutto quell’amore che per anni gli era stato negato.
- Perché tutto questo, Marianne? È profondamente ingiusto, disgustoso. Qual è stata la mia colpa, se non quella di essere il figlio illegittimo di una povera sarta di campagna? Perché un uomo deve rispondere delle sue origini e non del destino che si costruisce da sé? – le domandava con la voce scossa da un estremo sussulto di rabbia. -Perché? – tuonò infine.
-E la mia colpa qual è stata? Quella di essere figlia di un orgoglioso conte del Ponthieu con le finanze dissestate da investimenti sbagliati? Qual è stata? Suvvia, dimmelo tu! – lo provocò lei, ribattendo colpo su colpo alla sua stizza. Che cosa credeva? Che per lei fosse stato facile? Che avesse avuto una vita più felice della sua? Quanto si sbagliava! In quel momento questo le si poteva leggere negli occhi, quei vividi occhi azzurri in quel momento sfiniti, rassegnati. E lui fu in grado di leggere tutto questo, di intuire ogni cosa da un solo sguardo. Fu allora che, senza riflettere, senza pensare, d’istinto l’afferrò per i fianchi, la strinse con forza a sé, mettendo a tacere con un bacio tutte quelle domande rimaste sospese. E la baciò con una tale passione, un tale ardore come non aveva mai osato in passato, come a voler, nella foga di quel bacio straziante, restituire sé e a lei tutta quella vita che non avevano potuto vivere. - Ti ho sempre amata, Marianne. In tutti questi anni non ho mai smesso di pensare a te. – le sussurrò mentre le baciava le guance, la fronte, il collo, quasi volesse saziarsi di lei dopo un lungo digiuno. – Ti amo, Jacques. – rispose lei, ricambiando quei baci, passandogli le mani fra i capelli bagnati di pioggia, sulle guance lisce, senza riuscire per un solo istante a staccarsi da lui, incuranti della pioggia, del vento sferzante, dell’aria umida di quella notte. Come ritornarono in quella stanza? Non l’avrebbero saputo ridire. Lui la sollevò fra le braccia, la lasciò poi scendere di fronte al portone, ci arrivarono abbracciati, per mano, inseguendosi per i corridoi tra un bacio e l’altro, con passi felpati, furtivi, per non svegliare Juditte, per non insospettire Louise. Non se ne sarebbero però ricordati, il giorno seguente, ebbri di quelle nuove eppur antiche sensazioni che finalmente erano tornati a rivivere.
 
 
 
Ebbene, cittadino, che cosa vi ha spinto a presentarvi qui a quest’ora tarda? – domandò il giovane uomo seduto dietro l’imponente scrivania, in quella sala illuminata a giorno. Nelle stanze della politica, evidentemente, non esisteva riposo, soprattutto in quei giorni concitati dell’autunno del 1793.
- Cittadino, ho raccolto alcuni elementi interessanti che potrebbero portare alla luce l’infedeltà di un nostro deputato; prove abbastanza schiaccianti, direi, ma bisogna agire subito, senza perdere tempo. – rispose un giovane dall’aria spavalda e dal ciuffo di capelli fulvi che gli ricadeva sulla fronte: restava in piedi, quasi avesse scrupolo a sedersi di fronte a quell’autorità suprema.
- Un deputato della Convenzione? Oh misericordia, un'altra testa che dovrà rotolare sulla pubblica piazza. – constatò amaramente l’uomo alla scrivania, giocherellando nervosamente con la penna d’oca che teneva in mano. – Sapete, Laroux, sono stanco di questi continui complotti! È evidente che nessuno tragga piacere del condurre amici e colleghi alla ghigliottina, ma questi avanzi dei vecchi Girondini ci costringono a queste misure estreme. È mai possibile che ci si debba preoccupare di traditori nella nostra stessa Convenzione, quando la Repubblica corre un così grande pericolo, assediata da nemici esterni? Il Comitato di Salute Pubblica è costretto ad agire in questo modo, pena la rovina della Francia rivoluzionaria. – inveì il giovane dai bellissimi tratti, aggrottando le sopracciglia in segno di disappunto. Lo chiamavano l’Arcangelo della morte, splendido e implacabile quando doveva punire i detrattori dello Stato.
Laroux fece un cenno d’assenso a quelle parole e soggiunse: - Il Comitato di Salute Pubblica è l’unica salvezza per la Francia in questo frangente convulso; non ci possiamo permettere alcun indugio nel mettere alle strette i traditori. –
-Molto bene, allora, ditemi, di chi si tratta questa volta?- domandò sporgendosi in avanti con il busto, incuriosito.
- Si tratta del cittadino Clermont. Sono venuto a sapere che traffica certificati civici contraffatti e sta organizzando l’espatrio in Inghilterra di Marianne de Beaufort, consorte del conte Guillame de Beaufort attualmente detenuto nelle nostre carceri per collaborazionismo con gli insorti in Vandea. – riferì, con aria deferente Laroux, pregustando tra sé i vantaggi che avrebbe tratto da quella soffiata.
- Beaufort si ostina a non parlare, non siamo ancora stati in grado di fargli confessare i piani militari che stava tramando in Vandea. Un osso duro. – scosse la testa Saint-Just.
- Forse l’arresto di madame de Beaufort potrebbe indurlo a parlare. – ipotizzò Laroux per dare ancor più importanza alle informazioni di cui era in possesso.
- Ne dubito. Un uomo così orgoglioso e fiero non si lascerà certo intenerire dalle sorti della moglie. No, Laroux, Beaufort è troppo ostinato, non parlerà. – spiegò fissando il segretario del Comitato di sicurezza coi suoi gelidi occhi chiari.  – Tuttavia, Clermont deve essere arrestato. Un deputato della Convenzione che trama contro la Repubblica non può essere lasciato in vita. –
- Ne convengo, cittadino. Ma bisogna agire celermente. Domattina potrebbe essere già troppo tardi. –
- Datemi le prove della sua colpevolezza e provvederò subito a mobilitare la guardia nazionale. –
- Le prove gliele troveremo addosso, nelle sue tasche, se ci muoviamo immediatamente. Ho già provveduto ad ordinare a uomini di mia fiducia di tenerne sotto controllo gli spostamenti. Ha lasciato Parigi quest’oggi, diretto parrebbe verso nord. Attendo a breve un rapporto. –
- Molto bene, Laroux, avete svolto un ottimo lavoro. Il cittadino Clermont deve essere consegnato al più presto alla giustizia. -

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


Marianne richiuse dietro di sé la porta con delicatezza nel timore di svegliare la casa: nessuno avrebbe dovuto sapere, nemmeno Louise che, forse, già qualcosa sospettava. La conosceva meglio di sua madre, quella donna, pensò tra sé. Poi, con un sorriso dolce e, insieme, complice, si gettò tra le braccia di Jacques, finalmente, dopo tutti quegli anni, quelle notti insonni, quei sospiri nascosti. E lui, l’austero deputato, sembrava aver perso ogni sussiego, ogni corazza, ogni timidezza e si concedeva di essere con lei tenero e devoto, dolce e appassionato, di mostrarle la sua vera anima e tutto quell’amore che aveva per anni dovuto negare anche a se stesso.
-Quanto tempo abbiamo perso, quanti momenti ci hanno rubato. – le sussurrava con amarezza di quando in quando all’orecchio, interrompendo un bacio e guadandola con quegli occhi neri, lucidi eppure così trasparenti che vi si poteva leggere ogni cosa. Le sue mani tremavano mentre le accarezzava il viso, quella pelle candida e liscia, delicata.
- Non importa, amore mio. Ora siamo qui. – rispondeva lei, rapita, gli occhi chiusi per non interrompere quegli attimi così preziosi. Non voleva svegliarsi da quello che credeva essere un sogno, un bellissimo sogno che durava da più di un decennio e in quel momento pareva più vivido che mai. Gli passava le dita fra i capelli bagnati di pioggia, sulle guance ispide d’una barba appena accennata, segno di una perdonabile negligenza per l’impeccabile deputato Clermont, in quei giorni tanto convulsi. – Non ti ho mai dimenticato, Jacques. Ho continuato ad amarti per tutti questi anni, disperatamente, e ora non mi sembra vero che siamo qui, insieme. –
Jacques le offrì uno dei suoi sorrisi timidi, impacciati, tanto diversi da quelli franchi e aperti che riservava alle sue conoscenze; un sorriso che nessuno, in quegli anni, aveva mai avuto il privilegio di vedergli fiorire sulle labbra, un sorriso che aveva riservato a lei sola. A quelle parole di lei, avvertì come un groppo in gola, quasi si stesse per mettere a piangere quelle lacrime a lungo trattenute, che da quell’infausta notte di dieci anni prima, non si era più permesso di versare. Un rappresentante del popolo non piange, un paladino della giustizia non si scompone per vicende personali, ma sacrifica tutta la sua vita immolandola sull’altare del dovere. Così aveva fatto, stoicamente, per anni. Ma quanto gli era costato, non l’avrebbe saputo dire: eppure, in quel momento ritrovava finalmente un senso a tutta quella sofferenza.  – Dopotutto, siamo fortunati. – le rispose con voce tremante, poi, sorridendo, la sollevò fra le braccia e l’adagiò fra le lenzuola odorose di bucato del suo letto ancora intatto. Le loro vesti madide e appesantite dalla pioggia ricaddero sul freddo pavimento in cotto, mentre si abbandonavano al tepore delle coperte, uniti da uno strettissimo abbraccio.
 
La luce di un’alba livida, autunnale, piovosa, avrebbe trovato già sveglio il deputato Clermont: non aveva intenzione di concedersi che il lusso di un breve sonno poiché nella sua mente vigile si affollavano mille pensieri, mille preoccupazioni. A differenza sua, Marianne dormiva beata fra le sue braccia, dopo anni di insonnia finalmente godeva un sonno profondo, sereno, ristoratore: per la prima volta dopo tanti anni, sapeva di essere al sicuro.
  • Marianne, – la chiamò sottovoce. – Marianne. – ma lei non accennava a svegliarsi, sul viso un sorriso placido, i suoi capelli biondi sparsi sul petto di lui.
Clermont sospirò profondamente. Si rese conto solo in quel momento di ciò che era accaduto quella sera, dei discorsi concitati, delle spiegazioni tardive, del vortice di passione a cui si erano infine abbandonati. Ne era felice, certamente, non aveva desiderato nient’altro per dieci anni, ma in quel momento si rese conto di quanto avesse abbassato le difese e del pericolo che stavano correndo tutti quanti. Dopotutto erano fuggiaschi e lui non si toglieva dalla mente la sensazione di essere stato seguito il giorno precedente durante il suo viaggio da Parigi; solo una sensazione, effimera, impalpabile, ma che non lo abbandonava. Non poteva permettersi di indugiare, di farsi trascinare dalle lusinghe dell’amore perdendo di vista quella che era la loro rischiosa situazione. Il sole sarebbe sorto di lì a poco e per quel momento tutto sarebbe dovuto essere pronto per la partenza: il carro, i cavalli, Bonnet e soprattutto, i documenti. La sua mente razionale continuava a macinare piani di fuga, percorsi di viaggio, risposte da dare alle guardie, indicazioni da seguire per raggiungere Saint-Malo, porta d’accesso all’Inghilterra e alla libertà. Gli pareva assurdo ragionare così, accostare la parola libertà a quel Paese straniero che fino a qualche giorno prima detestava come nemico giurato, che tramava contro la Rivoluzione. Eppure l’Inghilterra rappresentava la salvezza per Marianne e lui, in quel momento, viveva in lei. Due giorni di viaggio, al massimo tre, e sarebbero giunte a Saint-Malo; poi avrebbero dovuto attendere le condizioni propizie per la traversata, si sarebbero dovute nascondere e lui non poteva in alcun modo aiutarle laggiù, ma confidava nella sagacia di Marianne. Il suo compito, invece, terminava quella mattina, quando si sarebbe congedato da loro, assicurandosi di averle viste partire sul carro di Bonnet. A quel pensiero, s’incupì d’un tratto: avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di ritardare anche solo per un poco il momento del distacco.
-Marianne. – le sussurrò per l’ennesima volta, dolcemente, all’orecchio: voleva trascorrere con lei più tempo possibile, non potevano permettersi di sprecare dormendo quei pochi attimi che restavano loro.
Marianne parve infine svegliarsi, aprì lentamente gli occhi e gli sorrise così dolcemente come se tutt’un tratto le fosse ritornato alla mente ciò che era accaduto.
-Che c’è? – gli domandò a mezza voce, ancora intorpidita dal sonno.
- Marianne, non abbiamo molto tempo. Fra poco sarà giorno e tutto dovrà essere pronto per la partenza, non sprechiamo nemmeno un istante del tempo che ci rimane. – le rispose scostandosi su un fianco per guardarla, prendendole la mano. I suoi occhi neri rilucevano nel buio di un’inconsueta luce, la luce che avrebbe voluto fare sul loro passato.
- Lo so. – rispose lei con un’ombra di malinconia nella voce, accarezzandogli una guancia. Poi gli si avvicinò per strappargli un bacio, che lui ricambiò.
- Vorrei parlarti, vorrei capire. Come hai potuto pensare che io ti avessi dimenticata? È stato qualcuno a suggerirti questo? Elenoire de Roussignac forse?-
- Che ti viene in mente? Elenoire non si è mai messa fra noi, non si sarebbe mai permessa di dire una cosa del genere. Perché hai pensato a lei?- domandò Marianne stupita dell’allusione alla sua più cara amica.
- Perché, l’altra sera, si è presentata sotto casa mia per implorarmi di aiutarti. – rispose Clermont con un sospiro lasciandosi ricadere supino, lo sguardo fisso al soffitto. -Voleva riaprire un discorso di tanti anni fa, ma io non gliel’ho permesso. Insisteva, si diceva pentita, si scusava per non aver avuto il coraggio di dire le cose come stavano. – proseguì.
- Elenoire è venuta a cercarti? –
- Sì. Non è difficile rintracciarmi: io e suo marito il visconte de Brionne abbiamo numerose conoscenze comuni. –
- Io le avevo parlato di te, il giorno precedente, le avevo detto che l’unica possibilità di salvezza che mi restava era quella di rivolgermi a te, ma che me ne vergognavo, dopo tutti questi anni, dopo quello che era successo tra noi. Lei mi rispose che se non l’avessi fatto, se non ti avessi chiesto aiuto, tu non mi avresti mai perdonato.
- Ed è vero; ma soprattutto non avrei mai perdonato me stesso, se ti avessi abbandonata al tuo destino. –
- Non smetterò mai di essertene grata. Io ti devo la mia vita e quella di Juditte, se non fosse stato per te…-
- Ssst. – la zittì con un bacio.  – Questo non è in discussione, la rifarei altre mille volte. –
- Dunque, che ruolo ha in questo Elenoire? –
- Elenoire ha avuto un ruolo molto rilevante e credo che lei ne avverta ancora il peso, senta la responsabilità che ha avuto nel corso delle nostre vite. –
- Elenoire? – Marianne era sempre più incredula e una sottile vena di gelosia si stava facendo strada in lei. Che ci fosse stato qualcosa tra Jacques e la sua amica?
- Sì. Quella notte, quella tremenda notte in cui venni selvaggiamente picchiato dagli scagnozzi di tuo padre…-
- Oh, Jacques! – lo interruppe lei, affranta.
- Lasciami finire, non è facile per me riaprire questo doloroso capitolo. – sospirò lui. Marianne lo fissava con palpitazione, spaventata da quello che il racconto le avrebbe rivelato. Cose che mai e poi mai avrebbe voluto ascoltare.  Non poteva fare a meno di soffrire leggendo nello sguardo cupo di Jacques le tracce dei soprusi che aveva dovuto subire da parte di suo padre. E tutto per causa sua: se solo fosse stata in grado di opporsi a quelle regole non scritte che vigevano nella sua famiglia, se avesse avuto il coraggio di prendere in mano il proprio destino…Ma non ne aveva avuto la forza perché aveva dubitato di lui e del suo amore e questo non se lo poteva perdonare.
- Quella notte, dicevo, mi trascinai a palazzo de Brionne con la forza della disperazione, insanguinato, dolorante, ormai allo stremo delle forze. Chiesi di poter parlare con lei ed Elenoire non si fece pregare, lasciò gli invitati e i festeggiamenti in corso e venne da me. Una sola domanda le rivolsi, soltanto una cosa mi premeva di sapere: non me ne importava niente delle botte, del dolore, dell’umiliazione che tuo padre mi aveva inflitto. Avrei sopportato ogni cosa se soltanto avessi saputo che tu mi amavi ancora. Così glielo domandai, la pregai di dirmi la verità: avevo il diritto di sapere se quel matrimonio per te non significasse nulla o se, invece, tu mi avessi dimenticato. -
- Jacques, ti prego, basta! – lo implorò gettandogli le braccia al collo. – Basta rinnovare questo dolore. Non serve a nulla, se non a farci ancor più del male. Non posso sopportare il pensiero di te in quelle condizioni, se solo avessi saputo…Non sai che cosa avrei dato per risparmiarti tutta questa sofferenza- gli sussurrò accarezzandogli una guancia.
- Hai ragione, è inutile continuare a rimuginare, ma io devo capire. Perché Elenoire non mi ha risposto? Perché ha esitato? Qualche istante dopo ho perso i sensi: non ricordo più nulla di quello che avvenne, ma lei mai in seguito mi ricercò per darmi quella risposta.  –
- Jacques, non sai quanto io ti abbia aspettato; non sai quante lacrime io abbia versato, il giorno in cui andai in sposa a Guillame Rocqueville de Beaufort, pari di Francia, padrone di immense proprietà, ricco e stimato. Ma senza cuore. E soprattutto senza alcuna possibilità di sostituirsi nel mio cuore all’uomo che ho sempre amato. Fu un giorno di pioggia, grigio e ventoso, e questo mi risparmiò la fatica di dover nascondere le lacrime. Ma ne sparsi molte, quel giorno e in tutti gli anni a venire, fino ad oggi. L’unica amica che mi è stata accanto è stata Elenoire: l’unica persona al mondo a cui avessi aperto il mio cuore, l’unica che conosceva perfettamente il mio infelice matrimonio. E ora capisco molte allusioni, molte parole, molti gesti: Elenoire è stata sempre dalla mia parte, ha perfettamente compreso la mia infelicità. Se non ti ha risposto, è stato per paura, ne sono certa. Solo per paura. -
Clermont si mise a sedere, si abbottonò la camicia e cercò a tastoni il panciotto nella luce incerta: il tempo stava per scadere. A malincuore rivolse a Marianne un mesto sorriso, afferrandole la mano.
  • Va’ a svegliare Juditte e Louise. Non manca molto: Bonnet sarà qui fra poco. Dobbiamo approfittare dell’ultima ora della notte. –
  • È già ora di separarci, dunque? – domandò lei a mezza voce.
  • Non rendere tutto più difficile, ti prego! – rispose Clermont, mettendosi a rovistare tra le carte che aveva lasciato sparpagliate sulla scrivania la sera avanti.
Trovò quello che cercava, un lasciapassare per Bonnet, che le avrebbe condotte con il suo carretto di frutta fingendosi un venditore che si stava recando ad un mercato con il suo carico di merce. Aveva pensato a tutto; nella sua mente si era prefigurato ogni tappa del percorso che le avrebbe condotte a Saint-Malo. Lì Marianne si sarebbe messa in contatto con dei conoscenti di Roland de Blanchard, suo fratello, degli inglesi, a servizio del barone Woodville: avrebbe chiesto notizie dei conti de Blanchard e li avrebbe raggiunti in Inghilterra. Ma la strada era irta di pericoli e posti di blocco.
-Come ti chiami? – la interrogò con una vena d’ansia ed impazienza nella voce.
-Jeannette Morin – rispose prontamente lei.
-Qual è la tua condizione? –
-Sono moglie di Laurent Morin, fruttivendolo-
-Perché stai intraprendendo questo viaggio? –
-Per accompagnare mio marito al mercato. –
-Dove…-
  • Non c’è bisogno che tu mi tempesti di domande, me la ricordo bene la parte. – Lo interruppe lei, con un sorriso divertito che lo stupì perché non si leggeva né nel suo sguardo, né nella sua voce la minima traccia di preoccupazione. Era serena, cosa incredibile a dirsi, come non lo era mai stata nella sua vita.
  • Va bene, perdono. – si scusò lui alzando le mani.
Marianne si avvolse nello scialle azzurro e si avviò verso la porta; le prime luci del giorno giocavano a stampare flebili ombre sulle pareti rose dall’umidità di quella dimora. Afferrò la maniglia, mentre brividi di freddo le facevano tremare, si strinse ancor più nello scialle, pronta a mettere piede fuori da quella stanza in cui aveva trascorso quei momenti così a lungo attesi, in cui aveva vissuto, in una dimensione sospesa tra sogno e realtà, le ore più dolci e al tempo stesso più struggenti della sua vita. Non ebbe il coraggio di compiere quel passo senza prima essersi volta a guardarlo. Cercò i suoi occhi scuri così profondi e imperscrutabili e vi lesse un dolore antico, mai placato, il dolore dell’abbandono, unito ad una luce nuova, quella della speranza, della salvezza, della vita. Lui abbozzò un sorriso, goffo, impacciato: il sorriso di chi non sa congedarsi o non vuole. Se ne stava con le braccia abbandonate lungo i fianchi, in mano i documenti, i capelli scomposti e la barba di qualche giorno, il viso teso e lo sguardo stanco di chi non dorme da troppo tempo. Stentava a riconoscere il severo deputato giacobino, il medico affermato e stimato da tutti, l’uomo elegante e composto che sedeva sugli scranni della Convenzione; questo le riempiva il cuore di un sentimento dolce e potente di tenerezza, di gratitudine e, al tempo stesso di orgoglio, perché si mostrava a lei nella sua più natura più vera di uomo fragile perché innamorato, riservandola a lei e a lei sola. In un impeto di nostalgia già struggente tornò sui suoi passi e gli si gettò fra le braccia: quello sarebbe stato il loro addio, agli occhi degli altri sarebbero dovuti tornare ad essere la contessa fuggiasca e il deputato delatore. Non avrebbe potuto lasciarlo senza un addio, doloroso e lacerante, in cui brillava tenue, però, un barlume di speranza. Cercò affannosamente le sue labbra, prendendogli il viso tra le mani tremanti, con gli occhi chiusi ad immaginare chissà quale lontano futuro, quando finalmente sarebbero stati liberi, da ogni convenzione, da ogni norma, da ogni consunto ruolo. Clermont ricambiò quel bacio disperato stringendola forte a sé, quasi a voler negare la necessità stringente di quella ormai prossima separazione. La vita sembrava prendersi gioco di lui: appena ritrovata, era destinato a perderla un’altra volta. Ma la sofferenza per l’abbandono non era più forte della paura per la sua sorte perciò, a malincuore, la staccò da sé con fare deciso, appoggiandole le mani sulle spalle, senza però aver il coraggio di incontrare il suo sguardo.
-Dobbiamo andare, Marianne. – nessuno sapeva quanto gli costasse pronunciare quelle parole, ma lo avrebbe potuto intuire dai suoi occhi bassi e dal groppo in gola. Marianne annuì silenziosa, si staccò da lui non senza avergli prima posato una lieve carezza sulla guancia, poi si avviò alla porta, la aprì, stavolta senza guardarsi indietro.

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


David Bonnet stava seduto a cassetta con addosso un enorme pastrano consunto e un cappello calato sugli occhi per difendersi dalla pioggia; fermo sul piazzale antistante l’entrata, aspettava l’arrivo delle fuggiasche.
  • Monsieur Bonnet. – lo chiamò Marianne mentre si avvicinava, tenendo un’assonnata Juditte per la mano, ma senza bagagli e senza Louise. Nella luce incerta di quel mattino piovoso, si stagliava su tutto il suo scialle azzurro.
  • Madame. –la salutò Bonnet deferente togliendosi il cappello. – E’ meglio che vi affrettiate. Fra poco sarà giorno. – incalzò con fare ansioso. Con lo sguardo vagava qua e là alla ricerca di qualcosa o qualcuno. – E quello scialle…troppo pregiato per la moglie di un carrettiere, dareste nell’occhio. Prendete il mantello che trovate sotto la cesta delle verdure e indossate quello -
  • Louise sta ultimando i bagagli, fra poco saremo pronte. – rispose Marianne, spogliandosi dello scialle e calandosi sul capo quel rozzo pastrano di lana grezza.
  • Non c’è tempo da perdere. – continuò lui, voltandosi indietro di tanto in tanto con fare sospettoso.
  • Ditemi: è successo qualcosa? C’è qualche problema? – chiese Marianne accorgendosi dello strano comportamento dell’uomo.
In quel mentre sul piazzale sopraggiunse Clermont, visibilmente teso, avvolto nel mantello e con una borsa di pelle a tracolla. Volgeva attorno lo sguardo con fare circospetto.
  • Clermont, per l’amor di Dio! Dov’eri rimasto? – gli si rivolse Bonnet con impazienza.
  • Che c’è, Bonnet? Parla. – domandò di rimando il deputato, dominando con estremo autocontrollo la preoccupazione crescente, consegnando i documenti contenuti nella borsa.
Bonnet non rispose, ma con un cenno del capo fece intuire il rischio di essere stato seguito.
  • Qualcuno ti ha visto? – gli chiese sottovoce Clermont, avvicinandosi per non farsi sentire da Marianne, che nel frattempo aveva preso posto insieme a Juditte sotto il telone, in mezzo alle verdure.
  • Chi può dirlo? Ad ogni fruscio di foglie sobbalzavo. Ho dei sospetti, nessuna certezza. – rispose Bonnet che, con un salto, scese dal carretto per aiutare Louise a trascinare i miseri bagagli.
Clermont ne approfittò per un ultimo saluto a Marianne che lo accolse con un sorriso stanco, mentre Juditte aveva ripreso a dormire appoggiata alla sua spalla.
  • Chi l’avrebbe mai detto: la contessa Roqueville de Beaufort, consorte di un Pari di Francia, costretta a viaggiare in mezzo a verze, zucche e cipolle. – scherzò lei, sorridendogli grata.
Jacques abbassò lo sguardo a quell’accenno, ma subito si riscosse e replicò:
  • Chi l’avrebbe mai detto: il deputato Clermont costretto a nascondere la consorte di un pari di Francia in un carretto di verdure di stagione. –
  • Nessuno ti costringe, Jacques.- lo corresse lei, avvertendo in quel momento tutto il peso di quello che gli aveva chiesto di fare per lei.
  • Mi costringe una forza più forte di me. E anche di te. – le rispose, accarezzandole una guancia.
  • È buffo: in questo momento siamo così diversi da quello che dovremmo essere. – osservò Marianne, fissando i suoi limpidissimi occhi celesti in quelli di lui.
  • Questo è forse uno dei pochi momenti in cui possiamo essere noi stessi. – disse, e la baciò per un’ultima volta. Un bacio rapido, prima di balzare a terra. Marianne gli prese una mano.
  • Promettimi, Jacques, che mi cercherai, quando tutto questo sarà finito, che verrai da me in Inghilterra. – lo implorò con gli occhi lucidi.
  • Marianne, - abbassò il capo per trovare le giuste parole, - io questo non te lo posso promettere: sono un deputato della Convenzione, non posso tradire la Repubblica. – poi, scorgendo lo scoramento negli occhi di lei, soggiunse: - Ti scriverò, ti farò avere mie notizie. Non ti dimenticherò, Marianne, questo te lo giuro. –
Marianne gli consegnò lo scialle azzurro che aveva indossato quella notte. – Conservalo tu. Sarà di buon auspicio: me lo dovrai restituire. -
  • Prima o poi ci ritroveremo. In questa o nell’altra vita. – le strinse più forte la mano, poi, con un cenno del capo si congedò.
 
Bonnet, dopo aver caricato il bagaglio, aiutò l’anziana Louise a salire a bordo; poi, seduto a cassetta, diede lo schiocco ai cavalli che si mossero.
  • Abbi cura di te, Marianne. – le gridò Clermont, mentre il carretto si metteva in moto.
  • Abbi cura di te, Jacques. – rispose lei, sotto lo sguardo complice di Louise.
Marianne restò a guardare scomparire la sua sagoma scura, immobile nella bruma mattutina, con gli occhi lucidi e le labbra piegate in un sorriso triste e malinconico.
 

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