Viaggio nell'eternità di Fiore di Giada (/viewuser.php?uid=695733)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Caduta nell'oscurità ***
Capitolo 2: *** Una sconcertante rivelazione ***
Capitolo 3: *** Primi passi e lacrime solitarie ***
Capitolo 4: *** Comincia l'addestramento ***
Capitolo 1 *** Caduta nell'oscurità ***
Una
opprimente cappa di umidità stringeva la città di
Parigi in una morsa e nel cielo limpido, d’un intenso color
cobalto, le stelle risplendevano di tenui bagliori argentei,
circondando un’esile falce di luna, che pareva ricoperta di
smalto traslucido.
La
città, in quel momento, era oppressa da una calma apparente,
che, tuttavia, sembrava pronta a infrangersi e a deflagrare in una
violenta collisione di forze.
I
membri del popolo fissavano con odio, quasi volessero divorarli, le
truppe di soldati che pattugliavano le strade della capitale.
Victor
Clement de Girodel cavalcava alla testa dei soldati della Guardia
Reale, lo sguardo apparentemente attento, e, ad ogni rumore insolito,
girava la testa, ora a destra, ora a sinistra.
Maledizione,
non posso continuare così! Finirò per impazzire! pensò
il militare, angustiato. Gli sembrava, in quel momento, di non
appartenere a quel bel mondo dorato, per il quale, fino a pochi mesi
prima, aveva combattuto con ferma determinazione.
Cosa
gli era successo?
Perché
gli sembrava di essere estraneo al suo stesso tempo?
Perché
gli pareva di essere una marionetta priva di volontà, mossa
dalle abili mani di un burattinaio privo di scrupoli?
Un
lieve, triste sorriso piegò le sue labbra. Pochi mesi prima, a
lui e ai suoi uomini era stato l’ atroce ordine di aprire il
fuoco sui deputati dell’Assemblea.
Tale
ordine, tanto meschino e crudele, gli aveva trapassato l’anima.
Con
che coraggio poteva colpire degli uomini indifesi e disarmati?
Eppure,
non aveva mosso alcune obiezione a tale ingiunzione e, a capo dei
soldati della Guardia Reale, si era presentato davanti all’Assemblea
e ai deputati.
– Se
non foste arrivata voi, Oscar… – sussurrò con
voce flebile e un lungo, gelido brivido
di orrore trapassò la sua schiena. Il suo cuore e la sua mente
gli dicevano di risparmiare quegli uomini coraggiosi, che ai fucili
della Guardia Reale opponevano i loro corpi, fragili e indifesi,
eppure, fermo nel suo adamantino senso del dovere, aveva deciso di
puntare le armi contro di loro.
Ai
loro sguardi decisi aveva opposto un’espressione crudele, che
gli era costata parecchio, perché occultava i suoi più
schietti sentimenti, che non volevano quell’insensata crudeltà.
E
lei, con fermezza, si era schierata dalla loro parte e aveva offerto
il petto alle loro armi.
Lo
aveva sfidato a sparare, fissando i suoi limpidi occhi nei suoi.
E
aveva vinto.
Victor
Clement de Girodel e i suoi uomini non potevano macchiarsi, davanti
ad una donna di tale tempra morale, di un atto tanto insensato e
crudele.
Nessun
ordine, per quanto pressante, giustificava un simile, inutile bagno
di sangue, perché i deputati del popolo non si stavano
macchiando di alcun crimine e difendevano le idee da loro ritenute
giuste.
Perché
non mi hanno punito?, si domandò ad un tratto Victor.
Credeva che, dopo un simile atto di insubordinazione, sarebbe stato
condotto davanti alla Corte Marziale e condannato ad una pena severa.
Già
vedeva il suo cammino verso il plotone di esecuzione e sentiva nelle
sue carni il dolore delle pallottole.
Eppure,
questo non era accaduto.
Anzi,
sembrava che quel suo atto di insubordinazione non fosse avvenuto e
non comprendeva la ragione.
Quale
sorte lo attendeva?
Speravano
di liberarsi di lui in altro modo, senza che le loro mani venissero
insozzate dal suo sangue?
Ma
che cosa importa?, si disse. Quelle giornate avevano
provocato in lui un cambiamento radicale, che aveva distrutto le sue
convinzioni più forti e tenaci, sedimentatesi in lunghi anni
di leale servizio.
La
nobiltà, che aveva servito con tale dedizione, era una classe
immersa nel fango dei suoi vizi.
Non
sapeva prendere nessuna decisione e fingeva di non vedere le cose
brutte o sgradevoli.
E
le persone dei sovrani, da lui considerate sacre e inviolabili per
diritto divino, gli apparivano stupide e indegne del loro ruolo.
Come
potevano non vedere la realtà?
Eppure,
non riusciva a distruggere i suoi legami con quel mondo degradato,
incapace di rinascere.
Provava
un disgusto fisico per le infamie della sua classe sociale, eppure
continuava ad obbedire agli ordini dei suoi superiori.
Forse
dovrei suicidarmi., pensò. Forse, con la morte, il
suo cuore si sarebbe liberato dai tormenti.
Ma
poteva lasciare i suoi uomini privi di una guida?
In
lui vedevano un abile e risoluto condottiero, che li avrebbe guidati
senza alcun tentennamento nella loro opera di difesa delle persone
dei sovrani.
No,
per quanto il suo cuore fosse gravato dal peso della nausea, non
poteva lasciare i suoi uomini, che avevano imparato a rispettarlo,
senza una guida.
Il
suo destino era nelle mani di Dio e, se avesse voluto la sua morte,
lo avrebbe accettato.
Un
soldato alto e robusto, con corti capelli neri e occhi del medesimo
colore, in groppa ad un cavallo normanno dal pelo color mogano, si
avvicinò a Victor.
– Comandante,
vi sentite bene? Siete molto pallido. E’ da giorni che non vi
concedete alcun riposo. – chiese l’uomo con
sollecitudine.
Victor,
colto di sorpresa, sussultò, poi girò la testa e i suoi occhi chiari si
fissarono nelle iridi nere del suo interlocutore.
Un
leggero sorriso sollevò le sue labbra. In quel momento, quel
lieve sforzo gli pareva una fatica erculea, ma non poteva sottrarsi a
tale imperativo.
Doveva
mostrarsi forte e risoluto, per non caricare i suoi soldati di ulteriori pesi.
– Sto
bene, non preoccupatevi capitano de Marine. Almeno fisicamente.–
rispose il comandante con voce apparentemente pacata.
– Cosa
intendete dire? – chiese perplesso l’altro.
Victor
sospirò.
– Non
so come dirigere le nostre forze. I gruppi di ribelli pullulano e
scoppiano tumulti da ogni parte. Così noi non possiamo
mantenere l’ordine nella città. – confessò,
sconfortato. Parlare di una parte della sua pena gli aveva permesso
di stare meglio, seppur per poco tempo.
Ma
le altre cause del suo malessere restavano.
La
sua angoscia non era solo legata alla situazione incandescente del
suo paese.
I
membri del popolo erano divorati da una ardente sete di vendetta
verso la nobiltà e il clero e guardavano con manifesto
disprezzo alla Guardia Reale, ritenendola al servizio di un ordine
ingiusto e corrotto.
E,
malgrado le sue origini, non poteva dare loro torto.
Di
quante viltà la nobiltà e il clero francese si era reso
colpevole nei confronti del Terzo Stato?
E
lui non era sicuro di essere immune da colpe, personali e storiche.
L’ultimo
incontro con Oscar aveva squarciato con violenza un velo di menzogne
e inganni che per tanti, troppi anni aveva occultato la realtà
ai suoi occhi.
La
nobiltà era una classe degenerata, che, dai tempi di Luigi
XIV, si nutriva del sangue e delle ricchezze dei francesi.
Ma,
malgrado questo, non riusciva a prendere una decisione definitiva e
viveva come una marionetta.
Il
capitano tacque. Sì, il loro comandante aveva ragione.
La
calma che, in quel momento, regnava su Parigi era artefatta e
prossima a infrangersi e i facinorosi erano pronti a tutto pur di
portare scompiglio.
– Comandante,
non preoccupatevi e cerchiamo di risolvere un problema alla volta. E
non dimenticate una cosa: noi
saremo sempre al vostro fianco. – dichiarò, solenne, il
colosso.
– Avete ragione.
E vi
sono assai grato per le vostre parole.
– rispose Victor, gli occhi lucidi. Eduard de Marine, malgrado
le sue origini, era dotato d'un cuore semplice e nobile e credeva che
tutto si sarebbe risolto senza alcun mutamento.
E
questa ingenuità era pericolosa, perché conduceva a
errori di valutazione assai gravi.
Altri
focolai di rivolta presto sarebbero esplosi.
E
non era sicuro di riuscire a svolgere il suo compito.
Ma
perché mi preoccupo così tanto?, pensò.
Forse, se fosse scoppiato un qualsiasi tumulto, avrebbe avuto la
possibilità di combattere e di dimenticare, anche se per poco
tempo, le sue angosce.
E,
nel caso per lui più lieto, sarebbe morto e quei pensieri,
finalmente, si sarebbero dissolti, come un miraggio in un arroventato
deserto.
Ad
un tratto, dei rumori di spari e delle urla di terrore infransero il
silenzio.
– Comandante,
cosa facciamo? – chiese un
soldato.
Victor,
per alcuni istanti, esitò, poi un sorriso enigmatico sollevò
le sue labbra. Sì, in quel momento, sapeva quale fosse il fine
della sua esistenza.
I
suoi soldati contavano sulla sua guida.
– Soldati
della Guardia Reale, seguitemi! – ordinò poi e, con un
colpo deciso dei talloni, spronò il cavallo.
L’animale
emise un lungo nitrito, poi si lanciò in un veloce galoppo,
presto seguito dagli altri soldati.
– Finalmente...
– mormorò Victor, i lunghi capelli castani scarmigliati.
Il suo desiderio era stato esaudito.
Per
un po’, nella furia di un combattimento, avrebbe dimenticato
quell’angoscia dilaniante.
E,
forse, la morte avrebbe posto fine a quel tormento che sembrava non
avere termine.
Un
po’ di tempo dopo, i soldati della Guardia Reale raggiunsero il
Pont Neuf.
Decine
di uomini, vestiti di abiti neri, brandivano dei bastoni, delle
vanghe e delle baionette, si stringevano come una tenaglia attorno ad
una carrozza bianca, guidata da due cavali.
Questa,
sottoposta a continue sollecitazioni, oscillava pericolosamente con
ripetuti scricchiolii e pareva prossima a cadere nelle acque cupe
della Senna, che scorrevano, calme e indifferenti, sotto l’antico
ponte.
– Sparate!
– ordinò con voce decisa Victor.
I
soldati, solerti, si misero in posizione. Caricarono. Qualche istante
dopo, risuonò lo scoppiettio dei fucili.
I
popolani, sentendo quella voce stentorea, si girarono, abbandonando
la carrozza.
Il
cocchiere, approfittando della distrazione degli assalitori, frustò
i due cavalli.
Fulminei,
gli animali si lanciarono al galoppo e la carrozza si allontanò
nella notte.
Per
alcuni istanti, i popolani e i soldati della Guardia Reale rimasero
immobili, simili a due predatori immobili, in attesa di un movimento
dell’avversario.
– Guardate,
i cani da guardia della nobiltà! – ringhiò un
uomo di alta statura, gli occhi brucianti di rabbia, e strinse tra le
mani un falcetto.
– Addosso!
– tuonò un altro e, reggendo una vanga, si lanciò
contro i soldati della Guardia Reale.
Come
un’onda, i popolani si precipitarono sui soldati della Guardia
Reale, le gole tese e le bocche spalancate in grida feroci, belluine,
selvagge. Certo, quei bastardi avevano il vantaggio dei cavalli, ma
non si sarebbero lasciati sfuggire una tale occasione.
Finalmente,
avrebbero potuto vendicare i loro cari, consumati dalla miseria e
dalla fame.
Anche
i soldati della Guardia Reale erano stati mantenuti dalle loro tasse
e, in quel momento, avevano l’occasione di dare loro una
lezione che mai avrebbero dimenticato.
E,
anche se loro fossero morti, altri avrebbero preso il loro posto per
compiere la loro missione.
La
nobiltà, divoratrice delle loro risorse, doveva scomparire e
lasciare il posto al Terzo Stato, che lavorava per il bene del paese.
Il
ponte risuonò di urla di dolore, di rabbia e di vittoria.
Presto, si riempì di cadaveri sanguinolenti e di corpi
agonizzanti, da cui si levavano flebili lamenti, che si spegnevano.
Victor,
con fulminea precisione, guidava il cavallo e affondava la sciabola
nei corpi dei suoi avversari, che, privi di forza, si afflosciavano
sulla strada, come sacchi vuoti.
– Maledizione...
Così non va... – mormorò. Il sangue nemico gli
colpiva la faccia e la divisa e avvertiva la stanchezza intorpidire
il suo braccio destro, eppure i suoi avversari sembravano sorgere
dalla terra.
Animati
da un odio bruciante, non si arrendevano al loro superiore
addestramento, e, come bestie eccitate dall’odore del sangue,
attaccavano, incuranti dei loro compagni morenti.
I
suoi uomini riuscivano a tenere testa a quella massa disordinata, ma
non erano in grado di riportare la situazione alla normalità.
A
stento trattenne un’imprecazione, mentre affondava il ferro nel
collo di un altro avversario. Quella sensazione non scemava, malgrado
il suo feroce impegno nel combattimento, e saliva alla sua bocca,
come un acido.
Ad
un tratto, un forcone, con una traiettoria curva, simile a quella di
un giavellotto, attraversò l'aria e, con un tonfo, si piantò
in profondità nella schiena del giovane.
Victor
si irrigidì. Spalancò gli occhi. Il dolore si irradiò
lungo tutto il suo corpo.
Il
sangue, d'impeto, esondò dalla bocca e dalla schiena di lui,
inzuppando la casacca celeste chiaro.
La
sciabola, priva d’una mano ferma, cadde con un secco tintinnio
al suolo.
Il
giovane, con uno sforzo supremo, tentò di stringere le redini,
ma la debolezza lo sopraffece e il suo corpo si accasciò sul
collo del cavallo.
Un
lieve ronzio giunse alle sue orecchie e i suoi occhi, ormai spenti,
si chiusero, sopraffatti da una forza irresistibile.
L’animale,
quasi avvertisse la mancanza di una guida salda, si sollevò
prima sulle zampe posteriori, poi su quelle anteriori.
Il
corpo dell’ufficiale, ormai privo di vita, cadde dalla
cavalcatura e precipitò nelle cupe acque della Senna.
Come
prestavolto umano di Victor Clement de Girodel ho scelto questo
splendido
modello:
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Una sconcertante rivelazione ***
Precipitava
in un pozzo nero.
IL
suo corpo, come una bambola di pezza, veniva sbattuto da una parte e
dall’altra.
Decine
di aculei, con uno scatto sinistro, uscivano dalle pareti.
Inesorabili,
dilaniavano le sue carni.
Urla
di dolore uscivano dalla sua bocca, mentre il sangue sgorgava dalle
ferite.
I
suoi occhi si torsero all’indietro e il suo corpo si inarcò
in uno spasmo, come un epilettico. Era quello l’inferno?
Era
il preludio all’eterno tormento delle anime dannate?
Tremò.
Aveva paura di una simile sofferenza.
Non
riusciva ad accertare un tale destino.
Perché
era stato condannato all’Inferno? Di quali colpe si era
macchiato?
Tutto
gli pareva privo di senso.
Ad
un tratto, il suo corpo straziato cadde su una superficie dura.
Il
dolore, imprevisto, lo investì, come un’onda e perdette
i sensi.
Di
scatto, Victor aprì gli occhi e, per alcuni istanti, rimase
immobile, come un tronco di legno, lo sguardo fisso verso l’alto.
Un
velo grigio copriva i suoi occhi, come una densa nebbia, e, nel
silenzio, rimbombava il battito tumultuoso del suo cuore e il sibilo
dei suoi respiri sempre più affannosi.
Cauto,
girò la testa ora verso destra, ora verso sinistra e provò
a muovere la mano destra.
– Dove…
Dove sono finito? – si chiese, turbato. Ricordava bene quanto
fosse accaduto poco tempo prima.
I
soldati della Guardia Reale erano stati chiamati per sedare
l’ennesimo tumulto e, durante lo scontro, un’arma
avversaria lo aveva colpito alla schiena.
Il
dolore era stato lacerante, seppur effimero, ed era morto.
Poi,
era precipitato in un abisso, simile ad un pozzo nero.
Quell’ammasso
inestricabile di pensieri angosciati era la sua anima e aveva
concluso il suo percorso.
Cosa
era successo? Dove si era conclusa la sua caduta?
Inferno?
Purgatorio? Paradiso?
Ad
un tratto, un esile profumo giunse alle sue orecchie e Victor, quasi
d’istinto, lo aspirò, fremendo di voluttà.
– Un
momento… Questa è cera d’api. - mormorò il
giovane, sgomento. Quell’aroma era riconoscibile, perché
gli permetteva di rilassarsi e concentrarsi nella lettura.
Come
era possibile, dopo la morte, avvertire un tale, delicato effluvio?
Non
aveva senso, perché, con il decesso, si spegnevano percezioni
ed emozioni.
– No…
Non è possibile… – mormorò. All’inizio,
non ci aveva pensato, ma, in quel momento, avvertiva una strana
sensazione di morbidezza… estremamente terrena.
Come
era possibile?
I
morti non provavano alcuna emozione e non avvertivano nessuna
impressione.
Ma
una tale ovvietà non diminuiva la sua angoscia e non rendeva
meno reale la sua percezione.
Come
si spiegava una simile dualità?
– No… Cosa
sarà successo? – sussurrò, il cuore stretto in
una morsa d’angoscia. Voleva uscire da quell’abisso cupo
e sapere la verità…
Quella sensazione era
ridicola, in quanto lui era morto, e quella tenebra non aiutava la
sua mente a capire.
Anzi, aumentava il suo tormento.
Il
giovane sbatté freneticamente le palpebre e, qualche istante
dopo, l’oscurità si dissolse e gli consentì di
guardarsi intorno con più attenzione.
Era
disteso su un ampio letto ligneo, coperto da un pesante baldacchino
di damasco rosso.
A fatica, si sollevò a sedere e
scostò il tendaggio. Avvertiva una violenta sensazione di nausea e
gli pareva di soffocare, come se, attorno al suo collo, fosse stato
stretto un nodo scorsoio.
Gli sembrava tutto così
irreale e, nel medesimo istante, reale, palpabile, vivo.
Un
morto non doveva provare nulla!
Per
alcuni istanti, rimase immobile, lo sguardo basso, e fece ondeggiare
le gambe sul bordo del letto.
– E’ assurdo…
Io dovrei essere morto…. – mormorò, sempre più
angosciato. Quelle sensazioni, così reali, giungevano alla sua
mente sempre più nette, come se la morte non avesse preso la
sua anima.
Ricordava fin troppo bene il momento della sua morte
e il dolore straziante di quell’arma contadinesca nella
schiena.
Eppure, in quel momento, gli pareva di essere vivo e di
trovarsi nell’abitazione di una persona del suo stesso ceto
sociale.
Avrebbe riconosciuto ovunque gli arazzi policromi, le
candide porcellane, splendenti di decorazioni multicolori e i mobili di pregio, intarsiati di materiali preziosi,
capaci di donare appagamento al suo spirito di amante del bello.
Ma
anche quella era un’illusione della sua anima provata. O forse
no?
E che senso avevano quei mobili nell’Aldilà?
– Tutto
questo non ha senso... – sussurrò e, con un gesto
stanco, si passò una mano tra i lunghi capelli castani. Si
ripeteva sempre la stessa frase nella mente, eppure cominciava a non
essere convinto della veridicità delle sue parole.
Il
rumore di una porta che si apriva troncò i suoi pensieri e il
giovane, d’istinto, si girò,.
Vide entrare un uomo
dell’apparente età di trent’anni, di statura
piuttosto alta e di corporatura slanciata, anche se muscolosa.Corti
capelli castani, dai riflessi color mogano, circondavano un viso dai
lineamenti regolari e su questi spiccavano gli occhi dal taglio
felino, d'un cupo colore grigio, simili a due lame
d’acciaio.
Indossava una giacca rossa con bottoni di
madreperla e risvolti di pizzo alle maniche, pantaloni neri, che
arrivavano fino al ginocchio, e stivali del medesimo colore.
Victor,
per alcuni istanti, lo scrutò senza pronunciare alcuna parola,
diffidente. Chi era quell'uomo? Si poteva definire tale?
Un
angelo? Un demonio?
Se era una creatura sovrannaturale, perché
si era ammantata di sembianze umane? Quale era il suo scopo?
Gli
pareva di essere precipitato in un assurdo spettacolo teatrale, ben
lungi dalla conclusione e, malgrado amasse una simile forma d'arte,
quella lontananza dalla realtà lo lasciava inerme, privo di
certezze e punti di riferimento stabili.
– Chi…
Chi siete? – domandò con timore. Nella sua mente la
paura di sapere si alternava dolorosamente al desiderio di
capire.
Era in un limbo di cui non vedeva la fine.
E,
forse, da lui avrebbe ricevuto le risposte che cercava da troppo
tempo.
Un leggero sorriso sollevò le labbra dell’altro.
Chissà cosa avrebbe pensato quel ragazzo incerto, una volta
conosciuta la verità…
– Sono felice che
vi siate ripreso. – affermò, gentile, lo sguardo
metallico fisso su Victor.
Il militare, colto di sorpresa da
quelle parole, sussultò. La voce del suo interlocutore
non pareva quella di una creatura sovrannaturale di qualsiasi tipo,
anzi gli sembrava quella di un uomo vivo, e il suo francese era
impeccabile, anche se era imbarbarito dall'accento duro delle
genti del Nord.
Una risata bonaria, non priva di amarezza,
risuonò sulle labbra dell'altro.
– Mi onorate di
un’importanza che non possiedo. Il mio nome è Connor Mc
Laod e provengo da quello che, fino al 1707, era il regno di Scozia.
Qual è il vostro? – gli chiese.
– Victor
Clement de Girodel. – rispose l’altro e, con delicatezza,
si massaggiò le tempie pulsanti. Avrebbe riso, se la
situazione non fosse stata così paradossale.
Doveva
essere morto, eppure parlava con un demonio o un angelo e si serviva
di un titolo da lui perduto, che, nell'Aldilà, non aveva nessun senso.
Quell’uomo
si era presentato come uno straniero e gli appariva sincero, ma non
sapeva se credere alle sue parole.
Cosa celava oltre quel suo
viso sorridente?
L’altro, dinanzi allo sguardo confuso del
francese, scosse la testa e sospirò. Quegli occhi chiari non
mentivano.
Lui non riusciva o non voleva accettare la realtà
del suo stato.
E non era capace di dare torto a quelle
emozioni.
Tuttavia, un modo per fargli capire la verità
c’era.
– Riuscite a rialzarvi? Voglio andare in
chiesa con voi. – gli chiese Connor, pacato.
Con prudenza,
il francese appoggiò i piedi sul pavimento e si alzò
dal letto. Il suo compagno aveva deciso di entrare in una chiesa e,
se fosse stato un demonio, sarebbe stato danneggiato.
Lo avrebbe
seguito e, forse, avrebbe avuto una risposta alle tante, troppe
domande che tormentavano la sua mente.
– Credo sia il caso
di non farci riconoscere come nobili. Potrebbero aggredirci. In
questo periodo, la Francia è agitata da disordini. –
mormorò poi d'impulso e si stupì delle sue parole.
Perché parlava così?
Lui era morto!
Probabilmente,
quelli che riteneva francesi erano demoni, rivestiti di sembianze
umane.
– Avete ragione. Per fortuna, ho degli abiti
adatti allo scopo. Venite con me. – dichiarò Connor, il
tono tranquillo, e, assieme al francese, uscì dalla stanza da
letto.
Il
nobile straniero, con passo rapido, guidò il francese
attraverso un corridoio di medie dimensioni..
Le deboli
luci delle candele, languide, si adagiavano sulle gocce di cristallo
appese alle braccia del lampadario, facendole scintillare di deboli
bagliori d'iride.
Il pavimento era ricoperto da un tappeto
azzurro, ornato di ricami floreali policromi, e ad una parete era
appoggiato un piccolo tavolo rettangolare di ebano, istoriato di
madreperla.
Le gambe del tavolo erano ricoperte d'oro e le parti
superiori di queste erano sormontate da teste di leone, le bocche
spalancate in un ringhio feroce.
– Mi sembra di stare
nella casa di un nobile. Come è possibile? – si domandò
il militare, sempre più perplesso. La mente, ancora una volta,
gli imponeva di accettare la realtà della sua morte.
Ne
era consapevole, nessuno era immortale.
Nemmeno
la nobiltà poteva proteggere l’uomo dal suo destino
ultimo, come era accaduto nel caso del predecessore del loro attuale
sovrano.
Il
potere assoluto di Luigi XV non era servito a salvarlo dal tormento
del vaiolo, che aveva scavato piaghe putrescenti nella sua carne, fino a quel momento ritenuta quasi immortale.
Eppure, perché gli sembrava di
essere nella casa di un membro della sua stessa classe sociale, anche
se quest’ultimo gli aveva detto di essere straniero?
Perché
gli pareva di essere ancora vivo?
Connor si
fermò davanti ad una porta, la aprì ed entrarono in una
ampia stanza di forma rettangolare.
Le pareti e il soffitto
erano tinteggiate d'azzurro e il pavimento era ricoperto da un
tappeto di seta bianca, ricamato in oro.
Una toilette di marmo
bianco di Carrara era appoggiata ad una parete e, dal lato opposto,
era presente una gigantesca cassapanca di legno di quercia.
A
metà della stanza si elevava un paravento di seta,
ricamato a fiori, accanto al quale c'era una consolle di legno di
palissandro, istoriato di argento, su cui era poggiato uno scrigno
d'avorio.
– Sedetevi. – gli ordinò Connor e
Victor, pur con riluttanza, obbedì.
Il primo tirò
dalla tasca del suo abito una chiave e la infilò nella
serratura del forziere.
Con uno scatto, la parte superiore dello
scrigno si aprì, rivelando un pugnale dall'elsa gemmata,
scintillante di luci policrome, e dalla lama serpentina.
Connor
prese il pugnale, si avvicinò al giovane nobile francese e,
con calma, appoggiò la mano sulla sua spalla destra
Victor,
sentendo quel tocco, si irrigidì. Non aveva senso, il calore
di quella mano gli pareva fin troppo reale.
Poteva avvertire la
pelle di quell'uomo contro la sua, se tale si poteva definire.
Ed
era il tocco calmo, ma fermo, di una persona ben cosciente della sua
forza, che non aveva nulla da dimostrare.
Dinanzi alla rigidità
dell’altro, Connor, bonario, sorrise. Victor era ancora
stordito da quel suo risveglio e quella sua ritrosia era
normale.
Come poteva dargli torto?
– State
tranquillo, non ho nessuna intenzione di farvi del male. Voglio solo
tagliarvi i capelli. Questa splendida chioma non è credibile
in un contadino, non siete d'accordo? – ironizzò.
Victor
sospirò e si impose di rilassarsi. Se fossero stati due uomini
vivi, tale affermazione avrebbe avuto senso...
Tuttavia, la sua
mente gli ricordava la realtà.
Era morto e tutto era
opera perniciosa del demonio.
Quel
giovane era il Diavolo, ammantato di sembianze gradevoli, che cercava
di trascinare la sua anima negli abissi dell’Inferno.
Eppure,
perché non aveva paura di entrare in una chiesa?
Era
una menzogna ben recitata? O qualcosa di eccentrico si celava oltre
quelle fattezze?
Connor prese i lunghi capelli di Victor tra le
dita e, con decisione, li tagliò.
Le ciocche castane,
senza rumore, caddero sul pavimento, simili a foglie di quercia
staccate dal vento autunnale.
Il
francese fece per rialzarsi, ma l'altro, con un gesto pacato, ma
fermo, gli appoggiò una mano sulla spalle destra e lo
costrinse a restare seduto.
– Perché? –
chiese perplesso.
Connor sospirò e, a stento, trattenne
una risata divertita.
– Non siete ancora credibile come
contadino. Avete una pelle troppo liscia e chiara. Chiunque capirebbe
che siete di origini nobili, anche se avete i capelli tagliati. –
spiegò.
L'altro, con un gesto meccanico della testa,
annuì e si guardò le mani. Certo, aveva ragione.
I
contadini, a causa del loro lavoro nei campi, avevano la pelle più
scura della sua.
E lui, bramoso di conoscere una verità
che gli sfuggiva, non aveva considerato un simile, cruciale
dettaglio, .
O forse sì?
– E… E cosa
pensate di fare? – lo interrogò Victor.
Connor
meditò per alcuni istanti, poi si allontanò a passo
svelto.
L’ufficiale
francese, per alcuni minuti, rimase immobile, le mani posate sulle
ginocchia, e la mente pervasa da un turbine impetuoso di pensieri. La
risoluzione di quel mistero si approssimava sempre più, ma non
sapeva se essere felice o no.
cosa
gli avrebbe rivelato?
– Cosa ne sarà stato dei miei
uomini? – si domandò. Erano riusciti a riportare la
calma?
O erano stati sopraffatti dalla rabbia di quei popolani?
Una
fitta di tristezza, come un pugno, lo colpì
– Ma
perché penso come se fossi vivo? – si chiese. Doveva
accettare la realtà della sua morte!
Una simile
ostinazione non aveva senso!
I suoi pensieri vennero interrotti
da Connor, che era ritornato e reggeva un vaso di argilla e uno
straccio.
– A cosa vi servono quegli oggetti? –
domandò l’altro.
Connor, invece di rispondere, li
posò sulla consolle e uscì di nuovo.
Qualche
istante dopo, ritornò, recando tra le braccia delle vesti da
contadino e degli zoccoli.
– Vestitevi. Poi vi truccherò.
– disse con voce pacata e, con un lieve cenno della testa, gli
indicò il paravento.
Victor si alzò, prese gli
abiti e si posizionò dietro il paravento.
Poi, pur
esitante, uscì.
Indossava una casacca marrone e pantaloni
color ocra, che coprivano le sue lunghe gambe, e ai piedi calzava
scarpe un po’ più chiare dei pantaloni, con la punta
leggermente rialzata.
– Sì, va molto meglio. Ora
però devo truccarvi. – affermò Connor e lo invitò
a sedersi di nuovo.
Il giovane militare obbedì e l’altro
prese il vaso, lo aprì e vi immerse lo straccio.
Poi,
delicato, cominciò a passarlo sul volto, sui capelli e sulle
mani dell’ufficiale
Diversi
minuti dopo, Connor terminò di truccarlo.
– Bene,
il vostro travestimento è finito. Ora tocca a me. Aspettatemi.
– gli disse e uscì di nuovo dalla stanza.
Un po’
di tempo dopo, ritornò.
Anche lui indossava abiti da
contadino e, alla cintura, portava un lungo e affilato coltello.
-
Venite con me. Presto saprete la verità. - gli disse.
Victor,
sollecito, si alzò e lo seguì.
I
due uomini, con passo rapido, uscirono da un ingresso secondario ed
entrarono nel giardino.
Ad
un tratto, il francese, colto da un improvviso pensiero, si bloccò.
– Che
vi succede? – domandò Connor, alzando un sopracciglio in
segno di perplessità.
– Come arriveremo alla meta?
– chiese Victor.
– A piedi. Passeremo inosservati. –
rispose l’altro e riprese il suo cammino, seguito dal compagno.
Rapido,
Connor guidava il compagno attraverso le strade più strette
della città, lontano dagli occhi dei soldati e dei membri del
popolo.
Non è possibile… Mi sembra di essere a
Parigi. Ma non ha senso!, pensò Victor, sempre più
sconvolto. Dopo un effimero periodo di quiete, quella ansietà
tornava a turbarlo con forza rinnovata.
Non poteva essere a
Parigi!
Il diavolo, nelle vesti di quel giovane uomo, si stava
servendo di crudeli trucchi per condurre la sua mente alla pazzia?
Quel
pensiero si iterava nella sua mente e l'angoscia, sempre più
crudele, dilaniava la sua mente e il suo cuore con lunghe dita
d'acciaio.
Per
lui, amante dello studio e della lettura, la possibilità di
perdere la ragione era una pena ben più crudele di qualsiasi
sofferenza.
Era
una punizione per le sue colpe?
Connor,
seguito dal suo compagno francese, procedeva senza esitare.
Conosce
molto bene le strade di Parigi., pensò Victor, stupito.
Questo aveva due possibili motivazioni.
O Connor viveva da tempo
nella città di Parigi e, così, aveva imparato a
conoscere le strade della città, o era un diavolo, vestito di
membra umane.
E il demonio era a conoscenza di molte cose.
Qualche
tempo dopo, i due raggiunsero la chiesa di Notre Dame de Paris.
Il
militare francese, per alcuni istanti, la fissò, gli occhi
lucidi di lacrime. Quella era una malefica illusione del demonio,
eppure gli appariva così reale…
Poteva distinguere
con attenzione le finestre bifore laterali e il rosone centrale,
contro il quale si infrangeva la luce argentea delle stelle, e le
statue che sormontavano i tre maestosi portali.
– Vi
sentite bene? – domandò con premura Connor.
Victor,
sentendo le sue parole, si scosse dai suoi pensieri e annuì.
–
Bene. Siamo quasi arrivati alla fine. – mormorò l'altro
e si diresse verso l'entrata meridionale della chiesa.
Un
po' di tempo dopo, Victor lo seguì e, insieme, giunsero
davanti ad un piccolo fonte battesimale marmoreo, riccamente decorato
di sculture raffiguranti angeli dalle ali spiegate.
All'interno
della vasca v'era una piccola pozza d'acqua, perfettamente
immobile.
– Ora guardate. – gli disse Connor e, con
sicurezza, immerse la mano destra nell'acqua, che tremò, come
se vi fosse stato gettato un sasso.
Il francese si irrigidì.
Non era accaduto nulla quando aveva immerso la mano nell'acqua
benedetta e non aveva scorto alcuna lesione sulla sua pelle.
Dunque,
colui che gli era davanti non era un diavolo.
Ma allora chi era?
Un angelo? O una creatura dei miti pagani?
Vedendo
l’espressione sempre più confusa di Victor, lo sguardo
di Connor si velò di tristezza.
–
Presto,
capirete ogni cosa. Abbiate pazienza. – mormorò, il tono
serio.
Con
gesti rapidi, si sbottonò la giacca e scoprì un torace
ampio e scolpito, su cui si distendeva una grossa e irregolare
cicatrice, vagamente rassomigliante ad un fulmine.
Poi,
strinse il coltello e, con un movimento rapido, privo di esitazione,
lo affondò nel cuore.
Victor,
sgomento, sbarrò gli occhi e aprì la bocca. Era…
Era ammattito?
Perché
si era ferito davanti ai suoi occhi?
Connor,
con un moto secco dal basso verso l’alto, estrasse il pugnale e
il sangue sgorgò copioso dalla ferita.
Sopraffatto
dalla debolezza, si abbandonò contro una colonna e chiuse gli
occhi.
Certo,
trapassarsi il petto per lui non era letale, ma gli procurava sempre
un dolore notevole, che lo lasciava provato.
Qualche
istante dopo, un nuovo strato di pelle si rigenerò e coprì
la lesione, come se essa non fosse mai esistita.
Connor si rizzò
e i suoi occhi, seri e attenti, si rifletterono nelle iridi del
compagno.
– Che... Cosa significa? – balbettò
questi, spaventato, e, d’istinto, fece un passo indietro.
L’uomo che era con lui non era un demone, eppure si era ripreso
da una ferita mortale!
Connor sospirò e scosse la testa.
La mente di Victor non riusciva a capire la verità e cercava
un rifugio impossibile nelle sue conoscenze.
Doveva
dargli una dimostrazione incontrovertibile.
Rapido, si avventò
su di lui e lo trafisse allo stomaco con il coltello.
Poi, con
uno strappo deciso, estrasse l'arma.
Victor,
colto di sorpresa, fece due passi indietro, poi cadde in ginocchio e,
d'istinto, si portò una mano al ventre.
Per
alcuni istanti, rimase immobile, come una statua, inebetito dal
dolore e dallo stupore. Non riusciva quasi a capire cosa fosse
successo…
Perché
il suo compagno lo aveva aggredito? La sua mente era stata sconvolta
da qualcosa?
– Togliete la mano e guardate la ferita. –
gli ingiunse Connor, pacato.
Il nobiluomo, lento, sollevò
l'arto e abbassò gli occhi sul ventre.
Con suo stupore,
vide che la lesione era scomparsa e di essa era rimasta solo una
macchia rossa sulla camicia.
– Si è rimarginata...
– constatò, la voce tremante. Era avvenuta la medesima
cosa accaduta a Connor...
Dunque, le loro nature erano
uguali.
L’altro, con un grave cenno della testa, annuì
e il suo sguardo si rannuvolò. Finalmente aveva capito.
–
Sì. Anche in voi si è attivata la reviviscenza. Ora
siete un immortale, proprio come me. –
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Primi passi e lacrime solitarie ***
Immortale.
Immortale.
Per
alcuni, eterni istanti un pesante silenzio gravò sui due
uomini.
Una
mano gelida strinse il cuore di Victor e il suo respiro accelerò.
Gli pareva di sprofondare in un incubo ben più doloroso, privo
di senso.
Che
cosa era un immortale?
Quale
forza aveva trasformato il suo corpo?
Come
poteva lui, un uomo, un essere umano, sopravvivere a simili ferite?
Connor
scosse la testa e un sospiro amaro sgorgò dalle sue labbra.
Victor, in quel momento, pareva una statua di pietra.
Non
riusciva a vedere i suoi occhi, ma, ne era sicuro, avrebbe veduto la
luce triste della consapevolezza.
L’intelligenza,
a volte, è una condanna., pensò, il cuore greve di
amara compassione. Ramirez gli aveva parlato della sua immortalità,
ma lui, annebbiato dalla sua ignoranza, non aveva voluto dare ascolto
alle sue parole.
Questo
gli aveva concesso di vivere pochi, felici anni di vita, cullato
dall’amore di Heather.
Solo
la sua morte, pur serena, gli aveva strappato il velo
dell’incoscienza.
Victor,
invece, non poteva rifugiarsi in una tale, meravigliosa
inconsapevolezza.
-
Perché? Perché è accaduto tutto questo? - soffiò
il giovane, gli occhi fissi sul pavimento.
Connor,
a stento, trattenne una risata amara. Le loro reazioni erano
differenti, ma la sofferenza era la medesima.
Entrambi
si erano domandati l’origine di un simile evento, che andava
ben oltre le loro conoscenze.
Si
erano sentiti entrambi scherzi della natura e nei loro cuori si era
radicato il terrore della solitudine.
A
lui, in quel momento, spettava l’arduo compito che, tempo
prima, Ramirez si era assunto nei suoi confronti.
No,
non poteva lasciarlo solo.
Come
sono cambiate le cose. Lo avresti detto, vecchio pavone
spagnolo?, pensò, il
cuore travolto dalla malinconia. Gli anni lo avevano portato a
ritenere il compito di maestro inadatto alla sua indole, ma il
destino era capace di scherzi strani, a volte crudeli.
Con
un colpo magistrale, degno di un abile baro, aveva affidato a lui un
immortale appena nato, privo di qualsiasi punto di riferimento.
E
lui, Connor McLaod, amante delle sfide, non si sarebbe tirato
indietro.
– Ehi,
volete restare lì a guardare il pavimento? – domandò
con apparente sarcasmo l’immortale scozzese.
A
quelle parole, il francese si rizzò, il volto distorto in una
maschera di furore.
Poi,
con un diretto destro, tentò di colpire l’altro al viso.
Connor
spostò la testa verso sinistra, evitando l’attacco.
– Vi
odio… – sibilò Victor, gli occhi ardenti di
lacrime. Quell’ironia prendeva in giro la sua disperazione.
– Beh,
è un inizio. – replicò l’altro, calmo.
L’ex
militare spalancò gli occhi, meravigliato e, per alcuni
istanti, boccheggiò, come un pesce fuori dall’acqua.
– Co…
Come? – articolò poi. Connor si era limitato a schivare
il suo pugno e non aveva reagito, anche se era nel suo pieno diritto.
Anzi,
pareva contento della sua reazione!
–
Niente
può spiegare la nostra condizione di immortali. O, almeno,
nulla di quello che è noto oggi. – cominciò e
fissò su di lui uno sguardo fermo e deciso. Avrebbe tanto
desiderato una risposta a quell’interrogativo, se ci fosse
stata.
Avrebbe
dato un senso al dolore che, duecento anni prima, aveva conosciuto e
l’allontanamento dai suoi familiari sarebbe stato meno
dilaniante.
Il
militare francese, a quelle parole, chinò la testa,
sopraffatto dalla vergogna e le lacrime tremarono nei suoi occhi.
– Vi
prego di perdonarmi… Vi ho accusato di un evento di cui voi
non siete colpevole. Sono uno stupido. – si scusò.
Connor
sorrise, bonario, e gli appoggiò una mano sulla spalla destra.
– Non
mi sono offeso. Avete avuto una reazione comprensibile. In pochi
secondi, si è creato un abisso tra voi e la vostra vita
precedente. C’è solo l’ignoto ad attendervi e
dovrete ricostruire ogni legame. – mormorò, come
parlando tra sé.
Il
suo pensiero, per alcuni istanti, ritornò al passato. Il
dolore atroce dei pugni e dei calci delle persone a lui care
riverberava sul suo corpo, nonostante il tempo trascorso.
Il
pregiudizio e l’odio avevano intossicato i loro cuori.
Victor
aggrottò le sopracciglia, stupito. Gli era parso di vedere il
brillio delle lacrime negli occhi grigi di Connor…
Cosa
aveva dovuto sopportare, quando aveva scoperto la sua natura
d’immortale?
Il
combattente scozzese si scosse dai suoi pensieri e, con un gesto
deciso, strinse la mano sul polso del compagno.
Il
militare francese, sentendo quel tocco, si scosse dai suoi pensieri e
fissò Connor.
–
Venite
con me. Presto, comincerà il vostro addestramento. –
Pur
stupito, Victor annuì e, a passo rapido, i due uscirono dalla
chiesa.
Per
un po’ di tempo, i due immortali, silenziosi, percorsero le
strade di Parigi.
Di
tanto in tanto, Victor lanciava occhiate rapide ora a destra, ora a
sinistra. Cosa sarebbe successo se i suoi soldati lo avessero visto?
Certo,
era travestito, ma i suoi lineamenti potevano essere riconosciuti.
Scosse
la testa, il cuore oppresso da una greve malinconia. Le parole amare
di Connor riverberavano nella sua mente, eppure non riusciva a non
provare sentimenti d’amara nostalgia per i suoi soldati.
Prima
della sua reviviscenza, quegli uomini fieri e orgogliosi erano stati
una seconda famiglia.
Non
avrebbe sopportato la vista dei loro sguardi avvelenati dal
pregiudizio.
Un
passo alla volta., pensò. Aveva bisogno di capire e analizzare
ogni elemento, per condurre una nuova esistenza.
Ma
sarebbe riuscito a farsi guidare dalla ragione?
Connor
sorrise, bonario. Certo, Victor era dietro di lui, ma riusciva a
percepirne l’ansia, che sembrava irradiarsi dai suoi passi.
Eppure
tentava di nascondere tale sentimento, forte della sua ostinata
disciplina militare.
Tale
rigore era encomiabile, ma doveva essere ben diretto e non poteva
tramutarsi in una sterile rigidità .
Non
abbiate fretta. Ho promesso che vi avrei aiutato. E Connor MacLaod
mantiene sempre le sue promesse.
Diverso
tempo dopo, il loro cammino si concluse davanti alla residenza di
Connor.
Percorsero
l’ampio giardino, immerso nel silenzio della sera estiva, poi
entrarono nel palazzo, attraverso un ingresso laterale.
Ad
un tratto, Victor si fermò e si appoggiò con la mano ad
un muro. L’ambiente, in quel momento, roteava attorno ai suoi
occhi e i colori si mescolavano, impedendogli di fissare lo sguardo
su un punto definito.
Ma
non doveva perdere i sensi.
Cauto,
allontanò la mano dal muro, si rimise in piedi e fissò
Connor.
L’immortale
scozzese alzò un sopracciglio, ma non proferì parola.
–
Vogliate
scusarmi, il mio contegno è indecoroso. Non so cosa mi sia
successo. – si scusò.
L’altro,
a stento, frenò una risata, ma le sue labbra si sollevarono in
un sorriso bonario.
–
Niente
di così insolito. Avete semplicemente avuto una caduta di
energia. Ed è normale, è stata una scoperta devastante.
Un po’ di riposo sarà d’aiuto per entrambi. –
rispose.
Poi,
il suo volto assunse un’espressione statuaria.
–
L’addestramento
a cui dovrete sottoporvi sarà mentale, oltre che fisico e
comincerà da questo momento. – cominciò, serio.
– Cosa
dovrei fare? – domandò Victor, meravigliato.
–
Chiamarmi
col mio nome. Non usare inutili cerimonie. Io farò lo stesso
con te. – affermò.
Victor
rifletté, poi comprese. Doveva liberarsi della sua educazione
aristocratica.
Una
simile familiarità gli procurava una sensazione di
straniamento.
– Ho
compreso. – rispose.
– Poi,
non fingere una forza che non hai. E’ ammirevole il tuo
contegno, ma non deve diventare un ostacolo all’accettazione
della tua natura. E non pretendere risultati in poco tempo. Io ci ho
messo quarant’anni per accettare la mia natura. –
continuò.
A
cosa si riferisce?, si chiese il francese. Per alcuni istanti, gli
era parso di notare il luccichio delle lacrime nei suoi occhi grigi…
Gli
aveva accennato alla sua condizione di rifiutato, ma
quell’espressione parlava di rimpianto.
Ma
non poteva chiederglielo.
– Sono
anche io molto stanco. Torneresti a dormire nella stanza dove sei
resuscitato? – chiese Connor.
– Per
me non ci sono problemi. Dormirei anche a terra. – affermò
l’ex comandante delle Guardie Reali di Francia.
–
Molto
bene, buonanotte Victor. –
–
Buonanotte…
Connor. –
L’immortale
francese percorse diversi metri ed entrò nella stanza
indicatagli da Connor.
Nella
camera, era stata portata un lavabo colmo d’acqua, con alcune
pezzuole bianche, una maglia bianca e degli ampi pantaloni celesti.
Si
spogliò, si passò una pezzuola umida sul corpo e sui
capelli castani e si vestì.
Poi,
appoggiò con cautela gli abiti da contadino su una sedia e si
lasciò cadere sul letto, le braccia aperte, come un
crocifisso.
Fissò
il soffitto, gli occhi velati di lacrime. Le parole di Connor erano
vere, ma non poteva non sentire un macigno sul petto.
E
gli sembrava quasi di offendere il suo futuro maestro con i suoi
sentimenti.
Ma
non riusciva a non provare pena per se stesso.
La
sua mente, pur consapevole, non riusciva a contrastare i desideri del
suo cuore dilaniato.
I
suoi familiari… I suoi uomini…
E
poi era lei.
Oscar.
Che cosa ne era stato di lei?
Non
più frenate, le lacrime esondarono dai suoi occhi e bagnarono
le sue guance, perdendosi sulle sue labbra. La sua vita si era
conclusa con un taglio netto, crudele, e doveva affrontare un
percorso sconosciuto.
Con
un debole singhiozzo, il giovane chiuse gli occhi e si addormentò.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Comincia l'addestramento ***
Rovi
muniti di spine strisciavano e, rapidi, si stringevano attorno ai
suoi polsi, alle sue caviglie, ai suoi fianchi e al suo collo. Le
spine trapassarono la sua carne e il sangue zampillò, come un
getto d’acqua da una fontana. Victor aprì la bocca,
tentando di urlare, ma un gemito fioco fluì dalle sue labbra,
e strabuzzò gli occhi. - No… - sussurrò.
Voleva respirare, ma quel rovo gli stritolava il collo e impediva il
passaggio dell’aria.
Aprì
la bocca e cercò di urlare, ma le sue parole si persero in un
nuovo sbocco di sangue.
I
suoi occhi, opachi, cercarono di fissare un punto davanti a sé.
Stava morendo?
Poco
dopo, la sua testa si abbandonò sulla sua spalla e il suo
respiro cessò.
Di
scatto, Victor aprì gli occhi e si alzò a sedere, le
dita strette attorno al lenzuolo, come gli artigli di un falco nella
carne di una preda.
Per
lunghi, eterni istanti rimase immobile, il petto scosso da ansiti e
il volto bagnato di sudore.
D'istinto,
si portò una mano al petto e al collo e se li accarezzò.
– Nessuna
lesione... Era solo un sogno. – mormorò, quasi stupito.
Nessuna ferita deturpava il suo corpo.
Quel
sogno, così vivido e dilaniante, era stato prodotto dalla sua
mente, provata dalla trasformazione in immortale.
I
suoi occhi chiari si velarono di lacrime e Victor, con un gesto
nervoso, deciso, le allontanò. Ricordava le parole di Connor,
ma la vergogna opprimeva il suo cuore.
Come
aveva potuto cedere al pianto?
Scese
dal letto e, per alcuni istanti, camminò attraverso la stanza.
Ne era sicuro, non sarebbe riuscito a dormire.
Il
suo occhio, ad un tratto, si posò su alcuni libri, che erano
posati, con apparente negligenza, su una consolle di mogano.
Accennò
ad un sorriso. La lettura, forse, avrebbe dato riposo, seppur
temporaneo, alla sua mente turbata.
Fissò
i volumi con sguardo attento, prese Gli epigrammi di Callimaco
e cominciò a leggere.
Qualche
ora dopo, la porta , con un debole fruscio, si aprì.
Victor,
di scatto, alzò la testa dal libro e si girò.
Sulla
soglia vide Connor, avvolto in una ampia veste da camera blu, stretta
in vita da una cintura del medesimo colore.
– Cosa
succede? – domandò Victor.
Il
sorriso sulle labbra di Connor si accentuò.
– Dobbiamo
cominciare l'addestramento. Te lo sei dimenticato? – chiese,
bonario.
L'ex
militare francese si schiaffeggiò la fronte con la mano,
irritato con se stesso.
– Dovet...
Ehm... Devi scusarmi, ma ho perso la cognizione del tempo... Ho letto
per quasi tutta la notte. – confessò.
Per
alcuni istanti, lo sguardo del guerriero scozzese si rannuvolò.
L'immortalità, così recente, era per Victor una ferita
sanguinante e lui non riusciva a liberarsi dalla sua disperazione.
Ne
era sicuro, il suo sonno era doloroso e la lettura era stata un
farmaco, seppur temporaneo.
– Come
fai a sapere che mi piacciono gli autori greci? – chiese ad un
tratto Victor.
Connor
gli si avvicinò e appoggiò una mano sulla sua spalla.
– Quando
ero a Versailles, ho avuto modo di osservarti. Non ti sono mai
piaciute le feste di corte e vi hai sempre partecipato per puro senso
del dovere. Quando ne avevi la possibilità, leggevi sempre. E
i tuoi autori preferiti erano Anacreonte, Alcmane, Alceo e Callimaco.
– rispose.
– Sei
però riuscito a sorprendermi: leggi questi autori in greco con
molta facilità. Complimenti. Quando avevo la tua età,
non ero così istruito. - proseguì poi l'immortale
scozzese.
– Mi
sono applicato nello studio. – schernì il francese,
diplomatico. Connor, a volte, gli pareva imperscrutabile, come una
sfinge.
– Però,
ora , abbiamo perso troppo tempo e io vorrei fare colazione.
Preparati . Io verrò a prenderti tra qualche minuto . –
Con
un cenno del capo, Victor annuì e Connor uscì.
Alcuni
minuti dopo, l'immortale più anziano rientrò nella
stanza.
Per
alcuni istanti, il suo occhio si posò sul corpo di Victor e un
sorriso divertito sollevò le sue labbra.
Victor,
perplesso, aggrottò le sopracciglia e gli lanciò uno
sguardo irritato.
– Perché
sorridi? – domandò.
– Non
immaginavo di essere diventato così esile. I miei abiti ti
stanno davvero bene. – replicò.
Victor
scosse la testa. Continuava a non capire l'atteggiamento del suo
compagno.
Era
capace di passare dall'umorismo alla serietà con una facilità
quasi inquietante.
Con
un sospiro nervoso, si aggiustò la camicia. Tuttavia, quella
domanda non era svanita dalla sua mente.
Eppure,
le sue labbra si fermavano, come fossero piene di sabbia.
Come
avrebbe reagito Connor ad un tale, forte quesito?
Un
cameriere giovane, bruno, di corporatura tarchiata, entrò
nella stanza, con un vassoio in mano, su cui erano posate delle tazze
di porcellana candida, dalle quali si sollevava un esile filo di
fumo, e alcuni croissant.
– Puoi
andare, Paul. Pranzeremo qui. – affermò l'immortale
nordeuropeo.
Con
un breve cenno della testa, l'uomo annuì, lasciò il
vassoio e si allontanò.
Per
alcuni istanti, i due uomini rimasero silenziosi.
-
Tu mi vuoi chiedere qualcosa. Di che si tratta? - domandò
Connor.
L'ex
nobile francese, per alcuni istanti, esitò. Sentiva l'ardente
bisogno di comprendere meglio la realtà degli immortali, ma
non voleva offendere l'altro.
Prese
un ampio respiro e fissò i suoi occhi verdi nelle iridi grigie
dell'altro.
– Come
hanno reagito i vostri … ehm i tuoi familiari, quando hanno
saputo della vostra immortalità? – lo interrogò
Victor. Connor reclinò la testa e si irrigidì. Era
comprensibile il desiderio di chiarezza del suo compagno, eppure
aveva ben sentito riemergere l’amarezza di quei ricordi
lontani. Quella domanda aveva aperto in lui ferite che credeva
rimarginate. Duecento anni prima, il suo clan, scoperta la sua
natura, aveva rinnegato gli antichi legami e lo aveva condannato a
morte.
Solo
Angus, suo cugino, aveva saputo vedere oltre le barriere del suo
tempo e aveva ottenuto per lui un esilio perpetuo.
La
sua pur autorevole parola non era riuscita a a trapassare la corazza
dell'ignoranza e della superstizione. Sollevò la testa e,
con un gesto apparentemente noncurante, alzò le spalle. –
Sono stato esiliato dalla mia famiglia. Mio cugino Angus ha
cercato di fare capire loro la verità, ma non ha potuto fare
nulla contro il pregiudizio dell’uomo. Mi hanno creduto un
demonio e, per questo, volevano condannarmi al rogo. –
rispose, pacato.
Il
francese sentì un brivido sgradevole lungo la schiena. Connor
non si era abbandonato a plateali manifestazioni di dolore, ma
quell'evento, per lui, era una ferita dolorosa, che minacciava di
riprendere a sanguinare.
Certo,
i tempi erano cambiati, ma perché il suo destino doveva essere
diverso?
L'essere
umano, spesso, negava l'esistenza di fenomeni per lui incomprensibili
e li attribuiva all'esistenza di forze demoniache e crudeli.
– Mi
dispiace. – si scusò. Un mezzo sorriso ironico
sollevò le labbra del guerriero scozzese. – Non
preoccuparti. Il tempo riesce a curare qualsiasi ferita. –
dichiarò .
– Ho
osservato anche il tuo modo di combattere. Sei un ottimo spadaccino e
hai coraggio, ma il tuo modo di batterti è inadatto a quello
che ti aspetta in quanto immortale. – proseguì, serio.
– Che
intendi dire? – chiese Victor.
– Noi
viviamo e combattiamo per ottenere la ricompensa. Uno scontro tra
immortali si conclude con la decapitazione di uno dei contendenti.
Ciò che accadrà poi, lo capirai al tuo primo duello. –
mormorò Connor, calmo. Victor rifletté. Quindi,
l’unico modo per porre termine alla vita di un immortale era il
taglio della testa. E questo rendeva il suo modo di combattere
alquanto inefficace, nonostante la sua lunga carriera militare. –
C’è un’altra cosa che devo dirti. Qui faremo solo
una parte dell’addestramento. Il resto avverrà nel regno
di Prussia. – proseguì l’immortale scozzese. –
Immagino sia per la situazione politica della Francia. –
osservò Victor cogitabondo. – Anche, ma non solo per
quello. Ora, però, affrontiamo un problema alla volta. –
spiegò ancora il guerriero di origine scozzese.
Con
calma, ripresero la loro colazione.
Diversi
minuti dopo, Connor guidò Victor all'esterno del palazzo e lo
condusse attraverso l'immenso giardino.
I
due uomini raggiunsero un edificio assai ampio di mattoni chiari, a
pianta quadrata, sormontato da un tetto di tegole rosse. L’unica
entrata era costituita da una grande porta lignea, che si apriva
sulla parete sinistra, e su quella opposta erano costruite due
finestre di medie dimensioni. – Che cosa è? –
chiese Victor, perplesso.
– Questo
è il mio scrigno. In duecento anni di vita, ho raccolto
moltissime armi da ogni paese da me visitato. Ora, entriamo. –
disse.
Prese
una chiave, la infilò nella serratura e la girò.
Con
un debole cigolio, la porta si aprì e i due entrarono.
Alle
pareti erano incastrate diverse rastrelliere, a cui erano appese
spade e pugnali di diverse forme e dimensioni e le else di alcune di
queste erano incrostate di gemme policrome, che risplendevano di
deboli bagliori.
Connor
prese una katana dalla lama ricurva, l'elsa ricoperta di pelle di
squalo.
– Tocca
a te. Scegli l'arma a cui ti senti più affine. – disse.
Victor,
con un leggero cenno del capo, annuì e il suo sguardo,
attento, esaminò le armi.
Qualche
istante dopo, la sua attenzione fu attirata da una claymore, che
giganteggiava tra una katana e una scimitarra. Incuriosito, il
giovane staccò l’arma dalla rastrelliera e tentò
di tenerla diritta. Le sue braccia non riuscirono a sopportare il
peso dell’arma e l'ex militare cadde all’indietro,
trascinandola con sé. – Che male… Ma quanto
pesa? – esclamò Victor, perplesso. – Credo non
sia l’arma adatta a te… – saettò Connor,
trattenendo a stento le risa. Victor, sentendo le parole del
compagno, lo fulminò con lo sguardo. – Spiritoso. –
sibilò. Con circospezione, si toccò le spalle e le
braccia e, non trovandovi alcuna lesione, si rialzò.
Poi,
si avvicinò alla claymore e provò a sollevarla, senza
riuscirci. – Non preoccuparti, la rimetto a posto io. Non è
adatta ad una corporatura come la tua. – disse l’immortale
scozzese. Prese l’arma e la ricollocò nella
rastrelliera, poi si avvicinò ad una rapier* spagnola dalla
lama d’acciaio, assai lunga e diritta. L'elsa della spada,
terminante in un pomolo d’ottone lucido, era ricoperta di corde
e attorno ad essa si attorcigliava, come un tralcio di vite, una
guardia del medesimo materiale del pomolo. – Prova questa.
E’ una arma di sicuro adatta al tuo fisico. – spiegò
e la consegnò al compagno. Victor, pur diffidente, la prese
e tentò di manovrarla. – Avet... Hai ragione.. Mi
trovo molto meglio. - confermò. – Ne sono
soddisfatto. Ora usciamo. - ingiunse Connor e, presa la katana, uscì.
– Molto
bene. Ora provad attaccarmi. – ordinò l'immortale
scozzese.
Victor
si lanciò in un rapido attacco, tentando di trafiggerlo al
petto con una stoccata.
Connor
parò l'attacco con la katana, poi contrattaccò colpendo
la guardia dell'arma avversaria.
La
spada, con un tonfo, cadde sul terreno.
– Cosa
è successo? – si domandò il francese, perplesso.
I movimenti del compagno erano stati fulminei e non era riuscito a
distinguerli. Perfino Oscar, se si fosse battuta contro di lui,
avrebbe avuto seri problemi.
Anzi, per
quanto fosse per lui straniante un simile pensiero, lei avrebbe
perso senza alcuna attenuante. – Non devi trafiggere il
petto o altre parti del vostro nemico. Ricorda che siete entrambi
immortali e avete un solo punto debole : la testa. – spiegò
Connor, duro. Certo, gli aveva spiegato la realtà dei duelli
tra immortali, ma la lunga abitudine a quello stile di combattimento
era assai difficile da eradicare.
Non
poteva certo stupirsi di questo, poiché Victor aveva appena
cominciato a percorrere il suo erto cammino di guerriero.
– Capisco.
– dichiarò , tranquillo, l'ex Comandante delle Guardie
Reali. – Riprendi l’arma. Ricominciamo. –
ordinò con un secco cenno del capo. L’altro obbedì. –
Molto bene. Cerca di fare meglio. – mormorò e si rimise
in posizione di guardia, presto imitato dal compagno.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3980873
|