Lezioni di gentilezza

di Fissie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stage 1 - Relax! ***
Capitolo 2: *** Stage 2 - Siamo arrivati? ***



Capitolo 1
*** Stage 1 - Relax! ***


Ho deciso di sganciare man mano tutta la roba che ho su Code Geass, tanto per ricordare a me stessa che ho dei problemi e il fatto che la fissa per quest’anime non sia mai passata lo dimostra (o forse è solo che sono vecchia)

Questa è una raccolta di one-shot molto easy ad ambientazione scolastica- ovvero, proprio la parte che ho odiato dell’anime, quindi perché scrivere su quello che mi interessa di meno? Perché? PERCHÉ?

Il mio cervello: perché no?

La ragione in fondo è una: Shirley.

E forse un’altra: non c’è abbastanza approfondimento sul fatto che Lelouch abbia passato tre anni a cavarsela da solo con la sorella, nel dopoguerra.

Ma la terza è l’unica vera: mi annoiavo.

C’è qualche accenno di PTSD perché chi mi conosce sa che se non metto un tocco di disturbi mentali non sono io a scrivere, ma non sarà nulla di troppo pesante (chi mi conosce sa che forse sto mentendo).

E poi, suvvia, c’è un solo episodio in cui Lelouch non avrebbe bisogno di un tso urgente?

Non dovrebbe essere più lunga di sei-sette capitoli, se li scriverò, SE. In caso la cancellerò e voi non avrete visto niente.

N.b.: questo primo capitolo prende le mosse da un audio drama, stage 0.911, “The Meeting with Milly”





 

Stage 1 - Relax!

 

Milly allargò le braccia e si sforzò di conferire alla voce tutta l’allegria di cui in circostanze normali era capace: «E questa, come vedi, è la mensa!»

Si girò verso il ragazzino alle sue spalle, sperando in una reazione positiva che ricompensasse il tentativo di mostrarsi cordiale.

Era stata di nuovo troppo ottimista. Il ragazzino aveva la medesima espressione di superiore fastidio che aveva mantenuto tutto il tempo.

«Risparmiami i dettagli futili oltre che ovvi e rispondi solo a quello che ti ho chiesto» fu la sua risposta secca.

Lelouch, questo il nome del ragazzino, la guardava in modo duro, senza un sintomo di pentimento per essere stato scortese, ma senza neppure la traccia di un sogghigno a suggerire che ne ricavasse una soddisfazione orgogliosa. In quel caso, Milly avrebbe potuto convincersi che si stesse solo atteggiando come il tipico tredicenne maschio spocchioso (che compensa a quello che ancora non gli è cresciuto con la dimensione inversamente proporzionale della tracotanza per cui vorresti prenderlo a schiaffi, disse a se stessa un po’ arcigna).

Se così fosse stato, Milly non avrebbe esitato a dirgliene quattro. Ma tutto in lui era pragmatico, diretto, asciutto, assolutamente serio, deciso come la presa ferma delle mani sull’impugnatura della carrozzina di sua sorella.

Quello che le aveva chiesto era che giorno e a che ora passasse il camion dei rifornimenti. E quella era solo l’ultima delle domande strane. Gli aveva mostrato l’edificio scolastico e, invece delle aule, Lelouch aveva voluto che gli indicasse tutte le uscite delle scale antincendio. Le aveva chiesto dove si trovasse il pannello del quadro elettrico e se fosse centralizzato. Aveva notato che l’ascensore segnava un piano zero e si era irritato quando gli aveva detto che l’accesso al sotterraneo era riservato e che nemmeno lei conosceva il codice. In giardino non aveva degnato di uno sguardo le siepi e il ruscello, ma aveva chiesto dove fossero tutti i canali di scolo, l’allacciamento degli scarichi e gli ingressi della rete fognaria. Ah, e voleva una mappatura completa di tutte le telecamere di sorveglianza.

Milly gli offrì un sorriso desolato. «Mi dispiace, non lo so.»

«Non lo sai» le fece eco Lelouch. «Questo complesso scolastico appartiene alla tua famiglia. E tu ci abiti. Vuoi dirmi che non sai chi entra ed esce da casa tua

Aveva scandito ogni frase in modo didascalico, come se le stesse facendo il favore di illustrare quanto fosse stupida, in modo che se ne rendesse conto lei stessa.

A Milly piaceva considerarsi una persona paziente.

«Mi ricorderò di essere più paranoica in futuro» disse, stiracchiando le labbra.

«Come dovevi ricordarti di portarmi la planimetria. O chiedere che tipo di protezione perimetrale avete installato. Perché non mettere direttamente un cartello all’ingresso, “i ladri sono i benvenuti, prego, vi aspettiamo per il brunch della domenica”?»

«Fate il brunch della domenica?» si inserì la sorella, sia con un moto di imbarazzo nelle mani che aveva stretto sul grembo, ma anche con un guizzo di curiosità sincera nel piccolo volto che in quel momento forse avrebbe avuto una luce brillante negli occhi, se non fossero stati chiusi.

«Sì» rispose Milly con voce spontaneamente più dolce, ma lo sguardo si mantenne fisso su Lelouch, presagendo una reazione di scherno.

Infatti, Lelouch aveva inclinato il capo e con le sopracciglia arcuate le stava rivolgendo in silenzio un commento retorico: dal modo superbo con cui aveva sorvolato su tutto ciò che gli indicava e dalla noia manifesta nel suo viso mentre ostentava di non ascoltarla nemmeno, era chiaro che considerasse quel luogo nient’altro che un paese dei balocchi per ragazzi privilegiati che non erano mai usciti dalle loro camerette dorate. Era quello che le stavano dicendo i suoi occhi.

Che esagerazione! Sì, avevano una piscina, e una sala ricevimenti, e un maneggio... ma cosa c’era di oh-così-terribile?

Mentre stringeva le labbra, Milly si sentì commentare nella sua mente che quel disprezzo era ironico, dato che proveniva da un principe. Ma si vergognò di averlo pensato e quindi cercò di ammorbidire di nuovo l’espressione del volto in una più tollerante.

Nunnally chiese con cauto entusiasmo: «E cosa si mangia?»

«Oh, abbiamo un menù ricchissimo...» iniziò Milly, procedendo a lodare la bravura dei cuochi e che ogni giorno ci fosse un’ampia scelta di pietanze per tutti i gusti.

Milly stava spiegando che il venerdì era il giorno della cucina internazionale, quando Lelouch la interruppe, di nuovo con un taglio brusco nello sguardo che era diretto a lei, in contrasto con il tono di voce più conciliante perché si era rivolto alla sorella. «Non abbiamo bisogno di mangiare insieme agli altri. Avremo una cucina solo per noi, possiamo provvedere da soli.»

«Non ti farebbe male, socializzare un po’» disse Milly, ma cercando di dare al commento la coloritura di una battuta amichevole.

«Da mezz’ora ne sono sempre meno convinto.»

Milly era una persona paziente, ma Lelouch stava frustrando i suoi nervi. Rinunciò alla speranza di stabilire un contatto almeno civile con quel ragazzo e iniziò a guidarli verso il loro alloggio, tirando dritto per il cortile invece di attardarsi in altre deviazioni.

Però si compiacque quando notò che nelle spalle di Lelouch c’era tensione e che stava serrando i pugni sui manici della carrozzina fino a far sbiancare le nocche. Forse in fondo era a disagio... ma quell’osservazione le diede solo un momentaneo conforto.

Lelouch non era a disagio. La sua rigidità era dettata da una specie di circospezione ostile. Si guardava intorno come se dovesse ravvisarsi di qualche pericolo e registrare ogni dettaglio del posto in una carta topografica che stava tracciando nella sua testa, dietro la fronte che si aggrottava quando prendeva un’annotazione. Quello che per lei era un tour panoramico, per lui era un sopralluogo.

Il suo passo era regale e altezzoso come se, a dispetto dell’avversione che nutriva per i ricchi, non avesse perso i modi di un principe, né l’alterigia che lo rendeva più snob dei nobili che guardava dall’alto in basso, ma aveva anche una marca più decisa da generale.

Milly si arrese con gioia a ignorare Lelouch per riportare l’attenzione su Nunnally. Le chiese che tipo di dolci le piacessero e da lì la conversazione prese il via verso toni e argomenti leggeri, finalmente amichevoli. Eppure, di tanto in tanto Milly occhieggiava di nuovo al fratello: anche se era mingherlino e più basso di lei di una spanna, emanava una sicurezza che incuteva una certa soggezione e che lo faceva apparire più imponente della sua figura minuta.

Aveva lineamenti aggraziati e ancora infantili, ma la sua espressione era talmente intagliata nella pietra da conferire anche ai suoi tratti delicati la stessa spigolosità del carattere, come della voce. E a proposito della voce, se lo avesse solo ascoltato senza guardarlo in faccia avrebbe pensato che fosse un ragazzo più grande. Poco prima però lo aveva scorto da solo con la sorella, mentre aspettavano il suo arrivo, e in quel breve frangente le era parso del tutto diverso: stava sorridendo, il suo viso era gioviale oltre che dolce, e la sua voce non era affatto profonda. Aveva capito che la impostava in quel modo di proposito, forse istintivamente, e infatti era tornata ad abbassarsi di un’ottava quando si era accorto di lei: Milly aveva pensato a un drago che sorveglia un tesoro e il tesoro che voleva difendere era sua sorella.

Nunnally era solo di poco più piccola, ma era inevitabile che dipendesse da lui in tutto, dato che non vedeva e non camminava.

Forse lo stava giudicando in modo troppo severo. Durante il loro primo incontro, due giorni prima, aveva già intravisto quell’altro lato di Lelouch, il lato gentile. E aveva sperato di essersi guadagnata un briciolo della sua fiducia, dato che, quando si era offerta di chiedere a suo nonno se avessero un posto in cui poteva vivere da solo con Nunnally, l’aveva persino ringraziata.

Milly si chiese se fosse tornato a trincerarsi nella diffidenza per orgoglio, per dirle di non farsi illusioni, o piuttosto, come concluse osservandolo, perché si rimproverava di aver abbassato la guardia con un’estranea e stava rimediando a quella leggerezza imperdonabile, dal momento che sembrava assumersi il compito di stare sempre in allerta, pronto a sparare al nemico.

Dopo quel primo incontro in cui le aveva urlato di non fare l’ingenua fingendo di non sapere (solo che davvero non sapeva), Milly aveva chiesto a suo nonno... e quindi adesso sapeva.

Erano arrivati alla club house. Intanto la conversazione con Nunnally si era esaurita perché le risposte della ragazzina si erano fatte meno espansive, soltanto educate invece che partecipi, e Milly non era sicura di capirne il motivo. Quindi fu sollevata di poter esclamare, varcando l’ingresso dell’edificio: «Questa è la sede del Consiglio Studentesco, dove teniamo le feste!»

Milly lanciò uno sguardo a Lelouch e si accorse che stava inorridendo come se lo avesse informato che lì si tenevano le orge sabbatiche e i sacrifici a Satana. Gli rispose con delle spallucce per dirgli di farselo piacere e dunque specificò, più temperante: «Il vostro appartamento è al piano di sopra.»

Adesso lo sguardo di Lelouch, che aveva ispezionato le scale senza trovarci quello che si aspettava, era ancora più livido, ma Milly comprese il motivo all’istante. «C’è l’ascensore» spiegò.

«L’ascensore può rimanere bloccato» le disse conciso. «Vorrei montare un servo scala...»

Ci fu un momento di impasse. Lelouch alzò le sopracciglia, interrogandola. E Milly finalmente capì che le stava chiedendo il permesso. «Oh! Ci pensiamo noi!» recuperò in fretta.

«Non c’è bisogno, lo compro io.»

Nulla da fare. Evitò di insistere, perché quel ragazzo non avrebbe ceduto terreno. Ma si sentiva colpevole perché il complesso scolastico non provvedeva abbastanza alle esigenze delle persone con disabilità. Lei stessa non si era mai accorta che non tutte le gradinate esterne avevano una rampa o che non c’erano corrimano, il motivo per cui Lelouch aveva sentenziato la volta precedente che quel posto non era adatto a loro – loro, non lei. Milly pensò che in quella semplice particella fosse racchiusa l’essenza del loro rapporto.

Non voleva insistere sul servoscala, ma avrebbe chiesto a suo nonno di fare qualche modifica. Quello non poteva impedirglielo.

Milly spiegò che lei era la presidentessa del Consiglio Studentesco, chi erano gli altri membri e cosa facevano, ma Lelouch era di gran lunga più interessato alle inferriate delle finestre, che stava toccando per testare forse quanto fossero resistenti.

«Okay» sospirò Milly, abbandonando il discorso per avviarsi verso il salone adiacente all’ingresso. «Da questa parte...»

«Di cosa è fatta la struttura portante?» chiese Lelouch spiccio, senza riguardo verso quello che stava dicendo o piuttosto senza nemmeno badare al fatto che stesse dicendo qualcosa. «Legno? Calcestruzzo?»

Milly fissò il vuoto, basita ma ormai arresa a non stupirsi di nulla. Lelouch intanto stava procedendo a illustrare perché fosse importante saperlo, ma non era del tutto convinta che volesse chiarirle il concetto o solo parlare a se stesso, come se gli piacesse ascoltare i suoi pensieri ad alta voce.

La riflessione verteva attorno alla robustezza dell’edificio e alla capacità di evitare danni dovuti a incendi, urti... o esplosioni. Milly temette che stesse per fare un altro commento sui terroristi: all’inizio aveva ingenuamente pensato che lo preoccupassero, vista la frequenza con cui si stavano verificando quegli episodi di guerriglia, e quindi si era premurata di rassicurarlo che erano solo scaramucce e in ogni caso lì non c’erano terroristi. Adesso iniziava a sospettare che ne fosse deluso.

Milly non voleva stupirsi di niente, eppure... forse doveva rivalutare il consiglio di stare più attenta a chi lasciava entrare in casa propria.

Decise di ignorarlo, anche perché Lelouch stesso sembrava aver rinunciato alla speranza di ricavare informazioni utili da quella che riteneva una sciocca, dato che scoprire se una struttura fosse flessibile ma infiammabile, oppure più suscettibile ai crolli ma ignifuga, non era tra i suoi prioritari oggetti di interesse.

Milly era una persona molto paziente.

«Vi mostro l’appartamento!» dichiarò senza mezzi termini, guidandoli verso l’ascensore.

Al piano di sopra, li portò a vedere la camera che avevano predisposto per Nunnally (Lelouch aveva obiettato che non avevano bisogno di due camere separate, ma Nunnally si era pronunciata con impeto dichiarando che voleva una stanza tutta per sé).

Gli aveva chiesto di descriverle com’era e, prendendo la mano del fratello nella propria, aveva sussurrato «Davvero?», quando Lelouch le aveva detto che era grande, che le pareti erano bianche come la neve e c’erano fiori alle finestre. In realtà, la stanza era certamente grande, ma le pareti non erano bianche e non c’erano vasi di fiori, anche se Milly si era ripromessa di rimediare.

Allora aveva pensato di lasciarli soli, perché sembrava un momento privato e il modo di tenersi per mano suggeriva che in quelle poche parole ci fossero significati noti solo a loro. Si era allontanata con la scusa di aprire la finestra dell’altra stanza per far arieggiare l’ambiente.

«Non trattarla con condiscendenza» disse Lelouch alle sue spalle, cogliendola di sorpresa perché non lo aveva sentito arrivare. Di solito si annunciava, più che col rumore dei passi, col suono delle ruote della carrozzina, ma non era venuto con Nunnally.

Milly realizzò che si riferiva alla sorella dopo un primo istante di confusione. Rilasciò la morsa dei pugni che aveva serrato per un momento (Milly voleva essere paziente), però si difese replicando: «Era simpatia, ma immagino che tu non sappia nemmeno cosa–»

«Le parlavi come parleresti a un chihuahua.» Lelouch era severo in volto, ma la sua rabbia, anche se gelida, gli dava adesso un’apparenza meno distaccata. «È cieca, non cretina. Ti sei chiesta perché ha smesso di rispondere?»

A dire il vero, Lelouch non aveva usato il tono di una domanda, ma quello più netto di un’affermazione. E Milly si sentì totalmente esposta, perché sì, se lo era chiesto... e in colpa, perché forse aveva ragione, anche se non si era accorta di farlo.

«Scusa» disse, con sincero rammarico.

Lelouch le rivolse un’occhiata di sufficienza con la quale l’emozione che lo aveva reso più umano si dileguò, ma ammorbidì anche le spalle. «Non chiedere scusa a me. Non è sorda.»

E con questo fece cadere il discorso, mentre il suo sguardo passava sopra ai dintorni senza posarsi su nulla, come se non nutrisse alcun interesse per la sua stanza e se invece di un letto ci fosse stato un mucchio di paglia sarebbe stato lo stesso.

Si era diretto alla finestra.

Milly scelse la via dell’essenzialità, visto che con Lelouch non attecchiva nient’altro e ogni tentativo di mostrarsi affabile veniva respinto con espressione annoiata. «Puoi iniziare ad andare a scuola da lunedì. All’ingresso trovi il tabellone con gli orari di tutte le classi. Sei stato assegnato alla 3–E» disse.

Lelouch non si era nemmeno girato. Stava guardando l’esterno come per controllare qualcosa. Le sue spalle le rivolgevano un muro di indifferenza.

In extrema ratio, Milly cercò di raccogliere tutta la compassione che di norma non le costava uno sforzo grattando il fondo della sua infinita pazienza. Era un ragazzino orfano. Era stato abbandonato. Aveva perso tutti gli agi della sua vita precedente. Non aveva più famiglia né casa e aveva trascorso gli ultimi anni a vagabondare con la sorella in un paese devastato dalla guerra.

Adesso le venne spontaneo addolcirsi. C’erano cose che Milly non poteva capire, perché lei aveva una madre, un padre e dei nonni, e l’invasione del Giappone l’aveva vista solo al telegiornale, a casa propria, dal lato di chi aveva vinto.

Lelouch era in guerra dall’età di otto anni. Probabilmente aveva dimenticato le basi del vivere insieme agli altri, perché per lui esisteva solo Nunnally, e la diffidenza non era un capriccio borioso, ma un’abitudine appresa per necessità. Sopravvivenza.

Era normale che, trovandosi in un luogo estraneo con persone che ancora non conosceva, fosse...

Lelouch si degnò finalmente di girarsi. «Se avessi voluto saperlo, te lo avrei chiesto» disse lapidario.

Milly premette le dita nei palmi e completò a mente: uno stronzo. Ma uno stronzo a disagio, spaventato...

«Non sono né a disagio né spaventato.»

Lelouch le sorrise sprezzante, inclinando la testa con le braccia conserte, in una posa rilassata.

Milly sgranò gli occhi, perché era come se avesse letto di nuovo i suoi pensieri. E quindi si corresse, sperando che sentisse la sua voce interna: era anche borioso.

Dal modo in cui Lelouch aveva ampliato il sorriso, parve averlo sentito davvero. Poi le sue labbra tornarono ad appianarsi in una linea di schietto disinteresse. «Comunque non ci andrò.»

«In che senso non ci andrai?» domandò Milly perplessa, quando capì che parlava della scuola.

«Nel senso...» sospirò Lelouch nel tono di chi si accinge a spiegare qualcosa di ovvio; talmente ovvio che lo sottolineò con un gesto elegante del braccio, «che non articolerò il movimento delle mie gambe per recarmi nell’edificio destinato all’istruzione collettiva della gioventù. Non mi siederò in una stanza con venti persone per rilevare attraverso il senso dell’udito l’insieme dei suoni emessi dall’apparato fonatorio di un individuo. Non provvederò a munirmi di oggetti di forma rettangolare composti da una serie continua di sottili strati di cellulosa della stessa misura. Non...»

«Okay, ho capito» lo interruppe Milly, senza cedere all’esasperazione. Invece gli rivolse un sorriso ironico e compiacente. «E come speri di essere promosso?»

«Non lo spero» chiarì Lelouch freddamente, «ma sono abbastanza sicuro che tuo nonno mi farà promuovere a prescindere...» Nella sua espressione c’era stato un ammiccamento impercettibile, come se le avesse fatto un occhiolino d’intesa provocatoria.

La prima volta era stata davvero all’oscuro di tutto. Non voleva che tra di loro ci fossero equivoci, cioé il sottinteso a cui stava alludendo.

Milly decise di cogliere l’occasione per togliersi quel peso. Si fece più dritta con la schiena. «Adesso lo so...» disse soltanto.

Se per un attimo Lelouch aveva irrigidito le spalle e aveva perso un po’ l’aria canzonatoria, non era per lo stupore. Sapeva che sapeva. Forse era solo il fastidio all’idea in sé che fosse troppo informata sulla sua vita.

«Dicevo... Tuo nonno avrà un occhio di riguardo verso il mio rendimento scolastico» riprese come se nulla fosse, «dato che ha acquistato me e Nunnally sperando che un giorno gli saremo utili. Siamo il suo biglietto vincente per riavere il titolo di conte, o così crede.» Aveva sogghignato nel modo di chi scuote la testa davanti a un ingenuo, anche se la pretesa di avere la mano di carte migliore sembrava solo un bluff, forse un pari bisogno di crederlo. Alzò le spalle. «Ma se così non fosse, mi ricorderò di venire a piangere sulla tua spalla quando mi bocceranno.»

Il senso, leggibile a chiare lettere nella sua espressione, era che non gliene sarebbe fregato nulla.

Milly avrebbe voluto ribattere che suo nonno non li aveva acquistati, ma fece un passo indietro, nel dubbio: la verità è che non lo sapeva, non sapeva se Lelouch fosse cinico e restio ad accettare un favore disinteressato o se avesse solo una conoscenza del mondo più disincantata della sua.

Lelouch adesso stava guardando di nuovo alla finestra. Milly schiuse le labbra senza sapere ancora cosa dire, ma cambiò espressione, perché le era sopraggiunto un pensiero...

«Non sono mai andato a scuola» l’anticipò Lelouch, con un leggero sogghigno nel profilo che le mostrò per intero quando tornò a voltarsi verso di lei.

Era esattamente quello che aveva pensato e il motivo per cui Lelouch emise un soffio tediato dal naso. Milly richiuse le labbra.

Fino agli otto anni Lelouch aveva ricevuto un’istruzione privata, dato che era un principe. Dopo... era diventato un ostaggio in un paese straniero, e dopo... c’era stata la guerra, e dopo... aveva passato tre anni ad arrangiarsi per vivere nascosto con sua sorella.

Si disse che Lelouch aveva tredici anni, anche se nell’atteggiamento sembrava un adulto... aveva vissuto di più sotto migliaia di aspetti, ma non quelli che appartenevano alla comune esperienza dei suoi coetanei. Era così ovvio. Non era mai andato a scuola.

«E non credo di essermi perso chissà che» le rispose Lelouch assottigliando le labbra e gli occhi, ma con un’ombra di rossore stizzito sul viso. In quel momento le parve più infantile o, meglio, solo il tredicenne orgoglioso che era. Forse, in fondo, nella normalità era un po’ spaesato.

Quel ragazzo sembrava un animale selvatico, non proprio uno che altrimenti sarebbe stato mansueto, ma Milly iniziava a credere che a renderlo così aggressivo fosse il fatto di sentirsi sperduto in un territorio del tutto nuovo.

«Lelouch...» disse con cautela, «stai tranquillo. Qui non hai nulla di cui preoccuparti, siete al sicuro.» A quelle parole, parve mettersi sulla difensiva ancora di più... forse le stava dando della bugiarda, perché gli suonavano assurde. Quindi Milly recuperò un tono deciso. «Te l’ho detto. Se non vuoi fidarti di me, scommetti su di me!»

Lelouch storse la bocca in una smorfia scettica e riluttante. Non lo stava ancora valutando, pensò, ma dal suo vacillamento si convinse che stava valutando di valutare di valutarlo.

Milly, oltre che paziente, era testarda. Non era stato il migliore degli inizi, ma voleva essergli amica. E riaffermò a se stessa quello che si era prefissata dopo il loro primo incontro: gli avrebbe insegnato la gentilezza. Anche se si prospettava un lavoraccio.

«Posso farti un incantesimo?» riprese Milly con l’esuberanza che la distingueva.

Lelouch tradì un moto di agitazione e si tirò indietro vedendola avvicinarsi. «Un che?»

«Un incantesimo!» Milly strinse le palpebre in modo malizioso, sollevando l’indice di una mano. «Sono una maga.»

E quindi agitò il braccio come se impugnasse una bacchetta e, facendo più cerchi, la puntò verso un Lelouch altamente perplesso.

Gli rivolse un sorriso tutto Milly Ashford, cioé tutto denti, luce radiosa e labbra che erano abituate a dettare comandi scherzando... anche se tutti sapevano che era meglio prenderli sul serio. «Relax!»

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Capitolo 2
*** Stage 2 - Siamo arrivati? ***


Stage 2 - Siamo arrivati?



«Relax!»

Lelouch adesso aveva incrociato le braccia sul petto e la stava fissando a occhi stretti, come cercando di capire se lei in particolare fosse pazza o dovesse aspettarsi le stesse stranezze da tutti gli altri perché quelli erano gli usi sconosciuti della popolazione locale, la gente comune, nella terra straniera della normalità.

«Sei pessima anche come maga» sentenziò scontroso, ma con puntiglio testardo, come per dimostrarle che fosse determinato a rifiutarla per sempre. Forse si accorse di esserle sembrato puerile e cambiò argomento facendosi di nuovo severo: «Invece... c’è qualche posto nel campus in cui potrei lavorare?»

«Non è necessario» si affrettò a dire Milly. «La mia famiglia può provvedere a voi in tutto ciò che vi serve. In fondo, lo hai detto tu, è uno scambio.»

«No, grazie» rifiutò Lelouch con fierezza.

Milly sospirò. Doveva immaginarselo. «Beh...» mugugnò fra sé per un momento con un dito sulle labbra, sfogliando le possibili opzioni. «Organizziamo visite ai musei, la formazione è semplice, potresti proporti come guida.» Lelouch aveva un’aria affatto persuasa e quindi riprovò: «Oppure, non è nel campus, ma qui di fronte c’è un negozio di abiti da cerimonia. Conosco i proprietari, potrei chiedere a loro se...»

Lelouch la bloccò dicendo in tono secco: «Troppa visibilità.»

«Oh.» Giusto. Non doveva dare nell’occhio. «Presto servirà un nuovo cassiere in caffetteria» riflettè quasi a se stessa, perché stava esaurendo le alternative... perlomeno, le alternative appropriate.

«Ancora troppa visibilità» dichiarò Lelouch con impazienza. Ma poi il suo viso divenne più gelido e la bocca prese una piega di scherno. Alzò le sopracciglia. «Che c’è, hai in mente qualcosa, ma ti imbarazza proporlo all’ex principe di Britannia?» indovinò caustico, con una nota di biasimo nel rimarcare il suo vecchio status e, ciononostante, uno sguardo di superiorità.

Capì di averlo offeso con i suoi scrupoli e che lui volesse offenderla di rimando, come a indicare che era lei la contessina viziata dalle mani troppo delicate che si reputava ancora una spanna sopra gli altri pur avendo perso il titolo (e per lo stesso motivo per cui Lelouch aveva perso il suo).

Milly si strinse nelle braccia. «In cucina c’è bisogno di un lavapiatti» disse.

Lelouch compì un gesto con la mano che, a dispetto di tutto, aveva una qualità distintamente aristocratica. «Perfetto.»

Si rappacificarono con uno sguardo... ma in quel momento dal basso si levò una voce femminile. «Milly? Milly? Sei qui?»

Lelouch sgranò gli occhi e appiattì le labbra facendole sbiancare, mentre l’interpellata si voltava per affacciarsi dalla porta. Agitò un braccio in modo da farsi notare. «Sì! Sono quassù!»

«Chi altro ha la tessera per entrare?» l’aggredì Lelouch allarmato, seguendola a passo di carica.

«Tutti i membri del club. È quello che stavo dicendo prima!» lo rimbeccò Milly con una punta di ironia. Il sottotesto era: quando non mi stavi ascoltando.

Sulla balconata intanto era sopraggiunta anche Nunnally. La sua amica, vedendo i due sconosciuti, si era arrestata con una mano sulla balaustra e un piede sul primo gradino. Ma subito esibì un sorriso aperto e sollecito, avviandosi a salire le scale.

Li raggiunse spedita. «Ciao! Io sono Shirley!» li salutò.

Lelouch aveva afferrato i manici della carrozzina di sua sorella, come se temesse che la nuova venuta potesse rapirla, e in questo modo le impedì di spingere le ruote in avanti.

«Ciao, Shirley. Io sono Nunnally» disse lo stesso lei, con una sorta di timida eccitazione perché sembrava entusiasta di conoscere nuove persone. L’unica cosa a trattenerla era la diffidenza del fratello. E infatti sollevò il visetto di lato, non perché potesse guardarlo, ovviamente, ma in modo da fargli leggere la sua confusione.

Shirley impiegò un istante a realizzare che Nunnally fosse cieca e quindi disse spigliata, comunicando con la voce l’espressione amichevole che la ragazzina non poteva vedere: «Piacere, Nunnally!»

Nunnally le aveva teso la mano e Shirley la strinse di buongrado, senza turbarsi quando intuì che fosse più di un gesto di saluto: Nunnally l’aveva avvolta anche con l’altra e l’aveva distesa nella propria, come se avesse aperto un libro in cui era ritratto il suo viso. Lo aveva fatto anche con Milly, la prima volta.

Si scambiarono un sorriso da palmo a palmo, anche se Shirley occhieggiava dubbiosa verso la figura torva del ragazzo che era rimasto in silenzio. Lelouch la fissava con dispetto e palese avversione per il suo arrivo (i suoi occhi dicevano chi-sei, che-vuoi, cosa-ci-fai-qui, vattene), anche se la disapprovazione maggiore sembrava dovuta al fatto che non avesse niente da disapprovarle, dato che Nunnally le aveva dato il suo beneplacito.

«E lui è Lelouch» disse Milly al posto dell’interessato, ignorando lo sguardo ostile con cui la stava rimproverando di averlo fatto. «Lelouch e sua sorella Nunnally si sono appena trasferiti. Vivranno nella club house» spiegò.

«Anche voi adesso siete nel consiglio studentesco?» chiese Shirley incoraggiata. E quindi si portò una mano sul petto, come per fare delle presentazioni solenni. «Io sono il vice-vice-vice segretario del club. Ah, e vado in terza media! E sono iscritta al club di nuoto!»

«Perché dovrebbe interessarmi?»

L’espressione gioviale di Shirley si scolorì per la sorpresa.

«Eh?»

«È una consuetudine da queste parti dare informazioni non richieste?»

Se il tono fosse stato almeno pungente invece che piatto, lo si sarebbe potuto considerare sarcasmo. Ma Lelouch era serio e dal suo sguardo annoiato non traspariva altro che una sbrigativa schiettezza: intendeva dire esattamente quello che aveva detto.

Shirley aveva schiuso la bocca per la sorpresa... ma si accalorò all’istante, perché Shirley era fatta così: esprimeva esattamente quello che provava. «Al mio paese si chiama educazione!»

«Al mio paese si chiama fingere di essere interessati alle constatazioni banali di sconosciuti che non avremmo voluto conoscere. Preferisco usare meglio il mio tempo.»

«Almeno su questo ti do ragione!»

«Che bello vedere che andate già d’accordo» si inserì Milly, in un tono da cospiratrice che vede realizzarsi un suo piano, anche se era solo una coincidenza di cui poi si sarebbe presa il merito, quando rivelò: «Dato che siete nella stessa classe.»

«No, ti prego!» uggiolò Shirley.

«Un motivo in più per non andarci» dichiarò Lelouch.

Milly si leccò le labbra, assaporando già la certezza di una futura fonte di divertimento su cui affondare i denti del pettegolezzo. Era la prima volta che Lelouch manifestava il sentimento di un’antipatia appassionata, anche se al suo fine intuito da regina del gossip non sfuggì che la sincerità sembrava averlo stupito: forse il principino non era abituato a non essere obbedito o temuto.

Lelouch e Shirley si stavano scambiando un’occhiata di reciproca belligeranza. E quindi, con un gomito posato sul braccio che era avvolto attorno alla vita, Milly si accarezzò il mento e insinuò maliziosa: «Chi disprezza compra...»

«Che?» esclamò Shirley.

«Nemmeno se fosse in saldo, grazie.»

«Lelouch» lo rimproverò Nunnally piano.

Shirley si era girata di nuovo verso di lui, fremendo di stizza per il commento. «Tu non hai amici, vero?»

«Ti stai proponendo?»

«Assolutamente no.»

«È un sollievo.»

«Per me, di sicuro.» Shirley aveva chiuso le braccia sul petto. «Per te, non direi.» Ma rilassò un po’ le spalle, come se ripensandoci avesse provato un pizzico di dispiacere. «Tutti hanno bisogno di avere degli amici.»

Lelouch emise un suono sprezzante, ma distolse lo sguardo: a Milly parve che si fosse adombrato, ma non riuscì a osservarlo meglio perché Shirley adesso si stava rivolgendo a lei.

«Comunque ero venuta per chiederti se puoi prestarmi il libro per la ricerca di scienze.»

«Sicuro! Ce l’ho in camera. Ma perché non chiedi a Nina di aiutarti?»

«Ho paura che poi non ne esco più» rise Shirley. «Nina è la nostra Einstein del gruppo» disse a Nunnally, che invece sembrava interessata a saperlo.

«Oh, anche lei fa parte del consiglio studentesco?» chiese infatti.

«Sì» rispose Milly, ed elencò i nomi degli altri studenti, mentre sogguardava Lelouch che adesso invece la stava ascoltando, ma con ritegno.

Quella sistemazione gli piaceva sempre meno, sembrava sibilare in silenzio con le labbra ridotte a una grinza di fastidio... ed era tutto dire, dato che fin da principio non gli era piaciuta per niente. Però la sua espressione appariva ancora assorta in un pensiero che lo incupiva e che aveva infittito una striscia d’ombra sotto la fronte, dove si celavano gli occhi schivi.

«Tu a cosa sei utile?» chiese d’un tratto aspramente, fissando Shirley. «Hai detto che tutti hanno bisogno di avere degli amici. A cosa mi serviresti?»

Shirley irrigidì le braccia lungo i fianchi, boccheggiando incredula per un momento. «A nulla. Perché anche se ti vedessi annegare, non ti salverei. Scusami, Nunnally» aggiunse, dispiaciuta. «Ma tuo fratello è... è...»

«Insopportabile, lo so» annuì Nunnally con un sorrisetto arreso. «Ma in fondo è buono.»

«Nunnally?» esclamò Lelouch, ma non era chiaro se fosse più sorpreso perché lo aveva definito insopportabile oppure buono.

«Mi fido» cercò di assentire Shirley per non offenderla, ma puntò la lancia dello sguardo su di lui e aggiunse bisbigliando: «Anche se lo nasconde bene.»

Oh, c’era da divertirsi, si compiacque Milly con l’aria di sfregarsi le mani.

 

 

*

 

 

Finalmente se n’erano andate lasciandoli in pace. Lelouch emise un ultimo respiro greve ed esasperato alla porta d’ingresso che si era appena richiusa (quindi c’erano almeno cinque persone che potevano andare e venire a loro piacimento?), poi girò la carrozzina di sua sorella per tornare al piano di sopra (usando l’ascensore, perché forse in tutto il complesso scolastico non c’era UN singolo alloggio al piano terra per una ragazzina disabile?).

«Non sarebbe male avere degli amici» disse Nunnally con voce tenue.

«Oh, li avrai» le rispose lui incoraggiante, ma ancora sovrappensiero.

Nunnally girò il capo: nel suo viso c’era un broncio preoccupato, ma anche una nota di malinconia. «Dicevo per te. Non ti ricordi Suzaku? Era bello quando giocavamo tutti insieme.»

Nel sentire quel nome (come se non ci avesse già pensato), la sua gola si strinse senza deglutire niente, se non proprio quel senso di niente, il ricordo di un’estate (un’infanzia) finita che aveva perso il sapore della pasta zuccherata di azuki, i colori dell’azzurro e del giallo, l’odore salmastro di una gita in spiaggia con le canne da pesca, quello dell’erba cotta dal sole, il suono di tre risate e del ronzio delle api prima che fossero il rombo dei motori, lo sciame degli aerei militari.

Suzaku apparteneva a tre anni e molte vite prima, a un ultimo scorcio di felicità quando già non credeva che gliene fosse rimasta, che fosse lecito sentirsi ancora bambino dopo che era morta sua madre.

Sì, ricordava Suzaku, ma come l’immagine di un sogno che sbiadisce dopo aver riaperto gli occhi sulla realtà.

Tutti hanno bisogno di avere degli amici.

Premette il tasto dell’ascensore storcendo le labbra con disprezzo. Erano folli a credere di poter essere un altro Suzaku, non avevano neppure il diritto di pensare che...

Venne distolto dalla voce di Nunnally che gli fece drizzare le spalle quando chiese: «Hai rubato il portafoglio di Milly?»

Nunnally compensava all’unico senso che le mancava con il sesto. Ci vedeva meglio di chi vedeva solo con gli occhi.

Lelouch aprì la bocca per replicare: non era colpa sua se Milly era una sciocca che posava la borsa aperta e si girava pure di spalle, voleva dire. E se non sapeva nulla di ciò che le aveva chiesto, motivo per cui sarebbe stato costretto a cercare le risposte da sé. «Glielo farò ritrovare» disse invece.

Anche senza guardarla, seppe che Nunnally aveva un’aria dispiaciuta (e quindi si sentì in colpa di essere stato sgarbato davanti a lei), ma comunque comprensiva. «Qui non hai bisogno di rubare, Lu...»

Lelouch si chiese cosa volesse dire qui. Qui avrebbero avuto una vita normale? Qui erano al sicuro? Qui sarebbero stati felici?

E continuò a chiederselo con espressione piena di feroce sarcasmo quando fu da solo nella “sua stanza” (cioé una cella in cui non c’erano sentinelle di guardia solo perché tanto non aveva dove andare), seduto sul bordo del letto con il portafoglio tra le mani. Lo aveva aperto. C’era esattamente ciò che aveva sperato di trovarci, ovvero le tessere magnetiche, fra cui quella dello studio di Ruben Ashford, il nonno di Milly: e lì con ogni probabilità erano custoditi i documenti privati, forse le planimetrie dettagliate del complesso scolastico, lo schedario di tutti gli studenti...

Pensò a quella Shirley. Non gliene fregava niente che fosse iscritta al club di nuoto, tutto quello che voleva sapere sul suo conto lo avrebbe cercato da sé. Pensò a Milly che credeva di dovergli tendere una mano, come se nella mano avesse qualcosa di utile da offrirgli. E pensò a quei cinque studenti che avevano libero accesso alla club house...

doveva informarsi su chi erano i loro genitori, se avevano contatti con il governo, se erano iscritti lì da molto tempo o guarda caso erano arrivati da poco – Milly sapeva tutto, poteva fidarsi di lei? Ovviamente no. Quanto tempo sarebbe passato prima che si lasciasse sfuggire qualcosa – gli servivano le planimetrie, doveva scoprire dove portavano i sotterranei, se c’erano dei passaggi che collegavano gli edifici, era possibile che quell’ascensore non fosse l’unico ad avere un piano 0 – forse tra gli studenti c’era qualcuno che sapeva del suo arrivo, POTEVANO AVER RICEVUTO UNA SOFFIATA – Milly sembrava quel genere di ragazza frivola che adora vantarsi delle sue conoscenze e non sa tenere a freno la lingua – c’era modo di uscire dall’istituto senza passare dall’ingresso?

Lanciò il portafoglio sul letto e per la prima volta si guardò attorno, sebbene con astio. La stanza era meno grande di quella di Nunnally, anche se più spaziosa di tutte le baracche in cui aveva vissuto negli ultimi anni e che non vantavano il lusso di avere più di un singolo ambiente comune.

C’erano tre grandi finestre all’inglese, ma solo una poteva essere aperta perché le altre erano ingombrate dal mobilio. Il mobilio consisteva appunto in una scrivania in legno affiancata da un cassettone e nel letto a una piazza e mezza su cui era seduto. Le pareti erano di un infamante color lilla e su una di esse erano appesi due quadretti tristi che raffiguravano una casa antica e uno scorcio di mare con una barchetta.

Non era il suo stile, ma non prevedeva certo di personalizzarla... Per qualche motivo, si disse di sfuggita che quella Shirley forse aveva una stanza simile, solo che di sicuro le aveva dato il suo tocco stucchevole, magari degli adesivi coi brillantini appiccicati ai margini dello specchio, il poster di una band pop che piaceva alle ragazzine, (le foto incorniciate con i suoi amici), chissà, forse dormiva ancora abbracciando un pupazzetto che si era portata da casa...

era uno spreco di tempo rendere più accogliente la sua stanza perché quello sarebbe stato solo un rifugio temporaneo, non potevano trattenersi a lungo – STUPIDA MOCCIOSA VIZIATA – passando dal cortile aveva notato una grata abbastanza larga e soprattutto profonda, era possibile calarsi da lì con sua sorella? Se ne sarebbe accertato – gli Ashford volevano solo assicurarsi una chance di riscattare il titolo nobiliare, ma si sarebbero stancati presto di aspettare, li avrebbero venduti al miglior offerente – Shirley sembrava la classica cocca di mamma e papà, lo stereotipo della ragazzina tutta cuori e confetti che crede ancora nelle favole – e in ogni caso tutti i suoi averi stavano nell’unico zaino che si era portato – e se lo aveva insultato era solo perché era abituata a sentirsi dire quanto fosse tenera e carina – doveva hackerare le telecamere per vedere le riprese sul suo computer e per questo gli serviva appunto un computer...

Il materasso era morbido. Le lenzuola emanavano un odore di fresco, di ammorbidente all’aroma di lavanda. Il frigo era pieno. In soggiorno avevano trovato un vassoio con dei biscotti. La finestra si affacciava sul cortile da cui proveniva il chiacchiericcio allegro e cicalante di alcuni studenti e la brezza di primavera faceva ondeggiare leggermente le tende.

quindi gli servivano soldi da mettere da parte, la paga di un lavoro modesto non era sufficiente – doveva scoprire se si potevano replicare le tessere magnetiche o manomettere il sistema d’accesso – chi si credeva di essere Shirley – la prima famiglia a cui li avevano affidati li aveva traditi, anche adesso poteva essere una TRAPPOLA – c’erano casinò da quelle parti? Aveva bisogno di un’altra entrata, non importava che fosse illecita, avrebbe riciclato il denaro in un conto bancario intestato a un falso nome in una banca straniera – Suzaku nel frattempo si era fatto altri amici?

Era tutto così surreale. La luce del sole che si riversava dalla finestra era troppo bianca, la stanza troppo ordinata e gli uccellini che cinguettavano tra le fronde degli alberi sembravano anche loro attori complici di quella recita.

(Gli alberi erano davvero alberi, non i tronchi degli edifici amputati dai bombardamenti.)

Qui era una menzogna.

Milly gli aveva detto di stare tranquillo. Che non doveva preoccuparsi di nulla, erano al sicuro. Gli aveva detto di rilassarsi. Lelouch sentì una risatina di scherno che gli affiorava dal petto, mentre era chino in avanti con la testa fra le mani e i gomiti sulle ginocchia.

La brezza di primavera trasportava il profumo dei ciliegi che Nunnally aveva notato la prima volta.

(Il profumo era davvero profumo, non il miasma dei cadaveri o dei rifiuti ammassati fuori dai tendoni negli accampamenti degli sfollati.)

Qui era una scatola impacchettata in una confezione regalo lucente con un bel fiocco in cima, solo che dentro era vuota. Gli sembrava che a toccare quelle pareti sarebbero cadute, come i quattro muri di una finzione, la stanza fasulla in cui avvengono le riprese di una sitcom. Oltre il fondale di cartapesta della montatura, c’erano ancora i ghetti grigi di cenere, la miseria, la fame, i bambini che camminavano scalzi, una massa di schiene curve per aver lavato i pavimenti tutto il giorno.

Qui era un paradiso incantato racchiuso in una palla di vetro, l’Area 11, una felicità che aveva il cuore arido della prepotenza e del sopruso, ma placcata d’oro come un soprammobile terribilmente kitsch.

La risata si spezzò con un suono secco, anche se non era mai arrivata alle labbra che invece erano strette fra i denti. Si accorse che tutta la stanza adesso stava tremando (forse erano le vibrazioni prodotte dal passaggio di un carro armato che era venuto a rastrellare il quartiere?). Ma a tremare erano solo le sue ginocchia. Si lasciò andare la testa e afferrò il bordo del materasso con entrambe le mani, drizzando le spalle per cercare di respirare meglio mentre guardava la finestra nella parete di fronte.

Dal basso gli giunse il rumore di passi più vicini, degli studenti che stavano costeggiando la club house.

(Gli studenti erano davvero studenti, non soldati di pattuglia, ma poteva crearsi una mappa dei loro spostamenti, scoprire che percorso facevano abitualmente e a che ora, in modo da rilevare le anomalie e cerchiare i nomi di chi aveva un atteggiamento sospetto.)

Stai tranquillo, non hai nulla di cui preoccuparti.

Scoprì che gli si era accorciato il respiro.

Forse doveva andare da Nunnally per assicurarsi che stesse bene. L’aveva lasciata da sola in un posto che non conoscevano. Perché l’aveva lasciata da sola?

Provò ad alzarsi, ma le sue gambe rimasero immobili. Tra le nebbie che si inspessivano nella sua mente (era solo il fumo che gli appannava la vista, il fumo di un palazzo da cui ancora non si erano spente le fiamme, ma la sua mente era chiara e lucida, non potevano stare lì, era pericoloso), scorse il passaggio di un pensiero sfocato: doveva girarsi per controllare che Suzaku fosse ancora dietro di lui, che non si fosse fermato (le sue gambe non riuscivano a compiere lo sforzo di muoversi, Suzaku, andiamo, dobbiamo sbrigarci, qui non è sicuro, non guardare a terra, chiudi gli occhi e seguimi, ce la faremo, ce la faremo, ce la faremo, va tutto bene, so a che ora passano i soldati, se esco adesso non mi beccano), forse aveva bisogno di essere rassicurato.

Ma se si fosse girato non avrebbe visto Suzaku perché (non aveva più sue notizie da quando si erano separati, aveva provato a cercarlo, ma) non c’era nessuno a cui dire che aveva un piano so cosa sto facendo fidatevi e non era nemmeno necessario un piano, perché (forse aveva trovato riparo dalla famiglia di Kyoto, Tohdo era rimasto con lui) andava tutto bene. Erano al sicuro. Se si fosse girato... se fosse riuscito a girarsi.

Non avrebbe visto nessuno. Era da solo con la sua prima persona singolare. Ce la farò?

Si toccò la gola con una mano e sentì i battiti concitati, le contrazioni accelerate del cuore che pulsava impazzito al ritmo di diastoliche e sistoliche... adrenalina e paranoia.

Nunnally ha bisogno di aiuto?

Suzaku ha bisogno di aiuto?

Qualcuno ha bisogno di aiuto?

Paralizzarsi non era da lui. Lelouch era efficiente. Sapeva sempre cosa doveva fare e quando.

Ma non aveva nulla da fare. Sgranò gli occhi sulla voragine di quel pensiero di cui vide aprirsi la bocca fra le nebbie che si ritiravano. Non aveva nulla da fare.

Gli uccellini continuavano a cantare.

Dal cortile gli giungevano le risa degli studenti.

Il sole faceva brillare il parquet riversando dalla finestra una colata di luce limpida e tiepida.

In lontananza poteva sentire anche lo scorrere lento del ruscello.

(Lelouch? Siamo arrivati?)

Erano arrivati?

(Allora, parlami della nuova casa. Com’è?)

(È davvero bella. Le pareti sono bianche come la neve. C’è una finestra panoramica con fiori tutt’intorno...)

(Sembra la stanza di Euphie. È così?)

La mano scese dalla gola e si chiuse sul petto.

Andava tutto bene.

Erano al sicuro.

Non doveva fare nulla.

… È così?

È così è così è così è così?

(Dobbiamo andarcene, Nunnally.)

(Dove?)

(In un posto più sicuro.)

(Migliore di questo?)

(Certo. Sarà un posto fantastico!)

(E sai dov’è?)

(Sì. È là.)

(È sempre un po’ più in là...)

Ma quanto più in là?

(Ancora un po’, Nunnally... e quando saremo là lo vedrai tu stessa...)






Cose salienti:
Lelouch pensa troppo.
E comunque... SUZAKU NEL FRATTEMPO SI ERA FATTO ALTRI AMICI? (Fatto... ahem. M'è uscita male. Giuro che nemmeno li shippo.)

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