Mrs V (seconda versione)

di sallythecountess
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitoli da 1 a 5 versione 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 6_ un viaggio ***
Capitolo 4: *** Capitolo 7 e 8 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 9: tradimenti ***
Capitolo 6: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 11: I libri di Ariel ***
Capitolo 8: *** Capitolo 12, 13, 14 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 16 e 17 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 18: scelte complicate ***
Capitolo 12: *** Capitolo 19 e 20 ***
Capitolo 13: *** Capitoli 21 e 22 ***
Capitolo 14: *** Capitolo + Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
Avete mai vissuto uno di quei momenti in cui sembra che la vita ce l’abbia proprio con voi? Quando continuano a capitarvi cose molto complesse da accettare e voi vi dite “beh, prima o poi finirà” e invece sembra proprio non voler finire mai? Ecco, è di questo che parla questa storia. E lo so che vi aspettate un dolcissimo seguito di una commedia romantica, ma onestamente questa storia è un po’ diversa da Miss V. E’ un insieme di miei errori, che hanno ferito parecchie persone, ma che mi hanno spinto a trovare dentro di me una forza che non avevo idea di avere.
 Insomma questo è il racconto di un anno parecchio complicato della mia vita e di come ho, letteralmente, mandato ogni cosa bella che avevo al diavolo, ma anche di come sono riuscito da zero a ricostruirmi una vita totalmente nuova. Curiosi, eh? So che non vedete l’ora di scoprire come ha fatto Ian a incasinare tutto ancora una volta, e credetemi: ci saranno dei momenti in cui vorrete prendermi a calci. Mi sono preso a calci da solo qualche volta. Però, forse, ci sarà qualche timido sorriso sui vostri visi in qualche istante. Perciò preparate i fazzoletti, cari miei e imbarcatevi in questa storia con tre cose in mente:
1 che sono io il primo a vergognarsi dell’ottanta per cento di quello che racconto, perciò non siate troppo severi
2 che a volte il dolore può accecarci tanto da offuscare ogni altra cosa nella nostra mente.
3 che l’amore, quello vero, quello destinato a durare per sempre, a volte riesce a essere davvero doloroso. Eppure, secondo me, non sono solo i baci, le coccole e le dichiarazioni struggenti a renderci la coppia che siamo. Spesso sono gli sforzi che facciamo, le lacrime che versiamo, e ancora di più quelle che soffochiamo per non spaventare o ferire l’altra persona, le urla e le imprecazioni a definire un rapporto. Semplicemente perché se non ci mettessimo tutte le nostre emozioni, e tutto il cuore, non sarebbe amore.
La nostra storia inizia la sera prima del mio compleanno, precisamente alle quattro del mattino. Mia moglie era passata venti volte per cercare di convincermi ad andare a letto, e in un paio aveva portato anche le mie bimbe, ma io ero troppo nervoso per farlo. Avevo un appuntamento il giorno successivo, dovevo vedere il mio editore che mi aveva dato un ultimatum e per quanto la nostra relazione si basasse su questo ormai, qualcosa mi diceva che sarebbe andata male. E no, non era soltanto l’avviso di risoluzione del contratto che mi aveva mandato. Servivano idee nuove, nuove storie, ma io non avevo nulla di particolarmente interessante e credetemi, ci avevo provato in tutti i modi a tirar fuori qualcosa. Ci provai anche quella notte, mi sforzai e davvero non vi dico cosa fosse venuto fuori. Alle quattro, poi, avevo deciso di avere troppo sonno per continuare, e così mi ero avvicinato al letto, giusto in tempo per costatare che era troppo occupato per me.
Lei dormiva, con i suoi splendidi riccioli sparsi sul cuscino, e stringeva forte una sua piccolissima copia che russava un bel po’. Erano davvero carine insieme. L’altra copia di mia moglie, con i suoi biondi riccioli totalmente davanti al viso, si era messa in obbliquo a metà del letto, e teneva le braccia addosso a due enormi cagnoni, che occupavano la sua destra e sinistra. Sorrisi soltanto avvicinandomi, e provai a fare un po’ di carezze a quelle donne speciali della mia vita, ma figlia uno mi allungò un calcio, figlia due scacciò la mia mano come se fosse una mosca e la signora Watt disse solo “finalmente…”girandosi di spalle. Non mi rimaneva altro da fare che recuperare la piccola amante dei cani e scacciare quei due bestioni dal mio letto, e così, con lei tra le braccia riuscii a trovare un po’ di riposo.
Nota:
Ciao a tutti, scusate se ho per l'ennesima volta ripostato questa storia. La verità è che ora, dopo aver finito la saga degli Jimenez, mi sono resa conto che i pezzi che avevo pubblicato non erano scritti bene e quindi ho modificato un po' di cose. A chi avesse già letto la storia, consiglio comunque di leggere il prologo. Gli altri capitoli li pubblicherò tutti insieme (1-5) così saprete di non esservi persi nulla. Se poi vi andasse di leggere la versione due, e darmi un parere sulle modifiche, posso solo esserne contenta. Un abbraccio, S.

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Capitolo 2
*** Capitoli da 1 a 5 versione 2 ***


Capitolo: il ritorno di Ian
Mi svegliai presto quel venerdì mattina, ma non aprii subito gli occhi. Cercai lei con la mano, di solito era sempre schiacciata contro di me, ma stavolta al suo posto trovai solo un cuscino. Provai allora a muovere le gambe, per sentire se ero solo nel letto e… non c’era nessun altro. Non ero abituato ad avere tutto il letto per me e mi fece uno strano effetto. Già…ma dov’erano tutte?
Ci misi un po’, ma poi mi decisi a uscire dal letto e andare in cerca della mia famiglia, mentre scendevo le scale, però, udii una serie di frasi sconnesse, risate, piccoli lamenti e qualcuno che gridava “Shh!” M’insospettii non poco, ma proprio quando stavo per voltare l’angolo ed entrare in cucina, mi trovai davanti mia moglie, scapigliata e bellissima, che spalancò gli occhi e mi fece segno di tacere e tornare di sopra, mentre diceva “Aspetta Olly credo che abbiamo dimenticato qualcosa in cucina”.
Così capii: eh già era il mio compleanno ed evidentemente le mie donne avevano qualcosa in mente. Che fantastiche donne! Erano abbastanza dispotiche e una vera seccatura quando volevano, ma anche dolcissime! Così mi rimisi a letto o quantomeno ci provai perché Buck e Sprink avevano preso il mio posto ancora una volta, e non avevano nessuna intenzione di farmi spazio e poco dopo qualcuno mi abbracciò fortissimo e sbaciucchiandomi tutto, tanto da farmi quasi soffocare, gridò “Auguri Papà!”. Le signorine mi avevano portato la colazione a letto, insieme a mia moglie che, ci crederete o meno, è una vostra vecchia conoscenza. La cara Signora V, aveva organizzato una sorpresa molto tenera, e per qualche minuto, le donne avevano calmato le mie ansie con le loro coccole. Peccato che con due gemelle i minuti di quiete sono sempre pochissimi, e quindi dopo qualche coccola era iniziato di nuovo il caos e lei aveva chiamato la tata per portarle a fare colazione. Come sapete la mia bellissima moglie aveva la vista lunga, e una volta soli mi disse piano “dai amore non essere preoccupato, andrà tutto bene…” perché aveva capito dove fossero i miei pensieri. E sapete cosa? Aveva anche un piano per distrarmi, che ci crederete o meno funzionò benissimo.
“Ti amo Ari…” le sussurrai dopo l’amore, e lei ridendo rispose solo che per lei era lo stesso, ma iniziò a rivestirsi, perché non potevamo lasciare quelle due troppo a lungo con la tata. Erano nella terribile fase dei due anni, e letteralmente avevano iniziato a mordere. Probabilmente era stato Sprinkles a insegnarglielo, l’insopportabile cane di Ariel, che continuava a odiarmi da sempre ormai, ma era diventato un bel problema. Volevo persino far fare loro l’antirabica, ma il pediatra era contrario.
La guardai mentre si vestiva, e per un attimo pensai che fosse davvero bella. Non c’erano stati grossi cambiamenti in quei pochi anni, se non probabilmente il fatto che, come me, aveva meno tempo da dedicare al suo aspetto, così si truccava e vestiva sempre in pochissimi minuti. Fortunatamente aveva fatto carriera con Greenpeace, e la tenuta d’ordinanza non era esattamente giacca e cravatta.
“Tesoro, dai fai almeno una doccia, altrimenti stordirai questo editore con la puzza!” aggiunse divertita e io provai in mille modi a convincerla a seguirmi, ma niente. Voleva assolutamente andare a controllare le gemelle, perciò mi sfuggì dalle dita, promettendomi che avrebbe avuto tempo per me dopo.
E così cominciai a vestirmi, con un miliardo di considerazioni per la mente. Era il mio compleanno, e quando si arriva a quarant’anni è tempo di bilanci, lo sanno tutti. Pensai un attimo alla mia vita e sorrisi. Ok, il lavoro era un casino e avevo due gemelle di due anni e mezzo che mordevano e ringhiavano come due cagnolini, però…ero felice. Certo le mie giornate erano piene di alti e bassi, alle volte le gemelle e V mi rendevano tutto incredibilmente difficile, ma per la maggior parte del tempo stavo bene. Facevo poco sesso, le mie figlie tendevano a essere un tantino dittatoriali, e V litigava sempre con i miei e con i suoi per l’educazione delle nostre bambine-cucciole, ma stavo bene.
Ero molto innamorato, se volete saperlo, e tutte e tre quelle teste ricce riuscivano ad avere qualsiasi cosa da me, con quei loro occhioni e i sorrisi splendidi. Lo so che state pensando che sono un coglione, ma non lo sono sempre stato?
Se ci aveste visto uscire in macchina quella mattina, o una qualsiasi mattina, probabilmente avreste pensato ‘oh che carini’. Ovviamente però le mie care ragazzine avevano ereditato il simpatico carattere della famiglia di Ruiz, per cui tra loro era un continuo di liti e scenate. E la regola tra loro era una sola: se le davano all’ultimo sangue. Questa cosa ovviamente ci preoccupava non poco, Ariel aveva persino seguito dei seminari sulla gestione dei conflitti, e provava sempre tantissimo a mediare, a insegnare loro a parlare, a dirsi le cose. Era molto preoccupata, perché ci teneva che imparassero a rispettarsi a vicenda, e l’avevo anche beccata a versare qualche lacrima, perché temeva che non sarebbero mai diventate adulte predisposte al dialogo. Che ne pensavo io? Beh…ero sposato con lei! Ve lo ricordate suo nonno, no? E mia suocera? Diciamo che avevo parecchi esempi di personaggi “non predisposti al dialogo” nella mia vita. Perciò ero un tantino più flessibile e meno allarmato dalla loro brutalità. E a volte, devo essere totalmente onesto, dopo ore e ore del “bastone del chiarimento” e di altre migliaia di cavolate pedagogiche che Ariel aveva imparato, ero talmente cotto da lasciarle da sole a risolvere i loro conflitti.  Così un giorno, dopo ore e ore di tentativi di mediazione,e botte da orbi date con il bastone del chiarimento, mi girai e dissi con aria severa“potete per favore litigare a bassa voce?” e V mi prende ancora in giro per questo. State pensando che sono un pessimo padre? Eh, lo capisco.
Capitolo 2: Ody  e Olly
Ok, ok volete sapere di più di loro, vero? Ma come di chi? Avete iniziato a distrarvi anche voi? Delle mie piccole ragazzine-cane. Allora vi racconto tutto: le mie due bambine si chiamano Audrey, Iris e Olive, Isabelle Watt. La storia dei loro nomi è molto divertente e lunga e risale a quel momento speciale in cui abbiamo scoperto che non aspettavamo un cuoricino solo, ma ben due.
Non avevo dormito per una notte intera in attesa della prima ecografia, perché ragazzi ero felicissimo. Lei, invece, era un po’ nervosa, perché temeva che il viaggio e il regime di vita che aveva avuto durante la missione di pace, avessero fatto del male a quel bambino a cui teneva tanto. Così arrivammo con due stati d’animo totalmente diversi dalla ginecologa, che leggendole in viso l’incertezza le chiese seria se volesse tenere il bambino, facendomi venire un infarto.
Ariel sorrise soltanto e confessò piano le sue paure, spingendomi a stringerla e a tenerle la mano. E poi successe una cosa strana. Il medico accese l’ecografo e ridacchiando disse piano “oh signorina Ruiz vedrà che sorpresa…” allarmandoci entrambi. E poi lo sentimmo: era un suono strano, aveva un eco che non capivamo, e io mi spaventai a morte, ma la dottoressa disse piano “ben due cuoricini…” facendoci sciogliere come due idioti.
Due cuoricini, era bellissimo, ma significava anche che dovevamo pensare a ben due nomi, e credetemi: non fu facile. Ne vagliammo un sacco, e ridemmo anche un sacco cercando i nomi online, ma dare un nome a una persona era una cosa che mi preoccupava.
“Tanto qualunque nome daremo loro, ci verranno rinfacciati un giorno perché ne avrebbero preferito un altro, non lo sai?” mi disse ridacchiando, e io pensai solo “ah beh, adesso va meglio” ma le risposi che se non lo aveva fatto lei che aveva il nome della sirenetta, non vedevo come avrebbero potuto farlo i miei figli.
“Ah vedi? Adesso ho il nome della sirenetta, prima era quello di uno spirito mite e diafano. Come cambiano le cose dopo aver fatto sesso…” ribattè odiosa e acida, ma io le giurai eterno amore e la riempii di coccole e per quella sera fu finita lì.
Fu un periodo molto dolce la gravidanza di Ariel, scandito non solo dal mio matrimonio, ma da tanti piccoli momenti felici, come i primi acquisti per le mie figlie, il momento in cui abbiamo fatto sistemare la loro stanzetta, il giorno dell’annuncio ai parenti, e quelli degli annunci agli amici, che avevano pianto sulla spalla di Ariel, neanche fossimo a un funerale. Il loro primo calcio, guardando un film in bianco e nero, e soprattutto il giorno in cui abbiamo scoperto che quelle due erano femmine, e credetemi abbiamo pianto per due ore, e solo dopo molto tempo lei è riuscita a dire “piangi perché avrai altre due donne simili a me?” facendomi ridere. Lei era bellissima incinta, e ho perso il conto di quante ore ho passato a guardarla, ma anche ad accarezzarla e a farle dei massaggi per alleviare i problemi legati al pancione. Eppure non si lamentava mai, ma tendeva a sopravvalutare le sue forze, come sempre, e quindi il weekend prima della nascita di quelle due avevo dovuto letteralmente supplicarla di non fare un viaggio di trecento chilometri per una staffetta del canile. Poi le ho rinfacciato per anni di aver avuto ragione, ma questa è un’altra storia.
Ci mettemmo mesi per scegliere i nomi di quelle due, e non per colpa di Ariel. Ovviamente. Per calmare i nostri genitori, che insistevano ad avere voce in capitolo, ci eravamo accordati e ne avremmo scelto uno a testa. Lei, però, aveva deciso in pochissimi minuti: Olive. Era la versione inglese del nome della mamma di Raul da poco scomparsa, e io pensavo che per la mia piccola fosse letteralmente perfetto. Olive Watt…insomma sembra il nome di un avvocato o di un dottore, no? Vi risparmio la reazione di mia moglie al mio commento sugli avvocati, ma lo sapete che non li amava molto.
A quel punto, però, le pressioni sociali erano tutte su di me, perché dovevo trovare il nome per la sorella di Olive, e non mi veniva in mente nulla. Alcuni nomi li scartavo ancora prima di proporli e altri mi sembravano non all’altezza, e insomma arrivammo davvero all’ultimo momento per sceglierlo. Ariel me ne proponeva sempre alcuni, e devo dire che erano anche belli, ma volevo essere io a sceglierne uno per mia figlia. Lei, invece, segretamente era certa che avremmo scelto uno dei suoi, e alcuni me li riproponeva ciclicamente nella speranza di convincermi.
 E poi accadde il miracolo: una sera, circa tre settimane prima del parto mi accovacciai sul divano insieme alla mia mogliettina. Mi piaceva tanto quando metteva la testa sulle mie gambe e mi permetteva di accarezzarla tutta, e così spensi la testa. Faceva zapping e improvvisamente notò che un canale trasmetteva un vecchio film con la Hepburn, e Ariel lo aveva lasciato per me, e si era addormentata godendosi le mie coccole. Ci misi un po’, ma poi ebbi un’illuminazione e decisi di chiamare la mia piccolina Audrey. E l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era “E’ ovvio! Ma perché non ci ho pensato prima?”
Nella mia mente era il nome adatto alla sorella di Olive. Una giovane intellettuale bella, colta, incredibilmente elegante e fine. Nella mia mente funzionava, ma avevo una paura folle di dirlo a V, insomma se me lo avesse bocciato credo che mi sarei messo a urlare nomi a caso. Così, accarezzandola sussurrai piano “amore” e il verso che seguì mi fece capire che non era completamente in coma, dunque spavaldo aggiunsi “Ho deciso: Audrey” E lei rispose solo “no…io Ariel. Hai scelto la donna sbagliata…”
 E mentre la guardavo con aria perplessa lei spalancò gli occhioni verdi, sorrise e ridacchiando rispose “sì, ok, Audrey mi piace”. E così, incredibilmente, ero riuscito a scegliere un nome prima del parto.
 Certo in teoria era perfetto, mi aveva anche permesso di stare per un’ora accoccolato con lei a pensare al loro futuro e a inventare storie su loro adulte. Sì perché me la immaginavo la mia bellissima Audrey Watt, una scrittrice in erba o una giornalista, bellissima e sofisticata.
“Sì, Ian, ma resta figlia mia, quindi tutto questo modo di fare sofisticato non so da chi dovrebbe ereditarlo. Ok, saprà parlare un po’ di lingue e accudire gli animali. Probabilmente sarà anche una che legge, per merito tuo, ma…resta mia figlia eh!” mi rispose seria, ed io la strinsi soltanto e continuai a parlarle di come sarebbero state le nostre ragazze da grandi, facendola sorridere.
Volete sapere poi com’è finita? Indovinate chi aveva ragione? I due nomi da donna colta, elegante e sofisticata sono letteralmente scesi giù per lo sciacquone e invece del nome di una delle donne più eleganti del mondo, mia figlia viene chiamata come il cane di Garfield!!  Già perché nessuna delle due testoline era in grado di pronunciare il nome dell’altra e così Audrey e Olive sono diventate Ody e Olly. Due magnifiche bimbe, vagamente possedute, con i capelli biondi e l’atteggiamento da cuccioli di cane. Voi starete pensando “Che carino Ian con due figlie femmine” ma credetemi la situazione non era affatto semplice. Ariel ci aveva preso sul loro essere figlie della natura, ed era carinissimo il loro modo di giocare con i cani e rubare i loro giocattoli, del resto c’era Sprinkles a proteggerle fin da quando erano nel grembo materno, quindi sarebbe stato strano il contrario. Erano molto belle, e anche bambine intelligenti il giusto, ma tra le liti e la loro abitudine di manifestarsi sempre a sorpresa, non ci rendevano la vita facile.  Ariel era molto orgogliosa di loro e le adorava letteralmente, con un amore che mai avevo visto in una madre. Aveva pazienza con loro, ci parlava moltissimo, da sempre, e tirava fuori un lato che neanche io avevo mai visto. Devo dirvelo, diventare madre l’aveva resa più dolce anche con me, e io ero innamorato pazzo di quelle tre matte. Eppure le detestavo letteralmente quando interrompevano i nostri momenti romantici, che sinceramente non erano molti. Alle volte dovevamo aspettare anche un’intera settimana per avere qualche momento solo per noi e nel pieno delle coccole loro arrivavano e gridavano “Maaa falla smettere!”e lì partiva tutta la psicologia del conflitto, che mi stava davvero stufando.
 Ammetto che non era facile vivere con tre donne come loro, e che più di una volta ho pensato “Se prendo un aereo per il Costarica adesso non mi troveranno mai” ma quando ci mettevamo tutti a letto e loro si portavano la mia mano vicino alle guance e dicevano “coccole” io ero l’uomo più felice del mondo. Idiota? Eh già…è innegabile. Purtroppo l’amore è amore ragazzi, non ci posso fare nulla. Adoravo stringerle, coccolarle e inventare storie con loro e per loro. Per quanto mi facessero impazzire, arrabbiare, urlare, e desiderare di strozzarle e correre via lontano, io…semplicemente ero pazzo di quegli occhietti e di quei musetti lentigginosi! Sì, sì lo so che non ne esco fuori bene da questa cosa, credete che mi faccia piacere? Non avevo mai conosciuto quel tipo di amore, ma ne ero completamente soggiogato.
Fisicamente erano un mix perfetto dei pregi miei e di Ariel: avevano i suoi capelli, le mie lentiggini e il mio naso, ma le guance rosee di V e la sua magnifica bocca carnosa. Erano gemelle eterozigote, quindi non proprio identiche. A distinguerle, in realtà, c’erano pochi dettagli di cui uno solo molto evidente, che però spesso mi sfuggiva: il colore degli occhi. Ody aveva gli occhi verdi di Ariel e Olly aveva i miei occhi blu. Per il resto invece erano quasi identiche, anche il taglio degli occhi era lo stesso e loro giocavano costantemente con me, o forse è meglio dire contro di me. Già perché io non riuscivo facilmente a capire chi fosse chi, e quasi sempre loro mi imbrogliavano. E avevano solo due anni e mezzo.
Tutte queste mie considerazioni furono interrotte dalla mano di Ariel, che schioccò le dita davanti alla mia faccia per farmi tornare concentrato! Eh già eravamo arrivati al nostro solito luogo per la colazione, ma io preso da un milione di pensieri neanche me ne ero accorto e stavo mettendo sotto una povera suora, la quale, che  ci crediate o no, mi fece un gestaccio, lasciando me e mia moglie quasi sconvolti.
Capitolo 3:
Ci fermammo alla pasticceria per fare colazione, come sempre e avevamo intenzione di dedicarci al nostro solito rito mattutino, ma un rumore ci accolse da lontano e Ariel mi strinse forte la mano. Raul e Isabelle stavano discutendo a voce alta, come sempre ultimamente. C’era aria di crisi tra loro e questo aveva tolto il sonno a mia moglie, perché il loro matrimonio stava veramente andando a rotoli. Sapete com’è quando una storia è finita, no? Ci si attacca per qualsiasi cosa e onestamente non ricordo il motivo di quella lite, ricordo solo che provai a mettere una mano sulla spalla a Raul per consolarlo, ma lui decise di allontanarsi da solo, lasciando lei a imprecargli contro a distanza.
Era una donna molto dura, la mia cara suocera, e lo era sempre stata anche con sua figlia, tanto che, come sapete, Ariel aveva molti problemi con le emozioni. Diceva sempre che con me stava imparando a viverle e a non nasconderle, e io le sono sempre stato grato per questo, ma onestamente mi faceva paura quel lato di lei. E neanche lei ne andava fiera. Durante i primi tempi della gravidanza aveva un sacco di dubbi, temeva di non essere in grado di fare la madre, di non sapersi lasciare andare con le bambine. Eravamo molto preoccupati per questa cosa i primi tempi, ma poi la pancia era cresciuta, erano arrivati i loro nomi, e con questo un enorme amore. Ariel era attentissima a loro, e aveva smesso con tutto quello che amava per il loro bene. Non fumava, non beveva neppure il caffè, era a dieta ferrea e aveva dovuto rinunciare persino ad alcuni compiti di volontariato, perché temeva di essere morsa da qualcuno e metterle in pericolo. Quando poi erano arrivate, ragazzi, avevamo entrambi pianto di commozione e così era arrivata la certezza che lei non era come sua madre. Aveva ereditato in parte il carattere di sua madre, era ovvio, ma la signora Watt era dolce con me…quando voleva!
 Entrato nella pasticceria mi sedetti al mio solito tavolo nell’angolo e aprii il giornale. C’era gente e tutti erano troppo indaffarati per darmi retta, così decisi che avrei dovuto fare da solo e mi avviai verso la cucina per prepararmi il mio caffè, quando dalle porta scorrevole entrò la mia Ari col le mani impegnate e la mia solita colazione. Con sguardo sorpreso, ma allo stesso tempo dolce, disse “E che ci fai in piedi? Fila al tuo tavolo, di corsa.”
Obbedii, e lei fece una cosa che faceva sempre: da sempre la mattina si sedeva sulle mie ginocchia mentre leggevo il giornale e lo leggeva insieme a me in silenzio. Era uno dei miei momenti preferiti della giornata, perché finivamo sempre col farci qualche coccola o effusione. Quella mattina, però, era lei quella distratta e sfiorandole la guancia con un dito le chiesi cosa avesse, ma lo immaginavo. Per l’ennesima volta mi chiese sconsolata“credi che divorzieranno?” ed io pensai solo “spero di sì per tuo padre”, ma non volli dirglielo. Ci pensai un po’ mentre le accarezzavo il braccio e il viso, poi per fortuna fummo disturbati da nonno Angus e le sue perfide nipotine che dovevano rubarci il posto e dunque non ne parlammo più.
Rimasi a badare alle bambine e ad Angus in pasticceria per tutta la mattina e alle quattro andai al mio appuntamento con l’editore, un po’ agitato. E non avevo torto.
“Ian non ti farò perdere tempo, abbiamo  deciso di non rinnovarti il contratto. Niente di personale, è solo che negli ultimi 5 anni non sei riuscito a proporci nulla e noi non possiamo continuare a investire su di te, capisci?”
Capivo? Capivo. Questo cambiava le cose? Per niente. Ero ufficialmente un disoccupato e dovevo sfamare…ben dieci bocche. Mi portai le mani in faccia, ma non sapevo cosa dire, quando il mio interlocutore continuò “Ad ogni modo quando avrai qualcosa da farci leggere saremo molto felici di farlo, ma per ora le nostre strade devono separarsi. Spero che tu mi capisca.”
Uscii da quel bar completamente sconvolto, tanto da fare quasi un incidente con la macchina. Ero completamente fuori, non riuscivo a pensare e neanche a dire nulla. Cosa avrei dovuto o potuto fare adesso? Restare senza lavoro alla mia età, con una famiglia è davvero da irresponsabili. Era tutta colpa mia e del mio dannatissimo blocco dello scrittore.
Rimasi qualche minuto a pensare e poi ebbi l’unica idea razionale: telefonare al mio vecchio capo. Roger, il mio team manager a Los Angeles, mi aveva sempre detto che con il mio curriculum avrei potuto riavere il mio posto di lavoro in ogni momento, ma era soltanto una frase di cortesia. Ci eravamo sentiti qualche volta in quegli anni, e mi aveva chiesto spesso se avessi qualche giovane collega che volesse inserirsi nel settore.
 Lo chiamai per chiedere se avesse contatti in Inghilterra, e se potesse in qualche modo aiutarmi, ma lui mi offrì immediatamente un posto alquanto prestigioso. Era veramente folle. Una fortuna sfacciata. Servivano idee nuove, ed io da veterano avrei avuto la possibilità di dirigere un team creativo. Tutto bello, eh, peccato che ci fosse un’unica, enorme condizione: prendere o lasciare. Provai a chiedere tempo, per confrontarmi con mia moglie, ma Roger rispose solo “me ne sto già pentendo Ian, forse non sei l’uomo per noi” così preso dal panico accettai. Pentendomene dieci minuti dopo, perché non era un gesto maturo, ma ero in crisi e temevo di lasciare le mie figlie sul lastrico. Iniziai a pensare a come avrebbe reagito Ariel, e mi vennero i brividi. Si sarebbe infuriata stavolta, ed era giusto perché avevo preso una grossa decisione senza interpellarla, ma lo avevo fatto in buona fede quindi avrebbe capito, no? Sarebbe andato tutto bene, mi dissi scioccamente e tutto felice mi avviai verso la mia festa di compleanno.
Capitolo : una festa e una porta sbattuta
Rientrai a casa frettolosamente, volevo parlarle prima della festa e speravo di riucire a risolvere tutto il più presto possibile per poi goderci una notte romantica. Avevo fatto un errore, e sapevo che se la sarebbe presa, così volevo togliermi quel peso dallo stomaco. Immediatamente, però, notai che tutto era spento, neanche i cani vennero a salutarmi.
“Sorpresa!”
 Sbucarono tutti fuori da ogni parte di casa mia, e lei…oh lei era da far liquefare gli occhi. Indossava un vestito che le avevo regalato, nero, corto, aderente e scollato! Quando glielo avevo regalato, in realtà, mi aveva preso in giro in tutti i modi perchè non le sembrava una cosa che potesse realisticamente indossare, ma ragazzi le stava da Dio. La strinsi forte e le sussurrai all’orecchio “Ti devo parlare” ma lei sorridente disse “Hai tutta la notte per dirmi tutto quello che vuoi… Siamo soli per le prossime 24 ore…è o no il regalo che volevi?”
Era assolutamente magnifico. Nessuno ci avrebbe disturbato per un giorno intero, ma c’erano un miliardo di cose da fare e impacchettare perché in America ci aspettavano il più presto possibile. Cercai di non pensarci, di godermi la festa, ma non ero dell’umore adatto. Ero inquieto e volevo parlarle del nostro trasferimento immediatamente, anche perché dovevamo dirlo ai suoi e ai miei e…quello mi peroccupava realmente. Mio padre, il suo e Angus avrebbero sicuramente tentato di uccidermi. Cosa dovevo fare allora? Tirarla in un angolo e costringerla ad ascoltarmi? Eh no, non potevo farlo, non potevo rovinare la festa. Finalmente tutti andarono via e mi trascinò letteralmente di sopra, mentre un po’ sbronza, un po’ euforica giocava a fare la seduttrice togliendomi la cravatta e la giacca e baciandomi come probabilmente nessuno mai è stato baciato. Era tutto molto divertente in realtà, lei voleva sedurmi, mentre io non pensavo ad altro che al modo giusto per dirle che dovevamo andarcene. Divertentissimo. Così mi feci coraggio e provai a dirle “Amore ti devo parlare, è importante…”ma lei si tolse il vestito e scaraventandomi sul letto chiese “Adesso? E’ questo che vuoi? Parlare? Ne sei certo??”
 Ero senza fiato e quindi non riuscii a dire una parola; come uno scolaretto impacciato mi limitai a fare cenno di no con la testa e lei sedendosi addosso a me cominciò a baciarmi, a sbottonarmi la camicia e sussurrò soltanto “dopo parliamo di quello che vuoi, ma io ho tanta voglia del mio amore…”ed io, semplicemente, smisi di pensare.
 Una volta finito l’abbracciai, era stesa nel letto di fronte a me con gli occhi chiusi e uno splendido sorriso. Rimasi un secondo a guardarla, era l’immagine esatta della tranquillità, col viso disteso, gli occhi chiusi, i capelli dispersi sul cuscino e la sua bellissima bocca increspata in un sorriso. Erano quelli i momenti in cui mi accorgevo di amarla sul serio. Quei piccoli momenti in cui mi accorgevo che malgrado il carattere temibile, era piena di poesia. Restai a fissarla per qualche altro secondo, sapevo che dopo avremmo litigato, quindi volevo godermi qualche attimo di quiete prima che cominciasse la tempesta. Poi tirai fuori il coraggio, la strinsi contro il mio corpo, annusai i suoi capelli e dolcemente le dissi “possiamo parlare adesso?” facendola sbuffare forte. Ancora nuda si stropicciò gli occhi, si sedette nel letto e con aria seccata disse “Cosa c’è?Che ho fatto stavolta?”
Non sapevo bene come iniziare, così, ovviamente, cominciai nel modo peggiore possibile. Le presi il viso con le mani e mentre accarezzavo le sue labbra con il mio pollice sinistro le sussurrai solo “Tu lo sai vero che sei tutto per me? Insomma non solo ti amo, ma credo che mi esploderebbe la testa se tu mi lasciassi.”
 Avevo sbagliato, lei s’innervosì, mi tolse le mani dal suo viso e disse “ah bell’inizio! Riformulo la domanda: che hai fatto?”Era seduta di fronte a me con uno sguardo inquisitorio spaventoso, così strappai il cerotto e le dissi  tutto insieme: “Niente, o meglio niente di grave. E’ solo che non mi rinnovano il contratto di edizione. Ma prima che tu ti preoccupi e vai in ansia, devi sapere che il tuo caro maritino ha riavuto il suo vecchio contratto come sceneggiatore, e  gli hanno aumentato lo stipendio!Quindi amore mio dovremo tornare in America tra pochi giorni, anzi veramente il prima possibile, ma staremo bene e le bambine avranno molte opportunità.”
 Non mi lasciò finire, si portò una mano al cuore e mise l’altra sulla mia bocca e ridendo disse “solo questo?”
 Annuii sorpreso, perché non mi sembrava di averle detto una cosa da poco, ma per lei sembrava avessi detto una sciocchezza. Mi abbracciò forte e disse “Cazzo Ian chissà che mi aspettavo”e mentre io pensavo a quanto fosse strano e surreale quello che stava succedendo, lei mi diede uno scappellotto sulla testa e disse “Ma mi hai fatto morire di paura, stronzo!”
Poi con un sorriso dolcissimo e una tenerezza francamente inappropriata, mi chiese quanto mi avesse ferito quella notizia, se aveva devastato totalmente il mio ego. Ok, la verità era che ovviamente lo aveva fatto, perché non è mai bello sentirsi dire “ok, non sei abbastanza bravo, vattene”.  Glielo dissi, lei mi ascoltò con fare molto comprensivo e poi accarezzandomi sussurrò che avremmo trovato una soluzione, e gliel’avremmo fatta vedere. La prima volta pensai che non avesse capito, così le spiegai di nuovo la storia della California, e lì lei fece una strana smorfia e mi disse piano “Ian…dobbiamo per forza?” lasciandomi per un attimo interdetto. 
“Amore mio, ma non capisci? Non c’è un’altra soluzione! Ho quarant’anni e sono uno scrittore fallito, nessuno mi offrirà un lavoro adesso o almeno non con quello stipendio! Insomma credo che il massimo che troverei è un lavoretto da 1000 sterline al mese, come facciamo a sopravvivere?” le dissi sconsolato e lei annuì soltanto, ma aggiunse piano “…però non ci hai neanche provato. E poi non è detto che 1000 sterline non ci bastino, insomma messe insieme al mio stipendio…”
“Non sei brava a fare i conti…” le ruggii con un po’ troppo astio, e lei sconsolata rispose solo che neanche io ero molto bravo se pensavo che trasferirmi dall’altra parte del mondo avrebbe risolto i miei problemi.
“Ma è esattamente così, invece!” Ruggii ancora una volta risentito e lei stringendosi nelle spalle mi rispose “perché? Perché ti darebbe la possibilità di liberarti di me e delle tue figlie?”
Non capii quella frase, onestamente. Fraintesi e arrabbiatissimo le chiesi soltanto se quello significava che non mi avrebbe seguito e lei ruggì solo “e come, eh? Come credi che potrei fare a mollare tutto e correre dietro a te in pochi giorni?”
Rimasi per un attimo senza parole, perché da ragazzino scemo interpretai quella frase come un suo momento di orgoglio e le dissi piano “…se mi amassi, riusciresti a farlo…” rendendola furiosa.
Era rimasta abbastanza calma fino a quel momento, ma poi ovviamente si infuriò e alzando la voce mi chiese se l’amore significasse rinunciare a se stessi e a tutto, annullandosi solo per salvare l’ego ferito dell’altro. Io rimasi senza parole per qualche istante e lei lo fece: si alzò, recuperò i suoi vestiti e fece per uscire.
“Fermati…” le dissi, afferrandole un polso, ma lei senza guardarmi disse piano “Stanotte mi serve spazio, Ian. E probabilmente serve anche a te. Temo che dobbiamo rivedere le priorità della nostra vita, perché sembriamo molto lontani in questo momento…”
“La mia priorità sei tu Ariel, e le nostre figlie…” le dissi serio, cercando per un attimo di addolcirla e ci riuscii, perché per un secondo mi sorrise.
“Non è così Ian, purtroppo. Se fossimo noi la tua priorità capiresti perché è assurdo prendere una decisione così senza tenere in conto delle opinioni della tua compagna di vita…” aggiunse risentita.
“Ariel quello è stato uno sbaglio, mi sono fatto prendere dal panico, ma ammettilo: se restassimo qui le ragazze avrebbero forse un terzo delle opportunità di studio e lavoro che ci sono in California…”
“… ma crescerebbero con la loro famiglia. In un ambiente sereno e protetto, in cui possono assorbire i valori giusti…” concluse con enormi occhioni, e per un attimo mi sentii in colpa da morire, ma poi tornai sui miei passi e lei sconsolata mi spostò la mano e disse piano “pensiamoci.”
“Non c’è da pensare Ariel, dobbiamo solo partire…” le dissi serio, ma lei scosse la testa e disse solo “non è così semplice…”un attimo prima di prendere la porta, lasciandomi senza fiato. In realtà ero sicuro che lei volesse dormire in camera delle bambine o in salotto, ma mi prese un colpo quando sentii il rumore della porta del garage. Mia moglie stava andandosene, per la prima volta in tanto tempo e io avevo il cuore totalmente spezzato.
Rimasi per un po’ a pensare alla parola “spazio”. Non ne avevamo mai avuto bisogno, eravamo sempre insieme, sempre appiccicati, eppure ora sembravamo ai poli opposti del globo. Le scrissi mille messaggi e provai a chiamarla un sacco di volte, ma solo dopo un’ora mi rispose e disse solo “spazio Ian…”
“Ok, ho capito, posso sapere almeno dove dorme mia moglie stanotte?” le chiesi sconvolto e parecchio agitato e lei sussurrò piano “a casa dei miei. Sono arrivata adesso. Buonanotte…”
“Ari ti prego…” aggiunsi sconvolto, e parecchio triste anche e lei rimase soltanto in silenzio. Era il suo modo di dire “che cosa vuoi?” ma io feci finta di non aver capito e dissi piano “ti amo, e voglio partire con te. Per favore…”.
“Ma non lo capisci proprio che è impossibile se devi partire così presto come dici?” rispose seccata ed io…ragazzi, non avevo capito niente. Aggiunsi un altro “per favore” ma lei ruggì solo un saluto e chiuse la conversazione, lasciandomi da solo in quel letto che avevamo diviso mille volte.
Fu una notte d’inferno, ma alle sette decisi di andare in pasticceria. Volevo fare colazione con lei, dividere un muffin e un caffè e fare pace, ma quando arrivai nessuno sapeva nulla di lei. Provai a richiamare e non mi rispose, non l’avevano vista e a me prese un infarto.
Molly e Raul mi squadrarono con fare preoccupato, perché evidentemente non stavo dando una buona impressione, ma decisi di non dire nulla e uscii dicendo a Raul che avevamo avuto solo una banale discussione da genitori.
Provai a richiamare altre volte, spaventato a morte, ma lei mi scrisse solo che era molto indaffarata e non aveva tempo di parlarmi.
“Torni da me dopo il lavoro Ari?” le scrissi sconvolto, perché non ce l’avrei mai fatta a dormire di nuovo senza di lei, ma lei non mi rispose. Nel frattempo, invece, mi arrivarono i biglietti e il contratto da firmare, così dovetti iniziare ad avvisare almeno i miei genitori.
Sapevo che non ne sarebbero stati entusiasti, perché letteralmente amavano le mie figlie. Mia madre comprava loro strani vestiti in continuazione, cappelli e fermagli imbarazzanti che sembravano usciti dagli anni 80, con fiocchi e tulle e Ariel cercava sempre di assecondarla, ma diventava sempre più difficile. Spesso ridevamo di quegli outfit improponibili, eppure mia moglie aveva un fortissimo senso di gratitudine, e insisteva molto affinchè ringraziassimo sempre tutti per quegli orrendi regali.
Anche mio padre era parecchio preso da quelle due, e quella mattina decise di prenderle immediatamente per mano e portarle a vedere il giardino, mentre mia madre con fare serio mi chiedeva cosa avessi di strano.
“Partiamo. Dobbiamo trasferirci, per lavoro. Purtroppo mi hanno licenziato e ho trovato solo questo…” provai a spiagare e i miei genitori si fissarono con aria spaventata, ma mi chiesero solo se avessi bisogno di denaro. Spiegai tutto, del lavoro, della lite con Ariel e loro furono incredibilmente comprensivi. Mia madre si offrì anche di telefonarle, ma onestamente non andavano troppo d’accordo, quindi le dissi di evitare.
 E poi si guardarono di nuovo, mi presero la mano e sorridendo come non aveva mai fatto mia madre disse “Capirà Ian, capirà. Stai facendo la cosa giusta e lo fai per loro, non c’è nulla di sbagliato nel voler provvedere alla propria famiglia! E’ solo che lei vorrebbe restare qui con i suoi e non puoi darle torto, ma questa è una di quelle situazioni in cui non è colpa di nessuno! Anche noi vorremmo che voi restaste ma…non ci possiamo fare nulla! Succede nei matrimoni di litigare forte, ma non significa proprio niente! Stanotte lasciaci le bambine, portala a cena fuori, sii dolce e vedrai che capirà e ti seguirà senza battere ciglio!”
Non sarebbe stato così, ma provare non mi avrebbe fatto male. Così dopo aver abbracciato mia madre e anche mio padre, filai a casa per fare una doccia e cercare di convincerla a trascorrere la serata con me, eppure non avevo neanche idea di cosa mi stesse aspettando.
Capitolo: un chiarimento
Arrivai a casa immerso nei miei pensieri. Continuavo a provare a scriverle e a chiamarla, e rimasi molto sorpreso quando sentii la sua suoneria entrando in casa.
Feci il suo nome, ma non sentì, e con il cuore in gola la cercai per tutta la casa. La trovai molto indaffarata nella nostra stanza da letto. Lei e i cani avevano deciso di preparare le mie valigie, e ora ogni mio vestito era pieno di pelo e forse anche di altro, dato che Amelie e Buck stavano coccolandosi sui miei pigiami.
“Allora partiamo?” provai a sussurrarle dolcemente, sforzandomi di essere più dolce che potevo, perché quella resa da parte sua dimostrava un enorme sforzo e volevo farle capire che avevo apprezzato.
“Parti Ian…” mi rispose, fissandomi all’improvviso e a me venne un infarto.
“Non voglio partire da solo Ariel, non posso stare senza di voi…” provai a sussurrarle con le lacrime agli occhi, sconvolto all’idea che stesse realmente lasciandomi.
“Eh ma non ci sono altre soluzioni…” rispose, accarezzandomi i capelli e io mi sentii parecchio confuso e bisbigliai appena “amore una soluzione si trova. Ti prego, non può costarmi il matrimonio un maledetto lavoro…”
“Scemo…” sussurrò tenera, e in quel momento mi baciò con moltissima dolcezza. E niente ragazzi, non ci stavo capendo un cavolo. Così le chiesi spiegazioni e lei sussurrò “Ian le bambine non hanno il passaporto. Non abbiamo un visto per partire e io devo anche trovare un sostituto per Greenpeace. Partirai tu, ti faranno il contratto e il visto, poi ci raggiungerai per fare i documenti per le nostre figlie e verremo anche noi…”
In quel momento non volli sentire altro, e la spinsi sul letto, scocciando molto i nostri cani innamorati.
“Ti amo Ariel, ti adoro…” le sussurrai, coprendole il corpo di baci e lei non disse nulla. Solo molto dopo mi sussurrò piano “…allora farai il single per un po’. Pare che possano volerci anche sei mesi…” ed io rimasi senza parole.
“Sei mesi è troppo!” risposi agitatissimo, ma lei si strinse nelle spalle e fingendosi indifferente mi disse piano “non fare finta di essere dispiaciuto amore, sei mesi senza le tue tre donne è una gran bella vacanza!”
“No, assolutamente…” risposi serissimo, e poi stringendola sussurrai “Ariel io non sto con te perché non ho di meglio da fare, ma perché ho bisogno di te. Non c’è cosa che io riesca a fare senza pensare che vorrei sentire la tua opinione, senza volerne ridere con te o condividere. Sei la mia donna e la mia compagna e io…non posso stare sei mesi così, dai”
Lei rise, ma non voleva parlare e disse piano “…sì, ma sei mesi senza liti Ian…” ed io risi. Ok, quello era piacevole, ma ero triste sul serio, così mi afferrò il viso con le mani e disse solo “Lo so. E’ strano essere genitori, perché da un lato ti manca avere del tempo per te, ma dall’altro ti manca un pezzo senza di loro…”
“Non hai capito, eh biondina? Mi manca un pezzo senza di voi, Ariel…” le confessai sospirando e lei stringendomi forte disse piano “stessa cosa qui. Mi mancherà tutto di te, ma sono pochi mesi e ce la faremo…”
“E non mi lascerai dopo tutto questo tempo a distanza?” le chiesi, annodando i suoi riccioli tra le mie dita. Lei mi fissava con un’espressione dolcissima, e due occhioni enormi, ma rise sentendomi dire quelle parole e rispose divertita “che stupido che sei! Credi sul serio che rinuncerei all’amore della mia vita, nonché padre delle mie figlie, per un po’ di lontananza? Al massimo può farci bene. Insomma se non ti lascio perché mi assilli con la pulizia, hai la fissazione per l’ordine e appena appoggio qualcosa da qualche parte misteriosamente la trovo piegata e riposta o buttata, sciacqui i piatti dopo che li ho lavati, passi giorni interi a togliere i peli dei cani da ogni singola superficie lavabile, mi obblighi a vedere i film noiosi e parli in latino con le nostre figlie, perché dovrei lasciarti per sei mesi lontani? Ian, forse non ti è chiaro, ma io ti amo e ho promesso davanti ad un prete di amarti sempre e di seguirti ovunque. Hai capito testone? Ovunque. ”
“Sembra che tu abbia bisogno di una pausa da quest’uomo così noioso…” le risposi un po’ seccato e ferito, ma lei stringendomi al petto sussurrò “no, mai. Lo voglio così, anche se è il peggior rompipalle della storia” e io la baciai, ma la signora si rimise a fare le valigie.
“Dimmi che mi chiamerai sempre Ari…” le dissi, fissandola da lontano, con il magone e lei annuì e basta.
“E che non darai confidenza a quel maiale del fruttivendolo che ti fissa sempre il sedere, né a quel simpaticone del papà di Micheal che ti tampina da due anni, e neanche al fattorino della pizza che te la fa avere a forma di cuore…” aggiunsi, ormai in piena paranoia.
 “Hey signor Watt, sei tu che torni single e senza famiglia, sai? Io resterò comunque una madre, avrò comunque le mie figlie sempre dietro. Quello libero che torna alla sua vecchia vita da playboy californiano sei tu…”
La strinsi fortissimo, allora, perché non volevo assolutamente che la pensasse così, ma lei aggiunse piano “…non stare così. E’ solo una cosa temporanea. Una piccola pausa, una vacanza. Insomma alle volte siamo davvero insopportabili e forse un po’ di lontananza ti aiuterà a capire quello che hai! O forse semplicemente ti innamorerai di una cubana e ci mollerai…”
“Mai Ariel, mai…” le dissi pianissimo e lei scuotendo la testa mi prese in giro per un po’, ma poi mi strinse. Finimmo i bagagli e poi facemmo una cosa che per noi era il massimo del taboo: le coccole. Non avevamo mai il tempo per coccolarla, e così me la godetti per un po’ tra le braccia, senza pensare a nulla in particolare e lei mi strinse fortissimo.  Poi dopo circa venti minuti di relax in cui io ero felice e tranquillo lei disse una cosa che mi terrorizzò, sul serio! “Sai vero che dovrai dirlo alla mia famiglia? Come credi che reagiranno?”
Ah lo sapevo benissimo: mi avrebbero ucciso! Gli portavo via la loro Ariel e le loro piccole, nonno Angus mi avrebbe decapitato gridando frasi ispirate in stile Highlander! Così mentre ci pensavo…lei che ormai mi leggeva la mente e sapeva quasi sempre a cosa stavo pensando, sorrise e disse “Stai immaginando la tua testa su una picca, eh?”
 “Ah più o meno. Vorrei che ci fosse un modo facile…”
“Non c’è un modo facile, ma tu hai il diritto di decidere della tua vita e anche in parte della nostra, e credo che dobbiamo considerarci fortunate ad avere un uomo come te che si preoccupa per noi. A volte penso che, dipendesse solo da me, le nostre figlie sarebbero delle piccole selvagge ignoranti. Sono tanto felice che tu sia il loro padre.”
“Ari…posso registrarlo per la prossima volta che farò una cazzata?” le dissi ridendo, ma lei mi prese in giro e basta.
E così sprecammo parte della nostra serata romantica a parlare con la famiglia di V, che come previsto la prese male. Quando ci videro arrivare si allarmarono, e quando V gli disse “Sediamoci” si  terrorizzarono e Raul chiese “divorziate?”
 Lei sorrise, mi prese la mano e disse “No, ma dobbiamo andare via dall’Inghilterra. Ian deve tornare a lavorare in America e partirà domani sera. Io e le piccole resteremo per un po’, fino a quando non avrò i loro documenti e poi andremo a vivere tutti in California!”
Angus non disse una parola, semplicemente sbattè il pugno sul tavolo, si alzò e andò via e quando V provò a dire qualcosa lui gridò soltanto “Non voglio vedervi adesso, potrei dire cose di cui mi pentirei! Mi state portando via le mie nipoti e non posso dirvi quello che penso di voi ora.”
Ariel sorrise e scosse la testa, io invece non riuscii a capire. Molly sorrise e cercò di giustificarlo dicendo “non dategli retta, è solo sorpreso, insomma lo siamo tutti.” Guardò Isabelle e Raul cercando complicità ma…non la trovò. Raul ci guardò malissimo e disse “e da quando lo sapete?”
Ariel spiegò loro tutto quello che era successo il giorno prima, e Raul allora mi guardò con l’aria di chi è stato tradito e disse “Ah queste sono “cose da genitori”?”
 Annuii, ma non potevo sorridere, mi sentivo incredibilmente in colpa e avrei voluto che tutto questo fosse finito il prima possibile ma…non finiva mai! Anche Isabelle aveva qualcosa da dire e…ebbe l’effetto di una bomba carta!
“E così lui parte e tu lo segui come un cagnolino? Senza badare alla tua famiglia, al tuo lavoro qui e al fatto che sei felice? E’ questo che ti ho insegnato? Davvero? Ed io che credevo di averti insegnato a pensare con la tua testa e ad essere indipendente. Sei un fallimento Ariel. Rimani qui, tieni con te le bambine e lascialo andare per la sua strada…”
 Ora, conoscendo Ariel pensai che sarebbe esplosa, ma non lo fece. Mi guardò, si alzò e disse “In nessun universo mamma. Noi abbiamo bisogno l’uno dell’altra, e questo si chiama amore, non debolezza. E anche senso di responsabilità verso quelle due piccole che sono innamorate pazze di lui e che lui adora. E sì, sono felice qui, mi mancherà la mia famiglia e mi piace il mio lavoro, ma ho scelto di dare altre priorità alla mia vita, e queste tre persone per me contano più di tutto. Quindi, sinceramente, non me ne frega un cazzo se una persona egoista come te non riesce a capirmi.”
 Era letteralmente calato il gelo in sala e nessuno osava parlare. Io, lo ammetto, ero imbarazzato e non sapevo bene cosa pensare o dire o fare. E poi lei continuò “In fin dei conti non ho mica bisogno del vostro permesso? Giusto per essere chiari: non vi sto chiedendo di approvare le nostre scelte, ma semplicemente di prenderne atto. Non partiamo per cambiare aria, ma perchè Ian non ha lavoro. Adesso noi andiamo via, passeremo domani con le bambine, vi prego di comportarvi in modo civile davanti a loro. Buonanotte.”
Così uscii da casa loro senza dire una parola, ma devo dire che il discorso di Ariel mi era piaciuto da morire. Quando non era aggressiva con me, ma con qualcun altro la adoravo! Mi aveva difeso da ogni tipo di attacco e poi…beh quello che aveva detto su di lei e sulle bambine mi aveva colpito così, mentre lei guidava assorta nel suo mondo, canticchiando la solita musica mi avvicinai al suo collo e le sussurrai “ti amo!” E lei…si terrorizzò e per un attimo rischiammo di finire fuori strada, ma andò bene.

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Capitolo 3
*** Capitolo 6_ un viaggio ***


Capitolo: un viaggio
Trascorremmo le nostre ultime ore da soli, perché non volevamo nessun’altro. Io provai a spiegare alle bambine che non ci saremmo visti per un po’, ma loro non capirono molto e dopo dieci minuti avevano già dimenticato tutto. Per l’ultima notte decisi che avrei passato il tempo a giocare con loro e a inventare le nostre storie, e così feci. Ci addormentammo a notte fonda, e quando spensi la luce Ariel sussurrò piano “Dio quanto mi mancherai…” facendomi versare una lacrimuccia.
Anche il saluto in aeroporto fu parecchio penoso, ma fortunatamente le due scalmanate neanche se ne accorsero. Lei e io invece avevamo gli occhi lucidi e anche la voce rotta.
“Sei mesi…” le sussurrai prima di imbarcarmi, e lei annuì soltanto.
“Mi raccomando stai attenta amore…” le sussurrai, totalmente commosso e lei seria si asciugò una lacrima e disse “hey, sta’attento tu” facendomi ridere. Salii in aereo sconvolto, e poi proprio quando stavo per spegnere il cellulare vidi che mi aveva inviato un video. Lo scaricai, così da poterlo vedere offline e credetemi fu un enorme errore.
Ariel aveva deciso di giocare sporco, così aveva messo insieme un po’ di nostri ricordi belli da morire. La prima foto mi fece sorridere, anche se nessuno avrebbe potuto capire che avesse un valore speciale, ma era quella che lei aveva postato sui social per ufficializzare il nostro fidanzamento. Era della mia proposta di matrimonio che poi aveva coinciso con un momento storico della nostra vita a due. Siete pronti? Adesso ve lo posso anche raccontare.
Vi ricorderete, forse, che era stata lei a chiedermi di sposarla, con l’anellone di caramelle. In seguito, una volta che mio padre si era svegliato, lo avevamo ufficializzato alla sua famiglia, che non ne era stata particolarmente entusiasta. O meglio Raul sì, Molly era andata a cercare non so esattamente cosa, ma era rientrata tutta allegra con delle foglie d’edera che aveva usato per avvolgere insieme il mio braccio sinistro e il suo, mentre pronunciava parole che non capii. Ariel aveva sorriso entusiasta. A me, onestamente, scatenò l’orticaria quell’edera sulla pelle, ma feci finta di nulla perché mi sembrava scortese grattarmi. E poi, ovviamente, non fu il prurito la cosa peggiore di quel giorno. Isabelle e Angus…avevano urlato, mi avevano offeso e avevano litigato con lei, ma tanto ormai era sempre così con loro e avevo anche smesso di offendermi.
Insomma eravamo una coppietta felice che stava per sposarsi, ma anche per separarsi, se ricordate la storia, quindi non avevamo potuto annunciarlo ai nostri amici di persona. Lo dissi a Josh e Jeff via skype e neanche loro impazzirono dalla gioia, se devo essere sincero, ma almeno furono di supporto. Volevo trovare un modo carino per darle l’anello, ma non avevo davvero tempo per organizzare una cosa speciale, così la sera prima della sua partenza la raggiunsi e lo infilai nel suo zaino. Lei era distratta e indaffarata, così le dissi piano di controllare se avesse il caricabatterie del computer e sapete cosa fece? Mi rispose male. Ruggì che “…malgrado fosse una donna, era in grado di fare uno zaino, e non le serviva supporto per cose così banali.”
Simpatica, eh? Purtroppo questa cosa degli stereotipi di genere era andata soltanto peggiorando con il tempo. Le spiegai che non era una questione di genere, ma solo di sicurezza, perché ci tenevo a vederla e a sentirla sempre e quindi volevo essere certo che avesse tutto ciò che serviva. Si seccò, ovviamente, e prese lo zaino un po’ scocciata, ma poi mi sorrise.
“Insomma mia amata Miss V, ci abbiamo girato intorno un po’ troppo, ma doveva pur arrivare questo momento…” le dissi, facendo per inginocchiarmi, ma lei asciugandosi una lacrima rispose agitata “no, no ti prego. E’ un clichè molto degradante per gli uomini, non inginocchiarti ti prego…” ed io rimasi molto stupito, perché per una volta non ero stato sessista, ma non dissi nulla e le sussurrai piano “Ho imparato dai miei errori: non è un diamante vero, è fatto in laboratorio. Non vale molto, ma non è stato ottenuto violando i diritti di qualcuno, non è una risorsa limitata e…non è speciale, almeno per gli altri. Per me, rappresenta il simbolo di un sogno Ariel, di una cosa che desidero con tutta l’anima da tantissimo tempo, perchè il mio dimante unico e prezioso sei tu, lo sai…”
Lei mi strinse fortissimo e iniziò a baciarmi senza dire una parola e a togliersi i vestiti, ma io le dissi piano “non ho ancora detto quello che avevo da dire, trattenga la lussuria, signorina V…” e lei ridendo rispose “sì, Ian…” ma io seccato scossi la testa.
“Insomma puoi aspettare il tuo turno e dire quello che devi dire nel momento giusto? Grazie” le dissi seccato e lei fingendo un colpo di tosse borbottò “sessista…” ma io risi e dissi solo “Vorrei riscrivere il finale di Miss V e poter dire che i protagonisti finirono per sempre felici e contenti, anche se forse in termini narrativi è meglio un finale aperto. Però Ian e V si amano ed è un enorme peccato tenerli lontani. Ad ogni modo... vorrebbe sposarmi signorina V?”
“Adesso ho il permesso di parlare?”chiese ironica, e poi stringendomi sussurrò “sì Ian, voglio essere tua moglie…” facendomi sorridere.
Abbandonammo i bagagli in quel momento, e facemmo l’amore con moltissima tenerezza e solo molto dopo Ariel aveva rimesso la scatola con l’anello nello zaino e aveva scattato quella foto. 
In seguito quando aveva scoperto di essere incinta, non era stato semplice capire esattamente quando fosse successo, perché sapete eravamo appena tornati insieme e ci amavamo parecchio, eppure dato che quella data era nell’intervallo possibile del concepimento, avevamo deciso di considerare per convenzione quella notte speciale come la notte in cui avevamo messo al mondo le nostre ragazzine.
Sdolcinato? Beh aspettate di vedere la foto successiva. Quanto aveva giocato sporco la mia signora. Aveva scelto una del nostro matrimonio, in cui ballavamo insieme e a me venne un sorriso bellissimo. Lo volete sapere com’era stato il nostro giorno speciale? Strano e anche divertente. Avevo fretta di sposarla, perché non volevo avesse la pancia, così dopo il suo ritorno anticipai tutto e fortunatamente riuscii anche a trovare il prete, che per mia madre era fondamentale. Ariel come sapete non era la classica donna che sognava il matrimonio perfetto, tant’è che comprò il suo abito da sposa in un Charity Shop per settanta sterline, e mia madre si lamentò moltissimo del fatto che non sembrasse una sposa, perchè non aveva voluto neanche un truccatore e un parrucchiere professionista. Però non era vero, ed era bellissima, anche se semplicissima con i suoi fiori nei capelli e un filo di trucco.
 Ero stato io a organizzare tutto: avevo affittato una piccola villa nel distretto dei laghi, chiesto di predisporre un gazebo e mille luci in riva al lago e organizzato anche una super sorpresa, che l’aveva commossa. Quando giunse il pomeriggio del nostro matrimonio, ovviamente, ero sconvolto, ma lei invece era felice e bellissima, anche con un vestito da settanta sterline. Era molto semplice e aveva soltanto dei fiori nei capelli, e cosa strana, molto meno emozionata di me. Il rito fu lungo, perché oltre al caro padre O’Malley idolo di mia madre, anche Molly volle farci una benedizione, ma noi non riuscivamo a smettere di sorridere e non ce ne fregava assolutamente nulla.
Durante la cena, però, lei scomparve per un attimo e riapparve al microfono del piccolo gazebo che avevamo organizzato per il gruppo che suonava. Con un sorriso speciale annunciò che lei e il suo gruppo volevano dedicarmi una cosa, e così abbandonai tutto e mi sedetti accanto a lei sull’erba. Mi cantò un po’ di canzoni tenere di quelle che piacciono a me, grazie al cielo, con enormi occhi bellissimi, e poi posò la chitarra e sussurrò al microfono “il brano che segue, è un ricordo. Scusate se è noioso…”
Mi aspettavo la nostra canzone, onestamente, quella del Tower Bridge, ma lei mi prese per mano e scalza iniziò a ballare con me nell’erba uno dei brani del mio pianista preferito, ricordate? Quello del concerto di Hyde Park. Mi vennero letteralmente i brividi, esattamente come in quel momento, ma lei sussurrò piano che ci aveva messo una vita per convincere Nigel a imparare quel repertorio nuovo, e che dovevo cercare di non giudicarlo troppo severamente. E così mentre ci godevamo quel momento, successe una cosa assurda, che mi fece pensare per un attimo che lei e sua nonna fossero davvero delle streghe. Vedete, avevo scelto quella villa, perché sapevo che nel giardino in piena notte arrivavano le lucciole. Capitava che apparissero durante i matrimoni, ma il proprietario mi aveva assicurato che ci sarebbero state sicuramente dopo, quando gli ospiti e il personale avessero liberato tutto e spento le luci, così mi immaginavo che avrei potuto portarla lì per la nostra prima notte. E invece per il nostro primo ballo insieme apparvero. Non molte, giusto qualcuna, ma mi sembrò una vera magia, ve lo confesso. Poi scoprii che era stato il wedding planner a gestire quella cosa, ma fu un momento speciale comunque.
Le foto successive erano bellissime, ovviamente. Il nostro viaggio di nozze in Spagna, la nascita delle piccole, e me con loro addosso e anche Ody e Olly arrampicate addosso a Sprikles o che dividono il gelato con Buck. C’era tanto amore in quelle foto, e io pensai solo che ero molto fortunato ad averle, ma non avrei mai potuto immaginare che mesi dopo ogni cosa sarebbe stata diversa.
Nota:
Eccomi, come promesso. Lavorerò soltanto a questa storia nelle prossime settimane quindi spero di poter ripagare la vostra pazienza, offrendovi degli aggiornamenti più frequenti, contente? Allora vi è piaciuto il loro matrimonio? Fatemi sapere, vi aspetto!

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Capitolo 4
*** Capitolo 7 e 8 ***


Capitolo: tornare in California
Mi commossi un po’ durante il viaggio, ma poi riuscii ad addormentarmi e mi svegliai all’arrivo. Ovviamente volevo solo chiamarla, dirle che ero morto per quella sorpresa, che adoravo quello che avevamo, ma ragazzi era piena notte in Inghilterra, così mi trattenni. Feci i controlli e telefonai ai miei due autisti personali, che erano venuti a prendermi in aeroporto. Jeff e Josh furono felicissimi di rivedermi, e onestamente anche io di rivedere loro. Jeff era rimasto sempre lo stesso, e non riusciva a tenersi una donna neanche pagandola, ma diceva di non volerla. Josh, invece, mi fece una strana impressione, mi sembrò triste, ma quando gli chiesi informazioni cambiò argomento e iniziò a prendermi in giro.
“Allora sei mesi da solo, eh? Sei sempre il solito, che fortuna sfacciata!” mi disse ridendo e io sorrisi soltanto, ma non mi quadrava quel discorso. Le ultime volte che ne avevamo parlato, lui era molto innamorato di Stella e adorava suo figlio. Non era il classico spaccone che fa le battute sulla libertà (come Jeff, per intenderci) e mi accorsi che qualcosa nettamente non andava, ma non ebbi molto tempo per pensarci, perché suonò il mio cellulare.
Mi illuminai, ve lo giuro, perché dopo tutte quelle foto e quei ricordi, avevo solo voglia di sentirla, così le risposi con tanta dolcezza e lei rimase un attimo perplessa e disse a voce bassissima “Sei arrivato Ian? Ti hanno fatto passare i controlli? Hai i bagagli?”
“Sì amore, sono in auto- risposi allegro- e volevo sentirti, perché il regalo che mi hai fatto è splendido. Però non volevo svegliarvi…”
“Pensi davvero che abbia dormito?” mi rispose ridacchiando e poi aggiunse “…dai scrivimi quando sei a casa, così finalmente potrò riposare” ma io volevo parlarle, così le dissi che l’avrei richiamata dopo.
“Uh ma siete davvero ancora in questa fase? Complimenti…” mi disse Josh un tantino troppo sarcastico, e Jeff commentò che avrebbe dovuto modificare la prenotazione per lo strip club, facendomi sentire un tantino inadeguato.
“Scusa ma da quando te ne vai in giro per club tu? E Stella? E Martin?” chiesi un po’ troppo rigido e Josh scuotendo la testa ribattè “Stella sta con il suo capo adesso. La bella animalista bionda piena di ideali ha lasciato il posto alla stronza, arrivista, insoddisfatta del povero marito, che ha scelto di fare carriera scopandosi un sessantenne. Quindi adesso vedo mio figlio di tre anni solo due weekend al mese e una sera alla settimana, e non è stasera.”
Mi vennero i brividi sentendo quella frase, ve lo giuro. Pensai soltanto che dovesse essere incredibilmente crudele e dolorosa quella situazione e ancora una volta mi venne voglia di stringere la mia bella animalista bionda e piena di ideali e le mie figlie.
“Dev’essere davvero tremendo…” gli dissi, con l’espressione costernata e lui per un attimo smise di ridacchiare come un coglione, e sconsolato si strinse nelle spalle. Per un secondo solo Josh abbassò la maschera e si mostrò addolorato, poi Jeff fece un commento stupido e tutto finì. Josh riprese a fare il “macho arrogante” per usare una terminologia di V, e ripetè le solite stupide frasi che dicono gli uomini con il cuore spezzato.
“Mille volte meglio solo, comunqe. Era una rompipalle tremenda, costantemente insoddisfatta. Mai più una moglie, davvero…” rispose, ma con uno strano entusiasmo, che mi fece sembrare le sue parole un’enorme bugia.
“Io penso che crollerei. Insomma, ok, l’amore finisce, ma non potrei vedere le mie figlie così poco…” confessai onesto e in quel momento lo sguardo di Josh tornò sincero e annuì soltanto.
“E’ parecchio dura, soprattutto perché è molto piccolo e non sempre capisce perché il padre non è a casa. A volte, però, corrompo la tata e vado a prenderlo io al nido, così riusciamo a passare almeno un’oretta insieme…”
Ragazzi mi fece una pena infinita quella frase, e lo sguardo che ci scambiammo fu incredibilmente eloquente. Probabilmente ero la prima persona con cui si era concesso di mostrare debolezza e io gli sorrisi soltanto, mettendogli una mano sulla spalla.
“Sì ma basta con tutta questa disperazione paterna, eh!Anche perché l’amico qui fa tutto il disperato, ma ha lasciato la moglie e le figlie in un altro continente. Papà dell’anno…” commentò Jeff, che si riconfermò un coglione integrale.
“Beh fa il marito a distanza, non credo ci sia niente di meglio. La sente un paio d’ore al giorno, e poi è libero. Credo sia il sogno di qualsiasi uomo…” aggiunse Josh.
Sì, era la fiera del qualunquismo quel discorso, così risposi solo “come no. E quando ti metti a letto e nessuno ti chiede di accarezzarla o stringerla? Quando rientri a casa e nessuno ti chiede come stai? Quanto può essere brutto?”
Josh si portò una mano al viso scuotendo la testa, ma la soluzione di Jeff la immaginate, vero? Una bella spogliarellista per alleviare la solitudine.
“Ti scalda il letto quando ti senti solo, la paghi e non devi più vederla dopo…” concluse contento, ma io scossi solo la testa.
“Non hai mai pensato che l’origine di questo tuo disprezzo per le donne possa derivare da problemi con tua madre? O magari nascondere una latente omosessualità?” gli sparai a bruciapelo con fare serissimo, e lui mi fissò sconvolto e minacciò di picchiarmi, però io e Ariel ci eravamo spesso chiesti perché si comportasse così da idiota ed eravamo giunti molte volte a considerare quell’ipotesi.
“Non era mica un giudizio o una critica, eh. Volevo solo darti uno spunto di riflessione, perché abbiamo tantissimi amici di ogni orientamento sessuale, e sono stato al Pride un sacco di volte, ma tu resti l’unico odiatore seriale di donne che ho mai incontrato…” aggiunsi serio, ma lui continuò a minacciare e urlare, mentre io e Josh ci chiedevamo se fosse mai stato innamorato di me o di lui.
 Glielo dissi e per un po’ rimanemmo a prenderlo in giro, ma poi arrivammo al vialetto di casa mia e fu davvero un’emozione tornarci.
Ve la ricordate, vero, la mia villa californiana? Avevamo deciso di tenerla, ma non ci avevamo mai fatto nulla, quindi era rimasta disabitata per anni. L’avevo lasciata in manutenzione ai due autisti scapoloni incalliti e non avevo idea di cosa aspettarmi. Però era ancora in piedi e sembrava pulita dall’esterno, quindi forse c’era una speranza di non trovarci un branco di spogliarelliste dentro.  E poi con un sorriso entrai, pensando solo a quanto quelle due matte si sarebbero divertite in piscina e in giardino con i loro inseparabili amici a quattro zampe, ma fu un colpo al cuore rivedere quelle stanze, e mi venne da sorridere pensando a lei che suona la chitarra con Nigel sul divano, a noi che facciamo l’amore per la prima volta nella vasca, alle liti tra noi e con la band e anche al momento in cui lei è uscita dalla mia porta per l’ultima volta. Dio, ero davvero convinto che sarebbe stato un per sempre, e invece grazie al cielo il destino ci aveva messo lo zampino.
“Allora, sei soddisfatto? Hai visto che è perfetta?” Mi chiesero ed io li ringraziai, ma volevo togliermeli dai piedi e capii che non sarebbe stato semplicissimo, così dissi che dovevo chiamare mia moglie, e che li avrei raggiunti io al bar per cena, così mi beccai qualche altro insulto, ma finalmente rimasi da solo.
 
Capitolo: un divorzio
Appoggiai la valigia in camera e sospirai, sorridendo. Quella stanza era piena di ricordi e così aprii la vasca e presi il cellulare.
“A casa?” mi sussurrò pianissimo, con la voce che aveva quando la svegliavo mentre dormiva, e io annuii soltanto e le dissi quanto fosse strano per me essere di nuovo in quel luogo.
“Ho ancora più voglia di stare con te, ci crederesti?” le dissi languido, chiudendo gli occhi, e lei rispose ridendo che avrei dovuto conservare tutto per la nostra prima notte insieme in quella casa.
“Sarà strano rifare l’amore in quella vasca, ma magari bello come la prima volta…” aggiunse ed io me la immaginai a letto sorridente e sorrisi anche io.
“Sai, penso di aver sottovalutato quanto mi saresti mancata…” le dissi serio e lei sussurrò piano che era passato troppo poco, ed era normale che adesso facesse più male.
“Siamo ancora nella fase dell’addio Ian, devi ancora strappare il cerotto. Presto la ferita guarirà e ti creerai una nuova routine senza di noi…” aggiunse pianissimo e io le risposi che sarebbe stata dura.
“Lo spero, perché sarebbe davvero brutto se scoprissi di stare meglio senza di noi…” concluse.
Ne parlammo per un po’, e io le sussurrai molto piano parole dolci perché volevo farla addormentare. Era rilassata, con gli occhi chiusi, accoccolata con le bambine, e il mio cuore era sereno pensando a quell’immagine. Poi, però, per un istante mi venne in mente la situazione di Josh con Martin e dissi le parole sbagliate.
“Ari ma se ci lasciassimo, tu mi faresti vedere le bambine sempre, o solo in alcuni giorni?” le chiesi, dal nulla e lei chiese solo “che cosa?” ma con voce alta, che fece vociare un attimo le mie bambine addormentate.
“No, stavo solo pensando a quello che mi ha detto Josh, che ha divorziato da Stella e non vede mai Martin e mi è sembrata una cosa così tremenda e crudele…” conclusi, come se stessi dicendo la cosa più logica del mondo,  e lei si calmò per un attimo.
“E quindi temi che se dovessi scoprire di stare meglio senza di me, io ti toglierei le tue figlie?” chiese, stavolta molto sveglia. L’avevo fatta agitare, così provai a fare un po’ il romantico, a giurarle che non avrei mai potuto vivere senza di lei, e lei rispose solo “come no…” ma più divertita che altro.
  “…io vorrei evitare che ci lasciassimo, perché sai com’è ti amo e ho costruito una vita con te, ma ovviamente se dovesse succedere ci vorrebbe davvero moltissima forza. Dovremmo riuscire a separare la figura della moglie e del marito con il cuore spezzato da quella dei genitori e non è semplice. Bisogna essere capaci di diventare amici e…dopo un amore come il nostro, non penso sia facile.”
“Io non ce la farei…” le dissi sincero e lei stringendosi nelle spalle rispose solo  “Non potrei mai volerti fare del male, comunque, e credo che a prescindere da tutto, ci siamo sempre rispettati troppo per ferirci usando le nostre figlie…”
Io sospirai soltanto, perché la sua risposta, come sempre, era molto saggia ed equilibrata.
“Insomma non sono mia madre, che pretende che io litighi con mio padre solo perché è il suo sport preferito…” aggiunse seria e a me scappò un “grazie per essere la donna che sei…”.
“Sì, ok, se poi mi spieghi meglio come mai siamo passati da ‘non posso stare sei mesi senza di te’ ai discorsi sul divorzio nel giro di un viaggio aereo, magari mi sento un tantino meno insicura. Hai conosciuto qualcuna? Ti sei trovato qualche vecchia fiamma a letto?” aggiunse, cercando di sembrare serena, ma io le ribadii che era per il discorso di Josh e lei sussurrò piano “speriamo…” ma poi le bambine si svegliarono e lei mi diede la buonanotte per occuparsi di loro.  
Misi un po’ di musica allora, e con gli occhi chiusi rimasi per un istante a pensare a quello che avevo e poi crollai. Mi svegliarono i due scapoloni perché a quanto pare avevo dormito fino a sera, ma io li feci attendere e solo dopo molto tempo uscii con loro. Malgrado le nostre enormi divergenze fu divertente, e io gli feci anche da spalla per fargli conoscere delle donne, ma non feci nulla di strano e scrissi per molto tempo alla mia V, che stava rientrando a casa da lavoro. Tornato a casa ero veramente distrutto, e avrei dovuto prepararmi per il primo giorno di lavoro, ma trascorsi la serata in videochiamata con loro, a raccontare storie alle piccole e con loro mi addormentai.
Mi svegliò solo la sesta sveglia il giorno successivo e trovai un suo messaggio con scritto solo “il letto è freddo e troppo grande senza di te. Mi manchi…”e io mi sciolsi.
Nota:
Ciao a tutti! Allora contenti di questi aggiornamenti più frequenti? Che ne pensate di Josh? Che cosa pensate succederà ora? Fatevi sentire!

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Capitolo 5
*** Capitolo 9: tradimenti ***


Capitolo: tradimenti
Ragazzi non fu semplicissimo gestire la distanza, ve lo confesso. Cercavamo di sentirci sempre, ma c’erano troppe ore di fuso orario e generalmente facevamo i turni per vederci, ma uno dei due doveva sempre rinunciare a dormire. La cosa peggiore, non mi vergogno ad ammetterlo, era che vedevo davvero poco le mie figlie e loro ovviamente avevano cominciato ad avere comportamenti parecchio strani e ancora più aggressivi. Dedicavo loro ogni mio minuto libero e anche un po’ di tempo quando ero a lavoro, ma purtroppo la voce di papà non bastava e loro erano sempre più nervose. Tutte, moglie inclusa.
Però credetemi, non potevo fare più di quello che facevo! Mi addormentavo con loro in videochiamata e inventavo storie per loro quando non potevamo sentirci o vederci, che registravo e inviavo, affinché potessero addormentarsi con la mia voce, però ovviamente non era la stessa cosa.
 Lei mi mancava da morire, ed era assurdo come il mio corpo sentisse il bisogno del suo. Non sto parlando di sesso, malpensanti! O meglio, ovviamente parlo anche di quello, ma di tutte quelle mille cose che possono mancarci della persona che amiamo: la sua risata, il suo respiro mentre dorme, il tocco rassicurante delle sue mani, il suo calore a letto. La cercavo sempre nel sonno, ma quando glielo avevo confessato aveva solo riso, dicendo che con i cuccioli che perdono la madre generalmente si usa una borsa d’acqua calda per non far sentire la sua mancanza. Insomma ero un marito triste, e un padre abbastanza giù di corda. Almeno avevo Josh che mi appoggiava e coccolavo suo figlio di tanto in tanto.
Pensate quanto ero disperato: quando andavo a fare la spesa avevo iniziato a comprare delle cose per loro. Le volevo a casa, mi mancava troppo quella sensazione di calore che mi davano, ma avevo scoperto che fare questo tipo di acquisti mi dava gioia. Era successo per caso, un giorno mi ero trovato nella corsia dei prodotti per l’igiene femminile e avevo pensato “cavoli, dovrò prendere un detergente, altrimenti come farà quando arriva a lavarsi il viso?” e da lì ragazzi è stata tutta discesa.
Le mandavo anche le foto di quello che compravo, dicendole di aiutarmi nella scelta, e lei diceva sempre che ero tenero, i primi tempi. Poi aveva smesso di rispondere e io avevo smesso di confessarle i miei acquisti. Inviavo loro regali e sorprese, ma non stavamo benissimo. Io soffrivo un sacco di nostalgia, e lei oltre a sentire la mia mancanza, doveva gestire quelle due e sei cani da sola. Penso che sia diventata ufficialmente una supereroina in quel periodo, soprattutto quando passava ore al telefono con mia madre.
La ammiravo, ma lo sapete che la sua forza mi ha sempre affascinato. Era stanca, però, e iniziava ad avercela con me. All’inizio era molto serena, equilibrata e stabile e mi diceva sempre di non soffrire così tanto, perché quella separazione era soltanto temporanea. Non potevamo farci nulla, c’era solo da aspettare, ma poi divenne tutta colpa di Ian. Che gioia, eh?
Avevo parecchie colpe, lo ammetto. Avevo giurato e spergiurato di raggiungerle anche solo per un weekend mille volte, ma poi mi ero reso conto che probabilmente era meglio accumulare giorni di permesso per il loro arrivo, e quindi malgrado le mille promesse, non ero mai tornato a casa.
Ariel non voleva dirlo apertamente, ma era delusa da me, e io lo sapevo. I nostri problemi veri, però, nacquero dopo tre mesi di separazione, nel periodo del suo compleanno, quando Raul e Isabelle si lasciarono definitivamente. La separazione tra loro purtroppo si riflesse sul mio rapporto perché quell’idiota di mio suocero aveva tradito la moglie pazza. Capite? Non gli avrei mai dato torto se l’avesse lasciata, non lo avrebbe fatto nessuno di buonsenso, ma lui l’aveva tradita e c’era di peggio.
Questa storia incredibile, non finisce mai di stupire. Il giorno prima del compleanno di mia moglie, Isabelle scoprì che suo marito, l’affabile, dolcissimo e innamorato Raul, non solo l’aveva tradita, ma aveva messo incinta la sua amante. La donna aveva quasi la mia età, e non aveva mai avuto un figlio ma lo desiderava con tutta l’anima, e per Raul sarebbe stata l’occasione giusta per ricostruirsi una vita. Almeno, lui così aveva spiegato a sua figlia.
Ariel rimase letteralmente senza fiato quando suo padre lo annunciò a tutti, ma dovette anche mediare tra loro perché Isabelle e Angus volevano ucciderlo. Fu un periodo immensamente duro per lei, che dovette affrontare da sola, con due figlie e un marito dall’altra parte del mondo.
Non aveva chiuso con suo padre, ma ogni volta che lo vedeva felice con la sua nuova compagna, andava in crisi e…ovviamente diventava insicura sul nostro rapporto. Già perché padre stronzo a quanto pare equivale a marito stronzo nella psiche di mia moglie, per cui era sulla difensiva in modo tremendo. Così iniziarono i nostri problemi, signore e signori, aggravati anche dal fatto che non ero riuscito a raggiungerle in Inghilterra.
 “Hai scoperto di stare meglio da solo, Ian? Dillo pure chiaramente” mi ruggì, all’ennesima discussione, letteralmente furente. Io provai davvero in ogni modo a calmarla, ma lei non aveva voglia di ascoltarmi e mi lasciò a parlare con le mie figlie. Era costantemente arrabbiata con me, e mi faceva delle scenate assurde, ma io cercavo di stare calmo, e di rasserenarla. Onestamente? Ok, una o due volte sembrava di litigare con sua madre, ma io razionalizzavo e cercavo di calmarle dandole sempre tutto il mio cuore. E qualche volta funzionava.
E poi, dato che la fortuna è sempre molto gentile con me, un giorno successe un disastro. Una sera lasciai il portafogli in ufficio, non me ne accorsi e successe un casino. Tornai a casa, feci la doccia e improvvisamente mentre mi asciugavo sentii il campanello di casa. Convinto che fosse Jeff scesi, lui e la signora Peterson si odiavano, quindi non potevo lasciarli soli a lungo o uno dei due avrebbe cominciato a sanguinare. Come sempre avevo addosso solo un asciugamano e mi trovai davanti la mia segretaria imbarazzatissima. Morii letteralmente di vergogna, divenni fucsia e provai a dirle di aspettare, perché volevo vestirmi e rendermi presentabile, ma non potevo andare a cambiarmi perché avrei dovuto darle le spalle e mi si sarebbe visto il sedere.  Così scambiammo qualche parola, ma vi giuro che non parlammo per più di tre minuti. La salutai e mi avviai di sopra a vestirmi quando il mio cellulare suonò.
“Adesso questa cosa spiegamela: mi ha chiamato la domestica, dicendo che in casa mia c’è mio marito nudo con una ragazza…Ian cosa stai facendo?” mi chiese agitata, ma anche disperata come non avevo mai sentito.
Rimasi senza parole per un secondo perché purtroppo era vero, ma detto così sembrava qualcosa di diverso da quello che era in realtà, ossia nulla. Odiai la signora Patterson che l’aveva sconvolta in quel modo per una sciocchezza, ma mi affrettai a giustificarmi. Le dissi “non è come pensi, è la mia segretaria…”
Ovviamente non mi ero giustificato in modo appropriato, e lei reagì infuriandosi e dicendo “Il fatto che fosse la tua segretaria non ti giustifica. Sei nudo con lei? Che diavolo stai facendo? Non te ne importa nulla della tua famiglia? Ora Ian io te lo dico con il massimo della calma: se tu vai a letto con un’altra, io divorzio.”
Dannazione! Cercai di calmarla ma lei ovviamente era a pezzi, ma anche io sarei impazzito se mi avessero detto che lei era nuda, sola in casa con qualcuno. Dopo la storia di suo padre, poi immaginate come l’avesse presa bene. Provai a calmarla, a sussurrarle piano che la amavo, ma lei era in panico e mi fece una tenerezza mostruosa. Urlava per non mostrarsi fragile, ma stava soffrendo, così le dissi piano “amore mio, puoi credermi per favore? Mi ha portato il portafogli ed è andata via…”
“E tu giustamente le hai aperto nudo perché volevi fare colpo…” ribatté arrabbiata, ma io risposi solo “No amore, pensavo fosse Jeff e ho aperto in asciugamano. Non sono nudo, se vuoi te lo dimostro…”
Lei sospirò soltanto fortissimo, e cambiando tono bisbigliò “Ian…forse ti serve una pausa da me? E’ per questo che non vieni? Perché posso capirlo…”
Aveva la voce rotta ed io le giurai assolutamente che così non era.
“Beh…allora non capisco perché ti comporti così!”
E poi capii, andai in cucina e intimai alla signora Patterson di parlarle e raccontarle le dinamiche della cosa. L’anziana mi guardò molto male, poi prese il telefono e disse “sì signora effettivamente ora suo marito è solo. E’ durata pochi secondi e non ci sono state particolari interazioni tra loro. Sì, ha consegnato qualcosa.” Poi aggiunse, nascondendosi la bocca con la mano “la aggiorno più tardi”.
Quando ripresi il telefono avevo un milione di domande da farle, e cose da dirle, ma Ariel tagliò corto dicendo solo che doveva tornare a lavoro e aveva avuto una crisi di pianto in bagno, quindi doveva ricomporsi.
“Ari tesoro…”provai a dirle sentendomi in colpa e lei rispose solo “…è stato terribile immaginarti con un’altra…”
“Dammi due settimane e vengo a prenderti…” le sussurrai devastato dalla sua voce triste, ma lei rispose amareggiata “non fare promesse che non puoi mantenere, Ian…”  
“Vedrai…” le risposi deciso, e poi dopo averla salutata chiesi al mio simpatico capo-maiale un anticipo sulle ferie. Lui ebbe molto da ridire in principio e se ne fregò totalmente della storia di Ariel in crisi da sola con le bambine. Poi, però, vide una sua foto sulla mia scrivania e disse solo “è questa? Ma ci sarà la fila fuori casa tua per portarsela a letto…”
Io pensai solo “sessista disgustoso” ma qualcosa scattò nella sua testa e mi disse che avrei avuto le ferie.
“Perché le donne così non vanno lasciate sole…” mi disse, fissandomi con uno sguardo stranamente intenso, prima di uscire  ed io pensai che fosse l’ennesima stronzata sessista. E lo era.
Nota:
Ciao a tutti! Allora la prima domanda che mi viene spontanea è: c'è qualcuno che è rimasto con Ian e V? Se sì, che ne pensate di questa situazione? E di Raul? Spero di sentirvi!

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Capitolo 6
*** Capitolo 10 ***


Capitolo: un’aggressione
E così, pieno di gioia, iniziai a pianificare il mio ritorno in Inghilterra. Mancavano delle settimane, ma io ero felice comunque. Presi il biglietto, contattai gli uffici che mi servivano per fare i documenti delle bambine, e presi degli appuntamenti e mi sembrava di avere tutto sotto controllo. Peccato che mentre mi dedicavo ai miei sogni a occhi aperti, non notai il telefono. Solo dopo un’ora mi accorsi che mi avevano chiamato praticamente tutti, e per un attimo mi spaventai. Non volevo sentire né Angus, né Isabelle e onestamente neppure Raul, così richiamai mia moglie, ma aveva il telefono spento. Pensai che fosse strano, doveva essere a casa, ma magari aveva dimenticato di caricarlo. Poteva succedere, e onestamente se io fossi stato al suo posto, da solo con i cani e le gemelle, probabilmente avrei dimenticato anche di vestirmi.  
Così mi tranquillizzai, ma poi ricevetti una chiamata e morii di paura. Ve la faccio breve: una cortese signorina mi aveva chiamato per avvertirmi che mia moglie era in ospedale. Persi dieci anni di vita in quel momento. Aggiunse che non era una cosa grave, ma doveva subire un piccolo intervento per delle ossa o dei tendini non ricordo (sì, scusate ma ero troppo preso a morire di paura per prestarci attenzione). Chiesi di parlare con lei allora, perché ero spaventato da morire, ma lei mi rispose allegra di chiamarla al cellulare, perché era ancora in stanza e io pensai solo “ingegnosa questa signorina”. Le spiegai che mia moglie aveva il cellulare spento e lei disse che avrebbe provato a trovare una soluzione, ma pensai fosse solo un modo per tagliare corto. Chiamai tutta la sua famiglia, in cerca di qualcuno che sapesse cosa diavolo fosse successo, e ovviamente la fortuna volle che fosse Isabelle la testimone dei fatti. Mi disse semplicemente “sì, eravamo fuori con le tue figlie e i cani, e un idiota ha lasciato libero il suo molossoide, che voleva avventarsi sulle tue figlie. Fortunatamente il povero Sprink si è messo di mezzo, le cose sono degenerate e tua moglie ha cercato di difenderlo, prendendosi qualche morso e strattone. Lui, invece, è stato morso tanto ed è morto tra le braccia di Ariel, mi hanno detto. Chiama Angus se vuoi maggiori dettagli, lui dovrebbe essere in ospedale.”
Provai a chiederle delle mie figlie, perché doveva essere stata una cosa davvero spaventosa e temevo fossero traumatizzate, ma lei mi assicurò che le aveva portate via all’inizio della lite, e dunque non avevano visto la morte straziante del povero cane pazzo di Ariel, a cui erano legatissime.
“Ah e ho io la borsa con il suo cellulare, appena arriva Molly a darmi il cambio la raggiungo in ospedale…” concluse Isabelle, rendendomi letteralmente furioso, perché volevo solo sentirla e sapere come stesse. Mi feci forza, provai a chiamare Angus due o tre volte, ma non ebbi risposta. Provai a tornare alla scrivania, ma stavo impazzendo al pensiero di lei in ospedale, così tornai dal mio capo e lui si risentì un sacco nel rivedermi, ma quando gli dissi che mia moglie era stata aggredita ed era in ospedale mi accordò senza fiatare il permesso di lavorare a distanza. Che poi, signore e signori, era tutto quello che io chiedevo da mesi, ma il maiale non si fidava di me.
Corsi via allora, mi diressi a casa per prendere il passaporto e il computer e poi in aeroporto. Ero talmente sconvolto da dimenticare che fossero i primi di dicembre e che dunque a Londra sarei morto di freddo con il mio abbigliamento, ma non me ne importava nulla. E poi mi richiamarono subito dopo il check in e a me prese un colpo.
“Sta male? Che è successo?” ruggii sconvolto, vedendo il numero dell’ospedale, ma una vocina mi disse piano “Hey puoi calmarti un attimo? Se ti viene una crisi di panico in questo momento, non sono abbastanza lucida da fare la solita procedura, temo…” e io emisi un lunghissimo sospiro di sollievo.
“Come stai amore mio?” risposi sconvolto, annegando nel senso di colpa per non averla protetta e non esserle stato accanto, ma lei rispose tranquilla che aveva un po’ di dolore alla spalla e al braccio, “niente di grave”.
“Quando ti operano?” chiesi agitatissimo, perché conoscevo bene il suo concetto di “grave” ma lei ridacchiando rispose “un’ora fa Ian. Non era una vera operazione, ma solo una cosa molto leggera, il cesareo è stato molto più impegnativo. Non avrei voluto che ti chiamassero, perché immagino che sei in panico adesso, ma non è successo nulla, davvero…”
“Io in panico? Assolutamente no…” provai a dire ridacchiando imbarazzato, ma in quel momento fecero un annuncio per il mio volo, e lei sorridendo ribatté “Nessun panico, sei solo fuggito da lavoro per correre a Londra…”
Ok, effettivamente ero nel panico, così le dissi solo che non avevo riflettuto, ma seguito il cuore ed ero scappato dalla mia piccola.
“…sei riuscito in un’ora a lasciare il lavoro, prendere i documenti, fare le valigie e imbarcarti? Ti fa bene questo panico!” rispose compiaciuta, ma io le spiegai che non avevo nessun bagaglio e lei sorrise.
“Non serviva, comunque. Come puoi sentire sono ancora tutta intera…” aggiunse, ma si era addolcita. Era da tanto che non mi parlava così, perciò decisi di fare lo sdolcinato anche io e sussurrai “Troppo tardi, adesso vengo a prenderti e dovrai supplicare per liberarti di me…” e lei sorrise e rispose pianissimo “Allora è davvero così? I nostri giorni di separazione stanno per finire? Posso finalmente toccarti, baciarti e scaldare i miei piedi accanto ai tuoi a letto?”facendomi sciogliere.
 Mi erano mancati quei due piccoli ghiaccioli, così glielo dissi e lei ridacchiò, ma poi fummo costretti a salutarci e lei mi disse solo “non posso credere che tra qualche ora ti stringerò” facendomi davvero sorridere.
Libero dal panico realizzai finalmente cosa stava per succedere e mi illuminai. Andavo a casa, la mia tremenda vita da padre divorziato con le figlie dall’altro lato del mondo stava per finire e le avrei strette tutte le volte che volevo. Non riuscivo quasi a crederci, insomma poche ore prima la mia Ari mi aveva minacciato di divorzio e ora stavo per riprendermela. Fui allegro per tutto il viaggio, ero davvero di buon’umore, fino a quando non vidi chi mi era venuto a prendere in aeroporto. Ragazzi di tutta la combriccola sfigata e hippie, chi doveva essere secondo voi? Ovviamente l’uomo che aveva distrutto la sua famiglia per una ragazzina, messo in crisi mia moglie, e che adesso faceva anche l’offeso, perché a suo dire “avevo abbandonato la mia famiglia”. All’inizio volevo davvero arrabbiarmi e rispondergli male, ma poi mi scrisse lei e iniziammo a parlare di quello che avremmo fatto quel giorno e…dimenticai ogni cosa. Non ascoltai nulla della sua ramanzina e fu meglio così, probabilmente. Arrivai troppo presto a Londra, così in attesa che si facesse orario di visite in ospedale, corsi dalle mie figlie. Erano a casa insieme alle nonne, che mi sorrisero rivedendomi, ma loro dormivano ancora e a me scese una lacrima entrando nella loro stanza. Finalmente non ero più il padre a distanza, quello che le vede solo a computer e potevo stringerle ancora, come avevo sempre fatto, tutte le volte che volevo. Accarezzai piano i loro capelli, e mi si presentò un dilemma non da poco: nel letto di chi dovevo andare? Perché l’altra mi avrebbe odiato a morte a vita. Così decisi di fare una cosa geniale: presi in braccio Ody addormentata e con lei mi misi a letto con Olly, che come sempre dormiva in modo bizzarro. Le tenni strette per un po’, poi decisi che volevo svegliarle e iniziai a chiamarle piano, così quattro increduli occhietti si spalancarono su di me. Scoppiarono di gioia rivedendomi, e quando le convinsi a videochiamare la madre, mi accorsi che anche lei era commossa, ma non avevo idea del perché.

Nota:
Ciao a tutti cari lettori, ho finalmente ultimato la saga di Ian e V...curiosi di vedere dove va a parare? Ci siete?

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Capitolo 7
*** Capitolo 11: I libri di Ariel ***


Capitolo: i libri di Ariel
Lasciai quelle due a fare colazione con la nonna, e tornai per un attimo nella mia stanza da letto. Ero letteralmente congelato e dovevo cambiarmi, eppure dimenticai tutto tornando in quella stanza. Era come sempre piena di mille nostre foto felici, ma anche totalmente in disordine. Ariel abbandonava sempre le sue cose in giro ovunque, e generalmente ero io raccoglierle e metterle al loro posto, perciò immaginate quanto caos ci fosse in quella stanza.
Accarezzai piano il suo maglione preferito, che era color lavanda e poi sorrisi sfiorando la sottoveste con cui dormiva, che come sempre era sul comodino. La raccolsi per un istante, perché volevo davvero sentire il suo odore. Chiusi gli occhi e iniziai a sorridere come un idiota sentendo il suo odore, perché mi era mancato da impazzire. Poi, però, il mio telefono squillò, così posai la sottoveste e mi sedetti a letto per rispondere alle mille domande inutili di Angus e Molly, e qualcosa mi fece male. Mi accorsi di essermi seduto su un libro che lei aveva aperto sul letto, e sorrisi scoprendo che era Miss V. E poi ci feci caso: in giro per la stanza c’erano un bel po’ di libri. All’inizio sorrisi, pensando che in mia assenza avesse deciso di darsi alla cultura, ma poi, recuperando uno che era sotto alla sottoveste, iniziai a capire. Sapete come si chiamava? “Strada sicura verso il divorzio”.
Non mi piacque il titolo, ma pensai che fosse un triller o qualcosa di simile, così incuriosito andai a guardare gli altri libri, convinto che trattassero altri argomenti, e invece no ragazzi.  Mi sforzai di non agitarmi troppo, ma la verità era che aveva soltanto libri sui matrimoni in crisi, ah e Miss V. Lo ripresi, allora, pensando che magari potesse darmi degli indizi su cosa stesse passando per la testa alla mia bionda, ma rimasi ancora più perplesso, perché era aperto alla parte in cui dopo averle insegnato a guidare, le parlavo dell’amore e delle relazioni.
Non avevo le idee chiare su cosa significassero quei libri, pensai che probabilmente era preoccupata per noi due, ma iniziavo a essere preoccupato anche io, perché quei titoli non erano molto rassicuranti. Realizzai di doverle parlare, allora, ma in quel momento mi chiamò e disse che i medici volevano dimetterla, quindi potevo passare a prenderla. Fu una sorpresa enorme, e le feci diecimila domande, come mio solito, ma sembrava che i medici fossero sicuri e che davvero non fosse grave, così mi fidai. Due ore dopo ero in ospedale con un mazzo di rose in cerca del suo reparto, quando qualcuno picchiettò sulla mia spalla e a me venne un infarto. Era abbastanza stanca e aveva il braccio fasciato e un tutore per la spalla, ma era la mia piccolissima bionda con i capelli da leonessa. Mi avvicinai per stringerla, perché dopo tanto tempo ne avevo un bisogno folle, ma esitai un secondo. Con tutte quelle bende e cavi non sapevo bene come fare, così presi un secondo di tempo, ma come sempre lei risolse la situazione, lanciandosi letteralmente contro il mio petto.
“Il mio amore…” mi sussurrò pianissimo, un po’ commossa e la tenni stretta e basta, incapace di sciogliermi da lei e onestamente incapace di dirle qualsiasi cosa, perché quella sensazione era meravigliosa. Rimanemmo così per un po’ a coccolarci e baciarci fermi nello stesso punto, poi però le infermiere ci cacciarono brutalmente e ci allontanammo.
“Allora come diavolo sei riuscito ad arrivare in neanche dodici ore? Avevi promesso che saresti venuto, ma non pensavo così presto…” mi chiese, con uno strano sorriso insicuro, perciò le spiegai tutto quello che era successo.
“Quindi bastava finire in ospedale per rivederti. Che scema, avrei potuto pensarci prima…” concluse, con una punta d’ironia di troppo che mi seccò un sacco, ma gliela concessi. Era stanca, con un braccio dolorante e poi effettivamente venti ore prima lei aveva accettato che io fossi seminudo a casa con una tizia quasi senza battere ciglio, quindi glielo dovevo. Risposi solo che ovviamente ci sarei sempre stato per lei, che nulla al mondo mi avrebbe impedito di raggiungerla nel momento del bisogno, ma lei annuì e basta, senza darmi troppa soddisfazione.   
“Diciamo che comunque sia, l’importante è che tu sia tornato da noi adesso…” concluse piano, prendendomi la mano senza guardarmi, e io non capii. Che novità, eh? Mi sembrava troppo strano quel suo atteggiamento, sembrava quasi che stesse perdonandomi qualcosa, ma io non pensavo di dover essere perdonato, così le dissi piano che per me era ovvio e scontato che sarei tornato a prenderle, che eravamo d’accordo così e non mi sembrava che qualcosa avesse mai interferito con i nostri piani.
“Mah, onestamente fino all’ultimo ho pensato che mi avresti chiesto una pausa. Quando è venuta fuori la storia della tua segretaria con te nudo, poi, ne ho avuto quasi la certezza…” concluse, cercando di sembrare tranquilla, ma io fermai la macchina e la guardai dritto negli occhi.
“Ok, sono felice di poterne parlare di persona…” le dissi, con molta serietà, e lei inarcò il sopracciglio seccata, come sempre.
“Mi dispiace se sei stata male o ti sei sentita insicura del nostro rapporto. Evidentemente, malgrado quello che io penso, e quelle che erano le mie intenzioni, ho fatto qualcosa per alimentare i tuoi dubbi e questo mi dispiace molto…” esordii serissimo e lei scosse solo la testa.
“…e lo so che la storia di tuo padre ti ha fatto credere che una donna come tua madre (e per qualche strano motivo che ignoro anche come te) non può rendere felice un uomo, ma Ariel noi non siamo Raul e Isabelle. Io non ti ho sposata senza conoscerti solo perché aspettavamo due figlie, ma ti ho scelta e voluta con tutta l’anima, malgrado non avessi dovuto farlo, perché ti amo. La nostra è stata una storia d’amore immensa, e io amerò sempre e solo te. E onestamente, ho dato per scontato che il nostro matrimonio reggesse la lontananza, perché non riesco a immaginare neanche un motivo per cui io possa non voler più stare con te…”
Lei sorrise, ma alzando il sopracciglio mi rispose che non potevo essere così sicuro di questa cosa, così risentito da morire, risposi soltanto “…perché tu pensi di poter amare un altro?” facendola ridere.
“Io? Ma dai Ian, è già surreale così. Mi vedi? Ti sembro una che potrebbe dire a un altro tutte queste cose romantiche? A stento le dico a te! Ti avrò detto che ti amo cinque volte in totale” rispose divertita, e malgrado non mi piacesse come rassicurazione, decisi di farle passare anche questa. Sì, sempre perché era stanca, ferita etc. Iniziavano a essere un po’ troppe, ma decisi comunque di fare l’uomo maturo.
“…e mi sembra che la tua totale e completa mancanza di romanticismo non sia mai stata un problema per me, no?” le dissi ridacchiando, perché volevo provocarla un po’ e ci riuscii.
“Totale e completa? Bah non mi sembra, anzi credo di essere quella che ha fatto le cose più romantiche nel nostro rapporto…” ribattè risentita, così feci un po’ lo scemo e le dissi che era proprio così che mi aveva conquistato.
“Romanticherie e due occhi del colore del mare…e io non ho potuto difendermi e sono crollato ai tuoi piedi…” le dissi, stringendola forte per fare un po’ il pagliaccio, e lei ridacchiò soltanto.
“Allora lo vedi che non esiste motivo al mondo per cui essere insicura? Vedi che quest’uomo ama solo te?” le dissi, sfoderando tutto il mio fascino. O almeno ci provai, e lei sorridendo sussurrò piano “…ma gli piace la libertà, a quanto pare dato che ha aspettato che la donna che ama venisse azzannata prima di venirla a prendere…”
“No, mi piace stare con te Ariel. E anche con quelle due scalmanate. Voi siete l’unica cosa che conta per me, ma non sono riuscito a convincerti del fatto che preferirei mille notti insonni con Ody in obliquo nel letto a una settimana da solo. Se in futuro dovesse capitare di nuovo che io mi allontani per lavoro, giuro che non succederà mai più tutto questo, ma adesso, per favore, possiamo andare avanti? Sono qui, ti amo, e sono felice come mai prima di averti accanto. Non ho mai guardato un’altra donna, non ho mai pensato ad altro che non fosse “mi manca la mia bionda” perciò, per favore, possiamo chiudere questo discorso?”
Ariel sorrise, allora, e mi strinse forte, e in un mare di lacrime mi disse che aveva fatto una cosa brutta, una cosa sbagliata, spaventandomi a morte. Ero fermo nell’area di sosta di un’autostrada, quindi non potevo restare a lungo, ma rimasi letteralmente paralizzato.
“E quindi per questo hai la stanza piena di libri sul divorzio? Non per colpa mia, ma per qualcosa che hai fatto tu. Fantastico!” ruggii sconvolto, e Ariel asciugandosi le lacrime mi rispose seria che non le sembrava una cosa da divorzio. Ero in ansia, ve lo dico, ma anche estremamente sulla difensiva, quindi risposi solo “lascia decidere a me, grazie” e lei si strinse nelle spalle e vuotò il sacco.
“In pratica…non è vero che servivi tu per i documenti per le bambine. Mi avevano detto così all’inizio, ma quando poi sono andata fisicamente a parlare con i funzionari, è venuto fuori che bastava una delega. Così ho falsificato la tua firma e ho tutti i documenti da circa dieci giorni…”
Rimasi un attimo senza parlare, mi chiesi perché diavolo non me lo avesse detto, dato che avrebbe velocizzato infinitamente le cose, e poi pensai anche che dovevo disdire migliaia di appuntamenti.
“Serviva comunque la tua presenza fisica per partire, perché con i miei trascorsi, non potrei mai lasciare il paese da sola con delle minori, quindi ho pensato che te lo avrei detto quando avresti fatto i biglietti…”spiegò molto seria e io continuavo ad aspettare la parte in cui avrebbe fatto capolino un altro, ma non ci fu.
“Quindi ho mentito, ma volevo davvero che tu tornassi, che dimostrassi di volerci. Avevo bisogno che mi dicessi che ci volevi nella tua vita, che le tue serate da scapolo che fa da spalla a Josh e Jeff non ti piacevano più delle noiose giornate con noi. Dio, quanto sono insicura e patetica!” concluse, portandosi le mani al viso e io chiesi solo a che punto della storia venisse la cosa brutta e sbagliata che aveva detto di aver fatto.
“Ti ho mentito Ian, soltanto per placare le mie insicurezze…” mi disse, con aria molto seria e lì iniziai a ridere signori.
“Insomma semplicemente non mi hai detto una cosa, che mi avrebbe fatto comodo sapere perché vi avrei raggiunte molto prima e saremmo a casa da tempo, ma non ci cambia la vita. Non mi sembra così drammatico. Dovevo comunque venire a prendervi e, onestamente, in nessun universo avrei permesso che ti sobbarcassi un viaggio intercontinentale con due bambine e sei cani, quindi non mi sembra una cosa così grave. Piuttosto dimmi se serve ancora parlare di questa storia delle mie serate, piccola pazza…”
Cercai di essere molto dolce, e lei sbuffò soltanto e sorridendo scosse la testa.
“Vuoi sapere che serata avrei voluto più di tutte?” aggiunsi, fissandola con molta dolcezza e lei ridacchiando rispose che lo immaginava, e così in un bacio finì quella lite. Feci per ripartire, tenendole comunque la mano, quando lei aggiunse “Comunque sono cinque i cani…”
 Parlammo per un po’ della brutale morte del suo migliore amico, e capii che doveva essere piuttosto scossa, così dopo averla consolata ripartii. Volevo regalarle qualche momento di serenità, e fortunatamente in quei giorni ci riuscii. Feci i biglietti per tutti dopo le vacanze di Natale, e tenni qualche giorno di ferie da parte da passare insieme in California. Fummo molto felici, e la convinsi a lasciare a Londra quegli stupidi libri sul divorzio che davvero non ci sarebbero serviti.
“Devo dire che alcuni erano profondamente antifemministi” mi rispose divertita, e così, dopo aver discusso di quanto frasi come “siate sempre delle compagne allegre e serene per i vostri uomini” o anche “cercate di non contraddire vostro marito e non dategli crucci” fossero medievali, archiviammo la questione libri.
 La notte di Natale, poi, dopo aver festeggiato allegri insieme alle nostre famiglie, le bambine andarono a dormire da sole a letto e io rimasi con lei a farci le coccole e mi venne spontaneo dire “…quindi questo è il momento giusto per provare ad avere un altro bambino, che ne pensi? Sono diventate grandi e autonome, dormono da sole…” facendola sorridere e annuire. Volevo un altro figlio, avevo rimesso in piedi la mia famiglia e mi sentivo letteralmente al massimo. Le insicurezze e la crisi sembravano ormai passate, ma in verità la crisi peggiore era dietro l’angolo.
Nota:
Ciao a tutti! Allora vi sono piaciuti questi libri di Ariel? Ci siete? Siete curiosi di sapere cosa sta per accadere? Fatevi sentire se ci siete, così aggiornerò prestissimo, perchè ormai ho finito la storia, ma ho l'impressione che non ci sia nessuno a leggerla, quindi la aggiorno piano piano per dare ai vecchi lettori la possibilità di tornare. A presto.

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Capitolo 8
*** Capitolo 12, 13, 14 ***


Capitolo: un lutto
Dopo una meravigliosa e intensa notte d’amore con Ariel, salutai tutta la mia famiglia con affetto, senza immaginare che poche settimane dopo avrei perso uno di loro. Mi piacerebbe potervi dire che ricordo un momento particolare di quel saluto, che ho un ricordo unico delle ultime parole che dissi a uno dei pilastri della mia vita, ma la verità è che non fu così. Salutammo tutti, parlando del rientro estivo e stop. Partimmo allegri per la California, e le bambine impazzirono per la casa e la piscina. La signora Patterson un po’ meno per i cinque cani, ma la situazione per un po’ sembrò tranquilla.
Josh e Jeff mi presero in giro un sacco, perché ero un marito e padre zerbino, a loro dire, ma ero davvero sereno. E poi Ariel aveva tirato di nuovo fuori la questione della sessualità di Jeff e ci eravamo un sacco divertiti a tormentarlo. Continuava a chiedergli che trauma avesse avuto nel suo passato, perché lo considerava un “odiatore seriale del genere femminile” e lui se la prendeva sempre a morte, quindi io e Josh morivamo dal ridere.
 Semplicemente stavamo bene e Ariel aveva anche trovato un lavoro che le piaceva da morire. Ricordate Luz, la mia vecchia domestica? Quella che mi odiava a morte, ma aveva sempre amato lei? Bene, si rividero per un caffè e le parlò di un’associazione nel suo quartiere, che aiutava le madri in difficoltà e i ragazzi stranieri, che cercava un aiuto. Luz gliela presentò come un posto meraviglioso, che aveva tra le altre cose aiutato i suoi figli a prendere il diploma, e Ariel s’illuminò, perciò il giorno dopo l’accompagnai a conoscere le responsabili e quaranta minuti dopo Ariel ne venne fuori con un lavoro.
Era quasi volontariato all’inizio, ma noi non avevamo bisogno di soldi, e andava bene comunque. Lei aiutava le donne immigrate a compilare i moduli, faceva da mediatore culturale con la scuola, gli ospedali e altri enti, ed era allegra come non mai, perché, sue parole, le sembrava quasi di essere in una missione di pace. Ammiravo da morire l’entusiasmo con cui si gettava a capofitto nelle questioni lavorative, e anche la dedizione che aveva per quell’associazione, che la portava persino ad andare in ospedale in piena notte, per fare da interprete a una donna che aveva avuto un incidente d’auto, senza essere né scocciata né altro. Io non avevo mai provato davvero passione per il mio lavoro, e persino il libro che avevo scritto non mi aveva reso felice e realizzato quanto avevo sperato, tant’è che non ero stato in grado di scrivere altro. Non avevo grosse passioni, mi piaceva leggere e qualche altra cosa, ma non c’era una vera fiamma che accendeva la mia anima. Vivevo per lei e per le mie figlie, e mi sembrava anche normale. Insomma a quarant’anni forse ero davvero diventato disperatamente noioso.
 Ariel mi diceva spesso che non voleva che fossi infelice con il mio lavoro, voleva provare ad aiutarmi a trovare la mia strada, ma onestamente mi sembrava da irresponsabili quel discorso. Vedete, facevo un lavoro che detestavo, ma lo facevo per le mie figlie e per lei e quello mi bastava. Ammiravo il lato utopista e filantropico della mia donna, ma io ero molto più pragmatico e pensavo che un lavoro non servisse a dare senso alla vita, ma soltanto a mantenere la famiglia, perciò odiavo scribacchiare quegli stupidi copioni, ma lo facevo lo stesso solo per le mie donne. E chissà, magari anche per un ometto.
Già, ormai provavamo costantemente ad avere un terzo figlio, e io ci pensavo spesso. Lo immaginavo una mia piccola copia maschile o femminile, e spesso mi trovavo a sorridere. Gli avevo dato un nome che andava bene sia al maschile che al femminile, e Ariel rideva sempre un sacco quando le dicevo che Casey sarebbe stato più calmo o calma delle sue sorelle.
“Semplicemente perché il destino me lo deve! Come diavolo potrei avere quattro donne così forti in giro per casa e sopravvivere?” le dicevo sempre scherzando, ma alla fine ero davvero fiero del fatto che le mie due testoline ricce fossero così simili alla persona più forte che avessi mai conosciuto.
 Luz era diventata la nuova tata delle gemelle, e andavano davvero d’accordo, quindi potetti persino portarla a fare un weekend a San Francisco, e sussurrarle parole d’amore sul famoso ponte come anni prima e ne era venuta fuori una notte davvero magica. 
Eravamo sereni, e tutto sembrava davvero perfetto. E poi una notte, una telefonata fu l’inizio della fine. Stavo rientrando dalla mia passeggiata serale con i cani, e Ariel mi aveva mandato una foto di lei a letto da sola con un completino supersexy, quando mi arrivò una chiamata di mio padre. Pensavo fosse mia madre, che come sempre lo aveva costretto a chiamare per vedere le nipotine sbagliando il fuso orario e invece no.
Lei, la mia mamma, se n’era andata da un momento all’altro. Discreta e serena come aveva vissuto. Rimasi per un attimo senza fiato e senza parole e mi sfuggirono di mano i guinzagli. Non mi sembrava vero, insomma era assurdo, l’avevo sentita due giorni prima e mi aveva raccontato delle partite a carte con le vecchiette della chiesa e del suo amato prete. E invece no, ragazzi, non c’era più. Quella notizia fu talmente tanto difficile da sentire, che fui costretto a sedermi per un attimo, sull’erba, nel giardino del mio vicino. Rimasi fermo lì per qualche tempo, non so esattamente quanto, so solo che dopo un po’ mi raggiunse Ariel spaventata che aveva visto arrivare i cani da soli e non sapeva cosa fosse successo. Le dissi molto freddamente quello che era successo, perché non mi sembrava vero, e lei mi strinse forte e restammo per qualche minuto fermi così.
 Prendemmo l’aereo al volo, ma da soli. Non volevamo portare le bambine a un funerale e Ariel mi disse piano “non voglio che tu debba fingerti forte o eroico quando sei a pezzi” e io apprezzai.
Non so cosa dirvi, onestamente, di quel funerale e di tutto quel periodo. Io non riuscivo a farmene una ragione, a essere sinceri, e per molto tempo non ci riuscii.Tornai in California dopo il funerale e provai ad andare avanti come sempre, come se non fosse successo nulla, ma questo preoccupava la mia Ariel. Lei voleva parlare, del mio dolore, di mia madre, di qualsiasi cosa, ma io non ero pronto. Non ne parlavo neanche con Josh e Jeff, che iniziai a frequentare sempre più spesso. Vedete, Ariel ci teneva molto a parlare dei miei sentimenti, e quando io le rispondevo in modo sbrigativo, oppure le dicevo che stavo bene, mi fissava sempre con sguardo di biasimo.
 Volete sapere la verità? Io, semplicemente, non riuscivo a pensare che mia madre fosse morta. Mia madre era il mio legame con mio padre, con gli altri. Perdere lei era come perdere tutta la mia famiglia. Il mio porto sicuro, la mia consigliera, l’ultima parte di infanzia e gioventù che mi era rimasta e non riuscivo davvero a immaginarmi come sarebbe andata la mia vita senza lei. E ora che non c’era più, cosa era rimasto da dire? Assolutamente niente. E allora, se non c’erano parole, l’unica cosa che restava da fare era semplicemente distrarmi e pensare ad altro, ma era impossibile con mia moglie che ci teneva tanto a interrogarmi sulle mie emozioni.
Iniziai a bere un po’ con Josh e Jeff, ma lei non disse nulla. Non era una cosa particolarmente preoccupante, insomma stiamo parlando di una sbronza ogni tanto. Mi fissava con quel suo sguardo preoccupato, tanto simile a quello di un gufo, ma non faceva trasparire emozioni. Uscii sempre più spesso, e lei continuò a non dire nulla, fino alla sera in cui tutta la mia vita cambiò.
Capitolo: un incidente
Me la ricordo quella notte. Abbastanza bene, a essere onesti. Non ero rientrato a casa dopo il lavoro, perché avevo discusso con Ariel e non avevo voglia di vederla. Avevo proposto a Jeff di andare per locali, e insieme avevamo convinto Josh, che non era particolarmente incline a fare tardi. Aveva Martin a casa il giorno dopo, e tutto quello che voleva era sistemare la sua stanza, comprare le alette di pollo surgelate e le sue bevande preferite. Ci mettemmo molto a convincerlo, e se volete saperlo, non me lo sono mai perdonato.
Josh all’inizio mi disse solo “Stai esagerando, idiota. Ok giocarsi la carta dell’orfano, ma stai bevendo troppo e non va bene. Che padre e che marito puoi essere, se te ne vai sempre in giro, eh? Ariel non ti dice nulla perché vuole starti vicino, ma ti stai comportando da adolescente. Perciò lascia perdere Jeff, e vai a casa, finchè hai il privilegio di avere qualcuno che ti aspetta. Vuoi davvero farla scappare?” ed io alzai soltanto gli occhi al cielo. Non avevo voglia di sentire quel discorso, ma non avete idea di quante volte nei mesi successivi sentii la sua voce che mi diceva quelle parole.
Insistemmo un sacco, e lui sbuffò parecchio, perché davvero aveva solo voglia di sentire Martin via telefono e preparare la sua stanza, ma poi ci ospitò per un aperitivo, prima della serata vera e propria. In realtà non so dirvi quante bottiglie finirono in quell’aperitivo. Io non ho mai retto particolarmente bene l’alcol, per cui in quarant’anni avevo preso sì e no una ventina di sbronze, di cui venti nel mese successivo alla morte di mia madre. Ci volle poco a stendermi, anche quella sera. Sono sempre stato uno che tende ad addormentarsi quando è sbronzo, non uno molesto, perciò mi accoccolai sul divano di Josh e per me la serata era finita lì, ma loro mi svegliarono perché avevano deciso di voler andare a rimorchiare. Onestamente capitava spesso, ma considerato che non eravamo poi così attraenti o giovani, e che loro si ostinavano a voler andare in luoghi frequentati dai ventenni, non c’era mai stata alcuna interazione con le ragazze. Io li seguivo, mi stordivo il più possibile con l’alcol e non ascoltavo neanche quello che dicevano. Non ho davvero memoria di quelle serate per club.
Quella sera fu come tutte le altre, bevvi mentre loro cercavano di infastidire un po’ di signorine, e poi mi accasciai addormentato sul sedile posteriore. Tutto quello che successe dopo è estremamente confuso nella mia memoria, e per mesi è stato oggetto dei miei incubi. Le urla, uno strano senso di nausea qualche fotogramma della macchina che si capovolge e poi gli occhi verdi di Ariel sconvolti in ospedale.
Chiese come stessi, e poi rimase per qualche minuto in silenzio, fissandomi con uno sguardo che non conoscevo ancora, ma presto avrei scoperto che era il modo in cui dimostrava l’angoscia. Era nervosa, si tormentava le mani, come sempre, ma c’era qualcos’altro. E poi lo fece: sputò il rospo e chiese serissima cosa ricordassi dell’incidente, e ovviamente io risposi “quale incidente?”. Sbuffò in quel momento, e io pensai che fosse soltanto arrabbiata con me, ma poi aggiunse molto piano “Eravate in auto tutti e tre. Josh e Jeff davanti e tu dietro. Ecco…purtroppo Josh guidava molto ubriaco e senza cintura. Tu almeno ne avevi messe due. Insomma… non ha visto il semaforo…”
Non capii. Poi però lo disse. Josh era in sala operatoria e lottava tra la vita e la morte.
“Come diavolo è possibile? Voleva solo comprare le alette di pollo…” dissi sconvolto, e lei mi fissò con enormi occhi sofferenti e rimase in silenzio per un attimo. Probabilmente avremmo dovuto parlare in quel momento, ma io ero sconvolto e lei molto in difficoltà, e per fortuna giunse l’infermiera ad annunciarmi che di lì a poco sarei stato dimesso.
“Niente di grave, solo una brutta sbronza…” disse gentile e Ariel sospirò forte, bisbigliando piano “grazie al cielo…” però io ero ancora stravolto.
Uscimmo insieme dalla saletta del pronto soccorso, e lei mi strinse fortissimo il braccio, ma non disse assolutamente nulla. Continuavo a chiedermi che diavolo fosse successo, come fosse possibile che uno che voleva solo comprare le alette di pollo fosse finito in fin di vita, ma non ebbi la forza di dire nulla.
Quando Ariel provò a condurmi verso l’esterno, qualcosa in me si ribellò, così le dissi di andare mentre io cercavo i miei migliori amici e lei annuì e mi condusse verso la sala d’attesa, dove non c’era proprio nessuno per i miei amici. Mi sedetti, e la invitai a tornare a casa dalle nostre figlie, ma lei stringendomi forte sussurrò solo che non mi avrebbe lasciato per tutto l’oro del mondo, e mi fece sorridere.
Restammo per un po’ in silenzio, contemplando quell’enorme disastro, ma poi lei sussurrò pianissimo “non so davvero cosa avrei fatto se ti fosse successo qualcosa” riportando la mia attenzione su di lei e facendomi sorridere per un attimo. Le chiesi scusa e me la portai al petto, ma lei disse soltanto che non c’erano scuse da fare, che dovevo solo restarle accanto e l’abbracciai ancora più forte. Avevo cercato di evitarla per giorni, ma tenerla stretta in quella sala d’attesa mi aiutò un sacco.
Jeff si riprese quasi subito, perché aveva soltanto un problema al collo e alla spalla, mentre Josh fu portato in terapia intensiva quella notte. La situazione era critica, secondo i medici, e noi non riuscivamo a farcene una ragione. Io e Jeff restammo una settimana in ospedale, tra sala d’attesa, giardino e altro, ma non riuscimmo mai ad affrontare il mostro che ci stava divorando dentro: il senso di colpa. Entrambi sapevamo che Josh era lì per colpa nostra, perché eravamo stati noi a spingerlo a uscire e bere.
Provai a dirlo ad Ariel una sera, ma le cose andarono male. Pensai che fosse una buona idea dirle quello che avevo nel cuore, insomma alla fine era quello che lei mi chiedeva da mesi. La trovai intenta a lavare i piatti e le dissi tutto d’un fiato quello che mi stava passando per la testa. Le confessai del mio senso di colpa, e piansi anche, spingendola a stringermi forte. Mi sentivo male da morire, e i sensi di colpa mi impedivano di respirare.
Ora, vedete, non mi aspettavo da lei nessuna reazione in particolare, avevo solo bisogno di tirare fuori quell’enorme demone che mi stava soffocando, ma Ariel fraintese. Spesso in quegli anni, infatti, ero andato da lei in cerca di un aiuto per le mie crisi d’ansia, e lei generalmente mi aiutava a razionalizzare, a rimettere le cose nella giusta prospettiva. Non era quello che volevo quella notte, però, e purtroppo questo generò un enorme problema.
Ariel, convinta che avessi bisogno di trovare un capro espiatorio per l’incidente di Josh, mi tenne stretto e accarezzandomi i capelli mi disse piano che non era stata colpa mia, perché non ero io a guidare. Continuò cercando di spiegarmi che la scelta tragica, quella di guidare ubriaco, non era stata minimamente influenzata da me, che non glielo avevo neanche chiesto. Voleva farmi stare meglio, ma io mi arrabbiai a morte e le urlai contro. Non volevo che lei giudicasse Josh, perché era esattamente come me: un uomo debole, che beve per non sentire il frastuono della sua vita che va in pezzi. Mi allontanai da lei allora, incapace di accettare il senso delle parole che avevo appena detto.  Iniziai a bere, quando qualcuno mi raggiunse. Era molto provata, e probabilmente esausta, ma voleva solo starmi accanto, e purtroppo non riusciva proprio a capire come fare. Si sentiva sconfitta, totalmente, e purtroppo in quel periodo fu costretta ad accettare l’idea di essere totalmente impotente e di non poter fare nulla per me. Si sedette accanto a me sul divano, e rifiutò la mia offerta di vodka. Accarezzandomi i capelli con molta dolcezza, come se fossi una delle sue bambine, mi disse piano “Ian scusami. Non volevo essere supponente, né giudicare nessuno. Anche io voglio bene a Josh e come sai, credo che chiunque possa commettere degli errori. Ti prego, non litighiamo. Vieni a letto, per favore, perché non ce la faccio a saperti qui da solo…” e così la seguii. Neanche allora parlammo dei miei problemi con l’alcol, né di quello che stava succedendo nel nostro rapporto.
Per giorni la routine fu tutta uguale: andavo a lavorare, poi in ospedale, poi cenavo con lei e le bambine e dopo averle messe a letto bevevo fino a non sentire nulla. Mi svegliai spesso nel mio ufficio, o anche sul divano, con una coperta. Sapevo che lei mi cercava per coprirmi, sapevo anche che era preoccupata, e questo si aggiungeva alla lunga lista delle cose che volevo ignorare e dimenticare, perché era l’ennesima cosa per cui sentirsi in colpa. Ero diventato un padre fallito e alcolizzato, e mi vergognavo tanto di me stesso, ma l’unico modo per sopportare tutto questo dolore e disprezzo per la mia esistenza, era sempre e solo stordirmi per stare meglio.
L’agonia del povero Josh non fu breve. Per tre settimane vivemmo di alti e bassi, di momenti in cui festeggiare per un piccolo miglioramento e di altri di disperazione. Poi un giorno, non si sa esattamente perché, il suo corpo decise di mollare e in poche ore morì, senza neanche salutare noi o Martin.
 Non vi dirò bugie, fu un colpo tremendo. Josh e mia madre, in circa un mese e mezzo. Due dei pilastri della mia vita, dei miei punti di riferimento, erano andati per sempre a sei settimane di distanza. Non avevo più nessuno che mi avrebbe sostenuto, nessuno a consigliarmi. Adesso dovevo bastare a me stesso, non potevo più avere dubbi o insicurezze, perché nessuno al mondo mi avrebbe detto cosa fare o come risolvere i miei problemi. Insomma ero solo, totalmente, e questo peso mi stava schiacciando.
Passai ore accanto a mia moglie, nel silenzio più totale. Neanche con le mie figlie ero in grado di interagire, se non regalando loro qualche carezza distratta. Le mie certezze, le mie sicurezze, erano tutte morte, ed io mi ero scoperto un omino fragile e vulnerabile, con un’esistenza totalmente priva di senso. Chi ero io? Un uomo incapace di interagire con la sua famiglia senza sua madre, incapace di prendere qualsiasi decisione senza un supporto; un uomo senza sogni, senza ambizioni. Chi era Ian Watt? Letteralmente nessuno. Più di una volta mi ero trovato a chiedermi che cosa sarebbe successo se fossi morto io invece di Josh, cosa avrei lasciato dietro di me, e la risposta era sempre la stessa: niente. Una sola persona mi avrebbe pianto, ed era la stessa che mi fissava con sguardo preoccupato, come se fossi un problema da risolvere.
Ariel non fece nulla per le prime settimane. Mi coccolò, mi difese, mi lasciò a dormire quando ero ubriaco. Aveva preso l’abitudine di farmi trovare le medicine accanto, ovunque io fossi crollato. Non voleva che mi sentissi giudicato, quindi si comportava come se niente fosse, ed era un’ottima moglie. Io, però, ero talmente in crisi da non riuscire più ad essere un marito.
Un giorno, infatti, mi accorsi che le sue coccole, quei suoi enormi occhioni verdi languidi e spaventati mi facevano stare ancora peggio. Erano l’ennesimo mio fallimento. C’era amore in quegli sguardi, ma anche rammarico, sofferenza e paura, e l’unico a provocare quella sofferenza ero proprio io, che non sapevo cosa fare per farla stare meglio, così iniziai a evitarla il più possibile.
Lei, invece, faceva ogni cosa in suo potere per provare a risollevarmi il morale. Aveva spiegato al mio medico la situazione, e lui mi aveva fatto un certificato che mi permetteva di non lavorare. Non so esattamente cosa ci fosse scritto, se depressione o altro, so solo che un giorno Ariel rientrò e mi disse che se volevo potevo restare a casa, e smettere di rischiare il posto di lavoro per i miei ritardi e altro. L’assecondai, e lei mi chiese di prendere anche dei farmaci, ma con il senno di poi, quelli furono tutti enormi errori.
Capitolo: la caduta di Ian
E così, ragazzi, iniziò il periodo oscuro del povero Ian. Un periodo in cui non avevo più nessun interesse nella vita, nessuno stimolo e vivevo soltanto per stordire l’ansia, i sensi di colpa e il dolore. Avevo provato a non bere, credetemi. Ariel aveva trascorso una giornata intera con me, mi aveva portato fuori con le bambine, e io ci avevo provato con tutto il cuore a distrarmi. Solo che poi mille cose mi avevano colpito, e lo sguardo deluso e preoccupato di Ariel mi aveva davvero ferito, così era finita come sempre, con me raggomitolato sul mio divano, sbronzo perso e addormentato. Facevo sogni terribili, e mi svegliavo sconvolto, ma in quel periodo sembrava che non potessi mai trovare pace.
Molte persone provarono a starmi accanto, a essere sinceri. Ariel era totalmente persa, non aveva la minima idea di cosa fare, e purtroppo si capiva dai suoi gesti. Non mi fece mai pesare la mia condizione, si occupò di me il più possibile, cercando di viziarmi e risollevarmi il morale, ma come sapete, la signora aveva il peggior difetto del mondo, ossia parlava con gli occhi. Non riusciva a nascondere l’apprensione e il dolore che provava, e io mi sentivo troppo in colpa in sua presenza. Una mattina, poi, quando mi svegliai sentendo parlare le mie bambine, mi sentii un mostro. Ody intimava a Olly di non fare rumore, perché altrimenti il papà malato si sarebbe svegliato e avrebbe urlato con loro. Onestamente non ricordo se sia mai successo, o se fosse solo una loro preoccupazione, né ho mai avuto il coraggio di chiederlo a mia moglie, ma mi sentii davvero il peggior verme del mondo in quel momento. Ariel, però, mi coprì sempre, cercando di tenere il più possibile le bambine lontane dal padre sbronzo.
Mio fratello provò a dirmi due parole, e anche mio suocero, ovviamente, ma non mi sentivo particolarmente affine a nessuno dei due. Molly provò con i suoi soliti rituali, e Angus con le minacce, ma tutti questi tentativi non fecero altro che acuire il mio senso di inadeguatezza. Come uomo, come adulto, come marito e soprattutto come padre. Fissavo le mie figlie carico di vergogna, e a stento riuscivo a parlare con loro. Purtroppo ero entrato in un circolo vizioso: mi vergognavo di me, ero assolutamente deluso anche dal mio modo di essere padre, ma l’unica cosa che riuscivo a fare era bere, provocandomi ancora più vergogna e senso di inadeguatezza.
Anche Jimmy provò a starmi accanto, ma anche in quel caso mi sentii ancora peggio. Vedete, in due anni il mio caro nipotino spiantato aveva cambiato tutta la sua vita. Jen si era tolta dai piedi all’improvviso, abbandonandolo con Rose per partire con un pittore che aveva bisogno di modelle. Era stato un enorme colpo per lui, e ci era stato da schifo, ma poi si era rimesso in sesto. Aveva sfruttato tutte le sue conoscenze e abilità, e ora faceva il pr per i locali e guadagnava abbastanza da poter mantenere lui e sua figlia in modo dignitoso. Era pulito, non beveva e non fumava, ed era un padre esemplare. Insomma, persino il mio piccolo nipotino folle stava meglio di me, e mentre lui mi parlava, mi spiegava quanto fosse sbagliato bere con le mie figlie in casa e altre cose di una banalità sconvolgente, io non riuscii a fare a meno di chiedermi quanto in basso fossi sceso, se persino il ragazzino sballato che vive nelle case occupate mi fa la paternale.
Frequentavo ancora Jeff, che però aveva avuto una specie di crisi mistica. Potremmo dire che in quell’incidente ci eravamo scambiati le personalità, perché mentre io realizzavo di non essere in grado di fare il marito e il genitore, lui invece aveva deciso di voler dare un senso alla sua vita, sposandosi e mettendo su famiglia. Ovviamente, però, nessuna delle sue conoscenze era interessata a fare con lui il grande passo, e lui annegava nell’alcol la frustrazione e il dolore che tutti quei rifiuti gli provocavano. Eravamo due anime smarrite che vagano nel nulla, senza sapere cosa vogliono e dove vogliono andare e non avremmo dovuto frequentarci in quel periodo, ma ci volle molto tempo per capirlo.
Altre persone si rivelarono gentili e amichevoli: Luz, alcuni colleghi dell’ufficio, la mia segretaria, e soprattutto i migliori amici di Ariel. Kim fu molto carina, ma onestamente non mi fece piacere parlare con lei. Nigel, invece, mi piacque. Una sera mi scrisse solo “pare che qualcuno abbia bisogno di un amico e di una chiacchierata tra uomini. Se ti va, in qualsiasi momento, ci sono.”
Non avevo voglia di parlare con lui, ma alla fine finimmo a fare uno strano discorso sul basket e una serie tv che avevo visto qualche volta, così mi sentii meglio. Nigel era uno dei miei testimoni di nozze, perché Ariel non ne aveva voluto uno solo e così aveva scelto lui e Kim, ma io non avevo mai avuto un grosso rapporto con lui prima di allora. Eppure mi rimase vicino davvero, e divenne un mio amico virtuale, e devo dire che ci divertivamo abbastanza in chat. Non pensate che facessimo conversazioni strane o profonde, eh. Ci mandavamo foto o video scemi, parlavamo di sport e lui mi consigliava le serie, ma fu un barlume di normalità in quel periodo devastante.
Come avrete capito, ero abbastanza consapevole di aver bisogno di aiuto, ma non avevo la forza di chiederlo e questa consapevolezza mi faceva ancora più male. Desideravo più di tutto al mondo stare meglio, svegliarmi e diventare una persona di cui Audrey e Olive avrebbero potuto essere fiere, una persona che fa sorridere ancora la mia Ariel, come quando ci eravamo innamorati anni prima, ma davvero non avevo idea di dove cominciare. Ero fermo, in uno stallo di dolore e sofferenza, e senza accorgermene le cose continuarono a peggiorare.
All’inizio Ariel era molto paziente, e preoccupata, ma non angosciata. Dopo due mesi, però, divenne totalmente un’altra persona. Non dormivamo più insieme, io la baciavo di tanto in tanto, lei si arrotolava tra le mie braccia e mi cercava spesso, ma ero diventato più chiuso e meno incline alle effusioni. Lei non aveva detto nulla, neanche quando mi ero allontanato. Sopportava in silenzio, fissandomi da lontano spaventata. Quando mi avvicinavo e le accarezzavo i capelli, si sentiva autorizzata ad avvicinarmi, ma comunque non le permettevo più di tanto di starmi vicino.
Una sera, incoraggiata da un mio momento d’affetto nei suoi confronti mi baciò, e io risposi. Volevo davvero riuscire a renderla felice, e sembrava che quel bacio stesse facendo funzionare le cose, ma poi mi fissò con due enormi occhi pieni di speranza e disse piano “ti ricordi quello che ti ho detto ieri?” e io non capii e mi misi sulla difensiva. Chiesi soltanto di cosa stesse parlando, ma lei delusa scosse la testa e mi disse che non era nulla, rendendomi furioso.
Non so neanche io cosa mi ferì tanto, se la sua condiscendenza o la delusione, so solo che le urlai contro tutta la mia frustrazione, e lei rimase totalmente impassibile. I suoi occhi si riempirono di lacrime, ed io mi sentii ancora peggio. Feci per andarmene, allora, per rintanarmi nel mio antro sicuro, con il divano, la tv e l’alcool, quando lei sussurrò piano “non litighiamo, per favore. Ti ho detto una cosa bellissima ieri, e pensavo che in qualche modo ti avesse colpito e questo bacio fosse per quello, ma se non è così, non importa. Troverò un altro momento per parlartene. Solo che ieri l’ho scoperto e avevo voglia di dirtelo perché pensavo potesse aiutarti a stare meglio…”poi mi prese la mano e sussurrò piano “…non avercela con me, per favore. Non voglio discutere, non volevo ferirti” e il mio cuore si spezzò ancora per un po’.
Nota:
Ciao a tutti,
Allora c'è qualcuno? Siete dispiaciuti per Ian? Siete arrabbiati? Mi fate sapere? Grazi a tutti per aver letto questo paragrafo.

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Capitolo 9
*** Capitolo 15 ***


Capitolo: un addio
La situazione con lei purtroppo divenne insostenibile poco dopo. Angus e Molly un giorno si presentarono a sorpresa da noi, e questo mandò tutto al diavolo. Reggemmo per qualche giorno, io cercai anche di bere meno perché sapevo esattamente cosa li aveva spinti a raggiungerci. In realtà pensavo di saperlo, ma non ne avevo la minima idea a essere siceri.
Insomma mi impegnai per qualche giorno, e sembrava che le cose andassero meglio, che Ariel fosse un pochino più felice, ma malgrado i miei sforzi, le cose precipitarono. Ovviamente loro erano giunti a darle supporto, perchè erano molto preoccupati per lei e le mie figlie, e questo mi era chiaro. La cosa che non avevo realizzato all’inizio, era molto più complessa: il loro unico obiettivo era quello di farci lasciare.
Una sera, infatti, misi a letto le mie bambine e mi sforzai di raggiungerli al piano di sotto. Non bevevo da circa tre giorni, stavo rigando dritto, e poi tutto mi crollò addosso. Sentii Angus che urlava ad Ariel che stava dimenticando le sue responsabilità e i suoi doveri, e che aveva un mare di colpe perché aveva scelto di continuare a metterli in pericolo stando ancora con un alcolizzato in casa. Per un attimo neanche capii, onestamente, mi venne quasi da chiedermi “abbiamo qualcuno in casa?” ma quando lei ruggì furiosa che mai nella vita ero stato pericoloso, realizzai che il pericolo, secondo loro, ero io. E fu una sensazione terribile, ragazzi.
“Non so come sia possibile che ancora voi non sappiate chi è Ian…” rispose seria, con la mascella contratta e lo stesso sguardo rabbioso di suo nonno.
“E che cosa credi, eh? Che faccia bene alle tue figlie vederlo collassato sul divano? Che siano felici quando lui le fa tacere al mattino, perché il mal di testa lo sta torturando? E poi, ti prego, guardati. Sei dimagrita tantissimo, stai male e continui a negarlo…” urlò Angus, ma con un tono esasperato nella voce. Era preoccupato, chiunque lo avrebbe capito, e io mi sentii mortalmente in colpa.
“Lo so…”rispose rigidissima, continuando a sfidarlo con lo sguardo, ma con gli occhi progressivamente più grandi.
“…ma sta attraversando un periodo difficile, bisogna cercare di essere comprensivi e dargli tempo…” aggiunse, ma con un’espressione poco convinta. Fu allora che lo capii: Ariel non era sicura al cento per cento che sarei riuscito a rialzarmi e se non lo era lei, come avrei potuto esserlo io.
“Ma quale tempo? Ma cosa stai aspettando, si può sapere?”le ruggì Angus in malo modo, e la sorprese. Era evidente che Ariel non si aspettava quella sua reazione.
“Non posso fare altro che aspettare. Non so che altro fare…” rispose, stringendosi nelle spalle avvilita, e Molly calmò Angus che voleva solo venire a uccidermi, probabilmente.
“Ariel, non è un buon padre in questo momento e non dovrebbe stare con le bambine o con te in questo stato. Solo questo ci preoccupa…” le disse pianissimo sua nonna accarezzandole i capelli. Fu molto duro sentire quelle parole, perché onestamente, avevano ragione. Ero il primo a vergognarsi di farsi trovare in quello stato dalle mie figlie, e probabilmente sarebbe stato davvero meglio per Ariel se avesse chiuso con me.
“Non osare dire che Ian non è un buon padre!” ruggì lei con una lacrima che le rigava la guancia, ma Molly la fissò soltanto con molta tenerezza e lei si sciolse in un mare di lacrime, come non l’avevo mai vista. Fece tenerezza persino al nonno-mastino, che la strinse forte come una bambola e le disse piano “…vorrei solo saperti serena Ariel” con moltissimo dolore nella voce.
“E come pensi che io possa essere serena, eh?” rispose lei in preda a mille singhiozzi e poi continuò dicendo le parole peggiori che io potessi mai sentire.
“Come faccio a essere serena, quando il padre dei miei figli è interessato soltanto a stordirsi? Come faccio, se devo fingere costantemente con le mie figlie che sia tutto normale, rispondendo a migliaia di domande con tonnellate di bugie. Dimmi tu: come diavolo posso fare a essere serena? Perché davvero, è l’unica cosa che vorrei sapere in questo momento. Come faccio se non riesco neanche parlargli? Se il suo unico interesse nella vita sembra essere quello di bere e suicidarsi, e niente riesce a distoglierlo da questo? Perché se sai dirmi come fare, io accetto consigli, ma solo se non mi dirai di lasciarlo, perché è una sciocchezza…”

“Ariel, io capisco l’amore, capisco tutto, ma devi pensare ai tuoi figli e devi allontanarti per un po’. Magari tornate in Inghilterra, state un po’ a casa con noi e poi vedrete…” le disse Molly esasperata, e per me fu veramente un colpo, soprattutto quando lei rispose serissima “e credi che non lo sappia? Pensi che non mi sia mai posta il problema di come sarà il futuro delle mie figlie, costantemente in cerca di attenzioni e approvazione perché il loro padre alcolizzato sbaglia persino i loro nomi o le chiama ‘cosa 1 e 2’?”
Fu un attacco veramente troppo duro. Per un attimo mi sentii impazzire, come non ero mai stato. Lei, quella che sembrava capire sempre tutto, mi giudicava più duramente di chiunque altro e forse era l’unica ad avere il diritto di farlo. Mi sentii veramente un essere rivoltante e inutile, ma poi lei mi diede il colpo di grazia dicendo solo “…ma come faccio, eh? Che cuore dovrei avere per abbandonarlo qui così, da solo? Se lo lasciassi e gli portassi via le sue figlie, come diavolo dovrebbe riuscire a riprendersi?”
Niente amore, niente sentimenti, soltanto uno strano senso di responsabilità. Lo stesso che la spingeva probabilmente a lavorare con le associazioni ambientaliste. A quello si era ridotto il mio matrimonio? Fantastico. Mi sentii malissimo, e purtroppo i conati di vomito mostrarono la mia presenza.
Ariel sbiancò nel vedermi, mi chiese se stessi male, ma io non risposi. Volevo solo voltarle le spalle e andare via da solo, portarmi dietro tutti i miei errori e la mia vergogna, ma lei non aveva nessuna intenzione di lasciarmi andare via, così fui costretto a essere brutale con lei, e le gridai che poteva anche andarsene al diavolo con il suo stupido atteggiamento, che non avevo bisogno di lei.
“Dove vuoi andare?” mi chiese con due enormi occhi spaventati e io le dissi che sarei stato a casa di Jeff per qualche giorno.
“Così sei libera di tornartene in Inghilterra…” ruggii, di spalle, però perché non volevo che vedesse le mie lacrime e lei rispose piano “…non ti lascerei mai, lo sai…” dandomi per un attimo la sensazione che le cose non fossero tutte da buttare.
“Resta qui, stai con noi, per favore…” aggiunse piano, prendendomi la mano e io le ruggii che non era la cosa migliore per le mie figlie.
“…e neanche per te, a quanto pare, dato che sei pronta a voltarmi le spalle appena qualcuno te lo dice…” aggiunsi furioso, scansando la sua mano e lei ribadì ancora una volta che non mi avrebbe mai lasciato.
 
“Ti ucciderai a casa di Jeff, lo sai…” aggiunse pianissimo e io mi infuriai. Per un istante, uno solo, avevo creduto che lei mi volesse accanto per amore, invece era sempre e solo il suo dannato senso di responsabilità a parlare.
 Le urlai una cosa del tipo “non sono uno dei tuoi casi umani da salvare, lasciami in pace” e lei rispose molto ferita “Ti amo, stupido idiota. Io non ti lascerò mai solo, sei il mio uomo, il mio compagno…” ed io risposi solo “non più”.
Feci per andarmene, afferrai la giacca e aprii la porta, quando lei mi disse molto seria: “…se pensi che uscire da quella porta cancellerà quello che siamo stati, e tutto quello che abbiamo costruito, ti sbagli. Vattene, se è quello che vuoi, ma io non ti lascerò, perché non hai la minima idea di quello che stai facendo. Se mi avessi lasciato lucidamente, per un’altra magari, lo avrei accettato, ma così no. Vuoi andartene? Hai bisogno di spazio? Va bene. Io però non posso lasciarti da solo in questo stato”
“Devo andarmene Ariel, per te, per le bambine, per tutti…” le dissi sconvolto, e lei annuì soltanto e mi disse seria “non da Jeff, però. Vuoi stare solo? Troviamo un’altra soluzione…” ma io non l’ascoltai e la lasciai su quel portico a sospirare.
Onestamente? Aveva ragione lei, ovviamente. Fu un suicidio casa di Jeff, ma non lo capii subito. Che sorpresa. Bevemmo e basta per giorni. Non esisteva luce o buio, notte o mattina, ogni ora era adatta per bere. Persi del tutto quel poco di equilibrio che avevo a casa con Ariel e le mie figlie. Divenne sempre notte, ogni cosa oscura e avvolta nella foschia. Tutto, tranne una cosa: Ariel.
Non mi abbandonò, mai. Non ho idea di come avesse fatto, ma aveva recuperato le chiavi di casa di Jeff, e spesso la trovavo a cucinare, rassettare o a sistemarmi i vestiti. Aveva comprato tutte le mie cose preferite, e mi svegliava sempre per darmi le medicine. All’inizio pensavo fosse un sogno, un incubo in realtà, perché mi feriva la sua presenza, ma poi realizzai che era reale.  Mi arrabbiai, la mandai via, ma lei rigidissima rispose che avevo solo lei, e non ci pensava minimamente ad abbandonarmi.
“Ma io Ariel non sono tuo marito. Non posso esserlo. E non posso essere il padre di nessuno in questo momento…” le dissi sconvolto, ma lucido perché le medicine e il caffè avevano fatto effetto, e lei annuì soltanto e fissandomi con moltissima determinazione, rispose solo “Non dovrai essere nulla di quello che non vuoi. Saremo amici, ok?” ed io rimasi senza parole. Mi ricordai di quando avevamo parlato di divorzio, mesi prima, e lei mi aveva detto che occorreva molta forza per diventare amici del padre dei tuoi figli. Io quella forza non ce l’avevo, e così due giorni dopo finii in ospedale con un principio di coma etilico.
Nota:
Ciao, c'è qualcuno che ancora legge questa storia?

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 16 e 17 ***


Capitolo: una speranza.
Fu stranissimo svegliarsi ancora al pronto soccorso, una specie di dejà vu. Lei, però, questa volta non c’era, e fu molto triste realizzare che mancava. Il medico presente decise di farmi una paternale che avrei difficilmente dimenticato. Onestamente la ricordo ancora, e più di una volta mi sono chiesto se fosse legale dire certe cose ai pazienti.
  Mi spiegò rigidissimo che l’alcol mi stava creando dei danni al fegato, che per pochissimo non avevo avuto danni permanenti al cervello e parlò di mille altri organi lesionati dal mio alcolismo. Aggiunse con molto astio, o almeno così mi parve, che era un modo molto stupido di morire e farsi del male, e io volevo soltanto prenderlo a calci, ma mi trattenni. E poi, ragazzi, vinsi il jackpot del senso di colpa quando concluse con “…non ha nessuno al mondo? Perché si uccide in quel modo?”
Eh…io avevo qualcuno. Due figlie e una moglie. O forse meglio dire due figlie e un’amica. Non lo dissi, lo pensai soltanto, ma il dottore continuò a incalzarmi, con modi via via meno professionali e io esplosi. Gli dissi che volevo salvarmi, ma che non avevo idea di dove iniziare. Che ero perso, sconvolto, spaventato e stordito e lui annuì soltanto.
“Proviamo queste per l’ansia. E queste per l’umore. Sono rimedi temporanei, dovrà assolutamente iniziare una terapia con uno psicologo, ma per qualche giorno basteranno le pillole che le ho prescritto. E per l’alcolismo possiamo provare una cosa abbastanza comune: la invito ad andare alle riunioni di questo gruppo di supporto. Vedrà che questa sensazione di impotenza è molto comune. Sono certo che riuscirà a trovare qualcuno che riuscirà a trovare la forza per uscire da questa situazione.”
Non ci credevo, non pensavo fosse possibile, ma poi il dottore spiegò che ero ancora all’inizio del problema, che il mio corpo avrebbe potuto rimettersi totalmente se soltanto gli avessi dato una tregua dall’alcol e così provai.
Non avevo assolutamente nessuna aspettativa, ero mostruosamente triste e mi sentivo moderatamente in colpa per il disastro della mia famiglia, e poi alle nove andai a quella riunione. Sentii altri parlare, e le loro storie erano stranamente simili alla mia, ma molto più complesse perché i loro problemi con l’alcol erano di vecchia data. Molti avevano perso tutto, il lavoro, la famiglia, non parlavano più con le mogli e con i figli, e sentii uno stranissimo brivido. Io, almeno, avevo ancora la possibilità di parlare con le bambine e se lo avessi voluto, anche con Ariel che era tutti i giorni a casa mia e mi scriveva sempre. Facevo lo stronzo con lei in quel periodo, non le rispondevo ai messaggi ed ero scontroso quando la trovavo a casa, ma se per qualche motivo evitava l’una o l’altra cosa, mi sentivo uno schifo. Potevo recuperare tutta quella situazione incasinata? Beh se mi fossi impegnato probabilmente sì. A differenza di Roy che stava raccontando la storia più triste che avessi mai sentito, mia moglie e le mie figlie non mi detestavano ancora, ed erano tutte in vita. Bel punto di partenza, no? Forse potevo provare a fare qualcosa, ascoltando loro sembrava fosse possibile.
“…e tu? Con chi è che non puoi più parlare?”
 Mi disse una voce di donna roca, e mi girai curioso a fissarla. Non era giovane, sarà stata sulla cinquantina, truccata e preparata come il personaggio di una sitcom anni ottanta, ma stranamente simpatica. Mi sorrideva gentilmente e io stringendomi nelle spalle le dissi solo che parlare non era il problema principale.
“Oh hai voglia di fare il prezioso, capisco. Però non sembri messo così male, no?” aggiunse seria e io scossi soltanto la testa, ma decisi che se volevo davvero provare a cambiare le cose dovevo impegnarmi, così le raccontai tutto da principio. Parlai di  mia madre e Josh, della mia vita senza un minimo di scopo, e delle donne che avevo a casa, dalle quali dovevo stare lontano per non rovinare loro la vita. Tutto questo in una strabiliante sintesi di circa cinquanta parole, che la lasciò molto impressionata.
“Beh sei qui Ian. Questo è un inizio. Diciamo che non sei alla base del sentiero, ma neanche a metà. Sei a un passo dalla base, e ora come ora è più semplice tornare sui propri passi che vedere il risultato, lo so. Il punto è che se farai quel passo, Ian, perderai per sempre quello che adesso si è solo allontanato”
 Fu strano quel discorso, ma lei sembrava davvero sapere quello che stava dicendo, e così l’ascoltai. Mi chiese se volessi mangiare qualcosa  con lei finita la seduta ed io pensai che fosse strano, ma decisi di assecondarla, tanto non avevo nulla da perdere. Lei mi sorrise con lo sguardo di una che la sa lunga, e disse ridacchiando “devi stare con qualcuno, perché ovunque tu vada stasera ci sarà alcol, quindi meglio che tu stia a casa con me e Big Joe…”
Big Joe era l’uomo che aveva diretto l’incontro, e mi stupì sapere che stavano insieme, ma lui fu gentile e amichevole, così decisi di andare a cena a casa loro. Era un posto assurdo, davvero, ma non c’era alcol e il cibo era fantastico. Scoprii che Loraine e Big Joe si erano conosciuti nel peggior momento della loro vita, proprio nel gruppo di supporto. Joe, un omone di colore, era ad un passo dalla galera. Viveva di espedienti e lavoretti, bevendo per dimenticare i fallimenti della sua vita. Loraine, invece, aveva appena lasciato il marito, che riempiendola di botte le aveva provocato un aborto. Mi vennero i brividi per quella storia, ma quando mi dissero che erano entrambi sobri da nove anni, pensai soltanto che fosse assurdo. Ero contento per loro, chiariamo, ma in quel periodo davvero dubitavo che si potesse resistere così tanto all’alcol.
Joe non voleva essere indiscreto, e apprezzai infinitamente il suo modo di parlarmi gentile, come a un amico che conosce tutta la sua vita. Fu Loraine a raccontargli la mia storia, o almeno quel poco che le avevo detto, e lui mi fissò costernato. Pensai che fosse perché sapeva cosa si prova a mettersi così in imbarazzo, ma in realtà mi mise una mano sulla spalla e disse solo “immagino sia davvero dura avere due lutti a così breve distanza. La mamma poi…deve fare male da morire, mi dispiace”.
Non so cosa successe in quel momento. Non era la prima persona a dirmi quella frase, e generalmente rispondevo soltanto cose per tagliare corto, come “già” o anche “succede a tutti” ma qualcosa quella sera cambiò. Non so da cosa dipendesse onestamente, magari mi ero sentito a mio agio all’idea di mostrare il mio vero dolore a una persona che non sapeva nulla di me, o forse erano stati i suoi modi e lo sguardo pieno di empatia. Non so, ma a Big Joe aprii il mio cuore. Gli spiegai del mio rapporto con mio padre, di quanto la mia mamma avesse rappresentato per me e lui e Loraine ascoltarono con molta attenzione. Non mi diedero consigli, non provarono a salvarmi, e quello mi aiutò. Gli dissi di tutto quello che era successo, e finii parlando anche di lei.
“Oh se ti ama questa donna…” mi disse Loraine, dopo aver sentito tutto, con enormi occhi luccicanti da bambina, ma io stringendomi nelle spalle le dissi solo che non sapevo se fosse amore restare con qualcuno solo perché temi che si suicidi altrimenti. “Più che amore, sembra molto di più una storiella tossica tra due adolescenti senza un futuro”.
“Wow, che immaginazione dovresti fare lo scrittore!” commentò l’omone divertito, e io risi e spiegai loro che per molti anni avevo creduto fosse la strada giusta per me, ma non lo era. Mi chiesero che lavoro facessi e lì mi strinsi nelle spalle e provai a spiegare che ero uno sceneggiatore, lasciandoli un po’ perplessi. Loraine mi chiese se fosse tanto diverso dallo scrittore, perché le sembrava la stessa cosa, ma io mi strinsi soltanto nelle spalle ancora una volta, e spiegai che era un lavoro noioso che letteralmente detestavo, perché mi costringeva a ripetere sempre le stesse scene in loop all’infinito, con zero creatività.
“…gli special di Halloween, del Ringraziamento, di Natale e poi la morte di qualche personaggio, la distruzione di qualche coppia. E stop, succede sempre questo ciclicamente…” confessai amareggiato e fu allora che Loraine mi chiese che cosa volessi fare davvero nella vita.
“Lo scrittore, no?” chiese Joe, ma io scossi la testa ancora, e spiegai che anche con quello avevo fallito.
“…non ce la faccio, non sono in grado. L’unica storia che ho mai scritto, l’ho vissuta davvero. Non ho fantasia, non sono in grado di inventare personaggi o altro, perciò come scrittore sono incapace. Diciamo che c’è un elenco abbastanza sostanzioso di cose che non so fare…” conclusi amareggiato.
“Ma se hai pubblicato un libro famoso? Come fai a dire di non saperlo fare? Non buttarti giù!” aggiunse Loraine molto dolce e gentile, ovviamente senza avere la minima idea di che libro avessi scritto in realtà, ma io non ci feci caso.
Vedete, stavo finalmente realizzando una cosa molto difficile, che non avevo mai messo a fuoco, ossia che io senza Ariel ero un uomo noioso. Piatto, assolutamente insignificante. Pensateci: non avevo grosse ambizioni prima di conoscerla, se non portarmi a letto qualche disagiata quanto me, e non ne ho avute molte altre dopo. Volevo stare con lei, avere dei bambini, e avevo fatto tutto. Adesso, a quarant’anni, non avevo più nessuna meta, e questa consapevolezza era di una tristezza disarmante.
Questa cosa mi spaventò a morte, e quando la condivisi con i miei nuovi amici, Loraine fissò confusa Joe e poi mi disse che era esattamente come la storia di una loro amica ex alcolista che dopo il divorzio era crollata, scoprendo di non aver mai avuto altro sogno o desiderio che quella sua famiglia ora in mille pezzi.
Pensai solo “ma che meraviglia…” elettrizzato all’idea di essere paragonato a una cinquantenne con la sindrome del nido vuoto, ma Loraine non capì e stringendomi la mano mi disse “e non si può recuperare questo rapporto con questa donna? Insomma sei certo che non ci siano sentimenti da parte sua?”
Non ne ero certo, non mentirò, ma le dissi soltanto che il punto non era soltanto la mancanza di mia moglie.
“Forse a quarant’anni dovrei cercare qualcosa di diverso, forse dovrei provare a dare un senso alla mia vita, indipendentemente dalla persona che ho o non ho accanto…” dissi, fissando nel vuoto. Erano parole che mi aveva detto lei, neanche troppo tempo prima, e per la prima volta capii: era questo che stava cercando di farmi vedere, ma io ero stato cieco.
“Perché non la ami più Ian?” mi chiese Loraine con enormi occhi nocciola, e io sorrisi soltanto e scuotendo la testa ammisi per la prima volta in quei mesi come stavano le cose.
“Proprio perché la amo, Loraine. Le devo un marito un po’ meno idiota e un po’ più stabile mentalmente, che sia felice di chi è, oltre che di ciò ha con lei…” conclusi sorridendo, e mentre la mia nuova amica, molto felice, diceva qualcosa, mi accorsi che qualcuno mi stava telefonando, perciò mi allontanai per un attimo.  
Rimase molto sorpresa nel sentirmi sobrio, ma io non le raccontai nulla della mia serata con i nuovi amici del gruppo di supporto, e lei non fece domande particolari.
“Sono andata da Jeff due volte stasera, ma tu non c’eri. Ho anche dovuto dare un passaggio a una tizia che aveva raccattato non so dove…una storiaccia!” provò a dire, cercando di sorridere, ma evidentemente molto nervosa, e io sorrisi soltanto e le chiesi di raccontarmela.
“Un’altra volta, magari. Tu sei in giro? Hai bisogno di un passaggio da qualche parte?” ribatté, sempre molto tesa, ma io continuai a non capire e le dissi che ero in macchina.
“…sei con una donna, per caso?” mi chiese, con tono molto allarmato.
“Ma va, figurati…”
Cercavo di minimizzare perchè non avevo voglia di raccontarle tutta la storia e speravo che quella conversazione finisse presto.
“Sei da solo? Vuoi mangiare qualcosa insieme?” aggiunse, con una voce molto dolce e allora fui costretto a spiegarle che ero a casa di amici, facendola sospirare.
“Non hai bevuto, però, mi sembra…” aggiunse seria, e io le dissi che non ne avevo voglia,e potrei giurare di aver sentito al telefono il suono del suo sorriso.
Chiusi la telefonata e spiegai a Loraine e Big Joe quello che mi aveva appena detto, e lei ripetè ancora che mi amava. Parlai tanto con loro, mi raccontarono dei loro figli e nipoti, di altri amici con i miei stessi problemi che avevano incontrato lungo la strada, e io chiesi come mai fossero così accoglienti con me. Lo sapete, sono uno che non coglie sempre le cose.
 Big Joe mi sorrise allora, con tantissima dolcezza e disse piano “non è ovvio?” lasciandomi per un attimo interdetto. Una parte di me pensava che mi avessero portato a casa loro con secondi fini, ma per tutta la serata l’avevo tenuta a bada e in quel momento venne fuori prepotente e mi disse solo “hai visto che avevo ragione?” ma poi Loraine disse piano “…perché siamo stati anche noi come te, troppo deboli per credere da soli in noi stessi e qualcuno lo ha fatto per noi. Nella nostra associazione tutti gli organizzatori sono stati salvati da qualcuno, che gli ha fatto da spalla, da supporto e quasi da famiglia, fino a che non si è rimesso in piedi. E tutti abbiamo giurato di ricambiare il favore, quindi toccherà anche a te, Ian…”
Sorrisi per quel discorso, lo trovai estremamente filantropico e mi fece pensare a lei. Per un attimo mi dissi che se davvero ci fossi riuscito, forse l’avrei resa fiera, ma poi Big Joe aggiunse “Ognuno di noi si impegna a dare la propria spalla a dieci fratelli almeno. Così da aumentare sempre di più il nostro giro, ma anche la famiglia…”
Famiglia era una parola che mi faceva molto male, perché ne avevo avute due, ma ora erano entrambe a pezzi, eppure capii che forse potevo solo io rimettere in piedi almeno la seconda. Per la prima, probabilmente avrei avuto bisogno di una forza e una serenità che non avevo mai avuto.
Insisterono molto affinché dormissi a casa loro, temevano che potessi cadere in tentazione a casa di Jeff, ma poi dopo esserci scambiati i numeri, mi lasciarono tornare a casa. Vagai per ore in giro, in cerca di me stesso e dei miei pensieri, e finii anche fuori casa mia. Non ebbi il coraggio di bussare, però, e rimasi a immaginarmele a letto, a leggere qualche favola o a chiacchierare come loro solito. Quell’immagine mi riempì di calore, e mi strappò anche un sorriso a essere sinceri, ma decisi comunque di lasciarle stare, per ora.
Sarei tornato da Ariel solo dopo aver smesso di bere e scoperto cosa volevo davvero dalla vita, perché glielo dovevo. Mi sentii strano quella notte, con una terribile voglia di bere, ma le parole di Loraine mi tornarono alla mente. Prima di lasciarmi andare, infatti, mi aveva ripetuto del percorso, insistendo affinchè non facessi passi indietro.
“Hai iniziato da poco Ian, potresti uscirne in fretta, ma devi sempre tenere a mente che tra il tuo desiderio di rendere le tue figlie orgogliose, e l’ubriacone che non si alza dal divano, c’è una sola cosa: la tua testa” e così provai a fidarmi della mia testa.
Capitolo: nuovi inizi
Fu molto difficile il secondo giorno. Il terzo tremendo, il quarto straziante, il quinto un incubo e il sesto un inferno. Ma poi giunse il settimo giorno, che odiai con tutte le mie forze, ma che mi aveva portato la consapevolezza che avevo fatto un passo avanti nel cammino verso l’Ian che desideravo, quello che avrebbe rimesso insieme i pezzi della sua famiglia.
 Avevo provato un sacco di cose in quei sette giorni, ma per ora continuavo a non avere idea di cosa fare nella vita. Avevo provato a scrivere, ma con risultati penosi. Mi ero iscritto a dei corsi di fotografia online, ma la verità era che non mi interessava fotografare qualcosa che non fossero le mie donne. Avevo vagliato altre ipotesi, dal calcio fino all’uncinetto, ma sembrava che proprio nulla fosse in grado di riaccendere la fiamma della mia anima, e così ero tornato ai libri, che da sempre erano il mio porto sicuro.
Dopo sette giorni, orgoglioso di non aver bevuto, e sereno dell’appoggio di Loraine e Big Joe, che erano diventati ufficialmente i miei sponsor del gruppo, feci un enorme passo che mi privò del sonno per giorni: tornai a casa dalle mie figlie che mi erano mancate da impazzire.
 Non fu un’improvvisata, ovviamente, avevo chiesto il permesso ad Ariel e lei aveva risposto solo “non siamo arrivati a quel punto. Direi che non serve che io ti autorizzi a vederle, vieni quando vuoi” con uno strano tono molto triste. Così mi vestii bene, mi rasai accuratamente e sistemai i miei capelli rossicci, ormai un po’ troppo lunghi, e bussai alla porta con il cuore in gola, come a un appuntamento. Mi aprì Luz, che mi stava aspettando, e loro mi saltarono addosso felici, urlandomi soltanto “sei guarito!”. Fu molto doloroso, lo ammetto, e annegai nei sensi di colpa, ma poi capii: loro non erano arrabbiate con me, non avevo ancora distrutto totalmente la loro vita, e probabilmente ero in tempo per recuperare. Me ne andai prima del ritorno di Ariel, e fu molto difficile salutarle, ma promisi loro che sarei passato il giorno dopo e dopo qualche capriccio si convinsero.
Dovevo andare al club, raccontare a tutti della mia prima settimana e di come avevo fatto pace con le mie figlie, ma Ariel mi scrisse solo “non potevi restare a cena?” e capii che c’era rimasta male. Avrebbe adorato Loraine e Big Joe, sostenuto con tutte le sue forze quella mia scelta e probabilmente avrebbe fatto volontariato con loro, ma io non ero pronto a parlargliene.
Sì, avevo ottenuto un successo, ero sobrio da una settimana, e mi sentivo meglio, ma non ero fuori pericolo. Per tutto il tempo prima di raggiungere le mie figlie, infatti, l’angoscia e il senso di colpa erano tornati e avrei dato ogni cosa per un drink. Ero agli inizi, potevo farcela, ma non dovevo affrettare le cose, così decisi di non dirle nulla. Non volevo illuderla, darle speranze e poi farla stare ancora peggio, così mi inventai una scusa per quella serata, e lei mi fece mille domande, ma poi disse solo “…come vuoi…” e non ci scrivemmo più.
Mi beccai una lavata di capo terribile da Loraine, che non voleva che spezzassi il cuore di Ariel, ma io le spiegai che stavo solo proteggendo tutti, e Big Joe approvò la mia decisione. Mi ero dato una scadenza: se fossi riuscito ad arrivare a trenta giorni sobrio, forse, avrei potuto parlarne con lei, ma non ne ero certo.
 Passai ogni giorno con le mie bambine, e ogni sera a casa di Loraine e Big Joe. Mi appassionai un sacco alla loro strana love story, e loro si appassionarono alla mia. Loraine impazzì quando le regalai una copia di Miss V, e iniziò subito a leggerlo, aggiornandomi periodicamente sulle parti che le piacevano di più e su quelle in cui ero un perfetto imbecille e qualche volta mi ero anche beccato un sonoro ceffone. So che avete avuto anche voi la tentazione di farlo leggendo Miss V.  
Big Joe non era tipo da letteratura, era uno chef in un locale di pollo fritto, ma gli piaceva sentire la storia mia e di Ariel, quindi chiacchierava con noi volentieri. Peccato che dopo mi venisse sempre molta voglia di sentire mia moglie, e quindi facevo il pari e dispari con il mio cuore per scriverle. Lei mi rispondeva sempre, e cercava anche di non sembrare troppo ferita, ma era risentita e non potevo darle torto. Avevo davvero fatto lo stronzo, e continuavo a scriverle messaggi abbastanza innocui, perché temevo di finire in un discorso troppo intimo e volevo evitare.
Le parole che aveva detto su di me erano ancora impresse a fuoco nel mio cuore, ma onestamente iniziavo a credere che non fosse vero che mi voleva a casa solo per la mia incolumità. Vedete, dopo la terza notte da sobrio, senza sapere come mi ero alzato alle nove e avevo deciso di sistemare un attimo casa di Jeff, perché sembrava ci fosse passato un tifone. Mentre ripulivo la cucina, però, non mi accorsi che qualcuno mi fissava molto incuriosita. Mi spaventai trovandomela davanti, ma finalmente non mi guardò con occhi spaventati e tristi, e per me fu un successo. Mi disse che mi aveva portato un caffè e le solite medicine, e io mi offrii di dividere con lei il caffè, ma rifiutai le medicine, spiegandole che poteva anche prenderle lei per quel giorno, facendola sorridere. Parlammo per qualche minuto, del più e del meno, e poi lei scappò a lavoro, e io la salutai con affetto e uno stupido bacio sulla fronte.
 Nei giorni successivi ci eravamo incrociati qualche altra volta, perché lei era passata a riportarmi il bucato o del cibo ed eravamo stati gentili, ma nient’altro. Aveva riso di me quando l’avevo supplicata di non portarmi più dolci e biscotti, perché stavo cercando di stare a dieta e avevo intenzione di riprendere la palestra. Vedete, ero sempre stato un salutista, ci tenevo molto a non mettere su peso, ma dal mio trasferimento in California avevo totalmente smesso l’attività fisica e con l’alcol e tutto il resto ero molto ingrassato. Lei, però, mi ripetè che stavo molto bene, e appoggiò anche la mano sul mio petto con fare affascinante, ma vedendo la mia determinazione, amaramente concluse che forse c’era qualcuno che mi voleva più magro e aveva fatto per andarsene, ma io avevo risposto solo “sì, io. Ho bisogno di riprendere il controllo del mio corpo e da qualche parte devo pur cominciare. Anche se mi mancherà la tua torta al cioccolato…” e lei aveva sorriso prima di uscire.
Trascorsero quindici giorni, e insieme a una moneta colorata fatta a mano da Loraine per festeggiare il mio primo traguardo, mi beccai anche una visita medica. Il dottore del pronto soccorso voleva controllare il fegato che era risultato ingrossato al primo controllo, e io mi presentai lì abbastanza spaventato, ma qualcosa cambiò per sempre. Ero in sala d’attesa, e me la stavo letteralmente facendo addosso. Adesso che stavo costruendo qualcosa, che stavo rimettendo in piedi il povero Ian, avevo il terrore che mi dicessero che gli sbagli fatti avevano causato danni irreparabili e che fosse troppo tardi. Lo so, è patetico, ma è così. E mentre cercavo di distrarmi, inviando strani video a Nigel e rispondendo ai messaggi di supporto dei miei due nuovi amici-sponsor, qualcuno attirò la mia attenzione. Era un ragazzino, di quindici anni circa, con il viso smunto e giallognolo e un cappello di lana. Fissava il cellulare con un sorriso inequivocabile, così gli dissi solo “…state insieme da molto?” e lui, con il solito sarcasmo degli adolescenti rispose che non erano affari miei.
“Oh…è brutta la friendzone. Mi è capitato, e l’unico consiglio che posso darti è di lasciarla immediatamente in pace e cercarne un’altra…” risposi, cercando di fare il simpatico, ma non gli piacqui. Severissimo mi rispose “al massimo un altro…” ma con l’espressione di chi è convinto di averti messo al tuo posto. Io, invece, come sapete,omofobo non sono mai stato, così gli raccontai dei baci che avevo avuto al primo pride, e poi svelai alcune perle di saggezza che mi aveva confessato Mark il miglior amico di V sui rapporti tra uomini, e il ragazzino sembrò perplesso, ma poi cedette e mi disse “…è che non posso perdere tempo, rischio di essere in fase terminale. Ma…se lui non mi ama, morirò con il cuore spezzato, ed è terribile…”
Quella frase per me fu una doccia gelata. Ok, potevo fare quello esperto di sentimenti, anche se non lo ero. Potevo sembrare esperto di relazioni omosessuali, perché avevo molti amici ma quello che stava affrontando quel ragazzino non lo avevo mai provato. Ci volle molto, moltissimo, coraggio per trovare qualcosa da dire, ma poi mi schiarii la voce e dissi solo “beh come prima cosa, se la rischi vuol dire che non sei ancora terminale. Anche io guidando ubriaco rischiavo costantemente di finire contro un albero, ma non è successo, quindi non è detto che succeda anche a te…”
Stranamente non se la prese per questa mia enorme cazzata. Io mi sarei preso a calci. Lui mi sorrise soltanto, e io continuai, chiedendogli i dettagli di questa storia, che poi era un classico cliché adolescenziale: amici, migliori amici, attrazione, bacio e poi stop. Le vacanze avevano bloccato tutto.
“Sì, ma lui è uscito con qualcuno durante le vacanze? Perché questo fa la differenza!”
Spiegai, dall’alto del mio inesistente pulpito, e lui mi fece leggere tutti i messaggi di questo ragazzo, che onestamente mi parve innamorato da morire. Così, dato che ormai non mi facevo gli affari miei, lo convinsi a scrivere quelle due parole, che andavano dette di persona, ma data la situazione “cancro” si potevano anticipare via telefono. Per tre interminabili minuti quel ragazzino sconosciuto mi tenne la mano talmente forte da farmi male. E per tre interminabili minuti mi dissi che forse avevo rovinato la vita di un ragazzino malato terminale e non me lo sarei mai perdonato. Ma poi arrivò la risposta, e quelle due parole lo resero talmente felice da dimenticare che stava aspettando di scoprire se fosse in fase terminale o meno. E resero anche me immensamente felice.
 Gli cedetti il mio turno dal dottore, perché mi sembrava che avesse cose più importante delle mie da discutere, e quando uscì, ancora più raggiante di prima, mi disse solo “nessun albero, per ora. Pare che la cura abbia funzionato. Cerchiamo di restare in strada almeno per un mese, però…” mi disse, riprendendo la mia stupida metafora, ma io non lo capii subito.
Entrai dal dottore un po’ agitato, e le notizie che mi diede furono positive, perché non avevo danni permanenti, così ne uscii di ottimo umore, ma in sala d’aspetto ritrovai il ragazzino, questa volta con un’amica. Mi disse solo “Becky è disperata, le serve consiglio” ed io sorrisi e ascoltai la sua situazione, per poi darle un consiglio. Quei due matti mi scaldarono un sacco il cuore, e così tornai a casa con una strana decisione che mi balenava nella mente.

Nota:
Ciao a tutti! Allora che ne pensate di questa strana svolta di Ian? Siete contenti che sia tornato a casa? Fatemi sapere, vi aspetto.

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Capitolo 11
*** Capitolo 18: scelte complicate ***


 
Capitolo: scelte complicate
 
Avevo deciso di andare a fare volontariato in ospedale. Big Joe e Loraine furono contrari al mio colpo di testa all’inizio, perché gli parve una situazione pericolosa, e mi tennero per ore a parlare di quanto fosse azzardato e stupido. Loraine continuava a dirmi che se mi fossi legato troppo a quei ragazzini, e loro avessero perso la vita, sarei crollato di nuovo, ma Big Joe concluse serio con un “perché non ne parli con Ariel? In fondo è la persona che ti conosce meglio al mondo, saprà sicuramente cosa è meglio per te…” e io scossi solo la testa.
 Non era facile. Dovevo confessarle troppe cose prima di arrivare a dirle “che ne pensi?” e non volevo farlo, ma Big Joe ripetè che lei era sicuramente più qualificata di loro per parlare di quella cosa.
“…Ian se la ami, se l’hai scelta come compagna di vita, dovresti cercare di aprirti con lei…” aggiunse, con fare molto serio ed io sbuffai soltanto.
“Sì, per spaventarla e deluderla ancora una volta con i miei sbagli e la mia insulsa mediocrità. Come no!” risposi agitato, ma Loraine decise di rimproverarmi ancora.
“Devi smettere di tenerla lontana, se la ami Ian. Avete costruito insieme una vita e una famiglia, ed è normale che lei debba avere voce in capitolo nelle tue scelte, come tu l’hai nelle sue. Questa storia dell’uomo che trova la sua strada da solo, non si regge in piedi e lo sai anche tu…”
Mah io pensavo che non ci fosse nulla di male, e che mostrarmi come un uomo sicuro che sa quello che vuole mi avrebbe reso anche più interessante e affascinante, ma loro pensavano fosse una sciocchezza.
 “Rendila partecipe della tua vita, dalle l’opportunità di dire la sua, almeno. Se poi non vorrà…” continuò Loraine, ma lei avrebbe voluto, ne ero certo. Solo che l’idea di rivedere quel suo sguardo preoccupato e deluso proprio non riuscivo a sopportarla. Provai a dirglielo, e lei mi mise una mano sulla spalla e disse piano che poteva capire.
“…ma nel momento in cui dirai a quella matta che vuole salvare il mondo che stai pensando di andare a dedicare parte del tuo tempo per far sorridere dei bambini malati, pensi davvero che ti fisserebbe con sguardo deluso? Perché se ho capito bene il libro, e se hai descritto bene il personaggio, io penso che ti salterà al collo, fiera e orgogliosa di quello che vuoi fare.”
Ok, Loraine era una davvero brava nella comprensione del testo, e aveva anche grosse doti persuasive, dovevo dargliene atto. Così con il cuore in gola e loro che origliavano, mi decisi a chiamarla. Spaventandola a morte, ovviamente, perché erano le dieci di sera. Ovviamente guardare l’orologio non era stata la mia priorità, ma avrei dovuto, invece. Mi scusai per l’ora e le chiesi se potessi raggiungerla in giardino, perché avevo una cosa da dirle.
“Eh…anche io dovrei parlarti...”rispose laconica, così la raggiunsi al volo a casa con le mani che mi tremavano e il cuore in gola. Voglia di bere? Al massimo, ragazzi. Avevo voglia di fare qualunque cosa avesse potuto calmare quella sensazione tremenda di disagio che mi stava uccidendo, ma non feci nulla. Ariel uscì, un po’ stropicciata e con la mia felpa e mi fece molta tenerezza, perché era preoccupata.
“Carina la felpa…” provai a dirle per farla sorridere, ma lei disse solo “…e anche profumata se consideri che non l’ho mai lavata dall’ultima volta che l’hai indossata e ho dovuto sottrarla a Buck almeno dieci volte, perché voleva dormirci sopra…” facendomi ridere nervosamente per un secondo. Faceva male essere lì con lei in quel modo, non lo nego, e il suo sguardo spaventato fece ancora più male, ma decisi di dirle tutta la verità, sperando di non deluderla ancora di più. Mi sedetti accanto a lei sul portico, chiusi gli occhi e provai a prendere aria e coraggio, ma fu lei a esordire con un “sei venuto a dirmi che divorziamo? Che ti sei innamorato?”ed io rimasi senza parole.
 Mi girai e mi accorsi che aveva le mani davanti al viso. Forse anche gli occhi chiusi, non lo so, perché non riuscii a vedere. Non si rese conto che la stavo fissando perplesso, e dopo un sospiro aggiunse solo “…per me va bene. Cioè è ovviamente tremendo, e mi fa malissimo, ma… Stai meglio e se è stata un’altra persona a restituirti l’equilibrio… sono felice lo stesso”.
Non era assolutamente vero, ragazzi, era in mille pezzi e aveva esitato un sacco nel dire quelle parole, così mi avvicinai tantissimo e prendendola tra le braccia, dissi solo “ma quale divorzio Ari, e basta sciocchezze…”
Volevo tirarle su il morale, perché mi sentivo a pezzi, e lei incoraggiata dal mio abbraccio, mi fissò con occhi bellissimi.
“Nessuna donna, te l’ho già detto. E poi non pensi che sia davvero sessista credere che io possa rimettermi in piedi solo per una donna? Possibile che tu non abbia imparato nulla?”
Volevo farla sorridere, e lei scoppiò in una risata fortissima e molto nervosa, che ruppe la cortina di ghiaccio tra noi e fece ridere anche me. Me la portai al petto in quel momento, fu un gesto automatico, e il mio cuore quasi scoppiò. Ariel si strinse forte contro il mio petto e mi diede un bacino sul collo molto dolce accarezzandomi i capelli.
Ci volle qualche minuto prima che mi riprendessi da quel contatto, e con un po’ troppa sincerità le confessassi che il nostro amore non era una cosa semplice da superare, ovviamente.
“Ma perché vuoi superarlo Ian?” mi rispose con occhi tristi e voce afflitta, ma io le dissi soltanto che non era quello ciò che stavo cercando di dirle, e chiusi l’argomento.
 Non era facile quello che avevo da confessare, e non riuscii a dire tutto.
“Sono un alcolista…” le dissi, e lei sussurrò piano “non è così Ian, è una cosa che va avanti da qualche mese e…”
Voleva difendermi, minimizzare, ma io scossi la testa e risposi “sono un alcolista Ariel, ma ho iniziato una terapia e sto cercando di riprendermi. Sono una persona fragile Ariel, e non ho bene idea di che senso io abbia per il mondo, ma ci sto lavorando…”
“E io ne sono fiera…” rispose con occhi belli da morire.
 Pensai solo “Sì, aspetta un attimo” ma poi vuotai il sacco. Raccontai di essere finito in ospedale, e del gruppo di alcolisti, e per un attimo i suoi occhi si riempirono di lacrime e divennero enormi, ma stranamente non tristi.
“Non volevo dirtelo per non illuderti, perché so che per te è importante che io mi rimetta in piedi, ma sto navigando a vista Ari e l’ultima cosa che volevo era darti false speranze…” conclusi sospirando, perché mi ero tolto un enorme macigno dal cuore. Lei, però, infilò la sua piccola mano nella mia e stringendosi di nuovo contro la mia spalla sussurrò piano che ci saremmo stati dentro insieme, e che mi avrebbe supportato, facendomi sorridere, perché era ovviamente la reazione che avevo sperato da lei.
Così le raccontai della mia mezza idea di dover trovare la mia strada e di quell’altra follia di andare a fare volontariato in ospedale e lei sorrise in modo splendido, come aveva profetizzato Loraine. Anche lei era dell’idea che potesse essere azzardato, e anche rischioso, ma io ridacchiando le dissi solo “ho un solo potere Ari, e lo sai: sono scemo e mi piacciono le storie. Dico cose buffe e faccio ridere le persone e se questo può aiutarmi con questi ragazzini, penso che dovrei provare…”  e Ariel sbuffando annuì e disse piano “…se è la tua strada, è giusto che tu faccia un tentativo. Ma non dovrai chiuderti e al primo segnale di debolezza, dovrai parlarne con me o con questi tuoi amici ex alcolisti, perché non possiamo permettere che ti succeda di nuovo quello che è capitato. Penso comunque che sia una cosa molto speciale e infinitamente bella, che tu voglia aiutare questi ragazzini, Ian…” ci sorridemmo per un attimo, e poi, signore e signori ci fu un colpo di scena infinito.
Qualcuno uscì da casa mia, un uomo sulla trentina, che sembrava una specie di modello-pirata, piuttosto sexy, ve lo confesso, e le disse piano che andava alla sua serata e le bambine erano da sole dentro, sconvolgendomi.
“E’ un mio collega Ian. Si chiama Pau, me ne avrai sentito parlare…” mi disse molto tranquilla, ma io stavo per scoppiare. La felpa, le mani, il discorso lacrimevole e gli occhi dolci e poi viveva con quel tizio? Mi venne voglia di urlare, ma lei lo capì e mi disse soltanto “…la moglie lo ha cacciato di casa, non sapeva dove andare e mi aiuta con le bambine, quindi mi sembrava giusto aiutarlo.”
“E quella stronza della domestica non ha pensato di dovermi telefonare perché c’è uno in casa mia con mia moglie? Fantastica. Adesso non le importa più della solidità della nostra famiglia…”
Ruggii furioso, come davvero non ero da mesi, ma lei rise soltanto e disse che era stata una cosa improvvisa e temporanea, facendomi gli occhi languidi. Capito gente? Osava anche fare gli occhi dolci a me. Ero furioso, e certo che avrei bevuto se fossi rimasto solo. Non sapevo cosa fare, e quando lei mi chiese perché fossi così sconvolto le confessai quello che mi stava passando per la testa e lei sorrise.
“ok, non c’è da essere gelosi e assolutamente non devi bere. Quindi adesso mi prendi la mano, e vieni dentro con me e le bambine a guardare qualcosa in tv finchè non ti sarà passato questo stato d’animo…”
Ordinò, seria ma dolcissima, e io risposi solo che in nessun modo avrei potuto farlo, perché ero furioso. Fu molto carina allora, perché mi mise una mano sulla guancia e con voce tenerissima sussurrò solo “Ian non stiamo insieme. Non abbiamo rapporti fisici e neanche emotivi di nessun genere. E’ solo un amico in difficoltà che sto aiutando senza nessun secondo fine. Non mandiamo al diavolo giorni e giorni di sobrietà per una cosa che non esiste, ti prego”.
Mi calmai per un attimo, con la sua mano nella mia e decisi di assecondarla. Così inaspettatamente trascorsi un’ora con loro sul divano e devo dirvelo: ogni mia emozione negativa scomparve. Le bambine generalmente dormivano a quell’ora, ma Ariel aveva deciso di tenerle sveglie solo per me e funzionò. Con la mia famiglia, su quel divano su cui ero collassato mille volte, mi sentii stranamente forte e la voglia di bere si calmò. Non passò, ma non passava mai del tutto, però loro avevano iniziato a sorridermi, e quello mi bastava.
“Stavo pensando una cosa…” mi disse, dopo aver messo a letto le mie figlie. Ero ancora geloso e seccato per la storia del tizio che viveva a casa nostra, ma lei era carina e io avevo voglia di un contatto con lei, così le dissi di sedersi sulle mie gambe, come facevamo sempre prima. Lei mi fissò perplessa, ma acconsentì.
“…Insomma tu hai studiato letteratura, sei qualificato per insegnare e vuoi aiutare qualcuno, così pensavo che potresti venire alla mia associazione. Hanno un doposcuola di quartiere, e magari potresti aiutarli. E’ sempre volontariato, ci sono sempre i ragazzi, ma questi sono un po’ difficili e oserei dire anche stronzi, ma in buona salute. Insomma il peggio che può succedere è che ti facciano arrabbiare o ti rubino la macchina, ma…”
“Che diavolo di ragazzini sono?”
Chiesi divertito e lei si strinse nelle spalle e disse piano “sfortunati Ian. Abbandonati, incasinati, contesi tra assistenti sociali e spaccio. Ai margini della società, insomma. Però almeno non rischiamo che tu debba affrontare un altro lutto…”
“Rischio di essere ucciso io…”conclusi ridacchiando, ma non era una cattiva idea. Forse era meno estremo del volontariato in ospedale, e un tantino più adatto emotivamente. Lo scrissi ai miei due sponsor, che mi avevano tenuto d’occhio scrivendomi tutta la sera ed entrambi lo approvarono, così le dissi che lo avrei fatto.
“…puoi chiedere loro anche se è il caso di sistemare il garage? Perché sono mesi che te lo chiedo e a quanto pare questi due hanno il potere di farti fare quello che reputano giusto…” mi rispose divertita, ma aveva un sorriso accecante, e lì capii che malgrado fossi all’inizio, avevo fatto un enorme salto in avanti nel mio percorso, perché quello sguardo languido e quel sorriso, per me era molto vicini al traguardo.
“Resta Ian, stiamo così bene insieme…” mi sussurrò, occhi negli occhi, e io mi sciolsi totalmente. Volevo restare, volevo tenerla stretta per tutta la notte, ma non potevo perché era presto, così con un dolcissimo bacio sulla fronte le sussurrai solo “…più avanti Ari, te lo prometto” e lei un po’ delusa mi diede la buonanotte.
Feci per uscire, ma poi ricordai che anche lei aveva qualcosa da dire, o almeno così aveva detto, così glielo chiesi. Per un attimo fu indecisa, non sapeva se dire o meno quello che doveva, ma poi tagliò corto dicendo solo “più avanti Ian…” lasciandomi a farmi mille domande.
Nota:
Ciao a tutti! Vi anticipo che non manca troppo al finale, quindi preparatevi per questo addio. Io ho pianto un po' scrivendolo. Allora che ne pensate di questa nuova situazione familiare? Delle sfide di Ian? Ce lo vedete a fare il prof? Un saluto!

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Capitolo 12
*** Capitolo 19 e 20 ***


Capitolo: Ian in tutte le salse
Ero terribilmente agitato all’idea di dover insegnare qualcosa a qualcuno, proprio io che ero letteralmente un insieme di sbagli accorpati a un mucchio di paroloni. Eppure lo feci: entrai in quel doposcuola e mi spaventai, all’inizio. Poi, però, iniziai a parlare con loro del motivo per cui erano in quel luogo, di chi fossero e lo trovai d’ispirazione. Erano un branco di undici ragazzini, di età miste. Il più grande T. J. Slash aveva diciassette anni e un figlio dell’età delle mie gemelle. Gli serviva il diploma, ma era messo male e mi disse che probabilmente non ce l’avrebbe fatta. Alcuni erano più piccoli, di diverse etnie ma tutti di un’unica estrazione sociale: poverissimi e dimenticati. Il primo pomeriggio che avevo con loro, sforai. Volevo conoscerli uno a uno prima di aiutarli a fare i compiti, così dedicai loro delle ore extra. Molti se ne andarono, ma T.J e il suo amico Santi decisero di restare, perché dovevano preparare un saggio su un libro che avevano letto. Senza capirlo.
Per scelta non vi annoierò con questioni didattiche che non interessano a nessuno in questa storia, quindi tirate un sospiro di sollievo. Non adottai un modo “giovane” per parlare di quel libro, anche perché onestamente non ne conoscevo nessuno, ma glielo spiegai, cercando di usare le mie capacità di satira e sintesi, e funzionò. Quando poi scoprirono che ero il marito di “quella fica di Ariel”, però, parecchi ragazzetti iniziarono ad avercela con me, ma feci finta di nulla e gli dissi solo che chiamarla apertamente “fica” non sarebbe stata una buona idea.
Era stata una buona idea quella del volontariato presso la sua associazione, e lo capii subito. Certo erano strani e spaventosi quei ragazzini, ma mi piaceva un sacco lavorare con loro. Era frustrante a volte, quando Kyle non capiva la differenza tra soggetto e complemento, era fastidioso quando mi prendevano in giro, ed era letteralmente odioso quando cercavano di farmi perdere tempo approfittandosi del mio essere logorroico, ma mi rendeva felice aiutarli.
 Come dicevo Ariel se ne accorse immediatamente, ma dopo la seconda lezione ne ebbe la certezza, quando mi sentì gioire smodatamente perche Santi aveva finalmente colto una metafora nel testo.
“…sembra che qualcuno sia riuscito in una grossa impresa!”
Sussurrò con dolcezza, per poi restare ad ascoltarmi mentre per venti minuti le raccontavo di quanto era stato bravo il mio alunno, sorridendo e basta.
“E quindi sono dei cafoni maschilisti, eh?” chiese, addentando un panino al volo in un posto in cui ci eravamo fermati, dopo la mia seconda lezione. Sapevo che avrebbe voluto dar loro una lezione per averla definita fica, ma le chiesi (o meglio dire la supplicai) di lasciar fare a me e lei riluttante accettò. Il giorno dopo li annoiai talmente tanto con la letteratura romantica e il rispetto per le donne, da spingerli a non dire mai più quella parola in mia presenza. Davvero, eh. Se qualcuno provava a dire qualcosa di offensivo o comunque triviale nei confronti delle donne, gli altri lo rimproveravano mentre io preparavo l’ennesimo sermone. Le due ragazze presenti, però, ne erano entusiaste.
 Nel frattempo io e Arial riprendemmo a uscire insieme, anche se non erano uscite galanti. Mangiavamo insieme dopo la mia lezione, e facevamo due passi chiacchierando di un po’ di cose e poi la salutavo per andare alle riunioni del gruppo di supporto, tutte le sere. Io le avevo ripreso la mano, perché mi veniva naturale, e continuavo a stringerla per lo stesso motivo, ma lei era risentita perché non tornavo a casa, quindi la situazione era abbastanza strana, anche se dolce. Per tutta la settimana continuò quel rituale, e riscoprimmo una certa tenerezza fatta di sguardi, mani che si stringono e sospiri, che non c’era più da qualche mese tra noi. Mi chiese soltanto un’altra volta di tornare a casa, in quella settimana, ma io le dissi della mia regola del mese e di quanto avessi paura di affrettare le cose, e lei scosse solo la testa.
“Però con le bambine sei presente, e non capisco che senso ha fare il padre ha distanza…” mi disse serissima, e lì mi venne un mezzo infarto. Voleva che tornassi per le bambine, non per noi. Mi offesi volevo chiudermi in me stesso e dirle solo “ok”, ma poi decisi di smettere di fare sempre gli stessi errori e dissi apertamente che la mia intenzione era di tornare a casa come marito, non come padre.
“Lo vorrei anche io, Ian…” aggiunse, fissandomi con un sorriso.
“Allora possiamo solo aspettare un po’?” chiesi, un tantino più tranquillo accarezzandole la guancia, ma lei scosse soltanto la testa ed io rimasi per un attimo di stucco.
“Ian c’è una cosa che devi sapere, ed è che ho bisogno di te come padre, prima che di te marito…”
La strinsi forte, allora, non capendo assolutamente nulla di quello che stava cercando di dirmi. Sussurrai piano che capivo e le chiedevo scusa, perchè probabilmente era stato terribilmente duro per lei gestire le bambine da sola, ma lei scosse la testa e sussurrò appena “no Ian, non volevo dire questo, ma una cosa più importante…”
Non capii, non subito (come sempre) ma lei aggiunse piano “…Olive e Audrey hanno bisogno di te, ma non sono le uniche e…vorrei farti conoscere una personcina”
Ok, avevo capito. Forse. Mi sciolsi, avevo un groppo in gola terribile, ma lei mi porse un video con il cellulare e morii sentendo quel rumore.
“Un cuoricino solo…” bisbigliai appena, ma soffocato dalle lacrime e lei ridacchiando rispose “sì, è la prima cosa che mi sono fatta giurare dal medico!”
Un altro cuoricino, uno che non dovevo deludere questa volta. Rimasi per un attimo a chiedermi come diavolo fosse successo e soprattutto quando, e lei mi spiegò tutto. Era capitato poco prima la morte di mia madre, quando eravamo ancora vicini, ma lei lo aveva scoperto tardi. Pensai solo che ci fosse qualcosa di stranamente poetico in quella storia, perché era interessante che avessi concepito un figlio immediatamente prima del peggior momento della mia vita, sembrava una sorta di regalo della mia mamma, ma non condivisi con lei i miei pensieri.
“…E’ grave quando ti perdi così nella tua testa…” aggiunse un po’ divertita, ma io le dissi piano che avrei voluto saperlo subito, che probabilmente le cose sarebbero state molto diverse e lei annuì alzando un sopracciglio.
“E’ per questo che te l’ho detto appena l’ho scoperto, ma tu eri sbronzo, non te lo sei ricordato, poi mi hai fatto una scenata e io ho rimandato. Quando poi hai detto che non eri in grado di essere il padre di nessuno, ho rimandato ancora. Mi sembrava la cosa giusta da fare, darti tempo, non stressarti…”
Era la cosa giusta, lei aveva rispettato i miei tempi, peccato che io fossi un idiota. Rimasi per un po’ senza parole e lei rispettò quel momento e si sedette accanto a me in silenzio.
“…e sta bene?” le dissi all’improvviso, emergendo dalla marea di idee e pensieri che mi aveva sommerso e lei sorridendo annuì soltanto, con un bellissimo sorriso.
“voi Watt avete le spalle forti…” mi disse ridacchiando, ma io scossi solo la testa, e le dissi che se i nostri figli si sarebbero mai rivelati forti, non era certo per merito mio, che ero un’inutile uomo senza volontà.
“Chiedere aiuto dimostra forza Ian. Rialzarsi dopo una caduta, anche. Riprendere in mano la propria vita dopo mille casini idem. E smettila di vederti sempre così negativamente…” mi disse molto piano, ma io le presi soltanto la mano.
“E tu?”
Sussurrai fissandola e lei scosse solo la testa.
“Fisicamente bene, emotivamente…molto fragile…” rispose, abbassando lo sguardo e in quel momento decisi di abbracciarla.
Restammo abbracciati in silenzio quella sera, per parecchio tempo. Non era una cosa normale tra noi il silenzio, ma non era un brutto segno. Sembrava quasi che quello che ci fosse da dire non potesse essere espresso a parole.
“Mi dispiace Ariel…” tirai fuori, improvvisamente, interrompendo il nostro momento di pace e lei sorrise soltanto.
“Sul serio, sono stato penoso. Ti ho lasciata sola ad affrontare due bambine e una gravidanza, comportandomi come un deficiente. Deve essere stato veramente difficile…”
Le dissi serio e anche costernato, ma lei ridendo rispose “Difficile è allattare due gemelle contemporaneamente mentre ceni. Una cosa complessa, che però con l’abitudine si può fare. Essere incinta, sola con due gemelle e con due nonni rompicoglioni, e con l’uomo che ami in modalità autodistruttiva è più simile alla mia idea di inferno…” spiegò, cercando di essere divertente, ma non risi. Mi segnai mentalmente che mi aveva definito “l’uomo che ami” e stop.
“…ma Ian, tutti abbiamo i nostri momenti no. L’importante è che sia passato…” aggiunse carina, prendendomi il viso con le mani e io mi presi quelle carezze, appoggiando la guancia sinistra alla sua mano.
“…però puoi tornare a casa, per favore? Se non vuoi stare con me, se non vuoi dormire insieme perché ti sembra presto, a me sta bene, abbiamo molte stanze…”
Concluse, ed io pensai solo “oh” perché per qualche strana ragione non mi piacque quella puntualizzazione. Insomma, ok, non volevo illuderla con la mia sobrietà per poi spezzarle il cuore in seguito, ma se stavo per diventare di nuovo padre le cose non erano più come prima. Adesso non potevo permettermi di bere di nuovo. Dovevo avere almeno un figlio che non mi aveva visto ubriaco, era un imperativo categorico, porca miseria. Perciò potevamo anche tornare insieme, perché non mi sarei mai permesso di riprendere a bere.
“E se, per ipotesi, io volessi stare insieme?” tirai fuori, non so con quale coraggio, e lei mi fissò per un attimo perplessa e rispose “beh per ipotesi, saresti un matto! Mi hai detto che era presto per giorni…”
“Sì, ma capisci che lo scenario non è più lo stesso?” provai a dire, ma lei scosse la testa e rispose triste “non voglio forzarti a fare qualcosa per cui non sei pronto, e ho troppa stima per me stessa per stare con qualcuno che mi vuole solo per mio figlio….”
“ma sei impazzita?” le dissi agitatissimo, interrompendola, ma lei mi mise due dita sulle labbra e sussurrò piano “torna a casa, lavoriamoci, ma per ora direi che siamo ancora nella fase ‘amici’…” e poi mi diede le spalle e salì in macchina.
“Vorrei rientrare stasera. Immagino che sia molto complesso per te con le nausee far fare colazione alle gemelle. Per questo hai perso molto peso…” le dissi, raggiungendola in auto e lei annuì soltanto.
“Un incubo…” commentò con un sorriso, e io annuii soltanto, ma fummo silenziosi per tutto il viaggio. La lasciai in giardino, per andare alla riunione, ma eravamo d’accordo che sarei tornato a dormire a casa quella notte. Ero veramente sottosopra, però. Non volevo essere suo amico, volevo tenerla a letto e accarezzarle la pancia, ma ovviamente l’avevo rifiutata per troppo tempo e lei era sulla difensiva, era normale.
Non ascoltai nulla di quella riunione e continuai a guardare il video che mi aveva mandato, con il mio piccolo cuoricino nuovo. Volevo essere a casa, più di tutto quella sera, e quando raccontai tutto a Loraine e Big Joe mi beccai un ceffone sulla testa, perché “era ovvio che dovessi stare con lei quella sera!”
Raggiunsi casa mia, recuperai la chiave ed entrai. Accesi la luce per attraversare il soggiorno e persi dieci anni di vita, perché beccai due persone impegnatissime a darsi da fare sul mio divano.
 
Capitolo:
 Pensai solo “muoio” ma la persona avvinghiata a Pau era una signorina asiatica e fortunatamente non mia moglie. Ci misi qualche secondo a riprendermi, e mi persi nelle mie considerazioni, ma a qualcuno non piacquero. Sapete che fece quel matto? Mi urlò contro di smettere di fissare sua moglie nuda e andarmene, e lì ve lo dico, rimasi per un attimo frastornato e confuso, ma poi finalmente mi riscossi e ruggii furioso di andarsene e lasciare in pace mia moglie.
“Lasciala in pace tu quella povera Ariel, se poi fissi le mogli degli altri con quella lascivia…” rispose furente e io mi chiesi solo quando avessi dato l’impressione di fissare quella signorina, perché onestamente non avevo neanche notato che fosse senza vestiti. Ritornai al punto di partenza e gli dissi di lasciare in pace mia moglie e lui ripetette che dovevo lasciarla in pace io. Sembrava un western con i pistoleri malati di mente che ripetevano sempre le stesse cose, ma poi uscimmo da quell’empasse quando lui mi gridò “Hai davvero pensato che volessi soffiarti la moglie?”
 Risposi solo che conoscevo il valore della mia compagna, che sapevo quanto poco ci volesse ad innamorarsi di lei e quanto fosse straordinaria, quindi mi sembrava ovvio che lui ne fosse innamorato. Sapete che fece lui? Rise. E non poco, eh. Rise di me in modo cantilenante e fastidioso, e mi spinse a desiderare soltanto di prenderlo a calci ancora di più, e non credevo potesse essere possibile. Poi, però, disse le parole giuste.
“Tu sottovaluti davvero Ariel, se pensi che un uomo possa starle vicino solo per amore o lussuria. Che disgustoso pagliaccio che sei…” ruggì disgustato, e per un attimo rimasi perplesso.
“Tua moglie è una brava persona, cosa che tu non sei. E’ responsabile, cosa che tu non sei, ed è gentile. Aiuta la gente, è intelligente e altruista, ma tu pensi soltanto che un uomo possa volersela scopare. Non riesci a capire che per alcuni, un’amica come tua moglie possa essere una ricchezza…” mi disse severissimo, e mi sentii in colpa. Davvero. Pensai che avesse ragione lui, Ariel aveva moltissimi amici uomini, e che forse non dovevo giungere a conclusioni così affrettate, così mi scusai e li lasciai a continuare, sul divano.
Raggiunsi Ariel in camera, per dirle che ero arrivato e darle la buonanotte, e per un attimo mi tremò il cuore. Erano tutte e tre a letto, a leggere una di quelle noiosissime favole educative di Ariel, ma le gemelle impazzirono rivedendomi.
Lei annuì soltanto, dandomi il permesso di avvicinarmi e mettermi a letto con loro, mentre le gemelle chiedevano a gran voce di continuare la favola di Ruby e Tim. Voi ora vi state chiedendo di che diavolo si tratti, e adesso ve lo spiegherò: prima di dormire giocavamo sempre insieme a inventare una storia. Io davo loro delle parole strane e le guidavo nella composizione, ma le lasciavo anche libere. Era un esercizio per allenare la loro fantasia, ma anche per aiutarle a rilassarsi e a dormire, infatti quella notte crollarono in pochissimo tempo. Rilassava un sacco anche me quel gioco, che spesso mi appisolavo giocando con i loro capelli e annusando il loro profumo.
“Ti ho preparato la stanza che una volta era la mia…” mi sussurrò Ariel piano, con un bellissimo sorriso e io la ringraziai e sbadigliando feci per alzarmi quando lei sussurrò piano “Niente coccole della buonanotte per me?” facendomi sorridere.
“Avevi detto ‘amici’ no?” le sussurrai piano, avvicinandomi al suo lato del letto e lei annuì e disse piano “…e gli amici si abbracciano, sai?” facendomi sorridere.
La strinsi, con tantissima forza, e lei sussurrò solo “mi sei mancato troppo Ian. Persino il tuo odore sul cuscino mi mancava…” spingendomi a baciarla. Fummo entrambi scossi da un brivido per quel bacio, e onestamente fu bellissimo.
 “Hey…” mi sussurrò dopo con un sorriso bellissimo e io risposi solo “Hey” facendola ridere e spingendola a baciarmi ancora.
“Siamo veramente incoerenti…” mi disse dopo un po’ sorridendo, ma io spiegai solo che gli amici si baciano, facendola sorridere.
Fu molto difficile lasciarla lì, soprattutto perché avevo veramente l’impressione che se avessi insistito un po’ sarei riuscito a dormire con lei, ma non volevo forzarla. Decisi di fare il marito perfetto, e riconquistarla, così iniziai a darle di nuovo tutte le piccole attenzioni di prima. Le facevo trovare la colazione pronta, avevo mille premure e lei era felicissima.
 Loraine e Big Joe erano di grande supporto e mi dissero che potevo anche evitare qualche riunione, ma io ne parlai con Ariel perché non volevo saltarne neanche una e lei acconsentì e si offrì di venire con me qualche volta.
“Più avanti amore…” le dissi, accarezzandole il viso, mentre preparava la cena e lei sussurrò piano “…eh ma se mi chiami amore così, non è semplice restare amici…”facendomi sorridere.
“Sei mia moglie Ariel, l’amore della mia vita, la mia fantasia romantica, come pensi che potrei mai essere tuo amico?”le sussurrai piano e lei mi sorrise.
 “…ma so quanto amore c’è voluto per fare l’amica…” facendola sorridere e beccandomi un altro bacio.
“Purtroppo questo amore c’è, c’è sempre stato…” mi rispose, vicinissima alle mie labbra e io le dissi solo “purtroppo?” facendola ridere e spiegare che lei era felice quando era una stronza insensibile.
 Ci avvicinammo quella notte, e dormimmo tutti e quattro insieme. Ariel piano piano tornò a comportarsi da moglie, a coccolarmi e baciarmi sempre, ed io provai ad essere un compagno perfetto, ma ovviamente essendo io, ero al massimo passabile.
Nota:
Ecco qua! So che ve l'aspettavate, sono capitoli che dissemino indizi su questo piccolino. Siete contenti? Vi piace questo riavvicinamento o vi sembra forzato? Vi aspetto!

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Capitolo 13
*** Capitoli 21 e 22 ***


 
 
Capitolo: un padre
Lavorai ancora su me stesso e poche sere dopo il mio ritorno a casa decisi di dover affrontare un grosso demone. Io e mio padre non ci eravamo mai sentiti in quei mesi. Ero certo che non sarei mai stato in grado di parlargli senza la mamma, ma dopo una lunga chiacchierata con Ariel, decisi che anche quella cosa doveva cambiare, così alzai il telefono.
Sapete come andò? Bene! Lui stava aspettando la mia chiamata, e me lo disse subito, anche un po’ risentito, ed io risposi che anche io aspettavo la sua, lasciandolo senza parole.
“ma non importa. Come stai papà?” chiesi serio, ma lui rispose solo “tu come stai. So di quello che ti è successo, stavo mettendo via i soldi per venire a trovarti, ma mi sembra che tu stia meglio…”
Rimasi senza fiato, davvero, e per un attimo dovetti mordermi le labbra per non piangere, perché per la prima volta mio padre si era preoccupato della mia salute e voleva addirittura attraversare l’oceano per me. Solo dopo un po’ gli spiegai che stavo provando a sistemare le cose, ma che sarei stato felicissimo di vederlo, in qualsiasi momento.
“…anche perché ho una cosa importante da dirti” aggiunsi serio.
“Ascolto…” rispose laconico, come suo solito e allora gli dissi del mio bambino, facendolo sorridere.
“Finalmente una notizia sensata in questo periodo di merda…” sentenziò contento e io pensai che avrei dovuto dire le stesse parole ad Ariel quando avevo saputo del bambino, ma forse sarebbe stato poco romantico. Gli raccontai un po’ tutto di quel periodo, anche del gruppo di supporto e del volontariato e lui mi disse che era una gran bella cosa.
“Sei sempre stato perfetto come insegnante, tua madre era certa che avresti fatto quello. Probabilmente però gli anni di ripetizioni a Gerard ti hanno fatto passare la voglia…” mi disse divertito, ricordandomi di quanto fosse una capra distratta il mio fratellino, e mi misi soltanto a ridere.
“Papà mi serve un consiglio…” continuai, sorprendendolo perché mai avevo chiesto consiglio a lui, ma ero a corto di figure di riferimento e mi era rimasto solo lui. Gli spiegai che la notte precedente non avevo chiuso occhio, perché volevo riportare Ariel a casa. Sapevo che le mancava la famiglia, e che per lei sarebbe stato molto brutto avere il bambino lontana da tutti, anche perché con le gemelle aveva scelto un ospedale più vicino a sua nonna che a casa nostra. Non ne avevo ancora parlato con lei, ma stavo cercando un modo per fare questo grande passo, anche per ringraziarla di aver abbandonato tutto per me.
“Beh non mi sembra che tu sia al verde Ian, magari ti puoi permettere di restare in Inghilterra per un po’ senza lavoro…” mi disse serio e io tirai fuori i miei calcoli, quelli che mi avevano tenuto in piedi la notte precedente.
Sì, potevo permettermelo, e se avessi venduto la casa in California avrei potuto anche andare direttamente in pensione, ma avrei comunque costretto loro a vivere una vita meno agiata di quella che avevamo sempre desiderato per la mia famiglia.
“Ian e secondo te ad Ariel importa davvero? Perché tua moglie non mi sembra affatto una materialista…” aggiunse serio e io sorrisi, perché era vero, ma se le mie figlie invece fossero state diverse da grandi? Se mi avessero odiato e rinfacciato per sempre che le avevo costrette a vivere una vita semplice?
“Le tue figlie? Figlie tue e di quella matta? Ti sembra possibile?” ribattè divertito e io non capii, fino a quando mi spiegò che i figli sono come i genitori “…se i genitori sanno fare il loro lavoro. E se voi siete persone semplici, lo saranno anche loro.”
Mi rincuorò il discorso di mio padre, e mi diede anche nuove speranze. Parlammo ancora per un po’, anche del nostro rapporto e gli dissi che ormai avremmo dovuto comunicare da soli, e che serviva un po’ di pazienza da parte di entrambi, perché senza la mamma probabilmente non ci saremmo capiti facilmente.
“Che Dio ci aiuti…” rispose ridacchiando, ma poi concluse dicendo che sarebbe stato molto felice di avermi a casa con lui “…anche se a quanto pare dovrò far sparire le birre da casa, ma non sarà un sacrificio. Però sono orgoglioso di te, ragazzo, cerca di non mollare…”
E lì ve lo dico: piansi. Non poco. Per tutta la vita avevo aspettato quelle parole, e sentirle fu veramente emozionante. Ariel mi trovò in lacrime nello studio, e per un po’ rimasi a piangere sulla sua spalla. Quando le spiegai il motivo delle mie lacrime, si commosse anche lei e mi disse piano “io sono sempre stata orgogliosa di te, se conta. Dell’uomo che sei, del padre che sei diventato e del tuo cuore…”
E niente: piansi ancora di più perché si sa, l’amore è cieco, ma la stima devi guadagnartela. Le dissi che nei mesi precedenti non me l’ero meritata, che l’avevo delusa e ferita, ma lei scosse la testa e mi sussurrò piano “devi imparare a perdonarti amore, altrimenti non andremo mai avanti…”.
Quella notte non le parlai del mio desiderio di trovare un lavoro a Londra, ma decisi di farlo il giorno successivo. Speravo che avrebbe reagito in modo positivo, ma non ne avevo idea, perché comunque lei amava anche il suo attuale lavoro. Un po’ mi angosciava l’idea di smettere con il doposcuola, ma ero abbastanza certo di poter trovare un’attività simile anche a Londra.
E così, immerso in mille pensieri, rientrai a casa quella sera, ma sembrava non esserci nessuno. Provai a chiamarla,allora, ma il suo telefono era a casa e seguii il rumore che mi portò fino alla sua stanza, dove c’erano i vestiti che aveva messo quella mattina stesi sul letto e poi notai una cosa che mi fece sorridere. Ancora una volta, come mille anni prima, dal mio bagno personale veniva fuori musica e rumore di acqua.
Pensai che fosse un’idea tremenda, perché lei non era ancora pronta a riavvicinarsi così tanto a me, ma entrai comunque e lei sorridendo mi disse solo “che dejà vu…”
“Vuoi che esca?” provai a chiederle con dolcezza, ma lei scosse solo la testa e sussurrò “stavo proprio pensando alla nostra prima volta, che tu ci creda o no…”
Le sorrisi e annuii soltanto, perché anche io ci avevo pensato un milione di volte quando eravamo lontani.
“…e ti stavi maledicendo per esserci caduta?” le chiesi facendo lo scemo, ma lei sussurrò soltanto che non ci avrebbe mai creduto che qualche anno dopo sarebbe diventata la madre dei miei figli.
“Eh sì, ha sempre sorpreso anche me questa cosa, dato che potevi avere letteralmente chiunque al mondo…” aggiunsi, cercando di sdrammatizzare, ma troppo vicino a lei nella vasca.
“…ma io non ho mai voluto nessun altro” sussurrò piano, fissandomi con occhi languidi, spingendomi a baciarla per un po’.
“che succederebbe se ti dicessi che ti vorrei qui con me?”mi sussurrò allontanandosi dalle mie labbra, con due occhi belli da morire. Sorrisi soltanto ma la accontentai e lì capii che forse mi ero innamorato di lei ancora più di prima. Toccare di nuovo il suo corpo, stringerla e mescolare i nostri sguardi e sospiri fu dolce, intenso e letteralmente travolgente.
“Ed è solo l’inizio…” mi sussurrò lei piano, uscendo dalla vasca, facendomi sorridere.
 Eravamo tornati insieme quella sera, e le avevo anche parlato del mio piano di tornare a Londra, rendendola la donna più felice del mondo. Forse non ci saremmo riusciti prima dell’arrivo del piccolo, ma entrambi eravamo entusiasti all’idea di rivedere casa nostra.
 
Capitolo:
Arrivai rapidamente alla medaglia del secondo, del terzo e del quarto mese, e continuai a dedicarmi al doposcuola. Mi rendeva davvero felice, e non mi pesava neanche correggere i loro saggi nel weekend o ripassare la letteratura nel tempo libero. Ariel sorrideva un sacco quando mi vedeva impegnato con le mie lezioni, ed io ormai avevo iniziato a usare anche Ody e Olly per le mie spiegazioni, perché cercavo in ogni modo di rendere le cose semplici. Mi appassionava l’insegnamento, e purtroppo ormai mi ero affezionato a quei ragazzacci mezzi vandali, che mi facevano sempre arrabbiare, ma anche sorridere. Volevo davvero, con tutta l’anima, che TJ prendesse quel cavolo di diploma, e lo avevo preso sotto la mia ala protettiva, facendo un numero incredibile di straordinari con lui.
 Loraine e Big Joe erano orgogliosi di me, e me lo ripetevano costantemente. Ero diventato un membro rispettabile del mio gruppo, e sebbene fosse troppo presto per diventare a mia volta uno sponsor, avevo aiutato i miei due supporter nell’impresa con un nuovo arrivato nel gruppo. Ariel si era affezionata a loro, li aveva invitati spesso a casa. Loro parteggiavano sempre e comunque per me, anche se a volte Loraine mi rimproverava perché facevo stancare troppo la mia signora incinta.
Ovviamente Ariel si comportò esattamente come durante la gravidanza delle gemelle, ed io morii di paura. Si sentiva sempre wonder woman, ed era instancabile, ma io avevo davvero paura che potesse farsi male, così con i miei modi languidi glielo dicevo il più possibile, ma non venivo ascoltato.
L’ultimo giorno di lezione con i miei ragazzi, ero disperatamente commosso. Sapevo che alcuni li avrei rivisti dopo poco, mentre altri, tra cui Santi e TJ avrebbero continuato la loro vita al di fuori della scuola. TJ era il mio preferito, un caso disperato che voleva soltanto lavorare con le auto e crescere suo figlio JR (sì, era una famiglia con i nomi parecchio corti) ma aveva bisogno di quel maledetto diploma. Eravamo certi che non glielo avrebbero dato, ma poi grazie a una lunghissima opera diplomatica dell’associazione, della madre di Tj e del preside che decise di volersero togliere dai piedi, ce la fece.
Ragazzi piansi a dirotto il giorno della cerimonia del suo diploma. Per fortuna ero a casa e la stavo vedendo in streaming, quindi potetti dare fondo a tutte le lacrime del mio cuore senza essere scoperto. O almeno mi illusi che fosse così, ma ovviamente chiunque capì come stavano le cose.
Ariel mi prese in giro un po’, perché a quanto pare si vedeva che avevo pianto, ma poi cucinando osservò distrattamente che lei aveva sempre detto che il mio cuore fosse simile al suo, malgrado io l’avessi sempre negato.
“No, tu sei cuore di pietra e non piangi mai…” le dissi, afferrandola per il bacino per farla ridere, e le mie figlie intervennero minacciandomi di morte per aver detto una cosa così crudele della loro amata mamma, “che invece aveva pianto così tanto”. Ragazzi io stavo scherzando, ma morii per quella frase così dura delle mie figlie. Mi si stampò in viso il senso di colpa, e Ariel cercò subito di sdrammatizzare e farmi sorridere, ma io rimasi sovrappensiero per un po’.
“Ian hai capito, vero, cosa intendevo dire?” mi chiese, mezz’ora dopo, e io le dissi che ne avevo una vaga idea, ma non ero certo.
“…ma se te lo ripetevo sempre quando eravamo due fidanzatini. Il tuo cuore è come il mio, e non potrai mai essere felice con uno stupido lavoro d’ufficio.  A te serve aiutare la gente, sentire di avere uno scopo nella vita…” mi disse molto seria, e io mi strinsi solo nelle spalle.
“Lo sai…con la tua laurea potresti insegnare, e a quanto pare saresti anche bravo, TJ ne è la riprova. Magari cresceresti una generazione di distratti cronici, ma trasmetteresti loro le tue idee e i tuoi ideali, e sicuramente la tua passione. L’ho visto con tutti i tuoi alunni, e non puoi negarlo…” concluse, con enormi occhi di una bellezza assurda e io mi strinsi nelle spalle e risposi che non avrei guadagnato nulla come insegnate.
“…beh avremo una vita più semplice, ma magari felice…” concluse piano, ed io le promisi solo di pensarci.
Un insegnante? Io? Con tutti gli errori che avevo fatto? Mi sembrava una follia, e poi avrei dovuto rinunciare al mio stile di vita e a tutto il resto, ma per i miei sponsor era una buona idea. Big Joe mi disse serissimo che nessuno è bravo a insegnare come chi è caduto molte volte nella vita, ed io rimasi a riflettere su quella frase un po’ troppo a lungo, forse, dato che sua moglie si infuriò con me che non l’avevo ascoltata.
Pensai molto alla questione “insegnamento sì o no” e chiesi il parere di molte persone, anche di T.J. che mi disse “cazzo, sì!”. Poi sentii anche Jimmy e per ultimo mio padre, che mi ricordò di nuovo delle mie lezioni con Gerard.
“Alla fine aveva preso la sufficienza, quindi hanno funzionato…” concluse serio ed io risi soltanto, ma continuai ad avere mille dubbi. Ariel, invece, ovviamente era certa che sarei stato perfetto.
Ci volle qualche giorno prima che io prendessi la decisione definitiva, e fu mio padre a convincermi. Mi richiamò una settimana dopo, dandomi una notizia assurda. Ero in auto con le bambine quando chiamò e mi disse secco “ho sentito un po’ di gente, cercano un professore nel liceo che hai frequentato. E Cristal ha chiesto a Mary, che ha chiesto a non so chi, e ha detto che se volessi insegnare al college potresti avere una collaborazione per qualcosa sulla scrittura.”
Mi aveva trovato due lavori, in cinque giorni. Gli chiesi come diavolo avesse fatto e lui sorridendo rispose solo “come faceva sempre tua madre: ho chiesto in famiglia e al prete. Ha detto che ti raccomanda lui per il posto al liceo, ma devi comunque mandare una candidatura, anche se è per il prossimo anno, perché ne hanno uno adesso che ha il contratto per qualche mese ancora. Sbrigati, ok?”
“ok…” risposi, e corsi a chiedere ad Ariel la sua opinione. E sapete che fece quella matta? Incinta di quasi sette mesi ormai, iniziò a prendere le valigie, perché voleva tornare a casa il prima possibile.
Due giorni dopo scoprimmo di aspettare un bambino, e Ariel mi aveva preso in giro per tanto tempo, dicendo che secondo lei ero sollevato da morire di non avere una donna tra i piedi, ma io risi soltanto. Ero felice, moltissimo, e passai ore a coccolare lei e le bambine e a comprare vestiti nuovi al mio piccolino.
 “Vorrei che si chiamasse Josh, se sei d’accordo…” mi disse piano raggiungendomi dopo cena, ed io mi commossi, e pensai soltanto che avevo decisamente bisogno di lui nella mia vita.
“Mi fa troppo male Ari, scusami…” le dissi piano, ma lei sorrise e disse piano “appunto. E’ un nome importante nella tua vita, che ha significato mille cose, ma che adesso per te è solo dolore. Vorrei che tornassi a sorridere sentendolo, e poi sono sicura che se lui ci fosse stato ti avrebbe suggerito il suo nome, quindi…”
Era vero, così sorrisi e le dissi che ci avrei pensato ancora per un po’. Era un nome un po’ ambizioso, dato che aveva la stessa origine del nome del figlio di Dio, ma un bel nome. Joshua. Sì, sarebbe piaciuto anche a mia madre, era perfetto. La malinconia per la loro assenza divenne quasi insostenibile, ma aveva ragione Ariel: avevo bisogno di un Josh nella mia vita, così accettai.
E così il mio bambino con il nome ambizioso nacque, e devo dirvelo: era letteralmente una mia piccola fotocopia. Dolce, timido, tranquillo e coccoloso. Innamorato di sua madre quanto me, e anche di me, un pochino. 
Poco dopo il suo arrivo, io e Ariel ci preparammo a grossi cambiamenti. Ad un anno esatto dal mio ritorno solitario in California, io e lei eravamo in attesa per imbarcarci verso la nostra unica, vera casa in Inghilterra, dove avevamo deciso di crescere quei tre scalmanati.
Ero un uomo diverso rispetto all’anno precedente, e neanche mi avreste riconosciuto, forse. Ian lo scrittore stralunato e sfigato, era diventato una spalla per gli altri alcolisti. Ne avevo ancora dieci da aiutare, ma ero sicuro che con il tempo avrei potuto rimediare. Mi preparavo ad iniziare il lavoro come professore e avevo già lavorato a qualche dispensa per il corso di scrittura creativa che mi avevano dato al college. Mi sentivo davvero di poter salvare il mondo, anche se all’epoca ignoravo quanto difficile potesse essere. Tornavamo a Londra con tre figli, e cinque cani, ma avevamo tate gratis e una bella casa tutta nostra, quindi eravamo fiduciosi di potercela fare. Ariel avrebbe ripreso il suo posto da Greenpeace una volta finita la maternità, e tutto sembrava in ordine. O quanto meno, tutto prometteva di esserlo fino all’incontro con Artie.
Nota:
Eccoci, quasi alla fine. Ne mancano solo due, quindi prepariamoci tutti a dire addio a Ian e V per sempre. Che ne pensate del desiderio di lui di tornare a casa? E di suo padre? Oh e siete curiosi di sapere chi sia Artie? Vi aspetto!

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Capitolo 14
*** Capitolo + Epilogo ***


Capitolo: Artie
Tre anni dopo il nostro ritorno a Londra, le cose sembravano andare bene: le bambine avevano iniziato la scuola, il piccolo Josh cresceva a vista d’occhio e Ariel era sempre al mio fianco. Tutto perfetto, direte, eppure quella notte non riuscivo proprio a prendere sonno. Avevo visto poco mia moglie, perché tra gli adempimenti di lavoro e il volontariato che avevo iniziato all’ospedale pediatrico ero rientrato tardi, e lei era troppo esausta per chiacchierare dopo cena, anche se mi aveva chiesto più volte cosa avessi e io avevo solo detto “dopo Ari…”.
Dopo però non era arrivato, perché messe a letto le gemelle l’avevo trovata addormentata con Josh, così ero rimasto ad agitarmi per un po’ tra le coperte.
“Non dormi?” mi chiese, completamente addormentata, perché evidentemente la stavo disturbando, ed io le chiesi scusa e le dissi di riposare tranquilla.
“E’ colpa di quel padre folle? E’ tornato alla carica con la tua preside?” chiese, sedendosi a letto, ma io le dissi ancora una volta di non preoccuparsi e di dormire, perché non era successo nulla a lavoro.
“Allora è tornato Artie in ospedale, eh?”concluse seria, ed io annuii soltanto. Arturo, detto Artie, era un ragazzino di dieci anni orfano che tornava in ospedale con una frequenza allarmante. Subiva bullismo e aggressioni fisiche nell’orfanotrofio in cui era, e aveva iniziato a farsi del male per uscire da quell’incubo per qualche giorno.
Ci avevo messo un mese per entrare in sintonia con lui, all’inizio fingeva di non parlare e non capire l’inglese. Fu Ariel ad avvicinarci, perché un giorno venne con me e provò a farmi da interprete, scoprendo la sua presa in giro.
“E’ veramente una fica spaziale…” commentò, quando lo vidi la volta successiva, ma io ero troppo felice che mi parlasse per rimproverarlo. Ci avvicinammo nelle settimane successive, e scoprii la sua storia: Artie era figlio di uno spacciatore morto sei mesi prima in un agguato e di una drogata, che era morta di parto. Non sapeva la verità su sua madre, e da tutta la vita aspettava che lei tornasse a prenderlo, dato che il padre gli aveva raccontato che se n’era andata con uno ricco.
All’inizio non gli piacevo, proprio per niente. Faceva il bulletto con me e con gli altri ragazzi dell’ospedale, ma io riuscii a parlarci e piano piano iniziammo a lavorare sul suo atteggiamento. Era parecchio bruttino, poveretto. Obeso, non molto alto e con una foltissima chioma di capelli neri e ricci che gli faceva assomigliare la testa a un fungo.
L’insicurezza era il suo problema peggiore, unito al disprezzo per se stesso, generati probabilmente dal non aver mai avuto amore nella vita. Io parlavo un sacco con lui, gli facevo regali e cercavo di farlo stare meglio, ma la verità è che avevo soltanto generato un problema perché, ovviamente, non voleva restare più in orfanotrofio sapendo di avere un amico fuori.
“Andiamo a trovarlo quando lo dimettono, così capirà che noi teniamo a lui anche se non è in ospedale…” mi propose mia moglie seria e pensai che fosse una buona idea. Così, provai ad addormentarmi accanto a lei. Lo dimisero dopo qualche giorno, e così nel weekend io e Ariel decidemmo di andare in quel posto, che da fuori ci parve una specie di manicomio infestato.
“Ok, non dobbiamo lasciarci impressionare dalle apparenze…” mi disse, ingoiando la saliva, ma poi mi tenne la mano strettissima per tutto il tempo. Artie fu felice di vederci, abbracciò lei con molto affetto, ma a me diede solo una pacca sulla spalla perché gli “uomini che si abbracciano sono gay…”. Ovviamente Ariel non lasciò andare quella sua frase, e gli spiegò che non era così, che esprimere i propri sentimenti non è una cosa sbagliata e insomma: tutta la solita menata sul rispetto per tutti. Solo che lui abbassando lo sguardo sussurrò “Ariel, mi riempiono di pugni se abbraccio un uomo. E se poi piango, anche di calci...”
Uscimmo letteralmente sconvolti da quell’incontro, dopo aver provato per un’ora a spiegare alla suora che gestiva il posto la situazione. Lei rispose solo con una banalità di tipo religioso che neanche ricordo adesso, qualcosa come “Cresceranno e Dio gli mostrerà la strada” ed io fui costretto a portare via Ariel quasi con la forza, perché voleva picchiarla.
Restammo in silenzio in auto, entrambi troppo sconvolti per dire qualsiasi cosa, e poi lei espresse esattamente le stesse parole che stavo pensando io, ma che non avevo il coraggio di dire, perché temevo si sarebbe arrabbiata.
“Ian non possiamo lasciarlo in quel posto. E’ un ragazzino fragile, non è cattivo, ma se resta lì ne faranno un mostro…”
“O lo massacreranno. Oppure un giorno invece dei soliti taglietti sul braccio sbaglierà e si farà del male sul serio…” conclusi portandomi le mani al viso, perché ero davvero sconvolto.
“Chiederemo l’affido Ian…” disse piano, molto, molto seria ed io la fissai soltanto. Erano settimane che ci stavo pensando, ma non avevo il coraggio di proporglielo, perché era una cosa troppo grossa.
“Lo so che lo vuoi, ho visto la tua cronologia del computer. Non ti sei accorto che c’era il mio account aperto, e mi sono trovata tutti questi siti…” aggiunse sorridendo ed io risi soltanto.
“E’ una cosa grossa e impegnativa, e non è giusto che tu decida adesso…” le dissi serio, ma lei scosse la testa e mi spiegò che ci pensava anche lei da un po’.
Lasciammo passare una settimana, e poi ci ritrovammo entrambi in soggiorno alle sei del mattino e lei mi disse solo “facciamolo” con un sorriso splendido.
Artie arrivò a casa nostra due settimane dopo, e ci fece immensamente pena, perché sembrava non volesse fare nulla per contrariarci. Non si era neanche difeso quando Olive (che aveva un caratterino da despota antipatica a volte) gli aveva urlato che la carta della merendina andava gettata in un contenitore diverso e aveva concluso con “ma da dove vieni per non saperlo?”
Artie era morto di vergogna poverino ed era diventato tutto rosso, ma ovviamente Ariel intervenne.
“Non rimproverarla, ha ragione…” le disse, mettendole una mano sulla spalla ma Ariel con un sorriso gli spiegò che essere arroganti e supponenti ti mette sempre e comunque nel torto. E lo so cosa state pensando: sì, sì proprio lei faceva queste lezioni. Lei che voleva quasi uccidere Jeff quando lo aveva incontrato.
Ci vollero un po’ di mesi prima che Artie si rilassasse e iniziasse a vivere in modo più sereno, e a mostrarci il suo carattere. Ariel disse solo “beh i cani che escono dal canile ci mettono 6/7 mesi ad ambientarsi, quindi è giusto che ci metta un po’ anche lui” ma io non avevo idea di cosa aspettarmi. E poi, una sera, lo beccai a fissare Ariel che consolava Josh in lacrime dopo una lite con le sorelle. Gli piacevano molto i miei figli e andava molto d’accordo con il mio piccolo terribile, ma quella sera mi disse solo “che cosa si prova Ian? Cosa si prova ad essere guardati in quel modo? Ad essere coccolati, ad avere qualcuno che ti asciuga le lacrime? Cosa si prova ad avere una madre?”
Lo strinsi soltanto, e gli sussurrai che lui aveva noi che ci saremmo sempre presi cura di lui, ma ovviamente non fu semplice lasciarsi andare. E poi capitò, come nel più classico dei film, che Artie si beccasse il morbillo. I nostri figli erano stati vaccinati, ma nessuno si era preso cura di lui, quindi era letteralmente esposto a qualsiasi malattia al mondo.
Stette molto male poverino, con febbre molto alta, e io e Ariel preoccupatissimi ci alternammo al suo capezzale, coccolandolo e cercando in ogni modo di farlo stare meglio. Nel delirio della febbre chiamava la sua mamma, ed io mi commossi un sacco per quella cosa, ma Ariel gli rispose solo “sono qui, piccolino, non stancarti…” facendomi sorridere. Quando si svegliò senza febbre per la prima volta e se la trovò accanto sorrise in modo bellissimo.
“Sei sveglio…” gli sussurrai, portando la colazione per lei, ma lui annuì soltanto e mi chiese scusa, ancora una volta perché avevo dovuto allontanare la famiglia per colpa sua.
“Tu sei della famiglia, scemo…” gli dissi con un sorriso e lui sorrise appena in cambio.
Ci volle un anno prima che io e Ariel riuscissimo a formalizzare la sua adozione e ragazzi ne capitarono veramente di ogni: mettemmo Artie a dieta, gli pagammo gli allenamenti di calcio (che era la sua passione) e lui si rimise in forma. Scoprimmo che aveva già le sue prime pulsioni sessuali, e mentre io gli spiegavo che non c’era assolutamente nulla di strano o perverso, Ariel serissima sentenziò soltanto che “il porno va bene, può essere divertente, ma come il sesso è accettabile solo se consensuale. Se la donna dice no, o ha bevuto o altro è stupro, e quella è una cosa terribile…” facendoci arrossire entrambi.
Ariel lo massacrò di discorsi femministi, ovviamente, e litigarono spesso per la musica che lui ascoltava, e a me toccava fare da paciere, cercando di spiegare a lei che era la moda, e a lui che definire le donne “belle puttanelle” non era rispettoso nei loro confronti.
Fu un anno di crescita per Artie, sia fisica che emotiva, dato che in quei dodici mesi litigò un sacco di volte con le gemelle, vide milioni di partite con mio padre e Josh, che ormai lo vedeva come una specie di eroe e lo imitava in tutto, lesse dei libri insieme a me, partecipò alle manifestazioni con tutta la famiglia e legò tantissimo con Buck. S’innamorò anche, e io e Ariel cercammo in ogni modo di aiutarlo a fidanzarsi con questa ragazzina, ma lei non volle saperne e mia moglie (da vera romantica!) concluse solo che bisognava rispettare la sua scelta “e mandarla a fanculo”.
Successe una cosa molto importante in quell’anno, anche se a voi sembrerà assurda. Vedete, Artie ci considerava una specie di zii, e sebbene noi gli avessimo detto che volevamo essere i suoi genitori, non usava mai le parole “mamma” o “papà” per chiamarci.
E poi un giorno il signorino si beccò una sospensione, letteralmente da zero, perché non era un ragazzino litigioso, e io ed Ariel fummo chiamati dal preside per capire la questione. Artie era in un angolo e non ebbe neanche la forza di guardarci quando entrammo. Il preside spiegò che si erano azzuffati, ma era stata una cosa lieve, e lui aveva mollato la presa quando l’allenatore lo aveva richiamato, per questo avrebbe avuto una punizione più lieve.
“Che cosa ti ha fatto arrabbiare, Artie?”gli chiese mia moglie seria e lui negò più di una volta di parlare, ma quando l’altro ragazzino si difese dicendo di non aver detto nulla di strano, lui urlò “no hai solo insultato mia madre…”
Sua madre era il suo punto debole, era comprensibile, così gli misi una mano sulla spalla, pronto a spiegargli che non era la violenza la soluzione giusta, quando l’altro aggiunse che aveva fatto solo un complimento, non aveva insultato nessuno.
“Ah perché secondo te dire che è una bella puttana è una cosa gentile? Sei un troglodita…” concluse e io ed Ariel ci fissammo sgomenti.
“Lo ha detto di me?” chiese lei, con un filo di voce e molto commossa, e lui annuì soltanto, senza neanche fissarla.
Ariel si commosse in quel momento e avvicinandosi al suo viso gli sussurrò piano “hey rispondimi” ma lui alzò la testa e ruggì “di chi altro avrebbe potuto dirlo?” ma poi quando le lacrime le caddero sulla guancia le disse piano “non piangere, non volevo farti arrabbiare, scusa…”
Fu un momento terribilmente intenso, e persino il preside si commosse quando spiegai che era la prima volta che Artie chiamava Ariel “mamma”. Così, data la maturità che aveva dimostrato, la spuntò soltanto con un giorno di sospensione.
Ci volle molto più tempo affinchè chiamasse me papà, ma io lo trovavo comprensibile. Artie aveva avuto un padre, un bastardo che lo ignorava e fingeva che non esistesse, ma era pur sempre un padre. Rispettavo l’esistenza di quell’uomo, ma allo stesso tempo il mio legame con quel figlio stava diventando sempre più forte. A undici anni lo portai per la prima volta a vedere il Manchester, la sua squadra preferita. Lui sapeva che dovevamo andare ad una fiera del libro e ovviamente avevo dovuto pregarlo per accompagnarmi, ma aveva iniziato a mangiare la foglia trovando il nonno in auto.
Fu felice come mai prima quel giorno, e la prima volta gli venne spontaneo dirmi “papà, guarda…” ma quando vide il sorriso sulle mie labbra, capì che per me era una cosa importante e ripetè quella parola di proposito un po’ di volte.
Artie divenne nostro figlio ufficialmente il giorno del settimo anniversario di matrimonio mio e di Ariel, e posso dire che quella data è stata una delle più importanti della nostra vita.
Volete sapere se è stato semplice crescere anche lui? No, per un cazzo. Pensate che tutte le teorie sul discutere senza litigare di Ariel abbiano funzionato e che dunque a casa mia non ci fossero grosse liti? Ma avete iniziato a drogarvi?
Fu molto difficile crescere Artie, esattamente quanto lo fu crescere Olive, Audrey e anche Josh (anche se fu quello che ci diede meno pensieri, devo ammetterlo) ma non ho mai, neanche per un istante, rimpianto la mia scelta.
 
Epilogo
Dieci anni dopo l’arrivo di Artie nella nostra vita, parte della famiglia Watt era in aeroporto. Sempre noi: Ian, V, Audrey, Olive e Joshua. Eravamo ancora una volta in procinto di rientrare al nostro piccolo cottage, dopo un viaggio lunghissimo, che ci aveva cambiati tutti e che ci aveva portato via un pezzo di cuore.
“Smettetela di distrarvi, uomini, o dimenticherete i vostri zaini…” mi disse, la mia amata bionda particolarmente triste, e io mi strinsi nelle spalle e le spiegai soltanto che ormai mi legavo lo zaino al braccio a prova di distrazione.
“…e poi l’ultima volta è stata proprio lei a dimenticare il trolley con tutti i nostri libri, e si permette anche di giudicarci!” rispose severo un ragazzone di tredici anni, ed io sorrisi e le dissi solo “touchè” facendola infuriare. Ancora una volta provò a giustificarsi dicendo che secondo lei non serviva portare i libri in vacanza, altrimenti che vacanza era? Io avrei spiegato loro tutto quello che era necessario, e una meravigliosa biondina con occhi verdi e capelli super ricci rispose solo “come no. Perché papà secondo te è in grado di spiegarci la chimica e la biologia magari? ”
No, figuriamoci, non ci capivo assolutamente nulla, e infatti avevo chiesto a dei colleghi di farli allenare un po’ in quei due mesi di pausa, cogliendo la meravigliosa occasione di far studiare i miei figli con insegnanti di varie parti del mondo.
“Ringrazia che Audrey è una secchiona che legge qualsiasi cosa, altrimenti non avremmo avuto il tablet per prepararci al college…” concluse la biondina furiosa.
Ariel seccata fece per allontanarsi, con il suo solito atteggiamento da “questa è una congiura” ma io la raggiunsi e stringendola forte le dissi solo “dieci ore Ari. Dieci ore e poi finalmente le ragazze andranno da qualche amica con il nome che finisce in y e Josh si rivedrà con i suoi compagni di squadra. Dieci ore e finalmente io e te potremo tornare a fare il bagno da soli, stretti e nudi nell’acqua come a Lima…”
Ero in  vena di coccole,ma sapevo che lei era parecchio triste, perciò non mi aspettavo grandi cose.
“Dieci ore, e saremo dall’altra parte del mondo rispetto a nostro figlio…” concluse sospirando ed io le sorrisi e spiegai di nuovo che era adulto ed era giusto che lui facesse questa esperienza.
“Credi che non lo sappia? Che non mi ripeta mille volte che sono orgogliosa di lui per aver deciso di lavorare con una ong e costruire case per i senzatetto?” ribattè seccata, ma poi mi chiese scusa ed io la accarezzai soltanto.
“E’ solo così lontano…” sussurrò piano, ed io la strinsi forte e le sussurrai che dieci ore erano poche, era proprio quello il senso del mio primo commento, facendola sorridere.
“Mancherà anche a me da morire Ari, ma ha vent’anni, è innamorato, vuole salvare il mondo, ed io sono terribilmente fiero di tutto quello che fa…” le spiegai con occhi lucidi e lei annuì con un sorriso, ma poi ci distraemmo perché una scena molto divertente si consumò davanti ai nostri occhi.
Olive e Audrey avevano scelto di fare questo viaggio con noi prima di trasferirsi definitivamente a Londra per iniziare il college. Erano davvero molto belle, ma totalmente diverse: Olive identica a sua madre, con i pantaloncini corti, i vestiti succinti e il carattere forte, Audrey più simile a me (ma più bella) con la sua timidezza, le felpone gigantesche e mille libri sempre dietro sul tablet. Se ne stavano abbastanza lontano da noi, a ignorarsi amabilmente, ognuna con il naso sul proprio telefono, quando due ragazzetti provarono ad abbordarle.
Audrey non li degnò neanche di uno sguardo, perché era fidanzata da un anno con un ragazzino timido e aspirante fumettista, e si amavano da impazzire. Olive li squadrò per un istante, poi notò che uno dei due aveva una tshirt di una serie tv che guardavamo insieme, perciò decise di dargli il beneficio del dubbio e farci amicizia. Per venti secondi, fino a quando non gettò la carta nel contenitore della plastica, scatenando l’ira delle mie gemelle super ambientaliste.
“Lo sai…” dissi alla loro madre, che le fissava con un sorriso orgoglioso dipinto in viso, “quando ci eravamo lasciati e provavo a immaginare tuo figlio, lo avevo descritto esattamente così. Biondo, riccioluto, tosto, con le magliette dei gruppi rock e capace di darti lezioni sull’ambiente con tono di supponenza…”
“Beh è anche colpa tua, però…” mi disse divertita, osservando i due francesi che ripiegavano con la coda tra le gambe, mentre Olive gli urlava di recuperare la carta gettata male.
Io chiesi in che universo una cosa così potesse essere colpa mia, dato che me ne stavo beatamente a inquinare con il mio suv e i miei vestiti prodotto dello sfruttamento dei bambini nei paesi sottosviluppati prima di conoscerla, ma lei ridendo scosse la testa e rispose “Sì, questo una volta. Chi è che le ha portate da bambine ai Fridays for future? Chi le ha cresciute leggendo loro gli obiettivi dell’Onu per lo sviluppo sostenibile? E di chi è la responsabilità delle loro scelte per il futuro? Insomma davvero? Biologia e letteratura? Non ci vedi il tuo zampino in tutto questo, uomo che parlava con loro in latino quando erano nella mia pancia?”
Sì, ok era vero. Ma facevo l’insegnante, dannazione e il mio compito era quello di sensibilizzare i giovani, così avevo iniziato da casa mia. Solo che forse, e dico forse, quelle due cresciute a pane e petizioni per salvare foche e delfini si erano sensibilizzate un po’ troppo.
“…e devo davvero ricordarti chi è che ci ha convinti tutti ad andare in Perù per stare due mesi con Artie e dedicare le sue vacanze all’insegnamento dell’inglese ai bambini?” aggiunse, fissandomi con due bellissimi occhi innamorati e allora la baciai. I ragazzini si lamentarono un sacco per quelle nostre coccole, e così le dissi che avrei dovuto provare a lavorare alla loro educazione sentimentale, e così ripresi il mio solito discorso noioso sul romanticismo, e sui personaggi dei romanzi, che di solito li annoiava a morte.
Li tormentai così fino all’imbarco, ma a poche ore dal decollo, mentre Ariel dormiva sulla mia spalla, qualcuno arrivò e si sedette accanto a me soddisfatta.
“Tesoro?” chiesi un po’ confuso, e Audrey mi disse piano “ho finito Miss V…” facendomi ridere.
“Allora quanto è stato strano da uno a ‘oddio i miei genitori fanno sesso’?” le chiesi, perché avevo evitato per due anni di farle leggere quella storia, ma poi una sera in Perù aveva litigato con il fidanzato, non smetteva di piangere e le avevo inviato via mail i primi due capitoli.
“E’ bello papà. E’ tanto dolce sapere che siamo nate da una storia così…” mi disse, stringendosi contro il mio petto, ed io sorrisi soltanto e commentai che almeno ora sapeva che non erano state un errore, ma che le avevo desiderate.
“Dovresti scrivere un epilogo, papà. Concludere la storia, dicendo come sei adesso, sarebbe carino…” concluse serio e allora lo feci.
Presi una penna e scrissi queste ultime parole.
E così eccoci qui, amici, a diciotto anni dalla famosa notte sul Tower Bridge, con un sacco di rughe e tragedie sulle spalle, ma anche più saggi. Forse. O meglio dire qualche volta. Perciò, se mi date il permesso, vorrei chiudere come avevo iniziato.
Questo sono io, Ian Watt. Non sono un fico, non ho particolari abilità oltre a quella di avere ancora i capelli a cinquant’anni, quella di stordire la gente con migliaia di parole inutili e quella di controllare venti ragazzini per volta, ma non sono nessuno, o almeno nessuno di speciale. Faccio l’insegnante, e cerco sempre di non piangere quando le mie classi terminali mi lasciano, ma onestamente non mi riesce benissimo. Sono uno distaccato e autoritario che tiene il silenzio e impone la disciplina? Neanche per sogno, ma riesco comunque a ottenere il loro rispetto e a divertirmi un sacco con loro, e a me basta.
 Sono anche un ex alcolista, diventato a mia volta uno sponsor per i nuovi arrivati. Sono arrivato a quindici, ma non ho intenzione di fermarmi. Adoro i casi disperati, quindi nel tempo libero faccio volontariato in orfanotrofio e cerco di far sorridere i bambini che pensano di non avere nessuno che li ama.
Ho una moglie, bellissima e bionda, che purtroppo ha undici anni meno di me, e quindi non è ancora invecchiata rovinosamente come il sottoscritto. La amo, e penso che nulla nella mia vita avrebbe mai avuto senso senza di lei. Ariel è il presidente della sezione di Greenpeace di Londra da qualche anno, e gestisce un sacco di eventi e raccolte fondi, a cui spesso partecipano anche loro, il mio enorme orgoglio: i quattro ragazzi Watt.
Il mio figlio più grande, dopo aver capito che lo studio non era esattamente adatto a lui, ha iniziato a lavorare per una serie di associazioni, e poi si è innamorato di una ragazza peruviana di nome Linda, che ci ha convinti tutti ad andare a fare volontariato lì. Non so se e quando Artie tornerà, so solo che prima di salutarci ci ha detto che vorrebbe sposare Linda, e noi siamo molto felici per lui. 
Numero due e tre della famiglia, sono due terribili gemelle, in piena adolescenza, che fanno di tutto per incasinarmi la vita, ma che sono brillanti e speciali. Hanno ereditato tutto dalla signora madre: la bellezza, il desiderio di salvare il mondo e aiutare gli animali, l’intelligenza e anche la capacità di farti sentire come se fossi un povero sfigato se butti la carta nella plastica, come aveva appena appreso il mio amico francese. Ero orgoglioso da morire di loro, ma anche del mio piccolo ragazzo timido. Joshua, un ragazzo di tredici anni con i capelli rossi e pieno di lentiggini esattamente come me. Pacato, timido e amante dello sport ma anche del cinema, come suo padre.
Mia moglie sostiene sempre che Josh sia quello più simile a me, nonché quello che ci darà più preoccupazioni, ma per ora non è mai successo. Tutti i miei figli sono legati alla famiglia, ma lui ha un legame speciale con i suoi nonni, Raul e Matt, ed entrambi sostengono che sia uguale a loro, ma lui in realtà era troppo straordinario per assomigliare a qualcuno. E così, amici, questi siamo noi, Miss V e la sua sgangherata famiglia, e spero che siate stati felici di conoscerci.
 Nota:
Eccoci qua, abbiamo finito un'altra storia. Io mi commuovo sempre un po' quando devo salutare i miei personaggi. Spero vi sia piaciuto il percorso di Ian e di V, e di non aver deluso le vostre aspettative. Grazie a tutti per aver letto questa storia e spero di "leggervi" presto, anche con altre storie. Un abbraccio
 

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