Star Trek Keter Vol. VI: Oltre la frontiera

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Veniamo in pace ***
Capitolo 3: *** Vecchie conoscenze ***
Capitolo 4: *** La missione ***
Capitolo 5: *** Quadrante Delta ***
Capitolo 6: *** Bellezza e decadimento ***
Capitolo 7: *** Tsunka, tsunka! ***
Capitolo 8: *** Il valore della vita ***
Capitolo 9: *** Il turno di notte ***
Capitolo 10: *** L'Uno e il Molteplice ***
Capitolo 11: *** L'occhio del serpente ***
Capitolo 12: *** Cicatrici ***
Capitolo 13: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Keter Vol. VI:

Oltre la frontiera

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE KETER.

LA SUA MISSIONE È DIFENDERE

GLI ACCORDI TEMPORALI

E L’UNIONE GALATTICA,

CON OGNI MEZZO NECESSARIO.

QUANDO UNA MINACCIA ELUDE

LE CONTROMISURE TRADIZIONALI,

LA KETER ENTRA IN AZIONE.

 

 

-Prologo:
 

Data stellare 2557.207

Luogo: Caldos

 

   Il piccolo gong fu suonato tre volte, emettendo suoni argentini, mentre le candele profumate venivano accese. Un tenue chiarore si diffuse nella stanza, illuminando di tonalità calde le pareti e il pavimento. Dalle fiammelle salirono volute di fumo che ne diffusero l’aroma esotico. In quell’atmosfera suggestiva i familiari si riunirono, sedendo sulle stuoie. Non c’erano solo gli occupanti della casa, ma anche i parenti, invitati da tutta la colonia: nonni, zii, cugini. In totale erano una quindicina di persone, riunite per celebrare l’anniversario. Seduta in prima fila, la giovane Ladya Mol trattenne il fiato, emozionata. Aveva da poco compiuto dieci anni ed era la prima volta che veniva ammessa alla Cerimonia del Ricordo. I suoi cugini, che le sedevano accanto, avevano qualche anno più di lei e quindi vi avevano già assistito. Ma per lei era tutto nuovo e misterioso.

   Da una porta laterale entrarono i genitori di Ladya. Al posto degli abiti di tutti i giorni indossavano le vesti tradizionali del popolo Vidiiano, lunghe fino ai piedi. La bambina li osservò incuriosita. Suo padre Dhanvat sedette su un cuscino, impugnò dei martelletti e prese a suonare un antico strumento musicale, costituito da cilindretti metallici di varia lunghezza, appesi a una stanga tramite dei fili. Non era un concerto vero e proprio, ma solo un accompagnamento. Fu la madre di Ladya, Amrita, a porsi al centro della stanza. C’era un’insolita solennità in lei, forse persino un velo di tristezza. Batté forte le mani, per reclamare l’attenzione dei presenti. Subito il chiacchiericcio dei familiari si spense e tutti le rivolsero la dovuta attenzione.

   «Benvenuti a tutti voi. Siete stati gentili ad accettare l’invito anche quest’anno» sorrise Amrita, rivolta ai parenti che vivevano altrove. «Come vedete, quest’anno abbiamo un’ospite in più. La nostra Ladya è grande abbastanza da partecipare alla cerimonia».

   I cugini di Ladya, sempre un po’ scalmanati, applaudirono e fischiarono, ma l’occhiataccia dei loro genitori li indusse nuovamente al silenzio.

   «Bene, Ladya... visto che è la tua prima cerimonia, mi rivolgerò direttamente a te» disse Amrita. «Sai cosa commemoriamo, oggi?».

   «Il nostro arrivo su questo pianeta!» annuì la bambina, felice di saper rispondere. «Cioè, l’arrivo dei nostri antenati».

   «Esatto» annuì la madre. «Ma prima di commemorare il loro arrivo, vorrei che tu comprendessi appieno perché dovettero partire» aggiunse con gravità. Fece una lunga pausa, mentre il marito colpiva i cilindretti metallici, ricavandone una nenia malinconica.

   «Me lo sono sempre chiesto» ammise Ladya, quando la musica cessò. «A scuola non ci dicono molto».

   «Lo faranno nei prossimi anni» assicurò Amrita. Osservando la figlia, sentì su di sé una grossa responsabilità. Anche se nel Giorno del Ricordo ci si asteneva dal lavoro, e pure le scuole erano chiuse, i Vidiiani rifuggivano dalle grandi cerimonie pubbliche. Era un retaggio del passato, dei tempi cupi in cui la Phagia flagellava la popolazione. All’epoca ogni assembramento era severamente proibito dalla legge, per limitare il contagio. Di conseguenza anche le feste erano celebrate in forma privata. Al massimo s’invitavano i parenti, se si aveva la certezza che fossero sani, ma non ci si mischiava mai agli estranei. Quindi non c’erano sfilate, né raduni e discorsi pubblici, e nemmeno balli. Per trasmettere il ricordo e il significato delle feste da una generazione all’altra ci si affidava alle singole famiglie. Ovviamente ciò comportava il rischio che, col passare del tempo, i rituali divergessero da una famiglia all’altra. E sebbene la Phagia non fosse che un tragico ricordo, i Vidiiani svolgevano ancora le cerimonie nell’ambito del nucleo familiare. Quindi era molto importante mantenere immutato il rituale e spiegarne il significato ai giovani.

   «Ti abbiamo già parlato della Phagia» disse Amrita con gravità. «Quell’orribile morbo ha afflitto la nostra gente per due millenni. Danneggiava il DNA, rompeva le pareti cellulari e consumava i tessuti, provocando sofferenze atroci e infine la morte. I nostri medici facevano di tutto per trovare una cura e molte volte sembrò che ci fossero riusciti. Ma ogni volta il virus si adattava e tornava a colpire, più letale di prima. La nostra società, un tempo fiorente, ne fu devastata». La Vidiiana sospirò e tacque, mentre il marito batteva qualche nota sul suo strumento. Ding... ding...

   Fattasi coraggio, Amrita riprese. «Per sopravvivere, il nostro popolo dovette adottare misure drastiche. I medici coltivavano nuovi organi in laboratorio, per trapiantarli ai pazienti che ne avevano bisogno. Ma anche gli organi trapiantati si ammalavano e cedevano in fretta. Per farli durare più a lungo, cominciammo a prendere quelli delle altre specie» rivelò.

   «Prendere?» si stupì Ladya. «In che senso?». Un orribile sospetto si fece in strada in lei, ma non voleva crederci. Vedendo che i parenti restavano silenziosi e con lo sguardo basso, sentì crescere l’ansia. Anche i suoi cugini, di solito così vivaci, erano muti e corrucciati.

   «È difficile da accettare, piccola mia» disse lentamente Amrita. «Quando avevo la tua età, e me lo dissero, non volevo crederci; ma è così. Nel disperato tentativo di prolungarsi la vita, i nostri antenati divennero predoni. Costruirono una flotta da guerra e attaccarono le specie vicine. I nostri militari, che avevano anche una formazione medica, cercavano di capire quali organi dei prigionieri potessero adattarsi a noi. Trovato ciò che gli interessava, li rimuovevano».

   «E i prigionieri...?» chiese Ladya, con un nodo alla gola.

   «Morivano» confermò tristemente Amrita. «Nessuno sa di preciso quante furono le vittime... ma devono essere state migliaia».

   «Milioni» corresse Dhanvat, ancora più cupo. «A volte i prigionieri erano uccisi anche per un solo organo, che serviva con urgenza. Se non avevano organi adatti al trapianto, o se al momento non c’era richiesta, erano ridotti in schiavitù. Ad esempio dovevano lavorare nelle miniere, visto che la Phagia c’indeboliva, impedendoci di svolgere i lavori più pesanti».

   «M-ma non è giusto! Loro non ci avevano fatto niente!» balbettò Ladya, in preda all’orrore. Cercò di alzarsi, per lasciare la stanza. Ma la nonna, che sedeva dietro di lei, la trattenne dolcemente per le spalle e la indusse a restare. «Ascolta, ti prego» disse, carezzandole i capelli. «Devi conoscere la verità sul nostro passato. Tutti i Vidiiani devono conoscerla».

   Poco alla volta Ladya si calmò, anche se restava in preda all’amarezza e alla vergogna. A volte i federali visitavano la loro piccola colonia, per commerciare, e in quelle occasioni la ragazzina aveva notato una certa freddezza da parte loro. Aveva sempre pensato che fossero degli arroganti; che si permettessero di guardarli dall’alto in basso perché erano più ricchi. Ora capiva che anche i federali conoscevano le passate abitudini dei Vidiiani, e pur avendoli accolti entro i loro confini avevano difficoltà a perdonarli del tutto.

   «Le cose cambiarono due secoli fa, quando un’astronave della Federazione finì dispersa nel Quadrante Delta» riprese Amrita.

   «La Voyager!» esclamò Ladya, che ne aveva sentito parlare a scuola.

   «Esatto, la Voyager» confermò la madre. «Nel suo viaggio di ritorno attraversò il nostro spazio. Mi duole ammettere che i nostri militari l’attaccarono più volte, senza provocazione, per razziare gli organi dell’equipaggio. Ma la Voyager riuscì sempre a sfuggire. Durante gli scontri, però, i suoi ufficiali accennarono al fatto di provenire da una pacifica Federazione che si trovava al lato opposto della Galassia. Per la nostra gente, sempre in conflitto coi vicini, era difficile credere che specie diverse potessero collaborare a tal punto da servire sulla stessa astronave. Eppure l’equipaggio misto della Voyager lo dimostrava.

   In quel periodo una nostra famosa dottoressa, Danara Pel, a sua volta malata terminale di Phagia, fu soccorsa dalla Voyager. Malgrado gli attacchi subiti, i federali cercarono di curarla. Pur non potendo sconfiggere del tutto il virus, le diedero qualche anno in più. Quando la dottoressa ripartì, il Medico Olografico di bordo le consegnò il database medico federale, che ci fu di grande aiuto per migliorare le cure. Infine, pochi anni dopo, una congrega di scienziati alieni collaborò coi nostri medici, riuscendo a sconfiggere definitivamente la Phagia».

   Un tenue sorriso si fece strada sul volto di Amrita. «Per la nostra società fu una rinascita. Eravamo sopravvissuti in quell’incubo così a lungo che avevamo dimenticato cosa significasse vivere. Di colpo potemmo dedicarci nuovamente all’arte, alla musica, a tutte le attività culturali che un tempo ci avevano resi celebri. I bambini come te poterono di nuovo uscire all’aperto e giocare assieme, senza il terrore del contagio» aggiunse, osservando affettuosamente la figlia.

   Accanto a lei, Dhanvat tornò a battere il suo strumento, stavolta con un ritmo più rapido e allegro. I colpetti erano come piccole esplosioni di gioia, che risuonavano nelle orecchie di Ladya. A un tratto, però, Amrita levò la mano e Dhanvat si arrestò.

   «Ma i guai non erano finiti» sospirò la Vidiiana. «Trascinati dall’entusiasmo e decisi a finanziare la ricostruzione, mettemmo in disarmo molte navi da guerra, senza sostituirle con nuovi modelli. Non capimmo che, dopo secoli di razzie, i nostri vicini erano assetati di vendetta. Quando videro che avevamo abbassato la guardia, ci attaccarono».

   «Chi ci attaccò?» chiese Ladya, accigliata. Anche se non poteva perdonare le razzie contro altri popoli, le pareva ingiusto che questi si vendicassero proprio quando loro erano impegnati a ricostruire.

   «I Kazon, una razza barbara e violenta, divisa in tribù sempre in lotta fra loro» rispose sua madre. «La più sanguinaria di queste tribù, i Kazon-Nistrim, riuscì ad assoggettarne altre, anche usando alcune tecnologie rubate alla Voyager. A quel punto rivolse la loro potenza combinata contro di noi. Anche l’Ordine Haakoniano, una dittatura militare, ci dichiarò guerra. Gli Haakoniani possedevano un’arma terribile, la Cascata di Metreoni, capace di devastare interi pianeti. L’avevano sperimentata contro i Talaxiani e ora ce la rivolsero contro. Le nostre colonie caddero una dopo l’altra in poche settimane. Rimettemmo frettolosamente in funzione le vecchie navi da guerra, ma i Kazon ne distrussero molte con assalti suicidi. Infine Vidiia Primo venne assediato. Lo Scudo Planetario ci proteggeva dalla Cascata di Metreoni e dalle altre armi, ma consumava molta energia; non avrebbe retto a lungo. Capimmo di doverci preparare al peggio».

   Amrita fece un’altra pausa, mentre Dhanvat suonava una musica incalzante. Davanti a loro, Ladya sedeva assorta nei pensieri. Cercava di figurarsi l’angoscia dei suoi antenati, nel vedersi assalire da questa nuova calamità. Era ingiusto che la sorte si accanisse così implacabile sulla sua gente.

   «I nostri leader decisero di evacuare parte della popolazione su grandi navi trasporto» riprese la madre. «Radunate le menti migliori su dodici astronavi, riuscirono a farle fuggire durante una sortita. Subito dopo i trasporti si divisero, per aumentare le probabilità che qualcuno si salvasse. Tre navi, però, decisero di viaggiare assieme, per difendersi meglio. Ricordando la Voyager, andarono in cerca della Federazione. Era un’impresa disperata, perché significava attraversare la Galassia da un capo all’altro. Anche alla massima velocità, sarebbe servito oltre un secolo, per cui i trasporti sarebbero divenuti navi generazionali. E non avevamo idea di quali insidie ci attendessero lungo il tragitto».

   Dhanvat tornò a far sentire la sua musica. Stavolta era un ritmo lento e malinconico. Continuò a suonarlo mentre la moglie riprendeva la narrazione.

   «Nei primi tempi fummo fortunati, perché incontrammo una specie molto progredita, i Sikariani. Avevano una cultura edonista, sempre in cerca di nuovi racconti, musiche, forme d’arte... qualunque cosa stimolasse i sensi. Barattando le specialità del nostro mondo, ottenemmo una tecnologia che permise alle nostre navi un balzo in avanti di 40.000 anni luce, più di metà del tragitto. Sfortunatamente erano dispositivi monouso e non capimmo come replicarli, per cui da lì in avanti dovemmo procedere a curvatura. Comunque ci risparmiammo decenni di viaggio, superando lo spazio Borg e parecchie altre zone pericolose.

   Il resto del viaggio non fu così fortunato. Una delle nostre navi fu distrutta da un’anomalia spaziale. Un’altra la perdemmo a causa di un’aggressiva specie del Quadrante Beta, i Fen Domar. La terza e ultima nave procedette a velocità ridotta, danneggiata dalle traversie. Ormai erano quarant’anni che viaggiavamo, senza trovare un posto tranquillo dove fermarci. Non sapevamo quant’era vicina la Federazione... alcuni di noi dubitavano persino che esistesse. I danni alla nave e le contese interne stavano per distruggerci, quando finalmente incontrammo un vascello federale, la USS Domine, che esplorava lo spazio profondo.

   Stremati e amareggiati dalle disavventure, chiedemmo aiuto ai federali. E loro ce lo diedero, sebbene in passato non fossimo stati amichevoli con la Voyager. La Domine ci aiutò a riparare i danni, ci rifornì e ci scortò fino a questo pianeta, che all’epoca si trovava alla frontiera. Siccome Caldos era in gran parte disabitato, le autorità federali ci concessero questa regione da colonizzare. Ci aiutarono persino a costruire il primo insediamento. In cambio ci chiesero solo le informazioni sui Quadranti Delta e Beta raccolte durante il viaggio. Superata la trafila burocratica, ottenemmo anche la cittadinanza, impegnandoci a rispettare le leggi federali.

   Da allora non abbiamo più avuto grossi problemi. Come avrai notato, ogni tanto le altre specie vengono da noi per commerciare, anche se nel complesso ci teniamo un po’ in disparte. Alcuni alieni provano ancora risentimento, conoscendo la nostra storia, e rifiutano di stringerci la mano. Ma per fortuna non ci sono mai state persecuzioni. Anzi, negli ultimi anni ci siamo guadagnati un certo credito presso l’Unione Galattica» disse Amrita, riferendosi al nuovo organismo politico in cui erano confluiti la Federazione, i Klingon e i Romulani.

   «Davvero? E come?» s’incuriosì Ladya.

   «Anche se la Phagia non c’è più da secoli, i nostri medici sono ancora rinomati per la loro abilità» spiegò la madre. «Come sai, negli ultimi anni l’Unione ha combattuto una dura guerra contro il Fronte Temporale. Siamo stati molto fortunati a uscirne incolumi. La nostra colonia è abbastanza piccola da essere sfuggita all’attenzione del nemico. Ma i nostri dottori sono andati sulla Terra e su altri mondi federali. Hanno contribuito a curare le vittime delle anomalie e delle armi biologiche del Fronte. Sai di cosa parlo, vero?».

   «Sì» annuì Ladya. «I Costruttori di Sfere hanno cercato di rimodellare lo spazio con le anomalie... quelle macchie rosse che vedevamo in cielo. I Vorgon e i Na’kuhl hanno creato dei virus e li hanno diffusi sui mondi federali. Ma adesso le malattie sono state curate, vero?».

   «Sì» annuì Amrita con decisione. «Anche l’Agente 47, il virus più pericoloso di tutti, è stato sconfitto; ma all’Unione servirà tempo per riprendersi. Comunque il nostro contributo è stato importante, perciò spero che d’ora in poi saremo liberi dalla cattiva fama. E con questo credo di aver finito. Ora sai cosa celebriamo nel Giorno del Ricordo. Il nostro passato è pieno di dolore, ma questo non deve offuscare la soddisfazione per ciò che abbiamo costruito qui. Né la speranza di un futuro ancora migliore, ora che la guerra è finita».

   La Vidiiana sorrise incoraggiante, mentre la musica di accompagnamento si faceva più allegra e fiduciosa. Infine il tintinnio cessò. L’aria era ormai impregnata dell’aroma speziato diffuso dalle candele.

   «Bene, figliola... hai qualche domanda?» chiese Dhanvat. Si alzò dal suo posto e venne accanto alla moglie. Tutti e due osservarono Ladya, che sedeva assorta, riflettendo su quanto aveva appreso.

   «Mi chiedo...» cominciò la ragazzina. Per un attimo tacque, incerta, ma poi riprese. «Mi chiedo che ne è stato del nostro pianeta. Avete detto che era assediato, quando i trasporti lo lasciarono. Che è successo dopo? La nostra gente si è salvata?» chiese con ansia, passando lo sguardo da un genitore all’altro.

   Amrita e Dhanvat si scambiarono uno sguardo cupo. Siccome la madre esitava a rispondere, fu il padre a farlo. «Purtroppo non lo sappiamo» ammise. «Quando i nostri avi compirono il balzo di 40.000 anni luce, persero ogni contatto con la madrepatria. In quel momento Vidiia Primo era ancora sotto assedio. Ignoriamo se il nostro popolo sia riuscito a liberarsi, o se sia caduto sotto il controllo nemico. Gli Haakoniani avevano già occupato Talax; potrebbero aver fatto lo stesso con Vidiia».

   «Se non hanno usato la loro arma!» esclamò Ladya, agitatissima. «E i Kazon? Avete detto che sono barbari! Potrebbero averci sterminati!» gridò, scattando in piedi.

   «Calma, tesoro» disse la nonna, alzandosi a sua volta. A quel punto anche gli altri parenti tornarono in piedi.

   «Non saltare alle conclusioni peggiori» la esortò il padre. «Ricorda che il nostro popolo è sempre stato abituato alle avversità. Avevamo molti nemici anche ai tempi della Phagia e siamo sopravvissuti. Perché non dovremmo cavarcela ora che siamo guariti?».

   «Ma in tutto questo tempo noi coloni non abbiamo mai contattato Vidiia?!» insisté la ragazzina, ancora sconvolta.

   «75.000 anni luce sono tanti» sospirò Amrita, rassegnata. «Fra noi e la madrepatria ci sono specie ostili e anomalie subspaziali capaci di bloccare le trasmissioni. Quindi no, non c’è stato alcun contatto. Noi siamo troppo pochi per allestire una missione che torni laggiù...».

   «E l’Unione? La Flotta Stellare?» chiese Ladya, sempre più delusa. «Loro dovrebbero esplorare! Il loro motto è “arrivare fin dove nessuno è mai giunto prima!”. Perché in duecento anni non sono più tornati nel Quadrante Delta?».

   «Sono domande difficili, quelle che fai» riconobbe Amrita. «Nessuno di noi conosce i pensieri e i progetti di chi dirige la Flotta Stellare. C’è da dire che, per molto tempo, la Flotta ha smesso di esplorare, accontentandosi di pattugliare i confini e combattere la pirateria. Quando è stata varata la nuova Enterprise, sembrava che ricominciassero le esplorazioni. Ma poi è scoppiata la guerra e tutti gli sforzi sono andati alla difesa».

   «Ora che la guerra è finita, forse la Flotta riprenderà a esplorare» disse Dhanvat, con un filo di speranza. «Tra l’altro le nuove tecnologie rendono tutto più facile. La cavitazione quantica permette di raggiungere il Quadrante Delta in pochi mesi, anziché in decenni. E avrete sentito parlare del propulsore cronografico. Dicono che possa trasportare le astronavi in tutti i Quadranti, in un batter d’occhio! Se fosse vero, non sarebbe difficile tornare al Delta».

   «Sarebbe un bene, per tutti noi» borbottò uno zio di Ladya, ancora scapolo. «Il collo di bottiglia genetico ci sta rendendo la vita impossibile».

   «Che vuol dire?» chiese la ragazzina.

   «Uhm, forse non dovevo parlarne...» mormorò lo zio, imbarazzato.

   «No, va tutto bene» lo tranquillizzò Amrita, che era sua sorella maggiore. «Vedi, Ladya, quando i nostri avi raggiunsero questo pianeta, erano rimasti solo in duemila. Da allora, in mancanza di altri Vidiiani, abbiamo dovuto sposarci sempre tra noi. Dopo molte generazioni il risultato è che siamo quasi tutti imparentati. E a scuola ti hanno spiegato cosa comporta questo...».

   «Anomalie genetiche» annuì Ladya. «Aspettativa di vita più breve. Sì, ce l’hanno detto. È per questo che nascono così pochi bambini?».

   «Le giovani coppie devono sottoporsi a uno screening per stabilire se possono procreare, o se il loro indice di similarità genetica è troppo alto» confermò la madre. «In quel caso devono separarsi. Io e tuo padre siamo stati fortunati, perché il nostro indice di similarità era basso. Ma capisci che, col passare delle generazioni, il problema diventa sempre più grave. Ecco perché sarebbe davvero importante trovare altri della nostra specie. Ci serve sangue nuovo, se non vogliamo ricadere nelle malattie».

   «Ho sentito che nell’Unione ci sono molti matrimoni misti...» mormorò Ladya, incerta. Le sembrava che questo avrebbe risolto i loro problemi.

   «Intendi le unioni interspecie? Sì, è vero» confermò il padre, accigliandosi. «Ma non credo che siamo pronti per questo. Siamo così pochi che, se c’imparentassimo con gli alieni, cesseremmo di essere Vidiiani nell’arco di poche generazioni. Certo, meglio questo dell’estinzione. Suppongo che prima o poi dovremo prendere questa decisione» sospirò.

   «C’è ancora tempo» disse Amrita, per alleviare la tensione. «Ladya, ti piacerebbe vedere qualche immagine di Vidiia Primo? Sono olografie che i nostri avi scattarono prima di partire. Così non avrebbero dimenticato la loro patria».

   «Oh, sì!» esclamò la ragazzina, con gli occhi che brillavano. Tutto quel narrare le aveva suscitato un ardente desiderio di conoscere il loro mondo natio.

   «È presto fatto» disse Dhanvat. Il Vidiiano prese il proiettore olografico, che si trovava in un angolo, e lo pose al centro della stanza, mentre i presenti si disponevano lungo le pareti. Armeggiò brevemente con i comandi, scorrendo l’archivio storico, e lo attivò.

   Le pareti sembrarono svanire attorno alla famiglia riunita. Ladya trattenne il fiato e si guardò attorno emozionata. Una lussureggiante foresta si stendeva in ogni direzione. Il suolo era acquitrinoso e i tronchi degli alberi si dividevano in radici prima d’immergersi in acqua. Insetti variopinti volteggiavano nell’aria. Affascinata, la ragazzina cercò di toccarne uno, pur sapendo che era intangibile. A quest’immagine ne seguirono altre, che mostravano diversi panorami. C’erano ambienti variegati, anche se nel complesso il clima tendeva al caldo-umido. Il cielo era solcato da magnifici anelli planetari, piuttosto rari nei mondi rocciosi.

   Ai paesaggi naturali seguirono quelli urbani, che portavano il marchio devastante della Phagia. Ogni città era nettamente divisa tra un’area per gli infetti e una per i sani. Ad essere cinte da mura erano queste ultime, dato che l’epidemia colpiva gran parte della popolazione. Le olografie però erano state scattate qualche anno dopo la fine del contagio, tanto che in molti casi le mura stavano venendo demolite. Anche così, i segni della Phagia restavano evidenti. Gli edifici pubblici più grandi erano gli ospedali. Non c’erano piazze, dato che le aggregazioni erano vietate. Le città erano costellate di monumenti funebri, alcuni antichi, dato che il morbo aveva imperversato per due millenni. Si andava dai mausolei in pietra, dalle grandi terrazze adorne di statue, fino ai memoriali moderni, costituiti da lunghi muri dalle superfici fittamente ricoperte dai nomi dei defunti.

   Le ultime olografie mostrarono Mireven, la capitale planetaria. Sotto due grandi lune, visibili in pieno giorno, s’innalzavano gli edifici governativi. Il simbolo del Sodalizio Vidiiano campeggiava sulle pareti: un disco grigio circondato da linee verticali segmentate, simili a graffi arancioni. Ladya notò che, pur in mancanza di piazze, c’erano molti monumenti. Si trattava perlopiù di statue, allineate ai lati delle strade, o anche dei soli volti scolpiti nei muri. Erano sculture imponenti che celebravano la bellezza e la salute fisica, fatte in reazione a millenni di malattia sfigurante. La ragazzina si chiese se raffiguravano personaggi mitici o se c’erano anche figure storiche. Non poté stabilirlo, perché le olografie non erano così dettagliate da poter leggere i nomi sulle targhe.

   Vedendo queste immagini, Ladya si disse che Vidiia Primo non era poi così male, specialmente ora che la Phagia era finita. Le olografie erano state scattate quasi due secoli prima: nel frattempo le cose dovevano essere migliorate. Nell’osservare le due lune, i grandi palazzi e i viali bordati di statue, la ragazzina fu assalita da una struggente nostalgia. Quanto avrebbe voluto visitare di persona il suo mondo! Che avrebbe dato per calcare quei viali, incontrare la gente! Avrebbe raccontato ciò che la sua comunità aveva affrontato nel viaggio, i rischi corsi e la fiorente colonia che infine avevano costruito. In cambio si sarebbe fatta dire tutto ciò che era successo in loro assenza. Sempre che Vidiia esistesse ancora. Sempre che i nemici non avessero distrutto ogni cosa.

   «Almeno lo saprei» si disse. «Comunque siano andate le cose, almeno lo scoprirei e mi metterei il cuore in pace».

   Mentre Ladya rimuginava, suo padre disattivò l’olo-proiettore. Pareti e soffitto riapparvero; Vidiia sparì come un sogno. La ragazzina fu acutamente consapevole della spaventosa distanza che li separava dal loro luogo d’origine e dal resto della loro specie. Una distanza che, in quasi due secoli, nessuno era riuscito a colmare. Ci sarebbero riusciti nell’arco della sua vita? O anche lei avrebbe trascorso l’esistenza struggendosi nel dubbio?

   «Stai bene, piccola mia?» chiese Amrita con apprensione, notando l’espressione assorta della figlia. «A cosa pensi?».

   «Penso... che da grande entrerò nella Flotta Stellare» rispose inaspettatamente Ladya. Un mormorio sorpreso corse fra i parenti e tutti gli sguardi si appuntarono su di lei.

   «La Flotta?!» fece la madre, colta alla sprovvista. «Saresti la prima Vidiiana a farlo. Certo, i nostri medici hanno collaborato con i loro, ma nessuno è mai entrato a farne parte».

   «Ma non è proibito... siamo cittadini federali, vero?» chiese Ladya, sulle spine.

   «Sì, abbiamo ottenuto la cittadinanza» confermò Amrita. «Ma lavorare nella Flotta è pericoloso. Si vive per anni su astronavi che affrontano un’emergenza dopo l’altra. Perché dovresti sobbarcarti quei rischi, ora che finalmente possiamo vivere in pace?».

   «Perché così se l’Unione contatterà il nostro mondo lo saprò subito... e forse un giorno lo visiterò di persona» rispose Ladya. Il suo visetto infantile era serio e concentrato; il proposito si stava radicando nella sua mente.

   «Le tue ambizioni sono molto alte, bambina mia» sospirò la madre. «Vedremo cosa porteranno gli anni».

   Poco alla volta la tensione si stemperò. I cugini di Ladya aprirono le finestre, per cambiare l’aria. Fuori il sole stava tramontando; il cielo era screziato di rosso e spirava un vento fresco. Poiché si era fatto tardi, il resto della cerimonia fu svolto rapidamente. Dhanvat consegnò delle ciotole a tutti i presenti e Amrita vi versò una bevanda tradizionale. Quando tutti ebbero le ciotole colme, le sollevarono.

   «In memoria dei nostri avi e del loro lungo viaggio» disse solennemente Dhanvat. «Onoriamo il coraggio e i sacrifici che li portarono qui».

   «A tutti noi, l’augurio di salute e longevità» aggiunse Amrita.

   «Salute e longevità!» ripeterono i presenti. Era l’augurio tradizionale dei Vidiiani. Ciò detto, bevvero fino a vuotare le ciotole. Allora Amrita le raccolse e le portò via, mentre Dhanvat spegneva le candele. La commemorazione era finita; ai coniugi non restava che salutare i parenti. Ci volle un pezzo per accomiatarsi da tutti, perché alcuni erano chiacchieroni e indugiavano a lungo sulla soglia, continuando a parlare del più e del meno.

   Quando finalmente restarono soli, i coniugi si accorsero che Ladya non era più con loro. Salendo al piano di sopra, la trovarono nella sua cameretta, che leggeva al computer. La ragazzina aveva attivato due oloschermi. Su uno scorrevano le informazioni disponibili su Vidiia, mentre sull’altro campeggiava il logo della Flotta Stellare. Seria e concentrata, Ladya stava leggendo i requisiti di accesso. A quella vista i genitori si ritirarono per confabulare.

   «Forse abbiamo sbagliato a dirle tutto in una volta sola» mormorò Amrita. «Adesso le è venuta l’ossessione di trovare Vidiia».

   «Le ossessioni delle bambine di dieci anni durano poco» ribatté Dhanvat, più ottimista. «Vedrai che tra una settimana avrà già dimenticato la faccenda».

   «Speriamo» disse Amrita, ancora in apprensione. «È una bambina cocciuta. Più cocciuta di te e di me».

   «Però dì la verità: non piacerebbe anche a te se un giorno avessimo notizie della madrepatria?» chiese il marito.

   «Non so» rispose la moglie, esitante. «Se fossero brutte notizie, ci resterei malissimo. Forse è meglio rimanere nell’incertezza».

   Intanto, nella sua cameretta, Ladya continuava a informarsi sul percorso di studi necessario a entrare nella Flotta. Non aveva le incertezze dei suoi genitori, anzi, più ci pensava e più si convinceva che fosse la cosa giusta per lei. «Un giorno camminerò per le strade di Vidiia» si disse. «Sarò la prima della colonia a farlo. Sì... un giorno tornerò a casa, e sarà bellissimo».

 

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Capitolo 2
*** Veniamo in pace ***


-Capitolo 1: Veniamo in pace

Data stellare 2590.35

Luogo: pianeta Akaali

 

   Lasciata l’orbita geostazionaria, l’USS Kutkh sorvolò oceani e continenti, fino a raggiungere la posizione voluta. Qui si arrestò, ruotando di 90º per fronteggiare una grande massa continentale. La Kutkh era uno slanciato vascello federale di classe Horus, dalle linee aggressive che ricordavano gli sparvieri klingon e romulani. Da quando le tre potenze si erano raccolte in una più vasta Unione Galattica, la commistione di tecnologie aveva portato a questi design ibridi. La classe Horus, ormai in servizio da vent’anni, era diventata la spina dorsale della nuova Flotta unificata, anche se c’erano in cantiere astronavi ancora più potenti.

   Il Capitano Mevos contemplò il paesaggio sullo schermo: pianure e colline verdeggianti, venate di fiumi e costellate di centri urbani. Il pianeta Akaali era da poco entrato nella Rivoluzione Industriale, ragion per cui le città erano piene di ciminiere che riversavano fumo nell’atmosfera. Ma il danno ecologico non era ancora grave; il pianeta conservava la sua bellezza. «Quella è Luvia?» chiese il Capitano, accennando a una grande città che sorgeva sulla costa. Era la capitale di una delle nazioni più potenti del pianeta.

   «Affermativo» rispose l’addetto ai sensori.

   Il Capitano la scrutò per qualche secondo, poi ruotò la poltroncina, per rivolgersi all’Ufficiale Tattico. «Tenente, alzi gli scudi».

   «Già fatto, signore».

   «Bene, allora agganci la città» disse Mevos, intrecciando le dita. «È tempo di risolvere il conflitto. Apra il fuoco».

   «Agli ordini» disse l’Ufficiale Tattico. Senza la minima esitazione digitò la sequenza di lancio. Un siluro quantico fu sparato contro il pianeta. Il bagliore azzurro sfrecciò nell’atmosfera, sempre più basso. Gli ufficiali di plancia lo seguirono trepidanti, finché giunse a bersaglio. Ci fu un lampo accecante e un’esplosione fungiforme si allargò dal centro cittadino. Le case, le fabbriche e i palazzi furono rasi al suolo. I loro tetti scoperchiati volarono via. Il legno arse, i mattoni si spaccarono e persino la pietra si sbriciolò. Il fungo incandescente s’innalzò nell’atmosfera, mentre l’onda d’urto si allargava, spazzando via le rade nuvole.

   «Oh, è bellissimo» commentò il Capitano, rapito da quella vista. L’esplosione era perfettamente simmetrica, e a lui piaceva la simmetria. «Rapporto».

   «Luvia non esiste più» confermò l’addetto ai sensori. «Tutto ciò che si trovava nel raggio di cinquanta chilometri dall’esplosione è stato distrutto».

   «Questo è un gran giorno» dichiarò il Capitano. «Tenente, agganci i capoluoghi di provincia e tutte le città con più di 100.000 abitanti. Fuoco a volontà».

 

   In quel momento un’altra astronave uscì dalla cavitazione e sfrecciò verso il pianeta. Aveva una forma compatta, rastremata a prua. Lo scafo blu-violetto, solcato da costoloni di rinforzo, non presentava finestre. I nuovi arrivati aprirono immediatamente il fuoco con il cannone anteriore. I potenti impulsi phaser martellarono gli scudi della Kutkh, che divennero visibili per la dispersione energetica, ma resistettero. Dopo di che il nuovo vascello si frappose tra la nave federale e il pianeta, nel tentativo di proteggerlo. Molte città però erano già state colpite, trasformandosi in crateri colmi di lava ribollente. Le esplosioni s’innalzavano nella stratosfera, le pianure e i campi bruciavano. Più insidiose di tutto, le radiazioni si diffondevano sul continente e oltre, colpendo la popolazione inerme.

   La Kutkh aprì nuovamente il fuoco, non più contro il pianeta, ma contro il vascello che l’aveva attaccata. Siluri quantici e raggi anti-polaronici balenarono nel buio, colpendo gli scudi. Ma la Keter, la nave a cui spettavano le missioni impossibili, aveva visto di peggio. I suoi ufficiali rimodularono gli scudi, adattandoli al fuoco nemico. Sulla plancia, il Capitano Hod osservò corrucciata la nave avversaria. «A questo siamo giunti» mormorò cupamente, sentendo la plancia che tremava appena. «Zafreen, li chiami su tutte le frequenze».

   «Procedo, ma non credo che ci staranno a sentire» commentò l’Orioniana.

   I fatti però la smentirono, perché la Kutkh smise di attaccare. A un cenno di Hod anche Norrin, l’Ufficiale Tattico della Keter, cessò il fuoco. L’Hirogeno però non abbassò la guardia. Consultò i dati che Zafreen gli mandava dalla postazione sensori, in cerca di un punto debole nelle difese avversarie.

   Sullo schermo apparve un Akaali di mezz’età, un po’ corpulento. Gli Akaali erano una tipica specie umanoide, caratterizzata da due rilievi zigrinati che andavano dalle sopracciglia all’attaccatura dei capelli. Questo era un militare, come indicava l’uniforme piena di medaglie. Aveva gli occhi freddi e due enormi basette che solcavano le guance, unendosi ai baffoni. «Sono il Capitano Mevos, della Sovranità Epasiana» si presentò. «Cessate l’attacco e ritiratevi, o sarete distrutti!» minacciò.

   «Neanche per sogno. Vi siete impadroniti di una nave federale e avete bombardato delle città inermi; non la farete franca» ribatté Hod. L’Elaysiana lasciò la poltrona e si avvicinò allo schermo, studiando l’avversario.

   «Inermi?!» esclamò Mevos, sprezzante. «Lei non conosce i Luviani. Per duecento anni hanno minacciato i nostri confini. Hanno razziato le coste, ci hanno imposto blocchi navali per strangolare la nostra economia. Ora la misura è colma. Noi Epasiani dobbiamo cautelarci da ogni nuovo attacco».

   «Luviani, Epasiani... avete nazionalità diverse e parlate lingue differenti, ma vivete tutti sullo stesso pianeta» obiettò il Capitano Hod. «Siete tutti Akaali. Prima o poi dovrete imparare a coesistere».

   «Anche quelli della Kutkh dicevano così» commentò Mevos, storcendo la bocca. «Quando gli abbiamo chiesto armi per difenderci dagli invasori, ce le hanno negate. Dicevano che presto non avremmo più avuto nazioni, sul nostro pianeta. Che saremmo stati tutti fratelli. Tsk. Solo dei mentecatti possono credere una cosa del genere. O illusi che non hanno la minima idea di come vanno le cose qui».

   «Convengo che l’equipaggio della Kutkh fosse poco informato sul vostro conto» disse Hod, cupa. «Ma questo non vi autorizzava a ucciderli e a impossessarvi dell’astronave».

   «Non li abbiamo uccisi tutti» rivelò il Capitano. «Alcuni si sono arresi; li abbiamo ancora a bordo».

   «Il Capitano Gimmon è tra questi?» chiese subito Hod.

   Mevos rifletté un attimo prima di rispondere. Concluse che era inutile nascondere la verità. «Sì, lo abbiamo in custodia» confermò.

   «Vorrei parlargli» disse l’Elaysiana.

   «Restate in attesa» rispose l’Akaali, e chiuse la comunicazione.

   «Capitano, ho rilevato dei corpi senza vita nello spazio» disse Zafreen a mezza voce. «Devono essere i caduti. Per sbarazzarsene li hanno buttati fuori dalla nave».

   «Voglio vederli» ordinò Hod. «E voglio sapere quanti sono».

   La lugubre inquadratura apparve sullo schermo. I cadaveri dei federali roteavano nello spazio, allontanandosi dalla zona in cui erano stati espulsi. Sui volti congelati erano ancora impresse le smorfie di dolore e terrore degli ultimi momenti. Se non li raccoglievano, molti di loro sarebbero bruciati cadendo nell’atmosfera, mentre altri sarebbero rimasti in orbita per chissà quanto.

   «Sono 135» riferì l’Orioniana. «La Kutkh aveva un equipaggio di 420 elementi, quindi dovrebbero esserci 285 ostaggi a bordo».

   «Non sembrano tutti vittime di armi da fuoco» notò il Comandante Radek, un Rigeliano grande e grosso. In effetti molti corpi non mostravano bruciature da phaser, né ferite da proiettile. In compenso avevano espressioni stravolte e braccia ritorte verso i volti.

   «Li hanno gettati vivi nello spazio!» ringhiò Vrel, il timoniere di bordo.

   «Così sembra» disse Radek, più distaccato. «Ma non dimentichiamo che gli Akaali sono un popolo pre-curvatura. Anche se si sono impadroniti di quell’astronave, non sanno manovrarla».

   «A me sembra che ci riescano quanto basta» borbottò Vrel, osservando la superficie in fiamme del pianeta.

   In quella Mevos riapparve sullo schermo. Era ancora seduto sulla poltrona del Capitano. Accanto a lui, in ginocchio e con gli occhi bendati, c’era il legittimo proprietario di quella poltrona. Era un Denobulano dai capelli grigi e il volto tumefatto. Anziché l’uniforme della Flotta Stellare, indossava quella dell’Ufficio di Primo Contatto, il nuovo dipartimento creato per elargire aiuti umanitari ai popoli pre-curvatura. Un soldato Akaali gli teneva una pistola puntata alla nuca.

   «Capitano Gimmon, mi sente?» chiese Hod.

   «Chi parla?» mormorò il Denobulano, che essendo bendato non poteva vederla.

   «Capitano Hod, della Keter» spiegò l’Elaysiana. «Eravamo in zona e sapevamo della vostra missione di Primo Contatto. Così, quando i sensori hanno captato le esplosioni sul pianeta, abbiamo immaginato che aveste perso il controllo della nave».

   «Esplosioni?!» si disperò Gimmon. «Oh, no... li avevo implorati di non farlo».

   «Un buon soldato non spreca mai le occasioni» disse Mevos. «Questo vascello ci permetterà di vincere la guerra». Così dicendo estrasse un monocolo dal taschino e se lo sistemò all’occhio destro, per osservare meglio gli interlocutori. «Forse pensavate che fossimo dei primitivi, quando ci avete contattati. Credevate che vi avremmo adorati come divinità. Beh, avete fatto male i conti. I nostri filosofi avevano già teorizzato l’esistenza di altri mondi abitati, quindi il vostro arrivo non è stato un grosso shock».

   «Cercavamo di aiutarvi...» cominciò il Denobulano.

   «Certo, dicono tutti così!» sbottò l’Akaali. «“Veniamo in pace!”. Così dissero i Luviani, due secoli fa, prima di cominciare a rapirci e a venderci droghe. “Veniamo in pace!” avete detto voi, quando siete sbarcati. Ma noi non siamo così ingenui... non più».

   Vedendo che parlare con lui era inutile, Gimmon si rivolse a Hod. «Mi dispiace, Capitano» disse con voce rotta. «All’inizio gli Akaali sembravano pacifici. Molti di loro soffrivano di una malattia simile al colera, quindi li abbiamo imbarcati per curarli. Ma appena ricevuta la vaccinazione, ci si sono rivoltati contro. Hanno iniettato la loro malattia nelle gelatine bio-neurali del computer, mettendo fuori uso l’Intelligenza Artificiale. Poi si sono impadroniti della sala macchine e hanno minacciato di far esplodere la nave, se non gliela avessimo consegnata. È successo tutto così in fretta... non siamo riusciti a fermarli» disse mortificato.

   Hod pensò che se quella nave avesse avuto un equipaggio della Flotta Stellare, anziché di burocrati e di volontari inesperti, non sarebbe mai accaduta una cosa simile. Ma tenne per sé queste considerazioni. «Voi superstiti state bene?» chiese invece.

   «Siamo stati torturati» rivelò il Denobulano con voce cupa. «Ci hanno estorto i codici di comando e le istruzioni per governare la nave».

   Quest’affermazione allarmò il Capitano e gli ufficiali della Keter. Se gli Akaali avevano già tutto quel che gli serviva, gli ostaggi erano inutili. Quindi non avrebbero esitato a sbarazzarsene.

   «Bene, Capitano Mevos» disse Hod, respirando a fondo. «Quali sono le sue condizioni?».

   «Reclamiamo la proprietà di questo vascello, da noi conquistato in battaglia» rispose l’Akaali. «Vi ordiniamo altresì di lasciare il sistema, senza interferire nei conflitti del nostro pianeta. Quando ci saremo occupati dei Luviani, vi renderemo gli ostaggi» promise.

   «È inammissibile» ribatté Hod. «Non vi lasceremo compiere un genocidio. Voi non avete idea di quanto siano potenti le armi che state usando. I siluri che avete lanciato stanno sollevando una coltre di polveri che oscurerà il sole su tutto il pianeta, per molti anni. In questo modo anche i vostri raccolti andranno persi, la vostra gente morirà di fame, lo capite?! E le radiazioni faranno ancora più danni. Le persone si ammaleranno e moriranno, i bambini nasceranno orribilmente deformati. Questo in tutto il pianeta, non solo tra i vostri nemici».

   «E poi che altro, ci verrà il malocchio?» fece Mevos, sarcastico. «Se anche ciò che dice fosse vero, è un prezzo che siamo disposti a pagare, pur di sconfiggere Luvia una volta per tutte. Se foste dei nostri, lo capireste... ma siete solo degli alieni. Avrete anche tutta la tecnologia dell’Universo, ma vi manca il nostro spirito; ecco perché abbiamo conquistato questa nave».

   «La vostra fortuna è finita» ammonì Hod. «Rendeteci gli ostaggi e cercherò di organizzare una trattativa fra le vostre nazioni. Se le cose andranno per le lunghe, l’Unione invierà un mediatore. È già successo, molte volte, che così si ottenesse la pace tra popoli che erano considerati implacabili rivali».

   «Incredibile...» mormorò il Capitano, fissandola assorto.

   «No, non è incredibile» insisté Hod, sperando di aver fatto breccia. «Ogni conflitto può essere risolto, se da ambo le parti c’è la volontà di...».

   «Volevo dire: incredibile che pensi di darcela a bere!» l’interruppe Mevos seccamente. «Ci prende per minorati mentali? Se avevo un briciolo di rispetto per lei, Capitano Hod, adesso l’ho perso. Se non l’ha ancora capito, noi facciamo sul serio. E per dimostrarglielo...». Fece un cenno al soldato che teneva Gimmon sotto tiro. Si udì uno sparo e il Denobulano cadde faccia in avanti. Il proiettile lo aveva colpito alla nuca; la morte era stata istantanea.

   Hod chiuse gli occhi per un attimo. Aveva tentato la via diplomatica, com’era dovere di ogni Capitano della Flotta Stellare; ed ecco il risultato. Era chiaro che gli interlocutori non erano minimamente interessati a trattare.

   «Ho ancora 284 dei vostri a bordo» disse Mevos con calma. «Li farò uccidere tutti, a cominciare dai più giovani, se non ve ne andate subito. A voi la scelta».

   «Ci sono duecento milioni di persone nel continente che voi state bombardando» rispose l’Elaysiana, glaciale. «Non è una scelta difficile».

   «Perché vi stanno tanto a cuore i Luviani?!» protestò l’Akaali. «Che cosa vi hanno promesso, in cambio del vostro aiuto?».

   «Assolutamente nulla» ribatté Hod. «Ma la vostra follia omicida m’impone di fermarvi».

   «Se aiuta i Luviani, vuol dire che è loro alleata» s’incaponì Mevos. «Il che significa che è nostra nemica. Poteva dirlo subito, Capitano, e ci saremmo risparmiati queste inutili ciance. Sia come vuole, dunque: guerra all’ultimo sangue. Giustiziate gli ostaggi!» ordinò ai suoi. Chiuso il canale, la Kutkh riapparve sullo schermo, mentre apriva selvaggiamente il fuoco contro la Keter.

   «Tempi bui per la diplomazia» mormorò Hod, sentendo tremare la plancia. Ma si riscosse in fretta. «Norrin, gli metta fuori uso gli scudi. Appena cedono, portiamo a bordo gli ostaggi» ordinò.

   «Sì, Capitano» disse l’Ufficiale Tattico, aprendo il fuoco contro la nave avversaria. Trattandosi di un vascello federale, ne conosceva i punti deboli. «Ma sarebbe meglio se non restassimo a fare da bersaglio» aggiunse, dato che stavano ricevendo molti colpi.

   «Gli Akaali cercano di colpire anche il pianeta» avvertì Zafreen.

   «Allora manteniamo la posizione» ordinò il Capitano, risedendosi sulla poltroncina.

   «Estendere al massimo la bolla degli scudi» aggiunse il Comandante Radek, sperando d’intercettare anche i colpi diretti al pianeta. Allargare così tanto gli scudi, però, li avrebbe indeboliti.

   «Fantastico... siamo inchiodati qui e pure con gli scudi estesi» bofonchiò Vrel, che in tal modo non poteva far valere le sue abilità di pilota. «Dobbiamo anche legarci le mani dietro la schiena?».

   «Disciplina, Tenente Shil!» lo richiamò il Comandante, pur essendo frustrato anche lui dalla situazione.

   Lo scontro procedette per circa un minuto, con le due navi che si scambiavano colpi terribili. Pur con tutti gli svantaggi, la Keter era diretta da veterani che sapevano dove colpire. Invece la Kutkh aveva un equipaggio inesperto, che colpiva a caso, senza sfruttare appieno le capacità del vascello. Poco alla volta i suoi scudi s’indebolirono, finché dovette battere in ritirata. Mentre si muoveva, però, continuò a colpire il pianeta, prendendo di mira le nazioni avversarie. La Keter l’inseguì, abbattendo tutti i siluri prima che giungessero a bersaglio; ma non poté bloccare i raggi anti-polaronici. Sulla superficie di Akaali apparvero scie di distruzione.

   «I loro scudi stanno cedendo» avvertì Norrin. «Ma dovremo abbassare anche i nostri per imbarcare gli ostaggi».

   «Vrel, stia pronto a schivare i siluri» ordinò il Capitano. Confidava sulla solidità dello scafo in neutronio per proteggerli dalle altre armi. In quella notò che l’hangar principale della Kutkh si stava aprendo. Il campo di forza protettivo non era stato attivato: l’aria fu risucchiata nello spazio, portandosi dietro duecento persone. Gli ostaggi rimasti. «Teletrasporto!» ordinò Hod, sapendo che avevano pochi secondi di vita.

   Norrin abbassò gli scudi e le sale teletrasporto iniziarono il trasferimento. Nel frattempo la Kutkh assalì nuovamente la Keter, per distruggerla mentre le sue difese erano abbassate. Solo una disperata manovra evasiva di Vrel evitò la salva di siluri. Le armi a raggi però andarono a bersaglio.

   «Trasferimento ancora in corso» avvertì l’addetto al teletrasporto di plancia. Diversamente dalle altre navi della Flotta, la Keter aveva una pedana anche sul ponte di comando. Alcuni ufficiali semicongelati vi si materializzarono.

   «Norrin!» esclamò il Capitano, sapendo che la nave non avrebbe retto a lungo in quelle condizioni.

   «Ci sono» disse l’Hirogeno in tono misurato. Scagliò una salva di siluri cronotonici che colpirono la Kutkh in corrispondenza di un’ala, tranciandola. Il pezzo d’ala con la gondola quantica si allontanò senza esplodere. Il resto della nave sbandò e smise di sparare. «Hanno perso gli scudi» riferì Norrin. «Motori disattivati; sono alla deriva».

   «Teletrasporto completato» disse l’addetto. «Abbiamo 187 ostaggi ancora in vita, anche se molti sono in gravi condizioni».

   «Su gli scudi» ordinò Hod. «Zafreen, li chiami ancora».

   Sullo schermo riapparvero Mevos e i suoi soldati. Avevano perso lo smalto, ora che la plancia era invasa dal fumo e gran parte dei comandi era fuori uso. Due Akaali giacevano a terra con ferite alla testa, dopo che le loro consolle erano esplose.

   «Arrendetevi» disse Hod in tono categorico. «Non temete... noi trattiamo con dignità i prigionieri, a differenza di voi». In realtà non sarebbe stato facile catturarli: nelle prigioni di bordo non c’era spazio per tutti e il Capitano non osava riportarli a terra, temendo che si dileguassero.

   «Diventare merce da scambiare non si addice ai soldati» rispose Mevos. Levò di tasca un comunicatore, sottratto ai federali, e contattò un sottoposto. «È il momento; fate brillare le cariche» ordinò. Poi si rivolse ai soldati raccolti attorno a lui. «Siate orgogliosi di questo giorno. Abbiamo messo i Luviani in ginocchio e presto le nostre truppe daranno loro il colpo di grazia».

   In quella le cariche esplosive che erano state sistemate in sala macchine detonarono. Il nucleo quantico fu schiantato: materia e antimateria si scontrarono, annichilendo la Kutkh in un lampo bianco.

 

   Scioccata, il Capitano Hod osservò la nube di vapore che si disperdeva. Ora che tutti gli Akaali coinvolti nell’incidente erano morti, sarebbe stato difficile convincere le vittime che erano stati loro ad attaccarli dallo spazio. «Analisi delle radiazioni» ordinò, con la bocca secca. «Quali sono le conseguenze sul pianeta?».

   Distogliendosi a fatica dallo schermo, Zafreen scansionò il pianeta. «Quasi tutto l’emisfero è inondato da radiazioni alfa, beta e gamma» riferì. «I raggi gamma sono dieci volte oltre i livelli di guardia della fisiologia Akaali».

   «Dobbiamo soccorrere la popolazione» mormorò il Capitano, osservando il continente. Le maggiori città luviane non c’erano più; al loro posto vi erano crateri ribollenti. Qua e là, lunghe scie nerastre indicavano le zone colpite dai raggi anti-polaronici. Le ceneri s’innalzavano nell’atmosfera, disperdendosi; presto l’intero pianeta sarebbe piombato nell’inverno nucleare.

   «Capitano, l’infermeria trabocca già di feriti» le ricordò il Comandante. «Ma anche se così non fosse, non possiamo soccorrere duecento milioni di persone. È un’operazione che impegnerebbe tutta la Flotta Stellare per anni».

   «Dobbiamo avvertire il Comando di Flotta» disse Hod, realizzando poco alla volta l’enormità della tragedia. «Chiediamo aiuti, per quanto possibile. La cosa più urgente sono i vaccini anti-radiazioni. Per quanto riguarda la cappa di polveri, esistono metodi per farla precipitare più in fretta».

   «E che facciamo contro gli Epasiani?» chiese Vrel, cupo. «Quei pazzi vogliono ancora invadere il continente».

   «Quando vedranno il cielo oscurato, forse cambieranno idea» ipotizzò Hod, ma nemmeno lei ci sperava. Senza la luce e il calore del sole, la conflittualità sarebbe aumentata in tutto il pianeta, perché ogni nazione si sarebbe trovata a corto di risorse e avrebbe cercato di razziarle dai vicini. C’erano centocinquanta stati pronti a saltarsi alla gola, là sotto.

   «Ci chiamano, Capitano» disse Zafreen. «È una trasmissione subspaziale, ma viene da una città luviana. Una delle poche ancora in piedi. Forse sono stati quelli della Kutkh a dargli il trasmettitore» ipotizzò.

   «Sullo schermo» disse Hod, alzandosi di nuovo. Davanti a lei apparve un gruppetto di Akaali dall’aria stravolta, chiusi in un bunker illuminato con lampade a olio. Uno di loro si fece avanti, pallido come un cencio. «Sono il ministro Nozen, della Sovranità Luviana» disse tutto tremante. «Vi chiamo per offrirvi la nostra resa incondizionata. Faremo tutto ciò che volete, ma v’imploro: smettetela di colpirci!».

   «Non siamo stati noi» disse subito l’Elaysiana. «Sono il Capitano Hod, dell’USS Keter; è la prima volta che visitiamo il vostro mondo».

   «Uhm, sì, è una faccia nuova» riconobbe il ministro, aguzzando la vista. «Ma anche se non ci avete colpito voi personalmente, è stata comunque l’Unione! I telescopi non mentono: è stata una vostra nave ad aprire il fuoco. Perché questo attacco? Non vi abbiamo fatto nulla di male! Anzi, eravamo entusiasti all’idea di aprirci ai contatti con voi! Ed è così che ripagate la nostra fiducia: sterminandoci!» gridò, dando un pugno sul tavolo.

   Hod avrebbe voluto sprofondare sotto terra, piuttosto che subire quell’arringa. Ma in qualche modo riuscì a ribattere. «A colpirvi è stata l’USS Kutkh, che noi abbiamo appena sconfitto. Quella nave era caduta sotto il controllo dei vostri rivali Epasiani. Vi hanno colpiti con armi di cui ignoravano il potenziale, infatti ne subiranno gli effetti anche loro» spiegò.

   Gli Akaali si scambiarono occhiate incerte. Poi Nozen si rivolse di nuovo al Capitano. «Mi riesce difficile accettare una scusa del genere» disse. «La vostra tecnologia è molti secoli avanti alla nostra. Come avete potuto farvi soffiare un’astronave?!».

   «Su questo indagheremo» disse Hod, cupa. «Vede, noi apparteniamo alla Flotta Stellare: un’organizzazione che si occupa d’esplorazione, ricerca scientifica e difesa. Invece la Kutkh era stata ceduta all’Ufficio di Primo Contatto, una branca governativa di recente creazione. Chiaramente c’è stata una grave falla nella sicurezza».

   «Direi proprio!» convenne il ministro, fulminandola con lo sguardo. «Parlerò con le autorità Epasiane, per verificare le vostre accuse. No, anzi... fatemi parlare con quelli che ci hanno bombardati! Avete detto di averli sconfitti, quindi li avrete in custodia».

   «Ecco... non proprio» ammise Hod, muovendosi come se fosse sui carboni ardenti. «Quando si sono visti sconfitti, hanno fatto esplodere il vascello. Non è sopravvissuto nessuno».

   «Quindi non ci sono testimoni da interrogare; molto opportuno» incalzò Nozen.

   «Ci sono gli ostaggi che abbiamo liberato...» cominciò Hod.

   «Ma guarda, che combinazione: gli unici a salvarsi sono stati i vostri!» s’indignò il ministro. «Vi aspettate che li prendiamo in parola? “Veniamo in pace!”. Così dissero, appena sbarcati. Sì... abbiamo visto cosa intendete per pace. Le nostre belle città sono in macerie, il nostro popolo è decimato. L’unica pace che avete da offrirci è quella eterna!» inveì.

   «Ministro, la prego... c’è poco tempo» disse il Capitano. «Le radiazioni stanno già colpendo la popolazione. Abbiamo la cura, da iniettare come un vaccino, ma dovete permetterci di somministrarvela».

   «Come osate?! Siamo in lutto, e ancora vi fate beffa di noi!» gridò Nozen. «Ancora pensate di abbindolarci con le vostre false promesse! Chi lo sa cosa volete iniettarci? Forse una malattia che finisca ciò che il bombardamento ha iniziato! Mi guardi negli occhi, Capitano Hod, e mi dica: se i nostri ruoli fossero invertiti, lei si fiderebbe di me?» chiese l’Akaali, rivolgendole un’occhiata penetrante.

   «No» ammise l’Elaysiana in un soffio.

   «E allora non pretenda che lo faccia io» concluse il ministro. «Se ne vada, con la sua astronave. Dica all’Unione Galattica che non vogliamo più avere alcun contatto. Ma serberemo la memoria di quest’infame tradimento».

   «Permettete almeno ai nostri dottori di aiutarvi!» disse Radek, venendo a fianco del Capitano.

   «Se qualcuno dei vostri oserà ancora sbarcare sul nostro territorio, non sono responsabile di ciò che gli accadrà» chiarì Nozen. «Veniamo in pace! Ditelo a qualcun altro, perché noi non ci crediamo più». Ciò detto chiuse la comunicazione.

   Avvilita, il Capitano Hod si portò una mano alla fronte. «Zafreen, informi subito la Flotta Stellare dell’accaduto. Io vado nel mio ufficio, a scrivere il rapporto. Radek, la plancia è sua».

   «Vuole che intraprenda qualche iniziativa?» chiese il Rigeliano.

   «No, per adesso. Ma dica ai medici di stare pronti. E raduni gli esperti di meteorologia e climatologia. Studiate un modo per far precipitare quelle polveri» disse, accennando al pianeta sullo schermo. La cappa grigia si espandeva rapidamente, bloccando la luce del sole. Il Capitano non osava nemmeno immaginare le condizioni di chi viveva là sotto. Senza aggiungere altro lasciò la plancia.

 

   Chiusa nel suo ufficio, il Capitano fissava cupamente la scrivania. Avrebbe dovuto redigere il rapporto dell’incidente, ma non sapeva da dove cominciare, che termini usare. Sapeva solo che ultimamente andava tutto in malora.

   Era proprio per impedire tragedie come quella che la Federazione, e poi l’Unione, avevano osservato la Prima Direttiva di non interferenza. Alla Flotta Stellare, come alle altre organizzazioni federali, era vietato contattare e influenzare in alcun modo le civiltà pre-curvatura. Ma anno dopo anno, tra i cittadini federali era cresciuto il malcontento per quella che sembrava una legge di comodo, finalizzata a non aiutare quei popoli, spesso piagati da guerre, carestie e disastri naturali. Così era nato il Partito Abolizionista, che aveva guadagnato sempre più consensi, fino a ottenere la maggioranza assoluta al Senato. La sua leader, la senatrice Rangda di Zakdorn, si era fatta eleggere Presidente con la promessa di abrogare totalmente la Prima Direttiva.

   Al Capitano Hod non dispiaceva tanto il fatto in sé, quanto il modo in cui Rangda lo aveva fatto. In cinque anni di governo, la Presidente aveva stroncato ogni forma di dissenso nel modo più semplice, cioè accusando d’egoismo tutti gli oppositori, compresa l’ala più moderata del suo stesso partito. La martellante propaganda dei mezzi d’informazione aveva fatto il resto. Così, dopo infuocati dibattiti politici, manifestazioni di folla e spettacolari azioni di disobbedienza civile, la Prima Direttiva era stata abolita. Nel frattempo la Presidente aveva inesorabilmente smantellato la Flotta Stellare, l’unica organizzazione che ancora le si opponesse. L’aveva privata dei finanziamenti, delle risorse e del personale, che erano stati ridistribuiti in altri progetti. Tutto questo accadeva proprio mentre si moltiplicavano le crisi alle frontiere, specialmente coi Breen. Ormai la Flotta non era che una pallida ombra di se stessa; molti erano convinti che presto sarebbe stata sciolta del tutto. Al suo posto, Rangda aveva creato una pletora di enti sotto il suo diretto controllo.

   Ultimo in ordine di tempo era l’Ufficio di Primo Contatto, che si occupava appunto di contattare i popoli pre-curvatura, elargendo aiuti e tecnologie. Organizzato frettolosamente nell’arco di pochi mesi, l’Ufficio disponeva di astronavi requisite alla Flotta Stellare. Alcuni dei suoi membri erano proprio ex ufficiali di Flotta. Molti altri, però, venivano dall’amministrazione civile e non erano affatto pratici delle procedure di Primo Contatto. A complicare le cose, l’Ufficio faceva ampio uso di volontari, animati dalle migliori intenzioni ma non adeguatamente istruiti per l’incarico. I risultati erano sotto gli occhi di tutti. All’opposto della Flotta, nota per la professionalità dei suoi ufficiali, l’Ufficio di Primo Contatto combinava spesso disastri. E toccava alla Flotta rimediare, spesso incassando il biasimo. Ma con l’aumentare dei popoli contattati, anche le crisi si moltiplicavano. Presto sarebbe giunto il punto di rottura. E nessuno sapeva quale sarebbe stata la prossima mossa di Rangda.

 

   L’infermeria della Keter era nel caos. C’erano quasi duecento pazienti da curare, vale a dire tutti i superstiti della Kutkh. Molti di loro avevano subito crudeli torture, quando gli Akaali li avevano interrogati per estorcere i codici di comando. E tutti avevano i segni della decompressione nello spazio. Occhi e orecchie erano gli organi più colpiti. Anche se erano stati teletrasportati in pochi secondi, prima che l’aria attorno a loro si disperdesse del tutto, molti erano in condizioni critiche. Ma non c’era posto per tutti nell’infermeria principale. Perciò, oltre che nelle due infermerie secondarie, i medici li avevano sistemati in sala mensa e in una delle stive, su giacigli di fortuna. Ora si affannavano da un paziente all’altro, soccorrendo per primi quelli che versavano nelle condizioni più gravi.

   Ladya Mol, Medico Capo della Keter, si chinò sull’ennesimo paziente. Era un giovane Retelliano, che si guardava attorno spaurito. «C’è qualcuno? Chi sei?» chiese, cercando di alzarsi.

   «Dottoressa Mol» si presentò la Vidiiana. «No, resta giù. Ti devo curare» spiegò, toccandogli la spalla per indurlo a stare sdraiato.

   «Io... non ci vedo!» gridò il giovane, strofinandosi gli occhi arrossati. «È stata la decompressione... resterò cieco?».

   «Cerca di calmarti» lo esortò Ladya. «Non riesco a visitarti, se ti muovi così. Tieni giù le mani» insisté, allontanandogliele dal viso. Finalmente poté esaminargli gli occhi con un sensore medico.

   «Noi volevamo solo aiutarli... condividere il nostro benessere...» singhiozzò il Retelliano.

   «Lo so, lo so. Sssshhhh... sta’ calmo. Sei al sicuro, ora» cercò di tranquillizzarlo Ladya. La sua fronte bombata si aggrottò, mentre leggeva i dati dell’analizzatore. I danni agli occhi erano piuttosto gravi. «Sei uno dei volontari, vero?» chiese, cercando di distrarlo dal dolore.

   «Sì... prima missione» confermò il ragazzo, deglutendo. «Ci avevano detto che sarebbe stato facile. Dovevamo solo distribuire viveri e medicinali. Invece gli Akaali ci hanno attaccati a tradimento! Com’è possibile? Eravamo lì per aiutarli!» gridò, sentendosi tradito.

   «Una nazione vi ha attaccati» precisò Ladya. «Una su centocinquanta. Cerchiamo di non criminalizzarli tutti. Comunque avreste dovuto essere più cauti» convenne. «Questo pianeta è appena entrato nella Rivoluzione Industriale. I suoi abitanti sono ancora profondamente divisi. Alcune nazioni farebbero di tutto per sopraffare le altre. E nessuno comprende quanto sia distruttiva la nostra tecnologia, se usata male» sospirò. Mentre parlava al paziente, gli stava prestando le prime cure.

   «È tutto buio... mi risponda, dottoressa: resterò cieco?» chiese il giovane, ancora agitato. Si passò le mani davanti agli occhi, senza vederle.

   Ladya detestava fornire diagnosi affrettate, ma pensò che doveva calmarlo. Da quel che vedeva i danni agli occhi erano gravi, ma non catastrofici. «Ti servirà una terapia rigenerativa, ma confido che recupererai la vista» disse.

   «Rigenerativa? Intende... nanosonde?» si allarmò il Retelliano.

   «Beh, sì» ammise Ladya. «Le stiamo iniettando a molti».

   «No, non voglio quella robaccia! Non mi trasformerete in drone!» gridò il giovane. Annaspando alla cieca, nel tentativo di rialzarsi, afferrò Ladya per il bavero. La trascinò a terra, mentre lui si rialzava. «Aiuto! Voglio uscire da qui! Riportatemi a casa!» strillò, inciampando negli altri pazienti che erano stesi a terra.

   Mentre il Retelliano dava in escandescenze, Ladya si rialzò. Preparò un ipospray con un potente sedativo e gli si avvicinò quatta quatta alle spalle. Con mossa fulminea lo afferrò da dietro e gli svuotò l’ipospray nel collo. «Ora basta, devi riposare» gli disse all’orecchio. «Al risveglio starai meglio».

   «Nooo...». Il giovane fece ancora qualche passo, trascinandosi dietro la dottoressa abbarbicata. Ma ben presto le ginocchia gli cedettero. Ladya lo accompagnò dolcemente a terra, per evitare che si ferisse cadendo. Poi si rialzò, un po’ ansimante. Ognuno aveva le sue idiosincrasie, si disse. Se un cittadino federale reagiva così a un certo tipo di cure, che poteva aspettarsi dagli Akaali? L’Unione, la Flotta Stellare, che si aspettavano da lei?

   Sentendo i gemiti degli altri pazienti, la dottoressa si guardò attorno sconsolata. L’infermeria traboccava di feriti, quasi tutti con gravi danni agli occhi e ai timpani. Nelle infermerie secondarie, in sala mensa e nella stiva di carico 3 c’era la stessa situazione. Quanto a ciò che avrebbe trovato su Akaali, non osava nemmeno pensarci.

   Fino ad allora la Vidiiana non si era sentita insoddisfatta della sua vita. Entrare nella Flotta Stellare le aveva permesso di vedere la Galassia, come sognava da bambina, anche se la speranza di raggiungere Vidiia Primo era ormai morta e sepolta. Con tutti i problemi che affliggevano l’Unione, non c’erano navi da destinare a missioni così lontane. Ma la dottoressa si consolava col pensiero che stava comunque impiegando la sua vita in modo produttivo. Ora però sentì un’acuta nostalgia per Caldos, la tranquilla colonia in cui era cresciuta. E per la sua gente. Vivere in mezzo ad alieni pieni di manie era terribilmente sfiancante.

 

   Nelle ore successive giunsero tre navi ospedale della Flotta Stellare. Come ufficiale medico più alto in grado, Ladya si trovò a coordinare tutta la flottiglia. Ora che le risorse c’erano, restava il problema di come somministrare le cure. I dottori che sbarcarono su Akaali furono presi a fucilate dagli abitanti inferociti. Alcune navette, che sorvolavano le zone colpite, divennero bersaglio per i cannoni e dovettero risalire. Intanto le truppe epasiane avevano invaso i territori luviani. Il pianeta stava rapidamente sprofondando in un conflitto internazionale.

   Con gli occhi cerchiati dalla stanchezza, Ladya entrò in sala tattica. Erano ventiquattro ore che non dormiva. Trovò il Capitano e gli ufficiali già tutti al loro posto. Sedette accanto a Norrin, che la guardò preoccupato. La Vidiiana gli rivolse un sorriso fiacco. L’Hirogeno le aveva confessato da tempo il suo amore e anche lei lo aveva preso a cuore, in un certo qual modo. Tuttavia aveva declinato l’offerta, preferendo mantenere il loro rapporto su un livello platonico.

   «Benvenuta, dottoressa» l’accolse il Capitano Hod. «Situazione?».

   Ladya si fece forza. «Quasi tutti i feriti della Kutkh sono stati dimessi o distribuiti sulle navi ospedale» disse. «Il problema è la popolazione a terra. Gli Akaali c’incolpano dell’accaduto e di conseguenza rifiutano le cure. Hanno aperto il fuoco contro le squadre mediche, causandoci altri feriti. In queste condizioni non possiamo operare; perciò stavo valutando altre modalità d’intervento. Possiamo teletrasportare i medicinali direttamente nei pozzi e nei serbatoi d’acqua da cui attingono gli Akaali. Certo, curare i pazienti a loro insaputa – o persino contro la loro volontà – è eticamente discutibile. I miei colleghi delle navi ospedale hanno espresso perplessità. Ma a mio avviso è l’unico modo per evitare una strage. Gli Akaali sono troppo sconvolti e male informati per poter decidere con cognizione di causa».

   Il Capitano Hod rifletté brevemente. «Per intervenire sulla loro salute dovrei chiedere il permesso all’Ufficio di Primo Contatto» mormorò. «Ma sono certa che quei politicanti solleverebbero mille problemi. Zafreen, come vanno le comunicazioni?».

   «Eh?» fece l’Orioniana, stupita di sentirsi chiamare in causa. «Tutto regolare, perché?».

   «Ne è certa?» insisté il Capitano, rifilandole un’occhiata penetrante. «Non c’è qualche guasto che potrebbe impedirci di contattare la Terra?».

   «Ehm, ora che mi ci fa pensare, c’è una strana anomalia nell’apparato di trasmissione» disse Zafreen, intuendo il suo piano. «Le comunicazioni a lungo raggio potrebbero essere disturbate per un’oretta...».

   Il Capitano continuò a fissarla.

   «... o anche due» deglutì l’Orioniana. «Forse di più, non ho ancora diagnosticato il problema». Si allargò il colletto, per respirare meglio.

   «Tenente?» chiese Dib, l’Ingegnere Capo. Come tutti i Penumbrani, aveva l’innata tendenza a dire la verità e stentava ad afferrare gli inganni; ma dopo cinque anni sulla Keter cominciava ad afferrare il concetto. «Oh, capisco» disse. «Stiamo revisionando le bobine di campo subspaziale; può essere questo a creare interferenza. Mi duole informarvi che i lavori si protrarranno per molte ore». Il fluido azzurro che componeva il suo corpo vorticò più rapido nella visiera della tuta termica, come gli accadeva quand’era teso o concentrato. Ciò detto lasciò il tavolo tattico e andò in un angolo, per contattare i suoi ingegneri e ordinare la revisione delle bobine.

   «Bene» disse Hod. «Nell’impossibilità di contattare l’Ufficio per chiedere istruzioni, mi vedo costretta a prendere questa decisione. Dottoressa Mol, proceda pure col suo piano».

   «Grazie, Capitano» sospirò Ladya. La solidarietà dei colleghi la commuoveva, ma nel vedere com’erano costretti a ricorrere ai sotterfugi provava anche tanta rabbia. Se lo scopo degli Abolizionisti era soccorrere i popoli in difficoltà, perché avevano privato la Flotta di quasi tutto il potere decisionale? Inutile girarci intorno: il loro scopo era dare più potere a Rangda.

   «E per la cappa di polveri c’è una soluzione?» chiese il Capitano, rivolgendosi all’esperto di climatologia, convocato per l’occorrenza.

   «Uhm, sì» rispose l’interessato, congiungendo le punte delle dita. Era un Risiano in là con gli anni, il professor Arvid. La sua specie era famosa per aver raggiunto, già da secoli, un eccellente controllo del tempo atmosferico. «La maggior parte degli interventi richiederebbe tempo e l’installazione di centrali per il controllo climatico, ma a noi serve qualcosa di molto più semplice e rapido» premise. «Propongo quindi di ionizzare le particelle elettrostatiche dell’atmosfera con un impulso del deflettore. Questo le trasformerà in plasma ad alta energia. Scendendo di quota e modulando gli scudi, possiamo trasformare la Keter in un parafulmine, per assorbire l’energia prima che si scarichi a terra. Non fate quelle facce... è un’operazione già eseguita con successo in passato» assicurò lo scienziato, notando la perplessità degli ufficiali.

   «Ha considerato il rischio di provocare un’inversione esotermica?» obiettò Dib. «Se la polarità delle nuvole s’inverte, l’energia sarà scaricata a terra. Così bruceremmo la superficie».

   «Conosco i rischi» assicurò il climatologo. «Ma se moduliamo gli scudi a dovere, ciò non accadrà. Ho realizzato delle simulazioni al computer, inserendo i parametri atmosferici del pianeta. Il successo è garantito nel 99% dei casi».

   «Quindi nel restante 1% stermineremmo gli Akaali!» obiettò Ladya. «È ancora una percentuale troppo alta per i miei gusti».

   «Qualcosa bisogna fare» rimuginò il Capitano. «Visionerò i suoi dati nel dettaglio, signor Arvid, e prenderò al più presto una decisione. C’è altro all’ordine del giorno?» si rivolse a Radek.

   «L’Ufficio di Primo Contatto ha inviato il suo bollettino mensile alla Flotta, che lo ha trasmesso a noi... prima che cominciassero le interferenze» ironizzò il Comandante. Si schiarì la voce e lesse dal d-pad. «Dunque: gli abitanti di Nibiru – di cultura protostorica – avevano ricevuto abbondanti aiuti umanitari per elevare la loro qualità di vita. Durante il contatto si erano dimostrati pacifici e socievoli. L’unico momento di tensione si era avuto quando avevano proposto agli operatori dell’UPC di scambiare alcune donne con le loro. Quando gli operatori hanno spiegato che noi non facciamo queste cose, gli indigeni hanno accettato senza problemi. Dopo di che quelli dell’UPC se ne sono andati, promettendo di tornare dopo un mese, con altri generi di conforto». Il Rigeliano si arrestò un attimo, leggendo il rapporto fra sé prima di riferirlo ad alta voce. La sua fronte si aggrottò.

   «Vada avanti» lo esortò Hod.

   «Al ritorno, gli operatori hanno scoperto che quasi tutte le tribù avevano creato un “culto del cargo”, sacrificando giovani vergini per affrettare il ritorno dei visitatori celesti coi loro doni. Si ritiene che decine di ragazze siano state immolate per questo motivo. Al momento gli operatori sono ancora su Nibiru, visto che non si azzardano più a lasciare il pianeta. Stanno cercando di convincere gli indigeni che non devono sacrificare nessuno. Il timore è che loro promettano una cosa e poi, appena rimasti soli, ne facciano un’altra». Il Comandante sospirò sconsolato.

   «Continui» ordinò il Capitano, sempre più accigliata.

   «Su Taurus II i medici dell’UPC avevano vaccinato migliaia di bambini contro una malattia invalidante, simile alla poliomielite» lesse Radek. «I nativi – di cultura paleolitica – non sembravano contenti, dato che non capivano lo scopo delle vaccinazioni. Comunque non avevano avuto reazioni violente, anche se forse era solo la paura a bloccarli. Cinque giorni fa una nave dell’UPC è tornata a controllare la situazione...». Il Rigeliano chiuse gli occhi per un attimo; orrore e pietà gli apparvero in volto. «In alcuni villaggi i nativi hanno tagliato il braccio ai bambini che erano stati vaccinati dai “demoni del cielo”, per salvarli dalla “cattiva medicina”. È saltato fuori che nella loro religione l’inferno si trova in cielo, anziché nel sottosuolo, per cui i federali erano stati scambiati per demoni».

   «Sono tutte così le notizie?» chiese Hod, con gli occhi ridotti a fessure.

   «No, su Drema IV l’intervento dell’UPC è stato fondamentale per salvare la popolazione dalle eruzioni vulcaniche» spiegò Radek, un po’ rasserenato. «E su Veridiano IV i volontari hanno distribuito grano quadri-triticale, molto adattabile ai terreni, per contrastare la carestia. I mediatori federali stanno anche cercando di risolvere il conflitto fra il regno di Mogar e quelli vicini. Per adesso hanno ottenuto un cessate il fuoco».

   Gli ufficiali soppesarono i pro e i contro di tutti questi interventi. Era un sollievo sapere che alcuni erano andati a buon fine, ma ciò non toglieva che molti altri si fossero risolti in disastro, per la difficoltà di prevedere le reazioni degli indigeni.

   «Ma la gente che pensa di tutto questo?» chiese Vrel. «I nostri cittadini, intendo. Quando la Prima Direttiva è stata abolita, quasi tutti festeggiavano. Ora che ne vedono gli effetti, è possibile che nessuno ci ripensi?».

   «Uhm, i sondaggi danno Rangda al 75% dei consensi» rispose il Comandante. «È il suo massimo storico. La sua rielezione, quest’anno, è data per scontata».

   «Quindi dovremo sorbircela per altri cinque anni!» sbottò il timoniere.

   «Forse di più» disse il Capitano, tetra. «Tra le sue proposte di legge c’è l’abolizione del tetto massimo di due mandati consecutivi per la carica presidenziale. Se fa passare anche questa riforma, potrà restare al potere per il resto della vita».

   «Qualcuno crede ancora che siamo in democrazia?» chiese Ladya sommessamente. Nella sala tattica piombò il silenzio. Gli ufficiali fissavano la superficie liscia e scura del tavolo, raccolti nei loro pensieri. Più passava il tempo e più avevano l’impressione di lottare contro una marea che alla fine li avrebbe spazzati via. Se i cittadini federali volevano Rangda, e non volevano la Flotta Stellare, chi erano loro per contraddirli? Sempre che i sondaggi fossero attendibili. Sempre che il voto stesso non fosse manipolato. Ormai tutto era possibile.

   In quel momento di sconforto, Norrin guardò di sbieco la sua pupilla, Jaylah Chase. La mezza Andoriana, capo della Squadra Temporale, era rimasta zitta per tutta la riunione. Lo faceva spesso, di quei tempi. Fin dalla sua prima missione Jaylah si era scontrata con i maneggi di Rangda, anche se non era mai riuscita a inchiodarla. Nei primi anni sembrava ancora nutrire qualche speranza al riguardo. Ma dopo la tremenda missione contro i Na’kuhl dell’anno prima, che l’aveva portata a vivere i giorni della Terza Guerra Mondiale, qualcosa era cambiato in lei. Adesso era taciturna, anche con quelli che erano stati i suoi migliori amici. In compenso passava molto tempo in palestra e sul ponte ologrammi, ad allenarsi nel combattimento con vari modelli di tute corazzate. Era come se si stesse preparando per qualcosa che esulava dall’incarico di Agente Temporale. Qualcosa che forse l’avrebbe portata via dalla Keter per sempre.

 

   Quella sera, Norrin passò per il ponte ologrammi 3. Come previsto ci trovò Jaylah che si allenava. La mezza Andoriana indossava una tuta occultante, anche se in quel momento era visibile. Aveva avviato una simulazione di guerra. Norrin si trovò in una caverna gelida: il suolo era una lastra ghiacciata che gli scricchiolava sotto i piedi, mentre dal soffitto pendevano affilate stalattiti, sempre di ghiaccio. Soldati Breen uscivano a frotte da un ingresso, chiusi nelle inquietanti tute termiche. Ignorando il nuovo arrivato, continuarono ad attaccare l’Agente Temporale. Al centro della spelonca, Jaylah lottava come una furia: a volte usava il phaser, ma più spesso cercava di accorciare le distanze, per poi attaccarli con la vibro-lama. A un tratto si rese invisibile. Riapparve dietro un Breen e gli sferrò un rapido attacco, decapitandolo. La testa ancora chiusa nell’elmo rotolò fino ai piedi dell’Ufficiale Tattico.

   «Ti diverti?» chiese questi in tono asciutto.

   «Norrin! Che ci fai qui?» ansimò Jaylah. Fece rientrare il casco nella tuta, scoprendo il volto.

   «Passi molto tempo sul ponte ologrammi» notò l’Hirogeno. «Tutte le tue simulazioni sono così?».

   La mezza Andoriana stava per rispondere, ma si avvide che i Breen le venivano addosso da tutte le parti. «Computer, blocca programma!» ordinò. I nemici si paralizzarono all’istante. «Se anche fosse? Gli olo-programmi sono una cosa privata» disse Jaylah, sgusciando fra loro per venire incontro a Norrin.

   «Scusa se ho interferito nella tua privacy, ma ricordo i tempi in cui ti allenavi con me» disse l’Hirogeno con una punta di rimpianto. Per certi aspetti, Jaylah era la figlia che non aveva mai avuto. Glielo aveva anche lasciato intendere qualche anno prima, donandole l’antico pugnale del suo clan.

   «Mi hai insegnato molto» riconobbe l’Agente. «Ma ormai credo di potermi addestrare per conto mio». Si avvicinò ancora; erano faccia a faccia.

   «Hm-hm» fece Norrin, guardandosi attorno con interesse. «Che bell’ambientino hai scelto. Cos’è, il pianeta dei Breen? Ricordo che la tua prima missione ti portò là. Ne uscisti per il rotto della cuffia».

   «Ho simulazioni per ogni tipo di ambiente» precisò Jaylah. «Certo, il ghiaccio è particolarmente infido. Non sai mai quando ti si potrebbe rompere sotto i piedi. Ma è una situazione che viviamo tutti, di questi tempi». C’era una strana freddezza in lei. L’Agente era sempre stata riservata, ma almeno con Norrin soleva confidarsi. Ora però sembrava volerselo levare di torno.

   «Uhm, sì» convenne l’Hirogeno. «C’è qualcosa che posso fare per te?».

   «No, sto bene» rispose la mezza Andoriana. Non stava bene, era evidente.

   Norrin la osservò inquieto. Sapeva che, in quella prima missione, Jaylah aveva dovuto allearsi col famigerato pirata spaziale detto lo Spettro. Un paio d’anni dopo si erano rincontrati su Orione, finendo di nuovo per collaborare. Norrin aveva il forte sospetto che da allora avessero continuato a vedersi segretamente, durante le licenze dell’Agente. Di certo Jaylah era bene informata sulle attività della malavita, cosa che le aveva permesso di sgominare parecchie bande. Ma guarda caso, mai quella dello Spettro. Dal canto suo, il pirata continuava a eludere le imboscate della Flotta... come se qualcuno lo avvertisse. E adesso la mezza Andoriana si allenava ossessivamente con tute che ricordavano quella dello Spettro. Come responsabile della sicurezza, Norrin avrebbe dovuto ascoltare questi campanelli d’allarme. Ma come amico, non se la sentiva di accusarla.

   «Okay» disse l’Hirogeno. «Ti lascio al tuo allenamento. Se hai voglia di parlare, sai dove trovarmi» disse, e si ritirò. L’incontro gli aveva lasciato un senso di freddo, e non solo per la temperatura sottozero. Intuiva che Jaylah soffrisse più di tutti per come Rangda stava distruggendo la Flotta. Incidenti come quello di Akaali non facevano che esacerbarla. Ormai l’Hirogeno temeva seriamente che da un giorno all’altro Jaylah disertasse, per unirsi alla banda dello Spettro. Avrebbe voluto dissuaderla, ma non si azzardava nemmeno a toccare l’argomento, per timore d’irrigidirla nel suo proposito.

   Appena l’ingresso si fu richiuso dietro Norrin, Jaylah dispiegò nuovamente il casco della tuta. Impugnò la vibro-lama e tornò verso i Breen con passo deciso. «Computer, riprendi programma» ordinò.

 

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Capitolo 3
*** Vecchie conoscenze ***


-Capitolo 2: Vecchie conoscenze

 

   La Keter fronteggiava il pianeta Akaali, ormai completamente avvolto dalle polveri, che lo facevano apparire grigio e smorto. Ma questo non era un problema insormontabile, per una nave della Flotta Stellare. «Impulso ionizzante pronto, Capitano» informò Dib dalla sala macchine.

   «Alzare gli scudi» disse Hod, sapendo che la nave doveva fare da parafulmine, assorbendo la scarica di plasma per impedire che si riversasse a terra. «Via con l’impulso» ordinò.

   Anche se non lo dava a vedere, l’Elaysiana era piuttosto tesa. Non le piaceva scommettere con la vita della gente e sapeva che c’era una possibilità, per quanto remota, che la polarità delle nubi s’invertisse. In quel caso il plasma incandescente avrebbe incendiato la superficie del pianeta. Ma se non facevano nulla, quel mondo sarebbe entrato in un’epoca glaciale e gli abitanti sarebbero morti comunque. Al momento la luce solare che giungeva in superficie era solo il 20% del normale: laghi e fiumi avevano cominciato a ghiacciarsi. Non c’era tempo da perdere e d’altra parte il Capitano non voleva contattare la Terra, per timore che la Presidente o anche il Comando di Flotta bocciassero il piano. Così doveva rischiare. Se le cose fossero andate male, sarebbe andata a far compagnia a Juri, lo storico di bordo, che l’anno prima era stato condannato all’ergastolo per infrazione temporale.

   «Impulso lanciato» disse Dib.

   Scaturita dal disco del deflettore, la scarica ionizzante colpì il manto di polveri. Bagliori elettrici si accesero tra le nubi, allargandosi dall’area colpita. I fulmini serpeggiarono, talora scaricandosi a mezz’aria, in altri casi colpendo il suolo. I federali si augurarono che non facessero troppi danni. Poco alla volta le nubi si tinsero di colori caldi, tra il giallo e l’arancione. Era il plasma che si stava formando dalle particelle volatili. Le polveri più pesanti invece si aggregavano, cadendo al suolo come una brutta neve nerastra. Per gli Akaali sarebbe stato un ulteriore fastidio, ma almeno dopo di questo sarebbe tornato a splendere il sole.

   Gli ufficiali di plancia fissarono lo schermo. Il pianeta sembrava ormai una palla incandescente; era difficile credere che sotto le nubi ardenti vivesse una civiltà. «Sì, bene!» disse il dottor Arvid, presente sul ponte di comando. Vedendo la tensione dei colleghi, il climatologo cercò di rassicurarli. «Niente paura, gli Akaali stanno bene. Ma ora dobbiamo avvicinarci, per assorbire la scarica di plasma» raccomandò.

   «Procedo» disse Vrel. Il timoniere sapeva esattamente a che altezza doveva recarsi: 40 km. Era poco, per un’astronave lunga un chilometro e pensata per muoversi nello spazio aperto. Certo, la Keter aveva volato in atmosfere ben peggiori; ma non per questo si poteva abbassare la guardia. Se qualcosa fosse andato storto non potevano atterrare, perché la nave non era dotata di piloni. Perciò fu con grande attenzione che il mezzo Xindi portò giù la Keter, fino all’altezza indicata. Qui la stabilizzò a mezz’aria. Nel frattempo le tre navi ospedale restavano in orbita, a distanza di sicurezza.

   «Ecco, ci siamo» disse Arvid. «Fra pochi secondi il plasma ci verrà contro. Reggetevi, non sarà una passeggiata. Dobbiamo assorbire tutta l’energia dell’atmosfera».

   Le nubi di plasma si arricciarono verso l’alto, formando un massiccio cono che si levò nella stratosfera. Era una scena impressionante. La punta del cono si mosse come una cosa viva, cercando una via per sfogarsi, e trovò la Keter. Subito la colpì. Gli scudi brillarono, assorbendo milioni di terajoules. L’astronave prese a vibrare.

   «Quanto ci vorrà?» chiese Zafreen, un po’ spaventata.

   «Circa venti minuti» rispose Arvid. «Dobbiamo ripulire tutta l’atmosfera, non solo questa zona. Ma non si preoccupi, gli scudi reggeranno». Ciò detto il Risiano si concentrò sulla sua postazione, che si trovava lungo la parete. Analizzò le nubi di plasma, valutandone il potenziale energetico. «Sì, tutto come previsto» confermò. «Il plasma si scarica. Da un momento all’altro ne vedremo gli effetti anche a occhio nudo».

   A confermare le sue parole, le prime chiazze apparvero nel manto nuvoloso, allargandosi progressivamente. Su zone sempre più vaste del pianeta tornò a brillare il sole. Gli ufficiali di plancia cominciavano a rilassarsi e a scambiarsi occhiate di vittoria, quando la nave sussultò.

   «Che fa l’atmosfera?» chiese subito il Capitano, temendo l’inversione di polarità.

   «L’atmosfera è a posto» rispose Norrin, consultando la sua consolle. «Il problema è che qualcuno ci spara dall’alto».

 

   Il Comandante Radek fu il primo a riaversi dallo shock. «Visualizzare gli attaccanti» ordinò.

   Un grosso vascello apparve sullo schermo. Lo scafo scuro aveva forma compatta, giusto un po’ bulbosa a prua e sulle fiancate. Lo accompagnavano sei navicelle più piccole, dallo scafo marroncino, con le gondole di curvatura ai lati. La nave madre martellò gli scudi dorsali della Keter, mentre gli incursori attaccarono le navi ospedale. Queste alzarono gli scudi, ma non avevano armi con cui rispondere al fuoco.

   «E questi chi sono?!» chiese Hod, non riconoscendo gli attaccanti. Ciò che più la stupiva era la marcata differenza stilistica fra la nave madre e gli incursori. Non sembravano neanche appartenere alla stessa specie.

   «Non ci sono riscontri nella banca dati» disse Zafreen, mentre la plancia beccheggiava sempre più forte. «Sembra che sia una specie sconosciuta».

   Gli ufficiali rimasero scioccati. Secoli di esplorazioni avevano rivelato tutti i popoli che circondavano lo spazio federale, per un ampio tratto oltre i confini. Ormai era rarissimo imbattersi in una specie nuova, mai incontrata prima. A Hod non era mai capitato e questo la inquietava. «Li chiami» ordinò. «Trasmetta i messaggi standard di presentazione in tutte le lingue federali».

   «Non sembrano chiacchieroni» commentò l’Orioniana, ma eseguì l’ordine. Intanto due incursori scesero in picchiata nell’atmosfera. Eseguirono un passaggio ravvicinato, colpendo la Keter sul dorso, e tornarono verso l’alto. Poiché la maggior parte delle sue armi era rivolta a prua, la nave federale aveva difficoltà a rispondere.

   «Non possiamo star qui a fare da bersaglio!» esclamò Vrel, temendo per gli scudi. «Dobbiamo disimpegnarci e rispondere al fuoco».

   «No!» gridò Arvid. «Se ci allontaniamo ora, a metà dell’opera, le probabilità d’inversione esotermica salgono al 50%. Il pianeta potrebbe essere incenerito!».

   «Se non facciamo qualcosa, noi saremo inceneriti» disse Norrin. «Abbiamo una scarica di plasma di proporzioni planetarie che ci colpisce da sotto e armi nadioniche che ci martellano da sopra».

   «Quanto resisteranno gli scudi?» chiese Hod, reggendosi ai braccioli.

   «Sei, sette minuti al massimo» riferì l’Ufficiale Tattico, che vi aveva già dirottato tutta l’energia disponibile.

   «È quanto basta per assorbire il plasma» disse Arvid. «Capitano, la prego. Ne va della sopravvivenza degli Akaali».

   L’Elaysiana rifletté in fretta. «Okay, manteniamo la posizione» decise. «Massima energia agli scudi. Rispondiamo al fuoco, per quanto possibile. Lanciate le navette e i caccia. Che ingaggino il nemico in orbita, distraendolo da noi. E che proteggano le navi ospedale».

   «Ricevuto» disse Norrin, inviando il segnale ai piloti. Tradizionalmente le navi della Flotta Stellare facevano scarso uso di caccia, ma negli ultimi tempi le cose erano cambiate. I nuovi design, nati dopo la Guerra delle Anomalie, prevedevano grandi hangar e una dotazione di caccia d’assalto. La Keter non faceva eccezione. Quattro navette di classe Hornet, tre navicelle Gryphon e dodici caccia Valkyrie furono prontamente lanciati. Schizzarono verso l’alto e diedero battaglia agli incursori nemici, impedendo loro di fare altri passaggi sulla Keter. Si tennero però a distanza dalla nave madre, che aveva scudi troppo resistenti. Questa continuò a bersagliare dall’orbita.

   «Possibile che non conosciamo questi assalitori?!» protestò Vrel, cercando di mantenere stabile la Keter. «Da qualche parte devono pur venire».

   «Siamo molto addentro lo spazio federale» notò Radek. «Strano che ci abbiano colti così di sorpresa, senza essere intercettati prima. Forse sono arrivati con una catapulta subspaziale o un wormhole».

   «Ricerco» disse Zafreen, sondando lo spazio circostante. «Sì, c’è un tunnel spaziale a 500.000 km da qui. Prima non c’era, ne sono sicura!». Così dicendo lo inquadrò sullo schermo. L’imboccatura del tunnel era di colore arancione e sembrava stabile.

   «Quindi potrebbero venire da qualunque punto della Galassia» notò il Comandante.

   Dietro di lui, Norrin fissò l’estremità del wormhole, frugando nella memoria. «Tenente, cerchi riscontri con le astronavi del Quadrante Delta» suggerì.

   «Okay» disse l’Orioniana, mentre la Keter continuava a scuotersi e gli allarmi indicavano i primi danni. Finalmente trovò qualcosa. «La nave madre somiglia ai vascelli dei Turei, una potente specie incontrata dalla Voyager nel 2376» lesse. «I Turei controllavano una rete di tunnel spaziali naturali, che consentivano loro di viaggiare in tutto il Quadrante e forse anche oltre».

   «Possiamo abolire il “forse”» commentò Radek. «Si vede che col tempo sono diventati più aggressivi».

   «No, i conti non tornano» obiettò il Capitano, leggendo le informazioni dall’oloschermo del bracciolo. «I Turei non potevano spostare l’imboccatura dei tunnel. Quello invece si è aperto pochi minuti fa. C’è qualcosa che ancora non sappiamo».

   «Chiunque siano, stanno abbattendo le nostre difese» avvertì Norrin. «Scudi al 10% in diminuzione».

   «Ancora pochi secondi e il plasma atmosferico sarà dissipato!» insisté Arvid. Il Risiano era chino sulla consolle, per monitorare il processo. «Ecco, ci siamo! Gli Akaali sono salv...».

   In quella un potente raggio della nave Turei abbatté gli scudi della Keter. La consolle del climatologo gli esplose in faccia, facendolo cadere all’indietro, privo di sensi e col viso ustionato.

   «In infermeria, presto!» ordinò il Capitano. Due ufficiali sollevarono il ferito per le spalle e le gambe, deponendolo sulla pedana di teletrasporto. Da lì fu inviato direttamente all’infermeria principale. «Vrel, ci porti via di qui» disse Hod.

   «Volentieri» fece il timoniere, imprimendo alla nave una brusca virata verso l’alto. Accelerò così tanto che per qualche secondo la Keter parve una bizzarra meteora, che saliva invece di precipitare. Finalmente i federali lasciarono l’atmosfera, ormai rischiarata. Erano in orbita, adesso, e davanti a loro si consumava un’impressionante battaglia. Gli incursori nemici affrontavano i caccia della Keter, mentre l’astronave madre colpiva le navi ospedale. Due di esse riuscirono a dileguarsi, ma la terza aveva i motori danneggiati. Alcuni colpi precisi le misero del tutto fuori uso gli scudi. Era inerme, ora, eppure il nemico smise di colpirla.

   «Ci sono dei teletrasporti in corso» disse Zafreen. «I nemici abbordano la nave ospedale».

   «Vorranno razziarla» disse Radek, gli occhi pieni di sdegno. «Inviamo delle squadre per respingerli».

   «Temo che le squadre ci serviranno qui» avvertì l’Orioniana. «Hanno abbordato anche noi. Venti segni vitali alieni sul ponte 9; dirigono verso l’infermeria. Dieci nella stiva di carico 1 e altrettanti nella 2».

   Hod sentì che la situazione le stava sfuggendo di mano. Fortunatamente le zone chiave della Keter – come plancia, sala macchine e infermeria – avevano schermature extra che ostacolavano il teletrasporto nemico. Ma la nave era stata comunque abbordata e questo era grave. «Sgombrate l’infermeria e inviate la Sicurezza a intercettare gli attaccanti» ordinò il Capitano. «Cercate di catturarne qualcuno. Voglio vederli in faccia, questi invasori del Quadrante Delta» aggiunse, scrutando l’astronave nemica che continuava a colpirli.

   «Cercano di metterci fuori uso le armi» avvertì Norrin.

   «Manovre evasive, rispondere al fuoco» ordinò il Capitano. «Facciamogli capire che hanno invaso il Quadrante sbagliato».

   La Keter e il vascello Turei ingaggiarono uno scontro serrato. In circostanze normali la nave federale sarebbe stata più potente, ma la perdita degli scudi era un grosso svantaggio. Per quanto Vrel cercasse di schivare, alcuni raggi nadionici giunsero a bersaglio. Gli incursori alieni dettero manforte alla nave madre, mettendo a segno altri colpi. Lo scafo in neutronio della Keter reggeva, per il momento, ma alcune sue armi furono messe fuori uso e anche gli ugelli dei motori a impulso subirono danni. La nave federale perse sia potenza di fuoco che mobilità. Il nemico – chiunque fosse – continuava ad attaccare, implacabile.

 

   Appena vide il ferito recapitato dalla plancia, Ladya comprese che le sue condizioni erano gravi. «Sul tavolo operatorio, presto» ordinò, indossando guanti e mascherina.

   Gli infermieri trasferirono subito il Risiano nella saletta delle operazioni e lo deposero sul bio-letto. Il neurochirurgo avviò la scansione cerebrale. «Grave trauma al lobo anteriore destro» rilevò. «Frattura cranica con emorragia al livello della corteccia. Si sta formando un ematoma subdurale».

   Il quadro clinico era grave, ma la Vidiiana non si perse d’animo. Aveva già salvato pazienti in condizioni come quella, o anche peggiori. «Fermiamo l’emorragia, prima che la corteccia sia compromessa» disse. «Poi dreneremo l’ematoma e salderemo la frattura».

   I medici si divisero i compiti, ciascuno secondo le sue competenze. Avevano appena iniziato l’operazione che sentirono un allarme. «Breccia nella sicurezza, squadra nemica sul ponte 9. Evacuare immediatamente l’infermeria».

   «Non adesso!» esclamò Ladya. Non poteva spostare un paziente col cervello aperto.

   «Dottoressa, dobbiamo andare» la pressò un collega Andoriano.

   «Portate via gli altri pazienti» ordinò la Vidiiana, continuando a operare. «Io vi raggiungo appena questo sarà fuori pericolo».

   «Ma...».

   «Via, ho detto!» gridò Ladya. Non voleva abbandonare il suo paziente e non si azzardava nemmeno a spostarlo, finché non l’avesse stabilizzato.

   Vedendo che era irremovibile, i colleghi tornarono nella sala principale dell’infermeria. Qui aiutarono i pazienti a lasciare i letti e se ne andarono con loro, tramite la cabina di teletrasporto. Ladya non gli badò, concentrata com’era sull’operazione. Solo dopo qualche minuto si accorse, dal silenzio, che l’evacuazione era stata completata.

   Lavorando più in fretta che poteva, la Vidiiana riuscì a stabilizzare il ferito. C’era ancora molto da fare, ma almeno non era in pericolo immediato di vita. Ora si poneva il problema di trasferirlo. Recatasi a una consolle parietale, la dottoressa cercò di attuare un teletrasporto diretto. Scoprì che la griglia era danneggiata: per trasferirsi serviva una pedana.

   «Oh, no». Fatto un respiro profondo, Ladya cercò di ragionare. Poteva spostare il Risiano su una barella levitante. Dopo di che le bastava arrivare alla cabina di teletrasporto, che si trovava nella sala principale. La cabina era abbastanza larga da accogliere un paziente in barella e poteva portarli in un’infermeria secondaria.

   In quella sentì uno scoppio che veniva dal salone. Seguirono il suono di passi e voci aliene. Gli invasori avevano fatto irruzione. Con il cuore in gola, Ladya preparò un ipospray con un potente sedativo. Era la sua unica difesa, anche se le probabilità di riuscire a iniettarlo erano scarse. Volendo sapere con chi aveva a che fare, la dottoressa raggiunse la porta e sbirciò fuori.

   Erano umanoidi, almeno una decina, di ambo i sessi. Alti e robusti, indossavano delle uniformi brune. Il loro aspetto... per un attimo Ladya li scambiò per Cardassiani. Ma osservandoli meglio dovette ricredersi: erano un’altra specie. Una che non aveva mai visto prima. La loro caratteristica più vistosa era l’ampia membrana di pelle che avvolgeva il collo, dalle clavicole fino alle orecchie senza padiglione, facendoli somigliare a dei cobra. Il cranio era sormontato da una piccola cresta. I capelli, quasi sempre neri, avevano l’attaccatura arretrata ed erano raccolti in una crocchia in cima al capo.

   Data la prima occhiata, la dottoressa si ritrasse per non essere scorta. Non conosceva quegli alieni, ma da come li avevano attaccati erano chiaramente ostili. Non si erano fatti scrupolo a irrompere nella sua infermeria. E poi... c’era qualcosa d’infido in quelle facce da serpente. Per quanto Ladya cercasse di non giudicare dall’aspetto, sentì che non poteva aspettarsi alcuna pietà da loro.

   Dopo qualche secondo la Vidiiana si arrischiò a guardare ancora, per capire cosa facevano gli invasori. Li vide razziare strumenti diagnostici e chirurgici, guanti e mascherine, medicinali... tutto ciò su cui mettevano le mani. Gli oggetti rubati erano gettati sbrigativamente negli zaini militari. Due alieni, inoltre, stavano armeggiando con le consolle. Avevano degli strumenti simili ai d-pad; forse cercavano di scaricare il database medico.

   Ladya si ritrasse di nuovo. Che fare, con così tanti avversari? La cabina di teletrasporto era a pochi metri da lei, ma non l’avrebbe mai raggiunta inosservata con il suo paziente. Poteva tentare di arrivarci lei, nascondendosi dietro le consolle e i bio-letti; ma non voleva abbandonare il suo paziente. La dottoressa stava ancora riflettendo sul da farsi, quando il suo comunicatore si attivò.

   «Dottoressa Mol, è pregata di lasciare subito l’infermeria». Era un messaggio automatico del computer, che si attivava se gli ufficiali non eseguivano l’ordine di evacuazione. Ma era giunto nel momento peggiore. Nella sala principale, i razziatori alzarono la testa di scatto e fissarono l’ingresso della saletta. Il caposquadra dette un ordine e due soldati vi si diressero con le armi in pugno.

 

   La Keter tremava sotto gli attacchi nemici. Man mano che la lista dei danni si allungava, il Capitano Hod vedeva ridursi le opzioni. Se fossero stati soli avrebbe ordinato la ritirata, ma non poteva abbandonare la nave ospedale. Dovevano mantenere la posizione. «Rapporto!» richiese.

   «Abbiamo messo fuori uso quattro incursori. Stanno fuggendo verso il tunnel» disse Norrin, inquadrandoli sullo schermo. Le navicelle erano gravemente danneggiate. Una di esse aveva perso una gondola di curvatura e si lasciava dietro una scia di plasma.

   «Lasciamoli andare, concentriamoci sugli altri» ordinò il Capitano. «E la nave madre?».

   «I suoi scudi reggono» disse l’Hirogeno. «Sto provando vari attacchi, ma...». Sapere che una squadra nemica aveva assalito l’infermeria – dov’era Ladya – lo distraeva.

   «Continui a colpire. Schema d’attacco Kirk Epsilon» consigliò Radek.

   Con un groppo in gola, Norrin eseguì. Avrebbe voluto correre sul ponte 9, dove le squadre della Sicurezza affrontavano gli invasori, ma non poteva lasciare la plancia in un momento del genere. «Avanti, Ladya... vattene da lì» pensò, notando che l’infermeria non era ancora del tutto evacuata. Se conosceva la Vidiiana, se ne sarebbe andata per ultima.

 

   Vistasi scoperta, Ladya arretrò verso il tavolo chirurgico, con il cuore che batteva a mille. «Computer, protocollo epsilon per due» mormorò, premendosi il comunicatore. Quel protocollo serviva a proteggere gli ufficiali in pericolo, teletrasportandoli in una zona sicura della nave. In passato le aveva salvato la vita. Ma stavolta, come temeva, non accadde nulla. I danni al teletrasporto richiedevano che lei e il paziente salissero su una pedana. Sentendo arrivare i nemici, le venne un’altra idea. «Computer, attiva il Medico Olografico d’Emergenza!» ordinò.

   «Precisare la natura dell’emergenza medica» disse l’ologramma, materializzandosi accanto a lei.

   «Il paziente è stabile, ma siamo attaccati da alieni ostili» spiegò frettolosamente Ladya. «Cerca di fermarli!». Così dicendo gli consegnò l’ipospray e si ritirò verso il bio-letto, attivando un campo di forza intorno ad esso.

   «Veramente io non sono programmato per...» cominciò l’ologramma, guardando nervosamente l’ingresso.

   In quella i due alieni serpenteschi varcarono la soglia. Trovandosi davanti l’MOE, non gli intimarono nemmeno la resa: spararono immediatamente. I raggi letali attraversarono il corpo dell’ologramma, che sfarfallò appena, e colpirono il campo di forza alle sue spalle. Vedendo i raggi infrangersi pochi centimetri davanti a sé, la dottoressa si girò e si piegò sul bio-letto, per proteggere fino all’ultimo il suo paziente. Chiuse gli occhi, aspettandosi che i raggi successivi penetrassero il campo di forza e la colpissero alla schiena.

   Gli invasori però erano rimasti paralizzati dallo stupore nel vedere che le loro armi erano inefficaci contro il medico. Uno dei due regolò l’arma, per aumentarne la potenza.

   «Fermo... dev’essere un ologramma» comprese l’altro. «Ci saranno degli emettitori nelle pareti».

   «Sì, ma dove? Non li vedo!» ringhiò il primo, guardandosi attorno.

   Il Medico Olografico approfittò del loro spaesamento. «Signori, questa sala deve restare asettica. Il vostro abbigliamento non soddisfa il regolamento, quindi devo espellervi». Così dicendo si mosse rapidissimo, svuotando l’ipospray nel collo di un alieno. Questi emise una specie di sibilo, mentre una terza palpebra gli velava gli occhi, e si accasciò sul pavimento. L’altro sparò ancora, per istinto, pur sapendo che era inutile. Il Medico Olografico gettò l’ipospray ormai vuoto e gli si avventò contro. Con una mano gli abbassò l’arma, con l’altra eseguì la Presa al Collo vulcaniana. Questa mossa non letale era uno dei pochi strumenti di difesa a disposizione degli MOE di nuova generazione. Efficace contro una vastissima gamma di specie umanoidi, la famigerata presa funzionò anche stavolta: l’alieno scivolò a terra, incosciente.

   Avendo udito i suoni della colluttazione, Ladya girò il capo di 180º – un talento dei Vidiiani – e vide che gli alieni erano a terra. Accanto a loro, l’MOE era incerto su come procedere. «Bravissimo!» esultò la dottoressa. Rigirato il capo, disattivò il campo di forza e gli venne accanto. «Ce ne sono altri, là fuori, quindi sta’ pronto». Così dicendo impugnò l’arma di un alieno e porse l’altra all’ologramma.

   «La mia programmazione mi vieta di usare armi letali» obiettò l’MOE, arretrando con le mani alzate.

   «Non ti chiedo di ucciderli... non lo farò neanch’io» spiegò la Vidiiana. «Dobbiamo solo sparare qualche colpo in aria, per respingerli».

   «Sembrano soldati professionisti. Che facciamo se non si ritirano?» obiettò l’ologramma.

   «Uhm...». Ladya fissò alternativamente l’uscita della saletta e il suo paziente, ancora disteso sul bio-letto. «Prendilo in braccio» ordinò. «Portalo alla cabina di teletrasporto e da lì nell’infermeria numero 2».

   «Non viene con noi?» chiese l’MOE.

   «Non subito» spiegò Ladya. Gettò una delle due armi nadioniche e imbracciò meglio l’altra, provando il mirino. «Devo darvi copertura».

 

   Notando che i due soldati inviati nella saletta non tornavano né facevano rapporto, il caposquadra li chiamò. Non ebbe risposta. Intanto, fuori dall’infermeria, il resto della squadra contendeva il corridoio ai federali. «Sono troppi, ci hanno accerchiati» riferì uno dei soldati.

   Il caposquadra comprese che era tempo di rientrare. Ma non voleva abbandonare i due dispersi, per timore che venissero meno ai loro doveri e rivelassero qualcosa. Li avrebbe salvati, oppure uccisi; ma non li avrebbe lasciati lì. Così si fece avanti, seguito dai soldati.

   In quella la dottoressa Mol si sporse appena dall’uscio e aprì il fuoco. Anziché agli avversari, mirò a una delle vasche in cui coltivava gli organi per i trapianti. La grossa vasca cilindrica si frantumò, riversando a terra il liquido nutritivo giallastro. Erano decine di litri, che inzupparono gli alieni, distraendoli.

   «Ora!» ordinò la Vidiiana, gettandosi allo scoperto. Sparò a un’altra vasca, sul lato opposto, per inondare ancor più il pavimento. Travolti dal fluido sciropposo, molti soldati scivolarono e gli altri arretrarono di qualche passo, sparando con scarsa precisione. Intanto Ladya corse a nascondersi dietro una consolle, da cui si sporse per colpire ancora le vasche.

   Approfittando della copertura, l’MOE corse verso la cabina, con il ferito in braccio. Riuscì a entrarvi e a comporre l’indirizzo di destinazione. La dottoressa, che lo vedeva con la coda dell’occhio, sperò di riuscire a infilarsi a sua volta, prima che i nemici si riavessero. Ma mentre si sporgeva dal riparo, questi la videro in faccia. Subito furono invasi da una collera inspiegabile. «Vaphorana!» gridò rabbiosamente il caposquadra.

   «Vaphorana!» ripeterono i soldati, scaricandole contro una gragnola di colpi.

   Presa in contropiede, Ladya dovette ripararsi del tutto dietro la consolle. Con un fuoco del genere non sarebbe mai arrivata alla cabina. Girò il capo verso il Medico Olografico che l’attendeva. «Vai!» gridò, per sovrastare il frastuono. Obbedendo all’ordine, l’MOE attivò il teletrasporto. Lui e il paziente si smaterializzarono, per riapparire nell’infermeria 2. Ma la dottoressa era ancora lì, rattrappita dietro la consolle. Non sapeva perché la sua vista avesse fatto infuriare gli invasori, ma era chiaro che non se ne sarebbero andati senza averla eliminata.

 

   Nello spazio la situazione continuava a peggiorare. Priva di scudi e con la manovrabilità ridotta, la Keter era un bersaglio per i vascelli nemici. Quanto alla nave ospedale, era alla deriva e invasa dal nemico. Il Capitano Hod aveva mobilitato tutta la Sicurezza di bordo contro gli invasori, inviando anche squadre in appoggio all’altra nave.

   «Gli invasori hanno lasciato le stive di carico» notò Norrin. «Sono tornati sulla loro nave, con parecchie delle nostre scorte. Ma l’infermeria è ancora occupata. La dottoressa Mol è rimasta bloccata, chiedo il permesso di soccorrerla» disse, con l’urgenza nella voce.

   «Negativo, lei ci serve qui» obiettò Radek, com’era prevedibile. «I suoi ufficiali possono occuparsene. Mandi anche i droni» suggerì.

   Norrin li aveva già spediti. Si augurò che arrivassero in tempo; ma avrebbe voluto andarci di persona. Dovette appellarsi a tutto il suo autocontrollo per rimanere alla postazione tattica.

   «Il nemico ci sta sempre addosso» disse Vrel, mentre la nave si scuoteva per i colpi. «Strano... se sono predoni dovrebbero andarsene, ora che hanno ciò che vogliono».

   Nello spazio, il vascello nerastro incombeva sulla Keter, sparando a tutto spiano. Era in vantaggio e non dava il minimo segno di ritirarsi. Ma d’un tratto fu colpito sulla fiancata da un raggio verde. L’impulso fu così potente da trapassare scudi e scafo, uscendo sull’altro lato. Il vascello smise d’inseguire la Keter e si arrestò, sbuffando fiamme dagli squarci.

   «Chi ha sparato?!» chiese Hod, interdetta.

   «Nave in avvicinamento» disse Zafreen. «Anche questa è sconosciuta. Non riesco ad analizzarla, i sensori non penetrano gli scudi».

   Il nuovo vascello si avvicinò a gran velocità. Era immenso: lungo tre chilometri, cioè come un’astronave di classe Universe, ma dalla struttura ben più massiccia. Lo scafo era argenteo, con dettagli verdi e azzurri. Aveva forma triangolare, con due protuberanze laterali a poppa, forse il sistema propulsivo. Le linee curve la rendevano elegante e aggressiva al tempo stesso. Senza indugio, la nave sparò di nuovo da un’arma collocata a prua. Stavolta colpì uno dei due incursori rimanenti, vaporizzandolo. A questo punto la nave Turei e l’ultimo incursore fuggirono verso il tunnel spaziale.

   «Wow... questo significa cantarle chiare» mormorò Vrel, diviso fra il sollievo per il salvataggio e il timore di ciò che potevano volere i nuovi arrivati.

 

   In infermeria, Ladya era ormai a mal partito. I soldati nemici la stavano accerchiando. Si nascondevano dietro lettini e consolle, sporgendosi per fare fuoco di copertura, mentre alcuni dei loro si avvicinavano. La dottoressa sapeva di non poter resistere a lungo. Nella sua disperazione fu tentata di correre verso la cabina di teletrasporto, ma in quella il caposquadra sparò ai comandi, mettendola fuori uso. «Non puoi fuggire, Vaphorana!» gridò l’alieno.

   «Perché mi chiamate così?!» gridò la Vidiiana, terrorizzata. «E perché mi braccate, che male vi ho fatto?».

   In quella gli alieni si portarono una mano all’orecchio destro. Ladya comprese che stavano ricevendo ordini tramite dei piccoli auricolari. Il caposquadra segnalò agli altri di fermarsi, poi la fissò con odio. «Oggi hai avuto fortuna... ma non finisce qui!» sibilò. Lui e gli altri lasciarono rapidamente l’infermeria. Appena furono usciti dalla zona schermata, la loro nave riuscì a teletrasportarli indietro. Gli spari nel corridoio cessarono; lo scontro era finito.

   Ladya si accasciò con la schiena contro il muro. Ora che il pericolo era passato, e con esso il picco d’adrenalina, si sentiva esausta. Lo scontro però le aveva lasciato parecchie domande, dall’identità degli aggressori alla ragione della loro furia.

   Tre ufficiali della Sicurezza entrarono in infermeria, con i fucili phaser spianati. «Sta bene, dottoressa?» chiese quello al centro.

   «Sì, tutto a posto» confermò Ladya. «Ci sono altri feriti?».

   «Alcuni miei colleghi, ma nessuno in pericolo di vita» rispose l’ufficiale. «Le altre infermerie possono occuparsene. Lei dovrebbe riposarsi» consigliò. «È fortunata ad essere viva».

   «Già, fortunata» borbottò la Vidiiana, tirandosi su. Osservò sconfortata l’infermeria semidistrutta e invasa dai liquidi fuoriusciti dalle vasche. Camminando con cautela, per non scivolare, la dottoressa raggiunse un lettino e vi sedette, cercando di riaversi dallo shock. Non dimenticò tuttavia i suoi pazienti. «Mol a infermeria 2, rapporto» disse, premendosi il comunicatore.

   «Dottoressa, lieto di sentirla! Eravamo in pensiero per lei» le rispose il collega Andoriano. «Qui la situazione è sotto controllo. Anche il signor Arvid è fuori pericolo».

   «Bene, vi raggiungerò tra poco» disse Ladya, sollevata. «Mol, chiudo». La Vidiiana respirò a fondo; cominciava a riprendersi dallo spavento.

   Intanto quelli della Sicurezza stavano ammanettando i due alieni storditi nella saletta chirurgica. Nel farlo parlottavano fra loro.

   «Chi saranno? Non conosco questa specie».

   «Nemmeno io. Devono venire da lontano».

   Ascoltandoli, un’ipotesi balenò nella mente di Ladya. La dottoressa si recò a una consolle ancora intatta e consultò il database storico.

 

   «Tutti gli assalitori hanno lasciato la Keter, salvo due che sono stati catturati in infermeria» riferì Norrin con sollievo.

   «Bene» disse Hod, osservando le ultime fasi dello scontro. La nave madre nemica aveva quasi raggiunto il tunnel spaziale. Se fosse riuscita a imboccarlo si sarebbe messa in salvo. Ma i misteriosi soccorritori della Keter la tallonavano. Il vascello triangolare sparò di nuovo con la sua arma anteriore. Il potentissimo raggio verde colpì l’astronave Turei a poppa e la trapassò per tutta la sua lunghezza, uscendo dalla prua. Gravemente danneggiato, il vascello sbandò di lato, mancando il tunnel spaziale per un soffio. Esplosioni sempre più grandi ne squarciarono lo scafo, finché il nucleo cedette. Un immane scoppio dilaniò l’astronave, lasciando solo una nuvola di detriti che si disperdevano. L’ultimo incursore, invece, riuscì a infilarsi nel tunnel spaziale. Il vascello inseguitore si avvicinò all’imboccatura, ma questa si chiuse con un lampo arancione. La battaglia era finita.

   «Rapporto danni» chiese Hod. I capi sezione le fornirono il quadro della situazione. La Keter se l’era vista brutta, ma i danni non erano poi così gravi. Pochi giorni di lavori l’avrebbero rimessa in sesto. Sempre che i nuovi arrivati non fossero a loro volta ostili. Hod li aveva visti distruggere senza sforzo – e senza esitazione – il vascello Turei: una nave potente, che di certo ospitava centinaia di persone. Con la Keter senza scudi, doveva assolutamente evitare lo scontro.

   «Ci chiamano» disse Zafreen.

   «Sullo schermo» ordinò Hod, alzandosi e rassettandosi l’uniforme.

   Davanti a lei comparve un alieno rettiloide. Aveva un cranio massiccio, allungato all’indietro in una sorta di cresta tubolare. Gli occhi giallognoli erano infossati, ma in essi brillava un’intelligenza vivissima. La pelle scagliosa era in gran parte verdastra, anche se il volto tendeva più al giallo. L’alieno levò una mano con tre dita artigliate. «Salute a voi» esordì. «Sembra che siamo arrivati appena in tempo per trarvi d’impiccio».

   «A nome del mio equipaggio, grazie per averci salvati» disse l’Elaysiana, riconoscente. «Sono il Capitano Hod, della nave federale Keter. Con chi ho il piacere di parlare?».

   «Ammiraglio Hadron, dell’Autorità Voth» si presentò l’alieno. «Avrete molte domande da farci... come noi ne abbiamo molte da porre a voi. Vedete, abbiamo affrontato un lungo viaggio per trovarvi».

   «Voi... ci stavate cercando?» si meravigliò Hod.

   «Oh, sì» annuì Hadron. «Veniamo dal lato opposto della Galassia, in cerca di questo pianeta» rivelò, mostrando un modellino tridimensionale. «Avete detto di essere federali e anche l’analisi della vostra tecnologia lo conferma. Dunque potete dirci dove si trova?».

   Il Capitano sbiancò. Perché la sferetta che il Voth stringeva delicatamente fra gli artigli era una perfetta riproduzione del pianeta Terra.

 

   Il pianeta Akaali brillava verde e azzurro, non più offuscato dalle nubi radioattive. Le tre navi ospedale erano tornate in orbita. I capitani stavano cercando un accordo con i leader locali, che consentisse alle loro squadre di soccorrere la popolazione. A poca distanza, la Keter e la nave Voth orbitavano affiancate. Sulla nave federale fervevano le riparazioni. Malgrado gli eventi drammatici degli ultimi giorni, l’arrivo dei visitatori dal Quadrante Delta aveva creato grande attesa e curiosità a bordo.

   Il Capitano e gli ufficiali superiori si radunarono in sala teletrasporto, per accogliere la delegazione Voth. Venne anche Ladya, ripresasi dalla brutta avventura in infermeria. «Come stai?» le chiese Norrin appena la vide.

   «Bene» disse lei, anche se la sua espressione era grave. «Dobbiamo parlare dell’attacco. Credo di sapere chi erano quei predoni» mormorò.

   «Anch’io» le sussurrò Norrin all’orecchio. «Ma ne parleremo dopo» aggiunse, accennando al teletrasporto.

   Quattro Voth si materializzarono sulla pedana. C’erano l’Ammiraglio Hadron e due che sembravano ufficiali, mentre la terza era una donna di età molto avanzata. Le sue scaglie color rosa-arancione erano opache, la cute ricadeva in pieghe flaccide sotto al mento, ma gli occhi erano ancora vigili. Camminava lentamente, un po’ ingobbita in avanti. Gli altri Voth la trattavano con deferenza, tanto che i federali pensarono si trattasse di un’autorità politica.

   «Benvenuti sulla Keter» li accolse Hod. «Siamo onorati di avervi a bordo. Questi sono i miei ufficiali superiori: il Comandante Radek, il Tenente Comandante Norrin, l’Ingegnere Capo Dib e il Medico Capo Ladya Mol».

   «Molto lieto» disse Hadron con un cenno del capo. «Le presento Corythos, il mio ufficiale tattico; Lambeos, eminente paleontologo molecolare; e la molto stimata Frola Gegen».

   Man mano che venivano presentati, i Voth scesero dalla pedana. Ai federali sembrò uno strano seguito per l’Ammiraglio. Se l’ufficiale tattico era un logico accompagnatore, il paleontologo molecolare appariva invece una scelta bizzarra. E che dire della vecchietta? Tutti la trattavano rispettosamente, ma era stata presentata senza alcun titolo. Non prese nemmeno la parola; si limitò a guardarsi intorno con interesse, mentre l’Ammiraglio sosteneva la conversazione.

   «Abbiamo molto di cui parlare» disse il Capitano Hod. «Possiamo farlo intorno a un tavolo? Ho fatto preparare una cena».

   «Volentieri» acconsentì Hadron.

   I federali accompagnarono la delegazione Voth alla sala per le cene ufficiali. La tavola era già imbandita e tutti vi si accomodarono. Per riguardo nei confronti degli ospiti, che erano in larga misura erbivori, non c’era carne.

   «Spero che la cucina sia di vostro gradimento» disse Hod. «Sapete, questa non è la prima volta che i nostri popoli s’incontrano. Ci fu un altro contatto, più di due secoli fa. Ne fu protagonista una nostra nave dispersa nel Quadrante Delta...».

   «La Voyager» disse subito Hadron. «Conosciamo quegli eventi nel dettaglio. Sono il motivo che ci ha portati qui. Ma lascio la parola al professor Lambeos».

   «Grazie, Ammiraglio» disse lo scienziato, che stava osservando i federali. Mentre lui parlava, gli altri Voth cominciarono a mangiare. «Dunque, come avete detto il primo contatto risale a due secoli orsono, quando la Voyager attraversò il nostro spazio. E qui fece molto parlare di sé. Vedete, la nostra società è attraversata da profondi dibattiti di natura scientifica e filosofica. Siamo una specie antica... la più antica, secondo la Dottrina. La nostra storia scritta risale a venti milioni di anni fa».

   A queste parole i federali furono assaliti da un senso di vertigine. Venti milioni di anni era un tempo così spropositato che le loro menti non potevano afferrarlo, salvo forse quella super-analitica di Dib. Nessuna specie federale – e nessuna con cui intrattenessero rapporti regolari – si avvicinava neanche lontanamente a quell’antichità. In tutto quel tempo i Voth dovevano aver affinato la loro tecnologia fino a un livello incommensurabile. Non c’era da stupirsi che avessero sconfitto così facilmente i predoni.

   Notando le espressioni dei federali, Lambeos sorrise. «Sì, come potete immaginare per noi è un’impresa studiare la nostra stessa storia. Dopo tante ricerche c’è ancora un punto oscuro, intorno a cui i paleontologi continuano ad arrovellarsi. Parlo delle nostre origini». Il Voth emise un lungo sospiro e ingoiò qualche forchettata di verdure, poi riprese.

   «Dovete sapere che gli studiosi come me sono organizzati in circoli scientifici, facenti capo al Ministero della Scienza e dell’Istruzione. Ma il Ministero segue la Dottrina, un insieme di assiomi e precetti che risalgono agli albori della nostra civiltà. Al centro della Dottrina c’è la convinzione d’essere la prima specie senziente evolutasi nella nostra regione di spazio. Da qui il governo ricava tutta la sua autorità politica. La nostra autoctonia ci rende così orgogliosi che agli stranieri che varcano i nostri confini non è riconosciuto alcun diritto. Come potete immaginare, il dissenso contro la Dottrina non è bene accetto. Se uno studioso formula teorie che la mettono in dubbio, è processato con l’accusa di eresia. Qualora l’imputato rifiuti di ritrattare le sue affermazioni, si procede al suo discredito presso i circoli scientifici e alla detenzione in una colonia penale. Se invece accetta di abiurare viene scagionato, anche se la sua carriera può dirsi finita».

   A queste parole il nervosismo serpeggiò fra gli ufficiali della Keter. Quello che il Voth aveva appena descritto era un regime assolutista.

   «Voi siete inquieti» notò Hadron. «Non negatelo! La nostra specie possiede un organo olfattivo molto sviluppato, il lobo di Lito. Posso avvertire la vostra sudorazione... l’aumento di adrenalina e di altri ormoni della paura. Tranne che in lei, signor Dib. Lei è perfettamente calmo» riconobbe.

   «Appartengo a una specie fluida» spiegò il Penumbrano.

   «Il nostro nervosismo, Ammiraglio, dipende da quella che ci appare una certa... rigidità nel vostro pensiero» disse cautamente il Capitano. «Comunque non vogliamo interferire nel vostro sistema di governo. E vi siamo ancora grati per averci salvati dai predoni».

   «Non abbiate paura» disse Hadron. «Noi rispettiamo gli stranieri quando li incontriamo nel loro territorio, come accade ora. In questo caso, poi, abbiamo tutto l’interesse a collaborare con voi. Ma prego, professore, continui» aggiunse, rivolto al suo scienziato.

   «Sì, ecco...» Lambeos si schiarì la voce «... il fatto è che negli ultimi tempi la Dottrina viene sempre più contestata. Nei circoli scientifici, come nel resto della società, si è fatta strada l’idea che non tutti i vecchi insegnamenti siano da prendere alla lettera. Molti vanno interpretati, mentre alcuni... dico alcuni... sarebbero da accantonare». Lo scienziato dette un’occhiata fugace all’Ammiraglio e all’ufficiale tattico, temendo d’essere stato troppo ardito. Ma questi rimasero perfettamente calmi. A vederli, stavano assaporando la cena con gusto.

   «Tutto ciò è molto interessante» intervenne Radek. «Anche tra i popoli federali sono spesso accaduti simili cambiamenti sociali».

   «Ma la nostra società è molto, molto conservatrice» sospirò Lambeos. «E il problema che affrontiamo ora ha profonde ricadute politiche. Vedete, due secoli e mezzo fa un nostro grande scienziato, Forra Gegen, contestò l’assioma fondamentale della Dottrina, ovvero l’autoctonia. Al suo posto egli formulò una nuova teoria, l’Origine Lontana. Secondo questa visione, il nostro popolo migrò da un’altra regione della Galassia, prima di stabilirsi dove si trova ora. Col tempo avremmo dimenticato le nostre vere origini. La Dottrina ci ha dato un orgoglio, un senso d’identità e di coesione, oltre che un’indiscussa autorità sul nostro territorio. Capite che, se la minassimo così alle fondamenta, i contraccolpi scuoterebbero tutta la società. Ad esempio, dovremmo considerare l’eventualità di dare pieni diritti agli alieni che si stabiliscono entro i nostri confini».

   Di nuovo lo scienziato dette un’occhiata all’Ammiraglio e al suo ufficiale, per saggiarne l’umore. Ma loro restavano così tranquilli che osò continuare. «Bisogna ammettere che il quadro fornitoci da Gegen non è completo» disse. «Alcuni punti restano oscuri. Ad esempio, cosa spinse i nostri progenitori ad abbandonare per sempre la patria? Perché si sobbarcarono un viaggio così lungo, anziché fermarsi in un sistema stellare adiacente? A queste domande non c’è ancora risposta. Tuttavia nel corso degli anni l’Origine Lontana è stata corroborata da una quantità sempre maggiore di prove. E questo ci porta alla vostra nave dispersa, la Voyager».

   «Ne ho visionato i diari di bordo, prima che arrivaste» intervenne Hod. «Non ho avuto tempo di leggere tutto, ma qualcosa avevo già studiato in passato. Dai diari risulta che furono i vostri scienziati a trovare la Voyager. Cercavano prove di una parentela genetica fra i Voth e gli Umani».

   «Già, uhm...» fece Lambeos, studiandola con attenzione. Il suo sguardo indugiò sul morbido segno a V sulla fronte del Capitano. «Lei non è Umana, vero?».

   «No, sono Elaysiana» confermò Hod. «Non ci sono Umani tra gli ufficiali superiori di questa nave, ma ve ne sono nel resto dell’equipaggio. E abbiamo anche dei meticci».

   «Uhm, la nostra specie non pratica l’esogamia» disse il Voth, arricciando il naso. «Di solito i matrimoni sono combinati tra le famiglie. Comunque sì, i nostri scienziati cercavano proprio gli Umani, per fare dei raffronti genetici. Purtroppo il dottor Gegen fu abbandonato da quasi tutti i suoi collaboratori, che temevano l’accusa di eresia. Così, invece della grande missione scientifica che sognava, dovette fare quasi tutto da solo. Partì su una piccola nave, in compagnia di un solo collaboratore, Tova Veer. Ma per raccontare di quegli anni, lascio la parola a una testimone d’eccezione: Frola Gegen, figlia di Forra!».

   Così dicendo, lo scienziato accennò all’anziana Voth che gli sedeva accanto. Questa, che fino ad allora era rimasta silente, alzò finalmente lo sguardo dal piatto e osservò i federali. Aveva gli occhi lucidi per l’emozione. Le ci volle un po’ per trovare la voce. Nel frattempo i federali assorbirono la rivelazione. Ecco spiegata la presenza della vecchietta e il rispetto con cui gli altri Voth la trattavano. Il Capitano Hod si emozionò al pensiero che la persona seduta davanti a lei aveva almeno duecentocinquant’anni. In realtà non era un fatto così strano: nell’Unione c’erano specie ancora più longeve, come gli Axanar. Ma era sempre appassionante incontrare un testimone diretto di fatti storici così importanti.

   «Per tutta la sua vita, mio padre fu animato dalla passione per la ricerca scientifica» esordì Frola. La sua voce anziana tremava per l’emozione. «Lui non cercava il prestigio o il guadagno personale. Non ha mai amato la notorietà, se non nella misura in cui lo aiutava a portare avanti i suoi progetti. Ha sempre rispettato le leggi e le tradizioni del nostro popolo. Ma era anche convinto che bisognasse cercare la verità dei fatti, portarla a galla, comunicarla a tutti i Voth. Per quanto ciò possa creare disagio a molti, nel lungo periodo ci renderà migliori. Perché solo la verità... quella scientifica, scevra da ogni laccio ideologico... può renderci davvero liberi» disse con forza. La stessa passione che aveva animato suo padre brillava in lei.

   «Con quest’idea in mente, mio padre raccolse prove su prove» proseguì Frola. «Un giorno trovò uno scheletro umano, scoprendo nel suo DNA ben 47 marcatori genetici identici ai nostri. Ipotizzò che la specie umana si fosse evoluta sul nostro mondo d’origine, molto tempo dopo che lo avevamo lasciato. Così cercò l’astronave da cui proveniva il defunto. Le sue ricerche lo portarono alla Voyager. Ricordo perfettamente com’era emozionato in quei giorni» sospirò. «All’epoca ero una ragazza. Gli facevo da assistente, anche se non comprendevo appieno l’importanza del suo lavoro. Quando fu accusato d’eresia contro la Dottrina, lo scongiurai di lasciar perdere la ricerca e abiurare. Volevo salvarlo. Ma lui non mi ascoltò e non si arrese. Assieme a Tova seguì la Voyager per giorni, restando occultato per studiarla. Volevano mostrarsi, appena si fossero sincerati che l’equipaggio era pacifico. Ma furono incauti: i federali si accorsero della loro presenza e li smascherarono. Purtroppo a quel punto ci fu uno scontro».

   «Ho letto il rapporto» intervenne Ladya. «So che quelli della Voyager catturarono Tova, che entrò in uno stato d’ibernazione. Invece Gegen catturò il Comandante Chakotay e lo portò sul suo vascello. Per metterlo fuori combattimento, l’assistente gli aveva sparato un artiglio contenente una sostanza paralizzante, è così?».

   «Sì, l’ibernazione e i dardi paralizzanti fanno parte del nostro bagaglio evolutivo» confermò Hadron. «Al giorno d’oggi, però, ce ne serviamo di rado. Il giovane Veer andò nel panico; mi scuso per la sua aggressione al vostro uomo. E vi assicuro che nessuno di noi è qui per sparare artigli» garantì.

   «Non servono scuse, Ammiraglio» disse Hod. «Si trattò di un malinteso. Ma prego, signora Gegen, continui». Pur sapendo com’erano andate le cose, voleva sentire la versione dei Voth, per verificare se c’erano discrepanze.

   «Beh, se avete le vostre fonti non serve che vi racconti tutto» disse Frola. «Cercherò di spiegare cosa comportò quell’incontro per la nostra società. Grazie a Chakotay e agli altri federali, mio padre ottenne più prove di quante sognasse di raccogliere in una vita. La somiglianza genetica fra le nostre specie era innegabile. Ormai gli mancava una sola cosa: raggiungere la Terra per eseguire confronti genetici con la fauna locale. A quel punto nessuno avrebbe più potuto negare che quello è il nostro mondo d’origine. Il viaggio in sé non è difficile: le nostre astronavi a transcurvatura possono attraversare la Galassia in poche settimane. Ciò che mio padre non aveva valutato era la determinazione del Ministero a occultare la verità!» esclamò, lasciando trasparire l’acredine. Il suo viso, solitamente di un rosa salmone, si colorò di rosso.

   Ladya ricordò che, secondo i rapporti della Voyager, i Voth usavano la vasodilatazione dell’epidermide come ulteriore mezzo di comunicazione. Erano una specie affascinante e le sarebbe piaciuto scoprire altro su di loro. Ma alcune caratteristiche della loro società la inquietavano.

   «Il Ministero non voleva creare disordine sociale» intervenne Corythos, parlando per la prima volta. «Capirete che era la nostra autorità nel Quadrante Delta a essere messa in discussione. Ragion per cui il dottor Gegen fu indotto a ritrattare pubblicamente le sue affermazioni».

   «Fu ricattato» corresse Frola, con voce dura. «L’esercito s’impossessò della Voyager. Il Ministro Odala minacciò d’imprigionare a vita tutto l’equipaggio. Mio padre si era molto affezionato ai federali... fu solo per salvarli che accettò di abiurare».

   «In quel momento non c’era altra soluzione» sostenne Corythos. Dopo di che si rivolse ai federali. «Ci spiace per quanto accaduto alla vostra nave. Ma noi Voth non siamo crudeli, infatti dopo l’abiura di Gegen la lasciammo andare. Ci sono discrepanze, tra i rapporti della Voyager e quanto vi abbiamo riferito?».

   «Direi di no» ammise il Capitano. Questo la sollevava, perché voleva dire che i Voth non avevano alterato i fatti. «Quindi il professor Gegen...».

   «Dovette sconfessare le sue ricerche davanti al Circolo dei Paleontologi» disse cupamente Frola. «Io ero lì... non dimenticherò mai la sua umiliazione. Dopo di che fu riassegnato al Circolo dei Chimici. Gli diedero da fare delle analisi metallurgiche!» disse con sdegno. «Ovviamente era un modo per distruggere la sua carriera e togliergli visibilità. Dopo di allora, mio padre non osò più difendere pubblicamente l’Origine Lontana. Temeva che, partita la Voyager, il Ministero usasse qualcun altro per ricattarlo: me» disse, lanciando un’occhiataccia all’Ammiraglio e al suo ufficiale. «Alla fine mio padre si ritirò a vita privata e morì prematuramente. Sono certa che fu la delusione ad abbreviargli la vita».

   «Ma le sue idee gli sono sopravvissute» disse Lambeos, speranzoso. «Molti paleontologi erano stati colpiti dall’Origine Lontana. Alcuni avevano postulato teorie simili in modo indipendente, anche se non osavano divulgarle. Col passare del tempo la teoria trovò nuovi sostenitori. Tova Veer e la signora Gegen misero le prove raccolte da Forra a loro disposizione. Le voci si diffusero fino a interessare il grande pubblico. Intanto altri aspetti della Dottrina – come le nozze combinate – venivano messi in discussione. Insomma, negli ultimi tempi c’è stato un grande cambiamento di sensibilità. Parlare dell’Origine Lontana non è più un tabù. Così, finalmente, il Circolo dei Paleontologi e quello degli Exo-biologi sono riusciti a organizzare una missione di ricerca, col beneplacito del Ministero. Dobbiamo trovare la Terra e analizzare il genoma delle sue specie, per confrontarlo col nostro. In qualità di biologo molecolare, dirigerò la squadra di ricerca. Abbiamo grandi speranze!» si emozionò.

   «Quelli della Voyager ci avevano indicato, grossomodo, la posizione della Federazione» aggiunse Hadron. «Quindi non è stato difficile trovarvi».

   «Chakotay donò a mio padre questo modellino della Terra» aggiunse Frola, levando la sferetta dalla borsa. «L’ho consumato, a forza di tenerlo in mano per osservarlo! Ora che mi avvicino al termine della vita, mi resta un solo desiderio: vedere la Terra con i miei occhi. Aiutatemi a esaudirlo, vi prego!». Il suo appello era così accorato che i federali ne furono commossi.

   «Tra l’altro, se istituissimo comunicazioni stabili fra i nostri popoli, potrebbe essere l’inizio di fruttuosi scambi commerciali» suggerì Hadron. «Non dovete temere repressioni da parte del nostro governo. Ormai abbiamo capito che far luce sul nostro passato non significa privarci di niente, ma semmai aggiungere».

   Hod scambiò una breve occhiata con Radek, che annuì in modo appena percettibile. Il Capitano ragionò: con la loro fantastica tecnologia, i Voth avrebbero comunque trovato la Terra. Potevano chiedere ad altri, o semplicemente intercettare le trasmissioni subspaziali. In ogni caso l’avrebbero scovata, e presto. Tanto valeva scortarli fin lì e informare i vertici dell’Unione, perché prendessero in mano la cosa. Per adesso i Voth sembravano amichevoli; bisognava che lo restassero. Era chiaro altresì che dimostrare l’Origine Lontana – cioè sbugiardare la Dottrina – avrebbe avuto un impatto positivo sulla loro società. Valeva senz’altro la pena di tentare.

   «Saremo onorati di accompagnarvi fino alla Terra» sorrise il Capitano. «Già da ora possiamo fornirvi molte informazioni: geografia, clima, evoluzione delle specie. Così saprete da dove cominciare le analisi».

   «Ottimo! Queste informazioni ci saranno preziosissime» disse Lambeos, estasiato.

   «Uhm, se posso chiedere...» intervenne Norrin.

   «Certo» lo incoraggiò Hadron.

   «... anche a noi gioverebbero notizie sul Quadrante Delta» spiegò l’Hirogeno. «È molto tempo che non lo visitiamo. Le nostre informazioni sono troppo datate per essere affidabili».

   «Che vorreste sapere, esattamente?» chiese Hadron, prudente.

   «Dopo la battaglia di oggi, ci servono informazioni sulla specie che ci ha attaccati» disse Norrin. «Sospetto che sia nativa del Quadrante Delta».

   «Sono i Vaadwaur» intervenne Ladya. La sua voce era remota, come lo sguardo. Nell’udire quel nome, i Voth smisero di mangiare e la fissarono. «Non fatevi ingannare dal fatto che controllassero un’astronave Turei; se ne saranno impossessati con qualche stratagemma» insisté la Vidiiana, rivolta ai colleghi.

   «Lei ha ragione, dottoressa» confermò Hadron. «Quegli esseri infidi e violenti si chiamano Vaadwaur. Credevamo di averli sconfitti più di mille anni fa. Ma due secoli orsono alcuni di loro, che si erano ibernati in luoghi nascosti, si sono risvegliati. Si sono impadroniti di nuove astronavi, nuove tecnologie, e hanno ricominciato a flagellare il Quadrante. Lei li conosce?».

   «Sì e no» spiegò Ladya. «Vedete, io sono Vidiiana. Le nostre leggende parlano di predoni dal volto di serpente che apparivano dal nulla per uccidere e saccheggiare: i Vaadwaur. Quando ci hanno attaccati, non li ho riconosciuti subito. Ma a un certo punto mi hanno chiamata “Vaphorana”. Era l’antico nome della mia specie, mille anni fa, prima che la lingua cambiasse». La dottoressa fece una pausa, per riordinare le idee. «Però non capisco perché la mia vista li abbia fatti infuriare tanto. Non saranno in guerra contro la mia gente?» chiese con ansia.

   Hadron e Corythos si scambiarono un’occhiata perplessa. «Vi forniremo notizie aggiornate sui Vaadwaur» promise l’Ammiraglio. «Per quanto ne so, quelle canaglie hanno attaccato molti popoli del Quadrante, quindi potrebbero aver colpito anche il suo. Ma non sono al corrente di un conflitto aperto. Il fatto è che i Vaadwaur sono pochi e sparpagliati, quindi preferiscono lanciare attacchi mordi e fuggi».

   «Ma il mio popolo sta bene?» insisté Ladya, protendendosi sul tavolo. «Vede, io provengo da una piccola colonia che ha perso i contatti con la madrepatria. Quando lasciammo il nostro mondo, due secoli fa, era assediato dai nemici. In tutto questo tempo non abbiamo più avuto notizie. Perciò ci chiediamo che ne è stato della nostra gente. Ho quasi paura a chiederlo... ma devo sapere».

   Il Capitano avrebbe preferito che la dottoressa non tempestasse i Voth di domande, ma non se la sentì di trattenerla. Ladya era sua amica e confidente. Hod sapeva quanto si struggesse al pensiero del suo mondo, anche se non lo dava spesso a vedere, quindi la lasciò fare.

   «Uhm... se devo essere onesto, la sua specie non gode di buona fama» disse Hadron, squadrando severamente la Vidiiana. «Anche voi avete depredato i vostri vicini per secoli; dovevate prevedere che si sarebbero coalizzati contro di voi. Comunque, la nostalgia che lei prova per la sua patria lontana mi ricorda ciò che proviamo noi, cercando la Terra. Quindi le risponderò. Sì, la sua specie è sopravvissuta. Non conosco i dettagli, perché Vidiia è piuttosto lontano dal nostro spazio. Ma so per certo che voi non siete gli unici Vidiiani rimasti. Il vostro popolo vi attende, dall’altra parte della Galassia» rivelò, accompagnandosi con un ampio gesto.

   «Oh, grazie!» esclamò Ladya, illuminandosi in volto. «Grazie infinite... sapeste che significa per me!». La dottoressa tornò a sedere composta, ma non vedeva più la tavola e i commensali. La sua mente correva lontano, al suo pianeta d’origine. Un mondo ferito dalla malattia e dai conflitti, eppure ancora vivo. I suoi simili vivevano lì: chissà se erano riusciti a ricostruirlo? Ricordando le vecchie olografie che aveva visto da bambina, Ladya fu nuovamente assalita dalla nostalgia. Voleva ammirare Vidiia con i suoi occhi, calcarne le strade, respirarne l’aria. Voleva incontrare gli abitanti, per sapere dalla loro voce tutto ciò che era accaduto durante la lunga separazione. Fino ad allora non sarebbe mai stata in pace.

 

   I due Vaadwaur catturati sedevano nella loro cella, zitti e immobili, fissando il pavimento. Norrin li osservò, prima di avvicinarsi. Si era documentato sulla loro specie leggendo i diari della Voyager, e qualcosa ricordava anche dalle vecchie storie del suo clan. Sapeva che i Vaadwaur erano infidi e pericolosi. Quei due, poi, avevano quasi ucciso Ladya, e ciò lo mandava su tutte le furie. Ma doveva mantenere il controllo. «Hanno detto qualcosa, da quando sono qui?» chiese al carceriere.

   «Non una parola» rispose questi, un Tiburoniano dalla pelle gialla e le orecchie stropicciate. «Vuole interrogarli separatamente?».

   «Dopo» disse Norrin, avvicinandosi. Quando fu a dieci passi dalla parete trasparente della cella, i due Vaadwaur alzarono gli occhi su di lui. Non dissero nulla, ma continuarono a fissarlo.

   «Comodi?» chiese l’Hirogeno, quando fu davanti a loro.

   I prigionieri si alzarono a fronteggiarlo. «Non mi aspettavo di trovare uno della tua razza qui» disse uno dei due.

   «Credevamo foste tutti Cacciatori» aggiunse l’altro. «Tu invece vesti l’uniforme dei federali» aggiunse con un sibilo di disgusto.

   «Già. Buffa la Galassia, vero?» fece Norrin. «Allora, ragazzi, questa è la situazione. Avete abbordato una nave della Flotta, senza alcuna provocazione, assalendo l’equipaggio. Col vostro attacco avete anche messo a rischio una delicata operazione d’ingegneria planetaria. Sono accuse gravi, sapete?».

   «Se credi di spaventarci per indurci a parlare, ti sbagli» disse il primo alieno, fissandolo con aria di sfida. «Noi Vaadwaur non temiamo la morte, anzi! Fin da piccoli ci alleniamo a pensare ogni sera a un diverso modo di morire. Questo l’ho pensato la vigilia del mio decimo compleanno».

   «Questo cosa? Non sai ancora cosa vogliamo farti» obiettò Norrin. In realtà gli alieni non rischiavano la pena capitale, che era praticamente scomparsa dal codice penale dell’Unione. Solo i pirati temporali rischiavano di vedersela comminare.

   «Ma so cosa voglio fare io» ribatté il Vaadwaur, con sguardo assassino. Dopo di che scambiò una breve occhiata con il suo commilitone.

   Allarmato dal loro atteggiamento, l’Ufficiale Tattico arretrò di un passo. Il fiuto da Cacciatore gli diceva che quei due stavano macchinando qualcosa di estremo. «Norrin a plancia» disse, premendosi il comunicatore. «Richiedo una scansione dei prigionieri, per confermare che sono disarm...».

   In quella il Vaadwaur che aveva parlato per primo fece uno strano movimento con la bocca, come se si fosse morsicato l’interno della guancia. L’attimo dopo sputò una sostanza verde contro la parete di trasparacciaio della cella. La lastra fumigò e prese a fondersi. Nello stesso momento anche il Vaadwaur si accasciò, in preda all’agonia. La metà inferiore della sua faccia si stava sciogliendo.

   «Acido molecolare» comprese Norrin, indietreggiando precipitosamente. L’alieno doveva essersi rotto una capsula dentale per liberarlo. Quella mossa suicida non era esclusiva dei Vaadwaur. Anche certe spie romulane ne avevano fatto uso, in passato.

   «Frell!» imprecò il carceriere, estraendo il phaser.

   In pochi secondi l’acido aveva sciolto una porzione della parete. Il secondo Vaadwaur ne approfittò per liberarsi: saltò attraverso il foro, rotolò sul pavimento e si rialzò davanti ai federali, sibilando come un serpente. Il carceriere, che era più vicino, gli sparò per stordirlo. Colpito alla spalla, il Vaadwaur riuscì comunque a rompersi la capsula dentale. Con le ultime forze, gli sputò addosso.

   Norrin arretrò ancora di più, mentre davanti ai suoi occhi si consumava una scena raccapricciante. Il Tiburoniano gridava, mentre il potentissimo acido gli consumava le carni, che cadevano semiliquefatte, mettendo a nudo le ossa. Ma anche il Vaadwaur si contorceva nell’agonia. Prima che potessero giungere i medici, erano morti entrambi.

   Rimasto solo nella sala di guardia, Norrin si coprì il naso e la bocca, per non respirare i fumi tossici dell’acido. Fuggì dalla stanza, sigillando la porta con un codice di comando. «Norrin a plancia, breccia nella sicurezza» disse, scosso dall’accaduto. «Abbiamo una vittima. Questi Vaadwaur sono ancora più pericolosi del previsto».

 

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Capitolo 4
*** La missione ***


-Capitolo 3: La missione

 

   La Keter e la nave Voth procedettero affiancate, avvicinandosi alla Terra. Le autorità dell’Unione erano state avvertite, così che avevano preparato il comitato di accoglienza. Navi diplomatiche e navi scorta vennero loro incontro, per accompagnarle nell’ultimo tratto. Alcuni vascelli lanciarono persino fuochi d’artificio spaziali.

   Sulla plancia della Keter, l’anziana Frola Gegen si avvicinò allo schermo, contemplando il globo bianco-azzurro della Terra. Giunse le mani e se le portò al cuore. «Il Mondo Perduto!» mormorò, tremando per l’emozione. Si rivolse al Capitano, che l’aveva affiancata. «Per tutta la vita ho atteso di vederlo. Ah, vorrei che anche mio padre avesse avuto questa soddisfazione! Diceva sempre che un giorno tutti i Voth avrebbero visto la Terra. E aveva ragione: presto queste immagini raggiungeranno ogni nostra colonia e astronave. Tutti sapranno qual è la nostra vera patria».

   «Sono felice per voi» disse Hod. «Sa, non è poi così strano che un pianeta dia origine a più specie senzienti. Sull’antica Xindus se ne svilupparono ben sei».

   «Sei specie senzienti!» esclamò Frola, impressionata. «Ah, l’Universo è pieno di meraviglie. Una vita non basta per saziarsene gli occhi». Così dicendo tornò a osservare la Terra. «Quanta acqua! E che diversità di ambienti! Non vedo l’ora di scendere in superficie».

   «È previsto un incontro con le autorità dell’Unione» spiegò Hod. «Naturalmente lei è la benvenuta. Scoprirà che sulla Terra vivono molte altre specie, oltre agli Umani. Essere la capitale dell’Unione l’ha reso un mondo cosmopolita».

   «E le specie hanno tutte pari diritti?» s’interessò Frola.

   «Beh, sì» confermò il Capitano. «Pensi che attualmente la Presidente dell’Unione è un’aliena. Si chiama Rangda e viene da Zakdorn». Non disse che il suo malgoverno aveva gettato l’Unione nel caos.

   «Incredibile!» fece la Voth, che non riusciva a staccare gli occhi dalla Terra. «Davvero incredibile. Mi chiedo perché abbiamo abbandonato un mondo così bello».

 

   Il ricevimento si tenne ad Atlantide, l’isola artificiale su cui sorgevano gli edifici chiave dell’Unione. Le vecchie sedi di San Francisco, infatti, erano state distrutte decenni prima nella Guerra delle Anomalie. I nuovi palazzi erano ancora più belli e sontuosi. C’erano il Senato, il palazzo presidenziale, la Corte di Giustizia. A poca distanza sorgevano le infrastrutture della Flotta Stellare, come il Quartier Generale, l’Accademia, il Comando Medico e la zona museale.

   Quel giorno le normali attività erano sospese, per accogliere la delegazione Voth. Le massime autorità civili e militari si erano radunate davanti al Senato. C’era la Presidente Rangda, alta e segaligna, con il suo entourage: ministri, segretari, addetti alle pubbliche relazioni. E c’era l’Ammiraglio di Flotta, Alexander Chase, col suo Stato Maggiore. Era insolito che i due comparissero assieme in pubblico, dato che negli ultimi anni non avevano fatto che scontrarsi. L’abrogazione della Prima Direttiva aveva reso la situazione ancor più incendiaria. Eppure per quell’evento dovevano presenziare assieme, celando l’ostilità che si portavano.

   Anche i cittadini, informati dai notiziari, erano accorsi numerosissimi. Molti esibivano cartelli o striscioni con frasi di benvenuto. I bambini avevano pupazzi e altri giocattoli di dinosauri. Si riteneva infatti che i Voth discendessero dagli Hadrosauri, che avevano calcato le praterie del Nord America e dell’Asia alla fine del Cretaceo.

  A mezzogiorno in punto la delegazione Voth si teletrasportò a terra. L’Ammiraglio Hadron era accompagnato da ufficiali e scienziati, tra cui i due che lo avevano seguito sulla Keter. Accanto a loro si materializzarono il Capitano Hod e i suoi ufficiali superiori, assieme a Frola Gegen. Al loro arrivo, i Voth furono salutati da grandi ovazioni. Hadron rispose con un gesto di saluto, che fu ripreso e trasmesso sui mondi federali. Poi, in testa alla sua delegazione, si accostò alle autorità dell’Unione.

   «Benvenuti sulla Terra!» li accolse Rangda, che come al solito vestiva un abito rosa cicca e aveva i capelli tinti di viola. Lei e Hadron si strinsero calorosamente la mano. «È un immenso piacere fare la vostra conoscenza» disse la Presidente con un sorriso lezioso. «Vi direi di fare come a casa vostra... se non fosse che lo è!» ridacchiò.

   «Non precipitiamo» disse il Voth, più misurato. «Siamo qui per una ricerca scientifica. Se emergerà che siamo davvero imparentati con gli Umani – per quanto alla lontana – il mio governo vorrà istituire comunicazioni stabili e stringere accordi commerciali con voi. In caso contrario, saremo comunque lieti di avervi conosciuti e cercheremo di restare in contatto».

   «Splendido!» sorrise Rangda. «Comunque vadano le cose, vorrei che ci scambiassimo degli ambasciatori».

   «Uhm... sì, dovrebbe essere possibile» disse cautamente Hadron. «Io di certo premerò perché accada».

   «Sentito, cittadini dell’Unione? Salutiamo i nostri amici Voth!» disse la Presidente, esortando la folla ad applaudire. «Salutiamo i primi, veri Terrestri!».

   Gli applausi scrosciarono a lungo. Solo l’Ammiraglio Chase e altri Umani che assistevano all’evento corrugarono la fronte, nell’udire quest’affermazione. E ad anni luce di distanza, su una colonia penale, un detenuto di nome Juri Smirnov – ex consulente storico della Keter – impallidì nel sentire il notiziario. Le implicazioni del ritorno dei “primi, veri Terrestri” sul pianeta Terra gli erano fin troppo chiare.

 

   «Voleva vedermi, Ammiraglio?» chiese Hod, entrando nell’ufficio di Chase.

   «Prego, si accomodi» l’accolse l’Umano, accennandole la sedia davanti alla sua scrivania. «Era da tempo che volevo parlarle faccia a faccia». L’Ammiraglio disattivò l’oloschermo, per dedicare tutta la sua attenzione al Capitano.

   Hod si sedette, un po’ rigida. Sebbene comandasse la Keter da anni, recarsi dall’Ammiraglio di Flotta la faceva ancora sentire come una scolaretta che viene convocata dal preside.

   «Negli ultimi mesi ho seguito attentamente l’attività della Keter» disse Chase. «So che siete stati in prima linea, per rimediare ai disastri dell’UPC. Per prima cosa, voglio assicurarle che lei e il suo equipaggio non siete imputati per la tragedia di Akaali. È chiaro che avete fatto ogni sforzo per proteggere gli abitanti da se stessi. Saranno i superstiti della Kutkh ad essere processati, per aver perso il controllo della nave. Ma non dubito che Rangda li farà assolvere. Non può certo mettere il suo Ufficio in cattiva luce».

   «La Presidente può influenzare il processo? Ne è certo?» s’inquietò Hod.

   «La Presidente può influenzare tutto, ormai» sospirò l’Ammiraglio. «Si è arrogata così tanti poteri che... beh... le elezioni di quest’anno sono una pura formalità. Adesso, poi, Rangda sta cavalcando l’onda d’entusiasmo per l’arrivo dei Voth» si accigliò.

   «Ho esitato a condurli qui» spiegò l’Elaysiana. «Ma ho pensato che fosse inutile indisporli con un rifiuto. Con la loro tecnologia, avrebbero trovato la Terra in ogni caso» si giustificò.

   «Concordo» disse l’Umano, intrecciando le dita. «Possiamo solo sperare che non abbiano altre mire. Ma non è di questo che volevo parlarle. Mi dica, cosa sa della situazione politica dell’Unione?».

   «Poco più di quello che dicono i notiziari» rispose Hod. «Abbiamo passato gli ultimi otto mesi nello spazio, ricevendo scarse notizie dalla Flotta».

   «Uhm, come immaginavo» grugnì Chase. «Beh, deve sapere che la situazione è davvero grave. Molto peggiore di come la dipingono i mass media. I popoli contrari all’abolizione della Prima Direttiva sono sempre più infuriati di dover pagare iniziative che spesso finiscono in disastri. Parliamo di membri di spicco dell’Unione: Klingon, Romulani, Cardassiani, Ferengi. Praticamente tutti i vecchi nemici, che eravamo riusciti a portare dalla nostra. Ora questi popoli stanno per dichiarare la secessione».

   Così dicendo l’Ammiraglio premette alcuni comandi sulla scrivania. Le luci dell’ufficio si attenuarono e sul ripiano di mogano apparve, galleggiante, la mappa tridimensionale dell’Unione. Il suo spazio era evidenziato in blu, così da sembrare un’immensa ameba, che occupava il Braccio di Orione della Via Lattea. Chase digitò altre istruzioni e due grosse zone si tinsero di rosso. Sul versante del Quadrante Alfa c’era una porzione di spazio che andava dai sistemi cardassiani a quelli ferengi. Nel Quadrante Beta il rosso era ancora più esteso: comprendeva lo spazio dei Klingon e della Repubblica Romulana. Disseminate qua e là c’erano macchioline rosse più piccole, anche nel cuore dello spazio federale. Erano singoli pianeti e sistemi separatisti.

   «Temevo che accadesse» disse l’Elaysiana in tono cupo. «Secoli di sforzi diplomatici... rovinati. Ma che si dice in Senato? Non è possibile ricucire lo strappo?».

   «Per adesso Rangda sta usando le minacce e i ricatti economici per tenere legati a noi i Separatisti. Predice mali spaventosi per i pianeti che si staccheranno dall’Unione, ma così li indispettisce ancora di più» spiegò Chase. «Il fatto è che i Separatisti non vogliono occuparsi dei popoli pre-curvatura che si trovano nei loro settori. Se li dispensiamo, lo sforzo graverà doppiamente sugli altri sistemi. Così incoraggeremo tutti i membri dell’Unione a diventare Separatisti, per sfuggire all’incombenza».

   «Sì, è chiaro» annuì Hod. Più guardava l’estensione delle zone rosse, più si sentiva afferrare dall’angoscia. Se i Separatisti avessero abbandonato l’Unione, questa avrebbe perso oltre un terzo dei suoi sistemi. «I rischi per la sicurezza...?».

   «Sono allucinanti. Guardi qui» disse l’Ammiraglio, mostrandole un’altra immagine. Un colossale vascello prendeva forma in un cantiere navale. Apparteneva alla Flotta Stellare, ma si discostava nettamente dal design tradizionale, proseguendo una tendenza cominciata già a inizio secolo e accentuatasi con l’ingresso di Klingon e Romulani. In questo caso, le caratteristiche del vascello potevano riassumersi in due parole: forza bruta. Era infatti massiccio e squadrato, più alto che largo. Anche il deflettore di navigazione era rettangolare. Sulle fiancate si aprivano due grossi hangar, da cui all’occorrenza potevano sciamare navette e caccia stellari. A poppa vi erano quattro gondole quantiche, corte e tozze, dalle pareti corazzate.

   «Classe Juggernaut» la riconobbe Hod.

   «Cosa ne sa?» indagò l’Ammiraglio.

   «È stata fortemente voluta dai Klingon, per far sì che la Flotta disponesse di navi da guerra» rispose il Capitano. «Infatti sono i vascelli più potenti di cui disponiamo. Veloci come una classe Horus, armati come una Universe, più corazzati di entrambe... e non trasportano civili. Possono sparare in tutte le direzioni e ruotare rapidamente sul proprio asse per rigenerare gli scudi laddove sono più danneggiati. I loro sistemi ridondanti garantiscono l’operatività anche in caso di gravi danni. Insomma... come dice il nome, sono una forza inarrestabile».

   «Una forza che potremmo ritrovarci contro» avvertì Chase. «Siccome sono stati soprattutto Klingon e Romulani a premere per lo sviluppo di questa classe, quasi tutti i cantieri si trovano nel loro spazio. Il prototipo Juggernaut è stato varato appena cinque anni fa, ma da allora ne sono usciti molti altri esemplari. E più ancora sono in costruzione, come contromisura alla crescente instabilità. Certo, i tagli al bilancio fatti da Rangda ci hanno costretti a posticipare la maggior parte dei vari. Ma decine di questi vascelli sono sostanzialmente pronti e aspettano solo di ricevere l’equipaggio. Immagini che succederebbe, se Klingon e Romulani ci abbandonassero! Ci vedremmo schierate contro le nostre navi da guerra».

   «Che si può fare per evitarlo?» chiese Hod.

   «Niente, a meno di sabotare i nostri stessi cantieri» sospirò l’Ammiraglio. «E questa è una strada che non intendo percorrere. Posso solo sperare che Rangda non sia completamente folle, e che tema a sua volta il pericolo. È l’unica cosa che potrebbe frenarla. Ma se la situazione degenerasse... dobbiamo prepararci all’eventualità di uno scontro senza precedenti, all’interno dell’Unione».

   «Uno scontro... contro chi?» mormorò l’Elaysiana.

   «Ha colto il punto» disse Chase, amareggiato. «Piuttosto che affrontare una guerra civile, forse dovremo... affrontare Rangda. Rimuoverla prima che disintegri l’Unione».

   Il Capitano deglutì. «Questo ufficio è schermato?» chiese, guardandosi nervosamente intorno.

   «Ovviamente» annuì l’Ammiraglio. «Spero proprio che non arriveremo a questi estremi. Ma se Rangda non ci lascerà scelta, dovremo agire in fretta e con decisione. La Flotta Stellare gestirà le cose, durante la transizione verso un nuovo governo».

   «Stiamo parlando di un colpo di Stato militare» sussurrò Hod. «Proprio ciò di cui ci accusano i complottisti e gli esaltati politici. Se lo facessimo sul serio... ecco... dico solo che l’Unione non sarà più la stessa».

   «L’Unione è già cambiata, e non in meglio» sospirò Chase. «Da un lato vuole accogliere i popoli pre-curvatura, ma dall’altro emargina molti dei suoi membri... persino dei fondatori. Ingiustizie e rancori continuano a crescere; presto questa rabbia dovrà sfogarsi. Se le cose volgeranno al peggio, cioè allo scontro totale con Rangda, sarà con me?». L’Umano fissò gli occhi grigi in quelli violetti dell’Elaysiana.

   «Io sarò sempre con la democrazia» rispose Hod. «Se lei sarà da quella parte, e Rangda no, allora potrà contare su di me. C’è altro di cui voleva parlarmi, Ammiraglio?».

   «Sì» disse Chase, accontentandosi di quella risposta. «L’attacco Vaadwaur mi ha molto inquietato. Se quei predoni viaggiano coi tunnel spaziali, e hanno anche imparato a spostarne l’uscita, possono oltrepassare i nostri confini e colpire qualunque punto dell’Unione. In questo periodo così travagliato, vorrei risparmiarci un’altra minaccia. Inoltre... il ritorno dei Vaadwaur è colpa nostra» aggiunse a mezza voce.

   «Ho letto i diari della Voyager» annuì l’Elaysiana. «Furono quegli ufficiali a trovare i Vaadwaur ibernati. Li svegliarono, li aiutarono a trovare risorse... e poi fuggirono a stento da loro».

   «Non sappiamo quanti danni abbiano fatto i Vaadwaur, in tutto questo tempo» disse l’Ammiraglio. «Ma è logico supporre che i tunnel spaziali gli abbiano permesso di colpire un po’ ovunque».

   «I Voth avevano promesso di darci informazioni» ricordò Hod.

   «Infatti ho un incontro con il loro ufficiale tattico, oggi alle 17» confermò Chase. «Parleremo di questo. Voglio che ci sia anche lei».

   «Certo» disse l’Elaysiana. «Ma una volta che ne sapremo di più, cosa conta di fare?».

   «Tutto a suo tempo» disse l’Ammiraglio, alzandosi. Dal suo tono era chiaro che stava macchinando qualcosa.

   «Come vuole, signore» disse il Capitano, alzandosi a sua volta. Dette un’ultima occhiata all’ologramma della Juggernaut, prima che Chase lo disattivasse. E sperò ardentemente di non trovarsene mai una contro.

 

   Alle 17 in punto il Capitano Hod entrò nella sala riunioni del Comando di Flotta. Si avvide subito che era un incontro di massimo livello: c’era tutto lo Stato Maggiore, compresi i capi della Sicurezza di Flotta e dei servizi segreti. Molti ufficiali partecipavano in olo-presenza, dato che le numerose crisi impedivano loro di tornare sulla Terra. Già questo indicava quanto fosse grave la situazione.

   «Benvenuta, Capitano Hod. Prego, si sieda» l’accolse l’Ammiraglio Chase. Parlava in tono formale, come se non si vedessero da tempo. Forse non voleva far sapere agli altri del loro incontro di quella mattina; di certo voleva celarne il contenuto.

   «Grazie, Ammiraglio». L’Elaysiana raggiunse in fretta il tavolo rettangolare e occupò il suo posto, senza incrociare lo sguardo con nessuno.

   «Bene, siamo al completo» disse Chase. «È il momento di accogliere il nostro ospite: il Colonnello Corythos, dell’Autorità Voth».

   L’alieno entrò in sala e si recò al tavolo, all’estremità opposta rispetto all’Ammiraglio. «I miei rispetti» disse con un cenno del capo. «Nell’interesse delle buone relazioni fra i nostri governi, sono qui per condividere alcune informazioni riguardo i Vaadwaur. I dati sono già stati trasmessi, ma vorrei darvi una panoramica della situazione».

   Con queste parole il Voth attivò alcuni comandi, integrati nel tavolo tattico. Apparve l’ologramma di un pianeta brullo, avvolto da nubi arancioni, che ruotava lentamente sopra la tavola. «Questo è il mondo natale dei Vaadwaur» spiegò. «Si trova accanto all’ingresso della più vasta rete di tunnel spaziali naturali della Galassia. I Vaadwaur li scoprirono all’inizio della loro esplorazione spaziale e li usarono per raggiungere sistemi lontanissimi. La maggior parte degli sbocchi è nel Quadrante Delta, ma alcuni si trovano anche negli altri. I Vaadwaur, che erano guerrafondai, li sfruttarono per depredare le altre specie. Dopo ogni attacco si ritiravano nei tunnel, prima che le vittime potessero riorganizzarsi. In tal modo originarono sinistre leggende su molti mondi. Ma questa politica predatoria, alla fine, si ritorse contro di loro».

   Corythos toccò un comando, mostrando altre immagini in rapida successione. Una flotta d’astronavi, assai composita, dava battaglia ai Vaadwaur. «Molte specie si riunirono in un’Alleanza, che li affrontò per liberare la Galassia dalle loro scorrerie» narrò. «Noi Voth lo sappiamo bene, perché eravamo tra loro. Quelle che vedete sono immagini d’epoca, raccolte dalle nostre astronavi. Battaglia dopo battaglia, distruggemmo ogni avamposto e colonia Vaadwaur, respingendo quelle serpi sempre più addentro nel loro spazio. Liberammo anche milioni di schiavi, catturati in tutta la Galassia. I Vaadwaur erano guerrieri astuti e crudeli, e i tunnel spaziali davano loro un grosso vantaggio; ma la nostra superiorità numerica e tecnologica prevalse. Cingemmo d’assedio il loro mondo natale e gli offrimmo l’ultima possibilità di arrendersi. Loro la rifiutarono stoltamente, cercando di liberarsi con una sortita. A quel punto la nostra reazione fu spietata».

   Il Voth mostrò altre scene di guerra. Stavolta si trattava di un bombardamento orbitale. Le città Vaadwaur erano devastate: i grattacieli crollavano, strade e ponti si sgretolavano. Persino la sabbia circostante si vetrificava per la violenza delle esplosioni.

   «Non andiamo fieri di quest’atto» disse Corythos a bassa voce. «Ma i membri dell’Alleanza erano esasperati contro i Vaadwaur e volevano farla finita. Così li bombardammo, finché tutte le città furono distrutte e il pianeta fu avvolto dalle nubi radioattive. Tutto ciò accadeva undici secoli fa. A quel punto, vinta la guerra, l’Alleanza si sciolse. Noi Voth tornammo al nostro spazio, mentre quelli che vivevano più vicini al mondo Vaadwaur si disputarono il controllo dei tunnel spaziali. In un batter d’occhio passarono da alleati a nemici» disse, scuotendo la testa rassegnato. «Non conosciamo i dettagli di quella guerra; probabilmente i condotti passarono più volte di mano. Alla fine prevalsero i Turei, che fortunatamente li usarono per commerciare, più che a scopi militari. Immagino che volessero evitare la sorte dei Vaadwaur, il cui pianeta devastato era sempre lì come monito. Ma la storia non finisce qui, purtroppo».

   Il Voth mostrò altre astronavi. Hod riconobbe gli incursori che li avevano attaccati ad Akaali. «Due secoli fa i Vaadwaur tornarono inaspettatamente sulla scena. A quanto pare molti di loro si erano ibernati in rifugi sotterranei del loro mondo. Avevano armi e navicelle, un intero battaglione. Altri ancora, ibernati su astronavi nascoste, furono risvegliati negli anni seguenti».

   Hod osservò l’Ammiraglio Chase e gli altri graduati. I Voth sembravano ignorare le responsabilità della Voyager nel risveglio dei Vaadwaur. La Flotta Stellare li avrebbe informati? I secondi passarono e nessuno degli ufficiali aprì bocca. Evidentemente non volevano indisporre i potenti ospiti. Rassegnata alla realpolitik, il Capitano tacque a sua volta, continuando ad ascoltare.

   «Forse vi chiederete come abbiano fatto i Vaadwaur a tornare così pericolosi, disponendo di poche forze, per giunta con tecnologie obsolete» disse Corythos. «Il fatto è che sono stati molto astuti. Dopo il primo scontro coi Turei si nascosero per anni, risvegliando altri dei loro. Poco alla volta si procurarono tecnologie moderne, aggiornando le loro navicelle e rubandone di nuove. A un certo punto s’impadronirono di parecchie astronavi Turei, credo dopo averne disattivati i computer con un virus informatico. Man mano che i Vaadwaur crescevano in numero e armamenti, i rapporti di forza coi Turei s’invertivano, finché i Vaadwaur hanno preso il sopravvento. Si sono impadroniti di gran parte della flotta Turei, costringendo i superstiti a fuggire. Hanno ripreso il controllo dei tunnel spaziali e sono tornati a far scorrerie in tutta la Galassia».

   Così dicendo il Voth si rivolse a Hod. «L’aggressione che avete subito è un perfetto esempio del loro modus operandi. È stato un attacco lampo, condotto mentre eravate vulnerabili. Lo scopo era saccheggiare, non distruggervi. La nave madre che vi ha attaccati era uno dei vascelli strappati ai Turei. Gli incursori più piccoli, invece, sono propriamente Vaadwaur. Classe Pythus, per l’esattezza. Negli ultimi decenni i Vaadwaur hanno costruito navi ben più grandi, come le classi Astika e Manasa» disse, mostrandone gli ologrammi. Erano vascelli slanciati, dagli scafi bruni e irti di armamenti.

   I federali si scambiarono sguardi preoccupati. Nel loro viaggio attraverso il Quadrante Delta, gli ufficiali della Voyager si erano costantemente adoperati per favorire la pace. Ma risvegliare i Vaadwaur era stato il loro errore più grave. Aveva scatenato nuove guerre, stravolgendo gli equilibri politici del Quadrante.

   «Permette una domanda?» fece Hod. «Credevo che i tunnel spaziali usati dai Vaadwaur fossero fissi, ma quello che abbiamo visto si è chiuso dietro l’ultimo incursore. Come lo spiega?».

   «Riteniamo che negli ultimi tempi i Vaadwaur abbiano imparato a spostare l’imboccatura dei tunnel, colpendoli da dentro con fasci di gravitoni» spiegò Corythos. «Questo li rende più pericolosi che mai. Prima molte parti della Galassia, prive di sbocchi, erano loro precluse; ora possono andare ovunque. Spostando l’imboccatura di un tunnel possono anche impedirci d’inseguirli, come avete visto nell’ultima battaglia. Perciò è difficilissimo stanarli».

   «A proposito di stanarli, come sono organizzati?» chiese l’Ammiraglio Chase. «Hanno rioccupato il loro pianeta e rifondato l’impero?».

   «Non proprio» rispose il Voth. «Il loro mondo natale è ancora un deserto radioattivo. Sanno che rioccuparlo ci darebbe un bersaglio e non vogliono che la storia si ripeta. Crediamo che la maggior parte dei Vaadwaur viva sparpagliato su mondi lontanissimi. Ma è probabile che i leader si nascondano nella rete di tunnel, dove sono imprendibili. Anche se trovassimo un’entrata e ci spedissimo una flotta, loro avrebbero sempre molteplici vie di fuga. Comunque qualche anno fa quelle serpi hanno proclamato ufficialmente la rinascita del loro governo, la Supremazia Vaadwaur. È un “impero a macchia di leopardo”, sparpagliato su regioni lontanissime e tenuto insieme solo dai tunnel spaziali. Penso che ormai i Vaadwaur abbiano raggiunto un certo benessere, ma come al solito non si accontentano. Continuano a saccheggiare gli altri popoli, colpendo sempre più lontano».

   «Hanno aggredito anche voi?» domandò l’Ammiraglio.

   «No» ammise Corythos. «Credo che ci temano ancora. Sapete, eravamo i membri più potenti dell’Alleanza che li sconfisse la prima volta. Quindi finora ci hanno accuratamente evitati. Stando così le cose, il mio governo non ha intrapreso azioni contro di loro. Lo farebbe solo se tornassero a colpirci. Fino ad allora dovremo tollerare la loro presenza nella Galassia» sbuffò.

   «Oltre ai Turei, quali sono le specie più colpite?» volle sapere Chase.

   «Beh, di sicuro i Krenim» rispose Corythos. «Anche loro appartenevano all’Alleanza, e furono tra quelli che insistettero per il bombardamento finale. Penso che i Vaadwaur abbiano ancora il dente avvelenato per questo. Ma voi cosa sapete dei Krenim?».

   «Abbastanza» disse l’Ammiraglio, assalito dai ricordi. «Trent’anni fa siamo stati in guerra contro di loro».

   «Davvero? Eppure siete molto lontani!» si stupì il Voth.

   «Ci avevano raggiunti con le catapulte subspaziali. È una lunga storia... fu un’altra specie a manipolarli, per indurli all’attacco» spiegò sinteticamente Chase. «A fine guerra i Krenim accettarono le nostre condizioni e tornarono nel loro spazio; in seguito abbiamo perso i contatti».

   «Uhm... allora dovete sapere che oggi i Krenim se la passano male» disse Corythos. «Il loro Impero era già in decadenza da secoli. Nell’ultimo trentennio le scorrerie Vaadwaur hanno aggravato la situazione. Oggi i Krenim controllano solo una frazione di quello che era uno dei più vasti imperi del Quadrante Delta. Hanno anche cambiato forma di governo: ora sono una repubblica».

   «Davvero?» s’interessò l’Ammiraglio. «Questa è una buona notizia».

   «Perché, spera di trattare con loro?» indovinò il Voth. «Non sarà semplice. Il loro governo è fragile; potrebbe crollare da un momento all’altro».

   Nella sala cadde il silenzio. Gli ufficiali riflettevano su quanto appreso, cercando di valutare l’impatto che il ritorno dei Vaadwaur aveva avuto sulle altre civiltà. Il bilancio era pesantissimo. In due secoli i Vaadwaur avevano rovesciato i Turei, una specie potente, e ne avevano danneggiate molte altre. Che avrebbero fatto ancora, se nessuno li avesse fermati?

   «Se temete per voi, non allarmatevi troppo» li confortò Corythos, notando le loro espressioni. «Per quanto il raggio d’azione dei Vaadwaur sia ampio, di solito restano nel Quadrante Delta. Stavolta sono andati più lontano, ma come risultato hanno perso una nave madre. D’ora in poi saranno più cauti. Passerà del tempo, prima che vi diano altre noie. E anche se tornassero a colpirvi, saranno tutt’al più scorrerie; non dovete temere un’invasione su larga scala».

   Ciò detto, il Voth spense gli ologrammi e indietreggiò di qualche passo. «Bene, con questo credo di aver assolto al mio dovere» disse. «Se non avete altre domande, vorrei tornare sulla mia nave».

   «Certamente, Colonnello. Grazie per aver condiviso queste informazioni» disse l’Ammiraglio Chase. Si alzò, imitato dagli altri ufficiali.

   «Non c’è di che. È un bene che sappiate chi sono i Vaadwaur; così sarete più preparati a difendervi» disse Corythos. Si sfiorò un minuscolo comunicatore integrato nella manica e subito fu teletrasportato sulla sua nave.

   «Fate in modo che queste informazioni siano messe a disposizione di tutto il personale della Flotta» ordinò Chase a un assistente. «Anche le forze di sicurezza locali devono essere informate. Il prossimo attacco non ci coglierà impreparati».

   La discussione tra gli ufficiali proseguì per qualche minuto, ma Hod notò che si parlava sempre di misure difensive. Nessuno accennava alla possibilità di andare sul campo. «D’altra parte che dovremmo fare? Dichiarare guerra ai Vaadwaur? Sterminarli come fece la vecchia Alleanza?» si chiese Hod. Ovviamente era improponibile. L’Unione non si comportava così, nemmeno contro i peggiori nemici. E qualunque spedizione in grande stile era inattuabile in un periodo così difficile, in cui la Flotta non riusciva ad assicurare l’ordine entro i confini. Eppure, guardando Chase, Hod ebbe ancora la sensazione che il vecchio Ammiraglio avesse in mente qualcosa.

 

   Qualche piano più in basso, Frola Gegen fu scortata da un inserviente presso una sala ologrammi. Era lì per rispondere a un invito, anche se non sapeva da parte di chi. Lasciato l’accompagnatore, la vecchia Voth varcò l’ingresso ad arco. Si trovò in una lussureggiante foresta pluviale. Era un ambiente acquitrinoso, tanto che dovette stare attenta a dove metteva i piedi. C’erano grandi stagni d’acqua verdastra, in cui marcivano gli alberi caduti. Insetti giganteschi svolazzavano qua e là: alcune libellule avevano un’apertura alare di settanta centimetri. Altri invertebrati di dimensioni abnormi strisciavano o zampettavano nel sottobosco. Anche gli alberi erano peculiari: per la maggior parte non avevano rami, ma solo tronchi alti e sottili, da cui si dipanavano foglie simili ad aghi. Non c’erano erbe né fiori, ma solo un fitto sottobosco di felci, licopodi ed equiseti.

   «C’è nessuno?» chiese Frola, guardandosi attorno. Un fruscio attirò la sua attenzione: qualcuno emergeva dall’intrico della vegetazione.

   «Felice di rivederla, signora Gegen» disse un uomo, venendole incontro. Indossava abiti civili, un po’ vintage. Era calvo sulla sommità del capo, ma i capelli rimanenti erano del tutto neri. Aveva sopracciglia spesse, occhi larghi e distanziati. Fissato al braccio portava un congegno argenteo e triangolare.

   «Noi... ci conosciamo?» chiese la Voth, esitante.

   «Ci siamo incontrati una sola volta, molto tempo fa» rispose l’uomo. «È comprensibile che non mi riconosca. Ma io non ho dimenticato l’entusiasmo nei suoi occhi, e in quelli di suo padre, quando vi mostrammo i vostri probabili antenati».

   Frola lo studiò a lungo, cercando di rammentare. Poi i suoi occhi si spalancarono. «Lei è il dottore della Voyager!» esclamò. «Ma come può essere qui? Voi Umani non...».

   «... non siamo così longevi? Vero; ma io non sono Umano» rivelò il dottore. «All’epoca non glielo dissi, ma ero il Medico Olografico d’Emergenza della Voyager. Dopo il ritorno a casa ho assunto il nome Joe».

   «E dopo tutto questo tempo è ancora in servizio?» si meravigliò la Voth.

   «Non proprio. Al termine della Guerra delle Anomalie ho lasciato il servizio attivo, anche se ho mantenuto l’opzione di rientro volontario. Quando ho sentito del vostro arrivo, ho desiderato rivederla. Suo padre era un grande scienziato; avrei voluto conoscerlo meglio».

   «Grazie, dottor... Joe. Non immagina cosa significhi per me trovarmi sulla Terra» disse Frola, commossa. «Immagino che tutti gli altri della Voyager...».

   «Ci hanno lasciati, sì» sospirò Joe, abbassando lo sguardo. Per un attimo sembrò più vecchio, sebbene il suo aspetto fosse lo stesso della prima attivazione, 219 anni prima. «Ma non cediamo alla tristezza. Il giorno sognato da suo padre si avvicina. In questo momento, scienziati Voth e federali lavorano fianco a fianco per confrontare il genoma delle specie terrestri con il vostro».

   «Sì, sto seguendo i loro progressi» annuì Frola. «Ma perché mi ha invitata qui? Che posto è questo?».

   «Questa è la Terra, com’era all’epoca in cui vissero gli ultimi antenati comuni di Umani e Voth» spiegò il dottore, ammirando la foresta primordiale. «Naturalmente parliamo di molto prima che i vostri avi lasciassero il pianeta. La simulazione olografica ci mostra la fine del periodo Carbonifero, 300 milioni di anni fa. Era l’era degli anfibi, come quello» disse, indicando una creatura verdastra che zampettava nell’acqua bassa di uno stagno. Somigliava a una salamandra, ma era lungo due metri. Aveva un cranio largo e piatto, con la bocca piena di denti aguzzi, e un dorso arcuato.

   «Eryops megacephalus, comunemente detto eriope» lo classificò Joe. «Con suo padre pensammo che fosse l’antenato comune Voth-Umani, ma poi ci siamo ricreduti. Ah, ecco un candidato più probabile» sorrise il dottore, indicando una lucertola che stava risalendo il tronco di un albero. Era sottile, quasi serpentina, e misurava una ventina di centimetri. «Hylonomus lyelli, uno dei più antichi rettili conosciuti. Probabilmente cacciava insetti».

   «Mmmhhh, quelli ci piacciono ancora» disse la Voth, leccandosi le labbra.

   «Di lì a poco i rettili si divisero in due gruppi» proseguì Joe. «Da un lato i sauropsidi, da cui discendono tutti i rettili terrestri attuali, nonché gli uccelli. Dall’altro i sinapsidi, da cui discendono i mammiferi. La sua gente è chiaramente sauropside, dato che discende dagli Hadrosauri, mentre gli Umani sono sinapsidi. Ma i 47 marcatori genetici comuni trovati da suo padre erano già tutti qui» disse, indicando la lucertola che si era fermata sul tronco.

   «È carina» sorrise Frola, prendendola delicatamente fra le mani. «Tutto il vostro mondo è bello. Mi chiedo perché i nostri avi l’abbiano lasciato in massa».

   «Forse il clima si era fatto avverso» ipotizzò il dottore. «Certo è strano che la vostra storia scritta abbia 20 milioni di anni, mentre sulla Terra non ci sono fossili di dinosauri posteriori alla grande estinzione di 65 milioni di anni fa».

   «Sì, questa lacuna è un grosso mistero» ammise Frola, dispiaciuta. «Lei ha qualche ipotesi?».

   «Forse i vostri avi furono trasferiti, quando erano ancora primitivi, da una specie ancor più antica» suggerì Joe. «Abbiamo prove che antichissimi Proto-Umanoidi compirono molti trasferimenti del genere, per preservare le specie più promettenti. Questo spiegherebbe anche perché vi hanno portato così lontano».

   «Incredibile» mormorò la Voth, riponendo la lucertola sull’albero. «Ogni volta che facciamo una scoperta, questa ci spalanca prospettive ancora più affascinanti».

   «È il bello della scienza» sorrise il dottore, mentre osservava l’Hylonomus che zampettava via.

   «Sì, ma ormai non sono più io a occuparmene» sospirò Frola. «Questo è un lavoro per giovani genetisti come Lambeos. Io sono qui solo per fare pubblicità all’iniziativa. Sono una specie di simbolo, credo. Per carità, ne sono lusingata. Ma alla mia età non ho più la memoria per svolgere questo lavoro» ammise malinconica. D’un tratto si riebbe e fissò Joe. «Lei invece è ancora sveglio come alla sua prima attivazione, dico bene?».

   «I miei engrammi mnemonici e le mie subroutine cognitive sono ancora regolari, sì» confermò il Medico Olografico.

   «Non le viene voglia di tornare nello spazio, come ai tempi della Voyager?» lo provocò la Voth.

   «A dire il vero, pensavo di averne visto abbastanza» rispose Joe. «Ma da quando siete arrivati, ammetto di provare una certa... inquietudine. Chissà, forse c’è ancora qualcosa che mi aspetta, lassù» disse, scrutando l’orizzonte. Il sole stava tramontando e le prime stelle sbocciavano in cielo. Anche se era tutta una simulazione olografica, il dottore si disse che le vere stelle erano là fuori, ad aspettarlo. Forse non era troppo tardi per raggiungerle.

 

   Per la seconda volta in due giorni, Hod fu convocata a una riunione tattica. Sì, c’era decisamente qualcosa di grosso che bolliva in pentola. Stavolta assieme a lei furono convocati gli ufficiali superiori della Keter. Incontrarono l’Ammiraglio Chase nella stessa sala tattica del giorno prima, all’ultimo piano del Quartier Generale di Flotta.

   «Benvenuti» li accolse l’Ammiraglio, scambiando un sorriso particolare con sua figlia Jaylah. Quando furono tutti seduti, riprese: «Se avete visionato le informazioni sui Vaadwaur, immaginerete perché siete qui. La Flotta è responsabile dei loro crimini, dato che furono i nostri ufficiali a risvegliarli; ma sono i popoli del Quadrante Delta a pagarne il prezzo. Questo è inaccettabile. Non possiamo più tenerci in disparte, come se la cosa non ci riguardasse».

   «Andremo nel Quadrante Delta?» chiese Ladya, trepidante. Anche se non era il motivo per cui aveva sperato di farlo, ogni occasione era buona per avvicinarsi al suo popolo.

   «Sì, i tempi sono maturi» confermò l’Ammiraglio. «Dovete sapere che c’era un mio vecchio progetto per tornare in grande stile in quel Quadrante. Vi presento la Delta Fleet» disse, materializzando alcuni ologrammi sopra il tavolo.

   Il Capitano e gli ufficiali sgranarono gli occhi. Davanti a loro galleggiava una flotta di dodici astronavi, tutte di ultimo modello. Al centro vi era una maestosa classe Universe, scortata da due massicce Juggernaut. Vi erano poi due Theseus, due Paladin e quattro Horus. L’ultima era una piccola nave scientifica di classe Nautilus. Insieme erano una forza formidabile.

   «L’idea era semplice» proseguì l’Ammiraglio. «Questa flotta doveva percorrere a ritroso la rotta della Voyager, per ricontattare i popoli più amichevoli del Quadrante. Il propulsore cronografico avrebbe permesso di oltrepassare le regioni di spazio più pericolose. In tal modo, nell’arco di tre anni, la Delta Fleet avrebbe traversato il Quadrante da un’estremità all’altra, fino al pianeta Ocampa, da cui la Voyager cominciò il viaggio. E col propulsore cronografico sarebbe rientrata in un lampo» aggiunse, schioccando le dita. «Dopotutto siamo già arrivati più lontano di così, con la missione ad Andromeda. Avere dodici navi avrebbe permesso, all’occorrenza, di dividere la flotta in gruppi più piccoli e specializzati, per fronteggiare ogni evenienza».

   «È un progetto straordinario» riconobbe Hod. «Ma da come parla, presumo che non sarà come previsto».

   «No, infatti» disse Chase con rimpianto. «Conoscete la situazione. La Flotta Stellare deve sorvegliare i confini, sperando che la crisi separatista non degeneri. In questo periodo è impensabile privarci di dodici astronavi». Così dicendo, l’Ammiraglio disattivò gli ologrammi. Per un attimo fissò cupamente la superficie del tavolo tattico. Poi alzò lo sguardo sugli ufficiali della Keter.

   «Come ho detto ieri al Capitano Hod, ho seguito attentamente le vostre imprese. Lasciate che ve lo dica: da quando è stata varata, la Keter è la nave che ha fatto di più per l’Unione. Vi siete sobbarcati le missioni più difficili e le avete portate a termine con successo. Ecco perché ora devo chiedervi molto» disse con voce grave. «Vi chiedo di fare, da soli, ciò di cui la Delta Fleet doveva occuparsi. Andate nel Quadrante Delta, ripercorrete la rotta della Voyager! Contattate le civiltà più amichevoli e verificate le informazioni sui Vaadwaur».

   Un brivido corse fra gli ufficiali della Keter. Era la missione più lunga che avessero mai ricevuto. Il Capitano Hod stava per fare una domanda, ma l’Ammiraglio la prevenne. «Ovviamente non posso chiedervi di fare tutto ciò che era in programma con la Delta Fleet» spiegò. «I compiti di cartografia stellare saranno ridotti al minimo. I popoli meno rilevanti saranno oltrepassati senza cercare il contatto. La durata della missione sarà ridotta a sei mesi, massimo un anno. È un salto nel buio... ma siete l’equipaggio più indicato per affrontare il Quadrante Delta, considerato che due di voi appartengono a specie del luogo» aggiunse, accennando a Norrin e Ladya.

   «Ehm, veramente non siamo mai stati laggiù» puntualizzò l’Hirogeno, che a differenza della Vidiiana non era ansioso di partire. «Io e la dottoressa siamo nati nello spazio federale. Sul Quadrante Delta conosciamo solo vecchie storie».

   «Ne sono consapevole, ma spero che potrete comunque facilitare i contatti coi vostri popoli» disse l’Ammiraglio, sfiorandosi la corta barba. «Tuttavia non siete costretti a venire. Data la notevole durata della missione, tutti gli ufficiali – voi compresi – possono chiedere il trasferimento su un’altra nave. Badate solo che il trasferimento è definitivo: non potrete tornare sulla Keter».

   «Io resto» disse Ladya con decisione. «È l’occasione che ho sempre aspettato».

   «Bene. Norrin?» chiese l’Ammiraglio.

   L’Hirogeno guardò Ladya. Le voleva troppo bene per lasciarla andare nel pericolo, anche se lei aveva sempre respinto garbatamente le sue avances. E in ogni caso, non avrebbe abbandonato i colleghi della Keter. «Verrò anch’io» disse, sia pure senza l’entusiasmo della dottoressa.

   «Ottimo» disse Chase, pur notando il diverso atteggiamento dei due. Poi si rivolse a Jaylah: «Voi Agenti Temporali resterete a bordo. La Voyager incontrò parecchie anomalie del tempo, quindi vi voglio pronti a ogni evenienza».

   «Lo saremo, Ammiraglio» rispose Jaylah. Pur essendo sua figlia, sul lavoro lo chiamava sempre con il suo grado. Non gli aveva mai chiesto favori, né lui gliene aveva dati. Solo quand’erano fuori servizio lasciavano trapelare l’affetto.

   «Signore, c’è un aspetto che vorrei chiarire» disse Hod, inquieta. «Ha detto che il nostro obiettivo primario sarà verificare la situazione dei Vaadwaur. Come dobbiamo comportarci, se li incontreremo?».

   «Questo è il punto» sospirò Chase. «Lo Stato Maggiore è concorde. Siete autorizzati a trattare con loro per una tregua, che ci risparmi altri attacchi. Ma se rifiuteranno, com’è probabile, allora potete agire a vostra discrezione, anche con azioni di forza. Ovviamente non possiamo chiedervi di scatenare una guerra da soli. Ma se si presentasse l’occasione, colpite le loro infrastrutture militari. Aiutate le altre specie a difendersi, esortatele a unirsi contro la minaccia. Insomma, fate tutto il possibile per ostacolare l’ascesa dei Vaadwaur».

   Il Capitano Hod deglutì: era una missione davvero ardua e dai contorni vaghi. In pratica una volta sul posto avrebbe dovuto improvvisare, senza poter contare sull’aiuto della Flotta. «Ricevuto, signore» disse. «Se non fosse possibile mettere a segno colpi rilevanti...?».

   «In quel caso proseguite fino a Vidiia e poi tornate indietro» rispose l’Ammiraglio. «La missione potrà comunque dirsi un successo, se ricontatterete i popoli del Quadrante. Lo so, è un compito vago, anche perché ormai molte cose saranno cambiate» aggiunse comprensivo. «Ma non sarete del tutto soli. Avrete un passeggero d’eccezione: uno che è già stato nel Quadrante Delta e sa come affrontarlo».

   Così dicendo, l’Ammiraglio premette un comando sul tavolo. L’ingresso della sala tattica si aprì e un ufficiale vi si stagliò. Indossava l’uniforme nero-blu della Sezione Medica; l’Emettitore Autonomo gli scintillava al braccio.

   «Precisare la natura dell’emergenza medica» sorrise il dottor Joe, entrando in sala.

 

   Gli ufficiali della Keter osservarono il nuovo arrivato mentre si avvicinava. Unico MOE di tipo 1 ancora attivo, il dottore era una leggenda vivente. Le sue imprese sulla Voyager erano note al grande pubblico, grazie alla circolazione della sua autobiografia e degli olo-romanzi ispirati al viaggio. Certo, era difficile distinguere le notizie attendibili dagli aspetti più romanzati.

   «Felicissima di conoscerla, dottor Joe» disse Ladya, avvicinandosi per prima. «Ho letto i suoi trattati di fisiologia sulle specie del Quadrante Delta. E ho visto tutti i suoi olo-romanzi! Il mio preferito resterà sempre il primo: Fotoni, siate liberi!» rivelò, stringendogli calorosamente la mano.

   «Ehm, grazie» fece il dottore, un po’ imbarazzato da quell’ammirazione sfegatata. In realtà avrebbe tanto voluto cancellare quel romanzo da tutti i database federali: non rendeva giustizia ai suoi colleghi della Voyager.

   «La sua esperienza coi Vaadwaur sarà preziosa, nella missione che vi attende» disse l’Ammiraglio.

   «Uhm, sì» mormorò Joe, facendosi serissimo. «Fui io a visitare i primi Vaadwaur risvegliati dall’ibernazione. Ricordo bene come andarono le cose. Pensavamo di compiere una buona azione, aiutando un pugno di superstiti a trovare una nuova patria dove ricominciare. Non immaginavamo che fossero così aggressivi».

   «Inutile recriminare» lo confortò Hod. «Sarà la prima volta che torna nel Quadrante Delta, vero?».

   «Esatto» confermò il dottore. «Posso dirle che troverete meraviglie – e pericoli – oltre ogni immaginazione. Ricordate che è il luogo nativo dei Borg».

   «Già, i Borg» disse Chase, corrucciato. «Dopo le grandi sconfitte che hanno subito due secoli fa, non ci hanno più attaccati. Ma durante la Guerra delle Anomalie i Krenim ci dissero che sono ancora là fuori, anche se hanno smesso di assimilare».

   «E lei gli crede?» domandò Hod.

   «Me lo disse l’Ammiraglio Hortis» ricordò Chase. «Tra gli avversari che ebbi in quel conflitto, lui fu l’unico onorevole. Credo che abbia detto il vero. Ma da allora le cose potrebbero essere cambiate. Quindi tenete gli occhi aperti anche per i Borg. Cercate informazioni, ma evitate gli scontri. Il vostro obiettivo restano i Vaadwaur».

   «Intesi» disse il Capitano Hod, celando la preoccupazione. Anche con la consulenza del dottor Joe, sarebbe stata una missione ardua.

 

   «... mi raccomando, faccia come a casa sua!» disse Ladya per la decima volta. Appena Joe era salito sulla Keter, la Vidiiana gli aveva mostrato l’infermeria, presentandogli il personale. La visita si era ben presto trasformata in un Grand Tour: Ladya mostrava tutto, spiegava tutto, cercando di far buona impressione sull’ospite. Finito il giro dell’infermeria principale, erano passati a quella secondaria e poi alla terziaria.

   «Lo so, è piccola e ci sono pochi posti letto» disse Ladya, come per scusarsi. «Pensi che durante l’ultima crisi ho dovuto sistemare alcuni feriti in mensa e in una stiva».

   «Dottoressa, la sua infermeria terziaria è più grande dell’unica infermeria che avevo io sulla Voyager» disse il dottore, laconico.

   «Oh, già» fece la Vidiiana, impressionata. «A volte dimentico in che condizioni ha dovuto lavorare. Tornando alle procedure di contenimento, ho seguito le sue disposizioni contro le epidemie macro-virali. Il personale sa sintetizzare il medicinale ed è pronto a diffonderlo dall’impianto di aerazione. Abbiamo anche approntato phaser e schiacciamosche, se dovessero arrivarci i virus più grossi».

   «Ben fatto» commentò Joe. C’era una strana malinconia in lui. Ogni tanto guardava di sottecchi la dottoressa, ma questo sembrava solo accrescere la sua tristezza.

   Accorgendosi che l’umore del suo ospite peggiorava, Ladya cambiò argomento. «Ha già visto il suo alloggio?».

   «Eh? Sì, sì» fece distrattamente il dottore, scorrendo una serie di procedure sul d-pad.

   «Lo so, gli alloggi della Keter sono piccoli e claustrofobici. Non è certo una classe Universe!» ridacchiò la dottoressa.

   «Il mio alloggio va benissimo, grazie. Pensi che non ce l’avevo, sulla Voyager. Passavo quasi tutto il mio tempo in infermeria» ricordò l’MOE. Essendo un ologramma, non aveva bisogno di dormire o curare il suo aspetto. Dopo gli anni della Voyager però aveva sempre richiesto un alloggio, per trascorrervi il tempo libero, coltivando i suoi interessi.

   «Continuo a dimenticare la sua abnegazione!» trillò Ladya. «Sapesse che significa per noi averla qui. A proposito, vorrebbe dare un’occhiata alle procedure anti-Borg? La sua esperienza è inestimabile per minimizzare i rischi».

   «Lo farò volentieri» disse Joe, posando il d-pad per concentrarsi su di lei. «Ma non pensi che, solo perché sono stato nel Quadrante Delta, sia infallibile. Ho fatto degli errori... dei grossi errori, a quel tempo» sospirò. «Se avremo emergenze mediche, il personale guarderà a lei per risolverle. Io sono qui come consulente, ma lei è il Medico Capo».

   «Certo... terrò in gran conto i suoi consigli, ma mi prenderò la responsabilità delle scelte» annuì la Vidiiana, facendosi seria. «Dottore, posso chiederle perché ha quello sguardo? Quando mi fissa, è come se qualcosa in me le dispiacesse».

   «Non c’è nulla in lei che mi dispiaccia» assicurò Joe. «È solo che somiglia molto a una persona che conobbi nel Quadrante Delta. Un’altra Vidiiana».

   «Danara Pel?» mormorò Ladya.

   Il dottore annuì e distolse lo sguardo. «Quando la incontrai, aveva la Phagia in stadio avanzato. Avrei voluto curarla... ma riuscii solo a darle un po’ più di tempo». Dal suo tono era chiaro che il loro rapporto non era stato puramente professionale.

   «Mi spiace» disse Ladya, colpita da quella confessione. «Ma ora la Phagia non c’è più. E può darsi che la nostra rotta ci porti fino a Vidiia. In quel caso conosceremo la mia gente».

   «Desidera molto incontrare i suoi simili, vero?» chiese Joe.

   «Più di ogni altra cosa» confermò la Vidiiana.

   «Beh, spero... che ci riesca» disse il dottore. Stava per dire: «Spero che non resti delusa», ma non volle minare il suo entusiasmo.

 

   Tre giorni dopo, ultimati i preparativi, la Keter lasciò l’orbita terrestre. La nave Voth invece rimase, perché gli scienziati non avevano ancora terminato le analisi. A quelli della Keter dispiacque, perché avrebbero voluto conoscere la verità, prima di partire per una missione così lunga e complicata. Ma non c’era nulla da fare: i Voth erano lenti e metodici, a maggior ragione in una ricerca che avrebbe influito così profondamente sulla loro società. Gli ufficiali della Keter si consolarono pensando che al ritorno avrebbero finalmente saputo il verdetto.

   «Controlli finali ultimati, propulsione in piena efficienza» disse Vrel. Si era deciso di partire a velocità di cavitazione, per ultimare la revisione delle procedure di sicurezza. Giunta ai confini dello spazio federale, la Keter sarebbe balzata in avanti con il propulsore cronografico, raggiungendo i margini del Quadrante Delta. Lì si trovava la nebulosa col fulcro di transcurvatura Borg che aveva permesso alla Voyager di tornare a casa. «Siamo pronti, Capitano» disse il timoniere, impaziente.

   «Aspetti» lo frenò Hod. Toccò un comando sul bracciolo, mettendosi in comunicazione con tutti i ponti. «Capitano a equipaggio. Fra pochi momenti partiremo per il Quadrante Delta. Siete tutti informati della missione che ci aspetta: ripercorrere la rotta della Voyager, contattare popoli lontani e probabilmente affrontare i Vaadwaur. È un compito impegnativo, che ci coglie in un momento difficile per l’Unione. Ma è la vera essenza della Flotta Stellare. Lo facciamo perché è difficile, perché ci sono delle incognite. Come le molte Enterprise succedutesi al servizio della Flotta, arriveremo là dove nessuno è mai giunto prima. E come la Voyager, troveremo poi la via di casa. Non c’è altro equipaggio che vorrei in questa missione. E ora, signor Shil... ci porti là».

   «Sì, Capitano» disse il timoniere, fissando le stelle e l’ignoto. Attivò la cavitazione quantica. Il deflettore brillò, proiettando il condotto, e l’astronave vi guizzò dentro. Il Quadrante Delta l’attendeva, con le sue meraviglie e le sue insidie.

 

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Capitolo 5
*** Quadrante Delta ***


-Capitolo 4: Quadrante Delta

 

   «Diario del Medico Capo, data stellare 2590.150. Oggi termina il terzo mese della nostra permanenza nel Quadrante Delta, per cui vorrei fare il punto della situazione». La dottoressa, che si trovava nel suo ufficio, sedette più comoda sulla poltroncina e riprese a dettare.

   «Abbiamo percorso a ritroso la rotta della Voyager, come da programma. Il balzo col propulsore cronografico ci ha portati alla nebulosa in cui si trovava il fulcro di transcurvatura Borg. Le sonde ci hanno mostrato che ora là dentro ci sono solo rottami. Se i Borg hanno ricostruito il fulcro, l’hanno fatto altrove. Finora non abbiamo rilevato alcun loro vascello; ma io non mi sento sicura, per cui faccio esercitazioni col personale. Ci addestriamo a respingere i Borg, agendo direttamente sulle nanosonde. Con l’aiuto degli ingegneri abbiamo predisposto dei generatori di raggi Omicron, capaci di distruggere i naniti. Questo dovrebbe proteggere l’equipaggio, almeno durante le prime fasi dell’assimilazione. Ma non credo che basterebbe a disconnettere i droni veri e propri dalla Collettività.

   Una delle prime tappe è stata Nuova Talax. Sì, è un nome enfatico per un piccolo asteroide senza atmosfera. I Talaxiani, poveretti, devono vivere al suo interno. È qui che l’ambasciatore Neelix si stabilì, dopo l’addio alla Voyager. I Talaxiani si sono dimostrati amichevoli. Hanno accettato i nostri rifornimenti e in cambio ci hanno dato informazioni sulla loro zona, anche se non essendo viaggiatori conoscono solo le immediate vicinanze. Ricordano ancora Neelix, che nell’ultima parte della vita fu il loro leader, e in effetti nella colonia vivono parecchi suoi discendenti. I piccoli Talaxiani sono dolcissimi, mi spiace aver trascorso così poco tempo laggiù.

   Nelle settimane seguenti abbiamo incontrato molti popoli del Quadrante. Ledosiani, Quarren, Nygeani, Lokirrim, Dinaali, Brunali... sono così tanti che comincio a confonderli. Pochi di loro conservano memoria storica della Voyager; in fondo si trattò di un’unica nave, passata oltre due secoli fa. Chissà per quanto ricorderanno noi. Durante gli sbarchi abbiamo lavorato come matti per proteggere l’equipaggio dai rischi biologici. Per fortuna su Dinaal c’è un’efficiente rete ospedaliera, che ci ha trasmesso dati aggiornati sulle malattie del settore. Il dottor Joe però non era contento di stare lì; credo abbia avuto cattive esperienze ai tempi della Voyager.

   Per quanto riguarda la nostra missione principale, non abbiamo ancora trovato i Vaadwaur. Però abbiamo sentito parecchie storie sul loro conto. La situazione è ancora peggiore del previsto: praticamente non c’è popolo che non sia stato attaccato. Molti hanno cercato di reagire, ma i Vaadwaur fuggono sempre nei loro tunnel, che poi si chiudono dietro, per cui non c’è modo di stanarli. Non so cosa pensi di fare il Capitano, quando li troveremo.

   Ora siamo in rotta verso Norcadia, un pianeta cosmopolita, dove ci aspettiamo di trovare altre informazioni. La tappa successiva sarà il mondo natale dei Vaadwaur. Anche se dovrebbe essere abbandonato, è probabile che gli ex inquilini lo tengano d’occhio. E lì vicino dovrebbe esserci un ingresso alla Rete Subspaziale, sempre che i Vaadwaur non lo abbiano spostato. Sicché, fra non molto li incontreremo. Il dottor Joe continua a ripeterci di stare pronti; sembra molto preoccupato. E Norrin... beh, non ci parliamo molto, ultimamente. Ma ormai so interpretare anche i suoi silenzi: è preoccupato pure lui. Io però non voglio perdermi d’animo. Abbiamo già risolto tante missioni; risolveremo anche questa. E ogni secondo che passa, Vidiia si avvicina di qualche miliardo di chilometri...».

   «Capitano a equipaggio, v’informo che stiamo per uscire dalla cavitazione, per analizzare un sistema stellare in formazione. Dopo di che riprenderemo la rotta per Norcadia, che raggiungeremo fra 24 ore. Raccomando a tutti coloro che sbarcheranno d’informarsi su leggi e usanze locali. Grazie a tutti e buona continuazione».

   Interrotta dall’annuncio, Ladya attivò l’oloschermo della scrivania e cancellò le ultime righe di registrazione, per riprendere da dove si era fermata. «Credo che la cosa migliore sia procedere un passo alla volta. Per adesso ci prepariamo a scendere su Norcadia, poi si vedrà. Computer, fine registrazione».

   Dato che ormai aveva lo schermo acceso, Ladya seguì il consiglio del Capitano e s’informò sul pianeta. Oltre agli archivi della Voyager poteva consultare anche le informazioni, ben più aggiornate, avute dai mondi vicini. Norcadia sembrava un luogo accogliente, anche se c’erano alcune raccomandazioni. La dottoressa era ancora immersa nella lettura quando il dottor Joe si presentò al suo ufficio.

   «I rapporti dell’ultima esercitazione anti-Borg» disse, consegnandole un d-pad. «Come vede il punteggio è buono, anche se i tempi di reazione di Orlon sono sempre un po’ deludenti».

   «Orlon è un Teenaxi... è così piccolo che fatica ad arrivare ai comandi» lo giustificò Ladya.

   «Sarebbe il caso di affiancargli un collega più alto» suggerì il dottore.

   «Lo farò» promise la Vidiiana. I due medici discussero ancora per qualche minuto dei dettagli. Poi Joe notò il testo sull’oloschermo. «Pensa di sbarcare su Norcadia?» chiese.

   «Non lo escludo. Sarebbe la prima licenza, da quando siamo in missione» rispose Ladya.

   «Stia attenta. Noi della Voyager avemmo qualche problema, lì» avvertì il dottore. «In particolare stia alla larga dalle arene di Tsunkatse. È uno sport barbaro; alcuni incontri sono all’ultimo sangue».

   «Che orrore!» rabbrividì Ladya. «Penso che resterò a bordo».

   «Potrebbe farsi accompagnare» suggerì l’MOE. «Se ha qualche amico che vuol sbarcare, andate in gruppo».

   «Beh, c’è uno con cui mi piacerebbe scendere» ammise la dottoressa, tentata. «Ma non so se gli andrebbe».

   «Perché non glielo chiede? Il suo turno è finito» notò Joe. «Se anche il suo amico è dello stesso turno, magari lo becca in mensa» suggerì.

   Ladya esitò. Per quanto gradisse i consigli del collega in tutto ciò che riguardava il lavoro, era una persona molto riservata nelle faccende personali. L’idea che l’MOE sapesse – o sospettasse – a chi stava pensando la imbarazzava. Perciò spense l’oloschermo e si alzò. «A domani» disse, lasciando in fretta l’infermeria.

 

   La mensa era affollata, a quell’ora, dato che il turno Alfa era finito da poco. Ladya cercò Norrin con lo sguardo e lo trovò seduto al solito tavolino. L’Hirogeno stava mangiando bistecche, come richiesto dalla sua fisiologia di carnivoro. Era seduto in modo da voltare le spalle all’oloschermo parietale su cui campeggiava la protostella che si erano fermati a osservare. La dottoressa andò a uno dei replicatori e ordinò il pranzo; poi passò “casualmente” accanto a Norrin. «Ciao... quanta gente, eh? Posso sedermi?» chiese.

   «Certo, accomodati» l’accolse lui.

   Ladya sedette sull’altro lato del tavolino, per ammirare il sistema stellare in formazione. La protostella era appena visibile, in mezzo alle polveri, ma nel disco circostante si notavano già gli aggregati che un giorno sarebbero stati pianeti. «È stupendo, vero?» commentò la Vidiiana.

   «Uh?» fece Norrin, che sembrava più concentrato sul cibo.

   «Il panorama! Lo stanno guardando tutti» disse Ladya con una punta di rimprovero.

   «Vengo adesso dalla plancia; l’ho avuto sotto gli occhi per un’ora» spiegò l’Ufficiale Tattico.

   «Io non mi stancherei mai di ammirarlo. Ci pensi che un giorno quei grumi di roccia e polveri saranno pianeti? Che magari, su uno di quei mondi, qualcuno alzerà gli occhi alle stelle e si chiederà: “Chi sono io? Da dove vengo?”» insisté la dottoressa con voce sognante.

   «Sono solo ciottoli che girano nello spazio. Non avremmo neanche dovuto fermarci» fece Norrin con un’alzata di spalle.

   «Certo che sei un bel soggetto! Siamo in un Quadrante semisconosciuto, che probabilmente non visiteremo mai più... un Quadrante che ci mostra una meraviglia dopo l’altra... e tu gli dai le spalle!» protestò Ladya. Il disinteresse di Norrin le faceva temere che non sarebbe sceso affatto su Norcadia.

   «Che vuoi che ti dica? Le protostelle si somigliano tutte».

   «Ma io non parlavo delle protostelle... parlavo dei popoli che abbiamo incontrato in questi mesi» spiegò la Vidiiana, esasperata. «Magari fra poco incontreremo anche i tuoi simili».

   «Spero di no» disse Norrin, dedicandole finalmente tutta la sua attenzione. «I miei simili sono cacciatori che considerano le altre specie nient’altro che prede. Le uccidono, le eviscerano e scelgono i pezzi più belli per adornare le loro astronavi. Il fatto che io sia qui non ci mette al riparo».

   «Ma... sono tutti così?» chiese Ladya, inquietata da quello sfogo. «Insomma, avrete pure dei pianeti, con gente che fa lavori normali».

   «Abbiamo delle colonie» confermò l’Hirogeno. «Le donne e i tecnici vivono lì, ma non sono tenuti in gran conto dai Cacciatori. Vedi, la nostra società non è delle più egualitarie. Quindi se incontrassimo dei Cacciatori, e saltasse fuori che io non faccio il loro mestiere, disprezzerebbero anche me. Ora capisci perché, a differenza tua, non sono ansioso d’incontrare i miei simili».

   «Non vorresti vedere nemmeno il vostro pianeta d’origine? Sia pure da lontano?» insisté la dottoressa.

   «Non saprei dove cercarlo» spiegò Norrin, fatalista. «Noi Hirogeni siamo nomadi da centomila anni. Abbiamo dimenticato quale sia il nostro mondo natale. Non sappiamo nemmeno se sia ancora là fuori, da qualche parte, o se sia stato distrutto da una cometa vagante» concluse, indicando lo spazio alle sue spalle.

   Ladya sbarrò gli occhi; sul suo volto comparve una smorfia d’inesprimibile orrore.

   «Ehi, non te la prendere» disse Norrin, sorpreso da quella reazione. «Non siamo gli unici nomadi della Galassia. È una cosa a cui ci si abitua».

   «No, non capisci... guarda!» sussurrò la dottoressa, battendogli sul braccio, mentre con l’altra mano indicava qualcosa alle sue spalle. Il suo viso, fino ad allora illuminato dalla protostella, fu oscurato da un’ombra. Dietro di lei, tutti i presenti smisero di mangiare e si zittirono di colpo. Fissarono l’oloschermo, con la stessa espressione d’angoscia e d’orrore.

   Norrin si girò lentamente, pronto al peggio. E lo vide. Era un colossale vascello nerastro, venato di verde. Si avvicinava a gran velocità, incurante degli asteroidi che impattavano contro gli scudi. La sua forma era perfettamente cubica.

 

   Le luci si abbassarono e divennero più rossastre, mentre partiva la sirena dell’allarme. Tutti abbandonarono i propri tavoli con i pasti a metà. Molte sedie e persino alcuni tavolini furono rovesciati; nessuno perse tempo a rialzarli.

   «Equipaggio ai posti di combattimento. Abbiamo intercettato i Borg» avvertì il Capitano dagli altoparlanti.

   Norrin si accostò a Ladya, prima che il dovere lo chiamasse in plancia. «Tieni pronte le tue squadre. Vi mando qualcuno della Sicurezza» promise, e corse via.

   La dottoressa diede un’ultima occhiata al cubo Borg, sempre più vicino, e corse a sua volta. Si augurò che le esercitazioni fossero servite a qualcosa.

 

   Giunto in plancia, Norrin rilevò la sua postazione dal collega del turno Beta. Il Capitano e gli altri ufficiali superiori presero posto nello stesso momento. «Scudi alzati, armi in linea» disse l’Hirogeno. «Sono pronto a lanciare i siluri transfasici».

   «Aspetti!» ordinò Hod. Sapeva che in passato quei siluri, che generavano una potente esplosione subspaziale, si erano dimostrati efficacissimi contro i Borg. Avevano permesso alla Voyager di distruggere il fulcro di transcurvatura e parecchi vascelli. Un singolo siluro transfasico era capace di distruggere un intero Cubo. Ma questo era avvenuto molto tempo prima. Ormai era quasi certo che la Collettività avesse trovato il modo di adattarsi, come faceva per tutte le armi.

   «Plancia a sala macchine. Preparate il propulsore cronografico al balzo» ordinò il Capitano. Quella era l’unica via di fuga affidabile, se i siluri avessero fatto cilecca. Nessuno era mai riuscito a seguire una nave che si traslava con quel dispositivo.

   Il Cubo si era fermato a un centinaio di km dalla Keter e manteneva la posizione. Anziché presentare il groviglio di travature e condotti delle vecchie navi Borg, il suo scafo era rivestito da una corazza uniforme. «Avete visto? Hanno imparato a farli lisci» ironizzò Vrel. In quella il Cubo emise un raggio verde da uno degli angoli. Era un raggio diffuso, che colpì tutta la Keter, riverberando sugli scudi.

   «Non è un attacco, ci stanno sondando» disse Zafreen, con voce tremante.

   «Tipico dei Borg» ricordò Radek. «Prima esaminano, poi assimilano. Stia pronto, Norrin. Esamini il Cubo e cerchi di capire se c’è un punto vulnerabile».

   «Non c’è» disse Jaylah, anche lei in plancia per coadiuvare gli ufficiali tattici. «I vascelli Borg sono così ridondanti che non vi sono punti deboli sul loro scafo. Questo somiglia al Cubo Tattico incontrato dalla Voyager nel 2377, durante la ribellione dell’Unimatrice Zero» riconobbe.

   «Magari è dei droni ribelli» ipotizzò Vrel, con un filo di speranza.

   «Ci avrebbero già chiama... ah!» gridò Jaylah, portandosi una mano alla tempia.

   «Che succede?!» si allarmò il Capitano.

   «Percepisco qualcosa... migliaia di menti, ma una sola volontà» rabbrividì la mezza Andoriana. Si piegò in avanti, con gli occhi chiusi. Quando li riaprì, il Cubo le apparve ancor più incombente. «Non sono i ribelli; è l’Alveare» mormorò. In quella il raggio verde si disattivò; il Cubo aveva smesso di analizzarli.

   «Ci stanno chiamando. Solo audio» disse Zafreen.

   «Apra un canale» ordinò il Capitano. Sapeva che parole aspettarsi: le avevano udite innumerevoli popoli, prima della rovina.

   «NOI SIAMO I BORG» disse una voce tonante, formata da innumerevoli singole voci.

   «So bene chi siete, come agite, e vi avverto che non riuscirete ad assimilarci» ribatté l’Elaysiana, fissando cupamente il Cubo.

   «NOI NON VOGLIAMO ASSIMILARVI» risposero inaspettatamente Borg.

   «No? Questa è nuova» mormorò Vrel.

   «Elaborate» disse invece Hod, corrugando appena la fronte.

   «L’ASSIMILAZIONE FORZATA GENERA RESISTENZA. LA RESISTENZA GENERA DISORDINE. IL DISORDINE È UN OSTACOLO ALLA PERFEZIONE» dissero i Borg. «PER QUESTO MOTIVO LA COLLETTIVITÀ HA CESSATO DI ASSIMILARE FORZATAMENTE. LA PERFEZIONE SARÀ RAGGIUNTA MEDIANTE LA SPERIMENTAZIONE TECNOLOGICA».

   «Quindi... cosa vi porta da noi?» chiese Hod. Non credeva ai Borg, ma voleva comunque vedere come si sarebbero giustificati.

   «SIAMO IN MISSIONE ESPLORATIVA. LA VOSTRA ASTRONAVE È RILEVANTE» rispose la voce di tuono dei Borg. «VI OFFRIAMO LA POSSIBILITÀ DI AVVICINARVI ALLA PERFEZIONE, ENTRANDO VOLONTARIAMENTE A FAR PARTE DELLA COLLETTIVITÀ. SE RIFIUTERETE, POTRETE PROSEGUIRE».

   Il Capitano scambiò un’occhiata incredula con il Comandante. Poi segnalò a Zafreen di togliere l’audio in uscita, affinché i Borg non li sentissero. «Questa è nuova. Si aspettano che gli crediamo?» borbottò.

   «Provi a scoprire il loro bluff» suggerì Radek.

   Il Capitano si rivolse a Jaylah, che continuava a fissare il Cubo. «Tenente, riesce a percepire le loro intenzioni?» domandò.

   La mezza Andoriana esitò. I geni Aenar ereditati da sua madre le davano notevoli facoltà telepatiche, ma aveva dei limiti. «Non sono in grado di risponderle» disse lentamente. «La loro mente è così forte che la sento da qui... ma è come un tuono lontano, non riesco a cogliere i pensieri. Non so che intenzioni abbiano; ma personalmente non mi fido».

   «Beh, suppongo che nessuno di voi voglia farsi assimilare; quindi declinerò l’offerta» ironizzò il Capitano, osservando i suoi ufficiali. «Norrin, stia pronto coi siluri transfasici. Sala macchine: pronti al balzo». Detto questo, segnalò a Zafreen di riattivare l’audio.

   «Per quanto lusingati dalla vostra proposta, dobbiamo declinarla» disse Hod in tono fatalista. «La perfezione non fa per noi... anzi, siamo così indisciplinati che vi porteremmo solo caos. Quindi riprenderemo la nostra rotta».

   «AVETE PERSO UNA GRANDE OPPORTUNITÀ. NON CE NE SARANNO ALTRE» avvertirono i Borg.

   «Ce ne faremo una ragione» disse Hod. «Addio e buon... perfezionamento».

   «ADDIO» dissero i Borg. L’attimo dopo il Cubo girò sul suo asse e schizzò a transcurvatura.

   «È successo davvero o me lo sono sognato?» fece Vrel, sfregandosi gli occhi.

   «Se non è stato un sogno collettivo, è successo» disse Jaylah, che gli stava accanto. «Ma questi Borg in versione “figli dei fiori” non mi convincono. Ricordate che in passato hanno quasi messo in ginocchio la Federazione» disse, rivolgendosi agli altri ufficiali.

   «Non può darsi che abbiano davvero cambiato atteggiamento?» suggerì Zafreen, speranzosa. «In fondo è quel che ci dissero i Krenim. E nessuno dei popoli che abbiamo incontrato finora ha subito attacchi da un secolo».

   «Che i Borg abbiano cambiato atteggiamento è evidente» disse Radek, osservando lo schermo su cui campeggiava di nuovo la protostella. «Altrimenti ci avrebbero attaccati. Resta da vedere perché hanno adottato questa strategia. Non sarà che mentre parlavamo hanno teletrasportato alcuni dei loro a bordo?» si preoccupò.

   «Non ho rilevato trasporti e comunque i nostri scudi sono sempre attivi» rispose Norrin. «Ma concordo con lei: questa storia puzza di bruciato. In passato il più grande difetto dei Borg è stata la scarsa elasticità mentale. Forse si sono fatti furbi e hanno cominciato a tramare piani più elaborati. Raccomando di restare in Allarme Giallo e d’intensificare le esercitazioni».

   «Approvato» disse Hod. «Vrel, ora proseguiremo per Norcadia. Ma non ci andremo per la via più breve. Ci faccia passare per la micro-nebulosa a 10 parsec da qui. E mascheri la nostra traccia energetica. Norrin, attivi l’occultamento. Se i Borg decidessero di seguirci, faranno fatica».

   «Sì, Capitano» disse il timoniere, prendendo gli accorgimenti per nascondere la traccia della Keter. «Ma la nostra missione principale resta invariata, vero?».

   «Affermativo» disse l’Elaysiana. «Anche se questo incontro ci ha scossi, non dimentichiamo che siamo qui per i Vaadwaur».

 

   Dopo gli ultimi eventi, la permanenza a Norcadia fu ridotta al minimo. La Keter contattò le autorità locali, scambiando come al solito informazioni, e ripartì dopo un solo giorno. Gli sbarchi previsti furono cancellati. Se la ciurma voleva svagarsi, si doveva accontentare del ponte ologrammi. Per Ladya fu una delusione, ma ne capiva il motivo. Assieme al dottor Joe e al resto dello staff eseguì una simulazione dopo l’altra, per ottimizzare la reazione in caso di attacco Borg. Tuttavia nei giorni successivi i sensori non rilevarono la minima traccia della Collettività, così che l’equipaggio tornò progressivamente a concentrarsi sulla missione originale.

   Venne il giorno in cui il pianeta Vaadwaur apparve sullo schermo. Era un globo arancione, per via delle nubi radioattive che dopo undici secoli dal bombardamento lo avvolgevano ancora. Ma anche se le nuvole si fossero diradate, il suo aspetto non sarebbe cambiato molto. Quasi tutta la superficie era desertica; i resti delle città emergevano a stento dalla sabbia. Qua e là, palazzi e monumenti diroccati levavano ancora al cielo i loro pinnacoli, muta testimonianza della gloria passata. I mari, di piccole dimensioni, riflettevano il colore malato del cielo.

   «La tana del serpente» mormorò Hod. «Entriamo in orbita. Analisi ad ampio spettro della superficie e del sottosuolo».

   La Keter, già occultata in via cautelare, entrò in orbita geostazionaria sopra i resti della capitale. Una piccola schiarita nel manto di nubi permetteva d’intravedere le rovine.

   «Anche dopo tutto questo tempo, le radiazioni gamma e la tossicità del suolo sono oltre i livelli di guardia» disse Zafreen. «Non rilevo segni di vita Vaadwaur, né di altre specie umanoidi. Niente trasmissioni subspaziali, né emissioni energetiche».

   «E i rifugi sotterranei?» volle sapere il Capitano.

   «Rilevo grandi camere, ma sono abbandonate» rispose l’Orioniana. «Non ci sono più capsule di stasi attive. Anche il reattore che le alimentava è spento. Gli hangar che custodivano le navicelle sono vuoti. I Vaadwaur hanno portato via tutto».

   «L’avranno fatto subito dopo il loro risveglio, quando erano a corto di risorse» commentò Radek. «Però è strano che non sorveglino il loro vecchio mondo. Cerchi dei satelliti. Faccia scansioni anti-occultamento» suggerì.

   Zafreen fece quanto detto. «Ci sono alcuni vecchi satelliti, risalenti a prima del bombardamento. Sono inattivi, anche se non escludo che i proprietari possano risvegliarli» disse. «Per il resto... no, aspetti». Una spia si era accesa sul quadro comandi. L’addetta ai sensori trafficò per circa un minuto. «È confermato. Quattro satelliti nuovi e attivi nei punti di Lagrange. Hanno una sorta di occultamento, anche se rudimentale».

   «Pensa che ci abbiano rilevati?» chiese il Comandante.

   «Il nostro occultamento è molto più sofisticato, quindi direi di no... anche se non ci metto la mano sul fuoco» rispose prudentemente l’Orioniana.

   «Uhm... che mi dice dei tunnel spaziali, invece?» chiese Hod.

   «C’è un ingresso stabile a meno di un’UA da qui» confermò Zafreen. «Se i nostri dati sono esatti, dovrebbe dare accesso all’intera Rete. Ma non rilevo altri satelliti o astronavi di guardia».

   «Le difese saranno all’interno» ipotizzò il Capitano. «Ecco che faremo: passeremo tre giorni qui, esaminando il pianeta. Poi, se non troveremo nulla di rilevante, manderemo una sonda nel tunnel, per mappare la Rete. A quel punto o troveremo i Vaadwaur, o saranno loro a trovare noi».

 

   I giorni successivi furono un’attesa snervante, sebbene l’equipaggio fosse affaccendato nelle analisi. Fatti tutti gli esami possibili dall’orbita, il Capitano autorizzò l’esplorazione dei rifugi sotterranei, per analizzare la tecnologia Vaadwaur. Tutti quelli che scesero indossavano le tute occultanti, per eludere eventuali trappole o sistemi di sorveglianza. I tecnici erano sempre scortati dal personale della Sicurezza.

   Il pomeriggio del terzo giorno, Hod sedeva nel suo ufficio, leggendo i rapporti delle squadre. Non erano esaltanti. I Vaadwaur avevano portato via quasi tutta la loro tecnologia e ciò che restava non poteva essere rappresentativo delle loro capacità attuali. Il Capitano se lo aspettava, perciò non rimase troppo delusa. Tra i pochi pezzi interessanti portati a bordo c’era una capsula di stasi Vaadwaur, una delle meglio conservate. Aveva preservato il suo ospite per la bellezza di 892 anni. Hod stava leggendo l’ultimo rapporto quando udì la chiamata di Radek.

   «Capitano sul ponte. Il tunnel si sta aprendo».

   «Ci siamo» si disse l’Elaysiana, affrettandosi in plancia. La trovò già in Allarme Rosso. Radek aveva dato ordine di avvicinarsi al wormhole, che campeggiava sullo schermo, come un vortice arancione.

   «È uscito qualcosa di molto piccolo» spiegò il Comandante. «Una sonda, direi. Ma non è nostra, quindi...».

   In quell’attimo un’astronave uscì dalla curvatura. Di forma compatta, aveva lo scafo giallo e grigio, con un modulo propulsivo a U. Si avvicinò di gran carriera alla sonda e attivò un raggio traente per recuperarla.

   «Sono Krenim» avvertì Zafreen. «Hanno mascherato la traccia di curvatura».

   La tensione in plancia crebbe. I Krenim erano stati membri del Fronte Temporale, l’alleanza di specie che in passato aveva quasi annientato l’Unione. Anche se il conflitto era finito da più di trent’anni, molte ferite restavano aperte.

   «Che aspettiamo? Attacchiamoli!» ringhiò l’ufficiale tattico ausiliario. Era un Klingon: il suo popolo era stato l’avversario più diretto dei Krenim, dal loro debutto nella Battaglia di Khitomer fino allo scontro risolutivo a Procyon V.

   «Si calmi, Tenente Mo’rek, o la farò allontanare dalla plancia!» avvertì il Capitano, fulminandolo con lo sguardo. «La nostra missione non è contro i Krenim. Al termine della guerra hanno firmato l’armistizio e anche gli Accordi Temporali, quindi non vanno più considerati nemici. Vediamo che fanno, piuttosto».

   La nave Krenim incamerò la sonda, ma prima che potesse andarsene un altro vascello uscì dal tunnel spaziale e la colpì furiosamente, mirando ai motori. I Krenim, che per imbarcare la sonda avevano dovuto abbassare gli scudi, li rialzarono subito. Alcuni colpi però erano andati a segno, danneggiando la loro propulsione. Non potendo ritirarsi, dovettero restare a combattere.

   I federali seguirono con attenzione lo scontro. I nuovi arrivati erano Vaadwaur, non c’era dubbio. Il loro vascello aveva un robusto apparato propulsivo da cui si protraeva un lungo scafo a sezione triangolare. La corazza era bruna e opaca, mentre il deflettore e le gondole di curvatura brillavano violacei.

   «È una delle navi che ci hanno mostrato i Voth» riconobbe Norrin. «Incrociatore pesante di classe Astika, il meglio della flotta Vaadwaur. I Krenim invece hanno un’astronave di media stazza. Sono spacciati... se non facciamo qualcosa».

   Hod osservò ancor più attentamente lo scontro, tamburellando sul bracciolo. Norrin aveva ragione: i Krenim erano a mal partito. I Vaadwaur li inseguivano, tempestandoli di colpi. Presto avrebbero abbattuto i loro scudi. Tutto lasciava intendere che a quel punto li avrebbero distrutti. «Usciamo dall’occultamento» ordinò il Capitano. «Colpiamo i Vaadwaur, cercando di attirarci il loro fuoco».

   «Ricevuto» disse Vrel. Si accostò ai Vaadwaur da dietro e poi, mentre la Keter si rendeva visibile, passò loro accanto. Nello stesso momento Norrin aprì il fuoco, colpendo duramente l’incrociatore. La nave federale sgusciò davanti ai Vaadwaur, colpendoli anche con le armi di poppa, e si allontanò senza troppa fretta, per invogliarli a inseguirla.

   La risposta non si fece attendere. I Vaadwaur divisero il loro fuoco fra le due navi avversarie, pur continuando a inseguire i Krenim. Questi però si rianimarono, vedendo di non essere soli. Smisero di fuggire e fronteggiarono gli avversari. Quando i Vaadwaur lanciarono una salva di siluri, la Keter si frappose, assorbendoli con i propri scudi. Poi si affiancò ai Krenim. I due vascelli fronteggiarono l’incrociatore nemico, sebbene fra loro non fosse corsa alcuna comunicazione.

   «I Vaadwaur ci chiamano» disse Zafreen.

   «Sullo schermo» ordinò Hod, alzandosi.

   Il Capitano nemico le apparve davanti. Il cappuccio di pelle attorno al suo collo era esteso al massimo e gli occhi giallastri la fissavano come per incenerirla. «Sono il Capitano Relin, della Supremazia Vaadwaur. Chiunque voi siate, avete commesso un grave errore» sibilò. «Questo attacco equivale a una dichiarazione di guerra. Troveremo il vostro mondo e lo puniremo come merita. Nessun luogo della Galassia può sfuggire al nostro castigo!».

   «Ci avete attaccati voi per primi» ribatté l’Elaysiana. «Tuttavia non siamo qui per vendicarci, ma solo per proteggere coloro che avete aggredito. Sono il Capitano Hod, dell’astronave federale Keter, e vi consiglio di lasciar andare i Krenim. Poi potremo sederci attorno a un tavolo e...».

   «Se vi schierate coi nostri nemici, allora siete nostri nemici. E ne pagherete il prezzo» avvertì il Vaadwaur.

   «Siete orgogliosi, vero? Delle astronavi che avete rubato, dei tunnel spaziali che avete reclamato» incalzò Hod. «Ma senza noi federali sareste ancora sepolti centinaia di metri sottoterra. Probabilmente per questa data il generatore che vi teneva in vita avrebbe ceduto e sareste morti nel sonno. Invece i nostri ufficiali vi hanno salvati, due secoli orsono. Vi hanno curati quando eravate deboli per la lunga ibernazione. Vi hanno dato viveri e indicazioni su dove trovare risorse. In cambio voi li avete traditi, cercando d’impossessarvi della loro nave. Poi, di recente, ci avete assaliti nel nostro stesso spazio, saccheggiando una nave ospedale. Perciò mi dica, Relin... chi di noi ha un conto da saldare?» chiese, fissando il Vaadwaur con sguardo glaciale.

   L’alieno ebbe un attimo d’esitazione. «Federali... quel che è stato è stato. Al nostro posto avreste fatto lo stesso» insinuò. «Ora però vi state immischiando in un conflitto che non vi riguarda. Per il vostro bene, andatevene subito».

   «E cesserete gli attacchi contro l’Unione?» chiese Hod.

   «Questo non posso garantirlo. Io... non prendo impegni per conto del mio governo» ammise Relin, un po’ imbarazzato. Il collare da serpente si sgonfiò.

   «Quindi non ci offre nulla in cambio. Perché dovremmo accontentarla?» incalzò l’Elaysiana.

   «Perché ne va delle vostre vite» ringhiò il Vaadwaur, e troncò la comunicazione. La sua astronave aprì immediatamente il fuoco, sia contro la Keter che contro i Krenim.

   «Almeno ci ha provato» disse Radek, mentre Hod tornava a sedersi al suo fianco. La nave vibrava sotto la violenza dell’attacco.

   «I Vaadwaur sono diventati molto sicuri di sé» notò il Capitano. «Facciamogli vedere che si sbagliano».

 

   Le tre astronavi iniziarono una girandola di attacchi e schivate. Il vascello Vaadwaur era massiccio e resistente, ma non particolarmente agile. La Keter era molto più manovrabile, oltre ad avere armi assai diversificate. E disponeva di un valido alleato, perché i Krenim combattevano senza risparmiarsi. Hod temeva che avrebbero approfittato della distrazione per dileguarsi; invece restarono a combattere. Assieme, federali e Krenim assestarono colpi durissimi all’incrociatore Vaadwaur. Approfittando della maggiore agilità gli giravano intorno, colpendolo da tutti i lati. A un certo punto il cannone a impulso della Keter penetrò gli scudi, tracciando uno squarcio sulla fiancata. «Cessare il fuoco» ordinò il Capitano.

   I Krenim non furono così clementi. Mentre la nave Vaadwaur danneggiata arrancava verso il tunnel spaziale, continuarono a colpirla, infliggendole gravi danni. Infine l’incrociatore in fiamme varcò l’imboccatura del wormhole, mettendosi in salvo. Per quanto avessero approfittato del momento di vantaggio, era chiaro che i Krenim non lo avrebbero inseguito là dentro.

   «Ci chiamano» disse Zafreen.

   «Sentiamoli» ordinò Hod, sperando che fossero un po’ più ragionevoli dei Vaadwaur.

   Il capitano Krenim era un uomo sulla quarantina, dagli occhi chiari che spiccavano sul viso magro. Dietro di lui l’equipaggio lavorava alacremente, ma con ordine, per salvare la nave, che aveva riportato danni considerevoli. Hod notò che le uniformi Krenim erano cambiate, dai tempi della Guerra delle Anomalie. Anziché essere brune, con guanti e altri dettagli neri, erano verde oliva e senza guanti, segno dell’avvenuto cambio di regime.

   «Sono il Capitano Jarros, della nave Kyana della Repubblica Krenim» si presentò il graduato. Tacque per un paio di secondi, osservando Hod e i suoi ufficiali. «Stavo per chiedere d’identificarvi, ma i vostri volti e le uniformi parlano chiaro» disse. «La vostra astronave è atipica, per questo non l’avevo riconosciuta come federale. A nome del mio equipaggio, grazie per averci aiutati».

   «Lieti di avervi dato una mano» disse l’Elaysiana, soddisfatta dalla prima impressione. «Io sono il Capitano Hod dell’USS Keter. Vorrei parlare a fondo con lei, ma questo non mi sembra il luogo adatto. Quel tunnel è ancora aperto e i Vaadwaur potrebbero mandarci contro una flotta in ogni momento. Riuscite ad andare a curvatura?».

   Jarros scambiò un’occhiata con un ufficiale fuori campo. «No, purtroppo» ammise. «Ci allontaniamo a massimo impulso. Se volete parlare, seguiteci...». In quella sulla plancia Krenim ci fu un violento scossone e partì un allarme.

   «Perdita di refrigerante in sala macchine!» gridò un ufficiale. Fra l’equipaggio crebbe la concitazione.

   «Abbiamo un problema, vi richiamerò» disse Jarros, scuro in volto, e chiuse il canale.

   Trascorsero alcuni minuti di crescente tensione. «I livelli d’energia della nave Krenim stanno fluttuando» avvertì Zafreen. «Hanno grossi problemi in sala macchine e ai motori. Forse dovremmo aiutarli» suggerì.

   «Li chiami» disse Hod. «Kyana, sappiamo che siete in difficoltà. Vi offriamo l’aiuto dei nostri ingegneri per mettere in sicurezza i vostri sistemi».

   Trascorsero altri, interminabili secondi. Poi Jarros riapparve sullo schermo; il suo volto era teso. «Keter, apprezziamo la vostra offerta, ma il fatto è che stiamo perdendo il contenimento dell’antimateria. Non crediamo di poter salvare la nave. Devo chiedervi di accoglierci tutti a bordo, prima che il nucleo ceda. Non vi creeremo problemi, ha la mia parola d’onore».

   Scossa dal precipitare della situazione, Hod rivolse un’occhiata interrogativa a Zafreen.

   «Dice il vero, stanno per esplodere» confermò l’Orioniana.

   «Quanti sono?».

   «Rilevo 321 segni vitali».

   «È un grosso rischio» mormorò Radek, guardando di sbieco il Capitano. «Ricordi cos’hanno fatto gli Akaali con la Kutkh».

   Hod ragionò in fretta. Imbarcare così tanti Krenim era sicuramente rischioso, ma era l’unico modo per salvarli. Non c’era tempo per altre soluzioni. «Capitano a sale teletrasporto; trasferite i Krenim nell’hangar e nelle stive» ordinò.

   «Grazie» disse Jarros, sollevato. «Vi prego d’imbarcare anche la sonda che abbiamo recuperato. Vi stiamo inviando le coordinate».

   «Come vuole» concesse Hod. Chiuso il canale, la Kyana riapparve sullo schermo. Le sue gondole si accendevano e spegnevano in continuazione; una perdeva plasma.

   «Norrin, squadre di sicurezza nell’hangar e nelle stive» ordinò subito il Capitano.

   Le sale teletrasporto erano già in funzione. I Krenim furono tratti in salvo, decine per volta. «Abbiamo tutti» riferì l’addetto al teletrasporto di plancia. «Trasferisco anche la sonda... ecco fatto».

   «Rilevo esplosioni a catena sulla Kyana» avvertì Zafreen. «Credo che ormai...». Prima che potesse finire, ci fu un bagliore accecante. Il vascello era esploso.

   «Appena in tempo» pensò Hod, lieta di aver ordinato il salvataggio. Poi ricordò che erano ancora nel sistema Vaadwaur, a poca distanza dal tunnel spaziale. «Vrel, ci porti via a massima cavitazione» ordinò. «Norrin, raggiunga le sue squadre e si accerti che i Krenim siano sotto controllo. Se hanno dei feriti, portateli in infermeria. E appena potete, portatemi qui Jarros».

   La Keter balzò nel condotto di cavitazione. Pochi attimi dopo tre navi Vaadwaur di classe Manasa e una decina d’incursori uscirono dal tunnel spaziale, pronti alla battaglia. Ma trovarono solo i detriti della Kyana che si disperdevano nello spazio. Quanto alla Keter, era fuori dalla loro portata. Dopo aver analizzato i rottami, alla vana ricerca della sonda, i Vaadwaur rientrarono nel tunnel. L’incidente non sarebbe stato dimenticato.

 

   Quando Jarros giunse in sala tattica, scortato da Norrin, gli ufficiali erano già riuniti. «Benvenuto, Capitano» lo accolse Hod. «Voglio assicurarle che abbiamo tratto in salvo tutto il suo equipaggio, anche se per ora lo teniamo diviso. I feriti sono in infermeria; nessuno è in pericolo di vita».

   «Grazie» disse il Krenim. «Non sapevo se ci avreste accolti, considerando i nostri trascorsi».

   Hod non rispose subito. Sedette al tavolo tattico, imitata dai suoi ufficiali. Anche Jarros si accomodò, sull’altro lato. Dopo una breve riflessione l’Elaysiana riprese la parola. «Vorrei impostare questo incontro su basi che non siano la Guerra delle Anomalie. Né io, né i miei ufficiali eravamo in servizio a quel tempo. E lei?».

   «No» ammise Jarros.

   «Quindi nessuno in questa stanza ha partecipato al conflitto, anche se ne siamo stati toccati in vari modi» proseguì il Capitano, scrutando sia Jarros che i propri ufficiali. «Non vi chiedo di dimenticare, perché sarebbe ingiusto nei riguardi delle vittime. Però vi chiedo di guardare avanti, ai problemi che si pongono oggi». Ciò detto si concentrò su Jarros. «Ci è stato detto che negli ultimi tempi i Vaadwaur vi hanno colpito duramente. È la verità?».

   «Sì, purtroppo» confermò il Krenim. «È da più di un secolo che subiamo le loro scorrerie, ma negli ultimi anni gli assalti si sono moltiplicati. Se fossimo ancora quelli di un tempo, li avremmo respinti. Ma non è un bel periodo per la mia gente». Il Capitano tacque, temendo di aver detto troppo.

   «Sa, vorrei davvero che si fidasse abbastanza da spiegarci la situazione» disse Hod in tono paziente. «Tanto alla fine la scopriremo lo stesso. Siamo cocciuti».

   «Non ne dubito» disse Jarros, concedendosi un sorriso agrodolce. «E va bene, sarò franco. Dopo aver perso la guerra contro di voi, l’Impero Krenim è entrato in una fase di grave instabilità politica. I nostri vicini ci hanno attaccati da tutte le parti. Avendo perso molte navi, non siamo riusciti a reggere l’urto; così i pianeti di frontiera sono caduti. Inoltre, approfittando della situazione, molti popoli appartenenti all’Impero si sono ribellati. Anche in questo caso abbiamo dovuto ritirarci, permettendo a quei popoli di tornare indipendenti. A quel punto potevamo a stento definirci un impero. L’ultimo atto è stata la rivolta popolare sul nostro pianeta natio. Molti reparti dell’esercito si sono uniti ai ribelli, finché l’Imperatore è stato spodestato ed esiliato. Se ve lo state chiedendo... sì, ero già in servizio, e ho appoggiato il cambio di governo» rivelò. «Così siamo diventati una Repubblica, governata da rappresentanti eletti dal popolo. Ma ora che stavamo cercando di assestarci e ritrovare un po’ di pace, subiamo le scorrerie dei Vaadwaur. A proposito, ho notato che avete comunicato con loro, prima che con noi. Posso sapere che vi siete detti?».

   «Ho cercato di aprire un dialogo, ma hanno rifiutato» rispose Hod.

   «Sono dei pazzi» ammonì Jarros, picchettandosi la tempia. «E purtroppo i loro tunnel spaziali gli permettono di scorrazzare in tutta la Galassia. È per questo che siete qui, vero? Quante volte vi hanno colpiti?».

   «Solo una, ma ci teniamo a non diventare bersagli abituali» spiegò l’Elaysiana. «Perciò vogliamo constatare la situazione e se possibile trovare alleati. Vi riporteremo dalla vostra gente, nella speranza d’intavolare trattative».

   «Lo apprezzo, ma non so se i miei superiori vorranno trattare con voi» rispose prudentemente Jarros. «Potrebbero considerarla un’intromissione».

   «Ormai siamo coinvolti» sostenne Hod. «Quella sonda che ci ha chiesto d’imbarcare... l’avete infilata nei tunnel per mapparli, vero? Non lo neghi; stavo per fare la stessa cosa». Il Capitano si sporse in avanti sul tavolo, fissando il suo omologo. «Quella sonda è il motivo per cui i Vaadwaur erano tanto decisi a distruggervi. Avendola recuperata, avete una mappa della Rete Subspaziale».

   «Solo di una parte» corresse il Krenim. «Ma per quanto vi sia grato, non posso condividere quei dati: sono un segreto militare. Non se ne abbia a male. Ora che i Vaadwaur hanno imparato a spostare l’uscita dei tunnel, la Rete cambia in continuazione. Quando farò rapporto ai miei superiori, probabilmente la porzione che ho analizzato sarà già cambiata» aggiunse sarcastico.

   «Devo presumere che abbiate altre sonde all’opera» ragionò l’Elaysiana. «La domanda è cosa contate di fare, una volta mappata la Rete. Volete mandarci dentro la vostra flotta, per espellere i Vaadwaur? O trovare le loro colonie e attaccarle?».

   «A questo non posso rispondere» disse Jarros, fissando il tavolo.

   «Senta, io vorrei aiutarvi, ma lei deve dirmi qualcosa» incalzò Hod. «Se è preoccupato per il suo equipaggio, o per i dati che trasportate, può stare tranquillo. Non avete nulla da temere da noi».

   «Ah, no? Forse volete reclamare i tunnel dei Vaadwaur!» obiettò il Krenim. «Quante delle vostre navi li stanno cercando?».

   L’Elaysiana scosse la testa. «Jarros, rifletta: che ce ne facciamo noi, dei tunnel spaziali? Ormai disponiamo di sistemi propulsivi così evoluti che non ne abbiamo bisogno. Siamo qui solo per contrastare le scorrerie dei Vaadwaur. Per questo m’interesso ai vostri piani. Se volete sloggiare i Vaadwaur, potremmo darvi una mano. Se invece progettate di sterminarli, vi esorto a non farlo. Non solo per ragioni etiche, ma anche per motivi pratici. Ad esempio il fatto che i Vaadwaur vivono sparpagliati in tutta la Galassia. Se anche distruggete una delle loro colonie, le altre raduneranno le forze per farvela pagare».

   Jarros rimuginò per qualche secondo, combattuto fra la sua consegna e la situazione che si era creata. «Vi presenterò al mio diretto superiore» disse. «Sarà lui a decidere se farvi partecipi dei nostri piani».

   «Molto bene» acconsentì Hod. «Comandante, accompagni il nostro ospite in plancia, così potrà fornirci le coordinate».

   «Venga» fece Radek, precedendo il Krenim fuori dalla sala tattica. Il Capitano però trattenne alcuni ufficiali.

   «Ha analizzato la loro sonda, come le avevo chiesto?» chiese a Zafreen.

   «Sì, ma non ci capisco granché» ammise l’Orioniana. «Non somiglia per niente alla tecnologia Krenim che conosciamo. Molte sue componenti sono organiche. Non basta esaminarla coi sensori interni; bisogna che gli ingegneri la aprano». Così dicendo si accostò a uno schermo parietale, richiamando un’immagine della sonda, che in quel momento si trovava nell’hangar. Era un oggetto bulboso, lungo tre metri e largo un paio. Aveva una superficie verdastra, parzialmente avvolta da un reticolo marroncino. In effetti era ben lontana dal tipico design Krenim.

   «No, ho promesso a Jarros di non spiare» disse il Capitano. «Se faremo buona impressione al suo superiore, magari ci dirà lui qualcosa. Altrimenti ci arrangeremo».

 

   La Keter si recò alle coordinate indicate da Jarros. Era un balzo enorme attraverso il Quadrante Delta: per compierlo fu necessario il propulsore cronografico. I Krenim avrebbero dovuto usare una catapulta subspaziale, più imprecisa e pericolosa. Quando la Keter riapparve nello spazio normale, si trovò davanti a una nebulosa planetaria. Era splendida: i gas espulsi dalla stella morente ricamavano una trama di colori nello spazio, corrispondenti agli elementi chimici predominanti. Rossa ai bordi, trascolorava verso l’arancio nella zona intermedia e poi all’azzurro nella parte centrale. Proprio al centro brillava, fioca, la nana bianca.

   «Siamo arrivati» confermò Jarros. «Ora devo inviare il segnale di riconoscimento. Visto che mi trovo sulla vostra nave, trasmetterò anche il mio codice identificativo personale. Così l’Ammiraglio saprà che sono a bordo».

   «Prego; può trasmettere da qui» disse Radek, accompagnandolo alla postazione sensori e comunicazioni. Dato che il Krenim non aveva familiarità con le interfacce federali, Zafreen gli diede alcune rapide spiegazioni. Jarros poté così trasmettere due lunghi codici alfanumerici. Dopo una breve attesa, in cui pareva incerto, chiese d’inviare direttamente un messaggio audio.

   «Qui è il Capitano Jarros, dell’incrociatore Kyana» si presentò. «Il mio vascello è stato attaccato e distrutto dai Vaadwaur, ma la missione è compiuta. Ora mi trovo su un’astronave federale che ci ha soccorsi, imbarcando l’equipaggio. I federali sono pronti a trasferirci, senz’altra richiesta che un incontro con l’Ammiraglio. Vorrei aggiungere che, a mio giudizio, possiamo fidarci di loro».

   Il Krenim lasciò la postazione e si avvicinò al Capitano, con cui scambiò un’occhiata d’intesa. «Aspettiamo» disse. «Non ci vorrà molto».

   Passò qualche minuto, poi Zafreen rilevò qualcosa in avvicinamento. Dalle volute rossastre della nebulosa emerse un’astronave dalla forma particolarissima. Era composta da tre globi parzialmente fusi tra loro, con un’enorme struttura anteriore, lunga la metà della nave. Sei bracci ritorti si ramificavano e si prolungavano nello spazio, per riaccostarsi presso l’estremità, pur senza chiudersi del tutto. Due anelli li connettevano, rafforzandoli. Le facce interne di questa struttura brillavano di luce blu, così come altre piccole zone della nave, mentre il grosso dello scafo era nero. L’insieme era anomalo e inquietante, ma a suo modo aggraziato, con l’alternanza quasi musicale di spazi pieni e vuoti.

   «La Annorax» riconobbe Hod, che aveva studiato le navi del Fronte Temporale. Si chiese se era ancora al comando di... no, era passato troppo tempo. «Aprire un canale» ordinò.

   L’Ammiraglio apparve sullo schermo. Era molto anziano: non aveva più capelli e il volto era un reticolo di rughe, ma gli occhi chiari erano ancora attenti e vivissimi. «Prendo atto della disgrazia, Capitano Jarros, e sono pronto a imbarcarla col suo equipaggio» esordì. «Quanto a voi, grazie dell’intervento» aggiunse, rivolgendosi ai federali. «Mi chiedevo quando vi sareste fatti vivi».

   «Ammiraglio Hortis, dico bene?» chiese Hod, preparandosi al confronto. Durante la guerra, Hortis si era dimostrato un ottimo stratega. L’Elaysiana aveva studiato le sue tattiche all’Accademia, anche se si guardò bene dal dirlo, per non apparire come una novellina.

   «In persona» confermò il Krenim, osservandola con aria benevola. «E lei è...?».

   «Capitano Hod, dell’USS Keter» rispose l’Elaysiana. «È stata una sua vecchia conoscenza, l’Ammiraglio Chase, a inviarci».

   «Ah, ci avrei scommesso!» si animò Hortis. «Mi dica, come sta la vecchia canaglia?».

   Hod ebbe un attimo d’esitazione. Sapeva che Chase e Hortis si erano affrontati più volte in battaglia e non si aspettava quel tono cameratesco da parte del Krenim. «L’Ammiraglio sta bene» rispose. «Le manda i suoi saluti e confida che si possa discutere il problema dei Vaadwaur, che hanno colpito sia noi che voi».

   «Non mi stupisce che siano giunti anche da voi. Quei barbari si fanno ogni giorno più sfrontati» disse Hortis. «Sono pronto a ricevere l’equipaggio della Kyana. Dopo di che, spero accetterete il mio invito. Abbiamo molto di cui parlare e poco tempo».

 

   Completato il trasferimento dei Krenim, Hod e alcuni suoi ufficiali si teletrasportarono sulla Annorax. Anche Jarros era con loro. Davanti all’Ammiraglio si mise sull’attenti. «Mi assumo la piena responsabilità per la perdita della Kyana, signore» disse.

   «Naturalmente» replicò Hortis. «Ci sarà un’inchiesta, per stabilire se la disgrazia poteva essere evitata. Fino ad allora lei sarà sotto custodia. Questi ufficiali la scorteranno al suo alloggio, dove potrà stendere rapporto» aggiunse, accennando a due guardie che attendevano poco più indietro.

   «Sì, Ammiraglio» disse Jarros, sempre rigido. Si girò di scatto e imboccò il corridoio, seguito dalle guardie.

   «Non sia troppo severo con lui» disse Hod, scendendo dalla pedana del teletrasporto. «Ha fatto il possibile, ma quell’incrociatore Vaadwaur era troppo forte».

   «L’avete distrutto?» chiese subito Hortis.

   «No, è rientrato nel tunnel».

   «Male... ora i Vaadwaur sanno che siete qui. E che ci avete aiutati» si rammaricò il Krenim.

   «L’avrebbero scoperto comunque, prima o poi» ribatté Hod. «Le presento il mio Ufficiale Tattico Norrin, il Medico Capo Ladya Mol e il Tenente Chase, della Squadra Temporale» aggiunse.

   «Chase?» s’interessò Hortis. «Non sarà mica...?».

   «Sono Jaylah Chase, figlia dell’Ammiraglio» confermò l’Agente Temporale. «Mio padre mi ha parlato molto di lei».

   «Allora devo preoccuparmi» ironizzò il Krenim. «La vecchia volpe mi conosce troppo bene».

   «Anche se vi siete scontrati, mio padre l’ha sempre rispettata» disse Jaylah. «Sono lieta di fare la sua conoscenza e di vederla ancora al comando. Non sono stati anni facili, per la sua gente» notò.

   «Ah, sì... penso che ti riferisca al nostro piccolo cambio di regime» minimizzò Hortis, abbassando lo sguardo sulla propria uniforme verde, diversa da quella che aveva portato in passato. «Volevamo restituire la grandezza al nostro Impero, e lo abbiamo perso del tutto. E ora dobbiamo affrontare la piaga dei Vaadwaur».

   «Avete già cominciato» notò Hod. «Sappiamo che state mappando la Rete Subspaziale; mi chiedo però cosa farete dopo».

   «Uhm...» fece Hortis, studiando i federali. «Ne parleremo attorno a un tavolo. Ho fatto allestire la cena; prego, seguitemi».

   L’Ammiraglio e i suoi ufficiali accompagnarono i federali per i corridoi della nave, fino a una sala per le cene ufficiali. Le pareti erano di un rosa salmone; su quella di fondo si apriva una finestra panoramica che permetteva di ammirare la nebulosa. Jaylah si chiese se erano nella stessa sala in cui Hortis aveva cenato con suo padre, tanti anni addietro, subito prima di scendere in guerra contro la Federazione. La tavola era già imbandita, alla maniera dei Krenim: non c’erano portate, tutto era disponibile fin da subito e ognuno prendeva ciò che voleva, senza un ordine prestabilito.

   I commensali sedettero e iniziarono a servirsi. Intanto Hortis raccontava degli attacchi Vaadwaur e delle preoccupazioni del suo governo. «Finché ci attaccavano con piccoli incursori, o con navi rubate ad altri, potevamo considerarli predoni» disse. «Ma come avete visto, ora riescono a costruire incrociatori da guerra, e maledettamente forti. In certe zone della nostra Repubblica i commerci sono crollati anche del 70%. Nessuno vuole andare in giro senza una scorta. Bisogna fare qualcosa, prima che i Vaadwaur diventino invincibili. Perciò la Milizia Krenim mi ha richiamato in servizio».

   «Richiamato?» chiese Hod.

   «Certo... dopo la Guerra delle Anomalie mi ero ritirato a vita privata» rivelò l’Ammiraglio. «Quando ci furono la rivolta e il cambio di governo ero a casa mia, ben lontano dall’azione. Non pensavo che avrei comandato ancora una nave; men che meno questa. Ma l’escalation di attacchi Vaadwaur ha indotto le autorità a ricordarsi di me. E siccome sono un vecchio sentimentale, ho preteso l’Annorax, che altrimenti sarebbe rimasta ad arrugginire in cantiere» aggiunse, sempre un po’ ironico. Si versò un vino malkotiano, il suo preferito, e lo sorseggiò adagio.

   «Questa sarà la mia ultima campagna... l’ultima cosa per cui sarò ricordato» riprese, facendosi più malinconico. «Siamo tutti rammentati per ciò che lasciamo, no? Guardate quella stella» disse, indicando la nana bianca al centro della nebulosa planetaria. «Ha brillato per miliardi di anni, prima di esplodere. Ma col suo ultimo atto, ha beneficiato l’Universo. Gli elementi pesanti assemblati nel suo nucleo si stanno diffondendo tra le stelle. Osservate quei globuli di addensamento, vicino al margine esterno» disse, indicando una zona della nebulosa piena di grumi. «Sono gli elementi pesanti che, incontrando un preesistente addensamento d’idrogeno, lo arricchiscono e lo fanno collassare. Alcuni di quei globuli diverranno sistemi stellari. Così anche noi siamo ricordati per la nostra eredità» concluse filosoficamente. Il suo sguardo indugiò su Jaylah, la figlia del suo vecchio avversario. Vedendola, Hortis sentì acutamente il rammarico per non aver mai messo su famiglia. Non aveva eredi che potessero ricordarlo dopo la sua morte. E se non voleva passare alla Storia solo come l’Ammiraglio che aveva perso la Guerra delle Anomalie, doveva sfruttare al meglio quest’ultima occasione.

   «Ammiraglio, se ci dice quali sono le sue intenzioni riguardo ai Vaadwaur, valuterò la possibilità di aiutarla» disse Hod, stando attenta a non sbilanciarsi.

   Tra gli ufficiali Krenim ci furono segni di disagio, all’idea che Hortis vuotasse il sacco con gli ex nemici federali. Ma quando l’Ammiraglio li passò in rassegna con lo sguardo, nessuno osò fiatare. Evidentemente il vecchio condottiero godeva ancora di grande autorità presso i suoi.

   «Anticamente i Vaadwaur furono sconfitti da un’alleanza di specie» spiegò Hortis, intrecciando le dita. «Noi Krenim lo sappiamo bene, perché eravamo tra queste. I nostri alleati dell’epoca sono caduti in rovina, come i Turei, o si disinteressano della nuova crisi, come i Voth. Ma io resto convinto che solo una nuova Alleanza potrà spezzare per sempre il regno di terrore dei Vaadwaur. Ecco perché ho speso gli ultimi cinque anni a contattare i popoli più danneggiati dal loro ritorno. Ho stretto una salda alleanza con l’Impero Devore, che è pronto a contribuire con molte navi da guerra. E ho preso accordi con la Gerarchia... la conoscete? È una strana civiltà, persino buffa sotto certi aspetti; ma possiede le tecnologie di spionaggio più sofisticate che abbia mai visto. È grazie alla Gerarchia che abbiamo una mappa affidabile della Rete Subspaziale. Quella sonda che ci avete recapitato appartiene a loro».

   «Avevo notato il suo aspetto insolito» commentò Hod.

   «È solo una delle tante sonde occultate che la Gerarchia ha introdotto nei tunnel» proseguì l’Ammiraglio. «Purtroppo ha avuto un malfunzionamento che l’ha resa visibile, così ho dovuto inviare rapidamente una nave a recuperarla. Una vera disdetta, perché ora i Vaadwaur saranno in allarme, il che ci obbliga ad affrettare i piani».

   «Da quel che vedo, la sua Alleanza sta dando frutti. State già collaborando con altre specie» notò l’Elaysiana.

   «In parte» confermò Hortis. «Ma resta molto da fare e il tempo stringe. Fra poco dovrò recarmi dal nostro terzo e ultimo alleato, i Vidiiani. Ci avevano promesso un aiuto consistente, ma ultimamente hanno cominciato a tirarsi indietro. Spero che non vogliano lasciare l’Alleanza, perché sarebbe un disastro».

   «Ha detto Vidiiani?!» esclamò Ladya, lasciando cadere le posate. «Io sono Vidiiana! Cos’è successo alla mia gente, sta bene?» chiese col cuore in gola.

   «La sua gente se la cava» disse l’Ammiraglio, un po’ sorpreso da quella reazione. «Però anche loro sono stati colpiti dalle scorrerie Vaadwaur. Per questo avevano accettato di aiutarci. Ora però, come dicevo, stanno accampando scuse. Forse non approvano il mio piano o preferiscono cavarsela da soli. Ma lei che ci fa su una nave federale, e perché è disinformata sul suo mondo?».

   «Vengo da una piccola colonia che perse i contatti con la madrepatria due secoli fa» spiegò Ladya. «Quando i miei avi lo lasciarono, il nostro pianeta era assediato. Fino a pochi mesi fa non sapevo nemmeno se i miei simili fossero sopravvissuti» confessò.

   «Mi dispiace... sarà stato orribile crescere con questo dubbio» riconobbe Hortis, sfiorandosi il mento. «Se le cose stanno così, che ne direste di accompagnarmi là? Ai Vidiiani piacerà avere notizie della loro colonia perduta. E vedendo la Keter, sapranno che l’Alleanza si espande. Questo potrebbe invogliarli a restarci».

   «Oh, sì!» esclamò Ladya, con gli occhi bramosi. «È un’idea magnifica, vero Capitano?» chiese, rivolgendosi a Hod.

   L’Elaysiana però non era così elettrizzata. Dato che Ladya le pareva troppo coinvolta emotivamente per essere obiettiva, si rivolse a Hortis. «Ammiraglio, è il momento che ci dica cosa vuol fare esattamente con questa Alleanza. Perché se il suo scopo è sterminare i Vaadwaur, non possiamo aiutarvi» chiarì.

   «La vostra etica, eh?» fece Hortis. «No, stia tranquilla. Ai tempi della vecchia Alleanza, credemmo di aver distrutto i Vaadwaur; ma subito cominciammo a litigarci i tunnel. E quando i Vaadwaur sono tornati, non ci hanno messo molto a riconquistarli. Alla luce di questi fatti, dobbiamo cambiare approccio. Non possiamo semplicemente scacciare i Vaadwaur dalla Rete Subspaziale, perché la considerano un loro diritto inalienabile e quindi torneranno sempre alla carica. Non c’è che un modo per farla finita».

   «Distruggere i tunnel» comprese Hod. «Lei vuole eliminare completamente la Rete. Così non ci saranno più guerre per disputarsela».

   «Non è una decisione che ho preso a cuor leggero» disse l’Ammiraglio, corrucciato. «La Rete Subspaziale è una meraviglia della Galassia. Collega tutti e quattro i Quadranti. Se ben usata, potrebbe unire civiltà lontanissime. Ma ahimè, se la Storia ci ha insegnato qualcosa, è che nessuno riesce a usarla nel modo giusto. La tentazione di servirsene a scopi militari sarà sempre troppo forte. A questo punto la cosa più sicura è eliminarla. Così risolveremo il problema non per una fugace epoca storica, ma per sempre. Questo sarà il nostro lascito. E se qualcuno ci criticherà, dicendo che ci siamo lasciati guidare dalla paura... beh, costoro faranno meglio a guardarsi dentro, e a chiedersi se saprebbero resistere alla tentazione di sfruttare la Rete per guadagno».

   Cadde il silenzio intorno alla tavola imbandita. Tutti fissavano Hod, attendendosi la risposta. L’Elaysiana lasciò passare qualche secondo, raccolta nei suoi pensieri. Quando infine parlò, non fu per dare un responso, ma per porre un’altra domanda: «I Vaadwaur sanno che lei vuol distruggere la Rete?».

   «Sono stato molto attento a non far trapelare il piano, e così i miei alleati» disse Hortis. «Ora che l’ho rivelato a lei, conto sulla sua discrezione, anche qualora decidesse di non aiutarci. Perché se i Vaadwaur scoprissero cosa vogliamo fare, ci opporrebbero una resistenza ancor più accanita» avvertì. «Ma per il momento non credo che sospettino il mio piano. Temono un attacco, questo sì, visto che hanno individuato la sonda e quindi sanno d’essere spiati. Ma penseranno che io voglia conquistare la Rete. Che invece voglia distruggerla... no, non credo gli verrà in mente. Sono così ossessionati da quei tunnel spaziali che non concepiscono l’idea che qualcuno voglia privarsene».

   «E lei sa esattamente come farli collassare?» chiese Hod.

   «I nostri scienziati ritengono di aver trovato il sistema» rivelò l’Ammiraglio. «Ma prima di entrare nei dettagli tecnici, vorrei una risposta da lei. Ci aiuterete?».

   «Non posso risponderle così su due piedi. Ciò che propone di fare avrà ripercussioni su tutta la Galassia» disse il Capitano. «Devo consultare i miei superiori».

   «Sì, è comprensibile» annuì Hortis. «Torni sulla sua nave, faccia quello che deve. Noi staremo qui ancora per qualche giorno, poi faremo rotta per Vidiia. Spero che sarete dei nostri» disse levando il bicchiere.

   «Vedremo» rispose Hod, meditabonda. Prese a sua volta il bicchiere, ma se lo portò alle labbra senza fare un vero e proprio brindisi.

 

   Tornata sulla Keter, il Capitano si ritirò nel suo alloggio. Qui restò sveglia fino a notte fonda, riflettendo sul da farsi. Aveva abbassato le luci e sedeva in poltrona, fissando la nebulosa sull’oloschermo, senza realmente vederla. Cercava di valutare le conseguenze di allearsi con i Krenim, come anche le conseguenze di non farlo. Entrambe le scelte erano piene d’incognite. D’un tratto il segnale dell’ingresso la distolse dalle sue riflessioni.

   «Avanti» disse Hod, stupita dalla visita notturna. Non si alzò, ma girò il capo verso l’ingresso, mentre questo si apriva.

   Era Jaylah, che per un attimo esitò sulla soglia, ma poi entrò in fretta. «Chiedo scusa per il disturbo, Capitano. E per l’ora infelice» disse. «Ma ero certa di trovarla sveglia».

   «Anche tu non riesci a dormire? Forse dovremmo prendere un sonnifero» scherzò il Capitano. Quando erano sole adottava spesso un tono più familiare con l’Agente Temporale.

   «Ha detto a Hortis che avrebbe chiesto istruzioni al Comando. Non l’ha fatto, vero?» chiese Jaylah, accostandosi. Le comunicazioni con l’Unione erano difficili, a quella distanza. Alcuni satelliti erano stati predisposti per ritrasmettere i segnali subspaziali, ma dopo l’ultimo balzo della Keter, che si era molto addentrata nel Quadrante, il segnale era debole e incerto.

   L’Elaysiana si lasciò sfuggire un sospiro. «No» ammise, tornando a fissare la nebulosa.

   «Teme una risposta negativa?» chiese la mezza Andoriana, sedendo su una poltroncina lì accanto.

   «Tuo padre mi ha dato facoltà di agire a mia discrezione» spiegò Hod. «L’ha fatto perché, trovandomi sul campo, posso comprendere meglio la situazione. Ovviamente potrei spiegargli tutto per filo e per segno, scaricandomi dalla responsabilità. Ma se rimettessi tutto alle autorità, sarebbe davvero il Comando di Flotta a decidere? Ricorda come andò a Ultima Thule: l’Ammiraglio ci mandò una flotta in supporto e Rangda la fece tornare indietro. Non lascerò che accada di nuovo. Se faccio promesse ai Krenim e poi li deludo, perderemo definitivamente la loro fiducia».

   «Potrebbe spiegargli la situazione» disse Jaylah, incerta.

   «Non rivelerò quant’è fragile e disorganizzata l’Unione ai nostri ex nemici» obiettò il Capitano. «E poi... non vorrei coinvolgere tuo padre. Se quest’operazione va male, preferisco prendermi il biasimo. Così lui ne uscirà pulito e potrà ancora opporsi a Rangda, per quanto possibile».

   Jaylah scosse la testa, frustrata, e fissò a lungo la nebulosa. «Quindi cosa vuol fare?» chiese dopo un po’.

   «Beh, l’offerta di Hortis è allettante» ammise il Capitano. «Siamo venuti in questo Quadrante senza un piano preciso. Non pensavo che avremmo ostacolato seriamente i Vaadwaur. E invece ecco qui un’Alleanza con un piano per fermarli. Hanno persino trovato il modo di farlo senza massacri, semplicemente eliminando i tunnel spaziali. È meglio di quanto potessi sperare».

   «E allora perché è così incerta?».

   «Come ufficiale della Flotta Stellare, mi ripugna distruggere una rete subspaziale che potrebbe unire popoli di tutta la Galassia. In un certo senso, equivale ad ammettere che la pace è una chimera» spiegò stancamente Hod. «E poi considera chi sono i nostri alleati. Hortis è un militare astuto, molto più vecchio ed esperto di noi. Potrebbe avere secondi fini. Magari progetta di sterminare i Vaadwaur in un secondo momento. Finita questa missione, noi torneremo a casa; ma devo pensare a come cambieranno le cose per chi resterà qui».

   «Hortis e i suoi alleati procederanno comunque, anche senza di noi» argomentò Jaylah. «A questo punto tanto vale esserci, no? Così li terremo d’occhio».

   «Suppongo di sì» disse il Capitano, non del tutto soddisfatta. «Ma tu che mi dici? Quand’eravamo coi Krenim avrai avuto qualche percezione. Ti è sembrato che nascondessero qualcosa?».

   «I Krenim sono difficili da leggere. I loro lobi temporali ipersviluppati gli danno una certa schermatura» spiegò Jaylah, picchettandosi la tempia, là dove gli alieni avevano un rigonfiamento. «Hortis in particolare ha una mente labirintica. Eppure ho avuto la sensazione che fosse sincero. Vuole far cessare le scorrerie Vaadwaur e questo è il modo più sicuro. Credo voglia anche ripulire la sua immagine; ha sentito quel discorso sull’eredità che lasciamo ai posteri».

   «Hm-hm» fece Hod.

   «Durante la Guerra delle Anomalie, Hortis ha sempre mantenuto il fair play, non solo con mio padre, ma con tutti gli avversari» ricordò la mezza Andoriana. «Ad esempio era l’unico leader del Fronte Temporale che accettava scambi di prigionieri e ci permetteva di raccogliere i feriti per curarli. Non credo che sia cambiato in questi aspetti».

   «Quindi dovrei affidarmi alla sua... cavalleria» disse il Capitano. «E i suoi alleati saranno altrettanto leali? Stando ai rapporti della Voyager, i Devore e la Gerarchia sono regimi totalitari. Quanto ai Vidiiani, sappiamo come si comportavano».

   «Se non facciamo questa cosa con loro, che altro dovremmo fare?» insisté Jaylah. «È colpa della Flotta Stellare se i Vaadwaur sono tornati ad affliggere la Galassia, quindi dobbiamo rimediare. Il piano di Hortis è l’unica occasione per privarli del loro vantaggio. E poi i Krenim non sono più un impero aggressivo. Adesso sono una fragile repubblica, che cerca di sopravvivere. Non dovremmo aiutarli, nell’interesse della democrazia?».

   Hod non rispose subito, ma fissò i meandri della nebulosa. Forse le delusioni che aveva avuto negli ultimi anni avevano compromesso la sua capacità di fidarsi del prossimo. Eppure la Federazione era nata così: con un pugno di ex avversari che avevano deciso di collaborare contro una minaccia comune. Si erano fidati, sebbene fosse un salto nel vuoto.

   «Valuterò quanto hai detto» disse infine l’Elaysiana. «Grazie della chiacchierata, ma ora vorrei riposare».

   «Certo, Capitano» disse Jaylah, alzandosi. «Buonanotte e scusi ancora se l’ho disturbata». Con queste parole, la mezza Andoriana lasciò l’alloggio, augurandosi di aver fatto breccia.

 

   Il giorno dopo, il Capitano Hod entrò in plancia con l’aria risoluta di chi ha preso una decisione inappellabile. Con lei c’era la dottoressa Mol. «Aprire un canale con l’Annorax» ordinò l’Elaysiana, senza nemmeno aver salutato i colleghi.

   L’Ammiraglio Hortis apparve prontamente sullo schermo. «Buongiorno, Capitano» esordì. «Allora, ha consultato i suoi superiori?» chiese vagamente divertito. I sensori Krenim non avevano rilevato nessuna trasmissione subspaziale dalla Keter.

   «Ho valutato la sua proposta» rispose Hod. «Distruggere la Rete Subspaziale è una soluzione drastica al problema dei Vaadwaur. Come Capitano della Flotta Stellare, ho il dovere di preservare le meraviglie naturali della Galassia e le opportunità di contatto fra le specie» disse lentamente. «Ma ho un dovere ancora più alto: quello di preservare la vita. I Vaadwaur stanno lasciando dietro di sé una scia di morti e distruzione. Quindi sì, vi aiuterò a eliminare i tunnel» dichiarò.

   «Magnifico!» si rallegrò Hortis. «Ma vorrei capire se parla solo della Keter o se l’Unione metterà in gioco un contingente più ampio».

   «L’Unione al momento è concentrata nelle faccende interne» disse Hod, evasiva. «Mi spiace informarla che nell’immediato futuro non è previsto l’invio di altre navi nel Quadrante Delta. Quindi siamo solo noi».

   Un mormorio costernato percorse gli ufficiali Krenim, che si aspettavano un aiuto più consistente. Hortis rifletté brevemente, con la fronte corrugata, ma non pretese chiarimenti sullo stato dell’Unione. «Un tempo avrei detto che non è molto. Ma ho appreso che una sola nave può fare la differenza, perciò siete i benvenuti» disse. «E la mia offerta resta valida: volete seguirmi su Vidiia Primo? Lei che è Vidiiana» si rivolse alla dottoressa «potrebbe scoprire perché la sua gente si sta tirando indietro, e magari convincerla a restare nell’Alleanza».

   «Posso provarci» disse Ladya, con un pizzico d’esitazione. Fare la portavoce federale, o peggio ancora la spia, non era nei suoi piani. Ma stavano affrontando un’emergenza che colpiva interi popoli. Se poteva fare la sua parte, non si sarebbe tirata indietro.

 

   Di lì a poco il Capitano e alcuni ufficiali – Norrin, Ladya e Vrel – erano di nuovo sulla Annorax. Stavolta l’Ammiraglio li condusse nel laboratorio astrometrico, un salone colmo di postazioni d’analisi e olo-proiettori. C’era molto personale all’opera e non tutti erano Krenim. Fra i tecnici spiccavano infatti due alieni bassi e tarchiati, imbacuccati in uniformi d’un grigio metallizzato, con enormi colletti rigidi. Avevano testoni glabri e paffuti, quasi da maiale, impressione accentuata dai nasi schiacciati e dal tono gutturale delle voci.

   «Vi presento i controllori Emk e Pemk, della Gerarchia» disse Hortis. «Sono con noi per scaricare i dati dalla loro sonda, combinandoli con quelli già in nostro possesso».

   «Già fatto, Ammiraglio» disse Emk, il più alto in grado. «Abbiamo espanso la nostra mappa di un buon 7%. Finalmente abbiamo le scansioni dei condotti da 242 a 279, e anche l’introvabile condotto 301. Ormai la Rete Subspaziale non ha più segreti» aggiunse compiaciuto.

   Mentre Emk parlava, il suo collega Pemk attivò un olo-proiettore al centro della sala. Apparve un’immagine tridimensionale della Via Lattea, con la Rete Subspaziale evidenziata in giallo. I condotti erano fittissimi in certi punti, molto più radi in altri. Per la maggior parte si concentravano nel Quadrante Delta, ma alcuni raggiungevano gli altri tre.

   «Nell’ultimo mese i Vaadwaur hanno spostato quindici sbocchi» proseguì Emk. «Come al solito, lo fanno per non essere inseguiti dopo una scorreria. Pemk, evidenzia gli Snodi!» ordinò. Il sottoposto eseguì prontamente. Tre punti rossi evidenziarono i luoghi in cui i tunnel spaziali convergevano maggiormente. Erano tutti nel Quadrante Delta, anche se molto distanziati fra loro.

   «Questa era la Rete prima delle ultime modifiche e questa è la sua configurazione attuale» spiegò Emk, indicando alcuni tracciati. I quindici condotti di cui aveva parlato si spostarono, talora accorciandosi, talora prolungandosi notevolmente. Molti di essi puntavano ora verso l’estremità più remota del Quadrante Delta.

   «I Vaadwaur vogliono espandersi qui?» chiese Norrin, notando la tendenza.

   «Probabile» confermò Emk. «Negli ultimi tempi i loro attacchi in questa zona si sono moltiplicati».

   «È qui che si trova Vidiia Primo?» si allarmò Ladya.

   «Sì» rispose Pemk, facendo udire per la prima volta la sua voce. Il tozzo alieno stava ancora manovrando i comandi, per cui gli era bastato un attimo per scorrere l’elenco dei pianeti in zona.

   «Taci! Sono io che parlo!» lo rimproverò il superiore. Dopo di che si rivolse a Ladya, con aria compunta. «Sì, il suo pianeta si trova in questa zona» confermò.

   Infastidito dai bisticci dei due alieni, Hortis si rivolse ai federali. «Come vedete, ci sono tre snodi in cui si concentrano i tunnel spaziali» disse, indicandoli in successione. «Lo Snodo 1 è vicino al pianeta Vaadwaur. Il 2 non è lontano dai nostri confini... all’apice dell’Impero Krenim era addirittura dentro. Il terzo snodo è oltre lo spazio Borg, verso la periferia galattica» concluse. «Quando abbiamo compreso com’è strutturata la Rete, abbiamo fatto delle analisi mirate. Ci siamo accorti che questi snodi sono essenziali per sorreggere l’impalcatura subspaziale. Questo li rende i bersagli perfetti. Se facessimo collassare un tunnel qualunque, per i Vaadwaur cambierebbe ben poco. Se colpissimo uno snodo minore, ne chiuderemmo una manciata. Ma se vogliamo eliminare l’intera Rete, dobbiamo colpire i tre snodi principali».

   «Colpirli con cosa?» volle sapere Hod.

   «Un impulso gravitonico di almeno quattro miliardi di terajoules» rispose Emk. «Se tre astronavi si mettono in posizione, ciascuna in uno snodo, e lanciano questi impulsi dal deflettore, la Rete Subspaziale collasserà».

   «Con le astronavi dentro» notò Vrel. «Quanto avremo per filarcela?».

   I due alieni si scambiarono un’occhiata meditabonda. «Quattro?» suggerì Pemk. Emk annuì e si rivolse di nuovo agli ospiti. «Tre, quattro minuti... ma sì, diciamo quattro. Abbastanza per metterci in salvo».

   «Se la Rete non è piena di navi Vaadwaur che ci sparano addosso» borbottò Vrel, per nulla rassicurato.

   «Non ho mai detto che sarebbe stato semplice, o sicuro» disse Hortis quietamente. «Ma le variabili fanno parte dell’equazione. E a noi Krenim piacciono le equazioni. Questa qui la stiamo calcolando da anni». Così dicendo si recò a uno schermo che mostrava file interminabili di calcoli matematici, estremamente complessi.

   «La Supremazia Vaadwaur non ha contiguità territoriale; è un insieme di colonie sparpagliate nella Galassia, collegate solo dai tunnel spaziali» spiegò l’Ammiraglio. «Senza di quelli, crollerà come un castello di carte. Le colonie non potranno più aiutarsi tra loro e nemmeno comunicare. Se vorranno sopravvivere, dovranno abbassare la cresta e smettere di aggredire tutti quelli che hanno intorno. I Vaadwaur sopravvivranno come specie, ma le loro velleità imperiali saranno stroncate per sempre».

   «I suoi calcoli sembrano molto precisi» notò Hod, accennando allo schermo pieno di equazioni. «Ha usato la sua tecnologia predittiva? Aveva promesso di non servirsene più».

   «L’emergenza mi ha costretto a fare un’eccezione» ammise Hortis. «Vedete, dovremo portare in battaglia almeno duecento astronavi per farci strada nei tunnel fino agli snodi. Con così tante forze in gioco, non possiamo andare alla cieca. Ci occorrono previsioni attendibili. Non crediate che sia facile! È quasi impossibile fattorizzare l’effettiva forza militare dei Vaadwaur, visto che di regola non attaccano in massa. Ma oltre una certa soglia non farà una gran differenza, perché resterebbero imbottigliati nei loro stessi tunnel. Probabilmente perderanno più navi nel collasso della Rete che non nell’effettiva battaglia. E questo è il rischio che corriamo anche noi, perciò dovremo andarcene alla svelta. Allora, siete sempre dell’idea di aiutarci?» chiese, scrutando i federali.

   «Siamo qui per fare la nostra parte» confermò Hod.

   «Allora non perdiamo tempo; andiamo a Vidiia» disse l’Ammiraglio, disattivando gli ologrammi. «Quel pianeta è molto lontano, oltre lo spazio Borg, per cui lo raggiungerò con una catapulta subspaziale. Suppongo che la vostra nave non ne abbia bisogno» aggiunse con una punta d’invidia. I Krenim non erano mai riusciti a padroneggiare la cavitazione quantica, tanto meno il propulsore cronografico. «Vi darò le coordinate, così ci rivedremo lì».

   «Potremmo portarla noi, se si fida» si offrì l’Elaysiana. «Così non dovrà sottoporre la sua nave ad altri due balzi».

   Hortis valutò attentamente l’offerta. Ogni salto con la catapulta subspaziale sottoponeva le astronavi a un fortissimo stress. L’Annorax aveva già fatto molti balzi, sia durante la Guerra delle Anomalie che negli ultimi anni, per cui era consigliabile limitarli il più possibile. «Accetto l’offerta» disse. «Sarà un piacere viaggiare su una nave federale... da incensurato» ironizzò.

 

   Mentre il Capitano e gli altri discutevano gli ultimi dettagli con i Krenim, Ladya si accostò al tecnico della Gerarchia di grado più basso. «Signor Pemk?» chiese timidamente.

   «Eh? S-sì, sono io» fece l’alieno, un po’ sorpreso.

   «La vostra mappa galattica è di una precisione strabiliante...» cominciò Ladya, cercando d’ingraziarselo.

   «Grazie. Nasce da anni di scrupolosa analisi della Rete Subspaziale» disse Pemk, visibilmente orgoglioso del suo lavoro.

   «Potrebbe farmi vedere Vidiia, per cortesia?» chiese la dottoressa.

   «Certo, mi segua». Il tozzo alieno si diresse a una postazione secondaria, con passo ondeggiante, e la Vidiiana lo tallonò. Presi i comandi, il tecnico mostrò sullo schermo il settore interessato. «Ecco qui. Forse non troverà ogni singolo avamposto, ma il suo pianeta è ben evidenziato» disse.

   Ladya lesse i nomi dei pianeti. C’erano Ocampa, Talax, Haakonia, i mondi dei Kazon... e finalmente eccolo lì, Vidiia Primo! Il suo cuore palpitò al pensiero che molto presto lo avrebbe visto con i suoi occhi. Il suo sogno di bambina stava per avverarsi. «Tornerò a casa, e sarà bellissimo».

 

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Capitolo 6
*** Bellezza e decadimento ***


-Capitolo 5: Bellezza e decadimento

 

   «La dottoressa Mol è desiderata in plancia. Stiamo per raggiungere Vidiia Primo».

   A questo annuncio, Ladya sentì il cuore palpitarle. Diede qualche rapida istruzione ai colleghi, affinché continuassero i lavori in sua assenza, e lasciò l’infermeria. Anziché perdere tempo in corridoi e turboascensori, entrò nella cabina di teletrasporto e si trasferì all’istante in plancia. Finalmente lo vide.

   Il pianeta Vidiia si stagliava nello spazio, abbellito da due grandi satelliti naturali e da un sistema di anelli, forse nati dalla disgregazione di una terza luna. Vi era una sola massa continentale, divisa però in due subcontinenti, collegati da una strozzatura. Questi subcontinenti erano orientati in modo tale da delineare un immenso golfo, nel quale si concentrava la maggior parte delle nubi e persino un ciclone vorticoso. Le terre affacciate sul golfo erano d’un verde screziato di rosso, a causa della particolare vegetazione. Solo nell’entroterra e sul versante arido delle catene montuose c’erano regioni desertiche, mentre non vi era traccia di calotte polari.

   «È ancora più bello di come l’immaginavo!» gioì Ladya, estasiata. Scese dalla pedana di teletrasporto e si accostò allo schermo, per riempirsi gli occhi e il cuore di quella vista. Il sogno della sua vita si era avverato: era la prima dei coloni a rivedere il loro mondo d’origine. E presto vi sarebbe sbarcata.

   «Tre navi in rapido avvicinamento» avvertì Zafreen.

   Aguzzando la vista, Ladya le individuò. Viaggiavano in formazione: un vascello oblungo al centro, due più appiattiti ai lati. La dottoressa comprese che i vascelli ai lati erano navi da guerra, mentre quello centrale poteva essere un trasporto diplomatico. Era naturale che i suoi simili fossero in allarme, con tutti gli attacchi che avevano subito negli ultimi tempi.

   In quella anche Hortis entrò in plancia. L’Ammiraglio aveva viaggiato sulla Keter assieme ad alcuni dei suoi ufficiali e scienziati, mentre l’Annorax era rimasta nello spazio Krenim, affidata al Primo Ufficiale, con il compito di radunare la flotta.

   «La nave al centro ci sta chiamando» disse Zafreen.

   «Apra un canale» ordinò il Capitano.

   Sullo schermo apparve un Vidiiano dall’aria autorevole. All’incirca della stessa età di Ladya, aveva capelli chiari e indossava un abito diplomatico azzurro. «Ammiraglio Hortis, che sorpresa. Non mi aspettavo di trovarla su un vascello alieno» esordì.

   «Mi trovo su una nave alleata, che mi ha permesso raggiungervi con tutta la velocità richiesta dall’urgenza della missione» spiegò il Krenim.

   «Interessante» disse il Vidiiano, sfregandosi il mento. «In tal caso vorrei presentarmi ai suoi alleati. Sono l’ambasciatore Dallorath, del Sodalizio Vidiiano. Vedervi in compagnia dell’Ammiraglio è già una garanzia delle vostre buone intenzioni. Tuttavia devo chiedervi d’identificarvi, perché non ho familiarità con la vostra nave... e nemmeno con le vostre specie» aggiunse, osservando l’eterogeneo equipaggio federale.

   «Questa è la Keter e io sono il Capitano Hod» si presentò l’Elaysiana. «Siamo in forza all’Unione Galattica».

   «Non conosco questo organismo politico» disse Dallorath. «Presumo che veniate da molto lontano».

   «Dall’altro lato della Galassia» confermò Hod. «Siamo qui perché appoggiamo la strategia dell’Ammiraglio Hortis contro la minaccia Vaadwaur. Pertanto ci uniremo all’Alleanza per l’attacco alla Rete Subspaziale. Vi esortiamo a fare altrettanto, nella consapevolezza che il vostro contributo sarà decisivo».

   «Come vede, ambasciatore, la mia Alleanza si espande» sottolineò Hortis.

   «Beh... questa sì che è una notizia» fece Dallorath, colpito. «Non mi aspettavo questi alleati dell’ultimo minuto. Capitano... Hod, dico bene? Posso chiederle quante navi porterete in battaglia?».

   Era il punto critico, ma l’Elaysiana non poteva girarci intorno, perciò lo disse chiaramente. «L’Unione è molto lontana da qui e finora abbiamo subito un solo attacco, perciò il mio governo non interverrà più di tanto. Posso offrirvi solo questa nave che vedete; ma saremo con voi fino all’ultimo» promise.

   L’interesse del Vidiiano si smorzò, ma non svanì del tutto. «Una sola nave non è molto, anche se ammiro il suo coraggio» commentò.

   «Non una nave qualunque» avvertì Hortis, levando l’indice. «La Keter è una leggenda, nelle sue zone. Il suo scafo in neutronio la rende impervia a quasi tutte le armi, facendone il vascello ideale per colpire uno dei tre snodi della Rete».

   Dopo questa sviolinata, Dallorath rifletté per qualche secondo. «Informerò il mio governo di queste novità» promise. «Per adesso vi garantirò il permesso di sbarco. Quando saremo faccia a faccia...». La voce del Vidiiano rallentò fino a fermarsi. Aveva notato Ladya, che attendeva trepidante poco dietro al Capitano. «Mi perdoni» disse l’ambasciatore, «ma lei somiglia in modo straordinario a una Vidiiana. Da che pianeta proviene?».

   A Ladya servì qualche attimo per realizzare che Dallorath si stava rivolgendo proprio a lei. Dapprima restò senza parole per l’emozione. Buffo... aveva sempre sperato di trovare la sua gente, ma non si era mai preparata un discorso. Eppure quello era un evento storico. In quel momento non era solo un medico della Keter, ma anche la portavoce della sua colonia. «Caldos» disse con un filo di voce. «Sono Ladya Mol, Medico Capo di questa nave».

   «Uhm, non conosco quel pianeta. Fa parte dell’Unione?» chiese l’ambasciatore.

   «Beh, sì» rispose Ladya. «Ma vede, io... cioè, noi di Caldos... siamo Vidiiani. Siamo i discendenti di quei coloni che partirono due secoli fa, durante l’Assedio, col trasporto Pel».

   Dallorath la fissò sbalordito. Si morse il labbro, mentre ragionava sul da farsi. «È la verità? Non si tratta di uno stratagemma per compiacerci?» chiese, squadrando severamente l’Ammiraglio.

   «Nessun trucco, Dallorath» garantì Hortis. «Anch’io mi sono meravigliato di trovarla a bordo».

   «I Vidiiani vivono nell’Unione da molte generazioni» rincarò il Capitano Hod. «Possiamo fornirvi informazioni dettagliate sul loro arrivo e sullo sviluppo della colonia. Colgo anzi l’occasione per ringraziarvi. Trentacinque anni fa, in un momento molto buio per l’Unione, i Vidiiani di Caldos ci hanno aiutati a sconfiggere un terribile morbo. E la dottoressa Mol è uno stimato ufficiale di questa nave».

   Incapace di trattenersi, Ladya si accostò allo schermo. «La nostra gente ha sempre sperato che foste sopravvissuti all’Assedio!» disse con voce vibrante. «Non vedo l’ora di sbarcare. E quando tornerò a casa, informerò la mia gente di quanto ho visto. Consegnerò tutti i messaggi che vorrete affidarmi. Con l’aiuto dell’Unione, non è escluso che in futuro si possano tenere collegamenti stabili fra noi. La nostra colonia è piccola, per cui siamo minacciati dal ristagno genetico. Se poteste mandarci altri coloni, ne trarremmo un gran beneficio. E anche fra noi c’è chi tornerebbe volentieri su Vidiia, per condividere conoscenze ed esperienze» aggiunse, sempre più speranzosa.

   A queste parole, Norrin aggrottò la fronte. Si chiese se anche Ladya era tra quelli pronti a trasferirsi. L’idea gli dava un profondo malessere.

   «Tutto ciò è inaspettato quanto gradito» sorrise Dallorath. «Ben poche delle nostre navi coloniali ci hanno fatto pervenire notizie. Nessuna che si fosse spinta così lontano. Sono felicissimo di sapere che ce l’avete fatta. Lei di certo avrà molto da raccontare! Bene, bene... attendo con ansia d’incontrarla».

   «Spero che ci sarà tempo anche per discutere dell’Alleanza» intervenne Hortis. «Le vostre ultime dichiarazioni ci hanno un po’ allarmati. Vi eravate impegnati a offrirci un aiuto consistente, ma ora sembra che vogliate tirarvi indietro. Possiamo rivedere i termini dell’accordo: se non ve la sentite d’impegnare così tante navi, accetteremo un contributo minore. Ma il disimpegno totale è inaccettabile. L’attacco alla Rete Subspaziale è imminente. Se vi tirate indietro ora, il resto dell’Alleanza lo considererà un tradimento» avvertì. Aveva parlato con garbo, ma la minaccia latente nelle sue parole era innegabile.

   Dallorath scrutò l’Ammiraglio, rabbuiandosi. «Discuteremo anche di questo, non ne dubiti. Mi dia solo il tempo di avvertire le autorità». Prima di chiudere la comunicazione rivolse un’ultima occhiata a Ladya. Per un attimo i loro sguardi s’incrociarono. Ciascuno dei due lesse la curiosità, l’interesse, l’aspettativa negli occhi dell’altro. Poi il disco screziato di Vidiia Primo riapparve sullo schermo. Ladya sospirò per l’emozione di quel primo contatto con un suo simile. Non si avvide che alle sue spalle, in fondo alla plancia, Norrin la fissava imbronciato.

 

   La prima impressione che colpì Ladya, quando si teletrasportò a terra, fu il profumo. C’era qualcosa di dolce, di fragrante nell’aria. Si era nella bella stagione: il sole splendeva alto nel cielo senza nubi e una brezza tiepida movimentava le fronde verdi e rosse degli alberi. Questi sorgevano in filari ordinati lungo la grande via pedonale che collegava i palazzi governativi. Fontane monumentali, ricche di statue, abbellivano le piazzette, creando suggestivi giochi d’acqua. Gli edifici più antichi, in pietra, erano adorni di bassorilievi: talvolta figure intere, ma più spesso grandi volti solenni. Più avanti svettavano le nuove architetture, alte e scintillanti: molte ospitavano giardini pensili. Sulle facciate era impresso l’emblema del Sodalizio Vidiiano.

   La dottoressa si guardò attorno, rapita da tanta bellezza. Ricordava le vecchie olografie di Vidiia, ma lo spettacolo davanti ai suoi occhi era molto più incantevole. Evidentemente la sua gente non era rimasta inoperosa, negli ultimi due secoli. Finito l’incubo della Phagia, la società Vidiiana aveva conosciuto un’esplosione di creatività. I vecchi palazzi erano stati restaurati e molti nuovi edifici erano sorti per accogliere la popolazione, finalmente in crescita. Senza il terrore del contagio, la gente aveva ripreso a circolare liberamente e a riunirsi. Infatti c’erano moltissime persone che giravano per strada. Dato che quello era il quartiere governativo, si trattava perlopiù di funzionari pubblici con il loro staff, o di personale addetto alla manutenzione. C’erano anche gli agenti della Sicurezza, riconoscibili dalle uniformi grigie. Tutte quelle persone erano i primi Vidiiani “indigeni” che Ladya avesse mai incontrato. Si chiese se differivano da lei, per interessi e mentalità.

   «Tutto a posto?» le chiese il Capitano, notando la sua emozione.

   «Sì... non potrebbe andare meglio» assicurò Ladya, asciugandosi una lacrima di commozione. «Sono a casa, finalmente». Non sapeva come descrivere ciò che provava. Sebbene fosse sempre vissuta altrove, aveva la sensazione d’essere tornata nel luogo a cui apparteneva. Era come se il suo spirito fosse sempre stato lì, e solo adesso il corpo vi si ricongiungesse.

   «Arrivano» la richiamò Norrin.

   Un folto gruppo di diplomatici, scortati da guardie, era uscito da uno dei palazzi più vicini. Scesero la scalinata di marmo e vennero incontro ai federali. Ladya riconobbe Dallorath in testa al gruppo.

   «Salute e longevità! Benvenuti a Mireven, signori» li accolse l’ambasciatore, allargando le braccia a indicare la capitale. «Questo è il Ministro Rommath, della Difesa. Il Segretario Lezath, degli Affari Esteri. E il Generale Mazzut» disse, accennando ai suoi accompagnatori.

   «Molto onorata» li salutò Hod. Non si aspettava d’incontrare fin da subito così tanti pezzi grossi, ma era un buon segno: voleva dire che i Vidiiani prendevano seriamente la situazione.

   «L’onore è nostro» rispose il Ministro. «Mai avevamo accolto visitatori provenienti da così lontano, eppure così graditi».

   «I federali concordano con me sul fatto che l’attacco alla Rete Subspaziale sia indifferibile...» cominciò Hortis, ma s’interruppe nel vedere che i Vidiiani gli passavano accanto, senza degnarlo d’attenzione. Il loro interesse era tutto rivolto a Ladya.

   «Dottoressa Mol, benvenuta fra noi» l’accolse Rommath.

   «Salute e longevità, signor Ministro» disse Ladya, emozionata. Anziché stringersi la mano se la portarono al cuore, mantenendo le distanze. Il marchio della Phagia segnava ancora la società Vidiiana.

   «Siamo tutti interessati a sapere della vostra colonia» spiegò il Ministro. «Attraversare la Galassia è stata un’impresa eroica. Nessuno, qui, sospettava che un trasporto fosse giunto così lontano. Spero che vorrà renderci la sua testimonianza, così tutti sapranno cos’ha fatto la vostra comunità».

   «Diventerà famosa» precisò Dallorath, che affiancava il Ministro. «Già ora i notiziari parlano di lei. La sua testimonianza potrebbe invogliare altri a partire, rinsanguando la sua colonia, come auspicava».

   «Sarebbe magnifico!» gioì Ladya. In quella, però, sentì un colpetto sul fianco. Hod le aveva discretamente assestato una gomitata. Incrociando il suo sguardo, la dottoressa si accorse che il Capitano non era per nulla contenta.

   «La dottoressa Mol fa parte del mio equipaggio, vale a dire che è in forza alla Flotta Stellare» spiegò il Capitano, in tono cortese ma fermo. «Di conseguenza ha degli obblighi di riservatezza. Quindi comprenderete se, su certi argomenti, non potrà dire tutto» spiegò, lanciandole un’occhiata tagliente.

   «Molti Vidiiani fanno parte della Flotta?» chiese il Generale Mazzut. Dalla sua espressione era chiaro che la cosa non gli piaceva.

   «Io sono stata la prima» spiegò Ladya. «Negli ultimi anni qualcun altro è entrato in Accademia, ma parliamo di una manciata di persone. Comunque siamo tutti cittadini dell’Unione» chiarì.

   «Uhm, dei Vidiiani con la cittadinanza dell’Unione...» mormorò Lezath, il Segretario agli Affari Esteri. «Se organizzeremo comunicazioni stabili, o persino spostamenti, dovremo regolarizzare la vostra posizione. Si può pensare a una doppia cittadinanza; ma dovremo lavorarci» disse meditabondo.

   «Se vi avanzerà del tempo, potremmo anche parlare dell’attacco alla Rete» disse Hortis, controllandosi a stento. Il vecchio Ammiraglio era un tipo paziente, ma il fatto che la dottoressa avesse monopolizzato l’attenzione dei Vidiiani lo faceva imbestialire. Certo, ritrovare una colonia perduta era commovente; ma il disinteresse che mostravano per l’Alleanza era sempre più strano. Anche i federali lo avevano notato; tutti tranne Ladya, troppo coinvolta per esaminare lucidamente la situazione.

   «Non si preoccupi; troveremo qualche minuto per discuterne» disse il Ministro in tono cordiale. «Ma prima vorrei invitarvi tutti a pranzo. E poi, col vostro permesso, intervisteremo la dottoressa Mol. Ci sono molti giornalisti che vogliono farle domande; la sua testimonianza sarà diffusa in mondovisione. Prego signori, seguitemi». Lui e gli altri Vidiiani si avviarono su per la scalinata. Ai federali non restò che andargli dietro. Dallorath si affiancò a Ladya, iniziando una fitta conversazione. Poco più indietro, Hod si accostò a Hortis.

   «Ma che gli prende a tutti?» bisbigliò il Capitano.

   «Non ne ho idea» rispose l’Ammiraglio, scuro in volto. «Ma non mi piace».

 

   Per Ladya fu l’inizio di un periodo senza eguali. Ricevimenti e cene di gala con alte personalità dello Stato si alternavano a interviste trasmesse in tutto il pianeta e alle colonie vicine. Improvvisamente era diventata una star, una celebrità. All’inizio ne fu confusa, persino imbarazzata: per una persona schiva come lei era straniante trovarsi al centro dell’attenzione. Poco alla volta, però, cominciò ad apprezzare la situazione. Ripeteva a se stessa che non era una questione d’orgoglio: quel che faceva era indispensabile per collegare la sua colonia – e in fondo tutta l’Unione – al Sodalizio Vidiiano. Doveva solo stare attenta a non rivelare segreti militari, ma in fondo non era un rischio frequente: come medico aveva una conoscenza vaga del potenziale bellico della Flotta Stellare. Anche volendo, non avrebbe saputo dire dov’erano le basi, dove transitavano le sonde spia o come funzionavano le varie armi.

   Dunque Ladya raccontava soprattutto la storia della sua colonia, o parlava dell’Unione nei suoi aspetti generici: come vivevano i cittadini, quali erano le istituzioni fondamentali. Solo nel suo campo, la medicina, si azzardava a entrare nel dettaglio. Ben presto si accorse che anche questo interessava i suoi simili. Per quanto la Phagia fosse solo un terribile ricordo, la professione medica era ancora molto rispettata. I dottori Vidiiani erano ricercati dai popoli vicini per la loro impareggiabile preparazione. E poiché volevano conservare il primato, erano sempre a caccia di nuove terapie e medicine. Le conoscenze di Ladya, maturate presso la Flotta Stellare, facevano gola a molti. E lei le avrebbe diffuse volentieri, se ciò significava curare i malati e accrescere l’aspettativa di vita.

   Ma Ladya voleva anche apprendere il più possibile sul suo mondo. Così ogni volta che poteva visitava la capitale o le città vicine, beandosi delle loro attrattive. Visitò parchi e monumenti, musei e gallerie d’arte. Assistette a spettacoli ed eventi culturali. La sera, prima di addormentarsi, ripensava a quanto aveva visto durante la giornata, cercando di farsene un quadro ordinato. Scoprì così che la cultura Vidiiana era antica e raffinata. Per millenni il suo popolo si era dedicato alle arti, alla letteratura, alla musica. Aveva garantito la certezza del diritto quando le specie vicine erano ancora primitive.

   Poi la catastrofe. La Phagia. Un male oscuro che consumava l’organismo, cellula dopo cellula. Un flagello che nessuna medicina poteva sconfiggere. Le migliori terapie ne rallentavano solo la progressione. La società ne era stata devastata, stravolta fino a diventare irriconoscibile: le città svuotate, gli assembramenti vietati, ogni spostamento strettamente regolamentato. Le testimonianze storiche del periodo erano raggelanti. Più di una volta la dottoressa dovette distogliere lo sguardo, o persino uscire frettolosamente da un museo, per non essere sopraffatta dall’angoscia. Il marchio della Phagia era ancora scritto nelle città piene di ospedali, di mausolei, di memoriali.

   Eppure, in mezzo a tanti lutti, la civiltà aveva resistito. Aveva escogitato nuove terapie, si era avventurata nello spazio. E infine aveva trovato la cura. Troppo tardi, per molti. Appena in tempo per salvare la specie. Dopo i tempi bui della malattia, la società era rifiorita. Le città si erano nuovamente riempite di bellezza, di suoni, di vita, anche se il passato non sarebbe mai stato dimenticato. Pensando a tutto questo, Ladya si sentì ancora più rafforzata nel suo proposito di dedicare la vita alla medicina. In certi momenti, però, si chiedeva se avrebbe avuto il coraggio di lavorare ai tempi della Phagia, con il rischio costante di contagiarsi. A questa domanda non poté rispondere. Poteva solo rivolgere un pensiero grato a tutti quei medici e infermieri che avevano lavorato in condizioni disperate, spesso a costo della propria vita. Fu mentre passava davanti a una statua della dottoressa Pel che la Vidiiana lesse il motto che meglio riassumeva tutto questo. Era scritto a caratteri cubitali sul basamento: «Se salvi una vita, sei un eroe. Se ne salvi una moltitudine, sei un medico».

 

   Una settimana dopo il suo arrivo, Ladya passeggiava con Dallorath in un vecchio quartiere della capitale, ricco di palazzi storici. Qualche metro dietro di loro venivano due guardie del corpo, incaricate della loro sicurezza. Non era la prima volta che l’ambasciatore accompagnava la dottoressa nelle sue gite, facendole da cicerone. Quando il lavoro lo tratteneva, Dallorath designava persone di fiducia per scortarla; ma ogni volta che poteva, veniva lui stesso. E i suoi modi erano garbati anche oltre il necessario. La cosa non era sfuggita a Ladya, che in parte ne era lusingata, ma temeva anche dove questo l’avrebbe condotta.

   «Quello laggiù è il palazzo della Terza Dinastia Vaphorana» spiegò Dallorath, indicando una favolosa reggia che svettava in fondo alla strada. Le sue torri erano a pagoda, con molti piani sovrapposti. Ogni piano aveva un tetto spiovente di mattonelle smaltate, il cui colore variava da una pagoda all’altra. «Fu costruito mille anni fa dall’Imperatore Motura, quando si trasferì qui con la sua corte. Avevano abbandonato la vecchia capitale, in preda alla Phagia, cercando una sede più sicura. Pensa che i costi di manodopera e materiali furono tali che il popolo, esasperato, si rivoltò al termine dei lavori! L’Imperatore fu detronizzato e al suo posto nacque il governo democratico che, pur con molte riforme, dura tuttora. Perciò quel palazzo ha davvero fatto la Storia, anche se in modo diverso da come pensava l’Imperatore. Visto che t’interessi a queste cose, non puoi perdertelo. Ti accompagno, così i custodi ci mostreranno anche le zone normalmente chiuse al pubblico».

   «Lei è sempre molto cortese, ambasciatore, ma...».

   «Ti prego, chiamami Dallorath. Sono fuori servizio» sorrise lui.

   «Come vuoi, Dallorath. Dicevo che forse non dovresti perdere tutto questo tempo con me» spiegò Ladya.

   «Perdere? Il tempo che passo con te non è mai perso» rispose il Vidiiano. «Oserei dire che è il migliore che ho».

   «Ti prego...» fece Ladya, distogliendo lo sguardo. Non era mai stata brava ad accettare i complimenti. E forse gli ultimi anni, segnati dalle emergenze, le avevano reso difficile fidarsi degli estranei. Ma in fondo Dallorath e gli altri erano la sua gente. E i modi garbati dell’ambasciatore risvegliavano il suo vecchio desiderio di trovare qualcuno della sua specie con cui...

   «No. Sono qui solo da pochi giorni e presto dovrò ripartire» ragionò la dottoressa. «È meglio evitare di affezionarmi troppo».

   «Qualcosa non va, mia cara?» chiese Dallorath, che aveva notato la sua espressione incupita e il passo più lento.

   «È tutto a posto» mentì Ladya. «Pensavo solo che in questi giorni ho imparato tantissimo sulla nostra Storia, ma c’è una cosa che mi domando ancora» disse, per cambiare argomento.

   «Dimmi; se posso ti risponderò» garantì l’ambasciatore.

   «Come siete scampati all’Assedio?» chiese la dottoressa. «Quando i miei avi se ne andarono, il pianeta era sull’orlo dell’annientamento. Haakoniani e Kazon vi circondavano, lo Scudo Planetario stava per cedere. Come ne siete usciti?».

   A questa domanda, Dallorath si mise a ridere. «E io che mi aspettavo chissà quale mistero! Questo non è un segreto di Stato, è una cosa che sanno tutti. Ci sono molti monumenti... ma sono nei quartieri nuovi, quindi non li hai ancora visti» ragionò. «Okay, te lo dirò in breve. Se poi vorrai approfondire, non hai che da consultare l’enciclopedia storica». L’ambasciatore tacque qualche secondo, per organizzare i pensieri.

   «Come hai detto giustamente, la situazione era drammatica» disse il Vidiiano. «Quando lanciammo nello spazio i trasporti coloniali, temevamo che non restasse altro della nostra civiltà. Fortunatamente le cose stavano per cambiare. I Talaxiani si ribellarono, costringendo gli Haakoniani a ritirare quasi tutte le forze, per placare la rivolta. Restavano i Kazon, ma ben presto quei barbari si misero a litigare fra loro. Sai, la loro società è divisa in fazioni – le chiamano sette – in perenne conflitto. A volte riescono a coalizzarsi per fare un colpo grosso, ma se le cose si trascinano per le lunghe – come nel caso dell’Assedio – le divisioni interne riaffiorano. I Kazon Nistrim, che in quel momento avevano il predominio, erano governati da Culluh, un leader ambizioso e spietato. Ma quando fu assassinato da una setta rivale – credo i Kazon Ogla – l’alleanza si disfece in un baleno. Le loro astronavi si scambiarono colpi e molte se ne andarono.

   A quel punto alcune nostre navi da guerra, tagliate fuori da Vidiia, si raggrupparono e presero alle spalle i nemici rimanenti, schiacciandoli contro lo Scudo Planetario. Approfittando dell’occasione, lanciammo tutte le astronavi che ci restavano, fino all’ultimo caccia da guerra, per dargli manforte. Fu una grande battaglia, che durò tutta la notte. Quando l’alba sorse di nuovo sulla capitale, Haakoniani e Kazon erano in rotta. La loro sconfitta fu così grave che da allora non hanno più osato attaccarci. Con gli Haakoniani i rapporti sono molto migliorati, tanto che un secolo fa abbiamo firmato un trattato di pace, e da allora non ci hanno più dato fastidi».

   «E i Kazon?» domandò Ladya.

   «Mah, loro sono sempre i soliti» disse Dallorath, grattandosi un orecchio. «Però hanno perso gran parte del potere. Vedi, tutte le loro astronavi erano state rubate a un’altra specie, i Trabe. E siccome i Kazon non sanno costruirne di nuove, poco alla volta hanno logorato o distrutto quelle che avevano. Si sono devoluti, per così dire. Ormai è raro incontrarli. Molti di loro vivono su pianeti marginali, senza astronavi a disposizione e con pochissime tecnologie. Direi che mi fanno pena, se non fosse che se la sono cercata».

   La dottoressa non ribatté a quest’affermazione. Non augurava la sofferenza a nessuno, ma doveva ammettere che i Kazon si erano rovinati da soli. «E i Vaadwaur, invece?» chiese. «Loro sono una minaccia crescente, a quanto ho capito».

   L’ambasciatore si rabbuiò. «Uhm, sì» ammise. «Hanno praticamente sostituito i Kazon nel ruolo di razziatori. Sono più scaltri, infatti continuano a costruire nuove navi e a perfezionare le loro tecnologie. Però, se temi per noi, vorrei tranquillizzarti» disse rasserenandosi. «L’esperienza dell’Assedio ci ha insegnato molto. Da allora abbiamo potenziato la flotta e lo Scudo Planetario. I Vaadwaur dovrebbero attaccare con tutte le loro forze per impensierirci. Ma questo sarebbe contrario al loro modus operandi, che è di saccheggiare qua e là. Non hanno motivo per accanirsi in particolare su di noi».

   Ladya valutò queste parole. Potevano anche bastarle, come risposta, ma Hortis le aveva chiesto d’indagare, per cui doveva andare più a fondo. «Spero proprio che tu abbia ragione» disse. «Però non capisco perché il governo stia facendo marcia indietro sull’Alleanza anti-Vaadwaur. Vi permetterebbe di risolvere il problema una volta per tutte, non credi?».

   «Suppongo di sì» ammise Dallorath. «Ma la politica è una faccenda complessa. Vedi, l’attacco ai Vaadwaur sarebbe un vero e proprio atto di guerra. Ora che finalmente godiamo un periodo di prosperità, molti aborrono quest’idea. I cittadini temono che far guerra ai Vaadwaur significhi riprendere le ostilità anche coi nostri vicini. Io personalmente non lo credo, ma capisco che l’opinione pubblica sia spaventata».

   «Quindi vi ritirerete del tutto dall’Alleanza?» indagò Ladya.

   «Può darsi» rispose l’ambasciatore. «Sono giorni d’intense consultazioni e io personalmente non vengo informato di tutto, perciò non me la sento di fare previsioni. Se i tuoi colleghi sono impensieriti, dì loro che il governo non ha ancora deciso».

   «Era solo una curiosità personale» mormorò Ladya, arrossendo lievemente. Fare la spia non le si addiceva. Non voleva indurre Dallorath a pensare che fosse lì solo per raccogliere informazioni, anche se in effetti le era stato chiesto proprio questo.

   «Basta parlare di politica» disse il Vidiiano, prendendola a braccetto. «Guarda, siamo quasi arrivati al palazzo della Terza Dinastia. Faremo una visita completa, che ne dici?».

   «Volentieri» sorrise la dottoressa, senza lasciare il suo braccio.

 

   All’imbrunire Ladya e Dallorath tornarono al quartiere governativo. Qui furono informati che, per il momento, i federali erano rientrati sulla loro nave.

   «Credo di doverli raggiungere» disse la dottoressa, con una certa riluttanza. «A domani... e grazie per la splendida giornata».

   «Grazie a te» sorrise l’ambasciatore. «Il tuo entusiasmo mi fa riscoprire tutto quel che vediamo».

   La dottoressa si sfiorò il comunicatore. «Mol a Keter, una da portare su» disse. Mentre si smaterializzava guardò Dallorath negli occhi, sorridendogli. Il volto del Vidiiano svanì nel bagliore azzurro del raggio e fu sostituito da quello, meno amichevole, di Norrin. Il sorriso di Ladya si spense all’istante.

   «Bentornata» disse seccamente l’Hirogeno. «Stavamo per chiamarti, visto che da dodici ore non dai tue notizie».

   «Così tanto?! Non me n’ero accorta» si scusò Ladya. «Il tempo vola, quando sono laggiù».

   «Qui invece va a rilento» mugugnò Norrin. «Vieni, il Capitano vuol sentire il tuo rapporto». La precedette in sala tattica. Qui Ladya trovò Hod e altri ufficiali che conferivano con Hortis.

   «Ah, eccola» disse il Capitano, alzando gli occhi da un oloschermo. «I Vidiiani continuano a nicchiare. Il loro comportamento è incomprensibile».

   «Ci fanno perdere tempo prezioso!» disse Hortis, incollerito. «Ora che i Vaadwaur sanno delle sonde-spia, sposteranno l’ingresso dei tunnel e si prepareranno a respingere l’attacco. L’intera operazione è a repentaglio! Quindi devo sapere al più presto se la sua gente sarà con noi».

   Impressionata dalla veemenza dell’Ammiraglio, Ladya riassunse le sue scoperte della giornata. Raccontò dello scetticismo dei Vidiiani nei confronti dell’Alleanza, aggiungendo le sue impressioni personali. «Se parteciperanno, penso che sarà con un contingente ridotto» disse. «Ma dobbiamo prepararci all’eventualità del loro disimpegno totale».

   «Malissimo» disse Hortis. «Se solo ci dessero una risposta chiara! Invece continuano a prendere tempo. Sembrano molto più interessati a lei» disse, scoccandole un’occhiataccia.

   «E io che posso farci?» si difese Ladya. «Ho parlato in vostro favore, ma alla fine la decisione è loro».

   «Non posso perdere altro tempo; sono atteso dai Devore» insisté Hortis, camminando avanti e indietro. «Se perdessimo anche loro, sarebbe una catastrofe; l’Alleanza si disferebbe». L’Ammiraglio si arrestò e fissò i federali; aveva preso una decisione drastica. «A questo punto vi chiedo di riportarmi indietro, così potrò parlare ai Devore e tenermi stretti almeno loro. Quando saremo pronti per l’attacco, torneremo qui e sentiremo se i Vidiiani hanno preso una decisione» disse.

   «Se decidessero per il no?» chiese la dottoressa.

   «Attaccheremo ugualmente» rispose Hortis. «Certo, preferirei se ci dessero una mano, anche nel loro interesse».

   «Partiremo subito» promise Hod. «Ci dia solo il tempo di avvertire i Vidiiani».

   «Io vorrei restare» mormorò Ladya.

   Il chiacchiericcio degli ufficiali si spense all’istante. Tutti fissarono la dottoressa come se fosse impazzita. Norrin, in particolare, era fulminato.

   «Scusi, può ripetere?» chiese il Capitano.

   «Ho detto che vorrei restare su Vidiia, fino al vostro ritorno» ribadì Ladya, anche se l’atteggiamento dei colleghi la metteva a disagio.

   «E perché, di grazia?».

   «Per raccogliere altre informazioni e perorare la vostra causa» disse la Vidiiana, fingendo persino con se stessa che fossero quelli i motivi.

   «Non sia ridicola!» disse Radek in tono burbero. «Non siamo su un taxi, che la sbarca dove vuole e poi torna a prenderla».

   Il Capitano levò una mano, invitando il Comandante a calmarsi, e si rivolse nuovamente alla dottoressa. «Anche se ci affrettiamo, passerà del tempo prima che veniamo a riprenderla. Giorni, forse settimane. È certa di cavarsela?» si preoccupò.

   Ladya fece una risata smozzicata. «Certo! Ma che vi prende a tutti? Parlate come se andassi in missione su un pianeta ostile. Questa è la mia casa... il mio popolo. Sono più al sicuro con loro che con chiunque altro».

   «La tua casa è Caldos» obiettò Norrin. «Su Vidiia sai ben poco. Certo, hai fatto il giro turistico... ma hai visto solo ciò che i Vidiiani ti hanno mostrato. Se avessero qualche scheletro nell’armadio? In fondo conosciamo i loro trascorsi».

   «I trascorsi? Ah, è questo il punto!» s’indignò la dottoressa. «Non vi fidate di noi perché secoli fa, durante il periodo più tragico della nostra Storia, abbiamo fatto alcune cose riprovevoli».

   «Rubavate gli organi a tutti quelli che incontravate. Sì, lo definirei riprovevole» commentò Radek.

   «Sta dicendo che le colpe degli avi ricadono sui discendenti?! Perché se è così, siamo tutti colpevoli! Quale civiltà non ha mai fatto del male a nessuno?» esclamò Ladya.

   «Si calmi!» ordinò Hod. «Dico a tutti, silenzio! Questo non è un tribunale storico» disse, passando lo sguardo da un ufficiale all’altro. Dopo di che tornò a concentrarsi su Ladya. «Qui si parla della sua sicurezza. Anche se i Vidiiani sono la sua specie, hanno adottato una posizione ambigua che ci spinge alla prudenza. Preferirei non lasciarla sola su questo pianeta».

   «Ma io non sono sola; sono con la mia gente» insisté la Vidiiana. «E più sto con loro, più posso esortarli a mantenere l’impegno preso con l’Alleanza».

   Il Capitano rimuginò, tamburellando il piede. La situazione non le piaceva, ma con la posta in gioco bisognava correre dei rischi. «E va bene... può restare su Vidiia fino al nostro ritorno» cedette. Aveva un brutto presentimento, ma come ufficiale in comando doveva farsi guidare dai fatti e non dalle sensazioni.

   «Grazie, Capitano!» gioì Ladya. «Vado in infermeria, a dare istruzioni al personale, e poi mi teletrasporto subito».

   «Ti accompagno» disse Norrin.

   «Grazie, ma non occorre» fece la Vidiiana, cercando di svicolare.

   «Insisto» disse l’Hirogeno, seguendola. La dottoressa capì che non poteva evitare di affrontarlo, prima di sbarcare.

 

   Per non discutere davanti ai colleghi, Ladya andò dapprima nel suo alloggio, dove prese un borsone e cominciò a stiparvi alcuni effetti personali. «Avanti, dillo!» si rivolse a Norrin, che l’aveva seguita fin lì in silenzio.

   «Dirti cosa? Che è una mossa avventata? L’hanno già fatto gli altri» notò l’Hirogeno. «Io mi chiedo solo se al nostro ritorno verrai con noi, o accamperai qualche scusa per restare».

   «Restare?» chiese Ladya, interrompendosi. «Non dire sciocchezze. Ho il mio lavoro, qui. Ho un’infermeria da mandare avanti».

   «Su Vidiia avresti un’intera rete ospedaliera. Sono certo che i Vidiiani apprezzerebbero le tue conoscenze mediche» disse Norrin. «Suvvia, non dirmi che non ci hai pensato. Sei così benvoluta da loro... specialmente da un certo ambasciatore» aggiunse, sbuffando dalle narici.

   «Stai diventando invadente» lo rimproverò Ladya. «Preferirei che non parlassi come se tra noi ci fossero... impegni». Nel dir questo la dottoressa distolse lo sguardo e si strinse le braccia, a disagio.

   «Ho ben presente che non ce ne sono» disse Norrin con rammarico. «Ti ho rivelato i miei sentimenti da un pezzo... due anni, mi pare. All’epoca mettesti in chiaro che non ricambiavi. E non mi pare che da allora tu sia mutata d’intento. Mi chiedo solo se il fatto che io sia Hirogeno c’entri qualcosa».

   Ladya si guardò intorno; ogni direzione andava bene, pur di non incrociare il suo sguardo. «Norrin, tu mi sei... molto caro» disse con un certo sforzo. «Più di chiunque altro su questa nave. Ma non credo che tra noi potrebbe funzionare. Io... ho sempre pensato che prima o poi avrei avuto dei figli. Ma le nostre specie sono troppo diverse» disse con amarezza. «Mi sono presa la libertà di fare qualche ricerca e ho scoperto che il divario genetico è incolmabile» rivelò, arrossendo fino alla radice dei capelli.

   Cadde un lungo silenzio, durante il quale l’Hirogeno rimuginò sulle sue parole. «Pensavo che non ti piacesse il mio aspetto, o il mio carattere» disse infine. «Non immaginavo fosse questo il problema... ma in effetti ha senso. Hai sempre cercato la tua gente. Su Caldos il ristagno genetico ti rendeva difficile trovare un partner, ma ora che hai trovato Vidiia, il problema è risolto. Congratulazioni» disse sarcastico.

   «Invece di biasimarmi, dovresti fare lo stesso» consigliò Ladya. «Hai mai pensato di trovarti un’Hirogena?».

   «Per metter su famiglia? Mah, non più di tanto» borbottò Norrin. «Sono sempre vissuto in mezzo agli alieni, quindi anche nelle relazioni ho dovuto adattarmi. Diciamo che avere marmocchi non è mai stato al centro dei miei pensieri. E poi le donne Hirogene non sono come le altre. Per far colpo dovrei offrire loro i miei trofei di caccia, vale a dire pezzi del corpo di esseri viventi. Come puoi immaginare, non ne ho molti» sogghignò. «Quindi: niente trofei, niente moglie. E niente pargoli».

   «Devi sentirti solo» si commosse Ladya. «Ma io non credo di poter riempire questo vuoto. Non sono la persona adatta, mi dispiace. Stammi bene, Norrin». Così dicendo si mise la borsa a tracolla e lasciò frettolosamente l’alloggio.

 

   Giunta in infermeria, la dottoressa istruì i colleghi sulle analisi e gli esperimenti che dovevano condurre in sua assenza. Dopo di che affidò il reparto a Joe, sperando che nessuno lo svalutasse per il fatto che era un ologramma. «Ricordate che il dottor Joe è il medico più esperto della Flotta Stellare. Perciò mi raccomando, seguite a puntino i suoi ordini» ribadì. Infine salutò anche l’MOE. «A presto, dottore. Se vuole scatterò qualche olografia per lei» si offrì, conoscendo il suo hobby.

   «Non occorre» rispose Joe. «Le chiedo solo di tenere gli occhi aperti. Quand’ero in questa zona con la Voyager ero stato appena attivato e quindi c’erano tante cose di cui non ero consapevole. Ora che ci torno a distanza di tempo, mi accorgo che non tutto è come appare».

   «Che intende?».

   «Non posso essere più specifico». Il dottore scosse la testa lucida. «La consideri una diagnosi a distanza: i Vidiiani non ci hanno detto tutto. Quindi... occhi aperti!» raccomandò.

   Turbata da quell’ammonimento, Ladya entrò nella cabina di teletrasporto e da lì si trasferì sul pianeta, augurandosi che i sospetti dei colleghi fossero infondati.

 

   Come immaginava, i Vidiiani – e soprattutto Dallorath – furono felicissimi di sapere che si sarebbe trattenuta. Le diedero un appartamento extra lusso e un permesso di circolazione gratuita su tutto il pianeta. Le assegnarono persino una segretaria personale, che l’aiutasse a tener conto degli impegni. Ora che le interviste diminuivano, Ladya cominciò a tenere lezioni in cui parlava della medicina federale. La ritrosia dei Vidiiani ad assembrarsi faceva sì che, invece di andare in sale conferenze, parlasse da casa. La dottoressa non se ne crucciò, sapendo che le sue lezioni erano trasmesse alle facoltà di medicina e agli ospedali di tutto il pianeta. Lei stessa cominciò a studiare la medicina locale, scoprendo così tante novità stimolanti che non le sarebbero bastate dieci vite per soddisfare la sua curiosità. In quei momenti, però, Ladya diventava consapevole della crescente ambiguità delle sue azioni. Perché studiare la medicina del posto, se di lì a poco sarebbe tornata a casa? Forse che inconsciamente desiderava restare?

   In quei giorni, pur tra i mille impegni, Ladya continuò a vedere Dallorath. Ormai l’ambasciatore la corteggiava apertamente, anche se lei cambiava ogni volta argomento. Ma non poteva glissare per sempre: prima o poi avrebbe dovuto rispondergli chiaramente.

 

   Venne una sera in cui i due passeggiavano nel parco cittadino, un luogo incantevole pieno di piante rare che emanavano deliziosi profumi. I viottoli erano di ghiaia bianca, bordati da aiuole fiorite. C’era anche un fiumicello che alimentava un laghetto, su cui galleggiavano piante simili alle ninfee, ma dai colori infuocati. Qua e là vi erano delle statue, alcune piccole e su piedistallo, altre a grandezza naturale. Com’era tipico dell’arte Vidiiana, raffiguravano uomini e donne dai corpi perfetti, pieni di salute e vitalità, spesso immortalati durante gesti atletici.

   «Mmmhhh... che luogo incantevole» disse Ladya, inspirando l’aria fragrante. «Ma si sta facendo tardi, penso che dovremmo rientrare. Domani ho un’altra giornata fitta d’impegni e la tua non sarà certo meglio».

   «Restiamo ancora un po’» propose Dallorath. «Stasera c’è doppio plenilunio, uno spettacolo da non perdere».

   La dottoressa lottò brevemente con la ritrosia, ma alla fine cedette. «D’accordo, guarderemo le lune».

   «So qual è il posto migliore. Seguimi» la invitò Dallorath, prendendola per mano. La guidò fino al laghetto, che avevano oltrepassato poco prima, e da lì su un ponticello di legno che oltrepassava l’affluente. Il cielo si era già scurito, punteggiandosi di stelle. Le due lune piene, una argentea e l’altra gialla, s’innalzavano sopra la linea degli alberi. Ladya doveva ammettere che era il luogo più romantico in cui fosse mai stata. «È bellissimo» mormorò.

   «Possiamo tornarci tutte le volte che vuoi» garantì Dallorath.

   «Ah, non so...» s’incupì Ladya. «La Keter è partita da dieci giorni. Potrebbe tornare in qualunque momento. A quel punto dovrò andare».

   «E se non andassi?» chiese l’ambasciatore, guardandola negli occhi. «Se rimanessi qui?».

   «Ma che dici? Ho degli impegni su quella nave. Il mio lavoro, gli amici... tutta la mia vita» disse la dottoressa. Comprese che era arrivato il momento di mettere i paletti.

   «Hai degli impegni anche qui, con il tuo popolo» obiettò Dallorath. «Quelle lezioni che hai tenuto sono state un successo. Ci sono centinaia di ospedali e università che ne chiedono altre. Si contendono il privilegio d’intervistarti. Ti rendi conto che, se restassi, saresti uno dei medici più in vista del pianeta?».

   «Io... sarei onorata d’essere utile, ma...».

   «Non parlo di onori; so che sei troppo modesta» sorrise Dallorath. «Parlo proprio di vite salvate. Non solo la nostra gente, ma anche i popoli del circondario beneficerebbero delle tue terapie. Non è più importante che occuparsi di un’unica nave, piena di medici con la tua stessa formazione?».

   «Ehm, forse sì» ammise Ladya, «ma il fatto è che non posso andarmene così di punto in bianco. Significherebbe lasciare la Flotta e forse non rivedere più amici e parenti. Non posso compiere questo passo».

   «Perché no? I tuoi avi ne fecero uno più azzardato, lasciando Vidiia. E chissà che col tempo non si riescano a stabilire collegamenti stabili con l’Unione» suggerì l’ambasciatore.

   «Ma io non posso mollare tutto sulla base di una vaga speranza!» si agitò la dottoressa. Gli voltò le spalle e cercò di scendere dal ponticello. Voleva lasciare quel luogo pericolosamente romantico e rinchiudersi nel suo alloggio, prima di fare un passo falso.

   «Aspetta!». Dallorath la prese per un braccio e la costrinse a fermarsi.

   «Lasciami» ordinò Ladya, squadrandolo freddamente.

   «Scusa, ho esagerato» ammise il Vidiiano, liberandola. «Devo farti una confessione. Il mio interesse per il nostro sistema sanitario non è del tutto genuino. Non è il motivo per cui vorrei che restassi».

   «E qual è, allora?» chiese la dottoressa, sebbene fosse evidente.

   «Ti amo» rispose Dallorath con semplicità. «Sei affascinante, intelligente e cerchi sempre di fare del bene. Una come te non è facile da trovare e se ti perdessi credo che lo rimpiangerei per sempre».

   «Oh, ti prego!» fece Ladya. Si appoggiò alla balaustra e spinse lo sguardo verso gli alberi, ormai avvolti dalle ombre. Una dichiarazione così semplice e diretta non l’aveva mai avuta, nemmeno da Norrin. «Quanto mi conosci, in realtà? E io, poi, non so quasi nulla di te!».

   «Allora lascia che ti racconti» suggerì Dallorath. Parlò dettagliatamente della sua vita: la famiglia, il lavoro, gli interessi. Ladya scoprì così che il suo spasimante era divorziato, senza figli e da tempo in cerca di una nuova compagna. Era stato in missione diplomatica su molti pianeti e qualche volta aveva corso dei rischi, ma non aveva mai chiesto il trasferimento. Era appassionato d’arte, da cui la cultura che aveva dimostrato accompagnandola per la città.

   «Interessante» pensò la Vidiiana, sempre più attratta. In altre circostanze avrebbe ricambiato, ma ogni volta che stava per dire qualcosa ripensava a Norrin. Non riusciva a togliersi di mente la sua espressione delusa, l’ultima volta che si erano visti. Gli aveva detto di no e ora stava respingendo anche Dallorath. Avrebbe fatto meglio a decidersi, e in fretta, perché la Keter poteva tornare in ogni momento.

   «Con questo, credo di averti detto le cose importanti» concluse il Vidiiano. «Ma basta parlare di me! Anch’io vorrei conoscerti meglio. Che fai nella vita, a parte lavorare? Hai qualcuno che ti aspetta a casa?».

   «Io... ho i miei interessi, certo, ma quando smonto dal turno non faccio chissà che» mormorò Ladya. «Leggo, ceno coi colleghi... ogni tanto vado sul ponte ologrammi. Avete le sale olografiche, qui? Credo di no, non ne ho ancora sentito parlare».

   «Sarò felicissimo di scoprire cosa sono, ma noto che hai glissato sull’ultima domanda, e questo mi preoccupa» disse Dallorath, sulle spine.

   La dottoressa fece un sorriso agrodolce. «Non sono impegnata. Beh, non formalmente» rivelò.

   «E informalmente?».

   Ladya avrebbe voluto sottrarsi a quelle domande incalzanti, ma pensò che l’altro avesse diritto a una risposta. «Sono libera, okay?!» esclamò, non volendo menzionare Norrin. «È solo che tutto questo... non so, sta accadendo così in fretta... non ho ancora fatto ordine nei miei pensieri».

   «Non affrontare la cosa come se fosse una malattia che devi diagnosticare!» la esortò Dallorath. «Non c’è una procedura standard. Devi semplicemente fare quello che ti senti. Io, per mio conto, lo farò». Così dicendo le prese il volto tra le mani e la baciò.

   Dapprima la dottoressa ne fu così scioccata che restò di sasso. Poi si tirò indietro e gli rifilò un sonoro ceffone. Infine fu lei ad avvinghiarsi e a baciarlo.

   «Okay, adesso sono io ad essere confuso» ammise l’ambasciatore, quando si separarono. Sentiva ancora il sapore delle sue labbra, come anche il dolore sulla guancia.

   «Scusa... questo non è da me» ansimò Ladya, riprendendosi. «Mi piaci, ma ho bisogno di tempo per pensarci, d’accordo?».

   «D’accordo» convenne Dallorath, vedendola così in tumulto.

   Passò qualche minuto. I due non parlavano più, ma non erano neanche scesi dal ponticello. Ammiravano il cielo stellato e il parco rischiarato dal doppio plenilunio. La dottoressa notò che malgrado l’ora tarda non erano soli. Un’altra coppia camminava a braccetto lungo le rive del lago, venendo verso di loro. A un tratto il vento, fattosi più freddo, dette una folata che la fece rabbrividire. «Dovremmo andare» mormorò.

   «Sì, sta rinfrescando» convenne l’ambasciatore. «Vuoi il mio soprabito?».

   «Non serve...» cominciò Ladya, ma lui glielo stava già mettendo intorno alle spalle. La dottoressa finse ancora ritrosia, ma poi infilò le maniche e lasciò che lui le chiudesse il soprabito sul davanti.

   «Di solito qui il clima è caldo» spiegò Dallorath mentre scendevano dal ponte. «Adesso poi andiamo verso l’estate, per cui lo sarà di più. Potresti assistere alla migrazione dei Lucivaganti, gli insetti luminosi. Sono lo spettacolo più bello che...». Il Vidiiano s’interruppe, perché erano giunti all’estremità del ponticello, ma non potevano proseguire. L’altra coppia di visitatori ostruiva loro il passo. Erano un uomo e una donna Talaxiani, che li fissavano in silenzio, come aspettandosi qualcosa.

   «Potete farci passare, per cortesia?» chiese Dallorath.

   «Temo di no, ambasciatore» rispose il Talaxiano. Si portò una mano in cintura, sotto il soprabito, estraendo un’arma a raggi. Nello stesso momento la Talaxiana levò di tasca un altro apparecchio, forse un sensore.

   «Okay, state calmi» disse Dallorath, alzando le mani. «Siete stranieri, quindi forse non sapete che qui da noi si usa solo moneta elettronica, non denaro contante. Ho un comunicatore ultimo modello, se v’interessa. Prendetelo e sparite» consigliò. Mentre parlava si mise davanti a Ladya, nel tentativo di proteggerla.

   «Non siamo ladri, ambasciatore... e non siamo qui per lei» rispose a sorpresa il Talaxiano. Mosse la sua arma, facendogli segno di scostarsi, per scoprire Ladya.

   «Lei?! Ma...» si stupì Dallorath. «Sentite, chiunque voi siate avete fatto un errore. Lei non è nessuno d’importante» disse, sperando di salvarla.

   «Importa a noi» ringhiò il Talaxiano, accompagnandosi con uno strano sibilo. Nel frattempo la sua compagna esaminava Ladya con il sensore. «Sì, è la dottoressa Mol» confermò, anche lei con voce sibilante.

   Ladya ebbe un tuffo al cuore nel sentirsi chiamare per nome. No, quelli non erano semplici rapinatori. Erano agenti ben informati su di lei, inviati a rapirla.

   «Avrei una gran voglia di ucciderti, Vaphorano... ma ti risparmierò. Così vedrai cos’abbiamo in serbo per tutti voi» sibilò il Talaxiano, fissando con odio l’ambasciatore.

   «Vaphorano?!». Udendo quel termine, Ladya si sentì mancare. C’era una sola specie che chiamava i Vidiiani con il loro antico nome, ed erano i Vaadwaur. Ecco spiegati gli strani sibili dei due Talaxiani: il loro aspetto era un travestimento olografico. E come in precedenza, i Vaadwaur ce l’avevano con lei. «Ma che vi ho fatto?» chiese la dottoressa con voce tremante.

   «Non è ciò che hai fatto, ma ciò che farai per noi» rispose il Vaadwaur travestito. «Spero proprio che tu sia brava come dicono i notiziari».

   «No, aspettate, ci possiamo accordare...» cominciò Dallorath, avvicinandosi, ma l’altro gli sparò a bruciapelo. Il Vidiiano si portò una mano al petto, dov’era stato colpito, e cadde faccia a terra.

   Ladya arretrò, sconvolta. Le parole del Vaadwaur le facevano sperare che Dallorath fosse solo stordito, ma aprivano scenari agghiaccianti su ciò che attendeva lei. «Qualunque cosa vi aspettiate da me, non l’avrete» disse, cercando di non tremare.

   «Allora morirai» sibilò il Vaadwaur, prendendola di mira. «Come tutti i Vaphorani». Premette il grilletto. La dottoressa sentì una scossa che le arrivava fino al midollo e scivolò nelle tenebre.

 

   Man mano che i sensi le tornavano, Ladya cercò di ricordare gli ultimi avvenimenti, che le frullavano confusamente in testa, mescolandosi agli incubi del sonno. Poco alla volta rammentò l’accaduto. Prima ancora di riaprire gli occhi si mosse, accorgendosi di non essere legata. Ma i Vaadwaur l’avevano rapita, quindi doveva trovarsi in cella. La dottoressa cercò di prepararsi psicologicamente, anche se non capiva cosa volessero da lei e questo la spaventava. Infine aprì gli occhi.

   Si trovava effettivamente in una cella, angusta e dalle pareti color bronzo. Anziché essere chiusa da un campo di forza o da una lastra di metallo trasparente, come quelle federali, la cella presentava pareti e porta del tutto opachi, così che la prigioniera non aveva idea di come fosse l’esterno. Non sapeva nemmeno se si trovava a bordo di un’astronave o su un pianeta. Gli unici arredi erano lo scomodo letto a cuccetta su cui era adagiata, un lavandino e i servizi igienici. La luce giallastra veniva da un pannello luminoso sul soffitto.

   La Vidiiana si tirò a sedere e si guardò attorno spaurita. Essere chiusa in quella minuscola cella, senza una finestra, le dava un senso di oppressione. Aveva la sensazione che l’aria non le entrasse più nei polmoni. Riconoscendo i sintomi della claustrofobia, la dottoressa s’impose dei respiri lenti e profondi. Poco alla volta riacquistò il controllo, finché il nodo alla gola si allentò.

   «C’è nessuno?» chiese con voce tremante. Per parecchi minuti stette in silenzio, quasi temendo di udire la risposta. Ma il tempo passava senza che ci fossero repliche. Così Ladya ripeté la domanda, a voce più alta. Ancora nulla. «Perché sono qui? Che volete da me?!» chiese, quasi strillando. Visto che i rapitori non si degnavano di risponderle, smise di sprecar fiato. «Forse è una tattica psicologica per piegarmi» rifletté. Ma i Vaadwaur avevano bisogno di questi trucchetti? Non possedevano gli strumenti tecnologici per costringerla?

   Divorata da queste domande, Ladya non poté fare altro che attendere. Non aveva modo di misurare il tempo, perché le avevano tolto il comunicatore multi-funzione che faceva anche da orologio. Non le restava che basarsi sul suo stesso corpo: il sopraggiungere dell’appetito, il ciclo sonno/veglia. Dopo un’attesa che le parve interminabile – ma dovevano essere poche ore – cominciò ad aver fame. Si chiese se i Vaadwaur l’avrebbero lasciata morire di stenti. No, era assurdo: se l’avevano rapita, significava che la volevano viva. Ma non era da escludere che l’affamassero, come forma di tortura.

   Dopo altre ore di angoscia e di fame, Ladya udì un click metallico. Uno scomparto quadrato si era aperto nella parete e da lì qualcosa cadde su un ripiano. Prima ancora che la dottoressa si rialzasse dalla cuccetta, lo scomparto si era richiuso. «Cibo» disse una voce metallica.

   «Allora c’è qualcuno in ascolto?! Ehi, voglio parlare con qualcuno!» gridò la Vidiiana, ma ancora una volta non ebbe risposta. Intuì che la voce era un messaggio automatico, destinato a tutti i prigionieri. Rinunciando per il momento alle speranze di dialogo, si accostò cautamente all’oggetto caduto e lo raccolse. Era un cubetto scuro, dalla consistenza gommosa. Doveva trattarsi di una razione proteica; probabilmente l’unico alimento che le avrebbero fornito. Ladya valutò la possibilità che contenesse droghe o altra roba pericolosa, ma la scartò. Se i Vaadwaur volevano metterle qualcosa in corpo, gliela avrebbero iniettata mentre era priva di sensi. Così mangiucchiò il cubetto proteico, conservandone però una metà; non sapeva quando le avrebbero dato il prossimo pasto. Bevve l’acqua del rubinetto e poi si distese di nuovo, cercando di sonnecchiare.

   Le ore passarono con lentezza esasperante. Il pensiero d’essere ad anni luce da tutto ciò che conosceva era sempre lì ad avvelenarle la mente. Allora la dottoressa cercò di pensare positivo. Si disse che molti suoi amici della Keter erano stati sequestrati, nel corso degli anni, e in qualche modo ne erano usciti. Ma erano addestrati a combattere, mentre lei era un medico. E comunque anche loro se l’erano cavata quasi sempre grazie a un aiuto esterno, che nel suo caso era assai improbabile. Se i Vaadwaur l’avevano portata nella loro Rete, ormai poteva essere in qualunque punto della Galassia.

   Dopo qualche ora di dormiveglia, Ladya riaprì gli occhi. Era sempre tra quelle pareti opprimenti. Si chiese perché diavolo l’avevano rapita se poi la tenevano lì, senza farle domande. Non le restava che rassegnarsi e attendere. Per tenere occupata la mente ripensò alle mille esperienze che aveva avuto negli ultimi anni, da quando era salita sulla Keter fino all’arrivo su Vidiia. Lei e i colleghi ne avevano passate di tutti i colori. Abbandonandosi ai ricordi, non poté fare a meno di pensare a Norrin. Le si strinse il cuore al pensiero di come l’aveva lasciato. E per cosa, poi? Per trascorrere qualche giorno in più su un pianeta che, per quanto bello, non era casa sua. Per farsi corteggiare dal primo Vidiiano che aveva incontrato, come se solo quelli della sua razza fossero degni di attenzione. Ripensando al suo comportamento, Ladya se ne vergognò.

   Trascorse così l’intera giornata. L’unica nota positiva fu che a un certo punto lo scomparto sulla parete sputò un altro cubetto proteico, segno che i pasti erano regolari. Venne l’ora di dormire ancora. Ormai la Vidiiana si stava abituando a quelle giornate vuote e silenziose. Si disse che prima o poi i rapitori si sarebbero palesati. Fino ad allora doveva sforzarsi di restare sana di mente.

 

   Trascorsero così cinque interminabili giorni. La mattina del sesto giorno, Ladya stava canticchiando un ritornello che aveva imparato da bambina, cercando di ricordare tutte le strofe. D’un tratto la porta si aprì dal basso verso l’alto. Due soldati Vaadwaur entrarono con le armi spianate. «Muoviti, Vaphorana! Il Generale vuole parlarti» berciò uno dei due. Dopo giorni d’isolamento, quell’improvvisa irruzione fece sussultare Ladya. «Ci siamo» si disse. Lasciò la cuccetta e seguì le guardie all’esterno. Erano in un corridoio largo, pieno di celle su ambo i lati. Non essendoci finestrelle, la dottoressa non poteva sapere quante erano occupate.

   La prigioniera e le guardie percorsero l’androne fino alla sua estremità. Qui presero un turboascensore, lasciando il blocco detentivo. Salirono per parecchi piani, anche se Ladya non avrebbe saputo dire quanti. Da lì procedettero per altri corridoi, talora incontrando drappelli di guardie o tecnici affaccendati. La dottoressa notò che tutti mantenevano una notevole distanza personale. Infine giunsero in una vasta sala d’osservazione. Una finestra panoramica a forma di occhio occupava la parete di fondo, mostrando un flusso d’energia arancione: la parete di un wormhole. Erano in un’astronave, all’interno della Rete Subspaziale, come Ladya temeva.

   Scura contro il flusso di particelle, si stagliava un’imponente figura umanoide. Era un Vaadwaur, a giudicare dal cappuccio di pelle che gli circondava il collo. Alto e massiccio, aveva capelli neri striati di grigio, raccolti in una crocchia militare. Doveva essere il generale di cui le avevano accennato. «Benvenuta, dottoressa Mol» la salutò il Vaadwaur, senza voltarsi. «Mi perdoni se l’ho fatta attendere, ma siamo stati molto occupati. Sono giorni drammatici, sa. Si stanno decidendo le sorti d’interi popoli».

   «Non ne dubito» rispose Ladya. «Mi chiedo solo cosa vi aspettate da me, generale...?».

   «Suddayath» rispose il Vaadwaur, voltandosi. Il suo aspetto era inquietante. Il collare da serpente era pieno di cicatrici, persino sforacchiato in qualche punto. Una benda nera gli copriva l’occhio sinistro. L’occhio superstite, giallo e dalla pupilla verticale, si fissò su Ladya. «La sua curiosità è legittima, dottoressa. In questi giorni di attesa avrà senz’altro immaginato mille cose orribili sul nostro conto. Dopotutto è stata su Vidiia... non siamo benvisti, laggiù».

   «Non mi risulta che siate benvisti in alcun luogo» commentò la dottoressa.

   «Lei ha una visione molto offuscata della situazione» obiettò Suddayath, accorciando le distanze. «Crede che siamo dei mostri e che i suoi simili siano le vittime. Se le dicessi che la realtà è l’esatto opposto?».

   «Dovrebbe impegnarsi molto per convincermi» ribatté Ladya, gelida.

   «Non serve; i fatti parlano per me» disse il Generale. Si recò a uno schermo parietale e richiamò l’immagine di un’infermeria. Era piena di pazienti Vaadwaur, che sembravano in pessime condizioni. Molti erano stesi a terra su giacigli di fortuna, dato che non c’erano lettini per tutti. «Questa è l’infermeria del Ravager, la nave su cui ci troviamo» spiegò Suddayath. «Ma vedrà scene simili in tutti i nostri insediamenti e sulla maggior parte delle astronavi».

   «Cos’hanno i pazienti?» chiese Ladya, avvicinandosi per vederli meglio.

   «Come, il suo occhio clinico fa cilecca?» la derise il Vaadwaur. «Li osservi con attenzione. Se vuole posso descriverle i sintomi. Dapprima dolori articolari, perdita del gusto e dell’olfatto. Poi necrosi dei tessuti in tutti gli organi, con notevoli variazioni individuali. I problemi più comuni sono debolezza, perdita di coordinazione motoria, problemi cardiaci e respiratori. Infine morte per collasso sistemico. Somiglia a una certa malattia con cui la sua specie ha familiarità, vero? Qualcosa che vi ha appestati per due millenni» sibilò, fissandola con l’unico occhio.

   «Non è possibile...» mormorò Ladya, ma i sintomi erano chiari. Sui volti e le mani dei pazienti c’erano chiazze ed escoriazioni compatibili con i primi stadi della Phagia. «Quel morbo è stato sconfitto più di duecento anni fa. Colpiva solo noi, quindi non è più in circolazione» disse la Vidiiana, cercando di smentire il Generale.

   «Infatti non è tornato da solo» confermò questi. «Lasci che le racconti una storia, dottoressa. La storia di un popolo – il mio – che fu quasi sterminato in guerra, ma che risorse dopo secoli di sonno criogenico. Disponendo di poche navi obsolete e del nostro ingegno, abbiamo sconfitto avversari molto più potenti, riconquistando ciò che ci apparteneva. Ci siamo presi cura della Rete Subspaziale, ripulendola da asteroidi e relitti, sigillando gli squarci, arrivando a padroneggiarla come nessun altro. Con la nostra lungimiranza ci siamo creati un avvenire.

   Ma in questa storia c’è un altro popolo – il suo – che fu quasi sterminato, stavolta da una malattia. Voi però non vi siete salvati da soli; avete comprato la cura da una congrega di scienziati alieni. Poi, quando siamo entrati in conflitto, vi siete uniti a un’Alleanza che ha lo scopo di annientarci. Sì, dottoressa... conosco le trame dei Krenim, dei Devore e della Gerarchia». L’occhio giallastro del Vaadwaur trafisse Ladya, che fu come pietrificata dall’orrore.

   «Uno direbbe che quattro potenze interstellari coalizzate non avranno difficoltà a sopraffarci» proseguì Suddayath. «Ma i suoi simili non si fidano del piano di Hortis per distruggere la Rete. Temono che la loro flotta resti intrappolata... e hanno ragione. Quindi hanno trovato un’alternativa. Una che gli permetterà di sterminarci senza correre rischi... senza nemmeno muoversi dal loro bel pianeta. Un’arma biologica. E dovendo infettarci con una malattia, quale scelta migliore di quella che vi ha divorati per millenni? Analizzi i nostri malati, dottoressa. Osservi il codice genetico del virus. È quello della Phagia, con due sole modifiche. La prima è che ora colpisce noi anziché voi. La seconda è che il decorso della malattia è molto più rapido. Invece di trascinarsi per anni, ora tutto finisce nell’arco di qualche settimana. Questa è la sorte che il suo popolo “illuminato” ha decretato per noi. Noi, che per quanto abituati a combattere non abbiamo mai usato stratagemmi così vili!» ringhiò il Generale, fissando la dottoressa come se volesse incenerirla.

   Annientata da questa rivelazione, Ladya osservò i malati che tossivano nei lettini, con i volti sfigurati dalla malattia. Non voleva credere alle parole di Suddayath, eppure tutto tornava. Durante la battaglia di Akaali, i Vaadwaur avevano attaccato le navi ospedale e anche sulla Keter avevano puntato subito all’infermeria. Lì per lì non ci aveva fatto caso. Ma adesso capiva che volevano il database medico nella speranza di trovare spunti per una cura. Quando l’avevano vista, i soldati Vaadwaur si erano infuriati perché sapevano che erano stati i Vidiiani a contagiarli. In quel momento non avevano ancora l’ordine di catturarla, anzi nemmeno la conoscevano, per cui avevano cercato di ucciderla. Poi però la Keter aveva raggiunto Vidiia, dove lei si era fatta intervistare, diventando un personaggio pubblico. La sua fama si era diffusa alla velocità delle trasmissioni subspaziali, attirando l’attenzione dei Vaadwaur. Da qui la decisione di rapirla.

   «Il suo popolo sta accampando scuse per non partecipare all’attacco, vero? Cercano di tirarsi fuori dall’Alleanza» proseguì Suddayath, implacabile. «Perché quest’improvviso cambio di rotta? Magari sanno perfettamente che è inutile attaccarci. Basta aspettare qualche mese e saremo sterminati dal virus. A quel punto potranno impadronirsi della Rete senza sparare un colpo. Agli occhi della Galassia saranno innocenti. E così, fine della storia... se noi non prendiamo contromisure».

   Ladya si sentì mancare. Pensò a Dallorath, con le sue parole gentili e le mille premure. Anche lui conosceva la ributtante verità? Forse sì... in fondo era un alto diplomatico. Era sempre stato evasivo sul perché i Vidiiani volevano lasciare l’Alleanza. E aveva quella strana tranquillità... come se sapesse che presto i Vaadwaur non sarebbero più stati una minaccia. «Non posso credere che la mia gente vi abbia inflitto il male che ci ha tormentati per millenni» mormorò la dottoressa, fissando il Generale. «Non possono averlo fatto... qualunque sia l’ostilità fra voi...».

   «Qualche mercantile attaccato, tutto qui. Le stive svuotate, pochissime vittime» disse Suddayath con voce asciutta. «Tanto è bastato perché la sua gente decidesse di sterminarci in questo modo orribile. Le ricordo che la malattia non colpisce solo i soldati: sta uccidendo tutta la nostra popolazione. Potrei farle incontrare gli orfani, o i genitori che hanno perso i figli, ma glielo risparmierò».

   Ladya si costrinse a guardare di nuovo i malati. Uno di loro era in preda a una crisi, i dottori accorrevano per salvarlo. Prima di vedere l’epilogo, Suddayath spense lo schermo. «Presto li incontrerà di persona» disse. «Mi sono raccomandato affinché non le sia torto un capello. Se qualcuno dovesse aggredirla, pagherà con la vita. In questo momento lei è l’ultima speranza per il mio popolo. Trovi la cura per questo morbo. Ci salvi dall’estinzione, salvi almeno i nostri figli» disse il Generale, chinando il capo.

   La dottoressa arretrò, in preda alla confusione e alla vergogna. Tutto il suo mondo era capovolto, ogni certezza sbriciolata. «Io... ci proverò, glielo giuro» disse con voce smozzicata. «Come Vidiiana, le chiedo scusa per quest’atto infame. Mi... mi vergogno di appartenere alla specie che vi ha fatto questo. Credevo che avessimo imparato dai nostri errori. Purtroppo mi sbagliavo».

   «Voglio credere che sia sincera» disse Suddayath. «Avrà a disposizione le nostre attrezzature mediche e il miglior personale di cui disponiamo. Le raccomando di far presto... nel nostro interesse, ma anche nel vostro» aggiunse, facendosi minaccioso.

   «Che intende?» chiese Ladya. Qualcosa, nel tono del Vaadwaur, la fece rabbrividire fino al midollo. Sentì che le sciagure non erano terminate.

   «Non crederà che sequestrarla fosse il nostro unico piano, vero?» chiese Suddayath. Le voltò le spalle e si recò alla finestra, sempre occupata dal flusso energetico del wormhole. Qui levò di tasca un piccolo comunicatore. «Suddayath a plancia, portateci fuori dalla Rete. Uscita 219» ordinò. Il Ravager cambiò subito rotta, infilandosi in un tunnel laterale. Da lì svoltò in un altro condotto e infine uscì nello spazio normale.

   La dottoressa si affiancò al Generale. Dov’erano sbucati? Che cosa voleva mostrarle? Non osando chiederlo, Ladya attese. Poco alla volta un pianeta entrò nel campo visivo. Un mondo screziato di rosso, con due lune e un sistema d’anelli. Vidiia Primo. Ma cos’era quello strano bagliore che veniva dalla direzione opposta al sole? Grazie al movimento dell’astronave, la fonte di luce fu ben presto visibile. Era come un incendio nello spazio, una vivida torcia che gettava lingue di plasma in ogni direzione. Alcune fiammate lambivano Vidiia, facendo balenare lo Scudo Planetario. Era uno spettacolo terrificante, eppure suggestivo, come solo le cose terribili possono essere.

   «Che cosa avete fatto?» sussurrò Ladya con voce incrinata.

   «Noi lo chiamiamo cannone stellare» rispose Suddayath, scoprendo i denti affilati. «È facile da realizzare, una volta che si è appreso a spostare i condotti. Basta aprire un’imboccatura nel cuore di una stella, dove si trova il plasma a milioni di gradi, e quella adiacente presso il bersaglio. L’immane pressione del nucleo fa sì che il plasma s’incanali nel tunnel e sia sparato fuori alla prima uscita. Per ora i suoi simili si proteggono con lo Scudo Planetario, ma come può immaginare stanno consumando molta energia. Fra poche settimane resteranno a secco. Quando lo Scudo cederà, il vostro pianeta avvamperà come una torcia. Un bel rogo funebre per la vostra specie». In quella luce irreale, il volto del Vaadwaur era una chiazza color fuoco.

   Ladya si sentì sprofondare. «Ci sono quattro miliardi di Vidiiani laggiù... non sono tutti colpevoli!» gemette.

   «Siete stati voi i primi a ordire un genocidio. Ora assaggiate la vostra medicina» rispose Suddayath, imperturbabile. «Ma deve sapere che ho dato ai Vidiiani una possibilità di salvezza. Dovevano consegnarci la cura per la Phagia; solo così avremmo richiuso il condotto».

   «E l’hanno fatto?!» chiese Ladya. Pareva di no, visto che il condotto era aperto e Suddayath era ancora interessato a lei. Ma come potevano essersi rifiutati, quando rischiavano l’annientamento?

   «Sì e no» rispose il Generale con una smorfia. «Ci hanno dato la cura, ma non sta funzionando. Non credo che ci abbiamo mentito di proposito, sapendo cosa li aspetta. Quindi non c’è che una possibilità».

   «Il virus è mutato» comprese Ladya. Certo, era naturale. Per duemila anni la Phagia si era evoluta, contrastando tutti i tentativi di sradicarla. Quella malattia aveva un altissimo tasso di mutazione: non c’era da stupirsi se era cambiata un’altra volta. «Generale, sono certa che in questo momento tutti i virologi del pianeta stanno cercando un altro rimedio» disse la dottoressa. «Ma deve dargli più tempo!».

   «Se sospendiamo l’attacco, i Vidiiani ne approfitteranno per evacuare il pianeta» ribatté Suddayath. «A quel punto saremo inermi. No, dottoressa. Fermeremo il cannone stellare solo se avremo una cura efficace. In caso contrario, il vostro mondo brucerà. Così almeno vi estinguerete prima di noi» minacciò.

   «Biasimate il mio popolo per aver orchestrato un genocidio, ma volete fare lo stesso» disse Ladya con durezza. «Se noi vi ripugniamo, allora dovete inorridire anche di voi stessi».

   Per lunghi momenti i due si fronteggiarono, mentre oltre la finestra panoramica si consumava il dramma di un pianeta. Lo Scudo Planetario resisteva, ma le lingue di plasma avevano iniziato a disperdere gli anelli. Infine Suddayath ruppe il silenzio. «È ancora qui, dottoressa?» chiese con voce aspra. «Dovrebbe correre in infermeria. Ogni secondo che spreca è un secondo sottratto alla nostra comune sopravvivenza».

   La Vidiiana deglutì. «Farò ciò che posso, ma potrei non bastare» disse. «Dovete chiedere aiuto ad altri... magari all’Unione! Se spiegate la situazione, sono certa che vi aiuterà».

   «Scherza? L’Unione ha molto più interesse a lasciarci morire» obiettò il Vaadwaur.

   «Non è vero!» protestò Ladya. «La scienza, e in particolare la medicina, travalica le divisioni politiche. Sa che prima dell’Unione, prima ancora della Federazione, c’era lo Scambio Medico Interspecie? Cinquecento anni fa alcuni popoli dei Quadranti Alfa e Beta iniziarono a condividere informazioni mediche e a scambiarsi dottori, per contrastare le epidemie. Gli effetti furono straordinari, interi morbi furono debellati. E le specie che aderivano all’iniziativa cominciarono a fidarsi l’una dell’altra. Senza lo Scambio Medico, la Federazione non sarebbe mai nata».

   «Quindi per salvaguardare il corpo basta vendere l’anima!» la derise Suddayath. «È un sacrificio che non siamo disposti fare. Preferiamo morire da Vaadwaur, piuttosto che diventare i vostri animaletti domestici».

   «Forse sarete soddisfatti» pensò cupamente Ladya. Ma il suo dovere di medico era fare tutto il possibile per salvarli, anche se erano nemici. Tanto più che la sopravvivenza dei Vidiiani era subordinata alla loro. «Farò come vuole» cedette la dottoressa. «Ma deve giurarmi che quando avrà la cura risparmierà il mio popolo. Non ci attaccherete né col cannone stellare, né in altri modi».

   «Ha la mia parola d’onore, dottoressa» disse Suddayath, porgendole la mano. I due se la strinsero con forza. «Che io e la mia gente possiamo essere maledetti in eterno, se tradiamo il patto» disse solennemente il Generale.

 

   Scortata in infermeria, la dottoressa constatò immediatamente la gravità della situazione. Oltre alla malattia in sé, che era devastante, c’era una spaventosa carenza di equipaggiamento e di personale. Molti malati giacevano a terra, in condizioni igieniche precarie. Per prestargli soccorso i dottori dovevano fare uno slalom, stando attenti a non calpestare nessuno. Siccome la cura fornita dai Vidiiani non dava risultati, i pazienti continuavano ad accumularsi. Per loro non c’erano che cure palliative, per attenuare il dolore. Molti malati venivano semplicemente rimandati nei loro alloggi; solo i più gravi erano trattenuti. Quando poi andavano in crisi cardiaca o respiratoria, gli strumenti salvavita scarseggiavano. Ladya si trovò ben presto nella situazione che ogni medico vorrebbe evitare: quella in cui si deve scegliere chi salvare. «Non potete replicare gli attrezzi?!» chiese ai medici Vaadwaur, che da mesi lottavano contro il virus.

   «I replicatori che abbiamo qui sulla nave non sono in grado di produrre tutte le tipologie di strumenti» spiegò uno di loro. «Comunque fra poco torneremo alla capitale. Lì potremo sbarcare i malati e caricare nuove forniture».

   «Stiliamo subito una lista di ciò che occorre» disse Ladya. «A cominciare dalle protezioni! Molti di voi sono senza guanti e mascherine. Con l’affollamento che c’è in queste stanze, vi contagerete in un attimo. Come fate a curare gli altri, se vi ammalate voi stessi?».

   «La maggior parte dei nostri medici è già malata» rispose freddamente il Vaadwaur. «Io ero uno xenobiologo, prima che mi trasferissero in questo reparto».

   La Vidiiana impallidì. Quella non era un’infermeria, era un macello. «Avete controllato che i filtri atmosferici non siano saturi? Bisogna depurare l’aria o ad ogni respiro ci saranno altri infetti. Poi dobbiamo sterilizzare gli strumenti, anzi, tutte le superfici» raccomandò.

   «Con tutto il rispetto, ma noi ci occupiamo di quest’emergenza da molto più tempo di lei!» ribatté il Vaadwaur, seccato. «Sappiamo cosa si può fare e cosa no. Se non le sembriamo al massimo dell’efficienza, è perché molti di noi non dormono come si deve da settimane. Comunque questi non sono suoi problemi. A gestire i malati ci pensiamo noi; lei piuttosto trovi la cura!».

   Aveva ragione, ammise Ladya. I Vaadwaur l’avevano portata lì per farle sviluppare un vaccino o un medicinale, non per somministrare cure palliative ai pazienti. Facendo violenza a se stessa, la Vidiiana lasciò le sale di degenza, per recarsi nel laboratorio di ricerca. Solo una virologa l’accompagnò, dato che il resto del personale era impegnato. Oltre ai guanti e alla mascherina, la Vaadwaur indossava anche degli occhialini protettivi.

   Appena furono sole, Ladya fronteggiò la collega. «Se voglio avere una speranza di trovare la cura, mi servono parecchie informazioni» disse. «Intanto mi serve la mappa genetica del nuovo virus phagico, da confrontare col vecchio. Poi voglio un campione del farmaco che vi hanno dato i Vidiiani, corredato dai test di laboratorio. Voglio anche le cartelle cliniche di pazienti nei vari stadi dell’infezione. Tanto per cominciare».

   «Certo, è tutto qui sul computer» disse la virologa, recandosi a una consolle. «Le mostro come usare l’interfaccia. A proposito, io sono Phanin».

   «Ladya Mol» si presentò la Vidiiana. «Lei è qui da molto?».

   «Un paio di mesi. Perché?» s’insospettì la Vaadwaur.

   «Era solo per rompere il ghiaccio» sospirò Ladya. «Voi Vaadwaur siete sempre così distaccati, anche in questi momenti drammatici».

   «Distaccati?» ripeté Phanin, fissandola con aria indecifrabile. «Sa, noi abbiamo un detto: “Quando piove, tu corri di porta in porta, cercando di restare asciutto e bagnandoti comunque? O accetti semplicemente il fatto che sta piovendo e cammini con dignità?”».

   «Capisco il senso, ma questo non è un contrattempo qualunque... c’è in gioco la sopravvivenza delle nostre specie!» insisté Ladya, cercando di capire quella psicologia aliena.

   «Allora conviene affrettarci» disse Phanin, sempre fredda. «Ecco, questo è il genoma del virus. Con questi comandi può isolare i vari nucleotidi e confrontarli col ceppo originale della Phagia. Le faccio vedere».

   Rassegnata, Ladya si concentrò sui comandi, cercando d’imparare a usarli. Doveva eseguire operazioni complesse – analisi, raffronti, simulazioni – usando delle interfacce aliene con cui non aveva la minima familiarità. Questo rendeva il lavoro molto più difficile. Più volte fu costretta a interrompere la Vaadwaur, che le parlava del virus, per chiedere più spiegazioni sui comandi.

   Nelle ore successive, Phanin illustrò a Ladya i vari tentativi fatti dai Vaadwaur per contrastare o almeno rallentare la malattia. Infine mostrò la cura che i Vidiiani stessi avevano fornito, sotto ricatto, pochi giorni prima. C’era molto materiale da esaminare, ma Ladya sentiva la mancanza dei suoi testi di riferimento. Per quanto avesse ottima memoria, non poteva certo tenersi tutto in testa, come facevano i Medici Olografici d’Emergenza. «Se solo potessi consultare il mio database!» si lasciò sfuggire a un certo punto.

   «Intende il database medico federale? Ce l’abbiamo» rivelò Phanin. «La nostra squadra ne ha scaricato la maggior parte, durante l’incursione ad Akaali. Anche se avete distrutto la nave madre, l’ultimo incursore è riuscito a consegnarcelo».

   «Davvero?!» si animò Ladya. «Bene... vediamo se ci sono malattie simili e come sono state affrontate».

   «Ne abbiamo trovate alcune» confermò la Vaadwaur, richiamando varie schermate fitte di dati. «Però nessuna è tanto simile da darci la cura. Questi sono i casi più interessanti...».

   Con il passare delle ore, Ladya cominciò ad avvertire la stanchezza. Grafici e cifre si confondevano nella sua mente, gli schemi delle molecole le si sdoppiavano davanti agli occhi. Soffocando gli sbadigli, la dottoressa continuò ad ascoltare la collega e a leggere i dati. C’era così tanto da studiare, prima ancora di mettersi al lavoro. Capì che la aspettavano lunghe notti insonni.

 

   Di lì a poco il Ravager uscì dalla Rete Subspaziale, in una lontana regione del Quadrante Delta. Qui si trovava la capitale dei Vaadwaur, ovvero la prima colonia che avevano fondato dopo il risveglio. Si chiamava Kinara: era un mondo inclemente, dalla superficie riarsa, spazzata da tempeste di sabbia. L’insediamento si trovava quasi tutto nel sottosuolo, in un sistema di caverne naturali che erano state ampliate per accogliere la popolazione in rapida crescita. Lì vi erano le uniche riserve d’acqua del pianeta, che rifornivano le colture idroponiche. Attorno a queste zone agricole erano cresciute le industrie, dove si produceva di tutto, dagli oggetti di uso comune fino alle componenti delle astronavi che erano assemblate in orbita. Il rifornimento di metalli era assicurato da profonde miniere, in cui si lavorava giorno e notte. Come fonte energetica, infine, i Vaadwaur sfruttavano il potenziale geotermico del pianeta. Grandi impianti, simili a quello che aveva alimentato le capsule di stasi sul loro mondo natio, scendevano in profondità nella crosta, convertendo il calore del magma sottostante in energia.

   In questo modo la colonia era cresciuta per oltre due secoli, passando dalle poche centinaia di abitanti iniziali alle attuali decine di migliaia. Solo adesso il timore del contagio stava costringendo i Vaadwaur a chiudere sempre più attività. Restavano in funzione i servizi essenziali, con standard di prevenzione sempre più alti, che però non bastavano a fermare l’epidemia. Il fatto che la popolazione si concentrasse nelle caverne, anziché essere distribuita in superficie, rendeva i Vaadwaur ancora più vulnerabili al contagio.

   Come previsto Ladya fu sbarcata nell’ospedale della colonia, assieme ai malati del Ravager. Fu come scendere da un girone infernale a quello sottostante: gli infetti erano molti di più e si trovavano a stadi più avanzati della malattia. Peggio ancora, questi non erano solo soldati e tecnici. C’erano anche civili di tutte le età. Vedere gli effetti del morbo sui bambini, così deboli che non riuscivano nemmeno a piangere, spezzava il cuore. Ovunque Ladya volgesse lo sguardo c’erano solo dolore, disperazione e morte. Era così che doveva apparire Vidiia, ai tempi della Phagia. Al pensiero che ora i suoi simili vivevano nel lusso e nei piaceri, e che tuttavia avevano inflitto ad altri quell’orrore, Ladya si sentì impazzire dalla rabbia. Poi ricordò che anche Vidiia rischiava di essere distrutto, se non trovava la cura. Il grosso degli abitanti era innocente, persino ignaro di quanto fatto contro i Vaadwaur. Non poteva lasciare che perissero per la sciagurata decisione di pochi. Così la dottoressa si tuffò nel lavoro.

   Fu l’inizio di un periodo allucinante. Ladya viveva nell’ospedale, dormendo su una brandina in laboratorio. Al risveglio si metteva subito al lavoro e continuava per tutta la giornata, senza interrompersi neanche per i pasti, visto che mangiucchiava razioni proteiche senza staccare gli occhi dallo schermo o dai suoi esperimenti. La sera crollava esausta sulla branda, sprofondando in un sonno agitato, troppo breve per ritemprarla. A volte trascorreva giorni rinchiusa nel laboratorio. Se usciva era sempre per visitare i pazienti, dentro l’ospedale o anche fuori. I Vaadwaur avevano creato infatti un ospedale da campo – ma era meglio definirlo lazzaretto – in superficie, nel tentativo di allontanare i malati dalla città. La superficie però era spazzata da venti impetuosi e anche da tempeste di sabbia, che duravano interi giorni. Piazzare tende era inutile, dato che venivano strappate dal vento. L’unica opzione era sistemare i malati dentro container o prefabbricati. Ladya visitò parecchi di questi rifugi, per prelevare campioni agli infetti e seguire il decorso della Phagia. Quando usciva, lottando contro il vento sostenuto, si chiedeva se alla prossima visita li avrebbe ritrovati vivi.

   In queste uscite, la Vidiiana era sempre scortata da un paio di guardie. La natura sospettosa dei Vaadwaur esigeva che fosse costantemente sorvegliata, specie quando si avventurava in superficie. Lì infatti c’erano i mezzi per la fuga: navette, caccia stellari, incursori atterrati per effettuare riparazioni. C’era anche una torretta per le trasmissioni subspaziali, che Ladya avrebbe potuto usare per chiamare aiuto. Ma la dottoressa non pensò mai seriamente di provarci. Non solo perché era sempre sorvegliata, ma soprattutto perché andarsene significava condannare sia i Vaadwaur che i Vidiiani. No, doveva restare per finire il lavoro.

   Perciò Ladya continuò la sua routine, anche se i giorni si sfilacciavano e si confondevano. Da quanto era lì? Non lo sapeva. Aveva la sensazione che da quando era iniziato l’incubo non ci fosse più una successione di giorni e notti, ma una sola e interminabile giornata. La dottoressa si sentiva sempre più stanca e temeva che questo influisse sulla qualità del suo lavoro. Gli occhi le bruciavano per le troppe ore passate davanti agli schermi. Il collo e la schiena dolevano quando si chinava sui microscopi. Un crescente malessere s’insinuava in tutto il suo corpo, una debolezza che le rendeva sempre più difficile alzarsi la mattina. Ma non poteva fermarsi, non poteva riposare. Doveva sconfiggere quel mostro.

 

   Una mattina – Ladya non sapeva di che giorno – la sveglia suonò a lungo prima che lei riuscisse a fermarla con un ordine. Aveva la voce impastata e un mal di testa martellante. Pensò che forse aveva raggiunto il limite e doveva prendersi un giorno di riposo, per non crollare. Alzarsi fu faticosissimo: le sembrava che la gravità fosse raddoppiata. Quando fu in piedi, barcollò e dovette reggersi a una mensola per non cadere. La testa le girava e tutte le articolazioni pulsavano di un dolore sordo. Che strano... non aveva mai sofferto di dolori articolari. Le sue condizioni cominciavano a spaventarla: aveva davvero bisogno di riposo. E magari di un bagno e un pasto decente. Barcollante, la dottoressa andò a lavarsi la faccia. Prima di uscire non dovette nemmeno vestirsi, perché si era addormentata con tutti gli abiti addosso.

   Quando fu in bagno, per prima cosa la Vidiiana si lavò le mani. Fu allora che vide. Sulle sue mani c’erano chiazze scure di pelle morta, che si staccava quando il getto d’acqua le colpiva, lasciando piaghe ulcerate. La dottoressa chiuse immediatamente il rubinetto e si fissò le mani tremanti, che gocciolavano acqua mista a sangue. Con estrema lentezza si tirò su una manica e poi l’altra. Come temeva, le chiazze scure si prolungavano lungo le braccia. Probabilmente le aveva in tutto il corpo. Per averne conferma, le bastava alzare gli occhi allo specchio. Ma quel semplice gesto sembrava superiore alle sue forze. Se non guardava, poteva illudersi che il suo volto fosse a posto. Ma se si vedeva riflessa, allora non poteva tornare indietro; il male sarebbe divenuto reale.

   Dopo una lunghissima pausa, in cui radunò ogni briciolo di volontà, Ladya alzò lo sguardo. E vide ciò che temeva, l’incubo di ogni Vidiiano. Il suo viso era butterato di macchie scure, da cui la pelle morta si sfarinava. Gli occhi erano cerchiati e come infossati, le guance incavate, il che dava al suo viso l’aria di un teschio. Era il marchio della Phagia, al primo stadio.

   Ladya pensava che anni di professione medica l’avessero fortificata, ma si sbagliava. Quando vide il suo riflesso, strillò per l’orrore e arretrò, coprendosi il volto con le braccia. Alcune lacrime le solcarono le guance; una le sfiorò le labbra. Ladya la sorbì, senza sentirne il sapore. Aveva perso il senso del gusto, ma siccome mangiava sempre delle insipide razioni proteiche non se n’era accorta, facendosi così sfuggire il primo sintomo.

   Superato l’impatto, la Vidiiana cercò di ragionare. Era chiaramente vittima della Phagia, ma di quale ceppo? Non certo di quello tradizionale. Anche se ne aveva spesso esaminato il genoma al computer, non ne aveva mai maneggiato dei campioni. Doveva essere la versione modificata di cui soffrivano i Vaadwaur. Sia sull’astronave che lì nella colonia sotterranea l’aria era riciclata e i filtri atmosferici non bastavano a depurarla completamente. E poi erano giorni che si aggirava tra i malati, li toccava per visitarli. Certo, aveva sempre indossato le protezioni minime, cioè guanti e mascherina; ma evidentemente non erano bastate. Non si era curata di proteggersi meglio, perché non pensava di correre davvero dei rischi: quella versione della Phagia era studiata per colpire solo i Vaadwaur. Allora perché si era ammalata?

   Ladya tornò di corsa nel laboratorio. Adesso sapeva perché le giunture le facevano così male: era un altro sintomo della Phagia. Si prelevò un campione di sangue e lo analizzò, trovandovi il virus. Subito ne fece l’analisi genetica: il filamento di RNA si srotolò sullo schermo davanti a lei. La dottoressa lo confrontò con quello standard, evidenziando le differenze. Come immaginava, il virus – sempre mutevole – era cambiato un’altra volta, riadattandosi alla fisiologia Vidiiana. Non per questo aveva cessato di attaccare i Vaadwaur: adesso era letale per entrambe le specie. Ladya fece altre analisi, per stabilire quando era stata contagiata e quanto le restava. Capì ben presto che il virus l’aveva infettata già nei primi giorni, forse quand’era sul Ravager. E progrediva rapidamente. Da lì a tre settimane i suoi organi vitali avrebbero ceduto. Senza un trapianto sarebbe morta. E non credeva che i Vaadwaur, già sommersi dai loro contagiati, avessero organi da trapiantarle. Quindi sì, era spacciata.

   «Buongiorno» disse Phanin, entrando in quel momento nel laboratorio. La virologa era scesa con lei dal Ravager e le era rimasta accanto in quei giorni frenetici. «Ho i risultati degli esperimenti con le pinze molecolari. C’è una flessione del 15% nel tasso di...». S’interruppe, notando il volto di Ladya. «Che le succede?» mormorò scioccata.

   «Per dirla con parole sue, succede che piove» rispose la Vidiiana con amaro sarcasmo. «Siccome non ho l’ombrello, accetterò la cosa e andrò avanti con dignità. Finché ho respiro».

   «Ma com’è possibile? Il virus non colpisce più la sua specie!».

   «Si è adattato di nuovo. Adesso ci uccide tutti quanti» spiegò Ladya, indicando lo schermo su cui scorrevano ancora i dati.

   La Vaadwaur corse alla postazione e lesse i risultati delle analisi. «Certo... dovevo immaginarlo» mormorò. Dopo una breve riflessione alzò gli occhi sulla Vidiiana. «Dovrò fare rapporto al generale Suddayath» avvertì. Il suo sguardo diceva già «appestata».

   «Gli dica che sopravvivrò ancora per una ventina di giorni» raccomandò Ladya. «Fino ad allora continuerò a cercare una cura».

   «Una cura per chi?» domandò Phanin, scrutandola da sotto gli occhialini. «Per noi o per lei?».

   «Non ho tempo di cercarla per me» chiarì la Vidiiana. «Quindi proseguiremo le ricerche in corso. Quelle ultime prove con le pinze molecolari sono promettenti, voglio battere quella strada. Avverta gli specialisti che voglio incontrarli al più presto e prepari un’altra serie di esperimenti, su un campione più vasto. Diciamo almeno cento individui».

   «Come vuole» disse la Vaadwaur. «Posso fare altro per aiutarla?» aggiunse dopo una breve esitazione.

   «Ho freddo. Mi porti dei vestiti più pesanti, così almeno non mi tremeranno le mani» disse Ladya.

   «Vedrò cosa riesco a trovare» mormorò Phanin, e si ritirò.

   Rimasta sola, Ladya emise un sospiro, che si trasformò in un attacco di tosse. Si portò la mano alla bocca; quando la ritirò era spruzzata di sangue. La Phagia progrediva in fretta. Rassegnata, la dottoressa sedette di nuovo alla postazione ed esaminò i risultati degli ultimi esperimenti. Fino ad allora si era augurata di trovare la cura prima che lo scudo di Vidiia cedesse. Ora si augurava di trovarla prima che il suo corpo cedesse. Dopo di che, poteva solo sperare che Suddayath mantenesse la parola, risparmiando il suo mondo. Lei non sarebbe vissuta abbastanza da fare altro.

   In tutto questo, la cosa che più l’addolorava era che non avrebbe rivisto Norrin. Che beffa: cinque anni sulla stessa nave, due da quando lui si era dichiarato, e lei non lo aveva mai corrisposto, illudendosi che “prima o poi” avrebbe trovato di meglio. E adesso era tardi. Le sue occasioni erano tutte sfumate e le restava ben poco da vivere. Il suo corpo sarebbe stato gettato nell’inceneritore con tutti gli altri, per eliminare ogni traccia del virus. Non poteva nemmeno dire addio ai suoi cari, anche se forse le sue ultime azioni avrebbero parlato per lei. Con questo in mente, la Vidiiana si concentrò sul suo compito, ignorando la debolezza e il dolore del suo corpo in disfacimento.

 

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Capitolo 7
*** Tsunka, tsunka! ***


-Capitolo 6: Tsunka, tsunka!

 

   Spinto dalla tremenda pressione del nucleo stellare, il plasma incandescente usciva a getto continuo dal wormhole. Una parte di esso si disperdeva nello spazio, ma il resto cadeva su Vidiia Primo, attirato dalla gravità. Solo lo Scudo Planetario proteggeva il pianeta dalla marea infuocata. Tutti i generatori lavoravano al massimo per tenerlo attivo, ma le riserve energetiche si stavano prosciugando rapidamente. Gli effetti dell’attacco erano già visibili. I magnifici anelli planetari si erano in gran parte dispersi: il ghiaccio era sublimato e le rocce venivano soffiate via dalla pressione del plasma. Le due lune, un tempo chiare, erano diventate nere come il carbone. Le rocce in superficie cominciavano a fondersi: la lava riempiva i crateri e scorreva nei canyon. Gli abitanti, fortunatamente pochi, erano già stati trasferiti nelle colonie. Ma il grosso della popolazione, che risiedeva sul pianeta, non poteva essere evacuato in tempo.

   Reduce dalla missione diplomatica per conto dell’Alleanza, la Keter si avvicinò a Vidiia, tenendosi sul lato opposto del pianeta rispetto alla fontana di plasma. I federali chiamarono le autorità, senza avere risposta. L’analisi sensoriale confermò che il pianeta era nel caos. Gli abitanti assaltavano gli spazioporti nel tentativo di mettersi in salvo, contendendosi selvaggiamente ogni navetta e capsula spaziale. Le autorità però stavano cercando di requisirle, per evitare che chi fuggiva le tenesse poi con sé, anziché metterle a disposizione per altri viaggi. Gli spazioporti erano così diventati campi di battaglia, con la polizia e l’esercito che usavano lacrimogeni e armi paralizzanti per trattenere le folle disperate.

   A un tratto un settore quadrato dello Scudo Planetario si aprì, permettendo l’uscita di un convoglio di astronavi. Erano perlopiù vascelli diplomatici, con un po’ di scorta. Il capitano Hod li osservò accigliata. «Chiamiamoli» ordinò.

   Dopo qualche minuto di chiamate insistenti, uno dei vascelli rispose. L’ambasciatore Dallorath apparve sullo schermo. Aveva i capelli arruffati e l’abito spiegazzato. «Keter... siete tornati nella nostra ora più tragica. Ho pochissimo tempo da dedicarvi» disse.

   «La situazione è chiara, ambasciatore. È opera dei Vaadwaur, vero?» chiese Hod.

   «Già... quelle serpi hanno trasformato i tunnel spaziali in un’arma di sterminio» confermò il Vidiiano. Notando che accanto al Capitano c’era l’Ammiraglio Hortis, si rivolse a lui. «Come sono felice di rivederla! Voi... intendo l’Alleanza... dovete aiutarci con l’evacuazione!».

   «Al tempo» disse l’Ammiraglio, squadrandolo con durezza. «L’Alleanza aiuta i suoi membri... ma non è ancora chiaro se volete farne parte».

   «Ma sì, sì! Siamo con voi, faremo tutto quello che volete!» gridò Dallorath, con gli occhi febbricitanti. «Adesso però aiutateci!».

   «Volentieri, ma resta da vedere qual è l’aiuto più efficace» spiegò Hortis. «La vostra popolazione è troppo numerosa per evacuarla in tempo».

   «Sono 4 miliardi e 235 milioni di persone» avvertì Zafreen, che aveva scansionato il pianeta.

   «Quanto reggerà lo Scudo Planetario?» chiese l’Ammiraglio.

   «Trenta giorni al massimo» rivelò Dallorath, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Abbiamo richiamato le nostre navi, ma anche con l’intera flotta potremo salvare pochi milioni di persone. Non sappiamo nemmeno dove trasferirle: le colonie sono troppo piccole per accogliere un tale flusso di rifugiati».

   «Un momento» intervenne il Capitano Hod. «Dopo avervi attaccati, i Vaadwaur vi hanno inviato messaggi? Ultimatum, richieste?».

   Dallorath tacque per un tempo stranamente lungo. Sembrava combattuto. «No» disse infine. «Nessuna comunicazione. Ma non serve, il loro intento è chiaro. Vogliono sterminarci!» ripeté.

   Il Capitano e l’Ammiraglio si scambiarono un’occhiata. Ciascuno dei due lesse il sospetto negli occhi dell’altro: l’ambasciatore non la raccontava giusta.

   «È strano che i Vaadwaur vi abbiano attaccati così ferocemente, proprio ora che vi stavate ritirando dall’Alleanza» notò Hortis. «Sarebbe stato più sensato colpire noi. Oppure i Devore e la Gerarchia, che ci hanno appena confermato il loro appoggio».

   «Forse toccherà anche a voi» avvertì Dallorath. «Ma fino ad allora, v’imploro di aiutarci con l’evacuazione».

   «Se i Vaadwaur sono determinati a uccidervi, apriranno altri tunnel presso le vostre colonie, o in qualunque luogo vi porteremo» obiettò l’Ammiraglio. «Solo distruggendo la Rete Subspaziale avremo la certezza di eliminare queste armi-tunnel. Quindi è più che mai importante e urgente che uniate la vostra flotta alla nostra, nell’attacco alla Rete».

   «Ancora con questa storia?!» protestò Dallorath, esasperato. «Glielo dirò chiaro e tondo: non ci fidiamo del suo piano. Se mandiamo la flotta nella Rete, potrebbe restare imbottigliata, alla mercé del nemico. O potrebbe finire dispersa all’altro capo della Galassia, senza mezzi per tornare. Anche se riuscissimo nel piano, chi ci assicura che le astronavi non saranno distrutte dal collasso dei tunnel? No, Ammiraglio... quelle navi ci servono per evacuare quanta più gente possibile. Se volete esserci amici, aiutateci col trasferimento. Ma se andate a ficcarvi in quel labirinto, lo fate a vostro rischio e pericolo. Noi non vi seguiremo».

   Hortis scosse il capo, deluso. «La vostra ostinazione mi mette con le spalle al muro» avvertì. «Conferirò con gli alleati. Ma sono quasi certo che opteranno per attaccare al più presto. Se avremo successo, la Rete collasserà e voi sarete salvi. Tutti quanti, non solo i pochi milioni di persone che vi aiuteremmo a trasferire».

   «Allora possiamo solo sperare nella vostra vittoria» disse Dallorath, facendo già il gesto di chiudere la comunicazione. «Addio, e buona fortuna».

   «Un momento!» intervenne Hod, avvicinandosi allo schermo. «Ambasciatore, sebbene siano momenti concitati per voi, vi chiedo restituirci la dottoressa Mol».

   «La dottoressa?» fece il Vidiiano, colto alla sprovvista. «Ah, già... la dottoressa». Il suo viso si rabbuiò ed egli distolse lo sguardo. «Nella confusione ho perso i contatti con lei. Non so dove si trovi adesso».

   «Non rilevo il suo comunicatore» avvertì Zafreen. «Sto cercando d’isolare i suoi segni vitali, ma è difficile distinguerla da milioni di altri Vidiiani. Frell!» imprecò.

   Hod scambiò un’occhiata con Norrin. In anni di peripezie, non aveva mai visto tanto terrore sul volto dell’Hirogeno. Si rivolse di nuovo a Dallorath, stavolta con freddezza. «Ci eravamo fidati di voi, lasciandovi la dottoressa. Le avevate dato un appartamento nel quartiere governativo, a poca distanza dai vostri. E non mi è sfuggito che lei, ambasciatore, era particolarmente legato a Ladya. Quindi perché non l’ha portata con sé?» inquisì.

   «Io... non devo rendere conto a voi!» esclamò Dallorath, facendosi paonazzo. «A terra era un delirio, tutti correvano verso le astronavi. Io e Ladya ci siamo persi di vista, mi spiace. Se volete ritrovarla, aiutateci con l’evacuazione; altrimenti levatevi di mezzo».

   «Se crede...» cominciò il Capitano, ma il Vidiiano troncò la comunicazione. Sullo schermo riapparve la sua nave, che accese i motori a impulso per allontanarsi.

   «Eh no, non finisce così!» sbottò l’Elaysiana, perdendo per un attimo la compostezza. «Fermate quella nave col raggio traente! E portate Dallorath a bordo. Abbattete gli scudi, se necessario, ma lo voglio qui!».

   Norrin non se lo fece ripetere. Appena la nave vidiiana fu immobilizzata, la colpì con precisi raggi anti-polaronici, finché gli scudi cedettero. Dallorath fu subito teletrasportato in plancia.

   «Ma che... aiuto! Rapimento!» gridò il Vidiiano. Scattò verso il turboascensore, ma si appiattì il naso contro il campo di forza che circondava la pedana e cadde all’indietro.

   Nel frattempo le navi da guerra vidiiane, accortesi dell’attacco, stavano convergendo sulla Keter. I primi colpi scossero la nave federale, che aveva rialzato gli scudi. «Via di qui, torniamo nello spazio Krenim» ordinò il Capitano, sdegnata. Il propulsore cronografico traslò istantaneamente la Keter, sottraendola all’attacco.

   In fondo alla plancia, Dallorath si rialzò dolorante. Vedendo che le navi da guerra erano svanite dallo schermo e anche le stelle erano mutate, capì di essere lontanissimo da Vidiia. «Avete rapito un ambasciatore... la pagherete cara» minacciò. «Io godo dell’immunità diplomatica!».

   «Lei si trova a 15.000 anni luce dalla sua gente» avvertì Norrin, avvicinandosi con fare minaccioso. «Non credo che la sentiranno strillare».

 

   Poche ore dopo, Hod e Norrin sedevano in sala tattica con l’Ammiraglio Hortis. «Signori, vi esprimo il mio cordoglio per quanto accaduto» disse il Krenim. «Non immaginavo che i Vidiiani fossero così meschini. Infettare i Vaadwaur... almeno ora molte cose si chiariscono. Compreso il rapimento della dottoressa Mol».

   «Se trovassimo una cura, potremmo farci restituire Ladya. E magari far cessare l’attacco a Vidiia» suggerì Norrin, ma anche lui ci credeva poco.

   «Non abbiamo neanche un campione di virus da studiare» sospirò il Capitano. «Cercheremo di farcelo consegnare dai Vidiiani, in cambio della restituzione dell’ambasciatore. Ma anche avendolo, non dobbiamo aspettarci miracoli. Ci vollero le più grandi menti della Galassia per sconfiggere la Phagia nella sua vecchia forma. Questo ceppo mutato sarà ancora più difficile da battere».

   «Allora facciamola finita» disse l’Hirogeno, cupo. «Attacchiamo la Rete Subspaziale secondo il piano. Se è vero che i Vaadwaur sono per metà infetti, opporranno una debole resistenza. La Rete collasserà e i Vidiiani saranno salvi».

   «Posto che meritino la salvezza» disse Hortis con voce amara. «Ma sì, è l’unica linea d’azione che ci resta».

   «Così però i Vaadwaur resteranno in preda alla Phagia» notò il Capitano. «Potrebbero estinguersi».

   «Nessuno li rimpiangerà» disse Norrin, pensando a ciò che Ladya stava passando nelle loro grinfie.

   «Capitano, so che per la Flotta Stellare anche la vita dei nemici va protetta» disse Hortis. «Vi ammiro per questo. Se troveremo una cura, la trasmetteremo ai Vaadwaur. Ma dobbiamo comunque attaccare la Rete prima che Vidiia sia distrutto».

   Hod guardò con apprensione Norrin, che fissava la superficie scura del tavolo senza più parlare. «Anch’io voglio salvarla» disse a bassa voce.

   «No, Capitano» rispose l’Hirogeno, il volto duro come pietra. «Non le chiederò di lanciare una missione di recupero. Non possiamo scombinare i piani dell’Alleanza per salvare una sola persona... per quanto cara».

   «Se solo sapessimo dove cercarla!» sospirò l’Elaysiana. «Nella Rete? Sulle colonie Vaadwaur? Abbiamo poco tempo... ma glielo giuro, Norrin. Se avremo il minimo indizio sulla posizione di Ladya, autorizzerò la missione di recupero».

   «Chiamo subito la Gerarchia» disse Hortis. «Se c’è qualcuno capace di rintracciare una persona scomparsa, sono quei nanerottoli. Riescono a intercettare ogni trasmissione subspaziale e a ricostruire la rotta di ogni nave». Ciò detto l’Ammiraglio lasciò la sala tattica, per tornare alla sua nave.

   Il Capitano si trattenne brevemente, osservando con apprensione il suo Ufficiale Tattico. Norrin era sempre stato padrone di sé, anche nei momenti peggiori. Ma ora che ne andava di Ladya, c’era il rischio che perdesse la lucidità, proprio in vista della più grande battaglia che la Keter avesse mai affrontato. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma nulla poteva confortarlo in quel momento, per cui tornò in plancia, lasciandolo ai suoi pensieri.

 

   Quella sera Norrin sedeva nel suo alloggio, con le luci basse, ascoltando una lenta nenia triste. Andava con la memoria a tutte le volte che aveva fatto qualcosa di bello con Ladya, o che avevano superato insieme un ostacolo. Il pensiero che non l’avrebbe rivista gli schiacciava il cuore come un macigno. Continuava a chiedersi se aveva sbagliato qualcosa, se avrebbe dovuto insistere di più per trattenerla. E soprattutto si chiedeva dove fosse lei in quel momento. I Vaadwaur potevano averla portata ovunque. Stando alla confessione di Dallorath, era probabile che l’avessero rapita affinché curasse la loro malattia. Ma se non ci fosse riuscita? Se la Phagia fosse progredita e l’Alleanza avesse attaccato la Rete, non era da credere che i Vaadwaur si sarebbero sbarazzati di lei? Forse erano in procinto di farlo... forse l’avevano già fatto. A questo pensiero Norrin si sentì afferrare dalla disperazione.

   Il segnale dell’ingresso lo distolse dai tetri pensieri. Dapprima l’Hirogeno non rispose, sperando che il seccatore se ne andasse. Ma i secondi passavano e la porta continuava a trillare. «Via! Non ci sono per nessuno!» berciò l’Ufficiale Tattico.

   Il visitatore doveva essere sordo o molto insistente, perché la porta continuò a suonare. Deciso a non cedere, Norrin alzò il volume della musica e sedette dando le spalle all’ingresso. Cercò di concentrarsi sulle note, anziché sui fastidiosi be-beep. Ma a un certo punto udì un deciso bussare alle sue spalle. «Computer, fine musica. Avanti!» esclamò. Si alzò di scatto, deciso a dirne quattro al seccatore, ma voltandosi si trovò davanti al Comandante Radek.

   Il Rigeliano aveva con sé una bottiglia piena di un liquido verdissimo e un paio di bicchieri. «Alla buon’ora» disse, entrando nell’alloggio. «Cominciavo a pensare che ti fossi addormentato».

   «No, la prego!» fece Norrin, sapendo che il Comandante aveva un debole per i liquori. «Non ho bisogno di annegare i miei dispiaceri».

   «Sicuro? A vederti si direbbe il contrario» notò Radek, dirigendosi spedito verso il tavolino. «Questo è whisky di Aldebaran, ricordo che ti piace. Mio nonno riusciva a indovinare l’annata al primo sorso. Io non sono alla sua altezza, ma mi considero comunque un estimatore». Così dicendo stappò la bottiglia e iniziò a riempire i bicchieri.

   «Comandante, posso sapere che le prende? In cinque anni ha sempre mantenuto le distanze dai colleghi» disse l’Hirogeno, confuso dal suo atteggiamento.

   «Ultimamente mi sono trovato a pensare che troppa formalità non fa bene al morale» spiegò il Rigeliano, porgendogli il bicchiere pieno. «In orario di servizio dobbiamo essere d’esempio per la ciurma, ma quando si smonta possiamo sfogarci un po’. Su, vecchio mio... è quasi mezzanotte, i gradi non esistono. Siamo solo due veterani che vogliono farsi una bevuta» insisté.

   «E va bene» si arrese Norrin, prendendo finalmente il bicchierino colmo di liquore verde. «Solo un goccio, però».

 

   «... e poi c’è stata quella volta nel Melange» disse Norrin, con voce strascicata. «Se Ladya non avesse fatto esplodere la bomba al thalaron, che fine avremmo fatto, eh?! Saremmo polvere spaziale!» esclamò, agitando il bicchiere.

   «Giusto! Un brindisi per il suo coraggio!» biascicò Radek, agguantando la bottiglia semivuota. Ebbe qualche difficoltà a centrare i bicchieri, che cominciavano a sdoppiarsi davanti a lui. Un po’ di whisky andò versato, ma alla fine ci riuscì. I due ubriachi levarono i bicchierini, facendoli tintinnare sonoramente, e li svuotarono d’un sorso. Poi li sbatterono sul tavolo.

   «Ah!» fece Norrin, inclinando all’indietro la sedia, finché poggiò contro la paratia. «Non so dire quand’è che ho cominciato ad amare Ladya. Penso sia stata una cosa graduale. La vedevo sempre così dedita al prossimo, così dimentica di sé! E non parlo solo del suo lavoro. Ogni volta che c’è un bisticcio, lei calma gli animi. Ogni volta che qualcuno si sente disperato, lei ha parole di conforto. È la persona più genuina che abbia mai conosciuto. Come lei ce n’è una su un milione... una su un miliardo... hic!». Passata la fase dell’esaltazione, l’Hirogeno stava scivolando nella sbronza triste.

   «Su con la vita! Non è finita, finché non è finita!» lo incoraggiò il Rigeliano. «Ladya è ancora là fuori, da qualche parte. Aspetta solo che andiamo a prenderla» disse, indicando vagamente attorno a sé.

   «Ma può essere ovunque... l’avranno rinchiusa su un’astronave...» frignò Norrin.

   «Con un’epidemia in corso? La terranno in una colonia, dove può visitare più pazienti e ha più strumenti a disposizione» obiettò Radek, riacquistando in parte la lucidità. «L’Alleanza ci dirà dov’è più probabile che sia».

   «E poi che faremo? L’Alleanza vuol colpire la Rete, non una colonia. Saremo soli. E i Vaadwaur la useranno come scudo!». L’Hirogeno dette un gran pugno sul tavolo.

   «Dovrà essere un’infiltrazione. Saremo io, te e pochi ragazzi fidati» spiegò il Comandante.

   «Tu?» si stupì l’Ufficiale Tattico.

   «Certo, perché? Mi prendi per uno di quelli che non rischiano? Lo faccio, quando c’è un buon motivo» spiegò Radek. «Appena avremo una pista verrò con te. Vedrai, la salveremo, costi quel che costi!» s’impegnò.

   «Grazie» farfugliò Norrin, commosso. «Ti avevo mal giudicato. Sei un vero amico».

   «Ah, lascia stare» si schermì il Rigeliano. «Ve lo devo, per tutte le volte che tu e Ladya avete salvato la baracca». Muovendosi quasi a tentoni, afferrò la bottiglia. Erano rimaste solo due dita di whisky. «Ah, guarda... ce n’è per l’ultimo brindisi. A che brindiamo?».

   «Non so, fa’ tu» disse l’Hirogeno, cercando di sedere più compostamente.

   «Al salvataggio!» propose Radek, esaltandosi. «Niente e nessuno ci fermerà! Saremo la miglior squadra che... oops!». Aveva inavvertitamente fatto cadere il proprio bicchiere, che si ruppe. Il Comandante si abbassò per raccogliere i cocci, anche se non aveva un tovagliolo, né una paletta.

   «Lascia stare, ci penso io domani» lo fermò Norrin. «Scolati la bottiglia».

   «Eh, eh...». Rialzatosi, il Rigeliano gli riempì a mezzo il bicchiere e tenne per sé la bottiglia con l’ultimo dito di whisky. L’agitò per rimescolare il liquore e infine la svuotò d’un sorso, mentre l’Hirogeno faceva lo stesso con il bicchierino. Rumori di gola sancirono il patto tra i due ufficiali della Flotta Stellare.

 

   «Tsunka! Tsunka!» gridò la folla esagitata. Le luci stroboscopiche danzavano sulle superfici argentee dell’arena, sui corpi dei lottatori e sui volti accalorati del pubblico. Una musica incalzante, simile al rullo di tamburi, scandiva le fasi dello scontro. Lo Tsunkatse era uno sport apprezzato da secoli, su Norcadia e in tutto il circondario. Due lottatori, vestiti con tute argentee, si battevano in una piccola arena circolare, dalle pareti inclinate che consentivano di avvantaggiarsi con salti e acrobazie. Tutt’intorno la folla assiepata sugli spalti poteva incoraggiarli con grida e applausi, o al contrario esprimere disappunto. Lo stile di combattimento era eclettico: fondeva tecniche di pugilato e lotta libera, anche se in linea di massima si privilegiavano colpi rapidi, anziché prese.

   I lottatori, un massiccio Pendari e una più agile Norcadiana, s’interruppero brevemente per riprendere fiato e rivedere le loro strategie. La vittoria, infatti, non era questione di pura forza. Ogni combattente portava dei piccoli disgregatori polaronici agganciati ai guanti e alle scarpe. Le tute argentee erano isolanti, ma in corrispondenza del petto e della schiena c’erano due piccoli sensori rotondi, che invece erano di materiale superconduttore. Scopo del gioco era colpire i sensori dell’avversario, trasmettendogli la scossa, senza esporre i propri al contrattacco. Lo scontro proseguiva finché uno dei contendenti crollava per le troppe scosse e non riusciva più a rialzarsi.

   Il Pendari tornò all’attacco, con una combinazione di calci e pugni. Più che ai sensori dell’avversaria mirava alla sua testa, per stordirla a furia di sberle. Questo genere di attacchi non era espressamente vietato dal regolamento, ma avrebbe dovuto essere limitato il più possibile. Percuotere direttamente l’avversario, anziché stordirlo con gli impulsi, era considerato un modo di giocare “sporco” e poco professionale. Il pubblico fece prontamente udire il suo scontento.

   Sentendo i versi di disapprovazione, il Pendari alzò gli occhi a una finestrella posta sopra l’ingresso dell’arena. Il suo capo era lì a osservarlo. A giudicare dall’espressione, anche lui era contrariato.

   Il Pendari pensò che era meglio tornare a una strategia più ortodossa. Ma approfittando della sua distrazione, la Norcadiana gli assestò un calcio, cogliendo il sensore toracico. La violenta scossa azzurrina attanagliò il petto del Pendari, che si piegò e incespicò in avanti. Prima che potesse riaversi, la Norcadiana gli sgusciò dietro e lo colpì al secondo sensore, tra le scapole. Al primo colpo ne seguì un secondo e poi un terzo, in rapida successione. Il Pendari sentì che le ginocchia gli cedevano e cadde in avanti. Una volta a terra si rotolò, evitando un altro colpo. Adesso era supino e vedeva l’avversaria che incombeva su di lui. Cercò di falciarla con le gambe, ma lei sfuggì con un salto. Allora allungò un calcio, mirando al sensore anteriore. Lo mancò di poco.

   Colpita allo stomaco, la Norcadiana accusò il colpo; ma in assenza della scossa si riprese subito. Colpì il sensore toracico del Pendari con un calcio, facendolo tremare da capo a piedi. Poi si gettò su di lui, abbrancandolo, e lo colpì ripetutamente al petto. Uno, due, tre... al quarto colpo il Pendari giacque privo di sensi. La Norcadiana si rialzò, sudata e dolorante, ma anche inorgoglita dalla vittoria. Alzò le braccia, invitando la folla a far udire gli apprezzamenti, e si guardò attorno, assaporando il suo momento di gloria.

   Gli spettatori si alzarono, sollevando i pugni chiusi per salutare il vincitore. «Tsunka! Tsunka!» gridarono decine di voci aliene. Alcuni però non erano affatto soddisfatti del risultato. Erano gli scommettitori che avevano puntato sul Pendari, rassicurati dalla sua prestanza fisica, e avevano perso. Prima ancora di lasciare gli spalti, i creditori vennero da loro, per rammentargli quanto dovevano sborsare. Le scommesse sugli incontri di Tsunkatse costituivano un notevole giro d’affari su Norcadia. Grandi fortune si accumulavano e sfumavano con altrettanta rapidità, in base all’esito delle lotte.

   Due inservienti muniti di barella salirono sull’arena, per portare via il Pendari privo di sensi. Gli era andata bene: era un incontro blu, in cui allo sconfitto era dato di riprendersi per gareggiare ancora. Negli scontri rossi, invece, al vincitore era consegnata una vibro-lama con cui sferrare il colpo mortale. Questa tipologia di scontri era rara, dato che addestrare un campione costava tempo e risorse; farselo uccidere costituiva uno spreco. Ma era innegabile che attirassero più pubblico, non solo su Norcadia, ma anche sui mondi vicini: i combattimenti erano trasmessi via subspazio in tutto il settore. Gli ologrammi dei lottatori erano proiettati nelle arene locali, in tempo reale, così da non inficiare le scommesse.

   Ricevuto l’omaggio della folla, la Norcadiana lasciò l’arena. A questo punto anche gli spettatori abbandonarono gli spalti, scambiandosi pareri sullo spettacolo. Molti concordavano sul fatto che il Pendari avesse avuto quel che si meritava. «Qualche anno fa era un grande campione, ma ormai è sul viale del tramonto» commentò un Nygeano.

   «Dieci giorni di ricerche, e guarda dove siamo finiti» mugugnò Norrin, guardandosi attorno schifato.

   «Coraggio, amico. Siamo sulla pista giusta» lo confortò Radek. «Guarda, il nostro contatto».

   Un Norcadiano con un fiore purpureo all’occhiello venne verso di loro. «Non ci sono più i campioni di una volta» commentò. Era la frase di riconoscimento.

   «Su con la vita; c’è ancora valore nell’arena» gli rispose Radek a tono.

   Udendo la risposta concordata, il Norcadiano si rilassò. «Benvenuti, amici. Finalmente c’incontriamo di persona».

   «Era ora» disse Norrin. «Cominciavo a pensare che non ti saresti presentato».

   «C’è stato un cambio di programma» avvertì l’alieno. «Il mio capo vuole occuparsi direttamente dell’affare. Quindi vi accompagnerò da lui».

   «Non erano questi i patti» s’insospettì l’Hirogeno. Si portò la mano in tasca, dove teneva il phaser di tipo 1.

   «O si fa così, o potete andarvene» ribatté il Norcadiano. «Il capo non ha bisogno di voi, ma voi avete bisogno di lui, quindi vi consiglio di accettare».

   «E va bene» brontolò Norrin, ritirando la mano. «Vediamo il tuo capoccia».

 

   I due federali furono circondati da un gruppetto di guardie, di varie specie, che li scortarono fuori dal salone. Erano ancora nel palazzotto in cui si svolgevano gli spettacoli, un edificio basso e largo che sorgeva in una zona malfamata della capitale. Da una finestra Norrin intravide alcuni palazzi abbandonati e le ciminiere della zona industriale.

   Il gruppetto oltrepassò gli sportelli in cui si gestivano le scommesse. C’era una fila di scommettitori, in attesa di versare o incassare la loro quota. Gli animi erano accesi: molti gridavano ed erano sul punto di venire alle mani, tanto che dovettero intervenire i sorveglianti per riportare la calma. Norrin e Radek però seguirono il loro contatto, fino a raggiungere un ascensore.

   «Su di qua» disse il Norcadiano. «Ma prima, abbiate pazienza...». Le guardie perquisirono i federali, disarmandoli. «Le vostre cose vi saranno restituite all’uscita. Sono certo che comprenderete».

   «Hm-hm» fece Norrin, augurandosi di non finire in trappola.

   Salirono tutti sull’ascensore, che li portò qualche piano più in alto. Qui c’era una zona lussuosa, con uffici e aree ristoro. Sempre scortati dalle guardie, i federali giunsero in un attico particolarmente sontuoso. Un’olo-parete proiettava paesaggi più gradevoli delle ciminiere circostanti. Una segretaria norcadiana, il cui abbigliamento si addiceva più a una discoteca che a un ufficio, si stava ridipingendo con gran cura le unghie ad artiglio. E in fondo all’ufficio, dietro una scrivania iper-tecnologica, c’era il capo dell’organizzazione.

   Era un Norcadiano vestito in modo appariscente, con lunghi baffi impomatati. All’arrivo degli ospiti si alzò in piedi, scrocchiandosi le dita piene di anelli. «Benvenuti, signori! Io sono Erlik e mi pregio di gestire questa piccola azienda sportiva, tra le altre cose. Ho sentito che venite da molto lontano. Posso offrirvi qualcosa?» chiese, accennando al replicatore placcato d’oro incassato nella parete.

   «Molto cortese, ma preferiamo venire subito agli affari» disse Radek. «Ci è giunta voce che lei intrattiene rapporti coi Vaadwaur».

   «Davvero? E chi ve lo ha detto?» chiese Erlik, aggirando la scrivania per accostarsi agli ospiti. Quando venne in piena vista, le sue scarpe luccicarono: anch’esse erano placcate d’oro.

   «Amici di amici» rispose il Comandante, evasivo. «Pochi hanno il fegato di commerciare coi Vaadwaur, da quando il suo governo ha decretato l’embargo. Ma lei gli spedisce regolarmente viveri, componentistica per astronavi... e ultimamente medicinali. Alcuni dicono che gli vende anche armi, ma sono certo che si tratta di malelingue» ironizzò.

   «Ogni onesto imprenditore deve confrontarsi con le fake news» disse il Norcadiano, scrutando l’ospite. «Il mondo degli affari è spietato, sapete. Non c’è l’onore che troverete in un’arena di Tsunkatse».

   «Nondimeno, lei sa dove si trova la capitale Vaadwaur» proseguì Radek. «E può fornirci la copertura per arrivare fin laggiù. Ci basterà unirci ai suoi corrieri, quando gli spedirete il prossimo carico».

   «Mi chiedete molto» notò Erlik. «Se si trattasse solo di fornirvi le coordinate, non avrei problemi. Ma se vi mando là coi miei ragazzi, e voi attaccate briga coi Vaadwaur, metto a repentaglio la mia organizzazione. Sapete, i Vaadwaur non sono teneri con chi li tradisce. E non c’è luogo della Galassia che sia fuori dalla loro portata».

   Radek e Norrin si scambiarono un’occhiata. Dopo di che fu l’Hirogeno a prendere la parola. «Visto che un “onesto imprenditore” come lei conosce il valore delle informazioni, gliene darò una gratis. La buona stella dei Vaadwaur sta per tramontare. Si sono messi di nuovo contro tutti e stanno per pagarne le conseguenze. La prossima spedizione che gli farete sarà con ogni probabilità l’ultima. Questo indipendentemente dal fatto che ci aiutiate o meno» avvertì.

   Erlik lo fissò per qualche secondo, aggrottando la fronte alta e squadrata da Norcadiano. Poi si ritrasse e confabulò con un paio di collaboratori. Gli bisbigliò degli ordini e questi lasciarono rapidamente l’ufficio. Infine si rivolse di nuovo ai federali. «Sono curioso di vedere se avrete ragione» disse. «Per quanto riguarda la vostra richiesta, ci possiamo accordare».

   «Avevamo già raggiunto un accordo col suo tirapiedi» notò Radek, passeggiando accanto alla sua scrivania. «Duecento barre di latinum, venti kg di dilitio e la tecnologia per smaltire le scorie di antimateria. Per un imprenditore come lei, ansioso di mostrare la sua onestà, non c’è business più indicato di quello ecologico. Passerà alla storia come un filantropo» disse, sempre ironico. In passato gli ufficiali di Flotta non avrebbero potuto cedere così facilmente le loro tecnologie. Ma ora che Rangda aveva abolito la Prima Direttiva, c’erano ben pochi limiti agli scambi. Restava il veto sulla vendita di armi, ma per il resto potevano agire a loro discrezione.

   «Uhm, sì, mi ci vedo nel ruolo» sorrise Erlik, scoprendo i denti non proprio puliti. «Sono tentato di accettare. Ma devo chiedervi un’altra cosa... consideratelo un favore personale».

   «Sentiamo» disse Radek, preparandosi a un altro esborso. Per fortuna il Capitano Hod gli aveva garantito tutte le risorse della nave per completare la missione.

   «Come avete visto, ho una grande passione per gli incontri di Tsunkatse» spiegò il Norcadiano. «È con questi che ho iniziato la carriera, anche se ora costituiscono solo una percentuale dei miei introiti. Dovete sapere che da tempo i miei spettatori chiedono a gran voce di veder combattere un Hirogeno» rivelò, concentrandosi su Norrin. «Quelli della sua specie sono ottimi lottatori, ma raramente si lasciano coinvolgere nel nostro sport. Perciò le chiedo di calcare l’arena, per uno scontro indimenticabile».

   Norrin ebbe una sgradevole sensazione allo stomaco, come un senso di vertigine. Aveva visto con quanta violenza i lottatori si erano colpiti nell’arena, finché uno era stramazzato. E anche se quello era uno scontro blu, senza sangue, sapeva degli scontri rossi che terminavano con l’uccisione del perdente. Incrociò lo sguardo con Radek, che scosse la testa in modo appena percettibile. Ma l’Hirogeno non se la sentiva di mollare la loro unica pista. «Accetto solo a due condizioni» disse. «Primo: che si tratti di uno scontro blu, in cui non muore nessuno. Secondo: che sia un’unica esibizione. Niente repliche, niente rivincite».

   «Peccato... sono certo che un tipo ben piantato come lei avrebbe una carriera luminosa» disse Erlik, osservando il fisico muscoloso dell’Hirogeno così come un Ferengi avrebbe osservato una pila di latinum. «E va bene, ha la mia parola; ma lei veda d’impegnarsi. Dovrà essere un’esibizione indimenticabile!» esclamò, gesticolando animato.

   «La organizzi al più presto. Abbiamo molta fretta» disse Norrin, temendo che la cosa andasse per le lunghe.

   «Beh, mi ci vorrà qualche giorno per fare pubblicità» si cautelò il Norcadiano «Anche se posso contare su un pubblico di appassionati, gli eventi speciali vanno reclamizzati. Attira gli scommettitori!» gongolò, fregandosi le mani. «Nel frattempo i miei campioni le spiegheranno i rudimenti dell’arte. Suppongo che lei, in quanto Hirogeno, conosca già varie tecniche di lotta...».

   «Sì, ma non quelle tipiche della mia gente» spiegò l’Ufficiale Tattico. «La mia formazione è stata diversa».

   «Fa lo stesso... quando pratichi la lotta, è più facile imparare nuove mosse» disse Erlik, facendo spallucce. «Bene, amico mio. Siccome il tempo stringe, ti chiedo di restare mio ospite fino al giorno dell’incontro. Così potremo cominciare subito ad addestrarti. Quanto a lei, signor Radek... la rivedrò volentieri a cose fatte» promise, girandosi verso il Rigeliano.

   «A quel giorno, allora» disse il Comandante, allontanandosi dalla scrivania. «Le verserò il compenso dopo aver recuperato il mio socio. Una piccola precauzione, sono certo che capisce».

   «Ma sicuro» fece il Norcadiano, contrariato. «Spero che assisterà anche lei allo spettacolo. E se vuol fare scommesse, non si faccia problemi. Può depositare un fondo presso il nostro banco. La base di partenza è mille crediti norcadiani, facilmente convertibili».

   «Adesso non esageri» disse Radek, avviandosi all’uscita. «Le do tre giorni per allestire l’incontro; poi verrò a recuperare il mio socio».

 

   Furono i tre giorni peggiori che Norrin avesse passato da molto tempo a quella parte. L’Hirogeno fu condotto nei livelli inferiori del palazzo, dove si trovavano i dormitori e le sale d’addestramento dei lottatori. Qui fu presentato ai combattenti e gli fu data una tuta della sua taglia. Poiché lo scontro si sarebbe tenuto di lì a pochi giorni, l’addestramento cominciò subito. I suoi insegnanti furono, a turno, i lottatori professionisti. Alcuni sembravano infastiditi dalla sua presenza e gli dissero il minimo indispensabile. Altri furono insegnanti migliori, più per correttezza professionale che per simpatia. Nelle poche occasioni in cui riuscì a fare conversazione, Norrin scoprì che alcuni di loro praticavano quel mestiere da anni. Questo lo confortò, perché significava che si poteva sopravvivere a molti scontri. I suoi insegnanti confermarono che i combattimenti all’ultimo sangue erano rari, perché la morte di un campione rappresentava una perdita notevole per gli organizzatori.

   L’Hirogeno si avvide che i lottatori vivevano in una condizione paragonabile alla schiavitù: non potevano allontanarsi dalla struttura, né rifiutarsi di tenere uno scontro. Il loro prestigio, determinato dal numero di vittorie e dal favore del pubblico, si traduceva in privilegi oltre che in denaro. Un campione aveva cibo migliore, passatempi, e se veniva ferito riceveva cure appropriate. Al contrario un lottatore scadente era trattato sempre peggio, cosa che certo non lo aiutava a migliorare. I più sfortunati erano destinati agli scontri rossi, perché il gestore aveva deciso di sbarazzarsi di loro. Solo chi vinceva molti scontri, e resisteva alla tentazione di sperperare le vincite in scommesse e piaceri, poteva alfine comprarsi la libertà.

   L’unica consolazione di Norrin era che, come aveva detto Erlik, chi è addestrato a lottare impara più facilmente le nuove mosse. Come Ufficiale Tattico, l’Hirogeno padroneggiava molti stili di combattimento. Già da ragazzo aveva imparato qualcosa dai suoi simili, prima di essere separato da loro. Poi aveva superato il rigoroso addestramento d’Accademia. Anche negli anni seguenti si era sempre tenuto allenato. Così molte mosse dello Tsunkatse facevano già parte del suo repertorio, anche se le chiamava in modo diverso. In altri casi c’erano piccole differenze, tanto da poterle considerare varianti delle tecniche note. Le mosse davvero nuove che dovette imparare furono poche. La principale preoccupazione era non scoprire i propri sensori, mentre si cercava di colpire quelli dell’avversario. Una volta che si subiva un colpo bisognava ritrarsi subito, per non permettere all’opponente di assestarne altri, anche se già dopo la prima scarica i muscoli erano intorpiditi. Norrin si ripromise di stare molto attento.

   «Te la caverai» gli disse la sua ultima insegnante, la Norcadiana che aveva visto combattere nell’arena. Era la sera prima dell’incontro e si erano allenati per ore, fino a ritrovarsi in un bagno di sudore. «Combatti meglio di molti professionisti. Se restassi qui, saresti un campione» disse la lottatrice, asciugandosi il volto con un panno.

   «Ah, ne sono lusingato» disse Norrin, andando a sedersi in panchina. «Ma ho altri progetti». Bevve un po’ d’acqua dalla borraccia, per dare sollievo alla gola riarsa. Dopo una giornata d’intensi allenamenti aveva male dappertutto. Non vedeva l’ora di ficcarsi in brandina.

   «Peccato... cominciavi a piacermi» ammiccò la Norcadiana, passandosi la mano su un fianco.

   Norrin la squadrò da capo a piedi. Aveva il fisico muscoloso e indurito di una lottatrice, ma a suo modo era attraente. L’Hirogeno sarebbe stato un bugiardo, se avesse detto che lo lasciava insensibile. Ma era in missione per salvare Ladya; sarebbe stato poco coerente prendersi una sbandata strada facendo. No: voleva arrivare dalla Vidiiana, guardarla negli occhi e dirle che non desiderava nessun’altra. «Scusa, ma ora devo riposare» disse, andando verso il dormitorio. «Domani avrò una giornata impegnativa».

 

   Le luci stroboscopiche spazzarono l’arena, mentre dagli altoparlanti saliva il ritmo incalzante. Gli spettatori si accalcarono sugli spalti, presagendo uno scontro particolarmente avvincente. Per la prima volta da anni, un Hirogeno sarebbe sceso sul campo. Il pubblico conosceva quei famigerati Cacciatori; molti ne avevano un autentico terrore. Ma l’idea di vederne uno che si batteva nell’arena, dove non poteva far loro del male, era stuzzicante. Presto dal pubblico salì un coro: «Hirogeno! Hirogeno! Dateci l’Hirogeno!».

   «Li senti, amico mio?» chiese Erlik. «Vogliono te... non sei ancora sceso in campo e hai già la fama di un campione!».

   «Merito della tua campagna pubblicitaria» rispose Norrin. L’Hirogeno era stato convocato nell’ufficio del Norcadiano, per scambiare qualche parola prima dell’incontro. Dall’oloschermo parietale poteva vedere la folla sempre più carica.

   «In parte» gongolò Erlik. «Ma molto lo devo alla fama del tuo popolo. Perciò il tuo scontro sarà il piatto forte della giornata».

   Al centro dell’arena comparve lo speaker, sotto forma di ologramma. «Benvenuti, amanti della lotta! Oggi vi offriamo degli spettacoli eccezionali! Saranno prove d’abilità, di coraggio, di sacrificio!» proclamò, alzando le braccia per aizzare il pubblico. «So cosa volete... l’Hirogeno! Ma quello, signori, verrà per ultimo. Fino ad allora, restate con noi e fate le vostre scommesse!».

   «Signore, uno scommettitore dell’ultimo minuto vorrebbe fare un deposito» avvertì la segretaria. «Chiede anche di vedere l’Hirogeno, per farsi un’idea».

   «È uno straniero, vero? Credono che siamo tutti al loro servizio» borbottò Erlik. «Caccialo via. Digli che è tardi, il banco è chiuso».

   «Eccellenza, è un Voth. E vuole depositare diecimila crediti».

   «Uh, allora è diverso. Accoglilo pure!» disse il Norcadiano, con sguardo cupido. Spense l’oloschermo, proprio mentre lo speaker annunciava l’ingresso dei primi due sfidanti. I Voth erano rispettati in tutto il Quadrante Delta per la loro fantastica tecnologia e la grande ricchezza. Uscivano raramente dal loro spazio, ma quando lo facevano erano accolti con tutti gli onori.

   L’ingresso si aprì e il Voth entrò con piglio deciso. Era alto e massiccio, con le scaglie di un verde intenso, screziato di giallo. I suoi abiti erano a dir poco estrosi: un’accozzaglia di colori pacchiani e stridenti. «La ringrazio per avermi ricevuto all’ultimo momento. Quei buffoni della dogana mi hanno trattenuto così a lungo che temevo di perdermi il divertimento» si lamentò, con voce un po’ stridula.

   «Non c’è problema, signor...?» chiese Erlik, venendogli incontro.

   «Santo Brachiosauro, ma dove ho la testa? Mi chiamo Othnielia, lieto di conoscerla» disse il Voth, stringendogli energicamente la mano. «E cos’abbiamo qui? Il campione di cui tutti parlano!». Othnielia piroettò su se stesso e si avvicinò con passo molleggiato a Norrin. «Che emozione... ti esibirai oggi, vero?».

   «Sì» rispose Norrin.

   «E hai già partecipato a molti scontri?» indagò il Voth, sedendo indecorosamente sulla scrivania di Erlik.

   «No».

   «Ehm, interrogare i lottatori sarebbe contro le regole» tossicchiò Erlik. «Non se ne abbia a male».

   «No, si figuri!» trillò Othnielia, tornando in piedi. Si rivolse di nuovo a Norrin, mentre lo osservava da capo a piedi. «Bene, bene... un campione alle prime armi. Ma conosco la tua specie, so di cosa siete capaci. Sì, credo che scommetterò forte su di te. Ah ah!». Così ridacchiando il Voth tornò da Erlik, che nel frattempo si era munito di un apparecchio per le transazioni. «Vorrei aprire un deposito da diecimila crediti, così, tanto per iniziare. Se ci prenderò gusto, aspettatevi depositi ben più cospicui. Trasferisco tutto dalla Banca Centrale Norcadiana, dove ho aperto un conto stamane».

   «Certo, non si preoccupi... qui siamo abituati a depositi di questa natura» garantì Erlik. Offrì l’apparecchio al Voth, che digitò il suo codice personale. Dopo di che lo riprese, sincerandosi dell’avvenuta transazione. «Deposito effettuato. È stato un piacere, signor Othnielia. Dopo gli incontri, spero che si tratterrà per un rinfresco».

   «Se avrò tempo» disse il Voth, dirigendosi già verso la porta. «Scusi, ma devo scappare! Il primo incontro è già iniziato e io devo ancora piazzare le mie scommesse. A dopo!». Corse via, facendo svolazzare l’abito ampio.

   «Avete dei bei soggetti» commentò Norrin.

   «Vero? Quello è il tipico pollo» sogghignò Erlik. Andò alla scrivania, aprendo un canale audio con i suoi allibratori. «Occhi aperti, ragazzi. È in arrivo un gonzo Voth pieno di soldi, che si crede un gran scommettitore. Andateci piano, per oggi, così tornerà nei prossimi giorni. E perderà cifre più importanti».

   Sistemata questa faccenda, il Norcadiano tornò da Norrin. «È meglio se vai a prepararti. Fra poco entri in scena» lo informò. «Ti do solo qualche raccomandazione. Primo: quando entri rivolgiti agli spettatori. Osservali, salutali... fa’ vedere che sei lì per loro. Senza esagerare, ovviamente; non fare il buffone. Secondo: attieniti a quel che ti hanno insegnato i miei campioni, anche se conosci altri stili. Come hai visto al tuo arrivo, il pubblico non apprezza le improvvisazioni. Lo Tsunkatse è un’arte antica, bisogna rispettarla».

   «Lo terrò a mente» promise Norrin, avviandosi all’uscita.

   «Ah, un’ultima cosa» lo richiamò Erlik. «Il tuo avversario sarà il Pendari. È un buon lottatore, ma ultimamente ha incassato delle sconfitte che lo hanno screditato. Con quest’incontro voglio riportarlo in auge. Ho già sguinzagliato i miei prestanome. Abbiamo un sacco di scommesse su di te. Quindi, per farci incassare, devi perdere l’incontro. Mi sono spiegato?».

   «Sì» sospirò Norrin, lasciando l’ufficio.

 

   «Siamo arrivati al grande evento! Lo avete atteso... lo avete sognato... e ora ci siamo! Dalle remote profondità dello spazio, ecco a voi il guerriero perfetto! Norrin, erede di una lunga e ininterrotta stirpe di spietati Cacciatori! Per centomila anni gli Hirogeni si sono addestrati al combattimento. Vivono per cacciare, uccidere... e ora per esibirsi davanti a voi!».

   Quando Norrin entrò nell’arena, gli spettatori balzarono in piedi, agitando i pugni e gridando il mantra: «Tsunka! Tsunka!». Il rullo di tamburi salì di tono e anche il ritmo delle luci divenne più incalzante. Ricordando le istruzioni di Erlik, Norrin salutò il pubblico con un ampio gesto, facendo salire ancor più l’eccitazione. Tra gli spettatori notò Othnielia, il Voth che aveva promesso di scommettere su di lui.

   «E chi oserà sfidare l’Hirogeno?» chiese retoricamente lo speaker. «Magari qualcuno che non conosce la paura e ha piegato gli avversari più duri! Una roccia, una montagna vivente! Salutate Rimush, l’Inconquistabile!».

   Il secondo ingresso dell’arena si aprì e una figura massiccia emerse dalle ombre. Come annunciato era il Pendari. Era umanoide nelle linee generali, ma assolutamente fuori dal comune per lo spessore dei bicipiti e lo sviluppo toracico. Al suo ingresso levò le braccia, ricevendo una buona dose di applausi e incoraggiamenti. Solo Othnielia e gli altri che avevano scommesso contro di lui fecero udire versi di disapprovazione.

   «Il capo ti ha detto cosa devi fare, vero?» sogghignò Rimush, facendosi avanti con fare bellicoso.

   «Sì, devo convincere gli spettatori che vali ancora qualcosa» rispose Norrin in tono misurato. «Ma non te la renderò troppo facile». Si portò un dito alla fronte, facendo il segno obliquo che solitamente i Cacciatori si tracciavano sul casco con la pittura, prima di uno scontro.

   «Non importa se collabori o meno; ti schiaccerò lo stesso!» ringhiò il Pendari, partendo all’attacco.

   Norrin deviò il colpo diretto al suo sensore toracico e rispose di sinistro, mirando allo stesso bersaglio. Mancò di poco il sensore, colpendo invece il petto dell’avversario; fu come centrare un muro.

   Il Pendari grugnì e tornò all’attacco. Lo scontro si accese: gli avversari non lesinavano colpi, cercando se possibile di beccarsi i sensori, ma non esitando ad assestare sberle più tradizionali. Rimush era avvantaggiato dalla maggior esperienza, mentre Norrin compensava con uno stile più eclettico, pur cercando di non deviare troppo da quanto gli era stato insegnato in quei giorni. Con il progredire della lotta, la differenza caratteriale fra i due divenne evidente. Il Pendari era costantemente all’attacco, mentre l’Hirogeno si teneva sulla difensiva, contrattaccando solo quando vedeva uno spiraglio nelle sue difese.

   «Tsunka! Tsunka!» scandì il pubblico. Norrin pensò che fosse ora di lasciar vincere l’avversario. Lo aveva appena pensato che ricevette un calcio sul sensore toracico. La scossa lo attraversò da capo a piedi, lasciandolo irrigidito e senza fiato. L’attimo dopo ricevette un gancio destro che lo fece barcollare. Si ritirò verso il bordo inclinato dell’arena, arrampicandosi per quanto possibile. Da quella posizione soprelevata assestò un calcio all’avversario, cercando di colpirlo al sensore toracico. Ma Rimush schivò e gli afferrò la gamba, scaraventandolo a terra. Poi si gettò su di lui, per chiudere la partita. Norrin rotolò al suolo nel tentativo di allontanarsi, ma fu colpito sul sensore dorsale, proprio in mezzo alle scapole. Boccheggiò e per un attimo vide le stelle.

   Ormai debole, l’Hirogeno si tirò in piedi e si lanciò in un ultimo attacco. Il Pendari scartò di lato e lo agguantò, bloccandogli il braccio dietro la schiena. Lo colpì più volte tra le scapole, centrando sempre il sensore, e infine lo scaraventò a terra. Stavolta Norrin non riuscì a rialzarsi. Le gambe non gli rispondevano, tutti i muscoli dolevano per le scosse. Le luci stroboscopiche sparate in faccia quasi lo accecavano e la musica martellante si confondeva con le grida indemoniate del pubblico. Capì che lo scontro era finito. Ne fu sollevato, perché aveva fatto la sua parte fino in fondo. Ora gli inservienti lo avrebbero portato via, per poi aiutarlo a riprendersi...

   «Tsunka! Tsunka!» gridarono gli spettatori, sempre più esaltati. Si erano alzati in piedi e agitavano i pugni, invitando a colpire. Norrin si accorse che le luci, fino a quel momento in prevalenza blu, erano virate verso il rosso.

   «Il gioco è finito» disse Rimush, incombendo su di lui. Lo schiacciò a terra con un ginocchio e levò il pugno, nel quale ora brandiva una vibro-lama. Gli angoli della sua bocca s’incresparono in un sorriso crudele, mentre si accingeva a sferrare il colpo mortale.

   «Tsunka! Tsunka!» incalzarono gli spettatori, ormai in delirio. Solo il Voth se n’era andato. Il Pendari vibrò il colpo, mirando alla gola dell’Hirogeno, non protetta dalla tuta.

   «Ci sono i tempi supplementari» grugnì Norrin. Aveva afferrato il braccio dell’avversario, riuscendo a bloccarlo. La punta della vibro-lama gli dardeggiò a un centimetro dalla gola.

   Rimush ringhiò e spinse con più forza, per portare a fondo il colpo. La lama calò fino a sfiorare la gola di Norrin. All’ultimo istante l’Hirogeno riuscì ad allungare un dito, disattivandola. L’attimo dopo il pugno dell’avversario gli calò sulla gola, levandogli comunque il fiato.

   Prima che il Pendari potesse riattivare la vibro-lama, Norrin l’afferrò per il bavero e gli diede una violenta testata. L’avversario cercò di rialzarsi, ma l’Hirogeno gli sgusciò alle spalle e lo afferrò da dietro, torcendogli le braccia fin quasi a stroncargliele. Lo piegò in avanti, con la faccia al suolo, e gli colpì il sensore dorsale con una ginocchiata. Reiterò il colpo finché lo vide semi-stordito, dopo di che lo gettò a terra. Allora raccolse la vibro-lama, la ripiegò e infine la spezzò.

   «Non mi servono armi, per annientarti!» ringhiò il Pendari. Si rotolò a terra e si rialzò, già pronto a riprendere la lotta.

   «Finora c’ero andato piano con te» disse Norrin, strappandosi i sensori dal petto e dalla schiena. «Vediamo che succede se mi batto sul serio».

 

   Quello che seguì non poté dirsi un combattimento di Tsunkatse fatto secondo le regole, dato che gli avversari si erano strappati i sensori. A peggiorare le cose c’erano parecchie mosse irregolari. Però anche gli spettatori più incalliti dovettero ammettere che la lotta aveva un suo fascino. Calci, salti e giravolte c’erano ancora. La differenza principale era che adesso ogni parte del corpo costituiva un bersaglio, dato che non si mirava più ai sensori.

   Ben presto fu chiaro che gli avversari puntavano soprattutto alla faccia. Lo scontro somigliava sempre meno alla lotta e sempre più al pugilato. Norrin non restava più sulla difensiva; dopo ogni parata sferrava un contrattacco. Un gancio particolarmente energico fece saltar via un dente al Pendari. Questi emise una specie di muggito e si gettò in avanti a testa bassa, cercando di atterrare l’Hirogeno. Norrin resse l’attacco, arretrando fino a puntare i piedi contro la parete inclinata. Colpì l’avversario alla schiena e poi con una ginocchiata in faccia, che lo fece barcollare all’indietro. A questo punto Norrin partì con l’attacco finale. Sferrò una serie di colpi così rapidi che l’avversario non riuscì a pararli, né a schivare; men che meno a rispondere. Tra pugni e calci rotanti, mise a segno non meno di venti colpi consecutivi. Smise solo quando le braccia gli fecero troppo male per continuare.

   Il Pendari era ancora in piedi, anche se da un pezzo aveva smesso di reagire. Barcollava come un ubriaco, guardandosi attorno con vago stupore. «Sciono un campione di Tsciunkatse» biascicò, con voce alterata dalla perdita del dente. I suoi occhi si arrovesciarono ed egli franò in avanti. Giacque bocconi sull’arena, mentre Norrin si scrocchiava le dita indolenzite. Dagli altoparlanti risuonò l’inno di vittoria. Gli spettatori andarono in delirio, acclamando a gran voce il campione che si era guadagnato un posto nei loro cuori.

   «Beh, non hanno combattuto esattamente secondo le regole... diciamo pure che se ne sono infischiati... ma signori, che lotta! Questa ce la ricorderemo per un pezzo!» disse lo speaker, cercando di salvare i cocci. «Acclamiamo il nuovo campione dell’arena: Norrin il Terribile!».

   «Tsunka! Tsunka!» ripeté la folla estasiata. Il grido ritmico continuò a essere scandito anche dopo che Norrin ebbe lasciato l’arena.

 

   «Idiota!» ringhiò Erlik, marciando contro Norrin. Non avendo la pazienza di aspettarlo nel suo ufficio gli era corso incontro, raggiungendolo in un corridoio. «C’erano scommesse per un milione di crediti! Dovevi perdere, lo capisci?! Perdere!» gridò, con la bava alla bocca. Le due guardie del corpo estrassero i disgregatori e presero di mira l’Hirogeno, pronte a ucciderlo.

   «Avevamo un accordo» ribatté Norrin. «Lo scontro doveva essere blu, non rosso. Se avessi saputo che era rosso, non mi sarei certo lasciato atterrare. Che ti è saltato in mente?! Ti avevamo offerto un cospicuo pagamento e una tecnologia che ti avrebbe reso miliardario. Ora non avrai nulla. E ovviamente il mio socio non ti avrebbe pagato nemmeno se io fossi morto».

   «Non ci arrivi, vero?!» fece il Norcadiano, sfrigolante di rabbia. «Il latinum e il dilitio che mi avevate offerto valevano meno delle scommesse per questo scontro. Per non parlare dei guadagni che avrei fatto ridando fama a Rimush. Quanto alla tecnologia per riconvertire le scorie radioattive, non m’interessa: gestisco già lo smaltimento illegale. Ma soprattutto, non ho mai avuto intenzione di mettermi contro i Vaadwaur solo perché voi due volete fare una scampagnata sul loro pianeta».

   «Quindi hai preferito farmi uccidere» disse Norrin. «Visto che potevi usarmi una volta sola, tanto valeva farlo bene. Sconfiggere un Hirogeno avrebbe ridato lustro al tuo campione, ma uccidermi... lo avrebbe reso leggendario. Speravi che me ne accorgessi troppo tardi o che non avessi la forza di rialzarmi. Beh, hai fatto male i conti».

   «Mi hai fatto perdere una barca di soldi» disse Erlik, fissandolo con odio. «Ora devi rimediare. Resterai qui, combattendo per me, finché avrai risarcito l’ammanco. Con gli interessi. Ora che sei un campione, il pubblico smania di vederti nuovamente all’opera».

   «Eh no, caro mio. Qui non ci resto un minuto di più» avvertì Norrin. «Ho scoperto che lo Tsunkatse non fa per me».

   «Non sei tu a decidere!» ringhiò il Norcadiano, mentre le sue guardie del corpo accorciavano le distanze, per essere certe di non sbagliare il colpo. «O combatti per me, o ti facciamo saltare le cervella».

   «Se non saltano prima le tue» disse una voce alle sue spalle. Othnielia, lo scommettitore Voth, si era presentato con un phaser in mano. «A proposito, ti piacerà sapere che ho vinto le scommesse. Ho triplicato il mio deposito. Ora però devo andare. Quindi sono qui per ritirare i soldi».

   «E lo chiedi con quello?» chiese Erlik, fissando il phaser.

   «Solo quando tratto con la feccia. Il mio socio ha ragione... facevi meglio a rispettare l’accordo». Così dicendo il nuovo arrivato disattivò il proprio travestimento olografico. Svanite le sembianze da Voth, il Comandante Radek fronteggiò gli alieni. «Gettate le armi, forza!» intimò alle guardie del corpo.

   «Fate come dice» mugugnò Erlik. Le guardie eseguirono. Norrin si affrettò a prendere i disgregatori, uno per mano; poi si affiancò a Radek.

   «Grazie, amico. Ma speravo che saresti intervenuto prima, quand’ero nell’arena» commentò l’Hirogeno.

   «Scusa. Quando mi sono accorto che era uno scontro rosso ho provato a teletrasportarti via, ma il raggio della navetta non ti agganciava. L’arena dev’essere schermata» si giustificò il Comandante.

   «Fa niente, l’importante è che sei qui» disse Norrin.

   «Vi conviene andarvene, finché potete» consigliò Erlik. «Quando il resto delle mie guardie verrà qui, non avrete scampo».

   «I nostri affari non sono terminati» obiettò Norrin. «Avevamo un accordo. Io ho fatto la mia parte, battendomi nell’arena. Se poi tu sei stato sfortunato con le scommesse, è un problema tuo».

   «Ora tocca a te» proseguì Radek. «Ci dirai dove si trova il pianeta dei Vaadwaur e ci fornirai anche la copertura per raggiungerlo».

   «Questa è buona!» fece il Norcadiano, sprezzante. «Perché dovrei?».

   «Perché altrimenti il tuo pubblico saprà come gestisci le scommesse» rispose il Comandante, con un sorriso perfido. Cavò di tasca un piccolo congegno, delle dimensioni di un’unghia.

   «Che roba è?» chiese Erlik, con un orribile presentimento.

   «Una cimice audio-video. L’ho piazzata nel tuo ufficio già durante il nostro primo incontro e poi l’ho recuperata quando mi sono presentato travestito» spiegò Radek, compiaciuto. «Ha registrato tutto ciò che hai detto e fatto negli ultimi giorni. Comprese le chiamate ai prestanome da cui si evince che gli scontri sono pilotati. Credo che la polizia norcadiana darebbe un certo peso a questa prova, se dovesse entrarne in possesso». Così dicendo si rimise in tasca la microspia. Intanto, con l’altra mano, teneva sotto tiro il Norcadiano.

   «Anche la mia testimonianza varrà qualcosa» aggiunse Norrin. «Finalmente si farà luce sui tuoi “onesti affari”, caro il mio imprenditore».

   «Groan... avete vinto» si arrese Erlik. «Vi darò la navetta con il carico e le coordinate. Non vi affannate a riportarmela. Quando avrete fatto quello che dovete... qualunque cosa sia... sparite. Non tornate mai più su Norcadia».

   «Ora sì che ragioniamo» sorrise Radek. «Bada a non fare scherzi. Passeremo la navetta al setaccio, prima di partire. Se troveremo che l’hai manomessa... o se le coordinate non saranno giuste... daremo la cimice alla polizia» avvertì.

   «E se i Vaadwaur ci beccheranno perché li hai avvertiti, i nostri amici gliela daranno comunque» rincarò Norrin. «Qualcuno di loro potrebbe anche venire da te, per esprimerti personalmente il suo disappunto» aggiunse, pensando a Jaylah. «Quindi non cercare di fregarci ancora, perché non saranno i tuoi lottatori, né i tuoi scagnozzi a proteggerti».

   «Okay, un veterano sa riconoscere la sconfitta» disse il Norcadiano, che ormai si considerava fortunato a uscire vivo da quell’affare. «Dovete avere un grosso conto in sospeso coi Vaadwaur, per essere così decisi a scovarli. Che vi hanno fatto?» chiese.

   «Nulla che ti riguardi» rispose Norrin, fissandolo con aria minacciosa. Il pensiero di Ladya nelle loro grinfie non l’aveva mai abbandonato, neanche mentre le buscava nell’arena. «Ma se facessero l’irreparabile, rimpiangeranno d’essere nati».

 

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Capitolo 8
*** Il valore della vita ***


-Capitolo 7: Il valore della vita
 
   Un altro giorno di miseria e sofferenze era cominciato a Kinara, la capitale Vaadwaur, da mesi in preda all’epidemia. Il sole si levava nella foschia, trasparendo come una sfera pallida, che diffondeva un barlume fioco e sfumato. Non erano nubi di vapore acqueo a velarlo, ma solo la sabbia trasportata dal vento. Nessuna pioggia avrebbe ristorato la scarsa vegetazione rinsecchita e i pochi rettili che strisciavano fuori dalle buche del terreno. Al contrario, con il passare delle ore la temperatura salì costantemente, finché l’insediamento Vaadwaur fu avvolto da una cappa torrida e asfissiante. Le baracche in lamiera divennero così roventi che nessuno poteva toccarle: per aprire le porte bisognava indossare i guanti. Visti da lontano, gli oggetti tremolavano per la rifrazione delle onde luminose indotta dal calore. Qua e là svettavano le uniche piante adatte a quel clima. Somigliavano alle agavi terrestri: avevano lunghe e spesse foglie grigiastre, spinose sui lati, che uscivano a ciuffi direttamente dal terreno. Alcune erano così grandi che ci si poteva riparare alla loro ombra.
   Con l’aggravarsi dell’epidemia, i Vaadwaur avevano costruito un vasto recinto che abbracciava gran parte dell’ospedale da campo. Conteneva le baracche dei malati, alcuni depositi, la mensa e i bagni. Molti infetti però non trovavano posto nei tuguri, o non ne sopportavano il calore, per cui preferivano star fuori. Qua e là c’erano ampi teloni sorretti da pali, che facevano ombra. Bisognava però ammainarli quando il vento si alzava troppo, per evitare che si strappassero o volassero via.
   Dei malati, molti erano troppo deboli per camminare e quindi stavano distesi al suolo, su giacigli di fortuna, chiedendo acqua o antidolorifici ai medici di passaggio. Altri erano stati colpiti nel sistema nervoso: vagavano qua e là, ripetendo parole sconnesse. Tra i pazienti che riuscivano a camminare, alcuni avevano scatti d’ira o disperazione. Non pochi cercavano di fuggire, per tornare alla città sotterranea dove c’erano acqua e refrigerio. La recinzione serviva a trattenerli, per evitare che spargessero il contagio. Alcuni afferravano il reticolato metallico con le dita scarne e guardavano fuori, aspettando aiuti dalla città. Altri scrutavano il cielo giallastro, come se la salvezza dovesse giungere da lì. Ma le poche navicelle che atterravano erano incursori bisognosi di riparazione. L’unico ingresso del recinto era chiuso da un cancello e bordato da torrette con spalti. Soldati armati lo presidiavano costantemente, per impedire le fughe.
   A un tratto qualcosa scintillò nella foschia, accompagnato da un suono fischiante. Una navicella si preparava ad atterrare. Questa però non era Vaadwaur, ma Norcadiana. Era il trasporto settimanale che riforniva la colonia. Vedendolo calare nell’aria tremolante, molti malati si augurarono che portasse qualcosa di utile anche per loro.
 
   Nell’osservare quel paesaggio desolante, Norrin fu pervaso da un misto d’orrore e di pietà. Non augurava a nessuno, neanche ai peggiori nemici, di andare incontro a quella sorte. Tuttavia era lì per salvare Ladya e non sarebbe tornato indietro senza di lei. Diresse la navicella verso il campo d’atterraggio, secondo le istruzioni della torre di controllo. Fin lì il piano era andato bene. Dopo l’avventura su Norcadia lui e Radek avevano ottenuto la navicella dei contrabbandieri, con il suo carico. Nel computer di bordo avevano trovato le coordinate della capitale Vaadwaur. A quel punto erano tornati alla Keter, rivelando l’informazione all’Alleanza. Dopo aver imbarcato alcuni volontari della Sicurezza, affinché li aiutassero, si erano travestiti da contrabbandieri ed erano partiti alla volta di Kinara. Norrin si aspettava una grande colonia, con capacità industriali, tanto che sulle prime pensò d’essere stato ingannato. Poi capì che l’insediamento vero e proprio era sotterraneo.
   «Rilevo 70.000 segni vitali nel sottosuolo» disse, con un occhio ai sensori e uno alla pista di atterraggio. «I diecimila qui in superficie sono i malati».
   «Un colpo di fortuna» commentò Radek. «Forse riusciamo a beccare Ladya in superficie. Altrimenti dovremo calarci sottoterra e non sarà una passeggiata».
   «È l’ora della verità» disse Norrin, osservando le batterie della contraerea e gli incursori che scintillavano al suolo. «Se Erlik ci ha venduti, i Vaadwaur ci ammazzano adesso. Se dovesse accadere, ti chiedo scusa in anticipo».
   «Gentile da parte tua» disse Radek, che in effetti stava sudando freddo. La promessa fatta in un momento d’ebbrezza rischiava di costargli cara. Ma non ci furono attacchi; la navicella si posò indisturbata sulla pista di permacemento.
   «Siamo ancora vivi» constatò l’Hirogeno. «Lo prendo come un buon segno».
   «Questa era la parte facile; il bello viene ora» disse il Rigeliano, alzandosi.
   I due lasciarono la cabina, recandosi nella sezione posteriore della navicella, dove il resto della squadra li attendeva. I volontari della Sicurezza, seduti a terra o sui contenitori di merci, scattarono in piedi. Per chi non li conoscesse era difficile immaginare che sotto quegli stracci da contrabbandieri si celavano dei professionisti della Flotta Stellare. «Bene, ragazzi» disse Radek «ora dovete scaricare le merci più lentamente che potete, per darci il tempo di trovare la dottoressa. Se vedete che tardiamo, inventatevi delle scuse. Pretendete un compenso maggiore del pattuito. Rovesciate parte del carico e rifiutatevi di raccoglierlo. Chiedete di andare a sballarvi nella città sotterranea, se necessario. Insomma, dateci del tempo!».
   «Sì, signore» rispose il caposquadra.
   «Ma non fate arrabbiare troppo i Vaadwaur» aggiunse Norrin. «Se ci sequestrano la nave, siamo finiti». Ciò detto, l’Hirogeno aprì il portello posteriore. Luce abbagliante, caldo torrido e una brezza polverosa entrarono man mano che il portello si sollevava. Contro l’intensa luce dell’esterno si stagliavano le sagome dei soldati Vaadwaur.
   «Siete in ritardo» esordì seccamente un sergente.
   «Scusate, sono gli incerti del mestiere» disse Radek, avventurandosi all’esterno. Norrin e un paio d’altri lo seguirono.
   «Non siete i soliti corrieri» notò il Vaadwaur. «Che è successo agli altri?».
   «Il capo ha dubitato della loro lealtà» rispose il Comandante. «Non so di preciso che gli ha fatto, ma non mi va di scoprirlo».
   «Beh, sbrigatevi a scaricare» ordinò il sergente. «Spero per voi che sia tutto a posto. L’ultima volta ci avete rifilato una cassa di filtri atmosferici non adeguatamente imballati. Avevano sbatacchiato così tanto durante il trasporto che alcuni si erano rotti. Il Generale Suddayath non tollererà altri incidenti del genere».
   «Che vuoi che ti dica, amico? Noi siamo solo i corrieri» ribatté Radek, facendo spallucce. «Trasportiamo le casse, le scarichiamo dove volete... ma quel che c’è dentro non dipende da noi».
   «Sì, ma tu dillo al tuo capo di non fare scherzi!» insisté il Vaadwaur, puntandogli il disgregatore nadionico al petto. «Altrimenti faremo affari con qualcun altro. Non è il nostro unico fornitore, chiaro?».
   «Cristallino» annuì il Comandante.
   «Adesso controlleremo il vostro carico» disse il sergente, mentre i soldati iniziavano a scoperchiare le casse. «Se c’è qualcosa di mancante o di rotto, ve ne pentirete».
   I federali si tirarono indietro, mentre i Vaadwaur facevano la loro ispezione. Furono minuti di estrema tensione. Il minimo difetto del carico li avrebbe rovinati. Fortunatamente i soldati non trovarono nulla di cui lamentarsi.
   «Bene, cominciate a capire che con noi non si scherza» disse il sergente, richiudendo l’ultima cassa. «Ora datevi una mossa. Tutta questa roba va portata al montacarichi».
   Radek e Norrin si scambiarono un’occhiata d’intesa. Caricarono alcune casse sul carrello elevatore di cui era munita la navicella e salirono nella cabina di guida, che aveva i vetri opacizzati. Attivato il motore levitante, scesero sulla pista di atterraggio.
   «Là» disse Norrin, riconoscendo il montacarichi, localizzato sotto una tettoia. Lo raggiunsero assieme a uno dei loro agenti, che li seguì portando a braccio una cassa. A quel punto il Comandante e l’Ufficiale Tattico lasciarono i comandi dell’elevatore. Scesero cauti, usando il veicolo come schermo tra loro e i Vaadwaur. L’agente li sostituì prontamente alla guida. Intanto altri colleghi stavano sopraggiungendo, portando delle casse a braccio. La speranza era che i Vaadwaur non si accorgessero che i piloti del carrello erano stati sostituiti, anche grazie ai vetri opacizzati che non permettevano di vedere l’interno.
   Nascondendosi per quanto possibile fra le baracche, l’Hirogeno e il Rigeliano si allontanarono dalla pista. Fortunatamente il timore del contagio faceva sì che solo il personale essenziale fosse in superficie. Era possibile aggirarsi tra i prefabbricati senza quasi incontrare anima viva. I pochi passanti erano frettolosi e si tenevano a debita distanza, il che, sommato alla diffusa foschia, li rendeva poco più che sagome scure. Confidando in questo, i federali si diressero là dove era più probabile trovare la dottoressa: al recinto dei malati.
 
   Era ormai mezzogiorno, l’ora peggiore per i poveretti che boccheggiavano dentro e fuori le baracche. Per il momento Norrin e Radek non cercarono di entrare nel recinto, vedendo com’era sorvegliato l’ingresso. Si accontentarono di costeggiarlo, esaminando l’interno con i tricorder, in cerca di segni vitali vidiiani. Al tempo stesso spiarono attraverso il reticolato metallico. Per quanto fossero veterani, avvezzi ai peggiori spettacoli, fu la scena più dolorosa e sconvolgente che si fosse mai offerta ai loro occhi.
   Con il progredire della Phagia, molti malati erano così sfigurati da risultare irriconoscibili. Le chiazze e le ulcere si erano estese, finché quasi tutta la loro pelle era diventata una distesa di tessuto morto, che si staccava a brani. Alcuni, ancora lucidi, soffrivano in modo atroce nei loro giacigli. Non osavano nemmeno chiedere uno specchio, temendo di vedere com’erano ridotti; ma lo immaginavano guardandosi l’un l’altro. Altri vagavano istupiditi, chiamando i parenti che avevano perduto o persino ferendosi da soli. C’era chi chiedeva acqua, chi si litigava il poco cibo e chi implorava una pillola – o anche un disgregatore – per farla finita. Il morbo non risparmiava nessuna età, anche se nei bambini progrediva più lentamente. Davanti a quelle scene, Norrin distolse lo sguardo; gli sembrava di violare la dignità dei malati con la sua sola presenza.
   «Forse ci siamo» disse a un tratto Radek. «Rilevo segni vitali vidiiani, cento metri avanti a noi, ma sono deboli».
   Con il cuore che batteva forte, Norrin indossò un Visore multifunzione. Attivata la modalità binocolo, provò varie lunghezze d’onda, per filtrare polvere e sabbia. Finalmente la vide: una figura intabarrata, che passava tra i malati e ogni tanto si chinava su di loro per visitarli. Sebbene fosse avvolta in un’ampia veste scura con cappuccio, l’Hirogeno riconobbe dai pantaloni l’uniforme della Flotta Stellare. «È lei» mormorò con un groppo in gola. «Ora la chiamo».
   L’Ufficiale Tattico cavò di tasca un altro gioiellino tecnologico: un minuscolo drone volante, poco più grande di un comunicatore. Lo istruì sul bersaglio e lo osservò trepidante mentre quello si librava in volo sopra la recinzione. Passato all’interno del recinto, il drone si abbassò e volò silenziosamente verso la figura infagottata. Questa, che si era appena rialzata dopo aver visitato un paziente, lo vide e lo afferrò al volo. Si allontanò di qualche passo e se lo portò alla bocca, tenendolo nascosto fra le mani.
   «C’è qualcuno in ascolto?» chiese una voce tremante, che Norrin ricevette dal proprio comunicatore. La voce di Ladya!
   «Sono Norrin, amore. Sono qui con Radek, per salvarti» disse l’Hirogeno.
   «Norrin!» la voce di Ladya era rotta dal pianto. «Non saresti dovuto venire. Mi dispiace tanto, per tutto...».
   «Non c’è tempo di parlare. Vieni verso di noi, presto» la esortò l’Ufficiale Tattico. «Procedi in avanti e un po’ a destra. Così, gira di trenta gradi. Brava... ora tira dritto. Non fermarti».
   Con queste semplici istruzioni, la dottoressa si diresse verso il punto della recinzione in cui i soccorritori l’aspettavano. Presto li scorse nella foschia e accelerò il passo. Norrin la vide un po’ vacillante, ma lì per lì non ci fece caso. Si tolse il Visore, preparandosi a liberarla.
   Finalmente la dottoressa raggiunse la recinzione. Nel fermarsi, quasi cadde in avanti. Dovette aggrapparsi al reticolato metallico per restare in piedi. Poiché indossava un cappuccio, il suo volto rimase in ombra; solo gli occhi baluginavano nell’oscurità. «Ah, Norrin... che ci fai qui?!» singhiozzò.
   «E me lo chiedi? Ti porto via all’istante» rispose l’Ufficiale Tattico, impugnando un taglierino laser per aprire un varco nella recinzione. «Non temere, andrà tutto... bene...». La sua voce morì. Aveva notato che Ladya non indossava i guanti: le sue mani, ancora avvinghiate al reticolato, erano scure ed escoriate. Il volto restava in ombra, sotto al cappuccio, ma Norrin avvertì un respiro raschiante, innaturale. L’Hirogeno scosse la testa, incapace di parlare; ma il suo sguardo la implorava di smentire ciò che, invece, era evidente.
   «Mi dispiace, Norrin» disse Ladya, in tono agrodolce. «Quello che temi si è verificato. Penso che bastino le mie mani a confermarlo, quindi ti risparmierò lo sfacelo del volto. Preferisco che tu mi ricordi com’ero».
   Norrin si passò la lingua sulle labbra, mentre rifletteva precipitosamente. «Non è troppo tardi» disse. «Quando saremo sulla Keter, ti metteremo in una capsula cronostatica. I dottori troveranno una cura. Chiederemo ai Vidiiani... loro ce l’avranno per forza! Al limite torneremo nell’Unione per farci aiutare. Ma guarirai, te lo prometto».
   «Non fare promesse che non sei certo di mantenere» lo ammonì Ladya. «Dubito che i miei simili abbiano la cura. Hanno modificato la Phagia perché colpisse solo i Vaadwaur; ma il virus è mutato per contagiarci di nuovo. Questo non l’avevano previsto. Ma anche se loro o il dottor Joe trovassero la cura, non potranno somministrarmela. Perché io non posso seguirti» disse tristemente.
   «Come no?! Sta’ a vedere!». Norrin cominciò a ritagliare un varco nel reticolato, ma Radek lo bloccò.
   «Aspetta» disse il Rigeliano. «Dobbiamo capire, prima di far baccano».
   «Capire? Che c’è da capire?!» protestò l’Hirogeno, fuori di sé. Si rivolse di nuovo a Ladya: «I Vaadwaur ti hanno rapita e noi siamo qui per salvarti. Se sei malata, cercheremo la cura. Che altro c’è?!».
   «Ci sono loro» disse la dottoressa, indicando i malati che giacevano a terra e quelli che vagavano senza meta. «Sono i miei pazienti. Penso che tu abbia visto le loro condizioni. Non posso abbandonarli... sono sotto la mia responsabilità».
   «La tua...!». Norrin ammutolì. Gli sembrava d’essere entrato in un orribile labirinto, dove ogni via di fuga era sbarrata da questo o quell’ostacolo. «Ascolta, tu non sei una Vaadwaur. Hanno i loro medici; è compito loro. Tu sei qui perché ti hanno sequestrata! Non hai alcun obbligo nei loro riguardi!» affermò.
   «Ho un obbligo nei confronti di ogni malato, amico o nemico che sia» rispose Ladya, con tristezza ma anche con profonda determinazione. «Guardali... ci sono bambini che hanno perso i genitori e che morranno a loro volta, se non li aiuto».
   Norrin camminò avanti e indietro, come un leone in gabbia, sebbene fosse lui quello fuori dal recinto. «Se ti lascio qui e le tue condizioni si aggravano, potresti morire prima di trovarla! Non è meglio se continui le ricerche sulla Keter, dopo esserti rimessa?» suggerì.
   «Per allora i Vaadwaur potrebbero essere tutti morti» spiegò Ladya. «Sai, ci sono quasi... sono vicinissima a trovare la cura. È questione di pochi giorni. Non posso mollare ora...» disse con voce fioca.
   «E t’immolerai per salvare le vite dei nostri nemici?!» ringhiò l’Hirogeno. Aveva sempre creduto di avere interiorizzato i valori della Flotta Stellare. Ma in quel momento avrebbe voluto fare a pezzi i Vaadwaur e raccoglierne le ossa in una rete, alla maniera dei Cacciatori.
   «Per salvare vite» rispose dolcemente Ladya. «Amiche o nemiche... belle o brutte... giuste e operose oppure sprecate. Chi siamo noi per decidere? Non spetta a me assolverli o condannarli per le loro azioni; posso solo cercare di dargli un’altra possibilità. Questa è la mia strada. La tua qual è?».
   Norrin rimase immobile, come fulminato. Infine parlò lentamente e con sforzo. «I Vaadwaur hanno trasformato i tunnel spaziali in un’arma contro Vidiia. Fra pochi giorni lo Scudo Planetario cederà e il tuo popolo brucerà vivo» disse.
   «Lo so» annuì Ladya. «I Vaadwaur mi hanno promesso di cessare l’attacco, se li curerò».
   «E se mentissero?».
   «Allora... allora sarà la fine» disse la Vidiiana, assalita dalla debolezza. «Ma un genocidio non ne giustifica un altro. Se le cose volgeranno al peggio, spero solo di non vivere tanto da vederle».
   «Il tempo passa» disse Radek, che si guardava nervosamente attorno. «Dobbiamo andare, con o senza di lei».
   «Va’, ti prego!» disse Ladya, sempre rivolta a Norrin. «Mettiti in salvo. E non fare follie, finché sei qui. Tanto non ti seguirei».
   «Se vado, incontrerò di nuovo i Vaadwaur sul campo di battaglia» avvertì Norrin. «La Rete Subspaziale si tingerà di sangue; l’attacco è imminente».
   «Se dovete attaccare, ebbene, fatelo!» si rassegnò Ladya. «Almeno chiuderete i tunnel e salverete Vidiia. Però state attenti: i Vaadwaur sanno che volete distruggere la Rete e cercheranno d’intrappolarvi».
   Radek e Norrin si scambiarono un’occhiata inquieta. Pur nella loro disgrazia, i Vaadwaur erano assai più informati del previsto, e quindi più pericolosi. Dopo averci ragionato un attimo, il Comandante si rivolse a Ladya. «Se trovi la cura, potresti aspettare qualche giorno a somministrargliela» suggerì. «Così combatteranno al di sotto delle loro possibilità e saranno sconfitti».
   «Aspettare?!» s’indignò la dottoressa. «Mostro senza cuore! Non aspetterò un minuto a salvare i miei pazienti! Non li lascerò morire per sfoltire le fila dei vostri nemici!». Nemmeno la malattia poteva domare le sue forze, quando si toccava questo tasto.
   Messo di fronte alla gravità del suo suggerimento, Radek indietreggiò e tacque. Un po’ si vergognava, ma neanche troppo. Ora vedeva i Vaadwaur malati, ma ben presto avrebbe visto le loro astronavi che gli sparavano contro.
   «Ah, Ladya!» esclamò Norrin. Cercò di afferrarle le mani, attraverso la rete metallica, ma lei si ritrasse e gli sfuggì. L’Hirogeno strinse il reticolato con tale forza da piegarlo. «Non andartene... io ti amo» la pregò.
   A queste parole la Vidiiana pianse calde lacrime. «Ti amo anch’io, Norrin. Ti amo tanto. Ti amo da anni, credo. Ma ero troppo cieca per ammetterlo con me stessa, prima ancora che con te. Vorrei avertelo detto prima, così avremmo avuto il nostro tempo» singhiozzò. «Perdonami se sono stata così fissata con Vidiia. E perdonami se ho perso tempo con quel verme di Dallorath. Per tutta la vita ho cercato lontano, quando ciò che volevo era già accanto a me! Eri tu, Norrin. Ma ora è troppo tardi. Addio, salutami gli amici della Keter. Ricordatemi bene, se potete. Ricordami, amore mio!».
   Con queste parole la dottoressa si girò e si allontanò dal recinto, tornando verso i malati che l’attendevano dentro e fuori le baracche, in numero così elevato che non li avrebbe mai visitati tutti. Camminava a fatica, lottando contro il vento sempre più sostenuto, e piangeva copiosamente.
   «No, Ladya! NO!» gridò Norrin, agitandosi come un ossesso. Piegò il reticolato con le mani, ma non tanto da aprirvi un varco. Allora rimise mano al taglierino, ma Radek lo trattenne, sia pure a fatica.
   «Fermo, Norrin. Fermo!» gli disse il Comandante all’orecchio. «Ti ha spiegato perché non può seguirci. È una sua scelta... una scelta dettata dalla pietà. L’ameresti, se non fosse così piena di compassione per chi soffre?».
   «Io... forse no, ma... non posso perderla!» gemette Norrin, cercando di scrollarselo di dosso.
   «Ci sono cose che oltrepassano il nostro controllo» insisté Radek. «Se tieni davvero a lei, allora rispetterai la sua volontà. Vieni, amico! Ladya ha la sua battaglia qui e noi abbiamo la nostra tra le stelle. Dobbiamo andarcene, come lei ci ha chiesto! Avanti!». Con grande fatica, il Rigeliano riuscì a trascinare indietro l’Hirogeno.
   «Ladya...!» gemette Norrin, levando un braccio verso di lei. La vide scomparire nella foschia sempre più densa. Si stava alzando un vento impetuoso, che strappava i teli sistemati per offrire ombra ai malati. Il cielo era sempre più scuro: grandi nubi sabbiose coprivano il sole, gettando ogni cosa nel grigiore.
   «Arriva una tempesta di sabbia» comprese Radek. «Dobbiamo tornare subito alla nave. Vieni, ti dico! E trattieniti finché saremo dentro. Se poi vorrai sfogarti, beh... avrai la battaglia».
   «La battaglia! Non so che farmene» sbottò Norrin. Un po’ trascinato, un po’ sospinto dal Comandante, lo seguì tra i caseggiati, finché tornarono presso la pista d’atterraggio. Il cielo si era fatto ancora più scuro. La sabbia, trascinata dal vento, sferzava le poche persone ancora in giro e rendeva difficile la vista per chiunque non avesse visori protettivi. I federali arrancarono verso la loro navetta. Alcune figure, appena riconoscibili nella tempesta di sabbia, li attendevano davanti al portello aperto.
   «Ah, eccovi!» disse il sergente dei Vaadwaur. «Dove vi eravate cacciati? I vostri compagni ci hanno fatto perdere un sacco di tempo con la loro incapacità. Uno direbbe che non è difficile spostare delle casse! E poi c’è questa storia dell’aumento. Ditelo chiaro al vostro capo: non pagheremo un credito in più del dovuto. Altro che inflazione!».
   I federali compresero che i loro agenti si erano dovuti inventare una scusa per tirarla in lungo coi Vaadwaur. Chiedere un prezzo maggiorato per la merce gli aveva fatto guadagnare tempo, ma aveva anche indispettito i soldati.
   «Abbiamo capito, sergente. Le assicuro che non faremo più storie. Non vogliamo problemi, davvero» disse Radek. Così dicendo sospinse Norrin all’interno della navetta, per evitare che avesse reazioni inconsulte alla vista dei Vaadwaur. L’Hirogeno fissò i soldati con sguardo omicida, che però si perse nella tempesta di sabbia, e salì a bordo. Dentro c’era il resto della squadra ad attenderlo. Tutti allungarono il collo, per vedere se la dottoressa lo seguiva. Quando si accorsero che lui e Radek erano soli, chinarono il capo avviliti. Avrebbero voluto sapere cos’era successo, ma vedendo l’espressione di Norrin nessuno osò interrogarlo. Lasciarono che passasse fra loro, con passo lento e sconfitto, finché sparì in cabina.
   «Bene, è stato un piacere» disse il Comandante, con un piede già nella stiva.
   «Non per noi» rispose il Vaadwaur, arcigno. «Adesso sparite».
   Radek entrò nella navetta, mentre il portello posteriore si abbassava. «Ci si rivede!» salutò.
   I Vaadwaur si allontanarono, fendendo il vento carico di sabbia, con una mano alzata a proteggersi gli occhi.
   «Ci rivedremo prima di quanto pensate» si disse Radek, mentre il portello si sigillava.
 
   La Keter stazionava appena fuori dal raggio dei sensori Vaadwaur, pronta a intervenire se la squadra avesse inviato richiesta di soccorso. Ma non ce ne fu bisogno. La navicella dei contrabbandieri si avvicinò all’astronave, trasmettendo il segnale di riconoscimento.
   «Aprire un canale» ordinò Hod, trepidante. Aveva la massima fiducia nei suoi; sapeva che non avrebbero lasciato nulla d’intentato per salvare la dottoressa.
   Radek e Norrin apparvero sullo schermo. Ladya non c’era. E a giudicare dalle loro facce, non era nemmeno nella sezione posteriore. Per il Capitano fu un bruttissimo colpo. Aveva quasi dato per scontato che l’avrebbero tratta in salvo. Dopo tante missioni completate con successo, ormai se l’aspettava. Quella vista fu un bagno di realtà. Le ricordò che anche i suoi ufficiali migliori e più motivati potevano fallire.
   «Chiediamo il permesso di salire a bordo» disse cupamente Radek, senza salutare e senza nemmeno accennare all’esito della missione. Era la conferma che le cose erano andate male.
   «Permesso accordato» disse Hod. Tutta la tensione accumulata in quei giorni si stava sciogliendo, ma nell’amarezza. Fino ad allora aveva pensato che “in qualche modo” avrebbero salvato Ladya. Ora però doveva accettare il fatto che l’avevano persa. Pensando quant’era entusiasta la dottoressa di vedere il suo mondo, e quanto aveva insistito per rimanervi, il Capitano maledisse la crudele ironia dell’Universo.
 
   Tornato sulla Keter, Norrin si ritirò nel suo alloggio senza parlare con nessuno. Radek invece andò in sala tattica, dove fece rapporto al Capitano e agli ufficiali. «Forse avremmo potuto trascinarla via, ma sarebbe stato contro la sua volontà» concluse. «Non me la sono sentita, dopo averla ascoltata. E voi non meravigliatevi della sua scelta. Se aveste visto in che condizioni sono i Vaadwaur... no, non voglio ripensarci. Spero solo che la dottoressa trovi una cura, perché altrimenti sarà un’ecatombe».
   Un cupo silenzio piombò in sala tattica. «Avete fatto il possibile» disse infine il Capitano. «A questo punto dobbiamo accettare la realtà. Abbiamo perso la nostra collega, la nostra amica. Dottor Joe, le affido la direzione dell’infermeria fino al termine di questa missione».
   Il Medico Olografico annuì tristemente, ma non disse nulla. La dottoressa Mol si aggiungeva alla lunga lista di colleghi e amici che aveva perso nel corso degli anni. Era una situazione vissuta tante volte, ma non per questo meno dolorosa. Si disse che, una volta tornato nell’Unione, avrebbe definitivamente lasciato la Flotta Stellare.
   «Piangeremo Ladya, ma non è questo il momento» disse il Capitano, osservando i suoi ufficiali uno dopo l’altro. «Ci resta ancora un dovere da compiere: eliminare la Rete Subspaziale. Così salveremo Vidiia Primo, il pianeta amato da Ladya, e impediremo ai Vaadwaur di assalirne altri. Consideratelo un omaggio alla nostra amica».
   «Teniamo a mente che i Vaadwaur conoscono le nostre intenzioni» ricordò Radek.
   «Ormai è tardi per stravolgere i piani» sospirò Hod. «Se non possiamo coglierli di sorpresa, dovremo vincere la loro resistenza».
   Il Rigeliano avvertì, dal tono del Capitano, quanto ciò le ripugnasse; ma non c’era alternativa. «Avete parlato con l’Alleanza, mentre ero via? Quanto manca all’attacco?» volle sapere.
   «Dieci giorni» rivelò Hod. «Fra cinque ci riuniremo per discutere i dettagli. Sarà la più grande battaglia a cui abbiamo mai partecipato» avvertì. «Deciderà gli equilibri politici del Quadrante Delta. Qualunque diavoleria abbiano in serbo i Vaadwaur, non dobbiamo fallire».
 
   Di buon mattino, come al solito, la dottoressa Phanin entrò nel laboratorio di Ladya portandole la colazione. La trovò china sul computer, su cui scorreva la simulazione di un intervento sul DNA. Contenitori di campioni, strumenti diagnostici e altre cianfrusaglie erano sparpagliate sul pavimento.
   «Dottoressa, è già al lavoro?» chiese la Vaadwaur, avvicinandosi. Doveva stare attenta a dove metteva i piedi, tanto era disordinata la stanza.
   La Vidiiana si volse lentamente verso di lei. Aveva sempre il viso in ombra, sotto al cappuccio, ma tutta la sua posa tradiva la spossatezza. «Non ho dormito» biascicò.
   «Cioè, è al lavoro da ieri mattina?!» si preoccupò Phanin. «Così non va. Se si strapazza, la malattia progredisce più in fretta. Quante volte glielo devo dire?».
   «Non potevo riposare... non ora» rivelò Ladya con voce fioca. «Ci sono arrivata, sai? Le pinze molecolari erano la chiave. Ho trovato la cura».
   La Vaadwaur lasciò cadere il vassoio della colazione e si precipitò al suo fianco. «Mi faccia vedere!» esclamò bramosa.
   Ladya riavviò la simulazione computerizzata, spiegando le varie fasi del processo. Rispose alle domande della collega sugli ostacoli che avevano affrontato durante la ricerca, chiarendo come li aveva risolti. A fine dimostrazione, Phanin era sbalordita. «Geniale... non ci saremmo arrivati senza di lei» riconobbe.
   «Questa è tutta teoria fatta al computer» ribatté la Vidiiana. «Resta da vedere se funzionerà all’atto pratico. In circostanze normali passerei giorni a fare altre simulazioni, variando i parametri. Poi comincerei con la sperimentazione animale. Infine, tra qualche mese, oserei somministrarlo ai pazienti. Ma siccome non c’è tempo, dovremo passare subito alla fase sperimentale».
   Si allungò su una mensola, prendendo un ipospray. «Ho già sintetizzato un campione di naniti. Non resta che trovare un volontario. Pensavo a uno del Gruppo 5...».
   A queste parole la Vaadwaur le strappò di mano l’ipospray. Così facendo mostrò le chiazze nere sulle proprie mani e braccia. Anche lei si era ammalata, pochi giorni dopo la Vidiiana. Si portò la siringa al collo e se la svuotò senza esitazione. Un brivido la percorse da capo a piedi. La virologa lasciò cadere l’ipospray e si accasciò sulla mensola, mentre i naniti si diffondevano nel flusso sanguigno, evidenziando le vene.
   «Non avresti dovuto farlo» commentò Ladya, anche se la mossa non l’aveva molto sorpresa. «Non conosciamo gli effetti collaterali».
   «Peggio che uccidermi, non potrà fare» ribatté Phanin. Poco alla volta riprese fiato, finché riuscì a rialzarsi. Si guardò le mani. L’effetto dei naniti era rapidissimo: le chiazze nere si stavano già scolorendo. «Sento come un bruciore, dappertutto» disse. «Però il dolore delle piaghe diminuisce».
   «Chiamo il resto della squadra» disse Ladya. «Ti terremo sotto controllo per una giornata. Se il virus sarà eliminato e il processo di guarigione procederà alla velocità che mi aspetto, potremo informare il Generale che la Phagia è sconfitta».
 
   Fu la giornata più lunga e tesa che i medici ricordassero, dacché era iniziata l’epidemia. La dottoressa Phanin fu tenuta sotto costante osservazione e sottoposta a una miriade di analisi, da parte dei vari specialisti. Nel frattempo Ladya, stremata dalla notte insonne, si concesse qualche ora di riposo. Al risveglio tornò subito al laboratorio, per verificare la situazione.
   La Vaadwaur era in piedi e allegra. Le chiazze erano completamente scomparse dalla sua pelle: sembrava che non fosse mai stata malata.
   «Incredibile. Semplicemente incredibile» disse uno dei dottori. Mostrò alla Vidiiana i test che avevano fatto nelle ultime ore. «Non c’è la minima traccia di virus, nemmeno nel midollo. Il sistema linfatico e quello ghiandolare sono come nuovi. Muscoli, tessuto connettivo, organi... è tutto risanato».
   «Possiamo somministrare la cura agli altri!» gioì Phanin. «Stiamo già replicando i naniti».
   «Uhm, sì» disse Ladya, senza allegria. «Ricordate che la dottoressa Phanin era ancora al primo stadio dell’infezione. I pazienti al secondo stadio dovrebbero rimettersi come lei, ma quelli al terzo e al quarto avranno delle menomazioni permanenti. E quelli al quinto stadio... beh... per loro è tardi. Anche rimuovendo il virus, subiranno un collasso sistemico».
   I medici chinarono il capo, sconsolati; ma si riebbero in fretta. «Fino a ieri rischiavamo l’estinzione» disse Phanin. «Ora invece il nostro futuro è assicurato. Tutto per merito suo, dottoressa».
   «Cominciamo, allora» sospirò Ladya. «E fatemi la cortesia d’informare il Generale Suddayath. Mi ha fatto una promessa ed è tempo che la rispetti».
 
   Il giorno dopo Ladya fu convocata sul Ravager, la nave ammiraglia di Suddayath, che era tornata alla capitale per procurarsi la cura. I malati più gravi furono sbarcati, mentre altro personale – vaccinato o guarito grazie ai naniti – ne prendeva il posto. C’era un gran viavai per i corridoi. I Vaadwaur erano militareschi come sempre, ma nel complesso si respirava un’aria migliore di quella che Ladya aveva trovato la prima volta che era stata a bordo.
   Scortata da due guardie, la dottoressa fu condotta nella sala d’osservazione. Il Generale era lì; stava leggendo i rapporti che scorrevano sullo schermo. C’erano grafici e diagrammi che mostravano gli effetti della cura sulla popolazione. «Ah, dottoressa Mol!» l’accolse il Vaadwaur, visibilmente soddisfatto. «Vede che ho fatto bene a reclutarla? Prima del suo arrivo eravamo sull’orlo dell’abisso. Ma ora... i risultati sono eccezionali. I malati stanno riprendendo servizio, a poche ore dalla somministrazione della cura!».
   «Sarebbe meglio che restassero in osservazione più a lungo. Almeno per qualche giorno» disse Ladya, misurata.
   «Purtroppo non c’è tempo» spiegò Suddayath. «L’Alleanza sta radunando le forze. È questione di giorni prima che ci attacchi. Dobbiamo avere gli equipaggi al completo, se vogliamo respingerla».
   «Non c’è spazio per le trattative?» chiese Ladya, pur prevedendo la risposta.
   «Trattare con l’Alleanza? Sarebbe fiato sprecato» la bollò il Generale. «Prima c’imporrebbero condizioni capestro e poi, dopo averci indeboliti, attaccherebbero ugualmente. In questo momento pensano che siamo ancora in balia del virus; scopriranno a caro prezzo il loro errore» aggiunse, digrignando i denti.
   «Se non posso convincerla a fermare quest’assurda guerra, le ricordo almeno il nostro patto» disse Ladya, fissandolo duramente. «Aveva giurato di fermare l’attacco a Vidiia». La dottoressa restò col fiato sospeso. Quella speranza l’aveva sorretta nei giorni di lavoro disperato e nelle notti insonni. Le aveva dato la forza di sopportare l’angoscia e il dolore, di sopravvivere fino a quel momento.
   «Sì, dottoressa Mol... io l’ho giurato» convenne Suddayath, fissandola con l’occhio da serpente. «E lei ci ha creduto. Il che dimostra che non è sveglia come pensa».
   Ladya si sentì mancare. Assalita dalla debolezza, vacillò e dovette sorreggersi a una parete. La sala sembrava vorticarle attorno. «Generale... lei aveva dato la sua parola d’onore! Aveva maledetto se stesso e il suo popolo, in caso di tradimento!» gemette.
   «Parole... sono solo parole» ridacchiò Suddayath, avvicinandosi. «Chi dovrebbe punirci? Qualche divinità vendicatrice? Noi Vaadwaur ci siamo lasciati alle spalle queste ridicole superstizioni. Pertanto facciamo tutto il necessario per garantirci la sopravvivenza e la supremazia sugli avversari».
   Così dicendo il Vaadwaur si chinò su Ladya e le pose una mano sulla spalla, come per consolarla. «Lei d’altro canto è stata sincera e caritatevole. Ci ha salvati da morte certa, anche se eravamo suoi nemici. E così facendo ha condannato a morte il suo popolo. In parole povere, dottoressa... noi siamo sani di mente, mentre lei è pazza».
   «Miserabile!» gridò Ladya, rialzando di scatto la schiena. Gli sputò nell’occhio, in segno di disprezzo. Il Generale indietreggiò, sfregandosi l’occhio offeso, mentre i soldati afferravano rudemente la dottoressa e la trascinavano indietro.
   «Beh, cerca di contagiarmi?!» chiese Suddayath, sprezzante. «Fatica inutile. Mi sono già vaccinato coi suoi portentosi naniti. La Phagia non può farmi niente. Ma divorerà lei fino alle ossa, questo è certo!».
   «Pazzo criminale... ora che la Phagia è sconfitta, non ha più motivo di accanirsi sul mio popolo!» gridò Ladya, sempre trattenuta dalle guardie.
   «Come no?! Ho ancora tutti i motivi!» ringhiò il Vaadwaur. «I Vidiiani hanno cercato di sterminarci. Nessuno può fare una cosa del genere e sopravvivere. Dopo di loro toccherà agli altri membri dell’Alleanza. Bruceremo i loro pianeti fino al midollo, come monito per chiunque osi sfidarci! La Supremazia Vaadwaur tornerà temuta e rispettata come un tempo! Nessuno oserà più muoverci guerra!» tuonò. La sua figura giganteggiò contro la finestra a forma di occhio, come se ne fosse la pupilla verticale.
   «Si sbaglia... tutti lo faranno, per sottrarvi l’arma-tunnel prima che la usiate ancora» obiettò la Vidiiana. «Io ho strappato il vostro popolo alla morte... gli ho dato una nuova vita. E lei che ne fa? La spreca! Manda in guerra i giovani che io ho salvato! Lei è un verme... e morirà come tale, rintanato nei suoi wormhole».
   «Oh, adesso è diventata anche una veggente!» rise Suddayath. «Lei mi diverte sempre più. Bene, vedremo chi di noi ha ragione. La terrò qui, in questa sala d’osservazione. Così assisterà alla distruzione dell’Alleanza. Poi, se la Phagia non l’avrà ancora divorata, potrà ammirare il suo pianeta che brucia a fuoco lento. Così maledirà se stessa, sapendo che aiutandoci lo ha reso possibile!».
   A un cenno del Generale, i soldati buttarono in avanti Ladya, che indebolita com’era cadde a terra. Suddayath sfoderò il disgregatore nadionico, ma invece di colpire la dottoressa sparò allo schermo e all’interfaccia, mettendoli fuori uso. Non voleva che la prigioniera accedesse alle informazioni sulla nave e magari attivasse dei comandi. Bastava la finestra panoramica per mostrarle ciò che accadeva. Dopo di che il Generale lasciò la sala, privo di dubbi e di rimorsi. I soldati lo seguirono senza voltarsi, con passo militare cadenzato.
   «Che tu sia dannato! E dannati quelli che ti seguono!» gridò Ladya, ancora in ginocchio. La porta si chiuse con un sibilo, lasciandola sola. La dottoressa si rimise faticosamente in piedi e la raggiunse, trovandola sigillata. Vi batté i pugni, gridando come un’ossessa. Infine sentì le forze abbandonarla e si lasciò scivolare a terra, dove singhiozzò a lungo.
   Poco alla volta il pianto cessò e le lacrime si asciugarono, lasciandola sfinita. La dottoressa alzò gli occhi stanchi alla finestra. Per adesso il Ravager era ancora in orbita attorno a Kinara, ma presto sarebbe tornato nella Rete con tutta la flotta, per affrontare l’Alleanza. Allora, forse, Ladya avrebbe rivisto la Keter. Ma i suoi colleghi non sapevano che lei era a bordo. Nel migliore dei casi avrebbero distrutto il Ravager con lei dentro. La dottoressa se lo augurò, perché non voleva assistere alla distruzione di Vidiia, né arrivare all’ultimo stadio della Phagia.
 
   La sala tattica del Ravager era costruita nel tipico stile Vaadwaur: pareti color bronzo, soffitto basso con incastonati pannelli luminosi gialli. Sulla parete di fondo era disegnato il simbolo della Supremazia: un ovale dorato che conteneva un vortice rossastro. Anche il tavolo delle riunioni aveva forma ovale e recava impresso lo stesso emblema. Gli invitati sedettero ognuno al suo posto, scambiandosi brevi cenni di saluto. Erano soprattutto militari, anche se c’erano alcuni funzionari civili di Kinara, facenti capo alla governatrice Keld. Completavano il quadro un paio di medici, tra cui la dottoressa Phanin, chiamati come consulenti. I leader civili erano lì solo in ossequio alle formalità, ma non avevano alcun potere decisionale. La Supremazia Vaadwaur era infatti governata dalla giunta militare, presieduta da un primus inter pares che ormai da diversi anni era Suddayath.
   Il Generale entrò per ultimo. Al suo apparire tutti i presenti si alzarono in segno di rispetto. «Comodi» disse il Vaadwaur, accomodandosi al suo seggio. «Siamo qui per fare il punto della situazione e stabilire la prossima strategia. Come sapete, la cura della Phagia sta dando risultati eccellenti. Vuole illustrarceli, dottoressa Phanin?».
   «Sì, eccellenza» disse la virologa, attivando alcuni ologrammi che mostravano grafici e cifre. «I pazienti al primo stadio sono già stati dimessi. Quelli al secondo e terzo stadio lo saranno tra poche ore. Solo quelli al quarto avranno bisogno di qualche giorno. E quelli al quinto, beh... pochi se la caveranno. Tra i dimessi, comunque, non riscontriamo effetti collaterali. Stiamo già svuotando l’ospedale da campo. Abbiamo trasmesso la cura alle altre colonie e al resto della flotta; anche lì i risultati sono ottimi». La virologa proseguì per alcuni minuti, fornendo i dettagli.
   «Grazie, dottoressa» disse Suddayath al termine dell’esposizione. «Come vedete, l’emergenza è finita appena in tempo. Possiamo schierare la flotta per difendere la nostra Rete».
   Tra i presenti serpeggiò la tensione. Era evidente che molti di loro avevano delle riserve, ma nessuno si azzardava a prendere la parola. Sapevano che Suddayath mal sopportava il dissenso.
   «Se qualcuno vuole intervenire, è libero di farlo» disse il Generale, ben consapevole del disagio che aleggiava tra i suoi.
   I Vaadwaur si scambiarono rapide occhiate, invitandosi reciprocamente a parlare. Infine fu la governatrice Keld ad alzarsi. «Generale, molti di noi sono preoccupati dal suo piano» esordì. «L’epidemia ha mietuto molte vittime anche fra le truppe. Dovrete schierare in battaglia le riserve per equipaggiare le astronavi».
   «Si capisce» annuì Suddayath.
   «Molti sono ragazzi senza esperienza. Questo diminuirà l’efficienza della flotta» proseguì la governatrice, andando per gradi.
   «Dobbiamo lavorare con quello che abbiamo. Inutile dolerci per ciò che manca» commentò Suddayath.
   «Generale, dobbiamo chiederci se la difesa a oltranza della Rete sia una strategia praticabile» disse Keld, manifestando finalmente il suo timore. Per alcuni secondi cadde il silenzio.
   «Prego, continui» la invitò Suddayath in tono calmo. «Che alternativa propone?».
   «Credo... credo che a questo punto dovremmo abbandonare i tunnel spaziali» disse la governatrice, pallida in viso. «Guardiamo in faccia la realtà: sono indifendibili. Pensiamo piuttosto a proteggere ciò che resta della popolazione!».
   «Questo vorrebbe dire dividere la flotta. Sparpagliarla in mezza Galassia» puntualizzò il Generale. «E quando l’Alleanza s’impossesserà della nostra Rete senza colpo ferire, ogni colonia resterà isolata, con poche navi a difenderla. Sarà la fine della Supremazia... ci frantumeremo in tanti staterelli che non potranno nemmeno comunicare. Ma l’Alleanza, disponendo dei tunnel, potrà stanarci con comodo. Distruggerà una colonia dopo l’altra, approfittando del fatto che ognuna sarà scarsamente difesa. È questa la sua strategia, governatrice?» chiese in tono beffardo. In realtà sapeva che l’Alleanza puntava a distruggere la Rete, ma dipingere questa prospettiva fosca gli era necessario per imporre la sua linea d’azione.
   Il discorso sortì l’effetto voluto: un moto di paura si diffuse per la tavola. Nessuno voleva trovarsi isolato, in inferiorità numerica e accerchiato dai nemici. Keld comprese che il Generale avrebbe prevalso, tuttavia non volle darsi immediatamente per vinta. «Se raduniamo tutte le forze in una sola flotta e veniamo sconfitti, le colonie resteranno completamente indifese» insisté. «Allora sì che sarà la fine».
   «Ha scarsa considerazione delle mie truppe» notò Suddayath. «Forse il suo pessimismo nasce dalla recente sconfitta inflittaci dai federali. Si è trattato di un incidente di percorso, dovuto all’inesperienza del Capitano Relin» disse, fulminando il colpevole con un’occhiata.
   Relin fissò il tavolo, immobile come una statua. Dopo lo scontro con la Keter, la sua astronave richiedeva una completa ristrutturazione, che le avrebbe impedito di partecipare alla difesa della Rete. Per un Capitano era un gravissimo disonore. Per il momento non era stato degradato, ma non poteva passarla liscia. Si aspettava che il Generale prendesse qualche provvedimento punitivo nei suoi confronti, come affidargli una missione particolarmente pericolosa.
   «Non lasciatevi spaventare da questo contrattempo» proseguì Suddayath, rivolto a tutti i presenti. «Abbiamo ingenti forze, che guiderò di persona. Ve lo giuro: non lascerò che il nostro subspazio cada di nuovo in mano al nemico. Del resto, sareste pronti a scontare il prezzo della ritirata? Volete passare altri novecento anni a nascondervi in una grotta? Cosa direte ai vostri figli, che siete fuggiti per paura? Che non avete neanche provato a difendere la Supremazia?!».
   Di fronte a quest’arringa, pronunciata con passione, Keld capì di essere sconfitta e si risedette. Non le restava che rinsaldare le difese di terra, come ultima risorsa se la battaglia fosse finita male.
   «Quali sono gli ordini, Generale?» chiese Relin.
   «Raduniamo le forze in tre flotte. Portiamole nella Rete, a presidiare i tre snodi chiave. All’arrivo dei nemici, sfrutteremo la nostra padronanza dei tunnel per intrappolarli e annientarli» spiegò Suddayath, truce in volto. «Quelli dell’Alleanza sono già impauriti dal nostro cannone stellare. Quando non vedranno tornare la loro flotta, saranno così terrorizzati che non oseranno più muoverci guerra. Sarà la nostra ora di trionfo. Vuol farne parte, Relin?».
   «Certo, signore» disse il Capitano, deciso a lavare l’onta della sconfitta. «Mi dia l’incarico più difficile, il più pericoloso, e io lo porterò a termine».
   «E sia!» concesse il Generale. «Finora la nostra forza è stata nel conquistare le nuove tecnologie. Continueremo su questa strada. C’è una nave dell’Alleanza di cui dobbiamo impadronirci».
   «La Keter?» chiese Relin, intravedendo la possibilità di vendicarsi.
   «No, di quella mi occuperò personalmente col Ravager» spiegò Suddayath. «Parlo dell’Annorax, l’ammiraglia dei Krenim. Il suo disgregatore subatomico è un’arma che ci farebbe comodo. E pare che nelle sue banche dati ci siano informazioni senza prezzo sulla scienza temporale. Formule matematiche per prevedere il futuro... forse persino il segreto del viaggio nel tempo. Pertanto lei guiderà la Seconda Flotta contro quella nave. Non datele tregua; quando gli scudi cederanno, abbordatela. Impadronitevi di quella nave e portatela qui, così potremo studiarla».
   «L’Annorax è la nave dell’Ammiraglio Hortis» notò Relin, un po’ intimorito da quel nome leggendario. «Che devo fare di lui?».
   «Lo prenda vivo, se possibile. Potrebbe servirci per comprendere la tecnologia temporale» ordinò Suddayath. «Ma se il vecchio pazzo farà qualche strana mossa, che metta a rischio l’operazione, lo uccida».
 
   In quello stesso momento, un’analoga riunione si teneva sulla Keter. La sala tattica era gremita, perché oltre al Capitano Hod e agli ufficiali c’erano i rappresentanti dell’Alleanza: l’Ammiraglio Hortis per i Krenim, l’Inquisitore Marroc per i Devore e il Supervisore Ghak per la Gerarchia, tutti con i loro assistenti. Grandi assenti erano i Vidiiani, ancora minacciati dall’arma-tunnel.
   «Dichiaro aperta la riunione» disse Hortis, che sedeva a capotavola. «Sono grato a ciascuno di voi per essere qui e al Capitano Hod per averci offerto la sua nave come luogo d’incontro. Considerata la grande distanza che ci separa, sarebbe stato difficile radunarci in altro modo».
   «Un momento!» intervenne Marroc. «Chiedo che i telepati lascino questa sala. L’Impero Devore non li tollera entro i suoi confini e non è disposto a pianificare una battaglia in loro presenza». I suoi occhi senza sopracciglia scrutarono con diffidenza gli ufficiali della Keter, fermandosi su Vrel.
   «Inquisitore, in questa sala siamo tutti dalla stessa parte» disse Hortis con pazienza. «Non deve temere fughe di notizie».
   «Irrilevante, è una questione di legge» si giustificò il Devore. «Il codice imperiale è molto chiaro al riguardo: nessun rappresentante dello Stato può discutere questioni di sicurezza nazionale in presenza di telepati. Sarei un pessimo Inquisitore se trasgredissi, non vi pare?».
   «E va bene» si arrese il Capitano Hod, non volendo che la riunione si arenasse prima ancora di cominciare. «Tenente Shil, ci aspetti fuori».
   «Ma io sono il timoniere, dovrò pur sapere cosa fare!» protestò Vrel, non avvezzo alle discriminazioni.
   «La informeremo a fine riunione. La prego, esca» insisté Hod, in tono gentile ma deciso.
   Il timoniere scostò rumorosamente la sedia dal tavolo e si alzò, guardando storto l’Inquisitore. «Per sua informazione, solo mia madre è telepatica. Io non riesco neanche a eseguire una Fusione Mentale come si deve» gli disse, passandogli accanto. Tornò in plancia, dove restò a girarsi i pollici fino al termine della riunione.
   «I soliti paranoici» commentò il Supervisore Ghak, guardando Marroc con divertita superiorità.
   «Siamo solo prudenti. Ogni ufficiale Devore è responsabile delle proprie missioni... non come voi, che non sapete soffiarvi il naso senza chiedere il permesso alla Gerarchia!» ribatté l’Inquisitore.
   «Le ricordo che senza di noi l’Alleanza non avrebbe la minima idea di com’è fatta la Rete Subspaziale» rivendicò Ghak. «Noi abbiamo reso possibile l’attacco. Voi invece come avete contribuito, finora? Uhm... col niente».
   «Insolente nanerottolo!» si adirò Marroc, scattando in piedi. «La tua razza sa solo spiare, ma non è capace di combattere. Quando temete che un nemico sia più forte di voi, scappate! Siete il ventre molle dell’Alleanza. Se falliremo, sarà per colpa vostra!».
   «Basta così!» esclamò il Capitano Hod. «Finché sarete sulla mia nave, vi tratterete con rispetto. Siamo qui per prendere decisioni tattiche, non per bisticciare come bambini. Se noi litighiamo, i Vaadwaur vincono!».
   «Ben detto» approvò Hortis. «Orbene, i federali ci hanno informati che i Vaadwaur conoscono le nostre intenzioni. E dalle intercettazioni sappiamo che hanno trovato la cura per la Phagia. Ciò significa che opporranno una strenua resistenza».
   «Vorrei sapere in che modo hanno trovato la cura» disse Ghak, scrutando i federali con sospetto. «Mi è giunta voce che i Vaadwaur hanno sequestrato il vostro Medico Capo, la dottoressa Mol. Non sarà stata lei a curarli? Perché è assurdo che da un lato vogliate aiutarci e dall’altro una di voi collabori col nemico!».
   «Non sappiamo se sia stata la dottoressa Mol» rispose il Capitano. «Può darsi, visto che è un medico brillante. La nostra etica c’impone di fare tutto il possibile per curare le epidemie, anche se colpiscono un nemico. Ciò non toglie che siamo qui con voi, per eliminare la minaccia dell’arma-tunnel».
   «Che mentalità contorta» borbottò il Supervisore.
   «Io credo che sia molto giusta» disse Hortis quietamente. «Signori, non siamo qui per stabilire chi ha fatto meno, o chi ha sbagliato, bensì per finalizzare il piano d’attacco. Questo è ciò che io e il Capitano Hod abbiamo elaborato, basandoci sulla mappa della Rete Subspaziale e su una stima delle forze nemiche».
   L’Ammiraglio azionò i comandi del tavolo tattico, proiettando l’ologramma tridimensionale della Rete, secondo i dati più aggiornati delle sonde-spia. I wormhole formavano una vasta ragnatela che copriva gran parte della Galassia, addensandosi nel Quadrante Delta. Hortis ne ingrandì una piccola sezione. Ora si poteva vedere, più nel dettaglio, il complesso intreccio dei tunnel spaziali. Qua e là c’erano giunzioni di tre o quattro condotti. Vi era poi un grande slargo, in cui ne confluivano addirittura una ventina. Vista così, la Rete sembrava un formicaio fitto di camere e gallerie.
   «Questa bolla subspaziale è lo Snodo 1, vicino al pianeta natale dei Vaadwaur, nonché all’odierna capitale Kinara» spiegò Hortis. «Probabilmente sarà il più presidiato dei tre snodi. Chiediamo a voi Devore di occuparvene, dato che le vostre astronavi resistono bene alle armi nemiche» disse a Marroc.
   «Possiamo schierare 90 navi da guerra» dichiarò l’Inquisitore, lieto di poter vantare la potenza del suo Impero. «Quanta resistenza dobbiamo aspettarci?».
   «Riteniamo che l’intera forza militare nemica si componga di cinquanta navi strappate ad altre specie – soprattutto Turei – e altrettanti vascelli propriamente Vaadwaur» rispose l’Ammiraglio. «Dunque un centinaio in tutto. Poi ci sono i piccoli incursori, che saranno almeno duecento. Nel vostro snodo potete aspettarvi di trovare una quarantina di navi da guerra e il doppio degli incursori».
   «Una forza notevole» ammise Marroc, sgonfiandosi.
   «Come, è preoccupato? Ma non eravate grandi soldati?» lo provocò Ghak.
   «Supervisore, la prego» lo zittì Hortis. «Dunque, Inquisitore, pensa che la sua flotta possa occuparsi di questo obiettivo?».
   Il Devore si prese qualche secondo per riflettere. «Sì» disse infine. «È tempo di finirla coi Vaadwaur. Tutte le nostre navi possono lanciare l’impulso gravitonico che occorre a far collassare lo snodo. Quindi anche se subissimo gravi perdite porteremo a termine l’incarico».
   «Eccellente. Sapevo di poter contare su di voi» disse Hortis, sollevato. Trafficò con i comandi del tavolo, mostrando un’altra sezione della Rete Subspaziale, molto più lontana dal nucleo galattico. «Questo è lo Snodo 2. Si trova vicino al nostro spazio, quindi saremo noi Krenim a occuparcene. Anche noi possiamo schierare 90 astronavi» disse, per mettere in chiaro che non erano da meno dei Devore. «Guiderò la flotta di persona, con l’Annorax» promise.
   «Quindi a noi tocca lo Snodo 3» concluse Ghak.
   «Quello purtroppo si trova lontano, oltre lo spazio Borg» spiegò l’Ammiraglio, facendo scorrere l’ologramma fino a inquadrarlo. «È nella periferia galattica, vicino a Vidiia Primo. Per questo ho cercato fino all’ultimo di portare i Vidiiani dalla nostra. Speravo che potessero occuparsene. Ma i Vidiiani hanno i loro guai, perciò devo affidare a voi questo delicato compito. Data la distanza dello Snodo, dovrete attraversare gran parte della Rete per raggiungerlo».
   «Non c’è problema; siamo quelli che la conoscono meglio» garantì il Supervisore.
   «Che forza potete schierare?» chiese Marroc.
   «Cinquanta navi da guerra ultimo modello» rispose Ghak con orgoglio.
   «Cinquanta!» si scandalizzò l’Inquisitore. «Potrebbero non bastare. Sono molte meno delle nostre. E poi, diciamo la verità: le vostre carrette non reggono il confronto coi nostri incrociatori».
   «Come si permette! La nostra è una flotta d’assalto di prima categoria!» insorse il Supervisore, scattando in piedi. Data la sua modesta altezza, si notò appena la differenza.
   «Calmi, vi prego» intervenne Hortis, prima che la lite degenerasse. «Ammetto che lo Snodo 3 costituisce un problema, ma ci sono un paio di fattori a nostro favore. In primo luogo, il fatto che probabilmente i Vaadwaur concentreranno la maggior parte delle forze nei due snodi più vicini alla loro capitale. E poi c’è il nostro asso nella manica, la Keter» aggiunse con una certa teatralità. Indietreggiò di qualche passo, lasciando che fosse il Capitano Hod a parlare.
   «Ci recheremo di nuovo oltre lo spazio Borg, presso il terzo snodo, e lo raggiungeremo da lì» spiegò l’Elaysiana. «Distrarremo i Vaadwaur finché la Gerarchia verrà a darci manforte».
   «Avete coraggio» riconobbe l’Inquisitore. «Spero che la Gerarchia vi raggiunga in tempo».
   «Arriveremo prima noi al terzo snodo che voi al primo» sostenne Ghak, guardandolo bieco.
   «Un po’ di sana competizione non guasterà all’Alleanza» disse Hortis, passando lo sguardo dall’uno all’altro. «Servirà una perfetta coordinazione per attaccare simultaneamente da zone così lontane della Galassia. Come s’è detto nelle precedenti riunioni, non entreremo dalle imboccature dei tunnel spaziali, che saranno presidiate. Useremo invece le sonde che sono già all’interno per indebolire i condotti e renderli permeabili, così da entrare in profondità nella Rete. Una volta dentro, ogni flotta dovrà raggiungere prontamente lo snodo assegnato, senza dividersi in più condotti, ma senza nemmeno farsi imbottigliare in un passaggio troppo stretto. Ricordate che il nostro scopo non è demolire l’armata Vaadwaur, ma solo far collassare i tre Snodi. E sarà proprio allora, a collasso iniziato, che correremo i rischi maggiori».
   L’Ammiraglio visualizzò nuovamente l’intera Rete Subspaziale e avviò la simulazione. Uno dopo l’altro i tre snodi, evidenziati da punti rossi, collassarono. L’intricato reticolo si dissolse con un rapidissimo effetto a cascata. «Chi resta indietro sarà spazzato via dall’esistenza» avvertì Hortis. «Questo naturalmente vale anche per i Vaadwaur».
   «State attenti a non uscire dal tunnel sbagliato» aggiunse il Capitano Hod. «Vi trovereste a migliaia di anni luce da casa, senza la possibilità di un rapido ritorno e nemmeno di comunicare con la vostra gente».
   «A questo potreste ovviare dandoci il vostro portentoso propulsore» disse Ghak, fissandola con occhietti cupidi.
   «Anche se vi spiegassimo come costruirlo, sarebbe inutile» disse Hod. «Il propulsore cronografico  richiede un pilota dotato di enormi facoltà cerebrali. In tutta l’Unione ci sono pochissime specie con questo requisito, infatti anche sulla nostra nave i piloti abilitati si contano sulle dita di una mano. La sua specie, come anche i Krenim e i Devore, non ha sufficiente capacità cerebrale. Non se la prenda... non ce l’ho neppure io» aggiunse con franchezza.
   «Beh, potreste darci almeno la cavitazione quantica!» insisté il Supervisore. «Così, se finissimo dispersi, torneremo in pochi mesi, anziché in decenni. Condividere le tecnologie non è forse ciò che fate nell’Unione? Dovreste farlo anche ora che partecipate all’Alleanza!» argomentò.
   «Mi creda, ho considerato seriamente questa possibilità» disse il Capitano. «Ma ci vorrebbero anni per adattare le vostre navi. Nel frattempo i Vaadwaur si saranno ripresi dall’epidemia, avranno potenziato la flotta e ridisegnato la Rete per renderla più difendibile. No, il momento di attaccare è questo. Se non lo facciamo subito, non ne avremo più l’occasione».
   «Concordo» disse Hortis. «Il rischio è grande, ma lo avevamo accettato anche prima che la Keter si unisse a noi. Allora, Supervisore... è sempre dei nostri?» chiese, temendo che negargli la cavitazione lo avesse mal disposto.
   «Uhm... devo consultare la Gerarchia» disse il tozzo alieno. Senza nemmeno girarsi verso il suo assistente, alzò il palmo, come aspettandosi qualcosa da lui. Subito l’assistente cavò uno strumento oblungo da una sacca che si era portato dietro e glielo consegnò con deferenza. Era un dispositivo metallico, lungo mezzo metro, largo una quindicina di centimetri e altrettanto spesso. Per tutta la sua lunghezza correva una griglia luminosa biancastra. Il Supervisore scrisse qualcosa su un minuscolo d-pad che poi agganciò a un lato del congegno. «Ho inoltrato la domanda» spiegò. «Risponderanno a momenti... credo».
   «È come dicevo. Dovete sempre avere l’imbeccata dalla vostra fantomatica Gerarchia» lo derise Marroc. «Mi dica, ha mai preso personalmente una decisione in vita sua?».
   «Inquisitore, la prego» lo richiamò ancora una volta Hortis. «Se dobbiamo aspettare, ne approfitterò per entrare in dettaglio sugli schemi d’attacco».
   L’Ammiraglio aveva da poco iniziato l’esposizione quando il misterioso congegno della Gerarchia, che Ghak aveva sempre tenuto in grembo, si attivò. Si udì un trillo elettronico prolungato e la griglia luminosa mostrò una successione di cifre, azzurre e arancioni, che scorrevano dall’alto verso il basso. Nessuno, salvo quelli della Gerarchia, aveva la minima idea di cosa significasse.
   «Ebbene?» chiese Hortis, con lieve apprensione.
   «La Gerarchia approva» disse Ghak con solennità. «Combatteremo al vostro fianco». Restituì il congegno al suo assistente, che lo ripose con cura esagerata nella sacca protettiva.
   «Abbiamo la benedizione!» ironizzò Marroc. «Ora nulla può andarci storto».
 
   La riunione si protrasse per ore, perché c’erano moltissimi aspetti da analizzare e decisioni tattiche da concordare. Fortunatamente l’Inquisitore e il Supervisore smisero di bisticciare, ora che entrambi avevano dato il pieno assenso all’attacco. Quando Hortis dichiarò concluso l’incontro, il piano era ultimato. Ora si trattava di riportare i rappresentanti dell’Alleanza alle loro flotte. Grazie al propulsore cronografico, la Keter se ne occupò in poche ore.
   L’ultima tappa fu presso i Krenim. Raggiunta la loro flotta, tra cui spiccava l’Annorax, il Capitano Hod pensò di accomiatarsi dall’Ammiraglio. Andò al suo alloggio, dove Hortis si era ritirato dalla fine della riunione. Al suo avvicinarsi la porta si aprì, ma dentro le luci erano basse. Il Capitano indugiò sulla soglia. «Ammiraglio, posso entrare?» chiese, temendo che il vecchio Krenim si fosse addormentato.
   «Prego, venga avanti» l’accolse Hortis, ben lungi dal dormire. Era seduto in poltrona e stava ascoltando una melodia incalzante, diffusa dal computer.
   «Abbiamo raggiunto la sua flotta. Siamo pronti a trasferirla sull’Annorax» spiegò Hod.
   «Sì, mi faccia solo ascoltare la fine del concerto» pregò l’Ammiraglio.
   Davanti all’insolita, ma garbata richiesta, il Capitano non volle insistere. Così si accomodò su un’altra sedia. Per un po’ restarono in silenzio, ascoltando la sinfonia.
   «Lo riconosce?» chiese a un tratto il Krenim.
   «Non mi pare. Temo di non essere esperta di musica» si scusò l’Elaysiana.
   «È un antico componimento terrestre: L’Uccello di Fuoco, di Stravinskij» spiegò Hortis, con gli occhi chiusi per meglio godersi la melodia. «S’ispira a una fiaba ancora più antica. Un principe deve entrare nel castello di un mago malvagio, per liberare le tredici principesse che questi ha rapito, tra cui la sua promessa. La sua unica arma è una penna dell’Uccello di Fuoco, che può evocare la mitica creatura, per ardere le forze del male».
   «Ammiraglio, sta cercando di dirmi qualcosa?» chiese Hod, un po’ interdetta.
   Il Krenim riaprì gli occhi e la fissò intensamente. «Presto andremo in battaglia» disse con gravità. «Ne ho combattute molte nella mia carriera, e in qualche modo me la sono sempre cavata. Stavolta, però, affrontiamo il nemico sul suo terreno. Molte cose possono andare storte. E anche in caso di vittoria, rischiamo di farci travolgere dall’energia da noi stessi scatenata. Credo che sarà la mia ultima battaglia» rivelò.
   «Teme che il piano non funzionerà?» domandò l’Elaysiana a bassa voce.
   «Io spero che funzioni. Confido che funzionerà» disse Hortis, rincuorandosi. «Ma sarà una vittoria costosa. Se dovesse accadermi qualcosa, vorrei che lei avesse questo» disse, porgendole un’unità di memoria. «Contiene un messaggio pubblico per l’Unione e altri, più personali, per l’Ammiraglio Chase e la sua famiglia. Il signor Dib mi ha fatto la cortesia di copiarli su uno dei vostri hardware. Glieli farà avere?».
   «Certo» disse Hod, commossa. Prese l’unità e se la mise in tasca. «Però cerchi di non essere così pessimista. Tutti e due abbiamo affrontato situazioni che parevano senza uscita e ce la siamo sempre cavata. Non può andare così anche stavolta?».
   «Il solito ottimismo della Flotta Stellare... mi mancava» sorrise l’Ammiraglio. «Tutto può essere. In ogni caso, non mi resta molto da vivere. I medici mi hanno diagnosticato una malattia terminale. Il cervello è sano, per fortuna, ma il corpo cederà in meno di un anno. In questi giorni mi sono consultato col suo dottor Joe: nemmeno lui può aiutarmi» rivelò.
   «Ammiraglio, mi... mi dispiace» mormorò il Capitano. Un po’ lo sospettava, data la sua fretta nell’attaccare la Rete e i suoi discorsi sui posteri; ma sentirselo confermare la scosse ugualmente.
   «Le dispiace? Forse non mi conosce abbastanza» disse Hortis con un sorriso amaro. «Ho dei grossi pesi sulla coscienza. Ho fatto cose, in guerra... cose che non mi fanno onore, né come Ammiraglio, né come uomo. Non dubito che molti festeggeranno, quando finalmente uscirò di scena. Posso solo sperare che, con quest’ultima missione, farò anche del bene. Vorrei che fosse questa la mia eredità» sospirò. Le rughe sul suo viso erano profondissime. In quel momento non sembrava il famigerato stratega del Fronte Temporale, ma solo un uomo molto vecchio e stanco.
   «Non voglio giudicarla per ciò che ha fatto in passato» disse il Capitano, posando la mano sulla sua. «Posso solo dirle che, tra tutti gli incontri che ho fatto in questo Quadrante, lei è stato il più provvidenziale. Finché avrò vita, non la dimenticherò».
   Il Krenim sorrise, grato. Restarono in silenzio fino al termine della sinfonia e anche dopo, quando lasciarono l’alloggio. Parlarono solo in sala teletrasporto, per congedarsi. Quando Hortis salì sulla pedana, cercò Hod con lo sguardo. Le rivolse un ultimo cenno d’addio, cui il Capitano rispose allo stesso modo. E svanì nel bagliore azzurro del raggio.
 
   Ai margini del Quadrante Delta, l’arma-tunnel era sempre attiva. Il plasma stellare a milioni di gradi sgorgava inesauribile dal wormhole e lambiva lo Scudo Planetario, indebolendolo sempre più. Nelle centrali a terra, tecnici e scienziati cercavano di spremere ogni goccia d’energia per tenerlo attivo, ma sapevano che era una battaglia persa. Potevano solo guadagnare tempo: qualche ora, forse un giorno in più. Ma alla fine le riserve si sarebbero prosciugate. Caduta la barriera protettiva, il plasma avrebbe distrutto ogni cosa. Chi si nascondeva nel sottosuolo sarebbe sopravvissuto qualche giorno in più, ma alla fine l’intero pianeta sarebbe diventato una palla di lava incandescente, com’era già accaduto alle due lune.
   La flotta Vidiiana lavorava incessantemente per trasferire la popolazione. Alcuni milioni di persone erano state portate sulle colonie, che però rischiavano il collasso. Non c’era cibo, né riparo per tutti. Ogni giorno i trasporti portavano altri sfollati, per salvarli da una morte orribile. Ma erano briciole a paragone dei miliardi che si trovavano ancora su Vidiia, impossibilitati a fuggire.
   A poca distanza dal pianeta, su una nave da guerra, alcune tra le più alte cariche dello Stato sovrintendevano al trasferimento della popolazione. A un tratto in plancia squillarono gli allarmi.
   «Il settore 9 dello Scudo Planetario s’indebolisce» avvertì l’addetto ai sensori.
   «Chiami la centrale. Gli dica di dirottare tutta l’energia necessaria dagli altri impianti» ordinò Rommath, il Ministro della Difesa.
   L’ufficiale riferì il messaggio e ascoltò la risposta dall’auricolare. «Lo stanno già facendo, ma non basta. Il wormhole ha emesso un getto di plasma particolarmente denso. Lo scudo è al 30% e continua a indebolirsi».
   «Se scende sotto al 25% sarà la catastrofe» mormorò il Generale Mazzut, affiancandosi al Ministro. «Dobbiamo fare la prova. Ho appena parlato con gli ingegneri, mi hanno detto che sono pronti».
   «D’accordo, allora... procedete» disse il Ministro, un po’ tremante. Si accomodò sulla poltroncina, mentre l’equipaggio terminava i preparativi. L’astronave uscì dal cono d’ombra di Vidiia, accostandosi all’arma-tunnel. Il suo deflettore di navigazione s’illuminò, mentre i livelli d’energia salivano.
   «Settore 9 al 25%!» avvertì l’addetto ai sensori, che monitorava la situazione.
   Un’ampia sezione quadrata dello Scudo Planetario sfarfallò, man mano che s’indeboliva. Il getto di plasma continuò a colpirla, finché alcune stille la oltrepassarono. Vista da terra, fu una scena apocalittica. Colonne di plasma rovente, spesse molti chilometri, calarono dal cielo, disperdendo le nuvole. Una di esse colpì il grande golfo incuneato fra i due subcontinenti. Miliardi di ettolitri d’acqua bollirono all’istante e si vaporizzarono, creando una nube caldissima in rapida espansione. La seconda colonna di plasma toccò il deserto che si stendeva ai piedi di una catena montuosa, vetrificando all’istante la sabbia. La terza e ultima piombò sull’altro versante delle montagne, dove invece cresceva la foresta pluviale, bagnata dai monsoni. La vegetazione arse all’istante e con essa tutti gli animali. Nemmeno le creature volanti fecero in tempo ad allontanarsi. L’incendio si propagò sempre più, sollevando un’immane nuvola nera, ben visibile dallo spazio.
   «La popolazione?» chiese Rommath, impallidito.
   «In quella zona non ci sono grandi città, per fortuna» disse l’addetto ai sensori. «Ma c’è qualche villaggio sulla costa».
   La tempesta di fuoco continuò ad avanzare. Raggiunse un minuscolo villaggio, sperduto nel verde. Le capanne di legno furono incenerite all’istante e anche gli edifici in muratura si sciolsero e crollarono in pochi secondi. Era impossibile che gli abitanti si fossero salvati. Il fronte dell’incendio continuò a espandersi verso i villaggi sulla costa. Chi aveva una barca si mise subito in mare, ma il grosso della popolazione non aveva scampo.
   «Signor Ministro, siamo pronti a lanciare l’impulso» riferì un tecnico.
   «Fatelo!» gridò Rommath.
   Gli ingegneri completarono la sequenza di attivazione. Il deflettore della nave divenne ancora più luminoso ed emise un potente raggio gravitonico, che colpì l’imboccatura del wormhole. Il vascello tremò per lo sforzo. Tutti gli indicatori d’energia salivano verso i livelli di guardia.
   «Energia costante» disse un ingegnere. «L’orizzonte del tunnel si sta contraendo. Continuiamo così!».
   «Dai, dai...» mormorò Rommath, stringendo i braccioli della poltroncina tanto da sbiancarsi le nocche.
   «Energia in diminuzione!».
   «Dirottare dai generatori d’emergenza, dobbiamo mantenere costante il flusso!».
   «Il flusso si stabilizza, ma gli iniettori di plasma sono sovraccarichi. Rischiamo una fusione!».
   «Scaricare il plasma in eccesso dai collettori. Aumentare l’afflusso di refrigerante ai condotti. Dobbiamo resistere!».
   Le voci degli ingegneri si sovrapposero, sempre più concitate. Gli indicatori schizzavano verso l’alto e tutta l’astronave tremava. Ma il wormhole si riduceva e con esso la fontana di plasma. Divenne sempre più piccolo, finché collassò del tutto. Ci fu un lampo; le onde elettromagnetiche e gravitazionali scossero l’astronave, già provata. Ma quando il bagliore si estinse, dell’arma-tunnel non c’era traccia. Gli ultimi getti di plasma si dissolsero nello spazio. Lo Scudo Planetario tornò a brillare stabilmente e le colonne di plasma che lambivano la superficie svanirono. Dal mare salivano ancora nubi di vapore incandescente e la foresta pluviale ardeva. Il fronte del fuoco si avvicinava ai villaggi sulla costa. Ma adesso la popolazione aveva qualche speranza di salvarsi, se i pompieri riuscivano a domarlo.
   Sull’ammiraglia vidiiana, i tecnici disattivarono il raggio gravitonico appena prima che il deflettore andasse in sovraccarico. Gli indicatori d’energia iniziarono una lunga discesa. Le vibrazioni diminuirono finché il vascello tornò in quiete.
   «È finita? Ce l’abbiamo fatta?» chiese Rommath, guardandosi attorno.
   «Pare di sì» rispose il Generale Mazzut, consultando una consolle fitta di dati. «Non c’è traccia del tunnel spaziale. Abbiamo vinto».
   «Ah, lo sapevo!» esultò il Ministro, scattando in piedi. «Ci siamo salvati da soli, senza bisogno di quell’insulsa Alleanza. Vorrei vedere la faccia di Suddayath! D’ora in poi i Vaadwaur non oseranno più attaccarci. Signori, mi congratulo con voi: oggi abbiamo fatto la Storia» concluse solennemente.
   Gli ufficiali si scambiarono sorrisi e anche qualche pacca sulla spalla. Dopo di che tornarono al lavoro: bisognava fare il check-up dei sistemi, per rilevare i danni.
   «Lo Scudo Planetario sta riprendendo energia» riferì l’addetto ai sensori. «È al 60% e continua a salire».
   «Ormai possiamo disattivarlo» disse Rommath, sicuro di sé. «Risparmiamo energia. Lo rialzeremo solo se i Vaadwaur ci mandassero contro delle astronavi. Ma dubito che lo faranno... ormai sono sconfitti. Avvertiamo la flotta: è tempo di riportare a casa gli sfollati».
   «Forse è prematuro, signor Ministro» disse il Generale. «Prima dovremmo censire i danni e verificare lo stato dei Vaadwaur. L’Alleanza ci ha informati che stanno radunando le forze».
   «I Vaadwaur presto apparterranno alle specie estinte. La Phagia non gli lascerà scampo» disse il Ministro con truce soddisfazione.
   In quella si accese una spia sulla postazione sensori. L’addetto verificò di che si trattava e sbiancò. «Non può essere...» sussurrò.
   «Che succede?» si allarmò il Generale, affiancandosi a lui.
   «C’è una nuova sorgente di onde gravimetriche, diecimila km davanti a noi» rivelò l’addetto. «È identica all’altra!».
   «Mi faccia vedere» ordinò Mazzut.
   L’addetto inquadrò la zona sullo schermo principale. C’era un bagliore arancione, che crebbe rapidamente, precisandosi come l’imboccatura di un tunnel spaziale. Un nuovo fiotto di plasma incandescente schizzò in tutte le direzioni. Anche stavolta parte del plasma fu attirato da Vidiia e colpì lo Scudo Planetario. Ufficiali e tecnici fissarono la scena ammutoliti. I loro sforzi erano stati vani; erano tornati al punto di partenza.
   «Come hanno...» mormorò il Ministro.
   «Allo stesso modo di prima» rispose cupamente un ufficiale scientifico. «Noi abbiamo chiuso il tunnel spaziale, ma nella Rete ce ne sono centinaia. I Vaadwaur ne hanno semplicemente spostato un altro. Temevo che accadesse, ma non pensavo che l’avrebbero fatto così in fretta».
   «Quanto tempo abbiamo guadagnato?» chiese Rommath.
   «Pochi minuti. Almeno adesso l’energia del settore 9 è tornata stabile. Ma lo Scudo nel suo complesso tornerà a indebolirsi, finché cederà del tutto» spiegò lo scienziato. «Possiamo chiudere anche questo wormhole, se la nave regge. Ma a questo punto non servirebbe. È chiaro che i Vaadwaur possono tornare a colpirci tutte le volte che vogliono».
   «Generale?!» chiese il Ministro, quasi implorante, come se questi avesse la soluzione in tasca.
   «È stato un tentativo» rispose Mazzut sconsolato. «Dobbiamo continuare con l’evacuazione. E forse... dico forse... dovremmo riconsiderare la nostra partecipazione all’Alleanza».
   Sentendosi mancare, Rommath si lasciò ricadere sulla poltroncina. Osservò le lingue di plasma che lambivano di nuovo lo Scudo Planetario. Di lì a pochi giorni lo avrebbero oltrepassato, incenerendo la superficie con tutti i suoi abitanti. Il Ministro intrecciò le dita, rimuginando sulla prossima mossa.
 
   Imprigionata nella sala d’osservazione del Ravager, Ladya aveva perso la cognizione del tempo. Mangiava quando le portavano da mangiare e dormiva avvoltolata nel manto scuro, quando la stanchezza superava il dolore delle piaghe. Per il resto passava quasi tutto il tempo a guardare dalla finestra panoramica.
   La flotta Vaadwaur si era radunata per giorni, con le astronavi che uscivano alla spicciolata dal tunnel spaziale. Era un’armata eterogenea: molte navi erano state strappate ad altre specie, soprattutto ai Turei. Parecchie di esse dovevano avere una certa età, anche se erano tenute in efficienza. Tuttavia il grosso della flotta era composto da vascelli propriamente Vaadwaur, costruiti negli ultimi tempi. Erano riconoscibili dagli affusolati scafi bruni, con le gondole di curvatura e il deflettore che brillavano di viola. C’erano gli agili incursori di classe Pythus, le fregate leggere Manasa e gli incrociatori Astika. Infine c’era il Ravager, l’ammiraglia di Suddayath. Pur trovandosi a bordo per la seconda volta, Ladya non l’aveva mai visto da fuori, ma si era fatta l’idea che fosse ancora più massiccio degli incrociatori.
   La dottoressa si chiese cosa avrebbero potuto fare i Vaadwaur, se avessero devoluto meno risorse alla guerra e si fossero concentrati a ricostruire la loro civiltà. Intuì che i suoi rapitori non vedevano differenza tra le due cose, perché una flotta potente consentiva loro di razziare le risorse per la ricostruzione. Ora però stavano per affrontare le conseguenze della loro politica predatoria.
   Da qualche ora non giungevano più astronavi. La flotta si era dispiegata, allontanandosi un po’ dal pianeta e assumendo la formazione. Gli incursori formavano l’avanguardia, le navi strappate al nemico stavano ai lati, mentre le navi da guerra Vaadwaur occupavano il centro dello schieramento. Il Ravager stava in posizione arretrata, così che dalla sala d’osservazione posta a prua la dottoressa poteva vedere quasi tutta la flotta. Contando le navi, Ladya si rese conto che i Vaadwaur avevano ammassato una forza d’urto formidabile, anche se probabilmente l’avrebbero divisa all’interno della Rete.
   D’un tratto le astronavi davanti a lei accesero i motori a impulso. Una lievissima vibrazione indicò che anche il Ravager si era avviato. Era il momento. Le navi entrarono una dopo l’altra nel tunnel spaziale. Sparirono prima gli incursori, poi le fregate e gli incrociatori; infine anche il Ravager si accostò al vortice arancione.
   «Stupidi ciechi... potevate trovare un compromesso, invece avete scelto la guerra. Ne pagherete il prezzo» pensò la Vidiiana con amarezza, mentre l’astronave varcava la soglia della Rete Subspaziale. 
 

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Capitolo 9
*** Il turno di notte ***


-Capitolo 8: Il turno di notte

Data stellare 2590.159 (giorno 99 nel Quadrante Delta)

La Keter è presso la nebulosa planetaria

 

   «Capitano sul ponte!».

   «Comodi, signori» disse l’interessato, dirigendosi con passo spedito alla poltroncina. Era uno Xaheano alto e smilzo, con corti capelli neri sempre volti all’indietro, come per una folata di vento. Mentre attraversava la plancia osservò gli ufficiali a destra e a manca, accertandosi che fossero tutti ai propri posti e affaccendati. Soddisfatto da quel primo esame, sedette sulla poltrona di comando, accavallando le gambe. Guardò lo schermo davanti a sé: l’Annorax si stagliava contro la trama multicolore della nebulosa planetaria. Dopo aver rivelato il suo piano contro i Vaadwaur, l’Ammiraglio Hortis attendeva di sapere se la Keter lo avrebbe supportato. Era una decisione cruciale, da cui dipendeva il resto della missione nel Quadrante Delta. «Rapporto sezioni!» ordinò lo Xaheano.

   «Condizioni della nave regolari, Capitano» disse il Tenente Orlon, appollaiato sulla poltroncina del Comandante. Essendo un Teenaxi, d’aspetto simile a un cagnolino e alto una quarantina di centimetri, doveva allungare il collo più che poteva per leggere i dati sull’oloschermo.

   «Rotta regolare, Capitano. Cioè, rotta assente; siamo fermi» disse il Guardiamarina Ennil. Stravaccata sulla sedia del timoniere, la Barzana grassoccia si divertiva a muovere il sedile girevole con un piede, mentre sorseggiava la bibita che si era portata dietro.

   «Si dice “manteniamo la posizione”» la corresse il superiore.

   «Scusi, signore... manteniamo la posizione» disse Ennil in tono annoiato. Bevve rumorosamente dalla bottiglietta, stando attenta a non spostarsi i mini-respiratori che aveva a lato della bocca. Come tutti i Barzani, necessitava di un supporto respiratorio per sopravvivere nell’atmosfera standard delle navi stellari.

   «Letture dei sensori regolari, Capitano» disse il Guardiamarina Smig, una Ferengi bruttina e tracagnotta. «I Krenim non fanno nulla di sospetto e non ci sono navi in avvicinamento». Come faceva sempre quando prendeva servizio, la Ferengi stava disinfettando la postazione sensori e comunicazioni, essendo ipocondriaca.

   «Esegua delle scansioni anti-occultamento» raccomandò lo Xaheano. «La prudenza non è mai troppa. E lei, Mo’rek, cosa mi dice?» chiese, girandosi verso il massiccio Klingon a cui era affidata la postazione tattica.

   «Armi e scudi in piena efficienza» rispose Mo’rek. «Se i Krenim fanno strane mosse, li concerò come meritano».

   «Lei non muoverà un dito, senza il mio ordine» avvertì il superiore.

   Il Klingon gli lanciò un’occhiata al vetriolo. «Come vuole, Tenente» mugugnò.

   «Come-come?» lo richiamò lo Xaheano.

   «Come vuole, Tenente Comandante» si corresse Mo’rek, fissandolo con ancora più stizza. Certi ufficiali erano fissati con il proprio grado e non tolleravano che lo si dicesse a metà.

   «Lui vuol farsi chiamare Capitano, in queste ore» rispose svogliatamente Ennil, facendo un giro completo sulla sedia girevole.

   «Ma è assurdo!» insorse il Klingon. «Il Capitano è Hod. Lei, signore, dirige solo il turno di notte» si rivolse allo Xaheano.

   Il Tenente Comandante Ki’Lau, facente funzioni Capitano, scattò in piedi. Le palpebre interne gli velarono per un attimo gli occhi e i capelli corti parvero ancora più dritti del solito. Evitò a stento che le creste dorsali si rizzassero, forandogli l’uniforme. «Con questo cosa vorrebbe dire, Tenente? Che il nostro turno conta meno degli altri? O che il Capitano non mi ha delegato la sua autorità?!».

   «Niente di tutto questo» rispose Mo’rek, stupito da quella reazione. «Dico solo che ognuno ha il suo grado, che non cambia quando sopperiamo agli ufficiali superiori. Io la chiamerò “Tenente Comandante” o “signore”, ma giammai Capitano» dichiarò, incrociando le braccia con risolutezza.

   «Oh-oh, adesso ne vediamo delle belle» gongolò Ennil, girandosi con tutta la sedia per assistere. «Non sai contro chi ti sei messo, cocco».

   «Tenente Mo’rek, lei è stato retrocesso dal turno Alfa per motivi disciplinari» disse lo Xaheano, accostandosi al Klingon con studiata lentezza. «Ha proposto di aprire il fuoco sulla prima nave Krenim che abbiamo incontrato, senza provocazione, e più tardi ha avuto da dire col Comandante Radek. Ecco perché è finito qui. Per uno nella sua posizione, sarebbe meglio non discutere coi superiori. Altrimenti potrei intraprendere ulteriori provvedimenti disciplinari. Ad esempio potrei tagliarle le ore settimanali di ponte ologrammi».

   Il Klingon si sgonfiò all’istante. «No!» gemette. «Sono nel mezzo della campagna di Kahless contro Molor. Domani ho la battaglia nella grande sala Qam-Chee!».

   «Cos’è che aspetta con più ansia? La battaglia nel salone o i favori di Lady Lukara che verranno subito dopo?» lo derise Ki’Lau, che conosceva la storia Klingon. «Ma si guardi! Un guerriero Klingon che sbava per qualche ora sul ponte ologrammi! Dov’è finito il suo onore?».

   «Quello potrei averlo perso quando sono stato degradato» ammise Mo’rek, con il morale sottoterra. «Ecco perché farò di tutto per tornare al turno Alfa, quello in cui si combatte».

   «No, maledizione!» lo richiamò il superiore. «Lei fa il solito errore di credere che al turno di notte ci vadano gli scarti».

   «Perché è vero» commentò Ennil, rassegnata.

   «No che non lo è! Siamo ufficiali della Flotta Stellare, tanto quanto chi presta servizio negli altri turni» affermò Ki’Lau. «Abbiamo le stesse responsabilità. Anzi, in un certo senso ne abbiamo di più, visto che a quest’ora il Capitano sta riposando. Per questo non tollero lassismo né disfattismo. Quando sono al comando, la nave dev’essere al 100% dell’efficienza. Sono stato chiaro?».

   «Sì... Capitano» mugugnò il Klingon. Gli sembrava che lo Xaheano si fosse contraddetto, dato che poco prima aveva descritto il suo cambio di turno come una “retrocessione”, ma non gli andava di prolungare il battibecco.

   «Bene!» disse Ki’Lau, tornando impettito verso la poltroncina. «Qui facciamo tutti cose importanti, che i colleghi degli altri turni spesso dimenticano di fare. Il Guardiamarina Smig, per esempio, disinfetta sempre la sua postazione. Brava, Guardiamarina!».

   «Grazie, signore» disse la Ferengi, lieta d’essere notata per qualcosa. «Sto solo applicando la Regola dell’Acquisizione numero 23: Niente è più importante della tua salute, eccetto il tuo denaro».

   «Bene... anzi, sa che le dico? D’ora in poi tutti quanti disinfetteremo le postazioni, quando prendiamo servizio!» decise Ki’Lau. «Ora che siamo nel Quadrante Delta e interagiamo con specie sconosciute, la prudenza non è mai troppa» disse mentre si risedeva.

   «Grazie tante!» fece Ennil, lanciando un’occhiataccia alla collega ipocondriaca. Dopo di che prese la bottiglietta e si scolò un altro sorso.

   «Che sta bevendo?» s’insospettì lo Xaheano. «Non sarà mica un alcolico?».

   «Macché, è solo una Slug-o-Cola» si difese la Barzana, mostrando l’etichetta con una testa di Ferengi verde. «Me l’ha consigliata Smig».

   «La bevanda più viscida della Galassia!» ridacchiò la Ferengi, citando il motto della bibita, scritto anche sull’etichetta. «Dovreste berla tutti. Dà ai denti una deliziosa sfumatura verdastra. E poi è fatta con le alghe, quindi è dietetica».

   «Ah, credevo fosse fatta col muco di lumaca» commentò Orlon, grattandosi dietro l’orecchio con la zampa posteriore.

   «Quello è usato solo come addensante» spiegò Smig.

   A queste parole, Ennil sputò quanto aveva in bocca. Dopo di che dovette procurarsi un panno con cui pulire la consolle e il pavimento.

   «C’è una macchia lì... un’altra là» le indicò Ki’Lau, che non voleva lasciare una plancia imbrattata di verde agli ufficiali superiori. «Sa, Guardiamarina, non è la prima volta che la trovo a bere o mangiare in servizio. È un vizietto che dovrebbe perdere».

   «Grumble... sì, Capitano» mugugnò la Barzana, che in quel momento era china sotto la consolle per pulire il pavimento e quindi offriva ai colleghi la vista del generoso posteriore. «Non si preoccupi, da domani comincio la nuova dieta».

   «Hi-hi... è da quando la conosco che “domani” comincia la nuova dieta» ridacchiò Orlon. «Forse dovrebbe smetterla di aspettare domani, e iniziarla “oggi”» suggerì.

   Umiliata, Ennil finì di pulire e tornò seduta. In effetti il suo indice di massa corporea non era ottimale. Da quando aveva finito l’Accademia era sempre ai limiti del regolamento e a volte anche più in là. Ma che ci poteva fare, se le piacevano tanto i dolci? Più i superiori la riprendevano, più lei s’intristiva. E quando si trovava nel suo alloggio, triste e sola, il replicatore alimentare era la sua unica consolazione.

   Nel frattempo Ki’Lau stava contattando il personale che si trovava nelle altre zone della nave, per accertarsi che anche lì fosse tutto in ordine. «Plancia a sala macchine, rapporto» ordinò. Passarono i secondi, senza che giungesse risposta. Lo Xaheano tamburellò nervosamente sul bracciolo. «Plancia a sala macchine, rispondete» ripeté. Ancora nulla. «Allora, signor Xandrix, batte la fiacca?!» esclamò, visualizzando la sala macchine sullo schermo.

   Il salone era semivuoto, dato che durante il turno di notte, in mancanza di progetti particolari o di riparazioni da svolgere, il personale era ridotto al minimo. A terra però c’era un grosso pezzo di lamiera, con attaccati dei componenti elettronici. Una figura umanoide era china sul detrito, per analizzarlo. Sentendosi chiamare si girò verso lo schermo.

   «Chi mi vuole?» chiese. Era un Rhaandarite, dal cranio enorme con pochi capelli e gli occhi dorati privi di pupilla. Aveva l’aria trasandata ed era pieno di aggeggi diagnostici, infilati nelle tasche del camice da ingegnere che portava sopra l’uniforme. Aveva anche una chiave isolineare infilata dietro l’orecchio.

   «Sono Ki’Lau» sospirò il Tenente Comandante. «La chiamo sempre a quest’ora, per sentire il suo rapporto».

   «Ah, già, me n’ero scordato» disse Xandrix, dandosi un colpetto sulla fronte. «Sto analizzando un detrito dell’incrociatore Vaadwaur che abbiamo respinto l’altro giorno. Analizzo lo scafo per determinare quale frequenza delle armi è più efficace. Così saremo più preparati, se dovessimo scontrarci ancora».

   «Bella pensata!» approvò Mo’rek. «Lei è un tipo sveglio».

   «Grazie, signor Momik» sorrise il Rhaandarite, sbagliando il suo nome. «Quando avrò finito invierò i dati alla sua postazione».

   «Può capire anche quali sono le frequenze migliori per abbattere gli scudi Vaadwaur?» chiese il Klingon, dato che erano quelli il vero ostacolo. Una volta abbattuti gli scudi, lo scafo cedeva piuttosto facilmente.

   «Temo di no» disse Xandrix. «Comunque studierò le letture che abbiamo raccolto durante la battaglia. Se troverò qualcosa d’interessante, la informerò subito, signor Monk».

   «Per il resto nulla da segnalare?» chiese Ki’Lau, ansioso di continuare con l’ispezione.

   «No, signore» rispose il Rhaandarite. «Ora mi scusi, devo tornare al lavoro. Sto dissezionando un componente elettronico. Vediamo... dove ho messo la chiave isolineare? Che strano, ce l’avevo in mano un attimo fa!». L’ingegnere si frugò nelle tasche, senza esito, e poi ispezionò il pavimento attorno al detrito, disseminato di strumenti.

   «Non sarà quella cosa che ha dietro l’orecchio?» sospirò Ki’Lau, abituato alle sue stramberie.

   «Oh, già!» s’illuminò Xandrix, recuperando l’arnese. «Dove ho la testa? Grazie mille, Tenente. Ci risentiamo a fine turno!». Chiuse il canale, senza dare allo Xaheano il tempo di riprenderlo per quanto riguardava il grado.

   Ki’Lau sospirò. C’erano ancora parecchie sezioni da passare in rassegna.

 

   Era la maledizione del turno di notte, si disse lo Xaheano, quando più tardi si trovò a girarsi i pollici. Sulla Keter, come in tutte le navi della Flotta Stellare, l’equipaggio si suddivideva in tre turni di otto ore. Per praticità erano chiamati Alfa, Beta e Gamma. Il turno Alfa, o turno principale, era quello mattutino, in cui prestavano servizio il Capitano e gli ufficiali superiori. Qui si concentrava il grosso dei lavori e venivano prese le decisioni cruciali per la nave. Il turno Beta, quello pomeridiano, era destinato soprattutto a compiti di routine, come la cartografia stellare o le riparazioni. La maggior parte dei rimpasti di personale – con altre navi o interni al vascello – avvenivano tra questi due turni.

   Infine c’era il turno Gamma, il famigerato “turno di notte”, tanto inviso agli ufficiali. Non che ci fosse alternanza tra il giorno e la notte, nello spazio; era solo una convenzione di orologio, fatta per conservare i bioritmi dell’equipaggio. Durante questo turno alcuni sistemi della nave erano offline e tutto era gestito con personale minimo. Molte sale ausiliarie erano vuote, con le luci spente, e così alcuni corridoi, specialmente nei ponti inferiori. Anche gli incarichi erano ridotti all’osso: fare il check-up dei sistemi, mantenere la rotta, terminare eventuali lavori non conclusi dagli altri due turni. Ne derivava una regola informale, ma scrupolosamente applicata: al turno di notte finivano gli ufficiali meno qualificati. Essere destinati a quel turno era per definizione un fallimento, perché offriva scarse possibilità d’incontrare gli ufficiali superiori e quindi di mettersi in mostra. Il che si traduceva in scarsissime opportunità di fare carriera. Così gli ufficiali del turno di notte restavano inchiodati per anni negli stessi incarichi. Alcuni arrivavano al punto di accettare ruoli meno importanti, pur di essere trasferiti a un altro turno.

   Pensando a questo, Ki’Lau si promise di non abbassarsi mai a un tale compromesso. Ma lavorare nel turno di notte aveva un’altra conseguenza, ancor più spiacevole. Gli ufficiali di quel turno erano spesso derisi dagli altri, o trattati con superiorità. Erano destinati agli incarichi più umili – come spurgare i condotti del plasma – ed erano protagonisti delle barzellette sulla Flotta. Di conseguenza questi ufficiali erano i più frustrati e litigiosi, o i più apatici e rassegnati, in un circolo vizioso che manteneva scarsa la loro efficienza.

   Lo Xaheano ci faceva i conti tutti i giorni. Spronava i sottoposti a dare il massimo, nella speranza che tutti loro fossero trasferiti a un altro turno; ma di rado otteneva risultati. Spesso le sue esortazioni cadevano nel vuoto, o peggio ancora, la ciurma rispondeva sfottendolo. Certo, era difficile coinvolgere gli ufficiali quando il compito più emozionante era contare le particelle di pulviscolo spaziale per metro cubo. Non c’era da stupirsi che alcuni fossero nervosi, come Orlon e più ancora Mo’rek, né che altri fossero rassegnati, come Ennil e Smig. Quello che se la passava meglio di tutti era Xandrix. L’ingegnere aveva la testa così tra le nuvole che non si rendeva conto della sua sfortuna, il che gli risparmiava un bel po’ di ansie e frustrazioni.

   Senza farsi troppo notare, Ki’Lau attivò l’oloschermo del bracciolo e lesse l’ora, segnata in un angolo. Erano le due di notte; mancavano ancora cinque ore alla fine del turno. Cinque ore di ozio, a meno che non succedesse qualcosa di grave, come un attacco alieno; ma in quel caso avrebbe dovuto svegliare il Capitano e gli ufficiali superiori. Ad ogni minuto che passava, lo Xaheano si sentiva sempre più sprecato. Era un Tenente Comandante, lui. Aveva prestato servizio sulla Keter fin dal varo, superando momenti terribili. L’anno prima, al culmine dello scontro coi Na’kuhl, aveva partecipato all’abbordaggio della loro nave ammiraglia, il Reaper. Era uno dei sessanta che si erano teletrasportati a bordo e, cosa più importante, uno dei dieci che erano tornati per raccontarlo. Ma anche in quel frangente non era riuscito a mettersi particolarmente in mostra. Tutto ciò che ne aveva ricavato era il dubbio onore di comandare il turno di notte. E lì, probabilmente, sarebbe rimasto finché gli fossero venuti i capelli bianchi.

 

   Cinque ore dopo, il segnale automatico avvertì del cambio di turno. Puntuali come sempre, gli ufficiali superiori giunsero in plancia. Solo il Capitano era in ritardo.

   «Buongiorno» disse Radek, venendo a reclamare la sua poltrona. «Qualche novità?».

   «No, signore... tutto regolare» rispose Ki’Lau, come al solito. «I Krenim hanno mantenuto la posizione, senza inviare segnali. Non abbiamo rilevato altre navi».

   «Nessuna nuova, buona nuova» commentò Radek. «Ma oggi il Capitano annuncerà la sua decisione. Incrociamo le dita».

   Nel frattempo anche gli altri ufficiali del turno di notte stavano cedendo le loro postazioni. Mo’rek lasciò quella tattica a Norrin, con un mugugno che a voler essere fantasiosi poteva suonare come «Buongiorno». Smig salutò Zafreen con più cordialità, complimentandosi per la sua nuova acconciatura, cosa curiosa per una Ferengi priva di capelli. Ennil lasciò il timone e poi tornò a portar via la bottiglietta vuota, beccandosi un’occhiataccia da Vrel. Orlon si limitò ad appallottolarsi, alla maniera dei Teenaxi, e a rotolare nel turboascensore senza salutare nessuno.

   Siccome i colleghi avevano riempito l’ascensore, Ki’Lau attese il prossimo turno per scendere. Quando la porta si riaprì, ne uscì il Capitano. Aveva l’aria di chi ha dormito poco, ma in lei c’era l’aria risoluta di chi ha preso una decisione inappellabile. Con lei c’era la dottoressa Mol.

   «Aprire un canale con l’Annorax» ordinò l’Elaysiana, senza nemmeno aver salutato i colleghi.

   L’Ammiraglio Hortis apparve prontamente sullo schermo. «Buongiorno, Capitano» esordì. «Allora, ha consultato i suoi superiori?» chiese vagamente divertito.

   «Ho valutato la sua proposta» rispose Hod. «Distruggere la Rete Subspaziale è una soluzione drastica al problema dei Vaadwaur. Come Capitano della Flotta Stellare, ho il dovere di preservare le meraviglie naturali della Galassia e le opportunità di contatto fra le specie» disse lentamente. «Ma ho un dovere ancora più alto: quello di preservare la vita. I Vaadwaur stanno lasciando dietro di sé una scia di morti e distruzione. Quindi sì, vi aiuterò a eliminare i tunnel» dichiarò.

   A questa notizia, Ki’Lau si sentì attraversare da un brivido. Si apparecchiava una battaglia coi fiocchi. Come al solito se ne sarebbero occupati gli ufficiali del turno Alfa; ma le esercitazioni coinvolgevano anche quelli degli altri turni, che durante la battaglia sarebbero stati disponibili come personale ausiliario. Riflettendo sulle conseguenze, lo Xaheano entrò nel turboascensore e lasciò la plancia.

   Quel giorno il Tenente Comandante pranzò nel suo alloggio, anziché in sala mensa. Dopo di che si mise a consultare le procedure di sicurezza. Esaminò il rendimento del personale dei tre turni, nel corso degli anni passati. Quelli del turno Alfa avevano ovviamente i risultati migliori, quelli del Beta erano poco più sotto, ma come temeva il turno Gamma si distingueva per l’inadeguatezza. «Ora basta... le cose devono cambiare» si disse.

 

   Più tardi, nel primo pomeriggio, Ki’Lau si recò in sala mensa. Per quelli del suo turno era ora di cena. Trovò Ennil e Xandrix seduti con Smig, che raccontava loro gli ultimi pettegolezzi sull’equipaggio. Orlon era poco lontano, al tavolino basso costruito su misura per lui. Stava rosicchiando gli ultimi avanzi di carne attorno a un osso, con la voracità tipica dei Teenaxi. Mo’rek infine stava in un angolo, ombroso come al solito.

   «Venga con me» disse lo Xaheano, passandogli accanto.

   «Perché?» chiese il Klingon, sospettoso.

   «Perché è un ordine. Anche tu, Orlon... vieni qui!» fischiò Ki’Lau. Al richiamo del superiore, il Teenaxi lasciò perdere l’osso e rotolò presso gli altri. Si radunarono tutti intorno al tavolo. Anche Orlon sedette su una sedia, allungando il collo per vedere i colleghi. Ki’Lau si accomodò per ultimo.

   «Che succede, capo?» chiese Ennil, con la bocca ancora piena. Ora che era fuori servizio, non era più costretta a chiamarlo Capitano. Come suo solito quand’era in sala mensa, la Barzana aveva rinunciato a ogni parvenza di disciplina. Contravvenendo ai suoi propositi dietetici, si era presa un vassoio straripante di cibi ipercalorici e lo stava svuotando con gusto. Prese un tubetto di ketchup e lo spremette sopra il monumentale hamburger che si era preparata. Stava per afferrare il panino, quando Ki’Lau glielo sottrasse con tutto il vassoio.

   «Succede che da oggi si cambia andazzo» disse lo Xaheano, squadrando lei e gli altri con aria severissima. «Il Capitano ha deciso di aiutare i Krenim a distruggere la Rete Subspaziale. Questo significa che ci aspetta una grande battaglia contro i Vaadwaur».

   «E allora? Se ne occuperanno quelli del turno Alfa, come sempre» commentò Orlon.

   «È questo il problema!» sbottò Ki’Lau. «Ogni volta che c’è un problema, se ne occupano loro. Fra qualche anno saranno tutti Capitani... tranne Zafreen» concesse. Non riusciva proprio a figurarsela in quella veste. «Noi, invece, marciremo nel turno di notte finché la Keter sarà arrugginita».

   «Questo cosa c’entra col mio panino?» chiese Ennil, ancora affamata.

   «C’entra, perché un ufficiale sovrappeso è un ufficiale inetto!» rispose Ki’Lau, fulminandola con lo sguardo. «Ma guardate come ci siamo ridotti! Siamo ufficiali della Flotta Stellare, non un branco di...».

   «Perdenti» completò Smig.

   «Già» convenne lo Xaheano, assorbendo il colpo. «Sentite, è da quand’ero allo stadio larvale che sogno un incarico di responsabilità su una nave stellare. Suppongo che sia lo stesso anche per voi».

   «Io sognavo una montagna di latinum, ma... vabbé, la nave stellare veniva per seconda» disse la Ferengi.

   «È possibile che, nel corso di questa missione, capiti qualche emergenza notturna» proseguì Ki’Lau. «Di certo vedremo un po’ d’azione quando affronteremo i Vaadwaur. Voglio che, quando accadrà, il nostro rendimento non sia inferiore a quello del turno Alfa».

   «Magari del Beta? Meglio abbassare un po’ le pretese» suggerì Orlon.

   «No, non dobbiamo abbassarle! Dobbiamo alzarle al massimo!» insisté lo Xaheano, battendo il pugno sul tavolo. «Perciò da domani faremo esercitazioni di combattimento sul ponte ologrammi. Faremo anche del sano esercizio fisico, così quelli di noi che hanno dei chili di troppo li smaltiranno» disse, sempre fissando Ennil.

   «Sembra divertente... io ci sto» sorrise Xandrix, rompendo finalmente il silenzio.

   «Anch’io» disse Orlon. «Sono stanco di spulciarmi, mentre gli altri pensano a tutto e si prendono tutti i meriti».

   «Mo’rek?» chiese il Tenente Comandante, un po’ teso, dato che il Klingon era restato in silenzio.

   «Suppongo che mantenere i vecchi ritmi sarebbe onorevole» ragionò questi. «D’accordo, mi allenerò con voi. Così vi mostrerò come facciamo le cose nel turno Alfa». Pensava tra sé che la battaglia alle porte era una grossa occasione. Se fosse riuscito a mettersi in mostra, magari il Capitano gli avrebbe restituito il vecchio incarico.

   «Ottimo! E voi?» domandò Ki’Lau, osservando le ultime due colleghe.

   «Lo considererò un investimento a lungo termine. Ci sto» disse la Ferengi.

   «Io no» rispose Ennil con studiato distacco. «Sono in servizio per otto ore al giorno. Partecipo alle esercitazioni standard a cui è tenuto l’equipaggio. Il mio dovere lo faccio già. Se voi volete spaccarvi la schiena, siete liberi di farlo. Ma lo farete senza di me». Allungò una mano sopra la tavola, afferrò il vassoio e lo tirò nuovamente a sé. Prese il panino con ambo le mani e spalancò platealmente la bocca.

   «Lei ha già parecchie note di biasimo sulla sua scheda personale. Mi dispiacerebbe doverne aggiungere un’altra» disse Ki’Lau in tono soave. «Ricorda quella volta che per sbaglio ha ficcato la Keter in una breccia subspaziale? Ci ha quasi fatti ammazzare, fortuna che Vrel era ancora sveglio ed è venuto in plancia per tirarci fuori. Quella volta l’ha passata liscia, ma potrei tornare sulla decisione. Nel qual caso subirebbe un provvedimento disciplinare. In effetti, credo che le toccherebbe spurgare i condotti del plasma» disse con fatalismo.

   «No, i condotti del plasma no!» gemette Ennil. «Mi resta sempre quello schifo sotto le unghie. Ci vogliono giorni perché vada via».

   «E allora venga ad allenarsi con noi» insisté lo Xaheano. «Sarà divertente; magari ci conosceremo meglio».

   «E va bene» sospirò la Barzana. Depose il panino sbrodolante ketchup. D’un tratto le era passato l’appetito.

 

Data stellare 2590.164 (giorno 104 nel Quadrante Delta)

La Keter è presso Vidiia Primo

 

   «Forza, lumache! Siamo appena al terzo giro!» esclamò Mo’rek, correndo avanti al gruppo. Il Klingon aveva uno zaino da esercitazione in spalla, ma non sembrava avvertirne il peso. Guidava i colleghi da un corridoio all’altro, costringendo i passanti a schiacciarsi contro le paratie, e da un ponte all’altro, usando i tubi di Jefferies e le scalette anziché i comodi turboascensori. L’unico del suo gruppo che lo seguiva senza problemi era Orlon, che anzi spesso gli correva avanti, avvertendo i passanti di fare largo. Seguivano Ki’Lau, Xandrix e Smig, col fiato grosso. Per ultima, ansante e staccata dagli altri, veniva Ennil.

   Il gruppo seguiva un percorso appositamente studiato, che lo portava da un capo all’altro della nave, salendo ogni volta di un paio di ponti. Nei primi giorni andavano avanti e indietro sullo stesso ponte, ma poi si erano accorti che in questo modo Ennil rimaneva indietro fino a perdere dei giri, e protestava quando le chiedevano di completarli. Così avevano trovato questa soluzione. Ciò naturalmente accresceva il disagio per i colleghi, che se li vedevano correre addosso in tutta la nave. Mentre correva, Ki’Lau teneva il conto dei giri: tre, quattro, cinque... fra poco sarebbero giunti al termine. All’inizio degli allenamenti aveva cercato di risparmiarsi le corse, sostenendo d’essere già in forma. Ma ben presto si era accorto che se non dava l’esempio, i suoi sottoposti si sarebbero sbandati. Così eccolo lì, a sudare per i corridoi.

   «Su, ci siamo quasi!» li spronò Mo’rek.

   «Non vedo Ennil da un pezzo» ansimò Xandrix, che ogni tanto si guardava indietro. «Non dovremmo aspettarla?».

   «L’aspetteremo una volta arrivati. Non fermatevi!» esortò il Klingon, aumentando la velocità della corsa.

   Finalmente raggiunsero il termine del percorso, cioè la palestra. Si fermarono davanti all’ingresso, aspettando la collega ritardataria. Mo’rek e Orlon non sembravano stanchi, ma gli altri tre si piegarono in avanti, ansimando per riprendere fiato. Smig in particolare, che aveva le gambe corte, era provata. «Pessimo... investimento!» boccheggiò.

   Passarono i minuti. Gli ufficiali ormai si erano ripresi, ma della collega non c’era traccia. «Non le sarà venuto un infarto?» chiese Orlon.

   «Non credo» disse Ki’Lau, ma in effetti cominciava a preoccuparsi. «Ki’Lau a computer, localizzare il Guardiamarina Ennil» disse, premendosi il comunicatore.

   «Il Guardiamarina Ennil è sul ponte 8, sezione 14» fu la risposta. Era la stessa zona su cui si trovavano loro.

   «E respira?» chiese Orlon, ma in quella ebbe la risposta. La Barzana svoltò l’angolo e venne loro incontro, sbuffante come una locomotiva. Aveva una bibita ghiacciata in mano.

   «Quella dove l’ha presa?» chiese Ki’Lau.

   «Scusi, ho fatto una piccola deviazione in sala mensa» spiegò la Barzana. «Stavo morendo di sete!» si giustificò, fermandosi davanti a lui. Bevve un lungo sorso.

   «Ecco perché ci ha messo tanto. Non ci siamo, Guardiamarina; durante l’allenamento non sono consentite soste, né deviazioni» la rimbrottò lo Xaheano. Le strappò di mano la bottiglietta, prima che bevesse di nuovo. «Dentro, ora. Siamo solo all’inizio!». Precedette i colleghi nella palestra, un’ampia sala colma di strumenti ginnici. C’erano anche dei sensori che registravano le attività svolte e la quantità di calorie bruciate.

   Sotto la guida di Mo’rek, il gruppetto svolse vari esercizi, dalle flessioni al sollevamento pesi. Rispetto ai compagni, Orlon rappresentava un caso a parte, perché la struttura corporea dei Teenaxi li rendeva inadatti a svolgere la maggior parte degli esercizi pensati per gli umanoidi. Dopo averci pensato un po’, Mo’rek lo mise a correre dentro una ruota girevole. Poi tornò dai colleghi, che stavano facendo esercizi alla sbarra. I pali erano allineati sopra di loro: i federali dovevano afferrarli e sollevarsi a forza di braccia, fino a raggiungere col petto l’altezza della sbarra. Ki’Lau ci riuscì con qualche sforzo. Xandrix e Smig riuscirono ad appendersi, ma non a sollevarsi. Ennil non poté nemmeno reggere il proprio peso. Dopo essere caduta per la terza volta sul tappetino, se ne andò arrabbiata e depressa.

   «Ehi, ehi!» la richiamò Ki’Lau, correndole dietro. «Non faccia così. Queste sono le prime esercitazioni. Vedrà che andando avanti sarà sempre più facile».

   «Me lo dicevano anche all’Accademia, ma non è vero» ribatté la Barzana, sedendo stancamente su una panca.

   «Non si supera l’Accademia senza una forte motivazione» commentò lo Xaheano. «Se è qui, significa che si è impegnata».

   «Avevo un obiettivo, sì» ammise Ennil, asciugandosi il sudore con un panno. «Ma ora è tutto così confuso. La Flotta Stellare è mezza smobilitata. Che accadrà quando torneremo nell’Unione? Ci metteranno in congedo anticipato? Ci trasferiranno all’Ufficio di Primo Contatto?».

   «Non lo so» ammise Ki’Lau, a disagio. Osservò distrattamente Orlon, che a furia di correre nella sua ruota girevole aveva inciampato e ora continuava a vorticare per inerzia.

   In quella Jaylah entrò nella palestra. Vedendo gli occupanti, restò sorpresa: di rado incontrava gli ufficiali del turno di notte. «Oh, salve, Tenente... Tenente...» esitò.

   «Ki’Lau» sospirò lo Xaheano. Si chiese quanti, tra gli ufficiali superiori, ricordassero il suo nome.

   «Ah, già. Salve anche a lei, Guardiamarina» disse Jaylah, passando davanti a Ennil. Nel suo caso non provò nemmeno a chiamarla per nome, sapendo che non l’avrebbe azzeccato. Si recò invece alle sbarre, dove prese a fare degli esercizi. Prima si sollevò più volte fino al petto. Poi salì al di sopra e prese a camminare sulle mani, da una sbarra all’altra, tenendo il corpo dritto e rigido come un palo.

   Ennil osservò queste prodezze con occhi pieni d’invidia. «Non potrebbe scivolare e cadere di testa?!» borbottò, più come augurio che come timore.

 

Data stellare 2590.169 (giorno 109 nel Quadrante Delta)

La Keter sta trattando con i capi dell’Alleanza

 

   «Oggi studieremo la difesa personale» disse Mo’rek, passeggiando davanti ai colleghi, allineati nel dojo di bordo. «Chi vuole cominciare?».

   Ci fu un prolungato silenzio. Nessuno era ansioso di farsi malmenare da un Klingon frustrato e nervoso.

   «Coraggio! Chi si offre volontario venga avanti!» berciò l’ufficiale tattico, irritato dalla pusillanimità dei colleghi.

   Ki’Lau, Orlon, Ennil e Smig fecero tutti un passo indietro. Di conseguenza Xandrix restò un passo avanti a loro. Ma l’ingegnere era troppo perso nel suo mondo per rendersene conto.

   «Ah, signor Xandrix! Lei è un vero guerriero, me ne compiaccio! Venga, venga!» ghignò Mo’rek, facendogli segno di avvicinarsi.

   «Chi, io?» chiese il Rhaandarite, riavendosi dalle sue fantasticherie. Si guardò a lato, accorgendosi che gli altri erano arretrati. Smig allargò le braccia e inclinò la testa, come a dire: «Che ci vuoi fare?». Un po’ perplesso, l’ingegnere salì sul ring assieme al Klingon. «Ma io veramente non sono un ufficiale tattico...» mormorò.

   «La battaglia non guarda in faccia nessuno» tagliò corto Mo’rek. «Immagini di trovarsi davanti un Vaadwaur. Che fa?».

   Xandrix alzò subito le mani, in segno di resa.

   «No!» insorse il Klingon. «Deve lottare per difendersi!».

   «Ma se i Vaadwaur ci abbordassero, non saranno armati?» ragionò il Rhaandarite.

   «Faremo anche lezioni di tiro col phaser» spiegò Mo’rek, con tutta la pazienza di cui era capace. «Ora però siamo qui per perfezionare le tecniche di autodifesa». Indossò dei guantoni da boxe e li fece mettere anche all’altro. «Bene! Ora io cercherò di colpirla da destra. Lei deve bloccarmi e poi contrattaccare. Le mostro come». Gli fece vedere l’esatta sequenza di movimenti, prima eseguendoli lui stesso, poi affiancandosi all’ingegnere e accompagnandolo nei gesti. «Allora, si sente pronto?».

   «Come no, prontissimo» fece Xandrix, saltellando davanti a lui, con le mani alzate in posizione difensiva.

   «Bene» sogghignò Mo’rek. Senza altro preavviso gli sferrò un gancio sinistro, che lo prese in pieno volto e lo scaraventò all’indietro. I colleghi arretrarono, spaventati.

   «Aveva detto che mi avrebbe colpito da destra!» protestò l’ingegnere, strofinandosi il mento indolenzito con la mano ancora coperta dal guantone.

   «Lezione numero uno: mai fidarsi dell’avversario» spiegò l’ufficiale tattico. Gli porse la mano, aiutandolo a rimettersi in piedi, e lo sostenne mentre barcollava.

   «Il suo comportamento non mi sembra molto onorevole, Tenente» notò Ki’Lau. «Da un Klingon mi aspettavo altro».

   «In quel momento interpretavo un Vaadwaur» si giustificò Mo’rek. «Noi Klingon pratichiamo l’onore, ma siamo pronti ad affrontare avversari disonorevoli. Tutto a posto?» chiese, azzardandosi a mollare Xandrix.

   «Sì, sì...» fece lui. Tornò in fila con gli altri, un po’ frastornato.

   «Bene. Avanti il prossimo!» invitò l’ufficiale tattico, battendo i pugni per riscaldarsi.

   «Eccomi!» ululò Orlon. Con un fischio acutissimo, che solo i Teenaxi riuscivano a emettere, balzò addosso all’ufficiale tattico. Gli atterrò sulla spalla e da lì gli si arrampicò tutt’intorno, mordicchiandolo. Era così veloce che il Klingon non riusciva ad agguantarlo e si reggeva così forte ai suoi vestiti che non cadeva mai.

   «Argh, levati di dosso!» gridò Mo’rek, sorpreso da quell’assalto. Arretrò alla cieca, cercando di liberarsi, fino a urtare le corde del ring. Trascinato dal movimento, si arrovesciò all’indietro e cadde oltre le corde, atterrando di schiena. I colleghi lo raggiunsero, per accertarsi che non fosse ferito.

   «Ho... detto... levati!» tuonò il Klingon. Afferrato finalmente il Teenaxi, se lo strappò di dosso e lo gettò lontano. Orlon rimbalzò contro la parete come una palla di gomma e cadde sulle quattro zampe, illeso. In bocca aveva un ciuffo di lunghi capelli neri, strappati a Mo’rek. Era un po’ ansante, ma negli occhi gli brillava una feroce soddisfazione.

   «Mai sottovalutare un Teenaxi» commentò Ki’Lau. «Più sono piccoli, più sono micidiali». Vedendo il grosso Klingon ancora a terra, con l’uniforme strappata in più punti e una ciocca di capelli mancante, non riuscì a trattenere un sorriso divertito.

   «Sono lieto che lei prenda gusto a questa lezione, signore» disse Mo’rek, rialzandosi. «Ora tocca a lei».

   Lo Xaheano smise di sorridere.

 

Data stellare 2590.189 (giorno 129 nel Quadrante Delta)

La Keter attende il ritorno di Radek e Norrin

 

   «Bene, signori... oggi faremo un esercizio diverso dal solito» disse Ki’Lau, passando in rassegna la sua stanca truppa. Erano davanti all’ingresso ad arco del ponte ologrammi. «È una simulazione di battaglia contro i Vaadwaur, messa a punto dagli ufficiali superiori. Gli equipaggi degli altri due turni l’hanno già usata per esercitarsi. Ora tocca a noi».

   «Gli altri l’hanno vinta?» chiese Orlon.

   «Sì» rispose Ki’Lau in tono asciutto. «Da voi mi aspetto lo stesso».

   «Ma lei sa cosa fare?» insisté il Teenaxi.

   «Sarebbe contro lo scopo dell’esercitazione, non vi pare?» ribatté lo Xaheano, rivolto a tutti. «So solo che c’è modo di vincere, ma non so di preciso come. Dovrò improvvisare».

   «Fantastico» borbottò Ennil.

   «Su, animo!» la richiamò Ki’Lau. «Questa è l’occasione per dimostrare che non siamo da meno degli altri. Se vinciamo la simulazione, il Capitano ne sarà informata. E sarà informata anche se perdiamo, quindi vedete di non deludermi» ammonì.

   Detto questo, lo Xaheano attivò la simulazione. L’ingresso del ponte ologrammi si aprì, mostrando una perfetta replica della plancia. Gli ufficiali si recarono ciascuno al proprio posto. Anche Xandrix, pur essendo ingegnere, si accomodò lì, a una postazione laterale che gli dava la panoramica dei sistemi propulsivi. Quando la porta si richiuse fu coperta dall’ologramma del turboascensore, per completare la simulazione.

   «Bene, vediamo qual è la missione» disse Ki’Lau, attivando l’oloschermo del bracciolo. «Oh, si tratta di eliminare la Rete Subspaziale». Pensava che la simulazione avesse uno scopo più semplice, come sconfiggere una nave Vaadwaur o salvarne una dell’Alleanza. Ma in effetti il Capitano voleva eliminare la Rete, senza perdersi in obiettivi di minor conto. «Bene, allora. Tracci la rotta, Guardiamarina» ordinò lo Xaheano. Anche se era solo una simulazione, sentiva il cuore battergli forte.

   «Rotta inserita» disse Ennil, che aveva trovato le coordinate già impostate. «Siamo partiti, Capitano».

   «Abbiamo compagnia» notò Smig. Inquadrò le navi dell’Alleanza che circondavano la Keter.

   «Niente paura, sono amici» la tranquillizzò Ki’Lau. «Procediamo sull’obiettivo».

   In breve la flotta raggiunse l’imboccatura del tunnel spaziale. Il vortice arancione non era difeso. «Avanti a un quarto d’impulso» ordinò lo Xaheano.

   La Barzana eseguì. La Keter aveva quasi raggiunto l’imboccatura quando qualcosa la scosse con violenza. «Ci hanno colpiti! Scudi al 90%» avvertì Mo’rek.

   «Arresto totale. Cos’è stato?» chiese Ki’Lau, maledicendosi per aver già commesso il primo errore.

   «Una mina occultata, credo» ipotizzò il Klingon.

   «Scansione anti-occultamento» ordinò lo Xaheano. Le mine divennero visibili. Erano centinaia e circondavano il wormhole da tutte le parti.

   «Signor Mo’rek, fuoco sulle mine. Ennil, avanti a minimo impulso appena la via sarà libera» disse Ki’Lau. «Smig, avverta gli alleati di stare attenti e fare come noi. Se non riescono a rilevare le mine, gli dica di seguirci in fila indiana».

   «Sto distruggendo le mine» riferì l’ufficiale tattico. «Nel frattempo gli scudi si rigenerano».

   «Bene» si disse lo Xaheano. «Il primo ostacolo è superato senza troppi danni. Possiamo ancora vincere!».

   Aperta la via, la Keter e il resto della flotta entrarono nel wormhole, trovandosi in un dedalo di condotti arancioni.

   «Ho le coordinate dello Snodo 3, dirigo lì» disse Ennil.

   «Si tenga a un quarto d’impulso. Smig, occhio ai sensori: il nemico può attaccare in ogni momento» avvertì Ki’Lau.

   Non dovettero attendere a lungo. Per primi arrivarono gli incursori Pythus, poi le navi di maggior stazza. I loro attacchi scossero la Keter.

   «Mo’rek, risponda al fuoco. Cerchi di togliere la propulsione alle fregate, così potremo oltrepassarle. E adatti gli scudi alla frequenza delle loro armi» suggerì lo Xaheano.

   «Ennil, manovre evasive!» aggiunse Orlon, tanto per non fare scena muta.

   «Sì, signore» rispose la Barzana, tutta concentrata. Quando si trattò di premere i comandi, tuttavia, esitò. «Signore, che manovra dovrei fare?» chiese.

   «Boh, una qualunque! Sigma 9» rispose il Teenaxi, citandone una a casaccio.

   La timoniera ci provò, ma quella manovra era pensata per essere compiuta nello spazio aperto. Nel ristretto ambiente di un wormhole era fatale. La Keter urtò la parete del tunnel e vibrò, sul punto di perdere integrità strutturale.

   «No, così esplodiamo!» gridò Ki’Lau. «Tutto a tribordo!».

   «Ci provo» disse Ennil, lottando contro i comandi che rispondevano a fatica. Riuscì a staccarsi dalla parete del wormhole, prima che l’energia subspaziale lacerasse lo scafo. E urtò una nave della Gerarchia. La plancia sussultò; molte consolle sprizzarono scintille e si disattivarono.

   «Abbiamo perso la propulsione» avvertì Xandrix. «Danni dal ponte 4 al 9, energia al minimo».

   «Compensare coi generatori d’emergenza» ordinò Ki’Lau, passandosi la mano sulla fronte sudata. Le cose si mettevano molto male.

   «Abbiamo feriti... e vittime» avvertì l’ingegnere, leggendo i dati sulla consolle. Ovviamente erano tutti valori elaborati dal computer, trattandosi di una simulazione, ma era un preoccupante segno d’inadeguatezza. «La nave della Gerarchia è distrutta. Cerco di stabilizzare l’energia principale».

   «Gli scudi! Dammi gli scudi!» gridò Mo’rek, vedendo che la nave era indifesa.

   «Arriva l’artiglieria pesante» avvertì Smig. I grossi incrociatori di classe Astika uscirono dai tunnel laterali, circondando la Keter ormai alla deriva, e la colpirono da tutti i lati.

   «Rispondere al fuoco!» ordinò Ki’Lau, sempre più disperato. «Non c’è modo di riattivare i motori?».

   «Sono troppo danneggiati, signore» disse Xandrix, mentre la nave si scuoteva sempre più. «Il deflettore funziona, ma non abbiamo ancora raggiunto lo Snodo 3».

   «Via di qui, serpenti!» ringhiò Mo’rek, sparando a tutto spiano contro i vascelli nemici. Si concentrò su un incrociatore, riuscendo a disabilitarlo; ma senza la propulsione era una vittoria inutile. Le altre navi Vaadwaur si accanirono sulla Keter, danneggiandola sempre più, finché un lampo bianco avvolse la plancia. L’attimo dopo la simulazione si resettò. Lo schermo era vuoto e tutti i danni alle consolle erano svaniti.

   «Simulazione terminata» disse il computer. «Obiettivo fallito. Volete riprovare?».

   «Aspetta. Solo al mio ordine» disse lo Xaheano, con la bocca secca. Osservò i suoi ufficiali, leggendo lo sconforto sui loro volti. Il suo sguardo si fermò su Orlon. «La prossima volta che ordina una manovra evasiva, controlli che ci sia lo spazio per farla!» lo rampognò.

   «Buona questa, me la segno» promise il Teenaxi.

   «E adesso?» chiese Ennil.

   «Adesso ci riproviamo» disse Ki’Lau, determinato. «Computer, avvia simulazione».

 

   Quello che doveva essere un breve allenamento si trasformò in una maratona di parecchie ore. Ki’Lau lanciò una simulazione dopo l’altra, non sopportando l’idea di uscire da lì sconfitto. Non era solo una questione d’orgoglio personale: ne andava del morale dei suoi ufficiali. Se fossero riusciti a vincere, sia pur dopo vari tentativi, si sarebbero convinti che valevano qualcosa. Lo Xaheano cercò di far tesoro degli errori, per evitare di ripeterli; ma la simulazione presentava delle variazioni casuali, proprio perché non si vincesse dopo aver memorizzato le giuste mosse. A volte le mine occultate c’erano, a volte no. La conformazione interna della Rete cambiava ad ogni tentativo e così le tattiche difensive dei Vaadwaur. A volte gli alleati restavano fedeli fino all’ultimo; in altri casi si ritiravano quando la situazione peggiorava.

   «Stavolta ce la faremo» diceva Ki’Lau ad ogni tentativo. E puntualmente si sbagliava. Un paio di volte la Keter entrò in collisione con le pareti del tunnel spaziale. In un altro caso si trovò imbottigliata con le navi alleate in un condotto molto stretto, così che i Vaadwaur dovettero solo sparare nel mucchio. Per tre volte si perse nella Rete, raggiungendo lo Snodo sbagliato o non raggiungendolo affatto, finché il tempo utile si esaurì. Le poche volte che riuscì a raggiungere lo Snodo 3, fu sempre soverchiata dai Vaadwaur. Nel primo caso fu accerchiata e distrutta; nel secondo i Vaadwaur abbatterono gli scudi e teletrasportarono un siluro in plancia; nel terzo invasero la nave e la conquistarono dopo una breve lotta.

   «Basta!» esplose Ennil, dopo il decimo tentativo fallito. «Non ne posso più! È una perdita di tempo!» strillò, alzandosi di scatto; le sue mani tremavano.

   «I nemici sono troppi» convenne Mo’rek. «Almeno siamo morti da guerrieri».

   «Beh, io ne ho abbastanza di morire da guerriera!» ribatté la timoniera, sull’orlo di una crisi isterica. «Qui siamo sul ponte ologrammi, possiamo riavviare la simulazione tutte le volte che volete. Ma se fossimo davvero sul campo di battaglia, saremmo spacciati. È una fortuna che ci siano quelli del turno Alfa, perché se dipendesse da noi non ne usciremmo vivi».

   «Ma no, non sia così negativa» la esortò Ki’Lau. «Ad ogni tentativo accumuliamo esperienza. Proviamo ancora; sono certo che questa è la volta buona».

   «L’undicesima? Non credo proprio» disse la Barzana, guardandolo storto.

   «Se non possiamo sconfiggere i Vaadwaur, potremmo allearci con loro» suggerì Smig, col tipico opportunismo dei Ferengi.

   «Credo che questo vanificherebbe gli scopi dell’esercitazione» sospirò lo Xaheano.

   «Quindi che facciamo?» chiese Xandrix.

   Vedendo che l’ingegnere era troppo timido per proporre di rinunciare, Ennil decise che toccava a lei. «Io ne ho abbastanza; me ne vado» disse, marciando verso l’uscita. «Chi viene con me?». Tutti i colleghi la seguirono prontamente.

   «Alt! Fermi!» ordinò Ki’Lau, mettendosi davanti alla porta. «Non vi ho dato il permesso di uscire».

   «Sono le cinque del pomeriggio» protestò Smig. «Fra sei ore dobbiamo riprendere servizio. Abbiamo appena il tempo di mangiare qualcosa e dormire. Io non ce la faccio a restare... non mi reggo in piedi».

   «Nemmeno io» convenne Xandrix. «Siamo così stanchi che ormai non capiamo più quel che facciamo».

   «Questo vale anche per lei, signore» disse Ennil, fissandolo con durezza. «Non ha senso restare».

   Vedendo la loro determinazione, Ki’Lau sentì vacillare la propria. Però non voleva che uscissero da lì con la sconfitta che gli pesava sul groppone. Si chiese se poteva riprogrammare la simulazione, per renderla più facile. Probabilmente sì; ma non era una cosa fattibile su due piedi. Doveva esaminare i parametri tattici del programma e scegliere quali alterare. «La pensate tutti così? Orlon, Mo’rek?» chiese, rivolgendosi ai meno disfattisti.

   «Ci abbiamo provato e riprovato, capo. Ma a un certo punto bisogna accettare la sconfitta» rispose il Teenaxi. Mo’rek non disse nulla, perché un Klingon non poteva parlare di resa; ma restò accanto ai colleghi.

   «No, andiamo... non abbattetevi così...» farfugliò Ki’Lau, sempre più in difficoltà. «Domani ci riproveremo e vedrete che andrà meglio».

   «Perché lei avrà semplificato la simulazione» indovinò Ennil. «No grazie, Capitano. Preferisco fallire, piuttosto che vincere con questi mezzucci. Andiamo, ragazzi; è finita. Computer, fine programma».

   La plancia fittizia si dissolse, lasciando solo l’uniforme reticolo del ponte ologrammi. Gli ufficiali lo lasciarono in fretta, passando accanto a Ki’Lau senza guardarlo. Lo Xaheano fissò il pavimento, avvilito, finché udì la porta chiudersi alle sue spalle. Era rimasto solo. E anche se avrebbe rivisto i colleghi da lì a sei ore, per il turno di notte, sapeva che non sarebbe stato più come prima. Aveva perso la loro fiducia, il loro rispetto. Peggio ancora, aveva perso la fiducia in se stesso. Capì che non ci sarebbero state altre esercitazioni. Da quel momento tornavano alla solita routine, senza più illudersi che un giorno si sarebbero distinti per qualcosa.

 

Data stellare 2590.208 (giorno 148 nel Quadrante Delta)

La Keter è pronta a entrare nella Rete Subspaziale

 

   Soffocando gli sbadigli, Ki’Lau percorreva i corridoi vuoti della Keter, diretto in plancia. Al pensiero che lo attendeva un’altra giornata fatta di gesti ripetitivi, battutacce fra colleghi e noia, si sentì rivoltare lo stomaco. Non era a questo che pensava, quand’era entrato in Accademia. L’unica cosa che gli dava un fremito era il pensiero che, di lì a due giorni, la Keter sarebbe entrata davvero nella Rete Subspaziale. Allora sì che anche lui avrebbe visto un po’ d’azione, e forse avrebbe rimpianto i tranquilli turni di notte come quello.

   Strada facendo lo Xaheano incrociò Jaylah. Era strano; di solito non la vedeva mai in giro a quell’ora. «’sera, Tenente» la salutò.

   «Buonasera, signor Ki’Lau» rispose la mezza Andoriana. Aveva una strana voce incolore, ma almeno si era ricordata il suo nome. Ki’Lau pensò che fosse stanca, e forse anche preoccupata per l’imminente battaglia, quindi non stette ad attaccare bottone. Le passò accanto e proseguì dritto fino alla plancia, dove i colleghi si erano già sistemati.

   «Capitano sul ponte!» lo salutò Orlon, col suo tono che sapeva di derisorio.

   «Okay, finiamola con questa farsa» disse Ki’Lau. «Non sono il Capitano, quindi smettetela di chiamarmi così».

   «Signorsì, Capitano» annuì il Teenaxi, tutto serio. Gli altri ufficiali ridacchiarono.

   Lo Xaheano osservò la ciurma, trovandola ancora più deludente del solito. Ennil si era portata dietro un intero panino da sbocconcellare, Mo’rek e Smig avevano l’aria trasandata, mentre Orlon si grattava senza ritegno. Una volta li avrebbe richiamati all’ordine, ma ormai decise di lasciar correre.  «Rapporto sezioni» sospirò, accasciandosi sulla poltroncina di Hod.

   «Condizioni della nave regolari» disse Orlon.

   «Manteniamo la posizione» aggiunse Ennil, soffocando uno sbadiglio.

   «Letture dei sensori regolari» proseguì Smig.

   «Armi e scudi efficienti» concluse Mo’rek.

   Avevano già finito. Non restava che contattare le altre sezioni. «Plancia a sala macchine, rapporto» disse Ki’Lau. Come al solito dovette ripetere la chiamata. Stavolta però non bastò un secondo appello e nemmeno un terzo. «Ma che fanno laggiù?» si chiese lo Xaheano, seccato. In quell’attimo la Keter entrò in cavitazione.

   «Ehi, che succede?! Non sono stata io!» sobbalzò Ennil.

   «Arresto totale» ordinò Ki’Lau. «Si sbrighi!».

   La Barzana cercò di eseguire, ma scoprì che i comandi non le rispondevano. «Frell, qui è tutto bloccato!» imprecò. «Non riesco a fermare la nave e non controllo nemmeno la rotta!». A queste parole i colleghi si allarmarono.

   «Chi comanda la nave? Da dove?» chiese Ki’Lau con urgenza.

   «Se non siamo noi, devono essere gli ingegneri dalla sala macchine» disse Ennil. «Ma perché non ci rispondono?!».

   «Computer, chi c’è in sala macchine?» indagò lo Xaheano.

   «Impossibile accertare. I sensori interni sono disattivati» rispose il processore.

   «Non può essere!» protestò Smig. «Un attimo fa i sensori funzionavano, anche quelli interni!».

   «È un’avaria o un sabotaggio?» volle sapere Ki’Lau, col cuore in gola.

   La Ferengi si chinò sulla sua postazione, consultando una schermata dopo l’altra. A un tratto s’irrigidì e alzò lo sguardo ai colleghi, che pendevano dalle sue labbra. «Non può essere un’avaria» rivelò. «Mi hanno tagliata fuori dai comandi e li hanno criptati. La cifratura è di una complessità mai vista».

   Per qualche secondo regnò un orribile silenzio. Ormai era chiaro a tutti che la Keter era sotto attacco; ma da parte di chi? Gli ufficiali fissarono Ki’Lau, in attesa di ordini. Accorgendosi che toccava a lui tirarli fuori dai pasticci, lo Xaheano fu assalito dalle vertigini. Ecco com’era la vita degli ufficiali del turno Alfa. «Isolate le vostre postazioni con dei codici d’emergenza!» gridò, riavendosi dallo shock. «Dobbiamo mantenere il controllo della nave. Computer, Allarme Rosso! Allertare gli ufficiali superiori!».

   «Impossibile eseguire, la sua autorizzazione non è riconosciuta» rispose la voce lapidaria del processore.

   Ki’Lau si sentì come strozzare. La situazione stava precipitando alla velocità della luce. Volgendosi di qua e di là, vide che anche i sottoposti incontravano gli stessi problemi. Qualcuno cercava d’impadronirsi della nave, sistema dopo sistema. Il Tenente Comandante ragionò in fretta: quali erano i sistemi più importanti, in quel momento? «Isoliamo il supporto vitale! E anche i sistemi tattici. Orlon, mi aiuti!» ordinò, precipitandosi alla consolle dei sistemi ambientali.

   Il Teenaxi gli fu accanto in due balzi. «Guardi lì!» disse, additando uno degli oloschermi. «Qualcuno ha sigillato gli alloggi. Vogliono impedire agli altri di uscire».

   Per Ki’Lau fu un altro brutto colpo. Fino a quel momento aveva pensato che, una volta avvertiti gli ufficiali superiori, le cose si sarebbero risolte. O almeno non sarebbe stata colpa sua, se fossero peggiorate. Adesso però era chiaro che il loro misterioso nemico voleva impedirgli di chiedere aiuto ai colleghi più esperti. Tutto l’equipaggio del turno Alfa e gran parte di quello del Beta era intrappolato negli alloggi. Molti stavano dormendo e non si erano nemmeno accorti dell’attacco in corso. «Cerco di sbloccare gli alloggi» farfugliò il Tenente Comandante.

   «È inutile, non vede?! Hanno criptato i controlli» disse Orlon. «E ora che... oh, no. Sono entrati nei controlli ambientali, sistema di ventilazione. Stanno diffondendo un gas negli alloggi» disse, leggendo i dati.

   «Quale gas?! Fermiamoli!» si disperò lo Xaheano. Se si trattava di un composto letale... non voleva neanche pensarci. Trafficò per qualche secondo con i comandi, ma si accorse che era tutto bloccato. L’unica buona notizia era che il gas era stato liberato solo negli alloggi privati. Corridoi e ambienti di lavoro erano sicuri, compresa la plancia. Ma la situazione restava drammatica. Dato che stavano affrontando un rischio biologico, pensò di avvertire i dottori. «Ki’Lau a infermeria, siamo sotto attacco!» disse, premendosi il comunicatore. «Qualcuno soffia gas negli alloggi, dovete fermarlo! Infermeria, mi sentite?!».

   «Dren, sono entrati nella rete dei comunicatori!» imprecò Smig. «È meglio sbarazzarcene. Potrebbero usarli per tracciarci e persino per origliare». Gettò via il comunicatore e così fecero gli altri.

   «È inutile!» sbottò Ennil, rinunciando a riprendere il controllo del timone. «Il nemico ci conosce troppo bene».

   «Ma chi è questo nemico?!» ringhiò Mo’rek, furioso per la mancanza di un bersaglio.

   «Forse lo capiremo in base a dove ci sta portando» intuì Ki’Lau.

   Ennil consultò i comandi del timone. Anche se non poteva controllare la rotta, poteva pur sempre leggere quella che qualcun altro aveva tracciato.

   «Allora?» chiese Orlon, sulle spine.

   «Coordinate 862.959, distanza 3.000 anni luce» lesse la timoniera. «Oh, no...». Si girò verso i colleghi, pallida e con gli occhi spiritati. «Se le cose non sono cambiate dai tempi della Voyager, quello è spazio Borg».

 

   Un silenzio denso orrore calò sulla plancia. I Borg erano stati il nemico più insidioso e terrificante della Federazione, due secoli prima. Dopo alcune grosse sconfitte, però, erano scomparsi dalla circolazione. E il Cubo incontrato settimane prima dalla Keter sembrava confermare le voci secondo cui avevano smesso di assimilare in modo coatto altre specie. Ki’Lau non era in servizio, in quel frangente, ma aveva letto i rapporti. «Il Cubo!» comprese. «Ricordate il Cubo che abbiamo incontrato settimane fa?».

   «Quello che se n’è andato senza farci niente?» chiese Orlon.

   «No, qualcosa deve aver fatto» ribatté lo Xaheano, ragionando in fretta. «Non credo che abbia teletrasportato dei droni a bordo. Avevamo gli scudi alzati e comunque i Borg non avrebbero potuto nascondersi così a lungo. Ma forse il Cubo ci ha trasmesso qualcosa... un virus da computer, che si è fatto strada nei nostri sistemi».

   «Uhm, non so» fece Mo’rek. «Credo che un virus sarebbe stato ancora più rapido a impadronirsi della nave. Io invece ho mantenuto il controllo di armi e scudi».

   «Ottimo! Si assicuri di conservarlo» disse Ki’Lau, un po’ confortato. Anche se contrastava la teoria del virus, era la prima buona notizia dall’inizio della crisi.

   «Quasi quasi ci conviene sperare che siano i Borg» commentò Orlon. «Se sono interessati ad assimilarci, avranno diffuso negli alloggi un gas soporifero anziché uno letale».

   «Questo non spiega perché non l’hanno diffuso anche qui da noi» commentò Smig. «Se radunassimo tutti quelli che sono ancora in piedi...» disse, ma s’interruppe nell’udire il suono del turboascensore. «Arrivano!» sussurrò, terrorizzata.

   «Pronti alla difesa!» ordinò Ki’Lau. Aprì uno scomparto segreto accanto alla poltroncina e ne trasse due phaser. Uno lo tenne per sé, l’altro lo lanciò a Mo’rek, che lo prese al volo. Tutti quanti si nascosero alla bell’è meglio. Ennil si affiancò a Mo’rek dietro la consolle tattica. Orlon e Smig si acquattarono dietro la postazione sensori e comunicazioni, mentre Ki’Lau andò dietro al timone.

   Il turboascensore si aprì e ne uscirono tre ufficiali della Sicurezza, tutti del turno Alfa. Quella in testa era Jaylah. «Beh, che combinate?» chiese, notando i colleghi acquattati qua e là.

   «Tenente Chase!» squittì Ennil. «Che bello vederla!». Si rialzò, imitata dai colleghi. L’arrivo di ufficiali esperti era una boccata d’ossigeno, in quel frangente disperato.

   «Che ci fate in piedi a quest’ora?» chiese però Ki’Lau, squadrando i nuovi arrivati.

   «E me lo chiede? Siamo in piena emergenza» ribatté Jaylah. «Nell’ultimo quarto d’ora abbiamo perso il controllo di quasi tutti i sistemi».

   «Ce ne siamo accorti, eh!» sbottò Orlon. Accanto a lui, Smig aveva impugnato un tricorder e lo usava discretamente, tenendolo nascosto sotto la consolle.

   «E allora perché non l’avete impedito?» chiese la mezza Andoriana.

   «È successo tutto così in fretta... abbiamo perso un sistema dopo l’altro» spiegò Ennil. «Forse lei può aiutarci a riprendere il controllo».

   «Devo vedere i sistemi tattici» disse Jaylah, muovendo verso lei e Mo’rek.

   «Al tempo!» la richiamò Ki’Lau. «Non ha risposto alla mia domanda: perché era sveglia? Poco fa l’ho incontrata sul ponte 18, dove c’è la sala macchine. Ora che ci penso, stava andando proprio in quella direzione. Perché?».

   «Stavo rientrando dalla palestra» spiegò la mezza Andoriana. «Sapete che spesso mi alleno fino a tardi».

   «La palestra è sul ponte 8» obiettò lo Xaheano, con una smorfia di disgusto al ricordo di tutte le corse che aveva fatto su e giù per la nave. «Il suo alloggio, mi pare, è sul ponte 6. Quindi che ci faceva dodici ponti più giù?».

   «Non c’è tempo per queste sciocchezze» tagliò corto Jaylah. Si avvicinò alla consolle tattica, ma Ki’Lau le si parò davanti col phaser spianato.

   «Io dico di sì» fece lo Xaheano, fissandola con ostilità.

   «È impazzito? Le ricordo che sono un Agente Temporale» disse Jaylah con freddezza. «Ho affrontato minacce che lei non immagina nemmeno. La sua esperienza invece qual è? Sbadigliare durante il turno di notte? Giocare al Capitano sul ponte ologrammi?».

   Colpito, ma non affondato dalle sue parole, Ki’Lau la tenne sotto tiro. «Dimentica che c’ero anch’io, sul Reaper. Ho corso i miei rischi» disse. «La Jaylah Chase che conosco non è mai stata sprezzante coi colleghi. Sa, forse mi sbagliavo... i Borg non ci hanno trasmesso un virus informatico. Smig?».

   «I suoi livelli di nanosonde sono alle stelle» rilevò la Ferengi, che da un po’ l’analizzava col tricorder. «Vale per tutti e tre».

   «Tre agenti della Sicurezza» scandì Ki’Lau. «Tutti in piedi quando non dovreste. Tutti forniti di nanosonde che vi proteggono da ferite e patogeni. Se non erro è stata sua madre, la dottoressa Neelah, a modificare le nanosonde Borg a questo scopo».

   «Sì, lo ha fatto da giovane» confermò Jaylah. «Adesso ce le hanno tutti gli Agenti Temporali e molti della Sicurezza ordinaria. Dove vuole arrivare?».

   «Povera dottoressa Neelah» mormorò Ki’Lau. «Ha giocato troppo all’apprendista stregone, con quelle nanosonde. Credeva che non avrebbero più assimilato nessuno e forse aveva ragione, se fosse solo per quelle. Ma qualche settimana fa abbiamo incrociato un cubo Borg pieno di droni attivi. Credo sia stato quello il momento. I Borg hanno rilevato le loro nanosonde modificate e hanno inviato un segnale subspaziale che le ha riportate alla vecchia programmazione... con qualche upgrade. Non vi hanno riempiti d’impianti, perché così vi avremmo riconosciuti; ma hanno influenzato la vostra mente. Siete stati voi e i vostri colleghi a sabotare la Keter. E ora siete qui per finire il lavoro».

 

   Per un attimo regnò il silenzio. I tre agenti della Sicurezza fissavano i colleghi del turno di notte con sguardo inespressivo. «Se la sua teoria è corretta, deponga il phaser» lo invitò Jaylah. «Dovrebbe sapere che la resistenza è inutile».

   «Lo è?» chiese Ki’Lau, tremando appena nell’udire la famigerata frase. «Sa, in mancanza di nodi corticali e di un vinculum centrale, non credo che siate collegati alla Collettività. Penso che stabilirete il nesso solo quando raggiungeremo i Borg, il che mi dà un po’ di tempo per neutralizzarvi. O per distruggere la Keter, nel peggiore dei casi».

   «Il suo errore, Tenente, è credere di avere queste opzioni» disse Jaylah, o per meglio dire ciò che parlava attraverso di lei. Con gesto fulmineo estrasse il phaser, e così fecero i due agenti che l’accompagnavano.

   Mo’rek e Ki’Lau avevano già le armi in pugno e quindi spararono per primi. Il Klingon colpì uno degli agenti, riuscendo a stordirlo. Lo Xaheano centrò invece Jaylah, che barcollò all’indietro e cadde in ginocchio. L’altro agente tuttavia sparò, colpendolo al braccio. Ki’Lau gridò di dolore e si accasciò. Aveva perso la sensibilità al braccio colpito, ma non vide ustioni, segno che il phaser era settato su stordimento. I mezzi droni volevano assimilare, non uccidere.

   Con un fischio lacerante, Orlon balzò addosso all’avversario e gli azzannò il polso, un attimo prima che sparasse nuovamente. Il colpo andò a vuoto e il mezzo drone dovette agitare il braccio per scollarsi di dosso il Teenaxi. Al terzo scrollone ci riuscì. Scagliato via, Orlon rimbalzò su una parete e atterrò in piedi come al solito. Il mezzo drone lo prese di mira, ma fu colpito alla schiena da Mo’rek e cadde a terra, privo di sensi.

   «Bene... la resistenza non è poi così inutile» ansimò Ki’Lau, rialzandosi. Raccolse il phaser con la mano sinistra e si avvicinò guardingo a Jaylah, l’unica avversaria non del tutto stordita. Vedendo che si rialzava le sparò a distanza ravvicinata, facendole saltare via il phaser di mano. «Ci dia il controllo della nave!» intimò.

   «Altrimenti mi ucciderà?» chiese la mezza Andoriana, raddrizzandosi.

   «La Jaylah che conosco preferirebbe morire, piuttosto che diventare un drone» ribatté lo Xaheano. «Ma spero ancora di salvarla». Ciò detto le sparò una terza volta, per stordirla.

   Colpita in pieno, la mezza Andoriana sussultò, ma rimase in piedi. «Adattamento completato» disse con voce impersonale. «Le vostre armi non costituiscono più una minaccia».

   «Ehm, capo... che facciamo?» chiese Orlon, indietreggiando.

   «Frell, io credo che... ehm...» esitò Ki’Lau. Non voleva cedere la plancia a quei mezzi droni; ma se non erano in grado di difendersi, rischiavano d’ingrossare i loro ranghi.

   «Lo so io» disse Smig, precipitandosi alla pedana di teletrasporto. «Ritirata strategica!».

   «No, non possiamo lasciargli la plancia!» gridò Mo’rek, lanciandosi contro la mezza Andoriana. «Scusi, ma non ho scelta». Sferrò un poderoso gancio destro, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto stordirla.

   Veloce come un fulmine, Jaylah schivò l’attacco. Lo colpì al plesso solare, facendolo piegare in due, e poi gli assestò un uppercut che lo fece barcollare all’indietro.

   «Attento! Era pericolosa già prima di diventare mezza drone!» lo richiamò Ki’Lau.

   «Pericolosa, quello stuzzicadenti?!» ringhiò il Klingon, tornando all’attacco.

   Jaylah era pronta. Schivò un assalto dopo l’altro, muovendo solo il busto, e contrattaccò alla prima occasione. Colpì Mo’rek al collo col taglio della mano, mozzandogli il fiato. Dopo di che lo agguantò e lo trascinò a terra, immobilizzandolo. Si udì uno scricchiolio sinistro, seguito da un urlo smozzicato del Klingon. L’Agente Temporale gli aveva rotto un braccio. «Stai solo ritardando l’inevitabile» disse con calma. Non aveva nemmeno il fiatone.

   Mo’rek si agitò come un ossesso, cercando di liberarsi, ma con un braccio rotto non poteva fare più di tanto. Jaylah lo tenne schiacciato sul pavimento e quando vide che non si calmava gli affibbiò un colpo alla nuca, tramortendolo. Gli altri ufficiali osservarono la scena inorriditi. Mo’rek era il più forte e allenato del gruppo: se non aveva fermato la mezza drone, non ci sarebbero riusciti di certo loro.

   «Questo è il motivo per cui abbiamo scelto il turno di notte per assumere il controllo della nave» commentò Jaylah, rialzandosi. «Tra tutti gli ufficiali, voi siete i meno efficienti. Sapevamo che, con voi al comando, avremmo incontrato minima resistenza».

   Queste parole gettarono i federali nello sconforto. Ki’Lau si chiese se l’avversaria aveva ragione. Probabilmente sì; ma non le avrebbe reso le cose ancora più facili, arrendendosi. «Se sono così scadente, perché non mi affronti?!» esclamò, invitandola a farsi sotto. Aveva sfoderato gli artigli, cosa che gli Xaheani facevano di rado. Jaylah però non si fece intimorire e gli venne contro. Alle sue spalle, Ennil e Smig trascinarono faticosamente Mo’rek sulla pedana di teletrasporto, mentre Orlon inseriva le coordinate di destinazione. Non c’era un luogo sicuro in cui fuggire; potevano solo andare in un’altra sezione della nave.

   Volendo dare tempo ai colleghi, Ki’Lau cercò di mantenere le distanze fra lui e Jaylah. Si ritirò dietro la consolle del timone e le sparò ancora, sempre senza successo. Eppure la mezza Andoriana non era un drone vero e proprio, quindi non poteva resistere ad alti livelli d’energia. Lo Xaheano pensò che se avesse regolato il phaser al massimo l’avrebbe uccisa; ma non ebbe cuore di farlo. Quando l’Agente Temporale aggirò la consolle, lui si mosse dall’altra parte, così che la postazione restasse fra loro.

   «Vieni, capo!» gridò Orlon. Lui e gli altri erano sulla pedana di teletrasporto, pronti a filarsela. Ci avevano trascinato anche Mo’rek, ancora svenuto.

   «Voi andate, io vi raggiungo dopo» disse Ki’Lau, cercando di suonare fiducioso anche se in realtà era terrorizzato.

   I colleghi esitarono, ma in quella i due mezzi droni che erano stati storditi si rialzarono e ripresero le armi. Ai federali non restò che attivare il teletrasporto. Svanirono appena in tempo per sfuggire ai raggi stordenti.

   «La plancia è nostra» constatò Jaylah. «Come previsto, la vostra resistenza è stata inutile».

   «Avete vinto solo il primo turno» ribatté Ki’Lau. Indietreggiò verso la sala tattica, finché la porta si aprì alle sue spalle. E scomparve. Tra le capacità innate degli Xaheani, la più utile era indubbiamente quella di rendersi invisibili. Sapendolo, la Flotta Stellare li aveva forniti di uniformi speciali, con capacità occultanti. Ki’Lau si serviva raramente di questo talento, dato che gli sembrava d’essere già fin troppo “invisibile”. Stavolta però ringraziò Madre Natura per averglielo dato. La porta della sala tattica si richiuse, ma era impossibile dire se lo Xaheano l’avesse varcata o se fosse rimasto in plancia.

   «Il tuo mimetismo è irrilevante; anche tu sarai assimilato» disse Jaylah. Si recò alla postazione tattica, per acquisire il controllo degli armamenti, mentre i due colleghi sorvegliavano il teletrasporto e il turboascensore.

 

   Protetto dall’invisibilità, Ki’Lau si era ritirato in sala tattica. Come sperava, i mezzi droni non lo seguirono, preferendo sorvegliare la plancia. Questo gli permetteva di filarsela. Raggiunse un angolo della sala e sfilò un pannello raso terra, scoprendo l’ingresso di un tubo di Jefferies. Per fortuna stava già riacquistando la mobilità al braccio destro. Entrò nel condotto, più svelto che poteva, e si richiuse dietro il pannello. Solo allora esalò un sospiro di sollievo. Era salvo... ma per quanto? Presto la Keter avrebbe raggiunto i Borg. E lui non aveva idea di come riconquistarla prima di allora. Non sapeva dove fossero scappati i colleghi e non poteva nemmeno contattarli, dato che avevano gettato i comunicatori.

   «Calma... c’è sicuramente un modo razionale di procedere» si disse. Ora che si era allontanato dai mezzi droni tornò visibile, perché il mimetismo gli costava molte energie. Preferiva risparmiarlo per i momenti di estrema necessità. Prese a gattonare lungo il condotto: voleva allontanarsi, anche se era incerto su dove andare. Raggiunse la scaletta più vicina e si calò, rimuginando sulla prossima mossa.

   «Se raggiungiamo i Borg, è la fine. Quindi devo sabotare i motori» si disse. Bloccare la nave gli avrebbe fatto guadagnare tempo utile per liberare gli ufficiali superiori, se erano ancora vivi, o per escogitare qualche contromossa contro i mezzi droni. Già, ma come sabotare la Keter senza farla esplodere? Colpire il nucleo o le bobine quantiche era rischioso. Poteva danneggiare la griglia energetica, ma in quel caso i mezzi droni avrebbero deviato sui sistemi ausiliari.

   «Ci sono... il deflettore! Se lo metto fuori uso, la Keter dovrà uscire per forza dalla cavitazione». Presa questa decisione, Ki’Lau scese di parecchi livelli. Il braccio indolenzito però lo impacciava e in un paio d’occasioni lo tradì, lasciandolo precariamente appeso solo con il sinistro. A un certo punto dovette riposarsi. Sedette sull’orlo del pozzo della scaletta, con le gambe penzoloni, massaggiandosi il braccio per riattivare la circolazione. D’un tratto udì un sibilo alle sue spalle: il rumore di un portello che si apriva. Impugnò il phaser e si girò, pronto ad affrontare l’aggressore, ma non fu abbastanza rapido. Qualcosa di metallico lo colpì al cranio ed egli perse i sensi.

 

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Capitolo 10
*** L'Uno e il Molteplice ***


-Capitolo 9: L’Uno e il Molteplice

 

   Riavendosi gradualmente dalla botta in testa, Ki’Lau trasse alcune deduzioni. Primo: non era morto. Già questa era una buona notizia. Secondo: era ancora padrone di se stesso. Questa era una notizia anche migliore, sebbene in realtà non potesse esserne del tutto certo. Chissà come si sentivano Jaylah e gli altri mezzi droni? Avevano coscienza di quel che facevano? O la loro mente era, per così dire, in stand-by?

   Con uno sforzo di volontà, lo Xaheano si rimise seduto. La testa gli faceva un male cane; massaggiandosi il cuoio capelluto ci trovò un grosso bernoccolo. Si guardò attorno: era ancora nella giunzione dei tubi di Jefferies, anche se tutto vorticava. Probabilmente aveva perso i sensi per poco tempo, forse solo qualche secondo; ma chi l’aveva colpito? Il federale continuò a guardarsi attorno, mentre la vista si schiariva, finché scorse una sagoma acquattata nella penombra a pochi passi da lui. Il cuore gli sussultò nel petto. Con un gemito strozzato, si rintanò nell’angolo più lontano della giunzione.

   «Ehi, capo, tutto a posto?» chiese la figura, con voce familiare. «Scusi per la bottarella... con questo buio non l’avevo riconosciuta. Le ho fatto male?». L’aggressore venne in una zona più illuminata: era Xandrix. In mano aveva ancora l’arma del delitto, uno strumento simile a una chiave inglese.

   «Che domanda è?! A momenti mi rompevi la testa, pezzo di cretino!» sbottò Ki’Lau, massaggiandosi il cranio dolorante. In realtà era confortato dalla presenza di un collega, per quanto non dei più svegli. «Che ci fai qui?» volle sapere.

   «Mi nascondo» rispose il Rhaandarite, un po’ sorpreso dalla banalità della domanda. «Perché, lei che ci fa?».

   «Mi nascondo anch’io» borbottò Ki’Lau controvoglia. «Quei mezzi droni ci hanno colti di sorpresa... hanno preso il controllo della plancia!» disse, passando dalla rabbia alla disperazione.

   «Si sono impadroniti anche della sala macchine» sospirò Xandrix. «Ormai controlleranno tutta la nave. Chi l’avrebbe mai detto?».

   «Nessuno... non se n’era accorto nessuno, nemmeno gli ufficiali superiori» rabbrividì lo Xaheano, vedendo cadere tutti i suoi punti fermi. «I mezzi droni ci stanno portando verso lo spazio Borg; dobbiamo fermarli prima di arrivarci. Quanti saranno? Vediamo... gli Agenti Temporali sono trenta. Quelli della Sicurezza ordinaria sono centocinquanta, ma non tutti hanno le nanosonde. A conti fatti... uhm... saranno cento, centoventi avversari» calcolò. «Sempreché non si siano messi ad assimilare gli altri. Frell, non ce la faremo!» imprecò.

   «Eh già, siamo in un bel guaio» convenne Xandrix, parlando tuttavia con un certo distacco, come se la cosa riguardasse altri.

   Ki’Lau lo fissò stralunato. D’un tratto lo agguantò per il bavero e lo sbatté contro la paratia. «Questo non è un gioco! Vuoi capirlo che diventeremo droni, oppure cadaveri?!» ringhiò.

   «Calma, capo» fece il Rhaandarite, senza nemmeno cercare di difendersi. «Se bisticciamo fra noi, andrà a vantaggio del nemico».

   A queste parole, lo Xaheano lo mollò. «Già, già... scusa, non ero in me» ammise, ricomponendosi. «Dobbiamo fermare questa dannata nave, prima di raggiungere lo spazio Borg. Che ne dici di mettere fuori uso il deflettore?».

   «Bella idea... ma non si può fare» disse l’ingegnere. «La sala controllo e i condotti circostanti sono presidiati dai mezzi droni. Non si passa».

   «E allora che facciamo? Hai qualche idea?» chiese Ki’Lau, prossimo alla disperazione.

   «Quando l’ho incontrata, stavo andando a sabotare le bobine quantiche» spiegò Xandrix. «Se vuole può assistermi».

   «Oh, sì!» esclamò lo Xaheano, rianimandosi. «Questo per quanto bloccherà la nave?».

   «Se riesco a metterle davvero fuori uso, almeno dodici ore» spiegò l’ingegnere. «Nel frattempo potremo escogitare altre contromosse».

   «Magnifico! Ma non è rischioso ficcare le mani là dentro, senza gli strumenti adatti?».

   «C’è una cassetta degli attrezzi nella giunzione 42, pensavo di prenderla strada facendo» disse il Rhaandarite. «Comunque sì, il minimo errore distruggerebbe la nave. Ma non si preoccupi, sono un ingegnere esperto. Si fidi di me!» disse con un ottimismo tutto suo. Afferrò la scaletta e cominciò a salire di buona lena.

   «L’hai già fatto altre volte?» chiese Ki’Lau, venendogli dietro.

   «Cosa, smontare le bobine? Certo!» garantì l’ingegnere. «Però non le ho mai sabotate» si corresse. «Oh, beh, non sarà difficile! Stia tranquillo, signore... con me è in buone mani!».

   Lo Xaheano lo seguì con il sorriso sulle labbra. Aveva letto da qualche parte che, se il volto sorride, la parte inconscia del cervello si auto-convince che vada tutto bene.

 

   Presa la cassetta degli attrezzi, i due raggiunsero le bobine di cavitazione. Per farlo dovettero strisciare in condotti strettissimi che si trovavano poco sopra la sala macchine. Qui Xandrix scoperchiò le bobine e ci trafficò dentro, a volte con i suoi strumenti, a volte persino a mani nude. Ogni tanto strappava un componente e se lo gettava distrattamente alle spalle, dove c’era Ki’Lau. Ad ogni strappo lo Xaheano chiudeva gli occhi, aspettandosi l’esplosione. A un certo punto Xandrix gli diede delle cesoie e gli fece tagliare alcuni fili, mentre lui controllava un’altra porzione delle bobine.

   «Tagli il filo rosso, signore».

   «Intendi quello arancione?».

   «Sì, sì, quello».

   «Ma ce ne sono due!».

   «Allora cominci da quello blu».

   Beep! Beep!

   «Fatto! Cos’è questo suono?».

   «Niente... però tagli i fili arancioni. In fretta, per favore».

   «Fatto. Non si sente più nulla... cos’era quell’allarme?».

   «Nulla d’importante, le dico. Procediamo».

   Dopo una mezz’ora d’istruzioni come queste, i federali deposero gli strumenti e si asciugarono il sudore dalla fronte. Le bobine quantiche davanti a loro erano sventrate e inerti. «Che strano» commentò Ki’Lau, osservandole pensieroso. «Non riesco a capacitarmi del fatto che siamo ancora vivi. Dev’essermi sfuggito qualcosa».

   «Andiamo, signore. I mezzi droni arriveranno da un momento all’altro» lo sollecitò Xandrix. Salì sulla scaletta, ma lì si fermò.

   «Beh, che aspetti? Vai!» lo esortò lo Xaheano, che non poteva andarsene se l’altro non si muoveva.

   «Dove dovrei dirigermi? Non ci abbiamo ancora pensato» notò il Rhaandarite.

   «Via di qui, intanto! No, aspetta... l’infermeria. Andiamo in infermeria» decise Ki’Lau. «Solo i dottori possono aiutarci contro questi mezzi droni. Si erano preparati all’eventualità di un attacco Borg. Magari hanno già la contromisura pronta» disse, aggrappandosi all’ultimo filo di speranza.

 

   Molte scalette e molti angusti condotti dopo, i due raggiunsero l’infermeria. Sbucarono da un portello rasoterra, si acquattarono dietro una mensola e solo con cautela osarono sbirciare al di là. L’infermeria era deserta. Qua e là c’erano strumenti rovesciati e altri che sembravano essere stati lasciati precipitosamente. Il silenzio e l’aria d’abbandono erano opprimenti.

   «È come temevo. I mezzi droni sono passati di qui e hanno assimilato o messo in fuga i dottori» mormorò Ki’Lau, alzandosi. «Adesso non so proprio che fare». Sedette su un bio-letto, con la testa fra le mani. Era l’immagine dell’afflizione.

   Anche Xandrix si raddrizzò e si guardò attorno perplesso, ma poi un dolore alla mano destra richiamò la sua attenzione. Mentre sabotava le bobine si era graffiato il dorso della mano. Lì per lì non ci aveva fatto caso, ma ora che si trovava in infermeria avrebbe voluto curarsi. L’ingegnere si guardò attorno, in cerca di un rigeneratore dermico, ma il disordine gli impedì di trovarlo. Pensò di chiederlo a qualcuno che fosse pratico dell’infermeria. «Computer, attivare il Medico Olografico» disse.

   «Precisare la natura dell’emergenza...» cominciò il dottor Joe, apparendo fra loro, ma poi si arrestò. «Scusate, le vecchie abitudini» disse. In quella notò lo stato dell’infermeria. «Ma che è successo?! Per quanto sono stato disattivato?» si allarmò.

   «Dottore! Come sono felice di vederla!» esclamò Ki’Lau. Si slanciò contro l’ologramma e lo abbracciò stretto, mettendolo in imbarazzo. «Siamo in piena emergenza! I Borg controllano la nave e cercano di trascinarci nel loro spazio! Hanno neutralizzato gli ufficiali superiori e mezzo assimilato quelli della Sicurezza! Abbiamo perso la plancia e la sala macchine, il nemico è ovunque! Io e Xandrix abbiamo sabotato le bobine quantiche, ma questo non li fermerà a lungo. Ci aiuti, dottore!». Lo Xaheano teneva ancora l’MOE per le spalle e lo scrollava a ogni frase.

   «È peggio di quanto pensassi» disse Joe, liberandosi dalla stretta. «Poco fa un paio di agenti della Sicurezza sono entrati in infermeria. Uno di loro mi ha disattivato... non mi capitava da anni, avevo quasi dimenticato com’era. Dev’essere stato subito prima dell’attacco. Avranno assimilato o messo in fuga i miei colleghi. Presto, non c’è un secondo da perdere! Chiami il Tenente Chase e la sua squadra» disse, avviandosi a una consolle.

   «No, non capisce!» gridò Ki’Lau, inseguendolo. «Loro sono stati i primi a trasformarsi! I Borg hanno inviato un segnale subspaziale che ha alterato le loro nanosonde. La trasformazione è stata così impercettibile che non ce ne siamo accorti. Niente impianti cibernetici, solo un’influenza mentale. Quando hanno pensato che fosse il momento adatto, sono scattati».

   Gli occhi del dottor Joe si riempirono d’orrore. «Oh, no... la Collettività si è evoluta» mormorò. «Agenti in sonno... perché non ci ho pensato?!» si rimproverò, camminando nervosamente avanti e indietro. D’un tratto si bloccò, fissando Ki’Lau. «In quanti siamo?» chiese con urgenza.

   «Non saprei» rispose mesto lo Xaheano. «Ci sono certamente molti altri, ma si nascondono in giro per la nave. Non possiamo contattarli, perché abbiamo gettato i comunicatori per non farci tracciare». Così dicendo si recò alla porta, bloccandola con un codice di sicurezza.

   «Male... molto male» disse il Medico Olografico, sconfortato. «Io e la dottoressa Mol non avevamo previsto questa modalità d’attacco. La nostra strategia si basava sull’uso di armi a raggi Omicron, per distruggere le nanosonde, senza compromettere i tessuti organici delle vittime». Così dicendo si accostò a uno strano strumento. Aveva la forma di un disco, tenuto a un metro e mezzo d’altezza da un sostegno a forcella che permetteva d’inclinarlo a piacimento. Sulla faccia anteriore del disco c’erano una ventina di emettitori scarlatti, disposti a distanza regolare.

   «Questo è un prototipo dell’arma, pensato per irradiare grandi aree» spiegò Joe. «Ne abbiamo preparati quattro. Ovviamente sono poco pratici per affrontare droni o mezzi droni nei corridoi. Così avevamo realizzato delle armi portatili, simili ai fucili phaser. Se solo...». Corse a un armadietto, lo aprì e chinò il capo sconsolato. L’armadietto era vuoto. «Se la Collettività è efficiente come al solito, li avranno distrutti in tutta la nave» mormorò. Si recò a una consolle e visualizzò la banca dati del computer. «Hanno anche cancellato i progetti, per impedirci di replicare nuove armi» disse costernato.

   «Allora è finita?!» chiese Ki’Lau, vedendo sfumare anche l’ultima speranza.

   «Non lo dica nemmeno!» ribatté l’MOE, con gli occhi luccicanti di sdegno. «Ho già affrontato situazioni del genere. Una volta mi trovai sulla Prometheus invasa dai Romulani, col solo aiuto di un inesperto MOE modello 2. Ne venimmo fuori diffondendo un sedativo nell’aria».

   «Può farlo anche stavolta?» si animò Ki’Lau. Nel frattempo Xandrix aveva trovato un rigeneratore dermico e si stava curando da solo la mano, visto che il dottore lo ignorava.

   «Vediamo...» disse il dottore, visualizzando una schermata dopo l’altra. «Da quel che vedo, negli alloggi è già stato diffuso un potente sedativo, la neurazina. Vuol dire che i vostri colleghi degli altri turni sono vivi, anche se fuori combattimento».

   «Ci contavo... i mezzi droni vogliono assimilarci, non ucciderci» disse lo Xaheano, sollevato. «Presto, c’immunizzi contro la neurazina e poi la diffonda nel resto della nave».

   «Ci sto provando, ma l’impianto d’aerazione è bloccato» disse Joe, lottando con i comandi. «Gli ugelli sono sigillati, non riesco a sbloccarli neanche fingendo che ci sia un’emergenza biologica in corso. Accidenti... questi mezzi droni hanno previsto ogni scenario!» si lamentò.

   «Sono agenti della Sicurezza, sanno il fatto loro» commentò Ki’Lau, cupo. In quella udì il suono di un portello che si apriva: lo stesso portello da cui erano entrati lui e Xandrix. «Arriva qualcuno!» sussurrò, acquattandosi dietro una consolle. Impugnò il phaser, pronto a vendere cara la pelle. Dietro di lui anche il dottore e l’ingegnere si nascosero.

   «C’è nessuno? Attenti... siamo armati e pericolosi!» disse una voce stridula. Era Ennil, che cercò di uscire dal condotto, ma restò incastrata a metà operazione per via dei fianchi generosi. Dovette deporre il phaser e far forza con le mani.

   «Urgh... ma cos’hai mangiato, un targ?» chiese Mo’rek, che le stava dietro. Accantonando ogni pretesa di cortesia, il Klingon le dette una poderosa spinta, che la proiettò fuori dal portello e la fece capitombolare in avanti. La Barzana si rialzò un po’ ansimante, col phaser in pugno, e si guardò attorno. «Signore! È davvero lei?» esclamò, scorgendo Ki’Lau.

   «Ennil... dimmi che gli altri sono con te» disse lo Xaheano, avvicinandosi.

   «Ci siamo, sì!» grugnì Mo’rek, uscendo a sua volta dal condotto. Aveva ancora il braccio rotto per lo scontro con Jaylah. Dopo di lui uscirono Orlon e Smig; quest’ultima richiuse il portello.

   «Capitate a fagiolo» li accolse Ki’Lau. «Abbiamo manomesso le bobine quantiche per fermare la nave. Questo ci darà un po’ di tempo per... ehi!» protestò. Mo’rek aveva strappato il phaser a Ennil, con la mano sana, e glielo aveva puntato contro.

   «Fermo, creatura! Cosa ti ho detto venerdì scorso, subito prima di smontare dal turno?» chiese il Klingon, tenendolo sotto tiro.

   «Ehi, ehi!» fece lo Xaheano, alzando le mani. «Non mi ricordo tutte le fesserie che mi hai detto. E anche se mi ricordassi, non dimostrerebbe nulla. I mezzi droni non perdono la memoria».

   «Ah, già» ammise Mo’rek, abbassando l’arma. «E allora non muoverti!» intimò, rialzandola subito.

   «Aiuterebbe se facessi l’esame del sangue a tutti?» suggerì il dottore, spazientito. «Così potrò dire se ci sono nanosonde. Quanto a me, non corro rischi. Non ho sangue da infettare» ricordò l’ologramma.

   «D’accordo, ma spicciati!» ordinò il Klingon.

   Gli ufficiali restarono divisi in due gruppi, che si guardavano in cagnesco, schierati sui lati opposti dell’infermeria. Da un lato c’erano Ki’Lau e Xandrix; dall’altro si raccoglievano Orlon, Mo’rek, Ennil e Smig. Il dottore fece la spola, prelevando i campioni di sangue, che poi osservò al microscopio. Uno dopo l’altro dichiarò i federali fuori pericolo. «Bene... ora che siete rassicurati, potreste aiutarmi a salvare la nave?» chiese in tono di sopportazione.

   «Ma siamo solo in sei! E Mo’rek ha un braccio rotto!» obiettò Ennil.

   «A questo si rimedia» disse Joe. Fece sedere il Klingon su un lettino e lo curò più in fretta che poteva. Nel frattempo gli altri ufficiali si recarono alle consolle, per capire le condizioni della nave.

   «Il vostro sabotaggio ha funzionato, siamo fermi» disse Ennil. Visualizzò un’immagine dello spazio circostante. La Keter si trovava in una nebulosa violacea, che in alcuni punti si accendeva di toni gialli e arancioni. «Siamo nella Distesa di Nekrit, una vasta regione attraversata da tempeste di plasma, turbolenze elettrodinamiche e radiazioni» lesse la timoniera.

   «La ricordo bene» disse il Medico Olografico, ancora intento a curare Mo’rek. «La Voyager l’attraversò nel terzo anno di viaggio. Ci volle un mese per percorrerla tutta. È una delle regioni più selvagge e pericolose che incontrammo».

   «Figurarsi se capitavamo in un posto tranquillo» borbottò Ki’Lau. «Va bene, qui l’esperto di Borg è lei. Cosa pensa che faranno i mezzi droni?».

   «Vediamo... se non riescono a far ripartire la Keter, potrebbero chiamare i Borg» ragionò il dottore.

   «Oh-oh» fece Smig, che stava ancora controllando lo status della nave. «Abbiamo appena lanciato un messaggio subspaziale diretto oltre la Distesa, verso lo spazio Borg».

   «La Distesa non dovrebbe interferire con le comunicazioni?» chiese Ennil.

   «Dovrebbe, sì... ma vedo che i mezzi droni hanno usato un impulso del deflettore per potenziare l’onda portante del segnale, evitando che si degradi» lesse la Ferengi. «Non credo che la Distesa basterà a isolarci» concluse, sconfortata.

   «Frell, sono sempre un passo avanti a noi!» imprecò Orlon. «Che ci resta da fare?».

   Gli ufficiali fissarono Ki’Lau, in attesa di una risposta. Ma lo Xaheano non sapeva che pesci pigliare. I mezzi droni conoscevano alla perfezione la Keter: avevano neutralizzato ogni resistenza, previsto ogni loro mossa. E presto sarebbero arrivati i Borg veri e propri, con forze schiaccianti. «Io...» mormorò il federale, passandosi una mano tra i capelli. «Io non lo so».

   «Bel comandante!» lo rimbrottò il Teenaxi.

   «Allora è finita?» chiese Ennil, guardando smarrita i colleghi. «Ci assimileranno tutti?».

   «Non assimileranno me» disse Mo’rek, con voce bassa e ringhiosa. Respinse il dottore, che stava finendo di curargli il braccio, e si rialzò. «Ho perso molto del mio onore quando sono stato retrocesso al vostro turno. E ho perso il resto quando non sono riuscito a difendere la plancia. A questo punto non mi resta che l’Hegh’bat».

   «Sarebbe?» chiese Ennil.

   «Il suicidio rituale Klingon» spiegò il dottore, sprizzando disapprovazione. «Non consentirò questa pratica barbara».

   «La decisione non spetta a lei!» berciò Mo’rek. «L’Hegh’bat è un’antica e onorevole tradizione. Quando un guerriero non può più affrontare i nemici, ed è diventato un peso per i compagni, può decidere di togliersi la vita».

   «Io le ho curato il braccio! Lei non è più un peso per i colleghi!» si sdegnò Joe.

   «Ma ora che siamo di fronte alla sconfitta, non me ne andrò nel disonore. Non diventerò un miserabile drone!» insisté il Klingon. «Per compiere l’Hegh’bat mi servirebbe un pugnale rituale, ma purtroppo non ce l’ho. Dovrò accontentarmi di questo» disse, soppesando il phaser. «Dovrei chiedere a un parente stretto o un compagno d’armi di colpire. Purtroppo ci siete solo voialtri» aggiunse, squadrando i colleghi. «E va bene, mi rivolgerò al più onorevole tra voi» disse avviandosi.

   Ki’Lau tirò indietro le mani, per rifiutare, ma il Klingon gli passò accanto senza badargli e si fermò solo davanti a Xandrix. «Sei stato un degno avversario sul ring. Sarai tu a restituirmi l’onore» dichiarò. «Dopo aver colpito, lancia un urlo di battaglia, affinché coloro che stanno nello Sto-vo-kor sappiano che è in arrivo un guerriero». Così dicendo gli mise in mano il phaser. Il Rhaandarite lo osservò incerto.

   «Non gli spari, è un ordine!» esclamò Ki’Lau. «Siamo già fin troppo pochi. Se poi ci ammazziamo fra noi...!».

   «Se... cosa?» lo riprese il Klingon. «Siamo già spacciati! Anche tu hai ammesso che non sai cosa fare!».

   «Ora no, ma se mi dai un po’ per pensarci...» si difese lo Xaheano.

   «Fra un po’ saremo droni! Non ascoltarlo, Xandrix! Sparami, se mi sei amico!» gridò Mo’rek, spalancando le braccia e gonfiando il petto, per fare da bersaglio.

   «Ora basta, tutti quanti!» esclamò il dottore, frapponendosi. «Cos’è questa farsa? Siete ufficiali della Flotta Stellare, perbacco! Comportatevi come tali!».

   «Siamo ufficiali del turno di notte» corresse Ennil. «Siamo buoni a tenere la rotta e fare il check-up, non a combattere i Borg. Non siamo preparati!» disse sconsolata.

   «Perché, noi della Voyager lo eravamo? Eravamo pronti ad affrontare le insidie del Quadrante Delta, quando lasciammo Deep Space Nine? Neanche sapevamo che ci saremmo finiti!» obiettò il dottore. Vedendo che aveva attirato l’attenzione, proseguì il discorso.

   «Voi che avete letto dei miei colleghi sui libri di storia, o che li avete visti negli olo-romanzi, potreste pensare che erano nati eroi. Non è così. Io li ho conosciuti ben prima che lo diventassero. Chakotay e B’Elanna erano dei ribelli Maquis di poco conto. Tom Paris era un pilota fallito, in libertà vigilata, mentre Harry Kim era un novellino appena uscito d’Accademia. Kes era una ragazzina ingenua, che liberammo dai Kazon. E Neelix, beh... era stato molte cose, ma nessuna particolarmente lusinghiera. Non erano eroi! Nessuno di loro!» ribadì il dottore. «Io, poi, ero solo un MOE modello 1. Somigliavo più a questo tricorder che non a una persona!» esclamò, agitando lo strumento. «Tutto a un tratto ci trovammo nei guai fino al collo. Persi all’altro capo della Galassia, senza un piano per tornare. Abbiamo dovuto arrabattarci con quello che avevamo. Inventarci modi assurdi di far funzionare le cose. Imparare a fare squadra, sebbene tra federali e Maquis non corresse buon sangue. Siamo diventati eroi? Forse! Ma è stato solo un effetto secondario dell’essere sopravvissuti. Questo è ciò che abbiamo fatto, ed è ciò che vi si chiede ora. Se i vostri colleghi più esperti non sono qui a salvarvi, allora trovate voi il modo! Io vi aiuterò quanto posso. Sono sopravvissuto già una volta al Quadrante Delta, e che sia dannato se non tornerò di nuovo!».

   Di fronte a questo discorso, pronunciato con fervore, i sei ufficiali scalcagnati restarono attoniti. Ciascuno di loro si rispecchiava in quelle parole, come se fossero destinate a lui in particolare. Ciascuno sentì smuoversi qualcosa nel profondo: una fierezza a lungo sopita, un’ardente brama di lottare sino in fondo.

   «Sì...» disse Ki’Lau, con una nuova luce negli occhi. «Sì, per le stelle! Siamo ufficiali della Flotta Stellare. I colleghi hanno bisogno di noi; non li deluderemo. Siete con me?!».

   «Io ci sono» disse Mo’rek, facendosi avanti solennemente. «Comunque vada, mi batterò con onore».

   «Eccomi» disse Xandrix con semplicità.

   «Ci sono anch’io!» fece Orlon, saltando su un lettino per non essere troppo in basso rispetto agli altri.

   «E io» disse Ennil.

   «Pure io... vi serve qualcuno coi lobi» concluse Smig, accarezzandosi le grandi orecchie da Ferengi.

   «Bene, bene!» ridacchiò Orlon. «Ora che siamo tutti d’accordo, come sconfiggiamo i Borg?».

   «Dobbiamo pensare in modo creativo... fare qualcosa d’inaspettato» rimuginò Ki’Lau. «Conoscendoci, i mezzi droni si aspetteranno che proviamo a liberare gli altri ufficiali, o a chiamare aiuto, o al limite a fuggire con una navetta. Non si aspettano un attacco. Ma se attacchiamo, dobbiamo essere certi di contrastarli efficacemente. Mi ripugna l’idea di uccidere i nostri colleghi... non c’è modo di liberarli dall’influsso delle nanosonde?» chiese al dottore.

   «Questo è sempre stato difficile» sospirò Joe. «Avevo puntato tutto sulle armi a raggi Omicron, ma coi fucili distrutti e i progetti cancellati ci restano solo quattro di quelli» disse, accennando al proiettore nell’angolo.

   «Uhm...» rimuginò Ki’Lau. «Invece di distruggere le nanosonde potremmo drenarle, separarle a forza dai nostri colleghi» suggerì. «Dottore, che lei sappia le nanosonde hanno proprietà magnetiche?».

   «Non nel senso di una comune calamita» rispose il Medico Olografico. «Ma sono sensibili a certe polarizzazioni».

   «Xandrix, questo lo chiedo a lei: è possibile polarizzare i pavimenti della Keter?» chiese lo Xaheano.

   «Beh, non ci ho mai pensato» ammise il Rhaandarite. «Ma in teoria... diffondendo la giusta carica elettrostatica in tutta la nave... sì».

   «Allora mettiamoci al lavoro» ordinò Ki’Lau, emozionato.

   «Ehm, vi faccio notare che alcune stanze hanno l’isolante» avvertì Orlon, accennando al pavimento dell’infermeria, rivestito da una sottile moquette bianca. «Come facciamo coi mezzi droni che sono lì?».

   «Uhm... ci serve un piano B» mormorò Ki’Lau, osservando il proiettore di raggi Omicron.

 

   La sala controllo ambientale era deserta, durante il turno di notte. Ki’Lau, Xandrix e Joe la raggiunsero tramite i tubi di Jefferies. Fuori, dai corridoi, veniva rumore di scontri: ronzii di phaser, scalpiccio di piedi, voci che gridavano. Lo Xaheano aveva contattato gli agenti della Sicurezza ancora in sé, mandandoli ad attaccare la sala macchine e il controllo deflettore. Era solo un diversivo, infatti gli agenti avevano l’ordine di ripiegare non appena i mezzi droni avessero contrattaccato. Ki’Lau sperava che nel frattempo lui e i suoi ufficiali passassero inosservati.

   «Via libera!» disse lo Xaheano, accertatosi che la stanza era vuota. Uscì per primo dal condotto, col phaser in pugno. Lo aveva regolato su frequenze casuali, come i colleghi che combattevano fuori, per renderlo più efficace contro i mezzi droni; ma non sapeva per quanto avrebbe funzionato il trucco. Corse alla porta e la bloccò, restando di guardia.

   Nel frattempo Joe e Xandrix raggiunsero i comandi. Per polarizzare le piastre dei pavimenti bisognava aggirare alcuni meccanismi di sicurezza. L’ingegnere cominciò a inserire codici a una velocità sorprendente. Intanto il dottore calcolava la potenza necessaria per rimuovere le nanosonde dai corpi degli infetti. «Sarà un intervento traumatico» disse, rabbuiato. «In molti casi la brusca rimozione romperà le pareti cellulari».

   «I nostri colleghi sopravvivranno?» chiese Ki’Lau.

   «Sì, ma gli servirà un po’ per riprendersi» spiegò Joe.

   «Continui».

 

   Tre ponti più su, il resto della squadra strisciava ancora nei tubi di Jefferies. Orlon era in testa; date le sue dimensioni ridotte era l’unico che poteva camminare normalmente. Seguivano Mo’rek, Ennil e Smig, tutti armati.

   «Ci siamo!» disse il Teenaxi, aprendo un portello. Erano in una zona in cui anche i tecnici si recavano di rado. Somigliava a un pozzo rettangolare, che attraversava tutti i livelli dell’astronave. Verso la cima c’era il generatore autonomo che alimentava le piastre di gravità. Sporgeva a semicilindro da una delle pareti ed era accessibile tramite una scala che saliva a vite lungo le pareti del pozzo. Un camminamento con balaustra gli correva intorno a semicerchio, permettendo di accedere ai comandi. I condotti energetici scendevano lungo le pareti del pozzo, diramandosi nei ponti della Keter, per alimentare le piastre gravitazionali.

   «Presto!» disse Mo’rek, impaziente. Uno dopo l’altro i federali lasciarono il condotto e salirono le rampe di scale fino al generatore. Solo il Klingon restò poco più sotto per fare la guardia. Gli altri tre osservarono il generatore, ricordando le istruzioni di Xandrix. C’erano sei iniettori di particelle posti a semicerchio, simili a cilindri che brillavano di luce gialla. Bisognava sganciarli dai loro alloggiamenti, nel giusto ordine, ricalibrarli e inserirli di nuovo.

   La prima a entrare in azione fu Smig, che inserì alcune istruzioni sulla consolle. «Energia al minimo, ganci magnetici disattivati. Possiamo staccare gli iniettori».

   «Cominciate da quello» disse Orlon, indicando il cilindro più a sinistra.

   Toccava a Ennil, la più alta dei tre. Staccò l’iniettore dal suo alloggiamento e prese subito a ricalibrarlo, sotto gli occhi di Orlon, che le dava consigli. Infine lo rimise a posto. L’iniettore brillò di luce azzurra e il ronzio del generatore cambiò tonalità.

   «Sbrigatevi, i mezzi droni se ne accorgeranno da un momento all’altro!» li esortò Mo’rek.

   Ennil ripeté l’operazione con il secondo iniettore. Anche quello splendette d’azzurro, modificando ulteriormente il timbro del generatore. La timoniera stava per procedere con il terzo componente, quando un raggio phaser la mancò di un soffio. Ennil strillò e si rattrappì, ma non c’erano nascondigli su quel ballatoio sospeso nel vuoto.

   «Yotz!» imprecò Mo’rek, rispondendo al fuoco. Alcuni mezzi droni erano sbucati silenziosamente da un condotto, molti piani più giù. Si accese la sparatoria. Raggi phaser e polaronici balenarono lungo il pozzo, rischiando di colpire il generatore. Se ciò fosse accaduto, l’esplosione avrebbe ucciso tutti i presenti e la Keter avrebbe perso la gravità artificiale. Peggio ancora, non ci sarebbe stato più modo di drenare le nanosonde. Consapevole di questo, Mo’rek lanciò un grido di battaglia Klingon e si mosse lungo la scala, per non fare da bersaglio, mentre rispondeva al fuoco dei mezzi droni. Smig e Orlon scesero ad aiutarlo. Non avevano la stessa mira, ma il loro fuoco di copertura rallentò comunque gli assalitori.

   Intanto Ennil continuava a destreggiarsi con gli iniettori. Sganciò il terzo, lo ricalibrò più in fretta che poteva e lo reinserì, sincerandosi che funzionasse a dovere. Quando passò al quarto, sentì gridare i colleghi. Guardò solo per un attimo verso il basso e si avvide che la situazione stava peggiorando. Altri avversari erano sbucati dai condotti che si aprivano a ogni piano. Alcuni restavano lì, sparando un colpo per poi ritrarsi, mentre altri si avventuravano sulla scala.

   «Sono troppi, non li tratterremo a lungo! Sbrigati!» gridò Mo’rek, sparando a più non posso.

   Col cuore che batteva a mille, Ennil ricalibrò anche il quarto iniettore e lo rimise a posto. Ormai le luci azzurre prevalevano su quelle gialle e il tono del generatore era molto cambiato. La Barzana procedette col quinto iniettore, sapendo che i nemici erano sempre più vicini; ogni tanto qualche raggio le ronzava accanto. «E cinque!» esclamò, vedendo il penultimo iniettore illuminarsi di azzurro. Staccò il sesto e ultimo, con le mani tremanti per l’emozione. Ancora pochi secondi...

   Un boato risuonò nel pozzo. Ci fu un’esplosione e la passerella s’inclinò, mentre alcune giunzioni si deformavano per il peso eccessivo. Ennil capì che gli avversari avevano colpito gli agganci della scala con un’arma ad alta energia, forse un fucile phaser. Scivolò lungo il piano inclinato, con l’iniettore ancora tra le mani, e si arrestò contro la balaustra. Con la schiena dolorante per l’urto, terminò di ricalibrare l’iniettore; ma da quella posizione non poteva più reinserirlo nel suo alloggiamento. La passerella si era troppo inclinata, impedendole di raggiungere il generatore.

   «Vieni via!» gridò Orlon da sotto.

   «Ma devo sistemare l’iniettore!» obiettò Ennil, cercando di rialzarsi. In quella però le ultime giunzioni cedettero e la passerella si rovesciò, restando incastrata tra le pareti del pozzo. La Barzana fu sbalzata nel vuoto. Ebbe la fortuna di atterrare sulle scale, qualche metro più giù, ma da lì rotolò fino al ripiano sottostante prima di fermarsi. Scioccata e dolorante, cercò di raccapezzarsi. Aveva ancora l’iniettore, avendolo stretto con tenacia durante la caduta. Senza nemmeno rialzarsi, lo esaminò rapidamente: non sembrava rotto. Poteva ancora farcela... se riusciva a reinserirlo. Ma come arrivare al generatore, ora che la passerella era crollata? Tra il punto più alto raggiungibile a piedi e gli iniettori c’erano quattro metri.

   D’un tratto la Barzana si sentì mancare il respiro. Sulle prime lo imputò allo shock della caduta, ma col passare dei secondi le sue condizioni peggiorarono. Ennil rantolò, cercando d’inspirare, ma aveva la sensazione che l’aria non le arrivasse ai polmoni. Assalita da un orribile sospetto, si tastò i lati della bocca e ne ebbe conferma: aveva perso il respiratore. Senza quel piccolo, ma vitale strumento, che emetteva composti solforosi,  non poteva sopravvivere nell’atmosfera standard. Le restava forse un minuto prima di perdere i sensi e pochi altri prima di morire.

   A quel pensiero la timoniera, ancora distesa dopo la caduta, rialzò la schiena di scatto. Si guardò attorno con frenesia, in cerca del respiratore, ma non lo vide. Era un congegno piccolo, difficile da scorgere nella penombra. La Barzana prese a gattonare, tastando la superficie metallica del ripiano. Il suo respiro era sempre più affannoso. Non c’era traccia del respiratore: forse era rotolato più in basso. O forse era precipitato nel pozzo, nel qual caso era spacciata.

   «Ehi, tutto a posto?» chiese Orlon, che si trovava poco più sotto.

   «Il respiratore... non riesco a...» rantolò Ennil, indicandosi la gola.

   Il Teenaxi capì subito qual era il problema. Si guardò rapidamente intorno, ricorrendo anche al fiuto, finché trovò il respiratore. Era caduto molto più in basso, fermandosi su un altro ripiano. Orlon stava per correre a prenderlo, quando uno dei mezzi droni uscì dal tubo di Jefferies più vicino, frapponendosi. Alzò il phaser, pronto a colpire.

   Orlon non ebbe tempo di pensarci. Si appallottolò alla maniera dei Teenaxi e rotolò giù per le scale, evitando di un soffio i colpi nemici. Passò tra le gambe dell’avversario, raggiungendo il ripiano alle sue spalle. Qui si riaprì, agguantò il respiratore e si girò. Ora doveva risalire, ma non poteva farlo con altrettanta rapidità. Il mezzo drone si era già voltato e lo stava prendendo di mira. In quella però fu colpito alla schiena da Smig e cadde lungo disteso in avanti.

   Il Teenaxi non perse un istante. Risalì di corsa le scale, scavalcando l’avversario stordito, e in pochi secondi fu da Ennil. La Barzana era diventata cianotica. Appena Orlon le fu accanto gli prese il respiratore, sistemandoselo in fretta e furia. Il congegno riprese a soffiare composti solforosi e la Barzana li inspirò affannosamente, riprendendo colore. La testa le girava e i polmoni sbuffavano come mantici, ma era salva.

   «L’iniettore!» strillò Orlon, richiamandola al dovere.

   Ennil afferrò il congegno e si rialzò a fatica, reggendosi alla balaustra. Risalì le scale fin dov’era possibile, ma da lì non poteva raggiungere il generatore, quattro metri più in alto. Era la fine.

 

   La porta della sala controllo cedette di schianto e le schegge volarono in tutta la sala. Ma Ki’Lau era pronto. Quando si era accorto che i mezzi droni la stavano forzando, si era nascosto dietro una consolle. Appena l’ingresso fu abbattuto sparò nel varco, riuscendo a stordire un paio di avversari. Gli altri si ritirarono. «Allora, quanto ci vuole?!» chiese a Joe e Xandrix, ancora affaccendati alla consolle.

   «Non dipende da noi. La squadra 2 deve ancora sistemare gli iniettori» spiegò l’ingegnere.

   «Avanti, ragazzi, non deludetemi» pensò Ki’Lau, con la fronte sudata. Vide un avversario che faceva capolino dall’ingresso e subito gli sparò, colpendolo di striscio. Il mezzo drone indietreggiò, ma rimase in piedi. «Ahi... forse si stanno adattando» si disse lo Xaheano. Se lo stordimento non funzionava più, avrebbe dovuto regolare le armi su uccisione, sperando che anche quella non diventasse inefficace.

   «Il vostro tentativo di sabotaggio è fallito, i vostri complici sono stati sconfitti» disse una voce femminile dal corridoio. La voce di Jaylah, riconobbe Ki’Lau con un tremito. «Arrendetevi... non avete più motivo di resistere. Non vogliamo uccidervi; vogliamo rendervi parte di qualcosa di più grande» disse la mezza Andoriana.

   «Io appartengo già a qualcosa di grande; la Flotta Stellare!» gridò lo Xaheano, sparando nel varco della porta, sebbene nessuno vi si affacciasse. «Come tu, del resto. Cerca di ricordarlo!».

   «La Flotta Stellare mi aveva delusa già prima che sentissi il richiamo della Collettività» rivelò Jaylah. «È ora di finirla con la corruzione e i raggiri. Presto nessuno potrà più mentire». La mezza Andoriana si sporse, sparando un colpo che fece esplodere la consolle. Ki’Lau rotolò all’indietro, ferito al petto e al volto. Il suo sangue arancione e fosforescente macchiò il pavimento. Jaylah aggiustò la mira per stordirlo, ma subì il fuoco di copertura di Xandrix e del dottor Joe, che la costrinse a ritrarsi.

   «Sto bene» disse Ki’Lau, rialzandosi. In realtà si sentiva uno straccio, ma a una prima impressione le sue ferite erano superficiali. Corse a nascondersi dietro l’angolo della stanza, che aveva forma a L. Joe e Xandrix erano lì. Il dottore lo esaminò subito e gli iniettò uno stimolante.

   «Signore, pensa che abbia ragione riguardo la squadra 2? I nostri compagni hanno fallito?» chiese l’ingegnere.

   «Voglio sperare di no» rispose lo Xaheano. La speranza era tutto ciò che gli restava.

 

   La passerella schiantata e messa di traverso cigolava nel pozzo del generatore di gravità, minacciando di cadere ancora più in basso. Respinti nella parte più alta della scala, ma impossibilitati a sistemare l’ultimo iniettore, i federali erano in trappola.

   «Avanti, il capo conta su di noi... dobbiamo fare qualcosa!» esclamò Orlon.

   Accanto a lui, Mo’rek osservò le strutture che li sovrastavano. C’era ancora un troncone della passerella agganciato alla parete; poco più che una trave affacciata sul vuoto. Il Klingon respirò a fondo, preparandosi a un’azione che poteva facilmente costargli la vita. «State pronti a lanciarmi l’iniettore» disse, infoderando il phaser.

   «Come, a lanciarti?! Che vuoi...» cominciò Ennil, ma lui non le dette il tempo di finire.

   Raccolte tutte le energie, Mo’rek spiccò un balzo portentoso al di sopra dell’abisso. Afferrò la trave con una mano, restando precariamente appeso, mentre gli avversari da sotto cercavano di colpirlo. Allora i compagni fecero fuoco di copertura.

   «Kahless!» invocò Mo’rek. Afferrò la trave anche con l’altra mano e riuscì a issarsi a forza di braccia. Adesso era in piedi sulla sporgenza. Sotto di lui si spalancava l’abisso, da cui salivano i colpi dei nemici. Qualche metro più avanti c’era il generatore con i cinque iniettori già collocati e l’alloggiamento vuoto che aspettava il sesto. Il Klingon indietreggiò più che poteva, per prendere la rincorsa. Scattò in avanti, con gli occhi fissi all’obiettivo. E spiccò il salto.

   I tre compagni più in basso alzarono gli occhi, seguendo quel balzo fenomenale sopra le loro teste. Mo’rek raggiunse il generatore e lo afferrò, restando abbarbicato alla superficie inclinata. Appena fu certo di non scivolare staccò una mano. «L’iniettore!» gridò.

   «Eccolo!» gridò Ennil. Girò su se stessa per acquistare spinta inerziale e poi scagliò il cilindro verso l’alto, con tutte le sue forze. L’iniettore arrivò quattro metri più su, dove Mo’rek lo afferrò con la mano libera e lo collocò immediatamente al suo posto. Anche quello si accese di luce azzurra, dando al generatore un timbro del tutto diverso da quello che aveva all’inizio.

   «Qapla’!» esultò Mo’rek. Poi guardò sotto di sé, prendendo le misure per scendere. Si spostò di lato, aggrappandosi alle sporgenze del generatore, e infine si lasciò cadere, atterrando accanto ai colleghi. «Ora è tutto nelle mani dei nostri compagni» disse, impugnando di nuovo il phaser. I quattro federali ripresero a fare fuoco di copertura.

 

   «Capo, ci siamo!» esclamò Xandrix, indicando una spia che si era accesa sulla consolle. Significava che gli iniettori erano stati riposizionati. Il problema era che per inserire la sequenza d’avvio bisognava raggiungere il quadro comandi, esponendosi al fuoco nemico.

   «Vado io» disse Ki’Lau, ricorrendo all’abilità occultante degli Xaheani. L’effetto fu guastato dalle lievi ustioni che aveva sul volto, ancora distinguibili mentre il resto di lui era invisibile.

   «No, lo farò io» decise il dottor Joe. Il Medico Olografico balzò coraggiosamente allo scoperto e raggiunse la consolle, mentre i compagni facevano un serrato fuoco di copertura. Molti colpi lo attraversarono, senza danneggiare la sua matrice olografica. Ma se i mezzi droni gli avessero centrato l’Emettitore Autonomo che portava al braccio, lo avrebbero ucciso.

   Sapendo di avere i secondi contati, il dottore inserì precipitosamente gli ultimi comandi. «Fatto!» esultò, attivando la polarizzazione. In quella un raggio phaser gli sfiorò l’Emettitore, facendogli sfrigolare tutto il corpo. «Computer, trasferire l’MOE in infermeria!» ordinò Joe per salvarsi. Pochi attimi dopo l’Emettitore fu colpito in pieno ed esplose.

   «Dottore!» gridò Ki’Lau.

   «Dovrebbe essere salvo, se ha completato il trasferimento» lo rassicurò Xandrix. Sfortunatamente non potevano accertarsene subito, essendosi disfatti dei comunicatori.

   «Controlleremo appena possibile» si ripromise Ki’Lau. Gli spari erano cessati; in compenso dal corridoio venivano grida rantolanti. Lo Xaheano si avvicinò con cautela, stando rasente al muro, e sbirciò all’esterno. I mezzi droni si contorcevano al suolo, in preda a dolori lancinanti. Le loro mani, puntellate sul pavimento, si erano annerite: lì si concentravano le nanosonde, attratte dalle piastre polarizzate.

   «Ah! Ora sapete che si prova a fare gli zerbini!» infierì Ki’Lau.

   «Capo... i Borg!» avvertì Xandrix alle sue spalle.

   «Tranquillo, ormai sono inoffensivi» lo rassicurò lo Xaheano.

   «Non mi sono spiegato... sono arrivati i Borg, quelli veri» disse il Rhaandarite, chino sulla consolle. «Tre Cubi sono usciti dalla transcurvatura e ci vengono contro».

 

   Appollaiati in cima alla scala semidistrutta, con i nemici che li attaccavano dal basso, i quattro ufficiali del turno di notte erano in trappola. «Beh, ragazzi... è stato un onore» disse Mo’rek in tono d’addio.

   In quella una scarica elettrostatica si diffuse per la scala, facendogli rizzare tutti i peli. Subito i mezzi droni caddero sugli scalini e le passerelle, contorcendosi come in preda a un attacco epilettico.

   «Ha funzionato!» gioì Ennil. «La scarica si è estesa alla scala... siamo salvi!».

   «Non è ancora finita» ricordò Orlon. «Andiamo in plancia, presto».

   Gli ufficiali scesero frettolosamente le scale, fino al condotto più vicino. Una volta entrati, si divisero in due gruppi. Mo’rek ed Ennil uscirono rapidamente dai tubi di Jefferies, tornando nei corridoi, e da qui presero il turboascensore per il ponte di comando. Orlon e Smig restarono invece nei tubi, raggiungendo la sala tattica. Da lì sbirciarono in plancia. I mezzi droni erano a terra, ormai privi di sensi.

   «Che nessuno si muova!» ordinò Mo’rek, uscendo dal turboascensore col phaser spianato.

   «Calma, genio. Questi sono tutti fuori combattimento» disse Orlon, entrando a sua volta in plancia.

   «Abbiamo vinto?» chiese Smig, incredula. Seguì il Teenaxi, muovendosi con più cautela tra i mezzi droni accasciati.

   «Ci puoi scommettere!» esclamò Mo’rek, e rise forte. «Dai, Ennil, che fai sulla porta?!» chiese, invitandola a uscire dal turboascensore.

   «Ragazzi... abbiamo un problema» disse la Barzana, indicando in avanti col dito tremante. I colleghi seguirono il suo gesto, girandosi verso lo schermo principale. Sullo sfondo violetto della Distesa di Nekrit campeggiavano tre cubi Borg. Come quello incontrato in precedenza avevano lo scafo liscio e corazzato, anziché il vecchio groviglio di travi e tubi. Il Cubo al centro, più vicino, emise un raggio traente verde brillante che agganciò la Keter, facendola tremare.

   «Gli scudi!» gridò Mo’rek, precipitandosi alla consolle tattica. Anche gli altri corsero alle loro postazioni.

   «Scudi alzati» disse il Klingon. «Attivo le armi».

   «Non ci hanno abbordati» riferì Smig, sollevata.

   «Suggerisco comunque di andarcene» disse Orlon.

   «Non si può!» avvertì Ennil, seduta al timone. «Le bobine quantiche sono ancora fuori uso e per il propulsore cronografico servirebbe un pilota abilitato».

   «Sto armando i siluri transfasici» ringhiò Mo’rek. «Distruggerò il Cubo centrale, o almeno gli metterò fuori uso il raggio traente. Tu sta’ pronta coi motori a impulso».

   «Ki’Lau a plancia, ci siete?» risuonò in quel momento la voce dello Xaheano.

   «Sì signore, abbiamo preso il controllo» rispose prontamente Smig. «Ma sono arrivati i Borg, quelli veri! Tre Cubi davanti a noi!».

   «Me ne sono accorto. Alzate gli scudi, ma non attaccate e non cercate nemmeno di fuggire» raccomandò Ki’Lau. «Questa è una battaglia che non vinceremo con la forza».

 

   Con uno sforzo doloroso, Jaylah si rimise in piedi. Sentiva le nanosonde che venivano drenate dal suo corpo e sapeva che le restava poco tempo, ma nella mente le risuonava ancora l’ordine imperioso della Collettività: «CONSEGNARE LA NAVE».

   Il modo più semplice per ottemperare era accedere alla sala del processore e infettare direttamente le gelatine bio-neurali con le nanosonde. A quel punto nessuno avrebbe potuto strapparle il controllo della nave, nemmeno dalla plancia. Ma la sala del processore era dieci ponti più giù, vicino alla sala macchine. Con i pavimenti polarizzati, non ci sarebbe mai arrivata in tempo. Doveva teletrasportarsi. Presa questa risoluzione, la mezza Andoriana si recò barcollando verso la sala teletrasporto più vicina. Sentendo dei passi alle sue spalle, si girò e sparò un colpo, mancando di poco Ki’Lau.

   «No, ferma!» le gridò lo Xaheano. Rispose al fuoco, colpendola alla spalla, ma lo stordimento non bastò a fermarla.

   «CONSEGNARE LA NAVE» ribadì la Collettività.

   Jaylah entrò trafelata nella sala teletrasporto, impostò le coordinate sulla consolle e si affrettò alla pedana. Aveva ancora il piede sul gradino quando Ki’Lau varcò la soglia. Lo Xaheano si era reso invisibile, anche se le lievi ferite permettevano d’intravederlo, specialmente quando si muoveva. Avendolo scorto con la coda dell’occhio, la mezza Andoriana si girò e gli sparò un colpo. Dopo di che prese posizione sulla pedana.

   Ki’Lau si tuffò in avanti, evitando di un soffio il raggio phaser. Rotolò a terra e si nascose dietro la consolle.

   «Troppo tardi» disse Jaylah, dissolvendosi nel raggio azzurro. Non si accorse che lo Xaheano aveva premuto alcuni tasti sul pannello di controllo.

 

   Appena si materializzò nella sala del processore, Jaylah si sentì meglio. Quella stanza era provvista di moquette isolante, così che la polarizzazione del pavimento non poteva più nuocerle. Le nanosonde le riaffluirono subito al cervello, dandole come una sferzata. «CONSEGNARE LA NAVE» insisté la voce dei Borg, irresistibile.

   Per prima cosa Jaylah attivò un campo di forza che isolava gran parte della sala, per proteggersi da eventuali attacchi. Poi si accostò alla parete, s’inginocchiò e rimosse un pannello, mettendo a nudo una fila di sacche contenenti gelatina bluastra. Era il gel bio-neurale su cui si basava, in gran parte, il processore principale della Keter. In linea di principio non era diverso dai neuroni che componevano il cervello umanoide, anche se non era dotato di autocoscienza. Una volta iniettate le nanosonde, sarebbe diventato un’estensione della Collettività.

   In quella Ki’Lau si teletrasportò nella stanza. Sparò immediatamente a Jaylah, ma il raggio si estinse contro il campo di forza. «Non farlo!» gridò lo Xaheano. «Ci condannerai tutti!».

   «Non è una condanna, è il prossimo stadio dell’evoluzione» disse Jaylah. «Prima o poi ci arriveremo comunque».

   «Questa è la voce dei Borg, non la tua» obiettò Ki’Lau. Si avvicinò per quanto possibile, ma dovette arrestarsi davanti al campo di forza. «Sai, ho sempre ammirato voi Agenti Temporali. Vi consideravo il meglio della Flotta Stellare. Dimostrami che ho ragione... resisti alla Collettività».

   Combattuta, Jaylah guardò alternativamente lui e la sacca di gel bio-neurale. La sua mano, già tesa per infettarla, tremava. «Sei un ingenuo» disse con un filo di voce. «La Flotta cade a pezzi, l’Unione sta scivolando nell’anarchia e nella guerra civile. Ci serve ordine... del tipo che solo la Collettività può dare. Lì sono tutti uguali e nessuno prevarica sugli altri».

   «Nessuno prevarica perché tutti valgono zero!» obiettò Ki’Lau. «Io voglio avere un valore, e credo che lo voglia anche tu. Tutti quanti vogliamo contare qualcosa... sentirci parte di qualcosa. Sai, un’antica leggenda del mio popolo narra che noi Xaheani nascemmo assieme al nostro pianeta, nello stesso istante. Quindi siamo tutti suoi fratelli e sorelle».

   «Che assurdità» commentò Jaylah. «La formazione di un pianeta dura milioni di anni e l’evoluzione di vita complessa ne richiede addirittura miliardi».

   «Lo so, ma il senso del discorso è che siamo tutti parte di un insieme più vasto. Non serve la Collettività per fare squadra!» insisté Ki’Lau, accorato. «Ritira la mano, ti prego, e torna con noi» la supplicò.

   Per un attimo sembrò che le sue parole avessero fatto breccia. Ma poi gli occhi azzurri di Jaylah divennero verdi, per l’enorme concentrazione di nanosonde, e il suo volto si fece inespressivo. «Il tuo discorso è irrilevante. La resistenza è inutile. Noi siamo i Borg; voi sarete assimilati» disse meccanicamente. Senza la minima esitazione accostò la mano alla sacca azzurra. Dagli spazi tra le nocche scaturirono i tubuli di assimilazione, che si piantarono nella gelatina bio-neurale. Le nanosonde si riversarono a miliardi, tingendola di un verde spettrale. Il contagio si estese a vista d’occhio alle gelatine adiacenti. Le consolle impazzirono, gli allarmi squillarono e l’illuminazione della sala sfarfallò.

   Nello spazio, il Cubo che aveva agganciato la Keter cominciò ad attirarla. Ora che Jaylah aveva infettato le gelatine, i Borg non temevano più attacchi. Un enorme ingresso a diaframma si aprì sulla superficie del Cubo, rivelando un hangar tanto grande da accogliere la nave federale.

   «Frell» imprecò Ki’Lau, indietreggiando. «Speravo che ti saresti opposta. E va bene... ci vogliono le maniere forti. Computer, apri l’ingresso!» ordinò.

   La porta alle sue spalle svanì, rimpiazzata da un ingresso ad arco molto più grande. Lo Xaheano continuò a indietreggiare finché il portone si schiuse, permettendogli di uscire nel corridoio che c’era fuori.

   «Ma cosa...» mormorò Jaylah, confusa da quella strana trasformazione dell’ambiente. D’un tratto capì. Quella non era la sala controllo del processore, bensì il ponte ologrammi. Ki’Lau aveva dirottato il teletrasporto mentre lei era smaterializzata, forse tenendola sospesa nel raggio mentre preparava la destinazione. «No!» gridò la mezza Andoriana, slanciandosi in avanti, ma fu bloccata dal campo di forza che non le rispondeva più.

   «Mi spiace... spero che non ti faccia troppo male» disse lo Xaheano, mentre il portone si chiudeva tra loro. Appena fu sigillato la camera del processore si dissolse. Jaylah si ritrovò in una sala molto più grande, rivestita da un reticolo uniforme. Come temeva, era il ponte ologrammi. E nei quattro angoli si trovavano i generatori di raggi Omicron.

   Gli occhi di Jaylah brillarono verdi per le nanosonde. Poi i quattro generatori si attivarono, con un ronzio sincronizzato. Gli emettitori sulla loro superficie splendettero rossi, inondando il ponte ologrammi di raggi Omicron.

   La mezza Andoriana si portò le mani alla testa ed emise un grido lacerante. Aveva la sensazione che ogni cellula del suo corpo stesse bruciando. In realtà erano le nanosonde a disgregarsi: i raggi Omicron le distruggevano senza intaccare i tessuti organici. Pochi secondi di esposizione bastarono a fare piazza pulita, ma per sicurezza i generatori restarono accesi più a lungo. L’urlo di Jaylah si arrochì e la sala con i generatori sfavillanti sembrò vorticarle attorno, finché l’Agente Temporale si accasciò a terra, priva di sensi.

 

   Sulla plancia della Keter, i quattro ufficiali osservavano con ansia crescente il Cubo sempre più vicino. Ormai riempiva tutto lo schermo, come se davanti a loro ci fosse un muro. L’hangar dall’imboccatura rotonda sembrava una bocca verdastra, pronta a ingurgitarli. I federali avrebbero voluto difendersi, ma attendevano l’ordine.

   «Ki’Lau a plancia, fuoco!».

   «Assimilate questi!» esclamò Mo’rek, lanciando una salva di siluri transfasici nell’hangar spalancato. I siluri giallo oro colpirono le pareti interne, provocando immani esplosioni. Il raggio traente sfarfallò e si spense, mentre le esplosioni a catena dilagavano sulle facce del Cubo, schiantando la corazza dall’interno.

   «Liberi!» gioì Ennil, attivando i motori a impulso. Fece sterzare la nave, per allontanarla dai Borg, ma prima di poterli distanziare i due Cubi rimanenti l’agganciarono con i loro raggi traenti. «Oppure no» si corresse la timoniera, mentre il sorriso svaniva. Diede più energia ai propulsori, ma i potentissimi raggi Borg trattennero l’astronave. Nello stesso momento i due Cubi aprirono il fuoco. Raggi trancianti e siluri verde fiele tempestarono gli scudi della Keter.

   «Scudi al 90%, non resisteremo a lungo!» avvertì Smig.

   «Lancio ancora i missili» disse Mo’rek prendendo di mira il cubo più vicino. I siluri transfasici andarono a bersaglio, ma stavolta si arrestarono contro gli scudi verdastri del Cubo.

   «Frell, si sono adattati!» ringhiò il Klingon.

   In quella Ki’Lau si teletrasportò in plancia. «Rapporto!» chiese, scendendo dalla pedana.

   «Ho disabilitato un Cubo, ma gli altri due hanno alzato gli scudi. Le nostre armi sono inefficaci, anche i siluri transfasici!» riferì Mo’rek.

   «Non riesco a liberare la nave dai raggi traenti» aggiunse Ennil. «Che facciamo?».

   «Aprire un canale» ordinò Ki’Lau, sedendo sulla poltrona del Capitano.

   «NOI SIAMO I BORG. VOI SARETE ASSIMILATI» tuonò la Collettività.

   «Come, non eravate diventati carini e pacifici? Non assimilavate solo chi si offriva volontario?» li derise Ki’Lau.

   «ASSIMILEREMO LE VOSTRE PECULIARITÁ BIOLOGICHE E TECNOLOGICHE. LA RESISTENZA È INUTILE» proseguirono i Borg.

   «Oh però, siete duri di testa» commentò lo Xaheano. «V’informo che distruggerò questa nave con tutto ciò che contiene, piuttosto che consegnarvela. Così non assimilerete un bel niente. Allora? Non è illogico continuare ad attaccarci, visto che in ogni caso non ne ricaverete nulla?» chiese, speranzoso.

   «LA VOSTRA CIVILTÁ SARÁ ASSIMILATA» risposero i Borg, lapidari.

   «Hanno chiuso il canale» mormorò Smig. «Gli scudi sono al 50% e continuano a scendere».

   «Ehi, capo... quel discorso sul distruggere la nave era un bluff, vero?» chiese Orlon. Dal tono non sembrava molto sicuro.

   «Vuoi diventare il primo Teenaxi assimilato? Non saresti un bello spettacolo» ribatté Ki’Lau. Nel frattempo rifletteva sul significato dell’ultima minaccia Borg. «Non noi, ma la nostra civiltà sarà assimilata... vogliono attaccare l’Unione» pensò con un brivido. «Quindi ci distruggeranno per impedirci di avvisarla». Si chiese se l’attacco era imminente. Forse no: nelle loro fasi di espansione, i Borg avevano così tanti fronti aperti che tra una minaccia e la sua attuazione potevano passare anni. «Tempo utile per prepararci... se sopravviviamo per dare l’allarme. E posto che l’Unione ci ascolti» si disse.

   «Signore?!» chiese Ennil, voltandosi verso di lui con aria disperata.

   Vedendo che il tempo stringeva, lo Xaheano premette un comando sul bracciolo. «Ki’Lau a Xandrix, questo sarebbe il momento» disse.

   «Sì, sì, ci sono, state pronti» rispose il Rhaandarite, col solito tono distratto. «Meno tre... due... uno... via!».

   Non accadde nulla.

   «Beh, che doveva fare?» chiese Orlon.

   Ki’Lau non rispose, ma si massaggiò la fronte, sconfortato.

   «Scudi al 10%!» squittì Smig, terrorizzata. La Keter tremava sempre più forte sotto il micidiale attacco Borg. Mo’rek continuava a far fuoco sui Cubi, ma non riusciva a penetrare i loro scudi.

   «Scusate, ora ci riprovo» disse Xandrix, attraverso il canale ancora aperto. Si schiarì rumorosamente la voce. «Meno tre... due... uno...».

   I Cubi scomparvero, assieme alle nubi violette della Distesa di Nekrit. Ora la Keter era nello spazio aperto. A giudicare dalle stelle rade, si trovava nella periferia galattica.

   «Ah, lo sapevo!» si rianimò Ki’Lau, dando un pugno sul bracciolo. «Buon vecchio Xandrix... lo sapevo che avevi abbastanza materia grigia da usare il propulsore cronografico. Riposo, signori; la battaglia è finita» disse ai colleghi che erano con lui. «Ora accertiamoci che tutti i mezzi droni siano neutralizzati. E apriamo quei benedetti alloggi, così potremo svegliare gli ufficiali superiori».

   «Hod a plancia... che succede?» risuonò la voce impastata del Capitano. In parte doveva essere ancora sotto l’effetto del gas soporifero. «Non capisco, avrei dovuto svegliarmi mezz’ora fa. Mi è sembrato di sentire degli scossoni, anche se ora non li sento più. Cos’è successo?».

   «Nulla di rilevante, Capitano» rispose Ki’Lau, scambiando uno sguardo di trionfo con i colleghi. «È stato solo un normale turno di notte».

 

   Nelle ore successive tutto il personale dei turni Alfa e Beta fu svegliato e informato dell’accaduto. Gli agenti della Sicurezza stanarono gli ultimi mezzi droni, liberandoli dalle nanosonde. Nel frattempo gli ingegneri riparavano i danni alla nave, fortunatamente limitati, e i medici curavano gli ex droni e tutti gli altri feriti.

   Appena possibile gli ufficiali del turno di notte si recarono in infermeria, dove Ki’Lau era stato ricoverato per le ustioni al volto. Lo trovarono perfettamente guarito, intento a conversare con Xandrix, che invece era ancora a letto, sotto osservazione.

   «Ah, eccovi!» li accolse lo Xaheano. «Venite... e ringraziate il nostro ingegnere. Se non avesse attivato il propulsore cronografico, ora saremmo tutti droni».

   «Ben fatto!» si complimentò Mo’rek, dandogli una gran pacca sulla spalla. Il Rhaandarite si piegò in avanti per l’irruenza del colpo e tossì.

   «Calma, calma!» intervenne Ki’Lau, segnalando agli altri di aspettare. «È ancora debilitato per lo sforzo. Usare il propulsore cronografico richiede un’immensa energia mentale».

   «Ah, quindi finora la stavi risparmiando!» ridacchiò Orlon, balzando sul comodino accanto al letto. «Scherzi a parte... ottimo lavoro. Non sapevo che voi Rhaandariti poteste usare quell’affare».

   «Pochi ci riescono» confermò Xandrix, parlando con voce bassa e stentata. «Io non l’avevo mai fatto. È stato, beh... indescrivibile. Per un istante mi è sembrato d’essere ovunque, in tutto l’Universo. In un certo senso è stato affascinante... ma spero di non doverlo rifare».

   «Cosa fate tutti qui? Fuori... non sono ammesse visite!» li rimproverò il dottor Joe, avvicinandosi con qualche difficoltà a causa della calca di medici e pazienti.

   «Dottore! Sta bene? Ho sentito che le avevano colpito l’Emettitore» disse Ennil, un po’ in ansia.

   «Fortunatamente mi sono trasferito in tempo» spiegò il Medico Olografico. «La mia memoria è intatta e ho già replicato un nuovo Emettitore. Grazie dell’interessamento, ma se non vi serve nulla, dovreste proprio andare. Il signor Xandrix ha bisogno di riposo. E come vedete, qui siamo pieni di lavoro».

   In effetti l’infermeria traboccava di ex droni che dovevano essere visitati. Molti erano malconci per la brutale rimozione delle nanosonde, o anche per essere stati colpiti da armi tarate su massimo stordimento. Quali che fossero le loro condizioni, tutti passavano per una saletta in cui erano stati collocati i generatori di raggi Omicron. Così i medici si accertavano che non restasse nemmeno una nanosonda. Anche chi aveva naniti più semplici, non mutuati dai Borg, ne veniva comunque privato in via precauzionale. Per ordine del Capitano nessuno ne avrebbe più fatto uso, finché la Keter fosse rimasta nel Quadrante Delta.

   «Torneranno a posto?» chiese Ennil, notando che alcuni ex droni sembravano conciati male.

   «Torneranno come nuovi... fisicamente parlando. Sono le conseguenze psicologiche a preoccuparmi di più» confessò il dottore. «L’assimilazione è un trauma che segna tutta la vita. Almeno sono scampati alle mutilazioni e agli innesti cibernetici. Penso che siccome non avevano ancora sviluppato nodi corticali, e nell’astronave non c’era un vinculum che la collegasse alla Collettività, non siano stati veramente connessi alla mente alveare. Più che altro agivano secondo un programma stabilito dalle nanosonde».

   «Spero che lei abbia ragione, dottore. Se i Borg avessero acquisito le conoscenze dei nostri ufficiali tattici, compresi gli Agenti Temporali, sarebbe drammatico» commentò Ki’Lau. Il suo sguardo passò da un lettino all’altro, in cerca di volti familiari, finché trovò quello che più gli premeva. Jaylah Chase giaceva ancora priva di sensi su un bio-letto; i suoi segni vitali erano stabili. «In conclusione, pensa che si riprenderanno?» mormorò lo Xaheano.

   «Col tempo» sospirò il dottor Joe, che aveva seguito il suo sguardo.

 

   Qualche ora dopo gli ufficiali del turno di notte furono convocati nell’hangar. Era già il primo pomeriggio e tutti loro stavano per andare a dormire, perciò si chiesero il motivo della chiamata. Incontrandosi nel corridoio che portava all’hangar, si scambiarono le loro impressioni.

   «Anche voi qui?».

   «Sì, ci hanno chiamati tutti».

   «Almeno vi hanno detto il perché?».

   «Macché! Io – yahwn! – ero già a letto quando mi hanno chiamato».

   «Non ci sarà mica un’altra emergenza? O una missione?».

   «Che ne so... tutto può essere. Domani attaccheremo la Rete Subspaziale».

   «Forse c’è da fare una ricognizione. Se è così, io prendo il posto accanto al finestrino».

   «Buoni, tra poco lo sapremo» li richiamò Ki’Lau. Con sorpresa videro arrivare anche Xandrix, appena dimesso dall’infermeria, con Joe che lo accompagnava.

   «Anche voi qui!» si stupì lo Xaheano. «Voglio proprio vedere che... succede...». La sua voce si smorzò, mentre il portone davanti a loro si sollevava. L’hangar navette – l’ambiente più vasto della Keter – era gremito. Anche se molti pazienti erano ancora in infermeria e un certo numero d’ingegneri proseguiva le riparazioni, il resto dell’equipaggio si era radunato.

   «Benvenuti! Venite avanti» li accolse il Capitano Hod, che attendeva in fondo all’hangar con gli altri ufficiali superiori. La folla si divise in due ali, consentendo agli ufficiali del turno di notte di avvicinarsi. Il loro passaggio fu salutato con scroscianti applausi. Con loro venne anche il dottor Joe, che un po’ sorreggeva Xandrix, ancora convalescente.

   «Capitano?» chiese Ki’Lau incredulo, quando le fu davanti.

   «Scusate se ho fatto le cose in modo affrettato, senza darvi il tempo di riposare» disse Hod. «Ma domani ci aspetta la battaglia nella Rete Subspaziale. Prima di allora, volevo ringraziarvi per quanto avete fatto. Non mi riferisco solo all’eroismo che avete dimostrato la notte scorsa, quando ci avete salvati dai Borg. No, parlo dell’impegno e della costanza con cui avete svolto il turno di notte in questi anni. Troppo spesso noi degli altri turni dimentichiamo a chi sono affidate le nostre vite, mentre dormiamo. Lo spazio non conosce orari; il pericolo può arrivare in qualunque momento. Eppure voi che disponete di un equipaggio ridotto e che – mi vergogno a dirlo – siete spesso svalutati ci avete sempre protetti, dimostrando le più alte qualità della Flotta Stellare. A riprova di questo, vi insignisco della Medaglia al Valore!» dichiarò solennemente. Appuntò le medaglie agli sbalorditi ufficiali, mentre il resto dell’equipaggio applaudiva con calore. Per dare la medaglia a Orlon dovette chinarsi. Infine indietreggiò di qualche passo e fece segno alla folla di quietarsi.

   «Su questa nave le possibilità di rimpasto sono limitate e al momento non me la sento d’invertire il vostro turno con il Beta» proseguì il Capitano. «Tuttavia, quando torneremo all’Unione, credo che per voi si apriranno opportunità di trasferimento al secondo turno – o anche al primo – su altre astronavi. Cosa che mi rincresce, perché significherà perdere degli ottimi elementi».

   A questo punto Ki’Lau sentì di dover dire qualcosa. Fece un passo avanti e si schiarì la voce, un po’ imbarazzato da quella visibilità a cui non era abituato, e ancor più dagli elogi. «Grazie, Capitano. Sarò felicissimo se i miei ufficiali si avvarranno di queste opportunità, ma per quanto mi riguarda non c’è altra nave su cui vorrei prestare servizio» dichiarò a sorpresa.

   «Vale lo stesso per me» disse Orlon, affiancandosi a lui.

   «E per me».

   «E per me».

   «E per me».

   «E per me».

   Uno dopo l’altro Mo’rek, Ennil, Xandrix e Smig si fecero avanti, manifestando la loro intenzione di restare sulla Keter. Accettare trasferimenti su altre navi significava dirsi addio, mentre loro volevano restare insieme.

   «Con questa scelta mi confermate, ancora una volta, la vostra professionalità e il vostro spirito di squadra» sorrise Hod. «Però vorrei insistere almeno con lei, signor Mo’rek. Qualche settimana fa l’ho retrocessa al turno di notte dopo la sua reazione avventata coi Krenim. Mi sembra chiaro che da allora ha imparato a controllarsi. E mi è stato riferito che ieri notte ha dato prova di grande valore. Quindi che ne dice di tornare al turno Alfa?» propose.

   Il Klingon considerò brevemente la questione. Dette un’occhiata ai colleghi, che gli facevano segno di sì. Dopo di che si rivolse all’Elaysiana, con l’aria sorniona di un vecchio gatto che ha mangiato il topo. «Grazie, Capitano. Sono onorato di quest’opportunità, ma non posso accettarla. Deve pur restare qualcuno di sveglio, nel turno di notte».

   «Come vuole, signor Mo’rek» disse Hod, commossa. E ancora più commossi erano i suoi colleghi. Sapevano che nessun Klingon avrebbe mai ammesso, neanche sotto tortura, che a trattenerlo dagli onori era la volontà di restare con quelli a cui era affezionato.

 

   Terminata la cerimonia, gli ufficiali del turno di notte poterono finalmente tornare nei loro alloggi a riposare. In tutta la nave però fervevano le riparazioni, nonché i preparativi per l’assalto alla Rete Subspaziale.

   Quella sera, verso le 10:30, Ki’Lau e i suoi ufficiali si ritrovarono in sala mensa, a fare quella che per loro era la colazione. Di lì a poco avrebbero ripreso servizio. Il sollievo per essere scampati ai Borg stava già lasciando il posto alla tensione per la battaglia imminente.

   «Buon appetito!» ironizzò Orlon, quando Ennil si unì alla tavolata. Più che una colazione, la Barzana si era procurata un pranzo abbondante.

   «Che c’è? Le battaglie mi mettono fame» si giustificò la timoniera. «E poi da domani comincio la nuova dieta».

   «Uhm, sì. Quella di cui mi parli da quando ti conosco» ridacchiò il Teenaxi. «Comunque non sarai tu a pilotare la nave. Dovremmo perdere due timonieri, prima che tocchi a te».

   «E quanti ufficiali dovremmo perdere, prima che chiamino te in plancia?» chiese la Barzana.

   «Quattro, sigh» rispose Orlon, dopo di che si concentrò sul suo piatto.

   «Combattere assieme ai Krenim... mah!» commentò Mo’rek, che come tutti i Klingon era lento al perdono. «Vedremo se si batteranno con onore».

   «L’Ammiraglio Hortis sembra sapere il fatto suo. Comunque noi ci uniremo alla flotta della Gerarchia» ricordò Smig. Dopo di che si rivolse a Xandrix, che le sedeva accanto. «Tu che sei bravo coi calcoli... quante probabilità di vittoria credi che abbiamo?».

   «Eh?» fece il Rhaandarite, colto un po’ alla sprovvista. «Dipende da cosa intendi per “vittoria”. Potremmo far collassare uno snodo o due, ma eliminare tutta la Rete sarà difficile, ora che i Vaadwaur sono di nuovo in forze».

   Ricordando i loro fallimenti con le simulazioni della battaglia, i colleghi proseguirono la colazione in silenzio. Di lì a poco Ki’Lau notò con la coda dell’occhio che l’ingresso della sala mensa si era aperto e qualcuno indugiava sulla soglia. Si girò a guardare: era Jaylah. «Tenente Chase, sta bene?» s’interessò. A quel nome tutti i commensali deposero tazze e posate, concentrandosi sulla nuova arrivata.

   «Sì, il dottor Joe mi ha appena dimessa» confermò Jaylah, avvicinandosi finalmente al loro tavolo. C’era qualcosa di titubante, persino d’imbarazzato in lei. «Io, ehm, volevo scusarmi per tutti i guai che vi ho causato ieri notte. E vorrei ringraziarvi per avermi salvata dai Borg. La vostra strategia per riconquistare la nave è stata brillante. Grazie a tutti... e a lei in particolare» disse, fissando Ki’Lau. «Quelle cose orribili che le ho detto... la prego, cerchi di dimenticarle» mormorò, distogliendo lo sguardo per la vergogna.

   «Non si preoccupi. So bene che non era in sé» assicurò lo Xaheano. Avrebbe tanto voluto sapere se il pessimismo di Jaylah riguardo alla Flotta Stellare e a tutta l’Unione era preesistente all’influenza della Collettività. Però si astenne dal chiederlo, sia per riguardo verso l’Agente Temporale, sia perché temeva una risposta affermativa.

   «Okay... grazie ancora a tutti, e buon lavoro» disse la mezza Andoriana, imbarazzata. Girò sui tacchi e si allontanò a passo svelto. Quand’era già sull’uscio tuttavia si fermò brevemente e rivolse un’ultima occhiata agli ufficiali. «Sapete... siete i miei eroi» rivelò, e scomparve.

   Gli ufficiali del turno di notte si scambiarono occhiate incredule. Loro, gli eroi di un’Agente Temporale?! Poteva essere stata solo una cortesia da parte della mezza Andoriana, o un modo per incoraggiarli alla vigilia di una battaglia durissima. Ma quale che ne fosse il motivo, dette loro una soddisfazione che non se ne sarebbe andata tanto presto.

 

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Capitolo 11
*** L'occhio del serpente ***


-Capitolo 10: L’occhio del serpente

 

   Dopo le lunghe trattative, i rinvii e gli aggiustamenti dell’ultimo minuto, il gran giorno era arrivato. Tre flotte si erano radunate in tre punti diversi del Quadrante Delta, separate da migliaia di anni luce, ma unite dal comune obiettivo. Nei pressi dell’antica Vaadwaur stazionava la flotta Devore, fatta di navi massicce e scure, pesantemente armate. L’Inquisitore Marroc la guidava personalmente dalla sua nave ammiraglia. Vi era poi la flotta Krenim, con le navi giallo-grigie armate di siluri cronotonici. Tra di esse spiccava, per la mole e la forma unica, l’Annorax dell’Ammiraglio Hortis. Meno numerose, ma comunque pronte alla battaglia, erano le navi giallo-verdastre della Gerarchia. Munite di occultamento e contraddistinte dalle sinuose forme organiche, erano dirette dal Supervisore Ghak. Separata da tutte le flotte, ma egualmente pronta a entrare in azione, c’era infine la Keter.

   Sulla plancia dell’Annorax si respirava un’aria di tesa concentrazione. Hortis supervisionava gli ultimi preparativi con l’accortezza di un direttore d’orchestra, accertandosi che tutti avessero una parola d’incoraggiamento. Vedendo sopraggiungere un volto familiare, lasciò la consolle tattica accanto alla sua poltroncina e gli venne incontro. «Benvenuto, Capitano Jarros. Sono lieto che la commissione d’inchiesta l’abbia prosciolta» lo accolse.

   Dopo che la sua astronave era stata distrutta dai Vaadwaur, Jarros aveva dovuto dimostrare in tribunale di aver fatto tutto il possibile per salvarla. La testimonianza dei federali era stata fondamentale per scagionarlo. Anche così, il Capitano non pensava che sarebbe tornato tanto presto nello spazio e di certo non con lo stesso grado.

   Giunto davanti all’Ammiraglio, Jarros fece il saluto militare. «Grazie a lei per avermi convocato, signore» disse, un po’ emozionato. «Accetterò volentieri una retrocessione, pur di contribuire alla battaglia».

   «Uhm... sfortunatamente per lei, nella flotta non ci sono posti liberi come Comandante e nemmeno come Tenente Comandante» rispose Hortis con gravità.

   Jarros chinò il capo, presagendo un tale arretramento di carriera che gli sarebbero serviti molti anni per compensarlo. «Capisco, signore...» mormorò.

   «Di conseguenza mi vedo costretto, mio malgrado, ad affidarle il comando di una nave stellare» proseguì inaspettatamente l’Ammiraglio. «Capitano Jarros, le assegno la Fulminatrix. Veda di riportarla senza un graffio» ironizzò.

   Jarros rialzò la testa di scatto, incredulo. La Fulminatrix era una delle navi più moderne e potenti della flotta Krenim. Osservando lo schermo principale, la vide transitare in quel momento. Di color giallo oro, la Fulminatrix aveva forma affusolata, con un doppio apparato motori posteriore, simile a due U incrociate che puntavano in avanti.

   «Sì, signore... non la deluderò» farfugliò Jarros, stordito dalla sua fortuna. I due Krenim si strinsero la mano. Jarros notò che la stretta di Hortis era forte e prolungata, come se si trattasse di un congedo definitivo. «Si sbrighi a raggiungere la sua nave» disse poi l’Ammiraglio. «Fra poco andremo in battaglia».

 

   All’ora prefissata, le sonde-spia introdotte dalla Gerarchia nella Rete Subspaziale entrarono in azione. Colpirono le pareti dei tunnel spaziali con impulsi gravitonici che, pur non avendo la potenza necessaria a farli collassare, li resero più permeabili. Nello stesso momento le tre flotte dell’Alleanza entrarono a curvatura. Sovrapponendosi al tracciato dei tunnel spaziali e lanciando a loro volta impulsi dal deflettore, indebolirono a tal punto le pareti dei wormhole da scivolarci dentro.

   Fu un grosso stress per le astronavi, tanto che alcune riportarono danni. Una volta dentro, bisognava agire in fretta. Ciascuna flotta si diresse verso lo Snodo assegnatole, inviando però qualche nave a presidiare l’uscita più vicina al proprio spazio. Le flotte Devore e Krenim avanzarono impetuosamente, con gli scudi alzati e le armi pronte a colpire. Invece le navi della Gerarchia, dovendo attraversare un ampio tratto della Rete, procedettero occultate. In un paio d’occasioni fecero persino dei giri più lunghi del necessario, nel caso i Vaadwaur avessero approntato degli ostacoli lungo il tragitto. Ma per parecchi minuti nessuna delle tre flotte incontrò opposizione. Si addentrarono sempre più nella Rete, così simile a un formicaio, con la sua serie di condotti, biforcazioni e slarghi.

   Sull’Annorax, Hortis osservava il tunnel arancione con aria cupa. Lungi dal confortarlo, l’assenza del nemico lo inquietava.

   «Siamo a metà tragitto e non c’è segno dei Vaadwaur» notò l’addetto ai sensori.

   «Forse hanno capito che non possono difendere la Rete e l’hanno abbandonata» suggerì il Primo Ufficiale. I calcoli fatti prima della battaglia lo indicavano come uno scenario possibile, anzi gli davano una probabilità del 31%.

   «No, non credo» disse Hortis, sempre più accigliato. «Suddayath non è tipo da arrendersi senza combattere. State pronti; ci attaccheranno da un momento all’altro».

 

   Nello stesso attimo la Keter s’introdusse nel wormhole che aveva localizzato poco lontano da Vidiia. Se i Vaadwaur lo avessero spostato, sarebbe entrata allo stesso modo dell’Alleanza; ma i padroni di casa sembravano stranamente impreparati. Non avevano minato l’ingresso e nemmeno posto navi di guardia.

   «Eppure sanno del nostro attacco» rimuginò il Capitano Hod, osservando il condotto arancione con la stessa aria accigliata di Hortis. «Mantenere la rotta; teniamoci pronti a un’imboscata».

   «Sono pronto, eccome» pensò Norrin, le mani già sui comandi delle armi. Da quando era stato costretto a lasciare Ladya in preda alla Phagia, nell’orribile mondo dei Vaadwaur, si era rassegnato all’idea di averla persa per sempre. Considerando i giorni trascorsi, ormai la Vidiiana doveva essere prossima alla morte, se non era già morta. Non avendo potuto salvarla, l’Hirogeno intendeva almeno farla pagare cara ai Vaadwaur.

   «Quattro incursori sono sbucati dietro di noi» avvertì Zafreen.

   «Fuoco appena saranno nel raggio delle armi» ordinò il Capitano. Alle sue spalle, non visto, Norrin si passò il dito sulla fronte, nell’antico gesto del Cacciatore pronto alla battaglia. Aveva rispettato la volontà di Ladya, lasciandola con i suoi pazienti; ma non avrebbe avuto pietà dei suoi aguzzini.

 

   «Navi Vaadwaur dietro di noi» rilevò l’addetto ai sensori dell’Annorax. «Diciotto incursori Pythus e quattro fregate Manasa».

   «Briciole» commentò l’Ammiraglio. «Hortis a flotta. Rispondete al fuoco se potete, ma non rallentate, né uscite dalla formazione. Quelle navi sono lì solo per stuzzicarci. Hortis, chiudo».

   Non era del tutto vero, si disse il Krenim intrecciando le dita. Se avessero voluto stuzzicarli per bene, i Vaadwaur si sarebbero fatti trovare davanti a loro e poi avrebbero deviato in altri tunnel, cercando di farsi seguire. Il fatto che li attaccassero alle spalle, invece, rivelava la volontà di spingerli più a fondo nella Rete, per poi impedirgli di fuggire. Una trappola, dunque. Ma se le leggi fisiche non erano cambiate, un massiccio impulso gravitonico avrebbe fatto collassare lo Snodo 2. E se gli alleati facevano lo stesso con i loro snodi, la Rete sarebbe collassata.

   «Altri dodici incursori e due fregate dietro di noi» avvertì l’addetto ai sensori. «Ci sono anche quattro vascelli strappati ai Turei».

   «Ora si che sì ragiona» ironizzò Hortis, mentre la nave sobbalzava per i colpi ricevuti a poppa. «Energia agli scudi posteriori, ma state pronti a reindirizzarla a prua. Avanti verso lo Snodo».

 

   Situazione analoga avevano incontrato, nello stesso momento, i Devore. Dapprima navi di piccola taglia li attaccarono alle retrovie. Col passare del tempo l’attacco divenne più gravoso, il che li spinse in avanti, nella speranza di raggiungere lo Snodo il prima possibile. Ma quando erano quasi arrivati, il condotto deviò bruscamente davanti a loro, portandoli a tutt’altra zona della Rete. Qui trovarono navi Vaadwaur di maggior stazza, con cui dovettero ingaggiare battaglia.

   «Vogliono logorarci» comprese l’Inquisitore Marroc. «Tenerci lontani dallo Snodo. Frammentarci, se possibile. Beh, ci hanno sottovalutati. Inquisitore a flotta, non lasciate la formazione per nessun motivo. Se vi allontanate in qualche tunnel e restate isolati, siete morti. State in formazione e colpite solo i nemici che si trovano nel raggio delle armi. È un ordine!».

   «I nostri alleati saranno altrettanto disciplinati?» si chiese un ufficiale.

   «Sarà meglio» mugugnò l’Inquisitore. «Ricalcolate la nostra posizione e tracciate una nuova rotta per lo Snodo 1» ordinò. La speranza di un attacco lampo era già sfumata: ora li aspettava un logorante gioco di nascondino, punteggiato di scontri.

 

   La Keter sfrecciava da un condotto all’altro della Rete, così veloce da seminare le navi che la inseguivano. Solo gli incursori erano abbastanza rapidi da starle dietro. Il loro fuoco serrato indebolì gli scudi di poppa. Norrin rispose con i siluri e i raggi anti-polaronici, riuscendo a distruggere due incursori e a danneggiare gli altri, che dovettero rallentare. Il loro posto fu presto da un vascello strappato ai Turei. Sotto i duri colpi la Keter sbandò e sfiorò la parete del wormhole.

   «Ci tenga in carreggiata, Vrel» raccomandò il Capitano Hod.

   «Ci provo, ma quelli picchiano duro» rispose il timoniere, raddrizzando la nave a fatica.

   Norrin rovesciò un’intera salva di siluri quantici sul muso della nave avversaria, senza risultato. «Non riesco a penetrare i loro scudi. Devono aver deviato tutta l’energia a prua» commentò. «Suggerisco la manovra theta 1».

   Il Capitano ebbe un attimo d’esitazione, perché sapeva che quella manovra, oltre ad essere pericolosa, poteva distruggere la nave avversaria. Non era quello il loro scopo. Entrando nella Rete, dovevano respingere i nemici finché non fossero riusciti a farla collassare. Ma se accumulavano troppi danni, la missione sarebbe fallita. «Proceda» disse Hod a malincuore.

   Vrel portò la Keter vicina al bordo del tunnel, come prima, e diminuì bruscamente la velocità. La nave avversaria non fu altrettanto rapida a frenare e così la oltrepassò, passandole vicinissima. In quell’attimo, prima che potesse deviare l’energia agli scudi posteriori, Norrin aprì il fuoco. Stavolta i siluri quantici penetrarono le difese, squarciando lo scafo nerastro. La nave nemica sbandò, con la poppa in fiamme, e colpì la parete del wormhole con tale violenza da esplodere. La Keter passò attraverso la fiammata, proseguendo la sua corsa.

 

   La flotta Krenim si faceva strada nella Rete, affrontando i Vaadwaur in un serrato gioco di strategia. Ogni volta che gli attaccanti si avvicinavano allo Snodo 2, i difensori riconfiguravano la Rete per tagliarli fuori. Questo costringeva i Krenim a fermarsi ogni volta per stabilire la loro posizione ed elaborare una nuova rotta. Quando ciò accadeva, i Vaadwaur attaccavano, pressando gli avversari in tunnel così stretti che le navi rischiavano di entrare in collisione. Dopo di che i padroni di casa si ritiravano, senza dare ai Krenim il tempo di contrattaccare e quindi invogliandoli all’inseguimento. Ogni volta Hortis raccomandò alle sue navi di restare in formazione, perché se la flotta si fosse disgregata i Vaadwaur avrebbero intrappolato e distrutto ogni gruppo.

   «Signore, siamo vicini allo Snodo 3» notò il Primo Ufficiale. «I sensori indicano che la Keter e la Gerarchia non l’hanno ancora raggiunto. Potremmo occuparcene noi» suggerì.

   «No! Per nessuna ragione dobbiamo deviare dal piano» si oppose l’Ammiraglio. «Se perdiamo tempo con lo Snodo 3, rischiamo di consumare le forze al punto da non poterci occupare del 2».

   «Stiamo già consumando le forze» notò l’ufficiale tattico, mentre la nave tremava sotto l’ennesima incursione Vaadwaur. «Tanto vale occuparci di quello Snodo, visto che gli alleati non lo fanno».

   «Lo faranno appena possibile» sostenne Hortis. «Ricordi che stanno affrontando le nostre stesse difficoltà».

   «Ha molta fiducia nella Gerarchia» notò il Primo Ufficiale, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.

   «Della Gerarchia mi fido moderatamente» ribatté l’Ammiraglio. «È nella Keter che ho piena fiducia».

   Respinto l’attacco, la flotta Krenim si accinse a ripartire. Hortis pose la sua nave in testa e fece caricare il disgregatore subatomico, perché ora gli avversari attaccavano anche dal davanti. L’Annorax distrusse fregate e incrociatori Vaadwaur, aprendo la strada al resto della flotta. Trovandosi in posizione così esposta, però, subiva anche il grosso del fuoco nemico. Gli scudi s’indebolirono e alcuni colpi danneggiarono lo scafo. Vedendola in difficoltà, il Capitano Jarros le affiancò la Fulminatrix, cercando di attirare parte del fuoco nemico. I Vaadwaur però ignorarono l’altra nave e continuarono a bersagliare l’Annorax.

   «Ce l’hanno proprio con noi» constatò Hortis, con un occhio alla mappa della Rete e l’altro ai sistemi di bordo. «Energia d’emergenza agli scudi anteriori. Continuate a far fuoco col disgregatore».

   Vedendo una fregata Manasa che veniva dissolta dal disgregatore e un’altra che ne prendeva immediatamente il posto, l’Ammiraglio sentì una stretta allo stomaco. I Vaadwaur combattevano con totale sprezzo delle perdite, come chi sa di avere la superiorità numerica, malgrado l’epidemia che li aveva decimati. Questo suggeriva che l’entità delle loro forze fosse stata gravemente sottovalutata. «E se li ho sottostimati, tutte le mie previsioni sono sbagliate» pensò Hortis, osservando con rimpianto gli intricati calcoli con cui aveva determinato l’esito della battaglia. «Tutto da buttare» si disse, rimuovendo la schermata dalla consolle con gesto rassegnato. Ormai non gli restava che andare a naso.

 

   Al quinto tentativo, la flotta Devore raggiunse lo Snodo 1. Più che uno slargo era una bolla, larga parecchie centinaia di chilometri e nella quale confluivano oltre venti tunnel spaziali. Subito la flotta si aprì a ventaglio, preparandosi a lanciare l’impulso gravitonico. In quella però una moltitudine di navi Vaadwaur – quasi tutte strappate ad altre specie – uscì dai tunnel spaziali. Si avventarono contro gli incrociatori Devore, sparando a tutto spiano. I Devore risposero con un fuoco serrato, che ne distrusse alcune e ne danneggiò molte altre.

   Le navi danneggiate non cercarono minimamente di sfuggire al fuoco. Guidate dal pilota automatico, tirarono dritte come arieti, impattando contro gli incrociatori Devore. Dopo i ripetuti scontri, questi avevano gli scudi indeboliti; non potevano resistere a esplosioni di quella potenza. Molti incrociatori furono dilaniati. I loro detriti riempirono lo Snodo e s’incanalarono nei condotti circostanti, rendendone pericolosa la navigazione.

   Messi alle strette, i Devore si raggrupparono per proteggere le navi al centro. Queste diressero gli impulsi gravitonici contro le pareti dello snodo, come da programma. Ma alcune navi Vaadwaur si frapposero, intercettando i raggi. Altre emisero impulsi di polarità opposta, per rinsaldare lo snodo: una mossa che nessuno aveva previsto.

   Al centro della flotta Devore, la nave ammiraglia dell’Inquisitore era ancora intatta, ma la gravità della situazione era sotto gli occhi di tutti. «Qui si mette male» commentò l’ufficiale tattico, leggendo i rapporti della flotta. «Dobbiamo andarcene, prima di perdere troppe navi».

   «Se ce ne andiamo, sarà stato tutto inutile» rispose Marroc, fissando le navi Vaadwaur con sguardo omicida. «Basta che rimanga uno dei tre snodi, perché l’impalcatura della Rete si conservi. No, finché i nostri alleati resteranno al loro posto noi faremo altrettanto. Distruggeremo questo dannato snodo a ogni costo. Massima energia al raggio gravitonico; continuiamo a fare fuoco».

 

   Uscita finalmente nello Snodo 3, la Keter si trovò al centro di una gragnola. Navi Vaadwaur di tutti i tipi sbucavano dai condotti, sparando all’impazzata. «Qui non resistiamo a lungo, senza aiuto» commentò Radek, consultando i dati tattici sul suo oloschermo; gli scudi erano ridotti a meno della metà.

   In quella tuttavia le navi Vaadwaur cessarono l’attacco e si ritirarono presso le imboccature dei tunnel. Il Capitano Hod si tese in avanti sulla poltroncina, intuendo che stava per arrivare qualcos’altro.

   E il qualcos’altro giunse. Era un vascello gigantesco, progettato per fare a pezzi qualunque cosa incontrasse. Lo scafo bruno, venato di viola, era ricoperto da una quantità impressionante d’armi. La parte anteriore era vagamente squadrata, con robusti listelli che la ispessivano ai lati. La sezione di poppa era più sottile, ma tornava a ispessirsi nella parte finale, da cui si protendevano quattro gondole di curvatura squadrate.

   «Il Ravager» riconobbe Norrin, che lo conosceva indirettamente, dai rapporti dell’Alleanza. La nave ammiraglia Vaadwaur circolava da un decennio e da allora era stata avvistata in tutta la Galassia. Pochi però erano sopravvissuti agli incontri, tanto che non c’era pieno accordo sul suo aspetto e le sue dimensioni. Alcuni sostenevano che non esistesse nemmeno, che fosse un trucco dei Vaadwaur, i quali proiettavano false immagini sui sensori per terrorizzare gli avversari. Infatti come avrebbe potuto una specie tutto sommato limitata, per numeri e risorse, costruire un vascello degno di una superpotenza galattica? Eppure il Ravager era lì, in tutta la sua terrificante mole, a testimoniare l’ingegnosità e la determinazione dei suoi costruttori.

   «Ci sta chiamando» disse Zafreen.

   «Apra un canale» ordinò il Capitano Hod, alzandosi.

   Sullo schermo apparve, inquadrata per una certa ampiezza, la plancia del Ravager. C’erano molti ufficiali Vaadwaur dalle uniformi brune. Uno di loro sovrastava nettamente gli altri per statura. Aveva una benda nera sull’occhio sinistro, che metteva in risalto quello superstite, di un giallo sulfureo. Vistose cicatrici gli segnavano la membrana di pelle che contornava il collo. «Capitano Hod, finalmente c’incontriamo» esordì. «Sono il Generale Suddayath, della Supremazia Vaadwaur. Vi ordino di cessare quest’inutile attacco e abbandonare il nostro subspazio, o sarete distrutti».

   «Quello che lei chiama “attacco” è la risposta alle vostre continue, spietate aggressioni» rispose prontamente Hod. «Mesi fa ci avete assaliti presso Akaali e ora siete in procinto di distruggere Vidiia Primo. Non ve lo permetteremo».

   «I Vidiiani hanno cercato di sterminarci per primi, con un virus!» obiettò Suddayath. «Ora hanno la punizione che meritano. Ma la nostra contesa non vi riguarda, federali. Tornate da dove siete venuti e non osate mai più sfidarci, o la stessa ritorsione colpirà i vostri mondi».

   «Come potremmo tornare a casa, sapendo che siete pronti a distruggere interi pianeti?» ribatté l’Elaysiana. «Furono dei federali come noi a svegliarvi dall’ibernazione e ad aiutarvi a ricominciare. In cambio, voi cercaste di rubargli l’astronave. E ora minacciate i nostri mondi?! No, Generale: non vi lasceremo mai questa Rete, visto il pessimo uso che ne fate» dichiarò. «E non vi permetteremo neanche di sterminare i Vidiiani, per quanto la loro azione sia stata esecrabile. So che di recente avete sconfitto la Phagia; credo che per questo dobbiate ringraziare proprio una Vidiiana, la dottoressa Mol. Se aveste chiesto il suo aiuto, ve lo avrebbe dato spontaneamente; invece l’avete rapita. E ora che vi ha guariti, cercate ancora di distruggere il suo mondo. Siete sempre i soliti ingrati e traditori».

   Suddayath la scrutò con l’unico occhio, prima di rispondere. «Vedo che la dottoressa vi sta molto a cuore. Se cessate l’attacco, ve la restituiremo» propose.

   Il Capitano Hod sostenne lo sguardo sulfureo. Prima della battaglia aveva parlato con Norrin, preparandolo all’eventualità del ricatto e alla risposta che lei avrebbe dato. «Non posso interrompere l’attacco, perché verrei meno al patto con l’Alleanza» spiegò. «Del resto, non mi fido della vostra parola: troppe volte avete tradito gli accordi. Ma se a battaglia conclusa ci consegnerete la dottoressa, potrei mediare un accordo di pace tra voi e l’Alleanza, così che la guerra non travolga anche le vostre colonie».

   «Ridicolo!» sibilò il Generale. «Non cederò niente in cambio di una vaga promessa. Comunque ve lo avevo proposto solo per la curiosità di sentire le vostre scuse, perché la dottoressa è morta, consumata dalla Phagia».

   Quelle parole furono una pugnalata per Norrin. Si era preparato all’eventualità, ma sentirselo confermare recise l’ultimo filo di speranza. Forse era meglio così, si disse, piuttosto che saperla viva e non poterla salvare.

   Le astronavi Vaadwaur si chiusero sulla Keter, pronte a distruggerla con il loro fuoco concentrato. Ma in quella la flotta della Gerarchia uscì da un condotto, rendendosi visibile, e aprì il fuoco. Nello snodo subspaziale divampò la battaglia. Colpite sulla fiancata, le navi Vaadwaur manovrarono per fronteggiare gli assalitori. Gli incursori Pythus si volsero in fretta, ma i vascelli più grandi ebbero qualche difficoltà a manovrare in quello spazio ristretto. I vascelli della Gerarchia, più piccoli e agili, sgusciarono fra loro provocando ingenti danni.

   «Avete voluto la guerra; ne avrete più di quella che potete sopportare» avvertì Hod, scrutando cupamente il Generale. Segnalò di chiudere il canale e tornò a sedersi. «Coordiniamoci con la Gerarchia» ordinò. «Loro impegneranno i Vaadwaur, mentre noi faremo collassare lo Snodo. Plancia a sala macchine, lanciare l’impulso».

   Gli ingegneri erano pronti. In pochi secondi il deflettore s’illuminò e il potente impulso gravitonico colpì la parete dello Snodo, che iniziò a contrarsi. Ma il Ravager si frappose: intercettò il raggio e nello stesso tempo bersagliò la Keter. Lo Snodo si stabilizzò, mentre la nave federale tremava per la violenza dell’attacco. Osservando l’ammiraglia Vaadwaur, Hod comprese che le navi della Gerarchia non sarebbero mai riuscite a sconfiggerla.

   «Okay, cambio di programma» disse il Capitano. «Prima occupiamoci del Ravager, poi facciamo collassare lo Snodo».

   «Non chiedo di meglio» ringhiò Norrin, rovesciando sulla nave avversaria tutta la potenza di fuoco della Keter. Le altre astronavi arretrarono, per consentire ai due titani di affrontarsi al centro dello Snodo. Il Ravager e la Keter girarono in circolo, colpendosi selvaggiamente e ignorando ogni altra nave nella loro foga. Tutt’intorno, come promanando da loro, la battaglia dilagava.

 

   Raggiunto faticosamente lo Snodo 2, la flotta Krenim doveva affrontare gli stessi problemi delle altre. I Vaadwaur attaccavano con forze molto superiori al previsto, ricorrendo persino a tattiche kamikaze. La loro aggressività però non era diretta in modo uniforme, ma si concentrava sull’Annorax. Le altre navi Krenim cercarono di proteggerla, ma gli incursori s’infilarono tra di esse, martellando l’ammiraglia.

   In plancia, Hortis era sempre più preoccupato. La sua nave aveva distrutto molti vascelli dei Vaadwaur, ma questi continuavano ad attaccare, incuranti delle perdite; dovevano aver ricevuto ordini tassativi. Mentre la sua nave tremava, l’Ammiraglio lesse la crescente lista dei danni. C’erano falle sullo scafo e tra l’equipaggio si contavano le prime vittime. «Hortis a flotta, restate concentrati sull’obiettivo. Dobbiamo far collassare questo snodo» ribadì.

   «È inutile, i Vaadwaur lo rinforzano con raggi opposti ai nostri!» esclamò il Primo Ufficiale. «Questa non è una battaglia, ma una carneficina. Dobbiamo andarcene, finché possiamo!».

   «Abbiamo degli alleati che in questo momento affrontano le stesse difficoltà» obiettò Hortis. «Non li abbandoneremo».

   «E se fossero loro a fuggire?».

   «Per il momento restano al loro posto» disse l’Ammiraglio, scorrendo i rapporti delle altre due flotte. «Finché loro resistono, non saremo da meno».

   In quella però i Vaadwaur sferrarono un assalto ancor più feroce dei precedenti. Cominciò con un’ondata di navicelle kamikaze, che distrussero o disabilitarono molti vascelli Krenim, e proseguì con la carica degli incrociatori Astika. Uno di essi si fece strada fra le navi Krenim, puntando decisamente contro l’Annorax. Fu colpito sulla fiancata dalla Fulminatrix, riportando gravi danni, ma tirò ugualmente dritto. Hortis e i suoi ufficiali se lo videro venire addosso, avvolto dalle fiamme.

   «Tutto a babordo!» ordinò l’Ammiraglio, pur intuendo che la collisione era inevitabile. Le navi Krenim erano troppo pressate; l’Annorax non aveva libertà di manovra. La grande astronave virò di lato, mentre gli altri vascelli si scostavano. Troppo lentamente. L’incrociatore Vaadwaur colpì il complesso apparato del disgregatore subatomico. Urtò due segmenti, spezzandoli, e infranse l’anello di raccordo che li univa tutti e sei. L’impatto fu così violento che la nave Vaadwaur si disintegrò da prua a poppa. L’esplosione investì in pieno l’Annorax, distruggendo del tutto l’impalcatura del disgregatore. Il resto della nave fu scagliato indietro, alla deriva.

   In plancia ci furono esplosioni: alcune consolle si schiantarono e i Krenim furono scaraventati di lato. All’ultimo istante Hortis attivò le cinture di sicurezza della sua poltrona, che lo avvolsero, evitandogli una caduta fatale. Appena la nave si stabilizzò, l’Ammiraglio sganciò le cinture e si tirò in piedi. I suoi ufficiali, caduti a terra, furono più lenti a rialzarsi. Il Primo Ufficiale aveva battuto la testa contro la paratia che separava due consolle e non dava segni di vita. Hortis si chinò su di lui e lo esaminò con attenzione, cercando traccia di respiro o battito cardiaco. Non trovò né l’uno né l’altro. Si rialzò stancamente, sostenendosi a una consolle. «Rapporto danni» richiese, consapevole della situazione drammatica. Gli ufficiali risposero uno dopo l’altro, evidenziando i danni alle loro sezioni.

   «Il disgregatore anteriore è distrutto. Le armi secondarie non hanno energia».

   «Abbiamo perso gli scudi».

   «I motori a impulso non rispondono, siamo alla deriva».

   «Falle sui ponti da 4 a 11, perdiamo atmosfera. Ci sono almeno venti morti e decine di feriti, molti gravi».

   Frastornati dalla gravità della situazione, gli ufficiali fissarono Hortis, nella speranza che il leggendario Ammiraglio li traesse anche stavolta dal baratro.

   Per qualche secondo Hortis fissò lo schermo, ancora attivo. I Vaadwaur combattevano con la solita ferocia, ma avevano smesso di colpire l’Annorax, proprio ora che era priva di scudi. Alcuni incursori fecero dei rapidi passaggi, senza tuttavia aprire il fuoco.

   «Siamo indifesi, perché non sparano?» si chiese l’ufficiale tattico.

   L’Ammiraglio ne intuì il motivo. «Se i sensori interni funzionano, fate una scansione anti-intrusi» ordinò, ormai rassegnato.

   «Oh, no... ci hanno abbordati» confermò l’addetto ai sensori. «Rilevo 72 segni vitali Vaadwaur. No, 80... 88... continuano a teletrasportarsi».

   L’ufficiale tattico stava già ordinando alle sue squadre di convergere sui nemici, quando l’Ammiraglio lo fermò con un gesto pacato. «Inutile, Tenente. È chiaro che i Vaadwaur vogliono questa nave ad ogni costo» disse.

   «Allora che facciamo?» chiese l’ufficiale.

   «Se la desiderano tanto, gliela daremo» sospirò Hortis, guardando con rimpianto la sua bella nave. «Ma non vivranno abbastanza da godersela».

 

   Come due antichi galeoni, la Keter e il Ravager si scambiavano bordate a distanza ravvicinata. Intorno a loro la battaglia proseguiva in un susseguirsi di attacchi, acrobazie e finte ritirate. Due navi della Gerarchia si affiancarono alla Keter per aiutarla: furono distrutte in pochi minuti dai colpi implacabili del Ravager. Dai tunnel della Rete Subspaziale affluirono altre navi Vaadwaur, a rimpiazzare quelle distrutte. Ormai i detriti erano così fitti da costituire un serio pericolo per le navi ancora in grado di muoversi. Gli sforzi dell’Alleanza per far collassare lo Snodo erano vani, perché i Vaadwaur continuavano a rafforzarlo con emissioni di polarità opposta.

   La flotta della Gerarchia, meno potente delle altre, cominciò a sbandarsi. Molte navi erano state distrutte e altre, danneggiate, volgevano già in fuga. Se si fossero ritirate tutte, la Keter non avrebbe avuto scampo. Inquieta, il Capitano Hod richiamò gli alleati ai loro obblighi e poi lesse i rapporti che le arrivavano dalle altre flotte, appurando che erano tutte in difficoltà. Particolarmente drammatica era la situazione dei Krenim, ora che l’Annorax era stata abbordata. Hod avrebbe voluto soccorrerla, ma non osava lasciare la Gerarchia, per timore che si ritirasse.

   «Altre navi in arrivo» avvertì Zafreen.

   «Dren, ma quante sono?!» inveì Vrel, inclinando la nave per schivare alcuni siluri.

   «Queste non sembrano Vaadwaur» notò l’Orioniana. «Si direbbero... sì!».

   Quaranta navi da guerra uscirono da un tunnel e si gettarono nella mischia. Erano Vidiiane. Si trattava di grossi incrociatori “a catamarano”: il corpo centrale era saldato a due scafi laterali più sottili, contenenti le gondole di curvatura. I Vidiiani attaccarono i Vaadwaur con la furia di chi aveva visto il proprio pianeta sull’orlo della distruzione. Cinque astronavi circondarono il Ravager, dando manforte alla Keter. Le rimanenti affrontarono il resto della flotta nemica. Il loro arrivo persuase la Gerarchia, prossima alla ritirata, a proseguire la battaglia. Lo Snodo 3 divenne così teatro di uno scontro ancora più immane degli altri due.

   Al centro del pandemonio, il Ravager sparava con tutte le armi. I Vidiiani strinsero il cerchio, attaccandolo da tutte le parti. L’ammiraglia Vaadwaur si slanciò allora in avanti, come un ariete. Centrò un vascello Vidiiano, ampio ma relativamente sottile, e lo aprì in due. L’esplosione avvolse le astronavi, come se le avesse consumate entrambe; ma quando la fiammata si estinse, il Ravager era ancora tutto d’un pezzo. Tallonato dalle altre quattro navi Vidiiane, fuggì verso un condotto.

   «Gli stia dietro, Vrel» ordinò il Capitano Hod, decisa a non farselo sfuggire. «Zafreen, lo analizzi in cerca di danni. Non può essere illeso, dopo un colpo del genere».

   «Ha perso gli scudi anteriori» rilevò l’Orioniana. La cosa sarebbe stata utile, se avessero potuto colpirlo da quell’angolazione. Purtroppo il Ravager aveva già infilato il tunnel spaziale. La Keter e i Vidiiani, che lo inseguivano, potevano colpirlo solo a poppa.

   «Ora riesco a scansionarlo meglio» proseguì Zafreen. «Rilevo 1.200 segni vitali Vaadwaur a bordo... più uno Vidiiano».

   «Vidiiano?!» scattò Norrin. «Può essere Ladya?».

   «Non saprei, è molto debole» disse l’Orioniana, ricalibrando i sensori nel tentativo di avere letture più nitide.

   «Suddayath aveva detto...» cominciò Radek.

   «So cos’ha detto!» lo interruppe l’Hirogeno. «Forse ha mentito. Portatela a bordo!».

   «Non ci riesco, ci sono troppe interferenze» disse l’addetto al teletrasporto, dopo vari tentativi. «Però potrei mandare là qualcuno».

   «Okay, sono pronto» disse Norrin, impugnando il phaser.

   «No, lei mi serve qui» obiettò il Capitano.

   «Mi aveva promesso d’autorizzare la missione di recupero!» le ricordò l’Hirogeno.

   «Sì, ma non durante la battaglia!» chiarì Hod. Per quanto le dispiacesse trattenerlo, non poteva privarsi del suo Ufficiale Tattico in quel momento.

   «Io posso essere sostituito, ma Ladya morirà, se non mi permette di aiutarla!» insisté Norrin.

   «Non sappiamo nemmeno se sia lei...».

   «E allora mi faccia andare, così lo scoprirò!».

   Il Capitano esitò. Non voleva mandare Norrin, in quello stato, su una nave piena di Vaadwaur, nell’ora decisiva della battaglia. Ma se lo avesse costretto a restare, l’Hirogeno avrebbe senz’altro svolto male il suo compito. E non l’avrebbe mai perdonata. «Va bene, prenda una squadra e vada» cedette Hod. «Ma se sopravvive, non mi chieda mai più una cosa del genere».

   L’Hirogeno annuì e allertò gli elementi migliori della Sicurezza. Escluse Jaylah, perché la mezza Andoriana era ancora convalescente dopo la brutta esperienza con i Borg.

   «Aspetta!» disse Radek, quando Norrin era già sulla pedana del teletrasporto. «Ti ho promesso che l’avremmo salvata insieme e così faremo».

 

   L’Annorax fluttuava alla deriva nello Snodo 2, in mezzo a una nube di detriti. Tutt’intorno il resto della flotta Krenim proseguiva la lotta contro i Vaadwaur, che avendo speso ingenti forze per disabilitare la nave ammiraglia erano adesso sulla difensiva. Alcune navette e capsule di salvataggio lasciarono l’Annorax. I Vaadwaur cercarono di abbatterle, implacabili, ma la Fulminatrix intervenne in loro difesa.

   A bordo dell’astronave gli scontri, fino a poco prima intensi, cominciavano a scemare. Centinaia di soldati Vaadwaur si erano teletrasportati a bordo, soverchiando i difensori, finché dagli altoparlanti era risuonato il fatidico ordine dell’Ammiraglio: abbandonare la nave. Da quel momento i Vaadwaur avanzavano incontrando minima resistenza. In testa a una squadra d’assalto, il Capitano Relin procedeva dritto verso la plancia. Si sarebbe teletrasportato direttamente lì, se il ponte di comando non avesse avuto una schermatura supplementare. Così aveva dovuto trasferirsi a una certa distanza e ora vi si dirigeva a piedi, uccidendo tutti i Krenim che incontrava.

   «Squadra 2 a Capitano, la sala macchine è nostra» lo informò un sottoposto.

   «Squadra 3 a Capitano, controlliamo il deflettore» avvertì un altro subito dopo.

   «Relin a squadre, ottimo lavoro. Mantenete la posizione fino a nuovo ordine. Sto per arrivare in plancia» disse il Vaadwaur, sentendo un brivido di eccitazione. C’era qualcosa di esaltante nella battaglia, quando volgeva alla vittoria. Domare l’Annorax aveva richiesto un prezzo salatissimo, ma il Capitano pensava che ne valesse la pena. Chissà quali segreti della scienza temporale erano racchiusi nel database di quella nave. Per non parlare del disgregatore subatomico, l’arma che aveva devastato la loro flotta. Anche se aveva dovuto distruggerlo per mettere fuori uso l’Annorax, Relin era certo che nel computer di bordo ci fossero i progetti. Presto ogni incrociatore Vaadwaur avrebbe avuto un’arma come quella. Era una grande vittoria... ed era sua, non di Suddayath. A battaglia conclusa, nessuno avrebbe potuto negargli un posto nella giunta militare.

   A questo pensiero il Capitano accelerò il passo, obbligando i soldati a correre per stargli dietro. Svoltarono nel corridoio che portava alla plancia, trovandovi due Krenim, forse ufficiali del ponte di comando. Spararono nello stesso momento: caddero i Krenim e caddero altrettanti Vaadwaur, ma Relin era ancora in piedi.

   «La fortuna è con me» si disse il Capitano, calpestando i corpi dei nemici uccisi. Giunti davanti all’ingresso della plancia, i Vaadwaur iniziarono a tagliarlo con i fucili nadionici. Dall’interno provenivano strani suoni, come una melodia che saliva e scendeva, ma gli invasori non stettero a farsi domande. Tagliata la porta, l’abbatterono con una spallata. Entrarono con le armi spianate, aspettandosi una sparatoria; invece trovarono la plancia deserta. I danni della battaglia erano evidenti. Molte consolle erano annerite e spente, dal soffitto pendevano cavi sfrigolanti. C’era anche una vittima a terra, ma nessuno in vita, tranne...

   «Ammiraglio Hortis» disse Relin, osservando il Krenim seduto sulla poltrona di comando, al centro della sala. Il celebre condottiero gli dava le spalle, mostrando solo la testa calva sopra lo schienale. I soldati Vaadwaur lo circondarono, mentre il Capitano restò indietro, temendo qualche inganno.

   «Ben arrivati. Vediamo un po’ chi mi hanno mandato» disse Hortis, facendo ruotare la poltroncina per fronteggiare l’invasore. Il suo volto era tranquillo come la voce. «Ah, Relin! Pensavo che il vecchio Suddayath avrebbe scelto un ufficiale più esperto» commentò.

   «Ha scelto me. E io ho portato a termine l’incarico» disse Relin, avvicinandosi cautamente. «La sua nave ora mi appartiene. Vedo che l’equipaggio l’ha abbandonata... che tristezza. Forse non li ha addestrati a dovere. O forse hanno capito che la sua stella sta calando».

   «La mia stella è decisamente calante, ma il mio equipaggio non mi ha abbandonato» spiegò il Krenim con la massima calma. «Se ne sono andati per mio ordine. Ammetto che li avrei accompagnati volentieri, ma le capsule di salvataggio più vicine sono danneggiate e se li avessi seguiti fino a quelle lontane li avrei rallentati. Così eccomi qui. Le piace la musica?».

   «Musica?» fece il Vaadwaur, inclinando la testa un po’ stupito. «Le voci su di lei sono vere: ascolta i concerti durante le battaglie. Che vecchio folle».

   «Eccentrico» corresse Hortis, socchiudendo gli occhi per concentrarsi sulla melodia. «Questo è un brano adatto al momento: s’intitola O fortuna e parla della volubilità della sorte. Quando terminerà – cioè fra un minuto – si avvierà la sequenza».

   «Quale sequenza?!» sibilò Relin, avvicinandosi ancora.

   «Quella di autodistruzione, ovviamente. Non avrà mica creduto che le lasciassi la mia nave?» rispose l’Ammiraglio, serafico.

   Un brivido percorse il cerchio dei soldati. Un minuto non bastava per uscire dalla zona schermata della nave.

   «Non le credo... voi Krenim non vi sacrificate facilmente» sibilò il Capitano, chinandosi su di lui. Erano faccia a faccia.

   «Non mi restava molto da vivere» disse Hortis, facendo spallucce. «Ma prego, si sieda. Ascolti con me la fine del pezzo».

   «Il suo piano è fallito, la sua flotta è in fiamme... lei è sconfitto!» ringhiò il Vaadwaur, imbestialito da quella sfacciata tranquillità.

   «Ho piena fiducia nei miei alleati» rispose il Krenim, con la sua calma disarmante. «Poco fa mi è giunta notizia che i Vidiiani si sono uniti alla battaglia. La vittoria ci arride, dopotutto».

   «Anche se l’Alleanza vincesse, lei non vivrà tanto da saperlo» disse Relin in tono velenoso.

   «Pazienza, non si può avere tutto» rispose filosoficamente il vecchio Ammiraglio. Chiuse gli occhi, concentrandosi sulle ultime note. «Ah... se potessi rinascere, farei il compositore» sospirò soddisfatto.

   L’attimo dopo la melodia giunse al termine. Mentre vibrava l’ultima nota, il campo di contenimento del nucleo di curvatura si disattivò. Materia e antimateria si annichilirono, provocando un’immane esplosione. L’Annorax si disintegrò in tutta la sua struttura: l’apparato motori, i tre globi semifusi dello scafo e i resti del disgregatore anteriore. Gran parte dell’equipaggio si era messo in salvo su navette e capsule; ma i Vaadwaur che l’avevano abbordata perirono tutti. Compreso Relin, che fissava incredulo e rabbioso l’Ammiraglio. Una potente onda d’urto ad anello si sprigionò dall’esplosione, distruggendo due incursori Vaadwaur che trovò sulla sua strada. La Fulminatrix, più lontana, fu scossa ma non subì danni.

   «Ammiraglio!» gridò Jarros, costretto a schermarsi gli occhi dalla luce abbagliante. «È riuscito a fuggire?» chiese ai suoi ufficiali, che stavano contando i superstiti.

   «Abbiamo alcuni ufficiali di plancia» fu la risposta. «Dicono che l’Ammiraglio è voluto restare, per non rallentarli durante l’evacuazione».

   «Nobile fino all’ultimo» mormorò Jarros, chinando il capo rattristato. Quando lo rialzò, in lui brillava una nuova determinazione. «L’Ammiraglio Hortis vive in noi; non dimenticheremo il suo gesto. Elimineremo una volta per tutte questa Rete Subspaziale. Facciamolo per lui... che questa vittoria sia la sua!» esclamò, scattando in piedi.

   Ispirati dalle sue parole, gli ufficiali raddoppiarono gli sforzi. I feriti della nave furono sostituiti dai superstiti dell’Annorax, tanto che la Fulminatrix si trovò più equipaggiata di quanto non fosse all’inizio della battaglia. Preso il comando di ciò che restava della flotta Krenim, Jarros lanciò un ultimo assalto. La Fulminatrix e le altre navi si radunarono e poi si gettarono compatte sui vascelli Vaadwaur, ormai decimati. I siluri cronotonici schiantarono gli scafi bruni, facendoli esplodere o lasciandoli alla deriva come relitti. Ormai i rottami erano così fitti che gli incursori Vaadwaur non riuscivano più a volare. Crivellati da piogge di detriti che laceravano gli scafi, rotearono fuori controllo e si unirono alla crescente massa di relitti.

 

   Lontano da lì, nello Snodo 1, i Devore resistevano con lo stesso accanimento. La loro nave ammiraglia sussultava per la violenza dello scontro. In plancia l’attività era frenetica, con le voci che si sovrapponevano per dare allarmi e ordini. Solo quando l’addetto alle comunicazioni riferiva lo status degli alleati tutti tacevano, nella speranza che giungessero buone notizie. «L’Annorax è stata distrutta, ma i Krenim resistono. Anzi, stanno lanciando un contrattacco» disse l’ufficiale.

   «Chi li comanda, ora?» chiese Marroc, massaggiandosi la tempia, là dove pulsava l’emicrania.

   «Si direbbe... il Capitano Jarros».

   «Mai sentito. E lo Snodo 3?».

   «Nessuna novità. I Vidiiani danno manforte alla Gerarchia, mentre la Keter insegue il Ravager nei condotti».

   «Speriamo che lo distrugga» commentò l’Inquisitore. Ormai si era rassegnato anche lui all’impossibilità di far collassare la Rete finché i Vaadwaur erano lì a rinforzarla.

   In quella un violento assalto da parte di una fregata Manasa scosse l’astronave. «Gli scudi di prua hanno ceduto!» avvertì l’ufficiale tattico.

   I Devore guardarono lo schermo, dove la fregata si avvicinava sparando a tutto spiano. Dopo l’attacco con le armi nadioniche, lanciò una salva di siluri. Privata degli scudi anteriori, la loro astronave non avrebbe mai resistito.

   «Lealtà all’Impero» disse Marroc, vedendo i missili sempre più vicini. Chiuse gli occhi, aspettandosi l’esplosione fatale. Ma i secondi passavano e lui era ancora lì. Meravigliato, tornò a guardare. Non c’era traccia dei siluri e anche la fregata era passata oltre. «Cos’è successo?» chiese, al colmo dello stupore.

   «Signore, è pazzesco, ma... ci ha mancati» rispose l’ufficiale tattico. «I siluri sono passati a cinquanta metri dallo scafo».

   «Assurdo! Non potevano mancarci a quella distanza» obiettò l’Inquisitore, pur non sapendo darsi una spiegazione.

   «Non è la prima volta che sbagliano mira» intervenne un altro ufficiale. «L’efficacia dei loro tiri è diminuita del 40% dall’inizio della battaglia e continua a calare».

   «Cause?» chiese Marroc, interdetto.

   «Sconosciute, eccellenza».

   L’Inquisitore, che fino ad allora sedeva rigido, si abbandonò contro lo schienale della poltroncina. Un vago sorriso gli comparve sul volto, mentre pianificava le prossime mosse. «Cercheremo la spiegazione più tardi; ora approfittiamone. Inquisitore Marroc a flotta» disse, aprendo un canale. «Un fato provvidenziale vuole che la mira dei Vaadwaur stia calando. È il momento di spingere a fondo l’attacco e spazzarli via!». L’Inquisitore istruì la flotta sulle manovre da eseguire. Nel frattempo l’efficienza dei Vaadwaur continuava a ridursi, tanto che alcune delle loro navi si allontanarono per riorganizzarsi.

   «Scudi frontali di nuovo attivi, signore» disse l’ufficiale tattico.

   «Eccellente» sogghignò Marroc, scrocchiandosi le dita. «Ora finiamo il lavoro».

 

   La plancia del Ravager era costruita su due livelli, dei quali il più alto era un camminamento riservato agli ufficiali superiori, mentre quello in basso accoglieva gran parte del personale e delle postazioni di lavoro. Dal livello superiore gli ufficiali in comando davano ordini a quelli che stavano giù e li tenevano d’occhio. In tal modo i sottoposti non osavano mai rilassarsi, né chiacchierare fra loro, sapendo di essere sorvegliati in ogni momento. La parete frontale era tutta un enorme schermo visore, che si estendeva su ambo i livelli, dando una visione spettacolare dello spazio antistante. In quel momento lo schermo mostrava i meandri della Rete Subspaziale e i colpi che, avendo mancato il Ravager, passavano oltre. Molti di più erano i colpi che andavano a segno, tanto che il vascello vibrava costantemente. Quattro navi Vidiiane lo inseguivano ancora, sparando a tutto spiano; subito dietro veniva la Keter.

   Ritto al centro del camminamento, Suddayath fissava cupamente il wormhole arancione, mentre i suoi ufficiali lo aggiornavano sulle condizioni della nave e l’andamento generale della battaglia. Le notizie non erano buone: con l’arrivo dei Vidiiani, l’Alleanza stava prendendo il sopravvento. Neanche la distruzione dell’Annorax poteva dirsi una vittoria, sia per le gravi perdite che era costata, sia perché il Generale avrebbe voluto catturarla. Tuttavia Suddayath non prese in considerazione la ritirata. Aveva gettato in battaglia la sua intera flotta, comprese le riserve che sperava di tenere a difesa delle colonie. Ora doveva vincere a ogni costo.

   «Scudi posteriori al 25%, signore» avvertì un ufficiale, mentre la nave sobbalzava. I Vidiiani inseguitori accorciavano le distanze, cercando di mettere fuori uso i motori del Ravager.

   «Energia d’emergenza all’integrità strutturale. Concentrate il fuoco sulla nave di testa» ordinò Suddayath.

   Raggi nadionici e siluri bersagliarono l’astronave Vidiiana, fino a squarciare uno degli scafi laterali, che conteneva una gondola di curvatura. L’esplosione di antimateria scagliò l’astronave di lato, contro un altro vascello Vidiiano che lo seguiva a breve distanza. Dopo averne urtato lo scafo, aprendo una lunga breccia, l’astronave in fiamme colpì la parete del wormhole ed esplose. Il secondo vascello, anch’esso danneggiato anche se non così gravemente, dovette rallentare. Ciò costrinse quelli che lo seguivano a fare lo stesso, per evitare collisioni a catena.

   «Fuoco!» ordinò Suddayath, vedendo la possibilità di distruggere anche l’altro vascello.

   Una salva di siluri guizzò contro la nave Vidiiana – un bersaglio facile – e le passò accanto senza colpirla. La nave continuò a rallentare, fino a mettersi fuori tiro.

   «Beh, come avete fatto a mancarla?!» tuonò Suddayath dall’alto del camminamento, rivolto agli artiglieri.

   Uno di questi scattò in piedi, alzando il viso al superiore. «Generale, chiedo di essere sostituito. Io... ehm... ho dei problemi alla vista» rivelò, tremando per l’imbarazzo.

   «Come sarebbe? Ti prendi gioco di me?!» ribatté il Generale, incredulo.

   «Nossignore, sto dicendo la verità. Negli ultimi minuti la mia vista è calata e ormai la vedo a stento» insisté l’artigliere, tremando come una foglia.

   Suddayath pensò che il sottoposto delirasse, o che cercasse una patetica scusa per discolparsi. Ma aguzzando la vista notò che i suoi occhi erano coperti da una patina biancastra: stava realmente diventando cieco.

   «Signore... anch’io ho lo stesso problema» disse un altro ufficiale, alzando il viso per mostrare gli occhi velati di bianco.

   «Anch’io!».

   «E io!».

   «Io pure!».

   Uno dopo l’altro i Vaadwaur lamentarono lo stesso sintomo, finché Suddayath si trovò fissato da una buona metà dei suoi ufficiali. Tutti quanti avevano gli occhi velati da un’orribile patina bianca che continuava a ispessirsi, privandoli della vista. Il fenomeno era così improvviso e inspiegabile, oltre che catastrofico per le conseguenze, che il Generale si sentì tremare. Un equipaggio di ciechi non poteva manovrare l’astronave neanche in condizioni normali; figurarsi durante una battaglia. Angosciato, il Generale si levò il comunicatore di tasca. «Suddayath a infermeria, abbiamo un’emergenza. Sembra assurdo, ma... qui in plancia stanno diventando tutti ciechi!».

   «Signore, nell’ultima mezz’ora siamo stati sommersi da pazienti con lo stesso sintomo» rispose il medico capo con voce trafelata. «Sono così tanti che non sappiamo più dove metterli. E il problema cresce a ritmo esponenziale».

   «Devo sapere subito il motivo. Il nemico ha forse immesso un agente tossico nell’aria, mentre gli scudi erano abbassati?» ipotizzò Suddayath. In quel caso anche lui era stato esposto, pensò con un brivido.

   «Abbiamo esaminato l’atmosfera, ma non abbiamo trovato nulla di anomalo» spiegò il medico, con voce tirata. «Non ci sono composti chimici, né microrganismi che possano spiegare quest’epidemia di cecità».

   Alla parola epidemia, il Generale sentì squillare un campanello d’allarme. La sua gente era appena scampata alla Phagia, grazie alla dottoressa Mol – una nemica – che aveva trovato la cura. E ora, a distanza di pochi giorni, stavano perdendo tutti la vista. Non poteva essere una coincidenza. «Contattate il resto della flotta! Voglio sapere se le altre navi hanno lo stesso problema» ordinò.

   L’addetto alle comunicazioni inoltrò la domanda e attese qualche minuto, mentre le astronavi facevano rapporto. «Sono tutte nelle nostre condizioni, signore» disse con un filo di voce. «Ormai gli equipaggi hanno difficoltà a manovrarle. Piloti, artiglieri, ingegneri... stanno tutti perdendo la vista».

   «Allora non può essere un agente contaminante inviato dal nemico. Non tutte le navi hanno perso gli scudi» ragionò il Primo Ufficiale.

   «Infatti è il risultato di un tradimento» ringhiò Suddayath, la rabbia al calor bianco. «La dottoressa Mol è ancora viva?».

   «Sì, signore. A malapena» disse l’addetto ai sensori interni, dopo aver scansionato la sala d’osservazione. Agli ufficiali non sfuggì il fatto che il Generale avesse mentito ai federali circa la sorte della Vidiiana, ma nessuno se ne stupì.

   «La voglio qui» ordinò Suddayath. «E convocate anche qualche medico, di quelli che hanno lavorato con lei».

   «Signore, c’è un altro problema» avvertì l’addetto ai sensori. «Fuoco di phaser sul ponte 25. Una squadra federale ci ha abbordati».

   «Mandate i soldati, spazzateli via!» gridò Suddayath, sentendo che le cose gli sfuggivano sempre più di mano. «E portatemi subito la prigioniera».

 

   Dopo aver compiuto un ampio giro all’interno della Rete Subspaziale, distanziando gli inseguitori, il Ravager tornò allo Snodo 3 per aiutare il resto della flotta. La manovra aveva avuto la sua utilità, dando all’astronave il tempo di rigenerare gli scudi anteriori. Sbucato da un tunnel spaziale, il Ravager attaccò una nave della Gerarchia già danneggiata, distruggendola con pochi colpi. Ma non poteva cambiare le sorti della battaglia, ormai a favore dell’Alleanza. L’epidemia di cecità aveva ampiamente ridotto l’efficienza dei Vaadwaur, che stentavano a colpire gli avversari e non riuscivano a riparare i danni alle loro navi. Questo valeva anche per il Ravager. La colossale nave da guerra si aggirò per lo Snodo, continuando a far fuoco. Molti dei suoi attacchi andavano a vuoto; gli altri colpivano sia amici che nemici.

   Di lì a poco, la Keter e le tre navi Vidiiane che lo avevano inseguito nella Rete fecero ritorno. Anche loro avevano approfittato della pausa per rigenerare gli scudi. Con un ruggito dei motori a impulso, le quattro astronavi si gettarono sul Ravager per chiudere la partita.

 

   «La cecità è indubbiamente un effetto collaterale della cura» disse la dottoressa Phanin, convocata in plancia. «L’opacizzazione della cornea è il sintomo più evidente, ma ci sono danni anche al nervo ottico. Se l’avessimo immaginato...! Ma esaminando i guariti, non abbiamo pensato di cercare un danno agli occhi».

   «Lei però ci vede ancora!» notò il Generale. «Com’è possibile, se ha ricevuto la cura prima degli altri?».

   «Stiamo cercando di appurarlo. Probabilmente la mia cura differiva dalla ricetta che la dottoressa Mol ci ha dato in seguito. Così ci ha ingannati» rispose cupamente la virologa.

   «Se i suoi naniti vanno bene, potete usarli per rimediare?» chiese Suddayath.

   «Intende se possiamo replicarli e usarli come cura? Non è così semplice» spiegò Phanin. «I miei naniti non danneggiano gli occhi; ma ciò non significa che possano riparare un danno già inflitto. Dovremo progettare una tipologia completamente nuova. Si può fare... ma non così su due piedi. Solo per farci un quadro clinico completo ci vorranno giorni».

   «Forse la colpevole saprà illuminarci!» ringhiò Suddayath, vedendo aprirsi il portone in fondo alla plancia. Entrò un drappello di guardie, armate di fucili nadionici, che spintonavano in avanti la prigioniera.

   Ladya percorse la passerella rialzata, alla massima velocità consentita dalle sue condizioni precarie. Era imbacuccata in abiti scuri, con un ampio cappuccio calato sul viso per nascondere gli effetti della Phagia. Il suo respiro era ansante, rauco. Scortata presso Phanin e Suddayath, sulle prime li ignorò, contemplando invece la battaglia che infuriava all’esterno.

   «Miserabile traditrice!» tuonò il Generale. «Ci ha accecati di proposito! Voleva portarci a questo!» gridò, indicando la carneficina che si consumava nella Rete Subspaziale.

   «Vi ho implorati di non dar battaglia all’Alleanza, di negoziare la pace. Voi mi avete ignorata» rispose la dottoressa, con voce lenta e roca. «Tutto questo è opera vostra».

   «Dottoressa... io mi fidavo di lei!» singhiozzò Phanin. «Non pensavo che ci avrebbe pugnalati così. Come ha potuto?!».

   «Voi Vaadwaur siete notoriamente spergiuri» rispose Ladya. «Mentre mi affaticavo a curarvi, sapevo che probabilmente vi sareste rimangiati la promessa. Così ho preso questa contromisura. Se aveste risparmiato Vidiia e fatto pace con l’Alleanza, vi avrei curati anche dalla cecità. Invece avete scelto l’altra strada».

   «Lei ci curerà, che lo voglia o no!» sbraitò Suddayath, sul punto di avventarsi contro di lei.

   «Lo farò, se la Phagia non mi uccide prima» disse la Vidiiana, fronteggiandolo senza timore. «Ma pretendo che disattiviate l’arma-tunnel e abbandoniate la Rete Subspaziale, altrimenti resterete ciechi».

   «Pretende?!» ruggì il Generale, pazzo di rabbia. «Lei non può pretendere nulla! Distruggere Vidiia è troppo poco... incenerirò tutte le vostre colonie, a partire da quella dove lei è nata! Darò la caccia a ogni convoglio di rifugiati, a ogni astronave. Non avrò pace finché la vostra razza immonda non sarà cancellata dalla Galassia! Lo giuro sulla testa dei miei figli!».

   Così dicendo fece per colpire Ladya, ma Phanin cercò di trattenerlo. «Generale, la prego... forse è l’unica in grado di curarci!» implorò la virologa.

   «Taci!» gridò Suddayath, colpendola con un manrovescio così forte che la gettò a terra. Dopo di che, ansante di collera, si rivolse nuovamente alla prigioniera. Questa era indietreggiata fino allo schermo. Con lente movenze, la Vidiiana si portò le mani al cappuccio e se lo tirò indietro, scoprendo la testa. I Vaadwaur la osservarono disgustati.

   Il volto di Ladya era uno sfacelo di pelle morta e secca che si squamava. I capelli castani erano caduti quasi tutti e i pochi rimanenti le scendevano sulle spalle, disordinati e stopposi. La metà sinistra del volto era come paralizzata, con l’occhio semichiuso. Più che di un vivente, sembrava il viso di un cadavere.

   «Guai a voi!» ammonì la Vidiiana, levando un indice accusatore contro i rettili che l’attorniavano. «Siete sempre stati dei folli. Lo eravate mille anni fa, quando induceste la Prima Alleanza a farvi guerra, e lo siete stati ancor più adesso, con la Seconda. Nella lingua dei Talaxiani, “Vaadwaur” è sinonimo di sciocco, sconsiderato... e cieco. Sì, ciechi eravate e ciechi rimarrete!» predisse. «Lei, Generale, è il più cieco di tutti. Credeva che le restasse un occhio buono? Avrebbe dovuto mettersi la benda su quello e restare a casa, invece di condurre il suo popolo alla rovina!».

   Un gelido silenzio piombò sulla plancia. Ladya e Suddayath si fronteggiavano davanti al grande schermo panoramico su cui furoreggiava la battaglia. Intorno a loro, il Ravager tremava e scricchiolava per i colpi subiti. I Vaadwaur attesero muti l’epilogo del confronto. La dottoressa Phanin si rialzò, massaggiandosi la guancia dolorante, ma non disse nulla.

   «Sono cieco, dice?» sibilò il Generale. «Eppure ci vedo quanto basta a ricompensarla per i suoi servigi!». Chiamò con un cenno il capo delle guardie. Quando questi gli fu accanto, gli strappò di mano il fucile nadionico. Ladya non si mosse. Sapeva di non poter fuggire e d’altro canto la morte le appariva ormai come una liberazione.

   Suddayath alzò il fucile e prese la mira, socchiudendo l’occhio sulfureo. In quella ci fu un boato assordante, accompagnato da un’onda d’urto. Il portone esplose in mille schegge che schizzarono per tutta la plancia, compreso il livello inferiore, ferendo i Vaadwaur. Dalla nube di polveri emersero i federali armati, con Norrin e Radek in testa. Anziché intimare la resa, spararono immediatamente con colpi stordenti. I Vaadwaur risposero al fuoco, ma avendo la vista offuscata spararono con imprecisione. Alcuni si colpirono inavvertitamente tra di loro.

   Riconoscendo Norrin, Ladya ebbe un tuffo al cuore. Ma l’Hirogeno era ancora lontano, mentre Suddayath era a pochi passi da lei. «Addio, Vaphorana» sibilò il Generale, e premette il grilletto.

   «No!» gridò Phanin, frapponendosi. Il raggio mortale la colpì in pieno petto ed ella si accasciò davanti a Ladya.

   «Idiota» commentò Suddayath, prendendo di nuovo la mira. In quell’attimo fu colpito alla spalla dal raggio stordente di Norrin. Vacillò e cadde a pochi passi dalla dottoressa.

   Mentre i colleghi della Sicurezza si assicuravano il controllo della plancia, stordendo gli ultimi Vaadwaur, Norrin raggiunse Ladya. Sopraffatta dalle emozioni e indebolita dalla Phagia, la Vidiiana gli si accasciò tra le braccia. «Norrin... sei tornato a prendermi...» singhiozzò.

   «Sì, e stavolta ti porto via con me. Non accetto scuse» disse l’Hirogeno, osservando con apprensione il suo volto sfigurato.

   «Non... guardarmi...» mormorò Ladya, cercando di coprirsi per la vergogna.

   «Perché no? Non ti ho mai amata così tanto» disse Norrin con tenerezza. Ignorando il suo aspetto repellente, la baciò sulle labbra. Poi, siccome la Vidiiana non si reggeva in piedi, l’accompagnò delicatamente a terra.

   «Phanin...» gemette Ladya, tendendo la mano verso la dottoressa che le aveva fatto scudo.

   Dato che il combattimento era terminato con la vittoria dei suoi, Norrin mise il phaser in cintura e al suo posto trasse il tricorder. Pur nutrendo poche speranze, si chinò sulla Vaadwaur per esaminarla. «È morta, mi dispiace» confermò. «Non so perché ti abbia salvata, ma...».

   «Attento!» gridò la Vidiiana. Colpito alla spalla destra, Suddayath si era accasciato ma non aveva perso i sensi. Si stava già rialzando, con il fucile nadionico nella mano sinistra, per colpire Norrin alle spalle.

   Compreso il pericolo, l’Hirogeno si rialzò e si girò fulmineo. Afferrò l’arma per la canna e la strattonò di lato, così che il raggio letale colpì il pavimento; poi la strappò di mano al Vaadwaur e la gettò lontano.

   «Maledetto!» ringhiò Suddayath, vedendosi disarmato. Con il braccio sano dette un pugno in faccia a Norrin, facendolo vacillare.

   L’Hirogeno piegò la testa di lato per assorbire l’impatto e poi, con lentezza, tornò a guardare l’avversario. «Cattiva idea» avvertì. «Ultimamente mi sono molto allenato». Dette un formidabile gancio al Vaadwaur, che avendo il braccio destro paralizzato non riuscì a pararlo. Subito dopo lo colpì al plesso solare e poi di nuovo in faccia. Senza dargli il tempo di raccapezzarsi, continuò a riempirlo di cazzotti, spingendolo sempre più indietro lungo il ponte rialzato. Erano colpi magnifici, i più potenti che Norrin avesse mai sferrato. Non ne sprecò neanche uno: andarono tutti a bersaglio, che fosse la faccia di Suddayath o il suo stomaco. Nemmeno all’apice del combattimento col Pendari, nell’arena di Tsunkatse, l’Hirogeno si era battuto così. Incalzò l’avversario fino all’estremità della passerella e da lì, con un ultimo micidiale uppercut, lo buttò di sotto. Suddayath cadde per circa quattro metri e atterrò su una consolle, schiantandola col suo peso. Da lì non si mosse più.

   Con il respiro un po’ affannoso, Norrin osservò l’avversario privo di sensi. Se Ladya fosse stata bene, lo avrebbe lasciato così. Ma Ladya aveva la Phagia in stadio avanzato: anche riportandola sulla Keter, non c’era garanzia che i medici riuscissero a salvarla. A questo pensiero l’Hirogeno fu invaso da una tale collera che trasse il phaser di cintura e mirò l’avversario inerte.

   «No!» lo richiamò Ladya, trascinandosi verso di lui. «Ci sono già state troppe vittime, troppe crudeltà. Anch’io ho fatto una cosa orribile. Questa cecità che sta colpendo i Vaadwaur è opera mia. Non voglio causare altra morte. Lascialo in vita... tanto ormai è sconfitto».

   «Dopo quello che ti ha fatto, non merita di vivere!» ringhiò Norrin.

   «Dopo questi eventi, forse nessuno di noi lo merita» sussurrò la Vidiiana. «Perdoniamoci a vicenda e forse potremo perdonare noi stessi».

   A quelle parole, pronunciate da chi aveva sofferto molto più di lui, Norrin sentì svanire la rabbia. Ripose il phaser e corse da Ladya, aiutandola a sorreggersi. «Come vuoi, amore. Ma cerca di resistere, ti prego» disse, vedendola così debilitata. Le braccia della Vidiiana ballavano nelle maniche troppo larghe e tutto il suo corpo era di una magrezza cadaverica.

   In quella ci fu uno schianto e il Ravager beccheggiò. Alcune consolle nel livello inferiore esplosero e una sirena d’allarme segnalò una breccia nello scafo. Norrin alzò gli occhi allo schermo: i Vidiiani continuavano a colpire l’astronave, che dopo il loro attacco alla plancia era pressoché indifesa. Solo gli artiglieri che si trovavano nelle postazioni di fuoco disseminate lungo le fiancate continuavano a sparare, anche se con mira sempre più scarsa.

   «Dobbiamo andare!» esortò Radek. «Su questa nave ci sono centinaia di soldati e non tutti sono ancora ciechi. Ci piomberanno addosso da un momento all’altro».

   «Sì, andiamo» convenne Norrin. Cercò di aiutare Ladya a camminare, ma la Phagia incalzante e le ultime emozioni furono troppo per la Vidiiana, che svenne. Così l’Hirogeno la prese in braccio. Sentendo quant’era leggera, si preoccupò ancora di più.

   Siccome Norrin aveva le mani impegnate, Radek prese anche il suo phaser. Poi, con un’arma per mano, il Comandante si accostò alla porta. Da fuori stavano già arrivando i soldati Vaadwaur, molti più di quanti potessero affrontare.

   «Abbassate gli scudi, così la Keter potrà portarci via!» ordinò il Comandante. Mentre gli ufficiali della Sicurezza cercavano di usare le consolle aliene, lui e pochi altri difesero l’ingresso. «Groan... devo bere di meno. O almeno devo astenermi dal fare promesse mentre sono ubriaco» pensò Radek, mentre tratteneva la marea incalzante dei nemici.

   Quando un raggio nadionico gli passò a pochi centimetri dalla testa, il Comandante arretrò, continuando a sparare con ambo i phaser. «Non vi conviene attaccarci! Abbiamo il vostro Generale!» gridò, sperando che ciò trattenesse i nemici. In realtà come ufficiale di Flotta non intendeva farsi scudo con un ostaggio, ma questo i Vaadwaur non lo sapevano. La minaccia sortì l’effetto sperato, perché i soldati interruppero l’assalto, pur restando appostati appena fuori dalla plancia.

   In quella i federali riuscirono ad abbassare gli scudi. La Keter li trasse subito in salvo, mentre il Ravager tremava sotto il fuoco dei Vidiiani e della Gerarchia. Ora che gli scudi erano disattivati, tutti i colpi andavano a segno, aprendo squarci nello scafo. Solo quando la plancia restò deserta i Vaadwaur poterono entrare e riattivare le difese. Ma ormai l’orgogliosa nave da guerra era butterata di falle. Una gondola di curvatura era stata tranciata e molte delle armi non rispondevano ai comandi. Con il Generale e il suo stato maggiore ancora privi di sensi, non era chiaro a chi spettasse il comando. Ai Vaadwaur non restò che portare il Ravager via dallo Snodo. L’astronave danneggiata imboccò il tunnel spaziale più vicino, inseguita da due navi Vidiiane che sparavano a tutto spiano, decise a finirla.

 

   Riattivati gli scudi, la Keter non si unì all’inseguimento del Ravager. Ora che i Vaadwaur stavano cedendo, poteva finalmente completare la missione. «Raggio gravitonico a piena potenza» ordinò il Capitano Hod. Il deflettore s’illuminò, colpendo la superficie arancione dello Snodo con un fascio concentrato di particelle. Diversamente da prima, i Vaadwaur non furono in grado di contrastare l’attacco. Gran parte delle loro navi era stata distrutta; le rimanenti avevano visto fuggire l’ammiraglia ed erano rimaste senza ordini. Con la cecità che dilagava tra l’equipaggio, esplose il panico. I pochi Vaadwaur ancora in grado di vedere presero il timone delle loro navi e le portarono via dallo Snodo, sfruttando la Rete – finché c’era – per tornare alle loro colonie. I Vidiiani partirono all’inseguimento, mentre le navi della Gerarchia restarono con la Keter.

   «Come se la cavano le altre flotte?» volle sapere Hod.

   «Più o meno come noi» disse Zafreen. «I Vaadwaur sono in rotta anche negli altri Snodi. Marroc e Jarros c’informano che hanno lanciato gli impulsi gravitonici». Mentre parlava, lo snodo attorno a loro iniziò a restringersi.

   «Bene, informi la Gerarchia che è il momento di anda... come non detto» s’interruppe il Capitano. Dopo aver teletrasportato i superstiti dalle loro navi alla deriva, i vascelli della Gerarchia stavano già lasciando lo Snodo.

   In quella Radek e Norrin rientrarono in plancia e tornarono rapidamente ai loro posti. «Salve, Capitano» disse il Comandante, come se si fosse assentato per un drink. «La situazione?».

   «I Vaadwaur sono in rotta, stiamo per far collassare la Rete» riferì sinteticamente Hod. «E voi?» chiese, passando lo sguardo da lui a Norrin.

   «Abbiamo recuperato Ladya. È viva... per il momento» disse l’Hirogeno, per nulla rasserenato. «Ma ormai ha la Phagia in stadio avanzato. Il dottor Joe l’ha messa in una capsula cronostatica, mentre studia il da farsi. Dice che la vecchia cura non basterà, ora che il virus è mutato».

   «Forse combinandola con quella che Ladya ha trovato per i Vaadwaur avremo dei risultati» disse Radek, per dargli un po’ di speranza.

   «Non lasceremo nulla d’intentato» promise Hod. Dopo di che tornò a concentrarsi sulla missione. Con i Vaadwaur in fuga e i tre Snodi che collassavano, tutto era pronto per il gran finale.

 

   Esposto al raggio gravitonico, lo Snodo 3 collassò sempre più rapidamente, finché gli ingegneri segnalarono che il limite di tolleranza della Rete era superato: il fenomeno era inarrestabile. Il deflettore fu prontamente disattivato. Vrel impresse una virata alla nave e puntò a uno dei condotti, schivando gli innumerevoli detriti che affollavano lo Snodo. Imboccò il tunnel spaziale e lo percorse a una velocità che in altre circostanze sarebbe stata pericolosa, ma lì era indispensabile, se volevano uscire in tempo.

   Dietro di loro lo Snodo 3 continuò a contrarsi, finché collassò del tutto, distruggendo i relitti che conteneva. Più o meno contemporaneamente anche gli altri due snodi furono eliminati. Come previsto, questo innescò una reazione a catena in tutta la Rete Subspaziale. L’ondata dissolutrice partì dai tre snodi principali e si allargò rapidissima, cancellando i condotti e gli snodi minori. Qualunque cosa ne fosse investita era annichilita. Gli oggetti non erano semplicemente distrutti: ogni atomo era fatto a pezzi, convertendosi in energia che si sommava a quella del fronte d’onda.

   Sapendolo, le navi dell’Alleanza fuggirono alla massima velocità possibile, facendo attenzione a non perdersi nel dedalo di condotti e a non uscire dallo sbocco sbagliato. La Keter seguì i Vidiiani. Dopo aver superato numerose biforcazioni imboccò un lungo condotto che scorreva senza più dividersi. Alcune navi Vidiiane in fuga le sfrecciavano davanti. Altre, che si erano attardate a inseguire i Vaadwaur, le venivano dietro.

   «Ci siamo quasi» disse Vrel, con la fronte imperlata di sudore. «Trenta secondi all’uscita».

   «Il fronte d’onda è sessanta secondi dietro di noi» avvertì Zafreen. D’un tratto una lettura attirò la sua attenzione. «Attenti, qualcosa blocca il condotto!» strillò.

   «Yotz!» imprecò il timoniere, diminuendo bruscamente la velocità. Era proprio così. Una grossa sagoma scura, di forma allungata, era posta di traverso al tunnel, così da ostruirlo quasi del tutto. Restavano solo due sottili passaggi, in alto e in basso. Erano due scappatoie troppo strette, tanto che anche le astronavi Vidiiane avevano dovuto fermarsi.

   «Oh, no» disse Vrel, riconoscendo l’ostacolo. Quell’enorme ammasso di metallo che ostruiva l’uscita non era un asteroide e nemmeno un’astronave qualunque. Era il Ravager.

 

   Con un grido rabbioso, Suddayath raddrizzò la schiena. Dopo la sonora batosta subita da Norrin aveva perso i sensi, ma i soldati prontamente accorsi gli avevano prestato soccorso. Gli stimolanti iniettati in dose massiccia lo fecero tornare in sé. Con la consapevolezza tornò però anche il dolore per le percosse e quello, molto più cocente, per la sconfitta. «Rapporto!» ordinò il Generale, guardandosi attorno ancora confuso.

   «I federali sono fuggiti con la prigioniera» rispose cupamente un ufficiale. «La nave ha subito danni catastrofici. Abbiamo distrutto i due vascelli Vaphorani che c’inseguivano, ma siamo alla deriva nel tunnel 219».

   «Non abbiamo propulsione?!» chiese Suddayath, balzando in piedi.

   «Ci resta solo qualche propulsore di manovra. Insufficiente a farci uscire» rispose l’ufficiale, lugubre. «E i sensori indicano che la Rete ha iniziato a collassare. Questa è la fine».

   «Se è la fine, non sarà solo nostra!» ringhiò Suddayath. «Mettete la nave di traverso al tunnel. Quando i Vaphorani passeranno di qui, avranno un’amara sorpresa». Ciò detto tornò al livello superiore della plancia, quello riservato agli ufficiali.

   Non avendo altra consolazione che la vendetta, i Vaadwaur eseguirono. Sbuffando fiamme e atmosfera dalle numerose falle, il Ravager si pose di traverso al condotto. Di lì a poco giunsero le navi Vidiiane in fuga e con esse la Keter. Per non entrare in collisione dovettero fermarsi; ma così sarebbero state raggiunte dal fronte d’onda.

   «È meglio di quanto sperassi» commentò il Generale, riconoscendo la Keter. Le sue labbra si atteggiarono a sorriso. Come tutti i Vaadwaur, Suddayath si era allenato fin da bambino a pensare, ogni sera prima d’addormentarsi, a un modo diverso di morire. Di tutte le modalità che aveva escogitato, le più appaganti erano quelle che gli permettevano di trascinare i nemici con sé.

 

   Il Capitano Hod squadrò la carcassa del Ravager, sapendo di avere i secondi contati. Poteva quasi vedere il ghigno di Suddayath. Le navi Vidiiane aprirono il fuoco, ma da sole non avrebbero distrutto in tempo l’ostacolo. «Siluri transfasici e poi avanti tutta» ordinò il Capitano.

   I siluri partirono mentre Hod stava ancora parlando, perché Norrin l’aveva anticipata. La raffica colpì il Ravager ormai senza scudi nella sezione centrale, più sottile, spezzandolo in due. L’attimo dopo la Keter scattò in avanti, schivando le navi Vidiiane, e passò attraverso l’esplosione. I detriti del Ravager tamburellarono gli scudi come grandine. I più grandi li oltrepassarono, rimbalzando sullo scafo in neutronio. All’interno i federali sentirono il rimbombo e furono quasi scagliati a terra dallo scossone.

   Col cuore in gola, Vrel diresse la nave a massimo impulso verso l’uscita del tunnel spaziale. Lo sbocco si avvicinava, ma così anche il fronte d’onda alle loro spalle. Il mezzo Xindi non ebbe tempo di calcolare tra quanto li avrebbe colpiti. Si concentrò esclusivamente sulla guida, sapendo che nemmeno il neutronio li avrebbe salvati dal subspazio che collassava.

 

   Tranciato in due dai siluri, il Ravager si scosse come una bestia ferita a morte. Nessuno dei due tronconi esplose, ma gli scoppi li punteggiarono dentro e fuori. In plancia, ufficiali e soldati furono scagliati da tutte le parti, mentre le consolle esplodevano a cascata. Quelli che si trovavano sul ponte superiore caddero di sotto, tranne Suddayath, che scivolò in ginocchio. Quando gli scossoni diminuirono, il Generale alzò lo sguardo allo schermo principale, che funzionava ancora a intermittenza. Vide le astronavi Vidiiane che sfrecciavano accanto ai resti della sua nave, per mettersi in salvo. Tutt’intorno le pareti arancioni del wormhole tremolavano. E là in fondo avanzava l’onda d’urto subspaziale.

   Rialzatosi, Suddayath incrociò le braccia sul petto e attese a piè fermo il fronte d’onda. Non disse nulla e non tremò nemmeno. Immobile come una statua, fissò con disprezzo la morte, senza rimpianti né pentimenti. E la ribollente onda d’urto subspaziale passò, cancellandolo con la sua nave e il suo equipaggio.

 

   La Keter sfrecciava a massima velocità d’impulso lungo il tunnel spaziale, inseguita dall’onda d’urto. I vascelli che la seguivano ne furono inghiottiti uno dopo l’altro: astronavi Vidiiane, incursori Vaadwaur. Il fronte d’onda era sempre più vicino; ma là in fondo brillavano le stelle. Con i motori a impulso prossimi a fondere per lo sforzo, la nave federale schizzò fuori dal wormhole, un istante prima che questo collassasse. L’apertura a imbuto parve rivoltarsi come un guanto, quindi svanì in un’esplosione subspaziale che scagliò la Keter in avanti, come una foglia in un uragano. In plancia, gli ufficiali videro le stelle vorticare pazzamente. Ma quando Vrel riuscì a riportare la nave in assetto e a fermarla, fu chiaro a tutti che erano in salvo.

   «Grazie, Vrel... ottimo lavoro» mormorò il Capitano, levandosi una ciocca di capelli sudati dalla fronte. «Complimenti a tutti. La Rete Subspaziale non esiste più. E penso che con essa siano tramontati i sogni di gloria dei Vaadwaur».

 

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Capitolo 12
*** Cicatrici ***


-Capitolo 11: Cicatrici

 

   Il risveglio di Ladya fu lento e faticoso, come se il sonno volesse tenerla nelle sue grinfie. Per un tempo indefinito la dottoressa giacque nel dormiveglia, cercando di ricordare cosa le era successo. Le sue memorie erano confuse. Per un po’ le parve di essere ancora su Vidiia, nei giorni sereni in cui andava alla scoperta della sua cultura. Poi i tragici ricordi delle ultime settimane l’assalirono: il rapimento, la Phagia, gli inganni e la battaglia all’ultimo sangue. Con la consapevolezza tornò anche il dolore: la Vidiiana aveva male in tutto il corpo, soprattutto nelle articolazioni. Anche i polmoni le dolevano, come se qualcuno glieli avesse sfregati con carta vetrata. Sentendosi mancare l’aria, quasi stesse annegando, Ladya si sforzò d’inspirare più a fondo. Inarcò il busto, spalancando gli occhi, e vide un soffitto bianco. Allora si drizzò a sedere, boccheggiando.

   «Calma, il peggio è passato. Fai respiri profondi» le disse una voce familiare.

   Ladya si voltò, cercando di mettere a fuoco chi aveva parlato. La sagoma si precisò gradualmente: era Norrin, seduto accanto al suo lettino. Si trovavano nell’infermeria della Keter, in una saletta di lunga degenza. La dottoressa indossava la tuta bianca dei pazienti e aveva una flebo attaccata al braccio. «Quanto... tempo...?» chiese con un filo di voce.

   «Quindici giorni» rispose Norrin con gravità. «Il dottor Joe non s’è fermato neanche per un minuto. L’intero staff medico ha fatto i doppi turni. Abbiamo interrogato i Vidiiani e anche alcuni prigionieri Vaadwaur. Ce l’abbiamo fatta, amore... sei guarita» rivelò, prendendole affettuosamente la mano tra le sue.

   La dottoressa ricadde sul lettino, in preda a singhiozzi irrefrenabili per il sollievo. Per quanto stimasse il dottor Joe e gli altri, non pensava che potessero curarla a quello stadio della malattia. Invece c’erano riusciti; le avevano dato una seconda occasione. Ora stava a lei metterla a frutto. Ma prima c’erano delle cose che doveva assolutamente sapere. Si asciugò le lacrime con un lembo del lenzuolo, cercando di respirare con più calma. «La Rete Subspaziale?» chiese con voce roca.

   «Eliminata».

   «E... Vidiia Primo?» domandò Ladya con un tremito.

   «Giudica tu stessa» disse l’Hirogeno, attivando l’oloschermo di cui era provvisto il bio-letto. Il pianeta galleggiava nello spazio come una perla azzurra, bianca e verde. Non c’era traccia dell’arma-tunnel e non vi erano nemmeno danni visibili in superficie. Tuttavia gli anelli planetari si erano dissolti e le lune erano diventate globi di lava incandescente: un monito per chiunque alzasse gli occhi al cielo.

   «Il tuo popolo è salvo» la rassicurò Norrin. «La Rete è collassata prima che lo Scudo Planetario cedesse. Le navi trasporto stanno già rimpatriando gli sfollati. Le lune però resteranno inabitabili per secoli, quindi parecchia gente dovrà restare nelle colonie. E la flotta ha pagato un duro scotto. Delle quaranta navi che ci hanno mandato nella Rete, solo nove sono tornate. Tra le vittime c’è anche il Generale Mazzut: la sua nave non è uscita in tempo». Così dicendo l’Hirogeno spense l’oloschermo.

   «Il resto dell’Alleanza?» chiese ancora Ladya.

   «Ogni flotta è tornata nel proprio spazio» spiegò Norrin. «È stata una vittoria costosa: tutti hanno subito perdite superiori al previsto. I Krenim, in particolare, hanno perso la loro nave ammiraglia. Anche se ne avremo conferma solo quando li ricontatteremo, pensiamo che Hortis sia morto».

   La dottoressa sospirò addolorata. «Quando lo abbiamo incontrato la prima volta, mi è parso che cercasse l’assoluzione per ciò che aveva fatto in passato. Spero che l’abbia trovata, alla fine» disse. «Ho un’ultima cosa da chiederti: che ne è dei Vaadwaur?».

   «Il Ravager è distrutto e così gran parte della loro flotta» disse l’Hirogeno. «Senza la Rete Subspaziale le loro colonie sono isolate. Speriamo che abbiano imparato la lezione e la smettano con le scorrerie; almeno non dispongono più dell’arma-tunnel. Per quanto riguarda le loro condizioni di salute, ne sai più tu di me» aggiunse guardandola di sottecchi.

   «Ho curato la Phagia, quindi sopravvivranno» confermò Ladya. «Ma in cambio hanno perso la vista».

   «È stato intenzionale?» volle sapere Norrin.

   La dottoressa sprofondò nel letto e distolse lo sguardo. «Non avrei mai voluto» sussurrò. «Ma dopo il nostro incontro nell’ospedale da campo, ho pensato che avevi ragione sull’inaffidabilità dei Vaadwaur. Non potevo lasciare che bruciassero il mio popolo, quindi ho fatto in modo che la cura li accecasse. Speravo che lo facesse prima della battaglia, così avrebbero dovuto ritirarsi e voi avreste eliminato facilmente la Rete. Purtroppo ha funzionato tardi».

   «Ha funzionato appena in tempo» corresse l’Hirogeno. «Senza quell’improvvisa cecità, i Vaadwaur avrebbero prevalso. Non colpevolizzarti troppo; è stata la loro ostinazione a rovinarli».

   «Non so... forse avresti dovuto lasciarmi su quella nave» mormorò Ladya, con gli occhi inumiditi dal pianto. «Sono un medico: dovrei guarire la gente, non ferirla. Ho tradito tutto ciò in cui credevo».

   «Hai dovuto commettere un male, per impedirne uno assai più grande. Capita a molti di coloro che indossano la nostra uniforme» sospirò Norrin. «Ora che stai guarendo, pensi che potresti curare i Vaadwaur anche dalla cecità?».

   «Posso sviluppare la cura» annuì Ladya, tirando su col naso. «Il difficile sarà somministrarla, visto che sono sparpagliati in tutto il Quadrante. Conosci le coordinate della capitale, ma le altre colonie?».

   «Quelle non le abbiamo localizzate» ammise l’Hirogeno. «Ma se curiamo gli abitanti di Kinara, forse in cambio ci diranno la posizione delle altre colonie. Così potremo recapitare la cura a tutti».

   «Dubito che accetteranno altre cure da me» disse mestamente Ladya.

   «Magari diremo che è del dottor Joe» suggerì Norrin, facendole l’occhiolino. «Adesso riposati. Tornerò domani a fine turno, per vedere come stai». Così dicendo si alzò e andò verso l’uscita. Per tutto il colloquio non aveva fatto parola dei suoi sentimenti, sebbene fossero il motivo per cui si era lanciato due volte al salvataggio.

   «Norrin!» lo chiamò Ladya, rialzandosi col cuore in tempesta.

   «Sì?» fece l’Hirogeno, indugiando sulla soglia.

   «Tu... io...» farfugliò la Vidiiana, ma la confusione e l’imbarazzo le serravano ancora la gola. «Ho tante cose da dirti» esalò infine.

   «Lo farai quando ti sarai ripresa del tutto» disse Norrin, non volendo indurla a esprimersi sull’onda dell’emozione. «Riposati ora» raccomandò, e lasciò la stanza.

 

   Andato che fu Norrin, al suo posto entrò il dottor Joe. «Dottoressa, finalmente è cosciente! Ci ha fatti preoccupare come matti» disse, accostandosi con sollecitudine. Cominciò subito a esaminarla, sia col tricorder medico che aveva con sé, sia con le apparecchiature del bio-letto.

   «La prossima volta che scendo su un pianeta, starò più attenta alle frequentazioni» promise Ladya, ricadendo stancamente sul lettino. «Grazie per avermi curata. Lei è davvero il miglior medico della Flotta».

   «Già, me lo dicono in molti!» gongolò il dottore, mentre controllava le sue condizioni. Accortosi di avere esagerato, si schiarì la voce e si corresse: «Ehm, volevo dire che alla sua guarigione hanno collaborato in molti. Avete un ottimo staff e apparecchiature all’avanguardia, su questa nave. Quanto a me, è da molto che studio la Phagia».

   Ladya sorrise per quella manifestazione d’immodestia, maldestramente coperta, ma non la commentò. In quella le cadde lo sguardo sulle sue mani, che teneva raccolte in grembo. La pelle era molto migliorata rispetto agli ultimi giorni di malattia, quando si staccava a lembi, ma era ancora ben lontana dalla normalità. Le mani erano dure, piene di chiazze e croste. Immaginò di essere così in tutto il corpo. Tremando leggermente, si portò le mani al volto e se lo tastò. Le cartilagini del naso e delle orecchie c’erano ancora, per fortuna. I capelli però erano caduti quasi tutti. Avrebbero impiegato tempo a ricrescere, posto che potessero farlo. Pensando che Norrin l’aveva vista in condizioni ben peggiori, sul Ravager, la Vidiiana si sentì mortificata.

   «Tutto a posto?» chiese Joe, notando i suoi gesti.

   «Io... vorrei vedermi» mormorò Ladya. «Questo lettino ha un olo-specchio, mi pare» disse, cercando il comando sulla pulsantiera laterale.

   «Ehm, forse è prematuro» avvertì il dottore, tentando di fermarla.

   «Ho già visto da vicino le vittime della Phagia» ribatté la Vidiiana con impazienza. «Ormai ci ho fatto il callo».

   «Lo pensano tutti, ma quando si tratta di se stessi non c’è preparazione che tenga» obiettò il Medico Olografico. «Preferirei che aspettasse qualche giorno, quando la rigenerazione dei tessuti sarà progredita».

   «Dottore, essere sopravvissuta è già un dono inaspettato e forse immeritato» spiegò Ladya. «Se ne porterò il segno, pazienza». Trovato il comando dell’olo-specchio, lo premette senza esitazione.

   Il riquadro olografico si materializzò sopra il lettino, fornendole l’immagine impietosa del suo volto. La pelle, come quella delle mani, era secca e dura. La metà sinistra del viso, in particolare, era sfigurata come se gliela avessero abbrustolita. Fortunatamente gli occhi si erano salvati entrambi. Spalancando la bocca, la dottoressa constatò che anche i denti e il palato erano in condizioni decenti.

   «Consideri che l’abbiamo tratta dalla capsula cronostatica solo due giorni fa, dopo aver trovato la cura» la confortò il dottore. «La terapia rigenerativa sta funzionando; tempo dieci giorni e tornerà come nuova. C’è solo qualche precauzione in più da prendere, dopo l’incidente coi Borg».

   «I Borg?!» inorridì la dottoressa, scattando a sedere sul lettino. «Che hanno fatto?».

   «Ah già, non lo sa» rammentò il Medico Olografico. «Abbiamo avuto un problemino coi Borg, mentre lei era via. Quando abbiamo incontrato il primo Cubo, settimane fa, hanno inviato un segnale subspaziale che ha alterato le nanosonde di parecchi membri dell’equipaggio. In pratica le nanosonde li hanno parzialmente assimilati, anche se in modo così sottile che non ce ne siamo accorti. Durante il turno di notte hanno cercato d’impadronirsi della nave, per consegnarci ai Borg veri e propri. Ma sono riuscito a trarci d’impiccio, con – ehm – un piccolo aiuto degli ufficiali» disse, tornando a esaltarsi.

   «Adesso le vittime come stanno?!» chiese Ladya, agitatissima.

   «Stanno bene, ho già dimesso tutti» la rassicurò Joe, invitandola a stendersi di nuovo. «Ma come può immaginare, siamo un po’ preoccupati da questa nuova modalità d’assimilazione. Il Capitano Hod ha limitato l’uso delle nanosonde. Gli ufficiali della Sicurezza ne sono stati privati in via cautelare e anche qui in infermeria le usiamo con grande attenzione».

   «Prima ha detto che mi state facendo la terapia rigenerativa. Vuol dire che io le ho» notò la Vidiiana, inquieta.

   «La tengo costantemente monitorata. Se le succedesse qualcosa, non mi farò più sorprendere» promise il dottore. «Gli ingegneri hanno anche installato un emettitore di raggi Omicron sul soffitto, quindi in caso di necessità elimineremo le nanosonde in un lampo. E dalla plancia stanno molto attenti alle trasmissioni subspaziali. Ovviamente a fine terapia faremo piazza pulita delle nanosonde».

   «D’accordo, procedete» cedette Ladya. «Ma voglio un rapporto dettagliato sull’incidente. E quando torneremo all’Unione, bisognerà informare subito il Comando Medico».

   «Senz’altro» annuì Joe. «Tra tutte le scoperte di questa missione, il ritorno dei Borg è la più inquietante. Non finirà qui, temo».

 

   Il Medico Olografico non era l’unico a preoccuparsi per le conseguenze dell’attacco Borg. Volendo constatare le condizioni di Jaylah, per decidere se riaffidarle la Squadra Temporale, Norrin la trovò ancora una volta sul ponte ologrammi. La mezza Andoriana indossava una tuta semicorazzata da combattimento ed era nel pieno di un percorso d’addestramento da lei stessa escogitato. In quel momento stava lottando con due avversari muniti di tute simili alla sua, nella sala macchine di un’astronave di classe Juggernaut.

   «Ancora questi giochetti, eh?» commentò Norrin, attirando la sua attenzione. «Non ti stanchi mai?».

   «Computer, blocca programma!» ordinò Jaylah. Gli avversari si paralizzarono nel bel mezzo dell’azione e lei sgusciò fra loro. Mentre veniva incontro all’amico fece rientrare il casco nella tuta, scoprendo il volto sudato. «Sono stata a riposo dieci giorni, dopo l’incidente coi Borg. Mi sono persa la battaglia nella Rete. Adesso devo riprendere il ritmo» si giustificò, un po’ ansante per lo sforzo.

   «Uhm... ed è questo il tipo di missione che ti prospetti?» chiese Norrin. «Lottare contro altri federali, su una nave della Flotta Stellare?».

   «Metti che i Borg riescano a influenzare i nostri colleghi di un’altra nave. Dobbiamo essere pronti a tutto» sostenne sfacciatamente la mezza Andoriana.

   «Già, a tutto» convenne l’Ufficiale Tattico, per nulla rassicurato. «Sai, ho notato che negli ultimi tempi ti addestri spesso con quelle tute corazzate. Pensi di usarle in missione?».

   «Perché no?» fece Jaylah, fissandolo con aria di sfida. «Forniscono un’ottima protezione. Con tutte le perdite che abbiamo avuto in questi anni, non credi che dovremmo cautelarci?».

   «Beh, sì» ammise Norrin, ma era certo che dietro quella giustificazione covasse qualcos’altro.

   «Ora che non ho più le nanosonde a proteggermi, questa tuta potrebbe salvarmi la vita» aggiunse la mezza Andoriana.

   «Ho già visto le potenzialità di un’armatura da combattimento... e non l’indossavi tu» le ricordò l’Hirogeno, scrutandola severamente.

   Jaylah gli restituì uno sguardo indecifrabile. Per un attimo Norrin credé di scorgervi una scintilla d’odio, ma subito dopo la mezza Andoriana gli parlò in tono accorato. «Se vuoi ne farò a meno. Cercavo solo di tenermi impegnata dopo la brutta esperienza. Mi spiace di non esserti stata a fianco, quando per due volte sei andato a salvare Ladya. Avrei dovuto esserci, perdonami».

   «Io e Radek ce la siamo cavata» disse Norrin, nel tono di chi la considera acqua passata.

   «E Ladya sta bene? Ho sentito che si è svegliata» proseguì la mezza Andoriana.

   «Si sta ancora riprendendo. Dovrebbe riposare per una decina di giorni, ma figurati se lo farà» rispose l’Hirogeno, concedendosi un sorriso fugace.

   «A proposito, anch’io sto aspettando di rientrare in servizio» notò Jaylah. «Il dottore mi ha autorizzata, ma per tornare nella Squadra Temporale mi occorre il tuo assenso. Ti fidi ancora di me?» chiese con ansia.

   Norrin rimuginò sulla questione assai più a lungo di quel che avrebbe voluto. «Senza le nanosonde, non rischi più d’essere influenzata dai Borg» disse infine. «E visto che finora sei stata all’altezza... sì, riavrai il posto. Bada bene di non deludermi» aggiunse con un’occhiata penetrante.

   «Darei un braccio, per non deluderti» mormorò la mezza Andoriana, con gli occhi lucidi.

   Norrin fu certo che fosse sincera. Si chiese, però, se c’erano cause per cui le avrebbe date entrambe. «Riguardati» raccomandò, prima di lasciare il ponte ologrammi.

 

   Il sole pomeridiano scintillava sui tetti di Mireven, la capitale di Vidiia Primo. I federali vi erano tornati per trasmettere ai Vidiiani la cura contro la nuova Phagia, casomai il morbo li colpisse. Avevano anche discusso dei rapporti fra il Sodalizio Vidiiano e la colonia di Caldos, senza andare oltre le generiche dichiarazioni d’intenti. Stavolta però Ladya si era tenuta lontana dai giornalisti. Salita sulla terrazza panoramica del palazzo governativo, la dottoressa si appoggiò alla balaustra e ammirò la città. Nei giorni disperati del rapimento e della malattia era certa che non l’avrebbe rivista. Ammirò i viali bordati di statue, le piazze con le fontane dai mille giochi d’acqua, il palazzo della Terza Dinastia con le sue pagode dai tetti variopinti. Spinse lo sguardo ancora più in là, fino al parco col ponte sul laghetto in cui aveva passeggiato con Dallorath. Il caldo vento estivo le portò l’aroma di fiori esotici. La Vidiiana chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Quando li riaprì vide passare sopra di sé uno stormo di volatili dai lunghi colli, che lanciavano richiami melodiosi. La bellezza di Vidiia era sempre avvincente; non si sarebbe mai detto che fino a venti giorni prima il pianeta aveva rischiato la distruzione.

   «Ladya!» esclamò una voce alle sue spalle.

   Riconoscendo il nuovo arrivato, la dottoressa si girò lentamente e lo fissò sdegnata, senza proferire parola. Era Dallorath.

   «Oh, Ladya... quanto sono stato in pensiero!» disse l’ambasciatore, venendole incontro commosso. Cercò di abbracciarla, ma la dottoressa si ritrasse, come davanti a una cosa immonda e schifosa. «Non capisco, perché mi respingi?!» si meravigliò Dallorath. «Quando ti hanno rapita, ho fatto di tutto per ritrovarti. Ho informato la Keter dell’accaduto, ho attivato i canali diplomatici per localizzarti. Ho anche persuaso le autorità a inviare la flotta che vi ha aiutati nella Rete. Eh, senza di quella non ne sareste usciti vivi! Credo di meritare almeno un grazie».

   «Grazie» disse Ladya, «per avermi mostrato che invertebrato sei. I miei colleghi mi hanno detto come ti sei comportato, quando hanno chiesto spiegazioni sulla mia scomparsa. Hanno dovuto sequestrarti per sapere com’erano andate le cose. E non accampare meriti che non hai. È stato il Ministro Rommath a inviare la flotta; tu eri già ad anni luce».

   «Per gestire il flusso di rifugiati alle colonie!» insisté Dallorath. «È stata una responsabilità tremenda, che non avrei voluto accollarmi; ma il senso del dovere me lo ha imposto. Comunque è tutto finito. Vidiia è salvo, possiamo ricominciare a vivere. Tu come stai?» chiese, notando che l’aspetto di Ladya non era dei migliori.

   «Sopravvivo» rispose la dottoressa. In realtà aveva fatto passi da gigante negli ultimi cinque giorni. I polmoni erano guariti e il dolore articolare si era molto attenuato. Croste e macchie erano quasi svanite dalla pelle; solo il lato sinistro del volto rimaneva butterato. Quanto ai capelli, aveva tagliato a zero i pochi che le restavano, così che ricrescessero alla pari con gli altri. «Se non ti piaccio adesso, dovevi vedermi prima» ironizzò.

   «Ma che dici... certo che mi piaci. Però tornerai a posto, vero?» chiese Dallorath con una certa ansia. «Se vuoi posso farti curare qui. Sai quanto sono bravi i nostri medici. Tornerai come prima, anzi meglio!» garantì.

   «Come no, mi faccio un ritocchino apposta per te! Dimmi solo i tuoi gusti!» sbottò Ladya. Più che di disprezzo, la sua voce era intrisa di commiserazione.

   «Su, non avertene a male. Cercavo solo di essere premuroso» si giustificò Dallorath, deluso dal suo atteggiamento.

   «Tu e gli altri non siete stati così premurosi, quando avete infettato i Vaadwaur con la Phagia!» lo accusò Ladya. «Volevate sterminare un’intera specie, con lo stesso male che ci ha flagellati per secoli. Non potrò mai perdonarvi per questo. A cosa servono tutti i monumenti, i poemi, le canzoni, le cerimonie di commemorazione, se poi non s’impara niente? Se aveste una vaga idea di cos’è la Phagia, non l’avreste mai inflitta ai Vaadwaur. Dicono che il tempo cancella le ferite... purtroppo cancella anche gli insegnamenti!» disse con amarezza.

   «Ehi, calma!» si adombrò Dallorath. «Non sono stato io a ordire quel piano, né a metterlo in atto».

   «Però ne eri al corrente, quando ci siamo conosciuti!» insisté Ladya. «Altrimenti non saresti stato così tranquillo, riguardo ai Vaadwaur. Eri tranquillo perché sapevi che stavano morendo! E non me l’hai detto. Temevi che me ne andassi, sapendo quanto siete crudeli e vigliacchi!».

   «Senti chi parla! Tu sei quella che ha accecato i Vaadwaur!» rimbeccò l’ambasciatore, stanco di essere vituperato. «Loro si fidavano di te; pensavano che li avresti guariti. Invece li hai traditi tutti. Hai tradito il giuramento dei medici. Hai tolto la luce a un intero popolo: uomini, donne, bambini. Ora che la battaglia è finita, saranno tutti nel panico. Non possono guidare un’astronave per fuggire, né produrre il cibo per nutrirsi. Moriranno di stenti per colpa tua. A conti fatti non sei migliore di noi, anzi! Noi abbiamo colpito dei nemici dichiarati. Tu invece prima hai finto di volerli aiutare e poi li hai colpiti a tradimento. Chi ti ha insegnato queste cose, i tuoi amici alieni?».

   Furiosa, Ladya assestò a Dallorath un formidabile schiaffo. «L’ho fatto per salvare questo pianeta!» gridò. «Ma forse mi sono sbagliata. Forse avrei dovuto lasciarvi nell’incendio che avete scatenato».

   «Troppo tardi, dolcezza!» rise l’ambasciatore, massaggiandosi la guancia dolorante. «La Rete Subspaziale è distrutta. I Vaadwaur periranno, mentre il nostro avvenire è assicurato. La tua colonia è troppo piccola e lontana per interessarci, ora che abbiamo altri pensieri. Ti suggerisco di tornarci, e alla svelta. Dì ai tuoi compaesani che possono governarsi come vogliono, ma che non si prendano la briga di venire qui, perché non saranno bene accetti» disse in tono maligno. «Questo vale anche per te. Mi assicurerò che tu sia considerata persona non gradita su Vidiia. Non ci tornerai più, né da viva, né da morta!» promise.

   «Chi vuole tornare in questo nido di vipere?» ribatté Ladya, scrutandolo con sommo disprezzo. «Ho già tutto quello che desidero sulla Keter. Non mi serve altro. Ma voi che restate qui, dovreste alzare gli occhi ogni tanto» disse, indicando le lune rosseggianti di lava. «Spero che quelle vi ricordino che la violenza si ritorce contro chi la pratica. Mol a Keter, energia!» ordinò, premendosi il comunicatore. Svanì nel bagliore azzurro del teletrasporto, abbandonando il pianeta tanto vagheggiato. E come promesso, non vi tornò mai più.

   Rimasto solo sulla terrazza panoramica, Dallorath si passò una mano tra i capelli biondi per ravvivarseli. «Oh, beh... pazienza. Troverò di meglio» disse, e si allontanò fischiettando. Prima di rientrare nell’edificio però si trovò, quasi controvoglia, ad alzare gli occhi al cielo. I magnifici anelli celebrati dai poeti fin dall’antichità si erano dissolti per sempre. E le due lune, che un tempo scintillavano come oro e argento nel cielo notturno, d’ora in poi avrebbero brillato scarlatte, come grumi di sangue. Nessun Vidiiano sarebbe vissuto abbastanza da vederle tornare come prima. Il monito era scritto nella volta celeste e, a meno di non accecarsi a loro volta, lo avrebbero visto per il resto dei loro giorni.

 

   Lasciato Vidiia Primo, la Keter si recò a Kinara, sfruttando ancora una volta il propulsore cronografico per oltrepassare lo spazio Borg. Gli accordi con l’Alleanza prevedevano d’incontrarsi presso la nebulosa planetaria, per ridefinire la strategia contro i Vaadwaur, ma il Capitano Hod temeva che gli alleati volessero chiudere la partita. Non s’ingannava.

   All’arrivo i federali trovarono Kinara sotto assedio. Una flotta dell’Alleanza – venti navi Krenim, altrettante Devore e dieci della Gerarchia – era schierata nell’orbita. Stava bombardando l’insediamento Vaadwaur, per il momento protetto da uno scudo a cupola. Non era difficile ricostruire lo svolgimento della battaglia: i relitti nell’orbita e quelli ancora fumanti in superficie erano eloquenti. L’Alleanza era giunta con le catapulte subspaziali, appena una decina di giorni dopo la Battaglia della Rete. Per prima cosa aveva sbaragliato gli sparuti resti della flotta Vaadwaur, facilitata dalla cecità che affliggeva gli equipaggi. Poi aveva ingaggiato lo scontro con le batterie difensive che i Vaadwaur avevano piazzato in superficie, nascondendole astutamente in canyon e crepacci. Queste si erano rivelate un ostacolo ben più duro, essendo guidate da sistemi automatici, che non necessitavano di artiglieri. Le carcasse di parecchie navi dell’Alleanza, ancora in orbita, testimoniavano la loro pericolosità. Per limitare le perdite gli assedianti avevano dovuto lanciare dei raid, colpendo le postazioni e ritirandosi prima che arrivasse il fuoco di risposta. Dopo dieci giorni di attacchi ininterrotti, l’ultima batteria nadionica era stata disintegrata. Così l’Alleanza aveva potuto radunarsi in orbita e iniziare il bombardamento.

   «Quanta energia ha quello scudo?» chiese Hod, osservando la cupola opalescente inquadrata sullo schermo.

   «Un miliardo di terajoules» rispose Zafreen. «Probabilmente è solo una frazione del suo potenziale. Sta per cedere».

   Il Capitano aggrottò la fronte. Caduto lo scudo, i Vaadwaur sarebbero rimasti indifesi. Il loro insediamento era sotterraneo, ma poche centinaia di metri di roccia non li avrebbero protetti da armi di quel calibro. E stavolta l’Alleanza si sarebbe assicurata che non sopravvivesse nessun battaglione ibernato. Sarebbe stata una carneficina. «Su gli scudi, ma tenete disattivate le armi. Vrel, ci porti sulla linea di tiro» ordinò l’Elaysiana.

   «Ne è certa, Capitano?» esitò il timoniere.

   «Più che certa» confermò Hod.

   La Keter mosse in un’orbita più bassa, intercettando il fuoco diretto alla città. Dopo i primi colpi l’Alleanza interruppe il bombardamento. «Ci chiamano dalla Fulminatrix» riferì Zafreen.

   «Sullo schermo» disse Hod, alzandosi.

   Apparve Jarros, visibilmente contrariato. «Capitano Hod! Ci fa piacere vederla qui per il finale, ma gradiremmo che si togliesse dal mezzo» disse.

   «Per permettervi di massacrare i Vaadwaur? Levatevelo dalla testa» rispose bruscamente l’Elaysiana. «La guerra è finita, abbiamo vinto. Questo è il momento di negoziare la pace, diciamo pure d’imporre le condizioni agli sconfitti, ma non di sterminarli. Accanirvi sui Vaadwaur non vi darà vantaggi, ma vi metterà dalla parte del torto».

   «E lei sta sempre dalla parte giusta, eh Capitano?» la canzonò Jarros. «Sa che potrei interpretare la sua azione come un voltafaccia? Un tradimento nei confronti dell’Alleanza?».

   «Se è un voltafaccia, converrà che non è dettato dal guadagno» notò Hod.

   «No» ammise Jarros, facendosi meno ostile. «Semmai dall’idealismo. Ma non sa quanto sono accaniti i Vaadwaur! Abbiamo perso venti astronavi per eliminare le loro difese planetarie. Se ora li risparmiamo, ricostruiranno la loro forza militare, come hanno fatto in passato. Così tra qualche decennio saremo punto e a capo. Servirà una terza Alleanza per sconfiggerli».

   «Senza la Rete Subspaziale non riavranno mai la potenza di un tempo» obiettò l’Elaysiana. «Se temete che possano comunque darvi problemi, imponetegli un presidio militare per tenerli d’occhio. Non era questa l’idea dell’Ammiraglio Hortis?».

   «Beh, sì» riconobbe Jarros. «Ma i Vaadwaur sono troppo cocciuti per accettare. Preferiscono la distruzione alla resa!».

   «Mi ci faccia parlare. Anzi, resti in chiamata» disse Hod, segnalando a Zafreen di contattare la colonia.

   L’inquadratura sullo schermo si sdoppiò, per consentire la conversazione a tre. Accanto a Jarros apparve una donna Vaadwaur dall’aspetto disordinato. I suoi occhi erano bianchi, per la cecità che ormai affliggeva tutta la popolazione. «Sono Keld, governatrice di Kinara» si presentò. «Con chi parlo?».

   «Capitano Hod, della Keter» si presentò l’Elaysiana.

   La Vaadwaur sibilò per la stizza. «Che ci fa qui?! Vuole godersi la nostra distruzione? Prendere la sua parte di bottino?».

   «Niente del genere. Ho interrotto l’attacco dell’Alleanza e ora vorrei negoziare un armistizio» disse il Capitano. «È nel vostro interesse accettare, perché in caso contrario non credo che potrò salvarvi».

   «Salvarci! Lei si è schierata con l’Alleanza. Perché mai dovrebbe salvarci, ora?» domandò Keld.

   «Forse le sembrerà un concetto alieno, ma l’Unione ripudia la violenza come strumento per risolvere le controversie tra i popoli» spiegò pazientemente Hod. «Ho aiutato l’Alleanza a eliminare la Rete Subspaziale perché ne avevate fatto uno strumento di distruzione planetaria. Ora però vorrei aiutare voi a sopravvivere».

   «E le sembra vita?!» insorse Keld, indicandosi gli occhi ciechi. «Prima la Phagia, ora questo. La sventura continua a perseguitarci, qualunque cosa facciamo. Evidentemente non era destino che tornassimo a regnare. Si faccia pure da parte e lasci che i suoi alleati finiscano il lavoro. Tanto non c’è posto per noi nella Galassia».

   «Che le dicevo? Discutere con loro è una perdita di tempo!» commentò Jarros.

   «Ascoltatemi, tutti e due!» li zittì Hod. «È stata una serie di azioni sbagliate e di reazioni sproporzionate a portarci qui, sull’orlo del baratro; ma non è troppo tardi per fare un passo indietro. L’Alleanza deve contentarsi della vittoria che ha ottenuto e astenersi da sterili vendette. Quanto a lei, Keld, deve accettare un presidio militare sul suo pianeta. In cambio le offro la cura dalla cecità, per lei e per il suo popolo».

   «L’ultima volta che abbiamo accettato una cura da voi federali, l’abbiamo pagata a caro prezzo» disse cupamente la Vaadwaur. «Stavolta che ci farete? Ci avvelenerete? Ci renderete sterili?».

   «La mia parola non varrà molto per voi, ma non avete alternative» insisté Hod. «Finora avete fatto di testa vostra e avete pagato un prezzo sempre più alto. Ora, per una volta, seguite il nostro consiglio. Deponete l’orgoglio e accettate l’armistizio, o i Talaxiani non saranno gli unici a chiamarvi “sciocchi”».

   Ci fu un lungo silenzio. Keld rimuginava a testa bassa, mentre Jarros tamburellava impaziente sul bracciolo, in attesa di una risposta. Infine la Vaadwaur rialzò il capo. «Sono disposta ad accogliervi, per definire i termini dell’armistizio» disse con voce bassa e sforzata.

   «Ah, ci crede così ingenui?!» insorse Jarros. «Se scendiamo nella sua città, ci prenderà in ostaggio. È lei la sconfitta; lei deve salire da noi».

   «V’incontrerete sulla mia nave, che farà da terreno neutro» propose Hod. «Invito ambo le parti a mettere da parte gli inganni. Lei, Jarros, ricordi l’esempio dell’Ammiraglio Hortis. Il suo mentore non avrebbe preferito un armistizio a una strage indiscriminata?».

   «Sì... questo voleva» ammise il Krenim. «Verrò sulla sua nave».

   «E lei, Keld, ricordi dove vi ha portati l’ostinazione di Suddayath e cerchi di non imitarlo» proseguì il Capitano. «Il suo popolo può ancora sopravvivere, sempre che lei lo voglia».

   «Lo voglio» convenne la Vaadwaur. «Verrò da voi».

 

   Dopo una settimana di accesi dibattiti e trattative sul filo del rasoio, con Hod sempre a fare da paciere, l’Alleanza e i Vaadwaur siglarono l’armistizio a bordo della Keter. L’Inquisitore Marroc e il Supervisore Ghak, sopravvissuti alle battaglie, firmarono per l’Impero Devore e la Gerarchia, mentre Jarros lo fece per i Krenim. Solo i Vidiiani non inviarono alcun rappresentante, pur essendo stati avvisati. Dato il loro disinteresse, si decise d’ignorarli.

   Come preventivato, i Vaadwaur s’impegnarono a non ricostruire la flotta militare e ad accettare un presidio dell’Alleanza sul loro pianeta. In cambio i federali li curarono dalla cecità, grazie alla terapia messa a punto da Ladya e Joe. Gli effetti furono rapidi: a poche ore dalla somministrazione, tutti i Vaadwaur avevano pienamente riacquistato la vista. Vedendo i bambini liberi di correre e giocare, Ladya si sentì la coscienza più leggera. Lo smantellamento delle forze armate Vaadwaur portò altresì a sciogliere la giunta militare che per oltre due secoli aveva esautorato il governo. Questo dette maggiore autorità a Keld, fornendole un valido motivo per rispettare gli accordi.

   Restava aperta la questione delle altre colonie Vaadwaur, sparpagliate nel Quadrante Delta e anch’esse afflitte dalla cecità. Dopo altri tre giorni di discussioni, Keld accettò di rivelare al Capitano Hod le loro coordinate, così che la Keter potesse recapitare a tutte la cura. Era chiaro, però, che senza la Rete Subspaziale i Vaadwaur non avrebbero potuto tenere unito il loro popolo. Ogni colonia avrebbe dovuto governarsi e nemmeno l’Alleanza aveva voglia di presidiarle tutte. In alcune colonie – forse nella maggior parte – i militari sarebbero rimasti al potere, anche se con risorse estremamente limitate.

   Quando ogni cosa fu sistemata, i federali si congedarono dai rappresentanti dell’Alleanza. Ultimo a partire fu Jarros; Hod e i suoi ufficiali lo accompagnarono in sala teletrasporto. «Buona fortuna, Capitano» gli disse l’Elaysiana.

   «Veramente sono Ammiraglio, ora» puntualizzò il Krenim. «La notifica mi è arrivata giusto ieri. Sembra che la Repubblica sia compiaciuta di come si sono risolte le cose» disse, concedendosi un breve sorriso. «Io però devo ringraziare lei, Capitano. Il suo contributo è stato determinante non solo a vincere la guerra, ma a guadagnare la pace».

   «Ho solo portato avanti il progetto dell’Ammiraglio Hortis» disse Hod. «Che riposi in pace! Era un grande stratega, uno scienziato brillante e un fine intenditore musicale. Ma temo che goda ancora di cattiva fama presso l’Unione. Al ritorno faremo sì che tutti sappiano cos’ha fatto per ridare pace al Quadrante Delta. Così magari la sua immagine ne uscirà riabilitata».

   «Di certo sarà riabilitato fra la mia gente» disse Jarros. «Negli ultimi tempi l’Ammiraglio si era espresso su molti aspetti riguardanti la nostra giovane Repubblica. Prendendo le distanze dalle sue opinioni politiche passate, aveva sposato le tesi progressiste. Ho riflettuto molto su questo, alla luce degli ultimi eventi, e credo che fosse nel giusto. Perciò intendo portare avanti la sua eredità».

   «Allora le auguro doppia fortuna, Ammiraglio» sorrise Hod, stringendogli la mano.

   «Altrettanto a lei» augurò Jarros, ricambiando con calore. Salì sulla pedana del teletrasporto, assieme agli ufficiali del suo seguito. «E se mai tornaste da queste parti, ricordate che avete un amico nella Repubblica Krenim» disse, prima che il raggio li riportasse sulla Fulminatrix.

   Con questo augurio, la Keter lasciò Kinara e la flotta dell’Alleanza, tuffandosi nello spazio profondo. L’attendeva ancora un lungo viaggio nel Quadrante Delta: doveva visitare tutte le colonie Vaadwaur, per guarire gli abitanti dalla cecità. Anche ricorrendo al propulsore cronografico sarebbero servite molte settimane, calcolando tre o quattro giorni di permanenza a ogni tappa. Solo a fine giro i federali sarebbero tornati all’Unione, a riferire l’eclatante vittoria contro i Vaadwaur, ma anche le preoccupanti scoperte sui Borg.

 

   Quella sera Norrin sedeva solo soletto nel suo alloggio, immerso in pensieri malinconici. Da quando Ladya si era ristabilita, l’aveva vista solo di sfuggita. Non che potesse accusarla di pigrizia: in quei giorni la dottoressa era stata indaffaratissima a sviluppare la cura per la cecità. E nelle prossime settimane, o anche mesi, sarebbe stata indaffarata a somministrarla ai Vaadwaur. Era un compito importante e Norrin non si sarebbe mai sognato d’interferire. Tuttavia il “non detto” e il “non fatto” restavano tra loro come un campo di forza.

   Sulle prime Norrin aveva voluto darle la possibilità di riprendersi, fisicamente ed emotivamente, dallo shock del rapimento e della malattia. Con il passare dei giorni, però, cominciava a chiedersi se sarebbe mai riuscito a confrontarsi con lei. Aveva la sensazione che Ladya gli sfuggisse, come aveva sempre fatto in passato. Che avesse deciso ancora una volta di snobbarlo? Eppure era stata esplicita, quando si erano incontrati nell’ospedale da campo: aveva detto che lo ricambiava e che si pentiva di non averlo ammesso prima. Possibile che fossero solo parole dettate dall’angoscia e dalla sofferenza della malattia? O che fosse un tentativo di confortarlo, anzi d’illuderlo, prima di dirgli addio? L’Hirogeno cominciava seriamente a pensarlo.

   Osservando il suo alloggio, Norrin si accorse per la prima volta di quanto fosse spoglio. C’erano solo i mobili essenziali come il letto e il comodino, la scrivania col terminale del computer e un tavolino con due sedie. Niente soprammobili, nulla che ornasse le pareti, tranne qualche arma tradizionale degli Hirogeni. Se era vero che la casa riflette l’animo di chi ci vive, l’alloggio di Norrin lo qualificava come arido e vuoto.

   Il trillo dell’ingresso lo distrasse da questi pensieri. Com’era accaduto mesi prima, quando Radek gli aveva fatto visita, Norrin dapprima non rispose, sperando che il visitatore se ne andasse. La porta però continuava a suonare, in violazione delle più elementari norme di cortesia.

   Seccato, l’Ufficiale Tattico si alzò e si accostò all’ingresso. «Sei tu, Radek? Apprezzo il gesto, ma non ho voglia di sbronzarmi ancora!» disse con malagrazia. «Conserva il whisky per un’altra occasione!». Così dicendo, Norrin si avvicinò tanto alla porta da provocarne l’apertura. E restò di sasso. Perché il visitatore non era Radek, con una bottiglia sottobraccio. Era Ladya, in abito da sera.

   La Vidiiana non era mai stata così incantevole. In lei non c’era più traccia della Phagia: la pelle color crema era liscia e morbida. Indossava un elegante abito rosso, che ne fasciava la figura snella, lasciando scoperte la schiena e le braccia. Il rosso le colorava anche le unghie, le labbra e le palpebre. Si era acconciata i capelli castani, di nuovo folti e lunghi; evidentemente ne aveva accelerato la ricrescita. Una sottile collana e i braccialetti completavano il quadro mozzafiato.

   «Ciao! Non sapevo che tu e Radek foste compagni di crapula» sorrise Ladya. «Posso entrare?».

   «C-certo» balbettò Norrin, arretrando per farla passare. Non avrebbe mai immaginato che la Vidiiana, solitamente timida e dimessa, gli si sarebbe presentata così. «Non è come credi... ci siamo fatti una bevuta giusto una volta, quand’ero giù di corda» farfugliò.

   «Spero non sia stata per colpa mia» disse Ladya, osservando incuriosita l’alloggio spartano. Appena la porta si chiuse alle sue spalle, fissò Norrin con intensità. «Non avrai pensato che mi fossi dimenticata di te, vero? Aspettavo solo di tornare presentabile» spiegò dolcemente.

   «Il timore mi aveva sfiorato» ammise Norrin, con la bocca secca. Stentava ancora a credere che quella diva fosse Ladya, e che fosse lì per lui. Aveva l’irrazionale timore che, se avesse cercato di abbracciarla, si sarebbe dissolta come un sogno o un’allucinazione.

   «Oh, no. Quel che ti dissi su Kinara è tutto vero» garantì la Vidiiana. «Ti amo, e mi dispiace di averci messo tanto a dirtelo. Mi trattenevano un sacco d’illusioni e di timori, ma ora non più. Non c’è nessun altro che mi abbia dimostrato tanto amore come hai fatto tu. Non c’è nessun altro con cui voglio condividere i giorni a venire» sussurrò in tono vibrante e appassionato.

   Incoraggiato da quelle parole, Norrin la prese tra le braccia. Nessuna illusione, era proprio lei! Stava per baciarla, ma d’un tratto si bloccò: c’era un dubbio che lo rodeva ancora. «Prima di scendere su Vidiia, mi dicesti che avevi sempre desiderato dei figli» mormorò. «Ma la nostra distanza genetica esclude questa possibilità. Se per te era un problema, non dovrebbe esserlo ancora?» chiese.

   Ladya si scostò quel tanto che bastava a guardarlo negli occhi. «Me ne sono fatta una ragione» disse con appena un’ombra di rimpianto. «Ci sono altri modi per avere una vita felice e produttiva. E poi non corriamo il rischio di annoiarci, finché stiamo su questa nave!».

   «Ah, non vuoi più lasciare la Flotta?» scherzò Norrin. «Ora che sei una celebrità del Quadrante Delta, pensavo che saresti passata a incarichi più prestigiosi. Che so, potresti curare il raffreddore Talaxiano o i disturbi gastrointestinali Malon. E lo sapevi che i Norcadiani soffrono spesso di unghie incarnite?».

   «Ah ah, molto spiritoso» fece Ladya, sarcastica. «Sta’ tranquillo, non scappo da nessuna parte. E ora baciami, Cacciatore» sussurrò con voce carezzevole.

   Norrin lo fece, e non si fermò lì. Sarà stata la lunga attesa, o la consolazione di trovarsi dopo tanti dolori e trepidazioni, ma fu una notte più dolce e appagante di quanto avessero osato sperare. E anche se al mattino, contrariamente al solito, si presentarono al lavoro in ritardo, nessuno dei colleghi glielo fece pesare.

 

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Capitolo 13
*** Epilogo ***


-Epilogo:

Data Stellare 2590.303

Luogo: sistema solare

 

   Materializzatasi ai margini del sistema, grazie al propulsore cronografico, la Keter sfrecciò verso la Terra a piena velocità d’impulso. Dopo otto mesi di ardue sfide nel Quadrante Delta, la vista del Sole che s’ingrandiva sullo schermo fu un balsamo per gli stanchi ufficiali. Si erano tutti impegnati a fondo in quella missione, prima per sconfiggere i Vaadwaur, poi per curarli dalla cecità, nella speranza che questo portasse a una pace duratura. Ora non vedevano l’ora di godersi la meritata licenza.

   «Rotta regolare, velocità costante. Raggiungeremo la Terra fra venti minuti» disse Vrel. Inseriti gli ultimi comandi, il timoniere si arrovesciò all’indietro e incrociò le mani dietro alla testa, per sgranchirsi la schiena, con un «Ah!» soddisfatto.

   In altre circostanze il Capitano o il Comandante lo avrebbero ripreso per quel gesto poco professionale, ma stavolta lasciarono correre. Anche loro erano stanchi e non vedevano l’ora di sbarcare per rilassarsi un po’.

   «Stavolta la licenza non ce la leva nessuno» commentò Vrel. «Io andrò a Betazed, a vedere i monti Cataran e il lago Catoria. Voi che farete?» chiese, girandosi con tutta la sedia verso i colleghi.

   «Penso di tornare su Elaysia, per vedere i miei nipoti» rivelò il Capitano.

   «I figli di suo fratello? Che età hanno?» s’interessò Radek.

   «Vediamo... il grande ormai avrà otto anni. Il piccolo sei» calcolò Hod. «È tanto che non li vedo. Immagino la raffica di domande che mi faranno» sorrise, già vedendosi nei panni di zia piena di racconti avventurosi.

   «Anch’io penso di tornare sul mio pianeta» disse il Comandante. «Prenderò in affitto una casa in campagna, per stare un po’ nel verde».

   «Io andrò in un centro benessere su Risa» disse Zafreen, già pregustando il relax. «Se interessasse a qualcun altro...» disse con apparente casualità, ma guardò di sbieco Vrel, con cui era stata fidanzata per tre anni. Da quando avevano rotto, l’anno precedente, l’Orioniana aveva fatto vari tentativi per riaccendere il suo interesse, ma il mezzo Xindi l’aveva sempre ignorata, e così fece anche stavolta.

   «E lei, Norrin?» indagò il timoniere. «Ci dica: dove vanno in vacanza gli Hirogeni?» lo stuzzicò.

   L’Ufficiale Tattico esitò, imbarazzato dalla domanda e ancor più dagli sguardi indiscreti dei colleghi. Sulle prime aveva tentato di nascondere la sua storia con Ladya, ma ben presto aveva dovuto arrendersi all’evidenza che i pettegolezzi, su un’astronave, viaggiano alla velocità della luce. A salvarlo involontariamente fu proprio Ladya, che entrò in quel momento in plancia. «Siamo arrivati?» chiese.

   «Lo saremo a momenti» disse Hod. «Appena contatteremo la Flotta, voglio che lei parli al Comando Medico. Trasmetta il suo rapporto e chieda una riunione con la Sicurezza».

   «Certo» annuì la dottoressa, accostandosi alla postazione di Zafreen. Il suo rapporto per quella missione era il più lungo che avesse mai redatto. Trattava dettagliatamente non solo della Phagia, nelle sue nuove forme, ma anche dell’attacco Borg. «Ho stilato un decalogo di raccomandazioni sull’uso delle nanosonde a scopi medici» disse la Vidiiana. Dopo l’incidente con i Borg, bisognava innalzare le misure di sicurezza. Le nanosonde erano uno strumento medico troppo prezioso per rinunciarvi, ma bisognava evitare i modelli ricavati dai Borg e possibilmente eliminarle dopo ogni intervento.

   «Sto chiamando il Comando di Flotta» disse Zafreen. «Che strano... non rispondono».

   «Di questi tempi hanno fin troppi problemi» commentò Hod, ricordando il disordine seguito all’abolizione della Prima Direttiva. «Dovremo pazientare un po’».

   «Capitano, è molto insolito» insisté l’Orioniana, sempre più preoccupata. «Non rilevo astronavi in transito nel sistema, né in entrata, né in uscita».

   A quella notizia l’atmosfera della plancia, prima rilassata, divenne tesa. Il sistema solare era uno dei più trafficati dell’Unione: ogni giorno centinaia di astronavi e navette lo visitavano e altrettante ne ripartivano. Al centro della rete di traffici c’era ovviamente la Terra, capitale dell’Unione, sede della Flotta Stellare e di prestigiosi centri di ricerca. Un’altra rotta trafficata era quella per Marte, dove si trovavano i cantieri spaziali della Flotta. Il sistema era quindi al centro di un flusso costante di lavoratori, studenti e turisti, oltre che di merci, dai generi alimentari ai beni di lusso e d’alta tecnologia. Qualunque interruzione di questo flusso mandava in fumo miliardi di crediti al minuto e pregiudicava la qualità di vita dei cittadini. Di conseguenza il blocco totale dei traffici era decretato solo in caso di grave calamità.

   «Analizzi il sistema» ordinò il Capitano, sentendo un brivido lungo la schiena. «Voglio sapere che succede». Otto mesi di assenza erano tanti, si disse. Considerando la grave instabilità politica in cui versava l’Unione, poteva essere successo di tutto.

   L’Orioniana eseguì un’analisi completa, mentre i colleghi si rodevano nel timore e nell’incertezza. «Correzione: ci sono delle astronavi. Ma non sono dell’Unione» disse Zafreen con voce tremante. «Rilevo cento vascelli, tutti chilometrici, schierati intorno alla Terra. Il più grande è... impossibile, dev’esserci un errore!». L’addetta ai sensori impallidì e ripeté la scansione, con più accuratezza.

   «Allora?!» chiese Hod, impaziente.

   «L’astronave più grande è lunga 134,5 km» mormorò Zafreen. «Le altre vanno dai 3 ai 10 km».

   I federali restarono impietriti. Nessuna potenza conosciuta, nemmeno i Borg, disponeva di vascelli così mastodontici. Solo V’Ger, l’entità artificiale che aveva minacciato la Terra nel 2271, si avvicinava a quelle dimensioni.

   «Può determinare a quale specie appartengono?» chiese Hod, imponendosi l’autocontrollo.

   «I loro scudi sono impenetrabili ai sensori» rispose l’Orioniana. «Ma a occhio, somigliano alla nave Voth che abbiamo incontrato mesi fa».

   «I Voth!» pensò il Capitano, sentendo riaffacciarsi un timore quasi dimenticato, per l’accavallarsi di altre emergenze. «Allarme Rosso, arresto totale!» ordinò.

   La Keter si fermò a pochi milioni di km dalla Terra. Il pianeta bianco-azzurro campeggiava al centro dello schermo, cinto dalla potentissima flotta Voth. Si trattava di grandi vascelli dagli scafi bulbosi e sinuosi, color grigio argento, con dettagli azzurri e verdi. La nave madre, costellata di luci come una metropoli, lasciò subito la formazione. Puntò verso i nuovi arrivati e li raggiunse in pochi secondi, eclissando il Sole con la sua mole. Quel vascello era il culmine di 20 milioni di anni di progresso tecnologico: stava davanti alla Keter come un pachiderma davanti a una zanzara e poteva schiacciarla con la stessa facilità, se solo i Voth lo avessero voluto. Tutti i federali se ne resero conto e rabbrividirono fino al midollo. Ladya si accostò a Norrin, con cui scambiò un’occhiata carica di tensione.

   «Ci chiamano» disse Zafreen.

   «Sentiamoli» ordinò il Capitano, alzandosi come faceva sempre quando voleva intavolare una discussione. Davanti a una forza militare così schiacciante, infatti, l’unica speranza era il dialogo.

   L’Ammiraglio Hadron apparve sullo schermo. Era proprio come lo ricordavano: pelle scagliosa verde e gialla, occhi giallognoli infossati ma pieni d’acume, massiccio cranio allungato all’indietro in un abbozzo di cresta tubolare. «Bentornati» li accolse in tono cortese. «Siete stati via a lungo. Cominciavo a temere che vi fosse capitato un incidente».

   Hod ebbe un attimo d’incertezza. Il Voth sembrava affabile, ma nulla giustificava quell’assedio in piena regola. «Siamo di ritorno da una missione nel Quadrante Delta» spiegò il Capitano. «Abbiamo incontrato qualche avversità, ma tutto si è risolto. Ora però devo chiederle che significa questo dispiegamento di forze attorno alla Terra».

   «Ah, sì» disse Hadron, vagamente imbarazzato. «Capisco che siate allarmati, ma vi prego di non equivocare. Non abbiamo intenzioni ostili nei vostri confronti. Anzi, vi siamo grati per l’accoglienza che ci avete dato».

   «Questa è... una splendida notizia» disse Hod, per nulla rassicurata. L’atteggiamento del Voth la confondeva, suggerendole di procedere con estrema cautela. «Posso sapere allora perché avete circondato la nostra capitale?».

   «Certamente» rispose l’Ammiraglio, sempre cordiale. «Come ricorderete, siamo venuti qui per verificare la teoria dell’Origine Lontana. In questi mesi abbiamo esaminato il DNA di migliaia di specie terrestri, confrontandolo col nostro. Le somiglianze genetiche sono inequivocabili: gli stessi marcatori ricorrono in tutte le specie di rettili, uccelli e mammiferi. Alla luce di queste prove, la teoria del professor Gegen è dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. La Terra è davvero il nostro pianeta d’origine. Evidentemente ne perdemmo il ricordo, dopo la migrazione che ci portò nel Quadrante Delta; ma ora la verità storica è stata ristabilita. Abbiamo trasmesso i risultati della ricerca al nostro governo, che li ha resi accessibili alla popolazione. I circoli scientifici li hanno esaminati, confermando le nostre valutazioni».

   «È tutto molto interessante» disse Hod, tesa come una corda di violino. «Ma quindi...?».

   «Quindi esigiamo che la nostra patria ancestrale ci sia restituita» rispose il Voth con naturalezza. «Abbiamo chiesto al vostro governo di consegnarcela entro dieci giorni. Ne sono già passati nove; restano ventiquattro ore esatte».

   «Consegnarvela?!» sobbalzò il Capitano. «Altrimenti?».

   «Altrimenti la prenderemo con la forza» rispose Hadron in tono dolente. «Spero proprio che non si giunga a questo».

   Dato che Hod era rimasta inebetita, fu Radek a prendere la parola. «Supponendo che v’impadroniate del pianeta... che progetti avete nei confronti della popolazione? Perché vi ricordo che la Terra è abitata. Ci vivono cinque miliardi di Umani e quasi altrettanti alieni».

   «Ovviamente dovremo trasferirli» spiegò il Voth in tono pratico. «Per questo ho portato la mia Nave Fortezza in appoggio al resto della flotta. Trasferiremo gli abitanti sugli altri mondi federali, così da far spazio per i nostri coloni».

   «Vuole deportare i Terrestri?!» inorridì Vrel.

   «Suvvia, moderi i termini!» lo richiamò Hadron. «“Deportare” è un termine che suggerisce una finalità distruttiva. Noi non vogliamo far del male ai Terrestri, infatti c’impegneremo a tenere unite le famiglie e a costruire per loro nuovi alloggi. Trasferiremo anche il patrimonio culturale, almeno tutti quegli oggetti che possono essere spostati. Per quanto riguarda i monumenti, cercheremo di conservarli in loco, compatibilmente con le nostre esigenze d’insediamento. Così, se vorrete, potrete ancora fargli visita. Non vi sembra un compromesso accettabile?».

   Siccome gli ufficiali erano sotto shock, si fece avanti Ladya. «Che cosa pensa di tutto questo Frola Gegen?» chiese. «Lei voleva sì dimostrare la teoria di suo padre, ma non per scatenare conflitti interstellari! Voleva solo far trionfare la verità scientifica, anche perché rinunciando alla Dottrina la vostra società ne avrebbe beneficiato in termini di tolleranza» spiegò la dottoressa.

   «La signora Gegen è stata molto lieta di veder confermata la teoria paterna» disse il Voth. «Ora però il suo ruolo in questa faccenda si è concluso. È una questione politica e pertanto io seguo le direttive del mio governo. Direttive che, vi avverto, sono tassative. Ho l’ordine di reclamare il pianeta Terra: possibilmente in modo pacifico, altrimenti con i mezzi più opportuni».

   «Voglio parlare con il Comando di Flotta» disse Hod, pallida come un cencio.

   «Spiacente, ma non è possibile» ribatté Hadron con decisione. «Finché il vostro governo non ci risponderà, sono vietati sia gli spostamenti che le comunicazioni. Per questo stiamo emettendo segnali di disturbo che impediscono le trasmissioni radio e subspaziali».

   «Se crede che l’Unione sia disposta a cedere così facilmente la Terra, si sbaglia» avvertì Norrin. «Nessuna civiltà della Galassia consegnerebbe la propria capitale a gente che conosce appena». Mentre parlava, però, l’Hirogeno si chiese se stava prendendo un abbaglio. I Vaadwaur, pur così ostinati, erano stati costretti ad accettare un presidio militare nella loro capitale, dopo essere stati sconfitti in battaglia. E tra tutte le potenze interstellari, l’Unione era quella che più facilmente poteva convincersi a cambiare capitale, considerando il numero di pianeti che già da tempo si erano candidati a questo ruolo.

   L’Ammiraglio Hadron sospirò e spostò lo sguardo da un ufficiale all’altro, mentre cercava il modo migliore di spiegarsi. «Sentite, sono molto spiacente per questa situazione, ma non dipende da me. Se anche togliessi il blocco dalla Terra, il mio governo mi rimuoverebbe dall’incarico e mi sostituirebbe con qualcun altro, che farebbe il lavoro in modo più spiccio» chiarì. «Come ho detto, vi sono grato per l’accoglienza e la collaborazione. Mi state simpatici e non vorrei mai distruggervi. Ma sarò costretto a farlo, se sarete così scriteriati da attaccarci. Perciò vi consiglio caldamente di non fare mosse avventate e di ritirarvi ad almeno un parsec da qui. Aspettiamo che il vostro governo ci dia una risposta, dopo di che agiremo di conseguenza. Fra 24 ore al massimo, signori, sapremo il destino della Terra. Ora andate, vi prego, o dovrò distruggervi».

 

 

FINE

 

 

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