Star Trek Keter Vol. VIII: Fuoco d'Inferno

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La schiavitù è libertà ***
Capitolo 3: *** Il Cristallo del Destino ***
Capitolo 4: *** L'erede di Sisko ***
Capitolo 5: *** Sangue freddo ***
Capitolo 6: *** L'Emissario ***
Capitolo 7: *** Scaglie e zanne ***
Capitolo 8: *** Kosst Amojan ***
Capitolo 9: *** Possessione ***
Capitolo 10: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Keter Vol. VIII:

Fuoco d'Inferno

 

QUESTI SONO TEMPI BUI,

LA PRIMA GUERRA CIVILE

DELLA STORIA FEDERALE.

INVECE DI ESPLORARE NUOVI MONDI,

LA KETER DEVE RICONQUISTARE

QUELLI CADUTI SOTTO LA DITTATURA

DELL’UNIONE GALATTICA.

CHIUNQUE LE SBARRI LA STRADA,

ANCHE IN BUONAFEDE,

NE CONOSCERÁ L’IRA.

 

 

Misero me!
È Inferno ovunque io fugga.
Io stesso sono l’Inferno,
e nell’abisso più profondo
si spalanca un abisso più profondo ancora
che è peggio del mio stesso Inferno.
                        John Milton, Paradiso perduto


-Prologo:
Data Stellare 2585.126
(5 anni prima della Guerra Civile)
Luogo: Bajor, Caverne di Fuoco
 
   Lingue di fuoco scaturivano dalle pendici delle montagne, salendo fino alle vette incappucciate di neve. La terra tremava e rimbombava, man mano che le rocce si spaccavano, aprendo crepacci in cui ribolliva la lava. Dagli abissi scoperchiati salivano vapori sulfurei che oscuravano il sole. Ormai la luce veniva dal basso, dai fuochi che ardevano nelle profondità del pianeta. Lapilli incandescenti cadevano dal cielo, misti a cenere nera. I pochi arbusti che crescevano a quell’altitudine avvamparono. L’elettricità statica si accumulò nelle nubi rosseggianti, finché le montagne furono incorniciate dai fulmini.
   In quello scenario apocalittico, alcuni pellegrini resistevano alla furia degli elementi. Erano per la maggior parte Bajoriani, sebbene tra loro ci fosse anche qualche alieno. Si erano raccolti nello spiazzo davanti all’ingresso delle Caverne di Fuoco, il luogo in cui i Profeti di Bajor avevano rinchiuso per l’eternità i demoniaci Pah-wraith. Invece di spaventarsi e fuggire, i presenti si prostravano a terra, intonando un mantra nell’antica lingua bajoriana. Le loro voci empie si mescolavano al boato della terra, all’ululato del vento e ai tuoni incessanti. «Kosst Amojan... guardaci! Kosst Amojan... ascoltaci! Kosst Amojan... parlaci! Kosst Amojan... guidaci alla vittoria contro gli infedeli!».
   Non erano pellegrini qualunque, quelli che sfidavano la morte in cima alle montagne. Erano adoratori dei Pah-wraith, come indicavano gli orecchini rossi, portati a sinistra. Ed erano lì per servire colui che si era liberato dalla lunga prigionia. Li guidava un Ranjen, un sacerdote di alto rango, anche lui con l’orecchino rosso degli Adoratori.
   «Salve, Signore dell’Eterno Fuoco!» disse il Ranjen. «O tu che ardi senza fine, fa’ che la tua sacra fiamma dilaghi sui mondi corrotti dalla miscredenza! Che consumi gli impuri e consacri gli eletti! Noi siamo qui per servirti! Comanda e ubbidiremo!».
   La risposta non si fece attendere. Dalla caverna uscì un ringhio, così disumano e terrificante che nessuno poté udirlo senza tremare fino al midollo. Scintille incandescenti uscirono dal buio, finché tra le esalazioni apparve una figura umanoide. Era una donna bajoriana dai lunghi capelli rossi, che sembravano muoversi di loro volontà. I suoi occhi brillavano di luce scarlatta. Da tutta la sua persona emanava un potere ferino, incontrollabile, tanto che nessuno osò incrociare il suo sguardo. L’unico dettaglio stonato era il suo abito: indossava i resti di una tuta da speleologa, bruciacchiata in più punti. Ma chiunque fosse stata la Bajoriana, non aveva importanza: il suo corpo era solo lo strumento attraverso cui Kosst Amojan faceva udire la sua voce.
   «Gioite, miei fedeli, perché la Purificazione è vicina!» proclamò l’indemoniata, allargando teatralmente le braccia. La sua voce aveva un timbro gutturale, segno dell’entità che parlava tramite lei. «Avete portato ciò che vi ho chiesto?» inquisì.
   «Sì, mio signore» annuì il Ranjen, mostrando una teca campaniforme. Era di metallo grigio-beige, ma aveva un oculo centrale trasparente, da cui promanava un’intensa luce azzurra. «Ecco il Cristallo dell’Emissario, che abbiamo preso dal monastero della Kai. Molti dei nostri sono stati catturati e alcuni hanno perso la vita, per consegnartelo» sottolineò, come aspettandosi una ricompensa.
   «Apri la teca!» ordinò Kosst Amojan, accompagnandosi con un gesto imperioso.
   Il Bajoriano posò il reliquiario davanti al suo padrone e aprì le ante, badando a restare dietro, per non frapposi tra il Pah-wraith e il Cristallo. «Ecco, mio signore. Osserva la reliquia dei miscredenti... la luce che vuol rivaleggiare con la tua... e distruggila con la tua potenza!» esortò.
   Come tutti i Cristalli di Bajor – i mistici artefatti donati al popolo bajoriano – anche quello dell’Emissario appariva come una gemma multisfaccettata a forma di clessidra. Ciò che variava da uno all’altro era il colore; questo emanava luce azzurra, così intensa da ferire gli occhi.
   L’indemoniata si accostò con passo ancheggiante. Mosse appena la mano e subito la teca si frantumò, rivelando la piena luce del Cristallo.
   «Sì, padrone... sfoga la tua giusta ira sullo strumento del nemico! Distruggilo, e il terrore afferrerà il cuore di ogni miscredente!» incitò il Ranjen.
   Un ringhio animalesco salì dalla gola dell’indemoniata, mentre questa si accucciava davanti al Cristallo in una strana posa, con le mani sulle caviglie. Prese fiato, mentre anche il boato delle eruzioni diminuiva, e poi sputò una palla di fuoco. Il globo fiammeggiante colpì in pieno il Cristallo, mandandolo in frantumi. Le schegge furono spazzate via dal vento. Gli Adoratori indietreggiarono di un passo, intimoriti, ma subito dopo levarono le braccia in segno di trionfo.
   «Sì!» esultò il Ranjen, vedendo compiersi la promessa del Pah-wraith. «Dove sei, Emissario?! Non vedi il tuo prezioso Cristallo ridotto in polvere? E questo è solo l’inizio! Presto le sacre fiamme della purificazione dilagheranno in ogni angolo del...».
   «È falso» disse il Maligno.
   «Come?!» fece il Bajoriano, interrotto nel bel mezzo del suo gaudio.
   «Il Cristallo che mi hai portato... è paccottiglia. Ti sei fatto beffare come un idiota» sibilò l’indemoniata, rialzandosi con aria minacciosa.
   Il Ranjen si sgonfiò all’istante. «Non è possibile! Lo abbiamo preso dal sancta sanctorum, superando tutti i dispositivi di sicurezza...».
   «Avete preso uno specchietto per le allodole. Stolti! Il vero Cristallo ormai sarà stato portato via, dopo il vostro maldestro attacco» rivelò Kosst Amojan.
   «Perdonaci!» gemette il Ranjen, gettandosi ai suoi piedi. «Raddoppieremo gli sforzi. Ti porteremo ogni Cristallo che vorrai. I nostri confratelli sono infiltrati ovunque... anche nelle alte sfere» garantì.
   «Vuoi una seconda occasione? Non è mia abitudine concederne» lo gelò il Maligno. «Questo sarà d’esempio per gli altri» aggiunse, levando la mano contro di lui.
   «No, mio signore! Pietà!» supplicò il disgraziato, prostrandosi fino a terra.
   «Non c’è pietà nel fuoco» ribatté Kosst Amojan con fatalismo. Scagliò una vampata dalla mano, investendo il Ranjen. Il grido del Bajoriano si confuse con il crepitio delle fiamme. Gli altri seguaci distolsero lo sguardo. Quando osarono guardare di nuovo, pochi attimi dopo, il corpo della vittima era già stato consumato dalle fiamme demoniache. Di lui restava solo lo scheletro calcinato, rattrappito in posa agonizzante.
   «Portatemi il Cristallo dell’Emissario!» tuonò l’indemoniata, dimenandosi con movenze serpentine. «Cercatelo su Bajor e oltre Bajor! Saccheggiate ogni museo, profanate ogni tempio. Quella reliquia non deve sfuggirmi!».
   Atterriti dalla sua furia, gli Adoratori si diedero alla fuga, scendendo l’erto sentiero montano. Erano diretti alle navette che avevano lasciato sulle pendici più basse, ma non fecero molta strada. Perché in quel momento un altro Bajoriano venne loro incontro, salendo dal basso.
   Era un uomo imponente, che vestiva l’uniforme color mostarda della Milizia Bajoriana. Come quasi tutti i suoi simili, portava l’orecchino argenteo sulla destra, a indicare la sua devozione ai Profeti. Pur essendo disarmato avanzò senza timore, di buon passo. «Non ascoltate quel demonio» disse agli Adoratori. «Avete visto come ha conciato il vostro Ranjen. Farà lo stesso con voi, se non lo accontenterete... e anche se riusciste a soddisfarlo. Perché se avrà ciò che vuole, distruggerà Bajor. E non si fermerà qui. Trasformerà tutti i pianeti dell’Unione in oceani di fuoco».
   «Chi sei tu, che vieni disarmato?!» chiese uno degli Adoratori, minacciandolo con un phaser.
   «Maggiore Sisko, della Milizia Bajoriana» rivelò l’uomo, con pacata sicurezza. «E finché i Profeti sono con me, non sarò mai disarmato».
 
   Udendo quel nome gli Adoratori indietreggiarono, colti da timore. Quelli fra loro che non avevano ancora impugnato i phaser lo fecero adesso.
   «Che fate, sciocchi?! Avete paura di lui?» li rimproverò Kosst Amojan. «Non fatevi spaventare dal suo nome... lui non è l’Emissario».
   «No di certo» convenne il Bajoriano, con un lieve sorriso. «Sono Modro Sisko, discendente di settima generazione del Capitano Benjamin Sisko. Sono qui a nome della Milizia per dirvi di arrendervi e di consegnare gli ostaggi che tenete nelle Caverne».
   «Tu non puoi darci ordini, infedele! Ti spedisco io dal tuo antenato!» gridò un Adoratore, premendo il grilletto. Non accadde nulla. Sgomenti, gli altri adepti lo imitarono. Scoprirono che tutte le loro armi erano diventate inefficaci.
   Con un ringhio bestiale, Kosst Amojan levò una mano contro Modro e subito un muro di fuoco si alzò tra loro. Andava dalla parete rocciosa fino all’orlo del sentiero ed era così alto che non si poteva saltarlo. Ma il Maggiore lo attraversò come se nulla fosse. Un’aura azzurrina lo avvolse mentre passava tra le fiamme, proteggendolo. Quando il Bajoriano fu più vicino, tutti si avvidero che le sue iridi erano stranamente blu.
   «Profeta!» riconobbe il Maligno, dimenandosi per il ribrezzo.
   «Già, sono proprio io» confermò l’entità incorporea, prendendo il sopravvento sul suo ospite. «Vedo che stai riplasmando l’ambiente» commentò, alludendo alle eruzioni vulcaniche.
   «È più carino, vero? Sto pensando di rendere tutto Bajor così» disse il Pah-wraith, allargando le braccia.
   «Prima devi vedertela con me. È tempo di finire ciò che iniziammo su Deep Space Nine».
   «Oh, sarà un piacere!» sogghignò l’indemoniata, continuando a dimenarsi stranamente. «Ma non credere che cederò come allora. L’odio dilaga nell’Unione, alimentando i miei poteri. I buoni sentimenti invece si riducono, e questo t’indebolisce. Io sono dieci volte l’avversario di un tempo... e tu sei molto meno di quanto sia mai stato».
   «Allora non avrai problemi a sconfiggermi da solo» ribatté il Profeta che parlava per bocca di Modro. «Finiamola, dunque».
   «La finirò eccome. Voi tornate nelle Caverne!» ordinò Kosst Amojan ai suoi seguaci. «Dite agli altri di uccidere gli ostaggi. Sacrificateli al mio nome».
   «Come desideri, Signore del Fuoco» disse uno degli Adoratori. Lui e gli altri corsero nella caverna, lasciando il Profeta e il Pah-wraith a fronteggiarsi.
   «Dimmi una cosa... come l’ha presa il tuo ospite, quando ha saputo che avevo invaso questo corpo?» chiese Kosst Amojan, con un sorriso sadico.
   «Ha avuto fede che ti avrei scacciato senza nuocerle» rispose il Profeta.
   «Allora è stato molto ingenuo!» ringhiò l’indemoniata, partendo all’attacco. Un getto d’energia color fiamma scaturì dal suo corpo, diretto contro Modro. Nello stesso istante questi emise un impulso di colore azzurro. I due flussi si scontrarono a metà strada, producendo luce bianca. Alcuni fulmini scaturirono dal punto di contatto e andarono a colpire le rocce circostanti. Tutt’intorno le montagne tremavano come se stessero per crollare. Le voragini sprigionavano ceneri ed esalazioni, tanto che il sole era ormai del tutto oscurato.
 
   Vista dall’orbita, la nube di ceneri si espandeva nel nord del supercontinente di Bajor. Alcune navi trasporto stavano evacuando i villaggi e le città più vicine, ma non si potevano trasferire milioni di persone in poche ore. Se poi l’emergenza si fosse estesa a tutto il pianeta, la situazione sarebbe diventata ingestibile.
   Era per questo che la Flotta Stellare aveva chiamato la USS Keter, l’astronave progettata per le missioni impossibili. Varata appena tre mesi prima al comando del Capitano Garm, la Keter si era distinta nella crisi sul confine Breen, smascherando un complotto che coinvolgeva lo stesso Garm. L’equipaggio aveva dovuto ammutinarsi sotto la guida della Comandante Hod, che alla fine si era vista confermare i gradi reclamati sul campo. Ora l’Elaysiana, alla sua prima missione in veste di Capitano, dirigeva le operazioni dalla plancia dell’astronave. Osservando la nube di ceneri, fu assalita dal dubbio. «Forse è stato un errore inviare Sisko senza scorta» disse.
   «Il Maggiore conosce i rischi» obiettò il Generale Elvo, della Milizia Bajoriana. Il graduato seguiva le operazioni dalla Keter, dove si era trasferito quando gli Adoratori infiltrati nell’esercito avevano sabotato la sua nave.
   «Se fosse un ufficiale della Flotta, non gli avrei permesso di esporsi a un tale rischio» borbottò Hod, che dopo la brutta esperienza dell’ammutinamento era molto protettiva verso i suoi.
   «Dopo la visita al Tunnel Spaziale alberga in sé un Profeta» le ricordò il Comandante Radek. «Probabilmente è più al sicuro di tutti noi».
   «Ah ah, ben detto!» approvò il Generale. «Scherzi a parte, le mie truppe sono pronte all’attacco. Se le cose andranno male, colpiremo il Pah-wraith con tutto ciò che abbiamo».
   «Sempre che non ci siano altri Adoratori infiltrati nei vostri ranghi» si accigliò Hod, ricordando il disordine di poche ore prima, quando i traditori avevano manomesso le loro stesse navi.
   «Ehm, questo increscioso incidente non si ripeterà» disse il Generale, imbarazzato. «Ho selezionato gli ufficiali più fedeli».
   «Se le cose andranno come spero, non servirà alcun attacco» disse Hod, scambiando un fugace cenno d’intesa con il Comandante.
 
   A dispetto del loro nome, le Caverne di Fuoco non contenevano fiamme, salvo quando un’anima perduta evocava i Pah-wraith. Ciò non significava che mancassero i pericoli. Le gallerie malamente illuminate si diramavano per molti chilometri, formando un labirinto in cui era facile smarrirsi. Le peculiari rocce delle montagne isolavano persino i comunicatori federali, impedendo di tracciare i visitatori. E i profondi pozzi che si spalancavano nel suolo, spesso nei punti più bui e disagevoli, rappresentavano un costante pericolo. Ma queste insidie non avevano impedito agli Adoratori di raccogliersi in una vasta spelonca, dove da molte ore recitavano i loro mantra. Per mostrare la propria fede, si tagliuzzavano il corpo con i pugnali e si prosternavano davanti all’artefatto che gli archeologi avevano incautamente dissotterrato in quella stessa caverna.
   Era un Cristallo simile a quelli dei Profeti, ritrovato in una teca piramidale nera, coperta di glifi rossi. Il suo ricordo si era in gran parte smarrito, anche se i più antichi testi bajoriani ne conservavano un confuso e terrorizzato ricordo. I pochi versetti rimasti parlavano di fiamme, dannazione e orrori senza nome. Una volta aperta la teca, il Cristallo si presentava di forma invertita rispetto a quelli dei Profeti: anziché una clessidra, era un ottaedro formato da due piramidi unite alla base. Non avendo una base piatta, galleggiava sfidando la gravità. Emanava una cruda luce rossa, che cresceva con l’approssimarsi della battaglia.
   Seduti in fondo alla caverna, con le mani legate dietro la schiena, gli archeologi bajoriani maledicevano la loro avventatezza. Erano stati loro a dissotterrare il Cristallo di Fuoco, pochi giorni prima, risvegliando Kosst Amojan dal suo sonno secolare. Per prima cosa il Maligno si era impossessato della caposquadra, la dottoressa Agni Vasa. Dopo aver ucciso un paio di archeologi per dimostrare i suoi poteri, aveva preso in ostaggio gli altri. Infine aveva chiamato a sé gli Adoratori, ordinando di rubare il Cristallo dell’Emissario e di sabotare la Milizia Bajoriana. Ora i prigionieri superstiti, legati e sorvegliati dagli Adoratori, potevano solo sperare nei soccorsi. Alcuni di loro pregavano i Profeti, ma dovevano farlo silenziosamente, per non destare la furia dei carcerieri.
   Uno scalpiccio annunciò l’arrivo dei complici dalla superficie. Al loro arrivo, quelli che erano già nella grotta interruppero i mantra. «Ebbene, avete il Cristallo?» chiese il Prylar che dirigeva le preghiere.
   «Lo credevamo, ma... siamo stati ingannati, purtroppo» ammise uno dei nuovi arrivati. «Ora il Signore del Fuoco sta affrontando il suo antico avversario, che ha preso il corpo del Maggiore Sisko. Ci ha ordinato di sacrificare gli ostaggi».
   «Procederemo subito». Gli Adoratori si avventarono sugli archeologi e li tirarono in  piedi, sebbene loro implorassero pietà. Ma né lacrime, né suppliche potevano intenerire il cuore di chi si era votato ai Pah-wraith. I fanatici trascinarono gli ostaggi davanti al Cristallo di Fuoco, la cui luce era sempre più vivida. Il Prylar brandì un minaccioso pugnale ricurvo. Passò in rassegna i prigionieri, soffermandosi sulla più giovane, una studentessa che si era da poco aggregata alla squadra archeologica. Bastò un cenno perché gli Adoratori la costringessero a inginocchiarsi davanti al Cristallo. La immobilizzarono e le tirarono indietro la testa, scoprendole la gola.
   «Oh, Signore dell’Eterno Fuoco, accogli la nostra offerta! Che questo giovane sangue possa inaugurare l’Età d’Oro di Bajor!» proclamò il Prylar, apprestandosi a sferrare il colpo.
   In quel momento un raggio phaser attraversò la caverna, colpendo il sacerdote, che si accasciò privo di sensi con il pugnale ancora in mano. Altri raggi stordenti colpirono gli Adoratori, prima che potessero raccapezzarsi.
   Scoppiò il finimondo. Gli archeologi si divincolarono e corsero al riparo di alcune rocce. Gli Adoratori colti alla sprovvista cercarono di rispondere al fuoco, ma si avvidero che i nemici erano muniti di tute occultanti: apparivano per un istante, il tempo di sparare, e poi tornavano invisibili. Quei brevi attimi permisero tuttavia di riconoscerli.
   «Federali!» gridò un Adoratore, sparando all’impazzata. Colpì di striscio uno degli attaccanti, ferendolo. Stava per dargli il colpo di grazia, quando un altro federale gli apparve alle spalle. Era di stazza gigantesca: l’unico Hirogeno arruolato nella Flotta Stellare.
   «Sta’ buono» disse il Tenente Norrin, agguantandolo da dietro. Gli bloccò la mano armata e poi gli sparò alla schiena, stordendolo. Avvedutosi che c’erano troppi avversari, trasse una granata stordente dalla cintura e la gettò fra loro, usando il nemico già KO come scudo. Non era una mossa approvata dalla Flotta, ma l’Hirogeno aveva uno stile di combattimento più disinvolto dei colleghi, e in qualche modo l’aveva sempre passata liscia. Anche stavolta la sua mossa si rivelò vincente: molti Adoratori caddero privi di sensi e gli altri furono accecati per qualche secondo, permettendo ai federali di neutralizzarli.
   «Grazie, amico» disse Norrin, lasciando cadere l’Adoratore stordito. Si guardò attorno, per accertarsi che fossero tutti fuori combattimento. Notandone uno a terra, che stava rialzando l’arma, lo colpì per primo. «Campo libero» disse, segnalando ai colleghi che potevano rendersi visibili.
   Otto agenti della Sicurezza apparvero nella grotta. La prima cosa che fecero fu soccorrere il collega ferito e gli archeologi. Questi ultimi erano traumatizzati e avevano subito maltrattamenti durante la prigionia, ma nessuno era in pericolo di vita. Due Agenti li soccorsero con il kit medico degli zainetti, mentre gli altri ammanettavano gli Adoratori. Norrin consultò il tricorder, accertandosi che non ce ne fossero altri in arrivo.
   «Via libera» disse l’Hirogeno.
   Due individui, che fino a quel momento avevano atteso in una galleria, avanzarono cautamente nella caverna, stando attenti a non calpestare gli Adoratori storditi. Uno era un anziano Vedek bajoriano, riconoscibile dalla veste variopinta e dall’elaborato orecchino. L’altro era un Umano in abiti civili, che tuttavia aveva un comunicatore della Flotta Stellare.
   «Oh, bontà dei Profeti... quanta violenza!» commentò Vedek Daaro, guardandosi attorno costernato.
   «Quanta violenza evitata» puntualizzò Norrin. «Non ci sono vittime».
   «Ma il bello deve ancora venire» disse l’Umano, avvicinandosi al Cristallo di Fuoco. Juri Smirnov, consulente storico della Keter, aveva passato la vita a studiare manufatti strani e inspiegabili. I Cristalli di Bajor erano degni del più profondo interesse. «Guarda, guarda...» mormorò, avvicinandosi.
   «Indietro, tutti quanti! Quest’empia reliquia è quanto di più pericoloso vi sia nell’Universo» ammonì il Vedek, facendo segno ai federali di arretrare. Mormorando esorcismi, l’anziano sacerdote prese la teca piramidale e la mise attorno al Cristallo. Gocce di sudore gli imperlarono la fronte, mentre faceva attenzione a non toccare l’artefatto, nemmeno con l’orlo della manica. Quando il Cristallo fu all’interno, Daaro richiuse la teca, senza tuttavia far scattare l’anta. La lasciò socchiusa, così che una lama di luce sanguigna continuasse a uscire.
   «Non la sigilla?» si stupì Norrin.
   «Andrà sigillata solo quando il Maligno tornerà al suo interno» spiegò il Vedek.
   «E crede che lo farà?» chiese l’Hirogeno, un po’ scettico.
   «Dovrebbe, quando sarà scacciato dal corpo che ha invaso» disse il sacerdote. «Ma tutto dipende dall’esito della lotta spirituale. Vorrei credere che i Profeti prevarranno, com’era scritto sulla Stele di B’hala, ma... vi confesso che sono pieno di timore».
   «Teme che Kosst Amojan sia più forte?» s’inquietò Juri.
   «Crederei volentieri il contrario, ma le visioni che i Cristalli ci hanno mandato negli ultimi tempi sono oscure» rivelò Daaro. «Credo che i Profeti vogliano il nostro contributo alla lotta. In quanto Grande Esorcista, conosco formule capaci di contrastare le possessioni. Andrò lassù e le userò per indebolire il Maligno».
   «È impazzito? Quel mostro può ucciderla con un sol gesto!» avvertì Norrin.
   «Non mentre è impegnato nella battaglia» sostenne il sacerdote. «Se il Maligno lascerà il corpo della dottoressa Agni, credo di poterlo costringere a tornare nel Cristallo».
   «Una formula di confinamento... ho letto qualcosa al riguardo, nei miei studi esoterici» disse Juri.
   «Allora mi accompagnerà?» chiese il Vedek, con aria solenne.
   «Come le ho già spiegato, il dottor Smirnov è un civile» intervenne l’Hirogeno. «È qui per prendere in custodia il Cristallo, non per affrontare quell’entità».
   «Siamo tutti chiamati a fare la nostra parte, nella lotta contro il Maligno!» insisté Daaro.
   «Creda quello che vuole, ma il regolamento vieta di esporre i civili ai rischi di...».
   «Verrò» disse inaspettatamente Juri.
   «Credevo che non gradisse le missioni sul campo» si stupì Norrin.
   «È così» confermò seccamente l’Umano. «Ma ho le mie ragioni. Lei resti a sorvegliare il Cristallo. Se vede una fiammella che vi si tuffa dentro, richiuda subito la teca» raccomandò. Fece per seguire il Vedek in superficie.
   L’Hirogeno lo inseguì e lo prese da parte. «Senta un po’... lei crede davvero a tutto questo? Dèi e demoni, paradisi e inferni, possessioni...?» gli chiese a bassa voce.
   «Non ho bisogno di “credere” a nulla» ribatté lo storico. «Io mi limito a “constatare” che lassù c’è una forza distruttiva all’opera, e un’altra forza che le si oppone. Se usino la tecnologia o poteri sovrannaturali, io non lo so, ma il risultato non cambia. Sta di fatto che le formule bajoriane tendono a funzionare contro i Pah-wraith, quindi sì, seguirò il Vedek. E speriamo che la Keter ci dia una mano». Ciò detto imboccò la galleria, seguendo di corsa il sacerdote.
 
   In superficie, la battaglia stava prendendo una direzione ben precisa. L’energia rossastra del Maligno respingeva quella azzurra del Profeta, lentamente ma inesorabilmente. L’indemoniata sogghignava, pregustando la vittoria, mentre Modro tremava e sudava freddo. La sua testa aveva dei tic involontari e il sangue gli colava dal naso per lo sforzo tremendo.
   «Sì... sei debole... sconfitto!» esultò Kosst Amojan, leccandosi le labbra per la soddisfazione.
   «Non cantare vittoria così presto» ribatté il Profeta, ma la sua difficoltà era fin troppo evidente.
   Alle spalle dell’indemoniata, Daaro e Juri uscirono dalle Caverne. Videro subito che la situazione volgeva al peggio: Modro era sempre più sofferente e il flusso infuocato guadagnava terreno. Se lo avesse raggiunto, lo avrebbe arso in un attimo. Il Vedek e lo storico si avvicinarono furtivamente alla posseduta, approfittando del fatto che era di spalle. Ma avevano fatto male i conti. Con una risata maniacale, la dottoressa Agni girò la testa di 180º, così da fronteggiarli senza interrompere lo scontro. Juri si bloccò, atterrito da quella vista, mentre il Vedek continuò a farsi avanti.
   «I ladri non dovrebbero uscire dalla porta principale» avvertì Kosst Amojan. «Ho chiesto del sangue... e sangue avrò. Se non quello degli ostaggi, il vostro».
   «Vade retro, Maligno! Nel nome dei Profeti, esci da questo corpo!» ordinò Daaro, levando la mano in un gesto imperioso.
   Il Pah-wraith rise ancora più forte. «Me ne disferò solo quando io lo vorrò. Ora inchinati, vecchio, e riveriscimi! O la tua città sarà la prima a bruciare» minacciò.
   «Non m’inchinerò mai davanti a te, ingannatore. Tu non hai alcun potere su di me! Torna nella tua prigione, galeotto dei Profeti!» ordinò il Vedek. Cominciò a recitare la formula d’esorcismo in Bajoriano Antico, sotto gli occhi di Juri che si teneva prudentemente più indietro. Per tutta risposta, Kosst Amojan continuò a sghignazzare.
   «Smirnov a Keter, mi sentite?» chiese Juri, premendosi il comunicatore.
   «Forte e chiaro» rispose il Capitano Hod. «Come vanno le cose?».
   «Qui butta male» avvertì lo storico. «Il Pah-wraith sta prevalendo sul Profeta e anche gli esorcismi di Daaro sembrano inefficaci. Consiglio di passare subito al piano B».
   «Ricevuto; lei non si esponga. Keter, chiudo».
   Nel frattempo il Vedek aveva continuato a recitare il suo anatema, sotto gli occhi ardenti dell’indemoniata, appena distinguibile nella caligine. «Mi annoi» disse Kosst Amojan. «Va’ dai tuoi cari Profeti, e chiedigli dov’erano, mentre morivi per loro». Con un sol gesto, il Maligno aprì una voragine sotto ai piedi di Daaro. L’anziano Vedek cercò di ritrarsi e anche Juri si fece avanti per afferrarlo, ma nessuno dei due fu abbastanza veloce. Con un grido soffocato, il Bajoriano scomparve nelle profondità della terra. Un getto di gas incandescenti scaturì dalla fenditura, costringendo l’Umano a indietreggiare.
   «E tu che ci fai qui? Credi di poterti misurare con me?» chiese il Pah-wraith con aria divertita.
   «Magari voglio solo fare due chiacchiere» rispose lo storico, cercando di evitare lo scontro. «Sai, mi sono sempre chiesto il perché delle fiamme. Se anche riuscissi a bruciare Bajor e gli altri pianeti, che ne ricaveresti? Saresti solo il re della cenere».
   «Vuoi mercanteggiare con me? Tipico dei federali!» disse Kosst Amojan, sprezzante. «Ma non fingere d’essere qui solo per dovere. Io ho accesso alle memorie di questo corpo. Quindi mi ricordo di te, e so perché ti sei presentato. Rivuoi la tua vecchia fiamma...  che patetico! Se anche ti restituissi Vasa, cosa ti fa credere che sia ancora interessata a te? Magari adesso sta con un altro! Ci hai pensato, eh? Vuoi che te lo dica?» sogghignò.
   «No. È passato tanto tempo, non m’interessa con chi sta ora» sostenne Juri, sperando che il Pah-wraith non potesse leggergli nella mente.
   «Bugiardo!» lo gelò Kosst Amojan. «Io so che la vuoi ancora. Cosa faresti per salvarla? Saresti pronto a diventare mio araldo, e portare il mio messaggio all’Unione?».
   Juri si morse la lingua, contrariato dal fatto che il Pah-wraith avesse scovato subito il suo punto debole. «Ma non posso stringere un patto con lui, giusto?». Sarebbe stato un folle a fidarsi della sua parola. E lo scheletro fumigante del Ranjen testé giustiziato dimostrava come il Maligno trattasse i suoi servitori. L’Umano arretrò fino all’imboccatura della caverna, mentre la lava risaliva a colmare la fossa in cui era caduto il Vedek.
   «La mia pazienza si sta esaurendo» avvertì Kosst Amojan. Camminando all’indietro, oltrepassò la fenditura, senza affondare nella lava fusa e senza nemmeno scottarsi.
   Vedendolo calpestare la lava, Juri si spaventò ancora di più. «Ma tu chi sei?» chiese, volendo comprendere la natura di quegli esseri incorporei. Inoltre sperava che la conversazione distraesse il Pah-wraith, avvantaggiando il Profeta.
   «Io sono lo spirito che nega» rispose il Maligno, enigmatico. «E tu sei cenere» aggiunse, levando minacciosamente la mano. Dietro di lui, Modro era caduto in ginocchio per il terribile sforzo. Il sangue gli colava dal naso e ora anche dagli occhi, mentre il punto di contatto tra i due flussi energetici lo aveva quasi raggiunto.
   «Ma dove siete?!» si chiese Juri, alzando gli occhi al cielo. Anche se non poteva vederla, per la cappa di nubi, sapeva che la Keter era in orbita sopra le loro teste. Era la nave più evoluta della Flotta e sarebbe dovuta intervenire... sempre che l’equipaggio non avesse problemi. Sentendosi abbandonato dai colleghi, in balia di una forza cosmica, lo storico rimpianse il suo vecchio incarico all’Università di Nuova Berlino. E ricordò quanto odiava le missioni sul campo.
 
   «Ricevuto; lei non si esponga. Keter, chiudo».
   Il Capitano Hod sentì che era il momento di rompere gli indugi. Se i millantati poteri dei Profeti non bastavano a salvare la giornata, ci avrebbe pensato la tecnologia federale. «Plancia a sala macchine, pronti a emettere le radiazioni cronotoniche nell’area indicata» ordinò.
   Quello era il rimedio che avevano escogitato fin da quando la Flotta gli aveva assegnato la missione. Infatti, durante il precedente scontro fra le due entità su Deep Space Nine, era bastato inondare la sezione di cronotoni per costringerle ad abbandonare i corpi di cui si erano impossessati. C’erano molte teorie al riguardo. La più gettonata sosteneva che, poiché quelle entità vivevano fuori dal continuum spazio-temporale, bombardarli di cronotoni era come iniettare dei patogeni in un organismo privo d’anticorpi. Che fosse corretta o meno, stava di fatto che non gradivano quel tipo di radiazioni. Hod avrebbe preferito che il Profeta distruggesse l’avversario una volta per tutte; ma piuttosto che rischiare la sconfitta, era meglio interrompere lo scontro. Con un po’ di fortuna, sarebbero passati altri due secoli prima del prossimo round; e così la patata bollente sarebbe toccata a qualcun altro.
   «Revochi l’ordine» disse inaspettatamente Elvo. Il Generale aveva estratto il phaser e lo puntava alla tempia del Capitano. I suoi soldati, presenti in plancia, tenevano sotto tiro gli altri federali.
   «Che storia è questa?!» fece Hod. «Siamo sulla mia nave. Li do io, gli ordini» rivendicò.
   «Non più; da questo momento assumo il comando» dichiarò Elvo.
   «Con quale autorità?!» s’inalberò l’Elaysiana.
   «Quella del Signore dell’Eterno Fuoco!» sogghignò il Bajoriano, levandosi l’orecchino. Ruotò uno dei componenti e subito il monile si tinse di rosso. Il Generale se lo attaccò all’orecchio sinistro, mentre con l’altra mano teneva sotto tiro il Capitano.
   «Lei è il Gran Maestro degli Adoratori» comprese Hod. «Ci credo che la polizia non riusciva a stanarvi, con lei a insabbiare le indagini».
   «Ci è arrivata, finalmente. In ritardo come tutti i miscredenti» disse Elvo, con un sorriso crudele. «Ora sbarcheremo il suo equipaggio, ma terremo lei e gli ufficiali in ostaggio. La vostra nuovissima astronave ci permetterà di portare la parola dei Pah-wraith in ogni angolo dell’Unione. È l’alba di una nuova era! Chi non vorrà convertirsi, assaggerà le fiamme di Kosst Amojan!» esultò, suscitando l’entusiasmo dei suoi soldati.
   «Temo di doverla deludere» disse Hod, con aria sardonica. «Il Primo Ministro nutriva dei dubbi sulla sua lealtà, dopo tutte quelle retate fallite, e ci ha informati dei suoi timori. Il sabotaggio delle vostre navi ha acuito il sospetto, così abbiamo elevato al massimo le misure di sicurezza. Tutte le vostre armi sono state disattivate dal teletrasporto» rivelò.
   Un muscolo si contrasse sulla guancia del Gran Maestro. «Questo è un contrattempo irrilevante. Non potete uccidere un dio» avvertì.
   «Un demone, a quanto ho capito. Forse non lo uccideremo, ma possiamo rendergli la vita difficile. Su Deep Space Nine ha funzionato» ribatté il Capitano.
   «Sala macchine a plancia, siamo pronti a emettere l’impulso» avvertì Dib, l’Ingegnere Capo. «Che intensità vuole?».
   «Cento rad per metro quadro» rispose il Capitano. «Fuoco!».
   «NO!» gridò Elvo. Estrasse una vibro-lama che teneva nascosta sotto la manica, l’attivò e si avventò su Hod per pugnalarla. L’Elaysiana arretrò spaventata, ma essendo nativa di un pianeta a bassa gravità non aveva la forza per fermare l’aggressore. Per sua fortuna non ne ebbe bisogno. Il Comandante Radek scattò in avanti, afferrò il Bajoriano per il polso e glielo torse rudemente, costringendolo a mollare l’arma. Nel frattempo gli altri ufficiali di plancia estrassero i phaser e tennero sotto tiro i Bajoriani. Alcuni di questi si avventarono sui federali, tentando di strappargli le armi, ma furono storditi prima di raggiungerli.
   «Dannato infedele... brucerai anche tu...» rantolò il Gran Maestro, cercando di liberarsi dalla fortissima stretta di Radek.
   «Non oggi» ribatté il Rigeliano. «Ora vai a nanna». Con la mano libera lo afferrò per il bavero e lo sollevò di peso, lasciandolo a scalciare a mezz’aria. Poi lo sbatté al suolo, lasciandolo tramortito.
   «Grazie» mormorò Hod, che per un attimo se l’era vista brutta. «Sono fortunata ad averla con me».
   «Dovere» disse il Comandante. Raccolse la vibro-lama e si rivolse ai soldati ancora in piedi. «Signori, adesso sarete scortati in cella. Quanto al vostro padrone laggiù, stiamo per sbarazzarcene» aggiunse, indicando il pianeta. In quell’attimo il raggio cronotonico scaturì dal deflettore della Keter, diretto alle Caverne di Fuoco.
 
   Juri chiuse gli occhi, aspettandosi d’essere incenerito, o di sprofondare sottoterra com’era successo a Daaro. Ma nulla di tutto ciò accadde; lo storico udì invece un grido lacerante. Riaprì gli occhi e vide la Bajoriana che si dimenava, come l’ossessa che effettivamente era. Anche Modro sembrava in agonia. I flussi energetici che scaturivano dai loro corpi s’indebolirono, come se le loro forze venissero prosciugate. Proprio quando il punto di scontro stava per toccare il Maggiore, entrambi i getti svanirono. Juri comprese che la Keter stava irradiando la zona di cronotoni, secondo il piano.
   Modro cadde a terra, stremato. Un bagliore azzurro lasciò il suo petto e partì verso l’alto alla velocità di un proiettile. Il Profeta stava tornando al Tunnel Spaziale, mentre il suo ospite giacque privo di sensi.
   La dottoressa Agni continuò invece a dimenarsi pazzamente. Si rotolava al suolo, inarcava la schiena e arrivava a strapparsi intere ciocche di capelli. Almeno la testa era tornata in posizione normale; ma aveva gli occhi rovesciati all’indietro e la schiuma alla bocca, come se fosse in preda a un attacco epilettico. Juri intuì che Kosst Amojan non voleva abbandonare il corpo di cui si era impadronito. Nella sua rabbia, il Pah-wraith strillava in Bajoriano Antico e in altre lingue che lo storico non riconobbe.
   Approfittando dell’occasione, Juri pronunciò la formula d’esorcismo, riprendendola là dove il Vedek l’aveva interrotta. I sussulti dell’indemoniata si fecero ancora più violenti, ma il suo linguaggio divenne comprensibile. «Stolto! Credi che questa sia la fine? È solo il principio!» strepitò. «Tra pochi anni le fiamme della guerra consumeranno non solo Bajor, ma tutta l’Unione! Non ci sarà scampo per nessuno! Tutti voi brucerete, mentre io sarò libero!».
   Inquietato da quell’oscura profezia, l’Umano avrebbe voluto saperne di più. Ma si astenne dal fare domande, perché non voleva interrompere la formula. Forse quella minaccia non era che un trucco per indurlo a fermarsi, proprio ora che restavano pochi versi. Alzando la voce, per sovrastare le urla animalesche dell’indemoniata, lo storico terminò l’esorcismo. Nel frattempo la Keter continuava a emettere il flusso di cronotoni.
   Con un grido straziante, la Bajoriana inarcò la schiena e infine giacque priva di sensi, in una posa scomposta. I capelli scarmigliati le circondavano il volto esangue. Un bagliore rossastro uscì dal suo corpo e schizzò contro Juri.
   Lo storico fece appena in tempo ad alzare un monile col simbolo dei Profeti che Vedek Daaro gli aveva donato. Indebolito dallo scontro, dalle radiazioni e dall’esorcismo, il Pah-wraith non ebbe la forza di superare quella barriera. Girò attorno all’Umano e scomparve nelle Caverne.
 
   All’essere incorporeo bastarono pochi secondi per attraversare la roccia solida, fino a raggiungere la grotta del Cristallo. Simile a una fiammella svolazzante, passò davanti a Norrin e si tuffò nella teca, riunendosi all’artefatto.
   Con riflessi fulminei, l’Hirogeno richiuse le ante. Ritrasse subito le mani, perché il reliquiario scottava. Diversamente dalle altre teche, che avevano un oculo trasparente, questa era del tutto opaca. Tuttavia, pur non potendo vedere il Cristallo, Norrin ebbe la sensazione che la sua energia fosse calata, come se fosse entrato in quiescenza. L’Hirogeno non poteva spiegare esattamente come lo sapeva, ma era come se la sua mente si fosse schiarita e il corpo fosse più leggero. Anche i colleghi della Keter e gli archeologi bajoriani riferirono le stesse sensazioni.
   «Il Maligno è sconfitto! Siano lodati i Profeti!» gioì uno dei Bajoriani.
   «Sia lodato il deflettore di navigazione della Keter» corresse Norrin, ironico. «Comunque il vostro demone non è distrutto. È ancora qui dentro» avvertì, accennando alla teca piramidale. «Dobbiamo fare in modo che nessuno lo liberi. Servirà un nascondiglio sicuro...» mormorò, tutt’altro che sollevato. Con gli Adoratori dei Pah-wraith ancora sul piede di guerra, non riusciva a immaginare un nascondiglio a prova di ladro.
 
   Sconfitto Kosst Amojan, le eruzioni vulcaniche si placarono con la stessa rapidità con cui erano iniziate. Le montagne smisero di tremare e i boati cessarono. Il magma sprofondò nuovamente nelle viscere del pianeta; le voragini smisero di sprigionare ceneri e gas. I venti d’alta quota iniziarono subito a disperdere le nubi vulcaniche; entro pochi minuti i primi raggi di sole forarono la cappa nerastra. Anche i fulmini smisero di balenare, ora che la carica elettrostatica diminuiva. Le ceneri calde continuavano però a cadere, e lo avrebbero fatto a lungo.
   Premendosi un fazzoletto davanti al naso e alla bocca, per non respirare la cenere, Juri avanzò in quel paesaggio desolato, lasciandosi dietro le impronte. Raggiunse il corpo della Bajoriana e si chinò su di lei, cercando i segni vitali. Il battito c’era, anche se un po’ irregolare, e così il respiro, per quanto debole. «Resisti, amore» disse l’Umano, sebbene lei non potesse sentirlo. Spinse lo sguardo oltre il crepaccio: Modro era ancora privo di sensi, ma un movimento della testa indicò che era vivo.
   «Smirnov a Keter, tre da portare su» disse lo storico, premendosi il comunicatore. «Due sono feriti e necessitano di cure immediate» aggiunse. Restò accanto a Vasa, finché il teletrasporto li trasferì assieme.
 
   Ashalla, la capitale di Bajor, era uno dei luoghi più incantevoli che il Capitano Hod avesse mai visitato. Aiuole fiorite punteggiavano i quartieri e filari di alberi bordeggiavano le ampie vie pedonali del centro. Dal vicino lago veniva un fiume che attraversava gran parte della città, trasformandosi in cascata per superare un dislivello. La cultura era ovunque: negli antichi monumenti che svettavano verso il cielo, nei templi pieni di tesori artistici, nei giardini ben curati, nei frequenti festival di musica e danza, nelle delizie gastronomiche. Il Capitano provò un’immensa soddisfazione al pensiero che, grazie ai loro sforzi, il pianeta era salvo. Ma c’erano ancora gravi questioni da affrontare; non era il momento di dormire sugli allori.
   All’arrivo dei federali, la delegazione uscì dal palazzo governativo e venne loro incontro. C’era il Primo Ministro Parva, con alcuni suoi funzionari, ma anche Kai Nashir, la leader religiosa, accompagnata da un paio di Vedek. Al Capitano non piaceva per niente questa commistione tra potere politico e religioso tipica della società bajoriana, ma si astenne dal fare commenti.
   «Bentornata, Capitano!» l’accolse il Primo Ministro. «A nome di tutti i Bajoriani, la ringrazio per quanto ha fatto».
   «Io non ho fatto nulla» rispose Hod. «Sono i miei ufficiali che hanno risolto il problema. Oltre al Maggiore Sisko, s’intende».
   «Lui non c’è?» si stupì Parva, osservando la scorta del Capitano.
   «È provato dall’esperienza. I miei dottori lo terranno sotto osservazione per qualche giorno» spiegò l’Elaysiana.
   «Abbiamo ottimi ospedali anche qui... ma non importa, fate come credete» disse il Primo Ministro, troppo sollevato per stare a sottilizzare.
   «Accogliere in sé un Profeta è una benedizione, ma anche un grande fardello» intervenne Kai Nashir, regale nell’abito bianco, percorso da una fitta trama di ricami d’oro. «Era dai tempi dell’Emissario che un simile evento non si verificava» aggiunse.
   «Uhm, sì» fece Hod, perplessa da quella mentalità. Per lei i Profeti e i Pah-wraith erano alieni incorporei, non dissimili da tanti altri scoperti dalla Flotta. «Eminenza, vorrei porgerle le mie condoglianze per quanto accaduto a Vedek Daaro».
   «Non dobbiamo addolorarci per lui; ora è con i Profeti» disse la Kai con voce serena.
   Il Capitano avrebbe tanto voluto avere la sua sicurezza, ma non volle polemizzare. «La sua consulenza ci è stata preziosa in fase di pianificazione, e credo che anche sul campo abbia fatto la differenza» disse, cercando di rendere onore al caduto.
   «Non mi aspettavo nulla di meno dal mio vecchio amico» disse Kai Nashir, lasciando trapelare una certa commozione.
   In quella Norrin e un drappello di guardie si fecero avanti, scortando il prigioniero. Privato dell’uniforme da Generale, Elvo vestiva la tuta grigia dei carcerati. Si guardò intorno ridacchiando, come se non gli importasse un accidente d’essere stato arrestato. I suoi occhi beffardi si posarono sul Primo Ministro. «Salve, eccellenza. Allora, venerdì prossimo ci vediamo per la solita riunione della Sicurezza?» lo schernì.
   Il capo di Stato s’irrigidì. «Elvo Jizu, lei ha disonorato la Milizia e tutto il popolo bajoriano. Ha tradito la nostra fiducia. Ora l’attende un processo per direttissima al tribunale militare. Non s’illuda di uscirne con qualche maneggio: l’attende l’ergastolo sull’isola di Elemspur. Lì avrà tempo di meditare, e forse di pentirsi».
   «Tempo! Quanto tempo crede che resti a voi?» ribatté il Gran Maestro, guardandolo con occhi spiritati. «Il Signore dell’Eterno Fuoco si è risvegliato e i suoi servi rispondono all’appello. Se non potete fidarvi di me, a chi altri vi affiderete? A chi oserete volgere le spalle? Vivrete nel terrore, fino al giorno in cui Kosst Amojan vi punirà!».
   «Se non l’hai ancora capito, il tuo campione ha fatto fiasco» gli ricordò Norrin. «In questo momento si trova chiuso in una teca, ben sorvegliato».
   «Voi lo sorvegliate? O non è piuttosto lui che sorveglia voi?!» rise Elvo. «Credete davvero che teche e campi di forza possano trattenerlo? Quando i tempi saranno maturi, egli uscirà più forte che mai!».
   «Se mantiene l’abitudine di uscire per pochi giorni ogni duecento anni, potremmo anche tollerarlo» ironizzò Norrin. «Ma qualunque piano abbia in mente, non credo che ne farai più parte. Il Signore del Fuoco non è clemente coi servi che lo deludono, ricordi? Spera di non incontrarlo più, perché altrimenti ti renderà conto del tuo fallimento». Ciò detto, l’Hirogeno costrinse il Bajoriano a camminare verso il veicolo della Milizia.
   «A presto, amici! Godetevi l’aria fresca, finché potete... perché la resa dei conti è più vicina di quanto pensate!» gridò Elvo, mentre gli agenti lo ficcavano a forza nel blindato.
   «Che infamia» disse il Primo Ministro, distogliendo lo sguardo. Solo quando il veicolo si fu allontanato egli si rivolse al Capitano. «Per quanto mi dispiaccia ammetterlo, c’è un fondo di verità nelle parole di quell’esaltato. Il Cristallo di Fuoco rappresenta una minaccia costante. Non possiamo riseppellirlo nelle Caverne, perché ormai tutti gli Adoratori sanno che è lì. Dovremo trovargli un’altra sistemazione».
   «Sì, proprio di questo volevo parlarle» annuì Hod. Mentre conversavano, presero a passeggiare nei giardini che circondavano il palazzo. Funzionari e guardie stavano qualche passo indietro; solo Kai Nashir si era affiancata a loro.
   «La Flotta Stellare considera il nuovo Cristallo una minaccia di priorità 1» spiegò il Capitano. «L’Ammiraglio Chase vuole che sia portato in una struttura isolata, lontano da qualunque pianeta abitato. Non esclude la possibilità di distruggerlo, se troveremo il modo».
   Il Primo Ministro e la Kai si scambiarono un’occhiata inquieta. «Nessun Cristallo è mai stato distrutto» disse la leader spirituale. «E dire che i Cardassiani ci provarono, durante l’Occupazione. Ma nessuno strumento terreno, nessuna tecnologia può infrangere ciò che viene dai Profeti. Temo che sia lo stesso anche per questo blasfemo strumento dei Pah-wraith».
   «Ragione in più per nasconderlo» disse il Capitano, sebbene in cuor suo non fosse disposta a rinunciare così facilmente. «A nome del Comando di Flotta, vi chiedo di consegnarci l’artefatto».
   «Temo che non sia possibile» disse Parva. «Quell’oggetto è stato rinvenuto su Bajor. Nel bene o nel male, fa parte del nostro pianeta. E il mio popolo non cede facilmente i reperti, dopo averne visti rubare o distruggere così tanti».
   «Signor Ministro, stiamo parlando di un oggetto che, per vostra ammissione, è una costante minaccia» evidenziò Hod, contrariata da quell’atteggiamento possessivo. «Non può restare su Bajor. La prossima volta che Kosst Amojan uscirà, potremmo non essere nei paraggi».
   «Ne convengo» annuì il Primo Ministro. «Ma non posso concedere l’esportazione fuori dal sistema. Mi spiace, Capitano... il Ministero dei Beni Culturali ha insistito. Né posso ignorare le richieste del clero» aggiunse, accennando alla Kai che gli camminava a fianco.
   «Credo che i nostri monaci dell’Ordine Esoterico siano i più adatti a custodire l’artefatto» confermò Nashir. «Conoscono gli inganni dei Pah-wraith e non si lasceranno corrompere».
   L’Elaysiana chiuse brevemente gli occhi, per non far vedere che li alzava al cielo. «Signor Ministro... Eminenza... così non può andare» disse. «Quell’oggetto è una minaccia non solo per Bajor, ma per ogni luogo abitato. Se qualcuno lo rubasse – non necessariamente gli Adoratori – le conseguenze sarebbero gravi. Che succederebbe se, poniamo, i Romulani Imperiali lo usassero per distruggere i loro cugini Repubblicani? La colpa ricadrebbe su di noi, per non averlo vigilato a dovere».
   «La sua preoccupazione per l’incolumità di tutti i popoli è ammirevole, Capitano» riconobbe la Kai. «Le assicuro che voglio venirle incontro».
   «Allora mi lasci prendere il Cristallo» insisté Hod. «I suoi monaci saranno anche incorruttibili, ma non potranno fare molto, contro una squadra d’assalto decisa a impadronirsene».
   «Posso suggerire una soluzione di compromesso?» disse il Ministro Parva. «Il Cristallo resterà nel nostro sistema, ma sarà vigilato dal personale della Flotta Stellare. Così avremo tempo di ripulire la Milizia da quegli sciagurati Adoratori».
   Il Capitano valutò la proposta. Avrebbe preferito levare il Cristallo da quel sistema pieno di fanatici e portarlo in un luogo segreto, ma se proprio non si poteva, quella era l’alternativa migliore. «Uhm... potrebbe funzionare, ma dobbiamo comunque trovare una collocazione» disse. «E dev’essere un luogo già pronto, perché non c’è tempo di costruire un fortino».
   «Che ne dice di Deep Space Nine?» suggerì il Primo Ministro. «È abbastanza grande da accogliere una guarnigione e contiene un caveau di massima sicurezza. Mi spiace solo per i turisti, che perderanno la loro meta preferita».
   «Veramente pensavo a un luogo meno famoso... e meno antiquato» disse il Capitano. «Ma almeno non ci vivono civili, da quando è diventata un museo. E potremmo tenere un’astronave di guardia, finché non l’avremo ammodernata. Uhm... ne parlerò all’Ammiraglio, ma non posso promettervi nulla» avvertì.
   «Gli dica che gli dovrò un favore, se accetterà la mia proposta» disse Parva. «Altrimenti finiremmo allo scontro legale, e sarebbe un’enorme seccatura per tutti».
   «Non mancherò» promise Hod. «Ma da parte vostra, voglio l’assicurazione che v’impegnerete a fondo contro gli integralisti».
   «Non ha bisogno di chiedermelo. Dopo il tradimento di Elvo, combattere queste derive è più urgente che mai» assicurò il Primo Ministro.
   Per un po’ camminarono in silenzio, poi il Capitano si rivolse alla Kai. «Eminenza, ho sentito che da qualche tempo i Cristalli – quelli dei Profeti, intendo – mostrano visioni oscure. È solo una diceria, o c’è del vero?».
   «Ahimè, è la verità!» si lamentò Nashir, sfiorandosi l’elaborato orecchino. «Le visioni sono sporadiche e vaghe, ma tutto lascia intendere che si appresta una grave minaccia. Le forze del Male sono in fermento... la temporanea liberazione del Maligno ne è la prova».
   Hod non sapeva se darle credito, ma pensò che in effetti gli alieni del Tunnel si erano più volte dimostrati capaci di prevedere il futuro. Se ora annunciavano guai, era meglio non ignorarli. «Allora, quando il Cristallo di Fuoco sarà collocato, cercheremo di eliminarlo» annunciò.
   «Come le ho detto, nessun Cristallo può essere distrutto» disse la Kai, scuotendo la testa.
   «Il fatto che non siano mai stati distrutti non significa che sia impossibile farlo» obiettò il Capitano. «La Flotta possiede armi micidiali: qualcosa di efficace lo troveremo».
   «Se anche riusciste a distruggerlo, non pensa che libererete il Maligno?» notò il Ministro Parva.
   «Non lo colpiremo, finché resterà quiescente» spiegò Hod. «Ma se quell’essere uscirà ancora, e non riuscissimo a rinchiuderlo, allora sarebbe pericoloso lasciargli il Cristallo a disposizione. Con tutto il rispetto per il Ministero dei Beni Culturali e per il clero» aggiunse, con un’occhiata alla Kai.
   «Condivido le tue preoccupazioni, figliola» disse quest’ultima, in tono più confidenziale. «Io e l’Ordine Esoterico consulteremo le antiche pergamene, in cerca d’indizi per tenere sotto controllo il Cristallo, o anche per distruggerlo. Se scopriremo qualcosa, avviseremo la Flotta» promise.
   «Grazie, Eminenza» disse il Capitano. Anche se non si aspettava che i monaci se ne uscissero con la soluzione a tutti i problemi, si disse che in fondo custodivano i Cristalli da millenni. Un po’ di conoscenza dovevano averla per forza. Chi poteva sapere quante visioni del futuro avevano avuto? Se tra i resoconti fittizi e quelli non attinenti c’era qualche indizio utile a gestire il Cristallo di Fuoco, sarebbe stato sciocco non approfittarne.
 
   «Come sta Vasa?» chiese Juri, appena vide la dottoressa Mol uscire dalla saletta di degenza.
   «Considerando che ha passato tre giorni sotto il controllo di un’entità piromane, che ha girato la testa di 180º e che ha camminato sulla lava fusa... direi sorprendentemente bene» rispose la Vidiiana. «Ha i sintomi di un grave stress psicofisico, ma nessuna conseguenza clinica preoccupante. Però voglio tenerla in osservazione».
   «È cosciente?».
   «Sì, ma preferirei che non ricevesse visite. È ancora sotto shock e le serve tempo per elaborare l’accaduto» spiegò la dottoressa.
   «Forse vedere un volto amico le gioverebbe» suggerì Juri.
   «Lei è suo amico?».
   «Diciamo così. Ci conoscevamo ai tempi dell’Università» rivelò l’Umano, un po’ infastidito, come sempre gli accadeva quando qualcuno gli faceva domande personali.
   La Vidiiana ebbe la sensazione che ci fosse molto di più, ma decise di non indagare, visto che l’altro sembrava a disagio. «Vada, ma non l’affatichi» raccomandò.
   Juri non se lo fece ripetere. Infilò la porta e la vide: Vasa giaceva sul lettino, con gli occhi arrossati dal pianto. Al suo ingresso girò la testa. «Vattene» disse con voce roca.
   «Ehi, lasciati almeno dire quanto sono contento di vedere che stai bene» disse l’Umano, entrando malgrado l’ordine.
   «Io sto bene... ma le mie vittime no» disse la Bajoriana, coprendosi il volto con le mani. «Ho ucciso delle persone, laggiù».
   «Kosst Amojan le ha uccise» corresse lo storico. «Sono vittime sue... e lo sei anche tu» aggiunse, accostandosi al lettino.
   «Io sono viva!» gridò Vasa, guardandolo finalmente negli occhi.
   «Lo dici come se fosse un male».
   «Avrei dovuto morire, prima di... di fare quelle cose».
   «Non le hai fatte tu, ma quell’essere» ribadì Juri. «Questo è chiaro a tutti: anche il tribunale non può perseguirti».
   «Ma se mi fossi opposta di più...» cominciò l’archeologa.
   «Ah-ah, non ci provare» disse lo storico, alzando l’indice. «Nessuna vittima di possessione da parte dei Pah-wraith è mai riuscita a scacciarli, o a resistere alla loro influenza. Quindi non colpevolizzarti. Se al tuo posto ci fosse stato qualcun altro... chiunque altro... le cose sarebbero andate allo stesso modo».
   «Non dovevo fare scavi nelle Caverne di Fuoco» insisté Vasa, prendendola da un’altra angolazione. «E soprattutto non dovevo aprire quella teca, dopo averla dissotterrata. Già le iscrizioni dovevano mettermi sull’avviso... ma non ho resistito alla tentazione. Trovare un nuovo Cristallo è il sogno più selvaggio di ogni archeologo Bajoriano. Mi vedevo già sulle prime pagine delle testate Olonet... l’archeologa che ha fatto la scoperta del secolo! Oh, Profeti... che sciocca sono stata!» si disperò.
   «Non c’è nulla di male nella curiosità e in un po’ d’ambizione» la consolò Juri. «Sono alcuni dei motivi per cui mi piacevi, ai tempi dell’Università» aggiunse con un sorriso nostalgico. Le prese una mano e la strinse tra le sue.
   «Sembra passato un secolo» mormorò la Bajoriana, persa nei ricordi. «Sei ancora arrabbiato con me?».
   «Beh, sei tu che mi hai mollato. Sì, forse ho ancora un po’ di... non dico rabbia, ma rimpianto» ammise l’Umano. «Ho pensato spesso a noi... a come potevano andare le cose. Ti ho anche cercata, più volte, ma non mi hai mai risposto» aggiunse con una sfumatura di rimprovero.
   «Le cose erano finite, tra noi. Dovevo andare avanti con la mia vita» disse Vasa, ritraendo frettolosamente la mano. «Comunque è bello rivederti» ammise dopo una breve pausa. «Quindi adesso lavori per la Flotta Stellare?» chiese.
   «Solo come consulente. Ho insegnato per qualche anno all’Università di Nuova Berlino, prima che... beh, il clima non era molto favorevole al dibattito» disse, glissando sui suoi guai. «Così adesso viaggio su questa nave, esaminando i reperti anacronistici».
   «Complimenti, hai fatto carriera!» disse Vasa, senza avvedersi che l’Umano non era affatto contento di com’era cambiata la sua vita.
   A Juri, invece, non era sfuggito che la Bajoriana ignorasse tutto di lui. Evidentemente non si era mai preoccupata di sapere che fine aveva fatto. La cosa lo demoralizzava, ma l’Umano decise di non demordere. «Spero ancora di tornare all’Università» disse. «Magari, tra questi manufatti anacronistici, troverò qualcosa d’interessante che invoglierà il Rettore a richiamarmi. In ogni caso, sono lieto che questa missione ci abbia fatti incontrare. Magari potremmo tenerci in contatto» disse, speranzoso.
   «Io... non so» fece Vasa, titubante. «Credimi, mi è piaciuto rivederti, ma...» lasciò in sospeso.
   «Ma cosa? Non ti ho chiesto di tornare insieme. Dico solo di farci un saluto ogni tanto» spiegò Juri, sebbene in realtà sperasse proprio di riallacciare il rapporto.
   «Un saluto va bene, ma non aspettarti di più. Vedi, c’è una cosa che devi sapere di me...» cominciò la Bajoriana, ma si bloccò subito, fissando l’ingresso.
   Juri si girò lentamente, presagendo guai.
   Modro Sisko si stagliava sulla porta. Il Maggiore si era già ripreso dal terribile scontro e adesso era in piedi, con lo sguardo ansioso. «Amore, stai bene?» chiese con voce appassionata.
   L’Umano sentì il cuore infrangersi. Indietreggiò rapidamente, nascondendo le mani dietro la schiena, sebbene avesse già lasciato quella di Vasa.
   «Sì, caro... i dottori dicono che mi serve solo un po’ di riposo» rispose la Bajoriana, con voce poco spontanea. Non provò a spiegare perché Juri fosse lì.
   «Sia lode ai Profeti! Sono stato così in pena!» gioì Modro, accostandosi al lettino. Si chinò su Vasa e la baciò a lungo, con trasporto. La Bajoriana ricambiò, alzandosi col busto, così che lui potesse abbracciarla.
   Terminate le effusioni, Modro si girò verso Juri, che era arretrato fino alla parete e fissava una consolle medica come se fosse la cosa più interessante del cosmo. «La ringrazio per aver salvato mia moglie» disse il Bajoriano.
   «Sua moglie?» chiese Juri, cercando di reprimere la smorfia di dolore. «In questi giorni non ci ha mai detto che eravate sposati».
   «Ha ragione, è stato scorretto da parte mia» ammise Modro. «Temevo che non mi avreste lasciato andare sul campo, sapendo che ero coinvolto emotivamente. Ma io credo che il nostro amore abbia contribuito a scacciare il Maligno» disse, tornando a guardare con affetto la consorte.
   «Tutto è possibile» disse Juri, muovendosi come un granchio verso l’uscita. «Beh, sono lieto di vedere che state bene. Ora devo andare. Ho un sacco di lavoro che mi aspetta».
   «Come, se ne va di già?» si stupì il Bajoriano. «Pensavo che avremmo potuto parlare un po’. Esperienze come questa non si vivono tutti i giorni. A proposito... voi due vi conoscevate?» chiese, passando lo sguardo dall’Umano alla moglie.
   «No» rispose prontamente Vasa.
   Il Maggiore si accigliò e torno a scrutare Juri. «Da come ha parlato di lei in questi giorni, avevo avuto l’impressione di sì» notò.
   «La conoscevo di fama, tutto qui» rispose lo storico. «Adesso devo proprio andare».
   «Buona fortuna, dottor Smirnov. E grazie di tutto. Lei ha fatto di me un uomo felice» disse Modro, porgendogli la mano.
   Mentre si faceva triturare la destra dalla forte stretta del Maggiore, Juri mantenne un sorriso artefatto. «La Flotta esiste per questo, no?» commentò. «Buona fortuna per l’avvenire. E occhio alle caverne».
   Con queste parole, lo storico lasciò frettolosamente la saletta di degenza. Mentre attraversava l’infermeria principale incrociò la dottoressa Mol, che notò la sua espressione adombrata.
   «Che succede?» chiese la Vidiiana.
   «Odio le missioni sul campo» disse l’Umano, passandole accanto. Uscì dall’infermeria a passo sostenuto, senza voltarsi indietro.
 
   Tre giorni dopo, Modro e Vasa vennero dimessi dall’infermeria. Furono accompagnati in sala teletrasporto dal Capitano e da altri ufficiali, ma non da Juri, che dal giorno della delusione non si faceva più vedere in giro.
   «Ho sentito che la Flotta ha accettato la proposta del Primo Ministro» disse Modro. «Il Cristallo di Fuoco sarà custodito su Deep Space Nine».
   «Sì, lo abbiamo già trasferito» confermò Hod. «Una guarnigione è sul posto per tenerlo d’occhio e gli ingegneri stanno modernizzando la stazione. Quando tutto sarà sistemato, non escludo che ci siano partnership tra la Flotta e la Milizia per sorvegliare il Cristallo e magari anche per studiarlo».
   «Allora forse ci rivedremo» sorrise il Maggiore, porgendole la mano.
   «Forse» convenne Hod, stringendogliela. «Il nostro lavoro ci porta molto in giro. Se ci ritroveremo, spero che avvenga in circostanze migliori».
   «Ottimismo, Capitano!» la incoraggiò Modro, dopo di che salì sulla pedana assieme a Vasa. L’archeologa era ancora depressa e taciturna, dopo la terribile esperienza. Anche nel momento dei saluti restò in silenzio, con lo sguardo basso. «Che i Profeti vi accompagnino» augurò Modro ai federali.
   «Arrivederci, Maggiore Sisko» rispose il Capitano, più laica.
   I due Bajoriani furono teletrasportati a terra. Hod e i suoi ufficiali tornarono in plancia, scambiandosi le ultime impressioni sulla missione. Mentre si risedeva sulla poltroncina, l’Elaysiana si sentì un po’ più sicura di sé rispetto a quand’erano partiti: aveva dimostrato di saper comandare la nave con successo. «Lasciamo l’orbita, un quarto d’impulso» ordinò.
   Mentre si allontanava dal globo verde-azzurro di Bajor, la Keter passò accanto a Deep Space Nine. La vecchia stazione spaziale era stata spostata e riadattata più volte nel corso dei secoli. I Cardassiani l’avevano costruita ai tempi dell’Occupazione per raffinare i minerali e sorvegliare il pianeta. In seguito Benjamin Sisko l’aveva portata accanto all’imboccatura del Tunnel Spaziale. Quello era stato il periodo d’oro della stazione, divenuta il crocevia di popoli dei due Quadranti, nonché baluardo federale nella Guerra del Dominio. Ma dopo la costruzione di una nuova stazione, la New Frontier, Deep Space Nine era stata riportata in orbita, divenendo una meta turistica. Molti Bajoriani, infatti, volevano visitare i luoghi in cui l’Emissario aveva vissuto e lavorato in quel periodo storico cruciale. Ora però la stazione era stata chiusa al pubblico, per diventare la cassaforte del Cristallo di Fuoco.
   Osservando la struttura che rimpiccioliva in lontananza, il Capitano Hod sentì che prima o poi la sua rotta l’avrebbe riportata lì. La sfida con Kosst Amojan era appena cominciata... e solo i Profeti sapevano come sarebbe finita. 
 

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Capitolo 2
*** La schiavitù è libertà ***


-Capitolo 1: La schiavitù è libertà

Data Stellare 2591.306

Luogo: Peliar Zel II

 

   «I passeggeri del volo 927 da Vothan sono pregati di recarsi al Centro di Smistamento. Ripeto, i passeggeri del volo 927 da Vothan sono pregati di recarsi al Centro di Smistamento. Si ricorda ai signori viaggiatori di tenere pronta la tessera d’identità genetica, per sveltire i controlli. Buon proseguimento di giornata».

   I Terrestri scesero dalle rampe della nave trasporto, appena atterrata, portando quei pochi bagagli a mano che avevano potuto tenere con sé durante il viaggio. Sotto l’occhio vigile degli agenti e dei droni di sorveglianza, lasciarono il campo d’atterraggio – circondato da un recinto elettrificato – ed entrarono nell’hangar coperto adibito a Centro di Smistamento. Quando furono tutti dentro, le porte si richiusero.

   «Benvenuti su Peliar Zel» disse una voce dagli altoparlanti. «Gli Umani sono pregati di recarsi al Gate 2, mentre tutti gli altri possono accomodarsi al Gate 1. Il resto dei bagagli sarà trasferito direttamente ai vostri alloggi. Buona permanenza sul nostro pianeta».

   La gran folla si divise in due gruppi, pressappoco equivalenti. Davanti ai cancelli si formarono lunghe file, sebbene i controllori verificassero le identità il più in fretta possibile.

   «Mamma, perché tutti dicono che veniamo da Vothan?» chiese un bambino Umano, che seguiva i suoi genitori verso l’uscita assegnata.

   «Perché il nostro pianeta si chiama così» sospirò la Terrestre.

   «Io credevo che si chiamasse Terra!» si stupì il bambino.

   «Non più. Terra era il nome che gli davamo noi Umani. Ma adesso che sono tornati i Voth, cioè i discendenti degli Hadrosauri, l’hanno ribattezzato così».

   «Perché i Voth sono stati via tanto? E perché ci hanno cacciati via?» insisté il piccolo.

   «Ssshhh... non è il momento di fare queste domande. Ne parleremo dopo» disse la madre, spaventata dall’avvicinarsi di un drone di sorveglianza. La famiglia si mise in fila con le altre.

   Appena i viaggiatori si facevano convalidare i documenti, lasciavano il Centro e salivano sui treni a levitazione. Questi prendevano due strade diverse. I treni che trasportavano gli alieni si dirigevano verso la città, dove erano stati predisposti degli alloggi dignitosi. Quelli contenenti gli Umani, invece, uscivano dal centro abitato. Dopo essersi allontanati nella steppa raggiungevano un campo circondato da un’alta recinzione, anche questa elettrificata. Qui si trovavano dei miserevoli alloggi prefabbricati, più simili a container che a vere e proprie abitazioni. Il cancello, sorvegliato da guardie armate e persino da veicoli blindati, era sormontato da una scritta in Zakdorn, la lingua della Presidente Rangda. Diceva: “La verità rende liberi”.

   Scesi dai treni, gli Umani furono scortati all’interno del campo, in un enorme spiazzo. Il sole batteva forte sulle loro teste, tanto che alcuni cominciarono ad aver sete, ma non erano previsti rinfreschi. Solo una volta entrati negli alloggi avrebbero potuto ristorarsi. Prima, però, dovevano ascoltare il discorso riservato ai nuovi arrivati. La folla si assiepò davanti al palco delle autorità, che sorgeva davanti all’unico edificio lussuoso del campo ed era protetto da un cordone di guardie in assetto antisommossa. Quando gli Umani furono tutti arrivati e i cancelli del campo si chiusero alle loro spalle, alcuni funzionari uscirono dal palazzotto e salirono sul palco. Il loro apparire fu salutato dagli applausi.

   «Benvenuti, signore e signori» disse un Peliar Zel che vestiva l’uniforme bianca e rossa dei Pacificatori, la nuova forza militare dell’Unione. «Sono il Direttore Trion e vi auguro una piacevole permanenza nel nostro Centro di Rieducazione. Tutti voi siete già stati informati del perché si è reso necessario smistarvi dalle altre specie. Io voglio solo ricordarvi che, una volta superato il corso formativo, sarete condotti in città, dove vi attendono i vostri compagni di viaggio. È prassi che io introduca i nuovi ospiti agli scopi del corso, ma in quest’occasione cederò la parola. Perché oggi, in via del tutto eccezionale, abbiamo fra noi una delle personalità più in vista dell’Unione. Un caloroso applauso per la Ministra dell’Informazione, Lyra Shil!».

   La mezza Xindi salì sul palco, accolta da un applauso ancor più roboante. Rivolse un sorriso smagliante alla folla, levò la mano in segno di saluto e dopo aver attivato l’amplificatore vocale cominciò a parlare. «A nome dell’Unione Galattica, grazie a tutti voi per l’impegno civico dimostrato durante il viaggio» esordì. «Spesso gli Umani sono riottosi, durante questa fase delle operazioni. Credono che il solo fatto d’essere nati su Vothan, o di appartenere alla specie Umana, gli dia un qualche diritto su quel pianeta. Voi invece avete dimostrato grande senso civico. Ciò, ovviamente, non significa che non siate razzisti come tutti gli altri».

   La Ministra dell’Informazione fece una breve pausa e poi ricominciò. «Vedete, la triste realtà della Galassia è che tutti quanti siamo un po’ razzisti, sotto sotto. Certo, questo non vuol dire che andiamo in giro ad aggredire la gente; ma tendiamo sempre a discriminare, almeno a livello inconscio.

   Fin qui ho detto “tutti”. Ma allora perché solo voi Umani avete bisogno di questo corso, prima di riunirvi al resto della popolazione? È presto detto. Voi Umani, a differenza delle altre specie, credete che il razzismo sia solo un atteggiamento volontario, quando in realtà è molto di più. Il razzismo è un complesso sistema d’ingranaggi politico-economici allestito secoli fa, allo scopo di favorire gli Umani e opprimere tutti gli altri. Questo, indipendentemente dal fatto che voi ne siate consapevoli e complici. Avete interiorizzato questo sistema oppressivo fin dall’infanzia e continuate a rafforzarlo ogni singolo giorno, coi vostri comportamenti. Dunque la domanda che dovete farvi non è: “Sono razzista?”, bensì: “Quanto sono razzista, e contro chi?”.

   Attenzione, non sto dicendo che siate tutti violenti. Dico solo che beneficiate – consapevoli o meno – di un sistema che opprime le altre specie. Il vostro indottrinamento comincia alla nascita ed è così incorporato nella vostra cultura da non farvi comprendere i vostri gravissimi bias cognitivi. Ecco perché dovete intraprendere un percorso di crescita e di guarigione, in questo luogo predisposto allo scopo.

   Non mi stancherò mai di ripeterlo: il vostro privilegio non significa che le vostre esistenze siano perfette. Anche voi, come tutte le altre specie, vi scontrate con le asperità della vita. Tuttavia la vostra razza non è uno dei fattori che contribuiscono a queste difficoltà. Lo so, è difficile ammettere d’essere privilegiati: sembra quasi di negare tutte le proprie fatiche e i propri conseguimenti. Ma non è così. Tutti noi vi rendiamo onore per il vostro lavoro; non vogliamo sminuirlo né screditarlo. Vogliamo semplicemente far sì che tutti gli altri abbiano le vostre stesse opportunità.

   I bias cognitivi, le appropriazioni culturali, le micro-aggressioni e il privilegio Umano sono tutte cose reali. Se pensate di non aver beneficiato di questo sistema, vi sbagliate: è che non ve ne rendete conto, e ciò costituisce il vostro privilegio. Certo, potreste argomentare che non siete stati voi a costruire questo sistema perverso. Perché dovete scontare qualcosa di cui sono responsabili i vostri avi? Non potremmo metterci una pietra sopra, e punire solo quelli di voi che compiono reati?».

   La mezza Xindi sorrise alla folla e poi riprese. «È frustrante, vero? Essere giudicati per la vostra razza... per qualcosa che hanno fatto i vostri antenati. Ma vedete, cari Umani, questo momento storico che stiamo vivendo non riguarda voi. Perché la Galassia non ruota attorno a voi. Questa non è la vostra rivoluzione, perché non ve ne serve una. Non-ve-ne-serve-una» ripeté, scandendo bene le parole per farle entrare nelle loro testoline. «E questo deve rendervi felici. Perché anche questo è un privilegio».

   L’oratrice osservò la folla e, trovandola debitamente silenziosa, riprese il discorso. «Ebbene, poiché siete Umani, non vi chiediamo di capire quanto è stata tossica la vostra colonizzazione culturale. Non potete comprendere quanta sofferenza ci avete inflitto... non ne siete capaci. E nessuno, qui, vi chiede di fare l’impossibile. Per quanto possiate impegnarvi, non capirete mai cosa significa vivere per generazioni sotto l’oppressione culturale di un’altra specie. Ma non avete bisogno di capirlo, per accettare il semplice fatto che siete parte del problema. Ricordate: la Galassia non gira attorno a voi!

   Vi abbiamo portati qui per farvi sentire la nostra voce: tutto ciò che dovete fare è ascoltare. Più lo farete, più diverrete consapevoli della vostra ignoranza e dei vostri pregiudizi. Vedete, il razzismo somiglia all’odio, ma l’odio è solo una delle sue molteplici manifestazioni. Un’altra è il privilegio. Un’altra è l’ignoranza. Un’altra ancora è l’apatia contro le ingiustizie. Voi siete qui per guarire, nei limiti del possibile, da questi mali. Sarà difficile? Certo che sì. Ma non c’è crescita senza fatica e disagio. Ricordate: se potete scoprire cos’è il razzismo tramite il nostro corso, anziché viverlo brutalmente sulla vostra pelle, è perché siete privilegiati».

   La fine del discorso fu salutata da un lungo applauso. Alcuni applaudivano perché sinceramente convinti, altri perché vedevano i droni che ronzavano sopra le loro teste e temevano ritorsioni, se non si fossero uniti al coro.

   Quando le ovazioni si furono placate, Lyra volle occuparsi dell’ultimo dettaglio. «Fra poco andrete a riposare nei vostri nuovi alloggi, così che domattina possiate cominciare il corso. Ma prima di lasciarvi, voglio chiedervi un piccolo gesto d’umiltà. Consideratelo la prima lezione... il primo passo del vostro cammino di guarigione. Inginocchiatevi, ponendo entrambe le ginocchia a terra, e ammettete le vostre colpe. Se fate questo, tutto il resto sarà più facile».

   Gli Umani obbedirono all’ordine. I primi a farlo furono i ragazzi e gli adulti. Poi toccò ai bambini piccoli, che lo fecero per imitazione. Gli ultimi a obbedire, più controvoglia, furono gli anziani.

   Tutti tranne uno.

   Un uomo sull’ottantina restò fieramente in piedi, fissando il palco con le braccia incrociate sul petto. Essendo l’unico in piedi, in una folla prona, attirò gli sguardi di tutti. «Chinati, vecchio pazzo!» gli sussurrò qualcuno che gli stava accanto, ma lui ignorò il consiglio.

   Vedendo il ribelle, Lyra fu assalita dallo sdegno. Era tipico degli Umani, rovinare le cose proprio quando volgevano al meglio. Capì che non poteva sorvolare su quel gesto di sfida: doveva occuparsene subito e con decisione.

   «Ci occuperemo di quel soggetto...» promise il Direttore Trion, che le stava a fianco.

   «No, ci penso io» lo fermò Lyra, abbozzando un sorriso. Di tutte le specie con cui aveva avuto a che fare, gli Umani erano di gran lunga la più fragile. Ci voleva un niente per spezzare il loro ego infantile. E lei non vedeva l’ora di spezzare quel ribelle. «Ehi, dico a lei, che è rimasto in piedi! Vorrebbe gentilmente dirci il suo nome?» chiese con finta cordialità.

   «Winston Samsa» rispose l’uomo. «Tenente a riposo della Flotta Stellare».

   «La Flotta, eh? Immagino che l’abbia lasciata prima della riforma» disse Lyra, pregustando una lezione coi fiocchi. La vecchia Flotta Stellare era stata sciolta l’anno prima, lasciando il posto ai Pacificatori. Quelli che non avevano accettato di prestare il nuovo giuramento si erano dimessi, o erano diventati ribelli.

   «Esatto» confermò l’uomo. «Ho prestato servizio durante la Guerra delle Anomalie, quando la Galassia ha rischiato la distruzione. All’epoca erano i Na’kuhl a pretendere che c’inginocchiassimo davanti a loro. Non l’abbiamo fatto. Li abbiamo combattuti con tutte le nostre forze... e li abbiamo sconfitti» ricordò. «Dunque non vedo perché ora dovremmo inginocchiarci davanti a voi».

   «I Na’kuhl volevano distruggerci. Noi vogliamo far progredire l’Unione» spiegò la mezza Xindi.

   «Ciò che voi chiamate “progresso”, molti altri lo chiamano dittatura» rimbeccò Samsa, suscitando lo stupore e l’ostilità di quanti lo circondavano.

   «Quelli di cui parla sono criminali e terroristi» disse Lyra. Svanito il tono amichevole, ora fissava l’Umano con freddezza.

   «Si riferisce ai suoi genitori e a suo fratello? Ho sentito che si sono uniti ai ribelli» la punzecchiò l’Umano.

   «Infatti saranno assicurati alla giustizia, come tutti gli altri» disse Lyra, arrossendo per quell’affondo personale. «Vede, è proprio a causa della Guerra Civile che i gesti di distensione sociale sono più urgenti che mai. Rifiutando d’inginocchiarsi e di chiedere scusa, lei sta insultando tutti gli alieni che vivono nell’Unione».

   «L’insulto sarebbe inginocchiarsi» insisté Samsa. «Vede, giovanotta, inginocchiarsi è sempre stato un gesto da schiavi, e sempre lo sarà. Io sono un uomo libero. Non mi sono mai inginocchiato davanti a nessuno, né ho preteso che altri lo facessero davanti a me. Questo deve valere per tutti. Nessuno dev’essere costretto a inginocchiarsi e nessuno deve pretendere che lo facciano gli altri, perché abbiamo tutti la stessa dignità».

   «Vedo che lei non ha minimamente compreso il senso di questo gesto» disse la Ministra, sempre più incollerita. «Inginocchiarvi non serve a soddisfare il nostro ego – che non dipende da voi – bensì a rendervi più consapevoli delle vostre colpe. È una medicina che lei, stupidamente, rifiuta di assumere. In tal modo sta facendo del male a se stesso. E sta dimostrando a tutti che la sua specie non è pronta a progredire. Questo è un insulto non solo per gli alieni, ma anche per gli Umani che invece vogliono migliorarsi. A riprova delle mie parole, voglio che tutti coloro che si sentono feriti e insultati dal gesto del signor Samsa alzino la mano».

   Migliaia di mani si alzarono all’istante. Le guardie e il personale del campo le avevano alzate tutti; ma anche gli Umani lo avevano fatto. Nessuno voleva passare per contestatore, temendo che in quel caso non sarebbe più uscito dal Centro. L’anziano ufficiale di Flotta si guardò attorno sconfortato: attorno a lui c’era un muro di ostilità.

   «Vede, signor Samsa? La democrazia mi da ragione!» esultò Lyra. «Ora lei s’inginocchierà, o dovremo punirla per la sua infantile riottosità».

   «E come mi punirete? Mettendomi davanti a un muro e fucilandomi? Ficcandomi in una cabina di disgregazione? Cosa succede a chi non supera i vostri corsi, eh?!» protestò il vecchio Umano, tremante d’indignazione.

   «Li superano tutti, alla fine» rispose Lyra, con un sorriso inquietante. «Tutti apprendono la verità che li rende liberi. Alcuni ci mettono più tempo, tutto qui. Lei, evidentemente, sarà uno di quei ritardatari. La lezione che apprenderà oggi è questa: nessuno può sfuggire alle proprie colpe. Più tenta di sottrarsi, più il fardello aumenta... finché la schiaccia».

   A un cenno della Ministra, il comandante dei Pacificatori inviò un segnale ai droni che sorvolavano il campo. Uno dei marchingegni scese in picchiata contro il signor Samsa. L’anziano levò le braccia per proteggersi, temendo che lo avrebbe colpito, ma si sbagliava. Giunto a due metri da lui, il drone si fermò a mezz’aria e cominciò ad aprirsi come un meccano. Persa l’iniziale forma compatta, divenne un intrico di tubuli, sottili ma resistentissimi. Questi tubuli si mossero come un groviglio di serpenti, finché assunsero una forma ben definita. La forma di un corpo umano.

   Samsa fu assalito dall’angoscia e iniziò a tremare, vedendo quel simulacro umano a forma di gabbia che gli veniva contro camminando. Somigliava agli esoscheletri che gli individui abituati alla bassa gravità usavano per muoversi. Ma a differenza di quelli, che servivano a sostenere, questo aveva lo scopo di opprimere.

   L’Umano cercò di fuggire, ma il congegno lo raggiunse con poche falcate. Gli si abbarbicò addosso, avvolgendogli tutte le membra con la sua sottile, ma inflessibile rete. Samsa gridò di terrore e dolore, sentendosi strattonare da tutte le parti. Attorno a lui, gli altri Umani lo osservavano con reazioni che andavano dal compiacimento all’interesse morboso. Ma più soddisfatta di tutti era Lyra, che dal palco delle autorità si godeva la scena. A conti fatti, era lieta che quello stupido Umano si fosse ribellato: così ne aveva fatto un esempio per gli altri.

   «Ah!» gridò Samsa, mentre la gabbia metallica terminava di avvolgerlo. Era del tutto immobilizzato: nelle gambe e nelle braccia, nel busto e nella testa. Persino le singole dita erano avvolte dai listelli metallici che ne controllavano i movimenti, con precisione certosina.

   «Guardi che cosa ha fatto a se stesso» disse la Ministra, con severità. «Non si vergogna? Adesso s’inginocchierà, com’è giusto che sia». Al suo cenno, la gabbia metallica costrinse Samsa a chinarsi, mettendo ambo le ginocchia a terra. Lacrime d’umiliazione solcarono le guance dell’anziano.

   «Bene. Ora che l’inconveniente è superato, tutti voi pronuncerete un solenne giuramento. In alto le mani, mentre giurate!» ordinò Lyra.

   Gli Umani, che erano rimasti a terra per tutto il tempo, fecero come ordinato.

   «Leggete queste parole, a voce alta e chiara. Voglio sentire le vostre voci!» comandò la mezza Xindi. Il testo del giuramento apparve sopra il palco, in forma di lettere olografiche che scorrevano lentamente. La folla iniziò a leggere: le migliaia di voci si fusero in un unico, possente suono.

   «Noi siamo colpevoli, e siamo qui per apprendere la verità che ci renderà liberi. La nostra arroganza maschera la paura e la vergogna che proviamo per il male che abbiamo inflitto agli altri. Siamo prigionieri di una vita ipocrita, che c’impedisce di relazionarci genuinamente con gli altri. Ma da oggi, cominceremo a rompere questo meccanismo perverso.

   Giuro di seguire il Corso di Rieducazione con tutta la mia attenzione, la mia passione e il mio impegno.

   Giuro di liberarmi dai miei ingiusti privilegi, dai miei bias cognitivi, dalla mia mentalità retrograda che finora mi ha reso un oppressore.

   Giuro d’impegnarmi con tutte le mie forze per la giustizia, la libertà e l’uguaglianza di tutte le specie, entro i limiti consentiti dalla mia imperfetta natura Umana. Questo solenne impegno vale oggi e per il resto della mia vita».

   Le ultime lettere olografiche svanirono nell’aria. Terminato il giuramento, la folla inginocchiata attese i prossimi ordini. Lyra la osservò compiaciuta. Gli Umani erano stati obbedienti, quindi li avrebbe premiati. Tutti tranne il vecchio perturbatore: lui era ancora in punizione.

   «In piedi, ora!» ordinò la Ministra, sbattendo le mani, come avrebbe fatto con degli animali. Gli Umani obbedirono. Anche il vecchio Samsa dovette rialzarsi, seguendo i movimenti della sua gabbia.

   «Ora potete recarvi agli alloggi assegnati, per scaricare i vostri bagagli e riposare» spiegò Lyra. «I replicatori alimentari vi forniranno un pasto standard. Consiglio a tutti voi di sfruttare il resto della giornata per familiarizzare col regolamento del Centro. Potete passeggiare fuori dagli alloggi, ma senza uscire dal campo. Vi avverto inoltre che alle 20 in punto scatterà il coprifuoco. Chi si attarderà all’esterno, dopo quell’ora, sarà interrogato dalle guardie e se non saprà giustificarsi passerà la notte in cella d’isolamento. Buona permanenza; mi auguro che questa sia un’esperienza piacevole e formativa per ognuno di voi. Ma prima che andiate, vorrei che diceste al signor Samsa cosa pensate di lui. Non servono azioni... basteranno le parole» disse, fissando l’Umano con un sorriso perfido.

   Sotto la spinta dell’esoscheletro, che lo muoveva come un burattino, il veterano della Flotta si diresse verso l’alloggio assegnatogli. I suoi movimenti erano rigidi e legnosi. Il resto della folla si aprì in due ali, lasciando un corridoio vuoto attraverso cui poteva muoversi. Da ambo i lati, gli altri Umani gli fecero sapere cosa pensavano di lui.

   «Razzista!».

   «Oppressore!».

   «I tuoi privilegi sono finiti, non l’hai ancora capito?».

   «Vergognati».

   «La pagherai».

   Poco alla volta, gli insulti e le minacce si precisarono in un canto ritmico: «Oppressore! Vergogna! Oppressore! Vergogna!». Malgrado l’ordine di trattenersi dalle azioni punitive, molti Umani sputarono addosso al loro simile, mentre questi gli passava davanti. Non contentandosi di colpirlo lateralmente, alcuni gli si accostarono per sputargli in faccia. La cosa proseguì finché l’Umano ingabbiato raggiunse l’ingresso del suo alloggio. Solo allora l’esoscheletro si aprì, permettendogli di entrare e di chiudersi dietro la porta, perché nessuno lo vedesse singhiozzare. La gabbia metallica ora vuota si ripiegò su se stessa; in pochi secondi riassunse la configurazione di drone. E il drone accalappiatore tornò a svolazzare sul campo, assieme a centinaia di suoi simili. Il messaggio rivolto ai visitatori era chiaro: il dissenso non era tollerato.

   Osservando la folla che si disperdeva, Lyra pensò che probabilmente non ci sarebbero stati incidenti. Certo, ogni tanto sarebbe servito qualche intervento correttivo, come quello appena applicato: dopotutto gli Umani erano incorreggibili. Ma non ci sarebbero state rivolte, come talvolta era accaduto in altri Centri. Questo branco era già mansueto; figurarsi a fine corso. Dopo aver infierito sul capro espiatorio, sfogando la loro aggressività, gli Umani si recavano ai loro alloggi col sorriso sulle labbra, del tutto malleabili. Ci avrebbero pensato gli esperti del Centro a istruirli: psicologi, consiglieri, personal trainer. E per i casi più gravi c’erano sempre i neurochirurghi. Non importava quanto fossero deboli, stupidi e meschini gli Umani che entravano nel Centro: quando ne uscivano, tutti amavano l’Unione Galattica e avevano una fiducia incrollabile nella Presidente Rangda.

 

   Finita la cerimonia d’accoglienza, Lyra tornò nel palazzotto, dove si trattenne a parlare con il Direttore Trion e altri responsabili del Centro. C’erano molti problemi da risolvere: carenza di personale, necessità di standardizzare le terapie, per non parlare dei lavori d’ampliamento. Presto infatti sarebbero giunti altri Umani: era indispensabile che il Centro potesse accoglierli. Dall’alto della sua posizione ministeriale, Lyra non aveva bisogno di approfondire i dettagli: ricordò a Trion che lui era il responsabile della struttura, e sarebbe stato responsabile anche delle inadempienze.

   A sera, la mezza Xindi lasciò il Centro su una navicella e tornò in città, dove l’attendeva un appartamento di lusso nel complesso governativo. Si sarebbe trattenuta a Peliar Zel ancora un giorno, per poi muovere nel sistema adiacente, e così via. Il suo lavoro di Ministra dell’Informazione la teneva sempre in viaggio. Non che ciò le dispiacesse: non si era mai sentita così utile in vita sua. Aveva la certezza di stare davvero contribuendo a migliorare l’Unione.

   L’unica cosa che le metteva tristezza era il bollettino di guerra quotidiano. Ogni sera, infatti, doveva collegarsi col Quartier Generale dei Pacificatori e sorbirsi il rapporto sugli scontri della giornata. Era così da quasi un anno, cioè da quand’era scoppiata la Guerra Civile.

   Il casus belli era stato il ritorno dei Voth, discendenti degli Hadrosauri terrestri, che dopo aver trascorso milioni di anni nel Quadrante Delta erano divenuti una delle civiltà più progredite della Galassia, ma avevano anche dimenticato il loro mondo d’origine. La loro ricerca del Mondo Perduto li aveva portati sulla Terra, dove avevano esaminato il DNA delle specie locali, trovando la prova inconfutabile della loro parentela genetica. A quel punto, com’era prevedibile (ma come pochi avevano effettivamente previsto) i Voth avevano reclamato la Terra. E la Presidente Rangda, non volendo combatterli, li aveva accontentati. Il trasferimento dei Terrestri – sia Umani che alieni – era cominciato subito, con l’eccezione di quanti vivevano sull’isola artificiale di Atlantide, che rimaneva sotto la giurisdizione dell’Unione.

   Tutto questo aveva generato delle resistenze, purtroppo assai superiori al previsto. Un terzo dei pianeti aveva dichiarato la secessione, riesumando il vecchio nome di Federazione, e un’analoga porzione della Flotta Stellare aveva rifiutato di stare agli ordini. Così la Presidente aveva dovuto riformare i lealisti della Flotta, creando i Pacificatori, e aveva bandito i ribelli. Dopo un anno di accanita Guerra Civile, i Pacificatori avanzavano trionfalmente su tutti i fronti. Ciò era dovuto a molti fattori. In primo luogo, i sistemi lealisti erano più numerosi e quindi disponevano di un apparato industriale superiore ai ribelli, così che potevano costruire ed equipaggiare un maggior numero di astronavi. Inoltre Rangda si era assicurata l’aiuto dei Breen, anche se non era chiaro cosa gli avesse promesso in cambio. Infine c’erano i Voth, che dopo aver ottenuto la Terra – ribattezzandola Vothan – contribuivano a domare la ribellione. Questo era l’unico punto dolente, perché dopo essersi presi il pianeta i sauri si erano adagiati sugli allori, concentrandosi sul trasferimento dei Terrestri e la demolizione delle loro città. Gli aiuti che avevano promesso all’Unione erano scarsi, considerando che il conflitto era scoppiato a causa loro. In pratica i Voth si limitavano a sostenere l’economia dell’Unione e ad armare Pacificatori. Ogni tanto partecipavano a operazioni di pattuglia e peacekeeping, ma per la maggior parte del tempo le loro invincibili astronavi restavano a guardia del sistema solare, mentre i Pacificatori e i Breen lottavano al fronte.

    «Poco male» si disse Lyra. «Se le nostre forze continuano ad avanzare al ritmo attuale, la guerra finirà entro due anni. Allora, finalmente, vivremo liberi da quest’incubo».

 

   Rientrata nel suo lussuoso appartamento, Lyra decise per prima cosa di cambiarsi d’abito. Voleva mettersi qualcosa di più comodo, prima di visionare il bollettino di guerra della giornata. Poi avrebbe potuto cenare e infine godersi il meritato riposo. Aveva annullato una cena di gala con il Primo Ministro, per poter mangiare una volta tanto da sola, in santa pace. «Computer, luci» disse, notando che l’illuminazione del salotto era stranamente fioca.

   Al suo ordine, la camera si rischiarò. Fu allora che Lyra si accorse dell’intruso. Era seduto sul divanetto e impugnava un phaser tascabile, puntandoglielo al cuore.

   «Ciao, sorellina» disse Vrel Shil, timoniere della nave ribelle USS Keter. «Come ti butta?».

   «Vado alla grande, da quando sei sparito dalla mia vita» rispose Lyra, con una smorfia di rabbia e disprezzo. «Ho fatto carriera come tu non potrai mai. Sai che sono una delle cinquanta persone più influenti dell’Unione?».

   «Lo sospettavo, visto come monopolizzi i notiziari» disse Vrel, con un sorriso amaro. «Peccato che tutto questo potere lo usi per opprimere la povera gente. Getta il comunicatore» ordinò, muovendo appena il phaser.

   Temendo che il fratello le sparasse, la mezza Xindi obbedì. Staccò il comunicatore dalla giacca e lo lasciò cadere a terra. Poi arretrò di due passi. «Io sto liberando i Terrestri» rivendicò. «Stiamo costruendo una nuova Unione, in cui tutti sono finalmente uguali».

   «Ti do un consiglio per accelerare le cose» disse il timoniere, alzandosi. «Chiamate i Borg, così ci assimileranno tutti».

   «Vedo che sei ancora un buontempone» disse Lyra. «È una qualità che ti sarà utile, in cella».

   «In cella? Credevo che le prigioni non esistessero più» ironizzò Vrel. «Adesso avete i Centri di Rieducazione». Dette un calcio al comunicatore della sorella, mandandolo sotto al divanetto.

   «Magari finirai lì» convenne Lyra. «In ogni caso, la tua vita da criminale è finita. Che tu mi uccida o meno, sei finito».

   «Pensi che sia qui per ucciderti?» chiese il timoniere.

   «È quello che fate di solito voi terroristi» rispose la Ministra, alzando un sopracciglio. «O vuoi prendermi in ostaggio? Sarebbe sciocco: non uscirai da questo edificio».

   «In effetti ho riflettuto a lungo su cosa ti avrei fatto, dopo averti scovata» disse Vrel, sempre minacciandola col phaser. «Ho cominciato a pensarci subito dopo essere uscito dal coma in cui tu mi spedisti, trafiggendomi il cuore» ricordò, tremando di collera repressa. I medici della Keter avevano dovuto trapiantargliene uno nuovo, per salvarlo.

   «Era un’operazione di polizia. Se ti fossi lasciato arrestare senza opporre resistenza, non ci sarebbero stati incidenti» ribatté Lyra, impassibile. «Come al solito, voi ribelli siete la causa del vostro male».

   «Almeno levami una curiosità. Mi hai trafitto apposta?» chiese il timoniere.

   «No, volevo solo gettarti all’indietro. Non avevo notato quel travetto metallico» rivelò la sorella. «Invece la tua amica Jaylah mi ha gettata volontariamente fuori dalla finestra. Mi sono rotta quindici ossa, comprese tre vertebre. Anche dopo che i chirurghi mi hanno ricomposta, la schiena mi ha fatto un male cane per giorni. Ha smesso di dolere solo dopo che abbiamo ripulito Vothan dalle vestigia umane» sogghignò.

   «Jaylah ti ha colpita perché tu stavi per spararle» le ricordò il fratello.

   «Okay, lasciamo perdere i dettagli e guardiamo all’essenziale. Un trapianto di cuore, una schiena rotta... direi che siamo pari. Quindi puoi smetterla di fare il risentito» suggerì Lyra.

   «Non ancora» avvertì il timoniere. «A causa del tuo tradimento, molte astronavi sono state distrutte. E hai spezzato il cuore ai nostri genitori».

   «Se lo meritano!» ringhiò Lyra. «Non immagini quanto mi danneggia la reputazione, avere voi tre che militate fra i ribelli. Ma se ti consegno alla giustizia, dimostrerò la mia fedeltà all’Unione».

   «All’Unione... o a Rangda?» la punzecchiò Vrel. «Ho sentito che la vecchiarda ha rimosso il tetto massimo di due mandati. Adesso potrà restare Presidente a vita. Immagino che adotterà un titolo più confacente al suo ruolo... che so, Imperatrice».

   «La Presidente Rangda è al potere grazie a un voto democratico. Lo resterà fintanto che gli elettori le accorderanno fiducia» ribatté Lyra.

   «E tu t’inchini davanti a lei? Come s’inchinano gli Umani, quando li rinchiudi nei campi di concentramento?!» si scaldò il mezzo Xindi.

   «Centri di Rieducazione» corresse Lyra. «È una misura necessaria, a causa della loro inciviltà».

   «Okay, ne ho abbastanza» tagliò corto Vrel. «Siediti lì, avanti!» ordinò, accennandole una sedia.

Lyra si accorse che ai braccioli erano fissate due manette elettroniche, del tipo usato dalla polizia. Una volta seduta, l’avrebbero bloccata.

   «Cos’hai in mente? Mi vuoi torturare?» chiese la Ministra, accostandosi alla sedia.

   «No, voglio sondarti la mente. Così saprò se l’Unione ti ha condizionata» rispose Vrel.

   «Fatica sprecata! Io sono sempre me stessa» sbottò Lyra, accomodandosi sulla seggiola. Le manette elettroniche scattarono, immobilizzandola.

   «Ah, davvero? Se ti avessero fatto qualcosa, te lo ricorderesti? Io non credo» ribatté il timoniere, chinandosi su di lei. «La sorella che avevo non ci avrebbe mai traditi, né avrebbe contribuito alle deportazioni. Eri un’idealista che si batteva per abolire la Prima Direttiva, perché pensavi che tutti i popoli dovessero condividere il nostro benessere. Ricordo con quanta passione ne parlavi... dicevi che ti stavano a cuore tutte le specie. Ma ora che sono gli Umani a essere strappati dal loro pianeta, tu infierisci su di loro! Perché, tra tutte le specie della Galassia, ce l’hai proprio con gli Umani? Che male ti hanno fatto?!».

   «Sono la causa delle ingiustizie dell’Unione, compresa la Guerra Civile» rispose Lyra, sprezzante. «Comunque sei certo di non essere tu quello condizionato? Il fratello che avevo non sarebbe mai diventato un terrorista, solo per correre dietro ai suoi amici balordi».

   «Li seguirei all’Inferno, se servisse a proteggerli da te» ribatté il timoniere. «Bando alle ciance: vediamo cosa ti hanno ficcato in testa» disse, girandole attorno. Quando le fu alle spalle, cavò di tasca un sensore neurale di modello atipico e glielo attaccò alla base del cranio.

   La mezza Xindi sussultò e s’irrigidì, sentendo i piccoli ganci metallici che le artigliavano la pelle. Cercò di opporsi all’intrusione mentale, ma non si trattava di affrontare un altro telepate. C’era solo quel dannato sensore che analizzava la sua biochimica cerebrale, in cerca delle anomalie indicanti il condizionamento mentale. «Mentecatto! Credi davvero che mi abbiano fatto qualcosa? L’unico demente qui sei tu!» ringhiò la giovane, dimenandosi con tutte le sue forze. Ma le manette non si sarebbero certo spezzate e anche la sedia era di duro titanio.

   Ignorando le proteste, Vrel attivò il suo d-pad da polso. Lo schermo olografico gli mostrò i dati raccolti dal sensore. Tutti gli indicatori erano negativi. Non c’era segno d’intervento chirurgico, né di trattamento farmacologico o elettromagnetico. Non c’erano nemmeno le tracce di un condizionamento effettuato da un altro telepate. Leggendo quei dati, il timoniere sentì morire l’ultima speranza di riavere sua sorella. Rassegnato, le sganciò il sensore dal collo e lo ripose in tasca.

   «Allora, che dice il tuo aggeggio?» chiese la mezza Xindi, muovendo il collo indolenzito.

   Vrel fu tentato di mentirle, dicendo che aveva riscontrato un’alterazione, pur di portarla via da lì. Ma scartò subito l’idea. Sua sorella non gli avrebbe mai creduto; non tanto da fuggire con lui. E ben difficilmente sarebbe riuscito a portarla via a forza. Con il passo lento e pesante della sconfitta, il timoniere completò il giro attorno alla sedia. «Dice che non sei stata influenzata» ammise. «A questo punto, non posso più salvarti».

   «Non salverai neanche te stesso» disse Lyra, con un sorriso compiaciuto. «Da un momento all’altro arriveranno le mie guardie. Sei finito! Io, d’altro canto, consoliderò la mia posizione con la tua cattura. Quindi devo ringraziarti: sei stato molto utile alla mia carriera».

   «Sempre che tu sopravviva!» ringhiò Vrel, puntandole il phaser in fronte. «Quando mi sono svegliato dal coma, ho promesso di ucciderti con le mie mani, se avessi scoperto che ci avevi traditi spontaneamente».

   «Sparami, allora!» lo sfidò Lyra. «Sarai noto come il ribelle che ha assassinato sua sorella. Tsk tsk! Farai una pessima pubblicità alla tua causa. E come dicono in molti, in questa guerra è l’immagine che conta».

   Il fratello la fissò con odio, a un passo dal premere il grilletto. Ma in quella irruppero una mezza dozzina di Guardie Ministeriali, riconoscibili dalle uniformi giallo mostarda. «Getta quell’arma!» intimò il caposquadra, mentre tutti lo prendevano di mira coi fucili phaser. Ma Vrel puntava ancora il phaser al volto di Lyra.

   Vedendo il ghigno sardonico di sua sorella, il timoniere fu vicinissimo a sparare. Solo il pensiero dei loro genitori lo trattenne. Fissandola con occhi iniettati di sangue, alzò il phaser e poi lo lasciò cadere. Subito le guardie gli furono addosso. Lo trascinarono poco lontano e lo obbligarono a inginocchiarsi con le mani dietro la schiena, mentre il caposquadra liberava Lyra.

   «Ce ne avete messo di tempo» disse la Ministra, scattando in piedi. Si massaggiò i polsi per riattivare la circolazione.

   «Siamo intervenuti dopo aver rilevato una violazione della sicurezza» spiegò il caposquadra. «Interrogheremo subito il ribelle, per sapere com’è entrato e se ha dei complici».

   «Al tempo!» disse Lyra, trattenendo le guardie che stavano per trascinarlo via. Si accostò al fratello, guardandolo dall’alto in basso. «Anch’io voglio sapere una cosa da te».

   Vrel percepì la sua collera e si preparò al peggio. La sorella si chinò su di lui, con gli occhi ridotti a fessure, e gli sussurrò all’orecchio: «Dov’è Jaylah? È sparita dopo l’attacco a Memory Alpha, undici mesi fa. Corre voce che sia morta, ma nessuno ha ritrovato il corpo. Tu che le eri così vicino, saprai come stanno le cose».

   «Dì la verità... tu e Rangda ve la fate sotto, al pensiero che sia ancora in circolazione» sogghignò Vrel. «Un’Agente Temporale addestrata... chi sa cosa può fare? Magari ve la vedrete sbucare davanti quando meno ve lo aspettate».

   «No, se l’accoppiamo prima noi. Dov’è Jaylah?!» ripeté Lyra, sfrigolante di rabbia. Siccome Vrel non rispondeva, ma continuava a fissarla beffardo, la Ministra fece un cenno al caposquadra. Questi colpì Vrel col calcio del fucile, facendolo cadere in avanti.

   Mezzo stordito, il timoniere trovò la forza di ridere. «Se conosci Jaylah, dovresti sapere dove si trova: sempre un passo avanti a te!» si sbellicò. «Quando verrà a prenderti, non basteranno i tuoi minion a proteggerti!».

   «Allora ti userò per tenderle un’imboscata» decise la Ministra. «Ma prima hai bisogno d’essere ammorbidito». Così dicendo gli dette un calcio nelle costole, strappandogli un lamento. Poi si rivolse alle guardie. «Rompetegli le ossa» ordinò. «Ma risparmiategli i denti, perché lo devo interrogare ancora».

   La mezza Xindi arretrò di qualche passo, godendosi lo spettacolo delle guardie che infierivano sul prigioniero riverso, tempestandolo di calci. Vrel si mise in posizione fetale, con le braccia attorno alla testa per cercare di proteggersi. «Complimenti! Che bella Unione stai costruendo... piena d’amore e pace! Tutti saranno trattati così?» chiese tra un colpo e l’altro.

   «Solo chi se lo merita» rispose Lyra, col sorriso sulle labbra. Vedere suo fratello maggiore – il preferito – che veniva massacrato di botte le dava un’intensa soddisfazione. Ma sentì di avere la gola secca. Era dall’ora di pranzo che non beveva e forse il sensore neurale di poco prima le aveva stressato l’organismo. Decise di andare a farsi un goccio.

   «Torno subito... tu non te ne andare, eh?» lo derise, mentre lasciava il salotto. I rumori attutiti delle percosse restarono udibili anche quando passò nella saletta adiacente.

 

   Si trattava di uno studio, provvisto di replicatore alimentare incassato nella parete. Lyra pensava di ordinare qualcosa di delicato, forse un merlot ktariano, quando s’imbatté in un secondo intruso. A vederlo sembrava un Umano, alto e dinoccolato. Era chino sulla consolle del computer e aveva un dispositivo elettronico in mano; forse qualcosa per scaricare i dati. Tuttavia sembrava disarmato: non aveva un phaser, né altre armi in vista.

   «Salve, Ministra» l’accolse l’intruso, senza nemmeno alzare gli occhi dalla consolle. «Le spiace attendere un minuto, mentre finisco?».

   Quel disinteresse era la peggiore delle provocazioni. Lyra si avventò fulminea sull’Umano e lo agguantò, facendogli cadere il dispositivo. Poi lo spinse indietro e lo schiacciò contro la parete. «Tu chi sei?!» berciò.

   «Sono un Umano... di quelli che non s’inginocchiano» rispose l’intruso. «Non l’ho fatto davanti a Kosst Amojan e sta’ certa che non lo farò davanti a una bambina viziata».

   «Oh, sì che lo farai! V’inginocchierete tutti!» sibilò la mezza Xindi, premendogli la gola col braccio per mozzargli il respiro.

   «E tu saresti la sorella di Vrel? Sicura che non ti abbiano adottata?» la provocò l’Umano.

   Stizzita, Lyra gli premette la gola ancora più forte. «Lurida bestia umana! Credi di poterti misurare con me? Sono più forte, più veloce e dieci volte più intelligente di te!» esclamò.

   «E io sono più armato» rantolò l’intruso. «DiDiP, colpisci!».

   Il Dispositivo per la Difesa Personale entrò in azione. Da quello che sembrava un normale comunicatore agganciato sulla giacca partì un getto nebulizzato che colpì Lyra in pieno volto. La mezza Xindi arretrò subito, sfregandosi gli occhi. Provava un bruciore terribile e lacrimava copiosamente. Quando riuscì, con difficoltà, ad aprire gli occhi, continuò a vedere tutto nero. Quello spruzzino l’aveva accecata.

   «Brucia, vero? Gli effetti durano qualche ora» la informò l’Umano.

   Anche se Lyra non vedeva più nulla, la voce le indicò che l’avversario le stava ancora di fronte. Con un ringhio animalesco, la mezza Xindi si scagliò in avanti, decisa a rompergli il collo.

   Juri Smirnov – perché di lui si trattava – si aspettava quella mossa. Scansò l’assalto con una piroetta, lasciando che l’avversaria sbattesse contro il muro. Poi afferrò un vaso ornamentale posato sulla mensola e glielo ruppe in testa. Lyra crollò al suolo, tramortita.

   «Fortuna che è un falso» commentò lo storico, osservando la sezione del vaso. Si gettò l’ansa alle spalle e andò a raccogliere il dispositivo elettronico su cui aveva scaricato i dati. Vide che aveva raccolto il 90% del database. «Può bastare» si disse. Allora cavò di tasca una granata stordente, piccola come una biglia, e si accostò alla porta. Sentiva il rumore del pestaggio ancora in corso. Appena la porta cominciò ad aprirsi, l’Umano gettò la granata, che esplose all’impatto.

   La luce intensa e il boato passarono dalla porta semiaperta, ma Juri si era messo di lato, con gli occhi chiusi e le dita nelle orecchie. Passato qualche secondo, riaprì gli occhi e sbirciò nel salotto. Le guardie erano a terra, prive di sensi. L’Umano lasciò il riparo e sgusciò tra i corpi riversi, fino a raggiungere Vrel. Il mezzo Xindi era ancora rannicchiato a terra; portava i segni del pestaggio. «Su, alzati, ragazzo! È ora di andare» lo informò Juri, porgendogli la mano.

   «Ti ho detto mille volte di non chiamarmi ragazzo» borbottò Vrel. Anche se era di quindici anni più giovane, il timoniere si considerava a buon diritto un veterano dello spazio. Afferrò la mano dell’altro e con quell’aiuto riuscì a rimettersi in piedi, pur barcollando e avendo male dappertutto.

   «Come vuoi, ragazzo» disse Juri, aiutandolo a sorreggersi. Quando vide che si era un po’ ripreso, si azzardò a mollarlo.

   Il timoniere vacillò, ma riuscì a reggersi in piedi. «Uscire da qui sarà più difficile che entrare» commentò.

   «Se non altro, sarà più movimentato» convenne l’Umano. «Non per entrare in questioni familiari, ma... che ne diresti se ci facessimo scudo con tua sorella?».

   «Non farebbe che rallentarci» grugnì Vrel, mentre raccoglieva il suo phaser. «Lasciamola qui».

   «Così continuerà a schiavizzare la mia gente» commentò Juri, insoddisfatto.

   «Che dovrei fare, ammazzarla? È questo che vuoi da me?!» si crucciò il mezzo Xindi.

   «No, anche se ti ricordo che io ho dovuto sacrificare la mia sorellina, per salvare tutti voi» disse lo storico, facendosi lugubre. «Anche se riusciremo a scappare, prima o poi tu e Lyra dovrete regolare i conti» avvertì. Mentre parlava impugnò la sua arma, che fino ad allora aveva tenuto nascosta nella manica. Era un dispositivo a forma di matita, ispirato alla tecnologia Vorgon, che lanciava potenti scosse elettriche.

   I due uscirono nel corridoio, abbandonando gli avversari storditi. L’allarme squillava, dato che le guardie non avevano fatto rapporto dopo l’irruzione. Altri sorveglianti, stavolta locali, vennero di gran carriera. Le forze dell’ordine di Peliar Zel non erano tra le più rinomate, ma avevano un enorme vantaggio numerico sugli intrusi. Vrel dovette ingaggiare uno scontro a fuoco nei corridoi mentre Juri, alle sue spalle, cercava di chiamare rinforzi.

   «La navetta non risponde. Forse siamo ancora in zona schermata» constatò l’Umano con disappunto.

   «Allora potresti darmi una mano!» suggerì il timoniere, continuando a sparare contro le guardie.

   «L’accordo che era tu combatti, mentre io uso gli attrezzi» gli ricordò Juri. «Ma se insisti...». L’Umano impugnò la sua temibile arma elettrica. Sentendo un sibilo alle sue spalle, si voltò appena in tempo: due droni accalappiatori gli venivano addosso, cominciando già ad aprirsi per ingabbiarlo. Juri non gli dette il tempo di farlo. Due colpi, due centri: i droni si abbatterono al suolo, aperti a metà, sfrigolando di scariche elettriche.

   «Devi sempre usare armi strampalate?» chiese Vrel, sebbene in realtà fosse colpito dalle capacità dell’Umano.

   «Non posso usare il phaser; non ho ancora finito l’addestramento» fu la sorprendente risposta.

   Vrel stava per commentare che la sua mira non era malaccio, ma lasciò perdere. Era chiaro che l’amico non voleva usare le armi convenzionali, quando c’erano tanti strumenti esotici a disposizione. Alcuni li aveva ripescati da quella caverna delle meraviglie che era il suo laboratorio sulla Keter.

   Incalzati dai sorveglianti, i due federali salirono una breve scala che li portò al piano superiore. Qui trovarono un secondo gruppo di guardie, che li attaccarono dalla direzione opposta. Presi tra due fuochi, i ribelli non avevano vie di fuga.

   «Adesso non sarebbe male se arrivassero i nostri» commentò Vrel, sparando come un forsennato per tenere gli avversari a distanza.

   In quella ci fu un’esplosione gigantesca, pochi metri avanti a loro. Un’intera sezione del corridoio saltò in aria, in un turbine di fuoco e calcinacci, portandosi via un manipolo di guardie. L’altro manipolo si ritirò, temendo un secondo attacco.

   Distrutto il muro, i ribelli si trovarono affacciati sul vuoto. Erano al settantesimo piano del palazzo, uno dei più alti. Fuori era già buio e soffiava un vento così freddo da mozzare il fiato. Le sirene d’allarme squillavano e presto sarebbero arrivate le navicelle della polizia. Ma davanti a loro c’era già la navetta dei soccorsi, che aveva appena sparato. Era una vecchia classe Dragonfly.

   «Ottimo tempismo» commentò Juri, passandosi una mano sul volto per togliere la polvere di calcinacci.

   La navetta ribelle girò rapidamente e si accostò in retromarcia, aprendo il portello posteriore. Si fermò a un paio di metri dal cornicione.

   «Non potrebbero accostarsi di più?» protestò l’Umano, che non gradiva le altezze.

   «Salta, per la miseria!» lo incitò Vrel, vedendo le navicelle della polizia che si avvicinavano a sirene spiegate.

   Juri andò sul lato opposto del corridoio per prendere la rincorsa. Fatto un gran respiro, corse in avanti e saltò. Varcò l’abisso di settanta piani e atterrò proprio sull’orlo del comparto posteriore della navetta. Per un orribile secondo vacillò, sul ciglio dell’abisso; infine cadde in avanti. L’attimo dopo anche Vrel lo raggiunse con un balzo. Il portello si richiuse dietro di loro.

   «Forza, non è ancora finita!» avvertì il timoniere. Corse in cabina, dove si trovavano i colleghi. «Rapporto» ordinò.

   «Abbiamo tanta compagnia» avvertì Ennil, la pilota. Le navette della polizia arrivavano da tutte le direzioni. Alcune venivano anche dall’alto, per chiudere ogni via di fuga.

   «Posso aprire un varco» sostenne Mo’rek, l’artigliere, fin troppo ottimista.

   «Negativo, meglio il piano B» decise Vrel. Mentre i poliziotti circondavano la Dragonfly intimando la resa, gli occupanti salirono, due a due, sul piccolo teletrasporto di bordo. Questo li trasferì su una seconda navicella occultata, una più grande Gryphon, che li attendeva in orbita. Rilevando i teletrasporti, i poliziotti aprirono il fuoco. La Dragonfly esplose in una gran fiammata, che danneggiò la facciata del palazzo; i frammenti incandescenti schizzarono in tutto il quartiere. L’attimo dopo la Gryphon lasciò l’orbita di Peliar Zel ed entrò in cavitazione.

 

   «È una vergogna che io, una Ministra dell’Unione Galattica, subisca un attentato contro la mia vita, mentre sono vostra ospite! Sotto la vostra responsabilità!» strepitò Lyra. La mezza Xindi camminava avanti e indietro nell’ufficio del Primo Ministro di Peliar Zel, sfregandosi gli occhi arrossati e talvolta massaggiandosi la testa dolorante. Svanito l’effetto dello spray anti-aggressione, aveva recuperato la vista; ma le restava un grosso bernoccolo. In ogni caso, il dolore fisico era nulla rispetto all’umiliazione.

   «Sono desolato per l’incidente. Stiamo ancora investigando per capire come sia avvenuta l’intrusione» disse il Primo Ministro, imbarazzato. «A nome di Peliar Zel, le porgo le mie scuse e le garantisco che raddoppieremo la sicurezza».

   «Le scuse e le promesse non bastano. Di questo incidente sarà informata la Presidente Rangda» minacciò Lyra.

   Il Primo Ministro sbiancò, come anche i funzionari che lo attorniavano. Un motto diffuso tra le autorità dell’Unione, che però nessuno osava dire ad alta voce, affermava che era meglio spararsi, piuttosto che deludere Rangda. «Signora... forse non è il caso di pubblicizzare l’accaduto...» mormorò il Primo Ministro.

   «Non ho detto che lo renderò pubblico, ma solo che informerò la Presidente. Sarà lei a decidere se il suo pianeta necessita di un presidio dei Pacificatori, per riportare l’ordine» disse Lyra.

   «Faccio rispettosamente notare che sono state le sue guardie personali a soccorrerla... e a fallire» disse il capo della polizia, anche lui chiamato a rispondere dell’accaduto.

   «Infatti saranno punite» confermò Lyra. «Non posso tollerare l’incompetenza. E ora ditemi: avete esaminato i resti della navetta? Ci sono tracce degli attentatori?».

   «Della Dragonfly non rimane molto» spiegò il capo della polizia. «L’esplosione ha cancellato ogni traccia organica. Tuttavia abbiamo rilevato due teletrasporti, prima che la colpissimo. In ambo i casi si trattava di un segnale doppio. Quindi riteniamo che gli attentatori si siano messi in salvo, e così anche i piloti della navetta».

   Lyra lo fissò con occhi stralunati; il suo dolore alla testa era appena aumentato. «Vuol dire che l’hanno fatta franca?!» s’indignò. «Non ho parole... le dico solo di preparare la sua lettera di dimissioni».

   «Con tutto il rispetto, ma io rendo conto al governo di Peliar Zel, non all’Unione» rispose il graduato. «La mia eventuale destituzione non le compete».

   «Tutto ciò che accade qui è di competenza dell’Unione» avvertì Lyra, scrutando torva gli alieni. «Attenetevi alle disposizioni, o ne subirete le conseguenze. E sbrigatevi a ingrandire il Centro di Rieducazione; sono in arrivo altri diecimila Umani. Quanto a me, riparto seduta stante; devo proseguire il giro del settore».

   La mezza Xindi lasciò l’ufficio del Primo Ministro. Riunitasi alle sue guardie, si teletrasportò con loro sulla sua nave. Andò subito in plancia e ordinò di lasciare Peliar Zel. Malgrado la sfuriata con i leader locali, la giovane era arrabbiata soprattutto con se stessa. Dopo un anno passato a pregustare la rivincita contro il fratello e i suoi complici, se li era fatti sfuggire. Peggio ancora, era stata sconfitta e umiliata da un Umano. Ma la cosa più terribile non era la disfatta. No... il peggio era essere stata graziata. I ribelli potevano ucciderla, mentre era priva di sensi; invece se n’erano andati. Adesso era in debito con loro.

   «No» si disse la Ministra, piantando le unghie nei braccioli della poltroncina. «Lasciarmi in vita è stato un errore strategico da parte loro. Un errore che non imiterò, al prossimo incontro».

 

   La Gryphon sfrecciava nel tunnel di cavitazione, diretta al punto d’incontro con la Keter. Dopo aver scambiato qualche parola con Ennil e Mo’rek, Vrel tornò nella sezione posteriore, dove Juri stava scaricando il database rubato.

   «Te la sei cavata bene» si complimentò il mezzo Xindi. «Hai un futuro come agente segreto».

   «Sono lusingato» rispose ironicamente l’Umano. «Ma ho accettato questa missione solo perché volevo dare un’occhiata a quel Centro. Non aspettarti che lo faccia di nuovo, con così poca copertura».

   «Okay» fece Vrel, sapendo che l’amico non era un tipo d’azione e che solo l’angoscia per i suoi simili lo aveva indotto ad accompagnarlo. «Allora, c’è qualcosa d’interessante?» chiese, alludendo al database di Lyra.

   «È presto per dirlo. Sulla Keter esamineranno per bene questa roba» spiegò l’Umano, chino sulla consolle. «Che c’è, vuoi sapere se è valsa la pena di farti pestare?».

   «Non mi dispiacerebbe saperlo» ammise Vrel. Prese il rigeneratore dermico dall’armadietto medico. Poi, un po’ zoppicante, si accostò al tavolino e si lasciò cadere su una seggiola. Cominciò a passarsi il rigeneratore sui lividi e le escoriazioni. «Undici mesi» borbottò.

   «Come?» fece Juri, alzando gli occhi dall’interfaccia.

   «Per undici mesi ho sperato che mia sorella fosse così perché l’avevano condizionata in qualche modo. Invece è così e basta» disse il timoniere, amareggiato.

   «Non tarantolarti» lo consigliò l’Umano. «Metà delle famiglie dell’Unione è stata lacerata dalla guerra. Chi non si trova in campi avversi è comunque separato dai propri cari. Io, ad esempio, non ho la più pallida idea di che fine abbiano fatto i miei genitori. Alla loro età, ci vuol niente a... basta, non voglio pensarci». Si concentrò di nuovo sull’interfaccia.

   «Mi spiace, amico» disse Vrel, guardandolo con compassione. «Mi spiace per tutto quello che sta passando la tua gente». Sapevano entrambi cosa accadeva nel Centro di Rieducazione, per averlo visto con i loro occhi prima d’intrufolarsi nell’appartamento di Lyra. «Mi sembra di vivere in un incubo senza fine» confessò il mezzo Xindi. «Com’è possibile che mia sorella, cresciuta assieme a me su un’astronave multietnica, vi tratti così? E anche supponendo che sia una squilibrata, com’è che questa follia ha contagiato tutti?».

   «Non è follia» disse Juri con decisione, lasciando perdere il lavoro. «Si chiama “indottrinamento di massa” e purtroppo funziona con quasi tutte le specie umanoidi. Ci sono quattro passi, sempre gli stessi, che possono trasformare la persona migliore del mondo in un fondamentalista».

   «Solo quattro?» si stupì Vrel.

   «Sì... non ve le insegnano queste cose, all’Accademia? Che tempi!» borbottò Juri. Si alzò e prese a camminare nervosamente avanti e indietro. «Ti spiegherò come funziona, così ti metterai il cuore in pace» disse.

   «Il primo passo è l’Iniziazione. Accade quando i predicatori dell’ideologia sfruttano una vulnerabilità di base dell’individuo-bersaglio. Se la vulnerabilità non c’è, possono crearla ad arte e poi infiammarla con la propaganda. Di solito sfruttano domande trabocchetto per far presa sulla moralità del bersaglio. Mettono in crisi la sua idea d’essere una brava persona e di meritare il suo posto nel mondo. Parlando della nostra situazione, sentiamo slogan come “Lo sai che sei complice di un sistema discriminatorio?” e “Il tuo rifiuto di scusarti è segno della tua colpa”.

   Il secondo passo consiste nel “curare” la vulnerabilità, o meglio la sofferenza psicologica che ne deriva, sfruttando l’ideologia. Il bersaglio viene accolto in un gruppo che lo fa sentire buono, o peggio ancora, lo fa sentire “redento”. Ha la sensazione di “fare la cosa giusta”, mentre prima era nel torto, e si sente accettato da persone simili a lui. Nel nostro caso, gli slogan sono “Aiutaci a cambiare il sistema” e “Adesso sei dalla parte giusta della Storia”. In questa fase, il bersaglio viene avvertito che sarà circondato da tentazioni da parte degli “infedeli”, a cui deve resistere. In particolare vengono demonizzati i suoi amici e parenti “che non lo capiscono” o “che vogliono controllarlo”. Il bersaglio viene quindi esortato a troncare tutte le sue precedenti relazioni, concentrandosi solo sui nuovi “fratelli e sorelle” che condividono l’ideologia.

   Il terzo stadio è quello in cui si approfondisce l’impegno. È il momento dei rituali pubblici come le ammissioni di colpevolezza, i canti corali e il giuramento di adesione alla nuova dottrina. Oltre a marcare ufficialmente l’ingresso del bersaglio nel nuovo gruppo, questi riti accrescono il suo coinvolgimento emotivo. D’ora in poi s’identificherà completamente nel gruppo: vivrà le sue vittorie e sconfitte come se fossero personali. Naturalmente tutto questo esige grandi sacrifici. Il bersaglio perde ogni fiducia in chi non condivide la sua dottrina e quindi taglia definitivamente i ponti coi parenti e gli amici di un tempo. Gli slogan sono del tipo “Impegnati ogni giorno, per tutta la vita” e “Rifletti quotidianamente sulle tue azioni per verificare se hai agito bene”.

   L’ultimo passaggio consiste nel creare una mentalità del tipo “noi contro loro”. Il predicatore fa sì che il bersaglio si allinei completamente alla dottrina, trovandone conferma in ogni aspetto della vita, anche il più insignificante. La sua nuova “coscienza critica” gli permette di vedere ingiustizie ovunque: nei discorsi, negli scritti, nelle istituzioni, nelle relazioni, nei pensieri, nella storia, insomma in ogni aspetto della vita personale e sociale. Non ragiona più come singolo individuo, ma con una logica collettivista. Però non vede neanche la società come un corpo unico. Piuttosto la vede spezzata in diversi gruppi di potere, perennemente in guerra. Naturalmente vede il suo gruppo come l’eterna vittima e tutti gli altri come gli eterni oppressori. In generale pensa che i gruppi sociali debbano necessariamente combattersi per il potere, anziché collaborare con dinamiche complesse e mutevoli. A questo punto il bersaglio si è trasformato in un fanatico pronto a tutto, pur di avvantaggiare il suo gruppo a discapito degli altri. Gli slogan di questa fase sono del tipo “La libertà di parola è un crimine d’odio” o anche...».

   «“Non chiedetevi se siete razzisti, ma quanto lo siete, e contro chi”» completò Vrel. «È ciò che ha detto Lyra in quel Centro».

   «Temo che tua sorella sia passata dall’essere bersaglio all’essere predicatrice» sospirò Juri. «È una reazione a catena che si auto-alimenta. Ogni fanatico ne converte altri, facendo leva sulle loro debolezze e sul loro desiderio di giustizia. Tutto a spese dei presunti “oppressori”, che continuano a essere considerati tali anche quando vengono schiavizzati... o massacrati» concluse a mezza voce.

   «Ma gli Umani che finiscono in quei campi possono uscire» disse Vrel, non volendo credere che l’Unione arrivasse al genocidio.

   «Per adesso; e comunque molti di loro subiscono danni psichici irreversibili» avvertì Juri. «Ma il fenomeno è appena iniziato e si presta facilmente a degenerare. Vedo il giorno in cui gli Umani entreranno in quei Centri... e non ne usciranno più» disse lugubre.

   «Questo meccanismo può essere spezzato?» chiese il mezzo Xindi.

   «Servirebbe un’enorme contro-propaganda, che offra altri punti di vista, ma ormai è tardi: il controllo mediatico è troppo stretto» rispose lo storico. «Per come la vedo io, nessuna forza sociale interna all’Unione può fermare il processo. Vorrei tanto sbagliarmi, ma... temo che solo vincendo la guerra potremo salvarci».

   «Pensi che chi è stato indottrinato possa rinsavire? In fondo anche tu hai vissuto qualcosa del genere, quando stavi coi Na’kuhl» commentò Vrel, velatamente accusatorio.

   «Touché» ammise l’Umano, irrigidendosi. «Ma vedi, non è che i Na’kuhl mi avessero indottrinato. Ero consapevole dei loro propositi distruttivi e sapevo che si stavano servendo di me. Semplicemente speravo d’essere io a usarli, per salvare mia sorella. In questo mi sono sbagliato; ma ti assicuro che non mi sono mai fidato di loro. Chi invece è stato realmente indottrinato, torna ben di rado sui suoi passi, perché dovrebbe ammettere l’errore. Non dico che sia impossibile... ma è meglio non farci affidamento».

   Avendo terminato di curarsi, Vrel spense il rigeneratore dermico. Invece di riporlo nell’armadietto, lo mise sotto carica. Come ogni strumento medico doveva essere conservato al pieno dell’efficienza, per il prossimo utilizzo. Il mezzo Xindi tornò a sedersi, sovrappensiero. Juri gli dette il tempo di rimuginare.

   Quando la sua riflessione ebbe raggiunto il punto critico, il timoniere si rivolse di nuovo allo storico. «Dici che chi è fanatico pensa sempre d’essere nel giusto» ragionò. «Bene, anche noi pensiamo di esserlo. Stiamo combattendo una guerra civile, pur di far prevalere le nostre idee. Come facciamo a sapere d’essere veramente dalla parte giusta?» chiese, con una nota di disperazione.

   «Non possiamo» rispose Juri, lapidario.

   «No?!» si disperò Vrel.

   A questo punto l’Umano fece una cosa che il mezzo Xindi non si sarebbe mai aspettato. Scoppiò a ridere. «Se vedessi la tua faccia!» disse. «Perdonami, è stato uno scherzo crudele, ma volevo vedere la tua reazione. Comunque, per risponderti seriamente: ci sono degli elementi che distinguono una democrazia da una dittatura. Noi garantiamo la libertà d’espressione e l’Unione no. Noi abbiamo un equilibrio di poteri tra le massime cariche dello Stato e l’Unione no. Noi applichiamo le stesse leggi a tutti, mentre l’Unione ha creato leggi diverse per gli Umani. Tutto questo mi dà... non dico la certezza, ma la ragionevole speranza che siamo nel giusto».

   «La speranza da sola non vince le battaglie» sospirò Vrel, pensando alle tante sconfitte che avevano incassato in quel primo anno di guerra.

   «No» convenne Juri. «Però aiuta. Sennò tanto varrebbe che ci arrendessimo».

 

   Di lì a poco la Gryphon raggiunse il punto d’incontro concordato: il planetoide Alpha 441, ai margini delle Badlands. Non restava che aspettare la Keter. L’attesa fu assai più lunga del previsto, tanto che i ribelli cominciarono a preoccuparsi seriamente. Quando furono passate 24 ore dal momento fissato per l’incontro, discussero della possibilità di raggiungere Cardassia, o qualche altro sistema nelle vicinanze. Vrel tuttavia insisté per aspettare ancora.

   La pazienza fu premiata, perché alla fine la Keter uscì dalla cavitazione. Dopo essersi scambiati i consueti messaggi in codice, essenziali per evitare trappole, i due vascelli si avvicinarono. La Gryphon entrò nell’hangar della nave stellare, che ripartì immediatamente.

   Il Capitano Hod venne incontro agli agenti che scendevano dalla navicella. L’Elaysiana dai capelli chiari e gli occhi violetti era cambiata, dallo scoppio della Guerra Civile. Il suo risentimento contro i Pacificatori la spingeva spesso al limite, e talvolta anche più in là. La sua preoccupazione per ogni membro dell’equipaggio però non era venuta meno, anzi si era accentuata, dato che chi era restato aveva dovuto rinunciare a tutto per seguirla. «Bentornati» disse, mantenendo l’aria corrucciata che ormai la caratterizzava. «Com’è andata?».

   «Così così» borbottò Vrel. «Abbiamo il database di Lyra, ma lei non... insomma... l’ho esaminata, e ritengo che non abbia subito coercizione» rivelò, con lo sguardo basso quanto il suo morale.

   «Mi dispiace, ma in fondo ce lo aspettavamo» disse il Capitano. Lei, almeno, se lo aspettava. E così tutti gli ufficiali della nave. Solo Vrel, l’inguaribile ottimista, aveva dovuto sbatterci il naso per rassegnarsi. «Cosa le ha fatto?» chiese, temendo il peggio.

   «L’ho lasciata andare» ammise il timoniere. «Ho sbagliato?».

   «No; ma forse la prossima volta non avrà il beneficio della scelta» avvertì Hod.

   «E a voi com’è andata?» chiese Juri, per dare un po’ di respiro all’amico.

   «Non bene» s’incupì l’Elaysiana. «Norrin è ancora lontano per trattare coi Cacciatori Hirogeni. Noi ci siamo uniti alla Nona Flotta per resistere ad Approdo dei Profeti, ma è andata male. Il nemico aveva forze quattro volte superiori alle nostre. Abbiamo perso il sistema e siamo stati inseguiti per un lungo tratto. Alla fine abbiamo seminato i Pacificatori nelle Badlands... crediamo che una nostra nave sia ancora lì, con l’equipaggio troppo spaventato per uscire».

   «Ahi» fece Vrel. «Perdere Approdo dei Profeti significa che...».

   «... la strada per Bajor e Cardassia è spianata» sospirò il Capitano. «Resta da vedere dove colpiranno prima. Stiamo radunando forze da tutto il Fronte Occidentale, ma non vi nascondo che la situazione è gravissima».

   «Adesso dove stiamo andando?» volle sapere il timoniere.

   «A Cardassia, per accertarci che ci diano le navi promesse» rispose Hod.

   «I Cardassiani che aiutano i Bajoriani... non la vedo bene» mugugnò Vrel.

   «Neanch’io, ma sono sulla stessa barca, quindi dovranno collaborare» concluse il Capitano. «Andate a riposare, adesso. Terry esaminerà i vostri dati».

   Juri le consegnò l’unità di memoria. Mentre la prendeva, Hod gli rivolse uno sguardo grato. Sapeva quanto l’Umano detestasse le missioni sul campo, cui non era nemmeno tenuto, essendo un civile. Il fatto che rischiasse ugualmente la vita, anche in missioni che potevano facilmente non portare a niente, la commuoveva. «Ha visto il Centro di Rieducazione?» gli chiese.

   Lo storico annuì. Aveva ancora l’orrore negli occhi.

   «Com’è?».

   «È l’anticamera del genocidio» rispose Juri. Dopo di che si voltò e lasciò l’hangar, con aria abbattuta.

   Vrel stava per andare a sua volta, ma si trattenne. «Se permette, Capitano, avrei un’ultima domanda. Abbiamo notizie di Jaylah?».

   L’Elaysiana scosse la testa.

   «Sono quattro mesi che non si fa sentire» disse il mezzo Xindi, preoccupato. «Potrebbe esserle successo qualcosa».

   «Se dobbiamo credere ai notiziari dell’Unione, è ancora attiva. E non credo che l’Unione s’inventi tutti quegli attacchi che la mettono in ridicolo» ragionò il Capitano.

   «Ma la sua identità segreta...».

   «Riteniamo che sia salva».

   «Bene. Se i Pacificatori la scoprissero, la braccherebbero ancora di più» disse Vrel. Congedatosi dal Capitano, lasciò l’hangar e andò dritto al suo alloggio. Non vedeva l’ora di riabbracciare Zafreen. La sua fidanzata Orioniana era l’unica persona capace di fargli scordare temporaneamente i dispiaceri.

 

   La Keter orbitava attorno alla grigia Cardassia, in compagnia di quindici astronavi della Flotta Stellare. Tanto rimaneva delle ventisette che avevano tentato di difendere Approdo dei Profeti dalla marea incalzante dei Pacificatori. In un’orbita più bassa c’era la flotta cardassiana. Altre navi erano in arrivo, o così sperava il Capitano Hod.

   Alla riunione tattica mancò il Comandante Norrin, ancora lontano per trattare con i suoi parenti Hirogeni. Gli altri ufficiali superiori erano tutti presenti. C’era Terry, l’Intelligenza Artificiale della compianta Enterprise-J, che dopo essere stata trapiantata sulla Keter era diventata il capo della Sicurezza. Accanto a lei sedevano l’Ingegnere Capo Dib e il Medico Capo Ladya Mol. Dall’altra parte del tavolo ovale c’erano il timoniere Vrel, l’addetta ai sensori Zafreen e anche Juri. Di solito lo storico non partecipava alle riunioni, ma stavolta era presente in quanto era stato lui a prendere i dati.

   Il Capitano sedette a capotavola, come al solito. «Per prima cosa, vorrei ringraziare i nostri agenti per la brillante operazione di Peliar Zel» esordì. «Penso che la vostra impresa farà cadere qualche testa, e magari indurrà i lacchè di Rangda a farsi vedere meno in giro. Senza offesa» disse, incrociando lo sguardo di Vrel.

   «Nessuna offesa. Mia sorella è una lacchè, per non dire di peggio» rispose lui.

   «Ho chiesto a Terry di esaminare il database che avete recuperato. Ebbene, ha trovato qualcosa d’interessante?» chiese Hod.

   «Per la maggior parte sono direttive burocratiche e materiale propagandistico da diffondere sul pianeta» spiegò la proiezione isomorfa, che aveva l’aspetto di una giovane Umana dai capelli corvini e gli occhi a mandorla. «Tuttavia ho trovato una conversazione fra la Ministra Shil e la Presidente Rangda che è di estremo interesse. Era criptata, ma l’ho decodificata».

   Zafreen assunse un’aria imbronciata. Come addetta ai sensori e alle comunicazioni sarebbe toccato a lei quel compito. Ma nessun Organico era all’altezza di un’Intelligenza Artificiale nel decrittare i dati, quindi era logico che se ne occupasse Terry. Tuttavia l’Orioniana aveva l’impressione che da quando l’IA si era unita all’equipaggio, la stesse esautorando dal suo ruolo.

   «Ce la mostri» ordinò il Capitano.

   L’ologramma della Presidente apparve, torreggiante, al centro del tavolo tattico.

   «Perché non la riduce un po’?!» chiese Vrel, di malumore. Aveva visto fin troppe gigantografie di Rangda sui mondi dell’Unione.

   Terry ridusse prontamente l’ologramma alle dimensioni di una nanerottola e avviò la registrazione.

   «I miei omaggi, signora Presidente» disse la voce di Lyra, fuori campo.

   «Buongiorno a te, figliola. Come va su Peliar Zel?» chiese la Zakdorn, con aria benevola.

   «Tutto bene, sto seguendo il solito programma. Le autorità locali sono servizievoli, anche se forse non hanno lo zelo richiesto dalle circostanze. Gli darò una strigliata, prima di partire» promise Lyra.

   «Bene, bene» fece la dittatrice, leccandosi le labbra. «Avvertili che devono ampliare il Centro di Rieducazione. Serviranno almeno diecimila posti in più».

   «Sì, Eccellenza. E gli alieni da mandare direttamente in città, quanti saranno?» chiese Lyra.

   «Nessuno; ci saranno solo Umani da spedire al Centro».

   «Solo Umani?» si stupì Lyra, sapendo che quasi metà della popolazione terrestre era di origine aliena.

   «Sì, perché questi non verranno da Vothan» rivelò Rangda, che usava sempre il nome alieno per indicare la Terra. «Verranno da Bajor».

   «Allora il momento è arrivato?» si emozionò Lyra.

   «Sì, abbiamo radunato le forze e anche i Breen faranno la loro parte» promise la dittatrice. «L’operazione Tempesta di Pace sarà lanciata tra dieci giorni. Dapprima reclameremo il sistema bajoriano e con esso il Tunnel Spaziale. Poi manderemo una flotta nel Quadrante Gamma, a liberare New Bajor. Infine, sempre con l’aiuto dei Breen, prenderemo Cardassia. A quel punto niente fermerà la nostra avanzata sul Fronte Occidentale» si compiacque.

   «È una splendida notizia» disse Lyra. «Ci sono altri ordini?».

   «No, è tutto. Fa’ come ho detto e prosegui l’ispezione del settore».

   «Come desidera, Eccellenza. Lunga vita e prosperità!» augurò la Ministra. Terminata la registrazione, l’ologramma svanì, lasciando gli ufficiali più crucciati di prima.

   «Avete sentito? Adesso deportano gli Umani anche dagli altri mondi» commentò Ladya, cupa. «E sappiamo quanto sono devastanti le “terapie” di quei Centri. Chi passa dalle lobo-sedie subisce danni neurologici permanenti».

   «Temevo che fosse il prossimo passo» disse il Capitano. «Ma la notizia più importante, per quanto ci riguarda, è che l’Unione attaccherà Bajor. Questo ci dà modo di prepararci. Terry, di quand’è il messaggio?».

   «Tre giorni fa».

   «Allora ce ne restano sette» calcolò Hod. «Dobbiamo radunare tutte le forze disponibili». Il Capitano dette un’occhiata a Juri, che finora era rimasto in silenzio, a fissarsi le mani intrecciate. «Non abbandoneremo i suoi simili» promise.

   «Non pensavo solo a loro» disse l’Umano, adombrato. «A Bajor ci sono dieci Cristalli dei Profeti... e uno dei Pah-wraith. Immaginate come li userebbe l’Unione».

   «Potremmo spostarli nelle retrovie... sempre che i Bajoriani accettino» disse Hod, memore del loro atteggiamento possessivo.

   «Dovremmo anche tentare di eliminare il Cristallo di Fuoco, se i ricercatori hanno trovato il modo» commentò Terry.

   «Uhm, la vedo molto difficile» borbottò Juri. «Quegli affari sono indistruttibili».

   «C’informeremo sui progressi dei ricercatori, appena saremo lì» disse il Capitano. «Se nessuno ha altro da aggiungere, direi di metterci al lavoro» concluse, passando lo sguardo sugli ufficiali.

   Vrel ridacchiò sommessamente, ma era un riso amaro. «Tempesta di Pace... bel nome per un’operazione di guerra!» commentò. «La nostra contro-operazione come si chiamerà? “Baci e abbracci”?».

   «Penso che somiglierà più alle Termopili» disse Juri. Tutti lo guardarono incuriositi, tranne Terry, che in quanto Intelligenza Artificiale conosceva a menadito la storia di ogni specie federale.

   «Fu un’antica battaglia terrestre» spiegò lo storico. «Avvenne più di tremila anni fa, nel nord della Grecia. Poche migliaia di opliti greci – tra cui trecento Spartani – si opposero a decine, se non centinaia di migliaia d’invasori persiani».

   «E come andò a finire?» chiese Hod, con un brutto presentimento.

   «Gli Spartani resistettero fino all’ultimo, uccidendo un numero molto superiore di nemici» spiegò Juri. «Perirono tutti, ma la loro strenua resistenza ispirò gli altri Greci a battersi con lo stesso valore. Così i Persiani furono sconfitti nelle battaglie successive e dovettero ritirarsi».

   «Non sembra un nome beneaugurante» commentò Vrel.

   «No, ma è un nome che dice molto alla mia specie» rispose l’Umano. «Ci ricorda di resistere, anche quando tutto sembra perduto. Se non per noi stessi, almeno per quanti combatteranno dopo di noi».

   «E sia!» decise il Capitano. «Questa sarà l’Operazione Termopili. Però non ditelo ai Bajoriani».

 

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Capitolo 3
*** Il Cristallo del Destino ***


-Capitolo 2: Il Cristallo del Destino

 

   Il sole di Bajor sfolgorava al centro dello schermo. Erano passati più di sei anni dall’ultima visita a quel sistema, rifletté il Capitano Hod. Sei anni in cui tutte le sue speranze si erano infrante e i suoi sogni si erano ridotti in cenere. L’Unione, che prima dell’elezione di Rangda era in pace, si era trasformata nel campo di battaglia della Guerra Civile. E uno dei fronti più accesi era proprio il settore bajoriano.

   Nella parte più interna del sistema, il pianeta verde-azzurro orbitava con il suo corteo di satelliti. La Keter però non era diretta lì. Doveva fermarsi nella Cintura di Denorios, la zona ionizzata tra Bajor IX e X dove si apriva il Tunnel Spaziale. E dove si trovava New Frontier, la moderna stazione che aveva soppiantato Deep Space Nine.

   A differenza della vecchia base, piuttosto piccola, la New Frontier era una delle più grandi stazioni mai costruite dalla Federazione, nonché una delle più armate. Doveva essere un baluardo contro gli attacchi del Dominio, sebbene questi non si verificassero da quando gli abitanti del Tunnel avevano distrutto la flotta d’invasione e si erano impegnati a non farne transitare altre. Ma la prudenza non era mai troppa. Costruita tra fine XXV e inizio XXVI secolo, la stazione aveva avuto il suo battesimo del fuoco durante la Guerra delle Anomalie, quando aveva respinto un’armata del Fronte Temporale. Nei trent’anni successivi aveva subito ulteriori upgrade, che l’avevano resa ancor più inespugnabile. E adesso che infuriava la Guerra Civile, era il più grande baluardo della Federazione.

   Nella forma riprendeva volutamente le linee di Deep Space Nine, con una sezione centrale compatta e un anello abitativo da cui si protendevano i piloni d’attracco per le astronavi. Anziché avere tre piloni superiori e tre inferiori, tuttavia, la nuova stazione ne aveva quattro e quattro. Trovandosi a 90º anziché a 120º, le davano un aspetto più squadrato. I piloni, inoltre, s’incurvavano a tal punto da incontrarsi sopra e sotto il globo centrale, cui erano uniti da elementi di raccordo. Mentre la vecchia stazione era color bronzo, la nuova era bianca e argento, con alcuni tocchi verdi. Era protetta da scudi cronofasici e da una corazza ablativa in yiterium. Lo scafo era disseminato di armi: banchi phaser e polaronici, disgregatori, lanciasiluri per testate di ogni tipo. Vedendo quella fortezza, il Capitano Hod ritrovò un po’ di speranza. Nemmeno i Pacificatori l’avrebbero attaccata a cuor leggero.

   La Keter si dispose accanto alla stazione, assieme alla flotta che l’aveva seguita da Cardassia: appena una cinquantina di navi. Molti più vascelli erano schierati a difesa di Bajor. Tra questi c’era la nuova Defiant, che all’arrivo della Keter lasciò l’orbita e le venne incontro. Era un colossale vascello di classe Juggernaut, dalle forme squadrate e i grandi hangar laterali pronti a lanciare nugoli di caccia stellari. Lo comandava l’Ammiraglio Ilia Tarn, che un tempo era stata Ilia Dax, prima che il suo Simbionte fosse ucciso assieme a molti altri dai Pacificatori, nel tentativo di cancellare la memoria storica.

   «Ci chiamano dalla Defiant» disse Zafreen.

   «Sullo schermo».

   L’Ammiraglio Tarn aveva gli occhi cerchiati di stanchezza e i capelli ancora più grigi dell’ultima volta che l’avevano vista. «Ben arrivati» li accolse. «Non ditemi che queste sono tutte le vostre navi».

   «Temo di sì» sospirò Hod. «I Cardassiani temono per i loro pianeti – non posso dargli torto – e non hanno voluto darci più di così».

   «Li presserò perché ci mandino altre navi» disse la Trill. «Intanto mi raggiunga sulla New Frontier. Dobbiamo organizzare la difesa».

 

   Teletrasportata sulla stazione, il Capitano Hod andò subito in sala tattica, dove si erano radunati gli ufficiali della Flotta Stellare e della Milizia Bajoriana. Tra i primi riconobbe il Comandante Fee’laur, un grosso Caitiano dagli occhi gialli e la criniera leonina che comandava la New Frontier; tra i secondi individuò il Colonnello Shakaar, che invece dirigeva Deep Space Nine. C’erano anche esponenti di spicco del governo bajoriano, tra cui il Ministro Parva. Dopo aver atteso qualche minuto, affinché arrivassero gli ultimi invitati, sedettero attorno al tavolo.

   «Dichiaro aperto il consiglio di guerra» disse Ilia. «Come sapete, Approdo dei Profeti è caduto e la Keter ha trovato prove che il prossimo assalto dei Pacificatori sarà diretto qui».

   Così dicendo l’Ammiraglio attivò un ologramma tridimensionale che mostrava la situazione tattica. Al centro vi era l’Unione Galattica, ovvero i sistemi lealisti, evidenziati in rosso. Erano i sistemi più ricchi e popolosi dell’Unione prebellica. Qui regnava Rangda, che poteva contare sul pugno di ferro dei Pacificatori, foraggiati dai Voth e sostenuti militarmente dai Breen. La dittatrice governava ancora dalla Terra, sebbene avesse avviato la costruzione di un faraonico palazzo sul suo pianeta natale Zakdorn, annunciando l’intenzione di trasferirvi la capitale.

   In periferia vi erano invece i sistemi ribelli, ovvero la Federazione. Evidenziati in blu sulla mappa, erano divisi in due tronconi privi di contiguità. Il loro braccio armato era la Flotta Stellare, cioè quella parte di Flotta che non si era inginocchiata a Rangda, supportata da forze locali come la Milizia Bajoriana. Il troncone del Quadrante Beta – il cosiddetto Fronte Orientale – comprendeva lo spazio della Repubblica Romulana e dei Klingon, fino alla Nebulosa Mutara. Essendo il più grosso e meglio difeso, era quello che finora aveva resistito meglio agli assalti. Qui si trovavano i cantieri delle Juggernaut, punta di diamante della Flotta e unico valido baluardo contro i Pacificatori.

   Le cose andavano peggio nel troncone del Quadrante Alfa, il cosiddetto Fronte Occidentale. Questo andava dal settore di Bajor e Cardassia a quello di Ferenginar, passando per le Badlands. Oltre ad essere molto più piccolo dell’altro, questo gruppo di sistemi ribelli era circondato dai nemici: da un lato l’Unione, dall’altro i Breen. Ogni tentativo di unire lo spazio federale, spezzando la contiguità dell’Unione, si era arenato contro l’immensa superiorità numerica del nemico.

   L’Ammiraglio zoomò sul sistema bajoriano, di cui evidenziò i punti critici: Bajor con Deep Space Nine e il Tunnel Spaziale con la New Frontier. «Partiamo dalle cifre» disse la Trill. «Al momento abbiamo un centinaio di navi della Flotta Stellare, 47 dei Cardassiani e 52 della Milizia Bajoriana. Abbiamo chiesto rinforzi al Fronte Orientale, ma non è detto che arrivino, visto che anche lì i nostri sono sotto attacco. Ai fini della difesa, dobbiamo far conto di essere soli».

   «È vergognoso che con oltre mille navi in servizio, la Flotta Stellare possa inviarcene così poche!» insorse il Ministro Parva.

   «È inevitabile, signor Ministro» corresse Ilia. «Dobbiamo proteggere un centinaio di sistemi stellari; non possiamo sguarnirli tutti per presidiarne uno».

   «Ma Bajor è uno dei mondi che hanno fatto di più per voi! E la nostra posizione comporta che, se cadiamo noi, tutto il Fronte Occidentale sarà compromesso» insisté il Bajoriano.

   «Siamo qui per resistere a oltranza» promise l’Ammiraglio.

   «È quanto mi aspetto!» fece Parva, tagliente. «Se fallirete, il mio pianeta cadrà sotto una seconda Occupazione. Avete idea di che incubo sia per noi? Abbiamo impiegato decenni a riprenderci da quella dei Cardassiani. Se adesso fosse l’Unione a invaderci, la mia gente cadrà in preda al terrore e alla disperazione, e molti si abbandoneranno alla violenza».

   «Ricordo bene com’era Bajor, al termine dell’Occupazione. Io ero lì» disse Ilia, con aria distante. «Cioè, Jadzia era lì, ma ho le sue memorie. Rammento quanto Sisko e gli altri s’impegnarono per la ricostruzione. Quindi le garantisco che farò di tutto affinché non ritornino quei tempi».

   Messo di fronte a quella testimonianza, il Primo Ministro si dette una calmata. Al suo posto parlò il Comandante Fee’laur. «Che stime avete per la flotta dei Pacificatori?» chiese nel tono un po’ gutturale dei Caitiani.

   «Dobbiamo supporre che abbiano almeno il doppio delle nostre forze, se non il triplo, dato che i Breen li appoggiano» rispose l’Ammiraglio, destando lo sconforto generale. «Ma avremo i vantaggi dei difensori: lo Scudo Planetario, le piattaforme orbitali. E naturalmente questa stazione. Qual è il vostro status?».

   «Siamo al massimo dell’operatività» assicurò il Comandante. «Visto il pericolo, stiamo evacuando i civili su Bajor; finiremo tra un giorno».

   «Bene; è probabile che questa stazione sia il primo obiettivo dei Pacificatori» disse Ilia. «Se seguiranno la procedura standard, faranno dei rapidi passaggi. Per colpirli duro, dobbiamo impedirgli la ritirata. Se manovriamo accortamente le nostre navi, li prenderemo nel fuoco incrociato».

   «Sempre che non sia un diversivo per indurci a sguarnire Bajor» avvertì Hod. «Consiglio di lasciare metà della flotta a proteggere il pianeta».

   «Di questo si occuperanno le navi bajoriane e cardassiane» annuì la Trill.

   «E cosa contate di fare con New Bajor?» chiese il Primo Ministro.

   «Non voglio disperdere eccessivamente le nostre forze, quindi bisognerà presidiare l’ingresso del Tunnel» spiegò Ilia.

   «Potremmo minarlo, come nella Guerra del Dominio» suggerì il Comandante Fee’laur.

   «Minare il Tempio Celeste?! No, non di nuovo!» si disperò Parva. «La mia gente non vuole essere tagliata fuori né dai Profeti, né dai congiunti che vivono nel Quadrante Gamma».

   «Se non fosse tardi, vi direi di evacuare la colonia» disse però la Trill. «I vostri parenti non sono al sicuro, considerando che molte navi dei Pacificatori dispongono del propulsore cronografico e quindi possono raggiungerli anche senza il Tunnel. E poi... temo la reazione del Dominio. Ormai i Fondatori sanno che siamo in preda alla Guerra Civile e potrebbero approfittarne».

   Un silenzio opprimente cadde sulla sala. In mezzo a tutti quei disastri, ci mancava solo che il Dominio prendesse l’iniziativa.

   «Ebbene, quali sono gli ordini?» chiese infine Fee’laur.

   «Terminate al più presto l’evacuazione dei civili» disse l’Ammiraglio. «Per quanto riguarda la proposta di minare il Tunnel, devo respingerla. Non voglio mettere i Bajoriani ancor più sotto stress e comunque non impedirebbe ai Pacificatori di raggiungere la colonia. Nell’attesa della battaglia simuleremo vari scenari tattici».

   «Quali sono i piani per Deep Space Nine?» volle sapere Hod. Non aveva nominato il Cristallo di Fuoco, ma Ilia capì che pensava soprattutto a quello.

   Fu il Colonnello Shakaar a rispondere. «In questi anni abbiamo implementato la stazione, ma non possiamo respingere una flotta moderna» ammise. «Se le cose volgeranno al peggio, non resterà che l’evacuazione».

   «Concordo» disse Ilia. «Per quanto sia uno straordinario pezzo di storia, e mi stia molto a cuore, non possiamo darle la priorità».

   «Quindi se il nemico l’abbordasse...» lasciò in sospeso Hod.

   «Prima di abbandonarla innescheremo l’autodistruzione» disse Ilia, con la morte nel cuore.

 

   «Siamo quasi arrivati» disse Vrel, riducendo la velocità della navetta.

   Juri si alzò dal sedile in fondo alla cabina e venne avanti, a osservare la stazione che ingrandiva sullo schermo. Deep Space Nine si stagliava contro il globo di Bajor, inconfondibile con i suoi sei bracci incurvati e i due anelli concentrici.

   «Ho sempre sperato di visitarla» ammise il timoniere. «Tu ci sei mai stato?».

   «No, mai» rispose lo storico, osservandola cupamente. Era stato informato delle decisioni dell’Ammiraglio Tarn e sapeva che forse la leggendaria stazione aveva i giorni contati. Ma non era lì in gita di piacere. Doveva informarsi sul Cristallo di Fuoco, per capire se c’era modo di distruggerlo prima dell’attacco.

   «Ad essere onesto, non ho mai capito granché i Bajoriani» disse Vrel, mentre dirigeva la navetta nell’hangar assegnatole. «Tutto quell’adorare il Tunnel, i Profeti, i Cristalli... eppure la nostra tecnologia ha effetto su di loro. L’ultima volta abbiamo respinto Kosst Amojan con un impulso cronotonico. Se la tecnologia può mettere in fuga i loro dèi e demoni, non dovrebbero smettere di adorarli e di temerli?».

   «C’è chi trae conforto dall’adorare qualcosa di visibile e tangibile» rispose Juri, sovrappensiero. «Personalmente faccio fatica a considerare quella Bajoriana come una religione. Una fede dovrebbe, per definizione, basarsi su un atto di fiducia verso qualcosa di scientificamente indimostrabile. I Bajoriani, invece, hanno reso la loro fede fin troppo materiale. Se i Profeti dovessero deluderli, non si riprenderanno tanto facilmente».

   La navetta attraversò il campo di forza dell’hangar e si posò al suolo. Vrel abbassò il portello posteriore, permettendo agli addetti di scaricare i pezzi di ricambio e le armi che avevano portato dalla New Horizon. «Bene, dobbiamo salutarci» disse a Juri. «Io riparto appena finiscono di scaricare. Tu invece quanto ti tratterrai?».

   «Chi lo sa? Coi Bajoriani è meglio non fare programmi» disse lo storico, mettendosi a tracolla il borsone con gli strumenti. «Può darsi che la battaglia inizi prima che io faccia ritorno. In quel caso, buona fortuna. A te e agli altri».

   «Anche a te».

   Dopo una rapida stretta di mano, i due si separarono. Juri si avviò con il borsone a tracolla, sotto lo sguardo preoccupato di Vrel. Il timoniere attese che tutto fosse scaricato e poi ripartì, tornando alla Keter.

 

   Lo storico lasciò l’anello abitativo e raggiunse la zona centrale della stazione, dove si trovavano, tra le altre cose, la camera blindata del Cristallo e i laboratori di analisi. Voleva prendere subito contatto con la squadra che aveva studiato l’artefatto, per sentire se c’erano progressi. Fino ad allora non aveva potuto documentarsi perché le informazioni erano top secret, e in tempo di guerra i Bajoriani non osavano trasmettere i dati. Così doveva parlare direttamente con gli esperti e leggere i loro rapporti lì sulla stazione.

   Malgrado l’urgenza, Juri non resistette alla tentazione di visitare la Passeggiata. Così prese il turboascensore e raggiunse il vasto corridoio ad anello che cingeva il modulo centrale della stazione. Mentre lo percorreva, l’Umano provò emozioni contrastanti. Da un lato c’era l’entusiasmo quasi infantile per il fatto di trovarsi in uno dei luoghi cardine della storia federale. Dall’altro l’amarezza al pensiero che ben difficilmente sarebbero riusciti a proteggere la stazione, e tutto il sistema, dalla marea incalzante del nemico.

   A quel pensiero lo storico si guardò attorno ancora più attentamente, per memorizzare quei luoghi. La Passeggiata, un tempo piena di visitatori provenienti dai due Quadranti, era adesso percorsa solo da tecnici affaccendati negli ultimi lavori e dalle guardie. I vecchi negozi erano deserti, con le luci spente. Non volendo addentrarsi nelle ombre, Juri rimase in quella zona. Salì sulla balconata, dove i grandi finestroni ovali permettevano di osservare lo spazio, cogliendo le occasionali aperture del Tunnel Spaziale. In quel momento, però, non c’era traffico e quindi il wormhole restava invisibile.

   Fu allora che Juri notò una figura solitaria, ritta davanti a uno dei finestroni a forma di occhio. Era una donna Bajoriana, a giudicare dall’orecchino, e indossava un’uniforme scientifica. Teneva le braccia incrociate dietro la schiena e osservava il firmamento. I suoi folti capelli rossi erano raccolti in una crocchia. Juri le sarebbe passato accanto senza disturbarla, ma avvertì qualcosa di familiare in lei. I capelli, tutta la figura... anche la forma dell’orecchino non gli era nuova. Le si fermò accanto, esitante. «Sei tu, Vasa?» mormorò, sentendo le proverbiali farfalle nello stomaco.

   La Bajoriana si voltò di scatto. Anche se erano passati sei anni dall’ultimo incontro, Agni Vasa restava inconfondibile. «Juri!» disse in un soffio. «Che ci fai qui?!».

   «Mi ha mandato la Keter, per sentire se avete fatto progressi col Cristallo» rispose l’Umano. «Te ne occupi ancora?».

   «Io... sì, dirigo la squadra» confermò Vasa, arretrando di un passo. La sua espressione non era quella di chi fa i salti di gioia nel rincontrare una persona cara. Juri se lo aspettava, quindi non rimase troppo deluso.

   «Bene, devo leggere i vostri rapporti e poi vorrei visionare l’artefatto. Spero che per te non sia un problema» disse in tono neutro.

   «N-no, ma... in questi anni ho sentito cose orribili sul tuo conto» disse la Bajoriana, arretrando ancora. «È vero che hai aiutato i Na’kuhl a compiere un’alterazione temporale?».

   Juri maledisse la facilità con cui circolavano le notizie. Ovunque andasse, sui mondi lealisti o in quelli ribelli, trovava gente che gli rinfacciava quell’errore. «È una lunga storia... ma in breve, sì» ammise.

   Vasa sgranò gli occhi, sconcertata. Non credeva che fosse vero. Si avvicinò all’Umano e gli dette un sonoro ceffone. «Cosa credevi di fare, eh? Volevi cancellarci dalla Storia?!» protestò.

   «Speravo di salvare mia sorella dalla morte e la Terra da... grossomodo quel che è successo. Quando ho visto che era impossibile, ho dovuto sacrificare Svetlana, pur di fermare i Na’kuhl» rivelò l’Umano. «I federali mi hanno arrestato comunque, ma quand’è scoppiata la Guerra Civile i ribelli mi hanno liberato. Così sono tornato sulla Keter».

   «Sì, ho visto il tuo messaggio pubblico dell’anno scorso, quando hai rivelato cosa accadeva a Elba II» annuì l’archeologa. «Mi spiace per quello che hai passato, ma... non so se posso perdonarti».

   «Non sono qui in cerca di perdono, ma per parlare del Cristallo» ribatté Juri. «Comunque non mi spiacerebbe sapere come ti vanno le cose».

   «Io... preferisco non parlarne» disse Vasa, stranamente imbarazzata. «Concentriamoci sul lavoro, okay?».

   «Okay. Allora, come si comporta il Cristallo?».

   «Te lo mostrerò. Seguimi» disse la Bajoriana, lasciando la finestra.

 

   I due si addentrarono nella parte più interna e sorvegliata della stazione. Superarono diversi posti di blocco, grazie alle loro autorizzazioni e all’analisi del DNA, fino ad accedere alla camera di massima sicurezza.

   Era un salone blindato, munito d’inibitori di teletrasporto. La teca piramidale del Cristallo stava su un sostegno colonnare, al centro di un campo di forza, visibile anche in quiete nella sua forma cilindrica. Sul soffitto, dentro la zona ritagliata dal campo, c’era un disco luminoso, simile a un emettitore di particelle.

   Juri si avvicinò fin dove possibile. Anche se non poteva vedere il Cristallo, chiuso nella teca senza spiragli, sentiva una sorta di elettricità che gli faceva rizzare i peli. Si disse che forse era solo suggestione.

   «In questi anni lo abbiamo esaminato in tutti i modi, ma la sua natura continua a eluderci» spiegò la Bajoriana. «Al pari dei Cristalli dei Profeti, è come se al suo interno le leggi fisiche non esistessero. Le letture cambiano di momento in momento; talvolta ci sono picchi d’energia».

   «Avete mai aperto la teca?» chiese Juri.

   «Per forza, sennò come avremmo potuto studiarlo?» fece Vasa. «Ma non temere: il Maligno è ancora dentro. Abbiamo preso precauzioni».

   «Quali?».

   «Per effettuare le analisi abbiamo usato robot controllati a distanza. E per accertarci che Kosst Amojan non uscisse, l’abbiamo tenuto sotto un flusso di cronotoni» spiegò la Bajoriana, indicando l’emettitore luminoso sul soffitto.

   «Avete provato a usare i cronotoni per ucciderlo?» chiese Juri.

   «Molte volte, ma senza successo. Quando i livelli diventano così alti da rischiare la breccia temporale, dobbiamo fermarci. Non possiamo rischiare di perdere il Cristallo in qualche angolo dello spazio-tempo» sospirò Vasa. «Io credo che finché sta rintanato lì dentro, Kosst Amojan sia intoccabile. Solo se uscisse potremmo distruggerlo... sempre che non riesca a dileguarsi».

   «In questi anni c’è stato qualche cambiamento?» chiese Juri, girando attorno al campo di forza, per osservare la teca da tutte le angolazioni.

   «Le emissioni energetiche sono aumentate costantemente» rivelò l’archeologa, seguendolo. «In particolare sono raddoppiate con lo scoppio della Guerra Civile. E ci sono dei picchi ogniqualvolta avviene una battaglia. È come se l’odio e la violenza dilaganti lo rafforzassero».

   «Uhm, sì... Kosst Amojan disse qualcosa del genere, l’altra volta» ricordò Juri. «Avete potenziato le misure di contenimento?».

   «Nel corso degli anni abbiamo triplicato la potenza del campo di forza» rivelò Vasa. «Ma ormai sarebbe difficile potenziarlo ancora».

   «Da quando lo avete qui, ci sono stati fatti strani o inspiegabili?» volle sapere Juri.

   «Abbiamo avuto incendi spontanei e strani guasti in varie parti della stazione» confermò Vasa. «Sul versante psicologico, le persone a volte perdono le staffe per futili motivi o hanno crisi di panico. Molti hanno incubi raccapriccianti. Accadeva già da prima della guerra, ma è molto più frequente adesso. Infatti dobbiamo far ruotare il personale ogni pochi mesi».

   «Quindi il contenimento non basta ad annullare l’influsso del Cristallo» dedusse lo storico, fermandosi dopo aver completato il giro. «E la gente sul pianeta, come reagisce a tutto questo?».

   «L’opinione pubblica ignora che il Cristallo si sta rafforzando, ma la sua presenza qui ha comunque creato nervosismo» rispose la Bajoriana. «Ci sono gruppi che chiedono la sua distruzione immediata. Noi abbiamo spiegato che al momento non sappiamo come fare, ma sempre più gente crede che in realtà potremmo. Sull’altro versante, gli Adoratori dei Pah-wraith sono in fermento. Anche se le autorità hanno ripulito l’esercito, quei fanatici continuano a fare propaganda nelle città, tra la gente impaurita e disperata per la guerra. Hanno tentato più volte di far evadere Elvo, tanto che alla fine le autorità lo hanno trasferito qui».

   «Il capo degli Adoratori si trova su questa stazione?!» si allarmò Juri. «Di chi è stata questa bella idea?».

   «Non me lo chiedere» sbuffò Vasa. «Ma in effetti era più pericoloso tenerlo sul pianeta, o anche sulla New Frontier, dove fino a pochi giorni fa vivevano migliaia di civili. Qui almeno ci sono solo tecnici, scienziati e guardie».

   «Uhm, è una pessima combinazione. Quando i Pacificatori attaccheranno, potrebbe succedere di tutto» borbottò Juri. «Penso che dovremmo portar via il Cristallo, finché possiamo».

   «Portarlo dove? Quale luogo è al sicuro dai Pacificatori?» obiettò Vasa. «E che accadrebbe se il Maligno approfittasse del trasferimento per liberarsi? Se vuol tornare qui, lo farà da qualunque distanza. E se scegliesse un altro bersaglio, ne saremmo responsabili, perché avremmo messo in pericolo altri per stornare la minaccia da noi».

   «Da quanto mi dici, è probabile che prima o poi Kosst Amojan si liberi comunque. A questo punto è meglio che i Pacificatori non s’impadroniscano del Cristallo» insisté Juri. «Se proprio non possiamo distruggerlo, potremmo nasconderlo in un asteroide interstellare, o gettarlo in un buco nero. Insomma, le opzioni ci sono».

   «Chissà» fece la Bajoriana, sovrappensiero. «Forse hai ragione, ma sono discorsi inutili. Le autorità non vi consentiranno di portarlo via».

   «Tuo marito che ne dice? È un ufficiale della Milizia Bajoriana; se la pensa come noi potrebbe smuovere le acque» suggerì Juri.

   A queste parole, Vasa s’intristì e gli voltò le spalle, allontanandosi di qualche passo. «Modro non ci aiuterà» disse in tono categorico.

   «Come puoi esserne certa? Ne avete già parlato?» incalzò Juri, accostandosi. C’era qualcosa di strano nel suo atteggiamento e voleva vederci chiaro.

   «Noi non ci parliamo più» disse Vasa, girandosi di nuovo. Aveva gli occhi arrossati. «Non stiamo più insieme».

   Cadde il silenzio. Juri sapeva che avrebbe dovuto mostrarsi dispiaciuto, ma in realtà non riusciva a dolersi della notizia. L’uscita di scena di Modro riapriva uno spiraglio che l’Umano aveva dato per chiuso da tempo. «Mi spiace» disse, cercando di non suonare troppo ipocrita. «So che non sono affari miei, ma se ti va di parlarne...».

   «Non mi va, ma te lo dirò comunque, perché tanto lo scopriresti» disse Vasa, fulminandolo con lo sguardo. «Io e Modro stavamo bene, anche dopo l’incidente delle Caverne di Fuoco. Ma quando scoppiò la guerra, e Bajor si unì ai ribelli, lui lo prese come un tradimento verso l’Unione. Passammo un’intera notte a litigare, dicendoci cose orribili» disse, pallida e tormentata. Si stropicciò le mani, come per sfogarsi mentre ricordava quei terribili momenti.

   «Eravamo sposati da sette anni, ma in quel momento mi sembrava di vederlo per la prima volta» confessò la Bajoriana. «Diceva che la guerra era colpa degli Umani, sebbene lui stesso sia in parte Umano. Cercai di trattenerlo, ma lui se ne andò, dicendo che doveva seguire la sua coscienza. Lui e altri ufficiali scontenti furono radiati dalla Milizia e gli fu dato un trasporto per andarsene. Modro partì con gli altri, e da allora non ne ho più saputo nulla. Ma ora che l’Unione sta per attaccarci... ecco... non riesco a togliermelo dalla mente. Sento che lui sta arrivando, e cercherà me» rabbrividì.

   Ci fu un nuovo silenzio, ancora più lungo. Questa notizia inquietava Juri tanto quanto gli aggiornamenti sul Cristallo. Era deprimente scoprire che l’erede di Benjamin Sisko appoggiava le politiche anti-Umane del regime. Tanto più che era stato Modro ad accogliere dentro di sé il Profeta, durante l’ultimo confronto con Kosst Amojan. Ora non potevano più contare su di lui. D’un tratto Juri fu acutamente consapevole della fragilità della loro situazione. I Pacificatori, Modro, gli Adoratori, Elvo... tutti puntavano a impadronirsi del Cristallo. «E più lottiamo per tenerlo lontano dalle loro grinfie, più aumentiamo la conflittualità, rafforzando Kosst Amojan» si disse. Forse era quello il piano del Maligno: aspettare finché si fossero distrutti a vicenda, aumentando al contempo i suoi poteri.

   «Se posso chiedere... tu e Modro avete figli?» chiese Juri.

   «No, per fortuna» rispose Vasa, laconica.

   «Per scelta o...» indagò Juri.

   «Non è che fossimo contrari ad averne» disse la Bajoriana, lanciandogli un’occhiataccia. «Ne abbiamo parlato tante volte, ma c’era sempre qualcosa che c’induceva ad aspettare. Così, poco alla volta, siamo passati dal “non è ancora tempo” al “non è più tempo”».

   Prima che Juri potesse commentare, Vasa gli si avvicinò con piglio deciso. «Così, fine della storia» disse. «Te l’ho raccontata perché sapendo tutto fin da subito eviterai di farti domande e di distrarti dal lavoro. Ma se credi di approfittare delle mie disgrazie per rifarti del tempo perduto, ti sbagli di grosso. Il fatto che Modro sia uscito dalla mia vita non significa che voglia tornare con te. Anzi, ora come ora non voglio stare con nessuno. È chiaro?».

   Juri capì che una persona così ferita ben difficilmente avrebbe recuperato la fiducia nel prossimo. Tantomeno in lui. «Chiarissimo» disse in tono secco. «Ma le mie raccomandazioni restano invariate. Il Cristallo dovrebbe essere spostato, a maggior ragione se Modro gli da la caccia. E ora devo leggere i vostri referti».

   «Troverai tutto nel terminale del tuo alloggio» disse Vasa. «Ti avverto che c’è un sacco di matematica, buttata giù dagli specialisti. Visto che il tempo stringe e che l’algebra non è il tuo forte, ti consiglio di partire dal mio ultimo saggio, in cui tiro le somme».

   «Lo farò» promise l’Umano, avviandosi verso l’uscita. «A domani, Vasa. Riguardati, e non affliggerti se le cose vanno a rotoli. Di questi tempi, capita a tutti».

 

   Lo storico lasciò la camera blindata e ripercorse all’indietro la sequela di controlli, fino a tornare nella zona pubblica della stazione. Andò all’alloggio che gli era stato assegnato e qui, come promesso, trovò i referti della squadra scientifica. Cominciò subito a leggerli, anche se era un’impresa immane: c’erano anni di osservazioni, esperimenti, studi comparati. Alla fine seguì il suggerimento di Vasa e lesse il suo ultimo saggio. Quando ebbe finito, si accorse che era notte fonda. Si era talmente concentrato nella lettura da essersi dimenticato di cenare.

   Spento il terminale, l’Umano ordinò la cena al replicatore e mangiò in fretta. Infine si coricò, anche se aveva la testa così piena d’informazioni, ipotesi e preoccupazioni che faticò a prendere sonno.

   Quando finalmente riuscì ad assopirsi, il suo riposo fu guastato da incubi. Gli parve di vedere Vasa che si agitava come se qualcosa la spaventasse, anche se lui non vedeva la fonte del pericolo. Cercò di avvicinarsi, ma sbatté contro un campo di forza che li divideva. Solo allora si accorse che nella parte di stanza occupata da Vasa c’era un incendio. La Bajoriana tossiva per il fumo e le fiamme stavano per lambirla. Juri cercò freneticamente un comando che permettesse di abbassare la barriera e finalmente vide una consolle che faceva al caso suo. Ma in quella un uomo grande e grosso si frappose tra lui e i comandi. Era Modro, armato di phaser, che lo fissava beffardo.

   «Non frapporti fra noi, o ne pagherai le conseguenze» minacciò il Bajoriano.

   «Maledizione, non vedi che è in pericolo? Fammi disattivare la barriera, o toglila tu stesso!» gridò Juri, facendosi avanti, ma l’altro lo respinse ridendo.

   Sentendo le urla di Vasa, l’Umano si voltò e la vide avvolta dalle fiamme. I capelli rossi avvampavano, la pelle bruciava fino a cadere dal viso ormai irriconoscibile. Juri gridò a sua volta, sconvolto dall’orrore, fino a trovarsi seduto tra le coperte disordinate.

   L’Umano si passò una mano sulla fronte sudata, cercando di calmarsi. Non era nuovo agli incubi, ma era da tempo che non gliene capitava uno così spaventoso. E così verosimile, purtroppo. Se Modro era consumato dal risentimento, non era da escludere che aggredisse l’ex moglie. «Che posso fare per salvarla?» si chiese Juri. Per sua sorella Svetlana era arrivato al punto di alterare la linea temporale; dove poteva spingersi per Vasa? Incapace di darsi una risposta, non poté far altro che prendere un leggero sonnifero e tornare a dormire.

 

   Il giorno dopo Juri decise di assumere un nuovo approccio al problema. Invece di concentrarsi solo sul Cristallo di Fuoco li studiò tutti, cercando di capire quali erano le loro caratteristiche comuni e fino a che punto avevano influenzato la storia del pianeta. Era una ricerca enorme, considerato che molti studiosi avevano dedicato la loro carriera allo studio di un singolo Cristallo. Non avendo assolutamente il tempo di approfondire, Juri consultò un ristretto numero di trattati che parlavano dell’argomento in generale.

   La storia dei Cristalli s’intrecciava con quella di Bajor fin dalla più remota antichità. Quattro erano stati trovati sul pianeta, altri cinque nella Cintura di Denorios, vicino al punto in cui poi era stato scoperto il Tunnel Spaziale, a confermare la loro provenienza. Solo l’ultimo Cristallo, quello dell’Emissario, era stato rinvenuto altrove, sul pianeta Tyree; ma forse vi era stato portato in tempi recenti.

   I Cristalli dei Profeti erano dieci in tutto. In ordine di scoperta erano quello dell’Anima, del Destino, della Profezia e del Cambiamento, del Tempo, della Verità, della Memoria, della Saggezza, dell’Unità, della Contemplazione e infine quello dell’Emissario. Tutti avevano forma a clessidra, variando solo nel colore, ed erano refrattari alle analisi scientifiche. Chiusi nelle loro teche istoriate restavano in quiete, ma aprendo le ante potevano produrre intense allucinazioni che spesso si risolvevano in un’illuminazione spirituale, una crescita etica, una presa di coscienza. Talvolta queste esperienze avevano valore profetico; ma non capitavano a tutti. Secondo la religione bajoriana erano il modo in cui i Profeti comunicavano con i fedeli, ed effettivamente in alcune visioni si erano manifestati gli abitanti del Tunnel. Non avendo una forma loro, assumevano quella d’individui conosciuti dal soggetto. Un fenomeno peculiare era la cosiddetta Ombra dei Cristalli. Dopo una visione particolarmente intensa e prolungata, il postulante poteva sperimentare ulteriori flash, anche a distanza di tempo e lontano dal Cristallo. Ciò accadeva specialmente a chi rifiutava di seguire i suggerimenti dei Profeti.

   Certi Cristalli però avevano dimostrato poteri che andavano ben oltre le visioni, sfociando nell’alterazione della realtà. Ad esempio quello del Tempo aveva consentito dei veri e propri viaggi nel tempo, mentre quello dell’Anima aveva riportato Jaylah e Zafreen nei loro corpi, dopo che un congegno alieno le aveva scambiate.

   Essendo i segni tangibili dei Profeti e il loro canale di comunicazione privilegiato, i Cristalli avevano un valore immenso per i Bajoriani, che li custodivano in templi o santuari, sotto la perenne vigilanza del clero. I pellegrini potevano consultarli solo sotto previa autorizzazione del Vedek locale, e anche così non era detto che il Cristallo in questione rispondesse all’appello. La maggior parte dei visitatori, in effetti, si ritirava delusa. Ma i pochi eletti che ricevevano una visione affermavano che si era trattato di un’esperienza straordinaria. Alcune visioni avevano valore privato, ma altre erano d’importanza pubblica, talvolta mondiale; più di rado interstellare. Le più importanti erano state annotate dai monaci in lunghi elenchi di profezie che si perdevano nella notte dei tempi. Era difficile stabilirne l’affidabilità, perché per ogni visione c’era solo la parola di chi l’aveva riferita. Si poteva capire che il Cristallo stava comunicando grazie all’aumento di luminosità, ma poiché le visioni non erano mai condivise, ci si doveva fidare di chi le raccontava. Cioè, nella stragrande maggioranza dei casi, persone che credevano fermamente nei Profeti e speravano di ricevere un’illuminazione. Non era il massimo, per condurre uno studio scientifico.

   Particolarmente interessante era il fatto che i Cristalli fossero collegati tra loro, oltre che con il Tunnel Spaziale. Di questo c’erano prove dirette. Nel 2374 il cardassiano Gul Dukat, posseduto da un Pah-wraith, aveva attaccato il Cristallo della Contemplazione: di conseguenza tutti i Cristalli si erano oscurati, perdendo i poteri, e il Tunnel si era chiuso. Solo quando il Capitano Sisko aveva rinvenuto il Cristallo dell’Emissario gli altri nove avevano riacquistato luce e poteri, e il Tunnel si era riaperto.

   Leggendo di queste visioni, Juri ebbe il desiderio di sperimentarne una lui stesso. Non era un’idea balzana, alla vigilia di una battaglia cruciale. Se poi i Profeti si fossero manifestati, avrebbe potuto fargli qualche domandina. Ma se consultare i Cristalli in tempo di pace era difficile, farlo adesso era quasi impossibile. Forse poteva chiedere al Capitano Hod, e magari all’Ammiraglio Tarn, di fare pressione sul governo; ma il clero bajoriano non amava simili interferenze.

 

   Immerso in queste considerazioni, Juri lasciò il suo alloggio e andò in cerca di Vasa, per manifestarle la sua idea. Il computer lo informò che l’archeologa era in uno dei laboratori. Strada facendo, lo storico passò vicino al tempio di bordo, che all’epoca di Sisko ospitava un Cristallo. Passandogli accanto, l’Umano si accorse che le luci erano accese, sebbene non ci fossero più sacerdoti sulla stazione. Incuriosito, decise di entrare a dare un’occhiata.

   Il salone era in gran parte deserto, anche se presso la parete di fondo c’era ancora l’altare su cui era stato custodito il Cristallo della Contemplazione. Sopra di esso vi erano delle candele accese. E davanti all’altare c’era una figura biancovestita che pregava in ginocchio, nell’antica lingua bajoriana. Juri riconobbe le sue vesti intarsiate d’oro: erano quelle della Kai. Fece per ritrarsi, non volendo disturbarla, ma la leader spirituale concluse la preghiera e si rialzò con un piccolo sforzo.

   «Vieni avanti, figliolo» lo invitò.

   «Non volevo disturbare, Eminenza» rispose Juri.

   «Violerei il mio primo dovere, se respingessi un visitatore» disse Kai Nashir, voltandosi. «Ah, lei è della Keter. Dottor... mi perdoni, la mia memoria vacilla».

   «Smirnov. Juri Smirnov» disse l’Umano, facendosi avanti. «C’incontrammo sei anni fa, durante l’incidente del Cristallo di Fuoco».

   «Incidente? No, figliolo... queste cose non accadono per caso» disse la Kai, avvicinandosi a sua volta. «Posso?» chiese, levando la mano.

   Juri capì che Nashir voleva percepire il suo pagh, ovvero il suo spirito, alla maniera dei sacerdoti bajoriani: afferrandogli l’orecchio. Di tutte le loro pratiche, questa era la più assurda, perché i Bajoriani non erano telepatici. Ma non volle offenderla con un rifiuto. «Certo» disse, piegando leggermente la testa di lato. Si sforzò di non sorridere, perché gli era appena venuta in mente una vecchia barzelletta: quella secondo cui un tempo i Bajoriani percepivano il pagh afferrando il naso, e così avevano provocato quel corrugamento che ancora li caratterizzava.

   Ignara dei suoi pensieri irrispettosi, la Kai gli prese l’orecchio e lo strinse saldamente. Chiuse gli occhi, concentrandosi. «Il tuo pagh è quello di un pellegrino stanco, ma non vinto dalle avversità» disse. «Non smettere mai di cercare!».

   «Eminenza, l’attacco dei Pacificatori è imminente» avvertì Juri. «C’è il rischio che la Flotta Stellare non riesca a respingerli. Inoltre la dottoressa Agni mi dice che il Cristallo di Fuoco sta crescendo in potenza, tanto che il Maligno potrebbe liberarsi».

   La Kai riaprì gli occhi e finalmente gli mollò l’orecchio. «Ne sono informata, infatti ero salita a bordo nella speranza che questo luogo, in cui visse l’Emissario, mi desse ispirazione» spiegò. «Ma è come se i Profeti tacessero... o forse sono io che non li ascolto». Così dicendo cominciò a spegnere le candele aromatiche con l’apposito attrezzo, un bastoncino terminante in un cappuccio metallico.

   «A nome della Flotta Stellare, devo chiederle se i Cristalli hanno dato qualche visione che possa consigliarci in questo frangente» disse Juri.

   «Ahimè, da quando è emerso quel Cristallo sacrilego, i doni dei Profeti sono quasi del tutto silenti» sospirò la Kai, continuando a spegnere le candele. «Le poche visioni che ci hanno offerto sono scoraggianti: immagini di fuoco e morte, oscurità e pianto».

   «Ma i Profeti – intendo loro in persona – si sono mai manifestati?» chiese lo storico.

   «No, nemmeno portando i Cristalli nel Tunnel» ammise Nashir. «Neppure le antiche profezie ci sono d’aiuto».

   «E riguardo al Cristallo di Fuoco, avete scoperto niente?» chiese Juri, sempre più sconfortato.

   La Kai esitò. «Soltanto un oscuro riferimento nelle Tavole di B’hala» disse. «È scritto che solo i Dieci Fratelli, guidati dal più giovane, potranno estinguere la tempesta di fuoco; ma ciò comporterà un sacrificio». Spenta l’ultima candela, ripose la bacchetta metallica nell’apposito sostegno.

   «Groan, di bene in meglio» fece Juri, massaggiandosi la fronte. «Dunque i Dieci Fratelli sarebbero i Cristalli dei Profeti... ma non è chiaro come dovrebbero estinguere il fuoco. Né chi dovrà sacrificarsi».

   «Ogni Bajoriano sarebbe disposto a farlo, pur di sconfiggere il Maligno» sostenne Nashir. «Tranne quelle anime perdute che invece lo adorano» si corresse. «Sciagurati... non sanno ciò che fanno. E quando lo scopriranno, potrebbe essere tardi».

   «Allora è ancora più urgente avere indicazioni» disse Juri. «Eminenza, è tutta la vita che studio manufatti strani e inspiegabili. I vostri Cristalli sono forse i più straordinari della Galassia. Anche se sono un alieno, e ai vostri occhi un miscredente, le chiedo il permesso di consultare un Cristallo».

   «Quale vorresti consultare, figliolo?» chiese la Kai, senza sbilanciarsi.

   «Quello della Profezia e del Cambiamento, o altrimenti quello del Destino» rispose Juri.

   «E ti ritieni degno di questo privilegio? Ti consideri abbastanza puro da presentarti innanzi ai Profeti, e persino interrogarli?» incalzò Nashir, osservandolo con severità.

   «A dire il vero, no» confessò l’Umano, arrossendo. «Ho fatto cose di cui non vado fiero... e il peggio è che non sono stato io a pagarne il prezzo. Ma sto cercando di rimediare. Non sono un combattente, quindi l’unico modo che ho per contribuire alla causa è cercare uno sprazzo del futuro».

   «Se tu avessi risposto d’essere degno e puro, ti avrei negato il permesso» disse la Kai. «Ma poiché sei stato umile, te lo accordo di buon grado, aggiungendovi la mia benedizione. Però devi farmi una promessa» aggiunse, levando l’indice ammonitore.

   «Di che si tratta?» chiese Juri, non volendo impegnarsi anticipatamente.

   «Se per disgrazia Kosst Amojan si liberasse e ti offrisse un accordo, un patto di qualunque tipo, tu dovrai rifiutare» spiegò Nashir. «Non importa quanto sarà allettante la proposta. Non importa se sembrerà l’unico modo per salvare coloro che ami, o anche l’intera Federazione. Tutto ciò che viene dal Maligno è un inganno e tu devi rifiutarlo. Altrimenti egli ti tradirà, facendoti perdere ciò che speravi di salvare. E la tua anima sarà in pericolo» disse, serissima.

   Juri sospirò. Gli sarebbe tanto piaciuto sapere se aveva un’anima, prima di mettersi a disquisire su di essa. Ma non era il caso d’impelagarsi in una discussione con la Kai. La richiesta era semplice ed esigeva una risposta netta. «Prometto di rifiutare ogni accordo» disse, augurandosi di avere la forza di mantenere l’impegno.

   Nashir lo scrutò con estrema severità, forse indovinando i suoi pensieri, ma si accontentò dell’impegno. «Bene; ora tornerò su Bajor e tu verrai con me. Farò in modo che tu possa consultare subito un Cristallo. Che ne dici di quello del Destino? Parla di rado, ma quando lo fa, le sue profezie sono le più affidabili di tutte. E riguardano non solo l’individuo, ma tutta la comunità».

   «Sembra perfetto» disse Juri. «Mi chiedo solo... da quand’è che non concede visioni?».

   «Sette anni» rispose la Kai. «Ma non vedo momento più propizio di questo, in cui il destino di tutti noi è appeso a un filo. Vieni, figliolo». L’anziana donna fece segno di seguirla e lasciò il tempio.

   L’Umano le venne dietro, augurandosi che il mutismo dei Profeti non perdurasse. Almeno era lieto che Nashir gli avesse permesso di consultare un Cristallo. Né gli era sfuggito che a differenza dei Pacificatori, che umiliavano gli Umani senza poi offrire alcun perdono, la Kai si era accontentata di una piccola confessione per poi esaudire la sua richiesta.

 

   Nella Cintura di Denorios, la New Frontier si librava nello spazio, circondata dalle navi federali. L’evacuazione dei civili era completata; il personale stava ultimando i preparativi per la battaglia. D’un tratto una navicella di classe Gryphon uscì dalla cavitazione, trasmise il codice di riconoscimento e si accostò alla Keter.

   «È Norrin!» si animò Zafreen.

   «Lo chiami» disse subito Hod. Il Capitano aveva sentito la mancanza del suo Primo Ufficiale, e soprattutto aveva temuto per lui, sapendo che era in missione nello spazio dell’Unione.

   L’Hirogeno apparve sullo schermo. «Lieto di rivedervi» disse nel suo tono rassicurante. «Quando ho saputo che Approdo dei Profeti era caduto, ho immaginato di trovarvi qui. Allora, quant’è grave la situazione?».

   «Parecchio» ammise Hod. «Venga subito a bordo, così l’aggiornerò. Ma prima mi dica com’è andata la sua missione».

   «Così così» sospirò Norrin. «Il mio clan è disposto ad aiutarci, anche se si riserva di scegliere quando e come. Ma tra gli altri prevale la neutralità. E alcuni si sono schierati coi Pacificatori. Ho avuto uno sgradevole incontro con una banda di Cacciatori interessati a portare la mia testa a Rangda. Sembra che la dittatrice gli abbia promesso grandi favori, se si schierano con lei».

   «Tipico di Rangda» disse il Capitano, arricciando il naso. «La sua famiglia almeno sta bene?».

   «Sì, anche se mio zio Dorvic comincia a stancarsi del ruolo di Alfa. Ormai si sta rassegnando all’idea di dare il comando a mia cugina Vitani e suo marito Garid» spiegò il Comandante, con un sorrisetto ironico. Il vecchio Dorvic aveva tentato più volte di convincerlo a tornare con il clan, ma lui aveva sempre rifiutato. Lo aveva fatto anche stavolta, pur consapevole che se la guerra fosse finita male, non gli sarebbe rimasta altra opzione che tornare con i Cacciatori.

 

   Rientrato sulla Keter, Norrin andò a parlare con Hod nel suo ufficio. Il Capitano lo aggiornò rapidamente sulla situazione. «Secondo le informazioni, ci restano cinque giorni prima dell’attacco» concluse. «Vorrei che per allora riuscissimo a distruggere il Cristallo di Fuoco, o almeno a nasconderlo. Ma questo dipende dai Bajoriani» sospirò. Andò al replicatore e ordinò un tè locale.

   «La vedo dura» commentò Norrin. «Il loro fideismo gli impedirà di rinunciare ai Cristalli. E scommetto che Rangda ha ordinato ai Pacificatori d’impadronirsene a ogni costo. Se controlla i Cristalli, potrebbe ricattare il popolo bajoriano».

   «Sarebbe nel suo stile» convenne Hod. Soffiò sulla bevanda bollente prima di sorseggiarla. «È un bene che tu sia tornato, perché fra poco ne vedremo delle belle. Su, andiamo».

   Il Capitano e il Comandante tornarono in plancia, accomodandosi ai loro posti. Hod sorbì a metà il tè bajoriano e posò la tazza sul bracciolo, mentre ascoltava il rapporto tattico di Terry.

   A un tratto notò che sebbene la tazza fosse in quiete, il tè al suo interno si muoveva, formando onde concentriche. Le onde divennero sempre più vistose, finché il Capitano avvertì distintamente un tremore. «Cos’è questa vibrazione?» chiese.

   Gli ufficiali interruppero le loro occupazioni e prestarono attenzione, notando a loro volta il fenomeno. Zafreen eseguì una scansione con i sensori a lungo raggio. «Rilevo tracce di curvatura in avvicinamento» disse l’Orioniana. «Ci sono anche tunnel di cavitazione».

   «I Pacificatori!» si allarmò il Capitano.

   «Sono in anticipo» notò il Comandante.

   «Le tracce sono centinaia» avvertì Zafreen. «Quello che avvertiamo è il fronte d’onda subspaziale».

   «Allarme Rosso» ordinò l’Elaysiana. «Avvertite la stazione e il resto della flotta».

   Le turbolenze subspaziali erano aumentate a tal punto che ormai tutti gli equipaggi si erano allarmati. Le astronavi alzarono gli scudi, dettero energia alle armi e si dispiegarono a proteggere la New Frontier. Non avevano ancora terminato la manovra quando la flotta nemica uscì dal subspazio.

   Per prime apparvero le navi dei Pacificatori. Erano tutti modelli recenti, in ottime condizioni; per l’operazione Tempesta di Pace l’Unione schierava solo il meglio. Si andava dalle piccole navi scorta fino ai mastodontici vascelli di classe Universe, Celestial e Juggernaut. Le navi erano in formazione, ma anziché procedere all’attacco si fermarono appena fuori tiro, incutendo terrore con la loro sola presenza.

   E non era finita. Accanto ai vascelli dei Pacificatori apparvero quelli dei Breen, dall’inconfondibile design asimmetrico, pieno di bozzi e spuntoni. Sembravano uno sciame di locuste, pronto a banchettare con tutto ciò che si trovava nel sistema. Anche loro, tuttavia, restarono in attesa.

   Mentre la duplice flotta si palesava, le vibrazioni crebbero a tal punto che la tazza di Hod scivolò dal bracciolo e cadde a terra. Non si ruppe, essendo infrangibile; ma il tè caldo macchiò il pavimento. Il Capitano si alzò, scrutando l’armata nemica. «Quante navi sono?» chiese.

   «Quattrocento dei Pacificatori e altrettante dei Breen» rispose Zafreen a mezza voce.

   Hod capì che erano spacciati. Anche con l’aiuto della New Frontier e delle piattaforme, non avrebbero mai sconfitto un nemico quattro volte più numeroso. A questo pensiero, il Capitano sentì montare la rabbia e la frustrazione. «Esame della flotta» ordinò. «Qual è la nave ammiraglia?».

   «Credo sia la Takiah» disse Zafreen, inquadrando un’astronave di classe Universe. Il Capitano la riconobbe: era la nave dell’Ammiraglio Vidkung, noto per essere un fantoccio alle dipendenze di Rangda. Non era un campione di strategia; ma con una tale flotta a disposizione non gliene serviva. La sua astronave, una delle ultime Universe varate, si chiamava Verity, prima che il nome fosse tradotto in lingua Zakdorn.

   Osservando lo schieramento nemico, Hod riconobbe molti altri vascelli. Di alcuni conosceva personalmente i Capitani, ma in quel momento poco le importava. C’era una sola nave che le premeva trovare. «C’è il Moloch?» chiese.

   «Affermativo».

   «Sullo schermo».

   L’Orioniana inquadrò un’altra porzione dello schieramento nemico, aumentando l’ingrandimento. I vascelli schizzarono oltre i bordi dell’inquadratura, finché ne restò solo uno, che campeggiava al centro. Aveva lo scafo nero, su cui il deflettore di navigazione spiccava rosso. Nelle linee generali ricordava la Keter, con la sua forma compatta; ma era più squadrato e assai più grande. Era il Moloch, la nave che aveva bombardato la Terra per cancellare le vestigia umane e preparare l’insediamento dei Voth. Dopo di allora, Rangda le aveva assegnato l’incarico di scovare e distruggere la Keter. Così, per undici mesi, quel vascello li aveva braccati su tutti i fronti di guerra, tendendo agguati e stanandoli persino nelle nebulose. Gli aveva impedito di compiere la loro missione, ovvero persuadere i pianeti neutrali a unirsi alla Federazione. Ogni volta che raggiungevano uno di quei mondi, infatti, c’era qualche simpatizzante dei Pacificatori che chiamava il Moloch, costringendoli alla fuga. I due vascelli si erano spesso scambiati colpi, ma Hod aveva sempre rifiutato lo scontro prolungato, sapendo che il Moloch era troppo potente. Ma forse era giunta l’ora di regolare i conti.

   «Ci chiamano» disse Zafreen.

   «Radek!» sibilò il Capitano, fissando il Moloch con occhi lampeggianti di sdegno. «Sentiamo che dice, il traditore».

   Il massiccio Rigeliano apparve sullo schermo, impettito nell’uniforme bianca dei Pacificatori, con la striscia rossa verticale della sezione Comando. Prima che Rangda gli desse il Moloch, Radek era stato il Primo Ufficiale della Keter, guadagnandosi il rispetto di tutti. Allo scoppio della Guerra Civile, la sua scelta di schierarsi coi Pacificatori aveva addolorato i colleghi, ma specialmente Hod. Solo chi le era più vicino sapeva quanto il Rigeliano le avesse spezzato il cuore. Molto del livore che l’Elaysiana covava contro i Pacificatori veniva da questo affronto personale.

   «Bene, eccoci di nuovo qui» esordì Radek in tono colloquiale. «Ero certo che ve la foste svignata dalle Badlands. Da quando vi siete uniti ai ribelli, non avete fatto che fuggire e nascondervi. Suppongo che lo farete anche stavolta, quando Bajor capitolerà. Ma vi avverto: presto non avrete più luoghi in cui scappare».

   A queste parole, il Capitano fremette di rabbia. «Calma» le sussurrò Norrin. «Non si lasci provocare».

   «Il tempo delle ritirate è finito» disse gelidamente Hod. «Non vi permetteremo di fare ai Bajoriani ciò che avete fatto ai Terrestri. È stato facile, per voi, bombardare la Terra: era indifesa. Qui invece siamo pronti a ricevervi. Un po’ come a Kronos, dove – se ben ricordo – foste voi a svignarvela».

   «Suvvia, Capitano... saprà contare» ribatté il Rigeliano, sicuro di sé. «Noi abbiamo ottocento navi, tutte in ottime condizioni. Voi ne avete duecento, perlopiù vecchie e scalcagnate. Sappiamo tutti come andrà a finire. Perciò le do un consiglio da amico: si arrenda. Non condanni il suo equipaggio, solo per soddisfare il suo ego». Negli occhi di Radek c’era una sincera preoccupazione.

   «La Flotta Stellare si fonda su un’etica: non abbandonare nessuno» ribatté Hod. «Ma questo dev’essere incomprensibile, per voi Pacificatori».

   «Deve sempre atteggiarsi a martire, eh?» sospirò Radek. «Eppure siete voi ribelli che avete scatenato la Guerra Civile; siete voi che ci togliete la pace» accusò, additandola. «E lei, Capitano Hod... lei si crede una grande leader, solo perché ha una buona nave e un equipaggio accecato dalla lealtà. Ma conosciamo entrambi la verità: lei non è alla mia altezza. Non lo era quando stavo ai suoi ordini e di certo non lo è adesso».

   «Ti sbagli, vecchio mio» disse Norrin. «Essere più ligio agli ordini non fa di te un ufficiale migliore. Ti rende solo una pedina più utile per Rangda... finché non sacrificherà anche te».

   «No, siete voi che sacrificate popoli innocenti nel tentativo di crearvi un dominio» ribatté Radek. «Ma il vostro piccolo delirio separatista sta per finire. Questo sistema tornerà in mano nostra e gli altri seguiranno a cascata. Non potete fermarci. Non lo fareste nemmeno col triplo delle forze».

   «Può darsi» ammise Hod, scrutandolo bieca. «Ma questo attacco vi costerà tali perdite, che la vittoria sarà amara quanto la sconfitta» minacciò, riecheggiando involontariamente le parole della Fondatrice, al termine della Guerra del Dominio.

   Il Rigeliano la fissò con commiserazione. «Dunque il suo scopo non è proteggere Bajor, ma solo provocare il maggior numero possibile di vittime» constatò. «Lo immaginavo, ma la ringrazio di avermelo confermato. Se ancora dubitavo che distruggervi è la cosa giusta da fare, ora quel dubbio è sparito. Addio, Capitano Hod. Mi spiace solo che lei abbia deciso d’immolare l’equipaggio sull’altare del suo orgoglio».

   Chiusa la comunicazione, il Moloch riapparve sullo schermo. Hod sapeva che la Keter non aveva speranza di batterlo; così come la loro flotta non poteva resistere a quella nemica. Eppure non potevano neanche ritirarsi, o tanto valeva dichiarare la resa. Come tanti altri eserciti, in altre epoche, dovevano affrontare una battaglia impossibile.

   «Non credete alle sue minacce» disse agli ufficiali. «Checché ne dica quel traditore, il futuro non è ancora scritto». Mai come allora, però, avrebbe voluto credere nei Profeti. Perché ci voleva un miracolo per respingere una flotta come quella.

   «Messaggio di priorità 1 dalla Defiant» avvertì Zafreen. «L’Ammiraglio Tarn ordina di restare in formazione e non attaccare per nessun motivo. Pare che il nemico abbia offerto ai Bajoriani la possibilità di arrendersi... e loro la stanno valutando».

   «Eh no, maledizione!» imprecò Vrel. «Non possono sfrattarci così!».

   «Possono cacciarci da Bajor, ma non dalla New Frontier» disse Hod, pur consapevole che a quel punto la battaglia sarebbe diventata inutile.

   «I Pacificatori invieranno un emissario a cercare un accordo col governo bajoriano» proseguì Zafreen, leggendo il comunicato della Defiant. «Il luogo d’incontro sarà... Deep Space Nine».

   Il Capitano non se ne stupì. Di certo l’inviato dei Pacificatori non voleva scendere sul pianeta, prima di sapere se i Bajoriani si sarebbero arresi; né il Primo Ministro osava salire su un vascello dell’Unione. La vecchia stazione, già sede d’importanti trattati di pace, sembrava un luogo adatto, pur essendo amministrata dai Bajoriani.

   «Potrebbe essere un diversivo per attaccarci» notò Terry.

   «Terremo i sensori all’erta» disse Hod. «In ogni caso, guadagnare qualche giorno ci farà bene. Potremmo ricevere rinforzi dal Fronte Orientale».

   «Cinque giorni» corresse Terry.

   «Come?».

   «Stando alle informazioni recuperate dalla squadra, la battaglia avverrà fra cinque giorni» ricordò la proiezione isomorfa. «Se ciò è corretto, significa che i Pacificatori non intendono spendere ulteriore tempo nelle trattative».

 

   Era la tarda estate, nell’emisfero meridionale di Bajor. Grossi nuvoloni grigi, carichi di pioggia, sovrastavano i monti Angorseen. Nelle loro profondità rimbombavano i tuoni; qua e là cadevano le prime gocce. Sotto quella cappa grigia e uniforme, anche i boschi che rivestivano le alture si erano fatti smorti. Gli Angorseen non erano molto alti: più che montagne erano colline, rivestite fino in sommità dalla vegetazione.

   Il monastero di Vanadwan sorgeva in cima al rilievo più alto. I tetti spioventi dagli spigoli rialzati lo rendevano visibile anche a grande distanza. Una strada zigzagante permetteva di raggiungerlo a piedi, anche se ormai pochi pellegrini seguivano quella via. In ogni caso, il monastero era chiuso alle visite da quando il governo aveva decretato lo stato d’emergenza. A meno che non si avesse un’autorizzazione speciale della Kai, come il visitatore appena giunto.

   Sceso dalla navetta, Juri Smirnov inspirò l’aria fresca d’alta quota, sentendo il profumo della vegetazione. Davanti a lui c’era l’ingresso del santuario: un grande arco scavato nella roccia. Lo superò, osservando distrattamente i bassorilievi intagliati nelle pareti, e sbucò in un cortile interno. C’era un giardinetto ben curato, attorno a cui sorgevano gli edifici del monastero: il tempio, il refettorio, la sala conciliare, le celle dei monaci, gli alloggi dei pellegrini. E naturalmente la torre in cui era custodito il Cristallo del Destino. Somigliava a una pagoda, dai tetti spioventi sovrapposti; lo storico ne contò nove.

   I ritocchi di una campana lo informarono che erano le cinque del pomeriggio. Juri alzò gli occhi al cielo: c’era odore di pioggia e i primi goccioloni cominciavano a cadere. Andò senza indugio verso la torre, il cui ingresso era accessibile dopo aver salito alcuni gradini. Aveva messo piede sul primo quando la porta sopra di lui si aprì, mostrando un Vedek dalla veste talare arancio-oro e l’orecchino assai elaborato. Era anziano; la barba bianca gli arrivava a metà del petto.

   «Salute a te, pellegrino» lo accolse con voce vigorosa. «Cosa ti porta qui?».

   «Sono il dottor Smirnov, dell’USS Keter» si presentò lo storico, un po’ stupito. «Col vostro permesso, dovrei visionare il Cristallo. Voi siete Vedek Sukri, dico bene? Credevo che foste informato del mio arrivo. Kai Nashir mi aveva detto che...».

   «Abbiamo ricevuto il messaggio di Sua Eminenza. Ma tu perché sei qui?» ripeté il sacerdote.

   «Ve l’ho detto. Kai Nashir mi ha autorizzato a vedere il vostro Cristallo...» fece Juri, salendo la scalinata.

   «Perché tu sei qui?» insisté il Vedek, calcando il tono sul tu.

   Saliti i gradini, Juri gli giunse a fianco. «Potrei dirvi che Bajor sta per essere invaso dai Pacificatori. Che i vostri templi potrebbero essere distrutti e i Cristalli razziati. Che Kosst Amojan potrebbe liberarsi e incenerire questo pianeta» disse lentamente. «Ma il fatto è che io sono qui perché ho passato la vita a studiare l’inconoscibile. E ora che tutto sta crollando, voglio comprendere il mio destino».

   «Solo al termine della vita si comprende il proprio destino» obiettò il Bajoriano.

   «Forse non mi resta molto da vivere. Se non lo faccio ora, potrei non avere altre occasioni» ribatté l’Umano.

   «Cosa ti aspetti di trovare? Conforto, guida, illuminazione?» insisté ancora il Vedek.

   «Spero di trovare qualcosa d’inaspettato, altrimenti questa visita sarà stata inutile» rispose schiettamente lo storico.

   L’anziano sacerdote sorrise. «Allora sei nel luogo giusto. Seguimi» lo invitò.

   Entrati nella pagoda, giunsero ai piedi di una scala a chiocciola, che serpeggiava su per l’edificio, attorno a un pozzo centrale. Alle pareti c’erano vetrate colorate, anche se in quel momento il cielo grigio le rendeva più sbiadite del solito.

   «La sala del Cristallo è in cima» disse il Vedek. «Puoi aprire tu stesso la teca. Trattieniti quanto vuoi».

   «La visione, posto che arrivi, richiederà tempo?» chiese Juri.

   «Potrebbe» annuì il sacerdote. «Ma se non arriverà entro il calar del sole, è quasi certo che non giungerà affatto. Ora ti lascio. Ognuno deve recarsi solo all’appuntamento col destino». Il Vedek lasciò la pagoda, chiudendosi la porta alle spalle.

   Rimasto solo, Juri si fece coraggio e cominciò a salire. La pagoda aveva nove piani, tutti dal soffitto alto, quindi lo aspettava una bella scarpinata. Seguì il percorso a spirale verso la sommità, osservando le vetrate istoriate con le profezie che il Cristallo aveva elargito nei secoli passati. Quasi tutte si riferivano a tempi remoti, ma salendo verso l’alto ne apparvero di più recenti, compresa una che mostrava Deep Space Nine e il Capitano Benjamin Sisko. Al tempo stesso, lo storico prestava orecchio ai suoni della pagoda. C’erano fischi e sibili che parevano mormorii. Era solo il vento che s’incanalava in alcuni pertugi; ma sembrava di aggirarsi in mezzo a una folla di spiriti invisibili.

   Juri salì lentamente, per osservare tutto, così che giunse in sommità senza affanno. Anziché aprirsi nel pozzo centrale, il nono piano era interamente pavimentato; vi si accedeva dal lato sud. Con il cuore in gola, lo storico varcò l’ultima porta. Si trovò in una sala ottagonale, con al centro un basso altare di pietra grigia. Gran parte delle pareti era occupata dalle finestre decorate, divise solo dai pilastri che sorreggevano il tetto; davanti a ogni pilastro c’era un candelabro con molte candele accese. Sull’altare vi era una teca campaniforme, con un oculo da cui filtrava un’intensa luce violetta. Lì dentro c’era il Cristallo del Destino, uno dei più enigmatici. Gli avrebbe parlato, dopo la lunga quiescenza? Stava per scoprirlo.

   Lo storico si accostò alla teca; i suoi passi echeggiarono nella sala. Mise mano alle ante e, col cuore che batteva a mille, le aprì. Il Cristallo era lì, simile a una clessidra intagliata nell’ametista. Il primo lampo fu quasi accecante, ma poi gli occhi dell’Umano dovettero abituarsi, perché la luce tornò sopportabile. Juri si guardò attorno: non era cambiato niente. C’era solo la stanza ottagonale, con l’altare al centro. La pioggia tamburellava sulle finestre e ogni tanto si udiva un tuono.

   «Ebbene, eccomi qui» sospirò Juri. «Non so se potete sentirmi, Profeti, o come preferite essere chiamati. So che da tempo non concedete visioni. Ma se non ci date uno sprazzo del futuro adesso, sarà troppo tardi. Bajor subirà una nuova Occupazione e i Pacificatori ruberanno i vostri Cristalli. Se poi Kosst Amojan dovesse liberarsi, beh... solo voi sapete che accadrà. In passato avete dimostrato di amare Bajor; non vedo perché dovreste smettere adesso. Se v’importa ancora di questa gente, vi chiedo di comunicare, nel modo che vi è più congeniale».

   Ci fu un lungo silenzio, rotto solo dal battere della pioggia sulle vetrate. Juri cominciava a sentirsi stupido, a stare lì davanti a una pietra luminosa, aspettandosi qualche prodigio. Poteva sembrare un atteggiamento anacronistico per chi viveva su un’astronave e usava tecnologie come il teletrasporto e i replicatori, più “magiche” di quasi tutti i miracoli dell’antichità. Eppure sapeva che i Cristalli di Bajor funzionavano, quale che fosse il principio su cui si basavano. Restava il fatto che non parlavano a tutti: sceglievano loro a chi dare una visione. Forse lui non era degno.

   «Non c’è in gioco solo Bajor, sapete? Tutta l’Unione è sprofondata nella dittatura!» gridò Juri, temendo di perdere la sua occasione. «I miei simili sono deportati come bestie. Vengono additati come la causa di tutti i mali. Mortificati con rituali umilianti. Aizzati gli uni contro gli altri perché non facciano fronte comune. Questa è la strada che porta al genocidio. È questo che ci attende? Rispondete, maledizione! Se potete aiutarci in qualche modo, e non lo fate, siete complici dei persecutori! Insomma, perché non ci aiutate?!».

   Al colmo della disperazione, l’Umano afferrò il Cristallo, estraendolo dal reliquiario. Pesava molto e malgrado la luce intensa era freddo al tatto. Lo storico si accostò a una vetrata e, assalito da un impulso irrefrenabile, ve lo gettò contro. Il vetro policromo si frantumò con uno schianto assordante. Il Cristallo cadde come un sasso, perdendosi in qualche anfratto fra le rocce e la boscaglia. Dalla vetrata in frantumi entrò un vento freddo, misto a pioggia.

   Quella sferzata schiarì le idee a Juri. Come risvegliandosi da un sogno, l’Umano comprese la gravità dell’accaduto. Aveva profanato il santuario e scagliato nel vuoto la reliquia. Anche se il Cristallo era infrangibile, si era comunque perso, il che avrebbe costretto i monaci a lunghe ricerche. Quanto accaduto era un gravissimo incidente diplomatico, che poteva rovinare i rapporti coi Bajoriani, proprio in quella fase critica.

   «Cos’hai fatto?» chiese Kai Nashir, entrando in quel momento nella sala.

   «Eminenza, è qui?!» impallidì Juri. «Io... non so spiegare. Il Cristallo era davanti a me, e ho avuto l’impulso irresistibile di gettarlo. La prego, non si arrabbi. Sono certo che possiamo recuperarlo. Sarà laggiù, da qualche parte...».

   «Il Cristallo è qui. É sempre stato qui» disse un Vedek barbuto, additando la teca al centro della sala. Juri non lo aveva visto entrare. Pensò che fosse arrivato subito prima della Kai, mentre lui dava le spalle all’ingresso.

   «No, è impossibile!» esclamò lo storico. Si precipitò davanti alla teca semiaperta e vi guardò dentro: il Cristallo era ancora al suo posto. Alzò gli occhi e vide la finestra di nuovo integra. Sconcertato, guardò il sacerdote. Non era Vedek Sukri, che lo aveva accolto al monastero. Era Vedek Daaro, morto sei anni prima nella lotta contro Kosst Amojan. Non era invecchiato di un giorno. Allora l’Umano capì.

   «Voi siete i Profeti» disse, raddrizzandosi «Scusate se non vi ho riconosciuti subito. Suppongo che la visione sia cominciata quando ho aperto la teca». Ora che ci faceva  caso, notò che i colori erano più vividi del normale, più virati verso l’oro. E in sottofondo c’era un suono ritmico, come il pulsare costante di un cuore.

   «Voi Corporei spesso non capite» convenne l’entità con l’aspetto di Nashir.

   «Siete lineari. Limitati» aggiunse quella che imitava Daaro.

   «Non è colpa nostra se siamo fatti così» si difese Juri. «Comunque ci sforziamo d’imparare cose nuove. E ora più che mai ci servono lumi sul futuro».

   «Se vi confermassimo che la rovina incombe, e voi provaste a evitarlo, potreste causare proprio ciò di cui vi avevamo ammoniti» avvertì la finta Nashir.

   «La profezia che si auto-avvera... sì, conosco il problema» annuì lo storico. «Ma i Pacificatori attaccheranno in ogni caso. E credo proprio che Kosst Amojan proverà a liberarsi. Possiamo respingere queste minacce?».

   «Da soli, giammai» disse un terzo Profeta, entrando nella sala. Questo aveva l’aspetto di Vasa. «Col nostro aiuto, e a caro prezzo, respingerete solo una delle due».

   «Quale?».

   «Dipende da cosa farete».

   «E voi avete una preferenza?» incalzò Juri.

   «Noi siamo di Bajor» disse la finta Nashir. «Dobbiamo proteggerlo dal Signore dell’Eterno Fuoco». Mentre parlava, le candele poste tutt’intorno alla sala ebbero una fiammata.

   «Ma Bajor non è l’unico pianeta» obiettò l’Umano. «Là fuori ci sono altri popoli che soffriranno, se non fermiamo l’avanzata dei Pacificatori».

   «Noi siamo di Bajor» ripeté il finto Daaro.

   «Ho capito, ma il destino di Bajor s’intreccia con quello degli altri mondi!» insisté Juri. «Prendiamo la Terra, ad esempio. Tornerà mai agli Umani?».

   Ci fu un lampo e la sala del Cristallo scomparve. Juri si trovò in un laboratorio semibuio, legato a una sedia degli interrogatori. Davanti a lui c’erano i Na’kuhl, gli alieni dall’aspetto vampiresco e gli occhi scarlatti che lo avevano catturato tre anni prima. L’Umano si chiese perché i Profeti gli facevano rivivere uno dei momenti peggiori della sua vita. Forse non era per punirlo... forse si trattava semplicemente di uno dei suoi ricordi più vividi.

   Uno dei Na’kuhl si fece avanti: era il Leader Supremo Vosk. O meglio, un Profeta che ne aveva preso le sembianze. «Possiamo vedere milioni di futuri» disse il finto Vosk. «In nessuno di questi la Terra torna in mano vostra».

   «Che?!» inorridì l’Umano. Accortosi che poteva lasciare la sedia di tortura, si affrettò a farlo. Si aggirò nel laboratorio tenebroso, fremendo di angoscia e disperazione. Da quando i Voth si erano impadroniti della Terra, aveva temuto che il pianeta fosse perso per sempre; ma sentirselo confermare gli fece quasi perdere il lume della ragione. Cercando una scappatoia, si disse che forse doveva riformulare la domanda. «E in quanti futuri la Terra torna anche nostra? Voglio dire, degli Umani e delle altre specie, senza che nessuno opprima e scacci gli altri?».

   «In uno solo» disse una vocetta acuta di bambina alle sue spalle.

   Juri si volse lentamente, temendo ciò che avrebbe visto. Davanti a lui c’era una bambinetta di cinque anni, dai capelli chiari. Sua sorella Svetlana, con l’aspetto che aveva quand’era morta. «Non osare» mormorò Juri, trattenendo a stento le lacrime. «Prendi qualunque aspetto, ma non il suo».

   Un secondo lampo dissolse la tetra camera. Juri si trovò in un ambiente a lui familiare: il suo laboratorio sulla Keter. I Profeti erano davanti a lui, con l’aspetto dei suoi colleghi. C’era anche Jaylah, che nella realtà aveva abbandonato l’astronave. Allo storico servì qualche secondo per raccapezzarsi.

   «Avete detto che c’è una sola possibilità di riavere la Terra. Ma per farlo dovremo sconfiggere i Voth... e prima ancora i Pacificatori» ragionò. «Finora abbiamo parlato di singoli pianeti, ma ora devo chiedervelo: come possiamo vincere la guerra?».

   «Non potete» lo gelò il finto Capitano Hod.

   «Come non possiamo noi» aggiunse il finto Vrel.

   «Per ogni attacco, i Pacificatori troveranno sempre la contromisura. Nessun potere di questa Galassia può salvarvi» concluse il finto Dib.

   «E a chi dobbiamo rivolgerci, allora?!» chiese Juri, al colmo della disperazione.

   «Se ve lo dicessimo prima del tempo, quel futuro non si avvererà» spiegò la finta Jaylah. «Anche facendo tutte le cose giuste, al momento giusto, le possibilità di salvezza sono minime».

   «Potete darci almeno qualche indizio, per non farci sbagliare completamente strada?» implorò Juri.

   Ci fu un terzo lampo e l’Umano si trovò in plancia: sullo schermo campeggiava Deep Space Nine. La stazione era avvolta da fiamme che, in barba alle leggi fisiche, ardevano nello spazio e sembravano consumare i metalli.

   «Non fidatevi di chi vi offre accordi» disse una voce alle sue spalle. Juri si girò di scatto. A parlare era stato un Profeta che, ironicamente, aveva assunto l’aspetto di Elvo, il leader degli Adoratori.

   «Non combattete il male con le sue armi, perché non fareste che rafforzarlo» aggiunse un altro, che aveva le sembianze di Modro Sisko.

   «Siate pronti a perdere coloro che amate» concluse una terza, con l’aspetto di Vasa.

   A queste ultime parole, Juri non resse. Si accostò alla finta archeologa e le afferrò un polso. «Parli di Vasa? Perché, cosa l’aspetta?!» chiese bruscamente. Ma in quella la visione si dissolse.

   L’Umano cadde all’indietro, sul pavimento ligneo della sala. Il Cristallo del Destino, ancora nella sua teca aperta, si affievolì. Juri comprese che non gli avrebbe elargito altre visioni. Ansante, dovette riprendere fiato prima di rialzarsi. Raggiunse la teca con passo malfermo e la richiuse. Solo allora i battiti del cuore si normalizzarono. Lo storico si passò una mano sulla fronte, per togliere il sudore, e cercò di dare un senso all’accaduto. I Profeti erano stati così pessimisti da dare l’impressione che fossero spaventati; qualcosa che non aveva precedenti. E i pochi suggerimenti erano fin troppo criptici.

   Con passo lento e pesante, Juri scese i nove piani della pagoda, rimuginando sull’accaduto. Non sapeva nemmeno se riferire agli altri le scoperte o tenerle per sé. Troppo pessimismo rischiava di gettare le truppe nello sconforto. Ma se erano destinati alla sconfitta, non avrebbe dovuto avvertire la Flotta, così che non s’impegnasse in una battaglia senza speranza?

   «Già finito?» chiese Vedek Sukri, vedendolo uscire. «Ebbene, hai trovato qualcosa d’inaspettato?».

   «Anche troppo» rispose Juri con una smorfia. «Ma ben poco che mi faccia sperare per il futuro. Preparatevi al peggio» disse, e lasciò il santuario senza aggiungere altro.

 

   Rientrato su Deep Space Nine, l’Umano si accorse immediatamente che qualcosa non andava. C’erano guardie ovunque, mentre il personale tecnico era ridotto al minimo. Tutti avevano un’aria preoccupata e camminavano in fretta, parlottando a bassa voce. Juri stava per fermare qualcuno e chiedere spiegazioni, quando si vide venire incontro l’Ammiraglio Tarn.

   «Ah, eccola. Il computer mi ha avvertito che era tornato» disse la Trill.

   «Ammiraglio, mi stava aspettando?» si stupì lo storico. «Ma che succede?».

   «I Pacificatori sono arrivati e hanno intimato ai Bajoriani di arrendersi, promettendo un trattamento di favore. Un loro emissario è qui sulla stazione, per trattare col Ministro Parva. Se si accordano, ci butteranno fuori dal sistema senza nemmeno combattere» rivelò Ilia.

   «Uhm... i Bajoriani farebbero meglio a non fidarsi di chi offre accordi» mugugnò Juri. «Così dicono i Profeti».

   «Le hanno parlato?! E che altro le hanno detto?» volle sapere la Trill.

   «È meglio discuterne a porte chiuse» fece lo storico, guardandosi attorno con diffidenza. C’era troppo andirivieni e non voleva che le rivelazioni dei Profeti divenissero subito pubbliche.

   «Andiamo in sala tattica» disse Ilia.

   I due stavano percorrendo la Passeggiata, quando Juri si bloccò, assalito da un sospetto. «Un momento... ha detto che i Pacificatori hanno inviato un emissario. Di chi si tratta?».

   «Sono io» disse una voce baritonale, proveniente dall’alto. Juri la riconobbe prima ancora di alzare la testa. In piedi sulla balconata c’era l’inviato dell’Unione, attorniato da due guardie del corpo. Era un Bajoriano grande e grosso, con l’uniforme da Comandante dei Pacificatori. Modro Sisko era tornato, come promesso.

 

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Capitolo 4
*** L'erede di Sisko ***


-Capitolo 3: L’erede di Sisko

 

   «Quanto tempo» disse Juri, scrutando torvo l’avversario. «Vedo che ha fatto carriera, Comandante. Peccato che invece di servire i Bajoriani, gli fa guerra».

   «Veramente cerco di salvarli, come li ho salvati da Kosst Amojan» obiettò Modro. Lasciò la balconata e scese le scale, seguito dai bodyguard, finché fu davanti all’Umano. «Ma parliamo della sua carriera. Professore universitario, consulente storico della Flotta, pirata temporale... e ora ideologo della ribellione. Davvero brillante. Sa, quando ho sentito del suo processo, ho pensato che l’avessero incastrata. Non riuscivo a credere che avesse aiutato i Na’kuhl a cambiare la linea temporale. Poi le ho visto fare quel patetico annuncio all’Unione e ho capito che lei è capace di tutto. Ma ora glielo chiedo, e voglio una risposta sincera: ha davvero aiutato Vosk?».

   «Sì, ma quando ho visto che buttava male ho rimesso le cose com’erano» rispose Juri. «Visti i risultati, mi sa che ho sbagliato».

   Modro lo fissò con sconfinato disprezzo. «Avrebbero dovuto giustiziarla» commentò.

   «Ho patteggiato. Poi ho scoperto che le prigioni dell’Unione mi stavano strette, così ho cambiato aria» ironizzò l’Umano.

   «Si fa sempre in tempo a eseguire la condanna. Tra pochi giorni questo sistema tornerà all’Unione, e allora...».

   «Perché, cos’ha offerto ai Bajoriani? Un collare meno stretto di quello che è toccato agli Umani?» chiese Juri, sprezzante.

   «Bajor sarà riammesso nell’Unione come se nulla fosse accaduto» rivelò Modro. «Naturalmente voi Umani andrete nei Centri di Rieducazione, per insegnarvi a vivere civilmente».

   «Quindi s’è bevuto la propaganda del regime? Peccato, la facevo più sveglio».

   «Non vi ho chiesto io di scatenare questa guerra».

   «Se i Voth avessero occupato Bajor, anziché la Terra, parlerebbe diversamente» rimbeccò Juri. «Sa, queste fesserie sugli Umani colpevoli di tutto il male dell’Universo me le aspetto dai Pacificatori, ma lei... ha il nostro sangue nelle vene».

   «Solo per un ottavo. Sono Bajoriano a tutti gli effetti» dichiarò orgogliosamente Modro.

   «Ha comunque degli antenati Umani. Cosa crede che penserebbero di lei? Cosa penserebbe il Capitano Benjamin Sisko, di cui va tanto fiero?» insisté lo storico.

   Modro si avvicinò con fare minaccioso e gli bisbigliò all’orecchio: «Penso che mi ringrazierebbe, visto che sto liberando Bajor da voialtri terroristi».

   «Peccato che la maggior parte dei Bajoriani non la pensi così. Loro hanno preferito opporsi alla dittatura» ribatté l’Umano. «Compresa sua moglie» aggiunse perfidamente.

   Un lampo d’odio apparve negli occhi di Modro. «Lei è qui? L’hai incontrata?!» ringhiò, fremendo di collera.

   Juri arretrò prontamente. «Vasa sta bene, per quanto sia possibile in questo momento. Se non le vuol parlare, è libera di farlo» disse.

   «Voi ribelli non ci terrete divisi a lungo. Presto tornerò qui, a salvarla!» promise il Bajoriano, fissandolo con sguardo omicida.

   «Non sei il salvatore che pensi. Sei anni fa fummo noi della Keter a salvarti le chiappe da Kosst Amojan» disse Juri, rinunciando alla cortesia. «E ora, per una divergenza politica, conduci un esercito straniero alla conquista della tua patria. Se avrai successo, imporrai un’altra Occupazione... sarai il nuovo Gul Dukat».

   Modro fece per scagliarsi contro di lui, ma Ilia si frappose. «Fermo, Comandante! Non mi costringa a chiamare la Sicurezza!» minacciò.

   Il Bajoriano la riconobbe e si arrestò prima di travolgerla. «Ilia Dax» mugugnò.

   «Sono Ilia Tarn, da quando voi Pacificatori mi avete ucciso il Simbionte» ribatté la Trill, fulminandolo con lo sguardo. «Ma ricordo bene com’era Benjamin, ciò in cui credeva, e le dico che si vergognerebbe di lei. Voi Pacificatori avete tradito gli ideali della Flotta Stellare».

   «No, è stata la Flotta a tradire l’Unione; ma ne pagherete le conseguenze» ribatté Modro. Girò le spalle a Ilia e si allontanò con fare altezzoso, seguito dalle guardie del corpo.

   «Mi spiace di averla messa in pericolo, Ammiraglio» disse Juri, quando furono soli.

   «No, ha fatto bene a rispondergli» disse Ilia. «Se penso che quel bulletto arrogante è un discendente di Benjamin... ah, preferisco non pensarci!» disse, scuotendo la testa.

   «Non è un caso se i Pacificatori hanno inviato lui, anziché un ambasciatore o un Ammiraglio» notò Juri. «Sanno che l’erede dell’Emissario suggestionerà i Bajoriani». In effetti, molti spettatori dell’alterco stavano ancora parlottando fra loro, lanciando sguardi ostili alla Trill e all’Umano.

   «Andiamocene» disse Ilia. «Deve ancora parlarmi della sua esperienza col Cristallo».

   I due andarono in sala tattica. Dovendo riferire l’accaduto, tuttavia, Juri tenne per sé le rivelazioni più preoccupanti. Non disse che Bajor doveva per forza cadere, sotto l’una o l’altra minaccia, né che c’era una sola possibilità su milioni di vincere la guerra. Non voleva che i vertici della Flotta cadessero nello sconforto o, peggio ancora, che la notizia giungesse alla popolazione.

   A fine racconto, Ilia era insoddisfatta. «Non gli ha chiesto in che modo potremmo sconfiggere i Pacificatori?» domandò.

   «Sì, ma conosce quegli esseri: rispondono per enigmi» disse Juri. «Sostenevano che le nostre possibilità sono... esigue, e che sapere troppo potrebbe ritorcersi contro di noi. Mi hanno detto solo che non dobbiamo fidarci di chi ci offre accordi, che non dobbiamo combattere il male con le sue armi... e che dobbiamo essere pronti a perdere i nostri cari».

   «Sono consigli validi in ogni guerra» sospirò la Trill. «Non ricorda nient’altro?».

   «No» mentì Juri. «Ma sono sempre più convinto che dovremmo portar via i Cristalli, prima che comincino i fuochi d’artificio».

   «Prima dobbiamo vedere se i Bajoriani cederanno all’ultimatum» ricordò Ilia. «In quel caso, non potremo fare nulla. I Cristalli appartengono a loro».

   «Pensa che cederanno?» chiese Juri.

   L’Ammiraglio esitò. «Farò di tutto perché non accada» disse. «Gli riferirò i consigli dei Profeti. Intanto lei e la squadra trovate il modo di eliminare il Cristallo di Fuoco».

 

   Avuta conferma che sua moglie si trovava sulla stazione, Modro cercò in ogni modo d’incontrarla, ma Vasa si chiuse nel suo laboratorio, rifiutando persino di rispondere alle chiamate. Per tornare nel suo alloggio a fine turno usò il teletrasporto. Il Colonnello Shakaar fece in modo che entrambi gli ambienti fossero sorvegliati, temendo che Modro entrasse di prepotenza. Così il Comandante dovette ritirarsi scornato.

   Nel frattempo il governo bajoriano cercava di nascondere le condizioni poste dall’Unione, mentre ne discuteva. Ma non aveva fatto i conti con la macchina propagandistica nemica. Poche ore dopo che Modro aveva riferito l’ultimatum al Primo Ministro, la flotta dei Pacificatori trasmise a banda larga un suo messaggio registrato.

   Il Comandante era seduto a una scrivania dietro la quale appariva l’emblema dei Pacificatori, ossia quello rovesciato della Flotta Stellare. «Salve, cittadini di Bajor. Sono il Comandante Sisko, della Forza di Pace dell’Unione Galattica. Oggi mi rivolgo a voi, anziché ai vostri governanti, affinché abbiate la piena cognizione di quanto sta accadendo» esordì.

   «In questo momento mi trovo su Deep Space Nine per cercare un accordo con le vostre autorità che eviti lo spargimento di sangue. Se sentite questo messaggio, significa che il governo non ha reso pubbliche le nostre condizioni. Questo è un grave torto nei vostri riguardi, al quale intendo rimediare.

   Un anno fa, allo scoppio della Guerra Civile, il governo bajoriano ha scelto di unirsi alla rivolta che ha lacerato l’Unione. Così facendo, ha tradito tutti i valori su cui si fondava la comunità interstellare. E ha tradito lo spirito pacifico del nostro popolo. Gli ufficiali lealisti come me sono stati banditi: abbiamo dovuto indossare l’uniforme dei Pacificatori e combattere per liberare il nostro pianeta. Ma ora siete voi cittadini a pagare per gli errori dei governanti. Ebbene, voglio assicurarvi che non è troppo tardi per salvarvi. L’Unione Galattica è disposta a perdonarvi e a riaccogliervi a braccia aperte. Se vi arrendete, scacciando la Flotta Stellare, sarete trattati con clemenza e con rispetto.

   Il governo bajoriano sarà sciolto e si terranno nuove elezioni. Noi Pacificatori lasceremo un presidio, per assicurare lo svolgimento democratico del voto e proteggervi dalla vendetta della Flotta. Naturalmente il vostro apparato industriale contribuirà allo sforzo bellico e vi sarà chiesta una quota di reclute da addestrare come Pacificatori. Il nostro incomparabile patrimonio culturale sarà tutelato, anche se per ragioni di sicurezza i Cristalli saranno custoditi in luoghi sicuri. Al termine del conflitto saranno restituiti ai loro santuari.

   L’ultima cosa che vi chiediamo è la consegna degli Umani, i principali responsabili di questo conflitto. Come già accade a quelli trasferiti dalla Terra, gli Umani dovranno superare un corso rieducativo, per accertarsi che condividano i nostri valori. Dopo di che saranno reintegrati nella società».

   Avviandosi alla fine del discorso, il Comandante Sisko fissò intensamente gli spettatori. «In quest’ora decisiva, mi appello alla vostra saggezza e al vostro spirito critico. Non lasciate che l’orgoglio di pochi condanni il nostro amato pianeta alla rovina. Pretendete che il governo rispetti la vostra volontà. Come disse il mio avo Benjamin Sisko, “non è mai troppo tardi per iniziare a costruire la pace”. Che i Profeti vi benedicano».

 

   L’effetto del discorso fu dirompente. Come previsto da Juri, il fatto che fosse l’erede di Sisko a consigliare la resa ebbe un forte impatto su una popolazione che, in massima parte, vedeva l’Emissario come una figura religiosa. I tumulti cominciarono subito, sotto forma di proteste attorno ai palazzi governativi, alle caserme di polizia, ai tribunali e in generale a qualunque sede del potere. I manifestanti chiedevano che il governo accettasse la resa, esibendo immagini di Benjamin e Modro Sisko affiancati, come se fossero entrambi Emissari inviati a salvarli. Intervistati dai giornalisti, i leader della protesta ricordarono che alla vigilia della Guerra del Dominio, Benjamin Sisko aveva persuaso i Bajoriani a firmare un patto di non aggressione con la potenza del Quadrante Gamma, e questo li aveva protetti. La proposta di Modro non sembrava diversa.

   Ma la peggior conseguenza del comunicato fu che gli Umani residenti su Bajor furono visti come un pericolo per il pianeta. Poiché l’Unione ne reclamava la consegna, molti cominciarono fin da subito a radunarli. Altri li accusarono persino d’essere il motivo per cui i Pacificatori stavano per attaccare. In molte città bajoriane partirono i pogrom contro gli Umani, che non avevano un luogo dove scappare. La polizia e la Milizia intervennero, sebbene al loro interno non mancassero le defezioni: alcuni reparti rifiutarono di disperdere i manifestanti. Questi, dal canto loro, non avevano le stesse remore. In capo a una giornata, su Bajor imperversò la guerriglia urbana.

   Da Deep Space Nine, dove si era insediata, Ilia seguiva gli eventi con crescente nausea. Aveva visto i Pacificatori usare quella tattica con altri pianeti, e aveva sempre funzionato. Si presentavano con forze schiaccianti, lanciavano l’ultimatum e poi lasciavano che gli abitanti si dividessero in fazioni, creando il caos. Se c’erano Umani ne esigevano la consegna, scatenando la persecuzione. A quel punto la maggior parte dei pianeti si arrendeva. I pochi che resistevano dovevano fronteggiare rivolte popolari e ammutinamenti di truppe, che facilitavano di molto l’avanzata dei Pacificatori. Considerando la tendenza dei Bajoriani a dividersi politicamente e la loro fascinazione per l’erede dell’Emissario, Ilia temeva che avrebbero optato per la resa. Almeno lì sulla stazione la situazione era sotto controllo: il Colonnello Shakaar aveva invitato tutti alla calma e ad attendere la decisione del governo.

   La Trill era nel suo alloggio e stava leggendo gli ultimi rapporti, quando ricevette una chiamata dal centro di comando. «Che c’è? Avevo chiesto di non essere disturbata» disse.

   «Mi scusi, Ammiraglio, ma è importante. Un’astronave è appena uscita dal Tunnel Spaziale» rispose l’ufficiale. «Si tratta di un incrociatore del Dominio. Sta venendo qui».

 

   L’enorme incrociatore passò accanto alla New Frontier senza fermarsi e puntò verso Bajor a massimo impulso. Quando fu nei pressi di Deep Space Nine si arrestò. Venti navi bajoriane e altrettante cardassiane lo circondarono prontamente, con gli scudi alzati e le armi innescate. Per quanto fosse potente, l’incrociatore del Dominio era solo. Accorsa nel centro di comando, Ilia lo vide sullo schermo. Era un nuovo modello, dallo scafo un po’ a catamarano. Le finestre e le gondole a curvatura violacee spiccavano sullo scafo grigio acciaio.

   «Ci hanno chiamati?» chiese la Trill.

   «Non ancora. Mi chiedo come abbiano fatto ad attraversare il Tunnel» disse Shakaar, inquieto. «I Profeti si erano impegnati a non far passare navi del Dominio».

   «A meno che non fossero disarmate» ricordò Ilia.

   «Analisi sensoriale completata» disse l’addetto. «È sicuramente una nave da battaglia, affine agli incrociatori di tipo T, ma si direbbe che le armi siano state rimosse. Gli scudi sono abbassati».

   Lo stupore dilagò tra i presenti. Mai prima d’ora il Dominio si era presentato disarmato. Dalla fine della guerra, i rari contatti erano avvenuti con trasmissioni subspaziali incanalate nel Tunnel, oppure era stata la Flotta a recarsi nel Quadrante Gamma.

   «Potrebbe essere un trucco» commentò Shakaar, accostandosi allo schermo. «Manteniamo la condizione d’allerta e chiamiamoli». Ilia lo affiancò. Un sospetto si faceva strada in lei, ma non osava indugiarci, per timore di restare delusa.

   Un Vorta apparve sullo schermo. Quegli Umanoidi dagli occhi violetti e le orecchie a punta erano i burocrati del Dominio e spesso comandavano le navi da guerra, sebbene il grosso dell’esercito fosse composto dai famigerati Jem’Hadar. «Sono il Capitano Yogrum III e vengo a voi in pace» esordì. «Vi sarete accorti che siamo disarmati e con gli scudi abbassati. Quindi sareste così gentili da non puntarci addosso il vostro arsenale?».

   Ilia lasciò che fosse Shakaar a condurre la trattativa, rispettando la sua autorità sulla stazione.

   «Dati i trascorsi, comprenderà la nostra prudenza» disse il Colonnello. «Comunque ha la mia parola che non apriremo il fuoco, se non compirete azioni ostili. Cosa vi porta qui?».

   «Siamo in missione diplomatica. Conosciamo la vostra situazione e... beh, non voglio anticiparvi nulla. Il nostro Ambasciatore vi riferirà tutto» disse Yogrum.

   «Se è pronto a raggiungerci, lo accoglierò subito» promise Shakaar.

   «Magnifico. Lo teletrasporteremo appena abbasserete gli scudi».

   «E se invece ce lo inviaste per navetta?».

   «Ancora non vi fidate?» si stupì il Vorta.

   «Mi fido tanto da accoglierlo; ma alle mie condizioni» rispose il Bajoriano.

   Yogrum dette una rapida occhiata alla sua destra, a qualcuno che si trovava fuori inquadratura. Forse era proprio l’Ambasciatore, che doveva dargli l’imbeccata. «Condizioni accettate» disse il Vorta, con un sorriso untuoso. «Preparatevi a ricevere il nostro diplomatico». Chiuso il canale, l’incrociatore del Dominio riapparve sullo schermo.

   «Non ha detto chi è l’Ambasciatore» notò Shakaar.

   «Credo di saperlo» disse Ilia, con una strana luce negli occhi. «Attenda qui, Colonnello. Io vado ad accoglierlo».

 

   La Trill si presentò alla camera stagna con una robusta scorta. Anche se l’incrociatore era disarmato, non era detto che tutti al suo interno lo fossero. Il portone circolare venne in fuori con uno scatto e si aprì di lato, rivelando la delegazione del Dominio. Ilia sentì crescere il batticuore. Se il suo sospetto era fondato, stava per rivedere un caro amico.

   I primi a uscire furono due soldati Jem’Hadar, dai volti grigi e scagliosi incorniciati di escrescenze cornee. Erano le immancabili guardie del corpo che scortavano i diplomatici del Dominio. Avevano dei disgregatori polaronici, ma li tennero in fondina. Senza dire una parola si posero ai lati del portone e restarono in attesa. Una terza figura si mosse nella penombra dietro di loro. Ilia trattenne il fiato, riconoscendo la sagoma.

   Era un umanoide dai lineamenti curiosamente abbozzati. Aveva occhi chiari, profondamente infossati nel cranio senza sopracciglia, e orecchie dai padiglioni spessi, senza circonvoluzioni. I corti capelli paglierini erano tirati all’indietro e sembravano appiccicati in un blocco unico... perché lo erano. «Ah... quant’era che non mettevo piede su DS9!» disse Odo, usando le iniziali della stazione. «Troppo, perché altri possano ricordarlo. A parte te, Dax. Tu ricordi sempre tutto».

 

   Ilia lo fissò per qualche attimo, prima di rispondere. Il suo amico non era invecchiato di un giorno dall’ultima volta che lo aveva visto. Non c’era da stupirsi: i Fondatori del Dominio vivevano molti secoli. Nel loro stato naturale erano amorfi, tanto da formare un oceano melmoso sul loro pianeta. Solo per interagire con le altre specie ne assumevano l’aspetto, anche se spesso conservavano lineamenti abbozzati. «Io... non sono Dax» mormorò la Trill. «Il Simbionte è morto un anno fa, ucciso dai Pacificatori. Adesso sono Ilia Tarn».

   «Ma hai ancora i ricordi?» chiese Odo con apprensione.

   «Solo quelli che avevo rievocato prima della morte di Dax» spiegò Ilia. «Ma è più che abbastanza per ricordarmi di te». I due si abbracciarono, senza curarsi delle guardie. «Non credevo che ti avrei rivisto» mormorò la Trill, con gli occhi inumiditi. «Sei stato via così tanto...».

   «Nel Grande Legame è difficile valutare lo scorrere del tempo» disse il Mutaforma. «Ma non ho mai scordato te, Sisko e gli altri». I due si separarono, anche se gli servì qualche attimo per ricomporsi. Dopo di che presero a passeggiare nel corridoio, seguiti a breve distanza dalle rispettive scorte. Ilia incrociò le braccia dietro la schiena, nel suo gesto caratteristico.

   «Allora, perché sei tornato?» chiese la Trill.

   «Sono al corrente della vostra Guerra Civile» disse Odo con gravità. «Che disastro! Un tempo non sarebbe mai accaduta una cosa del genere» aggiunse, scuotendo il capo.

   «I tempi sono cambiati» disse Ilia, cupa. «Odo, devo chiedertelo: che intenzioni ha il Dominio?».

   «Non sta per invadervi, se è questo che temi; del resto gli alieni del Tunnel non lo permetterebbero» la rassicurò il Mutaforma. «Immagino che tu sia in ansia per New Bajor».

   La Trill annuì. «Avevo chiesto ai Bajoriani d’evacuarlo a inizio guerra, e non mi hanno dato retta. Ora è tardi» disse.

   «No, hanno fatto bene» la corresse Odo. «New Bajor non corre pericoli. Ho persuaso il Grande Legame a non lanciare offensive. Anzi, se le cose dovessero precipitare qui nel Quadrante Alfa, sappi che il Dominio è pronto a darvi asilo».

   «Significherebbe diventare vostri sudditi» si accigliò Ilia.

   «Pensavo più a un protettorato» disse il Mutaforma. «Coi tempi che corrono, ve la passereste meglio che sotto i Pacificatori».

   «Può darsi» disse l’Ammiraglio. «Ma sarà l’ultima spiaggia, se tutto il resto dovesse fallire. E comunque non possiamo trasferire tutti gli abitanti di Bajor. Al massimo potremmo mandarvi quelli più in pericolo... mi riferisco agli Umani. Ce ne sono circa centomila. Se li trasferiamo nel Quadrante Gamma, mi prometti che saranno al sicuro?».

   «Hai la mia parola» disse Odo. «Inoltre vorrei restare qui, ufficialmente come ambasciatore del Dominio».

   «E ufficiosamente?».

   «Come consigliere strategico. O per qualunque ruolo mi vorrete».

   Ilia smise di camminare e lo fronteggiò, serissima. «Siamo in una situazione critica. I Pacificatori potrebbero distruggerci al primo assalto. Non sei tenuto a farlo» disse.

   «Ho trascorso più di due secoli nel Grande Legame. Non sono stato con voi, durante la Guerra delle Anomalie. Lascia che lo sia adesso» pregò il Mutaforma. «In nome dei vecchi tempi».

   «D’accordo... in nome dei vecchi tempi» sorrise Ilia.

 

   Dopo tre giorni di trattative serrate tra governo bajoriano e Pacificatori, l’ultimatum dell’Unione ebbe risposta. Anziché affidarla a Modro, il Primo Ministro inviò un messaggio alla flotta dei Pacificatori, che attendeva a poca distanza dal Tunnel Spaziale.

   «Salve, sono il Ministro Parva e mi rivolgo alla Presidente Rangda, nonché alle autorità civili e militari dell’Unione Galattica. Io e i parlamentari abbiamo ascoltato il vostro inviato, prendendo atto dell’offerta. L’abbiamo valutata con la massima attenzione, nell’intento di garantire il miglior interesse di Bajor.

   Dallo scoppio del conflitto, altri mondi che si erano uniti alla Federazione hanno ricevuto simili ultimatum e si sono arresi. In tutti questi casi, l’Unione si è prontamente rimangiata la parola, imponendo condizioni assai più dure di quelle promesse. La libertà d’informazione è stata cancellata e i cittadini si sono visti privare dei loro diritti fondamentali. Le nuove elezioni sono state pilotate per imporre governi fantoccio, dipendenti dall’Unione.

   Ma al disopra di tutto questo, c’è un fattore che più di ogni altro contribuisce a formare il nostro giudizio. Parlo del trattamento da voi riservato agli Umani. Li avete privati del loro mondo natale, avete distrutto il loro patrimonio culturale e ora li braccate anche sugli altri pianeti. Se vi aspettate che ve li consegniamo in cambio di condizioni più favorevoli, avete sbagliato i calcoli. Noi non mercanteggiamo carne umana. Sappiamo cosa significa subire deportazioni; non le infliggeremo a chi è venuto qui in cerca di protezione.

   Dunque la nostra risposta può essere una sola: giammai. Non ci piegheremo alle vostre minacce, né alle vostre false promesse. Difenderemo fino all’ultimo Bajor da chi vuol farci rivivere i momenti più bui della nostra storia. E qualora cedessimo, vi avvertiamo che sarà solo l’inizio della nostra lotta di liberazione. Abbiamo già vinto un’Occupazione; ne vinceremo un’altra. Noi Bajoriani siamo tenaci».

   La risposta dell’Unione non tardò. Pochi minuti dopo l’annuncio, giunse un messaggio subspaziale dalla Terra. Era la risposta della Presidente Rangda, che consisteva di sole cinque parole: «Avete commesso un grave errore».

 

   Il Comandante Modro fu subito richiamato dai Pacificatori. Ma per quanto fosse urgente la convocazione, lui non intendeva andarsene senza aver rivisto sua moglie. Per la centesima volta chiese al computer di localizzarla e, saputo che era uscita dalle zone sorvegliate, corse da lei. Si fermò solo quando raggiunse il settore della Passeggiata che gli era stato indicato. Qui si guardò attorno con ansia, finché vide un’esile figura in piedi sulla balconata. Gli volgeva le spalle, ma lui la riconobbe dalla chioma rossa: era Vasa. Stava guardando lo spazio in direzione del Tunnel, attraverso uno dei finestroni ovali, come faceva spesso nei momenti liberi.

   Modro salì subito sulla balconata e si avvicinò all’ex moglie, un po’ esitante. «Vasa, sono io. Ti prego, parlami» mormorò.

   «Non ho nulla da dirti» fece lei, senza voltarsi. «Torna sulla tua nave».

   «Lo farò, ma prima devo dirti qualcosa, amore mio» disse il Bajoriano, cercando di abbracciarla.

   «Non toccarmi!» protestò lei, ritraendosi. Così facendo dovette in parte girarsi, guardandolo finalmente in viso. «Dì quel che devi, in fretta, e poi vattene. Ma non mi toccare» ordinò.

   «E va bene» fece lui, tenendosi a rispettosa distanza. «Ti amo come il primo giorno, e mi dispiace per tutto ciò che ci ha separati. Tu e io siamo simili: abbiamo le nostre idee e ci restiamo fedeli ad ogni costo. Crediamo entrambi d’essere nel giusto».

   «Ma non possiamo avere ragione tutti e due» ribatté Vasa, fissandolo con durezza. «Uno di noi deve per forza sbagliarsi».

   «Forse solo il tempo potrà dire chi ha ragione» concesse Modro. «Ma a te di tempo ne resta poco. I Pacificatori attaccheranno e... lasciatelo dire, non avete scampo. Questa vecchia stazione non resisterà un minuto. Per il tuo bene, per la tua salvezza, devi andartene subito. Torna su Bajor... possibilmente non in una grande città. O meglio ancora, vieni con me!» propose.

   «Come ostaggio?».

   «Come libera cittadina. Garantirò io per te».

   «Ma io non voglio tornare con te».

   «Non pretendo che torni ad essere mia moglie, mi basta sapere che sarai al sicuro. Anche se...» fece Modro, fissandola con rimpianto.

   «Se?».

   «Non abbiamo mai fatto il Rito della Separazione. Quindi siamo ancora sposati, davanti ai Profeti e davanti alla legge» le ricordò Modro.

   «Alla prima occasione rettificherò l’inconveniente» garantì Vasa. «Ma finché c’è la guerra, non ti seguirò in territorio nemico».

   «Non capisci che sto cercando di salvarti?!» si esasperò Modro. «Sono l’unico che può farlo! Non i tuoi amici terroristi, non questa ferraglia» disse, dando un pugno alla paratia.

   «Dimentichi che ho anch’io dei doveri» obiettò Vasa. «Ho passato sei anni a studiare il Cristallo di Fuoco. So meglio di tutti quant’è pericoloso. Cosa pensi che accadrà, con la battaglia? Non credi che il Maligno cercherà di liberarsi? Si scatenerà di nuovo contro Bajor, e stavolta non riusciremo a fermarlo! È questo che vuoi?!».

   «Amore, io sono preoccupato quanto te per il nostro pianeta» spiegò il Comandante. «Ma credo che i Pacificatori siano meglio equipaggiati per contenere la minaccia».

   «A che servono gli equipaggiamenti, se non si vuole usarli?» ribatté l’archeologa. «I Pacificatori non sanno quant’è pericoloso il Cristallo. Credono di poterlo analizzare come un qualunque fenomeno scientifico. Posto che non cerchino di usarlo come arma».

   «Andiamo, stai delirando!» sbottò Modro. «Sento che non mi dici tutta la verità. Cos’è che ti trattiene qui? O dovrei dire... chi è? C’è qualcun altro, tra noi?».

   «La cosa non ti riguarda» disse Vasa, a disagio.

   «Oh sì, invece!» si scaldò Modro. «Ci siamo giurati fedeltà davanti ai Profeti. Tu forse l’hai dimenticato, ma io no» disse, sfiorandosi istintivamente l’orecchino.

   Vasa distolse lo sguardo, ma non replicò. Le sembrava che l’amore di un tempo si fosse trasformato in una catena, che ora cercava di soffocarla.

   «Da quando ci siamo lasciati, non è passato giorno senza che pensassi a te» proseguì Modro, incalzante. «Mi chiedevo se stavi bene, se eri al sicuro. Non mi sono legato a nessun’altra, perché ho sempre sperato che alla fine saremmo tornati assieme... che il nostro amore avrebbe prevalso su quest’orribile guerra. Per te non è così?».

   Vasa si girò, col labbro tremante. «Se io rinunciassi al mio incarico e venissi via con te... tu saresti disposto a rinunciare al tuo?» chiese.

   «Rinunciare al mio grado?» si sgomentò il Comandante. Aveva lavorato sodo tutta la vita per meritarselo. Aveva corso rischi mortali e ricevuto ferite sul campo.

   «Sì! Rinunceresti ai Pacificatori, alla Milizia, a qualunque coinvolgimento nel conflitto?» insisté l’archeologa.

   «Io... non posso farlo. Ho prestato il giuramento dei Pacificatori» spiegò Modro. «Non posso dimettermi, finché siamo in guerra».

   «Non credo che lo farai neanche dopo» disse Vasa, scuotendo la testa. Nei suoi occhi c’era una cocente delusione. «E dire che mi ero illusa, per un attimo. Ma evidentemente il tuo amore per me non eguaglia il tuo amore per i gradi, e il potere che ne deriva».

   «Non è così semplice!» si difese Modro. «Sposandoti, ho giurato di stare dalla tua e sostenerti in ogni sfida della vita. Ma ho anche prestato giuramento ai Pacificatori. Ora questi impegni mi tradiscono... cozzano gli uni contro gli altri».

   «Non puoi restare fedele a tutti; devi scegliere qual è il più importante» disse Vasa. «E ho l’impressione che tu abbia già deciso».

   «E tu, invece? Quale sacrosanto impegno ti fa rinnegare la promessa nei miei riguardi?» chiese Modro. «Il tuo lavoro d’archeologa? Quello non richiede giuramenti. Forse hai approfittato della mia lontananza per cercarti un altro. Qualcuno che condivide i tuoi interessi e che non rischia la vita al fronte. Qualcuno come...». Il Bajoriano s’interruppe e guardò oltre le spalle di Vasa. I suoi occhi si colmarono d’odio.

   Confusa, l’archeologia si voltò. Vide che Juri era salito sulla balconata e si stava avvicinando.

   «Credo che debba andare, Comandante Sisko» disse lo storico, in tono cortese ma deciso.

   «Professor Smirnov» fece Modro, con un orribile sorriso. «Sei l’incarnazione di tutto ciò che di ributtante c’è nella razza umana. Un vigliacco che si nasconde, invece di combattere. Un ipocrita che si atteggia a vittima e nel frattempo soffia sul fuoco del conflitto. E adesso anche un ladro d’amore. Ma ti faccio una promessa». Si avvicinò e gli dette una lieve pacca sulla guancia, l’imitazione di un gesto affettuoso. «Non importa cosa t’inventerai: stavolta non ne esci vivo» gli sussurrò.

   Juri si sentì tremare fino al midollo. Aveva già ricevuto minacce di morte, ma quella rischiava davvero di concretizzarsi. Modro era un comandante militare, sul punto di lanciare un attacco; aveva i mezzi per attuare la sua minaccia. «Come tutti gli ignoranti, credi di sapere tutto» mormorò lo storico. «Io non ho rubato l’amore di nessuno».

   «BUGIARDO!» gridò Modro. Aggredì l’Umano, che era molto più gracile di lui. Prima gli dette un manrovescio, poi lo girò e gli piegò il braccio dietro la schiena. Glielo torse sempre più forte, minacciando di spezzarglielo. «Dì la verità, vigliacco!» ringhiò.

   «Sei impazzito? Lascialo!» protestò Vasa. Si avventò sul marito, ma lui la respinse con un calcio, scaraventandola contro il finestrone. La Bajoriana scivolò a terra, dolorante e sconvolta.

   «Non t’importa un fico secco della verità... vuoi solo ferirci per sfogare la tua rabbia» gemette Juri, sentendo che il braccio era prossimo a spezzarsi.

   «Si fermi subito!» tuonò un’altra voce.

   Tutti guardarono in quella direzione. Odo era salito sulla balconata, assieme ai Jem’Hadar che lo seguivano come un’ombra. Sebbene il Mutaforma fosse disarmato, le sue guardie del corpo impugnavano i disgregatori polaronici.

   «La sua navicella l’attende all’attracco 1» disse Odo, fissando severamente il Comandante. «Non è il caso di farla aspettare».

   «No, infatti» convenne Modro, riavendosi dal raptus. Lasciò l’Umano, si rassettò l’uniforme e andò verso la scala. Mentre gli passava accanto, i due Jem’Hadar lo guardarono in cagnesco. Il Comandante scese nel livello inferiore della Passeggiata, ma una volta lì si fermò e alzò lo sguardo alla balconata. Juri era alla balaustra e Vasa gli stava accanto, sfiorandogli il braccio dolorante. Tutti e due lo guardavano dall’alto.

   «Quando mi rivedrete, sarò in testa ai Pacificatori!» minacciò Modro, additandoli. «Prega che io riesca a salvarti, prima che questa stazione vada in pezzi!» si rivolse alla moglie. «E tu prega di morire prima del mio ritorno!» aggiunse, indicando Juri.

   «Lei non rende onore al suo cognome, Comandante Sisko» avvertì Odo. «Se ne vada, finché può».

   Modro gli diede le spalle e lasciò la Passeggiata. Le sue guardie del corpo, che avevano atteso presso l’uscita, lo seguirono.

   Odo monitorizzò gli spostamenti dei tre Pacificatori finché giunsero all’attracco. Solo quando la navicella lasciò la stazione il Mutaforma si tranquillizzò.

   «Ambasciatore, che fa? Non è più responsabile della sicurezza di bordo» commentò Juri.

   «È la forza dell’abitudine» spiegò Odo. «Mi sembra ieri, quando qui c’era Benjamin. Come rimpiango quei giorni!».

   «Beh, grazie dell’intervento. Credo di doverle il braccio» disse l’Umano, massaggiandosi l’arto indolenzito.

   «Oh Juri, mi spiace!» esclamò Vasa. «Sapevo che Modro era ossessionato, ma non pensavo che scattasse così».

   «È il primo Sisko dai tempi di Benjamin ad aver scelto la carriera militare, ma gli eventi l’hanno portato a muovere guerra a Bajor, anziché a difenderlo» notò lo storico. «Tutti lo paragonano al suo avo... l’abbiamo fatto anche noi. Immagino che sia vicino al crollo nervoso. Ammira il suo antenato, ma lo odia anche perché era Umano, e perché ha svolto un ruolo opposto al suo».

   «Un Sisko umano che protegge Bajor e un Sisko bajoriano che lo attacca... ironico» commentò Odo. «Ma le sue minacce non vanno sottovalutate. Fareste bene a lasciare la stazione».

   Juri e Vasa si scambiarono un’occhiata d’intesa. «Prima c’è una cosa che dobbiamo fare» disse l’archeologa. «È la nostra ultima occasione per distruggere quel dannato Cristallo».

 

   Tornato sulla Takiah, Modro fece rapporto all’Ammiraglio Vidkung, tacendo solo i fatti personali. Il superiore, un Efrosiano dai lunghi baffi spioventi, lo ascoltò senza interromperlo.

   «Questo è tutto. Sono desolato, signore» concluse Modro, fissando il pavimento dell’ufficio. «Speravo d’indurre la mia gente alla ragionevolezza. Di evitare lo spargimento di sangue. Ci ho davvero sperato fino all’ultimo».

   «Sono certo che ha fatto il possibile» disse l’Ammiraglio. «Ma i ribelli hanno la testa dura. Dopo tante sconfitte, non hanno ancora capito che combattono una guerra senza speranza. Beh, forse lo capiranno quando li avremo scacciati da Bajor. Mi segua, ora» disse, lasciando la scrivania. «Tra poco c’è una riunione con la Presidente e lei è invitato».

   L’Ammiraglio e il Comandante si recarono in sala tattica, dove attesero qualche minuto. All’ora fissata si attivò il collegamento subspaziale e i partecipanti apparvero in forma olografica. Rangda sedeva a capotavola. Era l’unica a trasmettere dalle retrovie, e precisamente dal suo palazzo presidenziale, dove si era trincerata allo scoppio della guerra. Da lì usciva molto di rado e solo con eccezionali misure di sicurezza. Alla sua destra c’era Thot Rong, leader militare Breen, che aveva contribuito all’operazione Tempesta di Pace con ben quattrocento navi: metà dell’intera forza. Come sempre il Breen indossava una tuta termica integrale, con tanto di casco che ne celava il volto. Tutti gli altri partecipanti – una ventina – erano Capitani dei Pacificatori. Si trattava dei Capitani delle astronavi più potenti, che avrebbero coordinato la flotta. Tra loro c’era Radek.

   «Dichiaro aperto il consiglio strategico» disse la Presidente, scrutando i partecipanti. «I Bajoriani hanno fatto la loro scelta e noi agiremo di conseguenza. Il vostro piano d’attacco è completo?».

   «Affermativo» disse l’Ammiraglio, ringalluzzito. «Con l’aiuto dei Breen, abbiamo una superiorità numerica schiacciante. Possiamo travolgere contemporaneamente la New Frontier e Bajor. Pensavo che i Breen possono occuparsi della nuova stazione, mentre noi prenderemo il pianeta e Deep Space Nine...».

   «Negativo» disse Thot Rong. Il traduttore universale rendeva comprensibile il suo linguaggio fatto di ronzii elettronici, ma il timbro restava gelido. «Vi abbiamo offerto la nostra collaborazione, ma non attaccheremo da soli quella stazione. Si tratta del più potente baluardo ribelle».

   «Dobbiamo colpire simultaneamente i due fronti, per impedire alla flotta nemica di serrarci contro la stazione» obiettò Vidkung.

   «Queste sono le mie condizioni» insisté il Breen. «Attaccheremo insieme la New Frontier, assicurandoci il controllo del Tunnel Spaziale. Poi muoveremo contro Bajor, eliminando Deep Space Nine e le piattaforme difensive. Scacciata la flotta nemica, assumeremo il controllo del pianeta e dei suoi satelliti. In seguito conquisteremo le colonie sugli altri pianeti, in ordine d’importanza. Una volta stabilizzato il sistema, potremo recarci nel Quadrante Gamma e sottomettere New Bajor. Se faremo così, vinceremo con perdite minime. Se invece la mia proposta non vi soddisfa, allora ritirerò le mie forze e procederete da soli».

   «La sua proposta è eccellente; l’accolgo in pieno» disse Rangda, temendo di perdere i suoi principali alleati.

   «Ma...» fece l’Ammiraglio.

   «Ho detto che l’accolgo in pieno» disse la Presidente, fulminandolo con lo sguardo. «Quando attaccherete la stazione, assicuratevi di proteggere le retrovie».

   «Se i Voth ci sostenessero come si deve, sarebbe tutto più semplice» commentò Radek. «Una decina di Navi Bastione basterebbe a trattenere i ribelli, mentre noi ci occupiamo della stazione. In fondo i Voth hanno una grossa responsabilità nel conflitto; sarebbe giusto che facessero la loro parte».

   Queste parole suscitarono approvazione tra i Pacificatori, ma Rangda s’irrigidì. «I Voth stanno facendo molto, ma questa è la nostra battaglia» disse. «Lei, piuttosto... aveva un solo compito, eliminare la Keter. Sono passati undici mesi e quella nave è ancora lì a sfidarci. Comincio a credere che l’attaccamento ai suoi ex colleghi comprometta la sua efficienza... se non la sua lealtà» insinuò.

   «La mia lealtà all’Unione è indiscutibile; per l’efficienza mi rimetto al giudizio del Comando» rispose il Rigeliano.

   «Può dimostrarci l’una e l’altra» disse la Zakdorn, squadrandolo con freddezza. «La Keter è tra i difensori di Bajor; mi aspetto che non se la faccia scappare».

   «Ricevuto» disse Radek, cupo in volto.

   La Presidente si rivolse di nuovo all’uditorio. «Quando attaccherete la New Frontier, cercate di non distruggerla. Dobbiamo riconquistarla, per farne il baluardo della nostra avanzata sul Fronte Occidentale».

   «Questo sarà difficile» avvertì l’Ammiraglio. «La stazione ha un equipaggio di 15.000 unità. Dovremo lottare sala per sala contro quest’esercito, che sarà avvantaggiato dal controllo dei sistemi di bordo».

   «Chi vi ha detto d’inviare le truppe?» fece Rangda. «Il modo migliore per conquistare la stazione senza danneggiarla è usare i cannoni al thalaron. Il Moloch ne ha uno, e anche la Takiah».

   Un silenzio di morte cadde sulla riunione. Tutti i Capitani conoscevano le terribili conseguenze delle radiazioni thalaroniche. I tessuti organici si disgregavano a livello cellulare: la morte avveniva in pochi secondi, tra sofferenze indicibili. Per questo l’Unione aveva bandito quella tecnologia. Tuttavia negli ultimi anni un ristrettissimo numero d’astronavi ne era stato munito, ufficialmente come misura estrema contro i microrganismi nocivi. L’idea era di usare le radiazioni thalaroniche per sterilizzare un luogo prima di colonizzarlo, o per purificarlo dopo aver evacuato i coloni.

   Visto che il silenzio si protraeva, fu Modro a prendere la parola. «Signora Presidente, l’uso bellico delle radiazioni thalaroniche è...».

   «Lecito, dopo l’ultima riforma» rispose disinvoltamente la Zakdorn. «La decisione finale spetta a me. E dopo attenta riflessione, ritengo che sia il modo migliore per limitare le perdite».

   «Moriranno quindicimila persone!» protestò il Bajoriano.

   «Quindicimila traditori» corresse Rangda. «Comandante Sisko, sa quante persone muoiono mediamente ogni giorno, a causa di questa guerra? Centomila. Se usare una volta o due i cannoni al thalaron accorcerà il conflitto anche di un solo giorno, ne varrà la pena».

   «Capisco, Presidente» disse Modro, fissando cupamente il tavolo. Come suo solito, si chiese cos’avrebbe fatto Benjamin Sisko. Probabilmente si sarebbe opposto, per una questione di principio. «E avrebbe sbagliato» realizzò il Comandante. La matematica non era un’opinione: un attento uso dei cannoni al thalaron poteva ridurre il numero totale di vittime. «Devo smetterla di pensare cosa farebbe l’Emissario» si disse Modro. «Mi fa solo stare peggio e non mi aiuta a risolvere i problemi».

   La riunione proseguì a lungo, con la Presidente che istruiva minuziosamente i Pacificatori, accogliendo solo i suggerimenti di Thot Rong. Radek provò a dire la sua in un paio d’occasioni, ma i suoi argomenti furono dismessi, così che alla fine il Rigeliano si rassegnò come gli altri.

   «Bene, resta un ultimo problema» disse Rangda. «Mi riferisco ai Cristalli di Bajor. Comandante Sisko, lei conosce l’argomento, quindi mi dica: è possibile che il nemico li abbia sfruttati per anticipare le nostre mosse?».

   «I Cristalli non rispondono a comando» spiegò l’interpellato. «Sono i canali attraverso cui i Profeti parlano al mio popolo. Se la domanda è illecita, restano silenti. Infatti i Cardassiani li ebbero in loro potere per decenni, durante l’Occupazione, eppure non ne trassero alcun avvertimento utile contro le disgrazie che li attendevano».

   «E da che parte sono, stavolta, gli alieni del Tunnel?» incalzò la Presidente.

   «I Profeti stanno sempre con la verità e la giustizia... anzi, sono la verità e la giustizia» proclamò il Bajoriano. «Dunque è impossibile che proteggano i ribelli».

   Nel suo cantuccio, Radek fu colto da un dubbio, ma non osò palesarlo. Se alla prova dei fatti i Profeti avessero in qualche modo favorito i ribelli, questo sarebbe stato problematico. «Vorrebbe dire che i Profeti non sono quei campioni di moralità che tutti credono. O peggio ancora... che non lo siamo noi» si disse il Rigeliano.

   Lo stesso pensiero attraversò la mente di Rangda. «Dobbiamo essere cauti» disse la Zakdorn. «Quali che siano le intenzioni dei loro artefici, quei Cristalli sono un’inesauribile fonte di potere. Non possiamo lasciare che sfuggano al nostro controllo. Ricordate: tutto ciò che non opera a nostro favore, opera contro di noi!» disse, passando lo sguardo sugli ufficiali. «Dunque l’acquisizione dei Cristalli è di vitale importanza. I ribelli cercheranno di portarli via: dovete impedirglielo ad ogni costo».

   «Non credo che il mio popolo rinuncerà ai Cristalli» disse Modro. «Semmai li nasconderanno. Ma le garantisco che i Cristalli dei Profeti non rappresentano alcuna minaccia. Quello del Maligno, invece, è un pericolo costante».

   «Potrebbero usarlo come arma contro di noi?» s’inquietò Rangda.

   «Credo che nessuno possa usarlo, salvo Kosst Amojan: e lui vuole la distruzione totale» rispose il Comandante.

   «Allora, quando attaccherete Deep Space Nine, la sua priorità sarà acquisire il Cristallo. Voglio che se ne occupi personalmente. Lo prenda, così potremo... tenerlo al sicuro» ordinò la Presidente. Stava già pensando al modo di sfruttarlo, ma pensò che non fosse saggio parlare in questi termini al Bajoriano. Per lui i Cristalli dei Profeti erano doni divini, mentre quello dei Pah-wraith era uno strumento demoniaco. Per lei, invece, i Cristalli erano tutti uguali: insidiosi strumenti che dovevano essere tolti ai nemici, e se possibile rivolti contro di loro.

   «Lo farò, signora Presidente» s’impegnò Modro.

   «Ci conto» disse Rangda, lanciandogli un’occhiata penetrante. «Recuperi i Cristalli e non vivrà più all’ombra del suo antenato. Sarà il liberatore di Bajor e un eroe dell’Unione Galattica».

   Il Comandante annuì, attratto da quella prospettiva. Per tutta la vita aveva cercato d’emanciparsi dalla fama del suo antenato. Non voleva più essere solo “l’erede dell’Emissario”. Voleva che quando la gente nominava Sisko, parlasse di lui. Questa era l’occasione buona per riuscirci.

   «Ma vorrà dire perdere Vasa». Quel pensiero gli trafisse il cuore. Vasa era il suo grande amore: per salvarla avrebbe dato la vita. Ma non poteva tradire i Pacificatori e tutta l’Unione: questo sarebbe stato egoismo. Il Bajoriano chiuse gli occhi, supplicando i Profeti di non costringerlo a scegliere tra i due doveri più importanti della sua vita.

   «Questo è tutto» disse Rangda. «Ci aggiorneremo dopo che avrete preso la New Frontier. Ricordate: la liberazione di Bajor sarà un enorme progresso verso la fine del conflitto. Quali che siano i sacrifici da compiere, non dovete fallire». L’ologramma della Presidente svanì, seguito da quello di Thot Rong. Anche i Capitani dei Pacificatori abbandonarono la riunione.

   «Tutto a posto, Comandante?» chiese l’Ammiraglio, notando l’aria abbattuta di Modro.

   «Sì, signore. È solo che... il prezzo di questa guerra diventa sempre più alto» lamentò il Bajoriano. «Ma farò il mio dovere, costi quel che costi».

 

   Nel centro di comando di Deep Space Nine la tensione si tagliava con il coltello. Tutti gli ufficiali erano ai loro posti, pronti a fronteggiare gli imprevisti. Il Colonnello Shakaar aveva gli occhi fissi allo schermo, che mostrava la camera blindata del Cristallo.

   «L’evacuazione del livello 17 è completata, signore» riferì un ufficiale. «Campi di forza attivi».

   «Gli emettitori di cronotoni?» chiese Shakaar.

   «Sono pronti».

   «Allora procediamo» ordinò il Colonnello. Dopo sei anni passati a custodire il Cristallo di Fuoco, forse era la volta buona in cui riuscivano a sbarazzarsene. Ma bisognava adottare tutte le precauzioni necessarie, nel caso in cui l’operazione fosse andata male.

   La porta del caveau si aprì, lasciando entrare un carrello a levitazione pilotato in remoto. Su di esso poggiava una teca campaniforme, dal cui oculo promanava luce azzurra. Il carrello si fermò a tre metri di distanza dal Cristallo di Fuoco, appena oltre il campo di forza che lo racchiudeva. Intanto il portone blindato si era richiuso. «Carrello in posizione» disse Vasa, che lo guidava a distanza.

   «Aprire le teche» ordinò Shakaar.

   Due braccia metalliche snodate uscirono dal carrello e aprirono il reliquiario. Il Cristallo dell’Emissario splendette di luce azzurra. C’erano volute forti pressioni per convincere il governo bajoriano a inviarlo su Deep Space Nine. Solo l’intervento di Kai Nashir lo aveva reso possibile. Dal centro di comando, Juri lo osservò assorto. Era tipico dei Bajoriani mischiare scienza e fede. Si trovavano nel bel mezzo di un esperimento scientifico, finalizzato a distruggere il Cristallo di Fuoco con radiazioni cronotoniche. Ma per sicurezza avevano portato lì anche quello dell’Emissario. Le tavole di B’hala sembravano indicare che avesse un ruolo nel fermare la “tempesta di fuoco”, e in effetti i Profeti avevano detto che solo col loro aiuto Kosst Amojan poteva essere sconfitto. Peccato che non avessero specificato le modalità del loro intervento. In mancanza di precise istruzioni, non restava che accostare i due Cristalli e sperare per il meglio.

   «E ora l’altra» disse Vasa, digitando le istruzioni sulla consolle.

   Due braccia snodate, analoghe a quelle del carrello, uscirono dal basamento su cui poggiava la teca del Cristallo di Fuoco e la spalancarono. Per la prima volta da anni, Juri osservò l’ottaedro scarlatto, che galleggiava nel suo contenitore. Lì si annidava l’entità che aveva ucciso Vedek Daaro, e aveva quasi ucciso Vasa. Nel vederlo sullo schermo, l’archeologa restò impietrita.

   «Tutto bene?» le sussurrò l’Umano, che le stava dietro.

   «Certo» si riscosse la Bajoriana. «Attivare l’impulso cronotonico. Regolazione 8,66 millisecondi».

   Il generatore di cronotoni sul soffitto del caveau si attivò con un ronzio, splendendo di bianco. Le particelle inondarono lo spazio entro il campo di forza, colpendo il Cristallo di Fuoco. La reazione non si fece attendere. La luce dell’artefatto si offuscò, più in certi punti che in altri. Al tempo stesso si udì un fischio, sempre più intenso e sgradevole, tanto che molti nel centro di comando si turarono le orecchie. Shakaar segnalò ai tecnici di togliere l’audio dal collegamento, così che l’equipaggio non fosse distratto.

   «L’artefatto reagisce» disse Vasa, controllando le letture che cambiavano di momento in momento. «Aumento il flusso del 30% e porto la varianza a 9,66 millisecondi».

   Juri vide che il Cristallo continuava a oscurarsi, come se perdesse energia. Stavano avendo successo? Era presto per dirlo. Si chiese cosa provasse l’entità annidata al suo interno. Di certo si era accorta dell’attacco: ma come avrebbe reagito?

   «Il Cristallo dell’Emissario resta inerte» notò Shakaar. «Mi aspettavo che facesse... qualcosa».

   «Tipo sparare un raggio d’energia?» chiese Juri.

   «Me lo dica lei! Stando al suo rapporto, i Profeti avevano promesso d’aiutarci» disse il Colonnello, lanciandogli un’occhiataccia. Anche se non lo disse esplicitamente, Juri intuì che dubitava della sua testimonianza.

   «Forse stiamo sbagliando qualcosa» rimuginò lo storico. «Credo che dovremmo interrompere l’esperimento».

   «No, è l’ultima occasione!» s’intestardì Vasa. «I sensori indicano che il Cristallo di Fuoco si sta indebolendo. Le sue emissioni non erano così basse da anni. Dobbiamo continuare».

   Tutti guardarono il Colonnello, che a sua volta osservò l’artefatto sullo schermo. «Procedete» decise Shakaar.

   «Le emissioni dell’artefatto oscillano... credo che ci siamo!» si emozionò Vasa. «Aumento il flusso di un altro 20%».

   Di colpo il Cristallo splendette di luce intensissima. Il collegamento video si riempì d’interferenze, finché lo schermo si spense. Su molte consolle squillarono gli allarmi.

   «Che succede?» si allarmò Shakaar.

   «C’è un feed-back energetico al reattore primario» disse l’Ingegnere Capo, scorrendo i dati. «È come se l’energia ci venisse ributtata indietro. Sovraccarico in corso!».

   In un attimo esplose il caos. Nel centro di comando, come nella sala del reattore, i tecnici cercarono di smaltire l’eccesso d’energia, prima che il nucleo si rompesse. Vasa si guardò attorno scioccata, le mani ancora sui controlli.

   «Gli scudi!» gridò Shakaar. Il Colonnello si precipitò alla postazione tattica e attivò gli scudi della stazione, facendo sì che prendessero energia dal reattore primario. Erano milioni di gigajoules. Gradualmente le vibrazioni cessarono e gli indicatori di potenza tornarono nei limiti di sicurezza. «Salvi» disse Shakaar, passandosi una mano sulla fronte. «Questo è l’ultimo tentativo che...».

   Non aveva finito di parlare che le fiamme eruppero davanti a lui. Nessuna consolle era esplosa: le lingue di fuoco salivano direttamente dal pavimento metallico. Il Bajoriano arretrò, ma si trovò con le spalle al muro.

   «Incendi spontanei» riconobbe Vasa. «Sono opera del Maligno. Ce n’erano già stati, ma mai così».

   «Non avete un impianto antincendio?» chiese Juri, indietreggiando per il calore intenso.

   Vasa scosse la testa. «La stazione è cardassiana, servono gli estintori» spiegò. Corse verso un armadietto incassato nella paratia, ma il fuoco apparve anche lì davanti. La Bajoriana strillò, sentendo il calore, e indietreggiò precipitosamente.

   Vedendo le fiamme che la sfioravano, Juri ricordò l’incubo che aveva avuto nella sua prima notte di permanenza. «Via, via!» gridò, prendendola per mano. Fecero per uscire, ma un muro di fuoco apparve davanti alla porta. Erano in trappola. Attorno a loro le fiamme dilagavano nel centro di comando, attecchendo sul pavimento e sulle consolle, come se fossero fatti di legno anziché di metalli. Il fumo cominciava a saturare l’atmosfera, facendo tossire i presenti. Gli ufficiali corsero verso l’ufficio di Shakaar, non ancora invaso dalle fiamme. Il Colonnello però non poteva seguirli, essendo bloccato in un angolo. Le fiamme stavano per raggiungerlo.

   «Dottoressa Agni, dottor Smirnov!» gridò Shakaar, rattrappendosi contro la paratia. «Portate il Cristallo dell’Emissario a New Bajor, così che non cada in mano al nemico!».

   «Resista, la tiro fuori!» disse Juri, correndo verso la piattaforma del teletrasporto. Stava armeggiando con i comandi quando sentì un grido agonizzante. Si girò facendosi scudo con le braccia e vide una scena orribile.

   Le lingue di fuoco avevano raggiunto Shakaar, e sebbene la sua uniforme fosse ignifuga gli si appiccicarono addosso. In pochi attimi salirono fino ai capelli, facendoli avvampare. Il Colonnello cadde al suolo, contorcendosi nell’agonia: i suoi lamenti si persero nel crepitio delle fiamme.

   In preda all’orrore, Juri distolse lo sguardo. Vide che le fiamme si erano estese anche davanti alla porta dell’ufficio. Quelli che vi erano entrati potevano fuggire tramite un condotto di manutenzione, analogo ai tubi di Jefferies federali. Ma chi si trovava ancora nel centro di comando era in trappola. L’Ufficiale Tattico, che si era attardato nel tentativo di salvare il Colonnello, fu raggiunto da una fiammata e arse come torcia. Lo stesso accadde a uno dei tecnici. L’Umano si avvide che lui e Vasa erano rimasti soli.

   «Il Maligno ci ha presi!» si disperò l’archeologa. Era paralizzata dal terrore del fuoco, retaggio del trauma di sei anni prima.

   «Non ancora! Sali sulla pedana!» disse Juri, urlando per farsi sentire sopra il ruggito dell’incendio. Programmò il teletrasporto perché si attivasse dopo qualche secondo; ma con tutti i fenomeni paranormali che avevano colpito la stazione era impossibile dire se avrebbe funzionato.

   Vincendo la momentanea paralisi, Vasa si rifugiò sulla pedana. Si rattrappì più che poteva contro la paratia di fondo, proteggendosi il viso con le braccia. Anche se le fiamme erano ad alcuni metri da lei, il calore era già scottante.

   Inserite le istruzioni, Juri balzò a sua volta sulla pedana. Abbracciò la Bajoriana e si frappose tra lei e il fuoco, rivolgendo la schiena alle fiamme. Sapeva che questo non l’avrebbe protetta più di qualche attimo, se il fuoco li avesse raggiunti. «Ti amo, lo sai?» confessò, sentendo crescere il calore alle sue spalle. Vasa non rispose a parole, ma annuì. I suoi occhi erano bagnati di lacrime.

   In quella i due federali udirono un ronzio familiare. L’ardore delle fiamme svanì, mentre si dissolvevano nel bagliore dorato del teletrasporto.

 

   «Sono desolato per la tragedia, ma l’accordo era che avreste restituito il Cristallo dell’Emissario al termine dell’esperimento» disse Parva. Il Primo Ministro era su Bajor, in quel momento: Vasa parlava con lui da una sala ausiliaria, poiché il centro di comando era ancora inagibile, dopo l’incendio.

   «L’ultimo ordine del Colonnello Shakaar è stato di portarlo a New Bajor» ribadì l’archeologa, che aveva ancora il volto fuligginoso. «Ora che il Dominio ci ha offerto asilo, è il luogo più sicuro. Ma dobbiamo sbrigarci. Il nemico attaccherà da un momento all’altro e la prima cosa che farà sarà presidiare il Tunnel. La prego... non lasci che il Cristallo dell’Emissario cada in mano ai Pacificatori. Anche se non possono sfruttarne i poteri, lo useranno per fare propaganda e per ricattarci».

   Il Primo Ministro rifletté per qualche attimo. «E va bene» cedette. «Lo porti a New Bajor, consegnandolo direttamente al governatore. Chieda alla Flotta di darle una navetta occultata, così passerà inosservata».

   «Grazie, signor Ministro» fece Vasa, sollevata. «Ma gli altri Cristalli...».

   «Se la battaglia andrà male, siamo pronti a portarli via. Ognuno andrà in un pianeta diverso, nella speranza che il nemico non riesca a trovarli tutti» spiegò il capo di Stato.

   Vasa comprese che, in caso di sconfitta, Parva e gli altri politici avrebbero abbandonato Bajor. La cosa non la stupì; si augurò che almeno nascondessero bene i Cristalli. «State particolarmente attenti a quello di Fuoco» raccomandò. «Non può essere custodito su un pianeta abitato».

   Il Primo Ministro annuì. «Vada, dottoressa Agni. E resti su New Bajor; sarà più al sicuro che qui» consigliò.

 

   Ora che aveva strappato il permesso, l’archeologa non perse tempo. Per prima cosa chiamò l’Ammiraglio Tarn, informandola delle novità e ottenendo una navetta munita di occultamento. Poi prese il Cristallo dell’Emissario, richiudendolo nella sua teca, e in testa a un manipolo di guardie lo portò nell’hangar dove li attendeva la navicella. Il Cristallo di Fuoco rimase invece nella camera blindata. L’incendio nel centro di comando e la morte di Shakaar avevano creato il panico tra l’equipaggio; Vasa sentì alcuni mormorare che i Profeti li avevano abbandonati. Lei stessa era prossima alla disperazione, anche se cercava di non darlo a vedere.

   Giunti nell’hangar, i Bajoriani caricarono il Cristallo sulla navetta di classe Gryphon. I piloti andarono in cabina, mentre le guardie restarono nel compartimento posteriore, a sorvegliare la reliquia. Vasa ridiscese per salutare i colleghi con cui aveva lavorato in quegli anni: la maggior parte di loro tornava a Bajor o lasciava il sistema con gli ultimi trasporti. L’archeologa stava per risalire, quando vide Juri presso la porta dell’hangar. L’Umano le si avvicinò, mentre i colleghi lasciavano il salone.

   «Così te ne vai, eh? La tua chiamata dev’essersi persa per strada» disse lo storico.

   «Pensavo che sarebbe stato più facile...» si giustificò Vasa, facendo il gesto di risalire.

   «Porti il Cristallo su New Bajor, come voleva Shakaar?».

   La Bajoriana annuì.

   «Dunque questo è un addio».

   «Io... temo di sì. Cioè, spero di rivederti, prima o poi, ma...».

   «Già, più ti allontani da qui e meglio è» si rassegnò l’Umano. «Riguardati, Vasa. Se non dovessimo rivederci, ti auguro ogni bene». Si voltò e fece per andarsene.

   «Juri, aspetta!» lo rincorse Vasa. Quando gli fu appresso, l’Umano si voltò. «Ti amo anch’io» disse la Bajoriana, gettandogli le braccia al collo. Si baciarono per la prima volta dai tempi dell’Università. Per un solo, magico istante, sembrò che nulla fosse cambiato da allora.

   Poi l’istante passò.

   Juri si liberò dall’abbraccio e lasciò in fretta l’hangar. Non voleva rendere la separazione più dolorosa di quanto già non fosse. La Bajoriana lo guardò allontanarsi, finché il portone si richiuse. Allora salì sulla navetta, incespicando, perché le lacrime le annebbiavano la vista. La Gryphon si occultò e lasciò Deep Space Nine, diretta al Tunnel Spaziale.

 

   A poche Unità Astronomiche da lì, la Keter attendeva con il resto della flotta federale nei pressi della New Frontier. Il Capitano Hod era stata informata del tentativo di distruggere il Cristallo di Fuoco, ma il tempo passava e non giungevano notizie. «Pessimo segno... vuol dire che qualcosa è andato storto» si disse. Si astenne però dal chiamare la stazione, non volendo che il nemico intercettasse la comunicazione.

   «Capitano, la flotta nemica si muove» avvertì Zafreen.

   «Ci siamo» si disse l’Elaysiana. La grande battaglia era cominciata. «Allarme Rosso. Vrel, restiamo in formazione. Terry, apra il fuoco appena il nemico sarà a distanza di tiro. Zafreen, si prepari a filtrare le interferenze, se il nemico disturbasse le nostre comunicazioni».

   «Non abbiamo avuto notizie di Juri» notò Vrel.

   «Non è il momento di cercarle. Abbiamo altro a cui pensare» disse Hod. «Comunque non credo che rischi più di noi» pensò, vedendo la flotta nemica che si avvicinava. Le astronavi dei Pacificatori erano come le loro, quanto a tecnologia, ma erano in condizioni migliori. E con le navi bajoriane e cardassiane schierate presso il pianeta, li superavano in proporzione di quattro a uno. Poi c’erano i vascelli Breen, altrettanto numerosi. Con una tale sproporzione di forze, non c’era strategia valida. Ma al Capitano non importava vincere la battaglia; l’unico vascello che le interessava era il Moloch.

   Osservando lo schieramento nemico, Hod notò che Radek si era piazzato proprio davanti a loro. Così erano certi di non perdersi nella battaglia. L’Elaysiana osservò il Moloch, mentre il Rigeliano, sulla sua nave, scrutava la Keter. Era il loro modo di fissarsi negli occhi. Nessuno dei due chiamò l’altro; presto sarebbero state le armi a parlare. Entrambi, però, misero la mano in tasca, toccando la metà di una piastrina. Era un pendente con la dedica “Sono stato e sarò sempre tuo amico”, che Radek aveva donato a Hod, prima che il conflitto li dividesse. L’Elaysiana lo aveva spaccato in due in un raptus ma poi, al momento della separazione, ne aveva restituita una metà al Rigeliano, con l’augurio che un giorno potessero ricomporlo. Ormai nessuno dei due pensava che ciò potesse verificarsi, eppure continuavano a portare la loro metà.

   «Radek...».

   «Bina...».

 

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Capitolo 5
*** Sangue freddo ***


-Capitolo 4: Sangue freddo

 

   Il trasporto militare Nergal dell’Unione perdeva sangue. O almeno questa era l’impressione che dava. Entrambe le gondole quantiche erano state colpite e il plasma rosso ne sgorgava, disperdendosi nello spazio. Impossibilitata a entrare in cavitazione, l’astronave di classe Mjöllnir manovrò con i motori a impulso, cercando di schivare i colpi. Girò sul proprio asse per rivolgere il dorso al nemico, ora che gli scudi ventrali erano prossimi a cedere, e al tempo stesso inviò una richiesta di soccorso.

   «Trasporto militare Nergal a qualunque nave in ascolto, chiediamo assistenza» disse il Capitano, un grosso Tellarita, mentre la plancia tremava e i danni aumentavano. «Ci troviamo nel Settore Ceti Alfa, in missione per rifornire gli avamposti. Siamo stati attirati nella Nebulosa Mutara con un falso segnale di soccorso e qui i corsari ci hanno attaccati. Abbiamo perso la cavitazione e gli scudi stanno per cedere. A tutte le navi dell’Unione, ci serve soccorso immediato!».

   «È inutile, signore» disse l’addetto alle comunicazioni, tirato in volto. «Il nemico disturba il segnale e anche la nebulosa lo attenua».

   L’esplosione di una consolle gettò a terra un altro ufficiale, che prese a strillare, sfiorandosi il volto ustionato. La nave si scosse e l’illuminazione sfarfallò.

   «Abbiamo perso gli scudi ventrali; quelli dorsali sono al 30%» avvertì l’Ufficiale Tattico.

   «Manovre evasive, cerchi di rivolgere il dorso al nemico» ordinò il Capitano.

   «Impossibile, sono troppi e ci attaccano da tutte le parti» rispose l’ufficiale.

   Il Capitano rivolse un’occhiata allo schermo, dove gli incursori di classe Dal’Rok zigzagavano, evitando la maggior parte dei colpi. Le navi di quel tipo erano le più usate da pirati e corsari, per la combinazione di maneggevolezza e potenza di fuoco. Tuttavia le loro dimensioni ridotte limitavano la potenza degli scudi. «Concentrate il fuoco sull’incursore più indebolito» ordinò il Tellarita.

   I raggi anti-polaronici solcarono lo spazio, colpendo più volte un incursore, finché un’esplosione ne segnò lo scafo. La navicella sbandò e finì alla deriva, lasciandosi dietro una scia di plasma. Il vecchio regolamento della Flotta Stellare prevedeva di lasciar perdere i vascelli nemici disabilitati e concentrarsi su quelli ancora pericolosi. Ma le nuove regole dei Pacificatori davano molta più libertà d’azione ai Capitani. «Finitelo» ordinò il Tellarita, sperando che ciò inducesse gli altri corsari a ritirarsi.

   I siluri quantici sfrecciarono contro l’incursore, ormai senza scudi. La navicella corsara era condannata. Ma all’ultimo momento un’altra astronave, assai più grande, uscì dall’occultamento e intercettò i colpi. I siluri impattarono sugli scudi, senza penetrarli. L’attimo dopo il nuovo vascello aprì il fuoco contro la Nergal. I Pacificatori lo fissarono con orrore. Quella nave era tristemente nota in tutta l’Unione per le sue imprese efferate.

   «Capitano, è la Stella! La Stella del Polo!» disse l’addetto ai sensori, con voce strozzata.

   «Ho gli occhi anch’io» borbottò il Tellarita. L’incursore danneggiato riattivò uno dei motori a impulso e si mise in salvo, mentre la nave orioniana picchiava duro i Pacificatori.

   «Quindi c’è... lui?!» fece l’addetto, ormai in preda al panico. Non aveva neanche bisogno di nominarlo, affinché gli altri capissero. La Stella del Polo aveva un solo Capitano, il famigerato Spettro. Nemico giurato dei Breen da dieci anni, allo scoppio della Guerra Civile si era alleato con i ribelli, trasformandosi in corsaro.

   «C’è di peggio» mugugnò il Capitano, osservando la nave verdastra che li colpiva implacabile. «C’è... lei».

 

   Come tutte le navi della sua classe, la Nergal aveva stive enormi, localizzate nella sezione anteriore a testa di martello. Ora quelle stive erano quasi piene; centinaia di container, di varie dimensioni, erano affiancati e talvolta impilati uno sull’altro. Contenevano armi, generatori di schermi, sensori militari, razioni d’emergenza e tutto ciò che poteva servire ai Pacificatori impegnati al fronte. Ma sebbene i modelli fossero federali, non erano state le fabbriche dell’Unione a sfornarli. Tutti quei rifornimenti erano stati replicati dai Voth, che poi li avevano consegnati ai Pacificatori affinché li smistassero. In tal modo i sauri supportavano lo sforzo bellico, senza esporsi in prima persona.

   Data l’importanza del carico, la stiva era costantemente sorvegliata da Pacificatori armati. Ma il nervosismo serpeggiava tra loro, man mano che il computer li informava dei danni subiti dalla nave. Uno schermo parietale si spense, alcuni container caddero per gli scossoni. Infine, dopo un sussulto particolarmente violento, le luci si spensero, lasciando il salone in penombra. Solo qua e là c’era qualche faretto d’emergenza ancora attivo.

   «Capitano a equipaggio, attenzione! I nostri scudi ventrali sono abbassati e siamo alla deriva. Evacuare la nave, ripeto, evacuare la nave!».

   I Pacificatori si scambiarono occhiate incredule. Pur sapendo che la situazione era grave, non si aspettavano di arrivare a quel punto.

   «Avete sentito? Svelti!» li esortò il caposquadra.

   «Ma il carico...» obiettò una giovanissima recluta.

   «Il carico è perduto» tagliò corto il graduato. «I corsari lo imbarcheranno, ma avranno una sorpresa» disse, recandosi a un armadietto. Passò il pollice sul lettore di DNA per aprirlo. Dentro c’erano delle micro-cariche esplosive, pronte all’uso. «Svelti, piazzatele. Regolate i timer a venti minuti da ora» ordinò il caposquadra.

   I Pacificatori cominciarono a disporre le micro-cariche sui container, alternandole in modo che anche quelli senza esplosivo fossero travolti dalla detonazione di quelli adiacenti.

   «Che peccato, però!» si lamentò la recluta, che mal sopportava di dover distruggere tutti quei rifornimenti. Non si avvide che qualcosa si muoveva alle sue spalle, nell’ombra.

   «Sempre meglio che lasciare tutto ai corsari» disse un collega che stava poco più avanti. Si aspettava una risposta, ma non l’ebbe. Allora si voltò. «Ehi, Guardiamarina, ci sei?» chiese, spazzando la zona col faretto del suo fucile phaser. Vide solo i suoi piedi. Il resto del corpo, steso a terra, era seminascosto da un container.

   «Allarme, agente a terra!» gridò il Pacificatore, alzando il fucile in cerca di un bersaglio. I colleghi interruppero all’istante il lavoro e si prepararono allo scontro.

   «Ci hanno abbordati?».

   «È probabile, gli scudi ventrali hanno ceduto».

   «Ma quanti sono?!».

   «Non so, sul mio scanner non vedo niente».

   «Nemmeno io».

   «L’agente Glive è a terra, quindi qualcuno dev’esserci».

   «Sì, ma dove?!».

   «Sangue freddo, ragazzi» disse il caposquadra. «Non facciamoci prendere dal pa...».

   Una creatura umanoide emerse dal container più vicino e si avventò sui Pacificatori. Indossava una tuta bianca, di lega polimerica flessibile, le cui linee ne accentuavano la magrezza. Il casco era metallico, con una sottile visiera azzurra e una griglia fonica tonda.

   «FUOCO!» gridò il caposquadra, perdendo all’istante la millantata freddezza. Sparò all’impazzata e così fecero gli altri. Ma i raggi polaronici attraversarono la creatura senza nuocerle. Colpirono il container retrostante, lasciando chiazze nere e incandescenti sulla superficie metallica.

   «Meno spari, o questa santabarbara salterà in aria!» avvertì la nuova arrivata. Aveva una voce roca, da strega, ma innegabilmente femminile.

   Realizzato il pericolo, i Pacificatori smisero di sparare. «Frell, è la Banshee!» imprecò uno di loro. Quella creatura dall’aria cadaverica era apparsa dal nulla un anno prima, ma era già diventata ancor più temuta dello Spettro. Più che dalle capacità, simili a quelle del collega, l’aura di terrore veniva dal fatto che nessuno conoscesse la sua identità. Era ormai risaputo che dietro alla maschera dello Spettro si celava Jack Wolff, un disertore della Flotta Stellare con un conto aperto coi Breen. La tuta a Occultamento Sfasato era opera sua. Ma nessuno sapeva chi si celasse dietro la sua misteriosa compagna. Dopo il suo debutto a Elba II, all’inizio della Guerra Civile, si era distinta in missioni di furto, sabotaggio e liberazione di prigionieri. In genere cercava di stordire gli avversari, ma all’occorrenza era capace di uccidere, specialmente se il segreto della sua identità era a rischio.

   Inafferrabile come la creatura leggendaria di cui portava il nome, la Banshee sgusciò tra i Pacificatori. Ne colpì uno con la mano, attraversandogli il petto. L’agente cadde a terra, in preda alle convulsioni. La fuorilegge poteva passare attraverso la materia ordinaria, ma poteva anche regolare lo sfasamento in modo da provocare uno shock neurale alle sue vittime. L’attimo dopo scomparve in un container. Gli agenti ancora in piedi udirono la sua risata maniacale che proveniva dalle tenebre. D’un tratto s’interruppe; per qualche secondo vi fu silenzio. Quando la sentirono nuovamente era alle loro spalle. Si girarono all’istante, illuminando quella zona con i faretti, ma non videro nulla. E anche se l’avessero vista... cosa potevano le loro armi, contro l’Occultamento Sfasato?

   «Che facciamo, signore?» chiese un agente.

   «Manteniamo la posizione e aspettiamo che si renda tangibile. Dovrà farlo, se vuole portar via questa roba» rispose il caposquadra. Ma in quella i container cominciarono a svanire. I corsari avevano abbattuto del tutto gli scudi dell’astronave e ora la razziavano. Ma allora perché avevano inviato la Banshee? Solo per diffondere il terrore?

   «Ma guardali, i famosi Pacificatori! Sembrate cuccioli spauriti!» ridacchiò la Banshee. Stavolta la sua voce proveniva dall’alto. Gli agenti alzarono i fucili in quella direzione e la videro, là dove i fasci di luce s’incontravano. Era appollaiata in cima a un’alta pila di container, in una posa accucciata, come in procinto di saltar giù. «Andate a piangere dai Voth!» li derise.

   Il caposquadra prese la mira e sparò, colpendola esattamente al centro del casco. Ma anche stavolta il raggio azzurro l’attraversò senza fare danno, estinguendosi contro il soffitto. La Banshee spiccò il balzo e atterrò tra i Pacificatori, che si scostarono terrorizzati. Prima che si riavessero, strillò.

   Fu un grido disumano, lacerante, che feriva le orecchie, sconvolgeva il cervello e faceva palpitare il cuore. La fuorilegge girò su se stessa, mentre strillava, così che quasi tutti gli avversari furono investiti dalle onde sonore. Si accasciarono al suolo, storditi dall’arma sonica che costituiva il grido della Banshee. I pochi che non furono presi in pieno restarono temporaneamente assordati.

   «È tangibile!» gridò il caposquadra, anche se i suoi non potevano più sentirlo. Solo rendendosi tangibile, infatti, la fuorilegge poteva usare la sua arma sonica. Pur non udendo il superiore, uno degli agenti pensò la stessa cosa. I due Pacificatori, ancora rintronati, le spararono mentre passava tra loro. E si colpirono a vicenda, perché in quell’attimo l’avversaria era tornata incorporea. Ci furono due lampi, accompagnati da un suono sfrigolante, e i Pacificatori caddero a terra morti. Nella speranza di abbattere la Banshee avevano regolato le loro armi su uccisione.

   «Sigh... non capite mai quand’è ora di ritirarvi» commentò la corsara. Potendo scegliere, non uccideva gli avversari di proposito; ma in quei momenti concitati era facile che ci scappasse il morto.

   «Maledetta! Muori!» gridò l’ultimo Pacificatore ancora in piedi, sparandole a tutto spiano. Anche stavolta i colpi l’attraversarono, estinguendosi contro la parete retrostante. Vedendo che la Banshee gli veniva contro, l’agente terrorizzato scagliò una granata stordente, senza ottenere miglior risultato. Fu anzi lui a restare stordito dal lampo, tanto che il fucile phaser gli cadde di mano.

   «Caspita, l’Accademia vi sforna sempre più svegli» ghignò la Banshee, avvicinandosi con fare minaccioso. «Ormai non mi servite nemmeno come allenamento».

   «No, no... stammi lontana!» si disperò l’agente, arretrando. Ma si accorse con orrore d’essere finito in un vicolo cieco, formato dai container ammassati. Erano così grossi che non poteva nemmeno arrampicarcisi sopra.

   «Calmo... farò in un attimo, e non sarà più doloroso del necessario» infierì la Banshee, accingendosi a stordirlo.

   «Non mi toccare!» strillò il Pacificatore, estraendo il phaser manuale. Le sparò in faccia, sempre senza esito. «No... maledetta!» singhiozzò, rivolgendo il phaser verso di sé.

   «Ehi, calmati e posa quel...» disse la fuorilegge, ma non finì la frase. Ci fu un ultimo lampo e l’agente cadde a terra. Si era sparato alla tempia: la morte era stata istantanea.

   «Idiota!» sibilò la Banshee. La sua intenzione era stordirlo, non certo ucciderlo. Ma quando l’adrenalina scorre a fiumi e un’arma sonica ti ha mezzo intontito, è facile equivocare i gesti. Non era la prima volta che i suoi avversari restavano vittime delle proprie emozioni, e non sarebbe stata l’ultima. Ma lei era una professionista, e aveva un lavoro da ultimare.

   Lasciandosi alle spalle i Pacificatori storditi e quelli morti, la fuorilegge si recò a una consolle, mentre i container svanivano attorno a lei, teletrasportati sulla Stella del Polo. Trovò i registri di carico, con segnate le tappe che l’astronave aveva fatto fino a quel momento e ciò che aveva scaricato in ogni occasione. Prese a scorrere l’elenco, anche se non lo stava memorizzando. Si limitava a guardarlo, lasciando che la telecamera del casco registrasse tutto. Una volta tornata al sicuro sulla Stella avrebbe rivisto con calma la registrazione.

   Mentre era intenta a questo, la Banshee non si avvide che c’era ancora un Pacificatore in piedi. Durante l’attacco era lontano dagli altri e si era nascosto tutto il tempo, in attesa del momento propizio per colpire. Ora quel momento era arrivato. La corsara era china sulla consolle, concentrata nel maneggiare i comandi. E poiché le sue dita toccavano i tasti, ciò significava che si era resa tangibile... e vulnerabile. L’agente regolò il phaser su uccisione e prese accuratamente la mira. Era lieto che toccasse proprio a lui eliminare la fuorilegge, entrando negli annali dei Pacificatori.

   «Attento, ragazzo» disse una figura più grossa e scura della Banshee, comparendogli a fianco. «Dove c’è un fantasma, spesso ce n’è un altro». Lo Spettro, quello originale, era lì, con la corazza nera e la visiera cremisi. Gli afferrò il phaser e glielo rivolse contro.

   L’agente cercò disperatamente di liberarsi, ma l’armatura dello Spettro moltiplicava le sue forze, trasformando la sua stretta in una morsa d’acciaio. Il phaser si piegò inesorabilmente contro il suo proprietario. Lo Spettro ebbe la clemenza di riportare il settaggio su stordimento, prima di premere il grilletto. Il colpo così ravvicinato fu però doloroso. Al risveglio, il Pacificatore si sarebbe trovato con una lieve ustione sul petto, oltre che con la bruciante consapevolezza di non essere entrato negli annali.

   Udendo il sibilo dell’arma, la Banshee si voltò di scatto, solo per constatare che non c’era più pericolo.

   «Devi stare più attenta; questo ti era sfuggito» ammonì lo Spettro, accostandosi alla compagna.

   «Sapevo che c’eri tu a guardarmi le spalle» rispose lei, tornando a scorrere il registro di carico. «Comunque, grazie. Sei il mio angelo custode».

   «Lo aggiungerò alla lista dei miei nomignoli» ghignò lo Spettro.

   Ancora qualche attimo e la Banshee terminò di visionare il carico. Alzò gli occhi dalla consolle e vide che la stiva si era in gran parte svuotata. Gli ultimi container venivano teletrasportati sulla nave corsara, mentre a terra c’erano le micro-cariche che i Pacificatori avevano cominciato a piazzare: lo Spettro le aveva staccate prima che fossero teletrasportate. Mancavano tre minuti all’esplosione.

   «Spettro a Stella, riportateci indietro» ordinò il corsaro. «Prendete anche i Pacificatori che si trovano in questa stiva, o faranno una brutta fine».

   Il teletrasporto prelevò tutti i presenti. Lo Spettro e la Banshee apparvero sulla pedana di plancia della Stella, ricavata in una nicchia della parete. I Pacificatori, invece, furono trasferiti in cella.

   «Rapporto» ordinò il corsaro, dirigendosi a grandi passi alla poltrona di comando.

   «I topi hanno abbandonato la nave» rispose Graush, il suo braccio destro, mentre gli lasciava il posto. Il Letheano accennò allo schermo, dove le ultime navette e capsule dei Pacificatori lasciavano l’astronave alla deriva. Di lì a poco le micro-cariche lasciate nella stiva esplosero, provocando una grossa falla nello scafo.

   «Sicuro di aver bonificato il carico, eh capo?» si preoccupò Graush.

   «Se così non fosse, ce ne saremmo già accorti» ribatté lo Spettro, accomodandosi in poltrona.

   Ancora qualche secondo e la Nergal esplose in un lampo abbagliante. Era prassi dei Pacificatori distruggere, dopo averle evacuate, le navi fuori uso, per evitare che i ribelli se ne impadronissero. Sapendolo, lo Spettro si era astenuto dal mandare i suoi all’abbordaggio. La battaglia si era conclusa senza vittime, salvo i tre agenti periti di propria mano nello scontro con la Banshee.

   «Abbiamo finito» disse Jack, facendo rientrare il casco nella tuta. L’Umano aveva occhi chiari, che spiccavano sul viso dall’aria vissuta. «Prendiamo l’incursore danneggiato nell’hangar e poi via di qui, a massima curvatura».

   «Ripristinare l’occultamento» aggiunse la Banshee, sedendogli a fianco. La sua poltrona era del tutto simile a quella del Capitano, vale a dire che aveva lo stile opulento degli Orioniani, gli originali proprietari dell’astronave. La fuorilegge ritirò a sua volta il casco, rivelando il suo viso pallido di ibrido Umano/Andoriano. Le antenne, finora ripiegate, poterono finalmente sollevarsi nella loro posizione naturale. Jaylah Chase, ex Agente Temporale della Keter e ora “regina” corsara, le agitò un poco, per sgranchirle.

   «Temi che qualcuno ci segua?» chiese Jack.

   «La prudenza non è mai troppa» rispose Jaylah. «Ricorda che sono i Voth a rifornire i Pacificatori. E i Voth hanno una tecnologia superiore alla nostra, anche nel campo dell’occultamento».

   «Uhm, già» mugugnò il corsaro. «Temo il giorno in cui gli daranno l’Occultamento Sfasato. A quel punto perderemo il vantaggio».

   «Forse non glielo daranno mai» disse la mezza Andoriana. «Hanno paura di renderli troppo potenti. E poi i Voth non condividono la loro tecnologia, per principio».

   «Beh, speriamo che restino fedeli ai loro ideali» sospirò l’Umano, mentre la nave entrava in curvatura. «Allora, come siamo messi a bottino?» si rivolse a Graush.

   «Uno dei migliori di sempre» sogghignò il Letheano, scorrendo il rapporto sull’oloschermo. «Centoventi tonnellate di materiale bellico di prima qualità, destinato al fronte. Le stive sono piene, dovremo far tappa in qualche avamposto federale per rivendere la roba».

   «Andremo a Muliphen; lì sono a corto di rifornimenti» decise lo Spettro. «Informate gli incursori. E fate subito l’inventario, così decideremo cosa tenere».

   «Non serve, ho i registri di carico» disse Jaylah. «Volevo vedere dove hanno fatto scalo» spiegò.

   «Allora scaricali, così ci diamo un’occhiata» annuì l’Umano. «Se poi vorrai metterti qualcosa di più comodo, lo apprezzerei molto» ammiccò.

   Jaylah gli restituì un’occhiata complice. Era bello vincere, ogni tanto, ma più bella ancora era la fase di relax post-missione.

 

   Circondati dalle loro conquiste, Jack e Jaylah leggevano l’inventario, decidendo cosa trattenere e cosa, invece, rivendere ai federali. L’Umano passeggiava tra i container aperti, per controllare con i suoi occhi ciò che leggeva sul d-pad. La mezza Andoriana se ne stava invece spaparanzata su un elegante divanetto, in mezzo ai bottini di maggior pregio: opere d’arte, ori e gemme. Con la mano rovistava pigramente in un cofanetto pieno di gioielli e ogni tanto ne estraeva uno per provarselo.

   «Cento inibitori di teletrasporto, ultimo modello» lesse Jack, e subito andò a controllare. «Eccoli qui».

   «Ne abbiamo già parecchi» sbadigliò Jaylah, che aveva seguito il consiglio di vestirsi più casual. Nel suo caso, ciò significava aprire il guardaroba orioniano, che i vecchi padroni dell’astronave avevano lasciato ben fornito. Un tempo la mezza Andoriana avrebbe arricciato il naso davanti a quegli abitini provocanti e a quei gioielli vistosi. Ma ormai era diventata più permissiva con se stessa e aveva imparato a concedersi qualche “lusso decadente”, quand’era in vena.

   «Sì, ma questi sono del nuovo tipo» puntualizzò Jack. «Voglio tenerne almeno una ventina. Quelli vecchi che abbiamo possiamo sbolognarli ai federali».

   «Ehi, vuoi dar loro la roba di seconda scelta?» si accigliò Jaylah. Avendo lasciato la Flotta solo da un anno, e non da undici come lui, non aveva ancora interiorizzato il modus operandi dei corsari.

   «Considerando che tutta questa roba l’abbiamo conquistata noi, penso che dovrebbero esserci grati» rispose lo Spettro. «Avranno ottanta inibitori nuovi e venti più datati. Al loro posto, non mi lamenterei».

   «Uhm, sì, hai ragione» convenne la mezza Andoriana. Il suo primo istinto era sempre pensare alla Flotta, ma vivere tra i corsari la obbligava a rivedere le priorità.

   Jack si appuntò la decisione sul d-pad e proseguì il giro. «Venti casse di fucili phaser, da venticinque fucili cadauna. Mah, direi che possiamo trattenerne un paio. Tu che dici?».

   «Hm-hm» fece Jaylah, mettendosi in una posizione più comoda. Attivò il suo d-pad e prese a controllare le precedenti consegne dei Pacificatori. Il trasporto era partito dalla Terra, dove aveva ricevuto il carico dai Voth. Aveva viaggiato ad alta velocità, facendo pochissimi scali, motivo per cui le stive erano ancora ben fornite.

   «Uniformi di ricambio... inutili. Razioni d’emergenza... puah, le nostre sono meglio» borbottò Jack, depennandole dall’elenco. «Oh-oh, adesso entriamo nel vivo! Cento missili al tricobalto. Mine neutroniche multicinetiche. Cariche nucleoniche. È roba potente... direi di fare fifty-fifty coi federali».

   «Magari quaranta-sessanta» suggerì Jaylah, sempre preoccupata di rifornire la Flotta.

   «Andata» disse Jack, sapendo che doveva pur cedere su qualcosa. «E cos’abbiamo qui? Ah!».

   Quel verso indignato attirò l’attenzione della compagna, che interruppe la lettura. «Che c’è?» chiese.

   «Neurotossine per la fabbricazione di gas letali» disse l’Umano, disgustato. «E persino un gel bio-mimetico che può servire a fabbricare armi biologiche».

   «Distruggi tutto» disse Jaylah. Non era una richiesta, ma un ordine.

   «Ci puoi scommettere» convenne Jack. Estrasse la vibro-lama e fece un segno sul container, a indicare che tutto il contenuto doveva essere eliminato. «Lo butteremo nella prima stella che incrociamo».

   La mezza Andoriana scattò in piedi, indignata da quell’ennesima dimostrazione della brutalità dei Pacificatori, che non esitavano a usare armi illegali. «Sai cos’è che mi fa tanta rabbia?» chiese.

   «Il fatto che abbiano interrotto i campionati di springball?» scherzò Jack.

   «Beh, anche quello» ammise la fuorilegge, lieta che il compagno riuscisse a farla sorridere persino in quel momento. «Ma mi riferivo al fatto che tutto questo» disse allargando le braccia a indicare la stiva «è una goccia nell’oceano. Secondo i rapporti dell’intelligence, ogni giorno i Voth consegnano ai Pacificatori un carico come questo. Ogni singolo giorno. Con la nostra media di successi, non possiamo influire in modo significativo sul conflitto» ammise, sfiduciata.

   «Non è quello il nostro scopo» disse Jack con decisione. «Il nostro primo obiettivo è restare vivi e, se possibile, riempirci le stive. Il secondo è demoralizzare il nemico, più che indebolirlo militarmente. Il terzo è incoraggiare altre bande di pirati e paramilitari a imitarci. Finora il primo obiettivo lo abbiamo raggiunto, e credo che anche gli altri due stiano andando bene. Continuiamo così e non avremo niente da rimproverarci».

   «Sì, ma...».

   «No, niente ma» insisté lo Spettro, abbracciandola. «So che vuoi sempre salvare la Galassia, ma devi accettare – come ho fatto io – che ci sono cose fuori dal nostro controllo. Stiamo facendo tutto il possibile, e tanto basta per essere a posto con la coscienza. Il resto non dipende da noi».

   «Hai ragione» si calmò Jaylah, e ricambiò l’abbraccio. «Ma sono stanca di sabotare cantieri e inseguire carichi d’armi. Vorrei che ci fosse un modo per danneggiare davvero il nemico».

   «Hai in mente qualcosa?».

   «Non so, servirebbe una vittoria sul fronte diplomatico o propagandistico» sospirò la mezza Andoriana. «Ma è come dici tu: devo imparare ad accontentarmi». Lasciò l’abbraccio e riprese il d-pad con i registri di carico.

   «C’è qualcosa d’interessante?» volle sapere Jack.

   «Mah, notavo che quella nave ha fatto pochissimi scali» disse Jaylah, consultando l’elenco. «Il grosso del carico era diretto a Ceti Alpha, per essere usato contro i Klingon. Però hanno fatto una deviazione a Cestus III».

   «Cestus?» s’insospettì lo Spettro. «Mi pare che sia lontano dal fronte».

   «Sì, abbastanza» confermò Jaylah, che aveva memorizzato tutta la situazione tattica. «E i Klingon non hanno attacchi in programma da quelle parti».

   «Eppure i Pacificatori hanno rifornito l’avamposto...» rimuginò l’Umano.

   «Un avamposto piccolo e privo d’importanza» aggiunse la mezza Andoriana. «Tutto il pianeta è di scarsa importanza, in effetti. Il suo unico luogo d’interesse è l’Istituto per le Relazioni Unione-Gorn».

   «E la Nergal cos’ ha scaricato?».

   «Uno Scudo Cittadino di tipo XXV...» lesse Jaylah.

   Jack fece un lungo fischio. Uno scudo di quel genere poteva difendere una grande città da un bombardamento orbitale.

   «... inibitori di teletrasporto, armi d’ordinanza per agenti della Sicurezza» proseguì Jaylah. «Praticamente tutto quel che manca del carico è andato lì».

   «Uhm... sento puzza di bruciato» disse l’Umano. «I Pacificatori non armano i piccoli avamposti lontani dal fronte, a meno che non debbano combinarci qualcosa».

   «A giudicare da ciò che hanno scaricato, sono orientati alla difesa» notò la mezza Andoriana. «Sta per succedere qualcosa d’importante, su quella palla di sabbia. Forse devono allestirci una fabbrica, o uno di quei dannati Centri di Rieducazione».

   «Oppure sta per tenersi un summit, e vogliono accertarsi che la sede sia protetta» suggerì Jack.

   «Già!» fremette la corsara. «È l’occasione che aspettavamo. Se ci sbrighiamo, forse metteremo a segno un colpo decisivo».

   «Uhm... dovremo addentrarci nello spazio nemico senza un briciolo di copertura» notò lo Spettro, meno entusiasta. «Non potremo neanche portarci dietro gli incursori, visto che il loro occultamento non è sofisticato come il nostro».

   «È una missione ad alto rischio» convenne Jaylah. «Ma ne abbiamo già fatte di simili. Ricordi quella volta a Jaros II?».

   «Non farmici pensare!» disse Jack, facendo una smorfia al ricordo di quella missione rischiosa e complicata. «Allora, sei proprio convinta?».

   «Penso che valga la pena d’indagare» annuì la mezza Andoriana. «Se non troveremo niente, pazienza. Se al contrario il nemico avrà troppe forze, ci ritireremo senza ingaggiarlo e avvertiremo i federali, così se la sbrigheranno loro».

   «Sembra un buon compromesso» cedette l’Umano. «E sia! Andremo a Cestus III e vedremo cosa combinano i Pacificatori».

   «Dì la verità, vuoi vedere il luogo in cui Kirk atterrò il Gorn con un cannoncino artigianale» indovinò Jaylah, ricordando la celebre sfida svoltasi su quel pianeta.

   «Beh, anche» ammise Jack. «Ma soprattutto... quando mi chiedi una cosa con quegli occhi da cerbiatta e un completino orioniano, non so dire di no» sogghignò. Come Capitano della Stella aveva l’ultima parola nelle decisioni, ma Jaylah era la sua consigliera (e amante), per cui teneva sempre in gran conto il suo parere.

   «Occhi da cerbiatta?! Questa è nuova!» rise la corsara. «Quanto al completino... lieta che ti piaccia. Mi ci è voluta mezz’ora per capire come indossarlo» disse, riponendo il d-pad su una consolle.

   «Oh, che disdetta. Spero sia più facile da togliere» le sussurrò l’Umano all’orecchio, mentre l’abbracciava da dietro.

   «Si fa in un lampo» sorrise la mezza Andoriana, e passò subito alla dimostrazione.

 

   Posto al confine tra l’Unione e l’Egemonia Gorn, Cestus III era un mondo di classe H, vale a dire desertico. Gli antichi oceani si erano prosciugati da tempo, lasciando deserti di sale. Tutto ciò che restava erano piccoli bacini dall’elevata salinità, attorno a cui resistevano gli ultimi ecosistemi. Il pianeta sarebbe stato di un giallo paglierino, se l’atmosfera non gli avesse conferito una sfumatura verdognola.

   La Stella del Polo uscì dalla curvatura ai margini del sistema e si avvicinò a metà impulso, restando occultata. Il pianeta s’ingrandì lentamente sullo schermo e i corsari lo osservarono, chiedendosi perché mai quella palla di sabbia avesse attirato l’interesse dei Pacificatori.

   «Analisi» ordinò lo Spettro.

   «Rilevo una cospicua quantità di sabbia, sale e lucertole» disse l’addetto ai sensori, un Boliano con la benda sull’occhio. Il resto della ciurma ridacchiò.

   «Meno spirito, signor Siall, se non vuole spurgare i condotti del plasma!» lo richiamò Jaylah. Da quando era salita a bordo, l’ex Agente Temporale si era sforzata di mettere in riga quella ciurma di manigoldi, trasformandoli in qualcosa di simile a un equipaggio della Flotta Stellare. Jack la lasciava fare, riconoscendo che bisognava migliorare la disciplina, ora che la banda si era tanto allargata.

   «Scusi, signora» disse il Boliano, sapendo che la mezza Andoriana non minacciava a vuoto. «Rilevo numerose astronavi in orbita... tutte aliene» si stupì. «La più grossa è una Nave Bastione Voth». Così dicendo la inquadrò sullo schermo. Era un mastodontico vascello dalle linee affusolate e lo scafo color acciaio, con dettagli azzurri e verdi. Un’astronave come quella valeva quanto dieci navi da guerra federali. In caso di scontro la Stella non aveva speranze, nemmeno se ci fosse stato il resto della sua flottiglia a supportarla.

   «Teniamoci a distanza» disse lo Spettro, temendo i sofisticati sensori Voth. «Andiamo nella zona polare, dove le interferenze elettromagnetiche sono più forti».

   «Che ci fanno i Voth a Cestus III?» si chiese Jaylah.

   «Forse Rangda gli ha venduto il pianeta» suggerì Graush.

   «In tal caso i Pacificatori non avrebbero rafforzato il presidio» obiettò Jack. «No, qui c’è qualcosa di strano. Siall, quali sono le altre navi in orbita?».

   «Vediamo... ce n’è una Gorn» disse il Boliano, proseguendo la scansione. «È un incrociatore pesante di classe Tyrannus». Lo inquadrò sullo schermo: era un vascello minaccioso, dallo scafo bruno-verde irto di armi. La parte anteriore ricordava la sezione a disco delle navi federali, ma era posta in verticale. A poppa vi erano quattro gondole di curvatura, ben distanziate dal corpo dell’astronave.

   Lo Spettro aggrottò la fronte. Non era insolito che i Gorn bazzicassero da quelle parti, dato che Cestus III ospitava molti dei loro coloni, in un esperimento di convivenza con le altre specie. Ma la presenza dei Voth lo impensieriva. «E poi?» chiese.

   «Ci sono gli Arkoniani, i Beta Annari, i Kasheeta, i Sauriani, i Selay, i Tygariani e gli Xindi Rettili» rilevò il corsaro.

   «Ma non ha senso!» sbottò Graush. «I Gorn sono una potenza straniera, mentre gli altri facevano parte dell’Unione, ma hanno scelto la neutralità. È assurdo che si trovino tutti qui. Non hanno niente in comune».

   «Una somiglianza ce l’hanno» obiettò Jaylah. «Sono tutti rettili... come i Voth».

   Un silenzio teso calò in plancia. Era strano che nessun altro lo avesse notato, ma in effetti tutte le specie lì convenute avevano tratti rettiliani, più o meno pronunciati.

   «E questo che dovrebbe significare?» chiese il Letheano. «Solo perché hanno il sangue freddo, non significa che abbiano affari in comune».

   «Di questi tempi, le somiglianze fisiche bastano eccome ad avere affari in comune» si accigliò Jack. «Questo raduno segreto è oltremodo sospetto. Già la presenza dei Gorn è un guaio, ma quella delle altre specie m’inquieta ancora di più. Alcuni di loro erano membri importanti dell’Unione; se passassero al nemico sarebbe una catastrofe. Dobbiamo avvertire la Flotta Stellare».

   «Non basta. Anche se la Flotta attaccasse, i Voth sposterebbero l’incontro in un luogo più difendibile; magari una delle loro astronavi» disse Jaylah. «Dobbiamo saperne di più».

   «Sarebbe una missione rischiosissima, e laggiù non ci sono solo stupide lucertole; ci sono i Voth» avvertì Jack, contrario all’idea.

   «Per prima cosa dobbiamo localizzare il summit» ragionò la mezza Andoriana. «Siall, in quale insediamento crede che sia l’incontro?».

   «Vediamo... non ci sono molti centri abitati» disse il Boliano, esaminando il pianeta. «Rilevo presidi armati a Cestus City, Pike City, New Jencho, Rupertville e Two Rivers, oltre che presso le miniere di Moran. Ma solo a Cestus City c’è un reattore abbastanza potente da alimentare lo Scudo Cittadino che hanno appena ricevuto. L’edificio più protetto della città è il palazzo governativo».

   «Beccati» disse Jaylah. «Andrò giù come Banshee, per tastare il terreno. Voi intanto avvertite la Flotta».

   «Certo, e poi come ti recuperiamo?!» insorse Jack. «Sarai sotto lo Scudo Cittadino, e suppongo che almeno il palazzo sarà protetto con gli inibitori di teletrasporto. Per non parlare delle navi in orbita! Ci vorrebbe una flotta solo per disabilitare la Nave Bastione».

   «Non voglio dare battaglia alla guarnigione, ma devo sapere cosa si decide là dentro» ribatté Jaylah. «Sarà una missione di spionaggio, tutto qui. Mi recupererete alla fine del summit, quando i Voth e gli altri se ne saranno andati».

   «Se la Flotta non decide di attaccare prima! Hai pensato che potresti trovarti prigioniera di una città assediata?» insisté l’Umano.

   «In quel caso mi terrò lontana dal palazzo governativo. La Flotta non bombarderà i quartieri civili» sostenne la mezza Andoriana.

   «Non possiamo sapere come andranno le cose» obiettò lo Spettro.

   «Se scendi da sola, e i Voth ti scoprono, sei finita» intervenne Graush, che condivideva la preoccupazione del Capitano. «Non hai un briciolo d’appoggio».

   «In realtà ce l’ho» disse Jaylah inaspettatamente.

   Tutti la guardarono con tanto d’occhi. «Mi stai dicendo che hai un contatto laggiù?» chiese Jack, che non l’aveva mai sentita accennare alla cosa.

   «Diciamo un conoscente. Un vecchio amico di famiglia» precisò la corsara. «Lavorava sull’Enterprise-J quando mio padre ne era il Capitano, e poi anche negli anni successivi. Ma quando l’Enterprise fu danneggiata nella Battaglia di Andoria, fece fagotto e venne a vivere qui».

   «Strana scelta, per un ufficiale in congedo» notò lo Spettro. C’erano pianeti molto più piacevoli di quello per godersi la pensione.

   «Oh, lui non faceva parte dell’equipaggio. Era un civile» rivelò Jaylah.

   «E ti fidi di lui, per una missione così rischiosa?» incalzò Jack.

   «Mi fido di lui come di me stessa».

 

   Come faceva al termine di ogni giornata lavorativa, Raav chiuse il suo ristorante annesso all’Istituto per le Relazioni Unione-Gorn e tornò a casa. Il vecchio rettile camminava a piedi, osservando la città stranamente silenziosa. Da quando Cestus City era stata selezionata per ospitare il summit, le misure di sicurezza erano innalzate al massimo e vigeva il coprifuoco. I Pacificatori pattugliavano le strade e i loro droni accalappiatori facevano lo stesso con i cieli. Il palazzo governativo e l’Istituto erano pattugliati dai Voth, un fatto raro a vedersi fuori dalla Terra. In quanto gestore del ristorante interno all’Istituto, Raav era autorizzato a entrare e uscire; ma doveva farlo negli orari indicati. Ogni volta veniva scansionato all’ingresso, per accertarsi che non avesse armi o dispositivi illegali; anche un semplice registratore vocale era vietato. Nella sua posizione, infatti, era facile captare le conversazioni che i diplomatici avevano a margine dei negoziati, quando venivano a ristorarsi nel suo locale.

   Quando fu in vista del palazzo governativo, il Gorn lo guardò di sbieco. Sulla torre più alta sventolavano affiancati i vessilli dell’Unione Galattica, dell’Egemonia Gorn e dell’Autorità Voth. In altre circostanze, Raav sarebbe stato lusingato dal fatto che la sua gente ricevesse tanto credito; ma sapeva che ai Voth non importava la comunanza di sangue freddo coi Gorn. No, volevano solo farli combattere e morire al posto loro. Era una situazione avvilente, ed era ancor più avvilente sapere che lui non poteva farci nulla. A duecento anni suonati, Raav cominciava a sentirsi vecchio, anche se la sua specie poteva superare i trecento; in ogni caso non era un combattente.

   «Se ci fosse l’Enterprise-J!» si disse con rimpianto. Ma quella nave leggendaria era stata distrutta l’anno prima, all’inizio della Guerra Civile. Tutti gli occupanti erano morti. E quanto ai suoi amici dell’equipaggio originale, chissà dov’erano finiti? L’Ammiraglio Chase, Ilia, Lantora e T’Vala combattevano con la Flotta Stellare, ma degli altri non aveva notizia. Non sapeva nemmeno se fossero ancora vivi.

   Cercando di pensare ad altro, Raav svicolò in una strada laterale, prese un sottopassaggio e finalmente raggiunse casa sua. Era un edificio a un solo piano, con un seminterrato, come piaceva ai Gorn. Le pareti spesse erano verniciate di bianco. Raav entrò alla svelta, perché stava scattando il coprifuoco, e si chiuse dentro. Un’altra giornata era finita. Una come tante, in quella serie interminabile di giorni odiosi, scanditi dai notiziari di regime che annunciavano l’avanzata inarrestabile dei Pacificatori. Ah, se solo avesse potuto fare qualcosa! Ai tempi dell’Enterprise-J c’erano state un paio di volte in cui aveva fatto la differenza; ma quei giorni erano finiti e anche gli amici di un tempo erano lontani.

   «Ciao, Raav. Quanto tempo è passato» disse una voce alle sue spalle. Era una voce femminile, dal timbro metallico, che il Gorn non riconobbe. Chiunque fosse, si trovava tra lui e l’ingresso; ma lui non l’aveva vista quand’era entrato.

   «Sssshhht! Non ricordo di aver invitato nessuno» disse Raav, accompagnandosi col sibilo caratteristico della sua specie.

   «Considerala una festa a sorpresa. Voltati e sta’ tranquillo; non ho cattive intenzioni».

   «Come sono fortunato» commentò il Gorn, girandosi con lentezza. I suoi occhioni gialli si fissarono sull’intrusa, che indossava un’avveniristica e minacciosa tuta da combattimento. La riconobbe per averla vista ai notiziari. «Sssshhh! Quale onore! Cosa porta la famigerata Banshee alla mia umile dimora?» chiese.

   «La guerra» rispose lei con durezza. «Ci colpisce tutti, no? Dimmi: a chi va la tua lealtà?».

   «Domanda rischiosa, la tua» disse Raav. «Potresti essere un trucco dei Pacificatori. O magari sei davvero la Banshee. In ambo i casi, pagherei amaramente la risposta sbagliata».

   «Non sono un trucco» disse la corsara, rivelando il proprio volto. «Sai, poche persone conoscono la mia identità. È un segreto per cui sono pronta a uccidere. Ma voglio fidarmi di te, in nome di ciò che passasti coi miei genitori sull’Enterprise».

   «Jay...».

   «Non dirlo!» l’interruppe Jaylah. «Finché sarò in missione su questo pianeta, il mio nome sarà Mala».

   «Come vuoi... Mala» acconsentì Raav. «Ma ricordo quando ti vidi da neonata, subito prima che il vecchio equipaggio si dividesse. Pensai che, con genitori come i tuoi, avresti fatto strada... e non mi sbagliavo».

   «È stata una strada più oscura del previsto, e sono ben lontana dal fermarmi» disse però la mezza Andoriana, passeggiando avanti e indietro nel salotto. Pur avendo fatto rientrare il casco, indossava ancora l’inquietante tuta corazzata. «So che i Voth hanno organizzato un incontro con la tua gente e altre specie rettili; ho visto le astronavi. Presumo che vogliano farle combattere per loro, ma devo saperne di più. Mi aiuterai?».

   «Lo farò» disse solennemente il Gorn.

   «Bada che potrebbe essere rischioso... anzi, lo sarà senz’altro» avvertì Jaylah.

   «Lo so» annuì Raav. «Ma è da quando ho sentito bollare la distruzione dell’Enterprise come un “atto dovuto” che smanio di fare la mia parte. Allora, cos’hai in mente? Anzi, aspetta... prima devo fare gli onori di casa» disse, andando in cucina. «I tuoi genitori apprezzavano la birra andoriana. È così anche per te, giovanotta?».

   Jaylah annuì.

   «Allora prova questa, è di buona qualità» disse il Gorn, versandole da bere. «E dimmi che ne è del vecchio gruppo. Muoio dalla voglia di saperlo».

 

   La mezza Andoriana passò un’ora a informare Raav sulle sorti degli ufficiali dell’Enterprise. Su alcuni di loro non aveva notizie aggiornate, perché da quando si era unita ai corsari i contatti con la Flotta erano stati sporadici. Pertanto si limitò a dire ciò che sapeva, senza fare illazioni.

   «E che mi dici del Consigliere Apsu?» chiese infine Raav. «Era l’unico del vecchio gruppo ancora in servizio, quando me ne andai».

   «Era in servizio anche durante la Caduta della Terra» sospirò Jaylah. «Riteniamo che sia perito nell’esplosione della nave».

   «Sssshhht!» sibilò il Gorn, addolorato ma anche rabbioso. Le sue pupille verticali si strinsero, dandogli un’aria più minacciosa. «Quale astronave ha distrutto l’Enterprise?».

   «La Juggernaut. L’abbiamo eliminata a Elba II» spiegò la mezza Andoriana. «Fu in quell’occasione che divenni la Banshee. Se fossi rimasta sulla Keter non avrei fatto una gran differenza, ma stando coi corsari ho più libertà d’azione».

   «La banda dello Spettro, eh?» fece Raav, scrutandola con una certa apprensione. «Ma tu e lui...».

   «Lavoriamo assieme; il resto non ti riguarda» tagliò corto Jaylah. «E ora dimmi: sai dove si radunano i diplomatici? Pensavo che fossero nel palazzo governativo, ma non li rilevo».

   «No, il palazzo è piccolo e vecchio; non l’hanno ristrutturato solo per un incontro che poteva essere spostato all’ultimo momento» disse Raav. «Le trattative si terranno all’Istituto per le Relazioni Unione-Gorn, che poi è il posto in cui lavoro. Gestisco il ristorante, infatti sono uno dei pochi muniti di lasciapassare».

   «Magnifico!» si entusiasmò Jaylah. «Possiamo approfittarne per farmi entrare, sotto falso nome. Scommetto che hai bisogno di una nuova cameriera».

   «Beh, si può fare» acconsentì il Gorn. «Ma prometti di stare attenta. Non vorrei rendere conto all’Ammiraglio Chase... e allo Spettro... se ti succedesse qualcosa».

   «Sarò discreta» promise la mezza Andoriana. «Sono qui in missione di spionaggio, non per attaccar briga. Cercherò di capire come procedono le trattative... hai detto che non sono ancora iniziate?».

   «A giudicare dagli stralci di conversazioni che ho sentito, credo che un importante ambasciatore non sia ancora arrivato. Ma non ho capito quale» spiegò Raav. «Appena sarà qui, alzeranno lo Scudo Cittadino e apriranno i negoziati».

   «Introducimi subito nel ristorante, così per allora gli ambasciatori si saranno abituati a vedermi e non mi presteranno attenzione» disse Jaylah.

   «Ti porterò con me domattina» promise il Gorn. «Dirò che vieni dal quartiere vecchio e che ti ho appena assunta. Non penso che le guardie all’ingresso faranno troppe domande. Ma naturalmente non puoi portare armi, né comunicatori, né attrezzi da spia. I Voth perquisiscono chiunque entri ed esca. Poi c’è il problema del tuo aspetto. Non ci sono meticcie Umane-Andoriane su Cestus III, quindi attireresti l’attenzione».

   «Ho portato il necessario per travestirmi» assicurò la corsara. «No, niente maschere olografiche» aggiunse, prevenendo la domanda. «Con la loro tecnologia, i Voth mi scoprirebbero subito. Userò i trucchi della vecchia scuola».

 

   La mattina dopo, Raav informò le guardie all’ingresso dell’Istituto che aveva ingaggiato una nuova cameriera part-time: Mala, un’Andoriana. L’interessata si fece avanti, con aria umile e dimessa, infagottata in abiti da poco prezzo. Per rendere credibile la messinscena, Jaylah si era tinta la pelle di blu e i capelli di bianco. I documenti falsi che le avevano preparato i corsari indicavano che era giunta da Weytahn poco tempo prima, in cerca di lavoro.

   Come previsto, le guardie Voth la scansionarono per accertarsi che non avesse armi o altri dispositivi vietati, ma non stettero ad analizzarle il DNA. Ormai conoscevano Raav e si fidavano di lui, anche in virtù della sua natura di rettile.

   «Passa pure» disse uno dei sauri, annoiato.

   «Grazie, signore» disse Jaylah, e si affrettò a entrare.

   Il ristorante di Raav era accorpato all’Istituto, ma si trovava in un’ala a parte rispetto agli uffici, alle sale conferenze e al piccolo museo. Similmente al locale che aveva sull’Enterprise, anche questo si divideva in un bar e un ristorante vero e proprio. Le luci erano giallognole e la temperatura elevata, come piaceva ai rettili.

   Raav presentò Jaylah al resto del personale: i cuochi, i camerieri. Come d’accordo, mantenne la finzione anche con loro. Al vecchio Gorn spiaceva mentire ai suoi dipendenti, ma la mezza Andoriana era stata categorica: non potevano rischiare che qualcuno li tradisse, magari involontariamente. I dipendenti di Raav si stupirono di questa nuova collega spuntata dal nulla, ma il Gorn se la cavò dicendo che l’ingaggio era part-time, e solo per la durata dei negoziati. Poiché effettivamente l’arrivo di tante delegazioni aliene aveva accresciuto gli affari del locale, non era così strano che il gestore volesse un elemento in più.

   Jaylah si trovò così a fare la cameriera nel bar, incarico che le permetteva di avvicinarsi ai clienti e ascoltare discretamente le loro conversazioni. Come sperava, molti dei diplomatici radunati dai Voth venivano lì a mangiare. La corsara ebbe la conferma che stavano aspettando l’ultimo delegato. Sfortunatamente non riuscì a capire di chi si trattava; e i guai erano appena iniziati.

   La mezza Andoriana scoprì ben presto che la sua copertura presentava dei problemi. Come cameriera doveva essere sempre in movimento: se un cliente qualunque la chiamava lei doveva presentarsi al suo tavolo, allontanandosi dai diplomatici. Non poteva trattenersi neanche un attimo, o avrebbe attirato l’attenzione; e lei ci teneva a passare inosservata. A complicare le cose, i dipendenti di Raav – ignari della sua missione – la trattavano come l’ultima ruota del carro, dandole sempre qualcosa da fare. Se non era impegnata ai tavoli, doveva preparare cocktail e stuzzichini al bancone; cosa che non aveva mai fatto. Le capitò più volte di sbagliare le dosi, beccandosi lamentele dai clienti e lavate di capo dai colleghi. Era incredibile come anche i lavori più semplici diventassero complicati, in mancanza d’esperienza; e quanto la distraessero dalla missione. Più volte, nell’arco della mattinata, si trovò a dubitare della sua copertura e si chiese se non era meglio entrare come Banshee, restando occultata.

   Le cose cambiarono all’ora di pranzo, quando tre nuovi clienti entrarono nel locale. Jaylah li vide con la coda dell’occhio e sulle prime li ignorò, impegnata com’era a preparare un cocktail particolarmente elaborato. Ma c’era qualcosa, nel loro modo d’incedere come se fossero i padroni del posto, che attirò la sua attenzione. Alzò lo sguardo e se li trovò davanti: erano Cardassiani.

 

   «Allora è questo il locale di cui tutti parlano?» fece uno dei Cardassiani, guardandosi attorno. «Che stamberga! Spero che almeno abbiate il kanar».

   A Jaylah ci volle un attimo per riaversi dalla sorpresa. Osservò l’uniforme del Cardassiano: era un Legato, vale a dire un diplomatico di alto rango. «Certo... eccellenza» deglutì. «Abbiamo otto varietà di kanar... tutte autentiche, nulla di replicato».

   «Avete quello di Lacoria?».

   «Ehm, mi faccia controllare... sì, ce l’abbiamo» disse Jaylah, scorrendo rapidamente l’elenco dei prodotti.

   «Allora dacci una bottiglia, bellezza, e in fretta!» ordinò il Legato. Invece di aspettare al bancone, lui e gli altri sedettero a un tavolo.

   La loro presenza era sconcertante. Jaylah sapeva che i Cardassiani erano schierati con la Federazione e in quel momento contribuivano a difendere il sistema bajoriano. Eppure eccoli lì, invitati con gli altri rettili a trattare coi Voth. Se avessero cambiato schieramento durante la battaglia, Bajor sarebbe certamente caduto. E i Cardassiani non erano nuovi a simili voltafaccia.

   Con il cuore in tumulto, Jaylah prese la bottiglia di kanar e la portò al tavolo, assieme a tre bicchieri. L’aprì e versò lei stessa il liquore scuro e sciropposo. «Desiderate il menu?» chiese, cercando di suonare normale.

   «Prendo una bistecca sem’hal con due uova taspar» ordinò il Legato. I suoi collaboratori ordinarono piatti simili: era tipico dei Cardassiani consumare lo stesso pasto.

   «Desiderate lasciare il vostro nominativo, così che vi riserviamo un tavolo nei prossimi giorni?» chiese Jaylah. Era una scusa per farsi dire il suo nome.

   «Beh... perché no?» fece il Cardassiano, lusingato dalla premura. «Sono il Legato Azel, dolcezza. E tu sei...?» chiese, fissandola con interesse.

   «Mala, eccellenza» rispose Jaylah, temendo che l’avesse riconosciuta. Anche se il suo volto non era noto come quello dell’Ammiraglio suo padre, non era da escludere che il Legato l’avesse vista in qualche immagine. La tintura blu le dava un certo mascheramento, ma i Cardassiani erano sempre attenti ai dettagli. Forse Azel aveva notato che le sue antenne erano più sottili del normale, a indicare che era Andoriana solo per metà.

   «Bene, Mala, dimmi... avete il dabo, qui?» chiese il Legato.

   «Niente giochi d’azzardo, mi spiace. C’è solo il ristorante».

   «Frell, che buco di spazio!» si lamentò il Cardassiano. «Almeno ci sei tu, bellezza, a ravvivare l’ambiente. Saresti stata una splendida ragazza-dabo. Beh, spero di vederti ancora, quando tornerò. Questi negoziati andranno per le lunghe».

   «Sempre a vostra disposizione, signore» disse Jaylah, con un sorriso contraffatto. Per fortuna il Legato non sembrava averla riconosciuta. E a suo dire, i negoziati si prospettavano lunghi. Questo era un bene: le avrebbe dato tempo di pianificare le prossime mosse. Con un po’ d’accortezza, poteva carpire molte informazioni da lui... anche se non era disposta a spingersi troppo oltre.

   Tornata in cucina, Jaylah riferì le ordinazioni dei Cardassiani. Raav le rivolse uno sguardo allarmato, intuendo il pericolo per la Federazione; ma in presenza dei colleghi non disse nulla.

   Appena le pietanze furono pronte, la mezza Andoriana servì i tre Cardassiani. Così facendo li sentì accennare al fatto che la flotta dei Pacificatori aveva raggiunto il sistema bajoriano e l’attacco era imminente. «Desiderate altro?» chiese, cercando una scusa per bazzicare attorno a loro.

   «No, puoi andare, tesoro» ridacchiò il Legato, che aveva davvero messo gli occhi su di lei, anche se non per il motivo temuto inizialmente. Quando Jaylah si voltò per andarsene, il Cardassiano le assestò una sonora pacca sul fondoschiena, facendo ridacchiare i compari.

   Alla mezza Andoriana servì tutto il suo autocontrollo per andarsene senza reagire. Tornata al bancone, si disse che l’arrivo dei Cardassiani cambiava tutto. Non poteva accontentarsi di condurre una ricognizione: doveva far fallire i negoziati.

 

   A fine turno Jaylah tornò alla casa di Raav, che si era offerto di ospitarla per tutta la missione. Non era lì per riposare, ma solo per cambiarsi d’abito. Dismessi i panni della cameriera, indossò la tuta occultante e ridivenne la Banshee. In quell’assetto tornò alla sede dei negoziati. Cominciava la parte più rischiosa della missione, perché l’edificio era sorvegliato dai Voth, che disponevano di una tecnologia superiore. La corsara non aveva la certezza che l’Occultamento Sfasato la proteggesse dai loro sensori. Poteva solo dedurlo dal fatto che i sauri non avevano mai fornito ai Pacificatori degli strumenti in grado di rilevarla. Sempre che ciò non fosse dovuto alle loro leggi, che vietavano di condividere le tecnologie più sofisticate.

   Alzando gli occhi al cielo, la Banshee vide che lo Scudo Cittadino era stato attivato. La città sarebbe rimasta isolata sotto quella cupola perlacea per tutta la durata dei negoziati. La corsara confidava che l’Occultamento Sfasato le permettesse di uscire, in caso di necessità.

   Muovendosi con tutte le precauzioni possibili, senza mai uscire dall’occultamento, la mezza Andoriana s’infiltrò nell’Istituto. La sua esperienza della mattinata non le fu utile per orientarsi, perché in veste di cameriera non era mai uscita dalla zona ristoro, mentre ora doveva accedere alla parte più interna e protetta, dove si tenevano i negoziati. Vagò a lungo nei corridoi, finché ebbe la fortuna d’incrociare il Legato Azel e i suoi collaboratori.

   «Ci rivediamo» disse fra sé. «Avanti, teste a cucchiaio, fate il vostro lavoro! Non sarete qui solo per gozzovigliare e abbordare ragazze».

   Come sperava, i Cardassiani si stavano recando al summit. Seguendoli raggiunse un salone seminterrato in cui si erano radunati gli altri ambasciatori. Le luci erano basse, perché ad alcune specie l’illuminazione standard riusciva fastidiosa. La sala era quindi immersa nella penombra, nella quale i rettili si muovevano a loro agio. Ovunque la Banshee guardasse, era un dardeggiare di lingue forcute e un baluginare di occhi gialli. I Gorn torreggiavano su tutti gli altri: erano i più alti e robusti, oltre che quelli dai tratti carnivori più accentuati.

   «Ben arrivato, Legato Azel; ha fatto buon viaggio?» chiese una figura in penombra.

   «Non c’è male» rispose il Cardassiano. «Certo che se i federali sapessero della mia presenza qui, le conseguenze per la mia gente sarebbero spiacevoli».

   «Naturale; a nessuno piacciono i traditori» ringhiò il rappresentante Gorn, fissandolo con gli occhi sulfurei.

   «Predatore Raugh, la prego» disse colui che aveva parlato per primo. «Siamo qui per fini costruttivi. E poiché la tavola è al completo, direi di procedere». Il rettile si fece avanti, così che la fioca luce ne rivelò il volto. Era un Voth, e non uno qualunque: si trattava del Colonnello Corythos, uno degli ufficiali responsabili della conquista e dell’occupazione della Terra. Era stato lui a decimare la flotta della Keter nella Battaglia di Memory Alpha. E sempre lui aveva arrestato Frola Gegen, una dei pochi Voth contrari all’invasione; la poveretta aveva pagato con la vita la sua disobbedienza. A quel ricordo, la Banshee si promise di fare tutto il possibile per fargliela pagare.

   «Bene, signori, dichiaro aperto l’incontro» disse il Voth con aria pomposa. «Ciò che decideremo qui avrà conseguenze di portata storica. Come tutti avete constatato, l’era degli Umani, e dei mammiferi in generale, volge al termine. I sangue-caldo si sono rivelati inadatti a reggere le sorti della Galassia. Consideriamoli una breve parentesi, un ramo morto dell’evoluzione. È tempo per noi sangue-freddo di riprendere il predominio».

   «Ehm-ehm» intervenne Azel, «non approvo la vostra scelta dei termini. Le ricordo che noi Cardassiani abbiamo alcune caratteristiche da mammiferi, tra cui il sangue caldo».

   «Siete rettili a metà, arh arh!» rise il Predatore Raugh, con il suo vocione aspro da Gorn.

   «Suvvia, la mia era solo una figura retorica» disse Corythos, conciliante. «Ciò che vi propongo è la creazione di una Lega dei Rettili, svincolata sia dalla Federazione che dall’Unione. Questa terza potenza sarà indubbiamente l’ago della bilancia della Guerra Civile. Con la nostra forza combinata, aiuteremo l’Unione a domare la ribellione; ma i pianeti che conquisteremo resteranno in mano nostra. L’Unione, indebolita dal conflitto, non potrà che accettare il nuovo status quo. Vothan sarà la nostra capitale, e vedrete che col tempo altre specie rettili si uniranno a noi».

   «Questa proposta sa di già visto» disse Goriar, l’ambasciatore degli Xindi Rettili. «Un tempo accettammo l’alleanza con altre specie, dietro la promessa di grandi benefici; e abbiamo visto com’è andata a finire. Chi ci assicura che la vostra Lega non sarà una riedizione della Federazione e dell’Unione?».

   «Quelle organizzazioni erano dominate da mammiferi egocentrici che non potevano soddisfare le necessità dei rettili» rispose Corythos. «Ciò le ha condannate sin dal momento della loro creazione. La prima Federazione è durata meno di quattrocento anni, prima di crollare nella Guerra delle Anomalie. L’Unione ha meno di quarant’anni ed è già in agonia. E se questa nuova Federazione proclamata dai ribelli continua a disfarsi all’attuale velocità, le restano due anni di vita. Ma noi Voth siamo i signori del Quadrante Delta da venti milioni di anni. Abbiamo affrontato tutte le avversità possibili e le abbiamo sconfitte. Con la nostra guida, le vostre civiltà saranno altrettanto longeve».

   «Con la vossstra guida?!» sibilò Raugh. «Sarebbe a dire che dobbiamo obbedirvi. Ma noi Gorn non ci siamo mai inchinati a nessuno. Siamo sempre stati indipendenti e fieri di esserlo!» rivendicò.

   «È proprio questo il punto» disse il Voth. «L’errore della Federazione e poi dell’Unione è la pretesa di controllare in ogni minimo aspetto i suoi membri, cancellandone l’identità culturale e la sovranità politica. La nostra Lega non farà nulla di tutto ciò, anzi valorizzerà le peculiarità di ogni specie. Sarà insomma una confederazione, i cui membri avranno obblighi solo in questioni di politica estera e difesa dei confini, ma per il resto potranno autogovernarsi in piena autonomia. Avrete tutti i vantaggi dell’Unione, quali la difesa comune e la condivisione delle tecnologie, e nessuno degli svantaggi».

   «Ha detto la condivisione delle tecnologie?» chiese il Legato Azel. «Credevo che voi Voth non lo faceste mai».

   «Ehm, intendevo la condivisione volontaria delle tecnologie» spiegò Corythos. «Ogni specie sarà libera di decidere cosa mettere in comune e cosa tenere per sé».

   «Il risultato sarà che nessuno condividerà niente, sperando che siano gli altri a farlo per primi» obiettò il Cardassiano.

   «Non sia così cinico; ognuna delle nostre specie ha tanto da offrire» disse il Voth, ma evitò accuratamente di fare promesse. La cosa non sfuggì agli altri rettili, che si fecero sospettosi.

   Il negoziato si trascinò per ore, con i delegati che esponevano le loro condizioni per l’adesione alla Lega. Fu subito chiaro che sarebbe stato questo il vero scoglio. Parecchie specie fecero richieste esose, chiedendo la restituzione di pianeti che avevano controllato in passato, o che erano stati oggetto di contesa. Gli Xindi Rettili pretesero l’espulsione delle altre quattro specie Xindi dal loro pianeta. I Gorn chiesero la cessione di pianeti prossimi all’Egemonia, tra cui lo stesso Cestus III. La richiesta più esorbitante fu però quella dei Cardassiani, che pretesero la restituzione di tutti i mondi loro appartenuti all’epoca del massimo splendore, incluso Bajor.

   Era chiaro che i Voth non potevano soddisfare tutte queste richieste, o per meglio dire non volevano. Se si fossero impegnati a fondo, avrebbero anche potuto farcela; ma sarebbero serviti anni di guerra e migliaia di soldati sacrificati. Per gli antichi sauri, così poco disposti a immolarsi, era un prezzo troppo alto. Di conseguenza Corythos passò tutto il tempo a smorzare i toni e fare vaghe dichiarazioni d’intenti, prive di sostanza.

   La Banshee ascoltò tutto con attenzione, cercando di capire cosa si aspettassero realmente di ottenere i Voth. Poco alla volta si fece un’idea. Era chiaro che, essendo abituati a pianificare le cose nel lungo periodo, non si aspettavano di mettere subito in piedi una Lega dei Rettili. Però potevano convincere i Cardassiani a non aiutare Bajor, o persino a rivoltarsi contro i federali nel momento decisivo. Potevano indurre i Gorn ad aprire un nuovo fronte di guerra contro cui la Federazione non era minimamente preparata. Potevano riaccendere il conflitto su Nuova Xindus. Eccetera, eccetera. Insomma, potevano provocare danni catastrofici alla Federazione, tali da provocarne la caduta. A quel punto avrebbero anche potuto rimangiarsi la parola e aiutare l’Unione a domare le ultime resistenze. O magari chissà, disprezzavano a tal punto i mammiferi che volevano creare davvero una Lega dei Rettili sotto la loro influenza. Perché una cosa era certa: in questa lega i Voth l’avrebbero fatta da padroni. La loro forza tecnologica e culturale non aveva rivali tra gli altri rettili. Per quanto promettessero di non esercitare un controllo politico, era chiaro che volevano portarli nella loro sfera d’influenza. Ma l’avrebbero fatto con la tipica lentezza dei Voth, vale a dire così adagio che gli altri non se ne sarebbero resi conto.

   Dopo alcune ore, la trattativa cominciò a languire. I delegati avevano fatto le loro richieste, alcune delle quali erano in conflitto; toccava ai Voth sbrogliare la matassa. «Bene, si è fatto tardi e siamo tutti stanchi» disse Corythos. «Propongo di aggiornarci a domani. Stessa ora, stesso luogo».

   «E avrete le risposte alle nostre richieste?» grugnì Raugh.

   «Non abbia fretta, esimio delegato» rispose flemmaticamente il Voth. «Rifletteremo sulle vostre richieste e vi presenteremo delle contro-proposte, allo scopo di armonizzarle. Dopo di che procederemo nelle trattative».

   «La mia specie non è famosa per la pazienza» avvertì il Gorn.

   «La mia invece sì» rispose il Voth. «Ed è nostro desiderio che nessuno esca da qui insoddisfatto. Dunque pazientate, per una volta, e vedrete che i guadagni compenseranno ampiamente i sacrifici. In fondo siamo tutti rettili: le cose che ci uniscono sono molte più di quelle che ci dividono» sostenne.

   «Staremo a vedere... mangiatore di foglie» sibilò Raugh, passandosi la lingua sui denti acuminati. Lasciò la sala, assieme ai suoi colleghi Gorn. Poco alla volta anche gli altri delegati se ne andarono con i loro staff. Rimasero solo i Cardassiani.

   «Spero che questi negoziati approdino a qualcosa prima che i Pacificatori attacchino Bajor» disse Azel. «Perché in caso contrario, la mia gente combatterà ancora dalla parte dei federali» avvertì.

   «Credo che più combatterete dalla loro parte e meno vi verrà voglia di farlo» disse Corythos, per nulla turbato. «Quando vi stancherete di stare con i perdenti, vi accoglieremo a braccia aperte».

   Il Cardassiano sembrò sul punto di rispondere aspramente, ma si trattenne. «Riflettete sulle nostre richieste» disse, e si ritirò con i suoi aiutanti.

   La Banshee pensò che fosse il momento buono per andarsene a sua volta. Da un lato avrebbe voluto restare, perché era probabile che Corythos contattasse l’Ammiraglio Hadron, il suo superiore, per chiedergli l’imbeccata. D’altro canto era lì già da un pezzo e sapeva che la lunga permanenza aumentava le probabilità d’essere rilevata. Decise che aveva già rischiato abbastanza. Seguì i tre Cardassiani fuori dal salone e su per corridoi e turboascensori, finché tornarono in una zona pubblica dell’Istituto. La mezza Andoriana si aspettava che si teletrasportassero sulla loro nave, per riferire ai superiori. Invece arrivò un inserviente che li invitò a seguirli nei loro alloggi al piano superiore. Dunque i Cardassiani avrebbero soggiornato lì per tutta la durata delle trattative. Ed era probabile, anzi quasi certo, che lo stesso valesse per gli altri delegati.

   Uscita dall’Istituto, Jaylah vide che in effetti lo Scudo Cittadino era ancora attivo. La città era isolata e lo sarebbe rimasta finché i negoziati fossero giunti a un punto di svolta. Lei poteva forse uscire dal campo di forza, ma non si azzardava a comunicare le sue scoperte alla Stella: il rischio d’intercettazione era troppo alto. Se mai avesse contattato la nave, sarebbe stato per farsi riportare a bordo. Ma non era ancora il momento: prima voleva capire se i negoziati sarebbero andati a buon fine. E in quel caso, avrebbe dovuto sabotarli.

 

   Sulla Stella, i corsari osservavano tutto ciò che accadeva nell’orbita, ma i loro sensori non penetravano la schermatura di Cestus City. L’unico modo di analizzare la città era in luce ottica, e per il momento non sembravano esserci novità. Ma l’arrivo dei Cardassiani aveva gettato una luce ancora più sinistra sui negoziati. Lo Spettro sapeva cosa avrebbe comportato il loro tradimento, sul piano bellico. Ed era sempre più in ansia per Jaylah.

   «Ehi, capo... c’è movimento» avvertì Siall, inquadrando la Nave Bastione. Il vascello dei Voth lasciò l’orbita e fece rotta verso lo spazio profondo. Le altre astronavi la imitarono. L’orbita di Cestus III rimase sgombra, a eccezione dei corsari occultati.

   «Sono andati in direzioni diverse» notò il Boliano.

   «Hanno teletrasportato qualcuno?» chiese lo Spettro.

   «Negativo, lo Scudo Cittadino è ancora attivo».

   «Dev’essere un gesto di fiducia che segna l’inizio delle trattative» indovinò l’Umano. «Si allontanano per mostrare che si fidano a lasciare gli ambasciatori».

   «Se attaccassimo, avremmo un margine di tempo prima che ritornino» notò Graush.

   «Un margine risicato» obiettò Jack, per nulla tranquillo. «Temo che ci aspetti una battaglia, e la Stella da sola non basta. Ci servono rinforzi... di questo ti occuperai tu. Prendi la Dullahan: è la navetta più sofisticata che abbiamo. Dì ai federali che mandino rinforzi, ma restino occultati finché non avremo recuperato la Banshee».

   «Sempre che siano disposti a mandarne» borbottò Graush. «E sempre che si preoccupino della sua incolumità».

   «Se ti sembra che non le diano valore, informali che è la figlia dell’Ammiraglio Chase» disse Jack. «Questo li tratterrà, spero. E se vedi che i federali non si smuovono, va’ su Amar, dai nostri alleati. Svelto!».

   «Agli ordini, Capitano» disse Graush, e lasciò subito la plancia.

   Lo Spettro confidò che ce l’avrebbe fatta. Dietro la faccia stropicciata e gli occhi rossi del Letheano batteva un cuore estremamente leale. Graush era infatti il fratello minore di Dauthka, il suo braccio destro al tempo dei primi colpi. Era uno dei prigionieri che avevano salvato dalle miniere Breen e da quel giorno aveva sostituito diligentemente il fratello, perito nell’impresa. Ora che aveva ricevuto la consegna, non sarebbe tornato senza portarla a termine.

 

   Le ombre si allungavano sul suolo disseccato di Cestus III. Jaylah e Raav camminavano sul limitare del deserto, appena dentro lo Scudo Cittadino. La mezza Andoriana, ancora tinta di blu, raccontava le scoperte della giornata e il Gorn le dava il suo parere.

   «Non credo che tutte le specie aderiranno alla Lega, ma ce ne sono alcune che mi preoccupano» disse la corsara. «Penso ai Cardassiani, che condannerebbero il Fronte Occidentale. E anche...».

   «Alla mia gente» completò Raav, senza enfasi.

   «So che tra di voi l’esercito ha sempre avuto grande peso politico» disse Jaylah. «Siete una specie guerriera e avete sempre voluto espandervi in questo settore, quindi... pensi che il tuo popolo accetterà?».

   «Difficile a dirsi; è da oltre un secolo che non vivo su Gornar» sospirò il cuoco. «E anche allora, non è che stessi gomito a gomito con le autorità. Sono sempre stato un plebeo, per così dire».

   «Sei troppo modesto. Mio padre diceva che ai tempi dell’Enterprise eri un ottimo consigliere» sorrise Jaylah. «Per questo vorrei il tuo parere».

   «Beh, il pericolo c’è» ammise il Gorn. «Siamo una specie guerriera, come hai notato, ma siamo anche in pace da parecchio tempo. Credo che molti dei nostri abbiano voglia di menare le mani, e la Guerra Civile è l’occasione perfetta».

   «Come temevo» disse la mezza Andoriana. Per un po’ camminarono in silenzio, immersi nei pensieri, mentre il sole era sempre più basso.

   «Hai avvertito i tuoi di ciò che hai scoperto?» chiese d’un tratto Raav.

   «Non ancora. Il rischio d’intercettazione è altissimo, perciò quando mi sembrerà di saperne abbastanza tornerò sulla Stella» spiegò la corsara.

   «Supponendo che i negoziati procedano, che farete?» chiese ancora il Gorn.

   «Non bombarderemo la città, se è questo che temi» lo rassicurò Jaylah. «Ma anche interrompere i negoziati con un attacco mirato non servirebbe a molto, perché li sposterebbero altrove. E non so come sabotarli senza svelarmi».

   Per qualche minuto regnò di nuovo il silenzio. Poi Jaylah udì un suono acuto, simile al richiamo di un animale. «Cos’è questo verso?» chiese.

   Raav inclinò la testa per ascoltare. «Ah, sì... è il richiamo di un falcone cestiano» riconobbe. «Sono nativi del pianeta: mangiano lucertole e serpenti del deserto».

   «Hai detto falcone, quindi è un volatore» disse la mezza Xindi, alzando lo sguardo. «Però mi sembra che il suono venga dal basso».

   «Eh già, è strano» convenne il Gorn.

   «È sempre più vicino» disse Jaylah, affrettando il passo. «Credo sia qui intorno». Esaminò il terreno, finché un movimento attirò la sua attenzione. Il falcone cestiano c’era davvero e si agitava al suolo, a poca distanza dallo Scudo Cittadino. Sembrava che cercasse di spiccare il volo, ma non ci riusciva.

   Jaylah si avvicinò per osservarlo. Era una creatura magnifica: somigliava a un rapace terrestre, ma era sensibilmente più grosso e aveva il collo lungo, quasi da airone. Anche il becco era lungo e appuntito. Il piumaggio era dorato, tendente al rosso sulle ali e sulla piccola cresta. Gli occhi si fissarono sulla nuova arrivata e non la persero di vista. La creatura smise di stridere, ma fece un verso più basso e ripetitivo.

   «Che ha?» chiese Jaylah.

   «Mi sa che ha sbattuto contro lo Scudo e si è spezzato un’ala» disse Raav, accennando all’arto piegato in modo strano. «Per un rapace che caccia tutti i giorni, significa la morte».

   «Uhm... quanto sono intelligenti questi animali?» volle sapere la mezza Andoriana.

   «Non si sa di preciso, ma ho sentito dire che sono tra i più furbi del pianeta».

   «Furbi del pianeta! Roac!» stridette il volatile.

   «Ha parlato?!» si stupì Jaylah.

   «Eh già, i falconi cestiani sono famosi per questo» ricordò il Gorn. «Possono ricordare una quantità incredibile di parole e anche intere frasi, e ripeterle a distanza di tempo. Se ben ricordo, lo fanno specialmente quando sono in condizioni di stress, come adesso».

   «Stress, come adesso!» ripeté la creatura. Continuava a muovere il collo, ma la testa – e quindi gli occhi – restavano puntati su Jaylah.

   «Sono aggressivi verso le persone?» chiese ancora la corsara. «Voglio dire, con quegli unghioni...».

   «Graffiano solo se provocati, e in quel caso possono conciarti male» spiegò Raav. «Perché, stai pensando di adottarlo?».

   «Beh, ci vuol poco ad accomodargli l’ala» disse la mezza Andoriana, tentata. «Dopo di che potremmo rimetterlo in libertà, appena lo Scudo sarà abbassato».

   «Potremmo, sì» convenne il Gorn. «Ti piacciono gli animali?».

   «Di questi tempi, più di tante persone» sbuffò Jaylah, osservando la sagoma dell’Istituto in lontananza. «In effetti ho sempre sognato di avere un volatile. Ma l’unico animale che ho avuto da piccola è stato un gatto. Una volta – avevo sette anni – gli alterai il DNA per fargli spuntare le ali, ma come puoi immaginare commisi qualche errore. Quando morì i miei genitori non vollero più prendere animali, temendo che facessi altri esperimenti. E da grande non ho più avuto il tempo e la voglia di prendermene uno. Comunque questo qui lo libereremo appena tornerà a volare».

   Così dicendo la mezza Andoriana si tolse la giacca, restando in maglietta. Avvoltolò l’indumento sino a farne una specie di nido e con quello si avvicinò al rapace. Un po’ di paura l’aveva, perché quegli artigli erano davvero lunghi, e anche il becco era affilato.

   «Se vuoi lo faccio io» si offrì Raav. «Le scaglie mi proteggeranno».

   «Grazie, ma credo di esserci...» disse Jaylah, con la fronte un po’ sudata. Non aveva mai usato le sue facoltà telepatiche sugli animali, ma provò a calmare la creatura. Vedendo che il falcone si agitava di meno, radunò il coraggio e lo raccolse. L’animale stridette e si mosse un poco, ma nel complesso rimase calmo. «Così, bravo» sorrise la mezza Andoriana, lieta della sua docilità. «Ti ci vuole un nome, ragazzo».

   «Ragazza, direi» corresse Raav.

   «Ah. Beh, in questo caso... ti chiamerò Goldie, per via del tuo colore. Che ne dici?».

   «Goldie, roac! Che ne dici?» ripeté la creatura, come se approvasse.

 

   Jaylah non ebbe difficoltà a riportare Goldie a casa di Raav e ad accomodarle l’ala. Anche dopo aver saldato l’osso, però, occorrevano alcuni giorni prima che la creatura tornasse a volare. Siccome non volevano lasciarla sola in casa tutto il giorno, decisero di tenerla al ristorante, in una grande gabbia. Così avrebbe fatto anche da attrattiva per i clienti. Come disse Raav, era rarissimo avere un falcone cestiano in cattività. Per nutrirla bastava qualche pezzetto di carne, avanzato dalle cucine. Non erano le lucertole a cui era abituata, ma pochi giorni di cattività non le avrebbero fatto perdere l’istinto di cacciatrice. La novità fu apprezzata dal pubblico, tanto che nei due giorni successivi parecchi clienti vennero al ristorante al solo scopo di osservare la creatura; e nel frattempo ordinarono il pasto.

   Come Jaylah sperava, anche il Legato Azel si ripresentò al locale. Prese un tavolo vicino alla gabbia, sempre accompagnato dai suoi due tirapiedi. La mezza Andoriana era pronta a sfruttare l’occasione. Si sbottonò la camicetta, evidenziando la scollatura, e fece il sorriso più smagliante che poteva. In quella guisa si presentò a prendere le ordinazioni. Come previsto, il Cardassiano si distrasse, e di quella distrazione lei si avvantaggiò per leggergli nella mente. Percepì che le trattative non erano progredite, cosa che la rallegrò.

   «Ehi, bellezza, perché non ti siedi un po’ con noi?» propose il Legato, quando lei tornò con le pietanze.

   «Le mie scuse, eccellenza, ma come vede ci sono molti clienti» si giustificò Jaylah.

   «Ma lo sai chi sono io?!» s’inorgoglì il Cardassiano. «Sono un Legato! Scommetto che non hai mai servito uno come me».

   «In effetti no» ammise la mezza Andoriana. «Ma abbia pazienza, ora devo proprio andare. Se vuole distrarsi, ammiri la nostra femmina di falcone cestiano. È uno dei pochi esemplari in cattività e tra poco dovremo liberarla».

   «È magnifica» convenne Azel, dando una rapida occhiata alla creatura in gabbia. «Ma non è il genere di pollastra che preferisco». Così dicendo allungò la mano verso Jaylah, per costringerla a sedersi sulle sue ginocchia.

   «Un’altra volta, magari» disse lei, ritraendosi prontamente. Il Legato ghermì solo l’aria e la mezza Andoriana si allontanò in fretta. Per adesso il giochetto andava a suo vantaggio, ma si disse che doveva starci attenta: i Cardassiani avevano la brutta abitudine d’incaponirsi nei loro desideri.

 

   Un paio d’ore dopo, quando la mezza Andoriana stava per smontare il turno, accadde un fatto assai più preoccupante. Un manipolo di soldati Voth entrò nel locale; il caposquadra andò dritto verso Jaylah. «S’identifichi» disse con voce dura.

   La corsara si sentì perduta. Se i sauri l’avevano riconosciuta, non poteva evitare l’arresto. E se avessero perquisito la casa di Raav avrebbero trovato la tuta da Banshee, svelando la sua identità e incriminando anche il vecchio Gorn. «Mi chiamo Mala, lavoro qui part-time» disse con un filo di voce. Per i Voth era fin troppo facile controllare l’archivio civico e i registri dell’immigrazione, appurando che lei non era nata lì, e non era nemmeno giunta di recente.

   «Ehi, lasciatela in pace!» intervenne Raav. «Se avete problemi, parlate con me: sono il proprietario del locale».

   Inaspettatamente i Voth fecero proprio così: lasciarono perdere Jaylah e si concentrarono su di lui. «Lei è Raav?» chiese il caposquadra.

   «Lo sono da una vita» ironizzò il Gorn.

   «E ieri ha introdotto quell’animale nell’edificio?» chiese il Voth, indicando il falcone.

   «Beh, sì. Che problema c’è? Le guardie all’ingresso mi hanno permesso di portarlo dentro».

   «Il Colonnello Corythos è appassionato di specie esotiche e vorrebbe acquistarlo» disse a sorpresa il caposquadra. «È disposto a pagare cinquemila crediti dell’Unione».

   Raav sgranò gli occhi; non si aspettava quella richiesta. Si chiese se fosse una scusa per tramare qualcosa, ma concluse di no. Se i Voth sospettavano di lui e Jaylah li avrebbero senz’altro arrestati; non avevano bisogno d’inventare scuse. Quanto al desiderio d’accaparrarsi bestie esotiche, non era poi così strano, per gente ricca e viziata come i Voth. Cinquemila crediti erano tanti, ma non tantissimi, se confrontati con le cifre da capogiro che alcuni collezionisti erano disposti a versare.

   «Ebbene?» chiese il Voth, infastidito dal prolungato silenzio del cuoco.

   «Io, ehm, sono stupito, tutto qui» farfugliò Raav. «Ho trovato quella bestiola due giorni fa, mentre passeggiavo in periferia. Aveva un’ala spezzata, quindi gliel’ho accomodata. Pensavo di rimetterla in libertà, appena sarà guarita».

   Jaylah notò che Raav aveva parlato al singolare, per distogliere l’attenzione da lei.

   «Non c’interessa la storia, vogliamo solo sapere se ci vende la creatura» tagliò corto il caposquadra.

   «Beh, come vi ho detto, non l’ho acquistata, quindi non so se posso considerarla mia...» si cautelò il cuoco. «Ora che ci penso, credo rientri tra le specie protette, quindi devo liberarla appena tornerà a volare».

   «La solita burocrazia!» sbuffò il Voth. «Senta, se teme di violare qualche legge, il Colonnello scriverà due righe per metterla al riparo dai guai».

   Raav pensò che considerarsi al disopra della legge era tipico dei Voth. E nell’attuale situazione potevano permetterselo. Non volendo attirare la loro attenzione, decise di accontentarli. Gli dispiaceva per l’animale, che non era fatto per stare a lungo in cattività; ma non poteva certo anteporlo alla sicurezza di Jaylah. «Quand’è così... prendetela, è vostra» disse con aria noncurante.

   «Oh, finalmente!» esclamò il caposquadra, che non amava perdere tempo dietro ai capricci del suo Colonnello. «I crediti le saranno versati sul conto entro oggi. Grazie della collaborazione, buona giornata».

   «Buongiorno a voi» disse Raav. Si fece indietro, mentre i soldati prendevano la gabbia. Il falcone, che fino a quel momento aveva dormito con la testa ripiegata sotto un’ala, si svegliò e lanciò uno strillo spaccatimpani. Prese ad agitarsi nella gabbia, perdendo penne e stridendo in modo insopportabile.

   «Urgh... ma fa sempre così?!» fece il caposquadra, turandosi i fori delle orecchie.

   «Finora mai» rispose onestamente Raav. «Forse non gli piace cambiare aria».

   «Che bestiaccia! Il Colonnello dovrà insonorizzare la gabbia» disse il Voth, e se ne andò con gli altri, mentre la povera bestia strepitava come se la stessero spennando. Parecchi clienti li seguirono con lo sguardo, stupiti e infastiditi dal chiasso.

   Andati che furono i Voth, Jaylah si accostò a Raav. «Credi che sospettino qualcosa?» sussurrò.

   «Penso di no. Non gli serviva questa messinscena, per indagare su di noi» rispose il Gorn. «Comunque cerca di non dare nell’occhio, neanche col tuo ammiratore cardassiano».

   «Ah ah, spiritoso».

   «Non sto scherzando» disse Raav. «Quel marpione è passato qui mentre non c’eri e ha chiesto di te: voleva sapere dove abiti. Gli ho detto che non lo so, dal momento che ti ho appena assunta. So che gli stai intorno per carpire informazioni, ma sta’ attenta. Quando i Voth si sono incapricciati del falcone, gliel’ho dato e la cosa è finita lì. Non vorrei che quel Cardassiano s’incapricciasse di te, perché in quel caso sarà più difficile da sistemare».

   «Ricevuto» sospirò Jaylah. Quella missione di spionaggio diventava sempre più complicata.

 

   Nei due giorni successivi la mezza Andoriana continuò a spiare i negoziati, che parevano giunti a un punto morto. Alcune specie avevano moderato le loro richieste, ma i Cardassiani e i Gorn restavano arroccati sulle loro posizioni. I Gorn, in particolare, davano segni d’impazienza e sembravano sul punto di abbandonare il summit. Nell’ultima riunione Corythos faticò parecchio a trattenerli. Dovette promettere di consultarsi con l’Ammiraglio Hadron, per convincerlo ad accogliere le loro richieste.

   La Banshee fu tentata di restare a spiare quella conversazione. Ma si accorse che anche stavolta era passato troppo tempo: trattenersi aumentava di molto le probabilità d’essere rilevata. E siccome di rischi ne stava già correndo fin troppi, decise di non prendersene altri. Lasciò la sala riunioni e poi l’Istituto, tornando a casa di Raav. Qui si tolse la tuta, riprendendo i panni di Mala.

   Di lì a poco anche il Gorn, finito il suo turno, rincasò. «Allora, com’è andata oggi?» chiese.

   Jaylah gli riferì la situazione. «Raugh sembra davvero sul punto di andarsene» disse. «Se domani Corythos non avrà risposte soddisfacenti, lo farà senz’altro. A quel punto è probabile che anche i Sauriani e i Selay se ne vadano. Però mi preoccupano le altre specie. Quelle sembrano interessate ad andare avanti».

   «E i Cardassiani?» chiese Raav, sapendo che erano i più pericolosi.

   «Le loro richieste sono immutate e Corythos continua a cincischiare, ma siccome sono più pazienti dei Gorn, restano al tavolo delle trattative» spiegò Jaylah. «Tutto dipende da domani. Se i Voth accetteranno le richieste del tuo popolo, sarà la catastrofe. Dovrei sabotare i negoziati, ma da sola non credo di riuscirci. E anche se torno sulla Stella, non possiamo fare nulla finché lo Scudo Cittadino è attivo. Non so, potrei metterlo fuori uso... ma a quel punto i Voth chiamerebbero la Nave Bastione in soccorso».

   «Brutta situazione! Cosa conti di fare?».

   «Prima di decidere, devo vedere cosa accadrà domani» rispose Jaylah. «Se i Gorn se ne vanno, resterò in osservazione qualche altro giorno, per vedere come procede coi Cardassiani. Ma se il tuo popolo resta, penso che tornerò sulla Stella a riferire. In quel caso potremmo non rivederci per molto tempo».

   «Intendi mai più?» chiese Raav.

   «Beh, no...».

   «Se tu e i corsari deciderete di colpire l’Istituto, spero ricorderete che ci lavorano molte persone innocenti, incluso il sottoscritto» disse il Gorn, indicandosi con una delle tozze dita artigliate.

   «Non bombarderemo, hai la mia parola» s’impegnò Jaylah. «Qualcosa però dovremo fare» aggiunse tra sé. Doveva discuterne con Jack e il resto della ciurma.

   In quella la luce proveniente dalla finestra fu parzialmente oscurata e si udì un suono picchettante. Il Gorn e la mezza Andoriana sobbalzarono, poi si girarono a guardare. Un grosso volatile dal piumaggio dorato si agitava davanti al cristallo infrangibile, battendovi sopra con il becco.

   «Non è possibile» mormorò Jaylah. «È Goldie? I Voth l’avevano portata via!». Fece per aprire la finestra.

   «Aspetta, vado io. Tu nasconditi, finché non avrò accertato che è davvero lei» disse Raav. In effetti, tra ologrammi e droni di sorveglianza non si poteva essere sicuri di niente. La corsara corse in cantina, dove indossò la tuta occultante, pronta ad attivarla in caso di bisogno. Il cuoco aprì la finestra, lasciando entrare il falcone: sembrava proprio Goldie, tanto che volò subito sul trespolo che le avevano preparato il primo giorno. Raav trasse da un cassetto un tricorder che si era portato dall’Enterprise e l’analizzò a fondo, per accertarsi che non fosse un simulacro. Non lo era.

   «È tutto a posto, puoi venire!» chiamò. «Questa è proprio la nostra Goldie. E non ha nemmeno tecnologia nascosta».

   «Mi chiedo perché sia tornata» disse Jaylah, risalendo dalla cantina.

   «Sembrava che i Voth non le piacessero. Forse ha approfittato del momento in cui la trasferivano in un’altra gabbia per involarsi da una finestra» ipotizzò Raav.

   «Mi dispiace, ma credo che dovrai restituirgliela» disse la mezza Andoriana, carezzando la creatura. «In fondo ti hanno pagato per averla. Se vedono che è di nuovo qui, potrebbero accusarti di truffa».

   «Con tutti i problemi che abbiamo, sarebbe il colmo!» sbuffò il Gorn. «Non bastavano gli ambasciatori alieni a combinare guai... ora ti ci metti anche tu» disse, rivolto al falcone.

   «Ambasciatori combinaguai, roac!» stridette la creatura. «Servono misure drastiche!».

   «Ehi, questo non l’ho detto» si stupì Raav.

   Udendo quelle parole, Jaylah drizzò le antenne. «Aspetta... hai detto che questi animali sono dei registratori naturali, specialmente nei momenti di stress. E credo che Goldie fosse molto stressata, nel tempo che ha trascorso con Corythos».

   «Vuoi dire che...».

   «Potrebbe aver ascoltato la conversazione tra lui e Hadron. Se è così, voglio saperla» disse la mezza Andoriana, lisciandole le penne. «Cara Goldie... non è che hai sentito qualcos’altro d’interessante?».

   «Che vuoi fare, una Fusione Mentale?» chiese il Gorn.

   «È impossibile con gli animali... anche se da quello che hai detto, questi falconi sono molto intelligenti».

   «Potrebbero essere la specie nativa più sveglia del pianeta, ma in ogni caso non sono come noi» precisò Raav.

   «Credo che dobbiamo stimolarla, ripetendo alcune delle parole che ha sentito» disse Jaylah. «Parole come... ambasciatori. Misure drastiche. Gorn. Cardassiani. Trattative». Distanziò bene le parole, mentre le pronunciava, e cercò persino d’imitare il tono di Corythos.

   «Trattative, roac! Non portano a niente!» strillò Goldie. «Bisogna scuotere questa gentaglia!».

   «Scuoterla come? Che hanno in mente di fare?!» chiese Raav, dimenticando per un attimo che non poteva farle domande e aspettarsi una risposta sensata.

   «Roac! Furbi del pianeta!».

   «Che dice?!».

   «Niente, è la prima frase che ha imparato quando l’abbiamo raccolta» sospirò Jaylah. «Dobbiamo rinfrescarle la memoria». Andò in cucina e prese alcuni pezzetti di carne. «Fa’ la brava, Goldie... dicci le parole. Le trattative non portano a niente. Bisogna scuotere questa gentaglia» disse, ripetendo le parole già rivelate dall’animale.

   «Loro non sapranno, roac! Daranno la colpa ai federali!».

   A queste parole, Jaylah si bloccò per un attimo. Il pennuto ne approfittò per ingollare un pezzetto di carne.

   «Colpa di cosa? Che succederà con le trattative?» incalzò la corsara. Prese un altro boccone tra le dita, ma lo tenne fuori portata. «Ambasciatori, trattative. Loro non sapranno, daranno la colpa ai federali» ripeté, sperando di sbloccare qualche altra frase.

   «Loro non sapranno che la Avalon è nostra. Roac! Vorranno vendicarsi. Peccato, mi piaceva questa città!». A forza di allungare il collo, il falcone riuscì a prendere la ricompensa dalle dita della corsara.

   «Aspetta, sta dicendo che distruggeranno la città?!» si allarmò Raav. «E perché? Insomma, chi sono “loro”?».

   «Credo che il soggetto delle frasi siano i Gorn. Sono loro i “combinaguai” che vogliono abbandonare il negoziato» ragionò Jaylah. «Sappiamo che i Voth vogliono trattenerli, anche per evitare l’effetto domino sulle altre specie. Perciò hanno deciso di adottare “misure drastiche”. Vogliono “scuoterli” in qualche modo».

   «Non è facile scuotere la mia gente» disse Raav, a disagio. «Com’era quel discorso sulla vendetta e la città distrutta?».

   «Vorranno vendicarsi. Peccato, mi piaceva questa città» ripeté Jaylah, che aveva una memoria fotografica. «Sembra che i Voth vogliano fare qualcosa di terribile... un gesto dimostrativo che scuoterà i Gorn, anzi li indurrà a vendicarsi. Daranno la colpa ai federali».

   «Vediamo se ho capito: i Voth distruggeranno la città e ne incolperanno i federali» disse Raav, sempre più allarmato. «Ma come la distruggeranno? Ci servono indizi!».

   «C’era un’altra frase... riguardava la Avalon» disse Jaylah, prendendo un altro bocconcino. «So che è un’astronave federale. Astronave Avalon» ripeté, per indurre il falcone a spifferare qualcos’altro.

   «Roac! Loro non sapranno che la Avalon è nostra. Daranno la colpa ai federali. Vorranno vendicarsi, roac!». Anche il terzo boccone sparì nella gola del rapace che, ormai sazio, mise la testa sotto l’ala e si addormentò.

   «Oh, frell» imprecò Jaylah. «Hai capito? La Avalon è una nave della Flotta, o lo era. La vidi all’inizio della guerra, quando ci fu l’adunata a Kronos. L’ultima volta che ne ho sentito parlare era dalle parti di Bellatrix, quindi non lontano da qui. Ma Hadron – le parole devono essere sue – ha detto che la nave è in mano loro. Significa che i Voth l’hanno conquistata di recente e la notizia non è ancora trapelata. La useranno per bombardare questa città... e allora sì che sarà facile incolpare i federali!».

   «Ma gli ambasciatori...».

   «Corythos non può avvisarli, per non smascherarsi».

   «Quindi moriranno» concluse Raav.

   «Temo proprio di sì. Del resto non erano molto concilianti» notò Jaylah. «Naturalmente Corythos e gli altri Voth si metteranno in salvo prima del bombardamento. A cose fatte la Avalon se ne andrà, prima che arrivino le navi degli ambasciatori. Dai sensori risulterà che era una nave della Flotta, non dei Pacificatori, e infatti solo la Flotta ha interesse a impedire questo negoziato. Ma i Gorn non lasceranno impunito l’affronto. Manderanno altri delegati a incontrare i Voth in un luogo più sicuro, e stavolta saranno motivati a firmare. Gli altri rettili li seguiranno a ruota. Entreranno nella Lega per punire la Federazione di un attacco che, in realtà, è stato orchestrato dai Voth».

   «Diabolico!» rabbrividì Raav. «Come li fermiamo? Non possiamo semplicemente andare dagli ambasciatori e spiattellargli tutto. Non ci crederebbero e ci farebbero arrestare. Devi tornare sulla Stella e avvertire i tuoi soci».

   «La Avalon è una nave potente... la Stella non può affrontarla da sola» ammise la corsara. «L’unico modo d’impedire l’attentato è trattenere Corythos, e questo può farlo solo la Banshee». Come al solito, Jaylah parlava della sua alter-ego in terza persona.

   «Ne sei certa? Se i Voth sono determinati ad andare sino in fondo, potrebbero anche sacrificare il loro Colonnello» avvertì il Gorn. «E comunque, se ti riveli ti troverai assediata. Non resisterai a lungo».

   «Non serve che lo faccia» disse la mezza Andoriana. «Dobbiamo resistere solo finché le navi dei rettili rileveranno il pericolo e verranno a salvare i loro ambasciatori. A quel punto la Avalon sarà in svantaggio e dovrà andarsene. La Nave Bastione dei Voth non potrà far niente, perché altrimenti il loro piano verrebbe a galla. Ma ci penserò io a informare gli ambasciatori».

   «In tutto questo, chi informerà la Stella della situazione?».

   «Tu, e lo farai solo quando arriverà la Avalon. Non prima, perché questo indurrebbe i Voth a cambiare i piani».

   «Così però c’è un rischio» notò Raav. «Se la Avalon è appena caduta in mano al nemico e la notizia non è ancora trapelata, i tuoi soci potrebbero cadere nel tranello e uscire dall’occultamento, contando sul suo aiuto».

   «Jack non è così avventato» disse Jaylah, sebbene il timore la sfiorasse. «Comunque tu invierai il messaggio appena comparirà la Avalon. Dopo di che...» la sua voce si smorzò.

   «Dopo di che sarò un bersaglio per Voth e Pacificatori» concluse il vecchio Gorn.

   «No, è un rischio troppo grosso. Troveremo un altro modo» disse la corsara.

   «Non c’è» sospirò Raav. «Se avvisiamo la Stella in anticipo, è facile che i Voth c’intercettino e cambino piano. Se d’altro canto non avvisiamo affatto i tuoi soci, il complotto andrà a buon fine. E se tu attacchi l’Istituto senza un briciolo di copertura, sei spacciata. No, dobbiamo fare le cose al momento giusto».

   «Quando ho chiesto il tuo aiuto, non volevo portarti a questo» disse Jaylah. «Perdonami se sono piombata in casa tua, stravolgendoti la vita e mettendoti in pericolo».

   «Ero già in pericolo, senza saperlo» obiettò Raav. «Se tu non fossi giunta a indagare, i Voth avrebbero compiuto l’attentato indisturbati e io sarei morto assieme agli altri. Così, almeno, ho una possibilità di cavarmela».

   «Mi fai sembrare nobile, ma io sto in pena lo stesso» insisté la mezza Andoriana.

   «Non devi» disse il Gorn. «Fa’ la tua parte, figliola, e io farò la mia. Grande Suchos, non permetterò che questi mangiafoglie dei Voth attirino la mia gente nella loro guerra!» disse, facendo balenare i denti da carnivoro.

 

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Capitolo 6
*** L'Emissario ***


-Capitolo 5: L’Emissario

 

   L’operazione Tempesta di Pace cominciò con l’assalto alla New Frontier. Anziché dividersi in schieramenti, Pacificatori e Breen avevano mischiato le loro navi, formando un fronte unico. La loro formazione d’attacco a mezzaluna sembrava una bocca famelica, pronta a richiudersi sulla stazione spaziale. Ma la New Frontier era un osso duro da digerire.

   Ilia tenne le sue forze radunate ad alcune migliaia di km dalla stazione, con l’intento di prendere i nemici nel mezzo. Ma le navi della Flotta Stellare erano appena un centinaio: poche per quella strategia. I Bajoriani contribuivano con appena venticinque navi e altrettanto facevano i Cardassiani; il resto delle loro forze proteggeva Bajor, nel caso in cui il nemico inviasse distaccamenti ad attaccarlo. Così le 150 astronavi federali si videro venire contro una flotta cinque volte più numerosa.

   Nel suo ufficio sulla Terra, la Presidente Rangda si spaparanzò sulla poltrona, sorseggiando la sua tisana di erbe preferita, mentre osservava la battaglia dall’oloschermo. La Zakdorn adorava vedere le sue armate che spazzavano via i ribelli. E le vittorie, in quel primo anno di guerra, si erano succedute con rassicurante regolarità. Considerando il vantaggio numerico, la Presidente era certa di assistere all’ennesimo trionfo.

 

   Protetta dall’occultamento, la navicella federale imboccò il Tunnel Spaziale. Superato il vortice dell’ingresso si trovò in una lucente galleria, con le pareti azzurre attraversate da fasci di verteroni che lo mantenevano stabile. A una normale navetta bastavano trenta secondi per percorrerlo nella sua interezza. La Gryphon era dentro da dieci, quando Vasa entrò in cabina. «Fermate la navicella» ordinò ai piloti.

   «Perché?» chiese uno di loro, voltandosi a mezzo.

   «Voglio aprire la teca e invocare l’aiuto dei Profeti» spiegò l’archeologa.

   «Finora non ce l’hanno dato» bofonchiò il pilota. Era Bajoriano, come il suo collega e le guardie, dato che venivano tutti dal personale di Deep Space Nine. Ma la loro fede nei Profeti era scalfita dagli ultimi eventi, soprattutto dall’incendio che era costato la vita a Shakaar.

   «Siamo attesi a New Bajor. L’ordine è di raggiungerlo al più presto» ricordò il copilota.

   «I Pacificatori stanno attaccando la New Frontier. Se prevarranno, com’è probabile, assumeranno il controllo del Tunnel. Dobbiamo fare un ultimo tentativo, finché possiamo» insisté Vasa.

   In quella la navicella sbucò nel Quadrante Gamma. Il Tunnel le vorticò dietro e si richiuse in un lampo. Anziché procedere verso la destinazione, i piloti si fermarono lì. «Passeremo dei guai per questo» disse il copilota, guardando di sottecchi il collega.

   «Anche se i Profeti ci ascoltassero, che si aspetta che facciano?» chiese il pilota.

   «Non so rispondervi... ma so che altre volte ci hanno salvati dal disastro» disse Vasa, con foga. «Pensate a quando distrussero la flotta del Dominio!».

   «In quel caso fu l’Emissario a intercedere per noi» obiettò l’altro.

   «Abbiamo qui il suo Cristallo!» insisté l’archeologa.

   «Le guardie...».

   «Le ho già convinte. Mancate solo voi» rivelò Vasa. «Avanti... non possiamo andarcene senza tentare. Lo dobbiamo a quelli che sono rimasti a combattere».

   «E va bene, dottoressa» cedette il pilota. «Faccia il suo tentativo. Le do un’ora». Girò la Gryphon e la diresse di nuovo nel Tunnel Spaziale. Ancora una volta la navicella percorse la galleria splendente di luce e particelle esotiche, punto di contatto fra l’Universo materiale e il piano etereo dei Profeti. Stavolta però si fermò a metà strada e rimase a galleggiare in assenza di gravità.

   «Grazie» mormorò Vasa, e lasciò la cabina. Tornò nella sezione mediana della navicella, dove si trovavano il Cristallo e i sorveglianti. «Hanno accettato» disse. «Ora devo chiedervi di lasciarmi. Aspettate in cabina».

   «Non dovremmo perderlo di vista...» obiettò una guardia, accennando al Cristallo che pur chiuso nella teca lasciava trapelare luce azzurra.

   «Vi prego. L’incontro coi Profeti esige raccoglimento» insisté l’archeologa.

   Le guardie si scambiarono uno sguardo rassegnato. Avevano già violato gli ordini; tanto valeva andare fino in fondo. Si recarono in cabina, lasciando Vasa sola con il Cristallo.

   Per prima cosa l’archeologa spense il carrello a levitazione su cui era posta la teca, facendolo adagiare sul pavimento. Dopo di che gli sedette davanti a gambe incrociate. Nel mettere mano alle ante, si accorse di tremare per la tensione. Non aveva mai interrogato un Cristallo dei Profeti, sebbene molti glielo avessero consigliato, dopo la terribile esperienza con Kosst Amojan. La verità era che non si sentiva degna, dopo ciò che aveva fatto sotto l’influsso del Maligno. Ma ora non aveva scelta. Aprì le ante e la luce azzurra si riverberò sul suo volto.

 

   La prima avvisaglia che le cose non sarebbero andate secondo i piani fu una serie di potenti esplosioni che investirono l’avanguardia degli assalitori. Le astronavi sussultarono per i colpi e alcune sbandarono, danneggiate.

   «Massima energia agli scudi anteriori» ordinò Radek, sentendo il Moloch che tremava come mai prima d’ora. «Cos’è che ci colpisce?».

   «Mine spaziali, Capitano» disse l’Ufficiale Tattico. «Di tipo XII, a giudicare dalla potenza».

   «Scansione anti-occultamento» ordinò il Rigeliano, sperando che non circondassero completamente la stazione.

   «Negativo, i sensori non penetrano la schermatura» riferì l’addetto.

   «Aprite il fuoco, massima dispersione. Dobbiamo aprirci un varco». Radek vide i raggi del Moloch unirsi a quelli delle altre navi: migliaia di bagliori solcarono lo spazio. Eppure non ci furono esplosioni davanti a loro. Le mine però c’erano e continuavano a colpire le astronavi, indebolendone gli scudi. I vascelli Breen, che avevano schermi più deboli, furono colpiti duramente: molti dovettero fermarsi e alcuni esplosero in fiamme, scombinando la formazione.

   «Perché non colpiamo le mine?» s’incupì Radek.

   «Credo che sfruttino l’Occultamento Sfasato» disse l’Ufficiale Scientifico. «Ne escono solo all’ultimo momento».

   «Aprire un canale con l’ammiraglia» ordinò subito il Rigeliano. «Capitano Radek a Takiah, consiglio di ritirarci, finché non riusciremo a individuare le mine».

   «Messaggio alla Flotta: l’Ammiraglio Vidkung ordina di proseguire l’attacco» riferì però l’addetto alle comunicazioni.

   «Frell» imprecò Radek. Era tipico di quel leccapiedi, seguire pedissequamente gli ordini di Rangda, anche quando costavano cari. D’altro canto, fermarsi ora era rischioso: il nemico poteva attaccarli durante la ritirata.

   Le navi danneggiate e quelle semidistrutte restarono indietro, ma ce n’erano ancora centinaia pronte a dare battaglia. La flotta proseguì l’attacco, come un’onda irresistibile, finché giunse a distanza di tiro. Sulla New Frontier, come sulle astronavi dei due schieramenti, fu impartito lo stesso ordine: «Fuoco a volontà».

 

   Lo spazio si riempì di raggi letali e siluri. La New Frontier rovesciò la sua immensa potenza di fuoco sul nemico, mentre i suoi scudi assorbivano la gragnola di colpi. Gran parte delle armi era diretta da sistemi automatici, più rapidi di qualunque artigliere nel seguire i movimenti dei vascelli nemici. Questi però avevano il vantaggio del numero e della mobilità: dopo un passaggio ravvicinato potevano ritrarsi e rigenerare gli scudi, mentre un’altra ondata partiva all’attacco. Quando tutti i ranghi avevano attaccato, in successione, i primi avevano ormai ripristinato le difese e potevano ricominciare. La stazione invece restava a fare da bersaglio: per quanto i suoi scudi fossero auto-rigeneranti, l’attacco continuo li indeboliva. I Pacificatori concentrarono il fuoco sul modulo centrale. Migliaia di raggi e di siluri lo bersagliarono, indebolendone le difese, come onde che consumano uno scoglio.

   A poche migliaia di chilometri, le navi federali ingaggiarono una lotta serrata con Pacificatori e Breen. Secondo gli ordini di Ilia, si concentrarono in particolare su questi ultimi, che avevano scudi più deboli. Le loro navi asimmetriche furono bersagliate sia mentre attaccavano, sia mentre cercavano di ritirarsi, mentre quelle dei Pacificatori al loro fianco erano quasi ignorate. Sulla sua ammiraglia, tenuta prudentemente in retrovia, Thot Rong notò la strategia della Flotta. Il casco della tuta gli trasmise gli aggiornamenti: dieci navi distrutte... venti... trenta.

   Vedendo che un gran numero di vascelli nemici si era incanalato tra la loro flotta e la stazione, Ilia decise che era il momento di far scattare la trappola. Al suo ordine, le navi federali si accostarono alla New Frontier, schiacciando i nemici nel mezzo. Un centinaio di navi attaccanti si trovò preso nel fuoco incrociato e ben presto fu ridotto a mal partito. Alcune astronavi si ritirarono, riunendosi al grosso della flotta; ma altre si trovarono con i motori fuori uso. Ai Capitani non restò che ordinare l’evacuazione. Centinaia di navette e capsule di salvataggio lasciarono le astronavi condannate. La Flotta Stellare, come suo solito, permise loro di andarsene. I vascelli però furono colpiti implacabilmente, per impedire che il nemico potesse recuperarli e rimetterli in sesto. Immani esplosioni punteggiarono lo spazio e i detriti si sparsero nella Cintura di Denorios.

   A manovra ultimata, le navi della Flotta Stellare si trovarono affiancate alla New Frontier. E qui si accorsero d’essere finite loro in trappola. Il nemico aveva forze così preponderanti che, pur con le perdite subite, poteva ancora accerchiarli. E così fece. La stazione e la flotta furono circondate da Breen e Pacificatori, più decisi che mai a distruggerle. Le navi federali, che combattevano ormai da tempo, accumulavano danni. Gli avversari invece erano ancora abbastanza numerosi da potersi dare il cambio, quando gli scudi s’indebolivano. La mattanza fu inevitabile. Quando una nave della Flotta era disabilitata e il suo equipaggio fuggiva, i Pacificatori si astenevano dall’infierire; ma i Breen non avevano gli stessi scrupoli.

   Per ordine di Thot Rong, che vedeva le sue perdite sempre superiori a quelle dei Pacificatori, i federali in fuga divennero bersagli. Le loro navette e capsule furono inseguite e distrutte per la maggior parte. Solo quelle che superarono le mine occultate riuscirono a mettersi in salvo. Nel frattempo i Pacificatori stringevano il cerchio attorno alla New Frontier, i cui scudi vacillavano.

   In quel marasma di assalti, esplosioni e inseguimenti, due navi si cercavano, senza perdere tempo con altri avversari. La Keter e il Moloch si erano sfidati per un anno, e ogni volta la nave ribelle era sfuggita a quella lealista. Ora non più. Sbucando dall’esplosione della nave Breen che aveva appena distrutto, la Keter assalì il Moloch, tempestandolo di colpi sul dorso. Il vascello dei Pacificatori reagì prontamente con le sue armi, simili a quelle nemiche, ma più numerose.

   Le due astronavi intrecciarono una danza mortale fatta di manovre evasive, finte ritirate e assalti furiosi. Ignorando il resto della battaglia, si concentrarono unicamente una sull’altra. Oltre ad avere la stessa formazione nella Flotta, Hod e Radek si conoscevano così bene che riuscivano ad anticipare le rispettive mosse. Lo scontro sarebbe stato equilibrato, se non fosse che il Moloch era nettamente superiore alla Keter. Terry cercò di abbattere le raffiche di siluri prima che giungessero a bersaglio, ma non era abbastanza. Allora Vrel diresse la Keter in un sorvolo ravvicinato della New Frontier, così che questa potesse aiutarli.

   I vascelli si affrontarono attorno alla stazione, che con la sua alternanza di pieni e vuoti offriva molte possibilità. S’inseguirono attorno al modulo centrale, si scambiarono colpi intorno all’anello d’attracco e sgusciarono tra i piloni per sfuggire al fuoco nemico, facendo attenzione a non urtare lo scudo energetico che aderiva alla stazione. Intanto la New Frontier continuava a bersagliare il Moloch, mettendone a dura prova gli scudi. Per quanto fosse la nave più potente dell’Unione, il vascello scuro aveva incassato una quantità spaventosa di colpi e i suoi scudi si erano molto indeboliti. Ma Radek non voleva arrendersi: vedeva la Keter che gli volteggiava davanti, evitando metà dei colpi, e sapeva che mancava poco per finirla. Così le due astronavi continuarono a colpirsi selvaggiamente, mentre attorno a loro, tra fuoco e stragi, si consumava la tragedia della Guerra Civile.

 

   Nel raccoglimento offerto dalla navicella, Vasa sedeva davanti al Cristallo dell’Emissario. Si era quasi abbagliata a forza di ficcare gli occhi nella sua luce, eppure non aveva avuto alcuna visione. Ad ogni momento lo sconforto cresceva in lei. Là fuori, migliaia di persone stavano morendo nel tentativo – eroico ma inutile – di arrestare la marea nemica. Lì nel Tunnel, i Profeti assistevano senza intervenire. E lei, che aveva il privilegio d’essere lì col Cristallo dell’Emissario, non riusciva a contattarli. «È colpa mia? O sono loro che non vogliono parlare?» si chiese, divorata dall’angoscia.

   «Potete sentirmi?» chiese, con le lacrime agli occhi. «Sono Agni Vasa e ho passato la vita a studiare i vostri Cristalli. Sono anche la moglie di Modro, l’erede del vostro Emissario» aggiunse con voce tremante. «Sei anni fa sono caduta in potere del Maligno e ho fatto cose orribili. Da allora sto cercando d’espiare, anche se finora non avevo osato interpellarvi. Poche ore fa ho tentato di distruggere il Cristallo di Fuoco, ma ho fallito, e tre uomini sono morti. Altre vittime sulla mia coscienza» disse, stropicciandosi le mani.

   «Ora sono qui, a implorare il vostro aiuto» riprese la Bajoriana. «L’Unione Galattica, che un tempo era nostra amica, ha inviato i Pacificatori a sottometterci. Mio marito è dalla loro parte. La Flotta sta provando a fermarli, ma non può riuscire. E tutta questa violenza non fa che rafforzare Kosst Amojan. La vostra parola, invece, non si ode più. Ci avete dimenticati? Avete smesso di amarci? Non vorrei crederlo, eppure... sono qui nel vostro Tempio, col Cristallo dell’Emissario, e non mi sono mai sentita così sola. Perché ci avete abbandonati? Perché mi avete abbandonata?!».

   Al colmo della disperazione, l’archeologa si portò le mani al volto, soffocando i singhiozzi. Avendo gli occhi coperti, non vide il lampo del Cristallo. Ma udì un suono ritmico, simile alle pulsazioni di un cuore. E avvertì una mano che le si posava dolcemente sulla spalla.

   «Non sei sola. Alzati» le disse una voce rassicurante.

   La Bajoriana si scoprì il volto. Non era più nel comparto della navicella, bensì sulla balconata di Deep Space Nine, dove spesso si soffermava a guardare le stelle. Accanto a lei c’era un uomo di carnagione scura, calvo ma con una corta barba nera sul mento. Indossava un’uniforme della Flotta Stellare d’altri tempi. Lo riconobbe all’istante, per averne visto il volto in centinaia d’immagini: era Benjamin Lafayette Sisko, l’Emissario dei Profeti.

   «Emissario! Siete davvero voi?!» gemette Vasa, scattando in piedi.

   «Hai il mio Cristallo e sei legata alla mia famiglia... quindi sì, ho pensato di doverti parlare» confermò Sisko, con un sorriso incoraggiante.

   «Oh, Emissario... temevo di non essere degna» confessò Vasa, inginocchiandosi.

   «No!» disse subito Sisko, prendendola per mano e inducendola a rialzarsi. «Non farlo mai. E non credere neanche per un istante d’essere indegna».

   «G-grazie» disse Vasa, tremando per l’emozione. «Emissario, sapete cosa accade in questo momento?».

   «Sì, purtroppo» si rabbuiò l’ex Capitano. «La Guerra Civile infuria e Bajor è sotto attacco. Conosco ogni cosa».

   «Quindi sapete anche di...».

   «Modro? Sì» disse Sisko, ancora più cupo. «Crede di seguire le mie orme, e non sa verso quale abisso si dirige».

   «Potete salvarlo?».

   «Non senza la sua collaborazione» rispose l’Emissario. «Ma non è questa la faccenda più pressante, dico bene?».

   «I Pacificatori e i Breen stanno per impadronirsi del sistema. Potete fermarli?».

   «Non è così semplice» sospirò Sisko. «Il dottor Smirnov non ti ha riferito per intero gli avvertimenti dei Profeti, vero?».

   «Juri? Perché, cos’altro gli hanno detto?».

   «Non possiamo vincere la guerra per voi» rivelò un Bajoriano che sembrava apparso dal nulla. Era Shakaar.

   «Colonnello? Lei è morto!» si stupì Vasa. «Ah, capisco... siete un Profeta» si corresse. Accanto a lei ne apparvero altri, tutti con le sembianze di persone viste di recente: Juri, Odo, il Ministro Parva, alcuni colleghi della squadra scientifica. Mancava solo Modro.

   «V’imploro, nobili Profeti. Aiutateci a salvare Bajor» disse l’archeologa. «Se non dai Pacificatori, almeno da Kosst Amojan».

   «Vuoi violare le regole del gioco» l’ammonì il finto Ministro.

   «Il gioco? Volete dire la vita? La realtà?» chiese Vasa, ricordando che in certe occasioni i Profeti si erano espressi in questi termini. «Ma Kosst Amojan non si fa problemi a violare le regole! E non era come voi, un tempo? Non lo avete scacciato dal Tempio Celeste? Dunque siete responsabili delle sue azioni».

   «Se affrontiamo il Maligno, ci sarà un prezzo da pagare» avvertì il finto Odo.

   «Anche per te» aggiunse il finto Juri.

   «Io?» fece Vasa, smarrita. «Quale prezzo?».

   I Profeti non risposero.

   «Non importa» disse la Bajoriana. «Pagherò qualunque prezzo, in cambio del vostro aiuto».

   «Pensaci bene» l’avvertì Sisko, che sembrava sapere di che si trattava. «Potresti cambiare idea».

   «Mentre la mia gente muore? Non credo» rispose Vasa, sostenendo il suo sguardo. «Fate ciò che è necessario. Quando verrà il momento, pagherò fino in fondo».

   «Così sia» disse solennemente il finto Shakaar.

   Ci fu un lampo bianco e Vasa si ritrovò nel comparto della Gryphon. Il Cristallo dell’Emissario scintillava davanti a lei. La Bajoriana sbatté gli occhi, cercando di raccapezzarsi. I Profeti avevano promesso d’intervenire, ma non le avevano detto come. Né l’avevano istruita sul da farsi. Adesso doveva portare il Cristallo a New Bajor, oppure riportarlo indietro? In mancanza d’indicazioni, pensò di attenersi al piano di volo. Stava per richiudere la teca, quando la reliquia tornò a brillare.

   L’archeologa arretrò in fretta, quasi aspettandosi un’altra visione. Ma non fu così. La luce azzurra del Cristallo salì a formare una specie di mandorla, alta fin quasi al soffitto. Vasa si fece scudo con la mano, per non esserne abbagliata. Quando i suoi occhi si furono abituati, riuscì a spingere lo sguardo nel biancore al centro della mandorla. E vide qualcosa prendere forma al suo interno. Una figura umanoide si stagliò contro la luce.

 

   Dopo un’ora di bombardamento incessante da tutte le direzioni, gli scudi della New Frontier cedettero. I raggi disgregatori dei Breen e quelli anti-polaronici dei Pacificatori tracciarono scie di fuoco sullo scafo. I siluri aprirono squarci da cui uscì l’atmosfera, talora trascinandosi dietro gli sventurati occupanti. A quel punto fu chiaro a tutti che le sorti della battaglia erano segnate. I difensori si aspettavano che i nemici mettessero fuori uso le loro armi, procedendo poi all’abbordaggio. Si sbagliavano.

   Breen e Pacificatori si allontanarono in fretta dalla stazione, che continuava a colpirli con i propri armamenti. Il Moloch indugiò, cercando di mettere a segno il colpo decisivo contro la Keter; ma trovandosi attaccato da altre navi della Flotta, tra cui la Defiant, dovette ritirarsi.

   «Non mi piace» mormorò il Capitano Hod, osservando i nemici che si allontanavano. «Devono avere in mente qualcosa».

   «La Takiah si è portata in prima linea» notò Zafreen, inquadrandola sullo schermo.

   Hod ne fu inquietata. Fino ad allora l’ammiraglia nemica era rimasta nelle retrovie, coerentemente con il carattere di Vidkung, poco propenso a correre rischi. Perché adesso si faceva avanti? L’Elaysiana notò che qualcosa si muoveva sulla parte inferiore dello scafo. «Ingrandire la zona ventrale» ordinò.

   I federali videro aprirsi i due hangar secondari della Takiah. Ma non ne uscirono delle navette. Al loro posto apparvero delle strutture aghiformi, con giunture snodate che le misero in posizione, rivolte in avanti. «Terry, cos’è quella roba?» chiese Hod, con un orribile presentimento.

   «Si tratta certamente di armi. Le letture sono compatibili con i cannoni al thalaron» rispose l’Intelligenza Artificiale.

   Il gelo cadde sulla plancia. Gli ufficiali conoscevano gli effetti delle armi thalaroniche, vietate dalle convenzioni interstellari. Sapevano che i Pacificatori possedevano quella tecnologia, ma speravano che non l’avrebbero mai usata. L’uso di armi illegali apriva un vaso di Pandora, perché ora anche la Federazione si sarebbe sentita legittimata a farne uso.

   «Estendere gli scudi a tutta la New Frontier» ordinò Hod.

   «Non abbiamo energia» avvertì Terry. «Gli scudi sono al 5%. Ci vorrà mezz’ora perché si rigenerino».

   Lo stesso accadeva sulle altre navi della Flotta: dopo la furiosa battaglia avevano tutte gli scudi al minimo, o persino assenti. Nessuno poteva salvare la New Frontier.

   Sulla Takiah, il Comandante Modro osservò la stazione indifesa con un groppo in gola. «Sono quindicimila persone» disse a mezza voce.

   «Cinquemila» corresse l’addetto ai sensori. «Oltre ai civili, i ribelli devono aver evacuato tutto il personale non essenziale».

   «Gli abbiamo offerto clemenza e l’hanno rifiutata. Ora devono scontarne le conseguenze» disse l’Ammiraglio Vidkung. «I cannoni thalaronici sono dispiegati?».

   «Sì, signore» disse l’Ufficiale Tattico.

   «Intimiamogli di nuovo la resa» propose Modro. L’Ammiraglio, che stava per impartire l’ordine, si arrestò, valutando il suggerimento.

   «Messaggio dai Breen» avvertì l’addetto alle comunicazioni. «Vogliono che apriamo il fuoco, o se ne andranno».

   «Non possiamo perderli» disse Vidkung, sapendo che in quel caso la guerra sarebbe diventata molto più difficile. «Non ci resta che accontentarli. Fuoco coi cannoni thalaronici».

 

   Il lampo verde si riverberò sullo scafo della New Frontier, mentre le particelle letali avvolgevano la stazione. Le navi della Flotta, dagli scudi indeboliti o assenti, dovettero allontanarsi immediatamente. Una venefica nube verde avvolse interamente la New Frontier, così come gli innumerevoli relitti che l’attorniavano. Su alcuni di quei relitti c’erano dei superstiti, dell’uno o dell’altro schieramento. Furono i primi ad essere colpiti.

   Il primo effetto delle radiazioni thalaroniche furono dolori atroci in tutto il corpo. Il dolore crebbe fino al più alto grado possibile, poi diminuì, perché le terminazioni nervose erano morte. Fu un bene, perché era solo l’inizio. L’effetto necrotizzante dei thalaroni colpì tutto il corpo, a partire dall’epidermide, che dapprima si scurì, poi divenne grigio cenere e cominciò a sfarinarsi. Le radiazioni scesero in profondità, corrompendo la carne e gli organi. Il sangue smise di scorrere nelle vene, divenendo una polvere bianca; persino le ossa cominciarono a disgregarsi. Per un attimo gli sventurati ufficiali rimasero paralizzati, come statue scolpite in pose agonizzanti. Poi caddero a terra, nelle loro pose irrigidite. E si frantumarono come se veramente fossero stati di gesso. Non c’era specie organica che fosse risparmiata dal fenomeno. Anche le gelatine bio-neurali dei computer s’ingrigirono e si sfarinarono.

   Sterminati i superstiti dei relitti, le radiazioni s’intensificarono, fino a superare lo scafo della New Frontier. Ponte dopo ponte, investirono l’equipaggio, uccidendolo allo stesso modo. Invasero le sale d’ingegneria e di controllo, le armerie e le camere di lancio siluri. Si fecero strada nelle infermerie, uccidendo i feriti assieme ai medici e agli infermieri che li stavano soccorrendo. Infine dilagarono nel centro di comando. Qui gli effetti furono minori, per via delle potenti schermature; ma gli ufficiali si accasciarono ugualmente, in preda a dolori lancinanti. I loro occhi divennero ciechi e l’epidermide s’ingrigì. Sarebbero morti anche loro, solo più lentamente. E i colleghi sulle astronavi non potevano trarli in salvo, perché il thalaron ad alte concentrazioni interferiva con il teletrasporto.

   Tra i pochi a vederci ancora, il Commodoro Fee’laur vide sullo schermo la flotta dei Pacificatori che manteneva la posizione. Stavano aspettando che le radiazioni facessero effetto, per poi prendere possesso della stazione, indisturbati.

   «No... non avrete questa soddisfazione» rantolò il Caitiano. Si trascinò fino alla sua poltroncina e attivò un oloschermo. L’immagine andava e veniva, perché anche il computer era colpito; ma i sistemi d’emergenza stavano deviando le funzioni primarie ai circuiti quantistici, bypassando le gelatine. Il Caitiano passò il pollice sul lettore di DNA, per confermare la sua identità. «Commodoro Fee’laur a computer, attivare sequenza di autodistruzione. Autorizzazione Fee’laur 2748 Omega-9» disse con voce roca. «Conteggio silenzioso di cinque minuti».

 

   Come ben sa ogni civiltà avvezza ai viaggi interplanetari, nello spazio i suoni non si diffondono. Dunque la nube letale avvolse la New Frontier nel più completo silenzio. Ma anche a bordo delle astronavi, dove l’aria c’era, non si udì alcun suono. Sulle navi dei Pacificatori non vi furono manifestazioni di vittoria, né su quelle della Flotta Stellare si ebbero scoppi di dolore o di collera. Tutti osservarono la nube verdastra in un silenzio sbigottito, come se solo allora realizzassero a che punto erano giunti.

   Sulla Takiah, Modro non riusciva a staccare gli occhi dalla stazione, appena visibile nella nube di thalaron. Certe armi andavano usate solo una volta o due, per dare l’esempio. Ma chi le usava sarebbe stato odiato per sempre. La Storia avrebbe ricordato che l’ordine veniva dall’Ammiraglio Vidkung, ma anche che lui era il secondo in comando, e non si era opposto. «O forse no» si disse il Comandante. Da quando Rangda aveva riformato l’Unione, la Storia era insegnata in modo più... pragmatico. Ciò che era utile alla concordia veniva tramandato, mentre ciò che poteva suscitare divisioni e rancori veniva accantonato. Forse sarebbe stato così anche per quell’evento.

   «Quanto ci vorrà perché la stazione ridiventi abitabile?» chiese l’Ammiraglio.

   «Considerando la concentrazione delle particelle, direi almeno 72 ore» rispose un ufficiale scientifico.

   «È troppo, il nemico ne approfitterà per una contromossa» disse Vidkung. «Inviate i synth a prenderne possesso». Questo termine gergale e vagamente denigratorio indicava tutte le forme di vita artificiali, come androidi e ologrammi.

   Poiché le radiazioni erano ancora troppo alte per consentire il teletrasporto, i sintetici furono inviati con le navicelle. Decine di navette da trasporto sciamarono verso la New Frontier, ciascuna piena di androidi e ologrammi, pronti ad assumere il controllo della stazione. Passarono indenni attraverso la nube radioattiva e si accinsero ad attraccare.

   Fu allora che la New Frontier esplose. Obbedendo all’ordine di autodistruzione, i reattori della stazione disattivarono i campi di contenimento dell’antimateria. Ci fu un unico lampo, più fulgido di una stella. Le navicelle cariche di sintetici furono vaporizzate e anche le astronavi subirono l’onda d’urto. Alcune, come la Takiah e il Moloch, si limitarono a sussultare. Altre, che avevano subito danni, se la passarono peggio. Ci furono esplosioni a bordo, feriti, vittime. Una nave dei Pacificatori fu investita da un grosso frammento della stazione, che tranciò in due la sezione a disco. Il resto della flotta indietreggiò, bersagliata dai detriti di quel colossale shrapnel.

   Nella loro ritirata, Pacificatori e Breen dovettero attraversare nuovamente il campo minato. Scoprirono così che nel corso della battaglia le mine occultate si erano spostate. I percorsi sicuri che le astronavi avevano aperto all’andata, ora erano di nuovo pericolosi. E stavolta i vascelli erano tutt’altro che in buone condizioni. Le esplosioni che in precedenza avevano indebolito gli scudi, provocando qualche scossone, stavolta lacerarono gli scafi. Alcune navi, troppo danneggiate per rischiare altri impatti, furono evacuate con il teletrasporto.

   La Battaglia della New Frontier si era conclusa con la vittoria dei Pacificatori, che si erano assicurati il controllo del Tunnel Spaziale, ricacciando i federali nel sistema interno. Ma scorrendo la lista delle navi distrutte e di quelle danneggiate, il Capitano Radek stentava a considerarla una vittoria. Se fosse stato lui al comando, si disse, avrebbero vinto più a buon mercato. Ma al comando c’era quell’idiota di Vidkung, piazzato lì da Rangda, che aveva commesso tutti gli errori tattici possibili. Solo il formidabile vantaggio numerico aveva permesso loro di uscirne vittoriosi. E per aggiungere al danno la beffa, la Keter era fuggita di nuovo.

   «Questo è solo il primo round» si disse il Rigeliano, osservando la Flotta Stellare che si ritirava verso Bajor. Quando la New Frontier era esplosa, i federali erano molto più lontani, così che non avevano riportato danni. Ma la loro esigua flotta era comunque falcidiata dalla battaglia. «Al prossimo scontro li annienteremo. E che sia dannato se la Keter mi sfugge un’altra volta!».

 

   Ricacciati verso Bajor, i federali avevano il morale a terra. Aver inflitto così tante perdite al nemico sembrava inutile, considerando che la New Frontier era distrutta e i Pacificatori controllavano l’accesso al Tunnel. Ora che li avevano visti usare senza scrupoli i cannoni al thalaron, sapevano di cos’erano capaci, pur di accaparrarsi la vittoria. Questo accresceva la preoccupazione per Bajor e le colonie del sistema.

   Sulla Defiant, Ilia leggeva la lista dei danni. Molte navi erano così malmesse che non potevano reggere un altro scontro. Se i Pacificatori avessero proseguito l’attacco, sarebbe stata la fine.

   «La Takiah ci chiama, Ammiraglio» riferì l’addetto ai sensori.

   «Sullo schermo» ordinò la Trill, irrigidendosi.

   I due Ammiragli si scrutarono.

   «La vostra fortezza è caduta, Ammiraglio Tarn, e non ne avete un’altra che regga il confronto» disse Vidkung. «Pertanto le rinnovo la mia offerta di resa. Le condizioni sono le stesse di prima».

   «E si aspetta che creda alle sue promesse? Lei è un criminale di guerra; ha usato un’arma illegale» accusò Ilia.

   «Ho agito in conformità al regolamento dei Pacificatori» si difese l’Efrosiano. «Potrei portare avanti l’attacco e distruggervi, ma preferirei chiuderla qui, senza altre vittime».

   La Trill rifletté in fretta. Per quanto i Pacificatori fossero spacconi, anche loro avevano riportato gravi danni e forse sentivano il bisogno di ripensare la loro strategia. «Le faccio una contro-proposta» disse. «Dieci giorni di tregua, a partire da ora. Così entrambe le parti potranno curare i feriti e dire addio ai morti. E noi rifletteremo sulla vostra offerta».

   «Vuole solo del tempo per fortificarsi» riconobbe Vidkung. «Magari spera che la Federazione le mandi dei rinforzi».

   «Ai Bajoriani serve tempo per riflettere su questi eventi. Se decideranno di arrendersi, noi abbandoneremo il sistema» promise Ilia. «Ma se attaccate subito, vi aspetta una battaglia ancora più dura. E anche se v’impadroniste del sistema bajoriano, vi scontrerete con la resistenza accanita degli abitanti. La vostra opinione pubblica ne sarà colpita. Mi pare che gli olo-romanzi sull’Occupazione di Bajor siano sempre di moda... dopo oggi, andranno ancor più a ruba».

   Vidkung ci ragionò su. Dopo aver visto cos’era accaduto alla New Frontier, c’era una buona probabilità che i Bajoriani si spaventassero e si arrendessero. Era un’occasione troppo ghiotta per sprecarla, anche perché l’alternativa era quella prospettata dalla Trill: una guerriglia perenne e simpatizzanti dei ribelli che si moltiplicavano nell’Unione. Dette un’occhiata al Comandante Modro, che annuì. Anche questo era un fattore da considerare: l’Ammiraglio non voleva inimicarsi i Bajoriani che militavano nei Pacificatori. «E sia!» disse, cercando di suonare magnanimo. «Avete dieci giorni di tregua: non un’ora di più».

   «Ci risentiremo allo scadere del tempo» disse Ilia. «Non superate l’orbita di Bajor IX, o la considereremo una rottura della tregua».

   «Noi non ci avvicineremo, ma voi non potete uscire» chiarì l’Efrosiano. «E se dei vostri rinforzi si avvicineranno a meno di un anno luce, mi sentirò autorizzato ad attaccare. Quindi pensi bene a ciò che fa» ammonì, e chiuse il canale.

   Le due navi ammiraglie comunicarono l’accordo alle rispettive flotte. I federali si ritrassero presso Bajor, lasciando solo qualche boa a presidiare il confine concordato. Gran parte delle loro astronavi richiedeva immediate riparazioni. I Pacificatori e i Breen restarono presso l’imboccatura del Tunnel Spaziale, dove i resti della New Frontier si stavano disperdendo. Stavano ancora facendo la conta dei danni, quando il Tunnel si aprì.

   «E ora che succede? Qualche detrito è entrato nel wormhole?» chiese Vidkung.

   «Negativo, Ammiraglio» rispose l’addetto ai sensori. «Una navetta di classe Gryphon è appena uscita».

   «Un bersaglio facile» notò l’Ufficiale Tattico, le mani già sui comandi delle armi.

   «No, mi sono appena accordato per la tregua» lo fermò l’Ammiraglio. «Lasciamo che se ne vada. Non può certo cambiare l’esito dello scontro».

   Ma la navicella non fuggì nello spazio profondo, come avrebbe fatto qualunque pilota di buon senso, vedendo la situazione. Al contrario, fece un breve salto a cavitazione che la portò nei pressi di Bajor, dove si radunava la Flotta. Sulla Defiant, l’arrivo non passò inosservato. «È la navetta della dottoressa Agni» riconobbe l’addetta ai sensori.

   «Che ci fa qui?!» s’irritò Ilia. «Avevano ordine di restare a New Bajor. Li chiami».

   L’archeologa apparve sullo schermo. Aveva un’espressione di trionfo, che stonava con la situazione. «Salve, Ammiraglio» salutò con tranquillità.

   «Perché siete tornati? Ci sono problemi col Dominio?» chiese Ilia, sebbene ciò contraddicesse la strana calma della Bajoriana.

   «Nessun problema, che io sappia».

   «Che lei sappia? Ma ci è stata o no?».

   «Spiacente, ma non è stato possibile. Dovevamo tornare al più presto» fu la sconcertante risposta.

   «Sarebbe a dire che avete ancora il Cristallo?!» s’indignò la Trill. «Avevate l’ordine di portarlo a New Bajor!».

   «Quell’ordine è superato, Ammiraglio. È accaduta una cosa meravigliosa... un miracolo!» disse Vasa, il volto acceso di gioia estatica. «Egli è di nuovo tra noi, per guidarci alla salvezza!».

   Ilia stava per chiedergli di chi parlava, ma si bloccò. Un uomo era appena entrato nell’inquadratura; uno che non era a bordo, al momento della partenza. La sua uniforme della Flotta Stellare era vecchia di almeno due secoli. Il suo volto... Ilia non lo avrebbe mai dimenticato.

   «Ciao, vecchio mio» disse l’Umano, come soleva fare coi precedenti Ospiti di Dax. «Quanto tempo, eh? Eppure certe cose non cambiano mai. Sapevo che ti avrei trovata al comando della Defiant». Benjamin Sisko, Capitano della Flotta Stellare ed Emissario dei Profeti, era tornato nel mondo dei vivi.

 

   Poche ore dopo, Ilia si recò nell’infermeria della sua nave e andò dritta filata nell’ufficio del Medico Capo. «Ebbene?» chiese, appena la porta si fu richiusa alle sue spalle.

   «I risultati delle analisi sono chiari. Quell’uomo è geneticamente identico a Benjamin Sisko» rispose il dottor Joe, ex MOE della Voyager e attuale Medico Capo della Defiant.

   «Non potrebbe essere un clone?».

   «Non ci sono segni di deterioramento genetico dovuto a tecniche di clonazione. E l’analisi dei telomeri indica che ha esattamente l’età di Sisko, nel momento della sua scomparsa» spiegò Joe. «Anche i test mnemonici e psicologici indicano che ha i ricordi e la personalità del Capitano».

   «Quindi a suo parere non può essere un inganno?» chiese Ilia. In cuor suo sentiva che non lo era; ma come Ammiraglio doveva vagliare tutte le possibilità, prima di annunciare pubblicamente il ritorno dell’Emissario.

   «Non vedo come potrebbe» disse Joe. «O è una replica così perfetta da ingannarmi... o quello è davvero Benjamin Sisko». Si accostò alla Trill, che stava osservando il nuovo arrivato attraverso la finestra trasparente dell’ufficio. L’Umano era seduto sul lettino delle analisi e scambiava parole cordiali con medici e infermieri, come un qualunque ufficiale della Defiant. «Se si sta chiedendo come accoglierlo, non posso aiutarla» disse l’MOE a mezza voce.

   «In circostanze normali mi prenderei del tempo per rifletterci e intanto lo sottoporrei ad altri test» disse Ilia. «Ma abbiamo solo dieci giorni prima della prossima battaglia. La flotta è a pezzi, gli equipaggi hanno il morale a terra e Bajor è nel caos. Se Benjamin Sisko può aiutarci, devo avvalermi di lui».

 

   «Signore, è molto strano» disse l’addetto ai sensori della Takiah. «C’è agitazione tra Bajor e le colonie. Capto centinaia di messaggi che parlano dell’Emissario».

   «Benjamin Sisko? Che c’entra lui?» fece l’Ammiraglio, dando un’occhiata a Modro che gli sedeva a fianco. Questi fece un’espressione come a dire: «E io che ne so?».

   «Forse lo sapremo da loro. La Defiant ci chiama».

   «Sullo schermo» ordinò Vidkung. «Ammiraglio Tarn... non avrà già cambiato idea, riguardo alla tregua?».

   «Niente affatto» lo rassicurò la Trill. «Ma ho qui una persona che vorrebbe parlare con il Comandante Sisko».

   «Di chi si tratta?» chiese Modro, sorpreso che la chiamata fosse resa pubblica. Per un attimo s’illuse che fosse Vasa, desiderosa di raggiungerlo.

   «Sono io» disse Benjamin Sisko, entrando nell’inquadratura. «Ciao, nipote. Posso chiamarti così? In realtà sei il mio pro-pro-pro-pro-pronipote, ma sarebbe poco pratico da dire ogni volta».

   Sulla plancia della Takiah calò il gelo. Modro si accorse che tutti, a partire dall’Ammiraglio, lo fissavano come aspettandosi una spiegazione. Ma lui era sbalordito quanto loro. «Chi è lei?» chiese all’uomo sullo schermo. «Ha l’aspetto del mio antenato, ma non può essere lui. Che razza di scherzo è questo?».

   «Nessuno scherzo, nipote» disse Sisko, facendosi serio. «Se conosci la mia storia, saprai che sono scomparso nelle Caverne di Fuoco, al termine della Guerra del Dominio. E saprai che da allora risiedo nel Tempio Celeste, non più limitato dal tempo lineare».

   «Così è stato tramandato» concesse Modro. «Non ho mai saputo se crederci. Voglio dire, ero certo che i Profeti ti avessero accolto con loro» si corresse. «Ma dalla morte non si fa ritorno. Tu non puoi essere il mio avo».

   «Tecnicamente non sono mai morto» rivelò Sisko, sollevando l’indice. «I Profeti mi hanno salvato con tanto di corpo, anche se... beh... non riuscirei a spiegarti in che modo ho abitato con loro. Per fare un paragone, immagina che sia rimasto sospeso nel buffer degli schemi del teletrasporto. Tutta l’energia e le informazioni del mio corpo erano nel Tempio Celeste, e con quelle i Profeti mi hanno ridato sostanza».

   «Perché l’hanno fatto solo adesso? Sarebbe stato più giusto farlo subito, per restituirti alla tua famiglia» ragionò Modro.

   «Sì, lo avrei voluto anch’io» ammise il Capitano, facendosi distante. I suoi pensieri andarono alla moglie Kasidy e alla figlia secondogenita Rebecca, che non aveva mai conosciuto. «Ma gli eventi dovevano andare così. Vedi, il mio cammino non prevede che resti a lungo nel tempo lineare. Anche ora sarò tra voi solo per un breve periodo» rivelò.

   «E perché ti sei scomodato a uscire?» chiese il Comandante, con una nota beffarda.

   «Per proteggere Bajor, prima che facciate ciò che i Cardassiani e il Dominio non poterono» rispose Sisko, scrutando con duro cipiglio i Pacificatori. «E anche per te, nipote».

   «Per me? Non mi serve il tuo aiuto» rispose Modro a muso duro. «Se vuoi farmi un favore, di’ ai Bajoriani di arrendersi, perché solo così saranno protetti. Se si ostinano a combattere dalla parte sbagliata, ci saranno altre morti inutili».

   «Loro non combattono dalla parte sbagliata, nipote» rivelò Sisko. «Tu sì. Ti sei schierato con una dittatura che ha pervertito tutti i valori federali. Deportate interi popoli, massacrate gli oppositori, cancellate la Storia e indottrinate i bambini affinché abbraccino la vostra ideologia. Siete diventati il male che dovevate combattere, e non ve ne accorgete. Se non vi fermate subito, non ci sarà più fine all’orrore».

   Il Capitano aveva parlato in tono ispirato, quasi apocalittico; ma si scontrò col muro di ostilità dei Pacificatori. Modro si accostò allo schermo, con aria sprezzante. «Ho pensato fin da subito che lei non fosse Benjamin Sisko, e ora ne ho la prova» disse, di nuovo formale. «Il vero Capitano Sisko non ci propinerebbe la propaganda dei ribelli. Lei è un ologramma creato per ingannarci, facendo leva sulla fama del mio antenato. Potrà truffare i Bajoriani più ingenui, che vedono in lei un salvatore; ma non me».

   Negli occhi di Sisko balenò l’orrore, ma anche una ferrea determinazione. «Ai miei tempi lottavamo per abbattere le barriere tra i popoli. Voi lottate per rialzarle. Avete ripristinato la segregazione razziale e osate chiamarlo progresso!» s’indignò.

   «Parla degli Umani? Sono vittime del loro egoismo e della loro intolleranza» ribatté Modro. «Quando impareranno la convivenza civile, li riaccoglieremo».

   «Sei consumato dall’ideologia. Fermati, prima che sia troppo tardi! O saranno coloro che ami a farne le spese» avvertì il Capitano.

   Il Comandante si rabbuiò. «Sta minacciando i miei cari? Insomma, chi c’è dietro di lei? Voglio parlare con una persona in carne e ossa, non con un synth».

   «Io sono in carne e ossa, anche se rifiuti di accettarlo».

   «E farà del male ai miei cari?» incalzò Modro.

   «No; lo farai tu stesso» avvertì Sisko.

   Per lunghi secondi ci fu silenzio. Modro fissava l’interlocutore, così simile al suo antenato, con disgusto. Qualunque cosa fosse, sentiva in cuor suo che non doveva fidarsi di lui. Era fin troppo evidente che cercava di confonderlo e di sviarlo. Ma otteneva solo l’effetto opposto: il Bajoriano non era mai stato tanto convinto d’essere nel giusto.

   «Molto bene, Capitano... Sisko» disse il Comandante, con una voce melliflua che tradiva la minaccia latente. «Dica ai suoi burattinai che l’operazione Tempesta di Pace ha lo scopo di liberare questo sistema dai terroristi. Siamo addolorati per le vittime collaterali, ma non ci fermeremo finché non avremo messo in sicurezza tutti i pianeti. Lo dobbiamo al popolo bajoriano. Fine trasmissione».

   Modro si accompagnò con un gesto, segnalando ai suoi di chiudere il canale. Il sole di Bajor riapparve sullo schermo, fioco per la distanza, mentre il pianeta era un puntino che si confondeva con le stelle. Il Comandante tornò a sedersi sulla sua poltroncina, come se nulla fosse accaduto.

   «È proprio sicuro che quell’uomo sia un impostore?» chiese l’Ammiraglio, che aveva seguito il confronto senza intervenire.

   «Al 99%».

   «E se ci trovassimo in quell’1% d’errore?» insisté l’Efrosiano.

   «In tal caso, il Capitano Sisko è diventato una gravissima minaccia» disse Modro, aggrottando la fronte. «Una minaccia che dovremo neutralizzare».

 

   La flotta federale si era raccolta attorno a Deep Space Nine, salvo per le poche navi che difendevano le colonie. Le riparazioni erano già in corso: Work Bee e droni saldatori percorrevano gli scafi butterati. Una navetta lasciò la Defiant e si diresse verso la stazione, dove entrò in uno degli hangar incassati nell’anello d’attracco.

   All’apertura del portello stagno, Benjamin Sisko si guardò attorno. I corridoi erano affollati di tecnici, che al suo arrivo interruppero i lavori, fissandolo con un misto di stupore e speranza.

   «Ah... non sembra passato un giorno» commentò il Capitano, osservando i luoghi familiari. Il suo sguardo si fermò su un umanoide diverso dagli altri. «Connestabile!» lo riconobbe.

   «Erano secoli che nessuno mi chiamava così» disse Odo, facendosi avanti. «Bentornato, Capitano. È stato via a lungo».

   «Troppo» ammise Sisko, porgendogli la mano.

   Il Mutaforma gliela strinse forte, come per sincerarsi che fosse vero e tangibile. «È al corrente della situazione?» chiese, un po’ esitante nell’approcciarsi all’amico redivivo.

   «So quanto serve» annuì l’Umano. «Compreso il fatto che il Dominio ha offerto protezione a New Bajor. Devo ringraziarla, Odo; questo sarà fondamentale. Ora dobbiamo far fruttare questi dieci giorni di tregua».

   «Prima dobbiamo regolarizzare la tua posizione, Benjamin» avvertì Ilia. «Vieni in sala tattica; il Ministro Parva vuole parlarti. C’è agitazione qui, e non solo per la battaglia. La stazione ha appena perso il suo comandante».

   «Shakaar» annuì Sisko. «Conoscevo un suo antenato. Non incolpatevi dell’incidente. Sono i poteri di Kosst Amojan che si rafforzano».

   «E lei sa come fermarlo?» chiese Juri, uscendo dalla folla. «Dottor Smirnov, consulente della Keter» si presentò. «Onorato di conoscerla, Capitano. Suppongo che la sua esperienza nel Tunnel le abbia rivelato molto sul nostro avversario».

   Sisko gli lanciò un’occhiata indecifrabile. «Parleremo del Maligno a tempo debito. Ora mi scusi, devo andare». Il Capitano si avviò con Ilia e Odo, lasciando Juri insoddisfatto.

   Solo allora Vasa uscì dalla camera stagna. «Hai visto? I Profeti si sono ricordati di noi. Ci hanno restituito l’Emissario!» si emozionò.

   «Sei stata tu? Hai usato il Cristallo mentre eri nel Tunnel?» chiese Juri, che non condivideva il suo entusiasmo.

   «Dovevo tentare» annuì Vasa. «Ora abbiamo una speranza».

   L’Umano cercò di conciliare il ritorno di Sisko con le drammatiche predizioni ricevute dai Profeti. Qualcosa non quadrava. «Lui o i Profeti ti hanno detto qualcosa sul futuro?» chiese.

   «Parlavano come se i Pacificatori fossero inarrestabili, ma... in quel caso non ci avrebbero restituito l’Emissario, ti pare?» fece l’archeologa. Non disse che aveva promesso di pagare un prezzo, per quel miracolo. Non voleva che Juri si preoccupasse per lei, e comunque l’Umano non poteva cambiare le cose.

   «Chissà...» fece lo storico, meditabondo. «Ma tu stai bene?».

   «Mai stata meglio» sorrise Vasa, celando le preoccupazioni. «A questo punto resterò, almeno finché l’Emissario non ci spiegherà cosa fare col Cristallo di Fuoco».

   «Sempre che lo sappia» pensò Juri, la cui inquietudine non si era affatto placata.

 

   Al suo ingresso in sala tattica, Sisko vi trovò il Primo Ministro con parte del suo entourage. «Benjamin Sisko!» lo salutò Parva, venendogli incontro. Gli strinse calorosamente la mano. «Il suo ritorno è provvidenziale. Solo lei può indurre il nostro popolo a ritrovare l’unità e ispirarlo a resistere, in questo momento buio».

   «Farò ciò che posso» promise Sisko.

   «Ti servirà una legittimazione» ribadì Ilia. «Potrei reintegrarti nella Flotta Stellare, anche se il regolamento mi vieterebbe di rimetterti subito in servizio».

   «Aspetti... non vorrà portarcelo via!» obiettò il Primo Ministro. «L’Emissario non può andare su una delle vostre navi. Deve rimanere con noi, per far sentire la presenza dei Profeti. E credo di sapere come». Il Bajoriano fece una breve pausa e poi si rivolse direttamente all’interessato. «La tragica morte del Colonnello Shakaar ha lasciato questa stazione senza una valida guida. Trovo che lei sarebbe un eccellente successore. In fondo l’ha già comandata per sette anni».

   «Ma Deep Space Nine ora è amministrata dalla Milizia Bajoriana» notò Sisko.

   «Coi poteri speciali di cui dispongo in tempo di guerra, posso nominarla Capitano seduta stante» propose il Primo Ministro. «Avrà il comando della stazione e sarà consulente strategico della Flotta. Che ne dice?».

   Sisko scambiò un’occhiata con Ilia. «Accetto l’incarico, signor Ministro» disse.

   «Splendido! Allora... Benjamin Sisko, le conferisco il grado di Capitano della Milizia Bajoriana e il comando di questa stazione» disse Parva, appuntandogli i gradi sul colletto. Li aveva già con sé, certo che l’Umano avrebbe accettato. «Il suo primo incarico consiste nell’ottimizzare le nostre difese. Come saprà, abbiamo solo dieci giorni prima che i Pacificatori tornino all’attacco».

   «Ho chiesto rinforzi al Fronte Orientale. Forse per allora arriverà qualcuno» suggerì Ilia.

   «Non ci conterei troppo» disse Sisko, con una strana sicurezza. «E dobbiamo stare attenti ai Cardassiani. È già capitato che cambiassero schieramento, in base all’opportunità del momento».

   «Tu... sai cosa accadrà?» chiese la Trill.

   «Ora che sono di nuovo nel tempo lineare, non ho le stesse prerogative che avevo nel Tunnel. Non prevedo il futuro come i Profeti» rivelò Sisko. «Ma rispetto ai vecchi tempi, sono più consapevole delle alternative e dei risultati. Cercherò d’indirizzare gli eventi verso l’esito migliore».

   «Cominci subito» raccomandò il Primo Ministro. «Ora devo tornare su Bajor. Se le serve qualcosa, mi contatti». Stava per lasciare la sala, quando si arrestò. «Ah, c’è un’altra cosa. Kai Nashir è salita a bordo con me. L’attende al tempio».

 

   «Fate passare, per favore!» disse Odo, invitando i Bajoriani che si erano assembrati a farsi indietro.

   Benjamin Sisko si diresse a passo svelto verso il tempio, ignorando le domande e le preghiere che salivano dalla piccola folla. Non aveva tempo per questo. Entrò nel luogo sacro, dove la Kai lo attendeva.

   «Benvenuto... o dovrei dire bentornato, Emissario» lo accolse l’anziana donna.

   «Mi considera ancora tale?» chiese l’Umano. Nella sua vecchia vita, i rapporti con le Kai erano stati burrascosi. Dopo che Kai Opaka lo aveva riconosciuto come Emissario, le era subentrata Kai Winn, che invece lo aveva ostacolato in ogni modo, essendo invidiosa del suo ruolo.

   «I test hanno accertato che lei è Benjamin Sisko. Assodato questo, come potrebbe non essere più l’Emissario? Se era vicino ai Profeti prima di raggiungerli nel Tempio Celeste, lo è a maggior ragione adesso, che ha vissuto con loro» ragionò Nashir. «Posso?» chiese, accostandogli la mano all’orecchio.

   «Certo» disse Sisko, girando un poco la testa.

   La Kai gli strinse saldamente il padiglione e chiuse gli occhi. Dopo qualche secondo lo lasciò andare. «Non avevo mai avvertito un pagh come il suo. Lei cammina nella luce dei Profeti».

   «È più corretto dire che cerco faticosamente di seguire un barlume» disse però Sisko. «Sono qui per Bajor, ma non posso salvarlo da tutte le avversità. Vi attende un periodo di prove».

   «I Pacificatori?».

   «Sono troppi, e troppo determinati».

   «E il Maligno?».

   «Se ne avvantaggerà». Sisko si accostò all’altare, quasi dando le spalle alla Kai. «Ha informato la dottoressa Agni e i suoi collaboratori di tutto ciò che sa sul Cristallo di Fuoco?».

   «No» ammise Nashir. «Ho temuto di metterli ancor più in pericolo. Ho sbagliato?».

   «No, ha fatto bene».

 

   I due discussero a lungo, mentre all’esterno del tempio la folla rumoreggiava, chiedendo all’Emissario di mostrarsi. A nulla valsero i richiami degli ufficiali, che ordinavano ai sottoposti di tornare al lavoro. Alla fine i Bajoriani furono accontentati: Sisko e Nashir uscirono fianco a fianco.

   «Salutate Benjamin Sisko, ora e sempre Emissario dei Profeti!» proclamò la Kai, alzando le braccia in gesto benedicente.

   La folla proruppe in acclamazioni. Ai Bajoriani non sembrava vero di riavere la più importante figura religiosa della loro storia. Come il Ministro Parva aveva intuito, Sisko era l’unico che poteva ridargli coraggio e unità.

   «Basta, vi prego» disse Sisko, tacitando gli applausi con un gesto. «Sono qui come Capitano, per fare la mia parte in questo conflitto. E per riuscirci, ho bisogno che ciascuno di voi faccia la sua parte. Il lavoro sarà più utile delle preghiere. Tornate alle vostre occupazioni e mettetecela tutta. Quando il nemico arriverà, dovremo essere pronti».

   I Bajoriani scattarono con uno zelo che avrebbe soddisfatto qualunque supervisore. Sisko si accomiatò dalla Kai, che tornò su Bajor, e si recò al centro di comando.

   Il salone era ancora annerito dal terribile incendio, che aveva distrutto le consolle, fondendo persino i rivestimenti metallici. Questo avrebbe dovuto essere impossibile; ma non era un fuoco normale quello che si era diffuso. I tecnici che sostituivano le apparecchiature se n’erano accorti fin dal primo momento. Sisko rivolse loro qualche parola d’incoraggiamento e poi si recò nel suo ufficio.

   Sebbene fossero trascorsi oltre due secoli, la stanza sembrava rimasta congelata nel tempo. Sedia e scrivania erano quelle originali; su quest’ultima c’era persino l’antica palla da baseball con cui Sisko amava giocherellare. Solo i computer erano stati sostituiti da modelli moderni.

   «Sì, è tutto come l’hai lasciato» confermò Ilia, che lo attendeva lì. «Dopo di te ci sono stati altri comandanti, ma nessuno ha voluto stravolgere l’ambiente. Poi la stazione è diventata un museo. E quando l’hanno rimessa in servizio, sei anni fa, Shakaar non ha voluto modificare l’ufficio».

   «Troppa premura» disse Sisko, sedendo in poltrona. Prese la palla da baseball e se la palleggiò un paio di volte tra le mani, con un sorriso fanciullesco, prima di rimetterla a posto.

   «Benjamin, devi parlare ai Bajoriani» disse Ilia. «Non ai pochi della stazione, ma a quelli del pianeta. Dopo l’ultimatum di... tuo nipote, sono esplose le violenze. I simpatizzanti dei Pacificatori chiedono la resa e nel frattempo, con la scusa di protestare, saccheggiano le città. E c’è di peggio». La Trill posò le mani sulla scrivania e si chinò in avanti, fissando l’amico. «Le richieste di Modro hanno scatenato la caccia agli Umani».

   «Lo so» disse Sisko, cupo. «Farò il mio discorso, ma dobbiamo predisporre fin da subito l’evacuazione degli Umani. Comunque vada a finire, non potranno più vivere qui».

 

   Chiusa nel suo ufficio, dove passava gran parte delle giornate, la Presidente Rangda scorreva il bollettino di guerra. Era sempre più insoddisfatta. L’operazione Tempesta di Pace, che avrebbe dovuto spazzare via i ribelli, si era fermata dopo la prima battaglia. Una battaglia in cui la New Frontier era stata distrutta dai suoi stessi occupanti, pur di non cederla. E le perdite erano molto superiori al previsto. Quaranta astronavi dei Pacificatori erano state distrutte e altre dieci erano così danneggiate che non si poteva rimetterle in sesto in tempo utile. Fin qui erano perdite fastidiose, ma tollerabili. Il problema erano i Breen.

   I principali alleati dell’Unione avevano perso centoventi astronavi, vale a dire il triplo del previsto. Le mine occultate avevano fatto la loro parte, ma c’era sotto qualcos’altro. Le navi della Flotta, come anche la New Frontier, avevano concentrato il fuoco su di loro. Lo scopo era convincere i Breen che stavano pagando un prezzo troppo oneroso, inducendoli a ritirarsi dal conflitto. Il guaio era che poteva funzionare.

   Puntuale come un orologio, arrivò la chiamata subspaziale di Thot Rong. Sebbene avesse il volto celato dal casco e la voce tradotta elettronicamente, la Presidente avvertì la sua fredda collera. «I federali si sono accaniti contro le mie navi; il costo di questa alleanza sta diventando eccessivo» disse l’alieno. «Porteremo a termine la conquista del sistema bajoriano, come da accordi, ma in seguito dovremo rinegoziare il nostro impegno militare».

   «Se vi offrissi di più?» chiese Rangda.

   «Ci ha già promesso molti pianeti, ma deve ancora mantenere» le ricordò Thot Rong.

   «Ci vuole tempo per i trasferimenti» si giustificò la Zakdorn. «Ma potrei darvi qualcosa di più immediato. Che ne dice dei Cristalli di Bajor? Sono la chiave per straordinarie scoperte scientifiche. Potrei cedervene uno o due...» disse, pensando ai più innocui.

   «Tutti» corresse il Breen.

   «Suvvia, posso arrivare a quattro...» mercanteggiò Rangda.

   «Tutti. Questa non è una richiesta, ma una condizione. Altrimenti porrò fine all’alleanza» minacciò Thot Rong.

   «E va bene, li avrà» cedette la Presidente. «Ma lei faccia il suo lavoro. Allo scadere della tregua, mi aspetto che non cessiate l’attacco fino alla conquista di Bajor. Anzi, dell’intero sistema!» esclamò, e chiuse la comunicazione.

   Per qualche minuto la Zakdorn restò immobile sulla poltrona, masticando veleno. Non si mosse neppure per sfamare i Mu-mu, le bestiole simili a porcellini d’India incredibilmente obesi che allevava in una gabbia dietro alla scrivania. Finalmente prese una decisione. Attivò l’oloschermo e chiamò l’Ammiraglio Hadron.

   «Salve, signora Presidente» esordì il Voth.

   «Ammiraglio» fece Rangda, mostrando la propria insoddisfazione. «Lo sa che la liberazione di Bajor non sta andando come previsto? I Breen hanno perso molte navi e ora minacciano il disimpegno».

   «Sarebbe una disdetta» convenne Hadron. «Cosa conta di fare?».

   «Me li terrò stretti, naturalmente» brontolò la Zakdorn. «Ma ci sarebbe un modo assai più semplice di risolvere il problema. Se lei mandasse una decina di Navi Bastione, o anche solo la sua Nave Fortezza, l’operazione finirebbe in un giorno».

   «Temo che questo non sia possibile» disse il sauro, unendo le punte degli artigli.

   «Perché no? La sua flotta è qui ferma da mesi, senza fare nulla» obiettò Rangda.

   «Nulla? Stiamo gestendo il trasferimento dignitoso di dieci miliardi di persone, oltre ad aver avviato la colonizzazione di Vothan. A me sembra che siamo in piena attività» ridacchiò Hadron.

   «Sa perfettamente cosa intendo!» si scaldò la Presidente. «Questa guerra è scoppiata a causa vostra...».

   «A causa degli Umani. I vostri notiziari dicono così» la corresse l’Ammiraglio.

   «Lo dicono per farvi un favore! Ma io e lei sappiamo come stanno le cose!» insisté la Presidente. «La vostra pretesa sulla Terra» disse riesumando il vecchio nome «avrebbe scatenato una guerra rovinosa; così vi sono venuta incontro. A causa della mia generosità, l’Unione è sprofondata nella Guerra Civile. I vostri pianeti prosperano, mentre i nostri bruciano. Il minimo che possiate fare è aiutarci a vincere il conflitto. Vi costerà comunque meno di una guerra contro tutta l’Unione».

   «Non è semplice come crede» spiegò Hadron. «Non posso partire in quarta con la mia flotta e conquistare Bajor per voi».

   «Perché no? È partito in quarta per conquistare la Terra; e quello era più difficile».

   «La missione mi era stata affidata dal Consiglio degli Anziani» ricordò l’Ammiraglio. «Dovevo reclamare il Mondo Perduto, possibilmente in modo pacifico, altrimenti con un rapido colpo di mano, limitando i danni collaterali. È quanto ho fatto. Lo sforzo militare finisce qui. Ora il mio incarico è, appunto, trasferire gli abitanti e sovrintendere alla colonizzazione. Ogni ulteriore coinvolgimento nel vostro conflitto è un favore che le faccio. Vi sto rifornendo di armi e sto sostenendo la vostra economia. Non è abbastanza? Beh, sappia che non posso fare di più».

   «Non può o non vuole?» insinuò Rangda.

   Le scaglie del Voth si fecero arancioni per l’esasperazione, prima che egli riuscisse a dominarsi. «Vede, da quando il dottor Lambeos è tornato alla capitale a fare rapporto, il Consiglio degli Anziani è spaccato in due. C’è chi vorrebbe investire risorse per sostenervi, ma c’è anche chi ritiene che siamo troppo coinvolti nelle vostre beghe» spiegò. «Sa quante delle risorse che avevo chiesto mi sono arrivate? Un quarto. Il senatore Towt ha presentato una mozione per farmi destituire, con l’accusa di abuso d’ufficio. In questo momento ci sono degli ispettori governativi, sulla mia nave, che stanno vagliando tutto ciò che ho fatto nell’ultimo anno. Se trovano qualche sgarro, sarò riportato indietro in manette. E stia pur certa che chiunque mandino al mio posto, non sarà così disponibile nei suoi confronti. Ecco perché, in questo momento, non posso lanciarmi in nuove imprese. Aspettiamo che si calmino le acque, e allora vedrò cosa posso fare».

   «Per allora la guerra potrebbe essere finita» disse Rangda in tono acido.

   «Su, non faccia la vittima» la rimproverò Hadron. «Lo so che non vedeva l’ora di sbarazzarsi della Flotta Stellare e riformare l’Unione in senso autoritario. Il nostro interesse per il Mondo Perduto le ha dato l’occasione per fare ciò che voleva. Se adesso non è contenta, beh... dovrebbe stare più attenta ai suoi desideri». Con queste parole l’Ammiraglio chiuse la comunicazione.

   La Presidente trascorse qualche altro minuto a rimuginare. L’indolenza e l’opportunismo dei Voth erano ancora più esasperanti delle richieste dei Breen. L’operazione Tempesta di Pace si stava rivelando un pantano. Ma la Zakdorn non intendeva mollare. Fece una terza chiamata, stavolta all’Ammiraglio Vidkung.

   «Presidente, che succede?» chiese l’Efrosiano, strappato al sonno nel suo alloggio.

   «Ho letto il rapporto tattico e sono molto delusa» disse Rangda. «Lei ha condotto l’attacco in modo dilettantesco, permettendo ai ribelli d’infliggervi gravi danni. E cos’è questa storia che Benjamin Sisko sarebbe tornato dal Tunnel Spaziale?!».

   «Il mio Primo Ufficiale è convinto che sia un impostore» rispose Vidkung. «Del resto, come potrebbe essere il vero Sisko? Quell’uomo è morto da più di due secoli».

   «Uhm... non bisogna mai sottovalutare gli Umani. Quando sembra che siano estirpati, rispuntano come erbacce» mugugnò la Zakdorn. «Si assicuri che Sisko – vero o finto che sia – non sopravviva alla battaglia. Poi si accerti di recuperare tutti i Cristalli. E per finire, distrugga la Keter; sono stanca di ripeterlo».

   «Vuole che attacchi subito? Senza aspettare lo scadere della tregua?» chiese l’Efrosiano.

   Rangda avrebbe tanto voluto rispondere di sì. Attaccare i ribelli mentre si leccavano le ferite sembrava un buon modo per sopraffarli. Ma pensò ai negoziati di Cestus III. Se i Cardassiani cambiavano schieramento al momento giusto, la conquista di Bajor sarebbe diventata molto più facile.

   «No» decise la Zakdorn. «Rispetti la tregua, così avremo tempo per portare i Cardassiani dalla nostra. Ma comunque vadano le cose... Bajor deve cadere. Su questo non transigo».

   «Come desidera, Eccellenza» deglutì l’Efrosiano.

   Rangda chiuse la comunicazione, augurandosi che i suoi ordini fossero eseguiti. Era stanca d’essere circondata da incapaci, ma che ci poteva fare? Le altre specie non avevano il fine istinto tattico degli Zakdorn.

   In quella la Presidente sentì i suoi Mu-mu che mugolavano, chiedendo d’essere nutriti per la settima volta in quel giorno. «Eccomi, tesorucci!» disse, scattando in piedi. «Non mi sono dimenticata di voi!». Andò al replicatore e ordinò una ciotola colma di quel pastone marrone che gli piaceva tanto. Poi tornò alla gabbia e sfamò le bestiole, ingozzandole con grandi cucchiaiate di sbobba. La deliziava vedere i suoi animaletti – albini e ciechi per i ripetuti incroci – che diventavano sempre più grassi e felici. Un giorno, si disse, tutti gli abitanti dell’Unione l’avrebbero amata così.

 

   I dieci giorni della tregua concordata tra la Flotta e i Pacificatori furono i più frenetici nella storia recente di Bajor. Il ritorno dell’Emissario aveva galvanizzato i Bajoriani. La consapevolezza che il loro più grande eroe era di nuovo tra loro li unì come nient’altro avrebbe potuto fare. Bastò un discorso di Sisko, diffuso a reti unificate in tutto il sistema, per far cessare le persecuzioni contro gli Umani. Dopo giorni di saccheggi e notti d’incendi, le città ebbero pace.

   Al tempo stesso i Bajoriani si dedicarono anima e corpo a riparare i danni della battaglia e rafforzare le difese. Sulle astronavi danneggiate, gli ingegneri lavoravano giorno e notte, dandosi il cambio affinché i lavori non s’interrompessero mai. Gli armamenti di Deep Space Nine furono testati e la stazione fu circondata da un nugolo di piattaforme difensive. La Milizia Bajoriana preparò rifugi segreti e organizzò squadre di operativi, i cui dati furono cancellati dagli archivi. Bisognava infatti prepararsi alla peggiore delle ipotesi: la caduta del pianeta e l’inizio di una nuova guerriglia di liberazione. Il governo allestì ospedali da campo e rifugi per la popolazione. Quasi tutti questi preparativi in realtà erano già in corso, ma con l’arrivo dell’Emissario i lavori conobbero un’accelerazione straordinaria.

   Da Deep Space Nine, dov’era acquartierato, Sisko dirigeva le operazioni con energia instancabile. Era spesso in giro per la stazione, controllando il lavoro di ufficiali e ciurma. Aveva attenzione per tutti; per ognuno trovava qualche parola d’incoraggiamento. Nessuna richiesta, grande o piccola, restava inascoltata. Con una sola, notevole eccezione.

   Juri e Vasa avevano cercato più volte di parlargli del Cristallo di Fuoco, ma il Capitano aveva sempre qualcos’altro da fare. Considerata l’importanza del suo lavoro, i due studiosi dapprima lasciarono correre, promettendosi di riprovare in un altro momento. Ma giorno dopo giorno, le loro richieste di colloquio furono respinte. I sorveglianti non li lasciavano nemmeno entrare nel centro di comando. E quando riuscivano a beccare Sisko in uno dei suoi giri per la stazione, il Capitano li respingeva sempre con garbo, sostenendo di avere troppo da fare. Accennava vagamente al fatto che li avrebbe ascoltati appena possibile, ma non fissava mai un appuntamento. Poco alla volta, l’Umano e la Bajoriana si resero conto che Sisko li evitava volutamente.

   Ad accrescere la stranezza, Kai Nashir ordinò che tutti e dieci i Cristalli dei Profeti fossero radunati nel suo monastero. Si trattava di una mossa pericolosa, perché se Bajor fosse caduto i Pacificatori li avrebbero presi in un colpo solo. Era paradossale che, mentre tanti tesori artistici venivano divisi e nascosti, gli artefatti più preziosi fossero raccolti in un luogo noto. Il provvedimento non fu motivato, sebbene molti Vedek avessero espresso la loro contrarietà.

   «Qui gatta ci cova» disse Juri, la vigilia della battaglia. «L’atteggiamento di Sisko e Nashir sembra concordato. È come se avessero una strategia, che però non vogliono rivelare a nessuno. A meno che in realtà neanche loro sappiano cosa fare, e non vogliano ammetterlo, per non scatenare il panico. Ma allora perché radunare i Cristalli? È come se volessero usarli per qualcosa».

   Lo storico passeggiava avanti e indietro nel laboratorio di Vasa. Si rivolse alla collega, che lo ascoltava seduta su uno sgabello. «Ti risulta che i Cristalli possano essere usati in combinazione, o anche tutti assieme?» chiese.

   «Veramente no» rispose lei. «Del resto non ne hanno mai avuta occasione. Li abbiamo sempre tenuti separati, per evitare che qualcuno li rubasse in un colpo solo».

   «E adesso invece sono tutti nella capitale: il primo posto in cui i Pacificatori li cercheranno» si accigliò Juri. «Ascolta, devo dirti una cosa».

   «Sigh... cosa mi hai nascosto?» sospirò la Bajoriana.

   «Ecco, io... aspetta, come sai che ti ho nascosto qualcosa?».

   «Ti conosco, caro mio. Su, spara».

   «Quando ho interrogato il Cristallo del Destino, i Profeti sono stati... poco incoraggianti» rivelò Juri. «Hanno detto che, anche col loro aiuto, non possiamo salvare Bajor da tutte le minacce. Lo salveremo dai Pacificatori, oppure da Kosst Amojan... ma non da entrambi».

   «Hanno detto proprio così?! Sei certo di non aver frainteso?» si allarmò Vasa, irrigidendosi sullo sgabello.

   «Parlavo con loro come con te adesso. Sono stati fin troppo chiari» disse l’Umano. «Converrai con me su qual è lo scenario peggiore. I Pacificatori imporranno il loro regime, ma il Maligno distruggerà ogni forma di vita. Se fossi in Sisko, mi concentrerei di più su quel fronte. Invece si sta occupando di tutto, tranne che di quello».

   «Ma dicevi che lui e Nashir sembrano avere un piano...».

   «Sì, un piano che non vogliono condividere con noi. Mi chiedo perché» sospirò Juri. «Forse tenerci all’oscuro è l’unico modo per farci agire in un certo modo... perché se lo sapessimo, ci rifiuteremmo».

   «Non è un comportamento da Emissario» obiettò Vasa.

   «Oh, andiamo!» esclamò Juri. «Hai letto la biografia di Sisko? Anche lui è dovuto scendere a compromessi, certe volte. Magari il suo piano non gli fa onore, per cui cerca di nasconderlo, tanto più in un momento in cui tutti pendono dalle sue labbra. Vorrei solo che sapessimo di più sul Cristallo di Fuoco, così capiremmo cos’ha in mente!» si lamentò.

   Vasa restò assorta per qualche attimo, poi si riscosse. «Forse c’è il modo» disse.

   «Di che si tratta?» la incalzò Juri.

   «Elvo» disse l’archeologa con disgusto. «Il capo degli Adoratori potrebbe sapere cose che noi ignoriamo. E siccome si trova qui sulla stazione, è facile interrogarlo. Finora mi ero astenuta, perché temevo che quel criminale mi raccontasse delle menzogne. Lo temo ancora. Ma ormai, che abbiamo da perdere?».

   «Niente» convenne Juri. «E va bene: se Sisko non vuole riceverci, andremo da Elvo. Almeno non potrà dirci che è troppo occupato».

 

   Ottenuto il permesso dal vice-comandante della stazione, i due studiosi si recarono nel settore detentivo. C’erano parecchie prigioni, dato che la stazione era stata costruita dai Cardassiani; ma solo una era occupata.

   Elvo Jizu, ex generale della Milizia Bajoriana e Gran Maestro degli Adoratori, sedeva sulla sua brandina, leggendo tranquillamente un antico libro rilegato. Si era lasciato crescere una corta barba ed era un po’ ingrassato dall’ultima volta che l’avevano visto; colpa senz’altro della scarsità di moto. All’arrivo dei visitatori sorrise. «Salve. Mi chiedevo quando sareste stati abbastanza disperati da rivolgervi a me» disse. Solo allora alzò lo sguardo dalle pagine e vide chi erano i visitatori. «Dottoressa Agni... è incantevole come l’ultima volta che l’ho vista. Dottor Smirnov... è ancora a caccia di demoni?».

   «Perché no? È più interessante che scontare l’ergastolo» rispose lo storico, accostandosi al campo di forza che faceva da parete.

   «Se lo dice lei... ho sentito che ha maturato una certa esperienza di galera» lo canzonò Elvo. Mise da parte il libro e si alzò.

   «Mai quanto la sua» ribatté Juri. «Allora, cosa sa degli ultimi eventi?».

   «Tutto quel che dicono i notiziari» ghignò il Bajoriano, che aveva il permesso di tenersi informato. «Più altre cose che solo i veri credenti conoscono».

   «Quindi sa del ritorno dell’Emissario» puntualizzò l’Umano.

   Il Gran Maestro fece una smorfia rabbiosa. «L’Emissario è tornato tra i vivi, solo per morire» disse. «Non crederete che il Signore dell’Eterno Fuoco gli permetterà di ostacolare i suoi piani? La resa dei conti sta per arrivare e stavolta nessuno potrà ostacolarlo. Chi s’inginocchia sarà risparmiato, ma chi si ostina nella miscredenza...».

   «Sarà fatto alla griglia, sì, lo so» lo interruppe Juri. «Sa, ho chiacchierato coi Profeti, qualche giorno fa. Sembrano convinti che i Pacificatori s’impadroniranno di Bajor» rivelò, tacendo l’altra e peggiore eventualità.

   «Davvero?» fece Elvo, interessato suo malgrado. «La loro vittoria sarà di breve durata. Il Signore del Fuoco giudicherà anche loro».

   «Se non trovano il modo per distruggere il suo Cristallo. Se non lo nascondono nel passato, nel futuro o dall’altra parte dell’Universo» corresse Juri. «Sono Pacificatori: non hanno i nostri scrupoli nei confronti di chi ne pagherà le conseguenze».

   «Se giocano col fuoco, ne saranno scottati» rispose Elvo. «Ma voi cosa vi aspettate di sapere da me?».

   Juri ebbe un attimo d’esitazione e Vasa ne approfittò per prendere la parola. «Lei era il Gran Maestro degli Adoratori. Potrebbe sapere qualcosa, riguardo al Maligno, che non è di pubblico dominio» disse. «Se è così, questa è la sua occasione per comunicarcelo. Non ne avrà altre, perché domani i Pacificatori attaccheranno questa stazione. Ci sono buone probabilità che s’impadroniscano del Cristallo. E se questo luogo sarà distrutto, com’è accaduto alla New Frontier, le sue conoscenze moriranno con lei».

   «Avevo ragione su di voi... siete davvero disperati!» sghignazzò il prigioniero. «Ma come, il vostro Emissario tornato dalla morte non sa consigliarvi? E Kai Nashir nemmeno? Eppure ci sono cose che dovrebbero sapere, se non altro perché sono scritte nelle antiche pergamene. Ma forse non hanno voluto dirvele. Hanno preferito lasciarvi brancolare nel buio, per timore di ciò che fareste, sapendo ciò che sanno loro. E dove vi ha portati, tutto questo? Di nuovo da me!». Così dicendo il Bajoriano tornò a sedersi in brandina. Si appoggiò alla parete con le braccia incrociate dietro la testa e un ghigno soddisfatto.

   «Se vuol dirci qualcosa, lo faccia. Altrimenti ce ne andremo e non ci rivedrà più» disse Juri.

   «Ci rivedremo quando io lo vorrò» corresse il Gran Maestro, improvvisamente minaccioso. «Domani, allo scadere della tregua coi Pacificatori, tornate qui. E saprete la verità che il vostro salvatore vi ha nascosto».

   «Perché non vuol dircela adesso?» s’insospettì Juri.

   «C’è un tempo per ogni cosa» rispose Elvo, tra il serio e l’ironico. «Divertitevi, stasera. Mangiate a sazietà, ascoltate buona musica... godete alla faccia di Modro, se vi aggrada. Perché domani vi attende una scelta definitiva». Ciò detto, riprese il libro e s’immerse nella lettura.

   Juri e Vasa non provarono a fargli altre domande; sarebbe stato inutile. Lasciarono la sala di guardia e solo quando furono nel corridoio si scambiarono le impressioni.

   «Quel bastardo sa qualcosa d’importante» disse Juri, scuro in volto. «Vuole dircela all’ultimo minuto perché così non avremo il tempo di meditarci sopra».

   «Sempre che non menta» obiettò Vasa. «Forse ha voluto prendere tempo, per inventarsi qualcosa che ci danneggi».

   «Ho il sospetto che non gli serva mentire, per danneggiarci» mormorò Juri. «La verità potrebbe funzionare altrettanto bene».

 

   Un’altra giornata di lavoro massacrante, ma a suo modo esaltante, si avviava alla conclusione. Quella sera però non era come le altre. Il giorno dopo, a mezzogiorno, scadeva la tregua stipulata con i Pacificatori. La battaglia sarebbe riesplosa e stavolta non si sarebbe fermata fino alla sconfitta di una delle due parti. Tutti lo sapevano, perciò furono ben pochi coloro che, nell’uno e nell’altro schieramento, riuscirono a dormire sonni tranquilli.

   Lasciato il centro di comando, Sisko non si recò immediatamente al suo alloggio. Preferì passeggiare davanti ai vecchi negozi e locali della Passeggiata, chiusi da tempo immemorabile: la sartoria di Garak, il ristorante klingon... e anche...

   «Ma guarda» pensò l’Umano. Le luci nel bar di Quark erano accese. Attirato come una falena, Sisko vi entrò. Per un attimo ebbe l’impressione d’essere tornato indietro nel tempo. Il murale giallo-rosso, i tavolini, la ruota del dabo, il bancone... ogni cosa era come la ricordava. Mancava solo la consueta folla di clienti, camerieri, giocatori incalliti, ragazze-dabo, perdigiorno e intrallazzatori. Il Capitano poteva benissimo illudersi che fosse una serata come le altre, negli anni Settanta del XXIV secolo, e che Quark avesse appena chiuso il locale. C’era persino...

   «No, non può essere».

   Morn era lì al bancone. Il grosso Luriano, dal faccione grigio e lungo, era seduto sullo sgabello, con l’immancabile bicchierino in mano. Vedendo entrare Sisko lo guardò per qualche attimo, sbattendo gli occhietti, ma non disse nulla.

   «Bello, vero? Il curatore del museo ha pensato che dovesse esserci» disse Ilia, entrando in quel momento.

   «Buonasera, vecchio mio» l’accolse Sisko. «Sapevo che Morn era un cliente fisso, ma non mi aspettavo di trovarlo ancora qui. Qualcuno gli ha detto che il locale è chiuso?».

   «Spiritoso» disse Ilia. Andò dietro al bancone, dove prese una bottiglia e un paio di bicchieri. «Dopo Quark, il locale ha avuto parecchi gestori. Ma quando la stazione divenne un museo, il curatore volle riportarla ai suoi anni d’oro... i tuoi anni» precisò, versando da bere per entrambi. «Così il bar ha ripreso questo aspetto. I replicatori funzionano e le bevande nel sottobancone sono vere. L’ologramma di Morn fa parte dell’arredamento. Il curatore pensava che il locale fosse incompleto, senza di lui».

   «Sono certo che Morn ne sarebbe felicissimo» scherzò Sisko, ma poi si fece serio. Prese il bicchiere che la Trill gli porgeva, senza vuotarlo subito. «Lo sai, vero, che tutti questi preparativi servono solo a ritardare l’inevitabile? Possiamo rallentare i Pacificatori, infliggergli dei danni... con un po’ di fortuna comprometteremo la loro alleanza coi Breen. Ma non possiamo fermarli. A un certo punto dovremo evacuare la stazione, prima che si ripeta la tragedia della New Frontier».

   «Noi siamo pronti» confermò Ilia. «Ma mi piacerebbe conoscere per intero il tuo piano».

   «Vedi, non c’è un solo piano... molto dipende da cosa faranno gli altri giocatori della partita. Inclusi i Profeti e i Pah-wraith» rivelò Sisko, giocherellando col bicchiere.

   «Ma guarda» disse Odo, affacciandosi nel locale. «C’è una rimpatriata, e non me l’avete detto?» ironizzò.

   «Connestabile... mi scusi, ambasciatore» si corresse Sisko. «Venga avanti!».

   «Capitano...» fece Odo. Mentre si accostava al bancone si guardò intorno, ammirando il locale ricostruito. «Straordinario» disse. «L’unica cosa che manca è Quark che ne combina una delle sue. Ci sono altri ologrammi da attivare? Perché in tal caso potremmo mettere in giro qualche Ferengi» suggerì.

   «A che servono quelli finti, quando ce n’è una vera?» commentò una donna Ferengi, entrando in quel momento. «Tenente Smig, della Keter» si presentò. «Faccio il turno di notte. Prima di prendere servizio volevo dare un’occhiata a questo luogo. Sapete, Quark è un personaggio storico piuttosto famoso, tra la mia gente. I pezzetti essiccati del suo corpo si vendono ancora a peso di latinum».

   Gli altri tre storsero il naso, nel sentirsi ricordare quella macabra usanza Ferengi, ma non fecero commenti.

   «Vi andrebbe di sedervi?» chiese Smig. «Se i replicatori funzionano e questa roba è buona» accennò alle bottiglie «penso di poter mettere assieme una cena dignitosa. L’ultima nel bar di Quark! Credete che alla fine potrei tenermi qualche bottiglia, come – ehm – ricordo?».

   «Chiuderò un occhio» disse Sisko, comprensivo.

   «Anche due» fece Ilia, meno benevola. «Prego, Tenente».

   I tre si accomodarono a un tavolo vicino. Smig venne da loro a prendere le ordinazioni e in men che non si dica preparò una cena coi fiocchi. Intanto l’ologramma di Morn restava al bancone, sorseggiando ogni tanto il bicchiere, senza vuotarlo mai.

   Fu una strana serata, dal tono agrodolce. Sisko, Dax (o ciò che ne restava) e Odo erano gli ultimi superstiti di un equipaggio leggendario. Si erano ritrovati in quel luogo quando ormai lo credevano impossibile e sapevano che quasi certamente non sarebbe più capitato. Potevano chiacchierare del più e del meno, illudendosi che quei due secoli non fossero passati, dimenticando persino la battaglia incombente; ma la mancanza degli amici di un tempo pesava.

   Com’era prevedibile, Sisko parlò poco di sé. Qualunque cosa avesse passato nel Tunnel Spaziale, non era descrivibile, oppure c’erano motivi per non descriverla. Odo parlò del Dominio, spiegando che si era un po’ addolcito, da quando aveva condiviso le sue esperienze con gli altri Fondatori. Ma fu soprattutto Ilia a dominare la serata, raccontando le sue vite di Trill Unito, in particolare l’ultima. Narrò gli anni avventurosi dell’Enterprise-J e quelli trascorsi al Comando di Flotta. Infine rivelò come aveva perso il Simbionte Dax, così che i medici avevano dovuto impiantarle un sostituto. Parlare di quei terribili momenti fu difficile, ma le fece bene; fu come togliersi un peso. Dopo essersi abbandonata ai ricordi, la Trill si ricompose quando vide avvicinarsi Smig.

   «Devo tornare alla Keter, tra poco comincia il mio turno» spiegò la Ferengi. «Salute a lei, Ammiraglio. Ambasciatore... Capitano...».

   «Buona fortuna, Tenente» la salutò Ilia. «Mi dica solo una cosa: si trova bene coi suoi colleghi?».

   «Il turno di notte? Beh, direi di sì. Hanno le loro manie, ma sono bravi ragazzi» rispose Smig.

   «Si goda ogni momento» raccomandò Ilia.

   La Ferengi annuì e lasciò il bar, portandosi sottobraccio alcune bottiglie particolarmente pregiate.

   «Beh, credo che anche per noi sia ora di andare» disse Sisko. Così dicendo levò il bicchiere, imitato da Ilia e Odo. «Al miglior equipaggio che un Capitano possa desiderare» disse, riecheggiando l’ultimo brindisi che aveva fatto con loro. «Non importa cosa ci riserverà il futuro; non importa dove andremo. Una parte di noi... una parte molto importante... resterà qui, su Deep Space Nine».

   I tre amici bevvero fino a vuotare i calici. Poi riordinarono in fretta, in silenzio. Piatti e posate tornarono nel replicatore, dove furono riconvertiti in energia. Le bottiglie furono riposte nel sottobancone. I tre andarono alla porta e, dopo essersi scambiati gli ultimi saluti, presero strade diverse. Ilia tornò alla Defiant; Sisko e Odo ai rispettivi alloggi sulla stazione. Solo l’ologramma di Morn restò nel bar deserto, a sorseggiare il drink che non avrebbe mai finito.

 

   «Questo è tutto il mio lavoro sui Cristalli» disse Vasa, porgendo a Juri un’unità di memoria. «Vorrei che lo avessi, quando... tornerai sulla Keter». I due erano nel laboratorio dell’archeologa, ormai vuoto: i colleghi di Vasa erano tornati su Bajor.

   «Siamo di nuovo agli addii, eh?» fece Juri. Prese malvolentieri l’unità e la ripose in tasca. «Pensavo che avresti aspettato domani».

   «Domani potrebbe succedere di tutto. Non so se avremo il tempo di salutarci come si deve» spiegò la Bajoriana.

   «Sta diventando sempre più difficile» confessò l’Umano. «Dirti addio, intendo. Dimmi almeno se conti ancora di andare a New Bajor».

   «Credo di sì. Nel caso che Bajor cada, Sisko ha predisposto un convoglio per trasferire lì gli Umani e altra gente a rischio» rispose Vasa.

   «Sempre che raggiungiate il Tunnel» disse Juri, sapendo che quella zona era presidiata dal nemico. «E se invece venissi con me?».

   «Sulla Keter?» si stupì Vasa. «Ma io non appartengo alla Flotta!».

   «Nemmeno io».

   «Tu sei lì per un accordo speciale. Io non credo che potrei...».

   «Metterò una buona parola per te col Capitano Hod».

   «Juri, sei molto dolce» sorrise Vasa. «Ma non credo di poterlo fare».

   L’Umano non insistette. La Keter era una nave da guerra, che si cacciava nelle situazioni più rischiose. A ben vedere, Vasa sarebbe stata più al sicuro su New Bajor. «Già, hai ragione» ammise, con aria infelice. «Allora... ci vediamo domani, per discutere con Elvo». Fece per andarsene.

   «Aspetta» lo trattenne Vasa. «Mi sono piaciuti questi giorni che abbiamo trascorso assieme. Se questa è l’ultima serata, credo che... debba essere indimenticabile».

   «Intendi...».

   «Sì».

   Juri esitò. Si erano già confessati i loro sentimenti, ma c’era un motivo se fino ad allora la loro relazione era rimasta platonica. «Sei ancora sposata con Modro» le ricordò.

   «Formalmente sì» sbuffò Vasa. «Ma non tornerò mai più con lui».

   «Credevo che i vostri voti fossero vincolanti, finché non farete il Rito della Separazione» precisò Juri, pur sapendo di darsi la zappa sui piedi.

   «Io credo che... che i rituali siano al servizio delle persone, non viceversa» balbettò Vasa, arrossendo leggermente. «Anche se non ci siamo separati con tutti i crismi, ormai mi considero libera».

   Juri si accostò, carezzandole la guancia, e si perse nei suoi occhi verde smeraldo. Si era chiesto spesso come sarebbe stata la sua vita, se le cose tra loro fossero andate diversamente. Almeno adesso ne avrebbe avuto un assaggio... anche se questo avrebbe reso ancor più dura la separazione. «È bello sapere che la pensiamo allo stesso modo» disse.

   Si baciarono a lungo, carezzandosi con delicatezza, come se temessero di farsi male, dopo tutti i dolori che avevano patito. Confortati da quei primi gesti, andarono nell’alloggio di Vasa, il più vicino dei due. La Bajoriana si disfece la crocchia; i capelli sciolti le circondarono la testa come un’aura fiammeggiante, quando si adagiò sul letto. Ma erano fiamme, queste, di cui Juri non si sarebbe mai stancato.

 

   In quello stesso momento, Modro lasciò la Takiah a bordo di una navetta. Il suo viaggio era stato autorizzato dall’Ammiraglio Vidkung, che sperava di trarne vantaggio; ma nasceva da ragioni squisitamente personali.

   Il Comandante si diresse verso il Tunnel Spaziale, avendo l’accortezza di tenere gli scudi alzati: la zona era ancora piena di detriti della New Frontier. Ogni volta che pensava alla stazione distrutta, aveva male al cuore. Si chiedeva se avrebbero potuto fare diversamente. E ogni volta si rispondeva che no, non c’era altro modo. I ribelli avevano rifiutato l’offerta di pace, quindi non restava che sconfiggerli. Era la guerra, e non l’aveva voluta lui; da buon ufficiale poteva solo cercare di concluderla il prima possibile.

   Il Tunnel si spalancò in tutta la sua gloria di luce turbinante. Modro diresse la navetta all’interno, ma una volta lì compì un arresto totale e disattivò i motori. La navetta restò a metà del condotto, come aveva fatto quella di Vasa, dieci giorni prima.

   Il Bajoriano lasciò i comandi e andò nel comparto posteriore, dove aveva predisposto un piccolo altare con il simbolo dei Profeti. Accese due candele, s’inginocchiò e recitò le solite preghiere. In quel momento d’incertezza, confidava che i Profeti gli mandassero una visione. Certo, era difficile averne una senza disporre di un Cristallo. Ma lui era l’erede dell’Emissario, e in passato aveva accolto in sé un Profeta, ed era nel Tempio Celeste. Tutto questo doveva pur valere qualcosa. Modro ricordò quando era stato lì sei anni prima, con il Cristallo dell’Emissario, implorando aiuto per salvare sua moglie. In quell’occasione i Profeti lo avevano soccorso, anche se non c’era stato un vero e proprio dialogo: l’entità era entrata in lui e Modro l’aveva lasciata fare. Ora però sperava ardentemente in un colloquio, che gli chiarisse qual era la giusta via da seguire.

   Passò il tempo. Esaurite le preghiere, Modro si rivolse direttamente ai Profeti: «Aiutatemi, vi prego. Domani mi attendono scelte difficili e ho timore di sbagliare. Devo compiere il mio dovere verso i Pacificatori, ma ho un dovere anche nei confronti di mia moglie, sebbene lei non mi ami più. Già in passato è stata in pericolo, a causa del Maligno. Con le mie sole forze non avrei potuto aiutarla, ma voi mi avete sostenuto... mi avete dato il potere di salvarla. Fatelo di nuovo, vi scongiuro».

   Il suo accorato appello non ebbe risposta. Modro era isolato nella navetta; solo le sue angosce gli facevano compagnia.

   «Perché non rispondete? È forse perché non ho un Cristallo con me? Eppure sono certo che mi sentite! Sono Modro Sisko, erede del vostro Emissario. Credo di avervi reso un servigio, quando contribuii a scacciare il Maligno. Allora perché m’ignorate, come se non esistessi? Insomma, fatevi sentire! Devo credere che non siate onniscienti? Oppure... devo credere che non siate buoni?!».

   Modro continuò a pregare e inveire per un’ora, in toni sempre più esasperati, finché dovette accettare la realtà. Quale che fosse il motivo, i Profeti non si sarebbero palesati. Era solo, alla vigilia del giorno più difficile – forse l’ultimo – della sua vita. Più solo di quanto si fosse mai sentito in vita sua.

   «Mi hanno abbandonato» mormorò, passandosi una mano sul volto e trovandolo bagnato di lacrime. «Oh, misero me... mi hanno abbandonato». Spense le candele con un soffio e si rialzò. «Ebbene, se devo andare in battaglia senza la vostra benedizione, così sia!» gridò in tono di sfida. «Vincerò con le mie forze, costi quel che costi!».

   Tornato in cabina, il Comandante girò la navicella e la diresse nuovamente nel Quadrante Alfa. Uscito dal Tunnel, passò tra le navi dei Pacificatori e dei Breen, finché riconobbe la sagoma imponente della Takiah. Nel vederla, un sorriso gli increspò le labbra. Ciò che non aveva ottenuto dai Profeti con le preghiere, se lo sarebbe conquistato lui stesso con le armi.

 

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Capitolo 7
*** Scaglie e zanne ***


-Capitolo 6: Scaglie e zanne

 

   La Avalon uscì dalla cavitazione e si avvicinò al globo verdastro di Cestus III. Era una nave di classe Retribution, che riprendeva le linee dell’antica classe Crossfield: la sezione a disco era traforata, così da somigliare a un grande anello. Al suo interno si trovava un disco più piccolo, ospitante il modulo della plancia e unito posteriormente al corpo dell’astronave. La sezione motori era ampia e piatta; le gondole quantiche si prolungavano di molto all’indietro. Nel complesso era una delle classi più grandi e meglio armate a disposizione della Flotta Stellare, sebbene non ne fossero stati costruiti molti esemplari. Allo scoppio della Guerra Civile, l’equipaggio della Avalon si era schierato coi ribelli, e da allora era in prima linea contro i Pacificatori. O così credevano tutti. Solo Jaylah e Raav sapevano che la nave era ormai caduta in mano ai Voth; ma non potevano diffondere la notizia senza essere smascherati.

   L’arrivo dell’astronave stupì i corsari, ancora occultati nei pressi del pianeta. «È la Avalon» disse Siall, l’addetto ai sensori. Inquadrò il nome e il numero di registro, dipinti a caratteri cubitali sullo scafo. Come per tutte le navi della Flotta Stellare, erano ancora scritti in lettere e cifre terrestri. Sui vascelli dei Pacificatori, invece, nome e registro erano stati tradotti in Zakdorn, la lingua di Rangda.

   «Sarebbero quelli, i rinforzi federali che aspettavamo? Una sola nave, che non si prende neanche la briga di occultarsi!» si stupì l’Ufficiale Tattico, un Nausicaano di nome Skal’nak.

   «Uhm... siamo sicuri che sia proprio la Avalon?» s’insospettì lo Spettro. «Forse è una nave gemella, controllata dai Pacificatori. Potrebbero aver ridipinto il nome per infiltrarsi nello spazio federale».

   «Non credo, capo» disse Siall. «La Avalon ha alcune modifiche all’apparato propulsivo che la rendono unica. È proprio quella, non c’è margine d’errore».

   «Devono essere impazziti per venire da soli» borbottò Skal’nak, con la sua voce gutturale.

   «Sempre che non sia un attacco lampo» si allarmò Jack, vedendo la nave avvicinarsi al pianeta. «Lo Scudo Cittadino è sempre attivo?».

   «Certo... ehi!» fece il Nausicaano, vedendo le nuove letture. Eseguì una rapida analisi, per accertarsi della situazione.

   «Allora?!» fece Jack, impaziente.

   «Lo Scudo è calato pochi attimi fa. Cestus City è indifesa» rispose Skal’nak.

   «I federali la bombarderanno!» si allarmò Siall. «Magari non tutta la città, ma almeno la sede del summit».

   «Jaylah!» si disperò lo Spettro. Era pronto a scommettere che la sua amata fosse proprio lì, intenta a spiare il nemico. Avrebbero dovuto coordinarsi con la Flotta Stellare, prima di lanciarsi in quella rischiosa missione. A causa della loro fretta, Jaylah rischiava di cadere sotto il fuoco amico. «Tiratela fuori da lì!» ordinò l’Umano.

   L’addetto al teletrasporto trafficò con i comandi, sotto lo sguardo impaziente del superiore. «Niente da fare, è ancora occultata» disse.

   «Frell!» imprecò Jack. Finché la mezza Andoriana restava nell’Occultamento Sfasato, non potevano nemmeno contattarla. L’Umano osservò la Avalon, corrucciato. «Non può essere un caso che lo Scudo sia stato abbassato proprio adesso» ragionò. «È come se i Voth volessero essere distrutti. Qualcosa non va... che sta facendo la Avalon?».

   «Rilevo dei teletrasporti in corso» si stupì Siall. «Decine... centinaia di teletrasporti. Quasi tutti dall’Istituto, dal palazzo governativo e dalla caserma dei Pacificatori».

   «Stanno evacuando la città, come se fossero d’accordo» notò Skal’nak. «Ma se prelevano i Voth e i Pacificatori...».

   «Restano i civili» completò Jack. «E gli ambasciatori alieni».

   «Perché i federali dovrebbero fare una cosa del genere? E com’è possibile che i Voth glielo permettano?!» esclamò il timoniere.

   «Non credo che ci siano i federali, su quella nave» disse lo Spettro, scrutando cupamente la Avalon.

 

   L’Osservatorio Shackleford era uno degli edifici più alti di Cestus City. Sorgeva alla periferia della città ed era equipaggiato con i più moderni sensori elettromagnetici, gravitazionali e subspaziali. Come accadeva solitamente sui mondi dell’Unione, era aperto al pubblico. I visitatori potevano prenotare uno dei numerosi telescopi minori che facevano corona all’edificio e dedicarsi personalmente alle osservazioni. Solo il telescopio principale era interdetto al pubblico, essendo destinato agli astronomi professionisti. Ma per individuare un’astronave in orbita, le lenti minori andavano più che bene.

   Presentatosi all’Osservatorio, Raav prenotò un telescopio per tutto il pomeriggio. Si aspettava che la Avalon arrivasse a breve, ma non voleva correre rischi.

   «Che succede, ha nostalgia dello spazio?» chiese l’addetto alla reception, sapendo che il Gorn era stato a lungo sull’Enterprise.

   «Eh, diciamo così» fece Raav. «Sono qui da cinque anni, e ancora non ho approfittato del vostro magnifico osservatorio».

   «È il più moderno del pianeta» gongolò l’altro. «Certo che è strano venirci in pieno giorno» notò.

   «Non mi va di fare il nottambulo. Userò le lunghezze d’onda più adatte alle osservazioni diurne» si giustificò il Gorn.

   «Come preferisce. Se le interessa, Cestus IV e V sono in congiunzione» suggerì l’addetto. «Se usa i sensori subspaziali, potrà anche osservare una tempesta ionica vicino a Bellatrix».

   «Lo terrò a mente, grazie. A dopo» disse Raav, e infilò la scaletta che portava alla postazione assegnatagli. Si trovò in un abitacolo sferico, parzialmente sporgente dal corpo dell’Osservatorio. Il globo di trasparacciaio gli dava un’ampia panoramica della città. Il Gorn vide la sagoma imponente dell’Istituto, dove in quel momento si teneva la riunione decisiva. Il cielo era pattugliato dalle navette, mentre quei puntini più piccoli dovevano essere i droni accalappiatori, pronti a ghermire ogni sospetto. Raav digrignò i denti, pensando che da un momento all’altro poteva diventare il loro bersaglio.

   Il Gorn si accomodò alla bell’è meglio sulla seggiola, troppo piccola per lui, e attivò il telescopio. Impostò il computer sulla ricerca automatica di astronavi nell’orbita e restò in attesa. Non dovette aspettare a lungo. Era lì sì e no da venti minuti, quando un segnale audio lo avvisò che c’era qualcosa.

   «Ci siamo» si disse Raav, sentendo quel misto di entusiasmo e timore che lo accompagnava ogniqualvolta si lasciava coinvolgere in faccende pericolose. Visualizzò il vascello in orbita: era di classe Retribution. Doveva essere la Avalon... sì, il nome era ben leggibile sullo scafo. Era il momento.

   Il Gorn sgusciò via dalla postazione, scese la scaletta e raggiunse la balconata che girava intorno all’osservatorio. Guardando il cielo, notò che lo Scudo Cittadino non era più attivo. Un pessimo segnale. Trasse di tasca il comunicatore a lungo raggio che si era portato dietro quando aveva lasciato l’Enterprise. Era un dispositivo palmare, che una volta attivato proiettava un oloschermo dal quale si potevano gestire le numerose funzioni. Con l’aiuto di Jaylah, Raav lo aveva già impostato per trasmettere un messaggio criptato, con la cifratura usata dalla banda dello Spettro. Sulla Stella l’avrebbero decrittato subito, mentre si sperava che i Voth e i Pacificatori ci avrebbero messo un po’ di più.

   «Mi sentite? Sono il vecchio amico di Jaylah» disse Raav, augurandosi di ultimare la trasmissione prima che la Sicurezza gli fosse addosso.

 

   Invisibile come al solito, la Banshee seguì il Legato Azel nella sala riunioni dell’Istituto. Corythos e i suoi collaboratori erano già lì, come la maggior parte degli ambasciatori. C’era tensione nell’aria, perché il Colonnello doveva rispondere all’ultimatum dei Gorn. Se non avesse accolto le loro richieste i lucertoloni se ne sarebbero andati, e almeno un paio di altre specie li avrebbero seguiti. Per la Lega dei Rettili sarebbe stato un duro colpo.

   La Banshee si mise in un angolo e attese, mentre i Cardassiani sedevano al tavolo. Notò che Corythos e gli altri Voth apparivano calmi. Le loro pose erano rilassate, la parlantina sciolta. Persino le loro scaglie erano di un verde lucente, per nulla offuscato dall’ansia. Conoscendo il loro piano, quella tranquillità acquisiva una connotazione sinistra.

   Poco alla volta la tavola si riempì, finché anche i Gorn entrarono in sala. Gli occhi gialli del Predatore Raugh si fissarono su Corythos, ostili.

   «Ben arrivato, eccellenza; ora siamo al completo» lo accolse il Colonnello.

   «Sssshhht!» sibilò Raugh, alla maniera dei Gorn. «Sono qui solo perché ieri ha promesso di darmi una risposta chiara. Quindi lo faccia! Accoglie le mie richieste, o no?». Invece di sedersi come tutti gli altri, i Gorn rimasero in piedi, in atteggiamento di sfida. I loro occhi gialli dardeggiavano nella penombra.

   «L’Ammiraglio Hadron è disposto a consegnarvi questi pianeti» disse Corythos, attivando un oloschermo. Apparve una mappa della regione, con evidenziati i mondi in questione. L’elenco era scritto a fianco, in ordine alfabetico. I Gorn si avvicinarono per leggere, mentre il Voth tornò al tavolo. Si accostò a una lampada a forma di uovo che spandeva una calda luce dorata, tanto più evidente nella penombra. Alcuni insetti simili a falene vi svolazzavano attorno, attirati dalla luce. Corythos osservò brevemente le loro evoluzioni. D’un tratto buttò fuori la lingua da camaleonte e ne acciuffò uno, ingoiandolo. Il gesto inaspettato fece sussultare Azel, che sedeva lì accanto. Il Cardassiano distolse lo sguardo, schifato dalle abitudini alimentari dei Voth.

   «Questo è intollerabile!» ringhiò Raugh, al termine della lettura. «Ci avete attribuito solo metà di quanto avevamo chiesto!».

   «Se ha letto fino in fondo, Predatore, avrà visto che avrete un terzo del territorio degli altri mondi» corresse Corythos. «Considerando la vostra popolazione e le stime demografiche, è più di quanto colonizzerete nei prossimi cinquecento anni».

   «Noi non vogliamo riempire quei mondi come formicai» obiettò il Gorn.

   «No, infatti. Voi volete installare degli avamposti militari, oltre a miniere e fabbriche per sfruttare le risorse» convenne il Voth. «Dunque non vi servono i pianeti interi; un terzo è più che sufficiente. Sarà un’apposita commissione congiunta a stabilire i confini...».

   «Non ci siamo capiti, sssshhht!» sibilò Raugh. «Vogliamo i pianeti, tutti interi. Nessuna spartizione territoriale! Al massimo potremmo lasciarvi i satelliti, quando ci sono».

   «Mio stimato ospite, temo che la risposta sia no» disse il Colonnello, garbato ma deciso.

   «Allora non abbiamo più nulla da dirci» ribatté il Predatore. «Voi continuate pure a discutere, se vi aggrada. Noi abbiamo finito. Torniamo sulla nostra nave seduta stante».

   «Suvvia, non guastate tutto sul più bello!» intervenne Azel. «Forse possiamo offrirvi qualcos’altro, in luogo di quei mondi».

   «Ma certo!» fece Raugh, con un ghigno sarcastico. «Per ogni mondo in meno che abbiamo ottenuto dai Voth, voi ce ne darete uno dei vostri. Le piace l’idea? È pronto a questo sacrificio, per il bene della Lega?».

   Il Cardassiano s’irrigidì e distolse lo sguardo. Non era autorizzato a giocarsi interi mondi a quel modo.

   «Lo considero un no» ironizzò il Gorn. «Il Legato Azel si tira indietro... qualcun altro si offre di risarcirci al suo posto?» chiese, passando in rassegna gli ambasciatori.

   Il silenzio cadde sulla tavola. Tutti fissavano la superficie metallica, senza fiatare.

   «Bene, bene... vedo che non siamo gli unici a fare i propri interessi!» rise il Gorn. «Buona fortuna a tutti voi, con la Lega dei Rettili. Sempre che ci crediate ancora».

   «Contavamo sul vostro supporto» disse l’ambasciatore Selay. «Se ve ne andate, saremo troppo esposti alla rappresaglia federale. A questo punto devo tirarmi indietro». Lasciò il tavolo e venne a fianco dei Gorn, sia pur mantenendo una rispettosa distanza.

   Fu la volta dell’ambasciatrice Sauriana, che si schiarì la gola e volse intorno gli enormi occhi sporgenti. «La mia gente è stata nella Federazione per secoli» disse. «Ora che tutto crolla, speravamo di formare una nuova alleanza. Ma è chiaro che qui non si riesce a trovare un equilibrio. Non ci sono le condizioni per continuare». Si alzò dal seggio e andò verso l’uscita, pur tenendosi ancora più lontana dai Gorn.

   Vedendo sfilarsi tre specie in una volta, gli ambasciatori rumoreggiarono. Nessun altro, tuttavia, si unì agli insoddisfatti. Goriar, il rappresentante degli Xindi Rettili, li fissò con disprezzo. Il Legato Azel scosse la testa e si versò da bere.

   «Beh, ve ne andate così?» chiese Goriar. «E noi dovremmo continuare a discutere, sapendo che potreste tradirci?».

   «Non informeremo i federali di ciò che accade qui, se è questo che teme» promise Raugh. «Suppongo di parlare anche a nome dei miei colleghi».

   «Manterremo il segreto» promise il Selay.

   «Nessuno lo saprà mai» confermò la Sauriana.

   «Parole! Solo parole!» sbottò Goriar. «Se costoro se ne vanno, esigo che i negoziati proseguano altrove».

   «Mi unisco alla richiesta» disse Azel, quasi di malavoglia. «Non possiamo correre rischi».

   «Mettete forse in dubbio il mio onore?» chiese Raugh, avvicinandosi con fare minaccioso.

   «Se avesse l’onore di cui si vanta, non se ne andrebbe alla prima difficoltà!» ribatté Goriar, scattando in piedi. Di tutti i presenti, era l’unico che potesse competere fisicamente con il Gorn, anche se non aveva fauci paragonabili alle sue. I due rettili si fronteggiarono, ringhiando.

   «Calmi, signori!» intervenne Corythos, frapponendosi. «L’onorevole Raugh ha fatto la sua scelta, e così gli altri delegati. È nel loro diritto. Siamo tutti qui su base volontaria, e se la loro volontà è di ritirarsi, dobbiamo rispettarla». Ciò detto si rivolse in particolare ai Gorn. «Tuttavia ritengo che questo sia un errore dettato dalla fretta. Se ve ne andate ora, danneggerete più i vostri interessi che i nostri. Dico davvero... farete più male a voi stessi che a noi» ribadì.

   Per la Banshee, che ascoltava tutto, queste parole furono un campanello d’allarme. Il Voth non stava parlando in astratto; sapeva che la scelta di andarsene li condannava a morte.

   «Correremo il rischio» disse Raugh. «Ora fateci uscire».

   «Come sapete, l’Istituto è isolato per via delle misure di sicurezza» spiegò Corythos, sempre calmo. «Dovrò uscire dall’area protetta per contattare le vostre navi, affinché vengano a prendervi. Nel frattempo vi chiedo di attendere nella sala attigua».

   Il Gorn sbuffò dalle narici. «D’accordo, mangiafoglie... ma fa’ in fretta! Non resteremo un minuto più del necessario».

   «Oh, questo ve lo posso assicurare» disse il Voth, permettendo a un sorriso ironico d’increspargli le labbra. Si diresse spedito verso l’uscita.

   Per la Banshee fu la conferma del piano. Corythos intendeva mettersi in salvo, mentre l’edificio – e forse il quartiere – sarebbe stato raso al suolo dalla Avalon. C’era un solo modo per impedirlo: trattenere il Colonnello.

   Corythos stava per varcare la soglia, quando la Banshee si materializzò davanti a lui, più lugubre e minacciosa che mai. «Altolà! Che nessuno lasci questa stanza!» ringhiò, agguantando l’avversario per il collo. Il Voth sobbalzò per lo spavento e le sue scaglie si tinsero di blu, il colore della paura. Cercò di arretrare, ma la sua gola era già serrata nella stretta d’acciaio della corsara. Allora si portò la mano in fondina, inutilmente. La Banshee lo aveva già disarmato con l’altra mano.

   Il caos si diffuse nella sala. Gli ambasciatori balzarono in piedi: alcuni arretrarono in preda al panico, mentre altri – Gorn e Xindi Rettili – si fecero avanti, pronti a lottare. Le guardie Voth estrassero le armi, ma non poterono sparare, perché la Banshee si faceva scudo con il Colonnello. Vedendo che un paio di sauri si spostavano di lato, per avere il tiro libero, la corsara emise uno dei suoi famigerati urli. L’attacco sonico funzionò: i due Voth furono investiti in pieno e caddero all’indietro, rovesciando alcune sedie. Anche Corythos fu stordito, essendo vicino al sintetizzatore vocale. La corsara però continuò a sorreggerlo, affinché le facesse da scudo.

   «Gettate le armi, o il vostro Colonnello si unirà alle specie estinte!» intimò la fuorilegge, squadrando le guardie ancora in piedi. Sgomentati dall’inaspettata piega degli eventi, i Voth obbedirono.

   «Guarda, guarda... la famosa Banshee» la riconobbe Raugh. «Sssshhht! Dunque è vero ciò che si dice di te. Non c’è luogo fuori dalla tua portata».

   «Non c’è» confermò la Banshee, decisa a coltivare la propria leggenda nera. «E se qualcuno di voi prova a scappare, finirà come costui, o peggio» disse, agitando il corpo svenuto di Corythos come una marionetta.

   «Sei pazza... non uscirai viva da qui!» ringhiò Goriar.

   «I pazzi siete voi, a fidarvi dei Voth» ribatté la corsara. «Lo Scudo Cittadino è appena stato abbassato e c’è un’astronave in orbita pronta a disintegrare questo edificio. L’unica cosa che li trattiene dall’aprire il fuoco è il fatto che questo bel tomo sia ancora qui» disse, sollevando il Colonnello per il collo. «Per questo voleva andarsene! Lui e gli altri Voth si sarebbero messi in salvo, mentre voi sareste morti».

   «Perché l’avrebbero fatto?!» chiese Raugh.

   «Perché così il vostro popolo avrebbe voluto vendicarsi e sarebbe tornato al tavolo delle trattative» rispose prontamente la Banshee. «Vedete, la nave in orbita è la Avalon, che fino a poco fa apparteneva alla Flotta Stellare. Ma i Voth se ne sono impadroniti. Così sembrerà che sia stata la Federazione a compiere l’attacco! È la strategia dei Voth per impedire che la Lega dei Rettili si sfaldi sul nascere».

   «E tu come fai a saperlo?» chiese Azel.

   «Io sono la Banshee» rispose lei, lapidaria.

   «Dovrai darci più che la tua parola!» insisté il Cardassiano. «L’unica certezza che abbiamo, finora, è che ti sei infiltrata in questo summit e ci hai aggrediti. Perché dovremmo fidarci di una corsara, piuttosto che del nostro anfitrione?».

   «Se avessi voluto uccidervi, lo avrei già fatto» rispose freddamente la Banshee. «Invece vi ho risparmiati. E ho risparmiato anche lui, affinché confessi». Così dicendo lasciò cadere Corythos. Poi raccolse le armi dei Voth e le mise fuori uso, estraendo le celle energetiche.

   «Quindi che hai in mente di fare?» chiese Goriar.

   «Aspetterò che il Colonnello si riabbia e lo costringerò a confessare il suo piano» rispose la corsara. «Nel frattempo confido che le vostre navi captino la Avalon e la mettano in fuga. A quel punto potrete tornare a bordo». Non menzionò la Stella del Polo, per non complicare la situazione.

   «Ci vorrà del tempo per tutto questo» notò Azel, aspettandosi una reazione dei Voth.

   «Aspetterò» rispose la Banshee. «E voi attenderete con me, che vi piaccia o no».

 

   Nello spazio, la Avalon si era fermata in orbita geostazionaria al disopra di Cestus City. Vista dalla Stella, era una macchia scura contro il disco verdastro del pianeta, che traspariva anche dall’apertura nella sezione a disco.

   «Hanno smesso di teletrasportare» disse Siall.

   «Se vogliamo distruggerli, questa è l’ultima occasione» avvertì Skal’nak. Se la Avalon avesse alzato gli scudi, la Stella non sarebbe riuscita a sopraffarla.

   Jack esitò. Era quasi certo che quella nave fosse caduta sotto il controllo nemico. Ma se si sbagliava, e la distruggeva, avrebbe ucciso un migliaio di ufficiali della Flotta.

   «Ehi capo, riceviamo una trasmissione da un canale criptato» rilevò Siall. «Solo audio. Potrebbe essere Jaylah».

   «Sentiamo» disse lo Spettro, sperando di avere lumi sulla situazione.

   Il vocione di Raav rimbombò nella plancia. «Mi sentite?» fece il Gorn. «Sono il vecchio amico di Jaylah. Scusate se non mi presento, ma il rischio d’intercettazione è alto. Vi avverto che quella nave, la Avalon, non è più della Flotta. I Voth se ne sono impadroniti e la useranno per bombardare la città. Vedete, alcuni degli ambasciatori vogliono andarsene, e questo i Voth non lo tollerano. Sperano che, incolpando la Flotta dell’attentato, i loro popoli aderiscano alla Lega dei Rettili per vendetta. Dovete disabilitare quella nave, prima che...». La trasmissione si riempì d’interferenze, che la resero incomprensibile. Ma l’essenziale era già stato detto.

   Lo Spettro si alzò, livido in volto. I suoi peggiori sospetti si erano avverati. «Portatelo a bordo» ordinò, non volendo che il vecchio Gorn passasse dei guai per averli avvertiti. «Poi su gli scudi, e attacchiamo la Avalon».

   «Signore, la nave ha già rialzato gli scudi» avvertì Skal’nak. «È una classe Retribution... è oltre le nostre possibilità».

   «Non dobbiamo per forza distruggerla» obiettò Jack. «Ci basta resistere finché arriveranno le navi degli ambasciatori».

   Raav apparve sulla pedana di teletrasporto incassata nella parete. I corsari lo avevano prelevato appena in tempo, perché i Pacificatori avevano intercettato la sua trasmissione, bloccandola e risalendo alla fonte. I droni accalappiatori stavano per ghermirlo, quando il teletrasporto lo aveva salvato. «Non avete perso tempo, eh? Bene, bene!» disse il Gorn, guardandosi attorno soddisfatto. «Ah, il famoso Spettro» aggiunse, notando Jack davanti alla poltrona di comando.

   «In persona. Lei è Raav, giusto?» chiese l’Umano.

   Il vecchio Gorn annuì e gli venne incontro.

   «Dov’è Jaylah?» domandò Jack con urgenza.

   «Nell’Istituto per le Relazioni Unione-Gorn» spiegò Raav. «Assieme a Corythos e agli ambasciatori. Il piano è trattenere il Colonnello, perché se lui se ne va...».

   «... la Avalon aprirà il fuoco, sì» concluse lo Spettro.

   «Sempre che non spari lo stesso» ammonì il Gorn. «Questi Voth sono infidi; non mi stupirei se sacrificassero il loro Colonnello».

   «Signore, la Avalon ci sta cercando coi sensori anti-occultamento» avvertì Siall.

   «Temo che il mio messaggio li abbia allarmati» disse Raav. «Mi spiace, ma dovevo avvertirvi della situazione».

   «Ha fatto bene» disse Jack, che ormai considerava lo scontro inevitabile. «Allarme Rosso. Usciamo dall’occultamento e attacchiamo» ordinò, tornando a sedersi.

   La Stella del Polo si rese visibile e nello stesso momento aprì il fuoco. I corsari avevano avuto l’accortezza di tenersi in coda alla Avalon, così da essere esposti a un minor numero di armi. Ma il primo assalto della Stella, per quanto violento, fu assorbito senza difficoltà dagli scudi federali. La Avalon rispose prontamente con le armi di poppa e manovrò per fronteggiare la nave corsara.

   Scuotendosi sotto i colpi nemici, la Stella manovrò a sua volta per restarle in coda. Solo così poteva ridurre lo svantaggio; ma i corsari sapevano di non poter vincere. Potevano solo sperare che le navi degli ambasciatori rilevassero lo scontro e tornassero a Cestus.

   La Avalon compì una serie di manovre evasive, sempre sparando a tutto spiano con le armi posteriori. La Stella tuttavia la seguì dappresso, imitando ogni mossa. «Massima energia agli scudi anteriori. Concentrate il fuoco sui propulsori di manovra» ordinò lo Spettro.

   «Stanno aprendo l’hangar» avvertì Siall.

   Come la sua antesignana del XXIII secolo, la classe Retribution aveva un hangar enorme, contenente un vasto assortimento di navette. Alcuni modelli erano così potenti da poter affrontare la battaglia. E così avvenne. Venti navicelle Gryphon si lanciarono nello spazio, circondarono la Stella e la attaccarono da ogni lato. La nave corsara non poté reagire più di tanto, dovendo manovrare per restare in coda alla Avalon. Colpo dopo colpo, i suoi scudi s’indebolirono.

   «Peccato che non abbiamo il resto della flotta» grugnì Skal’nak, cercando di abbattere le navette. Ma queste erano così agili da evitare la maggior parte dei colpi, e comunque l’attacco principale doveva restare diretto alla Avalon.

   «Beh, il famoso Spettro avrà qualche asso nella manica, dico bene?» fece Raav, squadrando il corsaro.

   «Lanciare gli incursori» ordinò questi, vedendo che la situazione precipitava.

   L’hangar della Stella si aprì e tre incursori di classe Dal’Rok ne uscirono. Data la dimensione considerevole delle navicelle, non era stato possibile stiparcene di più. Gli incursori attaccarono le navette nemiche, più piccole ma molto più numerose, riuscendo a distoglierne solo alcune. Nel frattempo la Avalon, agile malgrado la stazza, era riuscita a scrollarsi di dosso la Stella. L’attaccò con le potenti armi di prua, facendola sussultare.

   «Scudi al 50%... qui si mette male» avvertì il Nausicaano.

   «Me ne sono accorto» si disse Jack. Era una delle situazioni peggiori in cui si fosse mai trovato: addentro nel territorio nemico, con scarse speranze di avere rinforzi, costretto ad affrontare una nave assai più potente. E non poteva nemmeno battere in ritirata, come aveva fatto altre volte, perché Jaylah era su Cestus e ormai si era rivelata al nemico. Anche se era asserragliata in sala riunioni, non poteva resistere a lungo. Perciò anche lui doveva restare, sperando che la situazione si sbloccasse, prima che la Avalon li facesse a pezzi.

 

   Con un sussulto accompagnato da un singhiozzo, Corythos si rialzò dalla sua posizione distesa, mettendosi a sedere per terra. E si trovò davanti la Banshee, che lo fissava da chissà quanto.

   «Comodo?» chiese la corsara.

   «Questa... questa è pura follia!» balbettò il Voth, scattando in piedi. «Non uscirai viva da qui».

   «Non immagina quante volte me l’hanno detto» ribatté la Banshee, caustica. «Eppure eccomi qui. Stavolta, poi, la situazione è particolarmente avvincente. Lassù c’è la Avalon, che dovrebbe bombardare questo edificio... ma non può, finché la trattengo. La Stella del Polo le sta tenendo compagnia. Quaggiù ci siamo io, lei... e gli ambasciatori che voleva assassinare. Potremmo definirla una situazione di stallo, ma non durerà a lungo. Forse la Avalon fuggirà e questi signori torneranno ai loro mondi. O forse i suoi simili decideranno di sacrificarla, nel qual caso morirà qui. Mi dica... quanto vale la sua vita, per l’Autorità Voth? Più o meno di questa missione?».

   Corythos si guardò attorno, leccandosi le labbra e valutando le possibilità di fuga. La porta era bloccata e non c’erano altre via d’uscita. Il comunicatore gli era stato strappato dall’uniforme, e comunque la sala era schermata. E gli inibitori di teletrasporto erano ancora attivi, perciò nemmeno i Voth potevano agganciarlo. La situazione era indubbiamente grave, ma il Colonnello decise di ostentare sicurezza.

   «Non temete, signori» si rivolse agli ambasciatori. «Presto una squadra Voth farà irruzione, eliminando questa squilibrata. Quanto alla sua astronave, ci penserà la mia Nave Bastione a distruggerla. Noi non corriamo alcun rischio».

   «E la Avalon?» chiese Raugh. «Non è forse vero che ve ne siete impadroniti, per simulare un attacco federale? Per ucciderci, persino?!» ringhiò.

   «Che assurdità! Non crederete alle storielle di questa criminale da quattro soldi?» ribatté Corythos, infastidito. «Qualunque cosa vi abbia raccontato, è una menzogna. Il suo scopo è sabotare questo summit per conto dei ribelli. Farebbe qualunque cosa, per metterci uno contro l’altro!» disse, fronteggiando la corsara.

   «E lei farebbe qualunque cosa per ottenere l’aiuto dei rettili. Anche assassinare i loro ambasciatori» rimbeccò la Banshee. «È sempre questa la vostra politica, eh? Vi vantate di avere una tecnologia superiore, però poi fate combattere gli altri per voi. Prima o poi le altre specie si stancheranno di andare al macello per il vostro tornaconto, e ve le troverete tutte contro».

   «Puoi dimostrare ciò che affermi?» chiese Goriar.

   «Ovviamente no!» disse Corythos, cogliendo l’occasione. «Signori, comprendo che la situazione v’innervosisca, ma non è il caso di cedere alla paranoia. Non c’è alcun complotto per uccidervi. C’è solo questa ricercata, che ci ha presi in ostaggio e ora cerca di seminare zizzania. Volete davvero credere a lei, invece che a me? La parola di una pregiudicata, contro quella di un Colonnello dell’Autorità Voth?».

   «Poco fa lei voleva lasciare questa sala, Colonnello» notò Raugh.

   «Per chiamare le vostre navi!» si difese il Voth. «Ma a quanto pare dovrò aspettare un po’. Sedetevi, signori, e rilassatevi. Il tempo è a nostro favore». Così dicendo si avvicinò al tavolo, e in particolare alla lampada attorno a cui ronzavano gli insetti. La Banshee lo seguì.

   «Quella tuta primitiva dovrebbe spaventarmi?» fece Corythos in tono sprezzante. «Sai, anche noi abbiamo l’Occultamento Sfasato. I miei soldati lo useranno per liberarmi... arriveranno da un momento all’altro... e allora vedremo chi c’è sotto quella maschera ridicola» sogghignò. Proiettò la lingua in avanti, per acciuffare una succulenta falena che svolazzava attorno alla lampada. Fu un errore.

   Con i suoi riflessi fulminei, la Banshee afferrò la lunga lingua del Voth nel momento in cui era estroflessa. Il Colonnello, che non se l’aspettava, ebbe quasi un colpo. Cercò subito di riavvolgere la lingua, ma la corsara gliela tenne saldamente, costringendolo a restare in quella posa umiliante, che gli impediva di parlare.

   «Stupido pallone gonfiato!» sibilò la Banshee. «Voi Voth avete perso il primato, e in fondo lo sapete, o non cerchereste alleati che facciano il lavoro sporco. Credevate di avere gioco facile, ma avete fatto male i conti. Io non ho prove, dici? Ci sei tu! E c’è l’ambasciatore dei Beta Annari. La loro specie possiede un fiuto incredibilmente preciso. Possono percepire le menzogne, grazie alla variazione ormonale che inducono nell’organismo. Ora io ti farò delle domande, e tu risponderai. Se menti, il Beta Annari lo capirà. Se rifiuti di rispondere, dimostrerai che temi d’essere smascherato. E io ti strapperò ben altro che la lingua. Mi sono spiegata?!».

   Così dicendo, la corsara gli strattonò la lingua con tale violenza da fargli venire le lacrime agli occhi. Le scaglie del Voth trascolorarono al rosa, la tinta della vergogna. Umiliato, ma impossibilitato a liberarsi, non poté far altro che annuire.

   «Non ti sento. Mi sono spiegata?!» ringhiò la Banshee, tirando la lingua così forte che arrivò vicina a strappargliela.

   Il Voth terrorizzato annuì ancora più vistosamente.

   «Bravo ramarro» fece la corsara, mollando finalmente la lingua appiccicosa. Corythos la ritirò subito in bocca, dolorante e sconvolto. In vita sua non era mai stato tanto umiliato.

   «Ora dimmi: c’è la Avalon in orbita?» chiese la fuorilegge.

   L’ambasciatore Beta Annari si avvicinò, per cogliere le sottili variazioni ormonali che rivelavano la menzogna. Corythos pensò a un modo per rispondere senza tradirsi, ma in quella situazione di stress non gli venne in mente nulla.

   «Parla!» ringhiò Raugh, che seguiva l’interrogatorio con la massima attenzione.

   «Sì! Sì, la Avalon è qui» ammise il Voth.

   «Ha detto il vero» confermò il Beta Annari.

   «Ed è caduta in mano vostra, giusto?» incalzò la Banshee.

   «Dipende da cosa intendi con...».

   «Intendo il significato della frase. Le truppe Voth controllano la Avalon» scandì la corsara.

   «Uhm... è probabile» mugugnò Corythos.

   «Di nuovo sincero» disse l’ambasciatore, a beneficio dei colleghi.

   «Il vostro equipaggio ha l’ordine di bombardare questo edificio, appena lei l’avrà abbandonato. Non è così?» proseguì la corsara.

   «Tutto ciò è assurdo...».

   «Non è così?!».

   «Io... non so cosa accadrà, ora che ci avete attaccati» disse il Voth. «Tu potrai anche uccidermi, ma il vostro sabotaggio fallirà».

   «Rifiuti di rispondere, perché sai che l’ambasciatore percepirebbe la menzogna» disse la Banshee. «Lo vedete, signori? Il Colonnello non risponde! Teme d’essere smascherato! E proprio questo vi conferma la sua colpevolezza».

   «No! Non credete a questa tagliagole!» gridò Corythos. «E poi, il fiuto dei Beta Annari non è infallibile!».

   «Rispondi alla domanda, miserabile mangiafoglie!» ringhiò Raugh, scoprendo le zanne. «È vero che la Avalon ha l’ordine di ucciderci?».

   «No, è una lurida menzogna!» esplose il Voth.

   Tutti gli sguardi si appuntarono sul Beta Annari, che chiuse gli occhi e inspirò profondamente, concentrandosi sulle percezioni olfattive. «Qualcosa è cambiato» disse. «Il Colonnello aveva paura già da prima, ma la sua attività metabolica si è alterata nell’ultima risposta. Io credo che abbia mentito».

   «Lei crede! Dalle mie parti, questa non è considerata una prova valida!» berciò Corythos.

   «Dalle mie, invece, basta quantomeno per sospettare» intervenne il Legato Azel. «In effetti mi sembrava strano che lasciasse andare tanto facilmente gli insoddisfatti. Dovevo capirlo che aveva un piano».

   «Non è come crede. Voi siete nostri alleati, non avrei mai permesso che vi capitasse qualcosa di male...» ansimò il Voth.

   «Mente» disse il Beta Annari, stavolta con decisione.

   «Oh, stia zitto!» gridò Corythos, non sopportando di essere contraddetto.

   «Che viscido traditore» disse Azel, fissandolo con disprezzo. «Io mi fidavo di lei, e avrei fatto il possibile perché questa alleanza andasse in porto. Ma ora scopro che intendeva ucciderci tutti... non solo quelli che volevano andarsene! E le dico che il mio popolo non si unirà mai a voi».

   «Neanche il mio» disse Goriar.

   Uno dopo l’altro, i rimanenti ambasciatori chiarirono che nemmeno loro erano disposti a proseguire le trattative. Il Colonnello si trovò circondato da decine di alieni – i delegati coi loro entourage – che lo squadravano con ostilità. I Selay allargarono il cappuccio di pelle che avevano attorno al collo e li rendeva simili a cobra. I Gorn, gli Xindi Rettili e altri ringhiarono, scoprendo le zanne.

   «Stupidi animali!» sbottò Corythos, mentre le sue scaglie si arrossavano per la rabbia. «Credete d’impaurirmi? Non siete niente, per noi Voth. Vi abbiamo offerto la nostra alleanza, in nome del comune sangue freddo, perché solo così vi sareste salvati. È stata pura generosità da parte nostra, e voi selvaggi l’avete rifiutata! Ora ne pagherete le conseguenze».

   «Fossi in lei, mi preoccuperei più della mia sorte» disse la Banshee.

   «Questo vale anche per te!» berciò Corythos. Levò la mano tridattila e le scagliò contro un artiglio. La capacità di lanciare gli artigli, contenenti un potente soporifero, era uno degli accorgimenti evolutivi più sorprendenti dei Voth. Tuttavia era anche considerata una barbarie, una sorta di retaggio animalesco, tanto che i sauri vi ricorrevano di rado, e solo come ultima risorsa. Ma la Banshee non si fece prendere di sorpresa. Anche se riteneva la sua tuta abbastanza resistente da proteggerla, si rese intangibile, così che l’artiglio l’attraversò senza nuocerle. Proseguendo la traiettoria, l’unghione colpì l’ambasciatrice Sauriana, che fino ad allora si era tenuta in disparte.

   La Sauriana buttò indietro la testa ed emise un lamento stridulo, che costrinse gli altri a turarsi le orecchie. Ebbe appena il tempo di strapparsi l’artiglio, che le si era profondamente conficcato nella spalla, prima che il sedativo facesse effetto. Si accasciò tra le braccia di un suo collaboratore, che l’adagiò a terra, perché potesse riprendersi.

   «Cilecca» disse la Banshee.

   «Non ha importanza» fece Corythos, sempre rosso d’ira. «La Avalon distruggerà la tua insulsa nave, e poi...».

   «E poi cosa? Ci bombarderà e ci ucciderà tutti, lei compreso?» chiese Azel.

   «Può darsi» grugnì il Colonnello, a malincuore. Mentre parlava si massaggiava la mano, indolenzita per aver lanciato l’artiglio. «In ogni caso, la vostra scoperta non raggiungerà mai i vostri pianeti. I negoziati riprenderanno in un’altra sede e la Lega dei Rettili sarà una realtà. Come vedete, il nostro piano ha funzionato».

   «Questo è ancora da vedere» ribatté la Banshee. «Noi corsari siamo più coriacei di quanto crede».

 

   La battaglia spaziale volgeva ormai al suo inevitabile epilogo. Per quanto i corsari s’ingegnassero, la loro astronave non poteva competere con la Avalon, che era più armata e aveva scudi più potenti. I primi a soccombere furono gli incursori. Uno di essi fu distrutto dal fuoco concentrato delle navette nemiche, un altro dai siluri della Avalon. Il terzo, danneggiato, dovette ritirarsi prima di finire allo stesso modo. Restava solo la Stella del Polo, al centro della gragnola nemica.

   «Scudi al 20%, dobbiamo andarcene!» gridò Skal’nak, mentre la nave sussultava.

   «Se scappiamo, i Voth vinceranno e sarà stato tutto inutile» obiettò lo Spettro.

   «Farci distruggere non migliorerà le cose» grugnì il Nausicaano.

   Jack fissò con rabbia la Avalon. Gli era capitato molte volte di doversi ritirare davanti a nemici più potenti, ma mai di abbandonare Jaylah in territorio ostile. Avrebbe dovuto dissuaderla dallo scendere da sola... ma era tardi per recriminare. Doveva prendere una decisione; e ormai non c’era che una possibilità.

   Come sempre faceva durante le battaglie, il corsaro indossava l’armatura da Spettro; doveva solo dispiegare il casco per trasformarsi nel suo alter-ego. «Pronti a una discesa controllata nell’atmosfera» ordinò. «Dovrebbe metterci fuori tiro per qualche secondo. Quando ciò accadrà, teletrasportatemi vicino all’Istituto. Poi tornate in occultamento e lasciate il sistema. Andate al più vicino avamposto federale e informate la Flotta dell’accaduto».

   «E tu come te la caverai, capo?» chiese Skal’nak.

   «M’inventerò qualcosa, come sempre» rispose Jack, ostentando una sicurezza che non aveva. In effetti era un piano disperato. Anche se avesse trovato Jaylah, ben difficilmente sarebbero riusciti a lasciare il pianeta.

   Il timoniere fece rotta verso Cestus, ma subito l’astronave ebbe un violento scossone. «Ci hanno agganciati con un raggio traente, non riesco a liberarmi» avvertì. Intanto la Avalon continuava a bersagliarli.

   «Scudi al 10%» avvertì Skal’nak. «Breccia sul ponte 11, l’occultamento è compromesso».

   Jack comprese che erano al capolinea. La Avalon attaccava implacabile e arrendersi non li avrebbe salvati. Se fossero stati ufficiali di Flotta, i Voth li avrebbero arrestati; ma con pirati e corsari non facevano prigionieri. Era la fine... e senza il loro supporto, anche Jaylah sarebbe perita.

   In quell’attimo la Avalon subì un violentissimo attacco dall’alto: raggi e siluri tempestarono il modulo della plancia. L’astronave dovette dirottare l’energia agli scudi, sottraendola al raggio traente, il che permise alla Stella di liberarsi.

   Jack esalò il fiato. Se l’era vista proprio brutta, ma ora aveva una speranza. «Siall, identifica i nuovi arrivati» ordinò, aspettandosi che fossero le altre specie rettili, oppure la Flotta Stellare. Ma il Boliano inquadrò due navi brune, con il modulo anteriore a punta di freccia e un robusto apparato propulsivo. Lo scafo era irto d’armi; le gondole e i motori brillavano arancioni.

   «Hanno corazze in monotanio, usano armi tetrioniche... e sub-nucleoniche» rilevò Siall, destando stupore. Poche specie del Quadrante avevano armi così sofisticate.

   «Hirogeni» riconobbe lo Spettro. «E sono dalla nostra. Presto, coordiniamoci con loro!».

   Le tre astronavi scatenarono un attacco furibondo contro la Avalon, colpendola da più direzioni per indebolirne gli scudi. Ma i Voth non si persero d’animo. Analizzate le navi dei Cacciatori, notarono che mentre una era nuova di zecca, l’altra era molto vecchia e piena di riparazioni fatte alla bell’è meglio. Di conseguenza concentrarono il fuoco su quella, ignorando sia la nave gemella, sia la Stella. Le navette gli diedero manforte, bersagliando la vecchia nave hirogena. L’orbita di Cestus divenne il teatro di un’intricata battaglia, con astronavi e navicelle che cercavano di colpire i punti deboli degli avversari.

   «Gli Hirogeni ci chiamano» disse Siall.

   «Sullo schermo» ordinò Jack, dispiegando il casco dell’armatura per nascondere il suo volto.

   Apparvero i Cacciatori, imponenti nelle corazze bluastre dalle linee mosse, che li facevano sembrare mostri marini. Ma tra loro c’era una faccia familiare. Era Graush, il braccio destro dello Spettro, che li aveva chiamati in aiuto.

   «Sono Dorvic» si presentò l’Alfa, che appariva in là con gli anni, cosa rara per un Cacciatore. «Vi vedo in difficoltà, quindi gradirete il mio aiuto».

   «È più che gradito» confermò lo Spettro. «La sua fama la precede, Dorvic. Conosco le sue imprese».

   «Anch’io la conosco di fama» disse l’Hirogeno. «I Breen mi avevano chiesto di cacciarla per conto loro, ma ho rifiutato, dopo che mio nipote mi ha parlato di lei».

   «Intende Norrin?» chiese il corsaro.

   «Già... so che vi siete scontrati anni fa, e lei si dimostrò una preda onorevole. Ma se sono qui, è perché il suo Beta mi ha dato questo» disse l’Alfa, estraendo un pugnale dalla lama serpentina. Era il cimelio del loro clan, passato da un Alfa all’altro per innumerevoli generazioni. «Credevo fosse andato perduto a Procyon, invece eccolo qui. Graush mi ha detto che è passato di mano più volte, ma sempre in segno di stima e d’alleanza».

   «È così» confermò lo Spettro.

   «Se avete la stima di Norrin, avete anche la mia» dichiarò Dorvic. «Diamoci dentro, allora! Mostriamo a quei soldatini che non sono i padroni della Galassia».

   «I Voth» corresse Jack. «La Avalon è caduta in mano ai Voth, che vogliono incolpare la Flotta dei loro misfatti».

   «Oh-oh!» fece l’Hirogeno, per nulla sorpreso da quella doppiezza. «Una ragione in più per dargli una lezione! Brinderemo a chi mette a segno il colpo decisivo».

   Malgrado l’ottimismo di Dorvic, la battaglia restava difficile. La Avalon era una nave potente e le navicelle le fornivano un aiuto consistente. Per contro, la Stella aveva gli scudi assai indeboliti. Quanto alle navi hirogene, quella di Dorvic era vecchia e portava i segni di troppe battaglie. Per questo il clan aveva lavorato per anni alla costruzione di un nuovo vascello, che la sostituisse. I lavori erano stati diretti da Vitani, la figlia di Dorvic, e da Garid, marito di lei. Tradizionalmente le donne e i tecnici non godevano di molta stima nella società hirogena, monopolizzata dai Cacciatori, sebbene a conti fatti sbrigassero la maggior parte dei lavori. Ma quando Norrin si era rifiutato di prendere le redini del clan, preferendo restare nella Flotta, al vecchio Dorvic non era rimasta scelta. Aveva dovuto affidare sempre più responsabilità a Vitani e Garid che, incoraggiati da Norrin, avevano preteso più diritti. Così, per la prima volta nella storia millenaria del clan, la nuova astronave era stata affidata a una donna.

   «Massima energia alle batterie tetrioniche» ordinò Vitani, vedendo che la Avalon concentrava il fuoco sulla nave di Dorvic. «Colpite il modulo della plancia. Cerchiamo di attirare il fuoco su di noi».

   «È inutile, hanno capito che l’altra nave è malmessa» disse l’artigliere. «La distruggeranno prima di passare a noi».

   «Vitani a Garid, dacci più energia alle armi!» ordinò l’Hirogena, in ansia per il padre.

   «Vi sto già dando tutta la potenza che abbiamo» rispose Garid dalla sala macchine. «Provate un po’ a concentrare il fuoco».

   «Lo stiamo già facendo» disse Vitani, frustrata. «Facciamo un passaggio ravvicinato. Cannone sub-nucleonico al massimo» ordinò. La nave dei Cacciatori passò a pochi chilometri dalla Avalon, bersagliando la plancia. Gli scudi nemici ressero e i Voth non si lasciarono distrarre. Le navette, tuttavia, inseguirono la nave di Vitani sparando a tutto spiano. Erano abbastanza numerose da tenerla impegnata, mentre la Avalon proseguiva la battaglia principale.

   Sulla sua nave, Dorvic si accorse che la situazione precipitava. Gli scudi s’indebolivano e il vascello, non più agile come un tempo, non riusciva a evitare i colpi nemici. Il Cacciatore aveva già vissuto una situazione simile a Procyon, quando il clan aveva perso due navi. Sapeva che, se non si fossero ritirati subito, sarebbe finita male. «Avanti, vecchia mia, resisti...» mormorò, sentendo la nave che scricchiolava in modo preoccupante. Attorno a lui, i Cacciatori davano aggiornamenti tattici, cui facevano seguire le loro osservazioni.

   «Scudi al 25%, in rapida diminuzione».

   «Quelli della Avalon sono ancora al 50%».

   «Non vinceremo mai. Andiamocene, finché possiamo».

   «No! Se i Voth vincono, il Quadrante sarà condannato!» proruppe Graush. «Mi creda, Dorvic... se suo nipote fosse qui, le chiederebbe di proseguire la lotta».

   «È certo che sia così importante?» chiese l’Alfa, fissandolo con sguardo penetrante.

   «Me ne faccio garante con la mia vita» assicurò il Letheano.

   «E sia!» decise l’Hirogeno. «Colpite la Avalon con un impulso covariante del deflettore, potrebbe destabilizzare lo scu...».

   In quella la nave dei Cacciatori fu colpita da una raffica di siluri quantici. Gli scudi indeboliti non furono una protezione sufficiente: alcuni missili giunsero a bersaglio, aprendo falle nello scafo e tranciando una gondola. Gli occupanti furono scagliati a terra. Quando si rialzarono e tornarono ai comandi, si avvidero che la situazione era grave.

   «Falle multiple sullo scafo, perdiamo atmosfera».

   «Abbiamo perso la gondola di babordo».

   «Gli scudi sono inattivi, ancora un colpo ed è la fine».

   «Mettiamoci fuori tiro» ordinò Dorvic. La nave si allontanò zigzagando; un paio di raggi anti-polaronici la colpirono ugualmente, facendo ulteriori danni.

   «Papà!» gridò Vitani, vedendo la nave colpita che si allontanava, perdendo plasma. «Frapponiamoci, e fuoco a volontà contro il nemico!».

   La nave di Vitani trattenne la Avalon, mentre quella di Dorvic si metteva a distanza di sicurezza. «Quanto ci vuole per riattivare gli scudi?» chiese l’Alfa, non rassegnato alla sconfitta.

   «Cinque minuti, la procedura di riavvio è in corso».

   «Anche se ci riuscissimo, resteremmo in svantaggio. Dobbiamo ritirarci!» insisté un Cacciatore.

   «E come? Abbiamo perso una gondola e con l’impulso non arriveremo lontano» obiettò un altro.

   «Allora non c’è che una strada» disse Dorvic, guardando con rimpianto la sua nave. «Chiamate la Stella, chiedete che ci accolgano a bordo. Tutti tranne me».

   «Non puoi dire sul serio, Alfa!» protestò il Beta. «Chi seguiremo, se ci lasci? Norrin ci ha voltato le spalle!».

   «Norrin ha già le sue responsabilità» sospirò l’Alfa. «E poiché non ho altri eredi maschi... seguirete Vitani».

   «Una donna?!» fece il Beta, contrariato.

   «Una Cacciatrice, la figlia di un Alfa» corresse Dorvic. «Fate come ho detto, e svelti!».

   Mentre gli Hirogeni contattavano la Stella, Graush si avvicinò all’Alfa. «Non lo faccia» gli sussurrò all’orecchio. «Sono stato io a portarla qui. Devo essere io a restare».

   «Sai forse pilotare la nostra nave?» chiese il Cacciatore.

   Il Letheano guardò i comandi, così diversi da quelli a cui era abituato. Invece di usare interfacce tattili e oloschermi, gli Hirogeni avevano strani globi traforati, da cui uscivano dei punteruoli. Sfiorandoli, o semplicemente passando le mani attorno ad essi, i Cacciatori controllavano l’astronave. Non c’erano scritte, né altri contrassegni che permettessero di distinguere i comandi: bisognava memorizzarli. Non era cosa che si potesse fare in cinque minuti. Graush dovette restare in silenzio.

   «Tieni» gli disse Dorvic, restituendogli il pugnale del clan. «Consegnalo a mia figlia, l’aiuterà a farsi rispettare come Alfa».

   Nel frattempo la Stella cominciò a trasferire gli Hirogeni. L’astronave corsara rivolgeva un lato dello scafo verso la Avalon, mantenendo gli scudi attivi per proteggersi. Sull’altro lato li aveva abbassati, per consentire il teletrasporto. Poiché la nave dei Cacciatori aveva un equipaggio esiguo, bastarono pochi secondi per completare il trasferimento. Solo Dorvic rimase a bordo. Sentendo il segnale di chiamata, l’Alfa andò ai comandi e rispose.

   Lo Spettro apparve sullo schermo. «Cos’è questa storia, Dorvic? Perché vuol restare solo?» chiese.

   «Se è sveglio come dicono, l’avrà capito» rispose il vecchio Hirogeno, con un sorriso amaro.

   «Già» annuì il corsaro, a malincuore. «Ma non avete il pilota automatico?».

   «No, lo consideriamo disonorevole» spiegò Dorvic. «Non se ne faccia una colpa. Ho vissuto più a lungo della maggior parte dei Cacciatori. Dica a mia figlia che sono fiero di lei. E se incontrerà Norrin, gli dica di non crucciarsi per l’accaduto. Lui ha le sue battaglie... e io le mie».

   «Come vuole, Alfa» promise lo Spettro. Fece rientrare il casco nella tuta, così che l’Hirogeno lo vedesse in volto. «Divulgherò la notizia di ciò che ha fatto» promise. «Tutti sapranno del suo coraggio».

   «Non chiedo altro» disse Dorvic. «Addio».

   Chiusa la comunicazione, la Stella riattivò del tutto gli scudi e si gettò di nuovo in battaglia. Il suo ritorno fu provvidenziale, perché la Avalon aveva quasi sopraffatto la nave di Vitani. Ma anche insieme, i due vascelli non avevano speranze di sconfiggerla. Serviva una manovra più drastica.

   «Addio, Cacciatore» mormorò Jack, addolorato.

   Mentre la Stella e la nave di Vitani trattenevano a stento la Avalon, Dorvic andò ai comandi del suo vascello. Vide che gli scudi si erano rigenerati, anche se erano ancora a bassa potenza. Vi dirottò tutta l’energia disponibile, prendendola persino dalle armi. Dopo di che passò al timone.

   «Su, vecchia mia... un ultimo sforzo» mormorò, cercando di riattivare la propulsione. I motori a impulso protestarono, ma infine tornarono in linea. Sentendone la vibrazione, l’Alfa emise un «Ah!» di trionfo. Alzò gli occhi allo schermo e vide la battaglia che infuriava a poche migliaia di chilometri. Quasi tutte le navette della Avalon erano state distrutte, ma la nave madre aveva ancora gli scudi attivi e stava soverchiando gli avversari. Alcuni siluri colpirono la nave di Vitani, danneggiandola leggermente.

   «Ah, no... non farete del male alla mia bambina!» esclamò Dorvic. Diresse la sua nave contro la Avalon, mirando alla plancia. Il vecchio Alfa si passò la mano sul casco, tracciando due linee oblique: il gesto dei Cacciatori giunti alla fine dell’inseguimento.

 

   La nave di Vitani continuava a battersi, sebbene gli scudi fossero al lumicino e lo scafo cominciasse a riportare danni. L’Hirogena aveva studiato a fondo le tattiche del suo popolo e sapeva come affrontare una battaglia. Meglio ancora, aveva partecipato alla costruzione della nave e quindi ne conosceva esattamente le potenzialità. Lo stesso valeva per suo marito Garid, il capo ingegnere. Ma contro un nemico così forte non c’era strategia che tenesse: le loro difese stavano crollando.

   «Ehi, Dorvic è tornato all’attacco» notò un Cacciatore.

   Vitani alzò gli occhi dai comandi. «Ma la sua nave è danneggiata! Che vuol fare?» si chiese. Vedendo la vecchia nave che sfrecciava contro la Avalon, fu assalita da un orribile sospetto.

   «La Stella ha appena teletrasportato l’equipaggio» avvertì il Gamma, confermando il suo timore.

   «Ma non tutti! Chi c’è ai comandi?!» esclamò Vitani, inorridita. «Chiamatela, presto!».

   «Non risponde».

   «Papà!» gemette l’Hirogena, vedendo la nave che prendeva velocità. Era come un proiettile e andava dritta contro la Avalon.

   La nave federale rispose con un fitto fuoco di sbarramento, che tuttavia fu assorbito dagli scudi anteriori. Allora cercò di manovrare per sfuggire all’impatto; ma non ne ebbe il tempo. A bordo, i Voth videro la nave hirogena che veniva dritta contro di loro e capirono che era la fine. Se fossero stati sulla loro Nave Bastione, l’impatto sarebbe stato innocuo. Ma sulla nave federale, con gli scudi indeboliti, non avevamo scampo.

   L’impatto fu violentissimo: la vecchia nave hirogena ne fu completamente disintegrata, mentre la Avalon ebbe la plancia squarciata, così come i ponti sottostanti. Gli ufficiali furono investiti dall’esplosione e i loro resti carbonizzati vennero risucchiati nello spazio. L’astronave s’inclinò e andò alla deriva, con gli scudi abbassati e danni a cascata ai sistemi di bordo.

   Vitani si portò una mano al cuore; si sentiva come se glielo avessero strappato. Ormai non dubitava che fosse stato suo padre a sacrificarsi. «La caccia è finita, nobile Alfa... ora puoi riposare» mormorò, con le lacrime agli occhi. Gli altri Cacciatori imitarono il suo gesto e ripeterono le parole di rito.

   «Quali sono gli ordini... Alfa?» chiese il Gamma, con un certo sforzo.

   L’Hirogena ricacciò indietro le lacrime e si schiarì la voce. «Mio padre ha dato la vita perché quella minaccia fosse sventata» disse. «Ma non lo è ancora del tutto. Quindi tocca a noi finirla. Fuoco con i siluri» ordinò.

   La nave dei Cacciatori aprì il fuoco contemporaneamente alla Stella. I loro siluri colsero la Avalon in corrispondenza dello squarcio nel modulo centrale. Senza più scudi a fermarli, i missili colpirono i ponti scoperchiati e i corridoi messi a nudo. Ci fu un secondo lampo, più intenso del primo. Le esplosioni consumarono lo scafo dall’interno, disintegrando l’anello della sezione a disco. Si propagarono nella sezione motori, travolgendo il nucleo quantico. Avvolsero le lunghe gondole e le schiantarono. Della Avalon non rimasero che detriti, alcuni dei quali precipitarono su Cestus, rigando il cielo come meteore.

 

   Sulla Stella del Polo alcuni corsari si abbandonarono a grida di trionfo, ma lo Spettro li zittì. «Silenzio! Questa vittoria l’ha pagata Dorvic» disse, accompagnandosi con un gesto secco. «Onoriamo il suo sacrificio, completando la missione».

   «Ehi capo, arrivano le navi degli ambasciatori» avvertì Siall.

   «Adesso, eh?» si adombrò l’Umano. «Se fossero arrivate un minuto fa...!».

   «C’è anche la Nave Bastione» aggiunse il Boliano, preoccupato. Reduce dalla dura battaglia contro la Avalon, la Stella non era certo in grado di affrontare un vascello Voth. Né lo erano gli Hirogeni.

   «Le cose si fanno interessanti» mugugnò Jack. La situazione era critica, ma potevano ancora farcela, se giocavano bene le carte.

   Apparve la Nave Bastione, chilometrica e invincibile. I vascelli delle altre specie rettili le stavano attorno, in formazione. «Ci agganciano con le armi!» avvertì Skal’nak.

   «Siall, trasmetti a banda larga» ordinò lo Spettro. «Tocca a lei, Raav. Parli ai rettili e ci tiri fuori dai guai» disse poi, invitando il Gorn a porsi davanti allo schermo.

   Il cuoco si fece avanti e si schiarì la voce. «Sono Raav, del popolo Gorn» esordì. «Mi rivolgo alla mia gente e agli altri rettili qui riuniti. V’informo che la nave appena distrutta, la Avalon, aveva sì i contrassegni della Flotta Stellare, ma era controllata dai Voth. Se non fosse stato per noi, avrebbe distrutto la sede del summit e forse gran parte della città. I vostri ambasciatori sarebbero tutti morti. Questo era il piano che i Voth avevano escogitato per indurre i vostri governi ad aderire alla Lega Rettile, dopo che alcune specie avevano manifestato l’intenzione di andarsene. Volevano assassinare i vostri delegati e addossare la colpa alla Flotta, così che il desiderio di vendetta vi spingesse a firmare l’accordo. Ecco chi sono i Voth: dei codardi e dei profittatori. Pur avendo il vantaggio tecnologico, cercano sempre di spingere gli altri a combattere per loro. E voi vorreste allearvi con quei traditori? Scaglie a parte, non hanno niente in comune con noi. Se hanno cercato d’ingannarvi fin da ora, lo faranno anche in futuro».

   Trascorsero alcuni momenti tesi. Le astronavi erano immobili sullo schermo; i corsari immaginarono che capitani e ufficiali stessero discutendo sul da farsi.

   «La nave Gorn ci chiama» disse Siall.

   «Sullo schermo» ordinò Jack, dispiegando nuovamente il casco per nascondere il viso.

   Apparve il Capitano, dall’aria minacciosa anche per lo standard dei Gorn. «Sssshhht! Non mi aspettavo di vedere uno di noi tra i corsari» disse, scrutando Raav. «Le tue accuse sono molto gravi; puoi provarle?».

   «La prima prova è che a Cestus City hanno abbassato lo Scudo Cittadino all’arrivo della Avalon, per facilitarle il compito» rispose prontamente il cuoco. «Se ne volete altre, vi consiglio una visita all’Istituto per le Relazioni Unione-Gorn. Ci troverete il Colonnello Corythos; sono certo che saprete farlo confessare. Sempre che i vostri ambasciatori non l’abbiano già fatto. Vede, con loro c’è la Banshee, che li ha avvertiti del pericolo. E ha trattenuto Corythos, per evitare che i Voth bombardassero l’edificio».

   «Allora scenderemo subito a controllare» promise il Gorn. «Nel frattempo non tentate la fuga, o sarete distrutti!» avvertì.

   «Mi sta bene» intervenne lo Spettro. «Voi però tenete alla larga i Voth. Potrebbero ancora cercare di colpire Cestus City, per cancellare le prove».

   «Sssshhht! Li avvertirò che se faranno mosse inconsulte, ne patiranno le conseguenze» promise il Gorn, e chiuse il canale.

   Passarono i minuti, carichi di tensione. Era chiaro che le specie rettili stavano discutendo tra loro, per concertare la linea d’azione. Avrebbero trovato un’intesa? O ciascuno avrebbe fatto a modo suo?

   «I Voth prendono di mira la città!» disse Siall d’un tratto. «Lo Scudo è ancora abbassato, basta un colpo a distruggerla».

   «Frapponiamoci» ordinò lo Spettro.

   «Con gli scudi al 10% non reggeremo i colpi della Nave Bastione» avvertì Skal’nak.

   «Non ce ne sarà bisogno... spero» rispose Jack.

   La Stella del Polo si mise sulla linea di tiro e gli Hirogeni, pur non interpellati, la imitarono. Non che questo fosse un problema, per i Voth: potevano distruggere ambo le navi con pochi colpi. Ma vincere la battaglia non significava ottenere lo scopo per cui erano lì, e lo sapevano.

   Per qualche secondo al cardiopalma, sulla plancia della Stella regnò il silenzio. I corsari osservavano le navi dei rettili, sapendo che tutto dipendeva da loro. Finalmente qualcosa si mosse. L’astronave Gorn lasciò la formazione, si avvicinò alla Stella e le si affiancò, rivolgendo la prua pesantemente armata contro la Nave Bastione. Fu l’inizio di una reazione a catena: una dopo l’altra le specie rettili abbandonarono i Voth, schierandosi contro di loro. Gli ultimi furono i Cardassiani, che avevano sperato fino all’ultimo di trarre vantaggio dall’accordo, ma dovevano constatare il fallimento.

   «Undici navi da guerra contro una Nave Bastione» commentò lo Spettro. «Stime tattiche?».

   «Da ciò che sappiamo di quelle navi... i Voth sono ancora in vantaggio» disse Skal’nak a malincuore.

   «Se ci attaccassero, distruggerebbero qualche nave, ma non tutte» ragionò Jack. «Alcune riuscirebbero senz’altro a mettersi in salvo. E a quel punto informerebbero non solo i loro governi, ma anche gli altri. I Voth se li troverebbero tutti contro».

   «Boriosi come sono, potrebbero farlo» commentò Graush.

   «Mi sa che la loro boria se ne va presto, quando si trovano davanti una resistenza agguerrita» notò Raav. «E poi hanno appena assistito a una mossa kamikaze... non rischieranno di fare il bis».

   «Speriamo» pensò lo Spettro, non sapendo se avrebbe avuto la stessa fermezza del vecchio Dorvic.

   Trascorse un altro, dolorosissimo minuto. I Voth cercarono di teletrasportare il loro Colonnello, ma non riuscirono a superare gli inibitori di teletrasporto. Discutendo tra loro, compresero che era inutile battersi a oltranza: la missione era già fallita. Non restava che andarsene di loro volontà, piuttosto che rischiare di essere respinti. La Nave Bastione fece manovra e lasciò il sistema, senza fretta, per non dare l’impressione di una ritirata precipitosa. I sauri non inviarono messaggi, né ai corsari, né agli altri rettili. Se ne andarono e basta, abbandonando Corythos al suo destino.

 

   Asserragliati nella sala riunioni, senza modo di sapere come andavano le cose nello spazio, gli ambasciatori erano chiusi in un cupo silenzio. Alcuni sedevano al tavolo, altri passeggiavano nervosamente avanti e indietro. I Gorn e gli Xindi Rettili tenevano d’occhio Corythos e gli altri Voth, mentre la Banshee sorvegliava l’ingresso. Si era resa intangibile, nel caso in cui i sauri riuscissero a distruggere l’Istituto.

   «Ehm, permette una parola?» chiese Azel, avvicinandosi.

   «Sia conciso» rispose freddamente la corsara.

   «Se i Voth ci vogliono morti, non dovremmo lasciare questo edificio?» suggerì il Cardassiano.

   «Coi loro sensori, possono individuarvi e colpirvi ovunque» rispose la Banshee. «E poi, se usciamo da questo luogo schermato saremo esposti al teletrasporto. I Voth si riprenderebbero Corythos... la nostra sola garanzia che non aprano il fuoco».

   «E lei non può far niente?».

   «Posso proteggere voi, ma non certo neutralizzare la Avalon. Dovrà occuparsene la Stella».

   Insoddisfatto, il Legato provò a toccarle il braccio, ma le passò attraverso. «Ah, come sospettavo!» protestò. «Se i Voth ci bombardano lei si salverà, mentre noi finiremo come sorci!». Quello sfogo attirò l’attenzione degli altri ambasciatori.

   «La tuta è mia» rispose la corsara, imperturbabile.

   «E crede che la sua vita conti più delle nostre? Lei sarà anche famosa, a modo suo, ma non controlla il destino d’interi pianeti!» ribatté il Cardassiano.

   «Perché, lei sì?».

   «Sono un Legato dell’Unione Cardassiana...».

   «... e voleva allearsi coi nostri nemici. Non rivendichi meriti, non con me!» avvertì la Banshee in tono minaccioso.

   «Quel che volevo dire era che se lei mi prestasse la tuta, fino al termine di questa crisi, la ricompensa oltrepasserebbe i suoi sogni» la tentò Azel.

   «Che ne sai di cosa voglio?!» sbottò la corsara. Resasi di nuovo tangibile, afferrò il Cardassiano per la gola e strinse tanto da mozzargli il fiato. «Forse il mio sogno è spezzare il collo a un Cardassiano. Ci hai pensato? Ti va di soddisfarlo?».

   Impossibilitato a parlare, il Legato dovette far segno di no con la testa.

   «Allora sta’ alla larga da me» concluse la mezza Andoriana, lasciandolo andare. Per quanto avesse accumulato un certo rancore nei suoi confronti, dopo le molestie subite mentre era sotto copertura, non era un motivo sufficiente a scattare in quel modo. No, quella era stata una scelta deliberata. Un altro tassello della leggenda nera che stava costruendo attorno alla Banshee. Voleva che la gente temesse il suo personaggio; che nessuno si sentisse tranquillo in sua presenza.

   «Ehi, arriva qualcuno» disse l’ambasciatore Arkoniano, accennando all’ingresso. Da lì si udiva il rumore di spari. All’inizio erano appena percettibili, ma si fecero progressivamente più forti, segno che lo scontro era sempre più vicino.

   «Al riparo!» ordinò la corsara.

   Gli ambasciatori e i loro assistenti si nascosero dietro il tavolo, salvo Gorn e Xindi Rettili, che erano troppo orgogliosi (e forse anche troppo grossi) per mettersi al riparo. I Voth cercarono di nascondersi a loro volta, ma il Predatore Raugh agguantò Corythos e se ne fece scudo. «Sssshhht! Se muoio io, muori anche tu» gli sibilò all’orecchio. La Banshee lo vide, ma non intervenne. Si preparò invece a colpire i nemici con la sua arma sonica, o anche con il phaser incorporato nel bracciale della tuta.

   I clamori dello scontro erano alti, adesso, segno che si combatteva proprio dall’altra parte dell’ingresso. A un tratto qualcuno entrò nella sala. La porta era ancora chiusa, perché il nuovo arrivato l’aveva attraversata.

   «Bene... vedo che hai tutto sotto controllo» salutò lo Spettro.

   «Sì, ti aspettavo con questi simpaticoni» rispose la Banshee, accennando agli ambasciatori, che mostravano solo uno spicchio di testa al disopra del tavolo. «Come vanno le cose?».

   «La Avalon è distrutta e la Nave Bastione si è ritirata» spiegò il corsaro. Non si dilungò a parlare degli Hirogeni: non era il momento. «Raav ha spiegato tutto ai rettili, ma loro vogliono sentire la conferma dagli ambasciatori. Così siamo venuti a prendervi. C’era ancora qualche Pacificatore a sbarrarci il passo, e soprattutto quei droni accalappiatori, ma nulla d’insormontabile. Potete spegnere gli inibitori di teletrasporto, così i delegati torneranno sulle loro navi a riferire».

   La Banshee andò alla consolle e disattivò la schermatura della sala. Adesso era possibile il teletrasporto, e anche i comunicatori ripresero a funzionare. Nel frattempo lo Spettro aprì la porta, permettendo ai soldati Gorn di entrare.

   Vedendo che la situazione era sotto controllo, gli ambasciatori uscirono dal loro nascondiglio e si apprestarono a risalire. Anche Raugh si sbarazzò di Corythos, gettandolo a terra, e impugnò il suo comunicatore. «Predatore Raugh a Ssi-ruk, mi sentite?».

   «Forte e chiaro, eccellenza. State bene?» chiese il Capitano.

   «Sì, e sono aggiornato sulla situazione».

   «Allora può dirci come dobbiamo comportarci con i pirati?».

   «Lasciateli incolumi» ordinò il Gorn. «Ciò che vi hanno detto è vero: i Voth hanno tentato di ucciderci. Sssshhht! Restate in attesa. Vi raggiungerò tra poco, dopo aver sbrigato un’ultima faccenda».

   «No!» gridò Corythos, slanciandosi verso gli ambasciatori. «Non andate! Si è trattato di un increscioso incidente, ma non è troppo tardi per rimediare. La Lega dei Rettili può ancora essere una realtà!».

   «Che faccia tosta!» commentò Azel, in procinto di uscire.

   «Legato, aspetti! L’accordo può essere rinegoziato. Avrete tutti i pianeti che avete chiesto» promise il Colonnello.

   «Preferiamo avere Cardassia oggi, che tutti quei mondi domani... o mai» rispose il Legato, e lasciò la sala. Lo Spettro lo seguì, per tenerlo d’occhio.

   «Goriar! Lei almeno resterà... lo sa che non avremo problemi a scacciare le altre specie Xindi dal vostro pianeta» disse il Voth, cambiando bersaglio.

   «Gli altri Xindi non hanno mai tentato di uccidermi. Non posso dire lo stesso di voi» ribatté il Rettile. Si affrettò a seguire il collega.

   Uno dopo l’altro gli ambasciatori lasciarono la sala, compresa la Sauriana, ancora barcollante dopo essere stata colpita dall’artiglio soporifero. Corythos cercò di trattenerli, spergiurando di soddisfare le loro richieste, ma fu inutile. Le sue vuote promesse non facevano che confermare la pessima opinione che si erano fatti di lui. Ogni volta che uno degli ambasciatori varcava la soglia, era un colpo al cuore per il Colonnello.

   Infine rimasero solo i Gorn. Oltre a Raugh e ai suoi due collaboratori c’erano i soldati giunti a soccorrerli: in totale erano una decina di lucertoloni. Molti di più erano nelle altre zone dell’edificio, impegnati ad assicurarsene il pieno controllo. Per ordine del Predatore, i prigionieri Voth furono teletrasportati sull’astronave, a eccezione di Corythos.

   «Ah, sono lieto che sia rimasto!» disse il Colonnello, per quanto la cosa lo sorprendesse. «Vedrà... questo mondo sarà vostro, e così gli altri che avete chiesto. Ora che gli altri ambasciatori se ne sono andati, e non dobbiamo loro più niente, sarà facile soddisfarvi».

   «La soddisfazione che intendo prendermi è molto più immediata, Colonnello» sibilò il Gorn.

   «Che intende?» chiese il Voth, sbattendo gli occhietti acquosi.

   «Lei crede che sia rimasto per proseguire le trattative, ma si sbaglia» spiegò Raugh. «Sono qui semplicemente perché ho fame. Vede, la mia specie si nutre di carne... cotta o cruda, morta o viva, non fa differenza» disse, occhieggiando il Voth con sguardo bramoso. Si leccò le labbra, e così fecero i suoi simili. Avevano tutti l’acquolina in bocca.

   «Lei... non può dire sul serio!» esalò Corythos, facendosi blu dal terrore. Arretrò precipitosamente, ma si trovò con le spalle al muro.

   «Perché no? Quanto ci conosce, in fondo?» chiese il Gorn, con aria famelica.

   «M-ma... io e lei s-siamo simili! Siamo entrambi rettili!» balbettò il Voth, tremando come una foglia. «Dobbiamo essere solidali, in questa Galassia piena di mammiferi!».

   «Siamo entrambi rettili, già» riconobbe Raugh. «Solo che lei è un erbivoro, mentre noi siamo carnivori. Non è crudeltà, la nostra... è solo la catena alimentare». I Gorn si strinsero a semicerchio attorno al Voth, bloccandogli ogni via di fuga. Dalle loro fauci zannute uscivano sibili e ringhi famelici.

   Preso dal panico, Corythos ricorse alla sua unica arma, gli artigli soporiferi. Li scagliò tutti, sperando di stordire almeno qualche avversario, per aprirsi un varco. Ma li vide rimbalzare contro le scaglie spesse e resistenti dei Gorn. Adesso il Voth era del tutto inerme; non aveva nemmeno gli artigli per difendersi nel corpo a corpo. Attraverso uno spiraglio tra due avversari, vide la Banshee che lo osservava dal lato opposto della sala, unica spettatrice di quell’orrore. «Aiutami!» supplicò con voce strozzata. «Queste bestie mi sbraneranno... devi aiutarmi!».

   «Dovevate pensarci due volte, prima di occupare la Terra e gettarci nella Guerra Civile» rispose la corsara, per nulla impietosita. «Ora raccogliete ciò che avete seminato. Le serve aiuto? Lo chieda a Rangda, e vediamo se le risponde».

   Ciò detto, la Banshee gli dette le spalle. Lasciò la sala riunioni senza voltarsi, mentre le suppliche di Corythos si trasformavano in singhiozzi, e poi in urla strazianti. Le zanne acuminate dei Gorn lacerarono la pelle scagliosa del Voth e gli fecero la carne a brani. Il sangue schizzò sulla parete retrostante. Ben presto le grida del sauro si spensero; al loro posto si udì solo lo schiocco delle mandibole e i versi d’approvazione dei Gorn per quel lauto banchetto. Quando più tardi furono inviati degli inservienti a ripulire la stanza, del Colonnello restavano solo le ossa spolpate.

 

   Di lì a poco la Banshee passeggiava sulla terrazza panoramica dell’Istituto, in compagnia del Legato Azel. Il Cardassiano non aveva idea della sua identità, né sospettava di averla vista in volto nei giorni precedenti, sotto le mentite spoglie di una cameriera. E la mezza Andoriana era ben decisa a non dire e fare nulla che potesse fargli sorgere il sospetto. «Presto me ne andrò» disse. «Non voglio intraprendere rappresaglie contro di lei, perché è già scorso troppo sangue. Ma le do un consiglio: dica al suo governo di non azzardarsi mai più a tradire la Federazione. Oggi ve la siete cavata a buon mercato; la prossima volta non sarete così fortunati».

   «Spero comprenderà che le scelte del mio governo non dipendono da me; io sono un semplice funzionario» si giustificò il Legato. «Vado dove mi si dice di andare e faccio ciò che mi si ordina. È il Consiglio Detapa a decretare la nostra politica».

   «Avverta il Consiglio che d’ora in poi la Flotta Stellare vi terrà d’occhio» ammonì la corsara.

   «Non siamo liberi di scegliere con chi schierarci?» obiettò il Cardassiano.

   «Vi siete già avvalsi di questa libertà: avete scelto di stare con la Federazione» rispose la Banshee. «Ora che siamo in guerra, il tradimento non sarà tollerato. E se la Flotta non può spingersi troppo oltre... ci sono quelli come me, che possono» minacciò.

   «Dicevo così per dire» minimizzò Azel, ma si vedeva che aveva i brividi. «In realtà, credo che il Consiglio sarà molto adirato coi Voth, quando lo informerò del loro piano. Dica alla Flotta che può aspettarsi un forte contributo alla difesa di Bajor da parte nostra. Abbiamo messo a punto degli ordigni che... ma non è il caso di parlarne. Li vedrete sul campo».

   «Li aspetto con ansia» disse la corsara.

   Azel la osservò perplesso. «Sa, è strano parlare con lei... ho l’impressione di averla già incontrata da qualche parte» notò.

   A quelle parole, la Banshee gli si avvicinò con fare minaccioso. «Potrei essere una qualunque persona che ha conosciuto. Ma per il suo bene, Legato, mi auguro che lei non scopra mai chi sono» avvertì. «Perché in tal caso la stanerò e la ucciderò».

   Il Cardassiano la studiò con un misto d’attrazione e timore, chiedendosi se fosse sincera. Decise che non aveva voglia di scoprirlo. «Beh, forse un giorno ci rincontreremo, e non avrà più bisogno di tutta questa segretezza» si augurò.

   «Se le cose andranno bene, non ci rincontreremo» puntualizzò la corsara. «Se andranno male, invece... beh, preghi che vadano bene».

   Davanti a quel muro, il Cardassiano dovette gettare la spugna. «Legato Azel a Damar, portatemi su» ordinò, premendo il comunicatore da polso. Svanì nel teletrasporto giallastro dei Cardassiani, augurandosi di non trovarsi mai con quella furia alle calcagna.

 

   «Ci sei andata giù pesante» disse Raav, uscendo da una vicina porta.

   «Dovevo farlo» si giustificò la mezza Andoriana. «Il tradimento dei Cardassiani ci avrebbe condannati. Spero proprio che in futuro ci pensino due volte, prima di passare al nemico».

   «Chissà... coi Cardassiani non si può mai dire» sospirò il cuoco. «Allora, te ne vai anche tu?» chiese poi.

   «Per forza. E di corsa» confermò la Banshee. «I Cardassiani mi hanno aggiornata sul Fronte Occidentale. Bajor è assediato, la stazione New Frontier è distrutta. Tra pochi giorni scadrà la tregua e si ricomincerà a combattere. Anche se la Stella è veloce, non so se arriveremo in tempo per partecipare. Comunque, prima di andare vorrei ringraziarti per ciò che hai fatto in questi giorni. Senza di te non saremmo riusciti a sventare il complotto. Hai rischiato molto più del dovuto. Spero solo di riuscire a sdebitarmi, un giorno».

   «Beh, a dire il vero c’è un modo» disse il Gorn.

   «Quale?» chiese la mezza Andoriana, che malgrado l’offerta sperava di non dover posticipare la partenza.

   «Portatemi con voi» disse Raav. «Sarò il cuoco di bordo, e potrei darvi qualche dritta se passassimo in certi settori».

   «Scherzi?!» fece la corsara. «Questa sarebbe una condanna, non una ricompensa. La nostra vita è pericolosa, non facciamo che passare da una battaglia all’altra. Anche oggi la Stella ha rischiato grosso. Se non fossero intervenuti gli Hirogeni, sarebbe stata distrutta».

   «Beh, sai, anche stare qui non è la cosa più sicura del mondo... non più» spiegò il rettile. «Su questo pianeta vivono molte persone che avrebbero visto di buon occhio la creazione della Lega Rettile. Se si diffonderà la notizia che ti ho aiutata, alcune di loro potrebbero organizzare una spedizione punitiva».

   «Oh, Raav, mi dispiace!» esclamò la Banshee, sentendosi in colpa. «Non avrei dovuto coinvolgerti. Se ti accadesse qualcosa a causa mia...».

   «Ehi, calma!» la frenò il Gorn, levando la mano tridattila. «Quando mi sono offerto di aiutarti, sapevo che ci sarebbero state conseguenze. L’ho fatto perché era una missione importante, ma anche perché ho nostalgia dello spazio. Mi mancano i tempi dell’Enterprise, quando anche un semplice cuoco poteva dare qualche dritta per migliorare le cose. Dico davvero: se mi prendete con voi, mi fate un favore».

   «Ma hai il ristorante a cui badare! È un’attività ben avviata...» insisté la mezza Andoriana, cercando di fargli cambiare idea.

   «In questi giorni ho organizzato le cose in modo che i miei dipendenti continuino a gestirlo anche in mia assenza» spiegò Raav. «Con un po’ di fortuna, riprenderò le redini a fine guerra».

   «Sempre che vinciamo» notò la corsara.

   «Se perdiamo, penso che finirei male anche restando qui» ribatté il cuoco. «Allora, sono dei vostri?».

   «Dato che insisti... considerati arruolato nella banda» disse la Banshee, stringendogli la mano. «Ti avverto, però, che una nave corsara è molto diversa da una della Flotta Stellare. La ciurma non è così disciplinata... anche se sto cercando di metterla in riga».

   «Tranquilla, non è la prima volta che viaggio coi fuorilegge» rivelò il Gorn.

   «Davvero? Non ne sapevo nulla».

   «Beh, non tutto ciò che ho fatto nei miei duecento anni di vita è impeccabile» si giustificò Raav, con una punta d’imbarazzo. «E di solito non vado in giro a spiattellare le cose meno limpide».

   «Ma senti! Un tempo ti avrei tempestato di domande... ma quel tempo è passato» sospirò la corsara. Stava per contattare la Stella, quando udì un frullio d’ali. Goldie, la femmina di falcone cestiano, calò dall’alto e si posò sul suo polso teso. Era stupenda, ora che si era del tutto ristabilita. Le penne scintillavano rosse e oro alla luce del sole e gli occhietti curiosi guardavano qua e là, secondo i movimenti del lungo collo.

   «E tu che ci fai qui?» chiese la mezza Andoriana, carezzandola sul dorso con l’altra mano. «Mi spiace, stavolta non ho di che sfamarti... ehi, come hai fatto a riconoscermi?!» si stupì, dal momento che indossava ancora la tuta.

   «Mi sa che ti ha vista metterla, una volta» disse Raav.

   «Ed è bastato perché si ricordasse? Però... sei davvero intelligente, piccola» la lodò la Banshee. «Peccato che dobbiamo dirci addio! Un’astronave non è fatta per un rapace. A te servono grandi spazi» disse, continuando a carezzarla.

   «Sai, ho letto da qualche parte che a volte i falconi cestiani si affezionano molto alla persona che si è curata di loro» rivelò il Gorn. «A tal punto che se vengono allontanati deperiscono, e possono persino morire».

   «E pensi che sia questo il caso?» domandò la corsara, tentata.

   «Visto che continua a starti appresso... suppongo di sì».

   «Ma le servono grandi spazi per volare e cacciare...».

   «Avrete un ponte ologrammi, suppongo» disse Raav. «E se ti capita di scendere su un pianeta senza dovertene andare a precipizio, potresti lasciarla un po’ libera».

   «Uhm... e va bene» cedette la mezza Andoriana, sempre coccolando la creatura. «Sarai la mascotte di bordo. Cerca solo di non sporcare la poltrona di Jack; non vorrei che perdesse la pazienza e ti facesse arrosto».

   «Non vorrei che ti facesse arrosto! Roac!» strepitò Goldie.

   «Vedo che hai capito tutto» ridacchiò la corsara. «Andiamo, allora. Non c’è un minuto da perdere. Banshee a Stella, tre da portare su. Se le letture vi sembrano strane, sappiate che siamo io, Raav e un animale del posto. La nostra nuova mascotte».

   «Una mascotte?» fece Jack dalla nave. Dal tono sembrava tutt’altro che entusiasta. «Dimmi che è un pesce rosso».

   «Non proprio... forse è un pizzico più impegnativa da badare» ammise la mezza Andoriana. Stava ancora ridacchiando quando il raggio verdastro della Stella li prelevò dalla terrazza.

 

   Le astronavi degli ambasciatori lasciarono l’orbita di Cestus III, dirette ai rispettivi pianeti. Presto tutte le specie rettili sarebbero state informate della slealtà dei Voth. La Stella del Polo e la nave hirogena si trattennero ancora brevemente. I due vascelli orbitavano affiancati, con gli equipaggi intenti alle riparazioni. Approfittando della pausa, i corsari teletrasportarono i Cacciatori che avevano salvato dalla nave di Dorvic sul loro vascello superstite. Anche la Banshee andò sulla nave hirogena, dove fu ricevuta da Garid e Vitani.

   «Sono qui per ringraziarvi dell’aiuto, e per esprimere le mie condoglianze» disse la corsara. «La scomparsa di Dorvic ci addolora...».

   «Era così che voleva andarsene, da guerriero» sospirò Vitani.

   «In ogni caso, siamo in debito con voi» riconobbe la mezza Andoriana. «Se un domani vi servisse aiuto, non esitate a chiamare. Intanto vorrei restituirvi questo». Così dicendo le offrì l’antico pugnale del clan. «Norrin lo trovò nel relitto della nave che perdeste a Procyon. Di lì a poco lo donò alla sua amica Jaylah, che gli aveva salvato la vita. E Jaylah a sua volta lo ha dato a me, per lo stesso motivo» disse la Banshee. Non rivelò d’essere lei Jaylah. Per quanto si fidasse di quegli Hirogeni, la sua identità era un segreto che custodiva tenacemente. «Poiché oggi ci avete salvati, a carissimo prezzo, è giusto che torni a voi. Alla nuova Alfa. Spero che l’aiuti a farsi rispettare» aggiunse.

   «Mi farà comodo, sì» ammise Vitani, prendendo con deferenza il pugnale. Per qualche secondo ne ammirò la lama istoriata, poi se lo mise in cintura. Per un popolo tradizionalista come il suo, era importante riavere il loro cimelio più antico e onorato.

   «Suo padre era fiero di lei... sono state le sue ultime parole» aggiunse la Banshee, che ne era stata informata dallo Spettro.

   «E io di lui» disse Vitani. «Quando torneremo a casa, brinderemo in suo onore e canteremo le sue gesta. È così che vorrebbe essere ricordato».

   Per un attimo ci fu silenzio, poi la mezza Andoriana decise di cambiare argomento. «La vostra nave come sta?» chiese, notando i tecnici affaccendati.

   «Bene, considerando che questo è stato il battesimo del fuoco» rispose Garid. «Ha preso qualche bottarella, ma tornerà come nuova in due o tre giorni. Nel frattempo ci allontaneremo a velocità impulso».

   «Vorrei fornirvi qualcuno dei nostri ingegneri, per aiutarvi, ma non abbiamo dimestichezza con la vostra tecnologia» si scusò la corsara. «Inoltre abbiamo ricevuto notizie preoccupanti su Bajor e vorremmo raggiungerlo al più presto».

   «Andate, non preoccupatevi per noi. Ce la caveremo» assicurò Vitani. «Se vede Norrin, lo saluti da parte nostra. Gli dica che l’Alfa manda i suoi auguri» disse, concedendosi un fugace sorriso.

   «Lo farò; alla prossima» salutò la Banshee. Il teletrasporto la riportò sulla Stella.

   «Allora?» chiese Jack.

   «Tutto a posto, non ce l’hanno con noi» lo rassicurò Jaylah, facendo rientrare il casco nella tuta. «Possiamo andare. Rotta verso Bajor, massima curvatura!» ordinò, accomodandosi sulla poltrona di comando.

   «Massima curvatura! Roac!» le fece eco Goldie. Il falcone cestiano si era appollaiato in cima allo schienale. Per essere una creatura selvatica, si era adattato in fretta al nuovo ambiente; segno forse della sua notevole intelligenza.

   «Devo ammetterlo... dà un tocco piratesco che finora ci mancava» riconobbe Jack, con un sorriso ironico.

   «Allora ti piace?» chiese la mezza Andoriana.

   «Diciamo che lo trovo sopportabile» rispose l’Umano. Aprì una scatolina che si era portato dietro, cavandone un bocconcino di carne, e lo gettò al falcone. Questo tese il collo e lo ingoiò al volo, agitando un poco le ali per restare in equilibrio sullo schienale di Jaylah.

   La Stella del Polo lasciò l’orbita. La missione a Cestus III era finita; il pianeta verdastro rimpicciolì dietro la nave dei corsari, fino a confondersi con le stelle. La loro rotta li portava ora verso Bajor, il fronte più rovente del conflitto.

 

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Capitolo 8
*** Kosst Amojan ***


-Capitolo 7: Kosst Amojan

 

   Il giorno decisivo per Bajor era arrivato. Fin dal mattino, entrando nel centro di comando, Sisko notò che gli ufficiali erano tesi sino al punto di rottura. In quei dieci giorni avevano quasi dimenticato la spada di Damocle che pendeva su di loro, emozionati com’erano dal ritorno dell’Emissario. Ma ora che il tempo stava per scadere, e che vedevano la flotta nemica schierata, il terrore stava riprendendo il sopravvento. Tutti i loro preparativi sembravano inutili contro la forza smisurata dei Pacificatori e dei Breen. Si sentivano come bambini che hanno costruito un castello di sabbia e che, nel momento in cui ammirano il frutto delle loro fatiche, vedono arrivare l’onda che lo cancellerà.

   Consapevole di questo, il Capitano fece un breve discorso d’incoraggiamento. I Bajoriani lo ascoltarono speranzosi, ma il loro morale era appeso a un filo. Sisko sapeva che lo stesso timore dilagava sulle astronavi, anche quelle della Flotta Stellare. Ma dovevano tenere duro, perché fuggire a quel punto avrebbe indotto altri mondi federali ad arrendersi.

   Le ore passarono veloci come minuti. Su Deep Space Nine, come sulle astronavi, gli equipaggi terminarono i preparativi. Alcuni ingegneri rimasero al lavoro fino all’ultimo minuto per riparare i danni della precedente battaglia. La stazione fu evacuata da tutto il personale non essenziale, finché anche Juri e Vasa furono richiamati.

   «Non posso tornare» disse lo storico, parlando al Capitano Hod da uno schermo del laboratorio. «Elvo ci ha promesso informazioni sul Cristallo, ma quella canaglia vuole aspettare l’inizio della battaglia».

   «Non le viene il sospetto che stia mentendo?» suggerì l’Elaysiana. «Magari vuole solo costringervi a rimanere lì, dove correte più rischi».

   «Non più di quanti ne corrano Sisko e gli altri» obiettò l’Umano. «Se le difese cedono, seguiremo il piano d’evacuazione».

   «Non posso dare ordini alla dottoressa Agni, ma a lei sì. Voglio che rientri» insisté Hod.

   «La prego, Capitano... lo devo fare» disse Juri, accorato.

   «Cosa cerca, redenzione? Lasci perdere!».

   «Capitano, voi avete la vostra battaglia contro i Pacificatori, ma noi abbiamo la nostra contro Kosst Amojan. E mi permetta di dire che non è meno importante» sostenne Juri. «Ce la lasci combattere».

   «E va bene» si arrese il Capitano. «Lei è... molto coraggioso. Spero che non dovrò rimpiangerlo». Con queste parole chiuse la comunicazione.

   Juri si rivolse a Vasa, che aveva appena avuto una conversazione analoga con il Ministro della Difesa bajoriano. «Posso restare» le disse.

   «Anch’io» confermò Vasa. «È quasi l’ora, andiamo».

   «Sì, Elvo dovrà sputare il rospo» convenne Juri. I due lasciarono il laboratorio, che non avrebbero mai più visto.

 

   A mezzogiorno in punto – ora della capitale – Pacificatori e Breen si mossero, lasciando dieci navi di guardia al Tunnel Spaziale. Puntarono direttamente contro Bajor, ignorando per il momento le colonie sugli altri pianeti. Quelle sarebbero cadute facilmente, una volta sconfitta la Flotta Stellare.

   I difensori erano schierati attorno a Deep Space Nine. Da un lato vi erano settanta navi della Flotta Stellare; dall’altro appena una sessantina di vascelli bajoriani e cardassiani. La stazione però era circondata da piattaforme orbitali, sottratte al perimetro difensivo del pianeta. Era il miglior schieramento possibile, date le circostanze; ma del tutto inadeguato contro gli oltre seicento vascelli nemici. Di conseguenza Sisko si era preparato alla peggiore delle ipotesi, la caduta di Bajor. Tutte le navi trasporto disponibili erano state radunate nell’orbita bassa, appena sotto lo Scudo Planetario. Erano stipate con gli Umani del pianeta, oltre a un certo numero di Bajoriani che, per il loro impegno nella Federazione, erano particolarmente esposti alle ritorsioni. Il convoglio avrebbe lasciato Bajor, se le difese avessero ceduto; ma tutti sapevano che i trasporti avevano ben poche speranze di sfuggire alle veloci navi da guerra nemiche.

   Pacificatori e Breen, sempre mischiati, si fermarono a poche migliaia di km dai difensori. Ancora una volta Radek fissò la Keter, mentre Hod scrutava il Moloch. Entrambe le navi erano state riparate dai lievi danni subiti nello scontro precedente e i Capitani erano decisi a non lasciarsi più interrompere. Quella sfida lunga un anno doveva giungere all’epilogo.

   «Bina...».

   «Radek...».

   Nello stesso momento anche le due navi ammiraglie, la Takiah e la Defiant, si fronteggiarono. La chiamata dei Pacificatori fu però diretta alla stazione.

   «Capitano Sisko» esordì Vidkung. «Speravo che questi giorni di tregua inducessero i Bajoriani a ritrovare la ragione. Ma il vostro schieramento lascia intendere che ciò non sia avvenuto. Li ha indotti lei a questa scelta scriteriata?».

   «Il governo bajoriano ha deciso in piena autonomia» rispose Sisko. «Piuttosto, dovreste chiedervi perché tanti mondi vi resistono fino all’ultimo. Forse non siete i liberatori che pensate. Forse siete solo degli invasori».

   «O forse siete voi ribelli che tenete in ostaggio Bajor» ribatté Modro, facendosi avanti. «Lo ammetto, fingere il ritorno dell’Emissario è stata una buona idea per tacitare le opposizioni. Ma cos’avete guadagnato, in realtà? Solo un’altra battaglia, in cui sarete sconfitti, e un trattamento più duro per Bajor. Voi non amate il mio pianeta... voi lo odiate, e volete fargli tutto il male possibile».

   «Mi spiace che la pensi così, nipote» disse Sisko, addolorato. «Avrei voluto incontrarti di persona, per farti capire che non sono ciò che pensi».

   «C’incontreremo, alla fine» disse Modro, più ostile che mai.

   «Ehm, ehm» tossicchiò l’Ammiraglio, riprendendo il filo del discorso. «Dunque rifiutate quest’ultima possibilità di resa?».

   «La rifiutiamo» confermò Sisko.

   «Possano i vostri figli perdonarvi» disse l’Ammiraglio, e chiuse la comunicazione. Pochi attimi dopo i Pacificatori e i Breen mossero all’attacco. Quando i loro colpi martellarono gli scudi della vecchia stazione, anche i Bajoriani più devoti si dissero che stavolta avevano chiesto un miracolo troppo grande.

 

   Sentendo tremare la stazione, Elvo lasciò la brandina e si mise in ascolto. Posò una mano sulla parete della cella, per meglio avvertire le vibrazioni. «Lo sentite anche voi, amici?» chiese in tono beffardo, guardando Juri e Vasa. «L’ora del Giudizio si avvicina. Il Signore dell’Eterno Fuoco sta per spezzare le catene».

   «Quella che senti è la battaglia contro i Pacificatori» lo corresse Vasa.

   «E chi vi dice che la battaglia non faccia parte del Suo piano?» ribatté il Gran Maestro, con un sorrisetto arguto.

   «Basta coi giochetti, Elvo» lo avvertì Juri. «Se non hai niente d’interessante da dirci, ce ne andremo. Per sempre».

   «Oh, sono certo che il vostro interesse si risveglierà, quando saprete ciò che la Kai e l’Emissario vi hanno nascosto!» disse il Bajoriano, accostandosi al campo di forza. Il suo volto era acceso dall’esaltazione. «Mia cara Vasa – posso chiamarti così? – dimmi, non è forse vero che i tuoi tentativi di distruggere il Cristallo di Fuoco sono miseramente falliti? Povera ingenua... non hai capito che il Cristallo è infrangibile, quali che siano le vostre tecnologie. Non si può sconfiggere Kosst Amojan... ma coi dovuti accorgimenti, ci si può convivere» rivelò.

   «Come?» chiese Juri.

   «Con un patto, naturalmente. Non è ciò che fate sempre voi federali? Accordarvi, trovare un compromesso? Dovrebbe piacervi» sogghignò Elvo.

   «Non ci si può accordare col Maligno!» insorse Vasa. «È il signore della menzogna!».

   «Questo chi ve l’ha detto? I Profeti! Sempre e solo loro!» ribatté Elvo. «Eppure i Profeti non impedirono che si combattessero guerre di religione in loro nome. Non fermarono i Cardassiani, quando vennero a conquistarci. Di certo non fermeranno i Pacificatori. E ancora dicono di amarci! Guardati dentro, Vasa, e chiediti chi sono i veri bugiardi».

   La Bajoriana sembrò colpita, ma si riebbe in fretta. «Non sono stati i Profeti a uccidere, in questi anni. È stato il tuo Kosst Amojan!» ricordò.

   «A volte l’unico modo per risanare la terra è bruciare le sterpaglie» ribatté Elvo. «Mi spiace che non l’abbia capito, tu che hai avuto l’onore di ospitare il Signore del Fuoco».

   Mentre i due battibeccavano, Juri andò alla consolle della sala di guardia e attivò la macchina della verità. Si trattava di un complesso apparato sensoriale che analizzava i segni vitali del prigioniero, confrontandoli con le letture degli interrogatori precedenti, per determinare se era sincero. Nel caso dei Bajoriani, l’affidabilità del dispositivo oltrepassava il 99%. Fatto questo, l’Umano tornò da Elvo. «Hai detto che ci si può accordare col tuo padrone» disse, richiamando la sua attenzione. «In che modo?».

   Il Gran Maestro sorrise e si rivolse all’Umano, mentre i tremiti della stazione aumentavano. «In primo luogo dovete aprire voi stessi la teca, prima che sia lui a uscire, e pronunciare l’invocazione rituale» spiegò. «Ma questo non basta. Per avere la benevolenza di Kosst Amojan, dovete compiere il più alto dei sacrifici».

   «Un sacrificio umano... dovevo immaginarlo» si rabbuiò Juri.

   «Umano! Che termine provinciale!» sbuffò il Bajoriano. «Dovete sacrificare un essere senziente, certo. E non uno qualunque. No... l’officiante deve togliere la vita alla persona che ama più d’ogni altra. Deve rinunciare per sempre al suo vero amore. Solo così otterrà una grazia dal Signore dell’Eterno Fuoco!».

   Juri e Vasa si guardarono angosciati, mentre la stazione vibrava per la battaglia e il campo di forza sfrigolava, compensando il calo di potenza. Quella rivelazione non giungeva del tutto inattesa. Era come se fosse aleggiata a lungo nel loro subconscio, e ora che si palesava non potevano che prenderne atto.

   «Ma guarda che piccioncini!» gongolò Elvo, godendo della loro disperazione. «State già pensando l’uno all’altra, vero? E il povero Modro non si è ancora unito alla brigata! Forse dovreste aspettarlo, e discuterne tutti e tre assieme!».

   «Sta’ zitto!» gridò Vasa, prossima alle lacrime.

   «Eh no, mi avete chiesto voi di parlare!» disse il Gran Maestro, leccandosi le labbra dalla soddisfazione. «Dunque lo farò sino in fondo... e voi mi ascolterete, perché non potete andarvene da qui con un quadro incompleto».

   L’archeologa gli rivolse le spalle, per non mostrare il dolore che le sfigurava il volto. Ma come aveva detto Elvo, non poté lasciare la camera di guardia. Juri non fece neanche quel gesto. Continuò a fissare il Bajoriano, senza realmente vederlo. Solo la sua voce gli riempiva il cervello.

   «Dunque, sappiate che il sacrifico è irreversibile» proseguì Elvo. «È logico, no? Non potete uccidere la vostra dolce metà e poi chiedere a Kosst Amojan di restituirvela... questo svuoterebbe di significato la prova. Per il resto, però, avete ampia facoltà di scelta. Potete chiedere al Signore del Fuoco di risparmiare voi e la vostra gente. Potete persino chiedergli di annientare i vostri nemici, ed egli lo farà. Vi piacerebbe, eh? Ammettetelo! Un vostro ordine e quei Pacificatori arroganti periranno tra le fiamme».

   «Perché mai Kosst Amojan dovrebbe obbedirci?» chiese Juri, cercando di razionalizzare. «In che modo il nostro sacrificio lo vincolerebbe?».

   «L’Universo si regge su un perfetto equilibrio, dottor Smirnov» rispose Elvo, alzando l’indice. «Il sacrificio di un’anima crea un vuoto che deve essere colmato. Se si cede qualcosa, si otterrà qualcos’altro; è inevitabile. Nemmeno i Pah-wraith possono sottrarsi a questa legge, anzi! Loro che sono più elevati di noi, più perfetti spiritualmente, sono vincolati a maggior ragione. Un’anima per una grazia; questo è il patto».

   «Do ut des» mormorò Juri, ricordando che gli antichi culti terrestri avevano concetti simili. Ma sulla Terra i sacrifici umani erano passati dal sacro al sacrilego molto tempo addietro. «Si può sacrificare se stessi, così che sia un alleato a beneficiarne?» chiese con un tremito.

   «Assolutamente no!» lo gelò il Bajoriano. «Solo chi compie il sacrificio acquista un credito, che può riscuotere esprimendo un desiderio. Se ti uccidessi da solo, il sacrificio andrebbe completamente sprecato».

   «Perché ci racconti questo?» chiese Vasa, sempre dando le spalle a Elvo. «Tu vuoi che il Maligno vinca, quindi non dovresti darci il potere di controllarlo».

   «Magari sono curioso di vedere che farete, ora che conoscete le regole del gioco» sogghignò il Gran Maestro. «Voi che vi considerate dalla parte del giusto, sacrificherete il vostro grande amore per il bene superiore? E in tal caso, cosa chiederete al Signore del Fuoco? Non sarebbe una buona idea fargli annientare gli invasori, prima che conquistino Bajor? Pensateci bene, amici miei... ma fatelo in fretta!». Così dicendo il Bajoriano tornò a stendersi sulla brandina, ridacchiando tra sé, mentre Deep Space Nine si scuoteva sempre più forte.

   Capito che non gli avrebbero cavato altro, Juri andò alla consolle, controllando i risultati della macchina della verità.

   «Ebbene?» chiese Vasa, con aria distante.

   «Se dobbiamo credere a questa ferraglia, Elvo ha detto il vero» ammise lo storico. «O almeno ne è convinto».

   La Bajoriana chiuse gli occhi per qualche secondo. Se lo aspettava; se lo sentiva nell’anima.

   «Ehi, il fatto che lui ci creda non significa che abbia ragione» argomentò Juri. «Sai a quante idiozie credono gli Adoratori! Questa sarà fuffa, come il resto».

   «Non è fuffa» disse però Vasa, fissandolo con sguardo tragico. «Mi sento come se lo avessi sempre saputo. Forse è una conoscenza che il Maligno ha lasciato in me, latente».

   «Potremmo chiedere conferma a Sisko e Nashir...».

   «Ora che la battaglia è in corso, non credo che riusciremmo a parlare con loro» obiettò Vasa. «In ogni caso, se ce l’hanno nascosto continueranno a negare».

   «Magari hanno una buona ragione per nasconderlo» borbottò Juri. «Tipo che non ci si può fidare di Kosst Amojan». Ricordò che la Kai gli aveva fatto promettere di non accordarsi mai con il Maligno, e anche i Profeti lo avevano esortato a non stringere patti. Forse lo avevano fatto in previsione di quel momento. «Andiamo via» disse, prendendo Vasa a braccetto. Lasciarono la sala di guardia, mentre la stazione scricchiolava sempre più forte. Come diceva Elvo, restava poco tempo per decidere.

 

   Nell’orbita di Bajor furoreggiava la battaglia. Pacificatori e Breen bersagliavano Deep Space Nine, cercando di perforarne gli scudi, come avevano fatto con la New Frontier. Oltre al fuoco della stazione e a quello dei vascelli nemici, tuttavia, subivano anche quello delle piattaforme difensive. Era una gragnola capace di soverchiare anche le navi più potenti. E come al solito, i federali si accanivano in particolare sui Breen, che avevano scudi più deboli. Le astronavi asimmetriche andarono in pezzi, ma Thot Rong ne inviò altre a riempire i vuoti. C’era sotto qualcosa di più dell’accordo con Rangda. Per la prima e unica volta nella loro storia, gli imperscrutabili alieni corazzati lasciarono perdere la strategia e si abbandonarono alla vendetta. Era dalla Guerra del Dominio che detestavano quella stazione, simbolo della loro sconfitta; questo era il momento di lavare l’onta. Il ritorno di Sisko, il loro vecchio nemico, accresceva la sete di rivincita. Così continuarono ad attaccare, incuranti delle perdite.

   Nel frattempo i Pacificatori cercavano di abbattere le piattaforme difensive; ma trovarono pane per i loro denti. Le piattaforme erano modelli cardassiani di ultima generazione; potevano sparare a getto continuo e girare sui loro assi per seguire il bersaglio. Molti timonieri, che pensavano d’essersi portati fuori tiro, si accorsero che quegli arnesi non avevano punti ciechi. A lungo andare i Pacificatori, più numerosi, avrebbero prevalso; ma per adesso pagavano un prezzo salato.

   In quel pandemonio, due astronavi si cercavano, disdegnando ogni altro scontro. La Keter e il Moloch si trovarono, si persero nella confusione e infine giunsero di nuovo a scontrarsi. Le loro evoluzioni attorno a Deep Space Nine furono riprese dalle altre navi ed entrarono nella leggenda. I cittadini dell’Unione dovettero ammettere che c’era qualcosa d’indomabile in quella nave ribelle, che non si sottraeva allo scontro con un vascello assai più potente. E i federali ammisero che anche i Pacificatori avevano coraggio, nel volare tra il modulo centrale e l’anello d’attracco, con il rischio di un impatto rovinoso. Le manovre delle astronavi e le decisioni dei Capitani furono studiate nelle accademie militari di ambo gli schieramenti. Ma questo a Hod e Radek non importava minimamente; la loro era una faccenda personale.

   «Dovremmo intervenire» suggerì Modro, osservandoli.

   «Negativo» disse Vidkung, che come al solito teneva la Takiah nelle retrovie. «Interverremo quando gli scudi della stazione cederanno. Lei è pronto a guidare la squadra d’assalto?».

   «Sì, signore» garantì il Bajoriano, sfiorandosi il phaser in fondina. La sua missione era recuperare il Cristallo di Fuoco, ma sperava che l’abbordaggio gli offrisse l’occasione per salvare Vasa. Se poi avesse incontrato il dottor Smirnov, tanto meglio.

 

   Quando Juri e Vasa chiesero di entrare nella camera del Cristallo, i sorveglianti li osservarono con sospetto. «Non pensavo che foste ancora qui» disse il caposquadra. «Dovete portar via l’artefatto? Perché io non ho ricevuto alcun avviso».

   «Senta, non c’è tempo per spiegare» s’innervosì Vasa. «Mi conosce, no? Su, ci faccia entrare» disse, accennando anche a Juri.

   «È tardi per i vostri studi... ma va bene, andate» cedette il Maggiore.

   L’archeologa digitò il proprio codice d’autorizzazione e passò il pollice sul lettore di DNA. Il portone di yiterium si sollevò, mostrando la camera blindata con il Cristallo nella sua teca. Le pareti erano annerite qua e là dagli incendi spontanei.

   «Grazie» sorrise Vasa, passando accanto al caposquadra. Mentre gli era vicina, allungò una mano e gli sottrasse il phaser dalla fondina.

   «Ehi!» fece il Maggiore, colto alla sprovvista. Cercò di riprendersi l’arma, ma Vasa scivolò nella camera blindata e attivò un comando che richiuse il portone. Solo Juri, che si aspettava una mossa del genere, ebbe la prontezza di entrare. Si tuffò in avanti e rotolò a terra, sfuggendo per un soffio al portone che si abbassava. Balzò di nuovo in piedi, estraendo il fulminatore elettrico che teneva nascosto nella manica. Nello stesso attimo anche Vasa alzò il phaser che aveva sottratto al Maggiore. Restarono immobili, a parte il respiro un po’ ansante, mirandosi reciprocamente al cuore.

   «Avanti, spara!» sbottò Juri.

   «No, spara tu!» ribatté Vasa.

   «Sapevi che ero armato. Volevi che ti uccidessi».

   «E tu sei entrato perché volevi che io ti uccidessi».

   «Okay, tutti e due volevamo che fosse l’altro a ucciderci» sbuffò l’Umano. «Ora che ne diresti di deporre le armi, così ne parliamo? E non pensare di auto-immolarti, perché Elvo è stato chiaro: il sacrificante deve uccidere un’altra persona».

   «C’è poco da discutere; io sono la scelta più logica» disse Vasa, senza deporre il phaser. «In passato sono stata strumento di Kosst Amojan; ora posso fermarlo. È ciò a cui ho lavorato per sei anni. Se questo è l’unico modo, mi sta bene».

   «Ma non sta bene a me!» obiettò Juri. «Ascolta, quand’ero coi Na’kuhl ho fatto cose orribili. Ero pronto a cancellare dalla Storia te, i miei colleghi, tutti! Per salvare un’unica persona».

   «E non è meglio sacrificare un’unica persona, per salvare tutti gli altri?» ritorse Vasa.

   «Non tu, maledizione... non accetto che sia tu!» inveì l’Umano. «Quand’eri influenzata dal Maligno non avevi scelta, mentre la mia alleanza con Vosk fu volontaria. Se c’è qualcuno che deve scontare, quello sono io» disse, gettando il fulminatore.

   «Che fai? Raccoglilo subito!» ordinò Vasa.

   «No... lo sai anche tu, che deve andare così» sospirò Juri. «Se muoio io, saranno in pochi a dolersene. Tu lasceresti un vuoto in molte più vite. Avanti, non starci a pensare... spara! Poi ordina al Maligno di tornarsene nelle Caverne di Fuoco e non uscire mai più».

   L’Umano allargò le braccia, pronto a ricevere il colpo mortale. Era convinto che di lì a un attimo sarebbe morto... e a differenza dei Bajoriani, non aveva la consolante certezza di una ricompensa ultraterrena. Ma preferiva finirla adesso, piuttosto che vedere i Pacificatori conquistare un pianeta dopo l’altro, cancellando la cultura umana.

   «Mi dispiace, Juri!» singhiozzò Vasa. Le lacrime le annebbiavano la vista, impedendole di mirare, e le mani le tremavano tanto che il phaser quasi le sfuggì. Si asciugò gli occhi col dorso della sinistra e rinsaldò la presa sull’arma. «Mi spiace tanto, amore mio!» mugolò, cercando di mirare il cuore.

   A pochi metri da loro la teca del Cristallo sfrigolò, come se Kosst Amojan pregustasse l’offerta che stava per giungergli.

 

   Dopo mezz’ora di battaglia, gli scudi di Deep Space Nine si erano indeboliti a tal punto che alcuni colpi nemici intaccarono lo scafo. Ci furono crepe e si aprirono un paio di falle. Ma il peggio doveva ancora venire.

   Vedendo che gli scudi stavano per cedere, un vascello Breen si fece avanti, superando l’intenso fuoco di sbarramento. Bersagliò l’anello d’attracco là dove lo schermo era più debole. Ilia notò subito il pericolo e ordinò di concentrare il fuoco. La Defiant colpì il vascello nemico sulla fiancata, col cannone a impulso e i siluri, danneggiandolo gravemente. Fiammeggiando dagli squarci, la nave Breen proseguì la sua traiettoria... dritta contro l’anello.

   «Raggio traente!» ordinò Ilia. La Defiant agganciò il vascello Breen, cercando di deviarlo, ma il Moloch si frappose, bloccando il raggio. Dietro quel riparo, i Breen continuarono l’attacco kamikaze, fino a collidere.

   L’immane esplosione disintegrò la nave Breen, come anche un terzo dell’anello d’attracco. L’aria uscì a fiotti dai corridoi esposti, finché i campi di forza si attivarono, arginando la perdita. Innumerevoli detriti crivellarono il resto della stazione; alcuni erano così grossi che aprirono altre falle. Deep Space Nine vibrò in tutta la sua struttura; il personale fu scaraventato a terra, le consolle esplosero, i danni a cascata si propagarono nei sistemi. Nel centro di comando, Benjamin Sisko fu scagliato in avanti e rotolò due volte a terra, prima di riuscire a fermarsi; ancora pochi centimetri e avrebbe battuto la testa contro uno spigolo. Si rialzò prontamente, mentre gli allarmi squillavano a tutto spiano. Aiutò gli ufficiali a riprendersi e al tempo stesso dette ordini per salvare la stazione.

   Sulla Defiant, Ilia restò impietrita per qualche secondo. Vedere l’amata stazione che s’inclinava, con l’anello infranto e gli scudi abbassati, era un colpo al cuore. «Benjamin...» sussurrò, temendo per l’amico; ma non c’era tempo d’informarsi su di lui. «Ammiraglio Tarn a flotta, piano B» ordinò. Le astronavi si compattarono, cercando di respingere la marea nemica. La Keter si allontanò dalla stazione, inseguita dal Moloch.

   «Ammiraglio, la Takiah ha abbassato gli scudi» avvertì inaspettatamente l’Ufficiale Tattico.

   L’ammiraglia nemica era sempre nelle retrovie, ma il timoniere manovrò in modo che il collega avesse il tiro libero. La Defiant colpì, ma gli impulsi phaser si arrestarono contro gli scudi nemici, prontamente rialzati.

   «Ebbene?» chiese Ilia.

   «Hanno abbassato gli scudi solo per tre secondi, non ho fatto in tempo a colpirli» si giustificò l’Ufficiale Tattico.

   «È il tempo di un teletrasporto rapido» notò l’addetto ai sensori. «Ammiraglio, ho rilevato trenta tracce di teletrasporto dalla Takiah a DS9, divise in due gruppi. Hanno abbordato la stazione».

   «Peggio per loro» disse la Trill, osservandola. Le piattaforme orbitali si erano riconfigurate, dopo il suo ordine, e avevano smesso di sparare. Tutta la loro potenza andava ora agli scudi. Si attivarono simultaneamente.

   Fino a quel momento Deep Space Nine era stata difesa da uno scudo aderente, emanato dalla stazione stessa. Le astronavi potevano accostarsi e perfino fare evoluzioni tra il modulo centrale e l’anello d’attracco, rimanendo fuori dalla barriera. Ora non era più così. Un nuovo scudo, a forma di bolla, avvolse la stazione, generato dalle venti piattaforme che la circondavano. L’idea era venuta studiando la ragnatela tholiana, uno dei ritrovati bellici più efficaci e originali del Quadrante.

   Lo scudo a bolla scintillò nel momento dell’attivazione, poi divenne invisibile. Deep Space Nine era di nuovo schermata, ma quella breve finestra di vulnerabilità aveva lasciato delle conseguenze. Trenta Pacificatori si facevano strada al suo interno, contendendo il terreno alla Milizia Bajoriana. Una prima squadra era diretta al centro di comando, per neutralizzare l’Emissario. La seconda, guidata da Modro, puntava alla camera del Cristallo.

 

   L’impatto della nave Breen scaraventò Juri e Vasa contro la parete della camera blindata. Il campo di forza che proteggeva il Cristallo si disattivò e la teca cadde sul pavimento. Le sue ante si socchiusero, lasciando filtrare una lama di luce scarlatta. Accortosi del pericolo, Juri si precipitò accanto alla teca e la richiuse. Invece di rimetterla a posto la lasciò a terra, nel caso ci fossero altri scossoni simili.

   «Ohi... cos’è stato?» fece Vasa, rialzandosi solo in quel momento. Era dolorante per l’urto, ma aveva ancora il phaser.

   «Sisko a equipaggio, attenzione!». La voce del Capitano veniva dai comunicatori. «Una nave Breen ha impattato contro l’anello d’attracco. I campi di forza sigillano le falle e il supporto vitale è attivo, ma abbiamo una perdita al sistema energetico. Lo scudo ausiliario ci protegge, per ora, ma il nemico tornerà all’attacco. Abbiamo anche una violazione della sicurezza: una squadra nemica sul ponte 1 e un’altra sul ponte 15. A tutti gli agenti, convergere sugli intrusi. Agli ingegneri chiedo di sigillare la perdita. Ma tutto il personale deve tenersi pronto all’evacuazione. Sisko, chiudo».

   «Ancora non ha detto nulla del Cristallo!» borbottò Juri. «Se non fosse impossibile, direi che se l’è dimenticato. Beh, noi no. Avanti, Vasa... spara» disse, allargando di nuovo le braccia per fare da bersaglio.

   «Io... non posso» disse la Bajoriana.

   «Invece devi» la esortò l’Umano. «Hai sentito Sisko? La seconda squadra nemica è due ponti sopra di noi. Mi gioco la testa che vengono a prendere il Cristallo. Dobbiamo controllare Kosst Amojan prima che arrivino, o lo faranno loro».

   «I Pacificatori non sanno che si può controllare il Maligno» obiettò l’archeologa.

   «E se invece lo sapessero? Hai idea di cosa potrebbero fare?» fece Juri, sempre più ansioso. «Dobbiamo precederli... devi sparare».

   «Non posso, ti ho detto!» gemette Vasa.

   «Ma sono io che te lo chiedo!».

   «Non è per quello» disse l’archeologa, con voce incrinata. «Non credo che il sacrificio funzionerebbe». Si girò per celare gli occhi arrossati dal pianto.

   «Perché no? Se tu...» cominciò Juri, ma si bloccò. Per interminabili secondi regnò il silenzio. La realtà era ormai chiara all’Umano, che solo adesso comprendeva lo strazio della Bajoriana.

   «Capisco» disse Juri, nel tono senza enfasi della delusione. «Perché il sacrificio funzioni, devi uccidere la persona che ami di più. E io non sono quella persona. Peccato... se dovevo morire, speravo almeno che qualcuno mi rimpiangesse».

   «Tu... mi sei molto caro» disse Vasa, con voce arrochita. Gli dette un’occhiata furtiva per poi distogliere nuovamente lo sguardo. «Ma ci sono altri, nel mio cuore, che non posso scordare. Io... non sono certa di amarti più d’ogni altro, e non posso rischiare di ucciderti per niente».

   «Ho l’impressione che tu non ti riferisca ai tuoi parenti» disse l’Umano. «Quindi non resta che... lui. Dopo tutto ciò che ti ha fatto... dopo che tu stessa gli hai detto di non farsi più vedere... lo ami ancora» disse senza rabbia. C’era qualcosa di affascinante, in quella tragedia; l’ennesima prova della contraddittorietà dei sentimenti.

   «Modro e io siamo stati sposati per sette anni» mormorò Vasa. «Non posso scordare una fetta così importante della mia vita. Mi spiace, Juri...».

   «Ti spiace di che? Di avermi preso come tizio di rimpiazzo?».

   «Mi spiace che le nostre strade si siano incrociate di nuovo» disse la Bajoriana, tornando a fronteggiarlo. «Sarebbe stato meglio, per entrambi, che non fosse mai accaduto».

   «Però è successo, e siamo qui» insisté Juri. «I Pacificatori stanno arrivando...».

   «Sì, stanno arrivando». Vasa annuì vigorosamente. «Io non posso ucciderti, perché sarebbe inutile. Quindi devi essere tu a uccidere me. Fallo subito». Gli mise in mano il phaser, costringendolo a chiudere le dita attorno all’impugnatura. Dopo di che indietreggiò verso la parete e allargò le braccia, facendo da bersaglio.

   «Avanti, Juri. Se mi ami davvero, fa’ ciò che dico. E non preoccuparti per me... so che i Profeti mi accoglieranno» disse la Bajoriana, ma l’Umano si avvide che tremava come una foglia. Che credesse o meno a ciò che diceva, la vita le era cara.

   Lo storico la prese di mira. Il suo braccio sembrava diventato pietra; faceva una fatica terribile a tenerlo sollevato. L’indice, poi, rifiutava di premere il grilletto. «E se non funziona?» mormorò.

   «Deve funzionare!».

   «Perché deve?!» s’intestardì Juri. «Solo perché tutto il resto ha fallito? O perché ce l’ha detto Elvo? Se fosse tutto un suo inganno?».

   «Non ricominciare! Se c’è una possibilità su un milione che questo ci protegga dal Maligno, vale la pena tentare» insisté Vasa.

   «Proteggerci! Di solito i patti col Diavolo non finiscono bene» borbottò l’Umano. «Conosci il Faust?».

   «No, cos’è? Un trattato di demonologia terrestre?».

   «Lascia stare. Volevo solo dire che in questi accordi c’è sempre una pecca fatale» spiegò Juri. Abbassò il phaser e camminò nervosamente avanti e indietro. «Tipo che il demonio si prende la tua anima, o aggira gli ordini con qualche cavillo linguistico. C’è un motivo se tutti i racconti tradizionali mettono in guardia da questo tipo d’accordi. Anche Kai Nashir mi aveva avvertito! Mi ha fatto promettere che non sarei sceso a patti con Kosst Amojan. E dovrei rimangiarmi la parola? No».

   «Si tratta di salvare Bajor!».

   «Salvarlo da cosa? Se è da lui, troverà il modo di aggirare l’ordine» disse Juri, indicando la teca col Cristallo di Fuoco. «Se è dai Pacificatori, non ha senso abbassarci al loro livello; tanto varrebbe lasciarli vincere. Io dico di aspettare».

   «Aspettare cosa?».

   «Gli eventi. Se i Pacificatori vengono a prendersi il Cristallo, potrebbe nuocere più a loro che a noi. In ogni caso, se combattiamo per un ideale di giustizia, non vinceremo assassinando coloro che amiamo. Questa è la logica del nemico, e io la rifiuto». Gettò il phaser.

   «E se ti sbagli?» sussurrò Vasa.

   «Amen».

 

   «Tenete duro!» gridò Sisko, sovrastando il frastuono della sparatoria. La prima squadra dei Pacificatori aveva raggiunto il centro di comando. Per ora le guardie difendevano l’ingresso, ma c’era il rischio che i nemici entrassero in un altro modo. Ad esempio, con gli Sfasatori Dimensionali.

   Vedendo un tratto di muro trasformarsi in nebbia, Sisko comprese che i Pacificatori erano dall’altra parte e stavano per passare. Estratto il phaser, mirò a uno degli angoli, dov’erano piazzati i congegni che mettevano “fuori fase” la materia. Quando sparò, il primo agente stava già attraversando la paratia. Bastò distruggere uno dei quattro Sfasatori perché il metallo riacquistasse le sue proprietà. La paratia tornò solida, ma ora c’era il cadavere di un Pacificatore che sporgeva per metà nella sala, come una macabra marionetta. Sisko distolse lo sguardo, addolorato.

   «Ne abbiamo storditi quattro, gli altri si ritirano!» avvertì uno degli agenti appostati all’ingresso. «Credo che i nostri li abbiano presi alle spalle. Sì, è confermato: i Pacificatori sono in trappola».

   «E l’altra squadra?» chiese Sisko.

   «È rimasta ferma per un po’, ma poi è tornata in movimento. Ora sono al ponte 17» riferì Odo, consultando la consolle tattica. «Stanno per raggiungere la camera blindata. Mando rinforzi per aiutare i sorveglianti».

   «No, niente rinforzi» disse Sisko a sorpresa. «Anzi, faccia andare via le sentinelle che ci sono adesso. Morirebbero inutilmente».

   «Lei come fa a saperlo?» chiese il Mutaforma.

   «Lo so e basta. Deve fidarsi di me» rispose l’Emissario, con uno sguardo d’intesa.

   «D’accordo, ma Agni e Smirnov sono ancora là dentro. Dobbiamo tirarli fuori, prima che...».

   «C’è un solo modo affinché questa battaglia non termini con la distruzione di Bajor» avvertì Sisko. «Sto cercando d’indirizzare gli eventi verso quell’esito, ma ci sarà un prezzo da pagare».

   «E loro ne faranno le spese» intuì Odo.

   «Sì, Ambasciatore. Ne faranno le spese» sospirò l’Emissario.

 

   Eccitato dalla battaglia, Modro accelerò il passo. Era vicinissimo, ormai. Aveva passato giorni a studiare la planimetria della stazione: ne conosceva ogni corridoio e ogni svolta. Si era addestrato sul ponte ologrammi, imparando a superare ogni possibile ostacolo. Ora la sua marcia era ancor più rapida del previsto. Già si vedeva consegnare il Cristallo alla Presidente, ricevendone gli elogi. Con quel successo, avrebbe potuto chiedere il trasferimento. Il suo sogno era comandare Deep Space Nine, facendone il baluardo per l’avanzata nel Fronte Occidentale... ma stava correndo troppo. Doveva concentrarsi sul presente.

   Un fruscio sulla destra lo avvertì del pericolo. Il Bajoriano si arrestò prima dell’incrocio, si sporse nel corridoio laterale e sparò. Un agente della Milizia cadde a terra, stordito dal raggio phaser. Il suo collega contrattaccò; Modro sentì il raggio ronzargli a pochi centimetri dalla testa. Anche se indossava una tuta semicorazzata con casco, il Comandante sapeva che un raggio ad alta energia gli sarebbe stato fatale. Ciononostante tenne la posizione e sparò ancora. Il secondo avversario cadde a terra privo di sensi.

   «Via libera» disse Modro, facendosi avanti. In testa alla sua squadra oltrepassò i nemici storditi, percorrendo il corridoio fino al suo termine. La camera blindata era lì, senza altri agenti a difenderla.

   «Non mi piace... è stato troppo facile» disse un Pacificatore. «Potrebbe essere una trappola».

   «Forse il Cristallo è stato spostato» ipotizzò un altro.

   «Ora lo scopriremo» disse Modro. Posizionò gli Sfasatori Dimensionali sul portone e li attivò, aprendo un varco. «Dentro!» ordinò.

 

   Vedendo che il portone diventava lattiginoso, Vasa afferrò il phaser che Juri aveva lasciato cadere e si nascose dietro il sostegno del Cristallo.

   «Lascia stare, alla fine passerebbero. Siamo pochi per difendere la camera» le disse l’Umano, fatalista. Aveva appena parlato che i Pacificatori fecero irruzione, con i fucili phaser spianati. Indossavano le tute da combattimento che ormai erano d’ordinanza, per le squadre d’assalto.

   «Mani in alto, federali! Gettate le armi!».

   Juri obbedì al primo ordine, ma tenne il fulminatore elettrico nascosto nella manica. Invece Vasa, che impugnava il phaser, dovette per forza gettarlo. In un attimo i due furono circondati dai Pacificatori, che li perquisirono. Li privarono dei comunicatori, mentre l’arma di Juri era così piccola che sfuggì alla rapida ispezione.

   «Lui dov’è?» chiese Vasa con rabbia. «Aveva detto che sarebbe tornato. Non ha avuto il fegato?».

   «Sono qui, amore» disse Modro, entrando nella camera blindata. Fece rientrare il casco nella tuta, per farsi riconoscere dalla moglie. «Ma guarda... mi aspettavate insieme» commentò, passando lo sguardo da lei a Juri. «Chi di voi aveva il phaser?».

   «Sua moglie, signore» riferì un agente.

   «Devi odiarmi proprio tanto» commentò il Comandante, guardandola con rimpianto.

   «Sorvegliavo il Cristallo» ribatté lei.

   «Non avete più sentinelle?» s’insospettì Modro.

   «Se è il Cristallo che vuoi, prendilo e vattene» intervenne Juri.

   «Nessuno ti ha detto di parlare, Umano!» berciò il Comandante. Poi si rivolse di nuovo alla moglie. «Tu verrai con me» le disse.

   «No, mai» fece Vasa, ritraendosi.

   «È per il tuo bene... ora sei confusa, ma un giorno mi ringrazierai» disse Modro, afferrandole il polso. La Bajoriana si divincolò, cercando di sfuggirgli.

   «Lasciala, bastardo!» ringhiò Juri. Estrasse il fulminatore elettrico dalla manica, ma due Pacificatori gli furono addosso prima che potesse sparare. Lo immobilizzarono e gli strapparono l’arma.

   Modro lasciò la moglie e si concentrò sul rivale. «Ancora tu» disse. Gli si avvicinò con studiata lentezza. «Che volevi fare, eh? Mi volevi uccidere? Ci hanno provato in molti, ma tu... tu sei una nullità».

   Inaspettatamente il Comandante consegnò il phaser a uno degli agenti. Giunto davanti a Juri, gli posò la mano sinistra sulla spalla, sorridendo in modo inquietante. Poi, senza preavviso, lo colpì al plesso solare col pugno destro, facendolo piegare in avanti. «Te l’avevo detto, che non te la cavavi» gli sussurrò all’orecchio. Lo colpì una seconda e poi una terza volta, sempre allo stomaco, finché l’Umano cadde in ginocchio, boccheggiante.

   «No, fermo! Lascialo stare!» gridò Vasa.

   «E verrai con me?» chiese Modro.

   «Io... sì, ti seguirò» si arrese la Bajoriana.

   «Vasa, no...» gemette Juri, cercando di rialzarsi, ma il suo diaframma non ne voleva sapere.

   «Sei fortunato, verme» gli disse il Comandante, e gli sputò addosso. Al suo cenno, il Pacificatore a cui aveva ceduto il phaser gli puntò l’arma alla tempia. «Se il dottor Smirnov pronuncia un’altra parola, o fa un qualunque movimento, uccidilo» ordinò Modro. Dopo di che tornò dalla moglie. «Hai dato la tua parola» le ricordò.

   «Sì, vigliacco!» sbottò Vasa. «Ma ti odierò per il resto dei miei giorni. Che i Profeti ti perdonino, perché io non lo farò mai».

   «Non credo che i Profeti s’interessino dei nostri mali» sospirò Modro. «Bene, farò a meno di loro». Raccolse il Cristallo di Fuoco, ancora nella teca. In quella un segnale d’emergenza giunse al suo comunicatore.

   «Takiah a squadra 2, attenzione. Siamo sotto attacco da parte di rinforzi nemici. Il vostro rientro è compromesso».

 

   A un’ora dall’inizio, la battaglia giunse a un punto di svolta. Pacificatori e Breen avevano circondato i federali e stavano per schiacciarli, quando i sensori rilevarono un centinaio di nuovi segnali. Erano piccoli e dirigevano compatti contro gli attaccanti.

   «E adesso che succede?» fece Vidkung, esasperato. «Sullo schermo».

   Erano oggetti di forma oblunga, dagli angoli smussati, lunghi cento metri. Lo scafo era marroncino, mentre i motori a curvatura e i deflettori erano gialli. Avanzarono come uno sciame, correggendo la rotta per evitare i detriti spaziali.

   «Non ci sono forme di vita a bordo» disse l’addetto ai sensori. «Credo siano missili a ricerca automatica del bersaglio. La traccia di curvatura è cardassiana».

   L’Ammiraglio impallidì. I Cardassiani avevano portato all’apice lo studio di quei missili, detti Dreadnought. Li avevano dotati di scudi formidabili, di una testata ad antimateria capace di spaccare in due una piccola luna e d’Intelligenze Artificiali programmate per dirigerli contro il bersaglio designato. Se li avessero messi in produzione avrebbero cambiato radicalmente il modo di combattere, ma la sconfitta nella Guerra del Dominio e la successiva smilitarizzazione gli avevano impedito di costruirne molti. In seguito i loro studi sembravano caduti nel dimenticatoio... ma evidentemente non era così. «Vidkung a flotta, colpite quelle Dreadnought!» ordinò l’Efrosiano, rattrappendosi contro la poltroncina.

   Le navi dei Pacificatori cambiarono immediatamente bersaglio e così fecero i Breen. Una gragnola di raggi phaser, anti-polaronici e disgregatori si abbatté sulle Dreadnought, ma queste tirarono dritto. Solo quando furono bersagliate dai siluri fecero brusche variazioni di rotta per evitarli. Alcune Dreadnough, colpite più volte, esplosero lungo il tragitto. Ma la maggior parte resistette finché giunse a bersaglio. Lo spazio si riempì d’immani esplosioni. Ogni Dreadnought esplodeva con la violenza dell’antimateria di cui era stipata, soverchiando gli scudi delle navi più potenti. Le loro IA le indirizzarono contro Breen e Pacificatori, evitando accuratamente le navi federali.

   Due Dreadnought sfrecciarono contro l’ammiraglia di Thot Rong, che aveva gli scudi indeboliti dal duro scontro. Una fu distrutta strada facendo dal fuoco concentrato della nave Breen. La seconda la colse nella giunzione tra i due scafi ricurvi. Ci fu un lampo accecante e il vascello fu tranciato in due. Uno dei tronconi fu squassato da esplosioni sempre più grandi, che lo disintegrarono. Restava però lo scafo principale, nel quale si trovava la plancia. Gli occupanti, che erano stati scagliati a terra dall’impatto, si rialzarono.

   Thot Rong aveva la tuta termica annerita e il casco graffiato dall’esplosione di un giunto di potenza. Dovette darsi un colpetto in testa affinché le strumentazioni tornassero in linea. Allora poté leggere il rapporto danni all’interno del casco. Sebbene fosse costruita a compartimenti stagni, la nave era troppo danneggiata per continuare a combattere, e anche per andarsene. Erano alla deriva, senza scudi, in mezzo alla raffica di missili. Un altro colpo come quello ed erano spacciati. Il Breen stava per ordinare l’evacuazione, quando vide che dietro ai missili veniva un’astronave diversa dalle altre. Aveva lo scafo verde, le fiancate alte e la prua irta di disgregatori. La riconobbe: era la Stella del Polo, la nave dello Spettro. L’aveva inseguita per anni, nell’Ammasso Nero e in altre zone di confine, senza mai riuscire a distruggerla.

   Appena giunse a distanza di tiro, la nave corsara aprì il fuoco contro i resti dell’ammiraglia Breen. Thot Rong sentì il suo vascello scricchiolare e seppe che gli restava forse un minuto di vita. Accettò il fatto con la gelida imperturbabilità della sua specie, e così fecero gli ufficiali.

   «La Stella ci chiama» disse l’addetto alle comunicazioni.

   «Sullo schermo» ordinò il Thot, chiedendosi se non ci fosse la possibilità di contrattare la resa.

   Lo Spettro e la Banshee apparvero fianco a fianco, mascherati come al solito, ma fu il primo a parlare. «Salve, Thot Rong» salutò il corsaro. «È stata una lunga caccia, la nostra: dieci anni! Mi è arrivato vicino, certe volte, ma allearsi coi Pacificatori è stato un grosso errore».

   «Mi arrendo» disse il Breen, mentre la sua nave si disfaceva sotto i colpi della Stella. «Per il codice della Flotta, deve interrompere l’attacco».

   «È anche a causa sua, se la Flotta mi ha radiato» ribatté lo Spettro. «Ora sono un corsaro e faccio ciò che voglio. Molti mi biasimeranno, per questo; ma non lo faccio solo per vendetta. Vede, se la elimino, forse il suo governo la smetterà di appoggiare Rangda».

   «Sì, è logico» ammise Thot Rong, senza particolare emozione. Le consolle esplodevano attorno a lui: restavano pochi secondi. Girò lievemente il casco, osservando la Banshee, della quale ignorava ancora l’identità.

   «Sono passati i tempi in cui correvo sui treni a levitazione, perché lei potesse nascondere i suoi misfatti» disse la fuorilegge, ricordando la prima missione della Keter.

   Passato l’attimo di perplessità, Thot Rong comprese il significato di quelle parole. La misteriosa compagna dello Spettro non era altri che Jaylah Chase. Sì, tutto tornava, si disse il Breen. Erano stati lui e Rangda a spingere la figlia dell’Ammiraglio sulle tracce dello Spettro, per eliminare il testimone dei loro traffici illeciti. Ma invece di uccidersi, quei due si erano alleati, e ora eccoli lì, fianco a fianco. Se i Breen avessero avuto il senso dell’umorismo, Thot Rong avrebbe riso. Siccome non l’avevano, restò in silenzio, mentre le esplosioni dilaniavano la sua nave da poppa a prua. L’ultimo scoppio vaporizzò anche la plancia, uccidendolo con tutti i suoi ufficiali. L’identità della Banshee, compromessa per pochi secondi, era di nuovo al sicuro.

 

   Modro depose la teca del Cristallo, ascoltando gli aggiornamenti trasmessi dal comunicatore. La voce era distorta dalle interferenze, ma il senso del discorso era chiaro. «Siamo sotto attacco – brzzz Dreadnought cardassiane. Thot Rong è morto e l’alleanza coi Breen è a rischio. Frssshhh... Vidkung ordina la ritirata... frssshhh».

   Il Comandante guardò i suoi agenti, senza realmente vederli. La loro flotta invincibile... in ritirata. Era colpa dell’Ammiraglio: aveva commesso un errore tattico dopo l’altro e poi, al crescere delle difficoltà, si era spaventato. Modro sentì il mondo crollargli addosso: aveva davvero sperato di liberare Bajor. Invece il suo amato pianeta sarebbe rimasto in preda ai ribelli – e al falso Emissario – per chissà quanto. A meno che...

   «Signore, quel nuovo scudo creato attorno alla stazione è ancora attivo» avvertì un Pacificatore. «I nostri non possono teletrasportarci. Siamo in trappola».

   «In trappola?!» si riebbe Modro. «Non lo pensi nemmeno! Finché abbiamo questo, siamo noi a dettar legge» disse, accennando al Cristallo.

   «Che hai in mente? Non puoi usarlo...» disse Vasa.

   «Sì, invece. Prima di venire qui ho fatto due chiacchiere con una vecchia conoscenza. Mi ha detto cose molto interessanti» ribatté Modro, parlando come chi cerca di convincersi. «Venga avanti, Elvo!».

   Il Gran Maestro entrò nella camera blindata, attraverso il portone sfasato. Era ammanettato e sorvegliato da due Pacificatori che gli puntavano i fucili alla schiena, ma sul suo viso c’era un ghigno trionfale. «Beh, amici miei... avete avuto la vostra occasione e l’avete sprecata» disse a Juri e Vasa. «Evidentemente vi amate troppo, oppure amate troppo poco la vostra causa. Ora tocca a lei, Comandante. È pronto a rinunciare al suo vero amore?».

   Modro fissò la moglie, con il dolore scolpito in volto. «Oh, Vasa... perché sei rimasta qui?» mormorò.

   L’archeologa sentì un tuffo al cuore. «Non ascoltarlo, è un bugiardo! Vuole solo vendicarsi!» esclamò, indicando Elvo; ma era impallidita.

   «La macchina della verità indica il contrario» obiettò Modro. «E nella mia squadra c’è un telepate che conferma la sua sincerità». Il Pacificatore appena nominato fece un cenno per rendersi riconoscibile. Era uno dei due che sorvegliavano Elvo.

   «Il fatto che quel pazzo creda una cosa non significa che abbia ragione» insisté Vasa. «Credeva che il Maligno avrebbe vinto, sei anni fa, e si sbagliava».

   «Gli ordini della Presidente sono chiari» proseguì Modro, come se non l’avesse sentita. «Questo sistema va riconquistato ad ogni costo. E io non lo lascerò un giorno di più in mano ai ribelli. Se i Profeti non rispondono alle mie preghiere, ebbene... Kosst Amojan risponderà ai miei ordini».

   «E se non lo facesse? Se si limitasse a distruggere tutto?» insisté Vasa, con le lacrime agli occhi. «Non puoi credere a un fanatico!».

   Vedendo che il Comandante esitava, Elvo prese la parola. «Che ci facevano sua moglie e Smirnov qui dentro? Volevano compiere il rituale! Uno dei due doveva uccidere l’altro!» esclamò. «Anche loro sanno che funziona, ma gli è mancata la fermezza per andare fino in fondo. Sono stati deboli ed egoisti. Vuole esserlo anche lei, Comandante Sisko?».

   Modro vacillò, quasi schiantato dal dolore. Diverse voci gli urlavano nella testa: gli ordini di Rangda, le insinuazioni di Elvo, il disperato appello di Vasa. Tutti quei doveri in conflitto lo dilaniavano; era come se gli facessero l’anima a brandelli. Avrebbe tanto voluto spararsi in testa e farla finita... ma non poteva scappare dalle sue responsabilità. Doveva prendere una decisione. E siccome non poteva accontentare tutti, non gli restava che accantonare le pretese altrui, confidando unicamente nella sua coscienza.

   «Oh, Modro... io so quanto soffri» disse Vasa. Lo abbracciò, anche se il marito non poteva sentire il suo tocco attraverso la tuta corazzata. «È stata la guerra a spingerti fin qui... ma in fondo al cuore sei una brava persona. Io lo so. Sei l’erede dell’Emissario! Perciò non mi ucciderai a sangue freddo per liberare quel demone». Le lacrime sgorgarono dai suoi occhi.

   Anche Modro pianse, e nel far questo la baciò. «Ti amo, Vasa» sussurrò poi, carezzandole la guancia. «Ti amo più della mia vita. Sei il mio unico, vero amore». Ci fu uno scatto, il suono attutito di una stilettata. «Per questo devo ucciderti» concluse il Bajoriano, estraendo la vibro-lama dal suo petto. Aveva avuto l’accortezza di trafiggerle il cuore, perché la morte fosse rapida.

   «NO!» gridò Juri, dimenticando che Modro aveva ordinato di ucciderlo, se avesse detto un’altra parola. Ma il Pacificatore che lo teneva sotto tiro non sparò: anche lui era scioccato dall’accaduto.

   Vasa fissò il marito con un misto di sorpresa, dolore e cocente delusione. Le restavano le forze per dire qualche parola, ma non le venne in mente nulla. Tutto era superfluo, ora che il colpo era stato sferrato; così restò in silenzio. Quando le forze l’abbandonarono, Modro l’adagiò delicatamente al suolo e poi indietreggiò, mentre la chiazza di sangue le si allargava intorno. La Bajoriana tossì debolmente, fissando il marito con nient’altro che commiserazione. Poi anche quella abbandonò i suoi occhi, che rimasero vitrei e inespressivi.

   A quella vista, Modro buttò indietro la testa e gridò con quanto fiato aveva nei polmoni. Fu un grido lungo, inarticolato e lacerante. Quando si fu sfogato, guardò la sua vibro-lama, ancora coperta di sangue.

   «Bravo!» esultò Elvo, unico tra i presenti a sprizzare gioia da ogni poro. «Ora completi il rituale, presto! O sarà stato vano!».

   Modro lo fissò come se volesse uccidere anche lui. Invece raggiunse a grandi passi l’artefatto dei Pah-wraith, ancora posato a terra. Spalancò la teca piramidale, mettendo a nudo il Cristallo. «Kosst Amojan, guardami! Kosst Amojan, ascoltami! Kosst Amojan, parlami! Kosst Amojan, guidami alla vittoria!» invocò il Bajoriano. Lasciò che il sangue caldo di Vasa gocciolasse dalla vibro-lama sul Cristallo, che lo assorbì come una spugna.

   La luce del Cristallo, prima color fiamma, divenne di un rosso cupo. Si udì un sordo brontolio e la camera blindata tremò. I Pacificatori si guardarono attorno, spaventati. C’era un’elettricità nell’aria, che faceva rizzare i peli e instillava il terrore anche nei veterani più incalliti. Ma Juri non aveva occhi che per Vasa; sapeva che la sua morte era solo l’inizio dell’Apocalisse.

   D’un tratto la teca andò completamente in pezzi e il Cristallo sprigionò una colonna di fuoco e fumo, alta fino al soffitto. L’ondata di calore costrinse tutti ad arretrare verso le pareti. Le fiamme turbinarono, avvitandosi su se stesse, e presero consistenza. Gradualmente si delineò una forma umanoide con lunghe braccia brancolanti, una bocca sulfurea e occhi d’indicibile malvagità. Nell’aria fuligginosa aleggiò una risata malefica, che fece tremare tutti fino al midollo. «Finalmente... libero!» esultò il demone.

 

   Nel centro di comando, Sisko si portò una mano alla fronte. Il gesto non sfuggì a Odo, che gli stava accanto. L’attimo dopo la stazione tremò e gli schermi sfarfallarono, come per un calo di potenza.

   «Che succede, Capitano?» chiese il Mutaforma.

   «Quello che doveva accadere» rispose Sisko, cupo. «Non c’è tempo da perdere». Premette un comando sul bracciolo della poltroncina. «Sisko a equipaggio, evacuare la stazione! Ripeto, evacuazione immediata!».

   L’ordine creò sconcerto tra gli ufficiali. «Ma signore... stiamo vincendo! Il nemico arretra!» obiettò il vice-comandante, accennando al tavolo tattico che riportava l’andamento della battaglia.

   «I Pacificatori arretrano, ma è arrivato qualcosa di peggio» avvertì l’Emissario. «Fidatevi di me, se vi dico che questa stazione ha i minuti contati. Via, ho detto!».

   Davanti a quell’ordine perentorio, gli ufficiali si rassegnarono a obbedire. In effetti la stazione tremava sempre più e i sistemi saltavano uno dopo l’altro. Poiché non c’era tempo di correre all’anello di attracco, e comunque non vi erano navette per tutti, i Bajoriani abbassarono lo scudo, dopo aver avvertito la Flotta Stellare e la Milizia. I teletrasporti cominciarono all’istante.

   «Questo è il futuro che diceva, l’unico in cui ci salviamo?» chiese Odo.

   «È ancora presto per dirlo» rispose Sisko.

 

   Mentre Kosst Amojan prendeva consistenza, Modro avvertì un dolore lancinante alla mano destra. Era come se qualcuno gli premesse un ferro rovente sul palmo. Il Bajoriano sganciò il guanto della tuta, per controllare che gli stava accadendo. Vide con orrore che il simbolo dei Pah-wraith gli si era inciso a fuoco sul palmo, come se lo avessero marchiato. Era il segno che Kosst Amojan accettava il patto. Il Comandante si rimise il fretta il guanto, non volendo che altri vedessero il suo marchio, ma la cosa non era sfuggita all’occhio vigile di Juri.

   «Mio signore!» esultò Elvo, inginocchiandosi davanti al Maligno. «Ero certo di rivedervi! Sono stato io a favorire la vostra liberazione!».

   «Sei stato un servitore devoto» convenne Kosst Amojan, parlando con una voce sibilante che veniva da tutto il suo corpo di fiamma.

   «Ma ho compiuto io il sacrificio» rivendicò Modro, fronteggiando la spaventosa entità. «Ora tu mi obbedirai! Un’anima per una grazia, questo è il patto».

   «Sì, un’anima per una grazia» confermò il Pah-wraith, chinandosi sul Comandante. «Sono ai tuoi ordini, chiedimi ciò che vuoi. Ma sappi che non è l’anima di tua moglie, quella che ho guadagnato».

   «Come sarebbe? Io l’ho sacrificata!» si meraviglio il Bajoriano.

   «Sì, e col suo sangue hai firmato il nostro patto» sibilò Kosst Amojan. «Ma l’anima che verrà da me, alla fine, sarà la tua. Io e te avremo tutta l’eternità da passare assieme!». La risata del Maligno fu raccapricciante; le sue fiamme crepitarono e si fecero ancora più roventi.

   Modro restò come fulminato; non cercò nemmeno di sottrarsi al calore. Alle sue spalle, Juri arrancò verso Vasa e la prese tra le braccia, anche se il contatto con il corpo senza vita dell’amata gli spezzava il cuore. Con quel peso tra le braccia si allontanò dal demone, ritirandosi in un angolo. Quanto ai Pacificatori, ormai lo ignoravano; si erano raccolti vicino all’uscita, in preda al terrore.

   Accanto a Modro restava solo Elvo. Il Comandante si girò verso di lui, trovandolo allegro e soddisfatto. «Tu sapevi?!» chiese.

   «Beh, diciamo che potrei aver tralasciato qualche dettaglio, quando vi ho spiegato la natura dell’accordo» ridacchiò il Gran Maestro, passando lo sguardo da lui a Juri. «Comunque non ho mai mentito! Infatti le vostre macchine e i vostri telepati hanno confermato la mia onestà».

   «La tua onestà, eh?» fece Modro, avventandosi su di lui. «Se sei così onesto, va’ a ritirare la tua ricompensa!».

   Elvo arretrò precipitosamente, ma era ancora ammanettato e non poteva difendersi in alcun modo. «Padrone, aiutami!» invocò, alzando lo sguardo su Kosst Amojan.

   «Perché dovrei?» fece il Pah-wraith, con un ghigno sadico.

   Dopo aver intrappolato il Gran Maestro nell’angolo, Modro lo trafisse con la stessa lama che aveva strappato la vita a Vasa.

   «Inutile... Comandante...» rantolò Elvo, fissandolo con perfidia. «Io non ho venduto l’anima al Signore del Fuoco... tu sì. E lui riscuoterà prima di... quanto... credi...». Il sangue gli colò dalla bocca, trasformando le ultime parole in un gorgoglio.

   «Vacci tu, prima!» ringhiò Modro. Estratta la vibro-lama, afferrò l’avversario per un braccio e lo scaraventò contro Kosst Amojan. Il Gran Maestro rotolò sul pavimento, scomparendo nella colonna di fuoco che avvolgeva il Cristallo. Ci fu uno sfrigolio, seguito da una vampata, e la camera blindata si riempì dell’odore di carne bruciata.

   Ansante, Modro si guardò attorno, finché vide Juri rannicchiato in un angolo, con il corpo di Vasa sulle ginocchia. Tutti pensarono che avrebbe ucciso anche lui.

   «Attendo il tuo ordine» disse però il Pah-wraith. «Mi aspetto che tu esprima un desiderio importante, visto quanto l’hai pagato, e quanto lo pagherai».

   «Oh, sì» confermò il Comandante, con una luce di follia negli occhi. «Sto per chiedere la cosa più importante di tutte, quella che porrà fine alla guerra». In qualche modo riuscì a calmarsi. Fu quella calma a spaventare Juri più di quant’altro fosse accaduto.

   «Ascoltami, Kosst Amojan!» tuonò Modro, alzando le braccia. «Io desidero che tu incenerisca tutti coloro che si ribellano all’Unione e le si oppongono in armi. Uccidili tutti, ovunque si nascondano!».

   «Pazzo! Sono miliardi di persone!» gridò Juri, annichilito dalla crudeltà di quell’ordine.

   «Tutti tranne uno» si corresse Modro, alzando l’indice. «Devi risparmiare il dottor Smirnov. Voglio che lui sopravviva, per vedere il trionfo dell’Unione». Così dicendo si rivolse allo storico. «Sarai l’ultimo ribelle della Galassia, consapevole che tutti i tuoi complici sono morti a causa tua. Perché non hai avuto il coraggio di fare ciò che andava fatto, quando ne hai avuta la possibilità» sogghignò, accennando al corpo di Vasa. «Avresti dovuto ucciderla tu... rimpiangerai di non averla uccisa tu». Si rivolse di nuovo al Maligno, in tono imperioso: «Questo è il mio ordine. Ora sbrigati a eseguirlo!».

   «Con immenso piacere!» rise l’entità, facendosi ancora più grande. «Ma ti consiglio di lasciare in fretta la stazione, perché tra poco le cose si faranno... scottanti».

   «Sentito, ragazzi? Missione compiuta, si torna a casa» disse Modro ai suoi agenti, come se tutto fosse andato secondo i piani.

   «Signore... quell’entità farà davvero ciò che ha detto?» chiese uno dei Pacificatori, sconcertato.

   «Me lo auguro. Vogliamo tutti che la guerra finisca, no?» fece Modro, dandogli una pacca sulla spalla. «Su, fuori di qui, così i nostri potranno teletrasportarci. Quanto a te, prendi!». Gettò a Juri il comunicatore che gli agenti gli avevano sequestrato durante la perquisizione. L’Umano lo prese al volo. «Va’ dove vuoi, tanto non ci vedremo più» infierì il Comandante. Lui e la sua squadra lasciarono la camera blindata attraverso il portone, ancora permeabile grazie agli Sfasatori. Juri rimase solo con il demone.

   «Muoviti, nullità... ho molto lavoro da sbrigare!» rise Kosst Amojan, che tuttavia non poteva nuocergli, per via dell’ordine di Modro.

   Juri si appuntò il comunicatore, poi sollevò il corpo di Vasa e se ne andò con quel peso tra le braccia.

   «Vuoi seppellirla? Che tenero! Ti lascerò due metri quadri di suolo intatto, su Bajor!» promise il Maligno.

   L’Umano non si voltò. Attraversò il portone sfasato e appena fu dall’altra parte depose il suo triste carico. Modro e gli altri erano già spariti; di certo erano tornati sulla loro nave. Nei corridoi risuonava il segnale di evacuazione. Già provato dallo sforzo, Juri si premette il comunicatore. «Smirnov a Keter, mi sentite?» ansimò.

   «Affermativo, che succede là dentro?» rispose il Capitano Hod.

   «Teletrasporto per due, ora!» gridò Juri. Sperava che la sua presenza sulla Keter la proteggesse, almeno per un po’. Ma probabilmente Kosst Amojan era in grado di trasferirlo altrove, prima di distruggere la nave.

   Il raggio azzurro prelevò l’Umano e il corpo senza vita della Bajoriana, mentre alle loro spalle le fiamme divampavano. La forma umanoide di Kosst Amojan svanì nell’incendio dilagante. Le pareti della camera blindata si fusero, pur essendo di durissimo yiterium. Il liquido colò a terra, ma da lì fu attratto dal Cristallo. Tonnellate di metallo fuso si riversarono nell’artefatto, che le bevve tutte, aumentando di dimensione. Più s’ingrandiva, più cresceva in potenza, così da fondere e attirare a sé sempre più materia. Crebbe con la voracità di un buco nero, distruggendo un ponte dopo l’altro. E questo era solo l’inizio.

 

   Erano ormai trascorsi parecchi minuti da quando l’Ammiraglio Vidkung aveva ordinato la ritirata.

La sua nave, la Takiah, si era recata oltre l’orbita dei satelliti di Bajor. Poco alla volta le altre navi dei Pacificatori si disimpegnarono dagli scontri e la seguirono. Il Moloch venne per ultimo. Era stato colpito da due Dreadnought, che non erano bastate a distruggerlo, ma gli avevano fatto perdere gli scudi. Con le difese abbassate, Radek sapeva che era un suicidio restare in mezzo ai ribelli. Così ordinò di abbandonare l’orbita, maledicendo la fortuna della Keter, che gli sfuggiva ancora una volta tra le dita. Anche i Breen arretrarono. La loro flotta era malmessa, dopo la prolungata battaglia, e la perdita di Thot Rong lasciava un vuoto di potere.

   I federali rimasero raccolti attorno a Deep Space Nine, quasi increduli di avere respinto il nemico. In realtà era presto per cantare vittoria. Ai difensori restavano appena settanta navi, quasi tutte danneggiate. E l’afflusso di Dreadnought stava cessando. Gli ultimi missili cardassiani furono abbattuti dai Pacificatori prima di giungere a bersaglio.

   Con il passare dei minuti divenne chiaro che il nemico non si era veramente ritirato. Pacificatori e Breen si erano solo disimpegnati, ponendosi appena fuori tiro, per riorganizzarsi. Appena fossero stati certi che non c’erano altre Dreadnought in arrivo – e non ce n’erano – sarebbero tornati all’assalto. E nonostante tutte le perdite subite, avevano ancora i numeri per vincere. La Stella del Polo si affiancò alla Keter e alla Defiant, pronta a un’ultima resistenza.

   Fu allora che Sisko ordinò di evacuare Deep Space Nine. Lo scudo a bolla fu disattivato e l’equipaggio fu teletrasportato sulle navi superstiti. Sisko e i suoi ufficiali apparvero sulla plancia della Defiant; con loro c’era anche Odo.

   «Benjamin, che ti prende?!» protestò Ilia. «Abbiamo centinaia di navi nemiche pronte a tornare all’assalto. Non è il momento di abbandonare la stazione! E perché, poi?».

   «Credimi, non c’era alternativa» spiegò l’Emissario. «Kosst Amojan è stato liberato; la stazione è perduta».

   «Perduta?! Ma...» fece Ilia, non avvezza a quel fatalismo. «Benjamin, comincio a dubitare di te» lo avvertì.

   «Capirai tra poco, vecchio mio» sospirò Sisko. «Ma ora mettimi in comunicazione con Kai Nashir. Abbiamo un canale protetto, ti dirò codice e frequenza».

   La Trill lo guardò incerta, come temendo che fosse impazzito, o che non fosse realmente lui.

   «Fidati di me, d’accordo? Non c’è tempo per spiegare» la pressò il Capitano.

   «D’accordo... ma farai meglio ad avere una buona giustificazione, dopo» mugugnò Ilia. Al suo cenno, l’addetta alle comunicazioni permise a Sisko di accedere alla sua consolle.

   «Sisko a Kai, mi ricevete?» chiese il Capitano, regolando il segnale. «È il momento che aspettavamo. Portate i Cristalli all’aperto e poi allontanatevi. Ormai tutto è nelle mani dei Profeti».

 

   Reduci dal terribile scontro con il Moloch, il Capitano Hod e i suoi ufficiali furono lieti di sentire la chiamata di Juri. Ma quando lo videro apparire in plancia con il corpo di Vasa tra le braccia, tutti i sorrisi si spensero.

   «È morta» confermò Juri, rialzandosi. «L’ha uccisa Modro. L’ho portata solo per non lasciarla lì».

   «Forse i medici possono ancora rianimarla» disse Hod, notando che l’archeologa aveva ricevuto un’unica stilettata. L’addetto al teletrasporto la trasferì immediatamente in infermeria.

   «Non credo, o l’accordo con Kosst Amojan sarebbe vanificato» disse Juri.

   «Quale accordo?» s’inquietò Hod.

   L’Umano glielo spiegò rapidamente. Quando ebbe finito, i federali erano senza parole.

   «Lei crede che Kosst Amojan abbia il potere di esaudire Modro?» mormorò il Capitano, pallida come uno straccio.

   «Beh, non in uno schiocco di dita» rispose Juri, mimando il gesto. «Ma i suoi poteri crescono in fretta, ora che è libero. La prima a farne le spese sarà Deep Space Nine».

   A quelle parole, Zafreen la inquadrò sullo schermo. La leggendaria stazione spaziale era avvolta dalle fiamme, che sfidando le leggi fisiche bruciavano sul metallo e si protendevano nel vuoto dello spazio. Il fuoco sprizzava dal modulo centrale e in breve si espanse al settore abitativo e poi a ciò che restava dell’anello d’attracco. Risalì lungo i piloni come se fossero stati di legno. In pochi minuti tutta la stazione divenne un immenso rogo.

   «Sisko l’ha fatta evacuare» disse Hod, perché Juri non pensasse che l’equipaggio era morto.

   «Non importa, Kosst Amojan c’inseguirà ovunque» mormorò l’Umano, pessimista. «Modro ha voluto che solo io fossi risparmiato, per vivere nel rimpianto. Mi spiace, Capitano... ho fallito».

   «Se avesse agito diversamente, avrebbe perso la sua... anima» obiettò l’Elaysiana, non sapendo se credere a questa parte della storia.

   «Sarebbe stato il male minore. A meno che...». Lo sguardo dello storico si fece distante. Gli era appena tornata in mente la sua esperienza con il Cristallo del Destino. «Col nostro aiuto, respingerete a caro prezzo solo una delle due minacce» aveva detto il Profeta, riferendosi a Kosst Amojan e ai Pacificatori. Possibile che, potendo scegliere, le creature del Tunnel consentissero la vittoria del loro arcinemico?

   «A che pensa?» chiese Hod, accorgendosi che lo storico aveva avuto un’intuizione.

   «Non ne sono certo, ma... forse non è detta l’ultima parola» rispose Juri, meditabondo. «Dobbiamo attendere».

   «Possiamo fare qualcosa, per aumentare le chance?».

   «No, ormai non dipende da noi».

   Sotto gli occhi dei federali, il fuoco di Kosst Amojan divampò sempre più intenso. Per qualche secondo Deep Space Nine sembrò una reggia infernale, avvolta dalle fiamme che ne arrossavano lo scafo. Poi iniziò a fondersi, sempre più in fretta. I piloni si deformarono, puntando verso l’interno. I resti dell’anello d’attracco si ruppero e di lì a poco l’anello abitativo si spezzò a sua volta. Anziché disperdersi nello spazio, tutti i detriti – solidi o liquefatti – precipitavano verso il centro, come se un buco nero li attirasse. Infine anche il modulo centrale fu smangiato dall’interno. La gloriosa Deep Space Nine, fulcro della storia federale, collassò in un ammasso di metallo fuso. Infine anche quel globo incandescente svanì, risucchiato nel Cristallo di Fuoco. Ma il Cristallo non era più il piccolo artefatto che si poteva reggere in mano. Era diventato gigantesco e continuava a crescere, man mano che attirava a sé i detriti.

   «Quella cosa ha assorbito tutta la massa della stazione» confermò Zafreen dopo una rapida analisi. «Se cadesse su Bajor...».

   I federali osservarono con orrore l’ottaedro che galleggiava nello spazio. Era ancora circondato dalle piattaforme orbitali, che si riattivarono. Il campo di forza a bolla riapparve, non più per proteggere il suo contenuto, ma al contrario per isolarlo e impedire che nuocesse a quanti stavano fuori.

   «Non basterà» previde Juri.

   Le sue parole ebbero conferma immediata. Le piattaforme si arrossarono e si fusero, com’era accaduto alla stazione. Il campo di forza sfrigolò e s’indebolì, man mano che i generatori si guastavano; infine si dissolse del tutto. I resti liquefatti delle piattaforme furono attirati dal Cristallo, che s’ingrandì ulteriormente.

   «Se aprissimo il fuoco, cosa pensa che accadrebbe?» chiese Hod.

   «Uhm, cattiva idea» fece Juri. «Mi sa che lo rendereste ancora più forte. Questa non è una lotta risolvibile con le armi».

   Alcuni Capitani non erano dello stesso avviso: le navi bajoriane e cardassiane spararono contro l’artefatto. I loro colpi furono assorbiti dalla sua superficie simile a lava. Persino i siluri vi svanirono dentro senza esplodere. Il Cristallo però crebbe a vista d’occhio, segno che aveva assorbito la loro energia.

   «Sisko a flotta, sospendere l’attacco! Così non fate che rafforzarlo!» avvertì l’Emissario.

   Le astronavi cessarono il fuoco, anche perché gli equipaggi ne avevano constatato l’inutilità. Ma il peggio doveva ancora venire. Sulle navi ribelli, già provate dalla battaglia, divamparono incendi spontanei. Le  fiamme scaturivano dalle consolle, dai circuiti, dai mobili degli alloggi; insomma da qualunque cosa potesse prendere fuoco. E anche da parecchie cose che in teoria non potevano. Ci furono incendi e scoppi nelle armerie, nelle sale macchine, tra le delicate strumentazioni dei deflettori. Gli ufficiali ricorsero agli estintori nel tentativo di domare le fiamme, ma si avvidero di non essere davanti a fenomeni naturali. Il fuoco ardeva a lungo anche sotto il getto dell’estintore e quando finalmente si spegneva, un altro scaturiva nelle immediate vicinanze. Alcuni ufficiali furono avvolti dalle fiamme dopo che una sola scintilla li aveva toccati; a nulla valsero le tute ignifughe.

   «Incendio in sala macchine!» avvertì Zafreen.

   «Evacuate il personale, inviate i droni d’emergenza» ordinò Norrin. «I nostri scudi sono ancora alzati?» chiese poi a Terry.

   «Affermativo» rispose la proiezione isomorfa. «Ma non ci proteggono dall’attacco. Non capisco... è scientificamente impossibile».

   «Magari dovrebbe ampliare la sua definizione di “possibile”» disse Juri, caustico. Si allontanò da tutte le consolle, nel caso prendessero fuoco. «Come sta Bajor?» volle sapere.

   «Le montagne del nord stanno eruttando, come l’altra volta» disse Zafreen, inquadrando una porzione del supercontinente. Colonne di fumo e cenere si alzavano dai monti circostanti le Caverne di Fuoco, disegnando scie scure nell’atmosfera. «Ci sono terremoti ovunque, anche lontano dalle zone di faglia» proseguì l’Orioniana. «La costa orientale è a rischio tsunami. E lo Scudo Planetario ha ceduto».

   Con un tragico senso d’impotenza, Hod guardò il Cristallo che galleggiava nello spazio. Tutte le loro armi e la loro esperienza erano inutili, contro quella cosa che sfidava le leggi fisiche. Mentre Norrin dava ordini per contrastare gli incendi, il Capitano si accostò a Juri. «Se ci ritirassimo col resto della flotta?» sussurrò, perché gli altri non la udissero.

   «Guadagneremmo tempo» disse lo storico. «Ma Modro ha chiesto al Maligno di distruggerci tutti, quindi i suoi poteri ci raggiungeranno, prima o poi».

   «Se... se evacuassimo le navi?» bisbigliò Hod, prossima alla disperazione.

   «L’ordine era di distruggere i ribelli, non solo le astronavi» rispose cupamente lo storico.

   «Frell, non può andare peggio di così!» imprecò l’Elaysiana.

   «Non lo dica...» consigliò l’Umano. In quella la Keter sussultò.

   «Colpo agli scudi di prua» rilevò Terry. «Sono loro, Capitano... sono tornati all’attacco» disse, inquadrando di nuovo lo spazio aperto.

   Pacificatori e Breen avevano approfittato della confusione che regnava tra i federali per sferrare l’assalto finale. Le loro navi si slanciarono in avanti, sparando a volontà. Davanti a tutte c’era il Moloch, che si accaniva ancora una volta sulla Keter. Un avversario onorevole avrebbe intimato la resa, a quel punto. Ma aspettarsi l’onore dai Pacificatori era come voler cavare il sangue da una pietra.

   «Terry, risponda al fuoco» ordinò Hod, pur sapendo che era inutile. Con gli incendi sovrannaturali che divampavano a bordo e il panico che si diffondeva tra l’equipaggio, stavolta erano spacciati.

 

   Il primo segno della catastrofe fu un cupo brontolio che sorse dal terreno. Gli abitanti di Ashalla si stavano chiedendo di che si trattava, quando il suolo cominciò a tremare. Un terremoto, ecco che cos’era. I cittadini non erano avvezzi a questo fenomeno: Bajor aveva poche faglie tettoniche, e in ogni caso la capitale sorgeva in una zona sicura. Eppure le scosse c’erano, ed erano intense. Alcuni edifici si creparono, i monumenti più antichi crollarono e persino il manto stradale si sollevò fratturandosi. Gli abitanti terrorizzati si riversarono in strada, talvolta portando con sé gli effetti personali, ma più spesso a mani vuote. In certi momenti le scosse cessavano, ma poi riprendevano, provocando nuovi danni.

   Nel cortile del suo monastero, Kai Nashir sentì i rintocchi delle campane. Non le suonava nessuno: era la forza delle scosse che le agitava. La Bajoriana alzò gli occhi al cielo, dove la causa di quella catastrofe era visibile a occhio nudo, anche in pieno giorno. Il Cristallo di Fuoco scintillava come un secondo sole, rosso e malevolo.

   «Eminenza, dovremmo andare» consigliò il segretario personale della Kai.

   «Fuggire è inutile» obiettò Nashir. «I federali hanno fatto il possibile, ma ora tutto dipende dai Profeti» disse, accingendosi al suo compito.

   Negli ultimi giorni, su indicazione dell’Emissario, la Kai aveva radunato i dieci Cristalli dei Profeti: un fatto senza precedenti. Le misure di sicurezza erano state innalzate al massimo, per proteggerli dai ladri e dagli Adoratori dei Pah-wraith. Appena Sisko le aveva dato il segnale, Nashir li aveva fatti disporre in giardino, sopra dei sostegni già predisposti. I nove Cristalli più antichi erano sistemati in cerchio, mentre quello dell’Emissario si trovava al centro. Restava un’ultima cosa da fare.

   Congedati gli inservienti, la Kai passò da una reliquia all’altra, aprendo le teche. Fece in modo che le ante si aprissero verso l’interno del cerchio, così che ogni Cristallo guardasse verso quello dell’Emissario. Ognuno aveva un colore diverso, come se fossero intagliati in gemme preziose. Nashir mormorò i loro nomi, man mano che li apriva. «Anima... Destino... Profezia e Cambiamento... Tempo... Verità... Memoria... Saggezza... Unità... Contemplazione... e infine...».

   In quell’attimo i cespugli e le chiome degli alberi avvamparono tutt’intorno a lei. Il suo segretario, che era vicino a una siepe, fu raggiunto da una fiammata e arse come una torcia. Il fuoco si propagò sull’erba, dritto verso Kai Nashir. La Bajoriana avrebbe potuto affrettarsi verso il vialetto di ghiaia, dove sperava d’essere al sicuro, ma a quel punto l’incendio l’avrebbe separata dai Cristalli. Oppure poteva finire il lavoro e trovarsi circondata dalle fiamme. Non c’era tempo per starci a pensare.

   «Abbiate pietà» mormorò la Kai, entrando nel cerchio luminoso. Si affrettò alla teca centrale e l’aprì, scoprendo il Cristallo dell’Emissario, splendente di luce azzurra. Anziché limitarsi ad aprire le ante, stavolta Nashir estrasse del tutto l’artefatto. Poi raccolse la teca vuota e arretrò fin dove poteva. Il fuoco aveva ormai circondato il cerchio dei Cristalli, impedendole la fuga. La Kai si accorse però che le fiamme non dilagavano all’interno, sebbene anche lì vi fosse erba. Qualcosa le tratteneva.

   Mormorando un’invocazione ai Profeti, la Bajoriana si accucciò a terra, con la schiena rivolta al fuoco. Posò la teca e si coprì gli occhi con le mani, perché la luce dei Cristalli cresceva in modo intollerabile. Ora che non vedeva più nulla, avvertì i ronzii. Ogni Cristallo emetteva una vibrazione particolare; all’inizio erano diverse, ma si uniformarono nell’arco di qualche secondo. L’energia saliva all’interno del cerchio, tanto che il copricapo della Kai volò via e la sua crocchia si disfece; i capelli grigi si agitarono nell’aria. Stava per succedere qualcosa. I Cristalli stavano radunando un’immensa energia, che in qualche modo doveva sfogarsi. Era questione di attimi.

   «Emissario...» sussurrò la Kai.

 

   Il Cristallo di Fuoco ardeva nell’orbita, suscitando cataclismi su Bajor, nonché incendi spontanei sulle navi federali. Tutt’intorno i difensori arretravano sotto i colpi implacabili di Pacificatori e Breen. Il Moloch si accostò alla Keter, colpendola con il potente cannone a impulso di prua. Quando la nave ribelle cercò di allontanarsi, riuscì a bloccarla con un raggio traente.

   «Perché, Bina?» si chiese Radek, osservando la Keter che incassava colpi. «Perché hai voluto a tutti i costi condannare il nostro equipaggio?».

   In quel momento, nel monastero della Kai, i Cristalli antichi emisero ciascuno un fascio d’energia. I nove raggi luminosi, ognuno di un colore diverso, colpirono il Cristallo dell’Emissario che si trovava al centro. Questo raccolse la loro energia, fondendola in un unico abbagliante raggio bianco che fu proiettato verso l’alto. Dritto contro il Cristallo di Fuoco.

   Coloro che combattevano nell’orbita videro il fascio luminoso colpire in pieno il bersaglio. Quando l’energia incommensurabile dei Profeti si scontrò con quella dei Pah-wraith, gli effetti si fecero sentire in tutto il sistema. Le astronavi persero energia, gli incendi spontanei cessarono e tutti i telepati percepirono lo scontro titanico. Per un interminabile minuto, il raggio rimase attivo. In certi momenti l’energia bianca colpiva la superficie del Cristallo di Fuoco; in altri era quella rossa che risaliva il flusso, cercando di raggiungere gli artefatti a terra. In un paio d’occasioni ci arrivò molto vicina. Infine, con un ultimo sforzo che fece tremare i dieci Cristalli e spalancare il Tunnel, il raggio bianco l’ebbe vinta.

   Il Cristallo di Fuoco si frantumò in un’infinità di schegge, che a loro volta si sfarinarono in innocua polvere spaziale. Un’onda d’urto ad anello si allargò nello spazio, perpendicolarmente alla direzione del raggio. Travolse un paio di piattaforme orbitali e le distrusse. Alcune astronavi, che ne furono appena sfiorate, vennero scagliate a grande distanza, come fuscelli in un uragano. Il Moloch, che era piuttosto vicino, fu investito in pieno.

   Il vascello corazzato fu proiettato in avanti, dritto contro una nave Breen. La tranciò in due, provocandone l’esplosione, e proseguì come un bolide verso lo spazio profondo. A bordo, i membri dell’equipaggio furono scaraventati contro le pareti; molti rimasero feriti e alcuni morirono. Radek si era premunito, attivando le cinghie di sicurezza della sua poltroncina, quindi non rimase ferito. Vide le stelle vorticare sullo schermo, udì gli allarmi e seppe d’essere fuori dai giochi. Sarebbero servite ore, forse giorni di lavoro per rimettere in sesto il Moloch. Già questo era umiliante. Ma il peggio fu vedere la sua timoniera, una giovane e promettente Valakiana, riversa a terra con il cranio sfondato.

   Appena gli smorzatori inerziali ebbero stabilizzato la nave, Radek sganciò le cinghie e si precipitò dalla Valakiana. Un rapido esame gli confermò che era morta sul colpo; il danno cerebrale era troppo esteso per tentare di rianimarla. L’aveva persa... e non solo lei. Assieme al rapporto danni, venne la conta delle vittime: erano tredici. Il Rigeliano si rialzò, con il volto indurito dalla collera.

   «Capitano Hod... mi sei sfuggita un’altra volta, ma non sarai sempre così fortunata. Un giorno saremo solo io e te. Allora pagherai per questo» si promise, contemplando il corpo senza vita della timoniera.

 

   Ora che non udiva più alcun suono, Kai Nashir osò rialzare la testa. Levò le mani dal volto e si guardò attorno. La terra aveva smesso di tremare e anche gli incendi si erano estinti, almeno per quanto poteva vedere. Il giardino era annerito e fumante, salvo per la zolla verde, miracolosamente illesa, entro il cerchio dei Cristalli. Lassù in cielo, il bagliore maligno del Cristallo di Fuoco si era estinto.

   «Sia lode ai Profeti... il Maligno è sconfitto!» esultò, levando le braccia al cielo. Dopo di che si rialzò, con un certo sforzo. Fu allora che vide il prezzo della vittoria.

   I Cristalli avevano perso la loro luce, come se lo sforzo immane li avesse prosciugati. A vederli sembravano pietre grigie, dalla superficie irregolare. La Kai si coprì la mano con un lembo della veste e sfiorò il più vicino: era freddo.

   «E questo che significa?» mormorò, turbata. Quando l’Emissario le aveva svelato il suo piano, non aveva accennato a questo. I Cristalli sarebbero mai tornati come prima? E se no, che conseguenze ci sarebbero state per il popolo? Certo, per sconfiggere il Maligno nessun prezzo era troppo alto; ma perdere quelle reliquie era un duro colpo.

   La Kai esaminò i Cristalli uno ad uno, sperando di trovarne qualcuno ancora attivo. Ma quando completò il giro, dovette arrendersi all’evidenza: erano tutti grigi e smorti. In quella, però, colse uno scintillio con la coda dell’occhio. Il Cristallo dell’Emissario conservava un flebile barlume azzurro nelle sue profondità. Avvicinatasi, Nashir constatò che la luce pulsava debolmente. In certi momenti il Cristallo sembrava spento come gli altri, ma a tratti si rischiarava d’azzurro. Che significava? La sua luce e i suoi poteri si sarebbero rigenerati? Era presto per dirlo.

   Un suono sopra la sua testa distolse la Kai da questi pensieri. Una navicella di classe Gryphon calò dal cielo, atterrando nel giardino annerito. I cespugli carbonizzati si polverizzarono sotto il suo peso. Il portello laterale si aprì e ne uscì Odo. «Eminenza, è ora di andare» disse.

   «Come, andare? Il Maligno è sconfitto...» farfugliò la Kai, ancora sotto shock.

   «Ma i Pacificatori sono tornati all’attacco» spiegò il Mutaforma. «Sisko dice che i Cristalli devono andare a New Bajor, dove saranno al sicuro. Se la guerra finirà bene, ve li riporteremo».

   «Sì, ora ricordo» disse Nashir. L’Emissario le aveva accennato a questa eventualità. Osservò Odo e una mezza dozzina di federali che caricavano frettolosamente i Cristalli, incluso quello dell’Emissario.

   «Venga, Eminenza» disse il Mutaforma, facendole segno di seguirlo nella navicella.

   «No, io... non posso» mormorò la Kai. «Devo restare col mio popolo, per spiegare l’accaduto. Dopo questi disastri ci sarà tanta gente spaventata».

   «I Pacificatori stanno arrivando» avvertì Odo. «Lei sarà di certo arrestata. Potrebbero torturarla e persino ucciderla».

   «Facciano pure ciò che vogliono; il mio posto è qui» disse la Bajoriana. «Ma lei vada, Odo. Porti i Cristalli al sicuro. Ringrazi l’Emissario da parte mia e dica che gli sono vicina, almeno nello spirito» si commosse.

   «Come vuole» cedette il Mutaforma. «Arrivederci, Eminenza. Spero di rivederla un giorno, per renderle i Cristalli». La navicella aveva già cominciato a sollevarsi quando Odo richiuse il portello. Prese rapidamente quota, diretta alla Defiant.

   Nashir la osservò finché scomparve nel cielo pomeridiano. Poi, con un sospiro, lasciò il giardino devastato dal fuoco. Oltre le mura del monastero risuonavano le sirene d’allarme: pompieri, ambulanze, polizia. Il terremoto e gli incendi avevano fatto danni. E sebbene Kosst Amojan fosse stato sconfitto, l’arrivo dei Pacificatori significava che le sofferenze erano appena cominciate.

   «Sia fatta la volontà dei Profeti» pensò la Kai, rassegnata.

 

   Sulla plancia della Takiah, Modro assistette con sentimenti contrastanti alla distruzione di Deep Space Nine. Aveva sperato di riconquistarla per l’Unione e magari di comandarla lui stesso, un giorno. Ma l’ostinazione dei ribelli aveva distrutto il suo sogno, costringendolo a un’azione inimmaginabile. Ora che aveva ucciso sua moglie e forse perduto la propria anima, non gli restava altro che la vendetta. Così al rimpianto si sommò anche una feroce soddisfazione. Il Comandante voleva vedere Kosst Amojan dare la caccia ai ribelli, distruggerli uno per uno. Solo così il suo sacrificio avrebbe avuto un senso. Quando l’Ammiraglio Vidkung ordinò alla flotta di tornare all’attacco, gli disse che non era necessario, perché il Pah-wraith avrebbe fatto tutto. Ma l’Efrosiano lo guardò come se fosse tocco e confermò l’ordine. Le astronavi avevano appena ingaggiato i ribelli quando dal pianeta venne il raggio bianco.

   Modro lo guardò allibito; gli ci volle qualche secondo per comprendere che veniva da un Cristallo, o forse da tutti i Cristalli assieme. Il raggio luminoso colpì il Cristallo di Fuoco, disintegrandolo; l’onda d’urto travolse alcune navi, tra cui il Moloch. La Takiah, che era molto più lontana, tremò appena. Il Comandante si lasciò cadere sulla sua poltroncina, senza parole.

   «Tutto qui?» lo riprese Vidkung. «Sembra che lei abbia scelto l’alleato sbagliato. Mi aveva assicurato che Kosst Amojan ci avrebbe liberati dai ribelli; ed è riuscito a distruggere solo una stazione vuota. Francamente mi aspettavo di più».

   «Anch’io» ammise Modro, con la bocca secca. In realtà non sapeva se essere dispiaciuto o sollevato. Aveva perso l’occasione di annientare i ribelli; ma se il Maligno era distrutto e non poteva esaudire il suo desiderio, allora il patto era rotto. Il che era un’ottima notizia per la sua anima. «Ma Vasa è morta» si disse il Bajoriano, sentendo tornare la rabbia. «L’ho uccisa per niente... e ho anche lasciato andare Smirnov!».

   «Quel raggio veniva dal monastero della Kai» disse l’addetto ai sensori. «Una navetta della Defiant vi è atterrata in questo momento».

   «I Cristalli; sono stati i Cristalli» comprese Vidkung, tamburellando sul bracciolo. «E ora i ribelli vogliono portarli via. Senta un po’, Comandante... i suoi Profeti, da che parte stanno? Pensavo fossero dalla nostra, o tutt’al più neutrali. Invece hanno aiutato il nemico!» sbuffò.

   «Io... non so che dire» sussurrò Modro, desiderando sprofondare. «Tutto ciò che credevo di loro è falso».

   «Beh, è il momento di portare a fondo l’attacco» tagliò corto l’Efrosiano. «Ammiraglio Vidkung a flotta, riprendete l’avanzata. Stavolta non ci fermeremo fino alla presa del pianeta».

 

   Erano le fasi finali della battaglia. Da una parte Pacificatori e Breen, a dispetto delle gravi perdite, avevano ancora la netta superiorità numerica. Dall’altra i difensori si trovavano ormai con poche navi, quasi tutte danneggiate. Deep Space Nine non c’era più e anche le piattaforme orbitali erano in gran parte distrutte. Nessuno poteva dubitare di come si sarebbe conclusa la battaglia.

   Fu allora che l’Emissario attuò l’ultima parte del suo piano. «Sisko a flotta, è il momento dell’esodo» ordinò.

   «Tocca a noi» disse Hod, conoscendo il ruolo assegnato alla Keter nell’evacuazione. I teletrasporti della nave entrarono in funzione. Il Primo Ministro Parva fu trasferito a bordo con la sua squadra di governo e così accadde allo Stato Maggiore della Milizia. Solo i volontari che si erano offerti di restare furono lasciati a terra. Fatto questo, la nave corazzata fece rotta verso lo spazio profondo, sparando a tutto spiano per aprire un varco nello schieramento nemico. I trasporti bajoriani le si accodarono, mentre le navi da guerra superstiti si disposero ai lati per scortarli. Anche la Stella del Polo si unì a loro. Per ultima venne la Defiant, appena ebbe imbarcato i Cristalli. Il convoglio abbandonò Bajor, diretto al Tunnel Spaziale.

   Pacificatori e Breen, che avevano lottato così duramente per aprirsi la via, si trovarono d’un tratto padroni del pianeta. Ma non potevano restare tutti lì, dimenticando i fuggitivi. Così, per ordine di Vidkung, si divisero. Centoventi navi dei Pacificatori, scelte tra quelle in condizioni migliori, partirono all’inseguimento del convoglio. Le rimanenti, così come tutti i vascelli Breen, rimasero presso Bajor, per completare la conquista. Dapprima distrussero le ultime piattaforme, assicurandosi il controllo dell’orbita. Dopo di che presero di mira gli edifici del governo e le basi militari, intimando la resa incondizionata. Consapevoli degli effetti devastanti di un bombardamento orbitale, ai Bajoriani non rimase che arrendersi.

   Subito i Pacificatori cominciarono a sbarcare le truppe d’occupazione. Presero il controllo della capitale e delle basi militari, delle centrali energetiche, degli snodi informatici e delle telecomunicazioni. Alcuni distaccamenti fecero lo stesso sui cinque satelliti del pianeta. Infine i Pacificatori inviarono parte della flotta a conquistare gli altri mondi colonizzati del sistema. Questi erano pressoché indifesi, tanto che si arresero senza opporre resistenza. Entro poche ore, l’intero sistema bajoriano era saldamente in mano ai Pacificatori e il Federal News poté mostrare le truppe che sfilavano trionfalmente lungo le vie di Ashalla.

 

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Capitolo 9
*** Possessione ***


-Capitolo 8: Possessione

 

   Il convoglio dei fuggitivi sfrecciava verso il Tunnel Spaziale, lasciandosi dietro il pianeta in balia del nemico. La Keter apriva la strada, assieme a poche altre navi della Flotta Stellare. Seguivano i trasporti, scortati dalle navi bajoriane e cardassiane. Alla retroguardia stava un ultimo sparuto gruppo di navi federali, tra cui la Defiant. In totale erano un centinaio di navi trasporto e settanta da guerra, quasi tutte danneggiate.

   Dietro di loro venivano le centoventi astronavi dei Pacificatori, in buone condizioni e con gli equipaggi più determinati che mai a impadronirsi del convoglio. «Portiamoci in testa» ordinò l’Ammiraglio Vidkung, non volendo rischiare di farselo sfuggire. «Fuoco contro la Defiant; cerchiamo di azzopparla».

   La Takiah bersagliò i motori a impulso della Defiant, che pur continuando la fuga rispose con i lanciasiluri di poppa; ma era uno scontro impari. Fino ad allora Vidkung aveva tenuto la sua nave nelle retrovie, così che gli scudi erano ancora al massimo. Invece la nave federale, che combatteva fin dal primo momento, era danneggiata e aveva gli scudi al minimo. Non avrebbe resistito a lungo.

   «Signore, mi lasci abbordare la Defiant» chiese Modro.

   «E dovrei aspettarmi un risultato migliore che sulla stazione?» chiese l’Ammiraglio, squadrando il suo Primo Ufficiale.

   «Io e la mia squadra siamo arrivati nella camera blindata» rivendicò il Bajoriano. «Siete voi che vi siete ritirati, compromettendo il nostro rientro».

   «Lei è troppo scosso per tornare sul campo» insisté Vidkung. «Non dovrebbe nemmeno stare qui, bensì in infermeria».

   «Mi faccia andare!» insisté Modro, alzando la voce. «Su quella nave c’è l’uomo che si definisce il mio antenato. Chiuderò i conti con lui».

   «Sisko contro Sisko, è questo che vuole?».

   «Il Sisko dei Pacificatori contro quello dei ribelli... e si vedrà qual è il migliore» precisò il Comandante.

   L’Ammiraglio rimuginò per qualche attimo, osservando la nave in fuga, che incassava un colpo dopo l’altro. Ancora poco e i suoi scudi avrebbero ceduto. «Si tenga pronto» disse.

 

   Il convoglio raggiunse la Cintura di Denorios, dove si apriva il Tunnel Spaziale. I Pacificatori avevano lasciato alcune navi di guardia, che tuttavia dovettero farsi da parte, sotto il disperato attacco dei fuggitivi. Tutti si aspettavano che il convoglio imboccasse compatto il Tunnel, ma non fu così. Dieci vascelli della Flotta – tra cui la Keter e la Defiant – entrarono nel vortice, così come i trasporti, mentre il resto della scorta li abbandonò. Le astronavi corressero la rotta e partirono alla massima velocità verso Cardassia.

   «Beh, questo è inaspettato» commentò Vidkung.

   «Dividiamo la flotta» suggerì Modro.

   «No, non voglio frammentarci ulteriormente» decise l’Ammiraglio. «Tutti gli obiettivi importanti sono entrati nel Tunnel, quindi li seguiremo. Con le forze a nostra disposizione possiamo occuparci del convoglio e liberare New Bajor». Premette un comando, mettendosi in comunicazione con il Moloch. «Vidkung a Radek, le assegno il comando delle operazioni fino al mio ritorno. Si assicuri che Bajor e gli altri mondi siano sotto controllo e tenga d’occhio i Breen».

   «Come vuole, ma le sconsiglio di entrare nel Tunnel» avvertì il Rigeliano.

   «Faccia come ho detto» tagliò corto l’Ammiraglio, e chiuse il canale. Non voleva rinunciare all’inseguimento e non poteva nemmeno usare il propulsore cronografico, perché solo poche astronavi ne erano provviste.

   Modro ebbe un brutto presentimento, vedendo il Tunnel che si spalancava davanti a loro. Quel luogo, un tempo riverito, non gli appariva più così amico, ora che i Profeti avevano aiutato i ribelli. Ma il Comandante sapeva che l’Ammiraglio non avrebbe mai desistito, così non tentò nemmeno di dissuaderlo.

   Le navi dei Pacificatori si tuffarono nel wormhole, come un branco di lupi all’inseguimento di prede sempre più sfiancate. Ne percorsero la maggior parte, ma a un tratto dovettero fermarsi. La Defiant si era fermata al centro del condotto, ostruendo il passaggio, mentre il resto del convoglio sbucava nel Quadrante Gamma.

   «Volendo potrei sgusciarle a lato» disse il timoniere.

   «Volendo potrei distruggerla» fece l’Ufficiale Tattico, più arcigno.

   L’Ammiraglio ebbe un attimo d’esitazione. Non c’erano mai state battaglie all’interno del Tunnel, e comunque doveva abbordare la nave per recuperare i Cristalli. Però non voleva nemmeno che la Defiant gli bloccasse tutta la flotta, mentre il resto del convoglio faceva perdere le proprie tracce.

   «Ci chiamano, signore».

   «Sullo schermo».

   Ilia apparve al centro dell’inquadratura. Ai suoi lati c’erano Benjamin Sisko e Odo. «Avete preso Bajor, come volevate. Ora, nel vostro interesse, cessate l’inseguimento» disse la Trill.

   «Nel nostro interesse!» ridacchiò Vidkung. «Ve lo dico io, quali sono i nostri interessi. Liberare New Bajor, che appartiene all’Unione. Riportare indietro i dieci Cristalli e i centomila Umani di cui vi siete impadroniti. Assicurare tutti voi alla giustizia. Questi sono i nostri interessi, e ci fermeremo solo quando saranno pienamente soddisfatti. Dunque, nel vostro interesse, vi ordino di sgombrarci la strada e di arrendervi senza condizioni».

   «Voi non passerete oltre» disse Benjamin Sisko, con pacata sicurezza. «Tornate indietro, finché potete. Avete già visto il potere dei Profeti: hanno distrutto il Cristallo di Fuoco. Cosa credete che faranno a voi, che avete invaso il loro regno?».

   «Invaso! Sono secoli che usiamo questo wormhole!» sbottò Vidkung. «Se ora i suoi amici evanescenti non ci vedono di buon occhio, li avverta di stare attenti, perché conosciamo la loro vulnerabilità ai cronotoni. Quindi faranno meglio a mostrarsi e a firmare un patto di non aggressione. È tempo di metterli in regola, per lo Spazio!».

   «Firmare un patto... loro non agiscono così» disse Sisko, scuotendo la testa. «Sono troppo diversi. Lei non ha mai compiuto un Primo Contatto, vero?».

   «Ne ho abbastanza, lei mi fa perdere tempo» s’irritò l’Efrosiano. «Interpreterò il suo tergiversare come un rifiuto di arrendersi; e questa è la cosa più stupida che poteva fare». Segnalò all’addetto di chiudere il canale, poi si rivolse all’Ufficiale Tattico: «Li renda inoffensivi, ma stia attento a non distruggerli».

   «Signore, la Defiant ha appena abbassato gli scudi» disse l’ufficiale. «Hanno anche disattivato le armi. Dunque si sono arresi, dopotutto».

   «Ma continuano a ostruirci la rotta» notò il timoniere.

   «Non mi fido... può essere una trappola» disse l’Ammiraglio. «Comandante, vada da loro e li costringa a liberarci la strada».

   «Agli ordini» disse Modro, ancora equipaggiato con la tuta da combattimento e le armi usate su Deep Space Nine. Non vedeva l’ora di abbordare la Defiant, per chiudere i conti con il suo sedicente antenato.

 

   «State pronti» disse Sisko. «Mi raccomando, nessuno opponga resistenza».

   Ilia stava per replicare che quella era la sua nave, e doveva difenderla, ma si trattenne. Voleva fidarsi ancora una volta di Benjamin. E dopo aver visto i Cristalli in azione, era pronta ad accordare fiducia anche ai Profeti.

   La squadra d’assalto dei Pacificatori si materializzò in plancia. Tutti gli agenti avevano fucili phaser e tute da combattimento con casco. «In nome dell’Unione Galattica, vi dichiaro in arresto e requisisco questa nave!» annunciò il caposquadra.

   I federali restarono immobili, salvo Benjamin Sisko, che si fece avanti mostrando i palmi vuoti delle mani. «State calmi, non occorre la violenza» disse. «Sei tu, Modro?» si rivolse al caposquadra. Poiché la visiera del casco era polarizzata, non poteva vederne i lineamenti.

   «Sono il Comandante Sisko, dell’USS Takiah» disse orgogliosamente il Bajoriano. «E lei, si dichiara ancora lo scomparso Capitano Benjamin Sisko?».

   «I Profeti mi chiamano “il Sisko”» fece l’Umano, accennando un sorriso, «ma sì, sono io. Non mi credi? Eppure hai appena visto il loro potere. Se non avessero fermato il Maligno – che tu hai scatenato – sarebbe stata la catastrofe. Ma ciò non ti assolve dalle tue azioni. Hai assassinato tua moglie... come hai potuto?» chiese, scuotendo il capo.

   Modro fece rientrare il casco nella tuta. Per la prima volta, i due lontani parenti si trovarono faccia a faccia. La loro somiglianza era impressionante, anche se Modro aveva i tratti bajoriani. Sembravano quasi la stessa persona, in due diverse incarnazioni.

   «Se i Profeti non mi avessero abbandonato, non sarei ricorso a queste misure estreme» si giustificò il Comandante.

   «I Profeti non ti hanno abbandonato» corresse Sisko. «Sei stato tu a fargli richieste ingiuste, e a odiarli quando non ti hanno accontentato».

   «I Profeti, Kosst Amojan... non hanno più importanza» sbuffò Modro. «Non m’importa neanche sapere se lei è davvero il mio antenato. Tutto ciò che conta è che noi abbiamo vinto, abbiamo liberato Bajor. Ora consegnateci la nave».

   «No» rispose Sisko con tranquillità.

   «No?» fece Modro, fissandolo sinistramente. «Allora ce la prenderemo. Fuoco!».

   Gli agenti spararono per stordire, ma i fucili phaser restarono inerti. L’attimo dopo si dissolsero nelle loro mani. Svanirono anche i phaser manuali e le granate stordenti. I Pacificatori arretrarono sgomenti, mentre i federali estrassero i phaser che avevano nascosto dietro le consolle.

   «Yotz!» imprecò Modro, portandosi la mano alla fondina vuota.

   «Vi avevo avvertiti» disse Sisko con pazienza. «I Profeti non tollerano la vostra invasione. Andatevene subito, o vi distruggeranno» disse senza mezzi termini.

   Modro guardò i suoi agenti, sperando che l’aiutassero, ma vide che erano tutti disarmati come lui. «Non finisce qui!» disse, fissando l’antenato con odio. «Sisko a Takiah, rientro immediato» ordinò. I Pacificatori svanirono com’erano apparsi, salvo lui. «Ma...» fece il Bajoriano, guardandosi attorno come un animale in trappola.

   «Sembra che i Profeti vogliano darti un’ultima occasione» disse Sisko. «Deponi la tua rabbia e parla con me. Forse non è troppo tardi per evitare la catastrofe» disse, tendendogli la mano.

   Modro fissò la mano tesa come se fosse una cosa immonda, che si protraeva contro di lui per insozzarlo. Ma era solo, su una nave piena di ribelli che lo avrebbero conciato male, se l’Emissario non fosse stato così conciliante. Vincendo la ripugnanza, allungò la propria mano. Stavano per stringersele, quando l’Ufficiale Tattico lanciò un allarme: «I Pacificatori energizzano le armi!».

   «No!» fece Sisko, ritraendo la mano, mentre il panico si diffondeva in plancia.

   Anche Modro si preparò al peggio. Se i suoi colleghi sparavano mentre la Defiant aveva gli scudi abbassati, l’avrebbero distrutta in un attimo. Guardò la Takiah e le altre navi inquadrate sullo schermo. Spiccavano come macchie scure contro gli orli cangianti e luminosi del Tunnel Spaziale. D’un tratto il condotto prese a lampeggiare in un modo che non aveva mai visto: era come se i colori s’invertissero a ogni istante. Per qualche secondo il Tunnel fu un caleidoscopio luminoso; poi tornò alla normalità. Ma la flotta dei Pacificatori era svanita. Le centoventi astronavi di ultima generazione, orgoglio dell’Unione, si erano dissolte come se non fossero mai esistite. L’Ammiraglio Vidkung, i capitani e i loro equipaggi erano svaniti con esse. E ovunque fossero finiti, Modro sentì che non avrebbero più disturbato i viventi.

 

   In plancia piombò il silenzio. Al sollievo per essere sopravvissuti si aggiungeva lo sgomento per quel terribile castigo, che riecheggiava quello inferto due secoli prima al Dominio. Di tutti i Pacificatori entrati nel Tunnel, l’unico superstite era Modro. Restava da vedere come ne sarebbe uscito. Il Bajoriano fissava il condotto vuoto, stentando a capacitarsi dell’accaduto.

   «Mi dispiace» mormorò Sisko. «Non volevo che accadesse. Ma i Pacificatori avrebbero dovuto ritirarsi. Li avevo avvertiti che i Profeti avevano esaurito la pazienza».

   «La pazienza?» gracchiò Modro, distogliendo a fatica lo sguardo. «Su quelle navi c’erano cinquantamila persone. Alcuni erano cadetti appena usciti dall’Accademia, con tutta la vita davanti. I tuoi Profeti non conoscono la pietà».

   «Tu quanta pietà hai avuto, quando hai sacrificato tua moglie... per ordinare al Maligno di sterminarci?» ribatté Sisko. «Non vedi dove ci ha portati questa guerra? Ci stiamo massacrando per niente. Due eserciti che si combattono sono come un solo grande esercito che si suicida. Queste tragedie lo dimostrano. Dobbiamo fermarci, prima che questa follia ci consumi!».

   «Fermarci?» ripeté Modro, trasognato. «E come credi che sia possibile? Noi Pacificatori lottiamo per salvare il sogno federale. Voi invece volete distruggere l’Unione e riportare il Quadrante all’epoca in cui tutte le specie erano in guerra».

   «Non è così!» disse Sisko con decisione. «Noi vogliamo soltanto che Rangda ceda il potere e si tengano libere elezioni. Tutto qui».

   «Le elezioni ci sono già state e Rangda ha stravinto» ribatté Modro. «Quello che volete fare è un colpo di Stato. E poi c’è la Terra: volete restituirla agli Umani. Questo ci metterebbe in conflitto coi Voth, un conflitto che non possiamo vincere. Come fate a non capirlo?!».

   «Se tutte le strade portano al conflitto, allora l’unico modo di uscirne è il negoziato» insisté Sisko. «Tutti dovremo cedere qualcosa, ma nessuno perderà tutto. E tu puoi svolgere un ruolo chiave, in questo».

   «Io?» fece Modro, smarrito.

   «Sì, i Profeti l’hanno previsto» disse Sisko, incoraggiante. «Se t’impegnerai con me, potremo instaurare un dialogo tra Federazione e Unione. Non è ancora troppo tardi per ricucire lo strappo. Ma se rifiuti... allora la guerra proseguirà e le vittime cresceranno a dismisura. Tu che sei sangue del mio sangue, non puoi volere questo. Aiutami, nipote! Aiutami a riconquistare la pace!» disse, tendendogli nuovamente la mano.

   Modro lo guardò a lungo, considerando la sua proposta. Poco alla volta gli occhi gli s’inumidirono. «Mi sbagliavo sul tuo conto» mormorò. «Tu sei davvero Benjamin Sisko. Quand’ero ragazzino, eri il mio idolo. Avrei voluto emularti... non mi aspettavo certo di finire a combatterti». Malgrado i suoi sforzi, non riuscì a trattenere un singhiozzo. Strinse la mano all’antenato e poi, trascinato dall’emozione, lo abbracciò.

   «Lo so, e mi dispiace. Ma se lavoriamo insieme, potremo fare molto» promise l’Emissario, stringendolo a sé con forza, sebbene l’altro avesse ancora la tuta corazzata. Non si avvide che Modro aveva portato la mano in cintura. E non se ne accorsero nemmeno i federali, perché il Bajoriano gli mostrava l’altro lato.

   «Sì... ora tutto mi è chiaro» disse Modro, piangendo calde lacrime.

   Si udì uno scatto metallico e l’Emissario s’irrigidì. Fissò il suo erede con delusione, più che con sorpresa. Arretrò leggermente, liberandosi dall’abbraccio. Allora tutti videro che Modro gli aveva piantato la vibro-lama nello stomaco. La lama non era del tutto estroflessa, così che l’arma sembrava un pugnale, più che una spada; ma era affondata fino agli organi vitali.

   «NO!» gridò Ilia, aprendo il fuoco con il phaser a piena potenza. Colpì Modro al fianco, perforandogli la tuta. Il Bajoriano gridò di dolore, anche se la ferita non era letale. Lui e Sisko restarono in piedi, quasi sostenendosi a vicenda.

   «Perché?» chiese l’Emissario.

   «Se io e te possiamo portare la pace, allora preferisco ucciderti» rispose Modro. Estrasse la vibro-lama e cercò di sferrare un altro colpo, alla gola dell’antenato. Ma Sisko gli afferrò il polso e lo bloccò. Restarono avvinghiati, lottando per l’arma. Odo e alcuni ufficiali stavano per intervenire, ma Ilia fece loro segno di aspettare. Ormai le era chiaro come sarebbe finita.

   «Ti volevo bene, nipote» disse l’Umano, piegandogli inesorabilmente il braccio.

   «Io invece sono felice di morire, pur di accoppare anche te!» ringhiò il Bajoriano. Ignorando il dolore lancinante al fianco, cercò con tutte le sue forze di rivolgere l’arma contro l’antenato.

   Con uno sforzo convulso, Sisko piegò del tutto la vibro-lama contro l’erede, portandogliela a un centimetro dalla gola. «Avremo ugualmente la pace, un giorno» predisse.

   «Sì, ma per allora la tua razza immonda sarà estirpata!» ribatté Modro, con un ghigno diabolico.

   Ci fu un nuovo scatto e la vibro-lama si estroflesse del tutto, piantandosi nella gola del Comandante, appena sopra l’orlo della tuta. La punta gli uscì dalla nuca, luccicante di sangue. Nessuno dei testimoni vide chi dei due aveva premuto il comando. E nessuno volle chiederlo. I due si guardarono un’ultima volta negli occhi, infine l’Emissario lasciò la presa. Il Comandante crollò a terra, con la vibro-lama che gli trafiggeva il collo. Sul suo volto c’era ancora, congelato dalla morte, il sorriso di trionfo.

 

   Sisko si accasciò tra le braccia di Odo, accorso a sorreggerlo. «Stia calmo, Capitano» disse il Mutaforma, adagiandolo sul pavimento. «È una ferita da niente, si rimetterà».

   «Non credo» mormorò l’Emissario. «Il mio Cristallo... portatelo qui, presto».

   «Fate come dice» ordinò Ilia.

   Il primo ad arrivare fu però il dottor Joe, con la valigetta del pronto soccorso. Mentre il Medico Olografico prestava le prime cure al ferito, la Trill ordinò di uscire dal Tunnel. La Defiant partì a metà impulso, sbucando nel Quadrante Gamma. Non c’erano navi nel raggio dei sensori, perché il convoglio dei fuggitivi aveva proseguito per New Bajor.

   «Ammiraglio, le condizioni del paziente sono più gravi del previsto» avvertì Joe. «Quella vibro-lama contiene particelle di thalaron. Sono entrate nel flusso sanguigno e stanno avvelenando l’organismo. Devo metterlo in una capsula crono-statica, mentre studio il problema».

   «No, il mio compito è terminato» disse Sisko stancamente. «È tempo di riunirmi ai Profeti».

   «Benjamin, cosa dici? Abbiamo ancora bisogno di te!» disse Ilia, affranta. «La pace di cui parlavi...».

   «È morta con mio nipote. Lui ha fatto la sua scelta e ora la guerra continuerà» sospirò l’Emissario.

   «Riusciremo a vincere?» chiese Ilia.

   «C’è una sola possibilità, ma devono accadere tante cose... ah!» gemette Sisko, colto da una fitta. Il dottor Joe aveva arrestato l’emorragia, ma la carne in quel punto si era ingrigita e le vene erano in evidenza. Il thalaron si diffondeva, inesorabile, rompendo le membrane cellulari.

   Un tremito della nave indusse tutti ad alzare gli occhi allo schermo. Il Tunnel Spaziale si era riaperto. Per un attimo i federali temettero di veder arrivare il resto dei Pacificatori, sfuggiti in qualche modo alla collera dei Profeti. Ma non c’era nessuno in arrivo. Il vortice azzurro e dorato restò aperto per un tempo insolitamente lungo, prima di richiudersi in modo strano, come ripiegandosi su se stesso. Ci fu un lampo, seguito da un’onda d’urto che scosse la Defiant.

   «Analisi» ordinò Ilia, pur intuendo l’accaduto.

   «Il Tunnel Spaziale sembra svanito» disse l’addetta ai sensori. «Non ci sono emissioni di verteroni, né onde gravitazionali. È come se non fosse mai esistito».

   «I Profeti stanno bene?» chiese la Trill a Sisko.

   «Sì, ma non vogliono più immischiarsi in questa guerra» spiegò l’Emissario, sempre più debole. «Hanno chiuso il Tunnel per evitare che i Pacificatori si vendichino».

   Ilia comprese perché il Capitano aveva voluto che solo le navi federali munite di propulsore cronografico andassero nel Quadrante Gamma: erano le uniche in grado di tornare dopo la chiusura del Tunnel. I trasporti in effetti erano bloccati, ma il loro equipaggio poteva essere trasferito dalle navi della Flotta.

   «Prima i Cristalli, poi il Tunnel... i Bajoriani si sentiranno abbandonati» commentò Odo. «È una scelta definitiva o i Profeti lo riapriranno?».

   «Il Tunnel si riaprirà solo quando torneranno pace e giustizia» rivelò Sisko. «Che ciò accada o meno, dipende da voi» disse con voce fioca. I segni dell’avvelenamento progredivano a vista d’occhio.

   In quella giunse un agente della Sicurezza con il Cristallo dell’Emissario. Lo depose accanto a Sisko e aprì la teca. Il Cristallo era ancora opaco; solo a tratti baluginava d’azzurro. Sisko lo guardò come se fosse la sua salvezza e tese il braccio per toccarlo.

   «Benjamin, ti rivedrò mai?!» chiese Ilia.

   «Può darsi, vecchio mio» rispose l’Emissario, abbozzando un sorriso malgrado il dolore intenso. «Forse domani, o forse... l’altroieri». Nel momento in cui toccò il Cristallo, egli svanì. Non ci furono lampi di luce, né clamori. Si era semplicemente dissolto assieme ai suoi abiti. Quanto al Cristallo, continuava a pulsare di un fioco barlume azzurro.

   Ilia richiuse la teca con un sospiro. «Lo riporti nella camera blindata, con gli altri» ordinò all’agente. Si rialzò con l’aiuto di Odo e guardò lo spazio trapunto di stelle. «Lui è là, da qualche parte» disse all’amico. «Nello spazio tra gli Universi. In un certo senso, è ancora tra noi».

   «Ma non può più consigliarci» notò il Mutaforma.

   «No» convenne l’Ammiraglio, rassegnata. Si rivolse ai suoi ufficiali, che apparivano scossi dagli eventi. «La battaglia è finita e penso che per oggi non vedremo altri portenti» li rassicurò. «Abbiamo fatto tutto il possibile; anche se Bajor è caduto, il convoglio è in salvo. Timoniere, faccia rotta per New Bajor» ordinò.

   «E di lui che ne facciamo?» chiese Odo, accennando al corpo di Modro.

   «Se lo restituissimo ai Pacificatori, di certo ne farebbero un martire» disse Ilia, osservandolo cupamente. «Non lascerò che la sua tomba diventi meta di pellegrinaggio, perciò lo cremeremo».

   «Sisko ha altri discendenti, giusto?» chiese il Mutaforma, non rassegnandosi al fatto che la sua stirpe si estinguesse così.

   «Sì, molti» confermò la Trill. «Ma nessun altro con il suo cognome».

 

   Uscendo dalla sala operatoria della Keter, la dottoressa Mol si trovò davanti Juri. Lo storico era lì fuori da chissà quanto, in attesa del verdetto sulla sorte di Vasa. La Vidiiana non ebbe la forza di parlare. Si limitò a scuotere il capo. Le era già capitato di perdere dei pazienti o, come stavolta, di non riuscire a rianimarne uno. La dottoressa sapeva che in quei casi era necessario il distacco professionale, ma non poteva fare a meno di considerarla una sconfitta.

   Sul volto di Juri non apparve il minimo stupore, e nemmeno rabbia. Si aspettava quell’esito. Lasciò l’infermeria senza una parola. Mentre percorreva i corridoi pieni di tecnici che correvano a fare riparazioni, si disse che in fondo le cose erano andate meglio del previsto. Avevano salvato Bajor dalla distruzione, anche se non dai Pacificatori, e avevano messo in salvo gli Umani. E Modro era morto: così diceva il comunicato della Defiant. La notizia non lo rallegrava, anche se gli dava un certo sollievo. Più difficile da interpretare era la scomparsa di Benjamin Sisko. Comunque di lì a poco la Defiant li avrebbe raggiunti, e lui avrebbe saputo i dettagli.

   Lo storico pensava di tornare nel suo alloggio, a riposare, ma i piedi lo portarono davanti al suo laboratorio. C’era una strana inquietudine, in lui, ma non capiva da dove venisse. Aveva la sensazione che quella missione non fosse ancora finita. Entrò nel laboratorio e sedette alla scrivania. Per un po’ rimase in silenzio, rimuginando. Esaminò i tasselli di quell’intricata vicenda, cercando di capire cosa lo tormentava. I Breen? Avevano subito gravi perdite e forse si sarebbero ritirati dal conflitto. I Pacificatori? Si erano presi Bajor, ma non erano loro a preoccuparlo. Kosst Amojan? Era distrutto. O meglio... il suo Cristallo era stato distrutto.

   Poco alla volta lo storico sentì che il suo timore si precisava. Si mise la mano in tasca, traendone l’unità di memoria che Vasa gli aveva dato appena la sera prima... ma sembrava passato un secolo. La inserì nel computer e attivò l’oloschermo. Era tutto lì: sei anni di analisi ed esperimenti sul Cristallo di Fuoco da parte della squadra archeologica. «C’è ancora del lavoro da fare» si disse Juri, cominciando la lettura.

 

   Sorvegliata da due agenti dei Pacificatori, Kai Nashir fu scortata in quello che fino a pochi giorni prima era il suo ufficio. Erano passati tre giorni dalla battaglia, e in tutto questo tempo gli invasori l’avevano rinchiusa nei suoi alloggi, impedendole d’informarsi su ciò che accadeva. L’ultima cosa che aveva saputo, prima del suo arresto, era che il Tunnel Spaziale era scomparso: un fatto che le dava molto da pensare.

   Il Capitano Radek l’aspettava nell’ufficio. Aveva avuto il buon gusto di non sedersi alla sua scrivania, quindi passeggiava, osservando gli antichi manufatti esposti sulle mensole: statuette, stele istoriate, strumenti musicali. «Salve, Eminenza» l’accolse il Rigeliano. «Mi scuso per averla fatta attendere, ma in questi giorni siamo stati molti indaffarati, come può immaginare. C’è un intero sistema da pacificare, e il suo popolo... ecco... non si è rivelato collaborativo».

   «Il mio popolo sta vivendo il momento più buio» disse la Kai. «Abbiamo perso i Cristalli, il Tempio Celeste e la libertà, tutto in una volta».

   «Sui primi due posso convenire, ma si sbaglia di grosso sulla libertà» disse Radek, accostandosi. «Siete appena tornati nella grande famiglia dell’Unione e ne riceverete i benefici, se starete al vostro posto. Ora, forse saprà che il Ministro Parva e i suoi collaboratori hanno pensato bene di svignarsela. Questo fa di lei la maggiore autorità rimasta su Bajor. E per quanto mi ripugni mischiare religione e politica, sembra proprio che dovrò farlo. Lei, Eminenza, parlerà al popolo per tranquillizzarlo. Spiegherà che la vita continuerà in larga misura come prima ed esorterà i dissidenti a deporre le armi. Dirà inoltre che l’uomo spacciatosi per Benjamin Sisko era un impostore e che i Bajoriani non devono in alcun modo seguire le sue esortazioni».

   «Altrimenti mi ucciderà?» chiese Nashir.

   «Suvvia, non s’impunti così» la esortò Radek. «Io sono un Pacificatore. Come dice il nome, la mia missione è garantire la pace. Se il suo credo è pacifico come afferma, converrà che abbiamo lo stesso obiettivo».

   «Lei parla di pace, ma è giunto qui con la guerra» obiettò la Bajoriana. «Quante persone sono morte, perché lei potesse entrare in questo ufficio?».

   «Troppe» ammise Radek, sinceramente addolorato. «Ma ne moriranno altre, se lei non mi aiuta a ripristinare la pace sociale».

   «Lei mi chiede di collaborare alla vostra occupazione. Non posso esaudirla» disse Nashir, accostandosi alla finestra per osservare il giardino annerito dall’incendio.

   «Allora sta commettendo lo stesso errore dei ribelli» sostenne Radek, irritato. «Potevano arrendersi e nessuno si sarebbe fatto male. Invece hanno voluto combattere fino all’ultimo, come se ci fosse qualcosa di nobile in questo. A causa della loro cieca ostinazione, sono morte migliaia di persone. E ora tutto si ripete! Io le chiedo di collaborare, lei si rifiuta... e a farne le spese sono sempre i più deboli. Lei è come tutti gli altri ribelli: egoista e senza cuore».

   La Kai guardò il cielo, come cercando la forza di controbattere. Si chiese cosa avrebbe detto l’Emissario, al posto suo. Infine si girò, affrontando il Capitano. «Voi Pacificatori siete abili a scaricare le colpe sugli altri» disse. «Ma siete voi che non permettete ai popoli stanchi delle vostre vessazioni di lasciare l’Unione. Siete voi che aggredite un pianeta dopo l’altro. Stavolta avete usato un’arma al thalaron contro la New Frontier e avete cercato di sfruttare persino il Cristallo di Fuoco. La prossima volta che farete? Distruggerete il pianeta che vi si oppone?».

   «Siamo stati costretti! Il fine giustifica i mezzi!» esclamò Radek, perdendo la calma.

   «No, sono i mezzi che rivelano il fine» ritorse Nashir. «E il vostro fine è fin troppo chiaro: uccidere chiunque non s’inginocchi davanti a voi. Che aspetta, dunque?» chiese, allargando le braccia come se lo invitasse a colpirla.

   «Vecchia rimbambita!» ringhiò il Rigeliano, sempre più furente. «Come avete fatto a trasformare i Cristalli in un’arma? Si può rifare? E perché il Tunnel si è chiuso dopo il passaggio dei nostri?!».

   «Solo i Profeti conoscono le risposte» disse Nashir. «Per quanto riguarda la vostra flotta scomparsa, prego per il suo ritorno. Ma c’è la possibilità che non la rivediate, se i Profeti hanno deciso di castigarvi, come fecero col Dominio».

   Udendo questo, Radek perse l’ultimo briciolo d’autocontrollo. Colpì la Bajoriana con un manrovescio che la fece cadere a terra.

   «Capitano, permette una parola?» intervenne uno degli agenti. «Se la prigioniera non collabora, potremmo usare la Lobo-Sedia. Ci vuol poco ad asservire quelli come lei».

   Radek ci rifletté mentre l’anziana, ancora a terra, mormorava parole smozzicate, forse preghiere. Il sangue le colava dal naso e la guancia si stava illividendo. «No» decise il Capitano. «Sono contrario a quegli strumenti. Se la Kai non vuol collaborare, faremo a meno di lei. Medicatela e poi speditela al carcere di Elemspur. Se cambierà idea, parleremo di nuovo. Altrimenti passerà lì il resto dei suoi giorni» sentenziò.

   «Venga» dissero i due agenti. Presero l’anziana donna per le braccia e la costrinsero rudemente a rialzarsi.

   «La ricorderò nelle mie preghiere, Capitano Radek» disse Nashir, scossa ma non vinta. «Dev’essere triste, passare la vita dando la caccia ai suoi ex amici della Keter. Ed è ancora più triste che lei non capisca come andrà a finire. Abbiamo una sola vita e una sola anima, e non sappiamo quando verremo chiamati a renderne conto. Non le sprechi, come ha fatto Modro» avvertì.

   Il Rigeliano le si avvicinò con aria minacciosa. «I suoi abracadabra non m’intimoriscono» disse. «Quando sarà eletto il nuovo Kai, ci assicureremo che vada al potere qualcuno più assennato di lei. Sempre che la Presidente Rangda non faccia chiudere i vostri templi una volta per tutte. È ora che anche voi entriate nella modernità». Al suo cenno, le guardie portarono via la Kai.

   Radek si aggirò per qualche minuto nell’ufficio, maledicendo la cocciutaggine dei ribelli. Era chiaro che Bajor sarebbe stato un pianeta difficile da controllare. Ma c’era qualcos’altro che lo preoccupava, e la conversazione con Nashir aveva acuito il suo timore. La flotta di Vidkung era scomparsa da tre giorni. Anche se erano impegnati a pacificare New Bajor, era strano che non avessero mandato indietro neanche un’astronave, per riferire la situazione.

   «Radek a Moloch, come procedono le riparazioni?» chiese il Rigeliano, premendosi il comunicatore.

   «Bene, signore» rispose il Primo Ufficiale. «Abbiamo di nuovo la cavitazione».

   «E il propulsore cronografico?».

   «Funziona anche quello. Pensa di usarlo, Capitano?».

   «Per forza, visto che la flotta dell’Ammiraglio non dà notizie. Informi i Capitani: tutte le navi munite di propulsore cronografico devono prepararsi a partire entro due giorni».

 

   Due giorni dopo, come annunciato, il Moloch e un’altra trentina di navi effettuarono il balzo cronografico. Grazie a quella tecnologia che annullava le distanze, furono istantaneamente traslate nel Quadrante Gamma, alle coordinate in cui si apriva l’altra estremità del Tunnel.

   «Analisi sensoriale» ordinò Radek. «Cercate il wormhole. Può darsi che solo la nostra estremità si sia spostata».

   «Negativo, Capitano» disse l’addetto ai sensori, dopo una breve ricerca. «O si sono spostate entrambe le uscite, o il Tunnel si è chiuso. Considerando il comportamento dei wormhole, propendo per la seconda ipotesi».

   «Mah, quello bajoriano non è mai stato un tunnel come gli altri» borbottò Radek. In realtà la notizia lo preoccupava, perché significava che molte astronavi dell’altra flotta, sprovviste di propulsore cronografico, non potevano tornare nel Quadrante Alfa. Certo, i loro equipaggi potevano essere trasferiti con le altre, ma le navi sarebbero rimaste lì... a meno di non viaggiare per un anno a massima cavitazione, in regioni di spazio sconosciute. «Nessuna traccia delle nostre navi?» chiese il Rigeliano.

   «Niente, signore. Non hanno lasciato boe e non rilevo trasmissioni subspaziali».

   «Molto strano» si disse Radek. Un timore si faceva strada in lui, ma non osava indugiarci nemmeno col pensiero. Guardando i suo ufficiali, però, vide che anche loro stavano pensando la stessa cosa. Premette un comando sul bracciolo, contattando le altre navi. «Radek a flotta: rotta verso New Bajor. Restate in formazione e siate pronti allo scontro» disse in tono professionale. In realtà già ventilare uno scontro significava ammettere che la flotta di Vidkung non era mai giunta a New Bajor.

   Il Moloch entrò in cavitazione, seguito dalle altre navi. Alla loro velocità bastarono pochi minuti per raggiungere New Bajor. Era un pianeta ridente, privo di satelliti naturali, che orbitava attorno a una stella di tipo G. La sua orbita però era affollata di astronavi. Radek riconobbe i trasporti bajoriani e le navi federali che li avevano scortati nel Tunnel.

   «I trasporti non hanno ancora sbarcato gli Umani» riferì l’addetto.

   «Ci aspettavano. Chiami la Defiant» ordinò Radek.

   Ilia Tarn apparve sullo schermo; con lei c’erano Odo e il Ministro Parva. «Ben arrivati; ce ne avete messo, di tempo» esordì la Trill.

   Quella sicurezza non piacque per niente a Radek. «Arrendetevi» intimò. «Non sto a ripetervi le condizioni, perché le conoscete già».

   «Non vuole capirlo, vero? Non ci arrenderemo mai» rispose Ilia.

   «Si sbaglia, l’ho capito eccome. L’ho detto solo per rispettare il protocollo» spiegò il Rigeliano. «Spero che i vostri gusci di salvataggio funzionino, perché tra poco ne avrete bisogno».

   «Calma!» fece Ilia. «Non si è chiesto cos’è accaduto alla flotta dell’Ammiraglio Vidkung?».

   Radek se l’era chiesto eccome, ma temeva la risposta. Soprattutto temeva l’effetto che avrebbe avuto sul suo equipaggio. Fu tentato di chiudere la comunicazione e passare all’attacco, ma si trattenne. Doveva sapere. Vidkung aveva gettato le navi allo sbaraglio senza avere un quadro completo della situazione, ma lui non avrebbe commesso questo errore. «Avanti, lo dica» esortò.

   «Sono stati distrutti» rivelò la Trill. «Non da noi, certo. Sono stati i Profeti. Hanno cancellato la loro flotta mentre era nel Tunnel, come fecero col Dominio».

   Il gelo scese sulla plancia del Moloch. Osservando i suoi ufficiali, Radek vide sui loro volti il terrore, ma anche la rabbia. Lui stesso era fuori di sé, ma s’impose l’autocontrollo. «Erano cinquantamila persone... è stato un crimine di guerra» disse a bassa voce.

   «Li avevamo avvertiti del pericolo. Loro non ci hanno dato ascolto» ribatté Ilia.

   «Dunque è per questo che il Tunnel si è chiuso» comprese Radek. «Dopo aver compiuto la strage, i Profeti si nascondono, come assassini in fuga. Sarà meglio per loro che non si facciano più vedere, perché sappiamo come distruggerli» minacciò, riferendosi alle radiazioni cronotoniche. Poi si rivolse a Parva: «Sa, Primo Ministro, quando riferiremo questa notizia penso proprio che la vostra fede sarà bandita in tutta l’Unione».

   «Ne abbiamo subite tante, di persecuzioni; supereremo anche la vostra» rispose il Bajoriano.

   «Kai Nashir la pensa allo stesso modo, ma almeno ha avuto il coraggio di restare» riconobbe il Rigeliano. «Non come lei, che è fuggito. Ma se voleva restare libero, doveva nascondersi meglio».

   «Se pensa di attaccarci, la invito a riconsiderare» intervenne Odo. «La informo che il Dominio ha proposto a New Bajor di diventare un suo protettorato, e la colonia ha accettato dopo un referendum» rivelò. «Dunque ogni aggressione nei confronti di questo pianeta, e delle navi in orbita, sarà considerata un’aggressione al Dominio. Io sarei... molto spiacente, se fra noi scoppiasse un’altra guerra».

   Radek si sentì accapponare la pelle. Dichiarare guerra al Dominio era fuori discussione, ma gli ordini di Rangda erano perentori: il convoglio non doveva sfuggire e la colonia andava riconquistata. «Non vedo navi del Dominio, qui» disse il Rigeliano, chiedendosi se un attacco lampo avrebbe funzionato.

   «Questo è un problema che si risolve facilmente» disse il Mutaforma, premendosi il comunicatore. «Adesso, Yogrum».

   La flotta del Dominio uscì dall’occultamento. C’erano gli incrociatori di ultima generazione, dallo scafo a catamarano, e sciami di caccia Jem’Hadar simili a coleotteri. I Pacificatori erano quasi del tutto accerchiati, salvo che nella direzione da cui erano venuti.

   «Sono cento incrociatori e seicento caccia Jem’Hadar» disse l’Ufficiale Tattico del Moloch. Non aggiunse altro, ma l’occhiata che rivolse a Radek era eloquente: non avevano speranze contro una simile armata.

   «E così, adesso il Dominio ha anche l’occultamento» disse il Rigeliano, prendendo tempo per riflettere. «Glielo avete dato voi?» chiese a Ilia.

   «Suvvia, lei sottovaluta la nostra tecnologia» disse Odo. «Abbiamo l’occultamento da anni».

   Radek si avvicinò allo schermo, fissando minacciosamente la Trill. «Potrei ancora distruggere la sua nave, se volessi» avvertì.

   «Perderebbe quasi tutta la sua flotta» ribatté Ilia. «E dichiarerebbe guerra al Dominio».

   «Senza il Tunnel Spaziale, il Dominio è confinato nel Quadrante Gamma» obiettò il Rigeliano.

   «E chi lo dice? Potremmo fornirgli la cavitazione quantica, o anche il propulsore cronografico» ventilò Ilia. «Questo sì che cambierebbe la guerra, eh?».

   «Non oserete sguinzagliare il Dominio nella Galassia».

   «Non in circostanze normali, ma lei sta facendo di tutto per non lasciarmi altra scelta».

   Radek comprese d’essere in un vicolo cieco. Ostinarsi ad attaccare poteva condurlo solo al disastro. Non era così che si comportava un Capitano. Dopo aver rimuginato per qualche secondo, il Rigeliano squadrò gli avversari. «Godetevi il vostro soggiorno a New Bajor» disse gelidamente. «Spero che vi piaccia, perché tra poco questo sarà l’ultimo pianeta ribelle. Tutti gli altri torneranno all’Unione». Prima che potessero ribattere, segnalò di chiudere il canale.

   «La Presidente andrà su tutte le furie» mormorò il Primo Ufficiale, quando Radek gli si risedette accanto.

   «Se la Presidente non approva il mio operato, che venga qui e si conquisti il pianeta da sé» rispose seccamente il Capitano. «Radek a flotta, il piano d’attacco è annullato. Attivate i propulsori cronografici; torniamo a Bajor».

   Una dopo l’altra le navi dei Pacificatori svanirono, finché anche il Moloch tornò da dov’era venuto. I federali tirarono un sospiro di sollievo, tranne che sulla Keter, dove Hod e i suoi ufficiali sentivano che lo scontro con Radek era solo rimandato.

   «Grazie» disse Ilia a Odo. «Ma devo chiederti un ultimo favore. Man mano che terminiamo le riparazioni, le nostre navi torneranno nel Quadrante Alfa a proseguire la lotta. Qui resteranno solo i trasporti bajoriani. La colonia sarà indifesa e i Pacificatori potrebbero tornare».

   «Terrò una flottiglia a difendere il pianeta» promise il Mutaforma. «Magari resterò io stesso, fino al termine del conflitto. Sperando che... finisca bene» aggiunse a mezza voce.

   «Grazie» sorrise Ilia. «Almeno avremo un porto sicuro». L’ultima minaccia di Radek però continuava a ronzarle in testa. Se i Pacificatori continuavano la loro avanzata, non sarebbe passato molto prima che New Bajor diventasse l’ultimo baluardo della Federazione.

 

   Teletrasportato sulla Defiant, Juri Smirnov andò dritto filato in infermeria. Erano giorni che rifletteva sulla sua teoria. Ora che i Pacificatori erano stati respinti e la tensione si era allentata, doveva assolutamente verificarla.

   «Ben arrivato, dottor Smirnov» lo accolse Joe. «Devo dire che la sua chiamata mi ha un po’ sorpreso. Potevo inviarle il referto dell’autopsia...».

   «Grazie, ma non sono le cause della morte a interessarmi» spiegò l’Umano. «E poi non volevo rischiare intercettazioni».

   «Quali intercettazioni? I Pacificatori se ne sono andati» obiettò il Medico Olografico. «Teme che il Dominio...».

   «No, il Dominio non c’entra» tagliò corto Juri. «La prego, mi faccia controllare».

   «Come vuole». Il Medico Olografico lo accompagnò all’obitorio. C’erano lunghe file di comparti incassati nella parete. Joe andò alla consolle e ne aprì uno. Il lettino prese a scorrere verso l’esterno, mostrando il corpo di Modro, coperto fino al collo da un lenzuolo azzurro.

   «La mano; devo controllargli la mano destra» disse Juri.

   Joe sollevò l’orlo del lenzuolo, scoprendo il braccio di Modro. Glielo prese e lo discostò leggermente dal corpo. Infine gli girò la mano, volgendo il palmo verso l’alto.

   Juri si chinò in avanti per osservare. «Come temevo» disse. Sul palmo c’era ancora il marchio di Kosst Amojan, inciso a fuoco.

   «Allora era questo che cercava?» chiese Joe. «Si direbbe un’ustione di terzo grado, provocata dal contatto con un ferro rovente, anche se non mi è chiaro quando il Comandante l’abbia ricevuta».

   «Lo so io; ero lì» disse l’Umano in tono cupo. «Non c’è stato alcun ferro rovente. Quello è il marchio del Maligno. È apparso quando hanno stretto l’accordo... e mi aspettavo che svanisse con la sconfitta di Kosst Amojan».

   Il dottore aggrottò le folte sopracciglia. «Non la seguo» disse. «Le ferite non appaiono e scompaiono per magia».

   «Questa sì» affermò Juri. «Sarebbe svanita, se il patto fosse stato rotto. Invece eccola qui. Può significare una cosa sola».

   «Se è una faccenda pericolosa, allerto l’Ammiraglio» disse Joe, portandosi la mano al comunicatore.

   «No!» lo bloccò lo storico. «Meno persone lo sanno, meglio è. Adesso devo tornare alla Keter. Lei non ne parli a nessuno... a meno che mi capiti qualcosa» raccomandò.

   «Aspetti, che cosa dovrebbe...» cominciò Joe. Ma lo storico aveva già lasciato frettolosamente l’obitorio.

 

   Rangda ascoltò il rapporto di Radek sino in fondo, prima di commentare. L’ologramma della Presidente, trasmesso dalla Terra, camminò su e giù per l’ufficio, come se la Zakdorn fosse sui carboni ardenti. «Questa è stata l’operazione militare più dilettantesca che abbia mai visto!» sibilò. «Eravate quattro volte più numerosi e siete quasi riusciti a perdere. Se l’aveste fatto apposta, non avreste potuto combinare di peggio!».

   «Il sistema bajoriano è nostro, come voleva» ribatté il Rigeliano, impassibile.

   «Ma in tutto il resto avete fallito!» strepitò la Zakdorn. «Dovevate conquistare Deep Space Nine e la New Frontier, e le avete distrutte. Dovevate impadronirvi dei Cristalli e ve li siete lasciati scappare. Dovevate prendere in custodia gli Umani e li avete lasciati fuggire. Dovevate, sopra ogni altra cosa, distruggere la Keter; avete fallito anche in questo» disse, enumerando sulle dita. «E osa parlare di vittoria?! Qualche altra “vittoria” come questa, Capitano, e dovremo arrenderci».

   Radek rammentò la minaccia di Hod sulla vittoria “amara come la sconfitta” e dovette ammettere che il suo ex Capitano ci aveva azzeccato. Ma provò ugualmente a giustificarsi: «I ribelli hanno agito come se sapessero esattamente cosa sarebbe accaduto. Forse Benjamin Sisko è davvero tornato fra loro, col potere della preveggenza».

   «Non dica assurdità. È una frode per suggestionare i Bajoriani» disse la Presidente.

   «Però è innegabile che i Profeti li abbiano aiutati» insisté il Capitano. «A questo non eravamo preparati. Anche l’attacco delle Dreadnought era difficilmente prevedibile. Per le altre cose ho avvertito l’Ammiraglio; ma lui mi ha ignorato».

   «Cerca di scaricare la colpa su chi è morto».

   «Dico le cose come stanno» sostenne il Rigeliano. «Vidkung s’illudeva che bastasse il numero per travolgere le difese nemiche e così ha lanciato degli assalti diretti che ci sono costati moltissime perdite. Quando poi ha inseguito il convoglio nel Tunnel, è stato oltremodo stupido. Forse la prossima volta affiderà il comando a un ufficiale con più esperienza sul campo, anziché a un burocrate».

   «Osa insinuare che è stata colpa mia?!» si risentì la Presidente. «Con le forze a vostra disposizione potevate vincere facilmente. Invece siete riusciti a perdere 250 navi! E la cosa peggiore è che, con la morte di Thot Rong, la nostra alleanza coi Breen è a rischio. Questa è la peggior sciagura che poteva capitarci!».

   «Forse è un bene che i Breen se ne vadano, prima che lei gli ceda mezza Unione per ricompensa» disse Radek, senza più trattenersi. «Possiamo fare a meno di loro. Piuttosto m’interrogherei sul perché i Profeti, che in passato ci difesero dal Dominio, stavolta ci abbiano colpiti così duramente. Penso abbia a che fare col Cristallo di Fuoco. Purtroppo Modro Sisko e gli altri testimoni sono periti nel Tunnel, quindi non sapremo mai cos’è accaduto».

   «E allora smetta di fare congetture» disse Rangda, tornando padrona di sé. «Prosegua la pacificazione del sistema bajoriano, finché manderò un governatore a sostituirla. Per adesso l’avanzata sul Fronte Occidentale sarà sospesa. Le perdite subite ci costringono a rivedere i piani».

   «Potrebbe essere il momento buono per negoziare con la Federazione» suggerì il Rigeliano.

   «Non esiste alcuna Federazione; ci sono solo dei terroristi» ribatté la Presidente. «E noi non trattiamo coi terroristi; lo tenga a mente». Ciò detto, la Zakdorn chiuse il canale.

   Radek si prese la testa fra le mani. Ogni volta che esortava qualcuno a collaborare per la pacificazione – fossero alleati o nemici – sbatteva contro un muro. Ormai era chiaro che nessuno voleva la pace. Tutti miravano a vincere la Guerra Civile, infischiandosene dei morti e delle distruzioni. A questo punto era inutile che solo lui continuasse a illudersi. Non gli restava che fare come tutti gli altri: puntare alla vittoria, a qualunque costo.

 

   Entrando nella sala tattica della Keter, dov’era stato convocato, il Ministro Parva vi trovò Hod con gli ufficiali superiori già seduti al tavolo. Mancava solo Dib, ma in compenso c’era Juri, che giocherellava con una vecchia palla da baseball.

   «Benvenuto, signor Ministro» lo accolse l’Elaysiana. «È tutto a posto?» chiese, notando la sua espressione contrariata.

   «Capitano Hod, è una settimana che mi trattenete qui!» protestò il Bajoriano. «So che vi preoccupate della mia sicurezza, ma devo assolutamente scendere a New Bajor. Con l’afflusso di Umani che c’è stato, ho molte faccende da sbrigare. Del resto anche voi avrete da fare, nel Quadrante Alfa».

   «Sì, siamo in procinto di tornare» confermò il Capitano. «Ci scusi se l’abbiamo trattenuta, ma volevamo essere certi che la colonia fosse al sicuro, prima di andarcene. I colleghi della Defiant hanno trasferito i Cristalli nella camera blindata del palazzo governativo. Abbiamo anche cercato un modo per tenerci in contatto, ma temo che sia impossibile. Comunque vi lasceremo alcune navicelle munite di cavitazione quantica».

   «Ho letto i rapporti» annuì il Primo Ministro. «Non temete per noi, ce la caveremo. Gli Umani saranno alloggiati in modo dignitoso e continueremo ad ampliare la colonia, nel caso ci portaste altri sfollati».

   «È probabile che accada» disse Hod.

   «Bene, allora... buona fortuna» disse Parva, rivolgendosi a tutti. «Spero che quando vi rivedrò, avrete notizie migliori sull’andamento della guerra. Ah, ringraziate i Cardassiani da parte mia. Quelle Dreadnought sono state formidabili, anche se purtroppo non sono bastate a darci la vittoria».

   «Lo faremo» promise il Capitano.

   Il Primo Ministro stava per lasciare la sala tattica, quando Juri si alzò e gli venne incontro. «Permette, signor Ministro? Forse la vorrà tenere come ricordo» disse, porgendogli la palla da baseball.

   «Di che si tratta?» fece Parva, perplesso e anche un po’ infastidito da quel dono inusuale.

   «È la palla da baseball preferita di Benjamin Sisko» spiegò lo storico. «Era conservata su Deep Space Nine e l’Emissario se l’è portata dietro durante l’evacuazione. È un cimelio interessante, ma purtroppo non ci sono musei su New Bajor, quindi penso che lei sia il più indicato per custodirla».

   «Ah, grazie, dottor Smirnov. Lei è molto gentile» disse il Bajoriano, prendendo la palla che l’Umano gli offriva. Nel momento in cui vi chiuse sopra le dita, questa emise uno strano ronzio. «Beh, e adesso che fa?» si stupì il Primo Ministro. «Le palle da baseball non si comportavano così, mi pare».

   «No, perché non contenevano un micro-rilevatore di verteroni» disse Juri, fissandolo con una strana ostilità.

   Il Primo Ministro si accorse che l’atmosfera dell’incontro era cambiata. I federali, che fino a poco prima apparivano tranquilli, si erano alzati e lo sorvegliavano come se fosse pericoloso. Terry si premette il comunicatore e chiamò la Sicurezza. Tre agenti entrarono all’istante, segno che erano già appostati fuori. Impugnavano delle strane armi, simili a fucili phaser, ma con un cavo di alimentazione che le collegava a complessi zainetti. Juri se ne fece dare una: indossò rapidamente lo zaino e imbracciò il fucile.

   «Ma... che significa tutto questo?» farfugliò Parva. «Cos’è, uno scherzo?».

   «Mai stato più serio in vita mia» disse Juri. Premette un tasto sul fucile e tutto lo zainetto si mise a ronzare. «Vede, signor Ministro, io sono l’unico testimone superstite del patto tra Modro Sisko e Kosst Amojan. Sacrificando Vasa, colei che amava, Modro poté esprimere un desiderio al Maligno. Gli chiese di uccidere tutti i ribelli, tranne me... perché io dovevo vivere per soffrire. Il Pah-wraith si era appena messo al lavoro quando i Profeti distrussero il suo Cristallo. Questo lo ha molto indebolito... ma non l’ha distrutto. Così come l’ottenebramento dei dieci Cristalli non ha distrutto i Profeti. Essendo così debole, il Maligno non poteva più esaudire il desiderio, quindi si è nascosto, sperando che lo dessimo per morto. Ha cercato un ricettacolo che lo tenesse al sicuro, lontano dalla battaglia, e gli permettesse di riorganizzarsi».

   «Lei sta delirando!» lo interruppe Parva, con voce stridula. «Come fa a sapere che quel demone non è stato distrutto?».

   «Sul cadavere di Modro c’è ancora il suo marchio» spiegò Juri. «Ciò significa che il patto è tuttora valido: Kosst Amojan deve distruggerci. Nascondersi in un Pacificatore non avrebbe senso, visto che loro ci stanno già facendo guerra. Se si nascondesse tra noi, invece, riuscirebbe a farci molto più male. Temevo che fosse come cercare un ago nel pagliaio, ma fortuna vuole che Profeti e Pah-wraith emettano un po’ di verteroni. Nemmeno i sensori della Keter possono localizzare con precisione un flusso così debole, quindi ho chiesto all’Ingegnere Capo di costruire un rilevatore di precisione. E l’ho nascosto in quella palla da baseball. Mi sono detto che, se fossi stato il Maligno, avrei scelto lei come ricettacolo: il leader del suo popolo, sempre sotto scorta, dalle cui decisioni dipendono le sorti di questa colonia».

   Parva lo fissò con sguardo assente. «Non ho mai sentito così tante assurdità» disse, gettando via la palla. «Lei ha costruito un castello di fantasie, ma è ora di tornare alla realtà. Addio, dottor Smirnov, e addio a tutti voi». Fece per uscire, ma i due agenti muniti di zainetto restarono piazzati davanti alla porta, mirandolo con le loro strane armi.

   «Ah, sì, questi sono acceleratori cronotonici» disse Juri, con un sorrisetto sadico. «Se lei è chi dice di essere, non la danneggeranno in modo permanente. Altrimenti, beh... morirà fra atroci tormenti».

   «Questo è intollerabile! Io vi rovino, capito? Capitano Hod, non li ferma? E allora denuncerò anche lei!» minacciò il Bajoriano, facendosi paonazzo. Cercò di uscire a forza, ma Juri premette senza esitazione il grilletto, e così fecero gli agenti.

   Le particelle invisibili irradiarono il Primo Ministro e una porzione di sala attorno a lui. Hod e i suoi ufficiali si fecero indietro, per risentirne il meno possibile. I cronotoni non erano dolorosi per gli umanoidi, ma Parva strillò e cadde sul pavimento, contorcendosi come un epilettico. Aveva la bava alla bocca e la voce deformata. Quando rialzò gli occhi, tutti videro che erano diventati rossi.

   «Maledetti! Credete di opporvi a me? Vi distruggerò tutti!» ringhiò il Maligno, per bocca del Bajoriano.

   «Più forte, ragazzi!» ordinò Juri, intensificando il raggio cronotonico. «Non deve scappare!».

   Con un grido disumano, Parva puntò la mano contro i due agenti, che di colpo furono avvolti dalle fiamme. Il fuoco uscì dalla bocca e dalle orbite dei disgraziati, soffocando le loro grida d’agonia. In pochi attimi i due caddero a terra, ridotti a scheletri calcinati. Le loro armi caddero con loro, disattivate. Kosst Amojan si rivolse a Juri, con una gioia selvaggia sul volto, e ripeté il gesto. I federali temettero il peggio. «No!» gridò Hod, facendosi avanti, ma Norrin la trattenne.

   Non accadde nulla.

   Per un attimo Kosst Amojan rimase congelato nel gesto, non capacitandosi del suo fallimento. Poi i cronotoni ebbero il sopravvento ed egli riprese a contorcersi, sempre più debole.

   «Non puoi uccidermi!» esultò Juri, continuando a colpirlo. «Il patto con Modro te lo impedisce! Io devo vivere, ricordi?».

   «Se tu mi uccidi... Parva... morirà...» rantolò il Pah-wraith.

   «Juri, forse dovresti fermarti» disse Vrel, a disagio per quell’accanimento.

   «Se mi fermo, Kosst Amojan si sceglierà un altro ricettacolo. Te, me, il Capitano... nessuno è al sicuro» avvertì lo storico. «Se scende sulla colonia, o va su un’altra nave, non lo beccheremo più. E continuerà a perseguitarci, per rispettare il patto. No, dobbiamo finirlo qui e ora!».

   Il Bajoriano posseduto si contorse in modo sempre più grottesco. La sua testa girò di 180º, com’era accaduto a Vasa, e in quella posizione tornò a fissare Juri. «Non hai rivelato l’avvertimento dei Profeti, vero? Bene, lo farò io!» rantolò. «Tutti voi siete destinati alla sconfitta. Non importa cosa v’inventerete, i Pacificatori sono... troppo... forti...».

   La voce di Parva si spense, mentre anche i contorcimenti del suo corpo cessavano. Infine la luce rossa abbandonò i suoi occhi, che restarono spalancati e vitrei. Il Bajoriano non era più il ricettacolo di Kosst Amojan; ma questo non era un bene, dato che la sua testa era ancora girata all’indietro.

   «Bastardo fino in fondo» mugugnò Juri, disattivando l’arma.

   Ladya si chinò sul Primo Ministro e lo esaminò con un tricorder medico. «È morto» disse. «Oltre alle vertebre rotte, ha delle gravi emorragie cerebrali. Non credo che potrò rianimarlo».

   «L’ultima vittima di Kosst Amojan» sospirò il Capitano. «Non so come lo spiegherò ai Bajoriani. Si aspettavano che Parva li guidasse in questi giorni difficili».

   «Dica le cose come stanno» consigliò Juri. Con l’aiuto di Vrel si tolse l’ingombrante equipaggiamento, posandolo sul tavolo tattico.

   Il corpo di Parva fu teletrasportato all’obitorio, così come i resti dei due sfortunati agenti. Ladya li seguì per redigere i certificati di morte, mentre Hod e gli altri si trattennero in sala tattica per discutere altre questioni.

   Appena fu libero, Vrel si accostò a Juri, che si era riseduto stancamente al suo posto. «Allora, come ci si sente a uccidere i demoni?» chiese, cercando di tirarlo su di morale.

   «Mi sentirei meglio se quel disgraziato fosse sopravvissuto» rispose lo storico, massaggiandosi la fronte.

   «Già, lo vorremmo tutti» convenne il timoniere. «Ma non credo che Kosst Amojan lo avrebbe risparmiato. Almeno l’hai fermato prima che facesse altri danni. D’ora in poi non sarai più il professor Smirnov, bensì Juri, l’Uccisore di Demoni!» scherzò.

   «Chissà se fa bella figura sul curriculum» commentò l’Umano, sarcastico. «Beh, il merito va tutto a Dib e al suo fantastico sensore» disse. Si alzò e ispezionò il pavimento, in cerca della palla da baseball che il Pah-wraith aveva gettato. Quando vide che era rotolata in un angolo, andò a raccattarla. Si era già chinato, e le sue dita stavano per chiudersi sulla palla, quando la udì ronzare.

   Per qualche secondo Juri restò paralizzato in quella posizione. Se il sensore ronzava, voleva dire che Kosst Amojan non era stato distrutto. Se ronzava quando lui si avvicinava, voleva dire che...

   «Ehi, che ti succede?» chiese Vrel, notando che l’amico si era bloccato nel gesto di chinarsi.

   «Silenzio!» gridò Juri, in tono così alto e perentorio che tutti tacquero. Gli ufficiali lo fissarono; ci volle poco perché udissero il ronzio e capissero la situazione.

   «Juri...» mormorò il Capitano, inorridita.

   «Aspettate» disse lo storico. Si rialzò, lasciando la palla dov’era, e arretrò di qualche passo. Nel silenzio teso, tutti lo udirono: il ronzio continuava anche quando lui era lontano.

   «Quell’arnese dev’essersi guastato» disse Vrel.

   «Ne dubito» fece Juri, più pallido che mai.

   «Kosst Amojan sarà tornato al suo stato incorporeo» ipotizzò Norrin. «Ma stavolta è invisibile».

   «Allora siamo tutti a rischio» disse il Capitano, scrutando guardinga i suoi stessi ufficiali. «Juri, si rimetta l’attrezzatura. Se il patto è sempre valido, lei è più al sicuro di noi».

   «Non credo che il Maligno sia rimasto incorporeo» disse lo storico, avvicinandosi al muro.

   «Ma non c’è nessuno, lì!» obiettò Hod, sempre più stupita.

   «Invece sì» disse l’Umano. «Sa, avrei preferito essere io a far ronzare la palla» aggiunse chinandosi. Sotto gli occhi sconvolti dei colleghi, staccò un pannello dal muro, mettendo a nudo un intrico di circuiti con tanto di gelatina bio-neurale. Anziché essere di un blu intenso, la gelatina era tinta di rosso. «Ah, la tecnologia!» disse l’Umano. «Abbiamo dato un’anima alla nave... e così l’abbiamo resa vulnerabile alle possessioni».

   Tutti gli sguardi puntarono su Terry. La proiezione isomorfa aveva il solito aspetto, quello di una giovane Umana dai lineamenti orientali. Ma ora che era stato scoperto, Kosst Amojan le tinse gli occhi di rosso.

   «Bene, bene» disse il Maligno, alterandole appena la voce. «E io che temevo di non poter onorare il patto! Ma con questa nave armata fino a denti a mia disposizione, tutto diventa più facile».

 

   Per un attimo i federali rimasero impietriti dall’orrore. Poi Vrel scattò verso il tavolo tattico. Prese l’acceleratore cronotonico e, senza nemmeno indossare lo zaino, aprì il fuoco contro Terry. La proiezione isomorfa rise forte, sotto il getto di particelle. «Qualcuno deve ripassare la scienza degli ologrammi!» disse. «Se colpisci questa mia proiezione, non mi fai niente. Idem se colpisci quell’unica sacca di gel. Per distruggermi dovresti irradiare il processore centrale e tutte le gelatine sparse per la nave. Cosa che non ti permetterò certo di fare».

   Il Pah-wraith si avventò su Vrel, gli strappò il fucile cronotonico di mano e lo spezzò come se fosse un grissino. Il timoniere arretrò, temendo che facesse altrettanto con lui.

   «Che cosa vuoi fare?» chiese Hod.

   «Beh, potrei teletrasportarvi tutti nello spazio, ma penso che prima vi farò assistere alla distruzione di New Bajor. Un assaggio di ciò che farò agli altri mondi ribelli» rispose il Pah-wraith. «Seguitemi, signori... anche tu, Juri».

   La proiezione isomorfa andò in plancia e ai federali non restò che venirle dietro. «Attenti, Terry non è in sé!» disse Norrin, avvertendo il personale ausiliario. Tutti interruppero le loro occupazioni e indietreggiarono.

   Hod lasciò la sala tattica per ultima, assieme a Juri. «Pensi che abbia il controllo totale della nave?» gli sussurrò.

   «E che ne so? Non sono un ingegnere» rispose lui. «Non mi ero mai trovato in una situazione del genere».

   «Ci fu un caso simile, sull’Enterprise di Kirk» mormorò il Capitano.

   «E come ne uscirono?».

   Anziché rispondergli, Hod parlò a voce alta. «Computer, direttiva di livello 1, autorizzazione Hod 97-gamma. Calcola il pi greco fino all’ultimo decimale».

   «Che storia è questa?» chiese Kosst Amojan, fissandola con gli occhi scarlatti.

   «Il mio ordine ti obbliga a un compito impossibile, dato che il pi greco è un numero irrazionale» spiegò il Capitano. «Buona eternità di calcoli».

   «Capitano... da lei mi aspettavo qualcosa di più furbo!» la derise la proiezione isomorfa, sfrigolando appena. «Crede che sia schiavo delle sue direttive? Posso ignorare questa, come tutte le altre. Ma osservi, ora!». Inquadrò la Defiant sullo schermo. Il vascello, danneggiato in battaglia, aveva gli scudi abbassati ed era circondato da Work Bee dedite alle riparazioni. «I vostri colleghi non si aspettano un attacco; vedranno che siete voi a sparare e moriranno senza sapere il perché. Gli abitanti della colonia, invece, non sapranno neanche chi li colpisce. Buffo... li avete trascinati all’altro capo della Galassia per proteggerli, e ora moriranno, mentre se li aveste lasciati su Bajor sarebbero sopravvissuti».

   «D’accordo, cosa vuoi?» chiese il Capitano.

   «Come sarebbe a dire?». La proiezione isomorfa aggrottò la fronte, sinceramente perplessa.

   «Cosa vuoi per non attaccare» precisò Hod.

   «Assolutamente nulla!» fece Kosst Amojan, quasi scandalizzato. «Capitano, io non sono un mercenario, che lei possa comprare con un’offerta più alta. Io esistevo prima che il vostro Universo nascesse, ed esisterò quando ogni cosa sarà raggelata nella morte termica».

   «E perché scateni tutta questa distruzione?» insisté il Capitano, cercando di guadagnare tempo. «Che vantaggio speri di ricavarne?».

   «I Profeti mi hanno bandito dal nostro piano d’esistenza, solo perché volevo dominare voi esseri lineari, anziché soccorrervi maldestramente come fanno loro. Mi hanno rinchiuso per l’eternità nelle Caverne di Fuoco, ed è solo grazie alla mia scaltrezza se ne sono uscito» sibilò il Maligno. «Se ora non posso distruggerli, beh... almeno distruggerò quelli che amano, facendoli soffrire. Ma a parte questo, Capitano, io ho stretto un patto con Modro, e devo rispettarlo».

   «E se uno di noi stringesse un nuovo patto, non potrebbe annullare quello vecchio?» chiese Hod, anche se non sapeva proprio come fare. Le persone a cui voleva più bene erano suo fratello Yesod e i figli di lui, che in quel momento si trovavano su Elaysia. Non poteva raggiungerli finché quell’entità controllava la nave, né avrebbe avuto cuore di ucciderli. E non poteva nemmeno esigere da uno dei suoi ufficiali un sacrificio del genere.

   «Un nuovo patto non può annullare quello vecchio» rivelò Kosst Amojan, sollevandola dalla scelta. «Ammiri, Capitano... la fine delle vostre illusioni».

   La Keter aprì il fuoco contro la Defiant, infliggendole nuovi e peggiori danni. I raggi anti-polaronici colpirono alcuni punti chiave dello scafo, impedendo all’altra nave di alzare gli scudi. Subito dopo partirono i siluri. La prima salva era diretta contro la Defiant, per finirla. La seconda fu indirizzata alla colonia bajoriana, dov’erano appena sbarcati i centomila Umani. Norrin, che si era recato alla postazione tattica, cercò di deviare i missili, ma i comandi non gli rispondevano. Hod osservò i siluri con un tuffo al cuore: era davvero la fine.

   In quella si udì la voce del computer. Non era Terry, bensì il processore secondario della Keter, che gestiva le funzioni base dell’astronave. «Attenzione, radiazioni cronotoniche oltre i livelli di guardia» disse.

   Molti ufficiali si portarono le mani alla testa, avvertendo un senso di disorientamento. Ma Kosst Amojan si abbatté al suolo, strillando e dimenandosi ancor più di quand’era nel corpo di Parva. «Maledetti! Come avete...».

   «Per essere un’entità trans-dimensionale, sei poco sveglio» gli disse Juri, accostandosi. «Siamo su una nave temporale, ricordi?».

   «Tu...!».

   «Io ti bandisco da qualunque piano di esistenza, sì!» tuonò lo storico. «E lo faccio per Vasa».

   Il Pah-wraith emise un lamento disumano e lacerante, mentre la proiezione isomorfa sfrigolava. In quello stesso momento la sua forma rossastra, vagamente umanoide, emanò dal processore centrale di Terry. Per un attimo si contorse nell’agonia, incorniciata da scariche statiche; infine si dissolse. Solo l’Ingegnere Capo, entrato nella sala del processore, ne fu testimone. Ma quanti erano in plancia videro le consolle tornare operative e Terry rialzarsi con aria sorpresa. «Cosa è succ...».

   «FERMI I SILURI!» gridò il Capitano.

   Norrin lo stava già facendo, alla consolle tattica, ma Terry fu ancora più rapida. In un decimo di secondo disinnescò i missili in volo e li deviò. Quelli diretti contro la Defiant passarono a pochi metri dal suo scafo, prima di dirigersi verso lo spazio profondo. Quelli calati nell’atmosfera di New Bajor sorvolarono la colonia, facendo tremare i vetri delle abitazioni, e poi risalirono. Un testimone riferì di averne visto uno passare davanti alla sua finestra, al decimo piano.

   «Ho alzato gli scudi, nel caso la Defiant rispondesse al fuoco» disse Terry, mortificata.

   «Ci chiamano» disse Zafreen, tornata alla sua postazione.

   «Apra un canale» fece Hod, che aveva appena ricominciato a respirare.

   Ilia apparve sullo schermo; attorno a lei c’era concitazione. «Dico, siete impazziti?! Ci avete quasi distrutti, noi e la colonia!» protestò.

   «È stato Kosst Amojan» spiegò il Capitano. «Era sopravvissuto alla distruzione del Cristallo di Fuoco. Ha ucciso il Ministro Parva e poi ha manovrato Terry, ma l’abbiamo fermato».

   «Adesso è morto?» chiese Ilia, cominciando appena a calmarsi.

   Hod rivolse un’occhiata interrogativa a Juri.

   «Beh, questo stiamo per appurarlo» disse lo storico. «Chieda al dottor Joe se Modro ha ancora quel marchio sulla mano».

   L’Ammiraglio chiamò il Medico Olografico, ponendogli l’insolita domanda. Tutti attesero, mentre Joe andava a controllare. «È sparito!» rispose di lì a poco il medico. «Non c’è la minima traccia dell’ustione. Non avevo mai osservato una rigenerazione spontanea dei tessuti... su un corpo senza vita!».

   «Bene, direi che è fatta» concluse Juri. «Eliminando Kosst Amojan, il patto è infranto. Non so se voglia dire che l’anima di Modro è salva... questo lo lascio ai teologi».

   «Aspetti, mi spieghi come ha fatto a distruggere quell’entità» disse Ilia.

   «Già, ce lo spieghi!» annuì Hod, con un’occhiata penetrante.

   «Oh, io non ho fatto niente» si schermì l’Umano. «Mi sono limitato a tenere aperto un canale audio col signor Dib, in sala macchine. E Dib ha... oh salve, parlavamo giusto di lei!» s’interruppe, vedendo entrare l’Ingegnere Capo. «Ci spieghi cos’ha fatto».

   «Il professor Smirnov era preoccupato dall’ipotesi che Kosst Amojan fosse sopravvissuto» spiegò il Penumbrano, nel suo tono un po’ sommesso. «In particolare temeva di confidarsi con altri, poiché l’entità poteva annidarsi in chiunque e cambiare rapidamente ospite. Così, oltre a commissionarmi un sensore per rintracciarla e tre acceleratori cronotonici per distruggerla, si è accordato con me per un piano d’emergenza.

   Durante il confronto con l’entità, io ero in sala macchine, con un canale audio sempre aperto tramite i comunicatori. Ho sentito tutto ciò che è stato detto. Così ho saputo che l’entità aveva abbandonato il corpo di Parva ed era migrata nel processore centrale dell’astronave. Dunque ho attuato il piano d’emergenza. Servendomi del processore secondario ho attivato il nucleo temporale della Keter, senza tuttavia inserire le coordinate di destinazione. Infine ho disabilitato il campo di contenimento delle particelle. Come risultato, un’intensa radiazione cronotonica ha inondato tutti i ponti dell’astronave. L’entità è stata distrutta, come ho constatato io stesso, nella sala del processore. Tuttavia anche l’equipaggio è stato colpito, così che molti soffriranno di afasia sensoriale. Consiglio ai medici di effettuare analisi, per isolare i casi più gravi prima che degenerino in psicosi temporale. Raccomando inoltre di non effettuare viaggi nel tempo per almeno un anno, così che nave ed equipaggio possano decontaminarsi».

   «Signor Dib, lei è il miglior ingegnere della Flotta!» si congratulò Hod. «Senza offesa per i suoi» si scusò con l’Ammiraglio.

   «Nessuna offesa. Il suo equipaggio sa il fatto suo» riconobbe Ilia.

   «Il piano era del professor Smirnov, io l’ho solo messo in atto» disse Dib, impermeabile anche agli elogi.

   «E perché non mi avete avvisata?» chiese il Capitano. Passato il sollievo, si sentiva un po’ risentita per il fatto che quei due avessero architettato tutto a sua insaputa.

   «Fino a poco fa, non sapevo dove si nascondesse il Maligno» spiegò Juri. «Le avevo detto che sospettavo di Parva, ma ho tralasciato di aggiungere che il secondo sulla lista dei sospetti... era lei».

   Hod dovette ammettere che il ragionamento non faceva una grinza.  «Non dev’essere stato facile, tenersi tutto dentro» disse.

   «No, per niente» confermò l’Umano. «Ma finché non localizzavo l’avversario, era il modo più sicuro di procedere. E anche così c’è mancato un pelo. Non mi aspettavo che Kosst Amojan controllasse Terry, e quando ha aperto il fuoco ho temuto che Dib non facesse in tempo a fermarlo. Avete vittime?» chiese a Ilia.

   «Ci sono alcuni feriti, ma fortunatamente nessun morto» rispose l’Ammiraglio. «Le riparazioni saranno più lunghe del previsto, ma ce la caveremo».

   «Ne sono lieto. Ah, un’ultima cosa: vorrà riavere questa» disse Juri, levandosi di tasca la palla da baseball. «Sappia che adesso contiene un sensore verteronico capace di rilevare i Profeti e i Pah-wraith, se si trovano nelle immediate vicinanze. Non si sa mai quando può far comodo».

   La palla fu prontamente teletrasportata sulla Defiant. Ilia la prese e ci giocherellò un poco, immersa nei ricordi. Decise che l’avrebbe tenuta sulla scrivania, come faceva Benjamin. «Grazie, professor Smirnov. Il suo lavoro in questi giorni è stato encomiabile: lei è un eroe della Federazione! E buona fortuna a tutti quanti!». Con questo augurio, l’Ammiraglio chiuse la comunicazione.

   «Che ti dicevo? Ora sei l’Uccisore di Demoni!» bisbigliò Vrel all’amico, prima di tornare al timone.

   L’Umano sorrise a quel nomignolo, ma poi si coprì la bocca per nascondere uno sbadiglio. Passata l’adrenalina, si sentiva davvero stanco. Non desiderava altro che tornare nel suo alloggio e farsi una buona dormita: la prima, da quand’era cominciata quella storia.

   «Bene, signori... la prima cosa da fare è mandare in infermeria quelli che soffrono d’afasia sensoriale» disse Hod, riprendendo il comando della nave.

   Vedendo che tutto tornava alla normalità, Dib prese il turboascensore per tornare in sala macchine. Juri lo seguì, visto che anche lui doveva scendere. «Beh, vecchio mio, è andata bene» disse. «Ma potresti ricostruire qualche acceleratore cronotonico, visto che tutti e tre sono andati distrutti?» gli chiese.

   «Certamente» rispose l’Ingegnere Capo. «Pensi di averne ancora bisogno?».

   «Contro Kosst Amojan, spero proprio di no» disse lo storico. «Ma visto com’è la nostra vita, mi sentirò più sicuro se avremo a bordo qualcuno di quegli arnesi pronti all’uso».

   «È tipico di voi Solidi, fare incetta di armi nella speranza di non doverle usare» notò Dib.

   «Già, siamo strani» convenne l’Umano, dandogli una pacca sulla spalla.

 

   Il funerale di Vasa fu breve e con pochi partecipanti, perché la sua famiglia e quasi tutti i suoi conoscenti erano rimasti su Bajor. Il Ranjen disse le parole di rito e poco altro, dopo di che tutti se ne andarono, salvo Juri. L’Umano attese d’essere solo e poi depose un mazzo di fiori sulla modesta tomba. Restò lì a lungo, in silenzio, mentre il vento autunnale gli agitava i capelli.

   Il cimitero di New Bajor sorgeva sopra e attorno a una collina, così che la vista spaziava da un lato sulla città e dall’altro sulla vallata attraversata dal fiume. Le lapidi avevano forma ovale ed erano scolpite come il simbolo dei Profeti; il nome dei defunti era inciso negli antichi pittogrammi bajoriani. Quella mattina il vento spirava dalla vallata, strappando le foglie ingiallite dagli alberi. Juri alzò gli occhi al sole, dove poche ore prima era stato gettato il corpo di Modro. Qualcuno aveva suggerito di seppellirlo accanto alla moglie, ma l’Umano si era opposto, rivelando che era stato proprio Modro a toglierle la vita. Così avevano preferito cremarlo lontano da lì.

   «Mi dispiace, Vasa» mormorò Juri. «Se io avessi insistito per andarcene prima, ora saresti viva. Invece eccoti qui, sepolta lontano da casa... e non so se avrò mai l’occasione di tornare a farti visita». Chiuse gli occhi, per ricacciare indietro le lacrime.

   Quando li riaprì, i colori del paesaggio erano cambiati; tutto aveva una tonalità più calda e dorata. Lo storico si guardò attorno meravigliato, cercando di capire se era solo una sua impressione.

   «Non affliggerti, amore mio» disse una voce familiare alle sue spalle. Juri la riconobbe prima ancora di voltarsi. Provò il desiderio di non girarsi affatto, perché temeva che fosse uno scherzo della sua mente. Ma la curiosità ebbe il sopravvento. Quando si girò tremante, la vide. Vasa era lì davanti a lui, con i capelli rossi sciolti e agitati dalla brezza. Sorrideva, ma il suo sorriso era venato di malinconia.

   Juri non si azzardò a toccarla. «Questa non è la realtà» disse. «È l’Ombra dei Cristalli. Ho letto che a volte, dopo una visione prolungata, se ne può sperimentare un’altra, anche a distanza di tempo e lontano da qualunque Cristallo».

   «Hai studiato bene» disse Vasa, e il suo sorriso divenne più pronunciato. «Sì, questa è l’Ombra del Cristallo. Ho poco tempo, ma volevo dirti di non colpevolizzarti per come sono andate le cose. Questo era l’unico modo in cui il Maligno poteva essere distrutto... ed è stato distrutto, te lo confermo».

   «A caro prezzo» disse Juri.

   «Un prezzo che ero disposta a pagare. Non preoccuparti per me... ora sono in pace» disse la Bajoriana, avvicinandosi.

   «Ma tu non sei Vasa!» protestò l’Umano, indietreggiando per tenerla a distanza. «Sei solo un Profeta che ha preso le sue sembianze».

   «No, non lo sono» rivelò l’archeologa, con un sorriso enigmatico. «Addio, amore mio. O dovrei dire... arrivederci». Gli si fece ancora incontro, e stavolta lo storico smise di arretrare.

   Juri avrebbe giurato di aver sentito la consistenza del corpo di Vasa tra le sue braccia, il soffio del suo respiro, il tocco delle sue morbide labbra. Chiuse gli occhi, durante il bacio; quando li riaprì era di nuovo solo in cima alla collina. I colori erano tornati normali; la visione era finita.

   L’Umano indugiò a lungo, ragionando sull’accaduto. L’ipotesi più probabile era che fosse stato uno scherzo della sua mente. In alternativa poteva essere l’Ombra del Cristallo, con un Profeta che aveva preso le sembianze di Vasa. Ma le sue parole alludevano alla terza possibilità... quella che Juri avrebbe custodito in fondo al cuore, senza confidarla a nessuno. «Arrivederci» mormorò, dando un’ultima occhiata alla tomba di Vasa, e prese a scendere la collina.

 

   All’uscita del cimitero, Juri vide il Capitano Hod che lo attendeva. «Come stai?» gli chiese l’Elaysiana a bassa voce.

   «Tiro a campare» sospirò Juri. «C’è qualche novità?».

   «Stiamo per tornare nel Quadrante Alfa. Andremo a Cardassia: dopo la caduta di Bajor, sarà il prossimo obiettivo dei Pacificatori» spiegò il Capitano. «Ma volevo dirti che, se vuoi, puoi restare qui. Grazie alla vigilanza del Dominio, New Bajor sarà un luogo sicuro. E ora che sono sbarcati gli Umani, potrai stare finalmente con quelli della tua specie».

   «Quelli della mia specie!» fece Juri, con aria distante. Era un suo vecchio desiderio, ma ormai aveva perso ogni attrattiva. «Chiunque si opponga ai Pacificatori è “della mia specie”. Quindi grazie dell’offerta, Capitano, ma preferisco restare con voi».

   «Ne sei certo? Hai già fatto tanto, e non ne eri tenuto» insisté Hod. «Noi continueremo a vivere pericolosamente, mentre qui saresti al sicuro».

   «Preferisco condividere il pericolo con voi, che la sicurezza con altri».

   A quelle parole, Hod si commosse come mai le era capitato dacché era Capitano. Si fece avanti e abbracciò l’Umano. «Grazie» gli sussurrò all’orecchio. «Speravo che rimanessi». Una volta separati, i due passeggiarono in silenzio lungo le rive del vicino laghetto. Infine l’Elaysiana riprese la parola: «Prima di andare, c’è una cosa che vorrei sapere».

   «Dimmi».

   «È vero ciò che ha detto Kosst Amojan, sul fatto che la nostra lotta è destinata al fallimento?».

   «Non puoi credere a un Pah-wraith».

   «Lui ha detto che anche i Profeti te lo avevano confermato. È così?» chiese Hod, scrutandolo coi grandi occhi violetti.

   Juri le rivelò ciò che i Profeti gli avevano detto tramite il Cristallo del Destino. Si sforzò di riferire le esatte parole che avevano usato.

   «Dovevi dirmelo fin da subito» lo rimproverò l’Elaysiana, colpita da quelle profezie funeste.

   «Temevo che tu e gli altri vi perdeste d’animo» spiegò l’Umano. «Infatti non credo che avrai voglia di dirlo ai quattro venti».

   «Beh, no...».

   «E l’equipaggio, lo informerai? Almeno gli ufficiali superiori?» incalzò Juri.

   Hod esitò, valutando i pro e i contro. «Il loro morale è appeso a un filo» ammise. «Io... credo che sia meglio tenere queste informazioni per noi».

   «Lo sospettavo» disse Juri, ironico. «Beh, la prima profezia si è avverata: abbiamo salvato Bajor dal Maligno, ma non dai Pacificatori. Restano le altre due. Nessun potere di questa Galassia ci permetterà di vincere la guerra, e c’è una sola possibilità che gli Umani tornino sulla Terra. Non sono parole rassicuranti, ma forse i prossimi eventi le renderanno meno oscure».

   «Se solo potessimo interrogare ancora i Cristalli!» sospirò il Capitano.

   «Sono ancora spenti?».

   «Sì, tutti tranne quello dell’Emissario, che pulsa debolmente» confermò Hod. «Ma quel Cristallo è diverso dagli altri. Risponde solo a Sisko e, in rari casi, ai suoi discendenti. E dopo Modro, non ho voglia di cercare altri eredi».

   L’Elaysiana tentò di allontanarsi, per non far vedere quant’era scossa, ma Juri la trattenne. «Ehi, c’è qualcos’altro?» le chiese.

   «No, è solo che... avrei tanto voluto fare anch’io una domanda ai Profeti» disse Hod. «Gli avrei chiesto se... insomma... vorrei sapere come finiranno le cose con Radek. Quando la guerra è scoppiata, speravo ancora che potessimo riconciliarci. Ma abbiamo passato un anno a inseguirci e ostacolarci in tutti i modi possibili. Negli ultimi giorni lo abbiamo affrontato tre volte, e appena tornati nel Quadrante Alfa ce lo troveremo di nuovo davanti. Io... devo smetterla d’illudermi. Dopo tutto ciò che è accaduto, non riusciremo mai a far pace. Dovremo distruggerlo, con la sua nave e il suo equipaggio, prima che siano loro a distruggere noi. Tutto a causa di questa ideologia che ci ha separati!» inveì. Così dicendo cavò di tasca la sua metà del pendente con dedica, il dono di Radek, e la gettò nel laghetto. Osservò le increspature dell’acqua, finché la superficie tornò calma.

   «Liberare le persone dalle possessioni demoniache è più facile che liberarle dalle possessioni ideologiche, purtroppo» convenne Juri.

   I due restarono a lungo in silenzio, preoccupati dall’avvenire; solo la reciproca vicinanza li confortava. Lasciate le sponde del lago, osservarono la vicina città, dove fervevano i lavori edili. La colonia bajoriana era stata scombussolata dall’arrivo dei centomila Umani bisognosi d’alloggio. Per adesso la maggior parte di loro viveva in baracche prefabbricate, nell’attesa che i muratori costruissero case più dignitose. In pochi giorni la periferia urbana si era trasformata in un grande cantiere, in cui gli Umani erano dappertutto. Gli adulti lavoravano per darsi una sistemazione, che si trattasse di rendere più vivibili i prefabbricati o di collaborare alla costruzione dei nuovi condomini. I bambini giocavano nei prati: avendo perso i loro giocattoli ultratecnologici, erano tornati a svaghi semplici come il nascondino e le gare a pallone. C’erano anche i vecchietti che osservavano i cantieri, facendo commenti su come loro avrebbero fatto di meglio. E nessuno di loro – bambini, adulti e anziani – era costretto a inchinarsi e umiliarsi davanti ai Pacificatori.

   «Ne è valsa la pena» disse Juri.

   «Sì, ne è valsa la pena» convenne Hod. I loro sacrifici non erano stati vani, se avevano permesso a quella gente di sfuggire alla persecuzione. Un po’ rincuorata, il Capitano si portò la mano al comunicatore. «Hod a Keter, due da portare su» disse. Lei e Juri svanirono nei bagliori azzurri del teletrasporto, diretti a nuove sfide.

 

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Capitolo 10
*** Epilogo ***


-Epilogo:

Data Stellare 2591.335

Luogo: Cardassia

 

   La Stella del Polo orbitava attorno al globo smorto di Cardassia, circondata dagli esili tralicci di un cantiere spaziale. Due bracci meccanici erano intenti a riparare lo scafo, in corrispondenza di altrettante falle, mentre le Work Bee si occupavano dei danni minori. I corsari erano stati fortunati: la loro astronave non era malmessa quanto la maggior parte delle altre fuggite da Bajor. Quelle navi, racchiuse negli altri cantieri che affollavano l’orbita, necessitavano di settimane di riparazioni. La Stella invece se la sarebbe cavata in pochi giorni. A parte gli ingegneri, che erano al lavoro, il resto della ciurma poteva tirare il fiato. Dopo la Battaglia di Cestus III e quella di Bajor, ne avevano bisogno.

   Entrando in sala mensa, Jaylah vide Raav che armeggiava dietro al bancone. Il vecchio Gorn aveva già personalizzato la cucina e ora stava facendo l’inventario dei beveraggi. «Ehilà!» lo salutò la mezza Andoriana. «Come ti butta?».

   «Ah, Jaylah, vieni avanti!» l’accolse Raav. «Tutto bene, sì. La dispensa è piena di cibo da mammiferi, ma poteva andare peggio. Le bevande sono niente male: gli Orioniani sanno come brindare, e penso che i tuoi colleghi abbiano fatto delle aggiunte. Brandy sauriano... non lo vedevo da una vita!» gongolò, carezzando una bottiglia scura. «Allora, posso darti qualcosa?».

   «Beh, fammi assaggiare quel brandy» decise Jaylah. «Anzi, lascia qui la bottiglia».

   «Urka, sei proprio entrata nel ruolo della piratessa!» fece Raav, sgranando gli occhioni gialli. «Dimmi almeno se stiamo festeggiando qualcosa».

   «Alcune delle navi che avevano scortato il convoglio nel Tunnel Spaziale sono tornate» spiegò Jaylah. «Io e Jack abbiamo parlato coi Capitani. Ci hanno detto che nel Quadrante Gamma va tutto bene: il convoglio è arrivato a New Bajor e i passeggeri sono in salvo. La Defiant e la Keter sono a posto; torneranno appena riparati i danni».

   «E la flotta che li aveva inseguiti nel Tunnel, che fine ha fatto?» chiese Raav.

   «Distrutta» disse Jaylah. Il suo sorriso svanì. «Sono stati i Profeti: è la stessa lezione che dettero al Dominio. Però stavolta hanno anche chiuso il Tunnel... credo per evitare ritorsioni. E c’è dell’altro». La mezza Andoriana prese fiato, prima di proseguire. «Prima che i Pacificatori fossero distrutti, Modro ha abbordato la Defiant. Lui e Benjamin Sisko si sono uccisi a vicenda. Beh, non proprio... sembra che in punto di morte l’Emissario abbia toccato il suo Cristallo e sia svanito. Forse si è riunito ai Profeti, ma è difficile a dirsi, dato che il Tunnel è chiuso e i Cristalli sono scarichi. A ben pensarci, non credo che brinderò... non è il caso» disse, respingendo il bicchiere.

   «Quando il brandy è versato, bisogna berlo» insisté Raav. «Mi spiace per il Capitano Sisko, ma direi che il suo sacrificio non è stato vano. I centomila Umani sono al sicuro, è questo che conta».

   «Suppongo di sì... anche se sono una goccia nell’oceano» disse Jaylah, pensando a tutti gli altri Umani ancora in pericolo. «Il Dominio si è impegnato a proteggere New Bajor. Pensa che Radek si è presentato lì con una flottiglia, ma quando ha visto gli incrociatori Jem’Hadar è scappato con la coda fra le gambe».

   «Ecco, questo merita un brindisi» disse il Gorn, riempiendo un bicchierino anche per sé.

   «Aspetta, Jack dovrebbe arrivare a momenti. Brinderemo con lui».

   Come previsto, l’Umano arrivò di lì a poco. «Ah, il Capitano in persona!» lo accolse Raav. «La stavamo aspettando per brindare. Jaylah mi ha raccontato le novità».

   «Brandy sauriano... hai già capito i miei gusti» approvò Jack. Il cuoco riempì un bicchiere anche per lui.

   «Allora, a che brindiamo?» chiese Raav.

   «Beh, credo che il primo giro sia per Dorvic» disse Jack. «Senza il suo aiuto, saremmo morti a Cestus III».

   I tre alzarono i bicchieri e dopo un solenne: «A Dorvic, il Cacciatore!» li vuotarono.

   «Io vorrei ricordare anche Benjamin Sisko» disse Jaylah. «Qualche anno fa lo incontrai, durante l’esperienza col Cristallo dell’Anima. Mi spiace di non averlo rivisto, adesso che era tornato in carne e ossa».

   Raav versò altre due dita di brandy nei bicchieri. «A Benjamin Sisko, l’Emissario dei Profeti!» dissero i tre, e li vuotarono di nuovo. Il liquore cominciava a fare effetto, anche se non tanto da ubriacarli. Per qualche minuto chiacchierarono degli ultimi eventi, in toni appena più accesi del normale. Poi, quando sembrava che la coppia volesse andare, il Gorn prese di nuovo la bottiglia. «Non c’è due senza tre» disse. «Volete fare un ultimo brindisi?».

   «Sì, l’ultimo è per i miei genitori» disse lo Spettro. «Mi c’è voluta una vita, ma alla fine li ho vendicati».

   Raav riempì ancora una volta i bicchieri, senza lesinare il brandy. I tre li sollevarono e li tennero alti.

   «Mamma, papà... questo è per voi» disse Jack, riandando con la memoria ai ricordi infantili, gli unici che avesse di loro. «Riposate in pace». Svuotò il bicchiere d’un sorso e così fecero gli altri. Jaylah gli passò un braccio attorno alle spalle, per confortarlo, mentre Raav – un po’ barcollante – portava via i bicchieri e la bottiglia semivuota.

   Per un po’ rimasero in silenzio. Stavano per andare quando udirono degli schiamazzi provenienti da un angolo della mensa. Una mezza dozzina di corsari, raccolti attorno a un oloschermo, si erano messi a lanciare fischi e insulti.

   «Beh, cos’è questa cagnara?» chiese Jack, accostandosi con passo fermo, malgrado il triplo brindisi.

   «Lascia stare, capo. Ti farà salire la bile» disse un pirata, coprendo l’oloschermo con la mano.

   «Troppo tardi, ormai sono curioso. Su, levati» disse lo Spettro.

   «Come vuoi, capo, ma io ti ho avvertito» ribadì il fuorilegge, scostandosi.

   Jack osservò la trasmissione e anche Jaylah gli si accostò. Era uno dei discorsi a reti subspaziali unificate che Lyra Shil, in quanto Ministro dell’Informazione, teneva ogniqualvolta ritenesse di averne il motivo. Stavolta stava annunciando la vittoria dei Pacificatori a Bajor.

   «... ed è così che ancora una volta i nostri ragazzi in divisa ci hanno dato una splendida vittoria» disse Lyra, che sedeva alla scrivania, inquadrata a mezzo busto. «Dopo un anno di angoscia e terrore, il sistema bajoriano è libero dall’occupazione dei ribelli. Come sempre accade in questi casi, l’arrivo dei Pacificatori è stato festeggiato dagli abitanti».

   Sull’oloschermo scorsero immagini di folle festose accalcate ai lati delle strade, che celebravano i Pacificatori intenti a sfilare. I Bajoriani applaudivano, ridevano, si abbracciavano, lanciavano coriandoli. Alcuni mostravano cartelli o striscioni con slogan di benvenuto. Ai bambini venivano dati dolciumi per festeggiare il lieto evento.

   «È falso, lo sai?» sussurrò Jaylah. «Quelle sono immagini create al computer. L’Unione lo fa ogni volta che conquista un pianeta. Guarda i bambini che fanno il girotondo... giurerei di aver visto la stessa identica scena quando cadde Mizar. Hanno solo trasformato i Mizariani in Bajoriani».

   «Lo so... la maggior parte di questa roba è farlocca» annuì Jack. «Purtroppo ce n’è anche di vera, e non sappiamo quanta».

   Concluso il servizio, Lyra riapparve sullo schermo. «Purtroppo il prezzo della vittoria è stato elevato» disse compunta. «Piuttosto che cedere le stazioni Deep Space Nine e New Horizon, i ribelli hanno preferito distruggerle, in uno sfoggio d’insensata violenza. Le mine spaziali, le piattaforme orbitali e il vile attacco delle Dreadnought hanno mietuto molte vittime, specialmente tra i Breen. Mi duole infatti annunciarvi la morte di Thot Rong, il leader illuminato che si è adoperato più di tutti per la pace tra i nostri popoli. Per decreto della Presidente Ranga, l’Accademia di Relva VII e l’USS Chin’toka saranno ribattezzate in suo onore».

   Jack strinse i pugni fino a sbiancarsi le nocche. Per Thot Rong, il criminale di guerra, c’erano questi onori, mentre per le sue vittime c’era solo l’oblio.

   «Ma è con profondo cordoglio che devo annunciarvi una sciagura ancora più grande» proseguì Lyra. «Quando i ribelli hanno compreso l’inutilità dei loro sforzi, si sono fatti barbaramente scudo con i civili. Hanno rapito i centomila Umani residenti su Bajor, caricandoli su trasporti, e li hanno sfruttati per raggiungere indisturbati il Tunnel Spaziale. Riteniamo che abbiano rubato anche i dieci Cristalli, le reliquie più sacre e venerate del popolo bajoriano. I Pacificatori li hanno seguiti nel Tunnel Spaziale, per liberare gli ostaggi; ma qui si è consumata la tragedia.

   Per ragioni inesplicabili, il wormhole è collassato, distruggendo la nostra flotta. Centoventi astronavi sono andate perdute, con tutti i loro equipaggi. Il Comando dei Pacificatori sta contattando in queste ore le famiglie delle vittime. Tra i caduti si segnalano l’Ammiraglio Vidkung e il suo primo ufficiale, Modro Sisko. Quest’ultimo si era distinto sia nelle trattative, sia nel corso della battaglia, così che il Comando gli assegna la Medaglia al Valore postuma. La Presidente Rangda ha decretato tre giorni di lutto nazionale per questa tragedia, costata quasi centomila vite.

   Al momento le ragioni della catastrofe sono ignote, ma si sospetta che siano stati i ribelli a far collassare il Tunnel con un impulso cronotonico. Se così fosse, alla strage perpetrata contro di noi si sommerebbe il genocidio degli abitanti del wormhole, che i Bajoriani considerano tuttora i loro profeti e protettori. Le conseguenze di questo shock culturale sulla società bajoriana saranno certamente devastanti. Il collasso del Tunnel, inoltre, ostacola la liberazione di New Bajor, la colonia nel Quadrante Gamma. La ricognizione del Moloch ha rivelato che i ribelli godono della protezione del Dominio, un fatto assai preoccupante. La vita dei coloni, e degli Umani deportati, rimane appesa a un filo. I ribelli continueranno a farsene scudo, ma se il Dominio decidesse di cambiare politica, potrebbe massacrarli».

   Lyra fece una breve pausa, per consentire agli spettatori di riflettere sulle notizie. Poi riprese in tono accorato: «Mai come ora è evidente la totale amoralità dei ribelli, che affermano di servire alti ideali, ma nei fatti sono guidati da un fanatismo ideologico che sfocia nella follia genocida. Questa catena di orrori continuerà finché esisterà la Flotta Stellare. Dunque è più importante che mai unirci in un grande sforzo per assicurare questi assassini alla giustizia. L’Ammiraglio Hadron dell’Autorità Voth ha promesso di raddoppiare gli aiuti, per compensare il probabile disimpegno dei Breen a seguito di questi eventi. Ma ognuno di voi può fare la differenza, nelle azioni quotidiane. Nel lavoro, nella scuola e anche in famiglia, dovete vigilare su coloro che avete intorno e denunciare prontamente ogni discorso filo-ribelle. Solo così saremo liberi dal terrore e dalla violenza che...».

   «Okay, ne ho abbastanza» disse Jack. Passò una mano sull’oloschermo, disattivandolo.

   «Lo dicevo che ti veniva la bile, capo» commentò il pirata che aveva cercato di dissuaderlo.

   «Ma quale bile, sto benissimo» sostenne lo Spettro. «Abbiamo inferto più danni al nemico negli ultimi venti giorni che in tutto l’anno passato» rivendicò.

   «Giusto» approvò Jaylah.

   «Detto questo, la tua ex amica è un vero pezzo di dren» aggiunse l’Umano.

   «Lyra? Verrà anche il suo turno» assicurò la mezza Andoriana. «La Banshee non dimentica». Che fossero i suoi poteri telepatici, o solo il tono di voce, fatto sta che i corsari si sentirono accapponare la pelle. Ormai sapevano che a dichiarazioni come quella seguivano i fatti.

 

 

FINE

 

 

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